“IMPETUOSO e PEGASO”

(La storia di due torpediniere italiane)

1 “IMPETUOSO e PEGASO” (La storia di due torpediniere Italiane)

Serie di 4 articoli apparsi sulla rivista SUB col nome di “OPERAZIONE PEGASO” (SUB n.198 Marzo 2002: SUB n.199 Aprile 2002: SUB n.200 Maggio 2002: SUB n. 201 giugno 2002) Testi originari di Guido Pfeiffer e Flory Calò

Rivisti a cura di Claudio Corti con i racconti dei reduci: Nicola Ferrentino (“PEGASO”), Arturo Lucioli (“IMPETUOSO”), Alfredo Capozzi (“PEGASO”), Antonio Sorino (“IMPETUOSO”), Vittorio Vitale (“IMPETUOSO”), Paolella Armando (“PEGASO”), Porcelli Pompeo (“PEGASO”), Alberto De Vita (“IMPETUOSO”), Riccardo Baiolla (“PEGASO”).

Foto: Claudio Corti - Foto storiche “Ufficio Storico della Marina Militare Italiana” - Dr. France- sco Cestra - Archivi personali dei Reduci Nicola Ferrentino, Arturo Luccioli, Antonio Sorino, Alberto de Vita.

“LA STORIA” Dopo tre anni di ricerche, 4.500 miglia percorse, 540 ore di navigazione, più di un centinaio di immersioni, delle quali 60 a profondità comprese tra i 90 e i 110 metri, e almeno una cinquantina di persone intervistate, tra pescatori, corallari e marinai, abbiamo trovato i relitti del “PEGASO” e dell’“IMPETUOSO”, due torpediniere della Marina Militare italiana di scorta alla corazzata “Roma” quando, alle ore 16,11 del 9 settembre 1943, questa venne affondata da aerei tedeschi al

largo dell'Asinara. Mentre infuriava la battaglia, “PEGASO”, “IMPETUOSO” e “Orsa” recuperarono una parte dei naufraghi della nostra nave ammiraglia e, sempre inseguiti dagli aero- plani nemici, raggiunsero la baia di Pollenza, nel versante nord/est dell’isola di Maiorca, la mag- giore delle Baleari, dove vennero sbarcati i feriti. Quindi, le due torpediniere si diressero nuova- mente verso il largo e si autoaffondarono su batimetriche attorno ai cento metri, in un punto non precisato. Erano tra le cinque e le sette del mattino dell'11 settembre 1943. Da allora sono passati 58 anni e in tutto questo tempo le due gloriose navi da guerra della Marina Militare Italiana sono rimaste nell'oblio, protette dagli abissi in cui erano sprofondate, mute testimoni di una delle pagi- ne più disperate, ambigue e dolorose della nostra storia recente.

2 Nelle prime ore dell'8 settembre, giorno dell'Armistizio, pochissime persone sapevano che cosa stava realmente succedendo: il re Vittorio Emanuele III, il capo del Governo, maresciallo Badoglio, il ministro Acquarone, il capo di Stato Maggiore Generale, generale Ambrosio, il capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale Roatta, e il capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio . Lo stesso comandante in capo della nostra flotta, ammiraglio Carlo Bergamini, che perì nella tre- menda deflagrazione della "Roma" assieme ad altri 1.252 uomini, non conosceva esattamente i termini della resa, firmata in gran segreto, dal generale Castellano a Cassibile, in provincia di Siracusa, cinque giorni prima, il 3 settembre, dopo laboriose trattative iniziate il 15 agosto a Ma- drid ed in seguito a Lisbona. Il momento era molto difficile: bisognava voltare le spalle alla Germa- nia e trasferire la flotta a per consegnare le navi agli inglesi e agli americani, contro i quali l'Italia si era coraggiosamente battuta sino ad allora. Occorreva prepararsi per fronteggiare una più che probabile reazione tedesca e, nello stesso tempo, informare i soldati del cambiamento di cam- po, cosa non facile senza perdere la faccia, dato che le truppe erano state preparate a difendere la Patria dagli angloamericani sino all'estremo sacrificio. Bergamini, quando venne a sapere che cosa si stava delineando, non voleva umiliare la Marina e si rifiutò di abbassare le armi e la bandiera, di- cendo chiaramente che avrebbe preferito affon- dare la flotta in altomare. De Courten gli ricor- dò la situazione disastrosa in cui si trovava il popolo italiano, lo richiamò al suo senso del dovere e, per prendere tempo, gli disse di sal- pare con tutte le sue navi e di andare a La Maddalena, dove lo avrebbero aspettato il re e il Governo e dove si sarebbe finalmente deciso il destino dell'Italia. Destino che, in realtà, era già stato accurata- mente scritto, dato che nelle altissime sfere si sapeva che le navi da battaglia italiane dove- vano concentrarsi a Malta, una delle basi angloamericane in Mediterraneo, e che sia il Re sia il Governo non sarebbero andati a La Maddalena, bensì nella più sicura . Evidente- mente De Courten voleva evitare a tutti i costi che la flotta, il grosso della quale era concentrato nei porti di La Spezia e di Genova, cadesse nelle mani dei tedeschi e contava di convincere Bergamini a piegarsi alle condizioni della resa strada facendo. L'accordo con gli angloamericani era che la notizia dell'armistizio dovesse essere data ufficialmente, alle truppe e al mondo intero, dopo il 10 settembre, per dar tempo ai militari italiani di organizzarsi. Tutto ciò, il giorno 8 settembre, i nostri ufficiali e i nostri marinai non lo sapevano. C'era molta agitazione sulle navi e negli scali della Marina. Le cisterne venivano riempite di carburante, gli arsenali di munizioni. Correva voce che lo sbarco degli americani nel litorale di Anzio fosse immi- nente. Era stata segnalata un'imponente flotta di ben 450 navi avvicinarsi alle nostre coste e i soldati pensavano di essere veramente arrivati allo scontro fina- le, quello per cui si erano a lungo addestrati, sia mentalmente sia fisicamente. Perciò, quando il 9 mattino le navi iniziarono a scaldare i motori, tutti pensaro- no di salpare per andare incontro al nemico. Il capitano di fregata Riccardo Imperiali era il nuovo comandante della torpedi- niera “PEGASO”, ormeggiata al molo Lagora, nella base navale di La Spezia. Sino a pochi giorni prima aveva fatto parte dello Stato Maggiore dell'ammira- glio Bergamini, ma aveva preferito chiedere il comando di un'unità proprio in vista di quella che, secondo molti, sarebbe stata la battaglia navale decisiva

3 della guerra. La giornata dell’8 settembre trascorse senza grandi novità, ma, verso le 18.00, Imperiali venne chiamato a rapporto sulla corazzata "Roma". L'ammiraglio Bergamini appariva preoccupato. Gli affidò il comando del Gruppo Torpediniere e poi gli disse di tenersi pronto a salpare con la Squadra, con il principale compito di recuperare gli equipaggi qualora le navi avessero dovuto autoaffondarsi e di eseguire un'esplorazione avanzata durante la navigazione. Quindi precisò che la flotta poteva uscire in mare da un momento all'altro con uno dei seguenti obiettivi: 1) affrontare in battaglia le unità inglesi che proteggevano lo sbarco alleato, presumibilmente diret- to nel Golfo di Salerno; 2) entrare a La Maddalena per sottrarsi a eventuali atti ostili dei tedeschi e attendere ordini; 3) autoaffondarsi. L’ammiraglio Bergamini nella riunione dovette usare toni forti per convincere gli ufficiali presenti a mantenere i nervi saldi, perchè l’orientamento generale degli ammiragli e comandanti presenti era per l’autoaffondamento. Il capitano di fregata Riccardo Imperiali era un ufficiale della vecchia scuola e non fece domande. Salutò il suo superiore e se ne andò. Tornò sulla sua nave e subito convocò i comandanti delle altre torpediniere della squadriglia, il comandante di Corvetta M.O.V.M. Giuseppe Cigala Fulgosi (di Piacenza), dell'“IMPETUOSO”, il capitano di Corvetta Gino Del Pin, dell’ “Orsa”, il comandante Bertetti, dell’ “Orione”. Non c'erano i comandanti del “Libra”, Riccardi, e dell’ “Ardimentoso”, Ravera. Il primo perché era in mare con la sua nave, il secondo perché era alla fonda troppo lonta- no. Gli ufficiali concordarono un eventuale piano di navigazione e si lasciarono. Poco dopo, alle ore 20.00, il giornale radio diramò la clamorosa notizia dell'avvenuto armistizio, che era stata anti- cipata dagli alleati da Radio Algeri. Gli ufficiali rimasero allibiti da quanto avevano appena udito, molti soldati esultarono, pensando che la guerra fosse finita. Dalle basi a terra arrivavano sulle navi grida di giubilo. Gli Alleati non avevano rispettato i patti e avevano diffuso in tutto il mondo la notizia della resa italiana in anticipo sulla data del 10 settembre. Il Governo e i capi militari, in molti casi, non ebbero neppure il tempo di avvertire i loro soldati. La confusione, negli alti coman- di, fu incredibile. Anche il capitano Imperiali rimase costernato. Non c'era molto da gioire. L’Italia stava attraversan- do un terribile momento e il peggio sarebbe ancora dovuto venire. Capì, a questo punto, gli ordini di Bergamini e da buon soldato; soffocò i suoi sentimenti personali, l'avvilimento e la frustrazione. Radunò i suoi ufficiali e raccomandò di non perdere la testa. Disse loro che la guerra non era affatto finita, che forse era solo cambiato il nemico. Adesso si sarebbero dovuti guardare dagli ex alleati, dai tedeschi, che sicuramente avrebbero voluto vendicarsi. Alle ore 00.52 del 9 settembre ricevette l'ordine di prendere il mare alle ore 02.00 con tutta la squadriglia delle torpediniere. La Rotta era sulla Maddalena, passando a Ovest della Corsica. La flotta da battaglia, con in testa la nuovissima corazzata "Roma", entrata in ser- vizio soltanto il 16 giugno 1942, li avrebbe seguiti di lì a poco. Il “PEGASO” lasciò la rada di La Spezia 1943, alle prime ore di quel 9 settembre, come ordinato, seguito da “IMPETUOSO”, “Orsa”, “Orione” e “Ardimentoso”. Ricordano i marinai Alfredo Capozzi (di Napoli),Nicola Ferrentino (di Salerno) e Riccardo Baiolla di Belluno) im- barcati sul “PEGASO”, che si do-

4 vette salpare talmente in fretta e furia che gli addetti alla “COMANDATA” (vettovagliamento) restarono a terra. La stessa cosa rammentano Arturo Luccioli (di Monterchi-Arezzo), Antonio Sorino (di Ortona Mare) e Alberto De Vita (di Brescia), avvenne sull’ “IMPETUOSO” ove restò a terra anche il tenente Tommaso Ricci comandante della “COMANDATA” di quella nave. Più tardi, dopo circa un’ora, sempre da La Spezia, salparono le corazzate “Roma”, “Vittorio Veneto” e “Italia” (ex “Littorio”), i tre incrociatori “Eugenio di Savoia”, “Montecuccoli” e “Attilio Rego- lo”, gli otto cacciatorpediniere “Legionario”, “Oriani”, “Artigliere”, “Grecale”, “Mitragliere”, “Fuciliere”, “Carabiniere” e “Velite”, la flotta assunse Rv 218° velocità 24 nodi. Quasi contempo- raneamente lasciarono Genova i tre incrociatori “Abruzzi”, “Garibaldi”, “Aosta” e la torpediniera “Libra”, anch’essi diretti alla Maddalena. I due nuclei s’incontrarono alle 06.15 a Nord di Capo Corso e proseguirono compatti. Alle 08.40 avvenne il congiungimento con la squa- driglia torpediniere che si tennero in avanguardia lon- tana. La flotta venne avvistata e seguita da alcuni ricognitori inglesi e alle 09.41 venne avvistata da un ricognitore tedesco che immediatamente informò il suo comando. In seguito, alle 10.30 venne avvistato un altro aereo, anche le torpediniere si unirono alla Squadra, disponendosi in formazione di battaglia e la flotta proseguì zigzagando, dato che era abbastan- za probabile un imminente attacco aereo, contro il quale le forze italiane avrebbero potuto opporre solo le armi di bordo, mancando totalmente di aeroplani di supporto. Alle 12.05 del 9 settembre la nostra formazione navale si trovava nelle vicinanze delle Bocche di Bonifacio e stava aggirando un vasto tratto di mare minato, pressappoco all'altezza del Golfo di Porto, in Corsica, per poi dirigersi verso gli ormeggi della Maddalena, il temuto attacco aereo, fino a quel momento, non era avvenu- to. Più agili nel destreggiarsi tra le mine, le torpediniere erano tornate in testa al convoglio e stava- no per raggiungere la loro destinazione quando i loro equipaggi notarono parecchi incendi lungo la costa sarda. Il capitano Imperiali, che dalle ore 09.00 si era trovato a dover fare a meno della radio a ultracorte, messa fuori gioco da un’avaria, cominciò a supporre che quei fuochi potessero essere il risultato di scontri armati in corso tra soldati italiani e tedeschi. Rallentò l’andatura, che sino a quel momento si era mantenuta tra i 22 ed i 23 nodi, e quasi contemporaneamente ricevette una serie di segnali luminosi dal semaforo di Capo Testa, ormai vicino. La guarnigione della Maddalena, diceva in morse il messaggio, stava per essere sopraffatta dai tedeschi. Imperiali invertì la rotta seguito dalle altre torpediniere, e poco dopo dalla Roma gli giunse l’ordine di seguire la flotta, la quale alle 14.37 aveva ricevuto un messaggio da che confermava la caduta della Maddalena in mano ai tedeschi e ordinava di dirigersi a Bona, così la flotta aveva cambiato direzione e si stava dirigen- do a nord dell’Asinara. L’ammiraglio Bergamini ave- va saputo che scontri a fuoco erano in atto in tutti i porti Italiani, i quali stavano cadendo ad uno ad uno nelle mani delle truppe tedesche. Rimanevano due alternative, dirigersi verso Malta o Bona, per conse- gnare le navi agli Angloamericani secondo gli accor- di dell’armistizio, o autoaffondarle con a riva la ban- diera da battaglia. Il problema però, non si pose. Alle 15,15 venne avvistata una prima formazione di aerei tedeschi in avvicinamento da Ovest. Erano undici o dodici bimotori Do 217K2, bombardieri a largo raggio del Terzo Gruppo di stanza all'aeroporto di Istres, vicino a Marsiglia. In dotazione avevano bombe radiocomandate PC-1 4OOX in grado di perforare corazze di acciaio di grande

5 spessore. Gli ordigni venivano sganciati ad alta quota, avevano propulsione pro- pria e venivano guidati sul bersaglio da un operatore, che li manovrava con im- pulsi radio dall'aereo che li aveva - ti. La missione contro i vascelli da guer- ra italiani, era comandata dal maggiore Bernhard Jope ed era stata ordinata per- sonalmente dallo stesso Goering, coman- dante supremo della Luftwaffe. Quando gli aeroplani tedeschi, che attaccarono in tre ondate successive, sganciarono la pri- ma bomba, le navi italiane iniziarono a sparare con tutte le armi che avevano, sparpagliandosi a ventaglio e cambiando rotta in continuazione. Le torpediniere, avvicinandosi al grosso della Squadra con i loro nidi di mitragliatrici antiaeree in azione, manovrarono in modo da non ostacolare le evoluzioni delle navi più grosse pur proteggendole con il loro fuo- co di sbarramento. “Orione”, “Libra” e “Ardimentoso”, in coda alla formazione, persero sempre più contatto con il “PE- GASO”, che, essendo privo delle ultracorte, era in grado di trasmettere solo in Rds e faceva fatica a comunicare con il resto della squadriglia. Alle 15,42, la corazzata “Roma” venne colpita dalla prima bomba. L’ordigno arrivò da un'altezza di oltre 5.000 metri, era poco più piccolo di un caccia e venne condotto sull'obiettivo con precisione micidiale. Nonostante il fuoco serrato delle nostre unità, i bombardieri nemici potevano agire pres- soché indisturbati perché si mantenevano sempre fuori tiro. Dopo la guerra si seppe che gli aerei volavano a 5.000/6.000 metri di quota e ogni aereo portava una sola bomba speciale radiocomandata, con un fumogeno nella parte posteriore per permetterne la guida. La velocità di caduta della nuova bomba era di circa 300 m/s, notevolmente superiore a quella delle bombe convenzionali. Era stata progettata sin dal 1939 dal Dr. Max Kramer ed era contraddistinta dalla sigla FX-1.400 e soprannominata dagli addetti Fritz-X. Era lunga metri 3,30 aveva un diametro di circa 500 millimetri pesava 1.400 Kg e portava 350 chili di esplosivo. La notevole velocità di caduta annullava quasi del tutto la componente orizzontale dovuta alla velocità dell’aereo. Ecco perché mentre nelle azioni di bombardamento con ordigni convenzionali lo sgan- cio delle bombe avveniva da un sito intorno ai 60 gradi prima dell’obiettivo, queste nuove bombe venivano sganciate da un sito superiore agli 80 gradi. Questa forma di attacco trasse in inganno i comandanti delle navi italiane, i quali, vedendo che gli aerei superavano il sito 60 gradi senza sganciare pensarono non avessero intenzioni ostili. A causa di questo elemento sorpresa il fuoco contraereo fu tardivo, anche perché l’ammiraglio Bergamini non voleva essere il primo a compiere atti ostili verso l’ex alleato. Il maggiore Jope disse in una intervista dopo il conflitto, che condusse l’attacco da una quota superiore ai 5.000 metri perché era la più adatta all’im- piego della FX-1.400 ed anche perché sapeva che la contraerea

6 italiana poteva raggiungere appena i 4.000 metri. Il proiettile colpì l'ammiraglia sulla dritta, vicino alla murata e a poppavia del centro nave, perforò la corazza, attraversò lo scafo ed esplose sotto di esso. Si aprì una falla, da dove l'acqua entrò e allagò le motrici di poppa. Alle 15,52 una seconda bomba radiocomandata colpì la “Roma” sul fianco sinistro, pe- netrò sotto il ponte e deflagrò distruggendo, tra l'altro, le mo- trici di prora. La nave si fer- mò, ferita a morte, e subito dopo esplose, perché il fuoco aveva raggiunto le polveri di uno dei depositi di munizioni. Una densa colonna di fumo biancastro salì a più di trecen- to metri di altezza. La coraz- zata si piegò sul lato di dritta, il trincarino sfiorò la superfi- cie del mare. Sembrò che il tempo si fosse fermato. Poi, con un tremendo ruggito l'ammiraglia si rovesciò, si spezzò in due tronconi e affondò. Prima si inabissò la parte prodiera, quindi la poppa si alzò alta, verso il cielo, e scese veloce nei flutti. In meno di trenta minuti la più potente e moderna corazzata della nostra Marina era sta- ta distrutta. Il capitano di fregata Riccardo Im- periali, dal ponte di comando del “PEGASO”, vide l'enorme nuvola di fumo acre che si levava dalla "Roma", ma la battaglia continuava e non c'era tempo per essere sgomen- ti. I mitraglieri facevano surriscaldare i loro pezzi. Anche la corazzata "Littorio" (poi ribatezzata “Italia”) fu centrata verso prua da un ordigno radiocomandato, che attraversò due ponti, bucò lo scafo ed esplose in mare. Nonostante l’importante via d'acqua che si era aperta, la nave ferita riusciva ancora a stare a galla e a navigare. Nel tentativo di eludere gli attacchi dei bombardieri, le unità italiane continuavano a virare e a cambiare rotta per rendere più difficile la mira dei puntatori tedeschi. Nella confusione, l’ “IMPETUOSO” venne quasi speronato sul lato di dritta da un'altra nave. Il comandante Cigala Fulgosi si avvide di quanto stava succedendo e diede ordine di virare. La nave investitrice, che nel frattempo aveva tutte le macchine indietro per cercare di attutire l'urto, sfiorò la fiancata. Per fortuna non vi furono danni e le due navi ripresero subito la navigazione, mentre i mitraglieri continuavano a sparare. Ore 16,40, dall'incrociatore “Eugenio di Savoia”, il capitano Imperiali ricevette l'ordine di andare ad assistere i naufraghi dell'ammiraglia colata a picco, (nell’affondamento vi furono 1253 morti). Così il “PEGASO” invertì la rotta e si diresse verso il punto del disastro, seguito da “IMPETUO- SO” e “Orsa”. Le altre torpediniere avevano perso contatto con il capo squadriglia e non risponde- vano alle chiamate. Sul posto c'erano già il “Regolo”, il “Mitragliere”, il “Carabiniere” e il “Fuciliere". Il resto della flotta si era allontanata in ordine sparso. Le torpediniere soccorsero e recuperarono gli ultimi naufraghi, per un totale di 102 persone, molte delle quali ferite (47 naufraghi furono raccolti dal solo “IMPETUOSO”), poi fecero un'ampia e meticolosa ispezione della zona per accertarsi che non vi fossero più uomini in mare. Quando finirono la perlustrazione, i tre comandanti si resero conto di essere rimasti isolati e quindi si diressero verso Nord/-Ovest, pensando di ricongiungersi

7 alla Squadra. Mentre stavano ancora navigando su quella rotta, le torpediniere vennero avvistate da una squadriglia di bombardieri e di caccia tedeschi, i cui piloti non vollero lasciarsi scappare l'oc- casione e si lanciarono all'attacco. Erano le 19.00. La battaglia che seguì fu ancora più accanita della prima e durò sino alle 20.30. I caccia si lanciavano in picchiata verso le navi, mitragliandole, e contemporaneamente i bombardieri sganciavano le loro bombe radiocomandate. “PEGASO”, “IMPETUOSO” e “Orsa” impiegarono tutte le loro armi antiaeree manovrando senza tregua. I mitraglieri, ormai, sparavano a vista, perché le centrali di tiro non potevano stare al passo degli eventi. Come testimone oculare, il Cann. P.S. Vittorio Vitale, addetto al pezzo da 100/47” della tuga centrale sull’ ”IMPETUOSO”, dice: “ I comandanti delle tre navi con perizia eseguivano continue manovre in modo da non farsi colpire dagli aerei tedeschi, ma questi lanciavano bombe di un nuovo tipo, si trattava di alianti-razzo, che venivano sganciati dagli aerei alla quota apprezzata di 3000 me- tri e che picchiavano quindi sulla nave”. Queste bombe razzo erano di una precisione straordi- naria a cadevano a pochi metri dalla nave, nonostante le manovre eseguite alla massima velocità e con timo- ne. (Probabilmente in questo secondo attacco furono usate delle bombe plananti tipo Henschel 293). Le bombe caddero vicinissimo agli scafi, sollevando spruzzi giganteschi, che impedivano persino la visibili- tà e coprivano le navi d’acqua. Molti dei nostri marinai, accecati dall'acqua e dal fumo e bagnati fradici, si tol- sero addirittura parte degli indumenti per potersi muovere più in fretta. L’ “IMPETUOSO” venne sfiorato da vicino da alcune bombe (come si può rilevare nella foto pubblicata nell’articolo), gli ordigni nemici, però, non avevano provoca- to danni. Anche il “PEGASO” e l’”Orsa” furono sfiorati dalle bombe. Tutti e tre gli equipaggi delle torpediniere si batterono sen- za mai darsi per vinti. I motoristi liberi dalle manovre correvano sul ponte per aiutare i serventi dei pezzi ad alimentare le mitraglie- re e i cannoncini. Ferrentino Nicola, mari- naio di Salerno, che aveva allora 19 anni e che era stato imbarcato come macchinista sulla “PEGASO” nel 1942, ricorda che a bordo della nave vi erano 4 militari tedeschi che dovevano manovrare un pezzo di mitragliatrice antiaerea speciale a 4 canne di fabbricazione tedesca, loro dopo l’8 Settembre si erano trovati d’improvviso su una nave nemica ma in quel frangente cooperarono con l’equipaggio ed anch’essi spararono contro gli aerei attaccanti, della loro stessa nazionalità. Ferrentino ricorda anche che quel 9 settembre mentre lui si tovava alla condotta della caldaia numero uno, le navi furono sottoposte a intenso bombardamento dalle 16.00 sino alle 20.00 e le bombe caddero tanto vicine da inondare d’acqua la coperta della nave e pene- trando attraverso le maniche a vento veniva in parte aspirata dai turboventilatori innondando il locale caldaia. Per effetto del vapore che si creava quando l’acqua entrata veniva in contatto con superefici calde il locale si tramutava in un bagno turco, e non si riusciva più a leggere nemmeno un manometro. Quando cessava l’attacco aereo l’atmosfera si faceva subito pulita, ma appena ripren- deva il bombardamento si ricominciava col vapore, gli scoppi delle bombe vicino alla nave, il rumore dei macchinari, la paura di essere colpiti e per chi era nei locali sotto coperta si aggiungeva la paura di fare la fine del topo. “PEGASO” e “IMPETUOSO” abbatterono tre o quattro aerei nemici, “Orsa” ne abbatté altri due.

