Collana di studi storici, economici e sociali

Volumi pubblicati:

1. Natale Marri, Memorie storiche critico-toppograffiche della città di Carpi, suo principato antico e moderno con i luoghi adjerenti, e della sua diocesi nullius antica e moderna, sue parrocchie et adjerenze, a cura di Marzia Dezzi Bardeschi e Cinzia Rossi, Carpi 2002.

2. Le Clarisse in Carpi. Cinque secoli di storia (XVI-XX). Reggio Emilia 2004. Vol. I, Saggi, a cura di Gabriella Zarri. Vol. II, Fonti, a cura di Anna Maria Ori.

3. Giuseppe Saltini, Cronaca di Carpi (1796-1863) a cura di Alfonso Garuti, Anna Maria Ori, Gilberto Zacchè, Introduzione di Angelo Varni, Trascrizione a cura di Gianfranco Guaitoli, Modena 2005.

4*. Storia della Chiesa di Carpi, Volume I, Profilo cronologico, a cura di Andrea Beltrami, Anna Maria Ori, Modena 2006.

4**. Storia della Chiesa di Carpi, Volume II, Percorsi tematici, a cura di Andrea Beltrami, Alfonso Garuti, Anna Maria Ori, Modena 2007.

5*. Storia di Carpi, Volume I, La città e il territorio dalle origini all'affermazione dei Pio, a cura di Pierpaolo Bonacini, Anna Maria Ori, Modena 2008.

5**. Storia di Carpi, Volume II, La città e il territorio dai Pio agli Estensi (secc. XIV-XVIII) a cura di Marco Cattini e Anna Maria Ori, Modena 2009.

5***/1. Storia di Carpi, Volume III, La città e il territorio nel lungo Ottocento (1796-1914). Tomo I – Istituzioni, Politica, Economia, a cura di Anna Maria Ori e Elio Tavilla, Modena 2010.

5***/2. Storia di Carpi, Volume III, La città e il territorio nel lungo Ottocento (1796-1914). Tomo II – Società e Cultura, a cura di Giorgio Montecchi, Anna Maria Ori e Angelo Varni, Modena 2011.

6. Carlo De Maria e Fabio Montella, Novecento a Carpi. Istituzioni, comunità, impresa, a cura di Anna Maria Ori, Modena 2012.

7. Alfonso Garuti, Anna Maria Ori e Roberta Russo, Gioco di sguardi. Fotografi e fotografie a Carpi 1860-1930, a cura di Anna Maria Ori, Modena 2013.

8. Alfonso Garuti, Fabio Montella, Anna Maria Ori, Francesco Paolella, Luciana Saetti, Carpi fronte interno, Modena 2014. Progetto grafico e copertina Grafica Studio – Modena Composizione Grafica Studio – Modena

© 2015 Mc Offset Modena – Via Capilupi, 31 Alberto Pio da Carpi e l’arte della diplomazia Le “lettere americane” e altri inediti

a cura di Anna Maria Ori e Luciana Saetti

con un’introduzione di Marcello Simonetta

Coordinamento Elia Taraborrelli

Mc Offset Modena DIREZIONE EDITORIALE Anna Maria Ori e Luciana Saetti

ORGANIZZAZIONE Federica Mastellari

RICERCHE STORICHE E DOCUMENTARIE Lucia Armentano

Autorizzazioni alla riproduzione delle immagini: Carpi, Archivio Storico Comunale, aut. n. 26172/2015, 9 giugno 2015. Carpi, Biblioteca multimediale “Arturo Loria”, aut. n. 49762/2015, 16 ottobre 2015. Carpi, Musei di Palazzo dei Pio, aut. n. 55219/2015, 11 novembre 2015. Modena, Galleria Estense, aut. n. 2076 del 4 novembre 2015.

Alcune immagini nei testi sono riproduzioni di opere note scaricate da siti ufficiali di musei o biblioteche europee che le concedono liberamente per la pubblicazione in opere senza fini di lucro, come la presente; per poche altre è stata richiesta autorizzazione senza ottenere risposta. L’editore è a disposizione per regolare le spettanze di eventuali aventi diritto.

Le “lettere americane” di Alberto Pio sono consultabili al seguente indirizzo della Penn Library: Permanent Link: http://hdl.library.upenn.edu/1017/d/medren/4106850. Le trascri- zioni a cura di Luciana Saetti lo saranno a breve sul sito della Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi: http://www.fondazionecrcarpi.it/le-pubblicazioni/.

ISBN: 9788890414374

Un ringraziamento ad Alberto Bellelli, sindaco di Carpi, e all’assessore Simone Morelli per l’interesse dimostrato verso l’iniziativa editoriale della Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi, assieme ai responsabili e agli operatori degli istituti culturali cittadini coinvolti nel- l’acquisizione di immagini e documenti per la pubblicazione, in particolare Lucia Armentano, Vanni Guaitoli, Anna Prandi, Tania Previdi, Enrica Risposi, Manuela Rossi. Un sentito ringraziamento va pure alla cortesia di Federico Fischetti e Sabina Magrini della Galleria Estense di Modena e ad Alfonso Garuti che ha concesso immagini della sua raccolta. SOMMARIO

Giuseppe Schena Presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi Presentazione...... VII Marcello Simonetta Introduzione. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico nelle corti d’Italia e d’Europa ...... IX Fabio Forner Per una nuova biografia di Alberto Pio...... 01 I nuovi documenti, p. 1. I rapporti con l’Impero, p. 1. L’attitudine mecenatesca, p. 9. Stefano Villani Le lettere “americane” di Alberto Pio nella Henry Charles Lea Library di Filadelfia ...... 19 Una nota manoscritta, p. 19. Henry Charles Lea (1825-1909), p. 20. La Henry Charles Lea Libray, p. 23. Kenneth M. Setton (1914-1995), p. 25. Anna Maria Ori Un tesoro di famiglia: l’archivio Pio di Savoia ...... 29 A ciascuno il suo... archivio, p. 29. Tre rami, p. 30. Ramo albertino, p. 30. Ramo giberti- no, p. 35. Ramo galassino, p. 41. Ma non è finita... p. 43. Luciana Saetti Alberto Pio nelle “lettere americane” ...... 47 Alberto «homo di l’imperador»: la missione a Venezia, p. 49. Leonello e l’ipotesi del com- plotto, p. 66. Un messaggio di Paola Gonzaga, p. 75. Alla corte di Leone X, p. 87. L’anno di Marignano, p. 111. Da Roma a Carpi, passando per , p. 122. Per Carpi e per l’imperatore, p. 133. La linea d’ombra, p. 158. Nel labirinto, p. 181. Anna Maria Ori A Carpi, nel frattempo...... 203 Carpi e i carpigiani, p. 204. Il gioco delle parti, p. 213. Prove di normalità, p. 227. La tra- gedia ha inizio, p. 234. Tu dell’inutil vita, p. 243. Vergine Madre..., p. 251. Stefano Minarelli Alberto III Pio Civis Romanus...... 257 L’inizio della fine, p. 257. Un carpigiano a Roma, p. 259. Alberto III nelle stanze ‘che con- tano’, p. 268. Liaison dangereuse, p. 275. La nemesi di Alberto Pio, p. 281. Appendice 1 Luciana Saetti Le “lettere americane”...... 287 Appendice 2 Marcello Simonetta ...... 303 Sigle e abbreviazioni ...... 323 Indice dei nomi di persona, a cura di Viviana Salardi ...... 325

PRESENTAZIONE

Ancora un libro su Alberto Pio? – si chiederà qualcuno. – Ma non si sa già tutto su di lui? Certo: molto è stato scritto, soprattutto sul suo mecenatismo, sugli inte- ressi culturali, sull’ortodossia religiosa; ma si è ancora in attesa di una sua una bio- grafia completa, anche dopo il convegno internazionale di Carpi del 1978 e i recen- ti approfondimenti sulla sua attività urbanistica, sui suoi interessi artistici e sulla polemica con Erasmo. Non lo è nemmeno quest’opera, una biografia, anche se arricchisce le cono- scenze in merito di molti particolari inediti; ma è un libro “di lettere”, che ci fa sen- tire la voce di Alberto e di chi lo ha conosciuto. Nasce da una lunga ricerca, partita dalla messa in rete di un consistente nume- ro di lettere di Alberto Pio dalla Biblioteca della University of Pennsylvania, USA, trascritte e studiate in dettaglio nei loro molteplici aspetti da Luciana Saetti e illu- strate in sintesi nelle principali novità da Fabio Forner. A questo lavoro si sono affiancate le ricerche di Stefano Villani a Filadelfia per capire come e quando il carteggio è arrivato oltre oceano, e di Anna Maria Ori che ne ricostruisce le vicis- situdini nel corso dei secoli precedenti, intrecciate alle vicende della famiglia Pio, e che si è pure concentrata sugli eventi che hanno coinvolto Carpi e il territorio negli anni delle guerre d'Italia, tra il 1510 e il 1527. Nel frattempo si sono cercate altre lettere di e su Alberto, in archivi vicini e lon- tani, da Modena e Mantova a Milano, Firenze, Roma, Parigi, Vienna, grazie alle quali l’indagine di Marcello Simonetta mette in luce molti particolari sconosciuti delle vicissitudini di Alberto Pio, fino ai suoi ultimi anni parigini. Negli archivi romani, invece, Stefano Minarelli ha trovato conferma non solo di cariche redditizie concesse ad Alberto da diversi pontefici, ma anche della propria precedente ipotesi di identificare Alberto Pio nel personaggio che regge il seggio papale di Giulio II nell’affresco di Raffaello nelle Stanze vaticane. Siamo dunque di fronte a un’opera ricca e di taglio inedito, a un Alberto Pio più complesso e realistico, nel bene e nel male, non a caso definito qui da Marcello Simonetta non come il Principe ma come l’Uomo del Rinascimento. Perciò, con la certezza che i lettori sapranno riconoscere gli sforzi compiuti per arrivare a un volume così ricco, il nostro ringraziamento va a tutti coloro che vi hanno lavorato, arricchendo il patrimonio di conoscenze sulla storia della città di Carpi e del territorio circostante.

Giuseppe Schena Presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi

Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico nelle corti d’Italia e d’Europa

Marcello Simonetta

La figura di Alberto Pio da Carpi ha ricevuto e continua a ricevere attenzione da studiosi di varie discipline. Eppure manca ancora, come notava Carlo Dionisotti, una “esaustiva opera monografica”1 su di lui. Una delle difficoltà è pro- prio la sua personalità poliedrica, ricca di sfaccettature, che richiede un approccio interdisciplinare, come si è cercato di fare in questo volume. A tal fine si sono rac- colti contributi, sia locali sia internazionali, che illustrano aspetti biografici, stori- ci e artistici della sua vita tumultuosa. In effetti, le carte di Alberto sono sparse fra le biblioteche e gli archivi di Città del Vaticano, Firenze, Londra, Mantova, Milano, Parigi, Philadelphia, Vienna. Tale diaspora documentaria rispecchia l’esistenza irrequieta di un uomo che fu costret- to più volte a lasciare l’amata patria e a vivere on the road per molti anni. L’occasione del volume è data dal commento alle “lettere americane” del Fondo Lea della University of Pennsylvania (i cui regesti e trascrizioni saranno resi di - sponibili sul sito della Fondazione Cassa). Questi materiali e gli altri inediti forniti in appendice consentono una revisione storiografica della figura del Pio sulla base delle fonti originali. Possiamo ora rista- bilire un giusto equilibrio fra le valutazioni a volte apologetiche di alcuni biografi2 e quelle sprezzanti di certi suoi contemporanei. Tra questi, Tomasino de’ Bianchi, suddito fedele e beneficato del maggior antagonista di Alberto, Alfonso d’Este, nella Cronaca modenese ci offre un ritratto malevolo e impietoso, facendo di Alberto il capro espiatorio collettivo della “rovina d’Italia”: ala fin è stato ruinato lui in la roba, in lo honore e forse in l’anima, perché el justo Dio farà vendetta de tante povere anime che sono stati morti in le guere de Italia e tante don- zele andate a male in el stato de e per tuta la Lombardia, a Roma per el sacho, e ultimamemente a Fiorenza3. Fanno da contraltare i giudizi di Giovio che lo dice summae auctoritatis philo- sopho4 oltre che «amaro nell’odio e dolcissimo nell’amore»5.

1 FORNER 2005, p. 57. Dello stesso si veda anche la voce Pio, Alberto in corso di pubblicazione in DBI. 2 GUAITOLI 1877 utile, ma spesso approssimativo; SEMPER 1999, pubblicato originalmente nel 1882; ROMBALDI 1977 più preciso, ma con vari anacronismi; SABATTINI 1994; SVALDUZ 2001. 3 TOMASINO 1865, p. 202 (sotto la data 2 febbraio 1531). 4 GIOVIO 2013, p. 500. 5 BACCHELLI 1931, p. 34. X Marcello Simonetta

Un amico del grande Erasmo, il quale per anni continuò a leccarsi le ferite del- l’attacco sferratogli dal Pio nella sua Responsio antiluterana, lo apostrofò invece come furiarum satelles, cioè servitore delle Furie (o Erinni)6. Comunque lo si voglia vedere, una caratteristica innegabile del protagonista del presente volume è l’energia a volte quasi sovrumana, seppur non necessariamente volta al bene di se stesso o degli altri. Non è questa la sede per riscrivere la biografia dell’indiavolato Alberto. Il com- pito che ci prefiggiamo qui è di inserire la sua personalità e la sua attività di diplo- matico nel contesto italiano ed europeo del primo Cinquecento, e di sgombrare il campo da alcune “pie” menzogne sulla sua vita.

ALBERTO SERVO DI DUE PADRONI

Entriamo subito in medias res – nel 1512, dopo la rottura con Luigi XII. Alberto era entrato al servizio dell’imperatore Massimiliano in qualità di ambasciatore presso il pontefice Giulio II. Lo cogliamo intento a tessere alleanze matrimoniali (documento VII), una delle sue vantate specialità di ambasciatore. In questo caso voleva dare in sposa Maria Giovanna, sorella di Francesco Maria Della Rovere duca di Urbino e nipote del papa, a Massimiliano Sforza, duca di Milano di nome, più che di fatto perché era «governato da tedeschi, da sguizari et spagnoli, tutti siti- bondi de denari». Il nuovo duca, a differenza del suo antenato e “principe di virtù” Francesco Sforza, era «debole», «posticcio», «sanza armi, sanza danari»7. Di fatto, si trovava ad agire nella situazione in cui «puzza il barbaro dominio» evocata da Machiavelli nell’ultimo capitolo del Principe, sebbene l’italico valore non fosse a quel tempo “ancora morto”. Proprio in quel momento, a metà settembre 1512, i Medici, dopo un lungo esi- lio durato diciotto anni, erano finalmente rientrati a Firenze e, con un deciso colpo di mano, avevano ripreso il controllo della città riducendo drasticamente le prete- se della repubblica del Soderini. Lo stesso Machiavelli, Segretario fiorentino per antonomasia, perse il suo posto di lavoro, pur avendo cercato di compiacere i nuovi «patroni»8. Alberto ci ha tramandato il racconto più vivace e informato del conclave che portò all’elezione di Giovanni de’ Medici al soglio pontificio come Leone X nel

6 BIONDI 1981, p. 126. Nella lettera di James Spiegel a Erasmo, Strasburgo, 23 novembre 1531 si legge anche: «Fuit Carpensis irrequieto animo, ingenio vafro et perfido. Deus parcat illi, quem si ante .XX. annos e vivis rapuisset, inter monarchas reipublicae Christianae sat bene, scio, convenis- set», cioè a dire che se l’inquieto e astuto Alberto non ci fosse stato negli ultimi vent’anni, quelli presi in considerazione nella presente introduzione, sarebbe stato meglio per i monarchi delle repubbliche cristiane. 7 Cfr. Gino Benzoni, voce Sforza, Massimiliano in DBI vol. 71, 2008. 8 SIMONETTA 2014, pp. 87ss. Per brevità, sia lecito rimandare, qui e nel resto dell’introduzione, al racconto romanzato nel nostro libro, che raccoglie un’ampia documentazione e una ricca bibliogra- fia del periodo che va dal 1494 al 1527. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XI marzo 1513. Nella lettera a Massimiliano si dilunga sulle qualità dei diversi cardi- nali, dimostrando tutto il valore delle sue entrature curiali – e dando prova della capacità di vedere le questioni politiche da tutti i lati. Era una virtù sviluppata per necessità di sopravvivenza, sua e della sua Carpi. Alberto III era un signorotto di provincia in balìa delle grandi potenze dell’epo- ca – come poteva non stare con un piede in due staffe, o stare seduto su due selle, per usare l’espressione in voga al suo tempo? Dobbiamo per questo accusarlo di duplicità e dissimulazione, o lodarlo per le sue “oneste” virtù? È fondamentale accostarsi allo studio della storia senza moralismi e pregiudizi che non permettono di comprenderne le vicende in tutta la loro contraddittoria complessità. A questo riguardo può essere illuminante il giudizio del Guicciardini, che fu un fiero oppo- sitore del «particulare», cioè del vantaggio personale del Pio, ma allo stesso tempo gli riconobbe «grande spirito e destrezza». Torniamo alla famosa lettera su Leone X, che avrebbe dovuto essere un mite agnello, ma si rivelò più rapace dei più insaziabili felini; un cultore della pace, ma iniziò diverse guerre inutili e sanguinose; un religioso mantenitore di fede e pro- messe, che violò la prima e le seconde con terrificante disinvoltura. Non avrebbe dovuto diventare amico dei francesi, mentre tradì l’Impero, per poi tradire la Francia (e lo stesso Alberto). Aveva fama di essere un generoso mecenate, ma alla fine favorì più i musici e i buffoni che i grandi artisti (Michelangelo fu escluso, Bramante fu sostituito nell’ufficio di piombatore da fra Mariano, il suo giullare preferito). Praticamente tutte le previsioni politiche di Alberto sul papa Medici si riveleranno errate! Leone X pensò sempre più a stesso e alla propria famiglia che a chiunque altro. E lo scarto fra il mito mediceo e la verità effettuale lo possiamo apprezzare gettando un’occhiata alla corrispondenza cifrata (e inedita) che si trova oggi a Vienna, e che meriterebbe un’edizione a parte. In una delle prime lettere superstiti (non ce ne sono moltissime) a Massimiliano I Alberto parla dei benefici concorrenziali offerti dai nemici francesi a Giuliano de’ Medici, fra cui l’«ordine diabolico», cioè l’ordine di San Michele, che come vedre- mo sarà la croce e delizia della carriera dello stesso Pio: Vero è che i francesi continuamente cercano di corromperlo con nuove sollecitazioni e pratiche: gli offrono cento lance, l’ordine diabolico, una moglie ricchissima e nobilis- sima imparentata col re, una cospicua pensione annuale, un dominio in Francia oppu- re in Italia con un titolo ducale, insinuando che sia l’amministrazione e governo del ducato di Milano. Invece al santissimo Nostro Signore propongono un patto per timo- re [...] possano spegnere il conciliabolo pisano e abolire la prammatica sanzione [...] lo stesso papa amministrerebbe tutta l’Italia congiungendo Milano, cioè lo stato eccle- siastico e fiorentino9.

9 Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 29 maggio 1513 (MAX, 29, 23a, 7, in Appendice 2, n. 1); 1 giu- gno 1513 (Ivi, 9r), quasi tutta cifrata: «Ut in aliis meis scripsi student galli d. Juliano de Medicis uxo- rem dare gallam; hispani autem filiam Ill. Isabelle ducisse Mediolani, Cardinalis autem Arragonie filiam regis Federici proposuerunt, alii sororem ducis Sabaudie sed illa non ultro offertur a duce uti XII Marcello Simonetta

Lo scenario da vago delirio di onnipotenza corrisponde in realtà a quello deli- neato da Machiavelli nell’Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam. Il pontificato di Leone X si inaugurò con enormi aspettati- ve per la provvidenziale cura dell’Italia «infistolita»10 ad opera dell’«illustrissima casa» dei Medici, ma tali attese furono deluse in modo clamoroso. La cifra dell’ambiguità contraddistingueva il papa fino alla prudenza o alla para- noia11. A pochi mesi dal conclave, il Pio fu costretto ad ammettere che conosceva il nuovo pontefice meno bene del vecchio12. La natura di Giulio era collerica come quella di Alberto, mentre quella di Leone era flemmatica, e molto più difficile da penetrare. Se il primo era trasparente e prevedibile nelle sue esplosioni di rabbia, il secondo era torbido e indecifrabile come una sfinge o una sibilla che parla per cenni e allusioni. Certo non si mostrò incapace né di collera né di crudeltà. Preso atto dello sfacciato favoritismo del papa nei confronti di Giuliano e del nipote Lorenzo, Alberto cercò a sua volta di raccomandare suo fratello Leonello, che esercitava il mestiere delle armi come lui quello delle lettere13. Essere al servi- zio di Lorenzo sarebbe potuta essere una scelta intelligente, visto che le truppe fio- rentine se ne stettero ben al riparo mentre a Marignano (oggi Melegnano) si com- batteva la cosiddetta «battaglia dei giganti», un massacro in piena regola in cui per- sero la vita, fra il 13 e il 14 settembre 1515, circa ventimila persone – soprattutto mercenari svizzeri e spagnoli14. La vittoria del ventunenne re di Francia Francesco I, ottenuta anche grazie al provvidenziale intervento delle truppe veneziane guidate da Bartolomeo d’Alviano, cambiò gli equilibri di potere. Alberto non sprecò tempo e avvertì in gran segreto il marchese di Mantova che l’accordo fra il papa e il monarca

iste alie offeruntur. Nescio ad quam ipse inclinabit». L’offerta senza pecunia per la dote dal duca di Savoia sarà il partito vincente; Alberto scrive come se fosse Giuliano a decidere, mentre erano il papa e il cardinale Giulio a farlo. 10 SIMONETTA 2014, p. 307. Sulla “fistula” anale di Leone X, passim. 11 Ibid. MAX: «Difficillimum erit et forte impossibile inducere pontifex ad firmandum pro locuta maxime hoc tempore stante presentium rerum statu. Possent autem res ita dirigi, et eum eventum sor- tiri ut id, quod nunc difficillimum est facilius redderetur. Maxime si galli animum pontificis et pacem universalem, quam ipse cuperet firmare inter omnes Principes remuerent erga Veneti Sua S.tas est male animata ob istud fedus». Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 8 novembre 1513 (MAX, 30, 1v- 2r), ove l’unica parte cifrata è la seguente: «circa matrimonio plurimum laudo consilium M.tis [...] / matrimonio affinitate et vinculo indissollubilis amicitie giungere Pontifice [...] illud filie ducisse Isabelle aut illius Nepotis regis Arragoni. Egi tamen ego aput S.tem suam, ut nihil deliberaret ante adventum R.mi D.ni Gurcen. qui spero sua auctoritate et maxima dexteritate in hac re et in ceteris optime conveniet cum S.mo D. N. ». 12 Doc. XXX (16 agosto 1513). Nella stessa lettera lodava la sua intenzione di dare a Giuliano Reggio o Modena, o addirittura Ferrara come feudo, a dispetto degli arcinemici Este. 13 Alberto Pio a Lorenzo de’ Medici, Viterbo, 11 giugno 1515 (MAP 105, 54): «rallegrandomi et congratulandomi del loco degno del Capitaneato [...] quando li parlai quel dì andava a la Magliana, recomandandoli el S.r Leonello mio fratello [...] ardente desiderio ho che epso S.r Leonello». 14 SIMONETTA 2014, p. 121; cfr. SIMONETTA 2015a sull’importanza della vittoria per Francesco I e il mito creato intorno ad essa. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XIII

Cristianissimo, di cui si vociferava benché mancassero conferme ufficiali, era in effetti già sicuro. La lettera era così compromettente per un servitore imperiale che alla fine Alberto richiese esplicitamente che «li piaccia stracciarla o donarla al foco»15. Tuttavia qualche giorno dopo scrisse ancora a proposito del colloquio avuto col papa, rassicurando il marchese che, in qualunque modo avvenisse «l’ap- puntamento» colla Francia, egli si sarebbe fatto garante di clausole a protezione degli interessi del Gonzaga16. Inoltre lo informava di aver ricevuto una lettera del- l’imperatore che si dichiarava pronto a «venire in persona in Italia», convinto che «li lanzichnechi che sono con francesi non combatteranno mai contra la persona sua»17. Queste indiscrezioni mascheravano a malapena il panico di Cesare con fra- sette del tipo: «le cose di sua Maestà forse non succederanno tanto mal, quanto altri se credeno», perché Leone X «non abbandonerà le cose de la prefata Maestà Imperiale»18. Erano chiacchiere, e Alberto lo sapeva benissimo, tanto che si recò comunque a Bologna, forse ufficiosamente19, per assistere all’incontro fra il ponte- fice e il re. È indubbio che il suo ruolo si fosse drasticamente ridimensionato nella nuova geografia politica europea, ma lui non demordeva.

Il Papa come Proteo

Uno degli ingredienti degli accordi segreti fra Francesco I e Leone X era il fatto che il re lasciava carte blanche al papa sulle sue ambizioni territoriali in Italia. Il principale obiettivo nel “mirino” mediceo era il ducato dellaroveresco di Urbino20. Alberto intuì subito la pericolosa irragionevolezza di quel progetto, che avrebbe creato gravi scompensi agli equilibri della penisola, e indirizzò una formidabile invettiva al papa il cui giudizio era offuscato dall’oppio, perché invece di arrab- biarsi contro «la ingratitudine» degli Este che si erano macchiati di «ribellione multiplice verso la Sede Apostolica» e avevano compiuto ripetuti tradimenti nel corso dell’anno 1515, attaccava il duca d’Urbino considerandolo «degno d’esser punito, per haver mancato una volta di fede a la Beatitudine Vostra, havendo pur già dimostrato qualche segni di benevolentia verso li suoi, nel tempo de la loro necessità»21. Alberto si riferiva all’ospitalità offerta dai Montefeltro, e poi dallo stesso Della Rovere, agli esuli Medici, soprattutto a Giuliano. Ma Leone faceva orecchie da

15 Alberto Pio a Francesco II Gonzaga, Roma, 25 settembre 1515 (ASMN, b. 1309; cit. in SVALDUZ 2001, p. 353). Ringrazio di cuore Giulio Girondi per avermi tempestivamente messo a disposizione tutte le lettere mantovane di Alberto di questi anni che, come si vedrà, sono di notevole importanza storica. 16 Alberto Pio a Francesco II Gonzaga, Roma, 30 settembre 1515 (ASMN, b. 1309). 17 Cfr. Massimiliano I ad Alberto Pio, Innsbruck, 22 settembre 1515 (SPAIN II, 220). 18 Alberto Pio a Francesco II Gonzaga, Roma, 18 ottobre 1515 (ASMN, b. 1309; cit. SVALDUZ 2001, pp. 353-354). 19 Alberto Pio a Francesco II Gonzaga, Bologna, 18 dicembre 1515 (ASMN, b. 1309). 20 SIMONETTA 2014, pp. 133 ss. 21 Alberto Pio a Leone X, Carpi, 10 gennaio 1516 (MSDC I, p. 341). XIV Marcello Simonetta mercante. Per una fortunata combinazione, l’agente di Alberto che si trovava a Firenze ci ha descritto dal vivo la reazione del papa. Il cardinale Bibbiena, vecchio amico del Pio e e della corte urbinate, aveva fatto presentare le lettere di Alberto al papa, che «le ha lecte tutte con animadversione, et como trovava in epse un bon pasto se fermava et legevalo alto al Cardinale; finite di legerle dixe non essere anchor concluso cosa alchuna, et che staria un pocho a vedere. Il Cardinale li per- suase a non farne niente, lui replicò che staria a vedere»22. Non tanto «inoppiato» quanto bulimico, Leone inghiottiva con le sue fauci ogni critica come se fosse una lode e degustava il «bon pasto» della sapida prosa del Pio, mentre avrebbe dovuto andargli di traverso. Fingeva di prendere tempo, ma aveva già preso una decisione che avrebbe poi rimpianto amaramente. Un paio di mesi più tardi, rientrato a Roma, Alberto fece un altro inutile intervento a favore di Francesco Maria Della Rovere, ma il papa si rifiutava sempre di rispondere «sub- terfugendo come Protheo»23, e il legittimo duca di Urbino fu spodestato assai rapi- damente a favore del giovane Lorenzo de’ Medici. Al Pio non restava che cercare di trovare un impiego militare per Leonello, il quale continuò a manifestare una forte diffidenza nei confronti del nipotastro del papa24.

ALBERTO LETTORE DI MACHIAVELLI

Alberto invece mostrava di riporre una speranza forse eccessiva nel duca Lorenzo, come sembrerebbero indicare i due discorsi di Lodovico Alamanni a lui dedicati, scritti a Roma il 25 novembre e 27 dicembre 151625. I discorsi echeggiano il Principe e sono la prova più antica della circolazione del manoscritto di Machiavelli, riprendendone per esempio vari argomenti sulla milizia. Possiamo dunque considerare Alberto un lettore quanto meno indiretto del diabolico trattato, perché l’Alamanni deve avergliene parlato. Dice infatti che più volte et lungamente mi sono pasciuto de’ suoi [del Pio] delectevoli, gravii et pru- dentissimi ragionamenti, per epsi ho conosciuto non tanto l’alteza del suo ingegnio et iuditio et la immensa doctrina et experientia sua, ma l’affectione ancora grandissima che la porta allo Ill.mo mio padrone cioè Lorenzo de’ Medici, la cui scelta fra Impero e Francia è l’oggetto delle sue non banali speculazioni politiche. La conclusione, però, non è sorprendente: «Più utile sarebbe adunche intrattenersi la Maestà Caesarea che la Cristianissima».

22 Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Firenze, 15 gennaio 1516 (documento LV). 23 LUZIO 1907, p. 55 (la lettera dell’ambasciatore Agnello è del 20 marzo 1516). 24 Alberto Pio a Leonello Pio, Roma, 20 giugno 1516 (cifrata) (MSDC II, p. 344): «seria ben facto facestivi voce di eservi riconducto co’ Fiorentini [...] come sempre bisognando haverostivi il vostro loco con lo imperatore, ma per l’amor di Dio procedeti per hora circumspectamente». 25 Il primo dalle Carte Guicciardini, il secondo da CS II, 86, cc. 205-212; sono entrambi pubblica- ti in ALBERTINI 1970, pp. 376-390; cfr. BAUSI 2015, p. 23: “indirizzati ad Alberto Pio da Carpi”; cfr. INGLESE 2014 per uno schizzo biografico-intellettuale dell’Alamanni, senza citare le sue lettere. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XV

L’influenza dell’ambasciatore di Massimiliano I sul giovane fiorentino è esplici- tata nella bellissima lettera di Alamanni al cognato Luigi Guicciardini in cui evoca l’amicizia fra i due. Seguendo la sua calorosa e generosa natura, Alberto prese Lodovico a ben volere e gli fece da tutore in lunghe chiaccherate a tavola o a caval- lo. E fu grazie alle forti raccomandazioni del signore di Carpi che l’Alamanni otten- ne la promessa di un importante incarico diplomatico da parte del papa: Et secondo me la cosa è nata in questo modo, che havendo io presa insino né primi gior- ni ch’io ci venni strectissima servitù et amicitia col Signor Conte Alberto da Carpi, Imbasciadore del’Imperadore, huomo al tutto, secondo il mio iuditio, sopra ogn’altro celebre in doctrina, experientia, ingegnio, iuditio, bontà et cortesia, come per fama vi debbe essere noto. Et mi trovavo spessissime volte et truovo con Sua Signoria, mostran- dogli hora epigrammi et hora discorsi di quegli che havevo fatti et degli altri assai ch’io ho fatti qui, delle cose che mi sono occorse, de’ quali vi farò parte. Et di già venni in tal suo concepto, che spesso mi teneva ad mangiar seco, et spesso seco cavalcar adgli sta- zoni et per la terra, ragionando. Et perché detto Signore è confidentissimo del Papa, quem Leo non tantum diligit sed veretur [che Leone non solo ama ma ammira], debbe essere accaduto che, dolendosi forse il Papa con Sua Signoria (come spesso con molti si duole) di havere carestia di buoni instrumenti per le sue faccende, che il detto Signor mi harrà messo ad campo et celebrato26. Luigi Guicciardini informò subito il fratello Francesco, allora governatore di Modena, dell’opportunità offerta al marito della loro sorella Costanza27. La comu- nanza di interessi toccava anche la sfera astrologica: infatti Alamanni andava “ragionando” di un grandissimo Astrologo ebreo, el quale ad me di me ha detto cose mirabile, ciò è si appo- ne mirabilmente […]. Gl’ha insino ad quella [natività] del Cardinale de’ Medici, la quale è mirabile. Se la vorrete, ve la manderò. Et sappiate che l’ha havuta da lui pro- prio. Aggiungeva di aver letto un altro «iuditio» anonimo, forse del celebre Luca Gaurico, che prevedeva «cose mirabile», fra cui «la ritornata di Francesco Maria in Urbino et infinite cose non troppo buone»28.

26 Lodovico Alamanni a Luigi Guicciardini, Roma, 14 maggio 1517 (CS I, 137, cc. 152-153). Citata in ALBERTINI 1970, p. 385 con data errata (24) e con alcuni refusi. L’altro personaggio che sosteneva l’Alamanni era il potente banchiere Leonardo Bartolini, su cui cfr. SIMONETTA 2014, ad indicem. 27 Luigi Guicciardini a Francesco Guicciardini, Firenze, 22 maggio 1517 (GUICCIARDINI 1865, pp. 95-96): «Lodovico Alamanni si truova ancora a Roma con speranza, oltre ha fermo d’entrare lor can- celliere o d’essere adoperato da loro di fuora; ma non ne parlate, e n’è stato prima causa secondo che lui scrive il signor Alberto da Carpi e il [Leonardo] Bartolino, che l’hanno messo in cielo, co’ quali ha stretta amicizia; e se non lo impedisce questa cosa, monstra crederlo al certo; e tutto nasce da dolersi il papa di cattivi instrumenti, sì che vedete come procede». 28 Lodovico Alamanni a Luigi Guicciardini, Roma, 21 febbraio 1517 (CS I, 137, cc. 150-151). Si noti che alla fine di questa lettera l’Alamanni chiede esplicitamente di raccomandarlo «al Machiavello», confermando il suo stretto legame personale con l’autore del Principe. XVI Marcello Simonetta

A distanza di pochissimi mesi i discorsi dello stesso Alamanni erano diventati desueti. La rapida riconquista di buona parte del ducato da parte del Della Rovere aveva sconvolto gli equilibri compiacentemente creati a tavolino dal papa e da suo nipote. Questo causò notevoli grattacapi non solo a Leone X, ma anche alle poten- ze europee che avevano segretamente sostenuto la riscossa del legittimo duca di Urbino. Una lettera ad Alberto scritta tutta in cifra da Antwerp l’11 marzo 1517 mostra la forte preoccupazione che gli aiuti forniti sotto banco al Della Rovere fos- sero rivelati, inimicandosi il papa: «Dominus Feltrensis non habuit copiam nec scrip- turam»29. Ma Alberto, scrivendo all’imperatore il primo maggio 1517, si dilungava sulla situazione di Laurencinum, nel frattempo ferito alla testa da un bravo archibugiere urbinate. Se l’era meritato, perché pochi giorni prima aveva fatto imprigionare Orazio Floridi, ambasciatore di Francesco Maria inviato presso Lorenzo per sfidarlo a duello, in smaccata violazione delle regole diplomatiche internazionali, e col ricor- so ad un vile escamotage legalistico30. La reazione del “duchetto” era stata tutt’altro che cavalleresca. E il Re di Francia, accusato di infedeltà al suo alleato Leone X nelle confessioni rilasciate dal prigioniero Floridi, rifiutava di considerarle legali perché «nullam fidem praestandam esse dictis ipsius se qua de eo dixisset tanquam timore et tormentorum sevitia extorta»31. Ed è su questo punto spinoso che la natura protei- forme del papa diede prova dei suoi lati più machiavellicamente temibili.

La congiura dei cardinali L’energica rivendicazione della propria sovranità sul ducato di Urbino da parte del Della Rovere aveva causato un enorme imbarazzo politico al papa, che versa- va anche in un gravissimo indebitamento finanziario. Come uscire dall’impasse? Il giovane cardinale Alfonso Petrucci, furioso con il papa che aveva rimosso il suo ramo della famiglia dal governo di Siena, aveva instaurato rapporti diplomati- ci con Francesco Maria e rappresentava il bersaglio ideale. Non occorre evocare qui il diabolico meccanismo grazie al quale Leone X riuscì a incastrare il Petrucci, colpevole di insurrezione politica ma non di aver tentato di avvelenare il papa, insieme a quattro altri cardinali la cui unica colpa era di avere cospicui privilegi in curia32. Il più anziano e influente fra questi porporati era il vicecancelliere Raffaele Riario, che Alberto cercò di soccorrere per conto dei marchesi di Mantova33. Un po’

29 Questa lettera, mescolata fra altre cifrate in un faldone ambrosiano (BAMI, 283, fasc. 13), non è firmata. L’autore potrebbe essere Jacopo Bannissi. Sigismondo Santi era stato inviato presso l’impe- ratore nei mesi precedenti (documenti LXXVI e LXXVII), ma sembrerebbe che a questa data fosse già rientrato in Italia. Curioso l’uso della stessa cifra usata quattro anni prima nelle lettere viennesi del 1513. 30 SIMONETTA 2014, p. 147; su Orazio Floridi cfr. anche SIMONETTA 2015b, passim. 31 Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 1 maggio 1517 (varianti nella minuta; documento XCII). Pio aggiungeva che «Bellum Urbini in eodem est statu, exercitus summi Pontificis fere dissolutus». 32 SIMONETTA 2014, pp. 161 ss. 33 Alberto Pio a Francesco II Gonzaga, Roma, 30 giugno 1517 (ASMN, b. 1309, in Appendice 2, n. 2); Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XVII meno disinteressato fu, secondo il malizioso racconto dell’ambasciatore estense Beltrame Costabili, l’aiuto fornito al cardinale Adriano Castellesi: Tengono che sua S.tà se penta havere perdonato al Cardinale Voltera [Soderini] et ad Adriano, ma ha dato anchora la causa de la fuga del Cardinale Adriano essere stata, per- ché essendose excusato cum il papa non havere dinari et essendo refferito a sua S.tà che’l se trovava 30m ducati in capsa, l’ha ge mandò de bello dì il [cardinale] Cibo et il S.re Alberto inseme camufati ad casa cum comissione li facesseno aperire la capsa et monstrare ciò che l’havea et cusì ge furno et luy ge monstrò et non se trovò altro. Poi che l’ho è de natura timido se ne fugite cum il suo ordine. Se può vedere che officio fa il S.re Alberto, et io per me credo fusse uno de quili facesse intendere al papa che dicto Cardinale Adriano se trovava 30m ducati et imperhò ge l’ho mandò. Se può anche vede- re che’l se inzegna servire sua S.tà in ogne cosa per haverne credito cum quela. Circa la guerra non ho altro nisi ut in litteris34. Secondo questa versione decifrata, il «camuffato» Alberto avrebbe agito da delatore delle ricchezze occulte di Adriano, forse con un tornaconto personale, e l’avrebbe indotto alla fuga. Pur tuttavia, Castellesi scrisse speranzoso al Pio da Venezia: «humanamente la ringratio di tante fatighe piglia nele cose mie, io non ho fede in altra persona maggior che nela S. vostra per le sue excellenti virtù et sin- cerità»35. A chi dobbiamo credere? C’è da dire che il Costabili aveva il dente avvelenatissimo con Alberto, che l’a- veva ingiuriato pubblicamente per una questione di precedenza nell’anticamera papale36. In quel febbraio 1518 Alberto pensava ad altro ed era di ottimo umore perché stava per sposare Cecilia Orsini37. Va peraltro sottolineato che la scelta del partito orsiniano era già un primo passo implicitamente anti-imperiale, anche se le fami- glie baronali romane militavano su entrambi i lati dell’inimicizia franco-cesarea38.

LUZIO 1907, p. 86. L’infornata dei trentuno neo-cardinali, commentata con estremo garbo da Alberto, avvenne due giorni dopo e portò nelle esauste casse della Camera Apostolica un enorme flusso di denaro. 34 Beltrame Costabili ad Alfonso d’Este, Roma, 20 giugno 1517 (ASMO, Carteggio Ambasciatori, Roma, b. 21, decifrata). Albano Biondi, voce Costabili, Beltrando, in DBI vol. 30, 1984. 35 Il cardinale Adriano Castellesi ad Alberto Pio, Venezia, 9 febbraio 1518 (BAMI 283, fasc. 11). 36 BALAN 1879-80. Nella disputa assai violenta, il Pio poco piamente disse all’ambasciatore esten- se che «era presumptuoso et temerario, et era stato caciato da Roma per ribello de la Sede Appostolica, et che io era ribello, et sismatico, et heretico, et che io meritava essere privo de li Beneficij, et de essere brusato». Alberto ce l’aveva con un diplomatico veterano che stava a Roma sin dai tempi di papa Borgia e che ne aveva viste di tutti i colori, ma non era mai stato aggredito in quel modo. 37 Il Costabili non partecipò al banchetto ma fornì la lista degli invitati (SVALDUZ 2001, pp. 356ss.). 38 Un esempio dell’ambivalenza ce lo offre una lettera ad un gentiluomo del signor Gian Giordano Orsini presso il generale di Normandia, Milano, 1 febbraio 1516 (AO I, 335/1, 59): «Quando io ad un certo Signore che cuberna li dissi de’ Columnesi quel mi pensi, resposse el Re [...] cognose bene che li Ursini sono boni francese, imo se vole servire de tuti dui». XVIII Marcello Simonetta

Con i Colonna decisamente contrari (Prospero, e poi Pompeo), il destino poli- tico di Alberto sarebbe stato segnato in maniera irreversibile. Le “lettere americane” documentano il progressivo ma inevitabile incrinarsi dei rapporti fra Alberto e la corte imperiale in un logorante braccio di ferro per otte- nere informazioni e compensi, come l’offerta del Vicereame di Sicilia – un giallo, quest’ultimo, che avrebbe appassionato Leonardo Sciascia. Intanto l’incarico promesso all’Alamanni si era concretizzato, e Lodovico sentì il bisogno di chiedere consiglio al padre, l’ormai anziano ex ambasciatore medi- ceo, prima di intraprendere un passo così importante della sua carriera, cioè una missione presso il Lautrec, governatore francese di Milano e «Re di Francia in Italia»: [...] né ho potuto intendere da S.S. più innanzi ma parlando col Signor Alberto, trovai che lo sapeva et persuadevami ad acceptare col dire che quivi harei grande comodità di dare saggio di me, conciosiacosaché quel signore era Re di Francia in Italia et che per la reputatione che il Re gli dava, et per essersi più lontano alle cose d’Italia, molte faccende si havevono ad trattare et ad resolvere et che chi vi sarà andrà con qual- che credito, harà più vantaggio che non harà uno imbasciadore fiorentino in Francia circa al trattare faccende et dare pruova di sé, perché uno imbasciadore in Francia agita poche cose per esservi il nuntio del papa che fa tutto, quivi non essendo nuntio, non harebbono le cose ad passare per altre mani che per le mie et diceva che ad volere veni- re in qualche buono grado con Nostro Signore era necessario dare qualche pruova di sé, et che gli pareva che io fussi per riuscire meglio per la prima volta in qualche luogo fuori, donde io habbia ad scrivere lettere che sieno viste et tractare faccende che habbi- no ad apparire innanzi ad gl’occhi di Nostro Signore, che qui dove io harei giudice et concorrente l’Ardinghello, et [Baldassarre Turini da] Pescia et forse de gli altri et che sperava sanza alcuno dubio quanto io colà facci quello che io harei ad far qui (conside- rate tutte le altre circumstantie) che fussi per riuscirci ogni disegno, ad che offriva ogni sua forza, et dettemi exemplo di sé, contando in che modo era condocto insino qui, et questo è quanto ritrassi da S. S.ria la quale mi fece più raccoglente che mai39. Dal dettagliato resoconto di Lodovico s’intuisce che il ciarliero Alberto, “ragio- nando” da grande esperto di “faccende” diplomatiche, ben lungi dall’avere un par- tito preso contro i francesi, era in effetti prudentemente rispettoso verso di loro, mentre si cominciava a distaccare dagli imperiali…

39 Lodovico Alamanni a Piero Alamanni, Roma, 11 novembre 1517 (BNCF, Magl. VIII 1487, c. 94r- v). Si noti che Machiavelli scrisse all’Alamanni il 17 dicembre 1517 la famosa lettera in cui lamen- tava la sua esclusione dalla lista dei poeti nell’ultimo canto del poema dell’Ariosto. Ma il quondam Segretario era stato lasciato «solo come un cazo» anche come potenziale ambasciatore o funzionario, il che forse gli pesava anche di più. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XIX

Un medico collerico e un paziente impaziente Uno squarcio sulla realtà della situazione ce lo fornisce Giovan Francesco Nigrino, personaggio finora del tutto sconosciuto. Di lui sappiamo che era a Innsbruck alla fine del 1511, da dove scrisse ad Alberto lettere assai pettegole, ma riguardanti anche la causa vertente sul possesso di Carpi contro Alfonso d’Este40. In qualità di medico personale di Lorenzo de’ Medici nel 1515 diede prova del suo temperamento collerico, prendendosela con un collega ebreo che non gli aveva restituito un «cuscinetto»41. Ritroviamo il Nigrino ad Augusta, presso l’imperatore, nel settembre 1518. Notificando al Pio la ragione dei mancati doni per il matrimo- nio da parte dei poverissimi membri della corte cesarea, esprime un tagliente giu- dizio sui principi germanici: Non vydi mai non dirò Principi ma gente men capace men exorabili men gloriosi et que- dam alia che obmitto per modestia son chiaro di questa natione42. Non è del tutto chiaro se Nigrino agisse nelle vesti di medico o di diplomatico, ma aveva sicuramente accesso diretto a Massimiliano, e non teneva la lingua a freno: parlaj a Cesare dicendo che Vostra Signoria si trovava indisposto del corpo de la mente et de la borsa: et che se recordasse li servitij grandi che quella li havea fatti, faceva et era per fare, et le spese grandi quali havea sostenuto et lo nullo adiuto che havea havu- to immo quella miseria che Sua Maestà havea ordinato maj hera stato dato et che ulti- mo il damno et bisogno suo li premeva la vergogna et il carico molto più et che tandem Soa Maestà re et non verbis se resolvesse [...] Nigrino era un medico collerico come il suo impazientissimo paziente Alberto e non si accontentava di «buone parole»: Sua Maestà promese fare bona resolutione et così Mon.re R.mo Gurcense [Lang] ha pigliato la cura, al quale ho etiam lavato la testa; benché in vero sua Signoria mostra haverlo a core, queste cose pecuniarie qui son inextricabili. Quando sto un poco caldo de colera come sto hora nemini parco. Per l’amor di dio Santisimo mio attenda Vostra Signoria a stare sana et con menor fastidio se pò, et sempre mi habia per suo affectio- natissimo servitore come li so et se ben sta in colera cum questi da Trento in qua, non li sia io tra epsi.

