Antonio M. Corda

Breve introduzione allo studio delle antichità cristiane della Sardegna

Ortacesus 2007 2

c dicembre 2007 - Nuove Grafiche Puddu Editore Via del Progresso, 6 09040 - Ortacesus () ISBN 88-89061-41-1

Collana diretta da Antonio M. Corda, Franco Loi, Antonio Piras

Questo testo è stato compilato con LATEX 2ε; la bibliografia è stata composta utilizzando BibTEX e il pacchetto jurabib (schema bibliografico ’oxford’). 30 Quadro storico

Penisola che dal 40 al 38 non potè più contare sull’afflusso granario sardo se non per un brevissimo periodo, quando l’Isola venne riconquistata (nell’anno 40) da Eleno, liberto di Ottaviano. Menodoro riuscì però, quasi subito, a cacciare le truppe di Eleno così da indurre Ottaviano ed Antonio ad addivenire a patti con Sesto Pompeo, al quale assegnarono, oltre alla Sardegna e la Corsica, anche una serie di proventi derivanti dall’esazione di tasse nel Peloponneso. L’accordo, si- glato nel 39 a Miseno, non fu però rispettato da entrambe le parti e la situazione sarebbe tornata ad essere quella di prima se non vi fosse stato il tradimento, risolutivo, di Menodoro che passò dalla parte di Ottaviano agli inzi dell’anno 38. La transizione dell’Isola nelle mani di Ottaviano sarà definitiva e anche nella guerra contro Antonio la Sardegna giurerà fedeltà al futuro Augusto.

1.2.3 La Sardegna in età imperiale

Tra le province affidate alla cura diretta di Augusto venne esclusa, nel 27 a.C., la Sardegna, la cui amministrazione venne invece assegnata direttamente al Senato, secondo il criterio in base al quale a quest’ultimo dovevano essere affidate le province con le popolazioni più integrate e quelle con i confini più tranquilli. Tale valutazione venne quasi subito modificata dagli eventi, poiché sappiamo che, a partire dal 6 d.C., la situazione locale sarda richiese l’invio di un grosso contingente militare per sedare dei tumulti. A capo di questo contin- gente venne inviato un comandante militare di nomina imperiale con funzioni di governatore provinciale. Le truppe, forse un reparto legionario, si trattennero in Sardegna per lungo tempo fino almeno all’anno 14 d.C., anno della morte di Augusto, anche se sappiamo per certo che con questa data non finirono i pro- blemi, giacché, pur nella scarsezza generalizzata delle fonti, vari indizi lasciano supporre una situazione non ancora stabile. Una importante iscrizione rinvenuta nell’area di Forum Traiani (l’odierna Fordongianus) ricorda per l’anno 19 una dedica all’imperatore Tiberio da parte delle Civitates Barbariae. L’espressione, purtroppo ricorrente in un testo fortemente lacunoso, indica quei popoli delle aree interne che con quest’atto intendevano ’ribadire’ la propria fedeltà (o una propria sottomissione) a Roma. Questa sostanziale instabilità ci viene inoltre confermata dalle fonti che ci attestano, almeno fino all’anno 46 d.C., l’esclusivo invio in Sardegna di governatori a forte connotazione militare così come sembrano suggerire i titoli utilizzati per definire i loro incarichi al po- 1.2 La Sardegna in età storica 31 sto del più normale titolo di procurator: vediamo infatti come si passi dal primo prolegatus del 6 d.C. fino all’ultimo praefectus del 46 d.C. Il primo funzionario imperiale conosciuto con il normale titolo di procurator sarà solo del 67 d.C. e, paradossalmente, è noto proprio nella prima parte dell’anno in cui la Sardegna, che rimarrà, per quasi tutta la sua storia assegnata all’amministrazione diretta dell’imperatore, passava al Senato in cambio della Grecia, provincia tradizio- nalmente senatoria e liberata da Nerone. Sono noti infatti per via epigrafica a partire da questo periodo tutta una serie di governatori di rango pretorio, se- natori quindi, con il titolo di proconsul. A partire da Vespasiano in poi, forse dall’anno 73, la situazione veniva ristabilita con la riassegnazione della Grecia al Senato e il nuovo passaggio della Sardegna all’amministrazione diretta da parte del principe. A questo punto i governatori provinciali saranno tutti di ordine equestre e verranno insigniti di quel titolo di procurator, la cui forte connotazio- ne militare verrà però asseverata dal titolo di procurator Augusti et praefectus con cui è nota buona parte dei funzionari nominati a partire da Settimio Se- vero. Questa titolatura si alternerà sempre più spesso con quella di procurator Augusti praeses provinciae Sardiniae. Entrambi i titoli risultano, in Sardegna, solitamente riferiti a procuratori imperiali di rango ducenario e quindi portati da individui di un certo livello a testimonianza indiretta, se mai ve ne fosse bisogno, dell’importanza economica e strategica attribuita ad un’area così vici- na al cuore stesso dell’impero. La Sardegna continuerà per i secoli successivi a rifornire di grano e altre materie prime la capitale e, nella riorganizzazione del- l’impero voluta da Diocleziano, venne affidata a Massimiano Augusto, il quale, una volta abdicato a favore della seconda tetrarchia, si vide succedere nel 305, nell’amministrazione della Sardegna, dal Cesare Severo. Le vicende degli anni successivi sono ben note e la Sardegna, così come ci testimoniano le fonti epigrafiche rappresentate da due miliari, si schiererà in favore sia dell’usurpazione di Massenzio (308-309), sia dell’usurpazione, contro lo stesso Massenzio, di L. Domizio Alessandro [vedi figura 1.1]. L’avventura africana di L. Domizio Alessandro finirà dopo tre anni e nel 310/311 Massenzio, ripresosi la Sardegna, provvederà a punirla di questa sua defezione spogliandola letteralmente dei suoi beni con un’aggressiva politica fi- scale. Si era del resto nell’immediata vigilia del grande confronto con Costantino Magno avvenuto il 28 ottobre del 312 presso Ponte Milvio e nel quale Massenzio risulterà soccombente. 32 Quadro storico

Figura 1.1: Miliario di L. Domitio Alessandro (disegno di G. Sotgiu).

Il regno di Costantino sarà lungo e caratterizzato da grande stabilità. Di questa situzione si avvalse la Sardegna che, amministrativamente parlando, ver- rà inquadrata dall’imperatore nella sua riforma del 325 nella diocesi italiciana della quale facevano parte, oltre ovviamente alla stessa penisola italica, le altre grandi isole del Mediterraneo, la Tracia, la Macedonia e l’Illirico. Il governatore della Sardegna, che da questo momento in poi avrà sempre il titolo di praeses (cosa peraltro che abbiamo già visto accadere anche precedentemente seppu- re in maniera non esclusiva), risponderà direttamente al vicarius urbis Romae, responsabilile a sua volta di una divisione della stessa diocesi italiciana compren- dente le regioni a sud dell’Appennino e le isole mediterranee. Questa struttura amministrativa rimarrà in piedi per lungo tempo e da essa la Sardegna non verrà mai, sia pure con le vicissitudini che vedremo, scorporata. Alla politica religiosa promossa da Costantino, che com’è noto fu favorevole al cristianesimo tanto da renderlo una sorta di religione di stato (cosa che giuridicamente avverrà solo con Teodosio nel 380), si deve, indirettamente, l’avvio della cristianizzazione della società sarda. Immediatamente dopo il cosiddetto editto di Milano infatti si incomincia ad avere nelle fonti qualche riferimento a comunità cristiane più o meno organizzate ed ampie come quella di Carales, di cui conosciamo, nel 314, il vescovo Quintasius [vedi infra §1.4]. Da una lettura globale delle fonti si può indicare nel VI secolo inoltrato il momento di una totale conversione alla nuova religione (in questo senso sembra convenire la letteratura più recente e, 1.2 La Sardegna in età storica 33 a mio avviso, più critica). Una volta morto Costantino, nel 337, la successione, ancorché pianificata dal grande imperatore, non fu né indolore né pacifica e da questa situazione non poté certamente affrancarsi una Sardegna che, proprio perché regione periferica, fu sballottata qua e là dai partiti dei vari contendenti e subì piuttosto passivamente gli eventi.

Sono sempre i cippi miliari, vero e proprio manifesto politico, a darci chiari indizi cronologici sulla posizione sarda nel panorama politico più ampio. Alla morte di Costantino II, in guerra da tempo con il fratello Costante, l’Isola, che era stata sempre dalla parte del primo, riconobbe nel 340 il secondo come impe- ratore. Lo stesso atteggiamento ebbe poco tempo dopo, si era nel 350, quando riconobbe Magnenzio che ebbe la meglio su Costante. A sua volta Magnenzio, sconfitto dalla reazione di Costanzo II imperatore romano d’Oriente, morirà sui- cida nel 353 a Lugdunum: puntualmente la Sardegna con i soliti miliari ricorderà l’imperatore vincente. Pochi anni dopo, nel 360, una nuova usurpazione, partita questa volta dalle Gallie, attraeva l’anno successivo nella propria orbita la Sar- degna. Giuliano ebbe in poco tempo dalla sua il favore delle province europee e delle grandi isole mediterranee mentre al contrario l’ rimase assoluta- mente fedele a Costanzo. Questi però morì per cause naturali lasciando erede del proprio dominio lo stesso Giuliano. L’intricata situazione politica, soprattut- to in relazione alle successioni vedrà ancora la Sardegna schierarsi nel 387 dalla parte di Magno Massimo, usurpatore e causa dell’assassinio nel 383 di Graziano. Questo suo aperto schierarsi costò, quando la rivolta fu sedata, una citazione in giudizio per alcuni senatori sardi che, come ci dicono le fonti, erano stati parti- colarmente attivi. Una iscrizione funeraria cristiana di Turris Libisonis datata al giugno del 394 ci indica con certezza che l’Isola non seguì l’usurpazione di Eugenio che due anni prima era stato acclamato imperatore in Gallia. Eugenio verrà sconfitto da Teodosio nel novembre del 394 e l’Isola, dopo la morte di que- st’ultimo del gennaio 395, passerà sotto il governo di Onorio. Nell’ultima grande crisi del IV secolo, la rivolta di Gildone in Africa, la Sardegna sarà dalla parte del legittimo imperatore, che essa sosterrà con la forza delle sue scorte granarie e di materie prime. Questa rivolta particolarmente grave verrà comunque sedata e la reazione onoriana causerà la morte del ribelle nel 398. Ormai, alle porte del V secolo, l’avventura dell’impero romano di Occidente volgeva al termine e, ap- profittando della morte avvenuta nel 408 del grande generale Stilicone che pure lo aveva sconfitto nel 402 a Pollenzo, il re Visigoto Alarico riuscirà nel 410 a 34 Quadro storico saccheggiare Roma. La morsa sulla città eterna si farà ancora più stretta quando fra il 429 e il 439 la ricca provincia d’Africa, il serbatoio di risorse più grande e importante per la pars occidentis dell’impero, cadrà in mano ai Vandali, i quali, dopo aver preso Cartagine (il 19 ottobre 439), decisero nel 440 di estendere i loro domini anche al di là del mare. Fonti attendibili ci raccontano di come i Vandali cercassero di occupare le due grandi isole mediterranee, la Sardegna e la Sicilia, con una serie di spedizioni di piccoli contingenti con il compito di devastare le coste e le città più importanti. La Sicilia rimarrà sostanzialmente in mano ai Vandali fino alla fine del secolo, mentre in Sardegna il dominio sarà, come vedremo, lievemente più lungo. In quest’ottica, e in relazione alla Sarde- gna, va vista tutta una serie di dati archeologici che ci propongono un possibile contatto con la popolazione di origine germanica già nella prima metà del V secolo. Sembrano infatti doversi ricondurre ad apprestamenti difensivi costruiti contro i Vandali le fortificazioni rinvenute a Turris Libisonis, e Cornus, dove sembra sia stata fortificata l’acropoli della città. Il blocco navale operato dai Vandali nei confronti della Sardegna sarà fortissimo e forse per questa si- tuazione di esasperazione l’Isola non corrispose, per lungo tempo, i tributi alla capitale. Di questa ribellione fiscale abbiamo un’eco nell’esclusione, punitiva nei confronti dell’Isola, dal dispositivo imperiale di condono dei debiti fiscali dovuti fino al 448 a causa di un loro precedente mancato pagamento. Con l’andare del tempo i Vandali, sempre più forti, diventarono proporzionalmente più temerari fino ad arrivare il 2 giugno del 455 a saccheggiare Roma e successivamente, in un periodo imprecisato tra il 456 e il 468, a conquistare la Sardegna che rimarrà in loro possesso fino al 534.

Orientamenti bibliografici ai §§1.2.2 e 1.2.3

Età repubblicana. G. Brizzi, Nascita di una provincia: Roma e la Sardegna, in: Carcopino, Cartagine e altri scritti, Sassari: Chiarella, 1989; P. Meloni, La Sardegna romana, II edizione. Sassari: Chiarella, 1990, 43-69; Mastino, La Sardegna antica, op.cit. (vedi 1.2.1), 61-90. Un modo un po’ differente di vedere le guerre puniche (e cioè dalla parte degli sconfitti) è quello di F. Barreca, La civiltà di Cartagine, Cagliari: Editrice Sarda F.lli Fossataro, 1964 che si pone tra le righe il problema di come sarebbe stato il mondo antico con Roma soccombente. Età imperiale: Meloni, La Sardegna romana, op.cit. (vedi 1.2.3), 139-227 e Mastino, La Sardegna antica, op.cit. (vedi 1.2.1), 125-163. 1.2 La Sardegna in età storica 35

1.2.4 Vandali e Bizantini La prima preoccupazione dei Vandali, una volta conquistata larga parte dello scomparso impero romano d’Occidente, fu di consolidare per via diplomatica la posizione acquisita col riconoscimento internazionale della legittimità del loro regno. Ciò avverrà una prima volta nel 460 grazie a Leone I e successivamente nel 467, quando lo stesso imperatore dovrà venire a patti con Genserico in occasione della sconfitta della flotta bizantina in seguito alle imprese del duca Marcellino. Questo dux, che pure era riuscito a riconquistare la Sardegna, non potrà però assicurarne il possesso all’impero bizantino se non per breve tempo. Nel 477 a Genserico succederà il figlio Unnerico, che però non riuscì dimo- strare la stessa lucidità politica ed energia del padre. Nel proseguire la politica “mediterranea” del padre si caratterizzò per l’estrema rigidità con cui sostenne l’arianesimo in Africa, vicino al centro del potere, e per la relativa “tolleranza” con cui sopportò la presenza dei suoi nemici nelle terre d’oltremare come la Sar- degna. In realtà, sembra più corretto parlare di disinteresse nei confronti dell’at- tività di predicazione dei vescovi ortodossi esiliati nell’Isola e di lucidità politica nel non aver voluto eliminare fisicamente personaggi comunque ingombranti, la cui soppressione sarebbe stata per lui politicamente insostenibile. Il nome di Unnerico è legato indissolubilmente al Concilio di Cartagine del 484, quando il re vandalo volle convocare nella sua capitale vescovi cattolici ed ariani perché sviluppassero quegli aspetti cristologici che il Concilio di Nicea del 325 aveva solo marginalmente toccato. A quel concilio parteciparono ben 5 vescovi sardi guidati dal metropolita cagliaritano Lucifero II. La speranza di Unnerico, disillusa dal nulla di fatto prodotto dai vescovi par- tecipanti, era quella di riuscire a dirimere a favore dell’arianesimo la questione relativa alla natura umana del Cristo. Dopo questa empasse la ripresa delle osti- lità nei confronti dei cattolici da parte di Vandali fu più aspra di prima, anche se bisogna rimarcare che i successori di Unnerico, Guntamondo e Trasamondo, ebbero a questo riguardo atteggiamenti ben diversi: tanto tollerante ed aperto il primo quanto duro e inflessibile il secondo. Sarà il solo Trasamondo a comminare infatti nuovamente ed in maniera sistematica l’esilio per i vescovi che predicavano l’ortodossia con la successiva nomina di vescovi ariani per le sedi rese in questo modo vacanti. Le tristi vicende personali di questi vescovi perseguitati ed esiliati rappresentarono al contrario 36 Quadro storico una grande fortuna per la Sardegna che vide arrivare persone del calibro di Fulgenzio di , a cui vengono attribuite la fondazione di un monastero a Cagliari presso la basilica di San Saturnino e di uno scriptorium particolarmente importante. Nel 523 Ilderico, succeduto a Trasamondo, cambierà rotta cercando di ripor- tare nel proprio regno la pace sociale richiamando i vescovi esiliati, che vennero prontamente reinsediati, e cercando in campo internazionale di acquisire cre- dibilità e soprattutto affidabilità. Grazie all’attività sovversiva di Amalafrida, moglie di Trasamondo, il regno di Ilderico durò solo 7 anni e nel 530 diventerà re Gelimero, ariano convinto: a causa di ciò la repressione nei confronti dei cattolici riprenderà con toni molto alti. Paradossalmente Gelimero riuscì dove i suoi predecessori avevano fallito con le politiche “di distensione”, facendo in modo che nel 476 l’imperatore Zenone riconoscesse le conquiste territoriali vandale. Tale atto ufficiale venne, così come ci racconta Procopio di Cesarea, messo successivamente in crisi da Giustiniano (assurto alla porpora nel 527) che, preoccupato dalla figura e dall’ambizione di Gelimero, inviò un messaggio al re vandalo chiedendogli di ripristinare la legalità nella successione al trono. La sdegnosa risposta di Gelimero rese chiara a Giustiniano l’impossibilità di una soluzione diplomatica della crisi e fu così che entrambi i regni inizia- rono a preparare la guerra ammassando grossi quantitativi di armati. Gelime- ro richiamò in Africa alcuni reparti militari di stanza in Sardegna lasciando l’Isola non solo sguarnita, ma in mano ad un liberto germanico di nome Go- da che, vista la criticità del momento, pensò di trarne un vantaggio personale autoproclamandosi, col titolo di re, indipendente dalla madrepatria africana. Contestualmente Goda cercò di ottenere da Giustiniano, sotto la forma di una richiesta di aiuto militare, il riconoscimento del proprio status di indipenden- za. Giustiniano concesse immediatamente l’assistenza richiesta e inviò un mes- saggio, tramite l’ambasciatore Eulogio, nel quale si assicurava l’invio di truppe sul territorio sardo. Gli avvenimenti successivi dimostreranno quanto il tenta- tivo di Goda sia stato poco accorto e quanto mai politicamente maldestro. A causa di esso infatti il neo-re si trovò per così dire tra l’incudine e il martello: da una parte si vide affiancare quello che sembrava, più che un diplomatico, un proconsole-governatore bizantino, dall’altro proprio la partenza per la Sardegna di un contingente di armati mise in allarme Gelimero che inviò in Sardegna il 1.2 La Sardegna in età storica 37 proprio fratello Tzazon a capo di un nutrito esercito. Tzazon, liberatosi velocemente di Goda, riportò l’Isola sotto le bandiere van- dale, ma questo allontanamento di un grosso contingente militare ebbe un effetto negativo sulla guerra, poiché i Bizantini diretti in Sardegna, appresa la notizia della sconfitta del vandalo ribelle, fecero immediatamente rotta verso l’Africa, dove si riunirono al resto delle truppe già presenti sul continente agli ordini di Belisario. Gli avvenimenti successivi sono noti. Nei pressi di Cartagine il 13 settembre 533 i Vandali subirono una grossa sconfitta e furono costretti a ritirarsi a nord- ovest della capitale a , da dove richiamarono Tzazon perché desse loro man forte per la battaglia risolutiva. A Tricamarum nel 533 finiva con la morte di Gelimero e Tzazon il regno Vandalico e la Sardegna tornava ad essere bizantina nel 534, quando Belisario inviò Cirillo a riconquistarla. L’Isola diventò così una della sette province africane dipendenti dal prefetto del pretorio incardinato a Cartagine: Carales rimase sede del praeses, mentre Forum Traiani, grazie alla sua rilevante posizione strategica, diventò sede del dux, il comandante militare. L’attività di Giustiniano e dei suoi successori si caratterizzò per una intensa azione di consolidamento del controllo del territorio, che si manifestò principalmente con l’edificazione di strutture fortificate certamente orientate ad effettuare una sorta di “taglia-fuori” nei confronti delle aree interne dell’Isola ma soprattutto come strumento di controllo centrale della viabilità [vedi infra ad 2.5 esempio il φρούριον di Forum Traiani che con ragione Mauro Dadea vede più collegato a quest’ultimo aspetto che allo stesso centro urbano] Nel 552 gli Ostrogoti di Totila occuparono Carales che però rimase nelle loro mani appena un anno per poi ritornare nelle mani di Giustiniano, il quale l’anno successivo emanò uno dei documenti più celebri dell’antichità: la Prammatica Sanzione. Con questo testo del 554 Giustiniano affermava la restaurazione dell’impero e soprattutto che vi era una unica legge che governava l’Orbis. Vi è da dire che nel suo piccolo la Sardegna diede sempre qualche grattacapo al “sovrano orientale” e ai suoi duces. Edantius (589), Theodorus, Zabarda (594) ed Eupator (599) ebbero infatti il loro bel da fare con le popolazioni dell’interno e tra essi, il solo Zabarda, viene ricordato per essere riuscito, in un modo o nell’altro, a contrastarli in maniera efficace e soprattutto per avere tentato di risolvere diplomaticamente il conflitto nel 594. La Sardegna sopravviverà all’apparato statale bizantino in 38 Quadro storico

Occidente anche quando l’Ifriqiya verrà conquistata dagli Arabi diUqba ibn Nafi, che nel 670 fonderanno la moschea di Qayrawan, e quando nel 698 Hassan ibn an-Numan conquisterà Cartagine facendo così cadere l’esarcato d’Africa. Nel VII secolo la Sardegna bizantina conoscerà le incursioni del mondo arabo tese a separare dal resto l’ultimo lembo di mondo bizantino esistente nel Me- diterraneo occidentale. Le fonti parlano di una serie di scorribande effettuate a partire dalla baia di Cartagine, da Radhes in Tunisia, con l’obiettivo di creare un corridoio sicuro per la navigazione verso la costa provenzale. Altre incursioni caratterizzeranno la metà del VII secolo e per un cinquantennio circa alcune aree della Sardegna saranno obbligate a pagare una certa somma (la gizyah dovuta dagli infedeli per evitare attacchi). La situazione cambierà radicalmente quando i Longobardi nel 751 occuparo- no l’esarcato di Ravenna da cui dipendevano dalla fine del VII secolo la Corsica e la Sardegna. L’Isola, abbandonata a se stessa e sempre più lontana da quella Bisanzio che non aveva più la forza di controllare il Mediterraneo occidentale, iniziò a vedere nello iudex provinciae l’unico punto di riferimento certo. Tutto il IX secolo fu costellato di attacchi alle coste sarde e vi furono eventi talmente catastrofici che ne abbiamo eco in una lettera che il pontefice Leone III inviò nell’813 a Carlo Magno, in cui scriveva che una grande flotta araba era stata distrutta a causa di una tempesta al largo della Sardegna. Per una serie di mo- tivi, non ultimi la relativa lontananza dalle basi arabe e la strenua difesa dei sardi, le città isolane non subiranno la sorte di piazzeforti tutto sommato ben più agguerrite e munite come , caduta nell’830, e dell’intera parte sud della Penisola. La mancata conquista della Sardegna da parte dei nuovi domi- natori del bacino meridionale del Mediterraneo favorirà la lenta evoluzione di un’amministrazione locale bizantina nelle forme della straordinaria esperienza tutta sarda dei Giudicati. Giuseppe Meloni non esclude che i contatti con gli Arabi residenti in Ifriqiya e in al-Andalus e l’esempio dei qwadha (regioni ammi- nistrative) e qwadhi (giudice) possano avere in qualche modo influenzato questo sviluppo. La Sardegna rimarrà formalmente sotto Bisanzio fino all’XI secolo.

