Pontefici, Sacra, Ius Sacrum*
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View metadata, citation and similar papers at core.ac.uk brought to you by CORE provided by UnissResearch N. 4 – 2005 – Tradizione romana CRISTIANA M. A. RINOLFI Università di Sassari Livio 1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum* SOMMARIO: 1. L’istituzione del sacerdozio pontificale. – 2. Quibus hostiis sacra fierent. – 3. Quibus diebus sacra fierent. – 4. Ad quae templa sacra fierent. – 5. Atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. – 6. Cetera quoque omnia publica privataque sacra. – 7. Funebria. – 8. Prodigia. – 9. Potenzialità sistematiche del passo liviano. – 10. Adempimenti rituali. – 11. Conclusioni. Liv. 1.20.5-7: 5. [Numa] Pontificem deinde Numam Marcium Marci filium ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. 6. Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; 7. nec caelestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Ad ea elicienda ex mentibus divinis Iovi Elicio aram in Aventino dicavit, deumque consuluit auguriis quae suspicienda essent. 1. – L’ISTITUZIONE DEL SACERDOZIO PONTIFICALE I pontefici romani[1], fin dal loro apparire, si presentarono come esperti ufficiali dei riti[2] patri della religione romana[3]. La citata testimonianza di Livio in merito alla creazione del collegio dei pontefici[4] da parte di Numa Pompilio[5], mostra la peculiarità delle funzioni originarie di questi sacerdoti. Lo storico patavino, infatti, offre sul punto un racconto particolareggiato, in cui vengono elencate le vaste competenze pontificali. Livio tramanda che Numa Pompilio[6], nel dare forma all’organizzazione sacerdotale romana[7], affidò il pontificato[8] a Numa Marcio, figlio di Marcio, esponente dei patres, legato alla stirpe regale, genero dello stesso rex e padre di Anco Marcio[9]. Il re sabino affidò al pontefice tutti i sacra[10], dopo averli posti per iscritto[11] in maniera estesa e dettagliata, sacra omnia exscripta exsignataque[12], minuzia che rivela la particolare importanza dell’argomento, e la necessità di procedere ad una fissazione della liturgia[13]. I sacra, infatti, come anche gli auspicia, rappresentavano i pilastri fondamentali della religione romana[14]. L’importanza del compimento da parte pontificale dei sacra non era sconosciuto neanche alla giurisprudenza severiana, come emerge chiaramente da un passo ulpianeo conservato nel Digesto: D. 2.4.2 (Ulp. 5 ad edict.): In ius vocari non oportet neque consulem neque praefectum neque praetorem neque proconsulem neque ceteros magistratus, qui imperium habent, qui et coercere aliquem possunt et iubere in carcerem duci: nec pontificem dum sacri facit: nec eos qui propter loci religionem inde se movere non possunt: sed nec eum qui equo publico in causa publica transvehatur. Praeterea in ius vocari non debet qui uxorem ducat aut eam quae nubat: nec iudicem dum de re cognoscat: nec eum dum quis apud praetorem causam agit: neque funus ducentem familiare iustave mortuo facientem[15]. Qui, tra i soggetti i quali non oportet chiamare in giudizio, dopo l’elenco dei magistrati muniti di imperium e di potere coercitivo, si ritrova il pontefice nell’atto di compiere le cerimonie, un’azione che viene indicata con il verbo facere, che, seppure sia un termine che possiede infiniti significati, nel brano conserva accostato a sacer l’accezione tecnica di sacrificare[16]. Secondo il commento di Ulpiano questa attività risultava talmente importante ed eminente da impedire il normale iter per la tutela degli interessi privati. Il controllo pontificale sui sacra era meticoloso, e ciò lo si evince dalla precisa elencazione data da Livio[17] delle materie su cui doveva estendersi la competenza dei pontefici[18]: hostiae, dies, templa, pecunia, cetera omnia publica privataque sacra, funebria, prodigia. Un elenco questo in cui non vengono citati gli dèi, sebbene la classificazione dei loro nomi fosse pur sempre di competenza sacerdotale. Nonostante l’assenza di un richiamo alle divinità, si tratta di un inventario, quasi teocentrico: si espongono le materie legate sia ad una completa soddisfazione del divino (le vittime sacrificali, i giorni in cui celebrare le attività religiose, gli spazi sacri, i patrimoni da utilizzare per il culto, la totalità dei riti, compresi quelli funerari), sia ad una perfetta comprensione delle manifestazioni ultraterrene, mirata alla riparazione di eventuali errori umani. Argomenti, questi, che riguardavano un sistema in cui gli spazi e i tempi umani sono allo stesso tempo spazi e tempi divini[19]. Un sistema che trova la sua coerenza proprio in una minuziosa enumerazione di ogni aspetto teso ad una perfetta convivenza tra dèi e Romani, nel tempo e nello spazio[20], in quanto entrambi parti di una stessa societas, regolata dalla medesima norma, di una civitas communis deorum atque hominum, secondo la visione ciceroniana[21]. 