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Peri ha trentacinque anni, tre figli, un marito e una vita agiata nella città dov’è nata, . Si sta recando a una cena lussuosa quando le viene rubata la borsa. Lei reagisce, i ladri scappano e dalla borsa cade una vecchia polaroid in cui compaiono quattro volti: un uomo e tre giovani ragazze a Oxford. Una è Shirin, bellissima iraniana, atea e volitiva; la seconda è Mona, americana di origini egiziane, osservante, fondatrice di un gruppo di musulmane femministe e poi Peri, cresciuta osservando il laico secolarismo del padre e la devota religiosità islamica della madre, incapace di prendere posizione sia nella disputa famigliare sia nel suo stesso conflitto interiore. Tre ragazze, tre amiche con un retroterra musulmano, eppure così diverse: la Peccatrice, la Credente e la Dubbiosa. L’uomo nella foto invece è Azur, docente di filosofia ribelle e anticonformista, e sostenitore del dubbio come metodo di comprensione della realtà. A Oxford la giovane Peri cercava la sua «terza via», la stessa che predicava e professava Azur, di cui si innamora. Sarà questo incontro a sconvolgerle la vita, fino allo scandalo che la riporterà in Turchia. Tre figlie di Eva è un romanzo intenso e ambizioso che affronta e indaga temi importanti come la spiritualità, la politica, l’amicizia, i sogni infranti e la condizione della donna. Ma soprattutto è un romanzo sulla Turchia contemporanea, su quei contrasti che agitano oggi il paese – nelle parole di Elif Shafak – «delle potenzialità inespresse». ELIF SHAFAK è considerata una delle voci più importanti della narrativa turca. Nel catalogo BUR e Rizzoli sono disponibili La bastarda di Istanbul (2007), Il palazzo delle pulci (2008), Le quaranta porte (2009), Latte nero (2010), La casa dei quattro venti (2012) e La città ai confini del cielo (2014). Vive a Londra. la Scala Elif Shafak Tre figlie di Eva

Traduzione di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani Proprietà letteraria riservata © 2016 Elif Shafak The moral right of the author has been asserted © 2016 Rizzoli Libri SpA / Rizzoli, Milano

eISBN 978-88-58-68641-6

Titolo originale dell’opera: Three Daughters of Eve

Prima edizione: novembre 2016

Per le citazioni all’interno del libro: p. 7 © Rainer Maria Rilke, Poesie I (1895-1908), traduzione di Cesare Lievi, Biblioteca della Pléiade, Einaudi- Gallimard, Torino 1994; © , Love Poems from God, edited by Daniel Ladinsky, Penguin Compass, New York 2002; p. 219 © Lord Giorgio Byron, Opere complete. Volume Quinto: Componimenti vari, traduzione di Carlo Rusconi, UTET, Torino 1922; © Thomas Stearn Eliot, Opere 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano 1992; p. 220 © Daniel Ladinsky, The Gift. Poems by Hafiz the Great Sufi Master, edited by Daniel Ladinsky, Penguin Compass, New York 1999; p. 233 © Edward FitzGerald, The Rubaiyat of Omar Khayyam, Routledge and Sons, Londra 1905.

Realizzazione editoriale: NetPhilo, Milano

The cover design was first used by Doğan Kitap in the Turkish edition.

www.rizzoli.eu

In copertina: Illustrazione © Jack Hughes at YCN Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Luigi Altomare / theWorldofDOT

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Tre figlie di Eva

Che farai, Dio, se muoio? Sono la tua brocca (e se mi spacco?). Sono la tua acqua (e se m’appesto?). Io sono la tua veste, il tuo strumento senza di me non hai alcun senso. Rainer Maria Rilke

Verresti, se ti chiamassero col nome sbagliato? Io ho pianto, perché per anni Lui non è venuto fra le mie braccia; poi, una notte, mi hanno detto un segreto; forse il nome con cui chiami Dio non è veramente il Suo, ma solo uno pseudonimo. Attribuito a Rabi‘a, prima santa Sufi, secolo VIII, Iraq Prima parte

La borsetta

Istanbul, 2016

Fu in una normale giornata di primavera a Istanbul, un lungo e plumbeo pomeriggio come tanti altri, che Peri scoprì, con un senso di vuoto allo stomaco, di essere in grado di uccidere. Aveva sempre sospettato che persino le donne più tranquille e amabili, in una situazione di tensione, fossero capaci di scoppi di violenza; visto poi che lei non si riteneva né tranquilla né amabile, le era chiaro che le sue potenzialità di perdere il controllo erano ben maggiori. Ma «potenzialità» era una parola infida: una volta dicevano tutti che la Turchia aveva grandi potenzialità, e guarda com’era andata a finire. Perciò si era convinta che anche le sue oscure potenzialità, in definitiva, non avrebbero portato a nulla. Per fortuna il Fato – la tavoletta ben conservata su cui era inciso tutto ciò che è accaduto e che accadrà – le aveva quasi del tutto risparmiato le cattive azioni. Fino ad allora aveva condotto una vita corretta e non aveva fatto alcun male ai suoi simili, o almeno non di proposito, o almeno non di recente, a parte qualche occasionale pettegolezzo o calunnietta, che non dovrebbero contare veramente. Del resto lo fanno tutti, e se davvero fosse chissà quale peccato, allora le profondità dell’inferno sarebbero piene fino a traboccare. Se proprio aveva fatto soffrire qualcuno, questi era Dio, ma a Dio, per quanto sia facile a dispiacersi e notoriamente volubile, è impossibile far del male. Fare del male e farsi fare del male è una caratteristica umana. A quel che risultava ad amici e parenti, Nazperi Nalbantoğlu – o Peri, come la chiamavano tutti – era una persona buona: sosteneva enti caritatevoli, si impegnava per il morbo di Alzheimer e raccoglieva fondi per le famiglie bisognose; faceva volontariato negli ospizi, dove partecipava a tornei di backgammon perdendo a bella posta; girava con buste della spesa cariche di cibo per i numerosi gatti randagi di Istanbul e ogni tanto li faceva sterilizzare a proprie spese; era sempre aggiornata sui risultati scolastici dei figli; organizzava cene eleganti per il capo e i colleghi del marito; digiunava il primo e l’ultimo giorno del Ramadan, anche se tendeva a saltare quelli in mezzo; sacrificava per Id al-adha una pecora tinta con l’henné. Non buttava mai cartacce per terra, non passava avanti in fila al supermercato, non alzava mai la voce, neppure quando veniva trattata con palese scortesia. Una brava moglie, una brava madre, una brava massaia, una brava cittadina, una brava musulmana moderna, ecco cos’era. Il tempo è un abile sarto e aveva cucito insieme alla perfezione i due tessuti che rivestivano la sua vita: ciò che gli altri pensavano di Peri, e ciò che ne pensava lei. La sua percezione di sé e l’impressione che dava all’esterno formavano un tutt’uno, talmente collaudato che neppure Peri avrebbe più saputo dire quanta parte della giornata era definita da quel che ci si aspettava da lei e quanta da quello che lei veramente voleva. Spesso provava l’impulso di afferrare un secchio d’acqua saponata e lavare le strade, le piazze, il governo, il parlamento, la burocrazia e, già che c’era, sciacquare anche qualche bocca troppo sporca. C’era tanta sozzeria da ripulire, tanti pezzi rotti da aggiustare, tanti errori da correggere. Ogni mattina, quando usciva di casa, faceva un breve sospiro, come se con un fiato potesse far sparire i rimasugli del giorno prima; pur mettendo immancabilmente in discussione il mondo intero e non essendo certo il tipo che teneva la bocca chiusa di fronte alle ingiustizie, da qualche anno Peri aveva deciso di accontentarsi di quello che aveva. Perciò rimase sorpresa quando, in un giorno normalissimo di primavera, all’età di trentacinque anni, sistemata e rispettata, si ritrovò a fissare il vuoto che aveva nell’anima. Era stata tutta colpa del traffico, avrebbe detto a se stessa in seguito per rassicurarsi. Ruggente, rombante, metallo contro metallo a sferragliare come l’urlo di battaglia di un esercito di migliaia di guerrieri. La città era tutta un unico, gigantesco cantiere: Istanbul era cresciuta in maniera incontrollabile e continuava ad allargarsi, come un pesce rosso che non si rende conto di essersi ingozzato più di quanto possa digerire e continua ugualmente a cercare da mangiare. Ripensando a quel pomeriggio fatale, Peri avrebbe concluso che, non fosse stato per l’ingorgo senza speranza, mai si sarebbe messa in moto la catena di eventi che finì col risvegliare una parte della sua memoria ormai sopita da tempo. Eccoli lì, tutti ad avanzare un millimetro per volta su una strada a due corsie mezza ostruita da un camion ribaltato, intrappolati fra veicoli di tutte le dimensioni. Peri tamburellava le dita sul volante e cambiava stazione radio ogni due minuti, mentre la figlia, con le cuffiette nelle orecchie, le sedeva accanto con un’espressione annoiata. Come una bacchetta magica finita nelle mani sbagliate, il traffico trasformava i minuti in ore, gli esseri umani in bruti e qualsiasi traccia di salute mentale in pura pazzia. Istanbul sembrava non farci caso; di tempo, bruti e pazzi ne aveva in abbondanza. Un’ora più o una meno, un bruto in più o un pazzo in meno... superato un certo limite, che differenza fa? La follia correva per le strade della città come una droga inebriante nelle vene. Ogni giorno milioni di abitanti di Istanbul si facevano una nuova dose, senza rendersi conto di essere sempre più squilibrati. Persone che non avrebbero mai condiviso il proprio pane erano invece pronte a condividere la propria follia. C’è qualcosa di imperscrutabile in questa perdita collettiva della ragione: se un numero sufficiente di occhi osserva la stessa allucinazione, questa si trasforma in realtà; se un numero sufficiente di persone ride della stessa miseria, questa si trasforma in una barzelletta di cui sghignazzare tutti insieme. «Oh, insomma, piantala di tormentarti le unghie!» sbottò all’improvviso Peri. «Quante volte te lo devo dire?» Lentamente, lentissimamente, Deniz si tolse le cuffie e se le appese al collo. «Sono le mie unghie» disse, poi prese un sorso dal bicchierone di carta posato tra lei e la madre. Prima di mettersi in macchina si erano fermate in uno Starbörek – una catena di caffetterie turca ripetutamente querelata da Starbucks perché usava lo stesso logo, lo stesso menu e una versione vagamente distorta del nome, ma che era ancora in attività grazie a una serie di cavilli legali – a prendere un caffellatte scremato per Peri e un doppio frappuccino alla panna con scaglie di cioccolato per sua figlia. Peri il caffellatte l’aveva terminato, mentre Deniz sorseggiava all’infinito, cauta come un uccellino ferito. Fuori il sole si liquefaceva nell’orizzonte, con gli ultimi raggi che coloravano della stessa sfumatura spenta di ruggine i tetti delle baracche, le cupole delle moschee e le finestre dei grattacieli. «E questa è la mia macchina!» rispose Peri tra i denti. «Me la riempi di pellicine.» Appena le furono uscite di bocca, si pentì di quelle parole. È la mia macchina! Che cosa orribile da dire a una ragazzina, ma anche a un adulto, se è per questo. Era diventata una di quelle stupide materialiste che individuano chi sono e dove sono solo in ciò che possiedono? Sperava proprio di no. Deniz però non sembrava essersela presa: si limitò ad alzare le spalle ossute, a buttare uno sguardo fuori dal finestrino e ad accanirsi sulla cuticola successiva. L’auto scattò avanti, per rifermarsi subito dopo in uno stridore di pneumatici. Era una Range Rover di una tonalità denominata «azzurro Montecarlo», secondo il catalogo del concessionario che prevedeva varie altre opzioni: «bianco Davos», «rosso drago orientale», «rosa deserto saudita», «blu lucido polizia del Ghana» o «verde opaco esercito indonesiano». Peri tentò di immaginare, scuotendo il capo con un’espressione perplessa, i volti di questi frivoli esperti di marketing impegnati a inventare certi nomi, e si chiese se gli automobilisti fossero consapevoli che le vetture appariscenti ed eleganti che ostentavano venivano associate con corpi di polizia, eserciti, o tempeste di sabbia nella penisola arabica. Colori a parte, Istanbul brulicava di auto di lusso, in gran parte all’apparenza fuori posto, come cani di razza e con tanto di pedigree che, destinati a una vita di agi e comodità, avessero chissà come perso la strada per ritrovarsi smarriti nei boschi. Decapottabili da corsa che ruggivano per la frustrazione di non avere un rettilineo abbastanza lungo e sgombro dove prendere velocità, fuoristrada che neppure con la manovra più abile avrebbero potuto infilarsi in parcheggi ridottissimi – se mai li avessero trovati – e costose berline pensate per viali e arterie spaziose che esistevano solo in Paesi lontani e spot televisivi. «Leggevo che è uno dei peggiori al mondo» disse Peri. «Cosa?» «Il traffico. Siamo al primo posto, peggio che al Cairo, pensa. Persino peggio che a Delhi!» Non che fosse mai stata al Cairo o a Delhi, ma come molti abitanti di Istanbul Peri era certa che la sua città fosse ben più civilizzata di quelle località remote, rozze, intasate; anche se «remoto» è un concetto relativo, e «rozzo» e «intasato» sono aggettivi spesso associati a Istanbul. Comunque, la sua era una città al confine con l’Europa, e questa vicinanza doveva pur significare qualcosa; anzi, era così sbalorditiva che la Turchia ci aveva messo un piede, nella soglia dell’Europa, e si era fatta avanti con tutto il suo impegno... solo per scoprire uno spiraglio così stretto che, per quanto si dimenasse e spingesse, non era riuscita a infilarcisi. E il fatto che nel frattempo l’Europa la stesse richiudendo, quella porta, non era stato certo d’aiuto. «Fico!» disse Deniz. «Fico?» ripeté Peri incredula. «Certo, almeno siamo primi in qualcosa.» Ecco il problema con sua figlia: ultimamente, qualunque opinione Peri esprimesse, su qualunque argomento, Deniz abbracciava la posizione opposta. Qualunque commento formulasse, per quanto logico e appropriato, sua figlia lo accoglieva con un’ostilità che rasentava il disprezzo. Peri sapeva bene che Deniz, raggiunta la delicata età di dodici anni e mezzo, doveva liberarsi dall’influenza dei genitori – e in particolare della mater familias –; lo sapeva eccome, ma quello che non comprendeva era il furore che ci metteva. La ragazza ribolliva di una rabbia che Peri non aveva mai provato in nessuna fase della sua vita, neppure nell’adolescenza. Anzi, lei aveva veleggiato per la pubertà con un senso di confusione innocente, quasi di ingenuità. Che teenager diversa era stata rispetto a Deniz, benché sua madre non fosse neanche minimamente aperta e premurosa quanto lei adesso. Per qualche contorto meccanismo, più Peri soffriva per gli scatti improvvisi di sua figlia, più si accaniva con se stessa per non essersi arrabbiata a sufficienza con sua madre in passato. «Quando avrai la mia età, avrai perso anche tu la pazienza con questa città» mormorò Peri. «Quando avrai la mia età...» le fece il verso Deniz, acida. «Una volta non le dicevi, queste cose.» «È perché peggiora tutto!» «No, mamma, è perché tu ti comporti da vecchia» replicò Deniz. «Ascolta come parli... e guarda come ti conci!» «Che c’è che non va in come mi vesto?» Silenzio. Peri lanciò un’occhiata all’abitino di seta viola e alla giacca di chiffon con ricami di perline che indossava quel giorno. Un completo preso in un negozio di un centro commerciale aperto da poco all’interno di un centro commerciale ancora più grande – quasi che il secondo avesse appena partorito il primo. Quando Peri aveva obiettato sul prezzo, la commessa non aveva aperto bocca, ma solo incurvato appena le labbra in un microscopico sorriso che diceva: “Se non se lo può permettere, signora cara, che ci fa qui?”. Quell’atteggiamento di superiorità l’aveva infastidita, e Peri si era sentita rispondere pronta: «Lo prendo». Adesso avvertiva che la stoffa era troppo tirata sulla pelle, vedeva che il colore non andava; quel viola, che sotto i neon del negozio le era parso così spavaldo e sicuro di sé, alla luce del giorno le appariva sgargiante e pretenzioso. Tutti pensieri inutili, dato che non aveva tempo per passare da casa a cambiarsi. Erano già in ritardo per una cena nella villa al mare di un uomo d’affari, uno che negli ultimi anni aveva accumulato una fortuna colossale. Non che fosse una cosa insolita: Istanbul abbondava di vecchi poveri, di nuovi ricchi, e di quelli che puntavano solo a balzare con un salto deciso dalla prima alla seconda categoria. A Peri non piacevano queste occasioni a metà tra cena e festa, duravano fino a tarda notte e il giorno successivo spesso si svegliava con il mal di testa. Avrebbe preferito starsene a casa e, alle ore piccole, trovarsi immersa in un romanzo: leggere era il suo modo per rimanere connessa con l’universo. Ma la solitudine è un privilegio raro, a Istanbul. C’è sempre qualche evento importante a cui partecipare o un urgente obbligo sociale cui adempiere, quasi che la cultura, come un bambino che ha paura a restare solo, volesse imporre a tutti di stare sempre in compagnia. Quante risate, quanto cibo; politica e sigari, scarpe e vestiti, ma più di ogni altra cosa, borsette firmate: le donne le sfoggiavano come trofei di remote battaglie lontane, e va’ a sapere quali erano originali e quali fasulle. Le signore della media e alta borghesia di Istanbul, per non farsi beccare nell’atto di comprare merci contraffatte, anziché frequentare i negozi di dubbia onestà del Gran Bazar e dintorni, invitavano direttamente i commercianti a casa propria. Furgoni pieni di Chanel, Louis Vuitton e Bottega Veneta, con i vetri oscurati e le targhe illeggibili per il fango (sebbene il resto del veicolo fosse immacolato), sfrecciavano per i quartieri più facoltosi e venivano ammessi nei garage privati delle ville passando per i cancelli sul retro, manco fossero dentro un film di spionaggio. Si pagava in contanti, niente scontrini, niente ulteriori domande. Alla successiva occasione mondana le stesse signore svolgevano vicendevoli e furtive indagini sulle rispettive borsette, non solo per identificarne la griffe, ma anche per giudicare l’autenticità – o la qualità della copia. Era una gran fatica. Una fatica per gli occhi. Le signore scrutavano. Esaminavano, vagliavano, cercavano, davano la caccia ai difetti delle altre donne, quelli palesi e quelli dissimulati. Manicure da rifare, qualche chiletto messo su di recente, pancetta di troppo, labbra al botulino, vene varicose, cellulite ancora visibile malgrado la liposuzione, ricrescite bisognose di tinta, un foruncolo o una ruga nascosti sotto strati di cipria... Non c’era nulla che quegli sguardi penetranti non riuscissero a individuare e decifrare. Per quanto spensierate fossero prima di arrivare al ricevimento, troppe invitate diventavano, di volta in volta, vittime e carnefici insieme. Più Peri pensava alla serata imminente e più quella prospettiva la spaventava. «Devo sgranchirmi le gambe» fece Deniz saltando fuori dalla macchina. Peri si accese immediatamente una sigaretta. Era riuscita a non fumare per oltre dieci anni, ma di recente ci era ricascata. Si portava appresso un pacchetto di sigarette e ogni tanto ne accendeva una, pur accontentandosi di qualche tiro e senza fumarle mai fino in fondo; ogni volta buttava via il lungo mozzicone con un senso di colpa e quasi di disgusto. Poi si metteva in bocca una gomma alla menta, benché non le piacesse il sapore, per mascherare l’odore. Sospettava da sempre che se i gusti delle gomme fossero regimi politici, la menta piperita sarebbe il fascismo: inflessibile, sterile, totalitaria. «Mamma, qua non si respira» fece Deniz risalendo in auto. «Non lo sai che fa malissimo?» Deniz aveva l’età in cui i ragazzini trattano i fumatori come vampiri a piede libero. A scuola aveva fatto una ricerca-poster sugli effetti nocivi del fumo, con tanto di frecce fluorescenti che andavano da un pacchetto appena aperto a una tomba scavata di fresco. «Va bene, va bene» disse Peri, con un gesto della mano come a minimizzare. «Se fossi io il presidente, i genitori che fumano vicino ai figli li manderei in galera. Dico sul serio!» «Be’, meno male che non sei candidata» ribatté Peri schiacciando il pulsante per abbassare il finestrino. Il fumo uscì in un vortice e poi, con un moto lento, inaspettato, entrò nel finestrino aperto della macchina accanto. Ecco una cosa di cui, in quella città, non ci si liberava mai: la prossimità. Tutto era adiacente a tutto. I pedoni andavano per la propria strada come un unico organismo; i passeggeri sedevano ammassati sui traghetti o stavano fianco a fianco su autobus e metropolitane; i corpi collidevano, si urtavano e coesistevano privi di gravità, come pappi di soffione trasportati dal vento. Nell’automobile vicina c’erano due uomini. Entrambi le rivolsero un ghigno e Peri, rammentando che il Manuale teorico-pratico del patriarcato definiva l’atto di soffiare fumo in faccia a un maschio sconosciuto, da parte di una donna, come un palese invito sessuale, impallidì. Per quanto a volte fosse facile dimenticarlo, la città era un mare in tempesta affollato di iceberg di mascolinità alla deriva, dai quali era meglio tenersi alla larga con astuzia e circospezione, perché non si sapeva mai quale reale pericolo si nascondesse sotto la superficie. Che andasse a piedi o in macchina, una donna faceva sempre bene a tenere lo sguardo sfocato e rivolto verso l’interno, come se scrutasse ricordi lontani. In ogni occasione possibile doveva abbassare la testa, a esibire un chiaro messaggio di modestia, il che non era facile perché i pericoli della vita urbana, per non parlare delle attenzioni maschili indesiderate e delle molestie sessuali, richiedevano un’attenzione costante. Come si potesse pretendere che una donna tenesse la testa bassa e contemporaneamente gli occhi ben aperti in tutte le direzioni, per Peri era un mistero. Gettò la sigaretta e richiuse il finestrino, sperando che i due sconosciuti smettessero di interessarsi a lei. Scattò il verde al semaforo, ma non faceva nessuna differenza. Era tutto bloccato. Fu allora che notò un barbone che camminava in mezzo alla strada. Alto e dinoccolato, con un viso spigoloso, esile come un sospiro, la fronte ben più rugosa della sua età, il mento coperto di bolle e le mani chiazzate dalle piaghe purulente di un eczema. Uno fra i milioni di rifugiati siriani che erano scappati dall’unica vita che conoscevano, pensò sulle prime – ma poteva benissimo trattarsi di un turco di lì, o di un curdo, o di uno zingaro, o forse un po’ di tutto questo. Quante persone, in quella terra di migrazioni e trasformazioni senza fine, potevano affermare con certezza di appartenere a un’etnia pura, se non al costo di mentire a se stessi e ai propri figli? Ma, ancora una volta, non era certo di inganni che Istanbul sentiva la mancanza. L’uomo aveva i piedi impiastricciati di fango secco e indossava un cappotto logoro con il bavero rialzato, così lurido da sembrare nero. Aveva recuperato il mozzicone macchiato di rossetto di Peri e si era messo a fumarlo con nonchalance. Lo sguardo di lei passò dalla bocca agli occhi, e fu una sorpresa accorgersi che il barbone la stava fissando con un’espressione divertita. C’era un che di spavaldo nel suo atteggiamento, un’aria quasi di sfida, come se non fosse un clochard ma un attore calato in quella parte che, compiaciuto della propria performance, attende l’applauso. Adesso Peri aveva tre uomini da evitare, i due in macchina e il barbone, quindi si voltò di scatto senza pensare al bicchiere. Il frappuccino si ribaltò e le si rovesciò sulle gambe. «Aaah, no!» gridò, guardando orripilata la macchia scura allargarsi sull’abito costoso. Deniz reagì con un fischio, chiaramente divertita dal disastro. «Puoi dire che è un pezzo unico di qualche stilista matto.» Ignorando il commento e maledicendosi, Peri afferrò alla cieca la borsa – una Birkin di struzzo color lavanda, perfetta in ogni particolare se non per l’accento sbagliato sulla parola «Hermès», dato che i falsari turchi sanno riprodurre tutto tranne l’ortografia – che teneva tra le gambe. Tirò fuori un pacchetto di fazzolettini, benché sapesse, o lo sapesse un angolino del suo cervello, che quella mossa avrebbe solo peggiorato le cose. E in quel momento di distrazione, commise un errore che nessun esperto automobilista di Istanbul commetterebbe mai: buttò la borsetta sul sedile posteriore, e senza aver messo la sicura alle portiere. Con la coda dell’occhio notò un rifrullo: una piccola mendicante, non più che dodicenne, veniva verso di loro implorando una moneta. Gli abiti svolazzavano attorno alla figura esile, la mano era tesa in avanti mentre lei camminava con il corpo immobile dalla vita in su, come se stesse guadando un torrente; si fermava una decina di secondi davanti a ogni macchina e poi passava alla successiva. Forse, pensò Peri, era arrivata alla conclusione che se non ispirava pietà in quel breve intervallo di tempo, poi non ci sarebbe più riuscita. La compassione non è mai un ripensamento: o è spontanea, o è del tutto assente. Quando la ragazzina raggiunse la Range Rover, sia Peri sia Deniz volsero automaticamente lo sguardo nella direzione opposta, fingendo di non averla vista. Ma i mendicanti di Istanbul erano abituati a essere invisibili e non mancavano di preparazione: nel punto preciso verso cui madre e figlia avevano girato lo sguardo c’era un’altra ragazzina, più o meno della stessa età, in attesa con la mano aperta. Con gran sollievo di Peri scattò di nuovo il verde, il traffico schizzò in avanti come acqua da una manichetta da giardino e in quel momento, mentre stava per premere il piede sull’acceleratore, sentì lo sportello posteriore aprirsi e chiudersi, rapido come lo scatto di un coltello a serramanico. Poi vide nello specchietto la borsa che veniva tirata fuori dalla macchina. «Al ladro!» gridò Peri, la voce rotta dallo sforzo. «Aiuto, mi hanno rubato la borsa. Al ladro!» Le macchine incolonnate, ignare dell’accaduto e impazienti di muoversi, suonavano istericamente. Era ovvio che non l’avrebbe aiutata nessuno. Peri esitò, ma solo per un attimo, quindi accostò al marciapiede con una manovra agile del volante e attivò le quattro frecce. «Mamma, che fai?» Peri non rispose, non c’era tempo. Aveva visto che direzione avevano preso le ragazzine e sentiva di doverle inseguire subito; qualcosa dentro di lei – un istinto animale, per quel che ne sapeva – la rendeva certa che se le avesse ritrovate avrebbe riavuto ciò che era suo di diritto. «Mamma, lascia perdere. È solo una borsa, e pure falsa!» «Ci sono i soldi e le carte di credito. E il cellulare!» Ma sua figlia era preoccupata, anzi, imbarazzata. A Deniz non piaceva attirare l’attenzione: voleva solo confondersi con il resto, una goccia grigia in un mare grigio. Sembrava che tutto il suo spirito ribelle fosse riservato alla madre. «Rimani qui, chiuditi dentro, aspettami» le disse Peri. «Per una volta, fa’ come ti dico. Per piacere!» «Ma mamma...» Senza pensare, senza pensare a niente, Peri scattò fuori dall’auto, dimenticando per un attimo che portava i tacchi alti. Si tolse le scarpe e cominciò a colpire con forza l’asfalto con i piedi nudi. Da dentro la macchina la figlia la fissava a bocca aperta, gli occhi sgranati per lo stupore e la mortificazione. Peri correva. Vestita di viola, appesantita dagli anni, con le guance in fiamme, moglie-casalinga-madre di tre figli, davanti a decine di occhi, era dolorosamente conscia del seno sballottato freneticamente senza che lei potesse farci nulla. Eppure, assaporando uno strano senso di libertà, sconfinando in una zona proibita a cui non avrebbe saputo dare nome, si lanciò per la strada verso le vie interne mentre gli automobilisti ridevano e i gabbiani le volteggiavano sopra la testa. Se avesse esitato, se avesse rallentato anche solo per un secondo, sarebbe inorridita per quello che stava facendo; la possibilità di pestare un chiodo arrugginito, cocci di una bottiglia di birra o piscio di topo l’avrebbe terrorizzata. E invece non arrestava la sua corsa. Le gambe, quasi da sole, come dotate di una memoria indipendente, continuavano ad accelerare sempre di più, ricordando i giorni, tanto tempo prima a Oxford, in cui Peri correva ogni giorno, con il sole o con la pioggia, per cinque o sei chilometri. Peri un tempo adorava correre. E come altre gioie della sua vita, anche questa non c’era più. Il poeta muto

Istanbul, anni Ottanta

Quando Peri era piccola i Nalbantoğlu abitavano in via del Poeta Muto, in un quartiere piccolo-borghese sulla sponda asiatica di Istanbul. Al finire del giorno, dalle finestre aperte arrivava un miscuglio di aromi – melanzana fritta, caffè macinato, pane azzimo appena sfornato, aglio che soffriggeva – talmente forte da permeare ogni cosa e infiltrarsi fin nei canali di scolo e nei tombini; talmente acre da far subito cambiare direzione al vento mattutino. I residenti però non se ne lagnavano. Non lo notavano nemmeno più. Se ne accorgevano solo gli estranei, benché fossero pochissimi gli estranei che avevano un motivo per recarsi da quelle parti. Le case erano appoggiate alla rinfusa l’una sull’altra come lapidi in un cimitero trascurato. Il tedio aleggiava su ogni cosa, come una nebbia che si diradava solo ogni tanto quando gli strilli dei bambini, intenti a barare in qualche gioco, trafiggevano l’aria. Quanto all’origine del singolare nome di quella strada, le voci abbondavano. Secondo alcuni, un famoso poeta ottomano un tempo residente nel quartiere, insoddisfatto del magro obolo versatogli dopo che aveva inviato una poesia a palazzo, aveva giurato di non aprire più bocca finché il Sultano non lo avesse retribuito degnamente. «È certo che il Signore delle Terre di Cesare e di Alessandro Magno, il Sovrano di Tre Continenti e Cinque Mari, l’Ombra di Dio in Terra, vorrà compensare il suo umile suddito con infinita generosità. Ma se non lo facesse, prenderò il suo rifiuto come segno della mediocrità dei miei componimenti e tacerò fino al giorno della mia dipartita, perché un poeta morto è preferibile a un poeta fallito.» Queste le sue ultime parole, prima di farsi silenzioso come la neve di mezzanotte. Non per presunzione: il poeta riveriva, temeva e ossequiava ogni caratteristica che nella propria mente attribuiva a un sovrano. Tuttavia come artista non poteva fare a meno di bramare più attenzioni, più elogi, più affetto... e anche qualche altra moneta non gli sarebbe dispiaciuta. Quando l’episodio gli giunse all’orecchio, il Sultano, divertito da tanta impudenza, promise di porre rimedio. Come ogni despota, nutriva sentimenti contrastanti verso gli artisti: se da una parte ne disapprovava l’imprevedibilità e la sregolatezza, dall’altra traeva piacere dalla loro presenza, purché sapessero stare al loro posto. Gli artisti vedevano le cose in modo insolito, il che poteva essere dilettevole, a parte quando non lo era; e al Sultano piaceva tenerne qualcuno presso di sé a corte, sotto stretto controllo. Erano liberi di dire ciò che volevano, fintanto che non criticavano lo Stato e le sue leggi, la religione, l’Onnipotente e soprattutto lui, il sovrano. Destino volle che quella stessa settimana, a seguito di un complotto di serraglio per rovesciarlo e porre sul trono il suo primogenito, il Sultano venisse assassinato, e precisamente strangolato con una corda d’arco di seta, in modo da non versarne il nobile sangue. In morte così come in vita, gli ottomani apprezzavano che tutti rimanessero al proprio posto, che ogni cosa fosse regolata a puntino, senza ambiguità. Se i personaggi di sangue reale si strangolavano, i ladri si impiccavano, i ribelli si decapitavano, i banditi di strada s’impalavano e i dignitari locali si pestavano nel mortaio; le concubine si gettavano a mare in sacchi zavorrati; ogni settimana si metteva in mostra sulle forche davanti al palazzo una nuova serie di teste mozzate, le bocche riempite di cotone se si trattava di alti ufficiali, oppure di paglia se erano dei signori Nessuno. E proprio questo pensava di sé il poeta: vincolato dal proprio giuramento, rimase in silenzio fino al giorno in cui esalò l’ultimo respiro. Altri raccontavano una storia diversa: quando il poeta aveva chiesto di essere compensato con generosità, il Sultano, irritato da tanta sfrontatezza, aveva ordinato che la lingua gli fosse mozzata e poi tagliata a dadini, fritta e data in pasto ai gatti di sette quartieri diversi. Ma dopo aver sputato sentenze mordaci per anni, la lingua del poeta aveva preso un sapore pungente, pur essendo stata saltata in padella con grasso di coda di pecora e cipollotti freschi. I gatti pertanto batterono in ritirata. La moglie del poeta, testimone della scena da dietro una finestra a graticcio, di nascosto raccattò tutti i pezzi e li ricucì insieme. Fece a malapena in tempo a posare la propria creazione sul letto, prima di andare a cercare un chirurgo capace di ricollocare la lingua in bocca al marito, quando un gabbiano entrò in picchiata dalla finestra aperta e la portò via. C’era poco da meravigliarsi, data la fama di spazzini dei gabbiani di Istanbul, pronti a banchettare con qualunque cosa si pari loro davanti senza badare al sapore: uccelli capaci di beccar via e ingollare gli occhi di animali grossi il doppio di loro possono divorare di tutto. Perciò, il poeta rimase muto come una lampara; e fu invece un pennuto bianco, in volo circolare sopra la sua testa, a gracchiare a tutta la città le poesie che lui non poteva più declamare. Quale che fosse la verità dietro il suo nome, la strada in cui abitavano i Nalbantoğlu era una sonnolenta e pittoresca viuzza in cui le virtù predilette erano modellate sui tre stati della materia: obbedire ad Allah – e agli imam – con osservanza inflessibile, adesione incondizionata e saldezza costante (solido); accettare il Divino Fiume della Vita per quanto fango e detriti potesse trascinare con sé (liquido); e rinunciare all’ambizione, giacché qualunque trofeo e bene terreno sarebbe infine svanito nell’aria (gassoso). Nel quartiere si considerava preordinato ogni destino e inevitabile ogni sofferenza, comprese quelle che gli abitanti della via infliggevano gli uni agli altri, come per esempio fare a botte per il calcio, litigare per la politica e picchiare la moglie. La loro era una casa a due piani, colore delle ciliegie aspre. Nel corso degli anni era stata ridipinta in parecchie sfumature diverse: verde susine salate, marrone marmellata di noci, viola rape sottaceto. I Nalbantoğlu occupavano da affittuari il pianterreno; il padrone di casa viveva al primo piano. Benché la famiglia non fosse affatto facoltosa – la ricchezza è sempre relativa a parametri di luogo e tempo –, Peri non era cresciuta con alcun senso di privazione. Quello sarebbe arrivato più tardi; e come ogni cosa posticipata, con una forza tale da far credere che volesse recuperare il tempo perduto. Allora Peri avrebbe imparato a vedere le colpe del gruppo famigliare in cui un tempo si era sentita, da figlia, protetta e amatissima. Era l’ultima nata dei Nalbantoğlu, il suo concepimento una sorpresa assoluta poiché i genitori, che già avevano due maschi non lontani dai vent’anni, erano troppo vecchi per un altro bambino. Protetta, viziata, esaudita se non anticipata in ogni desiderio, Peri visse i suoi primi anni con la strada spianata, eppure sempre consapevole, malgrado questo, di un refolo di tensione dentro casa, che esplodeva come un violento fortunale quando capitava che la madre e il padre si trovassero nella stessa stanza. Erano più incompatibili di quanto non lo siano taverna e moschea. Il cipiglio che in ciascuno dei due aggrondava la fronte, la rigidità che pervadeva la voce, li dipingeva non come coppia innamorata ma come avversari in una partita a scacchi. Sulle caselle del matrimonio ciascuno spingeva in avanti, studiava la mossa successiva, mangiava torri, alfieri e regine con l’intento di infliggere la sconfitta definitiva. Ciascuna fazione vedeva nell’altra il tiranno di famiglia, l’intollerabile, e moriva dalla voglia di dichiarare, un giorno o l’altro: «Scacco matto, shah manad, il re è perduto». Quell’unione era così impregnata di rancore reciproco che a nessuno dei due serviva più un motivo per sentirsi offeso e inappagato, e fin dalla più tenera età Peri aveva intuito che non era l’amore, e forse non era mai stato, a tenere insieme i suoi genitori. La sera guardava il padre stravaccato a tavola con i piattini di meze disposti attorno a una bottiglia di raqı. Foglie di vite ripiene, purea di ceci, peperoni rossi arrostiti, carciofi sott’olio e poi il suo preferito, l’insalata di cervella d’agnello. Mensur mangiava adagio, saggiando ciascun piatto con la pignoleria dell’intenditore benché il cibo fosse servito al solo scopo di non bere a stomaco vuoto. «Non gioco d’azzardo, non rubo, non prendo bustarelle, non fumo e non corro dietro alle donne: Allah vorrà risparmiare a questa Sua vecchia creatura almeno il castigo per questo peccato» amava ripetere. Di norma consumava quelle lunghe cene in compagnia di un paio d’amici, tutti presi a blaterare di politica e politicanti, depressi per lo stato delle cose. Come la stragrande maggioranza della gente in quel Paese, meno le cose gli piacevano e più ne parlavano. «Se giri un po’ il mondo te ne accorgi, ognuno beve a modo suo» diceva Mensur che da giovane, quand’era macchinista sulle navi, un bel pezzo di mondo lo aveva visto. «In democrazia, quelli che si ubriacano cominciano a frignare: “Cos’è successo alla mia bella innamorata?”. Ma dove non c’è democrazia, quelli che si ubriacano cominciano a frignare: “Cos’è successo al mio bel Paese?”.» Ben presto le frasi mutavano in melodie e tutti si ritrovavano a cantare: allegri motivetti balcanici prima, canti rivoluzionari del mar Nero poi, e alla fine, inevitabilmente, ballate anatoliche di cuori infranti e amori malcorrisposti. Versi turchi, curdi, greci, armeni e giudeo-spagnoli si mescolavano nell’aria, come sottili volute di fumo. Seduta in un angolo per conto suo, Peri sentiva il cuore farsi pesante e si chiedeva per l’ennesima volta cosa amareggiasse così tanto suo padre. Immaginava un velo di tristezza appiccicato addosso a lui come catrame sotto una suola; non riusciva a rallegrarlo in alcun modo, ma nemmeno a smettere di provarci perché lei era, e chiunque in famiglia l’avrebbe confermato, la piccola del suo papà. Da dentro l’elaborata cornice alla parete li scrutava Atatürk, il padre dei turchi, gli occhi d’acciaio azzurro screziati d’oro. I ritratti dell’eroe nazionale erano ovunque: Atatürk in uniforme nella cucina, Atatürk in redingote nel salotto, Atatürk in cappotto e colbacco nella camera da letto grande, Atatürk in guanti di seta e cappa morbida nell’ingresso. In occasione di feste e commemorazioni nazionali Mensur appendeva una foto del grand’uomo, completa di bandiera turca, anche fuori dalla finestra, perché tutti la vedessero. «Ricordati, se non fosse stato per lui a quest’ora saremmo come l’Iran» ripeteva spesso alla figlia. «Dovrei farmi crescere la barba e distillarmi l’alcol da solo. Poi mi scoprirebbero e mi flagellerebbero sulla pubblica piazza. E tu, anima mia, dovresti portare il chador, già alla tua età!» Gli amici di Mensur – insegnanti, impiegati di banca, tecnici specializzati – erano ugualmente devoti ad Atatürk e ai suoi principi. Leggevano, declamavano e, se li coglieva l’ispirazione, scrivevano poesie patriottiche, molte delle quali erano così simili per ritmo e così ripetitive per contenuti da sembrare, anziché pezzi separati, echi della medesima chiamata. Ciò nonostante a Peri piaceva indugiare nel soggiorno ad ascoltare quelle chiacchiere bonarie, il timbro e la cadenza delle varie voci che salivano e scendevano via via che ciascun bicchiere veniva rabboccato fino all’orlo. Né loro erano infastiditi dalla sua presenza; semmai, l’interesse della ragazzina per le loro conversazioni pareva ringiovanirli, e riempirli di speranza nel futuro. Perciò Peri rimaneva nei pressi, a sorseggiare succo d’arancia dalla tazza preferita di suo padre, decorata da una parte con la firma di Atatürk e dall’altra con una citazione del padre della patria: Il mondo civile ci sta davanti, non abbiamo altra scelta che raggiungerlo. Peri adorava quella tazza di porcellana, la sua consistenza liscia contro il palmo, benché provasse un senso di rimpianto ogni volta che terminava la sua bevanda, come se così svanisse anche la possibilità di raggiungere il mondo civile. Per il resto faceva su e giù come uno yo-yo. Secchielli del ghiaccio da riempire, posacenere da svuotare, pane da tostare; c’era sempre un’incombenza da svolgere, soprattutto perché in quelle serate sua madre si assentava. Selma posava i piatti sul tavolo e immediatamente dopo, sospirando piano tra sé, si ritirava in camera e non ne usciva fino al mattino seguente; certe volte non si ripresentava fino a mezzogiorno, o anche più tardi. La parola «depressione» in casa non si era mai sentita; «mal di testa», si giustificava lei. Aveva sempre sofferto di emicranie che la lasciavano debilitata o a letto, con due fessure al posto degli occhi, quasi li tenesse socchiusi contro un eterno bagliore di sole. Quando il corpo è debole la mente si fa pura, affermava sua madre, talmente pura che lei vedeva presagi in qualunque cosa: un colombo che tubava fuori dalla sua finestra, una lampadina che si fulminava all’improvviso, una foglia che galleggiava nel tè. In clausura nella propria stanza, Selma stava distesa a letto e ascoltava ogni minimo suono. Non sentire era impossibile; i muri erano sottili come pasta sfoglia. Ma c’era un altro muro tra lei e Mensur, eretto decenni prima, e che anno dopo anno si faceva più alto. Qualche tempo prima Selma era entrata a far parte di una tariqa, un circolo sufi guidato da un predicatore famoso per l’eloquenza dei suoi sermoni e la rigidità delle sue idee. Lo chiamavano Üzümbaz Efendi, perché era nota la sua affermazione che ovunque avesse visto segni d’idolatria e d’eresia, li avrebbe schiacciati come si pestano gli acini d’uva sotto i piedi. Che il suo soprannome riportasse alla mente la preparazione del vino, un peccato non meno grave del consumo, non lo infastidiva minimamente. Né l’uva succosa né il vino in bottiglia attizzavano lontanamente il suo interesse quanto l’atto dello schiacciare in sé. Sotto l’influenza del predicatore Selma era cambiata molto. Adesso non solo evitava di stringere la mano a esponenti del sesso opposto, ma sull’autobus rifiutava di sedersi dove prima si era seduto un uomo, persino se lui le aveva di proposito lasciato il posto. E benché non portasse il niqab, come alcune sue care amiche, si copriva interamente il capo. Non approvava più la musica leggera, a suo avviso corrotta e corruttrice; e aveva bandito da casa ogni genere di dolciumi e spuntini, gelato, patatine e cioccolato – persino i prodotti marcati halal – da quando Üzümbaz Efendi le aveva detto che potevano contenere gelatina, la quale poteva contenere del collagene, il quale a sua volta poteva contenere del maiale. Aveva così tanta paura di venire a contatto con estratti suini che usava il sapone all’olio d’oliva al posto dello shampoo; il miswāk al posto del dentifricio; e al posto delle candele panetti di burro con dentro uno stoppino. Sospettando che per fabbricarle si fosse potuta usare colla proveniente da ossa di maiale, non indossava più scarpe di produzione straniera e invitava chiunque a fare altrettanto. L’opzione più sicura erano i sandali. Per anni, dietro raccomandazione della madre, Peri era andata a scuola in sandali di cuoio di cammello e calzini di lana di capra, tra le costanti prese in giro dei compagni di classe. Con una cerchia di spiriti affini, Selma organizzava sortite alle spiagge dentro e nei dintorni di Istanbul, cercando di convincere le donne che prendevano il sole in bikini a pentirsi ed emendarsi prima che fosse troppo tardi per salvarsi l’anima. «Ogni centimetro di pelle che mostrate oggi, vi brucerà domani all’inferno.» Il gruppetto distribuiva volantini dalla grammatica precaria e l’ortografia anche peggiore: carichi di punti esclamativi e scarsi di virgole, battevano sul tasto che Allah non voleva vedere le nipoti di Eva mezze nude in luoghi pubblici. Al calare della sera, quando le spiagge si svuotavano, quegli stessi volantini restavano là a volteggiare in aria, laceri e macchiati, con la loro «depravazione», «blasfemia» e «dannazione eterna» disseminate sulla rena come ciuffi di alghe secche. Vivace lo era sempre stata, ma in questa nuova fase della sua vita Selma si era fatta ancor più loquace e polemica, decisa com’era a ricondurre il prossimo, e in particolare il marito, sulla retta via. Ma dato che Mensur non aveva la minima intenzione di ravvedersi, casa Nalbantoğlu finì col dividersi in una «zona-lei» e una «zona- lui», Dar al-Islam e Dar-al-harp: il regno della sottomissione e il regno della guerra. La religione era piombata nella loro vita inattesa come un meteorite e vi aveva scavato un baratro, dividendo la famiglia in due campi in conflitto. Il figlio minore, Hakan, irrimediabilmente religioso e nazionalista all’eccesso, si schierò con la madre; il maggiore, Umut, nel tentativo di comporre il dissidio, per qualche tempo si mantenne neutrale, benché la sua inclinazione a sinistra si cogliesse chiaramente in tutto ciò che diceva e faceva. E quando finalmente si dichiarò per quel che era, lo fece da marxista duro e puro. Tutto questo metteva Peri, in quanto figlia più piccola, in una posizione difficile, con entrambi i genitori tesi ad accaparrarsene il favore. La sua esistenza divenne un campo di battaglia tra visioni del mondo contrastanti, e il pensiero di dover fare una scelta, una volta per tutte, tra la religiosità polemica della madre e il polemico materialismo del padre la paralizzava. Peri era il tipo di persona che, potendo, cercava di non offendere nessuno; così, circondata da guerrieri che si scatenavano gli uni contro gli altri, presi a combattere guerre infinite, optò per una forzata compiacenza, costringendosi alla docilità. Senza che nessuno lo sapesse, spense il fuoco che aveva dentro riducendolo in cenere. L’abisso tra i suoi genitori risaltava al massimo in un preciso angolo del soggiorno di casa. Sopra il mobiletto del televisore c’erano due ripiani, il primo dei quali era riservato ai libri di suo padre: Atatürk: la rinascita di una nazione di Lord Kinross, Il grande discorso del padre dei turchi in persona, Le cose che non sapevo di amare di , Delitto e castigo di Dostoevskij, Il dottor Živago di Boris Pasternak, tutta una collezione di memoriali (scritti da generali e soldati semplici) sulla Prima guerra mondiale e una vecchia edizione delle Rubā‘iyyāt di ‘Umar Khayyām, con la copertina a brandelli per via delle letture ripetute. Il secondo scaffale era tutto un altro mondo. Per anni era stato gremito di cavalli in porcellana di tutte le taglie e tutti i colori: pony, stalloni e giumente dalle criniere dorate e dalle code arcobaleno, che saltavano, galoppavano e brucavano. Poi, pian piano, erano arrivati i libri. Gli Hadith collazionati dall’imam al-Bukhari; la Disciplina dell’anima di al-Ghazali; un Percorso guidato alla preghiera e alla supplica nell’Islam, le Storie dei profeti, il Manuale della brava musulmana, le Virtù di pazienza e riconoscenza e L’interpretazione islamica dei sogni. L’angolo a destra ospitava i due volumi a firma di Üzümbaz Efendi: L’importanza della purezza in un mondo immorale e Satana ti mormora all’orecchio. Man mano che alla raccolta si aggiungevano nuovi titoli, i cavallucci venivano fatti scivolare, un centimetro dopo l’altro, in fondo al ripiano, dove restavano in precario equilibrio come sull’orlo di un burrone. Il diluvio di parole ed emozioni che scorreva per i corridoi di casa sconcertava la mente candida di Peri. Per tutto ciò che le era stato insegnato, sapeva che Allah era l’unico e il solo; eppure non riusciva a credere nemmeno per un istante che i precetti religiosi che sua madre riteneva sacri e contro i quali suo padre inveiva appartenessero al medesimo Dio. Non poteva essere. E se invece era vero, come era possibile che quel Dio venisse visto in maniere così diametralmente opposte da due persone che condividevano una fede nuziale, benché non più lo stesso letto? Vigile e arrendevole, Peri era un semplice testimone della faida, costretta a guardare i suoi che si facevano a pezzi. Imparò molto presto che non esistono dispute più dolorose di quelle famigliari, e che non esiste disputa famigliare più dolorosa di una incentrata su Dio. Il coltello

Istanbul, 2016

Peri rintracciò presto le mendicanti che le avevano scippato la borsetta. Scappavano più veloci che potevano, ma lei correva di più: non credeva alla sua fortuna, ammesso che fosse fortuna. Le inseguì dentro un vicolo acciottolato, tra mura di pietra che sorgevano dalle ombre, con il petto che le bruciava a ogni respiro. Le ragazzine erano lì, ferme alla destra e alla sinistra di un uomo seduto, il vagabondo che aveva fumato il mozzicone gettato via da Peri. Lei avanzò di un passo, ma non aprì bocca; aveva agito senza pensare, e adesso che pensava si trovava disorientata. Il barbone sorrise sereno, come se la stesse aspettando. Da vicino pareva diverso, le linee ossute degli zigomi perfettamente simmetriche, una luminosità giovanile nelle profondità nerissime degli occhi. Non fosse stato per l’aspetto miserabile, si sarebbe detto che in lui ci fosse qualcosa del dandy. Teneva in grembo la borsetta, con riverenza, carezzandola come un’amante perduta da tempo. «Quella è mia» disse Peri, la voce tirata mentre mandava giù il nodo che le serrava la gola. Nello stesso momento l’uomo aprì il fermaglio, sollevò la borsa e poi la rovesciò. Il contenuto si sparse sul selciato: chiavi di casa, rossetto, eyeliner, una penna, un flaconcino di profumo, il cellulare, un pacchetto di fazzolettini, occhiali da sole, una spazzola, un assorbente interno... E il portafogli di pelle, che l’uomo raccolse con delicatezza. Ne tirò fuori un mazzetto di banconote, carte di credito, una carta d’identità rosa da donna, una patente, foto di bei ricordi di famiglia. Intascò i soldi e il telefonino ignorando il resto, e intanto fischiettava una melodia spensierata, allegra, che sembrava suonata da un vecchio carillon. Stava per buttar via il portafogli, quando notò qualcosa: una polaroid scivolata parzialmente fuori da uno scomparto in cui era stata infilata con cura, in modo che non si vedesse. Una reliquia di tempi andati. Il barbone studiò la foto con un sopracciglio inarcato. C’erano quattro visi: un uomo e tre ragazze. Un professore e le sue studentesse. Intabarrati nei cappotti, con cappelli e sciarpe, davano le spalle alla Bodleian Library di Oxford, stretti gli uni agli altri per mantenersi al caldo o per abitudine, intrappolati per sempre in una delle giornate più fredde di quell’inverno. Il barbone alzò la testa e sogghignò all’indirizzo di Peri, quasi avesse riconosciuto Oxford da un film o un ritaglio di giornale. O magari aveva semplicemente notato che una delle ragazze della foto era la donna che ora gli stava di fronte. Aveva messo su qualche chilo e qualche ruga, aveva i capelli più corti e lisci, ma gli occhi erano gli stessi, a parte un velo di tristezza. L’uomo gettò via la foto. Peri guardò per qualche secondo, non di più, la polaroid che si librava in aria e poi planava svolazzando, quindi sussultò come se la foto fosse viva e potesse farsi male nella caduta. In preda al panico, gridò al barbone che altre persone stavano arrivando ad aiutarla: la polizia, i gendarmi, suo marito. Sventolò la mano per mostrare la fede, fin troppo consapevole, in quel momento, che la ragazza che era stata l’avrebbe presa in giro per la vanteria di questo simbolo del suo stato civile, esibito quasi fosse un amuleto. Ma l’uomo aveva più di un motivo per non crederle, non ultimo il groppo nella voce. Il vicolo era deserto, il cielo privo di luce. Quanto si era allontanata dalla strada principale? Il rumore del traffico si sentiva ancora, ma attutito, come se venisse da oltre una parete di vetro. Improvvisamente Peri ebbe paura. Il barbone rimase immobile per un attimo interminabile. L’aria era talmente ferma che a Peri sembrò di distinguere, in un vicino mucchio di spazzatura, il tramestio di un topo che frugava frettoloso con il cuoricino, non più grande di un pistacchio, che gli martellava nel minuscolo torace. Il vicolo era fuori dal regno dei gatti di Istanbul, fuori dai confini cittadini e, in quell’istante, fuori dal mondo. Con calma l’uomo si tastò la tasca del cappotto in cerca di qualcosa, poi la tirò fuori. Era un sacchetto di plastica con dentro un tubetto di solvente; ne spremette l’intero contenuto nella bustina, ci soffiò dentro facendone un palloncino e poi sorrise alla sua creazione, come a un’idillica sfera di vetro con la neve in cui ogni fiocco mai caduto è un diamante o una perla. Lo sistemò davanti al naso e alla bocca, inspirò a fondo; una volta, due, e poi una terza più lunga. Quando rialzò la testa aveva cambiato espressione, c’era e non c’era. Si faceva abitualmente di colla, comprese subito Peri, e solo in quel momento notò i capillari spezzati negli occhi, simili a crepe sul terreno arido. Una voce interiore le diceva di tornare da sua figlia, in macchina, ma il corpo rimase immobile, era come se quella colla le fosse gocciolata tra i piedi, bloccandola sul posto. Il barbone offrì il sacchetto a una delle ragazzine che, per l’eccitazione, quasi glielo strappò di mano e inspirò rumorosamente mentre l’altra, impaziente e irritata per essere l’ultima, aspettava il proprio turno. Colla, il piacere preferito di ragazzi di strada e prostitute minorenni, il tappeto magico che li portava, leggeri come piume, al di sopra di tetti, cupole e grattacieli, fino a un reame lontano dove non c’era paura né motivi per averne. Niente dolore, niente carceri, niente papponi. Si trattenevano in quell’Eden per tutto il tempo possibile, succhiando acini dorati dai graspi, sbocconcellando pesche succose. Al sicuro dalla fame e dal freddo, inseguivano gli orchi, sbeffeggiavano i giganti e ricacciavano i geni nelle bottiglie da cui erano fuggiti. Come tutti i sogni più dolci, però, anche questo aveva un prezzo. La colla dissolveva la membrana dei neuroni, aggrediva il sistema nervoso, distruggeva i reni e il fegato, divorandoli dall’interno, un centimetro dopo l’altro. «Chiamo la polizia» gridò Peri, più forte del necessario. “Non è la cosa giusta da dire” pensò poi fra sé, quindi aggiunse, ancora più forte: «Anzi, mia figlia l’ha già chiamata. Saranno qui da un momento all’altro». Come fosse l’imbeccata che aspettava, il barbone si alzò in piedi. Si muoveva in modo lento e cauto, forse per darle il tempo di cambiare idea, o per chiarire che in tutto quello che stava per succedere lui non aveva alcuna colpa. Le ragazzine erano sparite. Di quando se ne fossero andate e dove, Peri non aveva idea. Seguivano gli ordini del barbone: era il sultano dei vicoli, l’imperatore dei cumuli di spazzatura e delle cloache a cielo aperto, di tutto ciò che era indesiderato e abbandonato; il magnanimo collezionista di ogni cosa del genere. Non i suoi tratti, ma l’intensità del suo portamento ricordavano a Peri qualcuno, una persona che pensava di aver lasciato sigillato nel passato, che aveva amato come nessun altro. Distolse lo sguardo per un secondo o giù di lì, e intravide la polaroid per terra. Era una delle poche foto che aveva conservato dei tempi di Oxford, e l’unica con il professor Azur. Non poteva permettersi di perderla. Quando rialzò lo sguardo, si accorse con sgomento che il barbone perdeva sangue dal naso, a gocce spesse che gli macchiavano il petto di un rosso così intenso da sembrare vernice. L’uomo arrancava ancora verso di lei, apparentemente senza rendersene conto. E infine udì un rantolo – la sua stessa voce, in una modulazione che non le era familiare – quando scorse il luccichio dell’acciaio. Il giocattolo

Istanbul, anni Ottanta

Vennero a tarda notte di un venerdì. Come gufi, avevano atteso che la sera gettasse un manto nero sopra la città per mettersi in cerca della loro preda. La madre di Peri, che era andata a letto a mezzanotte passata dopo aver preparato una sua specialità – agnello arrostito a fuoco lento con foglie di menta – fu l’ultima a sentire i colpi alla porta d’ingresso. Per quando Selma si fu svegliata e alzata, i poliziotti erano già in casa e stavano mettendo sottosopra la camera condivisa dai due figli maschi. Dopo l’irruzione, come se non riuscisse a perdonarsela, Selma non dormì mai più una notte filata e divenne a sua volta una creatura notturna. Benché stessero esaminando tutto fino all’ultimo oggetto, era chiaro da come si comportavano che i poliziotti erano venuti per il figlio maggiore, Umut. Lo costrinsero a mettersi da solo in un angolo, proibendogli di scambiare persino un’occhiata con il resto della famiglia. Al vederlo in quelle condizioni, Peri, sette anni, provò una tristezza così limpida da sconfinare nella disperazione. Ad alta voce non lo aveva mai detto, ma dei due fratelli lui era il suo preferito. Massiccio, con occhi nocciola che s’increspavano agli angoli a ogni sorriso e una fronte ampia che lo faceva sembrare più maturo della sua età, Umut aveva la sua stessa tendenza ad arrossire facilmente; ma diversamente da lei era sempre di buonumore, come voleva il suo nome che significa «speranza». Malgrado la differenza d’età, lui le era sempre stato molto vicino, partecipando ai giochi più buffi di Peri per puro e semplice affetto: una volta si fingeva un principe rapito a bordo di una nave pirata, un’altra un astuto mago in cima al monte Qaf, secondo le esigenze narrative del giorno. All’università, dove aveva frequentato ingegneria chimica, Umut era diventato decisamente più introverso. Si era fatto crescere un paio di folti baffi da tricheco e aveva appeso alle pareti ritratti di gente che Peri non aveva mai visto prima: un nonno con una gran barba grigia, un signore con il viso aperto e gli occhialetti tondi di metallo, un altro tizio con i capelli scarmigliati e un basco scuro. C’era anche una signora con lo chignon e un cappello bianco. Quando aveva chiesto spiegazioni al fratello, lui le aveva detto: «Quello là è Marx, l’altro è Gramsci, e quello col basco è il compagno Che Guevara». «Ah» aveva risposto Peri, del tutto ignara del significato delle sue parole ma colpita dall’ardore dei toni. «E lei, invece?» «Lei è Rosa.» «Magari mi chiamassi io Rosa.» Umut aveva sorriso. «Il tuo nome è più bello, fidati. Ma se credi, posso anche chiamarti Rosa-Peri. Magari mi diventi una rivoluzionaria.» «Cos’è una rivoluzionaria?» Umut aveva riflettuto, in cerca di una risposta adeguata. «Una persona che vuole dare un giocattolo a tutti i bambini, e a nessun bambino troppi giocattoli.» «Hm, capito...» aveva risposto lei, cauta. La prima parte le era piaciuta, la seconda meno. «Quand’è che sono troppi?» Ridendo, il fratello le aveva scompigliato i capelli e quell’ultima domanda era rimasta in sospeso, senza risposta. Quei poster, adesso, i poliziotti li stavano strappando via dal muro; e dopo averli fatti a brandelli passarono ai libri, che erano tutti di Umut perché suo fratello, Hakan, non era un gran lettore. Il Manifesto del partito comunista di Karl Marx, La situazione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels, La rivoluzione permanente di Lev Trockij, Uomini e topi di John Steinbeck, Utopia di Tommaso Moro, Omaggio alla Catalogna di Orwell... Facevano scorrere le pagine, frustrati e indispettiti, con l’aria di cercare lettere o appunti privati. Non li trovarono, ma i libri li confiscarono lo stesso. «Perché leggi queste stronzate?» disse a Umut il capo dei poliziotti, afferrando una copia del Bacio della donna ragno e sventolandogliela in faccia. «Sei un turco musulmano. Tuo padre è un turco musulmano. Tua madre è una turca musulmana. Sette generazioni, tutte uguali. Tu che bisogno hai, di questa merda forestiera?» Umut si guardava i piedi nudi, le dita pulite e arrotondate strette l’una all’altra come per proteggersi. «Se quegli stramaledetti occidentali hanno un problema, è un problema loro» proseguì l’uomo. «Qui da noi sono tutti felici. Nel nostro Paese non ci sono classi sociali. Neanche sappiamo cosa vuol dire, “classe sociale”. A te hanno mai chiesto: “Ehi, tu in che classe sociale sei?”... No, infatti! Siamo tutti musulmani e siamo tutti turchi, punto e basta. Stessa religione, stessa nazionalità, stesso tutto. Cos’è che ti sfugge?» L’ispettore si avvicinò a Umut, sporgendosi in avanti come se volesse fiutarlo. «In questo Paese ci sono voluti tre colpi di stato militari per mettere fine a certe stronzate. E adesso ecco che tornano fuori! Credi che lo permetteremo? I tuoi libri sono pieni di bugie. Sono scritti col veleno! E forse hanno avvelenato anche te, che dici?» Umut non disse nulla. «Ti ho fatto una domanda, imbecille» urlò il poliziotto, con le narici dilatate. «Ti ho chiesto se ti hanno avvelenato!» «No» rispose Umut con un filo di voce. «Io invece dico di sì» fece l’altro, annuendo tra sé. «A guardarti in faccia direi che è così.» I materassi, l’armadio, i cassetti, perfino l’interno della stufa a legna... Nessun anfratto, nessun recesso venne risparmiato. Ma qualunque cosa cercassero, pareva che non riuscissero a trovarla, il che li rendeva ancora più rabbiosi. «Perquisite il resto della casa. L’hanno nascosta» ordinò l’ispettore ai suoi uomini. Fumava una sigaretta dopo l’altra e buttava la cenere per terra. «Mi scusi, ma... cosa staremmo nascondendo, esattamente?» azzardò Mensur – i radi capelli scarmigliati, il pigiama a strisce tutto stazzonato, i piedi infilati nelle ciabatte – dall’angolo opposto della stanza, dov’era stato confinato il resto della famiglia, in attesa. «Quando la trovo te la infilo su per il culo» fece il capo. «Come se non lo sapessi.» Stordita per l’asprezza di quelle parole, Peri strinse la mano del padre, ma lo sguardo era fisso sul fratello. Era preoccupata per Umut, che ora era pallido come la luna calante. I poliziotti rovistarono nelle altre camere, in bagno, nel gabinetto, nella dispensa dove si conservavano i frutti dell’okra che avevano essiccato e i cetrioli sottaceto fatti in casa. Da dentro la cucina veniva il rumore dei cassetti aperti, delle scatole spostate, delle posate sparpagliate ovunque. Gli scaffali, prima ordinati e bordati di pizzo, adesso erano completamente a soqquadro. Trascorse un’ora, o forse di più. All’esterno una fioca striscia di luce solcava il cielo di piombo, come un dentino infantile taglia la carne viva. «E la ragazzina?» chiese il capo. Gettò la cicca della sigaretta sul tappeto e la schiacciò sotto un tacco. «Avete controllato i giocattoli?» Selma, gli occhi fissi sul tappeto che aveva pulito proprio quel giorno, intervenne: «Efendim, ci dev’essere un malinteso. Noi siamo gente perbene. Timorata di Dio». Senza farle caso, l’ispettore si rivolse a Peri. «Dove sono le tue cose, piccola? Facci vedere.» Peri spalancò gli occhi. Com’è che tutti si interessavano ai suoi giocattoli – non che ne avesse troppi – i rivoluzionari, la polizia? «Non ve lo dico.» Mensur, sempre tenendola per mano, trasse la figlia più vicino a sé e mormorò: «Sst. Faglieli vedere, non abbiamo niente da nascondere». Poi, senza rivolgersi a nessuno in particolare, disse: «Li tiene in un baule sotto il letto». Qualche minuto dopo, quando il capo dei poliziotti ricomparve con i suoi agenti alle calcagna, ad allarmare Peri fu più l’espressione del viso che l’oggetto tenuto con due dita. «Bene, bene... E questa che cos’è?» Peri non aveva mai visto una pistola in vita sua; e a differenza di quelle della televisione, questa era così piccola e graziosa che per un attimo si chiese se fosse di cioccolato. «Nascosta in una culla, sotto una bambola. Ingegnoso!» «Giuro sul Sacro Corano che noi non ne sappiamo niente» disse Selma con voce rotta. «Tu no, donna, è ovvio, ma tuo figlio sì.» «Non è mia» disse Umut avvampando. «Mi hanno chiesto di tenerla per qualche giorno. Dovevo restituirla domani.» «A chi?» gli chiese l’ispettore. Sembrava allegrissimo. Umut fece un respiro rabbioso, poi sprofondò nel silenzio. All’esterno saliva il richiamo del muezzin di una moschea poco distante: «Non c’è altro Dio che Dio. È meglio pregare che dormire». «Bene, andiamo» ordinò il capo. «Portatelo dentro.» Mensur, che alla vista dell’arma era rimasto paralizzato, intervenne: «Vi prego, ci sarà pure una spiegazione. Mio figlio è un bravo ragazzo. Non ha mai fatto del male a nessuno». L’ispettore, che si era già avviato alla porta, si voltò a guardarlo. «Sempre le stesse cazzate. Non sapete badare ai vostri figli; cominciano a frequentare comunisti bastardi e senza Dio, si mettono nella merda, e quando è troppo tardi voi altri frignate e supplicate, uè, uè. Perché fate dei figli se poi non ci badate, teste di cazzo che non siete altro? Non riuscite a tenere fermo l’uccello?» Con una mossa brusca l’uomo afferrò i pantaloni del pigiama di Mensur e glieli abbassò fino alle ginocchia, mostrando le mutande bianchissime, per quanto leggermente consumate. Un paio di poliziotti ridacchiarono, altri ostentarono indifferenza. Peri sentì l’energia che abbandonava la mano del padre, le dita lievi ed esangui, la mano di un cadavere in attesa dell’autopsia. Il silenzio di suo padre, la vergogna di suo padre, del padre che adorava, rispettava, amava e idolatrava dal giorno in cui aveva pronunciato le prime parole. Quando Mensur, tremante, si fu ritirato su i calzoni del pigiama, gli agenti di polizia avevano già imboccato la porta, portando via Umut.

Non lo avrebbero rivisto per quasi due mesi, che Umut trascorse in isolamento. Accusato di far parte di un’organizzazione comunista eversiva, aveva confessato il possesso della pistola – dopo essere stato denudato, bendato, legato al telaio di una branda e sottoposto a scariche elettriche. Quando gli attaccarono gli elettrodi ai testicoli e raddoppiarono il voltaggio, confessò di essere il capo di una cellula che progettava di assassinare una serie di funzionari statali. Odore acre di carne bruciata, odore ferroso di sangue, odore pungente di urina e aroma di cannella delle gomme da masticare del suo principale aguzzino, un ufficiale soprannominato «Tubo» Hassan per via delle sue fantasiose tecniche di tortura con un tubo di gomma per innaffiare. Ogni volta che sveniva lo rianimavano a secchiate d’acqua gelida e lo immergevano in acqua salata per aumentare la conduttività; ogni mattina veniva medicato con una pomata dagli stessi poliziotti che poi tornavano a seviziarlo il pomeriggio. Mentre gli spalmava l’unguento sulle ferite, Tubo Hassan si lamentava del salario basso, dell’orario pesante, della figlia che era scappata con un tizio molto più vecchio di lei, già padre e sposato con un’altra donna. I piccioncini erano tornati sei mesi dopo, spaventati e al verde, lui avrebbe potuto ammazzarli lì per lì, e invece li aveva risparmiati. Come molti professionisti della tortura, era tenero con i parenti, rispettoso con i superiori e atroce con chiunque altro. Tra una seduta e l’altra Umut era costretto ad ascoltare le urla degli altri detenuti, esattamente come a loro facevano sentire le sue. Intanto l’inno nazionale gracchiava a tutto volume dagli altoparlanti. Una volta, durante un elettrochoc, si dimenticarono di mettergli l’asciugamano in bocca, una semplice svista. Lui si morse la lingua e quasi se la tranciò in due. Per molto, molto tempo, mangiare fu un’esperienza orribile; il sapore del cibo riusciva a sentirlo solo quando lo inghiottiva. In quel momento si diceva che la tortura, ampiamente praticata in carceri, centri di detenzione e riformatori di tutto il Paese all’indomani del colpo di stato del 1980, si fosse attenuata; invece proseguiva identica a prima. Le vecchie abitudini sono dure a morire. Non che non ci fossero stati dei cambiamenti: la falaka – la pratica delle percosse sulle piante dei piedi – era stata sostituita in molti casi con una lunga sospensione appesi per le braccia, metodo più pulito che lasciava meno segni. Allo stesso modo erano andate fuori moda le bruciature di sigaretta e l’estrazione di denti e unghie: le scosse elettriche erano più rapide ed efficienti, e non restavano quasi tracce. Niente di diverso dal costringere i prigionieri a mangiare i propri escrementi, a bere l’urina dei compagni o a trascorrere ore nella fossa settica: dei maltrattamenti non restavano segni visibili. Fossero anche comparsi all’improvviso, i giornalisti ficcanaso o gli attivisti occidentali per i diritti umani non avrebbero scoperto niente. Alla fine, Umut fu condannato a otto anni e quattro mesi senza condizionale. Una volta emessa la sentenza, i Nalbantoğlu cominciarono le regolari visite nel carcere alla periferia di Istanbul. Si presentavano in varie combinazioni a seconda della giornata: Mensur con il figlio minore, Selma con la figlia, Mensur con Peri, ma mai Selma e Mensur insieme. Insieme a decine di altre persone prendevano posto a un largo tavolo di plastica, il cui piano portava i segni di centinaia di incontri pieni di dolore e di angoscia; i visitatori da una parte, i detenuti dall’altra. Tutti tenevano le mani in vista, come da prescrizioni, perché non ci fossero scambi di alcun tipo; e in quello stato cercavano di riempire la voragine del silenzio con sorrisi che non raggiungevano gli occhi e parole che scivolavano loro di mano. Una volta, quando Umut si alzò per andarsene, Mensur vide una macchia di sangue sul retro dell’uniforme, nella parte bassa della schiena. Una chiazza della forma e dimensione di una foglia di salice. Il metodo di tortura che la causava aveva un suo nome: era la «Cola al sangue». Picchiato e denudato, il detenuto veniva costretto a sedersi su una bottiglietta di Coca-cola. Si diceva che il «cocktail» fosse riservato a pochi eletti: prigionieri politici, sospetti omosessuali e transessuali presi nel corso delle retate per strada. Mensur rimase a fissare la macchia, stordito; poi emise un grido strozzato, ansimando nonostante gli sforzi disperati per mantenere la calma. Fortunatamente Umut, già tornato al suo raggio, non lo aveva sentito. Ma Peri, che quel giorno aveva accompagnato il padre, lo sentì eccome. Fu testimone di tutta la scena, anche se per qualche motivo – come se avesse visto un film muto – ne avrebbe poi serbato solo immagini. Dopo quella volta, Mensur le proibì i colloqui in prigione col fratello. Doveva restare a casa e scrivergli, invece. E raccontargli cose carine, particolari teneri che lo rallegrassero. Peri lo fece finché poté: componeva missive piene di un’allegria che non provava, su persone che a stento conosceva ed episodi che non erano andati proprio come lei li descriveva. Ma Umut, come se vedesse l’inganno in trasparenza, non le rispondeva mai. Tuttavia Peri lo incontrava spesso nel sonno, in brutti sogni dai quali si svegliava urlando nel cuore della notte. Certe volte riusciva a riaddormentarsi; altre, invece, sgattaiolava fuori dal letto, si infilava nell’armadio e ci si chiudeva dentro, cercando di immaginarsi che effetto faceva trovarsi in cella. E mentre ascoltava il battito del proprio cuore in quello spazio nero e angusto, temendo che l’ossigeno si andasse pian piano esaurendo, faceva finta che suo fratello fosse lì accanto, a respirare con lei.

L’orrore di Umut finito dietro le sbarre, anziché unirli, allontanò i coniugi Nalbantoğlu fino a renderli nemici. Mensur biasimava la moglie: lui lavorava tutto il giorno e quindi era Selma, diceva, che avrebbe dovuto tenere d’occhio il figlio. Avesse passato meno tempo in compagnia di predicatori fanatici che le promettevano il profumo del paradiso e fosse stata più attenta a quello che le succedeva sotto il naso, sarebbe riuscita a impedire la tragedia che li aveva colpiti. Dal canto suo, l’astiosa, taciturna e risentita Selma incolpava il marito. Era stato Mensur a porre i semi dell’empietà nella mente del figlio, erano stati i suoi monologhi sul materialismo e il libero pensiero a condurli al disastro. Col passare degli anni, il matrimonio di Selma e Mensur si era trasformato in un guscio vuoto; ora quel guscio si era spaccato, e i due si ritrovarono sulle sponde opposte della fenditura. L’aria in casa si fece greve e opprimente, come se avesse assorbito la tristezza dei suoi occupanti. La piccola Peri aveva l’impressione che persino le api e le falene, appena entrate dalle finestre aperte, si precipitassero immediatamente fuori in preda al panico, e nemmeno le voracissime zanzare succhiavano più il sangue dei Nalbantoğlu, per paura di ingerirne l’infelicità. Nei cartoni animati e nei film che guardava Peri c’erano dei comuni mortali che venivano morsicati da ragni o punti da calabroni, dopodiché si trasformavano in supereroi e facevano una vita esaltante. Ma per i Nalbantoğlu era il contrario: pulci e insetti, dopo essere venuti a contatto con loro, subivano una metamorfosi verso lo stato umano, schiacciati dal peso di sentimenti dei quali non sapevano che fare. Fu in quel periodo che Peri cominciò a rivedere il proprio rapporto con Allah. Smise di pregare prima di andare a dormire, contrariamente a quanto le aveva insegnato sua madre, ma nemmeno voleva mostrarsi fredda nei confronti dell’Onnipotente, come invece le raccomandava il padre. Alla fine scelse di trasformare tutta l’angoscia e la pena, quelle a cui non osava dar voce in presenza dei genitori, in una cannonata di parole che poi scagliava con forza verso il cielo. Cominciò a litigare con Dio. Discuteva con Lui di tutto, gli faceva domande a cui, lo sapeva, non esistevano risposte semplici, ma gliele faceva lo stesso, sottovoce, così che nessuno potesse sentire. Decisamente irresponsabile, da parte Sua, permettere che accadessero cose terribili a chi non le meritava. Non riusciva, Dio, a vedere e sentire al di là dei muri di un carcere e delle sbarre di una cella? Se non ci riusciva, allora non era onnipotente. Se invece ci riusciva, e continuava a non andare in soccorso dei bisognosi, allora non era misericordioso. In un modo o nell’altro, non era quel che affermava di essere. Era un impostore. Della rabbia che non poteva indirizzare alla madre e al suo maestro Üzümbaz Efendi, della frustrazione che non poteva rivolgere contro il padre e le sue bevute, della tristezza che non poteva comunicare al fratello maggiore e della stanchezza che provava nei confronti del minore, Peri faceva un impasto molliccio e poi lo versava nei suoi pensieri riguardo a Dio. Lì l’impasto si cuoceva, nel forno della sua mente, gonfiandosi adagio, crepandosi nel mezzo, bruciandosi sui bordi. Mentre i suoi amichetti apparivano schietti e leggeri come gli aquiloni che facevano volare, mentre loro scherzavano a scuola e prendevano ogni giorno come veniva, Nazperi Nalbantoğlu, bambina insolitamente emotiva e introversa, era occupatissima a cercare Dio. Dio, parola semplice dal significato oscuro. Dio, così vicino da sapere tutto quel che facevi – o anche solo pensavi di fare – eppure impossibile da raggiungere. Ma Peri era decisa a trovare il modo, perché, grazie a una logica deviata e tutta personale, era giunta a credere che se le fosse riuscito di conciliare il Creatore di sua madre e il Creatore di suo padre, allora sarebbe stata anche in grado di ristabilire l’armonia tra i suoi genitori. Con un qualche genere di accordo su cosa Dio fosse o non fosse, in casa Nalbantoğlu la tensione si sarebbe attenuata, e magari anche nel mondo intero. Dio era un labirinto senza piantina, un cerchio privo di centro; un rompicapo i cui pezzi non si incastravano mai. Se solo fosse riuscita a risolvere quel mistero, Peri avrebbe potuto dare senso all’insensatezza, portare ragione nella follia, ordine nel caos e, magari, imparare anche lei a essere felice. Il taccuino

Istanbul, anni Ottanta

«Vieni a sederti qui con me, amore» disse Mensur alla figlia una rara sera in cui era da solo a tavola. Peri obbedì immediatamente. Ne aveva patito moltissimo la mancanza: benché fosse lì in casa, dal giorno che Umut era stato arrestato il padre le era sempre parso distaccato, assorto nei propri pensieri, niente più della scorza dell’uomo che era una volta. «Ti racconto una storia» proseguì Mensur. «C’era una volta a Istanbul un suonatore di flauto; era un sufi, ma anche un cane sciolto. Quando vedeva una bottiglia di raqı o di vino, sgridava tutti quelli che aveva intorno: “Una goccia di questo liquore è peccato, lo sapete o no?”. Poi apriva la bottiglia, ci infilava un dito, attendeva qualche minuto e alla fine tirava fuori il dito gocciolante. “Ho tolto la goccia peccaminosa” diceva quindi. “Adesso possiamo bere in pace.”» Mensur rise della sua stessa storiella, una risata bassa e triste. Peri guardò attentamente il padre, intuendo nella domanda un solitario atto di ribellione, ma contro cosa, o chi? Incerta, gli chiese: «Baba, posso provare?». «A far cosa? A bere il raqı?» Lei fece di sì con la testa. Prima di allora non le era mai venuto in mente, ma adesso che lo aveva detto, aveva veramente voglia di provarlo. Era un modo di entrare in sintonia con il padre. Mensur scosse il capo. «Hai solo sette anni. Neanche per idea.» «Ne ho otto» rettificò lei. «Questo mese ne compio otto.» «Be’, è sicuramente meglio assaggiare l’alcol per la prima volta a casa con papà e mamma che fuori, di nascosto, e in condizioni normali aspetterei che di anni ne compissi diciotto» rifletté Mensur. «Ma a quel punto, con i fanatici religiosi che girano, chissà se l’alcol si troverà ancora. Magari ne esporranno un paio di bottiglie da qualche parte. Al Museo degli Oggetti Degenerati! Proprio come i nazisti, eh? Quindi mi sa che è meglio se te ne lascio assaggiare un sorso prima che sia troppo tardi.» Così dicendo, Mensur riempì un bicchiere di acqua e ci aggiunse un generoso spruzzo di liquore all’anice. Mentre Peri guardava il distillato che si disperdeva in acqua, suo padre guardava lei con un’espressione tenera. «Le vedi le gocce? Siamo io e miei amici, che ci disperdiamo in un mare d’ignoranza.» Poi Mensur levò il calice e concluse: «Sherefe!». Euforica perché veniva trattata come un’adulta, Peri sorrise. «Sherefe!» «Se ci vede tua madre, mi spella vivo.» Peri prese una sorsata rapida, e sul viso le comparve immediatamente una smorfia schifata. Era una cosa tremenda, la peggiore che avesse mai provato. Il sapore dell’anice, più aspro ancora dell’odore, le bruciava la lingua, le faceva salire il solletico al naso e le lacrime agli occhi. Come faceva suo padre a bere quella robaccia tutte le sere con tanto godimento? «Promettimi una cosa» le disse Mensur, senza badare alle sue reazioni. «Non credere mai alle frottole da comari, se capisci cosa intendo.» «Sì, sì» rispose Peri dopo aver buttato giù un bicchier d’acqua e una fetta di pane per levarsi il saporaccio di bocca. «Come quando dicono di non passare un bambino con un salto sennò non cresce più. E se ti fai scrocchiare le nocche, spezzi le ali a un angelo. E se fischi al buio, chiami Satana. Quelle cose lì.» «Brava, tutte quelle fesserie. Senti, c’è una regola che ho imparato a rispettare, e ti consiglio di fare lo stesso. Non credere mai a niente se non lo hai visto con i tuoi occhi, sentito con le tue orecchie, toccato con le tue mani e afferrato con la tua testa. Me lo prometti?» Ansiosa di compiacere il padre, Peri pigolò: «Promesso, Baba». Soddisfatto, Mensur fendette l’aria con l’indice per sottolineare le proprie parole. «L’istruzione ci salverà! È l’unica strada per progredire. Tu dovrai andare nella migliore università del mondo.» S’interruppe, come a riflettere su quale potesse essere. «Tu sei l’unica tra i miei figli che può farcela. Datti da fare. Salva te stessa dall’ignoranza, me lo prometti il doppio?» «Promesso il doppio.» «Un problema però c’è» soggiunse Mensur. «Gli uomini non vogliono che le donne siano troppo sveglie e troppo istruite. Non vorrei che morissi zitella.» «Fa niente, tanto non voglio sposarmi, voglio restare con te.» Mensur scoppiò a ridere. «No, fidati, cambierai idea. Però non regalare il tuo cuore a uno che non crede nella scienza... e nella conoscenza. Me lo prometti più di tutto?» «Promesso più di tutto.» Peri si accomodò sulla sedia con un altro pensiero per la testa. «E Dio? Non si vede, non si sente, non si tocca... però bisogna crederci lo stesso?» Mensur assunse un’aria mesta. «Ti svelo un segreto. Quando si tratta dell’Onnipotente, i grandi non ne sanno molto più dei piccoli.» «Ma Dio c’è per davvero?» insistette Peri. «Sarà meglio per lui. Quando Lo vedo, nell’altro mondo, prima che attacchi Lui con me, lo chiederò io a Lui, dov’è stato tutto questo tempo. Ci ha lasciati a noi stessi troppo a lungo!» Mensur s’infilò in bocca un pezzo di formaggio e prese a masticare con vigore. «Baba... perché Allah non ha aiutato Umut? Perché ha lasciato che accadesse tutto questo?» «Non lo so, anima mia» rispose Mensur con un nodo alla gola. Tacquero. Peri arricciò le dita dei piedi e premette le pantofole sul tappeto, intuendo che sarebbe stato più saggio cambiare discorso. L’accenno al fratello maggiore aveva incupito l’atmosfera già tetra, come una nuvola che passi sopra una luna fioca. «E l’inferno e il paradiso?» Le pene e le tribolazioni dell’inferno erano state come una cantilena costante nella sua educazione. Era terrorizzata all’idea che suo padre potesse venire esiliato nel regno dei dannati, tra pentoloni bollenti e vampe di fiamma e angeli oscuri detti zabani. «Be’, io non sono tipo da paradiso, giusto? Ci sono due possibilità: se Dio non ha il minimo senso dell’umorismo, sono spacciato. All’inferno col treno espresso. Se invece ce l’ha, c’è qualche speranza che possa venire in paradiso con te. Dicono che là scorrano fiumi di vino, il migliore!» Peri fu colta da un’ondata di preoccupazione. «Ma se Allah fosse serio e austero come dice sempre la mamma?» bisbigliò. «Non preoccuparti, abbiamo un piano B» replicò Mensur. «Tu fa’ in modo che mi seppelliscano con un piccone, e ovunque mi mandino, io mi scaverò una galleria per uscire!» Peri spalancò gli occhi. «Ma l’inferno è talmente profondo che se ci butti un sassolino, quello cade per settant’anni prima di fermarsi. Me l’ha detto la mamma.» «Certo, te lo ha detto lei.» Un sospiro silenzioso. «Ma senti questa: un anno sulla terra è solo un minuto nell’aldilà. E in un modo o nell’altro io ti troverò.» Mensur s’illuminò in volto. «Uh, quasi dimenticavo: ho una cosa per te!» Tirò fuori un pacchettino dalla cartella di cuoio, una scatolina argentata legata con un nastro dorato. «È per me?» Peri esaminò il pacchetto. «Non lo apri?» Dentro c’era un taccuino. Uno splendido quadernetto turchese cucito a mano, con un mosaico di lustrini e specchietti sulla copertina. «So che hai delle curiosità su Dio» commentò Mensur, pensoso. «Io non posso darti tutte le risposte. Nessuno può, onestamente, nemmeno tua madre e quello svitato del suo predicatore.» Svuotò il suo bicchiere di raqı in un colpo solo. «Non provo simpatia per la religione e nemmeno per i religiosi, ma vuoi sapere perché sono ancora affezionato a Dio?» Peri fece di sì con la testa. «Perché Lui è solo, Pericim, come me... e come te» riprese Mensur. «Tutto solo lassù, chissà dove, senza nessuno per fare due chiacchiere... d’accordo, forse un paio d’angeli, ma non è che i cherubini siano il massimo del divertimento. Miliardi di persone pregano Dio, “donami la vittoria, donami tanti soldi, donami una Ferrari, fammi questo e fammi quello...”. Sempre le stesse parole, ma nessuno che si prenda la briga di conoscerlo veramente.» Mensur si riempì di nuovo il bicchiere, con un lampo di tristezza negli occhi. «Pensa a come reagisce la gente quando vede un incidente per strada. Tutti a dire subito: “Dio non voglia!”. Ti rendi conto? Il primo impulso è quello di pensare a sé, non alle vittime. E le preghiere, sembrano tutte scritte con la carta carbone. Proteggimi, amami, sostienimi, si tratta sempre di me. Loro la chiamano devozione, a me sembra egoismo travestito.» A queste parole Peri inclinò la testa di lato, ansiosa di consolare il padre ma senza la minima idea di come fare. La casa sprofondò in un silenzio così fragile che un sospiro lo avrebbe rovesciato. Peri si chiese se la madre, da dietro le pareti e dal proprio letto, stesse ascoltando quella conversazione e, se sì, che cosa le stesse passando per la testa. «Da oggi in poi, quando ti viene un pensiero su Dio, o su te stessa, scrivilo nel taccuino.» «Come se fosse un diario?» «Sì, ma sarà un diario speciale» rispose Mensur rianimandosi. «Un diario per la vita!» «Ma le pagine non mi basteranno.» «Infatti, l’unico modo è cancellare quello che hai scritto prima. Mi segui? Scrivi e cancella, anima mia. Io non posso insegnarti a non formulare pensieri cupi. Non ci sono mai riuscito neanch’io.» Il padre s’interruppe. «Ma speravo che tu potessi almeno cancellarli.» «Così poi posso farne degli altri?» «Be’, sì... meglio un pensiero cupo nuovo, di un pensiero cupo vecchio.» Quella stessa sera, seduta sul suo letto, Peri aprì il diario e scrisse la prima annotazione: Credo che Dio sia fatto di pezzi e colori diversi. Posso costruirmi un Dio pacifico, d’infinito amore. Oppure posso costruirlo arrabbiato, castigatore. O magari non costruisco proprio niente. Dio è una scatola di Lego. Monta e tira giù. Scrivi e cancella. Credi e dubita. Era davvero questo, ciò che suo padre aveva voluto dirle? Alla fin fine non era poi così importante, perché era questo che Peri, riandando molti anni dopo col pensiero a quel giorno, aveva sentito. L’insegnamento paterno avrebbe dato corpo a un sospetto che già nutriva: se alcuni sono credenti appassionati, altri sono ugualmente appassionati non-credenti, e lei sarebbe sempre rimasta incastrata fra gli uni e gli altri. La polaroid

