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IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO ? UN NUOVO APPROCCIO

Di Massimo D’ANGELO

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Sommario Parte I ...... 4 UN PIANO MARSHALL PER L’IMMIGRAZIONE: UNA NOVITÀ, UNA SOLUZIONE, UN’ILLUSIONE O COS’ALTRO?...... 4 Un Piano Marshall per l’immigrazione è una novità? ...... 4 Chi propone un Piano Marshall per l’immigrazione? ...... 4 Obiettivo finale: riduzione dei flussi migratori ...... 6 Quando si potrebbe introdurre un Piano Marshall per l’immigrazione? ...... 6 Ogni tanto c’è qualcuno che chiede un Piano Marshall per l’aiuto ai paesi più poveri...... 7 Alcune domande di fondo ...... 9 I problemi di efficacia e di impatto dell’aiuto e un Piano Marshall per l’immigrazione ...... 11 NOTE ...... 12 Parte II ...... 12 UN’ANALISI CRITICA DELLE POLITICHE DI CONTENIMENTO DELL’IMMIGRAZIONE ...... 12 Le alternative ad un Piano Marshall per l’immigrazione ...... 13 Difesa della sicurezza nazionale, selettività e discriminazione nelle misure di contenimento .... 15 Sui centri di accoglienza, di detenzione e di espulsione per gli immigranti irregolari ...... 17 Altre restrizioni rilevanti per gli immigranti irregolari ...... 21 Le misure nei paesi “terzi” ...... 22 Uso e abuso degli strumenti di cooperazione e contenimento dell’immigrazione nei paesi “terzi” ...... 24 Le conseguenze delle misure di contenimento sulla condizione degli immigranti irregolari ...... 25 Il costo finanziario delle politiche di contenimento ...... 28 Sono i flussi migratori arrestabili con le misure di contenimento?...... 29 ______... 31 NOTE ...... 31 Parte III ...... 33 SULLA “CRIMINALIZZAZIONE” DEGLI IMMIGRANTI IRREGOLARI ...... 33 Dalla sicurezza nazionale alla criminalizzazione dell’immigrazione irregolare ...... 33 ‘Criminalizzazione’ formale e criminalizzazione ‘de facto’ dell’immigrazione irregolare ...... 35 L’immigrante irregolare come “pericolo sociale” ...... 36 La “criminalizzazione degli immigranti irregolari” ...... 37 Gli immigranti che commettono crimini e la criminalizzazione degli immigranti ...... 38 Chi ha ucciso il capo? ...... 40 Le evidenze statistiche: segni contraddittori...... 42 Distorsioni nel trattamento degli immigranti irregolari in sede giudiziaria...... 44 2

Fattori socio-economici, criminalità e immigrazione irregolare ...... 45 Immigrazione e traffico di droga ...... 47 I paesi coinvolti nel traffico della droga ...... 47 I gruppi criminali che sono coinvolti nel traffico della droga...... 48 Il legame tra gruppi criminali e comunità nazionali ...... 49 Immigranti come “corrieri” della droga ...... 50 Coinvolgimento degli immigranti nello spaccio della droga ...... 51 Criminalizzazione dell’immigrazione e lotta al terrorismo ...... 53 Diffusione del terrorismo e comunità nazionali ...... 53 Reclutamento internazionale di nuovi quadri terroristici ...... 54 Immigrazione e adesione alle reti terroristiche messi a confronto ...... 55 Immigrazione e analisi del rischio terroristico ...... 56 Politiche antiterroristiche e politiche d’immigrazione ...... 57 N O T E...... 58 Parte IV...... 60 LOTTA AL “TRAFFICO” DI IMMIGRANTI ...... 61 Sul terzo tentativo di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare ...... 61 Perseguendo chi organizza e facilita l’immigrazione irregolare ...... 62 Sugli “intermediari” dell’emigrazione ...... 63 Il costo del “servizio” di intermediazione per l’immigrazione ...... 66 Sulla repressione e prevenzione dell’attività criminale degli “intermediari” dell’immigrazione . 68 Lotta contro il traffico di migranti o contro il traffico di esseri umani?...... 69 Differenze e sovrapposizioni tra traffico di migranti e traffico di esseri umani ...... 71 Un doppio rischio ...... 73 Lotta contro il traffico di migranti ed esternalizzazione dei confini ...... 74 Il Mediterraneo: l’ultima barriera? ...... 75 Lotta contro il traffico di migranti e percezione del ruolo delle ONG ...... 78 Alcuni episodi sconcertanti ...... 81 Le “carovane” dall’Honduras ...... 83 Crimini contro i migranti...... 84 “Bandierine” nel deserto ...... 86 N O T E...... 88 Parte V...... 89 IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO ...... 90 La difficile difesa dei confini europei dall’immigrazione dal sud ...... 90 Alcuni dati quantitativi ...... 95 3

Le misure di controllo degli attraversamenti marittimi promosse dalle istituzioni europee ...... 99 L’esternalizzazione dei confini europei attraverso accordi con paesi terzi ...... 102 L’accordo euro-turco per un piano di azione sui rifugiati ...... 104 Problemi irrisolti e critiche all’accordo euro-turco ...... 107 L’azione dell’Unione Europea in Libia in materia di immigrazione...... 112 Le origini dell’esternalizzazione dei confini in Libia e l’avvento di riforme legislative sull’immigrazione ...... 114 L’esternalizzazione dei confini italiani in Libia dal Trattato di Bengasi all’accordo italo-libico del 2017 ...... 117 (a) Il Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione del 2008 ...... 117 (b) Gli accordi con il governo Monti del 2012 ...... 120 (c) Gli accordi con il governo Letta del 2013 ...... 122 (d) La fase intermedia durante la seconda guerra civile libica...... 123 Operazione Alba Libica ...... 125 Il caos istituzionale del 2014 ...... 126 La presenza dell’ISIS in Libia ...... 128 (e) L’accordo del 2017 con il governo Gentiloni ...... 130 Chi c’è dietro Fayez Mustafa Serraj? ...... 132 (f) Il piano sull’immigrazione del 2017 ed il decreto Minniti ...... 133 (g) Critiche ai recenti accordi bilaterali italo-libici...... 135 (i) Sui salvataggi ed i respingimenti in mare ...... 139 (j) I vuoti dell’accordo bilaterale del 2017 ...... 139 Il contestato ruolo delle ONG umanitarie nelle operazioni SAR ed esternalizzazione dei confini nel Mediterraneo centrale ...... 140 Sintesi del Codice di condotta del Ministero dell’Interno per le Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio in mare ...... 143 La radicalizzazione dell’esternalizzazione dei confini italiani con la chiusura dei porti italiani ai soccorsi nel Mediterraneo centrale: le novità della gestione Salvini ...... 145 L’Odissea dell’Aquarius ...... 147 Chiudiamo i porti anche alla guardia costiera italiana? ...... 151 L’esternalizzazione dei confini nella rotta occidentale del Mediterraneo ...... 154 Migrazione circolare tra Marocco e Spagna ...... 158 Un ruolo nuovo delle ONG: il caso di “Alarm Phone” ...... 160 Esternalizzazione dei confini in Marocco con il governo Sánchez: una svolta o continuità col passato? ...... 162 NOTE ...... 168

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Parte I

UN PIANO MARSHALL PER L’IMMIGRAZIONE: UNA NOVITÀ, UNA SOLUZIONE, UN’ILLUSIONE O COS’ALTRO?

Un Piano Marshall per l’immigrazione è una novità?

“Facciamo un Piano Marshall per aiutare gli immigranti a casa loro”. Sai che novità? Ho pensato istintivamente. Per me che mi sono sempre occupato professionalmente di aiuto allo sviluppo, questo richiamo al Piano Marshall come soluzione magica all’immigrazione dilagante dal sud del mondo suona come la scoperta dell’acqua calda: niente di nuovo. Sono anche molto perplesso, perché non credo che sia la risposta ai problemi dell’immigrazione. Ma mi rendo conto che debbo giustificare questa reazione. L’alternativa è più misure di respingimento (troppo inumane ed ingenerose per i sostenitori di politiche più aperte, oppure inutili, visto che gli immigrati trovano sempre il modo di penetrare le frontiere) o l’adozione, su vasta scala, di misure di accoglienza e di integrazione, che non sono molto popolari o elettoralmente spendibili. Infatti, anche gli elettori più moderati o meno ostili all’immigrazione, che magari rimangono inorriditi di fronte alle tragedie di immigrati affogati, sono reticenti ad estendere l’accoglienza (“mica possiamo farli entrare tutti!”). Per cui l’idea di un Piano Marshall per l’immigrazione appare una buona alternativa, un escamotage per attenuare le tensioni tra immigranti e cittadini, riducendo la pressione migratoria sempre più intensa, ed evitando il ricorso esclusivo al respingimento diretto. Lo slogan “aiutiamoli a casa loro” costa qualche milione di euro per finanziare programmi che permettano ai migranti di restare “a casa loro”, offrendo prospettive di lavoro nel paese di origine. La tesi è la seguente: meglio un programma di aiuti che affrontare costosi programmi di accoglienza e di integrazione per incontrollabili flussi migratori, anche se nessuno può assicurare che i soldi spesi nei programmi di aiuto produrranno risultati concreti sull’immigrazione, ma vale la pena rischiare, visti i benefici attesi (riduzione dei flussi migratori). Un Piano simile sarebbe un modo per “salvare capre e cavoli”: ridurre le frizioni causate dall’immigrazione dilagante e aiutare i potenziali emigranti (però a casa loro).

Il Piano, che non copre tutte le forme di immigrazione, ma solo quelle provenienti da paesi più fragili e con economie più povere, ha certamente un costo finanziario per il paese “donante”, ma la spesa sarebbe inferiore rispetto ai costi finanziari e politici di ondate massicce di immigranti.

Chi propone un Piano Marshall per l’immigrazione?

La proposta di un simile piano viene ripetuta da varie parti dello spettro politico, e riflette le opinioni di una certa parte della stampa[1] e dell’opinione pubblica, ed in particolare di:

(a) Coloro che vogliono “genuinamente” aiutare gli immigranti, ma intendono evitare loro le sofferenze per viaggi disagiati, traversate in imbarcazioni pericolanti e tante vite umane perse in 5 tragici naufragi. La soluzione starebbe nell’affrontare direttamente i fattori che spingono all’emigrazione. Meglio cercare di indurre le persone a non lasciare il proprio paese.

(b) Coloro che, pur proponendo assistenza agli immigranti e ai rifugiati e varie forme di accoglienza e di integrazione, pensano che sia urgente cominciare a risolvere i problemi dell’immigrazione alla fonte, anziché limitarsi a bloccare gli immigrati irregolari alle frontiere, sulle nostre spiagge, mentre varcano passi alpini o attraversano deserti o fiumi, o nascosti in TIR o nei treni, o salvarli dai naufragi.

(c) Coloro che vogliono difendere i confini “patri” dalle invasioni di etnie diverse provenienti da altre regioni geografiche (“bisogna fermare questi flussi, vere e proprie valanghe umane”), ma non se la sentono di enfatizzare solo i respingimenti, considerati spesso violenti e disumani, e politicamente “scorretti” (una cattiva immagine che li sottometterebbe alle critiche di chi difende i diritti umani). Meglio soluzioni più morbide, specialmente se producono lo stesso risultato (la riduzione dei flussi).

(d) O, semplicemente, coloro che non vogliono più essere disturbati dalle immagini degradanti di immigranti onnipresenti che vagolano nel territorio nazionale, che dormono sui marciapiedi, o davanti le nostre chiese, mendicanti all’uscita dei supermercati, valanghe di “voi cumprà” lungo le nostre spiagge o agli angoli delle strade. È molto meglio se spostiamo queste immagini di sofferenze umane altrove, a qualche migliaio di chilometri di distanza. Tutto sommato, “occhio non vede, cuore non duole”.

La proposta di un simile Piano non sostituisce le altre misure ma si aggiunge al ventaglio degli strumenti disponibili. Leggendo su La Repubblica del 19 gennaio 2018 la recensione del libro del sociologo Stefano Allievi, Immigrazione. Cambiare tutto (Edizione Laterza) – che verrà presentato il 9 febbraio (sto scrivendo il 23 gennaio 2018) – ho notato che anche lui suggerisce, tra le varie soluzioni, un Piano Marshall per l’immigrazione, ed il superamento della distinzione tra rifugiati ed immigrati economici. Un simile Piano Marshall può essere visto come un’alternativa all’eccessiva spesa pubblica per assistere gli immigrati in arrivo, ritenuta elettoralmente insostenibile. Alcune forze politiche considerano l’impiego di fondi pubblici per l’accoglienza agli immigrati come una ingiustizia: “Perché aiutare gli altri quando ci sono ancora tanti cittadini bisognosi che non riescono ad essere assistiti?” Ed in una sorta di “guerra tra poveri”, sostengono “prima i nostri cittadini e poi gli altri”. Un Piano Marshall per l’immigrazione sembrerebbe superare questa contrapposizione, per lo meno in parte. Alcune proposte fatte dal Presidente del Consiglio Gentiloni (e prima di lui, da Matteo Renzi) vanno in questa direzione, anche se il Ministro Minniti si è concentrato più sul respingimento e sugli accordi con la Libia ed altri paesi, ed il rafforzamento dei controlli di frontiera, pur appoggiando l’accoglienza in vario modo. A dire il vero, le posizioni di Minniti vanno in varie direzioni, appoggiando anche la riforma del c.d. Ius Soli, l’integrazione degli immigrati, e l’avvio di interventi come i “cordoni umanitari”. Peccato che chi propone un simile Piano Marshall non dedichi sufficiente spazio alla sua fattibilità, ai tempi necessari, alle sue difficoltà, e alla necessità di accettare che i flussi migratori continueranno ad arrivare con frequenze sostenute e con volumi elevati ancora per molti anni, se non per decenni.

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Obiettivo finale: riduzione dei flussi migratori

Se un Piano Marshall per l’immigrazione funzionasse, sostiene la teoria, si ridurrebbero gli arrivi degli immigranti irregolari, ma questa riduzione avverrebbe agendo alla fonte, nei paesi d’origine, grazie a grandiosi piani di sviluppo, che creerebbero nuovi sbocchi produttivi e occupazionali, o con investimenti mirati a rimuovere (o attenuare) le cause strutturali o contingenti che determinano l’emigrazione. Una versione diversa di questa proposta – a dire il vero meno pubblicizzata, forse volutamente, perché più ambigua (e l’ambiguità non sembra essere casuale) – potrebbe essere l’uso della cooperazione allo sviluppo solo come mezzo di scambio, sia con i paesi da cui provengono gli immigranti che con paesi “terzi” ove essi siano in transito, affinché le autorità di questi paesi adottino misure disincentivanti o repressive che riducano le fila degli immigranti irregolari che affollano i nostri paesi. L’effetto dei programmi di aiuto in tal caso non sarebbe una modifica della propensione ad emigrare, ma un incentivo per il paese che riceve gli aiuti a ostacolare l’emigrazione o a reprimerla. L’obiettivo finale, comunque, sarebbe sempre quello di diminuire il flusso quantitativo di immigranti irregolari. Questo sarebbe il criterio di successo del nuovo Piano Marshall, lo stesso obiettivo delle misure di contenimento ed in particolare del respingimento alle frontiere, sia nel caso che questo avvenga lungo i nostri confini o in acque internazionali o in paesi terzi.

Quando si potrebbe introdurre un Piano Marshall per l’immigrazione?

La proposta di un Piano Marshall per l’immigrazione potrebbe essere il leitmotiv di nuove politiche d’immigrazione per territori come l’Unione Europea o gli Stati Uniti, anche se non ho visto proposte serie su questo, salvo menzioni en passant fatte da Macron, Gentiloni e Merkel. Potrebbe essere l’oggetto di convenzioni o di riunioni internazionali come quella del novembre 2017 ad Abidjan tra l’Europa e l’Africa che ha affrontato il rimpatrio di migliaia di migranti che affollano i campi libici. Ma finora un simile Piano non è stato messo all’ordine del giorno di nessun tavolo di lavoro internazionale. È vero che ad Abidjan si è parlato di stanziamenti di decine di milioni di euro, ma nell’incontro non è stato concordato alcun piano globale, e solo Paolo Gentiloni si è espresso nettamente per una intensificazione dei programmi di aiuto. In contrasto, il dibattito si è concentrato su misure contingenti per il rimpatrio più o meno volontario degli emigranti o per la loro ridistribuzione dai campi libici ritenuti non idonei verso altri campi garantiti dall’UNHCR o altre organizzazioni, per il rispetto dei diritti umani dei migranti.

Abidjan poteva essere l’occasione per lanciare un Piano Marshall per l’immigrazione, ma non lo è stato. I paesi europei non hanno raggiunto una posizione comune per un’accoglienza sistematica e condivisa, né c’è accordo per una cooperazione massiccia con l’Africa per risolvere i problemi dell’immigrazione. Non so quanto realistica sia la possibilità di varare un simile Piano Marshall, specialmente dopo la decisione del dicembre 2017 dell’amministrazione Trump di tirarsi fuori dal patto delle Nazioni Unite sulla gestione della migrazione internazionale, il c.d. “Global Compact”. Quel patto, lanciato nel 2016 al summit straordinario sui rifugiati e sui migranti con lo scopo di concordare politiche di accoglienza degli emigranti e dei rifugiati e permettere “una migrazione sicura, ordinata e regolare”, dovrebbe produrre un programma entro il 2018. Potrà il “Global Compact” essere la base di un Piano Marshall per l’immigrazione? O solo l’occasione per concordare obiettivi più o meno scontati, ripetendo affermazioni retoriche? È difficile fare previsioni nel presente clima politico internazionale. 7

Ogni tanto c’è qualcuno che chiede un Piano Marshall per l’aiuto ai paesi più poveri

Perché ho reagito con l’espressione “sai che novità!” sentendo parlare di un Piano Marshall per l’immigrazione? Perché nella storia di più di mezzo secolo della “cooperazione internazionale allo sviluppo” c’è sempre qualcuno che, insoddisfatto dei risultati ottenuti, rilancia l’idea di lanciare un Piano Marshall per risolvere i problemi dei paesi emergenti, sostenendo che gli aiuti sono pochi o frammentati in rivoli insignificanti, incapaci di produrre un impatto decisivo. L’unica alternativa sarebbe un’iniezione massiccia di nuovi finanziamenti in grado di sostenere investimenti infrastrutturali e produttivi con un salto di qualità. L’idea perciò non è nuova. La novità semmai consisterebbe nel legare gli aiuti agli effetti auspicati sui flussi migratori, aspetto che finora non è stato di certo al centro di tali programmi. “Facciamo un nuovo Piano Marshall!” mi diceva un collega quando lavoravo in Mozambico negli anni ’80. Lui era insoddisfatto di come stessero andando le cose in Africa, con l’esplosione di guerre civili e con una povertà dilagante, e sosteneva che paradossalmente ci fosse sola un’alternativa: “either a Marshall Plan or the martial law” (o un Piano Marshall o la legge marziale), probabilmente pensando alle molte operazioni di peace-keeping necessarie per confrontare i conflitti sempre più frequenti. Ricordo che gli risposi allo stesso modo: guarda che non stai proponendo proprio niente di nuovo.

Quando l’aiuto allo sviluppo fu inventato negli anni ’50, tutti facevano riferimento ai precedenti del Piano Marshall lanciato dal Presidente Truman alla fine della seconda guerra mondiale per ricostruire i paesi dell’Europa occidentale. Quella fu la scusa per mobilitare ingenti stanziamenti di bilancio nei paesi ad economia più avanzata per aiutare i paesi emergenti, molti dei quali avrebbero acquisito la propria indipendenza nel corso degli anni ’60. Ma presto ci si rese conto che un meccanismo come il Piano Marshall non avrebbe funzionato con i paesi in via di sviluppo nello stesso modo in cui aveva prodotto risultati ragguardevoli in Europa, per le differenze sostanziali tra i due gruppi di paesi. La storia della cooperazione internazionale allo sviluppo ha mantenuto, però, un aspetto del Piano Marshall, stabilendo obiettivi quantitativi ambiziosi per garantire massicci flussi di aiuto ed esercitare, in tal modo, un impatto decisivo. Si cominciò a parlare dell’1% del PIL da dedicare all’ “aiuto” sin dalla prima UNCTAD negli anni ’60. L’Assemblea Generale dell’ONU lanciò i “decenni dello sviluppo” e identificò “obiettivi” quantitativi come lo 0,7% del PIL per l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo. Meccanismi di controllo come il DAC furono varati affinché i paesi “donatori” mantenessero i loro impegni.

Questi obiettivi quantitativi sono stati per lo più disattesi. Tuttavia, con l’arrivo del nuovo millennio, nuovi appelli li hanno riecheggiati, sottolineando la necessità di un “Big Push” nell’aiuto allo sviluppo per i paesi più poveri, invece di continuare a proporre modesti incrementi annuali. Frasi come “duplichiamo gli aiuti per l’Africa!” (raccomandati dalla Commissione Regionale per l’Africa delle Nazioni Unite all’inizio di questo millennio) o “produciamo un aumento massiccio di aiuti per miliardi di dollari per raggiungere gli obiettivi del Millennio”, son divenute frequenti. Per fare uscire i paesi a basso reddito dalla “trappola della povertà”, personaggi come Jeffrey Sachs[2] hanno proposto con insistenza un salto quantitativo degli investimenti necessari per migliorare la qualità del capitale umano (con interventi massicci nei settori della nutrizione, della sanità e dell’istruzione), o le infrastrutture di base (trasporti, servizi sanitari e reti idriche, equilibrio ambientale, politiche abitative) nei paesi più poveri, con miglioramenti sostanziali nella gestione della pubblica amministrazione. Tutto ciò richiede la combinazione di flussi massicci di risorse esterne ed incrementi significativi degli investimenti nazionali. Queste proposte richiamano l’idea di un nuovo Piano Marshall, e si basano sulla convinzione che solo attraverso un aumento sostanziale del volume di aiuti pubblici allo sviluppo si potrà fare un salto di qualità nel raggiungimento degli obiettivi ambiziosi di sviluppo stabiliti 8 per i paesi più poveri. Quindi la novità di un Piano Marshall per l’immigrazione non sarebbe tanto nel proporre un salto quantitativo negli aiuti ai paesi più poveri quanto nel legarlo ai suoi possibili effetti sui flussi migratori da quei paesi. Spesso, quando si parla di un Piano Marshall per l’immigrazione, si pensa ad un sostegno specialmente per i paesi africani, anche se l’immigrazione rilevante non proviene soltanto da quel continente. Ma, di nuovo, pensare ad un Piano Marshall per l’Africa non risulta di per sé una grande novità, anche se chi lo sta proponendo oggi sta pensando ai barconi dalla Libia o alle traversate nel Sahara. Ma il continente africano non è nuovo a massicci flussi di aiuto, specialmente di provenienza europea (tra gli altri “donatori” ci sono Stati Uniti, Giappone, Canada e, più di recente, la Cina). Gli aiuti europei verso l’Africa assunsero una ruolo significativo nelle convenzioni di Yaoundé e di Lomé a partire dal 1963 e si estesero fin oltre il secolo XX,[3] accompagnando inizialmente la decolonizzazione con ingenti risorse, ma i risultati non furono sempre soddisfacenti. Riusciranno questi nuovi interventi a superare le inefficienze dei passati programmi di aiuto verso l’Africa? Siamo sicuri che questo Piano Marshall per l’immigrazione non sia un modo per reagire a fenomeni di aid fatigue, o un modo per riproporre, sotto nuove vesti, vecchi schemi?

Cosa significa veramente proporre un Piano Marshall per l’immigrazione?

Non dimentichiamo che l’esperienza della cooperazione allo sviluppo finora ha trascurato i processi migratori nei paesi in cui interviene, considerandoli marginalmente. Spesso ci si è limitati a dare un contentino all’analisi dei flussi migratori con una nota a piè di pagina negli studi preliminari per paese. Quali speranze abbiamo che i paradigmi, le modalità ed i meccanismi della cooperazione internazionale saranno in grado di produrre effetti che incidano sui flussi migratori? C’è qualcuno, tra i proponenti del Piano Marshall per l’immigrazione, che ha speso un po’ di tempo per verificare se ed in che modo i programmi di cooperazione allo sviluppo sono collegati alla dinamica dell’emigrazione dai paesi riceventi aiuto? Altrimenti, c’è il rischio di trovarsi di fronte a qualche sorpresa e a qualche delusione. C’è chi sostiene che un Piano Marshall per l’immigrazione non dovrebbe assomigliare ai tradizionali programmi di cooperazione (forse ha sentito dire che a volte non funzionano), e propone qualcosa di diverso, con risultati più rapidi: nuovi piani di investimento che generino immediatamente posti di lavoro. Ma sostenere che ciò non abbia nulla a che vedere con la cooperazione internazionale allo sviluppo significa non sapere di cosa si stia parlando.

Queste nuove azioni, che si parli di investimenti produttivi o infrastrutturali, di generazione di nuovi posti di lavoro o di creazione di nuove condizioni strutturali che incidano sull’emigrazione, richiedono sempre operazioni tipiche della cooperazione internazionale allo sviluppo. Richiedono infatti notevoli mezzi finanziari e risorse umane, adeguata programmazione, analisi preliminari, studi di settore, soluzioni tecniche ed organizzative, lo sviluppo di capacità istituzionali, attività formative e addestramento professionale, migliori infrastrutture, maggiore accesso a servizi sociali essenziali, meccanismi di monitoraggio e di valutazione. È facile dire che per disincentivare l’emigrazione occorre superare gli ostacoli burocratici della cooperazione internazionale per produrre risultati più rapidi, ma la qualità dei risultati ottenuti dipende anche dall’aver compiuto queste attività con il dovuto rigore: lo sviluppo non è il risultato della bacchetta magica o della decisione miracolosa di qualche manager più sveglio che “mette su una fabbrichetta” in due giorni creando posti di lavoro dal nulla. Investimenti che producano risultati che incidano sulla propensione ad emigrare non si improvvisano, ma sono il risultato di un lavoro di concertazione e di dialogo, nonché di programmazione dello sviluppo. È questo ciò che fa la cooperazione allo sviluppo. Ma sono le tecniche di formulazione dei programmi d’aiuto attualmente in uso veramente in grado di garantire la “creazione di posti di lavoro” incidendo sulla propensione ad emigrare? L’effetto “job creation” non è nuovo nel vocabolario dell’aiuto, 9 ma finora è stato trattato in modo probabilmente inadeguato per assicurarne le implicazioni desiderate sulla propensione ad emigrare. Inoltre, può la riduzione dei flussi migratori essere un nuovo obiettivo per la cooperazione allo sviluppo? È questo obiettivo compatibile con gli obiettivi tradizionali che mirano alla crescita del benessere nei paesi beneficiari, tenendo conto della complessità dei processi di sviluppo e delle dinamiche migratorie (sia interne che internazionali)? Chi propone un Piano Marshall per l’immigrazione è consapevole di tutto ciò? Ha fatto queste verifiche con le agenzie di cooperazione prima di proporre un nuovo Piano?

Alcune domande di fondo

Ma pur ammettendo che sia plausibile aggiungere ai programmi di aiuto un requisito quale la riduzione della propensione ad emigrare, ci dobbiamo porre altre domande prima di abbracciare con ottimismo la prospettiva di un Piano Marshall per l’immigrazione:

• Quali sono i tempi di gestazione dei nuovi investimenti per incidere significativamente sulla propensione ad emigrare? Quanto tempo sarà necessario affinché essi producano un incremento significativo della domanda di lavoro o incidano sulle cause strutturali delle spinte migratorie? Qualche anno? E quanti anni? • Sono le persone potenzialmente interessate ai nuovi posti di lavoro le stesse che stanno dibattendo se emigrare o restare, oppure si tratta di gruppi sociali diversi? Che succede se i nuovi posti di lavoro sono creati in settori produttivi o in regioni geografiche diversi da quelli ove si concentrano i lavoratori che poi decidono di emigrare? • Le cause di fondo che generano flussi migratori non sono attribuibili solo all’andamento del mercato del lavoro, per cui la creazione di nuovi posti di lavoro non è l’unica variabile rilevante per decidere di non abbandonare il proprio paese. Ci sono altri fattori non legati alla congiuntura economica che spingono ad emigrare: o ragioni strutturali dello sviluppo (quali le distorsioni di una struttura dualistica dell’economia, trasformazioni di lungo periodo dell’economia, povertà dilagante), o fattori legati a motivi di sicurezza nazionale o personale; o fattori ambientali o climatici (cambiamenti climatici, siccità protratte, altre catastrofi naturali); o situazione politica interna, conflitti locali, guerre civili, criminalità e violenza diffusa, modo in cui la giustizia è amministrata e grado in cui lo stato di diritto è garantito; o tensioni tribali, oppressione etnica, contrasti religiosi o altre dinamiche politiche; o dinamiche familiari.[4] • Sarà il nuovo Piano Marshall per l’immigrazione in grado di incidere su tutti questi fattori per alterare le dinamiche migratorie? Quali garanzie abbiamo di poter raggiungere questi risultati in tempi ragionevolmente ridotti? E come misurare l’impatto di interventi su questi fattori in termini di emigrazione? • Più semplicemente, saranno i programmi di sviluppo che comporrebbero questo nuovo Piano Marshall per l’immigrazione in grado di dare risposte adeguate alle ansie di chi sta per decidere di partire? Non c’è forse il rischio che, mentre cerchiamo di varare un massiccio piano di interventi per lo sviluppo, l’emigrazione continui a manifestarsi in modo tutto sommato inalterato, nonostante le dimensioni dei nuovi programmi di aiuto? E a quel punto, cosa andremo a raccontare al grande pubblico? Che ci siamo sbagliati? Ed in tal caso, quale alternativa ci resta? Bloccare gli immigranti alla frontiera? 10

C’è poi un’altra questione tutt’altro che marginale. La cooperazione allo sviluppo, così come le politiche nazionali di sviluppo dei paesi che ne beneficiano, intendono in primo luogo promuovere crescita economica e progresso sociale. Nella misura in cui questi obiettivi fondamentali siano raggiunti, non è detto che il loro effetto netto sia una riduzione della propensione ad emigrare. Lo sviluppo non necessariamente riduce i flussi migratori, ma può addirittura aumentarli. Lo sviluppo spesso avviene attraverso ristrutturazioni economiche profonde e cambiamenti strutturali, che possono favorire, anziché ridurre, le spinte migratorie. Modificando, ad esempio, gli equilibri tra mondo rurale ed aree urbane, lo sviluppo può intensificare l’urbanizzazione e promuovere la crescita di nuovi settori produttivi, mentre altri settori vengono ridimensionati, così incentivando uno “spirito migratorio”. Infatti, questi cambiamenti possono favorire il rafforzamento del “desiderio di mobilità” di alcuni, incentivandoli a cercare nuove opportunità lavorative, o costringendoli verso altri settori produttivi, spingendoli in tal modo a cercare altre mete geografiche (interne o all’estero). Queste questioni sono centrali. Purtroppo, non possiamo contare su esperienze pilota lanciate in passato per avere qualche lume in materia. Navighiamo un po’ nel buio quando proponiamo disincentivi all’emigrazione nei paesi d’origine. Ne siamo consapevoli quando sosteniamo un Piano Marshall per l’immigrazione?

Chi si è occupato di cooperazione allo sviluppo sa che gli aiuti non producono risultati tangibili rapidamente, ma richiedono una presenza prolungata e persistente, una grande varietà di sforzi, larga partecipazione degli stakeholders, concomitanze di tanti fattori, rimozione di tanti ostacoli culturali e sociali, innovazioni istituzionali, sviluppo infrastrutturale, e accesso a servizi sociali. Il che ha lunghi tempi di maturazione, con orizzonti temporali spesso incompatibili con quelli troppo brevi imposti dalla finanza pubblica dell’aiuto. Né basta una pioggia di interventi a lunga durata per garantire buoni risultati. Lo sviluppo non è facile da raggiungere e non si improvvisa. Lo sviluppo è lento e complesso, e spesso contraddittorio: mentre riduce l’interesse ad emigrare di alcuni individui, può generare spinte migratorie in altri. Decidere a Bruxelles, a Roma o a Berlino di stanziare milioni di euro per lanciare programmi di aiuto non è poi tanto difficile. Produrre risultati nei paesi destinatari dell’aiuto con quegli stessi programmi e incidere sulle dinamiche migratorie, è tutto un altro discorso.

Infine, se l’aiuto allo sviluppo è utilizzato non per produrre un impatto diretto sull’emigrazione, modificando la dinamica sociale ed economica del paese ricevente, ma solo come merce di scambio per ricevere la collaborazione delle autorità nel contenimento dell’emigrazione con misure repressive, non credo che si possa più parlare di un Piano Marshall per l’immigrazione. Si tratta piuttosto di un espediente per avviare a distanza misure di contenimento dei flussi migratori, spesso repressive, da realizzare nei paesi d’origine degli emigranti o in paesi “terzi” ove gli emigranti sono in transito. La collaborazione richiesta può consistere nel sostenere misure di polizia più intense contro i “trafficanti” di migranti, maggiori controlli di frontiera, introduzione di modalità che limitino o rendano più difficile la concessione di passaporti d’espatrio, o elargizione di incentivi a non emigrare (offerte di lavoro, incentivi monetari, offerte di riqualificazione educativa o lavorativa, ecc.). Come puro mezzo di scambio, queste operazioni hanno scarsa possibilità di essere accettate nei paesi di origine, anche perché il diritto ad emigrare è ormai quasi universalmente riconosciuto, e non vedo come un governo sia facilmente disposto ad interferire sulle intenzioni di un suo cittadino a lasciare il proprio paese con metodi repressivi, se non compromettendo il rapporto fiduciario (se esiste, in un paese fragile) tra stato e cittadino. Né l’elargizione di eventuali incentivi a non emigrare è una misura che possa essere improvvisata per essere efficace e duratura. Pertanto, ci sarà ben poco interesse da parte delle autorità dei paesi di origine a intraprendere rapporti di collaborazione con il paese donante utilizzando gli aiuti come puro mezzo di scambio per contenere l’emigrazione. Quelle autorità potrebbero ancora 11 essere interessate a ricevere gli aiuti, ma non a condizionarli alla riduzione drastica dell’emigrazione con misure di contenimento. Il do ut des potrebbe non funzionare. Nel caso di paesi “terzi”, ove forse questo scambio potrebbe aver maggior senso, l’utilizzazione della cooperazione allo sviluppo come “merce di scambio” per ottenere la collaborazione delle autorità per accelerare operazioni di repressione dei traffici di migranti clandestini in transito si presta, però, a molte ambiguità, anche se può essere sostenuta da accordi bilaterali. Mi chiedo infatti per quale motivo si debba ricorrere all’uso della cooperazione allo sviluppo come merce di scambio, invece di utilizzare altri metodi: per esempio un contributo finanziario (come è stato fatto con la Turchia), o un accordo per sviluppare scambi commerciali, o la realizzazione di qualche progetto specifico di investimenti. Scomodare la cooperazione allo sviluppo per queste forme di baratto ne declassa la natura, e si presta a molte controversie per il fatto di utilizzare gli aiuti per scopi diversi dai loro obiettivi fondamentali. In ogni caso, non sembra che le autorità dei paesi “terzi” abbiano mostrato finora particolare interesse a questo tipo di “scambio”.

I problemi di efficacia e di impatto dell’aiuto e un Piano Marshall per l’immigrazione

Se fossimo onesti, dovremmo riconoscere che un Piano Marshall non è la soluzione magica ai problemi dell’immigrazione, né quella più facile, anche se i programmi di cooperazione potenzialmente potrebbero migliorare le condizioni di vita nei paesi che la ricevono. Questi miglioramenti potrebbero forse (ma non necessariamente) contribuire ad una qualche riduzione della pressione migratoria. L’adozione di un Piano Marshall per l’immigrazione potrebbe anche essere l’occasione per raffinare le modalità dei programmi di aiuto per renderli più “efficaci” e “rilevanti”, e così facendo attenuare i fattori strutturali che spingono ad emigrare. Pertanto, vale la pena incoraggiare o non ostacolare le proposte per un simile Piano Marshall. Però, dobbiamo essere allo stesso tempo consapevoli che tali programmi potrebbero produrre effetti nulli o negativi sui processi migratori. Chi propone la soluzione magica del Piano Marshall per l’immigrazione spesso ignora che per decenni c’è stata una polemica accanita[5] tra chi chiedeva un aumento sostanziale degli aiuti allo sviluppo e chi lo criticava perché non era la quantità ma la qualità della performance dell’aiuto che contava, o chi addirittura sosteneva una critica radicale all’aiuto allo sviluppo, che produrrebbe solamente sprechi, corruzione e distorsioni. Questo vale per l’aiuto allo sviluppo in generale, e ancor più per quello volto a scoraggiare la propensione ad emigrare, che complica ulteriormente il quadro del foreign aid. Non entriamo qui nel merito del dibattito sull’efficacia dell’aiuto. Tuttavia, possiamo facilmente ammettere, in ogni caso, che disporre di un incremento di mezzi finanziari per l’aiuto non garantisce in alcun modo il raggiungimento dei suoi obiettivi, se non siamo in grado di assicurare, allo stesso tempo, una più elevata qualità dei suoi programmi. La necessità di aumentare l’efficacia della cooperazione internazionale allo sviluppo ed il suo impatto economico e sociale è ormai riconosciuta a livello universale, ma è una lotta immane, che deve superare ostacoli di ogni natura, e richiede sforzi persistenti, determinatezza, e nuovi approcci. Tali problemi saranno ancora più seri se i programmi di aiuto saranno orientati a produrre effetti sulla variabile “emigrazione”.

Una parola di realismo ci suggerisce dunque che non dovremmo mettere tutte le nostre speranze nell’effetto “diretto” di questi programmi d’aiuto per incidere sulla dinamica migratoria. Coloro che vantano i pregi di questi programmi dovrebbero guardarsi dal fare discorsi puramente retorici, millantando un credito basato su risultati difficilmente dimostrabili, non disponendo ancora di sufficienti dati concreti che evidenzino la capacità dell’aiuto allo sviluppo di incidere sull’emigrazione. Se non altro, dovremmo per lo meno ammettere che i tempi di realizzazione di risultati tangibili sull’emigrazione sono probabilmente troppo lunghi per sperare di raggiungerli in tempi ragionevoli. Inoltre, potremmo scoprire (dopo aver speso ingenti risorse finanziarie) che 12 gli effetti sull’emigrazione siano tutto sommato molto modesti, o addirittura irrilevanti o, peggio ancora, addirittura contraddittori. Inoltre, un impegno massiccio per utilizzare la cooperazione internazionale allo sviluppo per alleviare la pressione migratoria non potrà avere alcun effetto significativo se non si assocerà a riforme sistematiche volte ad aumentarne l’efficacia e l’impatto. Sono consapevoli di tutto ciò i sostenitori di un Piano Marshall per l’immigrazione? O si limitano a fare dichiarazioni generiche sugli intenti di un simile Piano? Sono gli stessi governi impegnati a migliorare la qualità dell’ aiuto?[6]

Posso perciò concludere che l’idea di un Piano Marshall per l’immigrazione non sembra essere sostanzialmente in grado di produrre facilmente risultati soddisfacenti in termini di riduzione dei flussi migratori. Nella migliore delle ipotesi, il risultato, anche se positivo, sarà con ogni probabilità insufficiente a modificare la dinamica migratoria. Inoltre, conoscendo i tempi con cui i meccanismi di cooperazione internazionale allo sviluppo operano, c’è da aspettarsi risultati molto tardivi rispetto all’impellenza delle necessità. Pertanto, non credo sia prudente formulare una strategia per l’immigrazione puntando soltanto sui benefici di un tale Piano Marshall, anche se non escludo che possa essere utile vararlo per i suoi meriti intrinseci. In ogni caso, il suo apporto sarà soltanto un complemento ad altre iniziative, siano esse orientate al diretto contenimento dei flussi migratori o volte a perseguire una migliore accoglienza e integrazione degli immigranti. Farò un’analisi di queste altre iniziative nelle sezioni successive di questo saggio. Nel frattempo, mi limito a sottolineare che sperare di ridurre i flussi migratori (per ora l’unico criterio di successo che ho qui richiamato, e vedremo che non è l’unico) con massicci programmi di sviluppo nel paese d’origine degli immigrati può produrre risultati fortemente deludenti.

NOTE [1] Su La Repubblica del novembre del 2017 sono apparsi un paio di articoli che menzionavano esplicitamente l’idea di lanciare un ‘Piano Marshall’ per l’immigrazione. [2] Vedi ad esempio, Jeffrey D. Sachs (2005), The End of Poverty – Economic Possibilities for Our Time, Penguins Books, New York/London. [3] Nel 2000, la cooperazione europea delle convenzioni di Yaoundé e di Lomé è stata proseguita con l’accordo di Cotonou, che ha tuttavia registrato una riduzione dell’entusiasmo iniziale delle prime convenzioni. Le aspettative di grandi risultati associate alle prime convenzioni si sono gradualmente affievolite. [4] La rete di legami familiari tra chi è in procinto di emigrare e chi è già emigrato da lunga data o in data più recente, da un lato, e il proprio nucleo familiare d’origine, dall’altro, è essenziale per capire la dinamica delle emigrazioni. [5] Basta ricordare tra i tanti i due ottimi volumi pubblicati rispettivamente nel 1987 e nel 2007 da Roger C. Riddell, il primo Foreign Aid Reconsidered, ed il secondo col titolo Does Foreign Aid Really Work?, che sintetizzano l’evoluzione della cooperazione internazionale allo sviluppo ed il dibatto sulla sua efficacia. [6] Ricordiamo che l’Italia è attualmente uno degli ultimi donatori in termini di percentuale del PIL. C’è stato nel nostro paese uno sforzo sistematico per riformare il nostro aiuto e migliorarne l’efficacia? Sappiamo che in questi ultimi anni, con i problemi finanziari del fisco italiano, l’attenzione si è concentrata su tagli decisivi all’aiuto pubblico, anche se la cooperazione italiana può vantare qualche buon risultato aneddotico.

Parte II UN’ANALISI CRITICA DELLE POLITICHE DI CONTENIMENTO DELL’IMMIGRAZIONE 13

Le alternative ad un Piano Marshall per l’immigrazione

Nella prima parte di questo saggio ho esaminato la proposta di lanciare un Piano Marshall per l’immigrazione per risolvere il problema dei flussi massicci di immigranti provenienti dal sud del mondo. Riconosco che una simile proposta potrebbe avere i suoi pregi, portando benefici ai paesi in via di sviluppo destinatari di tali aiuti, di cui probabilmente hanno estremo bisogno. Ammetto che un Piano Marshall rappresenti anche un simbolo importante di solidarietà internazionale che verrebbe così rafforzata, e ciò non va assolutamente sottostimato. Tuttavia, un Piano di tal genere con ogni probabilità sarà inefficace, insufficiente o tardivo come risposta ai problemi odierni delle migrazioni internazionali.[1] Puntare tutte le nostre speranze su quel suggerimento potrebbe essere fonte di grande delusione. I flussi migratori potrebbero rimanere inalterati nel breve e nel medio periodo, qualunque sia il pacchetto di aiuti varati, ammesso (ma non concesso) che qualche riduzione dei flussi migratori sia conseguibile nel lungo periodo come conseguenza dei nuovi piani di aiuto.

A quel punto, quali alternative ci restano? Ci sono solo due altri tipi di politiche che conosciamo:

• politiche “difensive” di contenimento; e • politiche di accoglimento e di integrazione.

Le politiche del primo gruppo, basate sul principio della difesa della “sicurezza nazionale”, mirano direttamente a ridurre i flussi migratori, o a contenerne la dimensione, e includono l’adozione di tutta una serie di misure “restrittive” anche amministrative, volte a limitare la concessione del diritto di soggiorno, ma anche azioni repressive di ordine pubblico (comprese misure anti-terroristiche e di lotta alla criminalità) che limitano l’accesso al territorio nazionale a individui sospetti, proteggono le frontiere, e perseguono il respingimento degli immigranti irregolari, o il loro rimpatrio (volontario od obbligatorio), salvo poi concedere il diritto di asilo a chi può farne richiesta come rifugiato.

Le politiche del secondo gruppo hanno invece una impronta prevalentemente assistenziale e sociale. L’implementazione d’iniziative di accoglienza e di integrazione richiede un notevole impegno di istituzioni nazionali che forniscono servizi sociali essenziali e conta sull’appoggio, spesso cruciale, di organizzazioni non governative che impiegano, oltre a contributi pubblici, anche risorse proprie. Tuttavia, una politica di “integrazione” su larga scala è molto rara nella maggioranza dei paesi occidentali, anche se non mancano esempi importanti di applicazione di alcuni aspetti di questa politica. Più frequenti sono le misure di accoglienza di breve periodo (emergenza umanitaria).

Questi due gruppi di politiche non si presentano in forma sempre separata, spesso si combinano insieme, specialmente quando assistiamo a operazioni di salvataggio di profughi in mare od offriamo un’assistenza di primo intervento agli immigrati appena giunti nel paese, anche se azioni del secondo gruppo (comprese quelle di emergenza) hanno un peso molto scarso nei paesi ove prevale una forte opposizione all’immigrazione.

Esiste inoltre tutta una serie di misure che mirano a “regolamentare” i flussi migratori, cercando di “programmare” l’immigrazione, come quando vengono stabilite “quote” annuali per definire 14 il numero massimo d’immigrati che possono essere accolti. Queste “quote” possono essere considerate sia difensive, se volte a stabilire tetti massimi di flussi migratori ammissibili, oppure possono essere considerate addirittura come forme per promuovere l’immigrazione, se quei numeri sono degli “obiettivi” da raggiungere, flussi desiderabili d’immigrazione, che governi desiderosi di stimolare l’immigrazione intendono generare. Inutile dire che, recentemente, la prima interpretazione è stata prevalente, essendo le quote usate come soglie da non superare, vincoli per proteggere i lavoratori nazionali dalla eventuale concorrenza della manodopera straniera.

Esistono poi altre misure che non sono difensive di per sé, ma solo se inquadrate in un contesto di politiche in cui si evidenzia la finalità di contenere l’immigrazione. Questo è il caso in cui si persegua il passaggio da una certa forma di regolamentazione dell’immigrazione ad un’altra. Per esempio, offrire permessi di immigrazione stagionale di per sé non costituisce una misura difensiva, potendo essere addirittura una forma di apertura all’immigrazione, che incoraggia nuovi flussi di lavoratori stranieri per sopperire alla carenza di certe posizioni lavorative. Tuttavia, se la concessione di permessi stagionali viene promossa in sostituzione di permessi di soggiorno di più lunga durata, divengono misure difensive di contenimento.

I governi probabilmente preferiscono non caratterizzare le loro politiche di contenimento dell’immigrazione come “difensive”, presentandole in modo più positivo. Spesso le descrivono come mere forme di regolamentazione dell’immigrazione, per garantirne il normale funzionamento, in armonia con altre priorità nazionali e la protezione degli interessi dei lavoratori nazionali. Ma nel corso degli ultimi due decenni questo tipo di regolamentazione è stato sempre più orientato all’obiettivo di difendere la sicurezza nazionale, proteggere l’ordine pubblico, difendere il paese dalla criminalità, difendere i diritti dei lavoratori nazionali, e/o difendere i valori nazionali (qualunque sia la definizione che si attribuisca a questi “valori”).

E alla fin fine le misure difensive di contenimento dell’immigrazione intendono porre un limite massimo al numero di immigranti cui è permesso di entrare nel nostro paese o di restare per periodi prolungati, o per un periodo indeterminato. Questa finalità corrisponde allo stesso obiettivo di un Piano Marshall per l’immigrazione, ma le misure di contenimento perseguono lo stesso obiettivo in modo più diretto.

Giudicare il successo delle politiche d’immigrazione solo in base alla riduzione numerica degli immigranti è un modo distorto di concepire l’immigrazione e i suoi effetti, anche se i rappresentanti dei governi spesso citano statistiche di questo tipo per vantare i loro successi con l’immigrazione. Chiaramente questo criterio di successo non si applica alle politiche di accoglienza e d’integrazione, in quando esse non mirano a ridurre il flusso numerico ma sono addirittura compatibili con un suo aumento, in quanto considerano l’immigrazione non come un costo ma come un contributo positivo alla società e all’economia nazionale. Quindi, parlare di successo nelle politiche d’immigrazione e di riduzione dei flussi migratori non è necessariamente la stessa cosa.

Le misure di contenimento dell’immigrazione a disposizione dei governi destinatari possono essere classificate, a loro volta, in due tipi:

1. Azioni per la gestione dei flussi migratori nel territorio nazionale; e 2. Azioni che interessano migranti e rifugiati che ancora si trovano, in via temporanea, in paesi “terzi”, in attesa di raggiungere il paese di destinazione finale. 15

Le azioni del tipo a) riguardano sia gli immigranti regolari, dotati di permesso regolare di ingresso e di soggiorno, che gli immigranti irregolari. Questi ultimi includono:

• coloro che hanno attraversato la frontiera senza adeguata documentazione e sono perciò entrati non rispettando le regole per l’ingresso nel paese; • coloro che (pur se entrati con visti regolari) sono restati dopo la scadenza del loro permesso di soggiorno; • coloro che sono in procinto di “sbarcare” sul territorio nazionale con mezzi irregolari; e • coloro che sono stati “salvati” dal rischio di naufragio dalle nostre autorità marittime o da imbarcazioni private, incluse quelle di ONG, e che vengono portati sul territorio nazionale.

Tra di essi ci sono anche coloro che intendono chiedere “asilo” (potenzialmente dei rifugiati, anche se tale stato non è stato ancora sancito). Nelle azioni del tipo a) includiamo anche le politiche di accoglienza per i rifugiati che hanno già visto riconosciuto il proprio diritto di asilo, i quali – dopo che la loro domanda di asilo è stata accettata – rientrano tra gli immigranti regolari.

Per quanto riguarda le azioni del tipo b), ricordiamo che la “temporaneità” di questi soggiorni nei paesi “terzi” è relativa, visto che queste permanenze transitorie possono durare anni, prendendo la forma di insediamenti semi-permanenti (basti pensare ai campi profughi per palestinesi, ove generazioni di rifugiati nati e cresciuti in paesi “terzi” si sono succedute per decenni).

Difesa della sicurezza nazionale, selettività e discriminazione nelle misure di contenimento

Non ho intenzione di esaminare in dettaglio le misure di contenimento. Rinvio all’abbondante letteratura sul tema.[2] Mi limiterò qui ad un esame sommario di alcuni aspetti,[3] cominciando dalle misure del tipo a), cioè quelle che riguardano i flussi migratori nel territorio nazionale del paese di destinazione finale. Tali misure includono, fra gli altri, tanti atti amministrativi con cui siamo molto familiarizzati compiuti dalla polizia di frontiera, dagli uffici consolari, o da altri uffici competenti. Sul piano formale, molte di queste misure appaiono come innocui atti di ordinaria amministrazione. “Regolano” flussi migratori con semplici controlli di polizia, verificano lo stato legale degli immigranti ai punti di frontiera, concedono visti d’entrata, permessi di lavoro e di soggiorno, salvo concedere l’asilo ai rifugiati che ne facciano richiesta. Includono il normale pattugliamento delle linee di confine e delle coste. Niente di straordinario, apparentemente. Che c’è di strano in tutto questo? Al di là delle apparenze, però, queste misure “ordinarie” sono dominate dalla preoccupazione costante di garantire la sicurezza nazionale, includendo a volte vere e proprie operazioni di respingimento e di repressione, e questa circostanza non va trascurata.

Questa preoccupazione ci aiuta a capire perché la concessione di visti di entrata o dei permessi di soggiorno, i loro rinnovi, la loro estensione a famigliari[4] dell’immigrato siano fondati su criteri tanto rigidi, selettivi, spesso molto discrezionali, e a volte discriminatori per definire lo stato di immigrato regolare, mentre misure severe e repressive vengono riservate agli immigranti irregolari. Questa selettività a volte riflette “preferenze” esplicite, che favoriscono immigrati provenienti da certi stati, o con certe caratteristiche professionali (immigrati ad elevata qualificazione rispetto ai lavoratori manuali). Se guardiamo con maggiore attenzione, però, la differenza tra “preferenze” e “discriminazioni” nello stabilire criteri per concedere questi visti e permessi è spesso minima.[5] 16

Il fatto è che l’ordinarietà di queste misure è solo apparente. La concessione di visti d’ingresso e dei permessi di soggiorno è funzionale all’obiettivo di ridurre massicciamente il flusso in entrata degli immigranti in generale, e di quelli dal sud del mondo in particolare, eccetto offrire una scappatoia legale ai c.d. rifugiati. Molti amministratori pubblici che gestiscono questi atti amministrativi potranno dissentire da questa caratterizzazione, sottolineando che si tratta di misure dirette solo a provvedere un quadro legale e normalizzato che ha favorito, tra l’altro, l’ingresso a migliaia di immigranti. Probabilmente sosterranno che la selettività è giustificata da motivi di tutela dell’ordine pubblico: così si evita l’entrata a criminali che hanno legami con reti pericolose. Proteggere il proprio paese da questi rischi può ben giustificare l’introduzione di un po’ di selettività.

Tuttavia, trovo difficile giustificare tutte le forme di controllo e di selettività sulla base di queste normali considerazioni di sicurezza, quando vedo quanto difficile sia per le masse di emigranti dal sud del mondo entrare “regolarmente” nei paesi occidentali: quanti ostacoli debbono superare, quante lunghe attese, quante incertezze, e quanti rifiuti, rispetto alla capacità relativamente facile di una persona proveniente da un paese occidentale a emigrare in qualsiasi paese di sua scelta. Non è questa discriminazione?

Ci sono molti modi per spiegare questa discriminazione. Non c’è dubbio che ci siano minori controlli e divieti per gli immigranti provenienti dai paesi sviluppati. Quante volte non sono richiesti visti turistici ai viaggiatori provenienti dai paesi industrializzati? O i visti turistici sono concessi agli stessi viaggiatori con estrema facilità? Certamente, quando si tratta di visti d’ingresso per immigrazione, vi possono essere delle restrizioni che si applicano a tutti. Vengono richiesti requisiti standard, come l’evidenza di offerte di lavoro, l’accertamento di qualifiche accademiche o professionali, l’accertamento dell’intenzione dell’immigrante di voler fare investimenti nel paese ospitante (a volte basta comprare una casa), o di possedere adeguati mezzi di sostentamento (livello di reddito o di ricchezza personale). Altri controlli possono essere richiesti, come attestati di non aver commesso atti criminali, o addirittura non aver infranto leggi finanziarie e fiscali. Ma normalmente gli immigranti dai paesi occidentali non incontrano particolari difficoltà a soddisfare questi requisiti. Gli emigranti dall’est europeo spesso sembrano aver goduto di un’analoga situazione preferenziale, data la facilità con cui hanno ottenuto il permesso di emigrare nei paesi occidentali. Certamente, anche molti immigranti dai paesi in via di sviluppo riescono a godere di questi stessi “percorsi” preferenziali, se hanno analoghe qualifiche professionali – dopo tutto non c’è il fenomeno della “fuga di cervelli”? – o offrono analoghe garanzie economiche (se appartengono a élites sociali del proprio paese).

I paesi occidentali d’immigrazione hanno tutta una varietà di visti da offrire a questi potenziali immigrati preferenziali e sufficiente discrezionalità nel concederli, che invece non sono accessibili generalmente agli immigrati non qualificati, manovalanza a basso livello di specializzazione, che è il tipo di immigrato che più frequentemente viene dal sud del mondo. Per questo i criteri di concessione di visti di ingresso risultano essere fortemente discriminatori a danno dei paesi in via di sviluppo, specialmente i più poveri e i più fragili e per migranti a bassa qualificazione.

Queste costrizioni a volte dipendono dall’applicazione di “quote nazionali” (non sempre molto trasparenti), che impongono un tetto al numero massimo di immigrati che possono essere ammessi da alcuni paesi ad elevati livelli di emigrazione. Ma dopo il “9/11”, si ha l’impressione che la porta si sia fortemente socchiusa per molti immigranti provenienti dai paesi del sud, specialmente per entrare in paesi come gli Stati Uniti ma, in qualche misura, anche in altri paesi occidentali, vista la preoccupazione di evitare il rischio di concedere il visto d’immigrazione a 17 persone collegate con il terrorismo internazionale o con la criminalità internazionale. Ciò si applica facilmente a chi viene da regioni affette da intensa instabilità politica, conflitti interni, guerre civili, lotte tribali, diffuse condizioni di criminalità e violenza e, per estensione, anche per chi viene da paesi considerati più vulnerabili, affetti da grosse calamità naturali che sconvolgono il funzionamento dell’economia, con estesa povertà, gravi carenze alimentari, e collasso delle condizioni ambientali. A tutti costoro si applica la moltiplicazione di controlli preliminari e istruttorie prolungate dal risultato incerto prima di aprire la porta d’ingresso.

In alcuni paesi d’accoglienza, tuttavia, vengono concessi visti d’ingresso anche a immigranti non specializzati, a volte con visti stagionali o permessi di soggiorno temporanei (“guest workers”), specialmente se ciò risponde alla necessità di rispondere ad una precisa domanda di lavoro che può essere soddisfatta solo con accesso a manodopera straniera.

Concludendo, per gli immigranti dal sud del mondo sembra che le maglie dei filtri posti dalle politiche di contenimento siano sempre più fitte. A loro si applicano misure sempre più severe per la concessione del diritto ad immigrare. Per questo, a questi immigranti, di fronte alla difficoltà di ottenere regolari visti d’immigrazione, spesso non resta che un’alternativa: l’immigrazione irregolare. Accettando questa alternativa, essi si assumono, però, tutta una serie di conseguenze, i rischi di un percorso pericoloso e faticoso, che si confronta con misure estreme di respingimento. Il rischio maggiore è quello di essere immediatamente deportati oppure, se colti in fragrante nel traversamento irregolare della frontiera, quello di essere detenuti, restando in attesa di rimpatrio per un periodo prolungato, magari sperando di poter fuggire per partire per un altro paese. L’unica speranza per costoro è la chance di essere riconosciuti come rifugiati, se presentano domanda d’asilo, oppure la concessione di una qualche sanatoria che ne legittimi la posizione.

Sui centri di accoglienza, di detenzione e di espulsione per gli immigranti irregolari

Esaminiamo ora le misure di contenimento che riguardano gli immigranti irregolari. La natura difensiva di queste misure è la conseguenza inevitabile dell’attenzione primaria data alla difesa della sicurezza nazionale in materia d’immigrazione È sintomatico che le autorità competenti in materia di immigrazione non siano dicasteri di sviluppo sociale, o il ministero degli esteri, o il ministero del lavoro, o dicasteri economici, o enti assistenziali (incaricati dell’assistenza sanitaria, educativa, alimentare, culturale, o altra area sociale), ma enti competenti per l’ordine pubblico, che si occupano normalmente di furti o omicidi, di difesa delle frontiere, di lotta alla criminalità e al terrorismo, di arresti e di deportazioni forzate, e di indagini investigative su individui sospettati di reati.

Negli Stati Uniti è il “Dipartimento di Homeland Security” (DHL), creato dopo l’attentato alle Torre Gemelle, lo stesso ente incaricato di proteggere il paese dal terrorismo internazionale, a coordinare tutta la materia dell’immigrazione, sia regolare che irregolare. Per “difendersi” dall’immigrazione irregolare, il DHL opera maggiormente attraverso l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), agenzia federale che ha il mandato specifico di condurre attività investigative riguardanti i crimini legati all’immigrazione nonché gestire la detenzione e la 18 deportazione degli immigranti irregolari.[6] In Italia, è il Ministero degli Interni ad essere competente in materia d’immigrazione, a volte coadiuvato anche dal Ministero della Difesa (in particolare dalla Marina Militare), anche se nella storia italiana della politica d’immigrazione non sono mancate collaborazioni con altri ministeri, a maggiore orientamento sociale.

Le misure di contenimento di queste istituzioni puntano spesso sul respingimento, e frequentemente sono vere e proprie misure di repressione, quando riguardano l’immigrazione irregolare, anche se possono varare (a margine e non sempre) anche azioni di soccorso e di assistenza a favore degli immigranti irregolari con cui vengono a contatto.

A meno che gli immigranti non siano stati già respinti prima di varcare il confine evitando l’ingresso nel paese, le misure più simboliche di questo tipo sono le procedure di arresto e di detenzione cui sono sottoposti gli immigranti irregolari quando si presentano alle autorità di confine, se lo attraversano senza adeguata documentazione, o se sono fermati dopo aver attraversato “clandestinamente” la frontiera. Chiaramente si tratta di immigranti che hanno infranto le leggi nazionali, ma c’è una notevole differenza tra infrazioni di tipo amministrativo o di diritto civile, e infrazioni di diritto penale (crimine). Nonostante questa distinzione, i paesi destinatari si riservano il diritto di procedere all’arresto e alla deportazione forzata (salvo il rimpatrio volontario), sempre che non venga loro concesso il permesso di soggiorno o il diritto all’asilo. Tuttavia, anche in paesi come gli USA, ove l’immigrazione irregolare non è mai stata un crimine, il modo di gestire queste operazioni può essere talmente repressivo da rendere la differenza tra infrazioni amministrative e infrazioni penali puramente semantica.

Gli immigranti irregolari in Italia sono spesso chiamati clandestini, termine che, volenti o nolenti, attribuisce una connotazione criminale anche se il nostro sistema giuridico sembra essere ritornato ad una impostazione ove prevale l’idea che il soggiorno come immigrante irregolare rappresenti soltanto una infrazione amministrativa.[7] Sembra strano, tuttavia, parlare di criminalizzazione degli immigranti clandestini quando stiamo trattando semplicemente di gente che fugge dal proprio paese per fame, per paura o per sopravvivere. Sta di fatto che l’attraversamento della frontiera senza adeguati documenti è spesso trattato alla stessa tregua di un grave crimine, del contrabbando o addirittura di attentati terroristici, e represso con lo stesso vigore e rigore, nonostante alcune autorità di governo raccomandino a volte l’adozione di approcci ‘più umani’ meno coercitivi nel gestire queste situazioni.

A queste misure coercitive di tipo detentivo, si aggiungono le misure di difesa dei confini per prevenire l’arrivo di immigranti irregolari, condotte spesso con sforzi che si assomigliano ad operazioni di difesa militare. Altre simili misure sono adottate per l’identificazione di questi immigranti quando già si trovino dispersi in territorio nazionale, con tutta una serie di attività investigative tese a scoprirne la presenza. In alcuni paesi non è raro assistere a vere e proprie retate compiute dalle forze dell’ordine per assicurarsi l’individuazione più amplia possibile di immigranti in condizioni illegali, assicurarne la cattura, accertarne la condizione illegale e intensificare i processi di espulsione. Metodologie sempre più sofisticate vengono adottate in queste operazioni, anche grazie all’introduzione di moderne tecnologie biometriche ed elettroniche applicate lungo le frontiere, e grazie anche all’impiego ingente di forze dell’ordine, all’uso massiccio di mezzi di trasporto (anche elicotteri) e di altre complesse attrezzature che forse meriterebbero miglior uso in altri settori. Naturalmente questi approcci variano da un paese all’altro.

In un paese come gli Stati Uniti, gli immigranti irregolari arrestati sono inviati in “centri di detenzione” (vere e proprie carceri, salvo non averne la designazione formale), ove rimangono 19 senza alcuna libertà di uscita in attesa della deportazione obbligatoria.[8] Oppure possono essere rilasciati in via provvisoria, subendo però l’umiliazione di un braccialetto elettronico alla caviglia (in gergo si chiama “shackle”, catena, a memento delle catene degli schiavi), quando il loro stato di detenzione viene sospeso. Ciò avviene quando ci siano ragioni fondate per non temere la fuga immediata dell’immigrato, e se l’immigrato è in attesa dell’udienza in tribunale che deciderà sul rimpatrio obbligatorio o sulla concessione dell’asilo. La gestione dei “centri di detenzione” è affidata a enti privati, che hanno un aperto conflitto d’interesse che tende i a massimizzare il periodo di detenzione, con possibili abusi, visto che i detenuti non hanno diritto a difensori legali d’ufficio. Gli immigranti temporaneamente rilasciati dai “centri di detenzione” sono sottoposti all’obbligo di presentarsi a controlli periodici, simili a quelli usati per criminali in libertà provvisoria, presso centri di monitoraggio (affidati a enti privati), noti come ISAP. [9] Il mancato rispetto di questi controlli comporta il rischio di immediata espulsione.

Negli Stati Uniti, l’applicazione di queste misure difensive vede due attori principali: i tribunali per l’immigrazione, che dipendono direttamente dal “Dipartimento di Giustizia”, e l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), forza dell’ordine dipendente direttamente dal “Dipartimento di Homeland Security” (DHL). I tribunali per l’immigrazione hanno giurisdizione assoluta sugli immigranti irregolari, e discutono il merito in materia di espulsione dal paese o la concessione di eventuale asilo. I convocati possono essere difesi da avvocati, ma non hanno diritto ad un difensore d’ufficio, e sono spesso costretti a difendersi di persona, senza alcuna conoscenza del sistema giuridico. L’ICE ha molta discrezionalità operativa per accelerare le espulsioni, potendo adottare procedure sommarie per deportazioni rapide, a volte infrangendo i diritti di chi avrebbero potuto richiedere asilo.

In altri paesi non necessariamente parliamo di “centri di detenzione”, anche se gli immigranti irregolari possono ugualmente essere sottoposti ad arresto e detenzione sotto il controllo delle forze di sicurezza. Varie forme di “centri di accoglienza” esistono, con diverse forme di restrizione alla libertà personale e con strutture molto difformi, che includono tendopoli, campi profughi, strutture alberghiere convenzionate, o altre soluzioni logistiche temporanee.

Nei paesi europei è frequente trovare anche accampamenti spontanei di profughi, ove nessuna assistenza pubblica è offerta, se non quella eventuale (talvolta ostacolata) delle ONG. In questi campi improvvisati, da ove i profughi sono liberi di uscire quando vogliono, la repressione avviene quando le autorità ostacolano l’arrivo di soccorsi umanitari, od ordinano lo smantellamento forzato delle strutture con l’impiego di forze dell’ordine. Queste operazioni repressive possono essere giustificate dalla fragilità fisica di queste strutture, dal loro cattivo stato sanitario, da motivi di pubblica sicurezza, o dalla vicinanza a punti sensibili (per es. gli accampamenti presso Calais in Francia, vicini al punto d’imbarco per la Gran Bretagna). La chiusura di queste strutture può avvenire con forme varie di coercizione.

In Italia, a partire dalla riforma Turco-Napolitano del 1998, sono stati istituiti[10] i “Centri di Permanenza Transitoria e Assistenza” (CPTA o più brevemente CPT), col fine di trattenere gli immigranti irregolari “per il tempo strettamente necessario” ad effettuare gli accertamenti necessari in vista di avviare il processo di espulsione, mentre ricevono una prima forma di assistenza e di pronto soccorso offerta in collaborazione con ONG ed enti locali. Dal 2008, i CPTA si chiamano “Centri di identificazione ed espulsione” (CIE),[11] evitando così la confusione tra “accoglienza” e “respingimento”. I CIE non sono strutture per accogliere, ma esistono principalmente per facilitare l’espulsione dei suoi “ospiti”. Il ruolo dei CPTA/CIE, concepiti per rispondere ad una logica “emergenziale”, è stato sin dall’inizio quello di trattenere l’immigrante irregolare che non sia stato già respinto alla frontiera, con lo scopo di facilitare 20 l’espulsione di tutti coloro che non hanno i requisiti previsti dal trattato di Schengen per essere ammessi in un paese dell’Unione Europea, il che esclude tuttavia coloro che, dopo il loro arrivo, hanno diritto (dietro richiesta) a protezione internazionale (asilo). Nei CIE c’è tuttavia una mescolanza tra coloro che con ogni probabilità saranno estradati con provvedimenti di espulsione, e coloro che alla fine otterranno la concessione dell’asilo in Italia o altra forma di permesso di soggiorno.

Il loro numero, in risposta a forti pressioni per una loro chiusura, è stato sostanzialmente ridotto agli attuali 6 (in precedenza esistevano 13 CPTA). Ad essi si aggiungono alcuni centri temporanei che fanno fronte a situazioni critiche nel Nord Africa. Nel 2015, alcuni centri furono designati come Hotspot, nei luoghi ove più probabilmente avviene lo sbarco di immigranti che arrivano dal mare, creati per effettuate pre-identificazione, identificazione e registrazione degli immigranti appena sbarcati, a volte dopo un salvataggio in mare, e per facilitare uno smaltimento rapido degli immigranti e avviarli verso i vari hub regionali per coloro che richiedono la protezione internazionale (asilo), mentre gli altri, considerati "migranti economici", vengono inviati ai CIE per la loro espulsione. A dicembre del 2016, risultavano attivi 4 Hotspot a Lampedusa, Taranto, Trapani e Pozzallo. Critiche sono state sollevate sulle modalità inadeguate delle operazioni di pre-identificazione degli immigranti, a volte svolte in forma meccanica, in modo affrettato e in condizioni inadatte, compromettendo pertanto le operazioni successive.

Il sistema dei CIE e degli Hotspot è in sintonia con un piano d’azione dell’Unione Europea sul respingimento degli immigranti irregolari, che rafforza le modalità per la gestione coordinata dei rimpatri di coloro che non hanno diritto a restare nell'Unione Europea, ma attualmente non sempre il sistema funziona, per una serie di difficoltà che non permettono il fluido svolgimento delle operazioni per regolare i rimpatri. Il trattenimento degli immigranti “ospitati” presso i CIE e gli Hotspot, che dovrebbe essere limitato nel tempo, rischia di estendersi per periodi molto lunghi, data l’impossibilità in molti casi di riuscire ad avere provvedimenti di espulsione in tempi rapidi, allungando così l’agonia dell’attesa in condizioni umane non ideali. Non ci si deve perciò meravigliare che questi centri siano stati oggetto di molti episodi di disordini, proteste, incendi, e tentativi di fuga, creando situazioni di frizione con le comunità circostanti.

Altre critiche sollevate contro tutti questi centri in Italia riguardano la qualità della loro gestione (affidata ad enti privati), la qualità del trattamento degli “ospiti”, e l’uso di strutture spesso fatiscenti o inadeguate (caserme dismesse, fabbriche o capannoni industriali in disuso, vecchi centri di accoglienza od ospizi, tutte strutture non progettate per svolgere questa funzione), ove possono prevalere condizioni non dignitose di accoglienza.

La funzione di queste forme detentive è fortemente finalizzata al rafforzamento delle espulsioni, spesso in risposta a preoccupazioni sollevate per i possibili legami tra gli immigranti ed il jihadismo o il terrorismo internazionale, o la loro possibile associazione con attività criminali. Tuttavia, la giustificazione della detenzione in funzione della presunta pericolosità dei detenuti per i possibili legami col terrorismo e con la criminalità si riferisce in realtà solo ad una frangia minore dei detenuti (e probabilmente i soggetti più “pericolosi” non sono detenuti nei CIE o negli Hotspot ma nelle regolari strutture carcerarie). Per la maggioranza degli “ospiti” detenuti presso questi centri, l’unica infrazione è quella di trovarsi nel territorio nazionale senza adeguati permessi di soggiorno. Non possiamo non rilevare la sproporzione tra il peso repressivo di questa detenzione, e la giustificazione addotta (“gravi pericoli” alla sicurezza nazionale), da un lato, e la natura vera dell’infrazione commessa dall’immigrante irregolare (aver infranto le leggi sull’immigrazione), dall’altro. 21

Altre restrizioni rilevanti per gli immigranti irregolari

Resta poi fatto che, nel complesso, solamente un numero limitato di immigranti irregolari transitano per questi centri, sia in Italia che in altri paesi, mentre un gran numero di tali immigranti, nonostante le intenzioni delle autorità governative che vorrebbero espandere il controllo sull’immigrazione clandestina, sfuggono a tali controlli.

Infatti, a coloro che sono detenuti nei centri o sono noti alle autorità attraverso vari sistemi di monitoraggio predisposti nei confronti di coloro che sono stati rilasciati da questi centri, si aggiungono tutti gli altri immigranti che si nascondono, la cui presenza non è stata ancora individuata. Spesso si tratta di un numero elevato di persone. Negli Stati Uniti si parla di più di 11 milioni di persone di immigranti “senza documenti regolari” che si troverebbero in queste condizioni, anche se queste statistiche sono incerte. Se sono rimasti nel paese ospitante per un periodo prolungato, generalmente hanno trovato il modo per integrarsi nel mercato del lavoro, a volte utilizzando documentazione non regolare o falsa; hanno formato famiglie che a volte hanno raggiunto uno stato legittimo; o hanno fatto investimenti, acquistato proprietà, e promosso piccole attività imprenditoriali.

Ma la loro clandestinità ne limita fortemente la mobilità sociale perché sono sempre sottoposti al rischio di essere “scoperti”, detenuti e deportati. Questa clandestinità è un impedimento insormontabile alla loro completa integrazione. Occasionalmente beneficiano di sanatorie legali (o amnistie), ma queste sanatorie, anche se sono state frequenti in alcuni paesi (compreso il nostro) in passato, sono imprevedibili, dipendendo da un’apertura politica verso l’immigrazione da parte di organi legislativi e di governi dei paesi ospitanti. Recentemente quest’apertura sembra che sia sempre “meno aperta”, mentre si sono acuite le misure difensive.

Questi immigranti irregolari sono sottoposti a tutta una serie di misure repressive, anche se non sono detenuti: in primo luogo, rischiano continuamente di essere vittime di retate casuali condotte dalle forze dell’ordine presso gli accampamenti improvvisati dei profughi, o presso alloggi scelti a caso ove è possibile che abitino immigranti irregolari, o nei luoghi di lavoro ove è più probabile si concentrino (cucine di ristoranti, cantieri edili, luoghi ove si concentrano venditori ambulanti), o addirittura in punti sensibili ove gli immigrati si recano non certo per esercitare attività illegali, come è avvenuto negli Stati Uniti presso le scuole[12] e gli ospedali, e addirittura nei luoghi di culto o nei tribunali per l’immigrazione ove immigranti sono convocati per udienze.[13] Le retate hanno un solo scopo: moltiplicare i processi di espulsione.

Oltre alle misure fin qui esaminate tutti gli immigranti irregolari (che siano in incognito o siano ben noti alle autorità) subiscono tutta una serie di divieti e di costrizioni che ne limitano notevolmente le condizioni di vita. Tra queste costrizioni, le più importanti sono:

• Impossibilità ad avere accesso legittimo ad un regolare permesso di lavoro.

Questa limitazione può motivare l’immigrato irregolare a rivolgersi al mercato sommerso del lavoro, o a ricorrere ad altri espedienti di natura spesso illegittima per ottenere questo permesso, oppure li obbliga ad accettare forme umilianti per procurarsi i mezzi di sussistenza, compreso l’accattonaggio casuale o sistematico. Questa costrizione trova eccezioni in paesi ove permessi temporanei di lavoro sono concessi a coloro che ne fanno richiesta a particolari condizioni (negli Stati Uniti, dopo tre mesi dalla presentazione della domanda di asilo). L’efficacia di questi permessi temporanei ha però forti limitazioni. 22

• Sanzioni imposte alle imprese che impiegano immigranti irregolari, qualora essi non abbiano un regolare permesso di lavoro.

Sulla carta, queste misure appaiono strumenti di repressione molto efficaci, anche per le ulteriori ripercussioni che potrebbero avere sulle aziende, non solo con penali finanziarie ma anche con altre misure punitive, che mettano in dubbio la liceità delle attività imprenditoriali. Ma in pratica queste sanzioni possono non essere tanto efficaci, per la resistenza sociale da parte dei cittadini e di vari settori imprenditoriali. Colpire i cittadini per colpire l’immigrazione non sembra essere una formula di gran successo popolare. Inoltre queste sanzioni ignorerebbero completamente che, tra gli elementi di fondo che determinano l’immigrazione, vi è la domanda locale di immigranti, che non è determinata dal comportamento degli immigranti, ma dall’interesse economico delle imprese che beneficiano da questi input produttivi importati, riflettendo le convenienze generali dell’economia.

• Limitato accesso a tutta una serie di diritti sociali o benefici, normalmente riservati ai cittadini, o ai residenti legali, o a settori meno abbienti della popolazione legalmente residenti nel paese.

Esempi sono:

• Limitato accesso all’assistenza sanitaria pubblica.

Gli immigranti irregolari hanno generalmente diritto solo all’accesso a servizi di pronto soccorso, ma non alle cure mediche non considerate d’emergenza o alla fornitura dei medicinali, assicurate soltanto ai residenti ‘legali’, per esempio attraverso la tessera sanitaria, riservata ai residenti.[14]

• Limitato accesso alla scuola pubblica gratuita per i figli degli immigranti irregolari.

Per fortuna, appare che i sistemi scolastici dei vari paesi d’accoglienza non impongano particolari restrizioni all’iscrizione nelle scuole pubbliche, evitando di legare la registrazione nelle scuole alla regolarità dello stato di residenza nel paese, mostrando una certa liberalità nei confronti di tutti i giovani in età scolare, anche se ci possono essere impedimenti di natura burocratica.

• Impossibilità di poter compiere alcuni atti formali che richiedano documentazione ufficiale sullo stato di residenza, o qualsiasi altro requisito formale, compresa la posizione fiscale nel paese ospitante.

Le misure nei paesi “terzi”

Il gruppo b) degli interventi di contenimento accennato in precedenza, che interessano migranti e rifugiati che si trovano, in via temporanea, in paesi “terzi”, è forse meno noto al grande pubblico. Questi interventi sono venuti alla ribalta con insistenza negli ultimi mesi, grazie alle azioni intraprese da vari governi europei, ed in particolare da quello italiano, che hanno raggiunto accordi con le autorità di alcuni paesi “terzi” ove i migranti sono temporaneamente residenti o in transito. Esempio di questi paesi “terzi” possono essere la Libia, la Giordania, il Libano, la Turchia, il Marocco, l’Etiopia, il Kenya ed il Niger o altri che si potrebbe aggiungere alla lista. Gli immigranti irregolari si trovano lì in attesa di emigrare verso le loro destinazioni finali. Si tratta di promuovere in quei paesi misure con finalità tutte orientate verso il “contenimento” dell’immigrazione verso il paese di destinazione finale. Queste misure di certo non sono volte a 23 favorire l’accoglienza degli immigranti, anche quando, per considerazioni umanitarie, ci si preoccupa di migliorare il trattamento dei profughi nei campi ove temporaneamente soggiornano.

Non tutti i paesi destinatari finali dell’immigrazione promuovono misure di questo tipo. Non mi risulta, per esempio, che ci siano interventi di questo genere in Messico promosse dal governo degli Stati Uniti, anche se esistono accordi tra le polizie di ambedue i paesi per colpire il traffico della droga ed il contrabbando in generale, o il riciclaggio di danaro sporco, rafforzando la collaborazione tra le forze dell’ordine contro la criminalità organizzata, ma niente di specifico è mai stato concordato tra quei due paesi per quanto riguarda gli emigranti, salvo forse accordi limitati relativi al lavoro stagionale. Di sicuro queste misure hanno acquisito maggiore visibilità quando alcuni paesi europei le hanno promosse per “contenere” i continui sbarchi dall’Africa verso le coste meridionali dell’Europa (basta pensare agli accordi con la Turchia e più di recente quelli con la Libia, la Tunisia ed il Niger).

Il nostro Ministero degli Interni ha cercato molti accordi con paesi africani per averne la collaborazione per i rimpatri (per i paesi d’origine) o per averne l’appoggio nella repressione dei traffici di immigranti (sia nei paesi d’origine che per quelli in transito). Ma con chi si dovrebbe mettere d’accordo il governo italiano? Con le autorità governative dei paesi “terzi”? O con chi gestisce i campi profughi? O ambedue?

Salvo il caso in cui si possa avviare la procedura per concedere l’asilo in un paese europeo per alcuni emigranti, la maggioranza degli interventi di questo tipo si articola in una delle seguenti misure:

(a) limitare il trasferimento illegale degli immigranti dal paese “terzo” al territorio nazionale del paese di destinazione finale, fermando barconi di fortuna, bloccando l’attività dei “trafficanti di vite umane”, e controllando rotte terrestri o navali utilizzate da tali trafficanti;

(b) rafforzare la capacità di accoglienza dei campi provvisori ove gli immigranti temporaneamente risiedono nel paese “terzo”;

(c) favorire il rimpatrio degli immigranti residenti nei campi profughi verso il proprio paese d’origine, come auspicato nell’incontro di Abidjan tra Europa ed Africa del novembre del 2017, includendo possibilmente assistenza per il trasporto e altre forme di assistenza necessaria per favorire la reintegrazione nel territorio nazionale di coloro che sono stati “rimpatriati”;

(d) favorire il trasferimento dei profughi da campi non adatti o ritenuti pericolosi (anche dal punto di vista della protezione dei diritti umani) a campi profughi gestiti con criteri internazionalmente accettabili.

Queste misure includono salvataggi in mare vicino alla costa del paese “terzo”, nonché respingimenti di imbarcazioni di fortuna appena salpate da quelle spiagge, effettuati dalle autorità dei paesi “terzi”, ma a volte con la collaborazione dei paesi europei (per esempio della nostra Marina Militare). Tali salvataggi avvengono nelle acque territoriali del paese “terzo”, e i profughi sono riportati a terra nello stesso paese.

Tra questi invertenti dobbiamo annoverare anche l’uso di truppe di paesi destinatari in assistenza ai paesi “terzi” per rendere più efficaci misure di polizia e di controllo dei flussi migratori, con lo scopo di impedire la partenza o il transito di gruppi di migranti organizzati da trafficanti sospetti di attività criminali, se non terroristiche. Un esempio è la decisione recente del governo 24 italiano di inviare un contingente di soldati nel Niger allo scopo di ridurre il traffico illegale di persone che percorrono quel paese, organizzato da gruppi criminali o legati a organizzazioni terroristiche internazionali, e che si avviano verso una delle rotte più frequentemente utilizzate per l’attraversamento del Sahara.

L’assistenza a paesi “terzi” per ottenere la loro collaborazione nella lotta contro l’immigrazione irregolare è stato oggetto di molte controversie. I respingimenti a mare hanno spesso prodotto gravi tragedie umane, causate da confronti armati con gli scafisti, o perché le condizioni meteorologiche erano pessime. Elevato è il numero di vittime innocenti causati dall’uso inappropriato di forze di polizia di frontiera o della guardia costiera da parte delle autorità del paese “terzo”. Lo scempio di campi profughi in Libia trasformati in lager, l’abuso di trafficanti che controllano alcuni profughi in questi campi, e sono riusciti a ricattarli con richieste di riscatti dalle famiglie nei paesi d’origine, il tentativo di reclutare forzosamente alcuni di questi profughi come trafficanti o contrabbandieri, o addirittura come nuove leve del terrorismo internazionale, ha giustificato dubbi sull’efficacia di questi interventi, specialmente se non c’è trasparenza nei rapporti con entità locali e le ingerenze di gruppi criminali e terroristici. Se la riduzione del flusso dei migranti che raggiungono le coste italiane deve essere pagato dagli abusi che occorrono in questi campi profughi, come si può parlare di successi dei nostri interventi in questi paesi “terzi”? Non è forse il prezzo umano pagato troppo alto per misurare i nostri risultati soltanto attraverso la riduzione dei flussi migratori? Meraviglia che i governi europei tendano a ignorare tanti di questi episodi, utilizzando toni trionfalistici sul successo di queste collaborazioni. Come si possono citare i risultati conseguiti con la riduzione del numero degli sbarchi, se poi si ignorano le vittime, le ingiustizie, le sofferenze e gli errori compiuti per ridurre il numero dei viaggi della disperazione?

La pressione dell’opinione pubblica, le proteste di osservatori e della stampa, ha prodotto correzioni a questi interventi (anche se l’ammissione degli errori è stata meno sollecita). Un maggiore coinvolgimento di organizzazioni multilaterali quali l’UNHCR, l’UNICEF, o la Croce Rossa, o di note ONG internazionali è stata richiesta per garantire il rispetto dei diritti umani. Interventi governativi nei paesi “terzi” a più alto livello sono stati sollecitati nella gestione delle azioni sui traffici dei migranti e sui campi profughi. Immigranti sono stati trasferiti da luoghi considerati pericolosi in altri campi profughi considerati più sicuri e protetti.

Uso e abuso degli strumenti di cooperazione e contenimento dell’immigrazione nei paesi “terzi”

Questi interventi per il contenimento dei flussi migratori realizzati nei paesi “terzi” rappresentano operazioni nuove, senza una tradizione alle spalle o esperienze precedenti ben collaudate. Questo spiega perché a volte sono stati lanciati in modo confuso, tentando nuovi approcci, ma con molta incertezza e una certa dose di contraddizione sui metodi, sugli obiettivi e sui contenuti. Né disponiamo di sufficienti elementi per valutarli esaurientemente.

In che modo riesce un paese destinatario finale del flusso migratorio ad avere la collaborazione dei paesi “terzi” per ridurre il flusso migratorio o migliorare le operazioni di “parcheggio” temporaneo dei migranti nei campi profughi gestiti in quei paesi “terzi”, magari in vista di un possibile rimpatrio verso il paese di origine? In che modo è possibile ‘incentivare’ le autorità di questi paesi per averne l’appoggio efficace per lanciare operazioni tese ad un maggiore controllo e contenimento di questi flussi migratori?

Queste operazioni hanno spesso beneficiato dell’uso di strumenti e di procedure tipiche della cooperazione allo sviluppo o dell’assistenza umanitaria (perciò con una dimensione temporale di 25 più breve periodo, di emergenza). Ciò rende in parte confusa la loro natura, in quanto si tratta di promuovere azioni di pubblica sicurezza e di polizia, ma diversamente da quanto avviene nelle azioni di difesa della sicurezza nazionale compiute in territorio nazionale, il paese destinatario finale si limita a promuovere azioni di collaborazione, vestite nella forma di programmi di “cooperazione allo sviluppo”, anche se non si tratta di programmi di sviluppo, mentre è il paese “terzo” che esegue le operazioni di sicurezza. In realtà non è per niente chiaro se questi interventi siano interventi di cooperazione, anche se ne usano gli strumenti.

Indubbiamente sono stati inviati contributi finanziari ai paesi “terzi” a sostegno della gestione di campi profughi. Varie forme di assistenza tecnica sono state offerte per migliorare la gestione dei campi profughi. Questa assistenza tecnica ha coinvolto la polizia di frontiera e la guardia costiera di alcuni di questi paesi, o più in generale le forze dell’ordine o addirittura le forze armate del paese. Questi interventi possono essere comparati con analoghi interventi che la cooperazione internazionale allo sviluppo ha promosso, con programmi di assistenza tecnica, per il rafforzamento della governance di strutture pubbliche addette all’ordine pubblico, come tentato da tante agenzie bilaterali a partire dagli anni ‘90.

Tuttavia, l’uso di questi strumenti non rende questi interventi dei veri programmi di aiuto, perché il loro intento non è lo sviluppo dei paesi “terzi” ma il rafforzamento delle loro capacità di ridurre I flussi migratori nei paesi destinatari, intercettando imbarcazioni irregolari, bloccando trafficanti o migliorando la gestione dei campi profughi temporaneamente residenti in quel paese, in attesa di un loro rimpatrio nel paese d’origine.

Questi interventi sono come l’estensione a distanza delle operazioni di contenimento e di respingimento varate sul territorio nazionale dai paesi destinatari nei confronti degli immigranti irregolari, affinché analoghe operazioni possano essere realizzate anche prima che i migranti giungano sul territorio dei paesi di destinazione finale.

La sperimentazione di nuovi modi per promuovere questi interventi si presta a molti scenari. Accordi possono essere fatti per il trasferimento di risorse finanziarie per sostenere quelle attività, magari previsti nell’ambito di trattati bilaterali, MoU (Memorandums of Understanding), protocolli o altre forme contrattuali o dichiarazione congiunte. Altre “compensazioni”, diverse da versamenti di risorse finanziarie, possono essere immaginate: per esempio, benefici nei traffici commerciali; nei rapporti finanziari (prestiti, indebitamento); negli investimenti da parte delle imprese del paese di destinazione finale; o promesse di pacchetti di futuri programmi di cooperazione allo sviluppo a vantaggio del paese “terzo”.

Questi ultimi programmi di aiuto possono non aver nulla a che vedere con la promozione di un Piano Marshall per l’immigrazione, anche se promettono programmi di aiuto (vedi quanto indicato nella Parte I di questo saggio al riguardo), perché questi pacchetti di programmi di aiuto, in primo luogo, non perseguono lo sviluppo dei paesi da cui gli immigranti provengono, ed in secondo luogo sono pensati come “merce di scambio” per assicurarsi che il paese “terzo” promuova operazioni di polizia ed altri interventi di contenimento dei flussi migratori.

Le conseguenze delle misure di contenimento sulla condizione degli immigranti irregolari

Le conseguenze delle misure di contenimento dell’immigrazione irregolare possono essere di tre tipi:

1.conseguenze sulle condizioni in cui si trovano gli immigranti stessi; 26

2.costi (finanziari) per i paesi che intraprendono tali politiche;

3.ed infine risultati raggiunti con queste misure rispetto ai loro obiettivi perseguiti.

Sulle conseguenze del primo tipo, cioè sulle condizioni in cui vivono gli immigranti irregolari, gli effetti variano significativamente da un paese all’altro, e da un immigrante all’altro, anche a seconda dello stadio in cui si trovano gli immigranti: siano essi appena arrivati, o siano in attesa di pronunciamento sulla loro domanda di asilo, o siano in avanzato stato d’integrazione, o stiano ancora in paesi “terzi” in campi profughi o siano in una fase transito, mentre stanno intraprendendo il loro lungo e difficile viaggio, o si trovino completamente in incognito nel paese destinatario che li ospita.

I loro disagi sono, in generale, senz’altro notevoli, anche perché, per effetto delle operazioni di respingimento, gli immigranti vengono spesso relegati a condizioni acute di povertà o di marginalizzazione, anche se in alcuni casi riescono a superare i primi gradini della mobilità sociale grazie alla loro determinazione e alla concomitanza di altri fattori che ne favoriscono l’inserimento. Tra questi altri fattori, vale la pena di sottolineare l’aiuto offerto da organizzazioni umanitarie e l’assistenza ricevuta da altri immigranti. Le network di immigranti sono estremamente efficaci.

La differenza maggiore è tra immigranti irregolari che sono arrivati recentemente, o negli ultimi anni, che vivono ancora in condizioni estremamente volatili e spesso molto precarie di sopravvivenza, alcuni al limite della povertà assoluta o nell’indigenza più completa, e quelli che sono arrivati già da lunga data.

Per i primi, le difficoltà incontrate nella fase iniziale della permanenza nel paese d’arrivo sono numerose: una prima sfida è l’accesso ad un alloggio decoroso e, più o meno con la stessa graduatoria, la difficoltà a trovare qualsiasi forma di occupazione decente che produca un reddito che permetta la sopravvivenza. L’assenza di reddito è la formula garantita per una degenerazione della loro condizione. Nel caso di redditi molto modesti, gli immigranti vengono spesso costretti ad accettare lavori ove percepiscono soltanto salari minimi, spesso a livelli inferiori a quelli praticati nel mercato nazionale. Ciò favorisce la loro marginalizzazione nel paese ospitante.

Per i secondi, cioè gli immigranti che sono riusciti a vivere a lungo nel paese che li ospita, pur non avendo perso la loro condizione di irregolarità rispetto alle leggi nazionali di immigrazione, le condizioni vita possono essere meno precarie. Molti di loro hanno trovato sbocchi lavorativi accettabili, con redditi crescenti, con occupazioni abbastanza solide e soddisfacenti, a volte addirittura promettenti, con accesso ad abitazioni residenziali decorose, nonostante l’incertezza del loro stato.

