100 ANNI DI

settembre - dicembre 2018 UFFICIO CINEMA Collana a cura dell’Ufficio Cinema del Comune di Reggio Emilia piazza Casotti 1/c - 42121 Reggio Emilia telefono 0522/456632 - 456763 fax 0522/585241

cura rassegna e organizzazione 100 ANNI DI INGMAR BERGMAN Sandra Campanini cura catalogo Angela Cervi impaginazione Angela Cervi amministrazione Cinzia Biagi servizi tecnici Ero Incerti servizi diversi Giorgio Guerri

Cinema Rosebud settembre - dicembre 2018 PROGRAMMA SOMMARIO

lunedì 17 settembre 7 CIÒ CHE RISPONDE INGMAR BERGMAN, QUANDO RISPONDE • IL POSTO DELLE FRAGOLE (1957) 91’ 9 INTRODUZIONE di Jacques Mandelbaum lunedì 24 settembre 15 LO SCHIAFFO DI “LUCI D’INVERNO” • MONICA E IL DESIDERIO (1952) 92’ di Aldo Garzia mercoledì 7 novembre 21 I COLLEGHI REGISTI, LA CURIOSITÀ PER I GIOVANI di Aldo Garzia • IL SETTIMO SIGILLO (1957) 96’

LE SCHEDE lunedì 26 novembre 31 IL POSTO DELLE FRAGOLE • SUSSURRI E GRIDA (1972) 91’ 41 MONICA E IL DESIDERIO lunedì 10 dicembre 51 IL SETTIMO SIGILLO • SCENE DA UN MATRIMONIO (1975) 168’ 61 SUSSURRI E GRIDA 71 SCENE DA UN MATRIMONIO mercoledì 19 dicembre 79 FANNY E ALEXANDER • FANNY E ALEXANDER (1982) 188’ 93 BIOGRAFIA

101 FILMOGRAFIA

4 5 “”CIÒ CHE RISPONDE INGMAR BERGMAN, QUANDO RISPONDE”

(Il regista)... È un illusionista. Se guardiamo l’elemento fondamentale dell’arte cinematografica constatiamo che questa si compone di piccole immagini rettangolari ognuna delle quali è separata dalle altre da una grossa riga nera. Guardando più da vicino si scopre che questi minuscoli rettangoli, i quali a prima vista sembrano contenere lo stesso motivo, differiscono l’uno dall’altro per una modificazione quasi impercettibile di tale motivo. E quando l’apparecchio di proiezione fa scorrere sullo schermo le immagini in questione, in modo da non lasciarne vedere che una sola ogni venti- quattresimo di secondo, abbiamo l’illusione del movimento. In mezzo a ognuno di questi piccoli rettangoli l’otturatore passa davanti alla lente e ci immerge nell’oscurità, per poi riportarci in piena luce con il rettangolo seguente. Quando avevo solo dieci anni e maneggiavo il mio primo proiettore di latta traballante, col suo camino, la sua lampada a petrolio e i suoi film ripetuti all’infinito, trovavo questo fenomeno misterio- so ed eccitante. Oggi ancora sento in me uno di quei brividi dell’infanzia quando penso che in realtà io faccio dell’illusionismo, perché il cinema non esiste che grazie a una imperfezione dell’occhio umano, la sua incapacità di percepire separatamente delle immagini che si susseguono rapidamente e che essenzialmente sono simili. Ho calcolato che vedendo un film della durata di un’ora sono immerso per 20 minuti nel nero assoluto. Facendo un film mi rendo dunque colpevole di un imbroglio, mi servo di un apparecchio grazie al quale trasporto il mio pubblico, come su una altalena, da un sentimento a quello oppo- sto, lo faccio ridere, sorridere, gridare di spavento, credere a leggende, indignarsi, risentirsi, entusiasmarsi, eccitarsi o sbadigliare. Sono quindi o un ingannatore, o – nel caso di un pubblico cosciente dell’inganno – un illusionista. Mistifico, avendo a mia disposizione il più prezioso e stupendo degli apparecchi magici che sia mai stato, nel corso della storia del mondo, in mano a un prestigiatore.

Ingmar Bergman sul set di Come in uno specchio (1961) Tino Ranieri, Ingmar Bergman, Il Castoro cinema, 12/1974

7 INTRODUZIONE

Acclamato fin dagli anni ‘50 come il regista che ha saputo portare ilci- nema ai massimi vertici della Settima Arte e considerato come il faro del cinema d’essai europeo – che lo celebra con costanti retrospettive – nel 1982 Ingmar Bergman annunciò di voler abbandonare la regia. Presentò Fanny e Alexander come il suo ultimo film, anche se poi continuò a lavorare sporadicamente per la televisione. Bergman, che fu il primo ad alimentare una reputazione di uomo complesso e difficile – egocentrico, tormentato e manipolatore, travolto da una passione per le donne che lo ha portato a cinque matrimoni e numerose relazioni extraconiugali –, ha saputo trasporre sullo schermo il suo universo interiore, percorso da un profondo disagio esistenziale. Ha anzi trasformato quest’ultimo in un’opera d’arte che reca in sé i grandi temi esistenziali: come riuscire a conoscere veramente se stessi? Quale consapevolezza, quali credenze, quali strumenti possono contribuire a questa ricerca? Come sfuggire alle proprie maledizioni? Quanto può la nostra volontà influire sul lato oscuro e tormentato di noi stessi? Come raggiungere la verità, di testa e di cuore? E, perlomeno, esiste questa verità o non è altro che una serie infinita di illusioni? Bergman incarna questi temi – che appaiono tanto limpidi quanto profondi al punto da esporlo al biasimo non fosse che per i richiami alla sua vita privata – come pochi registi hanno avuto il coraggio di fare, scandagliandoli con tenacia e facendone dei capolavori. A tessere il contesto fisico e metafisico che li generano, nella cinquantina di film che il cineasta dirige tra il 1945 e il 2003, sono le istituzioni (la religione, la famiglia, l’arte), le ossessioni (la coppia, il sesso, la morte), i motivi iconografici (lo specchio, la maschera, il doppio), gli accorgimenti stilistici (primi piani, piani frontali, spazi chiusi). Nella sua lunga carriera, Bergman si è distinto anche come autore radio- fonico e di teatro, regista e romanziere, scrittore di racconti e saggista, diarista e sceneggiatore. La peregrinazione e la metamorfosi dei suoi temi prediletti nei diversi ambiti meriterebbero da soli uno studio approfondito, non foss’altro che dalla prospettiva della sua opera cinematografica. Ingmar Bergman con Liv Ullmann

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CataBergman.indd 8-9 18/12/2018 10:09:59 Sebbene susciti ammirazione, il nome di Ingmar Bergman provoca spesso un certo disagio. Fin qui, nulla di nuovo. Artista colto, che nella sua opera non fa mistero della propria cultura, Bergman diventa egli stesso il mo- dello di un’arte trasformata in patrimonio universale e celebrata come tale ovunque nel mondo. Per la stessa ragione egli è divenuto la bestia nera di alcuni liberi pensatori. E ciò è spesso dovuto a un anti-intellettualismo militante, che fa della vocazione ricreativa del cinema il proprio cavallo di battaglia e non supera mai il grado zero dell’idiozia. Questo giudizio, tuttavia, appartiene anche a una certa fronda di cinefili che prediligono la dimensione controculturale del cinema. Marguerite Duras, per esempio, ha confessato di non amare Bergman in quanto, a suo dire, rappresen- tava l’incarnazione di un cinema colto ma pretenzioso, contrariamente a un regista come il danese Carl Dreyer, che la scrittrice aveva eletto suo alter ego artistico. Gli uni e gli altri, per motivi diversi, hanno sottovalutato il cinema di Bergman, incasellandolo per l’esatto contrario di quello che invece è, ossia l’espressione di una propensione radicata alla mescolanza e alla contaminazione dei generi, una inquietudine che si traduce in una incessante sperimentazione, un rifiuto assoluto della posa e della pompa artistica. In poche parole, il gusto del rischio, la sete di novità, una verve vitale e viscerale, il tutto lontano mille miglia dalla sinistra reputazione attribuita alla sua opera. L’attrazione di Bergman per questa “rivoluzione permanente” nasce da lon- tano, dalla sua infanzia. Non la si può evocare senza passarne in rassegna le numerose allusioni che il cineasta fa nella propria opera, e ancor di più, nella descrizione dettagliata che ritroviamo nella sua notevole autobiografia, Lanterna magica. Eppure, l’importanza che Bergman conferisce qua e là al suo passato aggrava il compito anziché facilitarlo. Così facendo, il regista confonde le carte elaborando deliberatamente il proprio mito, dando in pa- sto al lettore un romanzo delle origini nel quale diventa oltremodo difficile distinguere il vero dal falso, laddove la finzione cinematografica abbonda Ingmar Bergman sul set di Fanny e Alexander (1982)

11 di riferimenti personali, mentre la scrittura autobiografica dichiara il suo ricorso al romanzesco. Emerge qui una delle qualità più crude e ardite della creazione bergmaniana, che non smette mai di mostrare come la ricerca della verità, per quanto sincera, altro non è che la forma più sottile della menzogna, e che il superamento delle apparenze è tutt’al più l’apparenza di un superamento. Addentrarsi in questa biografia è quindi come cammi- nare nelle sabbie mobili, dove la leggenda sfida incessantemente la realtà, poiché Ingmar Bergman – da demiurgo con un debole per il demoniaco nonché indefesso sostenitore dell’auto-analisi – ha fatto in modo da esserne la principale fonte accreditata. (...) Jacques Mandelbaum, “Prologo-Ritratto dell’artista da giovane ribelle”, in Ingmar Bergman, Cahiers du cinéma, 2011.

Sull’isola di Fårö

13 LO SCHIAFFO DI “LUCI D’INVERNO”

Chi ama l’arte di Bergman ha un suo film a cui è più legato rispetto ad altri. Quando ho visto per la prima volta Fanny e Alexander, ricordo di aver lasciato il cinema Rivoli di Roma in preda alla delusione. Quell’affondare il bisturi sui mali della famiglia, tra la nostalgia di un Natale trascorso a Uppsala nella casa della nonna e la repellente figura di un pastore pro- testante incapace di fare il padre, mi era sembrato un modo ripetitivo di ripercorrere la drammaturgia bergmaniana. Fanny e Alexander impressio- nava certo per il rigore stilistico e la fotografia di Sven Nykvist, oltre che per la straordinaria recitazione degli attori ma l’emozione immediata era stata più forte nel vedere Sussurri e grida nel 1973 o Sinfonia di autunno nel 1979. La visione della versione integrale di Fanny e Alexander, ben più maestosa e meno apodittica di quella cinematografica, e poi di Fanny e Alexander Dokument (il backstage), mi avrebbero in seguito riconciliato con quel film. Bergman che prepara le scene, gli attori e che dialoga con Nykvist per ottenere le inquadrature migliori e le tonalità di luce più efficaci è un cinema nel cinema che fa capire come per il regista l’unica realtà in cui calarsi del tutto fosse quella della rappresentazione. Di fronte a una scena ben riuscita, gli si illuminava il volto. Nulla sul set era lasciato all’improvvisazione. Il film che mi ha fatto accostare a Bergman senza tentennamenti èstato invece Luci d’inverno, visto alla fine degli anni Sessanta. Era facile ricono- scersi, come in un transfert, nel personaggio di Tomas Ericsson (Gunnar Björnstrand), il pastore luterano che perde la fede, non sa confortare i fedeli e parla con distacco di cose divine come se fosse un impiegato che ogni tanto dice messa e dialoga svogliatamente con chi ha bisogno di una parola di speranza. Questo film si svolge in uno scenario tipicamente svedese: la neve, una comunità dispersa su un grande territorio, poche persone che cercano un contatto tra loro e sono incapaci di capirsi. L’intera ambientazione è una scenografia ideale per parlare del freddo dell’anima, Luci d’inverno (1963) dei dubbi religiosi, del rapporto con un Dio che non dà manifestazioni di sé.

15 La trasposizione in italiano del titolo originale del film (Nattvardsgästerna) a vedere i suoi film nelle sale d’essai di Roma (Rialto, Farnese, Nuovo tradisce quel I comunicandi che ne sarebbe la traduzione letterale. Tutto il Olimpia, Filmstudio), un’altra parte di noi prendeva il sopravvento: era quel- film è infatti la ricerca disperata, mai pienamente conclusa, di chi vorrebbe la più intima, più bisognosa di amore, più desiderosa di essere coltivata comunicare stabilmente con Dio e attraverso di lui con gli altri esseri umani con il concime della cultura e del dubbio. Capivamo immediatamente, pur che ci circondano nella vita terrena. con qualche ritrosia, che Bergman ci indicava il territorio off limits della Luci d’inverno, visto alla fine degli anni Sessanta, era simile a uno schiaffo politica, dando l’altolà a chi pensando di costruire una società più giusta per coloro che stavano facendo intimamente i conti con «il silenzio di Dio» e credeva pure di eliminare le domande di senso che appartengono alle vite si interrogavano su quale via valesse la pena di incamminarsi per costruire individuali di ciascuno. Ci affascinava anche la sua biografia libertaria: l’arte il proprio futuro. Il film provocava, esigeva risposte, poneva interrogativi radi- al primo posto, prima della famiglia e delle convenzioni sociali, nessun cali e alla fine forse consolava perché esprimendo un’idea della fede come compromesso con il potere. dubbio permanente non obbligava a un prendere o lasciare. Il problema di È però discutibile che in Bergman ci sia un’impoliticità solipsistica. Basta Dio – ammoniva Bergman – resta un tormento insoluto con cui convivere, non citare un film come Prigione, addirittura del 1949. L’ambientazione è quella una consolazione su cui adagiarsi. Luci d’inverno serviva anche a prendere di un set dove si sta girando un film. Al regista Martin si avvicina un vecchio le misure alla cultura protestante del nord Europa, molto diversa da quella professore di matematica che egli non vede da tempo. È reduce dal ricovero dei paesi cattolici del Mediterraneo. Pure il peculiare socialismo svedese in una clinica psichiatrica. Ha un’idea per un film sull’Inferno e sul Diavolo. poteva spiegarsi alla luce delle radici di quella cultura: un forte sentimento Dovrebbe cominciare con il proclama del Diavolo che ha conquistato la di responsabilità individuale, che deriva dal rapporto diretto con Dio, unito Terra: «Ordino che tutto rimanga com’è». Le uniche alternative all’inferno in a un altrettanto forte sentimento di appartenenza a una comunità. Quella Terra, sembra dire Bergman in quel film, sono la fede in Dio o il suicidio. radice identitaria protestante può spiegare più di tanti ragionamenti politici Ma siccome Dio rischia di morire nella società contemporanea (riecheggia l’equilibrio che la società svedese ha trovato nel suo modello sociale che qui la lezione di Nietzsche) e il suicidio presuppone un istinto autodistrut- combina dimensione collettiva e individuale senza mortificare la seconda, tivo che l’uomo non possiede, ecco che la vera alternativa la pronuncia come invece è avvenuto in tutte le società che hanno seguito il modello Thomas, uno dei protagonisti: «Perdiamo poco a poco la nostra identità, dell’Unione Sovietica post-rivoluzionaria (chissà che una certa concezione quello che chiamiamo anima». E poi, rispondendo a un altro personaggio statalizzante e di oppressione del singolo individuo non trovi spiegazione che gli consiglia di farsi visitare da uno psicanalista, dice lapidario: «Non anche nella tradizione religiosa ortodossa russa, così grondante di certezze sono altro che dei chiacchieroni. Non possono darti un’altra anima». e di simbologie opprimenti). Se l’alternativa alla prigione esistenziale è quella tra la fede in Dio e il suicidio, Per la generazione che nel Sessantotto scopriva il fascino della politica e Bergman fornisce una possibile via d’uscita dal labirinto con l’indicazione dava priorità alla possibilità di cambiare il mondo con l’azione concreta e della difesa della propria identità che individua nell’anima, cioè in ciò che la dimensione collettiva gettando all’aria i dubbi metafisici sui limiti dell’illu- appartiene solo a ognuno di noi e che ci rende diversi gli uni dagli altri. minismo, il cinema di Bergman costituiva una sfida. Quando si andavano Potremmo aggiungere che se la politica non parla ai cuori e alle passioni

16 17 dell’anima, riuscendo a migliorare la condizione di vita terrena di ognuno vita intellettuale e spirituale di un individuo e dire: osserva, questo fenomeno senza dimenticare di alleviare pure le infelicità invisibili, allora sì che vince consiste in questo, questo e quest’altro, eccetera. la teoria del professore di matematica di Prigione: non c’è inferno peggiore E da tutto questo la gente può ricevere un’esperienza emotiva, o uno che quello terreno, se perfino il Diavolo, dopo la sua vittoria su Dio, ordina shock, oppure può scoprire improvvisamente che si tratta di cose bellissi- di lasciare sulla Terra tutto com’è e di non smuovere neppure un sassolino. me o magari buffissime. E io non pretendo più di questo, le mie pretese Bergman, così attento ai tormenti dell’anima, alla relazione tra persone e non vanno oltre. alla vita di coppia fuori dalla dimensione collettiva e sociale, è stato perciò Aldo Garzia, Bergman-The Genius, Editori Riuniti-University Press, 2010. molto amato da una parte della sinistra italiana ed europea – seppure minoritaria – degli anni Sessanta e Settanta che lo ha considerato come il proprio inconscio. Il lavoro artistico bergmaniano ruotava intorno a inter- rogativi su tutto ciò che la politica troppo spesso finisce per rimuovere in nome di un presunto universalismo che banalizza i sentimenti e le aspetta- tive individuali (Persona, Il silenzio, La vergogna sono pugni ben assestati in questa direzione). Bergman ci ricordava in continuazione che c’è un territorio intimo – fatto di sentimenti, sensibilità, bisogno di amore, legami con l’infanzia, interrogativi di senso – dove solo i singoli individui possono agire, e devono farlo da soli. A tutto questo aggiungeva l’ammonimento che immaginazione, arte e creatività non possono essere ingabbiate in nessuna forma di autorità. Il rito, 1969, è film straordinario da questo punto di vista: è la risposta bergmaniana al movimento del 1968 con l’avvertenza che tutti i poteri, proprio tutti e di ogni colore, limitano la libertà. Quando gli avevano chiesto se non si pentiva di aver passato tutte le gior- nate della sua lunga vita o in teatro o sul set di un film o ripiegato sulla scrivania a scrivere, Bergman aveva risposto con semplicità: Secondo me, si deve continuare comunque perché credo che una persona, finché vive, deve continuare a fare quello che gli piace. In fondo, quello che uno fa, lo fa prima di tutto per se stesso, anche se il fine ultimo è sempre quello di mettersi in contatto con gli altri. Si cerca sempre di dire: ascolta un momento, vieni qua e forse imparerai qualcosa di nuovo. Oppure: dà una occhiata qua, guarda quanto è bello. Oppure si può vivisezionare la