Istanbul, 2016

Il barbone si avventò contro Peri, mulinando il coltello con gesti talmente veloci e scomposti che solo per miracolo riuscì a schivarlo. La lama le mancò di pochi centimetri il fianco, ma squarciò il palmo della mano destra, e lei cacciò un grido penetrante, con la voce spezzata dal dolore. Il sangue scorse giù per il polso, gocciolando sull’abito di seta viola. Con il cuore che le martellava nella cassa toracica e la fronte madida di sudore, spinse l’uomo con tutte le sue forze. Lui, sorpreso dalla reazione, perse l’equilibrio e ondeggiò per un attimo, e lei ne approfittò per fargli cadere il coltello di mano. Furioso, l’uomo le sferrò un pugno allo sterno con tanta forza che per un orribile momento le si mozzò il fiato. Pensò alla figlia che aspettava in macchina; pensò ai due figli più piccoli, che a casa guardavano il loro cartone preferito. In testa fluttuò un’immagine del marito: alla cena, circondato da altri ospiti, a guardare l’orologio ogni due minuti, devastato dalla preoccupazione. Al pensiero che forse non avrebbe mai più rivisto le persone a cui voleva bene le vennero le lacrime agli occhi: che stupida, a morire così. Uno affronta la morte per difendere la patria, la bandiera, l’onore; lei, per difendere una borsa finto Hermès con l’accento sbagliato. Ma forse era tutto ugualmente insensato. Il barbone la colpì ancora, questa volta allo stomaco. Tossendo, Peri si piegò in due, ormai priva di forze. Poi riuscì a tirare fuori un’ultima riserva di volontà. «Fermati! Ti devi fermare immediatamente!» gli gridò come se stesse rimproverando un bambino discolo. Tremava; il corpo sembrava rifiutarsi di ascoltare il cervello che ordinava di non cedere al panico, o quanto meno di non mostrarlo. «Sta’ a sentire» bisbigliò roca, «se mi fai del male, passi dei guai seri. Vai a finire in galera. Ti spezzeranno...» Voleva dire «lo spirito», ma disse invece «... le ossa. Vedrai se non lo faranno». Il barbone biascicò di rimando: «Chi cazzo ti credi di essere, troia?». Nessuno le aveva mai dato della troia; la parola la trapassò come una scheggia di ghiaccio. Fece un altro tentativo, questa volta puntando sulla riconciliazione: «Tienila, la borsa, d’accordo? Tu vai per la tua strada, io per la mia». «Troia!» ripeté l’uomo, come bloccato su quell’insulto. Poi lo sguardo gli si rabbuiò e gli occhi divennero fessure. Trattenne il respiro, eccitato dai propri stessi pensieri. Un’automobile passò vicino all’entrata del vicolo, con i fari che tracciavano per un attimo una galleria di fuga. Peri avrebbe voluto gridare per chiedere aiuto, ma era già troppo tardi, la macchina era sparita. Erano di nuovo immersi nel buio. Peri fece un passo indietro. Il barbone l’afferrò per il collo e la tirò giù. Le si sciolsero i capelli; lo spillone che teneva lo chignon rimbalzò a terra con un flebile suono metallico. Cadendo all’indietro, Peri batté la testa contro l’asfalto, ma chissà come il colpo non le fece male; da laggiù il cielo sembrava assurdamente lontano, simile a una lastra di bronzo, immobile, solido, freddo. Cercò di rialzarsi, con la mano che lasciava impronte insanguinate, ma in un lampo lui le fu addosso e già si affannava per strapparle il vestito. Dalla bocca gli usciva un odore acido, di fame, sigarette, roba chimica; il tanfo della decadenza. Peri sentì un conato di vomito; la carne che cercava di penetrare la sua carne era quella di un cadavere. Succedeva di continuo, nella città fatta di due continenti, sette colli e quindici milioni di bocche. Succedeva dietro a porte chiuse e cortili aperti, nelle camere dei motel da due soldi e nelle suite degli alberghi di lusso, nel cuore della notte e alla luce del giorno. I bordelli della città ne avrebbero potute raccontare, di storie, se solo avessero trovato orecchie disposte ad ascoltare. Squillo, vecchie prostitute e ragazzetti in vendita malmenati, aggrediti e minacciati da clienti che cercano solo una scusa per perdere i freni. Trans che non si rivolgono alla polizia per non farsi violentare una seconda volta; bambini che hanno paura di certi parenti, spose novelle che temono suoceri o cognati; infermiere, maestre, segretarie molestate da pretendenti sovreccitati perché in passato non sono volute uscire con loro; casalinghe che non dicono una parola perché in questa cultura non ci sono parole per descrivere lo stupro coniugale. Succedeva di continuo. Coperta da una cappa di omertà e silenzio che induceva vergogna nelle vittime e lasciava tranquilli gli aggressori, a Istanbul la violenza carnale non era esattamente una novità. In una città dove tutti avevano paura degli estranei, la maggior parte delle aggressioni veniva da chi era fin troppo familiare, fin troppo vicino. Nei minuti che seguirono nel silenzio di quel vicolo, come svegliandosi da un sogno soltanto per ritrovarsi intrappolata nell’incubo di qualcun altro, la percezione che Peri aveva degli eventi si frammentò in strati distinti. Reagì di nuovo, era forte, ma lo era anche lui, e in modo inatteso rispetto alla corporatura macilenta. Le diede una testata, facendole perdere i sensi per qualche secondo. Peri rischiò di arrendersi, il dolore era troppo acuto, irresistibile la spinta a lasciar prevalere la disperazione. Fu allora che, con la coda dell’occhio, scorse una sagoma. Era soffice e setosa, troppo angelica per essere umana. La riconobbe – lo riconobbe. Il bebè nella nebbia. Gote rosee, fossette sui braccini, gambotte robuste e paffute, ciuffetti di capelli dorati che ancora non si erano scuriti. Un pupetto dolcissimo, a parte il fatto che non esisteva. Era un jinni, uno spirito, un’allucinazione. Frutto della sua fantasia tesa e impaurita, ma non era il loro primo incontro. Ignaro dell’apparizione alle proprie spalle, il barbone imprecò mentre armeggiava con i pantaloni. Tirava impaziente la corda che gli faceva da cintura; doveva averla annodata troppo stretta, perché non riusciva a slacciarla con una sola mano e a tenere ferma Peri con l’altra. Il bebè nella nebbia gorgogliava tutto contento. Attraverso i suoi occhi innocenti Peri vide la follia in cui era stata risucchiata, vide quella miseria ridicola; e infatti ridacchiò, forte, spavalda. La sua reazione sconcertò il barbone, che si fermò per un attimo. «Aspetta, ti aiuto io» fece Peri, indicando la corda. All’uomo brillarono gli occhi, mezzo disorientato, mezzo diffidente. Poi gli balenò sul viso un guizzo di boria: era riuscito a intimorirla e sapeva, da esperienze precedenti, che bastava la paura per trascinare qualcuno, chiunque, dalle stelle alle stalle. Arretrò, ma solo di qualche centimetro. Allora Peri gli si scagliò addosso con tutta la forza che aveva. Colto di sorpresa, lui cadde all’indietro, sulla schiena. Svelta e agile, lei saltò su e gli sferrò un calcio tra le gambe; lui guaì come un animale ferito mentre Peri non provava nulla, né pietà, né ira. Dagli altri si impara sempre qualcosa: alcuni insegnano la bellezza, altri la crudeltà. Lei non sapeva se la colla sniffata prima si fosse diffusa per il corpo del barbone, indebolendolo, o se fosse lei rinvigorita da qualche energia selvatica e ignota, ma si sentiva potente, scatenata, pericolosa. Gli schiacciò un piede sulla faccia, concentrando tutto l’impeto in quella singola azione. Si sentì un rumore tremendo, lo schianto del naso che si rompeva; ma la vista del sangue dell’uomo, stavolta copioso, anziché terrorizzarla la spinse a premere con più forza. Prima di rendersene conto, lo stava prendendo a calci e pugni ovunque. Il barbone si teneva la pancia, mentre il cappotto gli si era aperto rivelando il torace emaciato. Lieve e apatico, sopportò il pestaggio come se fosse stanco degli inseguimenti, dei furti, dell’affanno e della meschinità di tutto. «Brutto figlio di puttana» disse Peri tra sé. Erano anni che non diceva parolacce ad alta voce, dai tempi di Oxford, e lo trovò – come quell’ultima volta – sorprendentemente facile e dolce. Il bebè nella nebbia scivolò oltre di lei. Evanescente come un sospiro, una statuina fatta delle sete e dei veli più fini. Non sorrideva più; adesso i suoi tratti, incisi in una cera color miele, erano immobili. E non sembrava giudicare quello che stava accadendo: era al di là di fatti del genere, esterni al suo dominio. Rapido, dopo aver aiutato Peri ancora una volta, svanì. Il vapore si dissolse senza lasciare tracce nella tenebra serale che si andava raccogliendo. Di colpo Peri smise di picchiare il barbone. Un vento leggero si alzò a smuoverle i capelli, un gabbiano – magari lontano pronipote di un altro gabbiano che nella notte dei tempi aveva ingoiato la lingua del poeta – volteggiava in alto gridando, arrabbiato per qualcosa o con qualcuno in quella città di folle e cemento. L’uomo ansimava, ogni respiro era un rantolo. Aveva la faccia coperta di sangue e il labbro superiore spaccato. “Mi dispiace” pensò Peri e fu sul punto di pronunciare quelle parole, ma le si impigliarono in gola. In quell’istante, come per un riflesso condizionato, le tornò in mente una voce, amorevole e censoria al contempo: “Ancora lì a scusarti con tutti, mia cara?”. Così le avrebbe detto in quel momento il professor Azur, verosimilmente, se fosse apparso a Istanbul. Che bizzarria, la piena del passato arrivava proprio quando il disordine s’infrangeva sulle sponde del presente. Ricordi a caso, ansie represse, segreti taciuti, e sensi di colpa, una colpa potente. Tutti i sensi le si attenuarono, il mondo divenne un fondale sfocato. Inghiottita da una sensazione di serenità, quasi una specie di torpore che la separava da tutto il resto, compreso il dolore in qualche punto del corpo che non riusciva a individuare, Peri ricordò momenti della sua vita che pensava di essersi lasciata alle spalle per sempre. Il barbone cominciò a piangere. Era sparito l’imperatore delle strade, il mendicante, il drogato, il ladro, lo stupratore... gli avevano strappato tutti i ruoli, lasciando solo un ragazzino che singhiozzava al buio, desideroso di un conforto che non sarebbe arrivato mai. Ora che l’effetto della colla era del tutto svanito, il dolore fisico aveva preso il posto delle allucinazioni. Peri gli si avvicinò, col sangue che le pulsava nelle orecchie, inorridita da quello che aveva fatto. Gli avrebbe offerto aiuto, se proprio in quel momento non fosse arrivata sua figlia. «Mamma, che è successo?» Veloce come un lampo, Peri si girò e si ricompose, facendo del suo meglio per raccogliere le idee. «Tesoro... perché non hai aspettato in macchina?» «E quanto dovevo aspettare ancora?» disse Deniz, ma quale che fosse il rimprovero che aveva in mente, sparì subito. «Oddio, sanguini. Che cavolo è successo? Stai bene?» «Sto benissimo» rispose lei. «Ci siamo un po’ azzuffati.» Il barbone, ora mortalmente silenzioso, si tirò su e arrancò fino a un angolo, senza dar segno di notarle. Madre e figlia raccolsero la borsetta e tutti gli oggetti sparpagliati che riuscirono a trovare. «Perché non ho una mamma normale come tutti quanti?» bofonchiò fra sé Deniz, raccattando da terra le carte di credito. Era una domanda a cui Peri non sapeva rispondere, e quindi non ci provò nemmeno. «Andiamo» fece Deniz. «Un attimo.» Peri si guardò in giro in cerca della polaroid, che sembrava scomparsa. «Forza!» gridò Deniz. «Che ti prende?!» Uscirono dal vicolo e tornarono di corsa in macchina. La Range Rover azzurro Montecarlo le aspettava, era un miracolo che non l’avessero rubata. Fecero il resto della strada in silenzio, la figlia intenta a pulirsi le unghie e la madre con gli occhi fissi sulla strada. Solo più tardi Peri si sarebbe resa conto che non avevano recuperato il cellulare. Forse ce l’aveva ancora in tasca il barbone; forse era caduto mentre si picchiavano e ora lampeggiava e suonava in un angolo del vicolo, uno dei tanti lamenti a cui nessuno, a Istanbul, presta ascolto. Il giardino

Istanbul, anni Ottanta

Peri aveva otto anni quando vide per la prima volta il «bebè nella nebbia». L’incontro l’avrebbe cambiata per sempre, intrecciandosi alla sua vita come un rampicante al tronco di un albero giovane. Avrebbe anche segnato l’inizio di una serie di esperienze che, pur familiari per via della loro somiglianza, non sarebbero divenute con gli anni meno spaventose. Diversamente da gran parte delle case nei paraggi, la loro era racchiusa da tutti e quattro i lati da un giardino rigoglioso. Era sul retro che i Nalbantoğlu passavano gran parte del tempo all’aria aperta. Lì appendevano ai fili i peperoni rossi, le melanzane e gli okra a seccarsi al sole, lì preparavano vasetto dopo vasetto la salsa di pomodoro piccante e lì cuocevano al vapore le teste di pecora nei calderoni per la festa di Id al-adha. Peri faceva di tutto per non guardarle, quelle pecore, negli occhi aperti e vacui, con la gola stretta al pensiero che chiunque mangiasse quegli occhi avrebbe anche inghiottito l’orrore che avevano visto l’istante prima della macellazione. L’idea la turbava doppiamente perché sapeva che quella sera stessa, a tavola, sarebbe stato suo padre a consumare quella prelibatezza accompagnata dal raqı. Sempre lì si impilava la lana cruda, per poi dare aria, lavare e battere i mazzetti con i bastoni prima di rimetterli dentro i materassi. Ogni tanto un ciuffo di fibra si staccava dal mucchio e ricadeva delicatamente sulla spalla di qualcuno come la piuma di un piccione colpito da un fucile. Quando Peri aveva confessato al padre che la lana cruda le faceva venire in mente uccelli morenti e che gli occhi delle pecore la guardavano con aria accusatoria, Mensur aveva sorriso e le aveva dato un buffetto sulla guancia. «Sei troppo sensibile, canimin içi, prendi la vita troppo sul serio» – come se lui fosse poi così diverso. Uno steccato di legno grezzo – con i pali talmente distanziati che lo facevano somigliare a una bocca sdentata – separava il loro giardino dal mondo esterno. Di tutte le attività che si svolgevano sul retro la preferita di Peri, dopo i giochi che faceva con gli altri bambini, era il lavaggio comune dei tappeti. Quanto desiderava l’arrivo di quel giorno, che cadeva a intervalli di qualche mese; bisognava che ci fosse bel tempo, non troppo secco né troppo umido, che i tappeti fossero sporchi abbastanza, e che tutti fossero dell’umore giusto. Il giorno deputato, tutti i tappeti venivano arrotolati e trascinati fuori, per poi essere nuovamente distesi sull’erba uno accanto all’altro. Annodati a mano, piatti o prodotti in serie, da lavare ce n’era una dozzina. Scagliati dentro un universo di nodi simmetrici, medaglioni centrali e simboli nascosti, i bambini di via del Poeta Muto saltavano di qua e di là tra squilli di risate, solcando oceani e attraccando in ogni porto sui loro tappeti volanti. Nel frattempo bolliva sul fuoco, in un angolo, una marmitta di ferro scoperta dalla quale si pescavano ciotolate d’acqua da gettare sui tappeti per ammorbidirne il tessuto. Poi uno per uno venivano insaponati, spazzolati, strigliati e sciacquati, ancora e ancora. Non tutte le donne sgobbavano allo stesso modo; la madre di Peri, per dirne una, aspettava in disparte, trovando quel lavoro troppo noioso e sudicio per i propri gusti. Altre, più impavide e diligenti di lei, si erano già tirate su gli shalwar e le gonne; con i visi arrossati per l’importanza della missione e i capelli non più trattenuti dai foulard, calpestavano a piedi nudi la pila lanosa dei tappeti come se attraversassero un campo di orzo tenero. Nelle ore successive i bambini facevano castelli di fango, intrappolavano mosche in scatole di fiammiferi striate di marmellata, mangiavano albicocche (e ne schiacciavano i noccioli) e angurie (e ne seccavano i semini), facevano ghirlande di aghi di pino e inseguivano una gatta fulva che era obesa oppure incinta all’ultimo stadio. Poi non sapevano più che cosa fare, ma a quel punto solo un terzo circa dei tappeti era stato pulito per bene; uno dopo l’altro gli amichetti se ne andavano a casa, per tornare più tardi, mentre Peri, dato che quella era casa sua, il suo giardino, restava. Era una bellissima giornata, calda e luminosa. Tra scrosci e spruzzi, il vento era saturo dei rumori dell’acqua. Le donne spettegolavano, ridevano e cantavano. Qualcuno faceva battute sconce, che Peri non capiva ma intuiva fossero tali dal cipiglio sul viso di sua madre. Nel pomeriggio le pulitrici di tappeti facevano una pausa per mangiare. Portavano fuori quello che avevano preparato in anticipo: foglie di cavolo farcite, börek con la feta, cetrioli sottaceto, insalata di bulgur, polpette arrostite, rotoli di mela al forno... Si sistemava fuori un gran vassoio, su cui ogni piatto trovava posto fra pile di azzimi e bicchieri di ayran, bianco e spumoso come fiocchi di nuvole dispensati dalla mano di un dio generoso. Famelica, Peri prese un börek dal piatto, ma quasi non fece in tempo a dargli un morso che l’aria venne trafitta da un urlo lancinante. Sua madre, frettolosa e distratta, era andata a sbattere contro la marmitta dell’acqua bollente, riuscendo a suo merito a non rovesciarsela addosso. Il braccio sinistro, però, era ustionato dal gomito alle dita. Mollando qualunque cosa stessero facendo, le altre donne corsero in aiuto di Selma. «Bagnatele il braccio con l’acqua fredda» disse qualcuno. «Dentifricio! Da spalmare su tutta la bruciatura!» «Aceto, così abbiamo curato le ustioni di mia zia, ed erano peggio di queste» intervenne qualcun altro. Tutti si precipitarono dentro casa per assistere Selma meglio che potevano, e Peri rimase sola in giardino. Una striscia di sole le cadeva sul viso, un insetto le ronzava attorno per i sonnolenti fatti suoi. Sotto un fico dall’altra parte della strada c’era un gatto, gli occhi di giada come due fessure sottilissime. Le venne in mente di dargli qualcosa da mangiare; prese una polpetta, si arrampicò sullo steccato e in un attimo si ritrovò fuori. «Ehi, ragazzina, come ti chiami?» Peri si voltò e vide un giovanotto in camicia a quadri bianchi e rossi, blue jeans che avevano l’aria di non essere mai stati lavati e un baschetto sul punto di scivolargli via dalla testa. Lì per lì non rispose, perché sapeva che non si parla con gli sconosciuti. Ma nemmeno si allontanò. Il basco l’aveva incuriosita, perché le aveva ricordato il poster nella camera di Umut. Forse questo sconosciuto era un rivoluzionario; forse aveva sentito parlare di suo fratello, e della sua sorte. Se non gli avesse detto la verità, pensò, in pratica non gli avrebbe fornito informazioni. Perciò disse: «Mi chiamo Rosa». «Ma guarda, mai conosciuta una Rosa prima d’ora» disse lui, il viso inclinato verso il sole. «E così carina, pure. Da grande farai strage di cuori.» Peri non disse nulla, benché qualcosa le si smuovesse dentro, una minuscola onda di sensualità, una forza non ancora desta, per metà esaltata e per metà respinta dal complimento. «Mi par di capire che ti piacciono i gatti.» La voce era lieve, fragile. In seguito, sebbene non in quel momento, Peri l’avrebbe paragonata al fagiolino che teneva nell’ovatta umida sul davanzale della finestra. Proprio come quel fagiolo, la voce dello sconosciuto si nascondeva, cambiava, germogliava. «Ho visto una palla di pelo dietro l’angolo» continuò lui. «A quanto pare, la signora ha appena fatto cinque micetti. Sono, tenerissimi, piccoli come topini. Hanno gli occhi rosa.» Ostentando indifferenza, Peri offrì alla gatta l’ultimo pezzo di polpetta. Il tipo si avvicinò di un passo; sapeva di tabacco, di sudore e di terra umida. Si accucciò a terra e le sorrise. Adesso si guardavano negli occhi. «Peccato che la madre li annegherà.» Peri trattenne il fiato. In fondo al campo dove vagavano i cani randagi e pascolava qualche capra, c’era una cisterna che nessuno usava perché se cadevano più di cinque centimetri di pioggia si contaminava di acque di scolo. La ragazzina lanciò uno sguardo in quella direzione, quasi aspettandosi di vederci galleggiare cadaveri felini. «Certe gatte lo fanno» riprese lo sconosciuto con un sospiro. Peri non riuscì a trattenersi. «E perché?» chiese. «A loro non piacciono gli occhi rosa» rispose lui. I suoi erano castano chiaro, incavati e vicini sul viso spigoloso. «Temono di aver dato alla luce creature estranee, come cuccioli di volpe. E quindi li uccidono.» Peri si chiese se i cuccioli di volpe avessero gli occhi rosa e, se sì, che cosa ne pensassero le loro madri. In famiglia lei era l’unica con gli occhi verdi ed era una fortuna, pensò, che finora nessuno avesse visto la cosa come un problema. Il tipo, notando il suo sconcerto, fece una carezza sulla testa della gatta prima di alzarsi. «Sarà meglio che vada a controllare i mici. Hanno bisogno di cure. Ti va di venire con me?» «Chi, io?» fece lei, perché non sapeva che altro dire. Lui serrò le labbra, riflettendo prima di rispondere, come se fosse stata lei a proporgli di andare con lui. «Puoi venire, se vuoi. Ma sono piccolissimi. Mi prometti di stare attenta a non fargli male?» «Promesso» rispose lei, disinvolta. Da qualche parte si aprì una finestra; una donna strillò nel vento, minacciando il figlio di spezzargli tutte e due le gambe se non fosse rientrato per pranzo immediatamente. L’uomo, nervoso tutt’a un tratto, guardò di qua e di là facendo la faccia lunga. «Non devono vederci insieme. Io vado avanti, tu vienimi dietro.» «Ma i mici, dove sono?» «Non lontano, ma è meglio se prendiamo la macchina. Ce l’ho proprio qui dietro l’angolo.» Fece un gesto vago, poi accelerò il passo. Peri cominciò a seguire lo sconosciuto, che zoppicava vistosamente. Benché nutrisse delle remore su ciò che stava facendo, questa era la prima decisione che prendeva senza i suoi genitori, e il momento in cui più si era avvicinata a un senso di libertà. Ben presto, gettandosi occhiate evasive alle spalle, il tipo raggiunse la macchina e si mise al volante, aspettando che arrivasse anche lei. Peri si fermò, colpita da un avvertimento più fisico che intuitivo, e rabbrividì come se un vento gelido le avesse sfiorato la pelle nuda. Ma a sconcertarla più di tutto fu la nebbia che era spuntata di colpo dal nulla. Una cortina di foschia, strati su strati di grigio come rotoli di stoffa dipanati in un negozio di telerie. La nebbia la disorientò, per un attimo, circa dove stava andando e perché; riusciva a distinguere il profilo lattiginoso di un albero vicino, ma il mondo oltre quel punto era diventato invisibile, compreso l’uomo che era solo pochi metri più avanti. E dentro la nube di grigio, Peri ebbe una visione incredibile: un bimbo dal viso tondo, aperto, fiducioso. Con una macchia violacea che gli andava dalla guancia fino al collo, e del liquido che colava da un angolo della bocca, come se avesse appena avuto un piccolo rigurgito. «Peri, dove sei?» La voce di sua madre, carica di apprensione, proveniente dalla casa color delle ciliegie aspre. Lei non riuscì a rispondere. Il cuore le martellava in gola mentre, gli occhi sgranati per la confusione, guardava il bebè nella nebbia. Era certamente uno spirito, un jinni, pensò. Ne aveva sentito parlare, erano creature fatte di fuoco senza fumo che vivevano qui da ben prima che Adamo ed Eva fossero scaraventati giù dal giardino dell’Eden; storicamente, quindi, la Terra apparteneva a loro e gli umani erano gli ultimi arrivati, gli invasori. I jinn abitavano lande desolate – montagne coperte di neve, caverne buie, deserti aridi – ma spesso trovavano la strada per arrivare in città e colonizzare cessi puzzolenti, cantine tetre, soffitte muffose. E siccome vagavano liberi ovunque, bisognava farci attenzione; a calpestarne uno per sbaglio si rischiava di finir male, quasi certamente paralizzati. Forse era già successo anche a lei, che non riusciva più a muovere un muscolo. «Peri, rispondimi!» gridò Selma. Il bebè nella nebbia ebbe un sussulto, quasi avesse riconosciuto la voce. Il grigiore cominciò a dissolversi, e così anche il piccolo, un pezzetto alla volta, come una bruma mattutina sotto i raggi del sole nascente. «Sono qui, mamma!» Peri fece dietrofront e si mise a correre verso il giardino più forte che poteva. Dopo avrebbe chiesto in giro se qualcuno, nel quartiere, sapesse qualcosa di certi micetti con gli occhi rosa. Nessuno, niente.

Più avanti, molto più in là nel tempo, Peri capì che solo per un soffio non era diventata l’ennesima notizia di cronaca nera. Anonima se non per le iniziali, N.N., e una fotografia con una pecetta nera a coprirle gli occhi, aveva rischiato di finire proprio là, vicino al resoconto di un’aggressione mortale a un capo mafioso di Istanbul, degli scontri fra l’esercito turco e i separatisti curdi in qualche città del confine sudorientale, della decisione di un tribunale di sequestrare il Tropico del Cancro di Henry Miller. In tutta la nazione la gente avrebbe letto i particolari del suo rapimento toccando legno, scuotendo il capo, facendo schioccare la lingua e ringraziando Dio che non fosse toccata a un figlio loro. Decise che il suo salvatore era «il bebè nella nebbia» e non ci pensò più, non sapendo e forse neanche volendo capire da dove fosse spuntato. Ma la visione continuò a ripresentarsi, in maniera del tutto inattesa, per tutta la vita; non solo quando era in pericolo ma anche in momenti normalissimi. All’aperto e al chiuso, la mattina o al tramonto, la nebbia poteva calare in qualunque luogo e istante, a stringerla da ogni lato come se volesse spingerla ad ammettere, una volta per tutte, fino a che punto era sola. Anni dopo, fu quel segreto e non altri a trovare posto nella sua valigia quando, a diciannove anni, partì diretta all’università di Oxford per la prima volta. Da altri Paesi europei non si potevano introdurre in Inghilterra né carne né latticini, ma nessuno vietava di portare con sé le proprie paure e i traumi dell’infanzia. L’hodja

Istanbul, anni Ottanta

Una settimana dopo Peri trovò il coraggio di rivelare il segreto al padre. «Scusa, hai detto che hai delle visioni?» domandò Mensur con il cruciverba del giornale ripiegato in grembo. «Non delle visioni, Baba. Una visione» precisò Peri. «Un bambino.» «E dov’è esattamente questo bambino?» Peri arrossì. «Galleggia in aria, tipo.» Per un istante, l’espressione del padre non tradì nulla. «Tu sei intelligente, piccola mia» disse infine Mensur. «Vuoi diventare come tua madre? Se è così accomodati, riempiti la testa di stupidaggini. Ma da te mi aspettavo qualcosa di meglio.» Fu un colpo al cuore per lei. Decisa a non deluderlo mai, cedette. Non che fosse tanto difficile: la visione, tutto sommato, non l’aveva toccata, e benché l’avesse vista con i suoi occhi, e in seguito arrivasse anche a sentirla, di fronte a un’esperienza così bizzarra non poteva fidarsi dei propri sensi. Per le regole empiriche di suo padre il bebè nella nebbia non esisteva, quindi, concluse Peri, era un frutto della sua fantasia; ma al perché la sua fantasia lo avesse partorito non trovava alcuna spiegazione plausibile. «Il mondo civilizzato, Pericim, non si basa su credenze infondate. È stato costruito sulla scienza, sulla ragione e sulla tecnologia. Ed è il mondo a cui apparteniamo io e te.» «Lo so, Baba.» «Bene. Allora non parliamone più. E soprattutto, non farne mai parola con tua madre.» Era inevitabile, tuttavia. Se la fisica di suo padre aveva le proprie regole universali, così era per la psicologia umana. Non c’era nulla come l’ordine di non aprire la quarantesima porta, o di non sbirciare nel forziere, per far sì che il chiavistello venisse tolto, il coperchio forzato. Va detto che Peri mantenne la promessa fin quando poté; ma alla successiva apparizione del bebè nella nebbia, la ragazzina corse a chiedere aiuto alla madre. «Perché non me l’hai detto prima?» disse Selma, con una ruga preoccupata a solcarle la fronte. Peri inghiottì a vuoto. «L’avevo detto a papà.» «A tuo padre? E cosa vuoi che ne capisca?» fece Selma. «Senti, a me sembra proprio opera di un jinni. Alcuni agiscono con garbo, ma altri sono pura malvagità, e il Corano ci mette ben in guardia. Farebbero qualunque cosa per impossessarsi di un essere umano, e specialmente di una ragazzina. Le donne sono particolarmente esposte al pericolo: dobbiamo stare attente.» Selma si chinò in avanti e le ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. In Peri quel gesto, semplice e affettuoso, scatenò un’ondata di tenerezza. «Cosa devo fare?» domandò alla madre. «Due cose. Primo, dimmi sempre la verità, perché Allah scova qualunque bugia e i genitori sono gli occhi di Allah sulla Terra. Secondo, occorre che troviamo un esorcista.» Il mattino seguente andarono insieme da un hodja, noto per la sua abilità nel liberare i malcapitati dalla possessione demoniaca. Piuttosto grassoccio, con due baffetti scuri e la voce sibilante, teneva in mano un rosario d’onice che sgranava adagio e aveva un testone del tutto sproporzionato al resto del corpo, come se gliel’avessero piazzato sul collo di fretta, senza pensarci; collo che peraltro sembrava esser stato inghiottito dalla camicia, ben abbottonata fino all’ultima asola sotto il mento. Osservando Peri con sguardo indagatore, le fece una serie di domande su come mangiava, giocava, studiava, dormiva e andava di corpo. Quell’indagine minuziosa la metteva a disagio, ma la bambina rimase ferma sulla sedia, facendo del proprio meglio per rispondere a modo. L’uomo le chiese se di recente avesse schiacciato un ragno o un bruco o una lucertola o uno scarafaggio o una cavalletta o una coccinella o una vespa o una formica. Su quest’ultima Peri esitò: chi lo sa, forse una formica l’aveva calpestata, o peggio ancora un formicaio. L’hodja confermò che i jinn, sfuggenti com’erano, potevano assumere sembianze di insetti, e se uno li schiacciava senza invocare il nome di Allah, ne veniva posseduto lì sui due piedi. Ciò detto, si rivolse a Selma. «Se la bimba avesse imparato a non uscire di casa senza recitare la Fatiha, questo non sarebbe successo. Io ho cinque figli, e mai nessuno è stato infastidito dai jinn. Perché? Semplice, perché sanno come proteggersi. Non le hai insegnato proprio niente, sorella?» Lo sguardo di Selma guizzò dall’uomo alla figlia e viceversa. «Ci provo, ma lei non ascolta. Suo padre ha una cattiva influenza su di lei.» «Papà non c’entra niente...» protestò Peri. Poi, con calma: «Adesso che succede?». Anziché risponderle, l’esorcista l’afferrò per le spalle, le si avvicinò con la faccia per quella che a lei sembrò un’eternità e sibilò: «Quale che sia il tuo nome, io lo scoprirò. E diverrai mio schiavo. So che appartieni alla schiera degli empi, o essere perfido e malevolo: abbandona questa ragazzina innocente! Ti avverto!». Peri serrò gli occhi. Le dita allentarono la presa attorno alle sue spalle. Poi l’uomo le spruzzò dell’acqua di rose sulla testa, recitando preghiere per scacciare il maligno, e le chiese di ingoiare minuscoli pezzetti di carta scritti in arabo – l’inchiostro le lasciò la lingua tinta di blu per giorni e giorni. Non accadde nulla. Quella sera, dietro le raccomandazioni dell’hodja e l’insistenza di sua madre, Peri trascorse un’ora da sola nel giardino, sussultando a ogni minimo rumore, una sagoma impaurita alla luce fioca di un lampione. Il giorno dopo la mandarono a inseguire un branco di cani randagi, ma alla fine furono loro a inseguire lei. «Oh jinni, ti darò un’ultima possibilità» disse l’esorcista quando tornarono a consultarlo. Stavolta aveva in mano una lunga bacchetta, fatta con un ramo secco di salice. «O vieni fuori spontaneamente, o te le suono di santa ragione.» E prima che Peri afferrasse fino in fondo quel che aveva sentito, l’uomo la colpì sulla schiena. Lei urlò. Selma impallidì. «È proprio necessario, efendim?» «È l’unico rimedio. Il jinni va spaventato. Più a lungo rimane nel suo corpo, più potente diventa.» «Sì, ma... questo non posso permetterlo» replicò Selma, le labbra tirate. «Ce ne andiamo.» «Come vuoi» disse l’hodja, imperturbabile. «Ma io ti avviso, sorella. Questa bambina è incline all’oscurità. Se anche ti liberi di questo jinni adesso, un altro potrà facilmente catturarla. Tienila d’occhio.» Madre e figlia, ormai più spaventate dall’esorcista che da qualunque possibile jinni, uscirono di corsa... ma non prima che Selma si separasse da una somma considerevole. «Non preoccuparti, mi passerà» disse Peri quando arrivarono alla fermata dell’autobus. Teneva la madre per mano, e si sentiva in colpa. «Mamma, che cosa intendeva quando ha detto che sono incline all’oscurità?» Selma parve turbata, non tanto dalla domanda della figlia quanto dalla propria incapacità di darle una risposta. «Certe persone sono così, dalla nascita. Il che spiega, direi, le cose che facevi da piccola...» S’interruppe, con le lacrime agli occhi. Pur non sapendo a che cosa alludesse, Peri intuì che doveva aver fatto qualcosa di molto, molto brutto. «Farò la brava, te lo prometto.» L’ennesima promessa che avrebbe fatto di tutto per mantenere, da quel giorno in avanti. Con profonda obbedienza si sarebbe attenuta a ciò che ci si aspettava da lei, tornando sui propri passi là dove aveva deviato dalla retta via, sempre attentissima a non provocare sorpresa o sconcerto, più normale e più innocua che poteva. Selma le diede un bacio sulla fronte. «Canim, speriamo che questa storia sia finita, ma tu fa’ attenzione! Potrebbe capitare di nuovo, e se succede devi dirmelo. I jinn sono vendicativi.» Capitò di nuovo, ma avendo imparato la lezione sulla propria pelle, Peri non ne parlò con nessuno. Sua madre era troppo superstiziosa, suo padre troppo razionale, e nessuno dei due poteva darle il minimo aiuto in una questione tanto assurda. Di qualunque episodio misterioso, se pure solo lievemente fuori dell’ordinario, Selma avrebbe fatto una questione religiosa e Mensur, semplicemente, di sanità mentale. Peri, dal canto suo, preferiva scansarle entrambe. Più ci pensava su, e più si convinceva che doveva tenere per sé le sue visioni. Per quanto la sconvolgessero, le accettò come un fatto della vita, come una lisca di pesce conficcata in gola, che non riusciva né a buttare giù né a sputare e non le dava altra scelta che imparare a conviverci. Perciò ripose il bebè nella nebbia – che fosse un jinni o una cosa completamente diversa – nei recessi della memoria; un enigma senza soluzione. Anni dopo, non molto tempo prima della partenza per Oxford, scrisse sul suo «diario di Dio»: Davvero non c’è un altro posto, un altro spazio per le cose che non ricadono sotto la fede né sotto l’incredulità, che non sono pura religione né pura ragione? Una terza via per gente come me? Per quelli che non vogliono adeguarsi a questi dualismi e li trovano troppo rigidi? Certe volte ho l’impressione di essere alla ricerca di una lingua nuova. Una lingua che nessuno parla tranne me... L’acquario

Istanbul, 2016

Alle nove meno un quarto di sera, madre e figlia raggiunsero il konak in riva al mare. Ringhiere in ferro battuto, scalini di marmo bianco, fontane decorate a mosaici, videocamere di sicurezza hi-tech, cancelli telecomandati, recinzioni col filo spinato. La tenuta non sembrava tanto una villa quanto un’isola, una cittadella sontuosa che si era chiusa fuori dalla città, o forse il contrario. Era stata adottata ogni possibile misura di sicurezza perché la soglia non venisse varcata da venditori ambulanti, ladri, criminali o stili di vita non graditi. Peri teneva la mano destra ferita contro il petto e guidava con la sinistra. Lungo la strada si era fermata in una farmacia e si era fatta medicare il taglio dal titolare, un tale di mezza età con i baffi brizzolati. Alla domanda su come fosse successo, Peri aveva risposto, sbrigativa: «Tagliando la verdura. Ecco cosa capita a cucinare in fretta». L’altro aveva riso; i farmacisti di Istanbul erano una stirpe di saggi, a cui non sfuggiva una bugia, ma che non approfondivano verità spiacevoli. Prostitute ferite dai clienti, dai papponi o da se stesse; donne malmenate dai mariti; automobilisti pestati da altri automobilisti; capitava a tutti di entrare in farmacia e tirar fuori una fandonia, fiduciosi che se anche non venivano creduti, per lo meno non sarebbero stati interrogati. Peri controllò il bendaggio e le sfuggì una smorfia quando si accorse che la macchia rossa era passata attraverso la garza. Avrebbe preferito togliersi la fasciatura prima di entrare per evitare domande difficili, ma il dolore, il sangue e il rischio di infezione bastarono a farle cambiare idea. Appena superato il cancello, apparve un massiccio guardiano in completo scuro, avvolto in una nube di dopobarba. Mentre l’uomo parcheggiava l’auto, Peri e Deniz attraversarono il giardino curatissimo, tra pergole di rampicanti. Una brezza lieve smuoveva le foglie dei platani. «Tesoro, non dovevo proprio corrergli dietro, a quello. Che cosa m’è saltato in mente?» disse Peri rompendo il silenzio. Con la mano sana sfiorò la figlia, un tocco leggerissimo, come se Deniz fosse fragile e la sua rabbia fatta di vetro. Una volta erano molto unite, avevano i loro codici segreti. Adesso era difficile credere che quella fosse la stessa ragazzina che rideva come una matta per le sue battute sceme e che le teneva la mano quando un personaggio disneyano piangeva: la bambina dolcissima era scomparsa, lasciando il posto a una sconosciuta. La trasformazione – non avrebbe saputo come altro definirla – aveva colto Peri alla sprovvista, nonostante avesse letto decine e decine di articoli sul fatto che la pubertà arrivava sempre più presto, soprattutto per le femmine. Si era sempre prefissa di avere con sua figlia un rapporto molto migliore di quello che lei aveva avuto con la madre; e non è forse l’unica vera speranza da realizzare nella vita, di cavarcela meglio dei nostri genitori e che i nostri figli siano genitori migliori di noi? E invece scopriamo, fin troppo spesso, che senza rendercene conto ripetiamo gli stessi errori della generazione precedente. E Peri sapeva inoltre che troppo spesso la collera cela la paura. Perciò disse sottovoce: «Mi dispiace se ti ho spaventata». «Mamma, mi hai spaventata eccome!» rispose Deniz. «Poteva ammazzarti!» Sua figlia aveva ragione; in quel vicolo con il barbone Peri aveva davvero rischiato di morire, ma Deniz non sapeva che il contrario era altrettanto vero, se non di più: sua madre avrebbe potuto tranquillamente uccidere quell’uomo. «Non la rifarò mai più, una cosa del genere» dichiarò Peri mentre raggiungevano i gradini che portavano all’ingresso. «Promesso?» «Promesso, tesoro. Però non dire niente a tuo padre, si preoccuperebbe e basta.» Deniz ci pensò su, un attimo di esitazione che sparì rapido come era apparso. Poi scosse il capo: «Ha il diritto di saperlo». Peri stava per ribattere, ma l’enorme portone di rovere intagliato a fiori e foglie si aprì dall’interno. Una cameriera in gonna nera e camicetta di chiffon bianco era ferma all’ingresso e sorrideva. Dalle sue spalle si levavano i suoni e i profumi di un banchetto ben avviato. «Benvenute! Accomodatevi, prego.» La cameriera parlava con un forte accento; probabilmente era moldava, georgiana o ucraina, una delle molte straniere che lavoravano per le famiglie di Istanbul mentre nel loro Paese erano le parenti e le amiche a tirarne su i figli, e ogni mese i mariti aspettavano l’arrivo dell’assegno. «Ma perché mi ci hai portata?» sbottò Deniz a tutto volume. «Te l'ho detto, c'è anche una tua amica. Forza, godiamoci la serata.» Erano appena entrate in casa che Peri vide il marito farsi strada tra gli invitati verso di loro, sul viso un’espressione mista di ansia e irritazione. Giacca avvitata nocciola, camicia bianca inamidata, cravatta azzurra e beige, scarpe lucide come il cristallo: del suo aspetto, Adnan non aveva trascurato nulla. Era un uomo che si era fatto da sé, il cui lavoro lo aveva portato da origini umili a una ricchezza accumulata nel settore immobiliare. Diceva spesso che l’unico a cui doveva il suo successo era Allah l’Onnipotente, ma a Peri, per quanto rispettasse il duro lavoro e il senso degli affari del marito, non era ben chiaro perché il Creatore avesse dovuto favorire proprio lui. Adnan aveva diciassette anni più di lei, ma a Peri sembrava che la differenza d’età si notasse soprattutto quando era agitato e gli si approfondivano le rughe sulla fronte, come adesso. «Dove sei stata? Ti ho chiamata cinquanta volte!» «Mi spiace, caro, ho perso il telefono» rispose Peri con la voce più rassicurante che riuscì a tirar fuori. «È una storia lunga, non parliamone adesso.» «Papà, lo vuoi sapere perché abbiamo fatto tardi?» intervenne Deniz con gli occhi illuminati alla vista del padre. «Perché la mamma s’è messa a dare la caccia ai ladri!» «Che cosa?» Deniz si scostò una ciocca di capelli dagli occhi. Aveva il naso del padre, lungo e aquilino, e la stessa sicurezza di sé. «Chiediglielo» disse prima di incamminarsi verso una ragazza più o meno coetanea, che sembrava annoiata in mezzo agli invitati più grandi. Ma non c’era tempo per le spiegazioni. Il padrone di casa, interrotta la conversazione con un famoso giornalista, si avvicinava a grandi falcate. Era un omone robusto, dalle spalle larghe, la testa calva e la corporatura rubizza del forte bevitore. Non aveva neppure una ruga sul viso, saturo in ogni centimetro dei più aggiornati trattamenti anti-età. Quando sorrideva i lineamenti rimanevano immobili, salvo per un accenno di contrazione agli angoli della bocca. «Ce l’avete fatta!» tuonò. Gli occhi azzurri, luccicanti di malizia, la squadrarono. «Che ti è successo alla mano? Hanno cercato di rapirti? Colpa tua: non dovresti essere così bella!» Peri sorrise, sebbene la battuta l’avesse fatta impallidire. Sperava che né lui né altri facessero commenti sullo stato del vestito: lacero all’orlo, chiazzato di frappuccino. La magra consolazione era che le macchie di sangue si dissimulavano, segni marroni irregolari. Rispose: «Abbiamo avuto un piccolo incidente lungo il percorso». La fronte di Adnan si corrugò per la preoccupazione. «Come, un incidente?» «Niente di serio, credimi» disse Peri sfiorando il gomito del marito: un segnale perché non facesse ulteriori domande. Si volse verso l’uomo d’affari, amabile. «Che villa stupenda!» «Grazie, carissima. Purtroppo, abbiamo motivo di pensare di essere stati colpiti dal malocchio: una disgrazia dopo l’altra. Prima si sono rotte le tubature e al pianterreno ci siamo trovati con l’acqua fino alle caviglie. Poi un fulmine ha colpito un albero che si è abbattuto sul tetto. Riesci a crederci? E tutto nel giro di pochi mesi.» «Dovresti procurarti un nazar boncuğu» suggerì Adnan. «Be’, abbiamo fatto di meglio: stasera abbiamo qui un sensitivo!» «Ma davvero?» chiese Peri, non perché le interessasse l’argomento, ma perché sapeva che ci si aspettava che reagisse così. Aveva l’impressione che di recente l’interesse per medium e indovini fosse schizzato alle stelle. Forse non era una coincidenza, che in un Paese in cui l’instabilità era la norma ci fosse una tale smania di profezie e divinazioni; possibilmente formulate da donne, ma valide per ambo i sessi. Fra la cronica indeterminatezza politica e la mancanza di trasparenza, i veggenti, autentici o fasulli, svolgevano una loro funzione sociale: sospingere l’incertezza verso qualcosa di più simile alla certezza. «Dicono tutti che è strepitoso» spiegò l’uomo d’affari. «Non si limita a parlare con i jinn, ma gli dà ordini. E a quanto pare loro fanno tutto quello che vuole. Ha addirittura delle mogli-jinn, un harem intero!» Sghignazzò sulla parola «harem», ma vedendo che Peri non lo seguiva, la fissò. «Qualcosa non va? Sembra che l’abbia vista tu, un’apparizione.» Peri si ritrasse d’istinto. In certi momenti si chiedeva se la gente le leggesse in faccia che aveva delle visioni, cose che gli altri non vedevano; ma fortunatamente l’uomo d’affari era interessato solo a sentire la propria voce. «So di broker che lo consultano prima di giocare in borsa. Da matti, vero? Sensitivi e mercato azionario!» Rise. «È un’idea di mia moglie, ma non prendetevela con lei. Poverina, dall’incidente non ci sta più tanto con la testa.» Ne avevano parlato tutti i giornali: circa sei mesi prima, un cargo da centodue metri battente bandiera della Sierra Leone si era arenato dentro la loro residenza in riva al mare. La nave aveva distrutto l’argine e l’elegante veranda meridionale, risalente all’ultimo secolo dell’Impero ottomano. Era stato su quella veranda che il Kaiser Guglielmo II aveva preso il tè con un pascià noto per le sue smisurate ambizioni e per la sua ammirazione nei confronti della cultura e delle virtù militari della Germania. Lo stesso pascià avrebbe poi messo in giro la diceria che il Kaiser fosse musulmano e che appena nato, persino prima di posarlo sul petto della madre, gli avessero sussurrato all’orecchio i primi versi del Corano: il suo vero nome era Hajji Wilhelm, amico eterno e protettore inflessibile dell’Islam. Un’immagine molto comoda, per quando gli ottomani sarebbero entrati in guerra a fianco dei tedeschi. E sempre su quella storica veranda un giovane ereditiere turco, infatuato di una ballerina della Russia bianca fuggita a Istanbul dopo la Rivoluzione, non essendo riuscito a convincere la famiglia ad accettare la sua amata, si era puntato una pistola alla tempia e si era sparato. Il proiettile, dopo avergli mandato in pezzi il cranio e attraversato il cervello, gli era uscito dietro l’orecchio sinistro e si era conficcato in una crepa del muro, in cui sarebbe rimasto ignorato per trent’anni. Nella sua storia tempestosa, la villa aveva visto eroi ascendere e cadere, imperi prendere il volo e rovinare, carte geografiche espandersi e restringersi, sogni trasformarsi in polvere. Ma mai, fino ad allora, era stata speronata da una nave. La prua del cargo aveva trapassato il muro, era entrata dentro un quadro di Fahrelnissa Zeid e si era fermata miracolosamente appena prima di distruggere il lampadario di Murano. Adesso, in ricordo di quel giorno, a quello stesso lampadario era appesa una nave in miniatura, il che offriva ai padroni di casa l’occasione di raccontare e riraccontare l’aneddoto. «Oh, eccovi! Pensavamo che non sareste più venute» gridò una voce alle loro spalle. Era la moglie dell’uomo d’affari, che uscendo dalla cucina, dopo aver tempestato di ordini la cuoca, aveva notato Peri. Indossava un abito da sera corto, verde smeraldo, con il collo alto, la schiena scoperta e la vita segnata. Al dito risplendeva un anello di colore simile, con una pietra grossa come un uovo di rondine. Le labbra erano dipinte di un rosso vivace e i capelli erano raccolti in uno chignon talmente stretto che a Peri venne in mente la pelle di capra tesa su un darbuka. «Il traffico...» accennò Peri mentre baciava sulle guance la padrona di casa. Era una delle scuse che veniva presa per buona a qualunque ora si arrivasse: bastava la parola a rendere superflua qualunque ulteriore spiegazione. Peri scrutò i visi degli anfitrioni e vide con sollievo che aveva funzionato. Loro sembravano convinti, ma suo marito palesemente no; con lui se la sarebbe vista più tardi. «Non ti preoccupare, cara, lo sappiamo tutti com’è» disse la padrona di casa mentre osservava il vestito di Peri, registrando ogni strappo e ogni macchia. «Non ho fatto in tempo a cambiarmi» si affrettò ad aggiungere Peri. Era vero, si sentiva nuda sotto quello sguardo, ma le dava anche una segreta soddisfazione – in un ricevimento pieno di borsette griffate e vestiti dai prezzi assurdi – scioccare un pochino la platea. «Tranquilla, sei tra amici» disse l’altra. «Vuoi che te ne presti uno dei miei?» Considerando com’era andata fino ad allora, Peri immaginò di rovesciare della salsa di pomodoro sul vestito della signora. «Va bene così, grazie per la gentilezza.» «Allora forza, venite a mangiare qualcosa, starete morendo di fame.» «Da bere che cosa ti porto? Bianco o rosso?» chiese l’uomo d’affari. «Gentilissimo, ma prima devo rinfrescarmi un attimo» disse Peri. Seguì la cameriera nei recessi della villa, continuando a sentire gli occhi del marito che le perforavano la schiena. Una volta in bagno Peri chiuse la porta a chiave, abbassò la tavoletta e si sedette sulla tazza. Riempiendosi i polmoni d’aria, si massaggiò una tempia con le dita, travolta dalla fatica. Non aveva né le energie né la voglia di uscire e affrontare tutta quella gente, ma sapeva che di lì a poco avrebbe dovuto. Se solo fosse potuta scivolare fuori dalla finestra del bagno... Svolse con cura la benda. Il coltello le aveva tagliato il palmo da un’estremità all’altra; non era un taglio profondo, non erano necessari punti, ma al minimo movimento le faceva un male d’inferno e ricominciava a sanguinare. In quel momento la ferita le pulsava a ogni battito del cuore e Peri non riusciva a non tremare. Si rendeva conto solo ora della gravità di quello che era accaduto. Sentiva la bocca secca come polvere. Si riavvolse la mano nella benda. Quando si alzò per lavarsi il viso, sgranò gli occhi, esterrefatta. Proprio di fronte a lei c’era un enorme acquario di barriera, sopra al quale erano montati il lavandino e i rubinetti. Nella vasca nuotavano decine di pesci esotici, tutti di varie sfumature di giallo e rosso, i colori della squadra del cuore dell’uomo d’affari. Sapevano tutti che era un tifoso sfegatato, che aveva una tribuna privata allo stadio e che amava farsi fotografare con i giocatori. Era deciso a diventare presto presidente del club e manovrava attivamente dietro le quinte per raggiungere il suo obiettivo. Peri osservava i pesci nel loro universo artificiale, intatto e protetto. Ai due lati del lavandino c’erano vaschette in argento da hammam con motivi a sbalzo, in cui erano impilati asciugamani da ospite perfettamente inamidati e arrotolati. A terra, dappertutto, ardevano candele con alte fiamme vacillanti. Fiutò una miscela di aromi dolce e densa come sciroppo, anche se al di sotto si percepiva la pungente nota chimica dei detersivi, uno sgradevole promemoria della colla del barbone. Fu colta dall’impulso urgente di un gesto ardito e inaspettato. Avrebbe voluto mandare in frantumi l’acquario, far schizzare schegge di vetro in tutte le direzioni mentre i pesci slittavano per il pavimento di marmo. Eccoli sfrecciare, battendo le code, ansimando per poter respirare, percorsi dall’esaltazione della fuga; sarebbero scivolati lungo il corridoio, zigzagando fra i piedi degli invitati, mentre la luce del lampadario si rifletteva sulla pelle squamata; sarebbero sgusciati fuori dalla porta di servizio, guizzando da un estremo all’altro della terrazza e poi, ormai in preda alla paura della morte imminente, eccoli tuffarsi nel mare profondo, dove avrebbero ritrovato vecchi amici e parenti rimasti nelle stesse acque, annoiati e immutati. Gli ultimi arrivati avrebbero raccontato agli altri pesci com’era vivere in quell’enorme villa sopra al mare, rinunciando all’immensità azzurra in cambio del non doversi preoccupare del prossimo pasto. Presto i pesci evasi sarebbero stati divorati da qualche predatore più grande, perché come fa, uno abituato ai lussi di un acquario da ricchi, a sopravvivere in acque pericolose? Eppure non avrebbero rinunciato neanche a un minuto di libertà per tutti gli anni di prigionia. Se solo avesse trovato un martello... Certe volte, la sua mente le metteva paura. La mattina a colazione

Istanbul, anni Novanta

La detenzione di Umut, come una torcia puntata sugli angoli bui di una stanza, illuminò le debolezze e i difetti che i Nalbantoğlu avevano sempre nascosto, tanto a se stessi quanto agli altri. Chiunque li osservasse avrebbe notato la voragine che l’assenza del figlio maggiore aveva aperto nella vita della famiglia, ma loro decisero di fingere che quella cavità vorace non esistesse. Non fu nient’altro che un caso il fatto che Mensur cominciasse proprio allora a bere molto di più; fu un caso che le guance di Selma assumessero un colore giallo anemico, per il debito di sonno dopo notti passate a pregare e il debito di pasti decenti dopo giorni di digiuno. I sogni di Peri divennero man mano più inquietanti, le sue urla più potenti. Dormiva con la luce accesa e teneva una collana d’ambra sul comodino, avendo letto che l’ambra scacciava i demoni. Ma niente le giovava. In sogno vedeva scuole che sembravano carceri, e guardie che somigliavano stranamente a sua madre e a suo padre. Si ritrovava coperta di vermi o di feci, con i capelli rasati, arrestata e imprigionata per un delitto che nemmeno sapeva di aver commesso; da questi incubi si risvegliava sempre con il cuore che martellava e impiegava decine di secondi per tornare al mondo reale. Mensur era molto cambiato. Sparito l’uomo che buttava giù un bicchierino o due insieme agli amici, nel calore delle vecchie ballate o di un vivace dibattito politico, suo padre adesso preferiva bere da solo, con il silenzio come fedele compagno. Per molto tempo il suo corpo, sano e forte, non mostrò alcun segno di logoramento, se non per i cerchi sotto gli occhi, scure mezzelune in un cielo chiaro. Poi accadde l’inevitabile. La mattina Mensur si svegliava sudato e dolorante, con l’aria esausta come se nel sonno avesse spaccato pietre. Spesso era confuso e sentiva una forte nausea. Nello sforzo di nascondere il tremore che gli invadeva le membra, si teneva in disparte, sepolto nel silenzio, oppure parlava troppo, senza freni. Quando fu ovvio a tutti che non era più in condizione di lavorare davvero, l’azienda in cui era impiegato decise di prepensionarlo. E senza un impegno quotidiano trascorreva più tempo a casa, novità sgradita alla moglie e al figlio minore. Apprensivo, spossato e facile all’agitazione, ricordava l’immagine di un impero troppo vasto occupato su due campi di battaglia: l’antico fronte orientale, dov’era in lotta con la moglie, e il nuovissimo fronte occidentale, dove combatteva con Hakan. E su entrambi i fronti perdeva. Erano continue e brutali, queste liti tra padre e figlio, un intrico di voci maschili, di accuse piene di cattiveria che affioravano la mattina a colazione, come banchi di pesci morti venuti a galla dopo un’esplosione. Viste da fuori non erano che sciocchezze – un commento su una camicia pacchiana o sul tè tracannato troppo rumorosamente – ma dentro, la frattura era profondissima. Ogni volta, senza eccezione, Selma si schierava con il figlio minore. Mostrava molta più grinta nel combattere per la prole che per sé, vigorosa e fiera come una poiana che difende i pulcini da un altro predatore. Quindi erano due contro uno: situazione che a sua volta costringeva Peri a prendere le parti del padre, se non altro per una questione di equilibrio. A lei, però, non interessava vincere: voleva solo una tregua, una temporanea sospensione del dolore. Poco tempo dopo Hakan, che non aveva mai realmente compreso il valore dell’istruzione, annunciò che lasciava l’università e che non aveva alcuna intenzione di tornare in quell’inutile stalla. Dalla sera alla mattina, con grande rammarico dei genitori, mise fine ai propri giorni da studente, turandosi il cervello prima che potesse aprirsi. Glielo si leggeva negli occhi, quanto detestasse la propria vita e quelli che riteneva responsabili della sua infelicità. Per molti giorni al mese Hakan tornava a casa solo per riempirsi la pancia, cambiarsi e dormire un po’. Ondivago come un palloncino al vento, provò inutilmente a fare diversi lavori finché, tramite un gruppo di sodali che definiva Fratelli, scoprì una causa. Questi suoi amici avevano opinioni molto nette sugli Stati Uniti, su Israele, sulla Russia e sul Medio Oriente, e vedevano ovunque complotti e società segrete. Si salutavano dandosi un colpetto tempia contro tempia e facevano largo uso di paroloni come «onore», «lealtà» e «rettitudine». Insieme a loro Hakan dimostrò che sapeva anche imparare in fretta: il cinismo e il pessimismo di questa nuova cerchia gli si addicevano. Con l’appoggio dei Fratelli ottenne un posto in un quotidiano ultranazionalista. Con l’ortografia e la grammatica era di una negligenza vergognosa, ma con le parole ci sapeva fare, e aveva talento per la retorica incendiaria. Cominciò a tenere una rubrica sotto pseudonimo, con articoli dal contenuto sempre più aspro ed eversivo. Ogni settimana metteva alla gogna i traditori della nazione, le mele marce che, se non eliminate, avrebbero guastato tutto il cesto: ebrei, armeni, greci, curdi, aleviti... Non c’era un gruppo etnico, a parte quello turco, di cui un turco potesse fidarsi. Il nazionalismo gli calzava a pennello, come un abito su misura; il nazionalismo lo rassicurava sul fatto di essere figlio di una nazione superiore, di una razza più degna, e di essere destinato a grandi cose, non per sé ma per il suo popolo. Ammantato di quell’identità, Hakan si sentiva forte, puro, invincibile. Osservando la trasformazione del fratello, Peri sarebbe giunta a capire che niente dilata l’ego quanto una causa nutrita dall’illusione del più limpido altruismo. «Sei convinto di avere un figlio solo in prigione? In questa casa sono anch’io in galera» gridò una volta Hakan a suo padre dopo l’ennesimo litigio a colazione. «Umut è fortunato, non deve sorbirsi ogni giorno le tue tirate.» «E tu la chiami fortuna, quella di tuo fratello, brutto pezzo di disgraziato?» gli gridò Mensur di rimando, con la voce che gli tremava più delle mani. Peri ascoltava, la testa bassa, le spalle rigide. C’era qualcosa, negli alterchi famigliari, che somigliava alla percezione di una valanga imminente: una parola di troppo, e la palla di neve sarebbe diventata così grossa da seppellirli tutti. «Lascialo stare, è un ragazzo» borbottò Selma rivolta al marito. «Un ragazzo irresponsabile che si fa mantenere da suo padre» disse Mensur. «Ah, quindi non vuoi più che mangi il tuo pane? Benissimo, d’ora in poi smetto» ribatté Hakan scagliando contro il muro il cestino vuoto, che rimbalzò come una palla di gomma spargendo briciole dappertutto. «E poi chi lo vuole, il pane di un alcolizzato.» Mai prima d’allora si era udita quella parola. Impensabile, irritrattabile, irreparabile, dare dell’alcolizzato al capofamiglia, eppure era successo. Hakan, incapace di reggere il silenzio che seguì, si precipitò fuori. Selma scoppiò a piangere. Tra un singhiozzo e l’altro, la voce andava su e giù in una litania di gemiti. «Siamo stati maledetti. Tutta la famiglia! Sì... è una maledizione.» Nella sventura del figlio maggiore vedeva un castigo e un richiamo da parte di Allah, disse. E poiché loro non avevano dato ascolto a quel divino ammonimento, lei era certa che altre disgrazie li attendevano. «Mai sentita una stupidaggine più grossa» disse Mensur. «E perché mai Dio dovrebbe voler rovinare i Nalbantoğlu? Sono sicuro che ha di meglio da fare.» «Le vie di Allah sono imperscrutabili. Intende darci... dare a te... un insegnamento.» «E l’insegnamento sarebbe?» «Che devi ravvederti» rispose Selma. «Finché non rimedierai ai tuoi errori, nessuno di noi vivrà mai in pace.» Mensur si raddrizzò sulla sedia. «Se credi davvero che quello che è successo a Umut sia opera di Dio, e che Dio debba servirsi di prigioni e torture per diffondere i suoi insegnamenti, in te c’è qualcosa che non va, donna. Oppure, maledizione, c’è qualcosa che non va nel tuo Dio.» «Tövbe, tövbe...» mormorò Selma. Per controbilanciare l’ira di Allah, Selma per giorni e talvolta settimane mangiava pochissimo, accontentandosi di pane, acqua, yogurt e datteri. Offerte votive, negoziati viscerali con l’Onnipotente. La notte dormiva a malapena, e passava il tempo a fare le uniche due cose che la tranquillizzavano: pregare e pulire. Riusciva, anche stando a letto, a notare un finissimo strato di polvere su qualunque superficie, e restava ad ascoltare i tarli che si mangiavano i mobiletti; possibile che gli altri non li sentissero? Aspirine sbriciolate, aceto bianco, succo di limone, bicarbonato. Strigliava, sciacquava, spazzolava, dava la cera, strofinava. Il risveglio della famiglia, al mattino, sapeva di detersivo. Selma si lavava anche le mani con tale frequenza, e intensità, che odoravano sempre di disinfettante. In alcuni punti la pelle era così screpolata da sanguinare, il che aumentava la sua paura di una contaminazione e la spingeva a lavarsele di nuovo e più a fondo di prima. Per nascondere lo stato in cui se le era ridotte prese a indossare guanti neri, insieme al velo e a un lungo cappotto scuro e informe che le arrivava quasi sotto i tacchi. Una sera che lei e Peri tornavano dal bazar, la figlia si guardò alle spalle e per un istante non riuscì a individuare la madre, per come si era ormai fusa con la notte. Mensur, mortificato dall’aspetto della moglie, non voleva più farsi vedere con lei. Perciò faceva la spesa da solo, e così lei. La tenuta di Selma simboleggiava tutto ciò che lui del Medio Oriente aveva sempre disprezzato, aborrito e sfidato. L’oscurantismo dei religiosi. La presunzione di saperla più lunga di tutti, solo perché erano nati dentro quella cultura e avevano recepito acriticamente qualunque cosa gli avessero insegnato. Come potevano essere sicuri della supremazia delle loro verità, quando sapevano poco o niente di altre culture, altre filosofie, altri modi di pensare? Allo stesso modo, la condotta di Mensur incarnava per Selma tutto ciò che la irritava: la degnazione nei suoi occhi, i toni recisi nella voce, la superiorità morale nell’atteggiamento del volto. Tutta l’arroganza dei modernisti laici, la boriosa e tronfia facilità con cui ponevano se stessi al di fuori e al di sopra della società, guardando dall’alto in basso secoli di tradizione. Come facevano a definirsi illuminati, quando sapevano poco o niente della loro cultura, della loro fede? Paralizzati dal terrore di dover conversare, marito e moglie s’incrociavano rapidi, senza sfiorarsi. Compensavano tutto l’amore che mancava loro con il risentimento. Nel frattempo, Peri aveva trovato un certo sollievo nella letteratura. Racconti, romanzi, poesie, drammi... nella circoscritta bibliotechina scolastica divorò qualunque cosa le capitasse in mano, e quando non trovò più nulla prese a leggere le enciclopedie. Da Aachen a Zurigo imparò un mucchio di cose che, sebbene non le fossero al momento di alcuna utilità, magari un giorno o l’altro le avrebbero fatto comodo, o così sperava. E se anche si fossero rivelate inservibili, lei intendeva continuare a leggere, sospinta dalla propria sete di conoscenza. La carta stampata era liberatoria, piena di vita; Peri si trovava molto meglio nel Paese delle storie che nel Paese natale. Nel fine settimana si rifiutava di uscire dalla sua camera, sbocconcellava mele e semi di girasole e finiva un romanzo preso a prestito dopo l’altro. Scoprì che per sviluppare tutto il proprio potenziale, come i muscoli, anche l’intelligenza andava tenuta in esercizio a livelli di pressione crescenti; insoddisfatta del nozionismo scolastico, sviluppò tecniche verbali e visive tutti suoi per trattenere le informazioni, tipo nomi latini di piante, versi di poesie inglesi, date di guerre, trattati di pace e nuove guerre, di cui la storia ottomana era fin troppo ricca. Aveva deciso di eccellere in tutte le materie, da lettere a matematica, da fisica a chimica, e se le figurava come uccelli tropicali tenuti in gabbia fianco a fianco. Cosa sarebbe successo se lei avesse fatto dei buchi nelle reticelle metalliche e gli uccelli fossero stati liberi di volare da una gabbia all’altra? Avrebbe tanto desiderato vedere la matematica che faceva compagnia alla letteratura, la fisica alla filosofia. E comunque, dove stava scritto che non dovevano mescolarsi? Capiva che la sua ossessione per lo studio la separava dai compagni e gliene guadagnava l’invidia e l’ostilità. Pazienza. Come tutti i Nalbantoğlu era naturalmente incline alla solitudine, e non gliene importava niente se gli altri le davano della cocca della maestra, se non veniva invitata alle feste di compleanno delle ragazze più in vista o se non andava al cinema con i ragazzi più popolari. La vita era questione di lumi, di ideali, d’amore, questo aveva un senso. Ma gli spassi no, non facevano per lei. Come tutti gli emarginati, scoprì ben presto di non essere sola. In ogni classe c’era qualcuno che, per un motivo o per un altro, non era in sintonia con tutti gli alti; e tra loro si riconoscevano immediatamente, perché tra intoccabili ci si capiva: c’era il ragazzo curdo preso in giro per l’accento, la ragazza con i baffetti e l’altra, un anno indietro, che quando era nervosa per le interrogazioni non riusciva a controllare la vescica, e poi c’era quello che, si diceva, aveva la mamma di facili costumi... Con tutti loro strinse salde amicizie. Ma i suoi veri compagni restavano i libri, la fantasia la sua casa, la sua patria, il suo rifugio e il suo esilio. Perciò leggeva e studiava, ed era sempre la prima della classe, quadrimestre dopo quadrimestre. Quando aveva bisogno di una iniezione d’autostima correva dal padre, e Mensur le dava sempre lo stesso consiglio: «L’istruzione, anima mia. L’istruzione ci salverà. Tu sei l’orgoglio di questa famiglia infelice, ma io desidero che ti formi in Occidente. L’Europa è piena di ottime scuole, ma tu devi andare a Oxford! Ti riempirai la testa di conoscenza e poi tornerai qui. Solo i giovani come te possono cambiare il destino di questo Paese vecchio e stanco». Da giovane Mensur aveva conosciuto un ragazzo che studiava a Oxford, pallido e un po’ hippy, al quale si era subito sentito affratellato. Il tipo aveva deciso di farsi il giro della Turchia da solo in bicicletta e sacco a pelo, e si vantava di tenere tutti i soldi in un calzino per vanificare gli sforzi di borseggiatori e topi d’albergo; ma Mensur, preoccupato che un forestiero tanto ingenuo potesse fare una brutta fine, aveva insistito per accompagnarlo, e i due avevano percorso insieme tutta la penisola anatolica, dopodiché l’inglesino biondo aveva passato il confine con l’Iran. Che cosa fosse stato di lui, Mensur non lo sapeva, però non aveva mai dimenticato lo sconcerto nel vedere il proprio Paese con gli occhi di un occidentale. Per la prima volta aveva capito che quanto era normale per lui poteva tranquillamente non esserlo per uno di fuori; per la prima volta si era reso conto dell’esistenza di un «mondo di fuori». E adesso voleva che sua figlia studiasse proprio lì. Era il suo desiderio più grande. Peri, e altre centinaia di ragazzi come Peri, giovani laureati ben istruiti, idealisti e progressisti, avrebbero salvato quel paese dall’arretratezza. Dal canto suo, Peri capiva e accettava l’idea che alcune figlie nascessero con la missione di esaudire i sogni dei padri. Nel farlo, avrebbero anche riscattato la loro patria. Un tango con Azrael

Istanbul, anni Novanta

L’estate in cui Peri compì undici anni, sua madre, esaudendo un sogno lungamente atteso, andò in pellegrinaggio in Arabia Saudita. Con il fratello più grande ancora in prigione e il più piccolo a scroccare l’ospitalità di Dio sa chi, Peri e suo padre si trovarono a casa da soli; da soli si facevano da mangiare (köfte e patatine fritte a pranzo, köfte e spaghetti a cena), da soli lavavano i piatti (cioè li sciacquavano soltanto) e guardavano quello che gli pareva alla televisione. Era come essere in vacanza, però meglio. Il giorno del mercato di zona Peri si svegliò in preda alla nausea, reggendosi lo stomaco con la sensazione che tutte quelle köfte con gli spaghetti si stessero vendicando. Doveva dire a suo padre di variare un po’ il menu. In bagno però l’attendeva una sorpresa: macchie sulla biancheria. Troppo scure, ma lei sapeva che erano di sangue. Sua madre l’aveva avvisata che sarebbe successo, e che da quel momento avrebbe dovuto stare ancora più attenta ai ragazzi: «Non farti toccare». Ma era troppo presto! A scuola aveva sentito qua e là le ragazze più grandi che se ne lamentavano: «È tornata la zia!» dicevano disinvolte, oppure si domandavano a vicenda: «Mi dai un’occhiata dietro?» affrettando il passo. Nella sua classe ce n’era solo una che sosteneva di avere il ciclo, ma tutti sapevano che non era vero. Quindi tra le sue coetanee Peri era la prima. Nell’anno appena trascorso era cresciuta troppo in fretta, per quanto cercasse di nasconderlo; ormai troppe volte si era sentita dire che era carina per non capire che la gente lo pensava davvero. Ma la sua idea di sé era molto diversa. Quanto avrebbe desiderato avere i capelli neri come la notte, anziché di uno scialbo castano chiaro, e una serena piattezza al posto delle curve che cominciavano a delinearsi. Sarebbe stata felicissima di essere il terzo figlio dei Nalbantoğlu: non avrebbe forse avuto vita più facile, se fosse stata un maschio? Trovò un lenzuolo vecchio, pulito, e lo fece a strisce. Se le avesse usate con acume e parsimonia, non sarebbe stato necessario dire niente alla mamma. Poteva lavarle, farle asciugare e riutilizzarle, allo stesso modo di tante altre donne del suo Paese; così avrebbe potuto nascondere la verità finché non fosse stata sui quattordici anni, l’età che riteneva adatta per la prima mestruazione. Dio aveva commesso un errore nei suoi divini calcoli, e lei era decisa a rettificarlo. Due settimane dopo tornò Selma, smagrita e cotta dal sole. Crollò sul divano e cominciò a riferire del viaggio alla Mecca, con le parole che galoppavano come avrebbero fatto i suoi cavallucci di porcellana, avessero avuto in sé un alito di vita. «L’anno scorso, in un serra-serra dentro un sottopassaggio pedonale sono morti più di mille pellegrini, perciò adesso i sauditi stanno molto attenti» raccontò. «Solo che non possono prevenire le malattie! Sono stata così male che pensavo di morire là per là!» «Sono contento che non sia successo» disse Mensur. «È bello riaverti.» «Come Allah volle, sono a casa» fece lei con un sospiro. «Ma se non ce l’avessi fatta mi avrebbero seppellita a Medina, vicina al Profeta, sempre sia lodato.» «Dai cimiteri di Istanbul si gode una vista migliore» scherzò Mensur. «Per non parlare dell’aria di mare. Sepolta a Medina, saresti diventata terriccio per una palma da dattero. Mentre qui puoi concimare lentischi, tigli, aceri... o un gelsomino, pensa! Saresti sempre circondata di profumo, tutto l’anno.» Selma si ritrasse dalle parole del marito come se fossero braci roventi scagliate tutto intorno da un fuoco acceso. Temendo che i due riprendessero a scornarsi, Peri intervenne: «Mamma, cos’hai in valigia? Ci hai portato qualcosa?». «Vi ho portato tutta la Mecca!» fu la risposta. Peri e Mensur si rianimarono, illuminati in volto come due bimbi ansiosi. Uno dopo l’altro si scartarono i pacchettini: datteri, miele, miswāk, acqua di colonia, tappetini da preghiera, muschio da profumeria, rosari, foulard e minuscoli flaconi d’acqua del pozzo sacro di Zamzam. «Come fai a sapere che è acqua santa, te l’hanno autenticata?» chiese Mensur scuotendone uno. «Potrebbero anche averti venduto acqua del rubinetto.» Al che Selma gli strappò il flaconcino di mano, lo aprì e lo mandò giù d’un colpo. «Questa è pura acqua di Zamzam, sei tu che sei indecente!» «Come vuoi» fece Mensur con un’alzata di spalle. Indicando un’altra scatola, Peri domandò: «E lì cosa c’è, mamma?». Saltò fuori che c’era un orologio da parete in bronzo a forma di moschea – quarantacinque centimetri per cinquanta – con tanto di pendolo e di minareti da entrambi i lati. Selma spiegò che era programmabile in modo da segnare gli orari di preghiera in mille diverse città del mondo; dopodiché lo appese a una parete del soggiorno, rivolto verso la qibla, di fronte al ritratto di Atatürk. «Io una moschea in casa non ce la voglio» affermò Mensur. «Ah, davvero? Io però devo tenermi in casa un infedele» ribatté Selma. «Be’, al momento metà dei miei peccati sono tuoi. Se tu non avessi comprato quell’affare, io non avrei dovuto bestemmiare. Adesso tiralo giù!» «Neanche per idea» gridò Selma. «L’ho scelto, l'ho pagato e me lo sono portato fin qui dalla terra santa. Dove mi sono ammalata e sono quasi morta. Adesso sono una hajji, e pretendo un po’ di rispetto!» Era la prima volta che Peri sentiva sua madre urlare in faccia a suo padre; e venendo da una donna che, per anni, si era ribellata a suon di frecciate a bassa voce o di silenzi stoici, quel grido parve un’esplosione. L’orologio rimase dov’era ma con la sveglia azzittita, concessione che non soddisfaceva nessuna delle parti coinvolte. Per il resto della giornata, Mensur si chiuse in un broncio nerissimo. La sera andò via per ore la corrente; lui prese posto a tavola con il raqı più presto del solito, fra Atatürk e l’orologio da preghiera, il viso pallido percorso dalle ombre gettate da una candela accesa. A un certo punto disse che si sentiva male; si mise una mano sul cuore, come a salutare un’entità invisibile, chinò il capo e crollò. Un attacco di cuore. Per il resto della vita Peri non avrebbe mai dimenticato il modo in cui quella notte si fece più nera di minuto in minuto. Mentre guardava il padre accasciarsi come un manichino esanime, la fronte che batteva sul tavolo dal quale fu poi sollevato e disteso sul divano, quindi allungato su una barella, caricato in ambulanza, portato d’impeto al pronto soccorso e infine sospinto in sala operatoria con macchinari che pigolavano da ogni parte, riuscì soltanto a chiedersi, mille volte di fila, se quello era un castigo di Dio. Una domanda così spaventosa da non potersi pronunciare ad alta voce, doveva essere ricacciata in gola. Le sarebbe piaciuto chiedere alla madre, che piangeva accanto a lei, ma era terrorizzata dalla risposta che Selma avrebbe potuto darle. Era così che si comportava Allah? Prima ti permetteva di fare l’irriverente e scherzare senza inibizioni, e poi te la faceva pagare? Era quasi come se stesse lì ad aspettare che tu peccassi, così poi poteva scaricarti addosso la Sua ira. Insomma, la via di Dio era il mascheramento, un trucco per celare una vendetta calcolata? Oltre a questo, c’era un altro pensiero ostinato a tormentarla. Nel profondo della sua mente Peri si era convinta che l’infarto del padre, per qualche tortuosa catena di eventi misteriosi, fosse stato causato dal suo ciclo. Perché aveva cominciato a sanguinare così presto, e mentre sua madre era via? Aveva sbagliato, a cercare di trasformarsi nella donna di casa: tra l’altro anche perché, se ne rendeva conto solo adesso, più in fretta lei cresceva e più presto suo padre rischiava di morire. Peri e Selma erano sedute sul divanetto logoro della sala d’aspetto dell’ospedale. Dalle finestre passava un raggio di luna che finiva inghiottito dal bagliore invadente dei neon. Il televisore era acceso, sia pure senz’audio; sullo schermo, una donna in abito rosso a paillettes girò la ruota della fortuna e rimase assai delusa nel vederla fermarsi su «perde». L’inserviente di turno, un omone con un paio di baffi ispidi che era l’unico a seguire il programma, liberò una risata maligna. «Io vado a pregare» disse Selma. «Posso venire con te?» Selma guardò in faccia la figlia, come se si aspettasse la domanda. «Sarebbe un’ottima cosa, sai, perché Allah dà più ascolto alle preghiere dei bambini.» Peri fece di sì con la testa, com’era doveroso per una brava figlia. Se non per alcune invocazioni mandate a memoria da scolara, non aveva mai recitato la Salah, vista la sua volontà di schierarsi con il padre in materia di fede. A differenza della moglie, Mensur pregava in maniera concisa e irrituale, usando solo di rado la parola «Allah», a cui preferiva il più laico «Tanrı». Ma adesso Peri era pronta a seguire sua madre; avrebbe fatto qualunque cosa per salvare la vita del padre, persino tradirlo. Eseguirono in bagno le abluzioni previste, cioè sciacquarsi la bocca e lavarsi faccia, mani e piedi. L’acqua era gelata ma Peri non se ne lamentò, vedendo quel rituale come un preambolo al colloquio con Dio. In quel reparto non c’erano stanze per la preghiera, perciò usarono un angolo della sala d’aspetto, con la TV ancora accesa e la signora in rosso luccicante ancora decisa a vincere. A mo’ di tappetini distesero a terra i rispettivi cardigan; qualunque cosa facesse la madre Peri la replicava, come un’eco tardiva. Così, quando Selma incrociò le braccia sul petto, lei fece lo stesso; Selma si chinò, si rialzò e si prostrò con la fronte che toccava terra, e altrettanto fece Peri. Ma con una differenza sostanziale: le labbra di Selma erano sempre in movimento, mentre le sue erano immobili. E forse Dio se la sarebbe presa, pensò: una preghiera silenziosa era come una lettera in bianco, una busta con dentro niente. E poiché nessuno, fosse pure il Creatore, avrebbe apprezzato una lettera del genere, Peri si risolse a dire qualcosa. E questo, dopo qualche istante di riflessione, fu quanto le uscì di bocca:

Caro Allah,

la mamma dice che mi tieni sempre sott’occhio, il che è cortese da parte Tua, grazie; ma è anche un po’ inquietante, perché certe volte preferirei stare da sola. Poi dice la mamma che Tu senti tutto, anche quando parlo da sola, anche i pensieri nella mia testa, e vedi tutto quello che succede. Il bebè nella nebbia lo vedi? Perché finora l’ho notato solo io, ma sono sicura che lo vedi anche Tu. A ogni modo, stavo pensando, noi abbiamo gli occhi piccoli e a chiuderli e riaprirli ci mettiamo circa un secondo. Tu invece ce li hai sicuramente enormi, quindi ci metterai almeno un’ora ad abbassare le palpebre, e magari in quel momento lì non riesci a vedere mio padre. Quando mi arrabbio con qualcuno, papà mi dice: «Non sei una bambina, sei capace di perdonare». Se sei arrabbiato con mio padre, per piacere perdonalo e fallo guarire. È un brav’uomo. E d’ora in poi, potresti per favore chiudere gli occhi ogni volta che mio padre fa peccato? Ti prometto che ricomincerò a pregare. Pregherò tutte le sere per il resto della vita.

Amin.

Ancora china sul cardigan, Peri vide la madre voltare il capo a destra e a sinistra, e poi sfregarsi il viso con le mani, mettendo così fine alla preghiera; lei rifece tutto uguale, a chiusura della sua lettera privata. Il mattino dopo Mensur era seduto sul letto, sostenuto dai cuscini, a prendere in giro i visitatori, e qualche giorno dopo veniva dimesso dall’ospedale con un bel conto da pagare e un pacemaker nel cuore. Gli era stato consigliato di smettere di bere e di evitare lo stress; come se lo stress fosse un parente fastidioso che bastava semplicemente non invitare più a cena. Ma tanto Mensur non dava retta. Dopo aver ballato un tango con Azrael, l’angelo della morte, sosteneva di non avere più nulla da temere. Anche quest’immagine si sarebbe insinuata nei sogni di Peri, la vista spettrale del padre che ballava una giga sconnessa con uno scheletro... che alla fine si sarebbe rivelato essere il suo. La poesia

Istanbul, 2016

Peri era ancora immobile nel bagno della villa sul mare, a fissare la sua immagine riflessa nello specchio ornato. La parvenza di calma che aveva mantenuto accanto alla figlia era ormai svanita, sostituita dall’inquietudine. La solitudine dei pesci nell’acquario le ricordava certi personaggi delle vignette, naufraghi senza speranza su un’isola deserta che però neanche ci pensano, a scappare. Perché, lei avrebbe potuto forse nuotare via? Le abitudini quotidiane cambiano, i caratteri si modificano, le alleanze vengono meno, le amicizie finiscono, e persino i vizi vengono abbandonati, ma la cosa più difficile da cambiare in questa vita è l’attaccamento a un posto. Da dietro la porta giunse uno scroscio di risa: l’uomo d’affari stava raccontando una barzelletta con un vocione che sovrastava il brusio. Peri si perse la battuta finale, che a giudicare dalla reazione era greve, salace. «Ah, voi uomini!» si sentì una voce femminile, a metà fra il rimprovero e la canzonatura. Peri serrò le labbra. Non era mai stata il genere di donna capace di dire a voce altissima, e di certo non in quel tono provocante, frasi come «Ah, voi uomini!». Che fossero uomini o donne, ad affascinarla erano sempre le persone con un passato di percorsi tortuosi, un’incertezza negli occhi e cicatrici invisibili nell’anima. Generosa del suo tempo e leale fino all’estremo, diventava amica di quei pochi con una dedizione e un affetto incrollabili. Ma per tutti gli altri, che costituivano la maggioranza, il suo interesse si trasformava presto in noia, e quando si annoiava Peri non voleva altro che scappare: da quella persona, da quella conversazione, da quel momento. Sospettava che quella sera la noia sarebbe stata sua vicina di posto alla cena borghese, e per controbilanciarla si ripromise di escogitare qualche bel giochetto, qualche divertimento tutto per sé. Si buttò in fretta un po’ d’acqua sulla faccia; se rossetto e ombretto non si fossero spiaccicati e persi nel vicolo, le sarebbe piaciuto sistemarsi un po’ il trucco. Una rapida pettinata con le dita, quindi si controllò un’ultima volta allo specchio. Il viso che le restituì lo sguardo era pallido, inquieto; il viso di una persona che ha smarrito il proprio spirito senza rendersene conto. Aprì la porta. Si sorprese vedendo che la figlia la aspettava lì fuori. «Papà si chiede dove sei.» «Dovevo darmi una rinfrescata.» Tacque un attimo. «Cosa gli hai detto?» Peri colse un lampo d’affetto negli occhi di Deniz, prima che l’indifferenza riprendesse il sopravvento. «Niente.» «Grazie, tesoro mio. Ora andiamo.» «Aspetta, ti sei dimenticata questa» disse Deniz, porgendole una cosa. Peri non ebbe bisogno di una seconda occhiata per capire che era la polaroid. L’aveva cercata ovunque in quel vicolo soffocante, ma evidentemente Deniz l’aveva trovata per prima e l’aveva infilata in tasca. E adesso le chiedeva: «Com’è che non l’ho mai vista?». Nell’istantanea si vedevano quattro persone: il professore e le sue studentesse. Felici, speranzose, pronte a cambiare il mondo e gioiosamente ignare di quanto il domani aveva in serbo per loro. Peri ricordava il giorno in cui era stata scattata. Il peggior inverno a Oxford da decenni. Ricordava tutto: mattine glaciali, tubature congelate, mucchi di neve ovunque e l’elisir inebriante dell’innamoramento che le scorreva in corpo. Non si era mai sentita così viva. «Chi sono queste persone, mamma?» Mantenendo la calma – pure troppo – Peri rispose: «È solo una vecchia foto». «E quindi è per questo che te la porti sempre dietro? Accanto alle foto dei tuoi figli?» chiese Deniz con voce carica di incredulità e curiosità. «Allora, chi sono?» Peri indicò una delle ragazze, che portava un foulard rosso avvolto con cura a mo’ di turbante e i cui occhi nocciola erano densamente bistrati di kohl, su fino alle sopracciglia. «Questa è Mona; era una studentessa egiziano-americana.» Attenta e silenziosa, Deniz esaminò la ragazza. «L’altra è Shirin» continuò Peri, indicando una figura appariscente, con una voluminosa chioma nera, il trucco marcato e gli stivali di pelle con i tacchi alti. «I suoi venivano dall’Iran, ma si erano trasferiti così tante volte che lei non si sentiva più di nessuna parte.» «Come le hai conosciute?» Peri ci mise un momento a rispondere. «Compagne di università. Stesso studentato, stesso college. Anche stesso corso, ma non tutte dello stesso anno.» «E che corso era?» Peri fece un sorriso tenue: ogni tratto del suo viso era segnato dal ricordo. «Era su... Dio.» «Accipicchia» disse Deniz, la sua risposta abituale alle cose che non le interessavano. Picchiettò con un dito sull’uomo alto al centro della foto; i capelli biondo scuro erano ribelli e lunghi a sufficienza per arricciarsi; gli occhi sembravano risplendere, da sotto il berretto; il mento era forte e ben definito; l’espressione tranquilla, ma non del tutto pacifica. «E lui chi è?» Peri fu percorsa da un brivido di disagio, talmente sottile da essere quasi impercettibile. «Era il nostro docente.» «Sul serio? Sembra uno studente contestatore.» «Era un docente contestatore.» «Ah, sì? Ne esistono davvero? E come si chiamava?» «Noi lo chiamavamo Azur.» «Che nome strano. Dov’è che stavate?» «In Inghilterra... Oxford.» «Cosa? Com’è che non mi hai mai detto di aver studiato a Oxford?» Deniz pronunciò l’ultima parola con un accento esagerato. Peri esitò, incerta su cosa dire. Sul perché non ne avesse mai parlato con nessuno, compresi i figli, un’idea ce l’aveva, ma quello non era il momento né il posto per rivelarla. «Solo per poco» disse, con la voce che si affievoliva. «Non ho finito.» «E come ci sei entrata?» Sembrava colpita, ma Peri avvertì nella domanda anche una punta di invidia mista a risentimento. Sua figlia aveva già cominciato a preoccuparsi per gli esami di ammissione all’università, nonostante le mancassero ancora svariati anni. Il sistema scolastico, congegnato per stimolare la competitività nelle giovani menti, andava bene per studenti come Peri, ma per spiriti liberi come Deniz era una sofferenza e basta. «Che tu ci creda o no, a scuola ho avuto il massimo dei voti, in tutte le classi. Mio padre aveva sempre desiderato per me l’istruzione migliore possibile... in Europa. Lui mi ha aiutato con la domanda e io avevo i requisiti.» «Il nonno?» chiese Deniz, che trovava difficile riconciliare l’immagine del vecchietto tremolante con questo energico agente del cambiamento. Peri sorrise. «Sì, era orgoglioso di me.» «Mentre la nonna no?» chiese Deniz, intuendo un conflitto. «Era preoccupata che mi perdessi, in un Paese straniero. Era la prima volta che mi allontanavo da casa: non è facile per una madre.» Deniz ci pensò un attimo. «E quando è successo tutto questo?» «Attorno all’11 settembre, se per te vuol dire qualcosa.» «Lo so benissimo, cos’è l’11 settembre» ribatté Deniz, che si illuminò in volto per qualcosa che aveva capito. «Quindi era prima che conoscessi papà. Poi lasci Oxford, torni a Istanbul, ti sposi, rinunci all’università, fai tre figli uno dopo l’altro e diventi una casalinga. Che originalità, complimenti!» «Non puntavo a essere originale.» Ignorando l’osservazione, Deniz si morse un labbro. «Perché sei venuta via?» Ecco la domanda a cui Peri non era pronta a rispondere; la verità faceva troppo male. «Era troppo difficile: le lezioni, gli esami...» Deniz non aprì bocca e la guardò di sguincio, senza nascondere l’incredulità. Per la prima volta le passava per la mente che la donna che l’aveva messa al mondo, la donna che aveva visto ogni giorno da quando era nata e da cui si aspettava la soddisfazione di ogni bisogno e di ogni capriccio, potesse essere stata una persona diversa, prima che nascessero lei e i suoi fratelli. Era un pensiero fastidioso. Fino a quel momento sua madre era stata una terra cognita di cui Deniz conosceva ogni vallata amena, ogni lago sereno e ogni montagna innevata. Non le piaceva, la possibilità che esistessero parti di quel continente ancora inesplorate. «Adesso me la ridai la foto?» chiese Peri. «Un attimo.» Con le ciglia che catturavano la luce del lampadario, Deniz si portò la polaroid vicino agli occhi e quasi li storse per lo sforzo, come se si aspettasse di scoprirci dentro, da qualche parte, un codice segreto. Poi, senza pensarci su, la girò e vide la scritta sul retro, nella grafia artificiosa di chi sta facendo di tutto per scrivere bene: Da Shirin a Peri come a una sorella / Ricorda, Topina, “Non posso più dirmi né uomo né donna, né angelo e nemmeno pura anima”. «Chi è Topina?» chiese Deniz ridacchiando. «Un nomignolo che mi aveva dato Shirin.» «È proprio l’ultimo modo in cui mi verrebbe da chiamarti!» «Be’, magari sono cambiata. Su, dobbiamo andare.» Deniz aveva ancora un’espressione perplessa. «Che vuol dire questo “non sono più uomo, donna, angelo...”? Che assurdità è?» «Soltanto una poesia... Tesoro, adesso ridammela.» Dal salone proruppe un trambusto di applausi e grida allegre: qualcuno veniva stuzzicato o sfidato a fare qualcosa. Incuriosita, dopo un attimo di esitazione Deniz restituì la foto alla madre e tornò verso il ricevimento. Sola in corridoio, Peri tenne stretta la polaroid e si sorprese nel sentire il calore che emanava, come se fosse viva. Che strano, a pensarci, che mentre i momenti svanivano, i cuori si irrigidivano, i corpi invecchiavano, le promesse venivano meno e persino le convinzioni più salde si sfaldavano, una fotografia, che era una rappresentazione bidimensionale della realtà e una bugia, rimanesse immutata, fedele per sempre. Infilò la foto nella borsa, attenta a non guardare nessuno dei visi nell’immagine, resistente al passato, resistente al giudizio di una Peri più giovane sulla donna che era diventata. Raddrizzò la schiena, pronta ad affrontare gli altri invitati, molti dei quali in realtà erano semplici estranei, e lentamente raggiunse la festa. Il patto

Istanbul, anni Novanta

Alle superiori Peri attraversò stagioni di fede e stagioni di dubbio. All’insaputa di suo padre aveva mantenuto il giuramento fatto a Dio, e tutte le sere prima di addormentarsi, con parole scelte con cura e grande passione, pregava. Ce la metteva tutta: se avesse sacrificato la propria incredulità sull’altare dell’affetto e fosse diventata pia come tutti i predicatori che facevano proseliti sotto il cielo di Istanbul, sperava che Allah sarebbe stato più contento della sua famiglia e meno severo con suo padre. Un patto irrazionale, certo, ma questo non valeva forse per ogni patto con l’Onnipotente? Il problema, tuttavia, era che la preghiera doveva essere pura, monofonica. Un’unica voce coerente dall’inizio alla fine. Lei invece, quando parlava con Dio, sentiva moltiplicarsi nella mente una pletora di oratori; taluni ascoltavano, altri facevano battute di spirito, altri ancora esprimevano obiezioni. E, peggio ancora, con l’aggiunta di un diluvio di immagini indesiderate: di morte, oscurità, violenza, genocidio, ma specialmente sesso. Lei chiudeva gli occhi e li riapriva subito, sforzandosi di cancellare i corpi nudi che si dimenavano nella sua fantasia. Mortificata dalla propria incapacità di tenere a bada l’immaginazione, e timorosa che questa contaminasse le preghiere, ricominciava da capo mille volte, correndo per terminare prima che i pensieri impuri riprendessero piede. Prepararsi alla preghiera era come ricacciare mucchi di cianfrusaglie in un armadietto prima che Dio venisse a trovarla nella casa della mente; e, per quanto volesse apparire al meglio, Peri rimaneva fin troppo conscia di tutto ciò che aveva nascosto alla Sua vista. Se avesse pregato insieme a una congregazione, anziché sola a casa, forse sarebbe riuscita a tacitare le voci dentro di sé, pensò a un certo punto. Quindi prese l’abitudine di girare per moschee con un gruppo di amiche che la pensavano come lei. Adorava la luce che entrava opulenta dalle alte finestre ad arco, i lampadari, le opere di calligrafia, l’architettura di Mimar Sinan; però le dava fastidio che le sezioni riservate alle donne fossero sempre relegate in fondo o piazzate al primo piano dietro ai tendaggi, comunque isolate, separate, ridotte. Una volta, un uomo di mezza età le seguì in una moschea di quartiere e poi anche fuori sul cortile. «Le ragazzine dovrebbero pregare a casa» disse, con gli occhi che lisciavano i contorni dei seni. «Questa è la casa di Allah, aperta a tutti» disse Peri. Lui fece un passo avanti, gonfiando il petto. Quel corpo era un promemoria, un avvertimento, una frontiera. «Questa moschea è troppo piccola. Perfino gli uomini finiscono col rimanere fuori sul marciapiede. Per le scolarette non c’è spazio.» «Quindi le moschee sono degli uomini?» disse Peri. Lui rise, come fosse meravigliato che lei avesse potuto pensare altrimenti. Peri rimase delusa al vedere che l’imam, che passando di lì aveva colto lo scambio, non diceva nulla a loro difesa. Un’altra volta, a Üsküdar, nella sezione femminile al primo piano, Peri scostò la tenda in modo da poter ammirare la bellezza della moschea durante la preghiera. Una donna anziana, vestita di nero da capo a piedi, la richiuse immediatamente, borbottando rabbiosa tra sé. Non erano solo gli uomini, a voler tenere nascoste le donne: certe donne la pensavano esattamente allo stesso modo. Sì, ci aveva provato. Ma restava sempre un divario tra lei e i modi della confessione stampata sulla sua carta d’identità rosa. Che poi, di chi era stata l’idea di mettere la voce «religione» sulle carte d’identità? Chi decideva se il cittadino neonato era musulmano, cristiano o ebreo? Di certo non lui. Se l’avessero lasciata libera di compilare la sua voce «religione», Peri ci avrebbe scritto qualcosa tipo «indecisa». Sarebbe stato più veritiero. Se sua madre fosse andata in paradiso e suo padre all’inferno, la sua dimora eterna doveva essere il purgatorio, all’incirca in mezzo. Di queste cose evitava di parlare con i più devoti, perché non appena si accorgevano che oscillava tra il dubbio e la fede provavano subito a convertirla definitivamente. Ma i pochi atei che conosceva non erano molto diversi: che fosse in nome di Dio o della scienza, per l’ego non c’era soddisfazione paragonabile a quella di trascinare qualcuno dalla propria parte. Solo che essere oggetto di proselitismo era l’ultima cosa che Peri desiderava: lo capiva o no, tutta questa gente, che lei non voleva decidersi per nessun codice religioso? Voleva rimanere in movimento. Scegliendo una fazione oppure l’altra temeva di diventare una persona diversa, e quella sarebbe stata la sua fine. Sul suo Diario di Dio annotò: Mi trovo in un limbo perpetuo. Forse voglio troppe cose tutte insieme, e nessuna con ardore sufficiente.