Le condizioni di questi ultimi immigrati continuano ad essere precarie, anche quando hanno raggiunto livelli accettabili dal punto di vista economico, trovandosi sotto la spada di Damocle di una possibile deportazione, con la limitazione ai loro diritti dovuta al loro stato legale. La loro integrazione nella società nazionale è ancora incompleta ed inadeguata, anche perché la loro illegalità ne favorisce la marginalizzazione dalla società. Sono queste le situazioni che in alcuni paesi hanno dato luogo alla formazione di ghetti separati per immigranti, che limitano fortemente l’integrazione, anche per quelli che hanno guadagnato lo stato di immigranti regolari, e spesso questa marginalizzazione costituisce un rischio per la creazione di situazioni sociali disfunzionali. 27

Una costrizione che questi immigranti di lunga data sono costretti a subire e che è spesso ignorata è che la loro clandestinità ne riduce la mobilità migratoria. Uno dei fenomeni recentemente studiato dagli esperti del settore è la natura “transnazionale” dei movimenti migratori, [15] che non sono soltanto in una direzione (dal paese di origine al paese di destinazione finale), ma sempre più frequentemente seguono un percorso complesso, in cui, da un lato, un paese di destinazione non necessariamente è la meta definitiva, se l’emigrante decide di emigrare, dopo un certo periodo, in altra destinazione. Oppure, lo stesso migrante può decidere di ritornare nel proprio paese d’origine, o infine, trascorrere una parte del suo tempo nel paese d’immigrazione e un’altra parte del suo tempo nel suo paese d’origine, in una sorta di pendolarismo. Ebbene, la condizione di immigrante irregolare, costituisce un ostacolo a poter realizzare questa impostazione transnazionale dell’emigrazione, proprio perché costituisce una remora a muoversi dal paese ove egli si trova, sia in vista di andare in un nuovo paese o per visitare il proprio paese d’origine, o anche considerare un possibile rimpatrio volontario definitivo o parziale. L’incertezza di poter riuscire a tornare nel paese ove l’immigrato attualmente (irregolarmente) si trova lo motiva ad una maggiore sedentarietà, nello stesso paese da cui le forze anti-immigrazione vorrebbero espellerlo. La mancata regolarizzazione della posizione di immigrante irregolare e tutte le misure volte a rafforzare il suo respingimento (che producono alla fin fine la sua marginalizzazione) stranamente portano alla situazione assurda che, anziché favorire un ritorno al paese d’origine, possono essere addirittura una ragione per desistere da questo ritorno. L’immigrante irregolare è consapevole che l’ingresso nel paese ove si trova non è una “porta girevole” che si può utilizzare a volontà in entrata ed in uscita. Una volta uscito, potrebbe non rientrare, proprio perché è un immigrante irregolare, e questo è un rischio che potrebbe non voler correre. Così le politiche di contenimento, anziché spingerlo a tornare nel suo paese d’origine, sembrano produrre l’effetto opposto.

Infine, ci sono le condizioni in cui si trovano gli immigranti irregolari che sono in transito in paesi “terzi”, che sono di solito di gran lunga peggiori rispetto a quelli che hanno raggiunto la loro destinazione finale, sia nel caso che affollino campi profughi o che siano ancora nella fase difficile del trasferimento, durante il loro complesso viaggio della speranza (a volte paragonabile, piuttosto, ad un viaggio di lacrime).

Probabilmente il maggior costo sociale pagato dagli immigranti irregolari è quello del numero di vite umane perse durante il viaggio che li porta verso le mete ambite. Si stima che per lo meno un immigrante muore ogni giorno nel tentativo di attraversare il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, per disidratazione, affogamento, ipotermia o insolazione. Lo stesso può dirsi per gli immigranti irregolari che viaggiano verso l’Europa. Le statistiche della morte, probabilmente sottostimate rispetto alla realtà, riguardanti i tentativi di attraversamento del Mediterraneo, suonano come pietre nelle nostre coscienze. Per non parlare di simili tragedie lungo le coste dell’Australia, al confine tra il Messico ed il Guatemala. E quanto poco sappiamo dei tanti morti che accompagnano le traversate nel Sahara. Vite umane perse nel perseguimento di un sogno.

Occorre riconoscere che tutte queste complesse situazioni sociali, inclusa la perdita in vite umane, sono anche il risultato dell’uso prevalente di politiche di contenimento e di respingimento, che favoriscono, anche se involontariamente, la creazione di condizioni sociali degradanti o comunque difficili per gli immigranti, anziché cercare di attenuarle, prevenirle o risolverle.

Fintanto che gli immigranti irregolari dovranno subire le conseguenze delle misure repressive ricordate nei paragrafi precedenti, dovranno pagare questo prezzo elevato, e continueranno a trovarsi in questa specie di limbo legale che li priva di diritti e ne limita le opportunità. La loro 28 marginalizzazione sarà quasi inevitabile, favorendo la creazione di enclave che li escludono dal tessuto sociale del paese ospitante. Fintanto che l’accesso degli immigranti irregolari verrà ostacolato in ogni modo, impedendo l’uso regolari di normali mezzi di trasporto, il loro viaggio continuerà ad essere pieno di ostacoli e di pericoli per la loro stessa vita.

Il costo finanziario delle politiche di contenimento

D’altronde, queste conseguenze sociali non sono le uniche implicazioni delle politiche di contenimento. Tutte le misure difensive analizzate finora hanno dei costi finanziari sostanziali per i paesi che le lanciano, e questi costi non possono essere sottostimati, anche se sono di difficile valutazione. La difesa dei confini assorbe enormi risorse finanziarie.

Il mantenimento di una polizia di frontiera non è gratis. La gestione di centri di detenzione o di centri di accoglienza, la realizzazione di operazioni di polizia come retate o controlli periodici degli immigranti assorbe enormi risorse umane e finanziarie. Gli espatri costano. I salvataggi a mare (Mare Nostrum e Fortex) non sono a costo zero. Le procedure per concedere asilo ai rifugiati o per rifiutarlo richiedono strutture e personale. La difesa del territorio dalla intrusione degli immigranti irregolari che tentano di penetrare le frontiere richiede ingenti risorse umane e finanziarie. Spesso, i governi chiedono ingenti stanziamenti di bilancio a questo scopo.

È interessante notare che le difficoltà incontrate per trovare un accordo nel Congresso americano nel febbraio di quest’anno sui provvedimenti legislativi che avrebbero potuto risolvere alcuni dei problemi dell’immigrazione di breve termine negli Stati Uniti si sono concentrati non tanto sul merito delle soluzioni discusse, ma sui livelli di spesa richiesti dall’amministrazione Trump per rafforzare la difesa dei confini, incluso la costruzione (o il rafforzamento) del famoso “muro” con il Messico ed il potenziamento delle truppe di frontiera. Quella richiesta di stanziamento, posta come condizione per adottare un atteggiamento più morbido su altri temi dell’immigrazione – come un percorso legislativo per concedere la cittadinanza a giovani entrati nel paese irregolarmente in età minorile e che beneficiano attualmente della condizione nota come DACA (Deferred Action for Childhood Arrival)[16] – non fu condivisa da chi intendeva proporre un approccio più aperto all’immigrazione. Alla fine, le difformità di opinioni si sono affrontate sul terreno della “spesa” e non su quello dei “contenuti”.

Una problematica analoga, si trova anche nei paesi europei, ove i governi si sentono “obbligati” a rafforzare la difesa dei propri confini con ingenti stanziamenti di bilancio, al fine di garantire il rafforzamento della polizia di frontiera. Le polemiche sulla condizione degli immigranti irregolari in Italia, legata ad episodi di violenza e di cronaca nel paese, hanno portato stranamente a parlare della necessità di aumentare l’impegno finanziario per potenziare le forze dell’ordine, nuovamente affrontando l’immigrazione prevalentemente come un problema di sicurezza e di ordine pubblico, e valutandone le implicazioni finanziarie. Anziché parlare di quanto è necessario per una integrazione efficace degli immigranti nella nostra società, ci concentriamo su quanto dobbiamo spendere per difenderci da loro, per impedire il loro arrivo, e cerchiamo le risorse finanziarie necessarie per mettere in atto queste misure.

Inutile dirlo, è estremamente difficile arrivare ad una stima attendibile del costo di queste misure difensive, anche perché ci può essere disaccordo su ciò che una simile stima dovrebbe coprire. Un simile tentativo è stato fatto dall’IOM in un rapporto di alcuni anni fa, che portò ad una valutazione, su base annuale, per 25 paesi che sono impegnati in operazioni di questo genere. La stima (fatta nel 2003) portò a valutare questo costo nell’ordine di 25-30 miliardi di dollari all’anno.[17] Anche se questa stima può essere errata in eccesso, ma può anche sottostimare il 29 costo effettivo di queste misure, il suo ordine di grandezza è quanto meno significativo, specialmente se comparato con altra stima di quegli anni, fatta dalla Banca Mondiale, di quanto sarebbe costato poter raggiungere gli obiettivi di sviluppo globale (gli MDG) entro il 2015. Stranamente quella stima arrivò a supporre che il mondo avrebbe avuto bisogno per lo meno di 30-50 miliardi dollari per aiutare i paesi più poveri a raggiungere gli MDG. Anche se fu riconosciuto che quella stima era alquanto grossolana, il suo ordine di grandezza è stranamente paragonabile al costo di quanto i paesi destinatari dell’immigrazione spendono per resistere agli immigranti irregolari. C’è forse qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo, se il mondo spende per “difendersi” dagli immigranti irregolari una cifra analoga a quanto dovrebbe spendere per raggiungere gli obiettivi di sviluppo nei paesi da cui questi migranti provengono. Forse è arrivato il momento di rivedere le priorità delle nostre politiche internazionali, riesaminando le direzioni verso le quali vogliamo che il mondo attuale proceda per risolvere i suoi problemi cruciali.

Sono i flussi migratori arrestabili con le misure di contenimento?

Infine, il terzo tipo di conseguenze delle misure di contenimento che abbiamo considerato in questa seconda parte di questo saggio è il tipo di risultati raggiunti rispetto agli obiettivi perseguiti dai governi che hanno lanciato queste politiche.

A questo riguardo, alcune questioni di fondo dovrebbero essere poste:

• Qual è l’impatto delle misure di contenimento dell’immigrazione esaminate in questo saggio? • Riescono a ridurre o, per lo meno, a contenere il numerico degli immigranti, come è nelle intenzioni dei paesi che le lanciano? • Sono queste misure una valida alternativa alla proposta di un Piano Marshall per l’immigrazione? • In che misura la loro dimensione dominante, concentrata sulla “sicurezza nazionale”, rappresenta una catteristica limitante o un elemento di forza di queste misure?

L’ipotesi che sia possibile (e desiderabile) contenere i flussi migratori con misure di contenimento e di respingimento del tipo fin qui esaminato, mirando ad una loro riduzione, ignora che queste misure sono state costantemente adottate in tutti questi ultimi anni, con alterne vicende, ma tutto sommato con modesti risultati: gli immigranti sono puntualmente giunti sulle rive delle spiagge mediterranee, hanno superato i controlli doganali europei, hanno attraversato la frontiera tra Messico e Stati Uniti, sono arrivati in Australia. E questo è avvenuto infrangendo tutte le possibili regole, scavalcando staccionate e muri, nascondendosi in vagoni, usando imbarcazioni di fortuna, eludendo controlli, abusando dei visti turistici, utilizzando documenti falsi o ricorrendo a una miriade di espedienti. Nonostante l’uso sempre più intenso di tecnologie sofisticate per controllare le frontiere, il loro arrivo è stato inevitabile. Quando i governi hanno vantato successi temporanei nel bloccarne l’accesso, sono stati subito dopo smentiti da altri arrivi, o dall’apertura di nuove rotte.

Inoltre, non dimentichiamo che i movimenti migratori mettono in atto processi autopropulsivi cumulativi. Gli immigranti sono collegati attraverso reti di contatto con futuri migranti: gli emigranti di oggi facilitano il compito degli emigranti di domani, compartendo informazioni sui canali da seguire, le rotte da percorrere, gli errori da evitare. Le misure di difesa dei confini non riescono sempre a combattere questa competenza acquisita dalle “network” di migranti. In altre 30 parole, non è difficile promuovere un processo migratorio, ma è estremamente difficile fermarne la sua moltiplicazione a catena, una volta avviato.

Le misure di contenimento presentano debolezze oggettive che spiegano la loro relativa inefficacia. Ad esempio, molti paesi d’immigrazione hanno frontiere difficilmente difendibili per lunghezza o per permeabilità, sia se si parli di coste marine che di frontiere terrestri. Inoltre, mentre si blocca una rotta, se ne apre un’altra. I muri si scavalcano, o si possono creare passaggi sotterranei. Il filo spinato si può troncare. Ogni ostacolo origina un espediente per superarlo.

Il ricorso frequente a “professionisti” del traffico di persone (intermediari dell’emigrazione) è in parte una risposta all’uso di tecniche sempre più sofisticate per la difesa dei confini. Quanto più i paesi difenderanno i propri confini, tanto più i potenziali immigranti ricorreranno all’aiuto di questi “professionisti” per evadere i controlli e superare gli ostacoli. L’impermeabilità delle frontiere è in generale modesta, a meno che non siano state prese misure militaresche degne dei regimi più autoritari.

Nella misura in cui le misure di contenimento sono inefficaci e non interrompono l’ingresso consistente di immigranti irregolari, possiamo concludere che non c’è sufficiente correlazione tra la difesa legale e la protezione fisica dei confini nazionali, da un lato, e l’entità ed intensità dei flussi migratori.

Ma veniamo agli effetti collaterali di queste misure. Se il rafforzamento continuo delle misure di controllo anti-immigranti è in alternativa ad una seria politica di accoglienza e di integrazione, queste politiche difensive esasperano i rapporti tra i cittadini e gli immigranti irregolari neo- arrivati, creando le premesse per un’esplosione di problemi che queste misure dovrebbero risolvere. Le trasgressioni ed il traffico clandestino di immigranti sono, se vogliamo, la conseguenza dei divieti e delle misure anti-immigranti. Il che produce, nella logica delle politiche di contenimento, la necessità di intensificare ulteriormente le misure di protezione dei confini nazionali, aumentando i provvedimenti difensivi, in un circolo vizioso che non porta ad alcuna soluzione.

La deteriorazione dei rapporti tra cittadini ed immigranti comporta tutta una serie di conseguenze. Questi ultimi vengono considerati come semi-criminali, paria relegati ad affollare i settori marginalizzati delle città o delle campagne, venendo così a creare nuovi problemi sociali, che esasperano le tensioni negli strati più poveri della società. Inutile dirlo, queste sono le conseguenze indirette, anche se non desiderate, della eccessiva enfasi data alle misure di contenimento a danno di quelle di accoglienza. Sperare di regolare i flussi degli immigranti soltanto con la repressione che deriva dalle politiche di contenimento è molto meno realistico di quanto non credano i sostenitori di queste politiche, che vantano di ispirarsi alla realpolitik dell’immigrazione rispetto all’utopia delle porte aperte. Cosa c’è di realistico nell’ignorare che i flussi migratori avverranno nonostante i respingimenti ed i controlli di frontiera? Solo perché possiamo enumerare le statistiche sul numero degli arresti, degli “ospiti” detenuti, o di immigranti espulsi? O perché possiamo dire che il numero di sbarchi occorsi il mese scorso è diminuito rispetto al mese precedente o l’anno passato, anche se domani potremmo avere risultati completamente inversi? Non ci rendiamo conto che l’immigrazione sta avvenendo ed avverrà in ogni caso, nonostante questi risultati parziali sul contenimento?

La realtà è che ridurre l’entità di questi flussi affidandosi alle misure di contenimento non è così facile come si crede. Non equivale a chiudere un rubinetto: ci vuol ben altro per affrontare i problemi dell’immigrazione. Sperare in questo espediente per risolvere il flusso migratorio è 31 puramente illusorio. Quanti immigranti sono riusciti ad eludere questi controlli penetrando i confini? Per ogni immigrante fermato sui varchi alpini al confine tra Italia e Francia, quanti sono riusciti a superare quel confine? Per ogni centro-americano fermato dal Border Patrol al confine tra Messico e Arizona, quanti sono riusciti a dileguarsi nel deserto, continuando fino a New York, San Francisco o Chicago? Sembra che i sostenitori della retorica delle politiche di contenimento abbiano un approccio quasi autolesionistico. Non possono ignorare che le loro misure di difensive non funzionano, eppure continuano a sostenerle ad oltranza. Preferiscono ribadire la loro retorica, anche di fronte all’evidenza dei fatti, ignorando allo stesso tempo che c’è una domanda interna per lavoratori stranieri da soddisfare. Sembra che siano più interessati alla visibilità che il lancio delle loro politiche permette, specialmente in campagna elettorale, piuttosto che raggiungere risultati concreti, perché questi risultati sono apparentemente irraggiungibili.

Nella terza parte di questo saggio, esaminerò più in dettaglio l’approccio di queste misure di contenimento, ed in particolare i vari tentativi di criminalizzare l’immigrazione irregolare, sia formalmente che sul piano sostanziale, e l’enfasi data, nelle attuali politiche d’immigrazione alla repressione dei crimini legati al processo d’immigrazione. Nelle parti successive, invece, cercherò di espandere l’orizzonte della mia analisi, per superare questa concentrazione sulle misure di contenimento, ed affrontare la tematica dell’immigrazione in termini più costruttivi, che metta anche in risalto le opportunità che esistono per migliorare i rapporti tra gli immigrati e i cittadini del paese che li ospita. Di fronte all’inadeguatezza delle politiche “realistiche” di contenimento dell’immigrazione, vale la pena forse esaminare se le utopie di politiche più aperte all’immigrazione non siano alla fin fine più realistiche e degne di essere considerate. Alla luce dei fatti, quale politica d’immigrazione corrisponde propriamente ad una vera realpolitik?

______NOTE

[1] Vedi la mia analisi in “UN PIANO MARSHALL PER L’IMMIGRAZIONE: UNA NOVITÀ, UNA SOLUZIONE, UN’ILLUSIONE O COS’ALTRO?”, prima parte del saggio dal titolo “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO” apparso su Partecipagire il 28/1/2018.

[2] Per un esame delle misure tradizionali di controllo dell’immigrazione, il lettore può consultare l’amplia collezione di contributi, contenuta in “Controlling Immigration” a cura di J.F. Hollifield, P.L. Martin e P.O. Orrenius, Stanford University Press (2014, terza edizione). Per una visione più sintetica (pur se efficace) si veda l’introduzione al tema di K. Koser (2007), “International Migration”, Oxford University Press.

[3] Per le misure del tipo b), si veda di seguito in questa seconda parte del mio saggio l’apposito paragrafo dedicato alle azioni nei paesi “terzi”.

[4] La concessione di visti di entrata a famigliari dell’immigrato è un tema che è oggetto in questi giorni di dure polemiche nel Senato americano, dopo la richiesta del Presidente Trump di colpire i ricongiungimenti famigliari per ridurre l’immigrazione “regolare”.

[5] L’Australia, ad esempio, paese noto per essere stato molto aperto verso l’immigrazione, ha praticato un approccio molto selettivo, che può essere anche considerato “discriminante” nei confronti di certi immigranti dal sud del mondo. È sintomatico che l’Australia, nonostante la sua apertura in materia di immigrazione, adotti una politica di chiusura rigida nei confronti dei rifugiati, implicitamente rivelando il carattere “discriminante” della sua politica d’immigrazione.

[6] Altro ente importante dipendente dal DHL è USCIS (United States Citizenship and Immigration Services), che si occupano dell’immigrazione regolare, e della gestione dei processi di concessione di stato regolare agli immigranti che vedono riconosciuto il loro diritto a tale stato. 32

[7] Parlerò più in dettagli dei tentativi di “criminalizzare” l’immigrazione irregolare nella terza parte di questo saggio.

[8] È di pochi giorni la decisione della Corte Suprema che ha sancito che non c’è alcun limite alla durata possibile di tale detenzione, anche se di per sé dovrebbe essere limitata nel tempo.

[9] ISAP significa “Intensive Supervision Appearance Program” (Programma Intenso di Supervisione e Apparizione). È un metodo per monitorare individui che sono entrati negli Stati Uniti senza adeguata documentazione e sono in attesa dell’ordine definitivo di deportazione (“removal”) o stanno aspettando i risultati del processo che riguarderà la loro eventuale deportazione (“removal proceedings”). L’ISAP è uno strumento dell’ICE ed è gestito da una società privata (BI Incorporated) sotto il monitoraggio dell’ICE.

[10] Art. 12 della legge 40 del 1998 (nota come legge Turno-Napolitano, che fu la prima legge , dopo la Legge Martelli del 1986, ritenuta inadeguata per i suoi vuoti normativi), che affrontava l’immigrazione di massa di quegli anni, in provenienza maggiormente dall’Albania e dal Marocco.

[11] Istituiti con decreto-legge n. 92 del 23 maggio 2008, confermato con la legge 125 dello stesso anno.

[12] Negli Stati Uniti, il rischio di retate presso scuole ha prodotto la “paura” di mandare i figli a scuola da parte di famiglie di immigranti irregolari, anche se si tratta di immigranti che hanno vissuto nel paese per decenni. Il rischio di deportazione è sempre dietro l’angolo, con il rischio di spaccare famiglie intere, separando membri della stessa famiglia sulla base del loro stato legale di residenza.

[13] Negli Stati Uniti, la legalità di molte misure prese dall’ICE è stata spesso discussa, compresi i controlli casuali per la strada di persone considerate “sospette” (il sospetto spesso consiste soltanto nel “sembrare straniero”), ma l’autonomia di azione di cui gode, grazie alla sua dipendenza dal Dipartimento di “Household Security”, gli garantisce completa protezione. Questi abusi hanno creato il fenomeno delle città “santuario”: in alcune grandi metropoli americane (ad esempio tutte le città della California, Chicago e New York) le autorità locali hanno chiesto alle proprie forze dell’ordine municipali di non collaborare con l’ICE per l’arresto di immigranti irregolari per il solo scopo di procedere alla deportazione, al fine di tutelare la capacità di garantire l’ordine pubblico nelle proprie città, senza l’interferenza della problematica dell’immigrazione irregolare, e al tempo stesso proteggere i propri residenti da quelli che sono stati visti come abusi compiuti dall’ICE nell’arrestare immigranti irregolari.

[14] Negli Stati Uniti, ove l’accesso all’assistenza sanitaria è molto complesso, non è scontato che gli immigranti irregolari abbiano accesso alle forme agevolate riservate ai meno abbienti, come Medicaid, mentre l’accesso al pronto soccorso ospedaliero è sempre garantito. Eccezioni (limitate nel tempo) sono verificabili, come la concessione di Medicaid a donne in stato di gravidanza che abbiano presentato domanda di protezione internazionale e siano in attesa di risposta sulla concessione dell’asilo. In generale, però gli immigranti irregolari non hanno facile accesso a queste forme di assistenza agevolata, e spesso l’unica alternativa è il ricorso all’assistenza medica privata (alquanto dispendiosa), o l’eventuale sostegno fornito da organizzazioni di beneficienza.

[15] Vedi T. Faist, M. Fauser & E. Reisenauer (2013), “Transnational Migration”, Immigration & Society Series, Cambridge (UK), Polity Press.

[16] Il DACA è una sospensione amministrativa provvisoria del processo di deportazione, varata dal Presidente Obama con un executive order (in mancanza di un accordo per un provvedimento legislativo da parte del Congresso americano) a favore di minorenni entrati nel paese illegalmente. Il DACA permette a questi giovani di completare i propri studi e di avere un permesso temporaneo di lavoro. Il sistema è una proposta transitoria, in attesa che il Congresso approvi una riforma legislativa che offra un quadro giuridico più consono per concedere un percorso legale a questi giovani per un loro inserimento completo nella società americana, anche attraverso l’acquisizione della cittadinanza statunitense. Mentre proposte legislative sono in discussione al Congresso per risolvere la questa questione (il DACA ha una durata temporanea), le controversie sono ancora notevoli, anche perché l’amministrazione Trump non è disposta a trovare soluzioni al problema dei giovani che godono della protezione del DACA se non vengono simultaneamente adottate misure molto severe per il contenimento dell’immigrazione in generale, e il rafforzamento della difesa del confine nazionale. Come è chiaro, la situazione è lungi da essere risolta con una situazione politica concreta, vista l’attuale composizione del Congresso americano e l’atteggiamento dell’amministrazione Trump. 33

[17] Vedi P. Martin (2003), Bordering on Control: Combatting Irregular Immigration in North America and Europe, Ginevra, Svizzera, IOM.

Parte III SULLA “CRIMINALIZZAZIONE” DEGLI IMMIGRANTI IRREGOLARI Dalla sicurezza nazionale alla criminalizzazione dell’immigrazione irregolare

Diciamolo chiaramente. Nei paesi occidentali prevale la preoccupazione di fermare l’immigrazione irregolare per garantire la sicurezza nazionale, più che occuparsi di rendere l’immigrazione più sicura e tranquilla. Naturalmente, alcuni governi si mostrano premurosi per i rifugiati, anche se con reticenze, o enfatizzano quanto generosi siano i loro paesi quando salvano vite umane in mare o accolgono profughi. È giusto riconoscere questi contributi, anche se un po’ autorefenziali, ma la storia sull’accoglienza non si esaurisce in pochi aneddoti a lieto fine. La sostanza è che i flussi migratori sono visti, in primo luogo, come una minaccia alla sicurezza nazionale, anche se non c’è un legame inevitabile tra i due. Non tutti condividono questa preoccupazione. C’è chi chiede aperture all’immigrazione, ma forse sono solo una minoranza, anche se significativa. Gli umori popolari verso l’immigrazione sono spesso più negativi di quelli dei loro rappresentanti, con qualche eccezione, quando sono gli orientamenti negativi dei governi a forzare la mano in senso repressivo. Un esempio? L’amministrazione Trump.

In questa contesto, possiamo immaginare un percorso logico per definire le priorità delle politiche d’immigrazione dominato da misure di contenimento,[1] anche se attenuate da politiche alternative, [2] che seguirà una triangolazione tra tre elementi concettuali: (i) la necessità assoluta di garantire la “difesa della sicurezza nazionale”; (ii) riconoscimento della “minaccia che l’immigrazione irregolare esercita alla sicurezza nazionale”; e (iii) accertamento dell’urgenza di “reprimere i crimini” connessi con l’immigrazione irregolare come minacce tangibili.

Il primo elemento di questo triangolo non richiede spiegazioni. Nessuno negherebbe l’importanza di difendere il proprio paese da minacce militari, spionaggio, terrorismo, traffico 34 illegale di risorse finanziarie e di persone. Il problema è il secondo elemento: ipotizzare che l’immigrazione irregolare sia una minaccia alla sicurezza nazionale non è così scontato. L’immigrazione irregolare – come fenomeno sociale, economico e politico, che riguarda milioni di persone che lasciano il proprio paese con i loro problemi, motivazioni, speranze e potenzialità, fuggendo da tragedie umane, povertà, violenza, fame, e disperazione – non è necessariamente una minaccia alla sicurezza del paese destinatario. Può essere vista anche come contributo positivo a quella società. Affinché l’immigrante irregolare si trasformi in minaccia, è necessario introdurre un’ulteriore ipotesi: supporre che immigrazione irregolare equivalga a importare criminalità. Chiamo questa ipotesi la “criminalizzazione dell’immigrazione irregolare”. L’immaginario collettivo infatti può ignorare la dimensione umana e sociale dell’immigrazione irregolare per rimpiazzarla con la nozione di una immigrazione clandestina strettamente legata a “reati” e ad “attività criminali”, in qualche modo causati dal flusso migratorio. Se accettiamo questa ipotesi, l’immigrazione irregolare diviene una minaccia alla sicurezza nazionale da cui difendersi.

Dall’accettazione di questa sequenza logica deriva la necessità impellente di adottare misure che “contengano”, “respingano”, e “reprimano” l’immigrazione irregolare, perché solo così si difendono le frontiere, anche se queste misure non si sono dimostrate efficaci. Infatti, i flussi migratori continuano ad arrivare nonostante i respingimenti.

Molti potrebbero dire che sto esagerando nella stigmatizzazione della retorica della difesa della sicurezza nazionale, collegandola con la criminalizzazione dell’immigrazione irregolare. L’obiettivo dei governi, si potrebbe obiettare, non è la criminalizzazione di persone innocenti ma la “difesa della legalità” e la “normalizzazione” del processo migratorio. Alcuni governi si dichiarerebbero addirittura favorevoli all’immigrazione, anche se in realtà questo si applica solo a quella “regolare” (e questo è da dimostrare), e potrebbero concludere che la loro unica preoccupazione è la protezione del territorio nazionale da pericoli esterni. In realtà, le politiche d’immigrazione sono spesso presentate come un ibrido nebuloso di misure di contenimento e di accoglienza, per rispondere ad un elettorato che ha posizioni contraddittorie in materia. Tuttavia, le loro dichiarazioni pubbliche continuamente ribadiscono la preoccupazione per la difesa della sicurezza del paese, anche se alcuni osano parlare anche di “immigrazione e accoglienza” o addirittura di “immigrazione e integrazione”. Ma anche i governi che sono più aperti all’immigrazione considereranno questa preoccupazione per la difesa della sicurezza nazionale necessaria per tranquillizzare l’elettore “medio”, assicurando che la priorità assoluta è la tutela del cittadino. E per questo verranno intensificati il reclutamento delle forze dell’ordine, i controlli ai confini e nelle strade, la protezione da chi ruba, uccide, ferisce, stupra, vandalizza, sporca e denigra il territorio nazionale. “Sicurezza in primis”.

Si possono individuare tre tipi di tentativi di criminalizzare l’immigrazione irregolare:

• Considerare il soggiorno illecito nel paese di destinazione finale come un vero e proprio reato; • Presentare gli immigranti irregolari come (potenziali) criminali (comuni); • Promuovere azioni repressive nei confronti di una serie di attività criminali associate al processo di immigrazione. Questi reati si articolano in due sottogruppi: (a) reati commessi durante o dopo l’ingresso nel paese a danno degli immigranti da “terze persone”; e (b) l’attività dei trafficanti di immigranti, responsabili dell’organizzazione e della facilitazione del viaggio migratorio. 35

In questa Parte III, mi concentrerò sui primi due tentativi, che considerano gli immigranti irregolari come “criminali”. Nella Parte IV affronterò il terzo tentativo.

‘Criminalizzazione’ formale e criminalizzazione ‘de facto’ dell’immigrazione irregolare

Il primo tipo di tentativo di criminalizzare l’immigrazione irregolare è quello che chiamo criminalizzazione “formale”: inclusione di un nuovo reato fra le leggi vigenti che consideri il mero attraversamento illecito del confine nazionale o il soggiorno nel paese senza le dovute autorizzazioni come un crimine formale, e punibile in quanto tale. Basta la mera adozione di una legge o di una misura con analoga forza, come decreti leggi, decreti legislativi, circolari o direttive, come è possibile in Italia, o gli “executive orders” del Presidente degli Stati Uniti. È il modo più diretto per criminalizzare l’immigrazione irregolare. Non richiede alcun speciale comportamento da parte dell’immigrante né circostanze particolari. È sufficiente che l’immigrante irregolare si comporti come tale e si trovi entro i confini nazionali, senza che abbia commesso altri crimini. Questa condizione è sufficiente per giustificare misure repressive come la detenzione e l’espulsione forzata. A questo punto, l’immigrazione irregolare cessa di essere un’ “infrazione amministrativa” (se era considerata tale in precedenza).

Questo è quello che è avvenuto in Italia con l’adozione della legge n. 189 del 30 luglio 2002 (c.d. legge Bossi-Fini),[3] che modificò le procedure d’espulsione previste dalla legge Turco- Napolitano, rafforzando il respingimento e il rimpatrio obbligatorio e dando rilevanza penale all’immigrazione irregolare. Quelle disposizioni furono rafforzate e confermate nel «Pacchetto sicurezza» del secondo governo Berlusconi, che sancì l’inserimento del reato di immigrazione «clandestina» nel testo unico sull’immigrazione (art. 10-bis), che può essere giudicato con rito direttissimo dal giudice di pace. La criminalizzazione “formale” intensificò la retorica della difesa della sicurezza nazionale, come operazione di vera propaganda politica, e mandò un chiaro messaggio, non tanto agli immigranti, quanto agli elettori del centro-destra, anche se non alterò la dinamica dell’immigrazione in Italia. Con l’arrivo del centro-sinistra, ci fu un’inversione di tendenza e, con l’approvazione nel 2014 della legge sulle pene detentive non carcerarie e la sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili (legge n. 67 del 2014), si arrivò in sostanza all’abrogazione del reato di ingresso e di soggiorno illegale in Italia, trasformandolo di nuovo in illecito amministrativo. Resta però il divieto di reingresso di immigranti irregolari dopo l'espulsione, che è un reato penalmente sanzionabile. Persiste, perciò, una coda a questa criminalizzazione “formale” in quanto, se l’immigrante irregolare espulso rientra in territorio italiano, l’irregolarità del suo soggiorno acquisisce rilievo penale. Si tornerà alla piena criminalizzazione “formale” dell’immigrazione irregolare in Italia dopo i risultati elettorali del marzo del 2018? Difficile prevederlo, visto l’attuale quadro politico, anche perché un simile cambiamento richiede l’approvazione del Parlamento.

La criminalizzazione “formale” dell’immigrazione irregolare non è frequente, poiché normalmente lo stato irregolare dell’immigrante viene considerato un’infrazione amministrativa, anche se la severità con cui viene colpita fa pensare più ad un vero e proprio reato pur non avendone il nome. Anche quando è un’infrazione amministrativa, essa normalmente prevede pene severe, fino alla detenzione carceraria (in alcuni paesi), e altre misure fortemente repressive, fino all’ordine di espulsione, che non sono molto diverse da quelle previste per attività criminali. In pratica la differenza tra criminalizzazione ‘formale’ e criminalizzazione ‘de facto’ dell’immigrazione irregolare è quasi esclusivamente semantica. Il peso delle misure repressive adottate è molto simile, se non identico, e sono percepite, sia dagli immigranti che le subiscono che dai cittadini che ne sono testimoni, come repressione di attività criminale. 36

Quindi la vera criminalizzazione dell’immigrazione irregolare non consiste tanto nel riconoscimento dell’esistenza di un “reato” formale di immigrazione clandestina quanto nel fatto che, sostanzialmente, gli immigranti irregolari siano trattati come veri criminali solo per soggiornare nel paese d’immigrazione senza le dovute autorizzazioni. Ne è prova l’adozione di tutta una serie di misure repressive nei loro confronti: arresti, detenzioni, monitoraggi “elettronici”, retate, riduzione della libertà di movimento, controlli incrociati con polizie e agenzie di intelligence internazionale, come il trattenimento presso i Centri di Detenzione statunitensi o i CIE italiani, ove la detenzione è spesso discrezionale.

L’immigrante irregolare come “pericolo sociale”

La detenzione degli immigranti irregolari non è normalmente obbligatoria, ma è spesso lasciata alla discrezionalità delle forze dell’ordine. In alcuni casi, i centri di detenzione o le autorità pubbliche da cui questi centri dipendono (per esempio il questore, in Italia, o l’Immigration and Customs Enforcement - ICE negli Stati Uniti) li rilasciano con permessi permanenti o temporanei, sulla base di varie giustificazioni, ma anche con una certa imprevedibilità e con una discrezionalità che varia da un paese all’altro, e nello stesso paese, da un governo all’altro.

Si sono sollevate – sia in Italia come negli Stati Uniti o in altri paesi – obiezioni sulla legittimità di queste forme detentive, considerate come misure precauzionali, visto che sono vere privazioni della libertà personale in assenza di reato. Come si può essere arrestati per infrazioni amministrative? A dire il vero, sanzioni amministrative possono portare alla detenzione in carcere a determinate condizioni (per esempio, comportamenti recidivi, ma questo dipende dalle leggi del paese). In Italia, l’art. 13 della Costituzione pone garanzie contro la riduzione della libertà personale, che può essere giustificata solo in casi eccezionali con “atto motivato dall’autorità giudiziaria”. Tuttavia, la nostra stessa Costituzione non esclude che le autorità di pubblica sicurezza possano ricorrere a provvedimenti di limitazione di tale libertà in caso di necessità e di urgenza,[4] decidendo – attraverso una valutazione abbastanza imprevedibile e tutto sommato soggettiva –esclusivamente sulla base della presunta pericolosità sociale e del rischio di fuga dello straniero che si potrebbe sottrarre dal provvedimento d’espulsione.

I centri di detenzione americani o i CIE hanno una popolazione di “ospiti” molto mista. Ci sono persone altamente “sospettabili” in base a presunti trascorsi penali, ma anche persone che hanno solo una colpa accertata: sono entrate nel paese senza le dovute autorizzazioni. Spesso ciò che conta sono le informazioni raccolte nelle prime ore dopo il loro ingresso nel paese (per esempio, durante la “pre-registrazione” compiuta negli Hotspot italiani subito dopo lo sbarco o dopo aver attraversato il posto di frontiera ed essere trattenuti dal funzionario dell’immigrazione). E quanti malintesi sorgono, quante valutazioni superficiali vengono effettuate, e quante ingiustizie vengono commesse in quelle prime ore, con conseguenze pesanti per gli immigranti coinvolti.

Ci si aspetterebbe che la detenzione si applichi più che altro agli immigrati con elevati rischi di pericolosità legata alla probabilità di commettere reati comuni (contatti con criminalità organizzata, o con reti terroristiche, o aver commesso reati specifici). Ma molti di questi soggetti probabilmente sono stati già “trattenuti” presso strutture carcerarie. Solo una percentuale degli “ospiti” dei centri per immigrati appartiene a quel gruppo. La stragrande maggioranza ha commesso solo un “atto illegittimo”: hanno infranto le leggi d’immigrazione, e non necessariamente sono isolati dagli “ospiti” più pericolosi. Non è il genere, né l’età, né la nazionalità dell’immigrato che definisce chi deve essere detenuto. Né l’esistenza di provati precedenti penali o consistenti sospetti di attività criminali. Negli Stati Uniti, ove a volte i detenuti vengono rilasciati in libertà provvisoria dopo il versamento di cauzione pecuniaria, sono 37 in primo luogo gli immigranti che non si possono permettere di pagare la cauzione che rimangono nei centri, magari perché non sono riusciti a entrare in contatto con parenti o amici.

La detenzione o qualunque altra misura repressiva applicata all’immigrante irregolare che entra in contatto con le autorità si basa solo su di una circostanza: la presunzione che l’immigrante irregolare sia un pericolo pubblico per la nazione, una vera minaccia alla sicurezza nazionale senza bisogno di dimostrare questo stato di pericolo con riferimento ad alcun crimine specifico. È per questo che la detenzione spesso è molto lunga, anche se dovrebbe essere solo temporanea.[5] Ma a volte vengono rilasciati, magari per periodi limitati, forse dietro pagamento di cauzioni monetarie, o con altre condizioni sospensive, ma c’è il “rischio di fuga”. Per evitare la fuga, negli Stati Uniti spesso debbono portare “braccialetti” elettronici alle caviglie – gli “shackles” (le “catene”) – che li rendono più facilmente ubicabili. Quante volte ho viste donne di tutte le età, convocate da un tribunale americano per l’immigrazione, presentarsi con questi “shackles” alle caviglie! Ho chiesto ad alcune di loro da quanto tempo lo portavano. “Nove mesi. Non lo posso mai togliere. Devo caricare la batteria ogni giorno, mettendo il piede vicino ad una presa della luce. Se la batteria si scarica, arrivano subito gli agenti dell’ICE per verificare se ho tentato la fuga.” Come ti senti a portare il “braccialetto”? “Mi vergogno. La gente pensa che sia una ladra, una criminale. Debbo farmi la doccia col “braccialetto”, e a volte mi fa male, mi fa irritazione, ma non posso levarlo.”

Lo scopo di questi “braccialetti” è chiaro nel caso di un criminale comune in libera provvisoria. Se fugge, c’è il rischio che ripeta lo stesso crimine: un ladro può continuare a rubare; un omicida sanguinoso può uccidere ancora; un pedofilo può minacciare altri bambini. Occorre controllarne i movimenti. E per l’immigrante irregolare? Potrebbe continuare ad essere un immigrante irregolare. Non c’è proporzionalità tra la gravità di queste misure e la qualità dell’illecito che ha commesso. Gli immigranti rilasciati dall’ICE subiscono costrizioni alla libertà di movimento come se si trattasse di criminali in libertà provvisoria o agli arresti domiciliari. Sarei tentato di concludere che è la severità stessa delle misure di repressione che, trattando gli immigranti come criminali, definisce la criminalizzazione dell’immigrazione irregolare. Siamo riusciti a criminalizzarli a priori, li trattiamo da criminali, e pertanto sono criminali, nonostante si tratti per lo più di persone in grave stato di bisogno.

La “criminalizzazione degli immigranti irregolari”

Questa criminalizzazione “formale” o “de facto” dell’immigrazione irregolare è semplice da concepire, ma non riesce a creare il sostegno popolare di chi si aspetta un grido d’allarme di fronte a questa immigrazione. È una definizione puramente astratta della minaccia esercitata dall’immigrazione irregolare, che non spiega la natura del “pericolo sociale” per la vita quotidiana dei cittadini. La dà per scontata. Un’ipotesi a priori, una presunzione, assolutamente incapace di generare un sostegno sociale o generare un senso d’urgenza nell’opinione dei cittadini, di cui i governi hanno sempre bisogno per garantire efficacia alle proprie leggi. Per generare questo sostegno occorre personalizzare questa minaccia, rendendo credibile la “pericolosità” dell’immigrante irregolare perché capace di atti criminosi gravi (effettivi, presunti, o attesi). Il primo tentativo di criminalizzazione non riesce in questo, perché “l’aver attraversato la frontiera senza le dovute autorizzazioni” non colpisce l’immaginario collettivo.

Il secondo tentativo di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare, invece, non si accontenta della criminalizzazione come fenomeno astratto (l’infrazione delle leggi sull’immigrazione) ma cerca la “criminalizzazione degli immigranti irregolari” come “individui” che probabilmente 38 potrebbero commettere personalmente reati comuni, contribuendo così ad un aumento del tasso di criminalità.

Chi sostiene questa ipotesi non rappresenta necessariamente la maggioranza della popolazione. Né i politici che li rappresentano debbono inevitabilmente sottoscriverla. Ma non c’è dubbio che, dietro le politiche di respingimento sempre più frequenti, esiste una opinione diffusa che la avalla. A dire il vero, tra chi sostiene questa tesi, c’è anche chi ha posizioni ideologiche ben più estreme, aggiungendo che l’immigrazione irregolare è addirittura una minaccia diretta alla nostra cultura, alle nostre tradizioni, alla nostra religione, alle nostre famiglie, alla nostra identità nazionale o perfino alla nostra identità etnica. Queste ultime preoccupazioni sono di chiara matrice xenofoba e razzista, e per questo non riflettono le politiche di alcun governo attuale (forse con qualche eccezione). Pertanto, mi limiterò qui a considerare l’ipotesi che l’immigrazione irregolare, se non controllata e opposta, produca un aumento della criminalità comune, senza scomodare stereotipi di natura xenofoba e razzista, anche se posizioni più estreme si nascondono nella psicologia individuale di coloro che influenzano le politiche d’immigrazione.

Un modo efficace per sintetizzare questo secondo tentativo di criminalizzazione è l’uso delle parole di Donald Trump durante il dibattito televisivo del 19 ottobre 2016 con Hillary Clinton nelle ultime elezioni presidenziali, ma quelle posizioni non sono molto diverse da quelle espresse da Le Pen in Francia, da Falange nel Regno Unito e da Salvini in Italia, tanto per menzionarne alcuni. L’allora candidato presidenziale americano giustificò la costruzione del muro con il Messico con la necessità di bloccare l’arrivo di trafficanti di droga e di “bad hombres” (uomini cattivi), espellendo “very bad people” (gente molto cattiva). Le espressioni di Trump sono rozze e l’uso del sostantivo spagnolo “hombres” è un modo denigratorio per stigmatizzare l’immigrante latino-americano con linguaggio da film western. Ma il significato è ovvio: attribuire agli immigranti lo stereotipo degli “uomini cattivi”, un modo infantile per riferirsi a “criminali”, ribadendo la ratio di questo secondo tentativo di criminalizzazione.

Il problema non è tanto se il legame tra l’immigrazione irregolare e un aumento del livello di criminalità possa essere dimostrato statisticamente (farò qualche richiamo a questo aspetto più di seguito) ma il fatto che questa ipotesi ha un diffuso sostegno popolare, come conseguenza di un esteso senso di insicurezza, di paura, di disagio o addirittura di disprezzo nei confronti degli immigranti irregolari, e pertanto influenza le politiche d’immigrazione.

Gli immigranti che commettono crimini e la criminalizzazione degli immigranti

Potrei citare all’infinito aneddoti che confermino o contraddicano questa ipotesi. Al tempo stesso, non possiamo negare che esiste una delinquenza da parte di stranieri immigrati, sia residenti che appena arrivati, così come esiste una criminalità anche tra i cittadini del paese ospitante. Se un immigrato ruba, stupra, uccide, o infrange il codice penale in altro modo, non merita uno “sconto” dovuto alla sua condizione. Ma la questione è un’altra: possono i massicci flussi migratori essere riassunti soltanto in espressioni quali “invasioni di stranieri che infrangono le nostre leggi” o una “importazione di criminali”?

Ci sono tre aree su cui intendo concentrarmi: (i) relazione tra immigrazione con i reati comuni (contro la proprietà e contro le persone); (ii) la sua influenza sul traffico di droga; ed infine (iii) il possibile legame tra l’immigrazione irregolare ed il terrorismo internazionale. Esaminerò queste tre aree separatamente. Cominciamo dalla prima relazione: sono gli immigranti irregolari una fonte di maggiore criminalità comune? I social media che fanno eco a opinioni avverse all’immigrazione hanno spesso esaltato questo rischio, dando visibilità ad ogni crimine 39 commesso da un immigrante irregolare, che sono continuamente evidenziati sulla stampa ed in TV, non solo e non tanto per la gravità del reato (su cui non si possono fare eccezioni), ma per il fatto che il reato è commesso da un immigrante clandestino. Analoghi reati commessi da cittadini del paese d’immigrazione non hanno la stessa copertura giornalistica: se un borseggiatore strappa una borsa ad una signora buttandola per strada non fa notizia e il fatto non viene riportato in alcun giornale, a meno che non sia un immigrante irregolare. Sembra quasi che nel riportare queste notizie, alcuni media cerchino continua conferma della presunzione che mediamente gli immigranti irregolari commettano più reati dei cittadini.

L’ipotesi contraria, che gli immigranti irregolari possano commettere meno reati dei cittadini, perché così rischiano di essere arrestati ed estradati in qualsiasi momento, non ci sfiora neanche da lontano. Eppure, gli immigranti irregolari, come ho potuto constatare parlando con molti di loro, sanno che commettere reati è la strada maestra per accelerare la loro espulsione, ed è pertanto contrario ai loro interessi. Per questo molti di loro sono attenti a non commettere infrazioni di alcun tipo.

Tuttavia, molti crimini sono commessi da immigranti, anche reati gravi, e non ci sono scusanti per comportamenti devianti di questo tipo, pur tenendo conto delle povere condizioni socio- economiche in cui molti di loro versano. Ricordiamo, però, che la maggioranza degli illeciti compiuti dagli immigranti irregolari appartengono al gruppo dei reati minori. Ciò nonostante, anche questi piccoli crimini rinforzano lo stereotipo che sono tutti stupratori, trafficanti, ladri o assassini, generalizzando a tutta la popolazione straniera recentemente immigrata lo stigma della criminalità.

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Chi ha ucciso il capo?

Un esempio,[6] poco noto al pubblico italiano, che riguarda gli italiani emigrati negli Stati Uniti, conferma l’ingiustizia di attribuire la colpa per un crimine a chi non ha alcun altro contatto con il criminale se non la nazionalità. Luogo: New Orleans. Anno: 1890. Migliaia di emigranti siciliani tra i più poveri erano arrivati nella Louisiana dopo la guerra civile nel 1865 per sopperire alla domanda di lavoro nelle piantagioni dopo la schiavitù. Gli italiani mostrarono una notevole capacità ed intraprendenza, affermandosi in settori quali quello ortofrutticolo, nelle strutture portuali, e nell’industria peschiera. A New Orleans si era creata la Piccola Palermo, ad immagine della Little Italy di New York e di Boston. Una scalata difficile per chi non conosceva le abitudini locali, con contrasti con altri immigrati, di più vecchia generazione, che si consideravano “nativi”.

Il 15 ottobre 1890, un gruppo di uomini uccise il capo della polizia David Hennessy. Il sindaco, Joseph A. Shakespeare, subito ordinò l’arresto di ogni italiano in circolazione. Le testimonianze della stampa dell’epoca riflettono il clima persecutorio che seguì. Il crimine fu attribuito alla Mafia, legato al tentativo del capo della polizia Hennessy di interferire sulle dispute tra due rivali italiani (Provenzano e Matranga) nel trasporto di ortofrutticcoli, appoggiandone uno. Ciò avrebbe provocato la vendetta della fazione rivale. Ma l’ordine fu di “arrestare tutti gli italiani” che si potevano trovare a New Orleans. Ben 120 italiani furono arrestati: fruttivendoli, manovali, stradini, guardiani notturni, anche uno studente di 12 anni. Molti furono malmenati. Alla fine, solo 19 persone, collegate con il clan dei Matranga, furono trattenute, e 9 formalmente accusate. Una sommossa contro gli italiani accompagnò per quattro mesi il processo, con la stampa che alimentava le proteste. L’accusa rivolta agli italiani era di interferire sul funzionamento della vita sociale e politica con cosche mafiose. Nel processo, gli italiani furono presentati come gente povera e oppressa, “scura di carnagione”, nati criminali, violenti e primitivi per natura.

Alla fine, sei accusati furono esonerati con un verdetto di non colpevolezza, mentre per altri tre la giuria non riuscì a concordare un verdetto. Il giudice, inorridito da questa impasse giudiziaria, si rifiutò di rilasciare gli accusati. Una folla inferocita di più di ottomila persone, molte armate, prese la giustizia nelle proprie mani, e pretese il rilascio dei prigionieri: due di loro furono rilasciati alla folla e, dopo essere stati picchiati, furono impiccati su di un albero ed un lampione. Alla fine della giornata, undici italiani risultarono linciati e fucilati dalla folla inferocita. Il New York Times uscì con un editoriale dal titolo “Capo Hennessy Vendicato”, pieno di insulti contro i siciliani, “figli di banditi e di assassini”, difendendo chi aveva fatto il linciaggio perché “giustificato e appropriato”. Gli effetti 41

del linciaggio furono la fuga degli italiani da New Orleans, continuamente molestati dai cittadini. Quando navi arrivavano dall’Italia con nuovi immigranti, gli italiani venivano accolti da sberleffi ed insulti. I rapporti diplomatici tra i due paesi subirono un congelamento per un anno, specialmente dopo che una giuria scagionò completamente gli autori del linciaggio, descrivendoli come “molte migliaia di cittadini tra i migliori e i più rispettosi della legge”. La comunità di New Orleans continuò per anni a marginalizzare gli italo-americani residenti nella città, utilizzando sempre la frase “Who Killa da Chief?” (scimmiottando l’accento italiano), a memoria permanente della responsabilità per l’omicidio del capo della polizia occorso nel 1890, attribuita a tutta la comunità di origine italiana.

Alcuni studi sociologici e criminologici hanno esaminato il comportamento di gruppi sociali a seconda delle loro origini, distinguendo cittadini che hanno origini straniere (di seconda o di terza generazione) dagli altri, e sono pervenuti alla conclusione che il tasso di criminalità di ogni gruppo sociale dipende dal grado di integrazione o di marginalizzazione nella società di quel gruppo, e l’appartenenza degli individui a ciascuno di questi gruppi. Fenomeni di ghettizzazione e di disadattamento sociale possono favorire comportamenti criminali. Questi studi non offrono molti suggerimenti sull’immigrazione corrente, perché, anche se i due temi sono collegati, il problema per gli immigranti correnti è se accoglierli o respingerli, mentre nel caso di figli o nipoti di immigranti del passato il respingimento neanche si pone: in tal caso, il tema centrale è la loro integrazione, che è essenziale per il successo del processo d’immigrazione. Finora, però, di integrazione ho parlato ben poco. Ne parlerò in una parte successiva.

Altri studi cercano di verificare correlazioni tra criminalità e sottogruppi di immigranti, quali i rifugiati, per verificarne l’impatto sul tasso di criminalità. La Germania è stato un paese che ha accolto molti rifugiati, provenienti sia dall’est europeo che dal Mediterraneo. Le conclusioni raggiunte, però, non necessariamente si possono applicare agli immigranti irregolari in generale, in quanto questi ultimi possono includere sia richiedenti asilo (potenziali rifugiati) che altri individui.

Molto più interessanti sembrano le analisi per fasce di età. La criminalità infatti varia a seconda dell’età: è generalmente più elevata fra individui in età tra i 20 e i 40 anni, e più bassa per classi di età superiori ai 40 anni, per la minor incidenza di reati quali furto, scasso e rapina tra persone di maggiore età, anche se criminali di qualunque età possono commettere questi reati. Gli immigranti irregolari hanno una struttura per età che privilegia i giovani. Quindi la probabilità che si annidino tra di loro individui più disposti a commettere crimini è maggiore della probabilità di trovarli in popolazioni meno giovani. Questo approccio permette di arrivare ad altre scoperte. In Italia, è stato riscontrato che la criminalità di immigranti in età tra i 18 e i 44 anni è più alta di quella degli italiani della stessa età, ma il tasso di criminalità degli immigrati di età più avanzata mostra di essere minore rispetto a quello degli italiani della stessa età.[7] Questa constatazione si presta a considerazioni non irrilevanti sui facili slogan che attribuiscono attitudini criminali a chi entra dall’estero in contrapposizione a chi è cittadino del paese.

Questo mi porta ad altri paragoni. Gli italiani, popolo di emigranti da data ben remota, hanno spesso subito lo stesso stigma, attribuito al ruolo della criminalità di stampo mafioso che ha macchiato l’immagine del nostro emigrante operoso, spesso tacciato di essere un criminale solo per essere un italiano. Stiamo facendo la stessa cosa con gli immigranti irregolari che vengono nel nostro paese? 42

Le evidenze statistiche: segni contraddittori

Non ho intenzione di rivedere qui i numerosi studi condotti su quest’ipotesi.[8] Basta dire che le ricerche partono da premesse molto diverse, seguono approcci e metodologie spesso incomparabili, coprono realtà molto differenti, e sono arrivate a conclusioni a volte completamente opposte. In generale, sono incapaci di dimostrare una relazione causa-effetto tra immigrazione e criminalità. Alle difficoltà metodologiche, si aggiunga il fatto che la base conoscitiva sugli immigranti irregolari è molto debole, mentre più ricca è la qualità di conoscenze sugli immigranti regolari. C’è infatti il rischio di applicare agli irregolari conclusioni tratte studiando immigranti regolari, inavvertitamente sostituendo l’ipotesi da dimostrare (la “criminalizzazione degli immigranti irregolari”} con una correlazione tra criminalità e chiunque abbia un passaporto straniero, ipotesi molto pericolosa.

Ma guardiamo ad alcuni risultati emersi. Negli Stati Uniti, sembra che non ci sia una correlazione positiva tra immigrazione e criminalità.[9] Anche nel caso in cui si riuscisse a trovare una qualche relazione, si tratterebbe di una relazione estremamente debole, in cui il rapporto di causalità non è per nulla dimostrato. C’è chi ha dimostrato che la correlazione statistica sia addirittura di segno negativo: che immigrazione e criminalità si muovano in direzione opposta.[10] A conferma si aggiunga l’osservazione comune tra gli immigranti irregolari negli Stati Uniti, che sono costantemente preoccupati di scongiurare problemi con le forze dell’ordine per evitare il rischio di espulsione immediata: infatti il tasso di criminalità degli immigranti valutato in specifiche aree ove essi risiedono è inferiore al tasso medio di criminalità di chi abita nelle stesse aree. In altre parole, sarebbero i cittadini ad essere più “pericolosi” degli immigranti in quelle aree. Conclusione analoga fu raggiunta nel Regno Unito in uno studio del 2014 sui reati contro la proprietà (furti e simili) condotto nella zona di Londra,[11] che constatò che gli immigranti, ed in particolare immigranti africani, mostrano di essere significativamente meno propensi dei cittadini britannici che abitano nelle stesse zone ad intraprendere attività criminali, particolarmente furti, violenza e attacchi sessuali, anche se sono più attivi in reati riguardanti il settore “droga”.

Simili risultati sono stati osservati in Canada,[12] ove non è stato possibile dimostrare una influenza significativa dell’immigrazione sul tasso di criminalità, mentre questo stesso indice mostra chiari segni di miglioramento una volta che gli immigranti sono integrati nella società nazionale. Altrettanto può dirsi della Francia,[13] anche se è stato riscontrato un tasso più elevato di criminalità tra gli immigrati disoccupati (come c’è da aspettarsi). Il problema semmai in quel paese, così come in molti paesi europei ad intensa immigrazione, è il processo di integrazione della comunità di origine straniera, vista l’emarginazione significativa di cittadini discendenti da immigrati del passato. Lo stesso vale per i Paesi Bassi, ove è stato rilevato un tasso di criminalità più elevato tra la popolazione di origine straniera rispetto a quella considerata “nativa”,[14] specialmente nelle fasce di età tra di 18 e 24 anni, con una differenza notevole tra gli uomini e le donne (le quali presentano il tasso più basso di criminalità).

Nel Regno Unito, la percentuale di popolazione incarcerata nelle prigioni britanniche non sembra essere molto influenzata dalla proporzione tra popolazione residente nativa e quella di immigranti.[15] Diversi studi concludono che non ci sono prove che vi sia un impatto causale tra immigrazione e criminalità in Inghilterra e nel Galles.[16] Soltanto con il nuovo millennio si è avuta un’esplosione del 111% degli stranieri detenuti nelle carceri britanniche, ma questo non è collegato ad un incremento dei flussi migratori, o ad una loro presunta tendenza a commettere più reati dei cittadini britannici, quanto all’aumento delle detenzioni collegate al traffico di droga (che normalmente è legato ad attività di stranieri).[17] Un aumento è stato rilevato per le 43 detenzioni legate a reati di frode e di falsificazione di documenti governativi, nonché altre infrazioni relative a leggi sull’immigrazione (che rientrano piuttosto nell’ambito del primo tentativo di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare, non collegabile a reati comuni).

In Germania, eccetto per lo spaccio di droga, non risultano particolari diversità nel tasso di criminalità tra popolazione tedesca e rifugiati.[18] Nel 2016, una polemica tra l’allora candidato presidenziale Donald Trump ed il governo tedesco, sulla presunta incidenza dell’immigrazione in Germania sui tassi di criminalità, portò ad una netta risposta del governo tedesco che mostrò che, pur con un aumento del 50% del numero dei reati per i quali erano sospettati rifugiati, richiedenti asilo e immigranti irregolari nel corso del 2016, solo l’1% degli immigranti erano colpevoli, per lo più criminali recidivi,[19] dimostrando la distorsione di generalizzazioni sulla pericolosità degli immigranti irregolari.

Anche in Svezia vi fu un’analoga polemica con Trump che, nel febbraio 2017, affermò che il tasso di criminalità era aumentato in quel paese a causa dell’immigrazione, specialmente per il riportato aumento di stupri commessi da immigranti e da rifugiati. La dichiarazione fu contraddetta da studiosi svedesi che mostrarono che quelle asserzioni erano estrapolazioni da episodi isolati. In paesi come la Svezia, comunque, la relazione tra immigrazione e criminalità è complessa. Si ha una conferma di un tasso di criminalità maggiore tra gli immigranti rispetto ai cittadini svedesi, specialmente per reati come stupro, furti, crimini violenti (compresi omicidi),[20] ma i dati esaltano eventi isolati per generalizzarli all’intera popolazione degli immigranti. Fattori particolarmente rilevanti nel determinare un diverso tasso di criminalità tra immigranti sono il reddito familiare, il livello economico medio delle aree in cui l’immigrato vive, e la differenza tra il caso in cui l’immigrato sia cresciuto sin da giovane età in Svezia, e il caso in cui sia arrivato nel paese già da adulto. In Norvegia ed in Danimarca, analoghi dati emergono dalle statistiche sui crimini, con tassi di criminalità molto più elevati per certi gruppi di immigrati rispetto ai cittadini, anche se ci sono variazioni sostanziali a seconda del paese di origine.

In Grecia, che insieme all’Italia e alla Spagna, rappresenta uno dei paesi più frequentemente usato come destinazione da chi attraversa il Mediterraneo, l’intensificazione di politiche di respingimento ha prodotto un aumento del tasso di incriminazione per “immigrazione illecita” (che però rientra nel primo tentativo di criminalizzazione). Tuttavia, come riportato dalla BBC,[21] statistiche ufficiali mostrano che gli immigranti sono responsabili per circa la metà dei reati commessi in quel paese. Analoga conclusione può facilmente trarsi sull’incidenza degli immigranti sul tasso di criminalità in Spagna, specialmente per reati contro la proprietà e per il traffico di narcotici.[22] Il 30% dei reati commessi in Spagna sarebbero causati da stranieri, pur rappresentando questi ultimi soltanto il 15% della popolazione.

In Italia, esiste una grande varietà di studi con risultati contradditori, alcuni con conclusioni allarmanti, che attribuiscono agli immigranti irregolari una quantità elevata di crimini, specie per scasso, furto d’auto, furti ordinari, rapine, assalto a pubblico ufficiale/resistenza all’arresto, riciclaggio di merci rubate. Secondo uno studio del 2013, gli immigranti compiono il 23% dei crimini, ma rappresentano solo il 6-7% della popolazione residente (nel 2010). Tuttavia, obiezioni metodologiche sono state sollevate su questi studi, che non riescono a dimostrare la causalità tra immigrazione e criminalità. Uno studio del periodo 1990-2003[23] mostrò che l’incidenza dell’immigrazione sulla criminalità riguardava solo i reati di furto, mentre per altri reati i suoi effetti erano sostanzialmente irrilevanti. Non c’è dubbio, comunque, che l’immigrazione incida sulla criminalità in Italia, anche se questi risultati sono controversi. Tuttavia, mentre è frequente in Italia mostrare “facili” statistiche che mostrino tassi di criminalità 44 più elevati per gli stranieri immigrati rispetto agli italiani, le analisi più approfondite rivelano una realtà molto più complessa. Anche quando c’è una correlazione positiva tra criminalità e flussi migratori, ci possono essere altre variabili che potrebbero determinare questi risultati, non necessariamente collegate ai flussi migratori. Una ricerca del 2008 promossa dalla Banca d’Italia[24] inviò severi moniti su errate conclusioni in questa materia, sia per l’inadeguatezza dei dati che per le carenze metodologiche degli strumenti di analisi, ed arrivò alla conclusione che non era possibile riscontrare un impatto diretto decisivo sulla criminalità esercitato dai flussi migratori, in particolare con riferimento a reati contro la persona, contro il patrimonio ed il traffico di droga, essendo le ragioni alla base della criminalità di certi individui attribuibili ad altri fattori. I risultati delle indagini in Italia sono tuttavia ambigui, con alcuni studi che suggeriscono che è stata l’intensificazione dell’uso delle forze dell’ordine a portare ad una riduzione della criminalità degli immigranti, mentre dall’altro la riduzione di misure restrittive conseguente alla regolarizzazione degli immigranti illegali raggiunge forse più facilmente lo stesso risultato.

Nell’Unione Europea, in generale, i flussi migratori più che essere associati ad un aumento della criminalità hanno generato un aumento del “senso di disagio” e di “paura” nei confronti degli immigrati, riflettendo un atteggiamento psicologico frequente fra i cittadini europei più che il comportamento degli immigranti. In ogni caso, la letteratura sui singoli paesi mostra risultati misti, ove a volte l’influenza dell’immigrazione sulla criminalità è praticamente irrilevante, mentre per altri si nota una certa incidenza specialmente sull’aumento dei reati contro la proprietà (furti, scassi, rapine, borseggio e scippo), mentre l’associazione con crimini violenti risulta più debole (con alcune eccezioni).

Distorsioni nel trattamento degli immigranti irregolari in sede giudiziaria

I dati che emergono sulla presunta correlazione tra immigrazione irregolare e criminalità sono in parte condizionati da due fattori: il distorto trattamento degli immigranti irregolari da parte delle strutture giudiziarie e delle forze dell’ordine quando essi sono messi a confronto con la giustizia, che gonfia i dati sulla loro criminalità, e l’importanza del contesto socio-economico, spesso ignorato, che può almeno in parte spiegare l’incidenza sulla criminalità dei flussi migratori. Le distorsioni nel trattamento in sede giudiziaria portano ad esagerare il numero di arresti e di detenzioni di persone immigrate, più facilmente individuate come obiettivo di perseguimento rispetto a cittadini che commettano analoghe infrazioni. Queste distorsioni sono particolarmente rilevanti quando si usano dati come il numero di arresti o di incarcerazioni, o il numero di detenuti nelle carceri, come “proxy” della nostra analisi. Nella maggioranza dei paesi d’immigrazione, le modalità e le procedure per fermi e per arresti nei confronti degli immigranti irregolari riflettono il frequente ricorso all’ “etichettamento” (profiling) degli stranieri per tratti somatici o per altri aspetti esterni che portano ad una più facile identificazione e più frequente detenzione rispetto ai cittadini. Inoltre, i sospetti di crimini che sono cittadini spesso riescono a evitare punizioni ricorrendo a pene pecuniarie o ad altre forme non detentive di punizione, semplicemente perché possono contare più facilmente su adeguata assistenza legale, oltre ad avere una migliore conoscenza del sistema legale e giudiziario. O, semplicemente, riescono ad evitare di essere perseguiti, perché più facilmente evadono nel territorio nazionale, protetti da un ambiente cui sono familiari, o possono contare su di un grado di tolleranza maggiore da parte delle forze dell’ordine con cui si incontrano, grazie a favoritismi non sempre concessi a stranieri.

L’effetto di questa distorsione è ancora più rilevante se l’analisi del tasso di criminalità si basa sul numero di persone “sospettate” per certi crimini o accusate degli stessi, anziché del numero dei condannati con sentenza di un tribunale, perché questi dati sono più facilmente 45 reperibili. L’uso di questa variabile “proxy” (persone sospettate anziché quelle condannate) può sovrastimare la criminalità degli immigranti, anche per l’adozione dell’approccio “tolleranza zero” in molti paesi verso qualsiasi attività criminale compiuta dagli immigranti, specialmente quelli irregolari, combinata con l’uso del profiling, che portano ad un aumento del numero di fermi e di arresti degli immigranti per motivi cautelari, anche se la colpevolezza dei detenuti non è ancora dimostrata, e ad una esasperazione della stigmatizzazione degli immigranti irregolari come presunti criminali. Ne deriva un errore sistematico nel calcolo del tasso di criminalità. A questo si aggiunga che l’esasperazione delle misure difensive e di respingimento nei confronti degli immigranti irregolari porta ad un facile “scontro” tra immigranti e forze dell’ordine quando queste ultime effettuano controlli, spesso in condizioni particolarmente aggressive, come retate o fermi casuali effettuati per la strada o in altri luoghi pubblici, con conseguente aumento degli arresti per resistenza a pubblico ufficiale, che si aggiungono alla detenzione per aver infranto leggi sull’immigrazione. Prova che questa “tolleranza zero” è una forma distorta di applicare la giustizia, combinata con il “profiling, è il fatto che anche cittadini che condividano gli aspetti ‘esterni’ degli immigranti irregolari ne subiscono spesso le conseguenze, essendo sottoposti a simili comportamenti discriminanti semplicemente perché “appaiono” stranieri.[25] Questa “tolleranza zero” non viene applicata in ugual misura ai cittadini che commettono gli stessi crimini, specialmente per tutta una serie di reati minori. Questo anche spiega l’applicazione meno frequente di pene non carcerarie a immigranti irregolari: quando è possibile evitare la detenzione carceraria pagando cauzioni pecuniarie, gli emigranti si trovano spesso in condizione svantaggiata, sia per la insufficienza dei mezzi finanziari di cui dispongono, sia per la incapacità di fornire informazioni non aleatorie su un possibile domicilio provvisorio ove possano essere rilasciati in caso di scarcerazione provvisoria.

Se la presenza elevata di stranieri nelle prigioni italiane e di altri paesi mette in particolare risalto l’incidenza degli immigranti tra i detenuti, questi dati sono distorti a favore dei cittadini rispetto agli immigranti. Nel caso dell’Italia, inoltre, la disastrosa situazione carceraria e le insufficienze delle nostre strutture di custodia crea un problema di sovraffollamento delle carceri, che ha portato alla tendenza a usare più frequentemente pene non carcerarie quali arresti domiciliari o libertà provvisoria o riduzione di pene detentive come alternativa alla crisi carceraria, in mancanza di strutture sufficienti ad accogliere i detenuti. Ma molte di queste misure non sono facilmente accessibili agli immigranti irregolari.

Altre forme di discriminazione si riferiscono al fatto che molte condanne sono legate a reati in qualche modo connessi alle leggi per l’immigrazione, anche quando l’immigrazione irregolare non è un reato (per esempio l’uso di documenti falsi per immigrare). Infine, nel caso di reati minori, dobbiamo anche tener conto di problemi di comunicazione, della possibile mancanza di conoscenza della lingua e delle leggi e dei costumi locali, che indubbiamente favoriscono i cittadini rispetto all’immigrante irregolare.

Fattori socio-economici, criminalità e immigrazione irregolare

Fattori socio-economici non vengono tenuti in adeguato conto nella stragrande maggioranza degli studi sul legame tra immigrazione e criminalità. La diversa condizione dell’immigrante rispetto al livello di reddito pro-capite (o l’assenza di alcuna forma di reddito), disoccupazione, povertà, livello di istruzione, accesso linguistico, e altri limiti relativi alle capacità tecniche dei lavoratori stranieri, incide in modo preponderante sui tassi di criminalità ancor più della presunta pericolosità degli individui, per cui presunte “predisposizioni criminogene” basate sullo stato migratorio degli individui sono infondate. 46

La marginalizzazione degli immigranti irregolari, in parte conseguente alle politiche d’immigrazione, li costringe a vivere in condizioni spesso misere, sfruttati ed esclusi dalla società. Se disoccupati, o con occupazioni instabili, o con accesso limitato a canali legali per conseguire un lavoro decente, sono oppressi dai problemi immediati di sopravvivenza. In mancanza di misure adeguate di accoglienza e di integrazione, i neo-arrivati usano tutti gli espedienti per sbarcare il lunario, compresi il commercio ambulante non autorizzato (spesso fortemente ostacolato dalle autorità), chiedendo l’elemosina lungo le strade o di fronte ai supermercati, prestandosi a svolgere qualsiasi servizio informale per qualunque remunerazione, affollando il mercato sommerso del lavoro a salari inferiori a quello di sussistenza. Questa situazione favorisce la creazione di ghetti ove gli immigranti irregolari abitano in condizioni degradanti. È così che non di rado sono tentati dal ricorso ad attività illecite, subendo la facile contaminazione da parte di ambienti criminali della società, dando luogo alla moltiplicazione di fenomeni di piccola criminalità, ma anche, occasionalmente, di gravi crimini, che contribuiscono ulteriormente al pregiudizio contro gli immigrati. Il legame tra criminalità e marginalizzazione dalla società risulta essere molto più significativo ed è ben noto ai criminologi, toccando gli immigranti come i cittadini. Per cui, più che scagliarsi contro i flussi migratori, dovremmo affrontare le cause che favoriscono la ghettizzazione di gruppi sociali costretti a vivere in enclave di povertà, che porta ad un’esasperazione delle tensioni sociali, con conseguente aumento dell’indice di criminalità: il problema quindi non sarebbe tanto l’immigrazione ma il processo di marginalizzazione nella società.

L’importanza di questi fattori socio-economici, però, può portare alla facile conclusione che respingere gli immigranti irregolari è l’unica soluzione disponibile per abbassare il tasso di criminalità, vista l’elevata incidenza di questi fattori nel favorire processi di marginalizzazione, che influenzano lo sviluppo della criminalità. Questa conclusione è erronea. L’amnistia del 2007, che portò alla regolarizzazione di molti immigranti in Italia in precedenza considerati illegali, produsse una sostanziale riduzione del tasso di criminalità nella popolazione immigrata e una diminuzione dei reati commessi da criminali recidivi. Come sostenuto in una ricerca del 2015 da Paolo Pinotti[26] dell’Università Bocconi, una riduzione del tasso di criminalità degli immigrati irregolari può scaturire da una intensificazione della legalizzazione degli immigranti nel paese ospitante. Questo genera incentivi per indurre comportamenti positivi e legittimi, che guardano al futuro con fiducia e con speranza, aprendo agli immigranti un accesso più facile a canali legali per un lavoro decente nell’economia formale, evitando le deviazioni di comportamenti illeciti come attività criminali. Ciò mostra che è lo stato di irregolarità (e non l’immigrato stesso) che costituisce una condizione che favorisce la criminalità. Tanto è vero che questa tendenza alla criminalità si riduce (per lo meno in parte), se non viene addirittura eliminata, se si dà all’immigrante uno stato legittimo che favorisce lo sviluppo della sua condizione economica e sociale. Questo effetto benefico della regolarizzazione degli immigranti irregolari sul tasso di criminalità degli stessi soggetti è stato riscontrato anche in altri paesi europei occidentali (per esempio in Germania ed in Francia).

Un altro fattore, probabilmente scarsamente considerato, può essere l’incidenza di esperienze traumatiche subite dagli immigranti sul loro comportamento sociale, e quindi sulla loro capacità di integrazione pacifica in una fase post-conflittuale della loro esistenza. Questo fattore è rilevante in molti paesi ove si riversano migliaia di immigranti che fuggono da scenari di guerra, o da catastrofi naturali, o condizioni di particolari tensioni sociali o persecuzione personale. Uno studio del 1997 condotto in Svezia ha analizzato questo fenomeno, con riferimento a persone che perseguono asilo, molte delle quali erano state soggette a episodi di tortura fisica o a PTSD (post- traumatic stress disorder). Questa è una condizione che può spiegare che certi gruppi di rifugiati 47 hanno un elevato rischio di commettere reati. Ma, di nuovo, si tratta di situazioni non generalizzabili a interi gruppi nazionali di immigranti.

Immigrazione e traffico di droga

Una delle accuse più frequenti contro gli immigranti irregolari è che sono spesso coinvolti nel traffico di droga. Sembra un luogo comune, ma molti uomini politici, da ambedue le sponde dell’Atlantico, sostengono questa idea, che ha motivato misure contro immigranti clandestini perché probabili trafficanti di droga, anche se le autorità preposte alla lotta contro il narcotraffico preferiscono concentrarsi contro le cosche criminali organizzate, che controllano il traffico della droga, più sugli immigranti irregolari. Tuttavia, il coinvolgimento di immigranti in questo traffico effettivamente esiste e bisogna caprine la natura e i limiti.

In primo luogo, però, riconosciamo che il narcotraffico rappresenta una tragedia umana ed un crimine internazionale che esiste anche indipendentemente dagli intensi flussi migratori dal sud del mondo verso i paesi ad economia più avanzata. In secondo luogo, il commercio e l’uso della droga hanno dimensioni interne a ciascun paese, con politiche nazionali contro la rete di spacciatori e di consumatori, Infine, il traffico di narcotici ha anche una dimensione internazionale perché la loro produzione, per lo meno per quanto riguarda l’eroina, la cocaina e la resina di cannabis (hashish), è localizzata in alcuni paesi, mentre il loro consumo è diffuso nei paesi ad alto reddito, creando un commercio clandestino. I problemi da porsi sono i seguenti: (1) quali sono i paesi coinvolti in questo traffico? (2) quali sono le organizzazioni criminali che li gestiscono? (3) di che nazionalità sono questi criminali? (4) esistono legami tra questi criminali e le comunità nazionali da cui provengono, gli immigranti, e quelli irregolari?

I paesi coinvolti nel traffico della droga

Mi riferirò qui più che altro al traffico di cocaina e di eroina, ed in minor misura a quello di hashish, in quanto le droghe sintetiche sono prodotte negli stessi mercati ove vengono consumate. Il commercio di droga dall’America Latina consiste in milioni di chili di cocaina (principalmente dalla Bolivia, dalla Colombia e dal Perù) che attraversano la frontiera messicana per gli Stati Uniti. L’importazione di cocaina in Europa[27] segue rotte aeree o marittime, in quest’ultimo caso generalmente dal Brasile ed in minor misura dall’Argentina, e per la produzione colombiana dall’Ecuador e dal Venezuela, o direttamente dal porto di Cartagena, direttamente verso l’Europa o con scali nei Caraibi, per continuare verso le Azzorre, Capo Verde, Madeira, e le Canarie, o l’Africa continentale ed arrivare in Europa, attraverso la Spagna ed il Portogallo, ma anche attraverso porti olandesi e belgi.

Il mercato degli oppioidi, particolarmente di eroina, è più complesso, perché coinvolge più paesi.[28] La produzione di oppio alimenta sia il suo uso legittimo per la produzione di medicinali che il commercio clandestino di eroina. I maggiori produttori di oppio si trovano nell’Asia centrale (con il ruolo dominante dell’Afghanistan, ma anche quello minore dell’Iran), nel sub- continente indiano, nel sud-est asiatico (il Triangolo d’oro della Thailandia, Laos e Myanmar), e nuovi paesi produttori come la Colombia, il Guatemala ed il Messico. L’Afghanistan è il maggiore produttore mondiale ed il fornitore principale del mercato europeo, mentre la produzione asiatica alimenta più che altro i mercati nordamericani. Per l’importazione di resina di cannabis (hashish) – da non confondersi con la cannabis erbacea (marijuana), generalmente prodotta localmente e non importata – il ruolo del Marocco e del Nord Africa è centrale, integrato dalla produzione dell’Afghanistan, del Pakistan, dell’Asia Centrale, della Russia e del Libano. 48

Le rotte usate per importare droga coinvolgono trafficanti di nazionalità tra le più diverse, ed è importante capire il collegamento tra cosche di trafficanti e immigranti, se esiste. Tradizionalmente, l’importazione di oppio in Europa è stata sempre nelle mani di trafficanti turchi. L’oppio afghano, trasformato in eroina sul posto, viene esportato in paesi limitrofi – utilizzando i percorsi tradizionali della via della seta attraverso l’Asia centrale, coinvolgendo il Turkmenistan e, per via terra o utilizzando il mar Caspio, verso paesi del Caucaso come l’Armenia, l’Azerbaijan, la Georgia, per arrivare in Turchia. Istanbul è il polo centrale per lo smercio dell’eroina sui mercati europei, per via marittima, aerea o terrestre: (a) la rotta balcanica attraversa la Bulgaria, per entrare in Italia ed in Austria prevalentemente via terra; (b) la via settentrionale, dalla Bulgaria e dalla Romania, raggiunge via terra l’Austria, la Repubblica Ceca, la Polonia e la Germania; e (c) la rotta meridionale raggiunge la Grecia, l’Albania e l’Italia (prevalentemente via mare). Altra rotta segue l’Iraq e la Siria come paesi di transito, per raggiungere il Mediterraneo. Il trasferimento dell’eroina dall’Afghanistan può anche traversare il suo confine settentrionale verso il Tajikistan e via Kyrgyzstan, Uzbekistan e Kazakhstan, raggiungere la Russia, l’Ucraina e la Bielorussia, per arrivare nell’Europa occidentale per mezzo della Polonia e dei paesi baltici. Alternative alle rotte per la Turchia sono anche quelle che trasferiscono la produzione afghana verso l’Iran ed il Pakistan, ed usando i porti sul Golfo di Oman e sul Golfo Persico, avviare grandi spedizioni verso l’Europa, circonvenendo la penisola arabica, sia attraverso il Mar Rosso oppure verso la costa orientale dell’Africa per raggiungere l’Europa attraverso il Sud Africa, via terra o per via marittima lungo le coste dell’Africa occidentale.[29]

Il modo di trasportare la droga internazionalmente varia da un mercato ad un altro. Il traffico marittimo usa frequentemente container per spedizioni di grandi quantità, con l’uso crescente di container legittimi col metodo “rip-on/rip-off”, che richiede corruzione di funzionari di polizia e delle autorità portuali nei porti di partenza e di arrivo. Il trasporto terrestre di eroina utilizza camion, autobus e, sempre più frequentemente, semplici autovetture. Quando la via aerea viene utilizzata, le rotte seguite possono essere le più diverse. Spedizioni di eroina di piccole dimensioni attraverso il canale pakistano hanno utilizzato anche la trasmissione di pacchi postali. L’uso di “corrieri” individuali è frequente per il traffico di cocaina in Nord America, per spedizioni di modesta quantità.

I gruppi criminali che sono coinvolti nel traffico della droga

La varietà di rotte implica la collusione di molti gruppi criminali lungo il percorso. Nel mercato dei narcotici nell’Unione Europea, bande criminali fanno capo a immigranti e a cittadini europei di origine di pochi paesi specifici,[30] con le organizzazioni criminali turche che hanno un ruolo preponderante per il traffico dell’eroina, anche se si affidano in misura crescente a collaboratori di lingua albanese, nonché a gruppi serbi, bulgari e rumeni. Alcune bande criminali turche, che in passato facevano base nel Regno Unito, in Olanda ed in Turchia, si sono trasferite in Sud Africa, spesso nascondendosi dietro attività commerciali apparentemente lecite, ubicate nei luoghi più diversi, per facilitare il trasferimento della droga da un paese all’altro, con la collaborazione di aziende di trasporto. Gli albanesi sono responsabili della maggioranza della distribuzione nei paesi scandinavi e, in minor misura, in altri paesi europei, controllando una parte consistente della parte occidentale della rotta balcanica. Altri gruppi criminali importanti sono quelli iraniani, pakistani, georgiani e nigeriani. I gruppi nigeriani controllano non solo trasferimenti di eroina per la costa africana atlantica e la maggioranza dei traffici infra- africani, ma estendono la loro influenza anche alla distribuzione dell’eroina in Europa . Nell’Africa orientale organizzazioni con base in Pakistan hanno un ruolo crescente, che si estende anche alla distribuzione in Europa. In Africa orientale, un ruolo crescente hanno gruppi 49 armati basati in Kenya e in Somalia. Queste organizzazioni criminali usano un business model decentralizzato, con strutture logistiche flessibili, e utilizzano collaboratori tra i più diversi, compresi, a volte, gli immigranti irregolari.

L’ingresso della cocaina nel mercato europeo avviene attraverso la Spagna, il Portogallo e l’Olanda, e lo smercio all’ingrosso di quella droga continua a far capo ad organizzazioni colombiane, anche se spesso si appoggiano sul contributo essenziale di organizzazioni con base nazionale. La Ndrangheta calabrese svolge un ruolo molto importante per l’importazione di queste droghe attraverso l’Italia. È stato osservato, tuttavia, che la distribuzione della droga da un paese europeo all’altro ha visto fenomeni di diversificazione geografica nei “corrieri”, con frequente uso di consumatori-spacciatori europei rispetto a quello attribuito spesso troppo facilmente allo stereotipo dell’immigrante. Il mercato della cannabis e delle droghe sintetiche vede un ruolo maggiore di organizzazioni criminali con base nazionale e di cittadini europei. Persone originarie del Marocco hanno un ruolo importante nel commercio dell’hashish attraverso la Spagna, ma il loro ruolo non ha confronto rispetto al ruolo dominante dei colombiani nel mercato della cocaina, o quello dei turchi e degli albanesi nel mercato dell’eroina.

Con il declino dei cartelli colombiani di Medellin e di Cali, il commercio della cocaina negli Stati Uniti è nelle mani di nuovi cartelli basati in Messico, che si combattono tra di loro, collegati con la criminalità nordamericana e le sue reti distributive capillari per lo smercio al dettaglio. Rapporti ufficiali della DEA (U.S. Drug Enforcement Administration) indicano che questi cartelli dominano vaste zone del confine sud-occidentale, interagendo con organizzazioni attive nel traffico di persone, controllando molte rotte di passaggio attraverso la frontiera, grazie a diffusa corruzione, e nonostante il dispiego di mezzi, tecnologie, intelligence e forze dell’ordine da parte del governo americano. Ovviamente, queste organizzazioni criminali vedono un ruolo preponderante di individui di nazionalità latino-americana, spesso messicana.

Il legame tra gruppi criminali e comunità nazionali

Questi gruppi criminali fanno capo a individui di specifiche nazionalità, che contano su contatti con reti di collaboratori che assicurano la necessaria segretezza che la clandestinità di queste operazioni richiede. Concepire queste reti sulla base dell’appartenenza ad una stessa comunità nazionale facilita contatti con persone che si conoscono tra di loro, che appartengano allo stesso entourage sia familiare che di amicizie, con possibili trascorsi comuni (anche criminali), per avere rapporti stabili, efficaci ed affidabili. Scegliere persone della stessa nazionalità, inoltre, permette l’uso di una stessa lingua per le comunicazioni interne, a volte usate per evadere i sistemi di sorveglianza, per lo meno in prima istanza. Le nazionalità più frequentemente rappresentate appartengono a popolazioni che hanno vissuto fenomeni di “diaspora” demografica verso i paesi destinatari del traffico. Questo è il caso dei gruppi nazionali turchi, albanesi, colombiani, pakistani e marocchini, che sono particolarmente attivi nell’importazione di cocaina, di eroina e di hashish nell’Unione Europea,[31] o il caso dei messicani che gestiscono il traffico di cocaina verso gli Stati Uniti. Pensiamo ai milioni di immigranti turchi, pakistani o marocchini attualmente in Europa, o ai milioni di persone di origine messicana che vivono negli Stati Uniti. Lo stesso vale per i colombiani che emigrarono in massa nei primi anni ’90. Così gli appartenenti ai gruppi criminali possono nascondersi dietro ai grandi numeri dei flussi migratori per svolgere le proprie attività illegali indisturbati. Certamente ciò non fa buona pubblicità a quelle comunità nazionali, creando forti pregiudizi a loro danno: per cui, ogni turco viene spesso additato come trafficante di oppio, così come ogni marocchino viene definito come spacciatore di hashish, o qualunque messicano diviene automaticamente un trafficante di cocaine, così come ogni siciliano veniva identificato come “mafioso” Questo non vuol dire che il fenomeno della “diaspora” sia la 50 causa del traffico della droga. Gli emigranti che hanno partecipato ai massicci processi migratori sono stati motivati dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita e da tanti altri incentivi che nulla hanno a che vedere con il narcotraffico. Solo una modesta porzione di loro appartiene a gruppi criminali.

Ma i trafficanti della droga usano il fenomeno delle “diaspore” demografiche per confondersi nei grandi numeri dell’enorme comunità nazionale. Inoltre, possono contare su certe forme di collusione indiretta da parte alcuni membri di questa comunità, anche se non partecipano al commercio illegittimo (per esempio rifiutando a volte a collaborare con i tutori dell’ordine durante eventuali indagini), in quanto questi ultimi si sentono legati a obblighi di solidarietà nazionalistica o di parentela. Questo è il problema dell’omertà o della lealtà basate su rapporti privilegiati tra individui dello stesso paese (il concetto di “famiglia” e di “villaggio”: siamo tutti “paisà:”). Questa omertà può essere solo sperata o presunta dai criminali, e non è garantita, specialmente per reati di “traffico di droga”, ove il prezzo da pagare per collaborare con attività criminali è elevato (l’incarcerazione o la deportazione forzata). Tuttavia, l’omertà può anche essere estorta con ricatti, intimidazioni, e minacce. Pur se esiste una sproporzione numerica enorme tra trafficanti di droga appartenenti ad una certa nazionalità e gli immigranti irregolari della stessa nazionalità, il fatto che si faccia costante riferimento a questi gruppi criminali in termini generici, come i “turchi”, gli “albanesi”, i “marocchini”, i “pakistani”, i “messicani”, stabilisce uno stigma quasi indelebile di criminalità a tutti gli individui che condividono quella nazionalità.

Immigranti come “corrieri” della droga

Nonostante il narcotraffico sia gestito direttamente da organizzazioni criminali, immigranti irregolari sono coinvolti come “corrieri” internazionali della droga, o come “spacciatori”, una volta superata la frontiera, anche se essi rappresentano una minoranza della grande massa di immigranti. In tal caso, sono colpevoli di reati e meritano di essere perseguiti ai sensi della legge. Tuttavia, considerate le modalità di trasporto per raggiungere i mercati europei, il ruolo degli immigranti irregolari come “corrieri” individuali in quelle rotte verso l’Europa è probabilmente marginale. Le bande criminali preferiscono usare i propri assoldati (che sono, però, spesso stranieri, da cui la confusione con gli immigranti irregolari), anche se non escludo l’uso occasionale di immigranti irregolari anche sul fronte europeo. Nel caso dell’importazione di cocaina negli Stati Uniti, invece, le organizzazioni criminali sono ricorse al doppio canale: per quantitativi maggiori, preferiscono usare trasporti marittimi o aerei, ma occasionalmente usano anche quelli terrestri via TIR, anche se troppo facilmente rintracciabili; per piccoli quantitativi, spesso ricorrono allo sfruttamento più sistematico degli emigranti che passano la frontiera, trasformandoli in vettori della droga a basso rischio di essere identificati.

Il “reclutamento” di questi ultimi come “corrieri” avviene in modo violento, quando sono ancora in territorio messicano.[32] Comincia con il sequestro dell’emigrante per detenerlo in luoghi reclusi, rubando ogni suo possesso. La violenza fisica serve per dimostrare la misura della determinatezza dei sequestratori, e comprende violenza sessuale su giovani donne. La morte del sequestrato è il risultato se quest’ultimo si rifiuta di collaborare. Trasformato in contrabbandiere, l’immigrante viene accompagnato oltre la frontiera (spesso sotto lo sguardo di un poliziotto corrotto), per essere magari usato anche come spacciatore. Il sequestro può avvenire ovunque in Messico (anche in treno, con la complicità del personale ferroviario o di sicurezza, corrotto per l’occasione), ma più spesso mentre gli emigranti procedono a piedi attraverso il deserto. Secondo la ONG Kino Border Initiative, che opera alla frontiera tra Nogales, Arizona (negli Stati Uniti) e Nogales, Sonora (in Messico), immigranti irregolari espulsi dagli Stati Uniti sono presi di mira 51 dai trafficanti subito dopo aver attraversato la dogana messicana, per essere forzati a divenire “corrieri” ed essere mandati indietro come contrabbandieri.[33] Nell’agosto del 2010,[34] 72 emigranti fu trovato sepolti a 90 miglia dal confine in territorio messicano, uccisi da una organizzazione di trafficanti nota come “Los Zetas”. Gli emigranti erano stati sequestrati per forzarli a contrabbandare la droga attraverso il territorio di Tamaulipas, e si erano rifiutati di collaborare. La Commissione Nazionale per i Diritti Umani del Messico segnalò 412 casi di tentativi di sequestro di emigranti, molti provenienti da El Salvador, Honduras e Guatemala, per un totale di 21.091 persone, tra il settembre del 2008 ed il settembre del 2010. Ma c’è chi stima che ci sono almeno 400 sequestri all’anno, per ben 22.000 migranti. Inizialmente i sequestri miravano solo al reclutamento di “corrieri”, ma adesso servono anche per estorsioni con riscatto o per fomentare il traffico di persone a scopo di prostituzione (si veda la Parte IV di questo saggio sul fenomeno di human trafficking ed il suo rapporto con l’immigrazione). Forzati nel ruolo di “corrieri”, gli immigranti irregolari sono sia “criminali” che “vittime”, indotti in questi reati dopo aver subìto abusi, minacce e violenze inaudite.

Coinvolgimento degli immigranti nello spaccio della droga

L’aspetto più inquietante del coinvolgimento degli immigranti irregolari nel narcotraffico è la frequenza con cui sono implicati nella distribuzione al dettaglio della droga come “spacciatori” dopo aver attraversato la frontiera. Anche se la proporzione di immigranti coinvolti nello spaccio è una minoranza, resta il fatto che la frequenza di questo reato è significativa. In alcuni paesi europei, la proporzione di stranieri condannati per questi reati è maggiore di quella dei cittadini colpevoli dello stesso reato.

Il commercio al dettaglio della droga è condotto da immigranti, residenti (stranieri), cittadini di origine straniera e cittadini che possiamo definire come ‘nativi’, e si realizza con operazioni all’aperto, lungo le strade delle nostre città, o nel mercato “nascosto” che usa canali riservati. In passato era dominato da spacciatori nazionali, ma più di recente ha visto un ruolo crescente di stranieri, specialmente nello smercio all’aperto, più facilmente perseguibile, mentre l’uso di canali riservati è in mano a residenti, spesso spacciatori-consumatori, che si muovono con maggiore agilità negli ambienti nazionali.