40 Ringrazio Anna Maria Ori per avermi segnalato questo e moltissimi altri documenti fonda- mentali per la stesura della presente introduzione. 41 Giovan Francesco Nigrino a Giovanni da Poppi, segretario di Lorenzo de’ Medici, Bologna, 1 e 10 ottobre 1515 (MAP CXV 437 e 458): «Magnifico Joanni mio huomo prego la S.V. se mai deside- ra farmi piacere facci lo Hebreo medico [Leone da Napoli?] dia el cossinetto al principe mio S.re [Lorenzo] che lo vostro Claudio glielo dette. In verità ho scripto x littere mai è stato possibile lo habia. Se lo judeo vole andare con el culo riposato diteli per mia parte se ne comperi con el malanno li dia dio, et se Christo li manda li sarcari [sic per sicari] lo remessi guai ad lui, per tanto fate io l’a- bia se non al corpo de Christo io venirò là. Non pensi che non sono homo perda el mio maxime con quelli Christo crucificareno. Perdonimi lo essere medico de lo Comune principe che sto in tanta col- lera, che crepo». 42 Giovan Francesco Nigrino ad Alberto Pio, Augusta, 1 settembre 1518 (BAMI, 283, fasc. 9). XX Marcello Simonetta

Quando lo raggiunse la notizia della morte di “Massimiliano senza denari”, come lo avevano soprannominato malignamente i veneziani, Alberto la accolse con l’evi- dente sollievo di aver riacquistato la sua libertà di movimento43, in tutti i sensi44.

Il Cortegiano e l’Ambasciatore

Le trattative riservate per il passaggio al servizio di Francesco I, contrariamen- te a quanto si è spesso sostenuto, cominciarono all’indomani della morte dell’im- peratore. Già a fine febbraio 1519 l’ambasciatore veneziano in Francia era infor- mato del fatto che Alberto vol aconzarsi con questa Maestà, poiché l’Imperador è morto, e il Re lo vuol tuor etc. Et li messi con commissione di questo, vano inanzi e indrio45. Apprendiamo così che il signore di Carpi si era prudentemente rifugiato a Perugia, sempre «indisposto»46. Lontano dalla curia, dove i suoi movimenti pote- vano essere facilmente osservati, negoziava per ottenere il miglior salario possibi- le dal re che, a differenza del predecessore Luigi XII per cui aveva lavorato e che era avaro, e questo è liberal; et si tien la cosa per conclusa et manderà uno suo di qui per concluder. Il Re vuol operarlo in Alemagna con li Electori per quella praticha di Re di romani47.

Dunque Francesco I, che ambiva al titolo imperiale, voleva usare tutto il presti- gio dell’ex ambasciatore di Massimiliano per pilotare la scelta del suo successore! Gli veniva offerto un «bon partido»: 4000 ducati all’anno e 50 lance, più «la pro- tetion dil stato e l’hordine di san Michiel; siché aspetano la risposta»48. Il re, anche sotto la pressione dell’imminente elezione imperiale, non badava a spese e arrivò ad offrirgli il doppio del denaro, e anche un posto nel suo Consiglio di guerra49. A

43 Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Wels, 13 gennaio 1519 sulla morte di Massimiliano (docu- mento CXIV): «Hora che V. S. è libera per la perdita de un clementissimo patrone, la potrà meglio attendere alle cose spectante alla sanità. La quale prego Idio li concedi longamente, et in sua bona gratia humillimamente di continuo me ricommando». 44 SANUTO 27, 161 sulla morte quasi coeva del mancato suocero di Alberto, Francesco II Gonzaga, il 29 marzo 1519. Nel testamento «a due sue figliole bastarde [...] l’altra da marito [Margherita] poi che’l signor de Carpi l’ha abandonata et toltone un’altra, ducati 400 d’intrada ogni anno per ciascu- na». Per gli screzi col Gonzaga, cfr. Alberto Pio a Tolomeo Spagnoli, Roma, 23 marzo 1518 (ASMN, b. 1309, in GUAITOLI 1877, pp. 391-394). Che Alberto provasse qualche senso di colpa nei confronti di Margherita ce lo suggerisce una fonte inaspettata, ovvero una lettera di Beltrame Costabili a Ercole d’Este del 12 marzo 1518 (ASMO, Carteggio Ambasciatori, Roma, b. 21): «Et lo amico dice che bene lo accepta havere facto torto a quella Dona, la qualle multo lauda et nominandola lacrimò». 45 SANUTO 27, 30 di Franza, 26 febbraio 1519. 46 Ibid. 69 di Roma, 26 febbraio 1519. 47 Ibid. 130 di Parigi, 15 marzo 1519. 48 Ibid. 184 di Roma, 12 aprile 1519: «el qual è a Perosa mal conditionato». 49 Ibid. 215 di Franza, 16 aprile 1519: «la praticha dil signor Alberto di Carpi è terminà, come scrisse per le altre, et ha mandà indrio el suo messo con la conclusion da 50 lanze, 8000 fanti [sic per scudi!] a l’anno, l’hordine di San Michiel et sia dil Consejo secreto di la guerra». Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XXI inizio maggio, parve infine che Alberto avesse accettato l’onorevolissima offerta, troppo tardi tuttavia per contrastare l’ascesa di Carlo I di Spagna al titolo di impe- ratore Carlo V50. Il nuovo ben remunerato ruolo di Alberto dovette guadagnargli molte gelosie e malumori, se in luglio venne alle orecchie dei veneziani che men- tre si trovava a Siena malato, «era stà amazato in letto. Tamen fo nova ditta a bocha, et non fu vera»51. Pochi giorni dopo giunse voce che le condizioni della con- dotta erano state ulteriormente migliorate52: lo stipendio era salito a diecimila scudi, oltre alle cinquanta lance per il fratello Leonello. Quando le notizie prove- nienti dalla Francia arrivarono a Roma, Leone X manifestò il suo dispiacere che Francesco I avesse assunto «il signor Alberto di Carpi, qual è a Fiorenza varito [guarito], con lui, dicendo, questo potrà meter novi pensieri in testa a quel Re»53. Ben presto il pontefice avrebbe potuto dolersi di persona con il suo vecchio com- pare, perché Alberto giunse a Roma, anche se «si butò a leto e si medicava. Si tien sia venuto, perché partendosi monsignor Payton uno di oratori dil re Christianissimo, lui voria restar qui per orator primario di quella Maestà»54. L’alterna convalescenza del Pio fu seguita con trepidazione anche da Baldassarre Castiglione. Non ancora ambasciatore ufficiale per conto del marche- se di Mantova, il cortigiano per antonomasia continuava a servire il suo vecchio signore Francesco Maria Della Rovere che ora, dopo la morte di Lorenzo de’ Medici avvenuta nel maggio 1519, sperava di ottenere la legittima restituzione del ducato di Urbino55. Castiglione aveva urgenza di vedere Alberto ma «sta in letto continuamente. Io l’ho visitato una volta sola; e per havere compagnia, e per non mostrare importunitate non gli parlai»56. Il discreto Castiglione sperava di ricevere da Alberto rassicurazioni sulla disposizione benevola del papa, temendo, a ragio- ne, che Leone X non avesse così bene evacuato l’animo di odio verso vostra excellentia [il Della Rovere] come dice, e però non se ne fidi in tutto, o forsi stia pur dubioso de dar questo stato a qualchuno de questi bastardi di casa sua. Il che però mi par dificile [sia Ippolito, figlio di Giuliano, che Alessandro, figlio di Giulio o di Lorenzo, erano ancora giovanissimi]. Ma io mi trovo confusissimo, e quelle poche cose che io posso cavar da Gio. Mateo [Giberti] sono tanto seche che non me chiariscono57. La reticenza del Giberti, come vedremo, celava una vera ostilità nei confronti di messer Baldassarre, considerato un emissario dei peggiori nemici dei Medici. Castiglione il 27 agosto registrò l’arrivo di monsignor de Saint Marsault, ciambel-

50 Ibid. 312 di Franza, 6 maggio 1519. 51 Ibid. 467 (luglio 1519). 52 Ibid. 533 di Franza, 23 luglio 1519. 53 Ibid. 548 di Roma, 4 agosto 1519. Del breve soggiorno toscano di Alberto non si aveva notizia. 54 Ibid. 577 di Roma, 17 agosto 1519. 55 Baldassarre Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 17 agosto 1519 (AITER 371): era tornato a Roma il 15 agosto 1519 «ma conquassato et debile assai della infirmità passata». 56 Baldassarre Castiglione a Francesco Maria Della Rovere, Roma, 20 agosto 1519 (AITER 373). 57 Ibid., corsivi in cifra. XXII Marcello Simonetta lano del re di Francia visto come il nuovo ambasciatore58. Solo il 10 settembre annunciò che era in effetti Alberto che maneggia le cose di Francia, e serà qui ambasciatore residente del Christianissimo. Vero è che per anchor non se parte di camera, et io insino a qui non gli ho mai potuto parla- re, et a questo medesimo termine sono anchora alchuni Cardinali di questa corte, che da lui non possono havere audientia; vero è che per anchor sta molto indisposto59. La massima riservatezza usata prima di rivelare pubblicamente il suo nuovo ruolo diplomatico indica prudenza da parte del Pio, ma forse un pizzico di rilut- tanza – la sua malattia era reale, ma era allo stesso tempo un utile pretesto per evi- tare conversazioni sgradite e compromettenti. Eppure anche allettato non smetteva di brigare: Vero è che li francesi fanno grandissima instantia di questo et il signor Alberto la maneggia, benché stia in letto: tanto che io non ho mai potuto haver gratia di parlargli, con tutto che io li sia andato cinquanta volte. El papa inclina molto a’ francesi, perché teme molto questo nome de Imperatore, et è molto indutto a questo da’ francesi60. Dopo un’estenuante anticamera (Alberto era «più lungo che il papa»!) Castiglione riuscì finalmente a ottenere un colloquio riservato col malandato col- lega: Heri doppoi lo haverne fatto prova infinite volte, parlai al signor Alberto. El quale hebbi in parte per escusato della difficultà de la audientia, vedendolo tanto magro e mal condutto, come egli è, che invero sta in mal termine61. Da quel momento, gli scambi divennero più frequenti, e Alberto si fece nuova- mente avvocato degli interessi del Della Rovere, come aveva già fatto nel 1516 prima della brutta guerra di Urbino, che aveva creato tanti grattacapi all’«inoppiato» Leone X: Il Signor Alberto mi ha referito haver fatto lunghissimo raggionamento con el papa delle cose di vostra excellentia, et alegatoli tucte le nostre raggioni, et anchor molte altre, perché sua santità debba restituirli il stato. E le risposte sue sono quasi tutte state conforme a quelle che ha date a me, dolendosi in parte di vostra excellentia delle cose

58 Baldassarre Castiglione a Francesco Maria Della Rovere, Roma, 27 agosto 1519 (AITER 375): «A questi dì è venuto uno gentilhuomo di Francia il quale, secondo ch’io intendo è molto grato al Re, et a Madama, e molto consapevole del animo dell’una e dell’altro». Cfr. Baldassarre Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 27 agosto 1519 (AITER 374): «Qui è gionto un gentilhuomo della casa del Re, el quale se adimanda Monsignor di San Marseo: estimasi che serà qui ambasciatore residente del X.mo et che Monsignor di Samalò [Denis di Guillaume Briçonnet] se partirà». Cfr. SANUTO 27, 627 di Roma, 28 agosto: «San Marzeo, qual fu dal signor Alberto di Carpi, et vene da lui Orator, e quan- do va al Papa, va solo». 59 Baldassarre Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 10 settembre 1519 (AITER 383). 60 Baldassarre Castiglione a Francesco Maria Della Rovere, Roma, 10 settembre 1519 (AITER 384). 61 Baldassarre Castiglione a Francesco Maria Della Rovere, Roma, 24 settembre 1519 (AITER 392), corsivi in cifra. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XXIII

passate, dippoi dimandandogli s’el credeva che vostra excellentia serebbe fidele e bono, e se gli parea che in far questa restitutione fosse l’honor della sede apostolica. A le quali cose tutte lui [Alberto] mi dice haver fatto bonissimo officio [...] Forse che Dio ci man- derà qualche contentezza. El Signor Alberto per le parole del papa spera bene. Presto vederemo dove tende la cosa62. Nelle settimane successive il Pio, che abitava in palazzo apostolico circonda- to da antiche diffidenze63, continuò a dialogare con Castiglione e a riferirgli i suoi interventi presso il papa e soprattutto presso il cardinale Giulio de’ Medici, da cui dipendevano tutte le più importanti decisioni, e in novembre Castiglione se ne ripartì speranzoso che l’aiuto di Alberto avrebbe risolto la spinosa questione urbinate64. La cattiva salute, o forse la maligna disposizione del papa, non produssero però grandi risultati. Restato solo a Roma come rappresentante del Re Cristianissimo dopo la partenza di Saint Marsault65, Alberto ricadde malato66 e non riuscì ad impe- dire che il papa concedesse l’investitura del Reame di Napoli all’imperatore67. Di conseguenza in Francia non si fidavano molto di lui per «li tratamenti ha facto col Papa di questa liga, et le letere el scrive al Re»68. All’inizio del 1520, una volta tanto, era il Pio ad essere al capezzale di un altro malato, il cardinale de’ Medici, afflitto da un mal di schiena69. Ma la gotta non gli dava pace più di quanto le potenze europee intendessero darsi pace a vicenda. A sostenere l’operato dell’amico Alberto fu il cardinale Bibbiena, da poco rientrato a Roma dopo un lungo soggiorno alla corte francese, dove era divenuto devotissimo della “trinità” composta da Francesco I, dalla madre Luisa e dalla sorella Margherita:

62 Baldassarre Castiglione a Francesco Maria Della Rovere, Roma, 1 ottobre 1519 (AITER 397), corsivi in cifra. 63 SANUTO 27, 635 di Roma, 6 settembre 1519: «Come si aspeta risposta di Franza, di quanto scris- se mons. di San Marzelo [sic] li havia dito il Papa, e tien sia opera dil signor Alberto di Carpi, con il qual ogni dì esso San Marzelo è insieme. Et dito signor Alberto si è venuto habita in palazo in le stan- zie del cardenal Medici per poter meglio negotiar col Papa, e a lui Orator nostro non li piace, perché pur è stà sviscerato cesareo». 64 Baldassarre Castiglione a Francesco Maria Della Rovere, Roma, 8, 15 e 18 ottobre 1519 e 8 novembre (AITER 399, 401, 403 e 406). Cfr. anche la credenziale confidenziale di Alberto Pio a Federico Gonzaga, Roma, 3 novembre 1519 (MSDC 11, p. 127): «Retornando a quelle bande lo Magnifico Messer Baltassare de Castione exhibitore presente, non ho vogliuto lassarlo venire senza questa mia». Il marchese di Mantova ringraziò «molto humanamente» dei «boni officij li ha referito el M.co M. Baltassara Castiglione» (Alberto Pio a Federico Gonzaga, Roma, 9 gennaio 1520, ASMN, b. 1309). 65 SANUTO 28, 71-72 di Roma, 14 novembre 1519. 66 Ibid. 106 di Roma, 28 novembre 1519; di Franza, 16 novembre 1519: «Coloquii con madama et aspetano el zonzer di San Marzeo. Il Re ito a solazo». 67 Ibid. 138 di Roma, 17-20 dicembre 1519: «et voria che’l nostro Orator vedesse di parlar al Papa non la facesse, per esser contraria a la X.ma M.tà». 68 Ibid. 145 di Franza, 19 dicembre 1519. 69 Ibid. 192 di Roma 9-13, gennaio 1520. XXIV Marcello Simonetta

Monsignor de Carpi serve con gran fede et amore al Re et voi. La sua indispositione tiene pur anchora il povero Signore con impedimento et fastidio, et non può, come vor- ria, del continuo negociare, il che dispiace anche al Papa. Et perché pur bisogna ad ogni hora parlare con l’orator vostro per le cose de importantia che accadono hora per hora, la sua Santità molto desidera la venuta qua di monsignor d’Upin [Du Pin] o d’altro ora- tore del Re, et me ha detto che io vi preghi a farlo venir presto più che si può70. Alberto faceva quel che poteva, scrivendo con efficienza al Lautrec71 e con deferenza a Luisa di Savoia72, ma l’intermittente carteggiare spinse di nuovo il Bibbiena a voler rassicurare la madre del re perché son certo che Monsignor il Conte di Carpi con diligentia et con fede tiene del continuo avisato il Re et voi delle cose di qua et maxime della optima mente nella quale la santità di Nostro Signore persevera più che mai verso del Re et delle cose sue [...] So che Monsignor di Carpi delle cose tochanti tra ’l Catholico e il Re ha scritto a lungo li dì passati, però non ne dirò altro73. La scarsa documentazione dei rapporti di Alberto con la Francia in questo periodo non ci permette di valutare appieno il suo ruolo. Una notevole eccezione è la lettera scritta con estrema franchezza al cancelliere di Francia e vescovo in erba, Antoine Du Prat, dandogli le ragioni per le quali le sue ambizioni ecclesiastiche fossero premature e mal riposte, e comunicandogli simultaneamente l’arrivo del suo collega Du Pin, «honneste et gracieux personnaige», che gli avrebbe permes- so di prendersi una necessaria vacanza74. Don Juan Emanuel, il nuovo ambasciato- re imperiale a Roma, che considerava il Bibbiena tanto francese quanto lui era spa- gnolo, identificava comunque il conte di Carpi come il nemico numero uno, a causa dei suoi strettissimi rapporti col cardinale de’ Medici, di cui era sempre ospi- te in palazzo apostolico. Don Juan fu il primo a rallegrarsi della sua annunciata par- tenza per i Bagni di Pozzuoli75.

70 Il cardinale Bibbiena a Luisa di Savoia, Roma, 18 febbraio 1520 (BNF, Fr. 2964, f. 22; MOLINI 1836, p. 74). Sull’amore del Bibbiena per la “trinità”, cfr. SIMONETTA 2015a, p. 33. 71 Alberto Pio a Lautrec [Odet de Foix], Roma, 20 febbraio [1520] (BNF, Dupuy 452, f. 17). 72 Alberto Pio a Luisa di Savoia, Roma, 21 febbraio 1520 (BNF, Fr. 3092, f. 5). 73 Il cardinale Bibbiena a Luisa di Savoia, Roma, 2 aprile 1520 (BNF, Fr. 2962, ff. 46-47; MOLINI 1836, p. 77). Della corrispondenza di Alberto con la Francia di questi mesi non si è trovata altra traccia. 74 Alberto Pio a Antoine Du Prat, Roma, 18 maggio 1520 (BNF, Dupuy 452, f. 16): «Toutesfois je vous diray franchement l’opinion que est en ceste court de vous touchant les matieres spirituelles et ecclesiastiques scavoir est que vous estes ennemy mortel du sainct siège apostolicque et de la liber- té ecclesiasticque et que toutes les choses les tirez ou directement ou indirectement contre icelle […] estes le plus dur et opiniastre en telles matières que chancellier que s’eust jamais en et inces- samment viennent querelles de vous quant à cela». D’ora in poi citeremo gran parte delle lettere scrit- te in francese dai segretari di Alberto nella nostra traduzione italiana. 75 Juan Emanuel a Carlo V, Roma, 12 maggio 1520 (SPAIN II, 279). Il cardinale Bibbiena a Luisa di Savoia, Roma, 19 maggio 1520 (BNF, Fr. 2962, cc. 56-58r; MOLINI 1836, p. 86): «Monsignor du Pin Ambasciator del Re arrivò qua tre giorni sono. Hiermattina parlò al Papa et ha grandemente satisfat- to a sua Santità et io ho gran piacere della venuta sua [...] et poi che lo ambasciator è qua, vi scrive- rò più di rado et più breve per non darvi fastidio. El povero Monsignor di Carpi non mai ben Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XXV

Il soggiorno medico, sotto le cure di Maestro Leone ebreo, forse l’autore di un consulto medico inviato da Napoli un paio d’anni prima, in cui veniva enfatizzata la «inflammatione et efusione excesa de colera»76 nello stomaco di Alberto, dove- va servire a rimetterlo in sesto, ma le cure non gli impedirono di tenere aperto un canale riservato di comunicazione con il segretario mediceo Giberti77. L’ambasciatore in congedo indirizzò una missiva non particolarmente signifi- cativa al re da Pozzuoli78, dove corse persino il rischio di essere rapito dai turchi79, e quindi si trasferì a Napoli a casa del principe di Salerno80. A riprova del fatto che i rapporti con i francesi non fossero molto buoni in questo momento vi è l’invetti- va di Giberti, solitamente piuttosto filo-gallico, che li accusava di essersi «inso- lentiti assai» nei confronti del papa che era ormai stanco di essere «schiavo» della loro ingratitudine: Se io non sapessi appresso a chi scrivo, cioè mio singularissimo patrone e che me ha per persona senza passione, et che imiti la voluntà sua qual ho sempre visto anteporre el servitio di N. S. a ogni altro rispetto, io harei riguardo scriverli queste cose, perché ogni altri che lei che non mi conoscessi, o non vedessi le cose in sorte reputaria ch’io mi fussi posto a far invettive contro franzesi e non negaralli la verità, il che Dio sa s’io fo con dispiacere, non per altro se non per quella ragione che prudentissimamente V. S. l’altro giorno mi discorse et hor mi replica, che non video ubi d’altro lato consistamus; che s’el si potessi trovar ferma sede io non so se me li ponessi dubio81.

«Questo benedetto Signor Alberto» Nel frattempo Castiglione era ritornato a Roma, ma non desiderava affatto il rientro di Alberto, perché costui rischiava di frapporre ostacoli alla sua missione, che consisteva nel far nominare il marchese di Mantova capitano della Chiesa. Giberti era quasi riuscito a dissuadere il papa, ma poi la sua momentanea malattia si era riacutizzata, e i capitoli della condotta erano stati sottoscritti; se la cosa si fosse conclusa, il papa avrebbe avuto occasione di pentirsene82.

guarito della indisposition sua, se ne va a’ Bagni di Pozuolo per veder se potessino giovarli; ma più per la speranza che ha in un Maestro Leone medico eccellentissimo et forse raro, il quale sta a Napoli. Piaccia a Dio fargli recuperar la sua pristina sanità». 76 Consulto medico non firmato, Napoli, 31 agosto 1517 (BAMI, 283, fasc. 12). 77 Gian Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 26 maggio 1520 (documento CXV). 78 Alberto Pio a Francesco I, Pozzuoli, 2 giugno 1520 (BNF, Fr. 3092, f. 7). 79 SANUTO 28, 603 di Roma, 7-9 giugno 1520: «coloqui auti col Papa, qual li ha dito come a Pozuol, chè a la marina, dove sono bagni perfectissimi, et a dì ... la note, vene 3 galie, 17 fuste e 1 brigantin di turchi et prese in terra una donna capuana venuta a li bagni assa’ gran maestra; et poco mancoe che el s. Alberto di Carpi, qual etiam lui era a li diti bagni, non fusse stà preso; el qual scam- pò in el castello lì vicino»; ibid. 621, 636 di Napoli, 8 giugno: «si portò ben e si salvò in castello»; cfr. Gian Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 9 giugno 1520 (documento CXVI). 80 Ibid., 652 di Napoli, [20?] giugno 1520. 81 Gian Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 21 luglio 1520 (documento CXVII). Cfr. Forner, p. 7. 82 Gian Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 8 settembre 1520 (documento CXX). XXVI Marcello Simonetta

Sei anni dopo in effetti i Medici si sarebbero rammaricati di aver preso sotto contratto il marchese di Mantova, e Piero Ardinghelli avrebbe pagato cara la sua avidità nel procurare e poi far sparire una compromettente clausola di combatti- mento contro l’imperatore83. Ma intanto il Castiglione cercava attivamente di pre- venire l’interferenza del Pio84, anche perché il giovane Federico Gonzaga aveva informato della delicata trattativa lo zio Luigi Gonzaga, che essendo un vecchio amico di Alberto, glielo avrebbe spifferato85. La sua paranoia non era del tutto ingiustificata in quel groviglio d’intrighi e bisbigli di corridoio. Il prolungato sog- giorno a Napoli cominciava peraltro a insospettire i francesi, poiché si diceva che il signore di Carpi non frequentasse solo il suo medico, ma anche il viceré86. Il tira e molla continuò per alcuni mesi, e rese le trattative dell’ambasciatore francese quasi impossibili, perché Saint Marsault aveva «in comissione de comunichare ogni cosa col Signor Alberto, prima ch’el parli col papa»: Hora si aspetta la venuta di questo benedetto Signor Alberto, e subito venuto, se comin- ciarà a negociare. Ma perché io sto su la croce, e cum quella maggiore anxietà che possa star un homo, aspettando pur il fine di questa cosa (che se la andasse in sinistro, io serei disperato), non faccio altro mai che pensare qualche modo o via, per trharla a capo, e faccio molte cose che non scrivo a V. E. Ma in vero in tutte ho per compagno e bon con- sultore M. P. Ardinghello, che è instrumento attissimo, per esser savio, e de chi el papa sommamente confida, et affecionato servitore a V. Ex.tia87. E in effetti Alberto arrivò a Roma qualche giorno dopo, destando la preoccupa- zione di don Juan, che lo teneva sempre d’occhio come un sorvegliato speciale per la sua relazione privilegiata col papa e la sua inimicizia col duca di Ferrara88. Non sappiamo tuttavia se Leone X abbia mantenuto la promessa proferita qualche setti- mana prima che avrebbe lasciato nascondere don Juan sotto il proprio letto nella camera dove doveva ricevere Alberto e il suo collega Du Pin89!

83 SIMONETTA 2014, pp. 273-274. L’Ardinghelli era stato il più potente segretario della curia leonina. 84 Baldassarre Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 27 agosto 1520 (AITER 434). 85 Baldassarre Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 2 settembre 1520 (AITER 438). In effetti l’an- sia del Castiglione non era del tutto ingiustificata; cfr. Baldassarre Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 12 ottobre 1520 (AITER 449): «ho mille suspetti e mille paure, perché penso che questa cosa di - spiaccia a molti che aspirano a questo loco, et a molti altri per diversi rispetti, come a lo Signor Alberto, el quale, per quanto ho inteso, ha scritto una lettera al [Jehan de] Salve, dissuadendoli questa cosa». 86 Baldassarre Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 18 agosto 1520 (AITER 432): «Moretta [gentiluomo inglese al servizio dei francesi] fa instantia grande ch’el Signor Alberto venga da Napoli: lui si escusa per la infirmitate. Di novo gli ha spazzato un cavallaro, e gli ha mandato in scritto tutto quello che gli havea da conferrire a boccha, e se lamenta di lui. E sono venuti li francesi meggio in diffidentia, perché dicono ch’el sta ogni dì due e tre hore col Viceré serrato. Io non vorrei ch’el venis- se, perché dubito che la nostra cosa li despiaceria, e forsi la turbarebbe». 87 Baldassarre Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 4 novembre 1520 (AITER 454): «E però ha scritto al Signore Alberto instantissimamente ch’el venga, e fattoli ancor scrivere dal papa, onde esso, benché infirmo, e mal condicionato, si è posto in via, e viene. Il che mi dispiace: pur io mi credo haver disposto el papa di sorte, che non crederà se non quello che raggionevolmente deve credere». 88 Juan Emanuel a Carlo V, Roma, 14 novembre 1520 (SPAIN II, 309). 89 Juan Emanuel a Carlo V, Roma, 19 ottobre 1520 (SPAIN II, 302). Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XXVII

Ma c’è un’altra conversazione che noi avremmo voluto poter origliare, quella avvenuta in «incognito» a cavallo, per «quattro ore», fra il Cortegiano e l’Ambasciatore: Heri fui a visitare el Signore Alberto parendomi così in proposito, et havendo prima ope- rato ch’el nostro M. Pietro Ardinghelli v’andasse, e così da sé gli facesse intendere come N. S.re era resolutissimo di fare questa cosa [la condotta del Gonzaga], mectendoglila di tal modo che non vi fosse dubbio alchuno. E così fece. Io fui con S. S.ria per buon spa- tio: dippoi pregòmmi ch’io fossi contento cavalchare seco, così, incognito un poco fuor di Roma; la qual cosa quasi ogni dì fa per questi bei tempi per far exercitio: e così feci. Et per più de quattro hore andammo raggionando de diverse cose, tra le quali venemmo in proposito di questa conducta di Vostra Ex., sopra el che io gli dissi quello che mi parve in proposito. S. S.ria mostra essere molto affectionato e servitore di Vostra Ex.90 Forse i temi del dialogo erano meno nobili delle serate urbinati nelle quali Emilia Pio faceva la regina nel Libro del Cortegiano, già ampiamente abbozzato a questa data.

«Un principe molto cristiano» e un papa molto imperiale Baldassarre Castiglione era sempre sul chi vive per l’esclusione dai conciliabo- li segretissimi dei francofili, li quali tutti sono più taciturni che li mutti. Certo è che li francesi offeriscono al papa gran cose, et il Signor Alberto sta alegrissimo, e dice che li francesi adesso mostrano esser savij91. Per parte sua, don Juan si vantava con l’imperatore che se Alberto avesse sapu- to degli accordi sotto banco che venivano trattati con lui, si sarebbe impiccato per la disperazione92. Alberto mostrava di essere un cortigiano “alegrissimo”, ma non lo era: formal- mente al servizio del re di Francia, la sua vera e duratura fedeltà era nei confronti dei Medici. Per questo all’inizio del 1521 si disse molto dispiaciuto della repenti- na partenza per Firenze del cardinale Giulio non annunciata a lui, «domestico suo servitore», «perché più bisogno ha Roma de la sua presentia che non ha Firenze»93. Col suo sesto senso ben sviluppato, il Pio intuiva che l’allontamento del cardinale non prometteva niente di buono. In effetti l’ubiquo Giulio aveva cominciato a inta- volare trattative segrete con l’imperatore, mettendo fine all’intesa esclusiva del papa con la Francia, che non era più l’unico ubi consistamus possibile come aveva scritto Giberti.

90 Baldassarre Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 24 novembre 1520 (AITER 456). 91 Baldassarre Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 12 dicembre 1520 (AITER 465). Fra i taci- turni compari vi erano il Giberti e il Pio. 92 Juan Emanuel a Carlo V, Roma, 12 dicembre 1520 (SPAIN II, 312). 93 Alberto Pio al cardinale Giulio de’ Medici, Roma, 28 gennaio 1521 (BAMI, 283, fasc. 1). XXVIII Marcello Simonetta

Allo stesso tempo, don Juan diceva che sarebbe stato un bello scherzetto ai fran- cesi il convincere Alberto a passare dalla loro parte94, ma costui continuava a lavo- rare indefesso mantenendo stretti rapporti col luogotenente Lautrec95, facendo incontri riservati con Leone X ad ore insolitamente mattiniere96 e impedendo persi- no all’altro ambasciatore francese di ottenere udienza97. Dalla Francia sospettavano che il signore di Carpi non si comportasse in manie- ra disinteressata per quanto concerneva gli affari di Ferrara98. Lo stesso Lautrec disse ad un inviato veneziano che Alberto «serve fedelmente il Re; ma contra Ferara non è da fidarsi per il gran odio l’ha. Disse, il Re manda li oratori de le veste longe, come è monsignor di Pin a Roma per cose di preti»99. Ma il Pio si impiccia- va con il Du Pin anche di questioni religiose. Il papa aveva intenzione di scrivere al Re Cattolico per lamentarsi «dell’affare di Lutero eretico, che sarà un altro punto di vantaggio, e di più grande importanza che non sia la volontà del detto Cattolico di entrare in Italia». Però il solito guastafeste don Juan aveva appena mostrato al pontefice «una lettera scritta di propria mano dall’imperatore, piena di profferte e di buone e grandi parole, con le quali asseriva di aver condannato Lutero eretico». Simultaneamente Raffaele de’ Medici, che era l’inviato fiorentino nelle Fiandre presso Carlo V, era tornato a Roma di gran fretta e aveva portato con sé delle istru- zioni cifrate che non aveva ancora divulgato100. Per alcuni giorni i ministri imperiali avevano menato il can per l’aia, ma al di là delle sceneggiate e delle vanterie sul «gran caso» e il «gran mistero» della dichiarazione contro Martin Lutero101, dei sontuosi banchetti offerti dal «grande» ambasciatore francese102, delle grandi malevolenze dichiarate103 e delle piccole fin-

94 Juan Emanuel a Carlo V, Roma, 28 gennaio 1521 (SPAIN II, 317). 95 Alberto Pio a Lautrec, Roma, 4 febbraio 1521 (BNF, Clairambault 322, f. 118). 96 SANUTO 29, 632 di Roma, 7 febbraio 1521: «Domenega... Trovò Soa Santità con el signor Alberto di Carpi, et il Papa esser levato di letto molto per tempo contro il suo solito, con il qual stete per doi hore, et esso Orator lo aspetò in la loza con do cardinali che voleano audientia». 97 Ibid., 663-664 di Roma, 18 febbraio 1521: «Scrive, è stà ozi col Papa el signor Renzo [da Ceri, suo parente acquisito tramite la moglie], il signor Alberto da Carpi più di do hore; siché monsignor di Pin l’altro orator francese non poté aver audientia». 98 SANUTO 30, 26 e 64. Cfr. anche SANUTO 29, 514 di Franza, 22 dicembre 1520: «Orator disse si meravigliava dil re X.mo si fidasse nel signor Alberto di Carpi a tratar le so’ cosse col Papa interve- nendo Ferara, atento l’odio ha con dito Ducha. Resposeno il Re vol maridar la fiola di dito signor Alberto nel terzo fiol dil ducha di Ferara, perché li altri do è dati a la chiesa». È chiaro che questo strampalato progetto matrimoniale fra gli Este e i Pio non ebbe mai seguito. Ma nel ramo di Sassuolo il figlio di Alessandro Pio e di Angela Borgia, Giberto, sposa la figlia del cardinale Ippolito, Elisabetta. Ringrazio Anna Maria Ori per questa precisazione. 99 SANUTO 30, 206: relazione di sulla sua visita a Milano al Lautrec, 28 aprile 1521. 100 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 2 maggio 1521 (BNF, Fr. 3092, ff. 10r-v). 101 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 8, 13 e 14 maggio 1521 (BNF, Fr. 3092, ff. 33, 37 e 12 e ss.). 102 SANUTO 30, 254 di Roma, 15 maggio 1521: «Poi intrò el signor Alberto di Carpi, qual etiam stete longamente [...] li dete [ai capitani svizzeri fatti cavalieri] una sontuosa cena con molte sorte di vivande et bandison et musiche; il qual signor Alberto fa molto il grande». 103 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 17 maggio 1521 (BNF, Fr. 3092, ff. 27-29). Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XXIX zioni denunciate104, prima della fine di maggio Raffaele de’ Medici aveva «tradito» il segreto della nuova alleanza siglata fra Carlo V e Leone X al Pio, il quale cerca- va di controbilanciare le offerte imperiali con quelle francesi, mettendo sul piatto Ferrara e persino Napoli105. Alberto era irritatissimo per la carenza di risposte dalla Francia in quel momen- to così delicato106, e continuò a tempestare di dispacci Francesco I, informandolo che il papa non faceva nessun gesto amichevole, e anzi, sentendosi preso in giro, cominciava a manifestare apertamente una certa ostilità107. Il re, piccato, scrisse che non poteva credere all’ingratitudine del papa, rammentandogli i favori fatti sin dal congresso di Bologna108. Cercando di correre ai ripari, con forzoso realismo Alberto scrisse al maresciallo Lescun109 e al tesoriere Robertet110, e sparse accortamente la voce che a breve «mostrerà al re Cristianissimo aver fato un bel trato»111, ma già si cominciava a mormorare che Francesco I l’avesse revocato da Roma, «et vadi a li soi stati»112. A peggiorare ulteriormente i rapporti diplomatici contribuì l’arresto ordinato dal papa di un segretario di Saint Marsault che risiedeva proprio a casa di Alberto, e del mancato arresto di un capitano di Lautrec, che si diede alla fuga giu- sto in tempo113.

104 SANUTO 30, 289 di Roma, 24 maggio 1521: «el signor Renzo resta casso et partì di Roma; tamen el r.mo Cornelio [Corner] li ha dito è fenzion questa et opera dil s. Alberto di Carpi, qual sta sempre a le orechie del papa, e il Papa li presta fede». SANUTO riporta anche una battuta di Enea Pio, ambasciatore ferrarese, che rispose: «e le promesse di preti è come quelle del diavolo, e non è da cre- derle»! 105 Juan Emanuel a Carlo V, Roma, 26 maggio 1521 (SPAIN II, 337). Cfr. Juan Emanuel a Carlo V, Roma, 27 giugno 1521 (SPAIN II, 343), secondo cui Alberto sentì il bisogno di ripresentare le sue cre- denziali francesi al papa (il che certamente non era un buon segno). 106 Jean Breton [de Villandry] a Francesco I, Roma, 4 giugno 1521 (BL, Add. ms 21512, f. 8): «Le Conte de Carpy est merveilleusement ennuyé de ce qu’il n’a responce de vous de plusieurs lettres qu’il vous a escriptes depuis ma venue en ceste ville». 107 Cfr. Alberto Pio a Francesco I, Roma, 29 maggio e 14 giugno 1521 (BNF, Fr. 3092, f. 6 e Fr. 2968, f. 3); cit. da Alberto Pio a Francesco I, Roma, 25 giugno 1521 (BL, Add. MS 21512, f. 7): «Mais Sire je l’ay [le pape] trouvé encores plus en suspens et travaille en sa fantasie qu’il n’estoit dernière- ment quant je luy parlay […] Sire je congnoys à la façon de faire de nostre père et aux parolles et tous autres signes qu’il est tout plein d’ennuy et très mal content et qu’il estime que l’on se soit moc- qué de luy et que à grant peine luy pouvroit en dire plus chose qu’il trouvast bonne». 108 Francesco I ad Alberto Pio, s.l. e s.d. [giugno 1521?] (copia per Robertet) (BNF, Fr. 2962, f. 120r-v). 109 Alberto Pio a Lescun, Roma, 29 giugno 1521 (BNF, Fr. 2933, f. 265). 110 Alberto Pio a Robertet, Roma, 30 giugno 1521 (BNF, Fr. 3092, f. 16). 111 SANUTO 31, 54 di Ferrara, 12 luglio 1521. 112 Ibid., 86 di Roma, metà luglio 1521. 113 Ibid., 105 di Roma, 22 luglio 1521. Cfr. ibid., 185 di Roma 3 agosto 1521: «il papa volea rete- nir il capitanio Lunardo noncio di monsignor Lutrech, in caxa dil signor Alberto da Carpi; el qual poi è stà visto per Roma, si tien habbi conzato le sue cose. Quel altro [secretario] fo retenuto, qual vene con monsignor San Marzeo, fo per esser stà trova letere che scrivea al marchese di Mantoa disua- dendolo a venir a soldo dil Papa et esser contra el re Cristianissimo [...] monsignor di Lescu, che in prima havia dito voler con le sue man tajar la testa dil Papa, dicendo gran mal di luj; et cussì el Papa li disse ditto Lescu averlo ditto, et aver ditto contra el signor Prospero, per il che è cressuto mazor XXX Marcello Simonetta

Le ritorsioni francesi non si fecero attendere, e il re ordinò arresti en masse con- tro i mercanti fiorentini a Lione e in territorio lombardo114. Sostenuto dai cardinali filo-gallici, Alberto sfoggiava ottimismo a oltranza115 sulla sua capacità di ricon- vertire il papa in alleato. Allo stesso tempo, per tamponare l’emorragia, condanna- va le aggressioni personali, fra cui il sequestro dei benefici del cardinale de’ Medici nel ducato di Milano, e richiamava «per l’onore di Dio, il rispetto alla chiesa, che un principe molto cristiano come voi siete deve avere»116. Eppure la situazione era ormai decisamente compromessa; per prevenire che la furia regale si scaricasse su di lui, Alberto scrisse una lettera apologetica a Francesco I, nella speranza assai fle- bile che il re fosse soddisfatto e contento di me, benché le cose siano precipitate nell’inconveniente in cui sono, sapendo che non è avvenuto per colpa mia in alcun modo, e credo bene, Sire, che intendete a sufficienza che non vi è uomo che ne sia più malcontento di me117. Era sincero, perché nel suo rammarico era anche consapevole del pericolo in cui si sarebbe presto ritrovato privo di protezione a causa del frustrante smacco. In parallelo lodava ipocritamente il comportamento cavalleresco del Re Cristianissimo che agiva come un «principe di virtù»118. La terra ormai gli stava mancando sotto i piedi. A fine agosto don Juan gongolava a causa della partenza di Alberto per ignota destinazione, già considerata imminente119, e l’ambasciatore veneziano, meglio informato, la registrava il 6 settembre, «e si dice andarà dal Re»120. Il 14 arrivò a Firenze ancora avvolto da un’aura di solenne autorità, come ricorda il diarista Bartolomeo Cerretani: «giunsse da Roma il signore Alberto da Charpi pel consi- glio del quale si ghovernava assai la romana chorte»121. Qualche giorno dopo scri- veva un accorato appello a Francesco I: Sire. Appena starò meglio, continuerò il mio viaggio con lode di Dio, e vi parlerò più a lungo di questa e di altre cose che riguardano il vostro servizio [...] che io non abbia la guerra in casa mia, e che io non sia sforzato a difenderla con tutto il mio piccolo pote- re, perché sono già in grossa spesa, e non sono disposto a lasciarmi distruggere così

odio al Papa contra Franza». Le violente dichiarazioni del Lescun fecero danni a cui Alberto non poteva rimediare. 114 Alberto Pio da Carpi a Francesco I, Roma, 24 luglio 1521 (BNF, Fr. 2963, f. 165). Questo è uno dei rari documenti pubblicati in francese da MOLINI 1836, pp. 103-105. 115 SANUTO 31, 117 di Roma, 15 [sic per 25] luglio 1521: «Dice, il rev.mo Flisco et altri cardena- li ha dito: il Papa a hora non è a pentirsi di la mutation ha fatto, et el signor Alberto di Carpi ha dito non sarà mezo Avosto, che’l Papa e il re Cristianissimo tra loro harano aconzate le cose». 116 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 29 luglio 1521 (BNF, Fr. 3092, ff. 35r-36v). 117 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 9 agosto 1521 (BNF, Fr. 3092, f. 18). 118 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 9 agosto 1521 (BNF, Fr. 3092, f. 31). L’espressione ricorre nel capitolo 7 del Principe machiavelliano, in diversa accezione. 119 Juan Emanuel a Carlo V, Roma, 31 agosto 1521 (SPAIN II, 357). 120 SANUTO 31, 404-405, 9 settembre 1521: Alberto era partito tre giorni prima da Roma per Carpi. 121 CERRETANI 1993, p. 177. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XXXI

facilmente da chi mi vuole male, per quanto sarà in me, e che i miei beni cadano nelle sue mani [...]122 A parole, Alberto era tutto per il re: «se voi vi volete servire del mio piccolo stato, tutto è nelle vostre mani» e appena erano cominciati i guai aveva «ordinato alla mia gente di obbedire e servire monsignor de Lescun», lo stesso personaggio che aveva minacciato di tagliare con le proprie mani la testa a Leone X. Tuttavia, Carpi sarebbe già stata invasa, se non fosse intervenuto a sua protezione il papa «che non ha voluto consentire agli imperiali, che erano ben decisi et hanno insisti- to molto per annientarmi». Questa lettera è bella, e molto dignitosa. Che Alberto non si sentisse obbligato a correre nelle braccia del re, il quale aveva ben più gravi problemi da affrontare in quel momento, ce lo conferma il fatto che si trattenne a Firenze per quasi due mesi. Costà, come si dice sulle rive dell’Arno, il suo ex protégé Lodovico Alamanni lo accompagnò con tutta probabilità a visitare gli intellettuali degli Orti Oricellari, dove gli dovette presentare l’amico Machiavelli, in quel momento impe- gnato nella stesura dell’Arte della guerra. Inoltre, commettendo una calcolata indi- screzione, Alamanni aveva aperto una lettera scritta dal cognato Luigi Guicciardini all’assente cardinale de’ Medici, allora impegnato nelle operazioni militari al nord: El signor Alberto da Carpi è stato qui molti giorni et hollo intrattenuto assai et hogli mostro delle vostre lettere, maxime una che scrivevi al Cardinale Ill.mo de’ Medici, dandogli aviso di certi particulari che vi haveva rescriti uno vostro tornato di Francia. Non ci sendo il Cardinale l’apersi et parlando di cose di Francia che premono al decto signore, gliene mostrai di che si satisfé, et diventommi partigiano. Partissi di qui saba- to et andosene a Carpi, dove starà aspettando l’exito della guerra123. La lettera di Alamanni, scritta il 15 novembre 1521, lo stesso giorno in cui i francesi venivano cacciati da Milano, dimostra che il “particulare” del “partigia- no” Alberto era e restava la difesa della sua patria, un’impresa sempre più ardua. Appena fu informato della débacle lombarda, Leone X manifestò estremo gaudio ma, come racconta Paolo Giovio nella sua celebre biografia del papa, non poté goderne a lungo perché il primo dicembre morì, non senza il giustificato sospet- to di veleno124. All’euforia per la scomparsa del “mostro” mediceo, seguì un con- citato conclave, in cui il cardinale Pompeo Colonna si oppose ferocemente alla candidatura di Giulio de’ Medici. Il vice-cancelliere capì che era meglio tempo- reggiare e preferì dichiararsi pope-maker di Adriano VI, il tutore olandese del giovane Carlo V125. Per Alberto, un papa imperiale era sinonimo di infernale.