18 19 I COLLEGHI REGISTI, LA CURIOSITÀ PER I GIOVANI

Quando nel 1994 il Festival internazionale del cinema di Göteborg gli chiede di stilare la lista dei suoi film preferiti, Bergman non si fa pregare: 1) Il circo (1928) di Charles Chaplin; 2) Il porto delle nebbie (1938) di Marcel Carné; 3) Direttore d’orchestra (1979) di Andrzej Wajda; 4) Il quartiere del corvo (1963) di Kvarteret Korpen e Bo Widerberg; 5) La passione di Gio- vanna D’Arco (1927) di Carl Theodor Dreyer 6) Il carretto fantasma (1921) di Victor Sjöström; 7) Rashomon (1951) di Akira Kurosawa; 8) La strada (1954) di Federico Fellini; 9) Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder; 10) Due sorelle (1981) di Margarethe von Trotta; 11) Andrei Rublëv (1969) di Andreij Tarkovskij. In questa lista di preferenze bergmaniane, l’unica sorpresa è il richiamo a un film dello svedese Bo Widerberg (1930-1997), che nel 1960 aveva esordito nella critica cinematografica con un saggio antipatizzante nei con- fronti del cinema di Bergman (quello in cui lo definiva «il nostro cavallo Dala»). I suoi film erano molto diversi da quelli bergmaniani. Proprio con Il quartiere del corvo aveva aperto un ciclo di denuncia storico-sociale e di ricerca sulle radici della storia della Svezia, poi concluso in trilogia con Ådalen 31 (1969, vincitore di un premio al Festival di Cannes) e Joe Hill (1970, biografia del sindacalista anarchico Joel Hogglund), girato negli Stati Uniti e vincitore del premio speciale della giuria a Cannes. Trasformatosi in un mito a cui prendere le misure, anche i suoi colleghi di varie generazioni hanno dato il loro giudizio su Bergman. Al danese Carl Theodor Dreyer piaceva soprattutto una pellicola: «Ho visto un film di Bergman che mi è piaciuto molto, Il silenzio. Credo che questo film sia davvero riuscito, perché ha avuto il coraggio di prendere un soggetto molto difficile e molto delicato da trattare trovando la soluzione giusta per trattarlo. Ho visto il film a Stoccolma, in un grande cinema, e durante la proiezio- ne – e anche dopo, mentre la gente lasciava la sala – su tutti regnava il silenzio più totale. Era impressionante. E questo prova che Bergman aveva Ingmar Bergman con Victor Sjöström sul set di Il posto delle fragole (1957) raggiunto il suo scopo a dispetto del soggetto rischioso, e che aveva fatto Foto: Louis Huch - AB Svensk Filmindustri

21 quello che andava fatto. Ma ho visto pochissimi dei suoi film, e l’ho fatto chi vincerà alla fine. Ma intanto c’è il suo cinema, che apprezzo, e che regola perché si cominciava a dire che aveva imitato quelli di Dreyer» (Cahiers tutto il gioco, nitidamente». (Federico Fellini, intervista sul cinema, 2004) du cinéma, n. 170, settembre 1965). Jean-Luc Godard, innamorato in particolare di Monica e il desiderio, ha Orson Welles ha usato parole di stima (non ricambiate perché Bergman paragonato il regista svedese a Marcel Proust: «Il cinema non ha nulla a avrà modo di dichiarare di sentirsi molto distante dal suo modo di fare ci- che fare con la professione. È un’arte. Non è affatto un gioco di squadra. nema): «In Il posto delle fragole c’è un’interpretazione davvero grande del Uno è sempre solo, sia in un teatro di posa che di fronte a una pagina vecchio Victor Sjöström, uno dei giganti. Se mi è capitato di non provare vuota. E per Bergman essere solo equivale a porsi delle domande. E fare interesse per qualche film di gman,Ber­ è solo per una questione di tem- film equivale a rispondere a esse. Non ci si potrebbe avvicinare dipiù peramento, di scarsa affinità con i problemi di quel suo mondo nordico». al classico concetto di romanticismo. Ingmar Bergman è il cineasta dei (Io, Orson Welles, 1996). momenti particolari. I suoi film sono strutturati a partire dalle riflessioni del François Truffaut era entusiasta: «C’è molta poesia nel cinema di Bergman, protagonista sul presente e sono ulteriormente approfonditi dalla frantuma- ma ce ne accorgiamo a cose fatte. L’essenziale sta piuttosto nella ricerca zione della durata – alla maniera di Proust, ma in modo molto più efficace, di una verità, che si fa sempre più fruttuosa. Il punto di forza di Bergman come se Proust stesso venisse moltiplicato da Joyce e da Rousseau al è anzitutto la direzione degli attori. Egli conferisce i ruoli principali dei suoi tempo stesso, e risultano così come una sorta di gigantesca meditazione film ai cinque o sei attori prediletti, che riesce a rendere irriconoscibili da un a partire da un’istantanea» (Ingmar Bergman, 1999). film all’altro impiegandoli in ruoli diametralmente opposti. Chiede raramente Quando a Stanley Kubrick avevano chiesto cosa pensasse di altri registi, ai suoi attori di rifare una scena e non cambia mai una riga dei suoi dia- non aveva evitato di tessere le lodi di Bergman: «Amavo moltissimo il loghi, scritti di getto e senza alcun piano prestabilito. Bergman è un uomo cinema di Max Ophüls. Lo metto al primo posto, sommava in sé tutte le testardo e schivo. Dedica la sua vita al teatro e al cinema, si sente che qualità. Aveva un gran fiuto nello scovare buoni soggetti, era poi un grande non è felice se non quando lavora circondato da attrici e non sarà facile direttore di attori. Mi piacciono moltissimo i suoi insoliti movimenti di mac- vedere un film di Bergman senza donne. Lo immagino più femminile che china che sembrano andare avanti all’infinito in uno scenario da labirinto. femminista, poiché nei suoi film le donne non sono viste da un punto di vista L’autore che ammiro di più dopo Ophüls è certamente Ingmar Bergman, maschile, ma studiate con profonda complicità e tratteggiate con estrema di cui ho visto tutti i film. Amo enormemente Sorrisi di una notte d’estate» sottigliezza, laddove i personaggi maschili sono stereotipati. Il volto umano: (...). Molti critici hanno inoltre indagato sulle influenze che il film bergma- nessuno lo ritrae così da vicino come Bergman» (Ingmar Bergman, 1999). niano L’ora del lupo (1968) avrebbe avuto su Shining (1980) di Kubrick, Federico Fellini considerava Bergman un fratello più anziano: «Dovevamo dove il protagonista Jack Torrance (Jack Nicholson) sembra vivere molte fare un film insieme, a episodi, con Kurosawa, dove ci sarebbe stato anche delle ossessioni maniacali che avvolgono Johan, il protagonista del film di Bergman. Poi il film non l’abbiamo più fatto. Bergman mi sembrava un fratello Bergman (Max von Sydow). maggiore. Più serio, più infelice, o forse meno, perché l’infelicità in lui mi Woody Allen, che a un certo punto della sua carriera rende omaggio a sembra come raccolta in un implacabile dibattito con i suoi fantasmi. Chissà Bergman con il film Interiors (1978), ha detto più volte di essersi ispira-

22 23 to in molte occasioni al cinema del regista svedese (ha pure cercato la testa). Ecco così che Bibi Andersson è nel cast di La legge del desiderio collaborazione con Nykvist per dare un tocco bergmaniano ad alcuni dei (1987), Tacchi a spillo (1991), Kika (1993). suoi film): «Bergman è veloce, i suoi film costano poco, e la sua piccola Il danese Lars von Trier non ha mai celato la sua devozione: «Ammiro comunità di collaboratori abituali è in grado di imbastire un’opera d’arte di Bergman innanzitutto come sceneggiatore, sa veramente come si scrivono valore assoluto nella metà del tempo e per un decimo del costo di quanto i dialoghi. Più difficile giudicare il suo talento come direttore degli attori, serve ad altri per produrre un inutile spreco di celluloide. In più, scrive da anche se tutti coloro che hanno lavorato con lui sembrano apprezzarlo. In solo i propri copioni. Cosa gli si potrebbe chiedere di più? Ha profondità, quella situazione corrisponde probabilmente all’immagine di un padre. Pare intelligenza, stile, senso dell’immagine, una grande bellezza visuale, ten- che si generi un rapporto di forza, cosa positiva agli occhi degli interpreti. sione drammatica, istinto del narratore, è veloce, è economico, è prolifico, Non chiede loro una recitazione particolarmente naturale, ma piuttosto è innovativo, è inarrivabile nella direzione degli attori. Questo è ciò che teatrale. Considero Bergman un po’ come un padre spirituale e i rapporti intendo quando dico che è il migliore. Forse altri registi lo superano in certi con il proprio padre sono sempre conflittuali». (Lars von Trier. Il cinema settori specifici, ma nessun altro quanto lui è altrettanto completo come come dogma, Mondadori, 2001). artista del cinema» (Ingmar Bergman, 1999). Per quanto riguarda Bergman, sempre parco nei giudizi sui suoi colleghi, Un ammiratore del cinema bergmaniano è pure Pedro Almodóvar, che nel si sa che adorava Charles Chaplin, Marcel Carné, Julien Duvivier, F. W. 2000 dichiara: «Quando ho visto L’infedele, un film su sceneggiatura di Murnau e Andrej Tarkovskij. Mentre diceva di non apprezzare del tutto il Bergman che raccomando assolutamente, ho provato una grande invidia cinema di Michelangelo Antonioni e Jean-Luc Godard, di sentirsi vicino agli per Liv Ullmann che ha diretto come regista uno dei testi in assoluto più «stratagemmi e ai trucchi» usati da Federico Fellini, Akira Kurosawa, Luis crudeli e più belli che abbia mai ascoltato e visto al cinema. Sono sul Buñuel e di apprezzare lo stile di lavoro minuzioso di François Truffaut, la punto di chiedere ufficialmente al signor Bergman: se ha qualche sceneg- tecnica di Alfred Hitchcock e Steven Spielberg. La sua fonte di ispirazione giatura già pronta, io sarei felice di portarla al cinema come ha fatto Liv restavano però i registi svedesi che lo avevano preceduto e con cui aveva Ullmann». La passione del regista spagnolo per il suo collega svedese avuto la possibilità di collaborare: Sjöström, Sjöberg, Molander. Amava risale addirittura agli anni Sessanta: «Ricordo di aver parlato di La fontana perdutamente Il carretto fantasma (1921) di Sjöström, visto per la prima della vergine con i miei amici di scuola. Avevo più o meno dieci anni. Loro volta quando aveva tredici anni: raccontava di rivederlo almeno una volta mi guardavano con un misto di terrore e di fascinazione, come se stessi ogni anno. raccontando qualcosa di straordinario. Di La fontana della vergine ho un Ma è al regista russo Andrej Tarkovskij (1932-1986) che Bergman dedica ricordo indelebile. È stato il primo film di Bergman che ho visto al cinema». parole di entusiastica stima nell’autobiografia: Almodóvar ha voluto per tre volte che una attrice bergmaniana fosse pre- Il film, quando non è un documentario, è un sogno. È per questoche sente nei suoi film con il tocco lieve di una partecipazione in omaggio al Tarkovskij è il più grande di tutti. Si sposta con sicurezza nello spazio cinema di Bergman e al suo amore per gli attori (lo stesso che prova lui dei sogni, non spiega nulla, e d’altronde, cosa potrebbe spiegare? È un stesso per gli interpreti dei propri film, Penelope Cruz e Carmen Maura in visionario che è riuscito a mettere in scena le sue visioni grazie al medium

24 25 più pesante, ma anche più duttile. Ho bussato tutta la vita alla porta di quei luoghi in cui lui si sposta con tanta sicurezza. Solo qualche rara volta sono riuscito a intrufolarmi. La reciproca ammirazione porta Tarkovskij a girare Sacrificio (1986), il suo ultimo film, proprio in Svezia e nell’isola di Gotland del cui arcipelago fa parte Fårö. Il regista russo, già malato di cancro, chiama a lavorare con sé in questo film-testamento gran parte dei tradizionali collaboratori di Berg- man. (...) Bergman non ha mai voluto confermarlo, ma è certo che dietro lo sforzo produttivo svedese e la convinta collaborazione con Tarkovskij di gran parte dello staff bergmaniano ci fosse proprio il suo zampino e forse anche la sua partecipazione economica. Un vezzo bergmaniano era anche quello di apparire in alcuni dei suoi film come comparsa, quasi a volerli firmare come faceva il suo collega inglese Hitchcock che entrava di soppiatto in qualche inquadratura secondaria di quasi tutte le sue pellicole. Nel caso di Bergman, l’elenco è più lungo di quanto non si creda: La terra del desiderio (1947), Musica nel buio (1947), Sete (1949), Verso la felicità (1949), Donne in attesa (1952), Una lezione d’amore (1954), Sogni di donna (1955), Sorrisi di una notte d’estate (1955), Il rito (1968), Vanità e affanni (1997). Come abbiamo ricordato, Bergman amava vedere i film degli altri registi e conoscere nei dettagli la storia della cosiddetta «settima arte». Si teneva informato puntigliosamente, con un occhio particolarmente attento alle nuove tecnologie. Si aggiornava periodicamente sulla produzione del cine- ma svedese. Apprezzava i giovani registi svedesi dell’ultima generazione: Joseph Fares, Christina Olofson, Mikael Hafstrom, Lukas Moodysson, Reza Parsa. E gettava lo sguardo oltre la Svezia: ad esempio, aveva trovato molto interessante Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson, giovane regista statunitense. Aldo Garzia, Bergman-The Genius, Editori Riuniti-University Press, 2010.

Sul set di Il settimo sigillo (1957)

27 LE SCHEDE IL POSTO DELLE FRAGOLE (Smultronstället)

Soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Gunnar Fischer; musiche: Erik Nordgren, Gote Loven; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Lena Bergman (Kristina), Per Sjöstrand (Sigfried), Maud Hansson (Angelica), Gunnel Broström (Signora Alman), Eva Noree (Anna), Goran Lundquist (Benjamin), Ann-Mari Wiman (Eva Akerman), Naima Wifstrand (madre di Isak), Max von Sydow (Akerman), Ingrid Thulin (Marianne), Folke Sundqvist (Anders), Per Skogsberg (Hagbart), Victor Sjöström (Isak Borg), Gunnar Sjöberg (Ingegner Alman), Bjorn Bjelfvenstam (Viktor), Sif Ruud (la zia), Vendela Rudback (Elisabeth), Helge Wulff (il Rettore), Yngve Nordwall (Zio Aron), Bibi Andersson (Sara), Gunnel Lindblom (Charlotta), Jullan Kindhal (Agda), Gertrud Fridh (moglie di Isak), Åke Fridell (amante moglie Isak), Monica Ehrling (Birgitta), Gunnar Björnstrand (Evald), Gio Petré (Sigbritt); produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia, 1957; durata: 91’.

Un noto medico e professore, giunto alla tarda vecchiaia, pur avendo ottenuto, nella sua attività professionale, i più ambiti riconoscimenti, si rende conto, a poco a poco, che il suo radicato egoismo ha fatto sì ch’egli si trovi ora nella più gelida solitudine. Un sogno angoscioso lo induce a riconsiderare l’atteggiamento di larvata ostilità, da lui tenuto, durante la sua lunga vita, nei confronti del prossimo, e lo porta all’implicito riconoscimento del suo errore. Un incontro casuale con un gruppo di giovani fervidi e pieni di vita fa comprendere al vecchio medico l’infinito vantaggio che può recare al suo spirito una maggior comprensione del problemi di quanti gli vivono accanto; a cominciare da quelli che a lui sono legati da stretti vincoli: il suo figliolo (anch’egli sulla via della cristallizzazione in un altrettanto gelido egoismo) e la tenera e trepida moglie di questo, in procinto di divenire madre.