Le origini nazionali degli spacciatori stranieri sono le più diverse. In molte città svizzere gli albanesi hanno sostituito spacciatori di origine turca nello smercio di eroina. In molte città europee crescente è la presenza di spacciatori africani, ma non esclusiva, favorita dal collegamento con gruppi criminali nigeriani. Negli Stati Uniti, tra gli spacciatori latino-americani ci sono anche immigranti irregolari, che rappresentano una quota significativa ma non preponderante dei pusher di droghe, visto il ruolo dominante di spacciatori residenti (consumatori-trafficanti), collegati anche alle operazioni di produzione di droghe sintetiche e del relativo smercio. Gli spacciatori nazionali provengono da enclave sociali depresse, ove coesistono anche con gli immigranti.

Nelle statistiche americane, elevata è la presenza di trafficanti di origine latino-americana, anche se cittadini americani e stranieri di altre origini sono coinvolti in questi reati, specialmente nella produzione e nello smercio di droghe sintetiche. In Italia gli immigranti rappresentavano più del 37% dei condannati per reati legati alla droga nel 2003, pur essendo il 4,1% della popolazione del paese in quell’anno, mentre erano solo il 10% dei condannati per traffico di droga nel 1990, quando erano il 2,3% della popolazione. Simili dati emergono anche in altri paesi europei, come quelli scandinavi, la Gran Bretagna e la Germania. In quest’ultimo paese il 44,5% dei trafficanti di narcotici erano stranieri nel 2005, rispetto al 32% registrato in anni precedenti, anche se essi 52 rappresentano solo il 9% della popolazione, ma le percentuali scendono al 20-26% se i reati includono il possesso di droghe, ove più elevata è l’incidenza di criminali di nazionalità tedesca (tuttavia la percentuale di stranieri coinvolti in questi crimini è sempre alta). Queste statistiche tendono, tuttavia, a sovrastimare l’importanza degli stranieri, viste le distorsioni nel trattamento degli immigranti irregolari nei sistemi giudiziari, che si traducono in una percentuale elevata di stranieri che vengono fermati, arrestati, condannati ed incarcerati per questi capi d’accusa. Queste statistiche, inoltre, non sempre distinguono tra immigranti e stranieri residenti, rendendo impossibile trarre conclusioni sul rapporto tra immigranti irregolari e narcotraffico.

Queste cifre, pur se distorte, rivelano un ruolo attivo degli immigranti (anche irregolari) nello spaccio della droga, ma richiedono una certa dose di discernimento ed un approfondimento per comprendere le ragioni di fondo di questo coinvolgimento, che può in parte essere collegato con le connivenze nazionali con le organizzazioni criminali che controllano il traffico della droga. Ma la realtà è che i gruppi criminali che gestiscono il commercio al dettaglio di droga hanno bisogno di una “manovalanza” più diversificata per lo spaccio, e ricorrono alla massa di immigrati anche irregolari come fonte per poter spacciare la propria mercanzia in piccole quantità agli angoli degli incroci e per i vicoli delle grandi città. Gli immigranti che non hanno ancora stabilito radici solide nel paese d’immigrazione spesso si sentono marginalizzati dalla società e vivono in condizioni particolarmente fragili esaminate in precedenza tra i fattori socio-economici che spiegano il loro coinvolgimento con la criminalità. In queste condizioni, possono essere “corteggiati” da trafficanti di droga per essere reclutati come pusher nello spaccio lungo i nostri marciapiedi. Questo rischio si estende anche a coloro che non sono immigrati recentemente ma vivono in condizioni di povertà prevalente e una marginalizzazione sostanziale. Indagini sulla qualità di vita di questi immigranti, sui loro alloggi, sul loro lavoro, sulle condizioni dei quartieri ove vivono, e sul grado di scolarizzazione dei più giovani o dei figli di questi immigranti, può offrire un’idea più accurata del quadro “ideale” per le cosche criminali per poter avviare il reclutamento di nuovi spacciatori.

Spesso le statistiche sugli spacciatori di droga detenuti sono lacunose, non sono disponibili per ogni paese d’immigrazione; non distinguono tra residenti, immigranti regolari, immigranti irregolari o semplicemente “stranieri”; presentano problemi di interpretazione come per il tasso di criminalità, essendo fondate solo sulla nazionalità dell’accusato, del detenuto o del condannato e non possono contare su dati affidabili sugli immigranti irregolari. Anche gli osservatori più critici nei confronti dei flussi migratori attuali ammettono che la maggioranza degli immigranti irregolari non è direttamente coinvolta in questi traffici, ma un certo numero di loro, sia pur modesto, è sicuramente attivo come pusher della droga. Questo vale tanto più per immigranti che condividono la nazionalità dei membri delle organizzazioni criminali che gestiscono il narcotraffico. Ma questo non significa che la maggioranza degli appartenenti a quelle grandi “diaspore” nazionali sia implicata nel traffico della droga. Accusare genericamente tutti gli immigranti che provengono da un paese di essere implicati nello spaccio della droga significa infatti parlare con stereotipi: come dire che tutti gli italiani sono mafiosi.

Resta l’amarezza che quest’attività criminosa poteva forse essere prevenuta ed evitata, se l’immigrazione fosse avvenuta garantendo un’integrazione all’immigrante nel paese ospite, evitando fenomeni di esclusione sociale, economica e culturale. Lo spaccio della droga offre la prospettiva di facili guadagni e può essere l’alternativa illegale all’indigenza o alla mancata mobilità sociale, l’unico modo per accedere a livelli di consumo e a stili di vita da cui i giovani immigrati si sentono esclusi. Ma una volta entrati in questo tipo di attività criminosa, una spirale di reazioni negative con effetti a catena si mette in moto, con probabile ruolo crescente del consumo di droga fra i membri di queste minoranze. 53

Criminalizzazione dell’immigrazione e lotta al terrorismo

L’analisi del possibile legame tra immigrazione e terrorismo internazionale ha appassionato il dibattito politico in molti paesi. Si tratta di uno dei capisaldi dell’argomentazione per sostenere misure repressive contro gli immigranti irregolari, spesso accusati di essere conniventi con il terrorismo. L’immigrazione è spesso considerata un mezzo per diffondere il terrorismo su scala internazionale. Se questo legame fosse dimostrato, la politica d’immigrazione dovrebbe essere vincolata alla lotta contro il terrorismo, e le misure di repressione dei flussi migratori diverrebbero strumenti dell’antiterrorismo, perché nulla può essere più importante che proteggere la vita dei cittadini da un qualsiasi attacco esterno. Questa ipotesi influenza il modo in cui la maggioranza dei paesi d’immigrazione affronta questo tema: negli Stati Uniti, ove il Dipartimento di Homeland Security coordina sia l’azione contro il terrorismo che la politica d’immigrazione; in Italia, ove il Ministero degli Interno ha analogo doppio incarico. È l’approccio di ogni governo europeo e della Commissione dell’Unione Europea. La stragrande maggioranza degli atti terroristici transnazionali sono stati commessi da “stranieri”, o persone collegate a reti “straniere”. Una società aperta all’immigrazione è perciò vulnerabile ad attacchi terroristici esterni, da cui l’ipotesi che quanto più grandi sono i flussi migratori, tanto più elevato diviene il rischio di essere vittime di queste minacce.[35] Ma il legame tra immigrazione e terrorismo non è così scontato.

Dopo l’attacco dell’ 11 settembre 2001 negli Stati Uniti (il c.d. “9/11”), c’è un riconoscimento generale che la minaccia terrorista non possa essere ignorata, visti i suoi effetti devastanti. Al Qaeda e ISIS hanno contribuito notevolmente alla sua diffusione transnazionale, pur se la minaccia terrorista si manifesta anche come fenomeno puramente interno in alcuni paesi. Dopo il 9/11, anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ne riconobbe l’importanza e, adottando la risoluzione 1373 del 2001, ha incoraggiato gli stati a limitare il movimento di terroristi ed il loro passaggio tra frontiere con misure per controllarne l’identità e i documenti di viaggio, e impedire la contraffazione di documenti.

Che l’immigrazione ed il terrorismo siano legati non significa che tutti gli immigranti siano terroristi o sospettati di essere tali, anche se molti atti terroristici sono stati eseguiti da stranieri. Ma sono essi entrati nel paese nascondendosi tra le fila degli immigranti per passare non identificati? Non necessariamente. Il terrorista potrebbe essere un viaggiatore che si finge turista, studente internazionale, uomo d’affari. Molti terroristi non sono “stranieri”, ma “cittadini” (con o senza origini straniere), oppure sono “residenti permanenti” non riconducibili alla figura degli immigranti irregolari, anche se tutti hanno generalmente collegamenti con reti terroristiche “straniere” (sia pur solamente ideali, di natura ideologica, pseudo-religiosa, politica o strategica). I fatti dimostrano che raramente un terrorista cerca di usare un gruppo di immigranti irregolari per entrare in un paese (anche se eccezionalmente questo avviene). Il percorso usato dagli immigranti è lento ed inefficiente, mentre i terroristi preferiscono trasporti certi, efficaci e rapidi (anche se celati dietro false identità). Gli attentatori del 9/11 entrarono negli Stati Uniti con passaporti regolari, visti regolari, regolari voli di linea, per non destare sospetti e non rischiare un fermo per aver infranto le leggi sull’immigrazione. Quindi i tentativi dei terroristi di apparire immigranti irregolari sono rari.

Diffusione del terrorismo e comunità nazionali

Ma come può il terrorismo diffondersi in nuovi paesi se non usa l’immigrazione irregolare? Quali sono i passi seguiti per aprire nuove basi terroristiche? Che tipo di contatti stabilisce? Comprendono quelli con comunità nazionali di un certo tipo? In che modo questi contatti sono 54 influenzati da flussi migratori (correnti o passati)? Svolge l’immigrazione un ruolo importante o marginale per la sua diffusione? Come i trafficanti della droga, anche le reti terroristiche che intendono espandersi all’estero nei paesi d’immigrazione cominciano i primi passi con una serie di contatti che privilegiano le connessioni con persone note, magari di una stessa comunità nazionale, anche se non coinvolte col terrorismo, perché hanno bisogno di un quadro di coesione sociale basato su lealtà e fiducia reciproche. Gli immigranti, anche di generazioni passate, offrono questo quadro di coesione sociale, perché questi contatti sono essenziali per il processo migratorio, che richiede comunicazioni con parenti ed amici che sono emigrati in precedenza o con coloro che sono rimasti nel paese di origine, per assicurarsene l’appoggio. Sono questi i legami “preziosi” che l’immigrante usa per lasciare il proprio paese, scegliere la sua destinazione, organizzare il viaggio, scegliere il luogo di residenza, cercare alloggio, trovare scuole per i figli, cercare lavoro, richiedere aiuti d’emergenza, trovare servizi d’assistenza, superare qualsiasi altro ostacolo.

Anche il terrorista che sta ponendo le basi per una nuova rete di collaboratori ha bisogno di questo tipo di contatti, e può prendere a prestito la rete usata da immigranti per costruire una base logistica, anche se strumentalizzerà questi contatti per le sue attività. Però le somiglianze di questi contatti sono solo apparenti. Non è infatti sufficiente la “lealtà” di parenti ed amici per promuovere una rete terroristica, perché il terrorista richiede contatti basati su profonde adesioni ideali, obiettivi politici comuni e condivisione di modalità. Si muoverà con cautela e riservatezza, in incognito, non svelando i propri piani se non a chi è già parte della rete terroristica. Userà falsi pretesti per giustificare la propria presenza nel paese e per consolidare il suo soggiorno. È un processo graduale e lento, basato sulla totale “lealtà” dei contatti avvicinati.

Come nel caso dei trafficanti di droga, i terroristi si avvantaggiano della nazionalità degli individui che avvicinano se appartengono a “diaspore” demografiche, perché così potranno nascondersi in enclave urbane e semiurbane ove migliaia di immigranti e dei loro discendenti vivono, mimetizzandosi tra di loro. In questa interazione sociale, i terroristi sviluppano comunicazioni occultate tra i messaggi della loro comunità, rendendone difficile l’identificazione. I terroristi sperano di avviare qualche forma di protezione e collaborazione con alcuni membri di questa comunità, grazie all’omertà diffusa tra di loro, anche se costoro non sono coinvolti nelle attività terroristiche. Purtroppo, questa comunità nazionale paga un costo elevato per questa collaborazione: lo stigma di collaborazionismo con il terrorismo, nonostante che la stragrande maggioranza dei suoi membri non abbia nulla a che fare con il terrorismo.

Reclutamento internazionale di nuovi quadri terroristici

Questi primi contatti rappresentano solo il primo passo per stabilire una base per una rete terroristica. Il passo successivo è il reclutamento di nuovi quadri, che si manifesta attraverso una successione di fasi:

• Verica dei candidati promettenti, scelti dopo una serie di sondaggi, anche via Internet, tra persone residenti nel paese (magari tra quelli che condividono la stessa origine, la stessa cultura, o altre caratteristiche comuni, prima di procedere alla selezione definitiva dei più affidabili); • Intensificazione dell’affiliazione sociale, rafforzando la familiarità con i candidati individuate, attraverso contatti più frequenti, come incontri personali o scambi “virtuali” via Internet (il reclutatore non ha neanche bisogno di essere nel paese ove si trova il “candidato-recluta”). 55

• Continua verifica dell’esistenza di fattori che influenzano la scelta finale della recluta potenziale: condivisione delle stesse preoccupazioni sociali, atteggiamenti psicologici, frustrazioni e delusioni, esclusione dal tessuto sociale circostante, episodi di discriminazione, desiderio di vendetta e di prendere parte attiva in azioni terroristiche. • Valutazione complessiva del processo di affiliazione e conferma dell’associazione “ideale” alla rete terroristica, anche se questo non comporta necessariamente il coinvolgimento in atti terroristici specifici. La nuova recluta avrà adottato un nuovo “credo” politico, finalità e obiettivi del movimento terroristico: la radicalizzazione della nuova recluta sarà considerata completata. • Passaggio dall’affiliazione al movimento terroristico alla partecipazione attiva in azioni concrete. La nuova recluta si rende disponibile a partecipare ad attentati terroristici, con un ruolo che può variare da semplici azioni di supporto logistico, incluso l’approvvigionamento di componenti materiali di ordigni esplosivi, ricerca di mezzi di trasporto, costruzione di ordigni, elaborazione di piani d’intervento, sopraluoghi preliminari, copertura per eventuali fughe (non necessaria nel caso di attentati-suicidi), comunicazioni, oppure partecipazione attiva ad attività terroristiche, sia nel paese ove la nuova recluta risiede, o emigrando in luoghi di conflitto.

Il terrorista può procedere a più reclutamenti, consolidando la rete terroristica, al rafforzamento delle basi logistiche, alla preparazione di piani d’attacco, al trasferimento delle nuove reclude su altri scenari di conflitto, curando i rapporti con altre reti e le comunicazioni con i media. Il terrorista cercherà sempre nuovi contatti, ed i collegamenti con immigranti o con cittadini di origine straniera, sempre verificando le opportunità che si aprono per sviluppare questo modello di radicalizzazione.[36]

Immigrazione e adesione alle reti terroristiche messi a confronto

Il processo di adesione ad una rete terroristica qui illustrato ha ben poco a che vedere con l’immigrazione irregolare. Le nuove reclute del terrorismo non provengono, per lo meno direttamente, dai flussi di migliaia di persone che sbarcano dai gommoni, attraversano i deserti, affollano i TIR, o cercano di immigrare di soppiatto, infrangendo in qualche modo le leggi dell’immigrazione. Se intervistiamo immigranti sui loro obiettivi, potremmo forse avere risposte confuse, ma le loro aspirazioni sono parole di speranza. Non ci sono motivi allineati alle finalità del terrorismo. Eppure, esiste un possibile legame tra il terrorismo ed i processi migratori se gli immigranti, dopo aver trascorso prolungati periodi in attesa di veder realizzare i propri obiettivi originali, non riescono a raggiungerli. Quando le delusioni e le frustrazioni si accumulano, gli immigranti diventano soggetti “fragili”, che possono subire le influenze devianti più diverse, visto che la società che li ospita non offre risposte alle loro aspirazioni. Essi così rischiano di divenire vittime del processo di criminalizzazione, trasformandosi in spacciatori di droga, ladri, rapinatori, prostitute, o – a certe condizioni – possono essere avvicinati da terroristi ed essere reclutati dalle reti terroristiche, se superano la selezione del processo di affiliazione. E tra i possibili candidati, i preferiti sono coloro che sono entrati nel paese già da tempo, sono familiarizzati con l’ambiente che li circonda e si possono muovere con più agilità. Non è l’immigrante che è impegnato a cercare di sbarcare il lunario il candidato ideale. Per accedere al traffico della droga, le organizzazioni criminali, quando non procedono a reclutamenti forzati, fanno leva sulle prospettive di facili guadagni per reclutare nuovi spacciatori tra gli immigranti. Ma l’adesione al terrorismo segue un altro approccio, che richiede che il futuro candidato corrisponda ad un profilo ideale molto esigente con caratteristiche standard del terrorista ideale. Più spesso i terroristi-reclutatori preferiscono concentrare il loro reclutamento sugli immigranti 56 regolari, o ai loro figli e nipoti, nati nel paese d’immigrazione, specialmente se non hanno pendenze con la giustizia, e magari sono divenuti residenti permanenti o cittadini.

Questo non è l’unico modello per la diffusione del terrorismo. Il reclutamento “forzato” di nuove reclute è possibile, quando sono sequestrate (a volte in età precoce) da bande che li inducono in processi forzati di “formazione” ad attività terroristiche e para-militari, anche se questi fenomeni possono non avere nulla a che fare con processi migratori (per esempio in Nigeria). Questi sequestri possono avvenire nei campi profughi, che sono un terreno esplosivo ove la prolungata permanenza può dar luogo a tutte le possibili forme di reclutamento sia “volontario” che “forzato” di giovani quadri terroristici.

Il legame tra immigrazione e terrorismo, quindi, è tutt’altro che semplice ma dipende dalle condizioni in cui individui diversi (spesso di origine estera, ma non necessariamente) sono integrati o esclusi nella società in cui vivono. Il fattore centrale che favorisce il terrorismo è l’inadeguata integrazione con i valori sociali del paese in cui questi individui risiedono, compreso il rispetto dei diritti umani, ed in particolare il rispetto per la vita altrui, per poterli sostituire con obiettivi alternativi come una giustizia jihadista.

Se questi modelli di diffusione del terrorismo transnazionale corrispondono a comportamenti realistici, l’emigrazione e i suoi meccanismi complessi offrono un terreno utile alla diffusione del terrorismo, specialmente per l’influenza dei processi di marginalizzazione degli immigranti nel lungo periodo in un contesto multi-generazionale. Tuttavia, non possiamo sostenere che quanto maggiore sia l’immigrazione (regolare o irregolare) tanto maggiore sarà la probabilità di intensificare gli attacchi terroristici, ma solo che i processi migratori possono essere utilizzati come veicoli per la diffusione del terrorismo.

Questo non ci autorizza ad arrivare alla conclusione che, per lottare il terrorismo, è sufficiente chiudere indiscriminatamente il rubinetto dell’immigrazione, limitando il più possibile l’ingresso agli immigranti, specialmente a quelli irregolari. Il fatto che singoli immigranti siano stati un veicolo di diffusione del terrorismo da un paese all’altro non significa che sia stato dimostrato che l’immigrazione di per sé produca terrorismo. È stato addirittura ipotizzato, ad esempio, e comprovato con alcune analisi quantitative che ne dimostrerebbero l’attendibilità,[37] che l’aumento dell’immigrazione, quando non è collegata al terrorismo dei paesi d’origine, possa produrre una riduzione del numero di attacchi terroristici, in quanto l’influenza crescente di immigranti non legati al terrorismo riduce lo spazio per lo sviluppo di processi di affiliazione nelle fila di reti terroristiche. Questa ipotesi e la sua verifica quantitativa confermano quanto forse non è ovvio al grande pubblico, e cioè che il numero di immigranti collegati al fenomeno del terrorismo è, tutto sommato, estremamente modesto rispetto alla grande massa di migranti che provengono dal sud del mondo. Ma, ripeto, anche questa ipotesi ha senso solo se esistono condizioni che permettono una piena integrazione degli immigranti nel paese ospitante.

Immigrazione e analisi del rischio terroristico

Un’analisi del rischio terroristico associato ai movimenti migratori, condotta su di un periodo di 41 anni (dal 1975 al 2015) con riferimento esclusivo agli Stati Uniti,[38] ha stimato che la probabilità che un cittadino americano possa rimanere ucciso in territorio statunitense in un attacco terroristico per mano di uno straniero, è pari a uno su 3,6 milioni all’anno e questa probabilità diviene incredibilmente più bassa se calcolata rispetto alla possibilità di essere ucciso da un immigrante irregolare (uno su 10,9 miliardi, praticamente pari a zero). Questo non vuol dire che attentati terroristici ad opera di immigranti non siano occorsi. Però, associare stranieri 57 che hanno commesso atti terroristici al processo di immigrazione porta a conclusioni analiticamente errate.

Prendiamo il caso degli attentati alle Torri Gemelle. Nessuno degli attentatori era un “immigrante”: dei 19 attentatori, 18 avevano un visto turistico ed uno era entrato con un visto per motivi di studio. Un altro, che partecipò solo alla preparazione dell’attentato, era cittadino francese e beneficiò della esenzione dalla necessità di visto turistico prevista per i cittadini europei (Visa Waver Program). Nessuno aveva il permesso permanente di residenza. Tra i terroristi che hanno compiuto attacchi negli Stati Uniti dal 1975 ed il 2015, quelli che hanno prodotto attacchi più letali (con un maggior numero di morti), avevano visti turistici e visti per studenti, mentre gli immigranti irregolari sono all’ultimo posto, perciò sono i meno rischiosi. Il maggior numero di terroristi sono residenti permanenti, anche se il numero di morti causati dai loro attentati (in quel periodo) è estremamente basso (8 decessi in 41 anni), ma nessuno di loro partecipò all’attacco del 9/11. La sbandierata minaccia terroristica che proviene dall’immigrazione irregolare è basata, perciò, su di un pregiudizio contraddetto dai fatti.

Non dispongo di analoga analisi per l’Unione Europea, ma la sua prossimità fisica con il Nord Africa, il Medio Oriente e l’est europeo, la rendono più porosa all’influenza di terroristi che attraversino la frontiera, potendo i terroristi muoversi in entrata ed in uscita dai vari paesi europei più facilmente grazie all’accordo Schengen, e al fatto che molti di loro sono cittadini o residenti europei, e altri possono facilmente farsi passare per turisti o per uomini d’affari. Nessuno dei partecipanti del grande attacco terroristico di Parigi era un immigrante, a parte uno di loro che fece uso di un passaporto falso siriano. C’è da attendersi che, dopo il recesso dell’ISIS in Siria ed in Iraq, un numero crescente di terroristi provenienti dai paesi occidentali tenterà di tornare nei propri paesi d’origine per continuare l’attività terroristica, anche se numerose sono le misure preventive adottate dalle strutture anti-terroristiche. Naturalmente attentatori “residenti” sono collegati con reti terroristiche internazionali, anche se alcuni operano in modo isolato, cercando obiettivi “morbidi” che non richiedono sofisticati mezzi d’intervento. Molti di questi terroristi sono cittadini europei o sono venuti in Europa quando erano bambini, e appartengono alla seconda generazione di immigranti. Alcuni di loro sono venuti in Europa con visti per studenti. Un numero significativo di questi terroristi sono il risultato di conversioni e processi di radicalizzazione come nel modello di diffusione del terrorismo prima illustrato. Diversamente dalla maggioranza degli immigranti irregolari, questi terroristi hanno spesso una forte formazione occidentale e conoscono bene il funzionamento delle società ove intendono portare in porto gli attacchi, ne parlano le lingue e possono essere confusi con i residenti. Pochi terroristi si sono fatti passare come rifugiati politici, visto che è facile identificarli. Solo eccezionalmente, hanno scelto di entrare come immigranti irregolari, mescolandosi tra i naufraghi che sbarcano sulle coste europee, ma vi sono aneddoti di questa natura. Per i terroristi, ha molto più senso entrare in Europa per la porta principale, all’aeroporto di Fiumicino o di Charles De Gaulle, con documenti normali ineccepibili, anche se a volte contraffatti.

Politiche antiterroristiche e politiche d’immigrazione

Se l’aumento dell’immigrazione, non collegata al terrorismo dei paesi d’origine, può ridurre il numero di attacchi terroristici, dovremmo evitare di associare misure di respingimento alla lotta al terrorismo, ma dovremmo favorire forse l’opposto, salvo quelle “discriminanti” nei confronti di probabili terroristi. Ciò che è necessario è buona intelligence e misure antiterroristiche mirate, compresi i controlli sui flussi finanziari. Restrizioni basate sulla pericolosità dei paesi di provenienza per isolare le “culle del terrorismo” colpiscono gli immigranti come gruppo ma non fermano i terroristi. 58

I movimenti fisici in Europa ed in Nord America attraverso le frontiere debbono continuare ad essere sottoposte ad un attento vaglio per contenere penetrazioni terroristiche. Ma sono i flussi dei “viaggiatori” con visti turistici o di studio, o dei residenti permanenti che hanno ampia libertà di movimento, che contano. Sono questi i veicoli più frequentemente utilizzati dal terrorismo, più che i canali dell’immigrazione, specialmente irregolare. Maggiore attenzione è richiesta per la concessione abusiva di visti di entrata a chi possa compiere atti terroristici, intensificando gli accertamenti del background di chi sia un potenziale terrorista. Controlli saranno necessari per gli immigranti provenienti da paesi con molte attività terroristiche, ma questo non equivale a bandire immigranti a seconda del paese d’origine, perché ciò significa attribuire una matrice terroristica a chi professa una certa religione, ha un certo aspetto, veste in un certo modo, o parla una certa lingua. Anziché combattere il terrorismo, riusciremo forse a impedire a una nonna irachena di raggiungere il suo nipotino, ma le persone ‘pericolose’ troveranno altri mezzi per passare inosservati, magari cambiando tipo di passaporto.

Chi sostiene che il miglior modo per difenderci dal terrorismo è chiudere le frontiere agli immigranti, ignora che l’aumento dell’estremismo di matrice terroristica dipende dalla marginalizzazione sociale degli immigranti e dei loro figli. Questa conclusione contrasta con l’approccio seguito dopo il 9/11, ispirato dal ‘panico’ generalizzato che ha rafforzato il legame tra misure antiterroristiche e legislazioni restrittive sull’immigrazione. È chiaro che, oltre alle misure di pura sicurezza antiterroristiche, abbiamo bisogno di azioni che minino le reti terroristiche nelle loro fondamenta. Per questo, non basta avere politiche d’immigrazione che soccorrano i rifugiati che scappano dagli orrori della guerra, della fame, da disastri ambientali globali e dalle violenze di società disfunzionali ed estremamente fragili. Occorre anche fare in modo che questi immigranti non siano esclusi dal processo di sviluppo delle società in cui entrano, adottando politiche d’integrazione che affrontino i problemi della disoccupazione, l’accesso alla casa, l’accesso ai servizi sociali essenziali quali quelli sanitari ed educativi, come condizione per non sentirsi esclusi e relegati in gruppi sociali marginalizzati. La risposta alla minaccia terroristica via immigrazione o alla criminalizzazione degli immigranti irregolari perciò non consiste nel considerare tutti gli immigranti come terroristi o criminali, ma evitando che essi si rendano disponibili per questi comportamenti devianti in conseguenza della loro esclusione sociale.

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N O T E

[1] Per una rapida rassegna di queste misure, si veda la seconda parte di questo mio saggio “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO” apparsa su Partecipagire il 10 marzo 2018 con il titolo “Un’analisi critica delle politiche di contenimento dell’immigrazione”.

[2] Vedi “Un Piano Marshall per l’immigrazione: una novità, una soluzione, un’illusione o cos’altro?”, prima parte del saggio “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO”, apparso su Partecipagire il 28/1/2018

[3] Vedi, ad esempio, Ted Perlmutter, Italy, capitolo 11 del volume “Controlling Immigration” a cura di J.F. Hollifield, P.L. Martin e P.O. Orrenius, Stanford University Press (2014, terza edizione), nonché il commento a detto capitolo di Giuseppe Sciortino, riportato nello stesso volume.

[4] Si veda “Rapporto sui Centri di Identification e di Espulsione”, della Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione dei Diritti Umani del Senato della Repubblica, gennaio 2017, pag.11. 59

[5] L’estensione del periodo di detenzione può essere oggetto di proroghe, o rimanere indefinita (come è possibile negli Stati Uniti, dopo una recente interpretazione della Corte Suprema) finché il provvedimento di espulsione non sia emesso e finalmente eseguito.

[6] Vedi, Maria Laurino, (2015) “The Italian Americans – A History”, W.W. Norton, New York, capitolo dal titolo “Who Killa da Chief?” e il documentario apparso nella televisione americana nel 2016 su PBS dallo stesso titolo.

[7] “La differenza tra italiani e stranieri si concentra tra i ventenni e i trentenni, il periodo in cui gli immigrati iniziano la vicenda migratoria e compiono il massimo sforzo, mentre dai 40 anni in poi, avviato il processo di inserimento ed essento forte il desiderio degli immigrati di inserirsi proficuamente nella nuova società, italiani e stranieri hanno un tasso di delinquenza simile, anzi più basso per i cittadini stranieri.” citazione in “La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e preguidizi”, Dossier Caritas/Migrantes – Agenzia Redattore Sociale, Ottobre 2009, pag. 14.

[8] Dalla vasta letteratura diponibile, cito alcuni lavori: G. Papadopoulos (2014), “Immigration status and property crime: an application of estimators for underreported outcomes” in Vol. 3 (1); M. Bianchi, P. Buonanno, P. Pinotti (2012), “Do Immigrants Cause Crime?” in Journal of the European Economic Association, Vol. 10 (6); L. Nunziata (2015), "Immigration and crime: evidence from victimization data" in Journal of Population Economics, Vol. 28 (3); B. Bell, F. Fasani, S. Machin (2012), "Crime and Immigration: Evidence from Large Immigrant Waves" in Review of Economics and Statistics, Vol. 95 (4); B. Bell,S. Machin (2013). "Immigrant Enclaves and Crime" in Journal of Regional Science, Vol. 53 (1); L. Jaitman, S. Machin (2013). "Crime and immigration: new evidence from England and Wales", in IZA Journal of Develoment and Migration, Vol. 2 (1); T. Wadsworth (2010), "Is Immigration Responsible for the Crime Drop? An Assessment of the Influence of Immigration on Changes in Violent Crime Between 1990 and 2000" in Social Science Quarterly, Vol. 91 (2); M. Piopiunik, J. Ruhose (2015), " Immigration, Regional Conditions, and Crime: Evidence from an Allocation Policy in Germany", in IZA Discussion Paper N. 8962, 6 April 2015; M.T. Lee, R.T; Martinez Jr., Ramiro (2009), "Immigration reduces crime: an emerging scholarly consensus" in W.F. McDonald (ed.) “Immigration, Crime and Justice”, Emerald Group Publishing.

[9] J. Doleac, (2017) “Are Immigrants More Likely to Commit Crimes?” in ECONOFACT, http://econofact.org/are-immigrants-more-likely-to-commit-crimes [10] J.I. Stowell, S.F. Messner, K.F. McGeever, L.E. Raffalivich (2009), “Immigration and the Recent Violent Crime Drop in the United States: A Pooled, Cross-Section Time-Series Analysis of Metropolitan Area” in Criminology Vol. 47 (3) [11] G. Papadopoulos (2014), “Immigration status and property crime: an application of estimators for underreported outcomes” cit. [12] H. Zhang (2014), "Immigration and Crime: Evidence from Canada", Vancouver School of Economics, CLSRN Working Paper N. 135. [13] Y. Aoki, Y. Todo (2009), "Are immigrants more likely to commit crimes? Evidence from France" in Applied Economics Letters, Vol. 16 (15). [14] F. Bovenkerk, T.Fokkema (2015), "Crime among young Moroccan men in the Netherlands: Does their regional origin matter?" in European Journal of Criminology, Vol.13 (3). [15] J. Banks (2011), “Foreign National Prisoners in the UK: Explanations and Implications” in The Howard Journal of Criminal Justice, Vol. 50 (2). [16] B. Bell, F. Fasani, S. Machin (2012), "Crime and Immigration: Evidence from Large Immigrant Waves" cit.; e anche L. Jaitman, S. Machin (2013), "Crime and Immigration: new evidence from England and Wales" in IZA Journal of Development and Migration, Vol. 2 (1). [17] J. Banks (2011), “Foreign National Prisoners in the UK: Explanations and Implications” cit. [18] A. Mohdin (2017), “What effect did the record influx of refugees have on jobs and crime in Germany? Not much”, in Quartz. https://qz.com/901076/what-effect-did-the-record-influx-of-refugees-have-on-jobs-and-crime- in-germany-not-much/ ; M. Gehrsitz, M. Ungerer (2017), “Jobs, Crime, and Votes: A Short-Run Evaluation of the Refugee Crisis in Germany” in IZA Istitute of Labor Economics, IZA Discussion Paper No. 10494, [19] Deutsche Welle (2016), “Report: refugees have not increased crime rate in Germany” in http://www.dw.com/en/report-refugees-have-not-increased-crime-rate-in-germany/a-18848890 [20] A. Beckley, J.Kardell, J.Sarnecki, in S. Pickering (2014) “The Routledge Handbook on Crime and International Migration”, Routledge, pag.42-47. [21] C. Hadjimatheou (2012), “Greeks confront crime wave amid austerity”, in http://www.bbc.com/news/world- radio-and-tv-19269891 [22] R. Martínez, A. Valenzuela (eds) (2006). “Immigration and Crime: Race, Ethnicity, and Violence”, New York University Press. 60

[23] Vedi studio condotto da Donato Di Carlo, Julia Schulte-Cloos e Giulia Saudelli, illustrato dagli autori in “Has immigration really led to an increase in crime in Italy?”, EUROPP – European Politics and Policy of the London School of Economics, in http://blogs.lse.ac.uk/europpblog/2018/03/03/has-immigration-really-led-to-an- increase-in-crime-in-italy/ [24] Citata in “La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e preguidizi”, Dossier Caritas/Migrantes – Agenzia Redattore Sociale, Ottobre 2009, pag. 12. [25] È questa anche una delle ragioni che ha portato lo stato della California e le municipalità di alcune metropoli americane che si dichiarano “santuari” dell’immigrazione ad aprire una disputa con l’autorità federale americana, per rompere questo circolo vizioso del profiling che ha prodotto un’ingerenza eccessiva dell’ICE con accertamenti casuali ingiustificati sull’identità di persone che “appaiono” straniere. [26] Paolo Pinotti, “Clicking on Heaven’s Door: The Effect of Immigrant Legalization on Crime”, apparso su The American Economic Review, January 2015, https://www.diw.de/documents/dokumentenarchiv/17/diw_01.c.514334.de/pinotti_bams_oct2015.pdf [27] European Monitoring Centre for Drug and Drug Addition (2016), “Perspective on Drugs – Cocaine trafficking to Europe” http://www.emcdda.europa.eu/cocaine-trafficking-europe_en [28] European Monitoring Centre for Drug and Drug Addition – EUROPOL (2016), “EU Drug Report – In-depth Analysis – 2016”, EUROPOL Publications, https://www.europol.europa.eu/publications/ [29] European Monitoring Centre for Drug and Drug Addition – EUROPOL (2016), “EU Drug Report – In-depth Analysis – 2016”, cit., pag. 74. [30] Per molti dettagli sul traffico di droga in Europa sono in debito all’articolo di L. Paoli e P. Reuter (2008), “Drug Trafficking and Ethnic Minorities in Western Europe” apparso su European Journal of Criminology, vol. 5(1), che può essere trovato in http://euc.sagepub.com/cgi/content/abstract/5/1/13. [31] Vedi a questo riguardo L. Paoli e P. Reuter (2008), “Drug Trafficking and Ethnic Minorities in Western Europe” cit. [32] Su questo sfruttamento degli emigranti, si veda R. Walser, J. Zuckerman (2011), “The Human Tragedy of Illegal Immigration: Greater Efforts Needed to Combat Smuggling and Violence”, anche se l’articolo adotta un approccio negativo nei confronti dell’immigrazione irregolare in generale. https://www.heritage.org/immigration/report/the-human-tragedy-illegal-immigration-greater-efforts-needed- combat-smuggling [33] Vedi https://www.kinoborderinitiative.org/. [34] R. Walser, J. Zuckerman (2011), “The Human Tragedy of Illegal Immigration: Greater Efforts Needed to Combat Smuggling and Violence”, cit. [35] V. Bove e T. Böhmelt, “Does Immigration Induce Terrorism?”, October 29, 2015, pubblicato anche su The Journal of Politics, Vol. 78 (2), April 2016. Vedi: https://www.researchgate.net/publication/294106471_Does_Immigration_Induce_Terrorism [36] V. Bove e T. Böhmelt, “Does Immigration Induce Terrorism?”, cit., in particolare il Capitolo 2, dal titolo “Theory: Immigration as a Vehicle for Terrorism Diffusion”. [37] Ibidem pag. 25. [38] Alex Nowrasteh, “Terrorism and Immigration: A Risk Analysis”, CATO Institute, September 13, 2016, https://www.cato.org/publications/policy-analysis/terrorism-immigration-risk-analysis

Parte IV 61

LOTTA AL “TRAFFICO” DI IMMIGRANTI

Sul terzo tentativo di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare

Per i sostenitori della linea dura del respingimento, l’immigrazione irregolare è una grande messa in scena gestita dalla criminalità organizzata, un complotto tra emigranti quasi tutti criminali (ladri, terroristi, trafficanti di droga, prostitute), appoggiati da criminali pericolosi (i trafficanti). Per questo sarebbe necessaria una gigantesca operazione di polizia, con leggi rigide, impedendo le traversate degli scafisti, aumentando i servizi di controllo (anche elettronico) ai confini, intensificando le misure di difesa anche armata, erigendo muri sempre più alti o barriere di fili spinati, arrestando tutti i criminali e accelerando i processi di espulsione, bloccando gli immigranti nei paesi d’origine o di transito. Le organizzazioni umanitarie che assistono questi immigranti vengono accusate di complicità. Gli aspetti sociali, economici e politici dell’immigrazione vengono ignorati, come se fossero solo un tentativo di distrazione rispetto alla difesa della sicurezza nazionale.

Nella Parte III[1] di questo saggio, ho parlato di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare, articolata in tre diversi tentativi:

• Tentativo di considerare il soggiorno illecito nel paese di destinazione come un crimine; • Tentativo di supporre che gli immigranti irregolari siano tutti potenziali criminali comuni; • Tentativo di focalizzarsi sulle attività criminali che il processo di immigrazione direttamente o indirettamente genera, anche se non commessi dagli immigranti.

Ho già esaminato i primi due tentativi, che se la prendono con gli immigranti, considerandoli, per un motivo o per l’altro, come dei criminali. Le basi su cui si basano queste accuse, come abbiamo visto nella Parte III, sono alquanto fragili. In questa Parte IV mi concentrerò sul terzo tentativo di criminalizzazione, preferito dai governi perché si riferisce a “criminali “diversi dagli immigranti, che sono a volte addirittura le “vittime”. Con questi criminali gli immigranti interagiscono, in qualche modo, spesso perché sono strumentali per realizzare il trasferimento fisico attraverso la frontiera. Ma alcuni di questi crimini non hanno nulla a che vedere con il processo di emigrazione, anche se sono commessi in concomitanza con questo processo.

Questo terzo tentativo di criminalizzazione include due gruppi di criminali:

• I professionisti dell’emigrazione, che organizzano e facilitano il viaggio degli immigranti irregolari, gli intermediari dell’emigrazione o i suoi facilitatori, che le autorità pubbliche preferiscono chiamare “trafficanti di migranti”. Costoro operano sia nei paesi d’origine che nei paesi di transito o quando l’immigrante sta attraversando la frontiera, e spesso hanno basi di appoggio anche nei paesi destinatari. Le legislazioni nazionali sull’immigrazione considerano l’attività di favoreggiamento dell’immigrazione 62

irregolare un vero e proprio reato. Su di essi si scagliano tutte le accuse dei vari governi e delle forze dell’ordine. • Coloro che commettono crimini contro gli immigranti, che ne sono le “vittime”, come violenze, abusi fisici, sfruttamenti, o asservimento. Possono essere commessi dagli stessi intermediari dell’immigrazione o da altre persone con cui l’immigrante entra in contatto durante il processo di migrazione (nei campi profughi, lungo il viaggio, o alla frontiera, o dopo aver attraversato il confine). I criminali sono singoli individui o bande organizzate, come trafficanti di droga e trafficanti di persone. A volte questi crimini sono commessi addirittura dal personale di sicurezza che dovrebbe proteggere i migranti. Possono essere atti isolati (come stupri, furti, assalti fisici, sequestri, ricatti), o reati ripetuti o sistematici, come nel caso del traffico di persone (human trafficking), della promozione del contrabbando di stupefacenti, o del terrorismo transnazionale (questi due ultimi reati sono stati esaminati nella Parte III di questo saggio). Questo secondo gruppo di crimini non riceve la stessa attenzione dai media o dagli oppositori dell’immigrazione rispetto al primo tipo. Infatti, nel clima politico attuale, è sul primo di questi crimini (il traffico di immigranti) che si concentra l’attenzione delle misure di respingimento, e altrettanto farò io in questa Parte IV, anche se dedicherò una breve sezione per sottolineare le sofferenze cui gli immigranti sono sottoposti quando subiscono crimini perpetrati nei loro confronti nel contesto dell’immigrazione.

In pratica non è sempre facile distinguere tra immigranti e chi commette questi due tipi di crimini. C’è molta ambiguità nel modo in cui questi reati vengono perseguiti, e frequentemente gli immigranti (e non solo i “terzi”) sono colpiti dalle repressioni perché considerati in qualche modo complici. Questa confusione è anche dovuta al fatto che gli individui che commettono questi reati “appaiono” fisicamente simili agli immigranti, vestono o parlano in modo uguale, sono stranieri in ambedue i casi, a volte della stessa nazionalità. Spesso sono gli stessi criminali che, quando sono colti in fragrante, cercano di “mimetizzarsi” tra gli immigranti per sfuggire alla cattura. Questa ambiguità a volte è anche voluta dai promotori delle politiche di repressione dell’immigrazione clandestina, perché funzionale alla logica della criminalizzazione dell’immigrazione irregolare in generale, e contribuisce al prolungamento della detenzione degli immigranti irregolari nei centri di “accoglienza”, anche se sospettati di crimini che non hanno commesso. Colpendo nel gruppo, anche a costo di vite umane, la repressione dei crimini identificati in questo terzo tentativo, trasforma facilmente gli immigranti irregolari in vittime innocenti, considerate come danni collaterali, perfino attribuendone la responsabilità agli immigranti stessi, in quanto avrebbero accettato il rischio di mescolarsi tra i criminali dal momento che hanno deciso di intraprendere un percorso illecito.

Perseguendo chi organizza e facilita l’immigrazione irregolare

Il primo di questi crimini consiste nella facilitazione del processo di immigrazione irregolare offrendo una serie di servizi per permettere di arrivare al paese di destinazione attraversando illegalmente il confine. Le legislazioni dei paesi d’immigrazione considerano questo un grave crimine e sperano che, colpendo i responsabili, si riesca a bloccare il motore centrale del processo migratorio. Senza questi facilitatori, dice questa ipotesi, gli immigranti non riuscirebbero a compiere il loro viaggio. La facilitazione del processo migratorio sarebbe il punto debole della catena dell’emigrazione. Forse hanno ragione: la facilitazione dell’emigrazione è essenziale. L’unico errore di questa ipotesi è illudersi che reprimendo gli intermediari si riesca a fermare il processo migratorio. Ignorano il vecchio detto che dice “morto un papa se ne fa un altro”. Arresti un intermediario, e ne esce fuori un altro. Perché? Perché c’è una domanda così forte per questa funzione, legata al desiderio e alla necessità di emigrare, che esiste sempre un’offerta di 63 professionisti dell’immigrazione clandestina, che si rinnova continuamente, nonostante le misure repressive cerchino di far svanire lo spazio operativo di alcuni facilitatori, perché simultaneamente questa repressione genera opportunità per nuovi facilitatori che apriranno nuovi canali.

Concentrare le misure repressive in quest’area ha però i suoi vantaggi per chi è incaricato di accelerare politiche di contenimento: riescono così a presentare alla loro base sociale, agli elettori, un’immagine credibile della natura criminale delle attività di cui questi individui sono accusati (cosa che non riescono sempre a fare con altrettanta efficacia nei tentativi di criminalizzazione dell’immigrato stesso). Dopotutto questi trafficanti stanno cercando di “sfondare” i confini nazionali per far passare gli immigranti con espedienti che sono o per lo meno appaiono atti decisamente criminosi, tanto che sono clandestini. In più, se si riesce a contenere questo crimine, l’ipotesi è che così si raggiunga l’obiettivo di ridurre l’entità dei flussi migratori. Per questo questa ipotesi è accettata anche dai governi che complementano le misure repressive contro l’immigrazione con approcci più tolleranti verso l’accoglienza. Ne deriva che è fondamentale colpire l’organizzazione del traffico degli immigranti, nella convinzione (o nell’illusione) che colpendo costoro si riesca a ridurre, per lo meno nel breve periodo, il numero degli immigranti sbarcati o il numero di persone che attraversano il deserto, o che scavalcano le staccionate, i muri, il filo spinato, passano i varchi alpini. Il numero elevato di arresti effettuati tra questi trafficanti, o il numero di pescherecci o gommoni distrutti, o il numero di gruppi clandestini bloccati alla frontiera sarebbero un sufficiente deterrente per gli immigranti irregolari ad intraprendere il loro viaggio. Si rafforzano così le polizie di frontiera, si moltiplicano gli sforzi della guardia costiera per controllare le rotte marittime seguite dagli scafisti, e si fornisce assistenza a paesi “terzi” che conducano operazioni repressive contro i “trafficanti di migranti’. Il successo ricercato sarà dimostrato dal numero di arresti o di navigli disabilitati, anche se queste statistiche non sono sufficienti per attestare un contenimento dell’immigrazione. Ma questi dati sono semplici da comprendere e richiamano facilmente l’attenzione del pubblico.

Sugli “intermediari” dell’emigrazione

Chi sono questi intermediari dell’emigrazione che le autorità tanto perseguono come criminali primari? Qual è il loro ruolo? Perché sono tanto importanti?

Nel paese d’origine, sono coloro che a volte pianificano il viaggio dell’emigrante, spesso organizzano gruppi di migranti per evitare viaggi isolati, suggeriscono gli itinerari da seguire, per lo più alternativi alle rotte commerciali, meno rintracciabili da parte dei controlli di frontiera. Possono offrire informazioni preziose su come prepararsi per la partenza, anche su come procurarsi i documenti per il viaggio, e li mettono in contatto con chi li accompagnerà durante tutto o parte del tragitto. Spesso forniscono i mezzi di trasporto (terrestri o marittimi), non di rado di fortuna, per il trasferimento fisico dei migranti, anche se parte del viaggio può essere fatto a piedi. Spesso offrono alloggi temporanei ove sostare durante il tragitto. Sono loro a decidere i tempi precisi e le modalità del viaggio. Sono attività di cui i futuri emigranti hanno disperato bisogno, se non possono sperare di ottenere simili servizi attraverso i canali legali. Per questo ricorrono alla loro assistenza e alla loro protezione, anche quando non se ne possono fidare completamente, tanto è vero che spesso vengono traditi, derubati, colpiti, violentati e sfruttati. E di questa dipendenza dai servizi dei professionisti dell’emigrazione sono ben consapevoli.

L’emigrante spesso incontra più facilitatori durante il suo lungo viaggio, non necessariamente collegati tra di loro. O se ne avvantaggia soltanto per una parte del suo viaggio, se ha intrapreso un’altra parte del percorso per suo conto. Spesso si tratta di un complesso sistema di gruppi 64 indipendenti tra di loro, anche se in contatto reciproco, che flessibilmente interagiscono, ma non necessariamente legati ad accordi di lunga durata. A volte, infatti, questi accordi hanno applicazione solo per brevi periodi, o addirittura sono validi solo per singole operazioni. Gli intermediari lavorano con sistemi organizzativi molto diversi tra di loro, molto flessibili, e non necessariamente strutturati in rigide gerarchie.

Non è raro, ma non è generalizzabile, che alcuni “facilitatori” forniscano anche documenti o visti contraffatti per entrare nel paese di destinazione, e questi sono senz’altro reati perseguibili anche a carico degli emigranti, ma questi ultimi, se disperati, possono essere disposti a varcare la soglia della legalità se queste infrazioni aprono porte a loro completamente precluse. In verità, però, la maggioranza degli emigranti dispone dei propri documenti di espatrio ottenuti in forma legale, salvo il caso in cui le autorità del paese d’origine pongano particolari difficoltà al rilascio di passaporti, o i documenti siano andati persi durante il viaggio (il che succede spesso nel caso di trasporto marittimo), o siano stati sequestrati da chi dovrebbe solo facilitare il viaggio, o non siano disponibili per le condizioni miserrime in cui possibili profughi abbiano abbondonato il proprio paese, la propria casa ed ogni bene personale, nella fretta di fughe precipitose. In tal caso, i documenti personali potrebbero essere forniti da entità internazionali come la UNHCR, ma i profughi dovrebbero rivolgersi a questa agenzia delle Nazioni Unite e molti di loro sono ignari di questa possibilità, per lo meno inizialmente, ed apprendono a proprie spese delle opzioni e delle difficoltà che si presentano loro durante il viaggio. In mancanza di agenzie pubbliche o internazionali che assistano il processo migratorio in modo sicuro, trasparente, e affidabile, la maggioranza dei migranti irregolari, viste le condizioni in cui si trovano o da cui si allontanano, ricorrono ai servizi di professionisti dell’immigrazione clandestina come l’unica soluzione di cui dispongono, anche se questo significa procurarsi un passaporto falso. Questa può non apparire un’idea tanto malvagia a chi è disperato.

A volte il “facilitatore” è un singolo individuo (chiamato il coyote, nel contesto del latino- americano), ma più spesso fa parte di una rete di intermediari, se non di una vera e propria organizzazione, per lo più clandestina. In alcuni casi, si tratta di organizzazioni di tipo familiare, con pochissimi membri, che non hanno bisogno di grandi mezzi finanziari per avviare quest’attività, anche se fanno affidamento su collegamenti con individui che possano svolgere una funzione di appoggio, e dispongono di un minimo di mezzi di trasporto, quali automobili o imbarcazioni. Ma nella maggioranza dei casi, questo ruolo di facilitazione è svolto da organizzazioni più sofisticate, che richiedono mezzi (e capitali finanziari) più ingenti, anche per procurarsi documenti, contraffarli, fornire “case-rifugio” ed una varietà di mezzi di trasporto. A volte questi gruppi di professionisti sono vere e proprie organizzazioni criminali, pur se è possibile svolgere la facilitazione del processo migratorio senza intenti criminali. Ma la clandestinità è dominante, anche perché occorre evitare l’interferenza di coloro che si potrebbero opporre al viaggio, cominciando dalle autorità del paese di origine (anche se esiste un diritto internazionale ad emigrare, salvo che si tratti di criminali ricercati per reati comuni); oppure l’opposizione all’emigrazione può provenire da gang di delinquenti da cui l’emigrante vuole scappare perché perseguitato; o è esercitata da singole persone che stanno abusando del potenziale emigrante (un marito violento, un padre abusivo, un ex-fidanzato aggressivo, una famiglia d’origine possessiva); e sicuramente dalle autorità del paese d’immigrazione o del paese (o dei paesi) di transito che si oppongono all’immigrazione irregolare. La clandestinità non necessariamente implica un approccio criminale all’organizzazione del viaggio migratorio, ma favorisce l’interferenza di entità con intenti criminosi. Esistono inoltre alcune organizzazioni di volontariato o addirittura delle forme associative auto-gestite di reti di emigranti che possono svolgere, per lo meno in parte, questo ruolo di “facilitazione” (si veda in questa Parte IV la sezione sul ruolo delle ONG). Ne abbiamo degli esempi significativi nelle “carovane” 65 organizzate in America centrale per portare emigranti, prevalentemente dall’Honduras, al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, per garantire un viaggio “sicuro” senza interferenze di bande criminali durante il percorso migratorio; o il caso di Alarm Phone operante in Marocco, che rappresenta una forma auto-gestita dagli emigranti per opporsi alle misure di respingimento violento nei confronti dei migranti prese in questi ultimi anni dalle autorità spagnole e marocchine. Tutto questo complica il quadro complessivo di chi siano veramente questi intermediari, anche perché rende meno ovvio il facile cliché di “bande criminali “che gestiscono l’organizzazione e la facilitazione dell’emigrazione.

La nazionalità di questi facilitatori varia. Nel paese d’origine, sono probabilmente della stessa nazionalità dell’emigrante. Lungo il tragitto o nell’ultimo tratto per l’attraversamento del confine, la nazionalità varia considerevolmente. In America, sono per lo più latino-americani. Per attraversare il Mediterraneo verso la Grecia o l’Italia, la varietà delle nazionalità cresce considerevolmente, implicando intermediari che fanno base in città come Algeri, Bengasi, Tunisi ed il Cairo, ma anche in basi ausiliarie come Istanbul, Smirne, Amman e Beirut. Questi ultimi “facilitatori” hanno un’amplia rete di contatti nelle città europee, includendo Roma, Parigi e Berlino. L’estraneità di questi intermediari rispetto agli emigranti prevale e ne complica i rapporti, essendo più facile l’interferenza di gruppi criminali. 66

Il costo del “servizio” di intermediazione per l’immigrazione

Per i loro servizi, i “facilitatori” richiedono ai migranti alti compensi, computando un elevato elemento di rischio. Gli emigranti sono spesso costretti a indebitarsi per sostenere questo costo, richiedendo aiuto a familiari, o usando risparmi accumulati in anni. Richieste di pagamenti successivi a quello iniziale non sono infrequenti, costringendo a volte i migranti a cercare lavoro (spesso per vie illegali) durante il tragitto. Il livello del prezzo da pagare varia considerevolmente, dipendendo anche dal mezzo di trasporto utilizzato, la distanza da percorrere, la grandezza del gruppo di migranti e dai rischi affrontati.

Per traversare il confine meridionale degli Stati Uniti via terra, il costo va da un minimo di $3.000-5.000 fino a $7.000-10.000 per chi viene dal Centro-America, ma può arrivare fino a $9.000-10.000 se fatto via mare (per es. in California), o addirittura fino ad un massimo di $75.000-130.000 per migranti cinesi, anche se il costo medio per gli immigranti provenienti dall’Asia è di $26.000. Spesso gli emigranti centro-americani pagano l’intero costo prima alla partenza, includendo trasporto, vitto e alloggi di fortuna, anche se le condizioni di viaggio possono essere particolarmente disagiate. Per il mero attraversamento della frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti, la tariffa può aggirarsi attorno ai $1.500-2.500. Il costo più basso del servizio di intermediazione per i latino-americani rispetto agli asiatici riflette la distanza più breve ma anche il maggiore rischio di essere arrestati per i primi. Molti immigranti cinesi arrivano direttamente nelle grandi città portuali come San Francisco e New York con maggiore garanzia di “successo” (ma a volte il Messico viene utilizzato come tappa intermedia). Il costo stimato è più basso per i provenienti dall’Europa (più di $6.000) e ancor meno per gli africani ($2.200),[2] ma l’attendibilità di queste ultime stime è dubbia.

Il costo per entrare illegalmente in Europa non è di facile stima, perché i viaggi iniziano da luoghi molto distanti, con soste intermedie a volte molto lunghe e varia a seconda della rotta utilizzata.[3] Per l’attraversamento del Mediterraneo lungo la rotta orientale (dalla Turchia verso le isole greche), parliamo di un costo di circa €1.000-1.500 per un percorso di un minimo di un’ora. Per la rotta centrale dalla Libia (ma anche dall’Egitto o dalla Tunisia), i migranti pagano da un minimo di €800 ad un massimo di €10.000, ed il percorso che può avere una durata fino a diverse settimane. Non dispongo di stime accurate sul costo dell’attraversamento lungo la rotta occidentale. Il tragitto più breve è quello dello stretto di Gibilterra o delle isole Canarie, o il superamento della frontiera terrestre di Ceuta e di Melilla, ma le difficoltà opposte sono enormi, e ciò spiega la popolarità della rotta centrale nel corso degli ultimi anni (anche se recentemente questo può cambiare con l’avvento del governo Conte in Italia e del governo Sanchez in Spagna). In ogni caso, il compenso spropositato richiesto dai facilitatori ai migranti irregolari è di gran lunga superiore al prezzo commerciale di un regolare biglietto di trasporto aereo, marittimo, ferroviario o via autobus.

Il mercato per i servizi di ‘facilitazione’ dell’immigrazione clandestina è estremamente competitivo e volatile, e richiede una considerevole flessibilità operativa. Oggi ci sono clienti, domani no; una rotta si chiude, un’altra se ne apre; una modalità diventa impraticabile, bisogna pensarne un’altra; alcuni facilitatori sono arrestati o scompaiono, e si crea spazio per nuovi 67 operatori. Questi intermediari possono intervenire in momenti e con ruoli diversi, tra i quali possiamo individuare i seguenti:

• I primi contatti (i promotori d’affari), che incontrano i futuri migranti nel loro paese d’origine (e che in America Centrale vengono a volte chiamati enganchadores) o nel paese di transito (quando gli emigranti, disperati, ricercano assistenza per proseguire il proprio tragitto e attraversare la frontiera o imbarcarsi). • Coloro che organizzano concretamente il viaggio migratorio (chiamati vaquetones in America Centrale), includendo le guide o gli accompagnatori (anche a piedi, nei percorsi via terra) o i conducenti di veicoli, scafisti o simili, che fisicamente accompagnano l’emigrante nel viaggio e nel passaggio della frontiera. • Gli esattori, che riscuotono i pagamenti dovuti dal migrante (possono coincidere con i primi due). Sono spesso molto vicini ai capi delle organizzazioni, che gestiscono gli aspetti finanziari dell’intermediazione o l’organizzazione generale di quest’attività. Le modalità di riscossione del prezzo dell’intermediazione variano, e includono trasferimenti monetari con mezzi commerciali. • I cosiddetti chequeadores, che monitorano il percorso complessivo, ed in particolare le tappe intermedie (checkpoints) e aree controllate dalle forze dell’ordine in prossimità del confine (normalmente sono dotati di mezzi di comunicazione per inviare rapidi messaggi per superare eventuali ostacoli al tragitto). • Persone che non necessariamente entrano in contatto diretto con gli immigranti, come i contraffattori di documenti, i fornitori dei mezzi di trasporto (imbarcazioni o veicoli vari) o persone che svolgono una funzione ausiliare (per esempio di collegamento). Tra costoro, vi sono quelli che in America Latina chiamano cuidanderos, che possono essere anche cittadini del paese d’immigrazione, che possono svolgere azioni di distrazione per confondere gli agenti della frontiera mentre vengono effettuati attraversamenti in altri luoghi da parte degli immigranti, o si occupano di assicurare luoghi di rifugio “sicuri” (case-rifugio o safe houses) ove gli immigranti restano temporaneamente una volta attraversata la frontiera, in attesa di proseguire il loro viaggio, procurando veicoli a questo scopo. • Funzionari pubblici o “persone che sanno”, contattati per superare ostacoli e penetrare la frontiera, spesso implicando atti di corruzione.

I “facilitatori” non sono necessariamente collegati né si conoscono tra di loro e, pure se si trattasse di un solo gruppo, possono essere organizzati come una serie di staffette che si passano il “testimone”, mantenendo la riservatezza richiesta dalla clandestinità dei loro rapporti reciproci, così che ciascun anello della catena sia ignaro degli altri.

Il modo in cui l’emigrante entra in contatto con il suo “facilitatore” o con la sua rete non è uniforme. Nel paese d’origine, si può cominciare con un conoscente o un altro emigrante; rispondendo ad un annuncio, magari su Internet o su Facebook. I suggerimenti dai social media, però, se non affidabili, possono creare seri problemi. È difficile stabilire un rapporto di fiducia con un “facilitatore” che non si conosce. Spesso il canale preferito è la rete di immigranti (una comunità virtuale di conoscenze tra migranti futuri, presenti e passati, fondata su scambi di esperienze e di conoscenze) che offre solidarietà ed un sostegno affidabile, perché basato su operazioni che hanno già avuto lieto esito e sulla lealtà dei propri membri. Ma in mancanza di questi contatti, gli emigranti ricorrono a individui non vagliati, alcuni di sospetta fama, a ciarlatani, o, peggio ancora, ad avventurieri pericolosi che si approfittano di emigranti ignari o sprovveduti, specialmente se il viaggio viene interrotto, e l’emigrante è costretto a sostituire un canale di assistenza con un altro, cercando un nuovo facilitatore. 68

Sulla repressione e prevenzione dell’attività criminale degli “intermediari” dell’immigrazione

L’immagine proiettata dai media e dalle stesse autorità presenta questi “facilitatori” come dei criminali violenti che si macchiano di sangue in continuazione. È un’immagine che purtroppo corrisponde alla verità in alcuni casi, forse troppi, ma non in tutti i casi. Questa immagine ha subìto un forte deterioramento in questi ultimi anni, grazie all’accumularsi crescente di violazioni di diritti umani a carico di questi “intermediari”, che le autorità preferiscono chiamare trafficanti (si veda la sezione sul traffico di esseri umani e quello sui Crimini contro i migranti in questa Parte IV). L’aumento dei decessi di migranti nel corso del loro viaggio ha posto l’attenzione sulle responsabilità dei trafficanti, specialmente nella misura in cui si è assistito ad una sempre più intensa interazione tra costoro e i trafficanti di droga ed i trafficanti di esseri umani, ed una crescente frequenza di omicidi commessi nei percorsi a piedi, ed il ripetersi di tragedie di migranti stipati in TIR, morti per soffocamento durante tragitti prolungati.

Eppure, il vero reato di cui devono rispondere i trafficanti di migranti è solo l’assistenza fornita ad attraversare illegalmente il confine, avendo favorito e reso possibile questo attraversamento (in italiano si usa frequentemente il termine di reato di favoreggiamento), e per questo sono arrestati e processati. La repressione non colpisce i trafficanti tanto per gli atti criminosi e violenti a danno degli immigranti (sui quali mi soffermerò alla fine di questa Parte IV), che eventualmente aggravano il precedente crimine. Questo approccio è in diretto collegamento con il primo tentativo di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare (vedi Parte III di questo saggio), ove gli immigranti sono criminalizzati solo per aver infranto le leggi sull’immigrazione.

Le pene imposte per questo reato variano da paese a paese, e sono inferiori rispetto al reato di traffico di persone (Human Trafficking). Negli Stati Uniti, la pena va da una semplice multa all’incarcerazione fino ad un massimo di dieci anni, o una combinazione delle due. La pena aumenta a seconda della dimensione del gruppo di immigranti che il trafficante ha cercato di far entrare illegalmente. La pena aumenta se, durante l’attraversamento della frontiera, gli immigranti subiscono danni fisici (in tal caso può estendersi fino a 20 anni), o addirittura muoiono (fino all’ergastolo). Probabilmente queste pene sono superiori a quelle imposte da molti paesi europei, ma comunque la loro imposizione concreta si presta ad una notevole discrezionalità in fase giudiziaria, e possono essere molto inferiori, se è la prima volta che il trafficante commette questo crimine. Molto dipende anche dalle modalità con cui il tentativo di immigrazione illegale è stato portato avanti, con pene minori per chi è percepito come un “facilitatore” isolato o commette questo reato senza una finalità di lucro (ad esempio, un “semplice passaggio” in macchina per attraversare il confine), mentre maggiori sono le pene per chi è percepito come membro di una organizzazione criminale.

I mezzi utilizzati dalle autorità dei paesi d’immigrazione per catturare questi trafficanti sono di una notevole varietà. Coloro che gridano a viva voce la necessità di contenere i flussi migratori, sollecitano misure severe di polizia di frontiera, erigendo muri invalicabili, instaurando blocchi navali, fino a chiedere di sparare a vista contro qualunque trasgressore. A questi richiami, rispondono le autorità moltiplicando controlli ai confini, intensificando il pattugliamento e l’uso della guardia costiera per prendere scafisti, introducendo tecnologie sofisticate di tipo biometrico che identificano a distanza la presenza di esseri umani in ampli territori desertici o in mare, impiegando elicotteri o altri mezzi aerei di ricognizione, in combinazione con mezzi navali o con mezzi motorizzati a terra, addirittura esigendo controlli polizieschi e giudiziari durante operazioni di salvataggio e soccorso (Saving and Rescue, SAR) . Questi mezzi includono anche la fornitura di aiuti tecnici a paesi “terzi”, per ottenerne la collaborazione nella repressione dei traffici clandestini di migranti (ad esempio, gli aiuti alla guardia costiera libica). 69

Un esempio significativo di quest’azione repressiva è quella condotta, a livello europeo, dall’agenzia Frontex[4] (dall’espressione “Frontières extérieures”), con sede a Varsavia, che intende assicurare un’azione intensiva e tempestiva a difesa dei confini europei, con l’uso della polizia di frontiera dei paesi membri e della loro guardia costiera, utilizzando mezzi navali e aerei degli stati europei dell’area Schengen. La difesa dei confini comunitari meridionali dell’Europa, coordinata da Frontex, può contare su tecnologie sofisticate di sorveglianza,[5] che includono radar, satelliti, velivoli senza pilota (drones), un centro per il monitoraggio dei flussi migratori e relativa analisi di rischio (specialmente per attività criminali e terrorismo), e conta sul sostegno del sistema Copernico[6] e del sistema Eurosur.[7] Queste tecnologie mirano a colpire scafisti o trafficanti di immigranti, permettendo il riconoscimento del movimento, del luogo di provenienza, della grandezza e della velocità di ogni natante, che, combinato con sistemi di rilevamento aereo, offre in tempo reale immagini dettagliate anche del movimento delle persone sui natanti. L’impiego massiccio di queste tecnologie rafforza la trasformazione della politica europea d’immigrazione, che è concepita sempre più come difesa della “sicurezza” della Fortezza Europa, assecondando un processo di “securitization” dell’immigrazione irregolare.

Simili tecnologie vengono utilizzate non solo nell’area del Mediterraneo ma anche in regioni come il confine meridionale degli Stati Uniti, nei Caraibi, in California, nel golfo di Aden, nelle le zone asiatiche del Pacifico e le coste australiane, con risposte sempre più difensive.

Lotta contro il traffico di migranti o contro il traffico di esseri umani?

Coloro che attaccano i facilitatori dell’immigrazione irregolare, siano essi gli scafisti che attraversano il Mediterraneo o i coyote che tentano di passare la frontiera al sud degli Stati Uniti, o simili intermediari con altri appellativi in altri contesti geografici, sempre più frequentemente si riferiscono a costoro come “trafficanti di esseri umani”, rafforzando l’intento di criminalizzarne il ruolo. Il traffico di persone (human trafficking) è un grave reato, ovunque sia compiuto, anche nel territorio nazionale, e va represso con decisione. Se questo è quello che fanno gli scafisti o i coyote, meritano il massimo biasimo e una sanzione esemplare, proporzionale a tale crimine. Quante persone (uomini, ma specialmente donne e bambini) “spariscono” per essere incanalate nel traffico di persone lungo i sentieri più turpi della malavita, dando luogo a nuove forme di schiavitù, promuovendo prostituzione, forzando il reclutamento di manovalanza per criminalità (compreso contrabbando e spaccio di stupefacenti)!

Tuttavia, immigrazione irregolare e traffico di essere umani si riferiscono a fenomeni che non si equivalgono, anche se ci può essere confusione tra i due. Questa confusione è anche ingigantita dal fatto che chi traffica in persone può cercare di approfittare dei flussi internazionali di migranti per inserirsi nei processi migratori, tentando di mimetizzarsi. La confusione è ulteriormente fomentata dal modo in cui i denigratori dell’immigrazione irregolare la designano come traffico di esseri umani, per evitare che ci sia alcun dubbio che si tratti di attività criminale. E ciò serve a gonfiare la retorica della criminalità associata all’immigrazione irregolare. Chiamare il traffico di migranti come traffico di esseri umani aggiunge peso psicologico all’accusa di criminalità attribuita ai facilitatori dell’immigrazione, ma non è altro che un espediente per rafforzare l’immagine negativa da assegnare all’immigrazione irregolare, e decisamente è funzionale alla criminalizzazione di chi favorisce questi flussi. Lo slogan “combattiamo il traffico di esseri umani”, ripetuto con megafoni, ha un effetto sull’opinione pubblica ben più altisonante che parlare del reato di “favoreggiamento all’immigrazione clandestina”, e se parlassimo più modestamente solo di “assistenza ad attraversare illecitamente il confine”. 70

Stiamo assistendo ad una “guerra di parole”, che travisa la realtà con un uso sconsiderato di espressioni con diverso significato. Ma l’immigrazione irregolare, che sicuramente si realizza in condizioni rischiose e pericolose, non è una nuova “tratta degli schiavi” ove gli emigranti vengono rapiti nel paese d’origine per essere venduti all’estero. Solo in tal caso, infatti, l’uso del termine traffico di persone sarebbe giustificato. L’immigrazione dal sud del mondo, con tutti i suoi connotati sociali, economici e politici, è ben altro. Le istituzioni preposte a reprimere rispettivamente il traffico di migranti ed il traffico di esseri umani sono ben consapevoli della differenza, anche se i dibattiti politici e la stampa contraria all’immigrazione amano confonderli. Esiste un dettaglio non tanto trascurabile che spiega la distinzione: quando l’emigrante sta per intraprendere il suo viaggio che lo porterà in un altro paese, è lui stesso che chiede l’assistenza di una persona o di una organizzazione per assisterlo in questa impresa. Quando l’emigrante è a metà del suo cammino e incontra difficoltà, perché abbandonato o tradito dal suo “accompagnatore” o è confrontato da impedimenti apparentemente insormontabili, è l’emigrante che ricerca nuovi appoggi, richiedendo l’assistenza di un nuovo facilitatore. L’intervento del trafficante di migranti non è una imposizione, ma la risposta ad una domanda per servizi indispensabili espressa dall’emigrante. Le vittime del traffico di esseri umani non “domandano” i servizi dei loro aguzzini.

È vero, tuttavia, che anche se il trafficante di migrante risponde ad una domanda di servizi espressa dal migrante irregolare, non si tratta di un mercato perfetto, e la domanda e l’offerta di questi servizi di intermediazione sono soggette a severi condizionamenti. In particolare, l’offerta di questi servizi può essere concentrata nelle mani di poche organizzazioni che la controllano monopolisticamente, ed il potere del facilitatore può essere enorme, mettendo il migrante in condizione molto subordinata. Ma l’emigrante non è costretto a ricorrere ai suoi servizi. A volte può scegliere un altro intermediario, un altro coyote o scafista, può invertire il suo itinerario o andare in altri paesi, e spesso intraprende il processo di emigrazione senza alcun intermediario. L’analisi degli itinerari[8] seguiti dagli emigranti africani che percorrono il continente dal sub- Sahara per raggiungere le coste settentrionali mostra che gli emigranti percorrono itinerari tutt’altro che lineari, seguendo rotte contorte, a volte ripetute in direzione inversa, riflettendo flessibilità e mutevolezza di fronte a situazioni volatili ed imprevedibili. È probabile che in quei frangenti, il migrante, nomade in terre estranee, faccia richiesta di assistenza a trafficanti con cui si incontra per far fronte a queste circostanze, ma non ne è obbligato a farlo: piuttosto ritiene che questa assistenza sia utile, anzi, indispensabile. Questo non esiste nel rapporto tra trafficante di esseri umani e le sue vittime.

Forse l’equivoco è anche dovuto al fatto che in italiano usiamo il termine traffico sia per traffico di migranti, traffico di persone e traffico di esseri umani, mentre in inglese i termini migrant smuggling e human trafficking suonano ben distinti. Il termine traffico rischia di considerare l’emigrante come un oggetto, un pacco da trasferire, mentre l’intermediario (il trafficante) può essere visto come il vero soggetto che prende decisioni ed effettua il trasferimento fisico dell’emigrante attraverso la frontiera. E questo è quello che le autorità vogliono sottolineare, e in certi momenti può essere anche vero. Ma questa impostazione ignora che il vero soggetto è il migrante, con la sua individualità, altrimenti adottiamo un approccio sbagliato ai problemi dell’immigrazione. Ma soffermiamoci sul significato del traffico di persone per capirne la differenza con il traffico di migranti. Il traffico di persone riguarda tipicamente queste attività:

• Traffico interno o internazionale per induzione alla prostituzione ottenuta con violenza, frode o altro mezzo coercitivo, sia di adulti che di minorenni; • Traffico al fine di costringere persone a lavoro forzato; 71

• Traffico al fine di indurre a lavoro servile (semi-schiavizzato), quando persone vengono obbligate con la forza od altri mezzi coercitivi, per esempio, a eseguire lavori domestici per le famiglie; • Commercializzazione di organi o tessuti umani e relativa estrazione.

Essenziale nel traffico di persone è lo sfruttamento di un essere umano da parte di un altro o di una organizzazione criminale, così come l’elemento coercitivo di questo commercio, che può riguardare sia operazioni individuali (ad es. procurare una moglie per un matrimonio non consensuale), che operazioni sistematiche volte a colpire più individui sottoposti alla stessa condizione di costrizione e di sfruttamento. Human trafficking include il reclutamento, il trasporto, e il sequestro di persone effettuato esercitando minacce, coercizione, o frode al fine di poter perpetuare queste diverse forme di sfruttamento. Human trafficking più spesso colpisce donne e bambini, ma può anche riguardare individui di sesso maschile, e comprende anche contratti di lavoro che possono essere considerati come forme camuffate di asservimento obbligato (bonded labor).

Il traffico di persone è un crimine “nascosto”, nonostante si tratti di uno dei crimini che sta crescendo più rapidamente nel mondo intero, grazie ad un grande coinvolgimento della criminalità organizzata. Nella maggioranza dei casi viene scarsamente riportato dalle vittime, che sono perseguitate ed hanno paura di ritorsioni. È considerato un reato internazionale gravissimo, punito in tutti i paesi del mondo con pene distinte da quelle previste per il traffico di migranti, normalmente inferiori. La distinzione tra i due concetti fu definita solo alla fine degli anni 1990, e fu sancita in chiari termini il 25 dicembre 2003, con l’adozione di un Protocollo per la Prevenzione, Soppressione e Punizione del Traffico di Persone, specialmente Donne e Bambini, normalmente chiamato Protocollo di Palermo, da parte delle Nazioni Unite, inquadrando la protezione delle vittime nell’ambito della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Il traffico di persone è oggetto anche di altre convenzioni internazionali e legislazioni nazionali. Il consenso della vittima è considerato irrilevante per la sussistenza del reato, se risulta da rapimento, frode, abuso di potere e inganno, che generano la vulnerabilità della vittima e la sua soggezione. Il traffico dei minori (chi ha meno di 18 anni) è trattato con particolare severità nel Protocollo.

Differenze e sovrapposizioni tra traffico di migranti e traffico di esseri umani

Confrontando questi due tipi di fenomeni, possiamo identificare le seguenti differenze:

• Il consenso della persona che emigra è essenziale nel traffico di migranti. Il ruolo del trafficante non altera la natura volontaria della partecipazione dell’immigrante all’attraversamento della frontiera. Nessuno lo obbliga a farlo se non la situazione oggettiva di disagio e di necessità che lo ha spinto ad emigrare. Il consenso è completamente assente o, se presente, solamente estorto (con minacce, violenza o inganno) nel caso di traffico di persone. L’immigrante irregolare richiede volontariamente i servizi del trafficante-facilitatore perché non ha i necessari permessi o visti o altre condizioni per passare la frontiera per le vie legali. Se i paesi d’immigrazione introducessero riforme per rendere più accessibili i visti regolari, molti migranti preferirebbero i canali leciti. È la mancanza di questi accessi che spinge il migrante clandestino a sottomettersi ai pericoli e alle condizioni degradanti dell’immigrazione irregolare, sottoponendosi ai rischi che essa comporta volontariamente. Nel traffico internazionale di persone, la vittima non ha mai acconsentito ad essere trasferita in un altro stato, né glielo hanno mai chiesto, ma è obbligata a farlo o, se ha acconsentito, lo ha 72

fatto perché sotto minaccia, sottoposta a violenza fisica o coercizione, dopo aver subìto raggiri, frodi, sotterfugi o inganni. • Sia il traffico di migranti che il traffico di persone comportano un commercio, ma con un oggetto diverso: nel traffico di persone, si commercia in persone umane che vengono sfruttate; nel traffico di migranti si commercia un servizio (per facilitare l’attraversamento della frontiera). • Il trasferimento internazionale: il traffico di persone si può realizzare sia a livello internazionale che nell’ambito di uno stesso paese, e a dire il vero non necessariamente implica il trasferimento fisico della vittima da un luogo ad un altro (può infatti avvenire anche nell’ambito delle pareti domestiche); il traffico di migranti richiede un trasferimento internazionale. In base all’UNODC, un quarto delle vittime di traffico di persone non lascia il proprio paese. • Infrazione delle leggi d’immigrazione. L’ingresso nel paese destinatario nell’immigrazione clandestina è sempre in contravvenzione delle leggi d’immigrazione; il traffico di persone può anche avvenire sia rispettando quelle leggi che infrangendole. • Libertà di movimento dopo l’immigrazione. Una volta entrati nel paese di destinazione, l’immigrante irregolare è normalmente libero di decidere dove vivere o quale lavoro fare, o come impiegare il proprio tempo o continuare il suo percorso, senza altre costrizioni che quelle imposte dalle autorità o dalle sue condizioni di povertà e marginalizzazione, salvo che intervengano nuovi vincoli che ne cambino la posizione. Il suo rapporto con l’intermediario si conclude quando l’immigrante raggiunge la sua destinazione. Il traffico di persone colpisce i diritti umani fondamentali delle vittime. Dopo aver attraversato le frontiere, alle vittime vengono spesso sottratti i documenti personali, per evitarne il libero movimento. Le vittime non possono scegliere dove e come proseguire il proprio cammino, ma rimangono costrette nella condizione di sfruttamento in cui sono state indotte sin dal momento del loro sequestro.

Esiste, tuttavia, un’area grigia che accomuna i due fenomeni, con una possibile sovrapposizione:

• Anche le vittime del traffico di persone possono essere immigranti irregolari, anche se non necessariamente, pur essendo una percentuale modesta del flusso di immigranti. • Ambedue i traffici possono essere gestiti da organizzazioni con intenti illeciti, ma ciò non è sempre vero nel traffico di migranti. Il traffico di persone implica spesso il coinvolgimento della criminalità organizzata, con complesse strutture di tipo mafioso e reti di contatti non episodici per il sistematico sfruttamento delle vittime. Nel caso dell’immigrazione clandestina, queste organizzazioni possono non essere così complesse, ma spesso hanno dimensioni modeste, basate solo su una “rete” di contatti tra coyote o “accompagnatori” che aiutano i migranti nell’attraversamento del confine, non compiendo altro reato a danno degli emigranti. Nel traffico di persone c’è sempre una vittima di un grave crimine: la persona che è stata sfruttata. • Ci sono, però, frequenti casi in cui nel traffico di migranti si aggiungano altri crimini più gravi, particolarmente a danno degli emigranti, quando i trafficanti “maltrattano” i migranti con atti di violenza o abusi. Questi atti possono essere commessi anche da altri che non sono i trafficanti (compresi membri delle stesse autorità preposte alla sicurezza) e che, in concomitanza con l’attraversamento della frontiera, compiono gravi reati a danno dei migranti. Nel traffico di persone lo sfruttamento è una caratteristica sistematica e strutturale del rapporto tra il criminale e la vittima. La violenza del “trafficanti di migranti” non è un evento sistematico, anche se frequente, e non è inevitabile. • Le legislazioni nazionali fanno una netta distinzione tra i due reati, punendoli con pene diverse. 73

Un doppio rischio

Quante volte, immigranti irregolari debbono scappare dai tentativi di bande di criminali, lungo la frontiera del Messico con gli Stati Uniti, per evitare di essere sequestrati per essere costretti a divenire strumento dei loro traffici illeciti. Quante volte donne immigrate vengono avvicinate e raggirate da reti della prostituzione per essere soggette a questo tipo di sfruttamento. ONG operanti in quella frontiera o nei paesi destinatari continuamente offrono rifugio a questi immigranti, nel tentativo di sottrarli da queste forme di aggressione. Così gli emigranti debbono fuggire da due rischi: il rischio di essere presi dalle autorità del paese destinatario, per aver infranto le leggi sull’immigrazione, ed il rischio di essere messi in trappola dalle gang criminali che organizzano varie forme di traffico di persone.

• Tuttavia, il confine tra immigrazione clandestina e human trafficking diventa nebuloso quando la prima si trasforma nel secondo. Ciò avviene quando il ruolo del ‘trafficante’ si trasforma da quello di mero facilitatore dell’emigrazione in vero e proprio sfruttatore dei migranti, e affinché questo avvenga, cambia la natura dei reati commessi. Questa evoluzione avviene anche quando nuovi attori criminali intervengono (non necessariamente coloro che hanno facilitato l’immigrazione), interferendo nel processo migratorio, prima, durante o dopo l’attraversamento fisico della frontiera, sottomettendo i migranti ad un controllo totale, imponendo con violenza, ricatti o minacce (incluso il sequestro fisico delle persone) comportamenti tipici del traffico di esseri umani. In tal caso, gli immigranti irregolari divengono vittime di traffico di persone e i due fenomeni si soprappongono. Questo cambiamento è favorito dalla fragilità e dalla debolezza degli immigranti irregolari, che li rende vulnerabili al rischio di asservimento, subendo ogni sorta di violenza e di sfruttamento (prostituzione, lavoro forzato o altre forme di abuso) da parte di criminali che ne approfittano. In tal caso, nonostante la distinzione concettuale tra human trafficking e migrant smuggling, la differenza praticamente svanisce se il migrante, pur avendo consentito volontariamente ad attraversare il confine, diviene vittima di coercizione in modo da condizionarne completamente il comportamento dopo aver affrontato il processo di emigrazione. Tuttavia, dobbiamo essere attenti a questa estensione del concetto di coercizione, perché rischiamo di estendere troppo facilmente il concetto di human trafficking oltre misura, ignorando le specificità dell’immigrazione irregolare. Infatti, questa estensione non si applica a tutti gli immigranti irregolari ma ad una loro minoranza. E non tutti i trafficanti di migranti si trasformano in trafficanti di esseri umani.

Concludendo, se l’obiettivo delle autorità è colpire chi “facilita” o “favoreggia” l’immigrazione clandestina, continuare a parlare di traffico di persone è fuorviante, proprio per le caratteristiche di quest’ultimo che non sono presenti nell’appoggio all’immigrazione irregolare. Confondere l’immigrazione clandestina con il traffico di persone produce due effetti non desiderabili: (a) trasforma tutti gli immigranti irregolari in vittime di un crimine atroce; e (b) trasforma tutti gli intermediari, anche le semplici guide alpine che attraversano clandestinamente i passi tra le montagne e le valli delle nostre Alpi per aiutare gli immigranti a passare dal confine italiano a quello francese o austriaco, in colpevoli del crimine di traffico di esseri umani, reato che non hanno commesso.

È vero che il trafficante di migranti può maltrattare i suoi “clienti”, esercitando una violenza che si assomiglia a quella esercitata dal trafficante di esseri umani nei confronti delle sue vittime, ma questi reati di violenza normalmente non sono quelli di human trafficking. Sono reati specifici come stupro, furto, ricatto, violenza fisica, e come tali andrebbero trattati e perseguiti. Restano inoltre due fondamentali differenze tra i due fenomeni, sopra citate: (i) la scelta volontaria di chi 74 decide di emigrare è completamente assente nelle vittime di traffico di persone; e (ii) gli eventuali abusi dei trafficanti di migranti terminano dopo aver terminato il processo di attraversamento clandestino della frontiera, mentre continuano in modo sistematico nel traffico di persone. Alcuni obiettori dell’immigrazione irregolare, pur ammettendo queste distinzioni, sostengono che nella fase finale dell’immigrazione irregolare, quando si affronta il passaggio furtivo della frontiera, o l’attraversamento drammatico di tratti di mare, gli immigranti si affidano ai trafficanti in modo totale, rinunciando completamente alla propria libertà di scelta e pertanto, da quel momento in poi, sarebbe corretto riferirsi al trafficante di migranti come ad un trafficante di essere umani. Anche se i migranti subiscono angherie analoghe a quelle sofferte dalle vittime di human trafficking, questa coercizione sarà temporanea nel caso di traffico di migranti, diversamente dal traffico di esseri umani, ove l’assoggettamento sistematico è duraturo. Naturalmente, quando un immigrante viene costretto a lavori obbligatori di semi-schiavitù (basta pensare alle conseguenze del fenomeno del caporalato in Italia, che ha portato a nuove “schiavitù” di immigranti, obbligati a condizioni sub-umane in ambienti rurali) siamo di nuovo di fronte a manifestazioni assimilabili al fenomeno di traffico di esseri umani: ma queste situazioni non sono inevitabili conseguenze dell’immigrazione irregolare.

Lotta contro il traffico di migranti ed esternalizzazione dei confini

La lotta contro il traffico di migranti ha i suoi limiti, nonostante l’impiego di tecnologie sofisticate per controllare i confini terrestri. Lo dimostra la frustrazione delle autorità preposte che, nonostante il gran parlare di misure radicali di respingimento, barriere formidabili e muri invalicabili, e “tolleranza zero” verso chi penetra la frontiera, non riescono a contenere i flussi migratori che continuano ad arrivare. La verità è che la riduzione della pressione migratoria avviene solo quando gli emigranti decidono di non emigrare più, e non perché esistono misure di respingimento. Negli ultimi anni, il flusso di messicani che emigrano verso gli Stati Uniti è diminuito, non perché la lotta contro il traffico di migranti sia efficace ma perché la dinamica economica e sociale in ambedue i paesi ha favorito il ritorno di messicani verso il Messico (migrazione circolare), in risposta a giudizi di convenienza economica degli interessati. La lotta contro i trafficanti di migranti continua sostenuta contro i migranti dal El Salvador, Honduras e Guatemala, con arresti alla frontiera, e imposizione di deterrenti come la separazione dei bambini dai genitori immigrati,[9] e l’impiego di potenti mezzi di controllo a difesa della “Fortezza America”, ma non ha permesso la riduzione della pressione dei migranti provenienti da quei paesi, i quali preferiscono rischiare la repressione alla frontiera, pur di fuggire dalla violenza e da situazioni di disfunzionalità da cui provengono. I tentativi di blindare i confini terrestri non sembrano ridurre il desiderio di emigrare.

Questa realtà è più complessa lì ove la penetrazione fisica dei confini è più facile, nell’Unione Europea, la cui frontiera meridionale è molto porosa ai flussi migratori essendo rappresentata dal Mediterraneo, anche se molti immigranti irregolari entrano tranquillamente con un viaggio aereo ed un visto turistico, salvo poi estendere il proprio soggiorno infrangendo così le leggi d’immigrazione. Ma gli sbarchi dalle coste nord-africane sono al centro dell’attenzione delle autorità europee, perché il confine marittimo non può essere difeso facilmente: non ci sono muri o fili spinati in alto mare. 75

Il Mediterraneo: l’ultima barriera?

L’immigrazione massiccia verso l’Europa assunse dimensioni gigantesche a partire dalla fine degli anni ottanta, anche se quell’aumento fu causato maggiormente dalla fine della Guerra Fredda e dagli eventi bellici degli anni ’90, che produssero un enorme flusso di richiedenti asilo. Negli ultimi anni, ha visto una intensificazione di flussi che arrivano lungo le sponde meridionali del vecchio continente, che ebbero una esplosione nel 2015, per i motivi più diversi: fuggendo da persecuzioni, da violenza, da povertà, spinti da cataclismi ambientali, alla ricerca di libertà, di migliori condizioni di vita e di sopravvivenza.

Quel percorso però incontra un ostacolo formidabile: il Mediterraneo, una barriera fisica imponente ed insidiosa, che si è trasformata in un cimitero immenso, per il numero elevato di naufraghi tra questi migranti. La risposta europea è stata incerta all’inizio, con un ibrido tra misure di contenimento e di respingimento, da un lato, e misure di soccorso per i profughi in pericolo di naufragio, dall’altro. Tuttavia, recentemente, le misure ‘difensive’ hanno preso il sopravvento, con l’approccio adottato dall’agenzia europea Frontex, e soprattutto con le sue operazioni Triton e Sophia (v. Parte V per dettagli su queste operazioni).

Le autorità europee si rendono anche conto che i fenomeni migratori si stanno evolvendo, seguendo percorsi in continuo cambiamento, con itinerari diversi che li portano a transitare in luoghi non utilizzati in precedenza, e una composizione demografica (in termini di paesi di origine) ed una consistenza numerica che varia, con tattiche diverse per la penetrazione delle frontiere. Questo spiega la necessità di adottare risposte flessibili per difendere i confini, coprendo aree geografiche più ampie rispetto ai “confini” in senso stretto. La relazione tra spazio e controlli di frontiera cambia. L’azione difensiva delle istituzioni europee o nazionali incaricate di realizzare politiche migratorie si è spostata dal confine strettamente giuridico delle acque territoriali dei paesi membri dell’Unione Europea o delle frontiere terrestri, per aprirsi al di là di questi limiti doganali per una più efficace “sorveglianza dei confini” (border surveillance). Questo approccio è definito “esternalizzazione dei confini” (“border externalization”) ed è un aspetto centrale del modo in cui la politica europea d’immigrazione si è espressa in questi ultimi anni, in particolare attraverso l’operato di Frontex, ma anche dei suoi paesi membri, inclusa l’Italia,[10] con il convincimento che – nonostante il riferimento di alcuni movimenti politici anti-immigrazione alla necessità di difendere la “Fortezza Europa”, e l’urgenza di sorvegliare i confini europei come una frontiera completamente sigillata – il contenimento dell’immigrazione irregolare non può essere limitata alla difesa della frontiera, anche perché non c’è niente di più indefinito di un confine stabilito da un mare così vasto e articolato come il Mediterraneo, con acque territoriali definite soltanto ad una distanza di 12 miglia nautiche,[11] penetrabili dagli scafisti che tentano di raggiungere le coste europee.

L’esternalizzazione dei confini comporta una “deterritorializzazione” delle misure di contenimento dell’immigrazione: dal respingimento fatto nei “territori” di competenza esclusiva della sovranità nazionale del paese d’immigrazione si passa ad azioni in zone extra-territoriali (come le acque internazionali nel Mediterraneo o nell’Atlantico), o in territori di esclusiva sovranità nazionale di altri paesi (sia di transito che d’origine), con la collaborazione delle autorità di questi paesi. Questa deterritorializzazione è stata introdotta anche perché l’emigrazione non è più solo il risultato di fenomeni legati al mercato del lavoro, in risposta ad una domanda insoddisfatta di lavoro nei paesi d’immigrazione, ma dipende sempre più da 76 determinanti molto complesse, che influenzano la natura dei flussi migratori, la loro intensità e dimensioni. Si tratta di determinanti legate a complessi processi politici e fenomeni destabilizzanti che prevalgono nel mondo, che generano una mobilità migratoria elevatissima, che si somma e trasforma continuamente in una pressione migratoria collettiva sempre più difficile da gestire e controllare. Di fronte a migranti che “scappano” dal proprio paese non solo per cercare lavoro, ma fuggendo da situazioni di violenza e di sfruttamento, da calamità naturali, da persecuzioni e da discriminazioni, i paesi d’immigrazione si trovano di fronte ad una pressione collettiva sempre meno controllabile, che non si affronta con la sola difesa dei lavoratori nazionali e dei loro salari.

L’esternalizzazione dei confini è un tentativo di rispondere alla mobilità irriducibile dei migranti, una forza che appare inarrestabile, perché troppo potenti sono le spinte che la alimentano, e che spiegano anche la disponibilità degli immigranti a sottoporsi ai sacrifici più duri (comprese le angherie imposte dai trafficanti) e a rischiare difficoltà enormi, anche a costo di scontrarsi contro le difese più agguerrite, pur di proseguire il sogno della speranza. Alcuni studiosi definiscono questa caratterizzazione di forza inarrestabile dell’emigrazione come “autonomia dell’emigrazione”,[12] fenomeno imprevedibile ed in continua evoluzione, che si muove senza alcuna considerazione dei limiti imposti dalle legislazioni statali sulla protezione dei confini e sulla concessione dei permessi di soggiorno, esercitando un’azione collettiva che trasforma la nozione di spazio nazionale, infrangendo qualsiasi barriera doganale.

