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Signore e Signori Carlo Delle Piane MASSIMO CONSORTI

Signore e Signori Carlo Delle Piane © GRAF srl, 2011

Collana: Teste di Serie Titolo volume: Signore e Signori Carlo Delle Piane Autore: Massimo Consorti

ISBN: 978-88-96774-05-2

Coordinamento generale: Anna Crispino Redazione: Lello Catello Editing: Cunegonda Zaza D’Aulisio Foto di copertina: Daniele Cruciani Progetto grafico: Serena Chirico Impaginazione: Grafica Elettronica srl

Publishing by Testepiene Testepiene è un marchio di proprietà di Graf srl I edizione ottobre 2011

L’editore resta a disposizione per eventuali aventi diritti che non fosse stato possibile contattare.

Graf srl Viale degli Oleandri, 19 - 80131 Napoli tel. 081 7445172 - fax 081 7411541 [email protected] - www.testepiene.it Tutta la mia vita tra finzione e realtà, tra l’attore e l’uomo. Dedico ad Anna la “sceneggiatura” della mia esistenza.

Ca r l o De l l e Pi a n e Prefazione

Il mio amico Carlo

Carlo ed io siamo coetanei. Coetanei anagraficamente ma non cinematograficamente. En- trambi abbiamo trascorso una buona parte della nostra infanzia in fumose sale cinematografiche, ma io sedevo in platea mentre lui, negli stessi cinematografi, era sullo schermo. Ed è una differenza che oggi avverto fortissima avendo letto questa sua magnifica biografia. Carlo è in molti dei miei film, di certo in alcuni dei migliori. Se c’è lo si deve alla sua amicizia con mio fratello Antonio che, attraverso un brillante artificio, praticamente me lo impose. Con Carlo abbiamo condiviso un percorso impervio fatto di re- ciproca crescita professionale, segnato da grandi gioie ma anche da momenti di inevitabile sconforto. Questa per anni la nostra vita: dal mattino prestissimo al trucco, poi l’intera giornata sul set, quindi la sera in cerca del ristorante più affidabile, e ancora avanti nella notte in albergo a bere l’ultimo whisky o a organizzare scherzi. Migliaia di ore quindi di parole, di incoraggiamento o di dubbio, sempre e comunque segnate dall’amicizia, che è il sentimento che ha reso possibile un rapporto professionale eccezionale per conti- nuità e risultati ottenuti.

Di lui credevo quindi di sapere tutto, ma proprio tutto, e invece questo libro mi ha convinto che di lui sapevo ben poco. La ragione credo sia da attribuire al suo sconfinato pudore, pu- dore che gli deriva dall’aver dato l’avvio alla sua straordinaria car- riera in quella stagione così speciale in cui i nostri padri realizzava-

7 no quei capolavori che hanno reso celebre il nostro cinema nel mondo. E nel realizzare quei film inventavano anche il cinema mo- derno, dandogli un senso e stabilendone le regole. Che Carlo venga da quel cinema, in cui ognuno era pedina di un insieme più grande e dove solo le capacità professionali o il talento facevano la differenza, lo si intuisce da come sa stare sul set, che giri o che attenda di girare. Lo si intuisce da come si rapporta con la troupe, a qualunque livello gerarchico, da come nel suo compor- tamento si riconosca la grande lezione impartitagli dai suoi grandi maestri. È sufficiente leggere le pagine dedicate a Totò per riconoscere Carlo nella sua riservatezza, pur così insospettabile dai personaggi che entrambi hanno interpretato. Quindi se c’è un Totò segreto, un Totò che soffre come e più dei comuni mortali, c’è un Carlo Delle Piane che vive, simultaneamen- te alla sua vicenda professionale, una vicenda umana segnata dal rammarico. Questo lungo, affettuosissimo, racconto ce lo svela, specie nell’ultima parte, quando gli si appalesa finalmente accanto quella creatura che forse lui, senza rivelarlo neppure a noi che ci annove- riamo fra i suoi migliori amici, ha atteso da sempre. Dal remoto film di Duilio Coletti Cuore, il dodicenne Carlo, fi- glio del sarto abruzzese Francesco Delle Piane, ha percorso un lun- go cammino che Massimo Consorti sa narrarci con imparzialità ed emozione. Un percorso che, ben lungi dall’essersi concluso, ci riserva di certo nuovi, imprevedibili, sviluppi.

Pu p i Av a t i

8 p r e f a z i o n e . i l m i o a m i c o c a r l o Una biografia non è un curriculum vitae

Se la domanda è: «Ti va di scrivere la mia vita?», e il giorno in cui ti viene fatta è quello di Natale, la risposta che una persona normale può dare è un ‘sì’, senza se e senza ma. Se poi, sempre quella persona normale, si rende conto che è lo stesso giorno del “regalo” che al suo interlocutore ha fatto vincere il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, la convinzione con la quale quel ‘sì’ è stato detto diventa netta e non differibile. Non riflette, la persona normale, sul fatto che la proposta che gli è appena stata fatta viene da Carlo Delle Piane, e che di “se” e di “ma” ce ne sarebbero stati a decine. Dopo. Avevo conosciuto l’avvocato Santelia a San Benedetto del Tronto qualche mese prima, a luglio, durante il Bizzarri DocFilmFest che gli aveva assegnato il premio Anniversary alla carriera. Seguendo da sempre il mondo del cinema, e non solo per motivi di lavoro, ero al corrente delle piccole manie che uno dei protagonisti di oltre sessant’anni di storia della nostra cinematografia si portava appres- so, per cui, al momento della presentazione, mi guardai bene dallo stringergli la mano e, tantomeno, dall’accennarne il gesto. In quel fine settimana pranzai e cenai spesso con lui finendo per assistere, impotente, alla ritualità dei suoi gesti: sempre gli stessi, sempre allo stesso tavolo, sempre con le spalle rivolte alla finestra e gli occhi fissi nella sala. Ci alzavamo insieme per andare a fumare e parlare di cinema e di vita, di sigarette e del piatto appena gustato. C’è da dire che Carlo Delle Piane non fa nulla per mascherare le sue fissazioni, per cui il rapporto che si ha con lui, dopo un approccio imbarazzante, rientra nei canoni della normalità più assoluta.