Orientamenti bibliografici al §1.2.4

Età vandalica: L. Pani Ermini, La Sardegna e l’Africa nel periodo vandalico. in: A. Mastino (ed.), L’Africa Romana II, Sassari: Gallizzi, 1985; Età bizantina: P. G. Spanu, 1.3 Economia e Società 39

La Sardegna bizantina tra il VI e il VII secolo. Oristano: S’Alvure, 1998, Mediterraneo tar- doantico e medievale. Scavi e ricerche 12; G. G. Ortu, La Sardegna dei Giudici, Nuoro: Il Maestrale, 2005, La Sardegna e la sua storia, 3, 21-52; Mondo arabo in relazione alla Sarde- gna: M. Terrasse, Islam et Occident méditerranéen: de la conquête aux Ottomans, Paris: Ed. du CTHS, 2001, Orientations et méthodes, 15-106; M. G. Stasolla, La Sardegna nelle fonti arabe, in: P. Corrias e S. Cosentino (eds.), Ai confini dell’impero. Storia, arte e archeologia della Sardegna bizantina, Cagliari: M&T, 2002

1.3 Economia e Società

1.3.1 La gestione delle risorse dalla prima età storica al tardoantico

Passato il periodo degli scali stagionali, utilizzati come empori e come porti di transito per le rotte occidentali, i Fenici si attestarono stabilmente in alcune aree particolarmente felici per posizione e possibilità economiche dell’immediato entroterra. Nonostante qualche piccolo incidente di tipo militare, i rapporti con le popolazioni autoctone, avviati da tempo, proseguirono con rinnovato vigore e i rinvenimenti archeologici di materiali di importazione effettuati nelle località più interne dell’Isola indicano, senza ombra di dubbio, che questo flusso di merci da e verso l’esterno è stato per lungo tempo garantito proprio da vettori semiti. Ciò non significa affermare che ci sia stata un’integrazione tra i due popoli su tutto il territorio, anzi, al contrario, è evidente, proprio dalle fonti archeologiche, come nella Sardegna della prima età storica del IX/VIII-VI sec. a.C. vi fosse una sorta di dualismo tra le zone costiere occupate dai fenici e quelle in mano ai sardi dell’interno. In comune, oltre ai mercati in cui effettuare gli scambi, i Fenici e i Sardi ebbero, sia pure in modi e per ragioni diverse, lo stesso marcato individualismo che li portò a non sentire la necessità di organizzarsi in uno stato unitario. Questo tipo di organizzazione o di mancata organizzazione statale, i Sardi per gruppi ristretti e i Fenici per città stato, farà sì che lo sfruttamento del territorio, da una parte e dall’altra, risultasse non organizzato e limitato ai fabbisogni contingenti di ciascuna realtà locale. Al momento dell’ingresso sulla scena di Cartagine, operato come abbiamo visto con grande determinazione e incisività anche col ricorso ad una spedizione militare effettuata da Malco sul finire del VI secolo a.C., la situazione, pur rima- 40 Quadro storico nendo immutata nei suoi contenuti generali (e cioè mondo punico ad occupare le coste e i Sardi ad occupare le aree più interne del territorio), verrà modifi- cata proprio perché alle spalle dell’attività punica in Sardegna vi era l’autorità centrale di un impero mercantile che aveva un progetto politico organizzato su vasta scala. La sostanziale pacificità fenicia lascerà quindi il posto ad una politi- ca di occupazione del territorio che non tarderà ad avvalersi, quando necessario, della forza per fare proprie le risorse da utilizzare per il funzionamento dell’im- pero e non, come avveniva nel periodo precedente, delle sole colonie sarde. La grande appetibilità della Sardegna, che giustificò infatti l’intervento armato di Malco motivato non solo da una ribellione locale, ma anche dal desiderio di pre- venire un’azione greca, risiedeva infatti, oltre che nella sua posizione strategica al centro del Mediterraneo occidentale, soprattutto nelle ricchezze provenienti dall’agricoltura e dalle risorse minerarie presenti nell’Isola. Dell’importanza delle prime per il mondo punico abbiamo un’eco chiarissi- ma nelle fonti, quando a più riprese il grano sardo servirà, come poi accadrà puntualmente in età romana, a sfamare le truppe cartaginesi impegnate altrove. Nel 480 a.C. il grano prodotto in Sardegna sostenterà le truppe di Amilcare sbarcate in Sicilia contro Gelone di Siracusa; nel 396, sempre in Sicilia, Imilcone conterà sul grano sardo per le truppe da impiegare nell’assedio di Siracusa ed infine, ribaltando discorsi e situazioni, lo stesso Agatocle di Siracusa, volendo portare la guerra in Africa contro Cartagine, si arrovellò a pensare in che modo avrebbe potuto impedire che dalla Sardegna arrivassero rifornimenti granari per i suoi avversari. La miriade di insediamenti punici individuati nell’entroterra delle principa- li città conferma quanto indirettamente suggeriscono le fonti ed anzi dimostra come questi piccoli agglomerati urbani avessero la doppia valenza di centro di produzione e di contenimento nei confronti delle popolazioni locali. Emblema- tico, al riguardo, non solo il caso di Santu Teru-Monte Luna a Senorbì con il suo villaggio fortificato convertito in una azienda agricola, ma anche l’allesti- mento di un sistema difensivo organico, a ridosso del quale vivevano, in una pletora di fattorie, intere famiglie di agricoltori. Nei primi due secoli di domi- nazione punica avverrà l’integrazione tra le componenti locali rimaste lungo le fasce più esterne del territorio e l’elemento punico. Un prodotto di questo fe- nomeno sarà ad esempio Ampsicora, il capo della rivolta del 215 a.C., che, pur trovando assolutamente naturale accompagnarsi a un consigliere militare punico 1.3 Economia e Società 41 come Annone, non si fece problema di andare a chiedere aiuto ai Sardi pelliti. Su questo esempio dobbiamo supporre che molti di questi sardi, perfettamente integrati, si siano trovati ad accumulare ingenti patrimoni e che, ancora, molti di essi, in una società pluristratificata come quella antica, si trovarono ad essere collocati nelle varie fasce sociali da quelle più ricche fino ad arrivare ai più umili lavoratori liberi. I sardi non integrati, catturati forse durante scaramucce con le popolazioni libere dell’interno, finirono però per perdere la libertà ed essere ridotti in schiavitù: molti di essi vivranno questa condizione nelle città della stessa Sardegna. Dal punto di vista istituzionale le città sarde erano modellate, così come la totalità delle colonie puniche, secondo il modello classico, rappresentato da un governo locale amministrato da una coppia di supremi magistrati, noti col nome di sufeti, che avevano nell’assemblea popolare locale un organo consultivo e di controllo. L’arrivo di Roma non fu certamente indolore per i grandi proprietari sardo-punici, che del resto, a conferma, si mostreranno successivamente come i più accaniti, almeno in certi periodi, contro i nuovi padroni. I territori in loro possesso furono infatti incamerati dall’erario e riassegnati in affitto alle stesse popolazioni locali o almeno a coloro che non furono par- ticolarmente schierati dalla parte cartaginese in quel fatidico 238 a.C. Per il resto dobbiamo supporre che non sia cambiato, almeno nell’immediato, alcun indirizzo strategico per un’economia locale che continuerà per lunga pezza a produrre in grande quantità principalmente grano e ad estrarre dalle proprie miniere metalli pregiati. Il primo governatore provinciale noto in Sardegna sarà del 227, anche se è lecito pensare che ben prima, e cioè già negli stessi anni della conquista, forse già a partire dal 237 al pari della Sicilia e della Corsica, la Sardegna sia stata considerata e organizzata di conseguenza come una provincia dalla quale trarre, con una politica fiscale precisa, notevoli introiti. Del resto è difficile credere che per oltre 10 anni i Romani non abbiano pensato ad una qualche strutturazione amministrativa della provincia per poi presentarsi con un impianto organico di politica fiscale solo nel 227. La situazione mostrerà segni di modificazione quando nel II secolo inizierà, così come ci dicono principalmente le fonti archeologiche, un buon afflusso di in- dividui di origine medio-italica che importeranno, oltre ai capitali, la mentalità dinamica di una classe imprenditoriale orientata, oltre che verso la tradizionale 42 Quadro storico attività legata alla terra, anche verso il commercio. Eco di questo afflusso sono, per altri aspetti, le novità proposte da modelli urbanistici inusitati per la Sarde- gna: si veda ad esempio come Carales in questo periodo sembri riprendere schemi tipici delle città terrazzate medioitaliche e come ad ambiti culturali diversi da quelli già presenti sul territorio si rifacciano monumenti come il tempio di Via , il monumento a fregio dorico di Via XX Settembre e, per esaminare il dato epigrafico, le serie onomastiche allogene presenti nelle iscrizioni. Fatto determinante è la prosecuzione, in maniera ben più marcata in que- sto periodo rispetto a quello tardopunico, dell’erosione dei territori ai danni dei Sardi in favore della creazione di un nuovo latifondo che andrà ad affiancarsi a quello tradizionale sardo-punico. L’organizzazione dello spazio rurale diventerà quindi sempre più complessa mano a mano che l’area della Barbària, le aree nel- le quali abitavano con un’economia di sussistenza le popolazioni interne meno romanizzate, si riduceva a favore della Romània, l’area completamente roma- nizzata. Il processo di integrazione con i locali inizierà ad essere evidente per i Romani, così come era avvenuto per il mondo punico, a meno di due secoli dalla conquista. La presa di coscienza dell’autorità centrale di questo processo com- porterà nell’immediato sia l’elevazione di qualche comunità locale al rango di municipo (Carales), sia la deduzione di una colonia di cittadini romani (Turris Libisonis). Gli altri centri più importanti saranno interessati da provvedimenti analoghi nello spazio di poco più di un secolo. Nella prima età imperiale si incomincia inoltre ad assistere ad un timido ma evidente tentativo di differenziazione delle colture agricole con l’ulteriore incremento della produzione d’olio, iniziata peraltro durante il periodo repub- blicano, e forse di vino, anche se il grande latifondo continuò ad essere dedito alla produzione granaria. Le mutate condizioni politiche porteranno ad una ulteriore articolazione dell’organizzazione del possesso della terra: avremo così diversi tipi di latifondo. Accanto a quello privato, più antico, concesso in usufrutto alienabile e trasmissibile, si avrà quello pubblico e infine quello di proprietà imperiale. Il dato epigrafico ci consente, per la Sardegna, di conoscerli tutti e tre e di verificare come ad esempio la casa imperiale ebbe tutta una serie di possedi- menti concentrati nelle aree più ricche: Claudio, Nerone e forse gli Antonini ad , sempre Claudio a Sulci e in area cagliaritana quelli di Marco Aurelio e Lucio Vero o di Settimio Severo (che era stato funzionario statale nell’Isola) e Caracalla. Questi possedimenti, condotti originariamente da procuratori impe- 1.3 Economia e Società 43 riali (dei liberti) furono poi, tra il I e il III secolo, concessi in affitto e, dopo le riforme volute da Costantino, frazionati e assegnati in enfiteusi a dei conduc- tores. Diversi cippi terminali rinvenuti in alcune località sarde ci attestano gli altri due tipi di latifondo. L’economia sarda, anche nel periodo più tardo, sarà legata indissolubilmente alla produzione granaria e questo sarà il fil rouge di tutta la storia economica regionale. A variare nei secoli saranno infatti le politiche agrarie e non il tipo di colture. Ma il nome della Sardegna è legato, così come ci testimoniano le fon- ti, anche alla sua grande ricchezza di giacimenti minerari: piombo argentifero, ferro, rame. Tra le varie menzioni dovute a fonti di diverse epoche sembra parti- colarmente descrittivo l’appellativo di “Isola dalle vene d’argento” (᾿Αργυρόφλεψ) attribuito all’Isola da uno scoliasta del Timeo di Platone. Anche il geografo Tolomeo usando un’espressione simile (Μολιβόδης νῆσος = Plumbaria insula = Isola del piombo), attribuisce al territorio sardo una marcata vocazione estrattiva da collegare anche ad un commercio di materiali per il tramite portuale di Sulci. La localizzazione delle miniere coltivate nell’antichità non è sempre agevole, ma dalle indagini archeologiche, mirate soprattutto alla ricerca di scorie di la- vorazione da utilizzare come elemento guida, sembra evidente che già i punici nel VI-V sec. a.C. avessero localizzato nel un’area particolarmente ricca e, cosa più importante, facilmente utilizzabile. I nomi sono poi gli stessi che a tutt’oggi vengono collegati all’industria estrattiva sarda: Gonnesa, Malacalzetta e Monteponi per il piombo e l’argento, Funtana Raminosa presso Gadoni per il rame. Nei pressi di Antas, nel cuore dell’Iglesiente, venne fondato in età romana un centro abitato il cui nome, Metalla = Le Miniere, la dice lunga sulla vocazione del territorio. Altre aree della Nurra e del Sarrabus, nonostante le potenzialità, vennero sottoutilizzate probabilmente per impedimenti di tipo tecnico. Il rinve- nimento di diversi pani di piombo bollati provenienti dall’Iglesiente ci attesta che sia Augusto che Adriano ebbero il possesso di miniere localizzate forse vicino a Buggerru. Nel IV secolo dalle fonti, rappresentate da diversi provvedimenti presi per arginare il fenomeno della fuga dei metallarii (=i lavoratori delle miniere) dal proprio posto di lavoro (si era ormai nel momento in cui veniva vietato per legge a qualsiasi lavoratore di cambiare mestiere), la Sardegna viene menzionata in maniera abbastanza nebulosa in relazione a supposte miniere d’oro. La no- tizia, diffusa in un baleno nel bacino del Mediterraneo occidentale, richiamerà 44 Quadro storico sul territorio tutta una serie di figure del settore che cercheranno in Sardegna un’attività più redditizia. Non ci è data purtroppo la possibilità di localizzare le miniere di richiamo, anche se sappiamo bene, anche da eventi contemporanei, che l’oro in Sardegna esiste davvero, sebbene per essere cavato abbia bisogno di operazioni tecnicamente complesse e molto costose, irrealizzabili nell’antichità. Questo secondo aspetto rende perciò particolarmente problematica una corretta valutazione della notizia di una “febbre dell’oro” riguardante il mondo antico.

1.3.2 Viabilità e cursus publicus

Il sistema viario della Sardegna, noto principalmente dai cippi miliari e da al- cune fonti letterarie-geografiche (Itinerario Antoniniano, Cosmografia dell’Ano- nimo Ravennate, Tabula Peutingeriana), risulta piuttosto sviluppato a dispetto di una popolazione piuttosto scarsa. Le motivazioni che spinsero i Romani a costruire così tante strade sono comunque evidenti e vanno da motivi legati alla sicurezza fino ad arrivare al concetto che la romanizzazione stessa del territorio correva, per così dire, lungo le strade. Esse saranno infatti, e questo vale non solo per la Sardegna ma per l’intero mondo romano, uno strumento, sicuramente fra i più importanti, con il quale l’autorità centrale gestirà nel concreto la propria amministrazione e, di conseguenza, il potere. Sulle strade viaggeranno infatti i senatori e i magistrati romani che saranno responsabili dell’amministrazione locale, gli oggetti di proprietà dello stato, i messaggi contenenti disposizioni militari, amministrative, legislative e, in sintesi, tutto ciò che doveva spostarsi rapidamente e in sicurezza da un capo all’altro di un territorio nell’interesse dello stato. Precedentemente al periodo romano, in età punica, il sistema viario si sviluppò in maniera da andare a coprire, sia pure in maniera più discontinua e meno completa dei periodi successivi, una buona parte del territorio. Allo stato attuale della ricerca, il sistema viario punico può essere schematizzato per tre grandi direttrici a seguire le aree di maggiore densità di popolazione e di importanza strategica dal punto di vista sia militare che economico. Riconosciamo così una via dell’asse mediano da Karalì a Turris Libisonis, una via del perimetro costiero sardo la cui percorrenza, a causa della discontinuità del tracciato, doveva essere integrata per via mare dalla navigazione sotto costa, e tutta una serie di vie di penetrazione verso l’interno o verso altri centri costieri a seguire le vie fluviali. 1.3 Economia e Società 45

Un esempio di quest’ultima categoria sono le vie, ben tre, che da Sulci con- ducevano a Karalì attraverso le valli del Flumentepido e del Cixerri, attraverso il passo di Campanasissa, in prossimità dell’attuale centro di Siliqua, e infine a risalire il rio di Santadi e il Gutturu Mannu. L’importanza del centro di Sulci in età punica giustificava ampiamente que- sta pletora di strade, che peraltro venivano aperte anche per altri motivi come quelli legati all’estrazione di minerali o al commercio. In quest’ottica dobbiamo infatti valutare la “via del rame” che portava da Karalì a Funtana Raminosa op- pure le vie dell’asse mediano sardo, costruite per aprire nuovi mercati di scambio con le popolazioni più interne. I Romani ricalcheranno questo schema amplian- dolo a seguire tutte le grandi vallate regionali, così da permettere spostamenti più rapidi e confortevoli. Il miliario più antico della Sardegna, datato agli ultimi decenni del II sec. a.C. è stato rinvenuto nei pressi di Cornus sulla strada a Ti- bulas Sulcos; la strada più frequentata fu quella che si può definire come dorsale sarda che seguiva l’andamento dell’attuale S.S. 131 e la cui denominazione più utilizzata in antico fu quella di a Karalibus Turrem, espressione che indica in Carales il nodo di partenza. Analogamente al tracciato odierno, la strada partiva appunto da Carales per dividersi intorno alla zona di Campeda in due tronconi: uno per Turris Libisonis e l’altro per Olbia. Il centro gallurese era raggiungibile anche tramite un’altra strada, la per Mediterranea definita dalle fonti alio itinere ad Ulbia Caralis, che, attraversando il centro montuoso toccava località importanti come Caput Tyrsi, vicino a Buddusò, e Sorabile nei dintorni di Fonni. Due altre strade attraversa- vano poi l’Isola in senso longitudinale, lungo la costa occidentale e lungo la costa orientale. Quella occidentale fu sicuramente la più importante in quanto andava a toccare i centri più antichi ed economicamente più floridi della provincia. Forse a causa di ciò le fonti la denominano variamente, separando in diversi tronconi una via che fisicamente non aveva alcuna soluzione di continuità: abbiamo in- fatti attestata nell’Itinerario antonino la a Sulcis, la a Sulcis Nura e la a Caralis Nura, nelle epigrafi dei tronconi denominati a Nora Karalibus, a Nora Bithiae e forse a Tharros Cornus. La denominazione della strada orientale fu, così come ci riporta sempre l’Itinerario antonino, la a Portu Tibulas Caralis. È sufficiente poi dare uno sguardo al sistema viario, così come proposto dalla carta, per rendersi conto di come una serie di diverticoli stradali, permettesse di raggiungere la meta del viaggio nella maniera più rapida ed economica possibile. 46 Quadro storico

Figura 1.2: La viabilità romana della Sardegna (da Mastino 2005). 1.3 Economia e Società 47

Volendo per esempio andare per affari da Valentia (Nuragus) a Turris Libiso- nis (Porto Torres) era sufficiente, senza fare percorsi troppo tortuosi, seguire la per Mediterranea fino a dopo Sorgono e, girando a sinistra, immettersi in un troncone viario che portava, attraverso Augustis (Austis) fino alla località di Ad Medias (Abbasanta) sulla a Karalibus Turrem per poi proseguire, sempre dritti, a destinazione.

1.3.3 Popolazione, centri urbani e insediamenti rurali I centri urbani Famosissimi in essa (cioè in Sardegna) tra i popoli (non urba- nizzati) gli Iliensi, i Balari, i Corsi; tra le popolazioni delle 18 città a statuto peregrino (oppida), i Sulcitani (di Sulci-Sant’Antioco), i Valentini (di Valentia-Nuragus), i Neapolitani (di ), i Viten- si (di Bithia-Chia), i Cagliaritani, cittadini romani, e i Norensi (di Nora); una sola colonia chiamata Turris Libisonis (Porto Torres). Con queste parole Plinio il Vecchio ci propone nella sua Naturalis Historia la formula provinciae, cioè la struttura organizzativa della provincia di Sardegna. Il testo pliniano propone nella sua stringatezza molti problemi, e non solo quelli originati da una traduzione certamente non agevole. Il punto più controverso è ad esempio quello relativo al numerale XVIII, variamente inteso in riferimento ai termini immediatamente precedenti o successivi, che presenta, anche nella let- tura accolta, il problema di non vedere elencati come promesso tutti e diciotto i popoli relativi agli oppida sardi. Si può quindi pensare che Plinio, pur conoscen- do ben diciotto popoli legati ad altrettante città, si sia limitato a menzionare solo quelli più importanti. Oltre a questo aspetto, vi è da considerare inoltre come il testo pliniano sia stato scritto ben più tardi della conquista romana del territorio sardo e che quindi non conosciamo in realtà che tipo di situazione sia stata fotografata e a che periodo essa si debba riferire. L’elenco proposto è purtuttavia più che attendibile, poiché menziona i centri a noi più noti e che erano caratterizzati, in molti casi, già ai tempi di Plinio da una lunga storia a partire da un’età ben precedente alla conquista romana. L’occupazione umana del territorio sardo ricalcherà infatti, in periodo romano, sostanzialmente quella del mondo punico, in quanto dopo il 238 a.C. i nuovi padroni non muteranno indirizzo nello sfruttamento del territorio. 48 Quadro storico

Poli di attrazione rimarranno quindi le aree costiere, quelle di maggiore pro- duzione agricola e, in un secondo momento, le aree toccate dalle grandi strade. Accanto a questo tipo di insediamenti si avranno inoltre quelli più interni origi- nati da una funzione prettamente militare. La completa integrazione delle popo- lazioni locali comporterà, già nel I sec. a.C., l’elevazione a municipio di cittadini romani del centro di Carales e la deduzione della colonia di Turris Libisonis. Nei successivi due secoli altre città verranno infatti investite da provvedimenti analoghi (Nora, Sulci, Bosa come municipi e forse Tharros e Cornus come colo- nie). Nel 158 d.C., grazie ad un’iscrizione latina, una tabula patronatus, abbiamo attestata, presso l’attuale centro di Usellus, una nuova colonia denominata co- lonia Iulia Augusta Uselis. A partire dal V sec. d.C. le città incominceranno a mostrare le modificazioni tipiche delle città tardoantiche rappresentate princi- palmente dall’erezione di strutture fortificate e di mura, dall’occupazione delle aree suburbane e, in relazione a fenomeni tipicamente cristiani, dalla costru- zione di impianti di culto di nuove tipologie. Oltre a questi fenomeni vi è da segnalare quello delle sepolture urbane, assolutamente impensabile solo qualche secolo prima. Dal punto di vista demografico si registra, in questo periodo, una contrazione della popolazione che si rifletterà pesantemente sia sulle campagne che nei centri urbani. Nel recente volume sulla Sardegna romana, edito a cura di Attilio Mastino, vengono presentate due carte che disegnano in maniera particolarmente efficace la romanizzazione della Sardegna. Nella prima viene rappresentata la viabilità provinciale, nella seconda la localizzazione dei populi che vissero in Sardegna. Recenti rinvenimenti epigrafici consentono di integrare e forse rettificare la seconda di queste due carte con lo spostamento di una popolazione, i Fifenses, grazie alla rilettura (Corda, 2007) di un testo epigrafico proveniente da Valler- mosa (CIL X 7840) e con l’inserimento dei Barsani sulla base di un nuovo testo proveniente da Barumini [Corda e Piras (cds)].