Quando si pensava all’emigrazione come causata solo da un meccanismo di domanda e di offerta nel mercato del lavoro, si sperava di controllarla con modalità che definivano le compatibilità con il mercato del lavoro nazionale, gestendo la concessione di visti d’ingresso, ed esercitando i consueti controlli nei punti di frontiera. Oggigiorno, l’emigrazione massiccia e la complessità delle sue cause rendono impossibili regolare i flussi solamente attraverso quei controlli nei punti d’entrata. L’imprevedibilità di massicci flussi migratori dall’Africa sub-sahariana e dal Medio Oriente si associa alla mutevolezza continua degli itinerari percorsi, che seguono direzioni spesso contraddittorie che si adattano agli ostacoli posti dalle forze di sicurezza che vogliono bloccarli, invertendo il senso di marcia, inventando nuovi mezzi organizzativi, pur di continuare nel proposito migratorio. Non basta dire che “il futuro degli africani è in Africa, perché nessuno, in nessuna parte del mondo, deve essere costretto ad andarsene di casa”[13] per comprendere l’entità di queste enormi pressioni migratorie.

L’esternalizzazione dei confini è un tentativo di istituzionalizzare interventi di resistenza a questi massicci flussi migratori, ridisegnando l’architettura dei sistemi di controllo delle frontiere, ammettendo che ci sono limiti a realizzare il controllo dei flussi migratori lungo le frontiere nazionali convenzionali, seguendo i confini doganali. La dimensione spaziale delle operazioni di controllo viene ampliata, richiedendo una integrazione tra iniziative di diverso genere – diplomatiche, militari, finanziarie, di cooperazione allo sviluppo – con l’adozione di accordi innovativi tra entità diverse (nel contesto europeo, queste entità sono sia europee che extra europee), che includono istituzioni nazionali, multinazionali, locali, pubbliche, semi-pubbliche e non governative. Assistiamo all’abbandono crescente della pura difesa a tutti i costi dei posti di controllo delle frontiere, rigidamente definiti sulla cartina dei confini territoriali, per passare ad un concetto flessibile di confini meno definiti, spesso contraddittori e mutevoli, non più basati su precise linee territoriali o geografiche, superando l’esclusività della competenza giuridica (rendendo dubbio l’esercizio della sovranità nazionale in senso formale), adattandosi a circostanze in continua evoluzione, tenendo conto della mobilità dei flussi migratori e della varietà di condizioni in cui i migranti si trovano nei paesi di transito. 77

Questa esternalizzazione dei confini si è tradotta in tentativi dell’Unione Europea di bloccare gli scafisti lontano dalle sue acque territoriali con l’intervento di mezzi militari in acque internazionali, o concludere accordi bilaterali o multilaterali con paesi africani o medio-orientali di transito per evitare che i migranti giungano in Europa.[14] Centinaia di presunti trafficanti di migranti sono stati arrestati durante operazioni compiute dalla Marina Militare italiana e dalle autorità militari di altri paesi europei in acque internazionali. Navigli di tutte le dimensioni, inclusi pescherecci, gommoni, e “mother ships” (“navi madri”) – che sono le navi di maggiori dimensioni utilizzate per trasportare gli emigranti, prima di essere trasferiti in alto mare su natanti di piccole dimensioni – sono stati sequestrati e/o distrutti nel tentativo di reprimere il traffico di migranti. Le guardie costiere della Turchia, della Libia e del Marocco hanno bloccato viaggi in mare, riportando i natanti verso i loro rispettivi porti. In Marocco, la collaborazione tra la Guardia Civil spagnola e le Forze Speciali marocchine ha portato ad una vera e propria repressione dei movimenti migratori verso le città spagnole di Melilla e di Ceuta nel nord Africa, con detenzione su grande scala dei migranti in campi profughi in Marocco. La detenzione dei migranti nei campi profughi libici ha rappresentato una forma particolarmente violenta per bloccare il traffico di migranti verso l’Europa. Accordi sono stati tentati tra la Spagna e la Mauritania, il Mali e il Senegal per ridurre i flussi migratori, così come l’Italia ha cercato analoghi accordi con paesi come la Libia, il Niger, la Tunisia e la Costa d’Avorio, tra gli altri, per spostare il controllo dei flussi migratori all’interno dei loro confini.

Di fronte ad una realtà in cui, per ogni rotta migratoria che si chiude grazie a misure repressive, nuovi itinerari vengono tracciati dai migranti, alla ricerca di alternative per superare i nuovi ostacoli, l’esternalizzazione dei confini si adatta a questa flessibilità con una crescente aggressività nelle misure di respingimento, una militarizzazione degli interventi, metodi sofisticati per riconoscere i nuovi itinerari dei migranti, impiego intensivo di arresti e detenzione in carceri, centri di detenzione o campi profughi, e trasferimenti obbligati (espulsioni e rimpatri). Queste misure di lotta contro il traffico di migranti seguono logiche non sempre sufficientemente razionalizzate, dominate dalla preoccupazione per la difesa della sicurezza nazionale, interpretata spesso come difesa nazionale “contro” gli immigranti. Questa difesa si è manifestata a volte in misure dure di respingimento, con contenuti di violenza che gli emigranti sopportano solo se messa a confronto con le violenze da cui sono fuggiti nei loro paesi d’origine, e con il contesto altrettanto violento in cui sempre più spesso si trovano nelle zone di transito. Caratteristica chiave di questo approccio è che questi interventi non avvengono ai confini del paese d’immigrazione ma in un contesto “esterno” (aree extra-territoriali o paesi “terzi”).

Questi interventi “esterni” riescono solo in parte nei loro scopi. La riduzione degli sbarchi in Grecia e il loro contenimento nelle coste italiane e spagnole, sono citati come indicatori di successo, ma le pressioni migratorie non sono diminuite, perché quando gli sbarchi diminuiscono, il numero di migranti che affollano i campi profughi in Turchia, in Libia ed in Marocco aumenta considerevolmente, rendendo futile qualsiasi richiamo ad un successo delle politiche di contenimento dell’immigrazione. Inoltre, la decentralizzazione degli sforzi di contenimento, compiuti al di fuori dei territori nazionali dei paesi d’immigrazione, rende difficile assicurare un efficiente monitoraggio. Per questo i tentativi di traversata marittima continuano, perché i migranti riescono spesso ad aggirare le misure repressive, reinventandosi itinerari e approcci. Inoltre, la qualità ‘umanitaria’ degli interventi nei paesi terzi è spesso al di sotto degli standard accettabili sul piano internazionale, mettendo in discussione la legittimità degli interventi repressivi, vista la frequente violazione dei diritti umani fondamentali dei migranti.

A questo si aggiunga il problema della legittimità di operazioni condotte da paesi d’immigrazione in aree ove essi non hanno poteri di sovranità nazionale. Con l’esternalizzazione dei confini, 78 concetti tradizionali di sovranità nazionale e di cittadinanza vengono messi in forte discussione, anche se non possiamo parlare di una forma coloniale di nuova egemonia. Assistiamo piuttosto ad una modalità plurima di interventi con responsabilità multiple che interagiscono tra entità diverse per il controllo dei flussi migratori in modo multi-giurisdizionale e spesso congiunto, ma non sempre ben coordinato. La coerenza degli interventi è spesso carente e contraddittoria, e spesso in contrasto con la tutela dei diritti umani e le protezioni internazionali garantite ai migranti e ai rifugiati. Esamineremo questa esternalizzazione più in dettaglio con riferimento alla difesa europea del Mediterraneo nella Parte V di questo saggio.

Lotta contro il traffico di migranti e percezione del ruolo delle ONG

L’impostazione prevalente della lotta contro il traffico di migranti porta molti politici e persone che si oppongono radicalmente a qualsiasi apertura verso i processi migratori a concepire qualsiasi “aiuto” offerto ai migranti durante o dopo l’attraversamento della frontiera come un “favoreggiamento” dell’immigrazione clandestina. Non è infrequente che organizzazioni umanitarie, ben note per la loro attività di assistenza sociale in programmi internazionali, vengono beffeggiate come espressione di “buonismo”, neologismo con cui si tenta di ridicolizzare qualsiasi azione di assistenza sociale verso poveri e marginalizzati. Queste organizzazioni vengano spesso accusate di essere conniventi con i trafficanti di migranti, considerando la loro azione di sostegno a favore dei migranti come una forma indiretta di stimolo (pull factor) che favorisce l’immigrazione irregolare e quindi un ostacolo per il perseguimento del contenimento dell’immigrazione. Il loro operato incoraggerebbe i migranti a scegliere la strada dell’emigrazione internazionale, in quanto garantisce un “salvacondotto” sotto forma di forniture di cibo, vestiario, medicine, alloggio, e altre forme appoggio. È sempre più frequente riferirsi a queste ONG – specialmente nei commenti letti nei social, ma anche nei discorsi roboanti di uomini politici – con epiteti denigranti, dubitando il valore umanitario del loro operato. Le ONG impegnate nelle operazioni di soccorso nel Mediterraneo, salvando i naufraghi da morte sicura, sono non di rado designate come “taxi del mare” o “vice-scafisti” (espressioni usate rispettivamente dai Vicepresidenti del Consiglio Di Maio e Salvini nei loro confronti). Giudici o procuratori della repubblica ne sequestrano le navi di soccorso, accusate di aver stabilito accordi di complicità per via telefonica con le bande di scafisti, garantendo loro il salvataggio in mare prima che i natanti salpino dalle coste della Libia. Le associazioni di volontariato che offrono assistenza agli immigranti irregolari che affollano i campi profughi spontanei che si creano in prossimità di città o di luoghi di frontiera nei paesi d’immigrazione o nei paesi di transito vengono spesso ostacolate nella loro attività umanitaria, con ogni sorta di espedienti (incluso vietando la distribuzione gratuita di cibo, o altre forme di assistenza). Quelle che offrono alloggio e vitto vengono accusate di essere dei centri d’affari, che assorbono preziose risorse finanziarie dei contribuenti fiscali. Organizzazioni che promuovono “carovane” di migranti centro-americani per attraversare in condizioni di sicurezza il territorio messicano per raggiungere il confine con gli Stati Uniti vengono accusate di organizzare “invasioni di criminali” del territorio statunitense.

Il clima di sospetto nei confronti delle ONG che in misura crescente accompagna la radicalizzazione delle misure di respingimento contro l’immigrazione irregolare è sotto gli occhi di tutti e, mentre molti riconoscono il valore profondamente umano della loro azione, sempre più numerosi sono coloro che declamano ad alta voce la complicità delle ONG con il traffico di migranti. Questa pressione denigratoria contro le ONG ha assunto dimensioni talmente macroscopiche che le ONG che organizzano il salvataggio marittimo nel mar Mediterraneo hanno cominciato a registrare una riduzione del flusso di risorse finanziarie con cui il pubblico 79 sostiene le loro attività, mentre in precedenza aveva generosamente sostenuto le operazioni di salvataggio di naufraghi per il loro valore umanitario.

Questo atteggiamento ostile nei confronti delle ONG perciò può essere visto come una manifestazione indiretta della lotta contro il traffico di migranti, anche se la funzione delle ONG non ha nulla a che vedere con la promozione dell’emigrazione, in quanto la loro azione è interpretata come quella di favoreggiatori dell’emigrazione. In realtà le ONG che operano nel settore hanno come finalità primaria l’assistenza a persone in grave stato di bisogno, in particolare ai migranti (regolari o irregolari), ai rifugiati, a profughi di qualsiasi tipo e questo ruolo non dovrebbe essere controverso.

È vero, tuttavia, che le ONG non hanno alcun ruolo di supporto alle politiche di contenimento o di respingimento dei flussi migratori, né alcun ruolo complementare a queste politiche. Quando interagiscono con le autorità europee nelle loro operazioni nel Mediterraneo, non operano in appoggio alle misure difensive intraprese in quell’area. Se non fosse così, verrebbero meno alla loro stessa ragione di esistere, che è quella di assistere persone in difficoltà (si veda la Parte V di questo saggio per un esame dettagliato di queste tensioni). Anzi, a volte le ONG si trovano in posizione critica nei confronti delle autorità che portano avanti misure di respingimento, quando non ne condividono né le finalità né le modalità. Più spesso, tuttavia, si tengono lontano da queste misure repressive, esercitando soltanto il loro ruolo umanitario di “soccorso” agli individui in necessità, quando i migranti o rifugiati o profughi si trovano in condizioni particolarmente precarie che ne pregiudicano la sopravvivenza, offrendo alloggi di emergenza, assistenza sanitaria, soccorso alimentare, assistenza sociale e psicologica.

Le autorità pubbliche incaricate delle misure relative all’immigrazione hanno atteggiamenti diversi nei confronti delle ONG. A volte semplicemente ne tollerano gli interventi, nella misura in cui non interferiscano nelle modalità operative delle misure di controllo dell’immigrazione portate avanti dalle istituzioni pubbliche, anche se questa tolleranza non significa che ne appoggino il ruolo, perché in alcuni casi si tratta di una difficile coabitazione (quando nascono attriti sui limiti operativi reciproci, o quando le finalità perseguite appaiono in forte contrasto). Altre volte, sono le stesse autorità pubbliche a richiedere l’intervento sussidiario delle ONG, come quando gestiscono per conto del governo centri di accoglienza o coordinano azioni di soccorso e salvataggio in mare, offrendo ai migranti ciò che le istituzioni ufficiali non sono in grado di produrre, sia per mancanza di un mandato formale, per insufficienza di fondi, o per altre limitazioni operative. In tal caso, le autorità stabiliscono un rapporto collaborativo con le ONG, riconoscendo i benefici che la comunità sociale riceve dall’assistenza sociale che queste organizzazioni sono in grado di offrire in condizioni di particolare urgenza. In altri casi, i rapporti con le ONG sono visti come un vero ostacolo all’azione delle autorità, quando entrano in conflitto aperto sugli obiettivi da perseguire, e le ONG sono accusate di infrangere regole specifiche. Questi contrasti sono particolarmente accesi quando l’attività di contenimento dell’immigrazione avviene nel quadro dell’esternalizzazione dei confini. Gli accordi con paesi “terzi” per realizzare operazioni di contenimento dell’immigrazione hanno spesso acuito questi attriti tra le ONG e le autorità di questi paesi “terzi” (vedi alcuni esempi di scontri nel riquadro che segue).

Nel contesto delle traversate di immigranti nel Mediterraneo, la frequenza dei naufragi ha motivato alcune ONG a promuovere attività di soccorso in mare per salvare vite umane e provvedere aiuti d’emergenza nei confronti dei malcapitati, con mezzi navali di loro proprietà o da loro noleggiati, coprendo un vuoto lasciato dall’azione pubblica in quei vasti tratti di mare ove altri navigli, compresi quelli della Guardia Costiera, non riescono ad intervenire tempestivamente con operazioni di salvataggio. Questo ruolo è stato finora riconosciuto dai 80 governi italiani fino a data recente, nonostante le controversie di questi ultimi anni (si veda la Parte V di questo saggio per un’analisi dettagliata di questo tema). Le navi di soccorso marittimo di queste ONG salvano vite umane in acque internazionali, e la Guardia Costiera italiana, ed in particolare il Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo (MRCC), con sede a Roma, coordinano queste operazioni nel Mediterraneo centrale. Il rapporto con queste ONG è stato oggetto di accese polemiche quando queste ultime hanno dissentito sugli orientamenti della politica di contenimento. Le ONG si sono sempre rifiutate di portare i naufraghi salvati in porti nord-africani (come avrebbero voluto gli oppositori radicali dell’immigrazione irregolare), ove i profughi non avrebbero sufficienti garanzie per vedere riconosciuto il loro diritto di protezionale internazionale riservato ai rifugiati. In ogni caso, la Libia è un paese ove le condizioni in cui i profughi si trovano non sono considerate accettabili dal punto di vista umanitario. Questi dissidi furono superati quando il ministero dell’interno adottò, in consultazione con la Commissione Europea, nel luglio del 2017 norme (Codice di Condotta) che chiarivano le modalità di accesso ai porti italiani dopo i salvataggi in mare. Ma queste modalità sembrano essere state recentemente ignorate dal nuovo ministro Salvini, che non ha concesso alle navi Aquarius e Lifeline l’accesso ai porti italiani, nonostante che i salvataggi compiuti nel giugno del 2018 erano stati coordinati con il MRCC di Roma. Effettuando questi soccorsi più vicino alle coste libiche rispetto al raggio d’azione normale delle navi sotto il controllo diretto dell’agenzia europea Fortrex (che si è imposto un limite operativo di 20 miglia nautiche dalla costa europea), dirigenti della Fortrex hanno spesso accusato le ONG di incoraggiare i migranti a scegliere la strada dell’emigrazione verso l’Europa, per il fatto stesso che le navi di soccorso delle ONG sono pronte a offrire assistenza in mare, anche se operano in acque internazionali, interpretando la loro presenza in quelle acque come un “ponte verso l’Europa”. Fortrex accusa le ONG di essere indirettamente responsabili di molti naufragi, in quando inciterebbero i migranti ad intraprendere le loro traversate in condizioni inaccettabili di insicurezza. Le ONG sono presentate come colpevoli, alla stessa stregua dei trafficanti di migranti, per aver incoraggiato le traversate che si traducono nella tragica morte di migliaia di migranti che giacciono nei fondali del Mediterraneo. Queste accuse accomunano le ONG alle responsabilità dei trafficanti di migranti, ritenuti colpevoli dei naufragi, ma anche alle migliaia di morti nei lager dei campi libici per profughi o lungo le lunghe marce nel deserto in Messico on nel Sahara. Queste accuse ignorano che sono state le ONG a salvare migliaia di naufraghi al largo delle nostre coste. MSF ha lanciato operazioni con proprie navi che hanno una capacità di salvare da 400 a 700 persone. Nel solo 2016, MSF con la sola nave Bourbon Argos ha soccorso 10.425 persone. Nello stesso anno, altre ONG hanno salvato con propri mezzi navali 46.882 naufraghi. Queste ONG rispondono ad un obbligo di soccorso in mare sancito dal diritto internazionale, cui gli stati europei non possono sottrarsi, nonostante il neoministro dell’interno Salvini intenda ignorarlo,[15] quando incoraggia la nostra Guardia Costiera a non rispondere a richieste di soccorso. Tale obbligo è previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla Legge del Mare del 1982, nonché dalla Convenzione sul Soccorso e Salvataggio Marittimo del 1979, dalla Convenzione Internazionale sulla Sicurezza della Vita in Mare del 1974 e da altre convenzioni e risoluzioni internazionali.[16] Le ONG nelle acque internazionali di fronte alla Libia vogliono assicurare tempestività del loro soccorso (le navi della Frontex sono costrette ad operare entro 20 miglia dalla costa europea e sono spesso in ritardo quando cercano di soccorrere naufraghi che sono al di là di quel limite).[17] 81

Alcuni episodi sconcertanti

Alcuni episodi registrati negli ultimi anni rivelano una situazione di contrasto diretto tra alcune ONG umanitarie operanti nel Mediterraneo con operazioni di Salvataggio e Soccorso (Saving and Rescue – SAR) e autorità libiche, che le hanno spesso trattate alla stessa stregua degli “scafisti” che salpano dalle coste dell’Africa settentrionale, nonostante che le ONG abbiano intenti puramente umanitari.

Il 17 agosto del 2016, la nave Bourbon Argos di MSF-Bruxelles subì un attacco da parte di un gruppo armato a bordo di un motoscafo non identificato a circa 24 miglia dalla costa libica (ufficialmente perciò in acque internazionali). Dopo aver sparato a distanza di 400-500 metri, uomini armati salirono a bordo, ove però non trovarono alcun naufrago ma solamente l’equipaggio della nave e personale di Médecins Sans Frontières (MSF). Nonostante l’anonimato dell’intervento, si trattava di personale ben addestrato e professionale, che ha proceduto senza alcuna comunicazione precauzionale per farsi identificare. Le persone armate sono rimaste a bordo della Bourbon Argos per 50 minuti. I danni alla nave sono stati minimi, causati dai proiettili usati durante la sparatoria iniziale. Le autorità libiche hanno dato varie versioni dell’episodio. Anche se MSF non ha accusato alcuna autorità, visto l’anonimato dell’intervento, si trattava chiaramente di una mossa intimidatoria ispirata da chi non vuole la presenza di ONG in queste operazioni SAR vicino alle coste libiche, sia questo intervento promosso indirettamente dal governo libico o da chi per lui o da altro gruppo indipendente.

Analogo episodio è stato riportato dalla NGO tedesca Sea-Watch, che salvò, nell’ottobre del 2016, 120 naufraghi che erano stati attaccati in precedenza da un battello con le insegne della Guardia Costiera libica, anche se le autorità libiche hanno negato che si trattasse di un loro natante. Secondo quella ONG, il gommone con circa 150 emigranti era stato attaccato in precedenza dal battello libico, quando si trovava a 14 miglia dalla costa libica, e uomini armati di bastone erano saliti a bordo, picchiando diversi profughi, e distruggendo uno dei tubi di gomma del natante, con la conseguenza di obbligare la maggioranza degli occupanti a finire in mare: quattro morti tra i profughi furono recuperati dopo lo scontro.

Il 7 agosto del 2017 la nave Open Arms della ONG spagnola , è stata intercettata dalla Guardia Costiera libica che ha sparato colpi di avvertimento in aria per far desistere la ONG da un tentativo di soccorso in mare. Il 15 agosto dello stesso anno, un’altra imbarcazione della stessa ONG, Golfo Azzurro, ha ricevuto ripetute minacce da una motovedetta libica, che l’ha accusata di essere in acque territoriali libiche, inizialmente ordinando di cambiare il proprio corso e dirigersi verso il porto di Tripoli, e alla fine ordinando di abbandonare le acque libiche (Proactiva sostiene che l’imbarcazione era a 27 miglia dalla costa, perciò in acque internazionali). L’imbarcazione fu alla fine scortata dalla motovedetta, che si assicurò in tal modo il suo allontanamento.

Il 26 settembre del 2017, un’imbarcazione della ONG Mission Lifeline, impegnata in un’operazione di soccorso è stata attaccata dalla Guardia Costiera libica, perché considerata ancora in acque territoriali libiche. Dopo aver sparato alcuni colpi intimidatori in aria, due ufficiali della Guardia Costiera salirono a bordo, ordinando 82

il rilascio dei 70 profughi che erano stati soccorsi in precedenza, secondo la ONG in acque internazionali. La ONG si rifiutò di consegnare i naufraghi.

Ci sono poi altre ONG, oltre a quelle che offrono servizi di assistenza ai migranti, il cui compito principale è sostenere la protezione dei diritti umani, esercitando una funzione di monitoraggio dell’azione pubblica e di sensibilizzazione (advocacy): sono le ONG che svolgono ricerche, inviano osservatori, operano verifiche sul campo, controllano la veridicità dei fatti, e che spesso entrano in collisione con le istituzioni pubbliche, specialmente nel quadro della esternalizzazione dei confini, se le misure intraprese violano i diritti umani dei migranti.

Altre ONG offrono protezione diretta dei migranti durante il processo di emigrazione, per evitare che possano essere oggetto di attacchi e abusi da parte di bande criminali o di repressione violenta da parte delle autorità d’immigrazione. È quando successo con Pueblo Sin Fronteras in Messico, che promuove carovane verso gli Stati Uniti o Alarm Phone, che aiuta migranti e rifugiati in Marocco per tutelarne il trattamento quando tentano di emigrare in Spagna.

Alarm Phone è un’associazione autogestita di migranti basata in Marocco che promuove sensibilizzazione tra comunità interessate ad emigrare in Spagna, affinché l’attraversamento della frontiera sia sicuro. Alarm Phone[18] utilizza una rete di contatti ubicati nelle città di Tangeri, Ceuta, Tetouan, Nador, Oujda e Laauoune, che operano come osservatori e organizzazioni che promuovono azioni di sensibilità politica. Distribuisce numeri telefonici ai migranti e ai profughi da usare in caso di rischio di naufragio o altra catastrofe per richiedere possibile assistenza. Nel giugno del 2017 un loro gruppo organizzò una carovana per trasportare 200 migranti, includendo 50 rifugiati siriani bloccati per ben due mesi al confine tra il Marocco e l’Algeria nella fascia extra-territoriale del confine. La carovana, sostenuta da 350 attivisti che organizzarono una pubblica protesta nella città di Figuig, percorse ben 400 km prima di essere respinta da forze marocchine di sicurezza. Attivisti di Alarm Phone organizzano proteste per esercitare pressione sulle autorità sia spagnole che marocchine in difesa dei diritti dei migranti. Nel 2016, Alarm Phone riuscì a ottenere l’ammissione di 119 migranti nella città di Ceuta (città spagnola in territorio nord-africano, sulla costa del Mediterraneo), ove hanno potuto esercitare il diritto di richiesta di asilo.

Assistiamo ad una crescita del fronte degli scettici contro l’immigrazione irregolare con una influenza crescente sull’opinione pubblica anche “moderata” che critica con insistenza l’operato delle ONG in quest’area, mentre le ONG continuano ribadire, non solo a parole ma anche con le loro azioni, la loro solidarietà verso le vittime dei processi migratori, gli immigranti. Basta un articolo di un giornale che accusi una ONG di connivenza con scafisti, che immediatamente si scatenano reazioni a catena sui social media contro i “corrotti” dell’aiuto umanitario e nessuno più se ne scandalizza. Mentre la gente si commosse di fronte alle immagini di un bambino naufragato che giaceva sulle spiagge della Turchia, la reazione nei confronti delle ONG che salvano vite umane in mare ignora il loro sacrificio ed i risultati raggiunti, e la mente va immediatamente al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e alla pretesa complicità delle ONG con gli scafisti, sospettati addirittura di finanziarle. Questa tendenza si spiega con l’ossessione per la riduzione dei flussi migratori, anche per mancanza di un’informazione obiettiva sulla loro natura e dimensione, che è alla base della criminalizzazione dell’immigrazione irregolare, indirettamente tradotta in un attacco alle ONG, nonostante il loro ruolo nelle operazioni di soccorso. 83

Le “carovane” dall’Honduras

Il 9 aprile 2017 la ONG “Pueblo Sin Fronteras” organizzò una marcia di emigranti dall’Honduras verso gli Stati Uniti: alcuni furono respinti, 108 presentarono domanda di asilo, ma a giugno di quell’anno una metà si trovava ancora in centri di detenzione. Molte famiglie furono separate, con alcuni bambini rinviati nel paese d’origine, mentre i genitori restavano in detenzione. Un anno dopo, il 25 marzo del 2018, la stessa ONG organizzò una marcia con un gruppo più numeroso, inizialmente di 700 persone (prevalentemente dall’Honduras, in maggioranza donne e bambini), partendo da Tapachula, al sud del Messico, con destinazione a Matías Romero al confine con gli Stati Uniti, raccogliendo lungo la strada altre 500 persone. Dal 2010, l’ONG ha organizzato dozzine di “carovane”, processioni di veicoli che accompagnano gli emigranti per garantirne la sicurezza ed in segno di solidarietà. La “carovana” della Pasqua del 2018 è divenuta famosa a causa della reazione del Presidente Trump, che accusò l’iniziativa come un tentativo di invadere spavaldamente gli Stati Uniti. I media anti-immigrazione la descrissero come un “piccolo esercito di emigranti che marcia verso gli Stati Uniti”. I tweet di Trump trasformarono il fenomeno, trascurato dai media negli anni precedenti, in un incidente internazionale. Trump riconobbe nelle “carovane” una intensificazione dei tentativi di “invasione” del paese, un modo in cui il Messico manderebbe trafficanti di droga, e la risposta promessa prevedeva i consueti tagli ai trasferimenti finanziari, l’invio di truppe alla frontiera (anche se in verità sarebbero stati più necessari bavaglini e biberon) e l’uscita dall’accordo NAFTA. Per Trump, le donne vengono stuprate in queste “carovane”, nonostante che esse siano organizzate proprio per evitare che questi episodi di violenza avvengano. Il governo americano richiese al Messico di impedire che queste carovane arrivassero al confine, esigendone la dispersione. Le autorità diplomatiche messicane cercarono di ridimensionare lo scontro ma il presidente messicano Peña Nieto minacciò la sospensione della collaborazione con gli Stati Uniti in materia di immigrazione e di sicurezza. Sul piano operativo, la risposta messicana mostrò un atteggiamento tollerante al confine, ove i funzionari messicani concessero permessi di transito temporanei, con una validità di 20 giorni, in attesa dell’attraversamento della frontiera con gli Stati Uniti, offrendo anche, in alternativa, la possibilità di conseguire visti umanitari per restare in Messico a coloro che ne facessero richiesta entro 30 giorni. Mentre molti migranti restarono in prossimità della frontiera, nella città di Matías Romero, in attesa di attraversare il confine, altri si trasferirono a Puebla, a 400 km di distanza, ove Pueblo Sin Fronteras organizzò, con avvocati volontari, seminari sulla legislazione messicana e quella statunitense d’immigrazione per aiutare i migranti a prendere le decisioni che ritenessero più convenienti al loro caso. Il fenomeno delle “carovane”, anche se in dimensioni più ridotte, probabilmente continuerà a manifestarsi, anche se “carovane” numerose saranno probabilmente ridirette verso Città del Messico, con l’intento di destare l’attenzione del grande pubblico. In tal caso, le “carovane” si dissolveranno una volta giunte nella capitale messicana, e gli emigranti saranno liberi di scegliere come e se continuare il loro cammino verso la frontiera con gli Stati Uniti, o cercare uno stato legale in Messico o altri paesi, specialmente per individui che non possono sperare di ottenere asilo secondo i criteri applicati dai tribunali americani per l’immigrazione.[19]

La caratterizzazione delle carovane come gruppo pericoloso di invasori indisciplinati ed arroganti è ben diversa dalla realtà. Pueblo Sin Fronteras organizza queste 84

carovane per salvare gli emigranti dai rischi di bande criminali e cartelli della droga che spesso attaccano gli emigranti durante il loro cammino verso la frontiera, per assicurare loro un viaggio sicuro fino al confine. Una volta portati gli emigranti al confine, il compito di Pueblo Sin Fronteras è finito. Il ruolo di una ONG come Pueblo Sin Fronteras appare diverso da quello delle ONG che forniscono soccorso nel Mediterraneo, perché assistono i migranti nel processo di emigrazione. Questo è perché si tratta di organizzazioni auto-promosse dagli emigranti stessi, per garantire la sicurezza agli emigranti. Tuttavia, non si tratta di un’organizzazione che promuove l’emigrazione verso gli Stati Uniti. Infatti, spesso i suoi dirigenti scoraggiano questa soluzione, vista la difficoltà di ottenere l’asilo in quel paese. Pueblo Sin Fronteras cerca piuttosto di offrire informazione legale utile per gli emigranti, esaminando strade alternative, inclusa la richiesta di asilo o permesso di soggiorno in altri paesi latino-americani. Se gli emigranti entrano negli Stati Uniti, la ONG spera che le autorità americane concedano loro il diritto a richiedere asilo, ma l’ONG non ha alcun ruolo in questo, né cerca di aiutare gli emigranti ad entrare clandestinamente nel paese. Ma questo non è sufficiente per Trump, perché non sopporta l’idea che migliaia di emigranti (organizzati in modo pacifico) si affaccino ai cancelli della dogana per il controllo dei passaporti, per richiedere la protezione internazionale riservata ai rifugiati. La novità di queste “caravane”, rispetto ai percorsi più tradizionali, è che il viaggio avviene alla luce del sole e negare il diritto ad essere ascoltati e presentare domanda di asilo è illegale anche negli Stati Uniti.

Anche se coloro che sostengono politiche di contenimento dell’immigrazione non si fanno illusioni sull’andamento dei flussi di immigranti, continuano a vedere le ONG che aiutano i naufraghi o assistono i profughi da questa o l’altra sponda del Mediterraneo o della frontiera messicana con estremo sospetto, perché perseguono l’obiettivo dell’accoglienza senza discriminazione, specialmente per chi fugge da situazioni di violenza, calamità naturali e povertà assoluta. Questa politica delle “porte aperte” è percepita con terrore dalla maggioranza dei politici, perché non popolare: un modo per perdere le elezioni. Anche quando il salvataggio di vite umane è considerate sacrosanto, il contenimento degli immigranti dall’Africa, dall’Asia o dall’America Latina è ritenuto preferibile.

Crimini contro i migranti

L’analisi della criminalizzazione dell’immigrazione irregolare qui condotta ha affrontato varie forme di crimini legati ai processi migratori: la prima è la criminalizzazione dell’immigrato per il fatto stesso di aver trasgredito le leggi d’immigrazione del paese ospitante; la seconda riguarda i crimini comuni commessi da alcuni migranti; la terza si riferisce alla penalizzazione del traffico di migranti, consistente nel favoreggiamento dell’immigrazione irregolare.

Resta un ultimo tipo di crimini: quelli contro gli immigranti. Stranamente le politiche dell’immigrazione non mettono mai l’accento su questa categoria, ma preferiscono dipingere la figura del migrante come un criminale e non come una vittima. Eppure, quante torture e violenze vengono esercitate durante il viaggio nei confronti degli emigranti o nei campi profughi in paesi “terzi”. Quante sofferenze subiscono anche quando hanno superato la frontiera, se le condizioni di ricevimento, anziché favorire l’accoglienza, impongono sfruttamento, abusi e restrizioni di qualsiasi tipo. Quante volte immigranti vengono derubati durante il loro tragitto. Quante volte giovani donne vengono stuprate o malmenate da coloro che dovrebbero solo facilitarne il viaggio, oppure vengono sequestrate e poi avviate alla prostituzione, magari trasferendole da un paese 85 all’altro per farne perdere le tracce. Quante donne sono rimaste gravide come effetto di atti di violenza sessuale durante il loro viaggio. Quante di loro sono state uccise. Quanti bambini sono rimasti vittime innocenti di operazioni rischiose, ove rappresentavano solo un peso, e potevano così essere disposti come spazzatura, o sono stati sequestrati per essere avviati al traffico di esseri umani o per essere reclutati forzosamente come nuovi quadri del terrorismo internazionale, possibili vittime di bombe-suicidi. Quante volte immigranti vengono gettati in mare se sono di peso, o picchiati per qualsiasi ragione o abbandonati al margine del deserto senza pietà, o bruciati vivi se non obbediscono a trafficanti spesso drogati. Fra i 20.000 rifugiati stimati alla fine del 2017 nei centri di detenzione libici (secondo fonti ONU basate su dati ufficiali libici), gli orrori verificati dall’Alto Commissariato dell’OHCHR confermano la violazione continua dei diritti umani, viste le condizioni disumane in cui si trovano i detenuti: sovraffollamento estremo nelle celle, prive di igiene, con scarso accesso a cibo, acqua potabile e cure mediche. Le donne sono violentate. I bambini vengono reclutati dalle milizie che combattono in Libia. Testimonianze registrate con video hanno rivelato fenomeni di vera e propria tratta di schiavi organizzata presso questi campi, con gare all’incanto di ragazzi da vendere per lavori forzati.

I racconti raccapriccianti riguardano anche la condizione degli immigranti che hanno superato la frontiera e che, anziché essere accolti ed assistiti, incappano in tutte le possibili forme di sfruttamento. Sentiamo di immigranti africani che dovrebbero essere inseriti in campi di accoglienza, che invece lavorano dieci ore al giorno, ma a volte fino a 12-14 ore al giorno, nei campi, magari per €1-2 all’ora, per essere impiegati stagionalmente nella raccolta di frutta e ortaggi, o per coltivare fragole e patate o guardare le pecore in Calabria, nelle Puglie, in Sicilia. Parliamo delle vittime del caporalato e delle agromafie, che colpiscono più di 400 mila persone in Italia, sia tra italiani che stranieri, con una organizzazione del lavoro che recluta lavoratori alla giornata e li trasporta sui campi o nei cantieri edili, per essere sottoposti ai lavori più faticosi, con turni impossibili, e con un reddito da fame. Si muovono stagionalmente, in estate nella provincia di Foggia per raccogliere i pomodori; in autunno in Calabria e Sicilia per raccogliere arance e mandarini ed in inverno nel Trentino per la raccolta delle mele. Vivono in accampamenti spontanei inabitabili, senza acqua e corrente elettrica, sotto il sole ardente durante l’estate, al freddo senza riscaldamento in inverno, alloggi troppo spesso tollerati dai tutori dell’ordine. Subiscono intimidazioni e maltrattamenti continui: “Se alzi la testa, non mangi”.

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Grazie a raggiri di autorità e intermediari vari, alcuni provengono dai centri di accoglienza che li dovrebbero assistere, mentre gli

“Bandierine” nel deserto

Testimoni oculari mi hanno raccontato la loro esperienza quando hanno visitato i luoghi ove i migranti si recano a piedi verso il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, in particolare in prossimità delle zone che portano verso Nogales in Sonora (Messico), prima di tentare l’attraversamento della frontiera in prossimità di Nogales in Arizona. Questi visitatori hanno deciso di provare direttamente cosa significhi camminare per alcune ore sotto il sole cocente in un terreno semi-desertico, facendo gli stessi passi degli emigranti, negli stessi sentieri, cercando così di rivivere in miniatura i sacrifici di coloro che camminano in quelle zone per molto giorni. Ma sono incappati con una testimonianza che non si attendevano.

Durante questo percorso simbolico, si sono imbattuti ogni tanto con cespugli che offrivano rare zone ombreggianti adatte per sostare e riposarsi dalla fatica. Queste zone erano spesso contrassegnate da “bandierine” appese sugli arbusti. Ma guardando più da vicino, non si trattava di “bandierine”: erano “mutandine” da donna. La guida della ONG locale che li accompagnava spiegò loro cosa fossero quelle “bandierine”. Sono state lasciate appositamente, in modo ben visibile, da giovani donne che hanno subìto, proprio in quel luogo, uno stupro ad opera di un accompagnatore, il cosiddetto ‘coyote’, che ha approfittato della sosta per abusare della giovane donna, violentandola, ma esigendone, al tempo stesso, il silenzio assoluto.

Le donne che subiscono questo abuso non hanno scelta: o subiscono quella violenza o sono abbandonate nel deserto, o addirittura uccise. Così lasciano quell’indumento intimo appeso sui cespugli, per testimoniare al mondo che lì, in quel luogo, è stato commesso un crimine di cui sono state vittime, un crimine di cui nessuno mai risponderà in alcun tribunale, ma loro vogliono lasciare una testimonianza del loro sacrificio.

Quante donne gravide si presentano ai tribunali d’immigrazione degli Stati Uniti, non osando menzionare che sono state vittime di queste violenze sessuali durante il tragitto, ma è inutile menzionarlo ai giudici di quei tribunali, che non ne terranno conto, anche perché non ci sono prove. Resta la testimonianza simbolica di quelle “bandierine” colorate, sventolanti, lasciate sui cespugli affinché nessun dimentichi che in quel punto è avvenuto un reato, che non sarà dimenticato completamente. Le carovane di emigranti che passeranno in quei luoghi potranno vederle, ricordando così che il viaggio dell’emigrazione è pieno di dolore e di sofferenza.

87 approfittatori assorbono il contributo pubblico di €35 stanziato per ogni immigrato ospitato, minacciato di essere espulso se protesta. Vengono per lo più selezionati tra i più robusti e i più miti, come in un mercato degli schiavi. In quelle condizioni, non è frequente che gli immigrati muoiano senza che si sappia perché, sotto l’indifferenza dell’opinione pubblica. Queste forme di sfruttamento spesso si mescolano con altre attività illegali come il traffico di droga e l’avvio alla prostituzione, sottoponendo gli immigrati ad ogni forma di sfruttamento, spesso dopo che sono stati loro sottratti i documenti personali per trasformarli in vere vittime di traffico di persone.

Racconti di sofferenze umane di questo genere sono frequenti e non c’è bisogno qui di illustrarle in dettaglio: è sufficiente guardare la cronaca quotidiana o consultare le reti sociali degli immigranti per accedere ad ampia documentazione (per es. La voce del migrante in https://lavocedelmigrante.com). Purtroppo, molti di questi reati rimangono impuniti. Le cronache registrano solo un numero limitato di questi fatti, che spesso rimangono nell’oblio dei sentieri nel deserto, nascosti dall’omertà, o dalla vergogna vissuta dalle vittime, o dal desiderio dei migranti di dimenticare gli orrori che hanno vissuto come testimoni durante il loro tragico viaggio, o perché gli immigranti sono soggetti ancora a ricatto. Ma colloqui con immigranti irregolari sono ricchi di aneddoti di questa natura, storie di tragedie infinite.

I reati sono di tutti i tipi. Ricatti sono imposti (come verificato nei campi libici) da chi sequestra gli immigranti in custodia forzata, richiedendo riscatto alle famiglie nei paesi d’origine, come frequente anche in Messico da parte di bande criminali che prendono in ostaggio i migranti per indurli al traffico della droga o alla prostituzione, o per esigere una ricompensa pecuniaria (vedi Parte III di questo saggio).

Convenzioni internazionali esistono a protezione delle vittime di questi abusi, e sforzi sono compiuti da singoli governi e da organizzazioni internazionali per combatterli. ONG internazionali o locali sono molto attive nel proteggere i migranti che sono vittimizzati, offrendo loro un santuario, da ambedue i lati della frontiera,[20] per ridurre il rischio di imbattersi in bande criminali ed evitare di entrare nelle reti dello sfruttamento sistematico. Le forze dell’ordine dovrebbero proteggere le potenziali vittime, ma sembra che le autorità incaricate siano più preoccupate a contenere i flussi migratori che a garantire la sicurezza dei migranti. La repressione di questi abusi è minima o assente, e quando viene esercitata, porta a scarsi risultati. Gli sforzi si concentrano sulla lotta al traffico di droga, o all’arresto di scafisti o coyote, trascurando il fatto che reati gravissimi siano stati commessi contro l’immigrato.

Esiste una fase grigia del processo d’emigrazione, in cui gli immigranti sono abbandonati a sé stessi, sparendo dallo schermo di controllo delle autorità pubbliche, forse perché ancora nascosti nella loro clandestinità, o perché sequestrati dai veri criminali. È la fase in cui la repressione delle autorità pubblica contro i crimini verso gli immigranti è particolarmente inefficace. Solo quando l’immigrante esce fuori da questo tunnel della clandestinità, è possibile proteggerlo dai crimini che ha subìto. Ma in pratica, la mancanza di prove da produrre in tribunale e l’aver infranto le leggi sull’immigrazione, rendono la protezione di queste vittime molto aleatoria, anche per la carenza o assenza di assistenza legale, salvo eccezioni. È più facile arrestare prostitute, trafficanti di droga, o fare retate di lavoratori clandestini in sweatshops e ambulanti non autorizzati, che non colpire le cosche criminali che infieriscono contro i migranti. Non parliamo poi delle violenze sessuali e altri abusi fisici subiti dagli emigranti durante il loro viaggio: sono reati per lo più trascurati e quasi mai perseguiti.

Mentre possiamo essere tutti d’accordo che i reati di cui gli immigranti irregolari sono vittime dovrebbero essere combattuti, spesso le misure di repressione si dirigono contro gli immigranti 88 stessi, per la loro condizione ambigua di “vittima-criminale”, che discende dai vari tentativi di criminalizzazione dell’immigrazione irregolare esaminati in questo saggio. È così che, anziché colpire i perpetuatori delle violenze contro i migranti, spesso si colpiscono prima le loro stesse vittime, confondendo criminali e prede. Come al solito, gli immigranti sono l’anello più debole di questa catena di tragedie umane.

Legislazioni nazionali, ma forse anche una migliore protezione del diritto internazionale, dovrebbero offrire una maggiore protezione agli immigranti da questi reati, in aggiunta a quanto già previsto dalle leggi e dalle convenzioni internazionali vigenti. A volte lo fanno, ma non sempre in misura sufficiente. Per esempio, secondo le leggi degli Stati Uniti, una donna che ha subìto un serio abuso durante il processo di emigrazione, potrebbe usare questo reato a sua difesa addirittura per ottenere una soluzione a suo favore per l’immigrazione nel paese, anche se inizialmente era nella condizione di aver infranto le leggi sull’immigrazione. Tuttavia, i tribunali d’immigrazione sono riluttanti a concedere questa possibilità, richiedendo prove non facili da produrre in sede giudiziaria, vista l’assenza di evidenze fisiche irrefutabili o testimonianze attendibili. Questi reati spesso sono stati commessi nell’anonimato delle aree ove i trasporti clandestini hanno luogo (vedi il riquadro sulle “Bandierine” nel deserto), quando l’omertà prevale, i colpevoli non sono catturati, e la vittima si trova a sostenere il suo caso davanti al giudice forse con l’unica prova (considerata insufficiente) di una gravidanza non voluta o qualche livido sul proprio corpo.

......

N O T E

[1] Vedi “Sulla ‘criminalizzazione’ degli immigranti irregolari”, terza parte del saggio “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO”, apparso su Partecipagire il 29/4/2018

[2] Vedi “Human smuggling fees” in https://openborders.info/human-smuggling-fees/

[3] Vedi “Current Routes, Institutional Responses and Human Smuggling across the Mediterranean Sea” PowerPoint in https://institute.eib.org/wp-content/uploads/2017/02/Presentation-Achilli-Luxembourg.pdf

[4] Fortex, nata nel 2005 per gestire in modo coordinato il controllo delle frontiere europee nell’area Schengen, inizialmente si limitava al coordinamento della cooperazione tra i paesi membri nella gestione dei controlli di frontiera, offrendo assistenza tecnica, formazione e studio dei modi per migliorare l’efficienza di queste attività. La debolezza gestionale, carenza di risorse, e non chiarezza del mandato spiegano l’evoluzione di Frontex di questi ultimi anni, con un profondo cambiamento della sua struttura, anche a seguito dell’esplosione dei flussi migratori.

[5] L’Unione Europea ha finanziato lo sviluppo di tecnologie per migliorare la sicurezza dei propri confini, con progetti come PERSEUS, SEABILLA, e 12C, per individuare pescherecci e gommoni in alto mare. Vedi Maria Gabrielsen Jumbert (2018)“Control or rescue at sea? Aims and limits of border surveillance technologies in the Mediterranean Sea”, in Autori Vari, “Disasters”, Overseas Development Institute, John Wiley & Sons Ltd, Oxford. [6] Fornito dall’Agenzia Spaziale Europea, che gestisce sorveglianza satellitare in tempo reale. [7] EUROSUR è il sistema di Sorveglianza dei Confini (Border Surveillance) dell’Unione Europea. Lanciato nel dicembre del 2013, permette lo scambio di informazioni attraverso una rete di centri nazionali di coordinamento (NCC), producendo immagini situazionali, permettendo l’accesso a tecnologie avanzate sulla sorveglianza. [8] Vedi M. Casas-Cortes, S. Cobarrubias, J. Pickles (May 2015), “Riding Routes and Itinerant Borders: Autonomy of Migration and Border Externalization”, Antipode, Research Gate, in LINK [9] Questo deterrente ha destato una protesta universale, tanto da far desistere l’amministrazione Trump nel perseguirlo. Ma questo tentativo ha lasciato conseguenze negative, con più di 2000 minorenni ancora separati (al momento in cui scrivo) dai loro genitori, pur essendo passato più di un mese dalla decisione di separarli. Sembra che l’ICE è stata molto più efficace nel separare i membri delle famiglie immigrate che nel riunirle. 89

[10] Vedi M. Casas-Cortes, S. Cobarrubias, J. Pickles, “Re-bordering the Neighbourhood: Europe's Emerging Geographies of Non-accession Integration”, SAGE, European Urban and Regional Studies, 20 (1),: 37-58, January, 2013. [11] Negli Stati Uniti, questi tentativi di coinvolgere nelle politiche di contenimento anche le autorità di paesi confinanti come il Messico ed i paesi dell’America Centrale da cui gli emigranti provengono, sono stati modesti e meno efficaci, sia per lo scarso interesse di questi paesi che per la sfiducia dell’amministrazione statunitense che ha preferito concentrare questa collaborazione nel controllo del narcotraffico, e non in materia di immigrazione. [12] Vedi M. Casas-Cortes, S. Cobarrubias, J. Pickles (May 2015), “Riding Routes and Itinerant Borders: Autonomy of Migration and Border Externalization” cit. [13] Frase rilasciata da Alessandro Di Battista del Movimento 5 Stelle a San Francisco il 13 giugno 2018 in un’intervista alla parlamentare Laura Ravetto di Forza Italia per non aver preso una chiara posizione sull’episodio della nave Aquarius. http://www.polisblog.it/post/395543/aquarius-di-battista-futuro-africani-africa-video [14] L’esternalizzazione dei confini è stata tentata anche altrove, per esempio in Australia, che impedisce l’arrivo sulla costa di quel continente di imbarcazioni irregolari di immigranti, creando enclave in strutture “offshore” al largo del territorio continentale dell’Australia, ove costoro rimangono bloccati, in territori considerati ancora esterni, rendendo impossibile per i profughi presentare domanda di asilo alle competenti autorità. [15] Vedi quanto riportato da La Repubblica il 25 giugno del 2018: “Per Matteo Salvini, il governo italiano dovrebbe dare disposizione alla Guardia costiera di non rispondere nel ai messaggi di soccorso delle ong che operano nel Mediterraneo, a volte con migranti a bordo. Il ‘piano’ è esposto dal ministro in conferenza stampa, quando gli domandano a bruciapelo se abbia dato disposizione di non rispondere agli sos. La replica è secca: ‘Dovete chiedere al ministro Toninelli, ma se così fosse - aggiunge con un sorriso - avrebbe il mio totale sostegno’." [16] Il primo comma dell’art. 98 della Legge del Mare, sul “Dovere di prestare assistenza” dice, esattamente, quanto segue: “Every State shall require the master of a ship flying its flag, in so far as he can do so without serious danger to the ship, the crew or the passengers: (a) to render assistance to any person found at sea in danger of being lost; (b) to proceed with all possible speed to the rescue of persons in distress, if informed of their need of assistance, in so far as such action may reasonably be expected of him; (c) after a collision, to render assistance to the other ship, its crew and its passengers and, where possible, to inform the other ship of the name of his own ship, its port of registry and the nearest port at which it will call.” [17] La polemica col Ministro Salvini si è ultimamente spostata dalle ONG alla disputa con gli altri paesi europei sul regolamento di Dublino, e sull’accesso delle navi di soccorso ad altri porti europei, anziché solo ai porti italiani. [18] Su Alarm Phone e queste forme di opposizione organizzata alle misure di respingimento violento nei confronti degli immigranti, si veda Carla Höppner e Corinna Zeitz (2017) “From Morocco to Spain and beyond: collective resistance against a deadly border cooperation” in https://alarmphone.org/en/2017/10/26/from-morocco-to-spain-and-beyond-collective-resistance-against-a-deadly- border-cooperation/ [19] Nel 2017, 14.600 immigranti centro-americani hanno fatto richiesta di asilo in Messico (un increment del 66% rispetto al 2016, un numero di rifugiati 11 volte superiore rispetto a quello del 2012). [20] Si veda l’informazione illuminante della KINO BORDER INITIATIVE al confine tra l’Arizona ed il Messico, in http://www.kinoborderinitiative.org e l’abbodanza di testimonianze lì riportate.

Parte V 90

IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO

ESTERNALIZZAZIONE DEI CONFINI EUROPEI NEL MEDITERRANEO

La difficile difesa dei confini europei dall’immigrazione dal sud Nella Parte IV di questo saggio,i ho esaminato la lotta contro il traffico di migranti condotta dai paesi d’immigrazione nell’ambito di politiche di contenimento dell’immigrazione irregolare. Tale lotta, specialmente nella realtà europea, si è evoluta superando la mera difesa dei confini territoriali basata sul controllo fisico delle aree di esclusiva competenza giuridica della sovranità nazionale del paese d’immigrazione. La forza apparentemente inarrestabile dell’emigrazione dai paesi del sul del mondo, in qualche modo imprevedibile ed in continua evoluzione – quella che è stata chiamata da alcuni studiosi “autonomia dell’emigrazione”ii – ha motivato molti governi dei paesi d’immigrazione a spostare la “prima linea” di difesa dai flussi migratori ben al di là delle frontiere tradizionali, ponendo questa prima linea in primo luogo nelle acque internazionali, e poi ancora più in là, in paesi “terzi”, siano essi paesi di transito per i migranti o addirittura nei paesi d’origine. Questo spostamento è stato una vera e propria deterritorializzazione delle misure di respingimento dell’immigrazione irregolare ed è stato chiamato esternalizzazione dei confini (“border externalization”). Nella Parte IV esaminammo brevemente i presupposti concettuali del fenomeno ed il suo legame con la mobilità irriducibile dei flussi migratori. L’esternalizzazione dei confini inserisce un elemento di flessibilità nelle misure per contenere i processi migratori, includendo azioni che si realizzano al di fuori del territorio nazionale, a seconda delle convenienze del paese d’immigrazione, stabilendo una relazione diversa tra spazio e politiche di contenimento dell’immigrazione. Questa flessibilità spiega come mai, in questi ultimi anni, i governi dei paesi d’immigrazione si siano interessati sempre di più al respingimento dei barconi d’immigranti in acque internazionali o addirittura in acque territoriali di altri paesi. O abbiano stabilito rapporti di collaborazione con paesi come Turchia, Libia e Marocco per averne il sostegno in azioni di repressione dei flussi migratori. Oppure abbiano lanciato programmi in quei paesi “terzi” per la gestione dei flussi di migranti in transito, ostacolandone la partenza o l’arrivo, controllandone la residenza con la predisposizione o l’ampliamento di centri profughi o centri di detenzione per migranti in transito, spesso sostenendo il costo o la gestione. Alcune iniziative hanno riguardato anche i paesi d’origine, cercando di fermare l’emigrazione ai suoi albori, oppure favorendo il rimpatrio di chi si è visto chiudere l’accesso all’estero, o infine incoraggiando la concessione di permessi di residenza ai migranti in transito. In questa Parte V approfondirò l’esternalizzazione dei confini nel contesto dell’Unione Europea e dei suoi paesi membri, specialmente per i flussi migratori che attraversano il Mediterraneo, tema brevemente anticipato nella Parte IV. L’importanza del fronte marittimo per l’Europa è ovvia. Il suo unico confine terrestre riguarda solo l’oriente europeo, eccetto il confine sud- orientale con la Turchia e le frontiere africane delle città spagnole di Melilla e di Ceuta, circondate dal Marocco. La grande frontiera esterna dell’Europa è il mare, mentre i confini intra- europei svolgono un ruolo ambiguo per i migranti extra-europei, visto che l’accordo di Schengen si riferisce maggiormente alla circolazione dei cittadini europei all’interno dell’Unione, e non si estende facilmente agli extra-comunitari (salvo che per i residenti regolari, i turisti e, forse, per i 91 rifugiati). La difesa delle frontiere interne dagli extra-comunitari ha però assunto toni drammatici in alcuni stati europei che si rifiutano di accogliere rifugiati, creando spaccature all’interno dell’Unione in questa materia. Ma l’esternalizzazione dei confini europei non riguarda ciò che avviene alle frontiere intra-europee, regolate dagli accordi di Dublino e di Schengen, ma quelle esterne.

Approccio Globale alla Migrazione dell’Unione Europea

L’esternalizzazione dei confini europei trova una sua prima definizione in due schemi, l’Approccio Globale alla Migrazione e alla Mobilità (Global Approach to Migration and Mobility, GAMM)iii – lanciato al vertice del Consiglio Europeo di Tampere (in Finlandia) nel 1999 e divenuto operativo solo nel dicembre 2005 – e l’Agenda Europea sull’immigrazione, lanciata dalla Commissione Europea il 13 maggio 2015. Il GAMMiv rappresenta un quadro generale di riferimento delle politiche europee per l’immigrazione da paesi extra-comunitari e per la concessione dell’asilio ai rifugiati. Una sua componente centrale è l’Iniziativa delle Rotte Migratorie, che monitora gli itinerari seguiti dai migranti per avvicinarsi all’Europa, che permette di identificare possibili rapporti di collaborazione con paesi “terzi”, importante componente dell’esternalizzazione. Nel GAMM l’immigrazione è vista attraverso una serie di processi, accordi tra paesi e dibattiti internazionali, ove “cooperazione allo sviluppo” e solidarietà internazionale sono determinanti. Ne emerge un quadro prevalentemente istituzionale ma non sufficientemente realistico dei processi migratori, che ne sottovaluta le complesse problematiche socio-economiche e politiche, camuffate dietro l’eleganza dei processi di consultazione internazionale. Leggendo i documenti sul GAMM non è facile decifrare il vero approccio adottato dall’Unione in materia migratoria, e capire l’importanza dominante della logica di contenimento e di respingimento dei flussi migratori. Infatti, definiti nel pieno rispetto dei diritti umani, gli obiettivi “ufficiali” del GAMM appaiono molto equilibrati, articolati in quattro aree d’azione: (a) Miglioramento dell’organizzazione dell’immigrazione legale, per permettere una più agile mobilità migratoria; (b) Prevenzione e lotta contro l’immigrazione irregolare, ed eliminazione del traffico di persone;v (c) Ottimizzazione dell’impatto di “sviluppo” che l’immigrazione e la mobilità possono generare; (d) Promuovere la protezione internazionale, anche attraverso lo strumento dell’asilo per i rifugiati. Questi obiettivi sono perseguiti con strumenti politici, legali e operativi, ed iniziative di capacity- building realizzate in paesi “terzi” (esternalizzazione) o con altre entità, incluse organizzazioni internazionali e della società civile, che favoriscono una parvenza “costruttiva” delle politiche migratorie. Gli strumenti politici includono dialoghi (bilaterali o regionali) e piani d’azione. Tra gli strumenti legali troviamo la facilitazione per la concessione di visti e accordi per la riammissione di migranti. Più di un miliardo di euro sono previsti per raggiungere questi obiettivi, con più di 400 progetti realizzati nei paesi del nord Africa e nei paesi sub-sahariani (tutte manifestazioni implicite dell’esternalizzazione dei confini). In apparenza priorità assoluta è data alla dimensione “sviluppo”,vi enfatizzando la cooperazione sud-sud, l’integrazione tra fenomeni migratori, processi e programmi di sviluppo nazionale, riduzione della povertà nei paesi d’origine, e considerazioni per i rifugiati. In questo quadro ottimista, il GAMM favorisce la ricerca di soluzioni innovative attraverso dialoghi bilaterali o regionali quali i seguenti: • il Processo di Rabat, avviato nel 2006 con 55 paesi africani (Euro-African Dialogue on Migration and Development with Western and Central African countries), che ha 92

prodotto il Valletta Action Plan e i Rome Declaration and Action Plan, con prospettive fino al 2017. • il Processo di Praga, per un partenariato con i paesi dell’Europa orientale, i paesi balcani, l’Asia Centrale, la Turchia, e la Federazione Russa, sintetizzato nella Dichiarazione Ministeriale di Bratislava del 2016; • il Processo di Budapest, foro consultivo di più di 50 governi e 10 organizzazioni internazionali per migliorare lo scambio di informazioni rivolto ai paesi orientali, producendo la Dichiarazione Ministeriale di Istambul del 2013 sul “Partenariato per l’immigrazione lungo le rotte della seta”; • analogo dialogo con i paesi dell’America Latina. Questi dialoghi, rinnovati nel corso del 2018, hanno prodotto, strumenti specifici di cooperazione come il Partenariato per la Mobilità (Mobility Parnership, MP) e le Agende Comuni per l’emigrazione e la mobilità (Common Agendas for Migration and Mobility, CAMM), che identificano obblighi e obiettivi per azioni specifiche da concordare con singoli paesi, come Capo Verde, Moldova, Georgia, Armenia, Marocco, Azerbaijan, Turchia, Giordania e Belarus. Due CAMMs sono stati concordati con l’Etiopia e con la Nigeria. A livello regionale, è stato prodotto anche il Partenariato Euro-Africano sulla Migrazione, Mobilità e Occupazione (EU-Africa Partnership on Migration, Mobility and Employment, MME), stabilito sin dal 2007, che ha dato origine all’Istituto Africano sulle Rimesse per il monitoraggio e una maggiore efficienza nei flussi finanziari legati alle rimesse dagli emigranti africani. Il GAMM non ha una ubicazione istituzionale precisa. Si realizza attraverso le istituzioni europee o dei suoi paesi membri più diverse. Ha una copertura molto vasta, che riguarda immigrati regolari come quelli irregolari, rifugiati già riconosciuti come tali o persone che intendono presentare domanda di asilo, immigranti stagionali o circolari, e persone soggette ad ordini di rimpatrio. In teoria, gli accordi con paesi “terzi” che si inquadrano nell’ambito del GAMM perseguono i quattro obiettivi chiave sopra indicati, anche se, al di là delle apparenze, è il contenimento dell’immigrazione irregolare e l’intensificazione della lotta contro il relativo traffico (il secondo obiettivo sopraindicato) ad essere dominante. Per questo l’espansione della collaborazione con paesi “terzi”, e l’abbondanza di dialoghi e di accordi bilaterali e regionali per perseguire quell’obiettivo non sono altro che modi eleganti per presentare l’esternalizzazione della difesa dei confini europei, aumentando le capacità dei paesi “terzi” per averne la collaborazione con lo scopo ultimo di ridurre i flussi in arrivo di migranti in Europa. Ciò che il GAMM non è riuscito a dimostrare, tuttavia, è come rendere compatibili il contenimento dell’immigrazione irregolare con il perseguimento degli annunciati obiettivi di sviluppo, sia nei paesi di provenienza degli immigranti, che nei paesi in transito e anche nei paesi di destinazione.

La nuova Agenda Europea sull’Immigrazione

Il 13 maggio del 2015, la Commissione Europea lanciò – in un comunicato diretto al Parlamento Europeo, al Consiglio Europeo e ad altre istituzioni comunitarie – “Un’agenda europea sull’immigrazione” (“A European Agenda on Migration”),vii che non altera il quadro di riferimento della politica migratoria comunitaria definito nel GAMM, ma rappresenta un tentativo di presentare, in un nuovo involucro, linee ben note, pur con toni apparentemente innovativi. Perché prendere questa iniziativa? La ragione prima è forse nel disagio dell’Unione Europea di fronte alla crisi continua dei processi migratori, che nel 2015 aveva assunto manifestazioni particolarmente drammatiche, con frequenti tragedie umane associate agli attraversamenti del Mediterraneo da parte di migranti. Quella crisi aveva minato nell’opinione pubblica e nei governi dei paesi membri la credibilità della politica europea d’immigrazione delineata nel GAMM. Il 93

2015 era l’anno in cui si intensificarono le traversate del Mediterraneo. Eravamo nel bel mezzo della crisi politico-militare in Siria. Era in pieno svolgimento la seconda guerra civile in Libia. Intanto, i flussi migratori dall’Africa sub-sahariana continuavano senza dare segni di rallentamento. L’Unione Europea non poteva dare l’impressione di essere passiva di fronte a tale crisi, ed emettere una nuova Agenda sull’immigrazione era politicamente la cosa corretta da fare. Ma in realtà, l’Agenda non faceva altro che presentare, pur con veste rinnovata, la stessa politica migratoria perseguita fino ad allora, ribadendo la necessità di una gestione comunitaria dei processi migratori, con responsabilità condivise tra i vari stati europei, estendendole ad altri stati. Questa estensione di responsabilità, con partecipazione attiva e collaborazione di paesi “terzi”, conferma l’esternalizzazione della difesa dei confini europei che era in atto già da diversi anni, e che è l’approccio fondamentale seguito dall’Unione Europea per gestire i crescenti flussi migratori, anche se i documenti europei non usano mai il termine “esternalizzazione dei confini”. Gli obiettivi perseguiti nel breve periodo dalla nuova Agenda includono i seguenti: 1. provvedere ulteriori fondiviii a favore dell’agenzia Frontex per le operazioni di ricerca e salvataggio (SAR), triplicando il bilancio per le operazioni Triton e Poseidon a partire dal 2016, allo scopo dichiarato di ridurre i decessi in mare causati dai naufragi nel Mediterraneo, ma sostanzialmente rafforzando il sistema di protezione delle coste marittime del sud europeo e cercando di privilegiare l’immigrazione legale in Europa; 2. rafforzare il ruolo di Europol, come entità investigativa comunitaria impegnata nella lotta contro reti criminali internazionali, al fine di lanciare operazioni per una Politica Comune per la Sicurezza e la Difesa (Common Security and Defence Policy, CSDP) che dovrebbe facilitare la cattura e la demolizione di imbarcazioni impegnate nel traffico di immigranti irregolari; 3. rafforzare il sistema per la riubicazione di coloro che intendono richiedere l’asilo, visto il volume crescente di arrivi in Europa, garantendo una loro distribuzione tra i paesi membri (quest’ultimo obiettivo è tra i più disattesi, perché fortemente contestato da alcuni stati membri dell’Unione); 4. adottare un approccio comune per la protezione dei rifugiati e di coloro che richiedono asilo in collaborazione con l’UNHCR, identificando chi non può rientrare nel paese d’origine perché a rischio della propria vita, e cercando di evitare che i rifugiati ricorrano alla rete dei trafficanti. 5. rafforzare il sistema di collaborazione con paesi “terzi” per controllare i flussi migratori attraverso il Servizio Europeo per l’Azione Esterna (European External Action Service, EEAS) che interviene nei paesi d’origine e nelle zone di transito; 6. creare un centro pilota polivalente in Niger, in collaborazione con OIM e l’UNHCR, cioè un hotspot collegato con l’EASO (European Asylum Support Office), con Frontex e con Europol, per permettere la rapida identificazione e registrazione degli immigranti in transito che intendano recarsi in Europa, includendo il rilevamento delle impronte digitali, la verifica delle domande di asilo e, al tempo stesso, smantellando le reti clandestine di traffico di immigranti irregolari (la creazione di questo tipo di hotspot nei paesi “terzi” permetterebbe anche di migliorare le informazioni sugli itinerari seguiti dagli emigranti, e di offrire opzioni per il loro rimpatrio); 7. Tutti questi obiettivi sono forme concrete per perseguire l’esternalizzazione dei confini europei. Nel medio periodo, gli intenti prioritari della nuova Agenda pongono l’accento su quattro pilastri principali: 94 a. Ridurre gli incentivi per l’immigrazione irregolare, affrontandone le cause di fondo nei paesi d’origine, combattendo le reti clandestine dei trafficanti di migranti nei paesi di transito, e promuovendo il rimpatrio. b. Salvare vite umane e al tempo stesso aumentare la sicurezza dei confini europei, con un appoggio ai paesi membri dell’Unione Europea maggiormente coinvolti, migliorando l’efficienza dei controlli (anche da parte di paesi di transito) sugli attraversamenti marittimi e delle frontiere. c. Rafforzare la politica europea per la concessione dell’asilo a coloro che ne facciano richiesta, con l’applicazione sistematica di regole comuni e sistemi condivisi di monitoraggio. d. Sviluppo di una nuova politica che favorisca l’immigrazione legale, tenendo conto delle sfide demografiche che l’Europa dovrà affrontare in futuro, che richiederanno il contributo produttivo di lavoratori provenienti da paesi extra-europei per poter proseguire il suo processo di crescita. Questi quattro pilastri di medio periodo non differiscono nella sostanza, salvo varianti stilistiche, dai quattro obiettivi centrali del GAMM già menzionati. Nei due schemi, la politica europea dell’immigrazione viene presentata come una combinazione di una lotta senza tregua contro l’immigrazione irregolare e i trafficanti di migranti, mirata al rafforzamento della difesa dei confini esterniix con il perseguimento simultaneo di una politica di concessione dell’asilo a rifugiati,x associata all’incoraggiamento dell’immigrazione regolare.xi La “gestione dei confini” (border management) – secondo pilastro dell’Agenda – è vista allo stesso tempo come “salvataggio di vite umane” e come “difesa della sicurezza”, ma non è chiaro quale dei due aspetti sia prioritario.xii Per lo meno due di questi pilastri rientrano esplicitamente nella strategia di esternalizzazione dei confini per il contenimento dell’immigrazione irregolare. Non vogliamo sottovalutare il valore del terzo pilastro dell’Agenda rivolto all’accoglienza dei rifugiati, né gli sforzi fatti dall’Unione Europea, con l’assistenza dell’Asylum Migration and Integration Fund,xiii per aiutare coloro che richiedono la protezione internazionale concessa ai rifugiati. L’Europa non chiude le porte a coloro che si trovano in questa situazione, né a coloro che corrono il rischio di un naufragio. Ma allo stesso tempo, non riesce ad ammettere che esiste una sovrapposizione tra il fenomeno dei rifugiati e l’immigrazione irregolare, che si alimentano reciprocamente e che non sono facilmente distinguibili, e preferisce ostacolare quest’ultima, affrontandola come il risultato di attività di trafficanti criminali, ignorando il suo stretto legame con il fenomeno dei rifugiati. Al tempo stesso, la nuova Agenda ribadisce la necessità di rimpatriare tutti coloro che non hanno i requisiti per essere riconosciuti come rifugiati. Ma come ignorare che molte azioni volte a esternalizzare i confini comportano l’inevitabile conseguenza di rendere sempre più difficile per gli immigranti che intendano presentare domanda di asilo come rifugiati accedere alle frontiere per esercitare tale diritto? Come fa l’Unione Europea a ignorare gli ostacoli spesso insormontabili, o addirittura disumani, che gli aventi diritto a richiedere l’asilo continuamente sono costretti ad affrontare nei paesi “terzi”, proprio come conseguenza di questa esternalizzazione dei confini europei? Non sono costoro gli stessi rifugiati indicati nel terzo pilastro di medio periodo della nuova Agenda? Come possiamo conciliare una politica che intenda favorire la concessione della protezione internazionale per i rifugiati con i disagi, sofferenze, e sacrifici enormi, cui essi sono sottoposti quando si trovano nei campi profughi, ove non di rado i diritti umani non sono rispettati, proprio mentre sono in attesa di presentare domanda di asilo? Né possiamo sostenere che queste circostanze non sono note, essendo state denunciate da molti osservatori internazionali, da organizzazioni delle Nazioni Unite e a volte anche da membri del parlamento europeo e dalla stessa Commissione Europea. Il contrasto tra quanto affermato nell’Agenda Europea sull’Immigrazione e la violazione dei diritti umani spesso subita dai rifugiati che sono parcheggiati nei campi profughi non può passare 95 inosservato. Possiamo forse dedurre che l’Agenda Europea è più preoccupata di esternalizzare i confini europei (in collaborazione con i paesi “terzi”), che produce questi “danni collaterali”, che di offrire protezione internazionale a chi ne ha diritto? Molte di queste contraddizioni dipendono dal fatto che i profughi che sono parcheggiati nei paesi “terzi”, nei campi della Turchia, della Libia o del Marocco, in attesa della concessione dell’asilo o della possibilità di farne richiesta, non sono distinguibili dagli altri immigranti irregolari, e si trovano nella angosciosa situazione di decidere (come gli altri migranti) se desistere (cioè tornare indietro, e spesso non possono, e per questo sono fuggiti), oppure continuare l’attesa nel paese di transito (subendo tutte le sofferenze del caso), o infine tentare la strada avventurosa dell’attraversamento clandestino del Mediterraneo, per poi richiedere asilo direttamente alle autorità locali competenti dopo aver raggiunto il territorio europeo. La nuova Agenda ignora questo dilemma, perché tratta il profugo che sceglie l’attraversamento di fortuna del Mediterraneo come un migrante clandestino, criminalizzandone il comportamento, salvo poi rivedere questo giudizio dopo aver verificato la validità della richiesta d’asilo. Sostanzialmente, l’approccio europeo privilegia in primis il respingimento dei migranti irregolari (senza tante distinzioni) e la loro criminalizzazione, e poi, eventualmente, apre alla possibilità di concedere una protezione internazionale a chi ne abbia diritto, dopo un lungo periodo di attesa. La burocratizzazione del processo di riconoscimento dello stato di rifugiato, che raggiunge livelli inauditi negli Stati Uniti, è anche una realtà per l’Unione Europea che, nonostante le buone intenzioni della nuova Agenda Europea, preferisce respingere i flussi esterni piuttosto che concentrarsi sulla concessione della protezione per i rifugiati. Per questo, l’Unione Europea, così come gli Stati Uniti, si insiste tanto nella creazione di nuovi hotspots nei paesi “terzi”, ove possano essere espletati i processi per la presentazione della domanda di asilo e i richiedenti possano restare in attesa della risposta dal paese europeo. È quello che si è riuscito a fare in Turchia, e che si è tentato di fare anche in Libia ed in Marocco, ma con scarsi risultati. Per ottenere la collaborazione di questi paesi “terzi”, che vengono chiamati partner “globali”, l’Unione Europea ha stabilito una Politica Europea di Vicinato (European Neighbourhood Policy), concordando azioni comuni, che includono, tra l’altro, la facilitazione dell’immigrazione regolare, la lotta contro l’immigrazione irregolare, azioni che affrontino le cause di fondo dell’emigrazione e la facilitazione dei processi di rimpatrio. Più che dalla lettura degli enunciati del GAMM o dell’Agenda Europea per l’Immigrazione, sarà più facile esaminare l’esternalizzazione dei confini europei attraverso l’analisi degli strumenti operativi adottati dall’Unione Europea e da alcuni paesi membri (incluso l’Italia) per garantire il controllo sul traffico di migranti nel Mediterraneo, includendo gli accordi con paesi come la Turchia, la Libia ed il Marocco per ottenerne la collaborazione nel contenimento dell’immigrazione dal sud del mondo. È quello che tenterò di fare nel resto della Parte V di questo saggio. Quell’analisi permetterà di comprendere che l’esternalizzazione dei confini europei è dominata dalla preoccupazione di proteggere la sicurezza nazionale dei singoli paesi e dell’Unione nel suo insieme, in sintonia con la criminalizzazione dell’immigrazione irregolare e la conseguente “securitization” delle misure di contenimento, che si esprimono in interventi quali il respingimento, la detenzione, la deportazione, e l’espulsione.

Alcuni dati quantitativi Prima di esaminare gli strumenti operativi che concretizzano l’esternalizzazione dei confini europei, sarà utile fare qualche riferimento alla dimensione quantitativa dei flussi migratori in arrivo in Europa, per comprenderne meglio la natura e la provenienza. Ricordiamo perciò la tipologia recente di quei flussi migratori. Possiamo distinguere tre fasi dell’immigrazione in Europa a partire dal 1950:xiv (1) Dagli anni 50 fino all’inizio della crisi petrolifera del 1973: distinguiamo i seguenti fenomeni: 96

• Consistenti spostamenti demografici legati al boom economico in molti paesi dell’Europa occidentale (specialmente settentrionali), dopo la ricostruzione post- bellica, con intenso sviluppo industriale. Di fronte a limiti nell’offerta di lavoro, era necessario ricorrere a manodopera immigrata, specialmente in settori abbandonati dai lavoratori nazionali (agricoltura, edilizia, servizi domestici e miniere). I flussi migratori si diressero particolarmente in Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Svezia, Svizzera e Regno Unito, provenendo da paesi confinanti (Finlandia, Irlanda e Italia del nord), e successivamente anche dal Portogallo del nord, Spagna dell’ovest, meridione italiano e Grecia settentrionale). Consistente fu la migrazione stagionale e/o temporanea. Circa 7-10 milioni di immigranti provennero da Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. In seguito, si aggiunsero lavoratori dalla Germania dell’est (prima del muro di Berlino), Turchia, Marocco, Tunisia e Jugoslavia. • Consistenti furono anche i flussi dalle ex-colonie, che interessarono particolarmente Belgio, Francia, Paesi Bassi, Regno Unito e (negli anni 70) anche il Portogallo. Molti erano immigranti considerati “cittadini” o persone cui fu estesa la cittadinanza nei paesi d’immigrazione a causa dei precedenti legami coloniali. Tra il 1940 ed il 1975, circa 7 milioni di persone vennero dal Kenya, dall’India e dalla Malesia verso il Regno Unito, dal Nord Africa verso Francia e Italia, dal Congo verso il Belgio e dall’Indonesia verso l’Olanda. Se di origine europea. i rimpatriati dalle colonie furono facilmente assorbiti nel tessuto culturale ed economico dei paesi d’immigrazione, ma non altrettanto avvenne a coloro che erano di origine non-europea, spesso discriminati. • Molti profughi fuggirono dall’est europeo, godendo della protezione internazionale per rifugiati. Tra il 1950 ed il 1990 (con il crollo del comunismo), circa 12 milioni di persone emigrarono dall’est, specialmente in Germania. Molti appartenevano a gruppi etnici germanici, e provenivano da Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e Unione Sovietica. Flussi intensi coincisero con le crisi del 1956-57 in Ungheria, del 1968-69 in Cecoslovacchia, e nel 1980-81 in Polonia. (2) Dal 1973-74 fino alla fine degli anni 80. La crisi del modello di sviluppo economico adottato dall’occidente durante la ricostruzione post-bellica e nella fase successiva (“il miracolo economico” italiano) coincise con la crisi petrolifera, richiedendo politiche di stabilizzazione economico-finanziaria che influenzarono l’atteggiamento verso l’immigrazione. Misure restrittive furono introdotte dal 1973 in Svizzera e in Svezia, e di seguito in Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, disincentivando l’immigrazione. Ciò nonostante, il numero di immigrati continuò a crescere, grazie al crollo della crescita demografica in Italia, Spagna, Grecia, e in qualche misura anche Portogallo, che creò vuoti occupazionali, trasformando quei paesi in luoghi d’immigrazione. L’immigrazione fu favorita dalla libertà di circolazione nell’Europa comunitaria (rinforzata dal 1985 con gli accordi di Schengen) e continuò a persistere a causa di processi di inerzia, che legarono vecchie immigrazioni a nuove generazioni (riunificazioni familiari). Le richieste di asilo politico furono ancora intense, ma la natura dei flussi migratori cambiò. L’emigrazione circolare, con rimpatri temporanei, seguiti da successive ri-emigrazioni, e l’emigrazione stagionale diminuirono, perché i migranti si sentirono minacciati dalle misure restrittive all’immigrazione, e temettero i rischi di sentirsi esclusi dalla riammissione, preferendo così l’insediamento definitivo, associato al ricongiungimento familiare (favorito anche dall’art. 19 della Carta Sociale Europea del 1961, che tutela l’unità familiare). Le richieste di asilo aumentarono, dopo il crollo del muro di Berlino, ma anche all’inizio degli anni 90 con la frantumazione dell’Unione Sovietica e della 97

Federazione Jugoslava, interessando maggiormente Germania, ma anche Regno Unito, Svezia, Francia e Paesi Bassi, nonché Belgio, Austria e Danimarca, e in misura inferiore Spagna e Italia. Aumentò la componente non-europea di immigrati, visto il ritorno di greci, italiani, portoghesi e spagnoli nel loro paese, creando spazi per popolazioni non-europee. L’abbassamento della fertilità nell’Europa meridionale (e dell’Europa occidentale in generale) favorì l’immigrazione dalla Turchia e da paesi del Nord Africa. Le restrizioni nei paesi nord-europei produsse l’effetto inatteso di un aumento di immigranti verso l’Europa meridionale a partire dagli anni 80 (per esempio in Italia), che praticavano allora politiche meno restrittive, anticipando l’esplosione dell’immigrazione degli anni 90. L’immigrazione cominciò ad essere un tema contenzioso, dati i livelli elevati di disoccupazione in clima di stagflation, dopo la crisi petrolifera. Da contributo alla crescita economica, l’immigrazione cominciò ad essere percepita come minaccia dai lavoratori a rischio. La recessione economica creò reazioni ostili all’immigrazione, con proteste xenofobe, pur se la discriminazione contro gli immigranti non era nuova. Ma l’atteggiamento anti-immigranti, più che intaccare i flussi migratori, si manifestò in una insufficiente integrazione degli immigrati extra-europei nel tessuto sociale. (3) Dagli anni 90 ai giorni nostri: Il crollo del comunismo e della cortina di ferro, e la disintegrazione della Jugoslavia portarono ad un aumento delle domande di asilo,xv mentre si manifestava l’emigrazione di nuovi gruppi nazionali (da Turchia, Iraq, Afghanistan e più recentemente Siria), ma anche da altri gruppi nazionali (dall’Africa e dall’Asia). Il trattato di Maastricht del 1992 rese più facile i movimenti infra-europei ma non per gli immigranti extra- europei, in forte aumento (specialmente nel nuovo millennio). Negli anni 90 i richiedenti protezione internazionale come rifugiati erano una minoranza. Negli anni successivi, ci fu un’inversione di tendenza, con esplosione dei rifugiati provenienti in primo luogo dai paesi limitrofi. Milioni di profughi siriani trovarono rifugio in Turchia, Giordania, Libano, e Iraq, così come i rifugiati afghani e iracheni si riversarono nei paesi limitrofi. Circa un milione e mezzo di persone dal Sud Sudan si rifugiarono in Uganda, Etiopia, Sudan, Kenya e la Repubblica Democratica del Congo. Ma l’Europa era ed è il destinatario preferito. In Italia, i permessi di residenza passarono da 300.000 nel 1981 al doppio nel 1991, per arrivare a 1,4 milioni nel 2000.xvi Ma la vera esplosione avvenne nel decennio successivo, portando i permessi di soggiorno a 4,6 milioni nel 2010 (un aumento superiore al 228% in dieci anni!), riflettendo l’aumento dell’immigrazione ma anche la regolarizzazione del soggiorno di immigranti entrati nel quinquennio precedente. Nel primo decennio di questo millennio, gli immigrati in Italia provenivano in primo luogo dall’Albania e dal Marocco, mentre in quest’ultimo decennio interessarono molti altri paesi, coinvolgendo popolazioni africane, asiatiche, est-europee e anche (in minor misura) latino-americane. Una dinamica analoga si nota in Spagna, con immigranti che provenivano in primo luogo dal Nord Africa, attratti dall’esplosione dell’economia spagnola alla fine degli anni 80, ulteriormente confermata negli anni 90, seguita da una intensificazione dell’immigrazione dall’America Latina dopo il 2000. Anche la Spagna vede la diversificazione dell’immigrazione, tipica di questi ultimi anni. In Grecia, l’immigrazione, dominata dal ritorno di greci fino al 1990, acquisì dimensioni globali impressionanti a partire da allora. Negli ultimi venti anni, l’immigrazione in Europa dai paesi in via di sviluppo si è fortemente diversificata: milioni di persone – vittime di conflitti armati, violazioni dei diritti umani, ogni forma di persecuzione, catastrofi naturali o cambiamenti climatici – hanno cercato in Europa un’alternativa di vita. Tra il 2010 ed il 2013, per lo meno 1,4 milioni di immigranti non europei arrivarono in Europa, includendo molti richiedenti asilo e rifugiati. Molti di quegli immigranti raggiunsero prima le sponde meridionali del Mediterraneo, per cercare poi di 98

raggiungere via mare il continente europeo. Secondo l’International Organization for Migration (IOM),xvii nel corso del 2014 più di 220 mila immigranti irregolari attraversarono il Mediterraneo attraverso tre rotte principali (centrale, orientale ed occidentale) con un aumento rispetto al 2013 del 266%. La metà di quei migranti proveniva dalla Siria, dall’Eritrea e dall’Afghanistan. Gli arrivi sulle coste italiane in provenienza dalla Libia ammontarono a circa 170.100 immigranti in quell’anno, mentre quelli approdati in Grecia in provenienza dalla Turchia erano circa 34.441. La maggioranza di coloro che arrivarono in Italia provenendo dalla Siria e dall’Eritrea non si fermarono nel nostro paese ma proseguirono il loro viaggio per l’Europa centro-settentrionale (specialmente per la Germania e la Svezia) o la Francia ed il Regno Unito. Nel 2015, quando l’Unione Europea adottò l’Agenda Europea per l’Immigrazione, ci fu un’intensificazione vertiginosa di quei flussi, specialmente verso la Grecia (853.650 persone), mentre gli arrivi in Italia scesero leggermente rispetto al 2014, pur mantenendosi ad un livello ancora elevato di 153.842 immigranti. Nel solo mese di ottobre del 2015, si registrò un volume di 221.454 arrivi sulle coste meridionali dell’Europa (includendo Grecia, Spagna e Italia), un record storico sin dalla seconda guerra mondiale, anche se gli arrivi si concentrarono in Grecia. I flussi verso l’Italia crebbero considerevolmente nel 2016, fino a 181.436 persone, mentre i flussi verso la Grecia ritornarono a livelli più bassi (173.614 immigranti) quell’anno. Dopo il culmine della “crisi migratoria europea” del 2015, c’è stata una inversione di tendenza, con una riduzione massiccia degli sbarchi sulle spiagge delle isole greche, ed una graduale riduzione degli arrivi nei porti siciliani o dell’isola di Lampedusa, con un crollo del numero degli sbarchi tornati ai livelli visti prima del 2015. Nel corso del 2017, c’è stata una flessione degli arrivi in Italia, scesi al livello di 119.000, con una ulteriore riduzione degli arrivi in Grecia fino a 23.826 (più 851 arrivati a Cipro),xviii confermata nelle prime 11 settimane del 2018 (riduzione del 38%, rispetto allo stesso periodo del 2017), con il 47% degli immigranti diretti verso l’Italia, mentre il 30% va in Grecia, il 22% in Spagna e meno dell’1% a Cipro.xix Negli ultimi mesi del 2018, l’aumento di immigranti che si riversano verso la Spagna, anziché in Italia è significativo. Nel complesso, non possiamo sostenere che ci sia una riduzione dei flussi migratori internazionali in direzione dell’Europa, ma che si siano ridotti gli attraversamenti via mare, mentre registriamo una presenza considerevole di migranti in transito che restano “bloccati” nei punti di partenza delle traversate marittime, prevalentemente in Libia, Turchia e Marocco. Il numero di immigranti che hanno richiesto asilo in paesi membri dell’Unione Europea era, secondo Eurostat, 626.960 nel 2014, 1.322.825 nel 2015, 1.259.955 nel 2016, e 705.705 nel 2017, mostrando che il Mediterraneo non è l’unica o principale porta d’ingresso degli immigranti irregolari verso l’Unione Europea nel suo complesso.xx Allo stesso tempo, 64.625 persone hanno richiesto asilo in Italia nel 2014 (rispetto a 170.100 immigranti sbarcati in Italia quell’anno), 83 540 domande nel 2015 (rispetto a 153.842 immigranti sbarcati), 122.960 domande nel 2016 (rispetto a 181.436 sbarcati) e 128.850 domande nel 2017 (rispetto a 119.000 immigranti sbarcati).xxi Molti degli sbarcati in Italia sono transitati per cercare asilo in altri paesi europei, tendenza che si è attenuata nel 2016 e ancor più nel 2017, quando il numero dei richiedenti asilo si è avvicinato o addirittura superato quello degli sbarcati. La chiusura dei paesi d’oltralpe verso gli immigranti sbarcati in Italia ne può essere la spiegazione. Il quadro generale che emerge da questi dati conferma l’allarme per i flussi umani che hanno attraversato il Mediterraneo in questi ultimi anni, ma ne ridimensionano la portata rispetto all’entità dei flussi migratori mondiali: non è una invasione, anche se il fenomeno è serio. In ogni caso, gli arrivi via mare registrati negli ultimi mesi sulle spiagge meridionali dell’Europa si sono fortemente ridotti: soli 9.500 immigranti irregolari in Spagna, 12.000 in Grecia e 15.300 in Italia 99

(secondo l’UNHCR). Ciò nonostante, l’Europa ancora non sa come gestire l’arrivo di circa 1,8 milioni di immigranti sbarcati sulle sue coste meridionali dal 2014, continuando a litigare sulla loro redistribuzione tra i paesi membri.

