100 Anni Di Ingmar Bergman
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100 ANNI DI INGMAR BERGMAN settembre - dicembre 2018 UFFICIO CINEMA Collana a cura dell’Ufficio Cinema del Comune di Reggio Emilia piazza Casotti 1/c - 42121 Reggio Emilia telefono 0522/456632 - 456763 fax 0522/585241 cura rassegna e organizzazione 100 ANNI DI INGMAR BERGMAN Sandra Campanini cura catalogo Angela Cervi impaginazione Angela Cervi amministrazione Cinzia Biagi servizi tecnici Ero Incerti servizi diversi Giorgio Guerri Cinema Rosebud settembre - dicembre 2018 PROGRAMMA SOMMARIO lunedì 17 settembre 7 CIÒ CHE RISPONDE INGMAR BERGMAN, QUANDO RISPONDE • IL POSTO DELLE FRAGOLE (1957) 91’ 9 INTRODUZIONE di Jacques Mandelbaum lunedì 24 settembre 15 LO SCHIAFFO DI “LUCI D’INVERNO” • MONICA E IL DESIDERIO (1952) 92’ di Aldo Garzia mercoledì 7 novembre 21 I COLLEGHI REGISTI, LA CURIOSITÀ PER I GIOVANI di Aldo Garzia • IL SETTIMO SIGILLO (1957) 96’ LE SCHEDE lunedì 26 novembre 31 IL POSTO DELLE FRAGOLE • SUSSURRI E GRIDA (1972) 91’ 41 MONICA E IL DESIDERIO lunedì 10 dicembre 51 IL SETTIMO SIGILLO • SCENE DA UN MATRIMONIO (1975) 168’ 61 SUSSURRI E GRIDA 71 SCENE DA UN MATRIMONIO mercoledì 19 dicembre 79 FANNY E ALEXANDER • FANNY E ALEXANDER (1982) 188’ 93 BIOGRAFIA 101 FILMOGRAFIA 4 5 “”CIÒ CHE RISPONDE INGMAR BERGMAN, QUANDO RISPONDE” (Il regista)... È un illusionista. Se guardiamo l’elemento fondamentale dell’arte cinematografica constatiamo che questa si compone di piccole immagini rettangolari ognuna delle quali è separata dalle altre da una grossa riga nera. Guardando più da vicino si scopre che questi minuscoli rettangoli, i quali a prima vista sembrano contenere lo stesso motivo, differiscono l’uno dall’altro per una modificazione quasi impercettibile di tale motivo. E quando l’apparecchio di proiezione fa scorrere sullo schermo le immagini in questione, in modo da non lasciarne vedere che una sola ogni venti- quattresimo di secondo, abbiamo l’illusione del movimento. In mezzo a ognuno di questi piccoli rettangoli l’otturatore passa davanti alla lente e ci immerge nell’oscurità, per poi riportarci in piena luce con il rettangolo seguente. Quando avevo solo dieci anni e maneggiavo il mio primo proiettore di latta traballante, col suo camino, la sua lampada a petrolio e i suoi film ripetuti all’infinito, trovavo questo fenomeno misterio- so ed eccitante. Oggi ancora sento in me uno di quei brividi dell’infanzia quando penso che in realtà io faccio dell’illusionismo, perché il cinema non esiste che grazie a una imperfezione dell’occhio umano, la sua incapacità di percepire separatamente delle immagini che si susseguono rapidamente e che essenzialmente sono simili. Ho calcolato che vedendo un film della durata di un’ora sono immerso per 20 minuti nel nero assoluto. Facendo un film mi rendo dunque colpevole di un imbroglio, mi servo di un apparecchio grazie al quale trasporto il mio pubblico, come su una altalena, da un sentimento a quello oppo- sto, lo faccio ridere, sorridere, gridare di spavento, credere a leggende, indignarsi, risentirsi, entusiasmarsi, eccitarsi o sbadigliare. Sono quindi o un ingannatore, o – nel caso di un pubblico cosciente dell’inganno – un illusionista. Mistifico, avendo a mia disposizione il più prezioso e stupendo degli apparecchi magici che sia mai stato, nel corso della storia del mondo, in mano a un prestigiatore. Ingmar Bergman sul set di Come in uno specchio (1961) Tino Ranieri, Ingmar Bergman, Il Castoro cinema, 12/1974 7 INTRODUZIONE Acclamato fin dagli anni ‘50 come il regista che ha saputo portare il ci- nema ai massimi vertici della Settima Arte e considerato come il faro del cinema d’essai europeo – che lo celebra con costanti retrospettive – nel 1982 Ingmar Bergman annunciò di voler abbandonare la regia. Presentò Fanny e Alexander come il suo ultimo film, anche se poi continuò a lavorare sporadicamente per la televisione. Bergman, che fu il primo ad alimentare una reputazione di uomo complesso e difficile – egocentrico, tormentato e manipolatore, travolto da una passione per le donne che lo ha portato a cinque matrimoni e numerose relazioni extraconiugali –, ha saputo trasporre sullo schermo il suo universo interiore, percorso da un profondo disagio esistenziale. Ha anzi trasformato quest’ultimo in un’opera d’arte che reca in sé i grandi temi esistenziali: come riuscire a conoscere veramente se stessi? Quale consapevolezza, quali credenze, quali strumenti possono contribuire a questa ricerca? Come sfuggire alle proprie maledizioni? Quanto può la nostra volontà influire sul lato oscuro e tormentato di noi stessi? Come raggiungere la verità, di testa e di cuore? E, perlomeno, esiste questa verità o non è altro che una serie infinita di illusioni? Bergman incarna questi temi – che appaiono tanto limpidi quanto profondi al punto da esporlo al biasimo non fosse che per i richiami alla sua vita privata – come pochi registi hanno avuto il coraggio di fare, scandagliandoli con tenacia e facendone dei capolavori. A tessere il contesto fisico e metafisico che li generano, nella cinquantina di film che