Gli insediamenti rurali Analogamente al mondo fenicio-punico, che costellò di una miriade di piccole unità insediative umane le campagne sarde dell’immediato retroterra delle gran- di città costiere sia con funzione militare sia legandole allo sfruttamento delle risorse agricole, anche nel periodo romano assistiamo alla creazione di grandi fattorie nelle aree più ricche e comunque in prossimità degli assi viarii. Col ter- 1.3 Economia e Società 49

Figura 1.3: I popoli della Sardegna romana (elaborazione con modifiche da Mastino 2005). 50 Quadro storico mine di villa rustica, utilizzato sia dalle fonti che in archeologia per indicare questo tipo particolare di insediamento umano, dobbiamo quindi intendere non un piccolo casolare sperduto nelle campagne, ma una vera e propria azienda ben strutturata che poteva garantire ai proprietari comfort simili alla città e allo stesso tempo gli impianti logistici per una efficiente gestione dell’impresa. Purtroppo, sia per la connaturata occasionalità dei rinvenimenti archeologici che per una precisa scelta di indagine, non abbiamo in Sardegna molti esempi scavati ed editi di tali strutture, anche se sia i dati legati all’attività di prospezio- ne del territorio sia il semplice ragionamento legato alla storia economica della provincia Sardiniae ne fanno supporre una grande diffusione. Esempi ne sono la villa rurale di S’Imbalconadu individuata ad Olbia e forse quella scavata, in parte, in loc. S. Abba Druche presso Bosa. Accanto alla pars urbana della villa, nella quale viveva tra gli agi il padrone di casa, corroborato da tutta una serie di lussi tra cui risultava costante la presenza di una terma privata, si aveva la pars rustica, nella quale vivevano i servi addetti al buon funzionamento dell’a- zienda. In età tardoantica questa situazione continuerà a permanere e, perfino dopo l’età vandalica, abbiamo notizia di strutture simili anche di proprietà della chiesa.

Orientamenti bibliografici al §1.3

Economia: A. Guillou, La lunga età bizantina. Politica ed economia, in: M. Guidetti (ed.), Dalle origini alla fine dell’età bizantina, Storia dei Sardi e della Sardegna, Milano: Jaca Book, 1988b; Ortu, La Sardegna dei Giudici, op.cit. (vedi 1.2.4) Viabilità: Mastino, La Sardegna antica, op.cit. (vedi 1.2.1), 333-392; A. Corda e A. Mastino, Il più antico milia- rio della Sardegna della strada a Tibulas Sulcos, in: G. Paci (ed.), Contributi all’epigrafia di età augustea. Actes de la XIIIe réncontre franco-italienne sulr l’épigraphie du monde romain (Macerata, 9-11 dicembre 2005), Tivoli: Editrice Tipigraf, 2007; Popolazione: A. Terro- su Asole, L’insediamento umano medioevale e i centri abbandonati tra il secolo XIV ed il secolo XVII, Roma: CNR, 1974; Meloni, La Sardegna romana, op.cit. (vedi 1.2.3), 229-316; Mastino, La Sardegna antica, op.cit. (vedi 1.2.1), 205-332 1.4 Il cristianesimo e la chiesa sarda delle origini 51

1.4 Il cristianesimo e la chiesa sarda delle origini

Come si è detto il primo vescovo noto con certezza in Sardegna fu tale Quintasius che, unitamente al diacono Ammonius, partecipò al Sinodo di Arles nel 314. Il più autorevole storico e storiografo della Chiesa sarda, Raimondo Turtas, suppone, sulla scorta di questa notizia, che nell’Isola dovesse esistere da circa un cinquantennio, almeno a Carales, una comunità cristiana gerarchicamente strutturata, organizzata e, lascia intendere, significativamente numerosa. In ef- fetti, la Sardegna viene associata in data anteriore alla pace della Chiesa alla religione cristiana in più occasioni. Resta da stabilire che peso dare a queste notizie. Alla fine del II secolo l’imperatore Commodo (161-192), su sollecitazione della sua concubina Marcia, graziò alcuni condannati ad metalla che si trovavano in Sardegna in base ad un elenco stilato da papa Vittore. Siamo nel 190 e tra coloro che vennero liberati perché correligionari di Marcia ci fu, ancorché non menzionato nella missiva, anche Callisto che sarà papa e martire (217-222; Hippol. Philosophumena 9,12). Costui non fu però l’unico pontefice ad essere relegato in Sardegna. Come ci dice il Catalogo Liberiano il vescovo di Roma Ponziano fu mandato nell’Isola con un diacono di nome Ippolito. Vecchio, malato e detenuto in condizioni malsane, morì esule prima di poter anche solo sperare nella liberazione. Queste notizie, ancorché importanti perché parlano in di personaggi di rilievo come Callisto, Ponziano e Ippolito (forse quello dei Philosophumena) e di eventi storicamente significativi come il Sinodo di Arles, nulla ci dicono sull’effettiva consistenza della comunità cristiana sarda di II-III sec. I damnati ad metalla del II secolo non possono, questo possiamo tranquillamente affermarlo, essere ascritti ad un tentativo di evengelizzazione della Sardegna: non sono stati inviati da alcuno con questa missione né, cosa lampante, si può sostenere siano andati in Sardegna di spontanea volontà. A suggerire la presenza di una comunità cristiana caralitana di una certa consistenza rimane a questo punto l’attestazione del solo Quintasius, che nulla esclude possa essere stato inviato in Sardegna come avanguardia di una “erigen- da” comunità piuttosto che come pastore di una ecclesia preesistente. In questo secondo caso avremmo avuto per il III-IV secolo un buon numero di iscrizio- 52 Quadro storico ni, materiali mobili e quant’altro, mentre, fino a prova contraria, non abbiamo alcuna di queste attese testimonianze archeologiche. Ciò che Quintasius stesso e altri personaggi di grande caratura collegati al territorio sardo dimostreranno ampiamente è che la comunità sarda, quale che fosse la sua dimensione numerica e la sua estensione territoriale fu capace di esprimere dei protagonisti di valore assoluto come Lucifero (†370 ca.), vescovo di Carales, e di dare i natali ad Eusebio (definito infatti natione sardus), vesco- vo di Vercelli. Tra i due, com’è noto, fu il secondo a primeggiare per dottrina e capacità; eppure papa Liberio scelse il primo a rappresentarlo al Concilio di Milano del 355 preferendolo per le sue qualità di combattente dotato di una spessa corazza di “impermeabilità dottrinale”. A questo riguardo Antonio Piras nell’introduzione alla sua edizione del De non conveniendo cum haereticis scrive molto bene della scelta di Liberio caduta non su “uno [i.e. Eusebio] che aprisse al dialogo, ma uno [i.e. Lucifero] che martellasse come un basso ostinato”. Un combattente a cui però lo stesso papa affiancò in quella occasione un riluttante Eusebio di Vercelli, a cui in tre lettere viene ricordato e chiesto di spendere, al fianco di Lucifero la sua dottrina, la sua moderazione e la sua obbedienza al servizio della Chiesa (Liber. Ep. I-III ad Eusebium). Eusebio, ammesso con riluttanza e solo dopo qualche giorno al consesso dei vescovi conciliari sarà riso- lutivo nel fare in modo che il credo niceno venisse salvato ottenendo quello che si può definire volgarmente un “pareggio”, che però al momento, se si considera che gli ortodossi erano in netta minoranza, fu una vera e propria sonante vittoria. Lucifero ed Eusebio, in conseguenza delle posizioni espresse e per la loro strenua difesa di Atanasio di Alessandria, vennero condannati da Costanzo (fi- loariano) ad un esilio lungo ben 6 anni (355-361) e che terminò solo a causa della morte dell’imperatore a Mopsucrene e grazie all’amnistia voluta da Giu- liano l’Apostata. La successiva presa di posizione a favore dei seguaci di Eustazio di Antiochia (270-337), vescovo ortodosso morto in esilio prima della riabilita- zione generale dei vescovi esiliati da Costantino I, sarà la naturale prosecuzione della sua linea teologica, che peraltro lo aveva spinto a scrivere anche durante l’esilio libelli (come il citato De non conveniendo) contro l’arianesimo di grande asprezza. Allo stesso modo Eusebio, esiliato prima a Scitopoli e successivamente via via in zone sempre più isolate della Tebaide, non aveva smesso di utilizzare, né avrebbe in verità potuto, il suo carisma personale per fare proseliti. Come si è detto, entrambi vennero liberati alla morte di Costanzo e quindi si riunirono 1.4 Il cristianesimo e la chiesa sarda delle origini 53 nell’affermazione della fede nicena attorno ad Atanasio che organizzò per il 362 un Concilio ad Alessandria. Lucifero non raccolse l’invito recandosi al contrario ad Antiochia, dove era stato richiamato da suoi fedeli per sostenere il prete Pao- lino contro il suo vescovo Melezio. L’integralismo di Lucifero questa volta creò gravi danni, perché il nostro ebbe la brutta idea di ordinare vescovo Paolino permettendogli di partecipare al Concilio voluto da Atanasio e creando di fatto un vero e proprio scisma. Dopo questi eventi Luciferò rientrò a Cagliari, scom- parendo per sempre dalla ribalta internazionale e dove si ritiene morisse intorno al 370. Alla chiusura del concilio Eusebio, insoddisfatto della tiepida formula cristologica voluta da Atanasio, si recò ad Antiochia, senza però prendere posi- zione nel conflitto locale originato da Paolino. Inizierà così da questa città un lungo ritorno via terra a Vercelli, dove continuerà la sua battaglia antiariana e potenzierà, forte dell’esperienza orientale e di esilio, il monachesimo. Un’ultima volta ancora Eusebio calcherà la grande ribalta, quando, assieme ad Ilario, nel 364 combatterà a Milano l’ariano Aussenzio. Sarà un grande sconfitta perché Valentiniano crederà ad una (probabilmente falsa) affermazione di fede “nicena” di Aussenzio e intimerà a Ilario ed Eusebio di tornare nelle proprie diocesi.

Circa duecento anni dopo questi eventi, la polemica antiariana riprese nuova- mente forza in Sardegna grazie alla grande personalità di Fulgenzio di Ruspe che vi fu esiliato tra il 507-508 e il 523 nel quadro delle relegazioni dei vescovi orto- dossi volute dai re vandali (Vict. Vit. pers., II, 18). Fondatore di monasteri, di uno scriptorium e scrittore egli stesso entrò non solo nel merito dell’arianesimo, ma anche dell’eresia pelagiana affermatasi in Africa nel IV-V secolo che sminuiva il sacrificio del Cristo ai fini della salvezza dell’uomo. Nel 484 ben cinque vesco- vi sardi parteciparono al Concilio di Cartagine (Lucifero II di Carales, Vitale di Sulci, Martiniano di Forum Traiani, Bonifacio di Senafer, Felice di Turris) e si può supporre che l’istituzione delle 4 nuove diocesi possa essere avvenuta prima dell’invasione vandalica della Sardegna con il vescovo di Roma come me- tropolita (vicariato dell’Italia Suburbicaria) e che, successivamente, durante la dominazione vandalica l’Isola possa essere stata organizzata in provincia eccle- siastica autonoma con Carales come sede metropolitana. Gli oltre cento vescovi che vennero esiliati in Sardegna lasciarono certamente un segno indelebile por- tando con sé culti, tradizioni e una cultura che in quel momento doveva essere ben superiore a quella della regione ospitante e che è possibile riscontrare anche in aspetti della cultura materiale. Secondo la tradizione Feliciano, vescovo di 54 Quadro storico

Cartagine, portò con sé il corpo di S. Agostino, anche se è molto probabile che abbia ragione Luciano Gastoni quando sostiene che a farlo furono gli Arabi in un momento ben più tardo. Come Feliciano, è possibile che un vescovo abbia portato le reliquie del martire Vincentius che vennero conservate nella cassetta- reliquiario di San Giuliano a Selargius [edizione in Casu e Corda (2003)], che per forma, formulari e onomastica richiama ambiti africani. A questo VI secolo sembra doversi ascrivere l’istituzione delle diocesi di Thar- ros (per gemmazione da Cornus) e Fausiana nei pressi di Olbia. Il tutto mentre salivano al soglio pontificio altri due papi sardi: Ilaro/Ilario (461-468) e Simmaco (498-514). La celebre missiva del maggio 594 di Gregorio Magno (590-604) ad Ospitone propone un quadro della cristianizzazione dell’Isola con da una parte le aree già controllate dai Romani ormai completamente (o quasi) “conquistate“ dall’altra l’antica Barbaria, dove i Barbaricini ancora adoravano ligna et lapides. Le 39 let- tere scritte da questo grande pontefice e dirette ai vescovi sardi ci descrivono in maniera sufficientemente chiara una chiesa sarda ben strutturata e organizzata nel territorio e strettamente controllata da funzionari civili (notarii e defensores su tutti) per conto del soglio pontificio. Sempre da queste lettere conosciamo le strutture collegate all’attività caritativa e di assistenza sul territorio (xenodo- chia), peraltro già note grazie ad alcune iscrizioni ascrivibili a quadri cronologici compatibili. Su tutto il territorio erano disseminati monasteri sia maschili che femmini- li: in una bella iscrizione rinvenuta a Carales viene ricordata ad esempio una Redemta abb(atissa) monasterii Sancti Laurenti [vedi infra scheda 3.1.7]. Il fe- nomeno monastico inizierà, come si è detto, grazie a Fulgenzio di Ruspe e pro- seguirà rinforzandosi in età gregoriana per poi arrivare nel VII secolo con un incremento dovuto ad afflussi orientali. In ogni caso, pur ospitando monaci di lingua greca, la Sardegna da un punto di vista ecclesiastico sarà sempre collegata a Roma e non a Bisanzio. Si hanno casi anche in Sardegna di quella contiguità liturgica che risulta essere piuttosto comune ad esempio nel resto della peni- sola italica e che ha portato nelle stesse aree all’utilizzo di rituali e di culti di tradizione occidentale e orientale. Si ha quindi l’arrivo del culto di santi quali Elena, Nicola di Mira, Barbara, Basilio e Gregorio, Pantaleone, Giorgio Megalomartire e altri più specifici e particolari come quelli collegati a Maria Θεοτόκος o alla tradizione della κοίμησις 1.4 Il cristianesimo e la chiesa sarda delle origini 55

Figura 1.4: Iscrizione di Karissimus da Tharros (foto archivio Dip. Scienze archeologiche - Università di Cagliari; Corda 1999, THA003). 56 Quadro storico di Maria. L’influenza bizantina si attenuerà lentamente con il passare degli anni: come abbiamo detto, dopo il X secolo si aprirà per la Sardegna la stagione dei Giudicati.

Orientamenti bibliografici al §1.4

Pani Ermini, La Sardegna e l’Africa nel periodo vandalico., op.cit. (vedi 1.2.4); Guillou, La lunga età bizantina. Politica ed economia, op.cit. (vedi 1.3.3); A. Guillou, La diffusio- ne della cultura bizantina, in: M. Guidetti (ed.), Dalle origini alla fine dell’età bizantina, Storia dei Sardi e della Sardegna, Volume I, Milano: Jaca Book, 1988a; T. Pinna, Gregorio Magno e la Sardegna, Sassari - Cagliari: 2D Editrice Mediterranea, 1989, Lingua e Cultura 2; L. M. Gastoni, Le reliquie di S. Agostino in Sardegna, in: A. Mastino (ed.), L’Africa Romana 6, Sassari: Gallizzi, 1989; A. Piras, Appunti su alcune specificità del cristianesimo in Sardegna, Theologica & Historica, V (1996); Spanu, La Sardegna bizantina tra il VI e il VII secolo., op.cit. (vedi 1.2.4); A. M. Corda, Le iscrizioni cristiane della Sardegna anteriori al VII secolo, Volume LV, Studi di antichità cristiana, Roma: Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, 1999; R. Turtas, Storia della chiesa in Sardegna : dalle origini al Duemila, Roma: Città Nuova, 1999; G. Mele, Il monastero e lo scriptorium di Fulgenzio di Ruspe a Cagliari nel VI secolo tra culto, cultura e il Mediterraneo, in: G. Mele e N. Spaccapelo (eds.), Il papato di San Simmaco (498-514). Atti del convegno internazionale di studi: Oristano, 19-21 novembre 1998, Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, 2000, Studi e Ricerche di Cultura Religiosa, Nuova Serie II; P. G. Spanu, Martyria Sardiniae. I santuari dei martiri sardi, Ori- stano: S’Alvure, 2000, Mediterraneo tardoantico e medievale. Scavi e ricerche 15; R. Turtas, La Chiesa sarda tra il VI e l’XI secolo, in: P. Corrias e S. Cosentino (eds.), Ai confini del- l’impero. Storia, arte e archeologia della Sardegna bizantina, Cagliari: M&T, 2002; A. Piras, La circolazione del testo biblico in Sardegna in età tardoantica, in: P. G. Spanu (ed.), Insulae Christi. Il Cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, Oristano: S’Alvure, 2002a, Mediterraneo tardoantico e medievale. Scavi e Ricerche 16; E. Morini, Il Monachesimo, in: P. Corrias e S. Cosentino (eds.), Ai confini dell’impero. Storia, arte e archeologia della Sardegna bizantina, Cagliari: M&T, 2002; A. Piras, Gli scritti di Lucifero di Cagliari: genere letterario e modalità di produzione, in: Comunicazione e ricezione del documento cristiano in epoca tardoantica (XXXII incontro di studiosi dell’antichità cristiana (Roma, 8-10 maggio 2003), Roma: Institutum Patristicum Augustinianum, 2004, Studia Ephemeridis Augustinia- num 90; G. Corti, Lucifero di Cagliari : una voce nel conflitto tra chiesa e impero alla metà del IV secolo, Milano: Vita e Pensiero, 2004, Studia Patristica Mediolanensia 24; R. 1.4 Il cristianesimo e la chiesa sarda delle origini 57

Martorelli, Gregorio Magno e il fenomeno monastico a Cagliari agli esordi del VII secolo, in: L. Casula, G. Mele e A. Piras (eds.), Per longa maris intervalla. Gregorio Magno e l’Occidente mediterraneo fra tardoantico e altomedioevo. Atti del Convegno internazionale di studi (Cagliari 17-18 dicembre 2004), Cagliari: Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, 2006a, Studi e ricerche di Cultura Religiosa, IV; R. Martorelli, La diffusione del culto dei martiri e dei santi in Sardegna in età tardoantica e medievale, in: M. G. Meloni e O. Sche- na (eds.), Culti, santuari, pellegrinaggi in Sardegna e nella penisola iberica tra medioevo ed età contemporanea, Genova: Brigati, 2006b; P. B. Serra, I Barbaricini di Gregorio Magno, in: L. Casula, G. Mele e A. Piras (eds.), Per longa maris intervalla. Gregorio Magno e l’Occidente mediterraneo fra tardoantico e altomedioevo. Atti del Convegno internazionale di studi (Cagliari 17-18 dicembre 2004), Cagliari: Pontificia Facoltà Teologica della Sarde- gna, 2006, Studi e ricerche di Cultura Religiosa, IV; A. Piras, s.v. Lucifero di Cagliari, in: A. Di Berardino, G. Fedalto e M. Simonetti (eds.), Letteratura patristica, Torino: San Paolo, 2007;

Capitolo 2

I siti

2.1 Carales - Cagliari

Foglio IGM 234, IV SE; città capoluogo della Sardegna. Sulle fonti classiche è ancora utile la scheda di Th. Mommsen in CIL X, p. 787; tra i luoghi citati si veda in particolare, per la notevole importanza dal punto di vista topografico, Claud. De bello Gild., I, 520 ss. che ci descrive la città vista dal mare in occasione dell’approdo della flotta di Stilicone nel territorio sardo. Gli insediamenti preistorici finora localizzati sembrano non presentare so- vrapposizioni insediative di età punica, periodo in cui, del resto, il centro abi- tativo gravava in loc. S. Igia, area ben più ad ovest di quella successivamente occupata in età romana. Quest’ultimo spostamento fece si che l’originaria Karalì diventasse un’area suburbana della civitas romana che ebbe il proprio centro, per dirla con S. Angiolillo, in un’area “gravitante intorno all’attuale piazza del Carmine”. In età alto e medio-imperiale (fino al III sec. d.C. ca.) l’area abitata era delimitata ad ovest dalla necropoli di S. Avendrace in uso fino a tutto il III sec. d.C., a nord dall’anfiteatro e ad est dalla necropoli di viale Regina Margheri- ta. Ad occidente il tessuto urbano era organizzato da un sistema organico, già attestato a partire dal II sec. a.C., di unità abitative di non grandi dimensioni, con aree sepolcrali proprie e con un’economia a valore d’uso di tipo agricolo che comunque non soddisfaceva il mercato interno.

59 60 I siti

L’autonomia del modello urbanistico caralitano romano rispetto ai prece- denti punici è stato di recente sottolineato e vi è infatti chi individua in modelli italici ed in una precisa scelta della classe dominante medio-imprenditoriale lo- cale la selezione di un’area determinata compresa tra piazza del Carmine e via XX Settembre. Tale opzione sarebbe stata originata da diversi motivi, quali la natura del terreno, la presenza di falde d’acqua ed infine la particolare posizione rispetto al sistema viario. Lo studio dell’area di via Malta e soprattutto la ricostruzione delle curve di livello originarie ha permesso di ipotizzare la classificazione di Carales tra le città terrazzate di tipologia italica. I lacerti viarii noti dalla bibliografia hanno suggerito l’ipotesi di una rete orientata est-ovest a seguire le curve di livello. Dal IV sec. d.C. si assiste ad una radicale risistemazione di queste aree, come testi- monierebbero le vicende costruttive ed i cambiamenti subiti da alcuni complessi edilizi afferenti viale Trieste e dintorni. Proprio viale Trieste assicurava non solo i collegamenti fra la città e i sistemi viari del Campidano e del Sulcis-Iglesiente, ma anche fra questa e la necropoli di S. Avendrace. Oltre a ciò, la documenta- zione archeologica ed il rinvenimento di un certo numero di epigrafi attestano, dal IV sec. d.C. fino al VII, l’uso funerario di parte della vasta area compresa fra viale Trieste e Fangariu. In conclusione, pare di potere ravvisare una politica di forti investimenti edili nel suburbio occidentale di Cagliari, con una situazione insediativa incentrata su due assi principali: viale Trieste e S. Gilla, cadendo così la netta distinzione fra suburbio e città, fra aree abitate e aree esclusivamente funerarie. Tale spostamento rispetto al nucleo originario romano troverebbe spiegazione nella necessità di un approvvigionamento idrico legato alle modalità e ai mezzi di produzione dei nuovi proprietari, che l’acquedotto, dismesso, non poteva più assicurare. Nel corso del VI sec. d.C. il polo occidentale si identifica in maniera sempre più decisa con le zone di viale S. Avendrace e S. Gilla, che la tradizione identificherà come l’area occupata dalla capitale giudicale. L’antica zona ovest del suburbio, ormai periferica e affidata in gestione alla Chiesa, viene interes- sata da costruzioni chiesastiche, in un secondo tempo incorporate all’interno di costruzioni a carattere difensivo, analogamente a quanto si riscontra nella stessa S. Gilla. Riguardo al settore orientale della civitas, si ha testimonianza di alcune preesistenze puniche, ma non è possibile tracciare un quadro definito fino a dopo il periodo romano imperiale. Sicuramente importante doveva essere 2.1 Carales - Cagliari 61

Figura 2.1: Cagliari. Cippo terminale (disegno da Salvi 2002). l’attuale viale Regina Margherita che accoglieva nella sua porzione medio-alta una vasta necropoli in uso dall’età repubblicana. Il viale andava a ricollegarsi, verso Sud, con il porto e con un impianto industriale, risalente alla tarda repub- blica, ubicato nella via XX Settembre. Altri spazi funerari, fra il I e il III sec. d.C., sono stati segnalati in via Eleonora d’Arborea, via S. Lucifero, piazza S. Cosimo, colle di Bonaria, via S. Bartolomeo con particolari evidenze, e non solo funerarie, per il tratto fra via Sonnino e il colle di Bonaria. Nel IV sec. e fino al VI/VII sec. d.C. continua l’espansione delle sepolture a caratterizzazione cri- stiana e vi è chi vede nella differenziazione delle tipologie sepolcrali, nelle fasi di utilizzazione di alcuni edifici, nell’ipotesi dello sfruttamento del colle di Bonaria non solo come cimitero ma anche come cava di materiale per l’edilizia, gli indizi di un’organizzazione socio-economica strutturata ponendo in rilievo l’esclusività della presenza cristiana e soprattutto dei maggiori rappresentanti della gerarchia ecclesiastica. Il fenomeno sarebbe da ricollegare alla costruzione nel VI sec. d.C. della basilica di S. Saturnino, con probabilità sorta su un possesso imperiale, nell’ambito della politica costantiniana all’indomani della pax religiosa e dello 62 I siti sforzo di legittimazione del culto dei martiri da parte di papa Damaso. Un altro edificio di culto, anch’esso forse dedicato a S. Saturnino, è attestato fra il IV e il VI/VII sec. nel viale Regina Margherita, ma con la definitiva consacrazione del- la basilica presso piazza S. Cosimo come luogo privilegiato, dovette perdere di importanza fino ad essere dimenticato. Oltre all’area di scavo di Vico III Lanusei a cui è stata dedicata di recente una importante pubblicazione, gli archeologi hanno appuntato l’attenzione sull’area sottostante la chiesa di S. Eulalia a Ca- gliari, dove sotto un imponente scarico di detriti e materiali di V-VI secolo, ascrivibili prevalentemente ad importazione africana, è stata messa in luce una strada basolata con andamento nord-ovest/sud-est probabilmente di cronologia posteriore al V secolo. La possibile relazione intercorrente fra queste strutture e la grande vasca circolare rinvenuta al di sotto della chiesa del Santo Sepolcro e ricavata dall’escavazione di un potente banco di roccia propone suggestivamente una riflessione sulla possibile ubicazione in quest’area dell’insula episcopalis. Di recente è stato rinvenuto e pubblicato un cippo terminale [cfr. figura 2.1; Salvi (2002)] indicante il confine tra la proprietà ecclesiastica e la proprietà del demanio e la cui lettura è (croce) [l]ime[s] // curiae [vacat] // (croce) limes {a}ecl(esiae). L’impaginazione non buona del testo è forse originata dal fatto che il lapicida ha voluto realizzare un testo ’passante’ da una faccia all’altra del cippo per farlo leggere di sbieco.