Le misure di controllo degli attraversamenti marittimi promosse dalle istituzioni europee Questi dati sono sufficienti per comprendere l’attenzione dell’Unione Europea per difendere i suoi confini marittimi,xxii attraverso misure di protezione prese nelle acque internazionali, perciò al di là delle 12 miglia nautiche riconosciute dal diritto internazionale, inserite nella strategia di difesa dell’Unione. Queste misure sono un sintomo concreto dell’esternalizzazione dei confini. L’Unione Europea respinge gli immigranti a partire dalle acque internazionali. L’agenzia europea competente per il coordinamento di queste misure è Frontex, che definì un confine per la sua Operazione Triton fino a 30 miglia dalla costa, ridotto a 24 miglia nella più recente Operazione Themis, ma sono frequenti le intercettazioni di natanti sospettati di traffico illecito di migranti al di là di questi limiti, come dimostrano gli interventi dell’Operazione Sophia, che non ha nessun limite specifico per le sue operazioni, che possono essere condotte anche nelle acque territoriali di altri paesi, in collaborazione con le rispettive autorità. Frontex usa tecnologie di sorveglianza sofisticatexxiii per controllare il traffico di migranti e i loro natanti. La natura difensiva delle misure della Frontex risulta dimostrata dall’orientamento della sua attività a partire del 2006, quando l’operazione Poseidonxxiv fu lanciata in risposta ad una richiesta di assistenza dalla Grecia per sorvegliare i confini marittimi e terrestri (lungo il fiume Evros) con la Turchia. Nel 2007 furono costituite le Forze Speciali per la Frontiera Europea, note come RABIT (Rapid Border Intervention Teams), pattuglie di frontiera con personale dei vari ministeri degli interni. Furono i RABIT a intervenire nelle Canarie nel maggio 2007 e al confine tra Grecia e Turchia nell’ottobre 2010 (anche se con problemi con la Turchia).xxv L’operazione Poseidon in Grecia si è prolungata per anni e dal 2015 si chiama Operazione Poseidon di Pronto Intervento. Un’altra operazione, nota come Hermes,xxvi fu avviata nel febbraio 2011 a seguito di una richiesta del governo Berlusconi, anche in conseguenza della creazione di una “no-fly zone” in Libia legata alla situazione bellica in corso durante la rivoluzione contro Gheddafi. Hermes coinvolse la nave guarda-costiera olandese Dornier 228, e forze aeree europee con base a Malta e in Pantelleria. Ma furono i naufragi del 3 e dell’11 ottobre del 2013 al largo di Lampedusa, con la morte di 636 profughi annegati prima di raggiungere le coste italiane, che indussero il governo italiano (di Enrico Letta) a varare un intervento di soccorso aereo e navale chiamato Mare Nostrum,xxvii chiedendo, però senza risposte positive, un appoggio finanziario europeo. Quel programma italiano durò solo 12 mesi e interessò un totale di almeno 150.000 immigranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. Il suo intento principale era umanitario, basato sul principio “Search and Rescue (SAR)” (Ricerca e Salvataggio), operando vicino alle coste libiche, pur restando nei limiti delle acque internazionali, con un impiego ingente di risorse umane e mezzi della marina militare italiana. Mare Nostrum rappresentò uno spostamento dell’ago dell’equilibrio dal respingimento dei migranti all’assistenza ai naufraghi con il soccorso in mare.xxviii L’operazione Mare Nostrum rappresentò anche un modo per staccarsi dalla pratica attuata dal governo Berlusconi basata sul “puro respingimento di massa”, in cui la guardia costiera obbligava i natanti intercettati o i naufraghi soccorsi a tornare in Libia,xxix in collaborazione con la guardia costiera libica, pratica che guadagnò all’Italia, nel febbraio 2012, una pesante sentenza di condanna da parte della Corte Europea per i Diritti Umani (su questo parlerò più in dettaglio in altra sezione). Debbo riconoscere che il governo italiano, nella versione Letta, Renzi o Gentiloni, ha sempre cercato di integrare il contenimento delle traversate del Mediterraneo con la dimensione umanitaria dell’assistenza ai naufraghi, tradizione interrotta con l’arrivo del governo M5S-Lega, con Matteo Salvini all’interno. Ciò nonostante, l’operazione Mare Nostrum fu utilizzata anche nel quadro dell’esternalizzazione dei confini per reprimere la 100

“facilitazione” dell’immigrazione clandestina, con l’arresto di 330 presunti trafficanti ed il sequestro di cinque “mother ships” (“navi madri”).xxx L’operazione Mare Nostrum chiuse i suoi battenti nell’ottobre del 2014 per il suo costo elevato (€9 milioni al mese) ed il mancato sostegno finanziario europeo. Fu sostituito da un programma europeo, l’Operazione Triton,xxxi gestita da Frontex, che aveva rivisitato i suoi mandati e rinforzato le sue strutture per nuove operazioni di respingimento e di SAR, introducendo nuove norme per i rimpatri di immigranti irregolari. All’inizio concepito come sostegno all’Operazione Mare Nostrum, Triton (il cui costo di €4.6 milioni al mese era di gran lunga inferiore rispetto a quello di Mare Nostrum)xxxii non era inteso a favorire il SAR ma a rinforzare la sorveglianza e la difesa delle frontiere meridionali dell’Europa, limitando le attività di soccorso ad interventi entro le 30 miglia dalla costa europea, salvo emergenze considerate come eccezioni. Gli incidentali salvataggi in mare, perciò, nell’ Operazione Triton avvenivano solo quando le leggi marittime obbligavano a intervenire in presenza di naufragi in corso, a causa dell’obbligo legale sancito dall’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Legge del Mare, l’Obbligo SAR.xxxiii Ma poiché le navi sotto il controllo di Frontex potevano navigare solo entro 30 miglia dalla costa, se richieste di assistenza provenivano in luoghi più distanti, la risposta europea non poteva che essere tardiva, per il percorso più lungo che le navi coordinate da Frontex erano costrette a coprire per raggiungere il natante in pericolo, diversamente da a quanto era possibile con Mare Nostrum, quando le navi operavano a distanza più ravvicinata rispetto alle coste africane. Per questo i tassi di mortalità con l’Operazione Triton si alzarono rispetto a quelli registrati con Mare Nostrum (27,9 decessi invece di 20,9 su 1000 arrivi),xxxiv creando un vuoto che giustificò l’intervento delle ONG.xxxv A partire dall’inizio del 2018, l’Operazione Triton (che era stata avviata nel Novembre 2014) è stata sostituita dalla Joint ,xxxvi per la durata iniziale di un anno (ogni tre mesi il programma è oggetto di una valutazione per verificarne l’efficacia). L’Operazione Themis impiega 10 navi e tredici arei di ricognizione, nonché personale proveniente da 29 paesi dell’Unione Europea e dalla Norvegia. Essa intende meglio rispondere ai cambiamenti percepiti nella evoluzione dei flussi migratori nel Mediterraneo, assistendo l’Italia nella lotta contro traffici clandestini e contro il traffico della droga attraverso l’Adriatico (il narcotraffico non era coperto dall’Operazione Triton), coprendo anche operazioni di provenienza dalla Turchia e dall’Egitto, dall’Albania e, ad ovest, dalla Tunisia e dall’Algeria, fino a quelle originate in Marocco, vista la frequenza crescente di imbarcazioni irregolari, anche di più grandi dimensioni, provenienti dalle coste del Maghreb. L’Operazione Themis si focalizza sulla sicurezza della difesa dei confini marittimi,xxxvii per contenere la penetrazione di terroristi dall’estero e rafforzare la lotta contro la criminalità organizzata. Include la raccolta di intelligence e attività di controspionaggio. Secondo Frontex, la nuova operazione si concentrerà in particolare sulla prevenzione di possibili arrivi di estremisti dell’ISIS verso la Sicilia,xxxviii a seguito delle sconfitte registrate nel 2017 in Libia da quel movimento jihadiste specialmente nella città di Sirte e nella stessa Siria, anche se non ci sono prove che attestino il rischio che jihadisti usino i natanti dei trafficanti di migranti per raggiungere l’Europa. È infatti più probabile che le reti terroristiche usino mezzi più sicuri di trasporto per penetrare l’Europa. Come parte dell’Operazione Themis, Frontex intende rafforzare la sua presenza negli hotspot italiani (vedi Parte II di questo saggio) con verifiche sugli immigranti, anche con il rilevamento di impronte digitali. Oltre alle operazioni fin qui citate, l’Unione Europea ha lanciato sin dal maggio 2015 un’operazione navale chiamata Forza Navale Europea per il Mediterraneo Meridionale (EU Naval Force Southern Mediterranean, anche nota come Operazione Sophia, o altrimenti “EUNAVFOR Med”) volta a reprimere più specificamente gli intermediari dell’immigrazione clandestina colpendo i trafficanti di migranti.xxxix Questa operazione non nasce con intenti di fornire attività di soccorso SAR, anche se può incidentalmente effettuarne, ma è una vera e 101 propria operazione militare che mira specificamente a identificare, catturare e distruggere i natanti ed altri mezzi usati per lo sconfinamento illegale della frontiera comunitaria attraversando il Mediterraneo, colpendo perciò il business model di tali trafficanti, privandoli dei mezzi materiali necessari per effettuare i trasporti marittimi. L’effetto auspicato è quello di proteggere i potenziali rifugiati, salvandoli dai rischi causati dalla tragica logistica delle traversate clandestine, sperando perciò di rendere più difficili questi viaggi attraverso la distruzione dei mezzi di trasporto. Diversamente dalle Operazioni Triton e Themis, l’Operazione Sophia può agire senza limiti in alto mare in acque internazionali. La sua sede operativa è a Roma, e il costo delle sue operazioni è stimato al livello di €11,82 milioni per ogni due mesi di operazioni.xl Nel corso del biennio 2016-2017 il programma ha permesso la cattura di 85 trafficanti (170 fino al 2018), consegnati alle autorità italiane, disattivando 411 natanti. Anche se l’obiettivo principale dell’Operazione Sophia non è quello di soccorrere gli eventuali naufraghi nel Mediterraneo, i suoi interventi hanno permesso il salvataggio per lo meno di 43.000 naufraghi. Anche le azioni di repressione dei trafficanti erano condotte anche in precedenza (per esempio nel contesto di Mare Nostrum), l’Operazione Sophia si concentra sulla caccia ai trafficanti clandestini, evitando che i migranti si imbarchino sulle loro imbarcazioni, obbligando così gli emigranti a riconsiderare la fattibilità dell’attraversamento del Mediterraneo, aumentando la percezione del rischio che essi corrono lungo quella strada. Ciò nonostante, scafisti hanno continuato i loro tentativi di attraversamento marittimo, e per questo i migranti continuano a premere per arrivare in Europa via mare, ma le condizioni dell’attraversamento del Mediterraneo stanno continuamente cambiando: il sequestro o la distruzione dei natanti clandestini ha favorito in prima istanza la sostituzione di navi più grandi e di pescherecci di maggiori dimensioni con natanti più piccoli, per lo più gommoni, ritenuti più idonei allo sbarco sulle spiagge. Ma questo ha ridotto la sicurezza del viaggio, dovuto al sovraffollamento e alla fragilità delle imbarcazioni. La distruzione di gommoni ha portato recentemente ad un ritorno all’uso dei pescherecci e all’uso di imbarcazioni più capienti, nonché alla ricerca di rotte alternative, con una recente intensificazione dell’uso della rotta occidentale del Mediterraneo. L’Unione Europea vanta di aver salvato 38.000 persone nel corso del 2017 in operazioni SAR lungo le coste greche, italiane e spagnole. Tuttavia, il ridotto raggio operativo Themis rende difficile soccorrere eventuali naufraghi, che debbono affidarsi all’assistenza delle NGO umanitarie operanti nel Mediterraneo come unica speranza. Gli interventi SAR effettuati nell’ambito dell’Operazione Themis richiedono che le navi coordinate da Frontex portino i naufraghi nei porti più prossimi considerati “sicuri” per i naufraghi, il che esclude, secondo Frontex, porti ubicati in Libia o in Tunisia, nonostante il governo italiano abbia stipulato un accordo con l’attuale governo libico nel 2017 per la fornitura di aiuti, attrezzature e addestramento per averne la collaborazione nella lotta contro il traffico di migranti. Sulle navi operanti nell’ambito dell’Operazione Themis, la guardia di finanza italiana è presente per i controlli doganali, insieme a personale della guardia costiera per gli aspetti SAR. Le operazioni SAR condotte nell’ambito delle operazioni della Frontex (anche se effettuate da ONG, mercantili o porcherecci) sono coordinate dal Centro di Coordinamento per il Soccorso Marittimo (Maritime Rescue Coordination Centre, MRCC) di competenza, che decide il porto di sbarco. Diversamente dall’Operazione Triton, che prevedeva che i naufraghi soccorsi fossero portati praticamente solo in porti italiani, l’Operazione Themis lascia la decisione sul porto di sbarco all’MRCC del paese che coordina la singola operazione di salvataggio, che può pertanto essere anche in Croazia, Malta, Spagna o Francia, con crescenti pressioni su Malta che, finora, è spesso riuscita a evitare di essere porto di destinazione finale, nonostante la sua prossimità ai luoghi dei naufragi, giustificando questa reticenza con le limitate dimensioni del suo territorio nazionale. Poiché l’Italia coordina la maggioranza delle operazioni di soccorso nella rotta centrale del Mediterraneo (non c’è un MRCC in Libia), i porti italiani sono stati le designazioni 102 naturali per gli sbarchi dei naufraghi, anche se Malta è stata spesso usata con frequenza del passato, come porto più prossimo. Ma questo sistema è stato contestato dal governo Conte, con la minaccia della “chiusura dei porti italiani” da parte del nuovo ministro dell’interno Salvini allo sbardo di naufraghi soccorsi da ONG (ma anche da altre imbarcazioni, comprese la Diciotti della guardia costiera italiana!). Ma di questo parlerò di seguito in apposita sezione. Gli intenti repressivi di queste operazioni e la mancata efficacia del soccorso marittimo di Frontex hanno aumentato il rischio di naufragi, ma Frontex considera questo un danno collaterale e anche come un possibile disincentivo a intraprendere le traversate della speranza, un vero e proprio deterrente, che può essere visto anche come un modo per realizzare un “respingimento passivo” dell’emigrazione irregolare. Questo approccio rischia così di divenire una politica “deliberata” per disincentivare il traffico di immigranti clandestini.xli Secondo l’European Council on Refugees and Exiles (ECRE) ed il British Refugee Council,xlii le modalità operative di Frontex sistematicamente trascurano la protezione del diritto d’asilo e dei diritti umani degli immigranti, e mancano sostanzialmente di accountability rispetto agli obblighi internazionali e comunitari in quell’area, anche per l’assenza di trasparenza e per la carenza di un controllo indipendente del suo operato. Queste sono accuse pesanti che motivano la presenza di ONG umanitarie con le loro operazioni SAR e creano una continua tensione tra ONG e Frontex, che ne vede il ruolo con poco favore, perché il loro operato è un’accusa implicita all’inadeguatezza dell’approccio europeo sull’immigrazione che attraversa il Mediterraneo. Resta da osservare, infine, che mentre molte critiche sulle operazioni coordinate da Frontex sono state avanzate da singoli membri del parlamento europeo, i governi dei paesi membri non sembrano molto interessati ad un’analisi critica di queste operazioni.

L’esternalizzazione dei confini europei attraverso accordi con paesi terzi Contenere l’immigrazione irregolare verso l’Europa con operazioni marittime come quelle appena esaminate non sembra molto efficace. Non si può di certo fare un blocco navale lungo tutto il Mediterraneo, se non altro perché l’Unione Europea vieta il respingimento collettivo dei migranti, per il principio di non refoulement sancito dal diritto internazionale ed europeo, che garantisce a qualsiasi migrante il diritto di presentare domanda di asilo, che deve essere verificata individualmente. È vero che Il respingimento collettivo è spesso effettuato dai guardacoste turchi, libici o marocchini nelle loro acque territoriali (ma a volte anche al di là dei limiti territoriali), ma di questo l’Unione Europea preferisce non parlare, chiudendo un occhio sulle violazioni di quel principio quando sono compiute da paesi “terzi”. Resta il fatto che i respingimenti marittimi non hanno impedito ai natanti irregolari di sfuggire ai controlli, che non bastano per contenere gli sbarchi in Europa. In ogni caso, pur se le navi con migranti a bordo vengono intercettate in acque internazionali da mezzi coordinati da Frontex o comunque da navi che soccorrono natanti in pericolo di naufragio, i migranti intercettati o soccorsi – se si applicano le linee guide di Frontex – dovrebbero essere riportati in un “porto sicuro”, che nel Mediterraneo centrale non sarà di certo né in Libia né in Tunisia e con ogni probabilità sarà un porto europeo (forse, però, non possiamo essere altrettanto sicuri che questo si avveri se i migranti provengono dalla Turchia o dal Marocco). Ma se i migranti soccorsi arrivano in Europa, gli obiettivi dell’esternalizzazione dei confini europei vengono completamente disattesi. Certo, I migranti potranno essere espulsi e rimpatriati, ma l’idea dell’esternalizzazione dei confini era di evitare che venissero in Europa, spostando qualsiasi verifica al di là del confine europeo. Quindi, il mar Mediterraneo non è una barriera molto efficace per effettuare l’esternalizzazione dei confini: occorre spostare l’azione di contenimento al di là delle acque internazionali, creando pre-frontiere in Turchia, Libia, Marocco, o magari prima ancora che arrivino in quei paesi rivieraschi, in Libano, Giordania, 103

Niger, Mali. O meglio ancora, sarebbe meglio se non partissero dai propri paesi, o per lo meno che ci ritornino prima ancora di arrivare in Europa. Ma affinché tutto questo accada sono necessari accordi bilaterali con tutti quei paesi, che chiamiamo “paesi terzi”, includendo i paesi di transito (rivieraschi del Mediterraneo o non rivieraschi) e i paesi d’origine. Il contenuto di quegli accordi bilaterali, in base alla lettura dei documenti dei GAMM e dell’Agenda Europea per l’Immigrazione, dovrebbe includere pacchetti di interventi che comprendano: (a) misure di promozione dello sviluppo socio-economico e infrastrutturale da realizzare nel paese “terzo”; e (b) misure per il rafforzamento delle capacità di gestione dei meccanismi di controllo della sicurezza, per rendere più efficace la lotta contro i trafficanti di migranti, evitare le interferenze di cosche criminali e dei gruppi terroristici, e impedire la strumentalizzazione di contrabbandieri che potrebbero sfruttare i traffici di migranti per i loro loschi affari. Per i paesi d’origine, gli interventi di sviluppo dovrebbero creare opportunità occupazionali come deterrenti all’emigrazione. Questa è una bella idea, ma di concretizzazioni se ne sono viste poche. La promozione dei programmi sull’immigrazione è gestita, per il momento, dai ministeri dell’interno, e non dai ministeri degli affari esteri o dalle agenzie di cooperazione allo sviluppo, e i ministeri dell’interno concepiscono i processi migratori in termini di sicurezza e non di sviluppo. E poi c’è la complicazione, tutt’altro che secondaria, che gli obiettivi di questi interventi di sviluppo potrebbero non intaccare le ragioni di fondo che stimolano l’emigrazione. Non basta includere due parole in un accordo bilaterale che facciano riferimento ad iniziative di sviluppo per influenzare la dinamica dell’emigrazione. Forse nell’ambito del “global compact of migration” lanciato recentemente dalle Nazioni Unite potremo trovare spazio per nuove dinamiche nei paesi d’origine, approfondendo le radici dei processi migratori, ma siamo ben lontani da queste prospettive. Il “global compact” è ai suoi passi iniziali, e sta già incontrando seri ostacoli, per l’ostracismo di molti paesi (gli Stati Uniti e l’Italia già se ne sono tirati fuori). Nei paesi di transito, non è molto chiara la natura di questi progetti di sviluppo. Le esperienze fin qui maturate in Turchia, in Libia, in Marocco ed in Niger, hanno visto sorgere iniziative di sviluppo sociale, economico e infrastrutturale di tutti i tipi: (i) iniziative di sviluppo occupazionale destinate a favorire i lavoratori nazionali, che si sentono minacciati nella loro sicurezza lavorativa dai lavoratori immigrati che accettano salari più bassi: (ii) iniziative volte ad incoraggiare investimenti per assorbire, sia pur in via temporanea, migranti in transito, al fine di ridurre i costi sociali di migranti “nulla facenti” che hanno bisogno di reddito e di accesso a mezzi di sopravvivenza; (iii) investimenti infrastrutturali che generano servizi necessari sia per la popolazione nazionale che per i migranti in transito (per esempio nel settore educativo o sanitario); (iv) progetti di sviluppo (produttivo o infrastrutturale) che nulla hanno a che vedere con i migranti in transito ma che rappresentano una specie di “ricompensa” per il “peso” (economico o sociale o politico) causato dal fenomeno no della migrazione di transito; (v) iniziative di capacity building per istituzioni specifiche (per es. quelle della sicurezza nazionale) per meglio gestire il contenimento dei flussi migratori; (vi) esborsi finanziari a favore di gruppi di cittadini del paese di transito, per ottenerne la collaborazione nella gestione dei campi profughi, per la fornitura di servizi ai migranti o per destabilizzare il traffico dei migranti (quest’ultimi sarebbero operazioni di dubbia natura, che nascondono tentativi di corruzione). Ma la securitization del controlli dell’immigrazione irregolare nel Mediterraneo ha privilegiato in modo particolare, negli accordi bilaterali con i paesi di transito, le misure direttamente riferite alla sicurezza, per intensificare la lotta contro i trafficanti di migranti, la lotta al terrorismo ed al contrabbando, la detenzione dei migranti in transito in campi profughi e la difesa delle frontiere meridionali del Sahara (per la Libia, l’Algeria e il Marocco) o quelle sudorientali o meridionali 104 della Turchia. Sono stati inclusi: la fornitura di mezzi navali; la creazione di capacità nautiche e militari; l’appoggio alla gestione dei centri di detenzione; il potenziamento della polizia locale o di frontiera; l’appoggio alle operazioni di identificazione di reti clandestine (comprendendo la condivisione di intelligence); la fornitura di servizi tecnici e tecnologie per il monitoraggio delle frontiere; la collaborazione per l’espulsione o il rimpatrio dei migranti in transito nei paesi da dove provengono (a volte quelli d’origine, più spesso soltanto quelli in cui sono transitati prima di traversare la frontiera); ed in generale risorse tecniche che richiedano l’appoggio finanziario dell’Unione Europea nel suo insieme o di specifici paesi come l’Italia e la Spagna. Nel resto di questa Parte V, esaminerò la natura di questi accordi multilaterali o bilaterali, soffermandomi su quelli stabiliti con i paesi rivieraschi del Mediterraneo: la Turchia, la Libia ed il Marocco. Questi paesi svolgono un ruolo centrale nelle tre rotte principali adottate per traversare il Mediterraneo dall’Africa e dal Medio Oriente: la rotta orientale, principalmente dalla Turchia; la rotta centrale (dalla Libia, ma anche in parte dalla Tunisia, dall’Egitto e dall’Algeria); e la rotta occidentale verso la penisola iberica, principalmente la Spagna, così come il Portogallo, includendo anche le isole atlantiche di questi due paesi. Mentre la rotta orientale interessa flussi provenienti da tutto il medio-oriente, in particolare dalla Siria, ma anche dall’Iraq e dalla Palestina, nonché dall’Afganistan e da zone più remote dell’Asia come il Pakistan o Bangladesh, oltre gli stessi turchi (includendo anche le popolazioni curde), la rotta centrale e quella occidentale coinvolgono flussi che provengono per lo più dall’Africa sub-sahariana, anche se c’è mobilità tra i gruppi che inizialmente sembrano interessati a seguire solo la rotta orientale. Accordi sono stati perseguiti e raggiunti anche con altri paesi di transito, sia rivieraschi che non rivieraschi, o paesi di provenienza: si tratta di paesi come la Giordania, il Libano e la Siria; altri paesi nord-africani come l’Egitto, la Tunisia e l’Algeria, che possono essere sia punti secondari per salpare verso l’Europa, o paesi di transito che alimentano flussi verso la Libia o il Marocco. Sforzi speciali sono stati fatti con paesi del Corno d’Africa come Djibouti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia e il Sud Sudan, ed altri paesi come Sudan, Niger, Costa d’Avorio, Mali, Nigeria e Senegal, ma la lista si dovrebbe estendere a molti altri paesi dell’Africa sub-sahariana, dell’Africa occidentale e a molti paesi asiatici, da cui proviene un numero elevato di profughi che intendono presentare domanda di asilo. Gli accordi con la Tunisia sono stati varati già da lunga data, allo scopo di rinforzarne le capacità delle rispettive autorità per meglio controllare le proprie frontiere, rendendo anche più efficaci i controlli delle rispettive guardie costiere sui traffici marittimi. Quegli accordi hanno dato particolare spazio alla riammissione di migranti irregolari provenienti da quei paesi per il loro ritorno in patria. A volte non è stato possibile raggiungere accordi bilaterali, o gli accordi raggiunti non hanno prodotto alcun risultato concreto. Altre volte gli accordi hanno permesso di potenziare forze di sicurezza (per esempio in Niger), promuovendo le forze di polizia o il miglioramento del funzionamento delle strutture giudiziarie, combinando le misure di sicurezza con interventi umanitari o di sviluppo. Ma i risultati conseguiti includono molti fallimenti. Il giudizio su questi accordi è controverso. La critica più frequente è che essi coinvolgono regimi autoritari, con attenzione esclusiva alla tutela della sicurezza, ignorando gli elevati costi umani per migranti e rifugiati, e l’imperativo incondizionato a favore dei diritti umani, della democrazia, della libertà e della dignità umana su cui l’Unione Europea si fonda.xliii

L’accordo euro-turco per un piano di azione sui rifugiati Il tentativo più noto di esternalizzare il contenimento dell’immigrazione irregolare lungo la rotta del Meridionale è stato l’accordo raggiunto il 18 marzo del 2016 tra il Consiglio Europeo e la Turchiaxliv allo scopo di limitare i flussi di immigranti irregolari diretti verso l’Europa provenienti da quel paese, riducendo le pressioni di migranti che cercavano di sfondare la barriera con la Grecia e, successivamente, con la Macedonia, per poi continuare verso l’Austria, la Germania o 105 altri stati membri europei. Si trattaxlv di uno degli sforzi più visibili compiuti dall’Unione Europea per esternalizzare i suoi confini per affrontare il flusso continuo di profughi affetti dal conflitto in Siria che si dirigono, in prima istanza, verso il Libano e la Giordania per continuare, attraverso la Turchia, verso l’Europa.xlvi Prima dell’accordo, l’Unione Europea aveva accettato (nel settembre 2015) di assorbire fino a 66.000 rifugiati dalla Grecia e dall’Italia, attraverso un programma di redistribuzione presso altri paesi europei, che includeva un numero iniziale di 13.000 profughi siriani e 20.000 profughi di altre nazionalità. Ciò nonostante, elevato era ancora il numero di coloro che rimanevano nei campi profughi, nei centri di detenzione ed in altri xlviialloggi di fortuna in territorio greco. Per far fronte a questi flussi migratori, l’Unione Europea aveva utilizzato i programmi di Frontex sopra accennati quali l’Operazione Poseidon di Pronto Intervento, le Forze Speciali per la Frontiera Europea (RABIT) e l’Operazione Sophia, con l’uso di mezzi navali europei anche al di là delle acque territoriali europee, spingendosi fino ai limiti delle acque territoriali della Turchia. Ankara non ha mai gradito quel tipo di presenza navale, e con l’adozione del nuovo accordo nel 2016, ha richiesto la terminazione di quelle operazioni, per lo meno nelle aree vicine alla costa turca, visto anche la loro limitata efficacia. L’accordo euro-turco è stato il risultato di una serie di negoziazioni, che hanno incluso l’adozione nel 29 novembre del 2015 di un Piano d’Azione Comune (Joint Plan of Action, JAP) sui rifugiati, la formulazione di una proposta della Commissione Europea per uno schema volontario per l’accesso umanitario dei rifugiati siriani in Turchia, e una Dichiarazione congiunta firmata il 7 marzo 2016. L’accordo riconosce il ruolo strategico della Turchia per i rifugiati che provengono dall’Asia e dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria, e ufficializza, da parte europea, l’importanza cruciale del partner turco. Benefìci collaterali dell’accordo sono il rilascio di alcuni cittadini europei dalle carceri turche e l’ammorbidimento dei toni retorici del premier Erdogan, che aveva in precedenza paragonato i funzionari tedeschi a nazisti. L’accordo prevede quanto segue:xlviii (a) Tutti gli immigranti, inclusi coloro che intendono presentare domanda di asilo, che hanno attraversato irregolarmente la frontiera della Turchia verso la Grecia dopo il 20 marzo del 2016, potranno essere espulsi dalla Grecia e rinviati in Turchia, la quale dichiara la sua disponibilità a riceverli nel suo territorio. (b) La Turchia si impegna ad assicurare le sue frontiere con l’Europa, prendendo tutte le misure necessarie per evitare che ci siano nuovi sbarchi o attraversamenti della frontiera via terra di migranti irregolari, ospitando nel frattempo quei migranti irregolari che si trovano in Turchia e confermando la determinazione a reprimere l’attività di favoreggiamento della migrazione clandestina (scafisti o altri). (c) Solo i rifugiati che sono passati attraverso il processo formale di richiesta di asilo potranno entrare in Europa dalla Turchia, mentre gli altri verranno respinti e, se entrati irregolarmente, saranno espulsi e riportati in Turchia per avviare il processo formale di richiesta di asilo prima di accedere all’Unione Europea. Una volta eliminata o sostanzialmente ridotta l’entrata irregolare degli immigranti, uno Schema per l’Accesso Umanitario Volontario degli immigranti dalla Turchia potrà essere adottato, con la prospettiva di poter riconoscere i migranti siriani come rifugiati prima ancora dell’attraversamento della frontiera dell’Unione. L’accordo quindi prevede che la domanda di asilo non verrà più presentata dagli aspiranti rifugiati dopo essere arrivati nell’Unione Europea, ma quando ancora si trovano in territorio turco, che viene così “incluso” come luogo ove l’Unione Europea implementa le proprie procedure per la concessione dell’asilo (anziché in Grecia). 106

(d) In cambio di questi impegni, l’Unione Europea offre un compenso monetario al governo turco di circa €6 miliardi, tre dei quali versati immediatamente nel Fondo per Rifugiati in Turchia, con un possibile ulteriore versamento di altri €3 miliardi entro la fine del 2018. (e) Per ogni immigrato siriano espulso dalla Grecia in Turchia, per mancanza dei requisiti necessari per essere ammesso nell’Unione Europea, l’Unione si impegna ad accettarne un altro che abbia seguito la procedura regolare di richiesta dell’asilo in Europa (procedura espletata in Turchia), con un tetto massimo di 75.000 rifugiati siriani che possano agevolarsi di questa procedura. (f) L’Unione Europea si impegna anche a ridurre le restrizioni per la concessione di visti per i cittadini turchi che intendano emigrare in Europa (limitatamente all’area Schengen), sempre che coloro che ne faranno richiesta abbiano i requisiti necessari per ottenere tali visti. (g) La guardia costiera turca si prende cura del controllo delle zone marittime lungo la costa turca, anche se i paesi europei (in particolare Germania e Gran Bretagna) insistono affinché navi europee (della NATO) presidino il mar Egeo, con la protesta del governo turco che lo ritiene inutile, visto che le forze navali turche e greche controllano le rispettive acque territoriali. (h) Le autorità turche si impegnano a intensificare la lotta ai trafficanti di migranti, detenendo chi organizza o pianifica traversate del mar Egeo, in particolare da Aivalik a Lesbos. Questi sforzi richiedono l’infiltrazione di agenti turchi nelle bande criminali che organizzano trasbordi via mare. Sulla base di dati offerti dalla guardia costiera turca, per lo meno 347 “organizzatori” di questi traffici sono stati arrestati nel periodo 2015-2017. Con la prima tranche di € 3 miliardi – € 1 miliardo coperto dal bilancio comunitario e €2 miliardi a carico di stati membri (nel 2016, €427,5 milioni per la Germania, €327,6 milioni per il Regno Unito, €309,2 milioni per la Francia, €224,9 milioni per l’Italia e €152,8 milioni per la Spagna) –46 progetti specifici sono stati finanziati (nel 2017, ammontarono a €1.5 miliardi), coprendo spese per alloggio, assistenza sanitaria e servizi scolastici per i campi profughi, riabilitazione di infrastrutture come ospedali e scuole, formazione linguistica e assistenza a piccole imprese che offrono lavoro a rifugiati. Un Fondo di Solidarietà Sociale d’Emergenza (Emergency Social Safety Net) di €349 milioni ha permesso di rispondere alle necessità immediate di sussistenza di un milione di rifugiati, coprendo anche le spese scolastiche per i bambini (con sussidi monetari mensili che usano carte elettroniche). La prima tranche ha permesso la riduzione degli sbarchi in Grecia, giustificando la richiesta della Turchia di altri €3 miliardi per il 2018.xlix L’accordo è riuscito a limitare l’immigrazione irregolare dalla Turchia, riducendo gli sbarchi in Grecia da 10.000 persone al giorno (ottobre del 2015), a 1.740 persone al giorno, dopo la stipula del trattato, e a 47 persone al giorno dopo un anno dalla sua adozione.l Nella prima metà del 2017, solo 9.000 migranti avrebbero usato la rotta del mar Egeo, e nella seconda metà dello stesso anno, sarebbe arrivati fino a 20.000 persone. Secondo fonti europee, il numero di rifugiati che dalla Turchia raggiungono la Grecia, si è ridotto del 97% dalla stipula dell’accordo, grazie ai controlli delle autorità turche, ma anche per la ridotta domanda per quella rotta rispetto a rotte alternative, viste le scarse prospettive di raggiungere la Grecia. Infatti, la maggioranza di coloro che tentano la rotta per l’Egeo rimane intrappolata in Turchia. Lo scambio previsto tra immigranti siriani restituiti dalla Grecia e quelli ammessi in Grecia ha visto solo 2.167 siriani espulsi verso la Turchia tra il 2016 ed il 2018, poiché le procedure si sono dimostrate molto lente, ma ha rappresentato un disincentivo a usare la rotta del Mediterraneo orientale. Si valuta che 12.489 siriani sarebbero stati accolti nell’Unione Europea (4.313 in Germania, 2.608 in Olanda, 1.401 in Francia e 1.002 in Finlandia), come rifugiati (paesi quali 107

Bulgheria, Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Danimarca si sono rifiutati di accettarli). Ma il numero di rifugiati siriani che hanno raggiunto l’Europa con il nuovo sistema di vaglio previsto dall’accordo euro-turco è stato solo di 3.565 persone (al 27 febbraio 2017),li di gran lunga inferiore rispetto alla folla di profughi costretti a restare in Turchia.

Problemi irrisolti e critiche all’accordo euro-turco L’accordo euro-turco è estremamente fragile. Rappresentanti del governo turco e fonti diplomatiche europee sollevano continuamente dubbi sulla sua validità e sul suo futuro, mentre i problemi dei profughi non sono risolti, ma diventano sempre più gravi sul piano umano. A questo si aggiungano i difficili rapporti politici tra l’Unione Europea e l’attuale governo turco che impediscono di interpretare questo accordo come un modo per riavviare il dialogo per un eventuale adesione della Turchia all’Unione, specialmente dopo l’evoluzione autoritaria del governo turco di questi ultimi anni. L’accordo appare solo come una convenzione finanziaria per compensare il governo turco al fine di bloccare il flusso di immigranti irregolari provenienti dalla Turchia, o un mero espediente per permetterne comunque un rallentamento, sia pur temporaneo. Sul piano finanziario, l’accordo si confronta con una triplice sfida:lii (1) Per l’Unione Europea, non sarà facile trovare i fondi per finanziare il suo costo, visto che il bilancio comunitario ne copre solo un terzo e non è scontato che singoli stati siano disposti a coprire il resto.liii (2) Il governo turco lamenta che la prima tranche sia stata erogata con troppa lentezza e si sia tradotta solo in progetti gestiti da ONG, agenzie e altre istituzioni internazionali, istituzioni pubbliche ministeriali turche liv ed altre entità della società civile, ma non in erogazioni dirette all’erario turco. La Turchia sostiene di aver speso tra $25 e $30 miliardi nel corso degli ultimi sette anni per assistere i profughi, e dichiara di aver ricevuto soltanto €1,85 miliardi in progetti specifici, senza versamenti all’erario turco.lv La Turchia lamenta anche lo scarso seguito dato alla liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, mentre continuano scontri alla frontiera greca per sconfinamenti di agenti greci in territorio turco.lvi (3) Per molti (critici, molti parlamentari europei, la stessa Commissione Europea e Frontex), la sfida è nel modo in cui i fondi saranno usati. Nonostante queste divergenze e frustrazioni reciproche, è probabile che nessuna delle due parti si tirerà indietro da questa convenzione, per lo meno nell’immediato futuro. L’accordo è condizione per facilitare l’accesso a visti d’ingresso nell’Unione per i cittadini turchi e l’Europa continua a contare sulla collaborazione turca per il contenimento (a distanza) dell’immigrazione irregolare, anche se è una soluzione “tampone” che non risolve il problema. Dubbi sono stati sollevati sulla legittimità dell’accordolvii ai sensi della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e sulla sua efficacia per affrontare i problemi dell’immigrazione. L’accordo suppone l’adozione di un meccanismo di “rimpatrio di massa” (“blanket returns”) degli immigranti irregolari arrivati in Grecia, in sostituzione a procedimenti individual, e ciò è vietato dalle convenzioni internazionali, dalla Corte Europea dei Diritti Umani e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Il testo dell’accordo ha cercato di evitare questi divieti, con l’inclusione di rimpatri basati su processi individualizzati, ma questo mette in crisi l’intero appalto dell’accordo. In ogni caso, non è chiaro se gli immigrati riportati in Turchia abbiano potuto manifestare in Grecia il proprio diritto a richiedere asilo seguendo procedure adeguate. L’Unione Europea ha sempre vantato standard elevati per l’applicazione del diritto di asilo, ma l’accordo euro-turco sembra fare marcia indietro, favorendo una riduzione dei profughi provenienti dalla Turchia, in cambio di un rimpatrio di migranti dalla Grecia. Se i profughi che arrivano in Europa presentano domanda d’asilo, come può essere legittimo rinviarli in Turchia, senza aver prima esaurito la procedura della loro richiesta?lviii 108

Voci critiche espresse nel Parlamento Europeo hanno attaccato l’approccio di “delegare all’esterno” (outsourcing) la gestione dei flussi di rifugiati, perché non offre una soluzione di lungo periodo per gestire l’immigrazione e ignora la possibile solidarietà dei singoli paesi europei disposti all’accoglienza. Né questo approccio offre garanzie sull’uso dei fondi dati a entità turche per proteggere persone più vulnerabili, come donne, bambini (specialmente gli orfani), e appartenenti a minoranze religiose come cristiani e Yazidi. Per molti critici, l’accordo euro-turco rappresenta una violazione del diritto internazionale in materia di rifugiati, limitando il diritto di asilo a coloro che in buona fede ne fanno richiesta una volta sbarcati in Grecia. Inoltre, i benefici dell’accordo in termini di riduzione di decessi in mare sono mitigati dall’elevato costo di migliaia di persone costrette a restare in Turchia od in altri paesi in condizioni pietose. Attualmente la Turchia ospita circa 3 milioni di rifugiati, che potrebbero presto arrivare a 3,5 milioni. Circa 1.000 siriani al giorno entrano in Turchia. Tenendo conto che nel febbraio del 2016 circa 57.000 persone sbarcarono nelle isole greche, e di questi il 52% erano siriani, 25% afghani e 16% iracheni, quegli immigranti avevano alte probabilità di essere considerati positivamente come rifugiati secondo gli standard internazionali ed europei.lix Nel febbraio 2016, il 40% degli immigranti che avrebbero dovuto essere espulsi in Turchia dalla Grecia sono minorenni. L’unico modo legale per espellere migranti dalla Grecia senza infrangere la Convenzione di Ginevra per i rifugiati è supporre che la Turchia sia il paese ove questi potenziali rifugiati avrebbero dovuto richiedere protezione internazionale come rifugiati (secondo il principio del primo paese per richiedere asilo). Tuttavia, al momento la legislazione turca non offre la protezione internazionale prevista dalla Convenzione del 1951 ma solo una protezione temporanea che non offre assistenza sanitaria e scolastica, anche se molti progetti finanziati dall’accordo euro-turco cercano di rimediare a queste carenze. Il futuro di quei profughi richiede un piano per integrarli nella società turca, anche con l’apprendimento della lingua nazionale ed un più agevole accesso a posti di lavoro. Solo 20.000 siriani sono riusciti ad avere permessi di lavoro, mentre si stima che 800.000 siriani (molti i bambini) lavorano nel mercato nero. Finora, ben pochi immigranti in Turchia sono riusciti ad ottenere asilo in quel paese. E la maggioranza dei profughi siriani sono in attesa di poter continuare il viaggio per ricongiungersi con i propri familiari in Europa o altrove. La procedura corretta d’asilo secondo le norme del trattato di Dublino dovrebbe essere espletata in Grecia e, se esistono legami familiari confermati in altri stati membri dell’Unione, i rifugiati dovrebbero continuare il viaggio in quei paesi (procedura fortemente in bilico, vista l’obiezione di molti paesi membri). Per migliaia di immigranti rimasti bloccati nelle isole greche, l’accordo euro-turco è divenuto una trappola: sono costretti a vivere in condizioni miserrime in quelle isole (per le difficoltà poste ai trasferimenti su terra ferma), non sono autorizzati a proseguire il viaggio verso altri paesi europei, e sono incerti se possano richiedere asilo in Grecia (prevedendo l’accordo euro-turco il loro ritorno in Turchia). Il processo di espulsione dalla Grecia in Turchia è lento per complicazioni legali. Per accelerare il processo, i profughi in Grecia possono richiedere l’espatrio volontario in Turchia, pagando il costo umano di questa decisione, anche perché il sovraffollamento nei campi profughi in Turchia ha raggiunto livelli estremi, ostacolando le condizioni di accoglienza. Per il momento ben pochi migranti tornati in Turchia riescono ad ottenere l’asilo in Europa.lx L’accordo euro-turco del 2016 avrebbe dovuto mandare un messaggio chiaro ai trafficanti di migranti, spostando le procedure di richiesta di asilo al di là dei confini fisici dell’Unione Europea, ma ha anche mandato un messaggio ad altri paesi che avrebbero potuto ospitare i rifugiati in base alla Convenzione di Ginevra del 1951, che la protezione internazionale prevista da questa Convenzione può essere oggetto di un accordo “finanziario” e può essere perciò delegata ad altro stato (dietro compenso finanziario) che servirebbe a compensare il paese che si rendesse disponibile ad accettare nuovi rifugiati, vista la diffusa impopolarità della concessione dell’asilo nei paesi che potrebbero offrire accoglienza. 109

La soddisfazione per la riduzione degli sbarchi in Grecia favorita dall’accordo euro-turco ignora che la pressione migratoria segue la legge dei vasi comunicanti: repressa in luogo, esplode altrove. Se la rotta del Mediterraneo orientale diviene troppo difficile, ci sarà una spinta a usare rotte alternative per raggiungere l’Europa,lxi come quella del Mediterraneo centrale, anche se è più pericolosa e più lunga. E se la rotta del Mediterraneo centrale non è più una valida alternativa, si tenterà quella occidentale, passando lungo tutto il nord Africa (profughi siriani hanno cercato di raggiungere l’Algeria per poi proseguire in Marocco). Ci sono indicazioni che per migranti di provenienza asiatica, altra rotta alternativa è quella settentrionale, che evita l’attraversamento del Mediterraneo, ma raggiunge più a nord la Bulgaria e la Grecia nord-orientale o addirittura paesi dell’Europa centrale e settentrionale, lungo un tragitto particolarmente arduo e pericoloso, ostacolato dai paesi dell’est europeo. Accordi come quello euro-turco fanno esplodere le situazioni di migranti bloccati nei campi profughi e nei centri di detenzione nei paesi di transito del Medio Oriente e delle coste nord-africane, ove le condizioni di sopravvivenza sono pessime. Questo esaspera problemi di assistenza ai migranti in transito in paesi come il Libano, la Giordania e la Turchia (ma altrettanto può dirsi della Libia e del Marocco), mentre i migranti continuano a sperare di raggiungere l’Europa come meta finale.

L’esternalizzazione dei confini lungo la rotta del Mediterraneo centrale: la questione della Libia

Il lettore italiano probabilmente è più familiarizzato con l’esternalizzazione dei confini europei come si è manifestata lungo il corridoio centrale del Mediterraneo, in quanto concerne il flusso migratorio che giunge in Italia proveniente per lo più dalla Libia. Per questo, approfondirò quanto avviene lungo questa rotta più nei dettagli rispetto agli altri percorsi. La cronaca quotidiana porta sui giornali incidenti relativi a operazioni di salvataggio, sbarchi di clandestini, polemiche sul ruolo delle ONG al largo delle coste italiane o nordafricane, navi con profughi soccorsi in mare che chiedono di poter attraccare nei porti italiani, e via di seguito. Queste notizie di cronaca, purtroppo, non sempre fanno chiarezza su ciò che veramente sta succedendo, per cui tenterò di illustrare la tematica con maggiore sistematicità. Così come sentiamo parlare di invasioni dall’America Centrale verso gli Stati Uniti, o di invasioni di africani verso la Spagna, e di invasioni di siriani verso la Grecia, i vari governi italiani di questi ultimi dieci anni hanno spesso parlato della minaccia di invasione di migranti africani che arriverebbero dalla Libia per occupare posti di lavoro in Italia, spesso accusati di essere prevalentemente migranti economici (il cui unico motivo per arrivare sulle nostre sponde sarebbe la ricerca di un miglioramento del loro stato economico). Secondo fonti dell’UNHCR, nel 2016 sarebbero stati 162.895 i migranti sbarcati in Italia in provenienza dalla Libia, ma nonostante le “grida all’invasione” di migranti economici che richiederebbero immediati rimpatri, nello stesso anno furono presentate 123.600 domande di asilo in Italia, e le commissioni territoriali che le esaminarono concessero protezione internazionale al 40%, confermando o lo stato di rifugiato o la protezione sussidiaria o la protezione umanitaria ad una percentuale elevata di quegli immigranti. E tra il 2014 ed il 2016, il 70% dei ricorsi presentati da coloro la cui domanda di asilo era stata inizialmente rifiutata, furono alla fine accolti. Quindi, parlare di invasione di “migranti economici” è per lo meno incorretto. Eppure, si continua a parlare di invasioni di immigranti dalla Libia, di clandestini, visti alla stessa stregua di terroristi o contrabbandieri, richiedendo interventi di respingimento. La Libia è il punto preferito di partenza di questi “invasori”. Infatti, come la Turchia è il ponte naturale tra l’Asia ed il Medio Oriente, da un lato, e l’Europa, dall’altro, sin dai tempi della via della seta, la Libia si presenta, per la sua posizione geografica preponderante in mezzo al Mare Nostrum, in perfetta corrispondenza con la penisola italiana che ne è la sponda contrapposta in 110 modo pressoché speculare. La Libia è il punto di convergenza della maggioranza degli emigranti che percorrono il Sahara centrale (sia attraverso il Ciad che il Niger) e che provengono da molti paesi dell’Africa sub-sahariana, includendo quelli che stanno attorno al Golfo di Guinea (quali Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Togo, Camerun, Guinea Equatoriale e Gabon), ed altri paesi sahariani (quali Benin, Mali, Burkina Faso e Senegal), per non parlare dei tanti paesi del Corno d’Africa, dell’Africa centrale e di quella australe. La Libia è infatti anche un percorso preferito rispetto agli itinerari dell’Africa orientale, vista la pericolosità e le difficoltà enormi di tragitti che coinvolgano paesi come il Sud-Sudan ed il Sudan per recarsi in Egitto, paesi che sono afflitti da intensi conflitti interni, che di certo non li rendono appetibili come paesi di transito, visto che spesso molti profughi fuggono proprio da quegli stessi stati. Naturalmente, i migranti possono passare anche per l’Egitto, l’Algeria ed il Marocco per venire in Italia. E sicuramente il Marocco è preso in considerazione frequentemente da coloro che provengono dall’Africa occidentale, specialmente attraverso il Sahara Occidentale (ex Sahara Spagnolo), la Mauritania e il Mali, ma si dirigono verso la Spagna, più che l’Italia, e di questo parleremo nella sezione dedicata alla rotta occidentale. L’Algeria, invece, è un percorso che, pur se non va ignorato, è meno frequente rispetto alla Libia, forse perché meno permeabile, ma più che altro per la maggiora distanza fisica rispetto all’Europa. La distanza marittima dell’Algeria dalla Francia è significativa, così come quella con l’Italia, ma ultimamente l’Algeria comincia ad essere utilizzata come alternativa alla Libia, viste le difficoltà incontrate per salpare da quest’ultima, in direzione anche della Spagna, utilizzando a volte navigli di maggiori dimensioni. Traversate originate dall’Egitto non sono escluse per raggiungere l’Italia, anche se la lunghezza maggiore del percorso le rende meno frequenti. Naturalmente la Tunisia è anche più vicina della Libia, ed è usata con una certa frequenza, ma non ha un accesso diretto al Sahara centrale, completamente circondata com’è a sud dall’Algeria e dalla Libia. Inoltre, la Tunisia, pur nei suoi sconvolgimenti politici di questi ultimi decenni, è un paese istituzionalmente più solido che riesce a limitare, in qualche misura, le attività dei trafficanti di migranti. Questo spiega perché il volume di viaggi che partono dalla Tunisia sia di gran lungo inferiore rispetto a quelli provenienti dalla Libia. I trasferimenti dalla Libia hanno, come meta principale, le coste italiane e l’isola di Malta, che sono le sponde più vicine. Ma gli sbarchi a Malta hanno un limite rispetto a quelli in Italia, sia per la natura isolana di Malta (e le sue modeste dimensioni territoriali) che per le difficoltà di continuare il viaggio verso il continente europeo.lxii Proprio per il ruolo della Libia come ponte lungo la rotta centrale, la logica dell’esternalizzazione dei confini in Libia ha suggerito all’Unione Europea ed in particolare all’Italia di intrattenere con quel paese specifici rapporti per ottenerne la collaborazione allo scopo di contenere i flussi migratori verso l’Italia. Ma l’analogia con la Turchia per la rotta orientale non funziona molto nel caso della Libia, salvo che dal punto di vista geografico, in quanto la Libia ha caratteristiche politiche completamente diverse, che rendono l’esternalizzazione dei confini europei una sfida difficile. Le differenze con la Turchia hanno radici nella storia della Libia, con le seguenti conseguenze: (1) Un rapporto diverso con l’Italia, per il bagaglio del suo passato coloniale fin dopo l’indipendenza, che include l’espulsione della popolazione di origine italiana negli anni 70, ed il contenzioso sui “rimborsi” per i danni prodotti dal colonialismo, che ha influenzato gli accordi in materia di immigrazione con il regime di Gheddafi. Questo passato ha dominato il contenuto dei rapporti tra l’Italia e la Libia a partire dal 1969 fino alla rivoluzione del 2011. 111

(2) Le complicazioni della storia della Libia riguardano anche gli ultimi cinquant’anni, con le vicissitudini complesse del periodo di Gheddafi dal 1969 al 2011, l’avventurismo terrorista del dittatore libico negli anni 70 e 80, l’isolamento internazionale della Libia nei primi anni 90, le ritorsioni militari da parte degli Stati Uniti contro Gheddafi, e le sanzioni internazionali e dell’Unione Europea in quegli anni. Quando ci fu lo scongelamento delle tensioni con Gheddafi a partire dal 1999, l’Italia cercò di averne la collaborazione per concretizzare l’esternalizzazione dei confini italiani, siglando un accordo nel 2008. Si trattava di un accordo che permise il discusso respingimento in massa dei flussi di migranti provenienti dalla Libia. Ma la storia più recente di quel paese inserì elementi di imprevedibilità nei tentativi di esternalizzare i nostri confini in Libia. Al seguito della primavera araba, assistiamo nel 2011 allo sconvolgimento completo della situazione libica, con la deposizione del dittatore libico, e lo scoppio di ben due guerre civili, che in qualche misura ancora perdurano. Si tratta di una storia legata anche al rapporto intricato tra le diverse componenti della società libica, che risale indietro nei secoli, ma che si è manifestato con particolare intensità nel secolo XX, con effetti inevitabili nell’instabilità prevalente in quel paese. Per questo la Libia non è la Turchia. Non si presenta come una nazione unita ma come una società divisa in fazioni che lottano l’una contro l’altra, con milizie armate, con gruppi politici diametralmente opposti, con antiche rivalità tribali, e con una diversa influenza delle varie ispirazioni religiose nella vita politica. Questa estrema instabilità è la causa della debolezza politica del paese, che oggi può essere caratterizzato come un “failed state”, ove quindi gli interlocutori nazionali non sono sufficientemente solidi da garantire i cittadini libici e la comunità internazionale per l’applicazione di regole, di accordi, delle leggi, dello “stato di diritto” e della protezione dei diritti umani più basilari e per lo svolgimento regolare della vita economica e dei rapporti sociali. Ciò complica ogni tentativo di esternalizzare il contenimento dell’immigrazione rispetto a quanto è stato possibile sperimentare in Turchia o in Marocco. (3) Altra diversità rispetto alla Turchia è la variabilità continua dei rapporti di alleanza della Libia con potenze internazionali, ed in particolare con i paesi europei (e ovviamente anche con l’Italia), in conseguenza della storia degli ultimi 120 anni, variabilità confermata anche negli ultimi dieci anni. A partire dal 2011, alle diverse potenze internazionali si sono aggiunti nuovi interlocutori: da un lato forze ancorate al terrorismo internazionale, legate sia ad Al Qaeda che all’ISIS, e che contribuiscono alla destabilizzazione del paese; dall’altro potenze regionali come l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, il Sudan e la Turchia, che svolgono un ruolo importante nel sostenere formazioni islamiste in Libia od opporsi ad esse, appoggiando o ostacolando formazioni politiche legate alla Fratellanza Musulmana. Questi appoggi svolgono un ruolo ambiguo nel presente assetto politico della Libia, con il Governo dell’Accordo Nazionale (Government of National Agreement – GNA) di Sarraj che emerge dal tentativo delle Nazioni Unite del dicembre 2015 di creare un governo di unità nazionale, dopo la scissione nel 2014 tra Tripoli e Tobruk. I tentativi di coinvolgere lo stato libico in accordi bilaterali per l’esternalizzazione dei confini europei o italiani in Libia passa attraverso tutti questi passaggi, in un quadro complessivo ben diverso rispetto al rapporto tra l’Unione Europea e la Turchia. (4) Cruciali, per l’Italia, sono gli interessi economici con la Libia che rendono il tema dell’immigrazione non di certo secondario, ma condizionato alla realtà legata alle risorse energetiche, vista la dipendenza dell’Italia dalle importazioni di petrolio e gas naturale dalla Libia. Si tratta di problematiche già ben presenti sin dai tempi del regime di 112

Gheddafi, e che si sono ulteriormente complicate con lo scoppio della prima guerra civile nel 2011, ma ancor più con la seconda guerra civile libica dal 2014 in poi. L’esternalizzazione dei confini italiani in Libia deve tener conto di tutte queste evoluzioni, e si presenta ancora più complessa oggigiorno, vista l’incapacità del nuovo governo di unità nazionale – il GNA – a tenere il paese sotto una sola bandiera. La collaborazione libica per il contenimento dell’immigrazione verso l’Europa in un contesto violento ed instabile diviene una realtà contraddittoria, fatta di accordi di dubbia validità che hanno un impatto, tuttavia, sui modi in cui i flussi di migranti in transito in Libia sono trattati. L’azione dell’Unione Europea in Libia in materia di immigrazione L’azione europea in Libia in materia migratorialxiii persegue l’obiettivo primario di contenere il flusso di immigranti e rifugiati che si imbarcano per dirigersi verso le coste europee, e si inserisce nel quadro della sua attività diplomatica a sostegno di una transizione da una instabilità assoluta ad un processo di costruzione di uno stato moderno con strutture e istituzioni funzionali, solide e affidabili.lxiv Quest’attività diplomatica ha sostenuto gli sforzi dell’inviato speciale delle Nazioni Unite, Ghassan Salamé, per raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo politico della fine del 2015, volto a riunificare politicamente il paese, e interagisce con i contributi dell’Unione Africana e della Lega degli Stati Arabi, offrendo anche la sua intermediazione con le parti coinvolte nel conflitto civile, specialmente per quanto riguarda i contatti tra il governo di Sarraj ed il polo politico che fa capo al general Haftar a Tobruk. Una Libia rappacificata e unitaria è nell’interesse della sicurezza e difesa politica dell’Unione Europea. L’esternalizzazione dei confini europei in Libia è vista in questa ottica: difesa della sicurezza europea. Gli interventi in cui si articola, pur perseguendo obiettivi molteplici e di diverso segno, si inseriscono nel quadro generale della Politica Comunitaria per la Sicurezza e la Difesa (Common Security and Defence Policy o CSDP). Nel febbraio del 2017, ad un vertice europeo tenutosi a Malta, l’Unione Europea si impegnò a chiudere la rotta del Mediterraneo centrale ai continui flussi di immigranti irregolari, avallando l’accordo raggiunto in quel periodo dal governo italiano con il nuovo governo libico GNA di Sarraj (vedi di seguito apposita sezione), adottando la Malta Declaration, il cui duplice obiettivo è “ridurre il numero di immigranti irregolari e salvare vite umane in mare”. Un obiettivo ambiguo, che affronta il processo migratorio che transita in Libia ignorandone le cause di fondo che lo determinano e le condizioni precarie in cui si trovano i migranti in transito, specialmente nei centri di detenzione, nonché l’abuso che i profughi subiscono sia da parte di gruppi criminali che di presunte autorità che dovrebbero proteggerli. Nella situazione caotica della Libia, non è sempre chiaro chi sia incaricato della protezione degli immigranti, visto che la sicurezza è spesso affidata a gruppi armati semi-autonomi, che hanno svolto un ruolo destabilizzante nella seconda guerra civile e non sempre sono in sintonia con il governo centrale. Molte delle misure in cui si materializza l’esternalizzazione dei confini europei in Libia sono state già illustrate in precedenza fra i programmi coordinati dall’agenzia Frontex. Inoltre, sempre nell’ambito della CSDP, si inserisce un’iniziativa specifica: la Missione Europea in Libia di Assistenza Integrata per la Protezione dei Confini (EU Integrated Border Assistance Mission in Libya, EUBAM Libya), creata nel maggio del 2013,lxv che consiste principalmente in un sistema informativo e di cooperazione con le autorità libiche (in coordinamento con il ministero libico della giustizia), e attività di formazione per il personale libico addetto alla protezione della sicurezza e dell’ordine pubblico. Pur essendo di piccolo dimensioni, il programma apparentemente possiede competenze elevate nel settore della sicurezza, operando nella lotta contro la criminalità, l’antiterrorismo, ed in generale le attività di pubblica sicurezza, nonché la gestione dei confini meridionali del paese ed il controllo dei traffici per via marittima dei migranti irregolari. Personale dell’EUBAM è ubicato anche in uffici distaccati al confine con il Niger (EUCAP Sahel Niger). Alle attività di EUBAM Libya si aggiungono le iniziative finanziate con 113 in Trust Fund europeo per l’Africa realizzate specialmente nell’Africa occidentale, in paesi come il Niger ed il Mali, per evitare che migranti possano cadere nelle reti di trafficanti clandestini che organizzano caravane per traversare il Sahara (1.100 migranti sono stati soccorsi lungo il loro estenuante tragitto nel deserto del Niger, in collaborazione con le autorità del Niger e l’IOM). Un’importante componente dell’esternalizzazione dei confini europei in Libia è l’uso di fondi dell’Emergency Trust Fund for Africa, in collaborazione con l’IOM, per il rimpatrio volontario dei migranti dalla Libia nei rispettivi paesi d’origine, interessando finora 14.000 migranti che hanno beneficiato di qualche forma di assistenza per la loro reintegrazione nel loro rispettivo paese. Finanziamenti per facilitare il rimpatrio di altri 15.000 migranti sono stati resi disponibili all’inizio del 2018, mentre l’Unione Europea promuove attività informative destinate ad un potenziale pubblico di 23.500 persone, al fine di scoraggiarle ad intraprendere il lungo e rischioso viaggio che li porterebbe fino alla traversata del Mediterraneo centrale. Molti dei progetti finanziati dall’Unione Europea e legati al processo migratorio sono a sostegno delle comunità locali che “ospitano” questi immigranti, favorendo lo sviluppo di servizi sociali di base e permettendo la creazione di posti di lavoro che diano opportunità lavorative sia alla popolazione locale che ai migranti in transito, possibilmente integrando questi interventi con attività di assistenza per i migranti che si trovino in condizioni più vulnerabili. Molti di questi contributi sono assorbiti dai centri di detenzione e i locali centri di accoglienza ubicati in prossimità dei punti di sbarco ove vengono riportati coloro che vengono soccorsi in mare e ricondotti nei porti libici. Tra queste attività sono da includere anche gli interventi di assistenza umanitaria, in collaborazione con l’UNHCR e dell’IOM, per aiutare profughi che richiedono protezione internazionale come rifugiati, e che hanno interessato più di 20.000 migranti attualmente residenti in centri libici di detenzione o assistiti nei punti di sbarco in Libia. I contributi europei sono destinati anche a fornire mezzi di prima necessità, inclusi coperte, materassi e beni per l’igiene personale per migranti che risiedono nei centri di detenzione o comunque si trovano in condizioni precarie anche al di fuori di quei centri. Resta da vedere, tuttavia, quale sia l’efficacia ed i limiti di queste attività e fino a che punto siano di effettivo beneficio per i migranti in transito o piuttosto siano solo un palliativo rispetto alle sofferenze da essi subite. Una componente centrale, se non dominante, di questi interventi in Libia è la lotta contro i trafficanti di migranti, che rientra nell’Operazione Sophia, illustrata già in precedenza, insieme all’Operazione Triton, recentemente sostituita dall’Operazione Themis, di cui ho già parlato. Queste operazioni sono concentrate sul contenimento dell’immigrazione, ma sono complementate da altre misure più direttamente rivolte a garantire un flusso legale di ingresso in Europa, destinate particolarmente a profughi che versano in condizione più vulnerabili: nel settembre del 2018, una proposta per ospitare un minimo di 50.000 di questi profughi come rifugiati internazionali è stata fatta dalla Commissione Europea, rivolta a migranti provenienti da Libia, Egitto, Niger, Sudan, Chad ed Etiopia, e rifugiati che attualmente si trovano in Turchia, Giordania e Libano. Un contributo finanziario potenziale di €500 milioni è stato previsto a favore degli stati europei che accetteranno questi rifugiati. Ma a novembre del 2017, solo 25 rifugiati risulta che siano riusciti a lasciare la Libia utilizzando questo schema, anche se 19 paesi europei si sono impegnati ad assorbire 39.750 rifugiati utilizzando questa proposta. Questi interventi si inquadrano in un’azione di più ampio respiro in cui l’Unione Europea è impegnata per la stabilizzazione del paese e include finanziamenti attraverso strumenti quali l’European Neighbourhood Instrument (ENI) e l’Instrument Contributing to Stability and Peace (IcSP), destinati a sostenere progetti di ricostruzione economica; il miglioramento della pubblica amministrazione; sanità; istruzione e politiche giovanili; sostegno al processo politico per la costruzione di una società democratica; sicurezza e intermediazione con le parti in conflitto; e migrazione internazionale. Programmi per la stabilizzazione del paese cercano di creare servizi 114 sociali di base nelle comunità libica, creando altresì opportunità di lavoro sia per la popolazione locale che per i migranti in transito, per prospettare ad essi alternative al proseguimento del loro disegno migratorio verso l’Europa. Finanziamenti per circa €30 milioni sono destinati a promuovere (in collaborazione con ONG od organizzazioni internazionali specializzate in materia) assistenza umanitaria rivolta a proteggere gruppi sociali particolarmente vulnerabili della popolazione libica, a partire dai numerosi sfollati, che hanno un estremo bisogno di assistenza sanitaria, medicinali, assistenza alimentare, sostegno ai bambini per garantire accesso a strutture scolastiche, aiuto psicologico alle famiglie evacuate (circa 3.000 famiglia libiche in tali condizioni hanno ricevuto qualche forma di soccorso con fondi europei, anche attraverso organizzazioni umanitarie). Ma queste operazioni non sono dirette ad affrontare i problemi dell’emigrazione attraverso la Libia, anche se spesso vengono presentate con obiettivi ambivalenti.

Le origini dell’esternalizzazione dei confini in Libia e l’avvento di riforme legislative sull’immigrazione Gli accordi bilaterali tra il governo italiano e la Libia non sempre hanno riguardato la tematica migratoria o sono stati strumenti per esternalizzare i confini italiani. Inizialmente ignoravano completamente il fenomeno migratorio. Solo in questi ultimi anni si sono concentrati sul contenimento dell’immigrazione irregolare. Nel trattato di pace con il regno della Libia del 1957, che seguì l’indipendenza del paese del 1951, dopo un passato coloniale che durò tra il 1912 e il 1947, l’unico aspetto migratorio considerato era il flusso degli italo-libici che avevano abbandonato la Libia durante il secondo conflitto mondiale ed il loro possibile rimpatrio in Libia. Ma anche dopo il colpo di stato di Mu'ammar Gheddafi del 1969, i rapporti divennero una mescolanza di tensioni post-coloniali e interessi economici, però l’immigrazione era assente, e apparì solo negli ultimi anni del regime di Gheddafi, con l’accordo promosso da Berlusconi nel 2008. Gheddafi preferì altri temi. Subito dopo il suo arrivo, assistemmo alla confisca dei beni di imprese italiane e di privati cittadini italiani residenti in Libia, all'espulsione di 20.000 italo-libici entro il 15 ottobre 1970 (il "giorno della vendetta”)lxvi e all’apertura del contenzioso per il rimborso per danni causati dall’occupazione italiana nel periodo coloniale e per i danni prodotti dal conflitto bellico nella seconda guerra mondiale. In quegli anni, l’Italia era ancora un paese di emigranti. Gli accordi conclusi con Gheddafi dai vari governi italiani della prima repubblica si concentrarono sui rapporti di cooperazione economica e tecnica, specialmente nel settore dell’estrazione e della raffinazione del petrolio.lxvii Ma di immigrazione, neanche l’ombra. I rapporti bilaterali erano dominati dal ruolo degli operatori italiani nello sfruttamento delle risorse energetiche libiche ed il coinvolgimento crescente delle nostre imprese nella costruzione di infrastrutture e in altri investimenti produttivi. Non secondaria fu la partecipazione finanziaria di minoranza della Libia nella proprietà della FIAT (dal dicembre 1976 al 1986).lxviii Il fenomeno dell’immigrazione dall’Africa verso l’Europa attraverso la Libia non era ancora apparso all’orizzonte, anche se nel corso degli anni 80, cominciarono a manifestarsi i primi grandi cambiamenti nei flussi migratori mondiali. I rapporti con l’Italia si complicarono negli anni 80 per il coinvolgimento di Gheddafi nel terrorismo internazionale, che portò il leader libico ad un aperto contrasto con i paesi occidentali, causando un congelamento dei rapporti politici della Libia con la comunità internazionale, sanzioni economiche da parte prima degli Stati Uniti e poi delle Nazioni Unite e di seguito dell’Unione Europea, ed un raffreddamento anche nei rapporti politici con l’Italia, pur mantenendo buoni rapporti nel settore energetico, anche a costo di qualche imbarazzo con gli altri paesi europei e, ancor più, con gli Stati Uniti.lxix Il riavvicinamento del regime di Gheddafi alla comunità internazionale nel corso degli anni 90, a seguito della sua collaborazione nel perseguimento giudiziario di terroristi colpevoli di attentati degli anni 80, portò anche ad uno 115 scongelamento dei rapporti politici con l’Italia, e si concluse con un accordo bilaterale firmato dal primo governo Prodi nel 1998, noto come Comunicato Congiunto Dini-Mountasser.lxx Ma il Comunicato non menzionava i flussi di migranti dalla Libia, anche se tali flussi si stavano intensificando nel corso degli anni 90,lxxi e la problematica migratoria stava entrando nel dibattito politico interno italiano, producendo importanti cambiamenti legislativi. Tuttavia, allora i flussi migratori che interessavano il nostro paese non privilegiavano necessariamente la rotta libica.lxxii Fino al 1986, l’Italia era stata più che altro un paese di emigranti, e la legislazione in materia migratoria si era occupata solo di tutelare gli emigranti italiani. Fenomeni di immigrazione avevano interessato alcuni settori dell’economia, che avevano assorbito lavoratori stranieri,lxxiii creando necessità normative per regolarne il lavoro. Tuttavia, non c’era una legislazione organica sull’immigrazione, ma azioni isolate, circolari amministrative, ed interventi ad hoc per concedere permessi di soggiorno e di lavoro. La Legge Foschi del 30 dicembre 1986 (n. 943)lxxiv fu un primo timido tentativo di produrre una legislazione in materia, non prestando molta attenzione al contenimento dei flussi migratori, ma si limitò a regolare l’ingresso ed il soggiorno dei lavoratori extracomunitari, trasformando in legge disposizioni già previste da circolari del ministero del lavoro.lxxv Di fronte all’incalzante crescita dell’immigrazione e all’emergere delle prime forme di rigetto e di opposizione politica all’immigrazione extra-comunitaria, specialmente dai paesi in via di sviluppo e dall’est europeo, si rese necessaria una normativa più sistematica. La Legge Martelli del 28 febbraio 1990 (n.39)lxxvi fu la prima risposta, puntando su di una programmazione quantitativa dei flussi migratori, con un sistema di quote annuali di immigrazione, da concordare con enti istituzionali e sindacati, per garantire la compatibilità dei flussi migratori con le condizioni del mercato del lavoro. Non c’era alcun sistematico respingimento degli immigranti irregolari, anche se l’espulsione di immigranti era trattata. Tema centrale era l’assorbimento dei flussi di immigranti per favorire la loro integrazione (che poteva contare sul Fondo per le politiche dell’immigrazione creato dalla legge), l’estensione del diritto di asilo, e la definizione più accurata dei rifugiati politici distinguendoli dagli altri immigranti. Una sanatoria per molti immigranti irregolari fu introdotta, e nacquero i primi centri di accoglienza per gli immigranti. Pur contenendo norme sull’espulsione di immigranti, il respingimento previsto era concepito come trasferimento al confine dell’Italia, non comportando nessun intervento al di là della frontiera nazionale, niente che potesse prefigurare l’esternalizzazione dei confini. Durante il governo “tecnico” presieduto da Lamberto Dini, ci fu un tentativo di fare un passo in avanti nella legislazione sull’immigrazione ma senza successo: il Decreto Dini (decreto-legge n. 489 emesso il 18 novembre 1995) non fu convertito in legge, per il mancato sostegno della Lega del Nord, che allora stava affilando le armi per contrastare l’immigrazione. Quell’insuccesso fu seguito dallo scioglimento delle Camere. Ma il governo Dini cominciò a prestare attenzione alla protezione delle frontiere marittime, per le infiltrazioni di natanti (allora prevalentemente dall’Albania) che portavano immigranti in Italia clandestinamente, e adottò il 30 ottobre 1995 un decreto-legge (n. 451), al di fuori della normativa sull’immigrazione, dal titolo “Disposizioni urgenti per l’ulteriore impiego del personale delle forze armate in attività di controllo della frontiera marittima della Regione Puglia”, che, diversamente dal Decreto Dini, fu convertito in legge (n. 563) il 29 dicembre 1995 giusto prima dello scioglimento delle Camere. Quella legge era il primo sintomo della militarizzazione crescente dei controlli sull’immigrazione clandestina, la c.d. “securitization” del contenimento dell’immigrazione irregolare, che successivamente si estese all’intero bacino del Mediterraneo, anche se confinata alle acque territoriali. Fu il primo governo Prodi, che aveva raggiunto il primo accordo con Gheddafi nel luglio del 1998 (il Comunicato Congiunto), che produsse, quattro mesi prima, una cruciale innovazione legislativa sull’immigrazione, adottando, il 6 marzo 1998, la legge n. 40 nota come Riforma Turco-Napolitano. lxxvii La riforma continuò a porre l’accento sulla programmazione dei flussi migratori, posto dalla Legge Martelli, inquadrandoli nella politica estera del paese, e sviluppò 116 varie forme di assistenza a favore degli immigrati (su cui ritornerò nella Parte VI di questo saggio). La Riforma diede ampio spazio alla regolamentazione dell’ingresso legale in Italia per la ricerca di un lavoro, istituendo la carta di soggiorno per gli immigranti residenti da lunga data, e semplificando l’accesso ai servizi sociali di base, che vennero estesi anche agli immigranti irregolari. Ma in quella legge si fecero anche i primi tentativi per rafforzare i controlli sull’immigrazione irregolare, prevedendo dispositivi per l’espulsione, inclusi l’accompagnamento alla frontiera con l’uso delle forze dell’ordine. Disposizioni penali furono incluse per la lotta contro i trafficanti di migranti. Le operazioni di polizia erano limitate all’interno dei confini terrestri o delle acque territoriali, con enfasi sulla vigilanza delle autorità marittime e militari, senza alcuna menzione di operazioni in acque internazionali (anche se non possiamo escludere che ne avvenissero). Per la prima volta, si menzionò la ricerca di collaborazione con i paesi d’origine per il rimpatrio degli espulsi, e la possibilità di organizzare all'interno della zona di transito (cioè tra un confine e l’altro, nella terra di nessuno) servizi di accoglienza per dare informazioni e assistenza a chi fosse interessato a richiedere asilo. Ma non si parlò di operazioni in paesi terzi. La Riforma Turco-Napolitano non era il quadro normativo ideale per realizzare l’esternalizzazione dei confini italiani, così come la conosciamo ai nostri giorni, pur anticipandone alcuni elementi, come l’uso di sistemi informativi extra-territoriali previsti da accordi e convenzioni internazionali per controllare l’immigrazione clandestina. Bisogna aspettare il secondo governo di Giuliano Amato,lxxviii per avere i primi elementi di questa collaborazione sulle misure di sicurezza e vedere un accordo bilaterale con la Libia, concluso il 13 dicembre 2000, che perseguì come obiettivo “la collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico illegale di stupefacenti e di sostanze psicotrope ed all’immigrazione clandestina”,lxxix con cui realizzare il controllo dell’immigrazione irregolare attraverso interazione con le autorità libiche in operazioni di sicurezza e di ordine pubblico. Quell’accordo era ancora molto vago, e non fece molta strada, visto che il governo Amato fu sostituito dal secondo governo Berlusconi dopo pochi mesi, ma permise l’introduzione dell’esternalizzazione dei confini italiani in Libia, anticipando tematiche che saranno poi riprese nel Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione concluso tra Berlusconi e Gheddafi nel 2008.lxxx Ma fu il Trattato di Amicizia che rappresentò la forma più gloriosa dell’ingresso dell’esternalizzazione dei confini italiani in Libia come parte integrante della impostazione italiana della politica d’immigrazione, influenzandone gli orientamenti, pur con varianti significative, anche negli anni successivi e con governi diversi, permettendo una interazione tra il governo italiano e quello libico mai vista in precedenza per il contenimento dei flussi migratori. Ma quell’accordo non nacque dal nulla. Fu preparato da una evoluzione della politica interna italiana, con l’avvento del secondo governo Berlusconi nel giugno del 2001, con portò la Lega Nord di Umberto Bossi nella coalizione di centro-destra, coalizione che resterà al governo, con il terzo ed il quarto governo Berlusconi, fino al 2011, con la breve interruzione del secondo governo Prodi,lxxxi accompagnando il regime di Gheddafi fino alla sua fine. Quell’alleanza politica mutò profondamente l’approccio del nostro paese sull’immigrazione, come riflesso nella Riforma Bossi-Fini, che divenne operativa a partire dal 10 settembre 2002,lxxxii e che rappresentò una inversione di tendenza rispetto alla legge Turco-Napolitano, passando dalla programmazione dell’immigrazione con quote annuali (considerate troppo permissive dal centrodestra) ad una politica di contenimentolxxxiii fondata sul respingimentolxxxiv e su misure repressive,lxxxv mentre gli attraversamenti del Mediterraneo centrale dalla Libia erano oggetto di grandi controversie. Uno degli effetti dell’introduzione della legge Bossi-Fini fu quello di rendere più difficile l’immigrazione regolare, portando al risultato assurdo di esasperare la proporzione di immigranti irregolari rispetto a quelli regolari. Ma passarono ben sette anni tra l’adozione di quella riforma legislativa prima di raggiungere un accordo organico con Gheddafi in materia d’immigrazione, nonostante che l’esecutivo del 117 centrodestra avesse cercato di riprendere il dialogo con la Libia avviato dai governi del centrosinistra di Prodi, D’Alema e Amato sin dal 2001. La riforma Bossi-Fini creò il contesto legislativo ideale per una collaborazione con la Libia per contenere l’immigrazione irregolare, concentrandosi sull’espulsione degli immigranti irregolari ed il loro respingimento, creando il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, inasprendo le pene per i trafficanti di migranti,lxxxvi e intensificando l’uso della marina militare per respingere in mare imbarcazioni con clandestini, da attuare anche in acque extraterritoriali. Ma non bisognò attendere il Trattato di Amicizia per cominciare l’esternalizzazione dei confini in Libia. Con l’approvazione della legge n.271 approvata il 12 novembre del 2004,lxxxvii fu possibile al ministero dell’interno offrire al governo libico contributi finanziari volti “alla realizzazione, nel territorio dei Paesi interessati, di strutture utili ai fini del contrasto di flussi irregolari di popolazione migratoria verso il territorio italiano.” (art. 1bis) Nacquero così in Libia centri di detenzione per immigranti in transito finanziati anche con fondi pubblici italiani.lxxxviii In aggiunta agli accordi bilaterali formali, sin dai tempi dei governi del centrosinistra, e di sicuro dal governo Amato in poi, assistiamo al fiorire di protocolli operativi con cui si erano stabilite forme di collaborazione tra le forze di sicurezza italiane e quelle libiche. Quei protocolli non hanno né la forma né il valore politico degli accordi formali tra stati, né sono mai sottoposti al vaglio di un riconoscimento legislativo (come avviene per i trattati bilaterali): si tratta di accordi tra autorità ministeriali o prefetti, vertici delle polizie nazionali, il Viminale o ministero della difesa, o altre autorità militari, e omologhe autorità libiche. Questi protocolli sono stati la forma più frequente per concordare modalità pratiche di collaborazione e di assistenza alle autorità libiche per realizzare operazioni congiunte o armonizzate di respingimento degli immigranti irregolari o di rimpatrio verso la Libia. Quegli accordi hanno previsto anche la collaborazione per favorire il rimpatrio dei migranti verso i paesi d’origine, nonostante la difficoltà per realizzare quelle operazioni. Non fu mai data molta pubblicità ai contenuti di quegli accordi operativi, che spesso hanno carattere riservato che li rende sconosciuti al pubblico.lxxxix Informazioni aneddotiche disponibili e diffuse dai media hanno permesso di confermare a volte la natura di quei protocolli, mostrando in modo plateale l’esternalizzazione dei confini italiani in Libia. È stato in base a quei protocolli che, a partire dal 2004, sono stati ricondotti nei porti libici molti migranti intercettati in mare, portandoli nei centri libici di detenzione che avevano beneficiato dei finanziamenti italiani. Nel 2005, secondo Amnesty International, 1.425 persone furono trasferite in Libia. Quei protocolli operativi furono senz’altro frequenti durante i vari governi Berlusconi, permettendo nel 2003 e nel 2004 una flessione nel numero degli sbarchi dalla Libia, anche se i flussi migratori facilmente tornarono a livelli più alti negli anni successivi. Quei protocolli operativi trovarono spazio anche nei governi del centrosinistra prima di Berlusconi o quelli che lo seguirono dopo la deposizione di Gheddafi, confermando il consolidamento dell’approccio di esternalizzazione dei confini italiani in Libia da parte del governo italiano, sotto qualsiasi bandiera politica. Il coinvolgimento della guardia costiera libica, rafforzata con motovedette fornite dall’Italia per bloccare i natanti con migranti clandestini a bordo e riportarli in Libia, rappresenta la forma più pubblicizzata di questa collaborazione, ma non è l’unico aspetto rilevante. Il sostegno ai centri libici di detenzione e agli sforzi delle autorità libiche per ridurre gli attraversamenti dalle frontiere meridionali della Libia, con possibili accordi con altri paesi come il Niger, sono altre componenti chiave di quest’approccio.

L’esternalizzazione dei confini italiani in Libia dal Trattato di Bengasi all’accordo italo-libico del 2017 (a) Il Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione del 2008 Le condizioni per rendere operativa l’esternalizzazione dei confini italiani nella Libia di Gheddafi non furono sempre facili. Per il leader libico, ogni appoggio agli sforzi di contenimento 118 dei flussi migratori era legato a progressi sul contenzioso sui danni coloniali e di guerra sbandierato sin dal 1970, con una tattica negoziale basata su continue interruzioni delle operazioni di respingimento o di controlli sugli imbarchi in Libia, per meglio motivare il governo italiano a fare sforzi proporzionati per il risarcimento dei danni. Non mancarono incidenti estemporanei come sequestri di breve durata di imprenditori italiani, poi rilasciati, usati come espedienti negoziali per convincere la diplomazia italiana.xc Gheddafi voleva un “grande gesto” da parte italiana per favorire la “riconciliazione” tra i due paesi per collaborare sui temi migratori.xci L’altalena continuò per sette anni fino alla stipula del Trattato di Amicizia, Cooperazione e Partenariato tra la Repubblica Italiana e la Grande Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista (o Trattato di Bengasi) xciidel 2008, che portò alla sostituzione del “giorno della vendetta” con il “giorno dell’amicizia” (ma il “giorno della vendetta” fu ripristinato l’anno successivo, quando Gheddafi accusò l’Italia di essere inadempiente nel risarcire i danni coloniali e di guerra).xciii Il 30 agosto 2008 i due paesi firmarono il Trattato di Amicizia,xciv dopo una visita di Berlusconi in Libia nel giugno dello stesso anno. Il Trattato fu ratificato dal parlamento italiano il 6 febbraio 2009.xcv La conclusione di quell’accordo beneficiò anche del fatto che nel 2007, durante il breve periodo del secondo governo Prodi (dal 17 maggio 2006 all’8 maggio 2008), la collaborazione italo-libica nel settore del controllo dei flussi migratori si era essere fatta molto intensa, con la partecipazione congiunta a pattugliamenti aeronavali dell’agenzia Frontex e della marina militare italiana per impedire l’uscita dai porti libici delle imbarcazioni che trasportavano migranti irregolari e l’intensificazione degli arresti in territorio libico di persone considerate migranti irregolari. Fu in quel periodo che i due paesi si impegnarono in un negoziato che si prolungò nel tempo e mantenne sempre un carattere riservato per arrivare alla firma di un protocollo redatto alla fine del 2007 a Tripoli dal ministro dell’interno italiano Giuliano Amato e dal suo omologo libico Abdurrahman Shalgamper (“Protocollo per la cooperazione tra l’Italia e la Libia per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina”) che diede contenuto specifico alle modalità di controllo delle migrazioni irregolari.xcvi Ma l’applicazione di quel protocollo negli ultimi mesi del governo di centrosinistra non fu rapida, provocando proteste da parte libica, giustificando intimidazioni espresse immediatamente dopo l’insediamento a Roma del nuovo governo di centrodestra (secondo governo Berlusconi). Il ministro dell’interno libico minacciò che se il governo italiano non avesse applicato quell’accordo, con le forniture promesse nel dicembre 2007, il governo libico avrebbe smesso di collaborare al blocco dell’immigrazione illegale verso l’Italia.xcvii Fu in questo clima di tensioni e minacce che Berlusconi avviò e concluse l’accordo con Gheddafi nell’agosto del 2008. Ma il contenuto del Trattato di Bengasi del 2008 includeva molti altri temi non attinenti ai flussi migratori: temi di carattere generale,xcviii ed altri di natura più politica (impegno a non usare la forza nei rapporti reciproci, astensione da ingerenza negli affari interni dei due paesi, la questione dei danni coloniali e bellici, impegno italiano a finanziare progetti infrastrutturali per $5 miliardi ($250 milioni all’anno per 20 anni) usando imprese italiane; e temi minori (visti d’ingresso in Libia agli italo-libici espulsi nel 1970, crediti pendenti di operatori italiani), e rilancio della cooperazione economica, non più limitata al settore energetico, ma estesa alla cooperazione culturale e militare. La formalizzazione dell’esternalizzazione dei confini italiani in Libia era prevista nelle disposizioni di cooperazione nella lotta contro la criminalità organizzata, il terrorismo e l’immigrazione “clandestina”, coinvolgendo la Libia come principale partner per difendere i confini marittimi italiani dalla penetrazione degli immigranti.xcix Come nell’accordo euro-turco, il Trattato dell’Amicizia lega la collaborazione libica all’esternalizzazione dei confini italiani al versamento di ingenti contributi italiani per lo sviluppo della Libia. Il tema migratorio era affrontato succintamente nell’art. 19 del Trattato, nella terza sezione dedicata al Nuovo Partenariato Bilaterale. Ribadendo il contenuto 119 dell’accordo del 2000 tra Amato e Gheddafi, e delle successive intese tecniche concordate tra le autorità di sicurezza dei due paesi,c l’immigrazione irregolare era richiamata sotto la lotta all’immigrazione clandestina, assieme alla lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata e al traffico di stupefacenti,ci ignorando la dimensione sociale e politica del fenomeno migratorio, e i diritti dei rifugiati a richiedere asilo.cii I due paesi si impegnarono anche a realizzare un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, affidato a società italiane specializzate, con un finanziamento al 50% con fondi italiani (il restante 50% da coprire con fondi europei da richiedere).ciii Infine, i due paesi ribadivano l’impegno a collaborare per definire iniziative per prevenire l’immigrazione clandestina nei paesi di origine, come anticipato nei protocolli del dicembre del 2007. La securitization di questa politica di esternalizzazione dei confini fu confermata nell’art. 20 del Trattato, ove troviamo disposizioni sulla collaborazione nel settore della difesa, da finalizzare con accordi specifici, che avrebbero incluso missioni di esperti, di istruttori e di tecnici, e lo scambio di informazioni militari, nonché l’espletamento di manovre congiunte, ed un più forte partenariato industriale in quel settore.civ Non si faceva alcun riferimento alla protezione dei diritti dei migranti in transito, né al diritto di richiedere asilo, ma si parlava solo di repressione dell’immigrazione clandestina, ignorando il fatto che così facendo il Trattato, così i protocolli operativi che lo avevano preceduto, sottraevano gli immigranti dai processi legali per la concessione dell’asilo, imponente uno “sbarramento” che li obbligava a restare o a tornare in Libia, bloccati in campi di detenzione, spesso in condizioni disumane, o in contatto con trafficanti di dubbia reputazione, ove l’unica alternativa era la fuga in mare verso l’Europa con mezzi di fortuna, con il rischio di naufragare, o di essere arrestati di nuovo, per essere poi respinti o espulsi di nuovo verso il territorio libico. Nel Trattato non si faceva esplicito riferimento ai campi libici di detenzione per gli immigranti, ma si rinviava ai contenuti dei protocolli operativi,cv compresi quelli stabiliti con il governo di centrosinistra, anche se l’Italia si era già impegnata a sostenere quelle strutture detentive sin dall’approvazione della legge n. 271 del 2004. I respingimenti in acque libiche, con la collaborazione di mezzi della marina militare italiana, non erano esplicitamente menzionati, ma erano compatibili con gli artt. 19 e 20 del Trattato, e in ogni caso erano previsti nei protocolli operativi. I risultati della collaborazione italo-libica permisero al ministro dell’interno Maroni, nel gennaio del 2010, di vantare i successi ottenuti attraverso la riduzione degli sbarchi di immigranti tra maggio e dicembre del 2009, da 31.281 a 3.195 persone (90% in meno rispetto ai flussi registrati nell’anno precedente). Il Trattato di Bengasi favorì il blocco delle imbarcazioni intercettate in alto mare, l’aspetto forse più clamoroso di quella collaborazione, consistente nel respingimento sommario in mare dei migranti intercettati a bordo di natanti clandestini. Quella collaborazione fece ricorso in modo sostanziale alla guardia costiera libica, anche se gli interventi di quest’ultima furono spesso assistiti (anche in acque territoriali libiche) da motovedette o altre navi militari italiane (a volte con equipaggio misto italo-libico). Una volta intercettati, i migranti clandestini venivano trasferiti a bordo di una motovedetta, e se quest’ultima era italiana, venivano trasbordati in imbarcazioni della guardia costiera o della marina libica, per essere poi riportati in un porto libico, per essere infine affidati al personale di sicurezza ed essere trasferiti nei centri di detenzione. La frequenza di queste operazioni fu occultata dalla mancanza di trasparenza esercitata sia dalle autorità italiane che da quelle libiche. Organizzazioni come denunciarono questi respingimenti che per anni avevano ricondotto migranti intercettati in Libia, impedendo loro l’esercizio del diritto a chiedere protezione internazionale come rifugiati. Questi respingimenti giustificarono una mozione di condanna dell’Italia sin dal 10 maggio 2005 da parte del Parlamento Europeo. Ma fu l’episodio avvenuto il 6 maggio 2009 di tre natanti con 231 persone a bordo, bloccate dalla Guardia di Finanza in acque internazionali al largo di Lampedusa e riportate in Libia,cvi che portò, nel febbraio 2012, alla condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti Umani cvii di Strasburgo per trasgressione dei diritti umani ai danni migranti 120 eritrei e somali, intercettati in acque internazionali e riportati in Libia ammanettati dalle autorità italiane per essere consegnati al personale libico di sicurezza ed essere messi sotto la loro custodia. Quell’episodio era rappresentativo dell’approccio sistematico adottato dal governo Berlusconi per il respingimento di massa di rifugiati. Quell’operazione aveva violato l’art. 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che obbliga gli stati ove si recano richiedenti asilo a ricevere la domanda di asilo, a effettuare una valutazione individuale sulla validità della richiesta. Con i respingimenti di massa, l’Italia aveva violato il principio di non refoulement (divieto di espulsioni collettive), rendendosi anche colpevole di aver permesso, attraverso il rinvio in Libia, violenze nei confronti di quegli stessi immigranti, violando anche il divieto di sottoporre quelle persone a tortura e a trattamenti disumani degradanti.cviii Il Trattato di Amicizia permise inoltre il rafforzamento del ruolo svolto dai centri di detenzione e la protezione delle frontiere meridionali per contenere l’immigrazione, anche se la politica delle porte aperte seguita in precedenza da Gheddafi verso l’immigrazione africana non rese facile il controllo libico delle rotte sahariane. Il ruolo dei centri di detenzioni fu criticato con veemenza da entità come Amnesty International, Human Rights Watch e Fortress Europe,cix che lamentarono il loro sovraffollamento, le condizioni sanitarie deplorevoli, cx il maltrattamento subìto dai detenuti e la frequenza di torture esercitate dal personale di custodia, e l’alto rischio di infiltrazione di organizzazioni terroristiche. Arresti in massa venivano condotti in continuazione dalle autorità libiche, senza alcuna garanzia per la protezione dei diritti dei detenuti. I tentativi di deportazione dalla Libia spesso consistevano nell’ammassare migranti da espellere in container ove restavano senza cibo o acqua per giorni, per essere poi abbandonati nel deserto, al confine con il Niger, il Chad, il Sudan o l’Egitto. Il Trattato non previde alcuna protezione umanitaria per i migranti in transito in Libia, riducendo in pratica l’accesso alla protezione internazionale per i rifugiati: così si assistette ad una riduzione significativa delle domande di asilo presentate in Italia, da 31.000 del 2008 a 17.000 del 2009. Ufficialmente espulsi dall’Italia, molti migranti rinviati in Libia divennero vittime della collusione tra il personale libico di sicurezza e i trafficanti di migranti, con il trasferimento diretto dalle mani dei carcerieri a organizzazioni criminali, dietro pagamento di un prezzo, con il rischio di schiavizzare i migranti, che venivano condotti a Tripoli nel tentativo di poter attraversare di nuovo il Mediterraneo, in un circolo vizioso diabolico. Nel Trattato non trovò alcuno spazio la regolarizzazione dell’immigrazione, né la ricerca di opportunità lavorative in Italia per un eventuale ingresso regolare in Europa. Parimenti assente era il tema dell’accesso dei migranti in transito a permessi temporanei di lavoro in Libia. Nel maggio 2009 Berlusconi dichiarò che il respingimento in Libia degli immigranti clandestini non limitava il loro diritto a chiedere asilo, potendosi essi rivolgere all’UNHCR in Libia. Ma quell’agenzia vide ridurre il suo spazio operativo, dovendo chiudere la sua rappresentanza in Libia nel giugno 2010,cxi ulteriormente limitando la possibilità di avvio delle pratiche per richiedere asilo, da cui furono esclusi coloro che erano appena arrivati nei centri di detenzione. Restava un’unica alternativa: il loro rimpatrio nei paesi d’origine.

(b) Gli accordi con il governo Monti del 2012

La sentenza della Corte Europea fu emessa quando Berlusconi era già stato sostituito dal governo tecnico di Mario Monti.cxii Il messaggio della Corte influenzò gli orientamenti di tutti i governi italiani che seguirono il quarto governo Berlusconi, che si sentirono in dovere di non applicare più il respingimento collettivo praticato in precedenza, anche se le autorità libiche (qualunque fosse il governo che rappresentasse la Libia) continuarono a compierlo. Ma a partire dal febbraio del 2011, il panorama politico libico cambiò sostanzialmente con lo scoppio della prima guerra civile libica, che portò alla caduta graduale del regime di Gheddafi e al suo decesso in ottobre di quell’anno.cxiii Non è possibile valutare l’efficacia degli accordi bilaterali in quei mesi, con 121

Gheddafi in aperto contrasto con i paesi europeo da lui accusati per appoggi a favore degli insorgenti. Gli accordi per l’esternalizzazione dei confini italiani in Libia entrarono in una fase di impasse, con la complicazione che dalla rivoluzione non emerse un chiaro assetto istituzionale in sostituzione del regime precedente, con una situazione politica estremamente volatile e soggetta a continue evoluzioni. Mancava un interlocutore valido in Libia che permettesse la riattivazione dell’esternalizzazione dei confini concordata con Gheddafi. Il primo tentativo di un accordo bilaterale con la Libia post-rivoluzionaria fu lanciato dallo stesso governo Monti, entrato in carico dopo il crollo del regime di Gheddafi, prima ancora che il comitato rivoluzionario (il Comitato Nazionale di Transizione, CNT) potesse esprimere un processo elettorale (le prime elezioni avverranno solo nel luglio del 2012) con un governo istituzionale ad interim. Il primo passo di Monti fu quello di chiedere al suo ministro degli affari esteri, Giulio Terzi, di riavviare il dialogo con la controparte libica che usciva vincente dal conflitto civile, il CNT, sperando in una continuità rispetto all’accordo del 2008. Quei tentativi portarono ad una dichiarazione congiunta rilasciata a Tripoli il 21 gennaio 2012 dallo stesso Monti e dal nuovo primo ministro libico provvisorio, El-Keib, nominato dal CNT, che aveva assunto le sue funzioni lo stesso mese di novembre del 2011, proprio come Monti. Ma la dichiarazione congiunta non fece alcun riferimento alla collaborazione italo-libica in materia d’immigrazione, visto che la priorità assoluta sia per la Libia che per l’Italia in quel momento fu assicurare la riattivazione dello sfruttamento delle risorse petrolifere e dell’esportazione di prodotti energetici libici verso l’Italia.cxiv Per riattivare il dialogo sull’esternalizzazione dei confini italiani erano necessarie ulteriori consultazioni tra i due paesi. Ciò avvenne con un accordo operativo firmato nell’aprile 2012 dai due ministri dell’interno. L’accordo dell’aprile fu raggiunto mentre la Libia entrava in una fase di estrema instabilità interna, incapace di varare un nuovo assetto costituzionale. Il governo provvisorio di El-Keib era solo espressione di un comitato rivoluzionario e non di un processo istituzionale solido né di elezioni politiche. Nel frattempo, l’apparato di sicurezza nazionale del regime di Gheddafi si era frantumato, e le forze rivoluzionarie consistevano in una varietà incredibile di gruppi armati semi-autonomi. Non era più chiaro chi fosse responsabile della sicurezza nazionale, con milizie che non rispondevano a nessuna autorità centrale, esercitando un controllo solo locale, soggetto a continue variazioni, spesso in contrasto l’una contro l’altra, senza alcuna garanzia di rispetto dello stato di diritto. Su quali di quei gruppi il governo provvisori di El-Keib esercitava un vero controllo? Chi gestiva i centri di detenzione per immigranti sparsi nel paese? Chi era in controllo dell’ordine pubblico nelle varie città, nelle campagne, lungo le frontiere meridionali del paese, e nei diversi porti da cui partivano le imbarcazioni di migranti verso l’Italia? Con quell’accordo operativo, il ministro dell’interno Cancellieri e l’omologo libico Abdulali ribadirono il contenuto di precedenti protocolli operativi e quanto previsto dal Trattato di Amicizia. Il fatto che l’accordo fosse stato mantenuto inizialmente segreto destò proteste da parte di Amnesty International e altri osservatori internazionali, che temevano che l’intesa potesse ripristinare i respingimenti di massa di epoca berlusconiana. cxv Ma il suo contenuto trapelò nella stampa e fu lo stesso Monti ad annunciare sin dall’inizio del suo mandato che il governo italiano avrebbe rispettato i dettati della sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani. Ma le preoccupazioni per il rispetto dei diritti umani dei migranti in transito in Libia riguardavano anche i maltrattamenti subiti dai profughi nei centri di detenzione. Nel frattempo, si assisteva nel paese a molte manifestazioni di violenza contro la popolazione di origine subsahariana.cxvi Finalmente i termini dell’accordo concluso dalla Cancellieri furono resi noti. Essi includevano: (a) addestramento di agenti libici in attività quali controlli di frontiera, individuazione di documenti contraffatti e addestramento nautico del personale libico per condurre operazioni in mare; 122

(b) collaborazione (anche con il sostegno europeo) per ristrutturare “centri libici di accoglienza”; (c) potenziamento della sorveglianza dei confini sia marittimi che terrestri, con fornitura da parte italiana di “mezzi tecnici” e “attrezzature”, incluso l’uso di radar e sistemi satellitari per monitorare i confini meridionali del paese; (d) intensificazione della collaborazione per le attività in mare, secondo aree di competenza rispettiva (in altre parole, assicurando l’esclusiva competenza libica nelle acque territoriali, ma lasciando a eventuali accordi specifici le azioni da svolgere in acque internazionali, nel pieno rispetto delle norme del diritto marittimo internazionale); ed infine (e) avvio del rientro “volontario” di immigranti irregolari in collaborazione con la IOM.cxvii Quindi, l’accordo della Cancellieri non parlò di respingimenti collettivi ma era ambiguocxviii quando parlava di attività in “acque internazionali”, ribadendo aspetti dell’esternalizzazione dei confini contenuti nei protocolli siglati da Maroni (ex ministro dell’interno) con il regime di Gheddafi, omettendo ogni riferimento ai diritti dei rifugiati e alla Convenzione di Ginevra, mai sottoscritta dal governo libico.