il cineasta dirige tra il 1945 e il 2003, sono le istituzioni (la religione, la famiglia, l’arte), le ossessioni (la coppia, il sesso, la morte), i motivi iconografici (lo specchio, la maschera, il doppio), gli accorgimenti stilistici (primi piani, piani frontali, spazi chiusi). Nella sua lunga carriera, Bergman si è distinto anche come autore radio- fonico e di teatro, regista e romanziere, scrittore di racconti e saggista, diarista e sceneggiatore. La peregrinazione e la metamorfosi dei suoi temi prediletti nei diversi ambiti meriterebbero da soli uno studio approfondito, non foss’altro che dalla prospettiva della sua opera cinematografica. Ingmar Bergman con Liv Ullmann 9 CataBergman.indd 8-9 18/12/2018 10:09:59 Sebbene susciti ammirazione, il nome di Ingmar Bergman provoca spesso un certo disagio. Fin qui, nulla di nuovo. Artista colto, che nella sua opera non fa mistero della propria cultura, Bergman diventa egli stesso il mo- dello di un’arte trasformata in patrimonio universale e celebrata come tale ovunque nel mondo. Per la stessa ragione egli è divenuto la bestia nera di alcuni liberi pensatori. E ciò è spesso dovuto a un anti-intellettualismo militante, che fa della vocazione ricreativa del cinema il proprio cavallo di battaglia e non supera mai il grado zero dell’idiozia. Questo giudizio, tuttavia, appartiene anche a una certa fronda di cinefili che prediligono la dimensione controculturale del cinema. Marguerite Duras, per esempio, ha confessato di non amare Bergman in quanto, a suo dire, rappresen- tava l’incarnazione di un cinema colto ma pretenzioso, contrariamente a un regista come il danese Carl Dreyer, che la scrittrice aveva eletto suo alter ego artistico. Gli uni e gli altri, per motivi diversi, hanno sottovalutato il cinema di Bergman, incasellandolo per l’esatto contrario di quello che invece è, ossia l’espressione di una propensione radicata alla mescolanza e alla contaminazione dei generi, una inquietudine che si traduce in una incessante sperimentazione, un rifiuto assoluto della posa e della pompa artistica. In poche parole, il gusto del rischio, la sete di novità, una verve vitale e viscerale, il tutto lontano mille miglia dalla sinistra reputazione attribuita alla sua opera. L’attrazione di Bergman per questa “rivoluzione permanente” nasce da lon- tano, dalla sua infanzia. Non la si può evocare senza passarne in rassegna le numerose allusioni che il cineasta fa nella propria opera, e ancor di più, nella descrizione dettagliata che ritroviamo nella sua notevole autobiografia, Lanterna magica. Eppure, l’importanza che Bergman conferisce qua e là al suo passato aggrava il compito anziché facilitarlo. Così facendo, il regista confonde le carte elaborando deliberatamente il proprio mito, dando in pa- sto al lettore un romanzo delle origini nel quale diventa oltremodo difficile distinguere il vero dal falso, laddove la finzione cinematografica abbonda Ingmar Bergman sul set di Fanny e Alexander (1982) 11 di riferimenti personali, mentre la scrittura autobiografica dichiara il suo ricorso al romanzesco. Emerge qui una delle qualità più crude e ardite della creazione bergmaniana, che non smette mai di mostrare come la ricerca della verità, per quanto sincera, altro non è che la forma più sottile della menzogna, e che il superamento delle apparenze è tutt’al più l’apparenza di un superamento. Addentrarsi in questa biografia è quindi come cammi- nare nelle sabbie mobili, dove la leggenda sfida incessantemente la realtà, poiché Ingmar Bergman – da demiurgo con un debole per il demoniaco nonché indefesso sostenitore dell’auto-analisi – ha fatto in modo da esserne la principale fonte accreditata. (...) Jacques Mandelbaum, “Prologo-Ritratto dell’artista da giovane ribelle”, in Ingmar Bergman, Cahiers du cinéma, 2011. Sull’isola di Fårö 13 LO SCHIAFFO DI “LUCI D’INVERNO” Chi ama l’arte di Bergman ha un suo film a cui è più legato rispetto ad altri. Quando ho visto per la prima volta Fanny e Alexander, ricordo di aver lasciato il cinema Rivoli di Roma in preda alla delusione. Quell’affondare il bisturi sui mali della famiglia, tra la nostalgia di un Natale trascorso a Uppsala nella casa della nonna e la repellente figura di un pastore pro- testante incapace di fare il padre, mi era sembrato un modo ripetitivo di ripercorrere la drammaturgia bergmaniana. Fanny e Alexander impressio- nava certo per il rigore stilistico e la fotografia di Sven Nykvist, oltre che per la straordinaria recitazione degli attori ma l’emozione immediata era stata più forte nel vedere Sussurri e grida nel 1973 o Sinfonia di autunno nel 1979. La visione della versione integrale di Fanny e Alexander, ben più maestosa e meno apodittica di quella cinematografica, e poi di Fanny e Alexander Dokument (il backstage), mi avrebbero in seguito riconciliato con quel film. Bergman che prepara le scene, gli attori e che dialoga con Nykvist per ottenere le inquadrature migliori e le tonalità di luce più efficaci è un cinema nel cinema che fa capire come per il regista l’unica realtà in cui calarsi del tutto fosse quella della rappresentazione.