122 Alberto Pio a Francesco I, Firenze, 19 settembre 1521 (Clairambault 321, f. 12). 123 Lodovico Alamanni a Luigi Guicciardini, Firenze, 15 novembre 1521 (CS I 137, c. 154). 124 SIMONETTA 2014, pp. 228 ss. 125 SIMONETTA 2014, pp. 238 ss. XXXII Marcello Simonetta

«In quanto laberinto mi ritrovi, non per colpa mia» Se Carpi piangeva, Roma non rideva: sulle sponde del Tevere «tutti è malcon- tenti per tal Papa electo: non si fa carnival»126. Conscio della cronica carenza di denaro della Camera apostolica dopo gli sfrenati bagordi e le folli spese di Leone X, Alberto offrì cinquemila ducati al Collegio dei cardinali, i quali volevano affi- dargli il governo di Reggio, che lui non accettò perché il Colegio volea che lui spendesse in guardarlo cum dire che poi satisfariano; ma lui non l’à voluta intendere. Esso signor Alberto, per mezo del cardinal de Medici et domino Joane Mateo [Giberti] suo, ha pratica de adaptarsi cum lo imperatore: tamen ha uno altro apresso il re di Franza127. Questa situazione critica ci permette di osservare la suprema ambiguità di Alberto nel barcamenarsi nell’incertezza. Mentre le nubi più minacciose si adden- savano su Carpi, il 25 aprile 1522 scrisse una lunga lettera apologetica al Giberti, il quale era presso la corte imperiale per conto di Giulio de’ Medici, in quel momento alleato di Carlo V128. L’epistola risponde a due missive, purtroppo perdu- te, del 3 e 6 aprile, nelle quali Giberti lo informava delle «calunnie» che circola- vano contro di lui presso Cesare. Come si è visto, la riluttanza nel servire i france- si si era in effetti manifestata durante l’esilio a Napoli per ragioni non soltanto mediche, ma con il rifiuto di vari benefici, fra cui l’ordine di San Michele. Nella sua strabiliante e provocatoria autodifesa, chiamando ripetutamente l’amico Gian Matteo a testimone (te testem appello), Alberto rivendica la sua ineccepibile deon- tologia diplomatica di fronte al tribunale della corte cesarea per scagionarsi dal- l’accusa di aver complottato contro l’Impero: Il che confesso non haver fatto, anzi haver essequito con sincera fede tutto quello, che per la Maestà Cristianissima m’è stato commesso, facendo forse ancor peggio di quel- lo, che possono haver conosciuto per esse lettere intercette, non come primo motore, né inventore di ciò, ma solo come esecutore, & direttore de i negocij commessi alla mia fede, la quale serverei al Diavolo, non che ad un Principe, & à gli huomini, quando havessi accettato la cura delle cose sue. Però se servar la fede, esser integro, sincero, & accurato servitore, non esser traditore, perfido, né iniquo huomo, è colpa, confesso io in ciò haver peccato, ma di tal peccato non dimanderò però mai perdono129.

126 SANUTO 32, 475 di Roma, 12 febbraio 1522: «Questi cardinali fanno provisione di danaro e non li trovano. Par siali stà oferto, per il signor Alberto di Carpi, ducati 5000 per imprestedo; è sta accep- tadi; e cussì altri cardinali hanno offerto». Ibid., 149 di Roma 5-7 aprile: «il signor Alberto di Carpi voleva prestar al Colegio ducati 5000, con questo, di questi et di quello el dia aver per avanti fusse fato cauto, et signato li danari si potesse pagar». 127 SANUTO 33, 24-25, inizio marzo 1522. 128 Nicolas Raince a Francesco I, Roma, 28 gennaio 1522 (BNF, Fr. 2963, f. 168v): Carlo V aveva nominato Giulio de’ Medici «protecteur des pays d’Ytalie, Alemaigne, Espaigne et generalement de tous ses pays et services», in materie non solo spirituali ma anche temporali. 129 Alberto Pio a Gian Matteo Giberti, Carpi, 25 aprile 1522 (Lettere di Principi, II, 85v-87r, cor- sivi nostri); SEMPER 1999, p. 81 afferma erroneamente che Giberti aveva informato Alberto delle cat- tive intenzioni di Carlo V “da Roma”, mentre si trovava nelle Fiandre, sulla via dell’Inghilterra. Cfr. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XXXIII

Il tema machiavelliano del de fide servanda trattato nel capitolo 18 del Principe prevedeva il mancato mantenimento delle promesse, ma non la vendita dell’anima «al Diavolo». Nell’anodina formulazione di Alberto, il fedele servizio di un amba- sciatore principesco viene comparato con quello di un Faust ante litteram130! Ma la mefistofelica confessione non bastò a salvare capra e cavoli. Inevitabilmente, nel- l’agosto 1522 Prospero Colonna pretese di alloggiare a Carpi con quattrocento sol- dati spagnoli, facendo sloggiare Alberto che si ritirò ai Bagni di Lucca per una cura provvidenziale alla sua podagra.

L’enigma Este e il caso Colonna Durante il soggiorno lucchese, la sua fonte di informazioni più preziosa si rive- lò ancora una volta il dottor Nigrino, che si trovava a Firenze. Al suo arrivo a Roma il papa Adriano aveva detto all’ambasciatore imperiale Juan Emanuel che «pigli stanza in palazo conveniente a lui et al S. Henchefort [il cardinale Enckenwoirt, braccio destro del papa olandese]», prendendo cioè il posto che fino a pochi mesi prima era occupato dallo stesso Alberto. Nigrino soggiungeva: Dice el s. arcivescovo [di Capua, Nikolaus Schomberg] che fa judicio di questo aviso che el papa vorrà tendere al spirituale e la Cesarea Maestà al temporale cioè don Jo. per essa Maestà che se è così rimarà maravigliato et terrà questa nova per cosa sì gran- de che rimarà stupefatto vedendo seguire di belle cose, et in parlare mi fa li cavalli sono a Carpi ci sarà pocho remedio131. Allo stesso tempo, in campo francese la confusione regnava sovrana: il re era impegnato nelle sue solite tresche amorose, mentre sua madre Luisa di Savoia «governa tutto», e l’ex collega di Alberto, Saint Marsault, era stato revocato da Roma per aver accettato dal cardinale Soderini una mazzetta da «ducati 4.000 et altri simili tacchagnarie». Il potente Lautrec «el s’è anchora lui ruynato de le cose de Italia che non se ne parla punto»132, ovvero era talmente squattrinato da non poter più nemmeno lontanamente considerare alcuna rivincita in Italia. Approfittando di quel momento di massima vulnerabilità, gli antichi nemici dei Pio si misero in moto. Nel settembre 1522 fu ordita una congiura contro Alberto, come ci racconta in un drammaticissimo resoconto il nostro Nigrino: Rispose esso m. Matteo [Casella, ambasciatore ferrarese] che non poteva credere simi- le caso in suo patrone sapendo quante volte li è stato detto «se tu voi farò al S. di Carpi»

ROMBALDI 1977, p. 34; MINARELLI qui p. 278. Va notato che questa è l’unica lettera di Alberto rac- colta nei tre volumi delle Lettere di Principi (su cui BRAIDA 2009). In essi sono confluite moltissime lettere che appartenevano alla cancelleria di Giberti. 130 Fa sorridere la curiosa coincidenza che la promessa sposa poi abbandonata si chiamasse Margherita come il personaggio del dramma di Goethe! 131 Giovan Francesco Nigrino ad Alberto Pio, Firenze, 30 agosto 1522 (BAMI, 283, fasc. 13) (cor- sivi nostri). 132 Giovan Francesco Nigrino ad Alberto Pio, Firenze, post scriptum del 31 agosto 1522 (BAMI, 283, fasc. 13). XXXIV Marcello Simonetta

et lui mai à voluto intenderne niente et si poteva facilmente fare per la commodità et tempi che hora né uno né altro ci correva. Sono tutte materie per sturbare esso mio patrone che fa ditto S. di Carpi. È ben vero che 150 cavalli venneno là unde voi dite per- ché mio patrone voleva fare dimostratione de la morte di Cato133. [15 agosto 1522] verso non che castello et con questo sospecto può essere nato quello mi dite d’esto mio S.re questo che l’è stato a parlare a Ferrara et poi fare gente questo Perino etc. Rispose costoro sono tutti in arme che sono dela parte del morto che non ponno stare altrimenti queste furono le justificatione di questo m. Matteo quale subito spacciò a suo patrone. Vederemo quello dirà134. Il diniego ufficiale dell’ambasciatore estense135 ricorda da vicino quello di Federico da Montefeltro quando venne accusato di aver complottato con Sigismondo Malatesta e in seguito contro Lorenzo de’ Medici136. Il duca di Ferrara ci aveva veramente messo lo zampino o si trattava di un regolamento di conti fra focosi montanari emiliani? L’enigma Este resta per il momento irrisolto. Sappiamo con certezza che Alberto riuscì a salvarsi dal presunto tentato omicidio, ma non dalla destituzione ufficiale di Carpi attuata da parte di Prospero Colonna il 3 gen- naio 1523. Che il condottiero imperiale andasse zelantemente al di là delle conse- gne imperiali ce lo dimostra una sua lettera intercettata e finita nell’archivio Pio: [...] et poi che’l S. Lionello sta in perfidia de volere repugnare alli comandamenti de la M.tà Cesarea, ve dicemo che attendate con omne diligentia ad expugnarlo per forza, et per questo effecto scrivemo le alligate al S. Duca de Ferrara et al S. Marchese de Mantua quale inviarite subito ad loro Signorie [...]137 Lo sfogo di Alberto a Giberti ci appare dunque del tutto giustificato: Prospero voleva una rocha dove si è redutta la poverella de mia moglie et mio fratello la qual dipende da la ecclesia et in niuno modo da lo imperio, et dove epsa è assecurata de la dote sua et so certo in questo el S. Prospero excedere le commissione cesaree, ometto le cride et edicti promulgati contra me et denari familiari et di mia moglie, quali tutti hanno banditi et levatoglie li beni et altre aspreze che non si farebono al magior tradi- tore et assassino che fusse, volendomi pur ruinare doveva bastare levarmi il stato et cose dipendente in lo imperio. Io non credo li comissari di Cesare passino questo, et che tutto el resto mi sia fatto de superabundante per la benignità di Prospero, che vol rubare [...] li mei pochi beni privati, sì ali libri cum tanti fatiche congregati, et erano stati fugiti di casa et nascosti li sono stati multati et li hanno voluti, quelli mò andarono in mal. Non

133 Su Cato da Castagneto vedasi Laura Turchi, voce Giacomo da Castagneto, DBI, vol. 54, 2000. 134 Giovan Francesco Nigrino ad Alberto Pio, Firenze, 9 settembre 1522 (BAMI, 283, fasc. 13, in Appendice 2, n. 3). 135 Vedi Tiziano Ascari, voce Casella, Matteo, in DBI vol. 21, 1978. Nella sua breve sosta a Firenze sulla via di Roma, accompagnava il giovane Ercole d’Este con Enea Pio. Ringrazio Marco Folin per avermi aiutato ad identificare questo personaggio. 136 Su tutte queste vicende, rimando per brevità a SIMONETTA 2008. 137 Prospero Colonna a Gian Vincenzo Cossa mastro cesareo, Milano, 15 gennaio 1523 (BAMI 283, fasc. 11). Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XXXV

iudico delli altri sì ad una galina et ad grumulo de filo de mia moglie. El tutto hano preso et recercato cum summa diligentia como se lo havessero comprato138. Il contenzioso sui preziosi libri e beni sottratti e dispersi continuò ancora per mesi139, ma Alberto sapeva che poteva ottenere risarcimenti solo con le maniere forti. Con un colpo di mano, il primo settembre i fratelli Pio riuscirono a riprende- re Carpi140, pur non facendosi molte illusioni sulla possibilità di tenersi la loro terra riconquistata «con piccole forze et senza modo non si possono fare gran facen- de»141. Il governatore di Modena, Francesco Guicciardini, col suo discreto realismo già progettava di intervenire, prevedendo che la situazione sarebbe cambiata radi- calmente con la morte di Adriano VI142. Ma Alberto aveva già elaborato un piano di battaglia, illustrato in una lunghis- sima lettera all’ammiraglio Bonnivet in cui incitava i francesi all’impresa d’Italia cogliendo un «presagio manifesto» nella simmetrica morte di Leone X e perdita di Milano. Il messo inviato in curia dal re, Lorenzo Toscano, stava per fare marcia indietro, e invece il Pio lo convinse dell’utilità della sua presenza a Roma in quel momento cruciale in cui si giocavano le sorti del papato. Nonostante il «grandissi- mo pericolo dela vita»143 che sapeva di correre, un paio settimane dopo anche l’ir- requieto signore di Carpi, sempre più furioso per i dispetti che gli faceva il duca di Ferrara, decise di partire in incognito:

138 Alberto Pio a Giovanni Matteo Giberti, [Bagni di Lucca?], 26 gennaio 1523 (BAMI 283, fasc. 1) mandata per la via di Firenze, scritta «in letto molto agravato”). 139 Alberto Pio alla Signoria di Firenze, Bagni Pisani, 22 giugno 1523 (SEMPER 1999, pp. 363-364) sul furto di «certe mie teste antique di marmo che’l signor Prosper Colonna ha rapito di una mia casa in Carpi». 140 ROMBALDI 1977, p. 35. 141 Alberto Pio a Bonnivet, Bagni di Lucca, 24 settembre 1523 (ASMN, b. 1309, in Appendice 2, n. 4; cit. in SVALDUZ 2001, p. 244 come indirizzata al marchese di Mantova; SABATTINI 1994, pp. 68ss.); le cinque lettere sono indirizzate al re di Francia, all’ammiraglio, al gran maestro, e poi ad alcuni personaggi della corte in raccomandazione del gentiluomo prescelto per la consegna delle missive, un tal conte Ulisse Bentivogli, descritto come “fidatissimo e securo” ma anche come ine- sperto. Dal fatto che le lettere siano finite nell’archivio Gonzaga deduciamo che l’ingenuo portato- re se le fece intercettare. 142 Francesco Guicciardini a Paolo Vettori, Modena, 16 settembre 1523 (GUICCIARDINI 1865, VII 469-470): «A Carpi non sono forze che abbiamo da tenerne conto, ma hanno sempre confidato che come li Franzesi si trovino grossi, abbino a spingere di qua da Po qualche buona banda di fanti [...] Non mi assicuro ancora, massime essendo seguita la morte del Papa, e anche n’ho forse qualche riscontro, che il duca di Ferrara non sia per pensare alla recuperazione di queste terre: non credo già che al presente sia per farlo scopertamente, ma potrebbe dando fomento di danari al signor Renzo e altri, cercare di fare i fatti sua; nè alcuna cosa ci potria più offendere che la ombra del prefato Duca, al quale questi populi arebbono rispetto assai [...] Se di qua fussino più forze, non surgendo altro fare- mo la impresa di Carpi con speranza di ottenerlo, e ci leveremo de’ fianchi questo fastidio e questa impresa». 143 Alberto Pio a Bonnivet, Bagni di Lucca, 24 settembre 1523 (ASMN, b. 1309, in Appendice 2, n. 4). In questa e nelle altre lettere dello stesso giorno Alberto, convinto che il portatore sia al di sopra di ogni sospetto, scrive “largo”, cioè senza remore e senza poter ricorrere alla cifra, perché il suo segre- tario era partito. Dunque la sussistenza di queste missive è importante per vedere come pensava il Pio. XXXVI Marcello Simonetta

Et in Roma et in ogni altro loco et in pratiche et in effetti per quel poco potrò, lo farò da vero nemico verso di lui, senza havere alcuno de riguardi ho havuto sin qui144.

Il diavolo e l’acqua santa All’arrivo di Alberto a Roma il 17 ottobre 1523 si diceva già che fosse «venu- to per nome dil re Christianissimo al novo Pontefice»145. Gli ambasciatori imperia- li avvertirono subito tutta l’insidiosità del Pio: il duca di Sessa scriveva che il Carpi si era materializzato come uno spettro, senza che nessuno se ne fosse accorto, per le vie più impraticabili. I suoi avversari avevano trionfato all’inizio, perché lui era apertamente un partigiano francese, se non addirittura un ambasciatore del re di Francia, ma la vecchia amicizia con il cardinale de’ Medici era più forte del suo spirito di parte. Riuscì infatti a disgregare il partito ostile, nonostante fosse di nuovo a letto con la gotta146. Lope Hurtado de Mendoza, il giorno stesso dell’elezione di Clemente VII, sbot- tò acido contro Alberto di Carpi che «è un diavolo, sa tutto e s’impiccia di tutto». A dispetto del suo ruolo di ambasciatore francese, aveva grandemente contribuito all’ascesa di Giulio de’ Medici al soglio di Pietro. «L’imperatore dovrebbe o gua- dagnarselo o annientarlo – proseguiva il Mendoza – perché è estremamente temi- bile». I fatti avrebbero dimostrato che aveva ragione da vendere. L’alleanza fra Alberto e il nuovo papa Clemente VII, che si fondava su un inten- so rapporto decennale, prese subito forma. I tentativi dello spodestato signore di Carpi furono mirati a rappacificare il re con il papa, che da cardinale si era com- portato ostilmente nei confronti della Francia, e in particolare contro il cardinale Soderini, il quale venne prontamente liberato147, come gesto distensivo. Un momento altamente simbolico avvenne il giorno dell’incoronazione del papa, che aveva scelto una divisa assai ambiziosa e, come vedremo, poco lungimi- rante: «orbis universi pacifichatori, christiani nominis cultori perpetuo». In piaz- za San Pietro si accalcarono oltre centomila persone, «che mai fu veduta tanta mol- titudine». Il Papa cantò la messa in Basilica, e «l’aqua a le mano diede la prima volta el signor Alberto da Carpi in santo Andrea [della Valle] perché li aparorno il Papa et cantorono terza»148. Il «diavolo» tanto odiato dall’imperatore riceveva per primo dalle mani del nuovo pontefice l’acqua santa! Una combinazione davvero esplosiva. A parole, infatti, il papa si diceva «cesareo»149 e proclamava in pubblico al Pio di non volere

144 Alberto Pio a Bonnivet, Bagni di Lucca, 7 ottobre 1523 (ASMN, b. 1309; cit. in SVALDUZ 2001, p. 244 come se fosse del post ). 145 Sanudo 35, 136 cit. da ROMBALDI 1977, p. 35. 146 Il duca di Sessa a Carlo V, Roma, 28 ottobre 1523 (SPAIN II, 606). 147 SIMONETTA 2014, pp. 237ss. sulla congiura filofrancese del Soderini smascherata nell’aprile 1523. 148 SANUTO 35, 244 di Roma, 27 novembre 1523. 149 Ibid., 279 di Roma, 11 dicembre 1523: «Come il Papa ha dito a lui Orator secrete, che l’havia scritto al Viceré vadi presto a Milan per favorir l’impresa, et sua opinion era che francesi non stiano Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XXXVII che «francesi stagino in Italia ma stagino di là da monti»150. In privato, però, il neo- eletto pontefice usava toni molto più concilianti, come l’indaffaratissimo Alberto suggeriva discretamente al potente ministro Montmorency151. Lo stesso Clemente VII scriveva un breve assai benevolo a Luisa di Savoia, ringraziandola per l’invio del suo messo gratulatorio Lorenzo Toscano e «ob hoc pietatis officium ob alia innumera semper tibi in Domino propensa ac dedita erit», con il chiaro intento di raggiungere il figlio attraverso l’influente madre152. Anche i cardinali francesi pre- senti in curia incitavano il re e l’ammiraglio Bonnivet a mandare segni di pace e d’amicizia153. La lunga perorazione al Bonnivet scritta all’inizio del 1524 ci fornisce un feno- menale esempio della potente opera di persuasione messa in atto da Alberto, anche in esplicita polemica con le istruzioni ricevute dalla Francia154. Esordendo con sot- tile ironia, afferma di desiderare che il suo illustre destinatario avesse il dono del- l’ubiquità, perché se egli fosse stato alla corte di Francia il dispaccio ricevuto a Roma non sarebbe stato tanto «magro» e almeno avrebbero ricevuto una lettera del re al papa congratulandolo per la sua creazione, e piena di buone e ama- bili parole, il che sarebbe stata cosa onesta e utile per gli affari che importano al momento. Non so perché si sia evitato di farlo, visto che il papa non è più [o meno] papa, sia che il re gli scriva, sia che non gli scriva, e che non è affatto vergognoso per il detto signore o per alcun principe di fare tale officio nei confronti del papa, no - nostante che prima di essere in tal condizione, fosse stato un oppositore o un nemico, e se si stima un bene che il papa sia amico del re [...] Alberto ammetteva che il papa non si era ancora espresso con troppo calore: senza alcun dubbio avrei ben voluto che le dette risposte e parole fossero più calde di quanto non siano state, ma visto il carattere del nostro santo padre e come stava dalla parte dei nostri nemici prima di pervenire al papato e i termini nei quali ha ritrovato le cose fatte dal suo predecessore [Adriano VI] e che non aveva ancora avuto alcuna noti- zia dal re dopo la sua creazione nella quale costui [il re] gli era stato tanto estremamente contrario, non furono fredde come appaiono [...] Tuttavia, invitava il re ad essere meno testardamente orgoglioso e ad assumere

più in Italia ullo pacto. Tamen si sforzeria di far far pace o trieva tra la Cesarea Maestà e il re Christianissimo. Tandem è di questa opinion, e havia ditto al signor Alberto da Carpi; sì che si è sco- perto cesareo». 150 Ibid., 288 di Roma, 15 dicembre 1523; cfr. 302: «et per questo havia significhà al signor Alberto di Carpi si levasse di speranza di averlo a le sue voglie; né vol francesi habbino stado in Italia; ma ben voleva far le trieve». 151 Alberto Pio ad Anne de Montmorency, Roma, 20 dicembre 1523 (BNF, Fr. 3005, f. 152). 152 Clemente VII a Luisa di Savoia, Roma, 21 dicembre 1523 (BNF, Fr. 3897, f. 93bis). Come abbia- mo visto, il Toscano era a Roma dalla fine del settembre 1527 e, dati i suoi stretti rapporti con Alberto, c’è da supporre che anche questo gesto distensivo fosse ispirato – dietro le quinte – da lui. 153 I cardinali Bourbon, Vendôme e Lorraine a Bonnivet, Roma, 30 dicembre 1523 (BNF, Fr. 3897, f. 169). 154 Alberto Pio a Bonnivet, Roma, 4 gennaio 1524 (BNF, Fr. 3897, ff. 166-167, in Appendice 2, n. 5). XXXVIII Marcello Simonetta un atteggiamento pragmatico, visto che fino a quel momento l’inimicizia era solo verbale, non effettiva: di tali novelle che vengono scritte non è che bene appoggiarsi su qualcuno [affidabile come lo stesso Alberto] per la verità, perché adattarsi a tanti scrittori non può che tur- bare la fantasia e nuocere molto agli affari come è successo nel passato e anche a gente di giudizio, perché ce ne sono moltissimi che parlano a vanvera e altri a cattivo fine. Conoscendo bene i suoi galli, il Pio toccava infine il tasto più delicato per i francesi, il timore di mostrarsi poco virili o valorosi per mantenere la loro reputa- zione di forza e non di debolezza. Bisognava agire: piuttosto per battere i suoi nemici che per essere battuto e mi sembra che nella più gran- de guerra del mondo e anche se si è decisi a non fare altro che guerra, si dovrebbe anco- ra prestare orecchie a chi parlasse di pace e di tregua […]155.

I denti di Nicolas Raince Alberto poteva però contare su un nuovo abile alleato. Entra qui in scena il segretario d’ambasciata francese Nicolas Raince, personaggio cruciale per com- prendere i rapporti fra la corona di Francia e la Santa Sede nei decenni a seguire156. Incaricato di conferire con il papa per l’indisposizione di Alberto, non si limita a seguire le consegne, ma prende l’iniziativa di commentare la situazione da par suo. Riferisce e rinforza le opinioni dei cardinali francesi157 e giudica che i nemici «font parler ou escripre par art et subtillité inventive. Ils se gardent bien d’eux addres- ser à ceulx qui les congnoissent et qui entendent mieulx le mestier»158. Non è un caso che lo stesso Raince, anni dopo, tradurrà in italiano i Mémoires di Commynes, il più influente ambasciatore francese in Italia fra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, dedicando la stampa a Paolo Giovio. Facevano tutti parte di una cer- chia di ingegni affilatissimi e di maestri di cinismo. Alberto, mai cinico quando si trattava dei suoi amici, si preoccupava per la sorte di Felice Trofino, fatto prigioniero dai pirati e poi passato nelle mani degli imperiali159,

155 Una versione molto più succinta del messaggio di Alberto si ritrova nel dispaccio al suo colle- ga Saint Marsault, in cui lo si esortava alla “ragione”, Roma, 4 gennaio 1524 (BNF, Fr. 3897, f. 173): «et la raison veult estre bon et devot filz du pape et son bon amy si de luy ne fault. Il me semble que a ce commencement l’on n’a pas […] avant qu’il parvint au papat tous les moyens pour le gaigner et tirer amy, faut plus on le debvoroit faire a ceste heure qu’il est venu à telle dignité et l’on faict le contraire». 156 Su Nicolas Raince, cfr. PICOT 1906, pp. 79-94, che cita la lettera di Raince a Bonnivet dell’8 gennaio 1524 e dice di aver rintracciato circa 180 lettere fra BNF e Chantilly, senza darne la lista. Scrive anche che Raince arrivò a Roma nel 1523, mentre ci sono diverse sue lettere del gennaio 1522 a proposito dell’elezione di Adriano VI. Secondo il Toscano Raince venne al servizio di Saint Marsault. 157 Alberto Pio a Bonnivet, Roma, 8 gennaio 1524 (BNF, Fr. 3897, ff. 238-239r). 158 Nicolas Raince a Bonnivet, Roma, 8 gennaio 1523 (BNF, Fr. 3897, f. 236). 159 Alberto Pio a Bonnivet, Roma, 4 gennaio 1524 (BNF, Fr. 3897, 166r-v, in Appendice 2, n. 5). Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XXXIX intercedendo privatamente anche presso il marchese di Pescara160. Ma sul piano pubblico non si risparmiava nessun tentativo. L’attività congiunta di Alberto e di Saint Marsault, tornato in auge, ferveva, ma il papa restava ancora neutrale, per la paura di Lutero e per consiglio dell’arcivescovo di Capua Nikolaus Schomberg, addirittura sospettato – come vedremo – di esser suo parente161. Il Mendoza guarda- va sempre con apprensione alle attività di Alberto ed insisteva sulla necessità di con- trobilanciare le sue offerte162. Tutto questo martellare non fu inutile e aprì una brec- cia nel cuore avido e incerto del papa, provocando un graduale ribaltamento nel suo atteggiamento sempre meno ostile verso la Francia. Anche il duca di Sessa temeva l’antico legame di amicizia fra il Pio e i Medici e diceva di ignorare intenzional- mente le pratiche del Carpi non riuscendo a guadagnarlo dalla propria parte163. Clemente VII affermava di non voler favorire nessuno e di voler essere «buon padre universale» dei francesi come dei loro nemici per il bene della pace, e ad Alberto aveva detto formalmente che avrebbe tenuto «la parola su questo, come se se ne fossero fatti cinquanta contratti». Invece di ossessionarsi sulla forma biso- gnava guardare alla sostanza. Gli ambasciatori imperiali erano stati dal papa ma non erano riusciti a fargli sborsare «un solo denaro», sebbene il loro intento dichia- rato fosse di cacciare i francesi e diventare «padroni d’Italia»164 Alberto sapeva come manipolare l’amor proprio e l’irresolutezza del papa e aveva solo bisogno dell’appoggio convinto del re, mentre il Raince lo spalleggiava con l’ammiraglio165. Gli imperiali continuarono la loro offensiva in Lombardia con la presa di Garlasco166, così Alberto tornò alla carica con la sua vecchia specialità, le alleanze

160 Ferdinando d’Avalos a Bonnivet, Milano, 3 febbraio 1524 (BNF, Fr. 3897, f. 188): «Per quello che vedo per la lettera de V.S. me pare che’l segnore Conte de Carpi nela sua trattasse de altro che io pensava che era la liberatione de un m. Felice [Trofino] homo de la S.tà del papa, la qual lettera io non lexi cussì per respecto de V.S. ad chi andava como per chi la mandò che fo el datario del papa et però se de altra cosa haverà scripto dove bisognie spendere la autorità che qua tene dal imperatore, quella sappia che io non ne so niente né lo pensai, puro me seria caro intendere quello scripse se è cosa se possa dire per respondere più chiaro ad V.S. et la prego che questo non detenga la resposta circa el sopradicto se li serà servitio». 161 SANUTO 35, 435 di Roma, 11-13 febbraio 1524: «Item, che San Marzeo e il Carpi oratori fran- cesi erano stati dal Papa, dicendo haver mandato zeneral dil Re di far il tutto, tamen nulla si faria e il Papa averli ditto voler esser neutral [...] il Papa ha gran paura di Martin Luter. Et che l’arziepi- scopo di Capua havia ditto a l’Orator nostro, presto francesi pasarano Texin [il fiume Ticino] overo sarano roti». 162 Lope Hurtado de Mendoza a Carlo V, Roma, 5 febbraio 1524 (SPAIN II, 617). 163 Il duca di Sessa a Carlo V, Roma, 23 febbraio 1524 (SPAIN II, 619). 164 Alberto Pio e Saint Marsault a Francesco I, Roma, 3 marzo 1524 (BNF, Fr. 3897, f. 62). 165 Nicolas Raince a Bonnivet, Roma, 5 marzo 1524 (BNF, Fr. 3897, f. 222). 166 Alberto Pio e Saint Marsault a Francesco I, Roma, 9 marzo 1524 (BNF, Fr. 3897, f. 170); Bonnivet a Camillo Orsini, Mortara, 30 marzo 1524 (AO I, 400, 30): «et perché il memoriale n’ha por- tato esso Messo gli sono alcune cose quale non intendemo, lo mandamo al S.re Conte de Carpi [Alberto] et Mons.re de San Marceo con li quali confereti per schiarire il tutto rendendovi securo non mancharà de quanto potrà honestamente fare per voi, e casa vostra, et benché siamo certi che preso sua M.tà Cristianissima non li bisognarà mezo alcuno per tale effecto, nondimeno dal canto nostro volemo essere advocato e protectore in tutto quello si vi potrà fare utile e honore con il mezo nostro». XL Marcello Simonetta matrimoniali. Fu lui che, nel marzo 1524, propose per primo un matrimonio tra il duca d’Orléans (il futuro re Henri II) e Caterina de’ Medici, l’orfana del duca d’Urbino Lorenzo, i quali avevano entrambi cinque anni167. Il diarista veneziano Sanuto riferiva anche, con un significativo lapsus, che il signor Alberto da Carpi orator cesareo [sic!] havia ditto al Papa, che l’oferiva una neza dil re Christianissimo per moglie al duca [Ippolito]... fio fo dil magnifico Juliano suo nepote, con darli per dota il reame di Napoli, et Soa Santità fosse con lui. El qual rispo- se non voleva lassar li amici vechii ch’è l’Imperador, poi il re Christianissimo non habia in le man il reame di Napoli che li potesse prometter per dota etc., dicendo: “Domine orator, cussì porave prometer Veniexia”168.

Clemente VII ironizzava sullo zelo eccessivo di Alberto, che prometteva mari e monti. Capita l’antifona, e conscio che le minacce peggiori venivano dalla terra- ferma cristiana e non dal mare infestato dai turchi, cercò di coinvolgere la Serenissima169. L’instancabile energia di Alberto, che rimase l’unico rappresentan- te francese a Roma170, non smetteva di dar filo da torcere al Mendoza171. Nel frattempo il Pio si ritrovò a fare da arbitro in una disputa fra Nicolas Raince e Lorenzo Toscano, l’agente del re di Francia172 che al momento della morte di Adriano VI soggiornava a Carpi e si era lasciato persuadere ad andare a Roma. Al di là delle gelosie personali e professionali fra italiani e francesi che traspare da questa vivace corrispondenza, apprendiamo che Alberto era un amico leale ma anche un severo giudice di pettegolezzi maligni. L’orgoglioso Lorenzo, dopo aver descritto i suoi screzi coll’«arrogante» collega francese che lo aveva calunniato, soggiungeva: Ma Dio gratia il iuditio de li homini da bene non si farà secondo il suo lacerare, serà in primis secondo la singularissima vertù et prudentia de v.s. poi anche secondo l’innocen- tia et actione mie, et rimarrassi lui metre [maître] Nicolas et io Lorenzo. [...] Non nego di questa cosa di metre Nicolas non mi sia risentito assai et assai, ma al parer mio, non oltra quel che si conviene quando si agita de l’honore, poi essendosi comune, o per natura, o adesso più per usanza, questa tanta facilità di credere più presto il mal che’l bene, et s’io

167 PICOT 1901, p. 277; PASTOR IV, II, 176, citando un dispaccio di Castiglione del 30 marzo 1524; Lope de Soria a Carlo V, Genova, 6 aprile 1524 (SPAIN II, 630) ne era informato grazie ad alcune let- tere dei cardinali francesi da lui intercettate. 168 SANUTO 36, 136 di Roma, 26 marzo 1524, in cifra. 169 Ibid., 232 (metà aprile 1524): «il signor Alberto da Carpi haver ditto al Papa che, volendo man- tenir Italia, non è altro modo che dar favore a la Signoria nostra, perché in loro sta il mantenir di l’au- torità di la Sancta Sede etc.». 170 Lope Hurtado de Mendoza a Carlo V, Roma, 13 aprile 1524 (SPAIN II, 633). Si noti che Jacobo Malatesta a Federico Gonzaga, 19 aprile 1524 (BAV, Vat. lat. 8124, f. 214) dava per «partiti da Roma in posta li Cardinali Francesi insieme col S. Alberto da Carpi», il che non corrispondeva al vero, ma mostra come Alberto fosse percepito come un tutt’uno con i prelati gallici. 171 Lope Hurtado de Mendoza a Carlo V, Roma, 18 aprile 1524 (SPAIN II, 642). 172 Si veda il brevissimo profilo di PICOT 1901, p. 287, che lo dice milanese. Fu poi vescovo di Lodève (7 febbraio 1528-1537), per rinuncia del Giberti a quel titolo episcopale, ed esecutore testa- mentario di Alberto Pio (SVALDUZ 2001, p. 312). Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XLI

potessi scrivere quel ch’io direi a V.S. s’io fussi dove ella è, forsi che la direbbe che non senza rasone io sia in questo caso sì sensitivo come l’ha dice in questa sua, et non dubito che la iudicarebbe che fusse stato necessario l’havere scritto un motto al Re et a li altri del conseglio, di questa accusatione che l’altro mi havea data, che io gli ne ho parlato più d’una volta et credo essermi assai ben diffeso da le sue dentature173. Chi aveva i denti più affilati in questo mondo di lupi e leoni? Secondo lo Schomberg, il duca di Sessa non aveva sufficiente esperienza in tali ardue materie né era in grado di contrastare l’intelletto superiore del Carpi174, che mal tollerava queste piccole beghe quando erano in atto dei grandi drammi175. La carne gustosa di Carpi faceva gola, come sempre, agli imperiali, nonostante la blanda protezione del papa176, ma si preparavano le grandi manovre. L’esercito del re Cristianissimo, mentre Marsiglia si liberava dell’assedio cesareo, discendeva sull’Italia in tutta la sua potenza177.

173 Lorenzo Toscano ad Alberto Pio, Blois, 30 aprile 1524 (BAMI 283, fasc. 10, in Appendice 2, n. 6). Si noti che l’attacco che fece Grignan contro il Toscano scrivendo al Montmorency il 13 marzo 1539 (15 anni dopo) corrisponde à la lettre alle lamentele di Lorenzo Toscano – e la costante è anche l’amicizia di un Pio (stavolta Rodolfo): «Si j’ay un peu excedé de parler de grosses dents de Nicolas Raince, je vous supplie treshumblement m’en vouloir excuser, car j’y ay esté contraint par tant de folies qu’il va preschant par les rues de ceste ville. Falloit il souffrir qu’un tel personnage parle ainsi des affaires du roy, disant qu’ilz sont les plus mal gouvernez du monde? … il ne vous appelle que ‘Montmorency’… quand il va au palais, il se fait accompagner par les gens du cardinal de Carpy» (RIBIER 1666, p. 398). 174 Louis De Praet a Carlo V, s.l., 31 maggio 1524 (SPAIN B Suppl., 358-9). 175 Lorenzo Toscano ad Alberto Pio, Tours, 2 giugno 1524 (BAMI 283, fasc. 10, in Appendice 2, n. 7) sulla «querela di metre Nicolas [...] che habbi offeso la s.v. sì come questa sua, mi fa dubitare, sup- plico v.s. che non solo me ne scusi, ma me ne perdoni, che in vero ogni altra cosa impertinente pò essermi passata per fantasia, che’l pensare, non che scrivere né far cosa che rasonevolmente possa dispiacere a la s.v.»; cfr. anche l’altra lettera da Amboise, 13 giugno 1524: «Con Mons.r di Capua scrissi a longo a v.s.». 176 Abbadino a Federico Gonzaga, Saint Jean (campo del Viceré Lannoy), 15 agosto 1524 (BAV, Vat. lat. 8214, c. 265): «Il Viceré ogni modo per quanto m’ha detto vole che si piglij Carpi et Novi et M. Paolo da Rezo di Reame Secretario qui del S. Prospero [Colonna, morto nel dicembre 1523] è stato qui da questi Signori a procurare che remettano in mano del figlo del S. Prospero la ditta terra di Carpi, et poi s’è partito per andare in Spagna alla corte a levare la investitura. Il detto figlo del S. Prospero ha havuto la compagnia del patre. Vero è che per quanto io ho inteso, il papa non vorrebbe che se levasse Carpi al S. Alberto. Et il Conte Ruberto Boschetto parlandome me lo ha quasi accennato». 177 Il duca di Sessa a Carlo V, Roma, 24 agosto 1524 (SPAIN II, 675): Alberto diceva in curia che il re comandava un esercito di 12.000 lanzi, 5.000 svizzeri, 30.000 fanti di varie nazioni e 2.000 cavalli. L’ambasciatore imperiale riteneva che fosse una stima esagerata. Nella lettera del giorno suc- cessivo (ibid. 677) il duca scrive che Alberto ribadiva che Francesco I si sentiva spavaldo e non era in vena di concessioni. XLII Marcello Simonetta

«MALA, MALA, MALA TENEBRA»

Dopo l’estate 1524 circolò in Italia una lettera profetica indirizzata a Francesco I da un tal Bernardo eremita: [...] miserabilis horribilis et pessima voluntas tua! Tu et exercitus tuus cum vilipendio caderis in confusione tua, lacerati in sanguine vestro […] si oppugnaveris Italiam in hoc tempore 1524, 1525, mala, mala, mala tenebra, tenebrae horribiles super caput tuum, tandem in Italiam fulgur coeleste desolabit exercitum tuum, et in agro in fronte caput tuum ferrum percutiet, in sanguine tuo moreris cum miserabilibus lacrimosis veneno- sis, et in Gallia uxores cum lacrimis cadent morientur. Francisce rex gallorum felicitas tua ad expugnationem maometanorum et principis eorum, Iesus Deus perpetuus est defensio tua, si non oppugnaveris christianos178. La previsione della catastrofe gallica non distolse minimamente il re “cavalie- re”, ma presto molte vedove avrebbero pianto i propri mariti caduti in battaglia. Francesco I era convinto, grazie alle rassicurazioni di Alberto, di poter contare sul- l’appoggio del papa, il quale inviò presso il re Girolamo Aleandro, l’umanista lega- to a doppio filo al Pio179. Le trattative diplomatiche si intensificarono alla fine del- l’anno180 e per vincere le ultime resistenze del papa l’ambasciatore ne aveva «par- lato ancora al datario» Giberti. Lamentava la «grande difficultà di far accordare tanta gente»181, eppure alla fine ci riuscì. L’anno del Signore 1525 cominciò sotto auspici luminosi per il Pio. Il papa aveva finalmente sottoscritto e sigillà li capitoli di l’accordo con il re Christianissimo, et cussì havea sot- toscritto el signor Alberto da Carpi per nome dil re. Et hora mai era palese questo per tutta Roma; et il Papa ha ditto non vol publicare questo acordo, ma tenirlo secreto182.

Questa tipica oscillazione clementina suscitò la segreta rabbia di Carlo V, che era capace di covare in silenzio delle terribili vendette183. Tutti in campo francese facevano festa, e in più Alberto celebrava con un son- tuoso banchetto la nascita del suo primogenito184.

178 SANUTO 37, 1. 179 Girolamo Aleandro a Clemente VII, sulla intervista con Francesco I, nel novembre 1524 per la «pace e concordia de’ Principi cristiani [...] Del che S. M.tà disse esser molto contenta sino dal dì che per lettere, primo dell’illustrissimo S.r conte di Carpi et de’ suoi secretarii in Roma [Raince?], e dapoi per relazione dell’arcivescovo di Capua, havea inteso tal deliberazione di V.S., e che quanto alla per- sona mia S. M.tà sperava che per essermi nutrito e graduato in Francia, e per quelle non male parti che haveva inteso di nome, io fussi per fare ogni buon officio per intertenir buona concordia tra V.S. e S. M. e procurare il ben commune della chiesa di Dio» (OMONT 1896, p. 113-115). 180 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 29 novembre 1524 (BNF, Dupuy 265, f. 353). 181 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 13 dicembre 1524 (AN, J 964, n. 21; lunga lettera decifrata). 182 SANUTO 37, 424, di Roma, 5 gennaio 1525. 183 Il duca di Sessa a Carlo V, Roma, 7 gennaio 1525 (SPAIN II, 708) annunciava che il papa aveva firmato il trattato col re di Francia, prendendosi gioco di più d’un monarca; cfr. SIMONETTA 2014, pp. 264-265 sulla furia dissimulata dell’imperatore. 184 SANUTO 37, 431-432: «a dì 8 [gennaio 1525], Domenega de sera, il Signor Alberto da Carpi, Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XLIII

Ma i successi pubblici e le gioie private diedero vita ad un’euforia ingiustifica- ta e di brevissima durata. L’ottimismo di Sigismondo Santi, segretario di Alberto185 inviato presso il campo di Pavia, si rivelò molto più distante dalla «verità effettuale della cosa» che il pessimismo di un agente veneziano186. Nonostante i vani sforzi di Alberto di reclutare nuove leve e di ottenere fondi da Venezia187, la decisione del re di man- dare un contingente di circa diecimila soldati comandati dal duca d’Albany188 (cognato del defunto Lorenzo de’ Medici) alla conquista del regno di Napoli si rivelò una mossa fatalmente imprudente. Il 24 febbraio 1525, con una devastante sortita a sorpresa, gli assediati imperiali di Pavia travolsero con archibugi e picche gli assedianti impantanati nel fango e ne fecero una strage spaventosa. Fra i tanti baroni francesi trucidati, morì anche l’am- miraglio Bonnivet – e il re fu catturato mentre si allontanava dal campo di battaglia189. L’inizio luminoso dell’anno si era oscurato improvvisamente e Alberto, come nella profezia dell’eremita Bernardo, sprofondò nelle «mala, mala, mala tenebra».

Sigismondo sparisce e Canossa capisce Nei mesi successivi alla batosta di Pavia Luisa di Savoia, divenuta reggente, si diede da fare per cercare di risolvere la gravissima situazione190. A fine giugno inviò orator francese, et li altri oratori francesi havevano fatto festa et fuogi et trar artilarie per alegreza de la liga fata col Papa. [...] Item par, la moglie del signor Alberto da Carpi predito [...] habbi parturito uno fiòl e l’ha fato batizar e fato festa e bellissimo pranzo, dove li è stato 8 cardinali». 185 Ibid., 570: «C’è una lettera di 5 [febbraio 1525] dil secretario dil signor Alberto di Carpi, zoè missier Sigismondo, ch’è in campo dil Re, che scrive la gagliardia de francesi, et dà il gioco vinto, et dice che ne l’antiguardia sono 12 milia sguizari et 600 lanze, ch’è bel sguadrone. Poi il Re cum li gri- soni et vallesani molto ben in ordine, et che gli è primo armato e l’ultimo disarmato, et in campo ado- rato. Lui scrive, et tutti dicono, che venendo al fatto d’arme, che non si lassino pigliar l’avantaggio, francesi saranno vincitori». 186 Ibid., 595-596 di Bergamo, 15 febbraio 1525: «quello in questa hora venuto dil campo francese dice, quello exercito sta al solito con lavorar a li repari et suo’ bastioni, che dinota di haver poco pen- siero di far la zornata [...] in ditto campo è carestia dil vivere, e più per li cavalli che per li homini». 187 Ibid., 572: lettere di domino Francesco di Gonzaga, 10 febbraio 1525: «Da dui dì in qua vanno tamburi per Roma sotto il nome dil Signor Alberto di Carpi, che chi vol danari vadi in certi lochi lì apres- so a la stantia soa che li ne sarano dati, facendo voce di voler fare bon numero de fanti per mandare nel Regno»; 582 [15?] febbraio 1525: «et quanto a la richiesta fata per il signor Alberto di Carpi per nome di la X.ma M.tà che lo serviamo de ducati venti milia, debbi negar che non potemo servirlo etc.»; 595: «a li 20 milia ducati richiesti per il signor Alberto di Carpi, scusar, semo su gran spexe etc.». 188 Ibid., 602 di Roma, 14 febbraio 1525: «duca d’Albania intrò a dì 13, hore 1 di notte in Roma. Li andò contra il signor Alberto di Carpi orator dil re X.mo, et li signori Orsini. Et la mattina fo a basar i piedi al Papa et disnar con Soa Santità. La zente d’arme è restà a Sutri». 189 LE GALL 2015 ha ricostruito magistralmente la battaglia e le sue conseguenze politiche, met- tendo in questione una serie di miti sull’eroismo cavalleresco di Francesco I. Anche il Montmorency fu catturato e fu scambiato con un altro illustre prigioniero, Hugo de Moncada, che ritroveremo in queste pagine poco più avanti. 190 Il classico studio di JACQUETON 1892 va ancora ricordato per la sua acribia documentaria, rara- mente rivaleggiata dagli storici successivi. XLIV Marcello Simonetta il suo messo Lorenzo Toscano a Venezia191 e poi in direzione di Roma192, dove un inquieto Giberti lo attendeva: Et il reverendo Datario li ha ditto, il signor Alberto di Carpi spaza il suo secretario in Franza, per far Madama contenti [sic] etc.193. Alberto si trovava «vergognosamente» a Viterbo194 col pretesto di un ennesimo soggiorno medico, ma in effetti a causa del bando contro i ribelli anti-imperiali195. Ritrovando il Toscano (il cui antagonista Raince era rimasto probabilmente a Roma) decise di inviare urgentemente il suo fidatissimo Sigismondo Santi a Lione a concludere un accordo con la reggente. L’attesa per l’esito di questa missione da cui dipendeva il futuro degli equilibri europei196 si fece subito snervante, perché Sigismondo non dava notizie di sé197. Furono inviate varie lettere preoccupate sulla scomparsa di Sigismondo Santi, finché la voce che fosse stato ucciso in un agguato imperiale cominciò a prender piede, come il Canossa annunciò senza mezzi termini alla reggente di Francia: Madama io sono certo che da lo ambasciatore vostro apresso Grisoni havereti inteso lo iuditio che esso ha che Sigismondo del Signor Conte da Carpi sia stato amazato et però non bisogna più aspetarlo né so se da Roma vi mandaranno altro sapendo che per mie lettre V. M.tà ha inteso quello che el dito Sigismondo portava, alle quale non si rispon- dendo pensaranno che più non si voglia atendere a questa pratica et ognuno penserà a li casi suoi198.

