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Biennale-Cinema ’08

PUPI AVATI: UNA CARRIERA FILMICA CON POCA MELODIA

Un ritratto critico del regista bolognese, la cui ultima pellicola, “Il papà di Giovanna”, ha partecipato alla Mostra veneziana, vincendo con il premio per il migliore attore protagonista. In quarant’anni di prolifico mestiere ha attraversato molti generi, dall’horror alla commedia grottesca o agrodolce, dai film storici in costume a quelli improntati alla musica jazz, sua grande passione. Più di recente, vedi “Il cuore altrove” e “La seconda notte di nozze”, si è concentrato sulle deformità della psiche e dell’anima, conseguendo, forse, i suoi risultati più maturi e convincenti.

****** di Ilenia Appicciafuoco

Giulio Ferroni, nel libro Storia della letteratura Italiana definisce il linguaggio di Italo Calvino, “lucido ed essenziale”, abile nel seguire “con la più stringente chiarezza gli aspetti oscuri e irrazionali dei comportamenti” e nel “voler ricondurre ogni aspetto dell’esperienza al controllo di una ragione incline ad eliminare ogni dato superfluo e ridondante”. Il passo appena citato, anche se riferito ad un esponente emblematico della letteratura italiana, potrebbe essere utilizzato, con le dovute differenze, per mettere in luce la semplicità stilistica e al contempo la potenza comunicativa del regista , appena reduce dal successo della Mostra del cinema di Venezia. Il suo ultimo film Il papà di Giovanna, non solo ha consentito a Silvio Orlando di ricevere il Leone d’Oro come il miglior attore seppur fra le consuete opinioni discordi, ma ha confermato la tesi secondo la quale il cinema italiano non sarebbe definitivamente morto grazie, soprattutto, al lavoro di cineasti come lui. Pupi Avati inizia la sua carriera di regista quarant’anni fa, nell’anno cruciale 1968, con il film Balsamus, l’uomo di Satana, un horror-splatter girato con un budget esiguo e distribuito solo nei cinema locali. La sua prima opera viene considerata un film di serie B ma, mentre negli anni settanta collabora alla sceneggiatura di Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975), realizza nel 1976 un horror che ancora oggi è un cult del cinema di genere. La casa dalle finestre che ridono, ambientato in un paesino della provincia di Ferrara, teatro di un inquietante rapporto incestuoso e sanguinario fra un pittore folle e le sue sorelle, vince, tre anni dopo la realizzazione, il Premio della Critica al Festival du Film Fantastique di Parigi. Il ritmo è fin troppo lento e forse povero di suspence ma il colpo di scena inconsueto e 2 il finale sospeso, nonché un utilizzo sapiente della macchina da presa, fanno intuire le ottime qualità di Avati anche alla critica nostrana. Sarebbe impossibile trattare in maniera completa ed esauriente dell’opera complessiva di questo prolifico regista che dal 1999 al 2008 ha realizzato ben nove pellicole che, sebbene non siano state salutate tutte come dei capolavori, testimoniano un impegno instancabile e un eclettismo comune a pochi registi italiani e stranieri. Pupi Avati, dopo aver iniziato con la produzione di film horror, grazie a film come Bordella del 1976 e ancor più Aiutami a sognare dell’81, molto lontane dal modello della commedia all’italiana in voga in quel periodo, dimostra di non volersi limitare ad esplorare un solo genere e di avere uno stile molto personale nell’inventare e soprattutto nel narrare storie. Molte opere dell’autore di Regalo di Natale, prima di diventare pellicole, sono nate come romanzi scritti dallo stesso Avati: fra questi ricordiamo Il nascondiglio, I cavalieri che fecero l’impresa, con Raoul Bova ed Edward Furlong, (romanzo storico sulle crociate che nello stesso anno di pubblicazione, il 2000, diventa un film non particolarmente esaltato da critica e pubblico) e Ma quando arrivano le ragazze? del 2004, la vicenda di due ventenni (interpretati da e Paolo Briguglia) accomunati dalla passione per la musica jazz e divisi da una donna. Pupi Avati affronta il tema del jazz, sua grande passione, anche in un’opera del 1991 Bix che narra le sfortunate vicende del jazzman bianco Leon Beiderbecke. Un’altra curiosa caratteristica del regista bolognese consiste in una sostanziale e progressiva diminuzione, nel corso degli anni, della presenza dell’io dell’autore nella sua opera. Se, agli inizi della loro carriera, perfino cineasti come Federico Fellini o Michelangelo Antonioni, hanno fatto in modo che la loro presenza dietro la macchina da presa non venisse sottolineata (ne Lo sceicco bianco del 1952, il tocco personale, lo stile particolare di Fellini si avvertono meno che in Giulietta degli spiriti del 1965), per poi arrivare a fare delle loro pellicole dei “ritratti” della loro ‘weltanschauung’, con risultati il più delle volte sublimi, Pupi Avati sembra percorrere il sentiero al contrario. Tuttavia, invece di impoverirsi, un suo film risulta immediatamente riconoscibile proprio per la presenza discreta dell’autore e la regia lenta ma sobria ed elegante. Guardando Il cuore altrove, o Regalo di Natale ci sembra di assistere ad una concatenazione