“La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, giro negli appartamenti in penombra della mia infanzia, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, Il posto delle fragole (1957) mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due

31 tronchi. Mi sposto con la velocità di secondi. In verità, abito sempre nel sembrava di non essere degna di un uomo come Isaak così serio e nobile. mio sogno e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà.” Borg ora sente una voce femminile e sue spalle. Si riscuote, e scopre una Ingmar Bergman, Immagini, Garzanti, 1992. ragazza identica alla cugina di allora. Si chiama Sara anche lei. Va in Italia con due amici. Gli chiede un passaggio fino a Lund. Ripartono insieme. Presentato al festival di Berlino (1958), Smultronstället (...) ottenne l’Orso Cammin facendo prendono a bordo anche una coppia di coniugi attempati, d’oro: fu la consacrazione internazionale di un regista che già aveva raccolto e assistono al miserando litigio di due esseri estranei e nemici. Durante la successi vistosi, con Kvinnors väntan (Donne in attesa), Gycklarnas afion sosta in un ristorante sul mare, Borg intrattiene piacevolmente i suoi giovani (Una vampata d’amore), Sommarnattens leende (Sorrisi di una notte d’e- amici. Poi, con Marianne, va a visitare la vecchissima madre, che gli mostra state) e Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo), fra il 1952 e il ‘56. In effetti, un album di famiglia e un orologio senza lancette (come quello del sogno). di tutti i film citati e dei molti altri da lui girati (Bergman aveva esordito nel Tornati dai ragazzi che li hanno attesi (gli amici di Sara, intanto, si erano 1945), questo è il più complesso e ricco di motivi culturali. picchiati per una disputa sull’esistenza di Dio), si rimettono in viaggio. Pio- Smultronstället si impernia su tre elementi che convergono progressivamente ve. Guida Marianne. Borg si addormenta, e sogna nuovamente della sua nel corso di una vicenda assai elaborata: la memoria, la solitudine e la Sara. La vede correre in un bosco e raggiungere una culla sotto gli alberi. morte. Alla fine si fondono nel sorriso sereno del vecchio professor Isaak La vede in una casa suonare il piano e baciare teneramente il cugino. Borg, ormai pronto ad accettare il destino. È il giorno in cui all’università Infine, entra in un lungo corridoio, si trova in un’aula universitaria, dove di Lund è stato celebrato il suo giubileo di medico illustre. un severo professore lo interroga e lo boccia. Per punizione (“non posso La giornata era cominciata male, con un sogno funesto. Il settantottenne risparmiarle questa prova”) costui lo conduce in un bosco, costringendolo professore si era smarrito in una zona sconosciuta della città. Aveva visto un ad assistere al colloquio di sua moglie con l’amante (la donna parla della orologio senza lancette e s’era imbattuto in un carro funebre da cui all’im- sua insensibilità, dello schifo che gli ispira) e all’amore dei due sull’erba. provviso era caduta la bara e dalla bara era uscita la mano di un vecchio Si sveglia. Marianne lo guarda. E Borg, che prima aveva sempre rifiutato (lui stesso) che tentava di trascinarlo con sé. Svegliandosi capì che tutto (“non immischiatemi nelle vostre beghe familiari”), ora è pronto ad ascoltare sarebbe stato, in quella giornata di festa, il segno della fine. Parte in mac- il dramma della nuora e del figlio. E a “vedere” la scena dello scontro fra china per Lund. Lo accompagna la nuora Marianne che, dopo essere stata i due. Marianne aspetta un bambino. Scende dall’auto, sotto la pioggia. sua ospite per un mese, ha deciso di tornare dal marito Evald, dal quale è Evald è spietato: “Sai che io non voglio bambini. La vita è una cosa as- sul punto di dividersi. Per strada, sostano ai margini di un bosco. “Venivo surda”. Riecco Borg e Marianne in macchina. Il vecchio non ha parole, la qui d’estate in una casetta, quando avevo dieci anni. In famiglia eravamo disperazione della nuora lo accascia. Sciolgono di colpo la tensione i tre dieci figli”, racconta a Marianne, che non gli nasconde il disgusto che prova ragazzi che si erano allontanati e che ora ricompaiono con un mazzo di fiori per la sua grettezza. È il bosco in cui la cugina Sara andava a raccogliere per il benemerito professore (d’altronde, già prima, Borg aveva ricevuto un le fragole. La rivede, le parla, lei ragazza di sessant’anni prima, lui il vec- affettuoso gesto di gratitudine da parte di un benzinaio da lui beneficato). chio di oggi. Sara, allora, faceva la civetta con il cugino e trascurava lui: le Lentamente, luci e rumori scompaiono: il vecchio rimane solo. Lo ritroviamo

32 33 all’università, festeggiato dal rettore con un solenne discorso in latino. E lo rivediamo per l’ultima volta, la sera, in casa di Evald. Qualcosa è succes- so. Evald e Marianne escono insieme. Dalla strada giungono le voci dei ragazzi che fanno la serenata al vecchio amico. Evald viene a dargli la buona notte. Poi, nella stanza dove Borg è già a letto, entra Marianne. Lo abbraccia: “Ti voglio bene”. Isaak pensa all’infanzia. Rivede i suoi genitori, felici, fra i pescatori, sulla riva di un lago. Si addormenta. Ingmar Bergman (...) ha percorso le strade di generi diversi (dal dramma alla commedia all’opera lirica) con un dominio così fermo del mezzo espres- sivo da non commettere mai errori (e da non incappare mai in insuccessi: la sua è una carriera costantemente fortunata). Autobiografico sempre, in forme ora allusive ora dirette, espone con impeccabile rigore ossessioni e problemi che, muovendo dal groviglio della psiche, finiscono per riflettere le inquietudini di una classe (la borghesia) e di un paese (la Svezia) cui è toccato in sorte di vivere ai margini dell’Europa, in una condizione di iso- lamento e di benessere (sentiti a volte, nell’ottica del luteranesimo, come colpa). La “marginalità” consente a Bergman di adoperare, con distaccata competenza, tutti i materiali nobili della cultura occidentale: il tema della memoria di derivazione proustiana, il tema della alienazione dell’individuo (l’angoscia kafkiana), l’analisi delle pulsioni inconsce rivissute attraverso l’esperienza del surrealismo (qui, la sequenza del primo sogno), il “reali- smo magico” di matrice anglosassone (da Christopher Morley a Thornton Wilder), il recupero dell’irrazionalismo nietzschiano. Di specificamente suo (di nazionale) a tutto ciò aggiunge l’eredità di Strindberg, l’irrimediabile lacerazione esistenziale provocata dall’unione-scontro dei sessi. Fernaldo Di Giammatteo, 100 film da salvare, Mondadori 1978.

Il posto delle fragole ha le cadenze della grande autobiografia: il soffocato pudore delle cose tolte dalla propria linfa, la saggezza placata, perfino quella Il posto delle fragole (1957) tenerezza nordica, grave come un tormento, di chi contempla un lunghissimo

35 passato (e Bergman in questo momento ha poco più di quarant’anni). Ma filtrandoli nel cinema come mai prima era stato fatto. Sensazionale èqui, è il personaggio centrale del film un personaggio sempre difficile in arte: d’altronde, tutta la tecnica di Bergman, il suo dominio perfetto su recitazione, un uomo vecchio. Un professore di medicina, canuto e solo, che si reca paesaggio, luce, musica, silenzio. Il vecchissimo professore è l’attore (ed a cogliere come tardo frutto dell’esistenza un premio accademico nell’aula ex regista) Victor Sjöstrom, una delle eccelse figure del cinema svedese magna dell’università di Lund. Questo vegliardo compie un viaggio, analo- dei primordi, il che costituisce in certo modo un passaggio di scettro. Nel gamente a tanti altri protagonisti bergmaniani; e durante il viaggio incontra, Posto delle fragole Sjöstrom campeggia da gigante. Poiché anche i giganti un po’ per sortilegio, un po’ per caso, un po’ per riflesso dell’ombra che muoiono, egli si è spento poco tempo dopo l’uscita del film, il che proietta cresce attorno alla sua vecchiaia, il suo Posto delle Fragole. un’ultima ombra di solennità su quell’interpretazione. Pochissimi artisti hanno Ma che cos’è il Posto delle Fragole? È quel rientrante del proprio passato goduto di un elogio funebre e di un’uscita di scena di tanta grandezza. (...) che tutti posseggono nel segreto degli anni giovani, il luogo in cui per la «L’inferno è il solito: la solitudine», dice un personaggio del Posto delle prima volta ci si accorge che la vita è un bilancio d’azioni, che perfino la fragole, riprendendo una battuta che era già in Vampata d’amore: «Siamo felicità rende malinconici, che l’amore fa male, che l’inganno esistenziale di nuovo insieme, ma è l’inferno, stavolta» (il che porta, più indietro, al giunge sempre dalla parte da cui non lo si attende. È il luogo della prima sartriano «L’inferno sono gli altri»). I personaggi di Bergman, si sa, sono delusione, che generalmente non è la più amara, ma la più memorabile. È una popolazione di «solitari» e di «altri». Ma è anche vero che nel Posto soprattutto il recesso in cui facciamo delle promesse a noi stessi che il tempo delle fragole lo sguardo velato del vecchio Borg si placa un poco a con- s’incarica di deviare o cancellare. Cosa succede dopo cinquanta, sessanta, tatto dei tre studenti, che forse sono destinati a loro volta a diventare dei settant’anni ritrovando il boschetto delle fragole dove ciò è accaduto? Il solitari, ma intanto indagano sulla esistenza di Dio insieme, intrecciandola vecchio professore non può che continuare il viaggio, naturalmente, ma gli graziosamente con l’idillio profano e le prime goffe schermaglie amorose. ultimi incontri saranno illuminati di luce diversa a causa dei ricordi mutati. Fra tutte le «richieste di Dio» che finora abbiamo incontrato – o che incon- L’aridità d’una vita rigida, la rivelazione di un concetto d’onestà freddo ed treremo ancora – in Bergman, questa è decisamente la più squisita, anche egocentrico come un vizio, la scoperta di non conoscere nulla intorno a se in apparenza la più frivola: non un dubbio su cui si fa una Crociata, o noi, queste tappe si accumulano come segnali di dissoluzione. E insieme, si esorcizza una presunta strega, o si chiamano gli spettri a deporre come lontano ma non tanto lontano perché un vecchio non possa udirne l’eco, su un banco di tribunale; ma così, con una ragazza bionda ad arbitro, in il sentore della vita che passa, quella vera, quella mancata, quella lasciata una giornata che ha la frescura delle frutta e il gusto del polline. I due nel posto delle fragole. Quest’ultima scoperta del professor Borg è l’estrema maschi si picchiano sul prato, senza odio, uno per affermare che Dio c’è, conciliazione possibile fra rassegnazione e speranza. l’altro che Dio non c’è; ed è il gusto inesprimibile degli ultimi giochi, è la Il posto delle fragole è uno dei rari doni del cinema in cui si spazia dentro costruzione per loro, con i loro berretti da goliardi scandinavi, di un nuovo il rarefatto panorama che nessun CinemaScope riuscirà mai a contenere, vergine «posto delle fragole» che ritornerà alla memoria negli anni tardi; e lo spirito di un uomo. Preziosi sono i valori narrativi che riutilizzano i gran- intanto Bibi Andersson li aspetta in automobile e quando ritornano trafelati di scrittori europei del tempo perduto, da Marcel Proust a James Joyce, chiede loro tranquilla, consapevole delle infinite diramazioni di quella zuffa:

36 37 «Allora...? Esiste o no..?». Da questo istante, nel film, la felicità del vecchio professor Borg diventa una cosa possibile. (...) Tino Ranieri, Ingmar Bergman, Il Castoro cinema, 12/1974.

(...) Il posto delle fragole, che sta a Ingmar Bergman come la madelei- ne sta a Marcel Proust, ripropone lo stesso percorso verso la morte del Settimo sigillo, la medesima ricerca del tempo perduto, seguendo una dinamica narrativa simile, ma spogliandola del suo simbolismo. Isak Borg, un professore in pensione, attraversa la Svezia in automobile per andare a ritirare un prestigioso premio accademico in compagnia della nuora Marianne, a cui Ingrid Thulin presta la sua glaciale bellezza. Le tappe del viaggio procedono in parallelo alla rappresentazione dei ricordi di gioventù dell’anziano Isak, conferendo al percorso la doppia vocazione di una pro- iezione verso il termine della vita e di un ritorno alle origini. Il film scorre come il nastro fantomatico di un sogno in una dimensione spazio-temporale scomposta; c’è in questo il debito che Bergman salda con i suoi padri spirituali, Strindberg e Sjöström (commovente nel ruolo del professore). La bella e spietata idea che domina la pellicola – ovvero che ci riconciliamo con noi stessi solo nel momento del trapasso – non vale solo per il suo protagonista. Recando i film di Bergman evidenti tracce autobiografiche, è facile supporre che l’immagine di quel padre che invecchia altro non è se non quella (a lungo esecrata) del padre del cineasta, e che l’evocazione della sua morte consentirebbe al figlio di riconciliarsi e di confessare, iden- tificandosi nel personaggio le cui iniziali coincidono proprio con quelle di Bergman, il suo sentimento filiale. Una frase che evoca la morte del padre in Lanterna magica restituisce una potente eco a questa ipotesi: “Penso a lui da una disperata lontananza, ma con tenerezza. (...) Il desiderio che qualcosa riesca finalmente a toccarmi, il desiderio di ricevere la grazia”.(...) Il posto delle fragole (1957) Jacques Mandelbaum, Ingmar Bergman, Cahiers du cinéma, 2011.

39 MONICA E IL DESIDERIO (Sommaren Med Monika)

Soggetto: dal romanzo di Per Anders Fogelström; sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Gunnar Fischer; musiche: Walle Soderlund, Erik Nordgren, Eskil Eckert-Lundin; montaggio: Gosta Lewin, Tage Holmberg; interpreti: Lars Ekborg (Harry), (Monica), Bengt Brunskog (Sicke), John Harryson (Lelle), Dagmar Ebbesen (patrigno di Harry), Åke Fridell (padre di Monica), Naemi Briese (madre di Monica), Georg Skarstedt (padre di Harry), Åke Grönberg (operaio), Nils Hultgren, Magnus Kesster, Torsten Lilliecrona, Sigge Fürst, Gösta Prüzelius, Gustaf Faringborg, Han- ny Schedin, Einar Soderback, Ivar Wahlgren, Gordon Lowenadler, Arthur Fischer, Andres Andelius, Gosta Eriksson, Carl Axel Elfving, Bengt Eklund, Nils Whiten, Ernst Brunman, Tor Borong, Astrid Bodin, Renée Björling, Wiktor Andersson; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia, 1953; durata: 92’.

Monica, commessa di negozio, non sopporta la mediocrità della vita che conduce, le piatte galanterie dei suoi compagni di lavoro, il disordine e il subbuglio della famiglia numerosa in cui vive, con una madre stanca, nevrastenica e un padre alcoolizzato, a volte violento. Suo unico rifugio è il sogno di evadere nel mondo irreale e roseo ispirato dai rotocalchi e dal cinema. La ragazza incontra Harry, un giovanotto tranquillo ed ingenuo, anch’egli commesso in un magazzino, anch’egli stanco della propria grigia esistenza. Insieme, un bel giorno, i due abbandonano il lavoro e vanno a vivere in una delle innumerevoli isole dell’arcipelago di Stoccolma: spen- sierati e felici si abbandonano al richiamo della natura, divenendo amanti. A poco a poco, passato il primo momento d’euforia, le preoccupazioni e la noia s’insinuano nella loro spensierata felicità. Quando l’estate ed il denaro finiscono, Monica aspetta un bambino. Tornati a Stoccolma, Harry sposa la sua compagna e s’accinge ad affrontare come meglio può le nuove respon- sabilità che gravano sulle sue spalle, ma la ragazza, insoddisfatta e delusa Monica e il desiderio (1953) del nuovo stato, non esita a riallacciare un’antica relazione sentimentale.

41 Harry non tarda ad accorgersene: fra i due i contrasti si moltiplicano sino dell’estate, nell’isola. Harry e Monica pagano perché hanno osato spostare alla frattura insanabile. Monica se ne andrà verso il proprio destino mentre i livelli, bruciando l’eternità nel ciclo di qualche mese. Harry terrà presso di sé la bambina, nata dall’infelice amore: sarà ormai Il racconto di Monica e il desiderio è Bergman tipico, e non ci sentiremmo l’unica sua ragione di vita. di dirlo immaturo o incompleto. Se mai – contrariamente a quanto avviene nei Bergman successivi – si può constatare nel film l’interferenza di almeno Nel 1952 Bergman sviluppa il tema dell’addio all’estate, cioè dell’addio alla altre due personalità, l’una con influsso positivo, la seconda con influsso giovinezza. La sua poetica, sempre pessimistica – se così, schematicamente, negativo. Ad esempio è fuor di dubbio che il consueto direttore della si può dire – germina metodicamente e freddamente dalla coscienza del fotografia di Bergman, Gunnar Fischer, fosse già un maestro nel proprio tempo che passa, senza riempire l’eternità né di senso né di sentimen- campo quando il regista ancora non lo era nel suo. Nei film che vengono to, regalando se mai a un capriccio la durata di una stagione. È la sua dopo, fino al 1960, Fischer è sempre valente ma non può considerarsi «regola del gioco» e lo sarà ancora per molti anni dopo il ‘52. Sentiamo che un prolungamento dell’occhio di Bergman. Al tempo di Monica e il intanto l’avvicinarsi delle grandi opere tragiche: il ripensamento degli anni desiderio il suo contributo impreziosisce e agevola l’opera della regia. La inghiottiti, il timore del futuro, l’assillo dei miracoli che non si producono. prima parte di Monica è un discorso di luci e reca principalmente la firma Ma l’amore giovane, egoista, libero, così autosufficiente da rappresentare del suo operatore. l’unico miracolo possibile, non colmerà più i film di Bergman dopo Monica Nella seconda metà, per contro, si insinua nel film il gusto realisticamente e il desiderio. borghese dell’autore del racconto da cui Monica è tratto, Anders Fogelström. Monica e il suo ragazzo danzano dunque, come tanti altri adolescenti della Un gusto notevolmente diverso da quello di Bergman. È uno dei rari casi, narrativa, del teatro e del cinema scandinavi, una sola estate. Fuggono notiamo, in cui Bergman dirige su copione altrui. Dal che una indistinta insieme dalla città, in barca, fra le isole dell’arcipelago di Stoccolma, per mancanza di convinzione, un lieve appiattimento dell’estro, che riconduce costruirvi non un amore duraturo né una sicura esistenza, bensì un ricordo a taluni saggi naturalistici del cinema svedese più generico. Evidentemente per le ore brutte che verranno e che già essi presentono. Piccola fuga che Bergman dura fatica a desumere da tale materia la sua argentea e imma- essi d’altronde non considerano tale, perché della vita condotta fino a quel teriale tristezza, una «morale» che gli conosciamo e che poco ha a che momento nulla accettano, nulla riconoscono come vero. È la loro replica vedere col pessimismo volgare. Nelle scene sull’isolotto tali esitazioni si alla miseria, un consapevole inganno alla realtà. La loro estate sarà irragio- avvertono meno: prevale, di Bergman, la elasticità ambientale, il tocco di nevole, irreale, senza calendari e con poche provviste. A loro rischio i due un paesaggio percepito e tuttavia sfuggente. Più avanti (la degradazione giovani rompono per un po’ le smorte regole, le «ripetizioni» della vita. Al e il distacco della coppia) l’estraneità dalle cornici suggerite da Fogelström ritorno il mondo fa le sue ovvie vendette. Povertà, delusione. Nasce una incide sulla severità di sguardo e di giudizio del regista. (...) bambina e i due si sposano. L’insofferenza cresce. Monica abbandona la Tino Ranieri, Ingmar Bergman, Il Castoro cinema, 12/1974. casa, il marito ripara, con la figlia, dai suoi genitori. Tutto ciò succede, ma è remoto e vano come un sogno. La vita vera è quella finita con il finire