9 Ed è la stessa impressione che deve aver avuto il cameriere che ci serviva, il cui sguardo, dopo alcune ore di follia nicholsoniana, si era disteso sempre di più fino al sorriso liberatorio dell’ultimo giorno. Ad accompagnare il professor Carlo Balla al Festival c’era Anna Crispino, una giovane cantante e musicoterapeuta napoletana, che sembrava essere l’unico punto di contatto fisico di Carlo Delle Pia- ne con il resto del mondo. Anna era, in effetti, molto più di un semplice “contatto”, incarnava la donna alla quale Carlo, per la prima volta in settantatre anni di vita, come in un film, era riuscito a dire ‘sei il volo della mia anima’. Lo aveva fatto al termine di una serata raccontata dalla sua voce che, oltre a sorprendermi per l’ina- spettata voglia di rendere pubblico un sentimento così profondo, mi aveva colpito ed emozionato. Nei mesi successivi continuammo a mantenere i contatti attra- verso il telefono, testimonianza di quanto le ore trascorse insieme fossero state piacevoli, e questo fino a quel fatidico 25 dicembre, giorno in cui, fra un augurio e l’altro di ogni possibile felicità, Car- lo mi fece chiaramente intendere che gli sarebbe piaciuto editare la sua biografia e che a scriverla avrei dovuto provare io. E sottolineò quasi con una vena di sottile autocompiacimento quel “provare”, memore delle tre prove precedenti non andate a buon fine. L’accordo fu quello che ci saremmo risentiti i primi di gennaio e che, nel frattempo, avrei dovuto lavorare sulla forma letteraria mi- gliore per raccontare l’esistenza niente affatto semplice di un uomo talmente riservato da rasentare, in qualche momento, la reticenza. Iniziai con lo scartare modelli. Dopo aver trovato vecchio, noioso e lontano anni luce dal mio intendere il narrare, il classico ‘Carlo Delle Piane è nato a Roma il…’, iniziai a prendere in considerazione le biografie-intervista di cui è ricco il mercato editoriale (prima fra tutte quella di Laurent Neumann a Gérard Depardieu), rendendomi però subito conto che con Carlo sarebbe stato un lavoro improbo, uno scavo profes- sionale ed umano al quale difficilmente si sarebbe mostrato dispo- nibile.

10 u n a b i o g r a f i a n o n è u n c u r r i c u l u m v i t a e Restava una terza ipotesi: il racconto. Fu la soluzione che ci tro- vò tutti d’accordo e che ha portato alla stesura di una biografia- mix fra il romanzo, la filmografia ragionata, la sintesi di una carrie- ra lunga e prestigiosa e momenti in cui anche il dolore, mai plate- almente esibito, si è mantenuto nei limiti di un ragionevole pu­ dore. Il primo incontro di lavoro con Carlo Delle Piane e Anna Crispi- no è avvenuto in un hotel di Roma, luogo che Carlo ha eletto a suo ufficio non trovando igienico ospitare estranei (portatori insani di virus e batteri) in casa sua. Prima di iniziare una registrazione che sarebbe durata ore, e poi ancora ore in altri giorni, Carlo Delle Piane dettò le sue condizioni: «Non voglio una biografia noiosa», disse. «Non voglio una Divina Commedia ma un libro agile, da leggere tutto d’un fiato e che lasci al lettore il rammarico che sia finito troppo presto. Devi dosare le parole, devi descrivere i miei sentimenti e riportare quello che pen- so io e non quello che gli altri pensano io pensi”. Al termine di un monologo che non lasciava grandi margini di mediazione, mi resi conto che l’unica scelta che avevo era quella di lasciarlo parlare, di raccontare se stesso come lui si vedeva, di carpi- re fra le righe dei suoi discorsi gli accenni, le piccole cose, quelle che mi sarebbero state poi utili a comporre un ritratto non esaustivo, ma molto vicino all’esserlo, dell’attore e dell’uomo Delle Piane. E più Carlo andava avanti con il racconto della sua vita, più mi rendevo conto della estrema complessità delle situazioni e dei con- testi che le sue parole mi descrivevano, proprio come fossero se- quenze di un film. Cogliere le sfumature nel tono della voce diventò da subito l’im- pegno maggiore, perché solo attraverso le sfumature riuscivo a ren- dermi conto di quali fossero le cose più importanti per lui, ma an- che quanto lo infastidissero alcune domande sul privato che inevi- tabilmente ero costretto a rivolgergli. Ad un certo punto mi sono sentito come il cacciatore che inse- gue una preda che gli sfugge andandosi a ficcare nei luoghi più

u n a b i o g r a f i a n o n è u n c u r r i c u l u m v i t a e 11 impensabili per cui, parlando della morte del padre, è accaduto che Carlo abbia troncato il discorso e iniziato a parlare dell’amatri- ciana di . È accaduto anche che, per sapere di più del rapporto di Carlo Delle Piane con le donne, sia stato fondamentale il racconto di An- tonio Avati; di quello con gli amici dell’adolescenza e della giovi- nezza, gli aneddoti di Adriano Urriani e, infine, di quello con il ci- nema, la lunga chiacchierata fatta con . Aggiungo solo che alcune notizie sono stato costretto a cercarle in Internet e che per la sua filmografia ho saccheggiato alcuni siti di cinema degni di essere definiti tali. C’è un episodio che meglio di altri può far comprendere quanto Carlo Delle Piane tenga ai suoi affetti, al suo mondo e al suo priva- to: terminata la stesura del primo capitolo, quello che ne descrive l’infanzia fino all’incontro con Duilio Coletti e , ho creduto fosse doveroso inviarglielo per avere un primo riscontro sul lavoro che stavo facendo; la sua reazione non fu positiva perché (ma questo me lo disse dopo Anna Crispino), avevo raccontato troppi fatti, usato troppe parole, parlato troppo della sua infanzia e dei suoi ricordi, cosa che mi ero permesso di fare poiché era stato lui stesso a narrarmeli. Dopo avergli spiegato che una biografia non è un curriculum vitae, Carlo dovette ammettere, con un ‘va bene’ detto fra i denti, che se un personaggio desidera essere conosciuto, anche umana- mente, dal pubblico che lo ama e che lo ha seguito nel corso della carriera, qualcosa della sua vita bisogna pur raccontarla. Da quel momento ho avuto carta bianca e l’unica condizione posta è stata quella dello scrivere solo e sempre la verità, evitando inutili quanto pericolosi voli di fantasia. Anche se… Ho trascorso quasi sei mesi della mia vita a scrivere quella di Carlo Delle Piane. Ho condiviso il racconto con Amalia, la mia critica più feroce, la quale, nei momenti di crisi creativa, mi ha sempre suggerito lo spunto giusto, spesso dato la spinta giusta, do- po aver letto e riletto quanto avevo scritto fino a poche ore prima,