2.1.1 La basilica di S. Saturnino

Saturnino, secondo la tradizione locale martirizzato nel 304 sotto Dioclezia- no, ebbe il privilegio di vedersi dedicare in un periodo probabilmente precedente al 450 d.C. una chiesa che, secondo la Vita Fulgentii scritta agli inizi del VI se- colo, non era solo nota allo stesso vescovo di Ruspe, ma addirittura funse in qualche modo come polo di attrazione per il monastero che egli volle fabbricar- gli vicino. Sulla doppia dizione Saturno-Saturnino si è già espresso nel secolo scorso con grande autorevolezza B. R. Motzo che sosteneva come si dovesse di- sgiungere, nei documenti risalenti all’attività dei monaci vittorini in Sardegna, il nome Saturno, identificante un martire locale cagliaritano, dal nome Saturnino da riferirsi al santo venerato nel santuario tolosano. La nostra basilica sarebbe quindi da definire, secondo Motzo, come di ’S. Saturno’. Questa visione, fino a tempi recentissimi condivisa dalla maggior parte degli studiosi di storia sar- 2.1 Carales - Cagliari 63

Figura 2.2: Carales. Basilica di San Saturnino (da Insulae Christi, p. 216). 64 I siti da, è stata messa in crisi e ribaltata da una nuova lettura della Passio Sancti Saturnini di A. Piras e dall’edizione di un manufatto epigrafico, a cura di D. Artizzu, menzionante un Sanctus Saturninus proveniente dall’agro di Solanas (CA) e datato al VII-VII sec. Ciò che importa è che la chiesa così come noi la vediamo, modificata e restaurata dai Vittorini di Marsiglia, trae la sua origine da un originale corpo cupolato a croce greca con bracci mononavati confronta- bili con consimili strutture orientali datate addirittura al IV secolo (martyrium di San Babila ad Antiochia-Kaousiye del 378). In base ad alcune considerazioni sulla struttura, è possibile ipotizzare che la prima fase costruttiva di V secolo sia stata interrotta per cause a noi non ben note (Renata Serra sembra attribuirle alla presenza vandala in Sardegna) e che i lavori siano stati forse ripresi grazie all’esilio sardo di Fulgenzio di Ruspe. Al suo interesse sarebbe infatti da attribuire all’inizio del VI secolo l’am- pliamento dell’edificio con bracci trinavati sul modello (così Renata Serra) di Qal’at Sim’an (s. Simeone Stilita), mentre ad età vittorina sono ovviamente da attribuire le trasformazioni in chiave romanica terminate nel 1119. Letizia Pani Ermini differisce nella lettura dell’area proponendo, a partire da una fase pub- blica tardopunica caratterizzata dalla presenza di blocchi bugnati, una lettura stratigrafica che vede in successione, oltre alla già citata fase preromana, una necropoli romana di II-IV secolo, un primo impianto chiesastico absidato mono- nave e infine alla metà del VI secolo il San Saturnino fulgenziano con impianto a croce. L’importanza del San Saturnino nella storia dell’arte e dell’architettura re- gionali consiste nel fatto che questo impianto sarà il prototipo a cui si rifarà in maniera più o meno fedele tutta una serie di chiese altomedievali, tra cui ricordiamo in particolare l’impianto di Sulci (martyrium di Antioco) e quelli di S. Giovanni di Sinis, Bonarcado, Sant’Elia di Nuxis, San Salvatore di Iglesias e Santa Maria di Cossoine in un arco cronologico ampio oltre cinque secoli a partire dal V.

2.2 Nora - Pula

L’area archeologica di Nora è compresa all’interno del territorio comunale di Pula in prov. di Cagliari, da cui dista km 29 a SO. A detta delle fonti clas- siche (Paus. X, 17, 5; Solin. IV,2), Nora venne fondata da Norace, capo di un 2.2 Nora - Pula 65 gruppo di Iberi provenienti da Tartesso. In realtà sappiamo che questo centro, nonostante alcune tracce pertinenti alla civiltà nuragica, è certamente di origine fenicia, come ci dimostra l’iscrizione c.d. Grande Norense conservata presso il Museo Nazionale di Cagliari che viene ormai datata al più tardi all’VIII sec. a.C.

Figura 2.3: Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. La Grande Norense.

Le strutture edilizie finora poste in luce non ci consentono per ora di risalire, per la fondazione, oltre il VII sec. a.C. Del periodo preromano abbiamo, se non le strutture, almeno delle aree urbane nelle quali risulta evidente una sovrappo- sizione dell’elemento romano a quello precedente. Basti pensare ad esempio al santuario di Eshmun-Esculapio situato nella Punta de su Coloru e il cosiddetto “Tempio di Tanit”, del quale ci sfugge appieno la funzione, ma che sembra sia da ascrivere ad una supposta funzione militare originaria. L’acropoli della città è probabilmente da collocare sul promontorio del Coltellazzo. L’importanza che la città ebbe durante il dominio punico in Sardegna venne mantenuta anche in età romana e, prima che prevalesse Carales, fu la sede del governatore comandante la guarnigione militare di stanza in Sardegna. Notizia di un notevole sviluppo 66 I siti in età alto-imperiale ci proviene dall’epigrafia e da importanti presenze monu- mentali quali un teatro datato dalla prima metà del I sec. d.C. al principato di Adriano (117-138). Particolarmente importanti le Terme centrali (II-III sec. d.C) e le Terme a mare di fine II sec. d.C., mentre l’afflusso delle merci in città era garantito dai due porti già usati dai punici. Nel I sec. a.C. il centro fece da sfondo alle torbide vicende collegate alla Pro Scauro di Cicerone che riuscì, con una difesa aggressiva a far assolvere da una pesante accusa di malversazione M. Emilio Scauro, reo di aver letteralmente depredato i Sardi durante il suo mandato di governatore della Provincia nel 55.

Figura 2.4: Nora. Basilica (a) [elab. da Bejor 1994].

In età tardoantica, nel V sec., venne restaurato l’acquedotto e a partire da questo periodo, lungi dall’essere abbandonato, il centro di Nora subirà quelle 2.3 Sulci - Sant’Antioco 67 trasformazioni tipiche di adeguamento urbanistico dovute alle nuove contingen- ze storiche. Si può convenire quindi con chi, con ragione, parla di mutazione e di continuità urbanistica, con aggiustamenti quali, ad es., la fortificazione delle Terme a mare e l’inserimento, urbanisticamente forzato, di una basilica posizio- nata esattamente di fronte al cd. macellum. Sempre in un periodo “non anteriore al V sec.”, tornano le attività produttive a qualificare una notevole vitalità che avvicina il centro sardo a Tharros e ai grandi centri africani. Già dal 1994 si è pensato di proporre la possibile interpretazione cristiana dell’impianto basilicale appena menzionato: questa soluzione sanerebbe in qual- che modo quella che sembra essere un’anomalia di Nora e cioè la mancanza di una cattedrale urbana. Risulta infatti molto difficile pensare che un centro così importante come questo, non abbia avuto edifici di culto urbani adeguati tanto più che è opinione di molti studiosi, che là dove sorgerà nell’XI secolo la chiesa di S. Efisio ci possa essere stato un martyrium precedente dedicato allo stesso santo. La vicinanza delle diocesi di Carales e Sulci ha nuociuto pesantemente al centro norense che, preso come in una morsa, non ha visto, a dispetto di una storia urbana quanto mai ricca e prestigiosa, vedersi riconoscere la dignità di sede episcopale.

2.3 Sulci - Sant’Antioco

Foglio IGM 232, II, SE; comune in prov. di Cagliari da cui dista 68 km. Nelle fonti classiche Sulci è ricordata da Zon. VIII, 12 in relazione alle attività navali di C. Sulpicio Patercolo ed Annibale che, invece di accettare una battaglia in mare aperto, si rinchiuse nel porto cittadino facendosi bloccare, e successivamen- te battere, dai Romani (259-258 a.C.). A fianco di Pompeo durante la guerra civile, la città venne duramente punita nel 46 a.C. (Caes. Bell. Afr. XCVIII, 1ss.) per essere comunque elevata, un secolo dopo circa, al rango di municipium. Numerose notizie ci provengono dall’epigrafia, e in particolare da un te- sto edito in CIL X, 7513 abbiamo una importante iscrizione bilingue (latino- neopunico) datata al I sec. a.C., che testimonia non solo il perdurare nell’u- so della lingua, ma soprattutto la presenza istituzionale, a livello cittadino, di “un’assemblea rappresentativa di tipo punico”. Nonostante non manchino tracce di insediamenti cronologicamente anteriori (cultura Ozieri e nuragico), il cen- tro di Sulci è legato, nella storia dell’Isola, principalmente al periodo punico- 68 I siti romano. Come ci testimonia la tipologia delle urne degli strati più antichi del tophet, il primo centro insediativo fenicio di slky deve attribuirsi almeno alla metà dell’VIII sec. a.C. Il ruolo economico di Sulci non cambia in età romana, quando dovrà svolgere il compito di terminale marittimo per le miniere del- l’Iglesiente. La fusione dell’elemento sardo-punico, già rilevato nell’epigrafia, è confermato anche dal dato più strettamente archeologico: al II sec. a.C. è da ascriversi il monumento noto come Sa Presonedda, che tipologicamente richia- ma analoghi monumenti tardo-punici nord africani, mentre i famosi leoni punici di VI sec. sono stati rinvenuti, reimpiegati, in un colonnato romano di III-II sec. che insiste su una fase punica. Al I-II sec d.C. vengono datati un anfitea- tro (pochi resti) e due isolati di case. Nel periodo alto-imperiale è presente a Sulci una comunità ebraica che dobbiamo supporre abbastanza importante. Gli ipogei certamente giudaici sono due: quello c.d. di Beronice e quello ritrovato nei pressi della casa Pintus-Trullu. Suggestiva l’ipotesi di chi accosta il nome Beronice, dipinto sulla parete di fondo di un arcosolio proveniente da un ipogeo giudaico, con il testo di un’iscrizione sulcitana, in cui vengono menzionate le univer[sae tribus] e i Beroni[cen]ses. P. Meloni suppone che si possa trattare di una popolazione rurale locale legata, in qualche modo, alla Beronice di IL- Sard 30 e proveniente da Berenice, l’attuale Bengasi, nei primi decenni del II d.C. La catacomba cristiana di Sant’Antioco a Sulci è l’unico monumento di questo genere finora noto in Sardegna: si tratta di un ipogeo di modestissime proporzioni che riutilizza una precedente necropoli punica (vedi infra). L’uso della catacomba è stimato in un arco cronologico che va dalla fine del IV sec. d.C. al VII sec. d.C.

Il nome che qualifica la catacomba come di Sant’Antioco proviene da CIL X, 7533, un titulus che, ora nella cattedrale di Iglesias, avrebbe contraddistinto, se- condo Mons. D’Esquivel, il sepolcro venerato nella catacomba; oltre al problema dell’autentica del manufatto si propone quello spinoso della datazione. Si passa infatti da un VI-VIII sec. del prof. B. R. Motzo ad un XII sec. di vari autori (P. Martini ed altri). Una posizione intermedia è quella che vuole il testo come copia del VII-IX sec. di una più antica iscrizione metrica musiva. La lettura critica dell’impianto chiesatico è stata in tempi recenti affrontata da R. Serra che propone, per il supposto impianto cruciforme originario, una datazione di non oltre il VI sec., massimo inizi del VII, mentre altri propendono per una data non anteriore al VII sec. 2.3 Sulci - Sant’Antioco 69

Figura 2.5: Planimetria della catacomba di Sant’Antioco di A. Taramelli.

Lo studio e di fatto l’identificazione del castrum bizantino si devono a Rena- ta Serra, che trova, riguardo ad esso, “significativi riscontri” con l’architettura militare bizantina del Nord-Africa (principalmente con Thamugadi-Timgad).

2.3.1 La catacomba di Sant’Antioco Sul monumento, nel suo genere unico in Sardegna, si sono soffermati diversi studiosi, tra i quali vanno segnalati come particolarmente attenti e felici nella lettura archeologica Antonio Taramelli e, da ultimo, Leone Porru, al quale si deve la definizione certa del monumento. Nella sua analisi, come al solito estremamente dettagliata, Antonio Tara- melli cercò i confronti per il nostro monumento negli impianti consimili roma- ni e siracusani. Non trovando confronti possibili arrivò alla conclusione che, tipologicamente, le catacombe sulcitane fossero un unicum nell’orbis.

Ubicazione e sviluppo topografico

Il complesso catacombale di Sant’Antioco propone due nuclei ben distinti: il più importante noto come c. di Sant’Antioco ubicato a NW della chiesa- martyrium e il meno importante, ma paradossalmente ubicato in posizione cen- 70 I siti trale rispetto all’aula di culto, noto come catacomba di S. Rosa. Attualmente l’accesso al monumento è garantito nel lato W del transetto: come vedremo, non è da considerarsi come l’ingresso originario del complesso. Analizzando la plani- metria proposta da L. Porru nel 1989 (fig. 2.6) e seguendo il suo ragionamento, si evince come i fossori abbiano utilizzato ad hoc strutture preesistenti rappre- sentate da una serie di tombe ipogeiche puniche, allargandole, creando ambienti di passaggio e rendendole in poche parole funzionali ad un utilizzo cimiteria- le cristiano. Lo sviluppo catacombale attualmente noto è probabilmente quello massimo mai raggiunto in quanto i “risparmi” delle camere puniche operati nella zona N e in quella S lasciano supporre che i fossori non abbiano voluto ingran- dire ulteriormente la catacomba. Tale considerazione, pur essendo fortemente probabile, è comunque da tenere, come sempre in archeologia, accompagnata da un bel punto interrogativo.

Le tombe puniche riutilizzate erano di tipo “standard” per il mondo semita con il dromos di accesso composto da una scala e da un vestibolo che conduceva ad uno spazio propriamente funerario con una o più camere. La ricostruzione proposta da Leone Porru nella figura rende evidente l’operato dei fossori e con ragione l’editore del monumento suppone che l’ingresso originario, e cioè quel- lo utilizzato dagli operai per scavare la catacomba, sia stato quello relativo al primo ambiente occupato (AB) e contrassegnato in pianta dalla lettera L. Suc- cessivamente, per esigenze di spazio, si pensò di allargare gli esigui vani punici ricavandone un ambiente absidato più ampio che più tardi verrà ripartito negli spazi nell’XI sec. da sei colonne (vedi fig. 2.6, vano A). Dell’originaria tomba punica in quest’area non è rimasto praticamente niente se non un’esile traccia nel piccolo setto divisorio risparmiato immediatamente alle spalle di quella che sappiamo essere stata la tomba venerata. Il resto della catacomba sfrutta con minori modifiche l’andamento delle tombe puniche che, non sempre comunicanti tra loro, vennero unite grazie ad alcuni sfondamenti di parete (ad es. da B a D) e tramite un corridoio (C). Le tombe puniche utilizzate furono dunque 5, facil- mente identificabili perché dotate, almeno all’origine di un ingresso autonomo: a N i gruppi B+E+D, a S F+G; come si è detto questi due gruppi vennero messi in comunicazione da C. La storia del monumento, che L. Porru fa iniziare nel IV sec., continua con alcuni interventi particolarmente importanti che ne deter- minarono l’aspetto attuale. L’aula semicircolare originaria che insisteva su un sepolcro venerato, verrà allargata e ornata di colonne (una con funzione strut- 2.3 Sulci - Sant’Antioco 71

Figura 2.6: Sviluppo planimetrico (rilievo L. Porru). 72 I siti turale, le altre cinque decorative o di spartizione dello spazio) in un periodo che si colloca intorno alla fine dell’XI e gli inizi del XII secolo e cioè grazie all’azione dei monaci vittorini di Marsiglia. Nello stesso periodo il transetto della chiesa verrà allungato fino al vano A, onde poter accedere alla catacomba direttamente dalla chiesa. Nel XVII secolo durante le invenciones verrà manomesso, stando alle fonti del tempo, il sarcofago venerato. In questa occasione verrà trovata, se- condo le fonti, e asportata l’epigrafe del vescovo Pietro che segnalava la tomba del confessore Antioco. Un discorso a parte merita la c.d. catacomba di S. Rosa, che occupa due tombe distinte con ingresso a dromos ed ha la caratteristica di non presentare alcun adeguamento architettonico alla nuova funzione: non vi sono infatti né arcosoli né loculi e la sua “cristianità” è attestata unicamente dalla presenza di due sarcofagi.

Pitture, tombe e materiali mobili

Per la loro unicità i pochi lacerti di pittura conservati nella nostra catacom- ba rivestono una particolare importanza, anche se lo stato miserevole in cui si trovano non consente purtroppo grandi studi storico-artistici o iconografici, giac- ché sono al momento riconoscibili solo alcuni motivi fitomorfi, zoomorfi e parte di una sola figura umana che, più per tradizione che per un oggettivo riscon- tro iconografico, viene definita come appartenente ad un pastore che porta un agnello (il c.d. Buon Pastore). Alle pitture già identificate da Porru va aggiunta quella di Daniele tra i leoni che, tramandataci dalle fonti bibliografiche, è stata di recente individuata in situ da Anna Maria Nieddu. La datazione proposta da Porru per il pastore è di IV sec. e allo stesso secolo sembra convenire quella proposta da Nieddu per Daniele. La datazione, va detto, è in entrambi i casi molto problematica. Eguale giudizio può essere espresso per l’arcosolio con l’iscrizione [- - -]e vibas per la quale una datazione di primo V secolo è possibile, ma non determinabile con sufficiente margine di esattezza. La scarsità di manufatti mobili, dovuta alle spoliazioni subite dal monumento nel corso dei secoli, non rende giustizia ad una estrema varietà di tipologie tombali che vanno dalle più umili forme terragne, ai loculi, alle tombe ornate da arcosoli, ai sarcofagi, alle tombe a cassone, e, per finire, ad una tomba a baldacchino che ricorda tipologie maltesi o siciliane. 2.3 Sulci - Sant’Antioco 73

Figura 2.7: Daniele tra i leoni. Pittura della catacomba riprodotta in Carmona.

2.3.2 Il martyrium Strettamente connesso alla catacomba (da un certo periodo in poi, come si è visto, anche fisicamente), il cosiddetto martyrium di Sant’Antioco riveste un ruolo particolare all’interno della storia del culto in Sardegna, in quanto il confessore sulcitano Antioco è certamente uno dei santi più cari agli isolani. Durante i lavori di restauro del 1966 fu possibile effettuare una ricognizione particolarmente attenta delle murature e R. Serra, contraddicendo quanto era stato fino a quel momento teorizzato da R. Delogu che pensava ad un rifacimen- to totale dell’edificio al momento della donazione della struttura, ai Vittorini di Marsiglia nell’XI sec., riuscì ad individuare un corpo cupolato simile al S. Saturnino di Cagliari e che datò alla fine del VI o al massimo agli inizi del VII secolo. Il Delogu, che al contrario della Serra non potè vedere le murature scrostate dagli intonaci, seppur pensando erroneamente ad un rifacimento totale della struttura, dedusse che l’edificio, che lui vedeva interamente romanico, do- veva avere avuto un’importante fase precedente. Tale schema di ragionamento è stato quindi applicato alla struttura di VI-VII sec., per cui, in tempi recenti, c’è chi ha cautamente ipotizzato un edificio precedente di V sec., del quale il corpo cupolato quadrifido sarebbe la monumentalizzazione ma che, va ribadito, non è 74 I siti

Figura 2.8: Localizzazione della supposta vasca battesimale (da Spanu 1998). stato finora individuato. L’attuale icnografia dell’impianto con il passaggio da impianto cruciforme a impianto a sviluppo longitudinale sarebbe stata realizza- ta intorno al IX-X secolo, mentre gli adeguamenti del transetto in relazione alla catacomba vennero realizzati nel XVII secolo.

2.3.3 La cronologia del complesso catacomba-martyrium

Vediamo di trarre ora qualche considerazione di tipo generale sull’insieme dei due monumenti che hanno caratterizzato congiuntamente sia la storia del culto di Sant’Antioco sia, in maniera se non misteriosa almeno oscura, la storia di una diocesi che, nota dalle fonti a partire dal 484, si trova a non avere una cattedrale chiaramente riconoscibile. La chiesa di Antioco infatti non solo non viene indicata dalle fonti come tale (cosa che in verità avviene in assoluto rarissi- mamente), ma manca dell’elemento che qualifica questo tipo di strutture, e cioè del fonte battesimale. Vi è chi suppone al riguardo che un ambiente rinvenuto a SE dell’impianto possa essere il battistero. I dati così come proposti dalla più re- cente letteratura scientifica sembrano suggerire la seguente cronologia: la prima fase di IV secolo (datazione sulla pittura dell’arcosolio B/II, e pittura di Da- niele) sembra proporre un momento in cui i fossori, ampliata la tomba ipogeica punica AB con accesso dal sopratterra tramite l’originario dromos della tomba punica (L), “monumentalizzano” e rendono fruibile una sepoltura venerata, la cui frequentazione non solo ha reso necessario un ambiente più ampio del nor- 2.4 Tharros 75 male (l’aula absidata), ma ha provocato il fenomeno della richiesta da parte dei fedeli di una sepoltura nel retrosanctos (B?). Come si è detto, tale sistemazione rimarrà praticamente immutata fino all’XI secolo, quando i Vittorini nel riedi- ficare (secondo Delogu) o restaurare (secondo R. Serra) la chiesa intitolata al confessore decisero non solo di consolidare con una colonna l’aula absidata, ma di organizzarne lo spazio interno delimitando, con altre cinque colonne intorno alla tomba, una specie di percorso che aveva come epicentro la tomba venerata. Nel XVII secolo durante le invenciones la c.d. tomba di Antioco verrà aperta e l’iscrizione, pubblicata successivamente dal Mommsen in CIL X, 7533, spostata ad Iglesias. Questo testo, datato variabilmente dal VI al XII secolo, ricorda, tra le altre cose, il rifacimento o un restauro avvenuto grazie all’evergetismo di un Petrus antistes. La catacomba con la sua aula absidata che L. Porru suppone essere la prima aula di culto del martire precederebbe di un secolo circa un ori- ginario (e supposto) martyrium di V sec., del quale non abbiamo però nessuna traccia monumentale. Se però consideriamo che la struttura quadrifida indivi- duata da Renata Serra viene datata tra la fine VI-inizi VII e che l’epigrafe CIL X, 7533 viene datata da L. Porru (tra gli altri) agli inizi del VII sec., sembra possibile sostenere, come ipotesi di lavoro che in essa vi sia il ricordo del rifaci- mento di una struttura più antica del corpo cupolato. Il rifacimento ad opera dei Vittorini, durato pochi anni rispetto al S. Saturnino di Cagliari e cioè dal 1089 al 1119, consolidò una struttura la cui icnografia era già stata probabilmente modificata da un impianto centrale ad un impianto longitudinale verso la fine del IX-X secolo.