(c) Gli accordi con il governo Letta del 2013 Il governo Monti rimase in carica solo fino al 28 aprile del 2013, seguito dal centrosinistra di Enrico Letta (anch’esso di breve durata, fino al 22 febbraio del 2014). In quei mesi, il numero di immigranti che cercarono di raggiungere l’Italia attraverso il Mediterraneo centrale continuò ad aumentare, con stragi collegate a naufragi che causarono molto scalpore. Nel frattempo, si tennero in Libia nel 2012 le prime elezioni politiche, ma nel 2013 il sistema politico cominciò a disintegrarsi rapidamente, anticipando la seconda guerra civile a partire dell’inizio del 2014, mentre altre elezioni, fortemente contestate, ebbero luogo il 25 giugno 2014, con profonde spaccature che perdurano ancora oggi. Attuare l’esternalizzazione dei confini italiani in quella situazione era un compito immane, anche se molti furono i tentativi. Gli accordi del governo Monti del gennaio e dell’aprile 2012 divennero subito obsoleti a causa del cambiamento degli interlocutori politici. Già nel luglio 2012, dopo le prime elezioni legislative,cxix cui parteciparono ben 100 partiti politici,cxx emerse un governo ad interim con un nuovo primo ministro, Ali Zeidan, ed un parlamento, il Congresso Nazionale Generale (CNG) che sostituì il CNT.cxxi Ma furono cambiamenti lenti. Zeidan confermò il suo insediamento come primo ministro ad interim solo nel novembre 2012. Il governo Monti cercò di rinnovare con Zeidan la collaborazione sull’immigrazione concordata in precedenza con El-Keib, vista l’intensificazione delle traversate dalla Libia e l’aumento dei naufragi, che raggiunsero un momento critico nella seconda metà del 2013. Ma nell’aprile del 2013, il governo Monti finì il suo incarico, e quei tentativi furono ripresi solo dal governo Letta.cxxii E fu così il governo Letta, con Angelino Alfano al Viminale e Mario Mauro alla difesa, che lanciò il programma noto come Operazione Mare Nostrum il 18 ottobre 2013, di cui ho riferito in precedenza.cxxiii Mare Nostrum segnò una inversione completa di tendenza rispetto ai respingimenti collettivi del governo Berlusconi, concentrandosi su operazioni di “ricerca e salvataggio” (SAR) in acque internazionali, pur se in prossimità della costa nord-africana (ma non è escluso che a volte le navi italiane abbiano operato, sia pur eccezionalmente, anche in acque territoriali libiche). Ma per il suo eccessivo costo ed il mancato appoggio finanziario dell’Unione Europea, quel programma durò solo fino all’ottobre del 2014 (un anno), pur lanciando una dimensione nuova nei nostri interventi marittimi nel Mediterraneo: i soccorsi ai naufraghi, che venivano poi accolti nei porti italiani, per poter ricevere assistenza umanitaria prevista per le operazioni SAR. Quella dimensione non era di sicuro parte dell’esternalizzazione dei confini, in quanto apriva la porta all’accoglienza in Italia, perché alcuni di quei naufraghi avrebbero richiesto asilo secondo la 123

Convenzione di Ginevra del 1951, ma l’enfasi di quel programma non fu la protezione internazionale ai rifugiati, quanto garantire il soccorso ai natanti a rischio di naufragio. Tuttavia, Mare Nostrum fu utilizzato anche per reprimere il traffico clandestino dei migranti, con l’arresto di trafficanti e il sequestro e la distruzione di un numero elevato di natanti, attività che rientrano nell’esternalizzazione, in quanto condotte in acque internazionali. Anche se Mare Nostrum era un programma italiano e non una iniziativa italo-libica, personale libico fu coinvolto su navi italiane, con intenti addestrativi. Si riattivavano così forme di collaborazione bilaterale per il contenimento dei traffici marittimi avviate in precedenza. In quel contesto il governo concluse due accordi tecnici firmati dal ministro della difesa Mario Mauro ed il suo omologo libico Abdullah Al-Thinn il 28 novembre 2013, sulla stessa tematica di altri analoghi accordi che coinvolgevano le autorità libiche nel contenimento dell’immigrazione irregolare, rinunciando, però, come aveva già fatto il governo Monti, ai respingimenti collettivi.cxxiv

(d) La fase intermedia durante la seconda guerra civile libica L’evoluzione della situazione politica in Libia di quegli anni mise a dura prova qualsiasi accordo bilaterale siglato fino ad allora. Dopo il primo scossone generato dalla rivoluzione del 2011, ed il tentativo di avviare il nuovo stato libico nel 2012, la Libia entrò gradualmente nel 2013 in una fase di tensioni interne sempre più intense, che precipitarono all’inizio del 2014 con lo scoppio della seconda guerra civile libica, in coincidenza con la fine del governo Letta, sostituito dal governo Renzi, il 22 febbraio 2014. Renzi si trovò così di fronte alla mancanza di un interlocutore valido per portare avanti la collaborazione nel settore dell’immigrazione avviata dai governi precedenti. Il secondo conflitto civile durò fino a tutto il 2015 e si estese in molte forme anche dopo, nonostante gli sforzi delle Nazioni Unite e i tentativi di creare un governo di unità nazionale a partire dell’inizio del 2016. Per continuare l’esternalizzazione dei confini italiani in Libia era necessario garantire le seguenti operazioni: • controllare le sue frontiere meridionali, anche con l’aiuto italiano; • rafforzare la capacità delle forze locali di polizia per controllare i flussi migratori, gestire efficientemente i centri di detenzione distribuiti sul territorio nazionale, e condurre operazioni di verifica dello stato migratorio dei singoli detenuti, per l’eventuale rimpatrio o l’avvio (spesso trascurato) delle procedure di richiesta dell’asilo, con l’appoggio tecnico e finanziario italiano; • lottare (con l’appoggio di intelligence dello stato italiano) contro i terroristi che tentavano di infiltrarsi nei centri di detenzione o interferivano con i migranti lungo i loro tragitti dal Sahara; • utilizzare il sostegno italiano per lottare contro la criminalità locale, che era in combutta con il traffico clandestino di migranti o ne gestiva le attività, smantellandone le strutture logistiche nei punti di imbarco e gli eventuali natanti, • rafforzare le forze navali libiche, continuando a contare su forniture dall’Italia di motovedette, attrezzature e addestramento. Ma la situazione caotica in Libia a partire dell’inizio del 2014 impediva di individuare chiare linee di responsabilità nello stato libico per gestire tali attività. Il governo Renzi, e successivamente anche quello Gentiloni ed oggi quello Conte, si sono scontranti con il vuoto nella macchina dello stato libico che è tipico di un “failed state”.cxxv In particolare, il governo Renzi dovette constatare quanto segue: (1) Frammentarismo del fronte politico interno, sin dalla rivolta del 2011, ulteriormente radicalizzato nel biennio 2012-2013, ed in pieno dispiego dal 2014. Molte fazioni politiche si appoggiavano su gruppi armati autonomi, per occupare territori nazionali ma 124

anche esercitare pressioni su gruppi avversari, condizionando il funzionamento di strutture pubbliche. (2) Il coordinamento unitario del processo rivoluzionario del 2011 da parte del CNT,cxxvi affidato dal 2012 al parlamento provvisorio, il Congresso Nazionale Generale, come espressione delle prime elezioni politiche, con un governo ad interim, si sfaldò nel corso della seconda parte del 2012 e del 2013, portando nel 2014 alla creazione di due parlamenti e due governi separati. (3) Una frattura ideologica si era manifestata sin dalle prime elezioni del luglio 2012, che vide, da un lato, formazioni politiche d’ispirazione secolare e liberale (che avevano raggiunto la maggioranza relativa, ed espressero il governo ad interim di Ali Zeidan) e, dall’altro, formazioni islamiste ed indipendenti varie, che riuscirono ad imporre un presidente del Congresso, Nouri Absahmain, considerato inizialmente un indipendente islamico. Ma nei fatti Absahmain risultò una figura controversa, capace di manipolare i lavori parlamentari con intimidazioni esercitate da gruppi armati sotto il suo controllo, agevolando alla fine orientamenti islamisti nella legislazione fino all’accettazione della Sharia come legge dello stato nel dicembre del 2013. Fu Absahamain che favorì la sfiducia al governo Zeidan nel marzo del 2014, accusato di corruzione e di incompetenza, aprendo una profonda crisi istituzionale.cxxvii (4) Alla frattura ideologica corrispose la molteplicità di milizie armate autonome, preponderante rispetto alle forze regolari dell’esercito e della polizia sin dall’inizio del processo rivoluzionario, che continua ancora oggi. Alcuni raggruppamenti erano il residuo dell’esercito libico, i cui membri avevano disertato il regime di Gheddafi, ma per lo più erano milizie con strutture para-militari, a volte con radici tribali, a volte appoggiate da forze jihadiste con contatti con Al Qaeda o altre forme di jihadismo salafita, con appoggi esterni dal Qatar, Sudan e Turchia. In alcuni casi, ricevettero appoggi da potenze occidentali (Francia, Regno Unito, USA). Tra gli ex militari delle forze regolari libiche, spiccano le formazioni che fanno caso al general Haftar, raggruppate come Libian National Army, con sede in Tobruk. 125

Operazione Alba Libica Per boicottare il processo elettorale del 2014, gli islamisti usarono pressioni fisiche (inclusi arresti ed evacuazioni forzate) mobilitando l’uso di milizie armate, attraverso una campagna para-militare nota come “Operazione Alba Libica” (“Operation Libya Dawn”). L’obiettivo degli islamisti era evitare il fiasco elettorale del 2012 (che aveva dato la maggioranza relativa alle forze secolari e liberali), sperando che, boicottando il processo, di mantenere il controllo delle istituzioni pubbliche libiche, dando un orientamento islamista all’intero funzionamento del nuovo stato libico. Alla “Operazione Alba Libica” parteciparono anche il “Libyan Islamic Fighting Group”, legato ad Al Qaeda, così come formazioni jihadiste denominate “Scudo Libico” (“Libya Shield”), nonché membri della “Libya Revolutionaries Operations Room” (LROR), controllata dal presidente del Congresso Absahmain. Lo “Scudo Libico” era articolato su base regionale. In Cirenaica (regione orientale della Libia), includeva formazioni come Ansar al-Sharia, gruppo che rappresentava la componente principale del “Consiglio Shura dei Rivoluzionari di Bengasi”, cui aderivano altri gruppi jihadisti come la “Brigata dei Martiri del 17 Febbraio” e la “Brigata Rafallah Al Sahati”, contro i quali per anni condusse una lotta senza interruzione il fronte che faceva capo al generale Haftar, con la sua “Operation Dignity”. Nella Libia centrale, lo “Scudo Libico” operò nella zona di Tripoli, e svolse un ruolo importante nell’occupazione dell’aeroporto internazionale di Tripoli nel 2014, con le milizie del distretto di Misurata (la “Brigata di Misurata”), e altri gruppi islamici legati al partito JCP (Giustizia e Costruzione), espressione libica della Fratellanza Musulmana, e milizie legate all’LROR del Presidente del CNG Abusahmain. Molti di quei gruppi jihadisti includevano ex combattenti di Al Qaeda in Afganistan, aderenti al “Libyan Islamic Fighting Group”. Il ramo occidentale dello “Scudo Libico” operava a sud e ad ovest di Tripoli, con milizie Tuareg di Ghat, che controllano il sud-ovest del paese, milizie della tribù di Zawia e di Zuwara (che controllano la costa nord-occidentale) e quelle delle montagne di Nafusa, spesso in contrasto con i gruppi di Zintan, alleati con il generale Haftar, che ha invece sede a Tobruk. L’alleanza delle milizie di Zawia con “Alba Libica”, tuttavia, non è sempre stata confermata, tanto che una loro unità, nel giugno del 2014, partecipò ad operazioni militari condotte dal generale Haftar. Inoltre, le milizie di Zawia sono piucché altro opposte a quelle di Warshefana, con cui hanno rivalità con radici ben antiche di natura tribale che poco hanno a che vedere con dissensi politici o a diverse visioni dei princìpi islamici. È importante ricordare tutte queste formazioni, in quanto l’attuale di Sarraj è simultaneamente sostenuto e opposto da molte di queste formazioni armate. Questo spiega la sua fondamentale debolezza sia militare che politica.

(5) Alla moltiplicazione di fazioni opposte si aggiunge la tradizionale natura tribale della società libica.cxxviii Si contano venti maggiori gruppi tribali in Libia, che, con i raggruppamenti minori, arrivano a più di 300 gruppi tribali, alcuni con forte componente berbera e profonde differenze linguistiche.cxxix Le affiliazioni tribali non seguono un sistema rigido di alleanze, con spostamenti frequenti di alcuni membri di una tribù da una sponda all’altra.cxxx (6) La spaccatura del paese obbligò migliaia di persone ad abbandonare le proprie case, specialmente nella Tripolitania, trasformandosi in sfollati e senza-tetto, e molti di essi lasciarono il paese, aggiungendosi ai flussi di migranti provenienti dall’Africa sub- sahariana o da altri paesi nord-africani o dal medio-oriente. Nel 2015, mezzo milione di 126

persone attraversarono il Mediterraneo dalla Libia e 76.000 tra di loro chiesero asilo come rifugiati. (7) A questo caos, si aggiunga l’influenza del jihadismo radicale, che ha contribuito moltissimo alla destabilizzazione del paese. Questa influenza subì un cambiamento radicale con l’arrivo dell’ISIS nel 2014 (v. riquadro su questo tema) e la formazione del Consiglio Consultivo dei Giovani Islamici (MSSI), che avviò la conquista di Derna in Cirenaica, prima di occupare la città di Sirte. Come era possibile per il governo Renzi, nel periodo dal 2014 al 2016 dialogare con lo stato libico in una situazione così instabile per assicurarsi l’appoggio al contenimento dell’immigrazione irregolare? Avrebbe dovuto dialogare con il Governo di Salvezza Nazionale espresso dal vecchio Congresso Nazionale Generale o, meglio, da ciò che ne era rimasto? Quel governo controllava Tripoli, vaste zone della Il caos istituzionale del 2014 Tripolitania e del Fezzan, e nonché varie zone della Tutte queste fratture ostacolarono la transizione Cirenaica interna e aveva ereditato le strutture fisiche istitutionale del 2014, che avrebbe dovuto del governo Zeidan, ma non il suo orientamento produrre nuove elezioni, un nuovo parlamento e un nuovo governo. Gli islamisti forzarono i politico, visto che, espressione di raggruppamenti processi legislativi alla fine del 2013 con islamisti, non era stato legittimato da nessuna orientamenti jihadisti, pur non avendo la consultazione elettorale, ma era sostenuto da molti maggioranza del Congresso,1e ostacolarono lo scioglimento del Congresso nel 2014,1 creando gruppi armati e milizie che avevano favorito una crisi istituzionale.1 Nonostante intimidazioni l’estromissione della Camera dei Rappresentanti. esterne e ostracismi interni, il Congresso riuscì1a Oppure avrebbe dovuto il governo Renzi cercare un varare nuove elezioni per la metà del 2014,1 accordo con il nuovo governo nominato dalla Camera contestate dagli islamisti. L’interferenza di gruppi armati permise la continuità (solo dei Rappresentanti, trasferito a Tobruk, erede politico apparente) del decaduto Congresso anche dopo del precedente Congresso a struttura multipartitica? le elezioni del 2014, che dovuto passare il suo Quel governo era espressione di forze politiche mandato alla nuova Camera dei Rappresentanti. secolari o islamiste moderate (cioè di quella Ma il Congresso rimase in vita solo con la partecipazione degli islamisti, senza consenso maggioranza relativa che aveva vinto le elezioni del elettorale, e creò un Governo di Salvezza 2012) ed era espressione, in qualche modo, delle Nazionale, che non riconobbe il nuovo elezioni del 2014 della nuova Camera (boicottate da parlamento. Invano la Camera dei molti partiti islamici). O avrebbe dovuto il governo Rappresentanti cercò di riunirsi a Tripoli, e finalmente si rifugiò a settembre 2014 a Tobruk, Renzi, più pragmaticamente, dialogare direttamente sotto la protezione del general Haftar, con l’uomo “forte” di Tobruk, il generale Haftar, esprimendo un governo alternativo.1 Nel protettore della Camera dei Rappresentanti? Da settembre del 2014, con due parlamenti e due Tobruk, e con l’appoggio esterno della Francia e della governi, rispettivamente a Tripoli e a Tobruk, comincia una inevitabile paralisi del processo di Federazione Russa, ma anche con buoni rapporti con cxxxi sviluppo della Libia, con frequenti scontri armati gli americani, e l’appoggio regionale degli Emirati tra le varie fazioni, mentre la duplicazione della Arabi Uniti e dell’Egitto, Haftar controllava solo la macchina parlamentare corrispose ad un caos Cirenaica mediterranea, o per lo meno una parte di istituzionale, amministrativo e legislativo. quella regione, che in parte era contesa a formazioni jihadiste. Queste ultime, a loro volta, occupavano molti centri urbani della Cirenaica, con formazioni che erano per lo più autonome anche da Tripoli, e contro le quali Haftar aveva sferrato una campagna militare indiscriminata. Il problema del governo italiano, come dell’Unione Europea, era di stabilire un rapporto con un governo capace di parlare a nome dell’intero paese, e non ce n’era allora. Sicuramente i nostri governanti si ponevano i seguenti dubbi: • Chi controllava la guardia costiera libica, visto che i porti libici erano in mano di poteri diversi? • Chi gestiva i centri di detenzione per immigranti ubicati in diverse parti del territorio libico? 127

• Chi controllava i rispettivi servizi di sicurezza in ciascun centro di detenzione? • Chi gestiva l’ordine pubblico nei centri urbani ove questi centri si trovavano? • Chi controllava i flussi di migranti dal sud del paese, tradizionalmente controllo tribale? • Come attuare misure di sicurezza in un paese lo stato di diritto non ha più senso? 128

La presenza dell’ISIS in Libia L’infiltrazione del Consiglio Consultivo dei Giovani Islamici (Majlis Shrura Shabab al- Islam, MSSI) a Derna in Cirenaica (aprile 2014) cambiò la presenza jihadista in Libia, fino ad allora dominata da Al Qaeda. L’MSSI, espressione libica dell’ISIS, perseguì il controllo totale dei territori occupati, esercitando un potere politico, militare ed economico onnicomprensivo, con elementi provenienti dalla Siria. Quando Derna fu dichiarata parte del “califfato” di Baghdad (ottobre 2014), si temette che la sua penetrazione si sarebbe estesa rapidamente a macchia d’olio su altri territori, grazie alla sua determinatezza, prendendo il sopravvento su altri movimenti salafisti, ed in particolare su Al Qaeda. Dopo i primi attacchi all’inizio del 2015, l’ISIS sferrò un attacco a Sirte in febbraio. Decapitazioni di copti egiziani portarono a una reazione immediata dello stato egiziano che appoggiò Haftar, con incursioni aeree a Derna, seguite da rappresaglie dell’ISIS a Gubba. L’ISIS si concentrò su Sirte, dove partì, tra maggio e giugno del 2015, un’offensiva contro le milizie di Misurata (fedeli al Governo di Salvezza Nazionale di Tripoli), con pressioni sulla stessa città di Misurata, mentre intensificava la repressione di gruppi salafiti e rafforzava i suoi legami con l’ISIS della Siria. L’ISIS si rinforzò anche con defezioni di alcuni militanti di Ansar Al Sharia (legati ad Al Qaeda), consolidando il possesso di Sirte. Ma i guadagni a Sirte vennero in parte annullati dalla perdita di Derna, ove altri gruppi jihadisti erano riusciti ad estromette le forze del “califfato”, considerato estraneo al tessuto locale.cxxxiiA novembre, un attaccò aereo americano a Derna permise l’uccisione di Abu Nabil al Anbari, rappresentante dell’ISIS in Libia. Nel corso del 2016, l’ISIS condusse un’offensiva simbolica per consolidare la sua presenza a Sirte. A gennaio tentò di controllare i porti petrolieri di Bin Jawad ma fu respinta, pur moltiplicando altri attacchi.cxxxiii L’Esercito Nazionale Libico di Haftar guidò la reazione contro l’ISIS a febbraio 2016, liberando Agedabia (contesa tra ISIS e gruppi legati ad Al Qaeda). Nella prima metà del 2016, membri dell’MSSI espulsi da Derna nel giugno 2015 si aggiunsero ai combattenti a Sirte, mentre Haftar continuò la sua lotta attorno a Derna. Scontri presso Sirte coinvolsero le milizie di Misurata, che nel frattempo si erano schierate con il GNA di Serraj. In aprile 2016, Serraj riunì le forze disponibili nel paese sotto un comando unificato per sferrare un attacco per la riconquista di Sirte. A maggio, l’ISIS anticipò questa offensiva attaccando Abu Grein e vari territori in Tripolitania, con l’Operazione “Muro Impenetrabile”, con scontri intensi ad Assdada, a 80 km da Misurata. Ma le forze armate del GNA ebbero il sopravvento, ricatturando Abu Grein e l’aeroporto di Al Ghadabiya a sud di Sirte, e recuperando il controllo di territori attorno a Sirte. Seguirono una serie continua di scontri, con alterni risultati. A fine maggio ci fu l’assedio finale a Sirte (noto come la Battaglia di Sirte), completato in agosto, con l’assistenza aerea americana, con gruppi armati del GNA che si contesero il terreno quartiere per quartiere, con scontri violenti che causarono molte vittime.cxxxiv Allo stesso tempo, la guardia delle installazioni petrolifere PFG (inizialmente alleata del generale Haftar, ma a partire dal 2016 legata al GNA) riprese il controllo di Ben Giauad e di Nofaliya. In poche settimane, l’offensiva dell’ISIS cominciò a perdere terreno, grazie alla debolezza numerica dei suoi combattenti, allo scarso radicamento nel territorio e nel tessuto sociale, e alla carenza di risorse finanziarie, mentre il GNA poté contare anche sull’appoggio delle forze speciali americane e britanniche. Nel frattempo, il generale Haftar continuò la sua battaglia di Bengasi, scontrandosi a giugno contro un nuovo gruppo, chiamato Brigate di Difesa di Bengasi, con la partecipazione di forze speciali francesi, e bombardamenti francesi presso Bengasi.cxxxv La completa liberazione di Sirte venne dichiarata dal GNA il 6 dicembre 2016. La lotta contro l’ISIS continuò anche dopo. Aerei americani colpirono un suo centro di addestramento nel gennaio 2017. Ma combattenti del “califfato” rimasero attivi nel paese, dispersi nel territorio libico, senza però controllare più alcuna città. Tra i più 129

recenti attacchi terroristici, citiamo l’attentato suicida del maggio del 2018 contro la commissione elettorale di Tripoli e quello del settembre del 2018 contro la National Oil Corporation.

Di fronte a questo scenario, il governo Renzi inizialmente adottò un approccio attendista, collaborando con l’Unione Europea e le Nazioni Unite per un dialogo tra i due parlamenti di Tripoli e di Tobruk per una auspicata unità nazionale, in attesa che maturassero le condizioni per riavviare un dialogo interrotto. Alla fine del 2015 si vide uno spiraglio,cxxxvi con la conclusione di accordo a Skhrat (Marocco), firmato il 17 dicembre del 2015 da rappresentanti dei due parlamenti (senza però alcuna delega da parte dei due organi legislativi concorrenti): quell’intesa, chiamata Accordo Politico Libico o Libyan Political Agreement (LPA) o Accordo di Skhrat, prevedeva la costituzione di un Consiglio Presidenziale (PC), con Fayez Mustafa Serraj nominato capo del PC, ed un Governo di Riconciliazione Nazionale (Government of National Accord, GNA) ad interim, guidato dallo stesso Serraj, in attesa di nuove elezioni da indire entro due anni (ma ancora si stanno negoziando la data).cxxxvii L’accordo non fu immediatamente ratificato dalle due assemblee parlamentari contendenti, a causa dell’opposizione dei rispettivi presidenti.cxxxviii La comunità internazionale (compresa l’Italia e l’Unione Europea) si apprestò, invece, a riconoscere il GNA con una decisione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 23 dicembre, richiedendo che il nuovo governo libico prendesse sede a Tripoli (i suoi membri ancora stavano in Tunisia).cxxxix La formazione del GNA fu annunciata da Sarraj il 19 gennaio del 2016, quando ancora stava in Tunisia. Finalmente il momento era forse venuto per riavviare tra Libia e Italia l’alleanza per il controllo dell’immigrazione, ma i tempi richiesti furono lunghi. Nonostante il sostegno internazionale a favore di Serraj, la percezione diffusa in Libia è che il GNA sia espressione solo degli interessi europei e delle pressioni delle Nazioni Unite, e sia stato creato con compromessi che non risolvono fondamentali contraddizioni della situazione libica. Queste critiche non hanno fatto desistere né il governo italiano né l’Unione Europea dal loro appoggio al GNA, ma la Camera dei Rappresentanti di Tobruk, pur sottoscrivendo alla fine l’LPA, rifiutò il 25 gennaio di concedere la fiducia al nuovo governo, non volendo affidargli il potere di rimuovere i vertici dell’Esercito Nazionale Libico. Si pensò (e molti ancora lo pensano) che il confronto fosse tutto nella diatriba tra il generale Haftar, il grande oppositore militare all’avanzata dei gruppi islamisti in Cirenaica, e Sarraj, espressione della diplomazia onusiana di un governo suppostamente di unità nazionale, che ancora non aveva guadagnato alcun merito per rappresentare il paese. Ma le fratture non erano solo tra Serraj e Haftar. Il 30 marzo del 2016, quando il GNA si insediò formalmente a Tripoli, con l’arrivo dei suoi membri dalla Tunisia via mare, non tutto ciò che apparteneva al vecchio Congresso era scomparso. il Governo di Salvezza Nazionale (espresso dallo sciolto Congresso) non accettò il GNA. Il suo primo ministro Khalifa Al Ghawil inizialmente fuggì a Misurata, cominciando un lungo braccio di ferro con le forze fedeli a Sarraj.cxl Il 1 aprile 2016, il capo ufficio stampa di quel governo annunciò che quel gabinetto aveva presentato le dimissioni al Congresso (ma il Congresso non era più funzionante). Successivamente anche il comandante militare di quel governo ed il presidente del Congresso fuggirono da Tripoli. Le fratture ideologiche del paese non sono mai state chiaramente armonizzate nell’accordo LPA che ha generato il GNA, e stanno ancora alla base della divisione tra Tripoli e Tobruk. Anche se l’ISIS non controlla più nessun centro urbano rilevante, la sua presenza in Libia non è scomparsa e gruppi jihadisti di segno diverso, nonostante la vittoria di Haftar nella battaglia di Bengasi, ancora sono molto attivi nel paese, con alleanze complesse. Alcuni gruppi tribali non si sono mai sentiti coinvolti nel processo di rappacificazione e rifiutano di accettare Serraj come il premier nazionale. Non è chiaro fino a che punto le adesioni di milizie semi-autonome a sostegno del GNA siano definitive o solo temporanee, o parziali. Tentativi diplomatici di riconciliazione tra Tobruk e Tripoli hanno avuto alterni risultati, e l’incertezza 130 perdura a tutt’oggi, anche se il GNA ha guadagnato il sostegno di un crescente numero di entità, compresi i sindaci di molte città della Tripolitania inizialmente fedeli al Congresso.cxli Però, nel corso del 2016 e del 2017, il confronto tra Tobruk e il GNA ha continuato a volte con toni elevati, sul piano politico, militare, ma anche economico, vista la distruzione delle risorse energetiche nel paese. Nel 2016 il governo Renzi e l’Unione Europea fecero molti sforzi per ricostruire i rapporti di collaborazione sul controllo dell’immigrazione con il GNA nei termini stabiliti con i governi anteriori, mentre nel frattempo veniva concluso l’accordo euro-turco. Ma ciò richiese un intero anno. (e) L’accordo del 2017 con il governo Gentiloni Un’intesa bilaterale con l’Italia fu finalmente raggiunta il 2 febbraio 2017, dopo più di un anno di preparativi, dal governo di Paolo Gentiloni, che nel frattempo era subentrato a Matteo Renzi (decaduto nel dicembre 2016), ed un Memorandum fu firmato da Gentiloni e da Serraj, con la stessa copertura tematica e lo stesso approccio degli accordi precedenti. Il neo ministro dell’interno Minniti sintetizzò le tre direzioni principali di quell’intesa in una dichiarazione rilasciata a Tripoli prima dell’accordo: (1) stabilizzazione della Libia; (2) contrasto al traffico di “esseri umani”; e (3) cooperazione contro il terrorismo. Quell’accordocxlii voleva dare una risposta ai “problemi derivanti dai continui ed elevati flussi di migranti clandestini”, tentando nuove forme di dialogo non solo con interlocutori istituzionali nazionali ma anche con capi tribali, poteri locali e sindaci di città da cui partono imbarcazioni dirette verso l’Italia, strutture imprenditoriali (come la compagnia petrolifera libica) e parti politiche avverse. L’accordo non aveva la forma solenne del Trattato di Amicizia del 2008. Si trattava di un Memorandum d'Intesa, composto di soli otto articoli, riguardanti la cooperazione dello sviluppo, il contrasto all'immigrazione illegale, il traffico di esseri umani, il contrabbando e il rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo stato libica e la repubblica italiana. Oltre a ribadire intenti generali e princìpi già inseriti nel Trattato di Amicizia, il Memorandum fece esplicito riferimento all’art.19 di quel Trattato, cercando di assicurare l’attuazione degli accordi raggiunti con i precedenti governi libici, includendo il Trattato di Amicizia del 2008, la Dichiarazione di Tripoli del 21 gennaio 2012 e altri accordi successivi. L’accordo venne presentato in Italia come strumento per migliorare la sicurezza del nostro paese, sottolineando il valore dell’intensificazione dei controlli delle frontiere meridionali della Libia per evitare l’infiltrazione di foreign fighters, terroristi che avrebbero potuto percorrere gli stessi sentieri seguiti dai migranti provenienti dalle rotte sahariane. In questo modo, il Memorandum trattava il traffico di migranti irregolari e le infiltrazioni terroristiche come se fossero temi attigui o complementari. In tal modo rafforzava l’immagine negativa dei flussi migratori, anche se le radici del jihadismo in Libia non vanno cercate nei processi migratori, essendo fortemente radicate nei movimenti armati che hanno lottato nella prima e nella seconda guerra civile, con un’interazione tra milizie libiche e jihadisti di vario orientamento. Ma è tradizione degli accordi italo-libici mescolare terrorismo con il traffico di immigranti. Inutile dubitare, gli orientamenti del Memorandum furono sottoscritti in pieno dal Consiglio Europeo con la “Dichiarazione di Malta” emessa il giorno dopo (il 3 febbraio dello stesso anno). Nell’accordo del 2017 centrale era il sostegno tecnico e tecnologico italiano alle istituzioni di sicurezza e militari libiche incaricate della lotta contro l'immigrazione clandestina, , ed in particolare: (1) la guardia di frontiera; (2) la guardia costiera del ministero della difesa; e (3) settori del ministero dell'interno. L’intesa anticipava forniture di ingenti mezzi, compresi motovedette, droni e radar per i controlli delle partenze dalle coste libiche. L’appoggio della marina militare italiana alla guardia costiera libica era centrale, pur se controverso,cxliii visto che 131 la Libia non dispone di un suo MRCC per il controllo delle operazioni SAR, ma dipende dall’MRCC di Roma, dando luogo a probabili incidenti nel caso di interventi SAR che riportino i naufraghi in Libia. L’accordo, inoltre, prevedeva misure nelle seguenti aree: • Completamento del sistema di controllo dei confini della Libia meridionale. • Predisposizione di campi di accoglienza temporanei sotto il controllo del ministero dell’interno libico, in attesa del rimpatrio o rientro volontario, e appoggio finanziario ai centri di detenzione, con fondi sia italiani che europei, includendo forniture di medicinali e di attrezzature mediche, per assistere i migranti irregolari sia per le emergenze sanitarie che per le eventuali infermità legate a malattie trasmissibili e gravi, e attività di addestramento per il personale libico per rendere più umane le condizioni di accoglienza. • Sostegno alle organizzazioni internazionali presenti in Libia (principalmente UNHCR e IMO) per favorire il rimpatrio dei migranti nei propri paesi d'origine, compreso il rientro volontario. • Iniziative per favorire la job creation nelle zone della Libia ove l’immigrazione irregolare è vista come una minaccia per la manodopera locale.cxliv Queste ultime iniziative sono anche viste in combinazione con il sostegno a programmi volti a migliorare tenore di vita e condizioni sanitarie, contribuendo alla riduzione della povertà e della disoccupazione nelle regioni colpite dal fenomeno dell'immigrazione, nell’ambito della cooperazione euro-africana, attraverso progetti strategici di sviluppo, rilanciando la cooperazione con i paesi africani che si trovano lungo gli itinerari seguiti dai migranti attraverso l’uso del “Fondo per l’Africa” e con i paesi di origine dei migranti, auspicando la sottoscrizioni di accordi di questi ultimi per favorire i rimpatri. 132

Chi c’è dietro Fayez Mustafa Serraj? Una delle questioni che spesso emergono parlando della debolezza del governo libico di Serraj riguarda le forze di sicurezza e militari su cui può contare. La questione ha serie implicazioni per la collaborazione italo-libica sull’immigrazione. Mentre il generale Haftar ha sempre potuto contare sull’appoggio di truppe regolari dell’Esercito Nazionale Libico a Tobruk, e sull’alleanza di qualche gruppo tribale, con le quali, e con sostanziale sostegno di potenze internazionali e regionali, ha condotto la sua “Operation Dignity”, su chi può contare Fayez Mustafa Serraj? Non ha di certo vinto nessuna guerra civile, né ha comandato alcuna milizia armata, né è espressione di un referendum popolare o di elezioni politiche. È stato messo in quella posizione dal rappresentante speciale delle Nazioni Unite, con grande sostegno della comunità internazionale, come uomo che avrebbe unificato il paese. Ma dopo aver preso possesso della sua sede a Tripoli, su quali forze militari ha potuto contare finora? Quali milizie ha usato per combattere contro l’ISIS per la riconquista di Sirte? Con quali gruppi armati ha potuto scontrarsi contro Haftar? Con quali uomini controlla la stessa città di Tripoli? Quali sono le sue forze di sicurezza e il suo esercito? Non è facile dare una risposta, senza guardare a quelle forze che in precedenza erano controllate dal Governo di Sicurezza Nazionale, che non è mai entrato in negoziazione per raggiungere l’accordo LPA del dicembre 2015. Provengono le sue forze di sicurezza e militari da quell’insieme di forze militari, poliziesche e para-militari che hanno sostenuto il potere del Governo di Sicurezza Nazionale durante la seconda guerra civile del 2014-2015? E sono quelle le stesse forze che si opposero alle elezioni politiche del 2014, e contrastarono la formazione della Camera dei Rappresentanti, obbligandola a trasferirsi a Tobruk? Stiamo parlando delle milizie che si erano messe insieme per lanciare l’Alba Libica e le milizie della LROR del passato presidente del Congresso Nazionale Generale, che avevano minacciato il Congresso affinché assecondasse le richieste islamiste di introdurre la Sharia come legge nazionale, che avevano occupato le sale del Congresso perché evitasse di portare a compimento la nomina di un governo provvisorio in sostituzione del dimissionario Zeidan nella primavera del 2014, o avevano cercato di bloccare l’avvio del processo elettorale nel mese di maggio del 2014, elezioni che alla fine si fecero nell’estate di quell’anno? Sono le stesse forze che minacciarono fisicamente gli eletti della nuova Camera dei Rappresentanti o i suoi simpatizzanti nell’agosto del 2014, che furono costretti ad abbandonare Tripoli? Quelle milizie avevano appoggiato a suo tempo il Governo di Salvezza Nazionale. Cosa avvenne a quelle forze, dopo lo scioglimento del Governo di Salvezza Nazionale? Come mai la brigata di Misurata, che aveva svolto un ruolo tanto importante tra quelle forze, e che era stata guidata da capi di tendenza islamista, oggi si trova ad appoggiare il presidente Sarraj, mentre continua ad esercitare un certo controllo autonomo sulla parte occidentale del paese e sulla stessa capitale? Come mai le brigate di Zintan, che erano alleate ad Haftar, sono ora annoverate tra i sostenitori del GNA? Fino a che punto le milizie berbere dei Tebu e Amazigh e quelle dei Tuareg, sono fedeli alleati del GNA? Come mai il Qatar, che aveva in precedenza appoggiato milizie jihadiste, alcune legate ad Al Qaeda, è stato tra i primi paesi ad esprimere il suo appoggio al GNA? Quali forze ha usato il GNA per ridurre sostanzialmente l’influenza dell’ISIS nel paese, vincendo la battaglia di Sirte? In che misura riuscirà il GNA a controllare la presenza di forze jihadiste e la loro ben radicata integrazione con molte milizie armate autonome, che avevano appoggiato in precedenza il Governo di Salvezza Nazionale? La diatriba attuale non è tra riconoscere il governo di Sarraj o il potere di Tobruk e del suo uomo forte Haftar. Il problema è di sapere anche cosa ci sia dietro il GNA. È Serraj libero di portare avanti un processo di unificazione nazionale senza dover scendere a compromessi con le fazioni che sono state finora dietro la destabilizzazione del 133

paese? O sarà Serraj costretto a subire l’influenza di altri “poteri” nascosti, che si esprimono attraverso queste milizie? La sfida non sta nell’impressionare avversari interni o la comunità internazionale, ma nel capire quanto solida sia la linea politica del governo di Serraj, la sua autonomia rispetto a interessi di parte, o sia solo una copertura di pressioni di gruppi antagonisti. Alcuni osservano che Serraj, nonostante sia persona di orientamento politico secolare, sia stato costretto a richiedere il sostegno delle forze politiche che fanno capo alla Fratellanza Musulmanacxlv e che hanno il controllo di molte milizie armate, e ciò in parte è dovuto alla mancanza di un accordo con Haftar, che è il grande oppositore del jihadismo libico. Effettivamente Serraj sta facendo molti sforzi per costruire il paese e dotarlo di una struttura militare centrale, ma per il momento ancora dipende fortemente da formazioni armate che erano e sono semi-autonome, ereditate dal precedente potere tripolino gestito dal Congresso Nazionale Generale. Le tensioni tra formazioni militari che si ritengono parte integrante del potere centrale del GNA e queste formazioni armate semi-autonome continuano ancor oggi, rappresentando una minaccia continua all’efficacia dell’azione del governo, che non può contare per il momento su di un vero esercito e polizia nazionali, ma è costretto a richiedere di volta in volta l’appoggio ora di gruppo ora di un altro, sperando sempre di riuscire a formare una coalizione di milizie sufficiente a dare l’impressione di un’unità nazionale. È una sfida notevole, che non nasconde le debolezze intrinseche del paese, specialmente per quanto riguarda il suo sistema di sicurezza nazionale e la gestione dell’ordine pubblico.

C’è chi interpreta il Memorandum d’Intesa come un accordo “contro i più deboli”, mancando alcun riferimento al diritto di asilo. Nessuna menzione è fatta della necessità di garantire i migranti che ne facciano richiesta la possibilità di presentare domanda di asilo come rifugiati, né del fatto che questi migranti spesso fuggono da guerre, persecuzioni, torture e condizioni particolarmente violente, perdendo famiglia, casa, qualsiasi possedimento, senza la possibilità di tornar indietro, e hanno diritto a una protezione internazionale. Vi è solo un generico riferimento, nell’art. 5, all’impegno dei due paesi ad interpretare e applicare l’accordo “nel rispetto degli obblighi internazionali e degli accordi sui diritti umani di cui i due Paesi siano parte”,cxlvi passando in silenzio il fatto che lo stato libico non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Né si coglie l’occasione dell’accordo per ribadire il mandato fondamentale dell’UNHCR per la protezione dei diritti dei rifugiati e l’urgenza di valorizzarne il ruolo in Libia. I potenziali rifugiati sono trattati solo come immigranti illegali, sottoposti al rischio di arresto come dei criminali, trattenuti nei centri di detenzione, che rischiano l’espulsione forzata, indipendentemente da quanto previsto dal diritto internazionale o europeo.cxlvii Sostanzialmente, il Memorandum non introduce particolari novità rispetto agli accordi anteriori, cui garantisce una rinnovata legalità, ma ne ribadisce gli approcci. Le sue ambizioni sono modeste, e sono stati proprio questi obiettivi limitati che hanno fatto dell’accordo un’occasione mancata. Il governo italiano e l’Unione Europea danno un significato più roseo a quest’intesa di quanto da me suggerito, interpretandolo come strumento per garantire la protezione di coloro che rischiano la propria vita nei fondali del Mediterraneo,cxlviii anche se dietro questi intendimenti c’è una dura politica di respingimenti in Libia. Di certo, coerentemente con l’accordo Gentiloni- Sarraj, nel corso del 2017 i guardiacoste libici hanno intercettato circa 20.000 migranti mentre traversavano il Mediterraneo, riportandoli nei porti libici e trasferendoli nei centri di detenzione.

(f) Il piano sull’immigrazione del 2017 ed il decreto Minniti Per il ministro Marco Minniti, gli obiettivi del Memorandum italo-libico del 2017 sono coerenti con una politica migratoria fondata su “tre capisaldi”: (1) “la gestione dei flussi migratori si affronta in Africa e in Libia”; 134

(2) la politica di un’accoglienza diffusa in Italia; e (3) l'integrazione dei profughi e degli immigranti.cxlix Ed è proprio sul primo di questi capisaldi che, secondo il ministro dell’interno del governo Gentiloni, la cooperazione con le autorità libiche si dovrebbe fondare, permettendo un nuovo modello di gestione del fenomeno dei rifugiati, utilizzando personale dell’UNHCR per selezionare in Libia chi abbia diritto alla protezione internazionale come rifugiato, riducendo così il numero di profughi che cerchino di arrivare in Italia, permettendo agli stessi di arrivare in Italia con tutte le garanzie del loro stato di rifugiati già ufficialmente confermato, anziché entrare in Italia senza tale stato per richiedere asilo dopo il loro arrivo. Questo ragionamento è perfettamente in linea con l’esternalizzazione delle frontiere, seguendo lo stesso approccio dell’accordo euro-turno, con l’obiettivo primario di ridurre il flusso di immigranti irregolari, ma ignora che la permanenza in Libia costringe queste persone a condizioni particolarmente disagiate, se non a trattamenti disumani, specialmente nei centri di detenzione, su cui Minniti sorvola. L’accordo bilaterale del 2017 è in sintonia con il piano sull’immigrazione e sull’asilo annunciato a febbraio 2017 da Gentiloni alle commissioni parlamentari riunite (della Camera e del Senato) per gli affari costituzionali. Quel piano includeva sostanzialmente: 1) Una linea dura in materia di rimpatri forzati, andando al di là dell’accompagnamento alla frontiera con il foglio di via, ma inserendo accordi con i paesi d’origine e di transito dei migranti. 2) Ampliazione della capacità dei centri di detenzione amministrativa in Italia, da 400 a 1600 posti, proponendo la creazione di nuovi centri, uno per ogni regione, da aggiungere ai Centri di Identificazione ed Espulsione (CEI) della Bossi-Fini. I nuovi centri, di dimensione limitata (non più di cento immigranti per centro), denominati Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), sarebbero sorti lontano dai centri storici, vicino agli aeroporti, per facilitare i rimpatri.cl 3) Accelerazione dei tempi con concedere l’asilo, modificando le procedure per ricorsi, eliminando il grado di appello, ma riducendo le garanzie per chi ha diritto a tale protezione. Pur essendo previsto un solo grado di giudizio sulla richiesta di asilo, è possibile il ricorso alla Cassazione. 4) Istituzione di magistrati esperti in materia di immigrazione nei tribunali con corti d’appello, con 26 sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, con competenze su tematiche come diritto di soggiorno, protezione internazionale e quella umanitaria, e ricongiungimenti familiari. 5) Inserimento di “lavori di pubblica utilità, finanziati con fondi europei” per migranti in attesa di risposta alle domande di asilo o eventuali ricorsi. Si tratta di “lavoro non retribuito” (un mero “volontariato”) per evitare concorrenza con il mercato nazionale del lavoro. 6) Aumento dei fondi destinati a favorire il rimpatrio volontario assistito (RVA). 7) Migliorare la qualità dell’accoglienza in Italia, attraverso sistemi diffusi e integrati, con il coinvolgimento di enti locali in appoggio alla rete del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) (su questo tema mi soffermerò nella Parte VI di questo saggio). 8) Maggiore trasparenza del sistema di assegnazione della gestione dei servizi per centri destinati agli immigranti in Italia, per superare forme di sfruttamento e corruzione. 135

Questa linea politica ha tentato di declinare insieme rigore e solidarietà, un ibrido tra un’accoglienza “realistica” degli immigranti, permessa (secondo Minniti) dalla riduzione numerica dei flussi migratori e dal rafforzamento delle misure di contenimento dell’immigrazione irregolare. Per questo il piano è coerente con l’accordo Gentiloni-Serraj, ma non è ispirata da visioni xenofobe quanto da una logica di “realismo” per cui l’accoglienza migliorata richiede una riduzione dei flussi in entrata di immigranti. Questo spiega come Minniti, mentre appoggiava accordi bilaterali per l’esternalizzazione dei confini italiani in Libia, necessari per ridurre i flussi migratori, favoriva allo stesso tempo misure per migliorare l’accoglienza, come lo SPRAR, e l’integrazione degli immigranti in Italia nel contesto sociale del nostro paese, includendo il lancio di Corridoi umanitari protetti.cli Molti aspetti di questa politica migratoria si tradussero in un decreto legge (n. 13 del 17 febbraio 2017) proposto dallo stesso ministro dell’interno, convertito nella legge 46 del 13 aprile del 2017 su “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”. (g) Critiche ai recenti accordi bilaterali italo-libici Due osservazioni critiche furono sollevate, sul piano formale, sulla validità dell’intesa bilaterale raggiunta nel febbraio 2017 tra Libia e Italia. La prima venne dal Tribunale amministrativo di Tripoliclii che, dopo la firma dell’accordo, si espresse in senso negativo circa la validità del Memorandum del 2017, facendo seguito ad un ricorso presentato dall’ex ministro della giustizia (oltre ad altri firmatari) perché il GNA non sarebbe legittimato a sottoscrivere accordi internazionali per conto dello stato libico, non avendo il controllo del territorio nazionale e non avendo ancora ricevuto il riconoscimento formale dalle entità che avrebbero dovuto firmare l’accordo LPA del dicembre 2015, e cioè dal Congresso Nazionale Generale e dalla Camera dei Rappresentanti. Il verdetto del Tribunale di Tripoli interruppe in via provvisoria gli effetti del Memorandum, ma fu successivamente annullato dalla Corte Suprema Libica nell’agosto del 2017. Obiezioni sono state sollevate anche da alcune fazioni interne alla Libia, che non si sono sentite rappresentate durante le negoziazioni per l’accordo di pace LPA del 2015, come l’Assemblea Nazionale dei Tebu, che ha rifiutato di accettare l’avallo dato da altre tribù riunite a Roma per sostenere il Memorandum, ritenendo ciò una intrusione italiana negli affari interni del paese. Sempre sul piano giuridico formale, ma dal punto di vista italiano, il Memorandum non avrebbe seguito una procedura legittima,cliii perché è stato concluso senza ratifica parlamentare,cliv ignorando che il suo contenuto politico (lo equivale ad un trattato internazionale) e le sue implicazioni erariali per lo stato italianoclv avrebbero richiesto convalida parlamentare. Altra obiezione legale è la mancata tutela dell’applicazione del diritto di asilo, prevista dall’art. 10 della Costituzione, ignorata nell’accordo.clvi L’ambiguità degli aspetti economici del Memorandum sta anche nel riferimento all’impegno italiano a sostenere programmi di sviluppo da promuovere in Libia o nei paesi d’origine dei migranti, ma non è chiaro se vi è un rapporto di scambio tra contributi finanziari e blocco delle partenze dei migranti. L’accordo del 2017, così come quelli che lo hanno preceduto, sono percepiti da parte libica come un baratto tra “sicurezza” (italiana) e pagamento di un prezzo alla controparte libica. Nel Trattato di Amicizia del 2008 quel prezzo era chiaro e significativo, con la promessa di ingenti finanziamenti per lo sviluppo infrastrutturale e produttivo in Libia (considerati anche come rimborsi dei “danni coloniali e di guerra”), considerati come merce di scambio per il controllo dei flussi migratori. Non è chiaro se quell’impegno italiano di allora abbia ancora una qualche validità con l’accordo del 2017 con Serraj, anche perché le condizioni della Libia sono cambiate, e quei progetti di sviluppo voluti da Gheddafi non hanno necessariamente senso nella Libia di oggi. La critica della Camera dei Rappresentanti di Tobruk nei confronti del Memorandum del 2017 sostiene che l’oggetto di questi accordi è percepito come 136 una “ estorsione” da parte dell’Italia nei confronti della Libia pur di ottenerne la collaborazione per contenere i flussi migratori ad ogni costo,clviima mentre Gheddafi riuscì ad ottenere un compenso significativo nel 2008, la Libia di oggi non è più in grado di fare altrettanto, nonostante il tentativo di Serraj di presentare richieste sempre più costose. il governo italiano per ora si limita a sostenere iniziative sporadiche di sviluppo, senza impegnarsi a precise allocazioni di risorse finanziarie per l’implementazione dell’intesa, che possono essere percepite come un ‘contentino’ offerto alle autorità locali per averne la collaborazione in materia di immigrazione, senza specificare l’ammontare di spesa, con interventi di sviluppo vagamente definiti. C’è chi si chiede se il Memorandum del 2017 non sia che un modo per sottrarsi dalle obbligazioni esose contenute nel Trattato di Amicizia. Tuttavia, una risoluzione approvata dal Parlamento Europeo nell’aprile del 2017 richiede esplicitamente che il sostegno allo sviluppo con fondi europei sia “incondizionato” e non sia usato come incentivo a cooperare per fermare i flussi di migranti irregolari verso l’Europa.clviii Questo principio dovrebbe valere anche per gli accordi bilaterali sottoscritti dai paesi membri dell’Unione Europea, mentre sembra che il Memorandum del febbraio del 2017 cerchi proprio di favorire questo scambio, pur rimanendo sul vago. Ma mentre il Trattato di Amicizia del 2008 chiedeva il sostegno italiano allo sviluppo infrastrutturale e agli investimenti produttivi della Libia, negli accordi più recenti, l’assistenza finanziaria e tecnica è offerta alle strutture libiche con un ruolo primario nel contenimento dei flussi migratori: guardia costiera, forze di sicurezza (in qualche modo definite), centri di detenzione, ministero dell’interno. Le autorità libiche possono usare questo contributo economico per esercitare pressione sul governo italiano (come fa il governo turco con l’Unione europea), condizionando la collaborazione libica per chiudere l’accesso degli immigranti all’Italia all’ottenimento di finanziamenti a carico dell’erario italiano e con forniture garantite dal nostro stato. È questo il succo di questo accordo? In ogni caso, non è chiaro dal testo dell’accordo di quali fondi e di quale entità stiamo parlando, visto che non esistono disposizioni applicative, né alcuna appendice con possibili progetti, interlocutori e obiettivi (diversamente dall’accordo euro-turco). Una critica ben più sostanziale all’accordo del 2017 è il dubbio sul valore concreto di un’intesa con un governo che non è in grado neanche di garantire la sicurezza nella stessa capitale della Libia. Il GNA è costretto a ricorrere alle alleanze ora di una milizia tribale ora di un’altra per il controllo del territorio (vedi riquadro su “Chi c’è dietro Fayez Mustafa Serraj?”), e continuamente si deve confrontare con l’opposizione delle forze che fanno riferimento al generale Haftar (difensore ufficiale della Camera dei Rappresentanti di Tobruk), o con l’opposizione di ciò che resta del Governo di Salvezza Nazionale (che ancora manifesta forme di resistenza occasionale), senza parlare dell’opposizione di una miriade di milizie armate autonome, comprese quelle legate a formazioni jihadiste non integrabili in alcun accordo di rappacificazione nazionale, e non escluso con le stesse milizie che lo sostengono (che mantengono un notevole grado di autonomia). La realtà politica è che i centri di potere si sono polverizzati, mentre pervade ovunque una realtà tribale. Questo spiegherebbe i tentativi del Viminale di convocare i capi delle principali tribù del Fezzan, per raggiungere una tregua e averne la collaborazione per il controllo dei flussi di migranti che transitano in quelle zone. I risultati raggiunti, spesso pubblicizzati dal governo italiano come grandi successi della diplomazia italiana in un paese dilaniato da divisioni tribali, sono tuttavia estremamente fragili, in quanto queste tregue sono rotte in continuazione, ed in ogni modo non garantiscono il controllo di confini territoriali che si misura in migliaia di chilometri. A questa critica, i rappresentanti del governo italiano risposero, per bocca dell’allora presidente del consiglio Gentiloni e del suo ministro degli interni Minniti, che la miglior prova dell’efficacia dell’accordo bilaterale del 2017 era il calo numerico degli sbarchi in Italia, diminuiti nel 2017 del 34,24% rispetto al 2016 (62.126 persone in meno).clix Questo equivarrebbe a dire che, 137 essendosi ridotti gli sbarchi, dovuti ad una riduzione delle partenze dalla Libia, ci sarebbe da aspettarsi una riduzione delle morti in mare. Ma la realtà non è proprio così, se non in minima pare. Il “nostro mare” continua ad essere la rotta più pericolosa del mondo: il numero di morti nel 2017 è stato pari al 2,38% dei migranti (2.846 morti) che tentarono la traversata (era il 2,52% nel 2016, corrispondenti a 4.578 decessi), e le tendenze nel 2018 sono addirittura più preoccupanti.clx Secondo quanto dichiarato da Minniti, il calo numerico degli sbarchi sarebbe stato la conseguenza del potenziamento della guardia costiera libica, controllata direttamente dal GNA di Serraj, la quale avrebbe fatto accordi con i sindaci di diverse città ubicate lungo la costa per combattere i trafficanti clandestini, nonché delle pressioni esercitate dalle autorità libiche nei confronti dei paesi confinanti a sud del paese, affinché aumentassero i controlli sui flussi di immigranti. Ho seri dubbi sull’efficacia di questi ultimi controlli, visto le difficoltà di controllare la frontiera lungo il deserto. Inoltre, circa gli accordi con i sindaci cui si riferiva Minniti, le cose potrebbero non essere andate esattamente in quel modo. Secondo l’Associated Press,clxi nel corso dell’estate del 2017, accordi sottobanco sarebbero stati conclusi nella città di Sabratha.clxii Queste notizie sono state negate dal governo italiano, anche se sono state confermate da altre inchieste condotte da giornalisti italiani e stranieri che sono arrivati alle stesse conclusioni.clxiii Nella realtà libica, operazioni illecite che usano impropriamente le risorse finanziarie messe a disposizione dalle autorità italiane ed europee non sono solo plausibili ma probabili, tanto più che le milizie tribali sono state ripetutamente accusate di ogni forma di corruzione nella gestione della sicurezza nei campi di detenzione libici ed esercitano una incredibile influenza nel controllo delle gestioni municipali, fattore centrale per la destabilizzazione del paese. Pertanto, se queste critiche hanno qualche fondamento di verità, l’esternalizzazione dei confini italiani arriverebbe al paradosso di pagare direttamente o indirettamente le stesse strutture o entità che intende distruggere, cioè coloro che hanno loschi legami con il traffico clandestino dei migranti e addirittura con la tratta di schiavi, contrabbando di petrolio e di armi, e con i servizi di sicurezza nei centri di detenzione, pur di ottenere il risultato ambito di veder ridotto in numero degli sbarchi in Italia. Le milizie si avvantaggerebbero di questi proventi finanziari, rafforzando la propria posizione di forza, prolungando interventi destabilizzanti, anche se questi contributi italiani ed europei possono avere qualche effetto benefico nella generazione di posti di lavoro a livello locale.clxiv

(h) Le condizioni dei centri di detenzione in Libia

Ma i problemi maggiori dell’accordo del 2017, come di quelli che l’hanno preceduto, son ben altri. L’attenzione centrale di queste intese, dal 2011 in poi, è stata posta quasi esclusivamente sui centri di detenzione, sostenuti in ogni modo dal governo italiano, anche con l’uso di fondi europei, ove vanno a finire gli immigranti che vengono riportati dalla guardia costiera libica, o dove vengono detenuti i migranti in transito arrestati (spesso arbitrariamente) da una delle tante forze armate incaricate del controllo dell’ordine pubblico in Libia. Niente è più importante che rafforzare i centri di detenzione, veri e propri cuscinetti rispetto alla frontiera italiana, una specie di Guantanamo italiana in Libia. Ricordiamo che l’Italia si era impegnata a sostenere finanziariamente queste strutture detentive sin dal 2004. Su questo tema, l’accordo del 2017 non fa che confermare gli accordi precedenti. I centri di detenzione sono il “polmone” dell’accordo italo-libico, cui si aggiunge l’azione della guardia costiera libica nelle acque territoriali (ma a volte anche al di là di quelle acque) per contrastare la partenza dei natanti e l’attività di controllo delle frontiere meridionali. Dal punto di vista dei migranti, l’effetto maggiore dell’accordo bilaterale del 2017, più che in termini di riduzione degli sbarchi in Italia, è stato l’aumento incredibile del numero di migranti arrestati e detenuti nei centri profughi in Libia, in condizioni che l’Alto Commissariato delle Nazioni per i Diritti Umani ha considerato degradanti, in completa assenza di tutela della dignità umana, ammassando persone di ambo i sessi e di tutte le età senza alcun rispetto delle necessità 138 primarie, con frequenti abusi subiti dai detenuti dal personale di sicurezza, per pestaggi, stupri, torture, violenze e minacce di tutti i tipi, senza menzionare gli episodi riportati dai media in cui detenuti sono stati venduti all’asta come schiavi. Le condizioni inadeguate dei centri libici sono state denunciate da tempo dalla stessa Commissione Europea, che ebbe occasione sin dal 2004, attraverso una sua missione tecnica in Libia, di verificare l’inadeguatezza dei centri di detenzione libici. È possibile che nel frattempo ci siano stati miglioramenti sostanziali di questi centri, ma le denunce si moltiplicano e sono agghiaccianti. C’è da dubitare che la situazione si sia ribaltata. Ma nell’accordo del 2017 non ne parla. Il Memorandum, come gli accordi che lo hanno preceduto, non offre alcuno spunto per esprimere preoccupazione per le condizioni deplorevoli in cui si trovano i migranti nei centri di detenzione, né per le accuse di torture cui molti di essi sono stati sottoposti.clxv Né si fa alcun riferimento alla detenzione arbitraria e al tempo indeterminato degli immigranti intrappolati in questi centri. Non vi troviamo alcun riferimento esplicito agli obblighi delle istituzioni libiche incaricate di gestire i centri di detenzione, specialmente per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. Non si affrontano le modalità forzate imposte ai migranti, obbligati a subire la detenzione. Non si menziona la carenza di garanzie legali per i detenuti e per i migranti in transito in generale. È vero che le condizioni dei centri di detenzione non sono uniformi. Le autorità del GNA spesso fanno vedere immagini di centri di detenzione che cercano di contraddire queste immagini preoccupanti, per cui è possibile che ci sia una diversità di condizioni che prevalgono nei vari centri. Allo stesso tempo, osservatori indipendenti e testimonianze degli stessi migranti fanno dubitare di certe immagini “ufficiali”, che appaiono più strumenti di propaganda che prove effettive delle condizioni prevalenti in quei centri. Purtroppo il GNA non offre alcuna garanzia che le attività di sicurezza in quei centri siano affidate ad una polizia con agenti direttamente controllati dal governo centrale che possano evitare il ripetersi di questi problemi, né il Memorandum fa alcuna menzione dei problemi gestionali dei centri, mentre sappiamo che questo è un punto centrale, visto che i centri sono affidati a milizie armate semi-autonome, che non offrono alcuna garanzia per la protezione dei diritti umani dei detenuti in un paese in cui lo stato di diritto non è assicurato neanche ai cittadini. Il problema è quindi capire perché questi accordi bilaterali preferiscano ignorare questi problemi, il che non equivale a cancellarli. Se gli accordi tacciono sulle condizioni effettive di detenzione, possiamo sperare che miglioramenti saranno prodotti attraverso intese segrete o attraverso la moralsuasion delle autorità diplomatiche o del personale italiane impiegato nelle attività sul terreno? Può il governo italiano omettere di segnalare gli abusi contro i diritti umani dei migranti? Purtroppo, la logica dell’esternalizzazione dei confini esercita obbliga a concentrarci sul respingimento e sul contenimento dei flussi migratori, facendo leva sul ruolo centrale dei campi di detenzione, distogliendo l’attenzione dalle condizioni dei migranti. Ma la realtà è, come ha ripetutamente denunciato Amnesty International, che migliaia di immigranti rimangono intrappolati in condizioni di estrema miseria e degrado, come confermato dai racconti degli immigrati sbarcati in Italia fuggiti da quei centri.clxvi È chiaro che ogni soluzione umanitaria accettabile dovrebbe affrontare le condizioni in cui vengono tenuti i migranti in transito nei centri di detenzione in Libia, superando l’obbligatorietà di questa detenzione, che risulta essere una vera “trappola”, tornando al concetto di “centro di accoglienza”. La novità dell’accordo del 2017 sta forse nella menzione esplicita che il contributo italiano sarà utilizzato per dotare i centri di “accoglienza” di strutture sanitarie, di medicine e di attrezzature che, se da un lato, migliorano le garanzie per un trattamento umano per i detenuti, con più efficienti servizi assistenziali, dall’altro provano che questi “centri di accoglienza” hanno bisogno di miglioramenti e sono destinati a restare strutture stabili per la difesa del continente europeo dalla “invasione” di immigranti. 139

(i) Sui salvataggi ed i respingimenti in mare Il Memorandum del 2017 rafforza la funzione cuscinetto della Libia per contenere l’immigrazione irregolare, trascurando in pieno le operazioni SAR e il ruolo delle ONG in quelle operazioni, anche se spesso incidenti sono occorsi con le autorità libiche, se non con quelle italiane, nel corso di interventi di salvataggio in mare. Altro punto critico fondamentale riguarda il ruolo affidato alla guardia costiera libica per materializzare l’esternalizzazione dei confini italiani. Proteste sono state sollevate da ONG attive in operazioni di soccorso per il modo violento con cui i guardacoste libici interagiscono con le operazioni di soccorso in altomare, provocando ulteriori decessi rispetto a quelli che le condizioni precarie dei natanti irregolari produrrebbero. L’obiettivo primario della guardia costiera libica è l’intercettazione delle imbarcazioni e non il soccorso ai naufraghi. Noto fu l’episodio del 6 novembre 2017 riportato dall’organizzazione tedesca Sea Watch, ove una cinquantina di decessi sarebbe stato causato dal modo in cui la motovedetta libica sarebbe intervenuta distruggendo il gommone intercettato, impedendo alla ONG e alle unità navali italiane e francesi presenti di prestare il soccorso necessario per salvare le vite di quei naufraghi. Quello non era che un esempio di una lunga serie di incidenti in cui ONG umanitarie sono state oggetto di attacchi da parte della guardia costiera, che ha spesso aperto fuoco intimidatorio. La guardia costiera italiana è stata a volte accusata di aver ritardato alcune operazioni di soccorso delle ONG per permettere l’arrivo delle motovedette libiche, in modo che siano queste ultime, e non le ONG, ad effettuare il soccorso in mare, assicurando così il rimpatrio in Libia dei migranti. Questo sarebbe un tentativo sistematico delle autorità italiane di delegare alla guardia costiera libica l’intercettazione dei natanti con migranti in modo da massimizzare il numero di migranti da riportare in Libia, un modo per eludere la condanna del 2012 per violazione del principio del “non refoulement”. Ma la politica dello “scarica barile” non cambia la sostanza di quanto viene commesso. (j) I vuoti dell’accordo bilaterale del 2017 Il Memorandum del 2017 applica lo stesso approccio dell’esternalizzazione dei confini italiani adottato dall’Unione Europea nel caso della Turchia, creando una frontiera più a sud dell’Italia, in territorio libico, per contenere i flussi migratori, per metter fine o ridurre il flusso di immigranti che sbarcano sulle nostre coste meridionali. Ma l’accordo euro-turco apriva la strada ad un’alternativa (sia pur inadeguata) per i profughi che si trovavano in Turchia: l’integrazione in territorio turco. Il Memorandum italo-libico non affronta la possibile integrazione (sia pur temporanea) degli immigranti in Libia. D’altronde una simile prospettiva, in un paese in guerra civile, è forse irrealistica, anche se ci sono migranti che non sono detenuti nei centri profughi che sono occupati nel mercato locale del lavoro. Il Memorandum non tenta di avviare strade innovative nella politica migratoria, che tengano conto dei diritti umani dei migranti e cerchino un approccio partecipativo e non discriminante nella gestione dei processi migratori. Non delinea alcuna alternativa per favorire ingressi regolari per l’Italia, né offre un’opzione fattibile per una loro integrazione in Libia. L’importante è che i migranti non attraversino il mare, siano trattenuti nei centri di detenzione, in attesa del loro rimpatrio, lasciando loro soltanto tre opzioni: (1) il rimpatrio (obbligatorio o volontario) nei paesi d’origine, anche se ci sono scarse probabilità che i rimpatri possano interessare un’alta percentuale, visto le condizioni da cui i migranti spesso sono scappati e lo scarso interesse dei paesi d’origine a fare fede ad accordi per facilitarne il riassorbimento; 140

(2) il ricorso ai trafficanti per affrontare pericolose traversate clandestine del Mediterraneo (anche se ostacolato in ogni modo, obbligando al ricorso di scafisti meno affidabili, con alto rischio di naufragio); o (3) la permanenza nei centri di detenzione, in condizioni pressoché disumane (e per quanto tempo? con quali prospettive?). Il “rimpatrio volontario” nei paesi d’origine non può essere suggerito sistematicamente come unica soluzione valida (specialmente quando viene proposto senza alcuna garanzia di adeguate condizioni di sicurezza nei paesi d’origine per i potenziali rimpatriati),clxvii se non è accompagnato dal rilascio di visti umanitari ed il miglioramento degli insediamenti in Libia, che garantiscano il rispetto dei diritti umani e offrano possibilità per una integrazione (anche temporanea) dei migranti nel tessuto locale. Il problema è che l’Italia e l’Unione Europea sono soddisfatti da qualsiasi intesa raggiunta con le autorità libiche di turno (analogamente all’intesa europea del 2016 con la Turchia) fin tanto che venga garantito che gli immigranti africani restino dall’altra sponda del Mediterraneo, anche a costo di ignorare il problema più serio per questi migranti, cioè le condizioni umane in cui vertono durante la loro permanenza in Libia. È il mancato rispetto dei diritti umani il problema centrale di questi accordi, e quindi della esternalizzazione dei confini italiani in Libia, così come è stata realizzata. Il contestato ruolo delle ONG umanitarie nelle operazioni SAR ed esternalizzazione dei confini nel Mediterraneo centrale Dobbiamo riconoscere che i recenti governi di centrosinistra, da Letta a Gentiloni, come anche l’Unione Europea, non hanno appoggiato solo l’esternalizzazione dei confini in Libia con il fine di contenere l’immigrazione irregolare, ma hanno anche perseguito esplicitamente l’obiettivo di salvare le persone a rischio di naufragio, con finalità umanitarie, e hanno fatto tutto ciò appoggiando i soccorsi in mare in acque internazionali. L’Italia ha perseguito questo scopo specialmente con l’Operazione Mare Nostrum, ma anche permettendo alle ONG umanitarie impegnate nei soccorsi in mare di portare in salvo nei porti italiani i naufraghi assistiti. Queste operazioni di soccorso di per sé non rientrano nella logica dell’esternalizzazione dei confini italiani o europei, tanto che spesso danno origine a processi condotti completamente in territorio italiano o europeo, legati alla fase di accoglienza, inclusa la concessione di visti umanitari, asilo o altre forme di permessi di soggiorno, e sono associate ad attività di assistenza di emergenza, anche se possono finire con l’espulsione ed il rimpatrio. In ogni caso, le operazioni SAR non sono strumenti per esternalizzare i confini, proprio perché – pur se iniziate al di là dei confini italiani – normalmente si concludono nell’ambito del territorio nazionale italiano o europeo, e possono favorire l’accoglienza, anziché ostacolarla. Quando i migranti soccorsi in mare vengono infine condotti nei Centri di Permanenza Transitoria e Assistenza (CPTA), come erano chiamati dalla riforma Turco-Napolitano o, come si chiamano dal 2008, nei Centri di identificazione ed espulsioneclxviii non possiamo propriamente parlare di esternalizzazione dei confini. Abbiamo già visto in precedenza il ruolo misto delle operazioni navali della marina militare italiana nel Mediterraneo, ove il contenimento del traffico clandestino di migranti si è sempre mescolato con interventi di soccorso dei naufraghi, aspetto molto evidente nell’Operazione Mare Nostrum. La funzione SAR si è fortemente ridotta con i programmi europei che lo hanno succeduto, ed è marginale nell’Operazione Sophia. A partire dal 2014, una serie di ONG umanitarieclxix si sono rese disponibili per colmare il vuoto lasciato dalle operazioni italiane ed europee per il salvataggio dei migranti in alto mare, anche a seguito del moltiplicarsi dei numerosi naufragi, con conclusioni spesso tragiche, avviando operazioni SAR lì ove l’approccio europeo 141 e l’intervento della guardia costiera italiana era carente, riuscendo a salvare vite umane. A cominciare dal 2014, sono sorte iniziative promosse da Migrant Offshore Aid Station (MOAS), Médecins Sans Frontières (MSF), Sea-Watch, Sea-Eye, Jugend Rettet, SOS Méditerranée, Pro- Activa/Open Arms, Refugee Boat Foundation e Save the Children, ed altre, con l’impiego di navigli di propria proprietà o in noleggio.clxx L’ingresso di questi nuovi operatori non è avvenuto senza problemi. Operando più vicino alle coste libiche rispetto al raggio d’azione delle navi coordinate da Fortrex, le ONG sono state accusate di agire come “stimolo” all’emigrazione dalla libica, svolgendo un ruolo di “attrazione” (pull factor) che incoraggerebbe migranti a scegliere la strada marittima verso l’Europa per il fatto stesso di trovare le ONG disponibili con le loro operazioni di soccorso, pronte a raccogliere i naufraghi in alto mare. Le ONG sono state accusate di essere il “ponte verso l’Europa” che favorisce l’immigrazione irregolare, stimolando la partenza di imbarcazioni insicure, contribuendo al deterioramento delle condizioni di sicurezza in cui si trovano i migranti in mare, favorendo (anziché ostacolare) le attività degli scafisti. Per questo i loro sforzi sono stati ostacolati dalle autorità nord-africane, in particolare dalla guardia costiera libica, con intimidazioni e a volte con interventi armati, con l’avallo indiretto dell’Unione Europea e del governo italiano, che ne hanno rafforzato le capacità tecniche. L’8 agosto del 2017, la marina militare libica annunciò il divieto di accesso a qualsiasi imbarcazione di ONG straniera impegnata in interventi di soccorso marittimo nella “zona di ricerca e soccorso lungo la costa libica”, zona non meglio definita, ma sicuramente ben al di là delle 12 miglia nautiche che definiscono le acque territoriali, considerando che le ONG operano normalmente nelle acque internazionali, implicando una estensione della zona sotto il controllo della sovranità nazionale libica in aggiunta a quanto previsto dal diritto internazionale della navigazione. Questo clima intimidatorio nei confronti delle ONG umanitarie è stato aiutato anche da una crescente pressione di forze politiche italiane ed europee di espressione populista e anti-migratoria, che hanno accusato le ONG di sfidare le leggi sull’immigrazione, di facilitare il traffico di esseri umani, e di essere complici di organizzazioni criminali e di trafficanti di migranti. Anche Frontex ha assunto atteggiamenti spesso ostili nei loro confronti, considerando i loro interventi un incentivo a intraprendere traversate nella speranza di un immediato soccorso dalle ONG. Queste critiche non tengono conto delle vere finalità delle ONG, che mirano a soccorrere naufraghi in grave pericolo, ma questo non è sufficiente per fugare i dubbi sulle reali intenzioni delle ONG, nonostante che le attività di soccorso rientrino nelle disposizioni previste dalla Convenzione Internazionale per la Ricerca ed il Soccorso Marittimo (Convenzione SAR)clxxi e dalla Convenzione Internazionale per la Sicurezza della Vita in Mare (SOLAS).clxxii Di fronte a queste tensioni, sia le ONG coinvolte che le autorità italiane ed europee hanno riconosciuto la necessità di stabilire “regole chiare” per il coinvolgimento delle ONG nelle operazioni SAR, per evitare conflitti in alto mare, ma la diversità di motivazioni delle ONG rispetto alle autorità governative ha originato due versioni diverse di un Condice di Condotta per le ONG: 1. Un Codice Volontario di Condotta per le Operazioni di Ricerca e Soccorso nel Mare Mediterraneo delle Organizzazioni Non-Governative della Società Civile, clxxiii proposto da un gruppo di ONG all’inizio del 2017 e reso pubblico a febbraio del 2017: si tratta di un Codice che contiene regole volontarie, non obbligatorie, che definiscono princìpi umanitari, tra cui emerge l’obiettivo di salvare vite umane in mare soggette a elevato rischio durante le traversate. Il Codice specifica i diritticlxxiv che intende proteggere, e i criteri operativi che le ONG dovrebbero impiegare (imparzialità, neutralità, indipendenza e trasparenza), che rappresentano il modus operandi comune per le ONG che aderiscono al Codice Volontario. clxxv 2. Un Codice di Condotta per le ONG preparato dal ministero italiano dell’interno in risposta ad una richiesta dalla Commissione Europea,clxxvi e presentato nel luglio del 2017 142

ad un gruppo di ONG riunite per l’occasione: in quella riunione, il ministro Minniti richiese alle ONG di sottoscrivere il Codice come condizione per accedere ai porti italiani e portare a compimento le proprie operazioni di soccorso, in coordinamento con gli interventi delle autorità italiane e della Frontex, nel quadro di riferimento stabilito dal Centro di Coordinamento per il Salvataggio Marittimo (MRCC), che fa capo al Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto, e che ha sede a Roma. Il Codice di Condotta ministeriale si ispira all’obiettivo di contenere la pressione migratoria verso l’Europa e, mentre in principio persegue l’obiettivo di tutelare la vita umana delle persone in pericolo in mare, nel rispetto delle convenzioni internazionali, connette il salvataggio in mare con la preoccupazione centrale per un “percorso di accoglienza sostenibile e condiviso con gli altri Stati membri”.clxxvii Fu così che le autorità italiane (ed europee), anziché riconoscere il Codice Volontario di Condotta formulato dalle ONG o suggerire regole ad esso ispirate, preferirono adottare regole che definivano obblighi, divieti e limiti operativi per le ONG operanti con attività SAR nel Mediterraneo centrale. Nel mese di agosto del 2017, Médecins Sans Frontières (MSF) annunciò la sua decisione di sospendere le attività di salvataggio lungo la rotta centrale del Mediterraneo, per la mancanza di condizione di sicurezza e per i pericoli di scontri con imbarcazioni della marina militare libica. Anche Save the Children e SOS Méditerranée minacciarono una simile decisione. La polemica consisteva nella difficoltà di poter condurre operazioni di soccorso in mare sotto scorta militare, perché una simile condizione avrebbe impedito l’oggettività e l’indipendenza di quelle operazioni (previsti nel Condice Volontario delle ONG), visto l’ostruzionismo della guardia costiera libica nei confronti delle ONG umanitarie.clxxviii Diversamente dal Codice Volontario proposto dalle ONG, il Codice di Condotta ministeriale è obbligatorio per le ONG che intendano operare lungo la rotta del Mediterraneo centrale e si aspettino di condurre i profughi soccorsi in mare nei porti italiani o altro porto europeo.clxxix Tra gli obblighi previsti, vi è la richiesta del coinvolgimento di altri governi nel meccanismo di soccorso, incluso le autorità dello Stato di bandiera della nave che effettua il soccorso e dell’MRCC più vicino alla zona in cui l’operazione di soccorso viene attuata, complicando non poco le operazioni di coordinamento. Si fa riferimento alla competenza specifica dell’MRCC di Roma. L’obbligo più stringente è il divieto assoluto di entrare nelle acque territoriali libiche per condurre operazioni SAR, anteponendo questa considerazione di sovranità nazionale al principio universale del soccorso in mare. La richiesta di garantire la trasparenza sulle fonti di finanziamento delle operazioni di soccorso riflette la preoccupazione (non fondata) che le ONG possano agire come strumento dei trafficanti clandestine, ed essere addirittura pagate dai trafficanti. Il divieto agli operatori delle navi delle ONG impegnate in operazioni di soccorso di effettuare qualsiasi comunicazione, anche telefonica, o anche semplicemente di inviare segnalazioni luminose ad altre imbarcazioni o destinate ad entità che si trovino sulla costa libica, riflette la stessa preoccupazione che le ONG siano in combutta con i trafficanti, e incoraggino nuove partenze di natanti, coordinandone il salvataggio prima della partenza. Infine, il Codice di Condotta richiede tutta una serie di comunicazioni tra la nave della ONG e il centro MRCC competente (normalmente quello di Roma) durante l’avvistamento, al fine di verificare l’esistenza di condizioni che giustifichino l’intervento SAR, producendo perciò ritardi che possono procurare ulteriori vittime in mare. Alla luce delle evidenze sul comportamento della guardia costiera libica, l’obbligo incluso nel Codice di Condotta a collaborare con quest’ultima, non ostacolandone le operazioni SAR, appare chiaramente una richiesta a non impedire il rimpatrio dei migranti intercettati dalle autorità pubblica in alto mare nei campi profughi della Libia. Questo è un aspetto che fa rientrare il Codice di Condotta ministeriale nella logica dell’esternalizzazione dei confini, imponendo limiti operativi alle ONG e rafforzando il ruolo del paese “terzo” (la Libia). Non vedo sinceramente 143 come si possa richiedere alle ONG di collaborare per riportare i migranti verso le coste libiche, vista la continua violazione dei diritti umani nei confronti dei migranti. Ma il Codice di Condotta privilegia la necessità che le operazioni di salvataggio non interferiscano con le operazioni di sicurezza e di contenimento dell’immigrazione irregolare come sono previste dall’accordo italo- libico del 2017, prescrivendo modalità di comportamento per le ONG che lascino ampio spazio agli interventi della guardia costiera libica, nonché a interventi di polizia italiana o guardia di finanza a bordo delle navi delle ONG per svolgere ispezioni, interrogatori, controlli, che rientrano nell’ambito delle loro indagini giudiziarie.

Sintesi del Codice di condotta del Ministero dell’Interno per le Ong impegnate nelle operazioni clxxx di salvataggio in mare

1. Divieto assoluto di ingresso delle ONG nelle acque territoriali libiche, salvo situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediate. 2. Obbligo di non spegnere o ritardare la regolare trasmissione dei segnali di segnalazione, qualora installati a bordo, quali AIS (Automatic Identification System) e LRIT (Long Range Identification and Tracking). 3. Obbligo di non effettuare comunicazioni (ad es. telefoniche) o segnalazioni luminose per agevolare la partenza e l’imbarco di natanti di migranti, salvo quelle necessarie nel corso di eventi SAR, con l’evidente intento di non facilitare i contatti con trafficanti. 4. Obbligo di non effettuare trasbordi su altre navi, salvo in caso di richiesta del competente Centro di Coordinamento di Soccorso Marittimo (MRCC) e sotto il suo coordinamento, sulla base delle informazioni fornite dal comandante della nave: le navi delle ONG, dopo l’eventuale soccorso, dovranno direttamnete portare le persone soccorse nel porto sicuro. 5. Obbligo di non ostacolare le operazioni di search & rescue della guardia costiera libica: con l’evidente intento di lasciare il controllo di quelle acque alla responsabilità delle autorità territorialmente preposte. 6. Obbligo di accogliere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria per le indagini collegate al traffico di migranti e alla tratta di esseri umani, per permetter al personale di polizia di svolgere le preliminari attività conoscitive e di indagine, anche a seguito di specifiche indicazioni da parte dell’Autorità Giudiziaria. 7. Obbligo di dichiarare, coerentemente ai principi di trasparenza, le fonti di finanziamento dell’attività di soccorso in mare alle autorità competenti dello Stato in cui l’ONG è registrata. 8. Obbligo di cooperare con il competente MRCC, con comunicazioni sull’avvistamento e sul successivo intervento, eseguendo le sue istruzioni, affinché lo stesso MRCC sia informato dell’attività in cui è impegnata l’imbarcazione e possa assumersene la responsabilità anche ai fini della sicurezza della navigazione. 9. Obbligo di informare costantemente lo Stato di bandiera dell’attività intrapresa dalla nave della ONG. 10. Obbligo ad informare le autorità competenti degli Stati di bandiera e il MRCC competente se l’operazione SAR avviene al di fuori di una regione di salvataggio e soccorso ufficialmente istituita. 11. Obbligo di possesso della certificazione attestante l’idoneità tecnica (relativa alla nave, al suo equipaggiamento e all’addestramento dell’equipaggio) per le attività di ricerca e soccorso di un gran numero di persone, includendo condizioni di igiene ed abitabilità a bordo, e capacità di conservazione di eventuali cadaveri. 144

12. Obbligo di leale collaborazione con l’Autorità di Pubblica Sicurezza del luogo di sbarco dei migranti: includendo l’impegno a fornire – con un anticipo di almeno due ore dall’arrivo in porto – i documenti compilati durante le fasi di soccorso e tragitto verso il porto, dopo avere posto in essere le primarie attività assistenziali, ovvero il “marittime incident report”, il documento riassuntivo dell’evento ed il “sanitary incident report” – documento riassuntivo della situazione sanitaria a bordo. 13. Obbligo di recuperare, durante le attività SAR, una volta soccorsi i migranti e nei limiti del possibile, le imbarcazioni improvvisate ed i motori fuoribordo usati dai trafficanti di migranti, informando immediatamente e collaborando con l’ICC (International Coordination Centre) dell’Operazione Triton e le competenti autorità nazionali nella lotta contro i trafficanti di migranti e di esseri umani.