8 Vitali nel suo racconto dei fatti dice: ”Per dovere storico aggiungo che l’abbattimento degli aerei da parte della contraerea dell’ “IMPETUOSO” fu dovuto ai commilitoni P.M. Antonio Spano, Cann. P.S. Giovanni Toma e Sotto Capo P.M. Baingio Rubattu. Gli alianti razzo che venivano lanciati dagli aerei tedeschi erano impiegati per la prima volta, erano di dimensioni leggermente inferiori ad un’aereo da caccia e manovravano per seguire il bersaglio. In un primo tempo avevamo creduto che fossero proprio aerei da caccia che mirassero alle mitragliatrici, ma poi ogni dubbio fu elimina- to. Contemporaneamente a questa nuova forma di bombardamento eravamo attaccati da caccia e bombardieri tradizionali. E mentre in superficie e nei cieli infuriava il combattimento sotto coperta si udiva giungere il lamento dei naufraghi della Roma da noi raccolti, nella maggioranza feriti con paurose lacerazioni nella carne e con tremende bruciature su tutto il corpo”. Baiolla Riccardo ricorda che un’aereo stava puntando sul “PEGASO”, il mitragliere lo prese di mira e lasciò partire da prima alcuni colpi traccianti che centrarono subito l’aereo e poi una raffica che colpì proprio la cabina dei piloti, ricorda Baiolla che lui potè vedere distintamente i due piloti nella cabina dell’aereo che prese fuoco e cadde vicinissimo alla “PEGASO”, tanto che si rischiò una collisione con l’aereo che precipitava e lo spostamento d’aria dovuto all’esplosione dell’aereo, quando tocco la superficie del mare a non più di 50 metri dalla nave, fu così forte da fargli pensare di essere stati colpiti. Alle 20,30 gli aeroplani della Luftwaffe interruppero l'attacco e ripresero la via verso la Francia, da dove erano venuti. In un'ora, le torpediniere avevano più che dimezzato la loro scorta di munizioni. Mentre si medicavano i feriti e si faceva il computo dei danni subiti, il comandante Imperiali diede l'ordine di dirigersi velocemente verso Ovest. Stava diventando buio e voleva allontanarsi dalla costa della Corsica, perché temeva di venire individuato un'altra volta dagli aerei nemici. I tre comandanti si consultarono per radio. Cigala Fulgosi confermò che aveva subito lievi danni, e che poteva proseguire normalmente. Gino Del Pin, dall’ “Orsa”, disse che gli era rimasto carburante soltanto per dieci ore di navigazione. Era assolutamente necessario ricongiungersi con la Squadra. Riccardo Imperiali chiamò il radiotelegrafista e gli disse di provare a mettersi in contatto con l’ “Eugenio di Savoia” e con Supermarina. Ma nessuno rispondeva alle chiamate. Le tre navi si misero, allora, a navigare verso Nord, nella direzione cioè, in cui si pensava che fosse il resto della flotta. Finalmente, la radio ruppe il silenzio. Ma era il “Vivaldi”, che, capitato in un campo minato a Sud di Bonifacio aveva bisogno di soccorso. La posizione era vaga, la luna rischia- rava il mare come se fosse giorno. Il ri- schio di venire nuova- mente avvistati dai te- deschi era grande. Valeva la pena di met- tere a repentaglio la sicurezza di tre navi? Il comandante Impe- riali rimase in dubbio per qualche minuto, poi decise di tentare l'operazione di salvataggio e diede l’ordine di invertire la rotta. Ma pochi minuti dopo, in alto, nel cielo, si sentì il rombo minaccioso di aeroplani in avvicinamento. Ecco di nuovo, i caccia tedeschi! Le navi, completamente oscurate, tornarono verso Nord in formazione difensiva, gli aerei fecero qualche tentativo di avvicinamento e quindi desistettero. Il “Vivaldi” si rifece vivo: era ancora a galla e poteva navigare a sette nodi. Non era molto, ma poteva portarsi in costa. Imperiali, a questo

9 punto, rinunciò definitivamente all'idea di portargli soccorso e continuò, senza successo, a cercare il grosso della Squadra, la quale nel frattempo, come seppe alcuni giorni dopo, si era ricompattata e si era diretta verso Bona, secondo gli ordini dell'Alto Comando. L’ “Orsa”, intanto, era arrivata agli sgoccioli, rischiava di rimanere in mare aperto senza carburan- te. Di conseguenza alle 20,30, del 9 settembre, Del Pin decise di fare autonomamente rotta per le Baleari, che, essendo territorio spagnolo, erano neutrali, giunse nella baia di Pollensa alle 10,23 del mattino del successivo 10 settembre e dette fondo presso l’isolotto Formentor. Alle ore 01,30 del 10 settembre, anche “PEGASO” e “IMPETUOSO” seguirono la rotta per le Baleari. In quali altri porti sarebbero potuti andare? Gli scali dell'Italia settentrionale e centrale erano in mano ai tedeschi; gli altri erano controllati dagli inglesi. Imperiali e Cigala Fulgosi non erano a conoscenza delle clausole, dell'armistizio e, perciò, neppure del fatto che le navi dovessero essere consegnate agli Alleati. Non sapevano che cosa fare. Chiedevano ordini per radio, ma nessuno rispondeva. Del resto, si seppe dopo, le torpediniere non erano state le uniche a navigare verso le Baleari. Anche “Regolo”, “Mitragliere”, “Fuciliere” e “Carabiniere”, carichi di feriti, al comando del capitano di vascello Marini si erano diretti a Mahon, nell'isola di Minorca, dove rimasero internati fino al 15 gennaio 1945 con i loro equipaggi. Quando arrivarono, ventisei dei feriti più gravi della “Roma” erano morti. Anche un marinaio del “Mitragliere” era morto durante il viaggio per cause naturali. Furono tutti seppelliti nel cimitero di Mahon, dove ancora adesso c’è un grande monumento funebre con 27 nomi che li ricorda. La navigazione verso Ponente fu ab- bastanza tranquilla. Imperiali e Cigala Fulgosi si consultavano spes- so per radio. Entrambi tentarono più volte di mettersi in contatto con Supermarina, a Roma, ma non ci riu- scirono. Alla fine pensarono che an- che l’Alto Comando fosse caduto in mano ai tedeschi e si trovasse impos- sibilitato ad agire. Imperiali si ricor- dava le ultime parole dell'ammiraglio Bergamini a proposito dell’autoaffondamento della flotta e si convinse che quella era l’unica possibilità che rimaneva. Alle 04,13, dall’ ”IMPETUOSO” il comandante Cigala Fulgosi fece l'ultima chiamata a Roma sollecitando ordini. E ancora una volta Roma, pur avendo ricevuto il messaggio, non rispose. A quel punto la decisione era presa: le due torpediniere si sarebbero recate nella Baia di Pollensa, a Maiorca, avrebbero chiesto le ventiquattr'ore di sosta previste dalle convenzioni internazionali, avrebbero sbarcato i feriti e i naufraghi e quindi sarebbero uscite di nuovo in mare aperto per autoaffondarsi. Imperiali e Cigala Fulgosi preferivano evitare l'internamento delle loro unità, per- ché supponevano che la Spagna, pur essendo neutrale, difficilmente avrebbe potuto resistere a eventuali pressioni degli angloamericani, che ormai avevano il controllo del Mediterraneo, e avrebbe finito con il cedere loro le navi. Ai due ufficiali, la sola idea che “PEGASO” e “IMPETUOSO” potessero tornare in guerra sotto la bandiera dell'ex nemico proprio non andava giù. Come, d'al- tronde, non era accettabile nemmeno l'ipotesi di consegnarle ai tedeschi, verso i quali; ormai, spe- cialmente alla luce di quanto era accaduto nelle ultime ore, c'era una profonda ostilità. L’autoaffondamento era sicuramente la cosa più giusta da fare. A complicare le cose, intervennero alle 07,50 l'avvistamento di un ricognitore tedesco, che poteva preludere a un altro attacco dall'aria, e alle 08,37 una chiamata via radio di Super-Marina, che improvvisamente si faceva viva dicendo di recarsi a Bona, che era in mano agli inglesi. L’enorme ritardo della risposta rispetto alle insistenti chiamate della notte faceva sorgere seri sospetti. Era un

10 ordine autentico o uno stratagemma del nemico? Imperiali e Cigala Fulgosi non sapevano che cosa pensare, del resto erano già nelle acque di Minorca. E poi c’erano i feriti, che avevano urgente bisogno di cure appropriate. Decisero, pertanto, di pro- seguire per Maiorca. Alle 11,15, “PEGASO” e “IMPETUOSO” entrarono nell'ampia rada di Pollensa, circondata da pini marittimi che arrivano tutt'ora sino all'acqua. Il paese, un piccolo borgo di pescatori, era addossato alle montagne. Sul- la destra della baia, riparato dall’isolotto Formentera, c'era solo qualche Lleud di legno, le tipiche barche pontate di quei posti, in grado di navigare anche con le alte e ripide onde di tramontana. L"Orsa" arrivata a Pollensa per prima, si mise alla fonda tra la spiaggia e l'isoletta di Formentera, che è poco più di uno scoglio e dal largo si confonde nella costa dirupata. “PEGASO” e “IMPETUOSO” rimasero in acque più profon- de. Un incrociatore Inglese che nelle ultime ore aveva seguito le due navi da lontano restò al largo della baia al limite delle acque territoriali, e ricorda Vitali incrociava avanti e indietro all’imboccatura della profonda insenatura naturale del golfo di Pollensa. Appena terminata la manovra di ancoraggio, il capitano di fregata Riccardo Imperiali chiamò a rapporto i comandanti Cigala Fulgosi e Del Pin. Quest'ultimo comunicò di avere già chiesto alle autorità spagnole di essere rifornito di acqua e di carburante per poter riprendere il mare. Stava aspettando una risposta, ma difficilmente la richiesta sarebbe stata esaudita rapidamente. Forse sarebbe riuscite a guadagnare un poco di tempo e a fermarsi più a lungo in territorio neutrale di quanto solitamente consentito, sperando che intanto la situazione della guerra si chiarisse. Per il “PEGASO” e l’ ”IMPETUOSO” era più difficile ottenere una proroga, perché le navi avevano abbastanza carburante per raggiungere un porto italiano e le avarie non erano tali da impedire la navigazione. Al termine delle ventiquattrore, avrebbero dovuto andarsene, in caso contrario sarebbero state internate. Agli spagnoli, perciò, Imperiali chiese solo la sosta normalmente concessa dalle convenzioni internazionali e di poter sbarcare i naufraghi e i feriti della "Roma", per semplificare la manovra dell’autoaffondamento, tenuta segreta per non avere complicazioni. Le autorità Spagnole concessero unicamente il permesso per lo sbarco dei feriti. Sbarcati durante la giornata i feriti della Roma, a notte fonda, tra la 00 e le 02 dell'11 settembre 1943, “PEGASO” e “IMPETUOSO”, salparono e si diressero lentamente verso l'uscita della baia. Ricorda Arturo Luccioli che nella giornata del 10 l’equipaggio dell’”IMPETUOSO” venne raduna- to a prua dal comandante Cigala Fulgosi e venne messo al corrente della decisione di autoaffondare le navi: tutti furono d’accordo. Ferrentino e Baiolla ricordano che anche il comandante Imperiali radunò ufficiali, sottufficiali e marinai a prua del “PEGASO” e comunicò loro la decisione di autoaffondare la nave. Terminò la riunione con la frase: . L’Orsa rimase al suo ormeggio, dato che il comandante Gino Del Pin aveva buone ragioni per sperare di vedersi prorogare il permesso di sosta, (Invece, le autorità spagnole dapprima gli ordina- rono di recarsi a Palma per far provvista di carburante, poi, mentre già stava per salpare le ancore, gli dissero di aspettare, quindi di andare a Mahon, nell'isola di Minorca, distante una cinquantina di miglia, dove c'era già il gruppo del “Mitragliere”, infine di attendere ancora. In questo modo, tra un

11 ordine e un contrordine, l’ “Orsa” con- sumò l’ultima goccia di carburante per tenere in funzione i generatori di cor- rente e si ritrovò paralizzata, senza più poter manovrare. Nei giorni seguenti fu rimorchiata nel porto di Palma di Maiorca e lì rimase sino al termine della guerra (in seguito fu riconsegnata al- l’Italia). Quando le navi furono nel mezzo alla baia di Pollensa, lunga ben sette mi- glia, il comandante Imperiali fece fer- mare le navi e mettere in acqua tutte le scialuppe e le zattere di salvataggio meno una: dopo aver fatto scendere nelle scialuppe i pochi sopravvissuti della Roma non feriti che erano rima- sti a bordo, ed aver fatto gettare in ac- qua la maggioranza dei marinai validi attaccati alle scialuppe e coi salvagen- ti indossati, le due navi con a bordo poche persone, 10 o 11 l’ “IMPETUO- SO”, 17 il “PEGASO”, tra cui due macchinisti (sul “PEGASO” Capozzi e Baiolla), deputati all’apertura delle saracinesche delle pre- se a mare, continuarono la navigazione verso il mare aperto. Ricorda Lucioli Arturo di Arezzo, ai tempi addetto al munizionamento dei pezzi d’artiglieria sull’ “IMPETUOSO”, che sulla sua nave nel pomeriggio i marinai addetti all’artiglieria avevano rapida- mente confezionato una zattera con i pezzi di legno che c’erano a bordo e con altro materiale, stando sotto coperta e ben attenti a non essere visti dagli Spagnoli che tenevano sotto tiro coi binocoli, ma anche coi cannoni, le due navi. Ma quando di notte la zattera fu caricata degli zaini dei marinai e messa a mare il carico dovette risultare eccessivo perché subito affondò. Le due torpediniere, una dietro l’altra, ripartirono e fendettero l'acqua scura della notte finché i loro comandanti, consultando le carte nautiche, reputarono di avere sotto la chiglia una profondità supe- riore ai cento metri, a quei tempi irraggiungibili da qualsiasi mezzo subacqueo. Allora si fermaro- no. Nel mentre le barche cariche all'inverosimile di uomini e con i marinai in acqua aggrappati ai bordi, si affannavano per raggiungere la riva, protette dal buio. Gli ufficiali distrussero tutti i documenti segreti, compresi i brogliacci di plancia e della sala radio, ricuperarono il denaro di cassa rimasto e fecero alzare sul pennone più alto la bandiera di combat- timento. Fecero aprire tutte le prese a mare, saracinesche e kingston, e mentre l'acqua inondava le sentine e cominciava a salire diedero l’ordine di abbandonare le navi (dovevano essere circa le 5 o le 6 del mattino perché ci sarebbe voluto un ora prima che le navi affondassero). Imperiali e Cigala Fulgosi con il cuore gonfio di emozione, furono gli ultimi a salire sulle scialuppe a remi rimaste. Li aspettava una vogata molto lunga per tornare a terra, perché la lancia a motore in dotazione al “PEGASO”, era rimasta all’Arsenale di La Spezia per riparazioni. Ma avevano tempo tutto il gior- no, quando le navi affondarono spuntava il sole. Baiolla Riccardo, che aveva aperto le saracinesche a mare del “PEGASO” ricorda che portò sulla scialuppa anche il cane “Mascherino”, che era la mascotte di bordo, era stato imbarcato sul “PE- GASO” a Ceuta, durante la guerra di Spagna e in seguito restò con i marinai del “PEGASO” per tutto il periodo di internamento in Spagna e tornò in Italia con loro. Era molto simpatico, racconta

12 il Baiolla, tutto peloso e nero, al contrario di quello dell’ “IMPETUOSO” che era bianco. Antoni Cifre Morro, un ragazzone di 25 anni robusto come un toro, a quell'ora era di guardia e stava sonnecchiando sulla coperta del piccolo peschereccio del padre, ancorato su un basso fondale vicino a Capo Formentor, che chiude verso Nord la Baia di Pollensa. Antoni, assieme al genitore, che stava dormendo, aveva passato tutta la notte con le reti e le nasse per le aragoste e stava aspettando che si facesse giorno per andare a salparle. Se le aragoste cadute nelle trappole non fossero state prontamente recuperate, le avrebbero sicuramente mangiate i polpi. Così, quando il tempo era buono, i pescatori non tornavano in porto tra una "calata" e l'altra, ma aspettavano alla fonda da qualche parte, vicino alle reti, che venisse l'ora di riprendere il lavoro. Il sole stava sorgendo e schiariva il cielo a Est, che brillava di luce rispetto alla superficie mutevole del mare, ancora plumbea, misteriosa e piena di ombre. L’aurora era uno spettacolo che Antoni, quando era in barca, non si perdeva mai. Anche quel giorno, pur essendo assonnato e infreddolito per l'umidità della notte appena finita, il ragazzo guardava l'orizzonte che si accendeva di colori. E d'un tratto si accorse che fuori, al largo, il mare non era deserto come al solito. C'erano una nave da guerra e un sottomarino, perché uno dei due scafi era basso sull'acqua, si vedeva solo quella che poteva essere la torretta. Sta succedendo qualcosa di strano, pensò, e svegliò il padre. I due pesca- tori erano preoccupati, perché pressappoco laggiù, proprio dove c'era la nave irta di cannoni e di antenne, c'erano le loro nasse. Improvvisamente, mentre stavano guardando, il vascello più basso, quello che sembrava un sommergibile, alzò la prua dritta verso l’alto, sembrò fermarsi così per un tempo interminabile e poi cominciò a scomparire tra le onde sollevando una cascata di bolle e di spruzzi e gemendo come un animale ferito. Il rumore dell'affondamento, sebbene attutito, arrivava sino lì. «Altro che sottomarino, gridò il vecchio Cifre, quella era una nave che affondava. Ed è affondata sulle nostre nasse!». I due pescatori salparono l'ancora più in fretta che poterono, accesero il motore e corsero verso il luogo dove avevano calato i loro attrezzi. E, mentre navigavano, videro che anche l'altra nave abbassò di colpo la poppa, lanciò la prua verso l'alto e si inabissò con un frastuono assordante. Quel fracasso, provocato dall'aria che usciva sibilando dai locali caldaie e dall’acqua che entrava nello scafo e occupava ogni vano, alle orecchie dei marinai del “PEGASO” e dell’ “IMPETUOSO” suonò come uno struggente canto di morte. Con quelle navi, tra quei flutti, era sicuramente scomparsa anche una parte importante della loro vita. Il sottocapo meccanico Alfredo Capozzi, che con Riccardo Baiolla avevano aperto le valvole nei locali caldaie del “PEGASO” ricordano che mentre erano sulla scialuppa di salvataggio videro la nave, ormai bassa sull’acqua, coricarsi sul lato sinistro e iniziare ad affondare dalla poppa, Capozzi ricorda anche che lo scafo quando la prua stava uscendo dall’acqua si ruppe sulla coperta, proprio nella zona del cannone di prora, e lanciando un sinistro rumore di morte si inabissò definitivamente. Certo dicono Nicola Ferrentino e Pompeo Porcelli la zona di prua del “PEGASO” era sicuramente la più debole, ricordo che mentre eravamo in missione di scorta nei pressi di Favignana, con mare forza otto, andammo ad urtare la poppa della corvetta “Antilope” e provocammo danni alle due imbarcazioni. Col “PEGASO” fummo costretti prima a riparare a Trapani e poi dopo aver fatto le prime sommarie riparazioni a risalire tutto l’Adriatico sino a Venezia ove ci sostituirono interamen- te la prua. Allo scopo fu utilizzata la prua di una delle 12 corvette che erano in costruzione nei cantieri di quella zona, credo a . Queste riparazioni a Venezia furono effettuate nell’Aprile del 1943, ricor- da anche l’Operatore all’ecogoniometro del “PEGASO”, Paolella Armando di Roma, che pro- prio in quell’occasione venne sbarca-

13 to dal “PEGASO” e fu inviato sul “Folaga”. Probabilmente quella zona dello scafo, avendo già subito riparazioni non ha retto allo sforzo che si è venuto a creare durante l’affondamento, d'altronde tutti i pesi erano sistemati dalla cabina di comando verso poppa. L’ “IMPETUOSO” affondò poco dopo sempre di poppa. Antoni Cifre Morro ricorda che con suo padre presero al traino una scialuppa con gli Italiani perché non aveva il motore e che con alcuni di essi che venivano dalla zona di Alghero in Sardegna si intendevano benissimo in quanto costoro parlavano quasi Catalano. Baiolla dice che la “PEGASO” impiegò 56 minuti per affondare, affondò così rapidamente anche perché noi lasciammo accese le pompe per travasare tutto il carburante rimasto nei serbatoi di sinistra, in modo che la nave si sbandasse velocemente e lasciammo aperti tutti gli oblò di poppa, per facilitarene l’allagamento. I documenti importanti e i cifrati di bordo vennero portati in caldaia e bruciati. Poi ricorda Baiolla eravamo in 17 sulla scialuppa di salvataggio senza motore e incominciò a pio- vere a dirotto, per fortuna venne ad aiutarci un pescatore spagnolo e ci offrì anche alcuni fichi. Alcuni marinai, tra quelli scesi in acqua prima di autoaffondare le navi, ricordano che arrivarono a riva a nuoto ed impiegarono tre o quattro ore, giungendo sfiniti, come successe a Nicola Ferrentino, che fu tratto dal mare da due militari spagnoli di colore, ma solo dopo due o tre tentativi per sollevarlo sugli scogli, perché ormai stremato e zuppo d’acqua era troppo pesante anche per i due. Prima di capire che si trattava di naufraghi i militari spagnoli, temendo fosse uno sbarco di truppe anfibie, spararono verso i marinai italiani, per fortuna qualche marinaio che, come già detto, parla- va un poco di catalano gridò che erano naufraghi, di non sparare. Quelli che non erano riusciti a giungere sino a riva a nuoto vennero ricuperati dagli spagnoli con le barche all’alba, dopo aver passato la notte in acqua, come accadde a Arturo Lucioli. I marinai delle due navi scesi a terra furono tenuti per 7 giorni a Pollensa vicino all’Hangar di un piccolo aereoporto, ma dovettero dormire per terra sotto le stelle. I quattro militari tedeschi che erano sul “PEGASO”, ricorda Ferrentino Nicola furono trattati meglio di noi ed alloggiati subito a Pollensa in una casetta separata. Per primo fu trasferito l’equipaggio del “PEGASO” , i cui marinai vennero inviati, su dei camion con scorta armata, a Col de Ribas, a 7 chilometri da Palma di Maiorca, ove sorge l’attuale aereoporto, e vennero alloggiati in un “capannone” caserma dell’Aviazione Spagnola. Quivi, dice Ferrentino, trascorremmo quasi 5 mesi di peripezie, vicissitudini e sofferenze, morali e materiali, vivendo a stretto contatto con i militari dell’aviazione spagnola, accasermati in prossimità del campo d’avia- zione. I cucinieri spagnoli ci lesinavano i pochi mestoli di vitto che avevamo ogni giorno, tutto l’equipag- gio del “PEGASO” era costretto a consumare la razione di vitto giornaliera in piedi e all’aperto, girando attorno ai cucinieri finchè questi non ritenevano di aver distribuito abbastanza, I reduci del “PEGASO” intervistati si ricordano che poterono sopravvivere aiutando i contadini delle zone circostanti a svolgere i lavori dei campi, ed avendo in cambio del cibo. Il prodotto che consentì loro la sopravvivenza furono le patate locali, dette “MONIATOS”. Un altro triste ricordo di quei tempi è quello del trasferimento da Palma di Maiorca a Barcellona. Dicono i superstiti, siamo stati trattati al pari di pericolosi delinquenti, venimmo stipati come sardi- ne nella stiva di prua di una nave mercantile, con un solo boccaporto di acesso e sotto strettissima scorta armata. Per tutta la durata della navigazione, con mare molto mosso, nessuno poteva uscire dal boccaporto, da cui entrava poca aria, solo uno per volta per andare alla toilette sempre scortati da un marinaio spagnolo armato. Molti stavano male ma non era concesso di prendere neppure una boccata d’aria. Uno o due giorni dopo l’equipaggio dell’ ”IMPETUOSO” fu inviato a Andraix, in una ex caserma della fanteria Spagnola dove restarono per 4 mesi “e ci fecero morire di fame”, si lamenta Sorino Antonio, marinaio di Ortona a Mare: per quattro mesi ci hanno dato solo 90 grammi di pane al giorno. Poi il comandante spagnolo “che era una carogna” ci costrinse a lavorare per costruire una

14 strada, ma Cigala Fulgosi chiese ci venisse data una paga, non ottenendola ebbe il permesso di andare fino a ove in base alle leggi sugli internati di guerra ottenne che non si andasse più a lavorare senza paga fuori dal campo. Arturo Luccioli ricorda: nelle ore libere andavamo a lavorare dai contadini che avevano i campi vicino, per avere in cambio qualcosa da mangiare”. Luccioli dice anche ”io andavo a sgusciare le mandorle ed a preparare fichi secchi in una famiglia di contadini che mi vollero bene come a un figlio. Quando siamo tornati coi reduci a rivedere i luoghi della prigionia ho ritrovato quella fami- glia, ed ho visto che la nostra prigione era diventata una scuola”. Anche Leopoldo Lombardini di Messina, che all’epoca aveva 17 anni ed era imbarcato sull’ “IM- PETUOSO” come allievo meccanico, ricorda tutti questi avvenimenti: e dice, ad Andraix fu una ragazza spagnola, della mia età, Margarita Valent, che mi vide sotto la pioggia tutto bagnato e che, mossa da pietà, ci aprì le porte della caserma trasformata in sartoria in cui stava lavorando. Poi facemmo amicizia con gli abitanti del posto, tanto che a Natale un marinaio di Siracusa, Carmelo Mollica, si esibì come baritono nella chiesa locale, ma il prete, ricorda qualche altro commilitone, ebbe anche a reclamare perché qualcuno gli rubava i fichi di una pianta che aveva nel suo orto. Dopo quattro mesi ad Andraix e a Col de Ribas tutti i marinai Italiani furono trasferiti via nave sino a Barcellona e poi col treno a Caldas de Malavelias, nei Pirenei vicino a Gerona, ove furono allog- giati in due alberghi, il “Vichj Catalan” ed il “Soler”, e si ritrovarono coi marinai della navi che erano andate a Mahon (“Mitragliere” ecc..). (Di tutto il periodo dell’internamento è vivissima in tutti i reduci che ho intervistato il ricordo della grande fame patita, alcuni ricordano che tanta era la fame che appena potevano andavano nei campi dei contadini a rubare le rape e mangiavano quelle). Dopo 10 mesi di internamento gli Spagnoli chiesero a tutti i marinai dei vari equipaggi presenti a Caldas de Malavella chi volesse rientrare in Italia, se al sud, partendo via nave da Gibilterra o se al nord, dalla Francia. Su 1013 marinai internati, dopo votazione singola dinnanzi a tre funzionari spagnoli, solo 19 chie- sero di rientrare in Italia dal nord, perché avevano la famiglia ed erano fortemente in pensiero, essendo quella parte d’Italia ancora sotto il controllo dei Nazzisti.