Il giorno in cui Peri si diplomò, con i voti migliori della scuola, lei e suo padre prepararono la colazione insieme. Tra pomodoro a dadini, prezzemolo tritato e uova sbattute, fecero un menemen talmente piccante che ogni boccone bucava la lingua. Lavoravano fianco a fianco, ogni azione fluida e coordinata. Peri osservava il padre che affettava una cipolla, notando con sollievo che le mani non gli tremavano più; però sudava copiosamente, la fronte coperta da una pellicola di traspirazione, e lei sapeva che se fosse stato solo in cucina si sarebbe versato un goccetto. Dopo, Mensur accompagnò la figlia in auto all’agenzia per l’istruzione che aiutava gli studenti turchi a fare domanda in scuole estere. Negli ultimi mesi erano già stati diverse volte in quell’ufficetto mal illuminato e opprimente, in fila accanto ad altri adolescenti speranzosi, incapaci di staccare gli occhi dalle facce sorridenti che riempivano i dépliant delle università occidentali: da quelle pagine patinate balzava fuori una pazzesca diversità di studenti – parevano le Nazioni Unite – con la gioia in volto, tutti, senza eccezione. Lungo il tragitto, si fermarono al semaforo accanto a una moschea ottomana celebre per essere stata costruita sul mare. Tutto intorno alla cupola si erano posati i gabbiani, allineati come un filo di perle. «Baba, perché non sei mai stato religioso?» domandò Peri con gli occhi sulla moschea. «Ho sentito troppe prediche artefatte, visto troppi santoni fasulli.» «Ma Dio? Voglio dire, credi ancora che esista?» «Sì, certo» disse Mensur, un filino tiepido. «Ma non per questo mi riesce di capire cosa stia combinando.» Una coppia di turisti – a vederli, europei – scattava foto nel cortile della moschea. La donna si era coperta il capo con uno dei lunghi foulard forniti all’ingresso; e qualcuno, forse un passante, doveva averla avvisata che l’abito era troppo corto, perché si era legata un foulard anche in vita, per coprirsi le gambe fino al ginocchio. Per contro, l’uomo portava sandali e bermuda che evidentemente non avevano dato fastidio a nessuno. Mensur li indicò e disse: «Se fossi una donna sarei doppiamente critico sulla religione». «Perché?» chiese Peri, pur potendo azzardare la risposta. «Perché Dio è maschio... Questo ci hanno indotto a credere, i bravi fedeli.» Vicino a loro accostò un’altra auto, che sparava un pezzo di Santana a tutto volume. Basta rubare, basta sparare... mentre il ricco si arricchisce, il povero svanisce. «Vedi, anima mia» proseguì Mensur. «Io sono affezionato alle tradizioni sufiste dei Bektashi, dei Mawlawi o dei Melami, dotate di umanità e senso dell’umorismo. I Rindi del Belucistan erano liberi da ogni forma di pregiudizio e intolleranza... ma ormai, chi se li ricorda più? Un’antica filosofia del tutto scomparsa, da questo Paese e non solo, da tutto il mondo musulmano. Repressa, tacitata, eliminata. A che scopo? In nome della religione, qui si ammazza Dio. A favore di autorità e disciplina, si dimentica l’amore.» Il semaforo diventò verde, ma subito prima – non dopo – le auto dietro di loro si erano messe a suonare il clacson. Mensur diede una botta al pedale del gas, borbottando tra sé: «Chissà come avete fatto ad aspettare nove mesi in pancia, deficienti!». «Ma la religione, Baba, non ti dà un senso di sicurezza? Come un guanto protettivo?» «Forse, ma io non voglio una seconda pelle. Se tocco la fiamma, mi brucio; se afferro il ghiaccio, sento freddo. Il mondo è quello che è. Tutti dobbiamo morire. A che serve ammassarsi per sentirsi più sicuri? Tanto si nasce e si muore soli.» Peri raddrizzò la schiena, sul punto di fargli un’altra domanda, ma la voce di suo padre continuò: «Quand’eri piccola mi hai chiesto se avevo paura dell’inferno». «Sì, e tu mi hai detto che ti saresti scavato una galleria per uscire.» Sulla faccia di Mensur si spalancò un sorriso. «Sai perché il paradiso non mi attira poi così tanto?» «Dimmi.» «Guardo quelli che ci andranno, quelli che digiunano, pregano e fanno a puntino tutto quello che devono fare. Sono talmente presuntuosi, almeno per la gran parte! Allora mi dico, se questi qui vanno dritti in paradiso, io preferisco non andarci. Piuttosto brucio nel mio inferno in santa pace. Farà caldo, ma almeno non sarò circondato da ipocriti.» «Guarda, Baba, io spero che tu non le dica in giro, queste cose. Perché altrimenti passi un guaio.» «Non preoccuparti, la lingua mi si scioglie solo quando sono vicino a te. O dopo un certo numero di bicchierini. E siccome i fanatici non si siederanno mai a tavola con me e il mio raqı, sto tranquillo» concluse ridendo. Poco dopo raggiunsero Palazzo Dolmabahçe, con le sue splendide arcate e la torre dell’orologio. «La sai la storia dei pesci di qui?» chiese Mensur. E le raccontò che non lontano da lì, in una notte di tempesta, il sultano Murad IV si era accomodato per leggere le Frecce del destino, la celebre raccolta di rime satiriche del grande Nef‘i. Ma quasi non aveva ancora iniziato che un fulmine colpì un castagno nel giardino del palazzo: non poteva che essere un presagio. Agitatissimo, il sultano non solo gettò a mare il libro, ma firmò una lettera che concedeva ai nemici di Nef‘i licenza di punirlo come meglio credevano. Qualche giorno dopo il poeta, strangolato con un cappio, fu gettato nelle medesime acque in cui si era dissolta la sua poesia, verso per verso. «Vedi com’è velenosa, la miscela di potere e ignoranza? Il mondo ha sofferto ben più per mano della gente pia che della gente come me... qualunque nomignolo scemo vogliano dare a quelli come me!» Peri volse gli occhi fuori dal finestrino, alle onde smerlate d’argento che scintillavano al sole pomeridiano, sperando d’intravedere un paio di pesci a increspare la superficie. Aveva capito, ora che aveva saputo della sorte del poeta, che non avrebbe più dimenticato quel racconto. Si faceva carico delle sofferenze altrui come fossero le proprie, e se le appendeva al collo come le ghirlande di aghi di pino che faceva da bambina. Pungevano e facevano male, ma lei si rifiutava di levarsele finché non seccavano e finivano con lo sfarinarsi. Mensur seguì lo sguardo della figlia. «Per questo i pesci sono neri, in questo tratto del Bosforo. Hanno inghiottito troppo inchiostro. Poveracci, ancora cercano versi di poesie e carne di poeti... che poi sono la stessa cosa, se ci pensi.» Peri adorava i racconti di suo padre. Ci era cresciuta. Eppure la malinconia di cui erano impregnati le bucava l’anima, come una scheggia sottopelle ormai divenuta parte integrante di lei. Certe volte pensava di averne dappertutto, di schegge, infilate nel corpo e nei recessi della mente. «Che poi, perché sto a parlare di queste cose?» riprese Mensur con un impeto diverso. «Non sei contenta di andare a Oxford?» Avevano fatto domanda presso diversi atenei in Europa, negli Stati Uniti e in Canada. Posti dai nomi così strani che nessuna lingua riusciva a pronunciarli. Solo che Mensur continuava a straparlare di Oxford. «Non è sicuro che ci vada.» «Ma figurati» asserì lui. «Hai passato i test, hai sostenuto il colloquio e adesso loro ti hanno fatto una proposta.» «Sì, ma Baba... come facciamo per i soldi?» disse Peri, la voce che le moriva in gola. «Tu non preoccuparti. Ci ho pensato io.» Aveva messo in vendita l’auto di famiglia, oltre all’unico bene al sole che avessero mai posseduto: un campo non lontano dal mar Egeo, dove aveva progettato di coltivare, un giorno, degli ulivi. A Peri pesava moltissimo, l’idea che suo padre stesse rinunciando ai propri sogni per lei. Quando i loro sguardi s’incrociarono, però, gli sorrise. Cercava di non parlarne, ma in tutta onestà non vedeva l’ora di andare in Inghilterra. «Baba, sei sicuro che la mamma sia d’accordo? Voglio dire, ci hai parlato?» «Non ancora» rispose Mensur. «A un certo punto lo farò. Come potrebbe non volere che sua figlia vada alla migliore università del mondo? Sarà felicissima!» Peri fece di sì con la testa, pur sapendo che era una bugia. Nessuno dei due avrebbe detto a Selma che la figlia stava per partire, o almeno non fino all’ultimissimo secondo. L’ultima cena

Istanbul, 2016

Entrando nella spaziosa sala da pranzo, Peri trovò tutti già seduti a tavola, riuniti a conversare nei rispettivi capannelli. Adnan chiacchierava con un amico di famiglia, amministratore delegato di una banca d’affari internazionale. A giudicare dalle espressioni, parlavano di politica o di calcio, gli unici due argomenti su cui gli uomini mostravano liberamente le emozioni in presenza di altri. I padroni di casa sedevano ai due capotavola. L’uomo d’affari stava raccontando ai commensali più vicini un aneddoto delle vacanze, con l’affabile sicurezza di chi è abituato a essere ascoltato, mentre sua moglie lo guardava da lontano con indifferenza. Peri avanzò di un passo, sapendo che di lì a un attimo tutte le teste si sarebbero voltate verso di lei. Per un secondo prese in considerazione l’idea di sgattaiolare di lato fino a raggiungere la porta d’ingresso in rovere, da cui sarebbe potuta fuggire. «Carissima, che fai ferma lì?» La moglie dell’uomo d’affari l’aveva notata. «Unisciti a noi.» Peri si costrinse a sorridere mentre prendeva posto sulla sedia vuota riservata a lei. Durante la sua permanenza in bagno, a molti degli invitati, se non a tutti, era stato riferito dell’incidente; e adesso la fissavano con curiosità amichevole, impazienti di sentire com’era andata. «Stai bene?» le chiese la direttrice di un’agenzia di PR, con i capelli cotonati in un’elaborata acconciatura fermata da un grosso spillone di strass che a Peri ricordò uno spiedo da shish kebab e che conferiva alla donna un aspetto pericoloso. «Eravamo preoccupati per te.» «Infatti, che ti è successo, cara?» aggiunse l’AD. Peri intercettò lo sguardo di Adnan, rilevando negli occhi generalmente affettuosi del marito una traccia di preoccupazione. Aveva di fronte una scodella da zuppa già vuota e un bicchier d’acqua: era astemio, per motivi sia di salute, sia religiosi. Adnan era credente. «Niente di cui valga la pena parlare a una tavolata così deliziosa» disse Peri, rivolgendosi all’AD. «Mi interessa di più quello di cui parlavate voi con tanto fervore.» «Oh, corruzione e intrallazzi in serie A...» rispose l’AD. «Alcune squadre sembra che ci tengano a perdere; a pensar male, direi proprio che si vendano le partite.» Lanciò uno sguardo malizioso all’anfitrione. «Cazzate» replicò l’uomo d’affari. «Se vuoi sparlare della mia squadra, posso assicurarti, amico mio, che vinceremo col sudore della fronte.» Peri si appoggiò allo schienale, sollevata di essere riuscita a riallontanare la conversazione da sé, ma chissà per quanto. Gli altri avevano già finito la minestra, e così apparve una cameriera con una porzione apposta per Peri: brodo di barbabietole e carote guarnito con una noce di formaggio di capra. Qualcuno le riempì il bicchiere senza che dovesse chiedere niente: un rosso, Napa Valley. Prima di portarselo alle labbra, Peri mandò un saluto silenzioso allo spirito di suo padre. Si guardò in giro mentre lentamente cominciava a mangiare. Arredi italiani, lampadari inglesi, tendaggi francesi, tappeti persiani e una sovrabbondanza di soprammobili e cuscini con motivi ottomani; per quanto più lussuosa della media, la villa era decorata nello stesso stile di innumerevoli altre case di Istanbul, per metà orientale, per metà europeo. Alle pareti, quadri di artisti mediorientali noti o emergenti, per molti dei quali, ipotizzava Peri, si era pagato troppo o troppo poco, dato che il mercato artistico nazionale, in modo forse analogo alla vita politica, era ancora in continuo mutamento. Peri non avrebbe saputo dire quante volte in passato aveva già partecipato a cene in cui i musulmani conservatori non avevano problemi a mescolarsi ai bevitori progressisti, e alzavano educatamente il bicchier d’acqua ai brindisi per condividere il gesto. La religione, in quella parte del mondo, era stata una specie di collage. Non era insolito consumare alcol tutto l’anno e poi pentirsi la notte di Qadr, quando i peccati venivano cancellati all’ingrosso, a patto di provare un sincero rimorso. C’era un mucchio di gente che digiunava durante il Ramadan sia per rinsaldare la fede sia per perdere peso. Il sacro si incastrava col profano. In una cultura basata sull’ibridazione, anche la persona più razionale dava un certo credito ai jinn e teneva sottomano un amuleto di vetro azzurro che, come tutti sapevano, proteggeva dal malocchio. Allo stesso tempo, anche il più devoto si era divertito a dare il benvenuto all’anno nuovo guardando la TV e applaudendo a ritmo una danzatrice del ventre. Un po’ di questo, un po’ di quello. Musulmanus modernus. Nel corso degli ultimi anni, però, le cose erano cambiate drasticamente. I colori si erano fissati in bianco e nero. Erano sempre meno i matrimoni in cui – come in quello dei suoi genitori – un coniuge era devoto e l’altro no. Ormai la società era divisa in ghetti invisibili; Istanbul somigliava, più che a una metropoli, a un mosaico urbano di comunità separate. La gente era «fortemente religiosa» o «fortemente laica», e quelli che riuscivano a tenere un piede in entrambe le fazioni, affrontando con lo stesso fervore l’Onnipotente e il secolo, erano scomparsi o mantenevano un inquietante silenzio. L’occasione di quella sera, quindi, era insolita in quanto riuniva persone appartenenti a campi opposti. Grandiosa e aulica, Peri paragonò la circostanza a un dipinto rinascimentale; fosse stata lei l’artista, l’avrebbe intitolato L’ultima cena della borghesia turca. Contò i commensali: ma certo, compresa lei erano in tredici. «Guarda che non sta nemmeno ascoltando» disse la PR. Rendendosi conto che parlavano di lei, Peri sorrise. «Che dicevate?» «Tua figlia mi raccontava che hai studiato a Oxford.» Peri fece una smorfia. Cercò con lo sguardo Deniz, che però mangiava in un’altra stanza con l’amica. «Tesoro, davvero, sei così sulle tue!» disse la moglie dell’uomo d’affari. «Perché non ce l’hai mai detto?» Peri rispose: «Magari perché non mi sono laureata...». «E chi se ne importa?» scherzò il giornalista. «Hai lo stesso il diritto di vantarti.» «Mio fratello lo fa eccome!» disse la PR. «“Quando stavo a Oxford...” È la prima cosa che dice alla gente.» Si girò verso Peri. «In che anni ci stavi?» «Attorno al 2001.» «Ma guarda, proprio come mio fratello!» Perì si sentì avvolta da un profondo senso disagio, che si fece più intenso quando sentì il marito rincarare la dose: «Deniz dice che hai una foto; perché non la tiri fuori?». Lo faceva di proposito, capì. Punzecchiarla e provocarla di fronte ad altri, perché lo aveva ferito sapere che si portava ancora dietro la polaroid. Lui sapeva, ovviamente; non tutto, ma buona parte. Era stato lui, alla fin fine, a raccogliere i cocci quando lei aveva abbandonato Oxford. «Su, forza, vediamola!» incalzò qualcun altro. Per quanto Peri cercasse di cambiare argomento, stavolta non funzionò. Erano decisi a vedere che aspetto avesse quando faceva l’università, e quanto fosse cambiata da allora. Tirò fuori la polaroid dalla borsetta e la posò sul tavolo. Alla luce delle candele si distinguevano quattro figure, visi sorridenti di un passato abbandonato, in piedi nella neve davanti all’Old Schools Quadrangle della Bodleian Library; dai cornicioni della torre d’ingresso alle loro spalle pendevano ghiaccioli. Ognuno degli invitati guardò per bene l’istantanea e la passò al successivo, non senza aver prima espresso un commento. «Mamma mia, quant’eri giovane!» «Accipicchia, che capelli. Ti facevi la permanente?» Quando la foto la raggiunse, la PR inforcò gli occhiali e la studiò attentamente. «Un attimo...» disse aggrottando la fronte. «Io lui l’ho già visto.» Peri si irrigidì. «Andavo a trovare mio fratello tutti gli anni. Sono sicura che mi mostrò una foto di questo tizio... dov’era...» Peri passò dalla rigidità alla paralisi. «Ah, certo, adesso mi ricordo! Era sul giornale. Era un professore famoso che poi cadde in disgrazia... Cacciato da Oxford! Ne parlavano tutti, c’era stato uno scandalo.» Puntò lo sguardo verso Peri. «Ne avrai sentito parlare di sicuro, no?» Peri rimase immobile: non riusciva a inventare una bugia, non voleva dire la verità. Con suo enorme sollievo, le cameriere entrarono in quel momento con gli antipasti, diffondendo in aria profumi appetitosi. Nell’interruzione provocata mentre venivano serviti i piatti, Peri riuscì a recuperare la polaroid. La rimise in borsa con le mani che le tremavano così tanto che dovette nasconderle per un po’ sotto il tavolo. Seconda parte

L’università

Oxford, 2000

Il giorno in cui Nazperi Nalbantoğlu, fresca di diploma, arrivò a Oxford, era accompagnata dall’ansioso padre e dall’ancor più ansiosa madre. L’idea dei genitori era quella di passare la giornata insieme; dopo essersi accertati che la figlia si fosse ambientata nella sua nuova vita, sarebbero rientrati con un treno serale a Londra. Di lì avrebbero poi preso l’aereo per Istanbul, dove avevano trascorso quasi tutti i trentadue anni del loro matrimonio così saldamente instabile; una scala che traballava, eppure ancora resisteva agli attacchi del tempo. Ma le cose si rivelarono più complicate del previsto. Selma scoppiò due volte in singhiozzi, altalenava pazzamente tra la commiserazione e l’orgoglio; ogni poco afferrava un lembo del velo che aveva in testa con l’aria di volersi tamponare il viso, ma in realtà le serviva per asciugarsi una lacrima. Da una parte era esaltata dai risultati ottenuti dalla figlia, visto che mai nessuno in famiglia si era conquistato un posto in un’università straniera, e figuriamoci a Oxford. Non avevano mai neanche pensato a quell’eventualità, tanto il loro «qui» era lontano da quel «là». Per un altro verso, tuttavia, non riusciva proprio ad accettare l’idea che la figlia più piccola, la sua bambina, dovesse vivere a un continente di distanza da lei, sola, in un posto dove tutto era straniero. Il fatto che Peri avesse fatto domanda a sua insaputa e senza la sua approvazione la feriva profondamente, e percepiva l’ombra del marito dietro il fait accompli. I due l’avevano informata solo a cose fatte, e a quel punto lei aveva potuto borbottare giusto una fievole obiezione, per non rischiare di alienarsi la figlia per il resto della vita. Avrebbe voluto che ci fosse un parente, o almeno il parente di un parente, una persona qualunque – purché fosse musulmana, sunnita, turcofona, timorata di Dio, pratica del Corano e facile da raggiungere per telefono – in quella città forestiera, a cui affidare Peri; ma non conosceva nessuno che rispondesse a quell’identikit. Dal canto suo Mensur, per quanto desiderasse vedere la figlia eccellere negli studi, non era meno disperato all’idea di lasciarla andare. Esteriormente composto, si esprimeva però a frasi incerte e sconnesse, con lo stesso tono che avrebbe usato per parlare di un terremoto avvenuto chissà dove: si adeguava, ma con un sottofondo di dolore. E Peri capiva, ed entro certi limiti condivideva, il malessere dei genitori. Mai prima si erano separati; mai prima era stata lontana dalla sua famiglia, dalla sua casa e dalla sua patria. «Avete visto che bello, qui?» disse. Con tutta la tensione che le cresceva in petto, non riusciva però a trattenere l’euforia, e si sentiva pronta a iniziare trionfalmente una vita nuova. Il sole infilava tra le nubi raggi di luce tiepida, dando l’illusione che l’estate fosse tornata, malgrado le sporadiche folate di frizzante vento autunnale. Con le sue strade acciottolate, le torri merlate, le gallerie ad arcate, i bovindi e i portici scolpiti, Oxford pareva uscita da un libro di fiabe. Tutto, nel loro campo visivo, grondava storia; al punto che persino le caffetterie e i grandi magazzini sembravano parte integrante di quell’eredità secolare. A Istanbul, che pure era una città antichissima, il passato veniva trattato come un visitatore che si era indebitamente trattenuto troppo a lungo; mentre qui a Oxford era chiaramente l’ospite d’onore. I Nalbantoğlu trascorsero il resto della mattinata a passeggio, ad ammirare i giardini seminascosti dietro mura consunte dal tempo e avvolte dall’edera, a passi incerti sulla ghiaia scricchiolante, senza sapere se in quegli spazi si potesse entrare e senza nessuno a cui chiedere. Alcune zone della città erano talmente vuote che i muri di calcare scrostato che fiancheggiavano gli antichi vicoli sembravano anelare a un po’ d’attenzione umana. Stanchi e affamati, notarono un pub su Alfred Street, un locale con i soffitti bassi, il pavimento ad assi di legno cigolanti e una clientela assai rumorosa. Si sedettero timidamente a un tavolino angusto presso la finestra. Tutti bevevano birra in bicchieri a misura di gigante. All’arrivo della cameriera, una ragazza con un piercing al labbro inferiore, Mensur ordinò fish-and-chips per tutti e una bottiglia di vino bianco. «Pensa, questo posto ha secoli di vita...» disse poi, fissando il perlinato di quercia come se contenesse un codice che, mettendocela tutta, sarebbe infine riuscito a decifrare. Selma assentì col capo. Ma aveva notato ben altre cose, guardandosi intorno: studenti che tracannavano birra in un angolo, una ragazza in un abito così succinto che forse era una sottoveste, un tizio tatuato con le mani addosso alla fidanzata, la cui scollatura era più profonda della voragine che divideva Selma e il marito... Come poteva lasciare Peri sola in mezzo a questa gente? Gli occidentali potevano essere molto avanti in materia di scienza, tecnologia e istruzione, ma quanto a morale? Oltretutto doveva tenersi tutti questi pensieri per sé, per non irritare il marito e la figlia, e questo irritava lei. Aveva un’espressione imbronciata, a forza di trattenere commenti sarcastici; non era giusto che dovesse essere sempre lei il barboso genitore custode di certi principi. Ignaro delle preoccupazioni della moglie, benché non proprio ingenuo rispetto alle sue posizioni, Mensur disse: «Siamo orgogliosi di te, Pericim». Era la seconda volta che glielo diceva, e Peri si godette il complimento del padre proprio come la prima. Date le poche risorse a disposizione, sulla sua istruzione lui aveva investito ben oltre i loro mezzi, e lei era decisa a non deluderlo. «Ci vuole un brindisi» dichiarò Mensur quando il vino arrivò a tavola. «Alla nostra intelligentissima figlia, e alla migliore università del mondo!» Selma si rabbuiò. «Sai bene che Allah mi impedisce di brindare con voi.» «Pazienza» fece Mensur. «Peccherò io. Quando muoio, mandami un biglietto per il paradiso.» «Non è così semplice» rispose Selma. «Dovrai guadagnarti la risalita agli occhi di Allah.» Mensur si morsicò l’interno della guancia. Sentire la moglie che predicava le sue belle formulette gli faceva lo stesso effetto che vedere una fila di tesserine del domino ritte in piedi: non riusciva a trattenere l’impulso di rovesciarne una. «Parli come se sapessi in prima persona che cosa pensa Allah. Gli leggi nella mente? Come fai a sapere cosa vede?» «Ce lo ha lasciato scritto nel Corano, se solo ti prendessi la briga di leggerlo.» «Dài, vi prego, ma non ce la fate proprio a non litigare per un giorno?» intervenne Peri. E per alleggerire l’atmosfera e cambiare argomento aggiunse: «Tanto tornerò presto per le nozze». Hakan stava per sposarsi. Sebbene Umut – che dopo il rilascio si era ritirato in una cittadina sul Mediterraneo – fosse ancora scapolo, pur conscio di dover sfidare l’ordine di nascita Hakan si era rifiutato di aspettare. All’inizio tutti avevano pensato che dietro tanta impazienza si nascondesse una spiegazione imbarazzante, un gonfiore che la sposa non poteva più nascondere, ma poi si era capito che la fretta era legata solo alla personalità dello sposo. Terminarono di pranzare, per lo più in silenzio. Mentre aspettavano il conto, Selma prese la mano della figlia tra le sue. «Sta’ lontana dalla gente pericolosa.» «Sì, mamma, lo so.» «L’istruzione è importante, ma per una ragazza c’è un’altra cosa molto più importante, mi segui? Se perdi quella, nessuna laurea ti riabiliterà. I maschi non hanno niente da perdere, ma le femmine devono stare attentissime.» «Va bene...» disse Peri guardando da un’altra parte. Verginità: la parola d’ordine che si poteva solo adombrare ma mai pronunciare, anche se incombeva su mille discorsi tra madri e figlie, zie e nipoti. Un argomento da trattare in punta di piedi, come un lunatico che ti si sia addormentato tra i piedi ma che nessuno osa disturbare. «Io di mia figlia mi fido...» intervenne Mensur, che aveva finito col bere gran parte del vino da solo e adesso pareva leggermente alticcio. «Anche io» fece Selma. «È degli altri che non mi fido.» «Che risposta scema» ribatté Mensur. «Se ti fidi di lei, che t’importa di quello che fanno gli altri?» Selma reagì con una smorfia sprezzante. «Uno che si ammazza col bere tutti i giorni ha poco da dare dello scemo agli altri.» Davanti ai genitori che incrociavano le lame per l’ennesima volta, senza mai vincere una battaglia, senza mai regolare un conto, a Peri non rimase che guardare fuori dalla finestra il cuore di quella città che doveva diventare, almeno per i prossimi tre anni, la sua università, la sua casa, il suo rifugio. Aveva lo stomaco stretto per l’apprensione, in testa un vortice di pensieri neri. Le tornò in mente lo zafferano pregiato – quello vero, non i succedanei da poco – che si vendeva nei bazar delle spezie di Istanbul in delicate ampolle di vetro. Il suo ottimismo era uguale: limitato, confinato, deperibile. La carta geografica

Oxford, 2000

«Salve!» La voce risuonò alle loro spalle pochi secondi dopo che avevano raggiunto la portineria del college dove li aspettava una studentessa del secondo anno che l’università aveva incaricato di far loro da guida. Si voltarono e videro una ragazza alta, con il portamento della sultana che avrebbe potuto essere in un’altra epoca e in un’altra terra. Portava una gonna rosa come le meringhe all’acqua di rose che da bambina Peri adorava; i capelli neri le ricadevano a ricci sciolti sulla schiena perfettamente dritta, le labbra erano dipinte di carminio lucido e anche le guance erano imbellettate. Ma erano gli occhi, scuri e distanziati, sottolineati con la matita viola e ombreggiati di un turchese accesissimo, a colpire più di ogni altra cosa. Quel trucco era come la bandiera di un paese in agitazione, a dichiarare non solo la propria indipendenza ma anche la propria imprevedibilità. «Benvenuta a Oxford» disse con un largo sorriso, tendendo una mano perfettamente curata. «Io mi chiamo Shirin.» Nome che pronunciò allungando al massimo le due vocali, Shiii-riiin. Benché il naso aquilino e il mento importante impedissero, in senso canonico, di definirla graziosa, era dotata di un carisma tale da poter essere considerata bella. Peri rimase talmente rapita dalla sua presenza che fece a sua volta un ampio sorriso avanzando verso di lei. «Ciao, io sono Peri, e questi sono i miei genitori.» Quindi pensò: “Per un giorno possiamo anche far finta di essere una famiglia normale”. «Felicissima di conoscervi. Ho sentito che siete turchi; io sono nata a Teheran, però non ci sono mai tornata» disse Shirin con uno svolazzo della mano, come se l’Iran fosse lì dietro l’angolo, in attesa. «Credo sia per questo che abbiano chiesto a me di accompagnarvi, a loro piace raggrupparci, quelli come noi. Siete pronti per la visita guidata?» Peri e Mensur assentirono con entusiasmo, mentre Selma squadrava con aria di disapprovazione la gonna corta, i tacchi alti e il trucco pesante. A lei Shirin non sembrava una studentessa, e di certo non le sembrava iraniana. «Ma che cosa studia, questa?» mormorò in turco. Peri, colta dall’irrazionale timore che la compagna anglo-iraniana potesse capire la loro lingua, sibilò di rimando: «Mamma, per piacere». «Andiamo!» esclamava intanto Shirin. «Di norma dovremmo partire dal nostro college e poi vedere il resto della città, ma io non faccio mai niente nell’ordine previsto, è più forte di me. Perciò seguitemi, gente!» Dopodiché Shirin si lanciò in un lungo excursus sulla storia di Oxford, e senza mai chiudere bocca li condusse per le tortuose profondità delle antiche viuzze cittadine. Vivace e amabile, parlava con l’impeto di un torrente in piena, a fiotti che i Nalbantoğlu faticavano a seguire; soprattutto Selma, che non vedeva alcuna somiglianza tra l’antiquato inglese tutto grammaticale che aveva imparato decenni prima a scuola – e poi dimenticato in un lampo – e il farfugliare che sentiva ora. Per darle una mano, Peri si calò nel ruolo dell’interprete... sia pure con qualche licenza: ammorbidiva, riformulava e se necessario censurava qualunque cosa rischiasse di infastidire la madre. Nel frattempo Shirin andava spiegando che a Oxford ciascun college era una fondazione autonoma, che governava da sé tutti i propri affari. Mensur trovò la cosa sconcertante. «Ma ci deve essere Presidente, autorità sopra tutto» obiettò nel suo inglese stentato, e si guardò intorno come se temesse di vedere la città piombare nell’anarchia. «Sono costretta a dissentire» replicò Shirin. «Per come la vedo io, l’autorità è come l’aglio: più ne metti, più si sente la puzza.» Mensur, che aveva trascorso gran parte della sua vita adulta anelando a un’autorità centrale forte, salda e sufficientemente laica da fermare l’ascesa del fondamentalismo religioso, alzò gli occhi allarmato. Per lui l’autorità era un collante, la malta che teneva insieme in armonia i vari pezzi della società. Senza quella i mattoni sarebbero crollati, e l’intera struttura si sarebbe disfatta. «Certo non tutta autorità sbagliata» insistette. «Per esempio i diritti delle donne, cosa mi dici quando un capo forte difende le donne?» «Be’, credo che direi grazie tante, ma sono capace di difendere i miei diritti da sola. Non ci serve un’autorità che lo faccia al posto nostro!» Nel dire queste parole Shirin guardò Selma, e in particolare il velo e il lungo cappottone informe. Peri, perspicace come sempre quando si trattava di sentimenti altrui, si rese conto che l’avversione di sua madre per Shirin era ricambiata; la ragazza anglo-iraniana sembrava nutrire un certo disprezzo per le donne che si coprivano il capo, e non sentiva nessun bisogno di nasconderlo. «Vieni, mamma.» Peri prese delicatamente Selma per un braccio, quello con la cicatrice dell’ustione, ricordo del giorno di lavaggio dei tappeti di tanti anni prima. Insieme rimasero un poco indietro. Sugli scalini d’ingresso all’Ashmolean Museum madre e figlia notarono una coppia avvinta in un bacio appassionato. Peri arrossì come fosse lei, quella sorpresa tra le braccia del ragazzo, e con la coda dell’occhio notò il cipiglio di Selma. Vale a dire, della donna che sul sesso non le aveva insegnato assolutamente nulla. Ancora ricordava la volta che all’hammam, da bambina, aveva fatto una domanda sull’oggetto che aveva visto dondolare tra le gambe di un maschietto. La reazione di Selma era stata quella di piombare sulla madre del ragazzino e lanciarsi in una tirata che per via del rumore dell’acqua corrente dalle fontane di marmo non si era sentita ma che, a giudicare dai gesti di Selma, doveva essere stata ben aspra. Peri si era sentita mortificata e oltretutto in colpa, per aver mostrato una curiosità che in tutta evidenza non aveva il diritto di provare. Col tempo, la curiosità in lei aveva prevalso ancora. Una volta chiese alla madre se avesse mai pensato di abortire, dato il lungo periodo trascorso tra le prime due gravidanze e l’ultima. I suoi avrebbero anche potuto pensare che la famiglia fosse al completo così, e scegliere di non averla. «Be’, l’imbarazzo c’era. Avevo quarantaquattro anni, quando sei arrivata tu.» «E perché non hai interrotto la gravidanza?» aveva insistito Peri. «Sarebbe stato peccato, senza alcun dubbio. Così mi sono detta, il peccato agli occhi di Allah è peggio della vergogna agli occhi dei vicini, e l’ho portata avanti.» Peri non aveva mai detto alla madre fino a che punto odiasse quella risposta. Sperava di sentirsi dire qualcosa di più tenero: “Non ho mai pensato di interrompere la gravidanza, ti volevo già troppo bene”, o “Presi l’appuntamento in ambulatorio ma la sera prima ti vidi in sogno, la mia piccolina con gli occhi verdi...”. Ma stando così le cose, Peri aveva concluso di essere una bambina-ripieno tra una fetta di peccato e una di vergogna. Due strati di tragedia.

Insieme visitarono anche il college dove Peri avrebbe avuto la sua residenza: un edificio imponente, di valore storico certificato, che ai Nalbantoğlu sembrava più un museo che un dormitorio. Dal canto suo Peri, per quanto impressionata dai soffitti altissimi, dal perlinato di quercia e dalla classicità della tradizione, tra sé e sé fu altrettanto delusa dalla ristrettezza e semplicità della sua stanza: un lavabo, una cassettiera, una scrivania, un lettino e un piccolo armadio. Tutto lì – in sorprendente contrasto con la magnificenza dell’esterno – ma d’altro canto c’era la libertà elettrizzante di vivere da sola per la prima volta. Mentre scendevano la scala angusta, spostandosi per lasciar passare gli altri studenti, Shirin si voltò e le strizzò l’occhio. «Se vuoi fare nuove amicizie in fretta, lascia la porta aperta. Così la gente metterà dentro la testa per dire ciao. La porta chiusa significa “Fuori dai piedi, non mi disturbate”.» «Davvero?» bisbigliò Peri, perché non voleva che i suoi sentissero una parola. «Ma poi come faccio a studiare con tutte queste interruzioni?» Shirin scoppiò a ridere, come se l’accenno allo studio fosse la battuta più divertente della giornata. Per il resto del pomeriggio, Shirin mostrò ai Nalbantoğlu la Radcliffe Camera con la sua pianta circolare, lo Sheldonian Theatre e il museo di Storia della scienza, che custodiva molti strumenti d’epoca. La tappa successiva fu la Bodleian Library; Shirin spiegò che «la Bod», come la chiamavano studenti e docenti, ospitava quasi centosettanta chilometri di scaffali sotterranei. A un certo punto si doveva prestare giuramento di non rubare i libri, e nelle biblioteche di alcuni college c’erano ancora volumi incatenati ai banchi come nel Medioevo. Mensur indicò una scritta sullo stemma appeso al muro. «Cosa vuol dire?» «Dominus illuminatio mea, il Signore è la mia luce» disse Shirin puntando lo sguardo al cielo; ma senza lasciar trapelare se per sbaglio o per scherzo. Avendo compreso il gesto più che le parole, Selma sferrò una gomitata nelle costole al marito. «Lo vedi? Se ci fosse una scritta simile riguardo ad Allah in un’università turca, non la finiresti più. La considereresti un covo di fanatici! Un campo d’addestramento per terroristi suicidi! Mentre qui le scritte religiose non ti danno nessun fastidio.» «Questo perché in Occidente la religione ha una natura diversa» disse Mensur senza pensarci troppo. «In che senso?» continuò Selma. «La religione è religione.» «Mica vero. Certe sono più... religiose» disse Mensur, con un tono che perfino a lui sembrò quello di un ragazzino cocciuto. «Senti, in Europa la religione non tenta di dominare tutto e tutti. La scienza è libera!» «La scienza è fiorita nell’Iberia islamica» rispose Selma. «Ce l’ha spiegato Üzümbaz Efendi, che Allah lo benedica. Secondo te chi è stato a inventare l’algebra? Il mulino a vento? Lo spazzolino da denti, il caffè, le vaccinazioni, lo shampoo? I musulmani! Quando gli europei a malapena si lavavano, da noi c’erano splendidi hammam profumati all’acqua di rose. Noi abbiamo insegnato l’igiene agli occidentali, e adesso loro ce la rivendono.» «Cosa me ne frega di chi ha inventato cosa mille anni fa» disse Mensur. «Prova a chiederti, donna, chi ha sfruttato la scienza al meglio!» «Papà, mamma, ora basta» borbottò Peri, avvilita da quel litigio davanti a un’estranea. Shirin, chissà se per mera coincidenza o perché aveva fiutato la tensione e voleva gettare benzina sul fuoco, seguitò spiegando che gran parte dei college più antichi di Oxford avevano preso le mosse da ordini monastici cristiani. Cosa che Peri si guardò bene dal tradurre per la madre. Mentre salivano le scale per entrare alla Bodleian, Peri si fermò a leggere i nomi dei suoi mecenati incisi su una tavola dorata: da tempo immemorabile, senza interruzioni, individui ricchi e potenti contribuivano al suo fantastico patrimonio. La rattristava l’idea che se quella biblioteca fosse stata costruita a Istanbul, all’incirca nello stesso periodo, sarebbe stata rasa al suolo, forse più di una volta, e ogni volta ricostruita con un altro stile, un diverso progetto e un nuovo nome secondo l’ideologia egemone al momento... per poi venire riconvertita un giorno in caserma e infine, molto probabilmente, in centro commerciale. Si lasciò sfuggire un sospiro. «Tutto a posto?» chiese Shirin, lì accanto a lei. «Sì. Vorrei solo che ci fossero biblioteche così belle anche in Turchia» rispose Peri. «Aspetta e spera, sorella. In Europa si stampano libri fin dal Medioevo. In Medio Oriente non so di preciso quando hanno cominciato, ma so per certo che per noi non c’è speranza. Cioè, Iran, Turchia, Egitto, per carità, cultura ricchissima, musica bellissima, si mangia benissimo. Ma i libri sono informazione, e l’informazione è potere, giusto? Quando mai lo colmeremo, il distacco?» «Duecento e ottantasette anni» disse adagio Peri. «Eh?» «Scusa» fece Peri. «Il torchio di Gutenberg è del 1440, più o meno. In Italia si pubblicarono nel Cinquecento alcuni testi arabi. Ma fu con Müteferrika, nell’Impero ottomano, che i musulmani cominciarono a stampare... piagati dalla censura, ovviamente. A ogni modo, la differenza è di duecentottantasette anni.» «Certo che sei bella strana» disse Shirin. «Perciò dichiaro che a Oxford sopravviverai.» «Dici?» Peri sorrise. Assetati, si fermarono a prendere un caffè al Mercato coperto, poco distante. Mentre Peri e Shirin cercavano un tavolo, Mensur e Selma partirono diretti verso i bagni, ognuno per conto proprio. «Parlando di distacchi, mi pare che fra i tuoi ce ne sia uno bello grosso» commentò Shirin all’improvviso. «Tuo padre sta parecchio a sinistra, eh? Mentre tua mamma...» «Proprio di sinistra non lo definirei, però sì, è un laico inveterato... un kemalista, se sai qualcosa di storia turca. Mentre mamma è...» Come Shirin, anche Peri lasciò la frase in sospeso; poi si tolse lentamente un pelucco invisibile da una manica e se lo rigirò tra le dita. Non aveva mai conosciuto nessuno tanto brusco e invadente, ma non si sentiva per niente offesa come a suo giudizio avrebbe dovuto. Eppure, cambiò lo stesso argomento. «Quindi sei nata a Teheran?» «Sì, la prima di quattro femmine. Povero Baba! Avrebbe tanto voluto un maschio, ma Sheitan gli si è infilato nel letto. Baba fumava come una ciminiera e mangiava come un uccellino. “Qua mi ammazzano” diceva sempre; intendeva il regime, non noi. Alla fine ha trovato il modo di uscire. Madarjan non voleva partire, ma per amore ha accettato. Ci hanno portato in Svizzera di nascosto. Ci sei mai stata?» «No, è la prima volta che mi allontano da Istanbul» disse Peri. «Be’, la Svizzera è caruccia, pure troppo, tanto dolce da cariare i denti, non so se mi spiego. Quattro anni della mia vita nella sonnolenta Sion. Giuro che una volta ho sentito una ragazza lamentarsi con il padre perché al supermercato non c’erano i suoi frutti di bosco preferiti! Cioè, voglio dire, il mondo è una polveriera, il muro di Berlino è caduto, e tu ti preoccupi dei lamponi? Ero ancora piccola, ma perfino io capivo che stava succedendo qualcosa di esaltante. Adoro i muri che cadono. Sì, certo, in Svizzera si stava benissimo, ma per i miei gusti i ritmi erano un po’ troppo lenti. È da allora che corro, per recuperare il tempo perso.» Peri ascoltava, con l’espressione che passava dalla curiosità alla gioia. «Dopo siamo andati in Portogallo. A me piaceva, ma a Baba no. Sempre lì a fumare e a lamentarsi. Due anni a Lisbona e poi tac!, proprio quando avevo imparato quel minimo di portoghese, fate i bagagli, ragazze, andiamo in Inghilterra. La regina ci aspetta! Avevo quattordici anni, sant’Iddio. A quattordici anni una dovrebbe occuparsi dei problemi suoi, non di quelli della famiglia. A ogni modo, l’anno che siamo arrivati Baba è morto. Il dottore disse che aveva i polmoni neri come il carbone. Non ti sembra strano che un medico usi una metafora, cosa crede di essere, un poeta?» Shirin tamburellava con le dita sul tavolo, scrutandosi la manicure. «La Gran Bretagna era il sogno di Baba, non il mio, e adesso eccomi qua, più inglese del pudding di Natale ma fuori posto come una torta di datteri!» «Dov’è che ti senti a casa?» domandò Peri. «A casa?» Shirin fece una smorfia sprezzante. «Ti svelo una regola universale: casa è dove sta tua nonna.» Peri sorrise. «Carina. Quindi casa tua dov’è?» «Due metri sottoterra. Nonna è morta cinque anni fa. Mi adorava, ero la sua prima nipote. Secondo i vicini, fino all’ultimo giorno ha sperato che tornassimo. Quella è casa mia! Sepolta con mamani a Teheran. Quindi, tecnicamente, sono una senzatetto.» «Ah, sono molto... dispiaciuta» disse Peri, intuendo nella propria esitazione un’incapacità di stare al passo con gli estroversi, gruppo umano al quale Shirin chiaramente apparteneva. «Sai come si chiama il cimitero di laggiù? Il Paradiso di Zahara. Forte, eh? Dovrebbero chiamarli tutti “paradiso”, i cimiteri. Che bisogno c’è di scomodare l’Onnipotente con Giudizi universali, pentoloni bollenti, ponti sottili come capelli e tutto il resto? Muori, vai in paradiso, fine della storia.» Peri rimase immobile, stregata e perplessa in egual misura. Aveva l’impressione che la sua nuova amica, pur essendole coetanea, avesse vissuto il doppio di lei e avesse visto più mondo di tutta la sua famiglia messa insieme. Non aveva mai sentito nessuno parlare in quel modo dell’aldilà; neppure suo padre, che pure esprimeva assai di frequente la propria avversione per le questioni di fede. Selma e Mensur tornarono di lì a poco. A quel punto, avevano finalmente trovato un punto d’accordo: Shirin. Per motivi diversi, ma equivalenti per intensità, tutti e due se n’erano fatti una pessima idea; e tutti e due, benché ognuno tra sé, si ripromettevano di dire alla figlia di stare lontana dalla ragazza anglo-iraniana. Era senz’altro una cattiva compagnia.

Un’oretta più tardi, dopo aver girato vertiginosamente in tondo, conclusero la visita guidata di fronte alla Oxford Union. Prima di andare via, Shirin abbracciò Peri come se fosse un’amica perduta e ritrovata. Il suo era un profumo muschioso, inebriante e così prepotente che per un attimo Peri perse l’orientamento, in preda al capogiro. Shirin le disse che gli inglesi, per quanto cordiali e beneducati, erano anche molto riservati e fin troppo cauti, per una straniera sola in un Paese sconosciuto, e che quindi Peri avrebbe fatto meglio a frequentare altri studenti stranieri oppure di provenienza mista, come lei. «Allora ci vediamo, d’accordo?» disse Peri. Diceva sul serio perché, sebbene la personalità di Shirin la intimidisse un poco, non poteva fare a meno di sentirsi attratta dalle sue chiacchiere interminabili, dalla sua fiducia in se stessa e dalla sua audacia. Si desidera sempre quel che non si possiede. «Se ci vediamo?» le fece eco Shirin mentre baciava su entrambe le guance Selma e Mensur, rigidi come baccalà. «Ci puoi scommettere! Mi ero scordata di dirtelo, siamo nello stesso studentato.» «Davvero?» fece Peri. «Già.» Shirin le offrì un sorriso a trentadue denti. «Per la precisione, porta a porta. E se fai il minimo rumore, non te la faccio passare liscia... no, dài, scherzo. Turchia e Iran vicini, come sulla carta geografica. Saremo grandi amiche. Oppure nemiche acerrime. Magari scateniamo una guerra. La Terza guerra mondiale! Perché tanto arriverà, lo sai, vero? Ci sarà un’altra cazzo di guerra perché il Medio Oriente è troppo andato a puttane... Occazzo, scusa il linguaggio.» Quindi, rivolgendosi agli sconcertati genitori di Peri e pronunciandone malamente il cognome, dichiarò: «Signore e signora Nubamntalu, non vi preoccupate per vostra figlia. È in ottime mani. D’ora in poi, tenerla d’occhio sarà la mia missione». Il silenzio

Oxford, 2000

Dopo che i suoi furono ripartiti alla volta della stazione, Peri tornò agli scalini sul piazzale anteriore del college in preda a un doloroso senso di solitudine. Certo, era bellissimo ritrovarsi per una volta così lontana da scaramucce e battibecchi, però almeno le erano familiari, e in loro assenza provava un forte smarrimento, come se le avessero strappato via un tappeto da sotto i piedi, costringendola a camminare su un terreno sconnesso. Adesso che l’orgoglio e l’esaltazione della giornata si erano dissolti, Peri venne travolta dall’inquietudine e si rese conto che non era poi tanto pronta per la successiva, importantissima fase della sua vita, non quanto aveva voluto credere. Cercava di mantenersi rigida contro il vento, così diverso dalla brezza salmastra di un tardo pomeriggio a Istanbul, poi fece un respiro profondo e infine espirò pian piano, mentre il naso andava a cercare aromi conosciuti: cozze impanate e fritte, castagne arrosto, bagel al sesamo, intestini di pecora alla brace mescolati con il profumo degli alberi di Giuda in primavera e degli arbusti di dafne in inverno. Come una fattucchiera impazzita che avesse dimenticato le ricette delle proprie pozioni, Istanbul mescolava aromi improbabili nella stessa marmitta, dolci e rancidi, allettanti e disgustosi. Qui a Oxford, invece, il profumo resinoso che indugiava nell’aria sembrava irremovibile, affidabile. Salì la buia scala di legno che portava alla sua stanza e lì aprì la valigia, tirò fuori gli abiti e li appese nell’armadio, si organizzò i cassetti, sistemò le foto di famiglia sulla scrivania. Il Diario di Dio lo posò vicino al letto. Si era portata dietro alcuni dei suoi libri preferiti, alcuni in turco, altri in inglese: La civetta cieca di Sadegh Hedayat, Il sogno di mia madre di Alice Munro, Denti bianchi di Zadie Smith, Le ore di Michael Cunningham, Il Dio delle piccole cose di Arundhati Roy, Storia naturale della distruzione di W.G. Sebald, Tutunamayanlar di Ouz Atay, Le città invisibili di Italo Calvino e Un artista del mondo effimero di Kazuo Ishiguro. «Perché leggi sempre autori occidentali?» le aveva chiesto una volta l’unico ragazzo che avesse mai avuto. All’epoca era ancora all’ultimo anno di liceo, mentre lui, più grande di tre anni, studiava sociologia all’università. La velata accusa contenuta nella domanda l’aveva colta di sorpresa. A dire il vero Peri frequentava sia la letteratura locale sia quella internazionale, anzi aveva la tendenza a perdersi in qualunque libro destasse la sua curiosità e catturasse la sua immaginazione, indipendentemente dalla nazionalità dell’autore. Eppure, in confronto a quello del suo ragazzo, i cui scaffali ospitavano titoli turchi – e qualche romanzo russo e sudamericano che, diceva lui, non era «corrotto» perché non era stato scritto attraverso «l’obiettivo distorto dell’imperialismo culturale» –, l’ambito delle sue letture era troppo europeo. «Se ti guardo, io vedo la tipica intellettuale orientale in formazione» aveva aggiunto lui. «Innamorata dell’Europa e ai ferri corti con le proprie radici.» Perché mai alle radici si dovesse dare tanto più valore che ai rami e alle foglie, Peri non lo aveva mai capito. Gli alberi gettavano virgulti e filamenti in ogni dove, sotto e sopra gli antichi suoli terrestri. Se perfino le radici si rifiutavano di star ferme dove stavano, perché pretendere l’impossibile dagli esseri umani? A ogni modo, cotta com’era, Peri si era sentita lievemente in colpa. Leggeva molto più di lui, ma magari aveva sprecato il suo tempo vagando per le strade secondarie e i vicoletti di Libropoli, attratta da stili e sapori diversi. Per qualche tempo aveva provato a non spendere un centesimo in titoli occidentali, ma il proposito si era rapidamente infranto: un bel libro era un bel libro, e l’unica cosa che contava era quella. Tra l’altro, le venisse un colpo se riusciva a comprendere quell’atteggiamento reazionario nei confronti della lettura. In molte parti del mondo ognuno era quello che diceva, quello che faceva e anche quello che leggeva; mentre in Turchia, come in tutti i Paesi tormentati da problemi di identità, ciascuno era prima di tutto ciò che rifiutava, e si aveva la netta impressione che più la gente parlava di un autore, meno probabile era che l’avesse letto. A un certo punto quella relazione, minata da un’incompatibilità di opinioni rispetto all’intimità fisica ben più che da gusti letterari divergenti, era finita. C’era in Medio Oriente una genia di fidanzati che se rifiutavi le loro avance sessuali se la prendevano; poi però, nel preciso istante in cui reagivi con passione ai loro desideri, ai loro occhi perdevi di valore. Sbagliavi se dicevi di no, sbagliavi se dicevi di sì: era un gioco in cui le ragazze non vincevano mai. Una volta terminato di sistemare la stanza, Peri aprì la finestra coi vetri a piombo affacciata sui prati curatissimi del giardino del college. Nell’aria pesava un senso di vuoto, che sfocava i profili di ogni sagoma visibile in lontananza. Con lo sguardo alle ombre degli alberi più vicini, Peri rabbrividì come se uno spettro o un jinni, impietosito dalla sua solitudine, l’avesse sfiorata con la massima delicatezza. E se fosse stato il bebè nella nebbia? No, non poteva essere. Non lo vedeva da tantissimo tempo. Più facile che fosse un fantasma inglese: Oxford dava l’impressione di essere un posto dove i fantasmi, disinibiti e non per forza spaventosi, gironzolavano nel buio a piacere. La prima cosa che la colpì, di Oxford, fu il silenzio. Era quella, e lo rimase per mesi a venire, l’unica caratteristica del luogo a cui faticava ad abituarsi: l’assenza di rumori. Istanbul era spudoratamente chiassosa, di giorno e di notte; potevi anche chiudere le persiane, tirare le tende, metterti i tappi nelle orecchie e tirarti le coperte fin sulla testa ma il frastuono, appena smorzato, passava dai muri e ti s’infiltrava nel sonno. Le ultime grida degli ambulanti, le sgommate dei camion notturni, le sirene delle ambulanze, le navi sul Bosforo, le preghiere e le bestemmie che, dopo la mezzanotte, si moltiplicavano in egual misura, restavano sospese nel vento rifiutandosi di sparire. Istanbul, come la natura, non tollerava il vuoto. Seduta sul letto, Peri sentì un nodo allo stomaco. L’ansia dei suoi genitori pareva aver avuto ragione di lei, anche se per motivi del tutto personali. Si sentiva un’impostora; temeva che non avrebbe mai combinato niente, là in mezzo a tutti quegli studenti che erano sicuramente molto più preparati e disinvolti di lei. L’inglese che aveva imparato a scuola, e arricchito a forza di nottate trascorse a leggere per conto proprio, poteva non bastare a seguire i corsi più avanzati della sua facoltà, Scienze politiche, economiche e filosofiche. Benché facesse di tutto per nasconderla, Peri aveva una grandissima paura di non farcela. Il nodo le salì in gola e fu sorpresa della rapidità con cui le si inumidirono gli occhi. Quando arrivarono, le lacrime le sembrarono tiepide, familiari e, per qualche ragione, per niente tristi. Un colpo alla porta la riportò al presente. Poi, senza attendere una risposta, Shirin spinse il battente ed entrò nella stanza. «Ehilà, vicina!» Involontariamente Peri tirò su col naso, poi sorrise nel tentativo di ricomporsi. «Te l’avevo detto, di lasciare la porta aperta.» Shirin stava ritta al centro della stanzetta con le mani sui fianchi. «Lui chi è?» «Come?» «Stavi piangendo. Ti sei lasciata col tuo ragazzo?» «No.» «Brava, mai sprecare lacrime dietro a un uomo. Che c’è, allora? Ti sei lasciata con la tua ragazza?» «Eh? Certo che no!» «Oc-chei, tranquilla» fece Shirin, alzando le mani come a simulare un profondo rammarico. «Si capisce che sei per le cose regolari, dritte dritte come spaghetti. Io invece sono un po’ più per la pasta fresca.» Peri sgranò gli occhi. «Se quelle lacrime non sono per un innamorato, allora hai nostalgia di casa» soggiunse Shirin inclinando un po’ la testa. «Beata te!» «Come, beata me?» «Già, perché se hai nostalgia di casa vuol dire che da qualche parte una casa ce l’hai.» Shirin si piazzò sulla poltroncina accanto alla scrivania e si cavò di tasca un flacone di smalto per le unghie, di un rosso talmente acceso da far temere che la sua fabbricazione fosse costata il massacro di molte creature. «Ti spiace?» E di nuovo senza attendere una risposta si tolse le pantofole e cominciò a laccarsi le unghie dei piedi. L’aria si riempì di un odore chimico e pungente. «Bene, ora che i tuoi sono partiti posso farti qualche domanda» proseguì Shirin. «Sei religiosa?» «Io? Mica tanto...» rispose Peri in difficoltà, come ammettendo qualcosa che lei stessa aveva faticato a capire. «Però di Dio m’importa.» «Hm. Voglio saperne di più. Tipo, per esempio, il maiale lo mangi?» «No!» «E a vino come sei messa, lo bevi?» «Sì, qualche volta, con mio padre.» «A-ha, come pensavo. Sei mezza e mezza.» Peri aggrottò la fronte. «In che senso?» Ma Shirin non ascoltava già più; sembrava impegnata a cercare qualcos’altro nelle tasche. Non riuscendo a trovarlo arricciò il naso, si alzò e ripartì verso la propria camera di fronte alle scale, saltellando sui talloni per non rovinarsi lo smalto ancora fresco. Curiosa e vagamente stizzita, Peri la seguì oltre la porta spalancata; e lì rimase di sasso, folgorata dal disordine che vide nella stanza. Trousse da trucco, creme per il viso, guanti di pizzo, flaconi di profumo, torsoli di mela, incarti di caramelle, buste di patatine vuote, lattine di Cola schiacciate, libri e pagine strappate da riviste erano sparsi ovunque. Alcune di queste pagine erano state appese alla parete, vicino a un poster dei Coldplay e a una foto in bianco e nero di una donna bruna e appassionata, con scritto sopra «Forough Farrokhzad»; dalla parete di fronte la scrutava invece, con aria truce, un gigantesco manifesto di Friedrich Nietzsche con i suoi folti baffoni. Accanto, una variopinta fotocopia ingrandita di una miniatura persiana, in cornice dorata e scintillante; e sotto c’era Shirin che frugava nello zainetto. «Che volevi dire con quella frase, scusa?» ribadì Peri. «Mezza musulmana e mezza moderna. Non sopporta la vista del maiale, ma il vino può andare... o la vodka o la tequila, ci siamo capite. Rilassata se si tratta del Ramadan, fa un digiunino qui e là ma senza proprio smettere di mangiare. Non abbandona la religione perché non si sa mai, potrebbe esserci un’altra vita dopo la morte quindi è meglio stare sul sicuro, ma non vuole neanche mollare sulle libertà personali. Un po’ di questo e un po’ di quello, la grande fusione della nostra epoca: il Musulmanus modernus.» «Ohi, così mi offendi» disse Peri. «Ovvio. Il Musulmanus modernus si offende sempre.» E con questo, Shirin estrasse dallo zainetto un altro flaconcino trasparente – lucidante per l’ultimo strato sopra lo smalto – ed esclamò: «Trovato!». Peri la guardò male. «Se io sono così, che mi dici di te?» «Ah, sorella, io sono solo una vagabonda» disse Shirin. «Il mio posto è da nessuna parte.» Mentre si applicava il lucidante alle unghie, Shirin continuò a inveire contro fanatici, ipocriti, conformisti e soprattutto quelli che definiva «ignorantoni». Le sue opinioni scorrevano come un fiume, parole d’acqua che ribollivano, sciabordavano, penetravano ovunque. A suo modo di vedere, chi credeva o non credeva con sincera passione era sempre degno di rispetto; ma proprio non sopportava quelli che non pensavano con la propria testa. I pecoroni, diceva lei. Nel silenzio che seguì, Peri si sentì trascinare in due direzioni opposte. Per un verso non apprezzava la boria argomentativa della nuova amica; percepiva la rabbia di Shirin, ma contro chi o cosa fosse rivolta – il Paese natale, il padre, la religione, i mullah iraniani – non era facile da stabilire. Per un altro verso però le piaceva starla a sentire, perché nel suo soliloquio coglieva echi della voce di Mensur. Comunque fosse, non era quello il genere di conversazione che si era aspettata di intrattenere la prima sera lontana da casa; avrebbe voluto chiacchierare dei corsi, dei docenti, sapere dove trovare un buon caffè o i migliori panini del circondario, i particolari della vita quotidiana a Oxford. Cominciò a piovere, e la stanza si riempì di un picchiettio soffice e costante che forse ebbe un effetto lenitivo anche su Shirin, perché quando riprese a parlare il tono era più calmo, benché soffuso di emozione. «Scusa se ti ho scaricato addosso tutti i miei cazzi personali. Decidi tu in cosa vuoi credere, non sono affari miei. Non so perché sono partita per la tangente.» «Non c’è problema» disse Peri. «Ma sono contenta che non ci sia mia madre.» Shirin rise, un risolino allegro, quasi infantile. «Parlami degli altri che studiano qui» continuò Peri. «Sono tutti intelligentissimi?» «Ma cosa credi, che qui a Oxford si inciampi a ogni passo in un Einstein?» Shirin sbuffò col naso sull’ultima parola. «Guarda, quelli che studiano qui sono come i frappè, si può scegliere tra gusti diversi. E direi che i gusti di studenti disponibili sono almeno sei.» Primo tipo, gli eco-socio-demo-paladini. Loquaci, coscienziosi, umbratili, sempre coinvolti in campagne per salvare le foreste pluviali del Borneo o i monaci buddisti perseguitati in Nepal, le spiegò Shirin. Maglioni sformati, collane di perline, tagli di capelli penosi, jeans col risvolto, i paladini si distinguevano facilmente dall’espressione risoluta e dalla dotazione di penne e taccuini, perché stavano sempre raccogliendo firme. Organizzavano veglie notturne, poi di giorno attaccavano volantini ovunque e si cacciavano in tutti i dibattiti possibili e immaginabili; soprattutto, a loro piaceva farti sentire in colpa perché non contribuivi a qualcosa di più vasto e significativo della tua insignificante vita. Poi c’erano gli euro-fighetti; ricchi figli e figlie di papà del Vecchio continente che, non si sa come, si conoscevano tutti, per le vacanze andavano tutti a sciare negli stessi posti e tornavano ostentando abbronzature e foto sul telefonino. Praticavano una raffinata forma di endogamia, accoppiandosi esclusivamente tra loro; facevano lunghissime prime colazioni in cui spazzolavano filoni di pane carichi di burro, eppure erano sempre in forma; adoravano lamentarsi delle brioche rafferme e dei cappuccini fasulli, e non la smettevano mai di parlare del tempo. Terzo gusto, quelli dei licei e convitti privati inglesi, iperselettivi quanto a socialità. Formavano cricche alla velocità della luce, scegliendosi gli amici più che altro in base alle scuole che avevano frequentato, e con immense riserve di sicurezza ed energia si lanciavano in ogni tipo di attività extracurricolare: vogavano, pagaiavano, tiravano di scherma, recitavano; giocavano a cricket, golf, tennis, rugby e pallanuoto, oltre a praticare il tai-chi o il karate nel tempo libero. Tutta quell’attività fisica doveva metter loro una gran sete, perché poi si radunavano in «circoli etilici» dove davano il massimo quanto a mettersi in ghingheri e affogare nell’alcol, godendo come matti nell’escludere chiunque fosse privo del retroterra sociale che garantiva l’accesso al loro club. Per entrarci bisognava essere presentati, e a qualunque potenziale candidato si poteva mettere il veto. Seguivano quindi gli studenti stranieri: indiani, cinesi, arabi, indonesiani, africani... la maggior parte dei quali ricadeva in due sottogruppi. Quelli che cercavano in ogni modo, come magneti che si attraevano, l’elemento familiare e per questo mangiavano, studiavano, fumavano e passavano il tempo in gruppetti dove potevano parlare nella lingua madre; e quelli che facevano esattamente il contrario, con l’obiettivo di distanziarsi il più possibile dai compatrioti. Questi ultimi avevano accenti molto volubili, che modificavano moltissimo nel tentativo di sembrare più britannici o, in qualche caso, più americani. Quinta categoria, i nerd. Seri, studiosi, intelligenti, avidi di sapere, erano degni di rispetto ma farseli amici risultava impossibile. Spuntavano come funghi ai corsi di matematica, fisica e filosofia, preferendo i loro angolini tranquilli e ombrosi al sole pieno, e si dedicavano alle materie prescelte con una passione che sconfinava nella nevrosi. Li si notava anche in mezzo alla folla, a passare spediti dalla biblioteca a un’esercitazione pratica, ansiosi di analizzare questo o quell’argomento con un docente nella quiete dei portici ma, per il resto, totalmente appagati dalla loro solitudine; e in effetti erano decisamente più a proprio agio in compagnia dei libri che dei coetanei, al bar del college o nelle sale comuni. Mentre ascoltava Shirin, Peri si sentiva invasa da un’esaltazione venata d’ansia; era pronta a scoprire quel mondo nuovo che doveva trovare la forza di percorrere, e al tempo stesso ne aveva paura. «Come fai a sapere tutte queste cose?» Shirin rise. «Perché sono uscita con ragazzi – e ragazze – di tutti i gruppi.» «Cioè, tu hai frequentato... delle ragazze?» «Ma certo. Posso amare un uomo come una donna, delle etichette me ne sbatto altamente.» «Ah» fece Peri, a disagio. «Quindi... che mi dici della sesta categoria?» «Qui ti volevo!» disse l’altra, gli occhi scuri accesi da guizzi d’ambra. «Sono quelli che quando arrivano qui sono una cosa, e poi ne diventano tutta un’altra. Fioriscono. Brutti anatroccoli che si trasformano in cigni, zucche in carrozze, Cenerentole in eroine. Per alcuni Oxford è una bacchetta magica, ti sfiora e tac! Eccoti tramutato da ranocchio in principe.» Peri scosse il capo. «Com’è possibile?» «Be’, succede in tanti modi, ma di solito è per merito di qualcuno... un insegnante, spesso. Qualcuno che ti sfida e ti costringe a vederti per quello che sei.» Qualcosa, nel tono di Shirin, suscitò la curiosità di Peri. «È capitato anche a te?» «Brava, indovinato! Io sono del sesto tipo» rispose l’altra. «Un anno fa non mi avresti riconosciuta. Ero un grumo di rabbia.» «E poi, che t’è successo?» «Mi è successo il professor Azur!» disse Shirin. «Mi ha aperto gli occhi. Mi ha insegnato a guardarmi dentro. E oggi sono molto più serena.» Se quella era la versione serena, Peri preferiva non sapere come avrebbe potuto essere l’altra Shirin. Perciò chiese: «Chi è il professor Azur?». «Non lo conosci?» Shirin schioccò le labbra come se avesse qualcosa di dolce sulla punta della lingua. «Da queste parti è una leggenda vivente!» «Cosa insegna?» Sul viso di Shirin balenò un sorriso. «Dio.» «Veramente?» «Veramente» confermò Shirin. «Ed è un po’ un Dio anche lui. Ha pubblicato nove libri, è sempre a qualche tavola rotonda o conferenza. Una vera celebrità, lasciatelo dire. L’anno scorso “Time” l’ha inserito nel suo elenco delle cento persone più influenti al mondo.» Fuori si era alzato il vento, spalancando e poi richiudendo di schianto chissà quale finestra del fabbricato. «Studiare con lui è stata una fatica assurda!» seguitò Shirin. «Cazzo, non sai quanti libri ci ha fatto leggere! Una roba da matti! Un sacco di roba strana: poesia, filosofia, storia. Cioè, non fraintendermi, io tutte queste cose le apprezzo, non sarei iscritta a Scienze umanistiche se non mi piacessero, ti pare? Solo che lui scovava dei testi di cui nessuno sapeva un’acca e poi ci chiedeva di discuterne. Ma è stato fortissimo. Alla fine del corso non ero più la stessa persona.» Quando cominciava a parlare, notò Peri, Shirin non si fermava più, come un’auto coi freni guasti che non è più in grado di rallentare, e tanto meno fermarsi, se non per un intervento esterno. Intanto l’altra soggiungeva: «Dovresti prendere in considerazione il suo seminario, come materia opzionale. Cioè... se Azur te lo permette, in realtà. È più facile convincere un cammello a saltare un fosso». Peri sorrise. «Questo proverbio c’è anche in Turchia. Perché è così difficile entrare nel suo corso?» «Devi essere idonea. Vale a dire che devi parlarne con il tuo consulente accademico, eccetera. Se lui approva, poi tu vai da Azur. Quella è la parte complicata, perché lui non è per niente malleabile. Ti fa delle domande assurde.» «Su cosa?» «Dio... il bene e il male... la scienza e la fede... esistenza e mortalità...» Shirin aggrottò la fronte, cercando altri esempi. «Su tutto. È una specie di provino accademico. Io non ho mai capito cosa vada cercando, ma alla fine sceglie una manciata di persone.» «Tu però ce l’hai fatta due volte, mi pare» disse Peri, sentendosi montare in gola qualcosa di simile all’invidia, pur senza motivo. «Vero» disse Shirin. L’orgoglio nella voce era ineludibile. Seguì un momento di silenzio. «Io continuo a vederlo per dei pareri, almeno una volta la settimana» sbottò poi Shirin, incapace di tacere per più di sessanta secondi. «Anzi, sono abbastanza partita per lui. È bello da matti. No, non è solo bello: mi fa un gran sesso!» Peri s’irrigidì sulla sedia, non sapendo come reagire. All’apparenza, venivano entrambe da Paesi musulmani, da culture simili. E invece, com’era diversa da lei questa ragazza, che sembrava del tutto a proprio agio con se stessa e la propria sessualità. «Senti senti, hai una cotta per il tuo professore» disse Peri. E non poté impedirsi di aggiungere: «Ma non è vietato?». Shirin buttò la testa all’indietro e si fece una gran risata. «Altroché, vietatissimo! Per favore, portatemi nelle segrete di Sua Maestà!» Imbarazzata dalla propria ingenuità, Peri si scrollò nelle spalle. «Be’, il corso sembra veramente forte, ma io devo concentrarmi su altre cose.» «In altre parole, sei troppo presa a essere mortale» disse Shirin piantando gli occhi svegli addosso alla nuova amica. «Perciò Dio dovrà aspettare.» Benché lei lo avesse inteso come una battuta, il commento di Shirin fu così poderoso e inaspettato che Peri ne rimase turbata. Volse lo sguardo alla finestra e al cielo d’ardesia da cui svaniva anche l’ultima luce. Il vento, la pioggia, la persiana che sbatteva, un senso di gelo invernale nell’aria malgrado si fosse solo ai primi d’autunno; avrebbe ricordato tutte queste cose per moltissimi anni a venire. Quello fu un momento cruciale nella sua vita, anche se Peri lo capì solo dopo che era svanito. Il passatempo

Istanbul, 2016

Gli antipasti comparvero fra un’abbondanza di complimenti allo chef. Purea di melanzane affumicate, pollo alla circassa con aglio e noci, carciofi con le fave, fiori di zucca farciti, polpo alla griglia con salsa al burro e limone. Alla vista di quest’ultimo, Peri si rabbuiò in volto. Era un bel po’ che aveva smesso di considerare il polpo come cibo e lo allontanò delicatamente con la forchetta. Sbrigata la questione degli intrallazzi calcistici, i commensali passarono a conversare del secondo argomento preferito nelle cene di Istanbul: la politica. E venne posta, inevitabile, la domanda che inevitabilmente veniva posta ogni volta che più di tre turchi si trovavano riuniti: «Dove stiamo andando?». Secondo Peri c’era un che di ipocrita nei capitalisti di quella parte del mondo. Visti da fuori, si professavano conservatori e favorevoli allo status quo, ma dentro ribollivano di furore e frustrazione. Fra le personalità pubbliche e quelle private c’erano pochi contatti, e per questo l’élite – e in particolare quella del mondo degli affari – passava la vita a guardarsi alle spalle. Pubblicamente si tenevano per sé quello che pensavano, a quanto vedeva Peri, evitando di parlare di politica se non costretti, nel qual caso tiravano fuori qualche commento innocuo e nulla più. Si muovevano in società con aria indifferente, come clienti che fanno shopping senza troppa convinzione. Quando si imbattevano in qualcosa che li infastidiva, il che succedeva spesso, chiudevano gli occhi, si tappavano le orecchie e si sigillavano la bocca. Tra le pareti domestiche, però, la maschera di noncuranza veniva meno e subivano una metamorfosi: l’apatia si trasformava in sfrontatezza, i borbottii in urla, la discrezione in avventatezza. Alle feste private la borghesia di Istanbul non si stancava mai di inveire contro la politica, come a compensare il silenzio praticato in pubblico. A Oxford Peri aveva studiato il modo in cui la borghesia occidentale, con i suoi valori liberali e individualisti e l’opposizione al feudalesimo, aveva svolto il ruolo di agente di progresso nel corso della storia. In Turchia, invece, la classe capitalista era un’appendice, l’epilogo di una cronaca ancora non narrata. Secondo Marx la borghesia aveva creato un mondo a propria immagine, ma se il Manifesto del partito comunista fosse stato scritto in e sulla Turchia, questa tesi sarebbe stata un po’ diversa. Qui era stata la borghesia, notoriamente sfuggente, a conformarsi alla cultura che la circondava; come un pendolo che non trova requie, oscillava fra un elitismo compiaciuto di sé e uno statalismo schivo. Lo Stato con la S maiuscola era il principio e la fine di ogni cosa: come un cumulonembo in cielo, l’autorità statale incombeva su ogni casa della nazione, che fosse una villa maestosa o un umile tugurio. Peri scrutò i visi dei commensali: ricchi, aspiranti ricchi o ultraricchi, tutti erano insicuri allo stesso modo. Buona parte della loro serenità era in balia dello Stato; persino i più potenti temevano di perdere autorità, persino i più benestanti temevano la miseria. Bisognava credere nello Stato per lo stesso motivo per cui bisognava credere in Dio: la paura. La borghesia, pur con tutto il suo sfarzo e sfolgorio, sembrava un bambino che teme il padre: l’eterno patriarca, il Baba. In questa incertezza la classe media locale, a differenza delle sue controparti in Europa, non vantava audacia né autonomia, tradizione né memoria. Era schiacciata fra quello che ci si aspettava da lei e quello che avrebbe voluto essere... un po’ come me, si disse Peri. Odori misti di candele e spezie sovrastavano la tavolata come un denso banco di nebbia. L’atmosfera nella sala si faceva sempre più calda e pesante, nonostante un’arietta fresca che spirava dalla terrazza, dove qualcuno dei signori era uscito a fumare. A Peri non era sfuggita una certa tensione tra alcuni invitati. La politica trasformava gli amici in nemici, ma era vero anche l’opposto: la politica poteva avvicinare persone che per il resto avevano poco in comune, facendo, di avversari, sodali. Nel quarto d’ora che seguì, mentre venivano consumati gli antipasti, cambiarono atteggiamenti, si indurirono espressioni, sorrisi diventarono facce serie. Con una serie di punti esclamativi a scandire le rispettive affermazioni, gli ospiti parlarono del futuro della Turchia, che era collegato con quello del mondo, e così anche dell’America, dell’Europa, dell’India, del Pakistan, della Cina, di Israele, dell’Iran. Ovviamente diffidavano di tutti, ma di alcuni più che di altri. Lobby sinistre che insieme ai loro fantocci tramavano contro la Turchia, imperialisti che manipolavano i loro lacchè, mani occulte che controllavano ogni cosa da lontano; si discuteva di relazioni internazionali con lo stesso fare vigile che per strada veniva riservato a fumatori di spinelli e sniffatori di colla, aspettandosi da un momento all’altro un’aggressione. Peri ascoltava senza aprir bocca, ma dentro di sé era stretta da un groppo di emozioni. Avrebbe dato qualunque cosa per essere a casa, sola sotto una coperta, a leggere un romanzo. Una parte di lei era imbarazzata perché non riusciva a godersi la serata, le pietanze deliziose, il vino ottimo; e per non essere di buona compagnia, come le ricordava spesso la figlia. L’altra parte, invece, aveva voglia di ubriacarsi, tornare in bagno e fracassare l’acquario. Ricordava ancora vividamente la storia che le aveva raccontato suo padre: banchi di pesci nerissimi che sbocconcellavano i versi di una poesia e gli occhi di un poeta. Era così che si sentiva quella sera: Istanbul le rodeva l’anima. La podista

Oxford, 2000

Ritrovarsi studentessa a Oxford ebbe su Nazperi Nalbantoğlu due effetti immediati. Il primo era di natura cinematografica: fra antiche corti e giardini silenziosi, campanili altissimi e bastioni smerlati, solenni refettori e nobili cappelle, la cittadina dava un senso di spazio e bellezza e finalità, come se ogni particolare andasse a formare un panorama ben congegnato. Una storia da film di cui lei, la matricola, era la protagonista. Una sensazione d’euforia; la fondata aspettativa che stesse per succedere qualcosa d’importante, con lei al centro. Molte mattine Peri si svegliava entusiasta, piena d’energia e ambizione, come se nessun obiettivo fosse irraggiungibile purché lei vi si applicasse con tutte le sue forze. Dopo la laurea pensava di rimanere in ambito universitario, o di trovare lavoro in un’importante istituzione internazionale; avrebbe fatto un sacco di soldi e comprato ai suoi genitori una grande casa sul mare, con un piano per ciascuno, così non avrebbero più litigato. Decisa a rendere il padre fiero di lei, già vedeva il diploma di laurea incorniciato, lucidato e appeso a una parete del soggiorno, accanto a un ritratto di Atatürk; e la sera, nel levare un brindisi all’eroe nazionale, Mensur avrebbe omaggiato anche le conquiste della figlia. Il secondo effetto di Oxford su Peri era il contrario del primo: le dava la claustrofobia. Un certo modo di richiudersi in sé, quasi elusivo; quel luogo era troppo per poterlo assimilare tutto insieme, e poteva essere decifrato solo a piccole dosi. Quelle mattine Peri si ritraeva, intrappolata nella propria testa, intimidita dalla difficoltà delle esercitazioni oppure dai modi dei docenti e dal formalismo che secondo loro era essenziale per gli studi di un certo livello. Imparò presto che le felpe e gli orsacchiotti ricamati con il logo dell’università erano roba da sfigati, riservata ai turisti, ma non poté evitare di comprare una tazza con la scritta; voleva portarla con sé quando sarebbe tornata a casa per il matrimonio del fratello e regalarla a sua madre. Selma l’avrebbe quasi certamente messa in mostra sul suo scaffale, vicino ai cavalli di porcellana e ai libri di preghiere. Una mattina, con la luna ancora alta nel cielo, Peri vide dalla finestra una studentessa – cuffiette nelle orecchie, guance arrossate – che correva in cortile. A Istanbul un paio di volte ci aveva provato anche lei, malgrado gli ostacoli che la città disseminava sul suo cammino; ma qui ci si poteva permettere il lusso, per così dire, di non doversi preoccupare delle crepe nei marciapiedi, delle buche sull’asfalto, delle molestie sessuali, delle auto che non rallentavano mai neanche davanti alle strisce pedonali. Quel giorno stesso si comprò un paio di scarpe da ginnastica. Dopo qualche passo falso trovò il percorso ideale. Attraversava il fiume sul Magdalen Bridge, costeggiava il Merton Field, percorreva il Christ Church Meadow e tornava passando dalla Addison’s Walk, a seconda di quanta energia le restava. Qualche volta aveva l’impressione che l’acciottolato della strada le si srotolasse sotto i piedi e che, in fondo a una di quelle pittoresche viuzze, avrebbe trovato il varco verso un altro secolo. Prendere il passo era la cosa più difficile, ma di lì in poi riusciva a star fuori anche un’ora; e dopo essersi fatta una bella corsa, con i capelli che le si appiccavano alla nuca sudata e il cuore che martellava fin quasi a far male, Peri si sentiva come immersa in uno spazio diverso, oltre una soglia che divideva i vivi dai morti. E si rendeva anche conto che pensava alla morte decisamente troppo, per essere così giovane. A Oxford correvano in tanti, docenti, studenti, impiegati; ma quelli che si godevano lo sforzo fisico si distinguevano agevolmente da quelli che lo subivano come un’imposizione, solo perché l’avevano promesso al dottore, alla fidanzata, a una versione migliore di sé. Peri invidiava i corridori palesemente più bravi di lei, ma tutto sommato era soddisfatta delle sue prestazioni, festive e feriali senza un cedimento. Quando aveva da fare la mattina, correva dopo il crepuscolo; se aveva una serata piena, si costringeva ad alzarsi dal letto all’alba. Qualche volta, troppo rara per farne un’abitudine, andò a correre tardissimo per schiarirsi le idee, nella notte così quieta da poter sentire il raschio dei polmoni mentre andava a tutta birra per il centro cittadino. Quell’autodisciplina ferrea, si garantiva, le avrebbe fatto bene, non solo al corpo ma anche allo spirito. Ogni tanto, quando per caso si ritrovava sincronizzata con un altro podista, Peri si domandava cosa mai gli passasse per la mente. Magari niente. Quanto a sé, quelli erano gli unici momenti in cui riusciva a placare l’ansia e vincere la paura. Lanciata per parchi e prati, a respirare l’aria umida che di lì a un attimo avrebbe potuto farsi pioggia, sentiva una leggerezza dell’essere che non aveva mai provato prima, quasi che non fosse lei – Peri, Nazperi, Rosa – quella che per anni aveva collezionato crucci così come altri raccolgono incarti dorati o francobolli stranieri; si sentiva simile a un gaio spirito, come se non avesse passato, né ricordi di quel passato. Il pescatore

Oxford, 2000

La chiamavano Settimana delle Matricole. Prima che il trimestre iniziale partisse per davvero, in ottobre, c’era una manciata di giorni piena zeppa di ogni sorta di eventi in cui informarsi e incontrarsi, organizzati per aiutare i nuovi arrivati a entrare in contatto con l’università, la cittadina e i suoi dintorni, a farsi nuovi amici – e/o potenziali nemici – e a scrollarsi di dosso il nervosismo alla stessa velocità con cui il ginkgo perde le foglie alla primissima gelata. Grigliate, incontri con i docenti, gare di cucina e di mangiate, tè pomeridiani, balli, karaoke e una festa in maschera... Abbigliata nella regolamentare T-shirt da matricola, Peri si aggirava qua e là senza una direzione precisa, discorrendo con studenti e membri del personale; e più parlava con la gente, più si convinceva che tutti sapessero il fatto loro, tutti tranne lei. Aveva appreso che l’ateneo – deciso a correggere la propria immagine di dorata riserva per privilegiati, e a diversificare il reclutamento e l’atmosfera in generale – aveva da poco inaugurato un programma di borse di studio che incoraggiasse l’ammissione di candidati provenienti da retroterra svantaggiati. E ora Peri passava in rassegna le facce che la circondavano, cogliendo in effetti tutta una gamma di etnie e nazionalità; poi, certo, le condizioni economiche erano più difficili da giudicare. Si accorse inoltre che, al di sotto del brusio assordante, c’era un lievissimo viavai di occhiate. Un ragazzo, in particolare, sembrava interessato a lei: alto, mascella volitiva, capelli biondi a spazzola, spalle poderose e postura da vincente – nuotava o vogava, pensò Peri – le sorrise come un buongustaio avrebbe sorriso di fronte a un piatto esotico. «Uh, stai alla larga da quello lì» le sussurrò una voce all’orecchio. Si voltò di scatto e vide una ragazza con la testa velata, le sopracciglia a cuore e gli occhi bistrati del nero più nero. Sul naso portava un piercing d’argento a forma di mezzaluna crescente. «Circolo nautico, tipo arcinoto» proseguì la ragazza. «A pesca di matricole.» «Chiedo scusa?» «Lui, quello, fa così tutti gli anni. Poi va in giro a vantarsi di quanti pesci ha preso in una settimana. Quest’anno ho sentito che vuole migliorare il primato dell’anno scorso.» «Cioè, aspetta, i pesci sono... ragazze?» «Esatto. La cosa triste, fra l’altro, è che a molte non frega assolutamente nulla di farsi trattare come pesciolini splendenti, tutte agghindate.» Nel tono s’insinuò una vena sarcastica. «Spezzare le catene è molto più difficile, se alcuni di noi adorano restare incatenati.» Peri spalancò gli occhi, cercando di visualizzare un pesce in catene. «Basta che domandi in giro, a chi serve il femminismo?» continuò l’altra. «E ti sentirai dire: “Be’, alle pakistane, alle nigeriane, alle saudite di sicuro, ma per noi è superatissimo! Dài, in Inghilterra, a Oxford!”. Poi però la realtà è molto diversa. Lo sapevi che qui i risultati delle studentesse sono insolitamente pessimi? C’è un divario di genere pazzesco negli esiti degli esami. La matricola donna di Oxford ha bisogno del femminismo esattamente come la bracciante madre nella campagna egiziana! Se la pensi come me, firma la petizione.» Quindi fece comparire una penna e una pila di fogli in cima ai quali si leggeva «Squadra Femministe per Oxford». «Ah... quindi tu sei una femminista?» domandò cauta Peri, che aveva qualche difficoltà a conciliare il termine con l’aspetto della ragazza. «Certo che sì» rispose lei. «Sono una femminista musulmana, e se qualcuno pensa che sia impossibile è un problema suo, non mio.» Mentre lasciava la firma, Peri fu colta improvvisamente dal ricordo del suo ex ragazzo turco, contrario non solo alla lettura di narrativa europea, ma anche a ogni tipo di ideologia occidentale: tra le quali, sosteneva, il femminismo era la minaccia numero uno. Un diversivo per sviare le nostre sorelle dal tema vero: la lotta di classe. Non c’era alcun bisogno di un movimento di donne a sé stante, perché la scomparsa dello sfruttamento economico avrebbe automaticamente messo fine a qualunque discriminazione. L’emancipazione della donna sarebbe venuta con l’emancipazione del proletariato. «Grazie» disse la ragazza riprendendosi fogli e penna. «A proposito, io mi chiamo Mona. Tu?» «Peri.» «Felice di conoscerti» rispose l’altra con un sorriso radioso. Mona era egiziano-americana, apprese quindi Peri. Nata nel New Jersey, si era trasferita con la famiglia al Cairo quando aveva dieci anni. «I bambini devono crescere in una cultura musulmana» aveva detto suo padre. Ma qualche anno più tardi si erano resi conto che la vita in Egitto era più dura di quanto si aspettassero – oppure che, alla fin fine, erano americani fino al midollo – ed erano tornati tutti negli Stati Uniti. A Oxford Mona frequentava il secondo anno e stava cambiando piano di studi per concentrarsi sulla filosofia. Sua madre si velava, disse, sua sorella maggiore invece no. «Abbiamo fatto scelte diverse.» Oltre a battersi per il femminismo, Mona partecipava a molte attività di volontariato: il gruppo di Aiuto ai Balcani, gli Amici della Palestina, il circolo di Studi Sufi, quello di Studi sulle migrazioni e il Circolo islamico di Oxford, di cui era uno dei vertici. Inoltre stava per lanciare un Circolo hip-hop perché le piaceva il genere. Traendo ispirazione dai suoi incroci tra culture diverse scriveva dei versi che, sperava, un giorno qualcuno avrebbe rappato. «Accidenti, dove lo trovi il tempo di fare tutto?» chiese Peri. Mona scosse il capo. «Non è questione di trovarlo, il tempo, ma di saperlo gestire. È per questo che Allah ci ha dato cinque preghiere al giorno: per strutturarci la vita.» Peri, che non aveva mai osservato le cinque preghiere – ma neppure una sola, e neppure nella sua fase devota dopo l’infarto del padre – socchiuse le labbra e rispose a bassa voce: «Mi sembri molto in pace con la religione». «Be’, forse si può dire che sono molto in pace con me stessa» rispose Mona, e guardò l’orologio. «Ora devo andare, ma vedrai che ci ribecchiamo. Sono sempre in giro a raccogliere firme per questa o quell’altra buona causa.» Si lasciarono con una stretta di mano. Bella tosta, in perfetto stile Mona. Quella sera Peri scrisse nel suo Diario di Dio: Certuni vogliono cambiare il mondo, altri i loro compagni o gli amici. Pochissimi vogliono ricostruire se stessi... Quella sì che sarebbe un’impresa. Non se ne avvantaggerebbero tutti quanti, al mondo?

Quand’era ancora a Istanbul Peri aveva tentato, benché quasi sempre con scarso successo, di comportarsi come l’estroversa che non era, e aveva frequentato più gente di quanto le importasse incontrarne. Ma a Oxford, senza più il peso della cultura d’origine sulle spalle, si godeva la solitudine, anzi, ne faceva tesoro. L’introversione non era l’unico motivo per cui aveva scansato la gran parte degli eventi previsti nella Settimana delle Matricole: aveva anche scoperto che certe cose (i tè in sala studenti, le riunioni con i docenti) erano gratuite, mentre altre (tortine vegane, dolcetti halal, pizza vegetariana) si pagavano, e vista la sua scarsa disponibilità, era molto meglio evitare le baldorie. Quindi si concentrò sul proprio elenco di cose da fare: ritirare il tesserino universitario, comprare i libri di testo e possibilmente usati, aprirsi un conto corrente per studenti. Costretta a trovare il modo meno dispendioso di sopravvivere, confrontava i prezzi di negozi e supermercati. Peri fu sicuramente tra i pochi che fecero i salti di gioia quando l’allegra Settimana, con tutte le sue attrazioni, finalmente terminò, per lasciare subito il posto all’inizio del trimestre. Sollevata, prese un suo ritmo tra lezioni, esercitazioni, libri da leggere e tesine da scrivere. In un ambiente per lei totalmente nuovo, lo studio era un’ancora saldissima, e vi si aggrappò più forte che poteva. Shirin andava e veniva a tutte le ore, lasciandosi dietro una scia di inebrianti molecole profumate di cedro e magnolia. Benché gli orari delle rispettive giornate fossero dettati da abitudini incompatibili, le due si ritrovarono sempre più spesso a far colazione e a pranzare insieme, e così a discutere di lezioni, docenti e, talvolta, della materia che destava perpetuo interesse: i ragazzi. Peri, che in quel campo non aveva molta esperienza, ascoltava Shirin cicalare senza sosta sull’arte della frequentazione maschile, e il morale le scendeva sotto le scarpe. In compagnia di amiche esperte che praticano il flirt con grande naturalezza, la neofita non può che venir presa dallo sconforto, dalla sensazione di essere talmente indietro che ormai può fare solo da spettatrice. Peri si mise anche a cercare il corso di cui le aveva parlato Shirin. Lo rintracciò su un elenco di seminari proposti dal Dipartimento di Filosofia, dai titoli elaborati e di grande effetto: Critica atomista del creazionismo; L’olismo nella psicologia ed epistemologia stoica; I re filosofi di Platone, retta esistenza e nobile menzogna; Tommaso d’Aquino: critici medievali e compagni di scolastica; L’idealismo tedesco e Kant sulla filosofia della religione; Problemi filosofici nelle scienze cognitive... Verso il fondo dell’elenco si notava un titoletto: DIO. Seguiva una descrizione: Attingendo a fonti prese dall’antichità ai giorni nostri, dalla filologia alla poesia, dal misticismo alle neuroscienze, dai filosofi orientali ai loro omologhi occidentali, il seminario esplora di che cosa parliamo quando parliamo di Dio. Tra parentesi c’era il nome del docente: professor Anthony Zacharias Azur. E, sotto, una nota conclusiva: Posti limitati, si richiede colloquio preliminare con il docente. Attenzione: forse questo corso fa per voi, e forse no. Peri rimase molto incuriosita dalla descrizione, trovando l’arroganza del tono ammaliante e indisponente al tempo stesso. Pensò di chiedere altre informazioni ma poi, nella frenesia di quei primi giorni, se ne scordò ben presto. Shirin aveva ragione. «Dio» doveva aspettare. Caviale nero

Istanbul, 2016

La portata principale – risotto ai funghi selvatici e agnello arrosto con zafferano e salsa di menta al miele – fu servita su grandi vassoi d’argento, guarnita con verdure alla griglia. Lo spettacolo dei camerieri in livrea che entravano impettiti e toglievano i coperchi da sopra mucchi di carni fumanti era così teatrale che alcuni applaudirono deliziati. Con lo spirito rinfrancato dalle prelibatezze e dal vino, gli invitati si fecero più allegri e via via più chiassosi e sfrontati. «Se devo essere sincero, non credo nella democrazia» disse un architetto con i capelli a spazzola e un pizzetto impeccabile, il cui studio faceva affari d’oro con cantieri in tutta la città. «Pensiamo a Singapore: un successone senza democrazia. La Cina, lo stesso. Il mondo si muove in fretta, le decisioni vanno implementate fulmineamente. L’Europa perde tempo in dibattiti futili mentre Singapore se la lascia dietro. Perché? Perché si concentrano sull’obiettivo. La democrazia è uno spreco di tempo e denaro.» «Ben detto» rincarò un’arredatrice, fidanzata e prossima terza moglie dell’architetto. «Lo dico sempre anch’io: nel mondo musulmano la democrazia è ridondante. Persino in Occidente è una seccatura, diciamocelo, ma dalle nostre parti non ha proprio senso!» La moglie dell’uomo d’affari concordava. «Tanto per dirne una: mio figlio ha un master in Economia e mio marito ha migliaia di dipendenti, eppure in famiglia abbiamo solo tre voti. Il fratello del nostro autista, al paesello, ha otto figli, e fra tutti quanti non avranno letto neanche un libro, eppure fanno dieci voti! In Europa la gente ha studiato e la democrazia non fa danni, ma in Medio Oriente è tutta un’altra storia! Far votare gli ignoranti è come dare i fiammiferi ai bambini: c’è il rischio che vada a fuoco la casa.» Carezzandosi i peli del mento con la nocca dell’indice, l’architetto commentò: «Be’, non sto proponendo di abbandonare il suffragio universale: non sapremmo come spiegarlo all’Occidente. Però andrebbe benissimo una democrazia controllata, una élite di burocrati e tecnici sottoposta a un capo forte e in gamba. Fintanto che la persona al vertice sa il fatto suo, non ho problemi con l’autorità. Altrimenti come facciamo ad attrarre investimenti stranieri?». Tutti si voltarono a guardare l’unico straniero a tavola, un americano in visita a Istanbul che si occupava di investimenti ad alto rischio e aveva cercato di seguire la conversazione grazie a sporadiche traduzioni bisbigliate. Finito al centro dell’attenzione, parve a disagio: «Certo, una regione destabilizzata non la vuole nessuno. Lo sapete come lo chiamano a Washington il Medio Oriente? Melmo Oriente! È brutto da dire, gente, ma qui è un vero casino». Alcuni risero, qualcuno reagì con una smorfia sprezzante. Un casino lo era senz’altro, ma era il loro casino, e solo loro potevano criticarlo a piacimento, non un ricco americano. Percependo l’energia negativa, l’uomo strinse le labbra, imbarazzato. «Ragione di più per sostenere la mia tesi» riprese l’architetto fra un boccone di risotto e il successivo. Per molto tempo era stato un apolitico ed era curdo per metà, eppure ultimamente aveva palesato tendenze scioviniste. «Be’, in questa zona del mondo lo stanno capendo un po’ tutti» ammise l’AD della banca. «Dopo il fiasco della Primavera araba, chiunque sia sano di mente deve riconoscere i benefici della stabilità e di una leadership forte.» «La democrazia è superata! E se qualcuno si scandalizza, peggio per loro» disse l’architetto, apprezzando che da più parti condividessero le sue opinioni. «Io sono un sostenitore della dittatura benevola.» «Il problema della democrazia è che è un lusso, come il caviale Beluga» osservò un chirurgo plastico, che possedeva una clinica a Istanbul ma viveva a Stoccolma. «In Medio Oriente non ce la possiamo permettere.» «Ma neppure l’Europa ci crede più» disse il giornalista, infilzando con la forchetta un pezzo d’agnello. «L’Unione Europea va a pezzi.» «Quando la Russia si è messa a fare la tigre in Ucraina, loro si sono comportati da micetti» chiosò l’architetto, più infervorato che mai. «Che piaccia o no, questo è il secolo delle tigri. Certo, se sei una tigre non ti ameranno, però ti temeranno, ed è questo che conta.» «Personalmente, sono pure contenta che non ci abbiano voluti nell’Unione Europea» rifletté la PR, «sennò facevamo la fine della Grecia.» Si tirò delicatamente un lobo, schioccò la lingua e batté due volte le nocche sul tavolo. «I greci? Gli piacerebbe, a quelli, che tornassero gli ottomani; stavano meglio, quando eravamo noi a governarli...» osservò l’architetto con una risatina, subito interrotta notando l’espressione di Peri. Allora si rivolse verso Adnan con una strizzata d’occhio: «Mi sa che a tua moglie non piacciono le mie battute». Al che Adnan, che ascoltava con una mano sotto il mento, sorrise tra il malinconico e il comprensivo. «Ma no, sono sicuro che non è vero.» Peri abbassò lo sguardo sul risotto raggrumato nel piatto. Avrebbe benissimo potuto lasciar passare quel commento: era un po’ come il fumo dei sigari altrui, indesiderato ma fino a un certo punto sopportabile. Però aveva promesso a se stessa, anni prima, subito dopo aver lasciato Oxford, che non avrebbe taciuto mai più. Rivolse al marito un cenno secco del capo. «Invece è proprio vero, non mi piace questo tipo di discorsi. La democrazia come il caviale, nazioni come tigri...» Dato che era la prima volta che apriva bocca da un bel po’, tutti si girarono nella sua direzione e lei sostenne gli sguardi. «Sapete una cosa? Le dittature benevole non esistono.» «E perché no?» chiese l’architetto. «Perché non esistono dèi piccoli. Una volta che uno comincia a fare il dio, presto o tardi le cose gli sfuggono di mano.» Nel frattempo le si affollavano alla mente pensieri sul professor Azur. Ed è un po’ un Dio anche lui. Forse le cose non sarebbero andate così male, se solo avesse ammesso che, come i suoi studenti, era semplicemente un uomo? «Ma torna coi piedi per terra» la interruppe l’architetto. «Qui non siamo nella tua raffinatissima Oxford. I nostri vicini sono la Siria, l’Iran e l’Iraq, non la Finlandia, la Norvegia e la Danimarca. In Medio Oriente non avrai mai una democrazia alla scandinava.» «Forse no» replicò Peri, «ma non puoi impedirmi di sperarci. Non puoi impedirci di desiderare quello che ci viene negato.» «Desiderare! Che paroloni!» disse l’architetto sporgendosi in avanti e puntellandosi con le mani sul tavolo. «Stiamo entrando in acque pericolose.» Peri scosse il capo, conscia che secondo il Manuale teorico-pratico del patriarcato le iscritte al circolo delle Turche Timorate non potevano difendere pubblicamente i meriti del «desiderio». Ma quanto avrebbe voluto revocare la sua iscrizione a quel club, e se non poteva andarsene spontaneamente, almeno essere cacciata. Pensò improvvisamente a Shirin. A uno così, la sua energica amica avrebbe certamente detto il fatto suo. Animata da questo pensiero, Peri ribatté quindi, a bassa voce: «Se intendi dire che devo accettare le cose come sono... che le nazioni, così come le brave mogli ubbidienti, devono rinunciare ai loro sogni... alle loro fantasie... allora di relazioni internazionali – e se è per questo anche di donne – ne capisci pure meno di quanto pensassi». Ci fu un breve silenzio, un silenzio palpabile che nessuno sapeva come spezzare. In quel momento plumbeo l’uomo d’affari alzò il mento, raddrizzò le spalle, quindi batté le mani come un ballerino di flamenco in procinto di lanciarsi al centro del palcoscenico, poi, gioviale come sempre, tuonò: «Dove diamine è finita la prossima portata?». Le porte a vento tra cucina e salone si spalancarono e i domestici arrivarono a passo di corsa. La festa

Oxford, 2000

Shirin compiva vent’anni e li stava festeggiando al Turf Tavern, pub ultracentenario e per metà ancora in legno, in una viuzza a ridosso delle antiche mura cittadine. Peri, in ritardo, camminava spedita con un pacchetto sottobraccio. Dopo essersi lambiccata il cervello sul regalo da fare all’amica, si era infine decisa per una cosa che a Shirin, ne era certa, sarebbe piaciuta moltissimo: un giacchino di jeans tempestato di perline variopinte e scintillanti. Tra l’altro, le era costato un patrimonio. Entrò nel locale rivestito in legno di quercia e sotto il soffitto basso fu subito avviluppata da un umidore tiepido di alcol e risa. Si aspettava di trovare una discreta folla, perché Shirin la conoscevano tutti; e infatti ecco là la festeggiata, circondata da un grappolo di amici e affiancata dal suo nuovo ragazzo che le teneva un braccio intorno alle spalle. A sentir lei, il ragazzo precedente – uno studente di fisica del secondo anno, intelligente e garbato – pianificava ogni loro incontro con una meticolosità esasperante: «Ho deciso di mollarlo dopo aver visto il suo calendario settimanale». Gli orari per le lezioni del mattino, lo studio in biblioteca, la palestra e le esercitazioni pratiche erano tutti spuntati; mentre nelle finestre relative alle 16.15 e alle 17.15 c’era inserito il suo nome, come pure in un’altra casellina del venerdì sera. «Ti rendi conto, Topina, mi aveva infilata tra le diciannove e le ventidue? Cena, film, sesso.» La voce forte della stessa Shirin la riscosse dai suoi pensieri. «Ah, ecco la mia vicina! Ehi, siamo qui!» Splendida in un top tutto perline e paillettes sopra un paio di attillatissimi jeans bianchi a vita bassa, l’amica afferrò il regalo e diede a Peri un bacio e un abbraccio. «Dove ti eri cacciata? Ti sei persa l’ospite d’onore, è appena andato via.» «E chi era?» «Azur» disse Shirin con gli occhi accesi. «È passato, ancora non riesco a crederci. Ficata assoluta! Si è fermato un momento, ha partecipato a un brindisi e se n’è riandato.» Dette l’impressione di voler aggiungere qualcos’altro, ma qualcuno la prese per un braccio perché doveva spegnere le candeline sulla torta. Peri si guardò attorno, pensando di non conoscere nessuno degli amici di Shirin, tutti in piedi intorno al tavolo a bere e a parlare forte. E invece, con sua grande sorpresa, scorse un volto familiare: Mona. In camicione arancio a manica lunga sopra un paio di pantaloni e velo coordinato in testa, sedeva a un tavolo d’angolo e sorseggiava una Cola. «Ehi, ciao.» «Felice di vederti» la salutò Mona, con l’aria sollevata nel trovarsi davanti qualcuno con cui parlare. «Non sapevo fossi amica di Shirin» disse Peri sedendosi accanto a lei. «Be’, non siamo proprio amiche, però mi ha invitata...» rispose l’altra lasciando la frase in sospeso. Peri comprese da sé quel che la ragazza non diceva apertamente. Non era facile declinare un invito da parte di una delle studentesse più conosciute del college. Perciò Mona – estroversa e sicura di sé – era venuta, senza sapere bene cosa aspettarsi; e adesso, tra decine di festaioli ridanciani e disinibiti che si muovevano a un ritmo tutto loro, si sentiva fuori posto ma non osava mostrare il proprio disagio. Le due si immersero in una conversazione, davanti alle rispettive fette di torta, mentre Shirin e i suoi amici si dedicavano a divertimenti più grassi. «Ti posso fare una domanda?» disse Peri. «Quando ci siamo viste la prima volta, mi hai detto che tu e tua sorella avevate fatto scelte diverse. Ma questo cosa significa, che tu... preferisci coprirti la testa?» «Certo, i miei genitori mi hanno sempre lasciata libera di scegliere. Il mio hijab è una scelta personale, una testimonianza di fede. Mi dà tranquillità e sicurezza.» Mona s’incupì. «Anche se è una vita che mi danno il tormento perché lo porto.» «Davvero?» «Davvero, ma io vado per la mia strada. Se non sfido io gli stereotipi, con il mio velo in testa, chi lo farà per me? Io voglio dare una scossa. La gente mi guarda come se fossi una vittima passiva e obbediente del potere maschile: e invece no. Penso con la mia testa, e l’hijab non è mai stato un ostacolo alla mia indipendenza.» Peri ascoltava affascinata, e scorgeva in quella ragazza una versione più giovane di sua madre: la stessa aperta spavalderia, la stessa determinazione, un sentimento che conosceva molto bene. Era abituata agli sproloqui di gente piena di fervore e di certezze. Cosa ci fosse, in lei, che induceva gli altri a dare libero sfogo alle proprie emozioni, davvero non lo sapeva; ma sembrava tipico delle persone ambivalenti come lei ritrovarsi inondate dalle certezze e dalle passioni altrui. «In questi testi hip-hop che scrivi... c’entra la religione?» Mona rise. «L’hip-hop c’entra con l’amore. La poesia. Forse anche con la rabbia... contro l’ingiustizia e la disuguaglianza. Ti dà forza...» Uno scroscio di risa in sottofondo la zittì. Qualcuno aveva lanciato al ragazzo di Shirin la sfida della iarda di birra. Gli avevano riempito un bicchiere alto più di novanta centimetri, con il fondo sferico, e il ragazzo se lo stava scolando più velocemente che poteva: infatti riuscì a terminarlo, con un sorrisone appiccicato in faccia e la camicia zuppa di sudore. Tra gli urrà della folla diede a Shirin un lungo bacio umido e soddisfatto, ma dovette fermarsi di colpo e precipitarsi fuori, in preda ai conati di vomito. Mona commentò: «Meglio che me ne vada, mi sa». «Vengo con te» disse Peri. A infastidirla non erano l’alcol o i comportamenti allusivi, come sembrava succedere a Mona. Il suo disagio era d’altra natura: di fronte all’esuberanza altrui non era mai all’altezza, perciò si ritraeva, come i ricci quando si appallottolano. Si proteggeva dalla gioia.