42 43 Nulla faceva presagire che Monica e il desiderio sarebbe diventato un mito per i cinefili. Ingmar Bergman viveva all’epoca una fase difficile, sia professionale sia sentimentale. L’industria cinematografica svedese stava uscendo da una congiuntura sfavorevole che, nel gennaio del 1951, aveva indotto i produttori a una serrata generale per protestare contro l’aumento delle tasse sugli spettacoli. Bergman, che ha già cinque figli da mantenere nonché problemi coniugali, è costretto a girare una serie di film pubblicitari per una nota marca di sapone. Tenuto conto delle altre difficoltà – l’esiguità del budget, il suo carattere di film di transizione, la complessità delle riprese su un’isola, nonché la passione scoppiata fra il regista e Harriet Anders- son, la protagonista – lo straordinario successo di Monica e il desiderio sembra nascere sotto il segno del caso e della libertà. Girato nel 1952 nell’isola di Ornö, il film mette in scena una storia molto semplice: Monica e Harry, due giovani squattrinati e in fuga dal grigiore della quotidianità, abbandonano la città per vivere la loro passione, il tempo di un’estate, su un’isola al largo di Stoccolma. Consumando il loro amore nel volgere di una stagione, rientrano sul continente dove li attendono le regole della realtà e le responsabilità quotidiane: divenuta madre, Monica scappa da un focolare che considera troppo modesto e da un marito che disprezza per questo, lasciandogli la bambina. Questo film straziante, che nonostante la semplicità, sconfina nel sublime, raccoglie consensi. Innanzitutto per la sensualità dirompente e (allora) scandalosa di Harriet Andersson, poi per l’esaltato splendore del paesaggio insulare, per il sottotesto biblico che percorre il film (la coppia è costan- temente minacciata da un terzo incomodo, Lelle, ex amante di Monica nonché incarnazione del serpente edenico), e infine l’epilogo, spietato e ambiguo tanto da dividere, a tutt’oggi, gli spettatori. Da un lato, non si può non vedere nell’“irriducibilità” assoluta di Monica il modo in cui Bergman recita la parte dell’antagonista, l’inesorabilità del desiderio di fronte al con- formismo sociale. Dall’altro, come non considerare la scelta finale di Monica Monica e il desiderio (1953)

45 come una pura abiezione morale che neppure l’elogio di una libertà che suscitando il proliferare di importanti critiche, firmate fra gli altri da André non esita a mettere a morte quella altrui può giustificare? Schierarsi per S. Labarthe, Jacques Rivette e Jean-Luc Godard. Oltre a un suo splen- l’una o l’altra interpretazione è tanto più difficile in quanto il personaggio dido articolo dedicato a Monica e il desiderio apparso sulla rivista Arts, di Monica per un verso trae la sua bellezza dall’inesauribile sete d libertà, Jean-Luc Godard passa l’opera in rassegna nel famoso “Bergmanorama” mentre dall’altro comporta una ignominia che altro non è se non quella pubblicato nel numero 85 dei Cahiers du Cinéma. Vi distingue due tipi di di Ingmar Bergman in persona, che egli stesso disprezza e per la quale cinema – il cinema rigoroso (Hitchcock e Visconti) e il cinema libero (Welles prova profonda vergogna. e Rossellini) –, mettendo Bergman in questo secondo gruppo, peraltro da Un modo come un altro per suggerire che qui Bergman prepara solenne- lui prediletto. I giovani radicali di sinistra dei Cahiers – Rohmer, Godard, mente il terreno instabile del cinema moderno. Lo testimoniano vari elementi: Rivette, Chabrol, Truffaut... – al momento di passare alla regia, sapranno la rivelazione dell’ardente carica erotica che emana Harriet Andersson (i cogliere la lezione di Bergman. calzoncini bianchi che svelano le nude cosce, il maglione aderentissimo, Jacques Mandelbaum, Ingmar Bergman, Cahiers du Cinèma, 2011. il seno prorompente, la spontaneità carnale), l’abbandono del controllo del racconto per la pura celebrazione amorosa di quel corpo, il rilancio nordi- Monica secondo Godard co del neorealismo, l’astrazione “minerale” dell’isola come nuova sfida di La ripresa di Monica e il desiderio nel circuito commerciale è l’evento regia – dopo Stromboli (1949) di Rossellini e prima dell’Avventura (1960) cinematografico dell’anno. (...) Snobbato quando usci sui boulevards, Mo- di Antonioni o del Bandito delle ore 11 (1965) di Godard – e il celebre nica... è il film più originale del più originale dei cineasti. Sta al cinema di sguardo spudorato con cui Monica fissa la macchina da presa ci rendono oggi come La nascita di una nazione sta al cinema classico. Così come testimoni della sua emancipazione e della consapevolezza dei danni che Griffith aveva influenzato Ejzenštejn, Gance, Lang, Monica..., con cinque essa provoca. Eppure, il successo del film in Svezia e il modo in cui viene anni di anticipo, portava al suo apogeo quella rinascita del giovane cinema accolto all’estero risiedono in un primo tempo su un profondo malinteso, moderno di cui erano i gran sacerdoti Fellini in Italia, Aldrich a Hollywood e quello dello scalpore erotico. (forse sbagliammo a crederlo) Vadim in Francia. (...) Bergman è il cineasta Presentato in Svezia nel 1953, il film arriva in Francia nella primavera del del momento. La sua cinepresa cerca una cosa sola: riuscire a cogliere il 1954 (nelle sale italiane approderà solo nel 1961). Nei Cahiers du Cinéma secondo presente in quello che ha di più sfuggevole e approfondirlo per di allora, la critica francese si divide fra indifferenza e accondiscenden- dargli valore eterno. (...) za. Il consenso da parte della rivista giunge tardivo ed è da mettere in Come moderni Robinson Crusoe, Monica e il suo ragazzo, armati solamente relazione al successo internazionale riscosso da Bergman nel frattempo, di un sacco a pelo per riparare il loro amore, volteranno presto le spalle nonché alla diffusione progressiva dei suoi film. È Éric Rohmer, in occa- alla gioia per sprofondare nella nausea. Bisogna aver visto Monica.. non sione di una retrospettiva scandinava presso la Cinémathèque francaise fosse che per quegli straordinari minuti durante i quali Harriet Andersson, del 1956, il primo ad attirare l’attenzione sul regista svedese, mentre nel prima di tornare nuovamente al letto con il tipo che aveva lasciato, guarda 1958 una nuova retrospettiva della rivista lo consacra “cineasta dell’anno”, fisso nella cinepresa, i suoi occhi ridenti velati da sgomento, prendendo lo

46 47 spettatore a testimone del disprezzo che ha di se stessa per aver scelto involontariamente l’inferno invece del cielo. È il primo piano più triste della storia del cinema. (...) Monica... è il primo film “baudleriano”. Solo Bergman è capace di filmare gli uomini come li amano ma li detestano le donne, e le donne come le detestano ma le amano gli uomini. (...) Jean-LucGodard, “Monika”, Arts, n. 680, 30 luglio 1958, in Jacques Mandelbaum, Ingmar Bergman, Cahiers du Cinèma, 2011.

Alla fine, di Monica e del suo desiderio (di quell’estate con Monica), rimane solo un fantasma, un riflesso della memoria. Il timido serio Harry, innamo- rato e gabbato, porta in braccio il bambino che lei ha rifiutato, riflesso nello specchio in cui Monica era apparsa all’inizio del film. Ed eccola, un’ultima volta, completamente nuda, che si confonde con le rocce e il mare. Eccola sdraiata sul motoscafo, che procede verso l’orizzonte, con le onde che si allargano e sembrano abbracciare il mondo, in quell’estate in cui il tempo si era fermato, liberato (attraverso i piani sequenza estatici e un montaggio “magico” sincopato). Quindi era tutta un’illusione? Lui si allontana e dentro lo specchio rimangono tre vecchi che portano via tutto, gli stessi su cui Bergman aveva chiuso la magnifica scena dell’incontro tra lei e lui: loro già lo sapevano che dopo ogni primavera arrivano l’autunno e l’inverno. Poco prima c’era stato quello sguardo in camera di Monica (nel 1953!), sguardo di sfida, sfacciato e doloroso, «il più triste della storia del cinema» diceva Godard. Anche l’ultima sequenza non scherza. Ancora Godard: Bergman è come un «Proust moltiplicato per Joyce e Rousseau». In ogni istante, che non finisce mai, c’è tutto il niente di cui non possiamo fare ameno. Vitale, carnale, cupo, indimenticabile film. Fabrizio Tassi, cineforum.it, 18/7/2018.

Monica e il desiderio (1953)

49 IL SETTIMO SIGILLO (Det sjunde inseglet)

Soggetto: dal dramma Trämålning di Ingmar Bergman; sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Gunnar Fischer; montaggio: Lennart Wallén; sceno- grafia: P.A. Lundgren; musica: Erik Nordgren; interpreti: Max von Sydow (Antonius Block), Gunnar Björnstrand (Jöns), Bengt Ekerot (la Morte), Nils Poppe (Jof), Bibi Andersson (Mia), Åke Fridell (Plog), Inga Gill (Lisa), Erik Strandmark (Jonas Skat), Bertil Anderberg (Raval), Inga Landgré (Karin), Gunnar Olsson (Albertus Pictor), Maud Hansson (la strega), Lars Lind (il giovane frate), Anders Elk (il monaco), Ulf Johanson (il capo dei soldati); produzione: Allan Ekelund per AB Svensk Filmindustri; origine: Svezia, 1957; durata: 96’.

Antonius Block, nobile cavaliere svedese, che recatosi come crociato in Terrasanta, vi ha passato dieci anni della sua vita, ritorna ora nel suo paese. Sbarcato sulla spiaggia trova ad attenderlo la Morte, che ha scelto questo momento per portarselo via; ma Antonius, che durante gli anni vissuti in Terrasanta, tra battaglie cruente e lotte intime, ha sentito vacillare la propria fede, non vorrebbe morire prima di aver superato la crisi spirituale che lo travaglia. Propone quindi alla Morte di giocare con lui una partita a scacchi: sarà pronto a seguirla nel momento in cui dovrà dichiararsi vinto. S’inizia la partita e tra una mossa e l’altra il cavaliere continua il viaggio verso il suo castello. Inoltrandosi nel paese, Antonius si rende conto delle desolate condizioni in cui si trova la Svezia: infuria infatti una terribile pestilenza che distrugge interi villaggi. Gli uomini in preda alla disperazione, timorosi del futuro, si abbandonano alle violente pratiche dei flaggellanti o cercano la maggior dose di piacere inebriante. In mezzo a queste diverse esaltazioni, Antonius scopre una piccola famiglia di attori girovaghi, composta di pa- dre, madre ed un bimbo: questi esseri, sorretti da un sincero sentimento di reciproco affetto, sembrano estranei alla tragedia che coinvolge tutti gli altri. Prosegue intanto la partita a scacchi, e Antonius Block, incalzato dalla

Il settimo sigillo (1957) Morte, giocatrice implacabile, e dagli eventi, finisce per perderla...

51 Alla base del Settimo sigillo c’è l’atto unico Pittura su legno che fu scritto dimora si unì in grandi schiere spostandosi di paese in paese. C’erano anche per la «prima» degli allievi di Malmö. Dovevamo avere qualcosa da reci- diaconi, monaci, preti e giullari. Alcuni sapevano scrivere e componevano tare per il saggio di primavera. Ero insegnante della scuola ed era difficile canzoni che venivano presentate a feste religiose e sui mercati. trovare delle pièces con parti all’incirca ugualmente importanti. Pittura su Il fatto che delle persone passassero attraverso la decadenza della civiltà legno doveva essere una pura esercitazione. Era impostato come una e della cultura e facessero sorgere nuovi canti, mi parve una materia serie di monologhi. Il numero degli allievi determinava il numero delle parti. attraente, e così un giorno, mentre ascoltavo il coro finale dei Carmina In Pittura su legno erano presenti, a loro volta, alcuni ricordi infantili. Come Burana, mi venne in mente che questo avrebbe potuto essere l’oggetto ho raccontato in Lanterna magica, a volte seguivo mio padre quando andava del mio prossimo film. (...) a predicare in qualche chiesa di provincia. Il settimo sigillo è uno dei pochi film che mi stiano veramente a cuore, ma Come tutti quelli che sono stati in chiesa, in qualsiasi epoca, mi sono messo non so perché. Non si tratta, infatti, di un’opera priva di pecche. Viene fatta a osservare i dipinti al di sopra dell’altare, il trittico, il crocifisso, le finestre funzionare grazie ad alcune pazzie, e si intravede che è stata realizzata dipinte e gli affreschi. C’erano Gesù e i ladroni feriti e insanguinati; Maria in fretta. Non credo però che sia un film nevrotico; è vitale ed energico. appoggiata a Giovanni – ecco tuo figlio, ecco tua madre. Maria Maddalena, Inoltre, elabora il suo tema con desiderio e passione. A quel tempo ero la peccatrice, chi se l’era scopata l’ultima volta? Il cavaliere gioca a scacchi ancora duramente legato alla problematica religiosa. Qui sono compresenti con la Morte. La Morte sega l’Albero della vita, un poveretto terrorizzato due opinioni in proposito. Ognuna di esse parla la propria lingua. Perciò è seduto su in cima e si torce le mani. La Morte conduce la danza verso regna una relativa tregua tra la devozione infantile e l’aspro razionalismo. la Terra Oscura, tiene la falce come una bandiera, tutti quanti ballano for- Non ci sono complicazioni nevrotiche tra il Cavaliere e il suo Scudiero. mando una lunga fila e dietro a tutti viene il giullare. I diavoli badano a che E così è con la Santità dell’Uomo. Jof e Mia rappresentano per me qualcosa proceda bene la cottura, i peccatori precipitano a capofitto nelle fiamme, di urgente: tolta la teologia, rimane il Sacro. Adamo ed Eva hanno scoperto la propria nudità. L’occhio di Dio sbircia C’è, inoltre, una scherzosa cordialità nell’immagine della famiglia. Il bambino da dietro l’albero proibito. Alcune chiese sono come acquari, non c’è uno giungerà al miracolo: l’ottava palla del giocoliere rimarrà sospesa in aria in spazio libero, dappertutto un rigoglio di uomini, santi, profeti, angeli, diavoli e un momento frenetico... per una frazione di secondo. dèmoni. Questa e l’altra vita coprono muri e volte. Realtà e immaginazione Il settimo sigillo non zoppica da nessuna parte. hanno costituito una solida lega: peccatore, guarda la tua opera, guarda Si possono soppesare le negligenze del film con il fatto che feci una cosa quel che t’aspetta dietro l’angolo, guarda l’ombra alle tue spalle! che oggi non oserei più fare. Il Cavaliere esegue la sua preghiera mattu- Mi ero procurato un gigantesco radiogrammofono e mi ero comperato i Car- tina, e al momento di riporre la scacchiera si volge e lì si trova davanti la mina Burana di Carl Orff nell’esecuzione di Ferenc Fricsay. Ero solito fare Morte. «Chi sei?», domanda il Cavaliere. «Sono la Morte». un po’ di fracasso con Orff di mattina, prima di andare a dirigere le prove. Bengt Ekerot e io eravamo d’accordo sul fatto che la Morte dovesse I Carmina Burana sono costruiti su canti medievali composti da chierici portare una maschera da clown, quella del clown bianco, o, meglio, una vaganti durante anni di peste e di guerre sanguinose, allorché gente senza combinazione tra la maschera da clown e il teschio.

52 53 È un rischioso numero d’illusione che poteva benissimo fallire. All’improvviso avanza un attore con il volto dipinto di bianco, vestito di nero, e dice di essere la Morte. Noi lo accettiamo come la Morte, invece di dire: su, dai, smettila, non ci inganni! Sappiamo bene che sei un attore di talento dipinto di bianco e vestito di nero! Non sei affatto la Morte! Nessuno protesta. Anzi, questo fatto ci rende coraggiosi e allegri. A quel tempo vivevo con alcuni poveri resti della mia devozione infantile, un’idea del tutto ingenua di ciò che si potrebbe chiamare la salvazione extraterrena. Nel frattempo la mia convinzione attuale aveva cominciato a manifestarsi. L’Uomo è portatore della sua propria Santità, che però ha luogo su que- sta terra, senza alcun bisogno di spiegazioni extraterrene. Nel mio film vive, dunque, un rimasuglio abbastanza privo di nevrosi di una devozione sincera e infantile, che si accorda serenamente con un aspro e razionale concetto della realtà. Il settimo sigillo è in definitiva una delle ultime espressioni di fede, delle idee che avevo ereditato da mio padre e che portavo con me dall’infanzia. (...) Ingmar Bergman, Immagini, Garzanti, 1992.