Queste caratteristiche del Codice di Condotta ministeriale spiegano perché le reazioni delle ONG alla proposta ministeriale (a dire il vero, una ingiunzione, più che una proposta) non siano stata uniformi.clxxxi La polemica con alcune ONG, specialmente con MSF, fu intensa e fu accompagnata anche da accesi dibatti nei giornali italianiclxxxii e tra le forze politiche, portando anche a qualche correzione e chiarimento da parte del ministero dell’interno, che però mantenne l’impalcatura centrale della proposta iniziale. Mentre i toni delle polemiche facevano presagire dure reazioni da parte delle autorità italiane nei confronti delle ONG che non avessero firmato il Condice di Condotta, in pratica si trattò solo di una minaccia, visto che i rapporti di collaborazione tra MSF (la ONG più severa nelle critiche al Codice) e il governo italiano nelle operazioni di salvataggio erano stati caratterizzati in generale da una reciproca collaborazione. Inoltre, su molte clausole del Codice ministeriale, l’MSF non sollevava particolari obiezioni,clxxxiii visto che corrispondevano alla prassi quotidiana già adottata da tutte le ONG. In effetti, quella polemica fu anche un’occasione per sottolineare l’apprezzamento reciproco per gli sforzi fatti nel salvare tante vite nel Mediterraneo centrale, tenuto conto del sistema disfunzionale di asilo dell’Unione Europea e la mancata collaborazione degli altri paesi europei nella condivisione dell’accoglienza dei naufraghi soccorsi. Le obiezioni maggiori sollevate da MSF riguardavano: (1) l’obbligo di accettare visite a bordo della polizia giudiziaria con agenti armati durante le operazioni di soccorso, creando perciò una confusione tra azione umanitaria e attività di polizia e di repressione delle attività criminali; (2) le probabili conseguenze negative delle limitazioni al trasbordo su altre navi, in termini di possibili perdite di vite umane;clxxxiv e (3) la mancata riaffermazione della priorità assoluta del salvataggio di vite in mare nelle operazioni SAR e l’assenza di misure specifiche che rafforzino il sistema di ricerca e soccorso. Tenendo conto delle posizioni attuali del ministro dell’interno Salvini nel governo Conte (sto scrivendo a dicembre del 2018, dopo il varo del Decreto Sicurezza tradotto con voto di fiducia in legge dalla maggioranza giallo-verde del Parlamento), il Codice di Condotta varato dal precedente ministro dell’interno Minniti risulta essere tutto sommato una misura di apertura rispetto al ruolo delle ONG e all’accoglienza degli immigranti, nella misura in cui permette operazioni di salvataggio condotte dalle ONG che potrebbero concludersi con l’accompagnamento dei naufraghi verso i porti italiani, sulla base delle segnalazioni dell’MRCC di Roma, ed in questo senso non rientrerebbe in una stretta applicazione dell’esternalizzazione dei confini. Solo se il Codice di Condotta porta ad una reiterazione del sostegno alla guardia costiera libica, dei rimpatri nei porti libici, e all’intensificazione delle operazioni di polizia giudiziaria che possano prevenire l’applicazione del diritto alla protezione umanitaria per i rifugiati, il Codice confermerebbe l’approccio dell’esternalizzazione dei confini. 145

Va comunque sottolineato che il ministro Minniti non si limitò a cercare di utilizzare il Condice di Condotta per le ONG come strumento per regolamentarne e limitarne l’azione. In effetti, l’azione del suo ministero cercò anche di intendere quel Codice di Condotta come un modo per garantire uno spazio certo all’impegno umanitario delle ONG impegnate in operazioni di salvataggio nel mezzo del Mediterraneo, superando le polemiche sulle loro intenzioni, ma dando certezza al modo in cui le operazioni di salvataggio potevano essere realizzate, salvando vite umane, senza creare sospetti di collaborazione con i trafficanti di migranti. Inoltre, fu lo stesso Minniti a varare l’intesa tra il ministero degli affari esteri, il ministero dell’interno, la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese sull’apertura di “corridoi umanitari”, un programma concepito solamente come iniziativa pilota per favorire l’arrivo legale in Italia, in condizioni di assoluta sicurezza, di migranti che beneficiarono della protezione internazionale come rifugiati riconosciuta dall’UNHCR. Tuttavia, esiste una sproporzione tra il numero di immigranti che finora hanno beneficiato di quelle iniziative pilota dei “corridoi umanitari”, e le migliaia di migranti che cercano di traversare il Mediterraneo, di cui il Codice di Condotta ministeriale si occupa direttamente. Ma di questo non si parla più al Viminale, oggigiorno. La radicalizzazione dell’esternalizzazione dei confini italiani con la chiusura dei porti italiani ai soccorsi nel Mediterraneo centrale: le novità della gestione Salvini Dopo le elezioni politiche del marzo 2018, abbiamo assistito ad una svolta politica significativa alla politica italiana d’immigrazione, con l’avvento del governo di Giuseppe Conte, che ha determinato un cambio radicale, sotto l’influenza determinante del vicepresidente del consiglio Matteo Salvini, segretario della Lega, e anche ministro dell’interno. I dettagli della posizione politica di Salvini sono ben noti al lettore italiano. C’è da chiedersi se questo cambiamento nella gestione della politica migratoria abbia anche determinato varianti nella esternalizzazione dei confini italiani in Libia rispetto al passato. Essendo il governo Conte entrato in carica all’inizio di giugno del 2018, simili innovazioni riguarderebbero solo gli ultimi sei mesi. In primo luogo, il governo Conte ha confermato al GNA di Serraj la validità degli accordi presi in precedenza, dal 2008 in poi, compresi quelli del 2012, del 2013 e del 2017, mentre è continuato l’impegno per favorire il dialogo con le diverse parti per la rappacificazione della Libia, ospitando nel mese di novembre a Palermo una delle tante consultazioni internazionali per dare una svolta all’unificazione di quel paese.clxxxv Ma di immigrazione non si è parlato molto a Palermo. La conferma degli accordi bilaterali precedenti, invece, permette di ribadire la politica di pieno respingimento dell’immigrazione irregolare in modo perfettamente compatibile con la linea del ministro Salvini, anche se quest’ultimo non ha tentato misure di respingimento collettivo, probabilmente per evitare i precedenti del governo Berlusconi. La novità della politica migratoria di Salvini non è nel modo in cui l’Italia si confronta con la Libia ma nella dimensione “accoglienza” della politica migratoria, che è stata sostanzialmente alterata con l’approvazione del Decreto Sicurezza proposto da Salvini e convertito in legge nel novembre del 2018. Ma la dimensione “accoglienza” è sostanzialmente assente negli accordi bilaterali con la Libia, che si concentrano sul contenimento dell’immigrazione in Italia. Essa appare solo nelle misure adottate nel territorio italiano verso gli immigranti irregolari. Vuol questo dire che l’esternalizzazione dei confini italiani come è stata concepita dai governi di centrosinistra è rimasta invariata con il governo Conte? Non esattamente, e la differenza non è marginale. Non c’è dubbio che, specialmente per quanto riguarda il rapporto con la Libia, ci sia una certa continuità tra tutti i governi italiani che hanno preceduto quello attuale in materia di immigrazione, al di là delle forti espressioni verbali usate da Salvini, che ama sostenere che l’Italia sta fronteggiando l’invasione dei migranti clandestini con fermezza e sembra voler indicare un cambiamento di tendenza anche nel ruolo della esternalizzazione dei confini. È stato 146 lo stesso Salvini a riconoscere questa continuità, quando ha sostenuto, all’inizio del suo mandato, che “quello di Marco Minniti è stato un «discreto lavoro» e quindi « non smonteremo nulla di ciò che di positivo è stato realizzato, lavorerò per rendere ancora più efficaci le politiche di controllo, di allontanamento, di espulsione»”.clxxxvi Difatti, per il momento il neo-ministro dell’interno non ha proposto particolari innovazioni agli accordi bilaterali fin qui raggiunti con i vari governi libici, salvo usare quegli stessi accordi per attuare un forte contenimento dell’immigrazione irregolare. La novità sta piuttosto nel diverso modo in cui Salvini ha affrontato il trattamento dei migranti soccorsi in mare, tema su cui il precedente ministro Minniti aveva cercato (non senza contraddizioni) soluzioni che combinavano resistenza contro i flussi di immigrati clandestini con una dimensione umanitaria a favore dei naufraghi in pericolo di vita, nonché una certa attenzione (nel lungo periodo) alla regolarizzazione dei flussi migratori, associate alla confermata protezione dei diritti dei rifugiati. Minniti cercò, non senza polemiche, di interagire con le ONG impegnate in operazioni di soccorso, imponendo un Codice di Condotta che voleva essere un modo per condizionarne l’azione ma anche un’occasione per riconoscerne il ruolo per salvare vite umane, delineando procedure per garantire il loro accesso ai porti italiani. Con Minniti, le ONG che avessero rispettato gli obblighi previsti dal Codice di Condotta, compreso l’avallo del MRCC di Roma (che ha il ruolo primario di indicare il “porto sicuro” ove portare i naufraghi soccorsi), potevano portare a conclusione le proprie operazioni di salvataggio in mare, portando i naufraghi soccorsi nei porti indicati dall’MRCC. Ma è proprio su quest’ultima tematica che il ministro Salvini si è differenziato da Minniti in modo radicale. Gli slogan che Salvini si compiace di ripetere in continuazione possono essere riassunti nell’espressione da lui preferita: “Chiudiamo i porti”. Pertanto, più che concepire l’esternalizzazione dei confini italiani in nuovi termini, la grande novità del nuovo ministro dell’interno è consistita semplicemente nel chiudere l’accesso ai migranti soccorsi in mare, mentre ha cercato anche di accelerare i processi di espulsione degli immigranti irregolari attualmente sul territorio italiano. Mentre le espulsioni non sono una novità, il rifiuto all’accoglienza dei naufraghi soccorsi in mare è una esasperazione dell’esternalizzazione dei confini italiani, che approfitta del fatto che il soccorso avviene in acque internazionali. Intendiamoci. Il favoreggiamento dell’uso della guardia costiera libica per evitare che flussi di migranti irregolari arrivino in Italia non è nuovo. Lo hanno fatto anche gli altri governi, anche se spesso in modo non trasparente, specialmente quando autorità italiane e libiche hanno interagito in alto mare, quando la marina militare italiana ha favorito l’intervento di soccorso della guardia costiera libica, con l’intento di “alleggerire” il numero di operazioni di soccorso della cui conclusione si devono occupare le autorità italiane. E questo è quello che è successo all’olandese Lifeline, nel giugno 2018, rimasta per giorni in alto mare con centinaia di migranti, mancando di cibo e di farmaci adeguati, e al cargo mercantile danese Alexander Maersk, con più di cento immigrati soccorsi a bordo, mentre l’MRCC di Roma le indirizzava verso le autorità libiche affinché queste ultime si assumessero la responsabilità per l’intervento di soccorso, visto che l’avvistamento dei natanti in pericolo sarebbe avvenuto a ridosso delle zone SAR considerate di competenza di Tripoli (ma ci sono state molte polemiche sulla definizione precisa di queste zone, con la tendenza dei libici ad estendere la propria competenza in acque che sono internazionali). E poi, che razza di SAR sarebbero operazioni di soccorso che si concludono con il trasporto dei naufraghi nei campi di detenzione in Libia? Ci siamo forse dimenticati che quei campi di detenzione sono stati spesso denunciati anche da organizzazioni delle Nazioni Unite e da istituzioni europee come luoghi di tortura, e che i porti libici non sono considerati “porti sicuri”? Ma il Codice di Condotta delle ONG formulato dal precedente ministro Minniti aveva già indicato che le ONG non dovevano ostacolare le operazioni di SAR della guardia costiera libica. In questo senso, la complicità con i misfatti delle autorità libiche in materia di immigrazione 147 accomuna tutti i governi italiani degli ultimi anni, qualunque sia il loro segno politico. Ma la novità nell’approccio di Salvini sta nel modo in cui la gestione degli interventi SAR nel Mediterraneo avvenuti in acque internazionali viene portata a conclusione quando le autorità libiche non hanno più alcuna competenza esclusiva: cosa fare con i naufraghi una volta soccorsi nel Mediterraneo centrale? Con la gestione Minniti, il MRCC di Roma decideva quale dovesse essere il “porto sicuro” ove portare i naufraghi, e spesso si trattava di porti italiani, a volte Malta, o (raramente) porti di altri paesi. Con Salvini, i porti non dovrebbero essere più prevalentemente quelli italiani, ma preferibilmente altri porti europei (ad esempio a Malta, in Francia o in Spagna). A partire dal giugno del 2018, una serie di episodi che hanno avuto gli onori della prima pagina sui quotidiani italiani e stranieri e pubblicizzati da tutti i media ed i social, hanno confermato quanto sia sempre più difficile l’attracco delle navi soccorritrici in porti italiani. Ciò che Salvini ha cercato di fare è impedire alle ONGclxxxvii (ma anche a mercantili o a pescherecci) di far scendere i migranti soccorsi in mare nei porti italiani, esigendo che le navi soccorritrici si rivolgano ad altri porti europei. Quante volte in questi ultimi mesi abbiamo dovuto assistere al dramma pietoso di navi di ONG, come quelle L’Odissea dell’Aquarius delle tedesche Sea Watch e See-Eye, ferme al Nel giugno del 2018, l’Aquarius aveva soccorso 229 largo dell’isola di Marta, mentre le autorità di naufraghi nel Mediterraneo centrale, e aveva accettato a Roma e de la Valletta litigavano rifiutando bordo altri 400 naufraghi soccorsi in quella zona da vari mercantili e da motovedette italiane, che avevano chiesto ambedue il permesso di sbarco ai migranti di portarli in un “porto sicuro”. I naufraghi soccorsi soccorsi? Scontro analogo interessò nel includevano 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 giugno del 2018 la nave Aquarius gestita donne incinte. L’MRCC di Roma ordinò all’Aquarius di congiuntamente dalle ONG SOS Méditerranée fermarsi in alto mare in attesa di istruzioni, mentre continuava il solito braccio di ferro tra l’Italia e Malta. e da MSF, che si trovava a 27 miglia da Malta Lentamente la nave continuò a muoversi verso nord, e a 35 dalle coste italiane con un carico di ben sperando in un’apertura di un porto italiano, possibilmente 629 persone a bordo. in Sicilia. Di fronte al rifiuto di Malta e di Salvini, fu il nuovo governo spagnolo succeduto al centrodestra di Mariano All’episodio dell’Aquarius si sono aggiunti Rajoy (Rajoy era noto per la sua posizione contraria incidenti analoghi che hanno contestato a all’immigrazione dall’Africa), guidato dal socialista Pedro Sánchez, che nonostante la maggiore distanza fisica della navi con naufraghi a bordo l’accesso a porti costa spagnola, mise a disposizione il porto di Valencia per italiani o il loro diritto di sbarcare naufraghi. accogliere quella nave. Inizialmente, il comandante della A luglio del 2018, il rimorchiatore Vos nave rifiutò l’offerta, che comportava un allungamento del Thalassa, impegnato nella sorveglianza di viaggio di 700 miglia nautiche, percorribili (date le condizioni del mare e la velocità nautica di quella nave) in una piattaforma petrolifera della Total nel non meno di tre giorni, con gravi rischi per le persone a Mediterraneo, rispose ad una richiesta di bordo, molte in condizioni precarie di salute. Ma di fronte soccorso per un barcone con 67 immigrati a all’ostinazione di Salvini, l’Aquarius si vide obbligata ad bordo in avaria in prossimità della costa accettare l’offerta di Sánchez, arrivando a Valencia il 16 giugno, mentre le autorità spagnole predisponevano le libica, che portò al coinvolgimento della nave misure amministrative per la loro accoglienza temporanea Diciotti della guardia costiera italiana. e offerte per l’accoglienza dei naufraghi provenivano da più Nonostante si trattasse di un’unità navale fonti, sia dalla Spagna che dalla Francia. della marina militare italiana, dubbi furono espressi circa la possibilità di farla accedere nel porto di Trapani con i naufraghi soccorsi.clxxxviii Altro episodio interessò la stessa nave Diciotto nell’agosto del 2018 (vedi riquadro “Chiudiamo i porti anche alla guardia costiera italiana?”), coinvolgendo 177 migranti, quasi tutti somali ed eritrei, il cui sbarco nel porto di Catania fu osteggiato da Salvini, che lo condizionò all’accettazione di un’accoglienza condivisa dagli altri partner europei. Il crescente ostracismo dell’attuale governo nei confronti delle ONG che operano nel Mediterraneo, rendendo più difficile l’accoglienza dei naufraghi soccorsi nei porti italiani, non le ha fatto desistere dai loro interventi di soccorso, anche se i loro rapporti con il governo italiano si sono deteriorati. Il coordinamento delle ONG con l’MRCC di Roma, di fronte alle richieste 148 d’intervento di urgenza, non è più tanto lineare, visto il prevalente clima di incertezza sull’assegnazione di un “porto sicuro” ove portare i naufraghi soccorsi. L’assegnazione di eventuali porti più lontani da quelli italiani risulta spesso inagibile, vista la distanza maggiore da percorrere e viste le capacità limitate delle navi di soccorso che non sono in grado di mantenere alte velocità in mare per percorrere quelle distanze senza rischi per la vita delle persone soccorse. Le ONG temono di accettare l’invito della sala operativa dell’MRCC di Roma rispondendo a richieste di interventi di emergenza per naufraghi a rischio, senza avere la certezza di poter utilizzare “porti sicuri” facilmente raggiungibili, che spesso sono solo porti italiani o Malta. C’è il rischio di essere coinvolti nel braccio di ferro tra Salvini e gli altri paesi europei sulla designazione dei porti, obbligando le navi soccorritrici a ristagnare per prolungati periodi in alto mare con i naufraghi a bordo. Le ONG non intendono trasformare i loro interventi di soccorso in occasioni per operazioni di propaganda politica, tanto meno elettorale, in materia migratoria, ma sperano che la designazione dei porti sicuri venga fatta con il solo criterio di garantire una soluzione umanitaria più consona alla salvezza di vite umane. Nonostante queste preoccupazioni, le ONG hanno continuato le loro azioni di soccorso, sfidando la chiusura dei porti annunciata, considerandola solo una misura temporanea di propaganda politica, sperando in aperture per rispondere alle pressanti esigenze umanitarie. Il lancio di una strategia di proclami sui porti chiusi e di minacce di ritorsioni varie da parte del ministro Salvini, pur di ottenere una distribuzione ampia dei naufraghi soccorsi ed in generale degli immigrati accolti in Italia non è avvenuto per caso. Salvini probabilmente ha seguito i segnali inquietanti che provenivano da un’intensificazione delle partenze dalla Libia e dalla Tunisia sin dall’inizio del 2018, e ha ritenuto opportuno cogliere quei segnali come occasioni per prendere misure più drastiche di quanto previsto dall’accordo italo-libico del 2017 o dal Codice di Condotta per le ONG del ministero dell’interno, cercando vantaggi politici per il governo italiano rispetto ai partner europei, imponendo loro, in particolare ai paesi rivieraschi della costa meridionale del continente, l’accoglienza a quei naufraghi inizialmente destinati ai nostri porti. Lo slogan “chiudiamo i porti italiani” diveniva un modo per reiterare il tono di permanente campagna elettorale adottato negli ultimi mesi, rincarando la dose dell’opposizione all’ingresso di nuovi immigrati. Le diatribe sulla competenza delle operazioni di accoglienza, tra Malta o un porto italiano, legate a cavilli tecnici sul luogo specifico in cui fossero avvenuti gli avvistamenti dei naufragi, erano solo una copertura di ben altri problemi.clxxxix Vediamone alcuni tra i più rilevanti: • Può un porto italiano rifiutare l’approdo di una nave con naufraghi a bordo? • Può un ministro italiano dell’interno rifiutare lo sbarco di naufraghi a bordo di una nave soccorritrice attraccata ad un porto italiano? • Può un ministro italiano dell’interno interferire sulle operazioni SAR di una nave della marina militare italiana condotte secondo le norme italiane ed internazionale in questa materia? • Può un ministro italiano dell’interno o dei trasporti impedire l’accesso di una nave militare italiana ad un porto italiano per motivi legati alla politica migratoria? Altro aspetto della decisione di Salvini di chiudere i porti italiani è l’unilateralismo della posizione assunta dal governo italiano, non concordata in alcun modo con altri paesi dell’Unione Europea, usandola come misura negoziale per “esigere” il sostegno della solidarietà dei partner dell’Unione nell’accoglienza dei migranti o addittura per negoziare la riforma delle regole di Dublino. La richiesta di Salvini rientra nella domanda non nuova di attuare una distribuzione ampia ed equa degli immigranti da assorbire fra i 27 paesi europei, alleggerendo il peso fin qui sopportato in modo sproporzionato dall’Italia, ove si concentrano gli sbarchi di chi attraversa il Mediterraneo centrale. Ma la richiesta (di per sé non nuova per un governo italiano) è stata 149 percepita come un ultimatum, per il modo in cui fu formulate, accompagnata da due minacce tassative: o si fa una diversa distribuzione dei naufraghi soccorsi o l’Italia chiude i porti ai soccorritori marittimi ed il governo italiano ridurrà unilateralmente i propri contributi ai fondi europei (quest’ultima minaccia, tuttavia, non è stata condivisa dal ministro degli affari esteri Moavero, che ha sottolineato che "pagare i contributi all'Unione è un dovere legale" e non può essere negoziato). La rinuncia all’approccio della concertazione non sembra aver prodotto finora buoni risultati per l’Italia, e quindi è apparsa controproducente, visto il rifiuto totale dell’Unione Europea a rispondere positivamente all’ultimatum. cxc Ci sono due innovazioni conseguenti a questa posizione del governo Conte: una riguarda l’esternalizzazione dei confini italiani, e l’altra la nostra politica europea. Sulla prima, ricordiamo che per i governi di centrosinistra l’esternalizzazione dei confini consisteva principalmente nel tentativo di far gestire allo stato libico il contenimento dei flussi migratori, includendo il respingimento in mare da parte della guardia costiera libica. Gli interventi delle forze navali italiane non sono necessariamente da annoverare nell’esternalizzazione dei confini. Le nostre navi militari sono state sempre coinvolte negli ultimi anni in programmi gestiti dall’agenzia europea Frontex, con un ibrido di interventi SAR (inclusi quelli condotti in collaborazione con le ONG), soppressione delle attività degli scafisti (sia con mezzi italiani che attraverso quelli libici) – con arresti di trafficanti e sequestri dii natanti – e collaborazioni con gli interventi SAR della marina militare libica (e conseguente ritorno dei migranti in Libia). Solamente la repressione delle attività dei trafficanti e la collaborazione con la guardia costiera libica rientravano nell’esternalizzazione dei confini, mentre le operazioni di salvataggio non vi rientravano. Con il governo Conte, invece, si è aggiunta una nuova componente all’esternalizzazione dei confini italiani: il rifiuto di accoglienza nei porti italiani per le navi con naufraghi a bordo. Questo rifiuto ignora le condizioni umane in cui si trovano i naufraghi soccorsi e trascura l’eventuale collaborazione tra le ONG impegnate nelle operazioni di soccorso in mare e la marina italiana, le cui modalità erano state in qualche modo regolate dal Codice di Condotta ministeriale varato dal precedente ministro dell’interno Minniti. La “chiusura dei porti italiani” non equivale alla chiusura di frontiere territoriali, anche se le zone portuali possono essere bloccate con semplici operazioni di polizia, ma all’interruzione di operazioni di salvataggi in mare avvenute secondo le norme di diritto internazionale che regolano il soccorso alle navi in pericolo (Obbligo SAR), sancito dall’art. 87 della Legge sul Mare, che è sottoscritto anche dalla Repubblica Italiana, obbligo regolato anche da procedure per i soccorsi marittimi nel Mediterraneo definite e coordinate con Frontex. Poiché sia l’Unione Europea che le Nazioni Unite hanno sottolineato che i porti libici non sono “sicuri” per riportarvi i naufraghi, non è lecito obbligare le navi soccorritrici a portare i naufraghi in Libia.cxci Pertanto, la decisione della “chiusura dei porti italiani” non corrisponde ai respingimenti collettivi di epoca berlusconiana (che comporterebbero la violazione del principio di “non refoulement ” che costò allo stato italiano la condanna da parte della Corte Europea dei Diritti Umani), ma ad un tentativo di considerare il soccorso ai naufraghi un’operazione che, essendo avvenuta al di fuori del nostro territorio nazionale, non fa scattare automaticamente l’obbligo di accoglienza in Italia, da cui la richiesta (o diktat) agli altri paesi europei di farsi carico di quella accoglienza. Essendo il soccorso avvenuto in alto mare, Salvini immagina che ci sia un “muro” immaginario in mezzo al Mediterraneo che protegga i nostri porti dalle conseguenze delle operazioni SAR. Apparentemente questo sembra essere un dibattito tra stati europei per la distribuzione degli immigranti arrivati in Italia, mettendo in discussione le regole di Dublino che obbligano lo stato europeo di primo sbarco ad assumersi le responsabilità per espletare le pratiche per la concessione dei visti umanitari o dell’asilo. Se fosse così, Salvini starebbe facendo lo stesso di quanto già tentato invano in passato dai governi di centrosinistra. Ma in verità ciò che Salvini sta mettendo in discussione è l’accoglienza nei porti dei naufraghi appena soccorsi, questione mai sollevata 150 dai governi di centrosinistra, approfittando dell’extra territorialità delle acque ove le operazioni di soccorso sono avvenuti, e spostando la questione “distributiva” dallo smaltimento di immigranti già arrivati in Italia all’accoglienza condivisa dei naufraghi. Fino al giugno del 2018, le operazioni di soccorso non erano mai state concepite come mezzo di esternalizzazione dei confini italiani, ma semmai come prima fase di un processo di accoglienza. Chiudendo i porti italiani alle navi soccorritrici, anche le operazioni di soccorso vengono usate per rafforzare lo spostamento dei confini italiani al di fuori del territorio italiano, usando gli altri porti europei come ulteriore linea di difesa rispetto ai naufraghi provenienti dall’Africa, evitando che arrivino nei nostri porti nazionali. Questo nuovo modo di esternalizzare i confini italiani, estendendoli anche ai migranti soccorsi in mare, ignora le condizioni difficili in cui si trovano i naufraghi, così come altre misure di esternalizzazione dei confini hanno ignorato le condizioni in cui si trovano i migranti in transito detenuti nei centri di “accoglienza” libici. I migranti soccorsi in mare vengono obbligati a restare nelle navi soccorritrici per prolungati periodi di attesa, quando molti di loro sono in stato che richiede urgente attenzione medica (donne incinte, bambini molto piccoli, persone affette da grave malnutrizione o altre malattie, o con segni evidenti di violenze subite, come frequentemente notato tra coloro che provengono dai centri libici di detenzione o che hanno superato viaggi estenuanti attraverso il Sahara). 151

Chiudiamo i porti anche alla guardia costiera italiana? La nave della guardia costiera italiana Diciotti è stata coinvolta due volte, rispettivamente nel luglio e nell’agosto del 2018, in operazioni di soccorso nel Mediterraneo che l’hanno messa in contrasto con le disposizioni del Viminale. Il problema sollevato in ambedue gli incidenti era quello di sapere se ci sono limiti per lo sbarco di naufraghi in un porto italiano se la nave soccorritrice è un’unita navale della marina militare italiana. Forse più eclatante, fra i due episodi, fu quello dell’agosto del 2018, in cui la Diciotti aveva raccolto a bordo 177 migranti, quasi tutti somali ed eritrei, che inizialmente erano stati presi da un barcone al largo dell’isola di Lampedusa, cui era stato rifiutato l’accesso dalle autorità di Malta. La Diciotti intervenne perché il barcone era in avaria e stava imbarcando acqua. La diatriba sulla competenza dell’intervento di soccorso fu considerata superata dalle autorità maltesi dopo l’intervento della Diciotti, visto che una volta a bordo della nave della guardia costiera, i migranti erano già tecnicamente in “territorio italiano” (considerando tale la presenza dei naufraghi su di un’unità della marina italiana). Il ministro Salvini annunciò subito che non avrebbe autorizzato lo sbarco di quei migranti in un porto italiano perché considerava il soccorso avvenuto in zona SAR maltese. Ma dopo il rifiuto di Malta, la nave procedette verso Pozzallo, in Sicilia, ed in fine verso il porto di Catania. Si aggiungeva la solita confusione tra competenze ministeriali: la nave, appartenendo alla marina militare italiana, dipende gerarchicamente dal ministero della difesa, ma l’indicazione del porto di approdo è di competenza del ministero dei trasporti, che dovrebbe comunicarla alla guardia costiera. La competenza del Viminale dovrebbe valere soltanto una volta che gli immigranti hanno raggiunto il territorio nazionale, ma su questo c’è confusione. Fu il ministro dei trasporti Toninelli a designare Catania come porto di arrivo, mentre nessuna comunicazione era pervenuta al comandante della nave che lo sbarco dei migranti era stato negato dal ministero dell’interno (lo apprese dai social e constatando che il molo era occupato da forze di polizia e carabinieri pronti a bloccare qualsiasi sbarco non autorizzato). Salvini intanto annunciava che lo sbarco dei migranti sarebbe potuto avvenire solo se gli altri paesi membri dell’Unione Europea avessero assicurato la loro accoglienza nel loro territorio. Intanto, il ministro degli affari esteri contattava Bruxelles per avviare una trattativa sulla distribuzione di quei migranti, mentre Salvini minacciava che, in caso di rifiuto della richiesta, i migranti sarebbero stati riportati in Libia. La tattica negoziale, annunciata anche in televisione, portò al prolungamento dello stallo della Diciotti per dieci giorni nel porto di Catania, con un esercizio muscolare che sembrava più una mossa elettorale che non un vero negoziato diplomatico. La posizione di Salvini produsse molte proteste, e gli causò una serie di denunce anche attraverso la magistratura rivolte a lui e ai funzionari del ministero dell’interno responsabili, per “sequestro di persona a scopo di coazione” (per costringere l’Unione Europea ad accettare la redistribuzione dei migranti, non prevista dalle regole di Dublino),cxcii “arresto illegale” e “abuso d’ufficio”, motivando indagini della procura di Agrigento per eventuali violazioni del codice penale e delle convenzioni internazionali in materia di operazioni SAR e del diritto d’asilo dei rifugiati.cxciii Il negoziato con l’Unione Europea vide il governo italiano minacciare un taglio ai contributi italiani all’Unione.cxciv Ma le posizioni dei rappresentanti governativi (presidente del consiglio, ministro degli esteri, ministro dell’interno) non furono sempre uguali. Il presidente del consiglio Conte chiese a Salvini di continuare la trattativa sui contributi, ma di accettare lo sbarco dei naufraghi, mentre Bruxelles rifiutava categoricamente di accettare l’ultimatum di Salvini, accusato di aver creato l’incidente della Diciotti ad hoc per sfruttarlo per motivi politici: per la maggioranza dei paesi europei (ma in particolare per la Francia, l’Olanda, Malta e Belgio) non si potevano rinegoziare le regole di Dublino sulla pelle di migranti soccorsi in mare che stagnavano a bordo di una nave. Al massimo da Bruxelles vennero espressioni di buona volontà e di disponibilità ad una solidarietà volontaria. La 152

controproposta europea, perciò, in ottemperanza con le regole di Dublino, si limitò a suggerire lo sbarco immediato degli immigranti soccorsi in mare, la verifica della loro identità da parte delle autorità italiane e la eventuale redistribuzione dei richiedenti asilo fatta sulla base di offerte volontarie di solidarietà (c’erano disponibilità dichiarate in tal senso dalla Spagna e dalla Francia). Di fronte al rifiuto dell’ultimatum italiano da parte dell’Unione Europea, il governo italiano tentò di rialzare il tono delle minacce, richiamando la possibile chiusura dei porti italiani a qualsiasi nave con profughi. Nel frattempo, i disagi sulle condizioni sanitarie sulla nave si aggravavano ogni giorno. Alla fine Salvini accettò di concedere lo sbarco,cxcv dopo aver identificato a bordo gli immigranti, con la presunzione di poter distinguere all’istante chi avesse diritto all’asilo come rifugiato soltanto con un colloquio condotto sul ponte della nave (sappiamo che queste verifiche normalmente richiedono mesi quando sono effettuate negli appositi centri di identificazione), mentre Di Maio minacciò che la mancata apertura europea meritava una risposta unilaterale del nostro paese, con la riduzione dei nostri contributi ai fondi europei per 20 miliardi di euro.

Questa è una radicalizzazione del contenimento dell’immigrazione a ridosso delle nostre coste che comporta un elevato costo in termini di diritti umani, che sarebbe compensato, secondo il nuovo governo italiano, dalla difesa della “sicurezza nazionale”. Non a caso, i naufraghi vengono accomunati a criminali e a terroristi, per non riconoscere princìpi umanitari di base che dovrebbero aprire all’accoglienza. Ma questo è il significato di frasi di Salvini come "Certe navi si devono scordare l'Italia, stop al business dell'immigrazione clandestina! La musica è cambiata, io ce la metto tutta ".cxcvi Per quale motivo il governo italiano ha rischiato di divenire così impopolare in termini di violazione dei diritti umani, contravvenendo a regole che, per lo meno nel contesto europeo, dovrebbero essere ben chiare? Nell’Unione Europea, il contenimento dell’immigrazione irregolare (che di sicuro viene condotto con molta energia anche dalla sua agenzia Fortrex) si combina sempre con una dimensione positiva che tutela i soccorsi in mare e garantisce la protezione dei diritti dei rifugiati. E qui veniamo alla seconda innovazione che scaturisce dalle decisioni prese dal governo Conte sulla chiusura dei porti italiani, una innovazione che riguarda i rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea in termini di politica generale. Le minacce e gli ultimatum emessi dal governo Conti quando scoppiò la diatriba sui porti italiani non possono essere visti separatamente dal contesto complessivo di quei rapporti, ove forti contrasti si stanno moltiplicando, e recentemente stanno emergendo in modo sempre più marcato nella politica economica, toccando le decisioni di bilancio del governo italiano e le regole di Maastricht. Ci stiamo avvicinando alle elezioni europee del maggio 2019 ed il clima elettorale spinge le due forze politiche al governo a rafforzare le proprie posizioni euro-scettiche, rendendo sempre più aspre le polemiche con Bruxelles, pur di ottenere maggiori consensi elettorali fra i sostenitori di visioni sovraniste e nazionaliste. Quanto più si litiga sull’immigrazione con Bruxelles, quanto più l’Italia riceve rifiuti alle sue richieste o ultimatum, quanto più il governo di Roma infastidisce politici europeisti come Macron, o Merkel, o Sánchez, tanto più i partiti che guidano questa compagine governativa guadagneranno consensi tra gli euroscettici. La logica diabolica delle campagne elettorali suggerisce che anche i rifiuti, le multe, le condanne, la minaccia di sanzioni da Bruxelles possano svolgere la funzione positiva di far guadagnare voti in certi settori dell’elettorato, anche se ciò implica qualche sacrificio in termini di princìpi umanitari o di valori etici. Per questo Salvini non perde occasione per sottolineare come le sue visioni di politica estera sull’Unione Europea siano in linea con il Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia), dominato da governi euroscettici che non credono nei processi di unificazione europea, e sono contrari a qualsiasi apertura verso i flussi migratori. Non importa sapere che quei paesi saranno gli ultimi 153 ad aiutare l’Italia nella distribuzione diffusa degli immigranti su tutto il territorio europeo. Alla fine, non è quello l’obiettivo politico, ma il successo di visioni euroscettiche a Strasburgo e a Bruxelles, rispetto alle visioni “equilibrate” di un’Europa solidale che finora hanno prevalso. Infatti, Salvini probabilmente è consapevole che alla fine sia possibile che la discussione sulla revisione della distribuzione dei rifugiati e la gestione dei flussi migratori non porti ad alcun risultato concreto, continuando questa distribuzione a ricadere sui paesi di primo sbarco, mentre i paesi con economia più solida che sono spesso le destinazioni preferite dai migranti non riusciranno ad offrire (o non vorranno offrire) le aperture necessarie per una situazione più bilanciata. Ma ciò che conta è che questo scontro sia in grado di intensificare un ben altro scontro all’interno dell’Unione Europea tra visioni diversi dell’Europa, con un’ascesa crescente delle forze politiche “sovraniste” di estrema destra, cui si potrebbero aggiungere l’“asse dei volenterosi” o “axis of the willing”, utilizzando un’espressione proposta da Salvini per riferirsi ai paesi desiderosi di bloccare l’immigrazione irregolare,cxcvii forze che lottano per il rafforzamento delle politiche di contenimento dell’immigrazione, basandosi non tanto sulla realtà delle effettive dimensioni dei flussi migratori, quanto sulle “percezioni” basate sulla “paura contro l’invasione del diverso”. È su queste tematiche che i processi elettorali si stanno concentrando in queste ultime settimane del 2018 nei singoli paesi europei ed in Italia, in previsioni dell’elezioni europee del 2019. La visione “sovranista” dell’Europa viene messa a confronto con un’Europa solidale la quale, pur avendo finora alimentato l’esternalizzazione dei suoi confini, ne ha moderato i toni grazie ai suoi interventi umanitari, con un’attenzione anche alla protezione dei diritti dei rifugiati e all’integrazione degli immigranti nella società europea. La linea sovranista ha solamente una dimensione: la difesa ad oltranza contro i flussi migratori. L’Europa solidale spesso unisce la logica del contenimento con una dimensione ideale, che alcuni potranno definire “pura retorica” o “finzione”, ma che corrisponde comunque a spinte altruistiche generose per generare assistenza a gruppi particolarmente vulnerabili, su cui si basa tutto il sistema di assistenza internazionale e i princìpi di base delle Nazioni Unite. Su questi princìpi di solidarietà e di umanità si inseriscono, in un ibrido che appare a volte contraddittorio, politiche “realistiche” ove ancora prevale la difesa della ‘sicurezza’ insieme a interventi umanitari. Fin qui ho esaminato le politiche “realistiche” degli schemi dell’esternalizzazione dei confini italiani in Libia varati dai vari governi italiani e dall’Unione Europea, sottolineando la dimensione difensiva di queste politiche, ove il contenimento dell’immigrazione irregolare è l’obiettivo primario. Però, in queste politiche “realistiche” dell’Europa solidale la dimensione difensiva è coniugata insieme alle dimensioni umanitarie dell’assistenza ai rifugiati e ai naufraghi, ed insieme agli interventi volti a favorire l’integrazione degli immigranti nella società europea. La lotta dei vari Salvini dell’Europa sovranista intende interrompere questa combinazione tra la dimensione difensiva e le dimensioni ideali dell’aiuto umanitario e dello sviluppo internazionale che è tipica della politica “realistica” dell’Europa solidale, per imporre una dimensione monodimensionale che persegue solo il respingimento e l’espulsione dell’immigrante. Secondo Salvini, occorre sabotare l’approccio “realista” di difesa dei confini — che intende ridurre gli sbarchi grazie alla collaborazione con i paesi “terzi”, e che vuole fermare gli scafisti, distruggere le imbarcazioni abusive, addestrare guardiacoste libici – che si combina anche con l’intento di salvare migliaia di vite salvate in alto mare, garantire la protezione dei rifugiati, assistere gli immigranti in arrivo, integrarli nel contesto europeo, e promuovere sviluppo sia in Europa che nei paesi “terzi” sostenendo i migranti ovunque essi si trovino, ed infine collaborare con le Nazioni Unite (e con l’UNHCR in particolare), con l’Unione Africana, con l’OIM nei loro sforzi a favore dei migranti. Per far questo, Salvini porta l’esternalizzazione dei confini ai suoi estremi, cancellando qualsiasi traccia delle dimensioni umanitarie. 154

L’esternalizzazione dei confini nella rotta occidentale del Mediterraneo Il tentativo di esternalizzare i confini italiani in Libia con gli accordi sopra illustrati, volto a ridurre i flussi migratori che percorrono la rotta centrale del Mediterraneo, non rappresenta una soluzione alla gestione di quei flussi. Come l’accordo euro-turco riuscì a ridurre gli sbarchi in Grecia ma aprì la strada all’intensificazione dei viaggi lungo la rotta centrale e la riattivazione delle rotte settentrionali che raggiungono l’Europa evitando il confine greco con la Turchia, i vari accordi italo-libici e le misure di contenimento adottate sia dall’Unione Europea che dall’Italia per sopprimere il traffico dei natanti illegali hanno reso più difficili le partenze dai porti libici (ma anche dall’Egitto e dalla Tunisia), cui hanno contributo analoghi accordi con il governo tunisino, ma hanno rappresentato anche un incentivo a cercare alternative, rivalutando l’uso della rotta occidentale attraverso il Marocco, anche a costo di intraprendere percorsi più complessi e non necessariamente meno pericolosi per raggiungere l’Europa. Gli interventi sui paesi d’origine e su altri stati di transito come il Niger, su cui sia l’ex ministro Minniti che l’Unione Europea hanno molto contato, hanno una discutibile efficacia. Cercare di invertire fenomeni epocali di migrazione dal sud del mondo senza alterare le loro vere cause, è come trattare una bronco- polmonite con un’aspirina. Lo sconvolgimento sociale in atto in molti paesi d’origine, dilaniati da conflitti e squilibri profondi, violenze inaudite, profonde sacche di povertà assoluta, scarse prospettive di progresso, per non parlare degli sconvolgimenti climatici che stimolano l’abbandono delle terre affette da siccità, rendono il fenomeno migratorio verso l’Europa quasi inarrestabile. In conclusione, i successi vantati da Gentiloni e Minniti lungo la rotta libica, ulteriormente rafforzati dalle chiusure plateali di Salvini, hanno fatto esplodere il numero di permanenze nei centri libici di detenzione e hanno stimolato il ricorso a tragitti alternativi, poiché la determinazione dei migranti a emigrare verso l’Europa resta fondamentalmente intaccata. Certamente non mancano flussi di ritorno di migranti delusi dal processo migratorio, traumatizzati dalle condizioni inumane in cui si sono trovati nei paesi di transito, che hanno perso le proprie speranze e scelgono la strada dei rimpatri volontari. E ci sono anche i rimpatri “forzati” (ma sempre numericamente modesti). Le prospettive di fomentare un grande programma di rimpatri per risolvere il problema dell’immigrazione mondiale (o anche solamente nel Mediterraneo) sono irrealistiche, quando nei paesi d’origine ancora prevalgono le stesse condizioni che hanno motivato l’emigrazione. Non c’è da farsi illusioni per il rimpatrio in Siria, Sudan, Somalia o Eritrea o simili paesi, e l’elenco potrebbe essere molto lungo. Mentre registriamo il crollo degli sbarchi in Italia, il numero di immigranti irregolari che arrivano in Europa, pur in declino, risulta essere pur sempre elevato (si stimano più di 100.000 arrivi all’anno soltanto dall’Africa). Che ci sia un maggior ricorso alla rotta occidentale non c’è dubbio.cxcviii I flussi verso la Spagna non riguardano solo immigranti che provengono dalla Libia, che scappano dalla trappola dei centri libici di detenzione e che cercano la strada verso l’Europa attraverso il Marocco.cxcix Abbiamo registrato, tra gli attraversamenti che hanno interessato lo stretto di Gibilterra, un aumento di immigranti di origine asiatica, provenienti ad esempio dal Pakistan e dallo Sri Lanka, confermando l’attenzione crescente dell’immigrazione internazionale per la rotta spagnola. La via del Mediterraneo occidentale è scelta tradizionalmente da coloro che provengono da paesi come Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Senegal e Mauritania, ma anche da altri paesi sub-sahariani, migranti che cercano di evitare le strettoie sempre più severe che dal Niger portavano tradizionalmente verso la Libia, e che trovano minor resistenza in tragitti che comunque sono stati utilizzati da lunga data dal Mali verso l’Algeria o l’ex Sahara Spagnolo, per finire in Marocco. Queste rotte alternative, tuttavia, sono altrettanto ardue. Migranti provenienti dalla Siria, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Somalia o dal Sudan o dal Sud-Sudan, potrebbero escludere la rotta dal Marocco per la sua eccessiva lontananza, ma la mutevolezza degli itinerari migratori è tale che troviamo rifugiati siriani, che normalmente cercano di raggiungere l’Europa attraverso la Turchia, che hanno percorso tutta l’Africa settentrionale, per raggiungere il Marocco attraverso l’Algeria. Ricordiamo infine che tra i migranti che dal Marocco si recano in Spagna vi 155 sono molti marocchini che si considerano perseguitati politici, come i membri del movimento della regione berbera Rif al nord del Marocco, che hanno cercato rifugio in Melilla. Messa a confronto con la rotta del Mediterraneo orientale e quella del Mediterraneo centrale, la rotta occidentale storicamente ha interessato un minor gruppo di migranti. Tuttavia, questi flussi limitati sono in realtà la conseguenza di un’applicazione esemplare dell’esternalizzazione dei confini europei, che è riuscita a usare già da lunga data il Marocco come limite difficilmente valicabile per raggiungere l’Unione Europea.cc Il minor numero di migranti che riesce a raggiungere la penisola iberica dipende dal fatto che l’esternalizzazione dei confini ha assunto dimensioni drammatiche in Marocco, che ha rappresentato finora un cuscinetto molto più efficace della Libia per fermare I flussi migratori. Tuttavia, le tragedie del 2015 lungo la rotta orientale verso la Grecia e la rotta centrale verso l’Italia, hanno richiamato un’attenzione crescente su ciò che avviene nella rotta occidentale, ove i tentativi di attraversamento della frontiera terrestre a Melilla e Ceuta, o di quella marittima hanno prodotto decessi e naufragi non meno allarmanti. Le linee di difesa dei confini europei lungo la rotta occidentale riguardano due modalità principali adottate dai migranti per raggiungere la Spagna dall’Africa: (i) la traversata via mare (lungo la costa settentrionale o seguendo la rotta atlantica, principalmente tramite le isole spagnole delle Canarie), cci anche se la rotta atlantica non è più tanto utilizzata come in passato; e (ii) il superamento della frontiera terrestre di Ceuta e Melilla, ambedue sulla costa nord-africana del Mediterraneo (Ceuta è in prossimità dello stretto di Gibilterra, e Melilla è più a oriente, non molto distante dal confine con l’Algeria). L’uso del Portogallo (o delle sue isole atlantiche) come zone di transito non ha assunto finora importanza primaria come rotta alternativa per raggiungere la Spagna. Anche se non esiste un accordo analogo a quello con la Turchia tra l’Unione Europea ed il Marocco, accordi bilaterali tra la Spagna ed il Marocco sono stati raggiunti dal governo spagnolo di Rajoy,ccii che ha cercato di mantenere una linea dura per contenere le pressioni migratorie dall’Africa, spostando il teatro delle operazioni di difesa dalle frontiere spagnole direttamente in terreno africano e nei territori delle isole delle Canarie. Nel 1992 i governi spagnolo e marocchino firmarono un accordo bilaterale per la riammissione in Marocco di persone immigrate irregolarmente in territorio spagnolo, anche se l’accordo entrò in vigore solo nel 2012. L’accordo favoriva processi sbrigativi per il respingimento di immigranti provenienti da terzi paesi e permise la collaborazione delle autorità marocchine per bloccare l’accesso alla frontiera delle città di Ceuta e Melilla, con un ruolo speciale per le forze di sicurezza marocchine di gran lunga più importante delle forze spagnole, impedendo in modo particolarmente efficace ai potenziali richiedenti asilo di raggiungere l’ufficio competente per presentare la domanda di asilo. Questo accordo fu ribadito nel marzo del 2014 dalla Spagna di Rajoy, confermando un meccanismo per l’immediata espulsione di immigranti irregolari penetrati nelle due città di Ceuta e di Melilla, espulsione effettuata in modo indiscriminato, senza dare ai migranti la possibilità di un regolare processo per vedere che i loro diritti fossero stati rispettati, specialmente per coloro che avrebbero potuto presentare richiesta di asilo. Ciò rappresenta una violazione delle leggi spagnole, europee ed internazionali. A questo si aggiunga anche il modo spesso violento con cui la Guardia Civil spagnola, secondo osservatori di Human Rights Watch, ha controllato le frontiere delle due città, con respingimenti sommari dei migranti, spingendoli attraverso i cancelli della dogana per consegnarli alle Forze Speciali marocchine senza alcun processo che ne verifichi la posizione legale, nonostante che la legislazione spagnola per l’immigrazione garantisca agli immigranti irregolari il diritto di assistenza legale (compreso il diritto ad un interprete, nel caso in cui l’immigrante non parli la lingua spagnola). Anche se tra l’Unione Europea ed il Marocco non si è stabilito un rapporto di collaborazione sull’emigrazione analogo a quello con la Turchia, esiste tuttavia un accordo di Advanced Status Parnership, che incentiva il Marocco a mantenere un buon rapporto con l’Europa comunitaria, 156 in cambio di una serie di benefici che includono varie forme di aiuto. L’accordo non equivale a quello euro-turco, che si concentra sui fenomeni migratori, ma esamina molti aspetti economici e commerciali dei rapporti tra l’Unione Europea e il Marocco, pur se li lega alla collaborazione marocchina per rafforzare i controlli di confine, affrontando anche i flussi migratori reciproci, facilitando le formalità di passaggio tra le due aree per alcune categorie di persone che godono di visti di breve durata. All’inizio del 2018 il governo spagnolo di Rajoy propose all’Unione Europea un accordo con il Marocco simile a quello stipulato con la Turchia, viste le pressioni continue di migranti che entrano in quel paese per transitare verso l’Europa, riconoscendo così il ruolo indispensabile del Marocco nello sforzo di contenimento dei flussi migratori e basandosi sui risultati positivi della collaborazione tra Spagna e Marocco conseguiti fino ad allora. La Spagna di Rajoy auspicò un intervento sistematico dell’agenzia europea Fortex in appoggio agli interventi del Marocco. Il governo spagnolo giustificò la richiesta sul fatto che il Marocco non è stata adeguatamente compensato per la sua collaborazione in materia di immigrazione, mentre avrebbe potuto beneficiare di un migliore addestramento dei suoi agenti di sicurezza, nonché di maggiori aiuti materiali a beneficio dei migranti in transito che si trovano in Marocco. In realtà, già nel 2005 la Commissione Europea aveva concesso al Morocco un contributo di €40 milioni attraverso un progetto per il rafforzamento del controllo delle frontiere, con forniture di attrezzature e formazione da parte dell’agenzia Frontex, ed un versamento di €14 milioni per la lotta contro il traffico di persone. In una dichiarazione del febbraio di quest’anno, José Antonio Nieto, ministro della sicurezza del governo Rajoy, sottolineò che nel 2017 gli arrivi di immigranti irregolari erano aumentati del 10%, mentre quelli in arrivo in Grecia erano diminuiti del 77%. Per questo, stabilire un accordo simile a quello stipulato con la Turchia sarebbe stato giustificato in pieno. Il Marocco dovrebbe diventare, sostenne il ministro Nieto, un paese di destinazione finale dell’immigrazione e non un paese di transito: non poteva essere questa una forma più chiara per presentare la strategia del governo spagnolo di Rajoy per esternalizzare il confine spagnolo in Marocco. Mentre la Spagna ha una lunga tradizione di immigrazione di provenienza dall’America Latina, il flusso di immigranti sub-sahariani o dal Medio Oriente è probabilmente una relativa novità degli ultimi 25 anni, proprio come in Italia. Nonostante il governo di Rajoy abbia dichiarato nel 2015 la sua adesione al sistema europeo per l’immigrazione, che prevede la concessione del diritto di asilo a chi, avendone fatto domanda, è in possesso dei requisiti previsti dalla Convenzione di Ginevra, la Spagna rifiutò di accettare più di 2.739 rifugiati quell’anno, mantenendo un livello di accoglienza per rifugiati inferiore rispetto a paesi come Germania e Francia.cciii Rajoy mise la condizione di ricevere un sostanziale finanziamento europeo prima di allargare le maglie dell’accoglienza. Né valsero le critiche della Chiesa Cattolica spagnola a fargli cambiare opinione, convinto com’era che la Spagna non si potesse permettere un carico finanziario e lavorativo di consistenti flussi migratori nel clima di austerità economica e finanziaria in cui il paese si trovava.cciv L’intensificazione degli attraversamenti del Mediterraneo occidentale dal Marocco nel corso del 2017 si scontrò contro le misure di contenimento concordate con il Marocco per esternalizzare i confini spagnoli, dimostratesi particolarmente efficaci per mantenere basso il numero di arrivi, anche se questo risultato era stato raggiunto ad un prezzo elevatissimo in termini di violazioni di diritti umani, in particolare non tutelando adeguatamente il diritto di richiedere asilo, con la detenzione indiscriminata di migranti in transito in centri profughi in Marocco, ove le condizioni di permanenza sono ancor oggi considerate umanitariamente insoddisfacenti. L’arresto dei migranti in transito avviene con rappresaglie violente. I respingimenti in mare contraddicono il principio di “non refoulement” e l’obbligo SAR è stato spesso ignorato o trascurato.ccv All’immigrazione di provenienza prevalente subsahariana che passa per il Marocco, si deve naturalmente aggiungere il fenomeno tradizionale dell’immigrazione di marocchini verso la Spagna, I quali rappresentano un 157 fenomeno a parte, anche perché spesso si tratta di “migrazione circolare” (vedi riquadro su questo tema), che non va confuso con i flussi sub-sahariani. Nel corso del 2014, si stima che più di 12.000 migranti siano stati respinti via mare dalle spiagge delle e Canarie. Il 75% era proveniente dal Senegal e dal Mali. Ciò produsse il dirottamento dei flussi migratori verso l’attraversamento delle frontiere terrestri di Ceuta e di Melilla o cercando la via marittima delle coste settentrionali del Marocco, mentre i flussi che hanno perseguito la rotta atlantica sono diminuiti considerevolmente, meno di 1000 migranti nel 2015 (di cui 315 dalla Guinea, 136 dalla Costa d’Avorio e 85 dal Gambia). Seguendo la rotta marittima settentrionale, si stima che siano arrivati in Spagna 5.302 immigranti irregolari nel 2015, 8.048 nel 2016 e 8.385 nel 2017 (fino all’agosto di quell’anno). Pertanto, molti meno di quelli che arrivano attraverso la rotta del Mediterraneo centrale in Italia. I dati provvisori per il 2018 indicano, tuttavia, un’intensificazione notevole dell’uso della rotta marittima dal Marocco, che interessa sia persone provenienti dall’Africa sub-sahariana (69%) che nord-africani, per lo più dal Marocco e dall’Algeria. Molti sbarcano sulle coste dell’Andalusia. Tentativi di attraversamento continuano attraverso lo stretto di Gibilterra, ove operazioni di salvataggio promossi dall’organizzazione Salvamento Marítimo interagiscono con le forze di sicurezza spagnole che usano sia mezzi navali che elicotteri per monitorare le traversate clandestine. Per rafforzare le misure di contenimento, il governo spagnolo ha utilizzato mezzi tecnologici avanzati di monitoraggio, come il SIVE (Sistema Integrado de Vigilancia Exterior), instaurato sin dal 2000 per processare dati ricevuti via radar dalle navi spagnole che battono acque mediterranee e atlantiche, con sistemi di sorveglianza video ubicati lungo la costa, e segnalazioni satellitari e via aerea. Quando i natanti irregolari sono intercettati dalla Marina Reale Marocchina, i migranti sono riportati sulle coste marocchine (anche se conclusioni più tragiche sono spesso registrate dalla ONG Alarm Phone). Non è inusuale infatti che l’avvicinamento dei mezzi navali marocchini abbia comportato il ribaltamento dei natanti dei profughi in mare, con perdite di vite umane, mentre solo alcuni naufraghi sono stati salvati. Chiaramente la Marina Reale Marocchina è più interessata a impedire il processo di emigrazione verso la Spagna che ad effettuare operazioni SAR. 158

Migrazione circolare tra Marocco e Spagna Il fenomeno di migrazione circolare tra Marocco e Spagna attualmente riguarda principalmente persone con un livello di istruzione mediamente basso, inferiore a quello dei cittadini marocchini emigrati in Italia (ove si trovano molti imprenditori o professionisti di origine marocchina), anche perché la lingua straniera più nota (e insegnata nelle scuole) in Marocco è il francese, e non lo spagnolo, mentre i migranti con qualificazioni intermedie o elevate preferiscono emigrare in altri paesi europei. La maggioranza degli immigranti circolari dal Marocco sono lavoratori agricoli stagionali, il cui ingresso in Spagna è regolato da un accordo bilaterale del 2001 reso operativo solo a partire dal 2004, che voleva rispondere alla crisi dell’economia agricola spagnola degli anni 90, che vide un esodo di lavoratori dai campi verso il settore edile e quello dei servizi, anche se nel 2007 ci fu un’inversione di tendenza. Nel primo anno di applicazione di quell’accordo, il programma riguardò lavoratrici da impiegare nella raccolta di fragole a Huelva, nella Spagna meridionale, ma l’esperimento non fu un successo, perché le immigranti scelte provenivano da ambienti urbani, e non erano qualificate per il lavoro previsto, e la maggioranza delle immigrate non mostrò alcun interesse a tornare in Marocco. Nel 2005 la selezione fu fatta nell’ambito di famiglie rurali del Marocco, e solo l’8% delle immigrate non tornò in Marocco. Da allora il programma è continuato con una certa regolarità, raggiungendo il livello massimo di immigranti stagionali nel 2009, coinvolgendo 16.000 persone (sia uomini che donne). Si tratta di flussi migratori di lavoratori singoli, senza il coinvolgimento delle famiglie, che trasferiscono la loro residenza solo per alcuni mesi di lavoro. A queste forme organizzate di migrazione circolare, occorre anche associare l’immigrazione di ritorno dei marocchini che erano emigrati in Spagna da più lunga data. Il 47% dei marocchini maschi immigrati in Spagna sono disoccupati, e questa percentuale sale al 51% per le immigrate marocchine. Questo spiega l’interesse di molti migranti marocchini in Spagna a voler tornare a vivere in Marocco, dove il costo della vita è più basso, oppure, per i più qualificati, per restare in Marocco in attesa di trovare sbocchi in altri paesi europei dell’area Schengen. Con l’intensificazione dell’immigrazione irregolare in Spagna da paesi terzi, specialmente a partire dal nuovo millennio, è divenuto sempre più difficile mantenere il meccanismo migratorio circolare che tradizionalmente aveva interessato flussi dal e verso il Marocco, visto gli aumenti dei controlli dei flussi migratori lungo lo stretto di Gibilterra, e l’aumentato rischio di vedersi rifiutare l’accesso in Spagna. Nelle nuove condizioni, la migrazione circolare dal e verso il Marocco può avvenire soltanto con modalità molto più formalizzate di emigrazione rispetto al passato (come quelle previste dall’accordo del 2001), garantendo il rispetto della liceità dell’ingresso in Spagna, nei limiti di quote numeriche stabilite tra i due paesi. ccvi La gestione di questi programmi di immigrazione stagionale in Spagna, tuttavia, è complessa, implica la partecipazione di molte istituzioni spagnole e marocchine, e ci sono seri problemi di coordinamento, incertezza sul ruolo dei sindacati e degli imprenditori. Mentre i risultati positivi mostrano un interesse ad estenderlo ad altre attività agricole e ad altre aree geografiche della Spagna, ci sono problemi di implementazione, quali la questione degli alloggi, le difficoltà linguistiche, i livelli salariali, e l’armonizzazione stagionale degli interventi. Mentre il modello utilizzato sembra ben programmato e con soddisfazione reciproca, non è riuscito a produrre un processo cumulativo di movimenti di andata e di ritorno tra i due paesi come sperato, per i pesanti regolamenti spagnoli e la riluttanza delle autorità spagnole ad incoraggiare l’immigrazione stagionale. Inoltre, i regolamenti spagnoli impediscono un ritorno in Spagna per i marocchini tornati nel loro 159

paese d’origine, se si dovessero presentare nuove opportunità in territorio spagnolo, limitando questo diritto solo agli immigrati che siano stati residenti in Spagna per almeno 3 anni, rendendo meno attraente il ritorno in Marocco se l’interessato intende mantenere la flessibilità di un approccio circolare al processo migratorio. La migrazione temporanea, con la frequente ripetizione di permanenze nel paese di immigrazione, e ritorni al paese di origine, è una forma di migrazione circolare che potrebbe essere vista con favore dall’Unione Europea, in particolare con i paesi confinanti, come sperimentato dai paesi dell’est europeo a partire dall’inizio degli anni novanta, con flussi migratori principalmente verso il centro europeo. Tuttavia, dopo l’ingresso della Spagna nell’accordo di Schengen nel 1991, i controlli di frontiera tra Spagna e Marocco sono divenuti più rigidi, e i cittadini marocchini, a partire del 1991, hanno bisogno di un visto per attraversare la frontiera con la Spagna, diversamente dal periodo precedente.

L’utilizzo della via terrestre per raggiungere la Spagna si basa sul fatto che Ceuta e Melilla sono due città spagnole ubicate in Africa, confinanti con il Marocco che le circonda.ccvii I confini di Ceuta e Melilla sono l’unica frontiera terrestre tra l’Africa e l’Europa, che in qualche modo si presta ad essere utilizzata come terreno di sperimentazione dell’esternalizzazione dei confini europei, nella misura in cui persone immigrate attraverso quei territori siano trattenute in quelle aree, senza trasferimento automatico o immediate nel continente europeo, seguendo il modello applicato con l’accordo con la Turchia o anche il modello australiano, anche se un simile approccio si scontra con la possibilità di presentare domanda d’asilo in Spagna dopo aver superato le frontiere terrestri di quelle due città. La militarizzazione dei confini di Ceuta e Melilla ha visto l’impiego di metodi sofisticati di sorveglianza, la costruzione di una massiccia barriera triplice di filo spinato con lamette taglienti, teoricamente invalicabile, alta 10 metri, ad alta tecnologia, nonché fossati che circondano le due città come fortezze impregnabili, usando anche drone, ed un uso ingente di agenti della Guardia Civil spagnola, ma anche con crescente coinvolgimento delle Forze Speciali marocchine per evitare che i migranti possano avvicinarsi alla frontiera. 160

Un ruolo nuovo delle ONG: il caso di “Alarm Phone” Alla lotta senza tregua contro i flussi di migranti dal Marocco alimentata dalla collaborazione bilaterale tra governo spagnolo e quello marocchino si oppone una nuova forma di organizzare l’appoggio ai migranti, ai rifugiati e ai profughi, attraverso un’iniziativa di una ONG nota come “Alarm Phone”, che cerca di promuovere la sensibilizzazione delle diverse comunità interessate ad emigrare in Spagna, affinché vengano utilizzati metodi più sicuri per l’attraversamento della frontiera. Il suo intervento include la distribuzione di numeri telefonici da contattare in caso di rischio di naufragio o altra catastrofe. “Alarm Phone”ccviii utilizza una rete di individui e di gruppetti ubicati nelle città di Tangeri, Ceuta, Tetouan, Nador, Oujda Laauoune, che operano come osservatori e organizzazioni di sensibilità politica. Un loro gruppo nel giugno del 2017 organizzò una carovana per poter trasportare in condizioni di sicurezza 200 migranti, includendo 50 rifugiati siriani bloccati al confine tra il Marocco e l’Algeria, e sostenuti da 350 attivisti che hanno promosso una protesta organizzata nella città di Figuig. Percorrendo un tragitto di ben 400 km, prima di essere respinti dalle forze marocchine di sicurezza, che ha trattenuto i 50 rifugiati siriani in zone extra-territoriali al confine tra il Marocco e l’Algeria per ben due mesi, questa ONG riuscì a far ammettere 28 di questi rifugiati in territorio marocchino, mentre gli altri sono risultati dispersi. Attivisti di “Alarm Phone” organizzano proteste per esercitare pressione politica sulle autorità sia spagnole che marocchine in difesa dei diritti dei migranti. A volte, queste azioni hanno prodotto qualche risultato, come l’ammissione di 119 migranti a Ceuta nel 2016, ove hanno potuto esercitare il loro diritto di richiesta di asilo. Il parallelismo tra l’approccio di “Alarm Phone” e le caravane dall’Honduras verso gli Stati Uniti promosse dalla ONG “Pueblos Sin Fronteras” è significativo (vedi Pare IV di questo saggio), in quando – nonostante quanto sostenuto dai loro oppositori – obiettivo comune di queste iniziative è promuovere il trasporto dei migranti “in condizioni di sicurezza”, in contrasto con le condizioni assolutamente insicure fornite dai trafficanti di migranti, che oltre ad abusare frequentemente dei loro “trasportati”, offrono loro modalità di trasporto particolarmente rischiose. Il ruolo di queste forme organizzate di protesta va visto anche nel contesto locale in cui queste iniziative hanno avuto luogo. Dopo l’attacco del febbraio del 2014 della Guardia Civil di Ceuta contro un gruppo di immigranti che cercava di penetrare la frontiera spagnola e portò all’uccisione di ben 14 persone, una serie di proteste seguirono, fino ad una massiccia manifestazione all’ambasciata spagnola a Rabat nel febbraio 2016. Era la prima volta che dimostrazioni politiche di questa natura si fossero manifestate a difesa dei diritti dei migranti, mentre normalmente prevale l’ottica, sia nell’Unione Europea che in Marocco, che il respingimento violento dei tentativi di immigrazione sia giustificato. Manifestazioni di solidarietà si ebbero anche in altre città, sia in Spagna che in altre città europee, e si sono ripetute nel corso del 2017 anche in diversi paesi africani, incluso a Niamey in Niger e a Edea in Cameroun. È stato in base a queste proteste, che sono state avanzate anche richieste per la creazione di rotte sicure di migrazione, e per il rimpiazzo delle misure di sorveglianza, di militarizzazione e di isolamento impiegate da queste politiche di respingimento. In base a queste pressioni, nel gennaio del 2017 le autorità giudiziarie spagnole hanno deciso di riaprire il processo nei confronti degli agenti della Guardia Civil che erano stati responsabili di così tante morti nel febbraio del 2014 a Ceuta.

I respingimenti fisici, spesso violenti, degli immigranti lungo le frontiere cittadine di Ceuta e Melilla hanno provocate reazioni molto negative da parte della Corte Europea dei Diritti Umani, che si è sempre opposta ai respingimenti di massa senza adeguato processo individuale delle eventuali richieste di protezione internazionale. Obiezioni sono state sollevate anche sulla liceità dei respingimenti di persone che avevano già attraversato la frontiera spagnola, tanto più in vista 161 del fatto che, dopo il respingimento, gli immigranti respinti venivano arrestati e incarcerati dalle autorità marocchine per diversi mesi in centri di detenzione, senza alcuna assistenza legale, per essere avviati alla deportazione in direzione dei paesi d’origine. Le autorità spagnole del governo di Rajoy hanno negato di aver mai effettuato respingimenti di massa, anche se l’accordo con il Marocco mira proprio al processo di espulsione collettivo. Le giustificazioni ambigue frequentemente addotte dalle autorità spagnole sono che i respingimenti sarebbero occorsi in zone considerate “terra di nessuno”, tra le due frontiere nazionali, distanti 12 km tra Melilla ed il Marocco, ma solo 8 km tra Ceuta e la frontiera marocchina, nonostante che esistano prove che attestano senza ombra di dubbio l’intervento di forze marocchine addirittura al di là del territorio spagnolo, pur di catturare i migranti, con l’approvazione implicita della Guardia Civil. Tali interferenze marocchine sono ancor più macroscopiche quando hanno riguardato i tentativi di sbarco a Ceuta e Melilla via mare, che nel 2017 aumentarono del 140% rispetto al 2016 viste le difficoltà di superare i confini terrestri. Le forze marocchine opposero uno sbarramento vicino alle spiagge delle due città, con la scusa che ufficialmente il Marocco non riconosce la territorialità spagnola delle acque attorno alle due città, fatto su cui il governo spagnolo ha preferito sorvolare. L’approccio seguito sinora in Marocco per proteggere le frontiere terrestri e marittime di Ceuta e Melilla si è dimostrato molto efficace, generando un forte disincentivo all’utilizzo di quelle due città come porta d’ingresso alla Spagna continentale. Alla fortificazione delle città spagnole di Ceuta e Melilla in territorio africano, si sono opposti i migranti organizzandosi in gruppi numerosi, dotandosi di scarpe chiodate, che hanno permesso di assaltare in massa il muro di lamette taglienti: molti rimangono feriti, alcuni muoiono, la maggioranza viene presa dalle forze marocchine o spagnole, arrestata e inviata nei centri di detenzione in Marocco, ma più grande è la dimensione del gruppo d’assalto e maggiore è la probabilità che alcuni di loro riescano a superare la barriera, per poter raggiungere l’ufficio spagnolo ove poter dichiarare: “sono un rifugiato, e voglio chiedere asilo” (domanda che un funzionario spagnolo non può rifiutarsi di accettare), sempre che l’emigrante non debba essere prima ricoverato in ospedale. Nonostante i respingimenti, molti migranti che hanno tentato l’attraversamento di queste barriere sono riusciti a dileguarsi, approfittando della confusione e del fatto di essere più numerosi di quanti ne possano controllare gli agenti di frontiera. Nel corso del 2016, ben 2.096 persone provenienti dall’Africa sub-sahariana sarebbero riuscite a superare le barriere super militarizzate di Ceuta e di Melilla. Queste immagini drammatiche hanno riguardato in particolare i migranti sub-sahariani, che non sono riusciti ad essere riconosciuti immediatamente come rifugiati, diversamente dai profughi siriani. Le cronache dei tentativi di penetrazione delle frontiere terrestri di quelle due città non sono altro che un succedersi di infiltrazioni, respingimenti, attacchi, contrattacchi, arresti, frustrazioni, feriti, decessi, violenza crescente. È stata la collaborazione tra Spagna e Marocco in materia di contenimento dei flussi migratori a produrre la creazione di Forze Speciali dipendenti dal ministero marocchino dell’interno, con la responsabilità primaria di aumentare il controllo dei flussi migratori dall’Africa sub-sahariana, ma anche con compiti di polizia nazionale, specialmente per reprimere opposizioni interne al governo. Queste Forze Speciali hanno mostrato una particolare aggressività nel distruggere, via elicottero, campi profughi che i migranti africani avevano improvvisato nelle zone forestali vicino al confine con le due città. A queste incursioni aeree seguivano attacchi via terra per distruggere le tende dei migranti e procedere al loro arresto, per poi trasportarli nei centri di detenzione della Provincia di Nador, unici centri di questo genere esistenti in Marocco, ove nessuna garanzia di trattamento umanitario è offerta ai migranti detenuti.ccix Questa aggressività si è manifestata in forme quasi persecutorie nei confronti dei migranti in transito che sono stati espulsi dai campi spontanei ove avevano tentato di rifugiarsi. Gli alloggi in quei campi venivano bruciati per evitare che i profughi vi tornassero, mentre incarcerazioni arbitrarie venivano praticate. Una volta al mese, le Forze 162

Speciali marocchine effettuano rastrellamenti sistematici dei migranti, per evitare la formazione di gruppi di dimensioni troppo grandi, che potrebbero attrezzarsi per attaccare le barriere fortificate costruite attorno alle due città. Fino a due anni fa, molti di questi profughi venivano espulsi in Algeria, ma questo non è più possibile, viste le obiezioni radicali del governo algerino. Né trasferimenti verso il sud del Marocco hanno prodotto risultati migliori, viste le pessime condizioni in cui versano i profughi abbandonati nelle zone desertiche di quelle frontiere. In conseguenza di questa esternalizzazione dei confini europei in Marocco assistiamo ad un aumento del numero di profughi presenti nel paese, che vivono in condizioni di miseria e che si aggiungono alla povertà di cui ancora soffrono larghi settori della popolazione marocchina, nonostante l’uso del Fondo Europeo per l’Africa per alleviare i problemi sociali del Marocco e le sofferenze dei migranti in transito. Così come in Turchia, il governo marocchino ha promosso procedure per regolarizzare alcuni migranti in transito, concedendo loro la residenza in Marocco. Nel 2014, una prima campagna di regolarizzazione ha fatto sì che 25.000 domande per avere un permesso di residenza in Marocco su 28.000 presentate siano state accettate per migranti in transito, anche se la protezione concessa non è paragonabile a quella internazionale per rifugiati, specialmente per il rispetto dei diritti umani, vista la repressione violenta delle Forze Speciali nei confronti dei migranti in transito. Una seconda campagna di regolarizzazione dei permessi di soggiorni nel 2016 non sembra aver prodotto risultati promettenti, specialmente nella provincia di Nador, ove è ubicato un centro marocchino di detenzione per migranti, a causa dell’ondata di persecuzione in atto e la sua intensificazione a partire dall’inizio del 2017. Ne è conseguita la ricerca di strade alternative, seguendo tragitti e sistemi sempre più pericolosi per raggiungere l’Europa (ad es. nascosti in container o veicoli, passando giornate senza cibo o bevande). Il risultato ambito di fermare gli emigranti prima che raggiungano il continente europeo è perciò solo parzialmente raggiunto, mentre le alternative si moltiplicano e sono sempre più rischiose, con conseguenze drammatiche. Come avviene in Turchia ed in Libia, il governo marocchino usa la sua collaborazione per il controllo dell’immigrazione come strumento negoziale con la Spagna e l’Unione Europea, minacciando di riaprire i flussi migratori dal Marocco verso l’Unione Europea se le negoziazioni commerciali in corso, compresa quella relativa al Sahara Occidentale, non portassero a risultati a suo favore. I vantaggi potenziali per il Marocco includono l’eventuale appoggio spagnolo alle negoziazioni con l’Unione Europea in aree quali il commercio di prodotti agricoli e la pesca. Il Marocco anche persegue la rimozione dell’esclusione del Sahara Occidentale ex colonia spagnolo (occupato dal Marocco nel 1975) dall’accordo di libero scambio con l’Unione Europa, esclusione prodotta da una decisione della Corte Europea di Giustizia del 21 dicembre 2016 che non riconosce l’occupazione marocchina di quel territorio. Quella esclusione ostacola la commercializzazione di prodotti ittici provenienti da quei territori, ove vi sono abbondanti risorse marittime. Ciò spiega l’atteggiamento pragmatico dell’Unione che, nonostante la sentenza della Corte Europea, preferisce chiudere un occhio sulla provenienza di prodotti ittici dal Sahara Occidentale pur di evitare di veder moltiplicare i flussi di migranti attraverso la rotta del Mediterraneo occidentale. Esternalizzazione dei confini in Marocco con il governo Sánchez: una svolta o continuità col passato? C’è da chiedersi se il cambiamento radicale avvenuto nel panorama politico spagnolo, con il voto di sfiducia del marzo del 2018 e la caduta del governo di Mariano Rajoy del Partito Popolare e la sua sostituzione, dal 2 giugno, con il capo dell’opposizione Pedro Sánchez Pérez-Castejón, del PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo),ccx abbia comportato un mutamento sostanziale nella esternalizzazione dei confini in Marocco o vi sia una continuità di politiche d’immigrazione tra i due governi. È un po’ la stessa domanda che ci siamo posti per l’Italia, con il passaggio dal governo Gentiloni a quello Conte. A dire il vero, il contrasto tra il governo Rajoy e quello 163

Sánchez in termini di politica estera non poteva essere più marcato, vista la scarsa attenzione di Rajoy a questioni di politica internazionale ed europea, mentre il governo di Sánchez si è presentato molto attento ai processi politici europei, con un ministro degli affari esteri (Josep Borrell), già presidente del parlamento europeo ed ex presidente dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze, oltre ad essere un catalano che si oppone all’indipendenza di quella regione. Uno dei primi atti del primo ministro Sánchez in materia di immigrazione è stato quello di rendere disponibile, nel giugno del 2018, il porto di Valencia alla nave Aquarius per l’accoglienza dei naufraghi soccorsi nel Mediterraneo centrale, dopo il rifiuto di Salvini ad accoglierli nei porti italiani, ed un simile rigetto da parte delle autorità di Malta. Su quell’episodio abbiamo già parlato in precedenza. Sánchez affermò che l’unilateralismo ed il ricorso ad una retorica incendiaria (magari ispirata a logiche elettorali) adottati da Salvini non erano la risposta da dare ad una crisi migratoria, che richiedeva una risposta “condivisa” ad una sfida “condivisa”, una risposta che – pur tenendo conto della realtà sociale e dei problemi interni di ciascun paese che accoglie migranti – dovrebbe essere ispirata ad un principio di solidarietà e di spirito umanitario, una risposta che dovrebbe scaturire da una concertazione nell’ambito dell’Unione Europea, per poter affrontare problemi di questo genere in un quadro comune di cooperazione e non come problemi lasciati ai singoli stati membri affinché li risolvano da soli isolatamente. Una piccola imbarcazione che arrivi nelle spiagge di Tarifa, Mala o Lesbo – affermò Sánchez – arriva in Europa, e non in Spagna, a Malta o in Grecia. La decisione sull’Aquarius aprì un dibattito nel Consiglio Europeo, in cui la Spagna assunse un ruolo molto attivo. Sánchez manifestò l’intenzione di aprire le porte spagnole a molti più immigranti, e chiedeva contributi finanziari all’Unione Europea per sostenere lo sforzo. All’improvviso, tenendo conto che in Portogallo governa una coalizione di sinistra guidata dal António Costa, la penisola iberica si trasformò in una isola progressista che si confrontava con le crescenti tendenze sovraniste e nazionaliste, pronta però a dialogare con altre forze europeiste, anche se di segno centrista, che avevano dominato sinora stati come la Francia e la Germania. L’arrivo del governo socialista spagnolo, appoggiato a sinistra da Podemos, offriva all’Unione Europea un nuovo progetto di sviluppo basato su di una visione europeista e solidale, pur appoggiando il rafforzamento del sistema della moneta unica, sostenendo le riforme volte a rinforzare le istituzioni europee, in opposizione alle tendenze euroscettiche, sovraniste ed autoritarie dilaganti nei paesi dell’est europeo, viste con simpatia dall’Italia di Salvini, mentre la solidità del patto europeo è scosso anche dai possibili effetti negativi della Brexit. Sánchez propone per la Spagna un ruolo di paese europeista del meridione europeo, che in passato era stato svolto dall’Italia e che, nonostante la conferma del presidente Mattarella e delle forze di centrosinistra, è stato abbandonato dal nuovo governo italiano. L’offerta di Sánchez all’Aquarius era in sintonia con questa visione e fu accolta con speranza da coloro che sostengono un approccio solidale alla politica migratoria. Era il rifiuto a concepire i flussi migratori come una invasione, per sottolineare la necessità di alimentarsi di nuove energie che permettano ad una popolazione che invecchia di ricevere “sangue nuovo” che generi un aumento di produttività e un miglioramento delle prospettive di sviluppo per l’intero continente. Un gesto isolato o un vero cambiamento nella politica migratoria? Ci sarà anche una modifica dell’esternalizzazione dei confini spagnoli in Marocco? Il dubbio è motivato: l’accoglimento dell’Aquarius fu infatti accompagnato al suggerimento di rafforzare la collaborazione con la Libia per risolvere incidenti come quello dell’Aquarius, rafforzando meccanismi di controllo delle frontiere libiche, ribadendo così posizioni da esternalizzazione dei confini. Al vertice europeo del 29 giugno 2018 che seguì la decisione sull’Aquarius, Sánchez appoggiò la proposta di altri leader europei di creare, su base volontaria, nuovi centri in Nord Africa per ospitare i migranti e smistarli verificando chi abbia diritto a chiedere asilo e possa accedere alle frontiere europee, proprio come 164 nell’accordo euro-turco, al fine di ridurre la pressione numerica dei migranti. Questa idea è la base dell’esternalizzazione delle frontiere. La mossa spagnola sull’Aquarius destò molta attenzione, anche perché accompagnata da annunci che la Spagna avrebbero assicurato l’accesso agli immigranti irregolari all’assistenza sanitaria. L’opinione internazionale non era abituata a vedere queste aperture dalle autorità spagnole, specialmente poi trattandosi di migranti che provenivano dalla Libia. La decisione sull’Aquarius non destò particolari reazioni negative in Spagna, anche se alcuni osservarono che avrebbe potuto produrre un effetto calamita per i flussi migratori irregolari, il c.d. pull factor, di fronte alla simultanea minaccia del ministro italiano Salvini di chiudere i porti italiani e alla tendenza al rialzo degli attraversamenti marittimi verso la Spagna nel corso del 2018, che avrebbe messo a dura prova il nuovo governo spagnolo.ccxi La fragilità delle aperture del governo Sánchez sulle politiche migratorie non sta tanto in una vera opposizione politica interna nel paese sul tema migratorio, quanto nella relativa debolezza del suo mandato parlamentare,ccxii e la prospettiva che nelle prossime elezioni del 2020ccxiii possa non veder rinnovato il suo mandato a governare il paese, con una possibile vittoria del Partito Popolare (il cui leader, tuttavia, per ora si limita a sollecitare azioni da concertare a livello europeo per affrontare gli ingenti flussi migratori dal sud del mondo, anziché proporre misure unilaterali alla Salvini). Questa fragilità relativa dell’apertura di Sánchez all’immigrazione dipende anche dal fatto che in un paese come la Spagna non si possono completamente escludere residui di intolleranza legati al passato franchista che, come in Italia per quanto riguarda il fascismo, possono alimentarsi da eventuali crisi economiche e sociali, spesso associate ad una intensificazione delle proteste razziste e xenofobe. Tuttavia, l’impressione di molti è che nella misura in cui la dimensione numerica dei nuovi arrivi di immigranti riesca ad essere contenuta, la Spagna riuscirà a mantenere sotto controllo queste reazioni negative contro gli immigranti. Se, invece, si dovesse assistere ad un’esplosione numerica degli arrivi, sarebbe più difficile contenere le pressioni dei movimenti estremisti di destra. Ma molti a Bruxelles sono preoccupati che l’intensificazione recente dell’uso della rotta spagnola possa produrre un effetto cumulativo che acutizzi i flussi migratori attraverso il Marocco. Chi ha difeso finora la politica di contenimento senza tregua del fronte marocchino si preoccupa che una eventuale flessibilità di Sánchez possa portare ad un punto di rottura della politica di esternalizzazione dei confini europei, con conseguenze incalcolabili (l’invasione!). Sánchez sembra essere consapevole di questi rischi, e punta tutto sulla concertazione di una politica migratoria europea, che permetta di ridurre le pressioni derivanti dai flussi degli irregolari con interventi armonizzati da parte europea. C’è anche chi sostiene che ci sia qualche segnale che il governo di Sánchez sarà costretto, proprio da questa possibile dinamica e per evitare che la Spagna diventi il punto debole del contenimento dell’immigrazione irregolare, ad adottare misure più repressive di quanto inizialmente annunciato, invertendo il segnale di apertura inizialmente inviato a proposito della nave Aquarius. Allo stesso tempo, assistiamo in questi ultimi tre anni ad un cambiamento dell’atteggiamento dei paesi che tradizionalmente sono stati più aperti verso l’accoglienza degli immigranti. La Germania di Angela Merkel, che aveva mostrato una notevole disponibilità nei momenti più critici della crisi migratoria, nel 2015, ha recentemente adottato posizioni ben meno aperte e generose del passato, di fronte ad una crescente opposizione politica interna nella stessa CDU. La generosità della Svezia in materia migratoria sembra essere più un ricordo del passato. L’impegno massiccio di interventi SAR nel Mediterraneo centrale sullo stile del programma Mare Nostrum non è stato più ripetuto, pur continuando azioni di soccorso. Di fronte ad un panorama tendenzialmente negativo per le politiche dei vari paesi europei verso l’immigrazione, la Spagna del 2018 appare un’eccezione, aprendo un dialogo per affrontare in modo costruttivo il rapporto con i rifugiati ed i richiedenti asilo, visti anche gli atteggiamenti espressi recentemente da funzionari del ministero del lavoro spagnolo, che hanno cercato di tranquillizzare coloro che 165 erano preoccupati per l’arrivo di migliaia di immigranti sulle spiagge iberiche, non considerati una minaccia vera e propria per i lavoratori spagnoli. Apparentemente, l’opinione pubblica spagnola si mostra molto aperta verso l’accoglienza di persone che fuggono da situazioni di violenza e di guerra (più dell’86% dei cittadini spagnoli consultati sono aperti all’accoglienza di tali rifugiati), ed è più preoccupata da inquietudini sociali causate dalla elevata disoccupazione nazionale legata al possibile rallentamento della crescita economica, dalla diffusa corruzione nel paese e dalla sfiducia verso la sua classe politica che non dalla stessa immigrazione. Mentre i movimenti anti-immigranti in altri paesi europei fanno sempre leva sull’accusa che l’immigrazione sia la madre di tutti i mali sociali, questo non sembra il caso in Spagna. Ma non sono mancati episodi anche in Spagna che potrebbero aumentare la conflittualità su questa tematica. Quando negli scontri della fine luglio del 2018, circa 600 migranti di origine sub- sahariana riuscirono a sferrare un attacco violento per superare la frontiera di Ceuta, apparentemente gettando calce viva e feci contro la Guardia Civil spagnola pur di raggiungere il territorio spagnolo, le reazioni furono miste. Quegli episodi produssero una serie di arresti di alcuni migranti che avevano partecipato all’attacco, mentre altri furono riportati al confine con il Marocco senza adeguato processo di verifica delle loro condizioni di ammissibilità in territorio spagnolo. La posizione del governo spagnolo è chiaramente di tolleranza zero per qualsiasi tentativo violento di forzare l’immigrazione irregolare. Tuttavia, non è facile arrivare a conclusioni definitive sui cambiamenti degli orientamenti politici in materia di migrazione. Non abbiamo ancora visto nel governo spagnolo, al di là delle dichiarazioni retoriche, segnali concreti che facciano prevedere un cambiamento a breve delle misure di esternalizzazione dei confini spagnoli in Marocco. Occorrerà vedere se Sánchez sarà intenzionato, sarà capace e avrà sufficiente appoggio parlamentare e popolare per portare avanti riforme del sistema migratorio spagnolo nei confronti del sud del mondo, visto che per molti anni la Spagna ha sposato il blocco quasi completo dell’ingresso al paese nei confronti degli immigranti irregolari, applicando anche una politica molto avara per la concessione dell’asilo ai rifugiati e della protezione sussidiaria. Non basterà accogliere qualche barcone in più per qualche soccorso in mare, o accettare qualche rifugiato in più proveniente dalla Siria per confermare un mutamento della linea politica. Certamente sono un segnale positivo ma non basta. Occorrerà verificare se tutto il sistema dell’accoglienza spagnola ed il processo, finora completamente inefficiente e semi-bloccato, per concedere l’asilo con protezione internazionale a chi si affaccia alle porte spagnole, comprese quelle di Ceuta e di Melilla, sarà rivisitato e sostanzialmente modificato, e per il momento non abbiamo ragioni per pensare che tutto ciò sia già avvenuto o stia avvenendo. Riuscirà il neo primo ministro a garantire agli immigranti in arrivo permessi di lavoro e accesso a servizi sociali per mettere in moto un diverso sistema di accoglienza (acogida in spagnolo)? C’è chi dice che il popolo spagnolo sia “tollerante” rispetto ai flussi migratori, ma c’è anche chi dice che questa tolleranza sia estremamente “fragile”. È anche vero che in periodi di più acuta crisi come tra il 2008 e 2012, gli spagnoli non hanno mai messo l’immigrazione al centro della loro agenda politica, proprio grazie a questa diffusa tolleranza. La cartina di tornasole sarà forse l’eventuale cambiamento della politica spagnola d’immigrazione per quanto riguarda le procedure per la concessione dell’asilo con protezione internazionale e protezione sussidiaria previste dalla legislazione spagnola, europea ed internazionale e l’eventuale riforma sostanziale del sistema di accoglimento: tempi di attesa e restrizioni per avere accesso ai permessi di lavoro; accesso ai servizi sociali (compreso alloggi e servizi legali); assistenza di primo intervento all’arrivo in territorio spagnolo; formazione linguistica; assistenza occupazionale; assistenza psicologica. La politica del governo di Rajoy puntava tutto sulle misure di contenimento, rafforzamento dei confini, accordi con il Marocco, aumento dei controlli della polizia di frontiera, adozione di strumenti tecnologici sofisticati per individuare movimenti di immigranti clandestini. Quali saranno le misure che Sánchez privilegerà? 166

Per ora, i maggiori cambiamenti sono a livello di “percezione” sulla politica migratoria del nuovo governo. Ci sarà l’eliminazione del filo spinato con “lamette”, tristemente famoso al confine con Ceuta e Melilla, così come promesso dal nuovo ministro dell’interno Fernando Grande-Marlaska in un’intervista radiofonica? Ci sarà maggiore attenzione agli interventi di sviluppo in Africa, con la speranza (anche se illusoria) di fermare l’emigrazione in quel modo? Ci sarà un rafforzamento a Ceuta e a Melilla, così come nelle città della costa meridionale spagnola, dei centri ove gli immigranti possano rivolgersi per assistenza e richiedere permessi di soggiorno o richiedere asilo? Finora non abbiamo risposte chiare su questi temi. Il ministro dell’interno Fernando Grande-Malaska sembra aver confermato la linea della fermezza nei confronti dei migranti che tentano di superare il confine lungo la traiettoria che porta alle città di Ceuta e di Melilla, ribadendo l’importanza di difendere quelle linee di confine, e pertanto la necessità di continuare a contare sulla collaborazione del governo marocchino per la protezione dei confini spagnoli, incluso attraverso programmi repressivi che portino ad arresti massicci, alla detenzione diffusa e alla espulsione dei migranti irregolari. Questa cooperazione con il governo marocchino, tuttavia, non è senza limiti. Il governo di Rabat si è rifiutare di accettare la richiesta spagnola di creare hotspot in territorio marocchino per il disbrigo delle pratiche preliminari per le domande di asilo. E qui dobbiamo collegarci alle conclusioni della sezione in cui abbiano discusso, nel contesto della rotta centrale del Mediterraneo, le innovazioni del governo Conte in materia di immigrazione. Anche per la Spagna, assistiamo ad una sfida, tra visioni diverse dell’Europa e della politica migratoria. Anche se non ci sono state tentazioni sovraniste rilevanti in Spagna, anche in quel paese il governo Sánchez, come d’altronde anche in Italia i governi di centrosinistra, ed in ogni caso la Commissione Europea, non si può sottrarre facilmente dal dilemma se perseguire o no sistematicamente l’esternalizzazione dei confini con il Marocco, come fatto dal suo predecessore, anche se intende combinarla con il perseguimento simultaneo di obiettivi di lungo periodo di solidarietà nei confronti dei più deboli. Abbiamo discusso già in precedenza che, pur in una Europa “solidale”, aperta alle dimensioni ideali dell’aiuto umanitario e dello sviluppo internazionale, tendenze “realistiche” hanno imposto anche ai governi più aperturisti l’accettazione dell’approccio dell’esternalizzazione dei confini, ritenuta “inevitabile”. Accordi con paesi “terzi” come il Marocco, la Libia e la Turchia, divengono quindi facilmente concepiti come essenziali per ridurre i flussi dei migranti irregolari che attraversano il Mediterraneo. E Sánchez non è eccezione a questo, anche se, come i governi italiani del centrosinistra, i governi dei maggiori paesi europei (a cominciare dalla Germania e dalla Francia) e la stessa Unione Europea nel suo insieme, non manca di fare continui riferimenti ad una visione costruttiva delle politiche migratorie, sottolineando l’importanza della protezione dei diritti umani, l’urgenza di favorire l’accoglienza per i rifugiati, la necessità di favorire l’integrazione degli immigrati nel contesto europeo, la preoccupazione primaria per il soccorso in mare per chi è in pericolo di vita, ed in generale la priorità assoluta dell’assistenza umanitaria. Ho spesso criticato in questo saggio questa politica ibrida, dominata dalla preoccupazione di proteggere la sicurezza come criterio prioritario di breve periodo, ove la dimensione solidale è spesso solo secondaria, ma la sfida elettorale alle porte nel 2019 non lascia dubbi che questa Europa “solidale”, con tutte le sue contraddizioni, è l’unica Europa che, articolando una politica di accoglienza ai migranti mentre si ostina a respingerli, è al momento attuale è in grado di offrire qualche speranza per aprire una riflessione futura per guardare con più empatia alle cause profonde che spingono i migranti a tentare il viaggio della fortuna, scappando degli orrori dei loro paesi d’origine, terribili condizioni di guerra e di povertà estrema. L’Europa “sovranista”, invece, chiude completamente le porte ad una simile riflessione. Questo significa che forse, anche coloro che (come me) difendono ad oltranza la protezione dei diritti umani, dovranno accettare che, nel prevedibile futuro, i governi di questa nostra Europa 167 continueranno ad associare proclami a favore dei rifugiati e dei naufraghi e iniziative di sviluppo da condurre nei paesi di transito e nei paesi d’origine degli immigranticcxiv – che in fondo non fanno che ripetere i soliti programmi di sviluppo internazionale e di aiuto umanitario come soluzioni ai problemi di fondo delle migrazioni internazionali – alla continuazione delle misure di esternalizzazione dei confini. Per quanto questo possa destare non poche frustrazioni, perché questa esternalizzazione ha prodotto tante sofferenze e tante violazioni dei diritti umani, l’alternativa sul tappeto della realtà politica europea, a breve scadenza, è solo la chiusura completa di qualsiasi dimensione solidale verso i flussi migratori. Per lo meno, nell’Europa “solidale” ci sarà lo spazio per discutere nuovi paradigmi per una diversa politica migratoria, che riesca a coniugare, insieme alle misure di contenimento dell’immigrazione, i contenuti di una diversa concezione dello sviluppo europeo, ove i paesi membri possano immaginare di costruire prospettive comuni per una collaborazione e solidarietà reciproca, aperti ad un dialogo con altre società mondiali, beneficiando delle influenze positive di nuove iniezioni di capacità produttive, intellettuali e culturali che provengono dai flussi migratori. È solo in questa Europa “solidale” che gli sforzi per la concessione dell’asilo, i tentativi per migliorare l’integrazione degli immigrati nel tessuto sociale europeo, gli intenti di promuovere lo sviluppo sostenibile nei paesi d’origine, creando nuovi posti di lavoro “decente”, specialmente per i più giovani, con adeguate politiche salariali e sistemi di protezione sociale, potranno avere spazio, non più soltanto come espressioni retoriche per abbellire il quadro complessivo, ma come parte integrante di una strategia di lungo periodo che rivaluti un ruolo propulsivo della società europea aperta ad una comunità internazionale più integrata. Ma probabilmente tutto ciò sarà possibile solo se accetteremo i condizionamenti nel breve periodo imposti dai sostenitori di visioni più “realistiche” sull’immigrazione, che considerano inevitabile introdurre misure di contenimento dell’immigrazione, e che probabilmente avranno il sopravvento rispetto a coloro che privilegiano visioni più “illuminate” (mi rassegno ad essere in minoranza!). Continueremo perciò a vedere pressioni che favoriscono il rimpatrio volontario, che sperano in una riduzione immediata nel numero degli arrivi, che insistono sulla priorità assoluta di lottare contro i trafficanti clandestini. Ma almeno questa non sarà l’unica dimensione della politica migratoria. Ci sarà la sfida di trovare l’equilibrio tra il “bastone” e la “carota”, che è sempre meglio di usare soltanto il “bastone”. C’è da aspettarsi che, nonostante l’episodio dell’Aquarius, il nuovo governo spagnolo non rinuncerà agli accordi presi dal governo precedente con il Marocco per l’espulsione di centinaia di migranti e per il respingimento dei migranti che cercano di scavalcare la frontiera con la Spagna. Il tutto avverrà, probabilmente, mentre il nuovo governo spagnolo appoggerà in ogni modo le discussioni a Bruxelles per rilanciare un nuovo sistema di immigrazione e di asilo in Europa, anche se questo non comporterà necessariamente una demilitarizzazione dei confini di Ceuta e di Melilla alla frontiera col Marocco, per lo meno nel breve periodo, salvo qualche “lametta” in meno nello filo spinato. Sull’immigrazione irregolare, anche i governi più illuminati dell’Europa sembrano tutti concordare che la repressione sia necessaria, pur con tutte le eccezioni e i distinguo del caso. È difficile scrollarsi di dosso la criminalizzazione dell’immigrazione irregolare sostenuta per tanti anni. Questo non vorrà dire che il governo Sánchez si allineerà sulle posizioni sovraniste alla Salvini e alla Orbán. Sánchez probabilmente continuerà a dare una mano ai rifugiati e all’accoglienza, senza però fare eccezione alcuna all’immigrazione irregolare, che continuerà ad essere considerata come clandestina e criminalizzata, con tutte le contraddizioni del caso. Il governo Sánchez non sarà contrario ad una immigrazione aperta, ma continuerà ad essere ostinatamente duro contro quella irregolare, considerata illegale, dovendo però ancora dare una risposta alla sfida di come distinguere un immigrato da un rifugiato. Le impostazioni sovraniste continueranno a voler tenere lo straniero lontano ad ogni costo, salvo il turista, quindi nessuno 168 sconto all’immigrazione, neanche a quella regolare, con nessuna apertura per i rifugiati ed i richiedenti asilo. Il governo Sánchez si allineerà invece con altri governi possibilisti che, pur favorendo nuove forme di flussi regolari d’immigrazione, manterranno l’esternalizzazione dei confini, perché pensano che l’apertura agli immigrati richieda una riduzione numerica dei flussi in entrata, anche se questa riduzione dovesse avvenire solo a costo di un grave prezzo in termini di violazione dei diritti umani, e se queste riduzioni numeriche siano solo apparenti. Questo potrebbe significare che le promesse di apertura del governo Sánchez dovranno forse essere ridimensionate, ma pur sempre rappresenteranno una posizione potenzialmente più costruttiva, per la sua apertura ad una diversa cultura dell’immigrazione, disponibile ad una interazione con gruppi sociali di provenienza mondiale, che si contrappone alla visione sovranista. In un mondo ove tendenze sovraniste acquistano crescenti consensi politici nelle due sponde dell’Atlantico, è importante che ci sia una linea di difesa di un mondo non chiuso, capace di captare nuovi segnali per una nuova interazione internazionale nel pieno rispetto dei diritti umani più fondamentali. Tuttavia, le conseguenze negative di queste misure di esternalizzazione dei confini, in termini di violazione dei diritti umani e maggiori sacrifici e sofferenze per le persone che sono “in transito”, non possono passare inosservate, e non mi stancherò mai di denunciarle, perché dobbiamo sempre chiederci se sia giusto continuare a tenere i migranti in transito intrappolati in queste situazioni intermedia, nei paesi “terzi”. Questo è il quadro che fin qui è emerso nello scenario di questo mare nostrum, che invece di essere “nostro” è spesso usato solo come un muro d’acqua separa gli “uni” dagli “altri”. ______NOTE i Vedi la mia analisi in “LOTTA AL ‘TRAFFICO’ DI IMMIGRANTI”, quarta parte del saggio dal titolo “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO” apparsa su Partecipagire l’8/7/2018. ii Vedi M. Casas-Cortes, S. Cobarrubias, J. Pickles (May 2015), “Riding Routes and Itinerant Borders: Autonomy of Migration and Border Externalization”, Antipode, Research Gate, in https://www.researchgate.net/publication/274197514_Riding_Routes_and_Itinerant_Borders_Autonomy_of_M igration_and_Border_Externalization?enrichId=rgreq-78d9026fb85624865ac94595c535dbd4- XXX&enrichSource=Y292ZXJQYWdlOzI3NDE5NzUxNDtBUzo1NTA4MDM1OTU1NjMwMDhAMTUwODMzMzIxOD M0Ng%3D%3D&el=1_x_2&_esc=publicationCoverPdf iii Ibidem. Vedi anche European Commission, Migration and Home Affairs, “Report: Global Approach to Migration and Mobility – two years on”, aggiornato il 23/10/2018, consultabile in https://ec.europa.eu/home-affairs/what- we-do/policies/international-affairs/global-approach-to-migration_en iv Vedi European Commission, “Report on the implementation of the Global Approach to Migration and Mobility 2012-2013”, REPORT FROM THE COMMISSION TO THE EUROPEAN PARLIAMENT, THE COUNCIL, THE EUROPEAN ECONOMIC AND SOCIAL COMMITTEE AND THE COMMITTEE OF THE REGIONS, Brussels 21.2.2014, COM(2014) 96 vL’Unione Europea, quando parla di lotta contro l’immigrazione irregolare, spesso usa il termine “fight against human trafficking” (“lotta contro il traffico di persone”). Ho già ampiamente criticato nella Parte IV di questo saggio questo modo improprio di riferirsi alla lotta contro i flussi di emigranti irregolari, che travisa la vera natura del fenomeno, riducendola ad attività criminale, con una distorsione concettuale che ha effetti profondi sui modi in cui questi flussi migratori vengono affrontati, favorendo un approccio repressivo che impedisce l’esplorazione di alternative più costruttive, e limita le potenzialità per migliorare la protezione dei migranti, la concessione dell’asilo, la protezione internazionale per i rifugiati e l’assistenza d’emergenza agli immigrati in pericolo di vita, compromettendo il successo degli stessi intenti dichiarati che vorrebbero favorire l’immigrazione regolare. Ciò non significa che non esistano connessioni tra il traffico di persone e traffico di migranti (vedi Parte IV su questi legami). vi Vedasi al riguardo il documento “Maximising the Development Impact of Migration” (“Massimizzando l’impatto di sviluppo dell’emigrazione”) del 21 maggio 2013, che comprende una Agenda for Change. vii Vedi European Commission,“A European Agenda on Migration”, COMMUNICATION FROM THE COMMISSION TO THE EUROPEAN PARLIAMENT, THE COUNCIL, THE EUROPEAN ECONOMIC AND SOCIAL COMMITTEE AND THE 169