2.4 Tharros

Foglio IGM 216, I, SE; localizzazione del toponimo in Ptol. III, 3, 2, men- zione in Rav. Anon. Cosm. V, 26 ed epigrafica in CIL X, 8009 (miliario). Di fondazione fenicia (ca. VIII sec. a.C.), sarà la capitale del mondo fenicio-punico in Sardegna e come tale fu riconosciuta nel bene e nel male dai Romani, che fin dal momento della conquista della Sardegna ne guardarono sempre gli abitanti con sospetto. Un insediamento nuragico è però noto in loc. Su Murru Mannu, dove vengono ubicati i primi insediamenti punici di tipo permanente a partire dall’VIII sec. a.C. I culti tributati a Baal Hammon e a Tanit anche in piena età 76 I siti romana sono la chiara attestazione di una matrice culturale di stampo semitico sempre molto viva. Si vedano ad esempio sia le numerose iscrizioni provenienti dal tophet di Tharros e ascrivibili al III sec. a.C. sia, scendendo al I sec. a.C., la testimonian- za di una statuetta, proveniente dalla stessa area, riconosciuta come Frugifer, l’interpretatio romana della figura di Baal Hammon. Per via epigrafica e dallo stesso areale ci proviene la sopravvivenza di forme di religiosità punica nel RVF, ossia rp’ (guarisci), dell’ipogeo di San Salvatore a Cabras, così come da molte favisse della zona provengono inoltre statuette in terracotta raffiguranti Deme- tra, fusione sincretistica romana di Tanit. Il citato esempio di Cabras propone l’esito finale di una stratificazione che vede un originario culto punico salutifero soppiantato da quello di Eracle σωτήρ che in età cristiana viene sintetizzato nella figura di Cristo Salvatore. All’arrivo dei Romani la città rimase quindi culturalmente e istituzionalmen- te punica con a capo dei sufeti, di cui abbiamo una testimonianza epigrafica nel testo funerario del sufeta Himy (per Himilkat), cronologicamente collocabile al III-II sec. a.C. In età repubblicana il centro è noto anche nelle fonti: Sall. Hist. 1, 24 ricorda gli avvenimenti del 77 a.C. ed il tentativo di sbarco di M. Emilio Lepido a capo di forze mariane. Lo statuto di Tharros cambia in età severiana (II-III sec.), quan- do molto probabilmente diventerà una colonia onoraria. Al riguardo si osservi come anche P. Meloni ipotizzi lo status di municipium o di colonia del centro sulla base di alcuni testi, in cui viene menzionato un tabular[ius] pertic[aru]m Turr[is] et Tharros (CIL X, 7951), un servus publicus (CIL X, 7903) e forse un [ca]lend[arium] (G. Sotgiu, L’epigrafia latina in Sardegna dopo il C.I.L. X e l’E.E. VIII, ANRW, II (1988), B47 add. B57), e come tali uffici e cariche siano da riferirsi appunto a municipi o colonie piuttosto che a centri sardo-punici. L’apice della città è da porsi al IV-III sec. a.C., durante la transizione dal pe- riodo di dominio punico a quello romano; a partire da questo momento inizierà, probabilmente a causa di un calo del flusso commerciale marittimo, una lenta decadenza che durerà fino al I sec. d.C. Al periodo altoimperiale si ascrive un notevole sviluppo edilizio secondo schemi urbanistici che tendevano a ricalcare l’originario impianto punico della città. Secondo L. Pani Ermini, Tharros sarebbe l’unico caso in Sardegna di cat- tedrale urbana; tale convincimento si basa principalmente sul rinvenimento, in 2.4 Tharros 77

Figura 2.9: Tharros. Planimetria della chiesa di S. Giovanni Battista (da Insulae Christi, p. 241. area cittadina, di un battistero monumentale probabilmente di VI sec. La cat- tedrale sarebbe quindi da identificare con una linea di conci in arenaria situati in prossimità di questo monumento. Per il periodo bizantino sono stati supposti due monasteri: il primo collegato all’aula di culto con abside situata a N della supposta insula episcopalis ed ipoteticamente identificata con l’ecclesia Sancti Marci, nota da fonti di XII sec., il secondo ad inserirsi nelle c.d. terme di Convento Vecchio. Particolarmente interessente la problematica relativa alle strutture fortificatorie ed al tentativo di identificazione del tracciato del castrum tharrense a partire dalle vestigia ai piedi del colle di S. Giovanni. Nonostante si sia in generale d’accordo sul fatto che la presenza sul colle di S. Giovanni di fortificazioni esclusivamente puniche sia da riverificare in favore di apprestamenti difensivi dalla “lunga vita” con risistemazioni ben più tarde di quella originaria, si vedano al riguardo le acute osservazioni di D. Giorgetti, che con grande cautela (e con ragione) propone di attenersi ai dati strettamente archeologici, che in base agli ultimi, anche se parziali, scavi non sembrano proporre cronologie più tarde della fine del III sec.- inizi IV d.C. Questo dato, seppur condizionato dal mancato scavo completo delle mura, è al momento il riferimento cronologico più tardo su base strettamente archeologica (di scavo). 78 I siti

Non è noto un vescovo di Tharros nel Concilio di Cartagine del 484, mentre ne viene menzionato uno in una lettera di Gregorio Magno del 599. Si può però ragionevolmente pensare che il vescovo del 599 non sia il primo di Tharros, in quanto in una lettera scritta dal diacono Ferrando al suo maestro Fulgenzio di Ruspe viene menzionata una lettera a firma dallo stesso Fulgenzio indirizzata, secondo una nuova lettura proposta da R. Zucca e A. Piras, ad Iohannem Thar- rensem episcopum. A partire dal VII secolo il vescovo di Tharros residente sarà a capo della diocesi di Sinis, se si vuole interpretare in questo modo un passo di Giorgio di Cipro che parla di una sede civile, un castrum, denominato Tharros e una sede religiosa definita Sinis. I problemi collegati a quest’area non si esauriscono solo a questi aspetti, se si considera che la chiesa di San Giovanni di Sinis di impianto di VI sec., modellata sul San Saturnino di Cagliari, insiste su un’area funeraria di IV sec. Ragionevolmente si può pensare con Roberto Coroneo che questa chiesa sia diventata la sede del vescovo entro il VII secolo e che in relazione agli sviluppi edilizi successivi possa aver funto da polo di attrazione il cimitero cristiano preesistente e da cui provengono alcune tra le poche iscrizioni cristiane note di Tharros. Resta da capire perché questa chiesa sia stata intitolata a S. Giovanni battista. La spiegazione più ovvia, quella corrente, è che si faccia riferimento esplici- to al rito del battesimo proprio delle chiese cattedrali e quindi alla prerogativa principe dei vescovi. Possiamo però provare a elaborare un’altra ipotesi parten- do dalla considerazione che quello che fu presumibilmente il primo vescovo di Tharros, e cioè Iohannes Tharrensis episcopus fu, una volta defunto, seppelli- to nell’unica area cimiteriale esistente in zona, e cioè questa. La sua sepoltura fu forse tra le cause dello spostamento della sede vescovile dall’ecclesia Sancti Marci urbana all’area esterna alla città in cui veniva tributato un culto al ve- scovo fondatore della diocesi cosa che spiegherebbe, tra l’altro, il suo impianto originale a martyrium. La successiva intitolazione al Battista sarà forse dovuta, in un momento in cui la memoria del Vescovo fondatore si era ormai affievolita, ad una ricompren- sione del culto di Iohannes di Tharros con quello del ben più celebre omonimo, anche per la nuova funzione dell’edificio, in sintonia con R. Delogu, come chiesa cattedrale. 2.5 Forum Traiani - Fordongianus 79

Nell’XI secolo (nel 1070 secondo Giovanni Francesco Fara) la sede della diocesi di Tharros-Sinis (probabilmente gemmata da quella cornuense) venne trasferita ad Oristano. A dispetto della grande rilevanza rivestita da Tharros nella Sardegna roma- na, ci rimangono poche iscrizioni cristiane provenienti da questa città. La più famosa e più interessante tra di esse è quella di Karissimus [vedi supra fig. 1.4], in cui il defunto viene commemorato in un contesto iconografico relativamente strutturato e con formulari che sembrano richiamare un’attività caritativa svolta dal nostro nell’ambito di uno xenodochium.

2.5 Forum Traiani - Fordongianus

Foglio IGM 217, I, NO; comune in provincia di Oristano da cui dista km 35 a NO. Pur essendo abitata fin dal neolitico recente ed in età punica co- lonna portante del sistema fortificato interno centro-orientale del V sec., l’area occupata dall’attuale centro moderno di Fordongianus conoscerà un momento di grosso sviluppo soltanto in età romana. Ptol. III, 3, 7 ricorda le ῞Υδατα ᾿Ιψιτανά=Aquae Ypsitanae (età tardo-repubblicana) collocando il sito, la cui ca- ratteristica principale erano gli impianti termali, su un allaccio di età augustea alla a Caralibus Turrem. La prima attestazione epigrafica proveniente da Fordongianus, da cui peral- tro ci sono arrivate numerose iscrizioni, sembra essere, a tutt’oggi, quella incisa sull’arula di L. Cornelio Sylla datata dal primo editore alla II metà del I sec. a.C. Il testo più importante, non solo per la storia locale ma con valenza assoluta per la provincia tutta, è quello detto delle [civ]itates barb[ariae]. Si tratta di una dedica all’imperatore Tiberio da parte di abitanti della Sardegna centrale, in cui viene nominato un “amministratore” delle civitates barbariae dell’interno dell’Isola (Sotgiu, 1988, A188). La datazione proposta è del 19 d.C. ed è un chiaro segnale della ”fedeltà delle popolazioni delle aree più interne. Sotto Traiano (98-117) il centro acquisisce lo stato di forum ed a partire da questo momento vengono potenziate le strutture urbane ed i servizi. Intorno al II-III sec. è possibile per P. Meloni ipotizzare che ci sia stata 80 I siti un’ulteriore evoluzione dello status cittadino in direzione di una promozione al rango di municipium o colonia . Tale promozione è induttivamente teorizzata a partire dalla notizia, certa questa volta, che il centro diventerà nel V sec. sede episcopale. Per Lanzoni Forum Traiani in realtà lo era già entro il IV sec. (contra, molto probabilmente a ragione, Pier Giorgio Spanu), ma è solo nel V sec. d.C. che abbiamo notizia certa di un Martinianus de Foro Traiani al Concilio di Cartagine. Raimondo Zucca parla però di una comunità cristiana abbastanza antica “sorta forse nell’ambito di un nucleo giudaico” da ascriversi all’età dioclezianea in relazione al martirio dell’apparitor Luxurius. Per il periodo tardoantico sono segnalate diverse aree funerarie, delle quali, la più antica sembra essere quella di S. Lussorio, il cui culto continua tuttora nella struttura dove avvenne, secondo la tradizione, la depositio (datazione del- la cripta IV sec. con un rifacimento del pavimento nel VI connesso alla fase di “monumentalizzazione” e di sepolture ad sanctos). Durante la prima metà del VII sec. la chiesa subì dei grossi danni che ne richiesero una immediata riedifi- cazione, della quale è possibile vedere traccia sotto il pavimento dell’impianto di XI sec. Di particolare interesse risulta essere il testo epigrafico murato sulla facciata della chiesa che viene normalmente datato in dottrina al VI secolo per le prime quattro righe e in data successiva al VII per l’ultima in cui si fa riferimento ad un rifacimento dovuto al vescovo Helias. Pier Giorgio Spanu suppone per il periodo compreso tra il VII e il XII sec. una continuità di culto del martire (attestata ad es. per l’VIII da manufatti). Procopio di Cesarea (de aed. VI, 7, 13) ci dice che in età giustinianea la città venne cinta da mura a protezione contro Barbaricini e i Mauri deportati in Sardegna in età vandalica, essendo questo centro sprovvisto di difese; ma fu una fatica che, a sentire lo stesso autore, non sortì grandi effetti, giacché, quando gli esterni “desiderano compiere razzie, la città cade in mano loro”. In ogni caso, nel 534, quando la città diventò con ogni probabilità la sede del dux, il centro oscurerà per importanza non solo la vicina colonia romana di Augusta Uselis ma centri ben più importanti quali Tharros e Cornus. A questo ruolo di rilievo si dovrà forse l’appellativo di Χρυσόπολις dato per breve tempo alla città in età bizantina. Questa elezione di Forum Traiani a centro del potere militare fu dovuta pro- 2.5 Forum Traiani - Fordongianus 81

Figura 2.10: Forum Traiani. Iscrizione di Luxurius (dis. M. Chigine). babilmente, più che per motivi di difesa statica di contenimento nei confronti delle aree interne ormai sostanzialmente vincolate al mondo romano da trattati e rapporti commerciali ben consolidati, ad una concezione di controllo del terri- torio di tipo dinamico collegato al connubio esercito-viabilità e che permetteva a reparti di piccole dimensioni la cui caratteristica era la mobilità, di intervenire rapidamente nelle aree di crisi. Le testimonianze archeologiche evidenziano la presenza di un forte rettan- golare con torri angolari ascrivibile al VII secolo che andava a racchiudere al proprio interno il santuario martiriale di Luxurius, anche se possiamo supporre che ci fossero altre fortificazioni ubicate a difesa delle vie di accesso e quindi ad insistere sulla viabilità (il famoso φρούριον procopiano). La cattedrale del centro è supposta in un edificio ecclesiastico intitolato a San Pietro (l’attuale parrocchiale riedificata nel XIX secolo) con annessa un’area funeraria, da cui provengono materiali fittili relativi al V-VI sec. d.C. Se così fosse il centro di Forum Traiani-Χρυσόπολις sarebbe un ulteriore esempio sardo di nucleo urbano policentrico. Una terza area cimiteriale è quella detta di ’Sa domo de sa senora’; si tratta di un’unica camera ipogeica datata ad una generica ’età tardo-antica’. Queste aree hanno restituito molti materiali mobili che testimoniano, per 82 I siti tutto l’arco di utilizzo, notevoli volumi di scambio con le aree costiere e di con- seguenza con il resto dell’Orbis, facendo assumere per così dire a Forum Traiani un ruolo extraprovinciale che è inoltre rafforzato dalla presenza in quest’area di individui allogeni di estrazione militare. In questo contesto ben si comprende come si possa essere affermato un culto come quello di Luxurius e come, in relazione ad esso, si possano essere affermate usanze e mode tipiche di aree meno periferiche, come ad esempio l’inumazione ad sanctos, di cui abbiamo un bell’esempio nell’iscrizione musiva di Rogatianus e nella deposizione di una dama di VII secolo in prossimità della tomba del santo. Gli scavi finora condotti in quest’area hanno consentito la periodizzazione in fasi del complesso:

• I Fase: paleocristiana. Realizzazione del martyrium semi-ipogeo con un articolato sistema di flusso e deflusso dei pellegrini che avevano modo dopo una breve scala e corridoi di accesso di effettuare il percorso rituale intorno alla tomba del martire. I pavimenti erano musivi, mentre le pareti, semplicemente intonacate e dipinte, risultano significativamente ricoperte di graffiti. Il corridoio ad U circonda una fossa terragna (con inglobati due sarcofagi) monumentalizzata da una serie di blocchi di trachite in opera che rendono l’idea di una specie di arco di trionfo. Datazione: IV secolo

• II Fase: vandalico-bizantina. Risistemazione completa dell’area con la co- struzione, sul lato est del corridoio rettangolare, di un’aula quadrilatera in opus africanum ripavimentazione con una serie di mosaici e nuovi arredi. La nuova area venne adibita per le sepolture ad sanctos. Da quest’area provengono le iscrizioni dei vescovi Stefanus, Victor, un anonimo e va- ri fedeli. Il nuovo santuario crollò a metà del VII sec. per cause ignote. Datazione VI secolo.

• III Fase: bizantina. Restauro ad opera del vescovo Helia ed edificazione di un edificio chiesastico mononave caratterizzato da una capsella inserita nell’estradosso della parte ipogea del monumento. Presunta realizzazione di un fortino a protezione del santuario. Datazione: VII-VIII secolo.

• IV Fase: vittorina. Ricostruzione della chiesa da parte dei monaci benedet- tini di San Vittore di Marsiglia che la ebbero in donazione probabilmen- 2.6 Cornus 83

te dai Giudici di Arborea. L’edificio mononave inserì al proprio interno l’orginaria cripta. Datazione: XII secolo.

2.6 Cornus

Foglio IGM 206, III, SO; a pochi km di distanza tra gli attuali centri costie- ri di S. Caterina di Pittinuri e di S’Archittu (entrambi frazioni del comune di Cuglieri) in provincia di Oristano. Segnalato per la prima volta in letteratura da G. F. Fara nel 1835, il sito di Cornus è tra le testimonianze archeologiche cristiane più interessanti del bacino occidentale del Mediterraneo e, grazie al- l’attività di scavo effettuata con una certa regolarità a partire dai primi anni sessanta, certamente tra i più studiati. La città punica venne fondata intorno alla fine del VI sec. a.C. e che fosse un centro strategicamente importante per l’economia e la struttura militare sardo-punica, lo testimonia il fatto che fu il fulcro della rivolta antiromana del 215 di Ampsicora; lo stesso Liv. XXIII 40, 5 la definisce caput eius regionis. Tale importanza venne mantenuta anche in età romana, tanto che Cornus fu, probabilmente intorno al I sec. d.C., elevata al rango di colonia ed i suoi abitanti iscritti, come nel caso di Carales, alla tribù Quirina (sussiste in realtà qualche dubbio originato dalla valutazione dell’iscri- zione CIL X, 7915; la cronologia della concessione del rango di colonia si basa su un’ampia integrazione epigrafica e sul fatto che C. non compaia come tale in Plin. Nat. Hist. III, 7, 85). Non lontano dal sito punico e romano, in loc. Columbaris, la continuità d’uso della regione in età tardoromana è ampiamente attestata a partire dai primi decenni del IV sec. fino ad arrivare al VI. Alcune problematiche non risultano a tutt’oggi chiarite; accettata da tutti forse un po’ troppo passivamente l’idea della coincidenza tra la diocesi di Senafer (nota a partire dal concilio del 484) e quella di Cornus (nota esplicitamente solo a partire dal 649 nel Concilio Lateranense), l’attenzione è stata posta di recente da L. Pani Ermini e dai suoi allievi sul concetto di doppio polo urbano a definire il dualismo venutosi a creare nelle città sarde tra centro di potere civile e centro di potere ecclesiastico. L’insula episcopalis di Columbaris di IV sec. sarebbe così, con le sue due basiliche e gli edifici ad esse annessi, in opposizione al castrum ubicato nel rilievo di Corchinas. Nessuna fonte nota al momento ci consente di affermare questa coincidenza con assoluta certezza. 84 I siti

Figura 2.11: Cornus. Planimetria generale (da Insulae Christi, p. 247).

P. G. Spanu, pur certo dell’identità Senafer-Cornus, non esclude comunque nel VII sec. una eventuale traslazione, anche temporanea, della cattedrale in area più prossima all’acropoli di Corchinas. A completare il quadro lo studio- so fa rilevare come l’insula episcopalis di Columbaris sia stata interessata nel medesimo periodo da lavori di ristrutturazione mai portati a compimento.

2.6.1 L’insula episcopalis

Lo scavo dell’area di Cornus, iniziato alla fine degli anni ’50, diventerà grazie all’attività di ricerca svolta da Pasquale Testini, Anna Maria Giuntella e Letizia Pani Ermini uno degli scavi di riferimento per il settore a livello nazionale. Al- l’inizio del IV secolo l’area di Columbaris, che probabilmente era occupata nei periodi precedenti da una villa rustica, verrà interessata da un cimitero e da una basilica funeraria orientata a Nord. Secondo Pier Giorgio Spanu, contestualmen- te a questa vennero edificate due aule basilicali con funzione di battistero e di sede della cathedra; ad un restauro successivo, ascrivibile al VI secolo, sono da attribuire le modifiche che faranno dell’impianto cornuense un esempio asimme- trico di edificio ad absidi contrapposte di modello africano e gli adeguamenti che 2.7 Turris Libisonis - Portotorres 85 trasformeranno l’originario impianto della vasca battesimale da cruciforme ad ottagonale. A questa attività svolta nel polo religioso della città corrispondereb- be la realizzazione di un castrum sul colle di Corchinas, ritenuto come la parte alta della città più antica. Una serie di sculture rinvenute nell’ampliamento del- l’area di scavo consente di datare al VI-VII secolo l’attività di alcune botteghe artigianali a testimonianza di una vita del centro in evoluzione in periodo molto tardo.

2.7 Turris Libisonis - Portotorres

Foglio IGM 179, I, SE; comune in provincia di Sassari da cui dista 12 km a N. Il sito di Turris Libisonis sembra non avere precedenti insediativi rispetto al periodo romano, anche se, di recente, vi è chi ne ha postulato l’esistenza. Le fonti classiche lo ricordano in Plin. Nat. Hist. III, 7, 85 colonia autem una quae vocatur ad Turrem Libisonis e nel Rav. Anon. Cosm. V, 26 Turris Librisonis colonia Iulia. Si è incerti comunque sia sul periodo di fondazione (la ceramica più antica finora rinvenuta è pertinente ad alcune forme di campana ascrivibile genericamente ad età tardo repubblicana), sia sulla data di deduzione della colonia; P. Meloni, propende per un periodo antecedente al 27 a.C. sulla considerazione che l’appellativo Iulia, indicato dall’Anonimo Ravennate, debba necessariamente riferirsi o a Cesare (soluzione preferita e quindi a partire dal 46 a.C.) o, al limite, ad Ottaviano, prima che prendesse, appunto in quell’anno, il titolo di Augustus. Ricchissimi e vari nelle tipologie, i rinvenimenti epigrafici: utili per la storia della città sono CIL X, 7951=Epigrafia C103, in cui si ricorda il tabularius delle pertiche di Turris e Tharros, ed una serie di testi in cui vengono menzionati i magistrati più importanti della colonia. La famosa iscrizione in lingua greca (metà sec. VII d.C.), proveniente dal Palazzo di Re Barbaro e pubblicata da B. R. Motzo negli anni venti, è stata recentemente ripresa da L. Pani Ermini che ne ripropone una rilettura differente in relazione all’utilizzo del manufatto (non più un architrave di un’aula di culto, ma un elemento strutturale di un grande edificio residenziale, forse pubblico, andato ad occupare le terme romane). Tra le vestigia archeologiche più importanti ricordiamo, a delimitare delle insulae abitative, alcuni tratti dei cardines e dei decumani, mentre, tra gli edifici civili, le grandi Terme centrali meglio note come Palazzo di Re Barbaro, il cui 86 I siti

Figura 2.12: Turris Libisonis. Iscrizione di Musa datata al 1 giugno 394 d.C.

nome deriva da quello di colui che, nella memoria popolare, viene considerato come il responsabile del martirio di S. Gavino. L’impianto attualmente visibile di fine III-inizi IV sec. d.C. insiste su una precedente struttura di II sec. d.C. Di età precedente l’acquedotto ascrivibile alla fine del I sec. a.C.-inizi I d.C. e, verso Stintino, è visibile il ponte romano più grande della Sardegna. Tracce di fortificazioni databili al III sec. d.C. sono state trovate verso la foce del Rio Mannu, mentre lacerti di fortificazioni pertinenti al V d.C., sotto la sede della Banca Nazionale del Lavoro. Sull’importanza del muro, eretto a difesa della città in timore di un attacco vandalo nel 450-460, si è espressa F. Villedieu, mentre in tempi più recenti, P. G. Spanu, proponendo una cronologia più bassa, ne indica invece un diverso utilizzo. Tra le necropoli suburbane, quella da cui proviene la maggior parte dei testi è la cosiddetta meridionale, o altrimenti nota come di S. Gavino o di Monte Agellu, dove è supposta da taluno l’ubicazione della primitiva cattedrale e della dimora del vescovo. Da quest’area provengono importanti iscrizioni funerarie che configurano Turris Libisonis come sede di una comunità cristiana consistente nel IV secolo e il cui sviluppo venne in qualche modo condizionato dalla figura del martire Gavino. Tra le iscrizioni turritane 2.8 Olbia 87

Figura 2.13: Turris Libisonis. Iscrizione di Adeodata. ben due fanno infatti riferimento ad inumazioni privilegiate: la nuova iscrizione di Adeodata [cfr. fig. 2.13] e, come già fatto notare precedentemente in Corda 1999, TUR006, l’iscrizione di Irene Spiritus santus. / Hic qu(ie)s(cit) Irene / vixit an(nos) III me(nses) / - - -.