12 u n a b i o g r a f i a n o n è u n c u r r i c u l u m v i t a e frase per frase, concetto per concetto, parola per parola e, letteral- mente, virgola per virgola. Ho cercato di contestualizzare i momenti dell’esistenza di un at- tore dalle due vite e dalla “stessa faccia sempre”, cogliendone ogni aspetto possibile e narrandoli allo stesso modo, e con la stessa in- tensità, sia che descrivessero situazioni al limite della comicità, sia che si portassero appresso le note struggenti dei distacchi. Alla fine di questo lavoro mi sono reso conto di non conoscere affatto, nel profondo, Carlo Delle Piane. Non mi era stato chiesto e sono anche convinto che Carlo non abbia mai avuto alcuna intenzione di essere conosciuto da me. Per cui mi sono ben guardato dallo scavare nonostante qualche attacco di curiosità mi avesse spinto, in alcuni momenti, a cercare una pala e provare. D’altra parte sono convinto che Carlo Delle Piane non faccia nulla per mettere gli altri nelle condizioni di capirlo, scoprirlo poi sarebbe impensabile. Mi sono chiesto spesso come sia possibile riuscire a capire una persona che fra le sue note biografiche alla voce ‘amicizia’ cita solo la ‘follia’. Semplicemente non si può perché alla fine, come sempre, ha ragione il Buster Keaton della ‘teoria del doppio’, quello che scam- bia la notte con il giorno, l’amore con l’odio, la tenerezza con la violenza.

Ma s s i m o Co n s o r t i

u n a b i o g r a f i a n o n è u n c u r r i c u l u m v i t a e 13

Ciak

Ponte Garibaldi è il confine fra la casa, il quartiere, le piazze tra­ sformate in campi di calcio, le vie dove scorrazzare in bicicletta sognando di essere Bartali. Rappresenta il passaggio fra due dimensioni: quella della quoti- dianità monella e quella del rigore della scuola elementare Mastai retta dai preti, ai Carissimi. Sono gli unici due mondi che il piccolo Carlo conosce, gli spazi che calpesta quotidianamente, i suoi imprescindibili punti di riferimento. La Seconda guerra mondiale sputa sulla città gli ultimi colpi. Come quasi tutti i ponti di Roma, anche Ponte Garibaldi è presi- diato giorno e notte da militari tedeschi col compito di sorvegliare l’arteria che immette direttamente nel ghetto, il regno dei contami- natori della razza pura, da ridurre in fumo. Carlo percorre questa strada ogni giorno accompagnato da suo padre. Si ferma a guardare incuriosito le mitragliatrici, le MG 34, con le canne puntate contro chiunque passi da quelle parti. Quegli attrezzi lucenti, poggiati sulla strada, per lui non hanno un’aria co- sì minacciosa; sono piuttosto degli strani oggetti del desiderio, elet- trizzanti e segreti, che brillano al sole della primavera per poi assu- mere il colore grigio scuro dell’acciaio in inverno. Vorrebbe posse- derne uno tutto per sé, magari come regalo della Befana. Gli occhi dei bambini della Capitale riscrivono così il male della guerra, come un grande gioco che non ha nulla di drammatico né di terrorizzante. I soldati, i camion di truppe, le ronde al passo, le ambulanze che mordono l’asfalto, sono presenze familiari e con- suete tanto da diventare protagoniste di un mondo altro, costruito ogni giorno con la bellezza del sogno e dell’immaginazione.

15 Ma questo gioco non tarda a mostrare la sua vera faccia nella tragedia metallica di mattine assolate e di notti da incubo. Le pas- seggiate sul ponte, le corse in bici, perfino le gloriose partite di calcio sulla strada, presto tutto viene ingoiato dalle urla delle sirene d’allarme, dalle bombe che cadono dall’alto, dalle fughe precipito- se verso i rifugi. La famiglia Delle Piane inizia a vivere questi tragi- ci riti con un’apprensione che solo grazie alla mamma non si tra- sformerà mai in angoscia disperata. Carlo ricorda bene le fughe a perdifiato dando la mano al padre. Ricorda le cantine-rifugio piene di gente con gli occhi vuoti, uscita di casa infilandosi la prima cosa utile per coprire i vestiti della notte. Ricorda il silenzio di quei momenti, l’attesa della sirena che avrebbe dato il cessato allarme e gli abbracci rassicuranti delle ma- dri strette a bambini spaventati che non riuscivano a capire cosa stesse davvero accadendo. Erano le bombe che gli alleati avevano iniziato a sganciare sulla Capitale il 19 luglio del 1943 e che avrebbero tenuto sotto scacco la città fino alla metà del 1944. Erano quei bombardamenti che avvenivano di giorno e di notte, distruggendo vite con la furia cieca di un vento feroce che spazza le spighe di un campo di grano. Abitando a due passi dal ghetto, non era infrequente che ebrei in fuga in cerca di aiuto venissero accolti e nascosti dalla famiglia Del- le Piane e da quelle delle case vicine. Questa era la solidarietà al tempo della guerra e delle persecuzioni razziali: un periodo ricco di eroi e di mistificatori, di tante persone comuni che salvavano vite di uomini e donne, di vecchi e di bambini la cui unica colpa era quel- la di appartenere ad una religione diversa, a dispetto dell’odio e del tradimento allora merce corrente. A quei giudei che chiedevano asilo nessuno faceva troppe do- mande, sapendo benissimo che non avrebbero avuto risposte. Ogni parola era assolutamente inadatta anche soltanto a nominare quella vernice bianca che segnava con la Stella di David le porte e le vetri- ne di negozi destinati ad essere distrutti dalla violenza ottusa e cie-

