Renato Carozzi
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Copyright © 2011 Aldus Casa Editrice Carrara RENATO CAROZZI 1 CASA BIENAIMĖ • ALDUS CASA DI EDIZIONI IN CARRARA 2 Francesco Bienaimé LA CASA DI FRANCESCO, DI PIETRO, DI LUIGI BIENAIMĖ Immaginiamo che sui lati di via Verdi, a Carrara, non ci sia più nulla. Che, risalendo verso San Francesco, siano scomparsi a sinistra la casa Pelliccia, i palazzi Fontana, Remedi, Cucchiari e la grande mole di marmo dell'ex Convitto, mentre a destra, siano spariti tutti quegli alti casamenti, dallo storico Caffè Caflish, fino alla casa Bonanni, alla Palazzina Serralunga, al Supercinema e, più avanti, alla casa Malatesta e il suo giardino. Immaginiamo che dappertutto non si veda che una trama di campi e qualche sparuto casolare e che perciò, a 3 levante, l'occhio possa spingersi liberamente sul colle verdeggiante di Monterosso e dietro si scorga come sempre la montagna enorme, con le sue splendide, tragiche ferite di marmo. Proviamo ora a pensare Casa Bienaimé, la casa che vediamo tracciata dalla linea rossa delle terrecotte del Thorvaldsen, come avrebbe potuto apparirci nel primo Ottocento, nel pieno della solitudine e luce di quegli anni, isolata nel mezzo del cosiddetto “Stradone”, antico nome dell’attuale via Verdi. Da una parte la vista libera sulle mura merlate antistanti l'Accademia e, all’opposto, al principio della via per Massa e un po' lontani, la Chiesa di San Francesco e l’attiguo Convento dei Minori Osservanti. Avremmo visto sfilare un certo passeggio o il traffico lento delle carrozze nell’andirivieni dalla Porta Maestra ai tornanti della Foce e, intorno, sul grande spazio della Levatella, apparire il reticolo ordinato dei grandi e piccoli appezzamenti a cereali o gli orti per lo più recinti da filari di vite a pergolato e a volte qualche vigna un po' più estesa, circondata naturalmente da alberi da torchio e da frutto. Infine, guardando la casa, affiancata sui due lati da terreni coltivati, avremmo osservato in quello a destra, verso S. Francesco, qualche albero di limone1. Non sappiamo se vi fosse uno studio di scultura, certamente impensabile in quell’intrico di scale e stanze all'interno dell'abitazione, ma solo immaginarne l’esistenza sul terreno circostante, nella forma di un capannone alla buona, sicuramente dotato di capriate con travi robuste, capaci, all’occorrenza, di tenere anche un carico. Pensiamo allo studio di Pietro Bienaimè, lo scultore indiscutibilmente meno conosciuto del fratello Luigi, ma la cui storia ha riguardato maggiormente la vita di questa casa e, al quale, crediamo si debba l'idea meritoria - un gesto di riconoscenza e riconoscimento – nell’esporre le terrecotte di Bertel Thorvaldsen sulla facciata, lasciando quel motivo così suggestivo e indicativo della vicenda di lavoro che si era intrecciata con l'artista danese. Solo il testamento del padre Francesco - l'antenato della famiglia Bienaimé - scritto il 10 aprile 1824 tra le mura della casa dove aveva vissuto fin dal 1778 e dove, in quel momento, era in attesa della morte, ci illumina debolmente sulla possibilità dell’esistenza di questo studio che avremmo voluto poter descrivere più compiutamente. Si sente, fra gli innumerevoli francesismi che spuntano nell’ordinata calligrafia, la determinazione di assegnare agli amatissimi figli Pietro e Luigi i propri beni. "Raccomandando l'anima a Dieu", il vecchio scultore indicava una "porzione di fabbrica" costruita accanto alla casa nel 1823 "...fatta per intiero da mio figlio Pietro, con denari suoi propri, guadagnati colla sua professione...". Potrebbe essere questo un ampliamento utilizzato dallo scultore - mantenendo l'orto e gli alberi di limone - per poter esercitare almeno parte della sua attività, che, come vedremo, quanto all'esecuzione delle grandi opere del Thorvaldsen, sarà dislocata in altra sede. La data di questo documento olografo, coincide, in ogni caso, con gli inizi di quel rapporto così importante che spingerà Pietro ad un impegno incessante nello scolpire enormi statue, poi imbarcate per Roma. Sul padre Francesco, che principia il ramo carrarese dei Bienaimé, sappiamo molto poco, tranne l'indicazione di "scultore" con cui viene comunemente ricordato. Tuttavia, la lettura di quel testamento, dove egli si professa "possidente e negoziante", titolo con cui si segnalavano a Carrara i cittadini dotati di un patrimonio dovuto al negozio dei marmi, ci invita piuttosto a pensare come egli si sia dedicato maggiormente alla cura di affari legati a quel tipo di commercio2. Proveniva da Rance, un villaggio sperduto nelle Fiandre, che mantiene ancora la dimensione di piccolo paese di 4.500 abitanti, nella regione di Hainaut nel sud del Belgio, non distante da Baumont e dal confine con la Francia3. Qui era nato il 28 ottobre 1749, prima di raggiungere Carrara dove lo troviamo intorno al 1778 e dove morirà il 6 giugno 1824, "caro a molti a niuno inviso", come recita l'epigrafe sulla lastra del monumento sepolcrale murata nel giardino di una delle residenze dei Bienaimé4. Non sappiamo cosa lo abbia condotto nel paese celebre per i suoi marmi, ma, essendo scultore, si può pensare che egli sia finito in quella rete interminabile, dove, da sempre, finiscono gli scultori che giungono nella città di Carrara. Sicuramente vi è il 7 giugno 1778, quando, seduto di fronte ad un notaio nella casa della futura moglie - la casa dove entrerà e rimarrà per la vita - promette di sposare in tutta fretta Maddalena Lazzarini. Da vero uomo d'onore, saprà mantenere quell’impegno, come ci informa il documento che attesta le nozze, celebrate il 24 ottobre nel Duomo di Carrara. Tra i testimoni vi è un personaggio di tutto rispetto nel mondo della scultura carrarese, Francesco Lazzarini, figura intraprendente e fondamentale nell'ascesa prestigiosa del laboratorio di quella famiglia5. 4 Da questa unione, nasce dapprima Marianna, nell’aprile del 1779. Andrà in sposa all'architetto e ingegnere Angelo Del Nero, anch'egli protagonista di spicco nel mondo artistico e industriale della città6. Quindi Maria Luigia, nel 17807 e, l'anno successivo Pietro. Rimasto vedovo, Francesco si sposerà nuovamente con Maria Catterina Tosi il 13 giugno 17928 e, da questo matrimonio, nasceranno i due ultimi figli, Giuseppe Gregorio, nell’anno successivo9 e, fra tutti il più celebre, Luigi Casimiro, nel 179510. • 5 6 Pietro Bienaimé Il ritratto in marmo, conservato nella casa Bienaimé di Marina di Carrara, non firmato, è, con probabilità, riferibile a Pietro Bienaimé. PIETRO ANTONIO BIENAIMÈ Pietro Antonio - così è indicato nei registri - era quindi venuto alla luce in questa casa, il 4 luglio 1781 e vi morirà il 28 marzo 185711. Il suo destino, come quello di molti altri carraresi, non poteva che essere la scultura. Ma, verso i 12 - 13 anni, quando, com'era costume, si iniziavano i giovani all'arte, l'Accademia di Carrara attraversava un periodo di incertezze e di fasi alterne, priva di una direzione valida dopo la scomparsa, nel 1784, di una figura esemplare come lo scultore Giovanni Cybei, del quale, se entriamo nella cappella 7 dell'ospedale vecchio di Monterosso, scopriamo una Madonna così delicata e ineffabile, da rimanere interdetti. In quel tempo pieno di dubbi e di contrasti politici e sullo sfondo dei rivolgimenti dell'Ottantanove, l'arrivo delle truppe francesi aveva determinato, nel 1796, la sospensione della scuola. Si può quindi pensare che egli sia cresciuto a bottega accanto al padre e si sia forgiato confrontandosi direttamente con il marmo, come verrà confermato dal profilo prevalentemente tecnico della sua carriera. È per questo che il suo nome, nelle iniziative dell'accademia, si riscontra solo nel 1803 in età non più canonica, già ammogliato con Paola Rossi di S. Terenzo ed anche giovanissimo padre del primogenito Francesco, nato nel 179912, e di Maria Maddalena, nata nel 180213. Proprio in quell'anno si era avvertita nella comunità carrarese la necessità di dare un nuovo impulso alla scuola e si erano convocati i componenti del Corpo Accademico, tra i quali gli scultori Paolo Triscornia, Francesco e Ranieri Lazzarini, Giuseppe Baratta e Dom. Andrea Pelliccia, perché fossero ristabiliti i corsi e potesse riprendere la tradizione dei premi. Nel settembre vediamo Pietro partecipare ad un concorso per un Modello dal Nudo, una prova che lo impegnerà per un mese intero e dove risulta segnalato tra i primi tre. L'azione del modello venne atteggiata nella tradizionale maniera del Perseo di Benvenuto Cellini, colla testa della Medusa nella mano sinistra, un'arme nella destra e il piede sinistro disposto a muoversi in avanti14. Sappiamo che modellare o disegnare un corpo nudo non è copiare un gesso. Vi è una specie di inerzia nel bianco opaco di quella materia uniforme, qualcosa che costringe ad un esercizio meno vigile mentre l'occhio esplora le linee e le riporta quasi in una passività. Il senso arcaico e immobile del modello obbliga poi a riflettere, a subire una certa qual reverenza sull'opera in sé e sappiamo bene quanto l’osservazione dei gessi fosse tenuta in gran conto in quei tempi di venerazione dell'antico, quanto fosse elevato il valore educativo che si scorgeva nella scultura greca. Ma, nel copiare dal nudo, si sente quasi una vertigine per l'instabilità del “modello vivente”, per il diverso valore della luce, in una parola per la vita e la realtà espressiva del corpo che costringe ad un confronto più arduo nella ricerca del carattere della forma e nel sentimento della bellezza. Per questo, nelle accademie, le esercitazioni tenute nella Scuola del Nudo, erano avvertite come un punto di arrivo, il più alto nella scala delle difficoltà e l’insegnante doveva osservare una specie di rituale nel predisporre nel chiuso dell’aula la posizione scelta per il modello, dove gli allievi potevano quindi essere accolti e disporsi solo a seconda dei meriti acquisiti. Questo riconoscimento è perciò un buon segnale per Pietro e rivela quel lato sensibile, quel valore che si aggiunge alle doti di attenzione e riflessione, che potrà poi riversare utilmente nel complicato virtuosismo tecnico, base indispensabile del suo mestiere.