Gran riutilizzatore di idee e personaggi, Bergman ricava dal suo testo tea- trale Pittura su legno le prime figurazioni di Il settimo sigillo, ma include tra i motivi ispiratori di tale film anche altre suggestioni musicali e pittoriche: i Carmina Burana di Carl Orff, il dipinto di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, e il quadro di Pablo Picasso che rappresenta due acrobati, due buffoni e un ragazzo. Su tali spunti la struttura si completa, e – diremmo – si fanno visibili anche le infrastrutture. C’è praticamente tutto, dalla musica del pentimento agli interrogativi esoterici e al vagabondaggio innocente (i giocolieri-buffoni) contrapposto al viaggio della delusione (il reduce crociato). Nel Settimo sigillo Bergman ascolta le lusinghe di una “leggenda filosofica” Il settimo sigillo (1957) da attualizzare. Qui si staglia nel modo più spettacolare il Bergman alla

55 ricerca – ma forse stavolta è meglio dire alla caccia – del miracolo, e si degli affreschi medioevali, delle vetrate di chiesa, dei codici miniati, degli rinnova – la confessione di una monotonia umana che le grandi imprese antichi carillons da campanile, delle “pitture su legno”. La Morte appare (le Crociate appunto) e i sentimenti magnanimi non riescono a intaccare; al cavaliere sulla spiaggia col suo classico mantello nero. Bergman le ha quello che è stato cercato lontano esiste vicino, nel carretto del saltimbanco, dato il viso straordinario dell’attore Bengt Ekerot, un viso floscio e quieto, non in Terrasanta; e il Cavaliere (Max Von Sydow) si ostina a scoprire il senza malvagità, o almeno con la malvagità spoglia d’impazienza che non diavolo negli occhi della presunta strega, senza trovarlo mai (ma non è forse ha raffronto nella nostra fremente malvagità quotidiana. La Morte è venuta proprio questa incapacità, il Diavolo?) mentre il saltimbanco (Nils Poppe) a prendere il cavaliere per portarlo via con sé, ma il cavaliere trova modo ha la Vergine Maria sul suo prato come un’ospite gentile e quotidiana. di spostare i termini dell’incontro: propone alla Morte una partita a scacchi Per contrasto si fa più insoffribile l’ammissione di ansia e impotenza di e solo dopo questa, se perdente, si arrenderà. Naturalmente il cavaliere fronte ai misteri della religione. Il duplice assillo è reso sensazionale dalle non ignora che il suo destino è segnato, che la Morte non è giocatrice forme della simbologia medioevale, ma è riconoscibilmente moderno per che si lasci sconfiggere; ma prima, tra una mossa e l’altra, spera segre- l’indagine pervicace delle cause del mal di vivere, per la “fede nel dubbio”, tamente che la lotta gli riveli i problemi che tormentano il suo spirito. Egli per il gioco delle parti sempre respinte tra simulazione, realtà e caso. ha speso la vita nella ricerca di Dio, lo ha fatto nella maniera che riteneva Ancora una volta il viaggio di Bergman (il viaggio cioè di Antonius Block più nobile e degna, combattendo in suo nome alle Crociate; ma la guerra che fa ritorno al castello) è un viaggio fra le domande. Il protagonista, ben ha messo anche più in pericolo la sua fede già incrinata dalle voci fredde s’intende, è Bergman stesso sdoppiato, nelle sue componenti opposte: il della logica e del raziocinio. cavaliere, mistico turbato, probabilmente ancora lordo d’un sangue “pagano” Si protrae a lungo la gara, a tappe irregolari, mentre il cavaliere e il suo che ha lo stesso colore del sangue cristiano, credente testardo che vuol servo proseguono verso casa. Il cammino è segnato da vari incontri, per vedere Dio almeno nello sguardo della Morte, giacché Gerusalemme non lo più tetri, indici di tempi premonitori: la processione dei flagellanti che glielo ha rivelato (e la Morte, confesserà a sua volta di “non sapere”); e invocano la fine del morbo; i roghi accesi dal fanatismo contro le credute con lui il secondo volto, lo scudiero, loico implacabile. Più volte nel film lo streghe; episodi di ladrocinio e di maleficio. Solo la compagnia dei guitti scudiero parla al padrone da tergo, col capo sulla sua spalla, fugacemente girovaghi concede al cavaliere un riposo senz’ombre e per un momento la materializzando così un Bergman bicipite vero protagonista del dramma. sensazione della “piccola felicità” consentita all’uomo sulla terra. La Morte L’accenno ai sette sigilli è preso dall’Apocalisse di San Giovanni, si riferisce incalza, sta per dare scacco matto. Pure, il cavaliere vuole e ottiene a cioè alla vigilia della fine del mondo, quando la stella Assenzio precipitando sua volta una vittoria: durante la partita decisiva distrae la Morte quanto incendierà il mare. È dunque il momento in cui l’uomo pensa di doversi basta per far fuggire i suoi nuovi amici commedianti, che essa desiderava preparare per un terribile incontro soprannaturale. Nella vicenda ciò accade falciare d’un solo colpo. La salvezza, la comprensione sono finalmente, in durante l’infierire di una epidemia di peste, su suolo nordico, intorno al quel momento, accanto al cavaliere. Egli ha saputo regalarle a qualcuno più quattordicesimo secolo; e i personaggi che troviamo impegnati nell’avventura giovane, meno stanco di lui. Alle grandi risposte ormai bisogno rinunciare. – vien quasi fatto di dire aggiogati, condannati ad essa – sono quelli fissi Subito dopo il rientro al castello, dove la moglie Io ha coraggiosamente

56 57 aspettato, la figura in nero giunge a pretendere il prezzo della partita. E Trecento e la trovano in balia della peste e della disperazione. Sulla spiag- si trascina dietro, in una lugubre danza, il cavaliere e la sua sposa, lo gia Block incontra la Morte, e in una delle più efficaci alternanze campo/ scudiero, il fabbro e altre immagini della ballata. controcampo mai realizzate la sfida a una partita a scacchi per prendere Il film, girato a Hova Haltar, sulle coste sudoccidentali della Svezia, ha un tempo e poter compiere un’azione che dia un senso alla sua vita. assetto potente e intimidatorio, lo slancio sordo delle fantasie nate dall’in- Ingmar Bergman iniziò a lavorare a Il settimo sigillo scrivendo sulla sua cubo. Lo avvalora ulteriormente la fotografia di Gunnar Fischer, col suo agenda questo appunto (la Bibi cui si riferisce è la sua compagna di al- sole grigio, i raggi funerarii, la pioggia argentata. Non vanno comunque lora, l’attrice Bibi Andersson): “Bibi ha ragione. Basta commedie. È ora di ignorati i lati deboli dell’opera, che probabilmente consistono nel progressivo passare ad altro. Non devo più lasciarmi intimorire. Meglio questo di una appesantimento dei simboli e nell’amore eccessivo per la sequenza: e non cattiva commedia. Dei soldi non m’importa niente”. sempre le sequenze più suggestive sono le migliori (tra queste anche la Dato che si tende a immaginare Ingmar Bergman come un intellettuale famosa sfilata dei flagellanti, risolta soprattutto figurativamente). Altri punti tormentato alle prese con i suoi demoni interiori, può sembrare strano che rimangono oscuri: il personaggio della ragazza che tace nel gruppo dei fosse felice dei suoi primi grandi trionfi come regista di commedie. Eppu- viandanti, cui spetta al finale l’accettazione più pronta e dolce della morte; re era così. Adesso, però, era “ora di passare ad altro”. Il settimo sigillo certe assenze nel gruppo che la Morte si porta via. Va rifiutata invece segna così un punto di svolta nella carriera di Bergman. Può sembrare l’accusa di barocchismo levata da alcuni critici contro il tono generale del paradossale, ma anche se furono le commedie dei primi anni Cinquanta a film: è il clima di Bergman, della sua terra, delle sue origini; non gli si può spianare la strada alla carriera internazionale di Bergman, i suoi veri trionfi rimproverare di essere nato svedese. D’altronde sono rilievi che perdono commerciali vennero con i successivi e ‘impegnativi’ drammi esistenzialisti forza se si accetta, come non si può non accettare, anche il monito di come Il settimo sigillo. attualità che Il settimo sigillo reca in sé, ovvero il riferimento alla guerra Il settimo sigillo nacque come evoluzione di un atto unico che Bergman nucleare (la pestilenza). Il viaggio trecentesco è una storia che ci concerne aveva scritto qualche anno prima per gli attori del Teatro municipale di anche senza il salto di sette secoli. Malmö. Nonostante le molte analogie, quello che manca nel prototipo è Tuttavia specifichiamo che il film ci è vicino non soltanto per un fattodi proprio il personaggio bergmaniano più famoso. Mi riferisco naturalmente “vigilia atomica” ma anche per la sua ansia di dibattito, i suoi personaggi alla Morte, volto bianco e vestito nero, che gioca la sua partita sul bianco bifronti, la ricerca del giusto attraverso l’iniquo, il plebeo e il meraviglioso e nero di una scacchiera in uno dei film in bianco e nero per eccellenza. a contatto, l’aspettativa, come dice lo scudiero, “di qualcosa che deve suc- Jan Holmberg, festiva.ilcinemaritrovato.it cedere ma non sappiamo che cosa”. Alla soglia degli anni Sessanta tutti gli artisti del mondo trasaliscono alle medesime voci, e ai medesimi silenzi. Tino Ranieri, Ingmar Bergman, Il Castoro cinema, 12/1974. Il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow) e il suo scudiero Jöns (Gunnar Björnstrand), reduci disillusi delle crociate, fanno ritorno nella Svezia del

58 59 SUSSURRI E GRIDA (Viskningar och rop)

Soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; mon- taggio: Siv Lundgren; scenografia e costumi: Marik Vos; interpreti: Harriet Andersson (Agnes), Kari Sylwan (Anna), Ingrid Thulin (Karin), Liv Ullmann (Maria), Anders Ek (Isak, il pastore), Inga Gill (narratrice), (David, il dottore), Henning Moritzen (Joakim, marito di Maria), Georg År- lin (Frederik, marito di Karin), Lena Bergman (Maria bambina), Lars-Owe Carlberg (spettatore), Rosanna Mariano (Agnes, bambina), Monika Priede (Karin, bambin), (figlia di Maria), Anna Karin Johannson, Greta Johansson; produzione: Cinematograh Ab, Svenska Filminstitutet; origine: Svezia, 1973; durata: 91’.

In una villa alla periferia di Stoccolma, la quarantenne Agnes sta morendo di cancro. Al suo capezzale sono accorse le sorelle, Karin e Maria, da tempo lontane. Sposata con un uomo più anziano di lei, Karin è una donna impietosa, che odia il prossimo e ha un forte disgusto per ogni contatto fisico. Maria, più giovane, è un’estroversa preoccupata solo di sé edella sua bellezza. Nell’ombra, silenziosa e trepida, si muove Anna, la governante, che per aver perduto una figlia è la più vicina alla sofferenza della sua padrona. Agnes muore, ma durante la veglia funebre le sorelle odono levarsi dal suo cadavere grida disperate di invocazione. Sia Karin, però, chiusa nel suo egoismo, sia Maria, che fugge terrorizzata, non hanno più nulla da dare ad Agnes, ed è ancora Anna a prendere tra le sue braccia quel povero corpo e a consegnarlo placato al riposo eterno. Dopo un tentativo di comunicare fra loro, nel quale sono state per un attimo vicine, Karin e Maria si dividono per sempre. Nella casa vuota, e che dovrà abbandonare, Anna sfoglia il diario di Agnes, ritrovandovi le immagini di un passato in cui le tre sorelle, ancora unite, godevano della loro fragile felicità.

La prima immagine ritornava sempre: la stanza rossa con le donne vestite di

Ingmar Bergman con Ingrid Thulin sul set di Sussurri e grida (1973) bianco. Succede che alcune immagini ritornino in modo ostinato, senza che

61 io sappia che cosa vogliono da me. Poi scompaiono, ritornano di nuovo e ficativo con il marito, dal quale pure ha avuto cinque figli. «Molte volte sembrano sempre le stesse. Quattro donne vestite di bianco in una stanza ho pensato anche al suicidio», confida alla sorella. Maria è una fanciulla rossa. Si muovevano, si sussurravano qualcosa l’un l’altra, con atteggiamento viziata, sorridente, curiosa e sensuale. Anch’ella ha alle spalle un matri- molto misterioso. (...) La scena ora descritta mi ha accompagnato per un monio fallito. Dal colloquio con l’amante scopriamo i lati peggiori del suo anno intero. All’inizio non sapevo naturalmente come si chiamassero le carattere: sensualità, indifferenza, egocentrismo, cinismo, ipocrisia, indolen- donne e perché si muovessero nella grigia luce del mattino di una stanza za, impazienza, superficialità. Parlando con Karin, Maria stessa ammette: con tappezzeria rossa. Avevo di volta in volta respinto questa immagine e «Io sono superficiale, tu hai letto più di me...». Né in Karin, né in Maria rifiutato di porla alla base di un film (o ciò che è ora). Ma l’immagine si è troviamo alcun barlume di umanità, alcun barlume di fede. E questo che dimostrata ostinata e io, malvolentieri, l’ho identificata: sono tre donne che le differenzia da Agnes e Anna, mentre le accomuna la solitudine. Tutte e aspettano che la quarta muoia. La vegliano a turno.(...) quattro le donne sono sole, ma soltanto Agnes e Anna riescono a colmare Tutti i miei film possono essere pensati in bianco e nero, eccetto Sussurri la loro solitudine, perché aperte all’amore e pertanto all’infinito. Torna qui e grida. C’è scritto anche nella sceneggiatura, io ho sempre immaginato il il tormento di Bergman sulla trascendenza e sull’anima. Le uniche tracce rosso come l’interno dell’anima. di Dio riscontrabili nel mondo sono, secondo lui, nell’amore. Ingmar Bergman, Immagini, Garzanti, 1992. Così i due personaggi che hanno la fede sono anche le due persone che hanno l’amore. Sono sole tutte e due, perché tutte e due hanno perduto Sussurri e grida è un film singolarmente ricco di valori formali e sostanziali. la persona più cara. Anna ha perduto la bambina, Agnes ha perduto la Diversi critici hanno usato giustamente l’aggettivo «sontuoso». Il racconto mamma. Ma Agnes è stata buona con la bambina di Anna quando era in si svolge seguendo una serie di puntigliose simmetrie. Quattro donne sono vita, e Anna ripaga Agnes con lo stesso amore. Così Agnes finisce per le protagoniste, a conferma che per Bergman il quattro è un numero ma- vedere in Anna la mamma che non c’è più, e Anna finisce per vedere in gico. E quattro sono anche i personaggi maschili, che però hanno ancora Agnes la sua bambina morta. Stranamente si è parlato di ambiguità nel una volta un ruolo completamente secondario, negativo. In effetti quel che rapporto tra le due donne, che è invece spiegabilissimo in questi termini. interessa al regista è l’animo femminile, come dimostra l’insieme della sua Agnes è la figlia, Anna è la mamma. Ciò risponde perfettamente, tra l’altro, opera. Egli stesso è portato a identificarsi più con i personaggi femminili all’iconografia dell’immagine finale delle due donne, che richiama la “Pietà”. che con quelli maschili. «Fino ad oggi i film sono stati fatti da uomini per Non a caso è una iconografia religiosa. Così come religiosa finisce per gli uomini – ha scritto François Truffaut. – Ingmar Bergman è forse il primo essere l’invocazione di Agnes nella fantasia di Anna: «Vorrei tornare nella ad aver affrontato certi segreti del cuore femminile». culla, vicino alla mamma...». La morte è vista dall”homo religiosus” come I quattro personaggi femminili, a loro volta, sono simmetrici a due a due. una seconda nascita, e di questa seconda nascita Anna incarna il ruolo Le due sorelle sono i personaggi più negativi, mentre Agnes e Anna sono materno. L’elemento religioso difatti si innesta nitidamente nell’atteggiamento quelli più positivi. Karin è l’immagine del fallimento e della disperazione. delle due donne e nel loro comportamento. È emblematica, al riguardo, la preghiera mattutina di Anna: «Grazie, mio Dio, per avermi concesso di Nella sua aridità spirituale non è riuscita a costruire un rapporto signi-

62 63 svegliarmi sana e serena dopo una notte trascorsa in sonno profondo sotto la tua benevola protezione. Ti prego oggi qui come ogni giorno di far cu- stodire e difendere dai tuoi angeli la mia bambina che nella tua insondabile saggezza hai voluto chiamare al tuo fianco». Della religiosità di Agnes ci dà poi testimonianza il prete quando conclude l’orazione funebre dicendo: «L’avevo preparata io alla Cresima. La sua fede era più forte della mia». I quattro personaggi femminili costruiscono, si direbbe autonomamente, il film con tre ricordi e una fantasia. I quattro inserti (tre dei quali sono flashback) scandiscono la narrazione con geometrica puntualità. Ciascuno di essi è preceduto e seguito da una “sigla” costituita dal primo piano della donna che ricorda o pensa incastonato come un cammeo tra due dissolvenze. Tutte le dissolvenze sono rosse, meno l’ultima, che è viola. I volti hanno una funzione espressiva essenziale. Questo, come altri e ancor più di altri di Bergman, è film di attori. Le quattro donne sono interpretate da quattro grandi attrici, alle quali va senza dubbio una parte notevole del merito del risultato. Quanto Bergman sia attento al volto umano come espressione dell’anima lo si deduce dalle parole che il medico-amante dice a Maria durante uno dei flashback (ed è importante che queste parole le dica un medico): «Sai da dove ti vengono le rughe? Dalla tua indifferenza. E questa lieve curva che va dall’orecchio alla punta del mento non è nitida come un tempo. Questo significa che sei superficiale e indolente. E lì alla radice del naso ora c’è troppo sarcasmo, c’è troppo scherno. E sotto i tuoi occhi inquieti mille rughe impietose, secche, quasi ínavvertibili di noia e di impazienza». Nella stessa sequenza è da notare un’altra frase del medico: «Vieni qui, guardati allo specchio. Sei bella, sei forse anche più bella che allora, ma tanto cambiata». Il concetto delle persone “che cambiano”, si trova spesso nell’opera bergmaniana: per esempio in L’immagine allo specchio. E un aspetto della problematica esistenziale. Il cambiamento nel mondo

Sussurri e grida (1973) c’è, ma non sempre è una evoluzione. Spesso è degradazione fisica (le