16 c i a k ca dei fautori della “soluzione finale”, simboli che i bambini guar- davano chiedendo ai genitori cosa significassero e ricevendo in cambio un invito a tacere ed una strattonata. Ma, per il padre e la madre di Carlo, dare ospitalità a quella gen- te perseguitata era qualcosa di assolutamente normale, anche se erano ben consapevoli dei rischi a cui sarebbero andati incontro se fossero stati scoperti o se qualcuno avesse deciso di denunciarli. A sette anni Carlo comprende cosa sia veramente la guerra. Ini- zia a guardare con occhi diversi la mitragliatrice giocattolo che i genitori gli hanno regalato, dopo una estenuante contrattazione con la Befana conclusasi con un ‘sarò sempre buono e bravo’ desti- nato a non fare testo. Si rende conto che quelle vere, quelle dei soldati di Ponte Garibaldi, non sparano proiettili di carta come la sua e che nessuno ride se centrano il bersaglio. Quando i primi Media Tank americani iniziano a solcare su e giù i sanpietrini di via Arenula, restando fermi in fila davanti a Ponte Garibaldi temendo fosse minato, il rumore dei cingoli è così assor- dante che Carlo è costretto a mettersi le mani sulle orecchie per cercare di attenuarne l’impatto violento, una sordina che però non porta alcun beneficio tangibile. Per anni, Carlo Delle Piane si è portato appresso il rumore, l’an- dirivieni ossessivo, penetrante, dilaniante di quei mezzi corazzati, costruiti e usati per distruggere tutto quello che si parava loro da- vanti, comprese le case, le strade e i palazzi, ed innalzando a disu- manità i segni dell’ennesima guerra senza senso, figlia di un’op- pressione violenta e di un potere venuto da lontano. Nonostante tutto, continuava il “grande gioco”, anche se i pic- coli della famiglia Delle Piane si rendevano conto che, alla fine, forse erano meglio il pallone e le cronache radiofoniche delle vitto- rie di Gino Bartali. Carlo Delle Piane nasce a Roma, a Campo dei Fiori, il 2 febbraio 1936, l’anno in cui uno dei suoi modelli ispiratori, Buster Keaton, interpreta Three on a Limb. Prima di lui, nel 1931, era nato Fulvio mentre, sempre a distanza di cinque anni, nel 1941, sarebbe nato

c i a k 17 Piero. Tre figli in dieci anni per quel periodo rappresentavano una media al di sotto di quella nazionale, anche se tre maschi non erano usuali. Quello dell’infanzia è il periodo che Carlo ricorda con maggiore tenerezza, l’unico in cui sia stato ‘un po’ felice’, una considerazione che la dice lunga sul carattere particolare di uno dei protagonisti di più di sessant’anni di storia del cinema italiano. La famiglia di Carlo Delle Piane era molto unita, si potrebbe pensare ad un tutt’uno intorno a un tavolo come sintesi della vita trascorsa insieme giorno dopo giorno. Il padre, Francesco detto Checco, era un abruzzese trapiantato a Roma. Veniva da Casoli di Atri, in provincia di Teramo, ed era sarto in casa, un mestiere di tutto rispetto. Non potendosi permettere un atelier o una bottega artigiana sul- la strada, Francesco riceveva i suoi clienti nel laboratorio che aveva attrezzato in una stanza della loro casa, un appartamento con un corridoio lunghissimo, ideale per compiere quelle stesse volate di Bartali, al Giro d’Italia o al Tour de France, che Carlo ascoltava alla radio. Sua madre Olga era una trasteverina purosangue, una di quelle donne che sapevano come mandare avanti una casa, a cui non oc- correva un registro delle entrate e delle uscite per far quadrare il bilancio e che aveva una sola mania, letale per Carlo: l’igiene spinta all’eccesso e concretizzata nelle ore che trascorreva con lo straccio e lo spolverino in mano. Olga Rossi era una di quelle donne che lucidava la casa a specchio. Trascorreva ore a smacchiare, spazzare, arieggiare, disinfettare e, per non farsi mancare nulla, anche nei rapporti più direttamente riconducibili alla sfera umana, non riu- sciva mai a sentirsi completamente a proprio agio. Il contatto fisico con le persone non rientrava nei suoi gesti abituali, anzi. Quello che poteva apparire come un segno di riservatezza, alla fine era solo l’enorme difficoltà di avere contatti che andassero al di là di quelli verbali. Mentre sua madre raffigurava la personificazione dell’ordine e

18 c i a k della disciplina, il padre, fantasioso e creativo, era l’artista, l’istrio- ne, l’attore consumato protagonista di gag surreali che facevano sbellicare dalle risate i tre figli complici di tanta apparente, incon- sapevole comicità. Una comicità che non perdeva mai il suo smalto anche quando il signor Checco Delle Piane, dovendo sobbarcarsi per intero l’onere di una famiglia nella quale tutti e tre i bambini andavano a scuola, era costretto ad accettare ogni lavoro che gli venisse offerto. Un abito, un cappotto, un paio di pantaloni, un tailleur, aggiu- statine di taglie, un rammendo ad arte, ogni cosa andava bene pur di incassare il denaro necessario a condurre un’esistenza senza grosse difficoltà e imbarazzanti patemi d’animo. Il problema era che, considerata la mole di lavoro, non sempre i tempi di consegna rispettavano quelli pattuiti. In quei momenti scattava per incanto, e per puro istinto di sopravvivenza, tutta la forza creativa e la sconfinata fantasia di Francesco Delle Piane, co- stretto a inventarsene di tutti i colori pur di non perdere i clienti e la loro fiducia. Esaurite le giustificazioni sulle partecipazioni ai fu- nerali di parenti di gradi diversi e di quelli acquisiti, amici, nemici e semplici conoscenti tanto da profilarsi una vera e propria moria di congiunti, al signor Checco non restava altro che interpretare il ruolo del “malato per l’occasione”. Un dito sano, ma fintamente rotto e rattoppato alla ben’e me- glio; una sforbiciata sulla mano destra poi una su quella sinistra, sempre finte, rese drammatiche da fasciature da film comico. Un gomito lussato, un polso ballerino, un’improvvisa artrite reumatoi- de alle dita, un moscerino in un occhio a causa del quale facevano la comparsa degli improbabili occhiali da sole, e tutta la serie di infortuni sul lavoro a cui un sarto poteva andare soggetto, fino al tocco finale da artista autentico e consumato: coliche insopportabi- li o febbroni da cavallo che lo costringevano a letto, amorevolmen- te assistito dagli stessi clienti. Quelli del padre di Carlo non possono essere definiti semplici escamotage, erano in realtà vere e proprie prove d’attore, perfor-