2.8 Olbia

Fogli IGM 182, IV, NO; centro urbano in provincia di Sassari, da cui dista km 103 ad E. Colonia punica (ma secondo alcuni, per il toponimo e per alcuni rinvenimenti ceramici, greca), le cui prime attestazioni di cultura materiale non risalgono oltre il IV sec. a.C. La tradizione parla di una fondazione del sito da parte di Iolao alla testa di un gruppo di tespiesi (Paus. VII, 2,2 e X, 17, 5; Diod. IV, 29, 4 e V, 12, 2; Strab. V, 2, 7; Solin. I, 61), mentre una cronologia piuttosto alta sembra essere confermata dall’ipotesi che Olbia, o un piccolo insediamento fenicio fondato nella stessa area intorno al VI sec. a.C., possa essere la causa diretta della fondazione, da parte dei Focesi, di Alalia nel 565 a.C. Cinta da un muro di fortificazione, rimaneggiato ed utilizzato fino ad età tarda, ma ascrivibile come origine ad età punica, la città romana di Olbia sem- 88 I siti

Figura 2.14: Planimetria di Olbia. bra essere caratterizzata da uno sviluppo ortogonale e, se si eccettua qualche notizia pertinente al foro, da collocarsi intorno a Corso Umberto, e da un edifi- cio termale della prima età imperiale, essa è meglio nota, da un punto di vista strettamente archeologico, per le sue aree funerarie. Di grossa rilevanza econo- mica l’entroterra, caratterizzato sia dalle cave di granito che dalle figlinae di proprietà imperiale. Particolarmente importante appare il dibattito sorto intor- no all’abbandono o meglio alla brusca contrazione del tessuto urbano, avvenuta probabilmente nella parte finale del V sec. Un dato guida potrebbe essere rap- presentato dal diradarsi delle sepolture nella necropoli di Su Cuguttu, che ha restituito materiali di IV-V e, per P. G. Spanu, “attestazioni, seppur rade, di VI sec.”. In uno strato di distruzione datato al secondo quarto del V sec. sarebbe riconoscibile, secondo P. Meloni, una traccia delle incursioni vandale. Molto cri- tico riguardo a una siffatta lettura tradizionale lo Spanu (ma già per la Sardegna e la Corsica in questo senso si era espresso Ph. Pergola nel 1989), che inoltre suppone, con ragione, una fase di decadenza in età tardoantica per avvenimenti strutturali di tipo economico. L’abitato sembra a questo punto contrarsi in un piccolo borgo (?), coagulatosi intorno alla cittadella vescovile, che taluno vuole esterna al vecchio centro urbano e altri identificano con l’area di S. Simplicio. Quasi tutti sono peraltro concordi nell’identificare con la Fausiana di Gregorio Magno il centro diocesano “olbiese”. 2.8 Olbia 89

2.8.1 San Simplicio: un esempio di utilizzo delle fonti agiografiche

Recentemente Victor Saxer ha proposto, in un breve ma denso studio, alcune osservazioni circa i martiri sardi menzionati nel Martyrologium Hieronymianum; nell’esordio dell’articolo l’A. si sofferma su alcune questioni di metodo di ricer- ca agiografica che evidentemente, per la sua esperienza, riteneva, con ragione, non essere così scontate. Uno dei problemi più spinosi inerenti Olbia in età tardoantica è quello relativo allo “spostamento” (le virgolette sono d’obbligo) dell’arcivescovado in loco qui intra provinciam Sardiniam dicitur Fausiana. La notizia di questo “spostamento” ci viene indirettamente proposta in una lettera di Gregorio Magno (ep., IV, 29) del giugno 594, che invita il vescovo Gianuario di Cagliari a nominare un nuovo titolare per la cathedra del locus qui dicitur Fausiana poiché colà consuetudinem fuisse episcopum ordinari e ormai da mol- to tempo, per necessità, questa pratica era stata disattesa. Dalle scarne righe di Gregorio Magno non si riesce poi ad evincere granché, se non (sembra) un generico interesse per una sede diocesana di non grandissime tradizioni al tempo del grande pontefice. Supposto che questo “spostamento” vi sia stato (e non è in verità dimostrabile né per via archeologica né tramite le fonti), resta da definire, ed è questo il fatto determinante, perché vi sia stato un abbandono della prassi di nominare vescovi a Fausiana. R. Turtas avanza al riguardo un’ipotesi molto credibile, e cioè che, creata all’inizio del VI sec., essa sia poi stata abbandonata in seguito alle invasioni ostrogote di Totila nel 552. Alla fine del secolo abbiamo poi la lettera già menzionata e una successiva dell’ottobre del 600 (Greg. Mag. ep . XI, 7), nella quale viene ricordato come molto attivo un Victor Fausianensis episcopus. La lettura di R. Turtas ci dice cosa possa essere avvenuto nel ristretto arco di tempo di cento anni a Fausiana, ma malauguratamente non ci dice dove questo centro si trovasse. L’associazione del binomio Fausiana- Olbia avviene normalmente seguendo il ragionamento: il martire Simplicio è legato grazie alle fonti al sito di Fausiana, Simplicio ha un grande culto ad Olbia, quindi Fausiana è comunque Olbia, o legata ad Olbia. La base del ragionamento è l’emendamen- to proposto ad un passo del Martirologio Geronimiano riportato in un codice di X sec., il Senonensis, che recita per il 15 maggio: in Sardinia Simplici presby- teri et in civitate Fausiana Rosole. Una prima questione da farsi è di metodo e cioè è noto che in prima istanza ci si debba rifare all’edizione diplomatica di G. 90 I siti

B. de Rossi e L. Duchesne del Martirologio Geronimiano (MH) basata sui tre codici ritenuti, allo stato attuale degli studi, come più antichi (Epternach=E; Berna=B; Wissenburg=W), di VIII sec., ma che si rifanno direttamente alla c.d. seconda redazione del Martirologio, elaborata ad Auxerre in Gallia nel 592-593 e che discenderebbe dall’ ’originale’, composto in Italia del Nord tra il 431 e il 450. Da E e da B+W discendono tutti gli altri manoscritti, compreso il nostro Senonensis di X sec. e da esso traggono la maggior parte dei dati i martiro- logi c.d. storici di Beda, Adone, Usuardo ecc. Nell’edizione diplomatica viene riportato in tutti i codici, che, come si è visto, sono i più antichi e si rifanno ad un archetipo del 450, semplicemente in sardinia Simplici, sia pure con qualche piccola, come è normale per il MH, variazione (E=in sardi. Simplici; B=in Sar- dinia Simplici; Rich=Et in sardinia simplici prbi.; R1=Et in sardinia simplici epi; W=In sardinia simplici); non compare assolutamente alcuna menzione di una civitas Fausiana o Filasiana che dir si voglia. Questo aspetto messo partico- larmente in evidenza da V. Saxer ci consente di affermare che per il Martirologio Geronimiano non esiste una associazione del nome Simplicio con Fausiana o la città di Olbia. Del resto con la grande lucidità storica che lo contraddistingue già P. Meloni conduceva una analisi in questo senso, che lo portava ad afferma- re che Simplicio era “un presbitero . . . martirizzato in Sardegna il 15 maggio, forse sotto Diocleziano”, ma nulla di più. Il ricollegare la presenza di un’aula martiriale, in assenza di vestigia archeologiche certe o su una continuità di cul- to dall’età precristiana, alla chiesa di XI sec. intitolata a S. Simplicio sembra quindi quanto meno azzardato. Sulla storicità del martire e sulla attribuzione alla Sardegna non sembra avere dubbi V. Saxer, anche se questa valutazione si basa esclusivamente sul fatto che “non è richiamato da nessun’altra regione o città”; ciò vale ovviamente per il solo 15 maggio, giacché per il 29 luglio leggiamo B=Via Portuensi in cimiterio eiusdem miliario VI Simplici, Faustini, Beatrici; E=Rom. Philipi simplici faustini et viatricis; W=via Portuense inibi eiusdem mil. VI nat. Scorum simplici faustini viatrice. Da rimarcare che Mons. Lanzoni supponeva a tal riguardo una “duplicazione” delle voci, a partire dal 29 luglio, per il 15 maggio e il 15 di settembre.

Orientamenti bibliografici al §2

Carales (2.1): R. Martorelli e D. Mureddu (eds.), Cagliari, le radici di Marina. Dallo scavo archeologico di S. Eulalia un progetto di ricerca, formazione e valorizzazione, Cagliari: 2.8 Olbia 91

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I materiali e le produzioni artistiche

I materiali archeologici cristiani noti in Sardegna (per la maggior parte con- servati nei Musei) sono relativamente poco numerosi e, fino a non molto tempo fa, provenienti da collezioni private e/o da scavi documentati in maniera insuf- ficiente. Fortunatamente da circa una quindicina d’anni un rinnovato interesse per il tardoantico ha fatto sì che, soprattutto grazie ad alcuni scavi particolar- mente felici condotti su tutto il territorio regionale, la comunità scientifica abbia ora un consistente nucleo di documenti e dati da studiare ed elaborare. Tra di essi spiccano per importanza soprattutto i materiali epigrafici che so- no a tutt’oggi quelli maggiormente rappresentati (e probabilmente studiati da più lungo tempo); a questi devono essere aggiunti i bronzi (soprattutto fibbie), oggetti di diverso materiale ed utilizzo (vetri, anelli ecc.), qualche rilievo marmo- reo e i materiali fittili. Riguardo alla ceramica è opportuno rilevare, soprattutto in questa sede, come essa non possa essere definita ‘cristiana’ in base alle forme e che, a renderla tale, sia esclusivamente l’apparato figurativo. Vorrei ricorda- re infatti che in archeologia la classificazione della ceramica avviene in prima istanza in base alle forme e, estremizzando il discorso, non possiamo riconoscer- ne nessuna come tipicamente cristiana. Ciò significa ad esempio che un piatto fabbricato nel V secolo può essere cristiano o no a seconda della decorazione che propone. Se non ne presenta nessuna non potremo dire assolutamente niente;

93 94 I materiali e le produzioni artistiche

Figura 3.1: Civico Museo di Sinnai. Bacile in sigillata africana a pareti carenate (V-VI sec.; Hayes 103a). 3.1 Il patrimonio epigrafico 95 se propone la raffigurazione di Mercurio diremo che il piatto non è cristiano; se presenta una scena biblica, diremo che è cristiano. Con questa accezione pos- siamo dire che in Sardegna le ceramiche “cristiane” sono per la massima parte lucerne, caratterizzate dalla presenza di croci di vario tipo e da qualche scena scritturistica, e da piatti ornati egualmente da croci. Ciò che segue non vuole assolutamente essere una trattazione esaustiva degli argomenti, ma piuttosto una serie di spunti e di temi di riflessione su aspetti collegati alla cultura materiale.

3.1 Il patrimonio epigrafico

3.1.1 Storia degli studi

Gli archeologi-epigrafisti del Seicento e del Settecento

Lo studio dell’archeologia cristiana (soprattutto nelle forme dell’epigrafia) ha in Sardegna, al pari di altre aree ben più rinomate, “tradizioni antiche”. Abbiamo infatti notizia, come vedremo tra breve, di tutta una serie di campagne di scavo e di ricerche avvenute a partire dagli esordi del XVII secolo. Sfortunatamente esse sembrano essere state originate non tanto dal gusto antiquario di pochi appassionati o da un astratto spirito di ricerca ma molto più prosaicamente dal desiderio dei più importanti vescovi sardi (e dobbiamo supporre del loro entourage) di stabilire il primato tra le diocesi di Cagliari e Sassari. Tralasciando i dettagli di questo discorso, piuttosto complesso e tutto som- mato al di fuori degli obiettivi di questo testo, possiamo schematicamente ri- cordare che nei primi decenni del 1600 ci fu un vero e proprio scontro senza esclusione di colpi tra la diocesi di Sassari e quella di Cagliari in relazione alla primazia sulle isole di Corsica e Sardegna e come ci sia stato un confronto a distanza, per la verità molto acceso, tra Gavino Manca De Cedrelles, vescovo della sede turritana e Francesco d’Esquivel, vescovo di quella cagliaritana. Si cercò quindi di stabilire quale, tra le due diocesi, fosse la più antica. Fu così tutto un susseguirsi di mirabolanti scoperte di tombe di martiri, di manufatti particolarmente preziosi e di interventi di “scavo archeologico”: il risultato, a noi 96 I materiali e le produzioni artistiche fortunatamente pervenuto, di questa febbrile attività consiste nei resoconti di scavo di cui si dà, in sintesi, un riepilogo in ordine cronologico:

• 1615: Rinvenimento dei santi Gavino, Proto e Gianuario a Portotorres

G. Manca de Cedrelles, Processo original de la sagrada invencion de los cuer- pos illustrissimos Martyres s. Gavino Sabbeli, s. Protho y s. Ianuario tur- ritanos, y demas ss. Martyres, y Confessores en la Basilica de S. Gavino Turrit. de la antiquiss.a ciudad de Torres, fecha por el ills.mo y Rev.mo Señor Don Gavino Manca Cedrelles Arcobispo Metropolitano Turr. de Sa- cer desde el mes de junio hasta al Noviembre del ano MDCXIV, Matriti 1615. F. Bastelga, Relacion sumaria y verdadera de todo lo que ha succedito y de la multitud de Cuerpos Santos que se han hallado en la Iglesia de San Gavino de Torres, Barcelonae 1615.

• 1617: a Cagliari vengono trovati a San Saturnino sancti innumerabiles

S. Esquirro, Santuario de Caller y verdadera historia de la invencion de los Cuerpos Santos hallados en la dicha ciudad y su arcobispado, Caralibus 1624.

• 1631: F. Carmona propone nel suo codice manoscritto (ancora inedito) della Bibl. Univ. di Cagliari una raccolta di dati, di disegni ed apografi di monumenti provenienti da tutta la Sardegna.

F. Carmona, Alabanças de los Santos de Sardeña compuestas y ofrecidas a hon- ra y gloria de dios y de sus santos año 1631, ms. Biblioteca Universitaria di Cagliari.

• 1635 D. Bonfant riprende tutte le informazioni nella sua monumentale opera

D. Bonfant, Triumpho de los Santos del Reyno de Sardeña, Caller 1635.

Furono queste in sostanza, più qualche altra da esse derivata, le fonti che ebbero a disposizione gli studiosi che successivamente cercarono di studiare le antichità cristiane; e soprattutto le ebbe a disposizione Th. Mommsen nel compilare il primo vero e proprio lavoro scientificamente “moderno”, che in qualche modo 3.1 Il patrimonio epigrafico 97 ebbe a che fare con il periodo e con dei manufatti tra i più importanti ai fini del nostro discorso, e cioè quelli epigrafici. Sfortunatamente lo studioso tedesco, diffidente nei confronti dei sardi per via delle Carte d’Arborea, non esitò, durante la compilazione del X volume del Corpus Inscriptionum Latinarum, a cassare sistematicamente tutte le iscrizioni contenute in queste opere, preferendo, al rischio di includere qualche testo falso, quello di escluderne qualcuno vero. La decisione fu comunque molto sofferta, ed infatti a volte, nel commento proposto alle varie iscrizioni ritenute false, Th. Mommsen manifesta ampiamente i propri dubbi. Ma l’estremo rigore nella scelta non può essere certamente imputato come una colpa al coordinatore del CIL, tanto più che il Nostro non vide alcuni manoscritti, poi rivelatisi di una straordinaria importanza:

• 1614-1643: relazione completa degli scavi compiuti nella città di Cagliari:

Actas originales sobre la inbencion de las reliquias de Santos que se hallaron en la Basilica de S. Sadorro, y otras yglesias y lugares de la ciudad de Caller y su diocesis, ms. Archivio Arcivescovile di Cagliari, n. 13 Actas originales sobre la milagrosa inbencion de las sagradas reliquias del glo- rioso S.n Lucifero ar.po de Caller con las informaciones que se recivieron sobre esto y su constante santitad, ms. Archivio Arcivescovile di Cagliari, n. 14

Copias de authenticas de cuerpos santos, ms. dell’Archivio Arcivescovile di Cagliari.

I tre manoscritti, anch’essi come il Carmona inediti, propongono tutta una serie di dati che, confrontati con quelli riportati dagli altri resoconti e con alcuni fortunati rinvenimenti epigrafici, sembrano attestare una concreta attendibilità a queste fonti. L. Muratori accolse ben poche iscrizioni provenienti da esse nel suo Thesaurus, preferendo l’esclusione di testi che riteneva se non falsi certamente corrotti all’inclusione di un testo frutto di contraffazione.

L’Ottocento: dal can. G. Spano a CIL X

Sarà necessario attendere un secolo per individuare nel can. Giovanni Spano lo studioso di vaglia capace di farsi carico della “fondazione” della disciplina archeologica in Sardegna. 98 I materiali e le produzioni artistiche

Al benemerito canonico, poligrafo ed autore di un numero incredibile di pubblicazioni, si deve la fondazione e la quasi totale stesura del Bullettino Ar- cheologico Sardo, la prima rivista del settore in Sardegna, edita dal 1855 al 1862. In questa rivista comparirà il primo tentativo di un’edizione moderna dei testi epigrafici con una rappresentazione grafica (molto schematica) del testo stesso ed un commento esaustivo e una serie piuttosto fitta di dati archeologici relativi sia a monumenti che a reperti mobili di vario genere. Un’eco, ancora inedita, dell’attività instancabile dello Spano è rappresentata dalla fitta corrispondenza tenuta con G. B. de Rossi in vista di un’edizione globale del patrimonio epi- grafico sardo, poi mai effettuata, pervenutaci attraverso il cod. Vat. lat. 10528. Dallo Spano, con il grande senso critico che ne contraddistingue l’opera, attinse a piene mani Th. Mommsen per il suo CIL X pubblicato nel 1883 che, val la pena ricordarlo, alle pp. 779-782 propone una magistrale sintesi della storia del- la provincia Sardiniae con una puntualissima analisi delle fonti classiche e della bibliografia di settore. Dell’estrema cautela con cui lo studioso tedesco selezionò le iscrizioni riportate dalle fonti si è detto, ma, leggendo tra le righe dei brevi commenti riportati nelle schede delle falsae (per la Sardegna CIL X, 1098*- 1481*), sembra di scorgere un possibilismo ed una sospensione del giudizio in attesa di nuovi e più fortunati ritrovamenti. Tra le altre fonti del Mommsen ricordiamo gli scritti di A. La Marmora e quelli di altri cultori d’antichità che, sebbene non fossero certamente all’altezza di G. Spano, tuttavia svolsero con grande dignità la loro funzione istituzionale di ispettori preposti alla tutela del patrimonio artistico, quali G. Fiorelli, F. Vivanet e V. Dessì. Ai nomi di questi valenti funzionari sono legati i primi lavori su Sulci, Donori, Bonaria-Cagliari e Turris Libisonis, anche se i resoconti di rinvenimenti e di scavo non sono altro che un’edizione molto stringata dei materiali.

Il Novecento Da Antonio Taramelli alla ‘nuova epigrafia’ Particolarmente meritoria è stata per la Sardegna l’opera di Antonio Taramelli, studioso che, con grande duttilità, passava da ambiti culturali concernenti il nuragico a contesti tardoro- mani con una capacità di analisi e di sintesi straordinarie al punto che le pagine da lui scritte, seppur condizionate dallo stato di avanzamento degli studi al pe- riodo in cui vennero stese, risultano tuttora di grande vigore e per taluni aspetti insuperate. Magistrali gli studi su Turris Libisonis, Sulci, Bonaria-Cagliari, S. 3.1 Il patrimonio epigrafico 99

Saturnino-Cagliari. Ciò che più sorprende nell’attività del nostro è certamente la presenza di un disegno di studio e di strategia di azione che è difficile non rite- nere organico: lo ricordiamo, limitatamente alle antichità cristiane, infatti come primo editore globale della catacomba di Sant’Antioco e come primo indagatore dell’area di S. Saturnino. Com’è noto, il novecento segna la nascita di un nuo- vo modo di fare archeologia: da quello che poteva essere inteso come un modo antiquario di raccogliere i manufatti (dalla ceramica ai monumenti epigrafici) si passa ad uno stile di ricerca in cui si privilegiava in primo luogo l’intelligenza in proiezione storica. In secondo luogo, grazie alla competenza e pratica di tecnici di scavo del mondo anglosassone (M. Wheeler, T. Harris, Ph. Barker per citarne solo alcuni), nascono i primi scavi stratigrafici correttamente eseguiti. Nel set- tore epigrafico nasce una serie di supplementi al CIL che risultano certamente, grazie anche al progresso tecnologico, più analitici e corredati di apparati foto- grafici ed iconografici. In questo filone si inserisce l’opera di Giovanna Sotgiu, la prima ad occupare in Italia una cattedra di Epigrafia Latina, che negli an- ni sessanta propone in due momenti distinti l’edizione di materiali lapidei e di parte dell’instrumentum domesticum della Sardegna. Nei due volumi vengono pubblicati molti inediti pertinenti all’epigrafia cristiana e vengono tracciate le prime valutazioni sulla presenza di questi testi nel panorama funerario romano; ad essi si aggiungano, sempre nello stesso periodo, alcuni articoli sulle nuove iscrizioni “riscoperte” nei musei regionali e nei più recenti scavi. Particolarmen- te mirata al periodo cristiano l’attività di L. Pani Ermini che, sul finire degli stessi anni, pubblica alcuni importanti contributi sia per l’epigrafia che per l’ar- cheologia cristiana in genere, iniziando così uno studio organico del territorio sardo e un’attività di scavo che dura tuttora. Alla stessa va inoltre riconosciuto il merito di aver affrontato lo studio globale di un lotto omogeneo di iscrizioni cristiane e di aver proposto delle valutazioni generali nel catalogo dei materiali del Museo Nazionale di Cagliari, pubblicato all’esordio degli anni ottanta. Di notevole importanza, per la comprensione globale dell’epigrafia in Sardegna, è il saggio del 1988, L’epigrafia latina in Sardegna dopo il C.I.L. X e l’E.E. VIII di G. Sotgiu, nel quale l’autrice propone un catalogo aggiornato di tutti i rinveni- menti epigrafici noti, corredati della bibliografia e con numerosi inediti, riletture e commenti. Le due Soprintendenze presenti in Sardegna stanno da un po’ di tempo a questa parte mostrando una maggiore attenzione sia per l’archeologia cristiana che per quella medievale: entrambi i settori stanno dando buoni frutti 100 I materiali e le produzioni artistiche mettendo in luce in maniera promettente una fase storica finora poco nota e poco studiata.