65 malattie incurabili) o psichica (le nevrosi, le dissociazioni, le angosce). La cazione – l’audio offre soltanto musica. Vediamo le donne parlare ma non vita è una partita a scacchi nella quale, un po’ come in Il settimo sigillo, ne ascoltiamo le parole. Sono evidentemente le parole della quotidianità, si gioca la direzione del cambiamento. Alcuni esseri umani, alcuni perso- insignificanti di per sé ma ricche di significato al di là del senso letterale, naggi bergmaniani hanno la forza e la capacità di una vera metanoia. Altri per il semplice motivo che vengono pronunciate. finiscono vittime della loro angoscia, della loro disperazione. E al capolinea Sullo sfondo della narrazione si muovono i quattro personaggi maschili, c’è soltanto l’autodistruzione, che spesso assume la forma del suicidio, anch’essi abbinati a due a due. I primi due sono i due mariti, assenti ed tentato o riuscito. estranei, lontani anni luce dalle loro donne e da quanto sta succedendo. Il In questa sequenza, che nel film è delle più ricche e stimolanti, troviamo commento di uno di essi alle esequie di Agnes è: «Musica bella, sermone anche riproposta la similitudine tra lo specchio e il prossimo. In Come in breve». Gli altri due sono personaggi in controluce, che hanno la funzione uno specchio e altrove è presente l’idea del nostro rapporto con gli altri di far risaltare «come in uno specchio» alcuni motivi essenziali del racconto. come chiave per trovare l’amore, sola possibilità di vincere il silenzio della Al medico-amante di Maria è affidato, come si è visto, il compito di alter divinità. Ebbene, l’altro è lo specchio confuso in cui riconosciamo noi stessi, ego della donna, immagine riflessa della sua infelicità e della sua solitudine. nel bene e nel male. In Sussurri e grida il medico invita Maria a guardarsi Al pastore che recita l’orazione funebre va il merito di chiarire la natura di nello specchio alla luce fioca di una candela. Dopo averle spiegato il mo- un altro personaggio, Agnes, e di provocare lo spettatore a una riflessione tivo delle rughe e del cambiamento, la sente sussurrare: «Queste rughe sulla morte come «altra vita». Il prete assomiglia molto a quello di Luci le vedi in te stesso perché noi siamo uguali, tu ed io». Se il rapporto d’inverno. Come quello è burocrate meticoloso e freddo. Come quello è d’amore è sterile, esteriore, superficiale, lo specchio non fa che riflettere angosciato dai dubbi. Il suo discorso è pieno di “se”. Ad Agnes, dopo tutti la propria immagine. Non esiste nessuna comunicazione. Il silenzio di Dio questi “se”, chiede: «Implora il Signore che ci liberi dalle nostre angosce resta impenetrabile. e debolezze, dai nostri dubbi più profondi. Pregalo di dare un senso alla Con l’accavallarsi degli eventi il cerchio si stringe. Agnes muore, le possibi- nostra vita». Il prete è agli antipodi di Anna, che ha la certezza della vita lità di comunicazione all’interno della famiglia si assottigliano. Di qui nasce oltre la morte. Infatti il sogno di Anna ci presenta una morta che vive. «È l’estremo tentativo di Maria e Karin di recuperare tra di loro un rapporto solo un sogno», dice Anna. «Forse per te, ma non per me», risponde la d’affetto familiare. E Maria a cominciare, forse a causa del suo carattere morta, e chiede amore. più espansivo. Ma poi chi ci crede e ne esce delusa è Karin. Il tema della Resta da dire di due protagonisti apparentemente minori di questo film comunicazione tra le persone torna ad emergere. Uno dei primi piani di «sontuoso». Sono il tempo e il suono. Il tempo è onnipresente, quasi come Karin tra le due dissolvenze ci mostra il suo volto mentre ella cerca di in Il posto delle fragole. Lo incontriamo in ogni momento sotto forma di parlare e non ci riesce. Ma da quel che accade dopo abbiamo la conferma lancette di orologi, di tic tac, di rintocchi, di carillon. Ne avvertiamo il potere della sfiducia di Bergman nella parola come mezzo di comunicazione. Non nei ricordi delle donne, nel cambiamento che ha operato in Maria, in Agnes si comunica con la parola, ma con l’amore. Difatti assistiamo a un dialogo e in tutti gli altri. Ma questa volta nessuno riesce a consolarsi tornando al tra le sorelle che discutono, mentre – durante la momentanea rappacifi- suo «posto delle fragole». Chi è fallito resta fallito e chi ha vinto ha vinto

66 67 tutto, anche il tempo, anche la morte. Tanto più Agnes resta viva quanto che gli «umili testimoni del Vangelo» sono i primi a capirlo e ad applicarlo. più terribile è stata la rappresentazione scenica della sua morte. Raramen- Cristo risorto si manifestò per primo alle pie donne. (...) te in un film la morte è rappresentata con tale realismo, in tutta lasua Sergio Trasatti, Ingmar Bergman, Il Castoro cinema, 11-12/1991. “oscenità” (nel senso di non rappresentabilità). Ma raramente in un film si avverte con tanta chiarezza, da suoni e immagini, il senso di qualcosa di vivo e vero al di là della fine del corpo. L’altro grande protagonista è il suono, sia esso silenzio di labbra aperte che non riescono a comunicare, sia contrasto tra i «sussurri» e le «grida» (quanto più pregnanti possono essere i sussurri...), sia musica sobriamente dosata. Nel film ascoltiamo soltanto due brani musicali. Il primo, Mazurka in la minore op. 17 n. 4 di Chopin, eseguito al pianoforte da Käbi Laretei (quarta moglie di Bergman, ora ex, convocata dalla moglie in carica, Ingrid van Rosen), accompagna il ricordo di Agnes, e in particolare il ricordo della mamma: «Le volevo bene perché era dolce, bella, viva, perché faceva sentire la sua presenza...». Sottolinea, fa notare Aristarco (Guido Aristar- co, I sussurri e le grida, ndr), un’«armonia perduta e poi ritrovata». L’altra musica, la Sarabanda dalla Suite in do minore n. 5 di Bach eseguita dal violoncellista Pierre Fourneur, sostituisce il dialogo nel momento affettuoso della rottura del ghiaccio tra Maria e Karin. La musica, cioè, scandisce due momenti chiave del racconto: il rapporto di Agnes con la mamma, che determina poi il suo rapporto con Anna, e quello del momentaneo raggiungimento della comunicabilità tra le sorelle. È un uso della musica in chiara funzione espressiva. Forse Bergman vuole suggerire l’idea del potere catartico dell’arte, e specialmente di quella forma di manifestazione artistica più pura e immateriale che è appunto la musica. Resta da accennare a certa critica marxista che ha parlato di film antibor- ghese facendo leva sulla simpatia suscitata dalla domestica e sull’antipatia suscitata dalla famiglia di Agnes. A una più attenta lettura si comprende come la positività del personaggio di Anna deriva non tanto dall’idea della lotta di classe, ben lontana dall’universo di Bergman, ma dalla convinzione

68 69 SCENE DA UN MATRIMONIO (Scener ur ett äktenskap)

Regia, sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; scenogra- fia: Björn Thulin; montaggio: Siv Lundgren; Parte 1: Innocenza e panico - Prima: 11/4/1973 TV - Parte 2: L’arte di pulire sotto il tappeto - Prima 18/4/1973 TV - Parte 3: Paula - Prima: 25/4/1973 TV - Parte 4: La valle di lacrime - Prima: 2/5/ 1973 TV - Parte 5: Gli analfabeti - Prima 9/5/1973 TV - Parte 6: Nel mezzo della notte in una casa buia in qualche parte del mondo - Prima: 16/5/1973 Tv ; interpreti: Liv Ullmann (Marianne), Erland Josephson (Johan), Bibi Andersson (Katarina), Jan Malmsjö (Peter), Anita Wall (signora Palm), Rosanna Mariano e Lena Bergman (le bambine Eva & Karin), Gunnel Lindblom (Eva), Barbro Hiort af Ornäs (signora Jacobi), Wenche Foss (la madre), Bertil Nordström (Arne); produzione: Cinemato- graph; origine: Svezia, 1974; durata: versione cinematografica 168’– versione integrale per la TV 294’.

Johan e Marianne hanno una casa, due bambine bene educate, Karin ed Eva, esercitano professioni rispettabili e sono indicati come “coppia esemplare”. Però da qualche anno, anche se lo nascondono a se stessi, esistono segni di “non comunicazione”. Johan è diventato l’amante di una studentessa molto più giovane di lui, egoista e possessiva. Arriva il momento della resa dei conti e i due divorziano. Nonostante tutto, i due continuano ad incontrarsi ogni tanto e, parlando, riconoscono di non avere vissuto in pienezza la loro unione per “ignoranza” sulla sua vera natura e per averla concepita convenzionalmente, in base a false concezioni ricevute dalle proprie famiglie e dalla società. A distanza di anni, entrambi sposati con un’altra persona, i due si ritrovano e passano insieme un week-end nel cottage di un amico; scoprono di amarsi ancora e in maniera molto più profonda, molto più matura.

«Ho provato una specie di affezione per queste persone mentre mi sono Scene da un matrimonio (1974) occupato di loro. Sono state del tutto contraddittorie, talvolta spaventate

71 come bambini, altre volte interamente adulte. Raccontano un sacco di guaggio. In effetti non v’è nulla che non passi attraverso la combinazione sciocchezze; a volte dicono qualcosa di giudizioso. Sono ansiose, allegre, vertiginosa e affinata di questi elementi. egoiste, stupide, gentili, intelligenti, piene di abnegazione, affettuose, arrab- Va poi segnalato il carattere autobiografico del racconto, tanto dal punto biate, tenere, sentimentali, insopportabili e amabili. Tutto in un miscuglio. di vista dell’aneddoto (l’episodio del tradimento nella coppia percorre tutto Ora dobbiamo vedere come andrà». il cinema di Bergman) quanto da quello dell’incarnazione (Josephson e la Igmar Bergman, cit. in Ermanno Comuzio, Cineforum n. 144, 5/1975. sua corazza ironica come doppio di Bergman, Liv Ullmann come doppio di tutte le donne del regista, a cominciare da lei stessa). Negli ultimi trent’anni di produzione i più bei film di Ingmar Bergman sono È ancor più cruciale notare che l’opera, al di là del suo successo interna- stati realizzati per la televisione, alla quale il regista si dedica in via esclusiva zionale, è inizialmente, nella sua forma di sceneggiato, diventato un vero a partire dagli anni ‘80 (con una frequenza sempre minore con il passare e proprio fenomeno sociale in Svezia, dove più di tre milioni di telespet- degli anni). Il contrasto tra il piccolo schermo e l’ampia portata della sua tatori – vale a dire metà della popolazione – hanno appassionatamente opera si trasforma in un’occasione per sperimentare in un nuovo campo. I seguito gli ultimi episodi. Molti giornali pubblicarono allora inchieste che due ultimi capolavori monumentali del cineasta – Scene da un matrimonio sollecitavano il parere di esperti e del pubblico sui personaggi, ricevendo (1973) e Fanny e Alexander (1982) – metteranno a frutto una dimensione in cambio tantissime testimonianze individuali sull’istituzione del matrimonio. che solo la televisione può concedere al regista: il tempo. Entrambi i film A testimonianza di come l’evoluzione dei costumi fosse arrivata a collimare sono una sorta di sintesi di tutta l’opera bergmaniana. Il primo prende la con le ossessioni più radicate di Bergman, ma ancor più di quanto questo forma di uno sceneggiato in sei puntate e altrettanti episodi per una du- passaggio del regista alla televisione avesse colto, sul piano estetico e rata complessiva di quattro ore e quaranta minuti di trasmissione, tempo sociologico, il profondo mutamento culturale associato a questo mezzo di ridotto a meno di tre ore di proiezione per la versione cinematografica. Liv comunicazione di massa: quello del primato dell’intimità domestica sull’au- Ullmann (Marianne) ed Erland Josephson (Johan) vi incarnano una coppia ra collettiva. Il fatto che David Jacobs, il creatore della serie televisiva sposata da dieci anni, che mostra, non senza una certa ostentazione, una americana Dallas, abbia dichiarato di essere stato influenzato da Scene felicità “moderna” (distacco, tolleranza, agiatezza): il film narra la cronaca da un matrimonio non deve essere letto in chiave aneddotica. Quello che minuziosa dell’inesorabile decomposizione del rapporto. Insieme variazione Bergman già stigmatizza con una straordinaria preveggenza è proprio sul tema della Danza di morte di Strindberg e dissezione di un motivo l’insidiosa disumanizzazione indotta dall’individualismo moderno, con la centrale dell’ispirazione bergmaniana (la coppia), Scene da un matrimo- terribile conseguenza di rendere gli esseri umani inadatti alla loro comune nio è un lunghissimo “dibattimento” sentimentale a porte chiuse, recitato condizione. Un mondo di marionette, che sette anni dopo ripropone due essenzialmente da due attori, ripresi perlopiù inquadrati in primo piano. personaggi secondari di Scene da un matrimonio (una coppia che vuota Sebbene evochi nella forma i “drammi da camera” di Strindberg, il film è il sacco in pubblico, durante una cena), porta fino in fondo le dinamiche, una tragedia moderna capace di esprimere la tensione fra l’epidermide e trasformando la scena di un litigio fra coniugi nella scena di un crimine. la retorica, la superficie sensibile del volto e la proiezione astratta dellin- Jacques Mandelbaum, Ingmar Bergman, Cahiers du cinéma, 2011.

72 73 Girato nel 1972 prevalentemente negli studi di posa che Bergman aveva prima (Innocenza e panico), marito e moglie sono descritti come due coniugi fatto costruire a Färö, proiettato a puntate in versione integrale (294 minuti) benestanti e tranquilli. Per questo, assistono con stupore e distanza emoti- per la prima volta in tv nell’aprile 1973, a Scene da un matrimonio è legato va alla furibonda litigata di una coppia amica: Katarina (Bibi Andersson) e un particolare curioso. Le cronache dell’epoca raccontano che in Svezia, Peter (Jan Malmsjö). Dopo quell’episodio, tra Marianne e Johan qualcosa Norvegia e Danimarca – dove l’indice degli ascolti televisivi raggiunse punte però s’inceppa e non è più come prima. da record in occasione di quel film in sei puntate – la percentuale delle Nella seconda scena (L’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto) separazioni subì un’impennata nel corso del 1973 e del 1974. La ragione Marianne e Johan dimostrano di adorare le loro due figlie e sembrano felici di quel boom di divorzi in Scandinavia, scrissero i sociologi, stava proprio fino a quando – tornando da teatro, dove hanno visto Casa di bambola in ciò che Bergman aveva svelato con i personaggi e i dialoghi del film: il di Henrik Ibsen, particolare non secondario – qualcosa tra loro si incrina. matrimonio può essere un inferno, meglio avere il coraggio di rompere la Decidono, di nuovo, di far finta di niente e di nascondere il malessere. È il gabbia che vivere il resto della propria vita in modo infelice. Di «inferno», loro secondo errore. Parlare e comunicare è sempre una buona medicina a proposito della vita matrimoniale, aveva già scritto Augustus Strindberg. fa intuire Bergman. Bergman aveva riattualizzato quella riflessione calandola nella vita di una Nella terza scena (Paula) arriva l’imprevisto ceffone per Marianne. Johan le coppia contemporanea. comunica che si è innamorato di un’altra donna (Paula) e che andrà a vivere Il regista ha pure raccontato molti episodi rispetto a questo film: dovette con lei. Marianne è folgorata e sconvolta da quella notizia inattesa. Umiliata cambiare più volte numero di telefono perché in molti gli telefonavano per e turbata, vuole convincere Johan a cambiare idea. Per raggiungere il suo chiedere consigli su come affrontare la propria crisi coniugale e in molti lo obiettivo, è disposta a fare ancora l’amore con lui. Il dolore di Marianne è fermavano per strada per chiedergli le stesse cose. «È una delle cose buffe straziante, privo di orgoglio. Johan non gli dà ascolto. L’interpretazione di che può capitare a chi fa il mio mestiere», aveva commentato rimanendo Liv Ullmann dà i brividi (Bergman ha raccontato che quei dialoghi partivano stupefatto del successo del film che evidentemente aveva toccato un nervo da una sua esperienza reale: in gioventù, aveva abbandonato la moglie di scoperto delle società scandinave. allora con poche parole per seguire un’altra donna a Parigi). Quando il regista curò la pubblicazione della sceneggiatura del film, ci Nella quarta scena (Valle di lacrime) i due coniugi si rivedono. Johan è teneva talmente a non essere frainteso che si preoccupò di scrivere una andato a fare visita alle figlie. Marianne sembra aver recuperato le forze breve prefazione che aveva questo insolito incipit: in una miscela di sensazioni. Voglia di riappacificazione e aggressività Affinché il lettore per forza maggiore non si sperda nel testo, credodi sembrano toccarsi, senza che prevalga né l’una né l’altra. Non è possibile dovere – contro le mie abitudini – fornire un commento alle sei scene. tornare indietro, anche se il rapporto tra Johan e Paula mostra le prime Chi si ritenesse offeso da queste spiegazioni potrà saltare a piè pari le crepe. La separazione ha prodotto in Marianne e Johan un’infezione sen- righe che seguono. timentale che non si può curare. Le “sei scene” sono gli episodi che compongono la storia coniugale e la Nella quinta scena (Gli analfabeti), davanti all’avvocato che deve conciliare separazione tra Marianne (Liv Ullmann) e Johan (Erland Josephson). Nella il divorzio, si produce l’esplosione di tutti i risentimenti e i rancori accumulati

74 75 per anni. Marianne e Johan vogliono vendicarsi l’una dell’altro annientan- non è mai una linea retta: dietro di sé lascia strappi e piaghe doloranti. dosi con parole d’odio e di disprezzo. I dialoghi fanno sorgere un legittimo Anche in questo film il regista sembra parteggiare per la protagonista femmi- dubbio in chi li ascolta: come ha fatto quella coppia a convivere per tanti nile. Le donne sono per Bergman soggetti molto più complessi degli uomini: anni sotto lo stesso tetto e a dormire nello stesso letto? in loro c’è un alternarsi di sentimenti profondi e cristallini in cui l’egoismo Nell’ultima scena (Nel cuore della notte in una casa buia da qualche parte non prevale quasi mai, a differenza di quanto accade nei loro partner. Liv del mondo) siamo di fronte a due persone che si rivedono dopo sette anni e Ullmann è interprete sensibile di tutte le inquietudini di Marianne. Erland che hanno percorso l’intero tragitto interiore dell’elaborazione del lutto della Josephson giganteggia nell’interpretare lo scontroso e insicuro Johan. E separazione. Si ritrovano, sono gentili, si ascoltano come non erano stati nel film c’è più autobiografia di quanto non si immagini, dal momento che capaci di fare da sposati. Riescono perfino a passare un week-end insieme anche nella vita privata – nel periodo d’incubazione di Scene da un matri- e a dormire di nuovo nello stesso letto, augurandosi dolcemente e in modo monio – Liv Ullmann e Ingmar Bergman stavano separandosi dopo alcuni inoffensivo la buona notte. L’amore e l’odio si sono trasformati in amicizia. anni di amore sincero. Il regista ha usato la rappresentazione artistica per La chiave del film sta in quel finale. Scrive Bergman: «Tutte le relazioni scavare nelle proprie angosce. Scene da un matrimonio fa parte di questa sono complicate e la loro vita è innegabilmente basata su un mucchio di ricerca psicanalitica individuale che poi riesce inspiegabilmente a parlare meschini compromessi». Il ritrovarsi di Marianne e Johan fuori della gab- a ognuno di noi. bia del matrimonio è l’unico modo per conoscersi davvero e volersi bene. I riflettori della riflessione bergmaniana sono puntati contro l’egoismo, rap- Potrebbero, se lo volessero, perfino diventare amanti, a dimostrazione che presentato in questo film come la malattia che va combattuta a ogni costo. quel ruolo è più veritiero di quello di moglie e marito. Il farmaco migliore è la riscoperta della solidarietà e dell’amicizia, che può Quei sei episodi di quasi 50 minuti l’uno, trasformati nella versione cine- servire a due persone per ritrovarsi anche dopo la fine di un matrimonio. matografica in un unico film di 155 minuti, sono una lunga pièce teatrale Finalmente liberi dagli obblighi e dalle convenzioni, una donna e un uomo dove il dialogo non si interrompe mai e obbliga lo spettatore a uno sforzo possono guardarsi in faccia senza timori perché hanno scoperto che si di concentrazione. Il racconto ruota intorno a un interrogativo che non ha vogliono bene e che il loro sentimento iniziale si è trasformato. Aver scelto risposte: dov’è l’origine di tanti fallimenti matrimoniali? di vivere insieme, anche solo per un periodo, è un’esperienza che non si Bergman ci offre alcune spiegazioni, guardandosi bene da evidenziarne può cancellare. solo una. Forse il naufragio di un matrimonio è connaturato all’istituzione Aldo Garzia, Bergman-The Genius, Editori Riuniti-University Press, 2010. che uomini e donne si intestardiscono a voler riprodurre. Forse lo smacco ha origine nelle menzogne che ognuno si racconta, o forse l’insuccesso consiste nella routine che trasforma in abitudine anche il più passionale dei sentimenti. Da qui l’andamento non lineare di Scene da un matrimonio, che nel suo svolgersi assomiglia più alle montagne russe di un luna park che al dipanarsi di una storia d’amore arrivata al capolinea. Ogni divorzio