15 Il primo scopritore Nel braccio di mare che divide Maiorca da Minorca il fondo è molto tormentato e le correnti sono spesso impetuose. È l’habitat ideale del corallo rosso, che, una volta, prima che venisse sottoposto a una pesca senza quartiere, era molto abbondante già a partire dai 40, 50 metri. Adesso anche qui la situazione è cambiata: per trovarne di grosso, bisogna scendere almeno tra i 90 e i 100 metri. Profondità a cui solo pochissimi possono anda- re sicuri di poter anche tornare a galla incolumi. Alle Baleari c’è solo un corallaro che ha queste capacità. È Joaquin Angel Rodriguez Castelao, detto Quino, di Maiorca, 67 anni compiuti, due gravi embolie in 44 anni di attività e un'espe- rienza lunga come una vita. Quino si immerge con l'aria sino a 105 metri e con una miscela col 20% di elio sino a 130 metri. Poi sale in barca e fa la decompressione in camera iperbarica con ossigeno puro. E' un uomo duro e coriaceo, che ce l'ha con il mondo intero. Ma è anche un so- gnatore: nonostante la non più giovane età, è pieno di entusiasmo e spera ancora di trovare, un giorno o l'altro, un tesoro in fondo al mare, magari nascosto in un galeone semi sommerso nel fango che si chiama "Castillo Negro" e di cui è stata ritrovata la campana di bordo. Il 17 dicembre 1986 era una bella giornata, senza tra- montana, il forte vento freddo che esce dal Gol- fo del Leone e, nelle Baleari, solleva onde enor- mi e rabbiose. Joaquin Angel Rodriguez Castelao sapeva che se si fosse immerso presto, subito dopo le otto del mattino, avrebbe avuto buone probabilità di fare tutta l’immersione, e la parte di decompressione che si svolgeva in acqua, con calma piatta. Dopo le 10, infatti, nel canale soffia sempre una brezza tesa che, se in estate è solo fastidiosa, d'inverno può diventare anche pericolosa. Così, alle 9 Quino stava già scendendo, con in spalla un pesante tribombola composto da due bombole da 15 litri e da una bombola da 12 litri piene d'aria. Il pedagno, che gli serviva per scendere, l'aveva gettato in un posto nuovo, che aveva scoperto per caso scandagliando il fondo piatto e monotono. D'un tratto, l’ecoscandaglio aveva evidenziato una ripida salita e un'altrettanto brusca discesa, con un dislivello di circa sette od otto metri. Quino pensò a un grosso scoglio inesplorato, probabilmente pieno di corallo. Conosceva quei luoghi come le sue tasche e non si era mai accorto che ci fosse una roccia così grande. Scendeva veloce, come al solito, verso l'oscurità cupa del mare profondo. E intanto scrutava in basso, per indovinare la massa scura dello scoglio. Ed ecco che qualcosa apparve là dove doveva essere. Ma non era una roccia, era una nave, una nave da guerra. Proprio sotto di lui si scorgeva il profilo di un cannone di grosso calibro. Allora gli venne in mente la storia delle navi italiane di cui parlava ancora qualche vecchio. Non era una leggenda, dunque, una delle tante storie di guerra di cui si raccontava all'osteria, davanti a un bicchiere di vino. Era tutto vero. Una di quelle navi era lì. Già che c'era diede un'occhiata in giro. Non troppo lunga, perché il profondimetro segnava 100 metri. Lo scafo era intero. Di tesori, al suo interno, neanche a parlarne. E di corallo nemmeno. Quino risalì. Un'immersione sprecata, pensò. Però, quella nave era solo sua, era il suo segreto. Ed anche se realizzò un filmato che venne proiettato dalla televisione spagnola, non disse mai a nessuno dove si trovava.

16 In questa storica immagine vediamo lo sbarco dei feriti (circa 250) della “ROMA” dall’ “Attilio Regolo” e dai CT “Fuciliere”, “Mitragliere” e “Carabiniere” nel porto di Mahon, sull’isola di Minorca. I feriti vennero ricoverati nell’ospedale militare che sorgeva sull’isolotto in mezzo alla baia di Mahon. Nelle foto sotto l’isolotto come si presenta oggi.

17 Il cimitero di Mahon, sull’isola di Minorca, ove sotto questo monumento riposano i resti di ventisei marinai della “ROMA” e di uno del “MITRAGLIERE” .

18 La ricerca” Il 30 giugno 1998, risalendo da un'immersione con le miscele a 95 metri di profondità, dopo aver esplorato e fotografato il relitto del mercantile greco "Georgia K", inabissatosi in circostanze mi- steriose al largo di Minorca, nelle isole Baleari, Guido Pfeiffer fu colto da una di quelle forme di embolia apparentemente inspiegabili che entrano nelle statistiche dei medici iperbarici con un grosso punto di domanda. Perché è successo? Non si sa. Guido dice. Dopo nemmeno un paio d'ore stavo già correndo in autoambulanza verso Mahon, dove mi aspettavano il dottor Oblaré e il dottor Jordi Moya, specialisti in medicina subacquea. Durante le permanenze in camera iperbarica, le uniche cose che si pos- sono fare sono respirare ossigeno da una mascherina e annoiarsi. A tener- mi compagnia e a vigilare sulla mia incolumità, veniva spesso il dottor Moya, il quale, essendo anche lui su- bacqueo, ammazzava il tempo raccon- tandomi tantissimi aneddoti legati al mare. E fu così che, fra le mille cose che mi disse, colsi la storia di un co- rallaro che, casualmente, era sceso su una nave da guerra italiana, affonda- ta, assieme a un'altra unità dello stes- so tipo, nel canale tra Minorca e Maiorca. Quando, perciò, sentii Jordi parlare delle navi da guerra italiane, non aspettai nemmeno di uscire dalla camera iperbarica, mi tolsi la mascherina e cominciai a fare do- mande. Sembrava tutto vero, anche se tutto era molto confuso. Da quel giorno, le torpediniere “PEGASO” e “IMPETUOSO”, di cui abbiamo raccontato gli ultimi giorni di guerra prima dell'autoaffondamento, avvenuto l'11 settembre 1943 in un punto sconosciuto al largo di Pollensa, hanno riempito tutto il nostro tempo libero per i tre anni successivi. E' stata una lunga e faticosa ricerca, con molti sbalzi di umore. Passavamo dall'ottimismo più sfrenato al pessimismo più nero nel giro di poche ore. Molte volte abbiamo creduto di essere arrivati alla loro individuazione e altrettante volte abbiamo dovuto ricrederci, al punto che, verso la fine, eravamo talmente scorag- giati da voler abbandonare l'impresa e lasciare che le navi rimanessero per sempre nell'oblio dei loro abissi. Ma la sconfitta è dura da digerire, specialmente quando si è lottato a lungo. E così, aiutati da molti amici appassionati, siamo giunti alla conclusione di una vicenda che per noi tutti ha avuto il sapore di un'avventura. Jordi Moya, assieme ad Alejandro Fernandez, anche lui subacqueo e medico iperbarico, ci aveva precisato che la storia del corallaro non l'aveva sentita direttamente, ma che gliela aveva raccontata qualcuno che, anni prima, l'aveva vista in un documentario televisivo sui pescatori di corallo. Men- tre Jordi e Alejandro si davano da fare per tentare di avere notizie più precise, noi cercammo di avere qualche conferma negli ambienti della Marina Militare. Era vero che due navi da guerra si erano autoaffondate alle Baleari? Le prime notizie furono negative. Un ammiraglio in pensione ci disse che si ricordava vagamente di una storia del genere, ma che non era vero niente, perché le navi erano tornate in Italia. Ma un altro alto ufficiale ci disse il contrario: sì, le navi erano state affondate dai loro equipaggi proprio nelle acque spagnole e a suo tempo c'era stata un'inchiesta. Potevamo, quindi, andare avanti. Claudio Corti, che da tanti anni è nello staff di profondisti della rivista SUB, interessò alcune sue conoscenze e di lì a pochi giorni spuntarono due nomi: “PEGASO” e “IMPETUOSO”. Si trattava

19 di due torpediniere, effettivamente autoaffondate dai loro comandanti. C'era una data, 11 settembre 1943, ma non c'erano le coordinate del punto in cui colarono a picco. Sugli almanacchi della Mari- na si parlava solo di un punto imprecisato fuori dalle acque territoriali spagnole, presumibilmente al largo della Baia di Pollensa, nell'isola di Maiorca, su batimetriche superiori ai cento metri. Oc- correva saperne di più. A prendere contatto con l'Ufficio Storico della Marina Militare, a Roma, ci pensò Maurizio Macori, un altro validissimo fotografo subacqueo. Scoprimmo, così, che in quegli archivi c'è una tale quantità di dati che, se non si sa bene che cosa si vuole, è facile perdersi. Effettivamente sull’autoaffondamento del “PEGASO” e dell’“IMPETUOSO” c’era stata un'inchie- sta, perché, in pratica, i loro comandanti, il capitano di fregata Riccardo Imperiali e il capitano di corvetta Giuseppe Cigala Fulgosi, non avevano ottemperato all'ordine dell'Alto Comando, che era quello di consegnare le navi agli angloamericani secondo una delle principali clausole dell'Armisti- zio dell'8 settembre 1943. L’incartamento che si trovò tra le mani Maurizio era imponente. Assieme a documenti di routine c'erano anche verbali e dichiarazioni che un tempo erano stati considerati segreti e che per noi si rivelarono i più interessanti. Incastrando una nell'altra le tessere del mosaico man mano che venivano alla luce, riuscimmo a ricostruire in maniera abbastanza meticolosa gli ultimi giorni di quelle navi, i cui equipaggi, come d'altronde quelli delle altre unità della nostra Marina, ci apparvero veramente eroici e di una statura morale addirittura commovente. E questo a prescindere da come andarono le cose e da qualsiasi considerazione politica. Ci calammo nei personaggi, percepimmo i loro tormenti, le loro incertez- ze, rivivemmo le loro mosse. Ma una cosa non riuscimmo a trovare: le coordinate dell'affondamento. Domandammo spiegazioni ad alcuni ufficiali e questi ammisero che, in effetti, le coordinate non apparivano in alcun rapporto. Com'era possibile? Chissà, la fretta, l'emozione; allora non c'erano gli strumenti di adesso, che basta premere un pulsante per veder apparire su un quadrante longitu- dine e latitudine. Qualcuno dello Stato Maggiore, parecchi anni dopo i fatti, si accorse che nei documenti che riguardavano il caso non si parlava di punto nave, ma solo vagamente di un punto imprecisato al largo dell'isola di Maiorca, e scrisse al comandante Imperiali, evidentemente in congedo, affinché la pratica potesse essere completata. La lettera è agli atti. Nella risposta si fa cenno a un diario, dove potevano essere state appuntate le coordinate stimate, ma il diario non si trovava più, probabilmente seppellito tra vecchi ricordi. A Minorca intensificammo le ricerche. Ora che sapevamo che le "navi italiane" non erano solo il frutto di una storia inventata, ricominciammo a intervistare i pescatori, soprattutto quelli a strasci- co, che lavorano su fondali molto profondi. Era importante appurare se le torpediniere si trovavano su batimetriche raggiungibili da un subacqueo, o se, invece, erano finite troppo in basso. Nel primo caso, avremmo continuato a cercarle, nel secondo no, perché sarebbero state fuori dalla nostra portata. Non potevamo disporre di mini sommergibili e nemmeno di Rov. E non avevamo neppure un sonar a scansione laterale. Avevamo soltanto molto entusiasmo, una considerevole esperienza subacquea e di mare, un certo numero di collaboratori molto bravi e una normalissima attrezzatura nautica, anche se di buon livello, composta da un ecoscandaglio in grado di frugare negli abissi e due Gps con cartografia e plotter. Non era molto, ma nemmeno poco. Ci eravamo posti un limite: 130 metri. Sino a quella profondità Claudio Corti e Guido Pfeiffer potevano essere operativi, natu- ralmente con opportune miscele trimix, oltre sarebbe stato veramente difficile combinare qualcosa di buono e i rischi sarebbero stati inaccettabili. La storia del corallaro, del resto, ci faceva ben sperare. Almeno una delle due navi doveva essere raggiungibile. Naturalmente se la notizia fosse risultata vera, cosa ancora tutta da verificare. Identificare il pescatore di corallo del servizio televisivo non fu facile. Il documentario era stato programmato da una rete locale di Barcellona. Ma ce n'era più di una. Jordi e Alejandro presero contatto con le segreterie, i servizi di produzione e gli archivi dei principali canali televisivi della città catalana, ma nessuno si ricordava. Finalmente, all'archivista di un network regionale specia- lizzato nella messa in onda di filmati di viaggi e di natura venne in mente che sì, forse qualche anno prima avevano dato un documentario sul corallo in seconda serata. Ma chissà dove era finito. Sì,

20 era vero, il documentario parlava di un corallaro che lavorava a cento metri e oltre e, sì, gli pareva di ricordare che una volta, scendendo in cerca di corallo, costui aveva trovato una nave, ma un relitto senza importanza. Il corallaro doveva essere di Minorca, o di Maiorca, comunque di quelle parti. L’archivista, di questo, era sicuro. Il nastro del documentario doveva essere in archivio, sì, l'avrebbe cercato, ma non era una cosa semplice. Potevamo provare a ritelefonare, no, nessun di- sturbo, ma ci voleva tempo. Una conferma, seppure a metà, del fatto che almeno una delle torpediniere italiane si trovasse a una profondità accessibile l'avevamo bene o male avuta. Il corallaro esisteva davvero ed era delle Baleari. Quanti corallari c'erano alle Baleari? Girammo la domanda ai pescatori di aragoste che conosceva- mo nel porto di Ciudadela. Nell'isola di Minorca nemmeno uno. Di tanto in tanto c'era qualcuno che veniva da fuori, soprattutto da Rosas e dalla zona di Capo Creus, in Costa Brava. Facevano una stagione e poi se ne tornavano a casa. Speravano di fare molto corallo, invece non raccoglievano un granché. L'acqua limpida e luminosa delle Baleari spinge il corallo a grandi profondità. Dai 50 ai 70 metri si trovano i rametti piccoli, quelli che vanno bene per essere macinati e fare la polvere di corallo, impiegata per realizzare le palline delle collane a basso prezzo. I rami grossi si trovano a l00 metri. E a 100 metri, alle Baleari, ci andava un solo corallaro, uno di Maiorca, un certo Angel, un tipo un po' speciale, che però già da qualche tempo non pescava più da queste parti. Per avere un'idea del posto dove potevano essere i relitti delle navi che stavamo cercando, ci erava- mo riforniti di carte nautiche a piccola scala della zona del Canale di Minorca e della costa di Nord Est di Maiorca. E ciò che vedevamo, quando le spiegavamo sul tavolo della sala da pranzo, tenen- dole ferme con portacenere e vasi ai quattro angoli, era scoraggiante. Verso Minorca, il fondale era praticamente un'unica piattaforma, più o meno digradante, che oscillava tra gli 80 e i 130 metri, con fosse più profonde in coincidenza dell'uscita del canale. A Nord, invece, le batimetriche dei 100 e dei 130 metri erano molto più vicine alle isole, precipitando poi rapidamente negli abissi dei due e dei tremila metri. Ma lunghi e larghi bassofondi sui 100 metri si allungavano come dita di una mano aperta verso il largo. “PEGASO” e “IMPETUOSO” erano sicuramente in un punto del cana- le, ma dove? Avevamo scartato il mare a Nord di Maiorca, perché ci sembrava troppo profondo. Se la notte dell'affondamento i comandanti Imperiali e Cigala si fossero diretti lì, altro che 100 metri avremmo dovuto raggiungere per vederli. Provammo a metterci nei panni dei due ufficiali: se fossimo stati ancorati nella Baia di Pollensa e avessimo voluto raggiungere il più presto possibile il mare profondo, che rotta avremmo fatto? Un bel rebus. Tanto per cominciare, la rada è molto ampia ed è lunga più di sette miglia. Dove ci saremmo messi alla fonda? Sicuramente vicino al porto. Ma il porto di adesso non è quello di allora. E poi lì la riva è bassa e la profondità esigua. “PEGASO” e “IMPETUOSO” erano pur sempre navi da guerra e dovevano poter manovrare senza correre il rischio di incagliarsi. Sulla carta segnammo una posizione ipotetica e poi con le squadrette tracciammo una lunga linea a matita sino ad andare a incrociare le batimetriche superiori ai 100 metri. Ecco, potrebbero essere qui, o qui, o qui... o laggiù! Mah... Per trovare Angel, decidemmo di trasferirci a Maiorca Era inverno e il canale era difficilmente navigabile. In quei posti il tempo cambia da un momento all’altro con una facilità incredibile e il rischio è quello di partire con il mare calmo e di dover poi rimanere dall'altra parte perché nel frattempo si è alzato il vento e, con il vento, si sono alzate onde grosse e ripide. Perciò andammo a Maiorca con il "traghetto veloce", una specie di aliscafo che da Ciudadela va a Cala Ratjada, un paesino che, purtroppo, è sul versante meridionale di Maiorca ed è, quindi, abbastanza lontano da Pollensa. E lì ci mescolammo ai pescatori, facendo domande. Conoscevano un certo Angel? Ne avevano mai sentito parlare? Nessuno lo conosceva. Conoscevano dei corallari? Ce ne indicarono due, con i capelli grigi, seduti a un tavolo di un bar sulla banchina del porto. Non si chiamavano Angel. E non avevano mai nemmeno sentito parlare di un certo Angel. Ma loro a che profondità pescavano il corallo? Tra i 60 e i 75 metri. Non andavano a 100? A 100? A quella profondità ci andava solo Quino, un tipo solitario, un originale che ce l'aveva a morte con tutti, ma soprattutto

21 con la mafia e con i socialisti quando erano al governo. Un tipo molto particolare, insomma. Ma lui, sì, andava a 100 metri, e anche di più: Di dov'era? Non era di Maiorca, probabilmente era del Nord della Spagna, però viveva ad Alcudia, una cittadina vicino a Pollensa. Ma... Quino, e poi? Quino era Quino, lo conoscevano così da sempre. Che fosse il nostro Angel? Dopo qualche giorno, Jordi Moya e Alejandro Fernandez lo identificarono fra le carte di un collega medico iperbarico. Si chiamava Joaquin Angel Rodriguez Castelao, aveva 65 anni. Era conosciuto in tutta la Penisola Iberica e alle Baleari era considerato una specie di fenomeno vivente, l'unico uomo che potesse lavorare impunemente oltre 100 metri per più di mezz'ora respi- rando semplice aria atmosferica. A Minorca lo chiamavano Angel, a Maiorca Qùino. Ma era sempre la stessa persona. Oltre che per andare profondissimo, Quino era famoso perché faceva tutto da solo. Alla fine dell'immersione si chiudeva den- tro la camera di decompressione portatile che aveva montato a poppa della sua bar- ca, la "Nemo", e la manovrava lui stesso dall'interno. Si racconta che una volta, mentre lui era dentro la camera e non po- teva uscire, si scatenò un forte temporale che per un pelo non affondò la sua imbar- cazione, senza governo e alla fonda in mezzo al mare. Parlargli fu ancora più dif- ficoltoso che trovarlo. Jordi e Alejandro, non si sa come, erano riusciti ad avere il numero del suo telefono portatile, che o suonava a vuoto o era fuori servizio. Ma una sera una voce rispose. Era proprio quella di Quino. Gli spiegarono il motivo della telefonata. Era stato lui a trova- re la nave da guerra Italiana? Sì, era stato proprio lui, addirittura nell'86. Potevamo parlargli? Cer- tamente. Quino era apparentemente disponibile. Fissarono un appuntamento. Dovevamo incontrar- ci sulla banchina del porto commerciale di Alcudia, dove i passeggeri scendono dalla nave che fa servizio due volte al giorno tra Ciudadela e Maiorca. Noi saremmo stati in tre, Maurizio Macori, Claudio Corti e Guido Pfeiffer, lui sarebbe stato solo, vicino a un Pickup verde scuro a quattro porte. La traversata durò più di quattro ore. Scoprimmo che il traghetto su cui viaggiavamo ballonzolando sulle onde fresche di tramontana era lo stesso che, quando eravamo ragazzi, faceva servizio tra Piombino e l'isola d'Elba. C'erano ancora carte nautiche dell'isola toscana incorniciate al bar e nella sala passeggeri. Vedemmo Quino dall'alto del ponte. Non ci si poteva sbagliare, perché, oltre al fatto che era vicino al suo Pickup verde, era l'unica persona sulla banchina battuta dal vento, per il resto deserta. La stagione turistica era finita da un pezzo e non c'era molto via vai tra le due isole. Quino era basso di statura, con braccia forti e un torace possente. Non dimostrava gli anni che aveva. Andammo in un ristorante e li, davanti a un enorme piatto di mariscos, iniziammo le trattative. Sembrava tutto facile. Lui era sceso su una delle torpediniere, ma conosceva anche la posizione della seconda. Poteva dirci dov'erano? Certo, però dovevamo fare uno scambio. Lui ce l’aveva a morte con le autorità costituite, in generale, ma, in particolare, con il governo di Felipe Gonzales, che, a suo dire, gli aveva fatto promesse mai mantenute. Lui ci avrebbe portato sulle navi e noi gli avremmo pub- blicato un'intervista in cui avremmo scritto le sue ragioni, senza omettere niente. Accettammo, anche se in realtà il governo socialista era stato, nel frattempo, sostituito da quello di destra di Aznar. Ma a noi interessava trovare le navi e non stemmo a sottilizzare troppo. Quando ci saremmo andati? Subito dopo l'uscita dell'intervista. A quanto pare, non c'era altra scelta. Ne approfittammo,