Quando Peri e Mona uscirono dal pub, inosservate, c’era la luna piena. Passarono sotto il Ponte dei sospiri e proseguirono per vie secondarie poco illuminate. «Non capisco» disse Mona. «Perché mi ha invitata, Shirin?» Se l’era chiesto anche Peri. «Be’, le piace fare nuove amicizie.» Mona scosse il capo. «No, c’è dell’altro, anche se non riesco a capire cosa. Ormai ci conosciamo da un po’, ma ho sempre avuto l’impressione di starle sullo stomaco per via... del velo, mi sa.» Peri si rammentò dello sguardo che Shirin aveva rivolto a sua madre ed evitò di commentare. «Se è per quello, benissimo, non è un problema. Ma perché insistere a voler fare amicizia?» riprese Mona, con un’espressione ferocemente orgogliosa sul viso. «Dici che sono paranoica?» «No» rispose Peri. «Cioè sì, un filino. Secondo me potreste essere amiche.» «Boh, vedremo» concluse Mona. «È sempre lì a ripetermi che dovrei seguire il corso del professor Azur.» «Giura?» Peri s’irrigidì, come se il suo corpo avesse intuito un pericolo che la mente non aveva ancora individuato. «Lo dice anche a me. Vai da Azur, vai da Azur.» «Allora non sono l’unica...» fece Mona, distrattamente. Poi indicò Turl Street. «Io vado di là.» «Ah, d’accordo. Buonanotte.» «Anche a te, sorella» disse Mona. «Dobbiamo vederci più spesso.» Ciò detto, afferrò saldamente la mano di Peri tra le sue, la strinse con vigore e scomparve nella notte.

Nuovamente sola con i suoi pensieri, Peri svoltò su Broad Street. Più avanti, nell’oscurità, colse una sagoma illuminata dal giallo di sodio dei lampioni: una barbona che spingeva un passeggino arrugginito, carico di indumenti, cartoni, buste di plastica; un’eterna viaggiatrice da qui a nessun posto. Peri la scrutò attentamente. Gli abiti erano lerci e appiccicati al corpo per l’umidità; i capelli incrostati di sporcizia e forse anche di sangue rappreso. Peri mise a fuoco man mano altri particolari: i calli sui palmi, un livido che le scuriva lo zigomo destro, il gonfiore intorno agli occhi. A Istanbul si vedevano continuamente facce emarginate: alcune si rannicchiavano negli angoli per sottrarsi agli occhi degli estranei, la gran parte implorava attenzione, cibo e denaro. Mentre qui a Oxford, chissà perché, vedere un senzatetto era sconcertante; per via del contrasto così netto con la squisita serenità della cittadina. Sentendosi stranamente attratta dalla donna, che procedeva a passi brevi e guardinghi, Peri cominciò a seguirla. Sentì un lezzo fetido nelle narici quando il vento per un attimo cambiò direzione. Una miscela di urina, sudore e deiezioni. La barbona parlava da sola, in tono affaticato. «Quante volte te lo devo dire, perdio?» si chiedeva. I lineamenti si irrigidirono mentre aspettava una risposta; poi ridacchiò di gusto, ma fu lesta ad arrabbiarsi di nuovo. «No, testa di cazzo!» Peri sentì un peso nel cuore, così acuto da sconfinare nella malinconia. Che cosa separava lei – un’oxfordiana di belle speranze – da questa donna che non possedeva nulla? C’era forse un orlo al di là del quale la società perbene temeva di cadere, come il ciglio della terra piatta che riempiva di terrore i marinai dei tempi antichi? E se sì, dov’era il confine tra senno e follia? Le tornò in mente quel che l’hodja aveva detto a lei e a sua madre: magari aveva ragione lui. Magari era davvero incline all’oscurità. La donna si fermò e si voltò, fendendo Peri con lo sguardo. «Mi cercavi, tesoro?» Rise di nuovo, scoprendo una chiostra di denti macchiati di nicotina. «O stavi cercando Dio?» Peri impallidì e scosse il capo, incapace di rispondere. Fece un passo avanti e schiuse le dita per porgere gli spiccioli che si era preparata. La mano della donna sbucò fuori dalla manica del cappotto e li afferrò, con l’agilità di una lingua di lucertola che strappa un insetto da una foglia. Perì girò immediatamente sui tacchi e si avviò verso il college, quasi di corsa, impaurita senza sapere perché, sperando che ogni passo la portasse più lontano dalla barbona e dal dubbio strisciante di avere molto in comune con lei.

Quella sera Peri rimase alzata a leggere fino a tardi. Se avesse buttato l’occhio sul prato forse avrebbe visto Shirin, rimasta senza chiave, togliersi i sandali a zeppa, farsi dare una spinta da un’amica più ubriaca di lei per scavalcare i tre metri e mezzo di muro del giardino – macchiandosi e strappandosi i jeans bianchi nel corso dell’operazione – e finire su un’aiuola fiorita, per poi rialzarsi velocemente e bussare a una finestra a caso del pianterreno, il tutto ridacchiando e canticchiando un’allegra melodia persiana. Il dizionario

Oxford, 2000

A Oxford i pub e i ristorantini abbordabili per le finanze di uno studente non mancavano di certo, eppure Peri ne varcava la soglia molto di rado. E benché esistessero più di cento diversi circoli e associazioni a cui, volendo, avrebbe potuto iscriversi, si teneva ben lontana da tutti quanti, compresa la Squadra Femministe. Doveva mantenere la rotta, si ripeteva; qualunque distrazione si sarebbe ripercossa sullo studio. Ragazzi compresi. Innamorarsi era un casino; disamorarsi era pure peggio. Prima le emozioni e il tira e molla; poi i pranzi, le cene, le passeggiate; infine le discussioni per delle sciocchezze e le riappacificazioni. Per farla breve, mettere un altro essere umano, se non al centro della propria vita almeno nelle immediate vicinanze, era una faticaccia per la quale lei non aveva tempo. E coltivare amicizie era altrettanto impegnativo e laborioso. Di tanto in tanto si imbatteva in un compagno o una compagna di studi con cui entrava subito in sintonia, ma poi evitava di approfondire il legame. C’era qualcosa di molto rigido, quasi dogmatico, nella disciplina da automa con cui Peri si atteneva, in quelle prime settimane da universitaria, a un unico imperativo: studiare, studiare, studiare. Abituata a essere sempre la prima della classe, adesso era costretta a fare i conti con le proprie neonate lacune, e ci pativa. Seguire le lezioni in aula non era un problema, ma i seminari che prevedevano dibattiti o tesine scritte erano un’altra storia; mettere i propri pensieri nero su bianco in una lingua che non era la sua era molto complicato. Lei era determinata a far bene e ce la metteva tutta, ma non era mai soddisfatta di sé. Capì che per eccellere a Oxford doveva migliorare proprio sotto quell’aspetto; al suo cervello servivano parole per esprimersi appieno, come a un arboscello serve la pioggia per crescere al massimo delle sue possibilità. Comprò pile di Post-it colorati, sui quali annotava termini che scopriva per caso, di cui si innamorava e che intendeva usare alla prima occasione... come del resto facevano tutti gli stranieri, in un modo o in un altro.

Autotomia: amputazione spontanea di una parte del corpo compiuta per difesa da alcuni animali. Fra l’incudine e il martello (da Tolkien, Il signore degli anelli): trovarsi in una situazione difficile. Scapestrato (dalla Leggenda di Sleepy Hollow): persona sregolata, sfrenata, priva di giudizio.

Nella sua prima tesina di filosofia politica scrisse: In Turchia, Paese dove la politica di tutti i giorni è scapestrata, ogni volta che le istituzioni si trovano fra l’incudine e il martello, la democrazia viene subito tagliata e sacrificata in un atto di autotomia. Quando venne il suo turno di leggere la tesina al docente, lui la fermò a metà con uno sguardo per metà perplesso e per metà divertito. «Ma che inglese è?» Peri rimase mortificata. La frase che a lei era parsa originale, raffinata ed elegante, all’orecchio di un madrelingua era praticamente inintelligibile. Com’era possibile che il forestiero e l’indigeno avessero un’impressione tanto diversa delle stesse parole? Decisa a non farsi scoraggiare, ossessionata dalle sfumature, seguitò a collezionare termini abbaglianti: le ricordavano le conchiglie a spirale e i coralli rosa, levigati da innumerevoli maree, che raccoglieva da bambina quando andava al mare con la famiglia. Con l’unica differenza che le parole, al contrario di quei graziosi ma immobili ricordini, erano vive e vitali.

Il senso dell’orientamento non era il suo forte, perciò di tanto in tanto, nelle sue esplorazioni di Oxford, Peri si perdeva. Fu durante una di queste deviazioni che scoprì una libreria che si chiamava Two Kinds of Intelligence. L’assito sconnesso del pavimento cigolò d’immaginaria comprensione mentre lei percorreva la sala all’ingresso; gli scaffali dei libri addossati a ogni parete arrivavano fino al soffitto; c’era un caminetto nell’angolo, sopra il quale erano esposte vecchie stampe di Oxford; e altre due stanzette in cima a una rampa di scalini di legno, ciascuna zeppa di volumi accuratamente scelti per riflettere i bizzarri gusti dei titolari in materia di filosofia, psicologia, religione e scienze occulte. Tra le foto incorniciate alle pareti, i cuscini in colori pastello posati a terra a disposizione dei clienti e una macchina del caffè dalla quale ci si poteva servire gratis in qualunque momento, quel luogo divenne subito uno dei suoi preferiti. I titolari (lei era scozzese, lui pakistano) rimasero molto colpiti quando si resero conto che Peri conosceva l’origine del nome della libreria: Due tipi di intelligenza era il titolo di una poesia di Rūmī. Peri ne ricordava addirittura qualche verso: Ci sono due tipi d’intelligenza: una acquisita, di scolari che imparano a memoria... i libri e ciò che dice il maestro... L’altra intelligenza... fluida... è una sorgente in te, che sgorga fuori. «Brava» disse la donna. «Torna qui a leggere quando ti pare.» «Per nutrire sempre di più la tua intelligenza. Tutti e due i tipi!» aggiunse l’uomo. Così fece Peri, e presto divenne un’abitudine. Prendeva un caffè, metteva una moneta nello scatolino delle mance e si piazzava su un cuscino a leggere finché non le faceva male la schiena e si sentiva le gambe indolenzite. Andava molto anche alla Bodleian; scovava un séparé d’angolo, impilava molti più libri di quanti avrebbe mai potuti leggerne, apriva di nascosto un pacchetto di salatini e si tuffava di testa tra onde di parole. Comprava cartoline con vedute di Oxford. Le stradine medievali accese di sole, i palazzi calcarei color miele, gli ombrosi giardini dei college... Ne spedì qualcuna ai suoi genitori, ma per il resto erano riservate al fratello Umut. Peri gli scriveva continuamente, benché le risposte di lui fossero brusche e intermittenti. Lei però non si arrendeva e manteneva un tono leggero, spensierato addirittura; non c’era bisogno di soffermarsi sulle paure e le emicranie, sugli incubi e sulla solitudine che, ormai lo sapeva, era una maledizione ma anche una compagnia. A Umut raccontava invece dei modi stranamente garbati degli inglesi, del loro senso pratico, della loro tacita fiducia nelle istituzioni, del loro strambo umorismo. Umut rispondeva con messaggi scritti su fogli a righe, brandelli di scatole di biscotti, calendari vecchi e buste della spesa, ma una volta le mandò a sua volta una cartolina. Un mare d’indaco, una barca di pescatori rossa, il vento mite del Mediterraneo, e una sabbia soffice come una promessa... come se lui pure si stesse cimentando con l’arte di simulare la felicità.

In occasione dei pranzi formali – quelli tenuti per tradizione nella grande sala vecchia di secoli – Peri, circondata dai ritratti a olio degli antichi presidi del college, seduta su vetuste panche di quercia, davanti ai tavoli apparecchiati con l’argenteria del college, accudita da inservienti in giacca bianca, si sentiva come trasportata in un’altra dimensione: era anche lei dentro un quadro, una figura surreale e romantica insieme. C’erano parti del college immutate da centinaia di anni, e lei adorava il profumo e la consistenza della storia, della continuità; certi giorni andava nella vecchia biblioteca solo per inspirare l’aroma inebriante dei ripiani gremiti di libri. Scendeva in un seminterrato, azionava una maniglia per far muovere gli scaffali e raggiungere i libri che voleva. Laggiù, tra migliaia di titoli, ognuno dei quali era un rifugio, si sentiva completa. La stranezza era che quando si trovava dentro quella vastità di conoscenza, le affiorava alla mente di continuo un unico pensiero: Dio. Era perplessa da questo fatto perché, di tante caratteristiche che avrebbe potuto rivendicare per sé, neanche lontanamente si sarebbe detta «religiosa», e neppure «spirituale». Era una cosa che non avrebbe mai osato confidare a sua madre, ma c’erano momenti in cui sospettava di non credere proprio in niente. Dal punto di vista culturale era musulmana, certo; adorava il Ramadan e le altre feste comandate, ciascuna delle quali le riempiva l’animo di calore e la mente di memorie viscerali legate a odori e sapori. L’Islam, per lei, era come un ricordo d’infanzia: personale e familiare al massimo grado, eppure al tempo stesso anche vago, remoto nello spazio e nel tempo. Come una zolletta di zucchero sciolta nel caffè, c’era e non c’era. Le era sempre sembrato un paradosso che così tanti turchi recitassero a memoria preghiere arabe senza avere la minima idea di che cosa stessero dicendo. Che fossero in inglese o in turco, Peri amava le parole; se le teneva nel palmo come uova sul punto di schiudersi, con i loro minuscoli cuori a batterle contro la pelle, pieni di vita. Ne indagava i significati, occulti e manifesti, ne studiava l’etimologia. Mentre per innumerevoli credenti, le parole delle preghiere erano suoni sacri che sapevano di dover imitare, più che penetrare; un’eco senza inizio né fine, in cui l’atto di emulare contava più dell’atto di pensare. Nel seno protetto della fede, si trovavano le risposte liberandosi delle domande, si avanzava arrendendosi. Nel suo Diario di Dio scrisse: I credenti preferiscono le risposte alle domande, la chiarezza all’incertezza. Gli atei, più o meno lo stesso. Buffo, quando si tratta di Dio, del quale non sappiamo praticamente nulla, pochissimi di noi dicono semplicemente: «Non lo so». L’angelo

Oxford, 2000

Da quando era a Oxford Peri aveva sentito suo padre al telefono con regolarità, chiamando di proposito negli orari nei quali riteneva più probabile che avrebbe risposto lui. Quel giorno, però, quando chiamò Istanbul da una cabina telefonica, fu sua madre ad alzare la cornetta. «Pericim...» disse Selma con tenerezza, per poi cambiare rapidamente tono: «Al matrimonio di tuo fratello ci vieni?». «Sì, mamma, te l’ho già detto.» «Lei è proprio un angelo, guarda.» «Lei chi?» «Ma la sposa, no, sciocchina.» Ansiosa com’era per i preparativi, Selma prese a lodare le virtù della futura nuora con un eccesso d’enfasi che non sfuggì alla figlia. «Che bello, un angelo in famiglia ci farebbe proprio comodo» disse. Coglieva perfettamente le insinuazioni avvolte nei complimenti della madre, come fossero dolcetti in un incarto scintillante che nascondono un qualcosa di rancido. La sposa era la figlia che Selma non aveva mai avuto: devota, accomodante, obbediente. «Che c’è che non va?» le chiese Selma. «Niente.» Sua madre sospirò. «Devi arrivare in tempo per la serata dell’henné.» A differenza delle nozze, che erano responsabilità dello sposo, la serata dell’henné ricadeva sotto le competenze della famiglia della sposa. «Mamma, ne abbiamo già parlato. Riesco a partecipare solo al matrimonio.» «Non sta bene. La gente ci parlerà dietro. Devi venire prima.» Peri alzò gli occhi al cielo. La velocità con cui sua madre riusciva a rovinarle l’umore non cessava di stupirla: era come se Selma, e lei soltanto, sapesse esattamente qual era il pulsante da premere per far salire la pressione alla figlia. «Non posso permettermi di perdere troppe lezioni» aggiunse, ferma. La conversazione divenne sgradevole, con ciascuna parte che rimproverava all’altra di essere egoista. Dopo aver riagganciato, Peri sentì crescere dentro di sé un risentimento bruciante per tutto quel che era stato detto e taciuto, per tutto quel che si era spezzato tra loro e non si poteva riparare.

Quella notte dormì malissimo. Si svegliò con un mal di testa martellante, sul punto di diventare emicrania. Guardò in tutti i cassetti ma non riuscì a trovare un cachet. Massaggiandosi le tempie, si premette il fondo di una lattina fredda contro l’occhio destro che pulsava, un rimedio che funzionava sempre. Poi si trascinò di nuovo a letto e si raggomitolò. Non si aspettava di riaddormentarsi, ma prima di rendersene conto stava già sognando. Un giardino di alberi nodosi. Sola, con indosso un abito che svolazzava al vento, Peri camminava a grandi passi. Accanto a un ruscello vedeva una quercia maestosa e lì, appeso a un ramo, c’era un neonato in una cesta, con una macchia scura che gli copriva metà del volto. Peri si accorgeva inorridita che l’albero andava a fuoco, con le fiamme che da terra lambivano il tronco. Afferrava un secchio, cominciava a prendere acqua dal ruscello e ben presto l’acqua era dappertutto, a ribollirle e vorticarle tutto intorno ai piedi. Quando rialzava lo sguardo, il bimbo sull’albero non c’era più: era stato trascinato via da quello che adesso era un fiume impetuoso. Peri si metteva a urlare, nell’istante in cui capiva di aver fatto qualcosa di orribilmente, irrimediabilmente sbagliato. Da qualche parte si sentiva un ticchettio, leggero ma insistente. Peri cercò di aprire gli occhi, senza sapere bene se anche quel suono facesse parte del sogno. «Sono io, mi hai fatto prendere un colpo» disse la voce di Shirin dall’altro lato della porta. «È tutto a posto?» Peri si drizzò a sedere e spalancò gli occhi, intontita. «Sì, tutto a posto» rispose, la gola secca e riarsa come un tappeto di foglie morte. Era sconvolta all’idea di aver urlato tanto forte da farsi sentire fin nella stanza di fronte. «Se non ti vedo coi miei occhi non me ne vado.» Pian piano, Peri si alzò dal letto e aprì la porta. Shirin indossava un pigiama di seta color pesca, con mascherina in tinta coordinata spostata sulla fronte. Gli occhi, privi di trucco e circondati da uno spesso strato di crema, sembravano più piccoli e scuri. «Cazzarola, sembravi la protagonista di un film horror» disse. «Una di quelle imbecilli che quando vedono lo psicopatico scappano al primo piano, anziché infilare la porta e darsela a gambe.» «Mi spiace di averti svegliato.» «Lascia perdere» disse Shirin incrociando le braccia sul notevolissimo petto. «Ti capitano spesso, gli incubi?» «Qualche volta...» confessò Peri, con gli occhi fissi alla moquette. C’era una macchia che non aveva mai visto prima. «Sogni scemi, più che altro.» «Ricorrenti?» «Sì, abbastanza.» Shirin si ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e, in un tono che non ammetteva contraddittorio, disse: «In famiglia ho visto la mia bella dose di pazzia, e com’è vero Dio anch’io sono un po’ matta. Quando la vedo la riconosco». «Mi stai dando della pazza?» «Forse non da internare, ma quell’urlo è stato terrificante. Se hai dei problemi psicologici, bisogna che li affronti.» «Io non ho nessun problema psicologico!» «AAAAAHHH!» Shirin emise uno strillo lancinante, da animale selvatico trafitto da una freccia. «Non la sopporto, la gente che si offende quando sente la parola “psicologico”! Scommetto che non ti saresti offesa se ti avessi detto che hai un problema emorroidico.» «Emorroidario» la corresse Peri. «Come ti pare» ribatté Shirin con un’occhiata ai Post-it appiccicati dappertutto. «Sei tu quella che ha ingoiato il dizionario.» «Senti, sei stata molto gentile ad alzarti per vedere come stavo, ma è tutto a posto.» Dalla finestra coi vetri a piombo la luna le disegnava un rettangolo deformato sul viso. «Devo andare a casa per il matrimonio di mio fratello. Non posso permettermi di perdere lezioni, ma gli obblighi famigliari vengono prima e io mi sento un po’ sotto pressione.» Shirin assentì con la testa. «Bene, vai al matrimonio, ma quando torni devi uscire un po’ di più. Non c’è niente di male a divertirsi, qualche volta. Sei giovane, te lo ricordi o no?» «Io non sono come te» rispose adagio Peri. «Cioè ti piace star male.» «Non ho detto questo!» «Senti, ci sono due modi di affrontare la malinconia» continuò Shirin. «O ti metti al volante e ci dai dentro col gas, mentre Madama Depressione si sgola per la paura sul sedile di dietro, oppure fai guidare lei, e allora con la paura ci rimani tu.» «Che differenza fa?» disse Peri. «Si va comunque a sbattere contro un albero.» «Già, ma almeno tu ti godi la corsa, sorella, e non quella brutta vecchiaccia di Madama Depressione. Ti pare poco?» Intuendo che non sarebbe riuscita a vincere la disputa, Peri cercò di cambiare argomento nell’unico modo che le venne in mente. «A proposito, quel prof di cui mi parlavi, Azur, mi sono informata sul corso.» «Davvero?» Le guance di Shirin si velarono di rosa. «Non è un tipo affascinante?» «Lui non l’ho visto, ho solo letto le informazioni sull’elenco degli opzionali.» «E allora, che ne pensi?» «Sembra interessante.» Shirin si riavviò alla porta. «Lo vuoi un consiglio da amica, da un’iraniana a una sorella turca? Puoi chiamarla solidarietà fra disgraziate. Se riesci a entrare nel corso di Azur, non usare mai e poi mai la parola “interessante”. Lui la detesta. Dice che non c’è niente di meno interessante della parola “interessante”.» Detto questo Shirin se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle e lasciando Peri sola con i suoi incubi. Il carillon

Istanbul, 2016

Il dessert fu servito su piatti di cristallo: torta di mousse alla nocciola con cuore di crema al cioccolato, e mela cotogna al forno guarnita con panna di bufala. Gli invitati reagirono con un coro, a metà tra l’elogio e la preoccupazione. «Avrò messo su almeno un chilo, stasera» disse la PR carezzandosi la pancia. «Non ti preoccupare, prima di arrivare a casa l’avrai già smaltito» la rassicurò la moglie dell’uomo d’affari. «Continuiamo a discutere di politica» disse il giornalista. «È così che si bruciano le calorie, in questo Paese.» Quando le comparve accanto la cameriera, Peri mormorò: «No, grazie». «Certo, signora» fece la donna a bassa voce, in tono complice. La padrona di casa, però, sentito lo scambio di battute, intervenne dal fondo del tavolo: «Questo no, cara! Non me la sono presa quando hai contraddetto le nostre posizioni, ma mi dispiacerò proprio se non assaggi la mia torta». Peri, costretta, cedette. Avrebbe mangiato sia la cotogna sia la torta. Non aveva mai smesso di chiedersi perché le donne ci tenessero tanto a ingrassarsi a vicenda. Magari c’entrava la «legge dell’estetica comparata»: dove a essere un po’ in carne sono molte, è come se non lo fosse nessuna. Forse era lei a essere cinica, ma la voce lungamente perduta di Shirin le risuonava in testa: «Credimi, Topina, semmai sei troppo poco cinica». Appena la padrona di casa, ora soddisfatta, rivolse l’attenzione su un altro invitato, Peri afferrò il calice di vino. Quella sera aveva bevuto più del solito, ma nessuno sembrava farci caso, e lei meno di tutti. Nella diga che aveva eretto nel corso degli anni per bloccare il flusso di emozioni indesiderate verso il cuore, era apparsa una crepa; e adesso, da quel minuscolo pertugio stillava un rivoletto di malinconia. Al contempo, un’altra parte di lei, conscia del pericolo e della devastazione che ne potevano venire, restava in uno stato di massima allerta e cercava freneticamente di tappare l’apertura così che tutto tornasse nella norma. «Avevo capito che stasera sarebbe venuto un sensitivo» disse la ragazza del giornalista, con il tono roco della fumatrice. Sapevano tutti che era in fibrillazione per certe voci – apparse di recente su un sito di notizie – secondo cui il giornalista era stato sorpreso a consumare una cenetta romantica con l’ex moglie, con la possibilità che la coppia tornasse insieme. «Doveva essere qui un’ora fa» rispose l’uomo d’affari. «A quanto pare il pover’uomo è rimasto imbottigliato nel traffico.» «Eh, a Istanbul non lo sanno neppure i sensitivi, che strada fare» scherzò il finanziere americano. «Vedrai, amico mio: questo tizio è il migliore» disse l’uomo d’affari un po’ in inglese e un po’ in turco. «Dicono che abbia previsto la crisi globale.» «Forse dovremmo metterci davvero a consultare gli indovini, visto che gli esperti di politica non valgono niente e quelli finanziari sono pure peggio» s’inserì la PR. D’impulso, Peri si alzò da tavola. «Oh no, ti abbiamo annoiata di nuovo?» la stuzzicò l’architetto da dietro il bicchiere, con lo sguardo vacuo. Era un omino vendicativo e non le aveva perdonato di averlo contraddetto. Peri lo fissò. «Devo solo fare una telefonata per vedere come stanno i bambini.» «Ma certo» disse l’uomo d’affari. «Chiama da sopra, dal mio studio, così stai più tranquilla.» Prendendo in prestito il cellulare del marito, Peri salì al primo piano, continuando ad ascoltare le chiacchiere della tavolata. Lo studio dell’uomo d’affari ostentava enormi vetrate che dal pavimento arrivavano fino al soffitto e da cui si godeva una veduta spettacolare sul Bosforo. Le pareti rivestite in pelle, il soffitto in legno, un’enorme scrivania di mogano e marmo, poltrone color tuorlo d’uovo, oggetti d’antiquariato e quadri pregiati: l’ambiente non faceva pensare tanto a un luogo di lavoro quanto al salotto privato di un prodigo boss mafioso. Un angolo era decorato con foto incorniciate del padrone di casa in compagnia di politici, celebrità e oligarchi vari. Tra queste, Peri notò il sorriso di porcellana di un dittatore mediorientale, non più al potere, che stringeva la mano al suo anfitrione davanti a quella che sembrava un’elaborata tenda beduina. Più avanti, in un’altra foto, risplendeva il volto di ghisa di un autocrate dell’Asia centrale, ora defunto, famigerato per aver invaso la sua città natale della propria effigie e aver addirittura imposto il proprio nome a un mese e quello di sua madre a un altro. Peri inspirò a fondo, trattenendo nei polmoni un’immaginaria nuvola di fumo, incapace di espirarla. Che ci faceva in questa lussuosa villa, costruita con soldi che affluivano attraverso ombre e segreti? In quel momento si sentiva come un ciottolo di fiume, sballottato senza tregua dalla corrente. Se fosse stato lì il professor Azur, forse avrebbe sorriso e avrebbe detto: «Non c’è saggezza senza amore. Non c’è amore senza libertà. E non c’è libertà se non abbiamo il coraggio di allontanarci da ciò che siamo diventati». Rapida, quasi per fuggire dai suoi stessi pensieri, compose il numero di casa. La fronte posata contro il vetro, esaminò il panorama mentre aspettava che rispondesse sua madre, venuta a tenere i bambini. Al di là della finestra, sotto una luna a metà e troppo luminosa per essere vera, la città si allargava verso l’esterno: case inclinate l’una sull’altra come se si mormorassero segreti all’orecchio; strade con bruschi tornanti che si inerpicavano su pendii ripidi; l’ultima sala da tè che chiudeva e l’ultimo degli avventori che se andava... Si chiese che cosa stessero facendo le ragazzine che le avevano rubato la borsa. Dormivano? E se sì, erano andate a letto a stomaco vuoto? Le venne in mente che magari in quel momento sognavano e lei era dentro i loro sogni, una matta che le inseguiva con le scarpe in mano. Selma rispose al quarto squillo. «È finita la cena?» «No, siamo ancora qui. I ragazzi, tutto bene?» «Certo, perché non dovrebbero stare bene? Si sono divertiti tantissimo con la nonna e ora dormono.» «Hanno mangiato?» «Che pensi, che gli faccio fare la fame? Ho fatto i mantı e li hanno divorati. Povere stelle, sembrava che non li mangiassero da chissà quanto.» Peri, che ai fornelli non aveva ereditato il talento di Selma, percepì il rimprovero nella voce della madre. Disse: «Grazie, sono sicura che sono stati contentissimi». «Di niente. A domattina; forse quando rientrate dormirò.» «Aspetta!» Peri tacque un attimo. «Mamma, me lo faresti un favore?» Si sentì il rumore di qualcosa che si muoveva, e Peri capì che la madre si era passata la cornetta all’orecchio sinistro per sentire meglio. Dalla scomparsa del marito era molto invecchiata: curiosamente, dopo tutti gli anni di ostilità reciproca, il giorno che Mensur era morto il mondo di Selma era andato in pezzi, come se a tenerla davvero in vita fosse la battaglia continua che aveva innescato contro il marito. «In camera, nel secondo cassetto, dovrebbe esserci un taccuino» riprese Peri. «Turchese, di pelle.» «Quello che ti regalò tuo padre.» Nella voce di Selma ora c’era un tono amaro; pure dopo tutti quegli anni, il risentimento per il legame tra il marito e la figlia non era svanito. La morte di Mensur non aveva cambiato ciò che provava: sapeva per esperienza che era possibile invidiare i morti e l’ascendente che ancora avevano sui vivi. «Sì, mamma. È chiuso ma la chiave sta nel cassetto in basso, sotto gli asciugamani. Sull’ultima pagina c’è un numero di telefono, con scritto “Shirin”. Me lo puoi dettare?» «Questa cosa non può aspettare domattina?» chiese Selma. «Lo sai che gli occhi non mi funzionano più come una volta.» «Per piacere, la devo chiamare. Stasera.» «Va bene, aspetta un attimo» rispose Selma sospirando. «Vediamo cosa posso fare.» «Ah, mamma...» «Sì?» «Dopo, puoi richiudere a chiave il taccuino?» «Dimmi una cosa per volta» rispose stancamente Selma, «sennò mi confondo.» Sentì il tonfo della cornetta posata e i passi che si allontanavano, pesanti e frettolosi. Aspettò mordendosi un labbro. In lontananza, sotto le luci del Secondo Ponte, il mare era azzurro-verdastro, il colore dell’attesa. Peri scrutò il proprio riflesso sul vetro, notando con disappunto l’addome cascante. Eppure, ancora non aveva cominciato a invecchiare rapidamente come aveva temuto. Forse c’erano modi diversi di affrontare il declino: ad alcuni si avvizziva prima il corpo, ad altri la mente, ad altri ancora l’anima. In quella zona del cervello in cui è conservata la memoria c’è una scatoletta, un carillon, con lo smalto scheggiato, che emette una melodia ossessionante. Lì è riposto tutto ciò che la mente non vuole dimenticare, ma non osa ricordare. Nei momenti pesanti o traumatici, o magari anche senza un motivo chiaro, la scatoletta si spalanca e tutto quello che contiene si sparge in giro. Era così che si sentiva quella sera. «Non l’ho trovato» disse Selma, ansimante per la fatica. «Ti dispiace riprovare? Fammi sapere quando lo trovi.» «Stavo guardando la TV» obiettò la madre, dopodiché adottò un tono più conciliante. «Va bene, faccio del mio meglio.» Tra loro le cose erano migliorate per lo stesso motivo che un tempo le aveva tenute lontane: Mensur. Così come da vivo le divideva, la sua assenza le aveva riavvicinate. «Ancora una cosa» si affrettò ad aggiungere Peri. «Mi hanno rubato il telefono. Manda un sms a quello di Adnan, ma non dirgli niente di tutto questo. Scrivi solo: “Chiamami”, poi ti faccio uno squillo.» «Ma che succede?» chiese Selma. Una pausa minima, carica di sospetto. «Shirin non è quella ragazza orribile che stava in Inghilterra?» Peri sentì il cuore mancare un battito. «Perché vuoi parlarci?» incalzò Selma. «Non ti era amica.» “Era la mia migliore amica” pensò fra sé Peri, ma si trattenne dal dirlo ad alta voce. “Lei, Mona e io. Eravamo in tre: la Peccatrice, la Credente e la Dubbiosa.” Disse invece: «È passato un sacco di tempo, mamma, ormai siamo tutte grandi e grosse. Non ti devi preoccupare, sono sicura che Shirin s’è lasciata tutto alle spalle». Nel momento stesso in cui pronunciava queste parole, e si costringeva a crederci, Peri sapeva che difficilmente c’era qualcosa di vero. Shirin non si sarebbe mai lasciata il passato alle spalle. Non più di quanto lei per prima era stata capace di fare. La cintura di castità

Oxford-Istanbul, 2000

Un pomeriggio al culmine dell’inverno, con il vento che sapeva di sale marino e zolfo, Peri arrivò a Istanbul per il matrimonio di suo fratello. La città le era mancata moltissimo: per quanto si fosse sentita sola quando ci abitava, standone lontana si era sentita ancora più sola. E come se volesse tenere distante ogni pensiero malinconico, dal momento in cui posò la valigia a terra fu inondata da un elenco di obblighi, parenti da andare a trovare, regali da comprare, incombenze da svolgere. Non ci mise molto a capire che, in sua assenza, in casa Nalbantoğlu era stata eretta una piramide di tensione che rendeva l’aria pesante, difficile da respirare. In parte il malanimo era vecchio, fatto dei soliti battibecchi amari e collerici tra i suoi genitori; ma una parte più consistente si era addensata intorno ai preparativi nuziali. La famiglia della sposa aveva insistito per una cerimonia grandiosa, «degna della loro figliola»: il locale prenotato era stato sostituito all’ultimo momento con uno più grande, il che significava invitare più gente, ordinare più roba da mangiare e quindi, alla fine, spendere più soldi. Malgrado ciò, erano tutti scontenti. Le due famiglie continuavano a scambiarsi convenevoli e salamelecchi, ma sotto la patina garbata scorreva un fiume di rancore in entrambe le direzioni. La mattina delle nozze Peri si svegliò circondata da profumini appetitosi che aleggiavano in tutta casa. Andò in cucina e ci trovò la madre che, con addosso un grembiule stampato a margherite gialle, infornava börek con tre ripieni diversi: spinaci, ricotta, carne trita. Tra spolverare, lavare, strofinare e dare la cera, Selma lavorava a ritmi sovrumani e pareva che non riuscisse a rallentare un po’. «Falle presente che se va avanti così, schiatta» disse alla figlia Mensur, seduto a tavola, senza alzare gli occhi dal giornale, un quotidiano di centrosinistra al quale era abbonato dalla notte dei tempi. «Fagli presente che suo figlio si sposa, e succede una volta sola nella vita» ribatté Selma. Peri sospirò. «Quanto siete infantili. Com’è che non vi parlate più?» A quelle parole suo padre voltò pagina, mentre sua madre si mise a spianare un’altra palletta di pasta. Peri prese posto sulla sedia tra i due, come a fare da cuscinetto, e chiese: «Allora, com’è andata la serata dell’henné?». Selma strinse le labbra e le rivolse un’occhiata tagliente. «Tu non c’eri e avresti dovuto esserci.» «Mamma, te l’avevo detto che non ce l’avrei fatta. Avevo lezione.» «Be’, tanto perché tu lo sappia, hanno chiesto tutti di te e hanno spettegolato alle spalle. Il figlio non c’è, la figlia non c’è... che razza di famiglia.» «Perché, Umut non viene?» disse Peri. «Aveva detto di sì. Me l’aveva promesso. Gli ho cucinato tutti i suoi piatti preferiti. Ho detto a tutti che veniva. Ma all’ultimo minuto chiama e fa: “Mamma, ho delle cose importanti da fare”. Che c’è di così importante? Mi crede scema? Io non lo capisco, quel ragazzo.» Peri invece lo capiva. Da quando era uscito di prigione, Umut preferiva la vita tranquilla che si era rifatto in una cittadina del sud, a confezionare gingilli per i turisti nella capanna che lui definiva casa, con un sorriso non meno fragile delle conchiglie di cui adesso campava. Erano già andati a trovarlo qualche volta e lui era sempre stato cortese e taciturno, come se parlasse con degli estranei. A sentire la donna che viveva con lui – una divorziata con due figli – Umut stava bene ma ogni tanto si rabbuiava, così, senza preavviso, e diventava stizzoso, irritabile, non si alzava più dal letto, non si lavava più la faccia; e qualche volta, diceva, aveva degli scatti tali che lei doveva tenerlo d’occhio giorno e notte, non perché temesse per sé o per i suoi figli, ma per paura che lui si facesse del male; faceva sparire i rasoi perché i tagli, quelli, non guarivano mica tanto facilmente. Non disse più di così, e i Nalbantoğlu non indagarono oltre, spaventati da quel che avrebbero potuto scoprire. «Senti, mi dispiace, sarei venuta prima se avessi potuto» disse Peri, che non aveva alcuna intenzione di litigare con sua madre. «Dài, raccontami com’è andata.» «Normale, come al solito, niente di speciale» disse Selma. «In cambio, loro si aspettano da noi una cascata di diamanti.» Da ragioniera pignola, Selma si era annotata con precisione quanto denaro avevano sborsato i Nalbantoğlu rispetto all’altra famiglia, quante persone avrebbe invitato lo sposo rispetto alla lista della sposa, e via conteggiando. Era come se nel bel mezzo della loro vita si fosse materializzata una bilancia da droghiere: quale che fosse il carico messo sul piatto da una famiglia, l’altra parte doveva controbilanciarlo. A modo suo era tutto un tiro alla fune, ma eseguito con il massimo delle buone maniere. Peri era esterrefatta al sentire la madre che un secondo prima confrontava e protestava e un secondo dopo chiacchierava tutta allegra al telefono con la madre della sposa, tra battute e risatine da scolaretta. Spese a parte, la futura nuora aveva delle qualità che Selma apprezzava infinitamente: tanto per cominciare, una famiglia religiosa. «A dire la verità, alla serata dell’henné hanno portato anche un hodja meraviglioso» disse Selma. «Una voce da usignolo, ha fatto piangere tutti. Quella gente è più devota di sette generazioni dei nostri avi messe insieme. Discendono tutti da hajji e sceicchi» concluse scandendo bene le ultime parole, per accertarsi che giungessero agli orecchi ottenebrati del marito. «Che meraviglia!» ribatté Mensur dal suo angolo. «Vale a dire che nella loro stirpe alligna lo stesso numero di eretici. Peri, spiega a tua madre la legge della dialettica. La negazione della negazione. Non c’è dottrina che non crei la propria opposizione, non c’è santo a cui non corrisponda un peccatore!» Selma si accigliò. «Peri, di’ a tuo padre che sono tutte sciocchezze.» «Mamma, papà, per favore...» intervenne Peri. «Siamo fortunati che Hakan abbia trovato una compagna che lo rende felice. È l’unica cosa che conta.» Aveva visto la sposa un paio di volte. Una ragazza giovane con le fossette alle guance, occhi nocciola che si spalancavano alla minima sorpresa e una vera passione per i braccialetti d’oro a cerchio. Sembrava piuttosto timida e portava il velo acconciato in quella che, aveva appreso Peri, era detta la «maniera di Dubai». La «maniera di Istanbul» donava ai visi rotondi, la «maniera di Dubai» a quelli ovali e la «maniera del Golfo» a quelli spigolosi; Peri scoprì con qualche sconcerto tutta una moda islamica che si era appena affacciata o che fino ad allora le era sfuggita. Come gli «hijab haute couture», i «burqini da spiaggia» e i «calzoni halal», anche questa era una voga diffusa... e un’industria in espansione. Diversamente dai molti laici che conosceva, suo padre compreso, Peri non era in continua polemica con le donne velate, e infatti non aveva avuto difficoltà ad avvicinare Mona. Quel che la gente aveva dentro la testa le interessava più di ciò che la copriva. E proprio lì stava la sua difficoltà. Con i suoi non ne aveva mai parlato, e faticava quasi altrettanto a confessarlo a se stessa, ma malgrado accettasse il punto di vista della sposa, nel proprio intimo Peri la guardava dall’alto in basso. La ragazza non era particolarmente colta; l’ultima volta che aveva preso in mano un libro risaliva probabilmente alle scuole superiori, e le due non riuscivano a portare avanti una conversazione che non riguardasse argomenti per cui Peri non provava il minimo interesse, come le serie TV di successo o le diete a basso contenuto di carboidrati. A voler essere giusti, la sposa non era più informata del suo futuro marito, e infatti Peri non aveva grande considerazione nemmeno di lui. Non riusciva proprio a ricordare di averci mai davvero parlato di qualcosa. Questo suo snobismo intellettuale era limitato ai giovani. Gli anziani poco istruiti non la disturbavano minimamente, perché non avevano mai avuto un reale accesso alla conoscenza. Ma ai coetanei che avevano l’aria di trattare i libri come oggetti d’arredo Peri riservava un bonario disprezzo. «Se mai dovessi innamorarmi di qualcuno» si riprometteva, «sarà per la testa. Non m’importa dell’aspetto, dell’età o della posizione, ma solo del cervello.»

Per il matrimonio avevano affittato il salone delle feste di un hotel a cinque stelle con una splendida vista sul Bosforo. Copritavolo in raso, cascate di fiori di seta, sedie ornate da fiocchi dorati, una torta a otto piani con decorazioni ad arco e foglie di zucchero lavorate a mano e un albero di cristallo cangiante come centrotavola. Peri sapeva che quella serata aveva inghiottito una bella porzione dei risparmi famigliari, e dato che il suo mantenimento a Oxford era già un bel carico sul bilancio dei suoi genitori, decise che appena tornata in Inghilterra si sarebbe trovata un lavoretto part-time. Di lì a poco cominciarono ad arrivare gli invitati; parenti, amici e vicini di casa da entrambe le parti presero posto ai tavoli inghirlandati e disposti per tutta l’ampiezza della grande sala da ballo. Gli sposi, dal canto loro, sembravano nervosi. Lui non faceva che salutare con la mano, lei guardava per terra; lui troppo chiassoso, lei decisamente troppo quieta nel vestito a maniche lunghe di pizzo e taffetà avorio, ricamato in argento e tempestato di strass... un capo che il catalogo per la sposa islamica definiva «chic d’alta classe». Grazioso sì, ma un po’ pesante, e sotto i faretti la sposina era già un bagno di sudore. Lo sposo, tutto azzimato in smoking nero, sembrava più a suo agio, e appena ebbe caldo si tolse la giacca. Uno per uno, gli invitati si avvicinarono ai due giovani per fare gli auguri e appuntare loro addosso gli omaggi di rito: monete d’oro e bei contanti (lire turche e dollari). La sposa si ritrovò l’abito guarnito da così tante banconote e monete appese a nastrini da sembrare, quando si alzò per una fotografia, una scultura d’arte contemporanea, sospesa a mezz’aria tra l’avanguardia e la follia. In sottofondo, un complessino di dilettanti suonava un repertorio melodico che spaziava dal folk dell’Anatolia al meglio dei Beatles, intervallato ogni tanto da una composizione originale, per quanto disarmonica. Malgrado le obiezioni dei famigliari della sposa, in un punto appartato del salone erano disponibili anche bevande alcoliche; Mensur si era impuntato e aveva minacciato di non presenziare al giorno più bello di suo figlio se non ci fosse stato il raqı, compagno di una vita. La maggior parte degli ospiti si atteneva alle bibite analcoliche, ma era evidente che un certo numero aveva scovato l’angolo dell’empietà; e fra gli esploratori di quel territorio proibito c’era anche, con sorpresa degli astanti, lo zio della sposa. Data la velocità con cui scolava bicchierini, non ci mise molto a ritrovarsi ubriaco fradicio, cosa che riempì Mensur di allegria. Nel ruolo dell’anfitriona, Peri – in un abito verde acqua con l’orlo al ginocchio e i capelli raccolti in uno chignon così imponente da spostarle il centro di gravità – doveva conversare con molti invitati e sorridere molto spesso. E mentre faceva le vocette ai bimbi, baciava le mani agli anziani e ascoltava il chiacchiericcio dei coetanei, notò un giovanotto che la osservava molto intensamente. Non era la tipica occhiata maschile che comunica attrazione e finisce lì: quello sguardo spingeva, insisteva, reclamava, e il suo titolare pareva non rendersi conto che tra la sicurezza di sé e l’aggressività passa giusto un capello. Peri gli lanciò a sua volta un’occhiata torva, sperando di chiarire senz’altro che non era interessata; ma lui rispose con un sorrisetto furbo, lasciando il segnale di rifiuto sospeso a mezz’aria, in difetto di notifica. Mezz’ora più tardi, avviandosi al bagno delle signore, Peri si ritrovò davanti lo stesso giovanotto; il quale piazzò una mano sul muro per non farla passare e le disse: «Sembri una fata. I tuoi ti hanno proprio dato il nome giusto». «Con permesso, ma lei non ha niente di meglio da fare?» «Non dare la colpa a me, sei tu che sei troppo carina» fece lui con un’occhiata maliziosa. Peri si sentì bollire il sangue e le parole le si rovesciarono fuori di bocca. «Lasciami in pace! Non hai nessun diritto di venirmi a rompere le scatole!» Preso in contropiede, lui sgranò gli occhi, poi abbassò il braccio simulando una fatica immensa; il sorriso spavaldo che aveva in faccia fino a un secondo prima lasciò il posto a un’espressione di aperta ostilità. «Me l’avevano detto che te la tiravi, avrei dovuto dar retta. Solo perché vai a Oxford ti credi meglio di noi!» «Guarda» disse lei in tono neutro «che qui Oxford non c’entra niente.» «Pezzo di stronza» fece lui tra sé, ma non così piano da non farsi sentire. Peri lo guardò allontanarsi a grandi passi e intanto impallidiva: com’era facile, passare dal gradimento al disprezzo. Nell’impero d’Oriente il cuore maschile, come la sfera con cui termina un pendolo, passava da un estremo all’altro. Gli uomini, nel loro oscillare tra enfatica adorazione ed enfatico disprezzo, nel loro altalenare su scorie emotive che solo il giorno prima erano passione, amavano troppo, ribollivano troppo e odiavano troppo, sempre e comunque. Tornata nel salone, trovò gli sposi impegnati nella danza che tutti aspettavano fin dall’inizio. Sotto decine e decine di sguardi invadenti, moglie e marito tenevano la schiena dritta come un fuso, le mani rigide ai fianchi senza toccarsi davvero, e ondeggiavano all’unisono come due sonnambuli intrappolati nel medesimo sogno. Peri ebbe un moto di tristezza. Il divario tra la persona che portava dentro di sé e quella che ci si aspettava che fosse le sembrava più ampio che mai. Percepiva la distanza, in tutta la sua incolmabilità, fra l’ambiente da cui proveniva e quello verso cui desiderava dirigersi. Lei non sarebbe stata una sposa di quel tipo. Non avrebbe fatto la vita di sua madre. Non si sarebbe lasciata inibire, limitare, ridurre a qualcosa che non era. Un pensiero le attraversò la mente con la rapidità di un lampo: “Meglio se non sposo un uomo di queste parti”. Strideva talmente con tutto ciò che le avevano insegnato, era così squisitamente sbagliato, così indicibilmente blasfemo che dovette abbassare il capo, per paura che qualcuno glielo potesse leggere negli occhi. Un marito, lei l’avrebbe scelto nella cultura più lontana e diversa possibile dalla sua. Un eschimese, magari. Un tizio di nome Aqbalibaaqtuq. Non poté trattenere il sorriso immaginandosi il padre che invitava il genero Inuit a farsi qualche bicchierino con lui, davanti a una nuova meze di zuppa di teste di pesce, carne di balena cruda e pinne di foca marinate. Al tempo stesso, sua madre avrebbe insistito perché Aqbalibaaqtuq si convertisse all’Islam, con tanto di circoncisione, e diventasse Abdullah; e subito dopo, suo fratello Hakan gli avrebbe impartito un corso accelerato di virilità turca, facendogli trascorrere molte ore d’ozio nella casa da tè, a giocare a carte e fumare il narghilè. Ben presto, dopo un po’ di tempo con queste cattive compagnie, anche Aqbalibaaqtuq sarebbe stato instradato per le vie dell’archetipo maschile nazionale, iniziando a pretendere gli onori riservati al suo sesso. E il loro amore artico si sarebbe sciolto al calore dei costumi patriarcali.

I festeggiamenti terminarono dopo la mezzanotte. Uno dopo l’altro gli ospiti porsero gli ultimi saluti e i musicisti se ne andarono con baracca e burattini, lasciando sul posto solo i famigliari più stretti. Il mattino seguente gli sposi novelli sarebbero partiti per il viaggio di nozze: una settimana sulla costa mediterranea della Turchia, in un resort di lusso che si era guadagnato una certa fama, e anche qualche polemica, per aver creato ristoranti halal, piscine halal e discoteche halal con zone separate per uomini e donne. Erano riusciti a ripartire anche la spiaggia, e a dividere le acque, in una sezione femminile e una maschile. Tuttavia quella sera, su insistenza di Selma e anche per praticità, gli sposini avrebbero trascorso la notte a casa Nalbantoğlu, non lontana dall’aeroporto. L’invito era esteso anche ai consuoceri, che abitavano dall’altra parte della città. Perciò si stiparono tutti quanti in un pulmino, portandosi dietro borse, ceste e un bouquet di seta dai petali di tessuto stazzonati e laceri dopo tutte quelle ore. Faceva un freddo decisamente fuori stagione, e il vento batteva contro i finestrini con la furia vendicativa di una divinità in collera. Mentre il pulmino sfrecciava per le strade lucide di pioggia, Peri notò la madre della sposa che tirava fuori dalla borsa una fusciacca rossa – la «cintura di castità» – e la legava attorno alla vita della figlia. La cosa la lasciò perplessa, benché sapesse che l’usanza era diffusa in molte parti del Paese. Smise subito di pensarci e provò invece a chiacchierare con Hakan, seduto accanto a lei. Il fratello però aveva l’aria stanca, distratta, e la fronte lucida di sudore; e poco dopo anche Peri cedette al silenzio. L’ospedale

Istanbul, 2000

Al rientro a casa, agli sposini venne assegnata la camera da letto padronale, mentre i consuoceri furono sistemati in quella di Peri. A Selma e Mensur non restò altra scelta che dividersi il letto nella stanza del figlio. Quanto a Peri, doveva farsi bastare il divano in soggiorno. Non appena ebbe posato la testa sul cuscino, si sentì travolgere da un’ondata di spossatezza. Nel dormiveglia udì un mormorio lontano, parole sospese a mezz’aria giusto un istante prima che si spegnesse l’ultima luce: qualcuno stava pregando. Peri cercò di indovinare chi fosse, ma la voce sembrava priva di sesso ed età. Forse, pensò, sto già sognando. Cullata dal ticchettio dell’orologio in corridoio, troppo stanca anche solo per andare a lavarsi i denti, il petto che faceva su e giù a ogni respiro, si abbandonò al sonno. Nel cuore della notte, più di un’ora dopo, si svegliò di soprassalto. Le sembrava di aver sentito un rumore, ma non era sicura. Si tirò su un gomito, rigida e silenziosa; poi drizzò le orecchie, in attesa, senza sapere bene se era lei ad ascoltare il buio, o viceversa. Trattenne il fiato e si mise a contare i battiti del cuore: tre, quattro, cinque... e riecco il suono di prima. Qualcuno che piangeva. E tra un singhiozzo e l’altro si sentiva un fruscio continuo, insistente, come di vento in un folto d’alberi prima del temporale. Una porta si aprì e richiuse di schianto, se non per caso a opera di una mano furibonda. Pur sentendo nelle viscere che qualcosa non andava, Peri tornò a sdraiarsi, sperando che la questione, quale che fosse, si risolvesse da sé. Invece i rumori si moltiplicarono: i sussurri divennero grida, i passi presero a echeggiare lungo il corridoio, e in sottofondo non più singhiozzi ma lamenti, richiami di un’anima in preda al dolore. «Che succede?» disse Peri alzandosi, la voce lanciata a scandagliare le profondità della casa. Raggiunse la camera dove in teoria dormivano i genitori. Invece sua madre era sveglissima, cerea in volto, mentre suo padre faceva su e giù, con le mani giunte e i capelli ritti in testa. Accanto a loro c’era suo fratello, Hakan, che fumava una sigaretta con movenze teatralmente disperate. Al vederseli davanti così, Peri ebbe la curiosa sensazione di non conoscere nessuno di loro: erano degli estranei che impersonavano i suoi cari. «Perché siete tutti svegli?» domandò. Suo fratello le rivolse un’occhiata truce, gli occhi come due lame affilate. «Va’ in camera tua!» «Ma...» «Vattene, ho detto!» Peri fece un passo indietro. Non aveva mai visto Hakan in quello stato; la tendenza alle scenate l’aveva sempre avuta, ma stavolta era una rabbia così scatenata e feroce che sembrava di trovarsi al cospetto di una creatura selvatica. Anziché tornare in soggiorno, Peri si diresse verso la camera grande. Trovò la porta discosta e la sposa seduta sul bordo del letto in camicia da notte, con i capelli neri sciolti sulle spalle. Accanto a lei sedevano i genitori, da una parte e dall’altra, le bocche tirate. «Non è vero, lo giuro» diceva la sposa. «E allora perché si mette a dire una cosa del genere?» ribatté la madre. «Credi a lui o a tua figlia?» La madre tacque per un istante. «Crederò a quello che dice il dottore.» Pian piano, come in uno stato di trance, Peri comprese la causa di tutti i rumori che aveva sentito: suo fratello si era precipitato fuori dalla stanza convinto che la sua novella sposa non fosse vergine. «Quale dottore?» domandò la sposa, volgendo gli occhi spaventati e cerchiati di rosso alla città fuori dalla finestra. Il cielo, nero come la pece perché la luna era nascosta dietro una nube, sanguinava di viola all’orizzonte, ad annunciare l’alba. «È l’unico modo per andare a fondo della questione» disse la donna mentre si alzava in piedi, afferrava la figlia per una mano e la tirava su dal letto. «Mamma, ti prego, no» mormorò la ragazza, con la voce più piccola di una perla. La madre però non l’ascoltava. «Vai a prendere i cappotti» intimò al marito, al che lui annuì, se non per consenso per abitudine. Con il sangue alla testa, Peri tornò di corsa dai genitori. «Baba, fermali! Stanno andando all’ospedale!» Mensur, in pigiama di cotone, aveva l’aria meschina di uno che è stato sbattuto dentro una commedia e non conosce nemmeno una battuta. Guardò la figlia, poi la nuora e la consuocera che ora gli passavano davanti, dirette alla porta. Era la stessa impotenza che aveva manifestato anni prima, la notte che la polizia gli aveva perquisito la casa. «Calmiamoci un momento, tutti quanti» disse. «Non c’è bisogno di mettere in mezzo degli estranei. Adesso siamo tutti una famiglia.» La madre della sposa liquidò quelle parole con un gesto della mano. «Se mia figlia ha sbagliato, la castigherò personalmente. Ma se tuo figlio ha detto una bugia, che Allah mi sia testimone, lo farò pentire.» Mensur azzardò: «Per favore, non agiamo per rabbia...». «Lasciagli fare quello che vogliono» intervenne Hakan sbuffando fumo di sigaretta dalle narici. «Anch’io voglio sapere la verità. Ho il diritto di sapere che razza di donna ho sposato.» Peri lo guardò con gli occhi spalancati. «Ma come fai a dire una cosa del genere?» «Tu taci!» disse Hakan, in un tono inespressivo a confronto con l’asprezza del contenuto. «Ti ho già detto di non immischiarti.»

Meno di mezz’ora dopo erano tutti seduti su una panca dell’ospedale più vicino. Tutti salvo la sposa. Di quella notte, che poi le si sarebbe replicata in testa per molti anni a venire, Peri serbò diversi particolari: le crepe sul soffitto che somigliavano alla cartina di un continente perduto; le scarpe dell’infermiera che facevano tac-tac sul pavimento di calcestruzzo; l’odore di disinfettante mescolato a quello di sangue e malattia; la vernice verde muschio alle pareti; la scritta PRONTO SOCCORS con l’ultima lettera mancante; e l’inquietante pensiero, a trapanarle il cervello, che per quanto assurdo trovasse quel che stava accadendo, a subire quella visita avrebbe benissimo potuto essere lei, se per matrimonio l’avessero fatta entrare in una famiglia che si preoccupava per queste cose. Sì, Peri lo capiva con il cuore pesante. Aveva sentito parlare di crisi da prima notte di nozze, ma aveva sempre dato per scontato che cose del genere accadessero ad altri: contadini in paeselli dimenticati da Dio, provinciali ignari del mondo. La sua non era certo una famiglia di quelle che si ritrovavano invischiate in una prova di verginità dentro un ospedale fatiscente. Fin dalla prima infanzia lei era stata trattata allo stesso modo dei suoi fratelli, se non meglio; protetta, viziata e amata da entrambi i genitori. Malgrado questo, essendo cresciuta in un quartiere dove tutti si conoscevano e c’erano occhi dietro ogni tendina di pizzo, a osservare e a giudicare, sapeva bene quali confini non andavano superati, cosa non si doveva indossare, come ci si sedeva in pubblico, a che ora si rientrava da un’uscita serale... il più delle volte, almeno. Quando faceva l’ultimo anno di liceo, il vortice di dissenso e ribellione che aveva preso e trascinato in ogni dove la maggior parte dei suoi compagni all’inizio non l’aveva toccata, lasciandola ancorata alla sua superiorità morale. Mentre i suoi coetanei infrangevano tabù e cuori con il medesimo fervore, lei aveva continuato a condurre una vita ritirata. Ma poi si era innamorata, e l’amore, benché fosse stato fugace quanto spavaldo, aveva rotto i suoi argini così ben conservati. All’insaputa dei genitori, con il suo fidanzato sinistrorso era andata fino in fondo; adesso vedeva con chiarezza la fragilità della sua posizione di «figlia amatissima» e si sentiva un’ipocrita. Eccola qui, ad attendere i risultati di verifica della verginità di un’altra ragazza, quando lei stessa non era più vergine. «Perché ci mettono tanto? Non ci sarà qualcosa che non va?» disse il padre della sposa balzando in piedi, per poi tornare subito a sedersi. «Ma figurati» gli rispose la moglie in tono perfido. La signora era talmente agitata che l’infermiera di turno era già venuta due volte a dirle di abbassare la voce. Trascorse un’ora, o così parve. Finalmente comparve la dottoressa, con i capelli legati e gli occhi grigi che fiammeggiavano dietro le lenti. Li passò tutti in rassegna senza dissimulare il proprio sdegno: in tutta evidenza, detestava quel che aveva appena fatto e detestava loro per averle chiesto di farlo. «Visto che ci tenete tanto a saperlo, la ragazza è vergine» disse. «Alcune donne nascono prive di imene, e ci sono imeni che si lacerano al primo rapporto sessuale o anche solo con l’attività fisica, ma senza sanguinare.» Pareva lo facesse apposta, a usare termini medici per umiliarli: una vendetta per l’imbarazzo che avevano causato alla sposa. «Avete rovinato la psiche di una giovane donna. Il mio consiglio è di portarla da un terapeuta, sempre che ci teniate a lei. Adesso voglio che ve ne andiate, tutti quanti, perché ho dei pazienti con dei problemi veri. La gente come voi ci fa solo sprecare tempo.» Senza aggiungere altro, la dottoressa girò sui tacchi e scomparve. Per un intero minuto nessuno disse una parola, quindi fu la madre della sposa a rompere il silenzio. «Allah è grande» strillò. «Hanno cercato di infangare mia figlia ma Dio, il mio Dio, li ha schiaffeggiati dicendo: “Come osate disonorare una vergine? Come osate guastare un bocciolo di rosa?”.» Con la coda dell’occhio, Peri vide suo padre: a capo chino, fissava il pavimento grezzo come se volesse esserne inghiottito. «È vostro figlio che non ce l’ha fatta, capito bene? Se lui non è abbastanza uomo, come potete incolpare mia figlia? Siete voi, che avreste dovuto portare lui sapete-bene-dove!» «Moglie, calmati» mormorò il marito, che sembrava a disagio e piuttosto incerto che quello fosse il modo giusto di affrontare la cosa. Ma il suo intervento servì solo a infiammare ancora di più la donna. «E perché dovrei? Perché dovrei risparmiargli la vergogna, a questi?» In fondo al corridoio si aprì una porta, dalla quale spuntò la sposa. Veniva verso di loro, a passi lenti e misurati; in un lampo la madre le fu davanti, e si percuoteva le cosce con le mani come se fosse in lutto. «Bocciolo mio, che ti hanno fatto? Che possano affogare nel fango in cui hanno cercato di trascinarci!» Senza badare alla madre, la ragazza proseguì verso l’uscita. Nel passare davanti ai Nalbantoğlu, e al marito, al quale tremavano le gambe al punto da far vibrare tutta la panca, si mantenne a testa alta, senza guardare in faccia nessuno. Peri notò le mani, curate e tatuate con l’henné, e i palmi, trapunti di mezzelune rosse, e fu quel particolare a sconvolgerla più di qualunque altra cosa avesse visto nel corso di quella miserevole nottata. I segni incavati con le unghie da una ragazza di cui viene accertata la verginità. «Feride, aspetta...» Peri non l’aveva mai chiamata per nome. Fino a quel momento era sempre stata «lei», «tu» o semplicemente «la sposa». Feride rallentò un poco, ma non si fermò né si voltò. Continuando diritta per la sua strada, scomparve oltre le porte automatiche con i genitori a ruota. Peri ebbe un rigurgito di rabbia: verso il fratello, che per insicurezza ed egoismo aveva causato tanto squallore; verso i genitori che non si erano sforzati di impedirlo; verso le tradizioni secolari che collocavano in mezzo alle gambe il valore di un essere umano; ma soprattutto verso se stessa. Avrebbe potuto fare qualcosa per Feride, e non l’aveva fatto. Era sempre così: nei momenti di tensione, proprio quando avrebbe dovuto agire e impegnarsi, come sospinta da una mano invisibile precipitava invece in un’abulia dalla quale vedeva il mondo intorno a lei sbiadire e appiattirsi in una specie di foschia, e i propri sentimenti affiochirsi, come lampadine svitate una dopo l’altra.

Sulla strada del ritorno, nel pulmino affittato per le nozze, i Nalbantoğlu erano soli. Con Hakan che guidava e Mensur seduto in fondo, a guardare fuori dal finestrino, Peri si sedette accanto alla madre. «E adesso che cosa succede?» le chiese quindi. «Niente, inshallah» rispose Selma. «Compreremo sete, gioielli, cioccolatini... e ci scuseremo. Faremo tutto il possibile per farci perdonare, anche se l’idea di andare all’ospedale è stata loro e non nostra.» Peri rifletté un istante. «Ma come fa un matrimonio a superare un inizio così disastroso?» Sua madre fece un sorriso sghembo, mentre la luce di un lampione le tagliava la faccia in due: per metà fiamma e per metà ombra. «Credimi, Pericim, molti matrimoni hanno basi assai meno solide. Andrà tutto bene, inshallah.» Peri rimase a fissare la madre come se la vedesse, la vedesse davvero, per la prima volta; e le venne in mente che forse anche il matrimonio dei suoi genitori non era proprio come lo si dipingeva, e che forse il suo adorato papà non era sempre stato il galantuomo che pensava lei. Riandò col pensiero alla foto delle nozze che i suoi tenevano nella vetrinetta, incorniciata ma mai messa in mostra. Entrambi giovani e smilzi, Mensur e Selma stavano là, rigidi e austeri, come se si fossero appena resi conto della gravità di ciò che avevano fatto. Alle loro spalle, un assurdo sfondo di orchidee selvatiche e oche in volo. Sulla testa non ancora coperta Selma portava una coroncina di margherite, dalla bellezza di plastica non meno fasulla della felicità degli sposi. Peri prese la mano della madre, più per istinto che per volontà, la strinse delicatamente e pensò che forse la donna che lei aveva sempre considerato fragile e pronta alle lacrime possedeva invece una resistenza interiore tutta sua. Selma affrontava le crisi emotive allo stesso modo delle faccende di casa: raccoglieva i cocci con diligenza, proprio come riordinava i ninnoli sparsi per tutta la casa. E come se le avesse letto nel pensiero, sua madre continuò: «Io ho fede, e questo mi aiuta. Ci dev’essere un motivo perché ci è capitato tutto questo. Noi non lo conosciamo ancora, ma Allah sì». Peri capì dal rossore sulle guance e dalla scintilla negli occhi che la madre parlava seriamente. La fede, quale che fosse il modo in cui Selma la concepiva, la colmava di un senso di sottomissione che avrebbe potuto essere fonte di debolezza e invece l’aveva resa più forte. E allora, la religione era un elemento capace di dare autonomia a donne che per il resto, in una società progettata da e per gli uomini, avevano pochissimo potere, oppure l’ennesimo strumento studiato per assoggettarle? Il giorno successivo Peri riprese l’aereo per tornare in Inghilterra, con un vortice di domande in testa, e senza sapere se fosse il caso di cercarvi delle risposte, o lasciarle là dov’erano. L’avvoltoio

Istanbul, 2016

Conclusa la telefonata con la madre, Peri tornò a tavola, percorrendo lo scalone ornato di finte urne greche e il pavimento di marmo lucido. Da un lato c’era rimasta male per non aver ottenuto subito il numero di Shirin, ma da un altro era sollevata. Non aveva idea di cosa le avrebbe detto o, anche trovando le parole giuste, se Shirin la sarebbe stata a sentire. In passato l’aveva chiamata qualche volta, poco dopo aver lasciato gli studi a Oxford, ma l’amica era troppo arrabbiata per parlare, ancora troppo ferita. Ormai erano passati anni, ma non era detto che le cose fossero cambiate. Peri tornò alla sala da pranzo e alle irritanti risa degli invitati, solo per trovare la PR che la aspettava in piedi accanto al mobiletto dei liquori. «Ehi, ho chiamato mio fratello mentre eri su» disse la tizia, con un sorriso che non le raggiungeva gli occhi. «Era entusiasta di sapere che stavi a Oxford negli stessi suoi anni. Sono certa che avete un sacco di conoscenze in comune.» Peri le restituì lo sguardo con la stessa intensità. «Può darsi, ma l’università di Oxford è parecchio grande.» «Gli ho detto che hai una foto del professore dello scandalo. È rimasto molto sorpreso.» Peri serrò la mascella per prepararsi a quello che stava per arrivare. «Com’è che si chiamava? Mio fratello me l’ha detto, ma l’ho dimenticato.» «Azur» rispose lei, un nome che le ustionava la lingua come una goccia di fuoco. «Esatto! Lo sapevo che era un nome strano.» La PR schioccò le dita per sottolineare il commento. «Ehm, mio fratello era curioso... mi ha detto di chiederti se eri una sua studentessa.» «No, non lo conoscevo bene» rispose Peri senza batter ciglio. «Le altre ragazze nella foto erano sue studentesse. Io ero solo una loro amica, ma poi ho perso i contatti con tutte.» «Oh» fece l’altra, con un’espressione rabbuiata dal disappunto, ma ancora non disposta a mollare la presa. «Prova con Facebook: io ci ho ritrovato tutti i miei compagni di università e persino quelli delle elementari. Ogni tanto ci vediamo per una serata di pilaf e fagioli...» Peri annuì; non vedeva l’ora di sbarazzarsi di quella tipa che, come un esercito invasore, stava saccheggiando la sua vita, il suo passato. Non le avrebbe mai detto quante volte aveva googlato il nome di Azur, i suoi successi, i suoi libri, le sue foto e studiato attentamente le centinaia di link su di lui e poi sullo scandalo, dopo il quale aveva smesso di insegnare ma senza abbandonare conferenze e interviste. «Mio fratello si ricorda di voci su una ragazza turca che frequentava il corso di quel professore. Dice che ne parlava tutta la città.» La tensione riempiva lo spazio fra loro come una pozzanghera sporca. «Che stai cercando di dire?» chiese Peri, meravigliata per la freddezza nella propria voce. «Ma niente, ero solo curiosa.» Davanti agli occhi le passò per un attimo l’immagine del barbone. La sagoma smunta, lo sguardo penetrante, le mani chiazzate dall’eczema. Questa donna, pur così benestante e privilegiata, non era meno drogata di lui. Peri la immaginò con un sacchetto di plastica pieno di disgrazie e segreti oscuri altrui, in cui infilava il naso e da cui inalava per trarre sollievo dalla propria vita. «Mi farebbe piacere avere qualcosa di più interessante da raccontarti» concluse Peri, esitando per una frazione di secondo sulla parola «interessante». La frase, per quanto indirizzata all’impicciona, non sembrava rivolta ad altri che a se stessa. «Io ero una studentessa tranquilla, non il tipo che rimane coinvolto in uno scandalo.» La PR reagì con un sorriso che voleva essere comprensivo. «La prossima volta che senti tuo fratello, digli che dev’essere stata qualcun’altra.» «Ah, sicuro.» Per il resto della cena Peri evitò di incrociarne lo sguardo. Non le dava fastidio mentire: non avrebbe certo svelato il suo passato a un’estranea, e tanto meno poi a una come quella, un avvoltoio in cerca di brandelli di pettegolezzi di cui cibarsi. E poi, a pensarci bene, la sua non era neanche una bugia vera e propria; dopotutto, era stata davvero un’altra ragazza, una Peri diversa dalla donna che era diventata, quella che fu prima la studentessa preferita di Azur e, più avanti, la causa della sua rovina. La corsa al crepuscolo

Oxford, 2000

Tornata al college Peri si ributtò a capofitto nello studio. La mattina, quando andava a prendersi il caffè – così diverso dal dolce e possente caffè turco – osservava i docenti e gli studenti che, con un’espressione assorta in faccia e i libri e gli appunti stretti al petto, correvano da un fabbricato all’altro, e si chiedeva quanti di loro avessero avuto un assaggio della vita altrove. Dare per scontato che Oxford – o qualunque altro posto, a dire il vero – fosse il centro dell’universo era fin troppo facile. Un mercoledì uscì dalla biblioteca all’imbrunire. Era rimasta dentro a leggere per quasi tre ore, aveva il cervello saturo di pensieri e ormai s’immaginava la propria mente come una casa disordinata e piena di stanze in cui lei riponeva ogni cosa letta, vista e sentita e dove poi tutte queste cose venivano ispezionate, elaborate e registrate da un minuscolo impiegato, un homunculus al servizio esclusivo del suo inconscio. Tuttavia era anche possibile, lei ne era convinta, nascondere i propri pensieri addirittura a se stessi. Decise di farsi una corsa. Dopo una rapida tappa allo studentato, per mollare i libri che aveva preso in prestito e cambiarsi, ripartì lungo Holywell Street, trovando pian piano il passo giusto. Il vento freddo sul viso era un vero balsamo. I ciclisti passavano silenziosi, con i catarifrangenti come strizzatine d’occhio nel buio. La gente andava in bici dappertutto – per negozi, al ristorante, ai seminari – e uno degli spettacoli preferiti di Peri erano i professori ordinari in sella, con le toghe che svolazzavano lievi nell’aria. Quanto a lei, in bici non se la cavava granché. Era una di quelle cose per cui doveva impegnarsi molto... come la felicità. Avendo deviato rispetto al suo percorso abituale, passò rapida per strade e vicoli dall’aria deserta. Inspirò un profumo di anonime piante invernali, girò un angolo e si fermò, ansante, a riprendere fiato, per poi trovarsi proprio di fronte a un manifestino attaccato al muro.

L’università di Oxford Museo di Storia Naturale presenta DIBATTITO SU DIO con il prof. Robert Fowler, il prof. John Peter & il prof. A.Z. Azur Intervenite numerosi a un dibattito spettacolare tra le menti più fulgide del nostro tempo

Peri sgranò gli occhi. Controllò il posto e l’ora stampati sull’annuncio: il dibattito era per quel giorno, alle cinque del pomeriggio, al Museo di Storia Naturale. Cioè era già cominciato, e il museo distava almeno tre chilometri, e lei non aveva né il biglietto né i soldi, se anche ci fossero stati ancora biglietti disponibili. Insomma non aveva idea di come fare a entrare. Eppure, senza pensarci un secondo, si voltò in direzione del museo, fece un respiro profondo e cominciò a correre. La terza via

Oxford, 2000

Quando Peri, chioma scarmigliata e rivoli di sudore che le colavano lungo il collo, raggiunse la meta, il sole era già tramontato nel basso cielo d’ambra. Si avvicinò all’edificio neogotico che era stato progettato per essere una «cattedrale alla scienza». A Oxford imperavano due tipi d’architettura: quella che ricordava e quella che sognava. Il Museo di Storia Naturale era tutt’e due. Con la ghiaia che le scricchiolava sotto i piedi, Peri pensò che quella costruzione – indipendentemente dalle collezioni che ospitava – pretendeva dai visitatori soggezione e rispetto. All’ingresso principale c’erano due addetti, un ragazzo e una ragazza – studenti, dall’aspetto – che sfoggiavano un’identica camicia celeste e un’identica espressione annoiata. Peri fu accolta con un cenno del capo. «Sono qui per il dibattito» si presentò lei cercando di riprendere fiato. «Il biglietto ce l’hai?» le chiese il ragazzo, un tipo dinoccolato con il labbro inferiore sporgente e la fronte stretta, incoronata da un cespuglio di capelli rossicci. «Ehm... no» rispose lei, ansiosa. «E non ho neanche il portafogli.» «Non sarebbe servito comunque.» Il ragazzo scosse la testa. «Tutto esaurito da settimane.» La replica le uscì di bocca come per volontà propria. «Ma me la sono fatta tutta di corsa!» A quella reazione, clamorosa e spontanea, la ragazza ebbe un moto di simpatia. «Tanto sta per finire, sei arrivata tardi» disse sorridendo. Aggrappata a un filo di speranza, Peri domandò: «Mi lasciate dare almeno un’occhiatina?». La ragazza si strinse nelle spalle: lei non aveva obiezioni. Ma il collega la pensava diversamente. «Non è possibile» rispose con il tono di chi, trovandosi all’improvviso in una posizione di autorità, è deciso a sfruttarla fino in fondo. «Il dibattito è stato registrato e più avanti ci sarà una proiezione gratuita» suggerì la ragazza. Peri non era soddisfatta, ma annuì. «D’accordo, grazie.» Girò sui tacchi, e nella luce fioca del crepuscolo aveva l’aria di una bambina delusa. Se qualcuno le avesse chiesto perché ci tenesse tanto a entrare, lei non avrebbe potuto rispondere che per istinto. Qualcosa le diceva che là dentro si stavano affrontando molti degli interrogativi che da tempo si dibattevano nei recessi della sua mente, e fu quella convinzione a spingerla a fare quel che fece poi. Anziché tornare sulla strada maestra, Peri si mise a vagare in cerca di una porta laterale. Ma non ce ne fu bisogno: un’altra opportunità di entrare le si presentò quando, voltandosi a guardare di nuovo l’ingresso principale, notò che la ragazza non c’era più. L’altro addetto attese invece qualche secondo e poi scomparve all’interno. D’impulso, Peri colse l’occasione e varcò la soglia incustodita del museo. Una volta dentro avanzò con cautela, con i sensi all’erta, per timore che Pel di Carota potesse piombarle addosso all’improvviso e cacciarla fuori. Invece non ce n’era traccia, e seguendo le indicazioni che dicevano DIBATTITO SU DIO Peri si ritrovò ben presto in un ampio salone gremito. Un pubblico di studenti e accademici sedeva a file serrate, in un silenzio estatico e assorto, con lo sguardo fisso sulle quattro figure in cima al palcoscenico. Uno era un illustre giornalista della BBC che fungeva da moderatore, e sembrava che stesse riassumendo la discussione. Peri si concentrò sui tre professori, chiedendosi quale tra loro fosse Azur. Il primo – alto e secco, gli occhi a mandorla e intelligenti – era calvo e con un’ampia barba brizzolata, che iniziava a tormentare con un certo nervosismo a ogni affermazione non gradita. Completo grigio, camicia a quadretti rosa, bretelle rosse con le fibbie di metallo e uno spirito bellicoso che ogni tanto trapelava da sotto il sorriso artefatto. Per lo più si guardava le mani, come fossero portatrici di un mistero che lui sperava di risolvere. Il secondo dei tre relatori, il più anziano, aveva il viso largo, la carnagione rubizza, pochi capelli grigi e una discreta pancetta che, quando si agitava, scordava di tenere in dentro. Indossava una giacca color ruggine che gli stava stretta o gli dava qualche altro fastidio, perché aveva l’aria di sentirsi a disagio, tutto gobbo nella poltrona, con lo sguardo perso. A Peri diede l’impressione di un brav’uomo, del tipo che passava più volentieri il tempo coi suoi studenti o con i nipotini che a discutere di Dio su un palco pubblico. Il terzo professore, seduto alla sinistra del moderatore e quindi separato dagli altri, aveva una folta chioma biondo scuro che gli ricadeva a onde eleganti sul colletto, e un naso pronunciato, in delicato equilibrio tra l’orrendo e il magnifico. Gli occhi, intenti a osservare il pubblico con un sorriso disincantato, scintillavano come schegge d’ossidiana da dietro le lenti montate in un classico nero e tartaruga. Peri non riuscì a capire se tanta serenità fosse il segno di un’anima in pace con se stessa o il riflesso di una raffinata sicumera; e altrettanto difficile era azzardare quanti anni avesse. La tesa snellezza della corporatura suggeriva che fosse più giovane degli altri, e il portamento generale esprimeva un brio che poteva essere dovuto alla relativa giovinezza, ma non necessariamente. A ogni modo, lei era certa che fosse quello lo studioso per cui Shirin andava in estasi. «Sono certo di dar voce al pensiero di tutti i presenti se dico che usciremo da qui con un’avvincente discussione alle spalle e diverse idee provocatorie su cui riflettere» proclamò il moderatore, che tuttavia pareva decisamente stanco, e sollevato all’idea che l’evento fosse in via di conclusione. Peri si chiese cosa mai fosse successo prima del suo arrivo, perché intuiva un’ondata di tensione sotto la patina di garbo accademico. «E adesso, spazio al pubblico, con qualche regoletta di base: domande brevi e pertinenti. Attendete l’arrivo del microfono di sala e non dimenticate innanzitutto di presentarvi.» La sala fu percorsa da un brivido euforico, come una folata di vento su un campo di grano. Subito si alzò qualche mano: i coraggiosi e gli spavaldi. Il primo fu uno studente. Si presentò in due parole, dopodiché partì con una tirata sulla dicotomia tra il bene e il male, partendo da Grecia e Roma antica fino al Medioevo. Quando arrivò al Rinascimento il pubblico prese a rumoreggiare e il giornalista lo interruppe: «Benissimo, grazie. Aveva in serbo anche una domanda, o solo questo sermone laico?». Ilarità generale. Il ragazzo avvampò, ma si lasciò portare via il microfono – senza peraltro aver posto la domanda – solo con estrema riluttanza. Ad alzarsi dopo di lui fu un religioso in tonaca nera, forse un pastore anglicano – Peri aveva sempre difficoltà a distinguerli. Disse che aveva apprezzato la tavola rotonda, ma era rimasto attonito al sentire il primo relatore affermare che la religione non tollerava il libero scambio di opinioni, giacché la storia della Chiesa cristiana era colma di esempi contrari; anzi, i semi di moltissimi atenei in tutta Europa, compreso il loro, erano stati piantati proprio dalla teologia. Gli atei avevano tutto il diritto di esprimere la loro opinione, purché non distorcessero i fatti, concluse. Ne scaturì un breve scambio tra il chierico e il professore barbuto che, capì a quel punto Peri, doveva essere l’«ateo» in questione. Infatti dichiarò che la religione, lungi dal favorire il libero pensiero, ne era semmai la nemesi secolare. Quando aveva messo in dubbio gli insegnamenti rabbinici, Spinoza non era stato elogiato per le sue capacità intellettive, bensì espulso dalla sinagoga, e lo stesso inquietante modello si discerneva altrettanto limpido nella storia del Cristianesimo e dell’Islam. Come uomo dedito alla scienza e alla chiarezza, non accettava di collocarsi lungo il solco del dogma. Di seguito, a prendere in mano il microfono fu un’elegante signora di mezza età. Scienza e religione non avrebbero mai potuto andare a braccetto, affermò chiamando in causa esempi di filosofi e scienziati – a Oriente come a Occidente – ostinatamente perseguitati dalle autorità religiose nel corso della storia. Ce l’aveva in particolare con il secondo professore, il quale, comprese Peri, oltre a essere un celebre studioso era anche un uomo di profonda devozione. Benché non con la stessa eloquenza del suo omologo ateo, il secondo relatore rispose con grande mitezza e un corposo accento irlandese, scandendo ogni parola come una squisitezza da assaporare piano sul palato. Dal suo punto di vista, disse, non c’era conflitto tra religione e scienza, che potevano benissimo procedere insieme se solo si fosse smesso di considerarle come acqua e olio. Lui conosceva di persona diversi scienziati, luminari nei rispettivi campi, che erano anche ottimi cristiani. Come aveva sostenuto Darwin – che mai si era detto ateo – era assurdo mettere in dubbio che un uomo potesse essere un fervido credente e al tempo stesso un evoluzionista. E molti scienziati oggi descritti come «atei inveterati» erano, in effetti, credenti nell’intimo. Nel frattempo Peri, che non aveva trovato posto a sedere, si era appoggiata al muro e osservava attentamente Azur. Ascoltava il botta e risposta con i capelli che gli calavano sulla fronte, il viso acceso da un bagliore enigmatico e il mento posato sul palmo della mano. Non poté tenere quella postura troppo a lungo, però, perché la domanda successiva venne indirizzata a lui. Dalla prima fila si alzò una ragazza. Spalle dritte e coda di cavallo nera che rifletteva la luce dal soffitto, si piantò saldamente sui piedi; e benché le desse le spalle, Peri riconobbe Shirin. «Professor Azur, come spirito libero ho dei problemi a rapportarmi alla mia religione d’origine. Non sopporto l’arroganza dei cosiddetti “esperti”, o “pensatori”, né le banalità pro domo sua di imam, preti e rabbini. Perdoni il linguaggio, ma è tutta una farsa del cazzo. Se leggo i suoi libri trovo una voce che si rivolge alla mia rabbia; lei parla con grande convinzione di argomenti molto sensibili, e mi illustra come entrare in contatto con il prossimo, perciò le chiedo: quando scrive, lo fa pensando a uno specifico lettore?» Azur inclinò il capo di lato con un lieve sorriso d’intesa e complicità, sfumatura che tuttavia sfuggì all’attenzione di Peri, distratta da una camicia azzurra che aveva colto con la coda dell’occhio: l’addetto all’ingresso! Temendo che stesse cercando lei, si appiattì contro il muro. Invece il giovanotto, il viso animato da un’evidente ostilità, fissava il palco con la mascella serrata e gli occhi incollati a un unico relatore: Azur. Non appena Shirin si fu rimessa a sedere, il ragazzo scattò in avanti zigzagando fra il pubblico e si fermò proprio accanto a lei, accostandosi per chiederle il microfono. Peri non capì minimamente che cosa succedesse fra i due, ma vide l’amica irrigidirsi. Il ragazzo afferrò comunque il microfono, si voltò verso i relatori e con voce possente, quasi gridando, disse: «Ho anch’io una domanda per il professor Azur!». L’interpellato si fece scuro in volto e il suo cenno d’assenso, lento e preciso, lasciò intendere che conosceva il giovanotto. «Dimmi pure, Troy.» «Professore, in uno dei suoi primi libri – credo che fosse Spezzare il dualismo – lei scrive che non si sarebbe mai impegnato in un dibattito né con atei né con credenti, e invece eccola qui, a fare esattamente questo, a meno che non mi stia rivolgendo a un suo clone. Cos’è cambiato? Sbagliava allora, o sta commettendo un errore adesso?» Azur offrì un sorriso al suo interlocutore – diverso da quello che aveva indirizzato a Shirin – che trasudava algida sicurezza. «Hai tutto il diritto di criticarmi, purché mi citi fedelmente. Non ho mai detto che non avrei discusso né con atei né con credenti. Quel che ho detto...» Aggrottò la fronte. «Qualcuno ha per caso una copia del libro? Dovrei vedere cos’ho scritto.» Scoppi di risa. Il moderatore gli porse un volume e Azur trovò immediatamente la pagina che cercava. «Eccoci!» Si schiarì la gola – con fare decisamente teatrale, pensò Peri – e cominciò a leggere. «Dall’annoso quesito sull’esistenza di Dio scaturiscono le più noiose, sterili e malaccorte dispute in cui persone per altri versi intelligenti si siano mai impegnate. Troppo spesso abbiamo constatato che né i credenti né gli atei sono pronti ad abbandonare l’Egemonia della Certezza. Il loro apparente contrasto è una girandola di ritornelli, una battaglia di parole che non si può nemmeno definire “dibattito” perché, quali che siano i punti di vista, l’intransigenza delle rispettive posizioni è già nota. Dove non c’è possibilità di cambiamento, non c’è terreno per un autentico dialogo.» Azur allungò il collo e passò in rassegna il pubblico prima di richiudere il libro. «Vedete, partecipare a un dibattito pubblico è un po’ come innamorarsi.» Il tono era sereno; i gesti morbidi, enfatici, abbondanti. «Arrivi alla fine che sei una persona diversa. E dunque, amici miei, se non siete disposti a cambiare, lasciate perdere le dispute filosofiche. Questo ho detto in passato, e questo ripeto ora.» Dal pubblico si levarono sacche di applausi. «Temo che stiamo esaurendo il tempo a disposizione. Ultima domanda dal nostro pubblico» annunciò il moderatore. Si alzò un signore anziano. «Posso chiedere ai nostri eminenti studiosi se hanno una loro poesia preferita su Dio, indipendentemente dal fatto che credano o no?» Il pubblico fremeva sulle sedie, pregustando le risposte. Il primo professore rispose: «Le mie preferenze in fatto di poesia tendono a cambiare man mano che passa il tempo... ma al momento mi viene in mente un brano dal Prometeo di Lord Byron.»