76 77 FANNY E ALEXANDER (Fanny och Alexander)

Soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; musiche: Marianne Jacobs, Daniel Bell, Frans Helmerson, Robert Schu- mann, Benjamin Britten; “Marcia funebre” e “Notturno” di Frédéric Chopin; montaggio: Sylvia Ingemarsson; scenografia: Susanne Lingheim, Anna Asp; costumi: Marik Vos; effetti: Bengt Lundgren; interpreti: Pernilla Allwin (Fan- ny Ekdhal), Bertil Guve (Alexander Ekdhal), Ewa Fröling (Emilie Ekdahl), Gunn Wållgren (Helena Ekdahl), Jan Malmsjö (Vescovo Vergerus), Pernilla August (Maj), Jarl Kulle (Gustav Adolf Ekdahl), Erland Josephson (Isak Jacobi), Gunnar Björnstrand (Filip Landahl), Allan Edwall (Oscar Ekdahl), Siv Ericks (Alida), Angelica Wallgren (Eva), Kristina Adolphson (Siri), Börje Ahlstedt (Carl Ekdahl), Inga Ålenius (Lisen), Harriet Andersson (Justina), Kristian Almgren (Putte Ekdahl), Emelie Werkö (Jenny Ekdahl), Kerstin Tidelius (Henrietta Vergerus), Sonya Hedenbralt (zia Emma); produzione: Cinematograph Ab- Personafilm-Tobis Filmkunst-Tvi-Svenska Filminstitutet- Sandrews-Svt Drama-Opera Film Produzione-Gaumont International; origine: Svezia-Francia-Germania, 1982; durata: 188’.

Sera di Natale (1907) nella sontuosa dimora della famiglia Ekdhal, in una città di provincia in Svezia. Su figli, nuore e nipoti regna Elena, ex attrice, donna autoritaria ma amabile, contornata dai figli Oscar (attore, con la bella moglie Emilie, già attrice essa stessa), Gustaf Adolf (amministratore del teatro), marito focoso e superficiale di Alma, donna giuliva e tollerante, e Carl (frustrato, lamentoso e perennemente indebitato, coniugato a una tedesca). Sono figli di Oscar e di Emilie i due decenni Fanny edAlexan- der. La famiglia è in seguito funestata dalla repentina morte di Oscar, che avviene dopo una recita di Amleto: tutti sono toccati dall’evento, Emilie ne è profondamente colpita e i due bambini, Alexander soprattutto, perce- piranno la morte del loro affettuoso e sensibile padre come un qualcosa che lacera per sempre la loro infanzia. Oscar molto spesso sarà visto in Fanny e Alexander (1982) sogno e “rivisitato” da Alex come un bianco fantasma che si aggira tra i

79 velluti e damaschi della ricca dimora: un fantasma che è un dolce e silen- C’è un’illustrazione, in un’edizione dei racconti di E.T.A. Hoffmann, che mi si te protettore. Ma la vedovanza non dura a lungo: i due ragazzi vengono è spesso ripresentata alla memoria. L’immagine è presa dallo Schiaccianoci. presentati al vescovo Edward Vergerus, uomo maturo, estremamente rigido Ci sono due bambini rannicchiati nella penombra, la vigilia di Natale, e e formale e di costumi spartani. Essi lo detestano, ma sono ovviamente aspettano che venga acceso l’albero e che siano aperte le porte della sala. obbligati a seguire la madre che lo ha sposato, lasciando la nonna, la loro Di qui presi lo spunto per la festa natalizia con cui comincia Fanny e Ale- bella casa e perfino i giochi, per condurre in un gelido vescovado una xander. L’altro padrino è, naturalmente, Dickens. Il vescovo e la sua casa; esistenza arida e intristita disciplinata da leggi rigidissime e in un ambiente l’ebreo nella sua bottega fantastica; i bambini vittime. Ne uscì l’idea di un pressochè spoglio, che è dominato dalla spigolosità della madre e della contrasto tra un mondo chiuso, in bianco e nero, e la vita fiorente, fuori.(...) sorella di Vergerus. Ogni mancanza pur minima è freddamente valutata e Ingmar Bergman, Immagini, Garzanti, 1992. punita. Un vecchio amico di Elena (amico, ma anche suo ex innamorato), l’antiquario ebreo Jack Jacobi (che già era presente alla festa di Natale Sono ormai quasi trent’anni – diciamo dalla presentazione al festival di e che tutti considerano da tempo come di famiglia) impietosito della sorte Cannes, nel 1956, di Sorrisi di una notte d’estate e poi l’anno appresso, dei due fratellini, organizza personalmente il ratto di essi dal vescovado, sempre alla Croisette, con quel capolavoro che era e resta Il settimo sigillo con il pretesto dell’acquisto di un antico cassone situato nell’ingresso, dove – che Ingmar Bergman detiene lo statuto di classico contemporaneo. Dopo i bambini vengono nascosti, per essere poi ospitati nel negozio, zeppo di d’allora altri grandi film sono venuti – inutile menzionarli. cianfrusaglie, statue misteriose e mille oggetti interessanti... Ma il loro maggior pregio è stato aver allargato il campo delle possibilità consentite al cinema: l’obiettivo traslocato nel trambusto d’ossessioni e I padrini di Fanny e Alexander sono due. Uno è E.T.A. Hoffmann. sconforti e contrasti, che è il momento tipico del cinema bergmaniano, ha Verso la fine degli anni Settanta, si pensò che avrei potuto mettere in scena rivelato nel regista svedese l’amalgama dell’arte e della più insinuante trat- i racconti di Hoffmann all’Opera di Monaco. Cominciai allora a fantasticare tazione di tematiche filosofiche. Le linee sintattiche dell’espressione visiva su chi fosse il vero Hoffmann, immaginandolo seduto all’osteria di Lutero, hanno trovato tra le due distinte polarità un equilibrio presso che perfetto: malato e quasi in punto di morte. Scrissi nei miei appunti: «La morte è il che è dire che I’affabulazione ha indisputabilmente giocato sul filo dop- sempre presente. La barcarola, la dolcezza della morte. La scena di Venezia pio, rischioso ma eccitante, del richiamo teoretico-culturale (Kirkegaard più sa di marcio, di grossolana lussuria e di profumi pesanti. Nella scena di Strindberg) e dell’allusione onirico-fantastica. Antonia, la madre appare nella sua terrificante pazzia. La stanza si popola Nel corso di questi anni – lo ripetiamo per memoria – l’esperienza berg- di fantasmi che danzano con la bocca spalancata. Nell’aria dello specchio, maniana ha comunque conosciuto evoluzioni e cambiamenti, tanto da lo specchio in questione è piccolo e lampeggia come l’arma di un delitto». affinare al suo interno una regolare periodizzazione. Da grande e completo In un racconto di Hoffmann si parla di una favolosa stanza magica. Era autore, Bergman non ha solo evidenziato una tormentata e imprescindibile quella la stanza da riprodurre sulla scena. Era là che bisognava rappre- individualità, che è il perno su cui positivamente s’incentra il suo mondo sentare il dramma, con l’orchestra nello sfondo. poetico; ma ha orchestrato, in forme narrative sempre traspostamente au-

80 81 tobiografiche, una struttura briosa e flessibile, ambigua e proliferante. Ora, è assai difficile che una personalità tanto rilevata e geniale (un individuo musicale: in accezione foucaultiana), che ha trovato aperto l’accesso alla scrittura, e non solo per immagini, sfugga a lungo andare alla tentazione di insinuare la propria identità e vita nei meandri dell’universo immaginati- vo. In ambito letterario, la forma autobiografica è abbastanza comune: da Cellini a Rousseau, da Vittorio Alfieri al «diario totale» di Bert Brecht, gli esempi si sprecano. AI cinema invece, meno dominato dal fattore soggettivo, la consegna del proprio corpo e passato all’opera che li salverà dalla morte, avviene attra- verso le più opportune mediazioni sul lessico e sulle relazioni sintattiche dell’insopprimibile racconto oggettivo (è quanto hanno fatto in uno stato in parte incondito Visconti e Pasolini, in maniera diretta e esplicita Federico Fellini). Già per queste ragioni il caso di Fanny e Alexander è unico e al momento irripetuto: trovandosi ad essere il solo esempio che ci volga in mente di autobiografia per immagini. Naturalmente, anche uno come Bergman, che pure si trova ad essere ormai investito del carisma della classicità, deve tener conto delle caratteristiche del cinema. Non del consumo, ma bensì della ricezione e degli apparati di produzione. Un film dopotutto non è un libro. Tuttavia a questo vincolo il regista risponde con una scelta di scrittura più ricca. Il suo racconto non sempre è in persona del personaggio in cui lui si identifica, e che lo richiama anche per la figura e i tratti del volto, lungo e liscio, il ragazzo Alexander appunto: «Alcune parti del film – (...) – sono viste con gli occhi di Alexander, altre, più obiettivamente, dal narratore. Oppure le vediamo dal punto di vista della madre. Ho cambiato l’angolo di visione come più mi faceva comodo». II rifiuto della cronaca, e della replica passo per passo dei fatti così come essi si svolsero, comporta issofatto la spoliazione del dato aneddotico. Ma intanto è singolare che il limite del riserbo eviti la lezione a bisturi, punta e bulino in senso diaristico e s’iner- Fanny e Alexander (1982)

83 pichi invece verso la necessaria invenzione: da cui l’ulteriore peculiarità di una marionetta manovrata da un giovane, ma la spiegazione dell’evento autobiografia per visioni fantastiche. è subito dopo fatta ripiombare nell’universo bianco di senso di Ismael, E infatti Bergman può dire che il suo film è una sorta di arazzo: «un’enor- l’altro nipote del vecchio Isak, tenuto prigioniero a causa dei poteri e delle me carta di parati affollati di immagini, fra le quali tu stesso puoi scegliere pulsioni che lo abitano). quale guardare». La tentazione narcisistica diviene in altre parole perce- È quanto equivale alla coscienza delle costrizioni dell’artista all’interno di zione obliqua e dolente, allegra e compiaciuta della società che dà origine codici, e a volte di universi fantastici prefigurati, nel momento stesso in all’individuo-creatore. La contraddizione inerente al contrasto tra il valore cui, come creatore, egli si sente più simile a Dio. Il che – per tornare alla della presenza (tipico dell’opera d’arte) e la presenza invece del soggetto grossa novità che Fanny e Alexander rappresenta: essere probabilmente nel futuro che lo accoglie, è qui risolta componendo la memoria del singolo il primo film che introduce nel cinema il genere autobiografico –sipro- nella memoria di un gruppo sociale e, estensivamente, di una nazione. Ne porziona alla contraddizione delle biografie scritte, dove il vissuto che si esce dilatato il valore d’esempio dell’esperienza del personaggio. Non per vorrebbe rivivere con intenti critici e apologetici, diventa di colpo un vissuto avventura al centro di Fanny e Alexander è più, che una qualsiasi famiglia, memoriale, una realtà malgrado tutto persa alle maglie dell’io e proiettata una vera e propria generazione di artisti della scena. (...) nell’artifizio della scrittura. In Fanny e Alexander il miracolo è che il difficile si scioglie e diventa ac- Ma è da quell’artifizio, quando esemplato su ragioni autentiche, che poi cessibile: l’universo tormentato e stranito di Bergman, rivelato in se stesso, scaturisce l’effetto abbagliante dell’arte. In effetti, come puntualizza Cioran, verificato negli stilemi (gli interni rosso-accesi delle stanze, ci mostrano lo stile è al medesimo tempo confessione e maschera. (...) la fonte sensibile degli interni di Sussurri e grida: ma è un esempio tra Gualtiero De Santi, Cineforum n.231, 1/2/-1984. i tanti), e nelle tematiche, liberato dalle nebulose, dai grovigli, dai turbini che gli si sono addensati sopra, si fa adesso evidente a chiunque. Come Fanny e Alexander, altro capolavoro di questo periodo e a ben vedere il è prerogativa delle opere classiche e delle grandi invenzioni fantastiche e film degli ultimi addii di Bergman al suo cinema, è lontano mille miglia dalle fantasmatiche. sfide formali del precedente. Intanto è l’opera più ambiziosa e più dispen- Ma vuoi cesellando i protocolli minimali vuoi componendo i vasti affreschi, diosa mai realizzata dal cineasta (sei milioni di dollari, una sessantina di Bergman non rinunzia a far vedere l’incantevole bilanciamento che sempre attori, un migliaio di comparse), a tutti gli effetti un’opera cinematografica, si determina tra l’ispirazione e la tecnica, tra la leggerezza e la profondità l’ultima il cui finanziamento deriva da una coproduzione internazionale con della creazione e il valore d’uso dell’attrezzeria e dei linguaggi sperimentati: sponsor principale l’Istituto svedese del cinema. Questo costo riflette il in breve, tra I’inventio e l’impostura del magnetizzatore, fatta di magie e fatto che due versioni, una per la televisione e l’altra per il cinema, siano fantasie ad hoc, su cui però la prima di necessità si fonda. (Si ripensi a state previste fin dall’inizio. Con il risultato che, come era già avvenuto Il volto, alla dialettica altalenante che vi si instaurava tra il prestidigitato- per Scene da un matrimonio, pochi spettatori vedranno, fuori dalla Sve- re Vogler e il medico Vergerus; e in Fanny e Alexander si ripercorra la zia, la versione integrale di Fanny e Alexander diffusa dalla televisione sequenza in casa di Isak Jacobi: Dio che parla ad Alexander gli si rivela svedese (340 minuti), l’unica valida secondo Bergman al punto che egli

84 85 considerava l’adattamento cinematografico (188 minuti), in cui le scene ta- gliate sono vere mutilazioni, un mero ripiego. Quello che inoltre accomuna Fanny e Alexander e Scene da un matrimonio è di essere una sorta di geniale ripresa dei principali motivi che nutrono l’opera del cineasta, ma spinta all’estremo, come mai prima di allora. Bergman concede semplice- mente (e finalmente) a se stesso non solo di celebrare la vita – obiettivo che sottende, anche se segretamente e dolorosamente, tutti i suoi film – ma anche di farlo, per così dire, a viso aperto. Questa ammissione è appositamente formulata in un passo delle note preparatorie al film, citata nel libro intitolato Immagini, in cui scrive: “Voglio finalmente rappresentare quella gioia che io, nonostante tutto, porto con me, e a cui tanto di rado e tanto debolmente do vita nel mio lavoro. Descrivere l’energia, la vitalità, la bontà. Non sarebbe poi così male, per una volta”.” Racconto di una ini- ziazione alla vita ambientata all’inizio del XX secolo in seno a una grande e pittoresca famiglia borghese capeggiata da una tenera matriarca, il film evoca l’ingresso nella vita di un fratello e una sorella, Alexander e Fanny, lui giovane adolescente, lei ancora bambina. La morte del padre, direttore di teatro, spinge la madre a sposare un pastore protestante e ad allontanarsi dal tiepido nido familiare. La donna, pensando di trovare nell’austero focolare del ministro del culto un’oasi di pace e un percorso di verità, deve in realtà confrontarsi, insieme ai figli, con la perversità e la crudeltà di una famiglia devota a un culto traviato, in un’atmosfera di mortificazione e penitenza. I due giovani vengono sottratti alle sevizie inflitte loro dal pastore grazie all’intervento del vecchio usuraio ebreo Jacobi, amico della loro nonna, che li riporta nella grande casa di famiglia, in cui regna una umanità che sfida la presenza del male sconfiggendone l’esistenza grazie alla celebrazione rinnovata dell’illusione, della fantasia, dell’amore e della generosità. La descrizione a parole di questo splendido film non rende affatto giustizia della sua bellezza né della ricchezza dei suoi contenuti. Bergman avvicina e vi fa coesistere alcuni giganti della letteratura (Hoffmann, Dickens, Strindberg, Fanny e Alexander (1982)