22 però, per ottenere qualche informazione: le torpe- diniere si trovavano tra i 95 e i 103 metri di pro- fondità, e no, non erano in assetto di navigazione, ma su un fianco, sì, probabilmente tutte e due, al- meno stando al segnale del l'ecoscandaglio. Quel- la che aveva visto Quino era appoggiata su uno sperone di roccia, con la prua protesa verso l'alto, l'altra era sprofondata nel fango. Erano molto lon- tane dalla costa? Silenzio. L’intervista su “Sub” uscì. E noi aspettammo di incassare la nostra parte dell'accordo. Ma una vol- ta c'era burrasca, un'altra volta il motore della "Nemo" era rotto, un'altra volta entrava acqua da un manicotto, un'altra volta ancora c'era una pic- cola embolia che imponeva riposo, la camera di decompressione che non funzionava, l'acqua troppo torbida, una corrente fortissima e, persino, la frattura di una gamba. E poi, quando tutto andava bene, Quino doveva recuperare il tempo perduto e "andare a corallo" per tirar su un po' di soldi. La situazione era frustrante. E intanto i giorni e i mesi passavano. Ma non stavamo con le mani in mano. Quino non era la nostra unica carta. Possibile che in tutti quegli anni nessun pescatore avesse mai agganciato le reti nei relitti del “PEGASO” e dell’ “IMPE- TUOSO”? Cominciammo a setacciare le banchine di Alcudia e di PoIlensa riservate ai pescherecci. Navi italiane affondate qui durante la guerra? La maggior parte di coloro che interrogavamo ci guardava sorpresa, scuotendo la testa. Qualcuno ci osservava con sospetto. Che cosa ci poteva essere in quelle navi che ci interessava così tanto? Esplosivo, armi, documenti, un tesoro? Un paio di vecchi pescatori, non di più, ammise di conoscere la storia delle navi italiane. Ma sapete dove sono? Ai largo, verso Minorca, ma sono a cento metri di profondità, non è possibile andarci. Le coordinate? Niente coordinate. Le mire a terra? Niente mire a terra. Ma nessuno sa dove sono? Sì, lo sa Quino, il corallaro. José Almagro è un fotografo subacqueo di Ciudadela molto bravo, che da tanti anni collabora con noi e conosce i fondali di Minorca come se fossero casa sua. Ma è anche un pescatore di superficie, abituato a filare lenze e trovare le mire a terra con un semplice colpo d'occhio. I suoi fratelli sono pescatori professionisti e lui stesso conosce bene l'ambiente dei pescatori. Si ricordò di avere alcu- ne amicizie a Pollensa e pensò di sfruttarle. Al primo colpo centrò il bersaglio, o almeno così pensavamo. Dopo qualche telefonata, arrivò per fax una serie di coordinate Loran, che avrebbe dovuto corrispondere al posto in cui si trovava una delle due torpediniere. Parola di pescatore. Tramutammo i dati in coordinate Gps ed esultammo: dopo tanti mesi, avevamo finalmente un punto dove cercare e su cui lavorare. Lo trasportammo sulla carta nautica e verificammo che, più o meno, era nella zona che avevamo selezionato a tavolino: a Nord di Pollensa e di Capo Formentor, tra Maiorca e Minorca, sull'orlo dell'abisso più profondo. Cominciarono, così, i viaggi per mare, con gli occhi fissi sull'ecoscandaglio e sul plotter del Gps. Viaggi che, ancora non lo sapevamo, si sarebbero protratti, con le sole interruzioni del mal tempo e delle numerose avarie che ci persegui- tarono, per quasi tre anni. Nonostante la stagione fosse ancora indietro, appena il mare ce lo permise salpammo da Cala'n Bosch. Meta: un punto in mare aperto a molte miglia di distanza. Il cielo era coperto e le onde erano increspate di bianco. La giornata non era delle più adatte alle immersioni profonde, ma noi, con José, volevamo soltanto scandagliare la zona per verificare se ci fosse o meno la presenza di un relitto. “PEGASO” e “IMPETUOSO” erano larghi circa nove metri e lunghi una novantina di metri, per cui, dando per buone le informazioni del corallaro, se le navi fossero state effettivamente appoggiate su un fianco, avremmo dovuto notare sull'ecoscandaglio un rilievo più o meno di quelle

23 dimensioni. Conoscevamo i fondali di Minorca, anche quelli profondi, e sapevamo che lontano dalla costa le secche rocciose era- no tutte basse: scogli scavati, mezzi affogati nel fango come scatole vuote rovesciate, sot- to le cui volte si nascondevano, numerosi, i pesci e i crostacei. Di conseguenza, se fossi- mo capitati su uno dei relitti delle due torpe- diniere, lo avremmo riconosciuto subito gra- zie alla sua altezza e al tipo di segnale che avremmo ricevuto. Almeno così pensavamo. Ma ci saremmo ricreduti presto. Quando fum- mo a meno di un miglio di distanza dal luogo indicatoci, rallentammo l'andatura e comin- ciammo a scandagliare. La scala dello stru- mento era stata tarata a 120 metri, ma lo scher- mo era rimasto vuoto, senza segnali di ritor- no. La profondità, dunque, era superiore a quella prevista. Mancava poco meno di un chilometro al punto d'arrivo. Proseguimrno verso Est, incuneandoci dolcemente nei cavi delle onde grigie. Minorca, bassa com'è, non si vedeva più da un pezzo; di Maiorca si indo- vinava, sulla sinistra, l'alto profilo delle mon- tagne della costa Nord. Stavamo per cambia- re la scala dell'apparecchio, arrendendoci con un certo disappunto all'evidenza, quando i primi segnali del sonar cominciarono ad arrivare. La linea del fondo era piatta come un nastro, ma saliva nella direzione in cui stavamo andando. Centoventi metri, cento-diciotto, centoquindici, centodieci. Riprendemmo entusiasmo. Forse... Centosei, centotre. Ecco, il profilo si era incurvato, la linea era quasi verticale, stava salendo: novantotto... E poi giù: cento, centodue, centocinque. Niente da fare, il fondo era ridisceso. Si trattava, evidentemente, di una roccia di piccole dimensioni. Ma... Cento, novantasette, novantatre. Eccola, finalmente, una delle due torpediniere. Non poteva essere altrimenti. La linea del fondo si era impennata e saliva, saliva, saliva ancora.. Novanta, ottantanove, ottantotto, ottantasette. Poi una curva stretta, e giù di nuovo, con un profilo ripido, fino a novantatre, novantaquattro metri. Un salto di sette metri! Se una parte della nave era affondata nel fango, come poteva essere, le misure collimavano. Ci abbracciammo esultanti. Dopo mesi di ricerche ce l'avevamo fatta per davvero? L’occhio cadde sul Gps e, accidenti, non eravamo ancora arrivati sul punto previsto. Mancava qualche centinaio di metri; ma era un’inezia. Insomma, non potevamo che essere sopra uno dei relitti, perché neppure José aveva mai visto uno scoglio così grande. Ci passammo e ripassammo su più volte. Lo zoom della sonda ci faceva vedere una gobba di un rosso intenso, segno che si trattava dl un oggetto compatto e duro: ferro! Il ferro della nave. Ci mettemmo sopra un pedagno e con il plotter al massimo dell’ingradimento verificammo la lunghezza del rilievo, cercando, con l’ecoscandaglio, di rimanere in cima. Quando ci rendemmo conto che eravamo tornati sui 95-96 metri; lanciammo in acqua un altro pedagno Poi ripetemmo l'operazione dalla parte opposta. Compreso trai due segnali più lontani, c'era il relitto. Ed era sicuramente il relitto di una delle torpediniere, perché, oltre alla larghezza, combaciava anche la lunghezza, a occhio e croce un centinaio di metri. Evvi- va! Cercammo subito la controprova. Se la gobba sul fondo fosse stata veramente una delle nostre

24 navi, nel giro di qualche centinaio di metri, a destra o a sinistra, ci sarebbe dovuta essere anche l'altra. Così, non perdemmo tempo e ci rimettemmo a cercare, aprendoci la strada fra le onde gonfie e scure. Tenendo al centro i pedagni che avevamo già in mare, cominciammo a fare giri concentrici sempre più larghi. Finché, su un fondale piatto di 106 - 108 metri, la linea colorata della sonda ebbe un altro sussulto, e si mise a salire e poi a ridiscendere: centotre, cento, novantasette, novantotto, cento, centoquattro, centosette... Anche in questo caso si poteva calcolare un'altezza dell'ostacolo che avevamo rilevato di sette od otto metri, pressappoco la larghezza delle torpediniere. Avevamo trovato pure la seconda nave? José ne era convinto, perché, se sul primo caso si poteva ragionevol- mente avere qualche dubbio, non era proprio possibile che ci fosse un'altra secca così grande nello spazio di qualche centinaio di metri. In quel mare, ripeteva José, le secche sono alte al massimo un paio di metri, tanto che sull’ecoscandaglio si notano appena. Facemmo scivolare in acqua il peda- gno e ripetemmo le manovre di poco prima, prendendo misure e riportando i dati sulla carta nauti- ca. Tutto combaciava ed eravamo talmente esultanti che non ci accorgemmo nemmeno che il mare era salito e il vento ruggiva minaccioso, innondandoci di spruzzi. Rimanemmo a terra per qualche giorno, finché la burrasca si quietò e si allontanò verso levante. Ripartimmo la prima mattinata di sole. Con noi, oltre a José, c'erano anche Vincenzo Palmiotta, che ci sosteneva con il suo ottimismo e aveva un fiuto incredibile per il bel tempo, e Claudio, che ci aveva appena raggiunto. Stavolta, nel gommone c'era tutto l'equipaggiamento per l'immersione. Lasciammo a casa la macchina fotografica, perché per il momento era sufficiente accertarsi che i punti trovati corrispondessero effettivamente a quelli delle due torpediniere. Scegliemmo quella meno profonda e la pedagnammo, buttandoci sopra due grossi sassi che ci eravamo portati dietro e ai quali avevamo legato cento metri di una grossa cima di nailon, di quelle che si usano per salpare le reti. A metà della sua lunghezza, avevamo assicurato un galleggiante giallo di plastica dura, che aveva il compito di mantenere verticale la parte più profonda della fune, che altrimenti, per via della corrente e del vento, avrebbe assunto una posizione obliqua, aumentando la strada necessaria per raggiungere il fondo. Al capo libero, legammo una boa e alla boa il gommone. Se avessimo usato l'ancora, avremmo dovuto filare troppa corda per non scarrocciare e la discesa lungo di essa sarebbe stata eccessivamente lenta a causa dell'inclinazione. Pietre e cima, poi, potevano rimanere sul posto per le immersioni successive e, alla fine, potevano essere abbandonate senza rimpianti. Ci preparammo. Saremmo scesi ve- loci, Claudio e Guido, mentre Flori, Vincenzo e José avrebbero vigilato in superficie, pronti a staccarsi eventual- mente dal pedagno per venire a recuperarci se per qualche ragione fos- simo risaliti in acqua libera dopo aver lanciato il pallone segnasub. Con la pesante attrezzatura addosso, scompa- rimmo rapidamente dalla loro vista. L’acqua era più scura del previsto e a 70 metri ci rendemmo conto che la vi- sibilità era davvero poca, per quelle parti: non più di una decina di metri. Rallentammo e ci lasciammo risuc- chiare lentamente dal baratro nero che ci aspettava più sotto. A 80 metri, al limite della parabola di luce della lampada da 100 watt che avevo sul dorso della mano sinistra, cominciai a vedere qualche macchia più chiara e a 89 metri mi trovai dritto in mezzo a un fitto bosco di gorgonie rosse screziate di giallo, con le pinne bene appoggiate su una roccia. Altro che ferro, altro che relitto! Eravamo finiti sulla sommità di una secca. Non nascondo che provai un sentimento di incredulità. Dov'era la nave che stavamo cercan-

25 do? Ci guardammo attorno, facendo roteare i fari, che bucavano l'acqua come se fosse notte fonda. Alla loro luce, però, apparivano solo gorgonie bicolori e nuvole di anthias rosa che ci osservavano quasi immobili. E pensare che nelle Baleari, per lo meno alle normali quote da autorespiratore, solitamente di gorgonie non ce ne sono. In- vece, guarda qui che ben di Dio. Mi venne in mente che, a suo tempo, Quino il coralla- ro ci aveva raccontato che la nave da lui vi- sta era appoggiata su una grande roccia, con la prua protesa verso l'alto. Il relitto, quin- di, poteva essere più in là, nascosto dall'ac- qua torbida e dall'oscurità. Lo stesso pen- siero doveva essere venuto anche a Clau- dio, che si mise a nuotare lungo il bordo della montagnola. Guido lo seguì, cercan- do di non perdere l'orientamento, ma ovun- que guardassimo vedevamo solo distese di Paramuricee. La profondità, intanto, era au- mentata: 95 metri. Stavamo uscendo dalla secca, ma del relitto nessuna traccia. Nem- meno pezzi di ferro sparsi nella sabbia o tra i sassi, niente. Tornammo indietro e cominciammo la lunga risalita. Eravamo delusi, e si capiva. Eravamo scesi convinti di trovarci davanti al “PEGASO”, o all’ “IMPETUOSO”, e, invece, avevamo visto solo pesci, gorgonie e qualche ramo di corallo, che, in altri momenti, ci avrebbe mandato in visibilio, ma che in quel contesto non ci interessava. Quando tornammo in barca, i nostri compagni quasi non volevano crederci: ma, state scherzando?, chiedevano. Macché, eravamo serissimi! Naturalmente, come sempre succede in questi casi, in superficie iniziarono i dubbi: magari il relitto era a destra, e noi eravamo andati a sinistra, chi lo sa. D'altro canto, la visibilità era talmente ridotta che era difficile avere certezze. Era possibile che il relitto fosse in un altro punto della secca, non potevamo escluderlo. Perciò dovevamo riprovare. Cosa che facemmo il giorno dopo. Scendemmo di nuovo lungo il pedagno e stavolta ci dirigemmo verso il lato opposto della collinetta sommersa. L’acqua era sempre cupa, la visibilità era sempre di pochi metri. Una parete alta cinque o sei metri cadeva dritta sulla sabbia, ma le gorgonie erano quasi tutte sul cucuzzolo, dritte e prote- se verso l'alto con rami veramente estesi, come filari di piante in un pioppeto. Passando, scorgeva- mo, sempre alla luce delle lampade, rami rossi come il fuoco spuntare dalle fessure: corallo. Dove- va essere un po' che Quino non si immergeva da quelle parti. Ma il relitto non c'era. Com'era possibile? I segnali della sonda, del resto, continuavano a trarci in inganno: se non avessimo visto con i nostri occhi che cosa c'era sul fondo, avremmo giurato che laggiù non poteva esserci altro che una delle torpediniere. La prova del nove sarebbe stato il secondo punto, quello in cui pensavamo che ci fosse l'altra nave. E' un caso che il mare a Nord delle Isole Baleari rimanga calmo per più di due o tre giorni di seguito. Infatti, il vento non tardò ad arrivare e noi rimanemmo a terra per più di una settimana. Nel frattempo, tentammo di verificare che le coordinate in nostro possesso non fossero sbagliate. Un cinque al posto di un tre può essere sufficiente per invalidare tutto. Riparlammo con il pescatore che ce le aveva date e lui confermò: i numeri erano quelli e le navi italiane erano là, lui ci andava a prendere i pagari. Ripartimmo pieni di speranza, trovammo il posto, pedagnammo e ci immergemmo. E anche questa volta ci trovammo a gironzolare su un fondale di 105 metri facendoci largo tra enormi ventagli di Paramuricee rosse e gialle. L’acqua era abbastanza limpida e consentiva una discreta visibilità. Eravamo su una secca e nessun indizio lasciava supporre che nelle vicinanze ci potesse essere

26 anche un relitto. Insomma, dovevamo ricominciare tutto da capo. E non sarebbe stata nemmeno l'ultima volta. La pressione psicologica su Quino non era mai stata interrotta. Di tanto in tanto gli telefonavamo per cercare di convincerlo a portarci sulle torpediniere, ma lui aveva sempre validissimi motivi per rimandare l'appuntamento. Tanto che cominciammo a credere che non si ricordasse più, con esat- tezza, dove fossero e tergiversasse per non fare brutta figura. In realtà, il corallaro non è tipo di farsi problemi di quel genere, ma noi ancora non lo sapevamo. La nostra attenzione, perciò, si concentrò su Maiorca. Se c'era qualcuno che avrebbe potuto aiutarci, l'avremmo trovato là. E dal cappello a cilindro di José spuntò, come per magia, un altro nome: Antoni Cifre Morro. Il "senor Antonio" aveva 82 anni e la mattina dell’11 settembre 1943 vide con i suoi occhi il “PEGASO” e l’ “IMPETUOSO” che affondavano. Era stato lui, assieme al padre, a correre con la sua barca da pesca vicino alle navi che scomparivano sotto la superficie del mare. Certo, era passa- to molto tempo, all'epoca aveva solamente 25 anni, ma il ricordo era vivo nella memoria. Le due navi da guerra erano colate a picco vicino alle nasse per le aragoste calate la sera prima. La super- ficie era sconvolta dalle gigantesche bolle d'aria che uscivano dagli scafi che precipitavano verso il fondo e i marinai italiani erano lì, sulle loro scialuppe, che guardavano zitti e commossi tutto quel disastro. Parecchi avevano gli occhi lucidi e sembravano essere a un funerale. Siccome le scialuppe dagli Italiani erano a remi, i pescatori li presero a rimorchio e lentamente li trainarono verso la Baia di Pollensa, da dove erano usciti nel cuore della notte dopo aver scaricato gran parte degli equipag- gi con i feriti e i superstiti della corazzata “Roma”, affondata dai tedeschi due giorni prima nelle acque delle Bocche di Bonifacio, tra la Corsica e la Sardegna. Molti dei marinai non erano d’accor- do con la decisione del comandante di autoaffondare le navi e brontolavano tra di loro. Quelle navi, dicevano, erano ancora nuove ed erano cariche di viveri. Buttare tutto quel cibo ai pesci era stato un vero peccato con la fame che c’era in giro. Incontrammo Antoni Cifre Morro al bar dello Yacht Club di Pollensa dopo aver par- lamentato a lungo con la figlia e il genero, che lo proteggevano e non volevano che si emozionasse troppo. Era un signore distin- to, che non aveva il tipico aspetto rude del pescatore. Il pescatore, infatti, lui aveva smesso di farlo subito dopo la fine della guerra, perché era un lavoro pesante, che non rendeva in proporzione alla fatica. Così era andato a fare il marinaio sul panfilo a vela di un ricco americano in crociera alle Baleari. E l’americano, poi, se lo era porta- to in America. Era stata una vita molto più facile, ma era stato via tanto tempo. Sì, la posizione delle navi se la ricordava, ma in modo appros- simativo. Dov’erano? Erano al largo, molto al largo. Dirlo così era difficile, bisognava andare in mare; allora, forse, dalla barca ci si poteva orizzontare meglio, forse si poteva riconoscere qualche mira a terra, ma lui in barca non ci poteva venire, sua figlia non glielo permetteva, per via dei polmoni malaticci. E poi non ci vedeva bene, a causa dell'età. Ma bisognava andare verso Minorca, un po’ più a Nord, o più a Sud? Beh, certamente più a Nord. Ma c’era qualcuno, oltre a lui, che poteva sapere dov’erano le navi italiane? Beh, si, i pescatori di aragoste lo sapevano certamente, però solo quelli che pescavano in alto mare. Non potevano non saperlo. E poi c'era un corallaro che lo sapeva: Quino, lo conoscevamo? Ricominciammo a frequentare le banchine. Ma sembrava che tutti pescassero sotto costa. Pensam- mo, allora, di andare a cercare i pescatori nel loro ambiente. La zona in cui erano nascoste le torpediniere, chilometro più, chilometro meno, eravamo convinti di averla localizzata. Ci armam-

27 mo di pazienza e, binocolo alla mano, iniziammo a im- portunare gli equipaggi dei pescherecci che incontra- vamo al lavoro nel canale. Quasi tutti ci prendevano per matti: navi italiane affondate? Ma va, quando era successo? Strano, perché non avevano sentito niente. E se fossero affondate per davvero, lo avrebbero senz'altro saputo. Ah, erano affondate durante la guer- ra? Tanti ci guardano trattenendo a stento le risate. Molti di loro a quell'epoca non erano neppure nati. D'altro canto, stando in bilico sul gommone al minimo, ba- dando a non finire nelle reti, e con il rumore dei motori accesi, non avevamo ne il tempo ne la possibilità di spiegare nei particolari che cosa stavamo cercando, e perché. Insomma, sapevano o no se in zona c'era-o dei relitti? No, non lo sapevano, o no, non c'erano? Qualcuno si spazientì. Un altro ci domandò, guardandoci negli occhi, se sapevamo che, comunque, là sotto c'erano più di cento metri di profondità. E quando gli rispondemmo di si, guardò il compagno e gli fece un gesto eloquente, portando un dito teso alla tempia e ruotandolo come un cavatappi. rendemmo conto che, quando lavorano, i pescatori non si fermano nemmeno un minuto e che, anche se avessero saputo qualcosa, non ci avrebbero detto niente per non correre rischio di perdere tempo. Adottammo un'al- tra strategia: e quando ci vedevamo il segnale di una rete per aragoste in un luogo che poteva - essere adatto ai nostri fini ci avvicinavamo e prendevamo nota dei dati di identificazione della barca. Il taccuino si riempì presto di nomi: "Sant'Antonio", "Hermosa", "El Toro", "Gua-", "Luisa", "Mi Vida", "Querida", eccetera. A quel punto stava risalire ai proprietari, telefonargli e, con calma, spiegare loro che cosa stavamo cercando. Semplice. Ma le barche da quale porto venivano? Ciudadela, Mahon, Pollensa, Alcudia, Cala Ratjada, Port Antonio, Porto Cristo... Se ne occupò José Almagro, che mise di mezzo le cooperative dei pescatori. E anche in questo caso arrivò nelle nostre mani una lunga lista di nomi. La maggior parte degli interpellati cadeva dalle nuvole, ma qualcuno ci diede una speranza. Sì, una volta, nella rete, aveva trovato un mitragliatore, un altro aveva trovato un siluro, un altro un fucile, una bomba, scarponi da soldato, proiettili, pugnali... A fatica, mettemmo insieme alcune serie di coordinate, che riportammo sulla mappa del canale. I punti erano abbastanza vicini l'uno all'altro, ma nessuno era uguale a un altro. Ogni pescatore diceva di sapere dov'erano le navi da guerra italiane, ma ogni pescatore indicava un posto diverso. Ovviamente ciò non era possibile, ma chi di quei pescatori aveva ragione? Bisognava andare a vedere. Iniziò una lunga stagione di esplorazioni, prima dalla superficie, con l'ecoscandaglio, e poi diretta- mente sott'acqua: secche rocciose e bucherellate come gruviera, sciami di aragoste, banchi di coral- lo, foreste di gorgonie rosse e fiorite, gronghi grossi come serpenti boa, cernie di fondale, tonni giganti passarono come in una lunga carrellata davanti ai nostri occhi. Il mondo dei 100 metri era scuro, freddo e lontano come lo spazio siderale, ma era affascinante. Piano piano lo stavamo sco- prendo. Dei relitti, però, nessuna traccia. Claudio Corti aveva il suo lavoro e veniva a Minorca soltanto una decina di giorni ogni due o tre mesi, perciò alcune immersioni le faceva Guido Pfeiffer da solo, con Flory e José che aspettavano in superficie e Jordi e Alejandro che si agregavano quando potevano e davano sicurezza con la loro presenza: nel caso di un incidente o di un malessere avrebbero saputo che cosa fare. Ma, proprio quando era solo Pfeiffer, non poteva fare immersioni tutti i giorni e, quindi, il lavoro procedeva a rilento. Per ridargli vigore, e velocizzarlo, fu importante il contributo di Maurizio Macori, il quale, benché fosse entrato da poco a far parte del nostro team di subacquei tecnici, era pieno di inventiva e di senso pratico. Maurizio arrivò con un congegno utilissimo: una microscopica telecamera inserita nella custodia di una lampada subacquea e collegata, tramite un cavo lungo più di cento metri, a uno schermo video installato sul gommone. Con una cima di nailon e una zavorra sistemate in maniera opportuna riuscivamo a far assumere alla telecamera un'angolazione ottimale per vede-

28 re il fondo in diagonale, e non solamente dall'alto, cosa che ci permetteva di capire meglio le dimensioni de- gli oggetti che si alternavano sul video. Quando pen- savamo di avere individuato un rilievo interessante, calavamo la telecamera, la quale ci trasmetteva, con eccezionale chiarezza, immagini di pesci, di gorgonie, di conchiglie, di scogli e di deserti sabbiosi. Ma nien- te che potesse assomigliare, nemmeno vagamente, a una nave affondata. Ora, dopo tre anni di ricerche, pensiamo di essere sicuramente fra i maggiori cono- scitori di questi fondali, i quali, a differenza di quelli che eravamo abituati a frequentare, sono caratteriz- zati da secche enormi, lunghe e strette, che, sul visore dell’ecoscandaglio, appaiono in tutto e per tutto simi- li a un relitto di grosse dimensioni. Purtroppo, il video subacqueo non durò molto. Una mattina, in cui, nonostante il mare gonfio e il cielo percorso da nuvole basse e nere, ci eravamo ugual- mente spinti a largo per controllare una nuova area sommersa, la sonda ci trasmise proprio quello che sembrava il profilo di un piroscafo coricato su un fian- co. Mettemmo in acqua la telecamera e cominciam- mo a fare giri concentrici intorno al punto che vole- vamo esaminare. E, in mezzo ai rami irregolari delle gorgonie appese alle rocce, scorgemmo chia- ramente una linea retta, che attraversava il video in diagonale. Era una cosa fatta dall'uomo, ma che cosa? Una cima. No, era troppo grossa... Un cavo, ecco, era un cavo. Si capiva che era giù da molto tempo, perché era completamente incrostato. Poteva essere un cavo attaccato a uno dei nostri relit- ti? Beh, sì, poteva esserlo. Anzi, era probabile, visto che ci trovavamo in mezzo al mare e che la gente non arrivava certo sino lì per buttar via una corda. Le onde, il vento e la corrente ci spostava- no, per cui eravamo costretti a fare continue evoluzioni sulle creste per mantenerci in posizione. E fu così che, all'improvviso, un colpo di mare ci fece girare su noi stessi e l'elica tranciò la fune della videocamera, che si oscurò e rimase per sempre negli abissi. Dopo qualche giorno, giunto Claudio sull’isola, tornammo sul posto e ci tuffammo per controllare se, assieme a quel cavo, ci fosse anche un relitto. A 107 metri, teso tra due grandi scogli, il cavo terminava nell'imbragatura di una rete a strascico, perduta chissà quando da un peschereccio sfor- tunato. Le lunghe esplorazioni per mare si succedevano una dopo l'altra, con i soli intervalli imposti dal brutto tempo. Molte volte, davanti a un segnale diverso, credemmo di avere raggiunto il nostro obiettivo e, ogni volta, fummo costretti a ricrederci dopo essere andati di persona a vedere che cosa ci fosse sul fondo. Il gommone, intanto, era stato sostituito da una barca più grossa, più sicura e più comoda, un Mako Open di circa dieci metri, dotato di due motori fuoribordo da 225 cavalli l'uno, che, tanto per essere coerenti con quanto stavamo facendo, era stato chiamato “PEGASO”. Gli spostamenti erano più rapidi e confortevoli anche con un equipaggio numeroso e con le pesanti attrezzature per l'immer- sione. Ma la barca era più impegnativa del gommone e troppo pesante per essere legata a un gavitello in mezzo al mare mentre i sommozzatori erano sott'acqua. Avevamo bisogno di qualcuno che se ne curasse. Del gruppo, perciò, entrò a far parte in maniera stabile Pere Caìafat Torres, detto Pera, che in breve diventò utilissimo come assistente di superficie. Era lui che seguiva le bolle mentre erava- mo in immersione, lui che ci aiutava a indossare le attrezzature, lui che recuperava i pesanti autorespiratori. La sua esperienza si dimostrò preziosa in tantissime occasioni, sia perché aveva

29 passato una vita navigando come comandante di due pescherecci, e quindi conosceva bene i segreti dei venti e delle correnti, sia perché, grazie al karaté, di cui è istrut- tore di quinto dan, aveva acquisito una sottile filosofia orientale che lo faceva rimanere sempre calmissimo e sorridente, tanto da avere su di noi un effetto tranquilliz- zante, specialmente quando, dopo l'ennesimo tuffo a vuoto, non sapevamo più che pista scegliere per prose- guire le ricerche ed eravamo facilmente irritabili. Quino continuava a rimandare gli appuntamenti. E le "mire", che man mano riuscivamo a ottenere da qualche marinaio che sosteneva di essere bene informato, si di- mostravano, una dopo l'altra, tutte fasulle. Al principio del 2001 iniziammo a pensare che non ce l'avremmo mai fatta a trovare le torpediniere e la nostra determinazione cominciò a vacillare. Non sapevamo che, in realtà, era- vamo arrivati molto vicini al luogo in cui “PEGASO” e “IMPETUOSO” riposavano ormai da quasi sessant'an- ni. Lo avremmo scoperto, però, molto presto.