c i a k 19 mance supportate da una mimica di prim’ordine e da una dramma- ticità degna di Umberto Melnati. Checco era, insomma, il filmmaker della propria vita: aveva l’idea, elaborava il soggetto, la sceneggiatura, curava il set e i costu- mi, imbastiva i dialoghi, batteva il ciak e recitava la parte del ferito temporaneo, dell’ammalato dolorante, dell’infermo in preda a spa- smi incontrollabili. L’intensità della recitazione e lo stadio della malattia erano diret- tamente proporzionali ai ritardi della consegna dei lavori. Inarriva- bile. Questo il clima che si respirava all’interno della famiglia di Carlo Delle Piane, unito a una sana incoscienza che contribuiva a rendere il mondo fuori più accettabile di quanto in realtà non fosse. Il Natale e soprattutto la Befana erano le feste attese un anno e consumate lentamente aspettando i dolci e i giocattoli che avrebbe- ro fatto la loro comparsa, non senza che la perfida nonna materna avesse prima mostrato l’intero campionario di carbone destinato a presunti bambini cattivi. Durante le festività, la casa si riempiva di parenti e amici e le ta- volate sembravano quelle sterminate dei pranzi di nozze. Quindici persone affamate e assetate che mangiavano e bevevano, giocavano a carte e a tombola, erano gli ospiti fissi che ogni anno riempivano l’appartamento di voci, di canti, di battute spiritose e di storie di romanesca attualità. Per le feste, come diverse volte anche durante l’anno, il padre si sobbarcava il viaggio in corriera in Abruzzo da dove tornava con i polli, la farina, l’olio, le uova, le salse di pomodoro, tutte leccornie che davano un po’ di tregua alla fame durante la guerra, quando i pranzi, e soprattutto le cene, erano costituiti da quel poco che la signora Olga riusciva a procurarsi al mercato. Carlo porta con sé ancora oggi l’odore tipico del cibo della sua infanzia, quel caffelatte con le ciriole ripiene di ricotta che in casa non mancavano mai. E furono decisamente tante le cene passate ad inzuppare il pane e a godere del sapore divino della ricotta messa

20 c i a k nelle ciriole, così come a colazione le uova sbattute usate per rinvi- gorire bambini scapestrati e senza freni. I ragazzini del quartiere avevano trasformato uno spiazzo latera- le del Ministero di Grazia e Giustizia in campo di calcio e le mura di piazza Campo dei Fiori nell’appoggio per il “tre giù giù”, uno dei giochi preferiti dai bambini più intraprendenti insieme allo “schiaffo del soldato”. Quando c’era qualche soldo in tasca si poteva andare tutti insie- me al Modernissimo, un cinema a due sale vicino Piazza Colonna. Finito il film proiettato in una sala, i ragazzini sgattaiolavano, senza farsi vedere dalla maschera, nell’altra: due film al prezzo di uno ed il piacere immenso di aver turlupinato il becero persecutore di bambini innamorati del cinema, ma privi dei mezzi adeguati per goderselo appieno. Poi arrivavano l’estate, le vacanze e la partenza della famiglia Delle Piane per l’Abruzzo a casa di zia Erminia, una di quelle don- ne di provincia senza vezzi e senza grilli per la testa che badavano soprattutto alla sostanza e per nulla all’apparenza: un viaggio senza fine, a bordo di una corriera più simile alla diligenza diOmbre ros- se che a un pullman. Ma il travaglio sudato e nauseabondo del tra- gitto veniva splendidamente ripagato dalla meta ambita, dai giochi in libertà e dagli spazi in cui di automobili non c’era neppure l’om- bra, salvo qualche sporadica Topolino che percorreva scoppiettan- do strade non ancora asfaltate. Si entrava da subito a far parte di un mondo che era l’esatto con- trario di quello cittadino. Corse a non finire fino a che non era buio, giochi costruiti con le mani e destinati a durare l’intera stagione, pezzi di legno e qualche chiodo per cacciarsi in una avventura qualsiasi alla ricerca di tesori nascosti o della principessa da salvare lottando contro il drago. Con qualche principessa abruzzese Carlo inizia ad avvertire i primi battiti d’amore, entrando in competizione con gli altri ma- schietti per conquistare il cuore di una bambina con le trecce bion- de e gli occhi azzurri. Erano giochi destinati ad esaurirsi in mille

c i a k 21 sguardi, in parole che uscivano a fatica dalla bocca quando il con- tatto si faceva più stretto, e che terminavano la sera quando, spenta la luce della camera da letto, il corpo si chiudeva in un abbraccio che gli altri non avrebbero mai visto. Così il piccolo paese e soprattutto la campagna intorno diventa- vano, per pochi mesi, un regno fatato a portata di mano, in cui tutto era concesso e ogni scopo poteva essere facilmente raggiunto. A rendere unica quell’atmosfera provvedevano magnificamente il profumo del pane nel forno, la pasta ammassata, la coscia di pollo, il gusto dell’olio, il goccio di vino rubato ai parenti e quello per la messa, dolcissimo, sottratto al prete in canonica la domenica. Le giornate trascorse al ritmo dell’incosciente irrequietezza fini- vano però sempre nello stesso modo. Al rientro, ad attendere i gio- vani guerrieri, una tinozza enorme, inibente, difficile da scalare come la torre del castello appena conquistato. Minacciosi pezzi di sapone apparivano nelle mani di zia Erminia e degli altri parenti pronti a dare il via a una serie infinita di sevizie igieniche. Messi in ammollo, i bambini diventavano improvvisamente pu- ledri da strigliare, il sapone passava inesorabile dappertutto, scro- standoli dai chili di terra accumulati durante le conquiste inseguite lungo i polverosi sentieri di campagna. Terminata l’impresa, dei prodi cavalieri non rimaneva traccia, tornavano ad essere i piccoli di sempre, sapone negli occhi e bru- ciore di lacrime compresi. La fine dell’estate e l’inizio dell’autunno rappresentavano per Carlo un passaggio piuttosto traumatico non tanto per il ritorno a Roma, quanto per quello a scuola, un luogo ed un concetto da lui mai particolarmente amati. Il rapporto con la scuola era complesso, e non perché si sentisse a disagio in un’aula o con i suoi compagni. Era piuttosto la voglia completamente assente di studiare che lo frenava nel concedersi ai libri, al banco, all’inchiostro e al calama- io, alla lavagna e a quei gessetti utili solo a sporcarsi le mani. La