87 Ibsen, Shakespeare) insieme ai suoi ricordi d’infanzia e alle reminiscenze del dio grottesco e tremulo che Aaron, nipote di Jacobi, utilizza nella bottega suo cinema, fonde in un sapiente gioco di specchi il teatro e il cinema, raf- dello zio per spaventare Alexander. Ma questa risposta ebraica (Dio salva fronta arte e religione, si fa strada fra classicismo e modernità: in altre parole, l’uomo con la sua azione) al dio cristiano (Dio salva l’uomo tramite la sua riuscendoci su tutti piani, egli dà una straordinaria lezione di virtuosismo e di rivelazione) verrà a sua volta inficiata da Ismaël, il secondo nipote di Jacobi, libertà. Ma il fascino irresistibile esercitato da questa pellicola scaturisce, in tenuto accuratamente rinchiuso in ragione dei suoi poteri da sensitivo che, buona sostanza, da due caratteristiche. La prima attiene all’architettura dram- di fatto, vendicherà Alexander a distanza, provocando la morte del pastore matica e consiste nel modo particolarmente sottile di ritrarre i caratteri (lo zio nell’incendio della sua casa. Interpretato da una donna, il personaggio di petomane e quello erotomane, la domestica prosperosa, il pastore diabolico, Ismaël incarna l’altro ebreo, che tramite la voce del profeta afferma la i bambini innocenti...) e le tematiche (il bene contro il male, la gioia contro presenza efficace di Dio nella Storia. Quanto alla religione personale di la severità), deliberatamente semplificate da un processo di “decantazione” Bergman in tutta questa faccenda, la si legge volentieri, ma non necessa- che le rivela in tutta la loro complessità. La seconda è di ordine morale e riamente, nel discorso finale dello zio Gustav-Adolf, infinitamente più triviale basterebbe, qualora se ne sentisse il bisogno, a definire lo spirito ma non per questo meno eroico: pensare che vivere sia un mestiere che dell’arte di Bergman: la lotta incessante contro ogni presunzione di pu- ogni uomo deve praticare al meglio, per non dire il meno male possibile. rezza, l’affermazione dell’imperfezione come segno elettivo dell’umanità. Questo quadro della famiglia Ekdahl nuovamente riunita, arricchita da Visto da questa angolatura e con tutte le riserve sul sostrato bergmaniano qualche altro fantasma e bastardo, sarebbe davvero idilliaco se non fosse (il dramma della filiazione, la realtà familiare, la presenza reale di fantasmi), minacciato dall’imminente prima guerra mondiale, in altre parole, dalla fine Fanny e Alexander potrebbe quasi passare per una sorta di variazione di quel mondo che il film ha così tanto liricamente celebrato. segreta di To Be or Not to Be, una commedia di Ernst Lubitsch (1942) Jacques Mandelbaum, Ingmar Bergman, Cahiers du cinèma, 2011. che oppone una truppa teatrale polacca ai nazisti durante l’occupazione tedesca. Le due opere si rifanno all’Amleto di Shakespeare: entrambe condividono lo stesso elogio e la stessa vertigine della rappresentazione, la stessa stigmatizzazione del totalitarismo e della sconcezza antisemita, la stessa evocazione alla Shylock dell’umiliazione e della vendetta ebraiche, lo stesso gusto carnevalesco per il ribaltamento delle apparenze. Una delle sequenze più impressionanti e misteriose di Fanny e Alexander – il salvataggio dei due ragazzi per mano di Jacobi – mette soprattutto in scena questo elogio dell’impurità, facendo interagire l’uno contro l’altro, e in modo assai provocatorio, personaggi che incarnano ciascuno la verità esclusiva dei tre grandi monoteismi. Al dio impersonato nel sacrificio del pastore Vergerus risponde così, in un primo tempo, la marionetta di un

88 89 BIOGRAFIA Ernst Ingmar Bergman nasce a Uppsala (Svezia) il 14 luglio 1918, secon- dogenito di Karin Åkerblom e del pastore Erik Bergman dopo il fratello Dag (nato nel 1914). Nel 1922 nasce sua sorella Margareta. Superato l’esame d’ammissione all’università nel 1937, pensa di iscriversi alla Facoltà di Storia della letteratura, abbandona la famiglia e si stabilisce a Stoccolma. L’anno successivo fa le sue prime prove dilettantesche di regia teatrale presso il Mäster Olofsgården, mettendo in scena Outward Bound di Sutton Vane e altre pièce. Nel 1939 continua il suo apprendistato come regista dirigendo Lucky Per’s Resa di Strindberg e nel 1940 Macbeth di Shakespeare al Mäster-Olofsgården e Il pellicano di Strindberg per il Teatro studentesco, l’anno successivo Il padre di Strindberg e nel 1942 Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Nel settembre del 1942 la Svensk Filmindustri gli propone di lavorare come sceneggiatore e nel gennaio 1943 Bergman inizia questa nuova attività. Il 25 marzo sposa la ballerina e coreografa Else Fisher e il 21 dicembre nasce la sua prima figlia, Lena. Nel 1944 mette in scena una serie di pièce di Hjalmar Bergman (fra cui Herr Sleeman kommer), che riscuote un buon successo e per la prima volta una sua sceneggiatura viene adattata al cinema, Spasimo (1944) di Alf Sjöberg, che otterrà la Palma d’oro al festival di Cannes nel 1946. Nell’aprile del 1944 è nominato direttore del Teatro municipale di Helsingborg dove mette in scena vari testi fra cui ancora Macbeth di Shakespeare. Mentre continua a lavorare intensamente per il Teatro di Helsingborg, alla fine del 1945 inizia una collaborazione anche con il Teatro municipale di Göteborg. Lo stesso anno divorzia da Else Fisher e il 22 luglio sposa Ellen Lundström. Il 5 settembre nasce la sua seconda figlia, Eva. Nel febbraio 1946 esordisce nella regia cinematografica con Crisi, che è un insuccesso di pubblico ma questo non gli impedisce di realizzarne un secondo dopo pochi mesi, Piove sul nostro amore. Mette in scena spet- tacoli anche per il Teatro municipale di Malmö, viene nominato direttore

93 del Teatro di Göteborg (lo rimarrà fino al 1950), dove dirige Caligola di fra gli altri, dai futuri registi della Nouvelle Vague. Nel 1959 il Dramaten Camus, la sua stessa pièce Dagen slutar tidigt (1947) e un’altra edizione lo assume stabilmente come regista e prosegue il grande successo del del Macbeth (1948), mentre collabora anche con la radio. Dall’unione con la Faust, che viene allestito anche a Londra. A settembre sposa la pianista Lundström nasce il 7 settembre 1946 un secondo figlio, Jan, cui seguiranno Käbi Laretei e ha una figlia ‘segreta’, Maria, da Ingrid von Rosen, che il 5 maggio del 1948 i gemelli Anna e Mats. Ma nel 1950 divorzia anche sposerà solo dodici anni più tardi. dalla seconda moglie e lo stesso anno riprende l’attività di regista teatrale Nominato Consigliere artistico per la Svensk Filmindustri, nel 1961 ottiene a Stoccolma, dirigendo L’Opera da tre soldi di Brecht e Medea di Anouilh. l’Oscar per il miglior film straniero con La fontana della vergine (1959). Al Nel giugno del 1951 si sposa con Gun Hagberg dopo che era nato un Teatro dell’Opera di Stoccolma riscuote grande successo la sua messin- altro figlio, Ingmar. È ormai un affermato regista teatrale (ora lavora per scena di Carriera di un libertino di Stravinskij. Nel 1962 vince il secondo il Dramaten). Nel 1952 viene nominato direttore del Teatro municipale di Oscar con Come in uno specchio e diviene padre di un settimo figlio, Malmö, dove mette in scena, fra gli altri, La sonata di spettri di Strindberg Daniel Sebastian. Nel gennaio 1963 è nominato direttore del Dramaten di (1954) e La vedova allegra di Lehar (1954). Stoccolma e dirige, fra gli altri, gli spettacoli Chi ha paura di Virginia Woolf? Durante la preparazione del film Monica e il desiderio, conosce la giovane di Edward Albee, La leggenda di Hjalmar Bergman e, nel 1964, Hedda attrice esordiente Harriet Andersson con cui ha un’intensa relazione sen- Gabler di Ibsen. Nel 1965 un’infezione virale lo costringe a rallentare la sua timentale dopo il divorzio da Gun Hagberg. Nel 1955 mette in scena Don frenetica attività; sceglie come residenza preferita la sua casa sull’isola di Giovanni di Molière e la sua pièce Pittura su legno, che ispirerà il film Il Fårö, isola di cui si è innamorato dal 1959. Conosce Liv Ullmann e inizia settimo sigillo, nel 1956 dirige Enrico XIV di Strindberg e molte altre pièces. con lei una relazione sentimentale. Nel marzo del 1966 muore sua madre Nel maggio del 1956 il suo sedicesimo film, Sorrisi di una notte d’estate, Karin e dall’unione con la Ullmann nasce una figlia, Linn. Nel 1967 mette è in concorso al Festival di Cannes dove vince il Premio Speciale della in scena Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello e fonda la società giuria. È il momento dell’affermazione internazionale: il film ha successo in di produzione Persona AG e l’anno successivo la società Cinematograph tutto il mondo ed è il primo ad essere distribuito in Italia. AB, con cui coprodurrà quasi tutti i suoi film cinematografici e televisivi fino Nel maggio del 1957 presenta a Cannes Il settimo sigillo, che vince il Premio al 1984 e alcuni film di altri registi, fra cui Paradistorg (1977) e Sally and speciale della Giuria ed è un altro grande successo di critica e pubblico, Freedom (1981) di Gunnel Lindblom, Min älskade (1979) di Kjell Grede rinnovato dal successivo Il posto delle fragole, Orso d’oro al festival di Berlino e Gotska Sandön (1987) di Arne Carlsson. Nel 1969 dirige il Woyzeck di del 1958. Si lega sentimentalmente all’attrice Bibi Andersson per un paio Büchner. Nell’aprile del 1970 muore il padre. Dirige Il sogno di Strindberg, d’anni. Mentre continua a dirigere importanti spettacoli a teatro (Peer Gynt che trionfa, e Hedda Gabler di Ibsen per il Teatro nazionale di Londra. di Ibsen e Il misantropo di Molière nel 1957, Faust di Goethe nel 1958) Si separa da Liv Ullmann (con la quale continua un’intensa attività artistica) e a collaborare con la radio, inizia anche un’attività televisiva che rimane e nel novembre del 1971 sposa la pianista Ingrid Karlebö von Rosen. Nel sconosciuta al di fuori della Svezia. Nel 1958 la Cinémathèque française 1972 mette in scena L’anitra selvatica di Ibsen e l’anno dopo nuovamente gli dedica una prestigiosa retrospettiva e la sua opera viene incensata, Sonata di spettri di Strindberg e Il misantropo di Molière. Il film Scene

94 95 da un matrimonio, trasmesso in sei episodi dalla televisione svedese nel cinematografica. Intanto, ha iniziato a pubblicare alcuni romanzi autobiogra- 1974, ha un enorme successo di pubblico. Lo stesso anno, Sussurri e grida fici, Con le migliori intenzioni (1989), Nati di domenica (1992), Confessioni (1972) vince l’Oscar per il miglior film straniero. Nel 1975 dirige La dodice- private (1994), la pièce L’ultimo grido (1993) e la sceneggiatura Vanità e sima notte di Shakespeare e riceve la laurea honoris causa dall’Università affanni raccolte in Il quinto atto (1994). di Stoccolma. Il 26 gennaio del 1976, mentre è impegnato al Dramaten Nel 1991 mette in scena Peer Gynt, nel 1993 Stanza e tempo di Botho nelle prove di Danza di morte di Strindberg, viene arrestato con l’accusa Strauss, nel 1994 Le variazioni Goldberg di Tabori e Racconto d’inverno di di evasione fiscale. In seguito, è ricoverato per tre settimane nel reparto Shakespeare. Nel maggio 1995 muore la moglie Ingrid e nel 2000 il figlio psichiatrico dell’ospedale Karoliska di Stoccolma. A settembre decide di Jan, a soli cinquantaquattro anni. Nel 2003 dirige l’ultimo film per la televi- trasferirsi a Monaco dove firma un contratto con il Residenztheater e viene sione, Sarabanda, dove riprende i personaggi (e gli interpreti) di Scene da insignito del Premio Goethe. un matrimonio trent’anni dopo. La critica lo accoglie con entusiasmo. Nel A Monaco dirige L’uovo del serpente e mette in scena Il sogno di Strindberg 2004 si ritira anche dalle scene teatrali. Le sue ultime regie erano state (1977), Tre sorelle di Cechov (1978), Tartufo di Molière (1979) e Hedda Le baccanti di Euripide (1996), Bildmakarna di Enquist (1998), La sonata Gabler di Ibsen (1979), Yvonne, prinzess von Bourgogne di Gombrowicz di spettri (2000), Maria Stuarda di Schiller (2000) e Spettri di Ibsen (2002). (1980). Tra settembre e ottobre del 1977 realizza a Oslo Sinfonia d’autunno, Muore il 30 luglio del 2007 nella sua casa dell’isola di Fårö. suo secondo film girato al di fuori della Svezia. Nel 1979 viene definiti- (da ilcinemaritrovato.it) vamente prosciolto dall’accusa di evasione fiscale ma ritornerà in Svezia soltanto nel 1982, l’anno in cui presenta Fanny & Alexander, che lo ha impegnato sul set per sei mesi, dal settembre 1981 al marzo 1982. Il film, che Bergman presenta come il proprio commiato dal cinema, è un grande successo in tutto il mondo, tranne che in Francia, e ottiene quattro premi Oscar (miglior film straniero, miglior fotografia, scenografia e costumi). Nel 1983 mette in scena nuovamente il Don Giovanni di Molière, nel 1984 il Re Lear di Shakespeare, che ha un esito trionfale, e nel 1985 John Gabriel Borkman di Ibsen. Lo stesso anno muore suo fratello Dag. Viene insignito della Legion d’onore a Parigi da François Mitterrand. Continua un’intensa attività teatrale, mettendo in scena La signorina Giulia di Ibsen (1985), Il sogno di Strindberg, Amleto di Shakespeare (1986), Lungo viaggio verso la notte di O’Neill (1988), La marchesa de Sade di Mishima (1989), Casa di bambola (1989). Nel 1987 pubblica l’autobiografia, Lanterna magica e nel 1991 Immagini, dove ripercorre e analizza la propria opera

96 97 FILMOGRAFIA 1946 CRISI (Kris) 93’

PIOVE SUL NOSTRO AMORE (Det regnar på vår kärlek) 95’

1947 LA TERRA DEL DESIDERIO (Skepp till Indialand) 102’

1948 MUSICA NEL BUIO (Musik i mörker) 85’

CITTÀ PORTUALE (Hamnstad) 99’

1949 LA PRIGIONE (Fängelse) 75’

SETE (Törst) 84’

1950 VERSO LA GIOIA (Till glädje) 98’

CIÒ NON ACCADREBBE QUI (Sånt händer inte här) 84’

1951 UN’ESTATE D’AMORE (Sommarlek) 96’

1952 DONNE IN ATTESA (Kvinnors väntan) 107’

1953 MONICA E IL DESIDERIO (Sommaren med Monika) 92’

UNA VAMPATA D’AMORE (Gycklarnas afton) 92’

1954 UNA LEZIONE D’AMORE (En lektion i kärlek) 95’

1955 SOGNI DI DONNA (Kvinnodröm) 86’

SORRISI DI UNA NOTTE D’ESTATE (Sommarnattens leende) 108’

1957 IL SETTIMO SIGILLO (Det sjunde inseglet) 96’

IL POSTO DELLE FRAGOLE (Smultronstället) 91’

1958 ALLE SOGLIE DELLA VITA (Nära livet) 84’

IL VOLTO (Ansiktet) 100’

1960 LA FONTANA DELLA VERGINE (Jungfrukällan) 86’

L’OCCHIO DEL DIAVOLO (Djävulens öga) 86’

1961 COME IN UNO SPECCHIO (Såsom i en spegel) 89’

101 Televisione

1963 LUCI D’INVERNO (Nattvardsgästerna) 81’ 1957 MR. SLEEMAN IS COMING (Herr Sleeman kommer) 43’

IL SILENZIO (Tystnaden) 95’ 1958 THE VENETIAN (Venetianskan) 56’

1964 A PROPOSITO DI TUTTE QUESTE... SIGNORE RABIES (Rabies) 89’

(För att inte tala om alla dessa kvinnor) 80’ 1960 STORM WEATHER (Oväder) 91’

1966 PERSONA 84’ 1963 WOOD PAINTING (Trämåilning) 50’

1967 DANIEL (nel film “”) cm 15’ A DREAM PLAY (Ett drömspel) 105’

1968 L’ORA DEL LUPO (Vargtimmen) 89’ 1965 DON JUAN (Don Juan)

LA VERGOGNA (Skammen) 102’ 1969 THE RITE (Riten) 74’

1969 PASSIONE (En passion) 101’ 1970 THE FÅRÖ DOCUMENT 1969 (Fårö-dokument) 88’

1971 L’ADULTERA (Beröringen) 113’ 1973 SCENE DA UN MATRIMONIO (Scener ur ett äktenskap) 281’

1973 SUSSURRI E GRIDA (Viskningar och rop) 91’ 1974 THE MISANTHROPE (Misantropen) 115’

1974 SCENE DA UN MATRIMONIO (Scener ur ett äktenskap) 168’ 1976 IL BALLO DELLE INGRATE (De fördömda kvinnornas dans) 84’

1975 IL FLAUTO MAGICO (Trollflöjten) 135’ 1979 THE FÅRÖ DOCUMENT 1979 103’

1976 L’IMMAGINE ALLO SPECCHIO (Ansikte mot ansikte) 136’ 1983 (Fanny och Alexander) 326’

1977 L’UOVO DEL SERPENTE (Das Schlangenei) 119’ 1983 THE SCHOOL FOR WIVES (Hustruskolan) 108’

1978 SINFONIA D’AUTUNNO (Höstsonaten) 92’ 1986 IL SEGNO (-De två saliga) 81’

1980 UN MONDO DI MARIONETTE (Aus dem Leben der Marionetten) 104’ DOKUMENT FANNY OCH ALEXANDER 110’

1982 FANNY E ALEXANDER (Fanny och Alexander) 188’ 1992 MADAME DE SADE (Markisinnan de Sade) 104’

1983 KARIN’S FACE (Karins ansikte) cm 14’ 1993 THE BACCHAE (Backanterna) 131’

1984 DOPO LA PROVA (Efter repetitionen) 72’ 1995 THE LAST SCREAM (Sista skriket) 60’

1997 VANITÀ E AFFANNI (Larmar och gör sig till) 120’ 1997 IN THE PRESENCE OF A CLOWN (Larmar och gör sig till) 119’

2003 SARABANDA () 120’ 2000 (Bildmakarna) 100’

102 103 Centro Stampa Comunale gennaio 2019

104 CINEMA reggio emilia r sebud