30 All’inizio usavamo un gommone Novamarine

In seguito un Mako di 8 metri

Infine un Lurns di 10 metri

31 Guido Pfeiffer ritrova l’ “IMPETUOSO” All’inizio del 2001, l’ “Operazione PEGASO” era a un punto morto. Le torpediniere "PEGASO" e "IMPETUOSO", che avevano ricuperato parte dei naufraghi della corazzata "Roma" e poi erano state affondate dai loro equipaggi all'alba dell’ 11 settembre 1943, tra le isole di Maiorca e di Minorca, nelle Baleari, non erano ancora state trovate: dopo oltre due anni di ricerche. E, ciò che era peggio, non sapevamo più che piste seguire. Tutti i punti che eravamo andati a ispezionare, tra i 95 e i 110 metri di profondità, si erano rivelati, ai nostri occhi delusi, solo come grossi scogli ri- coperti di folti boschi di Paramuricee. Eravamo giunti alla conclusione che, in realtà, nessun pe- scatore di aragoste sapesse esattamente dov'era- no le navi da guerra italiane e che ognuno di co- loro che ci aveva dato le coordinate lo avesse fat- to in buona fede, senza, cioè, la volontà di pren- derci in giro. Dopo tutto, non erano mai stati lag- giù, negli abissi, a vedere. E quegli scogli, così duri, lunghi, alti e sottili, sullo schermo dell’ecoscandaglio potevano veramente essere scambiati per relitti. Ci avevamo creduto anche noi. Solo che noi eravamo stati sul fondo e avevamo visto che non era così, loro no. L’unico che sapeva qualcosa era Joaquin Angel Rodriguez Castelao, conosciuto come Quino: un vecchio, ma espertissimo, corallaro di Maiorca, che, a 67 anni compiuti, rimaneva per più di mez- z'ora fra i 95 e i 105 metri, respirando semplice aria atmosferica, senza venire punito ne dalla narcosi ne dalla eccessiva pressione parziale dell'ossigeno. Ma Quino non parlava. Erano ormai due anni che gli stavamo dietro, ma lui continuava a "nicchiare", senza dire sì, ma neanche no. Magnana, un dia, el proximo mes, veremos. Domani, un giorno, il prossimo mese, vedremo. Non ne potevamo più. Una delle ultime segnalazioni che avevamo avuto da un pescatore in pensione, Ignacio Bonas, che all'epoca dell'affondamento era un ragazzino, ci aveva portato in un'altra parte del canale tra Maiorca e Minorca, in una zona che non avevamo ancora preso in considerazione: bisognava allineare il "Palo" con la sommità di una punta del lunghissimo promontorio di Capo Formentor, mentre la "Farola" di Alcudia si doveva vedere e non vedere. Più che una segnalazione geografica, le parole del pescatore sembravano l'enunciazione di un oracolo. Qual era il "Palo"? E la punta, quale poteva essere delle tante che avevamo di fronte? E la "Farola", si doveva vedere, oppure no? Con José Almagro, un bravissimo subacqueo di Ciudadela che ci ha aiutato nella ricerca, passammo intere giornate nel tentativo di decifrare quelle mire. Avevamo anche un disegnino fatto con una matita sul tovagliolino di un bar per aiutarci. Ma il problema era che dal mare, una volta che sotto la chiglia della barca c'era la profondità giusta, la terra si vedeva appena: una lunga striscia scura e tormentata da cui spiccava qualche vetta più alta delle altre, mentre la "Farola" non si vedeva proprio a causa della foschia. Vai a capire qual è il "Palo", che scorre e va a coprire una punta che c'è dietro... E la "Farola", sarà nel punto giusto, o no? Mah. Navigammo in lungo e in largo per giorni senza arrivare ad alcun risultato. Inaspettatamente, a Jordi Moya e ad Alejandro Fernandez, i due medici iperbarici nostri amici, arrivò una telefonata da Barcellona: l'archivista di un canale televisivo, che qualche anno prima aveva mandato in onda un documentario su Quino, il corallaro, e che era stato da loro interpellato in proposito, aveva trovato il filmato che ci interessava. Ci aveva messo mesi, ma lo aveva trovato. Potevamo averlo? Certo, bastava pagare le spese. E così ci ritrovammo tutti davanti alla televisione a vedere le evoluzioni subacquee di Joaquin Angel Rodriguez Castelao con qualche anno di meno sulle spalle. E per qualche secondo vedemmo, dietro di lui, che si stava autoriprendendo con una telecamera di sua costruzione, una nuvola di anthias rosa e, dietro gli anthias, qualche cosa che

32 poteva anche non essere una parete di roc- cia, come, in verità, sembrava, ma un pez- zo di relitto. Che emozione! La cosa importante da stabilire era se quel filmato potesse essere utile alle nostre ri- cerche, oppure no. La parte subacquea era inservibile, perché non dava alcuna indi- cazione, ma quella esterna, chissà... Si ve- deva Quino che risaliva in barca e si to- glieva la muta prima di entrare nella ca- mera iperbarica e, per un attimo, si vede- vano le montagne di Maiorca, con cime e valli. Facemmo fare un ingrandimento del fotogramma che ci interessava e ci mettem- mo all'opera con carte nautiche, squadrette e compasso per ricavarne delle "mire". Il nostro morale era tornato alle stelle. Potevamo riprendere il mare con la speranza di combinare qualcosa di buo- no. I giorni successivi li passammo a navigare su e giù, al largo di Pollensa e di Alcudia, nel tentativo di riconoscere le vette che avevamo visto nel documentario e fare qualche allineamento. Ma, nono- stante gli sforzi di Pera, il marinaio, il cui compito era quello di assisterci in superficie ed era ormai diventato parte integrante dell'equipaggio, e di José, i riferimenti che pensavamo attendibili non facevano altro che portarci su un piatto deserto di sabbia e di fango situato 95 metri più in basso. Nemmeno un sasso alterava la monotonia del paesaggio. Facemmo presto a ridimensionare il no- stro ottimismo iniziale: dopo tutto, eravamo nella normalità. A casa, tentammo di riflettere. Che cosa non andava? Rivedemmo il video: Quino saliva in barca, si toglieva la muta, si intravedeva la costa. Mah, forse in televisione le montagne apparivano più alte di quanto a noi sembrava dal mare. Forse era soltanto una questione di prospettiva, ma con Josè decidemmo, comunque, di cambiare orario. A scandagliare non saremmo andati al mattino, come facevamo di solito per evitare il forte vento pomeridiano del canale, ma verso sera, quando la visibilità sarebbe stata migliore. E, infatti, quando fummo sul posto, ci sembrò di vedere tutto per la prima volta: la foschia si era dissolta, l'orizzonte si era ampliato e le montagne del filmato erano là, inconfondibili e chiare come in una fotografia, mentre prima erano totalmente invisibili. Quelle a cui avevamo fatto riferimento sino al giorno prima erano, in realtà, le basse colline costiere, che, per una strana combinazione del destino, avevano il medesimo profilo. Traguardammo i punti cospicui, mettemmo in funzio- ne l’ecoscandaglio ed ecco, come d'incanto, apparire sullo schermo l'inconfondibile siluette di un relitto: il fondo, a 96 metri, si impennava, saliva ripido sino a 87 metri e poi pre- cipitava a 95. Il disegno era rosso, come può esserlo solo un relitto, e tutt'in- torno c'era una fitta aureola di pesci, come solo un relitto po- teva averla. Il morale salì di nuovo. Ce l’avevamo fatta, fi- nalmente. Pedagnammo, pren- demmo le misure, tutto comba-

33 ciava. Facemmo due calcoli: se quella che avevamo appena individuato era veramente la nave trovata dal corallaro, in un raggio di circa cinquecento metri, ver- so il largo, ci sarebbe stata anche la seconda. Stimammo una rotta verosimile e la seguimmo. Dopo qualche cen- tinaio di metri, lo schermo della sonda si tinse di rosso per la se- conda volta nel giro di pochi minuti e la profondità passò repen- tinamente da 97 a 90 metri, per poi cadere poco oltre i 100. E anche lì nuvole di pesci facevano da contorno a quello che, in effetti, non poteva che essere un altro relitto, in considerazione, soprattutto, del colore e della consistenza del segnale. Ce l'aveva- mo fatta davvero. Le tombe abissali in cui riposavano i resti del “PEGASO” e dell’ “IMPETUOSO” per noi non erano più un se- greto. O, per lo meno, così credevamo. Qualche giorno dopo, organizzammo un'immersione esplorativa e decidemmo di cominciare dai primo punto rilevato, che ci sem- brava più attendibile, in quanto supportato dai riferimenti tratti dal video del corallaro. Lasciammo la nostra base di Cala’n Bosch, a Minorca, con la sicurezza di chi sa di vincere. Prua per 310 gradi, 30 miglia a 28 nodi. Il mare era piatto, e non poteva essere altrimenti, perché con noi c'era Vincenzo Palmiotta, un amico che, non si sa come facesse, riusciva a portare sempre con sé il bel tempo. Tanto che ormai andavamo a colpo sicuro: se Palmiotta diceva di sì, che sarebbe venuto in barca con noi, voleva dire che avremmo trovato sole e calma di vento. In superficie, l'acqua era limpida e luminosa. Ma, al cambio di miscela, a 30 metri, entrammo in un fitto banco di plancton, che funzionò come un filtro e oscurò il sole. Piombammo di colpo in una forte penombra, in cui la luce del faro, diretto verso il basso, entrava come una lama. Sessanta, settanta, ottanta, ecco, ancora più in basso, c'è qualcosa. Il relitto? Si, pare di sì, stavolta ci siamo, perché mi sembra di vedere una forma arrotondata. A 90 metri ci fermammo sbigottiti: poco più sotto vedevamo chiaramente uno scoglio a forma di panettone, con in cima alcuni ciuffi di gorgonie. Niente relitto, dunque. Neanche stavolta. Eravamo confusi: come poteva essere? Lentamente ci appoggiammo sullo scoglio: 95 metri. Si trattava di una grossa conformazione rocciosa piena di buchi, nei cui meandri, con la lampada, vedevamo bei rami di corallo rosso, grandi come una mano, mentre all'aperto crescevano i rametti giovani, simili a tanti alberelli piantati nel terreno. Ci guar- dammo in giro, la visibilità era limitata, ma non si vedeva nulla che lasciasse presupporre la presen- za di una nave affondata. Risalimmo senza nemmeno prendere un ramo di corallo: non avevamo niente per staccarlo senza rovinarlo e non avremmo saputo dove metterlo. E poi... accidenti al corallo! Non era quello che volevamo. Dopo la lunga sosta della decompressione, sbucammo in superficie. Flory, Pera e Vincenzo erano sorridenti, appoggiati al bordo della barca: allora, era il “PEGASO”, o l’ “IMPETUOSO”? Nessu- no dei due. Non era possibile! E invece era possibilissimo. La sotto c'era tanto corallo, ma nemme- no uno straccio di relitto, niente. Mentre ci toglievamo l'equipaggiamento, credo che tutti pensassimo di smetterla, una buona volta, di andare contro il destino. Se le torpediniere non si trovavano, voleva dire che "Qualcuno" aveva deciso così, e che quelle navi dovevano continuare il loro sonno eterno in un luogo sconosciuto. Nessuno di noi, però, ne era particolarmente convinto. Così, mentre stavamo navigando verso Minorca, avevamo già elaborato il piano per il giorno dopo: avremmo approfittato del bel tempo e saremmo andati a vedere il secondo punto. Claudio purtroppo doveva partire al mattino. Decidemmo quindi che Guido sarebbe sceso da solo. Al gruppo si aggiunse fortunatamente Alejandro Fernandez, il quale non si sarebbe limitato ad assicurare l’assistenza medica in superficie, ma sarebbe venuto in acqua. Avrebbe aspettato Guido a 50 metri, sulla cima di discesa, respirando aria atmosferica, e poi sarebbe risalito con lui, facen- dogli compagnia durante la decompressione e, all'occorrenza, rifornendolo di nitrox o di ossigeno

34 se le sue scorte non fossero bastate. Guido ci racconta. La mia intenzione, nel caso, come era probabile, che non avessi trovato ciò che stavamo cercando, era quella di perlustrare bene il fondale prima di risalire, per essere assoluta- mente certo che il relitto non ci fosse. A costo di prolungare il tempo di fondo e, di conseguenza, quello della decompressione. Nonostante fossimo tutti d'accordo di andare a esplorare anche questo secondo punto, in realtà nessuno credeva nella buona riuscita della missione, perché ci rendevamo conto che essa era scatu- rita da un equivoco, e cioè dall'ipotesi, poi rivelatasi infondata, che la prima posizione suffragata dal filmato fosse esatta e corrispondesse a quella dì una delle navi. D'altro canto, non avremmo saputo che altro fare. Giunti sul posto, lanciammo il pedagno, ci preparammo e saltammo in acqua. Con addosso un tribombola da 40 litri, un ingombrante jacket tecnico, due bombole da fianco di 7 litri l'una e una muta stagna, vicino ad Alejandro, che indossava una muta umida e un monobombola, mi sentivo goffo e pesante come un palombaro. Per non perdere subito contatto con il mio compagno, scesi abbastanza piano. A 30 metri, cambiai ero- gatore, prendendo quello del trimix, feci un cenno di saluto ad Alejandro, che si fermò lì ad aspettarmi, e mi lasciai in- ghiottire dalla coltre scura dello strato di plancton, esatta- mente come il giorno prima. Sotto di me, la luce del faro veniva assorbita da un baratro nero e uniforme. Settanta metri: niente, ancora non si vedeva niente. Ottanta: si cominciava a intravedere qualcosa di più chiaro. Ottantacinque: mi fermai gonfiando il jacket e facendo for- za sulla cima del pedagno. Possibile che avessi le allucina- zioni pur respirando una miscela trimix? Sotto di me si in- dovinava la lunga forma dello scafo di una grande nave ada- giata su un fianco. Ripresi a scendere lentamente. Novanta metri: quasi non ci credevo, era proprio una delle torpedi- niere. Il pesante pedagno di piombo era finito sul fango a pochi metri dalla fiancata, che raggiunsi mentre mi guardavo intorno ancora incredulo. Ma davvero non ero sotto l'effetto della narcosi da azoto? Ero proprio sul “PEGASO”, o sull’ “IMPETUOSO”? La coperta della nave era una parete verticale che, qualche metro più sotto, affondava nel fango grigio e limaccioso. Non era una parete levigata, bensì interrotta da mille appigli, grandi e piccoli, oggetti irriconoscibili, ricoperti da uno spesso strato di molluschi bivalvi. La confusione era indescrivibile. Alcune di quelle masse informi di metallo incrostato erano gigan- tesche e ce n'erano di quadrate e di tondeggianti; altre erano poco più grandi di un uomo e parzial- mente ricurve. Chissà, forse erano mitragliatrici, lanciasiluri, cannoncini binati, lanciabombe di profondità, gruette per le scialuppe. Lo scafo scompariva nella foschia senza luce. Ne vedevo solo un pezzo. Dov'ero? In quale zona della nave ero caduto? Mi affidai al caso e mi spostai tenendo la torpediniera alla mia destra. Procedevo stando un paio di metri più giù della fiancata, in modo che questa mi riparasse dalla corrente, che, con tutte le bombole che avevo addosso, mi ostacolava. Nuotavo in mezzo a fitte nuvole di anthias rosa, i quali, abbagliati dalla mia lampada, se ne stavano immobili e proiettavano le loro ombre sulle sovrastrutture della torpediniera. Dopo una decina di metri, riconobbi la forma di un grosso cannone. E dopo un'altra decina di metri vidi un'antenna, munita di crocette, spezzata e appoggiata sul fondo. Subito prima dell'antenna c'era una voluminosa massa metallica carenata: era il fumaiolo? Sì, era sicuramente il fumaiolo, la forma era inconfondibile. Allora, li vicino doveva esserci anche il ponte di comando. E, infatti, c'era. Eccolo lì, appena sotto di me. Rimasi meravigliato, perché mi aspettavo che fosse molto più imponente. Invece, quasi non lo vedevo. Era a livello del fondale ed era seppellito nel fango per

35 almeno una meta. Si notava la sagoma quadrata delle finestre della timoneria. I vetri erano intatti, ma ricoperti di fanghiglia, per cui non si poteva guardare all'interno. Mi appoggiai lì vicino e tentai di scoprire dove fosse la porta d'ingresso. Stando ai disegni, che avevamo a lungo esaminato a terra, sarebbe dovuta essere in corrispondenza di un balconcino laterale. Ma non la vidi. Tornai indietro, facendomi strada tra gli anthias, che si lasciavano addirit- tura spingere. All'interno di un ponte scoperto notai una fila di oblò rotondi, dai bordi irregolari a causa delle incrostazioni. Erano aperti e così curiosai dentro il più vicino: anche l'interno della nave era pieno di milioni di pesciolini rosa, che ricoprivano le pareti di piccole e innumerevoli ombre, aumentando la confusione. Mi resi conto che tutto era coperto di fango e che non sarebbe stato facile entrare, dato che gli spazi mi sembravano angusti e ingombri di travi e materiale ammassato alla rinfusa, probabilmente in seguito all’urto contro il fondo, avvenuto in quel lontano 11 settem- bre del 1943, dopo che l'equipaggio aveva aperto le prese a mare della sala macchine e aveva lasciato che l'acqua inondasse prima le sentine e poi tutta la nave. Erano passati diciassette minuti quando iniziai la risalita. Profondità massima raggiunta, 98 metri. Alejandro era rimasto per tutto il tempo a 30 metri ad aspettarmi. Arrivato alla sua altezza, ignorai volutamente i suoi gesti interrogativi e, con calma, cambiai l’erogatore del trimix con quello dell'EANx. Poi, con il pollice e l'indice aperti, gli feci un gesto negativo. Ma i miei oc- chi esprimevano gioia e non rabbia. Perciò Alejandro capì che lo stavo prendendo in giro ed esultò, sollevando un pugno in segno di vittoria. Era pro- prio vero, ce l’avevamo fatta, una torpediniera era stata tro- vata e per l'altra sarebbe stato, ormai, questione di poco. Ma anche su questo ci stavamo sbagliando, e ce ne rendemmo conto nei giorni successivi. Era il 23 giugno 2001. Da quando decidemmo di metter- ci sulle tracce del “PEGASO” e dell’ “IMPETUOSO”, erano passati circa tre anni. Alejandro non era riuscito a contenere il suo entusiasmo e così, mentre Guido era ancora fermo all'ultima tappa di decompressione, lui, che si era già desaturato, era spuntato con la testa fuori dall'acqua e si era messo a urlare tutta la sua felicità, subito imitato dagli altri, che aspettavano in barca e, in cuor loro, temevano un ennesimo fallimento, viste le premesse del giorno prima. A terra tentammo di ragionare e di capirci qualcosa. Una delle due torpediniere era stata trovata, e di questo eravamo sicuri. Paradossalmente, però, era stata trovata in un punto che non corrisponde- va ad alcuna segnalazione certa, ma era frutto di una ricostruzione fantastica, basata su dati che, a loro volta, erano stati liberamente interpretati dopo aver visionato il video del corallaro. Tanto è vero che le coordinate ricavate da quei pochi secondi di filmato si erano rivelate fasulle, perchè ero stato laggiù e avevo visto soltanto rocce. A meno che... A meno che non avessi guardato bene e la nave si trovasse in una zona della secca dove non ero arrivato. Più ci pensavamo, più ci convincevamo di essere capitati sulla torpediniera affondata dalla parte del mare aperto e, quindi, su quella dove Quino non era andato. Ci venivano in mente le sue parole di tanti mesi prima. Il corallaro aveva detto che la prua era appoggiata su una roccia ed era protesa verso l'alto, verso la luce della superficie. Lo scafo che aveva visto Guido era, invece, semi som-

36 merso nel fango, proprio come sarebbe dovuta essere l'altra nave, almeno secondo quanto ci era stato raccontato. Deducemmo, quindi, che la torpediniera che mancava all'appello doveva essere sicuramente tra quella da noi trovata e l'isola dì Maiorca. Uno degli interrogativi a cui dovevamo dare una risposta riguardava il nome. Guido ero sceso sul relitto del “PEGASO”, o su quello dell’ “IMPETUOSO”? Avevamo avuto quasi tre anni di tempo per studiare le fotografie d'epoca delle due navi e i loro disegni di costruzione, messi gentilmente a nostra disposizio- ne dall'Archivio Storico della Marina Militare. Ma le differenze che eravamo riusciti a evidenziare erano pochissime: il “PEGASO” era lungo 90 metri e lar- go 9 metri e 70 centimetri; l’ “IMPE- TUOSO” era lungo 88 metri e largo 10 metri. C'era qualche diversità negli ar- mamenti, ma non era facile accorgersene, in quanto, come avevo potuto toccare con mano, tutto era stato ricoperto da uno strato di spugne incro- stanti e di molluschi bivalvi spesso più di venti centimetri. Senza contare che le due unità, nel corso del conflitto, erano state modificate più volte, specialmente nella dotazione di cannoncini e di mitragliere. La differenza più facilmente rilevabile era il disegno del ponte di comando: nel “PEGASO” i balconcini laterali erano arrotondati, mentre nell’ ”IMPETUOSO” erano squadrati; il “PEGASO” aveva la sommità della tuga sagomata, con una appendice che sporgeva verso prua, l’ “IMPETUO- SO” ce l'aveva quasi perfettamente rotonda, simile a una torretta fortificata, con però un piccolo balconcino verso prua a sostegno dell’antenna dell’ecogoniometro. Ripensando all'immersione sulla "nostra" torpediniera, Guido non ricordava bene il particolare della tuga, che assomigliava vaga- mente a una gigantesca caffettiera, ma, purtroppo, riguardando le fotografie che aveva fatto in quell'occasione, non trovava alcuna conferma di ciò che aveva nella memoria. Dubbi, dubbi e ancora dubbi! Possibile che nell’ ”Operazione PEGASO” non ci fosse mai niente di certo? Finalizzammo le successive esplorazioni della nave alla sua identificazione e alla realizzazione del necessario materiale fotografico. Riuscire a leggere un nome su qualche salvagente abbandonato era impossibile dopo 60 anni; le scialuppe e le zattere di sal- vataggio potevano averlo, scritto sui fianchi, ma a bordo non ce n'erano al momento dell'affondamento, perché erano state usate per sbarcare l'equipaggio e i naufraghi della corazzata "Roma". Il nome, ci dissero negli alti comandi della Marina, sulle navi da guerra è di solito scritto sulle fiancate, verso poppa, in rilievo e con caratteri di ottone. Ma sovente veniva tolto, specialmente quando le navi erano in missione. E la campana? Si, sulla campana il nome c'era, ma anche la cam- pana era facoltativa, se dava fastidio, il comandante dava or- dine di levarla. Accadeva raramente che ci si potesse immergere per più di due o tre giorni di fila, perché quasi sempre il vento e il mare si opponevano. Se non era la tramontana, era il libeccio, op- pure il grecale, il levante, il ponente, lo scirocco, il maestrale.