22 c i a k scelta dell’ultimo banco a destra era un modo per dire ‘io ci sono però mi faccio i fatti miei’. Parecchio irrequieto, non è dato di sapere se quella dell’ultimo banco fosse stata una sua libera scelta o l’esilio imposto da un ma- estro poco tollerante nei confronti di un disturbatore incallito sen- za futuro né prospettive. Purtroppo per lui, a casa aveva un esempio assai duro da imitare: Fulvio, il fratello più grande, campione nello studio e vincitore ver- gognosamente abituale di medaglie al merito scolastico. Francesco e Olga si guardavano bene dal rinfacciargli alcunché, ma a Carlo non potevano sfuggire gli sguardi soddisfatti dei suoi quando Fulvio tornava da scuola con l’ennesima medaglia conqui- stata sul campo della cultura e del sapere. Invece di mettersi a studiare per cercare di rendere i genitori orgogliosi anche di lui, Carlo scelse la strada più breve e meno fa- ticosa: appropriarsi indebitamente delle sudate onorificenze del fratello, quelle che la madre riponeva con cura in un cassetto. Così, anche la sua giacchetta iniziava a risplendere delle meda- glie vinte (da Fulvio) nelle discipline più diverse, tanto che tutti pensarono fosse diventato un genio. In italiano, storia, geografia, matematica, scienze e perfino in ginnastica e religione non aveva rivali, era indubbiamente il miglio- re e le medaglie stavano a testimoniarlo. Non andava granché fiero del suo comportamento ma la considerazione in cui i suoi genitori iniziavano a tenerlo lo appagava infinitamente. Anche questo gioco, però, durò poco a causa di un imperdona- bile errore. Una mattina Carlo sceglie di trafugare la medaglia di “primo del- la classe” del fratello, indubbiamente la più bella e la più prestigio- sa; la prende e la infila in tasca. È il giorno in cui a scuola consegna- no la pagella del secondo trimestre alla quale Carlo, come sempre, non dà neppure un’occhiata. Ma, tornato a casa con la medaglia al petto, dà la pagella al padre il quale, dopo averla letta, lo guarda con un’aria di commiserazione che ancora oggi è impressa nella

c i a k 23 memoria di un bambino colto con le mani nel sacco, un ricordo indelebile come l’inchiostro di china con il quale il maestro aveva scritto una sequela di quattro e di cinque sul suo diario scolastico. Quella pagella, così ricca di insufficienze, cozzava infatti terribil- mente con la medaglia ostentata con fierezza. Tutti rimangono in silenzio, compreso Carlo consapevole, forse per la prima volta, di quanto il silenzio valga più di una qualsiasi parola o di una qualche improponibile giustificazione. Di lì a poco, il primo giugno del 1944, gli americani sarebbero entrati a Roma e con loro la liberazione dai nazisti. Per le strade vola di tutto, sigarette, caramelle, cioccolata ed una novità assoluta, il chewing-gum. I tedeschi di guardia a Ponte Garibaldi sono scom- parsi e insieme a loro le mitragliatrici, l’aria che si respira sa di buono, nonostante i combattimenti che fino al giorno prima aveva- no insanguinato la periferia. La festa che ne segue dura giorni, ai bambini vengono distribu- iti dolciumi come non ne avevano mai visti in vita loro. Solo la scuola resta sempre al suo posto, inamovibile, inattaccabile, fiera di se stessa e del suo ruolo di dispensatrice di cultura nonostante i cambiamenti, nonostante siano scomparsi alcuni ritratti alle spalle della cattedra sostituiti prontamente con altri. Chi pensava che la fine della guerra si sarebbe portata appresso anche la fine della scuola rimase profondamente deluso, fra questi l’alunno Carlo Delle Piane. Assolutamente distratto quando si trattava di seguire una qual- siasi lezione, Carlo si risvegliava improvvisamente, colto dal raptus della geometria (calcistica), quando arrivava il momento di scende- re in campo per disputare una partita di pallone. Cominciò ad amare il calcio al pari del ciclismo e, con legittimo orgoglio, iniziò a giocare nei campionati studenteschi in un ruolo per quei tempi, e per quegli schemi tattici, fondamentale: l’ala destra. Faceva parte di una squadra, quella della sua classe, praticamen- te imbattibile, tanto da vincere la medaglia d’oro (vera, questa vol-

24 c i a k ta) nel torneo interclassi della Mastai. Carlo Delle Piane era un’ala destra velocissima. Scatto, dribbling, discesa sulla fascia e cross, un talento. Il calcio gli avrebbe effettivamente cambiato l’esistenza ma non perché la Roma si sarebbe interessata alle sue gesta d’atleta, più semplicemente perché gli diede quella faccia e quei connotati che lo portarono, due anni dopo, davanti a una macchina da presa. Sabato 26 ottobre 1946. Campo di calcio della Mastai. Pomerig- gio piovoso e terreno di gioco pesante. Spettatori sugli spalti: tre. Il pallone con cui le squadre si stanno affrontando è regolamen- tare, vero cuoio cucito a mano con tanto di punti visibili ed estre- mamente pericolosi, almeno per i colpitori di testa. Quei palloni avevano una particolarità di non poco conto: cosparsi di grasso, che serviva ad aumentarne la morbidezza, diventavano poco im- permeabili quando pioveva perché, rotolando sul terreno, lo strato tendeva ad assottigliarsi. La conseguenza era che il peso aumenta- va. E così avviene quel sabato, il giorno che cambia radicalmente la vita di Carlo Delle Piane. A centrocampo il mediano si accorge che Carlo ha iniziato la discesa sulla fascia e gli lancia la palla. Troppo lunga. Mentre cerca con tutta la velocità possibile di raggiungerla, vede materializzarsi davanti a sé la figura imponente del terzino della squadra avversaria che, non potendo fare altro, tenta di rinviare la palla sferrandole non un calcio poderoso, di più. Sarà stato il peso, sarà stato il rilancio sbagliato dal mastodonte, ma il pallone centra in pieno il viso di Carlo che non ha il tempo sufficiente a evitare un impatto devastante. Ed è subito notte. Carlo rinviene dopo pochi, lunghissimi minuti in cui, nella sua mente, era sfilata tutta la vita compresa la tinozza della zia Erminia. La frattura del setto nasale gli aveva causato una fortissima emor- ragia che, dalla faccia, aveva finito per impregnare tutta la magliet- ta di sangue. A quei tempi, per un bambino di dieci anni andare al Pronto Soccorso era un fatto inimmaginabile, e la stessa cosa dovettero