191 Cfr. PASTOR iv, 2, p. 187: il 23 giugno 1525 arriva a Venezia l’ambasciatore di Francia, Lorenzo Toscano, con istruzioni della reggente e già nel dì seguente Canossa faceva le sue proposte alla Signoria. 192 Gian Matteo Giberti a Lodovico Canossa, Roma, 5 luglio 1525 (Lettere di Principi, II, 84v- 85r): «Aspettasi con desiderio M. Lorenzo [Toscano]». 193 SANUTO 39, 192 di Roma 10 luglio 1525. Sappiamo che lo sconfortato Alberto era a Viterbo dalla lettera Federico Gonzaga a Isabella d’Este, 21 giugno 1525 (ibid. 129): «Novamente è manca- to il fiol unico dell’Ill.mo Signor Alberto da Carpi, qual se ritrova alli bagni di Viterbo»; [il resto in Ori, p. 245: «Stimase che questa perdita li debba gravar più d’alchun’altra che l’abbia patito per il passato, perché parea che ne le sue adversità non havesse altro refugio che questo figliolo»]. 194 Ibid., 203 di Roma, 12 luglio 1525: «il papa haver ditto: “[...] io voglio, avanti che scriva in Franza, veder se missier Lorenzo Toscan, qual è con il signor Alberto ai bagni [di Viterbo], ha com- mission di concluder ditto acordo”. [...] Papa mandò a li bagni dal ditto Lorenzo Toscan. Riporta lui non ha mandato di concluder; ma ben afferma dil tutto Soa Santità sarà exaudita di la Franza». 195 Il duca di Sessa a Carlo V, Roma, 24 luglio 1525 (SPAIN III, 150; JACQUETON 1892, p. 211). Cfr. il duca di Sessa a Carlo V, Roma, 1 agosto 1525 (SPAIN III, 153) per l’insistenza sull’illegittimità della presenza di Alberto nelle terre della Chiesa. 196 Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, 28 luglio 1525 (FORNER 2005, p. 112): «con desi- derio aspetano il ritorno o aviso de messer Sigismondo, senza il quale dicono non potere passare più avanti». 197 Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, 7 agosto 1525 (FORNER 2005, p. 113): «Qua stamo con grandissimo desiderio del ritorno o aviso di messer Sigismondo et penso che varii timori, forsa ragionevoli, li nascano in ne la mente». 198 Lodovico Canossa a Luisa di Savoia, Venezia, 26 agosto 1525 (BCV, Carteggi Canossa, Regina di Francia [sic per la Reggente!], 17) Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XLV

Dunque era stato un sacrificio estremo, e per di più inutile. Il Canossa espresse la sua disillusione con amara eloquenza rivolgendosi ad Alberto. Secondo il suo fine ragionamento i francesi non si sarebbero impegnati in una guerra in Italia fin- ché il re non fosse liberato. Carlo V poteva tenerli in sospeso tanto quanto ne aveva voglia: Dico anche quando non volesse fare cosa che essi volesseno, non obstante che io penso che lo accordo deba sequire, et che non è da maravigliarsi che havendo li francesi molti modi ragionevoli da intertenere questa pratica de Italia et non mostrare sì pocho de sti- marla dovendola stimare tanto habiano del modo scrito, che gli hano, perché non usan- do essi molta diligientia né molto studio in le cose che essi desiderano, como vogliamo nuy che l’usino in quelle che non vogliono? [...] pure como se sia è d’aiutare quanto si pò questa pia passione di madama et haverli compassione de ogni errore che facesse per la dita liberatione199. I francesi si mostravano poco ragionevoli, e c’era da compatire la «pia passio- ne» di una madre dal pugno di ferro e dal cuore di vetro che temeva per la vita del figlio. Ma intanto qualcun altro aveva rischiato la vita per lei. All’inizio di settem- bre Giberti manifestava al Canossa la sua estrema preoccupazione per la sorte di Sigismondo: alla fine quando non ci sarà più rimedio [i francesi] conosceranno quello, che né da sé hanno tanta prudenzia che lo conoscano, né, consigliati da V.S., dal Signor Alberto e da chiunque li ama, voglion credere [...] così piacesse a Dio che non fusse andato mai il pover Messer Sigismondo, che, oltre alla perdita di tale amico, il più del male sta nella dimostrazion di mandarlo e in quelle scritture che portava, senza le quali potriano ben sospettare, ma non saper niente di certo200. Le carte affidate al Santi erano della massima importanza e potevano compro- mettere i rapporti fra il papato e l’impero, ma Luisa e i suoi consiglieri non sem- bravano affatto curarsene201. A questo punto la confidenza fra due degli intelletti italiani più sottili, entrambi al servizio dell’ingrata Francia, provocò un discorso ancora più sconfortato. Alberto era rimasto meravigliato e confuso per la lettera di Luisa di Savoia, e doveva dunque immaginarsi come c’era restato Canossa, essen- do tanto meno prudente di lui: li men prudenti molte volte più se acostino alli penseri et alle cause de le accione de li francesi di quello che fano li prudentissimi et questo perché sono più simili alla natura et sapere loro [...] bene sa V.S. le cose lontane quanto pocho li prememo et quanto sono impatienti ad aspetarle [...] ma como vole V.S. che li francesi pongano diligentia o stu-

199 Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, 30 agosto 1525 (BCV, Carteggi Canossa, Pio, 4, in Appendice 2, n. 8). 200 Gian Matteo Giberti a Lodovico Canossa, Roma, 4 settembre 1525 (Lettere di Principi, II, 89r-v). 201 SANUTO 39, 450 di Venezia, 16 settembre 1525: «sicome Lorenzo Toscan a dì 29 [agosto 1525] di Lion scrive per sue lettere a monsignor di Baius [Canossa] qui a Venetia il tutto; al qual Madama li scrive si procuri la liberatione dil Re suo fiol». XLVI Marcello Simonetta

dio in quelle cose che non vogliono fare non lo ponendo in quello che molto desidera- no [...] non havendo mai dubio in le cose che essi desiderano202. Nel suo memorabile sfogo anti-gallico Canossa, che non a caso Castiglione aveva scelto per “formare” il suo cortegiano, critica l’imprudenza e la mancanza di realismo dei francesi. La sua sintassi concatenatissima di pensieri ricorda certe dense analisi del Guicciardini. Sebbene la corrispondenza di Alberto sia perduta, possiamo dedurre che si fosse espresso con simile veemenza contro la colpevole inazione della reggente che gli era costata così cara. Vale la pena di notare che que- sta lettera, ancora più esplicita della precedente (e rimasta in forma di minuta, quin- di non auto-censurata) è contemporanea all’incontro veneziano di Canossa con Machiavelli203 che forse ispirò alcuni dei giudizi più taglienti. Spunta di nuovo la coda del diabolico messer Niccolò in relazione col Pio. Intanto, il sospetto sull’as- sassinio di Sigismondo cominciava a consolidarsi, e veniva commentato con sar- casmo velenoso dagli agenti imperiali: del segretario non si sapeva nulla, a meno che «Alberto de Carpi, segun su condicion no le ha enviado secretamente á prati- car con el Turco ó con el Infierno»204. Il triste epilogo di questa vicenda che dovette pesare molto sulla coscienza di Alberto fu celebrato con malcelato sadismo dal duca di Sessa un paio di mesi più tardi, quando le spoglie del povero Santi furono ritrovate seppellite nel sottoscala dell’oste che l’aveva ucciso per derubarlo, il che scagionava i ministri di Carlo V dai più neri sospetti205.

Giù la maschera! Le trattative riservatissime per la liberazione del re continuarono e furono rese più drammatiche da una malattia del prigioniero che in ottobre sembrò mortale206. Nel frattempo la congiura di Girolamo Morone, il cancelliere sforzesco che inten- deva consegnare Milano ai francesi, fu scoperta, e si seppe che anche il Giberti ne era al corrente (non abbiamo prove dirette che anche Alberto fosse implicato, ma certo non si rallegrò del suo fallimento). In questo clima di sospetti e risentimenti

202 Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, 21 settembre 1525 (BCV, Carteggi Canossa, Pio, 6, in Appendice 2, n. 9, cfr. n.8). 203 SIMONETTA 2014, p. 269. 204 L’abate di Najera (commissario imperiale in Italia) a Carlo V, Vercelli, 9 settembre 1525 (SPAIN III, 199). 205 Il duca di Sessa a Carlo V, Roma, 12 novembre 1525 (SPAIN III, 258; originale spagnolo in JACQUETON 1892, pp. 217-218 che cita da BL, Add. Ms. 28575, f. 17). Cfr. SANUTO 40, 282, 307 e infi- ne 345 di Roma, 16 novembre 1525: «scrive haver dato le scritture havia quel Sigismondo fu morto, che andava in Franza, qual erano stà trovate, et Sua Santità le mandò al signor Alberto, et non vol suo fiol vengi a Brexa. Scrive, il Papa li ha ditto si cavi le ossa et si sepelissa, et contra li delinquenti havendo beni si toi, et si pagi li danni a li fioli dil morto». 206 Alberto Pio a Luisa di Savoia, Roma, 22 ottobre 1525 (BNF, Dupuy 452, ff. 20-23, quasi tutta in cifra; JACQUETON 1892, pp. 360-364). Cfr. Nicolas Raince a Florimond Robertet, Roma, 24 otto- bre 1525 (BNF, Dupuy 452, ff. 29 e 24 decifrazione; ibid., pp. 364-366). Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XLVII diretti verso l’arcivescovo di Capua, già identificato come il traditore del papa per poterlo un giorno sostituire207, maturò il trattato di Madrid208 firmato all’inizio del 1526. Francesco I accettò durissime condizioni, la più pesante delle quali era la ces- sione della Borgogna in cambio della sua libertà. Come garanzia dei suoi impegni «impossibili» il re lasciava ostaggi nelle mani di Carlo V i suoi due primogeniti209. Il re presto sentì il bisogno di giustificarsi in un’Apologia in latino e in fran- cese210. La rivolta del re contro le imposizioni del trattato giunse al punto da siglare a fine maggio a Cognac la Santa Lega, che fu accolta con sordo rancore da Carlo V, ma anche con occhio critico da Alberto, che ne intuiva anche i potenziali rischi. A lui sembrava assurdo che il papa volesse distruggere se stesso e tutta l’Italia insieme ed entrare in un così gran travaglio e spesa e farsi nemico un imperatore tanto potente, per far piacere a qualcun altro, sotto il pretesto di farlo per il bene della pace universale. Aveva visto gli articoli della capitolazione «bella e buona (non cacciandovi ulteriormente dai vostri stati d’Italia) e molto più onesta» dell’accordo stretto fra don Juan e Leone X nel 1521, che aveva segnato l’inizio dell’espulsione dei fran- cesi da Milano, massima umiliazione per l’ambasciatore Alberto211. L’umore di Clemente VII oscillava pericolosamente tra l’euforia gagliarda e la melanconia astenica. Se in giugno non era «possibile vedere un uomo più conten- to e deliberato del papa che si è levato la maschera del tutto et oltre e parla al pre- sente senza alcun rispetto» e la differenza era come «dal giorno alla notte»212, all’i- nizio di agosto egli era «l’uomo più confuso, cupo ed attristato» che l’ambasciato- re francese avesse mai visto, mentre i suoi ministri erano «più morti che vivi»213.

207 Nicolas Raince a Luisa di Savoia, Roma, 25 ottobre 1525 (BNF, Dupuy 452, ff. 28 e 31-32 deci- frazione; ibid., pp. 366-371): «l’invention de l’archevesque de Capua qui, soubz ombre de charité, ne cherche que la ruine de son maistre [Clemente VII] et de tout le monde, pour faire grant cest empe- reur, qu’il espère, selon que tiennent aulcuns, le debvoir faire pape et déposer son maistre». 208 Luisa di Savoia ad Alberto Pio, Lione, 18 gennaio 1526 (BNF, Fr. 3091, 6-7; JACQUETON 1892, pp. 412-414). 209 SIMONETTA 2014, p. 270 anche sull’incredulità di Machiavelli per la credulità di Carlo V. Uno degli articoli punitivi del trattato era che Carpi non fosse restituita: SANUTO 40, 870 (febbraio 1526) sulle Conventiones circa pacem: «del sig. Alberto non se fa mentione di questo, anzi se esclude». 210 SIMONETTA 2015a, pp. 54-55 (scheda sull’Apologia Madriciae conventionis bilingue). Vedi anche Roberto Rofia a Francesco Vettori, Roma, 14 aprile 1526 (CS I 137, cc. 273-275 con l’acclusa lettera di maestro Andrea). Sulla giustificazione politica della mancata promessa, cfr. VETTORI 1972, p. 223. 211 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 24 giugno 1526 (BNF, Fr. 2982, ff. 71-73; decifrata in MOLINI 1836, pp. 203-209). 212 Nicolas Raince a Francesco I, Roma, 9 giugno 1526 (BNF, Fr. 2984, f. 33; tutta in cifra). Cfr. Alberto Pio ad Anne de Montmorency, Roma, 9 luglio 1526 (BNF, Fr. 3040, f. 7) sul papa che fa pro- clamare la Santa Lega «in grande trionfo», ma già il 31 luglio (Chantilly L-II 22) il Raince informa il gran maestro che «è necessario dare coraggio a Nostro Signore di parole e di effetti perché si ritrova molto mal contento». 213 Nicolas Raince a Francesco I, Roma, 1 agosto 1526 (BNF, Fr. 2984, f. 25). XLVIII Marcello Simonetta

Che lo «sbigottire» non fosse solo un fatto psicologico dipendeva da due recen- ti insuccessi, la ritirata da Milano dell’esercito della Lega comandato da Francesco Maria Della Rovere, e l’ignominiosa rotta di Siena214, come scriveva Jacopo Salviati rispondendo alla moglie Lucrezia, figlia di Lorenzo il Magnifico e sorella degli ormai defunti Piero, Giovanni (Leone X) e Giuliano, la quale da Firenze inci- tava gli uomini di punta della corte clementina a non «mancare d’animo» in quel difficile momento215. Ma era proprio l’animo che difettava al pontefice, come ci dimostra la testimo- nianza del signor de Langey, Guillaume du Bellay (fratello del futuro cardinale Jean), il quale pochi giorni dopo scrisse al Montmorency sull’avarizia e la miopia di Clemente VII, dopo aver cercato di diffidarlo dalle melliflue e pacifiche promes- se di Hugo de Moncada. Il Pio, che ben conosceva la doppiezza degli imperiali per averla subìta sulla propria pelle, insieme all’ambasciatore veneziano, su questo accordo gli aveva dato le più grosse battaglie del mondo e [Nostro Signore] mi disse queste parole for- mali: «Che volete voi che io faccia? Fra due giorni arriva il tempo della paga delle genti d’arme che ho qui, che mi costerà quattordici o quindicimila ducati e, se li voglio pagare, bisogna che li levi dalla somma che devo inviare in Lombardia per il paga- mento delle mie genti, non essendoci altro aiuto e non avendo altro mezzo di trovare il denaro…»216 Il papa mediceo, discendente di mercanti e banchieri, piangeva sempre miseria e aspettava col fiato sospeso le risposte del suo legato Gian Battista Sanga dalla Francia e dall’Inghilterra, come se i monarchi europei potessero salvarlo dalla furia dell’imperatore. Il ritardo nelle risposte era ormai cronico e persino Alberto espres- se liberamente i suoi dubbi: et era il signor Alberto di Carpi et reverendo Datario [Giberti] presenti. Qual signor Alberto disse: «Questa non è la causa, Pater sancte, ma [il re di Francia] vol star cusì iresoluto et veder chi vincerà, per potersi poi a quella parte acostarsi»217.

L’aperta denuncia del cinismo temporeggiatore di Francesco I, in violazione del codice diplomatico che dovrebbe prevenire simili boutades contro i propri datori di lavoro, era un grave campanello d’allarme che il Raince non tardò a percepire, scrivendo un accorato messaggio confidenziale al Montmorency:

214 Cfr. Francesco Vettori a Niccolò Machiavelli, Firenze, 5 agosto 1526 (decifrata in SIMONETTA 2014, p. 277). 215 Iacopo Salviati a Lucrezia Salviati de’ Medici, Roma, 1 agosto 1526 (CS I 137, c. 50), che ribat- teva spavaldo: «Tu hai a sapere che noi habbiamo il medesimo animo de vincere, et la medesima oppenione che havevamo quando si cominciò questa impresa». 216 Guillaume du Bellay a Francesco I, Roma, 20 agosto 1526 (BOURRILLY 1901, p. 227). 217 SANUTO 42, 437 di Roma, 21 agosto 1526: «Il Pontefice havia havuto lettere di Franza, di 6, del Sanga, date in Ambosa. Fo dal papa, qual li disse la continentia di quelle, et che quella Maestà è dispostissima a la impresa, dicendo che questo son cose di Franza et pur troppo tarde». Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico XLIX

quello che vi scrivevo di monsignor il conte di Carpi a proposito della sua pazienza etc. il che in effetti è per il bene del servizio del Re, e per l’importanza di costui, e non per altra cosa, ma io vi dico monsignore […] che egli è più indispensabile che mai. Che vi si pensi, e che vi si faccia qualche provvisione, perché comincia a esprimere alcuni pro- positi pubblicamente, come sa monsignor di Langey, per i quali si può intendere che è infelicissimo, e altrettanto dopo aver ricevuto una certa lettera a lui scritta da Ferrara da un tale della sua nazione [cioè di Carpi], che l’ha ancora messo in più grande dispera- zione, perché lo crede e lo tiene per suo amico218, ma nonostante tutto ciò non smette anche di fare il suo buon dovere men che mai, [...] ed è tanto necessario il suo aiuto e servizio, che non si potrebbe dir di più, perché può, in quel che si ha da fare, più che tutti gli altri insieme219. L’elogio della insostituibilità di Alberto preludeva all’ingratitudine che lo avrebbe accolto in Francia. Ma non precorriamo i tempi. L’infelice propheta in patria, preparandosi inconsapevolmente all’esilio, continuava comunque a svolge- re i suoi compiti andando presso il papa220 e riferendo al re quanto fossero sconso- lati i suoi consiglieri, oltre ad informarlo che gli Spagnoli che sono a Carpi corrono ogni giorno alle porte di Parma e Bologna e hanno preso e saccheggiato castelli nel Bolognese e il duca di Ferrara non gli fa man- care tutto l’aiuto e l’assistenza che può221. Non sapeva tuttavia che le scorribande stavano per arrivare anche a Roma…

Un sacco annunciato All’alba del 20 settembre 1526 i Colonna, capeggiati dal bellicoso cardinale Pompeo e accompagnati da Hugo de Moncada che aveva disarmato la guardia di Roma poche settimane prima, con cinquemila uomini armati fino ai denti, entraro- no in città e andarono dritti in Vaticano dove misero a ferro e fuoco Borgo Pio e San Pietro222. Con il mesto trionfalismo di Cassandra Girolamo Aleandro, l’umanista vicinis- simo ad Alberto, nel suo curioso diario bilingue, registrò il fattaccio affermando di averlo previsto e detto ai quattro venti: «rem (Deus mihi et multi homines testes) a me praedictam»223. Forse il suo mentore carpigiano aveva fatto lo stesso, anche se non ci è dato di saperlo con certezza. Una sarcastica lettera di Raince al Montmorency evoca le tremende dissacra- zioni del sacco dei Colonna. Raince dice di aver allegato il «forte» dispaccio indi-

218 Purtroppo non ci è stato possibile identificare questo carpigiano esule a Ferrara, ma fedele al suo antico signore: ve n’erano moltissimi in quell’epoca, a causa dell’occupazione spagnola. 219 Nicolas Raince ad Anne de Montmorency, Roma, 30 agosto 1526 (Chantilly L-II 27). 220 Nicolas Raince ad Anne de Montmorency, Roma, 14 settembre 1526 (Chantilly L-II 31-32). 221 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 15 settembre 1526 (BNF, Dupuy 265, f. 351; BOURRILLY 1901, pp. 228-231). 222 SIMONETTA 2014, pp. 277-279. 223 OMONT 1896, p. 50. Ibid. alla data 20 agosto parla della visita del «Langius» (uno di due keltoi). L Marcello Simonetta rizzato da Alberto al tesoriere Robertet, che purtroppo risulta al momento disper- so, e la copia «della bella capitulazione à l’usaige de Madril», cioè alla maniera di Madrid, stilata dentro Castel Sant’Angelo, istituendo da subito un esplicito paral- lelo fra il re e il papa prigionieri. L’ambasciatore afferma di essere sotto shock a causa «dell’ingiuria e dell’oltraggio fatti alla chiesa di Dio e al suo vicario». I sac- cheggiatori hanno rubato o rovinato gli oggetti più sacri. Per esempio hanno preso le perle ed altri preziosi ornamenti papali, indossandoli per imitare e mettere in ridicolo il pontefice: vedendo ciò il Cardinal Colonna e presenti i cardinali Cibo et Ridolfi, che allora stava- no là come ostaggi, mettendo anche sulle loro teste le mitre sacre, scimmiottando il papa e ciò che è peggio i soldati indossarono dei suoi paramenti bianchi e dei suoi cap- pelli sulle loro teste, che essi avevano rubato in palazzo, là dove ruppero le immagini e tutti i piatti e bei vassoi assai preziosi, che non potevano portarsi via, e non è possibile, monsignore, sapere e scrivere il meraviglioso e grande oltraggio da cui sono procedute cose che i turchi e gli infedeli non avrebbero fatte e profanato la chiesa di San Pietro in tal maniera, che è ben la cosa, che tocca da più vicino al cuore sua Santità. Il papa raccontò al Raince che nel concludere l’accordo-capestro con il Moncada, costui gli domandava ostaggi per garanzia. Clemente VII glieli aveva promessi, ma il malfidato spagnolo non si fidava perché il re di Francia non aveva riscattato ostaggi lasciati all’imperatore (si riferiva ai figli di Francesco I). Sua Santità gli aveva detto, togliendosi lo zucchetto dalla testa, cosa che un papa non fa mai, se non davanti a Dio: «Io lodo dunque Dio che voi mi date ad intendere e confessate che sono nei medesimi termini in cui si trovava il Re a Madrid», e su questo punto don Ugo un po’ pensieroso si era scusato di esser ricorso alla forza solo per rimediare all’assedio di Genova. La sfrontatezza del capitano che da gio- vane aveva servito Cesare Borgia aveva raggiunto il suo culmine! Raince si lascia trascinare dalla rabbia e dall’indignazione, trovando un perfet- to capro espiatorio nell’odiatissimo Schomberg: Monsignore, l’origine di tutto il male intervenuto è causa di questo falso e simulato cri- stiano Fra Nicolò, del quale Martin Lutero ha già sposato due parenti e tutte e due reli- giose224. E credo che Dio abbia dato questa occasione al Re, che è la migliore del mondo, e la più adatta per vendicarsi di lui e dei suoi infiniti mali, travagli e danni che ha fatti e che cerca ora di fare al detto Signore e ai suoi paesi e soggetti, e per farlo cac- ciare fuori dal servizio di Nostro Signore, il che non sarà solamente il bene e l’utile del servizio della suddetta Santità e del Re ma di tutta la repubblica cristiana e il mezzo, monsignore, è molto buono e ben fatto per l’oltraggio e l’ingiuria inflitte al detto Signore in presenza di Nostro Signore dal suddetto frate ribaldo in presenza dell’amba- sciatore del Re di Portogallo e smentendo per la gola monsignor il conte di Carpi suo ambasciatore, di che il detto Signore [Francesco I] ha causa più che ragionevole di dolersi e lamentarsi all’ambasciatore di Sua Santità [in Francia].

224 Si noti che Lutero veniva considerato addirittura bigamo! Sull’identità della sorella di Schomberg come moglie di Lutero (dall’11 giugno 1525) si speculava ancora sotto Paolo III, nel 1535, quando l’arcivescovo fu creato cardinale. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico LI

Il re avrebbe dovuto pretendere una «riparazione pubblica» all’offesa subìta dal suo ambasciatore, soprattutto perché questo «cattivo esempio impunito» proveni- va da un «uomo maligno, iniquo e fraudolento» che tradiva continuamente il papa. In realtà lo Schomberg non aveva fatto altro che esprimere un sentimento assai comune fra gli uomini di Carlo V. Le cause del violento odio personale contro i francofili e specialmente contro il rabbioso Alberto da parte degli imperiali e dei colonnesi ci viene raccontato nei minimi dettagli: È una strana cosa il mal volere che i nemici portano ai detti signori datario [Giberti] e Salviati et più ancora al detto signor datario et più di tutti a monsignor il Conte [Pio] e soprattutto il cardinal [Pompeo] Colonna, il quale ha detto avant’ieri a monsignor Cibo, quando era là come ostaggio, che il papa non doveva inviare lui e monsignor Ridolfi come ostaggi, ma che doveva inviare il signor Alberto da Carpi et il datario, che hanno fatto entrare il papa in lega col Re e che vede bene a questo punto in cui si trova, i loro bei consigli et che il signor Alberto l’aveva fatto e faceva per rabbia contro l’imperato- re e i suoi buoni servitori e il datario per forza di passione, ma che l’uno e l’altro molto presto avrebbero pagato225. Il 21 settembre venne in effetti siglato l’accordo col Moncada226. Filippo Strozzi, scelto come ostaggio principale, e lasciato alla sua sorte nonostante tutti i servizi che aveva fornito ai Medici, cominciò a scrivere quelli che potremmo chia- mare i suoi “quaderni del carcere”, attraverso i quali possiamo seguire passo passo la metamorfosi di un banchiere di regime in un rivoluzionario repubblicano227. Un’altra fonte citata dal Sanuto ci racconta il post-Sacco dei Colonna sotto l’oc- chio complice dei “brigosi” cittadini romani e lo scontro personale avvenuto fra lo Schomberg e Pio: Questa mattina io son tornato in castello, et ho abandonata la casa et tutto, et aspettavo che la sachegiasseno perché hanno sacheggiata quella di lo Ambasciatore venetiano; ma li parenti me hanno assicurato perché li Colonesi promissero a romani non voler fosse mosso nulla del loro, et in verità tutti li bon cavalli loro erano romani brigosi. Havemo ostato col Papa et col Datario quale anchor lui era manchato, talché essendo ritirato il Papa con l’ambasciator di Portugallo et con l’arcivescovo [Schomberg], el signor Alberto spinto da me intrò lì presuntuosamente, et cominciò ad ostare alli consegli del Capoano, talché il Capoano lo smentì per la gola; et il signore Alberto lo stramentì lui et li disse: “Frate ...... ”228 [...] Io ho ditto al Papa, che hora ha fatta la più gran pazia fusse mai fatta per credere a Colonesi, et che mo’ non vogli credere a don Ugo..229

225 Nicolas Raince ad Anne de Montmorency, Roma, 23 settembre 1526 (Chantilly, L-II 34-35). 226 Convenzione di Clemente VII con Ugo de Moncada per l’imperatore, Roma, 21 settembre 1526 (BNF, Fr. 2980, c. 31, in MOLINI 1836, pp. 229-231). Cfr. VETTORI 1972, pp. 231-232 sui dettagli del- l’incontro, forniti al Vettori con tutta probabilità dallo stesso Filippo Strozzi che vi presenziò. 227 SIMONETTA 2014, pp. 277ss. 228 Il taglio è presente nell’edizione dei Diarii di SANUTO: nel ms. originale si troverebbe proba- bilmente la lista di insulti che Alberto gli dovette rovesciare addosso! 229 SANUTO 42, 728-730: copia di una lettera da Roma, 23 settembre 1526, “narra la novità fece Colonnesi in Roma”. L’autore anonimo è un veneziano altolocato: dovrebbe essere l’arcivescovo di Zara, Francesco Cà da Pesaro, di cui si veda l’altra importante lettera sul Sacco di Roma infra. LII Marcello Simonetta

L’arcivescovo di Zara, il veneziano Francesco Cà da Pesaro, echeggiava lo scet- ticismo ironico di Machiavelli: «il papa ha creduto più ad una inpennata d’inchio- stro (cioè all’accordo firmato in agosto col Moncada) che a mille fanti che gli bastavano a guardarlo»230. Le potenze italiane, avvertite dell’affronto al papa, aspettavano con apprensio- ne alle prossime mosse delle potenze straniere231. Non a caso il duca di Milano Francesco Sforza II riprese ora contatto con il Pio – era il momento dell’emergen- za e si potevano dimenticare i torti passati per unirsi davanti al pericolo comune232. Sia Leonello che Alberto cercavano di restare nelle buone grazie del Montmorency233, la cui stella ascendente nella corte francese poteva significare la fortuna o la rovi- na di Carpi. Intanto le minacce imperiali continuavano per mare234 come per terra, e Nicolas Raince avvertiva che «lo stato di Firenze, appena i lanzi si avvicineranno alle Alpi per attraversarle, si sarebbe ribellato». Anche il duca d’Urbino, quel Francesco Della Rovere che era stato a suo tempo spodestato da Leone X, avrebbe fatto lo stesso. Tutto ciò procedeva dal fatto che a Firenze si dava la caccia al papa, e in particolare Francesco Vettori ed altri del governo, che si fingono suoi amici e sono tutto il contra- rio e contro la sua casata, tenendo segretamente la parte di Filippo Strozzi e qui questo buon apostolo fra Nicolò, che non ha più un bastone di cui possa far uso, se non del sud- detto stato di Firenze, sapendo quanto il papa ci tenga. Allo stesso modo messer Iacopo Salviati, secondo il discorso che mi ha fatto oggi, è stato sinistramente informato come io credo dal protonotario Gambara dall’Inghilterra235 Le cose si mettevano molto male e il povero Raince aveva risposto come meglio aveva potuto al papa senza dargli alcuna consolazione. Per di più la più grande disgrazia del mondo è che monsignor il conte [Carpi] si è ammalato, il quale se avesse potuto andare presso Sua Santità e parlargli avrebbe ben rotto tutto que- sto, e ovviato all’errore e inconveniente che ne risulterà, se la conclusione della sud-

230 Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini, Firenze, 5 novembre 1526 (SIMONETTA 2014, p. 278). 231 Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, 6 ottobre 1526 (BCV, Carteggi Canossa, Pio, 31): «Io vedo che a Roma et qua con molto desiderio si aspeta risposta di Franza dopo la saputa del caso seguito a N.S.». 232 Francesco Sforza II ad Alberto Pio, Crema, 13 ottobre 1526 (BAMI 283, fasc. 11, in Appendice 2, n. 10). 233 Leonello Pio ad Anne de Montmorency, Venezia, 1 novembre 1526 (BNF, Fr. 3003, f. 26); Alberto Pio allo stesso, Roma, 9 novembre 1526 (BNF, Fr. 3003, f. 7), in cui cita Guillaume du Bellay. 234 Alberto Pio a Francesco I, Roma, 29 novembre 1526 (BNF, Fr. 3012, f. 98), comunicando l’ar- rivo dell’armata spagnola a Porto Santo Stefano, «terra dei Senesi, che non è molto lontano da qui». 235 Nicolas Raince ad Anne de Montmorency, Roma, 21 febbraio 1527 (BNF, Fr. 2984, f. 127bis). Si dà il caso che la promessa del cardinale Pompeo Colonna a Filippo Strozzi di farlo liberare dal Castelnuovo, dove è tenuto ostaggio, qualora la città di Firenze si sottragga alla «tirannide della casa de’ Medici», fu firmata a Napoli lo stesso giorno (CS III, 127, c. 220); cfr. SIMONETTA 2014, pp. 285 e 389. Dunque le informazioni sui contatti dello Strozzi coi fuorusciti viaggiavano velocissime. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico LIII

detta tregua si fa, come io credo altrimenti e dubito che vi sarà rimedio e se Dio con la sua grazia non ci si mette, visto che gli ambasciatori inglesi ci mettono qualche diffi- coltà e lungaggine. La fiducia di maestro Nicolas nelle capacità oratorie e suasorie di Alberto era ancora grandissima, ma a questo punto anche un suo magico intervento ristoratore della sicurezza in se stesso del papa non avrebbe potuto salvare la situazione. A Firenze, come previsto, il 26 aprile 1527 scoppiò il Tumulto del venerdì, il primo fallito tentativo di insurrezione antimedicea236 che preludeva all’espulsione poi avvenuta a metà maggio per opera del vendicativo Filippo Strozzi, abbandonato al suo destino di ostaggio da Clemente VII237. Anche il Canossa percepiva l’inutilità dei suoi «fastidiosi ragionamenti»238 e si ral- legrava del tardivo «ritorno de Nostro Signore alla Lega, dil che ho preso grandissi- mo piacere, parendomi che altra via non restasse a S. S.tà per fugare la totale ruvina sua se non quella che essa ha presa»239. Ma la “rovina d’Italia”, tante volte evocata e temuta, era dietro l’angolo. I lanzi e il resto dell’esercito imperiale, avendo trovato bloccate le porte di Firenze, si avventarono come belve affamate su Roma, travolsero la debole difesa predisposta con la solita micraniosità dal papa, e si abbandonarono a quell’orgia di inaudita violenza che è passata alla storia come il Sacco di Roma240. Non è necessario qui evocarne gli orrori, ma è importante correggere un errore sulla data della partenza di Alberto da Castel Sant’Angelo che avvenne nel giugno 1527, e non nel settembre. Infatti la lettera del già citato arcivescovo di Zara al suo servitore Matteo Marchetto, non datata (ma del settembre) che racconta la «ruina di Roma» da maggio in poi, registra prima il fatto che «da poi cessato alquanto la furia, furno messi in castello alcuni homeni da bene, et la moglie del signor Alberto da Carpi [Cecilia Orsini], et la moglie del signor Renzo da Cere [Francesca di Gian Giordano Orsini] et alcune altre gentildonne» e poi il fatto che «Alberto da Carpi con le sue donne montò in barca a Ripa et andorno verso Provenza per andar in Franza», rife- rendosi al momento in cui le trattative di Clemente VII con gli imperiali erano state appena concluse241. Troviamo anche conferma della partenza il 9 giugno 1527, giorno di Pentecoste242, e dell’arrivo di Renzo da Ceri e Alberto Pio a Livorno alla fine di giu- gno nella Storia fiorentina di Benedetto Varchi.243

236 SIMONETTA 2014, pp. 287-288; SIMONETTA 2015b. 237 SIMONETTA 2014, pp. 297-301. 238 Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, 12 aprile 1527 (BCV, Carteggi Canossa, Pio, 36): «piatia a dio che per lo avenire in loco de tali ragionamenti non sentiamo le ruvine». 239 Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, 1 maggio 1527 (BCV, Carteggi Canossa, Pio, 38). 240 SIMONETTA 2014, pp. 289-293. 241 SANUTO 46, 131 e 135; cfr. SVALDUZ 2001, p. 245 e SABATTINI 1994, p. 79. 242 BOURRILLY 1905, p. 45. 243 SEMPER 1999, pp. 87 e 270, che però sembra collocare l’episodio prima del Sacco. Il cardina- le legato Giovanni Salviati a Baldassarre Castiglione, scrivendo dalla Francia il 3 luglio 1527 (ASV, Segreteria di Stato, Francia, I) fornisce la lista degli ostaggi papali e aggiunge: «Tutte le persone et robe che erano in Castello sono salve et libere et di già era uscito il S.or Renzo [...] et il simil dice- vono del S.or Alberto da Carpi et qualche altro». LIV Marcello Simonetta

Tutte le strade portano a Parigi. I dettagli sul suo lungo e calamitoso viaggio verso la Francia ce li offre lo stes- so Alberto in una lettera a Iacopo Salviati, rimasto prigioniero degli imperiali in Castel Sant’Angelo insieme al papa244. Dopo un opportuno elogio del figlio di Iacopo, il cardinale legato in Francia Giovanni Salviati, il Pio non mancava d’in- citare alla resistenza: «Dimostrate non è captivo l’animo, ma solo il corpo. In que- sto regno in tutte le chiese se fano oratione continue per Nostro Signore, siché non si manca col spirituale et temporale di adiutarvi». Ma se l’aiuto spirituale era (forse) cominciato, quello temporale tardava a concretizzarsi, nonostante l’annun- ciata discesa del Lautrec in Italia245. Nel frattempo, oltre ad offrire le loro «oratio- ne», i francesi come di consueto volevano qualcosa di concreto, come dimostra la dichiarazione di Alberto relativa alle sue iniziative per far dare il cappello cardina- lizio al cancelliere Antoine Du Prat, lo stesso che nel 1520 Alberto aveva diffidato dal nutrire grandi ambizioni ecclesiastiche246. Questo zelo mostra quanto Alberto, in collaborazione remota col datario247 e ravvicinata col legato248, non fosse ancora “finito” dopo il Sacco. Il re manifestò verbalmente l’intenzione di difendere Novi e recuperare Carpi249. Pochi giorni dopo il Pio accettò l’«ordine diabolico» di San Michele, tante volte rifiutato in precedenza. Esso sanciva la resa di Alberto alle vuote cerimonie galli- che e, sebbene gli fosse conferito in nobilissima compagnia (Enrico VIII, e due con- dottieri di fama come Napoleone Orsini e Guido Rangoni) rappresentò in effetti il suggello della fine della sua carriera diplomatica250, perché si vociferava già di un accordo col duca di Ferrara251.

244 Alberto Pio a Iacopo Salviati (e non come in SVALDUZ 2001, p. 308 «al cardinale Salviati»), Compiègne, 12 settembre 1527 (CS I 238, cc. 166-167, in Appendice 2, n. 11). 245 Il cardinale Giovanni Salviati a Clemente VII, Compiègne, 9 e 30 settembre 1527 (ASV, Segr. Stato, Principi, 4, 211 e 213) sui movimenti del Lautrec. 246 Data a Compiègne, 9 settembre 1527, originale in latino su pergamena e con sigillo (BNF, Dupuy 452, f. 39); cfr. SVALDUZ 2001, p. 246. Cfr. supra, p. XXIV. 247 Ibid.: «confestimque ipsis litteris tradditae fuerunt R.do Domino Episcopo Veronensi [Giberti] iam Datario servandae». 248 Il cardinale Giovanni Salviati a Baldassarre Castiglione, Compiègne, 18 settembre 1527 (EHSES 1893, p. 251): «Io havevo operato con molte persuasioni tanto con questo cancelliere di Francia, ancoraché havesse bolla amplissima dal Papa, che li prometteva di crearlo cardinale alla prima creatione, et non lo creando voleva, si intendesse creato, et havesse attestatione del conte di Carpi et del cavaliere Casale». Il Du Prat (o Duprat) fu creato cardinale il 21 novembre 1527. 249 SANUTO 46, 185 di Franza, 26 settembre 1527: «disse il Re voria si mandasse zente in aiuto di Novi, loco del signor Alberto di Carpi, che’l duca di Ferrara tiene, cussì etiam si recuperi Carpi. Al che esso Orator disuase, dicendo si vegneria a la guerra con ditto Duca: el qual a la fin disse si scri- vi almen lettere gaiarde». 250 SANUTO 46, 194 di Franza, 30 settembre 1527: «havia facto de l’ordine di San Michiel cinque, primo el re d’Inghaltera, il fiol del duca di Savoia, el conte di Languilara [Napoleone Orsini], el signor Alberto da Carpi, et il conte Guido Rangon». 251 Ibid., pp. 336-337, breve del 24 settembre 1527: «[Alfonso d’Este] vuole che’l Re Cristianissimo di Franza li conceda, a nome del signor Alberto de Carpi, il castel di Carpi, con la rocha nuova, stante che’l prefato illustrissimo intendo che’l Re excellentissimo prefato li à dato in Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico LV

Dall’Italia non venivano notizie molto confortanti252 e l’impresa di Lautrec avanzava lentamente253, ma almeno il papa riuscì a sfuggire alla prigionia di Castel Sant’Angelo e a rifugiarsi ad Orvieto. Il legato Salviati gli scrisse una calorosa gra- tulatoria254, e continuò a riferirsi ad Alberto come un consigliere fidato in varie materie255, sebbene i tramiti diplomatici fossero ormai differenti256. Una piccola prova del ruolo attivo di Alberto anche in Francia è che si diceva pronto al compromesso sul divorzio di Enrico VIII pur di evitare lo scisma anglica- no257. Il papa si rallegrava della convalescenza del Cristianissimo e sperava di rista- bilire rapporti normali, immaginando un incontro in Provenza258 che in effetti sarebbe avvenuto cinque anni dopo, in occasione delle nozze di Caterina de’ Medici con Henri d’Orléans previste dal Pio già nel 1524.

«HORA È PUR DISTRUTTA L’ARCHIMIA DELLA CORTE ROMANA»

Alberto, forzato all’otium, si dedicò alla polemica teologica contro Erasmo, il quale cercava di prevenirne i danni scrivendo al papa, più preoccupato degli scrit- ti del Pio che non del sacco di Roma259. Avrebbe voluto evitare la pugna gladiato-

Franza compenso al signor Alberto, già signor di queste terre»; 618, 16 febbraio 1528: «Et perché Mendula era del signor Alberto, se obbliga Sua Santità dar un cambio a dicto signor Alberto». 252 Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, 4 ottobre 1527 (BCV, Carteggi Canossa, Pio, 39): «S.re Lione [Grillenzoni?] se partì da questa terra et se bene le cose de Italia sono in tale termine che con più ragione et minore risico si poterebbe satisfare al iusto desiderio vostro pure como ho detto non credo che de questo canto se tenti de satisfarsi». 253 Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, 11 ottobre 1527 (BCV, Carteggi Canossa, Pio, 40): «circa il levare l’assedio da Novi» (cfr. SVALDUZ 2001, p. 309). 254 Il cardinale Giovanni Salviati a Clemente VII (in Orvieto), Parigi, 27 dicembre 1527 (CS I 238, c. 204). 255 Il cardinale Giovanni Salviati a Iacopo Salviati (in Orvieto), 1 febbraio 1528 (EHSES 1893, p. 254) su Giovanni Staffileo: «et in fine con la speranza del cardinalato farà ogni cosa, in che il conte di Carpi et io l’habbiamo confortato assai, maxime in quella sua gita d’Inghilterra, perché facesse buon ufficio». 256 Iacopo Salviati a Francesco I, Orvieto, 10 febbraio 1528 (BNF, Fr. 3070, f. 105; MOLINI 1837, p. 11). 257 Il cardinale Giovanni Salviati a Iacopo Salviati [a Orvieto], 15 marzo 1528 (EHSES 1893, p. 255): «Al conte di Carpi pare, che il desiderio, che il re d’Inghilterra della disunione del matrimonio non sia tanto contrario al desiderio, che mostra havere della pace, quanto pare a Vostra Signoria, et credo, molto bene possa star insieme l’uno et l’altro». 258 Iacopo Salviati al cardinale Giovanni Salviati in Francia, [Orvieto?], 18 marzo 1528 (CS I 238, c. 205). 259 Erasmo a Clemente VII, Basilea, 3 aprile 1528 (ERASMO 1928, pp. 378-379; n. 1987): «Ut omit- tam breuitatis studio Romanae calamitatis deplorationem, que nulli pio [sic] non acerbissima fuit, beatissime Pater, non tantum suspicor verum etiam propemodum habeo compertum – partim ex voci- bus tue sanctitatis quas oratores quidam retulere, partim e libellis duobus, quorum alterum ad me misit Albertus Carporum Princeps, alter inter tua famulitia versabatur, nullo quidem titulo, sed eui- denter stilo referens autorem Hieronymum Aleandrum archiepiscopum Brundusinum – nonnullos Erasmum apud S. T. insimulare conatos, quasi vel clam faueam Luterano negocio vel certe praebue- rim occasionem». LVI Marcello Simonetta ria con Alberto e con Aleandro (rimase sempre convinto che il vero autore della Responsio fosse il raffinato scrittore di origine trevigiana, e che il principe carpi- giano non fosse che un molesto e modesto prestanome), nell’interesse di Cristo e della repubblica cristiana e a sfavore di Lutero. Vi è un’altra polemica alla quale forse il nostro esule prese discretamente parte. Non sappiamo se fu lui l’ispiratore della pungente requisitoria scritta nell’estate 1528 da un tal Alberto Fantoni, segretario del Pio, contro una bolla papale per la quale si deputano giudici nella causa della fede, con revocare li passati, che Luthero non l’harebbe saputo dimandare più al suo proposito, et in favore de’ suoi seguaci. [...] Hora perché hanno condannato più mesi sono un Brachino [Berquin], che ha qualche favore d’alcuni, sono revocati, et commesse tutte le cause della fede, come ho detto a secolari, et utinam tutti almeno buoni Catholici; ma buona parte di loro signi- feri di Lutheriani, che dal primo Presidente in fuori di questo parlamento, et quello di Tolosa, fece, tutti gli altri sono o fautori aperti de’ Lutheriani, o almeno notati, et mac- chiati d’una pece; due Italiani sono tra essi, uno de’ quali, so io disse, palam, quando intese la rovina di Roma, hora è pur distrutta l’archimia della Corte Romana. Purtroppo non abbiamo potuto identificare l’autore italiano di questa frase mali- ziosissima che equiparava il Sacco di Roma con la distruzione dell’alchimia curia- le, come a dire che il Papa era un Anticristo Alchemico! Il secondo italiano anoni- mo diceva anche di peggio: L’altro non disputa mai altro, che Luther’ essere stato un Archangelo mandato dal Cielo, et sono secolari, li quali insieme con gli altri che non sono che Poeti, o meri iuriscon- sulti, tanta cognitione hanno delle cose della fede, quanto che hanno udito qualche volta la Messa, et cantare vespero. È possibile, che tanta negligenza si sia usata in una cosa di sì grande importanza? Non si ricorda Nostro Signore quanto tempo e che questa setta cercava deponere questi santi giudici, e impetrare quello hanno fatto hora col mezzo del Langie, che è ancora lui della setta […] Perdonatemi ch’io mi creppo di dolore, e veden- do il scandalo grande che presto averrà, che vi dichiaro la corte non essere netta di que- ste heresie ma una parte inclinarli260. Il Langie, cioè il signore di Langey, era quel Guillaume du Bellay, che Alberto aveva conosciuto bene a Roma, e che era in odore di luteranesimo261. La virulenta accusa contro la “setta” luterana dunque si estendeva quasi indiscriminatamente a tutta la corte di Francia, ed è possibile che in tale risentimento ultracattolico ci fosse lo zam- pino del Pio. Infatti questo Fantoni era un familiare di Alberto262, come apprendiamo da una lettera in risposta scritta dal Sanga, l’ex segretario di Giberti: «Mi duole assai l’indisposizione del Conte di Carpi, sì per l’osservanza, che ho a sua signoria, et desi- derio, che tra molte afflittioni dell’animo godesse almanco di sanità...».

260 [Alberto Fantoni] a Pietro Paolo [Crescentio], Parigi, 1 luglio 1528 (Lettere di Principi, II, 1581, 103v-104v); cfr. ALONGE 2013, pp. 166-167. 261 Si veda la bella biografia di BOURRILLY 1905. 262 [Gian Battista Sanga] a [Alberto Fantoni] [in Francia], Viterbo, 15 luglio 1528 (Lettere di Principi, II, 1581, 107r-108r). Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico LVII

Purtroppo la «sanità» (non la santità!) del nostro povero carpigiano era sempre più mal ridotta. Erasmo non smetteva di martellare i suoi amici chiedendo aiuto nel placare la Ecclesiae procellam causata dal “vanissimo rumoreggiare”263 del duo Aleandro-Alberto, artefici di una incipiente tirannide dello spirito264. Ma l’unica risposta ad Erasmo che ci è pervenuta è scritta, guarda caso, da quel Berquin men- zionato nella virulenta lettera del Fantoni, messo sotto processo più volte e infine condannato per eresia il 17 aprile 1529 (chissà se fra i ventimila spettatori del suo rogo c’era anche Alberto!). Ora è proprio il Berquin a consigliare all’umanista di Rotterdam di non opporsi frontalmente ad Alberto: non era raccomandabile offen- dere l’amor proprio di un uomo che era protetto sia dal legato Salviati, sia dal papa265. Il 23 dicembre 1528, Erasmo informò Berquin che stava per rispondere direttamente ad Alberto, per pregarlo di non pubblicare la sua opera, che in realtà era già in circolazione266. Riconoscendo il ruolo ufficiale di Alberto come legato pontificio presso il Re Cristianissimo, il che in effetti non corrispondeva al vero267, Erasmo cercava nuovamente di spegnere il fuoco, ma senza riuscirci268. Ma erano faccende molto meno spirituali che preoccupavano allora Alberto, ritrovatosi senza risorse in quel popoloso deserto che appellano Parigi. Tentò più volte di rivolgersi al gran maestro Montmorency, chiedendo favori269 o reclamando pagamenti arretrati270. Scrisse anche alla madre del re, alla quale in drammatici momenti era stato utilissimo, cercando di fornirle informazioni di qualche impor- tanza271. Esasperato per la mancanza di risposte, indirizzò infine al gran maestro una lunga lamentela, la cui icastica conclusione merita di essere riportata qui: solamente dirò ancora che la ragione richiederebbe che almeno si tenesse tanta memo- ria dei servizi che io ho preso la pena di fare al vostro padrone con tutta la buona fede

263 Erasmo a Cristopher da Stadion, Basilea, 26 agosto 1528 (ERASMO 1928, p. 448; n. 2029). 264 Erasmo a Peter Tossanus, Basilea, 3 settembre 1528 (ERASMO 1928, p. 472; n. 2042). 265 Louis Berquin a Erasmo, Paris, 13 ottobre 1528 (ERASMO 1928, p. 525; n. 2066): «Si decreui- sti aedere aut ad illum mittere Responsionem tuam, vide (ut soles) ne aut offendas illius philautiam, aut illi nimium blandiri videaris. Homo est Pontifici gratissimus, et apud illius nepotem, Cardinalem Salviati, qui hic agit legatum, magni». 266 Erasmo a Louis Berquin, Basilea, 23 dicembre 1528 (ERASMO 1928, pp. 540-541; n. 2077). 267 Era piuttosto un consigliere informale del legato; cfr. ancora il cardinale Giovanni Salviati a Iacopo Salviati [in Roma?], 4-6 gennaio 1529 (EHSES 1893, p. 261): «M. Francesco da Colle si è par- tito questo giorno per Parigi, dove li ho commesso, che raguagli d’ogni cosa il conte di Carpi et [...] della medesima opinione è il conte di Carpi». 268 Erasmo ad Alberto Pio, Basilea, 23 dicembre 1528 (ERASMO 1928, pp. 544-5; n. 2080; SEMPER 1999, pp. 123ss. e 284). 269 Alberto Pio ad Anne de Montmorency, Parigi, 9 gennaio [1528?] (BNF, Fr. 3019, f. 17) e 5 apri- le 1528 (Chantilly L-XIV 205) in favore di un barone napoletano esiliato. 270 Alberto Pio a [Anne de Montmorency?], Parigi, 2 febbraio 1529 (Fr. 3005, f. 191, in Appendice 2, n. 12). 271 Alberto Pio a Luisa di Savoia, Parigi, 13 marzo [1529?] (BNF, Fr. 3005, f. 148). La lettera riguar- da un viaggio sospetto del generale dell’ordine francescano, allora il filo-cesariano Antonio de Calcena. Ringrazio Remo Guidi e frate Pacifico Sella per avermi aiutato ad identificare il personaggio. LVIII Marcello Simonetta

e diligenza che è possibile ad un servitore quanta l’imperatore ne tiene dei disservizi che gli ho fatti272! Evidentemente non serviva a nulla ricordare i passati favori e sacrifici, ed Alberto da uomo pratico cercò invece di influenzare le decisioni francesi dall’Italia. Era rimasto in contatto con alcuni fiorentini durante l’assedio imperia- le, e faceva pressione perché non veniva sostenuto a sufficienza dalla Francia273. Tuttavia l’ambasciatore francese a Roma, il vescovo di Tarbes, subito dopo la trionfale partenza di Carlo V da Bologna, insisté che al conte di Carpi andava subi- to restituita la sua terra, e che le sue rimostranze divenivano così acute da richie- dere qualche urgente provvedimento274. A poco servì anche la consolatoria inviatagli dall’erudito vescovo di Carpentras, Iacopo Sadoleto, il 18 luglio 1530275. Ormai la parabola di Alberto era giunta alla fine. Morì a Parigi all’inizio di gennaio, e stavolta le suppliche della vedova276 poco dopo la morte del marito ebbero, a quanto pare, un risultato. Infatti da una lista dei pensionati del re si deduce che la tanto sospirata pensione annuale di 10mila libbre sia stata poi versata «A la contesse de Carpi que luy est deu à cause de feu son mary»277. Non sappiamo se la pensione di Alberto continuò ad essere erogata. Di sicuro però il credito dello zio fu ereditato278 e ampliato dal nipo- te, Rodolfo Pio279, lo stesso che commissionò il curioso monumento funebre oggi

272 Alberto Pio ad Anne de Montmorency, Parigi, 23 maggio 1529 (Chantilly L-II 187): «seulle- ment diray davantaige que la rayson vouldroyt que au moins il fust tenu deça tant de memoyre des services que j’ay mis peine de faire a vostre maistre avec toute la bonnefoy et diligence qu’est possi- ble à ung serviteur que l’empereur tient des desservices que je luy ay faictz». L’ultima lettera è la più laconica: Alberto Pio ad Anne de Montmorency, [Parigi?], 29 aprile 1530 (Chantilly L-XII 56). 273 Francesco Petrucci ad Alberto Pio, Firenze, primo marzo 1529 (BNF, Fr. 3096, f. 27; MOLINI 1837, pp. 137-140; cfr. SEMPER 1999, p. 89). 274 Il vescovo di Tarbes a Francesco I, Roma, aprile 1530 (BNF, Fr. 3005, 35; SEMPER 1999, p. 270, in Appendice 2, n. 13). In questa lettera ritroviamo molti degli attori del nostro racconto, fra cui il Raince. 275 SEMPER 1999, pp. 295-6. 276 Cfr. le due lettere di Cecilia Pio Orsini ad Anne de Montmorency, Parigi, 9 gennaio [1531] (BNF, Fr. 3038, ff. 63-65). 277 AN, J 964, n. 66: Cecilia è menzionata all’ultima riga dell’ultima carta. 278 Cfr. CS I 351, g, 6, cc. 122-125: Documenti che concernono una differenza di credito e debito tra donna Cecilia Orsini de’ Pii vedova di Alberto Pio conte di Carpi, come madre e tutrice di Caterina e Margherita figliuole ed eredi del detto Conte da una parte; e Lorenzo del fu Iacopo Salviati e i fra- telli dall’altra; a) Lodo pronunziato da Antonio Pucci cardinale dei SS. Quattro, arbitro eletto dalle parti sotto dì 7 luglio 1534. b) Confessione fatta da donna Cecilia Orsini al Salviati di essere stata sodisfatta di quello che dovea darle a forma del suddetto lodo, del 7 novembre 1534 (copie autenti- che). Cfr. Rodolfo Pio a Ambrogio Ricalcati, 6 marzo 1535 (PIO 1962, pp. 113, 179, e 259, 23 set- tembre 1535 sull’eredità di Alberto Pio contesa fra Camillo e la vedova Cecilia Orsini su Meldola; cfr. 284: Ambrogio Ricalcati a Rodolfo Pio, Roma, 5 novembre 1535: «In verità Mons. mio io prati- co il sig. Camillo e lo trovo galantissimo signore et vedo che parla così honoratamente»). 279 Rodolfo Pio ad Anne de Montmorency, Roma, 27 gennaio 1531 (BNF, Fr. 3012, f. 102 in MOLINI 1837, pp. 361-362): «qual servitore sia stato il povero conte di Carpi mio zio a la Maestà del Re, sino a la morte...» Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico LIX al Louvre che effigia Alberto incapace, anche in letto di morte, di starsene quieto. Fu seppellito in abito da francescano, ovvero da cordellier280.

Carpi diem La sfortuna postuma di Alberto cominciò con Tomasino de’ Bianchi, che come abbiamo visto all’inizio nella sua Cronaca modenese gli riservò un ritrattino mali- zioso quale «signor faceva profession de granda dotrina, ma el saperne troppo ge ha più presto nociuto che fatto apiacere»281. L’attacco al saccentone sarebbe stato facilmente respinto dall’Aleandro. Una testimonianza sorprendente del perdurare dei pregiudizi contro Alberto ce la offre il “flagello dei principi”, Pietro Aretino. Vale la pena di notare che in alcu- ne lettere del dottor Gian Francesco Nigrino veniva citato come membro dell’en- tourage filofrancese di Giberti Achille della Volta282, il brutto ceffo che pugnalò l’Aretino nel luglio 1525 e ne causò il traumatico allontanamento da Roma. Ora, esiste un’invettiva epistolare contro l’ipocritone Giberti, reperita da Paolo Procaccioli, in cui compare, tre anni dopo la sua morte, «lo ammorbato Alberto da Carpi»283. E grazie a questi dati, si capisce meglio l’accenno nella frottola pasqui- nesca intitolata Coriero mandato da Venere a cercare l’amore: Né par ch’a Cristo increschi di Carpi don Alberto, sfranciosato e diserto tutto quanto284. A Cristo non incresceva molto di Alberto, è vero, e forse neppure della sua patria. Il tragico destino di Carpi, microcosmo che riflette quello dell’Italia, schiac- ciata sotto il peso delle ambizioni altrui, rispecchia l’immagine del Pio che sostie- ne la sedia apostolica nel ritratto delle Stanze di Raffaello, riconosciuto da Stefano Minarelli, che campeggia nella copertina di questo volume. Dopo il Sacco di Roma e lo sventramento, o la “rovina d’Italia”, lo si può dav- vero considerare responsabile e correo in quanto fautore della lega anti-imperiale come volevano i suoi detrattori, dal cardinale Colonna a Tomasino de’ Bianchi? Il Pio non era tanto pio: il suo nome è quasi un ossimoro. Era un diavolo dia- lettico, un persuasore occulto di re, imperatori e papi come Clemente VII, che fu poi travolto come tutta la penisola dalla ferocia barbara dei lanzi – ma è giusto affer-

280 Sui funerali di Alberto, SVALDUZ 2001, pp. 372-374 in AN, H 1778-1880, 68r; cfr. JACQUETON 1892, p. 208, con citazione di Marot: «Temoin le comte de Carpi / qui se fit moine après sa mort». 281 TOMASINO 1865, pp. 198 e soprattutto 202-203. 282 Il bolognese Achille della Volta fu il servitore di Giberti che sfregiò l’Aretino il 28 luglio 1525, cfr. ARETINO 2012, pp. 137 e 306-307; LUZIO 1888, p. 33. 283 PROCACCIOLI 2015, in cui l’autore raccoglie i documenti della lunga controversia e pubblica il testo di una importantissima lettera inedita scritta da Aretino nell’ottobre 1534, subito dopo l’elezio- ne di Paolo III. 284 ARETINO 2012, p. 109, datata fra l’8 e il 15 marzo 1527, dunque prima del Sacco, cfr. Pax vobis p. 125 cit. in Minarelli, p. 258. LX Marcello Simonetta mare che tutti gli stupri e gli omicidi, tutte le devastazioni selvagge pesassero sulla sua coscienza? In quella durissima lotta per la sopravvivenza che chiamiamo col nome edulcorato di “Rinascimento”, Alberto mostrò machiavellianamente “il viso alla fortuna”, usando la Volpe non meno del Leone, ma rimanendo spesso intrap- polato nelle sue stesse arti e reti. Navigò a vista, e a lui si può a buon diritto attri- buire l’antica massima Naufragium feci, bene navigavi. La sua filosofia si potrebbe scherzosamente ribattezzare Carpi diem – una sorta di epicureismo opportunistico dettato dal clinamen degli atomi politici impazziti. Non si dimentichi che il De rerum natura di Lucrezio gli fu dedicato in tono ipo- critamente critico dal Manuzio nel 1515, l’anno di Marignano che rivoluzionò – una volta di più – i delicati equilibri della “bilancia del potere” italiana. Alberto aveva un’enorme energia e vitalità, nonostante la gotta lo tormentasse quasi sempre dai trent’anni in poi. Era conviviale e cavalleresco, come vediamo nelle splendide lettere di Lodovico Alamanni e anche in quelle di Baldassarre Castiglione. Amava la buona tavola, ed era un bon vivant tout court, con buon gusto artistico, architettonico e letterario. Era pure un incorreggibile spendaccione – a dispetto delle importanti acquisizioni e scoperte presentate in questo volume, resta un mistero come coi suoi magri redditi si sia potuto permettere uno stile di vita spesso così lussuoso e ostentato. Non è davvero una sorpresa che sia finito sul lastrico, e su questo Tomasino lo sparagnino modenese non aveva tutti i torti… Fra le sue molte qualità bisogna riconoscergli l’intelligenza, la presenza di spi- rito e la generosità (ovvero prodigalità), ma fra i suoi vizi vi erano l’iracondia, la vanità e l’orgoglio luciferino. Si muoveva sul confine sempre instabile e tumul- tuoso fra anarchia e ordine, o fra fortuna e virtù. Era insomma l’uomo del Rinascimento per eccellenza, nel senso supremamente individuale indicato da Jacob Burckhardt nel suo intramontabile classico La civiltà del Rinascimento. Se Stendhal, l’autore che ha compreso meglio di chiunque la storia “eroica” d’Italia, avesse scritto quella Histoire de l’énergie che si riprometteva di comporre, Alberto vi avrebbe ricoperto un ruolo di primo piano. Alberto Pio da Carpi, un “diavolo” diplomatico LXI

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Fabio Forner

I nuovi documenti Ancora oggi manca un vero studio monografico su Alberto Pio e ciò rappre- senta uno dei desiderata dalla storia culturale italiana. Fra le difficoltà più rilevan- ti che si frappongono a chi intenda dedicarsi ad una tale ricerca c’è sicuramente da un lato l’assenza di un’edizione affidabile dell’epistolario e, d’altro canto, l’ab- bondanza delle testimonianze, manoscritte e a stampa, che riguardano Alberto e che sono state solo in parte studiate, con scopi e prospettive eterogenee1. I saggi di questo volume si concentrano in special modo sulle lettere oggi con- servate alla Rare Book & Manuscript Library della University of Pennsylvania a Philadelphia sotto la segnatura Ms. Coll. 637, recuperando inoltre le ricerche effet- tuate da Valeria Tomasi nel 2008 presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, Fon- do Falcò Pio di Savoia sul carteggio di Alberto Pio e su altri documenti; tali studi furono effettuati nell’ambito dei lavori preparatori per la pubblicazione della Sto- ria di Carpi, allora in cantiere per la Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi. Le epistole conservate a Philadelphia, certamente estratte da un frammento del- l’archivio di Alberto, costituiscono parte di un carteggio di tipo diplomatico che si rivela particolarmente interessante per le dettagliate e informate descrizioni relati- ve ad avvenimenti d’importanza non secondaria2. Considerata tuttavia la statura intellettuale del principe di Carpi, fra le numerose epistole non potevano certo mancare accenni a problemi che riguardano, fra l’altro, la sfera personale, quella religiosa e, più in generale, quella culturale. Nelle pagine seguenti vorrei presenta- re e commentare in particolare alcuni passi di queste lettere.

Il rapporto con l’Impero Il fondo Lea è costituito anzitutto da parte della corrispondenza di Alberto durante il suo servizio come oratore imperiale presso la corte pontificia e spiega con chiarezza, questo è forse il risvolto più interessante da un punto di vista bio- grafico, le motivazioni del ‘cambio di fronte’ politico-diplomatico successivo alla morte dell’imperatore Massimiliano. Dal fitto scambio di lettere di Alberto con l’imperatore e il potente, fidato consigliere Matthäus Lang, nonché da quello di Alberto con i suoi collaboratori e informatori, si delinea in tutta la sua complessi- tà la situazione politica, economica e personale di Alberto negli anni della sua mas-

1 Cfr. DIONISOTTI 1995, p. 93. 2 Per la storia di questo fondo di vedano qui i saggi di Anna Maria Ori e Stefano Villani. 2 Fabio Forner sima visibilità politica3. Andato in disgrazia presso il re francese Luigi XII, verso la fine del 1511 il Pio si era già mosso offrendo, con grande successo, i suoi servigi alla parte imperiale e in particolare proprio all’imperatore Massimiliano, del quale egli era sempre stato formalmente servitore4. Grazie alla sua nuova posizione Alberto in pochi anni, col favore della sorte, capovolse a suo favore la situazione e ottenne il potere su tutto lo stato di Carpi, sconfiggendo in un sol colpo i parenti e l’ingombrante duca di Ferrara Alfonso I. I riconoscimenti imperiali portarono in dote ad Alberto anche il ruolo di orato- re presso il papa: posizione fonte, certamente, di grandi privilegi, ma anche di obblighi ai quali il principe riusciva ad ottemperare, stando alle sue lamentele, con un dispendio economico e personale che si faceva sempre più pesante, ma che era evidentemente dato per scontato da parte imperiale. Il carteggio Lea mostra chia- ramente che già pochi anni dopo l’entrata in servizio di Alberto come oratore impe- riale, il rapporto con Lang cominciava a incrinarsi. Il 26 novembre 1515 Alberto si lamentava del mancato invio di corrispondenza diplomatica da parte di Lang, che, anche quando scriveva, era parco di quelle informazioni che invece gli sarebbero state utili presso il papa. Non gli occorreva nemmeno essere troppo prolisso nelle sue risposte, dato che Lang non scriveva nulla di approfondito circa gli affari cor- renti, e non poteva finire di meravigliarsi che già da molti mesi gli scrivesse «in modo così parco e poco approfondito sugli affari pubblici, da sembrare fuori dal contesto politico»5. Il tono quasi ironico, la notizia che ormai da un anno Lang non lo informava delle ultime novità rilevanti presso la corte imperiale fanno capire che il ruolo di Alberto a Roma già dalla fine del 1514 non era più giudicato così rilevante e ciò provocava allarme e frustrazione nel principe di Carpi. Certo è che presso l’imperatore i servizi di Alberto non erano più apprezzati: qualche frizione c’era già stata verso la fine del 1513, come si evince dalla lettera del 28 ottobre di quell’anno indirizzata a Lang; il conte di Carpi era costretto a giu- stificare il proprio comportamento per discolparsi dall’accusa di non aver eseguito quanto richiestogli; tra l’altro, stava già per essere affiancato da un nuovo oratore imperiale, soluzione che Alberto ovviamente non condivideva. Ma i rapporti con la corte imperiale e soprattutto con Lang, con il quale era evi- dentemente nata una certa confidenza, erano nel 1513 ancora in buono stato: Alber- to nella stessa lettera dava al fidato consigliere imperiale, ormai cardinale, anche un interessante consiglio turistico sulla via da seguire per giungere a Roma, cioè la via Flaminia:

3 Su Lang in particolare: SALLABERGER 1997. 4 Su questa parte della vita di Alberto si veda la ricostruzione di: SABATTINI 1994. Sull’attività mecenatesca di Alberto a Carpi: SVALDUZ 2001. 5 Le mie traduzioni si basano sul lavoro di trascrizione di Luciana Saetti. Per una nuova biografia di Alberto Pio 3

Approvo la decisione di Vostra Signoria Reverendissima di venire a Roma per la via Flaminia: vedrà infatti una regione bellissima e amena, e molte città, anche se piccole, e venererà il celebre tempio della gloriosissima Vergine di Loreto; inoltre la strada è più piana e uniforme. Io le sarei venuto incontro in ogni caso per un percorso di uno o due giorni anche se non mi avesse chiamato perché sono molto desideroso di salutare Vostra Signoria Reverendissima e godere della sua presenza. Non sfugge nelle parole di Alberto un altro degli aspetti peculiari della sua figu- ra intellettuale, cioè la genuina venerazione mariana che si esplicita qui nell’atten- zione per i luoghi deputati al culto della Vergine e che trova tante attestazioni nel- le opere successive6. La fama della casa di Loreto, del resto, era tale che lo stesso Erasmo da Rotterdam, certamente alieno da slanci di irrazionale venerazione per la madre di Cristo e anzi criticato da Alberto proprio per una certa irriverenza nei con- fronti della Vergine, ideò una sobria liturgia dedicata al venerato luogo7. Anche Giulio II, affascinato dai resti di quella che si riteneva la casa di Maria a Nazareth, iniziò a Loreto importanti lavori di restauro e valorizzazione8. L’interesse per il luogo era evidentemente diffuso nella famiglia Pio perché più tardi si impegnerà in prima persona con lavori di ristrutturazione e abbellimento del santuario mariano anche il cardinale Rodolfo Pio, nipote prediletto ed erede spirituale di Alberto; Rodolfo operò con l’ausilio di architetti di Carpi, tra cui Giovanni Boccalino padre del più famoso letterato Traiano9. Nel 1516 i rapporti con la parte imperiale non erano migliorati, anzi, in una let- tera a Lang del 30 aprile 1516 Alberto pare ancora più deciso: «Da molti giorni comunque non ho ricevuto lettere da Sua Maestà. Sono tuttavia ritornato qui con- trovoglia, ma egli lo voleva. Solamente non so se verrò annoverato tra i morti,

6 In particolare in PIO 1531, cc. CLXIIv-CLXXIr, tutto il libro IX è dedicato alla venerazione dei san- ti. Qui grande spazio trovano le argomentazioni a favore del ruolo primario di Maria nella schiera dei santi e, quindi, a favore della correttezza teologica degli attributi che le vengono dati in molte pre- ghiere. Erasmo osservava invece che il culto mariano esplodeva talvolta in eccessi tali da toccare l’i- dolatria; basti pensare ad alcuni passi dell’Elogio della Follia, «Vi sono santi utili in più campi, per esempio la Vergine, madre di Dio, alla quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al figlio» (MIL- LER, p. 124: «Sunt qui singuli pluribus in rebus valeant, praecipue deipara virgo, cui vulgus homi- num plus prope tribuit quam filio»); oppure ancora «Quanti sono, infatti, coloro che accendono alla Vergine, madre di Dio, un cero votivo, magari a mezzogiorno, quando proprio non ce n’è bisogno?» (MILLER 1979, p. 134: «Quanta turba eorum qui deipare virgini cereolum affigunt, inque in meridie, cum nihil est opus?»). 7 L’operetta Virginis Matris apud Lauretum cultae liturgia, edita da HALKIN 1977, è una delle più brevi pubblicate in un volume autonomo da Erasmo; la prima edizione uscì da Froben nel 1523; a questa seguirono dallo stesso editore quelle, ampliate, del 1525 e del 1529. La liturgia mariana ebbe poi un discreto successo e l’operetta fu stampata anche in versione italiana (cfr. HALKIN 1977, pp. 89- 92) ed è ancora ricordata e citata da MURRI 1791, p. 58, nel suo trattato sulla casa di Loreto; la litur- gia è comunque rivelatrice del pensiero erasmiano: la venerazione per Maria si giustifica solo per il fatto che ella è madre di Gesù. 8 Cfr. per esempio GRIMALDI 1975, p. 88. I lavori furono affidati, in periodi diversi, a Bramante, Andrea Sansovino, Antonio da Sangallo e a Raniero Nerucci. 9 CECCARELLI 2004. 4 Fabio Forner come suole accadere agli assenti». In tutta la lettera Alberto, che pur proclamava ripetutamente la sua fedeltà nei confronti del Lang, era fortemente critico verso il comportamento del consigliere imperiale: le sue assenze dalla corte di Massimilia- no o da Roma compromettevano, secondo Alberto, il buon esito degli affari che gli venivano commessi a favore dell’Impero. Tutti questi dubbi e proteste di Alberto non trovavano però ancora spazio al livello più alto della corrispondenza diploma- tica, quella cioè inviata direttamente a Massimiliano. La mancanza di informazioni metteva Alberto in grande difficoltà perché, pur nella veste di oratore imperiale, talvolta non era in grado di rispondere a domande di grande rilevanza sulla politica di Massimiliano e ciò era motivo per lui di gran- de imbarazzo. Così scriveva in un lettera senza data e luogo, ma collocabile al 1516: Mi sono molto vergognato quando Sua Santità mi ha chiesto che cosa avesse risposto Cesare – infatti erano presenti, tutti con le loro lettere, gli oratori spagnoli, che aveva- no annunciato a Sua Beatitudine che Sua Maestà si era incontrata con il re Cattolico alcuni giorni prima ed era ancora con lui – di non aver potuto rispondere nient’altro se non che Sua Maestà non aveva risposto. La carenza di informazioni si era fatta endemica nel 1517, visto che il 28 feb- braio, da Malines, Iacopo Bannissi, consigliere imperiale, scriveva ad Alberto di essere dispiaciuto per la mancanza di lettere, e quindi di preziose notizie, che avrebbero dovuto giungere ad Alberto dalla corte imperiale. Sempre nella stessa lettera Bannissi ricordava al signore di Carpi che Lang si era impegnato a fargli finalmente giungere denaro utile a sostenere le spese necessarie alla sua carica di oratore, toccando così l’altro motivo di grande difficoltà incontrato dal Carpi- giano: le spese eccessive, così almeno riteneva Alberto, a cui la sua carica lo costringeva. Con la lettera a Massimiliano del 12 marzo 1517 Alberto decise finalmente di palesare al massimo livello, e cioè proprio all’imperatore, il suo rincrescimento per il fatto di essere sempre tenuto all’oscuro di quanto accadeva presso la corte impe- riale, facendo intendere che tale situazione rappresentava una sorta di privazione de facto della carica di oratore imperiale: Alberto ormai si recava presso il palazzo pontificio solo per avere notizie, non per darle; il conte di Carpi scriveva anche – ma certo non era vero – di non provare nemmeno più vergogna per tale situazione che ormai era divenuta normale, per lui: subito dopo pregava però l’imperatore di tenere conto del fatto che egli si trovava a Roma unicamente per servirlo. Lo stesso giorno Alberto scrisse a Lang in termini ancora più espliciti e duri, ricordando di essere l’unico oratore sempre all’oscuro dei fatti del suo padrone: ciò era causa di grande umiliazione per lui che, oltre a dover sopportare tutte le spese che la sua carica comunque gli imponeva, sommando debiti a debiti, non riusciva neppure a ottenere qualche premio per sé, come giusta ricompensa per gli anni spe- si al servizio di Massimiliano. I debiti che stava accumulando, concludeva iperbo- licamente Alberto, gli avrebbero presto aperto le porte del carcere. Ad una protesta così chiara non mancò, finalmente, una immediata risposta positiva da parte impe- Per una nuova biografia di Alberto Pio 5 riale, come si evince dalle lettere di Alberto del 19 e del 20 marzo 1517 rispettiva- mente a Massimiliano e al Lang: a quest’ultimo Alberto ribadiva di avere final- mente compreso che egli agiva a suo favore presso l’imperatore, caldeggiando una ricompensa per lui sotto la forma di qualche beneficio nel Regno di Napoli. Tuttavia le promesse non furono mantenute: nei mesi successivi Alberto non riscontrò né un più fluido e costante flusso di informazioni, né ebbe una effettiva ricompensa economica, attraverso il conferimento di qualche possedimento nel Regno di Sicilia o a Napoli, che fruttasse una buona rendita. Già nella lettera del primo maggio del 1517 a Lang, trattando delle sue faccende, Alberto ricordava le sue difficoltà e il suo disagio per il fatto di essere oppresso ogni giorno di più dai debiti10. Qualunque fosse la reale situazione finanziaria di Alberto, resta comunque certo che il Carpigiano voleva che Lang fosse messo al corrente della sua insoddi- sfazione per il trattamento, anche economico, ricevuto dalla parte imperiale. Se ai propri referenti alla corte di Massimiliano Alberto presentava in modo chiaro ma pacato le proprie necessità, più esplicito era con i suoi sottoposti o con i collabo- ratori, ai quali prospettava apertamente l’abbandono della carica di oratore impe- riale. Dalla lettera di Iacopo Bannissi ad Alberto del 21 settembre del 1517, sap- piamo che le spese che Alberto doveva affrontare per continuare a servire Massi- miliano erano sempre più ingenti; Alberto valutava dunque altre possibilità, come quella di servire solo il Papa: ad una tale prospettiva il Bannissi ribadiva però chia- ramente la sua contrarietà e cercava di calmare Alberto, ricordandogli che il teso- riere imperiale, Jakob Villinger, aveva avviato le pratiche per la restituzione di alcune somme ad Alberto attraverso l’istituzione di una «provvisione ordinaria»11 . Inoltre, ricordava il Bannissi, le cose dei papi sono temporanee; chi invece serve un re, serve di solito anche i suoi eredi. Una lettera di grande interesse in relazione alla biografia di Alberto è probabil- mente l’ultima – purtroppo senza data – fra quelle indirizzate a Lang. Qui Alberto esponeva i motivi di grande amarezza che giustificavano l’interruzione del suo rap- porto con la corte imperiale, dopo gli anni passati al servizio di Massimiliano I. Forse l’epistola è precedente l’arrivo al trono di Carlo V ed è da datarsi al 1518, l’ultimo anno di regno di Massimiliano: se così fosse, proverebbe che in quell’an- no Alberto, ormai da tempo estromesso dal gruppo di coloro che godevano il favo- re dell’imperatore, aveva già preso la decisione di lasciare il servizio di oratore imperiale. Mentre Lang era rimasto fra i più stretti collaboratori di Massimiliano e avrebbe conservato la sua posizione anche alla corte del nuovo e ancor più poten- te Kaiser, grosse difficoltà parevano sorgere per Alberto Pio. Egli proclamava qui di aver con continuità e devozione servito e difeso gli interessi dell’Impero, ma reclamava contemporaneamente il pagamento di somme che servivano per quel

10 Alberto sosteneva a Roma spese molto elevate: aveva in affitto palazzi costosi e 64 persone al suo servizio: non risulta sia andato in bancarotta. Sui possibili cespiti di guadagno vedi qui MINA- RELLI. 11 Sul Villinger: BAUER 1965 e JACOBY 2011 e la bibliografia lì citata alla nota 9. 6 Fabio Forner servizio. Pagamenti che i banchieri Fugger, i finanziatori dell’impero, quindi più tardi anche di Carlo V, parevano invece procrastinare. È quindi lo stesso Alberto a chiedere a Lang di sollecitare l’imperatore a sollevarlo dall’onere del servizio come oratore: d’altro canto, era stato proprio Lang, a suo tempo, a propiziare la scelta di Alberto come oratore imperiale alla corte papale. Ecco le parole chiarissi- me di Alberto: Ma mi aspetto dalla Cesarea Maestà una risposta con cui sollevi me da queste spese e fatiche e liberi se stessa dall’incomodo e dal dispendio; perciò prego e scongiuro Vostra Signoria Reverendissima che, come è stato promotore, per sua esimia umanità e libera- lità, della mia iscrizione nell’albo dei servitori di Cesare, sebbene non sia stato mai incluso in quello dei tesorieri, che si adoperi con la medesima benevolenza verso di me e accortezza con Cesare perché mi conceda, sempre fatta salva e intatta la mia gratitu- dine verso Sua Maestà, di potermi votare agli ossequi di un qualche principe che possa e voglia non solo nutrirmi ma anche elevare la mia condizione, dopo che la Maestà Cesarea non ha saputo o voluto fare nessuna delle due cose quando era opportuno. Alberto ribadiva poi di non avere scelta e di essere costretto a chiedere egli stes- so di poter servire qualche altro principe anche se, se la sua situazione economica fosse stata più florida, avrebbe preferito ritirarsi a vita privata, perché era sicuro che non avrebbe mai potuto trovare nessuno magnanimo verso di lui come Massi- miliano. Le necessità economiche, dunque, e la volontà di godere di quei beni che aveva difeso e accumulato in tanti anni di servizio diplomatico, portarono Alberto verso altre strade, ossia verso il servizio per i francesi. Lang e l’imperatore non dovevano dunque considerare la decisione di Alberto come un tradimento. Più che una scelta, il passaggio al servizio di altri potenti era per Alberto una necessità resa tale dal comportamento nelle vicende politiche italiane prima di Massimiliano e di Lang e, in seguito, soprattutto di Carlo V. La scelta di passare ai francesi, inoltre, stante la particolare vicinanza ideologi- ca di Alberto al papato, era resa più complessa delle continue rivendicazioni auto- nomiste della chiesa gallicana nei confronti del papato, rivendicazioni culminate con la Prammatica sanzione (1438). La durezza, talvolta incomprensibile, delle posizioni francesi viene sottolineata in tutta la corrispondenza diplomatica di Alberto12; solo Leone X riuscì a far abolire la Prammatica sanzione con il concor- dato di Bologna del 1516, ma nemmeno in seguito le rivendicazioni francesi ces- sarono. Certamente dopo Bologna, con il timido riavvicinamento del papato alla Francia, anche la posizione di Alberto a Roma era diventata ancora di minor peso. Interessante a questo riguardo è una lettera ad Alberto Pio, già entrato a servizio

12 Significativa per esempio è la lettera del 26 agosto del 1513 di Alberto a Lang, dove Alberto narra con estrema minuzia le trattative intercorse tra i francesi e il nuovo papa Leone X per chiudere la vicenda del conciliabolo di Pisa: senza il benestare del papa alcuni cardinali francesi o filo-fran- cesi (Bernardino López de Carvajal, Federico Sanseverino, Guillaume Briçonnet e René de Prie) ave- vano aperto un concilio. Leone X voleva per questi una punizione esemplare. Sul problema della chie- sa gallicana in particolare sul gallicanesimo, sul concilio di Pisa e sul concordato di Bologna almeno AUBENAS-RICARD 1977: il libro I, cap. III di R. AUBENAS, pp. 201-253. Per una nuova biografia di Alberto Pio 7 del Re Cristianissimo, del 21 luglio del 1520 scritta da Giovan Matteo Giberti: non un nemico di Parigi, va sottolineato, ma uno dei massimi referenti del regno di Francia in Italia13. Giberti, con la dovuta circospezione e quasi in uno slancio di sin- cerità, ribadiva con parole chiarissime che la scelta di porsi al servizio dei france- si non era di certo la via preferita né da lui, né da Alberto, ma l’unica realistica- mente praticabile, stanti le incertezze del regno pontificio; «la verità», ribadiva il Veronese quasi con dispiacere, ricordando le parole dello stesso Alberto, era «che non video ubi d’altro lato consistamus». La posizione di Alberto riguardo alla chiesa francese dopo il suo esilio parigi- no cambierà in modo radicale: nelle lettere scritte a Erasmo da Rotterdam non ver- rà più sottolineato alcun contrasto tra la chiesa di Roma e quella francese. Nella stampa parigina del 1529 della prima lettera all’umanista olandese, per esempio, la situazione della chiesa francese viene descritta come idillica e priva di contrasti al proprio interno; si sottolineava qui, inoltre, la lealtà verso Roma di Francesco I, della madre Luisa di Savoia e dell’università parigina, la Sorbona; nessun cenno veniva fatto, invece, alla vera situazione religiosa del regno transalpino: una realtà complicata dai tesi rapporti con la sede pontificia e dalla forte e progressiva diffu- sione delle dottrine riformate in terra di Francia14. Se il regno di Francia divenne alla fine l’unica possibile ancora di salvezza per Alberto, un altro stato, quello ottomano, veniva rappresentato in tutto l’epistolario diplomatico di Alberto, senza sfumature, come la grande minaccia per tutti gli sta- ti europei. Sgomento aveva provocato in Giovan Matteo Giberti la notizia secon- do la quale i turchi sarebbero sbarcati a Pozzuoli, sgomento solo in parte attutito dalla subitanea ritirata del contingente turco15. Ancora più accorata pare la lettera di Alberto del 7 novembre 1517 indirizzata a Massimiliano: si tratta certo di una comunicazione diplomatica provocata dalla volontà di Leone X di compattare i principi cristiani contro il comune nemico. Tuttavia trova qui spazio la richiesta di Alberto di avere una procura specifica per trattare della questione, procura resa necessaria dal fatto che tutti gli altri oratori ne erano già in possesso. La richiesta di Alberto, fatta in un momento nel quale i rapporti con la parte imperiale si pos- sono definire per lo meno già deteriorati, dichiara certamente la volontà del Carpi- giano di ridare un senso alla sua carica di oratore, chiedendo mandato di poter coordinare per l’imperatore un’azione politica nelle cui finalità Alberto credeva fermamente: anche nei Tres et viginti libri, contro tutte le esitazioni di Erasmo, sosterrà che è lecito per i cristiani intraprendere una guerra contro i turchi, sia per difendere l’Europa, sia per liberare i luoghi santi16.

13 Sul Giberti sempre fondamentale: PROSPERI 1969; inoltre: TURCHINI 2000; AGOSTINI-BALDISSIN MOLLI 2012. 14 PIO 2002, p. 202. 15 Si tratta della lettera scritta da Roma il 9 giugno 1520. SIMONETTA ricorda nell’introduzione a questo volume che in quell’occasione Alberto si trovava proprio a Pozzuoli e corse un grave pericolo. 16 Pio 1531, pp. CCXLIIr-CCXLIIIv. 8 Fabio Forner

Elenco di Robe mandate al Signore adi 23 de agosto 1511, (ASCC, APS, b. 45 bis, fasc. 2, n. 15). Trascrizione del testo:

Prima una vesta de veluto negro fodrata de martore Una vesta de raso negro fodrata de Cavreti negri bandata de veluto aleonato1 Uno saio de pichia doro morello fodrato de basoneto negro Una fodra de Lupi Cerveri2 Una fodra de Zaneti de Spagna3 Uno Zipone de veluto beretino e brochato doro Uno paro di Calce de rosa Secha Uno paro de lenzoli da Compagno El Dialogo de ocham

1 Velluto aleonato: velluto di colore fulvo, come il mantello del leone. 2 Lupo cervero: lince, così chiamata perché usata, dopo opportuno addestramento, nella caccia al cervo. 3 Zanetto o gatto di Spagna: roditore oggi estinto, caratterizzato da pelliccia nera sul dorso e bian- ca sul ventre. Per una nuova biografia di Alberto Pio 9

L’attitudine mecenatesca Anche nelle lettere diplomatiche presenti nel fondo Lea conservato a Philadel- phia si intravvedono, come già accennato, gli interessi culturali di Alberto. Per inquadrare però anche nel giusto contesto familiare i nuovi elementi del raffinato mondo intellettuale che lo circondava e che sono ricordati nelle lettere ‘america- ne’, credo sia utile porre attenzione ad una frase scritta da Leonello Pio, cioè il cavaliere, l’uomo d’armi della famiglia, non certo l’intellettuale o l’uomo di chie- sa, al fratello Alberto il 14 marzo probabilmente del 1516: se V. S. pur farà havere benefitii a Rodolpho, serà molto più suo utile chel se serva de l’intrate in studiare che in comprare né prede né calcina; Il Rodolfo di cui si tratta è ovviamente Rodolfo Pio, che divenne in seguito uomo di chiesa e che, all’interno di questa istituzione, anche grazie alla sua gran- de cultura, fu creato vescovo e cardinale, occupandosi anche di delicati affari diplomatici17. La frase di Leonello è significativa in quanto fa capire quale fosse il valore che all’interno della famiglia Pio veniva dato all’educazione e alla forma- zione culturale dei giovani, un valore ancora superiore a quello attribuito al cumu- lo di ricchezze materiali18. L’attitudine di Alberto al mecenatismo si inquadra in una sorta di tradizione familiare che vedeva nel rapporto con i dotti un potente mezzo di stabilizzazione del potere e nella cultura un riparo sicuro dalle avversità della vita19. Le lettere con- servate a Philadelphia apportano qualche novità al riguardo. Un recente contribu- to ha già sottolineato l’importanza di due lettere di Alberto, una indirizzata al teso- riere imperiale Jakob von Villinger, l’altra a Massimiliano I, scritte per ringraziar- li, anche da parte di Leone X, del dono di un mottetto composto da Heinrich Isaac: le parole di Alberto, al di là del significato politico del dono, ci informano del fat- to che il principe conosceva i due musicisti tedeschi e aveva per loro tanta stima da invitarli a recarsi a Roma20. Il principe di Carpi amava la musica e nella sua prima lettera scritta a Erasmo ne esaltava anche l’uso, sebbene moderato e preferibil- mente senza organo, durante le cerimonie religiose proprio come potente mezzo di elevazione spirituale21. L’atteggiamento mecenatesco di Alberto trova ulteriore conferma nelle parole di Iacopo Bannissi che nella lettera CII, databile al 1517, ringrazia il principe per la protezione data a Girolamo Rorario, diplomatico e umanista nato a Pordenone intorno al 1485 da una famiglia che era stata nobilitata dagli Asburgo22.

17 Su Rodolfo Pio rimando ora solo alla voce AL KALAK 2015. 18 Sul rapporto tra i letterati e la famiglia Pio FORNER 2009; cfr. anche VARANINI 2011. 19 Cfr. FORNER-VARANINI 2013. 20 JACOBY 2011. 21 PIO 2002, pp. 258-61. 22 CAVAZZA 2009. 10 Fabio Forner

Ringratio humilmente a la S.a V. de humanità et benignità che usa la S.a V. per singular bontà sua verso M. Hieronymo Roraryo secretario dela Cesarea Maestà, et li resto con quello obligo como se fosse fato tuto in persona mia propria, per esserli debitor de la vita la qualle certo recognosco da casa sua, maxime da la bona memoria de li soi padre et madre et tuti sui, che in grave infirmità mia me lano conservata; perho quanto posso lo recomando a la S.a V., quantunque la doctrina et le virtù sue multo più lo comenda- no, ad sì virtuosa persona come he la S.a V.; ma questo ho voluto scrivere per demo- strare che tuto quello apiacer se li fa cade in mio proprio benefitio, et io resto obligato. Intorno al 1517 Girolamo, come il fratello maggiore Antonio, era impegnato in continui viaggi diplomatici per conto di Massimiliano. La vera e propria attività intellettuale del Rorario, che poi abbracciò lo stato ecclesiastico, si colloca, in real- tà, solo nell’ultima parte della sua vita. L’opera che gli donò non poca fama pres- so i posteri furono i due libri dal titolo Quod animalia bruta saepe ratione utuntur melius homine: pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1648, lo scritto ebbe durante il Settecento numerose ristampe, mosse in particolare dall’interesse che avevano eccitato le discussioni sull’anima degli animali nel dibatto culturale post cartesiano23. Oltre al Rorario, la protezione di Alberto si era estesa, sebbene questa volta su richiesta dell’imperatore Massimiliano, anche ad un dotto tedesco e cioè Iohannes Stabius. A lui probabilmente si riferiva infatti Alberto nella lettera a Mas- similiano del 21 agosto del 1517 quando ricordava: pariter agam pro Domino Stabio, viro docto et de M. V. benemerito, quicquid per me agi poterit, cui etiam huc usque ofitia praestiti libentissime uti vero docto et de M. V. bene merito. Conoscendo l’attitudine di Alberto, non desta sorpresa la sottolineatura della dottrina dello Stabius, qualità che aumentava la volontà del principe di Carpi di aiutarlo, per quanto possibile24. Stabius, poeta laureato, incoronato da Conrad Cel- tis, era molto stimato dall’imperatore Massimiliano e fu nominato storico di corte: Stabius non diede tuttavia mai alle stampe l’opera da lui promessa, ossia una sto- ria dell’Austria e degli Asburgo. Il dotto austriaco era pienamente inserito nei cir- coli umanistici transalpini: fra i suoi corrispondenti vanno ricordati anche Willi- bald Pirckheimer e Ulrich von Hutten, affascinati, in particolare il secondo, dalle idee di Lutero. A quest’altezza cronologica, tuttavia, non si intravvedono nelle parole di Alberto timori per l’atteggiamento religioso di questi dotti umanisti. Nel- la corrispondenza diplomatica non sembrano profilarsi quei dubbi sullo stretto legame tra la cultura umanistica e la nascita della Riforma che invece si faranno granitiche certezze nella lettera scritta fra il 1525 e il 1526 in risposta a Erasmo da Rotterdam e pubblicata a Parigi nel 1529. Da una lettera di Leone Grillenzoni scritta da Bologna il 7 gennaio del 1516 apprendiamo anche del tentativo di Alberto di coinvolgere nel circolo di dotti che

23 Il testo della prima stampa è riproposto con prefazione in RORARIUS 2005. 24 Sullo Stabius: GUENTHER 1987, p. 274. Per una nuova biografia di Alberto Pio 11 egli beneficava un altro letterato di prima grandezza di questo periodo, Pierio Vale- riano, autore, fra l’altro del De litteratorum infelicitate e degli Hieroglyphica25: Io ho trovato qua messer Pierio, et parlatoli a longo, che da poi morto suo patrone, Mon- signore Reverendissimo lo legato li dixe io andarò in Corte et ven[erai] con me, et che spera dal Papa non so che; li ho declarato dextramente quello importino quelle speran- ze con offerirli equal partito a quello havea; egit gratias et non s’ha voluto resolvere. Pierio Valeriano, presto orfano di padre e bisognoso di entrate per sollevare dal- lo stato di povertà economica i propri familiari, era sempre in cerca di un ricco mecenate che lo supportasse nelle sue spese. Valeriano, in realtà, era noto presso la corte imperiale e caro anche a Lang perché nel 1512 aveva scritto un panegirico proprio per il potente consigliere di Massimiliano e corrispondente di Alberto, in occasione del suo arrivo a Roma e della sua elevazione a cardinale: l’opera circo- lò immediatamente in Germania e fruttò all’umanista una certa fama oltre le Alpi e anche un invito a corte da parte di Jacopo Bannissi; invito che Pierio rifiutò per non allontanarsi da Roma. Il Grillenzoni, probabilmente su suggerimento di Alber- to, avvicinò il Valeriano mentre questi si trovava a Bologna tra la fine del 1515 e l’inizio del 1516, con l’intento di attirarlo nell’orbita di Alberto e della sua corte di umanisti. Il tentativo fu però fallimentare, nonostante Grillenzoni gli avesse pro- posto una posizione simile a quella che il dotto bolzanino pensava di poter ottene- re presso la corte di Leone X. A Pierio andò bene lo stesso: in breve divenne, infat- ti, segretario del nipote di Leone X, il cardinale Giulio de’ Medici, arciprete del capitolo della cattedrale di Belluno e precettore dei nipoti del papa, Ippolito e Ales- sandro de’ Medici26. Alberto non era però alieno da critiche, anche severe, verso quei letterati che si davano, come ad una sorta di secondo lavoro, all’attività diplomatica, soprattutto quando questa attività confliggeva in parte con la sua. Interessante a questo riguar- do è la posizione tenuta da Alberto nei confronti di Giovan Giorgio Trissino27 nel- la lettera all’imperatore del 26 ottobre del 1515. Sia ben chiaro, invece, che non bisogna dare alcun peso alle proposte avanzate a nome del papa da quel nobile di Trissino; infatti è stato mandato in Dacia e in Germania sol- tanto per cercare libri, e quei brevi e il titolo di nunzio gli sono stati dati per riguardo personale e con mandati generici, perché avesse qualcosa da esibire; infatti non è a par- te delle decisioni del papa, anzi non è nemmeno un suo familiare, ma amico di certi familiari, ed è arrivato a Roma solo da poco; comunque è un uomo nobile, dotto e giu- dizioso. Nient’altro. In quell’anno il Trissino, ambasciatore presso Massimiliano, ottenne dall’impe- ratore il permesso di aggiungere al suo cognome le parole «dal vello d’oro». Pro-

25 Sul Valeriano almeno: LETTERE 1986; GAISSER 1999; PELLEGRINI 2002; ID. 2007; ID. 2009 con la bibliografia citata; VALERIANO 2010; MARRONE 2012. 26 Cfr. per esempio GAISSER 1999, pp.12-12. 27 Sul Trissino: MORSOLIN 1894; DIONISOTTI 1980; FAGGIN 1980 e da ultimo, con ulteriore biblio- grafia, BLANCO 2012. 12 Fabio Forner

Pierio Valeriano. Medaglia, XVI secolo.

Frontespizio del Hieroglyphica... di Pierio Valeriano, Basilea 1556. Per una nuova biografia di Alberto Pio 13 babilmente l’imperatore chiedeva maggiori informazioni sulle reali finalità del Trissino e delle sue richieste, e sul vero valore della sua attività diplomatica che in un qualche modo interferiva con quella del principe di Carpi. Alberto pare qui rico- noscergli lo status di dotto, ma negargli quello di ambasciatore e di vero diploma- tico: si trattava di un innocuo letterato in cerca di libri e come tale andava trattato. Stessa sorte toccava anche a un altro grande erudito dei primi del Cinquecento, il frate agostiniano Egidio da Viterbo, che era su posizioni culturali e religiose mol- to vicine a quelle di Alberto, per esempio anche al riguardo della querelle sul valo- re della conoscenza della lingua ebraica scoppiata intorno all’opera dall’umanista tedesco Reuchlin28. All’inizio del 1516 Leone X volle inviare Egidio come nunzio presso la corte imperiale, ma i risultati di quella missione non furono così positivi: i rapporti del frate con l’imperatore non presero da subito la piega giusta. Alberto, in una lettera da Carpi al consigliere imperiale Ludwig Maraton del 30 gennaio 1516, così scriveva: Non mi meraviglio che il Reverendo frate Egidio abbia poca attitudine agli affari pub- blici; ma Vostra Signoria conosce il giudizio di questi [cioè di Leone X] nello scegliere i nunzi. Ben diverso invece era l’atteggiamento di Alberto nei confronti di un grande diplomatico di professione come Bernardo Dovizi detto il Bibbiena, che era, però, anche un uomo di cultura con eccellente formazione di carattere umanistico29. Ecco cosa ne scriveva Alberto in una lettera del 30 marzo del 1516 all’imperatore Mas- similiano: Il Santissimo Nostro signore manda come legato a Vostra Maestà il Rev.mo cardinale di Santa Maria in Portico, che Ella non ignora quanto valga per autorità e favore presso Sua Beatitudine. In ogni circostanza e in momenti difficilissimi è stato sempre molto sollecito e attento agli interessi di Vostra Maestà e ha mostrato, nelle parole e nei fatti, di considerarla al di sopra di tutti i principi secolari; da parte mia, l’ho dichiarato in mol- te mie lettere, e l’ho trovato senza alcun dubbio così leale verso Vostra Maestà e i suoi interessi come fosse una sua stessa creatura; perciò mi riempie di gioia questa sua par- tenza, che ritengo sarà molto utile agli interessi di Vostra Maestà e anche del Santissi- mo Nostro Signore, per i quali certamente non mancherà in nulla di quanto gli sarà pos- sibile fare. In questo caso l’educazione umanistica rappresentava una sorta di fiore all’oc- chiello nel curriculum di un diplomatico che occupava posizioni di cruciale impor- tanza nella curia di Leone X. Il Dovizi, infatti, da sempre legato alla famiglia dei Medici, fu uno degli artefici dell’elezione al trono pontificio di Giovanni de’ Medi- ci e fu da quest’ultimo immediatamente ricompensato con cariche amministrative di primaria importanza30. Nello stralcio di lettera qui riportato si racconta del pro-

28 Su Egidio da Viterbo rimando solo a ERNST FOÀ 1993; SAVARESE 2012 con la bibliografia citata. 29 Sul Bibbiena almeno: PATRIZI 1992. 30 Cfr. SIMONETTA 2014. 14 Fabio Forner gettato invio del Bibbiena presso la corte di Massimiliano; tale decisione rappre- sentava certamente agli occhi di Alberto un atto politicamente rilevante nell’ottica di un maggiore coordinamento della politica di papato e impero. In realtà, mutata rapidamente l’opportunità politica, il Bibbiena non partì mai per la corte imperiale. Un altro aspetto della personalità di Alberto illustrato in alcuni passi delle let- tere del fondo Lea riguarda la sua passione per le opere d’arte e soprattutto per i libri. Ricchissima, non solo per questi riguardi, è la lettera di Iacopo Bannissi ad Alberto del novembre del 1515. Messer Nicolò Ziegler molto si ricomanda ala S.a V. et li ringratia infinite volte del bon officio fato per lui, in offerir el libro de canto a la S.tà del N. S.re et in impetrarli la Reser- va; la supplica che cusì como l’ha comenzato bene voglia dedur ad optimum finem sì la Reserva, como la causa sua Coloniense de la qualle ... longum serrà informata la S.a V. da M. Stephano Rosino. Ho scripto a Norimberga per lo Apochalipsis et la Pasione del Nostro Signore fata per Alberto Durer; et subito che la habia la mandarò ala Signoria Vostra, et se c’è qualche altra cosa che li piace de qua la supplico me vogli avisare, che quello potrò fare lo farò volentieri. Sono stampati qua adesso Iornades (sic) de Rebus Gothorum et Paulus Dia- conus de Gestis Langobardorum, se li piace li mandarò; ben che non habiano quelli ter- so dire pur videntur mihi quod habent animam, idest veritatem. Queste notizie cadevano, è giusto ricordarlo, proprio fra altre di interesse stret- tamente amministrativo come mostrano le informazioni relative a Nikolaus Ziegler che occupava posizioni di vertice nella cancelleria imperiale: era un fratello di Paul, un corrispondente di Erasmo, e apparteneva ad una famiglia in stretti rapporti con Massimiliano, dal quale era stata nobilitata31. Da questa lettera apprendiamo che Alberto ambiva avere alcune serie xilografiche realizzate da Albert Dürer e in particolare l’Apocalisse, approntata fra il 1496 e il 1498, e la Passione, della qua- le esistono varie edizioni e versioni32. Ma il Bannissi, che conosceva gli interessi di Alberto e si offriva subito di spedirgli altre primizie bibliografiche, informava il principe di Carpi di quanto si poteva trovare in Germania e in particolare ad Aug- sburg; il riferimento è qui all’edizione di due opere in un unico volume: Iordanes, De rebus Gothorum, Paulus Diaconus, De gestis Langobardorum, che fu stampata proprio ad Augusta da Johann Miller nel 1515; il testo fu curato da Konrad Peu- tinger, studente a Bologna e Padova, poi Stadtschreiber di Augusta e consigliere di Massimiliano, che fu uno dei maggiori umanisti del circolo augustano. Tra l’altro l’edizione del De rebus Gothorum o Getica è l’editio princeps dell’opera. Non si tratta dell’unica richiesta di libri fatta da Alberto ai suoi corrispondenti diplomatici. Una minuta oggi conservata presso la Biblioteca Ambrosiana di Mila- no33 riporta il testo di una lettera indirizzata a Francesco Chiericati34. Sulla base del-

31 Sullo Ziegler: SURCHAT 2001, p. 105. 32 Cfr. contributo di SAETTI in questo volume. 33 BAMI, Archivio Falcò Pio di Savoia, 28, (v.n. 255), Carteggio, 1. 34 Ringrazio Anna Maria Ori per la segnalazione e Marcello Simonetta per la trascrizione del testo e per la notizia sulla conoscenza tra Alberto e il Chiericato: Alberto Pio a Francesco II Gonzaga, Per una nuova biografia di Alberto Pio 15 le biografia del Chiericati, la lettera potrebbe essere datata al 1518; Alberto ringra- ziava il corrispondente per avergli mandato il libro «de Regibus Aragonis, lo qua- le ho lecto con molta voluptà sì per essere el stile bono, sì per haverme dato noti- zia compendiosa de la serie de quelli illustrissimi Regi, et gloriosissima Casa». Alberto si riferisce qui certamente all’opera dell’umanista Lucio Marineo Siculo, De primis Aragonie regibus: et eorum rerum gestarum perbrevi narratione, in cin- que libri, stampato a Cesaraugusta, cioè a Saragozza, nel 1509. L’opera era così ben scritta da aver eccitato in Alberto il desiderio di possedere un altro libro del Marineo, scritto in precedenza: io sono desideroso sapere perfectamente quella hystoria etiam di regi che furono avan- ti che li saraceni occupassero la Spagna, de li quali l’auctore de l’opera mandatami scri- ve haverne facto mentione in un’altra opera intitulata de laudibus Hispanis, la prego ritrovandosi mi voglia mandare et similmente, sel se retrovasse la historia de li re di Castiglia et de la Invasione di Saraceni in Spagna, che del tutto li restarò obligato et la satisfarò del costo et de la spesa del porto. Alberto faceva qui riferimento ad una importante opera storica del Marineo, che egli considerò a lungo il proprio cavallo di battaglia, il De laudibus Hispaniae:fu impresso per la prima volta in una stampa senza indicazioni tipografiche, ma che in realtà è databile agli ultimi anni del Quattrocento, forse tra il giugno 1496 e l’ot- tobre 1497, e che vide la luce nell’officina di Friedrich Biel. Qui il Marineo tratta- va anche della storia antica della Spagna35. Da fonti d’archivio sappiamo che Alberto, quando era costretto a spostarsi per periodi prolungati, anche nella prima parte della sua vita, quando non aveva anco- ra conquistato il pieno potere politico su Carpi, portava con sé libri. Un esempio è fornito da una lista di «robe spedite» del 1511, in un momento in cui Alberto era in fuga da Carpi: tra abiti, federe e lenzuola si trovava anche «El dialogo de Ocham»36: forse qui il riferimento era al Dialogus de potestate papae et imperato- ris di Gugliemo da Ockham che fu stampato, per esempio, già a Colonia da Quen- tell nel 1493: il tema era sicuramente di sommo interesse per Alberto e conferma, del resto, un retroterra di ampie letture di opere di filosofi medioevali il cui ricor- do riaffiora nelle sue opere contro Erasmo. Interessante è anche la raccomandazio- ne fatta a Lang nella minuta del 5 dicembre 1516 in favore di Agostino Coppo affinché venisse accolto presso la corte imperiale: Non mi servono molte parole per raccomandare a Vostra Signoria Reverendissima il signor Agostino Coppo, perché già lo conosce; mentre si trovava a Roma lo ha potuto conoscere e ha apprezzato almeno in parte la sua perizia e la sua vivacità d’ingegno, soprattutto avendo visto l’elenco e i titoli dei libri della biblioteca che egli ha messo insie-

Venezia, 30 marzo 1512 (ASMN, b. 1309): «L’è qua un gentilhomo nominato M. Francesco Chierega- to il qual sta cum Mons.re R.mo Car.le de Syon, et ha alcune possessione in Mantuana...». Sul Chie- ricati: FOA 1980. 35 Sul Marineo BENEDETTI 2008 e SCHLELEIN 2008. 36 APS, b. 45 bis, fasc. 2, n. 15. 16 Fabio Forner

me e ordinato. È devotissimo alla Maestà Cesarea e deditissimo a Vostra Signoria Reve- rendissima; per questo ha voluto rivolgersi alla Maestà Cesarea, alla quale esporrà alcune sue considerazioni non disprezzabili; e intende anche occuparsi di alcune faccende che Vostra Signoria Reverendissima conoscerà da lui. Vostra Signoria Reverendissima sa con quanto odio i Veneti lo perseguitino e quanto egli li corrisponda con pari intensità. Le sue virtù, per Alberto, sono dichiarate anche dalla grande biblioteca che il Coppo sarebbe stato in grado di assemblare. Non molto so di questo dotto che comunque compare citato in una lettera di Leone X dettata a Pietro Bembo e indiriz- zata al Bibbiena: anche qui si faceva cenno ai difficili rapporti con i veneziani e si chiedeva al Bibbiena di intercedere per la clemenza verso il dotto Agostino Coppo37. In conclusione, le lettere del fondo Lea mettono in evidenza come il rapporto tra Alberto e la parte imperiale fosse in realtà soggetto a un costante logoramento già a partire almeno dal 1515; il passaggio al servizio per la Francia fu il risultato di un progressivo allontanamento tra le parti le cui motivazioni si possono indivi- duare nella crescente sfiducia mostrata dalla parte imperiale verso Alberto e, d’al- tro canto, nel sempre minor interesse economico e politico del principe di Carpi a rimanere al servizio di Massimiliano. Non ci fu, dunque, una brusca rottura causa- ta da Carlo V, ma un processo graduale, realizzatosi attraverso una sempre più intensa ripresa di servizi diplomatici a favore di Parigi e, alla fine, una scelta pra- ticamente obbligata da parte di Alberto, scelta che non si può inquadrare nelle riduttive categorie di fedeltà e tradimento verso uno schieramento politico. Inoltre, dalle lettere esce ancor meglio descritto il forte interesse di Alberto per il mondo della cultura, un interesse condiviso pure dagli altri famigliari e dal fratello Leo- nello: anche da questo carteggio diplomatico esce il ritratto di un principe peren- nemente alla ricerca di libri e, pur talvolta lamentando difficoltà economiche, sem- pre munifico verso i letterati più meritevoli.

37 BEMBI 1552, pp. 170-171: Pietro Bembo, in una lettera del 4 gennaio 1514 scritta come segre- tario per conto di Leone X al nunzio a Venezia, nomina Agostino Coppo e chiede di aiutarlo ad otte- nere il perdono presso le autorità veneziane: Inter eos qui meo stipendio aluntur est Agustinus Cop- pus, istius Urbis civis vir et multum terrarum pervagatus, et omnis laboris expertissimus, tum et indu- strius et elegans et plane comis et mihi certe gratus. Is quoniam a patria sua in exilium missus mul- tos iam annos externis locis duriter et laboriose confecit; cupitque quam maxime ut sibi rediret ad lares suos liceat; mando tibi ut Leonardum Lauredanum principesque civitatis adeas, horterisque meis verbis velint rogatu meo Augustinum ab exilio restituere; eisque persuadeas ut exemplo Domi- ni qui quidem delinquentis poenitentiam quam mortem mavult, ea in re pietate potius et misericordia quam vindicta utantur, cioè «Tra coloro che sono al mio servizio c’è Agostino Coppo, cittadino di codesta città, che sebbene sia andato ramingo per molte terre e abbia conosciuto tanti disagi, è indu- strioso ed elegante e del tutto affabile e a me certamente caro. Poiché, mandato in esilio dalla sua patria, ha trascorso molti anni di duro lavoro in terra straniera e desidera assai che gli sia consentito di tornare in patria, ti incarico di presentarti a Leonardo Loredan e ai primi cittadini di Venezia e di esortarli con le mie parole a concedergli su mia richiesta di farlo tornare dall’esilio. E convincili a mostrare in ciò pietà e misericordia piuttosto che desiderio di vendetta, sull’esempio del Signore che, anche di un delinquente, preferisce la penitenza piuttosto che la morte». Per altre notizie sul Coppo si veda l’articolo di SAETTI. Per una nuova biografia di Alberto Pio 17

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Stefano Villani

Una nota manoscritta La raccolta di lettere di Alberto Pio (Ms. Coll. 637) è entrata a far parte della col- lezione della Lea biblioteca dell’University of Pennsylvania di Filadelfia nel 19641. Quasi certamente venne acquistata sul mercato antiquario per volontà del professor Kenneth M. Setton, che, come titolare della cattedra Lea di quell’Università, era anche il responsabile della Henry Charles Lea Library, donata nel 1925 all’Univer- sità della Pennsylvania dagli eredi dello storico americano morto nel 19092. Negli anni in cui venne fatto questo acquisto, alcuni decenni prima dell’infor- matizzazione dei cataloghi delle biblioteche, le informazioni sulla provenienza e le condizioni di acquisto delle nuove acquisizioni raramente venivano registrate con la cura che a questi dati si presta oggigiorno. Così accadde anche a questa raccol- ta di lettere; perciò, purtroppo, non conosciamo il nome dell’antiquario che le ave- va messe sul mercato, né dunque la loro originaria provenienza. Conosciamo tut- tavia la data di acquisizione grazie a una nota manoscritta a lapis su una delle let- tere (busta 15, c. 20v): “1964 (A39750) BA Gen S”. Sequenze alfanumeriche di questo tipo appaiono in numerosi manoscritti della biblioteca dell’Università della Pennsylvania: la sigla “A39750” indica il numero d’ordine degli acquisti effettua- ti nel 1964 e la sigla “BA Gen S” indica il codice del fondo a cui si era attinto per l’acquisto della silloge di lettere.

Annotazione manoscritta dell’acquisizione del carteggio di Alberto Pio. Filadelfia, Penn Library, Collezione di manoscritti medievali e rinascimentali 637, coperta del foglio 20 della busta 15.

Ringrazio John Pollack del Kislak Center for Special Collections, Rare Books and Manuscripts, Uni- versity of Pennsylvania, Filadelfia, per l’aiuto prezioso che con competenza mi ha offerto nel corso di que- sta ricerca. Un ringraziamento anche, per l’aiuto a vario titolo offertomi, a Mitch Fraas e Amey Hutchins. 1 Per una descrizione di questa raccolta di lettere, oltre a quella di Luciana Saetti in Appendice 1 in questo volume, si veda Alberto Pio correspondence Ms. Coll. 637. Finding aid prepared by Nico- le Love. Last updated on April 30, 2015, University of Pennsylvania, Kislak Center for Special Col- lections, Rare Books and Manuscripts, 21 April 2015. 2 PETERS 2000, pp. 33-59. 20 Stefano Villani

Purtroppo le ricevute degli acquisti effettuati in quegli anni sono in parte andate disperse e quelle rimaste non sono state ancora catalogate. Se le ricevute dell’acqui- sto di questa raccolta fossero tra quelle ancora da ordinare, è dunque possibile che in futuro si possa trovare quanto sia stata pagata e chi l’abbia posta sul mercato3. Allo stato della ricerca possiamo fare solo delle congetture del tutto ipotetiche. Poiché queste lettere manoscritte sono parte della collezione Lea è utile deli- neare brevemente la storia di questa straordinaria biblioteca che fa ora parte del Kislak Center for Special Collections, Rare Books and Manuscripts dell’Univer- sity of Pennsylvania a Filadelfia.

Henry Charles Lea (1825-1909) Henry Charles Lea, fu, com’è noto, un importante storico dell’800 le cui opere sulla storia religiosa medievale sono ormai diventate dei classici della storiografia4. Di famiglia doviziosa, era nato a Filadelfia nel 1825. Suo padre Isaac Lea (1792- 1886), subito dopo essersi sposato, aveva trovato impiego nella casa editrice del suocero Mathew Carey, di cui, qualche anno dopo, divenne partner insieme al fra- tello di sua moglie Henry Charles Carey. Sotto la nuova direzione dei due cognati la H.C. Carey and I. Lea divenne una delle più rilevanti case editrici americane del- l’800, esistita, sotto diversi nomi, sino a una ventina di anni fa5. Isaac Lea volle dare a suo figlio un’educazione enciclopedica, facendogli stu- diare non solo il latino, il greco e le principali lingue straniere, ma anche materie scientifiche come matematica, chimica, biologia e botanica. Henry Charles entrò nell’azienda di famiglia nel 1843 e vi rimase sino al 1880 (dal 1865 come unico proprietario e direttore). Intorno al 1847, per passione, Lea cominciò ad occuparsi di storia medievale. Iniziò allora un ampio lavoro di indagine sulle pratiche giudi- ziarie del Medio Evo. Il primo risultato di queste sue ricerche furono alcune dense recensioni che pubblicò su riviste specialistiche a partire dal 1859 e che raccolse poi, fondendole e riorganizzandole, in un testo unitario intitolato Superstition and Force che pubblicò nel 1866. Le sue ricerche sulle fonti legali lo convinsero pro- gressivamente del fatto che per comprendere la società medievale fosse indispen- sabile studiare le istituzioni della Chiesa. Nel 1867 pubblicò quindi un volume sul- la storia del celibato ecclesiastico (Historical Sketch of Sacerdotal Celibacy) cui seguì

3 Per uno sguardo d’insieme sul materiale manoscritto riguardante la vita della biblioteca dell’Uni- versità della Pennsylvania si veda SNYDER 1994, http://www.archives.upenn.edu/faids/upb/upb50s/u- pb55guide.pdf. 4 Su Lea cfr. PETERS 1995, pp. 89-100; PETERS 1987, pp. 577-608. Una dettagliata biografia di Lea, che dà conto anche del suo rilevante ruolo politico, è stata pubblicata nel 1931 (Lea, durante la guerra civile, fu figura di spicco degli unionisti di Filadelfia e negli anni della ricostruzione si impegnò attivamente nel- l’ala riformista del Partito Repubblicano): SCULLEY BRADLEY 1931. Cfr. anche VILLANI 2010, pp. 875-6. 5 La Mathew Carey & Company, a cui Mathew Carey aveva dato vita nel 1785, era una delle più antiche case editrici di Filadelfia. Nel corso dei più di due secoli della sua esistenza cambiò nome numerose volte. Quando venne venduta alla Waverly Inc. nel 1990, concludendo così la sua lunga sto- ria, si chiamava Lea & Febiger. Cfr. MAJEWICZ 2008, http://hsp.org/sites/default/files/legacy_files/migrated/findingaidlcpleaandfebiger.pdf. Le lettere di Alberto Pio nella H. C. Lea Libray di Filadelfia 21

L’interno della biblioteca di Henry C. Lea quando era ancora nell’abitazione dello studioso, al n. 20 di Walnut Streets di Filadelfia. PETERS 1995, p. 54. 22 Stefano Villani nel 1869 la raccolta di saggi intitolata Studies in Church History. Si dedicò quindi allo studio sistematico dell’Inquisizione medievale, che pubblicò in tre volumi nel 1888 (History of the Inquisition of the Middle Ages). Negli anni seguenti il lavoro di Lea procedette con ritmi straordinari: nel 1890 pubblicò una raccolta di saggi sulla storia religiosa spagnola e sull’Inquisizione (Chapters from the Religious History of Spain connected with the Inquisition), nel 1892 l’edizione di un formulario secentesco della Penitenzieria (Formulary of the Papal Penitentiary in the 17th Century), nel 1896 i tre volumi di una storia della confessione auricolare e delle indulgenze (History of auri- cular Confession and Indulgences in the Latin Church), nel 1901 una storia dei mori- scos (The Moriscos of Spain), tra il 1906 e il 1907 i quattro volumi della sua storia del- l’Inquisizione spagnola (History of the Inquisition of Spain) che vennero integrati nel 1908 con una storia dell’Inquisizione nelle province dell’impero spagnolo (Inquisition in the Spanish Dependencies). Oltre a questi volumi, Lea pubblicò pure un vasto numero di articoli e di recensioni, che, alcuni decenni dopo la sua morte, sono stati in larga parte raccolti nel volume Minor Historical Writings and Other Essays, a cura di Arthur C. Howland, 1942. Negli ultimi anni della sua vita i suoi interessi di ricerca si concentrarono sulla storia della stregoneria e della persecuzione delle streghe. La mor- te, il 24 ottobre 1909, gli impedì di concludere il lavoro iniziato su questo soggetto, ma le note che lasciò sull’argomento vennero pubblicate postume (Materials toward a History of Witchcraft, a cura di Arthur C. Howland, 1939). Il lavoro storiografico di Lea è metodologicamente basato sull’utilizzo quasi esclu- sivo di fonti primarie che egli fece copiare in decine di archivi e biblioteche europee e che acquistò sul mercato antiquario6. Lea infatti non condusse mai dirette ricerche archivistiche in Europa, dove si recò solo un paio di volte per ragioni di salute, ma si procurò il materiale di ricerca grazie a un’estesa rete di collaboratori che costruì nel corso degli anni, investendo in quest’impresa delle somme enormi (abile uomo di affari, oltre alla casa editrice, Lea investì il suo denaro anche nel mercato fondiario)7. Si dice che Benjamin Disraeli una volta avesse constatato ironicamente che se Lea non fosse stato fermato, tutte le biblioteche europee sarebbero state trasferite a Fila- delfia: «If Mr. Lea is not stopped, all the libraries of Europe will be removed to Phi- ladelphia»8. Dopo la sua morte la sua collezione di manoscritti e volumi venne donata alla biblioteca della University of Pennsylvania dai figli Arthur e Nina Lea ed è, per l’ap- punto, questo il nucleo fondamentale della Henry Charles Lea Library in cui nel 1964 ha trovato luogo anche il carteggio Pio.

6 Sull’importanza delle “macchine copiatrici umane” nella ricerca storica dell’800 si veda GRAF- TON 2000, pp. 52-53. 7 Sulla biblioteca e sugli interessi di Lea che ne hanno indirizzato la costituzione si veda PETERS 2000, che mette in evidenza come il primo nucleo della biblioteca di Lea fosse costituito da testi di carattere letterario, ma con il suo crescente impegno storiografico, a partire dal 1847, gli acquisti si indirizzarono soprattutto in quest’ultima direzione, inizialmente verso la storia della Francia medioe- vale e della prima età moderna, e successivamente verso la storia legale, la storia della Chiesa medie- vale e infine, ancor più specificamente, verso la storia dell’Inquisizione. 8 PETERS 2000, p. 51. Le lettere di Alberto Pio nella H. C. Lea Libray di Filadelfia 23

La Henry Charles Lea Library Al momento della donazione la biblioteca raccoglieva circa 7 mila volumi, tra cui 400 manoscritti medioevali e numerosi incunaboli. Insieme ai testi venne donata anche la sala di lettura che Lea si era fatto costruire nel 1881 nella sua casa di 2000 Walnut Street a Filadelfia. La biblioteca della University of Pennsylvania aveva allora sede in un edificio costruito dall’architetto americano Frank Furness che era stato inaugurato nel 1891. Per ospitare la collezione del Lea, i suoi figli finanziarono un’espansione dell’edifi- cio. Questa nuova ala est, dove venne ricostruita anche l’originaria sala di lettura di Lea, venne inaugurata nel 1925 e sul muro che dà sulla 34a strada venne posta l’i- scrizione: The Henry C. Lea Library and Reading Room9. Quando nel 1962, venne costruito un nuovo edificio per ospitare la biblioteca universitaria, dedicato a Char- les Patterson Van Pelt, uno dei principali finanziatori privati di questa impresa, il già ricordato Kenneth Setton volle che anche la Lea Library venisse trasferita nel nuovo edificio, ed è dunque al sesto piano del nuovo edificio che hanno trovato luogo sia la collezione Lea che la sala di lettura10. Oltre alla donazione della collezione paterna e alla costruzione dell’ala est dell’edificio della biblioteca, Arthur e Nina Lea finan- ziarono l’istituzione di una cattedra dedicata a Henry Charles Lea presso l’Universi- tà della Pennsylvania e donarono 10 mila dollari per il mantenimento della bibliote- ca e 10 mila dollari per future acquisizioni. Il titolare della cattedra Lea di storia è anche il curatore della collezione; in que- sto incarico si sono succeduti storici di grande valore, tra cui, per l’appunto, Kenneth M. Setton, che fu docente dell’Università della Pennsylvania tra il 1950 e il 196511. Fu probabilmente grazie al lascito che la famiglia Lea aveva assegnato alla Library of Pennsylvania per mantener viva la biblioteca che nel 1964 venne acqui- stato il carteggio Pio, anche se non possiamo escludere che siano state utilizzate altre risorse, dato che la già ricordata sigla “BA Gen S” non sembra far riferimen- to specifico al fondo Lea. La raccolta di lettere Pio, in passato, ha avuto la segna- tura “Ms. Lea 414”12, ma dopo che nel 2008 la Andrew W. Mellon Foundation asse- gnò alla biblioteca dell’Università della Pennsylvania un ingente finanziamento che ha permesso il riordino e la dettagliata catalogazione della collezione Lea nel corso dei successivi due anni13, il carteggio Pio ha acquisito l’attuale segnatura “Ms. Coll. 637”14.

9 Il Furness Building, già sede della biblioteca della University of Pennsylvania, ospita ora la Anne & Jerome Fisher Fine Arts Library. Su Frank Furness (1839-1912) cfr. O’GORMAN 1973. 10 Sulla biblioteca, cfr Dedication of the Charles Patterson Van Pelt Library, in «The Library Chronicle», vol. XXIX, No. 2 (Spring 1963). 11 PETERS 2000. 12 HIRSCH 1970, p. 21 (Ms. Lea 414). 13 Mellon Foundation Grant Increases Access to Penn Libraries’ Hidden Treasure, in . 14 Questa raccolta di lettere si trova dunque citata con la vecchia segnatura nei saggi scritti prima del riordino della biblioteca Lea. Cfr. ad esempio MINNICH 1986, pp. 319-29, in part. p. 329; MARO- GNA 2005, p. 60. 24 Stefano Villani

Vista dalla balconata della sala del libri rari della biblioteca Lea, ricostruita nella Biblioteca Van Pelt, col grande ritratto a olio di Henry Charles Lea. Foto Greg Benson 2015. Le lettere di Alberto Pio nella H. C. Lea Libray di Filadelfia 25

Kenneth M. Setton (1914-1995) Quale che sia stata la provenienza dei fondi utilizzati per comprare i manoscritti Pio, come abbiamo già accennato nel 1964 con ogni probabilità la loro acquisizio- ne venne individuata e richiesta da Kenneth M. Setton, che era allora Lea Profes- sor of History. L’ipotesi è suffragata non solo dal suo profilo di studioso e dall'in- serimento del carteggio nella Lea Library di cui egli era responsabile, ma anche dal fatto che in una delle sue opere egli si servì di informazioni contenute in alcune let- tere della raccolta. Prima dell’insegnamento all’Università della Pennsylvania, tra il 1950 e il 1965, e dopo il dottorato a Columbia e un periodo di insegnamento presso la Boston University, Setton dal 1943 al 1950 fu docente di storia presso l’University of Manitoba, in Canada, in cui le sue ricerche si concentrarono sulla storia dell’A- tene medievale (nel 1948 pubblicò Catalan Domination of Athens, 1311-1388). Passò poi a Filadelfia come Henry Charles Lea Professor of History, succedendo al medievista John L. La Monte, prematuramente scomparso nel 1949, dapprima come associate professor, poi come full professor (1953), ed infine come univer- sity professor (1963). Dal 1955 al 1965 fu anche direttore del sistema bibliotecario universitario (director of libraries). Nel necrologio che Hans Eberhard Mayer gli dedicò nel 1997 si ricorda come Setton avesse svolto la sua funzione di bibliote- cario con piacere e successo15. Kenneth Setton successe a La Monte anche come editore capo di A History of the Crusades, un’importante opera collettiva sulla storia delle crociate promossa dalla University of Pennsylvania Press, i cui primi due volumi uscirono nel 1955 e nel 1962. Nel 1965 Setton lasciò l’Università della Pennsylvania per passare all’Univer- sità di Wisconsin, Madison, dove ricoprì anche l’incarico di direttore dell’Institute for Research in the Humanities (e presso la University of Wisconsin Press nel 1969 uscì la ristampa dei primi due volumi della storia delle crociate, cui seguirono nel 1975 il terzo, nel 1977 il quarto, nel 1985 il quinto e nel 1989 il sesto e ultimo). Nel 1968 venne chiamato al prestigiosissimo Institute for Advanced Study at Prin- ceton dove rimase sino alla pensione, nel 1984. Già a partire dagli anni ’50, quando era presso l’University of Pennsylvania, Kenneth Setton si era dedicato allo studio della politica papale e veneziana nel Mediterraneo orientale. Le sue ricerche vennero pubblicate tra il 1976 e il 1984 nei quattro volumi di The Papacy and the Levant, 1204-1571. Negli ultimi anni della sua vita pubblicò , Austria and the Turks in the Seventeenth Century (1991) e Western Hostility to Islam and Prophecies of Turkish Doom (1992). Studioso di profonda erudizione, Setton aveva un’ottima padronanza non solo delle lingue classiche ma anche dell’italiano e passava praticamente ogni estate a Venezia per lavorare nell’Archivio di Stato.

15 Per la vita di Setton si veda MAYER 1997, pp. 240- 249. 26 Stefano Villani

L’ingresso della bibilioteca Van Pelt nel 1965, sopra (foto Martin Smith) e oggi (foto Greg Benson 2015). Le lettere di Alberto Pio nella H. C. Lea Libray di Filadelfia 27

È dunque assai probabile che Setton seguisse con attenzione l’apparire sul mer- cato di eventuali manoscritti e libri antichi italiani per farli acquistare dalle istitu- zioni americane dove lavorava e che ciò sia accaduto anche con questo carteggio, che non a caso Setton menziona nel terzo volume di The Papacy and the Levant pubblicato nel 198416. Purtroppo, come abbiamo già detto, è improbabile oggi avere informazioni sulla provenienza della raccolta di lettere, anche se è possibile ipotizzare che i manoscrit- ti facessero parte dell’archivio della famiglia Falcò Pio di Savoia17. E rimando, a que- sto proposito, alla ricerca sugli archivi Pio di Anna Maria Ori in questo volume. È improbabile che siano stati acquistati direttamente da chi ne era originaria- mente in possesso e, molto più verosimilmente, Setton e la biblioteca dell’Univer- sità della Pennsylvania si servirono della mediazione di un antiquario o di un libraio. Sappiamo che, intorno agli anni dell’acquisto del carteggio Pio, alcuni dei manoscritti italiani della Lea Library vennero acquistati per il tramite di Renzo Rizzi a Milano, di Laurence Witten in Connecticut e di Rosenthal a Monaco, ma solo ulteriori ricerche potranno forse dirci se fu attraverso uno di loro che le lette- re “americane” di Alberto III Pio giunsero a Filadelfia18.

Ritratto di Kenneth Meyer Setton, dalla memoria dedicatagli da Hans E. Mayer, in Proceedings of the American Philosophical Society, Vol. 141, n. 2 (giugno 1997), p. 240.

16 SETTON 1984, p. 148. 17 JAKOBY 2011. 18 Ringrazio Mitch Fraas per questa informazione. 28 Stefano Villani

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Anna Maria Ori

L’interesse degli studi comporta che si sappia non tanto quali documenti si trovano in un archivio, quanto dove i documenti costituenti un tempo un archivio, che potrebbe essere anche smembrato e disperso, sano andati a finire1 .

A ciascuno il suo... archivio Oggi tutte le famiglie hanno un archivio, ma forse non se ne rendono conto. La parola ‘archivio’ evoca atmosfere polverose e carte un po’ sbiadite, quasi illeggibili: cosa può avere in comune con i documenti ufficiali, le ricevute di compravendite, tasse, servizi o con le foto, lettere, cartoline, ricordi che tutti conserviamo almeno per qualche tempo? Eppure, tutti insieme, questi materiali raccontano frammenti della nostra storia, unica e irripetibile, e di fatto costituiscono un archivio privato, comun- que lo si consideri e indipendentemente dal modo in cui sia conservato. Nella società di antico regime gli archivi erano riservati alle famiglie nobili o facoltose, non solo perché erano le uniche a saper leggere e scrivere, ma soprattut- to perché erano le uniche a possedere beni di cui valesse la pena di salvaguardare la memoria, tipo rogiti, contratti, testamenti, doti, inventari, e via dicendo, assieme agli eventuali attestati di diritti e privilegi: un tesoro di carte trasmesso alle gene- razioni successive, assieme all’orgoglio di casta e al ricordo delle personalità di rilievo e delle relazioni prestigiose della famiglia. Dunque anche le lettere di Alberto Pio che oggi sono nella biblioteca della Penn University di Filadelfia (USA) dovevano far parte dell’archivio di famiglia, in quanto carte del personaggio più illustre della stirpe: come sono arrivate là? Chi e quando le ha tolte dalla loro collocazione? Stefano Villani ci racconta in questo volume la vicenda del loro acquisto, ma a Filadelfia ha trovato solo la parte finale della loro lun- ga storia. Ha potuto accertare che le ha comprate, nel 1964, un importante storico americano, Kenneth M. Setton, innamorato dell’Italia, durante un suo soggiorno per motivi di studio. E certo questi ha potuto studiare e scegliere con occhio esperto le carte che gli interessavano, perché il fondo da lui acquistato non è un fascio di lette- re prese a caso, ma un insieme coerente per qualità di mittenti e destinatari, date e contenuti, ricchissimo di informazioni sulla diplomazia e i personaggi del secondo decennio del 1500, che in effetti si è rivelato utile agli studi dell’acquirente2. Resta però il mistero non solo su chi gliele ha vendute, e dove, ma soprattutto sulle moda- lità e l’epoca in cui queste carte sono finite sul mercato antiquario. Per trovare

1 PANELLA 1965, p. 269, in CLOUGH 1973, p. 201-02. 2 In effetti Kenneth Setton ne ha poi utilizzato dei passi in un suo lavoro: cfr. SETTON 1984. 30 Anna Maria Ori una risposta proviamo a ripartire da zero, da quando esse facevano parte della segreteria romana di Alberto Pio: un viaggio di oltre quattro secoli che non sarà privo di sorprese3.

Tre rami Agli inizi del Cinquecento la famiglia Pio, dal 1450 Pio di Savoia per un privi- legio concesso ad Alberto II dal duca Lodovico di Savoia, era divisa in tre rami distinti, tra cui non correva buon sangue per le rivalità derivanti dal fatto che tutti i discendenti maschi di Manfredo Pio erano signori di Carpi a pari diritto. I con- trasti erano stati inevitabili, con gravi contese anche dopo la decisione presa dai fratelli Galasso II, Alberto II e Giberto II Pio poco dopo il 1440 di regolarizzare almeno la coabitazione nel castrum, scegliendosi o costruendo dimore separate per ogni nucleo familiare (da qui l’origine dei tre rami che da loro prendono i nomi di galassino, albertino e gibertino) ed anche dopo il 1470, quando Marco II e il cugi- no Leonello, tolto di mezzo il ramo galassino, come si vedrà più oltre, ottennero dall’imperatore Federico III la limitazione ai soli loro discendenti primogeniti del- l’ereditarietà del titolo signorile. Dunque dalla seconda metà del XV secolo ogni ramo della famiglia ebbe un pro- prio archivio in cui accanto ai nuovi documenti furono suddivise o copiate le car- te più importanti di quello di famiglia, formatosi a Carpi dopo il 1336, quando Manfredo Pio vi si era stabilito definitivamente portando a sua volta da Modena (dove i Pio si erano radicati dal 1168) carte relative ai diritti comuni e alle prime spartizioni di terre della consorteria dei “figli di Manfredo” da cui la famiglia Pio era derivata. Ciò risulta evidente dall’elevato numero di copie di epoche diverse di tali privilegi presenti sia nella Biblioteca Ambrosiana sia nell’Archivio storico comunale di Carpi, a conferma della consapevolezza dell’importanza di poter documentare con originali o copie autenticate diritti, privilegi, immunità e relativi aggiornamenti, da esibire nell’eventualità o in momenti in cui tali prerogative fos- sero messe in dubbio.