Titano, ai di cui occhi immortali i patimenti dell’umanità, visti nella loro realtà dolorosa, non furono come per gli Dei un oggetto di sprezzo; qual fu la ricompensa della tua compassione? Una doglia muta e intensa; la roccia, l’avvoltoio e la catena...

«Io sono pessimo, con le poesie a memoria» disse il secondo professore. «Proverò con T.S. Eliot.»

Molti desiderano vedere il loro nome a stampa, molti leggono solo i risultati delle corse. Leggete molto, ma non il Verbo di DIO, costruite molto, ma non la Casa di DIO.

Benché toccasse a lui, Azur tacque per quello che parve un secondo di troppo e poi disse, nel silenzio pieno di attesa: «La mia sarà del grande poeta persiano Hafez. Le parole potrebbero cambiare leggermente giacché, come tutti sapete, ciascun atto di traduzione è un tradimento amoroso». La voce era talmente bassa che Peri dovette sporgersi un po’ per sentirlo, e si accorse che tra il pubblico diversi altri facevano lo stesso.

Così tanto ho imparato da Dio che non posso più dirmi né cristiano né indù, musulmano o buddista o ebreo Così tanto mi ha dato di sé la Verità che non posso più dirmi né uomo né donna, né angelo e nemmeno pura anima

Mentre recitava questi versi, Azur levò gli occhi e li puntò dritti sul pubblico; non stava guardando nessuno in particolare e sembrava ugualmente lontano da ammiratori e detrattori, ma in quell’istante Peri non poté eludere la sensazione che le sue parole fossero dirette proprio a lei. Il moderatore lanciò un’occhiata furtiva all’orologio. «Abbiamo solo il tempo per un’ultima dichiarazione da parte di ciascun relatore» annunciò quindi. «Signori, come riassumereste il vostro punto di vista in una sola frase?» Il professore ateo disse: «Mi limiterò a riportare una citazione assai nota: La religione è una fiaba per chi ha paura del buio». «In tal caso, l’ateismo è una fiaba per chi ha paura della luce» replicò il professore devoto nella sua dolce cadenza irlandese. Ogni testa si voltò verso Azur. «A me le fiabe piacciono parecchio, devo dire» fece lui con aria dispettosa. «E i miei qui presenti colleghi sono ugualmente incauti: l’uno desidera negare la fede, l’altro il dubbio, e nessuno dei due sembra capire che io, come semplice essere umano, ho bisogno sia della fede, sia del dubbio. L’incertezza, signori miei, è un dono. Non schiacciamolo, facciamogli onore: è di lì che passa la Terza Via.» «E su questa nota io ringrazio i nostri illustri ospiti e dichiaro conclusa la nostra tavola rotonda» intervenne di scatto il moderatore, temendo che il commento di Azur potesse dar vita a una disputa nuova di zecca, aggiungendo poi che l’evento in sé costituiva uno splendido esempio di dibattito aperto, sincero e pluralistico nella migliore tradizione anglosassone e oxfordiana. «Un bell’applauso per i nostri relatori, grazie! E non dimenticate che si tratterranno ancora un poco per firmare le copie dei libri che vorrete acquistare.» Dalla platea scoppiò un lungo applauso. Dopodiché, quelli decisi a tornare a casa con un autografo si precipitarono verso una bancarella carica di volumi dei vari professori; altri si fecero strada verso il palco, nella speranza di poter scambiare due parole con un relatore; e altri ancora rimasero seduti a bisbigliare tra loro, mentre il resto degli astanti si dirigeva a passo lento e regolare verso l’uscita. Nel frattempo, i tre relatori si erano spostati al tavolo che gli organizzatori avevano riservato apposta per loro, ciascuno dietro a una rosa gialla. Peri avanzava pian piano con il grosso degli intervenuti, origliando conversazioni alla propria destra e sinistra; ma subito prima di venir trascinata fuori dalla sala, si fermò e si girò come se volesse radunare tutti i particolari che aveva sotto gli occhi. Vide il moderatore che cacciava gli appunti nella ventiquattrore; vide i due professori più anziani che chiacchieravano con i lettori; e vide un’arruffata fila di ammiratori formarsi davanti ad Azur, finché lui pure venne poco a poco inghiottito dalla corrente di corpi. L’ottimizzatore

Istanbul-Oxford, 2001

Il primo trimestre passò in un lampo. Peri, rientrata a Istanbul per le vacanze di Natale, si convinse che la salute di suo padre non fosse peggiorata, e che l’attenzione di sua madre all’igiene non si fosse trasformata in una mania. Tutta la casa sapeva di candeggiante e colonia al limone, e su tutti i termosifoni c’erano indumenti – lavati così spesso che colori e motivi non si distinguevano più – stesi ad asciugare, con sotto pozzette d’acqua come lacrime versate per cose ormai perdute. La sera del 31 dicembre la passarono davanti alla TV, padre e figlia, a sgranocchiare caldarroste guardando una danzatrice del ventre; era così che Mensur aveva l’abitudine di festeggiare l’arrivo dell’anno nuovo. Selma, come al solito, si era ritirata in camera presto, non per dormire ma per pregare. Senza più Umut né Hakan in casa, restavano solo loro due, padre e figlia, come ai vecchi tempi. Non si dicevano granché, come se tra loro il silenzio parlasse una lingua tutta sua; ed erano proprio i riti, i loro riti, che a Peri mancavano di più. Le lunghe passeggiate in riva al mare, la preparazione del menemen, le partite a backgammon sul tavolino accanto al cactus sul davanzale della finestra. Una settimana più tardi Peri tornò a Oxford. I due viaggi ravvicinati in Turchia le avevano prosciugato le finanze, pertanto era determinata a trovarsi un lavoro part-time. E c’era anche un’altra cosa che le occupava la mente: scoprire tutto il possibile sul professor Azur. Il trimestre primaverile cominciò all’insegna di fresche speranze e fresche decisioni. Peri prese appuntamento con il suo tutor per chiedergli dei consigli sul percorso accademico. Con i suoi occhialetti cerchiati di metallo e l’aria perennemente distratta di chi cerca di risolvere a mente un’equazione di secondo grado, il dottor Raymond era un ometto di statura bassa e mascella salda. A studenti e studentesse raccomandava invariabilmente di trovare «la giusta tabella di marcia per ottimizzare le tue risorse intellettuali», e in cambio loro gli avevano affibbiato il nomignolo di Sir Ottimizzazione. Il dottor Raymond e Peri discussero a lungo dei corsi da seguire nel secondo anno. Non che ci fosse molto spazio di manovra: il piano di studi era più o meno prestabilito, e consentiva poche e leggere deviazioni. «Ci sarebbe un corso che speravo di seguire, dicono tutti che è fantastico» disse lei con una certa vivacità. «Be’, non proprio tutti, più che altro una mia amica.» «E di che corso staremmo parlando?» chiese Raymond sfilandosi gli occhiali. Nel corso degli anni aveva visto anche troppi studenti mal consigliarsi a vicenda. Quel che per uno funzionava era uno strazio per un altro, senza contare che i giovani avevano la tendenza a cambiare idea con la stessa frequenza con cui cambiavano il cantante o gruppo preferito. Esaltavano il tale corso all’inizio per poi stroncarlo alla fine; e nei suoi ventitré anni da associato, il dottor Raymond era arrivato alla conclusione che fosse molto meglio non dare agli studenti un ventaglio di scelte troppo ampio. Abbondanza e confusione andavano di pari passo. Ignara di tutte queste considerazioni, Peri proseguì. «È un seminario su Dio. Il docente si chiama Azur. Lo conosce?» Le labbra di Raymond, ferme in un sorriso amabile, si storsero appena all’ingiù; solo un lievissimo scatto del sopracciglio tradì il suo disagio. «Oh, ne ho sentito parlare, come chiunque.» Peri si concentrò nel tentativo di interpretare il tono di quel commento, in apparenza semplicissimo. Ormai aveva capito che gli inglesi esprimevano le proprie opinioni nei modi più obliqui: al contrario dei turchi, non comunicavano il risentimento mostrandosi risentiti o la rabbia con più rabbia ancora. No, il dialogo era sempre molto stratificato, e il più profondo imbarazzo poteva essere trasmesso con un sorriso reticente; facevano complimenti quando in realtà volevano disapprovare, ammantavano ogni critica in enigmatici elogi. «Fossi una cantante che stecca in scena» si disse Peri, «in Turchia mi prenderebbero a bordate di pungitopo e in Inghilterra invece mi tirerebbero le rose, sicuri che le spine trasmetterebbero il messaggio. Stili diversi, proprio.» Nel frattempo il dottor Raymond taceva, riflettendo sul modo migliore di affrontare una questione delicata. Quindi riprese scandendo bene le parole, come un genitore che spiega a un bambino imbronciato un male necessario. «Non sono del tutto convinto che sarebbe la scelta giusta per lei.» «Ma lei ha detto che avrei potuto scegliere un corso facoltativo purché fosse elencato tra le opzioni disponibili, e questo risulta nella lista. Ho controllato.» «Forse potrebbe spiegarmi perché è interessata a questo seminario?» «L’argomento mi... preme per motivi famigliari.» «In che senso?» «Dio è sempre stato una faccenda controversa, in casa mia. O la religione, per meglio dire. Mia madre e mio padre nutrono convinzioni opposte in materia, e a me piacerebbe studiarla con metodo.» Il dottor Raymond si schiarì la gola. «Be’, qui abbiamo la fortuna di possedere uno dei maggiori patrimoni librari al mondo, e puoi leggere di Dio fino a sfinirti.» «Ma non sarebbe meglio farlo sotto la guida di un docente?» A quella domanda il dottor Raymond preferiva non rispondere, pertanto evitò di farlo. «Azur è un uomo di grande cultura, questo è certo, ma io ho il dovere di avvertirla che il suo metodo è, come dire, poco ortodosso. E non incontra il favore di tutti. Questo seminario divide gli studenti: alcuni lo apprezzano moltissimo, altri cadono nello sconforto. E vengono a lagnarsi da me.» Peri rimase immobile. Strano, ma la mancanza di entusiasmo del tutor aveva stimolato la sua curiosità; adesso aveva ancora più voglia di seguirlo, quel seminario. «Tenga presente che i posti sono limitati. Azur accetta pochi studenti e richiede la frequenza a tutte le lezioni e le esercitazioni. È piuttosto faticoso.» «La fatica non mi spaventa» disse Peri. Dal dottor Raymond si levò un poderoso sospiro. «E allora chieda senz’altro un colloquio ad Azur e si faccia mostrare il programma scritto del corso.» Incapace di trattenersi, aggiunse: «Sempre che ce l’abbia». «Scusi, che intende?» Il dottor Raymond tacque, con un’ombra d’inquietudine sul viso di norma affabile. Poi fece una cosa che, in tanti anni da docente a Oxford, non aveva mai fatto prima: parlar male di un collega, alle sue spalle, con uno studente. «Senta, da queste parti Azur ha fama di eccentrico. Si crede un genio, e come qualunque genio è convinto di non doversi attenere alle regole a cui tutti gli altri si adeguano.» «Oh!» fece Peri a bocca spalancata. «Ed è vero?» «È vero cosa?» «Che è un genio?» Raymond si accorse che la frecciata cinica gli si era ritorta contro, e che qualunque cosa avesse detto a quel punto avrebbe solo peggiorato la situazione. Da solenne che era, il tono passò allo spensierato. «Dicevo per scherzo.» «Ah, era una battuta? Capisco...» «Non corra, faccia con calma» disse il dottor Raymond inforcando gli occhiali e segnalando così il termine del colloquio. «Veda come si trova in principio. Se ha dei dubbi torni da me, e insieme cercheremo qualcos’altro. Qualcosa di più adatto.» Peri balzò in piedi, avendo sentito soltanto quel che voleva sentire. «Che bello, grazie, professore!» Quindi se ne andò, lasciando il suo tutor con una mesta espressione contemplativa. La mascella ancora più rigida, le narici dilatate e le dita intrecciate sotto il mento, Raymond rimase a sedere in poltrona per un bel pezzo, senza muovere un muscolo. E alla fine si scrollò nelle spalle, dicendosi che aveva fatto quel che poteva. Se poi quella sciocchina era proprio decisa a fare il passo più lungo della gamba, la colpa era solo sua. La giovinezza

Istanbul, 2016

Deniz si chinò da dietro la sedia di Peri, le diede un bacetto al volo sulla guancia e le bisbigliò all’orecchio: «Mamma, me ne voglio andare». Il viso prendeva luce dal lampadario di Murano; l’amica le stava accanto e continuava ad arrotolarsi una ciocca di capelli attorno a un dito. Le due adolescenti non celavano la noia. Per quanto ambissero a essere incluse nel mondo degli adulti, era ovvio che lo trovavano monotono e persino prevedibile. «Ci accompagna Selim» aggiunse Deniz. Non chiedeva il permesso alla madre, si limitava ad informarla. Veniva a dormire da lei anche l’altra ragazza, una cosa decisa lì per lì, ma le due avevano già i loro progetti: probabilmente sarebbero rimaste alzate fino a tardi, ad ascoltare musica, mandare sms alle amiche, fare uno spuntino di mezzanotte, ridere delle foto su Instagram e dei filmatini scemi di gatti su Vine; e in ogni caso Deniz si sarebbe lagnata, tirando fuori la piena di lamentele che le si erano accumulate dentro, come se vivesse in un carcere minorile e non a casa con due genitori che la adoravano. «D’accordo, tesoro» disse Peri. Si fidava di Selim, l’autista del marito, che stava con loro da anni. «Puoi andare via quando vuoi; anche io e papà non faremo tardi.» Gli invitati sorrisero e qualcuno rivolse gli occhi al cielo: era un dialogo familiare a chiunque avesse figli adolescenti. «Ciao, ragazze!» salutò con la mano la PR dal suo angolo. «Vi accompagno» disse Peri indietreggiando con la sedia. Adnan si alzò: «No, rimani, cara. Ci penso io». Il suo sguardo era raggiante quando incrociò quello di Peri; non pareva più nervoso per la polaroid. Non ci pensava più. In questo era bravo, nel sapere quando lasciar perdere, a differenza di Peri. Le sorrise con naturalezza, quel sorriso che diceva che si prendeva lui la responsabilità e metteva le cose a posto. Pacato e sensibile, a Adnan piaceva risolvere i problemi, e se non era possibile risolverli, sapeva come gestirli. Tutt’altro, rispetto a Peri: per lei i problemi erano come punture di insetto, li grattava e rigrattava. Non riusciva né a permettere che guarissero né a ignorarli, mentre a lui piaceva riparare le cose rotte e anche le persone. “Altrimenti, come si spiega la sua attrazione per l’instabilità” pensava Peri, “come si spiega la sua attrazione per me?” Mentre il marito e la figlia le passavano accanto, Peri si alzò e baciò Adnan sulle labbra, pur sapendo che alcuni degli invitati l’avrebbero considerato inelegante e altri indecente. «Grazie, tesoro.» A volte, quando lo ringraziava per le cose piccole della vita, capiva che in realtà lo stava ringraziando per cose più grandi, quelle che era meglio non dire esplicitamente. Sì, gli era grata, e grata al fato che glielo aveva fatto incontrare. Ma, ancora una volta, sapeva che la gratitudine non era amore. Stammi a sentire, Topina, gli uomini si dividono in due categorie: quelli che rompono e quelli che aggiustano. Ci innamoriamo dei primi ma poi sposiamo i secondi. Le era insopportabile pensare che la vita – la sua vita – aveva confermato la teoria di Shirin. Con occhi colmi di affetto, Peri sorrise alla figlia; stava per abbracciarla ma qualcosa nell’espressione di Deniz disse: “Mamma, ti prego, non lo fare davanti a questi qui”. «Ti voglio bene» le disse piano. Deniz esitò un istante. «Ti voglio bene anch’io. Come va la mano?» Peri girò la benda, sporca di sangue secco sui bordi. «A posto. Domattina sarà come nuova.» «Basta che non lo rifai» bisbigliò Deniz, come se fosse lei la madre preoccupata e Peri la figlia indisciplinata. Dopodiché, tutta allegra, salutò gli invitati: «Buona notte a tutti! E ricordate di non fumare, che fa malissimo». «Buona notte» rispose un coro di voci. «Beata gioventù!» commentò la moglie dell’uomo d’affari non appena furono uscite le ragazze. «Magari potessi riavvolgere il nastro. I sessanta sono i nuovi quaranta? Tutte balle.» «Parla per te» le disse il marito. «Io sono giovane come una moneta nuova di zecca. Occhio, che potrei divorziare e farmi un modello più recente.» Il giornalista fece finta di tossire. «È un fenomeno tutto orientale... intendo il fatto di invecchiare presto. Guardate gli occidentali: tutti rughe e capelli grigi, ma ancora in giro a fare i turisti. È imbarazzante vedere i vecchietti americani che affollano la nostra Santa Sofia e saltellano sulle pietre di Efeso. Com’è che si faranno chiamare? Pantere grigie? Lo devo ancora vedere, un settantenne mediorientale in giro per il mondo. Turchi, arabi, iraniani, pachistani... sul mondo abbiamo grandi idee, ma a vederlo coi nostri occhi non ci andiamo mai!» L’architetto che per tutta la sera aveva sfoggiato le sue tendenze nazionaliste lo guardò storto. La moglie dell’uomo d’affari, improvvisamente presa a scambiare messaggini sul telefono, alzò lo sguardo, raggiante. «Buone notizie per tutti! Il sensitivo arriva fra dieci minuti, mi ha appena scritto.» «Splendido» disse la PR appoggiandosi allo schienale. «Abbiamo tante di quelle cose da chiedergli. Le ragazzine se ne sono andate, i bicchieri sono di nuovo pieni... possiamo cominciare a fare discorsi da grandi. Non vedo l’ora di smascherare qualche segretuccio.» E così dicendo fece l’occhiolino a Peri. Un gesto che non ricevette alcuna reazione. La straniera pittoresca

Oxford, 2001

Non avendo mai avuto un lavoro, Peri non sapeva bene da dove cominciare per cercarlo. Eppure era decisissima a trovarlo, e ciò malgrado il suo orario molto fitto, per tacere del visto studentesco che imponeva un limite consistente alle ore di lavoro settimanali. Così andò dritta dalla frizzantissima amica che aveva sempre qualcosa da dire su tutto, ivi comprese le questioni di cui in realtà non sapeva un bel niente. «Devi farti un curriculum» sentenziò infatti Shirin «che riporti le tue esperienze lavorative.» «Ma non ne ho.» «E capirai, le inventi! Chi vuoi che vada a controllare se hai fatto o no la cameriera in una pizzeria di Istanbul?» «Cioè, dovrei raccontare delle frottole?» Shirin esibì una faccia esasperata. «Potenza della semantica! Se la metti così sembra una cosa tremenda. Mettici un po’ di fantasia, non dico altro. Si tratta solo di dare un filo di trucco alla tua biografia. Non dirmi che sei anche contro il trucco!» Per una frazione di secondo, le due ragazze rimasero a guardarsi dritte in faccia: una tutta dipinta, l’altra, acqua e sapone. Fu Shirin a rompere il silenzio. «Sarà meglio che ti dia una mano.»

La mattina seguente Peri si trovò una busta sotto la porta: era ancora presto, ma in tutta evidenza Shirin le aveva già preparato un curriculum. Un minuto dopo Peri bussò alla porta dell’amica e, non appena udì un mugolio fioco provenire dall’altra parte, fece irruzione nella stanza sventolando un foglio di carta. «Che è questa roba? Io non ho fatto nessuna di queste cose!» Shirin, ancora a letto con un cuscino in testa, borbottò soltanto: «Uff. Lo sapevo, vai a far del bene alla gente». «Apprezzo moltissimo il tuo aiuto» disse Peri. «Ma qui c’è scritto che ho fatto la barista a Istanbul, in un locale underground di tendenza, finché non è bruciato. Per un incendio doloso! E che ho lavorato nella biblioteca dei manoscritti ottomani, specializzandomi in eunuchi e giullari di corte! Ah, e non ci scordiamo delle estati in cui mi occupavo di un polpo per un acquario privato!» Shirin, in pigiama di raso color salmone, si drizzò a sedere, si scostò la mascherina dagli occhi e ridacchiò. «Forse su quell’ultimo punto mi sono lasciata prendere la mano.» «Solo su quell’ultimo punto? Come pensi che possano aiutarmi, queste baggianate, a trovare un lavoretto?» «Infatti non serviranno. Ma faranno di te una bizzarria esotica. Fidati, gli inglesi istruiti vanno in brodo di giuggiole per il multiculturalismo. Non troppo, però, giusto un pizzico: a quelli come me e come te è consentito essere un po’... eccentrici. La gente adora averci intorno. Quindi tanto vale che ci giochi un po’, che te ne approfitti. Se gli stranieri non si portano dietro una ventata di novità – e roba buona da mangiare – chi ce li vuole, in Inghilterra!» Peri non rispose. «Senti, cosa credi che ne sappia l’inglese medio del tuo Paese? Per loro, da quelle parti stiamo tutte a nuotare coi delfini o a mangiare calamari o a intonare slogan islamisti da sotto il burqa.» Peri sgranò gli occhi davanti all’eccesso di immagini che le riempì la mente. «Cioè, voglio dire, o ne hanno quest’idea solare di spiagge sabbiose, ospitalità orientale e roba del genere, oppure quella cupissima di fondamentalismo islamico e brutalità poliziesche alla Fuga di mezzanotte. Se vogliono essere gentili buttano lì la prima, se invece vogliono farti sudare usano la seconda. Nemmeno i più istruiti sono scevri dai luoghi comuni.» Shirin si alzò per lavarsi la faccia al lavabo montato sulla parete. «Che ti piaccia o no, sorella, quel che esce dalla mia bocca è l’amara verità. E tu devi prendere posizione contro gli stereotipi.» «E dovrei farlo così, a colpi di falsificazioni?» chiese Peri con un’occhiata al curriculum che aveva in mano. «È un modo come un altro, cazzo» disse Shirin ravviandosi i capelli, con qualche goccia d’acqua ancora attaccata al mento. Sentendosi motivata e in colpa al tempo stesso, Peri partì a caccia di lavoro con il famoso curriculum. All’inizio controllò se vedeva cartelli di CERCASI COMMESSA appesi alle vetrine dei negozi, ma non ne trovò nemmeno uno. Poi fece appello a tutto il suo coraggio, entrò in una pasticceria e parlò col direttore, dal quale fu educatamente respinta. Allora tentò la fortuna al pub dov’era stata con i suoi genitori. Stesso risultato. Il terzo posto in cui passò era la sua libreria preferita, Two Kinds of Intelligence. I titolari non rimasero sorpresi dalla sua richiesta: il flusso di studenti in cerca di incarichi part-time era continuo. «Hai mai lavorato prima, cara?» chiese il marito. Peri esitò. «Purtroppo no. Ma voi lo sapete che adoro i libri.» La moglie sorrise. «E allora è il tuo giorno fortunato! Cercavamo appunto qualcuno che ci desse una mano nelle prossime settimane. Non ti possiamo promettere di tenerti anche dopo, ma magari puoi tornare ogni tanto, nei momenti di punta. Che ne pensi?» «Mi sembra perfetto!» disse Peri, senza quasi credere alle proprie orecchie. Nell’uscire dal negozio notò, in cima a uno scaffale, le Rubā‘iyyāt di ‘Umar Khayyām, il poeta amatissimo da suo padre. Con una prefazione del traduttore Edward FitzGerald e colma d’illustrazioni, la vecchia edizione era splendida e irresistibile: per fortuna le applicarono uno sconto considerevole. Fuori aveva cominciato a piovigginare, a gocce sottili e tiepide che la misero di buonumore. Peri sorrise, infilò il curriculum nel libro e guardò l’orologio. L’esercitazione successiva iniziava un’ora dopo, e le venne in mente che aveva ancora tempo di andare a cercare Azur e farsi dare il programma dettagliato del corso su Dio. Per quanto, fra quel che le aveva detto Shirin di lui e i suoi stessi sentimenti contrastanti quando lo aveva visto alla tavola rotonda, era piuttosto impaurita all’idea di incontrarlo di persona. Sempre pensando al professore, aprì a caso il volume di quartine che racchiudevano anima e cuore di Khayyām:

Amore! Tu, il Fato ed io possiamo Del mondo cogliere lo stato gramo?

Lesse i versi adagio, con attenzione. Contenevano forse un presagio di eventi futuri? E se sì, di cosa poteva trattarsi? Se in quel momento l’avesse vista suo padre, intenta a cercare segni nelle parole di un poeta vissuto quasi mille anni prima, certo avrebbe disapprovato. Ma Peri non riteneva di aver sfidato l’aurea regola paterna, consultando Khayyām. «Per questo amo tanto la poesia» mormorò tra sé. «Perché le poesie si possono toccare, vedere, sentire, fiutare e gustare. Ho tutti i sensi impegnati, Baba, fidati di me!» Era dunque tempo di trovarsi faccia a faccia con il professore. Terza parte

Il lucherino

Oxford, 2001

Non sapendo dove trovare il professor Azur, Peri azzardò l’ipotesi che forse lo avrebbe rintracciato all’Istituto di Teologia. La sua materia d’insegnamento era Dio: dove altro poteva essere? L’imponente e modesto fabbricato medievale era la più vecchia struttura destinata all’insegnamento costruita a Oxford. Da lontano, con le sue centine, i portoni in legno intagliato e gli archi rampanti, faceva pensare, più che al miracolo architettonico che era, a un delicato acquerello dipinto da un artista trasognato; si percepiva nell’aria un torpido senso di attesa, come se le antiche pietre, stanche dopo decenni di tranquillità, aspettassero qualcosa... o così parve a Peri quel giorno, mentre vi si avvicinava. Qualcosa la attirò all’interno, qualcosa di eccelso e trascendente nelle linee sublimi della volta a ventaglio quattrocentesca. Nessuno la fermò all’entrata, e pareva non ci fosse nessuno neppure nella lunga stanza illuminata dalle finestre perpendicolari, se non per uno studente, seduto per terra a gambe incrociate e assorto in un libro, che alzò gli occhi al rumore dei suoi passi. Sotto la luce che entrava di sguincio da un’alta finestra i lineamenti del ragazzo rimasero sfocati per un attimo, per poi farsi netti: la fronte stretta, i capelli rossi, le guance lentigginose. Era l’addetto che l’aveva bloccata all’ingresso del dibattito su Dio, lo stesso che poi aveva tentato di coinvolgere Azur in una polemica. Troy: il professore lo aveva chiamato per nome davanti a tutti, e per questo Peri lo ricordava. «Ciao» disse, cauta. «Ehilà.» Il sorriso diceva che anche lui l’aveva riconosciuta. «Eri al museo, l’altro giorno. Ci lavori?» gli chiese Peri. «No, ci sono andato da volontario. Sono un umile studente, proprio come te.» Peri quasi temeva che la redarguisse perché aveva finito con l’imbucarsi al dibattito, ma o lui non l’aveva beccata come invece lei aveva temuto, oppure preferiva non tirare in ballo la faccenda. Al contrario, si mise a chiacchierare disinvolto, chiedendole da dove veniva e cosa studiava; privo di qualunque residuo di autorità, Troy sembrava ora molto disponibile, affabile addirittura. «Cercavo il professor Azur» disse quindi Peri in un attimo di tregua nella conversazione. «Tu hai idea di dove sia il suo studio?» Per un istante il ragazzo rimase impassibile, e riprese a parlare con un tono sordo come un palloncino da cui era sfuggita l’aria. «Qui no di certo, adesso ci sono gli uffici amministrativi. E comunque, perché lo cercavi?» Peri, che non si aspettava un interrogatorio, esitò. «Ehm... mi interessava il suo seminario.» «Non dirmi che pensavi di iscriverti a “Dio”?» «Perché no?» fece lei. «Che ha che non va?» «Tutto» rispose Troy. «Quello là è un lupo travestito da insegnante!» «Non ti è simpatico, eh?» «Mi ha cacciato dal corso. E io l’ho querelato, tra l’altro. In tribunale lo distruggo.» «Accidenti, non sapevo che gli studenti potessero fare cose del genere» disse Peri. «Cioè... mi spiace che tu abbia avuto dei problemi.» «Problemi?» le fece eco Troy, in tono sdegnato. «Azur è il diavolo in persona. Mefistofele. Hai presente?» «Certo, dal Faust.» Troy sembrò piacevolmente sorpreso dal fatto che una ragazza turca conoscesse il Faust. «Guarda, sei simpatica ma sei anche straniera, non puoi capire quant’è fuori di testa Azur. Dammi retta, tieniti alla larga!» «Be’, grazie per l’avvertimento» disse Peri, con la sensazione che il livello di reciproca simpatia stesse già calando. «Ma vorrei decidere da sola.» Lui si strinse nelle spalle. «D’accordo, come ti pare. Azur ha un alloggio al suo college, l’ingresso è in fondo a Merton Street. Cerca la terza scala sulla sinistra nel cortile anteriore, e all’ingresso trovi un elenco di nomi scritti bianco su nero.» Peri lo ringraziò, pur trovando strano tanto zelo da parte di Troy nell’indirizzarla verso un uomo che secondo lui era il demonio.

Il college del professor Azur si trovava in fondo a un’antica traversa acciottolata di High Street, alla quale si accedeva tramite un arco gotico sfumato di miele e un cortiletto di pietra. Peri trovò subito la scala che cercava; su entrambi i lati del muro esterno erano stati trascritti col gesso i punteggi dell’ultima regata a cui il college aveva partecipato, sormontati da due remi incrociati. Una volta dentro scorse i nomi sulle lastrine rigide inserite in un tabellone: prof. T.J. Patterson, G.L. Spencer, prof. M. Litzinger... e prof. A.Z. Azur, piano terra. Peri percorse il buio e angusto corridoio lastricato. Laggiù in fondo, sulla destra, c’era un ingresso con l’architrave imbarcata dal peso del tempo, la porta appena discosta e un foglietto di carta appuntato sopra.

Professor A.Z. Azur Orari: martedì 10-12 – venerdì 14-16 Regola: per qualsiasi domanda, presentarsi durante l’orario di ricevimento. Eccezione: per domande urgenti al di fuori dell’orario di ricevimento, fare un salto dentro e vedere che succede. Si prega di valutare con cura se il proprio caso rientri nella regola o nell’eccezione.

Poiché non era martedì né venerdì, Peri sapeva che sarebbe stato meglio andarsene e tornare in un altro momento. Ma l’ambiguità del bigliettino l’aveva imbaldanzita, perciò bussò alla porta: gesto inutile perché aveva intuito, dal silenzio che regnava all’interno, che non le avrebbe risposto nessuno. Per sicurezza diede un altro colpetto: e dalle profondità della stanza udì provenire un suono troppo melodioso per essere umano, che ricordava più un coleottero che friniva in cerca di una compagna o, forse, una farfalla che fuggiva dalla crisalide. Tutti i muscoli tesi, Peri rimase ad ascoltare finché il silenzio tornò assoluto. Allora fu sopraffatta dalla curiosità, quella brama tormentosa per le cose fuori della sua portata. In una frazione di secondo decise di buttare un occhio dentro e poi andarsene in silenzio com’era venuta. Diede una spintarella, delicatissima, alla porta. Che cigolò. Nulla l’aveva preparata alla scena che l’attendeva. Sotto la cascata di luce color zafferano che entrava dalla ghigliottina semiaperta della finestra, affacciata su un delizioso giardino all’inglese, c’erano torri di libri, appunti, manoscritti e stampe. Le pareti erano ricoperte di librerie, zeppe da terra a cielo. A intersecare tutta la stanza, tesi fra opposti scaffali, c’erano diversi spaghi variopinti – come i fili del bucato nei quartieri più poveri di Istanbul – da cui pendevano cartine e fogli appesi con le mollette. Di fronte alla porta c’era una scrivania d’epoca in ciliegio, con i piedini a zampa di leone e il piano completamente ricoperto da altri libri. Tra le pagine spuntavano rosse striscioline di carta come linguette che si fingessero sorprese; poltrona, divano, tavolinetto basso e persino il tappeto rosso scuro tessuto a mano erano ingombri di volumi su volumi. Se mai era esistito un santuario consacrato alla carta stampata, eccolo qui. Ma non era l’abbondanza di libri, né il disordine, ad aver lasciato Peri paralizzata: nella stanza era rimasto intrappolato un uccellino, un lucherino dalle piume giallo-verdi e la coda biforcuta. Passato senz’altro dalla finestra, adesso svolazzava ovunque alla frenetica riconquista della libertà appena perduta. Peri fece qualche passo incerto, trattenendo il fiato, e con le mani a coppa tentò con la massima cautela di acchiappare la creaturina. Il pennuto, però, terrorizzato dalla sua presenza, era ormai folle di paura e schizzava da un angolo all’altro in preda al panico, arrivando anche molto vicino alla finestra ma senza riuscire a imboccarla per riguadagnare l’esterno. Con movenze agili Peri posò la copia delle Rubā‘iyyāt in cima a una pila di altri libri e cercò di sollevare ancora un po’ la vecchia e pesante ghigliottina della finestra, che però doveva essere bloccata a un certo punto perché, malgrado lei la spingesse con tutte le sue forze, non c’era verso di aprirla ulteriormente. Nel frattempo l’uccellino, ancor più spaventato dal rumore, le sfrecciò accanto e finì contro il vetro, al di là del quale si stendeva, così evidente eppure così lontano, il cielo infinito. Tutto tremante per il colpo, il lucherino andò a posarsi su uno scaffale, talmente vicino che Peri riusciva a vederne gli occhietti sporgenti e colmi di terrore, e si sorprese a guardarlo con compassione perché il disagio di trovarsi in una terra incognita le era anche troppo familiare. Subito dopo si mise a cercare un attrezzo che le permettesse di sbloccare il telaio della finestra e, mentre passava in rassegna la stanza, percepì un aroma che non le riuscì di individuare. A mescolarsi con l’odore muffoso dei libri c’era la fragranza agrodolce di pompelmi che marcivano in un cestino di bambù, dalla lucentezza di pastello in contrasto con le sfumature terrose che dominavano l’ambiente, ma insieme a quello c’era qualcos’altro, un profumo di cui non impiegò molto a scovare l’origine. Ecco, là su una mensolina, un bastoncino d’incenso che bruciava in un sostegno di bronzo su cui si era depositato un lungo e sottilissimo dito di cenere. Peri trovò un tagliacarte di metallo dalla punta affilata, perfetta per svitare i fermi che bloccavano la finestra; e infatti, dopo aver allentato la ghigliottina da tutte e due le parti, le diede un’ultima spinta e la finestra, persino più facilmente di quanto pensasse, si aprì per tutta la corsa. Adesso occorreva solo guidare l’uccellino verso l’ampliata via di fuga: si tolse il maglione e cominciò a sventolarlo in aria. «E questo cos’è, un nuovo ballo?» chiese una voce alle sue spalle. Peri rimase così sorpresa da lasciarsi sfuggire un gridolino, quindi si voltò e vide il professor Azur fermo sulla soglia a guardarla, con un braccio poggiato al telaio della porta e un’espressione divertita in faccia. Visti da vicino i lunghi capelli castani mostravano dei riflessi lucenti, come fili d’oro intessuti in una trama scura. Quel giorno non portava gli occhiali. «Ehm, ah, mi dispiace moltissimo» reagì Peri, facendo un passo verso di lui per poi arretrare immediatamente. «Non avevo intenzione di intrufolarmi senza permesso.» «E allora perché l’ha fatto?» domandò lui, con l’aria di essere davvero interessato a saperlo. «Ah, uh, ho visto l’uccellino, e...» «Quale uccellino?» Peri indicò, alla propria sinistra, il punto che fino a un secondo prima era stato occupato dalla creaturina ma che adesso era completamente vuoto. Allora si guardò attorno nervosamente: il lucherino era scomparso senza lasciare traccia. «Dev’essersene uscito dalla finestra mentre noi parlavamo.» Per un minuto sano Azur rimase fermo e zitto dov’era, lo sguardo concentrato che trasmetteva una bizzarra familiarità; come se lei fosse un libro che aveva letto molto tempo prima e di cui ora cercava di rammentarsi. Alla fine disse: «A proposito, quella era ambra». «Chiedo scusa?» «L’incenso che stava guardando» rispose lui. «Il giovedì metto l’ambra. Ne accendo di diversi a seconda dei giorni. A lei piace l’ambra?» Peri ebbe un tuffo al cuore. Sì, conosceva il potere dell’ambra. «Le donne di Roma antica la portavano con sé in palline, c’è chi dice per il profumo e chi come talismano contro le streghe.» Peri spalancò gli occhi. Non sapeva se per effetto dell’avvertimento di Troy o della semplice presenza di Azur, ma era agitata. «Non mi dica che ha paura?» chiese lui, intuendone il disagio. «Dell’ambra?» «Delle streghe!» «Certo che no» scattò Peri, mentre una voce interiore le diceva che se lui l’aveva vista osservare l’incenso, doveva aver avuto anche il tempo di vedere l’uccello. «Di nuovo, professore, mi dispiace molto di essere entrata nel suo alloggio.» «Ma lei passa il tempo a scusarsi?» domandò Azur. «Già due volte in tre minuti. Se è la sua media, a me pare un po’ eccessiva, che ne dice?» Peri arrossì. Non aveva torto, il professore. Lei si scusava decisamente troppo: se era in ritardo di qualche minuto a un appuntamento, se lasciava andare un secondo troppo presto la porta tenuta aperta per chi la seguiva, se superava qualcuno sul marciapiede, se con il carrello sfiorava appena un altro cliente al supermercato... Sì, passava il tempo a dire «mi scusi». «Butto là un’ipotesi» continuò Azur scostandosi i capelli dagli occhi. «Quelli che si scusano quando non ce n’è bisogno tendono anche a ringraziare quando non ce n’è bisogno.» Peri incassò. «O magari sono solo anime ansiose che cercano di tirare avanti. Fanno quello che possono per stare al passo con gli altri, pur sapendo che ci sarà sempre un divario.» «Che genere di divario?» domandò lui. «Come se fossimo sempre fuori luogo» rispose lei, pentendosene immediatamente. Perché mai si stava confidando con quest’uomo, che non solo era un estraneo ma pure un insegnante, quindi a due gradi di separazione dal suo mondo? Azur le passò accanto, andò a sedersi alla scrivania, si prese un appunto su un pezzetto di carta e lo appese al filo da bucato che gli passava sopra la testa. «Quindi, si preoccupa che i suoi compagni di studi possano pensare che non è una di loro? Un’impostora che si finge uguale a tutti gli altri? Si ritiene... diversa? Posseduta? Strana? Matta?» «Non ho detto questo» obiettò Peri. Sentiva i muscoli contrarsi, in attesa del colpo successivo. Indifferente alla sua reazione, Azur proseguì: «E mi dica, cosa le fa pensare che non merita di trovarsi a Oxford?». «Non ho detto nemmeno questo!» Lo sguardo di Peri ricadde sul tappeto rosso, che le ricordava quelli di casa sua. «Qui sono tutti bravissimi» continuò con lo sguardo rivolto ai propri piedi. «Mentre lei no?» «Sono brava anch’io, ma devo faticare molto. Gli altri si adattano subito alla vita universitaria, mentre per me è più complicato» disse Peri, rammentandosi solo in quel momento del perché si trovava lì. «A ogni modo, volevo vedere il programma del corso su Dio. Il dottor Raymond mi ha consigliato di chiedere direttamente a lei.» «Ah, il dottor Raymond?» Dal tono sembrò che Azur non lo stimasse molto, il suo consulente accademico, ma non aggiunse altro. Prese invece un appunto da dentro un libro rilegato in pelle, lo scorse rapidamente con una smorfia, lo appallottolò e lo buttò con mossa esperta nel cestino della carta straccia, quindi annunciò: «Immagino ci stesse pensando per il prossimo trimestre autunnale, in ottobre: il corso è al completo e c’è una lista d’attesa». Questo Peri non se l’aspettava. E adesso, saputo che il corso era fuori della sua portata, moriva dalla voglia di seguirlo. «Anche se» aggiunse Azur notando la sua delusione «c’è uno studente che a un certo punto dovrà lasciare, e quindi un’occasione potrebbe esserci.» Peri s’illuminò in volto, entusiasta; e subito dopo provò una fitta di disagio, perché le venne in mente che lo studente di cui parlava Azur probabilmente era Troy. «C’era un ragazzo...» «Sì... rabbioso e aggressivo» disse il professore. «I rabbiosi e aggressivi non possono studiare Dio.» Tra i due calò il silenzio, come un sipario che si srotolava. Da dietro la scrivania, Azur le puntò gli occhi addosso. «Ora sentiamo, lei perché vuole seguire questo corso?» «In casa mia, la fede è sempre stata fonte di contrasti. Mio padre è...» «Qui non ci sono i suoi genitori. Lo sto chiedendo a lei.» «Be’, ho sempre provato una certa ambivalenza rispetto alle questioni di fede... e anche molta curiosità. Ho bisogno di chiarirmi le idee.» «La curiosità è sacra e l’incertezza è un dono» disse Azur ripetendo l’affermazione fatta in coda alla tavola rotonda. «Quanto al chiarirsi le idee, a Oxford io sono proprio l’ultima persona a cui dovrebbe rivolgersi.» Da fuori venne il cinguettio di un uccello e Peri si chiese se potesse essere il lucherino, tornato in seno alla natura che, sebbene colma di pericoli e crudeltà, era comunque la sua casa. Così distratta, non si avvide del professore che si chinava in avanti e prendeva in mano il libro di poesie che lei aveva appoggiato prima. «A-ha! Cos’abbiamo qui? Ma tu pensa, una vecchia edizione delle Rubā‘iyyāt!» disse Azur. E prima che lei potesse reagire, aveva già aperto il volume e trovato il curriculum infilato tra le pagine. «Guardi, quello è solo...» farfugliò Peri. Ugualmente deliziato e incredulo, il professor Azur scorse rapidamente il foglio riempito da Shirin. «Bene, bene, bene. Quindi si occupava di un polpo, giusto?» Peri si sentì raggelare. «Creatura misteriosa e intelligentissima» continuò Azur. «Con due terzi circa dei neuroni situati nei tentacoli, come lei certamente saprà.» Non potendo far altro, Peri annuì. «Secondo lei ciascun tentacolo pensa per conto suo?» chiese poi lui, ma, con grande sollievo di Peri, con l’aria di non aspettarsi una risposta. «Per decenni si è pensato che, quanto più grande il cervello di un animale, tanto maggiore la sua intelligenza; si associava la dimensione alla capacità intellettiva. Alla faccia del sessismo! Perché i maschi hanno più tessuto cerebrale delle femmine. E poi arriva lo splendido polpo, a sfatare il mito con le sue sei braccia, sì, sei e non otto: inserire anche le gambe nel computo è un errore. E se invece di un grosso e ingombrante cervello centralizzato, il prossimo passo dell’evoluzione fosse una complessa rete multi-cerebrale?» Peri venne percorsa, quasi suo malgrado, da un sottile brivido di eccitazione. Si rese conto che ascoltare quell’uomo le piaceva. «E poiché si fa più intelligente invecchiando, se solo vivesse più a lungo il polpo sarebbe la specie più geniale al mondo. Invece Aristotele, il più grande tra i filosofi, riteneva che i polpi fossero scemi. Ora, cosa ci dice questo su Aristotele?» Peri aveva la strana sensazione che, ovunque quella conversazione andasse a parare, non si trattava più di filosofi né di molluschi ma di Azur e di lei. Rispose: «Che Aristotele sbagliava, forse per un pregiudizio. Pensava che il polpo non avesse nulla di interessante, e di sapere già quel che c’era da sapere. Perciò non si rendeva conto che era pieno di meraviglie.» Il professore sorrise. «Giustissimo... Peri» disse gettando un’occhiata al nome sul curriculum. «E proprio come il polpo di Aristotele, Dio è un enigma che va esplorato.» «Però è diverso. Non abbiamo bisogno di credere ai polpi, sappiamo che esistono. Mentre di Dio, neppure riusciamo a decidere se ci sia o non ci sia.» Azur si accigliò. «Il mio corso non ha niente a che vedere con il credere. Noi cerchiamo conoscenza.» Una vena di fermezza nella voce. Minacciosa e impaziente. A Peri venne il dubbio che quando parlava tra sé, lavorando fino a tarda sera o passeggiando nelle mattinate umide di rugiada, il professore usasse proprio quel tono. «Il seminario su Dio è un incontro di menti curiose. Veniamo da ogni genere di retroterra, ma abbiamo una cosa in comune: lo spirito indagatore! Il programma richiede molte letture e ricerche. A me non interessa se i miei studenti credono o non credono, ma c’è un peccato che non devono commettere: quello della pigrizia.» Peri domandò, cauta: «E quanto al sillabo...?». «Ah, il sacro sillabo!» tuonò Azur. «L’accademia aborrisce l’improvvisazione. Agli studenti bisogna dire cosa leggere settimana per settimana, e bisogna dar loro un mese di preavviso, altrimenti è il panico!» Così dicendo aprì un cassetto, ne cavò un foglio, lo infilò nelle Rubā‘iyyāt e le porse il tutto. «Eccolo qui, se proprio deve» concluse. Il curriculum invece se lo tenne. «Grazie» disse Peri, benché sospettasse che il documento che aveva ricevuto corrispondesse al vero nella stessa misura del curriculum che Shirin aveva preparato per lei. «Prima che lei vada» disse ancora Azur, «mi riferiva che è confusa e curiosa, e che le pare di complicarsi la vita da sola: bene, queste tre C sono essenziali per un onesto studio della possibilità di Dio.» «Intende la confusione, la curiosità...» «E la complicatezza! Che qualcuno chiama caos!» aggiunse Azur. «Chiunque possieda le tre C necessarie è già in vantaggio, per lo studio di Dio.» Se ciò significasse che sarebbe stata ammessa al corso Peri non era in grado di stabilirlo, però sentì comunque il bisogno di ringraziare Azur, dunque sorrise e chiuse delicatamente la porta. Nell’attraversare il cortile si voltò a riguardare il fabbricato, cercando di trovare la finestra che aveva intrappolato il lucherino; gli occhi percorsero la facciata segnata dal tempo e si posarono su una ghigliottina vetrata, dietro la quale passò l’ombra del professore, come un pensiero fuggevole. Ma forse se l’era solo sognato. Il sacro sillabo

Nella mente di Dio / Il Dio nella mente (Scuola di alti studi in filosofia e religione) Giovedì 14.00 – 16.30 Aula seminari, 10 Merton Street

Descrizione Il ciclo di lezioni settimanali affronterà questioni d’importanza crescente per un gran numero di persone in tutto il mondo attuale. Lo scopo è quello di acquisire i necessari strumenti intellettuali per meglio comprendere e favorire una libera discussione scevra da ogni settarismo e dogmatismo. Agli studenti si chiede di leggere, studiare, meditare e rispettare anche opinioni che non condividono sul piano personale. Il corso NON promuove alcun credo religioso specifico e NON aderisce ad alcuna posizione predeterminata. Che siate ebrei, induisti, zoroastriani, buddisti, taoisti, cristiani, musulmani, buddisti tibetani, mormoni, bahaisti, agnostici, atei, praticanti della New Age o sul punto di dare vita a una nuova confessione, la vostra voce vale quanto le altre. Nel corso delle esercitazioni si discuterà seduti in cerchio, in modo che ciascuno sia equidistante dal centro.

Obiettivi del seminario 1. Promuovere empatia, conoscenza, comprensione e discernimento, sophos, per tutto quanto attiene al concetto di Dio; 2. Fornire ai partecipanti una vasta gamma di risposte alle domande più urgenti del nostro tempo; 3. Incoraggiare i partecipanti alla riflessione critica e attenta su un argomento di grande rilievo non esclusivamente in ambito filosofico e teologico, ma che continua a rivestire un profondo significato in psicologia e sociologia, per la politica e per le relazioni internazionali; 4. Avvicinarsi a dilemmi universali senza rischio di reiterazione meccanica, mancanza di informazione, fanatismo o timore di offendere; 5. In breve, confondere e lasciarsi confondere...

Materiali per il seminario Le bibliografie saranno preparate individualmente secondo determinazione, costanza e risultati dei partecipanti. Si sappia fin da subito che si assegnerà materiale in contrasto con le singole convinzioni e si chiederà di commentarlo (p. es. i non credenti potrebbero dover leggere libri di autori devoti, i credenti analizzare opere di studiosi atei ecc.).

Cosa aspettarsi da questo seminario Poiché il suo argomento principale è Dio, il corso è illimitato nel tempo, non ha un inizio e forse nemmeno una fine. Saranno i partecipanti a decidere quanto trarre dall’esperienza e fino a che punto spingersi nel viaggio. a. Gru: sono coloro che, insoddisfatti dal volo a quote medie, mirano a salire più su di chiunque altro, docente incluso. Vorranno ampliare la bibliografia, faranno domande sulle domande, pretenderanno sfide al pensiero, si libreranno sui passi di montagna. b. Civette: non ambiziose come le gru, i tipi-civetta sono tuttavia grandi pensatori. Anziché divorare migliaia di pagine, preferiscono scavare nel materiale a disposizione, in cerca di profondità. Dubiteranno del corso, delle letture, dell’insegnante e anche di sé. Il loro contributo al gruppo sarà unico e incommensurabile. c. Rondoni maggiori: forse non motivati come le gru né intensi come le civette, i rondoni percorreranno tuttavia le distanze maggiori. Continueranno a leggere sull’argomento ben dopo che il corso sarò terminato e ben dopo essersi laureati. d. Pettirossi: si accontentano del minimo, si preoccupano più del voto che prenderanno alla fine che dei cimenti intellettuali lungo il percorso, timidi e restii ad andare oltre la superficie delle cose, i pettirossi sono quelli che in tutta probabilità ricaveranno meno dal seminario.

Regole di condotta del seminario Qualunque contributo è gradito, purché sorretto da ricerche, abilmente presentato e frutto di apertura mentale. Diversamente da quanto previsto in altri seminari, mangiare a lezione non è un problema; anzi, il consumo di cibo (moderato, niente esagerazioni) e bevande (analcoliche, al cervello serve sobrietà) è incoraggiato, non solo perché giovano all’umore e aiutano la mente a concentrarsi, ma anche perché è difficile provare ostilità per chi ha diviso il pane con voi. Ergo, condividete il cibo con i compagni, specie quelli che nutrono convinzioni opposte alle vostre. Prepotenza, bullismo, discorsi diffamatori e comportamenti malevoli verso i compagni (o verso il docente, va da sé) non saranno tollerati, come del resto un atteggiamento permaloso. Accettando di seguire questo seminario, sottoscrivete un tacito accordo per cui la libertà di parola ha la precedenza sulla vostra suscettibilità personale. Se non reggete l’esposizione di/a idee sgradevoli, non è possibile condurre un dibattito aperto. Se vi sentite offesi, il che è umano, ricordate le sagge parole del poeta: «Se ogni strofinata ti irrita, come pensi di levigare lo specchio?».1 Se pensate di sapere già tutto quel che c’è da sapere su Dio e non siete interessati ad arricchire la vostra mente con altre informazioni, siete pregati di lasciar perdere e «scostarvi dal sole».2 Il tempo è prezioso, tanto il mio quanto il vostro, e questo è un seminario per Cercatori. Per chi è «disposto a essere un principiante tutte le mattine».3 E se tutto questo vi sembra troppo faticoso, tenete a mente: «La più elevata attività cui può giungere l’essere umano è lo studio per la comprensione, perché capire è essere liberi».4

1 Rūmī. 2 Diogene. 3 Meister Eckhart. 4 Spinoza, naturalmente. Strategia di marketing

Istanbul, 2016

Due cameriere, in uniforme nera, grembiulino bianco inamidato e identica espressione in volto, entrarono portando vassoi di cristallo pieni di praline al cioccolato. «Assaggiateli, tutti! Sono i miei tesorucci» disse la moglie dell’uomo d’affari. Anche questo si era letto sui giornali: l’uomo d’affari aveva acquisito una fabbrica di cioccolato in bancarotta e, come regalo d’anniversario per la moglie, le aveva affidato il controllo della produzione e del marketing. Lei aveva ribattezzato «atelier» la fabbrica e il marchio adesso era Les bonbons du harem: i consumatori turchi non riuscivano nemmeno a pronunciarlo, ma la francesità, europeità, alterità del nome bastavano a farne un prodotto desiderabile, sofisticato, à la mode. Adesso la padrona di casa proclamava entusiasta: «Provatene anche uno solo e vi garantisco che vi leccherete le dita». Gli ospiti si sporsero a esaminare le prelibatezze, disposte per bene su piccoli centrini di carta. «Le abbiamo chiamate con nomi di città. Vedete quella coi lamponi? È Amsterdam. Quella col marzapane è , Berlino è a base di birra e zenzero, e Londra di whisky invecchiato. Per gli ingredienti non badiamo a spese.» «Puoi dirlo forte!» intervenne l’uomo d’affari. «Ha voluto usare a tutti i costi whisky single malt invecchiato diciott’anni! Mi manderà in rovina.» Gli invitati risero. Ignorando l’interruzione, la padrona di casa riprese: «Non mi chiameranno più “la moglie dell’uomo d’affari”, perché adesso sono io una donna d’affari». Gli ospiti applaudirono. Imbaldanzita, la donna d’affari proseguì: «Venezia, con liquore di ciliegie; Milano con l’Amaretto; Zurigo, cognac e frutto della passione. E infine Parigi, allo champagne!». «Racconta un po’ della tua strategia di marketing» la esortò il marito. «Abbiamo due linee: per i beoni e per gli astemi» spiegò la donna d’affari. «Stesse scatole, prodotti diversi. In Europa e in Russia esportiamo le praline con l’alcol, mentre in Medio Oriente senza. Geniale, vero?» «Anche i cioccolatini halal hanno dei nomi?» chiese il giornalista. «Certo, caro.» La donna d’affari indicò il vassoio accanto. «Medina, con i datteri. Dubai, con crema al cocco. Amman, con caramello e nocciole. E quella rosa, che contiene appunto acqua di rose, è Esfahan.» «E Istanbul?» chiese Peri. «A-ha! Potevamo forse dimenticarla?» disse la donna d’affari. «Istanbul dev’essere fatta di contrasti: crema alla vaniglia e scaglie di pepe nero!» Mentre gli ospiti continuavano a chiacchierare e trangugiare praline, le cameriere cominciarono a servire le bevande calde. Le signore scelsero in gran parte camomilla o tè nero, mentre gli uomini optarono per lo più per il caffè: espresso o americano. Nessuno chiese caffè turco, tranne il banchiere statunitense, fedele alla massima “Paese che vai, usanza che trovi”, sebbene in questo caso l’usanza non fosse all’apparenza così diffusa. Ansioso di adeguarsi alle tradizioni locali, l’americano chiese inoltre: «Poi qualcuno mi sa leggere i fondi?». «Non ti preoccupare» gli rispose in inglese la donna d’affari. «Non serve: da un momento all’altro arriverà il sensitivo!» «Non vedo l’ora» s’inserì la ragazza del giornalista. «Ho proprio bisogno di parlarci per un po’.» Peri si guardò attorno. Tutte quelle donne erano animate dal timor di Dio, dei mariti, del divorzio, della povertà, del terrorismo, delle folle, del disonore, della pazzia; donne dalla casa immacolata, certissime in cuor loro di cosa aspettarsi dal futuro. Da giovani avevano sostituito «l’arte di blandire il padre» con «l’arte di blandire il marito». Se erano sposate da molto, esprimevano con più coraggio e forza le proprie opinioni, ma conoscevano bene il limite da non oltrepassare. Peri, dal canto suo, non condivideva le loro preoccupazioni; non aveva mai temuto né suo padre né suo marito e, quanto al rapporto con Dio, benché il suo non fosse sempre stato ottimo, era decisa a non temere nemmeno Lui. La vera fonte del suo disagio era tutt’altra: era lei stessa, la propria oscurità, a riempirla di trepidazione. «Ehi, al sensitivo mica gli permetteremo di vedersi in privato con tutte queste belle signore!» disse l’uomo d’affari. Sottovoce aggiunse anche una battuta di cattivo gusto, a cui gli ospiti maschi reagirono sghignazzando e le femmine simulando un attacco di sordità. Peri si ricordò della facilità con cui Shirin diceva parolacce in pubblico, agitando le mani come per scacciare una mosca fastidiosa; e di quando a Oxford lo aveva fatto anche lei, ma in una sola occasione, dicendone di tutti i colori ad Azur quando si era arrabbiata con lui. Com’è facile, odiare una persona che si ama. In Turchia c’erano due tipi di donne: quelle che usavano il turpiloquio senza ritegno e se ne infischiavano dello stigma della sconvenienza (un’esigua minoranza) e quelle che non l’avrebbero mai fatto (la maggioranza). Le signore della buona borghesia presenti alla cena appartenevano al secondo gruppo: non dicevano una parola men che corretta, se non quando parlavano in inglese, in francese o in tedesco. Tutto sommato, in un idioma straniero ci stava bene anche qualche parolaccia: oscenità che mai si sarebbero sognate di pronunciare nella loro lingua madre, le scandivano invece nelle lingue europee senza il minimo rimorso. Era più facile – e, per qualche verso, meno offensivo – dire l’indicibile in una lingua altrui, come quando una va a una festa in costume e si lascia andare celata dal travestimento e dalla maschera. Gli uomini, invece, erano liberi di usare le parolacce, lo facevano generosamente e non solo se in preda alla collera. Il turpiloquio travalicava lo spettro culturale, teneva insieme la specie dei maschi. «A proposito, ecco qui due praline a cui non abbiamo ancora dato un nome» disse la donna d’affari. «Una è a base di sherry e scorzette di limone. Ma proprio stasera mi hai dato un’idea, Pericim: la chiameremo Oxford!» Detto ciò, la donna d’affari si alzò e frugò tra i vassoi. «Ah, eccola qui!» Prendendo la pallina di cioccolato delicatamente fra le dita, la offrì a Peri. «Assaggiala.» Sotto lo sguardo attento di tutti, Peri se la lasciò cadere in bocca e sentì i sapori sciogliersi sulla lingua: sotto la dolcezza iniziale, al palato arrivava poi il colpo secco dell’agrume, allettante e ingannevole al contempo, proprio come i seminari del professor Azur. Bacio mortale

Oxford, 2001

Per le vacanze pasquali Peri non tornò a casa. Doveva ancora abituarsi alla divisione in tre trimestri dell’anno accademico inglese, e le lunghe pause la destabilizzavano ogni volta. Non solo perché non poteva rientrare in Turchia con la stessa frequenza degli altri; non solo perché non era un’estroversa né un’esploratrice e quindi non era incline a perlustrare i dintorni; ma soprattutto perché in quei momenti percepiva ancor più acutamente l’abisso tra sé e gli altri. Quando erano tutti presi a scrivere tesine e a frequentare le lezioni anche lei poteva seguire la corrente senza sforzo, ma quando in teoria avrebbe dovuto rilassarsi e divertirsi un po’ non sapeva cosa fare di se stessa. Nonostante tutto, quella stessa settimana ricevette un invito inaspettato. Mona, che a sua volta era rimasta in città a fine trimestre e passava da un’attività di gruppo all’altra come d’abitudine, aveva ricevuto la visita di due cugine dall’America e tutte e tre erano in partenza per la campagna gallese dove avevano affittato un cottage. «Perché non vieni anche tu?» propose a Peri. «Ti piacerà. Aria fresca in abbondanza.» Correndo a mettere in valigia più libri – compresi due del professor Azur – di quanti avrebbe umanamente potuto leggerne in una settimana, Peri accettò l’invito. Ipotizzava che Mona si sarebbe dedicata alle parenti e quindi lei sarebbe stata contemporaneamente in compagnia e sola. L’idea era tollerabile. Fu presa alla sprovvista la prima volta che vide i segnali stradali in gallese e inglese. Fino ad allora non le era mai venuto in mente che ci potesse essere più di una lingua ufficiale nello stesso Paese; in Turchia non aveva mai visto cartelli in turco e curdo, ed era tale la sua sorpresa ogni volta che ci s’imbatteva da doversi fermare a scattare una foto. «Tu sei matta» disse Mona ridendo. «Sei immersa in un paesaggio incredibile e fotografi i cartelli stradali?» I panorami erano davvero magnifici. Pecore con gli agnellini appena nati a pascolare in campi saturi di colori, tappeti di verde punteggiati da eriche viola, campanule azzurre e fiori di cuculo. La casetta affittata per le vacanze si rivelò un minuscolo cottage di legno dipinto di bianco appollaiato sul versante occidentale di una valle. La mattina veniva inondato da un sole splendente, nel pomeriggio da un’ombra densa e serena. In lontananza si vedeva il fiume Wye serpeggiare tra le colline come un sinuoso nastro d’argento. Peri s’innamorò del cottage: la stufa di ferro, i soffitti bassi, i ciocchi accatastati all’esterno, il pavimento a lastroni di pietra e persino il profumo delle lenzuola, sempre ghiacciate quando ci s’infilava a letto. Divideva una stanza con Mona, mentre le cugine avevano preso l’altra. Benché il paesello più vicino distasse quasi due chilometri, durante il giorno c’era sempre così tanto da fare che non restava molto tempo per leggere; e lei, che era sempre stata una ragazza di città, osservava la natura con un diletto singolare, la meraviglia delle piccole cose, e aveva la sensazione che solo quello contasse: le piccole cose. Sempre incline a fantasie negative, immaginava che fosse successa una catastrofe – un’esplosione nucleare – e che loro fossero le uniche superstiti, lontane dalla civiltà. Sapeva che sua madre sarebbe rimasta scioccata al vedere la figlia lì, quattro ragazze sole nel bel mezzo del nulla. Una sera dal letto osservò Mona che pregava in un angolo, il viso rivolto verso la Mecca. Di religione non avevano parlato per niente, scansando entrambe l’argomento. Ci fosse stata anche Shirin, lei sì che l’avrebbe tirato in ballo. Quando Mona spense la luce, sulla stanza calò un silenzio improvviso. Peri si rigirava nel letto. «Da piccola un’ape mi ha punta su un labbro» borbottò adagio, come se stesse spolverando il ricordo. «La bocca mi si è gonfiata così tanto da sembrare un canotto. Mio padre disse che l’ape si era pazzamente innamorata... di me, e aveva voluto baciarmi. E io mi sono sempre chiesta, lo sapeva di dover morire non appena usava il pungiglione? Strano, no, se lo sapessero e lo usassero comunque. Autodistruzione.» Mona si girò su un fianco; al lume di luna che entrava dalla finestra la sua sagoma pareva una scultura. «Solo gli esseri umani sono dotati di consapevolezza. Così vuole l’ordine divino. Per questo Allah ci ritiene tutti responsabili del nostro comportamento.» «Sì, però gli animali non vogliono morire, hanno l’istinto di sopravvivenza. Poi vanno e pungono, e di certo lo sanno che si stanno togliendo la vita. Voglio dire, uno guarda la natura e pensa, uh, che bello, quanta dolcezza. E invece è di una crudeltà feroce.» Mona sospirò. «Ricordati che non devi governare il mondo. È Lui che ordina ogni cosa, non tu. Abbi fede.» Ma come faceva Peri a riporre la sua fiducia in un sistema dove le api erano destinate a morire non appena si innamoravano? E se questo era il divino ordine di cui tutti tessevano le lodi, come potevano definirlo santo e giusto? Sentì freddo e si tirò la trapunta fin sotto il mento. Quella notte Peri cacciò un urlo nel sonno, e mormorò parole turche che somigliavano al ronzio di mille api che cercavano di liberarsi. Le cugine nella stanza accanto, svegliate dal baccano, si misero a ridacchiare. Mona invece si drizzò a sedere, attonita, e pregò che i demoni che tormentavano la sua amica, quali che fossero, potessero venir dispersi in lungo e in largo. Il mattino dopo tornarono tutte a Oxford, e ogni volta che Mona e Peri avrebbero avuto occasione di riparlare della loro gita in Galles, lo avrebbero fatto con un sorriso gaio... benché ciascuna delle due, a modo proprio, avesse intuito che sotto quei momenti così intensi c’era qualcosa di oscuro. La pagina bianca

Istanbul, estate 2001

Terminato finalmente il suo primo anno a Oxford, Peri trascorse le vacanze a Istanbul. Di tanto in tanto, sua madre accennava distrattamente a questo o quel giovanotto, utilizzando sempre la medesima combinazione di parole chiave. Per Selma, più che un risveglio intellettuale o la base per una carriera promettente, l’istruzione di Peri non era che un breve interludio prima del matrimonio e solo nell’ultimo mese aveva visitato sette diversi santuari, accendendo candele, legando qua e là striscioline di seta ed esprimendo voti perché la figlia potesse maritarsi presto e bene. «Mentre eri via sono arrivati dei nuovi vicini. Famiglia perbene» disse Selma sgranando un mucchio di fave che intendeva cucinare per cena. «Hanno un figlio, un bel ragazzo, intelligente, rispettabilissimo...» «Cioè, mi hai trovato un buon partito» mormorò Peri, avvolgendosi una ciocca di capelli attorno a un dito e tirando forte. Poi si rese conto che era molto più corta delle altre e, improvviso e sgradevole, le venne il sospetto che sua madre gliel’avesse tagliata mentre lei dormiva. L’idea che adesso i suoi capelli si trovassero in uno di quei santuari, sepolti tra le molte altre offerte di Selma, le diede i brividi. «Ma lasciala perdere, ’sta ragazza» intervenne Mensur dalla solita poltrona. «La mandi in confusione. Deve pensare alle lezioni, perché noi qui puntiamo a una laurea, non a un marito.» «Questo ragazzo la laurea ce l’ha» ribatté Selma. «È andato all’università. Possono fidanzarsi ora e sposarsi dopo che si laurea lei. Che cos’ha da perdere?» «Oh be’, giusto la libertà, la gioventù e il senno» intervenne Peri. «Sembra di sentir parlare tuo padre» disse Selma, e tornò alle sue fave, come se avesse dimostrato un teorema. Argomento chiuso, dunque... ma non per molto.

Istanbul, un mite pomeriggio di fine estate. Peri era uscita a far spese. Impermeabile, nuove scarpe da corsa, zainetto... doveva comprare tutto prima di ripartire per Oxford. Scendendo dall’autobus nei pressi di piazza Taksim notò un capannello di gente. Erano tutti fermi sul marciapiede, davanti a una casa da tè frequentata da studenti, e guardavano uno schermo televisivo che berciava dall’interno. Le silhouette, viste di profilo e bagnate da una luce d’albicocca quando il sole le sfiorava, erano un groviglio di ombre. Un omone con le spalle larghe si teneva la fronte con le mani, le sopracciglia strette insieme. Una ragazza con la coda di cavallo pareva stordita, il corpo rigido. Peri, irritata ma anche incuriosita da quelle espressioni, si fece strada pian piano nel gruppetto. E poi vide che cosa stava passando in televisione: un aeroplano che si schiantava addosso a un grattacielo, stagliato contro un cielo così azzurro che quasi faceva male agli occhi. La scena veniva continuamente replicata, come al rallentatore, benché sembrasse ogni volta meno reale. Volute di fumo che si alzavano dall’edificio. Pezzi di carta sollevati senza meta dal vento. Come scagliato da una fionda un oggetto sfrecciò verso terra, e poi un altro... Peri spalancò la bocca, rendendosi conto solo in quel momento che quelli non erano oggetti, ma persone che si gettavano verso la morte. «Americani...» borbottò un uomo accanto a lei. «Ecco cosa ti capita quando t’impicci degli affari altrui.» «Be’, erano convinti di dominare il mondo, giusto?» commentò una donna scuotendo il capo e facendo dondolare gli orecchini a cerchio. «Adesso sanno di essere mortali anche loro, proprio come noi altri.» Peri incrociò lo sguardo della ragazza con la coda. Per un attimo parve che solo loro provassero tristezza, sconcerto, terrore. Ma l’altra ragazza si voltò rapidamente, senza offrire molta solidarietà. Turbata dai commenti che sentiva attorno Peri si allontanò, con la testa che scoppiava di domande; ma ovunque si voltasse trovava gente in cerca di complotti su cui ruminare, come api ronzanti a caccia di nettare da succhiare. “Devo chiamare Shirin” pensò. Bisognosa di sentire la voce sicura dell’amica, la chiamò da una cabina. Per fortuna rispose subito. «Ehi, Peri. Che cazzo di mondo, eh? Si possa vivere in tempi interessanti...» «È orrendo e basta» disse Peri. «Non so che cosa pensare.» «Innocenti massacrati» tagliò corto Shirin, quasi urlando. «E perché, perché qualche stronzo depravato pensa che andrà in paradiso se ammazza in nome di Dio. E le cose peggioreranno, vedrai: adesso tutti i musulmani verranno bersagliati, e molti altri innocenti dovranno soffrire, da entrambe le parti.» Peri notò che qualcuno aveva appiccicato una gomma da masticare sotto l’apparecchio: una cattiveria piccola, ma sempre una cattiveria. «Terribile! Atroce. E spaventoso. Com’è potuto succedere?» «Be’, sono sicura che non si parlerà d’altro. Per mesi, se non anni. Giornalisti, esperti, studiosi. Ma in realtà, non c’è molto da discutere: la religione alimenta l’intolleranza, che porta all’odio, che porta alla violenza. Fine della storia.» «Ma non ti sembra ingiusto?» disse Peri. «C’è un sacco di gente che crede eppure non farebbe male a una mosca. Qui non si tratta di religione, ma di pura malvagità.» «Sai che ti dico, Topina, non mi va di discutere, perché stavolta sono confusa quanto te. Devo parlarne con Azur, altrimenti impazzisco.» Peri ebbe un sussulto. «Vai a ricevimento? Ma il trimestre non è ancora cominciato.» «E chi se ne frega? Domani torno a Oxford e so che c’è anche lui. Cambia la prenotazione del tuo volo, vieni con me.» «Ci proverò» concluse Peri, evitando di puntualizzare che un biglietto last minute non l’avrebbe mai trovato, e se anche l’avesse trovato non se lo sarebbe potuto permettere. A casa trovò il padre e la madre, più sconcertati di lei, che guardavano in TV le stesse scene continuamente replicate. «I fanatici stanno prendendo il controllo del mondo» sentenziò Mensur. Aveva cominciato a bere più presto del solito, e a guardarlo pareva che si fosse già scolato diversi bicchierini. Per la prima volte sembrava incerto, al pensiero della figlia che tornava a Oxford. «Forse non avremmo dovuto mandarti all’estero, non c’è più un posto sicuro da nessuna parte. Non avrei mai pensato di dire una cosa del genere, ma forse l’Occidente è diventato più pericoloso dell’Oriente.» «Est, ovest, che differenza fa? Nessuno sfugge al proprio kismet...» commentò Selma. «Se Allah te l’ha scritto in fronte con il suo inchiostro invisibile, non importa che tu sia qui o in Cina. La morte verrà a cercarti e ti troverà.» A queste parole Mensur prese la biro che usava per fare i cruciverba e si scarabocchiò sulla fronte il numero 100. «Che stai facendo?» gli chiese la moglie. «Mi cambio il destino! Camperò fino a cent’anni.» Peri non rimase là a sentire la risposta della madre; dei battibecchi dei genitori non ne poteva veramente più. In preda a un’acuta sensazione di solitudine si ritirò in camera sua e prese il Diario di Dio, ma per quanto provasse a buttare giù qualcosa di ragionevole, non riusciva a scrivere nulla. Non quel giorno. Era talmente piena di interrogativi, sulla religione, sulla fede e su Dio... il tipo di Dio che permetteva certe atrocità e pretendeva comunque obbedienza. Rimase a fissare la pagina bianca, inghiottita dal candore di quel vuoto, e si chiese cos’avrebbe detto Azur a Shirin quando si fossero incontrati nell’ufficio di lui. Quanto le sarebbe piaciuto infilarsi là dentro di soppiatto, come il lucherino, e mettersi ad ascoltare. Anche lei aveva delle domande per il professore. Shirin aveva fatto bene a insistere, probabilmente: a Peri serviva proprio, un corso su Dio. Non tanto per scoprire chissà quali verità sull’essere supremo, quanto per comprendere meglio le incertezze che si sentiva ribollire dentro. Poi fece una cosa che non avrebbe mai confidato a nessuno: pregò per tutti i morti delle Torri gemelle. Pregò per le loro famiglie e i loro cari. E prima di terminare la preghiera, ci aggiunse una piccola richiesta a Dio perché la facesse ammettere al corso di Azur, in modo da poter imparare qualcosa di più su di Lui e, magari, dare un senso al caos dentro e fuori la sua testa. Il cerchio

Oxford, 2001

Nella prima settimana del nuovo trimestre, in un primo pomeriggio di cielo placido come un laghetto di campagna, Peri si stava preparando per il primo incontro del corso Nella mente di Dio / Il Dio nella mente. Una manciata di giorni prima si era trovata, nella casellina di posta della portineria, una busta inviatale nientemeno che dal professor Azur. La nota che conteneva, evidentemente vergata di fretta, piegava lievemente verso il basso:

Gentile signorina Nalbantoğlu, se è ancora interessata al mio corso, comincia giovedì prossimo alle 14 in punto! Porti con sé dell’ambra, se ritiene, ma niente scuse. Il polpo l’attende. A.Z. Azur

Da quando l’aveva ricevuta, tra le lezioni e il lavoro part-time in libreria, Peri non aveva avuto la possibilità di riflettere sul passo che aveva fatto; e ora, diretta in aula con un bloc-notes stretto al petto, rimase sorpresa dall’ansia che provava.

Entrò nell’aula e contò mentalmente nove studenti: quattro maschi e cinque femmine. Tra le quali, con sua grande sorpresa, c’era Mona, che la salutò altrettanto meravigliata. Poi passò in rassegna le altre facce, notando i sorrisi incerti e il modo in cui tutti sedevano a rispettosa distanza gli uni dagli altri, sollevata al vedere che non era l’unica a sentirsi nervosa. Alcuni compagni di corso erano immersi nei propri pensieri mentre chiacchieravano sottovoce oppure leggevano la descrizione del corso, probabilmente per l’ennesima volta; poi c’era un ragazzo, con la testa posata sul quaderno, che sembrava addormentato. Peri si piazzò su una sedia vicino alla finestra e si mise a guardare le ampie fronde di una quercia, le foglie autunnali che scintillavano d’oro e rosso sangue. Si chiese se aveva ancora tempo per andare in bagno, ma il terrore di rientrare a lezione cominciata la tenne inchiodata alla sedia. Fuori il cielo si era rannuvolato, e benché fosse ancora presto la giornata pareva già volgere al crepuscolo. Allo scattare dell’ora la porta si aprì, e il professor Azur fece il suo ingresso imbracciando una pila di cartellette, una scatola di pastelli colorati e quella che sembrava una clessidra. Portava una giacca blu di velluto a coste con toppe di cuoio ai gomiti e, sebbene la linda camicia bianca fosse perfettamente stirata, la cravatta pendeva slacciata come se lui avesse ritenuto troppo noioso annodarsela, e i capelli erano tutti scarmigliati. O si era fatto la strada a piedi tra raffiche di vento, oppure se li era ravviati troppe volte con le dita. Fulmineo come una frusta, mollò il carico sulla scrivania e posò la clessidra su un leggio, capovolgendola immediatamente: i granelli di sabbia presero a scorrere dal bulbo superiore a quello inferiore, viandanti in pellegrinaggio. Poi si mise davanti alla lavagna bianca, alto e snello, e disse, con una vivacità che ribaltò l’abulia della classe: «Salve a tutti! Shalom aleichem! As-salāmu ‘alaykum! La pace sia con voi! Namasté! Jai Jinendra! Satnam! Sat sri akaal! Pronuncio questi saluti senza alcun particolare ordine di preferenza o precedenza, caso mai ve lo chiedeste.» «Aloha» rispose qualcuno, e anche gli altri intervennero con una miriade di saluti, un turbinio di voci e risate. «Benissimo!» fece Azur fregandosi le mani. «Vi vedo belli carichi e sicuri, che è sempre un buon segno... o la formula del disastro. Vedremo quale delle due.» Da dietro la montatura nero e tartaruga gli occhi scintillavano come chicchi di vetro bruno levigato dal mare, e il tono di voce saliva a ondate entusiaste, come quello di un esploratore rientrato da terre lontanissime che ora raccontava le sue avventure agli amici. Si congratulò con tutti per aver avuto la curiosità e la faccia tosta di iscriversi e aggiunse, con una strizzata d’occhio, che si aspettava da loro anche la tempra necessaria ad arrivare fino in fondo al corso. Tra l’agio e la rapidità con cui parlava, tuttavia, era difficile, se non impossibile, capire quando scherzava e quando diceva sul serio. «Come avrete già notato, siamo in undici... dieci sarebbe stato troppo perfetto, e la perfezione annoia» disse Azur. Poi si guardò attorno e schioccò la lingua. «Vedo che abbiamo già da fare... avete distanziato le sedie come se temeste di prendervi la polmonite. Perciò, signore e signori, se non è troppo disturbo, vi spiacerebbe alzarvi?» Sorpresi e divertiti, gli studenti eseguirono. «Quanta obbedienza! La virtù più cara al Signore, o così si dice. E adesso, vi spiacerebbe disporre le sedie in circolo, cioè la figura più adatta a parlare di Dio?» A materie diverse corrispondevano assetti geometrici diversi, spiegò Azur. Per la politica, ordine sparso e amorfo; per la sociologia, un triangolo netto; per la statistica, un rettangolo, e per le relazioni internazionali un parallelogramma. Ma Dio andava discusso in cerchio, con quanti si trovavano sulla circonferenza equidistanti dal centro e in grado di guardarsi negli occhi. «D’ora in poi, ogni volta che entro voglio trovarvi già seduti ad anello.» Per ottenere il risultato ci volle qualche minuto e una certa dose di raschi e strascicamenti di sedie a terra, e alla fine la forma descritta dal gruppo somigliava più a un limone spremuto che a un cerchio vero e proprio. Il professore non ne rimase del tutto soddisfatto, ma li ringraziò comunque per l’impegno. Dopodiché, domandò a ciascuno qualche frase di presentazione, che raccontasse da dove venivano e soprattutto perché si interessavano a Dio «quando il mondo offre ai giovani svaghi senz’altro più divertenti». La prima a parlare fu Mona: dopo la tragedia dell’11 settembre, disse, aveva cominciato a preoccuparsi moltissimo di come veniva percepito l’Islam in Occidente. Pesando con cura le parole, dichiarò poi che si sentiva orgogliosa di essere una giovane musulmana e amava la sua fede con tutto il cuore, ma era molto frustrata dal carico di pregiudizi che doveva affrontare tutti i giorni. «Gente che non sa nulla dell’Islam si permette di generalizzare in maniera molto rozza sulla mia religione, il mio Profeta, il mio credo» disse. «E il mio velo» aggiunse immediatamente. Si trovava lì per prendere parte a un dibattito onesto sulla natura dell’Onnipotente, dato che aveva creato tutti loro e, per ottime ragioni, tutti diversi. «E io rispetto la diversità, ma pretendo anche di essere rispettata.» Quando fu il suo turno, il ragazzo seduto accanto a lei raddrizzò la schiena e si schiarì la gola. Si chiamava Ed, aveva una formazione scientifica e voleva avvicinarsi a Dio, disse, «in modo cautamente oggettivo e intellettualmente neutro». Riteneva che scienza e fede potessero senz’altro incontrarsi, ma che ci volesse un filtro per eliminare i non pochi elementi irrazionali della religione. «Mio padre è ebreo, mia madre protestante, e nessuno dei due pratica» aggiunse. «Direi che come Mona, ma per un altro verso, provo interesse per identità e fede nella contemporaneità, sebbene Dio per me, in tutta franchezza, non sia mai stato un problema.» «E allora che ci fai qui?» chiese un altro ragazzo biondo fulvo, muscoloso e leggermente butterato, che si rigirava un lapis tra le dita. «Pensavo che Dio fosse un problema per tutti, a questo corso!» Peri notò che Ed alzava lo sguardo verso Azur, il quale gli indirizzò un cenno del capo quasi impercettibile. Tra i due passò qualcosa, un messaggio che lei non riuscì a decifrare. Il professore si rivolse al biondo. «Di norma mi aspetto che i miei studenti si commentino a vicenda e li incoraggio a farlo, ma non così presto. Siamo ancora pulcini in formazione: mettiamo almeno la testolina fuori dall’uovo.» Subito dopo prese la parola Olivia, una bella ragazza con un chiaro accento irlandese. Aveva grandi occhi castani e lisci capelli scuri, una ciocca dei quali le si impigliò per un attimo sulle labbra mentre apriva bocca. Disse che era stata cresciuta da cattolica e che andava a messa tutte le domeniche; era contenta di essere circondata da gente meravigliosa nel Circolo cattolico di Oxford, ma aveva desiderio di allargare lo sguardo. «Mi sono detta che seguire questo corso poteva essere interessante, anche solo per sentire come si parla di Dio fuori dal mio orticello. E quindi...» Lasciò la frase in sospeso, come confidando nell’altrui capacità di completarla. «Direi che tocca a me» intervenne il biondo, con la matita che ruotava sempre più veloce. «Mi chiamo Kevin, sono di Fresno in California e sono qui con una borsa di studio Rhodes.» Con i lineamenti stravolti, Kevin dichiarò che Ernest Hemingway, il quale aveva ragione praticamente su tutto, aveva chiuso la questione affermando che chiunque fosse dotato di ragione era ateo; e infatti lui era un ateo convinto, per dire. «Non credo a nessuna di queste stronzate ed è per questo che sono qui. Voglio impegnarmi in una discussione costruttiva su scienza, evoluzione e quel che voi altri chiamate Dio, e sono sicuro che vi farò incazzare tutti.» Qualcuno sbuffò, per pietà o per dileggio. Impossibile capirlo. «Salve a tutti. Mi chiamo Avi e faccio parte del Circolo Chabad di Oxford. Ho anche un lavoro part-time alla Samson Judaica Library, che è la più grande biblioteca israelitica dei dintorni. Forse non tutti sanno che Oxford possiede anche un ricco retaggio ebraico.» Secondo Avi, c’era così tanto odio nel mondo da scaraventare l’umanità in una Terza guerra mondiale: il presente era tormentato dal fantasma della storia. E poiché gli uomini erano capaci delle efferatezze viste nella Shoah e nella distruzione delle Torri gemelle, c’era una necessità e un’urgenza senza precedenti di promuovere un autentico dialogo tra religioni. Il timore di Dio era il più efficace deterrente contro i tratti violenti dell’homo sapiens, e mai come nell’era moderna c’era bisogno di Dio. Avi sembrava intenzionato ad aggiungere qualcosa, ma la ragazza indiana seduta accanto a lui prese la parola con modi spicci e irrequieti. Si chiamava Sujatha e parlò delle differenze tra la filosofia orientale e la sua controparte occidentale. «O forse dovrei dire mediorientale, dato che le religioni abramitiche nascono tutte nella stessa area, e ci vuole un occhio esterno per comprendere quanto siano simili tra loro.» Proseguì dicendo che il suo motto nella vita era «La tua idea di te crea la tua realtà» e che ai suoi occhi Dio non aveva caratteristiche qualitative. Non intendeva offendere nessuno, ma trovava il Dio di Abramo troppo severo, censorio, distaccato. «Io dico: ogni cosa è Dio. Mentre voi dite: ogni cosa è di Dio. La preposizione è piccola ma fa una differenza enorme.» Al tempo stesso arrendevole e provocatoria, Sujatha concluse dicendo che non vedeva l’ora di sviscerare in lungo e in largo tutte quelle disparità filosofiche. A ogni persona che si presentava Peri si contraeva visibilmente, facendosi sempre più piccola e desiderando in effetti che la sedia potesse inghiottirla. Cominciò ad avere l’inquietante sospetto che il professor Azur si fosse scelto gli studenti uno a uno, non tanto in base ai loro meriti di studio quanto alle storie e ambizioni personali. Non ce n’erano due che venissero dal medesimo ambiente culturale, e tra loro c’erano palesi divergenze d’opinione che potevano facilmente sfociare in uno scontro. Magari Azur voleva proprio quello: un conflitto, o anche più di uno. Forse conduceva sui suoi studenti un esperimento di cui loro non erano informati, neanche fossero una nidiata di topi a sgambettare e azzuffarsi tra le mura del suo laboratorio mentale. E se sì, che cosa mai sperava di scoprire... una nuova idea di Dio? E c’era anche qualcos’altro a turbarla. Se tutti quelli che le stavano intorno erano stati selezionati in modo da costituire una piccola Babele, in base a che cosa era stata scelta lei? Che cosa poteva sapere di lei Azur, visto che non gli aveva raccontato quasi niente di sé? Più si lambiccava il cervello e più si sentiva insicura. Le riecheggiarono nella mente le parole del dottor Raymond: Il suo metodo è poco ortodosso. E non incontra il favore di tutti. Questo seminario divide gli studenti: alcuni lo apprezzano moltissimo, altri cadono nello sconforto. «Ciao a tutti, io sono Kimber» disse una ragazza dai capelli talmente ricci che ogni volta che muoveva la testa qualche boccolo faceva su e giù. «Ho una risposta lunga e una corta.» «Comincia da quella lunga» disse il professor Azur. Kimber spiegò che suo padre era un sacerdote della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Erano tutti mormoni, la sua famiglia e i suoi amici. Disse che le interessava il corso perché Dio dava senso alla sua vita e lei intendeva espandere la sua comprensione di Lui. Aggiunse che al giorno d’oggi i giovani pensavano solo a flirtare tra loro, a studiare per gli esami o a trovare lavori ben pagati, ma lei era convinta che nella vita ci dovesse essere qualcosa di più. «Ciascuno di noi ha un suo scopo su questa Terra e io sto ancora cercando il mio.» «E la risposta corta?» chiese Azur. Kimber fece una risatina. «Ho fatto una scommessa con un’amica, la quale sostiene che lei sia il professore più avaro quando si tratta di valutare elaborati. Io ho sempre il massimo dei voti, non ho mai preso un brutto voto a partire dall’asilo. Perciò ho accettato la sfida.» Sulle labbra del docente apparve un sorriso sereno. «La verità è talmente rara che è delizioso poterla dire.» Peri, pur coprendosi vagamente la bocca, non si trattenne dal mormorare tra sé: «Emily Dickinson». «Procediamo! Il prossimo» intimò il docente. Adam. Naso a patata, fossetta sul mento e alte sopracciglia che gli davano l’aria di venir costantemente sorpreso dal mondo. Culturalmente era anglicano, disse, ma non andava in chiesa. Aggiunse che non gli sembrava necessario andarci, perché riteneva che Dio fosse Amore e che pertanto lo si dovesse amare così com’era. «Credo nel principio universale del “Vivi, Ama e Impara”, tutti con la maiuscola. Nient’altro.» «Tocca a me?» chiese la ragazza seduta accanto a lui. «Mi chiamo Elizabeth, nata e cresciuta nell’Oxfordshire, quindi non mi sono allontanata molto da casa. La mia famiglia fa parte di una lunga tradizione quacchera; quanto a me, di per sé l’idea di Dio non è un problema, ma l’idea di un Dio maschio invece sì.» Elizabeth proseguì dicendo che gli essere umani avevano perso il contatto con la natura e con la Terra come Dea: l’elemento femminile era stato espunto dalla storia, a prezzo di guerre, violenze e carneficine, e lei s’interessava di religioni antiche come lo sciamanesimo, la wicca e il buddismo tibetano: «Qualunque cosa ci possa essere d’aiuto a ricollegarci con la Madre Terra». Raccomandò a tutti di smettere di pensare a Dio come a un Lui, e iniziare a esercitarsi nel dire Lei. A quel punto dovevano ancora parlare solo Peri e il ragazzo seduto vicino a lei. Lei gli accennò di precederla senz’altro, lui fece lo stesso e lei cedette. «Bene, mi chiamo Peri...» «E per quella citazione da Emily Dickinson, brava» intervenne Azur. Peri si rese conto di arrossire; non sospettava che il professore l’avesse sentita. «Vengo da Istanbul e...» Perse il filo dei pensieri e si mise a balbettare, sentendosi stupida per aver menzionato la città in cui era nata anziché dire qualcosa di più sostanzioso come avevano fatto gli altri. «Ehm, non sono... non sono molto... sicura del perché sono qui.» «Allora molla» disse Kevin, sfacciato. «Così saremo di nuovo dieci. A me piacciono i numeri perfetti!» Il cerchio venne percorso da un mormorio divertito e Peri abbassò lo sguardo. Come aveva fatto a inciampare su una semplicissima presentazione quando tutti gli altri, malgrado le divergenze più che evidenti, avevano fatto la loro senza la minima difficoltà? L’ultimo a parlare fu un ragazzo di nome Bruno. Disse che non era né marxista né niente, ma sul fatto che la religione fosse il veleno dei popoli concordava con Marx... e con l’ex leader albanese Enver Hoxha: gli era capitato di leggerne le opinioni in materia di religione e le aveva trovate assai limpide. «Bene, giovanotto» disse Azur, «ma quando citiamo qualcun altro, specie se si tratta di filosofi e poeti per cui le parole sono importanti, dobbiamo farlo con precisione. E per la precisione, Marx ha detto: La religione è il sospiro della creatura oppressa, la pietas di un mondo spietato, così com’è il senso di una condizione insensata. Essa è l’oppio del popolo.» «Infatti, e io che ho detto?» gli fece eco Bruno, senza nascondere l’irritazione per essere stato interrotto su un punto che lo appassionava. Con il mento teso in avanti, neanche si preparasse a parare un colpo, proseguì dicendo che se Mona chiedeva onestà nel dibattito, lui aveva intenzione di essere onesto al punto da risultare brusco. Si rendeva conto che qualcuno avrebbe potuto irritarsi per le sue opinioni, ma era convinto che in quel corso si desse valore alla libertà di discussione: per lui, l’Islam era un problema. In tutta franchezza, aggiunse, le altre religioni monoteistiche non erano da meno, solo che Cristianesimo e Giudaismo si erano riformati, mentre l’Islam no. Per esempio era inaccettabile il modo in cui trattava le donne, e se lui fosse nato donna sotto la fede islamica, l’avrebbe abbandonata alla velocità della luce. Affermò che l’Islam avrebbe dovuto attraversare cambiamenti sostanziali per adattarsi al mondo contemporaneo, ma allo stato attuale questo era inconcepibile perché sia il testo sacro sia gli hadith erano considerati univoci e assoluti. «E se si proibisce il cambiamento come la miglioriamo, questa religione?» Dalla sua postazione Mona gli indirizzò uno sguardo gelido e un commento personale: «E chi ti dice che abbiamo bisogno di te, per migliorarla?». «Bravi, bravissimi: partenza grandiosa!» intervenne Azur. «Grazie per averci resi partecipi dei vostri pensieri con tanta eloquenza. Dopo aver sentito tutte le vostre filippiche sulla religione anziché su Dio, che è l’argomento del corso, lasciate ora che vi spieghi con la massima chiarezza di che cosa tratterà questo ciclo di lezioni.» Nel cerchio dei discenti, il docente prese a muoversi con sicurezza e a parlare con ardore. «Non siamo qui per dibattere di Islam o Cristianesimo, Giudaismo o Induismo. È possibile che si faccia accenno a queste tradizioni, ma solo nella misura in cui lo richiede il nostro oggetto primario, che è un’indagine scientifica sulla natura di Dio. Non potete lasciare che le vostre personali convinzioni interferiscano, quindi se vi fate prendere dall’emozione nel corso di un dibattito, quale che sia, ricordate sempre, come faceva notare Bertrand Russell, che “l’intensità delle nostre emozioni è inversamente proporzionale alla nostra conoscenza dei fatti”.» La luce nella stanza si fece più fioca mentre il sole scivolava dietro una vasta nube. Gli occhi di Azur scintillavano. «Su questo ci siamo intesi?» «Sì» risposero gli studenti in un coro effervescente. E poi, qualche secondo dopo, adagio: «No». Era stata Peri. Azur si bloccò. «Come ha detto, scusi?» «Mi dispiace... è che... è solo che secondo me non c’è niente di sbagliato nel reagire emotivamente» rispose Peri, gesticolando con entrambe le mani. «Siamo esseri umani, vale a dire che siamo guidati più dalle emozioni che dalla ragione. E allora perché squalificarle?» Temendo l’espressione che avrebbe potuto vedergli in volto, alzò gli occhi verso il professore. Ma Azur era calmo, bendisposto, per non dire impressionato dalla sua obiezione. «E brava, la nostra ragazza di Istanbul. Continua così.» Proseguì dicendo a tutti che se al termine degli anni trascorsi a Oxford avessero ancora pensato, parlato e scritto allo stesso modo di quando avevano iniziato l’università, quegli stessi anni sarebbero stati uno spreco di tempo per loro e di denaro per i loro genitori; tanto valeva tornare a casa subito. «Tenetevi pronti al cambiamento, invece. Solo i sassi non cambiano mai... e tra l’altro, neppure questo è vero.» Eccoli lì, continuò il professore, a Oxford, vale a dire nella più antica università del mondo anglofono; la quale, per secoli e secoli, non era stata solo un centro di studi teorici e ricerca scientifica, ma anche un fulcro di dibattiti ideologici e dispute religiose. «Siete fortunati! Vi trovate nel posto giusto per parlare di Dio!» Man mano che procedeva nella lezione, Azur mutò del tutto atteggiamento. Il viso, fin lì tranquillo, si fece assai animato; nel tono di voce, non più attento e contenuto, c’era un filo di lama, un fendente che lui teneva nell’ombra ma non cercava di nascondere. A Peri fece venire in mente un gatto randagio, ma non un micio timido e malconcio che si teneva ben lontano dai bipedi, bensì uno di quei liberi e autonomi felini di Istanbul che passavano in cima a muri altissimi, furtivi ma colmi di boriosa gravità quando contemplavano il quartiere come se si trattasse del loro reame segreto. «Bene, partiamo con le domande. Vi comparisse davanti un abitante dell’età del bronzo e vi chiedesse di descrivergli Dio, voi cosa direste?» «Misericordioso» disse Mona. «Autosufficiente» aggiunse Avi. «Non Lui ma Lei» disse Elizabeth. «Né lui né lei» fece Kevin. «Sono tutte balle.» Il professor Azur si accigliò. «Ma che bravi. Bocciatura spettacolare, tutti quanti!» «E perché mai?» obiettò Bruno. «Perché vi siete scordati che non parlate la stessa lingua, voi e il vostro peloso antenato.» Andò a prendere una risma di carta e la scatola dei pastelli, che chiese a Olivia di distribuire. «Lasciate stare le parole e spiegatevi a immagini!» «Eh?» fece Bruno. «Vuole che ci mettiamo a disegnare? Come all’asilo?» «Magari foste bimbi dell’asilo» disse Azur. «Avreste ancora tanta fantasia e afferrereste meglio la complessità.» Mona alzò la mano. «Prof, l’Islam proibisce gli idoli. Noi non rappresentiamo Dio, riteniamo che vada oltre la nostra percezione.» «Benissimo. Disegna quel che mi hai appena detto.» Per i successivi dieci minuti fu tutto un agitarsi e tergiversare, un sospirare e reclamare, ma pian piano i ragazzi tirarono fuori uno spiegamento di opere. Un’immagine dell’universo, con astri, galassie e meteore. Un grappolo di nuvole bianche infilzate dalla folgore. Un’immagine di Gesù Cristo con le braccia spalancate, una moschea dalle cupole d’oro sotto il sole, Shri Ganesha con la sua bella testa di elefante, una dea dai seni colmi, una candela nelle tenebre, una pagina lasciata volutamente bianca... Ognuno rappresentò Dio a modo proprio. Quanto a Peri, dopo una breve esitazione segnò un puntino, che poi trasformò in un punto interrogativo. «Tempo scaduto» disse il professor Azur, distribuendo un altro lotto di fogli. «E avendo abbozzato cos’è Dio, vi pregherei ora di illustrare cosa Dio non è.» «Eh?» Azur inarcò le sopracciglia. «Smetti di reagire, Bruno, e datti da fare.» Un demone dai gialli occhi di serpe. Un’orrenda maschera di ferro. Un pantano fetido. Una pistola fumante, un pugnale incrostato di sangue, fuoco, distruzione, un brandello d’inferno... Stranamente, immaginare cosa Dio non fosse si era rivelato più difficile che immaginare cosa fosse. Solo a Elizabeth era venuto facile, o così sembrava: aveva semplicemente disegnato un uomo. «Grazie per la collaborazione» disse il professor Azur. «Adesso potete sollevare i due disegni e metterli fianco a fianco? Fateli vedere a tutti i vostri compagni.» I ragazzi eseguirono, mettendosi a scrutare i rispettivi lavori. «Adesso rigirate le immagini verso di voi. Fatto? Benissimo. Stiamo per affrontare un quesito che filosofi, studiosi e mistici si pongono dall’inizio della storia: che rapporto c’è tra le due immagini?» «Eh?» Stavolta Bruno non era solo. «Ovvero: il disegno di quel che Dio è, il primo, incorpora o esclude il disegno di quel che Dio non è?» Azur prese ad andare su e giù. «Per esempio, se Dio è onnipotente e onnipresente, magnanimo e benevolente, questo significa che comprende in sé anche il male, oppure che il male è separato da Lui – o da Lei –, una forza esterna che Lui/Lei deve combattere? Qual è precisamente il rapporto tra ciò-che-Dio-è e ciò-che-Dio-non-è?» Non aveva terminato. «Avete fatto due disegni: spiegatemi per iscritto come sono collegati. Voglio una tesina, decidete voi in che stile, purché sia coraggiosa, audace, onesta e sorretta da una ricerca delle fonti.» Nessuno aprì bocca. Finché si era trattato di disegnare avevano preso l’esercizio alla leggera, senza impegnarsi troppo: avessero saputo che gli sarebbe stato chiesto di scriverci sopra una tesina che mettesse le due immagini in relazione, ci avrebbero pensato un po’ di più. Troppo tardi. «Tornate ai filosofi, agli studiosi e ai mistici del passato. State lontani dalla contemporaneità. State lontani dalla vostra testa.» «Come, stiamo lontani dalla nostra testa?» ripeté Kevin. «Ecco il vostro compito per la settimana prossima. Esagerate, stupitemi!» proclamò Azur riprendendo cartelle, pastelli e clessidra, in cui l’ultimo grano di sabbia era appena cascato nel bulbo inferiore. «Però vi avviso, non sono un tipo facile da stupire!» Il teatro delle ombre