c i a k 25 pensare gli adulti al seguito della squadra. Carlo si avviò mesta- mente verso casa con il viso deformato ed un dolore che gli entrava dritto nel cervello. L’unico sollievo era l’acqua fresca con cui la madre gli umettava costantemente la faccia gonfia. Quando la mattina dopo si alzò dal letto e andò in bagno a lavar- si, scorse riflessa nello specchio l’immagine di un perfetto scono- sciuto e si voltò per vedere se qualcuno gli fosse arrivato silenziosa- mente alle spalle. Presto si rese conto che quel viso e quello schifo- so ammasso di carne che aveva al posto del naso erano i suoi. Sgra- nò gli occhi e pianse. Il Natale del 1946 fu un Natale importante, il primo della Re- pubblica. Il referendum del 2 giugno aveva deciso che il re, in Italia, aveva fatto il suo tempo e che da quel momento ai cittadini spettasse scegliere liberamente da chi essere governati. Agli elettori si aggiunsero le elettrici che vennero chiamate per la prima volta a votare. Fra queste anche la signora Olga, di cui Carlo ricorda l’emozione e la sorpresa per essere considerata al pari del marito, dei ricchi, dei nobili e dei poveri che, numerosi, popolava- no Roma. Seduto alla tradizionale tavolata di amici, parenti e conoscenti, un bambino diverso, con un volto differente e una voce che aveva assunto una insolita tonalità nasale. Era sempre lo stesso Carlo sca- tenato che si incupiva alla vista del carbone della nonna, ma in quella occasione gli sguardi degli ospiti gli fecero comprendere che qualcosa in lui era cambiato: era diventato un bambino decisamen- te brutto. Nonostante tutto, la sua vita procedeva scandita dai ritmi di sempre, dagli stessi giochi e dall’atteggiamento distratto e un poco assente che contraddistingueva le stanche e annoiate esibizioni sco- lastiche. Terminate senza infamia e senza lode le scuole elementari, Carlo inizia a frequentare la prima media senza modificare le sue conso- lidate abitudini di proprietario dell’ultimo banco in fondo a destra.

26 c i a k La raggiunta licenza elementare non era riuscita nell’impresa di responsabilizzarlo. Anzi, se possibile lo aveva convinto definitiva- mente del fatto che fra lui e la scuola i rapporti non potevano che peggiorare. Così, a dodici anni e con addosso la fama di irrequieto scansafatiche, accade l’impensabile. È il 1948. Una mattina di marzo si presentano nella sua classe tre signori vestiti elegantemente in giacca e cravatta. Cominciano a parlare fitto con il professore e tutti gli alunni pensano che siano tre funzionari del ministero incaricati di verificare la loro prepara- zione, sospetto che rischia di dimostrarsi fondato quando i presun- ti ispettori iniziano a chiamare uno ad uno i bambini, a porre loro alcune domande che, considerato l’imbarazzo dei suoi amici, Carlo scambia per interrogazioni. Consapevole del suo stato di impreparato cronico, cerca di na- scondersi e di mimetizzarsi tra i vecchi banchi di legno. Ma spor- gendosi leggermente in avanti per ascoltare meglio, viene notato da uno dei tre che, indicandolo, lo chiama. Colto di sorpresa, Car- lo si avvicina alla cattedra quasi barcollando ma si tranquillizza immediatamente quando si rende conto che quel signore vuole sa- pere solo il suo nome, dove abita, chi è suo padre e a cosa è solito giocare. Quel distinto gentiluomo gli spiega che stanno cercando dei bambini per girare un film; solo allora Carlo capisce che non sono ispettori scolastici, ma gente del cinematografo. Il film era Cuore, tratto dal libro di Edmondo De Amicis. Carlo fu invitato a fare un provino a Cinecittà il giorno dopo e la cosa lo inorgoglì moltissimo. Sulla strada di casa, al termine delle lezioni, si sentiva una via di mezzo fra e Buster Keaton, in quel momento il mondo intero gli sembrava a portata di mano e lui immaginava folle sterminate che lo circondavano per chiedergli l’autografo. Entrò in casa annunciando ai fratelli che avrebbe fatto l’attore, e il tono con cui lo disse era quello di chi ha già vinto un Oscar e si appresta a vincerne un secondo. Francesco e Olga guardarono il figlio convinti che stesse raccon-

c i a k 27 tando una storia simile a quella della medaglia per il primo della classe, ma stavolta era tutto vero. Il giorno dopo, di buon mattino, Francesco e Carlo Delle Piane presero il filobus diretti verso una Cinecittà ancora semidistrutta dai bombardamenti ma che, nonostante l’aspetto di un luogo in rovina, era pur sempre il regno del cinema, la fabbrica dei sogni all’italiana. Ad attendere la troupe di Cuore c’era un piccolo popolo di bam- bini. I tre falsi ispettori scolastici ne avevano scelti molti, conside- rato che avrebbero dovuto coprire una quarantina di ruoli. Il pro- vino fu il seguito della chiacchierata del giorno prima a scuola. Duilio Coletti, il regista del film, aveva la dote di saper trattare con i bambini: ci parlava, rideva con loro, li metteva a proprio agio come un parente o un amico particolarmente sensibile. Stavolta Carlo rispose alle domande guardando una cinepresa per nulla intimidito e comportandosi con una naturalezza tale che non ci furono più dubbi, anche se nella decisione di prenderlo in- cise non poco la conformazione del suo volto così simpaticamente imperfetto. Duilio Coletti e Vittorio De Sica conclusero che Carlo Delle Piane sarebbe stato Garoffi, il gaglioffo trafficante di bottoni e pennini che riusciva a procurarsi offrendo ai compagni compiti in classe in cambio degli oggetti da spacciare, ruolo che gli aprì le porte di una lunga carriera ancora tutta da vivere. Non sapendo assolutamente cosa fosse il cinema né davanti né dietro una cinepresa, non avendo la più pallida idea di cosa doves- se fare un attore, Carlo Delle Piane ricorda i suoi primi film come la più grande occasione, giustificata, per non andare a scuola, aspet- to assolutamente non trascurabile dato il suo rapporto con i libri. Al termine delle riprese, gli spazi fuori dagli studi di Cinecittà si trasformavano in campi di calcio dove quaranta bambini scatenati si riversavano per giocare a pallone in attesa di essere chiamati per girare un’altra scena, e non senza che i due adulti incaricati di fargli da tutori allungassero qualche ceffone per mantenere la disciplina. I due signori che usavano le mani al posto delle parole avevano

