Anziani e alcol: perché e come prendersi cura

Sabato 16 settembre 2017 ore 8.30 – 13.45

UNA Hotel Scandinavia Via Fauchè 15 – Milano

Evento 1834 204571 Crediti 5

Il nostro Ordine è particolarmente impegnato nell’ambito della formazione e dell’aggiornamento dei propri iscritti. Questo evento che rappresenta una tappa del percorso e dell’impegno profuso da parte degli organizzatori merita il nostro ringraziamento e plauso. Numerosi sono gli altri corsi in programma a testimonianza della vitalità e dell’impegno dei nostri iscritti per far crescere e rendere sempre più vicina la nostra professione ai bisogni dei nostri ammalati. Non sfugge ad una attenta riflessione che tali eventi rappresentano non solo opportunità di aggiornamento scientifico ma vitali strumenti per una crescita professionale ed etica. Questo obiettivo verrà perseguito con particolare determinazione e il nostro Ordine sarà sempre pronto ad accogliere suggerimenti e proposte per poter migliorare la professione medica.

Il Presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri Dott. Roberto Carlo Rossi

Anziani e alcol: perché e come prendersi cura

Sabato 16 settembre 2017 – ore 8.30 – 13.45 UNA Hotel Scandinavia Via Fauchè 15 – Milano

Coordinatori Luciana Bovone Consigliere Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri – Milano

Antonio Sarassi Dirigente Medico – Nucleo Operativo Alcologia (NOA) di Via Perini – Milano ASST Fatebenefratelli Sacco

PROGRAMMA

8.30 - 9.00 Registrazione Partecipanti

9.00 - 9.15 Saluto del Presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano o di altro Consigliere da lui delegato

9.15 - 9.45 Beatrice Longoni Assistente sociale specialista Professore a contratto – Dipartimento Sociologia Università degli Studi Milano- Bicocca Referente Gruppo Anziani – Ordine degli Assistenti Sociali della Regione Lombardia L’anziano che beve: la situazione in Italia

9.45 - 10.15 Riccardo Castoldi Geriatra e gerontologo Dirigente Medico – ASP Golgi Redaelli di Milano Il paziente geriatrico, dal domicilio alla RSA

10.15 - 10.45 Antonio Sarassi Aspetti clinici del bevitore anziano

10.45 - 11.00 Intervallo

11.00 - 11.30 Luigina Scaglia Geriatra e psicoterapeuta Direttore U.O. di Geriatria e Patologie alcol-correlate Fondazione “Ospedale e Casa di Riposo Nobile Paolo Richiedei” – Palazzolo S/Oglio (BS) Identificazione e trattamento del bevitore anziano in ospedale

11.30 - 12.00 Maria Raffaella Rossin Psicologa e psicoterapeuta Responsabile NOA di Via Perini – Milano – ASST Fatebenefratelli Sacco Coordinamento tecnico scientifico NOA – Direttivo Nazionale Società Italiana di Alcologia Identikit psicologico del bevitore anziano

12.00 - 12.30 Antonio Sarassi Indicazioni operative: diagnosi, aggancio, ricovero ospedaliero e farmaci

12.30 - 13.15 Discussione 13.15 - 13.45 Compilazione schede di valutazione e di verifica

Beatrice Longoni L’anziano che beve: la situazione in Italia

Il bere troppo in età anziana è un fenomeno molto diffuso, poco conosciuto e sottovalutato, sia nell’opinione pubblica che da parte di servizi e operatori non specialistici: moderazione e tradizione nel consumo, sovrapposizione di alcune conseguenze con espressioni tipiche dell’età avanzata, informazione non sempre corretta sugli stili di vita per una buona salute, influenzano la visione del problema. Ciò si è reso evidente nei numerosi incontri realizzati a seguito della pubblicazione del testo Alcol e anziani. Perché e come prendersi cura, che ha rappresentato lo spunto per la realizzazione di questo evento ECM: nonostante la varietà degli interlocutori (cittadini adulti e tardo adulti, anziani frequentanti università della terza età, familiari caregiver, operatori assistenziali, sociali e sanitari), del loro livello socio-culturale, della loro vicinanza al tema, della loro implicazione più o meno diretta rispetto alla cura dell’anziano, piuttosto omogeneo è risultato il senso di stupore di fronte ai dati, alle considerazioni e alle riflessioni proposte. In effetti del bere alcol in età anziana si parla poco, sia da parte dei media che nei contesti professionali e di servizio coinvolti nel prendersi cura delle persone in età elevata. L’attenzione dei media è orientata verso gli adolescenti e i giovani, non solo per la doverosa preoccupazione nei confronti dei soggetti in crescita che rappresentano il futuro per tutti noi, ma anche per le modalità di consumo e le conseguenze: forme estreme (la più nota è il ), possibile associazione con droghe illegali, possibile contemporaneo comportamento pericoloso (ad esempio lanciarsi da un balcone in una piscina o un balcone sottostante, nel balconing), schiamazzi e incidenti stradali, talvolta ricovero ospedaliero per coma etilico. Altro filone di interesse per i media è quello degli incidenti stradali per effetto dell’alcol, in cui il guidatore è spesso un maschio adulto. Il bere eccessivo dell’anziano - che viene agito spesso inconsapevolmente fra le mura domestiche o in contesti conviviali e non allarma familiari, amici o conoscenti altrettanto inconsapevoli - è anch’esso rischioso, ma non fa rumore e, quindi, non fa notizia. Poco considerata dai media è anche la diffusione della corretta conoscenza riguardo alla soglia del consumo di alcol cui riferirsi per mantenersi in buona salute, aspetto che viene invece da tempo trattato per altri elementi (es. carne rossa, uova, sale da cucina). Tutto ciò premesso, nel nostro Paese le persone over 65 rappresentano la fascia di popolazione in cui è più diffuso il consumo giornaliero di bevande alcoliche, mentre altre fasce di età (specie quella 18-24 anni) prediligono il consumo occasionale e il consumo fuori pasto. Considerando sia il consumo quotidiano che quello occasionale, in Italia bevono circa 7.900.000 persone in età anziana, su circa 13.400.000 italiani over 65: una quantità davvero impressionante. I dati ISTAT considerano, oltre alle frequenze di assunzione, anche i comportamenti a rischio: se per le fasce di età 18-24 e 25-44 anni il comportamento a rischio più frequente è rappresentato dal binge drinking (consumo di 6 o più unità alcoliche in un’unica occasione), per gli over 65 il comportamento a rischio tipico è un consumo abituale che supera le raccomandazioni del Ministero della Salute sulle quantità definite a minor rischio (lower-risk drinking). L’ISTAT correla il diffuso consumo abituale eccedentario con la scarsa conoscenza, da parte di questa fascia di popolazione, dei relativi rischi per la salute. Gli anziani e chi è loro accanto spesso non sanno che la dose abitualmente assunta in età adulta diventa sempre più tossica man mano che aumenta l’età, per la maggiore fragilità dell’organismo; sono spesso inconsapevoli dei danni derivanti dalla sovrapposizione del consumo alcolico con problemi e condizioni tipici dell’età anziana (equilibrio più precario, organismo più vulnerabile alle sostanze tossiche, frequente polipatologia e quindi frequente assunzione di più farmaci) e dell’ampliamento di alcuni rischi specifici dell’età elevata (perdita di massa ossea, pericolo di cadute e quindi di fratture, alcuni deficit cognitivi, malnutrizione). Le raccomandazioni del Ministero della Salute sulle quantità definite a minor rischio (lower- risk drinking) sono poco conosciute: quante persone sanno che in età anziana la dose di alcol giornaliera da non superare da parte di un maschio è la metà della dose indicata in età adulta? Questo è il problema: un consumo abituale di vino ai pasti, socialmente accettato e parte della storia e delle tradizioni personali e familiari, sostenuto dalla convinzione che “un buon bicchiere di vino al pasto” sia salutare… un consumo che spesso mantiene inconsapevolmente la stessa quantità per decenni, nonostante i maggiori rischi per la salute all’avanzare dell’età, e che non viene messo in discussione dall’assunzione di farmaci, anch’essa spesso quotidiana e protratta nel tempo. Tanto i dati ISTAT, quanto i dati del Ministero della Salute, evidenziano una differenza di genere: il consumo e i comportamenti a rischio interessano (sia fra i 65-74 anni che fra gli over 75) più i maschi che le femmine. Dall’ultima Relazione del Ministero della Salute sullo stato sanitario del Paese si evince che gli over 65 che consumano una dose di alcol superiore a quella raccomandata sono quasi 3 milioni, per il 75% maschi e per il 25% femmine. Ancora una cifra impressionante, considerato che gli anziani in Italia sono circa 13.400.000. Il consumo a rischio è diffuso in tutta Italia, come confermato dal Libro Bianco 2012 sulla salute dell’anziano e sull’invecchiamento in buona salute, elaborato dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle regioni italiane, Istituto di Igiene, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Infine, riguardo all’accesso ai servizi alcologici, dall’ultima relazione del Ministero della Salute al Parlamento sui problemi alcolcorrelati si ricava che il 16% degli utenti è over 60: le persone over 60 rappresentano il 16% fra i maschi e il 19% fra le femmine utenti dei servizi, e costituiscono il 14% dei nuovi utenti e il 17% degli utenti già in carico.