2. – QUIBUS HOSTIIS SACRA FIERENT L’aver iniziato, non a caso, l’elenco degli argomenti di competenza pontificale con le hostiae[22] dimostra che i sacrifici di esseri viventi erano il fulcro della pratica cultuale romana[23], ed il problema della scelta delle hostiae purae[24] doveva essere di particolare importanza in età monarchica, vista la cautela con la quale, secoli più tardi, il pontefice massimo e giurista Tiberio Coruncanio[25], nel III secolo a.C., si espresse intorno alla purezza rituale dei ruminanti in relazione all’età. Infatti gli animali solo diverso tempo dopo la loro nascita rispondevano ai requisiti richiesti dal ius sacrum alle vittime sacrificali. La notizia viene riportata da Plinio, il quale, dopo aver elencato l’età in cui maiali, pecore e buoi divenivano puri, ricorda il responso pontificale che negava la possibilità di utilizzare per i sacrifici i ruminanti fin tanto che possedessero ancora due denti della prima dentizione: Coruncanius ruminalis hostias donec bidentes fierent, puras negavit[26]. A partire dal periodo tardo repubblicano per il significato del termine bidentes furono diverse le spiegazioni date dagli antiquari[27], ma indipendentemente dalla versione che si intende accettare, v’è da sottolineare come da tali riflessioni emerga l’autorità pontificale in materia[28]. La competenza dei pontefici sulle vittime sacrificali[29] è confermata, inoltre, da un passo tratto dal secondo libro del de legibus ciceroniano: Cic., de leg. 2.29: Iam illex institutis pontificum et haruspicum non mutandum est, quibus hostiis immolandum cuique deo, cui maioribus, cui lactentibus, cui maribus, cui feminis. Risultava immutabile ciò che veniva stabilito dai pontefici e dagli aruspici in materia di vittime che dovevano essere immolate a ciascuna divinità[30]. Qui Cicerone [31] fa riferimento anche a due dei requisiti che dovevano essere controllati dai sacerdoti: l’età delle vittime (lactentes/maiores)[32], e il loro sesso (maris/feminis) [33]. Ma, oltre a queste, vi erano altre caratteristiche delle hostiae di cui i pontefici dovevano tenere conto[34]. Ad esempio, l’oratore non fa riferimento ad un attributo importante, quale il colore dell’animale sacrificale. Questo controllo della colorazione delle vittime, invece, viene ricordato da Apuleio tra le tante forme di osservanza religiosa dei diversi popoli: deo Socrat. 149: Itidem pro regionibus et cetera in sacri si differunt longe varietate: pomparum agmina, mysteriorum silentia, sacerdotum officia, sacrificantium obsequia; item deorum effigiae et exuviae, templorum religiones et regiones, hostiarum cruores et colores[35]. Sebbene non si faccia specifico riferimento alla sola religione romana, si può comprendere come nell’antichità il colore della vittima da sacrificare e il modo della sua messa a morte fosse fondamentale per evitare un mancato gradimento da parte della divinità[36]. Per un totale apprezzamento divino del sacrificio era inoltre importante procedere alla probatio per evitare che le vittime non presentassero anomalie fisiche [37]. Le hostiae idonee al sacrificio erano qualificate eximiae, termine tecnico sacerdotale: Macr., sat. 3.5.6: Eximii quoque in sacrificiis vocabulum non poeticum ™p…qeton sed sacerdotale nomen est. Veranius enim in Pontificalibus quaestionibus docet eximias dictas hostias quae ad sacrificium destinatae eximantur e grege, vel quod eximia specie quasi offerendae numinibus eligantur [38]. Il vocabolo rimanda ad un’individuazione della vittima che veniva separata dal resto degli animali della sua specie, posta quindi al di fuori del gregge, perché destinata al sacrificio. L’ultima frase del passo, però aggiunge che il termine veniva usato anche ad indicare la vittima che per le sue particolarità zootecniche era idonea ad essere offerta agli dèi. Oltre all’accertamento della purezza rituale delle hostiae, i pontefici dovevano occuparsi delle divinità alle quali indirizzare i sacrifici (quibus hostiis-cuique deo)[39], come emerge dal già citato testo ciceroniano de leg. 2.29 supra. In un altro brano tratto dal de legibus si riafferma il compito dei sacerdoti di conoscere le vittime adatte per ciascun dio[40]. Ma l’asserzione fondamentale è l’assoluta competenza pontificale sul culto di ogni divinità[41]: Cic., de leg. 2.20: Divisque aliis alii sacerdotes, omnibus pontifices, singulis flamines sunto. Questa particolare competenza