COMMITTEE OF THE REGIONS A EUROPEAN AGENDA ON MIGRATION, Brussels, 13.5.2015 COM(2015) 240 final, che può essere consultata in https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we- do/policies/european-agenda-migration/background- information/docs/communication_on_the_european_agenda_on_migration_en.pdf viii La creazione del fondo fiduciario di €3,3 miliardi (di cui 2,9 stanziati da parte europea), avvenuta alla Conferenza sull’Immigrazione a Valletta (Malta) del novembre 2015, coinvolse leader europei ed africani. Il fondo intender fornire mezzi per ridurre i flussi migratori irregolari attraverso il Mediterraneo, facilitando i flussi regolari dagli stessi paesi e favorendo simultaneamente il rimpatrio dei cittadini africani arrivati in Europa. Proposte sono state avanzate per un aumento del 30% dei fondi europei destinati alla politica estera, con uno stanziamento di €9 miliardi per la gestione delle migrazioni fuori dal territorio europeo. Vedi Federica Mongherini, “Ora i governi investano sull’Africa”, lettera a La Repubblica del 27 giugno 2018, in https://rep.repubblica.it/pwa/lettera/2018/06/27/news/ora_i_governi_investano_sull_africa-200214116/ ix Come nel primo pilastro di medio periodo dell’Agenda, e nel secondo obiettivo del GAMM. x Indicato nel terzo pilastro di medio periodo dell’Agenda e nel quarto obiettivo del GAMM. xi Questo incoraggiamento corrisponde al quarto pilastro di medio periodo dell’Agenda e al primo obiettivo del GAMM. xii Si tratta per lo più di operazioni condotte in mare nel Mediterraneo coordinate dall’agenzia Frontex, o di iniziative condotte nei paesi di transito, corrispondenti al secondo obiettivo del GAMM. xiii Vedi European Commission, Migration and Home Affairs, “Asylum, Migration and Integration Fund (AMIF)”, in https://ec.europa.eu/home-affairs/financing/fundings/migration-asylum-borders/asylum-migration-integration- fund_en. xiv Vedi Christof Van Mol e Helga de Valk, “Migration and Immigrants in Europe: A Historical and Demographic Perspective”, Capitolo 3 del volume a cura di Blanca Garcés-Mascareñas e di Rinus Penninx (2016) dal titolo “Integration Processes and Policies in Europe - Contexts, Levels and Actors”, IMISCOE Research Series, Springer Open, Springer International Publishing, AG Switzerland. xv Tra il 1989 ed il 1992, il numero di richieste di asilo aumentò da 320.000 a 695.000, per mantenersi ad un livello sempre elevato, anche se più contenuto, negli anni successivi, arrivando a 471.000 richieste nel 2001. xvi Vedi S. Castles, H. De Haas & M.J. Miller, “The Age of Migration – International Population Movements in the Modern World”, (quinta edizione, 2014), Palgrave Macmillan, London, Capitolo 5 “Migration in Europe since 1945”. xvii https://www.iom.int/news/mediterranean-migrant-arrivals-reach-150982-2017-deaths-reach-2839 xviii Gli arrivi in Grecia e a Cipro nel 2017 non riguardano l’interno anno 2017, ma il periodo tra il 1 gennaio ed il 31 ottobre del 2017. Per lo stesso periodo, solo 14.753 immigranti irregolari hanno utilizzato la rotta occidentale maggiarmente via Spagna. xix https://reliefweb.int/report/italy/mediterranean-migrant-arrivals-reach-12983-2018-deaths-reach-495 xx Questi numeri sono molto più alti delle statistiche sugli immigranti che attraversano il Meditteraneo. xxi Ciò mostra l’incidenza degli sbarchi in Italia sul numero di richieste di asilo. xxii Vedi European Union – External Action,“Common Security and Defense Policy: Missions and Operations”, Report 2017, e European Union, “Common Security and Defense Policy of the European Union: Missions and Operations”, Report 2016. xxiii Vedi Parte IV di questo saggio, già citata, apparsa su Partecipagire l’8/7/2018, ed in particolare la sezione dal titolo “Sulla repressione e prevenzione dell’attività criminale degli ‘intermediari’ dell’immigrazione”, con riferimenti dettagliati. Vedi al riguardo Maria Gabrielsen Jumbert (2018), “Control or rescue at sea? Aims and limits of border surveillance technologies in the Mediterranean Sea”, in Autori Vari, “Disasters”, Overseas Development Institute, John Wiley & Sons Ltd, Oxford. xxiv European Union, “EU OPERATIONS in the MEDITERRANEAN SEA”, https://eeas.europa.eu/sites/eeas/files/5_euoperationsinmed_2pg.pdf 170

xxv Nel settembre e nel novembre del 2009, autorità turche protestarono perché Poseidon aveva permesso ad un elicottero latviano e ad un aereo estone, che pattugliavano l’Egeo orientale per conto di Frontex, di penetrare lo spazio areo turco. Analoga protesta riguardò uno sconfinamento a Didimo. Frontex, a sua volta, accusò la guardia costiera turca di aver scortato imbarcazioni di immigranti irregolari verso acque greche. Vedi, ad esempio, https://migrantsatsea.org/tag/joint-operation-poseidon/ e https://www.mfa.gr/en/foreign-policy/greece-in-the- eu/area-of-justice-freedom-and-security.html?page=4 xxvi IBRU-Centre for Borders Research, Boundaries News “Frontex begins Operation Hermes in Lampedusa following request from Italy”, 22 February 2011, Durham University, UK. xxvii Vedi Marina Militare, “Mare Nostrum Operation”, in http://www.marina.difesa.it/EN/operations/Pagine/MareNostrum.aspx xxviii Vedi IOM, "IOM Applauds Italy's Life-Saving Mare Nostrum Operation: ‘Not a Migrant Pull Factor’ ", 31 October 2014. xxix Era quello il periodo in cui vigeva il “Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione” firmato nell’agosto del 2008 da Berlusconi e Gheddafi, di cui parlerò più in dettaglio in altra sezione di questa Parte V. xxx Le “mother ships” sono navi di maggiori dimensioni utilizzate per trasportare gli emigranti, prima di essere trasferiti in alto mare su natanti di piccole dimensioni, che sono più adatti per effettuare l’approdo sulle spiagge italiane senza essere scoperti dalle autorità o per essere soccorsi dalla guardia costiera o da altri gruppi operanti per il soccorso d’emergenza nel Mediterraneo. xxxi European Commission, “EU OPERATIONS in the MEDITERRANEAN SEA”, in https://ec.europa.eu/home- affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/securing-eu-borders/fact- sheets/docs/20161006/eu_operations_in_the_mediterranean_sea_en.pdf xxxii Vedi Emily Koller (2017), “Mare Nostrum vs. Triton”, European Studies, The University of Toronto, (Course on The European Union and the Politics of Migration), in https://munkschool.utoronto.ca/ceres/files/2017/10/Paper- Emily-Koller.pdf xxxiii L’art. 98 richiede a qualsiasi stato di fornire immediato soccorso con tutti i mezzi navali a disposizione, di fronte a una esplicita situazione di emergenza e di pericolo in mare, qualunque sia la distanza dai limiti delle acque territoriali, specialmente se tali situazioni occorrono in acque internazionali. xxxiv La differenza tra Mare Nostrum e Triton è stata riconosciuta dallo stesso presidente della Commissione Europea Juncker che ha pubblicamente dichiarato che è stato un grave errore chiudere le operazioni di Mare Nostrum, per le conseguenti perdite di vite umane nel fondo del Mediterraneo. La transizione da Mare Nostrum a Triton ha perciò comportato l’aumento del rischio di produrre vittime causate dai naufragi, per la maggiore enfasi data alla sorveglianza ed alla difesa dei confini, ed una minore attenzione alle operazioni SAR (salvo quelle raggiungibili a breve distanza dalle coste europee). xxxv Vedi, Steinhilper E, Gruijters R., “Border deaths in the Mediterranean: what we can learn from the latest data” in https://www.law.ox.ac.uk/research-subject-groups/centre-criminology/centreborder- criminologies/blog/2017/03/border-deaths xxxvi Niels Frenzen, “FRONTEX to launch new mission in Central Mediterranean – increased efforts to identify terrorists on migrant boats; Operation Themis to replace Triton” in Migrants at Sea, Monthly Archives, February 2018, in https://migrantsatsea.org/2018/02/ xxxvii Vedi Lina Vosyliūtė, “Is ‘Saving Lives at Sea’ still a Priority for the EU?”, Heinrich Böll Stiftung – European Union, 19 April 2018, in https://eu.boell.org/en/2018/04/19/saving-lives-sea-still-priority-eu xxxviii Nikilaj Nielsen, “Frontex naval operation to look for 'foreign fighters'”, EUOBERVER, 1 February 2018 in https://euobserver.com/migration/140806 xxxix Common Security and Defence Policy of the European Union: Missions and Operations Annual Report (2016), Capitolo 24 dal titolo “EU Naval Force Southern Mediterranean ()” e stesso rapporto per il 2017, Capitolo 28, con lo stesso titolo. Si veda anche Daniel Howden, “The fight to stop Mediterranean people-smuggling starts on land, not at sea”, The Guardian, 13 July 2017 in 171

https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/jul/13/mediterranean-people-smuggling-sea-lords-inquiry- uk-eu-ngo xl L’Operazione Sophia conta sul contributo della portarei Garibaldi, oltre ad altre 7 unità navali di superficie e di 7 mezzi aerei, cui si è aggiunta un’altra nave ammiraglia dalla Spagna nel corso del 2017. xli Vedi al riguardo, per esempio, “Death by Rescue” (2015), rapporto prodotto da Forensic Oceanography, gruppo di ricerca facente capo all’agenzia Forensic Architecture, Godsmith, University of London, https://deathbyrescue.org/ xlii Vedi “Refugee Council and the European Council on Refugees and Exiles (ECRE) joint response to Select Committee on the European Union Sub-Committee F (Home Affairs): Frontex Inquiry”, 24 September 2007 in https://web.archive.org/web/20141105210036/http://www.ecre.org/component/content/article/57-policy- papers/96-ecre-a-brc-joint-response-to-house-of-lords-inquiry-on-frontex.html xliii Si veda il rapporto dal titolo “Expanding Fortress” del Transnational Institute, preparato da Stop Wapenhandel (organizzazione che si batte contro il traffico di armi), e distribuito dalla Rete Italiana per il Disarmo e dall’ARCI. Il rapporto esamina l’esperienza dei rapporti stability dall’Unione Europea con 17 paesi con regimi autoritari (il 48% dei 35 paesi analizzati), ed sottolinea come questi accordi sostanzialmente legittimino la violazione dei diritti umani, mentre forniscono aiuti finanziari, formazione e forniture per attuare misure repressive nei confronti dell’immigrazione. http://www.infomigrants.net/en/post/9448/report-criticizes-eu-agreements-with- authoritarian-transit-countries-to-stop-refugees xliv Vedi Ignazio Corrao, “Towards A New Policy on Migration: EU-Turkey Statement & Action Plan”, Europarl, March 2016, in http://www.europarl.europa.eu/legislative-train/theme-towards-a-new-policy-on-migration/file-eu- turkey-statement-action-plan xlv Charles de Marcilly & Angéline Garde, “The EU-Turkey Agreement and its implications”, Robert Schuman Foundation, Brussels, 13/06/2016, https://www.robert-schuman.eu/en/european-issues/0396-the-eu-turkey- agreement-and-its-implicationsan-unavoidable-but-conditional-agreement xlvi Alcuni considerano questo accordo uno dei pochi casi in cui l’Europa sia riuscita a stabilire un rapporto collaborativo con il governo turco in questi ultimi anni, dopo anni di dispute, pressioni e controversie riguardanti il il ruolo della Turchia come membro della Nato, la sua discussa adesione all’Unione Europea (ultimamente rientrata nel dimenticatoio), la problematica dell’immigrazione proveniente dalla Turchia (anche di cittadini turchi), e tensioni legate a sentimenti anti-islamici espressi a volte in Europa, tutte tematiche che rendono difficili i rapporti con quel paese. xlvii Vedi anche European Commission - Fact Sheet, “EU-Turkey Statement: Questions and Answers” Brussels, 19 March 2016, in http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-16-963_en.htm xlviii Vedi Lesley Dudden & Kadir Ustun, “EU-Turkey Refugee Agreement: Too Big to Fail”, June 5, 2017, SETA- Foundation for Political, Economic and Social Research, Washington DC, in http://setadc.org/eu-turkey-refugee- agreement-too-big-to-fail/ xlix Pressioni sono state esercitate dalla Commissione Europea su alcuni paesi d’origine degli emigranti rientrati in Turchia, affinché riammettano nei propri territori i propri cittadini, legando l’eventuale concessione di visti regolari per l’Europa alla loro collaborazione nel riammettere nel loro territorio i migranti espulsi dall’Europa. Vedi a questo riguardo le dichiarazioni di Dimitris Avramopoulos, Commissario Europeo per l’Immigrazione, rilasciate il 14 marzo del 2018, in occasione dell’annuncio della richiesta della seconda tranche dell’accordo. https://euobserver.com/migration/141322 l Secondo Gerald Knaus, presidente dell’European Stability Initiative (ESI). li Kondylia Gogou, “The EU-Turkey deal: Europe's year of shame”, Amnesty International, 20 March 2017 in https://www.amnesty.org/en/latest/news/2017/03/the-eu-turkey-deal-europes-year-of-shame/

lii Vedi DW, “The EU-Turkey refugee agreement: A review”, 18.3.2018, in https://www.dw.com/en/the-eu- turkey-refugee-agreement-a-review/a-43028295 172

liii La Germania e l’Olanda hanno fatto molta pressione su altri paesi membri dell’Unione affinché contribuiscano al finanziamento dell’accordo euro-turco. liv Le ONG internazionali e agenzie internazionali che hanno realizzato progetti con questi fondi includono: Danish Refugee Council, CARE, World Vision, International Medical Corps, Medecins du Monde, Relief International, Mercy Corps, Danish Refugee Council, Diakonie, Federation Handicap, Concern Worldwide, GOAL, Relief International, Federation Handicap, Deutsche Welthungerhilfe, Mercy Corps Scotland, Concern Worldwide. Agenzie delle Nazioni Unite e altre istituzioni internazionali includono: UNICEF, World Food Program, UNHCR, UNFPA, IMO, WHO, International Federation of the Red Cross Societies, European Investment Bank, World Bank, International Finance Corporation, Kreditanstalt fur Wiederaufbau, European Bank of Reconstruction and Development, e Council of Europe Development Bank. Le istituzioni pubbliche turche coinvolte sono: la Direzione generale per la Gestione dell’Immigrazione, il Ministero Turco della Pubblica Istruzione ed il Ministero Turco della Sanità. lv Mentre il 75% dei fondi stanziati per il Fondo per i rifugiati in Turchia è stato reso disponibile da parte europea, solo il 25% di quelle risorse sono state spese. lvi Vedi al riguardo ESI (European Stability Initiative), “On solid ground? Twelve facts about the EU-Turkey Agreement”, 25 January 2017, Berlin, Brussels, Istanbul, in https://www.esiweb.org/pdf/ESI%20- %20Twelve%20facts%20about%20the%20EU-Turkey%20Agreement%20-%20January%202017.pdf lvii Vedi Kevin Appleby, “The European Union-Turkey Migration Agreement One Year Later: A Victory for Orderly Migration or a Violation of International Law and Protection?”, DISPATCHES FROM THE MIDDLE EAST, Center for Migration Studies, in http://cmsny.org/dispatches-eu-turkey-oneyrlater/ lviii Il Parlamento Europeo ha inviato un messaggio alla Commissione Europea affinché l’accordo rispetti il principio fondamentale di diritto internazionale noto come “regola del non respingimento”, che vieta a qualsiasi paese che riceve persone che richiedono asilo di rinviarli nel pase da cui provengono, se queste persone rischiano di essere perseguitate per ragioni legate alla loro “razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale od opinione politica”. (art. 33 della Convenzione Internazionale sullo Stato dei Rifugiati del 1951). lix Kevin Appleby, (2018) “The European Union-Turkey Migration Agreement One Year Later: A Victory for Orderly Migration or a Violation of International Law and Protection?”, Center for Migration Studies, in http://cmsny.org/dispatches-eu-turkey-oneyrlater/ lx Kondylia Gogou, “The EU-Turkey deal: Europe's year of shame”, Amnesty International, 20 March 2017 in https://www.amnesty.org/en/latest/news/2017/03/the-eu-turkey-deal-europes-year-of-shame/ lxi Vedi, Elizabeth Collett, “The Paradox of the EU-Turkey Refugee Deal”, March 2016, Migration Policy Institute (MPI), in https://www.migrationpolicy.org/news/paradox-eu-turkey-refugee-deal lxii Pur se Lampedusa è una piccola isola, le speranze di accedere alla penisola italiana sono maggiori e con migliori prospettive per proseguire verso il nord. lxiii Vedi https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda- migration/20171207_eu_action_in_libya_on_migration_en.pdf lxiv In qualche modo collegata con quest’azione diplomatica è la funzione di collegamento e di pianificazione di interventi svolta da un’unità europea chiamata Cellula Europea di Collegamento e Pianificazione (EU Liaison and Planning Cell) EULPC che, insieme alla missione ONU nel paese (la United Nations Support Mission in Libya, UNSMIL), sostiene il processo di pace con operazioni che implicano aspetti militari o semplici operazioni di polizia.. Le sue attività centrali hanno incluso la realizzazione di un piano di sicurezza per Tripoli, in collegamento con la Guardia Presidenziale, e l’assistenza per garantire la sicurezza alla comunità internazionale, che si trasferì temporaneamente a Tunisi dopo lo scoppio della seconda guerra civile nel 2014. lxv Il bilancio operativo di EUBAM Libya è di € 31,2 milioni, con contributi da 14 paesi (Austria, Croatia, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Portogallo, Regno Unito, Romania, Spain, Svezia e Ungheria). lxvi In quei mesi, la diplomazia italiana era nelle mani dell’allora ministro degli esteri Aldo Moro lxvii L’alleanza con l’ENI, l’ente italiano per lo sviluppo degli idrocarburi (o meglio, con la sua azienda operativa, l’AGIP) risale al 1956, grazie agli sforzi di Enrico Mattei. Un primo accordo sulla cooperazione tecnica ed economica fu raggiunto nel 1974 con il governo Rumor. Fu seguito da un analogo accordo con il governo Andreotti nel 1979 (l’Accordo Forlani, dalla firma del ministro degli esteri), che sarebbe dovuto durare fino al 1984, ma fu ostacolato 173

dal coinvolgimento di Gheddafi nel terrorismo negli anni 80, portando ad un gelo diplomatico tra i due paesi, anche se l’Italia mantenne buoni rapporti di cooperazione economica con la Libia per la sua dipendenza dalle importazioni di prodotti energetici dalla Libia. Si veda al riguardo Roberto Suro (1986), “Italy’s anxiety reflects disagreement with U.S. on Libya”, apparso su New York Times il 23 marzo 1986, https://www.nytimes.com/1986/03/27/world/italy-s-anxiety-reflects-disagreement-with-us-on-libya.html lxviii L’investimento finanziario della Libyan Arab Foreign Investment, ente pubblico dipendente dalla Banca Centrale Libica, avvenne il 1 dicembre 1976 e comportò l’acquisizione del 9,7% del capitale azionario nella FIAT. Allora, l’investimento ammontò a $415 milioni. Nel 1986 la Libia vendette la sua quota di minoranza della FIAT (che aveva raggiunto nel frattempo un valore di $3 miliardi) per due terzi alla IFI, la società finanziaria che allora gestiva la proprietà azionaria della FIAT ed era controllata dalla famiglia Agnelli, mentre le restanti azioni in mano libiche furono assorbite da un consorzio di banche che includeva la Deutsche Bank e la Mediobanca, per essere poi rivendute a investitori istituzionali sui mercati internazionali. lxix Gli Stati Uniti, sotto la presidenza di Ronald Reagan, guidarono in quegli anni l’azione di rappresaglia contro il regime di Gheddafi anche con azioni militari, per il coivolgimento di Gheddafi in una serie di attentati terroristici. Queste azioni coinvolsero anche la NATO, ed indirettamente l’Italia. Gli operatori economici italiani riuscirono però a mantenere aperto il rubinetto della collaborazione bilaterale nel settore energetico, vista la nostra dipendenza dall’importazione di prodotti energetici da quel paese. lxx Lamberto Dini era il ministro degli affari esteri del primo governo Prodi. lxxi Vedi quanto già indicato in questa Parte V nel paragrafo su “Alcuni dati quantitativi”. lxxii Molti immigranti erano provenienti dall’est europeo, dal Marocco, dalle Filippine, e dall’America Latina, in aggiunta a quelli dell’Africa sub-sahariana, che venivano specialmente dall’Etiopia, dall’Eritrea e dalla Somalia. lxxiii I settori interessati erano l’agricoltura, le miniere e l’industria peschiera, oltre che l’aiuto domestico, ove si erano manifestati fenomeni migratori verso l’Italia. lxxiv “Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine”. lxxv Quella legge inserì concetti come la parità di trattamento e di diritti per lavoratori italiani e stranieri, assicurò una prima sanatoria per 100.000 immigranti irregolari già presenti in Italia, autorizzò i ricongiungimenti familiari per gli immigranti, e introducesse una serie di altri meccanismi, a dire il vero alquanto complicati, anche per regolare la materia ed eliminare il problema del lavoro sommerso. Purtroppo, proprio per questa complessità, gran parte della normativa divenne di difficile applicazione e rimase in parte inattuata. lxxvi Dal nome di Claudio Martelli, allora vicepresidente dei consiglio, che ne fu il primo firmatario. lxxvii Dal nome dell’allora ministro per la solitarietà sociale, Livia Turco, e del rispettivo ministro dell’interno di quel governo, Giorgio Napolitano, che la proposero. lxxviii Il secondo governo Amato durò dal 25 aprile 2000 fino al 11 giugno 2001, succedendo al primo governo Prodi (17 maggio 1996 – 21 ottobre 1998, e a due governi presieduti da D’Alema, complessivamente dall’ottobre 1998 fino all’aprile del 2000). lxxix L’accordo fu firmato dal ministro degli esteri Dini e dal suo omologo libico Abdurralman Mohamed Shalga e prevedeva, nel comma D dell’art.1, “1. Scambio di informazioni sui flussi di immigrazione illegale, nonché sulle organizzazioni criminali che li favoriscono, sui modus operandi e sugli itinerari seguiti. 2. Scambio di informazioni sulle organizzazioni specializzate nella falsificazione di documenti e di passaporti. 3. Reciproca assistenza e cooperazione nella lotta contro l’immigrazione illegale.” Nell’art. 2 si affrontava il tema della cooperazione nella formazione e nell’addestramento, promuovendo la cooperazione tra le polizie dei due paesi. lxxx Il contenuto dell’art.1/D dell’accordo del governo Amato è uguale all’art. 19 del Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione del 2008, sottolineando una notevole continuità nella cooperazione italo-libica in materia d’immigrazione, nel passaggio da un governo italiano all’altro, anche se non possiamo ignorare le differenze significative tra le politiche perseguite dai governi di centrodestra e di centrosinistra in questa materia. lxxxi Il centrodestra rimase in carica dall’11 giugno 2001 al 17 maggio 2006 e, dopo l’interruzione del secondo governo Prodi, dall’8 maggio 2008 fino 16 novembre 2011. 174

lxxxii La legge Bossi-Fini, dai nomi dei primi firmatari della legge n. 189 adottata il 30 luglio 2002, Gianfranco Fini (allora vicepresidente del consiglio dei ministri) e Umberto Bossi (ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione), sostituiva la legge Turco-Napolitano. Per consultare il testo integrale, vedi http://www.camera.it/parlam/leggi/02189l.htm lxxxiii Nella nuova legislazione, i visti concessi agli immigranti regolari furono limitati solo a coloro che erano già in possesso di un contratto di lavoro che ne assicurasse il mantenimento economico, mettendo le premesse per una esplosione della proporzione degli irregolari rispetto agli immigranti regolari. lxxxiv La nuova legislazione rese l’accesso alle procedure di asilo sempre più difficile, rinforzando l’uso di centri di detenzione per trattenere anche i richiedenti asilo. Su queste politiche si veda la seconda parte di questo mio saggio “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO” apparsa su Partecipagire il 10 marzo 2018 con il titolo “Un’analisi critica delle politiche di contenimento dell’immigrazione”. lxxxv La legge Bossi-Fini estese fino a sessanta giorni (anziché trenta, come previsto dalla Turco-Napolitano) il periodo massimo in cui un immigrato irregolare senza permesso di soggiorno e senza documenti poteva restare nei centri di permanenza. Allo stesso tempo, si ridussero i tempi per intimare l’espulsione agli immigranti non identificati, considerando l’ingresso nel paese in via irregolare come un reato, anche se la realtà fu che le espulsioni divennero sempre più difficili, di fronte al dilagare dei flussi di immigranti clandestini. Per dettagli su questi aspetti, si veda “Sulla ‘criminalizzazione’ degli immigranti irregolari”, terza parte di questo mio saggio “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO”, apparso su Partecipagire il 29/4/2018. lxxxvi Sappiamo che questa disposizione non verrà applicata solo ai trafficanti di migranti, ma creerà non poche polemiche con coloro che sono impegnati in operazioni di soccorso a mare, non di rado accusati di svolgere, in forma camuffata, attività di favoreggiamento dell’immigrazione illegale. lxxxvii Titolo di quella legge era “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione". lxxxviii Un rapporto riservato del 2005 preparato da una missione tecnica della Commissione Europea, che visitò una serie di questi campi nel sud e nel nord del paese, dal 28 novembre al 6 dicembre 2004, fornì informazioni dettagliate sullo stato di alcuni di questi campi, illustrando le condizioni incredibilmente deprovevoli di alcuni di essi, ed il fatto che molti detenuti erano stati arrestati a caso, senza garanzie legali, includendo stranieri che lavoravano in Libia sin dagli anni 90. Quel rapporto incluse anche il testo (riportato in allegato) dell’accordo italo- libico operativo (mantenuto fino ad allora confidenziale dal governo Berlusconi) che regolava le modalità di quella collaborazione. Vedi F. Gatti, “I lager della libertà” apparso su l’Espresso del 5 maggio 2005, in HTTP://ESPRESSO.REPUBBLICA.IT/PALAZZO/2005/05/05/NEWS/I-LAGER-DELLA-LIBERTA-1.575. lxxxix La riservatezza dei contenuti di quegli accordi e la segretezza mantenuta sui loro orientamenti è stata spesso contestata dall’opposizione parlamentare in Italia e denunciata dallo stesso parlamento europeo che chiedevano maggiore trasparenza. È solamente in alcuni casi che si è venuto a conoscenza dei contenuti di quei protocolli, come quelli di Tripoli del dicembre 2007 o quelli dell’aprile del 2012 firmato dal ministro Cancellieri durante il governo Monti. xc L’intervista del febbraio 2006 del Ministro Calderoli (Lega Nord) sulla libertà di espressione a seguito della pubblicazione di caricature del profeta Maometto apparse in una pubblicazione danese – il ministro italiano indossava una maglietta con l’immagine del profeta – causò un incidente diplomatico che portò a scontri al consolato italiano a Bengasi, con incendi e vittime, e fu strumentalizzato da Gheddafi per la negoziazione sul risarcimento dei danni coloniali. xci Nel 2003, Berlusconi lanciò la proposta di un ospedale oncologico, che riprendeva una vecchia idea lanciata sin dai tempi dei governi di Craxi e di Andreotti. Nel 2004 fu proposta la costruzione di un’autostrada costiera tra l’Egitto e la Tunisia. Alcuni progetti furono realizzati con fondi italiani, altri rimasero nel cassetto per mancanza di copertura finanziaria italiana, con conseguente reazione negativa di Gheddafi che raffreddò o rallentò la collaborazione libica nei controlli dei flussi migratori verso l’Italia. xcii Il testo integrale del Trattato si può consultare su La Repubblica, in http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/esteri/libia-italia/testo-accordo/testo-accordo.html xciii La conclusione dell’accordo sintetizzato nel Trattato di Amicizia, Cooperazione e Partenariato del 2008 fu osteggiata fino all’ultimo momento, per sfiducia del dittatore libico nel governo italiano. Ma anche quando 175

quell’accordo fu concluso, il Trattato si dimostrò essere molto volatile, nonostante la sua visibilità formale, in quanto Gheddafi continuò a minacciare il governo italiano di rompere l’accordo, specialmente dopo l’inizio delle prime rivolte interne nella Libia che minacciavano il regime a cavallo del 2010 e 2011. xciv Il testo integrale del Trattato si può consultare su La Repubblica, in http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/esteri/libia-italia/testo-accordo/testo-accordo.html xcv La ratifica parlamentare del Trattato beneficiò non solo dell’appoggio del centrodestra (PdL e Lega) ma anche di gran parte dei deputati del PD, ad eccezione dei deputati PD della corrente “radicale” ed altri dissidenti. Contrari furono anche l’IdV e l’UdC. Questo arco parlamentare così vasto preannunciò la continuità tra questo Trattato e gli accordi bilaterali che verranno sottoscritti nel 2012, nel 2013 e nel 2017 dai governi di centrosinistra. L’accordo suscitò l’indignazione dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia (AIRL), che considerò l’impegno a sostenere economicamente e finanziariamente lo stato libico con ingenti fondi italiani un insulto di fronte alla richiesta dei rimpatriani italiani, sostenuta per più di 38 anni, di un risarcimento ai 20.000 italo-libici che erano stati espulsi da Gheddafi nel 1970, richiesta cui non fu mai dato seguito con azioni congrue, salvo interventi limitati e sporadici. xcvi Quel protocollo fu formulato dopo che D’Alema (allora ministro degli esteri) aveva già raggiunto, nel novembre dello stesso anno, un’intesa di massima con Gheddafi sulla costruzione dell’autostrada costiera libica a titolo di compensazione dei danni coloniali (opera non più menzionata esplicitamente nel Trattato di Amicizia), e coincise anche con il crescente allarme per il pericolo del terrorismo internazionale, che nel frattempo si stava diffondendo in molte parti del Nord Africa (con grande preoccupazione anche da parte di Gheddafi, che temeva che le nuove forme di terrorismo potessere minare la solidità del suo regime). In quel periodo assistiamo perciò ad una intensificazione dei fenomeni di espulsione dall’Unione Europea per presunto sospetto di terrorismo, che venne facilmente estesa a migranti irregolari. xcvii Vedi “Libia a Italia, non collaboriamo più - non bloccheremo più immigrati” apparso su La Repubblica l’8 maggio 2008, in http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/esteri/libia-italia/libia-italia/libia-italia.html xcviii Il Trattato incluse anche il richiamo agli obiettivi e ai princìpi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ed il riferimento alla necessità di perseguire un dialogo volto a facilitare comprensione tra culture e civiltà diverse, ricercando uno spazio comune, fondato su princìpi di tolleranza, coesistenza e rispetto reciproco. Altri temi non legati alla problematica migratoria includevano l’impegno reciproco a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza (questo era un modo implicito per riferirsi ai bombardamenti degli anni 80 e all’uso delle basi della NATO per azioni militari contro la Libia, così come all’uso del territorio libico per organizzare attentati terroristici in Italia). xcix Notiamo che questo accordo fu raggiunto ben prima di quello tra l’Unione Europea con e la Turchia del 2016. c Il ministro dell’interno Maroni firmò il 4 febbraio 2009 un protocollo operativo di cooperazione specifica per l’operalizzazione dei precedenti protocolli conclusi nel dicembre 2007 dal precedente governo, per definire modalità concrete di collaborazione italo-libica in quest’area, includendo la fornitura di sei imbarcazioni della classe Bigliani della Guardia di Finanza, da consegnare tra il maggio 2009 e il febbraio 2010. Quel protocollo fu firmato contestualmente con l’entrata in vigore del Trattato di Bengasi con legge 6 febbraio 2009, n. 721. Il contenuto di quel protocollo rimase riservato, ma in base a dichiarazioni del ministro Maroni, i pattugliamenti congiunti sarebbero divenuti una realtà dal maggio del 2009, dopo aver completato l’addestramento del personale libico. Le pressioni del governo italiano affinché la Libia assumesse un ruolo attivo nel controllo del traffico marittimo di migranti clandestini erano crescenti, visto il continuo arrivo di nuovi natanti lungo le coste italiane. ci La copertura tematica dell’Art. 19 del Trattato è analoga a quella dell’accordo bilaterale del 2000 tra Amato e Gheddafi. cii Ma ciò non meraviglia, visto che la Libia di Gheddafi non aveva mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra per i rifugiati. Semmai, ciò che meraviglia è che il governo italiano fosse disposto ad omettere completamente questa dimensione sociale e umanitaria nelle disposizioni del Trattato, nonostante che il tema dei rifugiati avesse il suo spazio anche nella legge Bossi-Fini sull’immigrazione, nonché nella normativa europea. Ciò che meravibia ancor più è che questa omissione sia stata compiuta, successivamente, anche dai governi di centrosinistra negli accordi che seguirono. ciii Quel sistema di controllo verrà poi affidato alla società italiana Selex Sistemi Integrati, del gruppo Finmeccanica, con una spesa totale di 300 milioni di euro. 176

civ Le autorità libiche firmarono nel 2009 un accordo con la società Augusta-Westland per la fornitura di 10 elicotteri alle forze armate libiche, un contratto con Alenia Aeronautica per un velivolo da pattugliamento marittimo, un altro accordo per la fornitura di due velivoli destinati alla Libyan Airlines e un contratto con la Aermacchi per un programma di revisione dei sistemi di propulsioni su dodici aerei SF–260. Nel Trattato non si faceva esplicito riferimento al possibile utilizzo di forze militari nella lotta contro l’immigrazione clandestina, ma questa collaborazione era esplicitamente illustrata nei protocolli operativi, in particolare quello di Tripoli del 2007. cv Un primo protocollo di Tripoli del dicembre 2007 prevedeva: (a) pattugliamenti congiunti lungo le coste libiche, in acque sia territoriali che internazionali, con l’uso di 6 unità navali concesse in via provissoria dall’Italia; (b) uso di equipaggi misti italo-libici, con agenti italiani con funzioni di addestramento e di assistenza tecnica (anche per operazioni SAR e di trasbordo degli immigranti dai natanti intercettati alle motovedette); (c) intermediazione diplomatica dell’Italia nei rapporti tra la Libia e l’Unione Europea per un accordo quadro euro-libico, che includesse la fornitura di un sistema di controllo delle frontiere; (d) una serie di presìdi libici per rinforzare le frontiere terrestri e marittime della Libia; (e) strategia per progetti di sviluppo in Libia e nei paesi di origine degli immigranti, per ridurre l’immigrazione clandestina e favorire i rimpatri; (f) trasferimento definitivo di tre navi allo stato libico. Un protocollo aggiuntivo, firmato il 29 dicembre 2007 dal Capo della Polizia Manganelli ed il suo omologo libico, definì aspetti operativi dei pattugliamenti marittimi, dando in mano libica il comando delle unità navali, mentre l’Italia forniva personale per l’addestramento e mezzi per la manutenzione delle navi. Il pattugliamento marittimo veniva coordinato da un Comando Operativo Interforze, diretto da un rappresentante libico, con un vice comandante designato dal governo italiano, col compito di impartire direttive in caso di avvistamenti. cvi Vedi F. Sarzanini, “Clandestini riaccompagnati in Libia. Maroni applaude, l’Onu protesta” riportato su Il Corriere della sera dell’8 maggio 2009, citato in G. Battista, “La collaborazione italo-libica nel contrasto all’immigrazione irregolare e la politica italiana dei respingimenti in mare”, Rivista AIC Associazione Italiana dei Costituzionalisti, No. 3/2011, pubblicato il 14 settembre 2011, www.rivistaaic.it/ cvii Quell’episodio fu chiamato “caso Hirsi Jamaa e altri contro l'Italia”. Vedi F. Vassallo Paleologo, “Diritti sotto sequestro – Prima e dopo la sentenza sul caso Hirsi ed altri. Ancora respingimenti collettivi?” in https://www.meltingpot.org/Diritti-sotto-sequestro-Prima-e-dopo-la-sentenza-sul-caso.html#.W61la2hKjIV; V. Polchi, “Strasburgo, l'Italia condannata per i respingimenti verso la Libia” in https://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2012/02/23/news/l_italia_condannata_per_i_respingiment i-30366965/; e Guida del Diritto, “Corte di Strasburgo, Italia condannata per i respingimenti in Libia”, Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2012, https://www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto/comunitario/primiPiani/2012/02/corte- di-strasburgo-italia-condannata-per-i-respingimenti-in-libia.php?preview=true cviii Quell’intercettazione era stata fatta in acque internazionali, e i passeggeri a bordo erano persone di nazionalità somala ed eritrea, includendo bambini e donne in stato di gravidanza. Dopo il respingimento, ventiquattro degli immigranti respinti (11 somali e 13 eritrei) presentarono ricorso alla Corte Europea, perché a causa di quel respingimento non erano stati messi in condizione di esercitare il loro diritto di richiedere asilo secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, che avrebbe dato loro la protezione internazionale offerta a chi rischia di essere rimpatriato in paesi (come la Somalia e l’Eritrea) ove rischiavano per la loro stessa vita o comunque persecuzione politica. cix Vedi F. Vassallo Paleologo (Università di Palermo), “Nuove intese tra Italia e Libia - Ancora sulla pelle dei migranti,” in “Progetto Melting Pot Europa – per la promozione dei diritti di cittadinanza” (1 settembre 2008) in http://www.meltingpot.org/Nuove-intese-tra-Italia-e-Libia-Ancora-sulla-pelle-dei.html#.Wypa96dKjIU cx Vedi, ad esempio, Gabriele Del Grande, “Italia - Libia: firmato l'accordo per il pattugliamento congiunto”, Fortress Europe, 30 dicembre 2007, in http://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/italia-libia-firmato-laccordo-per- il.html cxi La motivazione ufficiale dell’ordine di chiusura da parte del governo libico fu l’accusa rivolta ad alcuni funzionari dell’ONU di aver assunto comportamenti infamanti nei confronti del regime di Gheddafi. cxii Il governo Monti entrò in carica il 16 novembre 2011, poche settimane dopo la fine formale della rivoluzione contro Gheddafi, che ufficialmente terminò il 23 ottobre 2011. cxiii Dal momento in cui cominciò la rivolta contro Gheddafi, nel febbraio del 2011, il governo Berlusconi (che concluse il suo mandato nel novembre di quell’anno) sospese l’applicazione del Trattato di Bengasi, per l’inagibilità assoluta del paese durante la prima guerra civile, vista l’estensione del conflitto armato nel l’intero territorio nazionale. 177

cxiv Al tema del settore energetico, si aggiunga un riferimento esplicito ad un altro accordo relativo alla pesca, incluso nella Dichiarazion Congiunta. cxv L’UNHCR aveva ripetutamente richiesto garanzie che nuovi accordi di cooperazione tra i due governi permettessero un miglioramento del rispetto dei diritti umani dei migranti, specialmente per i richiedenti asilo, permettendo all’agenzia dell’ONU di operare a pieno diritto in territorio libico per registrare gli immigranti che avevano intenzione di richiedere asilo, cosa che era stata ostacolata dal regime di Gheddafi, assicurando anche un controllo sulle condizioni degli immigranti nei centri di detenzione, escludendo soprusi dovuti ad arresti arbitrari, torture, attacchi violenti, e discriminazioni razziali. cxvi Un rapporto delle Nazioni Unite aveva rivelato che migliaia di individui (comprese donne) di paesi sub-sahariani erano stati maltrattati e arrestati indiscriminatamente da milizie e da agenti di polizia, durante gli atti di rivolta del 2011 e dopo la sua conclusione, giustificando quegli atti con il mero sospetto di aver sostenuto il regime di Gheddafi o di aver combattuto come mercenari al suo fianco. Ma la verità era che questa accusa a volte si basava solamente sull’identificazione etnica degli arrestati. Ci furono accuse sollevate dalle stesse autorità ufficiali rivoluzionarie libiche contro alcune milizie autonome che sarebbero state colpevoli di questi atti di violenza durante la rivolta contro il regime di Gheddafi. Una legge emanata nel luglio del 2012 dal CNT ordinò a quelle milizie di affidare ad organismi del governo rivoluzionario (CNT) il perseguimento di accuse di collaborazionismo con il regime di Gheddafi, ma la confusione di quei mesi portò a molti abusi di potere, con la conseguete moltiplicazione di vittime innocenti tra migranti in transito sistematicamente maltrattati nei campi profughi della Libia, tanto che Medecins Sans Frontières decise di sospendere le proprie attività nei centri di detenzione di Misurata, ove si erano riscontrati ripetuti episodi di tortura da parte di milizie armate, mentre era stata negato l’accesso di urgente assistenza medica per curare molti di questi migranti feriti. Vedi Sengupta, Kim & Hughes, Solomon (24 November 2011), "Leaked UN report reveals torture, lynchings and abuse in post-Gaddafi Libya". The Independent. London. Retrieved 11 December 2011, in https://www.independent.co.uk/news/world/africa/leaked-un-report-reveals-torture-lynchings-and-abuse-in- post-gaddafi-libya-6266636.html cxvii Per il testo integrale di quell’accordo, vedi l’allegato dell’articolo “Italia-Libia. Il testo del nuovo accordo sull’immigrazione” apparso il 18 giugno 2012 su http://www.stranieriinitalia.it/attualita/attualita/attualita-sp- 754/italia-libia-il-testo-del-nuovo-accordo-sullimmigrazione.html cxviii L’ambiguità sulle operazioni in mare stava proprio nel testo dell’accordo, che sanciva l’impegno ad “adoperarsi alla programmazione di attività in mare negli ambiti di rispettiva competenza, nonché in acque internazionali, secondo quanto previsto dagli accordi bilaterali in materia e in conformità al diritto marittimo internazionale", lasciando quindi non esplicitata l’esclusione dei respingimenti in mare, anche se si faceva simultaneamente riferimento al rispetto del diritto internazionale. Un simile riferimento era un modo implicito di recepire il principio del “non refoulement”, anche se l’ambiguità restava nel rifermento a quanto previsto da “accordi bilaterali”, non meglio specificati. cxix Il CNT aveva proposta la formazione di un primo parlamento – il Congresso Nazionale Generale, dopo le prime elezioni politiche da indire entro il 2012 in un documento chiamato Dichiarazione Costituzionale (una specie di Costituzione provvisoria), varato sin dall’agosto del 2011 dal CNT. cxx L’Alleanza delle Forze Nazionali di Mamoud Jabril (già capo dell’Executive Board del CNT durante il periodo rivoluzionario, carica equivalente a primo ministro, che egli coprì per quasi tutto il 2011), risultò essere il partito vincente. Raggruppava ben 58 diverse organizzazioni politiche e 236 ONG, oltre a numerose forze indipendenti, e guadagnò il 48,1% dei voti e 39 degli 80 eletti. Seguirono il Partito per la Giustizia e la Costruzione (con il 10,3% di voti e 17 eletti), espressione libica della Fratellanza Musulmana, e il Partito del Fronte Nazionale con il 4,1% e tre eletti, con altri tre partiti con due rappresentanti eletti per ciasuno di essi. Altri 15 partiti riuscirono ad esprimere un rappresentante eletto per ciascuno di essi. cxxi Sia il governo ad interim che il Congresso erano considerati espressioni transitorie dell’edificazione del nuovo stato libico, stabilite secondo i dettami della Dichiarazione Costituzionale del CNT, in attesa di formulazione di una Costituzione repubblicana definitiva, espressa da un’Assemblea Costituente, da sottoporre alla ratifica di un referendum popolare. Purtroppo questo passo verso il consolidamento costituzionale del nuovo stato libico non fu mai completato, anche perché interrotto dal conflitto che seguì a partire dal 2014. cxxii Fu proprio in quei mesi che una serie drammatica di incidenti al largo dell’isola di Lampedusa mostrarono l’inefficacia degli accordi presi fino ad allora con la Libia per contenere il volume di tragedie umane che si 178

manifestavano lungo la rotta del Mediterraneo centrale, che richiamarono l’attenzione dell’opinione pubblica sulla necessità assoluta di provvedere più adeguati servizi di soccorso ai natanti che portavano migranti verso le coste italiane. cxxiii Vedi sopra la sezione “Le misure di controllo degli attraversamenti marittimi promosse dalle istitutioni europee”. cxxiv Quegli accordi prevedevano l’uso di areei italiani in missioni di monitoraggio dei confini meridionali della Libia, in collaborazione con le autorità libiche, e la continuazione dell’addestramento del personale di sicurezza per rinforzarne la capacità di controllo dei confini sia terrestri che marittimi. Uno degli accordi, in particolare, prevedeva che personale militare libico potesse essere impiegato a bordo di unità navali italiane, nel contesto dell’Operazione Mare Nostrum, con scopi prevalentemente dimostrativi e formativi, incluso l’addestramento all’uso del sistema V-RMTC (Virtual Maritime Traffic Centre) per il monitoraggio del traffico di natanti clandestini nel Mediterraneo centrale. cxxv Vedi la definizione dell’OCSE di “paese fragile”, ove lo stato di diritto diviene una rarità, per incapacità o assenza di strutture statali legittime che proteggano i cittadini, prolungata conflittualità e difficoltà a superare la transizione politica post-conflittuale, deteriorazione delle istituzioni governative e del sistema di sicurezza nazionale, e duratura impasse politica per risolvere tutti questi problemi. Uno stato fragile è vulnerabile a qualsiasi shock politico e militare, interno o esterno. Non è in grado di garantire diritti essenziali come la proprietà privata dei beni posseduti dai cittadini, e l’accesso a servizi essenziali come l’istruzione e l’assistenza medica. Non riesce a garantire la pacifica manifestazione pubblica dell’opinione pubblica a causa di acute tensioni etniche, religiose o regionali, con una diffusa frammentazione delle istituzioni responsabili dell’ordine pubblico, mentre le strutture politiche sono lottizzate tra fazioni rivali, specialmente su base regionale. cxxvi Il CNT aveva tuttavia una composizione eterogenea. C’era da aspettarsi che la rivolta si accompagnasse in qualche modo con un elevato grande stato di confusione istituzionale. La crescente frammentazione del paese nella fase post-rivoluzionaria è alla base di una disfunzionalità profonda dello stato libico, che oggigiorno è divenuta cronica. cxxvii Absahmain riuscì in questo intento grazie al ruolo determinante di quei membri del Congresso che avevano una forte ispirazione islamista, l’appoggio anche di rappresentanti moderati di ispirazione islamica, la presenza numerosa di molti rappresentanti “indipendenti”, le cui alleanze risultarono molto ambigue. Ma Absahmain non si fece scrupolo anche di esercitare pressioni fisiche sul Congresso con l’utilizzo di milizie armate, promuovendo lui stesso la formazione di un gruppo armato chiamato Libya Revolutionaries Operations Room, LROR, cui affidò il controllo della sicurezza del Congresso e della capitale, nonostante le proteste di molti membri del Congresso. cxxviii Queste formazioni tribali sono presenti ovunque, nelle zone sahariane, nella provincia del Fezzan, nella parte meridionale della Cirenaica, con la presenza anche di popolazioni nomadi autonome, abituate a muoversi liberamente con i paesi limitrofi come l’Algeria, il Ciad ed il Niger, fino al Mali e al Burkina Faso, ma anche nel nord ovest del paese, verso il confine con la Tunisia, così come nei vari centri della Tripolitania e della Cirenaica mediterranea. cxxix Per secoli quelle popolazioni, per lo più di origine berbera o araba, furono coinvolte nel traffico di schiavi, lungo le stesse rotte oggi usate dagli emigranti che si recano in Europa, ma anche dai trafficanti di droga e dai terroristi jihadisti. La realtà tribale non ebbe un ruolo determinante nella rivoluzione del 2011, ma ha una significativa influenza nelle tensioni esistenti tra le varie milizie autonome. cxxx Questa volatilità delle lealtà tribali è stata sfruttata dai gruppi terroristici come Al Qaeda e Isis, che hanno cercato di interagire con queste aggregazione per creare zone di influenza regionale. Non sempre però i gruppi terroristici hanno avuto grande successo in questa interazione. In particolare, l’ISIS ha trovato molte difficoltà a tener conto di questo fattore tribale, che spiega i suoi insuccessi recenti in Libia. cxxxi Gli Stati Uniti avevano mantenuto, con l’amministrazione Obama, una posizione molto equilibrata tra le varie formazioni, preoccupati, semmai dei possibili rigurgiti del terrorismo jihadista in Libia. Trump ha manifestato simpatie più esplicite nei confronti di Haftar, per la sua posizione decisiva contro tutte le formazioni jihadiste, anche se questo non ha alterato un generale disinteresse verso la Libia (salvo che per le ricadute nella lotta contro il terrorismo) mentre l’Unione Europea è più direttamente coinvolta. cxxxii Molti gruppi islamici affiliati ad Al Qaeda accusarono l’ISIS per attacchi condotti in Tunisia al museo del Bardo, a Susa ed al confine libico-tunisino. 179

cxxxiii All’inizio di gennaio, un suo attacco all’accademia della polizia di Zliten provocò 65 morti. L’ISIS si rivendicò l’esplosione di un’auto bomba avvenuta lo stesso giorno nel porto di Ras Lanu, che provocò molte vittime. Scontri tra militanti del MSSI e forze militanti di Sabrathacxxxiii ebbero luogo alla fine di febbraio 2016, seguiti da tentativi dell’ISIS di prendere possesso di alcuni edifici in quella città, anche se le milizie locali riuscirono ad espellere l’MSSI. Analoghi scontri si ebbero con l’ISIS nel distretto di Zawagha. cxxxiv L’Italia aprì a settembre 2016 un ospedale a Misurata per assistere i feriti di quello scontro. cxxxv Ciò suscitò la protesta da parte del GAN per l’appoggio francese ad Haftar, che continuava a non riconoscere il nuovo governo di unità nazionale. cxxxvi Le Nazioni Unite a volte cercarono scorciatoie per arrivare a risultati concreti, sperando nell’imposizione di compromessi non sufficientemente sostenuti da tutte le parti interessate, con la coseguente fragilità degli accordi presi. Nel mese di ottobre del 2015, l’inviato speciale dell’ONU, il diplomatico spagnolo Bernardino León, dopo consultazioni affrettate, e fece un annuncio a sopresa, nominando Fayez Sarraj come primo ministro di un nuovo governo di unità nazionale, governo che però non era né espressione di proposte provenienti dal ciò che era rimasto del vecchio Congresso Nazionale Generale di Tripoli né dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk. León sperava che suggerendo un governo di unità nazionale in questo modo sarebbe riuscito ad avere il sostegno di ambedue i parlamenti rivali. L’annuncio avvenne in un momento convulso, visto che l’inviato speciale dell’ONU venne sostituito immediatamente dopo, a novembre del 2015, dal tedesco Martin Kobler, che accelerò l’organizzazione di una conferenza di pace che ebbe luogo a Roma il 13 dicembre del 2015, con la partecipazione di membri dei due parlamenti concorrenti e di molti governi di paesi interessati. Quel cambiamento di guardia per quanto riguarda l’inviato speciale dell’ONU, avvenuto proprio mentre erano in atto decisioni particolarmente delicate per le scelte politiche fondamentali sul varo del nuovo programma di pace, non favorì di certo la trasparenza di quanto avvenne in quei giorni e rimase come una ombra che ha oscurat le decisioni successive. cxxxvii La Camera dei Rappresentanti avrebbe proseguito la sua attività come organo legislativo, mentre veniva istituito un nuovo organismo consultivo, il Consiglio di Stato, i cui membri sarebbero stati nominati dall’esistente Congresso Nazionale Generale. Era un modo per riconoscere il processo istituzionale avviato nel 2014, e allo stesso tempo dare un contentino a Tripoli, affidando ancora una funzione al risuscitato Congresso, che sulla carta non avrebbe dovuto più esistere. cxxxviii Vedi European Council of Foreign Relationships, “A QUICK GUIDE TO LIBYA’S MAIN PLAYERS”, in https://www.ecfr.eu/mena/mapping_libya_conflict, ed in particolare la sezione di Matteo Toaldo su “Political actors”. cxxxix Molti osservatori internazionali criticarono il modo in cui il GAN venne al potere e la designazione di Sarraj alla posizione di primo ministro, come operazioni prese dall’alto e dall’esterno del contesto libico, come sopra indicato (vedi endonte 145). Altri osservatori constatarono l’assenza di rappresentanti delle comunità berbere nel dialogo politico che aveva portato alla redazione dell’LPA e alla scelta dei nuovi organi (il Consiglio Presidenziale e il Consiglio di Stato) o l’assenza di molti gruppi combattenti che avevano svolto un ruolo relativamente autonomo nel conflitto civile. cxl Il 24 marzo 2016, il Congresso Nazionale Generale dichiarò lo stato d’emergenza quando ebbe notizia dell’arrivo a Tripoli di quattro membri del nuovo governo GAN. Ma quella resistenza fu inutile, e per la fine di marzo gran parte dei ministri del GAN, incluso il neo primo ministro Serraj erano arrivati a Tripoli dalla Tunisia, mentre molti membri del Congresso decisero di abbandonare Tripoli. cxli Incluse Sabratha, Zultan, Rigdaleen, Al-Jmail, Zuwara, Ajilat, Sorma e Zazia. cxlii Quell’accordo bilateale italo-libico del 2017 fu accompagnato da tentativi di dialogo con altri paesi coinvolti direttamente o indirettamente nel processo migratorio lungo la rotta centrale del Mediterraneo, tentativi condotti sia a livello multilaterale (tentando una cabina di regia con il Ciad, il Mali ed il Niger) che a livello bilaterale, con paesi quali la Tunisia ed il Niger. Numerose visite furono condotte dal nuovo ministro dell’interno Marco Minniti in paesi come la Tunisia, Malta, Egitto, Algeria, Ciad, Niger, e Mali, nei quali aveva cercato di stabilire accordi con i suoi omologhi locali per rafforzare il contrasto all’immigrazione irregolare, proponendo varie forme di collaborazione e di consultazione, con addestramento delle forze di polizia e assistenza alla lotta al terrorismo. cxliii L’aspetto controverso riguarda particolarmente il coinvolgimento delle autorità navali italiane, pur se apparentemente in funzione di addestramento del personale libico, in funzioni di coordinamento delle operazioni di soccorso nelle acque territoriali libiche, rischiando di divenire corresponsabili di operazioni che violano il principio di “non refoulement”. Tutto ciò è possibile particolarmente nell’ambito della missione di assistenza 180

tecnica della marina militare italiana alla guardia costiera libica nota come Operazione Nauras. In quel contesto, unità navali italiane potrebbero trovarsi coinvolte con responsabilità dirette nei respingimenti collettivi che la guardia costiera libica effettua regolarmente. Se, ad esempio, è l’MRCC di Roma che decide che la competenza di un’operazione SAR è da affidare alle autorità libiche per la vicinanza dell’incidente nautico alla costa libica, e le attività di soccorso portano alla riconduzione dei naufraghi soccorsi nei porti libici, se le navi della nostra marina militare forniscono istruzioni per il coordinamento delle azioni svolte in acque territoriali libiche, il governo italiano assume responsabilità dirette che non possono essere ignorate. Queste situazioni sono ancora più complesse nel caso in cui ONG umanitarie siano coinvolte nelle operazioni di soccorso, e sorgano eventuali dispute con la guardia costiera libica perché le ONG potrebbero rifiutarsi (come spesso accade) di portare i naufraghi nei porti libici. cxliv Una specifica menzione fu fatta dell’intento del Memorandum di migliorare la protezione del tessuto sociale libico e del suo equilibrio demografico, nonché la sua situazione economica e le condizioni di sicurezza, minacciate dai flussi illegali di migranti (questo intento spiega certe operazioni, spesso controverse, lanciate dal ministro Minnini a livello locale). cxlv Il movimento più vicino alla Fratellanza Musulmana in Libia è il Partito per la Giustizia e Costruzione o Justice and Construction Party, JCP, che nelle elezioni del 2012 arrivò in seconda posizione (ma con molto minor seguito) rispetto al partito dell’Alleanza delle Forze Nazionali (National Forces Alliance, NFA), di orientamento liberale e secolare, che prese la maggioranza relativa. JCP è stato alla base della scissione tra il Governo di Salvezza Nazionale di Tripoli e la Camera dei Rappresentanti di Tobruk nel 2014, non avendo riconosciuto le elezioni politiche del 2014. cxlvi In cambio, la nostra Costituzione repubblicana garantisce piena protezione per i rifugiati, in ottemperanza alla Convenzione di Ginevra del 1951 e al principio ben riconosciuto di non refoulement. cxlvii “Il tema del rispetto dei diritti umani è del tutto marginale nel memorandum d’intesa e viene soltanto accennato nella Dichiarazione di Malta con un generico riferimento ai diritti umani.” Vedi Filippo Scuto, “IMMIGRAZIONE: L’ACCORDO ITALIA-LIBIA E LA DICHIARAZIONE DEL CONSIGLIO EUROPEO DI MALTA”, Centro Studi sul Federalismo, in Commenti, n. 101, 13 febbraio 2917. cxlviii Vedi il comunicato stampa del Ministero dell’Interno del 12 gennaio 2017: “Dichiarazione congiunta del Ministro dell’Iterno Minniti e del Commissario Europeo Avramopoulos” cxlix “Migranti, Minniti ha le idee chiare: ‘Gestione dei flussi, accoglienza diffusa e integrazione’ ", Redazione di Today.it, 27 settempre 2017, in http://www.today.it/politica/piano-migranti-marco-minniti.html cl La proposta fu fortemente criticata dall’opposizione (Lega e M5S), ma anche da molti settori del PD. cli Nella visione di Minniti, questi Corridoi avrebbero potuto portare ad un ingresso di 10.000 profughi in Europa, utilizzando itinerari e mezzi di trasporto completamente sicuri, senza i rischi cui il traffico clandestino sottopone la maggioranza dei migranti (inutile dirlo che di corridoi umanitari non si parla più con l’arrivo di Matteo Salvini al ministero dell’interno). Ma questo sistema di accoglienza, secondo Minniti, doveva essere accompagnato con una intensificazione dei rimpatri volontari di quei migranti che non hanno i requisiti di chiedere il diritto di asilo. La dimensione “accoglienza” della politica migratoria di Minniti si è ulteriormente manifestata nel Piano Nazionale d’Integrazione presentato nel settembre 2017, rivolto a 74.853 rifugiati e aventi diritto alla protezione sussidiaria. Il Piano aveva anche lo scopo di prevenire e contrastare discriminazioni contro rifugiati e immigrati. Su questo tema mi soffermerò nella Parte VI. Nel Piano Nazione si identifica un “percorso di integrazione” da richiedere all’immigrato per permetterne l’adeguamento al nuovo contesto socio-culturale in cui si trova nel paese ricevente. Minniti suggerì elementi di questo percorso come la conoscenza della lingua italiana, il rispetto della Costituzione della nostra Repubblica, il riconoscimento della laicità dello Stato, il rispetto per i diritti della donna. Questi requisiti erano individuati insieme ad una serie di diritti relative al ricongiungimento familiare, alla libertà di religione, all’accesso a strutture educative, ai servizi sanitari e alla casa. clii Vedi Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, ASGI “La sospensione del memorandum Italia – Libia è un’occasione per mettere in discussione la politica degli accordi” in https://www.asgi.it/wp- content/uploads/2017/03/2017_3_26_Sospensione-del-memorandum_Nota_ASGI.pdf cliii Questa accusa è stata fatta dall’ASGI nel novembre del 2017. L’art. 80 della nostra Costituzione prevede che i trattati di natura politica e che comportino oneri alle finanze statali debbano essere ratificati con legge del Parlamento. Immagino che questo sia il motivo per cui l’art. 4 del Memorandum includa la clausola “senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato”, clausola di dubbia validità viste le forniture, le attività di addestramento e altre attività previste nell’accordo, che richiedono l’impiego di ingenti risorse finanziarie. L’art.4 sembra più che 181

altro un escamotage per eludere il passaggio parlamentare che sarebbe stato altrimenti necessario per rendere operativo l’accordo. cliv La convalida parlamentare avrebbe potuto essere evitata se il governo avesse ottenuto l’autorizzazione a concludere l’accordo con una legge del Parlamento, ma nessuna legge fu adottata in questo senso clv Nonostante quanto previsto dall’art. 4 del Memorandum, le richieste di mezzi e di apparecchiature fatte dal governo di Serraj sono di gran lunga superiori rispetto a quelle di governi anteriori, e possono essere solamente coperte in parte dai contributi europei, per cui lo stato italiano sarà costretto a chiedere ulteriori stanziamenti. Per questo motivo, nel frattempo, il governo italiano ha usato fondi previsti per la cooperazione allo sviluppo, che sono stati così distolti per finanziare le attività di questo Memorandum. Questo è dimostrato dal decreto 4110/47 emesso dal ministero degli affari esteri per accordare un transferimento di fondi inizialmente previsti per la cooperazione con l’Africa per due milioni e mezzo di euro per riparare quattro motovedette da fornire alla guardia costiera libica nel quadro del nuovo accordo con la Libia, mentre altri trasferimenti riguardavano attività di addestramento del personale della guardia costiera libica e per forniture di equipaggiamenti, ed altre attività previste dall’accordo. clvi Come invece fu invece il caso per il Trattato di Amicizia del 2008, che entrò in vigore solo dopo la convalida del Parlamento. clvii Questo spiegherebbe anche la reazione della Camera dei Rappresentanti alla firma di questo nuovo accordo, considerato “nullo e privo di valore”. clviii L’“assistenza e cooperazione UE (dovrebbero essere) ‘incondizionate’: il supporto dell’UE non dovrebbe ‘incentivare i Paesi terzi a cooperare alla riammissione dei migranti irregolari o dissuadere con la coercizione le persone dal mettersi in viaggio, oppure fermare i flussi diretti in Europa’ ”. Vedi Parlamento Europeo, “Immigrazione: la risposta deve essere globale”, Comunicato stampa, 5 aprile 2017, in http://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20170329IPR69074/immigrazione-la-risposta-deve-essere- globale clix Ho ripetutamente criticato in questo saggio il valore di questo criterio per valutare il successo di politiche migratorie: si copre un buco per crearne un altro, si riducono gli sbarchi e si gonfia il numero di detenuti nei campi profughi si chiude una rotta, se ne apre un’altra. E ciò dipende dal valore autonomo dell’immigrazione, determinata da fattori che non vengono alterati da queste misure di contenimento. clx Vedi Pablo Tosco, OXFAM (2018) “LIBIA, L’INFERNO SENZA FINE”, OXFAM Italia e Borderline Sicilia – Osservatorio sulla migrazione in https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2018/01/MediaBrief_FINAL_OK.pdf clxi Vedi Maggie Michael, “Backed by Italy, Libya enlists militias to stop migrants”, August 29, 2017, https://www.apnews.com/9e808574a4d04eb38fa8c688d110a23d clxii Gli accordi di Sabratha (uno dei punti di partenza dei viaggi clandestini) avrebbero interessato due milizie della zona, una nota come Al Ammu (o Brigada del Martire Anas al-Dabashi), e l’altra come Brigata 48, facenti capo al clan tribale della famiglia Dabashi, per bloccare gli imbarchi illegali dalla Libia (ambedue queste milizie sono note per essere implicate nel traffico di migranti). Queste milizie hanno anche assunto il controllo dei centri di detenzione dei migranti nella città di Sabratha. clxiii Vedi ad esempio l’opinione espressa in un editoriale del New York Times e in un articolo del Washington Post, che avalla questa ipotesi secondo la quale gli accordi con la guardia costiera libica si siano in realtà trasformati in trattative sottobanco con capi tribali e le rispettive milizie, con passaggio di finanziamenti per compensarle dei ridotti profitti scaturibili dal traffico migratorio di cui normalmente si avvantaggiano nella losca organizzazione dei viaggi clandestini. Per l’editoriale del NYT, vedi The Editorial Board, “Italy’s Dodgy Deal on Migrants”, (“Il losco accordo dell’Italia sui migranti”), New York Times, 25 settembre 2017, https://www.nytimes.com/2017/09/25/opinion/migrants-italy-europe.html?mcubz=1 . Per l’articolo sul Washington Post, vedi Matthew Herbert & Jalel Harchaoui, “Italy claims it's found a solution to Europe's migrant problem. Here's why Italy's wrong” (“L’Italia asserisce di aver trovato una soluzione al problema dei migranti dell’Europa. Ecco perché l’Italia ha torto”), Washington Post, 26 settembre 2017, in https://www.washingtonpost.com/news/monkey-cage/wp/2017/09/25/italy-claims-its-found-a-solution-to- europes-migrant-problem-heres-why-italys-wrong/?noredirect=on&utm_term=.97ae0ba0476d Naturalmente il governo italiano ha sempre negato che operazioni di quel genere siano mai avvenute. In incontri con alcuni sindaci libici, avvenuti sia in Libia che a Roma, il ministro Minniti ha suggerito i contributi italiani sono stato rivolti soltanto a permette alle comunità locali l’accesso a mezzi necessari per avviare prospettive di crescita e di sviluppo 182

alternativo alle attività di traffico di migranti e del contrabbando, e non corrispondono a intrallazzi e a tentativi di corruzione. In quegli incontri con i sindaci libici, i trafficanti di migranti sono stati indicati come il nemico comune, mentre l’obiettivo condiviso sarebbe stato il rispetto della legalità, il rispetto dei diritti umani fondamentali e il perseguimento di obiettivi di sviluppo. Queste sembrano dichiarazioni inevitabili in incontri ufficiali, ma non sembrano sufficienti per dissipare le ombre da una realtà dominata da una corruzione generalizzata così difusa in Libia, che ha particolarmente interessato le milizie ed i loro legami tribali. clxiv Alcuni rappresentati della nostra amministrazione pubblica auspicano che simili trattative sottobanco possano sottrarre le milizie locali dalle loro attività illecite per legittimarle e coinvolgerle in processi costruttivi per lo sviluppo della Libia. Gli accordi con i potentati tribali locali forse riescono a ridurre il numero degli sbarchi in Italia nel breve periodo e potranno creare qualche fonte di reddito (magari illecito) per giovani senza lavoro, ma rafforzano proprio quei gruppi che hanno un potere destabilizzante per il paese. clxv Una prova delle condizioni disastrose in cui versano i detenuti dei centri libici sta nello stato delle persone che sbarcano in Italia, che mostrano, al di là degli effetti dei disagi di un viaggio in mare fatto in pessime condizioni, con frequente disidratazione e malnutrizione, segni evidenti che solo possono essere prodotti attraverso prolungata privazione di cibo e di bevande nei luoghi di detenzione, così come altri segni fisici, come la difficoltà a camminare, mutilazioni o ferite dovute a violenze subite, spesso conseguenza di permanenze drammatiche in quei centri. clxvi Le descrizioni delle torture subite dai migranti nei campi di detenzione libici (o per lo meno di alcuni di essi) sono spesso allucinanti: persone picchiate a sangue, legate, o addirittura appese a testa in giù, obbligate a non denunciare questi maltrattamenti nel caso di eventuali visite di osservatori stranieri, sotto minaccia di ulteriori ritorsioni. I detenuti cercano di scappare da queste condizioni infernali in ogni possibile modo, scavando vie di uscita, o tentando la strada della corruzione dei gruppi armati, che sono però particolarmente esosi nell’accettare eventuali prebende (a volte esigono l’obbligo a lavoro forzato prima di accettare la “bustarella” ricevuta da parenti lontani dei migranti). clxvii Episodi di arresti da parte delle autorità del Sudan nei confronti di migranti obbligati a ritornare in quel paese sono stati riportati dalla cronaca, e rappresentano esempi preoccupanti della mancanza di queste condizioni di sicurezza. clxviii Su questi centri ed i loro limiti, si veda quanto ricordato nella Parte II di questo saggio “IMMIGRAZIONE: ACCOGLIENZA O CONTENIMENTO? UN NUOVO APPROCCIO”, apparsa con il titolo “Un’analisi critica delle politiche di contenimento dell’immigrazione” su Partecipagire il 10 marzo 2018. clxix E. Cusumano, “How NGOs took over migrant rescues in the Mediterranean”, Leiden, 1 September 2016, Opinion in euobserver, 5 May 2018, https://euobserver.com/opinion/134803 clxx Vedi la sezione su “Lotta contro il traffico di migranti e percezione del ruolo delle ONG” contenuta nella la mia analisi su “LOTTA AL ‘TRAFFICO’ DI IMMIGRANTI”, quarta parte del saggio di questo mio saggio, apparso su Partecipagire l’8/7/2018. clxxi http://www.imo.org/en/About/conventions/listofconventions/pages/international-convention-on-maritime- search-and-rescue-(sar).aspx clxxii http://www.imo.org/en/About/conventions/listofconventions/pages/international-convention-on-maritime- search-and-rescue-(sar).aspx clxxiii Il Codice è stato sottoscritto dalle seguenti ONG: SMH – Search & Rescue; Sea-Watch.org; International Maritime Rescue Federation; Proactica Open Arms (Life Guard Sea Rescue); Sea-Eye; Save the Children; Humanitaria Pilots Initiative; Human Rights at Sea; Jugend Rettet JUVENTA; SOS Méditerranée. clxxiv Questi diritti includono: (1) il Diritto alla vita; (2) il Diritto a ricevere assistenza umanitaria; (3) il Diritto alla protezione e alla sicurezza, come definite nel diritto internazionale e protette dalla regola universale dello stato di diritto; (4) il Diritto a richiedere asilo e rifugio in luogo sicuro secondo quanto stabilito dalla Convenzione del 1951 sui Rifugiati. clxxv Il Codice Volontario è stato presentato al Parlamento Europeo il 29 marzo 2017 in una sessione dedicata alla “Ricerca e Soccorso nel Mar Mediterraneo – Criminalizzazione dell’aiuto umanitario” (Frontex non inviò nessun rappresentate a quella sessione, nonostante l’invito). Molti parlamentari europei espressero in quella occasione 183

il proprio sostegno al contenuto del Codice Volontario di Condotta sostenendo l’iniziativa, e 26 di essi inviarono una lettera al Presidente della Commissione Juncker, al Vice Presidente della Commissione Timmermans, al Commissario Avramopoulos, e al Presidente Tusk e a tutti i ministri della Giustizia e dell’Interno dell’Unione Europea, richiamando l’attenzione su questo Codice Volontario e sul fatto che esso si fonda sul rispetto complessivo dei princìpi umanitari su cui il soccorso delle persone a rischio in mare si dovrebbe fondare. clxxvi http://www.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/codice_condotta_ong.pdf clxxvii Il Codice di Condotta ministeriale era una risposta sia ad una dichiarazione congiunta del 3 luglio 2017 del Commissario europeo Avramopoulos e dei ministri dell’interno della Francia, Germania e Italia, che annunciava un “Piano d’Azione sulle misure per sostenere l’Italia, ridurre la pressione lungo la rotta del Mediterraneo centrale e accrescere la solidarietà”, che ad una sollecitazione della Commissione Difesa del Senato della Repubblica che, nel maggio del 2017, aveva lanciato questa proposta per superare le critiche avanzate alle ONG da entità come la Frontex ed il Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. clxxviii La decisione di MSF fu provvisoria e riguardava solo la nave Vos Prudence (allora stazionata a Catania), ma non l’Aquarius, gestita in collaborazione con SOS Méditerranée, che presidiava in acque internazionali al largo di Tripoli. Ma queste preoccupazioni sarebbero state condivise facilmente anche da molte altre ONG e altre navi soccorritrici. clxxix “La mancata sottoscrizione di questo Codice di Condotta o l’inosservanza degli impegni in esso previsti può comportare l’adozione di misure da parte delle Autorità italiane nei confronti delle relative navi, nel rispetto della vigente legislazione internazionale e nazionale, nell’interesse pubblico di salvare vite umane, garantendo nel contempo un’accoglienza condivisa e sostenibile dei flussi migratori”. Vedi http://www.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/codice_condotta_ong.pdf clxxx Vedi http://www.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/codice_condotta_ong.pdf per il testo integrale del Codice di Condotta. Vedi anche Marco Zatterin, “Salvataggi in mare: ecco il codice Ue per le Ong” , La Stampa,6/7/2017 http://www.lastampa.it/2017/07/06/esteri/salvataggi-in-mare-ecco-il-codice-ue-per-le-ong- i8AWDLWLBrQX6UozUORDtJ/pagina.html; e La Repubblica, “Migranti: i 13 impegni del Viminale per le Ong”, 31 luglio 2017, http://www.repubblica.it/politica/2017/07/31/news/migranti_i_13_impegni_del_viminale_per_le_ong- 172074642/ clxxxi Alla riunione del Ministero del 31 luglio del 2017 alla quale il Codice fu presentato, Save the Children e MOAS accettarono le condizioni previste dal Codice, seguite successivamente da Association Européenne de sauvetage en mer (SOS Méditerranée), e dalla ONG spagnola Proactiva-Open Arms e dalla ONG tedesca Sea-Eye. Ma sia MSF, e le due ONG tedesche Jugend Rettlet e Sea Watch si rifiutarono di accettare. Vedi Redazione Altalex, “Ong, cosa dice il codice di condotta e perché viene contestato”, 1 agosto 2017. clxxxii Vedi l’articolo di Roberto Saviano pubblicato su La Repubblica del 5 agosto del 2017 con il titolo “Io sto con Medici senza frontiere. Un errore introdurre il reato umanitario", seguito dall’intervento di Ilvo Diamanti su La Repubblica del 6 agosto del 2017 sul ruolo delle ONG, e la reazione critica all’intervento di Saviano vivacemente espresso da Ernesto Galli della Loggia, in un editoriale de Il Corriere della Sera apparso il 6 agosto sotto il titolo “Quella scelta tra l’Italia e gli scafisti” e l’articolo a firma della Redazione apparso su Il Foglio del 7 settempre del 2017 dal titolo “Dove porta la linea sballata di Msf sulla politica per i migranti”. Su posizioni diametralmente opposte rispetto alla linea di Galli della Loggia, il Presidente di MFS-Italia, Loris De Filippi rispose all’editoriale de Il Corriere della Sera inviando una breve lettera a giro di posta pubblicata il 7 di Agosto dallo stesso quotidiano, difendendo la posizione di MSF sul Codice di Condotta come una forma di difesa dell’indipendenza umanitaria delle ONG, che non dovrebbe essere messa a rischio, pur garantendo il pieno rispetto delle leggi in vigore, se si intende perseguire il fine ultimo di salvare vite in mare. Il MFS non aveva alcun problema ad assicurare il pieno coordinamento con la guardia costiera italiana nel corso delle sue operazioni di soccorso, che corrispondeva ad un comportamento già in atto da quanto MFS aveva cominciato ad operare nel Mediterraneo centrale, ma contestava al Codice di Condotta la mancata esplicitazione del salvataggio di vite umane come priorità primaria messa in ombra dalle finalità di polizia giudiziaria. clxxxiii L’MSF non obietta sulla necessità di coordinarsi con il MRCC, o sul divieto a entrare nelle acque territoriali libiche (salvo in condizioni di esigenze specifiche di soccorso), o sulla trasparenza finanziaria, o sulla necessità di mantanere accesi il trasponder (sistema d’identificazione del naviglio) durante le operazioni di soccorso. 184

clxxxiv Alcune ONG contano sulla possibilità di intervento rapido di piccole imbarcazioni per il soccorso immediato, in attesa che navi di più grandi dimensione (più attrezzate) possano raggiungere l’area di soccorso, con tutti i mezzi necessari per l’assistenza medica di emergenza e maggiore capacità numerica per ospitare i naufraghi a bordo. Il divieto di trasbordo impedirebbe queste operazioni, probabilmente causando un aumento del numero di decessi in mare. clxxxv Pur dando credito a questo sforzo negoziale, i risultati di queste consultazioni sono stati per il momento irrilevanti, anche se il rappresentante speciale delle Nazioni Unite spera di poter indire nuove elezioni politiche in Libia nel corso del 2019 (ma erano state già previste per la fine del 2018, ed ulteriori posticipazioni non sono escluse). clxxxvi Vedi P. Decrestina, “Migranti, Salvini: «Minniti ha fatto un buon lavoro, non lo smonteremo»” Il Corriere della Sera, 4 giugno 2018, https://www.corriere.it/politica/18_giugno_04/migranti-salvini-minniti-ha-fatto-buon- lavoro-non-smonteremo-975e58d0-67c6-11e8-b57b-459a23472be0.shtml clxxxvii La posizione antimigratoria del governo Conte non è esclusiva del ministro Salvini, né solo del suo partito. Troviamo altri membri della coalizione gialloverde che non sono meno coloriti nel manifestare posizioni fortemente contrarie alle operazioni delle ONG nel Mediterraneo centrale. Espressioni altrettanto forti furono utilizzate dal neo eletto senatore del M5S Elio Lannutti, che nel giugno di quest’anno si riferì alle ONG coinvolte in operazioni di soccorso come organizzazioni finanziate dal multimiliardario Soros e da altri sostenitori della “sostituzione etnica” , che “vanno affondate”, in linea con la “tolleranza zero” verso le navi che trasportano migranti irregolari. Vedi http://www.repubblica.it/politica/2018/06/23/news/m5s_lannutti- 199862366/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2 clxxxviii Alle prime polemiche sull’autorizzazione ad accedere la porto di Trapani seguirono altre con il ministro dell’interno Salvini che voleva negare il permesso di sbarco ai migranti a bordo della nave italiana, legando quel divieto a presunti comportamenti illegali dei naufraghi sul rimorchiatore Vos Thalassa, accuse in gran parte rientrate dopo lo sbarco degli immigranti (salvo che per due persone, per i quali tuttavia le accuse furono fortemente ridimensionate). clxxxix La distanza tra la nave soccorritrice ed il porto più vicino può essere il criterio con cui l’MRCC di Roma può decidere di assegnare il porto più sicuro per la destinazione di quella nave. Ma quella distanza può anche variare a seconda del momento in cui la comunicazione viene fatta dall’MRCC di Roma, in quanto la nave è in continuo movimento durante il suo tragitto, e può essere più vicina a Malta in alcune ore o più vicino ad un porto italiano in altre. La vicinanza alla costa libica pone la questione che i porti libici non sono considerati “sicuri” dal punto di vista umanitario. cxc Su questo punto si concentrò una conversazione tra il presidente francese Macron e il premier italiano Conte del giugno del 2018, dopo il rifiuto della Francia di aprire i propri porti all’Aquarius. “Caro Giuseppe, devi decidere a che gioco vuoi giocare.”, disse Macron, itendendo riferisi da un lato al gioco europeo, basato sulla concertazione tra parntners in materia di immigrazione, dall’altro al gioco delle decisioni unilaterali usate dal governo italiano con il suo intento di imporre ai partner europei la chiusura dei porti italiani come strumento negoziale. Conte cercò di verificare spazi di possibile consenso con Macron, rendendosi disponibile per rafforzare Frontex, unificare i sistemi di accoglienza per i richiedenti asilo, sviluppare accordi con l’Unione africana per il contenimento dei flussi migratori, sperando di ottenere la collaborazione francese sulla chiusura della rotta libica. Ma non passò inosservata all’interlocutore d’oltralpe la contraddizione tra questi tentativi di dialogo ed il metodo delle decisioni unilaterali non condivise, che non riguardavano solo la minaccia della chiusura dei porti, ma anche la proposta di soluzioni ritenute velleitarie per la creazione di hotspot in Libia (proposta non nuova, anche Minniti l’aveva concepita, ma la cui realizzazione scontrava sulla sua fattibilità nelle condizioni di instabilità prevalenti in Libia), o l’insistenza sulla revisione degli accordi di Dublino senza che alcuna proposta concreta su come arrivarci. Vedi Anais Ginori, “Macron pressa Conte: ‘L'Italia deve decidere da che parte stare’ ", La Repubblica, 15 giugno 2018, https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2018/06/15/news/macron_pressa_conte_l_italia_deve_decidere_da_ch e_parte_stare_-199126191/ cxci Lo stesso ministro degli affari esteri del governo Conte, Enzo Moavero Milanesi, ha sostenuto: "In senso stretto e giuridico, la Libia non può essere considerata porto sicuro, e come tale infatti viene trattata dalle varie navi che effettuano dei salvataggi. La nozione di porto sicuro e di Paese sicuro è legata a convenzioni internazionali, che attualmente non sono state tutte sottoscritte dalla Libia". Questa frase però non è stata mai ripetuta da Salvini, che preferisce ribadire sempre lo stesso concetto: la “chiusura dei porti italiani”. Vedi dichiarazione del ministro Moaverao rilasciata in una conferenza stampa dell’ottobre del 2018 con il ministro degli esteri norvegese. Vedi 185

HTTPS://WWW.REPUBBLICA.IT/CRONACA/2018/10/09/NEWS/MOAVERO_LA_LIBIA_NON_E_UN_PORTO_SICUR O_-208577198/ cxcii Reato previsto dall’articolo 289 ter del codice penale. cxciii La controversia mise anche i vertici della guardia costiera italiana in contrasto con il ministero dell’interno e con esponenti politici della destra italiana che accusarono la guardia costiera “di aver alimentato negli anni passati il trasporto in Italia di migliaia e migliaia di clandestini andando a prelevarli ovunque" (affermazione del Sen. Maurizio Gasparri di Forza Italia in un’iterpellanza parlamentare). A quelle accuse la guardia costiera rispose ribadendo gli obblighi sanciti dalla Legge del Mare che antepone a qualsiasi considerazione il dovere primario di salvaguardare vite umane in mare che si trovino in situazioni di pericolo. cxciv Vedi affermazioni fatte sia dal presidente del consiglio Conte che dal vice presidente Di Maio. cxcv Sappiamo come la storia dei migranti della Diciotti sia andata a finire. Dopo lo sbarco, e l’offerta di Papa Francesco di ospitarli nelle strutture predisposte dalla Caritas, un centinaio di loro fu accolto – non senza tensioni da parte di attivisti anti-immigranti, da Forza Nuova a Casapound – nei Castelli Romani, nella cooperativa Mondo Migliore di Rocca di Papa, vicino a Roma, struttura della Chiesa cattolica che negli ultimi anni è stata un centro di accoglienza di immigranti, per una potenziale capienza di 600 persone. La maggioranza degli immigranti sbarcati in quella occasione, tuttavia, ha cercato altre destinazioni al di fuori dell’Italia. cxcvi Frase da un messaggio twitter di Matteo Savini del 23 giugno 2018 pic.twitter.com/iWHqrNOQ4f cxcvii Questo “asse dei volenterosi”, secondo Salvini, comprenderebbe oltre all’Italia del governo Conte, anche la Germania di Horst Lorenz Seehofer (ma non di Angela Merkel), e l’Austria di Herbert Kickl, che sono i rispettivi ministri degli interni di quei tre paesi. Ricordiamo che Seehofer è anche il leader della Unione Cristiana Sociale (CSU), partito bavarese alleato alla CDU tedesca finora capeggiata dalla Merkel. cxcviii Secondo il governo spagnolo, circa 10.000 immigranti irregolari (11.000 second l’OIM) hanno perseguito la rotta che passa per il Marocco nel 2017, mentre questo flusso era soltanto di 2.500 persone nel 2012. La ridotta dimensione dei flussi migratori per quella rotta rispetto a quella centrale, però, non deve trarci in inganno. Gli sbarchi in Spagna dall’inizio del 2018 fino al 18 luglio, è risultato essere il doppo di quelli che attraversarono il Mediterraneo occidentale nello stesso periodo nel 2017 (18.600 persone, mentre 17.000 sono arrivate sulle coste italiane e 14.500 hanno raggiunto la Grecia seguendo le rotte del Mediterraneo centrale e orientale, rispettivamente, nello stesso periodo), anche se segnala comunque una flessione complessiva dei flussi migratori rispetto a quelli visti a metà del decennio. cxcix Ma ci sono anche migranti che dalla Libia scappano per cercare la strada per l’Italia partendo dalla Tunisia, che è più vicina all’Italia, mentre altri tentano tragitti più lunghi attraverso l’Algeria per raggiungere il Marocco cc Vedi European Council on Refugees and Exiles (ECRE), OPed, “Cooperation with Morocco in the EU’s African Border – a laboratory of externalization”, 12th January 2018 in https://www.ecre.org/oped-cooperation-with- morocco-in-the-eus-african-border-a-laboratory-of-externalization/ cci I flussi migratori verso le isole Canarie sono stati oggetto di accordi bilaterali raggiunti dal governo spagnolo rispettivamente con il Senegal, la Mauritania ed il Marocco, ed in particolare con quest’ultimo paese. Fino a dodici anni fa, la rotta delle Canarie rappresentava una delle porte d’ingresso più attive per le popolazioni africane verso l’Europa, con più di 30.000 immigrati sbarcati in quelle isole nel 2006. Ma il pattugliamento delle Canarie ha reso quell’attraversamento troppo pericoloso. ccii Mariano Rajoy Brey, del Partito Popolare, è stato in carica a Madrid come premier per più di sette anni (dal dicembre 2011 fino alla fine di maggio del 2018), dopo esser stato capo dell’opposizione nel periodo del socialista Zapatero (dal 2004 al 2011). cciii Vedi Alessandro Lanni, “A political laboratory: how Spain closed the borders to refugees”, in Open Immigration, February 29, 2016, in https://openmigration.org/en/analyses/a-political-laboratory-how-spain- closed-the-borders-to-refugees/ cciv Il flusso di rifugiati accettati dalla Spagna si ridusse in quegli anni: erano solo 18 nel primo semestre del 2016, maggiormente dall’Eritrea, e 355 per tutto quell’anno (solo il 3,4% delle richieste furono accettate), mentre solo 6.500 persone ricevettero la protezione sussidiaria.cciv In quello stesso anno la Spagna si era impegnata ad accettare 186

fino a 16.000 richieste di asilo entro il settembre del 2016, ed effettivamente il volume di richieste di asilo arrivò a 15.755 alla fine del 2016, in prevalenza provenientiti dal Venezuela, Ukraina, Siria e Algeria, con un aumento di 874 richieste rispetto al 2015. ccv Per un’analisi critica delle politiche di protezione dei confini spagnoli dal sud, si veda Il rapporto di Amnesty International del 2015 dal titolo “Fear and Fences: Europe’s Approach to Keeping Refugees at Bay”, London, in particolare la prima parte (da pag. 13 a pag.48), completamente dedicata alla difesa della frontiera spagnola con l’Africa. Il rapporto è consultabile in pdf su https://www.amnesty.org/download/Documents/EUR0325442015ENGLISH.PDF ccvi Su questo tema si veda in particolare C. González Enríquez e M. Reynés Ramón (2011), “Circular Migration between Morocco and Spain. Something more than agricultural work?”, REAL INSTITUTO ELCANO/ METOIKOS PROJECT, Istituto Universitario Europe, Firenze, FLORENCE ROBERT SCHUMAN CENTRE FOR ADVANCED STUDIES ccvii Ci sono contenziosi storici da parte marocchina riguardo queste due città, ed il Marocco ne richede da tempo l’annessione. Sul piano ufficiale, infatti, il Marocco non riconosce la sovranità spagnola su Ceuda e Melilla, anche se ha regolari frontiere doganali che hanno accesso ai due centri urbani. Ma la storia è quella che è, e quelle due città sono il residuo di un passato coloniale che le ha sempre considerate come appendici urbane della Spagna e sono integrate, non solo amministrativamente, con il territorio spagnolo, nonostante una notevole presenza demografica di origine marocchina in quelle due città. ccviii Su Alarm Phone e queste forme di opposizione organizzata alle misure di respingimento violento nei confronti degli immigranti, si veda Carla Höppner e Corinna Zeitz (2017) “From Morocco to Spain and beyond: collective resistance against a deadly border cooperation” in https://alarmphone.org/en/2017/10/26/from-morocco-to- spain-and-beyond-collective-resistance-against-a-deadly-border-cooperation/ ccix Per una serie nutrita di aneddoti particolarmente rivelatori delle condizioni disumane in cui si trovano questi immigrati-rifugiati, che illustrano i risultati di queste politiche di esternalizzazione dei confini europei, lungo le varie rotte che portano alla Fortezza Europa, consiglio il contributo giornalistico, in quattro parti, di Maximilian Popp apparso su Spiegel nel 2017 con il titolo “Europe’s Deadly Borders - An Inside Look at EU's Shameful Immigration Policy” ed in particulare la Parte 2 su Spagna-Marocco, accessibile su http://www.spiegel.de/international/europe/europe-tightens-borders-and-fails-to-protect-people-a- 989502.html ccx Il cambiamento avvenne in un contesto particolarmente inusuale, per la sua rapidità e incertezza, che ha creato molte aspettative per il nuovo gabinetto, dopo sette anni di un governo gestito dal Partito Popolare, in cui, negli ultimi due anni, è prevalsa una situazione particolarmente pesante per la crisi economica e occupazionale del paese e per la difficile situazione creatasi con la Catalonia, che lasciò una pesante eredità nelle mani del governo di Sánchez. Il voto di sfiducia nei confronti del governo di centrodestra fu anche motivato da accuse di diffusa corruzione del governo Rajoy. ccxi La sinistra spagnola applaudì il gesto di Sánchez, includendo Podemos, movimento a volte definito “populista di sinistra”, che ha una linea politica molto aperta sull’immigrazione (diversamente dal M5S, che ha preferito nascondersi dietro la linea dura di Salvini, pur con i distinguo del presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico, che ha preso le distanze da Di Maio in materia di immigrazione). Spostandosi più verso destra, la mossa di Sánchez non fu particolarmente avversa da Alberto Rivera, leader del partito Ciudadanos, mentre il Partito Popolare preferí un atteggiamento più riservato, evitando però critiche esplicite. Solamente l’estremismo di destra, espresso dal partito Vox, attaccò la decisione, conformemente con la sua posizione che considera l’immigrazione il problema centrale della Spagna (ma Vox non ha ancora nessuna rappresentanza parlamentare). ccxii Il suo partito dispone soltanto di 84 deputati nella camera bassa del parlamento spagnolo, composta da ben 350 deputati. Il suo governo si poggia sul sostegno di partiti minori, come Podemos alla sua sinistra, e gruppi nazionalisti baschi e catalani, mentre il Partito Popolare dispone attualmente di 134 deputati. A questo si aggiunga il fatto che Sánchez governa sulla base di un bilancio di spesa deciso dal suo predecessore, e che il Partito Popolare ha la maggioranza dei seggi nella camera alta del parlamento spagnolo, cioè nel senato. ccxiii Ci sono molte tematiche ad alto rischio in Spagna che possono rendere incerto il risultato delle prossime elezioni politiche del 2020, anticipate da elezioni amministrative. Tra queste, la questione catalana senz’altro svolge un ruolo particolarmente importante, collegata ad un ripensamento dei processi di decentramento e di autonomie locali in Spagna. 187

ccxiv Vedi ad esempio Federica Mongherini, “Ora i governi investano sull’Africa”, lettera a La Repubblica del 27 giugno 2018, in https://rep.repubblica.it/pwa/lettera/2018/06/27/news/ora_i_governi_investano_sull_africa- 200214116/ . Federica Mogherini è l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza.