Università Degli Studi Di Padova Il Profugato Di
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA DIPARTIMENTO DI SCIENZE STORICHE, GEOGRAFICHE E DELL’ANTICHITÀ CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN STORIA IL PROFUGATO DI QUERO E VALDOBBIADENE: STORIA DI UNA FUGA Relatore: Ch.mo Prof. Gianpaolo Romanato Laureando: Luca Nardi Matricola n. 615474/HS ANNO ACCADEMICO 2011 – 2012 La Passione e la Determinazione ci permettono di raggiungere anche gli obbiettivi più difficili ed inaspettati. Ogni sforzo, per quanto faticoso, non è mai compiuto inutilmente perché dopo ogni salita c’è sempre una discesa. La felicità nei volti di coloro che ci sono vicini giorno per giorno come miglior dono per ripagare ogni momento di difficoltà. A Voi tutti un Grazie di cuore! Un pensiero speciale a Mamma e Papà, ai quali devo molto e che non so se riuscirò mai a ricambiare abbastanza; a Beatrice Elisabetta, che con il suo sorriso mi accompagna in ogni istante; a Lidia, compagna di chiacchierate scherzose ed aiuto prezioso; a Voi, gentili testimoni di ricordi indelebili, per aver desiderato intraprendere insieme un viaggio di conoscenza nel passato e di speranza nel domani. INTRODUZIONE Ad oggi studi di vario genere si sono occupati della Grande Guerra; le vicende belliche sono state analizzate cercando di dare al lettore una visione “simultanea” delle battaglie, delle conquiste e delle perdite degli eserciti combattenti su tutti i fronti. Forse avrebbe potuto essere altresì proficuo occuparsi degli stati d’animo dei combattenti: coloro che la guerra l’hanno vissuta, per volere superiore e in nome di ideali tutt’altro che compresi e condivisi. Allo stesso modo, sarebbe opportuno cercare di riportare alla luce il dramma che visse la popolazione civile dei territori invasi del Veneto – comprendente allora anche l’attuale provincia di Udine – durante il medesimo conflitto e, in particolare, dopo di esso. Il profugato italiano della Prima Guerra Mondiale è attualmente uno dei nuovi argomenti che alcuni studiosi – impegnati nella ricerca sulla microstoria nelle sue molteplici sfaccettature – stanno tentando di riscoprire. Queste le basi di partenza per provare a dare giusto peso a tanti protagonisti del primo conflitto mondiale; nel caso specifico di tale ricerca, i profughi veneti e friulani e i loro parroci. Una storia anomala per il fatto che, tra l’ottobre e il dicembre 1917, costoro dovettero abbandonare i paesi d’origine per sfuggire all’occupazione tedesca ed austro-ungarica, la quale arrivò a sconvolgerne la quotidianità. Il profugato fu per molti di loro un’esperienza a tal punto negativa da decidere di cancellarla dalla memoria o di tenerla nascosta. Nonostante le testimonianze siano molto poche, altri protagonisti – che svolsero un ruolo determinate nell’assistenza e nel sostegno ai profughi – hanno lasciato un ricordo tangibile per poter ricordare e comprendere queste vicende. La consultazione delle testimonianze scritte dei parroci ha permesso di acquisire una visuale più completa sul fenomeno del profugato e, nello specifico, sulle vicissitudini dei vicariati di Quero e di Valdobbiadene. Le lettere frequentemente inviate da questi sacerdoti al vescovo di Padova, mons. Luigi Pellizzo – relative al periodo immediatamente successivo all’Armistizio del 4 Novembre 1918 e conservate presso l’Archivio della Curia Vescovile patavina1 – sono state la principale fonte per approfondire una pagina dimenticata o poco nota anche agli attuali discendenti. Una 1 Il direttore dell’Archivio della Curia Vescovile patavina, mons. Pierantonio Gios, e Michele Cardin – ultimo ricercatore a dedicare uno studio sulla figura di mons. Luigi Pellizzo, dopo quelli precedenti di Angelo Gambasin e Antonio Scottà – le persone che più di altre mi hanno trasmesso le loro conoscenze. A mons. Pierantonio Gios e ai suoi collaboratori un sentito ringraziamento per la pazienza e la disponibilità, a Michele Cardin tutta la mia gratitudine per la fiducia dimostrata fin dall’inizio e per aver sempre creduto nella bontà del progetto che avevo intrapreso. 1 storia invece “pregiata”, in quanto i profughi di questi due vicariati furono chiamati a compiere un cammino inverso rispetto a quello di tutti gli altri: paradossalmente, andarono incontro al nemico. A differenza della maggior parte degli esuli delle altre province (in particolare: Udine, Venezia, Treviso), costoro si recarono nei paesi limitrofi alla futura cittadina di Vittorio Veneto e nella provincia di Udine, invece di essere “distribuiti” nel resto della penisola italiana. Per tali ragioni, questa specifica categoria di profughi fu anche la prima a poter rimpatriare e a dover fare presto i conti con la triste realtà dell’immediato dopoguerra. Un’importante peculiarità che è stata evidenziata chiaramente anche da Daniele Ceschin2 – autore della sola completa opera sul fenomeno del profugato –; il quale, forse volutamente, ha lasciato in sospeso proprio la necessità di soffermarsi sulle vicende ancora poco note di coloro che egli ha definito «i rimasti all’interno del territorio invaso». Vicende che si cercherà di riscoprire con la consapevolezza di aver ricevuto un “testimone” tutt’altro che semplice da affrontare e trasmettere. 