Riccardo Castoldi Il paziente geriatrico: dal domicilio alla RSA

L'invecchiamento e il numero crescente di anziani sta diventando una specificità delle società avanzate. In particolare l'Italia rappresenta, per caratteristiche demografiche, una popolazione progressivamente di anziani, classificandosi come la seconda al mondo per longevità e la prima per "over 65", in buona compagnia con le popolazioni del mediterraneo. Se si esclude il Giappone, attualmente primo con distacco, il mediterraneo rappresenta il bacino più evidente di questa tendenza con cambiamenti numerici di rilievo. L'aspettativa di vita è nell'ultimo secolo praticamente raddoppiata. Il numero di Anziani e di Vecchi è quasi triplicato, spiegando che l'Anziano è l'"anteanus: avanti con gli anni cioè terza età 65-85. I vecchi, quarta età, sono invece coloro che superano gli 85 e che si possono considerare geneticamente superiori: tutti possiamo diventare anziani, non tutti possiamo diventare vecchi. I dati ISTAT evidenziano come dopo il 2000 gli over 65 sono passati da meno di 10 milioni a più di 13 milioni (aumento del 32%) e gli over 80 da 2.300.000 a più di 4 milioni (aumento del 78%): sono numeri che devono far riflettere per la sostenibilità sociale dello Stato. Dunque viviamo decisamente di più e probabilmente meglio, in quanto la curva della disabilità si avvicina a quella della mortalità, manifesto evidente che la qualità è di gran lunga migliore rispetto agli anni non solo del secolo precedente, ma anche degli ultimi trent’anni. Peraltro i dati indicano che poco più del 2% della popolazione è ricoverato in RSA e circa l'1% è seguito al domicilio. Questa caratteristica è tutta italiana, in quanto in Europa mediamente è circa il 5% in RSA, mentre per quelli assistiti al domicilio le stime si aggirano attorno al 7%. Considerato che spesso l'Europa ci precede nelle tendenze e nelle scelte gestionali, è evidente che i dati statistici sopra esposti indicano una tendenza progressiva al ricovero in RSA. Tuttavia sarà interessante vedere come il nostro Stato (confrontato con il resto dell'Europa) possa incentivare la permanenza a domicilio, per esempio con servizi tipo ADI-Voucher o ADI-DEM o con altre forme di sovvenzione economica/assistenziale per evitare il ricovero RSA, dove la Regione Lombardia rimane la capostipite con 2,9% di ricoverati. Peraltro non va dimenticato che il numero censito (attendibile) di badanti in Italia è attualmente di 780.000, alle quali probabilmente va aggiunto un numero elevato (si calcola circa 200-250.000) di non ufficiali. Se consideriamo che in sanità e servizi affini lavora, in tutta Italia, circa 1 milione di persone, vuol dire che attualmente esiste un “esercito parallelo sanitario” che si occupa dell’assistenza dei nostri vecchi e disabili, che deve farci ulteriormente riflettere riguardo la necessità di assistenza della nostra società. Per banalizzare, quando si “viveva in cascina” gli anziani erano pochi e coccolati da molti giovani, rappresentavano la famiglia e godevano nella maggior parte, di un carisma e rispetto dovuto. Oggi vi è sempre meno famiglia, isolati nelle città, con pochi figli (l’Italia è stata a crescita zero per molti anni), spesso affaccendati, convivendo con un tasso di solitudine preoccupante che isola chi comincia a perdere, o solo a diminuire, l’autosufficienza. Pertanto è l’aumento dei soggetti con fragilità l’aspetto con il quale dobbiamo necessariamente confrontarci.

Come indicato dalla figura, la fragilità è un insieme di situazioni cliniche/sociali/funzionali, che concorrono a rendere il soggetto dipendente con necessità di assistenza continua. L’esempio dell’anziano con disabilità funzionale non è il solo. Tipico è in questa situazione l’alcolista che diviene via via dipendente, non solo dalle proprie abitudini, ma dalla necessità di assistenza sempre maggiore nelle 24 ore, tanto da necessitare di ricovero definitivo. Peraltro, come sottolinea Antonio Guaita nella sua lunga indagine sulle RSA, non vale il paradigma: “più anziani con più bisogni, quindi più RSA”, ma “più anziani, più bisogni, più RSA MIGLIORI”. L’aspetto della diversificazione e della specializzazione dell’offerta assistenziale si è quindi evidenziata progressivamente in questi anni. Sono esempi tipici i Nuclei Alzheimer che sono nati proprio per rispondere ad una progressiva e diremmo dirompente, necessità di assistenza del paziente con demenza. In Europa si parla di raddoppio ogni 5 anni di prevalenza di patologie dementigene a partire dai 65 anni.

Percentuale di pazienti affetti da demenza in Italia e previsione statistica

Altro interessante esempio di specificità assistenziale necessaria, emerge dall’interessante testo scritto dai colleghi sul problema alcol e anziani. E’ evidente come vi sia una necessità di assistenza specifica per il soggetto alcolista e quindi di una preparazione attualmente spesso insufficiente degli operatori, in particolare quelli delle RSA, per affrontare la patologia in questione. Aperta rimane quindi la necessità della preparazione specifica. Come per i medici nel corso dei secoli sono comparse le varie specializzazioni, così l’assistenza non può più prescindere da scuole di formazione sempre più specifiche e da assistenze diversificate riferite alle varie tipologie dei pazienti che afferiscono ai diversi moduli di ricovero in RSA (esempio hospice, stati vegetativi, demenze, disabilità motoria, alcolisti, disabili psichiatrici ecc.). Come emerge da questo breve riassunto, affrontare la disabilità (meglio LE disabilità) richiede impegno, preparazione, organizzazione e costi sostenibili, per una società come quella in cui viviamo che sta invecchiando rapidamente e con numeri preoccupanti. Determinanti saranno le scelte politiche nella gestione sia della sanità (intesa come cura) che della pura assistenza (intesa come prendersi carico) della disabilità dei soggetti fragili.

Fondamentali saranno quindi le programmazioni, i criteri gestionali e di processo, le analisi dei costi e della sostenibilità, affinché le competenze e la sequenza degli interventi gestionali/assistenziali, possano garantire, non solo una maggiore longevità, ma anche una qualità di vita accettabile e dignitosa.

Antonio Sarassi Aspetti clinici del bevitore anziano

Secondo il Global Status Report on and Health 2014 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, pubblicato il 12 maggio 2014, l’uso di alcol nel 2012 ha causato nel mondo 3,3 milioni di morti, ossia il 5,9% di tutti i decessi (7,6% uomini e 4,0% donne) e il 5,1% degli anni di vita persi a causa di malattia, disabilità o morte prematura (Disability Adjusted Life Years, DALYs). L’opinione generale e i media, pur consapevoli della mortalità e morbilità causati dall’alcolismo, tendono a considerare l’alcoldipendenza una patologia quasi esclusiva dell’età giovanile o matura disconoscendo la sua presenza nella popolazione anziana (persone di 65 o più anni). Anche tra gli stessi sanitari la diagnosi negli anziani di “problem drinker “è spesso tardiva e misconosciuta a causa della presenza di altre patologie e relative terapie che comportano frequentemente che persino gli stessi segni e sintomi dell’astinenza alcolica (es: parestesie, tremori) vengano attribuiti ad altre malattie. La presenza negli ultrasessantacinquenni di un consumo alcolico eccedente rispetto alle raccomandazioni del Ministero della Salute è stata ancora recentemente confermata dal rapporto ISTAT 2016. A fronte della nota mortalità e morbilità indotte dall’alcol, già nel 2013 il nostro Ministero della Salute ha fatto riferimento ad un numero di Unità Alcoliche (UA), differenziato per età e sesso, come limite da non superare (bere a basso rischio). Le dosi massime giornaliere stabilite nel 2013 dal Ministero della Salute definiscono la “giusta misura” di alcol in: • 2 UA al giorno per gli uomini; • 1 UA al giorno per le donne; • 1 UA al giorno per le persone con più di 65 anni; • 0 UA al giorno sotto i 18 anni.

