Da "Rolling Stone", febbraio 2004:

TRA Gli Afterhours fanno gli Area. E' un film, i tempi sono cambiati. Ma gli Area ci insegnano ancora a essere liberi. di Manuel Agnelli

Del 1977 ricordo i colori. Erano spenti. Resi ancora più innocui dalla presenza costante della nebbia, perenne nel ricordo di tutti, anche d'estate. Le automobili, i vestiti, i palazzi: grigio, verdone militare, marrone, giallo canarino. Sembrava che il mondo cercasse di bilanciare così i toni fin troppo accesi della vita di tutti i giorni.

Ricordo il nozionismo che caratterizzava qualsiasi discussione e che serviva a mascherare spesso un senso di inadeguatezza culturale, che era un crimine e una macchia incancellabile. L'operaio che cita a memoria Dante, il fruttivendolo che in televisione corregge i concetti teorici del politico... L'illusione di avere una lucidità, la necessità di cercare delle ragioni, sempre. La vita come politica, la politica come vita, nelle scuole, dal salumiere, in fabbrica, sui campi di calcio. Ricordo ancora perfettamente i miei lancinanti dubbi di adolescente sulla necessità o meno di posizioni e gesti "assoluti". L'impossibilità della leggerezza che mi perseguitava in ogni mia azione. "Sei superficiale", l'insulto più temuto. Poi arriva "l'eroina di Stato", l'annullamento di ogni volontà politica, di ogni impegno. E i ragazzi degli anni 80, per reazione, preferiscono trovare nell'apatia e nel nichilismo la loro forma di libertà nei confronti dell'ordine costituito. Oppure, manifestare in forme di anarchia volutamente non teorizzata il disprezzo per l'obbligo di coscienza politica. Io, con loro, cerco di dimenticare la tensione e il disagio quotidiani, la paura dei rapimenti, Aldo Moro, i picchetti che ti obbligavano allo sciopero e la mia prima manifestazione a 14 anni, a Novara, carne da macello totalmente inconsapevole, fotografato e identificato dalla Digos. Cerco di dimenticare la violenza fisica, moral, psicologica e di ricostruire la mia adolescenza negli anni 80, in ritardo ma con le mie regole. Accettare l'invito di Guido Chiesa e interpretare il ruolo degli Area nel suo nuovo film Lavorare con lentezza non significava semplicemente metterci alla prova come musicisti, ma anche cercare di scoprire la parte buona, quella straordinariamente vitale, rivoluzionaria e spesso gioiosa, della fine degli anni 70. E finalmente, 26 anni dopo, provare a viverla.

Gli Area erano delle mosche bianche, capaci di essere schierati con chiarezza e devozione, ma incapaci di accettare il grottesco della rigidità delle ideologie che finì per caratterizzare anche la controcultura. Tetragoni all'intolleranza che spesso ci accompagna in ogni nuovo credo, erano in definitiva profondamente umani e in questo incredibilmente moderni. Certo, alcuni dei loro pezzi, riascoltati oggi, sono invecchiati. Nella spasmodica ricerca di soluzioni nuove e diverse anche dei mostri sacri come loro non potevano prevedere quali elementi della loro musica sarebbero diventati seminali e quali sarebbero rimasti ancorati all'estetica del periodo e per questo inesorabilmente disinnescati. A differenziarli da tutti i gruppi della controcultura più sperimentali ed estremi è però soprattutto la componente emotiva delle loro creazioni. La capacità e il coraggio di permettere alle viscere di rappresentare un fondamento del processo creativo. E così la maggior parte del loro materiale mantiene ancora oggi una forza incredibile e sfugge all'oblio al quale si sono condannati i teorici dell'avanguardia.

Poiché, dunque, le affinità fra noi e loro sono certamente solo attitudinali, interpretare gli Area è pericoloso. Per la loro unicità ma anche per le mille voci dei guardiani dell'ortodossia, che si levano scandalizzate e sprezzanti ogni volta che le regole non vengono rispettate. I primi maestri di libertà, per fortuna, sono proprio gli Area stessi. Proprio per questo hanno subito, come noi del resto (anche se in percorsi diametralmente opposti), la reazione e la contestazione della parte più integralista del mondo musicale. Non gli veniva riconosciuta la possibilità di svincolarsi dal ruolo che gli era stato attribuito e di provare nuove strade. Il coraggio della libertà, quella vera e totale che risponde solo alla propria coscienza, anzi di più, solo alle proprie sensazioni, mi avvicina a loro più di qualsiasi partitura o canzone. Per onorare questa sincerità abbiamo cercato di essere sinceri a nostra volta. Di essere noi stessi. Di fare della loro musica la nostra musica. In questo lo stimolo e il nostro unico senso. Così abbiamo lavorato partendo dagli episodi che nel pezzo sono insostituibili, perché davvero caratteristici del loro stile, stravolgendo tutto il resto. Per non rimanere troppo ancorati alla versione originale, solo Andrea, il nostro bassista, è andato a riascoltarsela e ha trascritto gli accordi di base, e solo dopo aver messo in piedi una struttura completa abbiamo ricominciato a riferirci alla loro registrazione. Gli Area sono molto complessi, è impossibile ingabbiarli. Ma Gioia e rivoluzione è una canzone. Una di quelle scampate al tempo e di incredibile attualità oggi. E' il concetto di cambiamento affrontato in modo così intimo e personale. La rivoluzione, quella vera, quella interiore, non la fanno le barricate, la rabbia generalizzata, e tantomeno gli slogan. In un'intervista del 1974 Demetrio Stratos afferma che per cogliere il contenuto politico della loro musica non è necessario che lui dedichi ogni pezzo ai compagni palestinesi. Neppure la scelta di una coerenza assoluta e immutabile può essere una risposta. Non si avvicina neppure, infatti, alla forza della trasmissione delle idee semplici. Piccoli gesti di piccoli uomini. Nell'accettare il proprio ruolo, per quanto minuscolo, il musicista, come lo studente, trova la vera grandezza. "Il mio mitra è il contrabbasso che ti spara sulla faccia, che ti spara sulla faccia ciò che penso della vita, con il suono delle dita si combatte una battaglia che ci porta sulle strade della gente che sa amare". Nel riconoscere la propria mediocrità rispetto all'assoluto, la gioiosa sconfitta della mediocrità stessa... E ancora: "Canto per te che mi vieni a sentire, canto per te che non mi vuoi capire". La rivoluzione non appartiene a una sparuta cerchia di carbonari integralisti, ma alla gente. Tutta. Un inno alla comunicazione di chi si sforza di non rinchiudersi in torri d'avorio autoreverenziali. Popolari nella vera accezione del termine, per arrivare a tutti, per parlare a tutti, perché scuotere le coscienze serve solo se hai coscienze da scuotere, anche e soprattutto con la ricerca.

Alcune settimane fa, durante le riprese del film, sul set dovevamo girare le scene di un concerto. C'erano decine di ragazzi fra le comparse a fare il pubblico ed era impressionante e molto divertente notare come la maggior parte di loro, dopo essere stata accuratamente agghindata dalle costumiste con capi originali della fine dei 70, finiva per essere vestita come tutti i giorni. Le differenze nei particolari: l'orologio, il telefonino, qualche tatuaggio. Era grottesco e infatti continuavo a ridere, ma in realtà piano mi sono intristito. Con quei vestiti addosso era impossibile non pensare a quanto diverso è questo periodo storico dal '77, a come in Italia non esista più una coscienza di classe, e soprattutto a come, perdendo la memoria storica nei passaggi originali, abbiamo rifatto gli stessi errori. Noi, quelli della generazione degli Area e loro, i ragazzi, i nostri. Senza comunicazione i cambiamenti sono stati solo materiali. Progresso. Interiormente però, abbiamo ripetuto all'infinito lo stesso copione.

Poche sere dopo il film sono andato in un centro sociale di Milano. Gli Afterhours, come molti gruppi della città, hanno suonato spesso nei centri sociali. Anche gratis. Sono stati denunciati per aver tenuto un concerto al Leoncavallo nei giorni in cui l'amministrazione comunale, anni fa, aveva vietato qualsiasi spettacolo non autorizzato. Anni prima la polizia in borghese ci aveva fotografato e ripreso mentre suonavamo (unico gruppo milanese) alla manifestazione per l'anniversario della strage di , in piazza Fontana, sempre a Milano. Sulla porta del centro (che per inciso non è il Leo), mi si para davanti un ragazzetto che avrà al massimo 19 o 20 anni: "Non ti ho mai visto alle assemblee..." Mi fa. "Ci credo, vengo qui da quando non eri ancora nato... Comunque hai ragione non ci sono mai alle assemblee..." Cerca di allargarsi a coprire tutta l'entrata: "Allora se non vieni alle assemblee, non puoi entrare".