28 c i a k anche il compito di dare ai bambini il cestino per il pranzo. Accade- va spesso, considerato il periodo e la penuria di cibo a disposizione, che i piccoli attori dovessero accontentarsi solo del primo; il secon- do veniva fatto sparire per tempo dagli adulti che lo avrebbero ri- portato a casa per sfamare altre piccole bocche ed altre famiglie. Nessuno, dal regista ai tecnici ai colleghi attori, escluso il grande Vittorio De Sica, si preoccupava di insegnare ai bambini le battute: le leggevano ed erano pronti a recitarle, come fossero frasi normali con cui rivolgersi agli amici e non ad estranei. E dire che il cast di Cuore era composto da attori di primissimo piano. Oltre a Vittorio De Sica, il primo maestro di scena di Carlo, c’erano, infatti, Maria Mercader, Giorgio De Lullo, Guido Notari, Pina Piovani, Luciano De Ambrosis, tutti personaggi che Carlo aveva visto fino a quel momento solo sullo schermo del Modernissimo e che ora, fra una partita e l’altra di pallone, poteva ascoltare e vedere ad un passo da lui. Emozionato? Niente affatto. Aveva la consapevolezza dei giorni di scuola persi, di qualche soldo che miracolosamente aveva fatto la comparsa nelle sue ta- sche, e la coscienza di essere entrato solo in un bellissimo gioco destinato prima o poi a finire. L’ingresso nell’affascinante ed eccitante mondo del cinema ita- liano, in piena effervescenza dopo la fine della guerra, non turbò più di tanto Carlo. La sua vita non era cambiata in nulla e le sue giornate erano scandite dai ritmi di sempre: la sveglia, il bagno, la colazione, la scuola, il pranzo, i giochi, la cena, la notte. Cuore ebbe un grande successo di pubblico. A quei tempi il cinema era l’unico divertimento alla portata di tutti e la popolarità che ne derivava, pur non essendo paragonabile a quella dei divi americani, era comunque un segno di apprezza- mento da parte della gente. Dopo aver interpretato Garoffi, a Carlo capitava sempre più spesso di essere notato, guardato in modo strano, osservato mentre con i genitori si trovava a passare per stra- da o in chiesa durante la messa.

c i a k 29 Scrutandosi ogni mattina allo specchio, era convinto che lo guar- dassero più per il suo viso particolare che non per la piccola parte recitata nel film. Ancora oggi Carlo Delle Piane è convinto che il cinema non c’en- trasse nulla: a destare curiosità era proprio la sua particolare confor- mazione facciale, e questa era la ragione principale per cui il suo rapporto con il pubblico non fu all’inizio particolarmente caloroso. Non sapeva se la gente che lo fermava era contenta di vederlo o se, piuttosto, soddisfaceva una curiosità malevola, invidiosa, aggressiva. Non riuscendo a capire finiva per restare sulle sue, caratteristica che lo accompagnerà nel corso degli anni e contribuirà a crearne la fama di scorbutico che, in realtà, non gli appartiene. La prova d’attore di Carlo in Cuore piacque soprattutto a Vitto- rio De Sica che lo volle con sé in Domani è troppo tardi, un film che trattava di educazione sessuale, diretto da Leonide Moguilevsky in arte Moguy, nel quale si trovò a recitare, oltre che con lo stesso De Sica, con Anna Maria Pierangeli, Ave Ninchi e Lauro Gazzolo. Se Cuore poteva essere considerato un momento unico e irripe- tibile, la partecipazione a Domani è troppo tardi era la conferma che Carlo Delle Piane, nonostante il suo particolare aspetto fisico, bu- cava lo schermo. Ad un anno di distanza questa volta si era convinto che, forse, la gente guardava l’attore e non più il bambino dalla strana confor- mazione, e si sentì crescere di una spanna mentre l’Oscar era sem- pre più vicino, soprattutto di notte e dopo aver chiuso gli occhi. In Domani è troppo tardi, Carlo recita la prima frase lunga della sua storia cinematografica, inserita all’interno di un primo piano in cui appare con i libri sottobraccio, un cappellino bianco in testa e i pantaloni corti. I suoi compagni stavano discutendo su come na- scono i bambini e le ipotesi erano le più fantasiose, dalle bambole ai cavoli alle cicogne, nessuno riusciva a venire a capo di un inter- rogativo così complicato. «Ve lo dico io come nascono i bambini», diceva convinto Carlo. «Ho visto un film, ci sono un uomo e una donna, si guardano, si

30 c i a k baciano e diventa tutto nero. Quando ricompaiono il bambino è nato. Avete capito?» La curiosità nei confronti del sesso c’era davvero. Le domande su come avvenissero certi fatti erano molte e i bam- bini cercavano di avere spiegazioni ricorrendo a volte agli adulti del set. La presunta risposta era sempre la stessa omertosa frase: «Lo saprete, badate a crescere». Alla proiezione del film riservata al cast, Vittorio De Sica si se- dette vicino a lui e, dopo la scena in cui Carlo aveva spiegato la sua teoria sulla nascita dei bambini, gli chiese: «Quanti anni hai?» «Tredici». «Bravo, hai girato una scena perfetta. Naturale, spontanea e ar- moniosa. Hai delle grandi qualità d’attore. Se a tredici anni reciti in questo modo, avrai una carriera luminosa». In questo contesto, Carlo Delle Piane fu particolarmente colpito da una figura femminile: si chiamava Anna Maria Pierangeli ed era al suo debutto cinematografico. Lo colpì soprattutto per la presen- za ossessiva della madre sul set e fuori, il modo di fare altezzoso che aveva nei confronti degli altri attori, conseguenza dei consigli ma- terni e non di una sua libera scelta. Il fatto di interpretare la prota- gonista del film e di essere stata scelta fra tantissime aspiranti, era per la madre un motivo sufficiente per non farla confondere con i compagni di lavoro. E dire che Anna Maria Pierangeli avrebbe avuto una gran voglia di divertirsi come gli altri ragazzi, ma non le era consentito a causa della presenza di una mamma che la condizionava pesantemente. Anna Maria era costretta, insomma, a comportarsi da adulta, quan- do le sue esigenze e i suoi desideri sarebbero stati altri. Carlo Delle Piane è convinto che non si sia mai divertita in vita sua e che, in fondo, non sia mai stata giovane davvero. La rivide molti anni dopo, sposata con Armando Trovajoli, l’au- tore delle musiche di Rugantino. Aveva avuto la possibilità di in- contrarla ancora prima, al suo ritorno dall’America, quando dimo- strava di avere molti anni in più di quelli che in effetti aveva. La

c i a k 31 madre c’era sempre e rimase con lei fino all’ultimo, rendendo la figlia vittima e succube ed impedendole di essere una donna alle- gra, libera, felice, se non per un attimo, un istante, un flash. Nei tre anni che seguono Domani è troppo tardi, quello che do- veva essere solo un gioco si trasforma in qualcosa di diverso e deci- samente più importante. Carlo Delle Piane gira altri otto film.

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