Come è noto, oltre i 65 anni il consumo di alcol è più dannoso che rispetto alle età precedenti. Infatti nell’età anziana la ridotta quantità di acqua corporea (rispetto ai soggetti giovani) nella quale viene diluito l’alcol assorbito dalla mucosa gastroenterica ne provoca una maggiore concentrazione ematica. Inoltre coesiste un ridotto funzionamento di sistemi enzimatici essenziali nel metabolismo dell’alcol, a livello gastrico ed epatico. Infine le persone anziane sono particolarmente a rischio di interazione dannose alcol- farmaci in quanto il fegato invecchiato metabolizza l’alcol in una maniera tale che lo stesso agisce più a lungo che nelle decadi precedenti. Tale pericolo è accentuato dal fatto che nell’età anziana è più probabile, rispetto ad età precedenti, che si usino più farmaci, di cui alcuni possono interagire con l’etanolo. In particolare l’alcol potenzia l'effetto di ansiolitici, antidepressivi, sedativi, barbiturici (da qui l’aumentato rischio di traumi da caduta nell’anziano alcolista), riduce l'effetto dei farmaci antiepilettici, degli antidiabetici e di quelli per le cardiopatie, e produce una reazione tossica con gli antibiotici, i sulfamidici, gli antimicotici e gli antiparassitari. Una volta identificato il bevitore eccessivo anziano (problem drinker) con le procedure diagnostiche che prenderemo in considerazione, occorre innanzitutto capire la tipologia dello stesso, ossia se è un early-onset drinker (alcolista invecchiato, maggiormente frequente) o un late-onset drinker (bevitore tardivo): queste due figure di alcolisti anziani necessitano infatti di un diverso approccio e presentano una differente prognosi.

Gli alcolisti invecchiati hanno, rispetto agli alcolisti tardivi, una maggiore frequenza di patologie alcolcorrelate e di danno cognitivo, una diagnosi di alcoldipendenza, una minore compliance e di conseguenza un aggancio più difficile. Peculiarità degli early onset drinker, per fortuna presente solo in pochi casi, è la carenza di possibilità riabilitative legate o alla presenza di un decadimento cognitivo elevato favorito dall’abuso alcolico iniziato in ètà giovanile o alla presenza di malattie tumorali che, favorite anche dal tabagismo presente nella maggior parte degli alcolisti, rendono spesso precarie le condizioni del paziente. Spesso visti come persone ormai segnate da una carriera alcolica non recuperabile, gli early-onset drinkers presentano situazioni personali e familiari molto complesse, comunicano la loro sofferenza attraverso modalità relazionali e comportamentali antisociali, rischiando di essere ancora più emarginati a causa dello stigma che caratterizza la dipendenza alcolica. È difficile sia per i familiari, sia per gli operatori sociali e sanitari che entrano in contatto con questi anziani, attuare interventi di aiuto o assistenza che abbiano come finalità un percorso di cura: in ogni caso l’invio al Servizio alcologico territoriale va sempre preso in considerazione. Per i late-onset drinkers (ossia anziani divenuti alcolisti o “alcolisti tardivi”) invece, il riconoscimento del problema da parte del contesto di vita dell’anziano e una diagnosi tempestiva possono innescare un approccio alla cura alcologica, che generalmente si rivela efficace. Il bere eccessivo dei late-onset drinkers ha caratteristiche specifiche: solitamente la dipendenza è più psicologica che fisica, e la presenza di patologie alcolcorrelate (PAC) o è assente o le stesse sono meno severe, per la minore intensità e durata dell’abuso alcolico. I late-onset drinkers infatti sono riusciti a vivere per anni con un sufficiente adattamento all’ambiente e con affetti più o meno stabili, che li hanno aiutati a tenere sotto controllo l’insicurezza e la fragilità nei confronti di se stessi e del contesto familiare e sociale. Spesso, invecchiando, possono avere la percezione di non riuscire a valorizzare le conoscenze e competenze maturate nel proprio ambito personale e professionale nel corso di una vita. La paura dell’isolamento, di essere abbandonati, di non essere all’altezza delle aspettative dei figli e del partner, di perdere l’autonomia psicofisica, di dover abbandonare la propria casa, può trasformarli in attori passivi e cadere nella depressione, ansia, apatia, ricerca di aiuto nell’alcol. Questa sostanza diventa infatti una strategia per affrontare i problemi: viene assunta da sola – talvolta dosandola, nel corso della giornata, come se fosse un farmaco - oppure abbinandola a psicofarmaci, per ottenere un effetto antidepressivo, facilitare il sonno, riappacificarsi con se stessi. Data la componente reattiva del problema, in genere gli alcolisti tardivi rispondono favorevolmente a interventi di psicoattivazione e socializzazione: durante il trattamento alcologico risulta particolarmente utile la frequenza a incontri di gruppo informativi, di sensibilizzazione e di auto-aiuto in un contesto alcologico. Specie attraverso i gruppi, l’alcolista tardivo può ritornare a socializzare; inoltre, partecipare alle riunioni di un’associazione di auto-aiuto può metterlo nelle condizioni di fornire agli altri membri del gruppo esperienza e attenzioni, recuperando così un ruolo sociale, mentre frequentare un centro ricreativo può dare ulteriori occasioni di incontro e di impiego positivo del tempo. Elementi comportamentali comuni ai due gruppi di pazienti, che possono aiutare nella diagnosi, sono i seguenti: cadute ricorrenti, perdite rapide della capacità mnesica, disturbi del ritmo sonno-veglia e anomalie del comportamento. L’apporto dei familiari, nella fase diagnostica e riabilitativa, in entrambi i tipi di alcolisti anziani, è fondamentale. Essere dipendenti dall’alcol provoca problemi fisici, psichici, familiari e sociali e quindi diminuisce la qualità di vita, perciò vale la pena, anche in età avanzata, intraprendere un percorso di cura e di cambiamento.

Luigina Scaglia Identificazione e trattamento del bevitore anziano in ospedale

Credo sia fondamentale partire dal titolo: ANZIANI - espongo la mia teoria sulla vecchiaia, frutto della mia esperienza di geriatra. La vecchiaia è stata ed è oggetto di ricerche demografiche-sociologiche, biologiche, cliniche, psicologiche ed essendo un fenomeno esclusivamente umano ed artificiale (in natura non esiste in quanto gli animali muoiono quando perdono la capacità funzionale che li rende autonomi) a mio avviso necessita di essere considerata anche, ma forse soprattutto, dal punto di vista della psicologia del profondo per poterne definire il significato fondamentale e fondante le linee di sviluppo delle altre discipline. La gerontologia ha classificato la vecchiaia in due grandi categorie: quella fisiologica e quella patologica mettendo in discussione la storica sentenza di P. Terenzio Afro “Senectus ipsa est morbus”. Pur considerando che esistono tante vecchiaie (io credo che esista un tipo di vecchiaia per ogni persona che invecchia) è possibile oggi conoscere come biologicamente si modificano cellule, organi e apparati e come queste modificazioni organiche influenzino la funzione. In modo molto generale si può sostenere che la persona che invecchia fisiologicamente presenta una minor capacità di adattamento all’ambiente e richiede che progressivamente l’ambiente si adatti a lei. Infatti il fenomeno “normale” dell’invecchiamento biologico è contrassegnato da trasformazioni che peggiorano le performances cellulari e dalla perdita cellulare. L’esplosione della realtà dell’invecchiamento ha obbligato a rivedere l’idea di vecchiaia intesa come malattia, così come il concetto di salute. Alla fine della seconda guerra mondiale, infatti, l’OMS definiva la salute come assenza di malattia: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità" mentre oggi la definisce come il miglior equilibrio bio-psico-sociale possibile. “La Carta di Ottawa” ci fornisce una definizione più elaborata di promozione della salute: La promozione della salute è il processo che conferisce alle popolazioni i mezzi per assicurare un maggior controllo sul loro livello di salute e migliorarlo. Questo modo di procedere deriva da un concetto che definisce la salute come la misura in cui un gruppo o un individuo possono, da un lato, realizzare le proprie ambizioni e soddisfare i propri bisogni e dall’altro, evolversi con l’ambiente o adattarsi a questo. La salute è dunque percepita come risorsa della vita quotidiana e non come il fine della vita: è un concetto positivo che mette in valore le risorse sociali e individuali, come le capacità fisiche. Così, la promozione della salute non è legata soltanto al settore sanitario: supera gli stili di vita per mirare al benessere. Fino alla seconda guerra mondiale la malattia poteva evolvere soltanto secondo due possibilità: la guarigione o la morte. Il progresso scientifico-tecnologico ha allungato la spettanza di vita, ma ha anche permesso di vivere convivendo con la malattia determinando la cronicità. L’avvento della cronicità ha imposto un cambiamento di paradigma che forse non è ancora stato portato nel profondo dell’animo umano. Vivere nonostante e con la malattia incide sulla funzione nel senso che la malattia cronica ha come conseguenza la perdita dell’autonomia. Mentre prima dell’avvento della cronicità la dipendenza da altri esseri umani (necessaria per la nostra sopravvivenza) era caratteristica del neonato, delle prime età della vita, oggi questa condizione ricompare con la malattia cronica e con la vecchiaia. La mia riflessione si rivolge alla vecchiaia cosiddetta fisiologica che comunque, come ho illustrato, è caratterizzata da perdita e fragilità. Negli anni 80 del secolo scorso la geriatria ha confuso a volte la vecchiaia fisiologica con la cosiddetta “vecchiaia di successo” ed ha riempito congressi e articoli di fotografie come queste: alimentando l’idea che la vecchiaia sia il prolungamento indefinito dell’età adulta e convincendosi (così come la cultura occidentale pretende) della necessità di governare l’invecchiamento tracciando un confine tra ciò che auspicabile e ciò che va rifiutato. Secondo questa tendenza chi vuole costruirsi una vecchiaia di successo deve omologarsi all’idea di vivere in una dimensione di eterna vacanza dal pensiero e dall’impegno, esonerandosi da una partecipazione attiva nella società, concentrandosi sulla forma fisica e sulla possibilità di performances che allontanino sempre di più l’idea della morte. Come da giovane genitore aveva proiettato sui propri figli i desideri non realizzati, l’adulto che invecchia proietta sulla propria vecchiaia la speranza di realizzare ciò che non ha vissuto e di diventare ciò che avrebbe voluto essere. Ma dato che questa fase della vita è quella che si prolunga fino alla morte, la “vecchiaia di successo” in realtà è quella che distrae e allontana dal tema della morte. Diventa sempre più distante questo ideale di vecchiaia di successo con la realtà della vecchiaia fisiologica che è comunque sempre caratterizzata dalla perdita e dalla fragilità. Di conseguenza anche chi si occupa di anziani, se definisce i contenuti della cura più sulla base delle proprie proiezioni (paura della propria vecchiaia e della propria morte) che sulle reali domande di chi riceve la cura, cioè i vecchi, rischia di allontanarsi drammaticamente dal reale compito del proprio lavoro. Credo che manchi un approccio più completo al tema dell’invecchiamento e della vecchiaia intesa non come patologia ma come nuova fase della vita, frutto dell’evoluzione tecnologica e scientifica, sconosciuta nelle epoche precedenti. Con questo lavoro vorrei affrontare la vecchiaia dal punto di vista della psicologia del profondo. Credo che la vecchiaia sia una eccedenza. Eccedenza di tempo. Tempo caratterizzato dalla perdita e dalla fragilità, caratterizzato dal verificarsi di continui cambiamenti e dalla necessità di imprevedibili adattamenti della persona proprio quando la capacità personale di adattamento è inferiore. Pertanto mi convinco sempre di più che la vecchiaia sia un’età molto complessa, è l’età della “instabilità dell’instabilità” e temo che venga erroneamente considerata patologica anche quella che in realtà segue l’andamento fisiologico: infatti anche quando le persone anziane sono in una condizione di equilibrio, è impossibile prevedere l’andamento delle condizioni, assestamenti costanti per lunghi periodi di tempo. I cambiamenti, a volte micro- cambiamenti difficili da cogliere, sono continui, repentini e difficili da osservare, riconoscere, comprendere. Tutti hanno parlato e scritto di invecchiamento in questi decenni. Nella mia esperienza di geriatra credo che di vecchiaia debbano parlarne i vecchi e credo che sia troppo superficiale e semplice ma soprattutto illusorio semplificare una questione complessa che richiede, anzi pretende, ricerca di senso. Chi non si è posto il problema della ricerca del senso della vita prima di diventare vecchio probabilmente farà fatica a trovare il senso della vecchiaia quando le limitazioni fisiche, ma soprattutto cognitive impediranno una riflessione, un’autoriflessione. Molte volte ho pensato, a proposito, che certe accelerazioni di patologie degenerative (demenza) corrispondano alla ricerca di una via di fuga per esentarsi dal lavoro di ricerca di significato o per riuscire a sopportare la frustrazione di non riuscirci. Infatti anche il tipo di disturbo che le persone mostrano nella loro degenerazione cognitiva è molto differente: ci sono modalità serene e modalità disperate e molto spesso, raccogliendo l’anamnesi relativa ai pazienti, ho trovato un collegamento tra il tipo di disturbo e il modo di “indementire”: chi ha “fatto finta” con se stesso ha disturbi comportamentali peggiori rispetto a chi ha vissuto con maggior autenticità. Penso che anche la geriatria rischi di cadere nel “materialismo chimico e la mitologia del cervello” che descriveva Jung nei confronti dell’approccio alla nevrosi. Infatti nell’ambito della geriatria oso sostituire il termine “nevrosi” con demenza, segnalando il pericolo che si corre se si esclude un approccio della psicologia del profondo. Il professor Bruno Dubois, neurologo direttore dell’Unité de Neurologie cognitive et comportamentale alla Salpêtrière di Parigi, che da anni si occupa di demenza e delle relative diagnosi differenziali, ha dimostrato che persone anziane che presentano identiche lesioni alle indagini di neuroimaging, manifestano sintomi molto diversi. La diversità consiste nella qualità dei disturbi comportamentali che permettono o impediscono ai pazienti di permanere al proprio domicilio, di vivere nel proprio ambiente e con la propria famiglia. Il professor Dubois ha osservato che le persone affette da demenza che possono essere gestite a domicilio sono quelle che negli anni precedenti hanno costruito relazioni autentiche, hanno condotto una vita di relazione. Chi non ha vissuto “in relazione” drammaticamente sviluppa disturbi comportamentali talmente incompatibili con la vita di relazione che richiede l’istituzionalizzazione. Sempre Dubois ha dimostrato che un paziente su tre in realtà non è affetto da demenza ma è stato “etichettato” come demente. Questo lascia molto spazio alla natura “psicogenetica” anche della demenza e ciò che ho osservato nella mia esperienza professionale lo conferma. Portando all’estremo il concetto, potremmo dire che oggi è necessario liberare gli anziani dalla demenza nel senso che si deve lavorare perché sia demente soltanto chi lo deve diventare e non chi lo vuole diventare. Certamente la demenza è considerata a ragione l’epidemia della vecchiaia ma io credo che considerandola dal punto di vista del significato profondo psicologico ed esistenziale forse il vissuto della demenza potrebbe modificarsi per i pazienti, per i loro familiari e per gli operatori che se ne curano. Accanto alla ricerca neurobiologica è obbligatorio occuparsi del significato psicologico profondo. Chi si è posto il tema del senso della propria esistenza in fasi precedenti, da vecchio si trova però ad affrontare un’ulteriore impegno: non può “vivere di rendita” perché ciò che è stato valido fino alla vecchiaia deve essere rivisitato alla luce dei nuovi limiti e della instabilità della propria condizione. A questo punto credo di poter affermare che la vecchiaia pretenda un cambiamento radicale e profondo: quello del depotenziamento dell’Io che non ha più gli strumenti di controllo e di governo. La vecchiaia diventa l’età privilegiata per prendere contatto con il Sé. Abbandonare l’Io può essere più facile, o meglio diventa automatico, quando non si può più esercitare un potere, nemmeno nei confronti di se stessi. In questo senso abbandonarsi al Sé diviene un’operazione quasi logica ma può assumere i caratteri angoscianti di un salto nel buio. Resistere a questa operazione corrisponde alla disperazione (vedere il film Amour), affrontarla può dare il senso a una vita lunga, ma può anche costituire un impresa che pretende, o la completa inconsapevolezza, come accade nella demenza, o la totale consapevolezza, come accade ai saggi. Se la demenza può essere rivisitata come l’autentico abbandono al Sé dovrebbe modificarsi anche l’atteggiamento della cura: non più disperato tentativo di trattenere nella coscienza, nell’Io, ma stupito atteggiamento di ascolto verso chi sta arrivando al vero nucleo centrale della persona. Se la saggezza è l’abbandono alla consapevolezza di affidarsi al Sé il vecchio deve essere messo nella condizione migliore per svolgere questo compito. Fin dai primi momenti in cui mi sono trovata a curare i vecchi mi sono chiesta che senso avesse il mio intervento: “Che senso può avere curare una polmonite in una persona per cui la vita non ha più senso?”. Proprio per questo ho percepito la responsabilità di una cura più ampia: la cura di un fatto acuto obbligatoriamente doveva inserirsi in un percorso in cui la persona avrebbe dovuto identificare un “suo” senso. ALCOL In questi anni molto si è scoperto e parlato di alcol ma forse troppo poco è stato trasmesso nelle scuole degli operatori sanitari. Spesso ancora siamo noi medici impreparati a riconoscere e ad affrontare il tema dell’alcolismo. Personalmente credo che si debba entrare nella mentalità che considera l’utilizzo di alcol come un fattore di rischio sempre e comunque liberandolo dal pregiudizio e dal moralismo. COME Noi medici, noi operatori sanitari possiamo utilizzare il nostro ambito di lavoro iniziando a tenere presente quotidianamente la possibilità di trovarci davanti al tema alcologico, come prevenzione e come cura. PERCHE’ La prevenzione della fragilità e della dipendenza del paziente anziano deve assolutamente tenere conto del tema alcologico. L’utilizzo dell’alcol infatti può accelerare la perdita dell’autonomia (cadute, deterioramento cognitivo…)

PRENDERSI CURA Mito di Cura Attraversando un fiume e avendo trovato della buona argilla, Cura si arrestò pensosa e iniziò, con quella creta, a modellare le sembianze di un uomo. Mentre si stava arrovellando su cosa fosse il risultato del suo lavoro, vide avvicinarsi Giove: Cura gli chiese di insufflare, in quella statuetta, un’anima, cosa che Giove fece volentieri. Nacque tra i due Dèi una disputa per stabilire chi avesse il diritto di dare un nome alla loro opera e alla discussione si aggiunse presto Terra che vantava i propri diritti, perché era dal suo corpo che era stata presa l’argilla. Decisero di ricorrere a Saturno per un giudizio e lui così sentenziò: «Tu, Giove, poiché sei tu che gli hai insufflato lo spirito, [questo spirito vedrai tornare da te dopo la morte; e a te, Terra, allora tornerà il suo corpo]; ma poiché è Cura che, per prima, ne ha forgiato le sembianze, egli apparterrà a lei per tutto il tempo in cui vivrà. E il suo nome, sul quale non trovate un accordo, sarà uomo, perché è di humus che egli è fatto». Prendersi cura dell’anziano pretende occuparsi dei fattori di rischio meno evidenti e subdoli, quali appunto l’utilizzo di alcol. Vengo alla mia esperienza nei due reparti a me affidati.

Geriatria per acuti

1) VECCHI CHE NON SANNO DI ESSERE ALCOLISTI 2) ALCOLISTI CHE INVECCHIANO 3) VECCHI CHE DIVENTANO ALCOLISTI

1) VECCHI CHE NON SANNO DI ESSERE ALCOLISTI Casi clinici Interferenze alcol e farmaci: antidepressivi barbiturici antipsicotici benzodiazepi antiepilettici analgesici oppioidi antistaminici fans paracetamolo antibiotici antifungini inibitori di pompa…. Quale terapia tipo dell’anziano oggi?

2) ALCOLISTI CHE INVECCHIANO Casi clinici Per la famiglia dell’alcolista che invecchia alcol è la speranza…. “Tolto l’alcol finiscono i problemi, IN FONDO HA SEMPRE BEVUTO …” Pare che lo spettro della vecchiaia e della demenza diano il coraggio per guardare all’alcolismo…Quando ormai però è troppo tardi Anche nel reparto di riabilitazione alcologica ricoveriamo ultrasessantacinquenni. Non sono eleggibili pazienti affetti da deterioramento cognitivo o da da patologie psichiatriche. In alcuni casi la gravità della fase di detossicazione pretende il trasferimento in geriatria per acuti con affidamento successivo al circuito geriatrico data la grave compromissione cognitiva sottostante.

3) VECCHI CHE DIVENTANO ALCOLISTI Decennale esposizione al rischio Diminuzione funzione enzimatica Assenza di senso Alcol come anestesia esistenziale Quale compito per la vecchiaia? Quale responsabilità per chi assiste? Quella di porre le condizioni affinchè ciascun anziano trovi il senso della propria vecchiaia Attraverso: La capacità di stare accanto senza distrarre dai temi della fine e del limite La forza di interpellarsi sulla propria morte Il rispetto della complessità e dei valori di ogni persona Esperienza in RSA 10 anni orsono eliminato il vino (interazione con la terapia) gli ospiti non se ne sono nemmeno accorti I familiari: «Ma se gli togliamo anche questo…poverini!»

Riabilitazione alcologica VECCHI PRIMA DI ESSERE VECCHI Difficile è la situazione di pazienti in cui al termine della detossicazione si scopre la demenza in persone che non hanno ancora raggiunto l’età geriatrica. Questo pone il drammatico tema di una assenza di strutture e “reti” adeguate dato che quella della disabilità adulta è già satura. Casi clinici