37 Essendo, le Baleari, in mezzo al Mediterraneo Occidentale, e praticamente a tiro del Golfo del Leone, non c'è rischio di rimanere in calma piatta. Di aria ce n'è sempre. Perciò non riu- scivamo a pedagnare in maniera stabile il re- litto. Quando, dopo qualche giorno di burra- sca, tornavamo sul posto per fare un'altra im- mersione, il pedagno precedente era scompar- so e dovevamo buttarne un altro, che cadeva dove capitava. Così adottammo il sistema della cima di discesa volante: individuavamo il punto che ci interessava con il Gps e con l’ecoscandaglio e lanciavamo in mare una robusta cima, legata da una parte a un piom- bo a cilindro pesante una quindicina di chili e dall'altra a una vistosa boa arancione. Termi- nata l'immersione, recuperavamo il tutto per mezzo di un argano elettrico. Avevamo rispar- miato sulle cime, è vero, ma ogni volta era come fare un temo al lotto: in quale parte del- la nave saremmo capitati? Chissà perché, ma il fatto che fossero stati i loro stessi equipaggi ad affondarle, aprendo semplicemente le valvole, ci aveva fatto im- maginare che le torpediniere fossero integre e in ottime condizioni. Di conseguenza, rima- nemmo male quando mi rendemmo conto che non era così. La torpediniera che avevamo trovato, e alla quale ancora non avevamo dato un nome, aveva, in effetti, l'aspetto di un fantasma, di un corpo in disfacimento. Alcune strutture erano crollate, o erano state divorate dalla ruggine, altre erano semi ricoperte di un fango vischioso e denso che riportava alla mente i malconci bendaggi di una mummia. La visione d'insieme, insomma, era abbastanza impressionante. La forma del ponte di comando aveva fatto subito propendere Guido per il relitto del “PEGASO”. Ma, in una delle successive immersioni, con Claudio Corti, che da tanti anni effettua immersioni profonde e fa parte dei fotografi della rivista “SUB” e che, quando poteva ogni due o tre mesi, veniva una decina di giorni ad aiutarci, fotografammo uno strano oggetto, comple- tamente inglobato in un sudario di ostriche, che poi si rivelò per essere un cannoncino situato in mez- zo a una piazzola sopraelevata, anche se le canne, in realtà, erano diven- tate un'unica canna di gros- so calibro, molto corta e toz- za. Una postazione di quel tipo la trovammo nei dise- gni dell’ “IMPETUOSO”, ma non sul “PEGASO”. Ciò riportò in alto mare le con-

38 getture sul nome. Purtroppo, le foto fatte al ponte di comando non erano sufficienti per svelare il particolare della tuga. Ten- tammo, ovviamente, di tornare sul ponte di comando, ma non ci riuscimmo subito. Una volta capitammo a prua, un'altra vol- ta a poppa, un'altra volta a metà tra il fu- maiolo e la poppa. E pure quando erava- mo nelle vicinanze, e sarebbe bastata una breve pinneggiata per arrivare sull'obiet- tivo, succedeva qualcosa per cui ci distra- evamo, perdevamo minuti preziosi e ri- mandavamo la verifica a un'immersione successiva. Sulla fiancata di poppa, ci concentrammo per individuare il nome della nave. All’al- tezza delle eliche, ci era stato detto da un ufficiale anziano della Marina, bisogna- va andare su, con una linea retta, verso il fianco, e da lì verso prua. Nelle successi- ve immersioni controllammo sempre le fiancate delle navi tentando di individua- re qualcosa, in rilievo, che potesse asso- migliare a una serie di lettere dell'alfabe- to. Ma non fummo fortunati. Provammo anche a raschiare via un po' dello strato di incrostazioni che ricoprivano lo scafo. Tutto inutile. Un ulteriore motivo di confusione fu la determinazione dell’orientamento della torpediniera rispet- to al fondale. I pochi pescatori che avevano ammesso di sapere qualcosa sulla storia delle "navi italiane" erano stati tutti concordi nell'affermare che "los distructores", come li chiamavano loro, al momento dell'affondamento stavano navigando verso Nord e, quindi, che sul fondo del mare la prua era rivolta verso il largo e la poppa verso Maiorca. In effetti, come verificammo con i nostri strumenti di bordo, il relitto era sistemato nella posizione descritta, per cui non prendemmo neppu- re in considerazione l'ipotesi che non fosse così: la prua verso il largo e la poppa verso terra. Ma durante un'immersione solitaria, un gior- no che Guido dimenticò a terra il cappuc- cio della muta stagna e non trovò niente che potesse sostituirlo, Claudio sostenne di essere andato dal pedagno a poppa, che aveva raggiunto dopo qualche decina di metri. E noi, in superficie, vedemmo che le bolle di scarico del suo autorespiratore si erano dirette dal pedagno verso il mare aperto. La nave giace quindi con la prua per 175 gradi e la poppa per 355. Tutto all'opposto di quanto si pensasse. Durante un'altra immersione, quando toc- cammo il fondo ci accorgemmo che il pe- dagno non era caduto esattamente sul re- litto a causa di una fastidiosa corrente di

39 superficie, che aveva fatto scorrere la barca men- tre il piombo stava ancora scendendo. L’ombra della nave, però, era visibile, per cui Claudio si diresse subito verso l'imponente massa scura di- stante una ventina di metri. Guido perse tempo a legare il filo del rocchetto alla cima di discesa e, quando, a sua volta, raggiunse il relitto, non ve- deva più il suo compagno. Sulla sua sinistra, scor- geva appena la sagoma del fumaiolo; sulla sua destra, lo scafo si perdeva nella foschia. Non sa- pendo dove andare per riunirsi a Claudio, preferì rimanere nei paraggi e tentare di identificare qual- cuno dei voluminosi oggetti che spuntavano dal- la coperta. Agganciò il rocchetto a un tientibene e si dedicò alla fotografia. Pochi minuti dopo, vide Claudio che tornava: era stato a destra, lui vedeva Guido grazie alla sua lampada accesa, Guido non riusciva a vederlo, perché il suo faro si era spento. Più tardi, in superficie, Claudio rac- contò di aver raggiunto la prua. E questa volta non c'erano dubbi, aveva visto gli argani delle ancore. Una conferma in più che quella torpedi- niera fosse, effettivamente, appoggiata sul fian- co destro. Piano piano, una discesa dopo l'altra, cominciammo a riconoscere la zona della nave in cui ci trovavamo. Era incredibile la quantità di materiale che si era accatastato alla base della coperta, tenendo presente che la maggior parte di esso doveva certamente essere sepolto nel fango. Frugan- do con calma e pazienza fra quelle cose, rese irriconoscibili e tutte uguali da spugne e bivalvi, chissà quanti reperti si potevano trovare. Ma ci voleva tempo e noi, nonostante le numerose immer- sioni, non eravamo nemmeno riusciti a esplorare tutto lo scafo, protetto, oltre che dalla profondità proibitiva e dalla caligine, da un fitto e palpitante scudo vivente, composto da milioni e milioni di pesciolini, che abitavano tra quelle lamiere e non se ne allontanavano mai. Sovente erano così tanti e vicini l'uno all'altro da impedire di vedere che cosa ci fosse dietro di loro. Un giorno eravamo scesi al centro della nave, mentre Claudio era tornato a controllare il relitto verso prua, Guido da solo era scivolato oltre il trincarino per raggiungere il grande cannone ancora solidamente avvinghiato alla piattaforma rinforzata del ponte, ci racconta. Mi accorsi che, oltre lo strato di anthias e di pescetti argentei che mi nascondeva la coperta, doveva esserci qualcosa: la luce della lampada passava e non rimbalzava come qualche metro prima. Mi fermai, spostai con un braccio i pesci e mi resi conto che dall'altra parte della cortina brulicante c'era un vano, come un grande boccaporto. Avanzai guardingo, e mi trovai in un grande buco. Due grosse cernie di fondale mi stavano guardando con occhi grossi e sporgenti. Erano nere e, se la luce del faro non le avesse investite, non le avrei viste. I pescioni si girarono senza fretta e si inoltrarono nello squarcio, abba- stanza grande per consentirmi di entrare a mia volta senza il timore di rimanere impigliato da qualche parte. Sotto la coperta partivano due corridoi, affiancati, che si dirigevano verso il centro della nave. Visti dalla mia posizione, erano divisi solamente da una sottile paratia di ferro. Sulle pareti c'erano molti tubi, alcuni dei quali divelti. Seguii le cernie, che erano ormai lontane, al limite della luce, e subito dopo scomparvero nel buio. Cercavo di riconoscere ciò che vedevo: ruote, argani, ingranaggi. Ovunque, però, c'era uno spesso strato di fango. Più avanti, il passaggio si restringeva, la visibilità diminuiva a causa della sospensione. Non me la sentii di proseguire e tornai indietro.

40 A casa, davanti ai documenti in nostro possesso, tentammo di ca- pire che cosa poteva essere acca- duto. Ed era chiaro che su quella nave la corrosione aveva agito tanto da aprire un cratere di tre o quattro metri di diametro. Le pareti rinfor- zate dello scafo avevano resistito meglio, ma la coperta era molto consumata dagli anni passati in fondo al mare. In nessuno dei rap- porti che avevamo a disposizione infatti si faceva cenno a incidenti. Si parlava di due battaglie molto cruente, di proiettili che esplode- vano tanto vicino alla nave da inondarla d'acqua, ma non c'era scritto da nessuna parte che la tor- pediniera fosse stata centrata in maniera grave. Cose da poco, scri- veva il capitano di fregata Riccardo Imperiali, comandante del “PEGASO”, avarie di poco conto. Ma intorno a lui era crolla- to tutto ciò in cui credeva: l'antico nemico era diventato amico e l'amico, nemico. Un cambio tanto repentino e inaspettato era diffici- le da capire, anche per un ufficiale addestrato a ubbidire agli ordini senza discutere, persino a sacrifi- care la sua vita per il bene della Patria. L’affondamento della torpediniera avrebbe risolto ogni dubbio in maniera onorevole. Imperiali si convinse che non c'era altra strada. E fu così che il “PEGASO” e l’ “IMPETUOSO” raggiunsero gli abissi, dove avrebbero dormito indisturbati per sessant'anni. Fino al nostro arrivo.

Nota di Claudio Corti. Alla luce della più fedele ricostruzione dei fatti, fatta successivamente, risulta che il corallaro si era immerso solo sul relitto dell’altra nave, quindi guido Pfeiffer fu in assoluto il primo subacqueo a scendere sul relitto dell’ “IMPETUOSO” dal giorno del suo affondamento.

41 Il comandante dell’ “IMPETUOSO” Medaglia d’Oro al Valore Militare, Giuseppe Cigala Fulgosi prende il punto quando era al comando del “Saggitario”.

Quì a La Spezia quando aveva già assunto il comando dell’ “IMPETUOSO”: (foto arch. Ferrentino)

42 Una delle a mascotte dell’ “IMPETUOSO” l’altra era un gatto.

Equipaggio dell’ “IMPETUOSO” durante l’addestramento a La Spezia prima dell’8 settembre.

(foto arch. Luccioli)

43 Il Cav. Arturo Luccioli, nella foto sopra e nella foto a destra scattata a Caldas de Malavelia, vicino a Gerona ove sorge l’Hotel Vichi Catalan, visibile sullo sfondo, dove furono ospitati i marinai Italiani (Luccioli è quello inginocchiato al centro).

Nella foto sotto parte dell’equipaggio dell’ “IMPETUOSO” ad Andraix sull’Isola di Maiorca. (foto arch. Luccioli)

44 TORPEDINIERE CLASSE <>

Unità; Ciclone, Ardito, Tifone, Animoso, Fortunale, Groppo, Uragano, Ardente, Monsone, Ardimentoso, Aliseo, Impavido, Impetuoso, Ghibli, Indomito, Intrepido.

Tipo migliorato, elaborazione del Comitato Progetto Navi. Con sensibile aumento del disloccamento e potenziamento dell’armamento contraereo e antisommergibile.

CARATTERISTICHE PRINCIPALI

Disloccamento: 925s. - 1652 c.n. -

Armanento originario: 4 x LS450 in impianti binati , 3 x 100/47 singoli, 6 x 20/70 binate, 2 x 20/ 70 singole, 4 x Lanciabas tedeschi,

Apparato generatore e motore: 2 Caldaie Yarrow con surriscaldatori - Turbine Tosi-Parson per complessivi 16.000 HP - 2 eliche - velocità 25 nodi -

Automonia: 2800/14 - 2140/20 - 1400/25

Lunghezza: 87,75 mt

Larghezza: 9,90 mt

Immersione media: 3,77 mt.

Equipaggio: 7/170

IMPETUOSO: Cantiere di costruzione: Cantieri Navali del Tirreno, Riva trigoso (GE) Impostata: 15/8/1941 Varata: 20/4/1943 Consegnata: 7/6/1943 Affondata: 11/9/1943

45 46 Il Ritrovamento del “PEGASO” Dopo tre anni di ricerche, il ritrova- mento dell’ “IMPETUOSO” ci ave- va fatto credere di essere arrivati alla fine delle nostre peripezie. La torpe- diniera gemella, il “PEGASO”, non poteva essere lontana. Quando, al- l’alba dell’11 settembre 1943, le due navi vennero affondate dai loro equi- paggi nel canale che divide l'isola di Maiorca da quella di Minorca, nel- l'Arcipelago delle Baleari, esse non distavano l'una dall'altra più di cin- quecento metri. Nella notte, erano uscite affiancate dalla lunga e ampia Baia di Pollensa, dopo aver sbarcato i naufraghi feriti della corazzata "Roma" e fatto scendere in acqua nel mezzo della baia la maggior parte dei marinai. E, sempre affiancate a non più di 500 metri una dall’altra, si erano dirette verso la loro ultima destinazione, quella che da lì a poche ore sarebbe diventata il loro liquido e silenzioso sepolcro, stimato dai comandanti Imperiali e Cigala Fulgosi, a oltre 100 metri di profondità, dove nessun mezzo subacqueo di quei tempi si sarebbe mai potuto avventurare. Antoni Cifre Morro, che all'epoca era un giovanotto di 25 anni e oggi è un pensionato di 84 anni, le aveva viste affondare, una dopo l’altra, dalla coperta del piccolo peschereccio del padre. Erano andate giù tutte e due di poppa, quella più al largo era un poco più avanti, ed era caduta nel "bianco", che nel gergo dei pescatori è un piatto fondale di fango, mentre quella più a terra era andata a posarsi in una zona irta di scogli, che gli aragostai conoscevano bene. Joaquin Angel Rodriguez Castelao, un corallaro conosciuto come Quino, che nell’86 ne aveva scoperta una per caso, pensando di scendere su una roccia piena di "oro rosso", ci aveva raccontato che la prua della nave da lui vista era appoggiata a una rupe ed era inclinata verso l'alto. Nonostante non avesse mai voluto rivelare ad altri il suo segreto. Mettendo insieme le parole di Antoni Cifre Morro, quelle di Quino e alcuni dati che avevamo ricavato dai documenti della Marina in nostro possesso, ci eravamo convinti che la nave da noi trovata in maniera molto fortunosa fosse l’ “IMPETUOSO” e fosse quella più al largo, finita su un fondale di fango denso e vischioso. Durante le nostre immersioni, infatti, ci eravamo resi conto che la torpediniera era appoggiata sul fianco di dritta ed era sepolta per circa 1/4 della sua larghezza nel fondo, e che la prua non era affatto protesa verso l'alto, come ci aveva raccontato il corallaro. Di conseguenza, deducemmo che il relitto che stavamo esplorando non era lo stesso visto da Quino. La nave che mancava all’appello doveva, quindi, essere nascosta per forza da qualche parte più verso terra, cioè tra l’ “IMPETUOSO” e Maiorca. A terra, rivedemmo tutte le informazioni di cui disponevamo, compreso il video, ricontrollammo sulla carta nautica tutti gli spostamenti e le perlustrazioni di tre anni di ricerche e, considerando che la posizione di una delle due torpediniere era, ormai, un dato di fatto, concludemmo che la seconda doveva per forza essere nel punto ricavato dalla visione del documentario. Non c'erano altre possi- bilità. Ma in quel punto ci eravamo già immersi e avevamo visto solo una grande secca! Sì, obiettò qualcuno, ma potevamo aver visto male, la nave poteva essere un poco più in là, sapete com'è, la profondità, lo stress... Insomma, saremmo ridiscesi nel medesimo luogo e avremmo fatto un'esplo- razione più a vasto raggio e più meticolosa. Alla fine di giugno le giornate sono molto lunghe. Partimmo presto, approfittando della calma del mattino per uscire dal canale, e, quando arrivammo sul posto, vedemmo in lontananza la barca di Quino che stava tornando lentamente verso Alcudia. Sicuramente, al timone cera uno dei suoi figli,

47 mentre il corallaro stava leg- gendo un fumetto all'interno della camera iperbarica, in- stallata a poppa. Quino, quin- di, lavorava ancora da quelle parti. Lanciammo il pedagno e ci preparammo per l'immersio- ne. FIory avrebbe, come sempre, vigilato e coordina- to le operazioni di assisten- za, mentre Pere Calafat Torres, Pera per gli amici, che da un anno e mezzo si era unito al nostro gruppo, avrebbe preparato la "stazione di decompressione" da mettere in acqua al momento opportuno. Avremmo, infatti, compiuto un'ampia perlustrazione del fondo, e per questa ragione saremmo scesi con un bibombola da trenta litri di trimix 12/52, che ci avrebbe dato una buona lucidità mentale e un'autonomia sufficiente sul fondo. Avremmo tenuto ai fianchi, due de- compressive contenenti Ean 40 e ossigeno puro. Se il tempo di fondo si fosse prolungato, le bom- bole da fianco non ci avrebbero consentito un'autonomia sufficiente per completare la desaturazione e, quindi, avremmo avuto bisogno di utilizzarne altre, che Pera avrebbe agganciato alla cima della stazione decompressiva: l’Ean a 12 metri e l’ossigeno a 6. A una boa viene assicurata una cima lunga dai dieci ai quindici metri, di generoso diametro per poter essere impugnata agevolmente; all'apice inferiore si lega un piombo, mentre ogni tre/cinque metri, a partire dalla superficie, si fissa un grosso moschettone, a cui si può agganciare una bombo- la di riserva. Lì tutto può essere tranquillamente messo in opera prima dell'immersione e unito alla cima di discesa tramite un altro moschettone, oppure assicurato alla sagola della boetta lanciata in superficie dal subacqueo qualora quest'ultimo decida di salire in un altro punto. In questi mari lasciare la "stazione" legata all'imbarcazione di appoggio non è mai conveniente, perché di solito la barca scarroccia più rapidamente dei sub, inclinando la cima di risalita, e risente maggiormente del moto ondoso, con l'inconveniente di far cambiare continuamente quota al poveretto che sì sta desaturando e che deve tenere d’occhio costantemente il profondimetro. Così facendo, si ha la sicurezza di non rimanere mai senza miscele decompressive, perché si possono predisporre in superficie tutte le riserve di cui si pensa di aver bisogno. Al limite, si potrebbe addirittura fare a meno di portarsi dietro le bom- bole da deco, cosa, però, che non abbiamo mai fatto per garantirci un ulteriore margine di sicurez- za. Non si può mai sapere che cosa succede in mare, metti che si spengano i motori della barca, che la cima si imbrogli, che il gal- leggiante si perda... Insomma, noi le nostre bombole per garantirci una deco sicura ce le siamo sem- pre portate giù e abbiamo sem-

48 pre lasciato a galla le eventuali scorte di emergenza. Terminata la vestizione, ci lasciammo ca- dere in acqua, raggiungemmo la boa del pedagno, controllati rapidamente gli stru- menti, sgonfiammo il jacket e iniziammo la discesa. A 30 metri, come d’abitudine, mi fermammo un attimo per fare il cam- bio di gas, riprendendo subito dopo, la strada per il fondo, ancora lontano e na- scosto da una fitta penombra. A 80 metri intravedemmo qualcosa, a 85 vedevamo distintamente sotto di noi il costone della secca, un salto verticale di roccia viva che finiva a 102 metri di profondità su un de- serto di sabbia. Le gorgonie erano fitte, quasi tutte sul cappello, con i polipi aper- ti di traverso alla corrente. Il relitto non c'era. Non ci sembrava lo stesso punto dell'altra volta, perché la parete era più ripida e netta. Ci muovemmo lungo il bor- do, scrutando al limite dell'orizzonte, ampio non più di una ventina di metri. E ci parve di vedere una massa scura, come un cupo profilo che si staccava dal buio incombente che ci avvolgeva. Sapevamo che in profondità sembra che "più in là" ci sia sempre una parete, o qualcosa di grosso, che ci aspetti. Credo che sia una questione legata al riflesso della luce, una specie di fata morgana degli abissi. Lo sapevamo, ma non potevamo escludere che ci fosse anche il relitto. Dopo tutto eravamo lì per cercarlo. Perciò ci allontanammo dal pedagno e seguim- mo oscuri sentieri fra rocce e gorgonie popolate da piccoli pesci che non avevano mai visto splen- dere il sole. Man mano che avanzavamo, l'illusione che davanti a noi ci fosse qualcosa era sempre più tangibile. Ma la distanza non diminuiva mai: l'indistinta parete nera, o relitto che fosse, conti- nuava a rimanere al limite della visibilità. Quanta strada avevamo fatto? Difficile dirlo con tutta l'attrezzatura che avevamo addosso e ci rallentava. Il computer al polso diceva che erano passati quindici minuti. Inutile continuare. Laggiù c'erano solo fate morgane, e gorgonie. Claudio afferrò la tanichetta con la sagola, che teneva appesa a un fianco, estrasse il palloncino, che aveva una capacità di 25 litri, e lo gonfiò con il gas espirato dall'erogatore. La sagola era abbastanza grossa da consentirci una risalita agevole. Era sufficiente mantenerci leggermente negativi per tenerla tesa. Flory vide la boetta arrivare in superficie, capì che non saremmo risaliti lungo il pedagno e la raggiunse, manovrando piano con la barca. Pera recuperò la sagola con il mezzomarinaio, la fece passare nel moschettone della stazione di decom- pressione e rilanciò tutto in mare. A - 20 metri incontrammo la zavorra, che galleggiava appesa al pallone, staccammo l'ombelicale che la tratteneva alla sagola con cui eravamo risaliti e ci lasciai andare con la corrente. Sopra di me, agganciate ai loro posti, c'erano le bombole di riserva dell’Ean 40 e dell'ossigeno puro. Quasi due ore dopo, recuperammo con una gruetta i pesanti tribombola che ci eravamo appena tolti e ci apprestammo a salpare il pedagno lungo cui eravamo scesi. Ma dov'era finito? Non si vedeva da nessuna parte. Un'occhiata al Gps ci fece capire che il vento e la corrente ci avevano spostato di circa un miglio. Un miglio? Ecco dov'era il nostro errore di partenza. Le montagne che si vedevano

49 nel fotogramma non corrispondevano al punto in cui Quino si era immerso, ma al punto in cui era uscito dall'acqua. Anche lui aveva fatto una parte della decompressione appeso a una cima e anche la sua barca si era spostata per qualche decina di minuti con il vento e la corrente. Sarebbe, dunque, bastato calcolare lo scarroccio per trovare la nave. Già, ma che vento c'era quel giorno? E che forza aveva? E la corrente? C'era corrente quel giorno? Dal video non si capiva. Il relitto che cercavamo, comunque, doveva essere nelle vicinanze. Con José studiammo un altro piano d'azione: saremmo andati sul posto e avremmo fatto "passare" il fondo sullo schermo dell’ecoscandaglio prima a sinistra e poi a destra della secca, cercando di mantenerci sulle medesime batimetriche, cioè tra i 95 e i 105 metri. In questo modo, pensavamo, il relitto non poteva sfuggirci. E così, il primo giorno di tempo buono salpammo con l'intenzione di non tornare a mani vuote. Mentre scandagliavamo, José e Pera tenevano contemporaneamente d'occhio la sonda e la costa lontana. E fu allora che José notò, nel profilo appena visibile delle montagne, il picco di una rupe che "scorreva" fino a mettersi in corrispondenza di una collinetta che c'era dietro, coprendola. Caspita, quello era sicuramente il "Palo", un segnale che avevamo cercato per mesi e mesi senza mai trovarlo. E se quello era il "Palo", ci doveva essere anche la "Farola" di Alcudia che si "vedeva e non vedeva". Infatti, guardando bene verso Maiorca con il binocolo, ecco, laggiù, la "Farola", che si indovinava più che vederla, nascosta com'era dalle asperità della scogliera. "Vedere e non vede- re'': quelle che, a suo tempo, ci sembrarono solo parole sibilline ora stavano per avere un significa- to. Eravamo euforici e tesi, il gusto della caccia era tornato. Sentivamo di essere vicini alla preda. L’ecoscandaglio mostrava un fondo frastagliato tra i 97 e i 100 metri. Ma! Che cos'erano quelle macchie gialle che spuntavano tra le onde poco più avanti? Erano barattoli, no, erano bottiglie di plastica pitturate di giallo che galleggiavano ballonzolando, con il collo rivolto verso il basso. Ci avvicinammo e vedemmo che le bottiglie erano legate a un lungo filo scuro che scompariva negli abissi. Sicuramente si trattava di pedagni. Pera si sporse, ne afferrò uno e tirò. Il pedagno resisteva, era legato sul fondo. Deducemmo che fosse un segnale lasciato da Quino, il corallaro. Ma di segna- li ce n'erano parecchi, Anzi, a ben vedere, facevano come un grande disegno nel mare, il disegno dì un ovale. Possibile che Quino avesse segnato il perimetro della nave con tanti pedagni uno in fila all'altro? Entrammo nell'immaginario recinto di galleggianti e subito notammo che il profilo del fondo si impennava e saliva: novanta, ottantasette, ottantacinque... Una curva stretta e giù di nuo- vo, fino a 98 metri. Era la torpediniera? Probabile, ma perché pedagnarla? Confrontammo il punto in cui ci trovavamo con quello della secca da cui eravamo partiti. Una barca alla deriva poteva andare da un punto al- l'altro nel tempo che al corallaro serviva per raggiungere l'ultima tap- pa di decompressione in acqua, prima del "salto" in camera? Beh, sì, po- teva, dipendeva dal ven- to. Riportammo il pun- to sulla carta nautica e constatammo che questo era messo bene anche ri- spetto alla posizione della torpediniera già