Oxford, 2001

Il venerdì sera, quando gran parte degli studenti andava al pub o in discoteca per qualche meritatissima ora di svago, Peri rimaneva a leggere nella biblioteca del college. Man mano che se ne andavano gli ultimi frequentatori il silenzio dentro l’edificio si addensava, non più interrotto da sussurri, colpi di tosse e fruscii di pagine. Passare dallo studio al divertimento era come scambiare una dieta con un banchetto, e non per la prima volta Peri prendeva atto della propria inettitudine nei rapporti sociali. Ma in mezzo ai libri ci stava volentieri, perché le davano un senso di libertà impareggiabile, e cercava di non pensare troppo al fatto che ultimamente gran parte delle sue letture girava attorno al professor Azur. Già diverse volte nelle ultime settimane si era sorpresa a fantasticare su una lezione in cui avrebbe detto qualcosa di così inaspettato, ardito e geniale da farlo rimanere di stucco e costringerlo a vederla sotto una luce nuova. Accanto a lei sul tavolo era appoggiata la Polaroid pieghevole che aveva comprato da poco. Quando andava a correre le capitava di vedere dei cieli veramente straordinari – albe rosa corallo, tramonti minacciosi, prati incrostati di gelo – che voleva fissare su pellicola; la macchina fotografica le era costata parecchio, ma valeva ogni centesimo. Aveva anche speso troppo in libri e stava addirittura pensando a un computer. «E che diamine» si disse, «basterà lavorare di più». Si alzò per sgranchirsi le gambe. Era sola in quella sezione della biblioteca, ed era come essere sola in tutto il fabbricato; ma nel passare tra gli scaffali intuì un movimento repentino, silenzioso come un’ombra, e si voltò di scatto. Era Troy. «Ciao, non volevo spaventarti.» «Non mi starai mica seguendo, eh?» gli chiese Peri. «No... okay, sì. Ma non preoccuparti, non mordo.» Troy sorrise e accennò col mento al libro che lei teneva in mano. «Cosa leggi di bello?... L’ateismo nell’antica Grecia. È per Azur?» «Sì» rispose lei, vagamente a disagio. «Io te l’ho detto che quello è il demonio, ma non mi hai dato retta.» «Perché ti sta così sullo stomaco?» «Perché quell’uomo non si pone limiti. A te magari sembrerà un punto a suo favore, ma non lo è. Un docente deve comportarsi da docente e basta.» «E secondo te lui non lo fa?» Troy reagì con un sospiro pesante. «Vuoi scherzare? Quello non insegna Dio, quello si crede Dio sceso in terra.» «Accidenti, questo mi sembra troppo.» «Aspetta e vedrai» disse Troy, e subito fece un passo indietro, come se avesse svelato più di quanto volesse. «Vabbè, io devo andare. Ho degli amici che mi aspettano al Bear, ti va di venire?» «Grazie, ma ho da fare» rispose Peri, sorpresa che lui gliel’avesse proposto. «D’accordo, buon fine settimana. E rifletti su quel che ti ho detto.» Quando anche Peri uscì dalla biblioteca il cielo si era fatto di un nero bluastro, rotto solo dal riflesso spettrale dei lampioni, e sembrava tanto vicino da poterselo tirare addosso come uno scialle color indaco. Lei camminava a testa in su, gli occhi sulle grottesche e le gargolle che dagli spalti del cortile si chinavano verso di lei quasi fossero i custodi del segreto dei secoli; in quell’istante Peri ebbe l’impressione che le antiche dispute teologiche della città, le sue dolenti ossa scolastiche, ancora ne infestassero le stanze. Si tirò su la lampo della giacca a vento fin dove arrivava: presto avrebbe dovuto comprare un cappotto invernale. Stava già mettendo i soldi da parte. Girò un angolo e rimase sorpresa di trovarsi davanti delle persone che reggevano candele nel buio. Una veglia. Si avvicinò facendo correre lo sguardo su file di fotografie e fiori posati sul marciapiede: un manifestino diceva SREBRENICA, PER NON DIMENTICARE. Peri passò in rassegna i volti dei morti, ragazzi, padri, mariti: uno somigliava a suo fratello Umut più o meno all’età dell’arresto. Nel gruppetto di veglianti Peri riconobbe Mona, con indosso un velo rosso acceso che si era drappeggiata intorno alla testa e sulle spalle. Anche Mona l’aveva vista e venne a salutarla con la candela in mano. Peri indicò i visi nelle foto. «Che tristezza» disse. «È più che una tristezza» rispose Mona. «È stato un genocidio, e abbiamo il dovere di ricordare.» S’interruppe, guardando Peri con rinnovato interesse. «Perché non ti fermi?» «Ma sì, perché no» accettò lei. Raccolse una candela e la foto del ragazzo che somigliava a suo fratello, e prese posto sul marciapiede. La notte le si chiuse attorno come un fiume ingrossato. «È una cosa di musulmani e basta?» chiese a Mona. «Be’, l’ha organizzata il Consiglio degli Studenti musulmani, ma ci sono venuti anche altri in segno di solidarietà. C’è anche gente del corso di Azur. Guarda, laggiù c’è Ed.» Era proprio lui. Peri andò a salutarlo quando Mona, che era indaffarata con i colleghi dell’organizzazione, la lasciò sola. «Ciao, Ed.» «Oh, Peri, ciao. A quanto pare sono l’unico ebreo della situazione. O mezzo ebreo.» Come se l’accenno alla religione costituisse una specie di tacito assenso, Peri seguitò: «Ti spiace se ti chiedo perché segui il corso su Dio?». «È per Azur. Quell’uomo mi ha cambiato la vita.» «Davvero?» A Peri tornò in mente lo sguardo che lui e il professore si erano scambiati. «L’anno scorso mi ha aiutato tantissimo. Avevo intenzione di lasciare la mia ragazza.» «E lui ti ha detto di non farlo?» «Non esattamente. Mi ha detto di provare a capirla, prima» spiegò Ed. «Noi due stavamo insieme dalle medie, praticamente, ma poi lei è cambiata. È diventata praticante, così, da un giorno all’altro. E io non la riconoscevo più.» Lei aveva optato per una rigorosa osservanza della Torah, lui era totalmente dedito alla scienza, e così il divario di priorità fra i due ragazzi si era fatto insanabile. «Sono andato da Azur, non so neanch’io perché. Potevo andare da un rabbino o qualcun altro del genere, ma Azur mi sembrava la persona giusta.» «E lui cosa ti ha detto?» «Una roba strana. Ha detto, per quaranta giorni ascolta tutto quello che ti dice. Un mese e dieci giorni: non è poi così difficile, se le vuoi bene. Fate Shabbat insieme, qualunque cosa lei voglia mostrarti lascia fare, entra nel suo mondo, non obiettare, non commentare.» «E tu ce l’hai fatta?» «Ce l’ho fatta. È stato tremendo! Quando sento quelle farneticazioni – scusa ma è così –, tutte quelle ciance religiose, il mio cervello si ribella. Ma Azur aveva detto: lascia i giudizi ai giudici. I filosofi non giudicano. Comprendono.» Ed fece una risatina. «Ma non finisce qui.» «Che altro è successo?» «Passati i quaranta giorni Azur mi chiama e mi fa: bravissimo, adesso tocca alla tua ragazza. Per altri quaranta giorni parli tu e lei ascolta, farà una specie di disintossicazione religiosa.» «E lei c’è riuscita?» «Neanche per idea.» Ed scosse il capo. «Ci siamo lasciati. Ma io ho capito che cosa stava cercando di fare Azur e per questo l’ho apprezzato.» Peri trovava irritante tutto quell’entusiasmo, quella cieca fiducia del discepolo nel maestro. «Ma noi non siamo filosofi. Siamo studenti universitari.» «È proprio quello il punto. I docenti ci lasciano spazio, tutti quanti... tutti tranne Azur. Lui insiste e non molla. È convinto che dobbiamo essere tutti filosofi, quale che sia la nostra vocazione nella vita.» «E non è chiedere troppo, a dei normali studenti?» Ed la guardò negli occhi. «Tu non sei normale. Siamo tutti speciali.» Peri serrò le labbra. «Qual è il problema? A te è antipatico?» le chiese Ed. «Ma no, è solo che...» Peri mandò giù. «Mi chiedo se non stia facendo un esperimento, con noi, e quest’idea mi mette a disagio.» «Forse è vero, ma chi se ne frega» ribatté Ed. «A me ha cambiato la vita. In meglio.» Cominciò a piovere, un’acquerugiola lieve che però rischiava, nel giro di poco, di diventare un rovescio più insistente. La veglia si dovette rimandare, foto, candele e manifesti vennero riposti; Mona correva qua e là per sistemare tutto. Peri porse la mano a Ed, il quale ignorò il gesto e la strinse invece a sé in un abbraccio caloroso. «Stammi bene. E fidati di Azur, è un grande.» Sola nel buio, Peri tornò al suo college nell’aria densa d’aromi impastati di terra e di pioggia. Di bagnarsi non le importava: rimase a guardare quelle mura che avevano visto secoli di dibattiti accesi, e sodali diventare nemici, e libri distrutti e idee tacitate e pensatori vessati... tutto in nome di Dio. Chi aveva ragione, Troy o Ed? In una sera sola aveva sentito sul professore due pareri opposti e il guaio era che, a sensazione, potevano essere veri entrambi. Come nel teatro d’ombre della tradizione ottomana, tra lei e la realtà c’era un telo, e davanti a sé Peri aveva solo delle proiezioni. Mentre Azur muoveva le sagome dietro lo schermo, vigile e presente in ogni istante, e tuttavia ancora ignoto, sempre fuori portata. Gli oppressi

Istanbul, 2016

Gli ultimi bonbons du harem erano appena scomparsi dalla tavola quando dalla porta aperta trotterellò dentro un cane, scodinzolando con un vigore in netto contrasto con la corporatura esile. Era un volpino di Pomerania dalla testolina minuta, gli occhi teneri e un folto manto color foglie morte d’autunno. «Pom-Pom, tesoruccio, ti sono mancata?» disse la padrona di casa. Raccattò da terra l’animale e se lo mise in grembo. Di lì la bestiola si mise a osservare gli ospiti, ammiccando, con i tratti volpini atteggiati a un’espressione passiva che nel giro di un attimo avrebbe potuto trasformarsi in ostilità ringhiante. «Lo sapete quando mi sono resa conto che questo Paese è cambiato?» chiese, a nessuno in particolare, la donna d’affari. «Il mese scorso, quando ho portato Pom-Pom dal veterinario.» Normalmente era il dottore a venire periodicamente da lei, spiegò, ma qualche settimana prima s’era fatto male a una gamba e, pur potendo continuare a lavorare come prima, in quel momento non poteva fare visite a domicilio. E così era andata lei alla clinica, con Pom-Pom sotto il braccio. In passato i proprietari di cani erano una categoria molto omogenea: moderni, metropolitani, laici, occidentalizzati. I musulmani conservatori consideravano i cani makrooh, detestabili, e proprio non ci tenevano a condividere lo spazio vitale con loro. «Non ho mai capito che cos’abbiano da ridire, sui cani: tutte queste assurdità sul fatto che gli angeli si rifiutano di entrare nelle case dove ci sono loro» continuò la donna d’affari. «O nelle case dove ci sono quadri, se è per quello.» «È un hadith di Al-Bukhari» intervenne un magnate della stampa che solo da poco si era aggiunto alla comitiva. La camicia bianca immacolata, senza colletto, metteva in risalto i capelli scuri tagliati alla pari. Era ben rasato, senza barba né baffi. A differenza di tutti gli altri commensali, veniva dalla borghesia islamica emergente e, malgrado la ferma intenzione di frequentare l’élite occidentalizzata della nazione, non si sarebbe mai sognato di portare la moglie velata a una cena come quella. “Non si sentirebbe a suo agio con questa gente” diceva a se stesso. In realtà, era lui che non si sentiva a suo agio con lei accanto. Certo, era soddisfatto di lei come moglie – lo sapeva Allah che madre generosa fosse con i loro cinque figli – ma fuori casa, e in particolare fuori dalla loro cerchia, la considerava poco raffinata, se non addirittura sconveniente; ne sorvegliava ogni gesto, ogni commento con la fronte aggrottata. Meglio lasciarla a casa. Ora, appoggiandosi allo schienale, spiegava: «E comunque l’hadith non si riferisce a tutti i quadri indistintamente: mette in guardia contro i ritratti per prevenire l’idolatria». «E allora siamo fregati» commentò l’uomo d’affari; poi con un risolino soddisfatto spalancò le braccia, a indicare le opere d’arte alle pareti. «Abbiamo un cane, un mucchio di ritratti e qualche nudo. Forse questa è la sera che ci pioveranno pietre sul capo!» Nonostante il tono gioviale, le sue parole diedero evidentemente fastidio a qualcuno tra gli ospiti, che sorrise imbarazzato. Percependo la tensione, Pom-Pom ringhiò, le zanne umide luccicanti di saliva. «Sst, mammina è qui» disse la donna d’affari alla minuscola creatura, e poi rivolgendosi al marito in tono meno affettuoso: «Non indurre in tentazione il destino, potrebbe succedere qualcosa di brutto». Mandò giù un bicchier d’acqua, come se l’irritazione l’avesse disidratata. «Che stavo dicendo? Insomma, arrivo dal veterinario e rimango a bocca aperta: la sala d’attesa è piena di signore velate, e sono tutte lì col cane! Chihuahua, shih tzu, barboncini. Sono più fissate coi cani di noi! Evidentemente i musulmani praticanti stanno cambiando.» «Non direi che stiano cambiando» intervenne il magnate della stampa. «Guarda, noi osservanti non abbiamo mai goduto delle vostre libertà. È da decenni che siamo oppressi dall’élite modernista, gente come voi, senza offesa.» «Ma, se anche fosse, non sono più quei tempi. Adesso al potere ci siete voi» mormorò Peri, con voce incerta, come se fosse riluttante a esprimere quello che pensava, ma ancora una volta non potesse farne a meno. Il magnate della stampa aveva da ridire. «Non sono d’accordo: se si è stati oppressi una volta, lo si è per sempre. Tu non lo sai, che cosa si prova a essere oppressi. Ci dobbiamo aggrappare al potere, sennò ce lo strappate di nuovo.» «Ma per piacere!» strillò la ragazza del giornalista, che notoriamente reggeva male l’alcol. Puntò il dito contro il magnate. «Tu mica sei oppresso! Tua moglie mica è oppressa! Sono io, quella oppressa!» Quindi rivolse il dito verso di sé. «Io, con i miei bei capelli biondi, la mia minigonna, il mio trucco, la mia femminilità, il mio bicchiere di vino... Sono io, quella intrappolata in questa cultura tirannica.» Il giornalista sgranò gli occhi, allarmato. Temendo che la ragazza potesse attirarsi le ire del magnate, e che la cosa gli costasse il posto, cercò di darle un calcio sotto il tavolo, ma il tentativo andò a vuoto. «D’accordo, siamo tutti oppressi» disse la padrona di casa, in un goffo tentativo di smorzare la tensione. «È molto semplice» s’inserì il chirurgo plastico. «Più soldi si fanno e più si aspira a un certo stile di vita. Ho molte pazienti che portano il velo, ma quando si tratta di seni cascanti e facce grinzose, le musulmane devote sono uguali alle altre.» L’uomo d’affari concordò con vigore. «Come dico sempre io: il capitalismo è l’unica cura per i nostri mali. L’antidoto per quei fuori di testa dei jihadisti è il libero mercato. Se si lasciasse il capitalismo libero di andare per la sua strada senza nessun intervento, si convincerebbero anche le menti più contrarie.» Dopodiché aprì un umidificatore in noce levigato, con il volto di Fidel Castro intarsiato sul coperchio, e lo porse al giornalista con una strizzata d’occhio. «Edizione limitata dal duty free di Beirut. Prendetene uno, prendetene pure due.» I maschi presenti, con uno sguardo imbarazzato alla padrona di casa, si servirono smanacciando all’interno della scatola. «Non vi preoccupate di mia moglie» aggiunse l’uomo d’affari. «Questa casa è un Paese libero. Laissez faire!» Risero tutti, mentre Pom-Pom, infastidito dal rumore, abbaiava furente. Cogliendo l’occasione, Peri si accese una sigaretta. Notò che la domestica che aveva visto all’ingresso adesso girava con discrezione a disporre i posacenere. Si chiese che cosa potesse pensare di loro; probabilmente era meglio non saperlo. «La nostra Peri è molto pensierosa, stasera» osservò la donna d’affari. «È stata una giornata lunghissima» rispose Peri schivando l’osservazione. Suo marito si sporse in avanti come se stesse per confidare un segreto. Adnan era solito prendere il caffè molto forte, tenendo in bocca una zolletta di zucchero. Ora, mentre la zolletta gli si scioglieva sulla lingua, disse: «A volte ho la sensazione che a Peri piacciano più i personaggi letterari che le persone in carne e ossa. Anziché chiacchierare con gli amici, preferisce appendere le sue poesie preferite a un filo teso attraverso la nostra camera». Peri sorrise: l’ennesimo rituale che aveva appreso dal professor Azur. «Ti invidio» disse l’arredatrice. «Io non trovo mai il tempo per leggere.» «Oh, io adoro la poesia» aggiunse la PR. «È come abbandonare tutto e trasferirsi in un villaggio di pescatori. Istanbul ci corrompe l’anima!» «Vieni a Miami, abbiamo comprato una casa che dà sull’oceano» disse l’uomo d’affari. La moglie inarcò le sopracciglia. «Che faccia tosta, quest’uomo! Nessuna sensibilità artistica. Noi diciamo poesia, lui dice Miami.» «Che ho fatto, stavolta?» protestò l’uomo d’affari. Nessuno lo criticò. Era troppo ricco perché gli si potessero dire le cose in faccia. In quel momento suonò il campanello, due volte, tre volte, in un misto di frustrazione, discolpa e impazienza. «Oh, finalmente.» La donna d’affari balzò in piedi. «È arrivato il sensitivo!» «Urrà!» gridarono tutti. Pom-Pom corse verso la porta latrando e abbaiando furiosamente. Nel parapiglia che seguì, Perì colse un bip, molto vicino. Tirò fuori il cellulare del marito e guardò lo schermo: sua madre aveva composto un lungo messaggio, benché Peri le avesse chiesto di scriverle soltanto «Chiamami». «Numero trovato, mi sono persa il mio programma preferito.» Sotto c’era l’informazione richiesta: «Shirin: 01865...». Le cifre le ballarono davanti agli occhi, la combinazione che apriva una cassaforte rimasta chiusa troppo a lungo. L’interprete di sogni

Oxford, 2001

Il professor Azur entrò in aula con le braccia cariche di libri e un’altra persona al seguito – un facchino, si scoprì poi – che spingeva una carriola contenente un fornello da vasaio, rotoli di carta nera, un lettore CD e diversi cuscini piccoli, come quelli che si trovano sugli aeroplani. I due raggiunsero il centro della stanza e scaricarono tutto quanto. Proprio come a teatro, pensò Peri tra sé. Lui è l’attore in scena, e noi il pubblico. «Grazie per l’aiuto, Jim, ti sono debitore» disse Azur al facchino. «Nessun problema, professore.» «Allora ti aspetto alla fine della lezione.» L’uomo fece un cenno di circostanza e se ne andò. Azur invece passò in rassegna le giovani facce ansiose intorno a sé. Sotto la luce fredda aveva gli occhi stanchi, di un tono più scuro di verde: un ruscello nel bosco, smosso da mulinelli nella corrente. «Bene, come andiamo stamattina?» Le risposte formarono un vivace coretto. «Bene, se dovete recuperare un po’ di sonno – cosa che la scienza ha dimostrato essere impossibile – ecco qui un’occasione. Mi fate girare i cuscini, per favore?» Ciascuno prese il suo. Nel frattempo, il professore si dava da fare con il fornello. «Vogliamo dar fuoco al college, prof?» interloquì Kevin. «Ehi, hai intuito il mio disegno criminoso! No, non bruciamo niente.» Di lì a qualche secondo, il fornello ardeva di un bel rosso. «Bene, ragazzi. Vi trovate, facciamo finta, nelle vostre calde e accoglienti camerette, mentre fuori fa un freddo cane. Che altro si può fare, se non addormentarsi!» Gli studenti si scambiarono qualche occhiata. «Posate il capo sul cuscino!» intimò Azur. Tutti eseguirono. Tutti tranne Peri, che rimase a sedere dritta come un fuso, gli occhi spalancati e diffidenti. «Così mi piaci, Peri. Cautela. Non si sa mai, potrei aver imbottito il cuscino di gatti furibondi.» Lei avvampò e stavolta obbedì. Quindi il professore prese la carta nera, si cavò di tasca un rotolo di scotch e cominciò a oscurare i vetri. Tagliata fuori dalla luce del giorno, l’aula piombò nella semioscurità. Poi Azur accese il lettore CD, e tutti furono avvolti dal rumore di un fuoco scoppiettante. «Che cosa stiamo facendo, prof?» Era di nuovo Kevin. «Andiamo in un posto dove si recava spesso Cartesio. Una terra da sogno!» Qualcuno trattenne una risata, ma il resto del gruppo parve interessato. «E aveva più o meno la vostra età, il grande filosofo. Qualcuno di voi ha già fatto qualcosa di significativo?» Nessuno fiatò. «Cartesio aveva grandi ambizioni. Le vostre sono anche più grandi, ne sono sicuro. Ma le sue erano fondate sull’indagine metodologica e filosofica.» «Anche le nostre!» esclamò Bruno. Azur levò gli occhi al cielo. «E noi adesso stiamo per visitare i suoi sogni. Nella sua prima visione, il giovane filosofo sta scarpinando su per una collina e ha paura di cascare di sotto. Sa che deve sforzarsi di più per raggiungere i propri obiettivi, ma non crede di poter ottenere alcunché senza l’aiuto di una potenza suprema: Dio.» La testa sul cuscino, gli occhi semichiusi, Peri ascoltava. «In lontananza scorge una cappella, la Casa del Signore: e il vento lo solleva e lo trasporta con forza tale da mandarlo a sbattere contro le mura.» «L’avevo detto che Dio non vi fa bene» fece Kevin. «Cartesio si alza e si leva la polvere di dosso. Poi entra in una corte dove vede un uomo che gli chiede di un certo signor N che dovrebbe dargli un melone, cioè un frutto di un altro Paese.» «Che strano» mormorò Ed, seduto accanto a Peri. Si era portato dietro una scatola di biscotti fatti in casa, che a quel punto aprì e cominciò a passare in giro. Azur continuò. «Cartesio si sveglia sudato e dolorante, con il timore che il sogno sia stato provocato dal diavolo. Da dove vengono i pensieri malvagi, da fuori o da dentro? Prega Dio che lo protegga. Ma Dio cos’è, un agente esterno o un prodotto della mente? È questa domanda, quando riesce a riaddormentarsi, a condurlo nel secondo sogno.» Azur saltò al brano successivo sul CD e l’aula si riempì del rombo di potenti tuoni. «Tutto intorno a lui infuria la bufera. Sta arrivando il temporale. Perché succedono le cose brutte, nella vita?, domanda Cartesio. Come può Dio lasciarle accadere, se Egli è ciò che è? Il giovane René è confuso, solo, risentito. Questo sogno è oscuro e deprimente.» Peri ripensò a suo fratello Umut. Non all’uomo che era oggi, chino sul tavolo su cui realizzava campane a vento fatte con le conchiglie per turisti che non avrebbe mai conosciuto; bensì al giovane idealista che un tempo voleva cambiare il mondo e sanare ogni torto. E ripensò anche alle conversazioni avute con il padre, quando cercava di capire perché Dio li avesse abbandonati. Si sentiva un groppo in gola, e la tristezza che l’aveva colta era così acuta che gli occhi le si riempirono di lacrime. Non sapeva in cosa credeva; forse Dio era un gioco a cui potevano giocare solo quelli che hanno avuto un’infanzia felice. Per interrompere il flusso di sensazioni negative si affrettò a chiedere: «E il terzo sogno, prof?». Azur le rivolse un’occhiata singolare. «Be’, è il più importante. Cartesio vede un libro posato su un tavolo, un dizionario. Poi ne vede un altro, stavolta sono poesie, lo apre a una pagina a caso e legge un componimento di Ausonio.» «Di chi?» domandò Bruno, perplesso. «Decimo Magno Ausonio. Romano, poeta, grammatico, retorico.» Azur puntò il dito contro Peri. «Lo sapevi che visitò anche la tua città, Costantinopoli?» Peri fece di no con la testa. «Il primo verso della poesia dice: Qual strada imboccherò nella vita?» seguitò Azur. «Compare un uomo e chiede a Cartesio che cosa ne pensa; ma il filosofo non sa cosa rispondere e l’uomo, deluso, scompare. Cartesio è imbarazzato. È pieno di dubbi, come qualunque persona intelligente. Ora, a qualcuno va di interpretare questo sogno?» «Be’, la faccenda del melone era piccantina» fece Bruno. «Forse Cartesio era una velata, e aveva una cotta per quel tal signor N, chiunque fosse.» «Può darsi» sospirò Azur. «Oppure il dizionario rappresenta scienza e conoscenza, mentre la poesia simboleggia la filosofia, l’amore, il buon senso, e secondo Cartesio Dio gli stava chiedendo di conciliare tutto questo mediante la ragione e creare così una “scienza meravigliosa”. Ed ecco la mia domanda: siete in grado di creare da voi una scienza meravigliosa per studiare Dio?» «Come facciamo?» chiese Mona. «Siate eclettici» rispose Azur. «Saldate discipline diverse, operate una sintesi, non concentratevi solo sulla “religione”. Anzi statene lontani, perché la religione serve solo a confondere e a dividere. Rivolgetevi alla matematica e alla fisica, a musica, pittura, poesia, danza... Avvicinatevi a Dio per vie insolite.» Peri sentì un brivido di esaltazione. Era in grado, lei, di creare da sé una scienza meravigliosa? Che bello sarebbe stato! Poteva gettare nella miscela il suo amore per i libri, la sua passione per la scienza e l’erudizione e la poesia, la sua costante malinconia, e poi aggiungerci lo spirito spezzato e la carne lacerata di suo fratello maggiore, e la blasfemia e l’alcolismo di suo padre, e le preghiere e le mani sanguinanti di sua madre, e la rabbia schiumante di suo fratello minore, e fondere tutto questo traendone qualcosa di solido, affidabile, integro? Si poteva cucinare qualcosa di delizioso con ingredienti da poco? Azur riprese: «Il terzo sogno mi induce a chiedermi se il filosofo temesse il giudizio altrui. Per noi, lui è il grande Cartesio! Ma lui si riteneva piccolo, insignificante. Se mai qualcuno tra voi sentisse di non essere abbastanza straordinario, ebbene, si ricordi che talvolta anche Cartesio si sentiva così». Peri abbassò gli occhi. Aveva capito con chi stava parlando Azur, e per questo lo amava e lo odiava simultaneamente. Stava dicendo a lei, e a lei soltanto, di avere più fiducia in se stessa: non si era dimenticato il colloquio nel suo ufficio. Quasi al termine della lezione, il professore fece partire l’ultimo brano sul CD: «Beethoven, Missa Solemnis» disse. «Tuffatevi in queste note e tornate a dormire!» Teste ancora sui cuscini, gli studenti assaporarono la musica. Nessuno fiatava. «Tempo scaduto» annunciò poi il professore pigiando il tasto STOP. Nel medesimo istante si udì un colpetto alla porta e Azur disse ad alta voce, rivolto in quella direzione: «Entra pure, Jim. Sempre puntualissimo». Il facchino rientrò, si diresse immediatamente verso il fornello e lo portò via. «Bene, gente» disse Azur. «Alla luce della discussione odierna, scrivetemi una tesina su “Cartesio alla ricerca di certezze e di Dio”. Ma prima di mettere alcunché per iscritto, fate le relative ricerche. Congetturare senza sapere è solo far chiacchiere per il piacere di ascoltarsi. Tutto chiaro?» «Sissignore» replicarono gli allievi in coro.

Peri uscì con la testa che le martellava. Il vento e la forza delle cose al di là di ogni controllo; il dualismo tra bene e male; la necessità di dare senso al caos; i codici nascosti nei sogni e certi aspetti trasognati della vita; la solitudine di un giovane filosofo alla ricerca della verità; il primo verso ancora attualissimo di una poesia antichissima: Quale strada imboccherò nella vita? Sentendo parlare Azur, qualcosa dentro di lei era cambiato; un moto talmente lieve da essere quasi impercettibile ma, allo stesso modo, irreversibile, e che aveva lasciato un vuoto in cui lei adesso aveva paura di scrutare, per timore di quel che avrebbe potuto trovarci. Sotto la superficie della sua consueta reticenza si era aperto un varco, attraverso il quale si scorgeva il suo cuore galoppante. Avrebbe voluto che lui seguitasse a parlare, per giorni e giorni di fila, e solo e soltanto con lei. Quando Azur parlava di Dio e della vita, della scienza e della fede, le sue parole aderivano l’una all’altra come grani di riso al vapore, pronti a sfamare menti digiune. In sua compagnia Peri si sentiva abilissima e integra, come se alla fin fine un altro modo di guardare le cose esistesse davvero... non quello di suo padre, e nemmeno di sua madre. Nelle parole di Azur intravedeva una via per uscire dal faticoso dualismo di casa Nalbantoğlu, in mezzo al quale era cresciuta; accanto ad Azur poteva riconoscere le molte sfaccettature della propria personalità e sentirsi comunque accolta. Non doveva più dissimulare, dominare o nascondere nulla; l’universo di Azur si trovava al di fuori delle rigide dicotomie di bene e male, Dio e Satana, luce e buio, superstizione e raziocinio, teismo e ateismo, e lui stesso era al di sopra di tutte le diatribe che Mensur e Selma avevano avuto nel corso degli anni e, chissà come, trasmesso alla figliola. Nel fondo del proprio animo Peri aveva intuito, anche se lo avrebbe negato il più a lungo possibile, di essersi infatuata del professore; e c’era qualcosa di spaventevole e pericolosissimo nella convinzione che qualcuno conoscesse le risposte a tutte le sue domande, e che proprio per quella persona passasse, di lì in avanti, la scorciatoia verso tutto ciò che era rimasto irrisolto. Il mantello

Oxford, 2001

«Trovate nuove narrazioni, sempre al plurale. Spesso cerchiamo di ridurre la nostra comprensione di Dio a un’unica risposta, a una formula... errore!» Il professor Azur andava rapidamente su e giù per l’aula, le mani in tasca. Fino a qualche decennio fa, diceva, perfino i migliori tra gli studiosi erano convinti che, giunti al Ventunesimo secolo, la religione sarebbe scomparsa dalla faccia della Terra. E invece, alla fine degli anni Settanta eccola eseguire la sua rentrée spettacolare, proprio come una diva che torna a calcare le scene, e da allora non si era più schiodata, e anzi gridava sempre più forte di anno in anno: «Oggi come oggi, le dispute più roventi girano attorno a questioni di fede. «Questo secolo è destinato a rivelarsi più devoto del precedente; quanto meno dal punto di vista demografico, dato che i praticanti tendono a fare più figli dei laici. Solo che, nella nostra ossessione per i conflitti religiosi, politici e culturali, ci perdiamo per strada l’enigma essenziale: Dio. Laddove nei tempi andati i filosofi – e i loro allievi – si affannavano più con l’idea di Dio che con la religione, adesso è il contrario; persino i dibattiti tra atei e teisti, ormai dilaganti nelle cerchie intellettuali del Vecchio e del Nuovo Mondo, riguardano più la politica, la religione e lo stato del mondo, che la possibilità di un Dio. Ma se miniamo la nostra capacità cognitiva di porre quesiti esistenziali ed epistemologici su Dio, e recidiamo i legami con i filosofi dei tempi andati, perdiamo anche la natura divina della nostra immaginazione.» Peri si accorse che quasi tutti i suoi compagni prendevano appunti, decisi a catturare ogni parola, mentre lei era più che felice di ascoltare. «C’è troppa gente che soffre di M.D.C.» continuò Azur. «Qualcuno sa cos’è?» Kevin si buttò. «Maledizione Della Ciccia?» «Maschilismo Diffuso e Costante?» gli fece eco Elizabeth. Azur sorrise come se avesse contato su quelle risposte e poi disse: «Il Mal Della Certezza». La certezza stava alla curiosità come il sole alle ali di Icaro: dove l’uno brillava possente, l’altra non poteva resistere. Con la certezza veniva l’arroganza; con l’arroganza, la cecità; con la cecità le tenebre e, con le tenebre, ancor più certezze. Tutto questo, lui lo chiamava tautologia delle convinzioni; al contrario, in quegli incontri loro non sarebbero stati sicuri di nulla, nemmeno del sillabo che, come qualunque altra cosa, era passibile di modifiche. Erano pescatori che gettavano ampie reti nel mare della conoscenza; in definitiva, potevano catturare un pesce spada, ma anche tornare a mani vuote. Erano al contempo viaggiatori, compagni di strada che ancora dovevano raggiungere una certa destinazione e forse non ci sarebbero arrivati mai. Tentavano, cercavano soltanto. Perché in un mondo di sfuggente complessità, una cosa sola era chiara: la diligenza era meglio dell’ozio, il vigore preferibile all’apatia. Le domande contavano più delle risposte; la curiosità, per l’appunto, era superiore alla certezza. Loro erano, in breve, «Discenti». Disfarsene una volta per sempre era impossibile, ma era possibile immaginare il Mal della Certezza come un mantello che può essere dismesso. «Una metafora, certo, ma non prendetela alla leggera: dal greco “mutazione”, qualunque metafora trasforma il parlante.» Di lì in poi, continuò Azur, voleva che prima di entrare in aula tutti si togliessero il mantello. Professore compreso, perché lui pure era incline a indossarlo. «Visualizzatelo come un cappotto vecchio, da appendere all’attaccapanni. Che, tra l’altro, ho piazzato davvero fuori dalla porta. Vedere per credere.» I ragazzi ci misero un attimo a rendersi conto che diceva sul serio. Poi si alzò Sujatha per prima, andò ad aprire, uscì in corridoio e s’illuminò in volto vedendo che l’attaccapanni c’era davvero. Allora, fingendosi intabarrata, si levò la mantella dalle spalle, l’appese e rientrò con aria trionfante. Gli altri la seguirono a ruota, uno dopo l’altro. Per ultimo uscì il professor Azur e, a giudicare da come si sbracciava in aria, la sua cappa doveva essere ben pesante. Dopo essersene liberato, tornò in aula e batté le mani. «Bravissimi! Ora che ciascuno si è levato di dosso l’Ego, almeno simbolicamente, cominciamo.» «Perché abbiamo fatto questa cosa?» domandò Bruno scuotendo il capo. «I rituali sono importanti, non sottovalutarli» ribatté Azur. «Le religioni, per esempio, lo sanno benissimo. Ma i rituali non devono essere per forza religiosi: noi, nel nostro seminario, ne condivideremo di nostri.» Prese un pennarello e scrisse alla lavagna: DIO COME PAROLA. «La civiltà come la definiamo oggi ha circa seimila anni. Ma gli esseri umani esistono da molto più tempo – alcuni teschi si fanno risalire a 290 milioni di anni fa. Quel che sappiamo di noi stessi è niente, in confronto a quel che dobbiamo ancora scoprire. Le testimonianze archeologiche hanno chiarito che per migliaia di anni gli esseri umani hanno visto Dio, o gli dèi, sotto varie forme: di albero, di animale, di forza della natura, di persona. Poi, a un certo punto nel fluire della storia, è avvenuto un salto immaginativo: da Dio come oggetto tangibile, l’uomo è passato a Dio come parola. E da quel momento in poi, nulla è stato più come prima.» Azur si guardò intorno, notando che Peri era l’unica a non prendere appunti. «Mi segue, la nostra ragazza di Istanbul?» Provando a non arrossire un’altra volta sotto i suoi occhi, Peri si raddrizzò sulla sedia. «Sì, prof.» Lo sguardo di lui, aperto e fiducioso, indugiò su Peri qualche altro secondo, come se si fosse aspettato di sentirle dire qualcosa di diverso e lei, al contrario, lo avesse deluso. L’osservazione successiva venne indirizzata a tutti. «Se io vi rivelassi che dietro quella porta vi aspetta Dio, e che voi non potete vederlo – o vederla – ma potete sentirne la voce, che cosa vorreste che vi dicesse? Non a voi come generici rappresentanti dell’umanità, ma a ciascuno di voi, unico e solo, personalmente.» «Vorrei sentirmi dire che mi ama» disse Adam. «Già, che mi ama ed è contento di sapere che lo amo anch’io» disse Kimber. Diversi altri ribadirono il concetto con parole loro. «Che è d’accordo con me: tutti questi discorsi che si fanno su di Lui sono fesserie» disse Kevin. «Aspetta un attimo, per dirti una cosa del genere Dio deve esistere» fece Avi. «Ti stai contraddicendo.» Kevin si accigliò. «Vi sto soltanto reggendo lo stupido giochino.» Toccava a Mona. «Da Allah vorrei sentirmi dire che il paradiso esiste veramente... e che le brave persone ci vanno e che là regnano pace e amore, inshallah.» Azur si voltò verso Peri, così rapidamente che lei non ebbe il tempo di distogliere lo sguardo e non riuscì assolutamente a staccargli gli occhi di dosso. «E tu? Cosa vorresti sentirti dire da Dio, tu, Peri?» «Io vorrei che si scusasse» rispose lei. Non sapeva come le fosse venuto in mente, ma non fece alcun tentativo di moderare le parole. «Scusarsi...» ripeté Azur. «Per cosa?» «Per le ingiustizie» replicò Peri. «Parli delle ingiustizie fatte a te, o al mondo intero?» «Tutt’e due» disse Peri, più piano di quanto avesse voluto. Fuori, un’unica foglia sulla vecchia quercia oscillò un’ultima volta nel vento prima di staccarsi. Dentro, i ragazzi erano così attenti che il silenzio era quasi palpabile. Nella quiete Azur disse: «Giustizia! Che parola pretenziosa. Giustizia secondo cosa, o chi? I più grossi fanatici della storia hanno commesso le ingiustizie più atroci, nel nome della giustizia». Il tono s’indurì. «Come vedete, dalla nostra discussione sono emersi due diversi modi di accostarsi a Dio, e grazie a Kevin per aver giocato con noi. Il primo associa Dio all’amore: cerchiamo Dio perché cerchiamo amore. Poi c’è la versione di Peri, che cerca giustizia.» Lei mandò giù. Gli aveva aperto il cuore e lui aveva preso il bisturi e ce l’aveva conficcato dentro, davanti a tutti. Se non tollerava il suo parere, perché mai le aveva chiesto di esprimerlo? E inoltre, additare lei come potenziale fanatica, davvero? A lei, figlia di tanto padre, di tutto si poteva dare tranne che della fanatica! Azur non sentì nemmeno una di queste silenziose proteste, e anzi le puntò un dito contro. «Stai ben attenta, coi paroloni come “giustizia”! È altamente probabile che proprio la gente con le tue idee renda il mondo peggiore! I fanatici hanno tutti una cosa in comune: vivono nel passato. Proprio come te!» La lezione terminò poco dopo, ma gli ultimi minuti Peri non li sentì. Pensava a tutt’altro e aveva un gran mal di testa. Non riusciva a muoversi né a guardare nessuno per paura di mostrare quanto era offesa; e quando tutti se ne furono andati, Azur compreso, si ritrovò sola con Mona. «Ehi» le disse la compagna, posandole una mano sulla spalla. «È stato veramente brusco, lo so. Lascialo perdere, da’ retta.» Peri abbassò lo sguardo, sul punto di piangere. «Non capisco. Mi sembrava fantastico. Proprio come ha sempre detto Shirin. E invece...» «... tratta tutti dall’alto in basso» concluse Mona, venendole incontro. Uscirono insieme. «E comunque puoi sempre mollare il corso, eh» aggiunse l’amica. «Cioè, se proprio non lo reggi più.» «Infatti» disse Peri tirando su col naso. «Mi sa che farò così. Lo odio.»

Quella notte dormì malissimo. In testa, anziché la miriade di ansie e paure che la tartassavano da anni, aveva un unico chiodo fisso. Per quanto ci provasse, non riusciva a smettere di pensare ad Azur. Aveva forse intravisto un lato orrendo del suo carattere, che lui nascondeva in attesa del momento giusto per colpire, o era anche questo un modo di farle capire che teneva a lei e alla sua crescita intellettuale? Il mattino seguente vide Mona e Bruno al tavolino di un caffè, seduti uno di fronte all’altra con i lineamenti tesi da uno stato d’animo che rasentava una vicendevole ostilità. Azur aveva chiesto loro di preparare in coppia la prova finale e di passare una serata lavorando insieme in biblioteca. Condividete il cibo, condividete le idee. Lo aveva fatto di proposito: costringere Bruno, che non aveva mai nascosto la propria avversione nei confronti dei musulmani, a fare squadra con Mona, sempre molto suscettibile riguardo alla propria fede. Forse il professore non se ne rendeva conto, ma il suo piano affinché tra i due nascesse un buon rapporto, per quanto ben intenzionato, era un fallimento: entrambi i ragazzi erano in preda all’angoscia. Peri, ormai, non aveva più nessun dubbio: nei seminari di Azur non c’era proprio niente di casuale. Ogni aspetto veniva ponderato attentamente, ogni studente era un pezzo sulla scacchiera mentale di una partita che lui non giocava contro altri che se stesso. Si sentì avvampare al mero sospetto di essere, anche lei, solo una pedina. Lo odiava.

Il giorno dopo, nella sua buchetta della posta c’era un altro biglietto.

A Peri.

La ragazza che legge Emily Dickinson e ‘Umar Khayyām e prende tutto molto sul serio; la ragazza che non riesce a lasciarsi il suo Paese alle spalle e se lo porta dietro dappertutto; la ragazza che litiga, non tanto con gli altri quanto con se stessa; la ragazza che è la più spietata critica di se stessa; la ragazza che si attende delle scuse da Dio e intanto si scusa inutilmente con gli altri esseri umani... Probabilmente mi trovi una persona orrenda e stai pensando di lasciare il corso. Ma se ti arrendi ora, non saprai mai se i tuoi sospetti sono fondati. La ricerca della Verità non è un incentivo sufficiente a proseguire? Peri, non mollare. Ricorda, la sfida a conoscere te ipsum è la sfida a distruggere te ipsum. Prima dobbiamo farci a pezzi; poi, con gli stessi pezzi, arriveremo a un nuovo Sé. La cosa importante è che tu creda in quel che stiamo facendo.

Con il biglietto infilato in tasca, Peri infilò le scarpe da ginnastica e uscì per andare a correre. Fece un respiro profondo, si tirò la lampo della felpa fin sotto il mento e partì. Le facevano male i muscoli; le articolazioni infiammate e dolenti chiedevano pietà. Ma mentre correva nell’aria del mattino, che si portava dietro profumi di terra umida e foglie autunnali, lasciò partire una salva di insulti. Brutto bastardo arrogante, chi cazzo si credeva di essere? Andasse affanculo! Ebbene sì, per la prima volta nella vita Peri ne tirò giù una sfilza, e ogni parola era un grano di sale sulla lingua nel vento freddissimo. Perché non l’aveva mai fatto prima? Correre e inveire insieme era una cosa stupenda, deliziosa, proprio rinvigorente. La profezia

Istanbul, 2016

Sulla tavolata calò un silenzio carico di elettricità mentre gli invitati aspettavano la comparsa del sensitivo. Attraverso la porta aperta sentirono la padrona di casa accoglierlo con una voce squillante come campanellini di vetro. «Dov’eri finito?» «Il traffico! È un incubo» proruppe una voce maschile, acuta e nasale. «A chi lo dici» rispose la donna d’affari. «Vieni, carissimo, di là c’è gente che muore dalla voglia di conoscerti.» Un istante dopo il sensitivo apparve: indossava pantaloni scuri, una camicia bianca e un panciotto di un’altra epoca, in broccato a disegni cachemire oro e acquamarina. Aveva una rada barba incolta a chiazze, talmente corta che poteva benissimo essergli cresciuta lungo la strada; occhi piccoli e ravvicinati, un viso angoloso caratterizzato da un naso stretto e a punta e il mento appena accennato; il tutto gli dava l’aria di una volpe in cerca di preda. «Quanti invitati!» esclamò entrando. «Dovrò bivaccare qui per giorni, se devo leggere il futuro a tutti.» «Resta pure finché vuoi» disse la donna d’affari. «Solo le signore» disse l’uomo d’affari dal suo angolino. Per quanto lo riguardava, non c’era niente di più noioso che sentire altri che si facevano predire la sorte; la sua, di sorte, se la costruiva da solo. Desiderava conversare in privato con l’AD della banca, mentre la moglie si dilettava con quelle assurdità. «Perché voi signore non vi trasferite sui divani? È più comodo» propose. Obbediente, la donna d’affari fece strada al sensitivo e alle signore verso i sofà di pelle e indirizzò un cenno alla domestica: «Porta al nostro ospite...». «Va benissimo del tè caldo» disse il sensitivo. «Che cosa? Non se ne parla nemmeno! Devi bere qualcosa, insisto.» «Quando avrò finito» ribatté il sensitivo. «Per ora il mio bicchiere deve essere limpido, come la mia mente.» Peri, a cui non era sfuggito questo scambio, pensò fra sé: “Non è che il tè sia esattamente limpido. E nemmeno questo tizio”. Nel frattempo i signori si erano radunati attorno a un’installazione artistica, una scultura murale di un enorme pesce preistorico con il rossetto sulle labbra e un fez ottomano completo di nappa. Finalmente lontani dalla parte più educata della compagnia, potevano imprecare liberamente e non preoccuparsi di dove soffiavano il fumo del sigaro. L’uomo d’affari chiamò la stessa domestica: «Evladim, portaci cognac e mandorle». Alzatasi da tavola come gli altri, Peri esitò in mezzo al salone, combattuta come le capitava sempre in quelle occasioni: la separazione dei sessi, consueta nelle riunioni mondane di Istanbul, la infastidiva. Nelle famiglie più conservatrici si arrivava al punto che uomini e donne potevano passare l’intera serata senza scambiare una parola, raggruppati in parti distinte della casa. Le coppie si dividevano all’arrivo e si ritrovavano alla fine della serata, subito prima di uscire. E anche gli ambienti più progressisti non disdegnavano questa pratica; dopo cena le donne si riunivano come se avessero bisogno l’una dell’altra per ritrovare calore, agio, rassicurazione. Chiacchieravano di argomenti disparati, con l’umore che variava di concerto: vitamine, integratori e ricette senza glutine; figli e scuola; pilates, yoga e fitness; scandali pubblici e pettegolezzi privati... Parlavano di celebrità come se fossero conoscenti e di conoscenti come se fossero celebrità. Quanto a Peri, rispetto a quella femminile preferiva la conversazione maschile, sebbene qui gli argomenti fossero tendenzialmente più cupi. In altri tempi non ci avrebbe pensato su due volte a raggiungere gli uomini e mettersi a battibeccare con loro di economia, politica, calcio... Loro non avrebbero avuto da ridire, quasi considerandola uno dei loro, anche se di sesso non avrebbero mai parlato in sua presenza. Quel comportamento avrebbe destato l’attenzione, e forse addirittura la collera, delle altre donne: Peri aveva notato, e ne era rimasta sconcertata, che alcune mogli si sentivano a disagio vedendola accanto ai loro mariti. E un poco alla volta aveva rinunciato alla sua piccola ribellione: l’ennesimo sacrificio sull’altare delle convenzioni. In quel momento non desiderava compagnia né maschile né femminile, ma solo di stare per conto proprio. Raggiunse con cautela la terrazza, dove un vento gelido proveniente dal mare la fece rabbrividire, e assaporò l’odore della bassa marea. Dall’altra parte del Bosforo, sopra la parte asiatica della città, il cielo era ormai di un blu scurissimo, mentre ciuffi di nebbia si addensavano sulla superficie come brandelli di mussola. In lontananza un peschereccio si accingeva a salpare. Peri pensò ai pescatori, seri e taciturni, che tengono la voce bassa per non spaventare i pesci e lo sguardo fisso sull’acqua da cui viene il loro pane quotidiano. Una parte di lei avrebbe voluto stare lì, su quella barca, in quel silenzio pieno di speranza. Proprio in quel momento, come a beffarsi dei suoi desideri, in qualche punto della sponda europea le sirene della polizia squarciarono la quiete. Mentre lei si imbeveva del paesaggio, a Istanbul qualcuno subiva un pestaggio, qualcuno si beccava una pallottola, qualcuno veniva violentato... eppure, in quello stesso istante, qualcuno si innamorava anche. Nella mano sinistra teneva ancora il cellulare del marito. Lo strinse e si decise. Erano passati anni dall’ultima volta che aveva sentito Shirin: a quel che ne sapeva poteva aver cambiato numero, e anche in caso contrario non stava scritto da nessuna parte che fosse disposta a parlarle. Ma la spinta a provarci, andasse come andasse, era troppo forte per resistere. Adesso che aveva permesso al passato di infiltrarsi nel presente, era sopraffatta da un senso di rimpianto. Armeggiando sulla tastiera fece scorrere l’elenco dei contatti, finché il pollice le si fermò su un nome familiare: Mensur, con annotato accanto «Baba». I rituali del matrimonio: i genitori del coniuge diventano automaticamente i propri, come se il passato di un’altra persona, tutti gli anni d’amore, incomprensioni e frustrazioni, si potessero trasferire in un giorno solo, con una firma su un registro. Suo marito non aveva cancellato il nome del suocero dopo la morte improvvisa. Magari concedere ad amici e parenti scomparsi una sopravvivenza virtuale conservandoli nella rubrica era il primo indizio dell’invecchiamento. Perché un giorno anche noi, come loro, diventeremo un nome e un numero registrato su un cellulare. Peri compose il numero che le aveva dato la madre. Rimase in attesa, il silenzio che all’altro capo del filo sembrava come espandersi: quel secondo di tensione, quando non si sa se arriverà il tono di libero o di occupato, il dubbio fugace che precede tutte le chiamate internazionali. «Peri, vieni?» Si girò, col telefonino ancora all’orecchio. Adnan faceva capolino dalla porta, con un bicchiere d’acqua in mano. Nella vita di coppia, Peri si era sentita sollevata quando aveva capito che lui non era un bevitore, né lo sarebbe mai diventato. Tuttavia c’erano momenti in cui avrebbe voluto vederlo perdere il controllo, fare una qualche fesseria da rimpiangere l’indomani. «Si chiedono tutti che fine hai fatto.» Proprio in quel secondo il telefono cominciò a squillare, a oceani e continenti di distanza, in Inghilterra, in una casa – immaginò Peri – completamente diversa da questa. «Un attimo e arrivo.» Adnan annuì, con un’ombra che gli attraversava il viso. «Va bene, cara. Fai presto.» Lei lo guardò girarsi e tornare verso il gruppo, che sembrava più rumoroso e allegro da quando si era allontanata. Contò: uno, due, tre... Un clic. Il cuore le saltò un battito mentre prendeva il coraggio per ascoltare la voce di Shirin, ed era la sua voce, ma in versione fredda, meccanica: la segreteria telefonica. «Ciao, questo è il telefono di Shirin. Mi dispiace ma in questo momento non ci sono. Se avete belle notizie, lasciate un messaggio, il nome e il numero dopo il segnale. Altrimenti parlate prima del segnale e non fatevi più sentire!» Peri riattaccò immediatamente; odiava i messaggi in segreteria, la loro cordialità fasulla. Ma subito dopo ricompose il numero e questa volta lasciò un messaggio. «Ciao, Shirin... Sono io, Peri.» Percepì la fiacchezza della propria voce. «Se non ti va di parlarmi ti capisco. Sono passati anni...» Deglutì, sentendosi la bocca come impastata, gessosa. «Ho bisogno di parlare con Azur. Devo sentirlo, devo sapere se mi ha perdonata...» Un bip. Lo schermo si spense. Peri rimase immobile, elaborando le conseguenze delle parole che le erano uscite di bocca, quasi di loro iniziativa. Stranamente si sentì alleggerita, con la testa che non era più un’orchestra di ansie e ipotesi e segreti e desideri soppressi. L’aveva fatto. Aveva chiamato Shirin. Adesso poteva succedere qualunque cosa, e lei era pronta ad affrontarla. Sentiva la notte non fuori ma dentro di sé, come una forza che le cresceva in petto, le bruciava i polmoni, si faceva strada nelle vene, smaniosa di manifestarsi. Non c’è una sensazione di leggerezza, pensò, paragonabile a quella che si prova quando si sconfigge un’antica paura. La limousine

Oxford, 2001

Un giorno d’inverno Shirin entrò in camera di Peri tirandosi dietro un trolley rosa. Andava a casa dai suoi per Natale. Andavano a casa tutti: studenti, professori, impiegati e addetti vari. Tutti tranne Peri, che aveva sforato di parecchio il tetto delle spese per il trimestre, aveva aspettato troppo a comprarsi un biglietto aereo economico e si era rassegnata a trascorrere le vacanze a Oxford. «Sicura che non vuoi venire con me a Londra?» le chiese Shirin per la decima o forse la milionesima volta. «Sicura, sto bene dove sto» rispose Peri. A dire la verità, non sarebbe rimasta esattamente dove stava. Nei periodi di vacanza, a Oxford gli studenti erano tenuti a liberare gli alloggi, in modo che le stanze fossero a disposizione dei partecipanti a convegni. A chi non partiva, come lei, il college forniva sistemazioni alternative, temporanee e più piccole. Shirin le si avvicinò di un passo, guardandola negli occhi. «Guarda, Topina, che dico sul serio. Se cambi idea, dammi un colpo di telefono. Mamma sarebbe felicissima di conoscerti, si esalta se invito un’amica a stare da noi... perché così può lagnarsi di me per ore e ore. Siamo una famiglia di merda, passiamo il tempo a stroncarci a vicenda, ma con gli ospiti siamo carini. E con te, saremmo carinissimi.» «Giuro che se mi sento sola ti chiamo» promise Peri. «Come vuoi. E non ti scordare che quando torno traslochiamo. È ora di farci una casa tutta nostra.» Peri aveva osato sperare che Shirin se la fosse scordata, quell’idea, ma evidentemente non era così. Gli oxfordiani che avevano fatto lo stesso percorso non si contavano più: si partiva dall’intimo abbraccio dello studentato dove la vita, tra inservienti, refettorio, biblioteca e sale comuni, era piuttosto facile; poi si iniziava a trovarla di giorno in giorno più soffocante; si metteva insieme un gruppetto di potenziali coinquilini e il secondo anno ci si trasferiva fuori. Cosa a cui molti erano comunque obbligati fin da subito, perché non ogni college era dotato di alloggi sufficienti per tutti gli iscritti. Fino a quel momento, ogni volta che l’amica era entrata in argomento Peri aveva sempre declinato, gentile ma ferma. Solo che Shirin era un martello, e il suo entusiasmo era contagioso; mostrando a Peri foto di case passatele da un agente immobiliare, le ripeteva che per lei mettere una quota maggiore ogni mese non era un problema, e in cambio ne avrebbe ricavato spazi privati e serenità d’animo. Odiava la solitudine e non avrebbe mai potuto abitare da sola, quindi se lei avesse accettato la proposta sarebbe stata Shirin quella in debito, e non Peri. «Ci penserò su» aveva detto Peri a un certo punto, con qualche disagio. «A cosa devi pensare? La vita di studentato è fatta per le matricole. Gli unici che ci restano sono quelli troppo timidi per traslocare... e i nerd.» «O quelli che non hanno i soldi.» «I soldi?» aveva detto Shirin, con il tono che riservava alle persone moleste e alle grane inevitabili, tipo i guasti alle fogne o il mancato ritiro della spazzatura. «A quelli ci penso io, è proprio l’ultima delle tue preoccupazioni.» Pur non avendolo mai detto apertamente, Shirin aveva lasciato intendere più di una volta che i suoi stavano parecchio bene; la vita le aveva già riservato la sua quota di sventure, ma la mancanza di denaro non era tra quelle. Peri era certa che la loro casa londinese non fosse affatto umida e diroccata come la descriveva la sua amica. Shirin era disposta a coprire l’affitto anche per intero; Peri doveva solo mettere libri e vestiti dentro qualche scatolone e seguirla in quella nuova avventura. «Bene, tesoro, ora devo scappare.» Shirin la baciò su entrambe le guance, avvolgendola in una nube di profumo. «Buona fine e buon inizio! Non vedo l’ora che arrivi il 2002! Ho la sensazione che sarà l’anno più bello della nostra vita.» Peri prese la bottiglietta d’acqua che teneva sulla scrivania e accompagnò l’amica fino all’ingresso. Il primo portiere stava sull’attenti davanti all’entrata; era un ex ufficiale dell’esercito e pareva conoscesse tutti per nome. «Buone vacanze, Shirin, ci vediamo l’anno prossimo» disse tutto allegro «e altrettanto a te, Peri.» A Peri sembrò di cogliere un moto di calore in più nel saluto che aveva rivolto a lei; probabilmente gli faceva pena, l’unica studentessa che non tornava a casa. Per strada attendeva una limousine nera con autista. Peri rimase a guardare Shirin che se ne andava, quasi trotterellando fra tacchi alti e valigia al seguito, in preda a emozioni contrastanti. Andare a vivere con l’amica rischiava di esacerbare la soggezione che provava nei confronti della sua personalità fortissima. E poi, era davvero il caso di ritrovarsi in debito con lei, o con chiunque altro? Ma d’altro canto, non sarebbe stato grandioso vivere in una casa tutta loro? Gettò dell’acqua nella scia dell’auto che si allontanava, seguendo l’antica tradizione con cui i turchi salutano gli amici che se ne vanno: Parti come acqua, torna come acqua. Il fiocco di neve

Oxford, 2001

Sulla città calava la frenesia natalizia. Peri, abituata ai ben più contenuti festeggiamenti di fine anno a Istanbul, fu dapprima sconcertata, e poi divertita, da preparativi tanto elaborati: le vie adorne di scintillanti luminarie ad arco, i negozi che scoppiavano di roba, i gorgheggiatori di canti natalizi con le tipiche lanterne che baluginavano come lucciole nell’oscurità. Svuotata dagli studenti, sembrava che Oxford perdesse l’anima; ed essere studenti e soli a Natale era davvero straniante, anche per Peri che, di norma, da sola stava benissimo. Pranzava ogni giorno per conto suo in un ristorante cinese che aveva solo tre tavoli; il cuoco era bravo, ma anche curiosamente discontinuo. Forse era ammalato di disturbo bipolare, pensava lei, e gli sbalzi d’umore si riflettevano sui piatti; fatto sta che certe volte dopo mangiato era stata male. Aveva anche ripreso il lavoro part-time da Two Kinds of Intelligence. I titolari le dissero che ormai da anni, per richiamare più clienti, tentavano di allestire la vetrina in tema con le festività: un pupazzo di neve che leggeva un libro in poltrona, festoni di lettere dell’alfabeto... quest’anno volevano qualcosa di diverso. «Se facessimo l’albero di Natale dei Libri Proibiti?» propose Peri. Come l’Albero della Conoscenza recava il frutto proibito, il loro albero avrebbe ospitato libri banditi in qualche parte del mondo. L’idea piacque al punto che gliene affidarono la realizzazione. Tutta presa, Peri piazzò al centro della vetrina un albero argentato, ai cui rami appese Alice nel paese delle meraviglie, 1984, Comma 22, Il mondo nuovo, L’amante di Lady Chatterley, Lolita, Il pasto nudo, La fattoria degli animali... La lista dei titoli messi all’indice solo in Turchia era talmente lunga che dovette riservare molti rami a quelli, e non bastavano comunque. Kafka e Bertolt Brecht, Stefan Zweig e Jack si ritrovarono a braccetto con ‘Umar Khayyām, Nâzım Hikmet e Fatima Mernissi; e per tutti i rami sparse inoltre i cartellini fosforescenti che aveva preparato: BANDITO, CENSURATO, BRUCIATO. Mentre lavorava, riandò con la mente a un altro Natale – aveva forse dieci o undici anni – in cui Mensur aveva portato a casa un albero di plastica. Nel quartiere non ce l’aveva nessuno, un albero così, benché se ne vedessero in diversi negozi e supermercati. Nel trasporto dall’ingresso all’angolo prescelto l’albero si era lasciato dietro aghi di plastica, come il bimbo della fiaba che sbriciolava a terra il pane per ritrovare la strada di casa. Ciò malgrado, Peri e Mensur si impegnarono moltissimo a decorarlo, con fili azzurri, d’oro e d’argento, e una volta terminate le decorazioni già pronte ne avevano confezionate da sé: noci colorate, pigne, tappi di bottiglia e animaletti di sughero dipinti con lo spray. Su quell’albero di Natale tutto era dimesso e scompagnato, ma loro se n’erano innamorati. Poi era tornata Selma dalle sue commissioni, e aveva fatto una faccia. «Che bisogno c’era di questa roba?» «Arriva l’anno nuovo» disse Mensur, nella remota ipotesi che sua moglie non lo sapesse. «È un’usanza cristiana» disse Selma. «E quindi, a noi non tocca neanche un gocciolino di gioia?» Mensur alzò gli occhi al cielo. «Sei convinta che Lui non mi amerebbe più, dovessi mai divertirmi un pochetto?» «E perché mai Allah dovrebbe amarti, visto che non fai niente per renderti amabile?» Ben sapendo che il padre aveva acquistato la controversa conifera solo per far piacere a lei, Peri si sentiva responsabile di tutta quella tensione e pensò che doveva essere lei a rimediare. Quella sera attese che tutti andassero a dormire e poi eseguì il suo piano, stando alzata fino alle ore piccole. Il mattino dopo, entrando in soggiorno, i Nalbantoğlu vi avevano trovato un sempreverde curiosamente rivestito: i rami erano tutti adorni degli amatissimi rosari di Selma, dei suoi gatti di porcellana e dei suoi foulard di seta, questi ultimi tagliati a striscioline. In cima all’abete c’era una minuscola moschea in ottone, con accanto un libro di hadith in perfetto equilibrio. «Visto? Non è più cristiano» aveva detto Peri, sorridendo a tutta bocca. Poi, nell’attesa della reazione della madre, era stato come se il mondo smettesse di girare. Selma aveva spalancato la bocca, incredula e inorridita, e sembrava sul punto di dire qualcosa: ma prima che potesse parlare Mensur, giusto alle sue spalle, era scoppiato in un riso convulso, e al sentire quanto si stava divertendo il marito, Selma si era incupita ancora di più. Un istante dopo se n’era andata. Ancora oggi Peri non sapeva che cosa sua madre avrebbe detto, e che cosa avesse pensato davvero, del suo albero di Natale islamico.

Il 30 dicembre Peri era di nuovo in libreria, ma a parte una signora anziana che era entrata più per il tepore che per amor di letteratura, non c’erano clienti. I titolari erano andati a trovare degli amici e gli altri commessi si erano presi il giorno libero. Peri spolverò gli scaffali, mise su il caffè, spazzò il pavimento, risistemò i cuscini e controllò l’inventario, a proprio agio in un posto che aveva imparato ad amare. Svolte le sue incombenze si accomodò in poltrona, circondandosi di cuscini, con un libro di A.Z. Azur. In negozio era riuscita a procurarsi la sua opera omnia, nove titoli seducenti su sovraccoperte a motivi geometrici. Dai rendiconti si evinceva che vendevano bene, e al momento lei stava leggendo una delle prime opere, La guida per rimanere perplessi. La vecchietta si trascinò fino alla poltrona di fronte, si sedette con le palpebre calanti e il capo chino e ben presto si addormentò. Peri prese una copertina da sotto la cassa e con delicatezza gliela mise addosso. Il tempo si stirò e rallentò, un mistero vischioso come la resina sulle conifere dell’Anatolia; e per la mente di Peri corse la sensazione, inebriante come una droga, che l’universo fosse colmo di possibilità. Circondata da libri che voleva leggere, tutti quanti, e accompagnata dalla scrittura di Azur – un po’ provocatoria, un po’ consolatoria – provò un senso di pace che non sentiva da anni; sì, era ancora arrabbiata con lui, ma non poteva prendersela con i suoi libri. E non aveva smesso di pensare al suo corso. Non ci era riuscita. Aveva a malapena terminato un capitolo che la porta del negozio si aprì in un trillo di campanellini, lasciando entrare, insieme a una folata d’aria gelida, proprio il professor Azur, con un lungo cappotto scuro e una sciarpa color zafferano che avrebbe destato l’invidia di un monaco buddista. L’inappuntabile mise era completata da un borsalino di velluto, che conteneva a stento i ricci ribelli. «Possiamo entrare?» disse rivolto all’interno del negozio. Peri dovette alzarsi, schizzare verso la porta e inciampare in una crepa del pavimento prima di capire perché avesse detto «possiamo». Accanto a lui, da sotto un folto mantello bianco, sabbia e mogano, spuntava il muso affilato di un collie a pelo lungo. Azur spalancò gli occhi. «Ciao, Peri. Che sorpresa. Cosa ci fai qui?» «Ci lavoro, part-time.» «Che meraviglia! Quindi, che faccio con Spinoza?» «Come, scusi?» «Il cane» spiegò lui. «Fuori fa freddissimo.» «Ah, okay, lo porti pure dentro» disse Peri e poi, rammentandosi che i titolari detestavano vedere cani in negozio, corresse la rotta. «Anzi no, forse è meglio se... aspetta vicino alla porta...» Solo che Azur era già dentro, con il cane al seguito, e tutti e due stavano con la testa alta e lo sguardo dritto avanti a sé come in una pittura egizia. «È un po’ che non passo di qui» fece Azur dandosi un’occhiata intorno. «Ma è cambiato... sembra tutto più grande, più luminoso.» «Abbiamo spostato qualcosa e dato via i mobili più ingombranti» disse Peri, e intanto sorvegliava Spinoza che fiutava un po’ in giro e infine si sistemava sul cuscino più morbido, con la pelliccia che si allargava sul pavimento. Se notò il suo disagio, il professore non lo diede a vedere. Con il solito tono ondulatorio, così tipico in lui, era già passato ad altro: «A proposito, l’Albero Proibito in vetrina è una magnifica idea. Mi piace molto». Peri sentì un moto d’orgoglio. Avrebbe voluto dirgli che l’albero era opera sua, ma non voleva dare l’impressione di vantarsi, perciò disse la prima cosa che le venne in mente. «Stava cercando qualcosa in particolare?» «Al momento no» rispose Azur. «La mia addetta stampa mi ha chiesto di passare a firmare qualche copia e io le ho promesso che avrei obbedito.» Gli cadde l’occhio sulla poltrona da cui si era alzata Peri. «Quello non mi è nuovo. Lo stai leggendo?» Peri non riuscì a nascondere l’imbarazzo. «Appena cominciato.» Azur rimase ad aspettare che Peri aggiungesse qualcosa. E lei pure, come se ancora non avessero trovato una lingua in cui potessero comunicare veramente. Alla fine disse, indicando il tavolo: «Perché non si accomoda? Vado a prendere i suoi libri». Che non erano pochi: la libreria aveva due titoli di Azur in ordine, ma gli altri sette erano disponibili in un numero di copie tra dieci e quindici ciascuno... c’era di che farne una modesta torre. Il professore si tolse il cappotto, avvicinò una sedia al tavolo, tirò fuori una stilografica e si mise a tracciare firme con grande diligenza. Lei gli portò un caffè e poi si trovò qualcosa da fare in un angoletto da cui poteva osservarlo. A metà pila, Azur s’interruppe e da sopra le lenti le piantò addosso uno sguardo interrogativo: «Com’è che non festeggi la fine dell’anno con i tuoi?». «Non sono riuscita a partire» rispose Peri con uno svolazzo disinvolto, come se Istanbul fosse lì dietro l’angolo. «Ma non è un problema, noi non teniamo particolarmente al Natale.» Lo sguardo si fece più intenso e penetrante. «Mi stai dicendo che non ti dispiace non aver potuto trascorrere le vacanze con la tua famiglia?» «Non è quello che intendevo.» Ormai lo conosceva da mesi, ma ancora aveva l’impressione che lui equivocasse di proposito ogni cosa che diceva. «Semplicemente, queste feste sono più importanti per gli studenti cristiani.» S’interruppe. Aveva detto qualcosa di sbagliato? Sceglieva sempre attentamente le parole, come se camminasse sul ghiaccio, fermandosi di tanto in tanto a controllare che la superficie sotto i piedi non si fosse – ancora – incrinata. Lui la osservava, con un bagliore strano nello sguardo che pareva trapassarla. «I tuoi sono musulmani praticanti?» «Mia madre e uno dei miei fratelli, sì» rispose Peri. «Mio padre e l’altro fratello, il maggiore, invece no.» «Ah, che spaccatura» disse Azur, con il tono trionfante di chi si trova proprio sotto gli occhi il pezzetto del puzzle che mancava. «Fammi indovinare: tu sei più in sintonia con tuo padre e tuo fratello maggiore.» Lei incassò. «Sì, infatti.» Annuendo tra sé, lui tornò ai suoi libri. «E lei?» azzardò Peri. «Cioè, lei non festeggia con la famiglia?» Azur fece le viste di non sentire, limitandosi a proseguire con gli autografi, e lei non osò ripetere. Per qualche minuto, o così parve, nella libreria non si udì che lo sbuffare del collie, il russare della vecchietta, il ticchettio della pendola e lo scricchiolio della stilo di Azur. Peri notò la mascella che s’irrigidiva, lo sguardo che si perdeva per un attimo; ma tutto in lui sembrava sempre mobile, transitorio, effimero. Niente passato, niente futuro, solo il momento presente, fuggevole e poi fuggito. Poi lui prese un sorso di caffè. «Adesso è Spinoza la mia famiglia.» Adesso. Il modo in cui aveva pronunciato la parola diede a Peri l’impressione di aver forzato un coperchio che non aveva il diritto di toccare e aver scorto la tristezza che racchiudeva. «Mi scusi» disse. La penna si fermò di nuovo. «Senti, facciamo un patto, noi due» disse Azur. «Mi hai già chiesto scusa talmente tante volte che di qui in poi, se anche dovessi fare qualcosa di orribile, non voglio più sentire scuse. Me lo prometti?» Peri sentì il cuore martellare nella cassa toracica, anche se non capiva bene perché: quel patto aveva un che di illecito. Ciò malgrado, non esitò un istante: «Glielo prometto». «Benissimo!» Avendo terminato di firmare le copie, Azur si alzò. «Grazie per il caffè.» «Adesso ci metto gli adesivi» disse lei. «Sui libri, con scritto “copia firmata”.» «Grazie.» Le sorrise. Si riavviarono verso la porta, il crinito professore e il crinito pastore scozzese, i corpi in un’armonia raffinata da anni di amicizia. Nel tendere la mano verso la maniglia Azur si fermò, si voltò e la guardò in faccia. «Senti una cosa, abbiamo organizzato una cena informale, qualche vecchio amico, qualche collega, assistenti, ce n’è uno che ha praticamente la tua età, magari è divertente, magari è una noia mortale, ma non passare la vigilia di Capodanno da sola. L’Inghilterra ha un modo tutto suo di far sentire gli stranieri liberi in una maniera esaltante e soli in una maniera spaventosa. Che ne dici, vieni anche tu?» E prima che lei potesse anche solo formulare una risposta, si era già cavato di tasca un taccuino, ne aveva strappata una pagina e ci aveva scritto sopra indirizzo e orario. «Ecco qui, pensaci, senza impegno. Se ti va di venire, vieni. Non portare niente. Niente fiori, niente vino, niente dolcetti turchi, vieni tu e basta.» Aprì la porta e uscì. Aveva cominciato a nevicare e i fiocchi volteggiavano in aria senza scopo e senza direzione, come se si fossero levati dalla terra anziché essere caduti dal cielo. Oxford sembrava un villaggio dentro una palla di vetro. «Che splendore» disse Azur, al cane, a se stesso o forse a Peri, chissà. «Bello» mormorò lei dalla soglia. E poi fece qualcosa che non avrebbe mai creduto. Benché fosse tardi e facesse freddo, e lui se ne stesse andando, e lei tremasse con addosso solo il maglione e le braccia incrociate, si mise a parlare del suo libro senza riuscire a fermarsi, con il fiato che le usciva di bocca a nuvolette di condensa: «Secondo lei, la vita di ciascuno di noi è solo una delle molte possibili vite che avremmo potuto condurre. E sotto sotto, credo che lo sappiamo tutti: persino nei matrimoni più felici e nelle carriere più riuscite si ritrova un elemento di dubbio, nessuno può fare a meno di chiedersi come sarebbe andata se avesse preso un’altra strada... o altre strade, sempre al plurale! Poi lei ci dice che anche la nostra idea di Dio è solo una tra le tante, e quindi che senso ha essere dogmatici in materia di Dio, atei o credenti che si sia?». «Giusto» confermò lui, percorrendole il volto con lo sguardo, sorpreso e compiaciuto per quello sfogo. «Ma deve sapere che al mondo c’è tanta gente, come per esempio mia madre» seguitò Peri, «per cui il senso di sicurezza viene dalla fede. Sono convinti che esista un’unica interpretazione di Dio: la loro. È gente che deve già sopportare molto, e lei vuole portargli via la loro unica protezione, che è proprio la loro certezza. Mia madre... per dire, io certe volte la guardo e la vedo così triste che penso proprio che sarebbe impazzita, se non avesse potuto aggrapparsi alla fede.» Il silenzio che si aprì tra loro aveva la delicatezza di un ventaglio. «Mi rendo conto. Ma l’assolutismo, di qualunque genere sia, è sempre una debolezza» rispose Azur. «Per come la vedo io, Peri, ateismo assoluto e fede assoluta sono ugualmente problematici; il mio compito è inoculare una dose di fede negli atei, e una dose di scetticismo nei credenti.» «Ma perché?» Azur le rivolse uno sguardo tagliente. «Perché non sono un purista. Il purismo inibisce il progresso intellettuale.» Un fiocco di neve gli si venne a posare sul Borsalino, un altro tra i capelli. «Vedi, alcuni studiosi tendono a dividere e categorizzare; altri, a fondere e unificare. C’è chi spacca e chi ammucchia. Io invece voglio stare con tutti e cinque i sensi all’erta, come il nostro prodigioso polpo. Cerchiamo di non dipendere da un cervello centralizzato. Portiamo la poesia dentro la filosofia e la filosofia direttamente dentro la nostra vita. Il problema, oggigiorno, è che al mondo contano più le risposte delle domande, ma le domande dovrebbero valere molto di più! Forse io voglio portare il diavolo dentro Dio e Dio dentro il diavolo.» «Sì, ma io... cioè noi... come ci riusciremo?» «Ovunque vedremo un dualismo, lo manderemo in mille pezzi. Con la singolarità faremo il pluralismo e con la semplicità faremo la complicazione.» «E che significa?» «Significa che faremo casino, spariglieremo il gioco. Metteremo insieme idee inconciliabili e persone inverosimili. Pensa all’islamofobo che si prende una cotta per una musulmana... o all’antisemita che stringe amicizia con l’ebreo... e avanti così, finché capiremo che cosa sono veramente le etichette: un parto della nostra fantasia. La faccia che vediamo allo specchio non è veramente la nostra: è solo un riflesso. E il proprio vero Sé si ritrova solo nel viso dell’Altro. Gli assolutisti venerano la purezza, noi l’ibridazione; loro vogliono ridurre tutti a un’unica identità e noi ci battiamo per il contrario: la moltiplicazione di ciascun uomo in centinaia di appartenenze, in migliaia di cuori che battono. Se sono umano, dovrei essere così vasto da emozionarmi per tutti e ovunque. Guarda la storia, guarda la vita: si evolve dal semplice al complesso, non viceversa. Quella sarebbe involuzione.» «Ma non è un po’ troppo?» disse Peri. «La gente ha bisogno di semplificazione.» «Gran fesseria, carissima. Abbiamo il cervello programmato per curve a gomito e tornanti!» Non c’era altro da dire. Lui la salutò con la mano, lei ricambiò con un cenno del capo, poi uomo e cane partirono nell’oscurità che si stendeva loro dinanzi. Peri sentiva uno strano vuoto nello stomaco; aveva il respiro irregolare ed era simultaneamente euforica e terrorizzata, sull’orlo dell’ignoto. Restò a guardarli finché non voltarono l’angolo. Quello, per lei, non fu un momento come un altro. Uno lo riconosce sempre, l’istante in cui s’innamora. Il sensitivo

Istanbul, 2016

Quando rientrò nel salone Peri fu colpita dagli aromi di caffè, cognac e sigari sgradevolmente mescolati ai costosi profumi sospesi nell’aria. Pensava ancora al messaggio che aveva lasciato in segreteria a Shirin quando notò, a due passi da lei, il sensitivo. Con un sorriso soddisfatto adagiato sul volto, l’uomo era seduto su un divanetto, circondato da signore inginocchiate e adulanti, come un sultano in una grottesca fantasia orientaleggiante. C’era anche il finanziere americano, che aspettava paziente di farsi leggere i fondi del caffè. Peri si avvicinò al gruppo degli uomini, ignorando le regole sociali, e si sedette in mezzo a loro, accanto al marito, tra nubi di fumo grigio-azzurrognolo che provenivano da vari sigari. Adnan le posò una mano sulla spalla e la strinse delicatamente: una volta e poi un’altra. Era un loro codice che significava: «Ti stai annoiando?». Lei gli prese la mano e la strinse in risposta, solo una volta. «Tutto bene.» «Statemi bene a sentire: questi vogliono ridisegnare il Medio Oriente» stava dicendo l’architetto agli altri. «È chiaro che le potenze occidentali hanno un piano complessivo.» «Poco ma sicuro. Non permetteranno mai a noi musulmani di prosperare» concordò il pio magnate della stampa. «Le crociate non sono mai finite!» «Infatti, ma la Turchia non è più quella di una volta» aggiunse l’architetto nazionalista. «Non siamo più agnellini miti, non siamo più il fanalino di coda dell’Europa. Adesso è l’Europa ad aver paura di noi, e farà qualunque cosa per sobillare gli animi.» Il magnate la pensava allo stesso modo. «Lo sanno bene, come fomentare il caos: una mano invisibile preme un pulsante ed esplode tutto, massacri e violenza. Dobbiamo tenere gli occhi aperti.» Gli altri uomini ascoltavano attenti, chi annuendo, chi senza reagire. Peri li fissava attraverso il fumo dei sigari. «A me sembrano tutte paranoie» intervenne a bassa voce. «Europei... occidentali... russi... arabi... Se li conosceste, non come categoria, ma personalmente, capireste che siamo tutti, più o meno, fisicamente e psicologicamente, uguali.» Tacque un attimo. «Possiamo solo riconoscere noi stessi, nel volto... dell’Altro.» L’architetto e il magnate la fissavano a bocca aperta. Adnan le strizzò l’occhio: «Ben detto, cara». Sorridendo al marito, Peri si alzò, prese congedo, attraversò tutta la sala e si avvicinò al gruppo delle signore. Vedendola, la PR si chinò e bisbigliò qualcosa all’orecchio del sensitivo, che spalancò gli occhi mentre ascoltava. Quindi alzò lo sguardo e fissò Peri; le sorrise, lei non ricambiò e il sorriso di lui si allargò ancor di più. Come tutte le persone abituate a essere adulate e riverite, trovava interessante solo chi cercava di evitarlo. «Perché la tua ospite non si unisce a noi?» chiese alla padrona di casa, seduta di fronte a lui con Pom-Pom in grembo. Risoluta, la donna balzò in piedi con una mano sotto la pancia del cagnolino, e dopo aver infilato l’altra sotto al gomito di Peri la guidò, cortese ma ferma, verso l’ospite d’onore. «Conosci la nostra amica Peri?» chiese al sensitivo. «È arrivata in ritardo, proprio come te. Ha avuto un incidente venendo qui.» «Proprio una giornataccia, a quanto pare» disse l’uomo, osservando la mano bendata e il vestito rovinato. «Niente di serio...» ribatté Peri. «Meriti un dono. Vuoi che ti legga il futuro?» Si alzò e aggiunse sorridendo: «Gratis». La ragazza del giornalista e la PR, sedute alla sua destra e alla sua sinistra in attesa del rispettivo turno, non gradirono. Peri scosse il capo. «Hai fin troppo da fare.» «Ma figurati, sono qui per tutti.» Sulla faccia gli serpeggiò un sorriso, come se avesse pensato di aggiungere qualcosa e poi deciso di tenerlo per sé. «Mi sa che per questa volta passo.» Il sensitivo ridacchiò, ma nello sguardo gli era apparso un riflesso metallico. «Sono venticinque anni che lo faccio e devo ancora incontrare una donna che non voglia conoscere il futuro.» La PR colse l’occasione: «E del suo passato che ci dici?». «Lasciamo perdere... Non fa per lei» rispose il sensitivo, tenendo lo sguardo fisso su Peri e porgendole la mano. «Lieto di averti conosciuta, comunque.» Lei tese la mano sinistra, quasi senza pensarci, ma invece di stringerla l’uomo la afferrò per il polso e non la lasciò. Da lui a lei passò qualcosa, un formicolio, un lampo di calore. Continuando a trattenerla, le disse: «Diffida dei ciarlatani, ma non di un vero sensitivo». «Lui è proprio il migliore, mica come gli altri» confermò la donna d’affari. «Magari un’altra volta, eh?» riaffermò Peri tirandosi indietro. Aveva a stento fatto un passo che la raggiunse la voce del sensitivo: «Senti la mancanza di qualcuno». Si voltò a guardarlo. «Che hai detto?» Lui le si avvicinò. «Qualcuno che amavi e che poi hai perso.» Peri si riprese rapidamente. «Potresti dirlo a metà delle donne di tutto il mondo, e anche degli uomini.» Lui rise, con una vivacità falsa nella voce. «Qui è diverso.» Involontariamente Peri incrociò le braccia, decisa a non avere più nessun contatto. «Vedo la prima lettera del suo nome» continuò lui in un tono confidenziale, ma alto a sufficienza perché tutte lo sentissero. «È una A.» «Ci sono un sacco di nomi maschili che cominciano per A» disse Peri senza pensare. «Quello di mio marito, per esempio.» «Facciamo così: non voglio metterti in imbarazzo davanti a tutti. Te lo scrivo su un tovagliolo.» «Kizim» gridò la donna d’affari sovreccitata. «Portaci una penna, presto!» La PR, maligna, intervenne: «Se è una storia vecchia, perché non si può raccontare?». «E chi ha detto che è vecchia?» fece il sensitivo. «È una cosa ancora viva, pulsante.» Peri riuscì a mantenersi calma, anche se le covava dentro una tempesta. Voleva solo essere lasciata in pace, da quel tizio e da tutte quelle donne e quegli uomini e da quella città con il suo caos infinito. Apparve la cameriera con la penna richiesta, così in fretta che sembrava stesse aspettando solo quello. Il sensitivo scrisse con un ampio svolazzo per non farsi vedere dalle altre e ripiegò il tovagliolo, ogni azione esageratamente lenta e teatrale. «Ecco il mio dono» disse dandolo a Peri. «Bene, grazie.» Peri si allontanò dalle signore, superò i signori e uscì in terrazza. Il peschereccio non c’era più, mentre il mare si stendeva in avanti, più scuro del più amaro dei rimpianti. Per strada sfrecciò un’automobile, col motore che rombava e la musica a tutto volume, una canzone d’amore in inglese che usciva dai finestrini. Peri socchiuse gli occhi, cercando di immaginare il tizio – mai una tizia – che sentiva una musica come quella così forte, così tardi. Con cautela riaprì la mano sinistra, quella che usava per scrivere, la più forte. Lì, sul tovagliolo sgualcito, il sensitivo aveva disegnato tre figure femminili, come le tre scimmiette sagge. Loro tre. Sotto la prima c’era scritto Lei vide il Male, sotto la seconda Lei sentì il Male. E sotto la terza c’erano queste parole: Lei fece il Male. Quarta parte