Maria Raffaella Rossin Identikit psicologico del bevitore anziano

Per ognuno di noi fa la differenza avere avuto una famiglia senza gravi patologie relazionali, senza pesanti familiarità ereditarie e senza gravi traumi psichici perché ha reso più facile acquisire una capacità culturale ed emotiva sufficiente a leggere la realtà con equilibrio. Inoltre un ambiente sereno ci permette di crescere e, quindi, di invecchiare, dedicando tempo alla conoscenza di se stessi, accettando gli aspetti caratteriali non modificabili e imparando a conviverci con armonia e imparando a conoscersi profondamente. Tutto questo non è realizzabile se, da lungo tempo, la persona ha una disarmonia interiore. Il percorso di invecchiamento, quindi, può essere influenzato in positivo dall’abilità creativa e dalla capacità di “leggere con saggezza” i fatti della vita. Inoltre, aver imparato nel corso degli anni a gestire i conflitti consente di rinnovarsi, cambiare, trovare un maggior equilibrio; ma perché il conflitto sia positivo è necessario che rappresenti una crescita, e non uno sfogo fine a se stesso. La donna e l’uomo che diventano anziani dovrebbero essere in grado di utilizzare le esperienze accumulate nella vita adulta, per organizzare positivamente gli anni della propria vecchiaia. Per fare questo non si può prescindere da una buona conoscenza di se stessi, percorso che dovrebbe accompagnare ogni individuo fin dall’inizio dell’età adulta, attraverso gli strumenti più consoni alla personalità del singolo (come ad esempio psicoterapia individuale o di gruppo, yoga, corsi e incontri di gruppo per la valorizzazione di abilità comportamentali o per l’espressività corporea, teatroterapia, terapia dell’autobiografia). Confrontarsi con le proprie paure, con le spigolosità che caratterizzano ogni personalità, con le problematiche più o meno gravi della famiglia in cui si è cresciuti, con le difficoltà a raggiungere una buona autocritica e autorettifica, favorisce l’accettazione delle proprie fragilità e la richiesta di aiuto nelle fasi critiche della vita. Se questo percorso non viene attuato da giovani o da adulti, quando si invecchia la conoscenza di se stessi diventa troppo faticosa. Per rinforzare la parte psichica è di grande sostegno imparare nel tempo ad autogratificarsi in modo sano, accettando che il percorso di ognuno è caratterizzato da fasi esistenziali che vanno vissute al meglio. Inoltre, un aiuto fondamentale per questo rinforzo è comprendere e poi accettare che la continua attività mentale sia uno dei segreti dell’invecchiamento attivo. Si può dire che, per comprendere la vecchiaia che una persona vivrà, è importante conoscere il percorso della sua storia. Secondo lo psicoterapeuta statunitense Milton Hyland Erickson, in ogni fase di sviluppo psicosociale dell’individuo agiscono tensioni antitetiche: nella seconda età adulta la generatività e la stagnazione, nella vecchiaia l’integrità dell’Io e la disperazione. Se tra esse c’è integrazione, si realizza un buon adattamento della persona all’ambiente; altrimenti, c’è disadattamento e si sviluppano dolore e frustrazione. Inoltre, se nella vita di un individuo ha trovato spazio il coinvolgimento emotivo ed empatico, i valori che da esso scaturiscono determinano effetti positivi anche nella vecchiaia. Se l’anziano non è soddisfatto della vita che ha vissuto, è possibile che si faccia travolgere dalla disperazione di non avere più la possibilità di modificare le scelte compiute. Questo può comportare l’insorgere di rabbia nei confronti di se stesso e la conseguente paura della morte, come consapevolezza delle occasioni perdute. L’evoluzione di ogni persona è una serie ininterrotta di cambiamenti: smarrimenti e acquisizioni di identità, regressioni ed evoluzioni, lutti e scoperte, perdite e conquiste. Questi cambiamenti, che tutti sperimentano, si susseguono con l’avanzare dell’età, e richiedono di essere elaborati e integrati nella propria esperienza, per giungere a nuovi adattamenti ed equilibri. Man mano che gli anni aumentano, il corpo si trasforma: l’aspetto esteriore cambia e le capacità funzionali si indeboliscono, le energie diminuiscono, il rischio del decadimento psicofisico e di malattie invalidanti aumenta progressivamente. Le modifiche e i cali prestazionali dovuti all’invecchiamento possono essere vissuti come processi naturali, come tali accettati e integrati nel proprio stile di vita, oppure provocare profondo disagio e atteggiamenti di rifiuto, danneggiare la propria immagine e rappresentare un’esperienza di fragilità non tollerata. Diventare anziani in modo equilibrato significa adattarsi al declino, alla riduzione dell’efficienza delle capacità fisiche (abilità sensoriali, forza e resistenza fisica, prestazioni sessuali) e delle capacità mentali (attenzione, concentrazione, memoria, rapidità di decisione e azione); significa accettare le malattie che possono insorgere e gli effetti collaterali delle terapie farmacologiche continuative che vanno intraprese. Per la donna, invecchiare significa anche adattarsi alla perdita di un’immagine estetica correlata a dimensioni di piacere, desiderio, sensualità. Nel contempo, eventi- chiave quali l’allontanamento dei figli dal nucleo originario, il pensionamento o la vedovanza modificano profondamente la vita quotidiana, la vicinanza fisica e simbolica con gli affetti più cari, le relazioni sociali, l’essere nel mondo, il rapporto con le dimensioni temporali del passato, presente e futuro. Questi eventi-chiave:  rappresentano fasi di crisi, cioè fasi di cambiamento decisive, in cui lo sviluppo muta direzione e contemporaneamente recupera la propria crescita per un nuovo progresso;  possono determinare un’involuzione o un’evoluzione dell’identità e della quotidianità delle persone che li affrontano, anche in relazione alla loro storia di vita;  possono condurre a un senso di integrità e di compimento, in relazione a ciò che è stato vissuto e raggiunto nel corso degli anni, o a un senso di profonda solitudine, inutilità esistenziale, depressione, fine della vita e attesa della morte. L’emancipazione dei figli, che costituiscono un proprio nucleo autonomo, può rappresentare una grave perdita di ruolo e di identità (specie per la donna, che può soffrire della “sindrome del nido vuoto”), uno “svuotamento esistenziale”, un’occasione di contrasti fra i coniugi, l’emersione di un profondo disaccordo a lungo represso e mascherato - specie se la coppia era rimasta insieme “solo per i figli” - o la scoperta di “non avere più nulla da dirsi”. Viceversa può diventare il punto di partenza di una nuova vita di coppia, un nuovo equilibrio, rapporti più saldi sia fra i genitori anziani che con i figli adulti, progetti sempre rimandati nel tempo e finalmente divenuti possibili. I nipoti possono rappresentare una sorgente rigeneratrice, la possibilità di un nuovo ruolo in famiglia e l’occasione di frequenti incontri e scambi, oppure la fonte di nuove fatiche e l’origine di nuovi conflitti, in uno o più dei nuclei familiari coinvolti, fatiche e conflitti che interferiscono nella relazione fra genitori anziani e figli adulti. Specie in età avanzata, la morte del coniuge può rappresentare un evento da cui non ci si riprende più, una perdita paralizzante, che impedisce di trovare nuove ragioni per esistere e che costringe a ridimensionare e riorganizzare un’esistenza spesso impostata in coppia per molti anni, progettata e pensata solo in una dimensione “a due”: l’equilibrio cercato insieme, nell’adattamento alla vecchiaia, improvvisamente si spezza, e la morte di uno dei due coniugi può condurre al disadattamento di chi sopravvive. A volte la vedovanza induce a un nuovo matrimonio, per allontanarsi dalla solitudine, ma riorganizzare la vita con un’altra persona comporta nuovi adattamenti, che talora risultano ardui. Il vivere da solo – indipendentemente dall’essere una scelta o meno – presenta rischi e difficoltà man mano che l’età progredisce. Non solo i vedovi e le vedove, ma anche le persone sole dopo una separazione o un divorzio, i celibi e le nubili che si ritrovano soli (a volte nella casa della famiglia originaria, dopo la morte di entrambi i genitori) hanno maggiori possibilità di incontrare problemi riguardo a reddito, autonomia e sicurezza, equilibrio psicoaffettivo. Una delle tappe difficili dell’invecchiamento è affrontare il ritiro dal lavoro. Se l’attività professionale è stata fonte di grandi soddisfazioni e di adeguate ricompense economiche, se è stata vissuta come ambito privilegiato o esclusivo di realizzazione personale e come centro di sviluppo delle relazioni amicali, il pensionamento generalmente rappresenta un evento traumatico, passivizzante. Corrisponde alla perdita totale del proprio ruolo sociale, con conseguente difficoltà ad accettare la separazione dal mondo produttivo, nonché fatica a cambiare abitudini e a riempire di dialogo e contenuto il tempo trascorso in casa e in coppia. Per molte persone la conclusione della fase lavorativa può anche rappresentare l’inizio di un lungo percorso depressivo, causato da cambiamento dello stile di vita, mancanza dei soliti punti di riferimento che scandiscono la giornata, drastica diminuzione di contatto con le persone, mancanza di interessi culturali, perdita di autostima, difficoltà a costruirsi una nuova identità senza il ruolo lavorativo, fatica a trovare un nuovo equilibrio personale e familiare. In altre situazioni, il pensionamento diventa un’occasione formidabile per dare un nuovo significato al tempo di vita che