2 Ceschin Daniele, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Laterza, Bari, 2006 2 1. IL DISASTRO DI CAPORETTO3 1.1 I FATTI «Nella giornata niente di nuovo»4. Con queste parole il colonnello Angelo Gatti – “memoria storica” dell’Alto Comando Italiano e segretario personale del capo di Stato Maggiore Generale del Regio Esercito, Luigi Cadorna – descrisse l’inizio di una giornata ( 24 ottobre 1917), che ebbe immediate ricadute per il nostro paese e che, per converso, fu una delle ragioni che permise di mutare radicalmente gli equilibri in campo a favore degli Italiani. Il disastro di Caporetto – una delle pagine più negative della storia nazionale – fu determinato da una serie di fattori che insieme produssero terribili conseguenze per l’Esercito Italiano e, inevitabilmente, anche per le popolazioni civili del Friuli e del Veneto invasi. Non vi era niente di nuovo per il semplice fatto che, nonostante da diverso tempo fosse noto – attraverso un efficiente sistema di spionaggio e in base a quanto veniva riferito dai prigionieri e La ritirata italiana da Caporetto disertori nemici – che gli Austro-ungarici, logorati da ben undici offensive italiane, avevano progettato insieme ai Tedeschi (9 divisioni) una decisiva manovra a tenaglia che avrebbe fatto perno sui punti deboli della linea italiana (Tolmino, Bainsizza, la valle del Natisone, la conca di Plezzo) e permesso di infliggere al nemico un colpo durissimo sul piano morale e materiale. Si preferì, invece, ignorare ogni cosa e, in alcuni casi, scherzare ingenuamente sulla situazione: «Quando giungerà la tanto attesa offensiva nemica?», si sentiva dire5. Sta di fatto che essa giunse realmente e produsse esiti talmente gravi che perfino gli avversari ne rimasero sbalorditi; incapaci di credere che i risultati raggiunti fossero stati ben superiori di quanto inizialmente avessero previsto. In un solo giorno furono abbandonati al nemico circa 20.000 prigionieri, gran parte dei cannoni e del materiale 3 Avevo già concluso il mio studio quando è stato pubblicato il seguente volume su Caporetto: Paolo Gaspari, Le bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata, Gaspari Editore, Udine, 2012. Lo segnalo anche se non ho potuto tenerne conto. 4 Gatti, Caporetto. Diario di Guerra, p. 198 5 Ivi, p. 197 3 vario; furono perduti i monti Jeza, Piatto, Globocak e Stol; delle divisioni 43ª e 50ª non si avevano notizie, allo stesso modo tutte quelle che si trovavano oltre la linea di resistenza. Si verificarono inoltre: uno sfondamento di ben trenta chilometri, la perdita di Caporetto alle ore 15.55 del 24 ottobre 1917 e la rapida avanzata verso Udine, conquistata pacificamente dal nemico nella mattinata del 28 ottobre. Nonostante la gravità della situazione, le autorità dell’Esercito Italiano continuarono a non considerare adeguatamente i numerosi segnali negativi. Sino alle ore 22 del 24 ottobre 1917 non ebbero chiara quale fosse la vera situazione a causa di una manchevole comunicazione tra i comandanti delle Armate e i loro subordinati; oltre al fatto che si era convinti che i nostri soldati avrebbero resistito ad oltranza6. Quando tra la notte del 24 e la mattinata del 25 ottobre le notizie giunsero più chiare, ci si rese conto che la situazione era realmente disperata: molte delle divisioni schierate sulla linea di difesa e nei punti strategici non avevano nemmeno tentato di resistere – i casi più eclatanti quelli dei Corpi IV, XXIV e XXVII – o, se lo avevano fatto, erano stati completamente sopraffatti perché in numero nettamente inferiore ad un nemico che non attendevano. Fu così che la 19ª divisione del generale Villani, appartenente al XXVII Corpo d’armata, venne travolta da oltre quattro divisioni nemiche senza che nessuno accorresse a soccorrerla; gran parte degli uomini della II Armata furono fatti prigionieri: venne così perduta una parte molto considerevole di uomini e di mezzi. A tutto ciò si deve aggiungere la totale mancanza di fermezza da parte di Cadorna: profondamente deluso dell’assente o effimera resistenza di buona parte di quelle truppe che avevano sempre seguito le sue direttive7. Non casualmente, il 27 ottobre 1917 pubblicò il famoso bollettino di guerra in cui accusò gli uomini della II Armata – in breve tempo distrutta – di «essersi vilmente ritirati senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico». Per questa serie di ragioni, il 25 ottobre 1917, nonostante non volesse lasciare indifesi quei monti dove per mesi si era combattuto (in particolare il Monte Maggiore), il generale Cadorna diede un primo ordine di rapida ritirata sul Tagliamento, in modo tale da approfittare delle contemporanee stanchezza ed euforia degli avversari. In realtà, di lì a poco, facendosi condizionare dai comandanti d’armata, prese la decisione opposta: «resistenza ad oltranza», necessaria a non lasciare isolato nessuno, a preservare compattezza morale e fisica, a difendere con maggiore 6 Cadorna: «Vengano pure, noi li attendiamo saldi e ben preparati!» Giardino: «Venga pure l’attacco, noi non lo temiamo!» Cfr. Gatti, Caporetto. Diario di guerra, p.