Il seme

Oxford, 2001

L’ultimo giorno dell’anno Peri era troppo agitata per riuscire a fare anche solo metà di quel che si era prefissa. La mattina andò a correre ma non riusciva a tenere il ritmo, e poi le venne un crampo a un polpaccio così forte che dovette fermarsi prima del solito. Quindi si mise alla scrivania a leggere ma non riusciva a concentrarsi, le parole strisciavano sulla pagina bianca come formiche affamate. E lei aveva più fame di loro. Con i suoi precedenti di «abbuffate emotive», però, temeva che se avesse iniziato a mangiare non avrebbe più smesso, nervosa com’era. Perciò si mise a sbocconcellare mele e ad ascoltare la radio; buona idea, questa, perché il suono costante le calmava i nervi. Sentì le notizie dal mondo, poi quelle locali, qualche dibattito politico e un documentario della BBC sull’impero azteco. Ma nessun documentario – neppure uno sui potentissimi Aztechi – durava in eterno e, per quanto lei tentasse di non pensarci, aveva in testa solo la serata che l’attendeva. Alla fine, il momento di prepararsi venne come un sollievo: trovarsi a cena con il professor Azur non avrebbe mai potuto essere peggio dell’attesa della cena stessa. Come trucco Peri si limitò a un filo di mascara, matita nera e rossetto. Si guardò bene allo specchio, trovando sempre troppo paffuto il naso che aveva ereditato dalla madre; se c’era un modo, con i cosmetici adatti, di farlo sembrare più sottile, lei non lo aveva ancora scoperto. Se ci fosse stata Shirin, avrebbe potuto chiederle un consiglio; ma d’altro canto, se ci fosse stata Shirin, molto probabilmente Peri non sarebbe andata da Azur. Non passare la vigilia di Capodanno da sola, aveva detto il professore. Sperava solo che non l’avesse invitata per compassione. Il problema era cosa mettersi. Non che avesse l’imbarazzo della scelta, ma con i pochi capi che possedeva creò diverse combinazioni e le provò tutte, una dopo l’altra. La gonna nera di jeans con la camicetta liscia; la camicetta con i blue-jeans; i jeans con il giacchino verde... Non voleva avere un’aria da studentessa o, peggio, l’aria di non voler avere un’aria da studentessa. Alla fine, con una pila di vestiti sul letto, scelse una gonna di velluto e un maglioncino celeste, così morbido da dare l’illusione del cachemire; e rifinì la mise con una collana di perline scaccia-malocchio blu scuro. Benché Azur fosse stato molto chiaro sul non portare niente, Peri aveva imparato dalla mamma che a mani vuote non ci si presenta da nessuna parte. Comprò quindi otto tortine in una gastronomia di Little Clarendon Street: una vera stupidaggine, dato che costavano più di una torta intera. Raggiunse la fermata dell’autobus e attese. Il bus arrivò di lì a cinque minuti; lei rimase dov’era, a guardare le porte del veicolo che si aprivano e si richiudevano. Poi lo guardò ripartire senza di lei, mentre tornava a casa a cambiarsi la gonna e il maglioncino. Abito lungo nero e stivali pesanti: molto meglio. Azur abitava appena fuori città, a venti minuti d’autobus su Woodstock Road, nel sobborgo di Godstow. La primavera lo avrebbe avvolto nel rigoglio verdissimo della campagna inglese, con una vista nitida dal Port Meadow alle guglie trasognate di Oxford, ma adesso era celato nell’oscurità. Quando fu ora di scendere dall’autobus, aveva anche ripreso a nevicare; larghi fiocchi soffici sui capelli e sul cappotto di Peri. Non c’erano altre abitazioni nelle immediate vicinanze; la cosa non la stupì. Già da tempo sospettava che il professore fosse un misantropo non dichiarato. La casa era imponente, dalla facciata simmetrica rivestita in pietra, e come per il proprietario era difficile darle un’età; ma sembrava un posto con un passato, una casa di storie. Peri vi si avvicinò pian piano, attenta a non scivolare, lungo un sentiero tortuoso e fiancheggiato di querce spoglie. Il vento le trapassava il cappotto e lei rabbrividì, di nervosismo e di freddo. Si voltò a guardare la fermata dell’autobus, quasi preoccupata di non ritrovarla lì più tardi: come sarebbe rientrata? Doveva pur esserci qualcuno, a quella cena, che abitasse a Oxford e che avrebbe senz’altro potuto darle un passaggio. Tipico di lei, fasciarsi la testa sulla conclusione di una serata prima ancora che cominciasse. Dalle finestre del piano terra colava fuori una luce calda e dorata come miele. Con la scatola dei dolci stretta al petto Peri si fermò vicino alla porta, ad ascoltare il rumore che veniva da dentro: chiacchiere allegre, scrosci di risa e ondate di musica in sottofondo. Un genere di musica che nessuno dei suoi amici ascoltava, e lei neppure; e che, come la luce, invitava e intimidiva al tempo stesso. Nel fare il passo successivo udì un sibilo, come il fruscio di un’auto in lontananza; ma per strada non passava nessuno, né autobus, né moto, e certamente neanche biciclette, con quel tempaccio. Nel medesimo istante, la porzione più lenta e più saggia del suo cervello la informava che quel rumore era molto più vicino, e Peri si guardò intorno. L’occhio le cadde sull’alta siepe alla sua destra e lei s’irrigidì, mentre il cuore accelerava. Non si muoveva nulla, nemmeno il vento, eppure adesso era certa che qualcosa o qualcuno la stesse osservando. D’istinto domandò: «Chi è là?». Nel buio torbido le sembrò di distinguere una sagoma che guizzava dietro i cespugli. «Troy! Sei tu?» Il ragazzo venne allo scoperto, pallido e imbarazzato. «Oddio, mi hai fatto prendere un colpo» disse Peri. «Mi stai di nuovo seguendo?» «Ma no, non dire sciocchezze» disse Troy con un cenno verso la casa. «Sto alle calcagna del diavolo.» S’interruppe. «Tu che ci fai qui?» Peri decise di non rispondere. «Stai spiando il professore!» «Te l’ho detto che l’ho querelato. Mi servono prove per il tribunale.» Ne sei ossessionato, pensò Peri. Strano davvero, che tra tanti diversi tipi di ossessione, odio e amore differissero solo di qualche tonalità, come sfumature vicine sulla tavolozza di un artista. Dall’interno arrivò un altro scoppio di risa e Troy schizzò nuovamente dietro la siepe. «Per favore, non dire niente di me.» Peri si accigliò. «Non puoi fare così, non ne hai il diritto. Io adesso entro e aspetto dieci minuti. Poi esco di nuovo a controllare e se ancora non te ne sei andato torno dentro e dico tutto ad Azur. E se lui non chiama la polizia, la chiamo io!» «Accidenti, calmati» disse Troy con le mani in alto. «Non sparare.» Peri lo lasciò dov’era e raggiunse la porta d’ingresso, decorata con un pannello di vetro colorato in ambra, verde oliva e rosso scuro. Suonò rapidamente il campanello e una nota tagliò l’aria, nitida come quella di un uccello: ma non un trillo di canarino o di usignolo, più uno strido da pappagallo che ridesse in faccia allo sventurato ospite. I rumori all’interno cessarono per un istante, poi ripresero altrettanto rapidamente, mentre dall’altro lato del vetro colorato appariva un’ombra. Presto si udì un tramestio di passi; e lei non si era ritoccata il rossetto, ma era troppo tardi. La porta si aprì. A oscurare la soglia apparve una donna. Bionda, alta, tonica, snella e graziosa. Guardò Peri dall’alto in basso, con la bocca atteggiata a un sorriso che avrebbe potuto sembrare cordiale se non fosse stato tanto imperioso. Sapeva di essere sexy, nell’abito blu scuro senza spalline che le aderiva al corpo rivelando una linea a clessidra. Non era decisamente una prof, pensò Peri, e si congratulò con se stessa per la scelta di cambiarsi il maglioncino. Non voleva avere niente in comune con quella tipa, nemmeno una sfumatura di azzurro. Azur aveva detto che il suo cane, Spinoza, adesso era la sua famiglia, ma questo non significava che non avesse una ragazza. O anche una moglie. La fede nuziale non la portava, ma non tutti i mariti si sentivano in dovere di indossarla in pubblico. Come poteva non esserle venuto in mente, che lui stesse con qualcuno? Certo che sì. Come tutti quelli della sua età. «Ehilà, bel faccino» disse la tipa prendendole la scatola dalle mani. «Tu devi essere la ragazza turca.» Proprio allora, con un suono di passi affrettati arrivò Azur, reggendo una bottiglia di vino ancora chiusa puntata verso di loro come un cannone in miniatura. Portava un dolcevita color canna di fucile sotto una giacca misto cachemire amaranto. «Peri, sei venuta!» esclamò lui, con la fronte che scintillava sotto la luce. «Non stare lì al freddo, forza, vieni dentro.» Lo – li – seguì in soggiorno. Le pareti del corridoio erano coperte di fotografie incorniciate: Peri si ritrovò osservata da ritratti di persone di diverse parti del mondo, assorte e distaccate, come se sapessero già qualcosa che lei al contrario doveva ancora scoprire. «Affascinanti, queste foto. Chi le ha fatte?» domandò. Azur rispose con una strizzata d’occhio. «Io.» «Davvero? Allora ha viaggiato molto.» «Un pochino. In Turchia ci sono stato, lo sai.» «A Istanbul?» Lui scosse il capo. No, non a Istanbul, dove tutti andavano o avevano la sensazione di dover andare prima o poi. No, Azur era stato in altri posti: sul monte Nemrut, con i suoi colossi di antiche divinità; al monastero bizantino di Sumela, incassato in un erto dirupo; e sul monte Ararat, dov’era andata a posarsi l’arca di Noè. Peri tacque, temendo che lui le chiedesse qualcosa di quelle località... che lei non aveva mai visto. In salotto due altissime librerie a tutta parete, una dirimpetto all’altra, incorniciavano un gruppo di persone eleganti, che chiacchieravano cordialmente, flûte di champagne e calici di vino alla mano. Rivolgendosi agli ospiti riuniti, Azur disse a un giovanotto in particolare: «Darren, vieni qui. Voglio presentarti una mia bravissima studentessa», e non appena lo vide avvicinarsi, scomparve. Darren era un dottorando in fisica, dagli ottimi voti e dalle splendide maniere; le portò un bicchiere di champagne e le fece i complimenti per il suo accento «esotico», neanche fosse un riconoscimento che si era guadagnata. Poi le chiese del suo ambiente d’origine, ma era molto più ansioso di raccontare di sé, e per giunta con l’aria di avere i minuti contati. Sì, era intelligente, ambizioso... e con un terribile bisogno d’affetto. Cercò di farla ridere snocciolando battute a raffica, avendo forse letto da qualche parte che le donne impazziscono per gli uomini dotati di senso dell’umorismo; e ogni volta alzava gli occhi al cielo, come se lui per primo pensasse di non essere divertente. Simpatico, comunque. Il tipo d’uomo che ama e rispetta la sua ragazza, anziché mettersi in competizione con lei, pensò Peri. Eppure sapeva che tra loro non ci sarebbe mai stata più che una fuggevole scintilla. Perché doveva andare così? Perché non si sentiva minimamente attratta da questo ragazzo, che era carino e gentile, all’incirca coetaneo e sicuramente adatto a lei, e invece languiva in segreto per il suo insegnante, il quale era non solo maturo, ignoto e impegnato, ma anche totalmente inadatto? Peri non cessava mai d’interrogarsi sul perché non inseguisse, e non avesse mai inseguito, la felicità: la parola magica che era al centro di tanti libri, seminari e programmi televisivi. Non che ambisse a essere infelice, certo che no; solo che non le veniva in mente di eleggere la ricerca della felicità a valido scopo di vita. Come si spiegava altrimenti che si ritrovasse a spasimare per uno come Azur? Fece un bel respiro e cominciò a sentirsi colma di audacia, come invasa da un profumo inebriante che mai avrebbe creduto di poter percepire. Se ne accorgevano anche gli altri, che dentro di sé lei stava cambiando? Oltre tutte le formalità e i sorrisi forzati della vita sociale c’era una frontiera che separava gli individui responsabili dagli spostati in cerca di rogne e dai bucanieri in cerca d’avventura. Un confine, sottile come un sussurro, che teneva le ragazze turche timorate lontane dal peccato e dai guai. Che sensazione poteva dare, avvicinarsi a quella linea di demarcazione, accostarvisi al punto da sentire sotto i piedi la fine della terra ferma, e poi l’inizio del vuoto, e d’improvviso lasciarsi cadere, lieve e indifferente? Peri non era una temeraria né un’eccentrica, ma in un qualche punto del suo cammino di gioventù le si era piantato nel cuore il seme dell’eresia, che non visto era poi germogliato e ora doveva solo sbucare dal terriccio. Nazperi Nalbantoğlu, sempre in ordine, equilibrata e attenta, ardeva dal desiderio di trasgredire, dal desiderio di errare. «A tavola!» All’altro capo della stanza Azur, con un sorriso invitante, brandiva un forchettone come fosse un giavellotto destinato a un ospite ignaro. La notte

Oxford, 2001/2

Peri seguì gli altri verso un’ampia fratina di quercia, che poteva aver fatto da oggetto di scena in una pièce di ambientazione medievale: le fu molto facile immaginarsela circondata da nobili e cavalieri e ricoperta di carni allo spiedo, pavoni farciti e gelatine luccicanti. Stasera però non c’erano vassoi d’argento né calici d’oro, bensì stoviglie normalissime. Dietro il tavolo c’era un caminetto, con un fregio di mattonelle da entrambi i lati della mensola e una foto in bianco e nero incorniciata e appesa sopra. Peri si avvicinò al fuoco vivo, attratta dal balletto delle fiamme, e si accorse che ciascuna piastrella ritraeva un personaggio diverso; uomini soprattutto, ma anche qualche donna, con indosso abiti di altre epoche ed espressioni solenni. Erano immagini di profeti, santi e messaggeri, alcuni con il nome scritto sotto: re Salomone, san Francesco, Abramo, Buddha, santa Teresa, Ramananda... Le varie figure portavano acqua, scrivevano su pergamena, parlavano ai discepoli o camminavano sole in paesaggi deserti, e non sembravano disposte in un ordine preciso; ma vederle una accanto all’altra, come se partecipassero a un loro convivio, faceva un effetto inquietante. Era più facile pensarli separatamente, quei personaggi sacri. Peri cercò con lo sguardo il profeta Maometto, chiedendosi se la parata includesse anche lui: ma certo, eccolo là che ascendeva al cielo, il volto velato e il capo circondato da lingue di fiamma, come nelle miniature turche e persiane dei tempi andati. Non lontano c’era anche la Vergine Maria con Gesù Bambino, l’incarnato candido come la neve là fuori, scortata da angeli alati, e Peri vide pure Mosè che puntava a terra la verga già parzialmente mutata in serpe. Perché mai Azur aveva messo quelle immagini intorno al camino? Se non per una questione estetica, forse come rappresentazione del suo sistema di credenze? E se sì, in cosa credeva esattamente? Peri aveva ormai letto diversi suoi libri, ma lui restava un mistero. Incapace di dare risposta alle domande che la tormentavano, si concentrò invece sulla fotografia sopra il caminetto. Era una veduta della casa, chiaramente vecchia di qualche anno. C’era la quercia che aveva visto arrivando a piedi dalla fermata dell’autobus, come pure il sentiero tortuoso; e c’era anche, nella foto, un fitto giardino fiorito, e nuvole dense, pesanti, e talmente vicine che parevano sfiorare il tetto. La casa sembrava diversa, più piccola: forse aveva subito delle aggiunte nel corso degli anni. La fotografia mostrava la natura e la primavera al massimo splendore, ma a Peri evocò un’Arcadia perduta, un tempo di gioia lieve e mai più riconquistata. Gli ospiti si erano ormai disposti intorno al tavolo, bicchieri alla mano, e attendevano con pazienza di sapere dove sedersi. «Azur, dove vuoi che ci sediamo?» domandò un uomo assai magro e dalle guance infossate che, apprese in seguito Peri, era un luminare della fisica quantistica. «Sì, come se lui fosse tipo da dare prescrizioni! In questa casa, ognuno si siede dove preferisce» rispose un altro signore dalla stazza considerevole. Era un ordinario della facoltà di Teologia e religione, un vecchio amico di Azur e una delle persone che lo conoscevano meglio. A sottolineare la propria affermazione, scostò una sedia qualunque e prese posto. Gli altri invitati risposero all’imbeccata e, uno dopo l’altro, si sedettero intorno al tavolo; anche Peri trovò una sedia libera, e Darren si piazzò immediatamente vicino a lei. La bellissima bionda sedeva dal lato opposto, vicino ad Azur. Il professore di teologia si accomodò per bene, sempre concentrato sulla musica che ancora si coglieva in sottofondo. Dopo un istante, levò il bicchiere: «Vorrei proporre un brindisi al nostro generoso ospite, che ringraziamo per averci qui riuniti... noi derelitte anime oxoniensi, logorate dal gelo della notte.» Lo sguardo rivolto a un candelabro di ferro con sopra tre candele accese, che gettavano ombre sovrapposte sulle pareti, Azur restituì l’omaggio con un sorriso. Peri diede un’occhiata circolare a tutti i commensali: un gruppo eterogeneo di docenti e discenti di varie discipline. Appena entrata, aveva dato per scontato che tutte queste persone, malgrado le rispettive diversità, avessero in comune il dono di una peculiare intelligenza. Dovevano essere davvero straordinarie, si era detta, per far parte della cerchia più vicina ad Azur; gente più colta e sensibile della media. Che presunzione, da parte sua. In comune avevano, tutti quanti, solo il fatto che, per un motivo o per un altro, erano stati sul punto di accogliere il nuovo anno in solitudine... finché non era arrivato Azur e li aveva raccolti, come conchiglie sparse su una spiaggia lontana. «E c’è anche un altro motivo per cui vorrei brindare al nostro anfitrione» proseguì l’anziano professore. «Per aver messo Bach a ciclo continuo. Se tutti quanti ascoltassero Bach per dieci minuti al giorno, vi assicuro che ci sarebbe un’impennata nel numero di credenti.» Azur scosse il capo. «Attento, John. Sai meglio di me che Bach, dal punto di vista teologico, è un campo minato. È vero, la sua musica viene considerata come un eccelso strumento al servizio della voce di Dio. Ma più lo si ascolta, meno Dio appare necessario alle sue creazioni, e si arriva a considerare le sue opere come la più elevata espressione dello spirito umano. Bach può fare di noi dei credenti... o degli scettici convinti.» Più d’uno dei presenti rise. «Vi prego, servitevi» disse poi Azur allargando le mani. Tutto a un tratto gli invitati rivolsero l’attenzione al cibo in tavola: proprio al centro c’erano tre ampi piatti di portata. Il primo conteneva una montagna di fagioli al vapore; il secondo, riso nero; e sul terzo c’era un grosso tacchino ben dorato al forno. Più una brocca di vino rosso rubino. E nient’altro, né salse né condimenti; era tutto di una semplicità quasi manierata, e Peri sorrise tra sé pensando a sua madre. Selma sarebbe morta, piuttosto che invitare ospiti a un banchetto tanto spartano. Aveva insegnato alla figlia che la riuscita di una cena consisteva nell’«accertarsi che ci fossero due piatti speciali per persona. Per quattro ospiti ci vogliono otto preparazioni; per cinque, ce ne vogliono dieci». Quella sera erano in dodici, con tre pietanze: sua madre ne sarebbe inorridita. Gli ospiti iniziarono a servirsi da soli, passando poi ciascun piatto al vicino. Quando venne il suo turno, Peri si prese porzioni generose, rendendosi conto tutto a un tratto che non aveva mangiato niente in tutto il giorno. La bionda senza nome si sporse verso Azur. «Hai preparato tutto da solo?» Peri si rianimò. Se doveva chiederglielo, non poteva essere sua moglie. «Certo, cara, e adesso vediamo se vi piace» rispose lui, e poi rivolgendosi a tutti aggiunse: «Bon appétit». Alla luce danzante delle candele, i suoi occhi erano verde bosco; le punte delle ciglia parevano brillare e le labbra, che Peri non aveva mai osato scrutare prima, avevano quasi preso la sfumatura del vino che stava bevendo. Lui inclinò un poco il capo e la guardò di sbieco con gli occhi socchiusi e con un’espressione di leggera sorpresa. Lei arrossì, sconvolta dalla constatazione che lo aveva fissato troppo a lungo, e immediatamente si rivolse a Darren, felicissima di averlo lì.

Come dessert c’era il più tipico pudding di Natale: Azur ci spruzzò sopra del brandy mentre era ancora caldo e lo fiammeggiò con un cerino. Le lingue di fuoco azzurro saltarono su tutta la superficie del dolce volteggiando allegre, per poi esalare l’ultimo respiro della loro breve vita innocente. Con mano esperta, Azur tagliò il pudding e ne servì una bella fetta a tutti, guarnita di crema pasticcera; i commensali, che avevano osservato in silenzio l’esibizione, assaggiato il primo boccone si profusero in complimenti all’ospite per le sue abilità culinarie. «Dovresti scrivere un libro di ricette» suggerì il professore di fisica. «Questo pudding è la fine del mondo. Come l’hai preparato?» «Be’, sai, si impara» mormorò Azur. A Peri quelle parole aprirono uno spiraglio sulla sua vita privata. Allora forse era single, pensò. Sperava che qualcuno indagasse più a fondo, ma nessuno chiese nulla, e tutti si gettarono invece in una conversazione sulla guerra in Afghanistan. L’atmosfera intorno al tavolo cambiò nel momento in cui alcuni commensali si dissero delusi da Tony Blair e vicini invece al dissenso espresso dai peones laburisti; ma lo fecero in toni molto misurati, che per Peri era difficile associare alla politica. In Turchia, tutte le discussioni politiche a cui avesse mai assistito, da quelle tra gli amici di suo padre alle proprie, erano marchiate dalle tre R: rabbia, rancore e rassegnazione. Quando l’argomento era pesante, intense le emozioni, e scarse le prospettive di miglioramento, lo stile era la prima cosa che veniva sacrificata; mentre qui tutti si esprimevano in modo da mettere la forma, anziché il contenuto, al primo posto. Completamente assorta in questi confronti culturali, Peri perse il filo della conversazione a tavola e, quando si accorse che tutti la stavano guardando, le ci volle un momento per capire il perché. Le venne in aiuto il professore anziano: «Si stava dicendo, tu vieni da un Paese interessante». Rammentandosi dell’avvertimento di Shirin a proposito dell’aggettivo «interessante», Peri lanciò un’occhiata ad Azur. Ma lui, che la guardava da sopra la montatura degli occhiali, sembrava curioso di sentire che cos’avrebbe risposto. «Tu cosa dici? Alla Turchia verrà mai data la possibilità di entrare nell’Unione Europea?» le chiese una signora con i capelli bianchi e tagliati corti, a ciuffetti sfilati. Era la moglie del professore anziano. «Be’, io lo spero» disse Peri. «Non credi che sia... culturalmente diversa?» intervenne la bionda. «Non so cosa intenda per diversa» rispose Peri, sentendo che le si apriva in cuore un campo di battaglia. Da una parte, avrebbe voluto esprimersi criticamente, perché c’erano troppe cose del proprio Paese che la frustravano. Ma da un’altra, voleva che quegli stranieri apprezzassero la sua madrepatria. Si mise sulla difensiva. Per senso di responsabilità: mai prima aveva avuto l’impressione di rappresentare un’entità collettiva. «Quindi non vedi la religione come un ostacolo?» la incalzò il professore di fisica. «Ti capita di temere che la Turchia possa diventare come l’Iran?» «Il pericolo c’è. Ma l’Iran è una società fondata su memoria e tradizione. Mentre noi turchi ci sappiamo fare con l’amnesia.» «E cosa pensi sia preferibile?» le chiese Darren, lì accanto. «Ricordare o dimenticare?» «Entrambe le soluzioni hanno i loro svantaggi» rispose Peri senza esitazione. «Ma credo sia meglio dimenticare. Il passato è un fardello. A che serve ricordare, se non riusciamo a cambiare niente?» «Solo i giovani possono permettersi il lusso di dimenticare» sentenziò il professore anziano. Peri chinò il capo. Non voleva fare la figura della giovane; semmai, avrebbe voluto sembrare intelligente e saggia. Tuttavia, con sua grande sorpresa, notò che Azur assentiva, concorde. «Se potessi scegliere, anch’io deciderei di rinunciare alla memoria. Non vedo l’ora che mi venga l’Alzheimer.» La bellissima donna posò una mano sulla sua. «Dài, caro, non lo pensi veramente.» Peri distolse lo sguardo. Non conosceva quelle persone; il loro passato, i loro rapporti andavano completamente al di là della sua comprensione. Riusciva a intuire, ma non ad afferrare ciò che rimaneva non detto, gli argomenti che tutti scansavano con cura. Poco prima di mezzanotte, mentre venivano serviti tè e caffè, si assentò per andare al bagno. La faccia che vide allo specchio mentre si lavava le mani era quella di una giovane donna che, per l’ennesima volta, non riusciva a sentirsi sicura e spensierata. E aveva sempre incolpato se stessa, per non aver mai imparato a mostrarsi gioiosa; di certo aveva fatto qualcosa di sbagliato, per generare tanta spontanea infelicità. O forse non hanno nessuna colpa, quelli che non passano l’esame di Felicità 1: la malinconia non è una manifestazione di pigrizia o autocommiserazione. Forse la gente come lei ci nasceva e basta, e lottare per essere più felici è futile come lottare per essere più alti. Uscendo dal bagno, in corridoio, fra ritratti di tutti i generi Peri vide una fotografia che la costrinse a fermarsi. La donna nella foto – zigomi alti, occhi distanziati, labbra piene – era nuda se non per una sciarpa rosso vivo drappeggiata intorno alla vita. I capelli erano raccolti in uno chignon disinvolto, le spalle chiare e lucide, come oggetti d’avorio levigato. I seni erano grandi e rotondi, i capezzoli eretti al centro delle areole scure; l’ombelico sporgeva appena, e con una mano la donna reggeva la stoffa che le copriva le gambe, pronta in qualsiasi momento a lasciarla andare. Il sorriso sulle labbra lasciava intendere il suo piacere nel farsi fotografare, e anche che conosceva la persona dietro l’obiettivo. Stordita, Peri oscillò in avanti come se avesse violato una zona proibita e poi rimase immobile, paralizzata nell’istante. Da qualche parte, nelle viscere della casa, un orologio faceva tic-tac; un presentimento, a un tempo familiare e impossibile da imparare. Con un moto di trepidazione intuì la presenza del bebè nella nebbia, vicino in maniera preoccupante: e infatti eccolo lì, lo stesso visetto rotondo, gli occhi fiduciosi, la voglia viola a coprire metà della faccia. Stava cercando di dirle qualcosa... a proposito della donna nella foto. Malinconia: ce n’era tantissima lì attorno, densa, intatta. Ma Peri non era in grado di dire se si fosse imbattuta in una pena antica, o se fosse stata lei a portarla con sé. «Vattene!» mormorò, inorridita. Non aveva tempo per lui, proprio no, non adesso. Il bebè nella nebbia mise il broncio. «Che cosa stai cercando di dirmi? Non puoi venire qui, in questo posto...» Una voce la interruppe. «Con chi stai parlando?» Peri si voltò; Azur era in piedi alle sue spalle. Gli occhi scintillavano di faville dorate e non lasciavano trapelare nulla. «Parlavo da sola... e guardavo lei» rispose, indicando il muro. Con la coda dell’occhio, fu sollevata al vedere che il bebè nella nebbia cominciava a dissolversi, una voluta di fumo nell’aria. «Mia moglie» disse Azur. «Come, sua moglie?» «È morta quattro anni fa.» «Uh, mi scusi, non sapevo.» «Di nuovo?» fece lui, lo sguardo che guizzava dalla donna nella foto a quella che gli stava davanti. «Devi smetterla, davvero...» «Ha lineamenti mediorientali» soggiunse rapidamente Peri per aggirare la critica. «Sì, suo padre era algerino. Berbero, come sant’Agostino.» «Sant’Agostino era berbero? Ma era cristiano.» Azur la guardò, come assimilandone la giovinezza. «La storia è vasta. I berberi erano ebrei, cristiani, un tempo anche pagani. E musulmani. Il passato è pieno di incontri che oggi ci sembrano bizzarri, ma che ai tempi avevano un loro perché.» Quelle parole, benché non avessero nulla a che fare con Peri, le aprirono un vuoto dentro, uno spazio inesplorato. Per quel che ne sapeva lei, non solo il passato ma anche il presente era pieno di incontri che resistevano alla ragione. «Hai l’aria pallida» disse lui. Fu allora che lei gli confidò tutto. Mentre stavano lì ad ascoltare i rumori degli ospiti così vicini, Peri raccontò al suo professore che fin da bambina, per motivi che non era in grado di comprendere, aveva fatto delle «esperienze surreali». Ne aveva parlato con suo padre, che le aveva liquidate come «superstizioni», e con sua madre, che aveva temuto lei fosse posseduta da un jinni. E da allora non ne aveva più discusso con nessuno, per timore di essere nuovamente giudicata. Azur stette ad ascoltarla, mentre uno sguardo meravigliato gli si dipingeva in faccia. «Non posso fare commenti sulla tua esperienza surreale. Ma una cosa posso dirtela, con convinzione: non aver paura di essere diversa. Sei speciale, davvero.» Furono interrotti da uno scoppio di voci euforiche dal salotto. «Dev’essere mezzanotte!» disse Azur ravviandosi i capelli con le dita. «Riparliamone più avanti. Per forza! Passa da me in studio.» Poi le si avvicinò e la baciò su tutte e due le guance. «Buon anno!» Dopodiché partì per andare a baciare gli altri. «Buon anno, professore!» mormorò Peri rivolta alla sua schiena, con il tepore dei suoi baci ancora sulla pelle. Passa da me in studio. No, non poteva essere una frase qualunque. Fu percorsa da una naturale eccitazione: lui le aveva detto che era speciale. Speciale! La comprendeva come nessun altro. Mentre rimaneva lì, immobile, pensierosa, tutto si fece chiaro ai suoi occhi: l’ultima goccia davanti a ogni sua aspettativa, la cristallizzazione di ogni sua speranza. Quando tornò nel cuore della festa si era ormai convinta che anche lui, il professore, provasse dei sentimenti per lei.

Poco dopo la mezzanotte gli ospiti cominciarono ad andarsene, e solo quando mise piede fuori, al freddo, Peri si ricordò di Troy. Gettò un’occhiata nervosa alla siepe più alta... ma a parte la notte, non c’era nulla. Sembrava che avessero tutti la macchina, tranne lei e Darren; la bellissima bionda – astemia e fiera di esserlo, come aveva dichiarato – offrì loro un passaggio. In auto il tragitto per tornare a Oxford era breve e trascorse in un silenzio strano, dopo l’effervescenza della serata. Su BBC Radio 4 c’era un programma sulle lettere d’amore di Gustave Flaubert, che riempì la macchina di parole sensuali e gli ascoltatori di un senso di solitudine e del desiderio di un amore che era di là da venire. Seduta accanto alla conducente, Peri si chiese se nel passato la gente lo capisse meglio, l’amore; posò la testa sul finestrino mezzo ghiacciato e tenne gli occhi sulla strada davanti a sé, prima illuminata a chiazze dai fari dell’auto e poi inghiottita dalla notte. Pensò ad Azur e alla donna nella foto. Com’era la loro vita sessuale? Pensò a come sorrideva lui guardando gli ospiti che si riempivano i piatti per la seconda volta; a come reggeva la tazza del caffè con tutte e due le mani, godendosi il vapore che gli carezzava il viso; a come aveva aiutato le signore a rimettersi i cappotti, lei compresa, mentre salutava tutti al termine della serata, e a com’era diverso rispetto a quando era in aula, tenero, alla mano, sorprendentemente fragile. Tornati a Oxford, Peri e Darren scesero dall’auto insieme. Il freddo tagliente d’inizio serata aveva lasciato il posto a un’aria frizzante. Proseguirono a piedi, chiacchierando senza pause, finché non raggiunsero l’alloggio temporaneo di Peri. Si baciarono sotto un lampione. Si baciarono di nuovo al buio. Sentendosi brilla, non tanto per il vino quanto per l’intensità della serata, Peri chiuse gli occhi, più eccitata dall’eccitazione di lui che dalla propria. «Posso salire?» chiese Darren. Lei visualizzò il bambino che era stato, mentre dava la mano alla mamma nell’attraversare la strada e imparava a trattare le donne con rispetto. Se gli avesse detto di no, sapeva che non avrebbe insistito; sarebbe andato per la sua strada, magari deluso ma senza traccia di scortesia. E se si fossero incontrati per caso il giorno dopo, sarebbe stato gentile con lei, e lei con lui. «Sì» disse Peri, agendo per un impulso che non aveva voglia di mettere in discussione. Sapeva che la mattina dopo si sarebbe svegliata con una sensazione atroce, il senso di colpa: perché era andata a letto con uno di cui, in verità, le importava poco, perché aveva deluso suo padre, perché aveva avverato le peggiori paure di sua madre. Se anche non fossero mai venuti a saperne nulla, lei si sarebbe sentita la coscienza sporca la prima volta in cui ci avesse riparlato, e probabilmente per molto tempo anche in seguito. Ma c’era una cosa che la disturbava anche di più: mentre ricambiava i baci e le carezze di Darren, pensava a un altro. A soverchiare qualunque altra emozione, c’era la consapevolezza che era il suo professore, quello che desiderava. Se succede a Capodanno, succede tutto l’anno, così voleva il detto. Quanto sperava che non fosse vero. Perché aveva fatto ingresso nel primo giorno di gennaio con il cuore gravido di emozioni complicate, e sperava che il 2002 non fosse l’anno dei sensi di colpa. La bugia

Oxford, 2002

Aveva deciso di accettare l’invito di Shirin, così prima della fine delle vacanze Peri prese il treno per Londra. Guardava gli studenti e le famiglie con bambini in fila per salire in carrozza; nel suo scompartimento – per sbaglio aveva comprato un biglietto di prima classe – c’erano tre signori molto maturi e azzimati, indistinguibili tra loro, e una signora di età incerta, con i capelli castani perfettamente acconciati. La scrutarono tutti e quattro con sguardo freddo, come a dire: “Tu hai l’aria di essere salita sulla carrozza sbagliata”. Peri trovò il suo posto numerato e si immerse nell’Opera omnia mistica di Meister Eckhart. Si era portata dietro anche il Diario di Dio, nel quale annotò in quel momento: Secondo Eckhart, l’occhio con cui io vedo Dio è il medesimo occhio con cui Dio vede me. Se io mi accosto a Dio in maniera rigida, Dio si accosterà a me in maniera rigida. Se io guardo a Dio con amore, Lui guarderà a me con amore. Il mio occhio e l’occhio di Dio sono un tutt’uno. Il treno procedeva sui binari a un ritmo costante che le si conficcava nella coscienza. Di lì a poco comparve un inserviente, scarrellando con il minibar dal quale prese a distribuire i vassoietti di plastica della prima colazione e un assortimento di bevande. Arrivando da Peri, la informò che poteva scegliere tra il menu uno, brioche salata prosciutto e formaggio, e il menu due, uova strapazzate con salsiccia. Peri scosse il capo. «Non c’è nient’altro?» «Vegetariana?» chiese l’addetto. «No, è il maiale» rispose lei. L’uomo, dagli occhi scuri e incavati nel viso con appena un accenno di barba, la osservò per un istante. Lei invece gettò uno sguardo alla targhetta con il nome: Mohamed. Le disse: «Vedo cosa posso fare» e sparì. Un momento dopo Mohamed ricomparve con un tramezzino al pollo, che le porse con un sorriso, per poi riprendere il suo giro; e solo allora venne in mente a Peri che forse lui le aveva dato il suo panino, il suo pranzo. Erano i fili solidali e invisibili che s’intessevano tra sconosciuti quando scoprivano di avere in comune la religione o la cittadinanza, e per questo provavano subito un senso di affinità, un cameratismo che si manifestava con segni anche minimi; un sorriso, un cenno del capo, un tramezzino. Lei però si sentiva un’impostora: a quanto pareva, l’uomo l’aveva presa per una brava musulmana, ma lei lo era davvero? Era di cultura musulmana, certo; eppure, le preghiere che aveva imparato a memoria si contavano sulle dita di una mano. Non professava la sua religione ma nemmeno si dichiarava, come Shirin, un’ex musulmana, espressione che le richiamava alla mente le storie d’amore concluse in tribunale. Che ne osservasse o meno i precetti, lei non aveva divorziato dall’Islam; il suo rapporto con quella fede era confuso ma vivo, ininterrotto, perpetuo. Se un posto per lei c’era, era tra le file dei perplessi. E se gli avesse raccontato tutto questo, Mohamed si sarebbe ripreso il panino?

Quando lei era piccola, a ogni Id al-adha in casa sua scoppiava un litigio. Mensur era contrario al sacrificio rituale di animali: riteneva che sarebbe stato meglio donare ai bisognosi i soldi necessari all’acquisto di un agnello. In quel modo, gli affamati avrebbero potuto riempirsi la pancia, i pasciuti avrebbero potuto congratularsi con se stessi, e tutto senza che nessun animale dovesse dare la vita. Selma dissentiva. Dio aveva i suoi buoni motivi per volere le cose fatte in una certa maniera, diceva. «Se solo ti prendessi la briga di leggere il Libro Sacro, capiresti.» «L’ho letto» rispondeva Mensur. «Quel pezzo, intendo. Non ha senso.» «Come, non ha senso?» rispondeva Selma, irritata. «Nel Corano, Dio non chiede ad Abramo di sacrificare suo figlio. Il tipo aveva sbagliato a capire.» «Il tipo!» «Sta’ buona e ascolta: Abramo non sente con le sue orecchie Dio che gli ordina di uccidere suo figlio. È tutto un sogno, sì o no? E se avesse sbagliato a interpretarlo? Secondo me Dio, nella sua misericordia, si rende conto che Abramo ha sbagliato a capire e per salvare il ragazzo gli manda l’agnello.» Selma sospirava. «Sei un ragazzetto scontroso, ma a Dio piacendo i miei figli li ho già tirati su, e non ho tempo da perdere con un altro bambinone.» Decisa quindi a comprarsi la sua pecorella, Selma risparmiava. L’ovino veniva tenuto in giardino, nutrito e dipinto con l’henné fino al momento di mandarlo al macello; dopodiché, se ne condivideva la carne con sette vicini di casa e con i poveri. In una di quelle occasioni – Peri doveva essere sui tredici anni – gli stessi vicini decisero di unire le forze e le lire per comprare un toro, figurandosi una creatura maestosa che irradiasse vigore, seguita dalla propria ombra scura. Ma il toro che arrivò, per quanto enorme, aveva un’aria nervosa, quasi folle di paura. Non era né un mite agnello sacrificale, né una splendida offerta votiva: era una delusione completa. Lo chiusero dentro un garage dove, nei due giorni successivi, la sua angoscia non fece che crescere. La notte lo si sentiva lottare, cercar di fuggire, a mugghi che parevano salirgli dal profondo dell’anima. Forse aveva intuito il proprio destino. Il terzo giorno, non appena rivide la luce il toro si liberò dalle pastoie. Galoppando a tutta velocità, partì alla carica contro il primo bersaglio che si trovò davanti, uno sventurato passante. Lo scaraventò a terra, ma il poveraccio riuscì a sfuggirgli e si nascose dietro un cassonetto dei rifiuti; intanto si era radunato un pubblico in preda al riso, e mentre qualcuno dava pacche sulle spalle allo scampato, i bambini corsero fuori casa per vedere cosa succedeva. Peri si arrampicò sul muretto del giardino e riuscì a vedere le corna ondeggianti della povera creatura che, in preda a un terrore ormai assoluto, seminava il panico anche tra la folla. Al contrario degli agnelli, il toro era deciso a resistere; e infatti oppose tutta la resistenza di cui era capace contro i venti uomini che lo caricavano da tutti i lati. Balzò fino in mezzo alla strada, un teatro di guerra d’asfalto dove si trovò circondato da mostri metallici; gli uomini impiegarono tre ore a riprenderne il controllo, e solo dopo averlo colpito con un fucile anestetico per poi ucciderlo. Qualcuno in seguito sostenne che la carne del toro non fosse halal perché il tranquillante lo aveva frastornato; ma a quel punto, di questi pareri non fregava più niente a nessuno. «Che razza di barbarie è mai questa» si lagnò Mensur con la moglie, a casa. «L’Islam dice di non fare del male a nessuno, animali compresi. Quella povera bestia è morta di paura, dopo che l’hanno torturata. Io la sua carne non la mangio.» Per un istante, Selma non rispose. «Bene, non mangiarla. Forse non la mangio neanch’io. Ma non dire cattiverie. Abbi rispetto.» Peri, che si aspettava una lite, rimase meravigliata al vedere i suoi genitori concordare, una volta tanto, e distribuire la loro quota di carne tra varie famiglie bisognose. Quella sera a cena notò inoltre che suo padre si rabboccava il bicchiere un po’ troppo spesso. «Che giornata, eh?» disse lui distrattamente. «Passata a correre dietro a gente che correva dietro a un toro. Non mi sentivo così stanco da quando voi due appena nati ci tenevate svegli tutta la notte.» Ormai strascicava le parole. Peri, che si stava versando l’acqua nel bicchiere dalla brocca, quasi rovesciò tutto. «In che senso, “noi due”?» Mensur si passò una mano sulla fronte, con l’espressione di chi si rende conto di aver fatto un grosso passo falso. Per un attimo parve incerto sull’opportunità di proseguire. «Be’, ti ricorderai di certo.» «Di cosa dovrei ricordarmi?» «Del maschietto, il tuo gemello. Che non è sopravvissuto.» Ai margini della coscienza le si addensava qualcosa. «Perché?» «Ah, coccinella, non me lo chiedere. È passato tanto tempo» disse Mensur, ma poi, sopraffatto dalla curiosità, aggiunse: «Davvero non hai idea?». «Non so di che cosa stai parlando, Baba.» «Ma pensa che strano... Io ho sempre pensato che tu riuscissi a ricordare delle... cose.» Peri ci mise anni a scoprire che cosa intendesse. Il treno entrò a Paddington Station; Shirin la aspettava vicino alle biglietterie automatiche, avvolta in una pelliccia grigio argento che le arrivava al ginocchio. Nel cuore della città, sembrava una figlia della steppa. «Quanti animali sono stati uccisi per quella?» le chiese Peri. «Non preoccuparti, è finta» la rassicurò Shirin baciandola sulle guance. Peri la guardò negli occhi. «È una balla, vero?» «Uff!» sbuffò Shirin. «È la prima volta che mi becchi. Brava, Topina, sono felice per te! Stai cominciando ad aprire gli occhi.» L’amica la stava prendendo in giro e Peri lo sapeva. Ma per quanto ridesse, avvertì anche una fitta di disagio quando notò la scheggia di verità nelle sue parole: Shirin le aveva già mentito, di certo più di una volta, ma su chi o che cosa, Peri doveva ancora scoprirlo. La danza del ventre

Oxford, 2002

Peri aprì la finestra, beandosi di una carezza d’aria fresca. Era felice di ritrovarsi nella sua stanza, benché anelasse a spazi più ampi; si sedette sul letto con un libro in mano, le ginocchia raccolte al petto. Qualche lezione prima Azur aveva chiesto a tutti di leggere un articolo sull’idea di Dio nella filosofia kantiana, e lei stava trovando Kant più enigmatico alla seconda lettura che alla prima. Capiva bene perché i teologi fossero attratti dalla sua filosofia; ma d’altro canto, anche insigni pensatori da ascrivere al campo opposto, come Nietzsche o Darwin, ne erano stati senz’altro influenzati. Peri dovette concludere che, come la città di Istanbul, Immanuel Kant fosse un uomo dalle molte sfaccettature. Non c’era da meravigliarsi che Azur lo amasse tanto: anche lui era molteplice. Esisteva tutto un cast di professori Azur: il conferenziere sicuro alle tavole rotonde e l’attore che amava e cercava ogni giorno l’attenzione altrui; il docente che metteva soggezione in aula, l’inquisitore spietato in ufficio, il garbato anfitrione in casa propria... e quanti altri ce n’erano ancora? Peri tornò col pensiero alla cena di Capodanno e ai suoi postumi. Da allora stava evitando Darren, benché lui avesse chiamato più volte e lasciato messaggi dal tono via via più preoccupato, se non proprio offeso; e si sarebbe volentieri chiusa in camera per tentare di schiarirsi un po’ le idee, non fosse stato per le lezioni e il lavoro in libreria... e per Shirin, che un pretesto per bussare alla sua porta lo trovava sempre. L’attrazione che provava per Azur aveva conferito alla sua vita quotidiana un’intensità dolorosa. Ogni volta che andava da lui a ricevimento, per parlare del bebè nella nebbia, leggeva ed equivocava ogni suo gesto, ogni sua parola, incapace di vederlo con un minimo di obiettività. Come un negromante che vedesse segni divini ovunque, anche lei cercava messaggi nascosti nelle frasi più banali. A ogni modo s’impegnava più che mai, decisa a impressionarlo dando prova di un’intelligenza brillante: solo che il momento giusto per fare colpo, l’occasione rivelatrice che attendeva spasmodicamente non arrivava mai. Vicino a lui Peri restava più che altro sulle sue, con lo stomaco annodato. Ogni tanto andava all’estremo opposto, e in un accesso di coraggio o di disperazione si metteva a dibattere e a obiettare, a provocare e a fare questioni, per poi risprofondare nel silenzio. Si era sempre detta che a lei una cosa così non sarebbe potuta succedere. Non era certo una di quelle ragazze che si fanno prendere dalla smania degli uomini maturi; ragazze che ovviamente cercavano di sostituire la figura paterna. Perché fosse attratta da Azur, era convinta di non poterlo spiegare a nessuno, meno che mai a se stessa. Non che avesse la minima intenzione di raccontare quel che provava per lui. Come il Diario di Dio che teneva da quando era piccola, e come il bebè nella nebbia, anche Azur era diventato un segreto da custodire gelosamente. Malgrado questo, prese l’abitudine di addormentarsi con uno dei suoi libri tra le mani, tracciando nel buio le lettere del suo nome con le dita, al suono di una musica melensa. Di giorno bighellonava dalle parti del suo college, gettando occhiate furtive dietro questo o quell’angolo in caso anche lui fosse nelle vicinanze. Deviò molto dal suo itinerario mattutino per andare a prendere il caffè dove lo prendeva lui, ma le poche volte in cui effettivamente lo vide arrivare si nascose nel bagno. E mentre faceva tutte queste cose ridicole, un’altra parte di sé, distaccata e censoria, osservava con disapprovazione, sperando fosse solo una stagione di follia, che presto sarebbe giunta al termine. Adesso, non riuscendo a reggere né i propri pensieri né quelli di Kant, Peri indossò le scarpe da ginnastica e andò a fare una corsa. Nonostante il freddo, c’era nell’aria serotina una promessa di gioia, sospesa come cristalli di rugiada. L’assenza di rumore che l’aveva tanto colpita quando era arrivata a Oxford da Istanbul non la meravigliava più. All’angolo di Longwall Street vide una cabina telefonica; date le due ore di differenza, suo padre era certamente a casa a bere, solo o con gli amici. E infatti fu Mensur a rispondere al telefono. «Pronto?» «Baba... scusa, è un brutto momento per chiamare?» «Peri, tesoro» esclamò lui. «Ma che significa “un brutto momento”? Tu puoi chiamare quando vuoi, anzi, magari lo facessi più spesso.» La tenerezza nella voce del padre le fece venire un groppo in gola. «Tutto a posto?» «Sì, certo» disse lei. «Come sta la mamma?» «È in camera sua. Vuoi che te la chiami?» «No, la sentirò un’altra volta.» E poi, più dolcemente: «Mi mancate molto». «Dài, così mi fai piangere, coccinella.» «Mi dispiace tantissimo di non essere riuscita a venire a casa per Capodanno.» «E chi se ne frega di Capodanno?» fece Mensur. «Tua madre ha stracotto il tacchino e ha bruciato il pilaf, così abbiamo mangiato carne rinseccolita e riso carbonizzato. Poi abbiamo giocato a tombola e tua madre ha vinto. A sentire lei senza barare, ma chi vuoi che le creda? Ah, e abbiamo visto la danza del ventre alla televisione... cioè, l’ho vista io. Nient’altro.» L’«altro», Peri lo sentì senza bisogno che Mensur ne parlasse: lui che beveva senza sosta, e la ballerina che dimenava i fianchi in abiti succinti, e Selma che si arrabbiava per tutte e due le cose, e il litigio che ne era seguito, l’ennesimo. Come se potesse leggerle nel pensiero, suo padre aggiunse: «Sì, mi sono fatto qualche goccio. Occasione migliore non c’è, giusto? Sai come si dice, se succede a Capodanno, succede tutto l’anno.» Peri sentì il cuore mancare un battito. «Va bene anche se non sei venuta» continuò Mensur. «Avremo altri Capodanni da festeggiare. La scuola è la cosa più importante.» La scuola... Non la laurea, o l’università, bensì la scuola. Quella parola basilare, dalle caratteristiche quasi sacre per gli innumerevoli genitori che, pur non avendo potuto studiare in prima persona, credevano nell’istruzione e investivano tutto quel che potevano nel futuro dei loro figli. «Mio fratello come sta?» domandò Peri. Non le sembrava necessario specificare quale: era per forza Hakan, visto che di Umut non parlavano quasi mai. E se lo facevano, era sempre con un tono diverso. «Bene, bene. Aspettano un bambino.» «Davvero?» «Sì» disse Mensur, la voce che si riempiva di orgoglio. «Un maschio.» Era passato un anno, da quella notte tremenda all’ospedale, ma Peri la ricordava anche troppo bene. L’odore di disinfettante, la vernice color muschio, i segni rossi delle unghie sui palmi della sposa... e adesso Feride avrebbe avuto un bambino. Le riecheggiarono in testa le parole di Selma: Molti matrimoni hanno basi assai meno solide. «Io non ce la farei mai.» «A fare cosa?» «A sposare uno che mi tratta male.» Mensur sbuffò, qualcosa a metà tra un sospiro e una risata. «Io e la mamma ti vogliamo bene» disse e subito s’interruppe, poco abituato a nominare sé e la moglie nella stessa frase. «Purché tu sia felice, saremo dalla tua parte.» Le vennero le lacrime agli occhi. Si sentiva sempre più fragile quando veniva trattata con dolcezza, anziché con ostilità. «Che c’è che non va, anima mia? Perché piangi?» Lei non fece caso alla domanda. «Sì, Baba, ma... se un giorno dovessi disonorarvi? Mi ripudiereste?» «Io non ripudierò mai mia figlia, qualunque cosa succeda» disse Mensur. «Purché non mi porti a casa un imam barbuto come genero. Quella sì che sarebbe una pugnalata! E faresti meglio a non fidanzarti neanche con uno di quei musicisti con le braccia coperte di tatuaggi, come si chiamano? Metallari! A me non darebbe fastidio, ma la mamma uscirebbe di senno. Anche scartando imam e metallari, però, rimangono molte altre possibilità.» Peri rise. Le tornarono in mente le loro serate davanti alla televisione, e la volta che lui le aveva insegnato a fischiare, a fare le bolle con la gomma da masticare, a mangiare i semi di girasole tostati rompendo i gusci con i denti. «Sul serio, comunque, chi è il fortunato giovanotto?» domandò Mensur. La parola «giovanotto» la riportò con i piedi per terra. Dal punto di vista di suo padre, lei poteva solo essersi innamorata di un giovanotto, di un ragazzo della sua età. «Bah, uno studente, ma non è niente di serio» rispose. «Sono troppo giovane per le cose serie.» «È vero, Pericim.» Mensur parve sollevato. «Passerà. Concentrati sullo studio.» «Lo farò, Baba.» «Ah, e non parlarne con tua madre. Non c’è motivo di farla preoccupare.» «Certo che no.» Dopo aver riappeso, corse per un’ora intera. I piedi slittavano sui marciapiedi gelati, ma lei perseverò; quando tornò al college la fatica era tale che i polpacci le pulsavano dal dolore e si sentiva bruciare la gola ogni volta che deglutiva, tutte avvisaglie di una brutta influenza. Si addormentò subito e in sogno ancora correva, stringendo fra le dita il bigliettino che le aveva lasciato sul letto Shirin. Peri, ho trovato la casa perfetta per noi due! Preparati, traslochiamo! Il menu

Istanbul, 2016

«Avete sentito cos’è successo? Una cosa tremenda!» Era la PR a parlare, rivolta a tutta la sala. Si era allontanata per andare al bagno, ma ne era uscita immediatamente, rossa in viso. «Che c’è, stavolta?» chiese qualcuno. Al mondo ci sono due tipi di città: quelle che rassicurano i propri residenti che l’indomani e il giorno successivo e quello dopo ancora saranno sempre uguali, e quelle che fanno il contrario, ricordando insidiose agli abitanti l’incertezza della vita. Istanbul appartiene al secondo tipo. Non c’è spazio per l’introspezione, gli orologi non riescono a tenere il passo degli eventi. Chi abita a Istanbul passa da un’ultim’ora alla successiva, correndo e consumando in fretta, finché succede qualcos’altro ancora che esige la sua attenzione. «L’ho visto su , un’esplosione» annunciò la PR. «Qui in città?» chiese l’uomo d’affari. «Dove?» Le tre domande fondamentali, sempre in questo ordine: che cosa? dove? quando? Che cosa: si parla di una terribile esplosione. Dove: in una delle zone più popolose del centro storico. Quando: nemmeno quattro minuti fa. Una detonazione così potente da demolire la facciata dell’edificio in cui si è verificata e mandare in frantumi tutte le finestre fino alla strada accanto, ferendo passanti, facendo scattare gli allarmi delle macchine e colorando di rosso ruggine, per un attimo, il cielo notturno. Quasi tutti gli ospiti, guidati dalla donna d’affari, si affrettarono di sopra a guardare il telegiornale. Peri li seguì, ma lentamente, in una sala confortevole e luminosa, rimanendo in fondo al gruppo, da dove intravedeva appena il grande schermo piatto. Una cronista scossa – una giovane donna dai capelli così lunghi che potevano farle da mantello – parlava in fretta tenendo il microfono con tutt’e due mani. «Ancora non si conosce il numero dei morti e dei feriti, ma il bilancio appare grave, gravissimo. Si sa soltanto che l’ordigno era potentissimo.» Una bomba. La parola, come un vapore tossico che arriva dal nulla, rimase sospesa in mezzo alla stanza. Fino a quel momento gli invitati avevano sperato in cuor loro che a provocare il disastro fosse stata una fuga di gas, o un generatore difettoso. Sarebbe stato tremendo comunque, ma una bomba era un’altra cosa: una bomba non era solo un evento tragico, ma aveva in sé l’intenzione di uccidere. I disastri sono orrendi, certo, ma disastro e malvagità insieme creano un terrore puro. Eppure avevano imparato a convivere con le bombe, o con l’eventualità delle bombe. Per quanto aleatori ed imprevedibili, si riteneva che i terroristi seguissero certi schemi: non colpivano di notte e sceglievano quasi sempre il giorno, per provocare il maggior numero di vittime nel minor tempo possibile e finire in prima pagina il giorno dopo. La notte era pericolosa per altri motivi, ma era al riparo da questo genere di violenza. O almeno così avevano pensato fino ad allora. Per questo la donna d’affari chiese: «Una bomba? A quest’ora assurda?». «Evidentemente anche i terroristi hanno trovato traffico» scherzò l’uomo d’affari. «A Istanbul non arriva in orario più niente, neppure Azrael.» Risero. Un riso monco, senza allegria. Scherzare di fronte a una tragedia fa sentire sporchi, colpevoli, ma aiuta anche a diluire la paura e ad alleggerire il peso dell’incertezza, che è sempre insostenibile. Frattanto in TV, sullo sfondo, si era riunito un gruppo di uomini e bambini che pendevano dalle labbra della cronista, sperando di essere scelti per un’intervista. Un ragazzino al massimo dodicenne salutava con la mano, eccitato per la telecamera puntata verso di lui. Poi si passò a una ripresa dall’elicottero che mostrava il quartiere dall’alto: case costruite una sull’altra, così fitte che sembravano un unico blocco di cemento. Ma a guardar meglio si notavano le differenze; un edificio, in particolare, sembrava reduce da anni di guerra civile: finestre sfondate, mura bruciate, vetri a pezzi, sventrato. «Stavamo a casa, tutti insieme, davanti alla tivù, quando abbiamo sentito questo botto, ha tremato tutto. Pensavo che era un terremoto» raccontava un testimone, un omino tozzo in pigiama. Nella voce si percepiva un’eccitazione che non riusciva a contenere, sbalordito di trovarsi sulla stessa rete televisiva che solo pochi minuti prima stava guardando, laddove ora erano in milioni a guardare lui. Mentre, incalzato dalla cronista, passava a descrivere «che cosa aveva provato», in basso scorreva in sovrimpressione il computo dei morti. Nella villa sul mare gli ospiti tornavano uno dopo l’altro in salone, per aggiornare gli altri: «Cinque morti e quindici feriti». «Il bilancio potrebbe aggravarsi. Alcuni dei feriti sono in condizioni critiche» spiegava il giornalista, che non era salito per mettersi subito in contatto con la sua redazione. Con la stessa naturalezza con cui a cena si erano scambiati i vassoi di meze, adesso si scambiavano particolari raccapriccianti, per quanto ovvi, per quanto ripetitivi. Più se ne parlava e meno sembrava reale. La tragedia era una merce come qualsiasi altra: andava consumata, da soli o in compagnia. La ragazza del giornalista inspirò a fondo prima di dire: «Quindi la bomba se l’erano fatta in casa. Che roba: montarsi tutto da soli, neanche fosse un Lego del male. Ed è esploso. La bella notizia è che i terroristi sono morti sul colpo, quella brutta è che è morto anche il vicino del piano di sopra. Un insegnante in pensione.» «Probabilmente insegnava geografia, poveraccio» disse l’uomo d’affari, con qualche difficoltà a formulare le parole. «Che brutta fine... Doveva essere un cittadino per bene, correggeva i compiti in classe, portava un abito liso. Dopo anni di duro lavoro, va in pensione e finalmente smette di combattere con i mocciosi ignoranti. Gli viene ad abitare sotto una banda di terroristi... quelli cominciano a fabbricare bombe, e al diavolo... bum! Fine dell’insegnante. Agli scolari insegnava affluenti di laghi e nomi di capitali, mentre invece, cazzo, tutto intorno a loro c’è una geografia del terrore!» Per un attimo non parlò nessuno. «Sappiamo chi è stato?» chiese la PR. «Marxisti? Separatisti curdi? Fondamentalisti islamici?» L’architetto ridacchiò: «Che menu ricco!». Peri sentì il marito schiarirsi piano la gola. «Non è solo il terrorismo o le sue azioni orrende» disse Adnan, «ma la facilità con cui ci abituiamo a queste notizie. Domani a quest’ora, del maestro di scuola parleranno in pochissimi, e nel giro di una settimana sarà dimenticato.» Peri abbassò lo sguardo, mentre la tristezza di quelle parole le raggiungeva il cuore e vi si fermava, come il calore che langue nelle braci morenti di un camino. Il volto dell’Altro

Oxford, 2002

C’era un taxi ad aspettarle davanti al cancello. Per un po’ rimasero in silenzio durante il tragitto, finché Peri non lacerò la calma con uno starnuto. «Salute, Topina!» «Già, grazie... Ancora non ci credo, che andiamo ad abitare da sole» disse Peri in tono acceso, guardando le vie della città sfilare dietro al finestrino. Indifferente alle remore di Peri, Shirin aveva continuato a cercare casa, dopo essere riuscita a convincere l’amministrazione del college che si poteva anche traslocare nel bel mezzo dell’anno accademico, e dato il suo zelo incontenibile non ci aveva messo molto a trovare il posto giusto per loro. Industriosa come un’ape che va di fiore in fiore, aveva pagato la cauzione e il primo mese di affitto, prenotato un’auto per il trasporto dei loro modesti effetti personali, e insomma aveva organizzato tutto con una tale spietata precisione che, quando venne il giorno deputato, a Peri non restò che prendere il cappotto e seguire la sua amica. «Tranquilla, sarà uno spasso» si esaltava ora Shirin. «Noi tre sole!» Peri rimase senza fiato. «Chi altro viene?» Shirin si cavò di borsa l’astuccio della cipria e si guardò nello specchietto, come se prima di rispondere dovesse controllare che espressione aveva. «Mona si è aggregata a noi.» «Cosa? E me lo dici adesso?» «Senti, dovendo dividere casa, tre è meglio di due.» Shirin fece un gran sorriso, ma pareva non ci credesse neppure lei. Peri scosse il capo. «Avresti almeno dovuto chiedermelo.» «Scusa, mi sono dimenticata, avevo un sacco di cose a cui pensare.» Ora il tono era più morbido. «Qual è il problema? Mi pareva che Mona ti fosse simpatica.» «Infatti, ma tu non la sopporti!» «Esattamente» disse Shirin. «Mi serviva una sfida.» «Che vuoi dire?» Se una spiegazione c’era, doveva aspettare. Avevano raggiunto il loro nuovo indirizzo: una casa a schiera vittoriana nel sobborgo di Jericho, con le finestre a bovindo al pianterreno, i soffitti alti e un giardinetto sul retro. Sugli scalini dell’ingresso c’era Mona, circondata da borse e scatole di cartone. Le salutò con la mano e poi venne loro incontro, il nervosismo ben visibile in faccia. Un’occhiata, e Peri capì che Shirin l’aveva praticamente costretta... come aveva fatto con lei. «Ciao, Mona» strillò Shirin, una volta pagato e mandato via il tassista. Le tre si ritrovarono sul marciapiede, imbarazzate, a scambiarsi saluti. Le loro differenze contrastavano con l’armoniosa architettura della via: Mona con la sua palandrana marrone e il velo beige, Shirin in abitino nero corto, stivali a tacco alto e trucco perfetto, Peri in jeans e impermeabile azzurro. «Ce ne facciamo fare qualche copia» dichiarò Shirin facendo tintinnare le chiavi nella mano. «Sarà favoloso, vedrete.» Così dicendo aprì la porta e fece irruzione nella casa. Dietro di lei entrò Mona, posando a terra il piede destro per primo, con le labbra increspate da un’invocazione a Dio: «Bismillah ir-rahman ir-rahim». Peri entrò per ultima, tra starnuti e colpi di tosse. Benché ne avesse già visto delle foto, e benché gliel’avessero data in affitto ammobiliata, la casa le sembrò mezza vuota. Il pensiero di trovarsi sotto lo stesso tetto con altre persone, di interagire con loro a orari imprevedibili, la intimidiva; era l’idea della vicinanza obbligatoria tra individui che, sebbene non fossero amanti, condividevano un certo grado di intimità. Tentò di scacciare quelle preoccupazioni e non ci riuscì: la sorte era una giocatrice d’azzardo a cui piaceva alzare la posta. Peri sentiva fin d’ora che al termine di quell’esperienza sarebbero state grandissime amiche, sorelle per la vita, o che tutto sarebbe finito in lacrime e recriminazioni.

Se le case avevano degli atteggiamenti, la loro era un’adolescente bisbetica che non la smetteva mai di lamentarsi. La scala cigolava, le assi del pavimento scricchiolavano, i mobiletti della cucina stridevano, il frigo raspava e la macchina del caffè gemeva a ogni goccia che cedeva. Però era casa loro, almeno finché pagavano l’affitto; e avevano persino un giardinetto privato dove progettavano di dare una festa a base di grigliate non appena il tempo si fosse rimesso. Delle tre camere al primo piano, due erano all’incirca grandi uguali, mentre quella che dava sul retro era più piccola e buia. Peri insistette per prendere quella: dato il suo scarso contributo finanziario, le pareva il minimo. Sospettava che Shirin e Mona, senza consultarla, avessero già organizzato la suddivisione delle spese, e la parte del leone l’avrebbe fatta Shirin, fedele alla parola data. Mona avrebbe contribuito con le bollette, per una somma che probabilmente non avrebbe ecceduto quanto già pagava per la stanza al college. Quanto a Peri, le si chiedeva di mettere qualcosa per la spesa, e a quelle condizioni non avrebbe mai accettato di prendersi una camera grande. «Sciocchezze!» obiettò Mona. «Dobbiamo tirare a sorte. La camera piccola tocca a chi perde.» «Intendi lasciar decidere al destino, allora?» disse Shirin, scuotendo il capo meravigliata. «Tu cosa proponi?» ribatté Mona. «Ho un’idea migliore» disse Shirin. «Facciamo a turno. Ogni mese si fanno i bagagli e si cambia stanza, come fossimo una tribù nomade. Come gli unni, ma più pacifici. Così la situazione sarà uguale per tutte.» «Be’, grazie molte a tutt’e due, ma non se ne parla neanche» intervenne Peri. «O mi lasciate la stanza piccola, o me ne vado.» Le sue amiche si scambiarono uno sguardo divertito: non l’avevano mai sentita parlare così prima d’ora. «D’accordo!» Shirin abbozzò. «Ma devi smetterla di preoccuparti per i soldi. La vita è troppo corta. Voglio dire, chi può sapere quanto dovrò io a te, alla fine? E se dovessi impartirmi una lezione impagabile, eh?»

Nelle ore successive ciascuna si ritirò in camera sua, a disfare i bagagli. Malgrado le dimensioni e la scarsità di mobilio, Peri fu subito stregata dallo spazio che le era toccato, con una finestra che dava sul giardinetto. Ma la sorpresa più grande fu il pesante letto a baldacchino in legno, completo di tende e mantovane: relitto di un’altra epoca, quando ci si sdraiava e tirava le tende le sembrava di essere in una carrozza trainata da cavalli. C’era anche un’accogliente rientranza davanti alla finestra, dove lei piazzò una poltroncina, proclamandolo il suo «angolo di lettura». All’ora di cena bussò alla porta di Mona, di fronte alla sua, e insieme scesero in cucina, impazienti di preparare il loro primo pasto indipendente: rimasero sorprese di trovare Shirin davanti al tavolo, dove aveva già disposto una bottiglia di vino, un cartone di succo di mela, un piattino di olive e tre bicchieri. «Dobbiamo festeggiare!» disse. «Tre giovani musulmane a Oxford! La Peccatrice, la Credente e la Dubbiosa.» Seguì un breve silenzio, mentre Mona e Peri decidevano quale epiteto si riferisse a chi. Poi Peri levò il calice di vino e brindò: «Alla nostra amicizia!». «Alla nostra comune crisi esistenziale!» disse Shirin. «Parla per te» disse Mona sorseggiando succo di mela. «Be’, tu sei in piena negazione» ribatté Shirin. «Al momento, tutti noi musulmani attraversiamo una crisi d’identità. Le donne specialmente, e più ancora le donne come noi.» «Sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire, quelle che sono a contatto con più culture! Ci stiamo ponendo grandi domande. Beccati questa, Jean-Paul Sartre! Guarda un po’ qui, se vuoi vedere una crisi esistenziale come nessun’altra!» «Non mi piacciono questi discorsi» disse Mona mettendosi a sedere. «Che cosa ti fa pensare che siamo così diversi dagli altri? A sentirti, pare che tu venga da un altro pianeta!» Shirin buttò giù un sorso di vino. «Ehilà, sveglia, sorella! C’è pieno di matti, in giro, che fanno delle cose veramente orrende in nome della religione, la nostra religione. O forse non la mia, ma la tua di sicuro. A te non dà fastidio?» «Che cosa c’entro io, scusa?» disse Mona drizzando il capo. «Glielo chiedi, ai cristiani che conosci, di scusarsi per gli orrori dell’Inquisizione?» «Se vivessimo ancora nel Medioevo sì, è probabile che glielo avrei chiesto.» «Ah, e quindi oggigiorno cristiani ed ebrei sono tutti angeli senza ali?» disse Mona. «Sei mai passata da un checkpoint di Gaza? Io non credo. E il genocidio in Ruanda? E Srebrenica? Non credo tu ritenga i cristiani di tutto il mondo responsabili di quelle carneficine, giustamente! Ma allora, perché biasimare tutti i musulmani per le azioni di un grappolo di esagitati?» «Ehi, voi due, la smettete di litigare, per piacere?» disse Peri tra un colpo di tosse e l’altro. Si sentiva la febbre. Ma Shirin insisteva. «Certo, è pieno di pazzi anche tra i cristiani e gli ebrei e bisogna condannare ogni genere di fanatismo, da qualunque parte provenga. Ma non puoi negare che al momento attuale ci sia molto più fanatismo in Medio Oriente che altrove. Si può andare in giro da sole in Egitto senza rischiare un’aggressione? E non sto parlando delle ore notturne! Conosco personalmente donne che hanno subito molestie sessuali mentre si recavano in pellegrinaggio. In luoghi sacri! In pieno giorno! Sotto gli occhi della polizia saudita! Le vittime non ne parlano perché si vergognano. Ma com’è che ci vergogniamo noi, anziché i molestatori? Ci sono un sacco di cose che vanno messe in discussione.» «Io sto mettendo delle cose in discussione» disse Mona. «La storia. La politica. La povertà globale, il capitalismo, le sperequazioni, la fuga dei cervelli, l’industria della guerra. E non dimentichiamoci del retaggio spaventoso del colonialismo. Secoli di razzie e sfruttamento. Per questo è così ricco, l’Occidente! Lasciamo stare l’Islam e cominciamo a parlare di questioni nodali!» «Atteggiamento tipico» disse Shirin alzando le mani, esasperata. «Dare la colpa dei nostri problemi agli altri.» «Ehi... se cenassimo?» Peri ci riprovò, pur non aspettandosi una risposta. Conosceva la situazione anche troppo bene: era come ricominciare a vivere con i suoi genitori. Un palleggio di accuse colleriche, un ping-pong di malintesi. Stavolta però le sembrava più agevole, fare da testimone: la tensione nell’aria non la turbava come a casa. Shirin e Mona non erano suo padre e sua madre che si saltavano al collo, e lei non sentiva alcun bisogno di mediare. Non più carica di responsabilità emotiva, la sua mente era libera di analizzare; perciò Peri ascoltava, sotto sotto invidiando le amiche perché, malgrado le loro polarità opposte, erano entrambe ugualmente appassionate. Mona aveva la fede, Shirin aveva la furia. Mentre lei, a cosa poteva aggrapparsi? «Quello che voglio dire » continuò Shirin «è che le sfide che si pongono oggi a un giovane musulmano sono più laceranti di quelle che toccano a un monaco buddista o a un predicatore mormone. Questo possiamo accettarlo?» «Io non accetto proprio niente» disse Mona. «Finché tu nutri un pregiudizio contro la tua religione, non possiamo discutere seriamente.» «E rieccoci» fece Shirin alzando la voce. «Basta che io apra bocca e dica quello che penso, e tu ti offendi. Qualcuno mi spiega perché i giovani musulmani sono così suscettibili?» «Forse perché siamo sotto attacco?» disse Mona. «Ogni giorno devo difendermi senza aver fatto niente di male: tocca a me dimostrare di non essere una potenziale attentatrice suicida, come se fossi costantemente sotto esame. Hai idea di come ci si senta soli, in queste condizioni?» Come in risposta, le nubi che si erano addensate per tutto il giorno si spalancarono sulla città, mettendosi a scrosciare contro le finestre. Peri pensò al Tamigi così vicino, che si gonfiava e tentava di uscire dal suo letto. «Tu, sola? Ma per piacere!» sbottò Shirin. «Sono milioni, quelli che stanno dalla vostra parte. Governi, religione organizzata, mezzi di comunicazione, cultura popolare. Inoltre, voialtri ritenete di avere Dio dalla vostra, e non mi pare poco. Quanta compagnia ti serve, ancora? Lo sai chi sono, quelli soli e abbandonati, dalle nostre parti? Gli atei. Gli yazidi. I gay, i travestiti, gli ambientalisti, gli obiettori di coscienza, questi sì che sono emarginati, e a meno che tu non ricada in una di queste categorie, non frignare che ti senti sola.» «Tu non ne sai niente» disse Mona. «Io ho dovuto subire prepotenze e insulti. Mi hanno spinta giù dall’autobus e trattata come una deficiente... e tutto solo per il velo. Tu non hai proprio idea delle cose orrende che mi sono successe! Ed è solo un pezzo di stoffa!» «E allora perché lo porti?» «È una scelta, una questione d’identità! A me non danno fastidio le tue abitudini, tu perché devi prendertela per le mie? Chi è la pluralista, qui, eh?» «Bella cazzata» disse Shirin. «Si comincia con una, poi sono dieci, poi diventano milioni e prima che te ne accorga, ecco la repubblica delle sciarpe in testa. Per quello i miei hanno lasciato l’Iran, sono stati i vostri bei pezzi di stoffa a costringerci all’esilio!» A ogni parola che veniva pronunciata, l’espressione di Peri si induriva. Teneva lo sguardo basso, sul tavolo di legno con un angolo scheggiato: era sempre stata attratta dalle cicatrici e dalle imperfezioni sotto le superfici lisce. «Tu che ne pensi?» le chiese improvvisamente Shirin. «Già, sentiamo, chi ha ragione?» incalzò Mona. Sotto quelle due paia d’occhi Peri si sentì a disagio: guardò in faccia un’amica e poi l’altra, cercando faticosamente le parole. Sotto certi aspetti aveva ragione Shirin, disse, e sotto certi altri Mona. Per esempio, lei concordava sul fatto che gli appartenenti a minoranze – quali che fossero: culturali, religiose, di orientamento sessuale – vivessero molto male nelle società islamiche chiuse; ma era anche consapevole dei problemi che dovevano affrontare le donne velate nei Paesi occidentali. Per lei dipendeva sempre tutto dal contesto: là dov’erano gli impotenti e gli svantaggiati, a seconda del luogo e del momento, lei intendeva sostenerli. Perciò non si schierava a priori con nessuno, salvo con il partito dei deboli. «Troppo astratto» disse Shirin, tamburellando insofferente con le dita sul tavolo; e a giudicare dall’espressione di Mona, almeno su quello concordavano. La risposta di Peri, per quanto equilibrata, non aveva soddisfatto nessuno. «Mettiamo in chiaro una cosa» disse Mona rivolgendosi nuovamente a Shirin. «Io non ho niente contro gli atei, né i gay, né i travestiti. È la loro vita. Ma contro gli islamofobi sì, eccome. E se pensi di andare avanti con questo stile da propaganda bellica neo-con, sarà meglio che io me ne vada subito.» «Neo-con a me?» Shirin posò il bicchiere sul tavolo con tanta forza che il vino si rovesciò. «Vuoi andartene? Accomodati. Quella però è la strada più facile. E invece dovremmo cercare d’intendere appieno quello che dice l’altro.» “Intendere appieno” pensò Peri. “Questa devo ricordarmela.” «Sono d’accordo» disse Mona. «Grande» disse Shirin. «Allora scriviamo insieme un Manifesto della Donna Musulmana. Già vedo il logo, MDM, verrebbe favoloso. E ci mettiamo dentro tutto quello che ci dà fastidio. Fanatismo. Sessismo.» «Islamofobia» disse Mona. «Adesso però credo sia il caso di avviare la cena» disse Peri. Scoppiarono tutte a ridere e per un attimo fu come se la tempesta fosse passata. Un senso di calma. Fuori la pioggia si era attenuata; il tardo pomeriggio sgocciolava nell’imbrunire; la luna era un talismano perlaceo tra i seni del cielo. Dall’altro lato del Port Meadow il Tamigi correva forte, a mulinelli profondi e turbinosi, serpeggiando argenteo nell’oscurità. «Sai che c’è» disse Mona con un sospiro rassegnato, come se stesse svelando qualcosa che ci aveva messo parecchio a capire. «Sei nata dentro una religione eccezionale, ti è stato dato per guida un Profeta meraviglioso, ma anziché ringraziare e cercare di migliorarti come essere umano, non fai altro che lamentarti.» E Shirin di rimando: «A proposito del Profeta, c’è tutta una serie di cose che...». «Non ci provare neanche» la interruppe subito Mona, con la voce che tremava per la prima volta. «Prenditela pure con me, va benissimo. Ma non permetto a nessuno di dare addosso al mio Profeta, specie quando non se ne sa nulla. Critica il mondo musulmano, d’accordo, ma lui lascialo stare.» Shirin sbuffò, frustrata. «E perché dovremmo esentare qualcuno da una valutazione critica? Specie in ambito universitario!» «Perché quella che tu chiami “valutazione critica” è solo un cumulo di cretinate per il tuo tornaconto!» disse Mona. «Perché so già che cosa diresti e so anche che il tuo sguardo è impuro, il tuo sapere contaminato. Non puoi giudicare il Settimo secolo con i parametri del Ventunesimo!» «Sì che posso, se il Settimo secolo tenta di dominare il Ventunesimo!» «Mi piacerebbe che tu potessi sentirti fiera di quello che sei» disse Mona. «Perché invece sei... una musulmana che si odia.» «Ahi!» fece Shirin in una parodia di dolore. «Non li ho mai capiti, quelli fieri di essere americani, o arabi, o russi... cristiani, ebrei, musulmani. Perché dovrei provare orgoglio per qualcosa che non ho scelto? Sarebbe come essere fiera di essere alta un metro e settantacinque. O congratularmi con me stessa per il mio naso a becco. È una lotteria genetica!» «Però del tuo ateismo sei molto soddisfatta» disse Mona. «Ah, una volta ero un’atea militante... ma ora non più, grazie al professor Azur» replicò Shirin con modi teatrali. «Però ho lavorato sodo, per conquistarmi questo scetticismo. Ci ho messo testa, cuore e coraggio. Mi sono distanziata dalla folla e dalle congregazioni! Non mi sono trovata la pappa pronta. Ebbene sì, sono fiera del mio percorso.» «Allora è vero, che disprezzi la tua cultura. Quindi... disprezzi me. Per te, io sono arretrata, oppure ho subito il lavaggio del cervello. Sono un’oppressa e un’ignorante. Ma io il Corano l’ho studiato, diversamente da te. E l’ho trovato estremamente significativo, saggio, poetico. Ho studiato la vita del Profeta: e più leggevo di lui, più ne ammiravo la personalità. Ho trovato pace nella fede. Te ne frega qualcosa? Io proprio non lo so, perché ho accettato di venire ad abitare con te!» Un secondo dopo, Mona saliva a grandi passi in camera sua, con le assi del pavimento che protestavano sotto il peso delle sue emozioni. Shirin prese il bicchiere vuoto e lo scagliò con tutte le sue forze contro il muro. Frammenti minuscoli piovvero sul pavimento come tristi coriandoli; Peri sussultò, ma poi si alzò all’istante per andare a pulire. «Non ti muovere» le intimò Shirin. «Il casino l’ho fatto io e lo pulisco io.» «Va bene» disse Peri, pur sapendo che l’altra avrebbe raccolto solo i cocci più grossi mentre le schegge sarebbero rimaste dov’erano, incastrate tra le assi, in attesa di tagliare un giorno o l’altro una di loro. «Vado in camera anch’io.» Shirin esalò un sospiro. «Buonanotte, Topina.» Peri fece qualche passo, poi esitò, gli occhi fissi su Shirin che a un tratto aveva perso tutta la sua spavalderia. «E sì che lui mi aveva avvertito, che non sarebbe stato facile» borbottò Shirin tra sé, credendo di essere rimasta sola. «Chi ti aveva avvertito?» domandò Peri. Shirin alzò lo sguardo, le palpebre che battevano confuse. «Niente» disse. Con una tensione, nella voce, che prima non c’era. «Senti, ne parliamo più tardi, okay? Adesso ho bisogno di farmi un bagno. È stata una giornata lunga.»

Incapace di dormire, sola in cucina, Peri si versò un altro bicchiere di vino con un vortice in testa. Era forse inciampata in un segreto, senza volere? La sbadata osservazione di Shirin la assillava. Che fosse per intuito o per ragionamento, sospettava che dietro l’ansia con cui Shirin aveva insistito per quella coabitazione ci fosse un mastro burattinaio: Azur. Le tornò in mente un passaggio, in uno dei suoi primi libri, in cui lui esplorava la bizzarra idea che quanti erano in grave dissenso, e presi tra reciproche recriminazioni, dovevano essere lasciati soli a dividersi uno spazio limitato e costretti a guardarsi negli occhi. Il detenuto suprematista bianco andava messo in cella con un detenuto nero; un minatore di giada chiuso in una stanza con un ambientalista; un amante della caccia grossa con un animalista votato alla tutela delle specie in pericolo. Quando aveva letto quel passaggio non era stata a rifletterci più di tanto, ma adesso le tornava tutto: si trovava dentro un gioco, a svolgere inconsapevolmente un ruolo, controllata da un cervello lontanissimo. Sgattaiolò di sopra, sconvolta. La porta della camera di Mona era chiusa. Dal bagno in fondo al corridoio veniva il rumore dell’acqua corrente, e dentro c’era Shirin che canticchiava un motivo che sembrava vagamente familiare, dalla melodia assillante. In punta di piedi, Peri entrò in camera di Shirin. C’erano cartoni ovunque; quanto a disfare i bagagli, era chiaro che non si era data un gran daffare. Su uno degli scatoloni più grossi c’era scritto in stampatello: LIBRI. La scatola era aperta e Peri vide che qualche volume era stato sistemato su uno scaffale, ma poi Shirin si era stancata della corvée e aveva lasciato il resto dov’era. Peri frugò nello scatolone e non ci mise molto a trovare quello che cercava. Un titolo dopo l’altro, tirò fuori tutta la bibliografia del professor Azur. Prese il primo libro e lo aprì al frontespizio che era firmato, esattamente come si aspettava.

Alla dolce Shirin, eterna esule, intrepida rivoltosa, reietta filosofica, la ragazza che sa come fare le domande e non ha paura di inseguire le risposte... A.Z. Azur

Peri richiuse il volume di scatto, con una fitta di gelosia. Non che non sapesse che Shirin incontrava il professore con regolarità, almeno due volte la settimana, e che i due erano molto legati, ma vedere quanto valeva Shirin agli occhi di lui era una tortura. Guardò anche gli altri libri, a pura conferma che erano tutti autografati. L’ultimo che prese in mano, che era anche l’ultimo in ordine di uscita, recava una dedica più lunga.

A Shirin che non è come il suo nome, agra e dolce, come i melograni di Persia, la terra del leone e del sole... Ma deve arrivare a comprendere, se non ad amare, ciò che guarda con disprezzo; perché solo nello sguardo dell’Altro si può cogliere il volto di Dio. Ama, mia cara, ama la sorellastra tua... A.Z. Azur

Quale sorellastra? Shirin non aveva sorellastre e Peri lo sapeva... a meno che non fosse una metafora a dire «le altre donne». Peri fece un respiro profondo, mentre afferrava fino in fondo l’enormità del raggiro. Shirin disprezzava la religione e i fedeli. E benché criticasse con forza tutte le confessioni, era la fede in cui era stata cresciuta quella che attaccava più violentemente. In particolare era allergica alle giovani musulmane che si coprivano il capo per scelta: «I mullah e la polizia morale vogliono tacitarci da fuori. Ma le ragazze che credono sinceramente di doversi coprire in modo da non sedurre gli uomini ci mettono a tacere da dentro» aveva detto una volta. E più ci pensava su, più Peri si convinceva che il professor Azur avesse messo Shirin al centro di un laboratorio sociale in modo da costringerla a interagire con il suo «Altro»: Mona. Scossa com’era da quella scoperta, c’era tuttavia qualcos’altro a turbarla ancora di più: forse non si trattava solo di Mona. Mandò giù, guardando se stessa, per la prima volta, con gli occhi di Shirin: la sua mancanza di certezze, la sua indecisione, la sua timidezza, la sua passività... Caratteristiche che una come Shirin poteva solo aborrire. Tre musulmane a Oxford: la Peccatrice, la Credente e la Dubbiosa. Non era stata prescelta solo Mona, per quell’assurdo esperimento sociale. Peri lo capiva adesso: si trattava anche di lei, della seconda sorellastra. Rimise il libro al suo posto, richiuse lo scatolone, uscì dalla stanza. Quanto rimpiangeva di aver abbandonato la pace e il silenzio della sua stanza al college, per andare a finire in quella casa dove ogni loro mossa sarebbe stata riferita al professor Azur. Si sentiva come una mosca dentro un vasetto di vetro: a un primo sguardo, al caldo e al sicuro, ma pur sempre in trappola. I chakra

Istanbul, 2016

«Il professore in pensione verrà dimenticato» ripeté Adnan. «Nulla più ci turba, abbiamo perso ogni sensibilità.» «Ma, caro, non sei un po’ troppo severo? Che altro dovremmo fare?» chiese la donna d’affari. «Diversamente impazziremmo!» A queste parole intervenne il sensitivo con un cenno impaziente del capo. «Anche le nazioni hanno un segno zodiacale, come le persone. Questo Paese è nato il 29 ottobre e quindi è Scorpione, sotto l’influsso di Marte e Plutone. Chi è Marte? Il dio della guerra. Chi è Plutone? Il dio dell’aldilà. I pianeti dicono tutto.» «Cialtronate astrologiche» commentò il devoto magnate della stampa. «Che intendi per “dèi”, visto che crediamo tutti nell’unico Allah?» Il sensitivo drizzò la schiena con aria offesa. «Il Medio Oriente ha tutti i chakra bloccati» disse il giornalista. «Non mi stupisce» interloquì l’uomo d’affari. «L’unica energia che conosce è quella del petrolio, altro che energia spirituale!» «E allora qual è la tua opinione professionale sui chakra da aprire?» chiese la donna d’affari ignorando il commento del marito. «Il quinto» fu la risposta. «È il chakra della gola. Pensieri trattenuti, desideri inespressi. Parte da qui, in fondo alla bocca, ed esercita una pressione sull’esofago e sullo stomaco.» Alcuni dei convenuti si toccarono il collo. «A proposito, ho la gola secca: mi devo proprio aprire il chakra» disse l’uomo d’affari. «Kizim, portaci dell’altro whisky.» Il sensitivo proseguì: «C’è una tecnica per sbloccare i chakra di una nazione...». «Per caso è quella che chiamano “democrazia”?» propose Peri. Il chirurgo estetico guardò l’orologio: «Perbacco, è tardi, vi devo salutare. Domattina presto ho un aereo». Sebbene si fosse stabilito a Stoccolma già da molti mesi, tornava spesso a Istanbul, dove aveva degli affari e, a quel che si diceva, un’amante che avrebbe potuto essere sua figlia. «Bravo; tu te ne vai e noi dobbiamo stare qui a sistemare questo disastro» disse la PR. Quelli che partivano in cerca di fortuna all’estero erano al contempo invidiati e sminuiti, e non per la scelta di New York, Londra o Roma, ma per l’idea in sé di andare a vivere altrove. Anche chi rimaneva aspirava a nuovi cieli sotto cui camminare; a pranzo e a cena formulavano progetti elaborati per trasferirsi all’estero, il che significava quasi sempre in Occidente. Ma quei loro progetti, come i castelli di sabbia, si erodevano pian piano sotto la marea montante della famigliarità. Erano trattenuti da parenti, amici e ricordi in comune; poco a poco dimenticavano le loro aspirazioni verso un altrove, fino al momento in cui si imbattevano in qualcuno che aveva fatto veramente quello che loro avevano desiderato un tempo. Ed era lì che scattava il risentimento. Il chirurgo estetico percepì un umore avverso: «Guardate che neanche la Svezia è il paradiso in terra». Un accenno di sillogismo che non convinse nessuno. L’indomani mattina se ne sarebbe andato in Europa e li avrebbe lasciati soli con i loro problemi; avrebbe mangiato brioscine alla cannella mentre loro dovevano gestirsi l’instabilità del Medio Oriente, la turbolenza politica e le bombe. Peri gli sorrise comprensiva: «Non è facile rimanere e non è facile partire». Avrebbe voluto dire a quelli che sarebbero rimasti che, nonostante le difficoltà, avevano amicizie durature e ampie cerchie di conoscenze, mentre quelli che emigravano definitivamente si ritrovavano incompleti, come un puzzle a cui manca un pezzo essenziale. «Oh, poverino, costretto a vivere sulle Alpi!» disse la ragazza del giornalista che, nonostante le gomitate del compagno, continuava a bere. «Le Alpi sono in Svizzera, non in Svezia» cercò di correggerla qualcuno, ma lei ignorò il commento. Con la pancetta schiacciata nella minigonna aderente, saltò in piedi e puntò un’unghia smaltata e mezza mangiata verso il chirurgo estetico. «Voialtri siete dei disertori! Ve ne andate all’estero a fare la bella vita... mentre noi stiamo qui a confrontarci con l’estremismo, e il fondamentalismo, e il sessismo, e...» Si guardò intorno come a cercare qualche altro -ismo a portata di mano. «Sono le mie libertà, a correre rischi...» «A proposito di rischi...» La padrona di casa si rivolse al sensitivo. «Carissimo, ti devo mostrare la casa. Solo tu puoi dirmi perché abbiamo avuto tanti incidenti anomali. Prima c’è stata l’inondazione, poi il fulmine. E della nave, l’hai saputo? C’è entrata dritta dentro casa, come in un film d’azione!» Lanciò un’occhiata al marito, quasi a controllare di non essersi scordata qualcosa. «L’albero» aggiunse l’uomo d’affari, pronto alla bisogna. «Ah, giusto, c’è caduto un albero sul tetto! Pensi che c’entri il malocchio?» «Si direbbe proprio. Non bisogna mai sottovalutare il potere dell’invidia» rispose il sensitivo. «Avete controllato gli alloggi della servitù? Una delle domestiche potrebbe avervi scagliato una maledizione.» «Pensi che avrebbero il coraggio di farlo? Se troviamo qualcosa di sospetto le caccio via in un battibaleno.» La donna d’affari si toccò il collo come se avesse difficoltà a respirare. «Da dove vuoi cominciare?» «Le cantine. Se si cerca una iettatura, bisogna guardare sempre negli angoli più oscuri.» Mentre il sensitivo e la padrona di casa le passavano accanto sfiorandola, Peri avvertì un’altra vibrazione; e passò un secondo prima che si rendesse conto che era il telefono di suo marito. Impallidì. Era Shirin. La casa a Jericho

Oxford, 2002

Molto presto, ciascuna di loro elesse a suo preferito un punto diverso della casa. Per Shirin era il bagno, o più precisamente la vasca da bagno con i piedi a zampa di leone. Tra candele, sali profumati, creme e oli, la trasformò in un altare ai piaceri dell’igiene personale; la sua liturgia serale consisteva nel riempirla fino all’orlo d’acqua bollente, con l’aggiunta di un’inebriante miscela d’aromi, e poi restarci a mollo anche un’ora a leggere riviste, ascoltare musica, limarsi le unghie e sognare a occhi aperti. Il luogo preferito di Mona invece era la cucina. Si alzava presto, senza mai saltare la preghiera del mattino; compiva le abluzioni, stendeva a terra il tappetino di seta – un regalo della nonna – e pregava per sé e per gli altri... compresa Shirin che, a suo modo di vedere, necessitava di una divina scossetta. Quanto all’intensità di questa scossetta, lasciava la decisione allo stesso Allah, che era il miglior giudice. Dopodiché Mona scendeva in cucina e preparava la colazione per tutte: crêpes, ful medames, omelette. Quanto infine a Peri, il suo posticino speciale era il letto a baldacchino in camera sua. Shirin le aveva regalato una parure di lenzuola in cotone egiziano, soffice come lapin, che aveva cementato ancor di più il legame tra Peri e quel pezzo di mobilio. Ci studiava anche, e la sera quando si coricava riusciva a sentire il fruscio del vento tra i rami più alti dell’ontano davanti alla finestra e la corrente lontana del fiume, mentre sul muro dirimpetto le ombre altalenavano a un ritmo silenzioso. Vedeva sagome che le ricordavano carte geografiche, reali e immaginarie; territori per cui a migliaia e migliaia erano stati uccisi, sangue su sangue. Si addormentava stremata dal passo delle sue stesse fantasie, e rasserenata dalla consapevolezza che il mattino dopo, al risveglio, avrebbe ritrovato il mondo lì dove lo aveva lasciato. All’inizio della giornata, quando Shirin, la dormigliona, era ancora a letto e Mona, la mattiniera, stava pregando, Peri andava a correre, e mentre incitava il corpo ad andare avanti pensava ad Azur. Che cosa credeva di fare quando aveva spronato Shirin a metterle insieme, che cosa gliene veniva in tasca? Più tentava di svelare quel mistero e più sentiva crescere il risentimento, con forza, da dentro, come bile. L’acrimonia si dipanava per lo più intorno al tavolo di cucina, spesso accompagnata dal profumo del pane che cuoceva in forno. Una volta Shirin se ne andò in malo modo, urlando che ne aveva piene le scatole, ma poi tornò per cena. Un’altra volta fu Mona, a replicare l’identica scenata. Le loro discussioni si imperniavano su Dio, religione, fede, identità, e qualche volta sul sesso. Mona era un’assertrice della verginità fino al matrimonio – una forma di devozione che pretendeva sia da se stessa che dal futuro marito – mentre Shirin trovava la faccenda decisamente comica. Quanto a Peri, che non venerava il concetto di verginità ma nemmeno viveva la sessualità con l’agio che avrebbe voluto, ascoltava sentendosi, come sempre, a metà del guado.