resta, godere del proprio tempo libero, coltivare interessi a lungo soffocati o mortificati, costruire nuovi spazi di condivisione con il partner prima impossibili per gli impegni professionali, intraprendere nuove attività (retribuite o meno), esplorare diverse possibilità di conoscenza e di incontro, trovare una collocazione all’interno della comunità di appartenenza. La sofferenza interiore dell’anziano che beve troppo Sia gli alcolisti invecchiati, sia gli anziani divenuti alcolisti, devono fronteggiare un intenso dolore interno. Chi beve troppo non evidenzia la sua sofferenza, anche se porta con sé, da molti anni, un dolore che ha attivato la sua sensibilità e che, nel tempo, è diventato sempre più difficile da sopportare e da gestire. Per gli early-onset drinkers, questo dolore interiore - che scaturisce dall’insoddisfazione di se stessi, dalla paura dell’ambiente in cui si vive, dall’incapacità di vedere sbocchi positivi davanti a sé - accompagna l’individuo fin dall’infanzia. Nel tempo diventa un compagno ambiguo, perché è contemporaneamente:  elemento costitutivo dell’identità e fonte di riconoscimento personale, in quanto l’alcolista si riconosce attraverso questo dolore che lo contraddistingue, che lo fa sentire vivo;  macigno, sempre più pesante da sostenere senza un aiuto. L’alcolista è pieno di dolore; un dolore che mimetizza con aggressività, depressione, arroganza, indifferenza o debolezza. Un dolore che non sa come affrontare: da un lato vorrebbe scrollarselo di dosso; dall’altro lato teme, facendolo, di perdere una parte della propria identità. Questo dolore diventa, nel tempo, sempre più avido di energia, sempre più presente nella vita del bevitore, che fatica a sostenerlo, a sopportarlo, a controllarlo. Come si inserisce l’alcol nel meccanismo di gestione del dolore interno? L’alcol aiuta a sopportare il dolore, a sentirlo meno, ma, in un circolo vizioso, lo fa aumentare di intensità: più il bevitore assume alcol e peggiora nella sua dipendenza - con deterioramento dello stile di vita, delle relazioni familiari e sociali, dell’autostima e dell’autogratificazione - più il dolore richiede attenzione e diventa insistente. Per l’anziano abusatore, smettere di bere significa quindi imparare a sopportare il dolore interno. Chi è implicato in una relazione di aiuto non può dimenticare questo dolore: solo considerandolo può accompagnare il bevitore nel percorso di cura, comunicandogli appoggio e solidarietà. Un appoggio e una solidarietà poco frequenti e diffuse, intorno all’alcolista. Il nostro contesto sociale è infatti più disponibile a comprendere la sofferenza di chi è affetto da un malessere fisico o da un’infermità, perché lo ritiene sfortunato, provato dalla sorte ed esente da qualsiasi colpa relativa alla malattia che l’ha colpito. L’alcolismo non è riconosciuto come una malattia. Di solito chi beve troppo non è considerato degno di comprensione (semmai di compatimento): si è cercato da solo le sofferenze che sta affrontando, e anche le patologie conseguenti la sua dipendenza. Il bevitore eccessivo è condizionato dal contesto socio-culturale a ritenersi un vizioso, anziché un malato, ed è inconsapevole del proprio dolore; quel dolore che l’ha portato all’alcol dipendenza, e che ha radici lontane. Dai racconti che gli alcolisti fanno della propria storia personale e familiare, emergono contesti domestici caratterizzati da relazioni difficili tra i genitori, incompetenza nel comunicare con chiarezza sulle vicende quotidiane, incapacità ad accorgersi di bisogni e sofferenze psicologiche dei figli, inadeguatezza degli adulti nel proporsi come punti di riferimento stabili e sicuri, confusione e inversione di ruoli fra i componenti della famiglia, con obbligo per i figli di assumersi compiti e responsabilità superiori a quelli tipici dell’età. In questo scenario, i figli cercano di crescere aggrappandosi, di volta in volta, a punti di appoggio differenti, come i fratelli maggiori, i parenti più disponibili, le figure esterne che possono fungere da modello (amici, insegnanti); ma vivono, già dalla prima infanzia, il dolore di non poter ricevere le attenzioni di cui necessitano, provando un profondo senso di abbandono. Spesso i genitori del futuro alcolista provengono, a loro volta, da famiglie che contenevano disturbi psicologici di varia natura, disturbi mai affrontati e curati: quindi uno o entrambi i genitori hanno un dolore interno che non ha consentito loro di esprimersi, realizzando il proprio benessere, né di accorgersi del dolore dei figli. Non sempre, infatti, vivere con il dolore rende capaci di riconoscerlo nelle persone che stanno intorno, e di intervenire aiutandole a identificarlo e affrontarlo. Le storie di alcolisti parlano di bambini fragili e molto sensibili, che si sono sentiti soli e inadeguati, frustrati e poco gratificati, incapaci di raggiungere i genitori troppo occupati a “tirare avanti” o a vivere freneticamente; di famiglie apparentemente uguali a tante altre, in cui il futuro alcolista si sentiva senza un sostegno per affrontare le paure della vita. Il bambino, futuro alcolista o a rischio di diventarlo, sperimenta su di sé, per molti anni, la parte del perdente o, viceversa, del troppo vincente senza averne la forza. Si tratta di figli che devono rispondere ad alte richieste prestazionali a casa (occupandosi dei fratelli minori, sostituendo un genitore, caricandosi di scelte premature), a scuola (dovendo raggiungere risultati elevati, per adeguarsi al trend familiare), sul lavoro (subendo attività di famiglia, caricandosi di fatiche lavorative per aiutare economicamente), senza riuscire a intravedere una via d’uscita al proprio disagio. In entrambi i casi (perdente o troppo vincente), il dolore prende forma lentamente, giorno dopo giorno, attraverso l’incapacità del figlio a comprendere le non risposte ai suoi bisogni, ad affrontare le sofferenze dei familiari e, in particolare, del genitore modello di identificazione, che gli propone un‘immagine perdente o inarrivabile, piena di sofferenza o superficiale, iperprotettiva e asfissiante oppure fredda e distaccata. Vivere Il dolore interno fa sentire diversi; si pensa che gli altri non abbiano questo fardello, siano sereni, senza preoccupazioni. Il dolore fa sentire brutti, sgraditi, marchiati dalla vita. Il dolore rende le persone incapaci di sentirsi “in diritto”: in diritto di chiedere attenzioni, amore, di prendere per sé, di costruirsi armonicamente dal punto di vista sia fisico, che psichico. Il dolore porta la persona a sentirsi rifiutata. Se non c’è l’amore adatto, il dolore diventa parte dell’individuo fin da bambino e lo accompagna nel tempo; gli tiene compagnia; cresce con lui e lo riempie. Gli spazi lasciati vuoti da amore, attenzioni, comunicazione, sani conflitti, affinità, condivisione e positive complicità, vengono riempiti dal dolore interno, che si adatta perfettamente a tutti gli interstizi, insinuandosi lentamente nei vuoti esistenziali, negli spazi di solitudine, e diventando un tutt’uno con la sua interiorità. Attraverso questo dolore la persona si riconosce, sente di essere se stesso, crede di poter affrontare la vita con questa parte di sé che non lo fa sentire vuoto. Ma il dolore interno ha caratteristiche particolari: niente a che vedere con il dolore vivo, che ti colpisce e se ne va. Per la sua costante presenza, per l’espandersi e il prendere possesso dell’interiorità, il dolore interno diventa gradualmente molto esigente: richiede attenzioni e cure, vuole essere ascoltato ed esaudito ogni giorno di più. Gradualmente chi lo prova ha la necessità di tenerlo a bada, per evitare che prenda il sopravvento, impedendo di vivere. L’alcol serve adeguatamente a questo scopo: annebbia il dolore, lo comprime, eliminandolo per un tempo più o meno lungo, dipende dall’intensità della bevuta. La persona vuota di amore e piena di dolore si riempie di alcol, e continua a bere per sentire meno il dolore interno, fino alla misura sufficiente per riconoscersi. Ma anche l’alcol richiede dedizione ed esclusività. All’inizio si beve qualche volta, per essere disinibiti, dormire meglio, sentirsi euforici, non pensare troppo, illudersi di riappacificarsi con se stessi. Dopo qualche anno si deve bere spesso, perché l’effetto dell’alcol dura poco e il dolore si fa sentire prepotentemente. Alla fine ci si accorge di bere costantemente, tutto il giorno, a orari fissi, per evitare che il brevissimo effetto dell’alcol si interrompa e ci si trovi di fronte alle proprie paure. Il dolore interno spaventa sempre più: l’alcol ha preso il sopravvento e il dolore che si credeva di conoscere è diventato un estraneo, un mostro che alberga dentro l’interiorità sfilacciata dell’alcolista e che gli fa sempre più paura. L’alcol annebbia il dolore, ne riduce temporaneamente l’intensità ma aumenta, in chi beve, le angosce e l’insicurezza, rendendone l’interiorità sempre più fragile. Per evitare di guardare in faccia la realtà - con difficoltà da affrontare, problemi da risolvere e persone con cui interagire, senza sentirsi schiacciati e annullati dalla paura della vita - l’alcolista ricorre a varie strategie, che gli consentono anche di non prendere coscienza del proprio rapporto con l’alcol. Mentire, minimizzare, negare la realtà, aggredire verbalmente e fisicamente, diventare apatici e comportarsi come un burattino, isolarsi completamente dall’ambiente circostante sono comportamenti riconducibili alla profonda sofferenza interiore che l’alcolista prova e alla sua paura del cambiamento.