3.1.2 I dati quantitativi e qualitativi

Il patrimonio epigrafico sardo è stimato in circa 1400 manufatti lapidei di cui 900 pertinenti all’instrumentum domesticum. Tralasciando questa seconda classe di materiali, stimiamo intorno ai duecentocinquanta testi il patrimonio epigrafico cristiano della Sardegna. Come risulta evidente dal dato puramen- te numerico, si tratta di appena il 15% del totale. Il dato, che di per sé può apparire sconcertante, data la percentuale relativamente bassa, è in ogni modo indicativo soprattutto se confrontato in relazione ai siti di provenienza. I dati rilevati propongono infatti una forte concentrazione numerica nei grossi centri urbani con una schiacciante preponderanza di Carales. Tale fatto, sia pure con le limitazioni di valutazione intrinseche all’occasio- nalità dei ritrovamenti ed alla mancanza di un piano organico di ricerca sul campo, fornisce un primo elemento di considerazione inerente la “strategia”, vo- luta o inconscia, di cristianizzazione epigrafica del territorio: assistiamo infatti ad una sovrapposizione dell’elemento cristiano a quello romano principalmente nelle aree costiere e di ormai consolidata tradizione romana. Resta comunque significativa la sproporzione tra le attestazioni epigrafiche di Carales e quelle ad esempio di Turris Libisonis, che pure era una grossa colonia romana, e di Cornus. Almeno in base ai manufatti epigrafici non si può parlare al momento di una capillare cristianizzazione delle aree rurali o, generalmente, dell’interno dell’Isola, in quanto troppo pochi sono i rinvenimenti in siti significativamente lontani dalle coste e, (il caso più evidente è quello di Forum Traiani), comunque legati ad un centro militarmente e strategicamente importante. Uno sguardo d’insieme all’uso dei supporti, comprendendo in questa espres- sione sia la forma che il materiale di composizione del manufatto, evidenzia un dato decisamente importante soprattutto nell’area cagliaritana, dove viene completamente abbandonato l’uso della pietra locale, la pietraforte, estratta da cave prossime al centro abitato, preferendo l’uso di marmi, in alcuni casi di un certo pregio ma solitamente di scadente qualità, lavorati in lastre di non grandi dimensioni. Perde così importanza l’uso sia del cippo funerario che della stele che aveva caratterizzato interi complessi funerari dell’area cagliaritana e 3.1 Il patrimonio epigrafico 101 dell’epigrafia sarda in generale. Continua, in ogni caso, ma solitamente al di fuori di Carales, l’uso di pietra locale, in genere arenaria (si veda però esem- pio d’uso del basalto e della trachite fornitoci da Cornus) particolarmente facile da lavorare, a testimonianza dell’assenza generalizzata di maestranze specifiche riscontrabile nella presenza di manufatti ritenuti, anche per la fattura dei ca- ratteri, extra-officinali. La quasi totale assenza dei tituli picti, rappresentati da uno sparuto gruppo di attestazioni (5) concentrate nelle due uniche aree con monumenti ipogei, Carales e Sulci, è motivata dalla preponderanza schiacciante di aree cimiteriali subdiali: la pittura è eseguita sempre su intonaco e in Sarde- gna non sono stati ancora rinvenuti testi funerari cristiani su tegole o mattoni. Contrariamente a quanto accade in altre aree, il materiale “povero” è, di fatto, il marmo che risulta lavorato in piccole lastre (i grossi manufatti, come qualcuno proveniente da Turris Libisonis, sono infatti d’importazione). Casi particolari sono rappresentati dai mosaici che risultano attestati in numero relativamen- te limitato e in aree specifiche al nord a Turris Libisonis ed al sud nell’area gravitante intorno a Carales, con un’attestazione sporadica a Forum Traiani; sempre da Carales, ma legati al fenomeno del riuso dei materiali di spoglio, pro- vengono due cornici marmoree. Il panorama viene completato da un ristretto numero di iscrizioni relative a sarcofaghi, dei quali abbiamo però come unico frammento quasi sempre la parte con il testo inciso. In attesa di ulteriori dati si possono trarre alcune conclusioni di massima: nella norma risulta l’abbandono dell’uso di cippi e stele, fenomeno comunque diffuso nell’orbis, ma la preferenza per le piccole lastre, sia pure probabilmente indotta da motivi economici, pro- pone una straordinaria analogia con i materiali usati, in gruppi dalla seriazione cronologica omogena e pertinente grosso modo al V sec., in ambito africano, so- prattutto nei cimiteri di Cartagine, e Cherchel. I mosaici funerari finora noti, soprattutto quelli rinvenuti nel sud dell’Isola, trovano immediati confronti con quelli africani di V sec. Un altro tratto interessante consiste nella marcata propensione, soprattutto nel sud dell’Isola, all’affollamento di testi che risultano solitamente incisi di seguito, ma a volte, in senso inverso, sulla medesima fac- cia. Questa caratteristica di uso intensivo dei supporti viene ribadito dall’alto numero dei testi opistografi [=incisi su entrambi i lati] (poco più del 10%) che pure, in qualche caso, propongono due redazioni dello stesso testo. 102 I materiali e le produzioni artistiche

3.1.3 I testi neutri e le iscrizioni false

La provenienza dei manufatti, per la maggior parte, come si è detto pervenu- tici tramite collezioni ‘antiquarie’ o da scavi irregolari, non consente di affrontare con sufficienti elementi una delle questioni fondamentali per le iscrizioni cristia- ne, e cioè quello della presenza dei cosiddetti testi neutri. Sarebbe stato infatti particolarmente stimolante riuscire a stabilire se ad esempio l’iscrizione di Aelia Bonavia proveniente dalla collina di Bonaria fosse effettivamente stata trovata in un contesto funerario sicuramente cristiano oppure no. Tale sorte, con nostro grande rammarico, può essere estesa anche a tutta una serie di manufatti, si pensi ad esempio ad Olbia, dove le iscrizioni certamente cristiane sono solo tre rispetto ad un lotto più consistente di attribuzione incerta. Un’attenta analisi dei testi a formulario neutro avrebbe potuto dare notevoli informazioni sulla linea grigia che delimita il passaggio dal formulario pagano a quello cristiano, così come al contrario è possibile fare, per esempio, per i testi provenienti dalle catacombe romane, là dove il contesto archeologico non può certamente essere messo in discussione. Altro è invece il discorso sulle iscrizioni false, sulle quali da qualche tempo si è soffermata l’attenzione degli studiosi e su cui esistono al- cuni studi particolarmente stimolanti ed accurati. Le inscriptiones falsae della Sardegna sono 383 per la maggior parte cristiane e da riferirsi, per il rinveni- mento, quasi tutte alle “attività di scavo” secentesche promosse in Sardegna, principalmente a Cagliari e Sassari, per la questione relativa al primato per la sede episcopale. Si è già fatto riferimento alla temperie culturale sarda in cui di trovò ad operare Th. Mommsen al momento della stesura di CIL X. Le c.d. Carte d’Arborea e l’atteggiamento ipercritico nei confronti delle fonti del mondo tedesco di fine ’800 indussero lo studiose tedesco a rigettare qualsiasi trascri- zione epigrafica secentesca che non fosse verificabile su un manufatto lapideo. Tale convincimento è stato recentemente messo in crisi dal ritrovamento di di- versi manufatti (una decina circa) che, risultati evidentemente autentici, erano tuttavia stati condannati tra quelli falsi semplicemente perché di tradizione ma- noscritta. In un recente studio Paola Ruggeri e Daniela Sanna hanno tentato di verificare, per certi aspetti con successo, la possibilità di uno studio critico sul materiale epigrafico ritenuto finora falso, partendo dalla valutazione generale dei dati pertinenti l’onomastica, la lingua e i formulari e mettendoli in relazio- ne con il patrimonio isolano autentico; il risultato, particolarmente stimolante, sembra proporre un quadro generale nel quale la percentuale di iscrizioni vera- 3.1 Il patrimonio epigrafico 103 mente false non solo verrebbe notevolmente ridotta, ma addirittura conterebbe solo un numero relativamente contenuto di casi veramente ‘smaccati’. Ancorché di segno diverso, tale convincimento sembra analogo, per un certo integralismo, a quello di Th. Mommsen, poiché se è vero che lo studioso tedesco condannò senza appello un lotto di 400 iscrizioni senza soffermarsi troppo nel valutare l’e- dizione dei volenterosi epigrafisti secenteschi, non sembra possibile, allo stesso modo, ipervalutare le capacità (se non la buona fede . . . ) degli stessi, anche se, come poi è accaduto, in qualche caso le edizioni sono state poi confermate da ritrovamenti. Nella casistica ricordata dalle due autrici le iscrizioni certamente autentiche, e cioè quelle fisicamente rinvenute, sono una percentuale minima del totale (appena il 2), mentre per le restanti, come prova di autenticità, viene considerata l’aderenza formale ad uno o più criteri presenti nelle iscrizioni ‘ge- nuine’. Poiché non si può pensare che gli eventuali falsari fossero sprovveduti a tal punto da non creare un falso che fosse veramente credibile potrebbe essere semmai un’aderenza troppo ‘fedele’ a certi canoni a dimostrare il contrario. Tra l’altro risulta ben strano che la percentuale di iscrizioni metriche e quelle con richiami ‘dotti’ o relative a membri della gerarchia ecclesiastica siano in nume- ro superiore nelle iscrizioni false che non nelle iscrizioni autentiche. Un altro elemento da evidenziare, e che gioca a sfavore di un alto numero di manufat- ti autentici è quello relativo al rapporto di densità iscrizioni pagane/iscrizioni cristiane, che abbiamo visto essere, per la Sardegna, di 15:1 circa. Se dovessi- mo accettare come autentiche anche solo i tre quarti delle false, tale rapporto salirebbe a valori di picco simili a quelli di Roma e di aree a più alta e ben più precoce cristianizzazione: è evidente che, se non impossibile, tale dato deve essere considerato almeno altamente improbabile. A tale considerazione sem- brano convenire gli altri dati storici a nostra disposizione che non indicano del resto come possibili paragoni di questo tipo tra aree come Roma o le province africane. Ciò non di meno dall’eccellente lavoro delle colleghe sassaresi risultano evidenti alcuni aspetti estremamente importanti, e cioè come in primo luogo vi siano degli elementi “di verità” in questi testi che sembrano ricondurre ad iscrizioni che in qualche modo gli “archeologi” secenteschi dovevano aver diret- tamente visto. Tralasciando i falsi più evidenti, elaborati forse da sprovveduti, se si analizzano ad esempio alcuni nomi si può supporre che formulari e nomi siano stati effettivamente visti su iscrizioni autentiche forse rinvenute in Sardegna; non ci sorprende infatti, ad esempio, che in molti casi, oltre alla determinazione 104 I materiali e le produzioni artistiche

‘etnica’ africanus compaiano dei nomi propri di quell’area da sempre di prima referenza per la Sardegna. È il caso ad esempio di Numida Cuicul(ensis), il cui nome è talmente eloquente da rendere inutile qualsiasi commento; su questa linea anche altri sul tipo Maurus, Maurusius, Mapparia. Tornando a Numida Cuicul(ensis), è interessante notare piuttosto, ribaltando il discorso ed andando oltre l’onomastica, come sia estremamente dotta e di grande impatto la falsifica- zione operata da S. Esquirro e da F. Bonfant su questo nome che, se postuliamo autentico, viene volutamente deformato in sancta Numida cui cultro caput am- putatum est espressione nella quale si fa riferimento al supplizio per eccellenza che dopo quello della croce usato del resto in rari casi è quello più attestato. Evidentemente i due autori, che magari riportavano letture proposte da altri esperti sul campo, sapevano, proponendo il testo in questa formula, di creare grande impressione in chi, conoscendo un po’ d’agiografia, avrebbe ricollegato la storia personale di Numida a quella di altri santi più grandi che, dopo aver subito ogni sorta di supplizio, morivano invariabilmente decapitati; e questo a gloria della diocesi di Cagliari! L’iscrizione, così come aveva già supposto nel CIL Th. Mommsen e come dimostrano P. Ruggeri e D. Sanna basandosi su un’altra edizione secentesca sconosciuta al celebre studioso, è probabilmente ‘autentica’, ma questa autenticità è da intendersi tale nella sua essenza più ampia e non, come invece esige l’epigrafia, nella sua trascrizione ed edizione che può esse- re certamente verificata solo in presenza del manufatto originale o, nel caso di un manufatto perduto, sulla garanzia del sicuro metodo scientifico posseduto dall’ultimo editore. In quest’ottica un’analisi è certamente, se non impossibile, almeno ardua.

3.1.4 I contenuti

Il dato testuale del patrimonio epigrafico finora noto ci propone numerosi spunti di ricerca ed un quadro vivo della comunità cristiana sarda dei primi secoli. Tenendo sempre presente il fatto che l’occasionalità del ritrovamento del reperto archeologico ne inficia in qualche modo l’utilizzo e che ciò che noi co- nosciamo è di fatto una minima parte delle strutture e degli oggetti realmente esistiti ed utilizzati oltre 1500 anni fa, possiamo altresì provare, con grande prudenza, ad estrarre, da quella miniera di dati rappresentata dalle epigrafi sar- de, qualche dato che sia storicamente interpretabile. Tradizionalmente gli studi 3.1 Il patrimonio epigrafico 105 epigrafici badano ad alcuni particolari aspetti come l’onomastica (lo studio dei nomi degli individui ricordati nei testi), la ricorrenza di espressioni standard (il cosiddetto studio dei formulari) e le cariche, in una parola il “ruolo”, svolto dai vari personaggi in vita. Individuati questi tre aspetti (ma ne abbiamo tralasciato veramente tanti altri!), andiamo a vedere in estrema sintesi che cosa ci propo- ne il nostro panorama epigrafico. Il dato onomastico presenta in Sardegna nelle iscrizioni cristiane una strana anomalia rispetto all’epigrafia non cristiana, e cioè la mancanza assoluta dell’uso dei nomi di sostrato, definendo comunemente con questa espressione i nomi di derivazione dallo strato culturale paleosardo. Que- sta situazione suggerisce una valutazione generale, e cioè che, epigraficamente parlando, i fedeli conquistati alla fede cristiana vivessero unicamente nelle aree pienamente romanizzate e nelle quali i nomi di sostrato non fossero più di moda o non avessero più tanto significato. Tra i nomi definiti specificamente cristiani, i teoforici del tipo Deusdedit, Adeodatus, Habetdeus occupano un ruolo molto rilevante. Essi sono originari dell’Africa e comunemente vengono considerati co- me dei calchi effettuati sull’onomastica preromana di quell’area e segnatamente su quella punica. Oltre a questi, sono comunque ben noti e usati dai fedeli i “classici” teoforici precristiani dei quali abbiamo un’eco ad esempio in un Mar- tialis, in una Iobiana ed in una Beneria. Rilevare la presenza di teoforici che si richiamano a Marte, Giove e Venere non crea alcun imbarazzo, in quanto essi sono talmente comuni nel panorama epigrafico dell’orbis christianus antiquus che alcuni di essi ne risultano addirittura esclusivi, nonostante si rifacciano in maniera più che esplicita a divinità pagane. Da ritenersi teoforico è Dominica, un nome che semanticamente trova riscontro in Cyriace attestato a Porto Torres e che è da mettere, in età cristiana, in ovvia relazione con Dio; originariamente il dominus a cui doveva riferirsi era però quello terreno e non quello celeste, per cui, in questo senso, può essere considerato un vero teoforico ad esclusivo utilizzo cristiano. Il panorama viene poi completato dalla presenza dei nomi Abeddea e Quodbuldeus, la cui specificità cristiana è indubbia, come la loro area di origine e cioè l’Africa. Le attestazioni per i nomi semitici e di tradizione biblica sono molteplici e il solo Iohannes ne conta ben sette sia pure in diverse forme. I nomi dei santi attestati nell’Isola sono quelli ‘classici’, a partire da Agnes per passare a Laurentius, un santo talmente caro a Roma da essere quello maggiormente attestato per questa categoria, e Petrus di tradizione semitica, ma reinventato in ambito cristiano; una sorte seguita del resto da Maria, Andreas e Tecla, la 106 I materiali e le produzioni artistiche cui forma normale è Thecla. Eguale fortuna sembrano poi avere avuto nell’Isola anche quei nomi che, usati nel periodo precristiano, assumeranno nell’epigrafia dei cristiani un significato trascendente il senso letterale e riferibile a concetti legati in qualche modo ad aspetti di fede, quali Ireneus/-e, Redemtus/-a, Re- nobata e Reparatus. Di particolare significato Martur[-], riferibile certamente a Martyrius, un grecanico la cui afferenza al settore di questa categoria di nomi sembra rappresentare una vera novità. I grecanici (=nomi greci o di origine gre- ca) sono in Sardegna circa una trentina e si noti come questi esempi provengano unicamente da grossi centri urbani e segnatamente Carales, Turris Libisonis, Cornus e Forum Traiani dove, tradizionalmente, le comunità greche dovevano essere più forti. Il nome più rappresentato è Theodorus/-a, Theod[or- che in Africa è attestato in maniera massiccia ed in sostituzione dei più vecchi teo- forici punici a partire dall’età bizantina. Egualmente d’uso comune nell’orbis i nomi, discendenti dalla stessa radice, Euticius, Eytychius ed Eutychianus che risultano essere comunque ampiamente attestati anche in età precedente. Tra i grecanici restanti, la maggior parte dei quali è ben nota a Roma a partire dal I sec. d.C., ricordiamo Limenius ed Euguenius come normalmente usati in età più tarda (a partire rispettivamente dal II e dal III sec. d. C.). Forte di ben 71 atte- stazioni, il gruppo dei nomi antichi (ossia della tradizione romana precristiana) rappresenta lo zoccolo duro del nostro gruppo di iscrizioni e questa onomastica latina classica sembra non essere intaccata dall’aggressione del nuovo. Di questo gruppo fa parte tutta una serie di nomi che “diventeranno” col tempo comune- mente usati dai cristiani, quali ad esempio Benenatus, Felix, Lucifer/-a, Paula, Restituta e Vitalis. Il comune denominatore di tutte queste forme è che per buo- na parte di esse il numero maggiore di attestazioni è stato stimato in Africa; a questa considerazione si aggiunga la presenza di nomi sicuramente allogeni africani, quali Iscribonissa (da Cornus; pertinente forse allo strato linguistico numida) ed Isportella, che trova dei confronti a in Tunisia. Exsitiosus, Luxurius/-a, Proiectus e Servulus sono i rappresentanti di quella categoria detta dei nomi di umiliazione che annovera al proprio interno tutta una serie di nomi che già erano usati in età precristiana con valore apotropaico. Tra questi, all’in- terno del nostro campione, il nome più caratteristico ed attestato unicamente in età cristiana è il citato Proiectus. Probabilmente a denominare un allogeno il Romanus di Carales. Le iscrizioni greche del panorama epigrafico sardo non presentano nomi rari o di difficile interpretazione, mentre l’unica “particolarità” 3.1 Il patrimonio epigrafico 107 consiste nella menzione della provenienza dalla Frigia nel testo commemorativo di Ammia. Tutti questi nomi sembrano mostrare, oltre alla scontata e “tradi- zionale attenzione” della Sardegna per il mondo africano (utilizzo dei teoforici sul tipo Habetdeus), anche una spiccata propensione per l’utilizzo dei nomi del santorale romano.

3.1.5 Il linguaggio formulare

I testi funerari a nostra disposizione, nella struttura molto semplici, a par- te qualche eccezione rappresentata principalmente dalle composizioni metriche, propongono come impianto di massima una quadripartizione strutturale degli elementi, rappresentata da una locuzione introduttiva, dalla menzione del de- funto, dai dati biometrici e dalla indicazione della data di deposizione. Come si vede, una struttura assolutamente standard, ma che è caratterizzata da due ele- menti molto importanti: la generalizzata assenza della menzione del dedicante e (purtoppo) la mancanza quasi totale dell’uso della datazione consolare. Il primo dato è certamente importante, se si considera che nelle iscrizioni non cristiane della Sardegna il dedicante risulta quasi sempre indicato; tale assenza può quindi essere vista come un primo elemento di diversità di costume rispetto al periodo precedente. Il secondo può essere sia generato da un fatto occasionale originato dalla casualità tipica del ritrovamento epigrafico, sia da una scarsa attenzione per la menzione di una data che, in un’area periferica, non doveva poi avere un grande senso. Tra le innumerevoli attestazioni vorrei rimarcare principalmen- te l’uso dell’espressione hic iacet/ent perché è senza dubbio la più frequente e ricorre per ben 56 volte. Solitamente la prima espressione è seguita dal “canoni- co” bonae memoriae, seppure con qualche significativa variazione rappresentata da un uso molto limitato di sanctae memoriae (formula particolarmente amata dalla gerarchia ecclesiastica) e da qualche avventuroso tentativo poetico come hi[[c]] iacet dolor parentum / b(o)n(ae) m(emoriae), allegoria rappresentante la discesa nel sepolcro, assieme al defunto, del cuore addolorato di genitori che hanno visto morire il proprio figlio. L’aspetto più interessante che ci proviene dalla valutazione del dato pertinente all’incipit in esame è che esso viene usato principalmente a Carales, dove occorrono ben 43 casi su 56, cioè la quasi totalità dei casi stimati. Ciò potrebbe far supporre ad esempio la presenza di una parti- colare officina che producesse “in serie” testi piuttosto simili magari per seguire 108 I materiali e le produzioni artistiche una moda. La grande differenza tra l’epigrafia pagana e quella cristiana consiste nel fatto che il testo cristiano diventa in molti casi un encomio delle qualità mo- rali del defunto. Un più chiaro esempio è riscontrabile nell’epitaffio metrico di Taurus, personaggio di rilievo, proposto come pietatis exemplum, caratteristica che sembra unirlo, almeno idealmente, con il cornuense mirae innoc[e]/nti(ae) ac pieta/tis Euticio; quest’ultima espressione è sorprendentemente simile al mi- rae innocentiae adq(ue) integrit(atis) riferito alla Theodora di Turris Libisonis, vissuta 19 anni. Più semplicemente Silbanos ci dice che il proprio padre Maxi- mus bene vixit, intendendo con questa espressione certamente qualificare non il tenore di vita materiale, ma la grande dirittura morale. La castitas, invece, fu una virtù della cornuense Proclia, di cui non conosciamo a causa di una lacuna l’età, mentre strettamente connesso alla castità fu il concetto di verginità, che ricorre nel nostro gruppo d’iscrizioni alcune volte in senso letterale in riferimento alle virgines sacrae, in senso figurato, nell’accezione che contraddistingue i testi cristiani, in due iscrizioni. Tutte queste virtù confluiscono poi nell’integritas, che al femminile o al maschile rappresenta in assoluto il concetto di dirittura morale. La fede in Cristo traspare non solo in maniera riflessa nell’esaltazio- ne dei valori da Lui predicati, ma in chiari riferimenti a dogmi nelle calde, e più vere, espressioni popolari riportate sulla pietra che sembrano riecheggiare movenze liturgiche. Non si può certamente mettere in dubbio la fede di un ano- nimo stabularius, un oste o stalliere, che nell’affidare alla terra le spoglie mortali della propria figlia dice: anima tua a deo suscipiatur, concetto simile, almeno nel sentire, a quello espresso nell’epigrafe di Inbenia, venerata come martire in Planargia, la cui clausola recita vivat in domino. amen. Nello stesso manufatto il concetto di una vita terrena transitoria e di preparazione alla vera vita tra- spare dall’espressione – un classico per l’epigrafia cristiana – migravit a saeculo. Di estremo interesse la possibilità di un richiamo alla tipologia di sepoltura ad sanctos in alcuni testi di Turris Libisonis particolarmente significativi ed editi di recente [vedi fig. 2.13]. Il morire viene espresso con diverse locuzioni ed è curioso rilevare come a Carales esso non venga mai esplicitamente indicato; dobbiamo infatti andare a Cornus per trovare una formula, in assoluto per niente rara ma occasionale per la Sardegna, come qui discessit, e che comunque risulta atte- stata nell’Isola a Turris Libisonis nell’iscrizione di Theodora, in cui si dice che discessit in XP(isto). In un unico caso viene usato decessit e curioso il resit in pace di un’iscrizione di Vallermosa da intendersi probabilmente come un erro- 3.1 Il patrimonio epigrafico 109 re per recessit. La restituzione della vita a Dio, come pagamento di un debito accumulato ineluttabilmente alla nascita, compare nell’iscrizione di Fortunata da Turris Libisonis, la quale viene ricordata dal proprio marito Philoponius. Passiamo ora a valutare alcune espressioni che, come già è stato notato, sono la chiara attestazione di “dettami della catechesi che il nucleo familiare aveva acquisito nella preparazione pre-battesimale”, ma che parimenti si propongo- no “quale espressione di fede e di certezza in una vita eterna nella comunione dei santi”. In quest’ottica vanno quindi viste formule come pax sit in aeternum cum tuis, concetto ribadito nello stesso luogo nella più stringata pax sit cum tuis. Un’eco di queste acclamazioni nelle iscrizioni dipinte nella catacomba di Sant’Antioco, dove A. Taramelli lesse vivas in deo [- - -] e [in pac]e vibas.