Ramo albertino Torniamo alle nostre lettere “americane”, originariamente conservate nelle diverse residenze romane in cui Alberto Pio viveva in affitto, prima dell’acquisto nel gennaio del 1527 del palazzo sito in Rione di Ponte (poi palazzo Caetani all’Or- so o a Tor di Nona), dove secondo Elena Svalduz è possibile ipotizzare avesse abi-

3 Questo scritto si basa sui tre principali studi sull’archivio Falcò Pio dell’ultimo quarto del seco- lo scorso, ciascuno illuminante una zona diversa della storia delle carte Pio (CLOUGH 1973; FIORINA 1980; BARONI 1981), incrociati con gli appunti raccolti nell’Ottocento da don Paolo Guaitoli, nel- l’archivio storico comunale di Carpi, e a importanti dettagli sulla storia della famiglia contenuti in più recenti studi (ZACCARIA 1980; GARUTI 1986; ANGIOLINI 2003; DODI 2003; SVALDUZ 2001 e 2004), sol- lecitati anche dal convegno internazionale su Alberto Pio tenutosi a Carpi nel 1978, i cui atti, Socie- tà, politica e cultura a Carpi ai tempi di Alberto III Pio, furono pubblicati nel 1981. Un tesoro di famiglia: gli archivi Pio di Savoia 31 tato anche in precedenza4; e se la sua familia era davvero composta di sessanta- quattro persone, non dovevano mancare copisti e segretari addetti a tenere in ordi- ne il carteggio, distinguendo tra gli originali della posta in arrivo e le minute di quella in uscita. E tutti questi materiali facevano parte della biblioteca di Alberto Pio, assieme alla preziosa raccolta di codici greci e latini, accomunati dal fatto che erano scrit- ti, sia pur più umili e con funzioni diverse: in quell’epoca in cui la stampa si stava affermando velocemente, quella di Alberto era una biblioteca di corte, in cui i codi- ci e i libri a stampa, «affidati a personale non specializzato [...] erano conservati insieme all’archivio o al tesoro»5. Il fatto che libri e lettere siano usciti indenni dal ‘sacco’ di Roma del 1527 rive- la che furono portati in salvo all’avvicinarsi del pericolo, quando era ancora possi- bile farlo con una certa calma. Lo stesso Alberto, nel suo testamento, ricorda le perdite subite durante il sacco, legando alla moglie Cecilia omnia vestimenta sua et iocalia que habebat in Lom- bardia, nam omnia meliora Romae perdidit, «tutti gli abiti e i gioielli rimasti a Novi (allora tutta la valle padana era Lombardia), infatti tutte le cose più ricche le ha perse a Roma»6. Dal sacco infatti non si è salvato nulla, come ricorda un sopravvissuto7: ... non è casa in Roma, né di cardinali né di altri, né monasteri né chiese, né de’ Roma- ni né de’ forestieri, né grande né piccola, che non sia andata a sacco: fino le case delli aquaroli et fachini [...] pauperrimi. [...] Et sono stati tre sacchi delle case: prima, delli argenti et robbe sottile, poi de altri mobili. Al fine, vennono li villani de’ Colonnesi mor- ti di fame, che saccheggiorono e ruborono quello che li altri soldati non si degnorono di togliere. Li quali andorono tutti carichi fuora di Roma, loro et donne et somari, et hanno portato [via] fino le ferrate, chiodi, in modo non li è restato cosa alcuna. Tornando ai libri e alle carte di Alberto, non abbiamo idea del luogo dove sia- no stati nascosti; certo non a Carpi, in possesso di Alfonso d’Este dal 7 marzo8, pri- ma ancora del ‘sacco’, ma forse a Novi, nel palazzo-fortezza di Leonello, oppure

4 SVALDUZ 2004, p. 32. 5 BORRACCINI 2014/15, modulo 2, p. 6. Cfr. anche ROSA 1990, pp.165-168. 6 Da ciò si può dedurre che la drammatica rapidità della caduta di Roma, abbia impedito la mes- sa in salvo dei beni più preziosi e di uso comune di Alberto e della sua famiglia. SVALDUZ 2001, p. 366. L’originale del testamento, con la sottoscrizione autografa del testatore, appartiene all’archivio privato della famiglia Caetani dove la figlia Caterina andò sposa a Bonifacio duca di Sermoneta. Tra- scrizioni in SVALDUZ 1999, pp. 467-482 (con commento) e in SVALDUZ 2001, pp. 364-372. 7 Lettera del Cardinale di Como a uno suo segretario, data a Civitavecchia alli 24 maggio 1527, in Il Sacco di Roma del MDXXVII (1527). Narrazioni di contemporanei scelte per cura di Carlo MILA- NESI, Firenze, G. Barbèra editore, 1867, pp. 486, 487; l’autore, che il curatore identifica nel cardina- le filofrancese Scaramuccia Trivulzio (1465-1527, p. XXIV), precisa che il sacco era durato 12 giorni e cessato solo perché non c’era più nulla da portar via, per un danno complessivo stimato da sei a otto milioni di ducati d’oro, quando si poteva vivere, sia pur modestamente, con sette ducati all'anno (ZARRI 1981, p. 521). 8 GUAITOLI 1877, p. 288. 32 Anna Maria Ori in qualche luogo sicuro più vicino a Roma di proprietà degli Orsini, alla cui famiglia apparteneva la moglie di Alberto. Non sappiamo nemmeno se negli anni successivi, nell’amarezza dell’esilio parigino, Alberto Pio, preso dalla polemica con Erasmo e dalla stesura della Lettera parenetica, abbia voluto nella sua dimora un po’ apparta- ta di rue Saint-Antoine, non lontana dalla residenza reale dell’Hôtel des Tournelles9 – a nord dell’attuale Place de Vosges – queste carte, ormai per lui inutili, e comun- que scomode da trasportare così lontano. In ogni caso, lasciò la biblioteca – omnes libros et codices meos cuiuscumque generis sint10 – al suo erede spirituale, il nipote Rodolfo, legato a lui dalla comunanza di interessi e attitudini culturali. Quest’ultimo già nel 1531 ottenne in affitto il palazzo romano di Alberto11, dove libri e carte tornarono, per seguire più tardi il proprietario divenuto cardinale (1537) nel palazzo acquistato in Campo Marzio. Dopo la sua morte (1564), cono- sciamo le vicende dei codici della biblioteca, messi in vendita dai curatori testa- mentari, mentre l’archivio potrebbe essere stato portato a Meldola, dove sopravvi- veva Leonello Pio, fratello di Alberto e padre del cardinal Rodolfo. Egli infatti era stato investito da Clemente VII del feudo di Meldola, Sarsina e altre ‘terre’ di Romagna, già di Alberto, cui si erano aggiunti Verucchio e Scorticata di cui era signora la seconda moglie, Ippolita Comneno. Nella sua lunghissima vita (1477- 1571, ben 94 anni!), anche se uomo più pratico di armi e di amministrazione che di libri e di carte, Leonello formò un proprio archivio, che naturalmente documen- ta soprattutto l’economia familiare e la sua attività di governo delle terre di Roma- gna, oggi conservato in gran parte nell’archivio storico del comune di Meldola12. Ma le carte del cardinal Rodolfo e di Alberto, che riaprivano antiche ferite – sogni di grandezza svaniti e amarezza di sconfitte e di perdite –, non dovevano interes- sare né lo stesso Leonello – tra l’altro dal 1544 in lite con Caterina, la primogeni- ta di Alberto13 –, né l’ultimo suo discendente, il nipote Rodolfo, perciò quasi sicu- ramente restarono a Roma, presso la sorella del cardinale, Lucrezia, moglie di Pao- lo Sforza conte di Santa Fiora e marchese di Proceno14, bella figura di gentildonna, colta e appassionata alla storia di famiglia e apprezzata dai meldolesi nei periodi in

9 SVALDUZ 2001, p. 249. 10 Assieme alla collezione di antichità e alla vigna suburbana con casa alle pendici di Monte Mario: SVALDUZ 2001, p. 371. 11 Il contratto prevedeva un fitto di 150 scudi d’oro l’anno, oltre allo scambio della vigna con la casa alle pendici di Monte Mario lasciata a Rodolfo da Alberto. ZACCARIA 1980, p. 111, nota 101. 12 BARONI 1981, p. 169; MASTRI 1931. 13 La figlia primogenita di Alberto aprì in quell’anno una causa contro Leonello basata sul testa- mento del padre che la istituiva erede del feudo di Meldola assieme alla sorella Margherita; la ver- tenza si prolungò fin verso la fine del secolo, sostenuta senza successo dal marito di Caterina, Boni- facio Caetani, duca di Sermoneta, e dai loro figli. Alberto aveva designato Leonello come erede del- lo stato di Carpi. ANGIOLINI 2002, pp. 132-33; ZACCARIA 1980, p. 111, nota 101, e pp. 144-45. 14 Il matrimonio era stato concordato nel 1558 dai cardinali Guido Ascanio Sforza e Rodolfo Pio, legati da una lunga amicizia, per i rispettivi fratello e sorella; quest’ultima, Lucrezia, appunto, figlia della seconda moglie di Leonello, era poco più che ventenne, molto più giovane del cardinal Rodol- fo, nato nel 1500. ZACCARIA 1980, p. 145. Un tesoro di famiglia: gli archivi Pio di Savoia 33

Roma, Chiesa di San Niccolò de’ Perfetti. In primo piano a destra il palazzo Pallavicini in Campo Marzio, ultima residenza del cardinale Rodolfo Pio. Incisione di Giuseppe Vasi, da Delle magnificenze di Roma Antica e Moderna..., libro VI, Le chiese parrocchiali, 1756, tavola 75. Collezione privata.

Roma, Palazzo Pio in Campo dei Fiori, acquistato dal cardinale Carlo Emanuele Pio. Incisione di Giuseppe Vasi, da Delle magnificenze di Roma Antica e Moderna..., libro IV, I palazzi e le vie più celebri, 1754, tavola 75. Carpi, collezione Alfonso Garuti. 34 Anna Maria Ori cui le fu affidato il governo cittadino in luogo dello scapestrato nipote Rodolfo. Questi, rimasto presto orfano di padre15, era impetuoso e violento – come mol- ti rampolli aristocratici di quella fine secolo neo-feudalizzante ai quali il Manzoni si ispirò per il suo don Rodrigo –, non dissimile, anche nel destino, dal suo quasi coetaneo Marco Pio di Sassuolo del ramo gibertino, di cui si dirà più oltre, e per di più oberato da debiti per le abitudini dispendiose. Già malvisto dai meldolesi per le continue esazioni di tasse, fu colto in flagrante tentativo di stupro dai tre fratel- li di una giovane vedova di un’influente famiglia locale; costretto ad allontanarsi, si vendicò di loro commissionando a quindici sgherri di rapirli, torturarli e ucci- derli (uno dei fratelli riuscì a salvarsi trovando asilo in una chiesa) e rendendo ine- vitabile l’intervento della giustizia pontificia. Dopo essere stato imprigionato in Castel Sant’Angelo per quasi due anni16, e una lunghissima trattativa, si arrese e il 21 maggio 1597 vendette il suo stato, per 147 mila scudi d’oro, al generale Giovan Francesco Aldobrandini, nipote del papa allora sedente, Clemente VIII17. Si trasferì a Venezia, dove visse dissolutamente e morì assassinato, dopo il 160218. Negli stessi anni, Lucrezia Pio, vedova e senza figli, dopo essersi prodigata come governatrice di Meldola durante le assenze del nipote, si trasferì anch’ella a Venezia dove si fece portare «tutte le Scritture di Carpi», forse per confrontarle con le proprie e per fare copie di quelle più importanti, prima di restituirle19. Al momen- to di fare testamento non fu facile per lei trovare chi potesse aver cura del suo archivio. Rodolfo aveva lasciato due figli: Maria, legittima, e Lodovico Maria, naturale e legittimato. La prima, già moglie del duca di Fiano, Sforzino Sforza, ric- chissima20, non era affidabile come custode delle memorie familiari: venne in villa un giorno con suo marito e li diede [omesso nel testo], onde il duca di Parma la fece riserrare nel convento di sant’Antonio di Parma, ma accordandosi ella col cardinale Antonio Barberino, nipote d’Urbano VIII, dal medesimo cardinale fu mandata a levare dal predetto convento con chiavi contraffatte da monsignor Paolo Coccapani, vescovo di Reggio, et a dirittura condotta a Roma21. In cambio di questa liberazione il cardinale ottenne la sua cospicua eredità22, e non erano certo le carte che gli stavano a cuore.

15 Alberto Pio di Meldola, figlio di Leonello e Ippolita Comneno, morto il 21 agosto 1580. AG b. 106, fasc. 12, 30. 16 Per la precisione dal 18 luglio 1592 al 13 novembre 1594. AG b. 106, fasc. 12, n. 24, Notizie di Ridolfo Pio tratte dagli archivi di Roma. 17 ZACCARIA 1980, p. 241. 18 AG b. 106, fasc. 12, n. 3, Aggiunte a una Cronaca d’Ingramo Bratti copiata da Guido di Gio.Battista Pio, ed arricchita di annotazioni ed aggiunte dal Marchese Carlo Francesco Pio: «[Rodolfo Pio] se andò ad abitare in Venezia, come nobile veneziano, ma vivendo con troppa liber- tà, fu ritrovato una notte in un canale morto, e ferito di una pugnalata». 19 APS, b. 33, fasc. 6, Inventario delle Scritture portate da Venezia da Pietro Cabassi ad esso con- segnate dalla Lucrezia Sforza Pia. 20 Si veda FIORINA 1981, pp. 125-26. 21 ASCC, AG, b. 106, fasc. 12, n. 3, Aggiunte al Bratti, cit., e fasc. 11, n 183. Un tesoro di famiglia: gli archivi Pio di Savoia 35

L’altro nipote, Lodovico Maria, figlio naturale di Rodolfo, seppur riconosciuto dal padre23, era e restava pur sempre un bastardo. E sembra essere morto senza eredi, ma questo lei non poteva prevederlo. Lucrezia si era già riavvicinata ai parenti degli altri due rami della famiglia Pio, rendendosi conto di quanto quello galassino, che viveva in condizione privata a Carpi, fosse provinciale rispetto alla grandiosità del ramo fer- rarese o gibertino: non solo Marco Pio era signore di Sassuolo, ma il capofamiglia del ramo cadetto, Enea Pio, era di casa nelle principali corti italiane e a Madrid per le sue doti di diplomatico non disgiunte da competenza militare. Inoltre il suo secondogeni- to, il potente cardinale Carlo Emanuele, a Roma risollevava ampiamente l’onore, il prestigio e le ricchezze della famiglia, dopo che Marco Pio era rimasto vittima di un misterioso assassinio a Modena, e Cesare d’Este aveva incamerato lo stato di Sas- suolo senza riconoscere i diritti alla successione di Enea Pio (1599)24. La marchesa non ebbe dubbi: nominò suo erede Ascanio, il primogenito di Enea Pio; tra i ricordi di famiglia25 doveva esserci anche l’archivio del suo ramo: oggi infatti troviamo nell’Archivio Falcò Pio, del ramo gibertino, un numero consisten- te di documenti relativi ad Alberto III Pio26, tra cui, come si vedrà più avanti, un significativo residuo del carteggio.

Ramo gibertino La storia dell’archivio del ramo gibertino è ricostruita con ricchezza di dettagli da Cecil H. Clough, Ugo Fiorina e Giovanni Baroni27; qui basterà ricordare che esso comprendeva i documenti del dominio di Sassuolo – di cui i discendenti di

22 Donna Maria aveva prestato alcuni gioielli, tra cui una «collana di muschio con la rete d’oro et botticella d’oro [...] insieme coi monili d’oro e perle [...] cosa antica della nostra casa» a Ginevra di Manfredotto Pio, del ramo galassino. Quest’ultimo, nel suo testamento (1° aprile 1648), «per dovere di coscienza» precisa che sarebbe bene restituirli «alli signori Barberini, che si dice essere eredi del- la fu Signora Donna Maria Pia Sforza [...], sebbene io le potessi tenere in bona coscienza per quello che io dovevo avere da detta Signora Donna Maria». ASCC, APS, b. 11 bis, n. 44. 23 FIORINA 1980, pp. 109, 127, 130. 24 Da subito l’incameramento fu giudicato un tentativo maldestro di compensare la devoluzione di Ferrara alla Chiesa. Non molti piansero la morte di Marco, arrogante e ambizioso figlio di donna Virginia Marino, che dopo essere rimasta vedova di Ercole Pio di Sassuolo aveva sposato don Mar- tino de Leyva ed era morta di peste nel 1576 lasciando al marito un ricco patrimonio (tra cui palaz- zo Marino, a Milano) e una bambina di pochi mesi, Marianna, la futura, ‘vera’ monaca di Monza. PACCAGNINI 1985, pp. 3-5. E per concludere questo fuori tema manzoniano, la figlia terzogenita di Cesare d’Este, Eleonora, fu costretta a farsi monaca in Santa Chiara di Carpi con modalità assai simi- li a quelle descritte dal Manzoni per la sua Gertrude. ORI 2003 b, pp. 259-269. 25 ASCC, AG, b. 106, fasc. 12, n. 17, Lucrezia Pio Sforza Marchesa di Proceno. Estratti di due testa- menti di don Ascanio Pio di Savoia (datati 1642 e 1647), che lascia ai figli, «oltre molti altri beni, la parte loro spettante di tutto quello che si trova in casa sua dell’eredità della Signora Donna Lucrezia Pio Sforza Marchesa di Proceno [...] conforme al di lei testamento». 26 Per la precisione, i documenti su Alberto Pio sono compresi nei numeri 277-283 dell’inventa- rio del Fiorina, con documenti riguardanti il dominio di Carpi, il carteggio e l’amministrazione. FIO- RINA 1980, pp. 69-71. 27 CLOUGH 1973; FIORINA 1980, pp. 9-26; BARONI 1981. 36 Anna Maria Ori

Villa Mombello in una cartolina degli anni Cinquanta. Carpi, Biblioteca Loria, fondo Mons. Antonio Gualdi.

Il giardino all’italiana di Villa Mombello. Cartolina anni Sessanta. Carpi, Biblioteca Loria, fondo Mons. Antonio Gualdi. Pio, Giberto I di Galasso I, 211. Un tesoro di famiglia: gli archivi Pio di Savoia 37

Giberto III Pio, dopo lo scambio della sua metà di Carpi con Ercole I d’Este, erano stati signori dal 1500 al 1599 – portati a Ferrara, nello splendido palazzo già di don Giulio d’Este28 dopo la perdita di Sassuolo, aggiungendosi a quelli già esistenti, mentre a Roma i due cardinali di questo ramo, il potente Carlo Emanuele di Enea (1578-1641) e il nipote Carlo di Ascanio (1622-1689), si prodigavano per rinvigo- rire la gloria e il prestigio del casato, acquistando proprietà, benefici e prebende nel Lazio, tra cui il principato di San Gregorio da Sassola, che portò ai membri di que- sta famiglia il diritto di fregiarsi del titolo di ‘Principi’. In particolare il cardinale Carlo Emanuele fu assai attento, come principe della chiesa, [a] metter in condizioni il casato di durare in eterno. Natu- ralmente, al grosso patrimonio economico-finanziario, era inscindibilmente unito l’ar- chivio, fulcro e sostegno del casato29. E molto probabilmente l’archivio del ramo albertino rimase a Roma, dove con- tinuò a esser oggetto di attenzioni e di cure, affidato a personale con incarichi spe- cifici fino a metà Settecento, nel palazzo di Campo dei Fiori, acquistato dal car- dinale Carlo nel 1652. Il Clough ricorda che nel 1753 Papa Benedetto XIV acquistò la Biblioteca Pio, già del cardinale Carlo Pio di Savoia, con documenti soprattutto diplomatici, rela- tivi alle Nunziature, di cui alcuni possono essere derivati dagli archivi del cardi- nale Rodolfo Pio30. Ma le carte di famiglia rimasero al loro posto. Nel frattempo la famiglia si era trasferita in Spagna, dove si distinse tra le principali del regno, e continuò a conservare il cognome Pio anche dopo che si estinse la linea maschile nel 1776 in don Giberto Pio, trasmettendo il titolo di Principe Pio di Savoia in linea femminile, secondo la tradizione spagnola, nella discendenza di donna Isabella, sorella di don Giberto. La famiglia, per lo stesso motivo, andò arricchendosi via via di nuovi cognomi, Moura Corte-Réal, Val- càrcel, Falcò. Fino all’Ottocento la famiglia conservò i beni italiani, ma poi diede il via a una politica di progressiva alienazione; in particolare i Falcò, dalla metà del secolo, si orientarono sulla valorizzazione del patrimonio lombardo e ripresero a soggior- nare anche per lunghi periodi in Italia. Anche gli archivi seguirono la stessa vicen- da: le carte rimasero a Roma fino al 1863, quando furono riunite a Ferrara, per passare una decina di anni dopo a Milano, dopo che anche il palazzo di Ferrara fu venduto. A livello di curiosità, si può ricordare che verso la metà del secolo furo- no venduti anche i terreni nel carpigiano, che pur essendo solo una frazione minu- scola di un immenso patrimonio, tuttavia avevano consentito alla famiglia Falcò

28 Il palazzo faceva parte della dote di Isabella d’Este, figlia naturale del cardinal Ippolito, anda- ta sposa a Giberto di Alessandro Pio di Savoia, signore di Sassuolo, nel 1528 (FIORINA 1980, pp. 13- 14). Il Clough confonde questo palazzo con quello detto Paradiso goduto da Marco I Pio e confisca- to nel 1469 ai figli di Galasso per la congiura contro Borso d’Este. 29 BARONI 1981, p. 170. 30 CLOUGH 1973, p. 214. 38 Anna Maria Ori

Ricordini funebri del principe Juan Falcò Trivulzio Pio e della moglie, Donna Inés de la Gandara, pro- prietari di Villa Mombello. Carpi, collezione Alfonso Garuti.

Il principe don Alfonso, loro figlio, ultimo proprietario di Villa Mombello. Carpi, Biblioteca Loria, fondo Mons. Antonio Gualdi. Un tesoro di famiglia: gli archivi Pio di Savoia 39

Valcàrcel di figurare ogni anno nell’elenco dei novanta Maggiori estimati, cioè i principali possessori di proprietà immobiliari nel comune di Carpi31. Le carte non rimasero a lungo a Milano: dopo il 1883 furono portate nella splen- dida Villa Mombello di Imbersago, presso Merate (Como), acquisita, assieme al palazzo Orsini di via Borgonuovo di Milano, per il matrimonio di Antonio Valcàr- cel y Pascual del Povil con Beatrice Orsini (1803), del ramo milanese della fami- glia. Qui l’archivio negli anni successivi fu riordinato e inventariato da Arturo Faconti secondo criteri molto discutibili, che alterarono l’ordine e la leggibilità di fondi fino allora integri o quasi, e per di più con lo scarto di molti materiali da lui sbrigativamente giudicati inutili. Cecil Clough stima, anche se «non esiste un modo facile o del tutto certo di rin- tracciare il materiale che era in origine in questi archivi Pio», che siano stati di - spersi circa 350 faldoni, rispetto a inventari precedenti32; ma ammette pure che il Faconti può non essere il responsabile di tutte le perdite, visto che non si possono escludere dispersioni in occasione dei traslochi precedenti o distruzioni dovute all’incuria di custodi inadeguati. Certo che oggi solo una piccola parte del carteggio personale di Alberto III Pio resta nella Biblioteca Ambrosiana, dove è confluito l’archivio di questo ramo: poco più di un centinaio di pezzi, di cui sette lettere scritte o dettate da Alberto, le restan- ti originali o copie di lettere a lui inviate. La maggior parte, un’ottantina circa, sono datate 1510 (quelle prestate a Maulde de la Clavière, si veda più avanti), le altre sparse negli anni successivi fino al 1524, con un’ultima del 1526; tra questi due estremi cronologici si inseriscono le centoventotto lettere “americane”, che tutta- via da almeno un indizio sembra che non rappresentino l’intero fondo di cui face- vano parte33. Fa pensare a una possibile dispersione la data dell’acquisto, il 1964, in concomitanza con una ricca offerta sul mercato antiquario del carteggio del car- dinal Rodolfo Pio, di cui dà notizia il Clough, che è riuscito a identificare soltanto l’acquisto di ventinove lettere da parte della Pierpont Morgan Library di New York, tutte, salvo una, inedite nel momento in cui egli scriveva34. Sempre Clough racconta che negli anni 1963-66, durante le sue frequentazioni per motivi di studio di Villa Mombello, il principe Alfonso Falcò Pio lo intratten- ne in lunghe conversazioni sulle vicende del suo archivio. Apprese così che agli inizi del Novecento il padre di quest’ultimo, il principe Giovanni, si era premura- to di concentrare a Mombello non solo molte carte sparse nelle varie proprietà ita- liane, ma anche gli importanti fondi delle famiglie i cui cognomi si erano associati nel tempo a ‘Pio di Savoia’: l’archivio de Moura, portoghese, molto danneggiato da un incendio, e quelli spagnoli Falcò e Valcàrcel. Appassionato di storia dinastica,

31 L’ultimo è l’Elenco dei novanta maggiori estimati del Comune di Carpi nell’anno 1852, data- to 26 marzo dello stesso anno, dove al n. 36 (in ordine alfabetico) figurano «Falcò Valcarzel don Gio- vanni e Fratelli». ASCC, N. 379 P.G.A. 32 CLOUGH 1973, pp. 202. 33 Per una descrizione del carteggio si veda Luciana Saetti in Appendice 1. 34 CLOUGH 1973, pp. 212-13. 40 Anna Maria Ori aveva grande cura delle carte, ma anche, da vero principe, le considerava come oggetti di pregio di sua proprietà, da poter prestare a studiosi illustri e fidati, come René Maulde de la Clavière, a cui affidò nel 1892-93 l’intera cartella delle lettere di Alberto III Pio, trascritte, utilizzate e in parte pubblicate dallo storico francese nel suo La Diplomatie au temps de Machiavel, e regolarmente restituite alla fine del lavoro35. Il fatto che si sentisse ‘proprietario’ delle carte e ne disponesse come tale, senza porsi problemi di custodia, è dimostrato dal fatto che nell’archivio Falcò oggi appare una cartella con l’appunto «Dall’Archivio Casati»: potrebbe essere un’indicazione di provenienza, ma contiene un gruppo di lettere (quattro di Alberto Pio e alcune dirette a lui da diversi corrispondenti, nell’arco cronologico 1521-23), «ovviamente origina- rie dell’archivio di Alberto Pio [che] sembrano essere il residuo di una più ampia fil- za del 1522». Probabilmente erano state prestate dal principe al suo amico marchese Camillo Casati Stampa senior e dimenticate da entrambi, tanto da finire inglobate nel- l’archivio del secondo e «solo per caso restituite all’archivio di provenienza negli anni attorno al 1900»36. Viene da chiedersi – insieme a Clough – se non ci possa essere altro materiale relativo alla famiglia Pio nell’archivio Casati o in altri archivi. Anche per una simile consapevolezza l’ultimo proprietario-custode, il principe Alfonso Falcò Pio di Savoia, ben consapevole dell’importanza storica dell’archivio, fin dal 1944 stabilì per testamento di donarlo alla Biblioteca Ambrosiana. La donazione [...] era riferita ad una consistenza di 595 scatole e di 68 atti sciolti, per la stima complessiva di lire 300.000. I 68 documenti erano a Mombello esposti in bacheche e formavano un piccolo museo che il principe Alfonso volentieri illustrava ai visitatori della splendida sala contenente l’archivio e la biblioteca. La seconda, con numerosi documenti d’interesse araldico, fu lasciata ad un istituto madrileno37. Il principe Alfonso, come lo abbiamo visto fare col Clough, ospitava cortese- mente gli studiosi che desideravano consultare l’archivio; ricordiamo che lo fre- quentò anche monsignor Antonio Maria Gualdi, storico carpigiano attento e appas- sionato, di cui resta una bella biografia inedita di Alberto III Pio. A Mombello egli compilò, tra l’altro, un elenco di documenti attinenti Carpi, gli stessi che figurano oggi nell’inventario del Fiorina. L’archivio rimase a Mombello fino alla morte di don Alfonso, nel 1967; due anni dopo tutti i materiali avevano finalmente trovato la sistemazione attuale nella sala loro destinata nella Biblioteca Ambrosiana di Milano e Ugo Fiorina fu incari- cato dalla Sovrintendenza archivistica per la Lombardia di ordinarlo, cosa che fece nei limiti del possibile, tenuto conto di come fosse stata snaturata in precedenza la disposizione originale, e di compilarne l’inventario. Alle 643 unità in cui egli distribuì i materiali, si aggiunse nel 1970 un troncone di 151 unità provenienti dallo scarto operato dal Faconti, acquistato da un libraio di Como sempre con la collaborazione della Sovrintendenza.

35 Ivi, p. 205. La lettera di ringraziamento dello studioso è nell’archivio Falcò Pio di Savoia, 283, Carteggio, n. 14: v. FIORINA 1980, p. 71. 36 Tutte le citazioni del paragrafo da CLOUGH 1973, p. 207 (traduzione nostra). 37 FIORINA 1980, p. 19. Un tesoro di famiglia: gli archivi Pio di Savoia 41

Ramo galassino La storia del ramo galassino è stata abbastanza lineare, dopo la tragedia del 1469 che lo sconvolse, disperdendo i figli di Galasso qua e là in Italia e non solo. In quell’anno i nove figli di Galasso II furono accusati di essere a capo di una con- giura per uccidere Borso d’Este – la cui ideazione oggi si fa risalire, con maggior fondamento, a Ludovico il Moro e a Firenze –; decapitati i due maggiori, Giovan Ludovico (cognato di Lorenzo de’ Medici38) e Giovan Marco, gli altri fratelli furo- no incarcerati a Ferrara finché, nel 1477, non rinunciarono ai loro diritti al domi- nio di Carpi. Dei sopravvissuti ebbe discendenza duratura solo Giovan Marsilio39, tornato a stabilirsi a Carpi in condizione privata dopo essere rientrato in possesso di parte dei beni confiscati alla famiglia nel 1469. Nel suo archivio alle carte sopravvissute all’arresto si aggiunsero quelle prodotte nel corso del tempo, e forse anche alcune del ramo albertino rimaste a Carpi o a Novi dopo il bando contro Alberto e Leonello. Si può supporre che fossero conservate nell’abitazione di Car- pi (nell’attuale via Ciro Menotti, angolo via don Paolo Guaitoli, lato ovest) o nel- la dimora fortificata nel territorio di Rovereto40; e non si può escludere che qualche ramo cadetto possa aver sviluppato un proprio archivio in altre città di residenza. Alla fine dell’Ottocento la famiglia mise in vendita presso il libraio Egisto Giu- stini di Firenze una parte del proprio archivio, che fu comprata nel 1891 da Ippo- lito Malaguzzi Valeri, allora direttore dell’Archivio di Stato di Modena: in tutto sedici mazzi di documenti provenienti dal ramo dei Pio risalente a Giovanni Marsilio di Galasso [...]. Si tratta di atti pergamenacei e cartacei ordinati cronologicamente ma non inventariati, dal 1369 al 185141. L’Archivio di Stato di Modena aveva acquistato in precedenza anche un altro gruppo di carte della famiglia Pio di Modena, senza l’appellativo “di Savoia”, ramo parallelo a quello di Manfredo Pio di Carpi42, estintosi nel ramo principale in Gui-

38 Aveva sposato Orante/Aurante, sorella di Clarice Orsini, moglie di Lorenzo de’ Medici, che poi provvide a sistemare i due figli maschi (Galasso, capitano d’armi, muore servendo Massimiliano I contro i veneziani; Latino, avviato alla carriera ecclesiastica, sarà vescovo di Vieste dal 1505) e ai matrimoni della cognata e delle due figlie. 39 Per completare il piccolo repertorio di curiosità dinastiche, anche Borso Pio, figlio di Giovan Marco e di Polissena Appiani, datosi alla pirateria e passato al servizio del Solimano, ebbe tre figli, tutti ufficiali al servizio dei turchi, che contattarono Leonello Pio da Skopje il 30 novembre 1541. Purtroppo non sappiamo se quest’ultimo abbia risposto. Copia della lettera in APS, b. 33, n 25. Cfr. MAINI 1849, pp. 38-42. 40 Sulle vicende di questo ramo si veda il bel lavoro DODI 2002, pp. 88-109. 41 MALAGUZZI VALERI 1891; FIORINA 1980, p. 11. Un’indagine di Fabio Forner su queste carte del- l’ASMO (Archivio segreto estense, Cancelleria, Raccolte e miscellanee, Carteggi e documenti di par- ticolari, nn. 839-842) ha confermato l’attribuzione al ramo galassino, con prevalenza di documenti per lo più amministrativi, nella maggior parte del Sei-Settecento. 42 Discendeva da Egidio Pio, capo della fazione ghibellina modenese agli inizi del 1300 e padre di Guido, che assieme a Manfredo fu vicario di Modena dal 1331 al 1336, quindi signore di San Feli- ce. Su questo ramo dei Pio si veda DODI 2002, pp. 109-115. L’estrosità del marchese Antonio si può ricavare anche solo dal fatto che morendo lasciò erede universale la propria anima. Ibidem, p. 115. 42 Anna Maria Ori do Pio, signore di San Felice, morto senza eredi nel 1337. I suoi congiunti alterna- rono la residenza tra Modena e Carpi, optando per Modena verso la metà del Sei- cento e si estinsero nel 1747 nell’estroso Antonio Pio marchese di Trentino43, loca- lità dell’Appennino modenese non distante da Sestola. Il nucleo principale dell’archivio galassino, invece, fu offerto direttamente dal- la famiglia qualche anno dopo, nel 1899, alla Commissione municipale di Storia patria e belle arti di Carpi che ne caldeggiò l’acquisto da parte dell’amministrazio- ne comunale; oggi è conservato nell’Archivio storico comunale della città dei Pio44. Consta di 129 buste, ordinate con criteri diversi: le prime 44 contengono in ordine cronologico documenti dal 1212 al 1796, le rimanenti presentano tentativi di orga- nizzazione “per persona” o “per materia”. Del materiale esiste un elenco di consi- stenza, dattiloscritto, opera di Alfonso Garuti del 1985, e una tesi di laurea, di Ceci- lia Tamagnini, del 200445. Come mai la famiglia, dopo aver conservato per secoli il proprio archivio, si era decisa a disfarsene? La risposta ce la dà un ritaglio de «Il Panaro. Gazzetta di Modena» del 6 aprile 1872: Sentenza importante. – Ieri la nostra Corte d’Appello, giudicante qual Supremo Tri- bunale di revisione e quindi in ultimo stadio di giurisdizione, ha proferito la sentenza nella celebre causa vertente da parecchi anni fra i signori Pio di Savoja e il Regio Dema- nio. Quest’ultimo quale successore dei diritti e degli obblighi degli Estensi è stato con- dannato a pagare ai signori Pio il compenso di diritti a loro favore stipulati dagli Esten- si nel 1336 e ritenuti lesi, la penale pattuita di 50 mila ducati d’oro corrispondenti a quanto sembra ad oltre un milione di franchi. È un brutto colpetto per l’erario ed una non indifferente fortuna pei rami della famiglia che ha vinto la causa. La sentenza, che dicono notevolissima, è stata stesa dal consigliere Pellegrini46. L’anonimo cronista, un po’ digiuno di storia e di pazienza, ha dato risalto soprattutto alla cifra della penale, saltando qualche passaggio della sentenza, che sì, si fondava sull’impugnabilità del documento del 133647, ma verteva però sul mancato versamento dell’indennizzo per l’incameramento dello stato di Sassuolo da parte degli Estensi, 215.000 ducatoni d’oro che il duca Cesare d’Este aveva con-

43 Il Fiorina descrive il fondo: «due grosse filze di documenti [...] contrassegnate con i numeri di corda 837 e 838 [...] non ordinati e inventariati», però lo attribuisce al «ramo primogenito dei Pio di Savoia» (FIORINA 1980, p. 11), mentre la corretta individuazione del ramo, che non ha mai goduto dell’appellativo “di Savoia”, si deve a Pier Luigi Baroni (BARONI 1981, p. 169). 44 ASCC, Archivio nuovo della Commissione municipale di storia patria e belle arti di Carpi, n. 559, 26 gennaio 1899. Il deposito fu effettuato da «don Galasso Pio, a condizione che fosse conser- vato unito e se ne facesse un inventario alla presenza di un incaricato della famiglia»: BORSARI 2011, p. 249, nota 34. 45 C. TAMAGNINI, L’Archivio Pio di Savoia nell’Archivio storico comunale di Carpi (secc. XIV- XVIII): problemi di riordino ed inventariazione. Tesi di laurea, Università degli Studi di Parma, facol- tà di Lettere e filosofia, rel. Maria Parente, a.a. 2003-2004. 46 Da «Il Panaro. Gazzetta di Modena», 6 aprile 1872. ASCC, AG, b. 108, fasc. 6. 47 MATTALIANO 1981, p. 389. Un tesoro di famiglia: gli archivi Pio di Savoia 43 cordato di versare a Enea Pio, in quanto zio ed erede di Marco Pio (come si è det- to assassinato a Modena nel 1599), e sulla cui vertenza il già citato cardinale Car- lo Emanuele Pio avvedutamente aveva raccolto un’ampia documentazione48. E ciò dimostra l’utilità del conservare le carte di famiglia e del fare delle copie di quelle dei parenti, perché l’indennizzo, dopo una combattuta controversia col demanio, pervenne non al ramo gibertino, ma a quello galassino.

Ma non è finita... Siamo così giunti a seguire, tra ipotesi e certezze, il percorso delle carte della famiglia Pio di Savoia oggi conservate a Milano (Biblioteca Ambrosiana e Archi- vio di Stato) e a Carpi-Modena (Archivio storico comunale di Carpi e Archivio di Stato di Modena). Ma dove sono finite quelle eliminate dal Faconti a fine Ottocento dall’archivio Falcò Pio di Savoia? Dovevano essere molte, come abbiamo visto; ma furono sal- vate dalla distruzione, tutte o in parte, da uno o più librai-antiquari molto pazienti, che le hanno conservate nella consapevolezza che prima o poi qualcuno le avreb- be cercate. Dormirono per quasi un secolo, come le principesse delle favole, fin- ché non giunse il tempo giusto per metterle sul mercato e far circolare il sussurro della loro disponibilità; presto qualcuno decise che le voleva e le comprò. È acca- duto nel 1970, con la citata acquisizione da parte della Biblioteca Ambrosiana; è accaduto di nuovo nel 1990, quando l’Archivio di Stato di Milano comprò dalla libreria antiquaria L’Auriga di Firenze un importante nucleo di carte, 123 buste, con documenti datati dal 1014 al 1755, in gran parte relativi all’amministrazione dei beni e delle proprietà della famiglia Pio, identificato nel sito dell’Archivio stes- so come «parte della documentazione dell’archivio familiare Pio di Savoia scarta- ta dall’archivista Arturo Faconti»49. Perché non potrebbero avere la stessa provenienza anche le carte portate oltre oceano dal professor Setton? Se nel 1990 erano sul mercato dei ‘pezzi’ dell’archivio Pio scartati circa un secolo prima, a maggior ragione potevano esserci nel 1964. Anche se non sappiamo ancora chi le ha vendute e dove sono state conservate dalla fine Ottocento agli anni Sessanta del secolo scorso, possiamo supporre con buon fon- damento che le ‘nostre’ lettere ‘americane’ provengano anch’esse dagli scarti del Faconti. Questo è il possibile bandolo della aggrovigliata matassa che abbiamo dipana- to nel nostro viaggio nel tempo alla ricerca degli archivi Pio su giù per l’Italia. La domanda che possiamo farci, ora, è: dobbiamo attenderci altri ritrovamenti?

48 BARONI 1969, pp. 43-52; ORI 2003 a, p. 90. 49 Scheda Archivio Pio di Savoia, sul sito web dell’Archivio di Stato di Milano, http://www.lombardiabeniculturali.it/archivi/soggetti-produttori/famiglia/MIDD00011C/. 44 Anna Maria Ori

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La biblioteca di Villa Mombello. Si notino, nella galleria, le buste o faldoni dei documenti più impor- tanti dell’Archivio Falcò Pio, e nella nicchia tra i libri il busto marmoreo del cardinale Carlo Emanuele Pio, opera di Alessandro Algardi, 1641 circa. Da “Grazia”, ottobre 1965. Carpi, collezio- ne Alfonso Garuti. Coperta del carteggio conservato presso la Pennsylvania University Library, Filadelfia (USA), Ms. Coll. 637. Alberto Pio nelle “lettere americane”

Luciana Saetti

La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. (Eugenio Montale. Milano, 1971)

A me basta essere venuto a solazo in questi tempi piacevoli. (Leone Grillenzoni. Wels, 1519)

Diversi anni fa – ma la storia sarebbe lunga – mi venivano messi a disposizio- ne i CD arrivati dalla Pennsylvania University Library di Filadelfia con le riprodu- zioni di quello che, per brevità, chiamerò il carteggio Lea, attualmente consultabi- le nel sito della biblioteca stessa1. Il lavoro che propongo qui è l’esposizione di una ricerca condotta su quelle “lettere americane”: una consistente raccolta tuttora ine- dita, anche se non ignota agli specialisti2. Sulle circostanze in cui, nel secolo scorso, questi manoscritti provenienti dagli archivi della famiglia Pio di Savoia giunsero oltreoceano danno esaurienti notizie nel presente volume i saggi di Stefano Villani e di Anna Maria Ori. La loro importanza, sottolineata dal contributo di Fabio Forner, si rileva soprattutto in relazione all’atti- vità diplomatica di Alberto Pio come ambasciatore (“oratore” secondo l’uso umani- stico) di Massimiliano I d’Asburgo, a Venezia e a Roma, negli anni 1512-1517. Ho cercato, qui, di rendere conto dei principali aspetti e contenuti del carteggio, sulla base di una lettura e trascrizione integrale dei testi che ha consentito di ricon- durre alla collocazione originaria vari fogli sciolti e di ricostruire o, in qualche caso, solo ipotizzare, la sequenza cronologica dei documenti3. Ne risultano, com- plessivamente, 54 minute di lettere in latino di Alberto, quasi tutte all’indirizzo di Massimiliano I e del cancelliere Matthäus Lang, oltre che al tesoriere Jakob Villinger e al segretario Ludwig Maraton; cui si aggiungono una bozza di atto nota- rile e 73 lettere “viaggiate” di suoi corrispondenti. Quest’ultima serie di scritti copre un arco di tempo più ampio, dal 1512 al 1523, e dà spessore e concretezza alle relazioni, finora poco indagate, di Alberto con i segretari imperiali Iacopo Bannissi e Andrea de Burgo, con il giurista e uomo di stato napoletano Giovan Battista Spinelli, e offre ulteriori testimonianze di quelle con alti prelati quali Giovan Matteo Giberti, Lorenzo Campeggi, Federico Fregoso.

1 http://hdl.library.upenn.edu/1017/d/medren/4106850. 2 Alcuni degli scritti di Alberto Pio compresi nella raccolta Lea sono citati o trascritti parzialmente in SETTON 1984 e MINNICH 2005 (ad indices); il primo fornisce il testo completo della minuta del 7 novembre 1517 (vol. III, p. 172 nota 3). In JACOBY 2011, pp. 278-280, compare la trascrizione delle due minute del 25 giugno 1513. 3 Se ne veda l’elenco, con le relative segnature d’archivio, in Appendice 1. 48 Luciana Saetti

Una parte della corrispondenza, infine, assume particolare rilievo perché fa luce sulla qualità dei suoi rapporti con il fratello Leonello, la cui figura meriterebbe forse un’attenzione maggiore di quella riservatagli finora. Vi incontriamo anche uno dei “familiari” di Alberto, Leone Grillenzoni, che valeva davvero la pena conoscere; e una figura femminile finora rimasta in ombra, quella di Paola Gonzaga, sorella di Alberto e Leonello. La lunga traversata di questo carteggio è stata compiuta, ovviamente, nei limi- ti delle mie competenze di lettura e delle mie conoscenze del complesso quadro storico-politico delle guerre d’Italia; ma confido nell’attendibilità e nell’importan- za dei risultati per quanto riguarda la contestualizzazione dei documenti e le molte notizie che vi si attingono: come quelle relative all’interazione di Alberto con Lang, l’uomo forte della politica imperiale in Italia, e con i due pontefici avvicen- datisi in quegli anni, dei quali egli delinea alcuni efficaci ritratti psicologici; a un suo soggiorno a Carpi, denso di angosciose prospettive, e alla “linea d’ombra” che attraversa i suoi rapporti con l’imperatore nel momento dell’ascesa di Carlo d’Asburgo e nella prospettiva di diventare, lui, viceré di Sicilia; a un’inedita pro- posta matrimoniale, a un possibile acquisto di opere di Dürer e, infine, alle tante immagini, vicine e lontane, di Carpi e di Novi. Sono, poi, innumerevoli i personaggi che popolano il mondo di questi scritti, dominato dalle figure dei sovrani e dei principi d’Europa, tra i quali due pontefici del calibro di Giulio II e Leone X; affollato di ecclesiastici e nobili di vario rango, percorso da uomini d’arme, banchieri e maestri delle poste, letterati, avventurieri, cortigiani, servi di casa e, sullo sfondo, soldati e popolani. Colpisce e avvince la molteplicità di fatti minori e di figure che compaiono solo di sfuggita. Di tutto que- sto sarebbe stato impossibile, qui, rendere conto analiticamente; ma si è voluto concedere qualche spazio alle eccezioni. Mi è sembrato importante, soprattutto, ascoltare e far sentire la voce di Alberto e dei suoi interlocutori “in situazione”: per contribuire, così, all’approfondimento delle sue vicende pubbliche e private e a un’interpretazione delle finalità implicite nella “narrazione diplomatica” dei fatti, tra reciproche reticenze, persuasioni occulte, esternazioni espressive.

Ringrazio tutti coloro che hanno promosso questa pubblicazione, per prima Anna Maria Ori e, per l’amicizia e l’aiuto, Lucia Armentano, Florio Magnanini, Piero Pittini, Franco Saetti. Pur consapevole delle inevitabili inadeguatezze del presente lavoro, dedico l’impe- gno e la passione da cui è nato alla memoria dei miei genitori. 1512. Alberto «homo di l’imperador»: la missione a Venezia

Degli scritti di Alberto conservati nella raccolta Lea, quelli datati o databili al 1512 sono tutti indirizzati a Matthäus Lang, vescovo di Gurk e luogotenente impe- riale in Italia1. Alcuni di essi risalgono ai primi giorni di agosto, quando sta per con- cludersi la missione diplomatica che ha impegnato Alberto a Venezia, dal novembre dell’anno precedente, nelle trattative per la tregua fra la Signoria e l’imperatore Mas- similiano I d’Asburgo. Gli altri sono dei mesi successivi, nei quali Alberto si stabili- sce a Roma assumendo il ruolo di oratore imperiale presso la Santa sede. Gli antefatti sono noti: quando si mette al servizio dell’imperatore, alla fine del 1511, Alberto non solo è caduto in disgrazia presso il re di Francia, Luigi XII, ma come immediata conseguenza di questo fatto ha subito un attacco militare contro Carpi che lo ha costretto alla resa della città2. La sua missione a Venezia si svolge contemporaneamente alle trattative con- dotte da Lang per l’adesione dell’imperatore alla Lega santa promossa dal pontefi- ce Giulio II contro la Francia3; per stabilirne le condizioni il vescovo di Gurk vie- ne in Italia e nell’agosto incontra, a Mantova, i rappresentanti dei collegati in vista della conclusione ufficiale dell’accordo a Roma. I Diarii di Sanudo forniscono numerose notizie sul lungo soggiorno di Alberto a Venezia4, registrandone l’arrivo da Innsbruck, alla fine di novembre 1511, come homo di l’Imperador e gran nemico dil re de Franza per averli tolto il stato5 e seguendo poi puntualmente gli sviluppi dei negoziati. L’operato di Alberto a Venezia si interseca con quello di un altro emissario imperiale, Giovanni Colla, in missione a Roma dall’ottobre precedente: personag- gio alquanto sfuggente, del quale rimane memorabile la definizione datane da Girolamo di Porcìa nel 1511: Qui è uno segretario di l’imperatore, Johanne Cola, ch’è un certo deserto melanconico6. Mentre la gestione delle trattative con la

1 Matthäus Lang von Wellenburg (1468-1540) di Augusta, vescovo di Gurk (in Carinzia) dal 1501, cardinale in pectore dal 10 marzo 1511, pubblicato il 24 novembre 1512, poi (1519) vescovo principe di Salisburgo. Sulla sua figura, SALLABERGER 1997. 2 V. in proposito il contributo di Anna Maria Ori al presente volume, pp. 224-225. 3 La Lega santa era stata costituita a Roma il 4 ottobre 1511 con l’adesione di Spagna, Venezia, Svizzera e poco dopo (13 novembre) Inghilterra. Sugli accordi, MESCHINI 2006, pp. 887-890. 4 SANUDO 1879-1902, voll. XIII-XIV, ad indices; d’ora in poi, soltanto SANUDO, seguito dall’in- dicazione del luogo (volume e colonna). V. anche ROMBALDI 1977, pp. 26-27; SVALDUZ 2001, pp.101-102. 5 SANUDO, XIII 266. Alberto è già a Venezia il 23 novembre 1511 (SANUDO, XIII 261); v. anche GODEFROY 1712, t. III, pp. 105-106 (Jean Le Veau a Louis Barangier, 29 dicembre 1511). 6 SANUDO, XIII 86 (lettera da Roma, 8 ottobre 1511). Girolamo dei conti di Porcìa fu vescovo di Torcello dal 1514. Giovanni Colla (m. 1515), un tempo al servizio di Ludovico il Moro e poi precet- tore dei suoi figli in Germania nonché segretario e consigliere di Massimiliano d’Asburgo, con la restaurazione sforzesca divenne primo segretario ducale e poi tesoriere generale (MESCHINI 2006, pp. 939, 1075; F. PETRUCCI, Colla, Giovanni, DBI, vol. 26, 1982). 50 Luciana Saetti

Paolo Forlani, Venetia. Incisione su rame per Bolognino Zaltieri, XVI secolo. Paris, Bibliothèque nationale de France, GE C-10491. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 51

Signoria spetta ad Alberto, è Colla a tenere i rapporti con il pontefice7 e a riscuo- tere, in alternativa a uno thesorier todesco de Arzentina8 (Strasburgo), i versamen- ti all’imperatore per la tregua. A Venezia, inoltre, Alberto agisce di concerto con Giovan Battista Spinelli con- te di Cariati, emissario di Ferdinando il Cattolico; in occasione di una precedente missione a Venezia nel 1496, Sanudo lo descriveva come fidelissimo di la caxa d’Aragona, et stato qui oratore per tre re, homo di gran cervelo, ingegno et opti- ma eloquentia, con perfeta presentia9. Spinelli si affermò come alto funzionario e uomo di stato presso gli Aragonesi di Sicilia e quelli di Spagna, e infine presso il casato asburgico, ottenendo generosi compensi e l’assegnazione di vari feudi e ter- ritori in Calabria10. La discussione delle condizioni della tregua verte principalmente sull’ingente somma di denaro che l’imperatore esige da Venezia per la pacificazione e sulle pre- tese territoriali di quest’ultima riguardo ai domini di terraferma da cui è stata costretta a ritirarsi in seguito alla disfatta militare subita ad Agnadello nel 1509.