Un giovedì pomeriggio, tornando a casa a Jericho, trovò Mona e Shirin che assistevano mute a scene di caos in televisione, trasmesse da una videocamera che guizzava qua e là con sottofondo di sirene, vetri infranti e sangue a terra. Un attentato terroristico contro una sinagoga in Tunisia: un’autocisterna carica di gas ed esplosivo era stata fatta saltare davanti al tempio, uccidendo diciannove persone. Mordendosi una guancia, Mona sussurrò: «Dio ti prego, fa’ che non sia stato un musulmano». «Dio non ti sente» disse Shirin. Mona le rivolse uno sguardo gelido e riaprì bocca senza più la minima tenerezza nella voce. «Tu ti stai facendo beffe di me.» «Io mi faccio beffe dell’inutilità della tua preghiera» rispose Shirin. «Ma pensi davvero di poter cambiare i fatti, se preghi forte? Quello che è stato è stato.» Tra Mona e Shirin la reciproca esasperazione cresceva ormai di minuto in minuto, e l’alterco di quella sera fu il peggiore di tutti. Peri salì in camera senza cena, si buttò sul letto e si coprì le orecchie mentre le altre di sotto continuavano a urlare. «Domattina» si disse, e lo sperava «si vergogneranno di quello che si sono dette.» Dopodiché, se lo sarebbero con ogni probabilità gettato alle spalle; fino alla lite successiva. Delle tre, solo Peri avrebbe mandato a memoria ogni parola, ogni gesto, ogni offesa: era da sempre un’archivista coscienziosa, un’annotatrice di ricordi amari. Vedeva la memoria come un dovere, una responsabilità che andava onorata fino in fondo... benché intuisse che un fardello di quelle proporzioni, un giorno o l’altro, avrebbe finito per schiacciarla. Da piccola sapeva comprendere la lingua del vento, leggere i segni scolpiti nei campi mietuti per metà o nella neve che cadeva dalle acacie, cantare con l’acqua che scorreva dal rubinetto. Pensava addirittura che, se solo ci avesse provato, un giorno avrebbe visto Dio con i suoi occhi. Una volta, passeggiando con la madre, era incappata in un porcospino investito da un’auto e aveva a tutti i costi voluto pregare per la sua anima: richiesta che aveva fatto inorridire Selma. Il paradiso era uno spazio piccolo, limitato e riservato a pochi eletti; gli animali non vi erano ammessi, le aveva spiegato la mamma. «Chi sono gli altri che non vanno in paradiso?» aveva chiesto allora Peri. «I peccatori, i malfattori, quelli che abbandonano la religione e deviano dalla retta via... e quelli che si tolgono la vita. A quelli non si dà nemmeno un’orazione funebre.» E i porcospini, evidentemente. La carcassa era finita in pattumiera; poi però, quella notte, Peri era sgusciata fuori casa per ripescare la creatura morta dal suo puzzolente ricettacolo. Non era riuscita a trovare un paio di guanti, e nel toccare il corpo senza vita aveva avuto un brivido, come se qualcosa fosse passato dentro di lei dal cadavere della bestiola. Aveva scavato una buchetta con le mani, ci aveva messo una lapide fatta con un righello di legno, aveva pregato; e pian piano, l’organizzazione di funerali divenne per lei un gioco prediletto. Predisponeva esequie per api morte e petali appassiti, farfalle dalle ali spezzate e giocattoli irreparabili: chiunque non fosse gradito nel cennet. Crescendo aveva imparato a reprimere una per una le proprie stranezze; ogni sua anomalia era stata ridotta da famiglia, scuola e società a un’opaca polvere di conformismo. Tranne il bebè nella nebbia. Ma lei lo aveva sempre saputo, che era diversa, di una difformità che doveva impegnarsi a nascondere, una cicatrice che le sarebbe rimasta incisa sulla pelle per sempre. E faticava talmente, per essere normale, che spesso non aveva più la forza di essere nient’altro, il che le dava l’impressione di non valere niente. A un certo punto, peraltro a lei ignoto, la solitudine aveva smesso di essere una scelta ed era diventata una calamità: un vuoto nel petto, tanto profondo e permanente che, a suo modo di sentire, poteva solo paragonarsi all’assenza di Dio. Sì, forse era proprio così: Peri portava dentro di sé l’assenza di Dio. Non c’era da meravigliarsi che fosse così pesante. La pedina

Oxford, 2002

Peri attraversava Radcliffe Square in bici, con una tracolla di libri e un grappolo d’uva avanzato dal pranzo. Di fronte alla Radcliffe Camera notò Troy, seduto su una panchina, che discuteva animatamente con un gruppo di amici; quando la vide, si staccò dal gruppo e le venne incontro. «Ciao, Peri. Ancora a leggere per il seminario di Azur?» «E tu... ancora impegnato a spiarlo?» Lui increspò le labbra in modo assai eloquente. «Non dovrebbero permettergli di insegnare in un ateneo rispettabile, a quello. Lo capisci o no, che dei suoi studenti non gliene frega niente? Conta solo il suo ego.» «Però agli studenti piace.» «E come no. Specie a quelli di sesso femminile... tipo la tua amica, Shirin.» Il nome fu accompagnato da un bizzarro scatto della testa. Peri piantò un tallone nella ghiaia. «Sarebbe a dire?» «Ma dài, come se non lo sapessi.» La guardò negli occhi. «Devo proprio dirlo apertamente?» «Dirmi apertamente cosa?» A Troy scintillavano gli occhi. «Che Azur ha una tresca con Shirin.» Tra i due calò un silenzio tormentato, che tuttavia non durò a lungo. «Ma lei è stata una sua studentessa...» disse Peri, lasciando la frase in sospeso. «Andava a letto con lui già quando frequentava il corso. Scommetto che le sue, di tesine, le hanno valutate tra le lenzuola.» Peri distolse lo sguardo. In quel momento vide ciò che fin lì aveva mancato di vedere: per quanto intenso fosse l’odio che Troy riservava ad Azur, la dose era moltiplicata dalla sua gelosia. Il ragazzo era innamorato di Shirin. «Certe volte vanno nella camera che lui tiene al college e chiudono la porta a chiave. Ci mettono dai venti minuti alla mezz’ora, secondo le volte. Li ho cronometrati. Aspettavo fuori.» «Piantala.» Peri aveva il volto in fiamme. «Lo so che ci vai anche tu. Ti ho vista.» «Per parlare delle...» Peri fece una pausa prima di aggiungere: «delle esercitazioni!» «Bugiarda. Questo trimestre non hai il seminario con lui!» «Ma... avevo delle cose importanti da dirgli» rispose Peri. Ovviamente non poteva raccontargli che era andata a trovarlo qualche volta per parlare con lui del bebè nella nebbia. Azur le aveva fatto decine di domande particolareggiate su com’era cominciata e sulle diverse reazioni dei suoi genitori; la paura del jinni, il consulto dall’esorcista, le cose che lei si era annotata sul Diario di Dio... Gli aveva raccontato tutto, trasformando i ricordi d’infanzia in un ponte che alla fine, sperava, le avrebbe permesso di arrivare al suo cuore. E invece, quando Azur ne aveva avuto abbastanza, aveva fatto saltare il ponte e aveva smesso di invitarla in studio. «Ma non vedi» disse Troy «che quello è solo un predatore egocentrico? Sempre in cerca di menti e corpi giovani di cui cibarsi.» «Devo andare» disse Peri in un soffio. Travolta da un’emicrania orrenda, sulla strada di casa passò in farmacia. Da quando era arrivata a Oxford, gli analgesici da banco li aveva provati tutti. Adesso percorreva i corridoi ormai familiari, rallentando davanti agli scaffali pieni di contraccettivi in un assortimento mai visto a Istanbul. Confezioni luccicanti, colori sensuali, motivi grotteschi, parole bollenti. Le venne in mente che se suo padre e sua madre avessero usato uno di quei prodotti, lei non sarebbe nata; e nemmeno lui. Che delizioso non-essere: nessun dolore, nessuna colpa, niente di niente. Ci aveva messo parecchi anni a scoprire la verità che i genitori avevano curato di tenerle nascosta finché era piccola. Sì, Selma aveva avuto una gravidanza inattesa in età avanzata, ma aveva partorito due figli e non uno. Una femminuccia e un maschietto, Peri e Poyraz: per lei il nome di una fatina dalle ali di filo d’oro, e per lui il nome del più poderoso vento di nordest. Un pomeriggio caldo e sonnolento, quando avevano quattro anni, Selma li aveva lasciati soli un momento sul divano per andare in cucina; stava facendo la confettura di susine, una delle sue specialità. Avevano comprato frutti in quantità al mercato rionale e ce n’era una ciotola piena sul tavolino del salotto, ma il resto attendeva, sul piano di lavoro in cucina, di essere bollito, zuccherato e invasato. Il mondo era inondato di viola. Per noia, Peri aveva ben presto deciso di passare dal divano al tappeto e poi, tesa la manina verso la ciotola, aveva afferrato una susina, l’aveva osservata ben bene e ci aveva dato un morso. Troppo aspra: subito aveva cambiato idea e l’aveva passata al fratellino, che aveva accolto il regalo con gioia. Erano bastati pochi secondi, niente di più: quando Selma era tornata in soggiorno, il figlioletto aveva smesso di boccheggiare e aveva il viso del colore del frutto che gli aveva ostruito le vie respiratorie. Peri aveva visto tutto, senza capire, senza muovere un muscolo. «Perché non mi hai chiamato?» aveva urlato Selma alla figlia di fronte a tutti i parenti e i vicini riuniti dopo il funerale. «Che ti è preso? Hai guardato tuo fratello morire senza aprire bocca. Cattiva!» La distanza tra loro non si sarebbe mai colmata. Peri sapeva, nell’intimo, che sua madre l’avrebbe sempre incolpata per la morte del suo gemello. A quattro anni, cosa ci vuole a chiamare aiuto? Se lei mi avesse chiamata, avrei potuto salvarlo. Torpore. Questo Peri cercava sopra ogni altra cosa. Se solo fosse riuscita a non provare nulla, a non ricordare nulla. Ma per quanto ci provasse, il passato continuava a tornare, e con il passato il dolore. Il ricordo di quel pomeriggio era sempre con lei, accompagnato dal fantasma del suo gemellino. E così la vergogna e il senso di colpa e l’odio di sé, che portava incastrato nel petto non come un’emozione ma come una solida sostanza fisica.

Quella sera Peri trovò Shirin sola in cucina, intenta ad affettare pomodori per un’insalata; cercava di stare a dieta, dato che il suo peso fluttuava come il suo umore. Mona era uscita a cena con dei parenti che erano venuti a trovarla da fuori, e sarebbe rientrata tardi. «Devo chiederti una cosa» disse Peri. «Certo, spara.» «È stata un’idea di Azur? Questa di dividere la casa, voglio dire. Noi tre. Questo sodalizio era una sua idea fin dal principio?» Shirin aggrottò la fronte. «Che cosa te lo fa pensare?» «Per favore, altre bugie... no» disse Peri. «Questo è un esperimento a suo beneficio, giusto? Per il suo laboratorio sociale.» «Accidenti, che attacco di teoria del complotto.» Shirin versò i pomodori in una ciotola di lattuga e ci aggiunse qualche oliva. «Cosa fa, il prof, che non ti va a genio?» «Mi pare che si diverta a interferire nella vita dei suoi studenti.» «Ah» fece Shirin. «E come potrebbe insegnare, se no? Secondo te, come hanno fatto i vari studiosi a istruire i loro allievi, nel corso dei secoli? Mastri artigiani e apprendisti, filosofi e pupilli. Anni di fatica e disciplina. Solo che ce ne siamo dimenticati, e adesso le università dipendono talmente tanto dai soldi che gli studenti che possono permettersi di frequentarle vengono trattati come principini del cazzo.» «Lui non è un mastro artigiano e noi non siamo i suoi apprendisti.» «Per quel che mi riguarda, sì» disse Shirin afferrando le posate per mescolare l’insalata. «Mi ritengo una sua devota discepola.» Peri tacque, non sapendo bene cosa rispondere. «Il rispetto per Azur è l’unica cosa che io e Mona abbiamo in comune. Che c’è che non ti torna? Credevo piacesse anche a te.» Peri sentì che arrossiva, e detestava essere così trasparente. «Ho paura che si aspetti troppo da noi e che non saremo all’altezza delle sue pretese.» «Ah, quindi temi di deluderlo» disse Shirin con il sorriso di chi la sa lunga, mentre prendeva la ciotola per portarsela in camera. «Non farlo, allora!» «Aspetta» la trattenne Peri. Si sentiva la bocca secca. Temeva le conseguenze, se avesse fatto la domanda che la assillava, eppure doveva farla. «Hai una storia con lui?» Shirin, già a metà scala, si fermò e poi, appoggiandosi al corrimano, si voltò a guardare l’amica con occhi di fuoco. «Se me lo chiedi perché sei paranoica, è un problema tuo e non mio. Se me lo chiedi perché sei gelosa, di nuovo, è un problema tuo e non mio.» «Non sono né paranoica né gelosa» ribatté Peri, incapace di tenere la voce bassa. «Davvero?» Shirin rise. «In Iran c’è un proverbio che mi insegnò la mia mamani: “Chi topo si fa, il gatto se lo mangia”.» «Che stai cercando di dire?» «Sto cercando di dire fatti i fatti tuoi, Topina, sennò ti mangio viva.» Ciò detto, Shirin proseguì a grandi passi verso la propria camera, lasciando Peri in cucina a sentirsi piccola e insignificante. Quanto lo detestava. Azur e la sua arroganza, la sua imprudenza, la sua indifferenza verso di lei mentre se la intendeva con Shirin e con Dio solo sa chi altro. Le vorticava nell’anima un turbine di odio, a spire così violente da darle il capogiro. Aveva fatto molto affidamento su di lui: su di lui che, con il suo sapere e il suo intuito, le avrebbe mostrato la via per uscire dal dilemma che la tormentava fin dall’infanzia. E invece lui non aveva fatto proprio niente del genere. Ma soprattutto detestava se stessa, e quella sua mente angariata che concepiva soltanto incubi e ansie; quel suo corpo indecoroso che si trascinava dietro ogni giorno come un macigno, incapace di goderne; quella sua faccia stucchevole che aveva desiderato non sapeva più quante volte di scambiare con quella di un altro... il suo gemello, per esempio. Perché lui era morto e lei era sopravvissuta? Un ennesimo, marchiano errore di Dio? Peri era certa di non poter diventare come Shirin, così ardita e sicura di sé, e neppure come Mona, devota e resistente. Ma era stanca di se stessa, ferita dal passato, timorosa del futuro. Di anima oscura e natura confusa, timida come un tigrotto neonato eppure incapace di far onore allo spirito selvaggio che portava dentro... Nessuno aveva idea di quanto fosse faticoso, essere Peri. Se solo avesse potuto addormentarsi e svegliarsi nei panni di qualcun altro. Oppure, meglio ancora, non svegliarsi più. Quella notte il bebè nella nebbia tornò da lei. La voglia viola sulla faccia sembrava più grande e lui le pianse sul letto lacrime viola, col denso e scuro colore che si spargeva ovunque e ricordava le susine mature. Nella sua lingua arruffata, il bebè non smetteva d’incalzarla a fare una cosa ormai necessaria da tempo; stavolta lei capì che cosa le chiedeva di fare e acconsentì. Forse avrebbe rivisto quello sventurato porcospino. Che ne era stato di quell’animale, della sua anima? Forse avrebbe imparato, in prima persona, che cosa succedeva a coloro che non venivano ammessi nel paradiso di Dio. Il passaggio

Istanbul, 2016

Quando uscì in terrazzo per richiamare Shirin, Peri notò due figure vicine in un angolo, per metà in ombra, ma non al punto da non poterle riconoscere: l’uomo d’affari e l’AD della banca. Ingobbiti, con le teste chine e lo sguardo fisso a terra, sembravano discutere qualcosa di serissimo. «E quindi cosa fai?» chiese il banchiere. «Non ho ancora deciso» rispose l’uomo d’affari, espirando un pennacchio di fumo. «Ma ti giuro su Dio che gliela faccio pagare, a quei figli di puttana. Lo capiranno, a chi stanno cercando di metterlo in culo.» «Mi raccomando, non mettere niente per iscritto» disse l’altro. I due non avevano visto Peri ferma sulla porta e lei scivolò via con discrezione, stordita da quello che aveva appena sentito. Le foto incorniciate che aveva osservato nello studio, a testimoniare legami con potentati corrotti e dittatori del terzo mondo, le voci su appropriazioni indebite di denaro pubblico, i rapporti con boss mafiosi, tutto tornava. Gli affari del suo anfitrione erano dubbi e lei sospettava che vari degli ospiti di quella sera, compreso forse suo marito, lo sapessero; ma non avrebbero permesso che una reputazione equivoca si frapponesse tra loro e una bella serata con un uomo ricco e potente. A che punto si diventava complici? Quando si svolgeva un ruolo attivo o quando si affettava passivamente ignoranza? C’era uno stretto passaggio tra la cucina e il soggiorno, con una parete a specchio. Lì, in quell’ambiente angusto, Peri si fermò, tenendo stretto il telefono come se qualcuno volesse portarglielo via. Ogni volta che una domestica entrava o usciva dalla porta a battente, dava un’occhiata in cucina: il cuoco tritava l’aglio, con il coltello a danzare un fandango sul tagliere. L’uomo aveva un aspetto stanco e irritato: dopo tutto quello che aveva preparato per cena, gli era stato appena chiesto di cucinare una minestra di trippa che, nella migliore tradizione di Istanbul, era considerata una cura per i postumi della sbornia. Peri lo vide bofonchiare qualcosa sottovoce al suo assistente, che rise sgangheratamente; avevano origliato quello che si diceva a tavola, ne era certa, e ora li prendevano in giro. La porta si richiuse, separandola dal mondo vivace della cucina; di nuovo sola nell’andito, fu assalita da una ben nota sensazione di terrore. Trovare il coraggio di fare una cosa rimandata per tanto tempo era come tuffarsi in un mare gelido; un secondo di esitazione e non te la senti più. Compose rapidamente il numero di Shirin, che rispose al primo squillo. «Ciao, Shirin, sono Peri.» Un respiro mozzato. «Sì, lo so.» La voce non era cambiata in nulla; lo stesso tono energico, sonoro, sicuro di sé. «È passato un bel po’» disse Peri. «Già. Non ci credevo, quando ho sentito il tuo messaggio. È curioso: mi ci ero preparata, a questo momento, avevo chiaro che cosa avrei detto se ti fossi rifatta viva, ma adesso...» «Che cosa mi avresti detto?» chiese Peri passandosi il telefono da un orecchio all’altro. «Fidati, non lo vuoi sapere» rispose Shirin. «Perché non mi hai chiamata prima?» «Temevo che fossi ancora arrabbiata.» «Lo ero. E ancora non lo capisco, non capisco te. È stata una follia, quello che hai fatto a te stessa... e a lui. Non gli hai neppure detto che ti dispiaceva.» «Avevamo un accordo» disse Peri. Le parole, come ogni centimetro del suo corpo, parevano fragili, sul punto di spezzarsi. «Mi aveva fatto promettere che non gli avrei mai più chiesto scusa, qualunque cosa fosse successa.» «Cazzate.» Peri mandò giù un sospiro. «Ero giovane.» «Eri gelosa!» Peri annuì a se stessa. «Sì... è vero.» La porta della cucina si aprì e ne uscì una cameriera con un ampio vassoio carico di ciotole fumanti. Alle narici di Peri giunse un forte odore di aglio e aceto. «Dove sei?» chiese Shirin. «A un ricevimento in una villa sul mare. Acquari, borse firmate, sigari enormi, praline... Non lo reggeresti.» Shirin rise. «Ho avuto una giornata stranissima» continuò Peri. Adesso che aveva rotto il ghiaccio, le parole uscivano facili. «Sono stata aggredita e stavo quasi per ammazzare quel delinquente.» Non raccontò che lui aveva anche provato a violentarla, mentre se qualcosa di simile fosse successo a Shirin lei avrebbe condiviso tutto, senza farsi problemi. Com’erano state diverse, e come lo erano tuttora. «Ha trovato una nostra foto che tenevo nella borsetta.» «Cioè, tu vai in giro con una nostra foto?» chiese Shirin. «Quale?» «Quella di fronte alla Bod, d’inverno... Te la ricordi?» Peri non aspettò un commento di Shirin. «Io, te, Mona... e il professor Azur. In tutti questi anni mi ero convinta di essermi lasciata Oxford alle spalle, ma mi stavo prendendo in giro.» «Non ho mai capito perché hai smesso di studiare. Andavi fortissimo.» «Si cambia. Adesso sono moglie, madre...» Esitò. «Sono una casalinga, una che fa beneficenza! Organizzo ricevimenti per il capo di mio marito... proprio il tipo di donna che avevo sempre temuto di diventare. Una versione moderna di mia madre. E la sai una cosa? Mi ci trovo bene, il più delle volte.» «Scusa, hai bevuto?» domandò Shirin. «Più di quanto avrei dovuto.» Una risata tenue come un lieve stormire di foglie. Se Shirin disse altro, Peri non lo colse, perché proprio in quel momento il sensitivo le marciò accanto a braccetto della padrona di casa, a caccia del malocchio per tutta casa. Si voltò a fissarla, con un lieve fremito del labbro, come se sapesse con chi stava parlando. «Come stanno i gemelli?» chiese Shirin. «Che ne sai che ho due gemelli?» «L’ho sentito in giro.» La fonte non era difficile da indovinare: tutte e due, ognuna per conto proprio, erano rimaste in contatto con Mona. «Crescono. La femmina mi ha dichiarato una guerra fredda e per ora la sta pure vincendo.» Shirin emise un sospiro comprensivo: la stava trattando cordialmente, ben più di quanto Peri si aspettasse. «A te come va la vita?» chiese quindi, perché anche lei aveva sentito qualcosa. Sapeva che Shirin e il suo compagno di lunga data – un avvocato specializzato in tutela dei diritti umani – avevano perso il conto delle volte che si erano lasciati e ripresi. «Benone... Anzi, sono incinta. Dovrebbe nascere a maggio.» Ecco cos’era: una questione di ormoni. Shirin stava per diventare mamma ed era nella fase in cui il perdono viene più spontaneo del rancore. È difficile mantenere vecchi risentimenti quando ci si prepara ad accogliere una nuova vita. «Congratulazioni, è una notizia stupenda!» disse Peri. «Sono felicissima per te. Maschietto o femminuccia?» «Maschio.» «Hai già pensato a un nome?» chiese Peri, e immediatamente capì la risposta. «Secondo me lo sai già, come lo chiamerò» disse Shirin. Un silenzio brevissimo. Una traccia di ostilità si insinuò nel silenzio, come un fil di fumo da un vecchio samovar. «Ti ho odiata per così tanto tempo che l’ho esaurito, l’odio.» «E Azur? Cosa pensa di me adesso?» Erano passati quasi quattordici anni dall’ultima volta che gli aveva parlato. C’erano momenti in cui Peri non era più sicura che la presenza del professore nella sua vita fosse stata intensa come la ricordava, tanto il passato l’aveva sbiadita. «Chiediglielo tu. A quest’ora dovrebbe essere a casa. Ce l’hai una penna?» Colta alla sprovvista, Peri si guardò in giro. «Un attimo.» Aprì la porta della cucina, tenendosi il telefono contro l’orecchio, e con la mano bendata mimò il gesto di scrivere. Il cuoco le diede la stilografica che teneva nel taschino e un foglio di un blocchetto fissato al frigorifero. «Grazie» sillabò con le labbra Peri. Shirin ripeté il numero, non perché ce ne fosse bisogno ma perché le offriva qualcosa da dire, e aggiunse: «Chiamalo». Proprio in quel momento risuonò per tutta la villa il campanello della porta e una domestica uscì di corsa dalla cucina per andare ad aprire. Teneva nascosto in mano qualcosa da mangiare; Peri si chiese se il personale fosse riuscito ad assaggiare un po’ delle favolose pietanze che aveva servito, e se anzi fossero riusciti a mangiare alcunché. Improvvisamente si udì un botto, lo schianto di una porta spalancata contro una parete, seguito da una successione di rumori: uno strillo soffocato, passi pesanti e concitati. «Mi manchi» si sentì dire Peri. «Anche tu, Topina.» Dal passaggio Peri vide irrompere, dalla parte opposta del salone, due uomini con il viso coperto da sciarpe nere e armati di fucile. Uno dei due urlò con quanto fiato aveva in corpo: «Tutti in piedi!». «Che succede?» strillò la donna d’affari. «Zitta! In piedi, subito!» «Non si permetta!» La donna d’affari emise un rumore strozzato mentre si guardava intorno in cerca del marito, che era ancora in terrazza. «Un’altra fesseria e te ne pentirai!» Il clic metallico di un grilletto. Era la seconda volta che Peri vedeva un’arma così da vicino. Rispetto a quella che avevano trovato a Umut, queste degli sconosciuti erano grosse e verde scuro. «Topina, ci sei?» chiese Shirin. Peri non poteva rispondere, neanche una sillaba. Lentamente, silenziosa come la nebbia che risaliva dal Bosforo, riattaccò. Un bicchierino di sherry

Oxford, 2002

Gli uffici del rettore occupavano tutto un lato della quattrocentesca corte quadrangolare anteriore. Azur raggiunse il lucido portone nero e suonò; pochi secondi dopo, l’inserviente anziano venne ad aprirgli e lo fece passare nel vasto ingresso. «Prego, professore, da questa parte» disse, quindi gli fece strada su per lo scalone in quercia d’epoca elisabettiana e lungo il corridoio perlinato fino allo studio del rettore. Dentro, il rettore era intento a sistemare le proprie carte – da vedere subito nel vassoio d’avorio, importanti ma meno urgenti in quello marrone, e tutto il resto in quello giallo – come sempre faceva quando gli toccava un appuntamento che avrebbe preferito non avere. Il colloquio sarebbe stato difficile, lui aveva bisogno di riordinare le idee e quindi, nel frattempo, si dava al riordino della scrivania: i Post-it, la spillatrice, il tagliacarte di madreperla col manico in argento... Sistemò i lapis – tutti temperati alla perfezione – nel portamatite cilindrico di pelle. Un regalo di sua figlia. Un vigoroso colpo alla porta lo riportò alla realtà. «Avanti.» Azur entrò, sfoggiando una giacca di velluto dal colore intenso, una precisissima sfumatura di viola, sotto la quale portava un dolcevita di un tono più chiaro. I capelli, come sempre, erano scarmigliati con la massima cura. «Buongiorno, Leo. Non ci si vede da un pezzo.» «Azur, che bello vederti» disse il rettore, in tono garbato e cordiale ma teso. «Un bel pezzo davvero. Pensavo a un tè, se ti va di farmi compagnia... o se no aspetta, vediamo che ore sono... un bicchierino di sherry, magari?» Azur non aveva mai adottato l’usanza, comune tra docenti, dello sherry in tarda mattinata; ma quel mattino pensava che a lui, o al rettore, servisse un goccetto. «Ma certo, perché no.» In pochi secondi apparve un inserviente anche più anziano, il portamento scolpito di petrosa riservatezza, la schiena incurvata da anni di servizio. Come per i ritratti alle pareti, o i lignei seggioloni gotici vicino alla finestra, era difficile immaginare un’epoca in cui quell’uomo non fosse stato parte del college. Per qualche istante gli altri due rimasero a guardarlo mentre, con un braccio immobile dietro la schiena e la mano tremante, mesceva il liquore con una lentezza esasperante. Brocca d’argento, bicchieri di cristallo, mandorle salate. «Ho letto la tua ultima intervista sul Times, niente male» disse il rettore non appena si ritrovarono nuovamente soli. «Grazie, Leo.» Seguì un silenzio imbarazzato. «Tu sai quanto io ti ammiri» riprese il rettore. «Siamo molto fortunati ad averti nel corpo docente. Ed ero molto affezionato ad Anissa.» «Grazie, ma non credo tu mi abbia convocato per parlare della mia defunta consorte» disse Azur. «Ti conosco abbastanza da capire che sei turbato, perciò dimmi: che succede?» Il rettore tirò fuori i blocchetti di Post-it: li aveva risistemati per colore – arancio, verde, rosa. Senza guardarlo in faccia, disse ad Azur: «Mi sono giunte delle lamentele che ti riguardano». Azur osservò attentamente l’interlocutore: i capelli che ingrigivano alle tempie, la fronte aggrinzata, lo scatto nervoso della bocca. L’alto funzionario di tesoreria di una volta, dalla testa ai piedi. «Non c’è bisogno di misurare le parole, con me.» «No, naturalmente no, ci mancherebbe. Ogni volta che ti hanno attaccato, e sappiamo bene che non è successo di rado... o per le tue opinioni, o per il tuo approccio all’insegnamento... voglio dire, sei molto apprezzato, ma non universalmente, e questo lo sai anche tu... io ti ho sempre appoggiato. Sempre.» «Lo so» disse Azur, tranquillo. Il rettore fece una piccola torre di Post-it. «Ti ho appoggiato perché credevo nella tua onestà intellettuale. Perché rispettavo il tuo impegno verso la conoscenza e l’oggettività.» Un sospiro. «Ma perché, di grazia, devi pestare così tanti piedi?» Laureandi in lacrime, denunce verbali e scritte contro Azur e le sue tecniche di insegnamento: lo si accusava di spingere i propri studenti oltre il limite, di metterne a nudo le debolezze, di umiliarli davanti agli amici, di ostentare atteggiamenti controversi e offensivi. «Offensivi» ripeté il rettore ad alta voce. «Bisogna che imparino a non offendersi» disse Azur. «Qui non siamo all’asilo. Siamo all’università. È ora di crescere. Non possono pretendere coccole e carezze a vita. I nostri studenti devono imparare ad affrontare le cose. Perché le cose succedono.» «Sì, ma tutto questo non rientra nelle tue mansioni di lavoro.» «Secondo me sì.» «Il tuo lavoro è insegnargli la filosofia.» «Appunto!» «La filosofia com’è nei manuali.» «La filosofia com’è nella vita.» Un altro sospiro. «Gli studenti non possono star lì a sentirsi offesi e spinti oltre il limite. Sono troppi, ormai.» Il rettore fece crollare la torre di Post-it. «E poi c’è un’altra cosa... importante.» «Sarebbe?» «Una studentessa.» Quest’ultima parola rimase sospesa in aria, restia a dissolversi. «Si dice che tu intrattenga relazioni con alcune studentesse» proseguì il rettore. «Questi però sono affari miei, o no? Fintanto che non mi approfitto di nessuno... e nessuno si approfitta di me.» Il rettore scosse il capo. «Posizione discutibile, quanto a moralità.» «Si tratta di Shirin? Perché lei non è una mia studentessa, non più, e tu lo sai.» «Ehm... No, non si chiama così.» Azur aggrottò la fronte, perplesso. «E allora di chi stai parlando?» «Di una studentessa turca che segue il tuo corso.» Il rettore alzò infine lo sguardo stanco. «E che ieri sera ha tentato il suicidio.» Azur impallidì. «Ma chi, Peri? Dio santo! Come sta?» «Adesso tutto a posto... sono giovani» disse il rettore. «Un’overdose di paracetamolo, ma il fegato ha resistito bene.» «Non ci posso credere.» Azur si accasciò sulla poltrona; dal suo viso era scomparsa ogni traccia di vigore. «A quanto pare, avevi una relazione con lei e l’hai... abbandonata.» Azur inspirò di scatto, come se avesse preso un pugno. «Lo ha detto lei?» «Be’, non proprio. Lei non è in condizione di parlare, al momento» disse il rettore. «È stato quel ragazzo che ti ha querelato, quel Troy... Minaccia di parlare con la stampa e mi è parso piuttosto agitato. Ho qui una sua deposizione scritta.» «Posso vederla?» «Temo di no. Deve andare al comitato etico.» «Posso assicurarti che tra me e Peri non c’è stato assolutamente nulla. Non hai che da chiederlo a lei e sono certo che ti dirà la verità.» «Ascolta, tu sei un bravissimo insegnante, ma prima di tutto sei un professore ordinario di questo ateneo, e noi non possiamo rischiare il buon nome del college. Ti sarai reso conto anche tu di esserti fatto molti nemici, nel corso degli anni.» Il rettore prese un sorso di sherry. «I media, puoi immaginarti come si butterebbero su una storia così. Sono delle iene.» «Quindi cosa proponi?» «Be’... valuta l’idea di prenderti un periodo di aspettativa. Smetti di insegnare per un po’. Lascia che le acque si calmino e che il comitato concluda l’indagine. Con la testimonianza della ragazza si sistemerà tutto, ma nel frattempo dobbiamo andare al fondo di questa... faccenda.» Azur lo squadrò, in cerca di indizi. Poi si alzò in piedi. «Leo, tu mi conosci da tanto tempo. Non ho mai avuto comportamenti contrari all’etica.» Si alzò anche il rettore. «Senti...» «Le affermazioni di Troy sono fallaci, te lo posso assicurare. Come diceva Anaïs Nin, “Noi non vediamo le cose come sono, ma come siamo noi”.» «Oh, santi numi, date le circostanze la Nin è proprio l’ultima persona che dovresti citare.» «Aspetterò che Peri dica la verità» concluse Azur. Poi scosse il capo. «Povera ragazza, perché ha voluto farsi del male?» Un attimo dopo se ne era andato. Era un professore ordinario, dunque non potevano sbarazzarsi di lui senza il suo consenso. Eppure, benché nemmeno ora gli importasse di quello che gli altri pensavano di lui, dentro di sé, in profondità, sapeva di essere diventato un motivo di imbarazzo per il corpo docente. Gli pulsava la testa, come se qualcosa che era rimasto imprigionato troppo a lungo nel suo intimo stesse cercando di conquistarsi una via di fuga. Ad ampie falcate dondolanti uscì dal rettorato per andare incontro alla pioggia, che cadeva incessante fin dal primo mattino. Il suono dell’assenza di Dio

Oxford, 2002

Quando riprese conoscenza, in una stanza del reparto di Psichiatria del John Radcliffe Hospital, Peri non capì subito dove si trovava. I colori erano troppo vividi, aggressivi: il bianco delle lenzuola troppo candido, l’azzurro della coperta troppo allegro. Il grigio del cielo fuori dalla finestra le fece venire in mente i grumi di piombo che sua madre faceva fondere contro il malocchio. Si sentiva dei mormorii dentro la testa, delle futili preghiere; agitata, provò a chiudere nuovamente gli occhi sperando che il brusio se ne andasse, ma la paziente accanto a lei – una signora sui sessanta – pareva ansiosa di chiacchierare. «Per l’amor del cielo, sei sveglia! Pensavo che avresti dormito per sempre.» Briosa e spigliatissima, la donna le raccontò che era sposata da quarant’anni ed era stata ricoverata così tante volte che ormai dava del tu a tutti, in reparto. La sua voce riempiva la stanza neanche fosse un palloncino da gonfiare, e alzava la pressione nelle orecchie di Peri. «E tu, invece? Prima volta o recidiva?» Peri si schiarì la gola, sentendo venir su un saporaccio chimico; poi si cercò la voce ma dovette scuotere il capo, incapace di parlare. Si rattrappì fra le lenzuola, si voltò verso la finestra e iniziò a rivedere nella mente uno sciame di frammenti del giorno prima. Che cos’aveva combinato? Ripensò a suo padre, con una lacrima a correrle lungo la guancia. La mia intelligentissima figlia. Tu sei l’unica tra i miei figli che può farcela. L’istruzione ci salverà e tu salverai questa famiglia infelice. Solo i giovani come te possono riscattare questo Paese dalla sua arretratezza. La figlia da sogno, mandata a Oxford per riempire d’orgoglio casa Nalbantoğlu, vi aveva invece portato umiliazione e disfatta. Senza rendersene conto, Peri si mise a singhiozzare talmente forte che l’altra paziente, temendo per il suo stato mentale, premette l’allarme per far venire l’infermiera. Nel giro di minuti le somministrarono un liquido color pesca, che aveva un odoraccio ma stranamente nessun sapore; dopodiché Peri sprofondò con la testa nel cuscino, le palpebre appesantite dalla stanchezza. In quello stato semi-delirante, l’unico viso che continuava a vedere era quello del bebè nella nebbia. Dov’era, adesso che aveva bisogno di lui? Possedeva un’esistenza e una volontà al di fuori di lei, o era solo un frutto della sua fantasia malata di sensi di colpa?

Il mattino dopo Peri vide per la prima volta il suo terapeuta, un giovane medico dal sorriso garbato e generoso. Non sei sola, le disse. Avrebbero fatto un lavoro di squadra: lui le avrebbe fornito gli strumenti con i quali costruire una nuova Peri, e lei sarebbe stata l’architetta della propria anima. L’autrice di se stessa. Il dottore faceva un po’ troppe pause, e aveva il vezzo di concludere ogni frase con la domanda «Che te ne pare?». L’obiettivo della terapia non era cancellare i pensieri autodistruttivi, le spiegò, ma piuttosto insegnarle come affrontarli in caso si ripresentassero. Parlava delle tendenze suicide come di un fenomeno atmosferico, di una precipitazione forte ma passeggera: non la si poteva impedire, ma se si imparava a mettersi all’asciutto non se ne pativano troppe conseguenze. «Un’ultima cosa» disse. «Quando sarai pronta, senza fretta, potrebbero farti qualche domanda circa un tal professore. Sappiamo che gli hanno mosso delle accuse, che avrebbe intimidito alcuni studenti, te compresa, di fronte a tutti. L’università sta svolgendo le sue indagini, a tutela tua e di tutti gli altri. Quando sei pronta, senza fretta. Che te ne pare?» Peri sentì un brivido lungo la schiena. Quindi erano convinti che fosse stato Azur a provocare il suo tentativo di suicidio. Per quanto sbalordita nell’apprenderlo, seguitò comunque a tenere la bocca chiusa. L’abete d’acqua

Oxford, 2002

La mattina in cui era attesa per l’audizione davanti al comitato etico, Peri fece una sosta solitaria all’Orto Botanico appena giù dal Magdalen Bridge. Ogni volta che ci andava si sentiva come a passeggio in un luogo amato nell’infanzia, a suo agio con l’ambiente circostante. Sopra la panchina dov’era seduta torreggiava un abete d’acqua – che nome stupendo! – di quasi venti metri. L’esemplare, di una specie nota in precedenza solo per i resti fossili, era stato trovato vivo e vegeto in una valle della Cina, e Peri adorava la storia fiabesca di quella scoperta botanica. Con il sole sulla schiena trasse le gambe al petto, le ginocchia sotto il mento, provando una curiosa sensazione di calma in mezzo a piante e alberi rari. In mano aveva un bicchierone di caffè che si premeva contro una guancia, confortata da quel calore come dalla carezza di un amante. Le risuonava nelle orecchie la voce di Shirin: «Che cazzo di motivo hai per deprimerti così, Topina? Che ci fai, sempre con questa faccia disperata? A vederti, hai vent’anni dentro e novanta fuori. Quand’è che imparerai a divertirti un po’?». Azur però aveva detto che il modo migliore di affrontare «il problema di Dio» non era con la devozione, né con lo scetticismo, bensì con la solitudine. Non per niente un gran numero di asceti ed eremiti si erano ritirati nel deserto, per compiere la propria ricerca spirituale: restando in compagnia, sosteneva Azur, era più facile trovarsi in comunione col demonio che con Dio. Scherzava, naturalmente... anche se con lui non si poteva mai sapere. Sì, sarebbe andata a testimoniare a suo favore. Glielo doveva. Certo, lui aveva avuto una parte nella sua sofferenza, un amore non corrisposto era l’ultima cosa che le serviva, ma non lo si poteva ritenere responsabile del suo tentativo di suicidio. Inoltre, Peri gli era riconoscente: lui aveva aperto una nuova dimensione, fin lì ignota e inerte, nella sua coscienza. Azur si aspettava, no, pretendeva che i suoi studenti aprissero gli occhi sui propri pregiudizi culturali e personali, e che giungessero a liberarsene. Era un insegnante straordinario, uno studioso dell’integrità: era riuscito a scuoterla, a motivarla, a sfidarla. Negli studi lei non si era impegnata per nessuno come per lui; Azur le aveva mostrato la poesia della sapienza e la sapienza della poesia. Ai suoi corsi tutti erano graditi e trattati allo stesso modo, indipendentemente dalle loro origini e opinioni; se per lui qualcosa di sacro c’era, era certamente la conoscenza. Peri adorava il modo in cui gli ultimi raggi di sole gli indoravano i capelli; il modo in cui gli scintillavano gli occhi quando volava con la mente parlando di un libro prediletto, o di un filosofo amato; adorava il suo stesso amore per l’insegnamento, che talvolta sembrava addirittura più forte della sua volontà. Quasi tutti i docenti svolgevano il programma, anno dopo anno, mentre lui improvvisava ogni volta: nel suo universo non c’erano abitudini ma solo rischi che valeva la pena di correre. Le tornò in mente una volta in cui aveva citato Chesterton: La vita... appare lievemente più matematica e regolare di quanto sia; la sua esattezza è evidente, mentre la sua inesattezza è celata; il suo disordine rimane in agguato. D’altro canto, pur infatuata com’era, detestava il complesso di superiorità di Azur, la sicumera di cui era disgraziatamente intriso. Lui liquidava le remore del prossimo e indottrinava gli studenti in base al suo punto di vista, esercitando su di loro una forma di potere che spesso finiva per urtare i loro sentimenti. Lo immaginò che passava una mano tra i capelli di Shirin, e poi sul collo... ma era insopportabile. Il pensiero di loro due insieme, che parlavano, ridevano, facevano l’amore. Erano quelle, le scene che si replicavano senza sosta nella sua mente ogni sera, quando posava la testa sul cuscino. L’intimità che aveva concesso a Shirin, mentre con lei si era mantenuto distante e inaccessibile; solo quando aveva saputo degli arcani episodi con il bebè nella nebbia le aveva rivolto una maggiore attenzione. Per lui, lei aveva rappresentato solo l’ennesimo esperimento scientifico, l’ennesima fonte di curiosità; soddisfatta la quale era rapidamente passato a un altro gioco, come un bambino viziato. Peri detestava la smania che in Azur accompagnava lo spirito indagatore, la vanità che nascondeva dietro la ricerca accademica, ma non era in grado di dire che cosa l’avesse ferita maggiormente: che lui andasse a letto con Shirin di nascosto, o che non avesse amato lei allo stesso modo. Aveva fatto irruzione nella sua vita lasciandosi dietro solo macerie. Sì, sarebbe andata a testimoniare contro di lui. Shirin e Mona erano rimaste traumatizzate, quando avevano saputo del tentativo di suicidio. Non appena avuta l’autorizzazione erano andate a trovarla, portando con sé soltanto le rispettive preoccupazioni, che si leggevano loro in faccia. Erano decise a scoprire perché lo avesse fatto: ma a quella domanda la stessa Peri non sapeva fornire una risposta. Shirin l’aveva anche implorata di fornire elementi a discarico di Azur; le aveva chiesto di salvare il suo adorato professore. Perché si fidava di lei e la considerava una cara amica, si era chiesta Peri, o solo perché era certa di poter facilmente manipolare la sua Topina? Sii obiettiva, si esortò. Separa le emozioni dai fatti, almeno questo Azur se lo merita. Accertati di non essere in balia dei sentimenti. Lui ti ha insegnato come si fa. Quanto alla sua relazione con Shirin, be’, erano adulti e vaccinati, e nessuno dei due traeva un tornaconto dall’altro. E quanto al perché Troy cercasse di rovinare Azur, si trattava di moventi del tutto disinteressati? Sulla panchina dell’Orto Botanico, ogni domanda che le trapassava la mente conduceva a un’altra domanda più complicata. Il terapeuta le aveva detto che era meglio rimandare qualunque decisione importante a quando si fosse sentita meglio, più in forze. Ma come poteva rimandare, in quelle circostanze? Peri si sentì perduta; la già sottile cima che la teneva ormeggiata alla terraferma si spezzò e lei se ne andò alla deriva in acque sconosciute, senza sapere da che parte dirigersi. Presto sarebbe dovuta comparire davanti ai membri del comitato: che cosa avrebbe detto? E loro, cosa le avrebbero chiesto di rimando? Le sue sensazioni descrivevano mulinelli talmente veloci che non era certa di poterle esprimere a parole, men che mai di fronte a estranei e in una lingua che non era la sua. Guardò l’orologio. Con il cuore che rischiava di scoppiarle fuori dal petto si alzò e si avviò verso il palazzo dove si processava la reputazione del professor Azur.

Avviluppato nella tranquillità del suo studio al college, Azur sedeva alla scrivania e guardava fuori dalla finestra. Cercava di non soffermarsi con la mente sulle decisioni del comitato: alcune persone che gli volevano bene avrebbero finito col soffrire, lo sapeva e gli pesava molto. Sapeva che Shirin sarebbe stata bersagliata di domande sulla loro relazione e che avrebbe provato a nascondere la verità per proteggerlo; inutilmente, quanto a lui, perché aveva già deciso di raccontare tutto esattamente come stava. Non aveva niente da nascondere, non aveva fatto niente di male. Era stato convocato anche Troy, e avrebbe riversato tutto il carico di bugie che lui chiamava verità. Quel ragazzo non gli era mai piaciuto. Subdolo. Aveva fatto bene a cacciarlo dal seminario. Nel corso degli anni aveva sentito tante storie di scontri fra studenti e professori a proposito di definizioni politiche, visioni storiche e così via, ma quanto a lui, di rado si era sentito disturbato da qualsivoglia divergenza di opinioni. Tutti gli anni ci si trovava per le mani qualche caso spinoso, qualche studente che voleva far mostra di quant’era bravo, quant’era sveglio, quant’era avanti rispetto ai coetanei. E andava bene così. A infastidirlo era stato l’atteggiamento di Troy in aula: strapazzava i compagni di corso, metteva in ridicolo tutti quelli da cui dissentiva, li insultava, li seguiva dappertutto e insisteva a esporre da prepotente le sue opinioni su Dio. Dapprincipio aveva creduto che la presenza di quel ragazzo al corso avrebbe indotto tutti gli altri a pensare con maggiore chiarezza, ma ben presto si era capito che i compagni, per lo più, ne avevano paura. Perciò l’aveva buttato fuori, col risultato di farlo sentire escluso, dunque ostile e pericolosamente vendicativo. Azur si rendeva conto che i suoi non pochi detrattori si fregavano le mani, esaltati all’idea che stesse per scoppiare uno scandalo con lui al centro; alcuni si auguravano apertamente che perdesse il posto. Ci sono persone perfettamente capaci di godere delle disgrazie altrui; atteggiamento insensato quanto il pensare di riempirsi la pancia con la fame di un altro. E Peri... bellissima, timida, fragile, piena di sensi di colpa. Che cos’avrebbe detto di lui? Peri non lo preoccupava. Tutto sommato, le accuse legate a lei erano del tutto infondate ed era certo che Peri sarebbe stata obiettiva e onesta. Se non per lui, avrebbe testimoniato per la verità, e alla fine era la stessa cosa. Azur soppesava il proprio caso come se reggesse una bilancia immaginaria: su una mano il piatto dei pro, e quello dei contro sull’altra. Contro: aver messo pressione agli studenti con richieste potenzialmente discutibili se non addirittura offensive; averne in qualche caso provocato la crisi e il crollo psicologico; aver allacciato una relazione con l’irresistibile Shirin. A sua discolpa: i molti anni di insegnamento, ricerca e fatica; il suo contributo alla vita accademica e intellettuale; la sua produttività quanto a libri e articoli; e il fatto che Shirin – unico aspetto «morale» del dossier – non fosse più una sua studentessa quando la relazione era cominciata. Malgrado tutti gli sforzi di Troy e dei suoi sodali, l’impianto accusatorio era debole. Si ripeteva da sempre che chi non sa incassare non deve fare a botte, perché non saprebbe uscirne vincitore. Ciò detto, tuttavia, si rendeva conto di essere stato immodesto. Aveva preteso di trasformare Dio in una lingua che potesse essere, se non parlata, almeno compresa e condivisa da molti; di vedere Dio non come entità trascendente o come implacabile giudice o come totem tribale ma come idea unificatrice, come esplorazione collettiva. Se spogliata di ogni etichetta e dogma, poteva la ricerca di Dio diventare un campo neutro in cui tutti, atei e politeisti compresi, partecipassero a un dibattito di alto livello? Poteva Dio unire in quanto puro oggetto di studio? Si trattava di un esperimento mentale: se ciascuna anima terrena andava a completare Dio, come sosteneva Hafez, che cosa sarebbe successo riunendo nella stessa stanza una serie di persone male assortite, costringendole a guardarsi negli occhi e spronandole a completare la rispettiva interpretazione di Dio? Sì, ammetteva di essere stato esigente e dominante, alle volte. Vero, aveva usato la sua aula come un laboratorio. Ma lo aveva fatto per una buona causa. Gli studenti... sfavoriti quanto a conoscenza, favoriti quanto a età, lesti a dare giudizi ed egocentrici fino al midollo. A loro non passava per l’anticamera del cervello che anche gli insegnanti avessero una loro storia, un segreto, un’altra vita altrove. Azur aveva creato insieme a loro una torre di Babele; li aveva spinti più avanti che poteva. E aveva fallito. Avvicinarsi a Peri era stato un errore grave. Lo aveva molto incuriosito scoprire che una ragazza così tranquilla e introversa possedeva un lato nascosto, legato a una dimensione che lei definiva «mistica». Peri, più di qualunque altro studente del corso, era in lite con Dio, e lui era stato attratto da quella disputa. Sì, le aveva dedicato più tempo, benché si rendesse conto – non poteva essere diversamente – che la ragazza nutriva dei sentimenti per lui. Ma era troppo giovane, troppo ingenua, troppo abbottonata. E lui avrebbe dovuto essere più cauto, ma non ricordava più l’ultima volta in cui era stato cauto. Azur non era cresciuto in un ambiente religioso. Suo padre era un facoltoso imprenditore inglese, tanto ricco e affermato quanto infelice; sua madre una brava ma frustrata pianista cilena, colma di risentimento per non aver mai ottenuto il prestigio che era convinta di meritare. La famiglia aveva un’attività all’Avana, dove lui era nato; suo padre raccontava sempre di quando andava a caccia di squali con Ernest Hemingway, per quanto, tolti qualche foto e qualche bigliettino autografo, ben poco restasse di quell’amicizia così eccezionale. Azur aveva scelto la filosofia come professione in sprezzo ai doveri e alle aspettative famigliari; tuttavia, per far felici i genitori, aveva acconsentito a laurearsi in Economia, cosa che aveva fatto, all’Harvard. La sua vita aveva cominciato a cambiare proprio all’ultimo anno a , quando si era iscritto a un corso di Studi Mediorientali in cui il docente lo aveva stimolato come nessun altro aveva mai fatto prima. Di origine berbero- algerina, il professor Naseem aveva messo il giovane Azur a confronto con culture diverse, prospettive mutevoli e domande spinose, oltre a iniziarlo alle opere di mistici come Ibn ‘Arabi, Meister Eckhart, Rūmī, Yitzhak Luria, Farid al-Din ‘Attar e il suo Verbo degli uccelli e infine il suo preferito, Hafez. Un pomeriggio Azur andò a trovare il professor Naseem nella sua casa di Brookline e lì conobbe la figlia minore, Anissa. Grandi occhi nocciola, ricci capelli scuri e una vivacità che toccava e accendeva chiunque le fosse vicino. Presero a chiacchierare senza sosta: di libri, musica, politica. Lei sognava di andare a vivere per conto suo, «ma ovunque vada a finire, devo poter vedere l’acqua» diceva. Quella stessa sera Azur fu invitato a trattenersi per cena. I piatti naturalmente erano ottimi, diversi da tutto ciò a cui era abituato, ma soprattutto erano state le risa disinvolte e le melodie arabe a ipnotizzarlo; lo sguardo di Anissa guizzava sul suo viso alla luce delle candele, e in quel momento Azur aveva desiderato che fosse quella la sua famiglia. Com’era diversa la loro spontaneità, la loro naturale immediatezza, dal garbo misurato che vigeva a casa sua. Ancora adesso Azur non sapeva bene se si fosse innamorato di Anissa o della sua famiglia. Neanche due mesi dopo erano sposati. Ma non ci era voluto molto perché le due metà della giovane coppia scoprissero di essere incompatibili. Anissa viveva soprattutto delle proprie fantasie; era estremamente possessiva, ferocemente gelosa e incline a fare scenate orrende per motivi anche futilissimi, tanto che assumeva psicofarmaci fin dall’adolescenza. Anissa aveva anche una sorellastra più grande di lei – Nour – figlia di primo letto del professor Naseem. Riflessiva, premurosa, gentile, ogni volta che la famiglia si riuniva si sedeva a tavola con loro e ascoltava le conversazioni tra Azur e il padre, facendo domande pungenti. Pian piano, Azur cominciò a guardarla con altri occhi: la dolcezza del sorriso, la luminosità dello sguardo, la delicatezza delle dita, l’acume e l’intelligenza. Lei rispettava i suoi punti di vista, lui quelli di lei: Azur non aveva mai pensato che quel genere di rispetto, in sé, potesse essere fonte di attrazione. Quello stesso anno, alla fine dell’estate, Azur e Nour passarono il segno, e la famiglia lo scoprì immediatamente. Il professor Naseem, uomo posato e di buon cuore, convocò Azur e lo sommerse di urla, con le vene del collo che sembravano azzurri torrenti in piena. Accusò il suo giovane prodigio di comportarsi come Satana, di essersi insinuato nella sua casa al solo scopo di distruggere la pace e la reputazione che si era faticosamente guadagnato. Azur e Anissa si trasferirono e riuscirono a rappezzare le cose. Poi decisero di andarsene da Boston. Di ricominciare da capo in Europa. «La tua vergogna non ci seguirà» disse Anissa. «La vergogna non può varcare l’oceano.» Però non smetteva mai di parlarne; non apertamente, ma per allusioni e osservazioni sarcastiche, convinta che nemmeno il rimorso più atroce da parte di Azur avrebbe potuto riparare quel che lui aveva mandato in pezzi. In qualche maniera incidentale, pareva che godesse del peccato del marito, perché le conferiva un vantaggio morale, un senso di rettitudine più dolce delle bacche mature. Arrivarono a Oxford, in un luogo con vista sull’acqua, dove Anissa parve ambientarsi con facilità e Azur si rimise rapidamente in piedi. Anzi prosperò. Sua moglie risultò molto gradita alla comunità universitaria; ma nessuno, tra quanti facevano la sua conoscenza, era in grado di vedere la profondità delle tenebre che le consumavano l’anima. Quand’era felice, era euforica; quando era triste era devastata. Che fosse gioia o dolore, in Anissa era sempre tutto estremo. Era incinta di quattro mesi quando scomparve. Una mattina presto, con la nebbia ancora sospesa sul terreno, uscì per fare una passeggiata lungo gli argini e non tornò più. Il corpo fu ritrovato ventisei giorni dopo, benché i sommozzatori della polizia avessero già sondato il fiume a più riprese. L’«Oxford Mail» pubblicò un articolo corredato da una foto di Anissa in abito da sposa, con una coroncina di fiori primaverili; come il giornale ne fosse entrato in possesso, Azur non lo scoprì mai. Le cause della morte rimanevano «inspiegate», dichiarò il portavoce degli inquirenti, che non ritenevano di avere a che fare con un omicidio. Il medico legale stabilì il non luogo a procedere. Ma Azur si ritrovò ossessionato da quel termine: inspiegato. Il professor Naseem incolpò Azur e la sua infedeltà con Nour per gli sbalzi di umore e l’improvvisa scomparsa di Anissa; la famiglia non lo perdonò mai, e nel proprio intimo nemmeno lui era capace di assolversi. L’episodio, però, lo aveva reso ipersensibile alle scuse. Detestava la gente che chiedeva perdono per delle sciocchezze, quando nella vita c’erano scuse ben più importanti che non si sarebbero mai potute esprimere. Tra il libero pensiero nel quale era stato cresciuto e la fede imperniata sulla giustizia del professor Naseem si ritagliò uno spazio del tutto personale: avrebbe spiegato l’inspiegato. Avrebbe insegnato Dio.

Con il vento del mattino che si addolciva in brezza, Peri si avvicinò al luogo della riunione in uno stato d’animo trasognato. Si sentiva le gambe rigide e pesanti. Il sole si nascose dietro una nuvola, un rondone si alzò in volo dandole il senso di una stagione diversa; come se il mondo fosse cambiato da quando lei aveva lasciato l’Orto Botanico e l’abete d’acqua che l’aveva protetta. All’ingresso c’era Troy che andava su e giù. Shirin invece sedeva ai piedi delle scale, le braccia conserte sul petto e gli occhi gonfi di pianto; ciascuno dei due attendeva con ansia l’arrivo di Peri, in modo da poterla trarre dalla rispettiva parte. Dentro il palazzo, invece, c’erano persone provviste di espressioni impenetrabili e domande indiscrete. Chissà dov’era Azur, si chiese Peri, e che cosa gli passava per la testa. Quanto avrebbe voluto che le fosse accanto in quel momento, al sicuro dentro una delle tante fantasie che lei gli aveva costruito intorno; sarebbero potuti passare oltre quella gente, indifferenti al giudizio nei loro sguardi, insensibili al disastro che da un momento all’altro li aveva colpiti. Avrebbe voluto che fosse sera, e che lui le parlasse di poesia e di filosofia e del paradosso di Dio, con parole che volavano nel vento come le faville di un fuoco acceso; loro due soli sotto un cielo che avrebbe potuto essere ovunque, sopra una sognante cittadella universitaria o una metropoli gremita, e lei con la testa nell’incavo del suo collo. Avrebbe voluto che tutte le loro differenze, d’età e di posizione e di cultura, svanissero nell’aria. Avrebbe voluto che lui si chinasse a sfiorarle il viso e a baciarla sulle labbra e a pronunciare il suo nome come la formula di un incantesimo. Avrebbe voluto che mente e cuore le si fondessero in una lama capace di distruggere lo spirito di Shirin che abitava dentro di lui. Era passato molto tempo da quando aveva desiderato qualcosa con tanto fervore. Peri si strinse nel cappotto, sentendo il freddo penetrarle sotto la pelle. Se avesse testimoniato a favore, come si sentiva moralmente obbligata a fare, forse lui avrebbe capito quanto lei ci tenesse e l’avrebbe amata, almeno un po’. Forse... Eppure in cuor suo Peri sapeva che non sarebbe successo nulla di tutto ciò. Il suo buon nome sarebbe stato ristabilito, e lui avrebbe festeggiato con Shirin... che otteneva sempre ciò che voleva. Da lontano, Peri considerava tutte queste cose. E poi pian piano, come se avesse esaurito la spinta, si fermò. Non era forse lei, quella che aveva visto il fratellino morire soffocato e non aveva chiamato aiuto? Sempre tra qui e lì, timorosa di attrarre l’attenzione su di sé, restia a schierarsi, talmente occupata a non scontentare nessuno da finire sempre per scontentare tutti. Malgrado ogni suo tentativo di cambiare, non era forte abbastanza da superare la paralisi emotiva radicata nella sua anima. Lei, Peri, Nazperi, Rosa, Topina, non avrebbe testimoniato. Né ora, né mai. Non era un’attrice, ma solo una spettatrice: quello era un loro problema, un loro stupido gioco. Girò sui tacchi e se ne andò via come se in ballo ci fosse la reputazione di uno sconosciuto e non il futuro dell’uomo che aveva amato, sognato e desiderato con tutta se stessa. Dovevano passare anni prima che giungesse a capire che la sua passività aveva attivamente contribuito alla rovina dell’uomo che amava. Che quando aveva tradito Azur, aveva tradito la verità. L’armadio a muro

Istanbul, 2016

Ai due intrusi si era unito un terzo uomo, con il viso coperto a metà da una bandana. Da come parlava, sembrava il capo. Evidentemente aveva aspettato in giardino mentre gli altri due gli aprivano la strada, facendo irruzione nella villa. «Fate come vi diciamo e nessuno si farà male» tuonò, ma in tono non rabbioso né agitato, bensì freddo e distaccato. «Decidete voi.» Peri si rese conto che stava tremando; il cuore le sobbalzava in petto. Doveva scappare o nascondersi? Chi erano, questi tizi: mafiosi, rapinatori comuni, terroristi? A Istanbul c’era abbondanza di tutti e tre i tipi. O forse era una questione di soldi? A quanta gente aveva pestato i piedi, l’uomo d’affari, mentre accumulava denaro e invidia nelle stesse quantità? Le tornò in mente la sua espressione preoccupata in terrazza. Ma non era il momento per meditare; Peri si immobilizzò, tenendo d’occhio la porta della cucina dal passaggio in cui adesso si trovava accovacciata. Non poteva sgattaiolarci dentro senza essere vista dal salone. Fece un passo indietro e con le mani tastò la superficie dello specchio alle sue spalle, che si mosse appena: l’anta di un armadio a muro. Lo aprì: dentro c’erano cappotti, scatole, scarpe, ombrelli. Senza fermarsi a pensare, ci si infilò e tirò l’anta che si richiuse magneticamente. Con la schiena contro il fondo di legno, si rannicchiò al buio. Per l’ennesima volta nella vita, era diventata un porcospino impaurito. Dopo neanche un minuto qualcuno percorse a passi pesanti il corridoio, gridando. «Fuori dalla cucina! Tutti, forza!» Radunavano il personale: il cuoco, il suo assistente, le cameriere ingaggiate per la serata. Passi affrettati. Incedere di stivali. Sussurri impauriti. Nel guardaroba Peri tolse il volume al telefono e scrisse un messaggio alla madre: «Chiama la polizia, urgente. Sai dove sono». «Cacchio!» si disse poi, rendendosi conto che molto probabilmente Selma era già a letto e non avrebbe visto il messaggio fino all’indomani. Al contempo, si sentiva enormemente sollevata perché Deniz se n’era andata ed era al sicuro. Invece Adnan era qui... lì. Suo marito, il suo confidente, il suo migliore amico. Un sussulto le mozzò il fiato. Sentì un tonfo. Una donna strillò. Peri colse un grido che si trasformò in un riso isterico: doveva essere la ragazza del famoso giornalista. «Loro non li avevi previsti, eh? Complimenti, bel sensitivo del cazzo!» Abbracciandosi le ginocchia, Peri cercò di rimanere più ferma possibile. L’uomo d’affari stava raccogliendo quel che aveva seminato? O era solo una coincidenza, l’ennesimo evento casuale a cui uno cercava a tutti i costi di dare un senso? Ripensò alle telecamere di sicurezza e al filo spinato che aveva visto all’ingresso. Tutto inutile. Il mondo è pieno di pericoli; caos e disordine si annidano in ogni angolo. Il male è il castigo divino per le nostre azioni o l’operato volubile di un fato arbitrario? Se è la casualità a regnare, che senso ha cercare di essere persone per bene? Come si fa ammenda per le colpe passate, se non comportandosi diversamente? Lei era sempre stata una brava persona, a parte con l’uomo che aveva amato anni prima e che in qualche angolino recondito del cuore amava tuttora. Il professor Azur le aveva insegnato che l’incertezza era preziosa; ma se non fosse esistito altro che la confusione, in realtà? Con una fitta allo stomaco, chiamò la polizia. Le rispose subito un agente, bombardandola di domande e trattandola più da criminale che da testimone. Peri lo interruppe col tono di voce più smorzato che poteva: «Ci sono degli uomini armati...». «Non la sento, parli più forte» la rimproverò l’agente. Peri gli diede l’indirizzo. «E lei che ci fa in quella casa?» chiese l’agente. «Ero ospite a cena» sibilò Peri, frustrata. «Quelli sono armati.» «In che punto della casa si trova?» chiese l’agente, senza aspettare una risposta: voleva sapere le sue generalità, la professione, il domicilio. Domande inutili. Era stata sempre una cittadina esemplare, ma nel database dello Stato era una creatura digitale, un numero senza storia. Alla fine l’uomo disse: «D’accordo, mandiamo una pattuglia». Dopo la telefonata Peri controllò la batteria: sarebbe durata ancora un quarto d’ora o forse meno. Si chiese che cosa sarebbe successo in quel lasso di tempo: l’avrebbero scoperta e presa in ostaggio insieme agli altri, o sarebbe arrivata la polizia per iniziare un’operazione, nel corso della quale tutti loro potevano essere salvati come anche uccisi? Magari, di lì alla morte della batteria l’Ultima Cena della Borghesia Turca si sarebbe conclusa, con finale lieto o tragico. Spesso la vita ci sembra ingiusta, ma la più grande ingiustizia è la morte: che cos’è più difficile da accettare, che ci sia un fine occulto in tutta questa follia, se solo sapessimo dove guardare, o che non ci sia nessun senso logico e quindi nessuna giustizia? La ferita alla mano aveva ripreso a pulsarle, quasi di propria iniziativa, come se fosse il tentacolo di un polpo. Nella luce fosforescente che veniva dallo schermo del telefonino, presa tra file di cappotti e scarpe mentre fuori suo marito e i suoi amici erano tenuti in ostaggio, fissò il numero che le aveva dato Shirin. Chiamò Azur. Il disonore

Oxford, 2016

Ogni giorno, al crepuscolo, Azur andava a camminare. Percorreva fra gli otto e i dieci chilometri lungo piste di interesse storico, attraversando antiche foreste e campagne ondulate. All’aperto la mente si schiariva, secondo lui, quando uno procedeva in modo determinato e controllato ma senza una meta precisa. Se c’era una cosa in cui era giunto a credere fermamente, a proposito degli esseri umani, era che fossero dei camaleonti mentali, in grado di adattarsi anche alla vergogna e al disonore. E non lo pensava in via ipotetica, ma per esperienza personale: aveva conosciuto la vergogna, aveva conosciuto il disonore. Se qualcuno avesse detto all’Azur giovane, impegnato a farsi strada sia nell’accademia sia in società, ambizioso e fin troppo sicuro di sé, che un giorno sarebbe rovinato al suolo come se si fosse avvicinato troppo al sole, l’avrebbe considerata una prospettiva troppo deprimente per essere credibile. Anzi, l’Azur giovane e di saldi principi avrebbe forse ribattuto che era meglio morire piuttosto che vivere con un simile marchio d’infamia. E invece eccolo lì, trascorso più di un decennio dallo scandalo, ancora in giro, ancora vivo e con l’animo ancora profondamente ferito. Quattordici anni prima era stato costretto a lasciare la cattedra, e da allora manteneva legami laschi con il college che un tempo era stato la sua casa accademica, come un cordone ombelicale che non fornisce più alcun nutrimento ma non si può recidere. Non gli avevano mai chiesto di tornare a insegnare, né l’aveva chiesto lui, perché il suo nome non imbarazzasse i colleghi o il dipartimento. Nel corso degli anni aveva letto numerosi articoli che parlavano di lui: ma ce n’era uno che si distingueva da tutti gli altri, nel quale lo si accusava di essere un megalomane con smanie di autorità, un amalgama foucauldiano di potere e cultura che nuoceva alle menti giovani e insicure come un cancro. Tracciando un compiuto ritratto del male, l’autore collegava il tentato suicidio di Peri con la scomparsa di Anissa: «Ecco qui un uomo che in tutta evidenza ha sospinto nel baratro qualunque giovane donna avesse sedotto intellettualmente». Scritto in modo appassionato e fondato su informazioni verificate con la massima cura, l’articolo aveva destabilizzato Azur, provocandogli una depressione così intensa che ormai non riusciva più a ricordare un momento in cui il suo mondo non fosse soffuso di malinconia. Eppure aveva continuato a scrivere, quasi sapesse che, smettendo, non gli sarebbe rimasta alcuna ragione per attendere il giorno dopo. Il lavoro era un istinto di sopravvivenza. Avrebbe potuto ricominciare da capo in Australia o negli Stati Uniti, ma aveva scelto di rimanere. Senza responsabilità amministrative né didattiche, si era ritrovato con un mucchio di tempo per leggere, scrivere e fare ricerca. Questo, insieme a un nuovo fuoco che gli aveva acceso l’anima, lo aveva spinto a pubblicare un libro dopo l’altro; e ognuno dei testi che aveva completato in quegli anni gli aveva portato nuova fama e apprezzamento, tanto da fargli raggiungere un’autorevolezza a cui non sarebbe mai arrivato se non avesse perso la cattedra. Forse Plutarco aveva ragione, dopo tutto: il Fato guida chi si lascia guidare, mentre chi come lui si opponeva veniva travolto a forza. Viveva ancora nella stessa casa con i bovindi rivolti verso il bosco. In giardino coltivava ortaggi ed erbe aromatiche; frequentava qualche vecchio amico, e nient’altro. Cucinava. La vita era tranquilla, ordinata, ed era così che la voleva. Continuava ad avere varie amanti, e non aveva più nessuna importanza se le donne con cui condivideva il letto avevano a che fare o no con l’università. Il pubblico disonore aveva questo, di paradossale: privandoti del tuo ruolo sociale e della rispettabilità, ti liberava. Sì, adesso era libero come un uccellino e quasi altrettanto privo di crucci. Ma ovviamente sapeva che gli uccelli sono creature istintive e quindi non esattamente libere, e che hanno un bel po’ di cose di cui preoccuparsi. Di tanto in tanto riceveva la telefonata o l’email di un giornalista che intendeva intervistarlo o di uno studente che faceva la tesi sui suoi libri. A volte accettava, a volte rifiutava, agendo solo d’impulso. All’inizio respingeva categoricamente qualsiasi tentativo di invadere il suo spazio privato; sapeva bene che la prima domanda che gli avrebbero posto sarebbe stata sullo scandalo, nonostante il tempo trascorso. E se non tiravano fuori l’argomento nel corso dell’intervista lo menzionavano poi nell’articolo, il che poteva essere pure peggio. Così aveva rifiutato finché aveva potuto, ma l’inaccessibilità lo aveva reso ancor più affascinante agli occhi dei suoi lettori. Aveva un seguito fedele che conosceva, leggeva e discuteva tutto ciò che veniva da lui. Come aveva scritto un giornalista, fra i più screditati pensatori contemporanei, lui era il più ammirato. Dopo la morte di Spinoza si era ripromesso di non tenere più cani, ma la decisione non era durata a lungo. Un giorno si era trovato sulla soglia, con un fiocchetto dorato al collare, un cucciolo di pastore romeno: un regalo di compleanno di Shirin. Aveva il pelo bianco soffice e fitto, con chiazze grigio chiaro su tutto il corpo; pacato e intelligente, era un animale nato per vivere sui monti. Gli sembrò appropriato dargli il nome del filosofo romeno noto per le sue opinioni saturnine su Dio e tutto il resto. E in fondo, si adattava perfettamente all’umore di Azur: e così di lì in poi fu Cioran ad accompagnarlo nelle passeggiate.

Quel pomeriggio Shirin aveva bussato alla sua porta, con il pancione immenso e le guance in fiamme. La gravidanza conferisce ad alcune donne un aspetto estatico, e così era per lei. Se mai era esistita una santa peccatrice, era Shirin. «Vieni, vero? Per piacere, non dire di no, altrimenti piazzo una scenata» gli aveva detto tamburellando sul tavolo le unghie curatissime e smaltate di verde brillante. Shirin stava facendo un’ottima carriera accademica. Dopo lo scandalo era andata a Princeton, da dove gli aveva immancabilmente scritto quasi ogni giorno. Tornata in Gran Bretagna, aveva avuto un incarico nel suo vecchio college, e da allora i due erano rimasti buoni amici, nonostante la differenza di età e gli stili di vita così dissimili. Che nessuno dei due avesse cercato di resuscitare la relazione di un tempo era cosa buona e giusta, ma anche triste, aveva pensato Azur. Stava invecchiando, se ne rendeva conto. «Capito? Lui è veramente orrendo: razzista, omofobo, islamofobo. Alla povera Mona sarebbe venuto un colpo. Non ha un briciolo di vergogna, sostiene che Dio parla attraverso di lui.» Azur sorrise. «Ce ne fossero pochi, così. Facci il callo.» «Mi rifiuto» disse Shirin. «Vieni, per piacere.» «Ma cosa vuoi da me, cara? Pensi che la mia presenza significhi qualcosa per qualcuno, e tanto più poi per lui? Ai loro occhi sono un disonore ambulante, e poi ho chiuso coi dibattiti su Dio. Non lo faccio più.» «Non ci credo neanche per un secondo. Forza, vieni, su.» Dopo che Shirin se ne fu andata, Azur si preparò un tè e si sedette al tavolo della cucina. Un raggio di luce che passava di sbieco attraverso l’acero in giardino gli gettava un mosaico di ombre sul viso, accentuandone i tratti scolpiti. Aveva accanto un giornale locale, ripiegato, con un articolo sullo studioso olandese noto per le sue opinioni controverse sull’Islam, i rifugiati, il matrimonio tra omosessuali e il mondo in generale. Affermava di avere un filo diretto con Dio – la tessera di un circolo decisamente esclusivo. Da quasi due secoli l’Oxford Union invitava all’università illustri conferenzieri esterni, che andavano dal banale al discutibile, ma nessuno ricordava una simile ondata di sdegno per un uomo solo. Azur prese la tazza lasciando un segno tondo sul giornale, tutt’attorno alla testa dell’oratore. Adesso sembrava davvero un santo. Fissò l’immagine per un momento, assorto. Poi, d’impulso, afferrò la giacca e le chiavi della macchina.

Venti minuti dopo, avvicinandosi all’edificio che si stagliava contro il cielo coperto, Azur notò un gruppo di studenti in attesa, con cartelli di protesta contro il conferenziere che ne chiedevano la cacciata dal campus. Un giovanotto lo fermò: una matricola, a vederlo. Non lo conosceva di sicuro. «Abbiamo organizzato una petizione per fermare questo mostro. La vuole firmare?» Parlava un inglese imperfetto, ma piacevole. «Non è un po’ tardi? Comincia a parlare fra dieci minuti.» «Non fa niente: se raccogliamo abbastanza firme la Union dovrà pensarci due volte, prima di invitare di nuovo uno come lui. E comunque vogliamo entrare e interrompere la conferenza.» Cacciò una penna a sfera e un blocco davanti ad Azur. «Mi dispiace deluderla, ma non intendo firmare.» Uno sguardo di disprezzo passò sul viso del giovane. «E quindi lei concorda con un fascista del genere?» «Non ho detto che condivido le sue opinioni.» Ma lo studente, che aveva perso interesse, si girò e si allontanò rapido, strascicando i piedi. Azur si trovò combattuto fra l’impulso di lasciarlo andar via e quello di trattenerlo. «Aspetti!» Si affrettò verso lo studente, che si fermò, sorpreso. «Lei è musulmano, vero?» L’altro annuì, guardingo. «Immagino che abbia letto Rūmī. Si ricorda di quel verso, Se ogni strofinata ti irrita, come pensi di levigare lo specchio?» «Eh?» «Lasciatelo parlare. Alle idee si controbatte con le idee, ai libri con libri migliori. Per stupida che possa essere la gente, non la potete zittire. Cacciare uno che parla non porta da nessuna parte.» «La sua filosofia pretenziosa se la tenga per sé» rispose il ragazzo. «Nessuno ha il diritto di insultare la mia religione e quello che per me è sacro.» «Ma non pensa a quanto si sentirebbe libero, se riuscisse a innalzarsi al di sopra dell’odio per quest’uomo? All’offesa si risponde con la saggezza.» «Di nuovo quel Rūmī?» «In realtà questo è Shams, suo sodale e...» «Mi lasci in pace» disse il giovane, dopodiché marciò verso i suoi amici e bisbigliò loro qualcosa. Si voltarono tutti a guardare Azur. Perché non riusciva mai a tenere a freno la lingua? Non gli aveva già procurato abbastanza guai? Passandosi una mano fra i capelli, che cominciavano a diradarsi e ingrigire, entrò nell’Oxford Union. All’ingresso c’era un manifesto con il titolo della conferenza: «L’Europa agli europei». Una tensione eccitata percorreva la folla radunata nella sala. Alcuni erano arrivati in preda a rabbia, sdegno e incredulità nei confronti dell’oratore, che si era costruito una carriera a colpi di offese e dileggio; altri, soddisfatti e compiaciuti perché qualcuno diceva finalmente ad alta voce quello che pensavano. Mentre Azur si faceva strada tra la calca, qualche vecchio collega lo salutò, mentre altri fingevano di non averlo notato. Il disonore era un mantello dell’invisibilità, e lui lo indossava in pubblico; non gli faceva male, o almeno non più come una volta, vedere con quanta prontezza la gente giudicava e prendeva le distanze. Ed era in momenti come quello che gli veniva da pensare a Peri, chiedendosi che cosa facesse a Istanbul, che genere di esistenza si fosse costruita. Se lui era stato condannato a una vita di disonore, per lei forse la pena era una vita di rimorsi. Chi poteva dire quale pesasse di più sull’anima? Vedendolo arrivare, Shirin si alzò e gli fece un cenno di saluto tenendosi una mano sul pancione: il suo entusiasmo era così toccante che Azur ne fu rattristato. Non erano i suoi accusatori vigliacchi o i suoi rivali opportunisti a farlo sentire vulnerabile, ma quelli che, qualunque cosa succedesse, gli volevano bene, lo rispettavano e lo sostenevano. Avevano atteso che si riabilitasse, ma lui si era rifiutato; era sempre stato dell’opinione che più ci si dichiara pubblicamente innocenti e più si passa per colpevoli. E poi riaprire vecchie questioni avrebbe fatto male anche a Peri. «Grazie per essere venuto» disse Shirin. «Sapevo che non saresti mancato.» «Me ne vado presto, però. Non penso di reggerlo fino alla fine.» Shirin annuì. Di lì a poco il conferenziere salì sul palco, in completo in cachemire blu elettrico senza cravatta. Parlò per mezz’ora dei pericoli che incombevano sulla civiltà occidentale; la voce ondeggiava con ritmo calcolato, a tratti calando fino a un roco sussurro, per poi risalire sottolineando le parole che mettevano più paura. Non era razzista, spiegò, e men che meno xenofobo. La sua panetteria preferita era gestita da una coppia di arabi, il suo medico curante era di origine pachistana e la più bella vacanza della sua vita, anni prima, l’aveva trascorsa a Beirut, dove un tassista gli aveva addirittura riportato il portafogli che aveva perso. Le porte dell’Europa, però, andavano sprangate per bene: era l’unica conseguenza logica dell’instabilità creata da altri. L’Europa era la casa, i musulmani erano estranei, e pure un bambino di cinque anni sa che non si fanno entrare gli estranei in casa. Tutto il mondo invidiava la ricchezza dell’Occidente, che andava protetto sia dai forestieri che dai Giuda interni, ossia chi non capiva che diluire una cultura, adulterare una razza, insozzare un retaggio è un errore, un errore madornale! I matrimoni che mescolavano razze e religioni mettevano a repentaglio l’integrità della società occidentale; non bisognava vergognarsi a parlare di purezza, di purezza razziale, culturale, sociale e religiosa. Coi discorsi ci sapeva fare, era una persona ammodo e, come tutti i bravi demagoghi, sapeva quando infilare una battuta. Il problema dell’Europa era che aveva abbandonato Dio, ma adesso la gente si stava finalmente rendendo conto di questo errore storico. Era ora di richiamare fra noi il Dio Salvatore, nell’università, nella famiglia, nei luoghi pubblici: essere liberi ed essere senza Dio sono due cose diverse. L’Europa perdeva tempo a discutere di argomenti insensati, come il matrimonio omosessuale, mentre le orde dei barbari erano alle porte. Se uno voleva essere gay, buon per lui, ma doveva accollarsene le conseguenze: non poteva aspirare al matrimonio, che è palesemente un patto di fronte a Dio fra un uomo e una donna. Il caos attuale – terrorismo, crisi dei rifugiati, estremismo islamico sul suolo europeo – era il modo con cui Dio stava dando una lezione agli europei, per metterli alla prova, correggerli, affinarli, perfezionarli. Così come in passato il Signore aveva fatto piovere fiamme e zolfo sulle città che peccavano, oggi faceva piovere su di noi rifugiati e terroristi. Ogni epoca ha il proprio castigo. «Amici miei, Dio è qui con noi, stasera. Hanno cercato di bandirlo dalle università, lo hanno offeso a lungo, ma Egli è presente in tutta la Sua gloria. Io non sono altro che il Suo strumento, il Suo umile portavoce.» Dal suo posto in platea Azur sbuffò senza cercare di nasconderlo, lacerando il momento di silenzio in sala, e tutti si girarono verso di lui, oratore compreso. «Ma chi vedo qui di fronte a noi? Ci onora della sua presenza il professor Azur, se non mi inganno, ancorché professore in realtà non lo sia più.» La sala fu percorsa da un brusio, mentre colleghi e studenti allungavano il collo per vedere meglio lo spettatore indisciplinato. Azur si alzò. Accanto a lui Shirin era immobile, bianca in volto come un fantasma. «Giusto, non insegno più.» Con un’espressione compunta l’oratore disse: «Già, così mi pareva: la notizia è arrivata perfino nel nostro tranquillo angolino di Amsterdam». Un finto sorriso di comprensione gli si allargò sul viso. «Ma sono lieto di vedere con i miei occhi che Dio l’ha riportata alla luce.» «E chi ha detto che prima stavo al buio?» «Be’, è ovvio...» Azur annuì. «Allora c’è qualche speranza. Sono stato empio in ogni modo, e se Dio può agire attraverso di me, allora Egli può compiere miracoli attraverso chiunque: può persino spalancare una mente chiusa come la sua.» «Che meraviglia sentirla citare san Francesco, seppure per tirare acqua al suo mulino. Lo fanno tutti. Un giorno dovremmo fare un dibattito; sarà divertente.» Detto ciò, il predicatore proseguì, lasciando Azur là in piedi, desideroso di ingaggiare un duello verbale che non gli sarebbe stato concesso tanto presto.

Quando tornò dalla camminata serale, rivivendo ancora quel momento all’Oxford Union, la casa era gelida: le foto alle pareti, le piastrelle davanti al camino. Mentre riscaldava una porzione di lasagne del giorno prima gli squillò il cellulare; era un numero che non conosceva, all’apparenza straniero. Non era in vena di parlare con nessuno e decise di non rispondere. Il telefono tacque a metà di uno squillo e ci fu un istante di silenzio assoluto. Cioran, ai suoi piedi, uggiolò un poco. Dopodiché la suoneria ricominciò. Questa volta qualcosa lo spinse a rispondere, e così fece. All’altro capo del filo, da Istanbul, in una villa sul mare, c’era Peri, che cercava di trovare la propria voce. Le tre passioni

Istanbul, 2016

Inspira. Espira. Per un attimo sembrò che il tempo si fosse liquefatto, che Peri fosse ridiventata la ragazza di un tempo, scagliata via da un brutto sogno o precipitata dentro un altro – il guardaroba in cui si trovava era identico alla cella di suo fratello. Nel frattempo, fuori, gli invitati e il personale erano stati portati di sopra, nello studio dorato. Peri aveva sentito i passi mentre li sospingevano e adesso sulla villa era sceso un silenzio sinistro. Strinse ancor più forte il telefono del marito in attesa dello squillo. Quando sentì la voce di Azur all’altro capo, le si formò improvvisamente un nodo in gola. «Pronto?» Il timbro familiare la fece scoppiare in lacrime. Si sentiva la bocca piena di particelle minuscole, piccoli granelli di rimorso. Era terrificante, la velocità con cui il passato condiviso, come un dolore liquido, s’infiltrava nei silenzi del presente. «Pronto? Chi parla?» Peri fu sul punto di riattaccare, tanto era stata abbandonata dalle parole, ma era stanca di fuggire da se stessa, e l’impulso di affrontare le proprie paure la spinse a continuare. «Professor Azur... Sono io, Peri.» «Pe-ri...» ripeté lui, quindi tacque, come se il solo formulare il nome abbracciasse la totalità delle cose, quelle buone, quelle cattive e tutto ciò che c’era in mezzo. La mente le vorticava, il cuore le scalpitava. Ma quando riaprì bocca, la voce era calma. «Avrei dovuto chiamarla prima. Mi sono comportata da vigliacca.» Azur rimase in silenzio; aveva sempre saputo che sarebbe arrivato questo momento, ma non aveva mai pensato a come affrontarlo. «Che sorpresa» disse infine. Sembrava che fosse stato sul punto di aggiungere qualcos’altro, ma che all’ultimo avesse cambiato idea. «Stai bene?» «Non particolarmente» rispose lei senza approfondire. Non gli raccontò che si trovava in una casa con degli uomini armati, né che la conversazione avrebbe potuto interrompersi bruscamente, dato che la batteria era quasi scarica. Sentì un cane che abbaiava in sottofondo. «Spinoza?» «Spinoza è morto, cara. Spero che sia in un mondo migliore.» Peri cominciò a piangere, silenziosamente. «Devo scusarmi con lei, Azur. Avrei dovuto parlare, davanti al comitato.» «Non ti rimproverare» le disse con dolcezza. «Non eri in condizione di dare un giudizio sereno. Eri troppo giovane.» «Ero grande abbastanza.» «Be’... Avrei dovuto stare più attento io.» L’affermazione la sorprese: quindi non l’aveva odiata per tutto questo tempo, come lei temeva. Dava la colpa a se stesso. “Ho letto il tuo ultimo libro” avrebbe voluto dirgli. “Ho letto tutto quello che hai pubblicato da... Sei cambiato. Sembri più cinico... distaccato. E mi chiedo se significhi che hai perso la tua irrequietezza, lo spirito giocoso che affascinava i tuoi studenti e ipnotizzava platee intere. Spero di no.” Sentì un lontano rumore di passi al piano di sopra. Un breve trambusto. Un grido. Uno sparo che lacerò l’aria. Un tonfo. Peri si irrigidì, il respiro veniva fuori a raschi. «Cos’è stato?» chiese Azur. «Niente» rispose lei. «Dove ti trovi?» “Dentro a un armadio a muro in una sfarzosa villa di Istanbul che è stata appena occupata da criminali, con in bocca il sapore della paura e di una pralina di nome Oxford.” No, non poteva rispondere così. «Conta qualcosa?» rispose allora, la voce incredibilmente bassa. «Quando ti ho conosciuta, Peri» disse Azur, «ho pensato: questa ragazza non lo sa, ma porta in sé le tre passioni di Bertrand Russell: il desiderio d’amore, la ricerca della conoscenza e l’insostenibile misericordia per le sofferenze dell’umanità.» Lei si offuscò in volto. «Tu le avevi tutte e tre» proseguì lui. «Assoluta la tua smania d’amore, la tua sete di conoscenza, la tua empatia verso gli altri... al punto da annullare te stessa. Mi facevi una gran pena, ma anche una gran rabbia. Mi ricordavi una donna che avevo conosciuto.» «Sua moglie?» chiese lei, cauta. «No, mia cara. Una che si chiamava Nour. Cominciai a preoccuparmi di poter fare del male a te come ne avevo fatto a lei. Ma la verità, alla fine, è che ho fatto del male a tutte le donne che mi si sono avvicinate.» «Tranne Shirin.» «È vero, lei era invincibile, e si vedeva. Era giovane, ma già forte, caparbia. Una combattente nata. Accanto a lei non c’era nulla di cui preoccuparsi; non le sarebbe mai successo niente di brutto.» «Voleva un amore senza sensi di colpa, professore.» «Forse» disse Azur. «Come vedi, non sei l’unica che si scusa con Dio.» Sullo schermo l’icona della batteria, da nera, divenne rossa. «Farebbe una cosa per me?» «Dimmi.» «Vorrei che facessimo un’ultima esercitazione. Adesso.» Azur rise. «In che senso? Su cosa?» «Sul perdono e sull’amore. E anche sulla conoscenza. Per una volta faccio io il docente, d’accordo?» Una pausa circospetta. «Ti ascolto, cara.» «Dunque» disse Peri. «La lezione di oggi è su Ibn ‘Arabī e su Ibn Rušd, noto anche come Averroè. Quando si conobbero, Ibn Rušd era un illustre filosofo, mentre Ibn ‘Arabī era un giovane studente di belle speranze. Si sentirono immediatamente in sintonia: entrambi amavano i libri e la cultura e nessuno dei due seguiva l’ortodossia. Ma erano anche diversi.» «In cosa?» «Ecco, sia in Oriente sia in Occidente la domanda è sempre quella, no? Come aumentare la propria conoscenza di se stessi e del mondo. La risposta di Ibn Rušd era chiara: riflettendo, ragionando, studiando.» «E secondo Ibn ‘Arabī?» «Lui puntava sia alla ragione sia alle intuizioni mistiche. Riteneva nostro dovere, in quanto esseri umani, espandere la nostra conoscenza, ma reputava anche che ci fossero cose al di là dei limiti della mente. Prima di andare ognuno per la propria strada, Ibn Rušd chiese a Ibn ‘Arabī, un’ultima volta: “È tramite il pensiero razionale che sveliamo la Verità?”». «E che cosa rispose Ibn ‘Arabī?» «Disse di sì, ma disse anche di no. “Tra il sì e il no” rispose, “gli spiriti volano via dalla materia e le menti dai corpi.” Secondo lui, nessuno era più ignorante di quelli che cercano Dio, ma solo chi persegue una verità più grande di sé ha la speranza di raggiungerla.» «Dimmi, Peri, tu perché mi racconti questa storia?» «Perché sono sempre stata nel limbo fra il sì e il no. Non mi sono estranei né la fede né il dubbio. Indecisa, tentennante, mai sicura di me. Forse proprio questo ha fatto di me quella che sono, tutta quest’incertezza; che però è diventata anche il mio peggior nemico. Non vedevo vie d’uscita.» Tacque un attimo. «Le raccontai del bebè nella nebbia. Se non era un’allucinazione, era comunque un tipo di esperienza di cui lei non aveva mai sentito parlare. Altri studiosi ne avrebbero sicuramente riso, ma lei no. Lei è sempre stato aperto alle novità, e per questo io l’ammiravo.» «Tu credi di essere stata l’unica a essere confusa, ma è così per molti di noi.» Noi. Una parola che è un sospiro, così minuscola e così immensa. Noi confusi. Peri scosse il capo. «L’ammiravo troppo, adesso mi è chiaro. Quando ci innamoriamo trasformiamo l’altro nel nostro dio: si è mai vista una cosa più pericolosa? E se l’altro non ci riama, reagiamo con collera, odio, risentimento...» Proseguì: «L’amore per certi versi somiglia alla fede. È una sorta di fiducia cieca, no? La più dolce delle euforie, la magia di collegarsi a un essere al di là di noi stessi, così familiari e limitati. Ma se perdiamo la testa per amore, o per fede, ecco che si trasforma in un dogma, in una fissazione. La dolcezza si inacidisce. Soffriamo per mano di dèi che noi stessi abbiamo creato». «Credo di essere proprio l’ultimo, sulla Terra, a poter essere considerato un dio» disse Azur. «Non era davvero lei» disse Peri. «Era l’Azur che mi ero creata io, quello di cui avevo bisogno per dare senso al mio passato frammentato. Ecco il professore di cui ero infatuata, l’Azur nella mia testa.» E così andò avanti. Con voce sempre più salda, gli occhi ora del tutto abituati al buio, il telefonino che le lampeggiava nella mano ferita, fece lezione a un uomo che si trovava fuori Oxford, con a fianco un cane che lo aspettava paziente. Avrebbe facilmente potuto essere il contrario: lui in pericolo, lei al sicuro. Oggi era lei la docente e lui l’allievo. I ruoli cambiano, le parole non stanno mai ferme. La forma della vita è un cerchio, dentro al quale ogni punto è alla stessa distanza dal centro, che lo si voglia chiamare Dio, o in tutt’altro modo. Peri udì il suono delle sirene che si avvicinavano alla villa. Di lì a pochi minuti, non di più, sarebbe cambiato tutto: un nuovo inizio o una fine prematura. Quando il telefono emise un ultimo flebile suono prima di morire del tutto, Peri aprì l’anta dell’armadio a muro e uscì. Ringraziamenti

La mia patria, la Turchia, è come un fiume, né solida né salda; durante la stesura di questo romanzo quel fiume è cambiato moltissime volte, scorrendo a un ritmo vertiginoso. Un sentito ringraziamento a due persone che mi sono molto care: il mio agente Jonny Geller e la mia editor Venetia Butterfield. Sono in debito con entrambi per l’incoraggiamento, il sostegno e la fiducia; perché hanno tenuto a bada l’ansia e gli attacchi di panico e perché hanno viaggiato insieme a me. Grazie molte a Daisy Meyrick, Mairi Friesen-Escandell, Catherine Cho e Anna Ridley, delle splendide squadre di Curtis Brown e Penguin. Lavorare con voi è un’autentica gioia. Devo un «grazie» mostruoso come il traffico di Istanbul a Stephen Barber che ha letto e riletto questo libro, dandomi consigli preziosissimi. Sono grata a Lorna Owen per le ottime intuizioni. Per un autore è una vera benedizione poter lavorare con Donna Poppy. Grazie a Nigel Newton per il cameratesco entusiasmo. La mia sincera riconoscenza alla favolosa équipe di Kein & Aber, in particolare a Peter Haag e Patrick Sielemann. Abbondanti ringraziamenti ai miei figli, Zelda e Zahir, perché sopportano l’irregolarità dei miei orari di scrittura e tollerano la musica che ascolto mentre scrivo. La tengo troppo alta, lo so. Le patrie si amano, senza dubbio; anche se talvolta ci esasperano e ci fanno impazzire. Ma alla fine ho anche imparato che gli scrittori e i poeti, per i quali le frontiere nazionali e le barriere culturali esistono solo per essere messe e rimesse in discussione, hanno, in verità, una patria sola, perpetua e portatile. Storilandia. Glossario

Ayran – (tr.) Bevanda fredda allo yogurt. Bismillah ir-rahman ir-rahim – (ar.) «Nel nome di Dio, il Compassionevole, il Misericordioso»: è la formula di apertura di quasi tutti i capitoli del Corano. Börek – (tr.) Tipico piatto turco a base di pasta sfoglia ripiena. Bulgur – (tr.) Noto anche come «grano spezzato», costituisce la base di varie pietanze fra cui il taboulé. Burqini – (marchio commerciale) Costume da bagno femminile che lascia scoperti solo il viso, le mani e i piedi, in osservanza dei dettami islamici. Canım – (tr.) Vita mia. Canımın içi – (tr.) Nocciolo della mia anima. Cennet – (tr.) Paradiso. Darbuka – (ar., tr.) Strumento a percussione mediorientale. Efendim – (tr.) Signore. Evladım – (tr.) Bimba mia. Fatiha = Sūrath al-Fāti.hah – (ar.) Il primo capitolo del Corano. Ful medames – (ar.) Pietanza a base di fave e spezie. Hadith – (ar.) Resoconto sulle azioni e i detti di Maometto. Hajji – (ar.) Fedele che ha preso parte a un hajj, il pellegrinaggio alla Mecca che costituisce uno dei cinque pilastri dell’Islam. Halal – (ar.) Detto di azioni, oggetti e soprattutto alimenti «leciti» secondo le prescrizioni islamiche. Hijab – (ar.) Il «velo» che copre il capo delle donne islamiche praticanti, ottemperando per lo meno al minimo delle norme di modestia (da non confondere con il niqab, che lascia scoperti solo gli occhi). Hodja – Trascrizione del turco hoca, appellativo di maestri e santi uomini, in particolare Sufi. Id al-adha = ‘Īd al-a.d.hā – (ar.) «Festa del sacrificio», celebrata annualmente sacrificando un animale, come quello che Abramo sacrificò al posto del figlio. Jinni – (ar., pl. jinn) «Nominati nel Corano e ancora molto vivi nelle tradizioni popolari, sono esseri che, a differenza dell’uomo formato dal fango, e degli angeli formati dalla luce, sono stati creati “dal fuoco ardente” (cfr. Cor. 55, 15)» (Caterina Valdrè, in I detti di Rabi‘a, Adelphi 1979, p. 15). Kısmet – (tr.) Destino. Kızım – (tr.) Ragazza mia. Köfte – (tr.) Polpette di carne speziate. Konak – (tr.) Palazzo signorile; in origine, residenza dell’autorità governativa. Mantı – (tr.) Ravioli ripieni di carne fatti in casa. Menemen – (tr.) Pietanza a base di uova, pomodori, peperoni e spezie. Meze – (tr.) Piattini con formaggi, verdure, insalata di mare etc. per accompagnare bicchierini di alcolici. Miswāk – (ar.) Rametto di Salvadora persica usato tradizionalmente per la pulizia dei denti. Nazar boncuğu – (tr.) Perlina contro il malocchio. Qibla – (ar.) La direzione verso cui va rivolto il viso nella preghiera verso la Mecca. Raqı – (tr.) Acquavite aromatizzata all’anice diffusa in Turchia, Grecia e nazioni vicine. Salah (o .salāt) – La preghiera che per i musulmani osservanti è un obbligo – uno dei cinque pilastri – da adempiere cinque volte al giorno. Shalwar – (fa.) Pantaloni larghi diffusi in ambito musulmano, fino in India (noti anche in Italia perché costituivano i calzoni indossati dagli Zuavi). Sherefe = şerefe – (tr.) In tuo onore. Tövbe – (tr.) Pèntiti. Indice

Prima parte La borsetta Il poeta muto Il coltello Il giocattolo Il taccuino La polaroid Il giardino L’hodja L’acquario La mattina a colazione Un tango con Azrael La poesia Il patto L’ultima cena

Seconda parte L’università La carta geografica Il silenzio Il passatempo La podista Il pescatore Caviale nero La festa Il dizionario L’angelo Il carillon La cintura di castità L’ospedale L’avvoltoio La corsa al crepuscolo La terza via L’ottimizzatore La giovinezza La straniera pittoresca

Terza parte Il lucherino Il sacro sillabo Strategia di marketing Bacio mortale La pagina bianca Il cerchio Il teatro delle ombre Gli oppressi L’interprete di sogni Il mantello La profezia La limousine Il fiocco di neve Il sensitivo

Quarta parte Il seme La notte La bugia La danza del ventre Il menu Il volto dell’Altro I chakra La casa a Jericho La pedina Il passaggio Un bicchierino di sherry Il suono dell’assenza di Dio L’abete d’acqua L’armadio a muro Il disonore Le tre passioni

Ringraziamenti

Glossario