Antonio Sarassi indicazioni operative: diagnosi, aggancio, ricovero ospedaliero e farmaci

L’alcolismo è un disturbo a genesi multifattoriale (BIO-PSICO-SOCIALE) associato all’assunzione protratta di alcolici (episodica o cronica) con presenza o meno di dipendenza, caratterizzato da un tipico stile di vita disfunzionale (Società Italiana di Alcologia-1° Consensus Conference ,1994). La diagnosi di alcolismo pertanto già nel giovane adulto e nell’età matura è complessa, richiede tempo e la collaborazione di più figure professionali (psicologo, medico, educatore professionale, assistente sociale). Nell’anziano il riscontro del “problem drinker“ è spesso reso ancora più difficile per la presenza di patologie concomitanti (es. vasculopatia cerebrale, neuropatia diabetica, Parkinson ) che a volte rendono difficile persino la corretta interpretazione dei sintomi dell’astinenza alcolica (es: agitazione , crisi ipertensiva , parestesie, tremori). Inoltre non è facile né scontato che gli anziani con dipendenza da alcol (early-onset o late-onset) parlino dei loro problemi e cerchino, più o meno direttamente, un aiuto per fronteggiarli e pertanto agli strumenti diagnostici tradizionali a portata del medico (anamnesi patologica remota, anamnesi patologica prossima, esame obiettivo, prescrizione di esami di laboratorio ed esami strumentali) occorre affiancarne altri, quali per esempio un semplice questionario come il CAGE test. Quest’ultimo, consistente in 4 semplice domande, può aiutare a individuare l’alcolista anziano. I complessi criteri diagnostici del DSM 5 appaiono invece poco proponibili nello screening del paziente anziano. Più utili appaiono i cosiddetti “indicatori indiretti di abuso alcolico” che possono essere distinti in fisici (problemi gastrointestinali, ricorrenti accessi ripetuti al pronto soccorso, ad esempio per traumatismi, in genere da cadute, calo o incremento ponderale, non altrimenti spiegabile) comportamentali (difficoltà relazionali in ambito familiare, litigi e lesioni procurate ai familiari, tendenza a minimizzare l’assunzione alcolica), e sociali (trascuratezza nell’igiene personale e nell’abbigliamento, isolamento sociale, aggressività immotivata, litigi in luoghi pubblici). L’obiettività clinica peraltro è spesso assente e quando presente (early onset drinker) può essere fuorviante (eritema al volto, congiuntiva iniettata o “acquosa”, parodontopatie, glossite da disvitaminosi) in quanto potenzialmente legata anche ad altre patologie. I segni di epatopatia cronica (epatomegalia da steatosi epatica, eritema palmare, spider naevi, flapping tremor, dita “a bacchetta di tamburo”) non sono patognonomici, avendo una eziologia molteplice. Gli indicatori biochimici di abuso alcolico tradizionalmente noti (transaminasi, γGT, volume corpuscolare medio) non sempre risultano alterati. Di seguito qualche precisazione su di essi. Transaminasi (AST, ALT): sono indici aspecifici di danno epatico, quando il rapporto AST/ALT è superiore a 1, la causa più probabile è l’abuso alcolico; hanno una finestra temporale di 15-30 giorni Gamma GlutamilTranspeptidasi (γGT): presenta una bassa sensibilità per il consumo a rischio (è segnalato infatti anche nei forti bevitori cronici un 20% di falsi negativi), aumenta generalmente dopo un abuso cronico superiore ai 30 giorni. Volume Corpuscolare Medio (MCV): aumenta nel 65% dei casi di abuso cronico, per l’interferenza dell’alcol nella sintesi dei globuli rossi; è dovuto a carenza di acido folico e vitamina B12; ha una finestra temporale di 60-120 giorni, ed è molto aspecifico, risultando però utile se associato ai precedenti indicatori. Il marcatore combinato GGT-CDT, chiamato anche γ-CDT, sembra aumentare con un consumo quotidiano di alcol oltre i 40 g/die. La CDT (Transferrina decarboidrata o desialata): è un indicatore specifico di abuso cronico. Viene prodotta in elevata quantità dagli epatociti dopo 7-10 giorni di abuso alcolico (60 g/die, cioè 5 UA al giorno). Si normalizza dopo 14-21 giorni di astinenza (dopo un tempo più lungo, secondo alcuni Autori). Essendo stata evidenziata una significativa correlazione fra γ-CDT e le effettive quantità di alcol assunte, la sensibilità diagnostica di questo marker è risultata più alta di quella delle sue singole componenti. Si è rivelato utile per il follow-up dell’astinenza: smettendo di bere si riduce in modo significativo, normalizzandosi nell’arco di 2-3 settimane. Un ulteriore recente marker di abuso alcolico è rappresentato dall’etilglucuronide (EtG), un prodotto metabolico dell’alcol etilico che si forma nell’organismo per coniugazione dell’etanolo con l’acido glucuronico. È stato identificato per la prima volta nelle urine di alcolisti nel 1967; nel 1993 è emersa la possibilità di una sua determinazione sulla matrice pilifera (capelli, peli). L’EtG è rilevabile nel sangue per alcune ore, nell’urina per alcuni giorni (fino a 80 ore dall’ultima bevuta), nella matrice cheratinica per diversi mesi: la possibilità di accertare il consumo di alcol anche a notevole distanza dall’assunzione lo differenzia dagli altri indicatori biochimici. Risulta molto efficace come marker di consumo eccessivo e prolungato di alcol, riuscendo a indicare un consumo abituale di alcol pari o superiore a 5 UA al giorno. Viene utilizzato per monitorare l’astinenza alcolica negli alcolisti in trattamento, per accertare le abitudini alcoliche ai fini del giudizio di idoneità alla guida di veicoli, per effettuare controlli periodici sui lavoratori con mansioni a rischio. Rispetto ad altri accertamenti, l’EtG sul capello si caratterizza – oltre che per una finestra temporale molto più ampia - per una elevata specificità e sensibilità (minori risultati falsi negativi), e per una minore invasività del prelievo. Un limite dell’esame del capello è rappresentato però dal fatto che la decolorazione della matrice cheratinica (legata all’età o a tinture decoloranti) porta a una riduzione dell’EtG: in questi casi può essere utile un monitoraggio dell’EtG nelle urine. In conclusione, in ogni caso sia gli indicatori biochimici di abuso alcolico, che la CDT o l’EtG possono non essere sufficienti a identificare l’anziano bevitore (specie se appartenente al tipo late onset drinker). Infatti come nel giovane anche nell’anziano abusi alcolici episodici possono non essere rilevati dagli esami suddetti. In sintesi, la diagnosi di alcolismo nell’anziano deriva oltre che da una mirata raccolta anamnestica da osservazioni convergenti di vario tipo (alterazioni comportamentali, cliniche e/o laboratoristiche), spesso da parte di più soggetti (medico di famiglia, familiari, a volte anche medico ospedaliero). Rigler già nel 2000 (Rigler S.K., in the elderly, Am fam Phisician 2000 Mar 15;61(6)1710-1716) raccomandava ai medici di tenere in considerazione come diagnosi l’alcolismo di fronte ad un anziano con un recente o aumentato declino cognitivo e segni di trascuratezza nell’autocura. Una volta identificato l’anziano bevitore, l’anamnesi permetterà di distinguerne la tipologia (early onset drinker oppure late-onset). Nell’anziano early-onset drinker l’abuso alcolico cronico può associarsi al riscontro di uno più indicatori biochimici alterati, in diverso grado; in ogni caso la valutazione da parte del medico del rapporto costo/beneficio di un eventuale ricovero dovrà tener conto anche, come segnalato dagli Autori americani, dell’aumentato rischio di infezioni ospedaliere in cui può incorrere l’anziano bevitore, che spesso ha deficit del sistema immunitario dovuti all’età, all’alcol o al diabete. Pertanto, se inevitabile, la degenza ospedaliera dovrà essere la più breve possibile per ottenere una disintossicazione alcolica e migliorare le condizioni generali dell’anziano alcolista. Al ricovero dovrà sempre seguire l’invio ad un Servizio specialistico che lo aggancerà e monitorerà interfacciandosi col medico curante (figura centrale nella gestione del paziente) e i familiari. Le difficoltà dell’aggancio, la bassa compliance e la frequente presenza di PAC (patologie alcolcorrelate) e di danno cognitivo spesso limitano le possibilità di recupero dell’alcolista invecchiato. Tipica dell’alcolismo tardivo invece è una buona sensibilità alle proposte di cura (quali la socializzazione) e quindi una prognosi favorevole. La necessità di un ricovero ospedaliero (a parte per eventi acuti quali traumatismi avvenuti in stato di ebbrezza) si impone meno di frequente che nel late-onset drinker in quanto l’abuso cronico alcolico iniziato in tarda età raramente compromette le condizioni generali e meno frequentemente si osservano patologie alcolcorrelate (PAC). La terapia farmacologica dell’alcolismo già nell’adulto giovane e maturo ha un ruolo secondario e temporaneo, in quanto il cardine della riabilitazione è costituito dal raggiungimento e dal mantenimento dell’astinenza alcolica per tutta la vita mediante il cambiamento indotto dall’équipe specialistica, con l’aiuto dei gruppi di auto-aiuto territoriali. Infatti nessun farmaco attualmente in commercio è in grado di agire contemporaneamente sui neuromediatori (dopamina, serotonina, endorfine, sistema GABAergico) alla base della gratificazione alcolica, che innescano il circuito della dipendenza, gravitando sul nucleo accumbens, e di eliminare la dipendenza psicologica dall’alcol (craving) ripristinando nel paziente il controllo sul consumo di alcol. La terapia farmacologica, quindi, deve essere sempre considerata un supplemento temporaneo al percorso di trattamento multidisciplinare integrato e al programma psicologico riabilitativo. I farmaci attualmente a disposizione del medico per la terapia dell’alcolismo sono pochi e scarsamente utilizzabili nell’anziano, che già spesso assume quotidianamente diversi principi attivi per patologie concomitanti. Farmaci di prima linea per l’alcol sono quelli approvati per la terapia dell’alcolismo dalla Food and Drug Administration, e cioè il (approvato dalla FDA nel 1951, noto come Antabuse), il naltrexone (approvato dalla FDA nel 1994) e l’acamprosato (approvato dalla FDA nel 2004). Per un maggiore rischio di seri effetti collaterali, in età anziana il disulfiram (avversivante) è sconsigliato dalla maggior parte degli Autori. Il disulfiram, come noto, impedisce che l’enzima alcol-deidrogenasi trasformi l’acetaldeide, un metabolita dell’etanolo, in acetato. Il risultato è un accumulo di acetaldeide, che – in presenza di alcol - produce una reazione caratterizzata da nausea, vomito, diarrea, dispnea, eritema cutaneo, vertigine, ipotensione e tachicardia. Il disulfiram agisce pertanto solo come un deterrente; va somministrato da un familiare o da una persona di riferimento, che si assicuri che il paziente lo assuma quotidianamente. L’assunzione della terapia deve avviarsi dopo almeno una settimana di astinenza alcolica, per evitare la sindrome da acetaldeide, e si protrae generalmente per un periodo di 6 mesi. Il naltrexone è indicato per la prevenzione della ricaduta alcolica. Derivato della morfina, il naltrexone si lega ai recettori degli oppioidi presenti nelle strutture cerebrali deputate alla trasmissione del dolore. Essendo uno specifico antagonista oppioide, agirebbe opponendosi alla sensazione di piacere dovuta alle endorfine liberate dall’alcol (farmaco anticraving). I numerosi effetti collaterali gastrointestinali (calo dell’appetito, nausea, vomito, diarrea, dolore addominale), nonché del sonno (sonnolenza diurna, disturbi del sonno notturno), lo rendono però poco maneggevole. Da ultimo l’acamprosato è un derivato sintetico di un aminoacido (omotaurinato) strutturalmente simile al GABA, con effetto anti-craving. Il meccanismo d’azione sembra essere legato alla riduzione dell’eccitabilità neuronale. L’acido gamma-idrossibutirrico (GHB, noto come Alcover), classificabile come alcolmimetico, diventato famoso negli anni novanta, prima negli Stati uniti e poi in Europa, con i termini di “ecstasy liquida “e “droga dello stupro”, è uno stupefacente e come tale necessita di un registro di carico e scarico. Richiede tre somministrazioni al giorno, di cui solitamente la prima viene erogata presso il servizio territoriale di alcologia e le successive sono affidate al paziente. Usato ancora oggi da qualche Pronto Soccorso per trattare la sintomatologia astinenziale alcolica, è per ovvii motivi improponibile nell’anziano bevitore. In conclusione, sia nel bevitore invecchiato (early onset drinker) che nell’alcolista tardivo (late onset drinker) è sempre utile da parte del medico la proposta riabilitativa tramite - se possibile- la collaborazione dei familiari. Solo in presenza di importante declino cognitivo il sanitario dovrà limitarsi al miglioramento ed al controllo delle condizioni generali. L’invio alle strutture specialistica territoriali, indispensabile per l’early onset drinker, può essere attuato anche per il late onset drinker. In entrambi i tipi di alcolisti anziani è necessario consigliare la frequenza costante ai gruppi di auto-aiuto territoriali (CAT o Club Alcologici Territoriali, o A.A, Alcolisti Anonimi) per mantenere l’astinenza alcolica.