3.1.6 La gerarchia ecclesiastica

L’organizzazione della struttura ecclesiastica sarda, di cui si ha notizia cer- ta già nei primi decenni del IV sec., acquisisce, stando ai documenti a nostra disposizione, una definizione sufficientemente chiara solo a partire dal V sec. Alla composizione di questo quadro contribuiscono anche le nostre epigrafi che, seppure malauguratamente non databili, danno la dimensione di una struttura organica, e rappresentata nei vari livelli, della gerarchia ecclesiastica. Iniziando dai gradi minori, incontriamo nel campo delle vergini consacrate Stephana di Carales e Iohanna c(asta) v(irgo), di cui purtroppo ignoriamo con certezza la provenienza. Redemta, abb(atissa) monast(erii) s(an)c(ti) Laurenti (vedi infra scheda 3.1.7) ripropone, con la menzione del suo ruolo, il problema cronologico relativo all’introduzione del monachesimo, sia maschile che femminile in Sarde- gna, connesso tradizionalmente al periodo di permanenza di Fulgenzio di Ruspe, esiliato nell’Isola nel 517 da Trasamondo. Un clericus di nome Ionisus potrebbe essere un sacerdote che esercitò il proprio ministero nella città di Carales “as- sieme” ad un lect[or] rimasto purtroppo anonimo, sepolto nella medesima area funeraria di S. Saturnino. Le altre attestazioni di lectores provengono da Cornus e da Nora. Il diaconato viene esplicitamente citato in un solo caso, proveniente da Carales, in cui sembrano essere le figlie a ricordare il proprio padre defunto; ad esso deve essere aggiunto l’ecclesiae sanctae minister di Olmedo, il cui ruolo è da considerarsi identico. Da Maracalagonis, piccolo centro della provincia di Cagliari, proviene l’unico testo in cui è menzionato un presbyter, il quale doveva 110 I materiali e le produzioni artistiche vedere un proprio superiore nell’archipresbyter Istefanus di Carales, attestato in una iscrizione proveniente da S. Saturnino. Bonifatius, vescovo di Carales per sette anni, venne deposto in un’arca magna, successivamente usata come altare a S. Saturnino (vedi infra scheda 3.1.7), mentre meno fortuna, almeno in relazione alle celebrazioni post mortem, ebbe un altro vescovo che, ricorda- to in una lastra frammentaria, pare non abbia avuto, almeno a giudicare dalla modestia del manufatto, un grande monumento funerario. Oltre ai due vescovi cagliaritani ora menzionati, sono noti in Sardegna solamente altri quattro ve- scovi, tutti ricordati in iscrizioni provenienti da Forum Traiani, e sono Helia, Stefanus, Victor e S[- - -], a testimonianza dell’importanza della piazzaforte romana situata nell’entroterra a ridosso dell’oristanese. Legati alla struttura ec- clesiastica, ma non al ministero, risultano sia il defensor Deusdedit, il patrono legale che risolveva i problemi della chiesa cui era legato, sia il notarius Me- nas, depositario degli atti pubblici. Lo stesso grado sembra comparire, sia pure in diverso modo, nell’iscrizione di Iohannes filius quond(am) bonae memoriae Iohanne ex tribunu, in cui almeno il padre doveva far parte di un importante ufficio, se non addirittura essere egli stesso un notarius o un militare. L’estrema semplicità dei testi considerati non ci permette di stabilire, sia pure a grandi linee, sulle sole considerazioni prosopografiche una mappatura delle classi so- ciali, che il dato puramente numerico presupporrebbe di livello molto basso. In realtà non sappiamo, e probabilmente non sarà mai possibile accertarlo, se volu- tamente i cristiani della Sardegna abbiano voluto tacere il proprio rango sociale che sembra comparire in un solo caso da Turris Libisonis con un Marti/alis v(ir) c(larissimus). L’unico mestiere citato è quello di stabularius (un oste o uno stalliere) in un testo, già ricordato, da Carales.

3.1.7 Schede epigrafiche

I numeri di catalogo rimandano a Corda, Le iscrizioni cristiane della Sardegna anteriori al VII secolo, op.cit. (vedi 1.4).

CAR014. Iscrizione di Bonifatius episcopus

Sarcofago in pietra locale, mutilo, rinvenuto a S. Saturnino. Grazie a Serafino Esquirro sappiamo che tale sarcofago venne scoperto in un periodo antecedente gli scavi iniziati il 6 novembre 1614 nella Capilla maior e che venne riutilizzato 3.1 Il patrimonio epigrafico 111

Figura 3.2: Cagliari. Iscrizione di Bonifatius episcopus. come altare nella cappella a sinistra dell’abside (cfr. CIL X, 7533). Dimensioni: cm 205x70x104; lett. cm 5. Basilica di S. Saturnino (Cagliari).

In hoc tumulo requies= cit s(anctae) m(emoriae) Bonifatius episcopus qui vixit annis pl(us) m(inus) LX et se= dit cathedra annis VII, m(ensibus) IIII quievit in pace sub d(ie) XV kal(endas) Septembres.

1. L’espressione in hoc tumulo, usata per indicare il luogo di sepoltura com- pare in Sardegna anche in un testo di Vallermosa (Corda, 1999, VAL001). Da notare come in ambito classico la menzione diretta della tomba compaia in Sar- degna in un unico caso da Sulci (hi[c tumu]lum tristem. La definizione della tomba come tumulus (monumentum e/o similia) non è tipicamente cristiana ed infatti fa parte dei termini cosiddetti ‘neutri’. Il suo uso, peraltro ben diffuso nell’orbis, è tipico di aree come ad es. la Gallia. 2-3. Il vescovo Bonifacio, morto all’età di 60 anni, sedette sulla cattedra vescovile per sette anni e quattro mesi. Già E. Diehl notò (anche sulla scorta di Frag. Murat. v. 75 sedente cathedra urbis Romae ecclesiae Pio episcopo) che il testo sembra riecheggiare ad esempio l’espressione di Vulg. Ezech. 28, 2 et in cathedra dei sedi ma si osservi come tale locuzione semitizzante sia frequente nel latino biblico. Raro in Sardegna il sanctae memoriae che compare altre 5 volte. Datazione: IV-V sec. Foto archivio Dip. Scienze Archeologiche - Univ. di Cagliari 112 I materiali e le produzioni artistiche

Figura 3.3: Cagliari. Iscrizione di Deusdedit

CAR018. Iscrizione di Deusdedit, defensor Lastra marmorea di forma irregolare, ricomposta da due frammenti in marmo bardiglio, originariamente infissa sulla parete a destra della porta di ingresso di S. Saturnino. Il testo è caratterizzato dalla lettera D sempre onciale e dalla lettera A con la traversa spezzata. Alla fine del testo sembra essere presente una piccola croce greca; l’inizio del testo è invece contrassegnato da una croce latina. Dimensioni: cm 26,5x44x1; lett. cm 2-2,5. Museo Nazionale di Cagliari.

(croce) Hic iacet b(onae) m(emoriae) Deusdedit defensor s(an)c(ta)e ec(c)lesi(a)e Kar(a)l= itan(a)e, qui bixit ann(os) plus minus XLII, requiebit in p= ace su(b) d(ie) II id(us) Nobembres ind(ictionis) decim(a)e. Karali(bu)s (croce). 3.1 Il patrimonio epigrafico 113

2. Il quarantenne Deusdedit rivestì la carica di defensor ecclesiae nell’ambito della comunità locale, che viene definita come ecclesia karalitana. Un tale titolo, non troppo frequente nei testi cristiani, è per la Sardegna un unicum epigra- fico. L’espressione sancta ecclesia risulta essere attestata a Carales, in chiaro riferimento alla comunità cittadina, in ibid., CAR045; il solo termine ecclesia compare inoltre in ibid., MAR001 (da Maracalagonis / Calagonis), dove viene menzionato un p(res)b(yter). Il defensor era in sostanza un avvocato che cura- va, in ausilio del vescovo, gli aspetti materiali e giudiziari relativi alla gestione della diocesi. Questo ufficio doveva in qualche modo essere affine a quello del notarius; è noto infatti un caso in cui lo stesso individuo ricopre entrambe le cariche (AE 1973, 250). Nulla ci fa pensare che Deusdedit sia un ecclesiastico e del resto sappiamo che per lo meno al momento del riconoscimento del ruolo da parte di Onorio nel 407 i defensores venivano scelti tra i laici (cfr. Cod. Theod. XVI, 2, 38 istituzione su richiesta dei vescovi africani Codex Can. ecc. Afr. 97; la carica è comunque già nota in Possid. Vita Aug. XII=PL 32,43 nel 403). Solo successivamente essi diventeranno, come del resto i notarii, dei semplici chierici con tonsura e ciò avverrà solo dopo la seconda metà del V sec. In effetti, neanche un cinquantennio dopo la loro istituzione, nel 452 come ci attesta la Nov. XXXV di Valentinano III, sembra che non ce ne fossero più di laici. In base a questa considerazione si potrebbe ipotizzare una datazione del nostro manufatto alla prima metà del V sec. Il nome Deusdedit è un classico dell’epigrafia cristiana, un teoforico che conobbe fortuna non solo nel mondo africano dove lo vediamo attestato come è ovvio a Cartagine (ad es. ICKarth. II, 481; ICKarth. III, 24), ma anche a Roma in diverse iscrizioni, tra cui una datata al 449 e proveniente da un punto imprecisato della Via Latina (cfr. ICVR VI, 15782). 6. L’abla- tivo Karali(bu)s (o se si preferisce leggere semplicemente Karalis come forma sclerotizzata) indica il domicilio del defunto e si osservi come generalmente, in ambito cristiano, tale indicazione sia presente a partire dalla metà del IV sec. Datazione: inizio V sec.? - inizio VI per AE 1992. Foto archivio Dip. Scienze Archeologiche - Univ. di Cagliari

CAR034. Iscrizione di Γρεκὰ μωνάστρηα

Lastra frontale di un sarcofago di provenienza sconosciuta; G. Spano lo dà per proveniente dalle catacombe del Fangario. Nelle anse della tabula ansata è 114 I materiali e le produzioni artistiche

Figura 3.4: Cagliari. Iscrizione della monaca Γρεκὰ presente l’adprecatio agli dei Mani. A lato della tabula sono presenti due festoni con colonnine e foglie di loto. Dimensioni: 39x221,5x115; lett. cm 2-2,5. Museo Nazionale di Cagliari (n. inv. 5839).

D(is) M(anibus)

Μνήσθητη κ(ύρι)ε τῆς δούλης (σ)ου Γρεκὰ, μωνάστρηα· ἀμ= ή(ν). ᾿Ανάθεμα ἕσχουσην τον ἁγήων τρηακοσήω= ν ἑξήκοντα πέντε πατ= έρον ὡ ἐχσανύξη τὸ λαρν= άκι τοῦτο ὥτε ὁδε οὐδ= ὲ χρυσάφη οὐδὲ ἀρσήμη. 3.1 Il patrimonio epigrafico 115

Il testo è fra i più noti tra le epigrafi sarde e non è, da un punto di vista strettamente grammaticale, certamente impeccabile (concordanze errate e vol- garismi). 1. L’incipit, molto sentito, contiene una preghiera diretta al Signore perché non dimentichi la propria serva; una tale espressione, se non proprio frequente, è comunque un luogo abbastanza comune all’epigrafia cristiana (si veda ad es. dalla Sicilia IGCV 508b, anche se con una perifrasi leggermente di- versa). 2. Γρεκὰ viene definita come monaca con un termine non comune (non sembra essere attestato ad es. nelle ICVR), ma che è comunque noto in Just. Nov. 123.36. 3-8. L’iscrizione, collocata per proteggere il riposo della defunta dalle profanazioni, minaccia l’anatema dei 365 padri ai violatori di tombe. Ov- vio quindi, e fu il ragionamento di Celestino Cavedoni, pensare ai padri del II Concilio di Nicea (787), in cui sappiamo per certo che i padri conciliari furono in quel numero e di conseguenza collocare in età post-giustinianea il manufatto. In un acuto saggio Antonio Ferrua propone che si tratti di un errore tecnico del lapicida e che il riferimento corretto sia al Concilio di Nicea del 325, nonostante la notizia che ad esso parteciparono solo 318 padri; il numero 365 sarebbe stato inciso nel testo a causa di un lapsus originato dal numero totale dei giorni del calendario. Secondo G. Spano, C. Cavedoni e A. Taramelli, il sarcofago sarebbe di IV sec., mentre A. Ferrua propone una datazione più tarda di almeno un secolo. Datazione: VI sec. Disegno di Antonio Ferrua

CAR056. Iscrizione di Menas, notarius

Lastra marmorea integra ed opistografa (dall’altra parte CAR041, cui si rimanda per il rinvenimento). Nessi NE alla l.1, NN e VA alla l. 4, ed alcune abbreviazioni sovralineate. Alla l. 6 F con il piede allungato. Il testo è chiuso da una foglia con un lungo gambo (un tralcio di vite?). Interpunzioni ad ’esse’ e varie hederae distinguentes. Lettera A con la traversa spezzata; alla l. 7 una D onciale; alle ll. 3, 5, 6 caratteri in corpo minore in finale di parola. Dimensioni: cm 41x46x6; lett. cm 3,5. Museo Nazionale di Cagliari.

(croce) Hic requiescit bon(a)e mem(oriae) Menas notar(ius) subregiona= rius s(an)c(t)ae Rom(anae) eccl(esiae) et rect(or) qui vixit plus min(us) ann(os) qua= 116 I materiali e le produzioni artistiche

Figura 3.5: Cagliari. Iscrizione di Menas, notarius draginta, requievit in pac(e) sub d(ie) prid(ie) id(us) Februar(ias), ind(ictione) prima.

2. Menas, personaggio di rilievo nella comunità locale, rivestiva la carica di notar(ius) sub regiona/rius ed era nei fatti il depositario degli atti pubblici nella sua qualità di tachigrafo, da porre strettamente in relazione con l’ufficio del defensor. Vi è da sottolineare piuttosto come non sempre i notarii fossero dei tachigrafi, ma a volte dei semplici copisti. In questo caso però l’abbondanza della titolatura ci fa supporre che si tratti di un funzionario di massimo livello. 3. Il riferimento alla chiesa di Roma sembra da intendersi in senso stretto e non eventualmente alla comunità universale della Chiesa; esso risulta essere l’unico caso in Sardegna. Relativamente al nostro contesto sembra assolutamente da escludersi l’uso del termine rector in riferimento alla gerarchia ecclesiastica, poiché l’equivalenza rector=vescovo sembra essere, fino ad oggi, una prerogativa esclusiva di Damaso (cfr. ad es. Epigrammata damasiana 15, 2 e 44, 2) in questo senso sembra invece esprimersi in generale nel suo trattato di epigrafia cristiana F. Grossi Gondi. Da ultimo, nel commentare il nostro caso Marcella Bonello 3.1 Il patrimonio epigrafico 117 definisce la figura del rettore come un prete economo, sottintendendo una sua appartenenza alla gerarchia ecclesistica. In realtà, si veda come i notarii siano, così come risulta evidente da diversi studi condotti sull’argomento, dei laici come del resto i rectores, che, giunti al massimo grado della carriera, svolgevano per conto del papa importanti cariche amministrative. 6. Da notare la E di pace aggiunta forse in un secondo momento dopo l’incisione della preposizione sub. Datazione: V-VI sec. Foto archivio Dip. Scienze Archeologiche - Univ. di Cagliari

CAR067. Iscrizione di Redemta, abbatissa

Lastra marmorea mutila, rinvenuta tra le vie Ozieri, Macomer e Tempio. Scheggiature in più punti. Il testo è preceduto da una croce rozzamente incisa ed è concluso da una croce latina con le lettere apocalittiche e da un grappolo d’uva con relativi pampini. I caratteri sono molto rozzi: alla l. 1 si noti ad esempio in HIC una C molto ‘schiacciata’ in senso verticale; generalmente tutte le consonanti con gli occhielli risultano molto ampie e nel caso della B (cfr. ll. 1-2) quasi identiche alle D. Alla l. 3, nella cifra, una L quasi corsiva ed alla l. 4 una D onciale. Il testo è scandito da grandi e poco accentuate interpunzioni ad ‘esse’. Sopralineature in alcune abbreviazioni. Dimensioni: cm 26,5x38x4; lett. cm 4. Collezione privata, Cagliari.

(croce) Hic iacet Redemta b(onae) m(emoriae) [- - -] abb(atissa) monast(erii) s(an)c(t)i Laure[nti quae vi]= xit annis plus min(us) LX req[uievit] in pace sud d(ie) pr(i)d(ie) kalend(as) I[anu]= arias ind(ictione) XII. (croce con lettere apocalittiche) (grappolo d’uva con pampini)

1. Redemta è forma volgare ugualmente attestata per Redempta, un nome che assume in età cristiana significati relativi ad aspetti di fede. Non infrequente la posposizione della formula di dedica al nome. 2. La nostra era superiora di un monastero dedicato a S. Lorenzo, che dobbiamo supporre a Cagliari. Si tratta dell’unica attestazione epigrafica di tal genere per quanto riguarda la Sardegna. Si ricordi che nell’orbis esse sono comunque pochissime e tutte a partire dal VI sec. d. C. in località particolarmente importanti come Roma, 118 I materiali e le produzioni artistiche

Figura 3.6: Cagliari. Iscrizione di Redemta abbatissa.

Narbona, Salona; essa troverebbe riscontro in un’analoga notizia, nota per via manoscritta (cfr. Greg. Mag. ep. IX 198), relativa a Turris Libisonis circa due consorelle. Datazione: VI sec. Foto archivio Dip. di Storia – Univ. Sassari

NOR002. Iscrizione di Lucifer

Lastra marmorea rinvenuta a Pula e donata al Museo di Cagliari da A. La Marmora. Incisione molto rozza caratterizzata dai tratti orizzontali delle E molto corti. Ricognizione 1989. Dimensioni: cm 16x17x2; lett. cm 1,5. Museo Nazionale di Cagliari.

(croce monogrammatica) Lucifer (croce monogrammatica) die IIII kalen= das Decem= bres ques= cet in pace (croce monogrammatica). 3.1 Il patrimonio epigrafico 119

Figura 3.7: Cagliari. Iscrizione di Lucifer

Caratterizzata da ben tre croci monogrammatiche stellari, l’iscrizione di Lu- cifer richiama, suggestivamente, la temperie culturale delle grandi eresie, in cui la figura del vescovo cagliaritano Lucifero si distinse nella lotta contro l’aria- nesimo. Su questa base Letizia Pani Ermini propone una datazione al IV sec. inoltrato fermo restando che, si può aggiungere, il ribadire il simbolo per tre volte sembra richiamare la disputa collegata alle tematiche trinitarie di Nicea- Costantinopoli I (381) che piuttosto quelle successive collegate alla sola figura del Cristo. 5. Quescet per quiescit. Datazione: seconda metà del IV sec. Foto archivio Dip. Scienze Archeologiche - Univ. di Cagliari

SIN001. Iscrizione imprecatoria

Lastra marmorea proveniente dalla penisola del Sinis (loc. S. Iorgi; nei pressi della chiesa di S. Giorgio). Caratteri molto elaborati con grazie accentuate. Par- ticolare la D (es. l. 3), le P presentano un occhiello in posizione centrale mentre le L hanno il braccio obliquo e con l’attaccatura molto alta. Z corsiva nell’ultima 120 I materiali e le produzioni artistiche

Figura 3.8: Cagliari. Iscrizione di Giezi riga. Nesso NN alla l. 2. Ricognizione 1999. Dimensioni: cm 18,7x18,8x2,5; lett. cm 2,2. Antiquarium Arborense.

------[- - - vixit plus minu]s ann(os) III, q[uiev]= [it se]cur(us), ind(ictione) III. Si [quis] (h)anc sepultu[ram] ebertere bolu[erit] (h)abeat parte(m) c(um) Iuda et lebra[m] G(i)ezi (croce.)

Iscrizione imprecatoria che minaccia per l’anima dell’eventuale violatore la sorte di Giuda e per il suo corpo la malattia di Giezi, servo di Eliseo 1-2. Di difficile lettura per il primo editore la sequenza di caratteri residua Q[- - -]+VR laddove ci si aspetterebbe l’indicazione del giorno di depositio o, alla peggio, i mesi ed i giorni vissuti. Raimondo Zucca propone [F](e)vr(uarias) ma tale inte- grazione, di per sé ragionevole, è messa in dubbio dalla traccia residua del primo 3.2 I reperti scultorei 121 carattere (un occhiello). Trattandosi di un bambino e rifacendoci a formulari consolidati sia in ambito pagano che cristiano possiamo integrare con maggiore verosimiglianza q[uievit se]cur(us). La clausola finale hic requiescit securus è ad esempio citata in AE 1977, 264 proveniente da Faventia; si segnala inoltre, in una iscrizione metrica (ICVR 17192) proveniente da Roma (Catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro) la formula recessit in pace securus. 4 e 6. La caduta della lettera h, non infrequente ma al tempo stesso non usuale, ci porta in un contesto linguisticamente tardo; normale il betacismo di ebertere/evertere, bo- lu[erit]/volu[erit]. 6-7. La formula imprecatoria che minaccia la morte di Giuda è tra le più usate sia in ambito orientale che in ambito occidentale, dove questa locuzione appare intorno al IV sec. per affermarsi nel VI. Raimondo Zucca sug- gerisce di porre in relazione l’introduzione in Sardegna di queste formule con il dominio bizantino. Datazione: VI-VII sec. Foto da Zucca 1990

3.2 I reperti scultorei

L’Isola è stata finora tutto sommato avara di sculture, almeno rispetto ad altre aree, e ciò, oltre all’intrinseca occasionalità dei ritrovamenti archeologici dovuti ai capricci del caso, può essere imputato anche ad un duplice motivo: l’alto costo di realizzazione di questo tipo di manufatti che ne ha limitato l’im- portazione e la mancanza nel territorio di cave di pietra idonee alla lavorazione. Non a caso i materiali più importanti e più belli sono di provenienza esterna all’Isola e fatto non secondario, utilizzati nei centri più ricchi e in rapporto più diretto con la penisola italica (Turris Libisonis, Olbia e Carales). Alla luce di questa considerazione dobbiamo trarre una conclusione importantissima ai fini di una lettura in chiave storica dei dati, e cioè che è fondamentale stabilire se il manufatto studiato sia di provenienza allogena o prodotto in loco. Questa considerazione deve ovviamente essere estesa a tutte le altre classi di materiali. Così come avviene per i reperti epigrafici, riconoscibili come cristiani dalla let- tura del testo e/o eventualmente dall’analisi dei simboli proposti a corredo, così possiamo, effettuando una lettura iconografica e iconologica dei rilievi, stabili- re se si sia in presenza di un manufatto cristiano o no. Se ad esempio su una lastra troviamo scolpita in bassorilievo una immagine relativa ad un miracolo del Nuovo Testamento, il dubbio non sussiste in quanto ad es. la scena della