50 trovata. La distanza fra le due navi era un po' più di cinquecento metri, ma nessuno si era preso la briga di misurarla con il metro. E cento metri in più o in meno che differenza facevano? Ben presto ci rendemmo conto che il rilievo segnalato dallo strumento, e compreso fra le bottiglie di plastica, era l'unico della zona. Girandogli intorno non trovavamo che sabbia o fango. Bene, alla prima occasione saremmo andati a vedere. Viste le precedenti, cocenti delusioni, nessuno si sbilan- ciava più di tanto, però in cuor nostro eravamo tutti ottimisti. Perbacco, c'era il "Palo", e c'era anche la "Farola", che si "vedeva e non vedeva"! E poi la fortuna era girata, lo sentivamo. Ma per quale motivo Quino aveva messo tutti quei pedagni? Il giorno dopo tornammo sul posto, le condizioni erano ideali: poco vento, niente onde, acqua limpida. Che cosa si poteva volere di più? Il relitto, naturalmente. Ma per quello ci auguravamo che sarebbe stata solo una questione di minuti, il tempo di prepararsi e di scendere a vedere. Fu verso gli 80 metri che i sogni svanirono. Sotto di noi c'era la forma irregolare, tondeggiante, e ormai familiare, delle secche di quel tratto di mare: roccia spugnosa, scavata, piena di meandri. Isole di pietra in un mare di fango duro e compatto. Toccammo il fondo a 98 metri e ci guardammo intorno. A parte il solito "effetto parete" della fata morgana non vedevamo nient'altro che potesse assomigliare alla nave affonda- ta. Ci spostammo lungo il perimetro della secca, notammo parecchi rametti di corallo, troppo piccoli per essere raccolti, e, di tanto in tanto, le sottili cimette dei pedagni. Alcune di esse erano libere e fluttuavano nella corrente. Capii che quello era il posto di lavoro di Quino, il quale, ogni volta che risaliva in superficie dopo aver setacciato il fondo, segnalava il luogo mandando a galla un pedagno. Così, la vol- ta dopo, sarebbe sceso esattamente nel pun- to in cui aveva finito l'immersione prece- dente e non avrebbe perso tempo a esplora- re una parete già vista. Infatti, non scorsi neppure un ramo di buona misura, erano già stati tutti colti. Niente relitto, dunque. All'ombra del portico, seduti nella nostra base di Minorca, tentammo di riordinare le idee. Qualcuno cominciò a lasciarsi scap- pare il pensiero che, forse, potevamo ac- contentarci di averne trovata una sola, di torpediniera. Dopo tutto era già un bel suc- cesso. Ma la seconda torpediniera era lì, vicino all'altra, e su questo non c'erano dub- bi. Era impossibile non individuarla, nem- meno se la zona fosse stata piena di secche, come del resto era. Perciò non restava altro da fare che andare a vedere tutti gli scogli che avremmo incontrato. Siccome eravamo convinti che la seconda nave dell’ ”Opera- zione PEGASO” si trovasse verso Maiorca, rispetto a quella conosciuta, avremmo co- minciato dagli scogli di terra. E così facem- mo.

51 Prima di tutto ci "costruimmo" una mappa con tutti i rilievi importanti della zona. Passammo giorni e giorni a scandagliare e annotare coordinate geografiche, riportandole sulla carta. Una volta, pas- sando vicino al "nostro" relitto, notammo il segnale di una rete e, poco più in là, una barca. Ci avvicinammo e Pera, che parlava lo stesso gergo dei pescatori, essendo stato lui stesso per tanti anni comandante di un peschereccio, tentò di avere qualche informazione dagli uomini che stavano lavorando in coperta: noi sapevamo che sotto c'era il relitto di una nave italiana, loro sapevano, per caso, dove fosse la seconda? Ci guardarono. Una nave italiana? La sotto? Non ne sapevano niente. Ma la rete ci stava quasi sopra. Sì, ma sopra a uno scoglio, non a un relitto... Lasciammo perdere. Stavano ripetendo una storia che già conoscevamo. Quando reputammo di avere scoperto tutti i punti cospicui esistenti tra l’ “IMPETUOSO” e Maiorca, a una distanza compresa tra i duecento e i settecento metri dalla nave, iniziammo le esplorazioni. Fummo fortunati, perché il mese di luglio dell'anno scorso fu propizio per quanto riguarda lo stato del mare: due giorni di immersioni, un giorno di riposo e di preparazione delle miscele, due giorni di immersioni, e così via, fino ad agosto. Il fondale di quel tratto di mare non ha più segreti, per noi. Visitammo tutte le secche di Quino, la cui barca vedevamo, ogni volta, da lontano mentre riprende- va lentamente la strada verso Alcudia. Noi arrivavamo e lui, che al mattino cominciava a lavorare molto presto, se ne andava. Sicuramente i suoi occhi d'aquila di vecchio marinaio ci avevano già identificato, mentre vagavamo senza meta per il mare. E forse, chissà, inconsapevolmente fra noi si era aperta una sfida. Volevamo trovare le navi da soli? Che ci accomodassimo. Sapeva qual era la difficoltà di trovare un relitto, senza un sonar a scansione laterale, in mezzo a tutte quelle secche, che conosceva come casa sua, e immaginava che saremmo certamente tornati da lui per convincer- lo a svelarci il suo segreto. Ma non sapeva ancora che la posizione di una delle torpediniere non era più un enigma per noi. Nella maggior parte degli scogli che visitammo, Joaquin Angel Rodriguez Castelao era già passato: vedevamo le tracce della sua picozza e le lunghe cimette dei pedagni abbandonati che serpeggiava- no nella corrente. Ma capitammo anche in posti in cui i rami di corallo erano rigogliosi e forti, saldamente abbarbicati alla roccia, specialmente all'imboccatura di lunghe e strette fenditure. All'inizio di agosto, avevamo individuato un punto cospicuo che ci lasciava ben sperare. In quel- l'occasione, fu con noi anche Pierfranco Dilenge, responsabile del settore fotografico di SUB e inviato speciale nei mari di tutto il mondo, il quale, essendo venuto a trovarci, si prestò volentieri per fare il sommozzatore di assistenza. Ne avrebbe approfittato per realizzare anche alcune foto di repertorio e per do- cumentare le fasi dei preparativi e della decompressio- ne. Anche quella volta, però, si trattò di un falso allarme. Racconta Guido. Mentre risalivo, in- torno ai 40 metri vidi Pierfranco scendere lungo la cima, verso di me, con la sua insepara- bile macchina foto- grafica. Mi fece un gesto interrogativo: l’hai trovata? No, niente da fare. La

52 decompressione passò più in fretta delle altre, perché non ero solo e potevo distrarmi. Verso la metà di agosto, visto che era tornato a darci una mano Clau- dio Corti, nostro colla- boratore da tanti anni e uno dei pochi in grado di scendere a oltre 100 metri di profondità, de- cidemmo di sospende- re momentaneamente le ricerche della secon- da torpediniera per de- dicarci all'esplorazione e alla documentazione della prima: in due si lavora meglio e si fa più in fretta. Le immersioni sull’ “IMPETUOSO” si succedevano a ritmo abbastanza serrato, dato che il tempo si manteneva bello. Tutto procedette senza particolari colpi di scena, fin quando, la mattina del 20 agosto, vicino al punto in cui si trovava la torpediniera trovammo la "Nemo", la barca di Quino, che si aggirava lentamente sul mare piatto, probabilmente esplorando il fondo con lo scandaglio alla ricerca di qualche scoglio non ancora visitato. La ignorammo, raggiungemmo la verticale del “IM- PETUOSO” e lanciammo il pedagno, assicurato a una vistosa boa arancione. Mentre ci preparava- mo, con i motori in folle, vedemmo la barca del corallaro venire verso di noi e passare vicinissimo al nostro segnale. Evidentemente a bordo stavano controllando dove fossimo. Eh sì, eravamo pro- prio sull’ “IMPETUOSO”. Decidemmo di mantenere i rapporti amichevoli che avevamo tenuto sino allora, innestammo la marcia e raggiungemmo la "Nemo", affiancandola a due o tre metri di distanza. Al timone, nella cabina di pilotaggio, c’era il figlio di Quino, un bel ragazzo con i capelli arruffati schiariti dal sole. Suo padre era chiuso nella camera iperbarica. Sì, stava bene, sì, l’avreb- be salutato da parte nostra. Mentre tornavamo verso il pedagno e terminavamo la preparazione, la "Nemo" continuò la sua tranquilla navigazione verso Maiorca e ben presto scomparve nella fo- schia. Da parecchio tempo, or- mai, avevamo adottato come prassi normale la stazione di decompres- sione volante, con le bombole dì riserva già agganciate ai loro mo- schettoni. E anche quel giorno, dopo essere risa- liti lungo la cima del pe- dagno, passammo dal- l'una all'altra e ci lasciam- mo andare con la corren- te. Claudio seguiva le “Tabelle Longobardi”, Guido le indicazioni del

53 computer per trimix; di cui, ormai, si fidava. Terminai la decompressione qualche minuto prima, gli feci un cenno d'intesa e lentamente mi lasciai portare in superficie. Vicino a noi c'erano le chiglie di due barche. Una era cer- tamente la nostra, e l’altra? Misi la testa fuori dall’acqua e vidi che in piedi, accanto al po- sto di pilotaggio della "Nemo", c’era Quino con la faccia seria e scura, il figlio doveva averlo avvertito che "gli italiani" erano su una delle navi. E Quino, che, oltre a essere un uomo di mare, è anche un uomo d'onore, si era ricordato della promessa fattaci e aveva deciso di tornare indietro, forse per accertarsi di persona dell'avvenuto ritrovamento. Alzai un braccio e lo salutai. Lui rispose con un cen- no del capo. Lo sapevo che lì c’era una delle torpediniere? Eh sì, che lo sapevo. Ma la nave non era proprio lì sotto... Attaccati alla stazio- ne di decompressione galleggiante, eravamo scarrocciati, ma, comunque, si, sapevamo do- v’era, l’avevamo appena fotografata. Non co- noscevamo ancora, però, la posizione della se- conda. Ci avrebbe portato lui o dovevamo tro- varci da soli anche quella? Ci avrebbe portato lui! Quasi non ci credevamo, ma aveva detto proprio così. Recuperammo Claudio al volo e, ancora con le mute addosso che gocciolavano, seguimmo la barca del corallaro, gli occhi fissi sullo schermo dell’ecoscandaglio. Quino passò sul punto esatto in cui si trovava l’ ”IMPETUOSO” e da lì puntò verso il largo. Acci- denti, verso il largo si doveva andare, non verso terra! Quella che avevamo trovato non era la nave “di fuori”, ma quella “di dentro”. Allora, gli scogli, la prua che svettava verso l'alto... Dov’erano? Tutti falsi indizi, notizie per depistare, per rendere la storia ancora più interessante e suggestiva nelle sere passate al bar con gli amici. Tanto, chi avrebbe mai potuto controllare? Il corallaro condusse la sua barca a Nord e dopo circa cinquecento metri si fermò, uscì dal posto di pilotaggio e ci fece un segno. La seconda torpediniera era là sotto. Con i motori al minimo lo raggiungemmo, ed eccolo, il relitto, finalmente. Lo scandaglio era passato da 100 metri a 95, poi la linea del fondo si era impennata e sullo schermo era apparsa una massa enorme, densa e rossa. Ora conoscevamo anche la posizione del “PEGASO”. Grazie, Quino, senza di te ci avremmo messo molto più tempo per trovarlo, anche se, alla fine, ci saremmo riusciti, perché, dopo aver visto tutti gli scogli verso Maiorca, saremmo scesi su quelli verso il mare aperto. Ci affiancammo alla "Nemo", mi tolsi la muta stagna. Il corallaro disse, con aria serafica: «Te lo avevo detto che ti avrei portato sulle navi italiane». Già, ce lo aveva detto, tre anni prima! Ma cosa sono tre anni per chi è abituato a vivere libero come il vento e, con 67 primavere sulle spalle, pensa ancora di trovare un tesoro in fondo al mare? Con un pò di malizia ci chiedemmo, però, come si sarebbe comportato se non avesse saputo che ci eravamo già arrangiati per conto nostro, almeno in parte. Eravamo, comunque, talmente contenti che gli regalammo un computer da polso. Il giorno dopo, di buon mattino, facemmo rotta sul nuovo punto. Su quella nave non eravamo ancora scesi. Quando ci fummo sopra, lo schermo dell’ecoscandaglio si riempì di rosso: il segnale era fortissimo. Dal fondo si staccava un rilievo massiccio, compatto, senza picchi. Ma l’indicatore della profondità non lo segnalava, mostrando sempre il valore massimo: 98... 98... 99... 105... Co- s'era tutto quel rosso? Aspettammo a lanciare il pedagno, c'era qualcosa di strano laggiù. Mano-

54 vrammo in maniera da incrociare il relitto una decina di metri più in là. Il disegno sullo schermo non cambiò, ma stavolta la profondità era differente: 90, 89, 91 ... Adesso si poteva lanciare il piombo. Mentre la zavorra precipitava verso il basso, trascinandosi dietro la cima con la boa, cerca- vamo di capire il motivo di quella strana anomalia: l’enorme macchia rossa poteva essere causata solo da un esteso e compatto banco di pesci, ma possibile che ce ne fossero così tanti da modificare lo stesso profilo del relitto? Beh, l’importante era che fossimo nel posto giusto. E la sonda ci diceva di sì. Il buio degli abissi ci risucchiò rapidamente dopo il cambio di miscela, avvenuto, come al solito, a 30 metri. L'acqua era limpida e già a 75 metri cominciammo a intravedere il cilindro di metallo del pedagno, che luccicava appena. Era appoggiato su un fondo piano, ma duro. Ottanta metri: no, il piombo non era sul fondo, come ci era sembrato, ma sulla carena della nave, anch'essa appoggiata su un fianco, come la prima. Però, a differenza della prima, che era mezza sepolta nel fango, questa stava su una superficie consistente di sabbia bianca e granulosa. Lo scafo sporgeva, imponente e maestoso, dal fondale, tanto da sembrare ancora più grande del primo. La visibilità era discreta e l’orizzonte più ampio di almeno una decina di metri rispetto a quello che avevamo sull’ “IMPETUOSO”. Sotto di noi, sospeso a mezza nave, troneggiava un grande cannone circondato da un piccolo bunker di lastre d'acciaio. Planammo sulla fiancata di dritta della torpediniera, avvolta da una nuvola fittissima di anthias rosa e di pesciolini argentei simili alle sardine, scavalcammo il trincarino e ci portammo all'altezza del cannone, sulla sommità del secondo ponte armato. Tre o quattro metri più in basso c'era la sabbia e, sparsa qua e là, una moltitudine di oggetti grandi e piccoli, scivolati lì dalla coperta al momento dell'impatto contro il fondo e del rovesciamento. Il relitto, che poi identificammo per quello del “PEGASO”, era ricoperto da uno spesso strato di incrostazioni solide, probabilmente formato da alghe calcaree e spugne e c'erano i grigi e antiestetici viluppi di bivalvi che avevamo visto anche sull’”IMPETUOSO”. Le lamiere erano ricoperte di vita bentonica, ma erano più pulite, senza la fanghiglia appiccicosa che ci aveva ostacolato durante le esplorazioni dei giorni precedenti. L’am- biente, insomma, ci sembrò meno cupo e opprimente di quello delle altre immersioni e incon- sciamente tirammo un sospiro di sollievo. Tenemmo la nave sulla sinistra e ci spostammo tra paratie, gruette e strane forme metalliche, che potevano essere mitragliatrici, lanciabombe di profondità, cannoncini binati. Improvvisamente ca- pimmo di essere a poppa. La nave finiva lì, con una rastrematura che era vistosamente ammaccata. In effetti, secondo i racconti dei testimoni, la torpediniera si coricò sul fianco sinistro poi andò giù di poppa, che, quindi, assorbì la maggior parte dell'urto contro il fondale. Una conferma di ciò che pensavamo la ebbe Claudio, il quale uscì dallo scafo e, voltandosi indietro per eseguire una foto panoramica, notò le eli- che, incrostate anch'esse, ma riconoscibili per via degli assi che si inseriva- no nella chiglia: A questo punto avevamo la certez- za che il “PEGASO” fos- se appoggiato sul fianco sinistro. Esattamente al contrario dell’ “IMPETUOSO”, che era invece appoggiato sul fianco destro. Sorvolammo una porta spalancata, situata proprio sotto il cannone, e alcuni oblò. I pescetti rosa riem-

55 pivano ogni vano: la lampada illuminava milioni di code a forma di mezzaluna, milioni di piccoli occhi iridescenti, ma non riusciva ad arrivare più in là, a svelare i segreti di quelle cabine e di quei corridoi, troppo stretti, angusti e ingombri di materiale per permettere il passaggio di un subacqueo. Guardando avanti, verso il limite della visibilità, ci sembrò di scorgere un'ombra imponente che ci sovrastava. Poteva essere la plancia, con il ponte di comando? La lucidità mentale consentitaci dalla respirazione della miscela di elio ci fece subito rifiutare l'idea: come poteva essere il ponte di comando se la nave era adagiata su un fianco? E allora? Si trattava di un'allucinazione? Guardam- mo con maggiore attenzione. Qualcosa c'era e non era una visione onirica: una massa scura saliva dal livello della fiancata verso l'alto. E la massa scura si mosse e ci sfilò accanto, sulla destra. Era un'intera parete che si muoveva, una parete fatta da decine di ricciole enormi, la cui livrea argentea rifletteva debolmente, nell'oscurità incombente la luce del faro. Lo spettacolo era fantasmagorico ma molto suggestivo, anche perchè i pesci non pesavano meno di trenta o quaranta chili l'uno. Tante ricciole così grosse e tutte insieme non le avevamo mai viste, nemmeno nei mari tropicali. Un esemplare si staccò dal branco e venne più vicino, Guido ne approfittò per scattare una foto. Pecca- to che non ero riuscito a metterci dentro anche Claudio, che avrebbe potuto fare da termine di paragone: le ricciole erano lunghe almeno quanto lui. Capimmo il motivo della grande macchia rossa sullo schermo dell’ecoscandaglio: il banco di grossi pesci era talmente fitto da sembrare un prolungamento del relitto. Un’altra considerazione che facemmo dopo quell’immersione riguardava lo stato della nave, che ci sembrava in migliori condizioni dell'altra. Pure le attrezzature di bordo erano più riconoscibili. Sicuramente dipendeva dal fatto che c'era meno fango a ricoprire e a mimetizzare tutto, anche perché come poi potemmo constatare la parte della tuga centrale ed il ponte di prua erano collassati durante l’affondamento ed ora giacevano sul fondo. Ci facemmo largo fra la miriade di pescetti petulanti e curiosi, i quali, quando si erano avvicinate le ricciole, si erano appiattiti contro le lamiere della nave per difendersi dalla loro voracità e adesso, che il pericolo non c'era più, erano tornati tranquilli e imperturbabili in acqua libera. Claudio, che aveva fatto un giro più basso, sotto il cannone, spuntò tra le sovrastrutture e i due sub si riunirono. Quattordici minuti di fondo a 95 metri: era il momento di risalire. Raggiungemmo la cima del pedagno e al quindicesimo minuto, come avevamo programmato, cominciammo il lungo cammino verso la superficie. Non eravamo ancora sicuri al cento per cento che quello fosse il relitto del “PEGASO”, ma avremmo avuto tempo di convincercene l'indomani. Almeno così credevamo. L’individuazione della seconda tor- pediniera dell’ “Operazione PE- GASO” aveva, evidentemente, esaurito la nostra razione estiva di buona sorte. Sul- la strada del ritor- no, incappammo in una violenta sventolata da Nord, che ci co- strinse a rallenta- re l'andatura per non imbarcare troppa acqua. Per di più, a nemme-

56 no un terzo del percorso, uno dei due motori andò in avaria e fummo costretti a procedere zoppican- do a sei nodi, in mezzo agli spruzzi, per almeno una ventina di miglia. Non era la prima volta che uno dei fuoribordo si fermava e non ci preoccupammo più di tanto. Ma, in porto, il verdetto di Miguel Pons, titolare del Centro Nautico di Ciudadela, che ci ospitava, e di Pepe, il meccanico di fiducia, non ci diede molte speranze: una centralina era saltata e bisognava sostituirla. Ciò voleva dire star fermi per almeno una settimana. I giorni che seguirono furono i più belli di tutta l'estate, perché il vento di tramontana aveva ripor- tato l'alta pressione sul Mediterraneo Occidentale. Il mare era piatto come una tavola. Miguel, che ci aveva fornito i motori, si sentì in parte responsabile e una mattina si offrì di accompagnarci con il suo cabinato a fare un'immersione sull’ “IMPETUOSO”, che conoscevamo meglio ed era più facile da individuare. Per il resto, aspettammo. E quando il motore in avaria fu riparato, arrivò la bassa pressione, che ci costrinse, a sua volta, a stare a terra. Claudio se ne dovette andare con un sapore dolce e amaro in bocca, perché gli impegni del suo lavoro lo richiamavano in Italia: aveva partecipato alla prima immersione sui resti della torpediniera, che poi si rivelò per essere, effettiva- mente, il “PEGASO”, ma non era riuscito a completarne l'esplorazione. Settembre fu un mese di brutto tempo e rimanemmo confinati a Minorca. In ottobre, invece, il vento lasciò il posto alle brezze e il sole splendette in continuazione per giorni e giorni. Ovviamen- te ne approfittammo per continuare le operazioni, perché sapevamo che l'arrivo dell'inverno ci avrebbe fermato completamente.

Ora, l'esplorazione delle due torpediniere prosegue, abbiamo visto che la plancia comando del “PEGASO” praticamente non esiste più, è completamente collassata sul fondo. Tutta la coperta dalla plancia comando agli argani delle ancore è stata strappata, con parte della fiancata di dritta e ora giace sul fondo, da cui si eleva il cannone. Sul fondo si può notare ancora l’albero centrale, mentre il fumaiolo non esiste più, ma al suo posto spuntano dritti tre o più tubi di rame che doveva- no essere quelli che scaricavano il vapore surriscaldato, chiamati “trombini”. L’identificazione delle due navi, ci sembra ormai certa. Per arrivare, comunque, alla totale sicurez- za, e cancellare ogni possibile dubbio, continueremo a cercare un indizio rivelatore anche nei pros- simi mesi e nei prossimi anni e, quando saremo sicuri del fatto nostro, lo comunicheremo.

57 La prua del “PEGASO” che giace coricato sulla fiancata si- nistra e per 160 gradi.

La “noria” del “PEGASO” con cui venivano issati in coperta i pro- iettili per il cannone di prora.

58 Guido Pfeiffer e Claudio Corti esaminano un piatto ritrovato sul “PEGASO”. Probabilmente era un piatto della mensa ufficiali, con un bordo dorato e di marca “Bavaria” (Tedesca).

Probabilmente una mitragliatrice Oerlikon giace sul fondo del mare mentre sullo sfondo si notano i “Trombini” del “PEGASO”.

59 La torpediniera “PEGASO” in rada a Bengasi. (foto arch. Ferrentino)

L’equipagio della “PEGASO” posa per una foto in una rada in nord Africa, la nave è protetta da una rete antisiluri. Nicola Ferrentino è il secondo da sinistra in piedi, appoggiato alle draglie. (foto arch. Ferrentino)

60 Ferrentino a Bologna 2002 Ferrentino sulla prua del “PEGASO” a Bengasi 1942 (foto arch. Ferrentino)

Nicola Ferrentino a cui devo un caloroso ringraziamento per l’aiuto datomi, assieme agli altri redu- ci, per ricostruire con precisione quei tragici momenti di storia, oramai quasi dimenticati, della nostra Marina Militare.