di avvenimenti che accadono e basta e che sembrano svilupparsi da soli sotto ai nostri occhi. Pupi Avati ha una spiccata predilezione i luoghi lontani dalle grandi città, per l’Italia (o l’America: Fratelli e sorelle del 1992 con , Paola Quattrini e è ambientato a Saint Louis nel Missouri ed anche l’inquietante trama de Il nascondiglio, film del 2004 interpretato da Laura Morante, si snoda in una cittadina dell’Iowa) contadina e provinciale e per i tempi delle storie anteriori a quelli del racconto, visto che solo una piccola parte delle sue opere è ambientata nell’età contemporanea. Ha inoltre talento nel far interpretare ad attori comici personaggi drammatici: ricordiamo in particolare le prove di , Neri Marcorè e Antonio Albanese. Anche se il regista bolognese ha ben poco in comune con il suo corregionale Federico Fellini, un loro punto d’incontro consiste nell’utilizzo di attori dalle 3 caratteristiche fisiche inconsuete se non, in certi casi, al limite del grottesco, del deforme, e questa particolarità si evince soprattutto nelle prime opere: Balsamus, l’uomo di Satana ha come protagonista un nano, La Mazurka del Barone, della Santa e del Fico Fiorone, del ’74, uno zoppo, infine in Tutti defunti… tranne i morti, film del 1977 interpretato da due bravi attori “avatiani”, e Gianni Cavina, c’è una vastissima galleria di personaggi caricaturali. Se con il passare del tempo, inoltre, il gusto per le caricature sembra attenuarsi, ad uno sguardo più attento si può ipotizzare che, dal gusto per l’esibizione delle deformità del corpo, Avati si sia concentrato su quelle della psiche, dell’anima dell’uomo. Nel film del 2002 Il cuore altrove il bravissimo Neri Marcorè interpreta il ruolo di Nello Balocchi, un ragazzo di trentacinque anni mite, intelligente e abile nel suo lavoro, ma costretto in un’insicurezza, che rasenta la patologia, nell’affrontare la vita reale e le relazioni sentimentali; ne La seconda notte di nozze, toccante e struggente pellicola del 2005, Giordano Ricci (un magistrale Antonio Albanese) è un uomo dall’aspetto rude che smina i campi di Torre Canne, in Puglia. A causa di “certe malinconie passate a cui i medici non hanno saputo trovare rimedio neanche con la scossa”, viene considerato dagli abitanti del paese più sacrificabile di altri… alla fine del film le altre figure saranno messe sullo sfondo dalla spontaneità e l’intensità di questo personaggio. Non si può infine non parlare de Il papà di Giovanna, l’ultimo lungometraggio realizzato da Avati e interpretato da Silvio Orlando, Alba Rohrwacher, Francesca Neri ed Ezio Greggio, storia di un padre che dedica tutta la vita alla cura della figlia, rinchiusa in ospedale psichiatrico, per aver assassinato la sua migliore amica a rasoiate. Giovanna, bruttina e dal precario equilibrio psichico, si rifugia nel mondo di sogni e illusioni costruito per lei da Michele che non vuole guardare in faccia alla realtà e che non accetta che gli altri la considerino diversa. Alla storia principale fa da sfondo l’Italia degli anni del fascismo e della Seconda Guerra Mondiale e si snodano le vicende di altri personaggi, prima fra tutte quella dell’attrazione che lega la moglie di Michele, figura ambigua e ben interpretata da Francesca Neri, e del vicino di casa dei Casale, membro della polizia fascista, interpretato da un convincente Ezio Greggio. L’uomo di indole mite e generosa perderà la moglie in un bombardamento. Michele, da sempre consapevole dell’infatuazione fra sua moglie e il loro amico, accetterà di farsi da parte e favorire la loro unione e deciderà di trasferirsi in una casa più vicina all’ospedale psichiatrico. Se il padre, da sempre, aveva cercato di rendere Giovanna un’ottimista, sognatrice, renderla infine, simile a lui, si ritroverà ad assomigliarle, ad assumerne con serenità comportamenti, atteggiamenti, ad esprimersi con il suo stesso linguaggio. Pupi Avati ci riserva un finale delicato e pieno di speranza. L’ultima osservazione sulla poetica di questo regista emiliano ci porta a constatare come egli non ami porre troppo l’accento sul dolore dei personaggi e sulla drammaticità delle vicende che ci narra. Come il jazz Pupi Avati, nelle sue composizioni migliori, non mette mai “troppa melodia”. Si fa un gran parlare della morte del cinema italiano da ormai troppi anni ed è sorprendente che la nostra consueta esterofilia ci porti a ritenere che neanche la 4 ventennale carriera di un attore bravo e sottovalutato come Silvio Orlando meriti un riconoscimento. Tanti avrebbero preferito vedere la statuetta fra le mani del redivivo Mikey Rourke, altri definiscono Pupi Avati un regista che ha sfornato troppi lungometraggi di qualità scadente. È vero che non tutti i suoi film sono dei capolavori, ma è forse più vero che vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto non solo è triste, ma a lungo andare rischia di diventare anche scoraggiante per coloro che credono che il cinema italiano abbia ancora qualcosa da dire e che sperano che registi del calibro di Pupi Avati continuino a regalarci storie come quelle di Giordano Ricci e del papà di Giovanna.