Nella foto sotto un gruppo di marinai del “PEGASO” in libera uscita a Palma di Maiorca nel 1943. Nicola Ferrentino è quello seduto al centro. Il marinaio seduto alla sua sinistra è il motorista Schiano (di Procida). Il primo in piedi da sinistra è il marinaio Ruggiero (di Pagani - Salerno) che faceva il barbiere a quindi lo fece anche sul Pegaso, (foto arch. Ferrentino)

61 Nella foto (Arch. Ferrentino) scattata al pomeriggio di quel 10 settembre 1943 a poppa della torpe- diniera “PEGASO” , in rada a Pollensa, isole Baleari, possiamo vedere: In piedi al centro in tuta bianca il capitano del Genio Navale Marino Iseppi, alla sua destra col binocolo al collo il sottotenente di vascello Mario Pradelli, Ferrentino è il secondo da sinistra, con altri membri dell’equipaggio. Come possiamo vedere l’equipaggio si era preparato per abbandona- re la nave e per salvarsi a nuoto.

62 Riccardo Baiolla.

Uno dei marinai del “PEGASO” originario di un paese in provincia di Belluno, che dopo una vita passata sui mari del mondo, vive ora sotto le bellissime cime delle Dolo- miti e ricorda benissimo tutti gli episodi da lui vissuti sul “PEGASO”.

Fu uno dei 17 che uscirono quella notte dalla baia di Pollensa e che con il collega Capozzi provvide all’affondamento della nave.

Nelle foto, scattate quando Baiolla era a bordo del “Sagittario” al comando di Cigala Fulgosi, si vede la “Curtatone” che esplode su una mina.

I marinai del “Saggitario” che recuperano i naufraghi della “Curtatone”.

Nella scialuppa di fianco alla nave si vede proprio Riccardo Baiolla che con l’aiuto di un compagno sta cercando di issare a bordo un ferito orribilmente ustionato ma scam- pato al disastro della “Curtatone”.

63 TORPEDINIERE CLASSE <>

Unità Pegaso, Procione, Orione, Orsa

Iscritte nel Quadro del Naviglio il 12 dicembre 1935 come ; classificate con R.D. in data 5 settembre 1938 e con R.D. in data 31 mag- gio 1943. Tipo progettato dal Comitato Progetto Navi sotto la direzione del generale G.N. Gustavo Bozzoni.

CARATTERISTICHE PRINCIPALI

Disloccamento: 855s. - 1170 c.n. - 1600 p.c.

Armanento originario: 4 - LS450 in impianti binati , 2 - 100/47 singoli, 4 - 13.2, 6 - Lanciabas, Sistemazioni per la posa delle mine.

Apparato generatore e motore: 2 Caldaie a tubi d’acqua subverticali - Turbine Tosi per comples- 16.000 HP - 2 eliche - velocità 28 nodi -

Automonia: 5100/14 - 4160/21 - 2360/23.5

Lunghezza: 89,28 mt

Larghezza: 9,69 mt

Immersione: 3,10 mt (c.n.) - 3,74 (mt) p.c.

Equipaggio: 6/148

PEGASO: Cantiere di costruzione: Bacini e scali Napoletani - Napoli- Impostata: 15/2/1936 Varata: 8/12/1936 Consegnata: 30/3/1938 Affondata: 11/9/1943

Durante il conflitto l’armamento originario fu modificato: cannoni da 120 con scudo modificato, mitragliere Oerlikon da 20 mm al posto di quelle da 13,2 e impianto quadruplo di produzione tedesca al centro. Fu aggiunta una gruetta per una piccola scialuppa di servizio.

64 65 APPENDICE

Cronaca di una tragedia annunciata Di Augusto Zedda

Mussolini, prigioniero a Villa Webber, se ne andò portando con sé l'alone di tragedia, di cui, in effetti, non pare si rendesse pienamente conto, di una guerra immane perduta su tutti i fronti, tra indicibili sacrifici e lutti.

Ormai l'impossibilità di continuare la lotta nell'assoluta disparità dei mezzi, di fronte alla preponde- ranza delle forze nemiche, era palese a chiunque. Forse l'unica Arma che, in quel fine agosto, era ancora integra e compatta nella sua struttura gerarchica e soprattutto nello spirito era la Marina, grazie al fatto che, vivendo sul mare e del mare, era la più lontana dai centri di potere, grazie alla sua tradizione ultrasecolare di autonoma disciplina e competenza.

Il 3 settembre 1943 veniva firmato a Cassibile uno schema di armistizio tra Italia e Stati Uniti, il cosiddetto "Armistizio breve"; l'8 settembre Eisenhower annunciava al mondo l'armistizio con l'Italia.

Tutti i dati e i fatti contenuti in questa pagina sono stati desunti dall'Ufficio Storico della Marina in Roma e dal volume V, edito dallo stesso Ufficio, de "La Marina Italiana nella Seconda Guerra Mondiale", dal titolo : La Marina dall'8 settembre 1943 alla fine del conflitto, compilato dall'ammi- raglio di squadra .

All' era allegato un "Documento di Quibec" che iniziava così: "Le condizioni di armistizio non contemplano l'assistenza attiva dell'Italia nel combattere i Tedeschi. La misura nella quale tali condizioni saranno modificate a favore dell'Italia dipenderà dall'entità dell'apporto dato dal Governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra".

Per quanto concerne la Marina e l'Aeronautica era detto: "Il Governo italiano deve, al momento dell'armistizio, dare ordine alla flotta italiana e alla maggior parte possibile del naviglio mercantile di salpare per porti alleati. I maggior numero possibile di velivoli militari dovrà partire in volo verso basi alleate. Qualsiasi bastimento o velivolo in pericolo di cattura da parte dei Tedeschi deve essere distrutto. Nessuna nave da guerra o mercantile deve essere lasciata cadere in mano tedesca. Non si deve permettere ai Tedeschi di impadronirsi delle difese costiere italiane".

Era allora ministro e Capo di Stato Maggiore della Marina l'Ammiraglio de Courten, il quale rice- vette dal Comando Supremo le seguenti disposizioni contenute in un più ampio "Promemoria n. 1" consegnato alle tre Armi: "...Unità da guerra italiane: debbono uscire al più presto in mare tutte quelle comunque in condizioni di navigare, per raggiungere i porti della Sardegna, della Corsica, dell'Elba, oppure di Sebenico e Cattaro; tutte le non in condizioni di muovere, oppure che in uno dei porti di rifugio di cui sopra verranno a trovarsi in condizioni di cadere in mano germanica, dovranno essere autoaffondate".

L'Ammiraglio de Courten convocò il 7 settembre tutti i comandanti dei vari dipartimenti della Marina e diede le necessarie istruzioni; tra queste, che le unità dell'Alto Tirreno avrebbero dovuto muovere per la Sardegna, la Corsica e l'Elba. L'8 mattina ricevette l'Ammiraglio Bruno Brivonesi, Comandante Militare Marittimo della Sardegna, con sede alla Maddalena: gli impartì le disposizio- ni relative all'ormeggio della flotta in quella rada e lo avvertì della possibile presenza del Re, della famiglia reale e di parte del governo su una delle navi; quindi gli ordinò di ripartire immediatamen-

66 te per la sua sede. Ma la destinazione del Re e dei membri del governo fu poi mutata. Nel tardo pomeriggio la radio italiana diede l'annuncio dell'armistizio.

Il 9 settembre alle 11.50 de Courten diramò a tutti i marinai il seguente proclama: "Marinai d'Italia - Durante quaranta mesi di durissima guerra avete tenuto testa alla più potente Marina del mondo compiendo eroismi che rimarranno scritti a lettere d'oro nella nostra storia e affrontando sacrifici di sangue che vi hanno meritato l'ammirazione della Patria e il rispetto del nemico.

Avreste meritato di poter compiere il vostro dovere fino all'ultimo combattendo ad armi pari le forze navali nemiche. Il destino ha voluto diversamente: le gravi condizioni materiali nelle quali versa la Patria ci costringono a deporre le armi. È possibile che altri duri doveri vi saranno riservati, imponendovi sacrifici morali rispetto ai quali quello stesso del sangue appare secondario: occorre che voi dimostriate in questi momenti che la saldezza del vostro animo è pari al vostro eroismo e che nulla vi sembra impossibile quando i futuri destini della Patria sono in giuoco. Sono certo che in ogni circostanza saprete essere all'altezza delle vostre tradizioni nell'assolvimento dei vostri doveri. Potete dunque guardare fieramente negli occhi gli avversari di quaranta mesi di lotta, per- ché il vostro passato di guerra ve ne dà pieno diritto. de Courten".

Il compilatore del volume sopra citato, l'Ammiraglio Fioravanzo, commenta così il documento: "Il testo di questo proclama è stato spiritualmente appropriato e storicamente giustificato dai risultati dei quaranta precedenti mesi di lotta sul mare. Non poteva infatti sentirsi vinta una Marina che colla cooperazione dell'Aeronautica aveva affondato 412.000 tonnellate di naviglio militare avver- sario contro 269.000 perdute. Era la nostra una Marina che doveva deporre le armi per "le gravi condizioni materiali nelle quali versa la Patria" .

La nostra squadra da battaglia era concentrata a La Spezia, agli ordini dell'Ammiraglio Bergamini, sotto le cui insegne era la corazzata "Roma" da 35.000 tonnellate; de Courten si mise in con- tatto con lui e concorda- rono l'immediata parten- za della squadra per La Maddalena; lo assicurò poi, dietro esplicita do- manda di quello, che nes- suna clausola dell'armi- stizio prevedeva che le nostre navi dovessero ammainare la bandiera od essere cedute. Se così non fosse stato i coman- danti delle unità avrebbe- ro infatti provveduto subito all'autoaffondamento.

Il giorno 8 e per tutta la notte, le vie dell'etere, stando all'impressionante ricostruzione di Fioravanzo, furono percorse dall'intrecciarsi convulso di una miriade di messaggi radio da e per le basi, le unità e il comando di de Courten a Roma. Tra questi, l'ordine ai cacciatorpediniere "Vivaldi" e "Da Noli", n navigazione per Civitavecchia, di dirigere anch'essi a La Maddalena.

67 Roma frattanto stava per essere occupata da Tedeschi e de Courten ricevette a sua volta l'ordine di lasciarla; le sue comunicazioni dalla capitale cessarono alle 6.30 del 9 settembre.

A La Spezia, l'Ammiraglio Bergamini aveva convocato d'urgenza tutti i comandanti della squadra da battaglia dando le opportune disposizioni per la partenza, , prima ancora che fosse diffusa la notizia ufficiale dell'armistizio; aveva precisato che: "Qualunque cosa succedesse nessuna nave avrebbe dovuto cadere in navi straniere: inglesi o tedesche che fossero. Piuttosto autoaffondarsi".

Alle 3 del mattino del 9 settembre la squadra di battaglia lasciava la rada di La Spezia diretta a La Maddalena; alle 6.30, al largo di Capo Corso, le si univa un gruppo di unità provenienti da Genova, alle 8.40 altre quattro torpediniere provenienti da La Spezia ingrossarino la formazione.

Erano 22 splendide navi; la Marina italiana tornava alla base-madre di La Maddalena dove oltre un secolo prima Giorgio Des Geneys le aveva dato la vita e lo spirito. Ma quale angoscia ora per l'animo di quelle migliaia di uomini!

Ecco i nomi delle navi e dei comandanti:

Comandante in capo: ammiraglio Bergamini (a bordo della "Roma")

9° Divisione: ammiraglio Accoretti - Navi: Roma, Vittorio Veneto, Italia;

7° Divisione: ammiraglio Oliva - Navi: Eugenio di Savoia, Duca d'Aosta, Montecuccoli;

8° Divisione: ammiraglio Biancheri - Navi: Duca degli Abruzzi, Garibaldi, Attilio Regolo;

12° Squadra cacciatorpediniere: capitano di vascello Marini - Navi: Mitragliere. Fuciliere, Cara- biniere, Velite;

14° Squadra cacciatorpediniere: capitano di Vascello Baldo - Navi: Legionario, Oriani, Artigliere, Grecale, Libra;

Torpediniere da scorta: capitano di Vascello Riccardo Imperiali - Navi: Pegaso, Orsa, Orione, Impetuoso;

Percorrendo la rotta a ponente della Corsica, la flotta si dirigeva verso La Maddalena. Ma qualcosa accadde, quasi si fosse spezzato l'incanto tra l'Arcipelago e la Marina, in questa guerra così brutale, così più lontana di ogni altra da ogni codice d'onore, da ogni misura umana.

Accadde che la 90° divisione tedesca di stanza in Sardegna, appresa la notizia dell'armistizio, chie- se al comandante militare italiano generale Basso di transitare dalla Maddalena per evacuare verso la Corsica e di qua per il continente. Fu concordato il transito a condizione che non fosse fatto alcun atto di ostilità.

Nelle varie fortificazioni dell'arcipelago erano dislocati molti militari tedeschi e il loro comandan- te, Uneus, avvertì l'ammiraglio Brivonesi che avrebbe iniziato subito le operazioni di sgombero. Il generale Basso diede ordine a Brivonesi di non interferire in alcun modo nei movimenti dei Germanici, evidentemente in obbedienza al detto "Ponti d'oro al nemico che fugge".

68 Ciò avveniva la mattina del 9 settembre e l'ammiraglio Brivonesi sapeva che per le ore 14 circa era previsto l'arrivo della squadra da Battaglia.

Alle 11.25, avvenne il colpo di mano tedesco: il comando di La Maddalena fu circondato; Uneus comunicò all'ammiraglio che in quello stesso momento altri reparti germanici stavano occupando il semaforo di Guardia Vecchia, la stazione ricetrasmittente dell'Isola Chiesa, e tutti i servizi della base.

L'ammiraglio Brivonesi riuscì ad informare subito dell'avvenuto per telescrivente Supermarina (comando generale dell'Arma), raccomandando di avvertire Bergamini; Supermarina radiotelegrafò immediatamente alla "Roma" che forze germaniche avevano occupato La Maddalena e di dirigere per il porto di Bona; il messaggio fu ricevuto dall'ammiraglio Bergamini soltanto alle 14.24, quan- do ormai la flotta si trovava in vista dell'arcipelago.

I militari italiani di stanza nell'isola non restarono inerti, ma vi furono diversi conflitti a fuoco, mentre a Caprera, sotto il comando del capitano di fregata Sollazzo, si era organizzata una base di minaccia alle spalle dei tedeschi. I due comandanti Brivonesi e Uneus avevano entrambi l'ordine dai rispettivi comandanti di non consentire alcun atto di ostilità: il fuoco dunque doveva cessare e cessò, dopo convulsi parlamentari con i superiori e tra loro; si arrivò a un compromesso e il tedesco dovette recedere dall'occupazione. Si contarono le perdite: morti 24 italiani e 8 tedeschi; feriti 46 italiani e 24 tedeschi. Tra i nostri caduti il comandante della base, comandante di vascello Carlo Avegno che fu a capo della reazione italiana e al quale fu poi conferita la medaglia d'oro alla memoria, e il sottotenente di fanteria Rinaldo Veronesi, decorato alla medaglia di bronzo alla me- moria.

Finalmente il 15 settembre i tedeschi evacuarono La Maddalena, ma ormai la tragedia più tremen- da, quella della nostra flotta, si era compiuta.

Dobbiamo fare un passo indietro.

Durante la mattina del 9 settembre la squadra da battaglia al comando dell'ammiraglio Bergamini aveva navigato velocemente al largo della costa occidentale della Corsica e, avvistata l'Asinara, aveva accostato di 45° a sinistra per imboccare l'entrata di ponente dell'estuario di La Maddalena.

Quando fu ricevuto il messaggio di Supermarina sull'occupazione tedesca dell'isola, la rotta venne rapidamente invertita verso l'Asinara, per cui le navi ammiraglie si trovarono in coda al convoglio.

Alle 15.10 una formazione di aerei tedeschi Junker attaccò le navi, le quali aprirono il fuoco contraereo e manovrarono in modo da sfuggire alle bombe: nessuna unità fu colpita, mentre un aereo venne abbattuto. I germanici usarono in quell'occasione un nuovo tipo di bomba a razzo, teleguidata.

Ritiratisi i primi aggressori, alle 15.50 fu avvistato un gruppo di bombardieri contro il quale le unità aprirono immediatamente il fuoco. La "Roma" venne colpita da due grandi bombe.

La descrizione che ne fa l'ammiraglio Fioravanzo è impressionante nel suo scarno e competente stile militare: " La prima bomba era caduta a un metro dalla murata di dritta poco a poppavia del centro della nave, scoppiando sotto lo scafo e agendo quindi come una mina magnetica. Le motrici corrispondenti alle due eliche poppiere si erano arrestate e la velocità era caduta a 16 nodi. La seconda bomba cadde sul lato sinistro tra torrione di comando e la torre sopraelevata, provocando

69 l'allagamento del locale delle motrici prodiere (corrispondenti alle due eliche esterne) e l'arresto della nave, la deflagrazione in rapida successione di tutti i depositi di munizioni prodieri, l'incendio in numerosi locali con cessazione dell'erogazione di energia elettrica, lo sbandamento de torrione di comando verso il lato dritto.

Dopo la prima bomba, i provvedimenti immediatamente presi dal personale contennero lo sbandamentodello scafo entro il limite di 2°; ma dopo la seconda, l'imponenza delle devastazioni provocate dalla deflagrazione nelle santabarbare mise rapidamente la nave in condizioni disperate. Essa cominciò a sbandare sulla dritta e si arrestò per alcuni istanti col trincarino di dritta a 50 centimetri dall'acqua: fu allora che il tenente di vascello Incisa, il più anziano dei pochi ufficiali superstiti (e che nonostante le gravi ustioni riportate al momento della deflagrazione, perché si trovava vicino al torrione nella torretta della direzione del tiro c.a. di sinistra, era riuscito a correre verso poppa), ordinò al personale di abbandonare la nave.

Subito dopo la nave, accelerando il movimento di rotazione, si capovolse spezzandosi in due tronconi e scomparve".

L'ammiraglio Oliva, imbarcato sull'Eugenio di Savoia, come comandante più anziano, assunse immediatamente il comando della forza navale, dopo aver ordinato al "Regolo", alla 12° squadra cacciatorpediniere e al gruppo "Pegaso" di andare in soccorso della "Roma", che affondò alle 16.12.

La colonna granitica decorata con gruppo bronzeo eretta in memoria dei marinai della "Roma sull'isolotto della Paura presso l'isola di Santo Stefano.

Gli attacchi aerei si susseguirono alle 16.29 - 18 - 18.34 - 19.10 sempre rintuzzati dall'intenso fuoco delle navi. Fu colpita di prua l' "Italia" che poté continuare la navigazione a velocità ridotta. L'am- miraglio Oliva ordinò di puntare su Bona: lo seguano la 7° divisione, l'8° divisione tranne il "Rego- lo", la 9° divisione meno la "Roma", la squadriglia "Legionario" e il "Velite". Le altre unità assiste- vano i naufraghi dell'ammiraglia.

Furono raccolti 520 naufraghi, in gran parte feriti, su un totale di 1.948 uomini imbarcati sulla "Roma": i morti furono 1.352; tra questi, oltre all'ammiraglio Bergamini, quasi tutti gli ufficiali e la maggior parte dei sottufficiali. Le unità di soccorso, perduto il contatto con la squadra e per lo più a loro volta con feriti a bordo e avarie di vario tipo, ebbero gravi peripezie. Le navi "Mitragliere", "Regolo", "Fuciliere" e "Carabiniere" agli ordini del comandante Marini, puntarono sulle Baleari dove furono internate fino alla fine del conflitto.

Del gruppo "Pegaso", due "Libra" e "Orione" riuscirono a raggiungere Bona. Le altre tre "Pegaso", "Impetuoso" e "Orsa" agli ordini del comandante Imperiali, furono ripetutamente attaccate da aerei tedeschi con bombe razzo, di cui il comandante diede più tardi la seguente descrizione: "Molte bombe cadute vicinissimo alle navi ed in specie alcuni alianti-razzo che venivano distaccati dagli aerei ad una quota appezzata di 3000 metri e che picchiavano quindi sulle navi... queste bombe- razzo erano di una precisione straordinaria e cadevano a pochi metri dalle navi nonostante le mano- vre eseguite alla massima velocità e con tutto il timone..."

"Gli alianti-razzo, che per la prima volta vedevamo impiegati, erano di dimensioni leggermente inferiori ad un aereo da caccia... essi manovravano per seguire il bersaglio... contemporaneamente a questa nuova forma di bombardamento eravamo attaccati dai caccia e dai bombardieri...".

In queste condizioni e nell'assoluta precarietà e frammentarietà delle comunicazioni radio, anche il

70 comandante Imperiali decise di puntare con la formazione sulle Baleari.

Qua, sbarcati i naufraghi e i feriti, le due torpediniere "Pegaso" e "Impetuoso" furono affondate fuori delle acque territoriali di Maiorca; l' "Orsa", che era priva di carburante, fu internata e passata alle dipendenze del gruppo "Mitragliere" col quale più tardi raggiunse Algeri.

La vicenda della nostra squadra da battaglia ha un'appendice di eroismo nella storia dei due cacciatorpediniere "Vivaldi" e "Da Noli", che non erano presenti alla partenza da La Spezia perché inviati a Civitavecchia ove si pensava che si sarebbe imbarcata la famiglia reale.

Nelle prime ore del 9 settembre le due unità ricevettero l'ordine di dirigere per La Maddalena e di riunirsi alla squadra. Ma alle 14.33 Supermarina ordinò di "Uscire dall'estuario di La Maddalena verso ponente, affondando durante il passaggio tutti i mezzi tedeschi che stavano trafficando tra Sardegna e Corsica".

Le due navi obbediscono e iniziano la battaglia al largo di Razzoli, avendo contro unità navali tedesche, le batterie costiere di Corsica, gli aerei.

Colpiti in più punti, con molti morti a bordo, il "Da Noli" e il "Vivaldi" si battono con eroismo strenuo, affondano navi, mettono fuori combattimento aerei e batterie.

Il comandante del "Vivaldi", capitano di vascello Camicia, descrive nella sua relazione la fine del "Da Noli": "Ha preso parte al tiro contro le unità e le batterie dal lato della Corsica, sembra anch'es- so colpito; si allarga dalla costa, mi sopravanza, in velocità verso sud-ovest e fa molto fumo. alle 17.50 una grande colonna di acqua biancastra, come di esplosione di mina, avvolge il "Da Noli" che spezzato in due al centro affonda. Si vede molta gente in mare e poco dopo anche una motolancia in moto vicino alle zattere di salvataggio".

Il comandante del cacciatorpediniere, Valdambrini, morì con tutti gli uomini che stavano con lui sul ponte di comando.

Il "Vivaldi" a sua volta non era più in grado di navigare né di prestare soccorso ai naufraghi del "Da Noli". Si mise in contatto col "Regolo", ma questi non riuscì a intercettare con chiarezza i messag- gi. Il "Pegaso", che doveva andare in soccorso del "Da Noli", non potè farlo a causa degli attacchi aerei. Anche il "Vivaldi" fu attaccato fra le 19 e le 20 e rispose con tutte le armi che aveva ancora in efficienza.Con una sola caldaia parzialmente utilizzabile la nave si trascinò oltre l'Asinara, ma alle 5.30 del 10 settembre si fermò e il comandante Camicia diede l'ordine di autoaffondarla.

I 240 uomini superstiti (40 erano morti) si imbarcarono su tutti i mezzi disponibili a bordo; per ultimo, a nuoto, si mise in salvo il comandante. Ma due uomini, il capitano di corvetta Alessandro Cavriani e il capo meccanico Virginio Fasan, si avvidero che qualcosa non procedeva esattamente nell'affondamento e quindi nonostante i richiami del comandante Camicia, si buttarono in acqua e tornarono nuotando sul "Vivaldi" per affrettarne la fine. Morirono con la nave, davanti ai compagni che li videro sparire mentre, dopo aver compiuto l'opera loro, ritti sul castello, salutavano la ban- diera. La Marina li annovera tra le medaglie d'oro alla memoria.

Ai naufraghi toccò una dolorosissima odissea durata più giorni col mare grosso e scarsità d'acqua, che costò altri 18 morti all'unità. Dell'equipaggio del "Da Noli", morirono 218 uomini e ne scampa- rono 39, che poterono raggiungere la Corsica con grande fatica, ostacolati da violento vento di levante che spazzava le Bocche di Bonifacio.

71 Questo l'olocausto si consumò nelle acque di La Maddalena.

Alla memoria dei marinai della "Roma" fu innalzata una colonna granitica decorata da un gruppo bronzeo dello scultore Fontana rappresentante la procellaria sull'isolotto della paura presso Santo Stefano. Migliaia di barche di turisti festosi e chiassosi le passano davanti. Pochi domandano cosa significhi quella colonna e viene loro risposto: "È per una nave affondata...".

72