Prigionieri e ostaggi Il primo testo del nostro carteggio è quello di una lettera dell’imperatore del 12 gennaio 1512, da Linz (documento I)11, con istruzioni su questioni collaterali: una è la liberazione di prigionieri e in particolare di Ferry de Croÿ, capitano della cavalleria imperiale catturato nel novembre 1511 presso Verona dagli stradiotti veneziani e per il quale l’imperatore vuole che si ottengano, almeno, più miti con- dizioni di detenzione12; l’altra è la consegna degli ostaggi veneziani richiesti per assicurare l’incolumità di Lang nel viaggio che lo porterà a Roma; al riguardo Mas- similiano scrive che per il momento non è il caso di farli partire. Alberto infatti si stava occupando anche delle condizioni per l’arrivo di Lang in Veneto, da dove era previsto che fosse trasportato a Rimini con galee veneziane recanti le insegne imperiali13; ma visto l’andamento dei negoziati, questi decise altrimenti, evitando di entrare nel territorio della Repubblica. L’incarico diplomatico affidato ad Alberto presenta non poche difficoltà, perché il ristabilimento di buoni rapporti tra Venezia e l’Impero, fortemente voluto da Giu- lio II, implica principalmente che si risolvano le questioni territoriali: il pontefice

7 In una minuta del 12 marzo 1517 Alberto lo menziona appunto come suo predecessore nell’in- carico a Roma. 8 SANUDO, XIV 388. 9 SANUDO, I 350. 10 Spinelli godette della considerazione e fiducia di Carlo d’Asburgo, che lo volle al suo seguito in Spagna nel 1517-1518 come consigliere e, divenuto imperatore, lo nominò membro del proprio consiglio segreto. Morì nel 1522, in circostanze rimaste poco chiare. Sulle sue vicende, SANTORO 2008; SICILIA 2010, pp. 17, 129; ID. 2011, pp. 249-257. 11 Indico qui come «documenti» le trascrizioni dei testi della raccolta Lea; i numeri romani corri- spondono alla successione secondo la quale li ho ordinati cronologicamente. 12 Cfr. MESCHINI 2006, p. 979. 13 SANUDO, XIII 264-265. 52 Luciana Saetti si è impegnato con i veneziani alla restituzione di tutti i loro territori conquistati dai francesi nella guerra della lega di Cambrai14, ma l’imperatore non intende rinunciare a quelli che gli spettano secondo gli accordi di quell’alleanza (1508) e teme che un ritiro dei francesi dalla Lombardia gli faccia perdere in un colpo solo anche tutte le terre guadagnate in Friuli e in Cadore15. Queste le premesse delle questioni che Alberto deve cercare di dirimere, cui si aggiunge un’altra complicazione: perché, mentre la Lega santa in funzione anti- francese annullava di fatto la precedente lega di Cambrai contro Venezia, l’impe- ratore, non ancora entrato nella nuova coalizione, rimaneva formalmente legato a Luigi XII. Da ciò anche la sua posizione, inizialmente irresoluta, sul concilio sci- smatico di Pisa16 promosso dal re di Francia.

Un percorso a ostacoli Il documento successivo è una lettera di Giovan Battista Spinelli, del 24 mag- gio. Ma nei mesi che intercorrono tra questi due scritti succedono molte cose, che sembra opportuno riepilogare, qui, sulla scorta di Sanudo e in riferimento alla mis- sione di Alberto. Nella guerra dei collegati per cacciare i francesi dal ducato di Milano e dall’I- talia venivano a trovarsi nell’occhio del ciclone le città di terraferma strappate ai veneziani: il 4 febbraio, per esempio, a Venezia si esulta per la notizia della presa di Brescia – in mano francese dal 1509 – con un’azione concertata da un gruppo di cittadini bresciani, capeggiati dal conte Luigi Avogadro, per aprire le porte al comandante veneziano Andrea Gritti. Questo fatto, comunicato immediatamente anche ad Alberto, nei giorni successivi si ripercuote sulla discussione degli accordi con un irrigidimento delle posizioni della Signoria. La situazione, però, è destinata a mutare nel giro di due settimane: Gaston de Foix, al comando dell’esercito che assedia Bologna, presa la città marcia imme- diatamente su Brescia, che cade il 19 febbraio e subisce un feroce saccheggio. Tra febbraio e marzo, Sanudo non dà notizie di Alberto, che in quel lasso di tempo potrebbe aver lasciato per qualche periodo Venezia, forse per andare a Roma. Qui infatti, ai primi di marzo, la trattativa per la tregua, che sembrava stesse andando a buon fine, improvvisamente si inceppa, sempre per questioni territoriali: in questo caso l’oggetto del contendere è la città di Vicenza, alla qua- le i veneziani, contraddicendo quanto dichiarato poco prima, fanno sapere di non voler rinunciare. Il 6 marzo l’incaricato imperiale Giovanni Colla dichiara al

14 MESCHINI 2006, p. 888. 15 Ibid., p. 897. 16 In proposito, MESCHINI 2006, pp. 869 sgg. e relativa bibliografia. Il concilio promosso dai car- dinali dissidenti Sanseverino, Carvajal, Briçonnet, de Prie con l’appoggio di Luigi XII era stato con- vocato nel novembre 1511 a Pisa; dopo il trasferimento a Milano, si spostò ad Asti e, seguendo il ripiegamento dei francesi nel giugno 1513 dopo la battaglia di Ravenna, a Lione, dove infine si sciol- se. In contrapposizione a esso, Giulio II indisse il Concilio lateranense che si aprì nel maggio 1512. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 53 pontefice di aver ricevuto una lettera dalla Germania che sospende le trattative togliendogli il mandato. La brusca interruzione dei negoziati fa andare su tutte le furie Giulio II, che apostrofa gli oratori veneziani esternando le minacciose prospettive da cui è tur- bato e che includono il protrarsi del “conciliabolo” pisano allora trasferito a Milano: Vui non voleti acordarvi; farano novo Papa, ne cazerà di Roma, nui e vui saremo rovinati sono le parole che essi riportano alla Signoria17. Solo nel mese successivo, finalmente, si arriva a una composizione: il 6 apri- le viene sottoscritta a Roma l’approvazione degli accordi per la tregua. Da qui, l’indomani, Colla torna a Venezia per poi ripartire subito per la Germania18. Pro- prio in quei giorni Alberto è di nuovo menzionato da Sanudo, a proposito del- l’incidente occorsogli il 9 aprile nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo: El signor Alberto da Carpi orator cesareo, eri in chiexia di San Zane Polo, hessen- do ne l’organo, cazete la gioza et si sentì molto ofeso, adeo è amalato. Se dize, varirà19.

Tutti i colori del nero In seguito a questo infortunio, Alberto non è presente alle cerimonie religiose del giorno di Pasqua (11 aprile) e ricomparirà in pubblico solo una quindicina di giorni dopo: El qual [Alberto], zonta che fu la trieva di Roma, è varito, si vestì di veludo negro e butò zoso l’habito beretino ch’el portava, e andava con barcha con tapedi come orator di l’Imperador; qual desidera questo accordo sopra tuto, et vi mete ogni suo inzegno a que- sto; e zonto le trieve, anderà come orator poi a la Signoria pubblice20. Sanudo ci consegna qui una memorabile immagine di Alberto, connotata dal- l’ostentazione del lusso come fattore di visibile distinzione di rango, cui l’abito di vel- luto nero – come nel suo ritratto pittorico più famoso, eseguito in quel medesimo 151221 – conferisce gravità e sussiego secondo i codici etico-estetici della “forma del vivere” propria della modernità umanistico-rinascimentale22. Frattanto, in quella domenica di Pasqua, l’esercito ispano-pontificio al coman- do di Ramón de Cardona, viceré di Napoli, subiva una disastrosa sconfitta presso Ravenna da parte dell’armata di Francia guidata da Gaston de Foix, affiancata da mercenari lanzichenecchi e da un contingente ferrarese dotato delle efficienti arti-

17 ID., XIV 24. 18 ID., XIV 85. 19 ID., XIV 87. 20 ID., XIV 164. Spesso gli incontri ufficiali con il governo veneziano erano preceduti da abbocca- menti segreti; in quei casi, come riferisce più volte Sanudo, Alberto vi si recava passando attraverso la casa del doge. 21 Sul ritratto di Alberto Pio attribuito a Bernardino Loschi (Londra, National Gallery) v. FRANGI 2008, pp. 89-115 e relativa bibliografia. 22 QUONDAM 2007, spec. pp. 9-18, 139-153. 54 Luciana Saetti glierie di Alfonso d’Este. Nonostante la morte sul campo del giovane e irruento comandante francese, si temette un’ulteriore offensiva contro Roma stessa; ma date le enormi perdite subite anche dai vincitori, il nuovo generale La Palice, allar- mato dalle notizie di una discesa degli svizzeri in Lombardia, decise di ripiegare verso Milano. Stando ancora a Sanudo, Alberto rimane a Venezia anche dopo la metà di apri- le, in attesa della ratifica imperiale della tregua. Certamente vi si trova il 4 maggio, come testimonia la sua nota lettera a Ippolito d’Este23. Ricompare poi in Consiglio l’11 maggio, sempre vestito di veludo negro di sora, a mostrare una lettera impe- riale da Treviri con ulteriori condizioni per la tregua24. Gli accordi vengono ratifi- cati dall’imperatore il 20 maggio. Nella stessa data, giorno dell’Ascensione – e, a Venezia, dello “Sposalizio col mare” – Sanudo registra di nuovo la presenza di Alberto e un suo soggiorno in una località termale sui Colli Euganei: In questi zor- ni il signor Alberto da Carpi orator cesareo è qui, andoe a Padoa a li bagni di Monte Ortone per alcuni zorni25.

Una lettera di Giovan Battista Spinelli Arriviamo così alla lettera che, in occasione di quella sua assenza, Spinelli gli scrive da Venezia il 24 maggio, parte in spagnolo e parte in italiano (documento II), per aggiornarlo con le notizie avute dall’oratore di Spagna a Roma sul pagamento dei mercenari svizzeri e sui movimenti dell’esercito di Cardona che, tornato nel regno di Napoli dopo la battaglia di Ravenna, ora si accinge a risalire la penisola. Alla fine rassicura Alberto su quanto questi gli ha detto di aver saputo dal proprio homo residente a Roma (Sigismondo Santi, come apprenderemo poi), secondo il quale il papa sembrerebbe disposto a trattative con i francesi. Spinelli si dice certo che non si verificherà niente di simile, e conclude: Prego la Signoria Vostra non piglie ansia né dispiacere de questo, ma attenda ad restau- rarse llo più presto sia possibele, et metterse in ordine per Carpi, dove con lo ayuto de Nostro Signore spero presto che serrà; et francisi in totum fora de Italia: la royna loro se antevede in omne loco. In una sorta di poscritto che purtroppo si legge a fatica, Spinelli commenta l’o- perato dei due legati pontifici che si sono avvicendati a Venezia – il napoletano Massimo Corvino Bruni, vescovo di Isernia, e il dalmata Michele Claudio, vesco- vo di Monopoli – con un apprezzamento di cui è decifrabile per intero solo la fra- se finale: ...lo ingannatore resta spisso sotto lo ingannato. Nel tono colloquiale di questa “moralità”, così come nelle sollecite rassicurazioni sulle intenzioni del pon- tefice e sull’ormai certa conferma ad Alberto del pieno possesso di Carpi, si può cogliere un’espressività simpatetica che caratterizza anche altre lettere di Spinelli.

23 MSDC XI, 1931, pp. 116-118. 24 SANUDO, XIV 209. 25 ID., XIV 232. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 55

Il suo ottimismo sulla cacciata dei francesi, d’altra parte, è più che giustificato: gli svizzeri infatti sono scesi in Italia dopo essersi uniti a Trento con truppe tede- sche; con queste il 27 maggio prendono Verona, congiungendosi poi con l’eserci- to veneziano e avanzando in Lombardia26. Alberto è di nuovo a Venezia il 28 maggio, quando fa visita al doge Leonardo Loredan che si sta riprendendo da una malattia27. Il 29 è il giorno in cui ottiene dal- l’imperatore il riconoscimento dei propri diritti su Carpi28. Nella stessa data, l’ora- tore veneziano Francesco Foscari comunica alla Signoria che il papa ha deciso di mandare a Venezia, da Roma, Sigismondo Santi, ch’è nontio del signor Alberto da Carpi29, per ottenere che si sollecitino gli svizzeri ad andare contro Ferrara.

Un traguardo soddisfacente Da quel momento le trattative si intensificano: ai primi di giugno gli incontri diplomatici si susseguono quotidianamente, anche in presenza di Spinelli, dell’o- ratore pontificio e di quel Zuan Colla30, di ritorno dalla Germania con le ultime condizioni dell’imperatore: si parla di una somma aggiuntiva di 10.000 ducati, oltre ai 40.000 già pattuiti, e della liberazione di tre prigionieri. Il 7 giugno Alber- to annuncia l’imminente arrivo a Trento di Lang31 e l’indomani i veneziani assicu- rano il versamento, per il giorno seguente, di 12.000 ducati. La sera stessa Ferry de Croÿ e due altri capitani imperiali sono fatti uscire dal carcere delle Torreselle per essere alloggiati nel Fondaco dei Tedeschi. In un clima di soddisfazione per le intese raggiunte, si riuniscono tutti gli ora- tori perché a questo punto, annota Sanudo, el si po’dir l’Imperador sia in la Liga32. Giovedì 10 giugno Alberto partecipa alla solenne processione del Corpus Domini accanto al doge, con il vescovo di Monopoli, Spinelli e i prigionieri scar- cerati. Con questi ultimi, qualche giorno dopo, prende parte, a casa del conte di Cariati, a una cena ufficiale per dieci invitati. Altra cerimonia ufficiale il 15 giugno per l’annuale visita del doge alla chiesa di San Vito; nello stesso giorno arriva a Venezia la notizia che Milano si è sollevata contro i francesi. Colla è partito per Roma.

26 Il 2 giugno gli svizzeri, congiunti con i veneziani, occuparono Valeggio e passarono il Mincio; il 7 giugno si arrese Cremona, il 14 cadde Pavia e il 16 fu la volta di Milano. L’esercito francese in ritirata varcava le Alpi alla fine di giugno, lasciando guarnigioni a presidio di alcune fortezze (v. MESCHINI 2006, pp. 1029-1031) la cui successiva occupazione da parte dei collegati generò ulteriori disaccordi tra Venezia e Impero. 27 SANUDO, XIV 158. 28 Copia d’epoca in APS, b. 3, 49 bis. 29 SANUDO, XIV 283. Il 6 giugno Sanudo annota che Sigismondo Santi ha portato a Venezia 2000 ducati per pagare gli svizzeri (XIV 290). 30 ID., XIV 286. 31 ID., XIV 290. 32 ID., XIV 302. 56 Luciana Saetti

Tra Venezia, Roma, Mantova Il 16 giugno anche Alberto parte per Roma: come riferisce ancora Sanudo, s’im- barca sulla galia Capella diretta ad Ancona; ma per evitare il gran morbo che v’im- perversa sbarca invece a Recanati, proseguendo per staffetta33. Alla metà di luglio lo troviamo ancora a Roma; si rimette in viaggio negli stes- si giorni in cui il duca di Ferrara, dopo il suo incontro con Giulio II, si dà alla fuga temendo della vita34. Sanudo registra il suo arrivo a Venezia il 19 luglio per comunicare, in un segre- tissimo Consiglio dei Dieci, le condizioni dell’adesione dell’imperatore alla Lega santa nonché per sollecitare il saldo dei 24.000 ducati ancora dovuti per la tregua. Tre giorni dopo Alberto lascia di nuovo la città per raggiungere Lang che sta partendo da Trento diretto a Mantova, dove il 30 luglio hanno inizio gli incontri – che proseguiranno fino al 21 agosto – con i rappresentanti dei collegati35. Dopo aver conferito con Lang, ai primi di agosto Alberto torna a Venezia per conclude- re la trattativa in vista dell’andata a Roma del plenipotenziario imperiale.

In laguna, sul fare dell’alba In quelle circostanze, decisive per il futuro della lega, si colloca il primo degli scritti di Alberto nel carteggio Lea (documento III). Si tratta di un lungo e detta- gliato rapporto a Lang su tre giorni di negoziati, dal momento del suo arrivo a Venezia mercoledì 4 agosto al venerdì seguente. L’incipit è suggestivo: “Mercoledì, sul fare dell’alba, sono arrivato a Venezia e alla medesima ora Iodoco su una navicella seguiva la mia nave e l’ho visto mentre entravo in città, perciò l’ho subi- to convocato; mi ha consegnato la lettera di Vostra Signoria Reverendissima...”36. A questa visione lagunare aggiunge un dettaglio la nota lettera del 6 agosto a Francesco Gonzaga37 sull’acquisto di bicchieri in vetro di Murano, dalla quale si apprende che Alberto viaggiava sulla barcha del marchese di Mantova. La ricerca dei bicchieri che, inaspettatamente, non risulterà facile procurarsi costringe Alber- to, dopo che i servitori da lui incaricati sono tornati a mani vuote, ad andare di per- sona a Murano a commissionarli, in un qualche intervallo degli incontri diploma- tici che lo impegnano quotidianamente. In questo scritto Alberto riporta per filo e per segno il loro andamento: sembra

33 ID., XIV 324, 419. 34 Secondo SANUDO, XIV 510 (lettera di frate Angelo Lucido, 16 luglio 1512), Alberto è partito per Bologna; nella nota lettera di Alfonso a Ippolito d’Este del 17 luglio si dice che è andato da Lang (è ito al Burgense [sic]). Alfonso, che scrive da Roma sotto falso nome, menziona anche Giovanni Col- la, il quale dice che lo Imperator non vole il papa habia Ferara (CAPPELLI 1866, p. CXLIII). 35 Sul convegno di Mantova, GUICCIARDINI 1988, XI 2 (d’ora in poi, soltanto GUICCIARDINI, seguito dal numero del libro e del capitolo); SANUDO, XIV 544-588, passim; MESCHINI 2006, pp. 1081 sgg. 36 Degli scritti in latino si dà, qui, soltanto la traduzione, segnalata da virgolette alte. 37 Testo in SVALDUZ 2001, p. 350. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 57 quasi voler dimostrare a Lang di aver retto il confronto con una controparte poco malleabile, diffidente se non addirittura ostile. Forse anche il destinatario del suo resoconto l’avrà trovato un po’ troppo parti- colareggiato, come succede anche a noi nel leggerlo e, quel che è peggio, nel ten- tare di renderne conto; cercando di cogliere, per di più, il significato dei tanti rife- rimenti a fatti politico-militari che creano continui contraccolpi sulla trattativa. I giorni dal 3 all’8 agosto, d’altronde, sono d’importanza fondamentale per Alberto: in contemporanea con quanto si sta decidendo a Mantova, a lui tocca scontrarsi con le difficoltà poste dai veneziani, che continuano a temporeggiare sul versamento del denaro dovuto all’imperatore e si mostrano apertamente diffidenti nei confronti di Lang. Quando, poi, Alberto propone che il loro esercito vada a con- giungersi con quello spagnolo per prendere la rocca di Milano ancora presidiata dai francesi, protestano a gran voce che ciò sia subdolamente finalizzato a ostacolare il recupero dei domini di terraferma promesso loro dal pontefice; e fanno appello al breve che Giulio II, pochi giorni prima, ha inviato al cardinale Schiner38 perché non ponesse ostacoli al rientro del loro esercito per recuperare le città ancora pre- sidiate dai francesi in Lombardia39. È significativo che anche Sanudo riporti in modo molto preciso i termini delle questioni dibattute a più riprese in quei giorni40, e che riguardo a questa specifica discussione sottolinei come Alberto si esprima a un certo punto con parole molto cative, minacciando la rottura della tregua. Non manca poi di riferire anche la risposta, per le rime, del doge: Signor Alberto, qual vole vu’ avanti, che li casteli che tien francesi sia in le nostre man o di Franza, come i sono?41 Dal canto suo, Alberto si diffonde, nella propria relazione a Lang, sugli argomenti con cui ha cercato di smontare le obiezioni dei suoi interlocutori e di spostare la que- stione su un altro piano, quello della strategia comune da adottare per cacciare i fran- cesi, sostenendo che le decisioni spettano all’alto comando militare della lega. La discussione va per le lunghe, finché il 6 agosto viene data lettura della deli- berazione del Senato in merito alle questioni affrontate. Si tratta di un’impeccabi- le dichiarazione d’intenti (l’assoluta volontà di osservare i patti della Lega santa e di mantenere la tregua con l’imperatore, l’auspicio di una pace perpetua con que- st’ultimo) che si conclude stornando abilmente la proposta avanzata da Alberto riguardo alle operazioni militari e ribaltando la sua stessa argomentazione sulla competenza a decidere: “Quanto al congiungimento degli eserciti, rispondevano che anche se potevano dire di non essere tenuti a rispondermi, non essendo ancora la Cesarea Maestà entrata nel San-

38 Matthäus Schiner (Schinner, Schiener; 1465 ca-1522), vescovo di Sion (Sitten) nel Vallese, fat- to cardinale nel marzo 1511 e nominato da Giulio II, nel gennaio 1512, legato in Italia e Germania. BÜCHI 1920; SEREGNI 1922; TRUFFER 2013, ad vocem. 39 SANUDO, XIV 570-571. Su tali circostanze v. MESCHINI 2006, p. 1080. 40 SANUDO, XIV 547-548 (4 agosto), 553-554, 561 (5 agosto), 556-557 (6 agosto), 561-562 (7 ago- sto), 562-563 (8 agosto). 41 ID., XIV 554. 58 Luciana Saetti

Alberto Pio a Matthäus Lang, Venezia, agosto 1512, minuta. Filadelfia, Pennsylvania University Library, Ms. Coll. 637, 6, 11r. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 59

tissimo trattato, non volevano però dare una simile risposta per la somma reverenza che hanno per Cesare; ma dicevano questo, che avrebbero fatto al riguardo ciò che avesse- ro deciso in primo luogo il Santissimo Nostro Signore, che è capo del Santissimo trat- tato, e gli altri principi confederati. Questa è stata, quasi alla lettera, la sentenza”.

Tensioni diplomatiche e una lista della spesa

Il giorno dopo, sabato 7 (documento IV)42 Alberto torna in consiglio a protesta- re aspramente perché non è stata data nessuna comunicazione riguardo al versa- mento del denaro. Si accende un’altra discussione molto tesa, perché ai veneziani non mancano certo gli argomenti polemici: tra questi il fatto che il viaggio di Lang verso Mantova, oltre ad avere escluso dal suo percorso Venezia, abbia comportato la dedizione agli imperiali delle fortezze di Peschiera e Legnago, in cui si trovava- no ancora presidi francesi. Lang, oltretutto, ha consentito ai soldati che erano a Legnago di portarsi a Ferrara, incaricando Alberto di chiedere il salvacondotto ai veneziani. Questi ultimi, dunque, non hanno nessuna intenzione di versare all’imperatore il saldo pattuito e in scadenza: non solo – dichiara il doge senza mezzi termini – per il fatto di non avere la disponibilità dell’intera somma, ma appunto perché il mancato arrivo di Lang a Venezia autorizza il sospetto, anzi dà la certezza, che que- sti intenda impedire loro di prendere Brescia, che vuole invece ottenere, con Cre- ma, per l’imperatore; quindi temono che quel denaro possa essere usato non con- tro i francesi ma contro di loro. Tutto ciò che Alberto riesce a ottenere è un immediato versamento di 3000 ducati; nel riferire a Lang un così modesto risultato, aggiunge di avere istruito chi dovrà riscuoterli sul modo di provare a spuntare una somma maggiore mostrando di non volerne accettarne una così irrisoria. A riportarci dalle tensioni diplomatiche alla dimensione banale, ma non insi- gnificante, della quotidianità interviene la breve nota di spese che si legge al verso del foglio: per una barca da Chioggia, per alcuni capi d’abbigliamento (un paio di calze, due ziponi) e per un acquisto di vino e melone.

Le ire di Giulio II L’andamento e le ripercussioni degli incontri di Mantova sono argomento di un altro scritto non datato che si può far risalire a quegli stessi giorni di agosto (docu-

42 Cfr. SANUDO, XIV 561-562: «A dì 7, la matina. Vene il signor Alberto da Carpi solicitando pur li danari per il Curzense, aliter la trieva è rota etc.; et disse, auta questa total risposta, vol partir per Roma. [...] Fu fato la relatione, per il Principe, di quanto à ditto in Colegio el signor Alberto da Car- pi orator cesareo et l’orator yspano zercha di mandar i danari per il Curzense, come ho scripto di sopra, et quello disse a la risposta li fo fata per il Senato a le tre proposition fece, zoè non andar a campo a Brexa, ma ben tuorla per la Liga insieme col campo yspano; a dar il resto quello dia aver l’Imperador per la trieva, e transito a li francesi è in Lignago. [...] Fu posto [l’8 agosto] per li savii d’acordo, dar al noncio di la Cesarea Maiestà, a conto di ducati 18 milia resta aver per li ducati 50 milia li fo promesso al far di la trieva, ducati 3000, ut in parte». 60 Luciana Saetti mento V): Alberto fa presente a Lang come il convegno di Mantova sia fonte “di molti mali e infiniti sospetti” nei veneziani e nel pontefice, tanto che farebbe bene a chiudere e venirsene via quanto prima: “Una lettera da Roma mi fa sapere che il Santissimo Nostro Signore è pieno di sospet- ti e indignazione al punto che, dando in escandescenze davanti a tutti, ha detto più vol- te che a Mantova si celebrava un altro concilio contro di lui, e al posto dei soli nemici francesi scacciati c’erano già pronti molti successori; che i tedeschi erano andati a Fer- rara, gli spagnoli lo minacciavano perché non potevano estorcergli denaro; si è molto adirato quando ha ricevuto la mia lettera, e ha detto qualche mala parola anche su di me: tra le altre, che io volevo tenerlo buono con bei discorsi quando invece egli vede dei fat- ti pessimi e del tutto opposti; ma che non lo avrei sviato né si sarebbe lasciato ingan- nare dalle mie parole”.

Nelle intenzioni di Giulio II, a Mantova si sarebbe dovuta decidere prioritaria- mente un’azione militare contro Ferrara. Ma gli sviluppi del convegno non appaio- no per nulla conformi a tale obiettivo: le potenze alleate risulteranno concordi sol- tanto sulla restaurazione di Massimiliano Sforza nel ducato di Milano e sulla restaurazione dei Medici a Firenze. Il duca di Ferrara vede così allontanarsi la minaccia incombente di un intervento armato contro il suo stato, stornata anche dalle manovre di Isabella d’Este che fa di tutto per ingraziarsi i potenti convenuti a Mantova: in quei giorni scriveva al cardinale Ippolito di non aver mancato d’o- gni diligente officio col Viceré et Mons. Gurgense per divertire il campo da Fer- rara43, sfruttando i conflitti latenti tra i collegati. Sulla questione di maggior peso, il destino dello stato di Milano, va ricordato che la restaurazione del dominio sforzesco era fortemente sostenuta e promossa dal cardinale Schiner e dagli svizzeri, mentre l’imperatore e Ferdinando d’Aragona, pur essendosi pronunciati in tal senso, continuavano a coltivare la possibilità di instaurarvi Carlo d’Asburgo, nipote di entrambi. In proposito Alberto riferisce a Lang, nel medesimo scritto, di avere sondato le posizioni dei veneziani: “A mio parere i veneziani preferirebbero che la Maestà Cesarea avesse il ducato di Milano [per Carlo d’Asburgo] purché loro recuperassero le città che erano le loro, anche tolta Cremona, e pagando anche una forte somma e un tributo annuo, piuttosto che l’avesse il figlio del duca di Milano [Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro] con la sola perdita da parte loro di Verona. A parità di condizioni, però, vorreb- bero più lo Sforza che Cesare”. Riguardo a Ferrara, Alberto informa Lang di alcune false notizie sui colloqui riservati che ha avuto con lui a Mantova: è stato riferito a Ippolito d’Este che lui, Alberto, si sarebbe rifiutato di comunicare al papa quanto Lang gli ordinava di dire riguardo a Ferrara; e che nel parlare della situazione di Mirandola, Lang l’avrebbe apostrofato duramente andando in collera con lui. Tutto questo Cassola, l’oratore

43 LUZIO 1912, pp. 117. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 61 ferrarese, l’avrebbe sentito dire da qualcuno degli imperiali. Il commento di Alber- to è che non sa per quale motivo si vadano dicendo cose simili; comunque ne scri- ve perché Lang stesso gli ha ordinato di farlo sempre liberamente, e sottopone la cosa al suo acuto giudizio. Quel che preme ad Alberto è, evidentemente, evitare che Lang si irrigidisca sul- le proprie posizioni; infatti insiste sulle reazioni di Giulio II perché questi si renda conto che è il caso di agire con maggiore accortezza: “Ho detto a Vostra Signoria Reverendissima a Mantova, e dico ora la stessa cosa, che il Sommo Pontefice non deve essere minacciato né riempito di sospetti, ma piuttosto, se qualcuno volesse nuocergli, va colpito prima che avverta la minaccia; e bisogna guardarsi da ogni occasione che possa fargli nascere dei sospetti e piuttosto trattenerlo con le lusinghe, compiacendo l’uomo che è, dalle sue convinzioni sbagliate, se ne ha qualcuna, più che con le minacce o le ingiurie, se si vuole interagire con lui. Dico e ridi- co la medesima cosa: infatti se sapesse che i soldati che erano a Legnago sono andati a Ferrara, sa Dio come si adirerebbe, quanto lo troverei fuori di sé, e credo che farei pochi progressi e non otterrei mai niente di buono da lui se ci si comporta in questo modo”. La preoccupazione di Alberto, ormai in partenza se non già in viaggio per Roma, è motivata anche dall’imminenza di un confronto con il papa che si annun- cia piuttosto problematico.

NELLA CALDA ESTATE ROMANA

Esprime invece un certo sollievo il resoconto che indirizza a Lang qualche gior- no dopo essere arrivato a Roma (documento VI). Anche in questo scritto leggiamo un incipit degno di nota: entrato in città il 14 agosto prima di pranzo, è stato imme- diatamente ammesso alla presenza del pontefice, un Giulio II decisamente di malu- more e oppresso dalla gran calura; e dal quale, dopo il rituale bacio della pantofo- la, è stato congedato per essere poi ricevuto il mattino seguente, cosa che non gli è affatto dispiaciuta perché così ha potuto riprendersi dalle fatiche del viaggio. Il giorno dopo, il papa non si è mostrato affatto intrattabile come si poteva temere, anzi è apparso molto ben disposto nei suoi confronti, per cui ha potuto svolgere il proprio compito con una certa facilità. Nel dichiararlo a Lang, Alberto non perde l’occasione per sottolineare come, diversamente da altri, non intenda enfatizzare i propri meriti (la stesura, qui molto laboriosa, mostra l’attenta messa a punto di questa captatio benevolentiae): “La mattina del giorno dopo ho cominciato a trattare su quanto Vostra Signoria Reve- rendissima mi aveva ordinato, e così anche ieri e oggi. Tralascerò le discussioni e tutto quanto si è detto nel rispondere e nel replicare; mi limiterò a scrivere le conclusioni, che per la maggior parte sono convinto saranno soddisfacenti per Vostra Signoria e dalle quali Vostra Signoria Reverendissima potrà constatare che il Santissimo Nostro Signo- re non aveva quella cattiva disposizione d’animo di cui alcuni tuttavia scrivevano, o anche che io sono riuscito in poco tempo a ottenere molti risultati e per di più diffici- 62 Luciana Saetti

lissimi da conseguire: ma non voglio che mi si attribuiscano più meriti del dovuto, men- tre fanno il contrario molti che esaltano il proprio sforzo e impegno e non si vergogna- no di sminuire quello altrui, e di denigrare coloro con cui hanno a che fare dicendo di averli trovati intrattabili ma di aver comunque fatto in modo che mutassero parere; io, per la verità, ho trovato il Santissimo Nostro Signore così ben disposto che ho dovuto impegnarmi poco e non spendere molte energie nel concludere le questioni”. Tutto, insomma, procede per il meglio: il papa è decisissimo a ottenere che i veneziani firmino la pace con l’imperatore e “se rifiuteranno li abbandonerà e si unirà a Cesare; e se continueranno a ostinarsi li perseguiterà con le armi spirituali e temporali fino a togliere loro Venezia”. Ma sulla questione di Brescia, dove i veneziani continuano a tenere il campo, Giulio II si è richiamato agli accordi della lega e Alberto è riuscito a ottenere sol- tanto che, attraverso i rispettivi oratori, veneto e pontificio, si esorti la Signoria a differire l’azione militare fino a quando Lang sarà arrivato a Roma e saranno con- cluse le trattative con l’imperatore. Il papa inoltre – scrive ancora Alberto – approva la restituzione di Massimilia- no Sforza nel ducato di Milano. Il tema ricorrente è però Ferrara, quasi un’osses- sione per Giulio II, e l’impaziente attesa dell’incontro con Lang, per mettere il pun- to fermo al sistema di alleanze voluto dal pontefice.

I soliti sospetti

Con la minuta successiva (documento VII) arriviamo al 14 settembre: concluso il convegno di Mantova, l’esercito di Cardona ha marciato su Firenze e Lang è tor- nato a Innsbruck, dove Massimiliano Sforza rimane in attesa di poter fare il suo ingresso in Milano; qui il 20 giugno è entrato, prendendone possesso in suo nome, il vescovo di Lodi, Ottaviano Sforza. Lang si rimette poi in viaggio scendendo di nuovo in Italia, ma il suo avvicinamento a Roma è volutamente lento: poco dispo- sto ai compromessi, il luogotenente imperiale conta sulla forza della propria auto- rità e agisce più con arroganza che con diplomazia. Nel suo scritto, Alberto riferisce dell’indignazione di Giulio II alla notizia che l’imperatore ha ricevuto un oratore francese, mentre lui sta aspettando da più di un anno che Lang venga a Roma. Alberto ha avuto il suo da fare per placarlo e quando vi era quasi riuscito, ulteriori informazioni su quell’incontro hanno riac- ceso l’ira del pontefice. Ma alla fine sono risultate convincenti le sue argomen- tazioni: non c’è ancora nessun trattato con l’imperatore, e del resto il pontefice riceve gli oratori veneti, ostili a quest’ultimo; probabilmente l’imperatore ha fat- to, ad arte, proposte che i francesi avrebbero sicuramente rifiutato; d’altra parte, sia il pontefice sia i veneziani gli hanno dato più di un motivo per prendere que- sti contatti. A quel punto il pontefice ha convocato l’oratore veneziano intimando in modo molto deciso che la Repubblica rinunci a prendere Brescia, e che piuttosto gli man- di il suo esercito in aiuto per attaccare Ferrara. Alberto, quindi, esorta Lang a fare il possibile perché i veneziani non prendano Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 63

Brescia, cosa che li renderebbe assai meno disposti a firmare la pace nonostante le insistenze e la volontà del pontefice: possono impedirlo – con azioni di disturbo dato che non è il caso di affrontarli in campo aperto – sia gli spagnoli sia i soldati tedeschi che sono a Verona, congiunti con quelli milanesi, sia gli svizzeri. Per quanto riguarda gli spagnoli, comunque, l’oratore veneziano gli ha detto di ritenere che questi non si opporranno apertamente a un’iniziativa dei veneziani su Brescia; in proposito Alberto sottolinea che, effettivamente, non ha mai sentito Vich, il loro oratore a Roma, prendere una posizione decisa al riguardo: “Finora non ho mai sentito l’oratore Vich fare pressione, almeno con discorsi abba- stanza decisi, sull’oratore veneziano: ha sempre usato parole più accomodanti di quan- to la situazione richiederebbe, e nel discutere non si è mai discostato dal tono di una tranquilla conversazione”. Sorvolando sugli altri punti di questo scritto, osserviamo che Alberto lo con- clude con un’enfatica prefigurazione dell’arrivo a Roma di Lang, che attendono desiderosi “l’intera Curia, tutti gli ordini, il popolo tutto, l’Urbe stessa”.

Una moglie per Massimiliano Sforza Risale presumibilmente al mese di settembre un’altra minuta di Alberto (docu- mento VII): della data è leggibile soltanto il giorno, che è il 13. La questione terri- toriale è, anche qui, al centro dell’attenzione: Brescia sembra sul punto di essere messa sotto assedio e Alberto insiste con Lang sulle misure immediatamente necessarie. Di positivo c’è che Giulio II ha apostrofato l’oratore veneziano minac- ciando l’annientamento totale di Venezia se non firmerà la pace; e l’oratore, osser- va Alberto, ne è rimasto visibilmente turbato. L’argomento che, però, si accampa nella parte iniziale di questo scritto è di tut- t’altro genere. Evidentemente Alberto è stato redarguito da Lang per avere parlato con il pontefice di certi progetti matrimoniali in corso; la sua risposta è, insieme, prolissa e puntigliosa, e quasi contagiata dal richiamo alla riservatezza nel ricorso a perifrasi allusive. Da questo discorso alquanto involuto, par di capire che c’è un “primo” progetto matrimoniale, per Massimiliano Sforza, che contempla due can- didature: una nipote di Massimiliano d’Asburgo e Ferdinando il Cattolico, Maria, e una nipote di Giulio II, Maria Giovanna, sorella di Francesco Maria della Rove- re duca di Urbino44. Il testo è criptico forse più di quanto non fosse nelle intenzioni di Alberto, che per evitare accuratamente i dettagli usa la medesima formula, “il matrimonio di Cesare” anche per un “secondo” progetto matrimoniale, quello su cui Lang ha mostrato di esigere il massimo riserbo.

44 Del progetto di matrimonio con Maria Giovanna della Rovere riferisce anche SANUDO, XIV 104, riportando notizie giunte da Roma in data 14-15 settembre: «Si trata la neza del papa in Maximian Sforza, e darli Parma e Piasenza in dote, e questo voriano milanesi». 64 Luciana Saetti

Quest’altro progetto sembrebbe riguardare Carlo d’Asburgo: nel settembre 1512 vi fu infatti un tentativo, da parte dell’imperatore, di avvicinare Francia e Spagna con un accordo matrimoniale tra il nipote Carlo, appunto, e la secondoge- nita di Luigi XII, Renata. Questo “matrimonio di Cesare” poteva implicare, per il ducato di Milano, una sorte ben diversa da quella per cui si adoperavano il cardinale Schiner e il vesco- vo di Lodi, che cercavano un’intesa con Venezia per riportare a Milano lo Sforza e assicurare agli svizzeri il controllo del ducato45. Nel frattempo l’oratore spagnolo in Svizzera tentava di convincere i cantoni a favorire la soluzione alternativa, e gli emissari imperiali agivano di concerto, pur negando un possibile matrimonio tra l’arciduca di Borgogna e «madama Reniera»46. Tornando ad Alberto, egli si proclama convinto, a differenza di Lang, dell’inin- fluenza di simili progetti sugli esiti politici della situazione, “sia nel caso che quei matrimoni si facciano sia che uno dei due oppure tutti siano esclusi”. E chiude con una punta di insofferenza l’argomento su cui è stato costretto a giustificarsi: “E tan- to basti per quel che riguarda i matrimoni”. Prosegue infatti il suo scritto passando in rassegna le questioni che ritiene, quelle sì, di maggior peso: l’occupazione di passi alpini da parte degli svizzeri, le intenzioni dei veneziani riguardo alla pace e le posizioni del papa in proposito, l’opportunità di insediare lo Sforza nel ducato contemporaneamente oppure suc- cessivamente al futuro soggiorno di Lang a Roma. Ciò su cui insiste è la necessi- tà della sua presenza perché si possa finalmente firmare l’alleanza tra Giulio II e l’imperatore: “Io infatti non ne ho né l’autorità né la facoltà, per non parlare dell’ingegno e della som- ma abilità con la quale Vostra Signoria Reverendissima sa appianare anche le questioni più scabrose”.

Le questioni da appianare, infatti, non mancano, e Giulio II non è un soggetto con cui si possa interagire facilmente come si può fare con molti altri, anche per- ché è un uomo imprevedibile: “[con lui] infatti molte cose avvengono inaspettatamente, e a volte si ottengono risulta- ti impensati, che uno non avrebbe mai sperato di ottenere pur avendovi riflettuto ed essendosi preparato; come ho detto altre volte a Vostra Signoria Reverendissima, si con- cludono più cose in modo estemporaneo che procedendo con ordine”. A maggior ragione, dunque, non può certo essere lui, Alberto, a confrontarsi con il papa sugli articoli del trattato; ma si adopererà piuttosto a riformularli secon- do gli sembra opportuno, per poi sottoporli al giudizio di Lang. E sarà meglio ridurli al minimo:

45 Cfr. SANUDO, XV 9-10 (Caroldo alla Signoria, Vigevano 29 agosto 1512: «il cardinale [Schiner] voria far inteligentia con la Signoria nostra e il stato di Milan, perché l’Imperador ed il re di Spagna vol meter il ducha Carlo nel stado di Milan». 46 Lo riferiva, in data 15 settembre, Giovan Pietro Stella, inviato veneziano presso gli svizzeri (SANUDO, XV 118). Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 65

“perché se gli articoli saranno in numero minore e più brevi, tanto più facilmente [il pon- tefice] li approverà; essendo infatti sospettoso e impaziente, odia la moltitudine di paro- le nelle quali pensa che si nasconda sempre qualcosa da cui teme di essere ingannato”. Dopo essersi diffuso in circostanziate considerazioni sulla situazione politico- militare, Alberto conclude che solo con l’arrivo di Lang, che egli attende deside- roso, finalmente si arriverà a una svolta: “o si firmerà la pace veneta alle condizioni prestabilite o i veneziani saranno esclusi dal trattato e il Sommo Pontefice si unirà alla Maestà Cesarea”. Sarà appunto quest’ultima la conclusione, più di due mesi dopo, dei negoziati.

Diffidenze e bugie Quando Alberto scrive queste righe, Lang, sceso da Trento a Verona, si è diret- to nuovamente a Mantova; alla fine di settembre si ferma a Modena, ospite di Bian- ca Rangoni47. Contemporaneamente vi arriva anche Cardona, con l’esercito spa- gnolo di ritorno dalla Toscana; dopo un incontro tra i due a Mirandola48, gli spa- gnoli muovono, all’inizio di ottobre, oltre il Po e verso Brescia, suscitando viva apprensione nei milanesi che non intendono farli entrare nel proprio territorio. Il 2 ottobre Alberto riferisce a Lang (documento IX) che Giulio II, interpellato in pro- posito dal cardinale Schiner, ha risposto di non ritenere che gli spagnoli abbiano intenzioni offensive, anzi che daranno aiuto, se necessario, al duca di Milano; e che comunque muovono verso le Alpi per portare un attacco in territorio francese. In realtà, nonostante la risposta tranquillizzante, anche Giulio II nutre delle diffidenze per gli spagnoli. Ricevuta poi una lettera di Ferdinando d’Aragona che gli assicura la propria amicizia e devozione – come Alberto riferisce lo stesso giorno (documento X) – il pontefice, forse nutrendo ora una maggiore fiducia o forse per verificare la buona fede di tali dichiarazioni, ha deciso di chiedere l’in- tervento del viceré di Napoli per espugnare Ferrara; più che mai intenzionato a impadronirsene, vuole passare ai fatti facendo appello anche a Lang e ingiun- gendo ai veneziani di richiamare l’esercito da Brescia per mandarlo invece a espugnare la città estense. Giulio II marcia dritto per la sua strada pur con il timore di rimanere isolato, come si intuisce dallo scritto di Alberto del 6 ottobre (documento XI). Vi si ripropo- ne per l’ennesima volta il tema dell’attesa di Lang, reclamato a Roma dal pontefice che vuole trattare con lui di persona, mentre sembra che l’imperatore ora inclini a

47 Bianca Bentivoglio, figlia di Giovanni II, vedova del conte Niccolò Rangoni. Sulla sosta di Lang a Modena, SANUDO, XV 135; TOMMASINO DE’BIANCHI 1862, p. 135. 48 Lang andò alla Mirandola nei giorni successivi al suo arrivo a Modena per cercare di compor- re il dissidio tra Gian Francesco Pico e gli eredi del fratello Ludovico, Francesca Trivulzio e il figlio Galeotto, con la divisione del feudo. Vi si recò di nuovo anche durante il viaggio di ritorno da Roma: arrivato a Modena, ne ripartì il 22 dicembre per recarsi a Correggio e poi appunto a Mirandola «per metere in casa el sig.r Zan Franc.o dala Mirandola, e poi andarà a Milan a metere el fiolo del Moro in Milan per ducha» (TOMMASINO DE’BIANCHI 1862, p. 136). 66 Luciana Saetti risolvere il negoziato per mezzo di delegati. Giulio II insiste sulla necessità che Lang sia presente e proceda alla restituzione sforzesca nel ducato di Milano, su cui si sta invece tergiversando. Quanto al denaro promesso a Lang, quattromila ducati – rife- risce Alberto – il papa fa sapere che glieli verserà nelle tappe prestabilite del suo viaggio per Roma, augurandosi che quel denaro non venga invece usato, come teme e sospetta, per arruolare milizie in difesa di Ferrara e contro di lui. A quel punto Alberto, che già temeva le sue ire se fosse venuto a sapere dei sol- dati tedeschi già mandati a Ferrara da Lang, gli ha assicurato – come scrive qui – non solo che ciò non era mai accaduto ma che Lang non l’avrebbe mai fatto né avrebbe permesso ad altri di farlo. Bugia diplomatica. Questi scritti di Alberto sono i suoi ultimi del 1512 presenti nella nostra raccol- ta. Come è noto, Lang si farà attendere fino ai primi di novembre, quando final- mente arriverà a Roma facendovi un ingresso trionfale. L’estenuante trattativa con Venezia approda al totale fallimento: il 19 novembre si firma un trattato (pubblicato il 25) che sancisce l’alleanza fra Massimiliano d’A- sburgo e Giulio II; presenti, accanto a Lang, Alberto e Andrea de Burgo. L’impera- tore entra ufficialmente nella Lega santa e Venezia, che rifiuta ancora una volta le condizioni di pace, ne rimane esclusa49. Quel che si prepara di conseguenza a livel- lo internazionale è un nuovo rovesciamento di alleanze.

La battaglia di Ravenna. Xilografia, in Mario Savorgnano, Arte militare terrestre e marittima, Venezia 1599.

49 Sulle condizioni di pace, MESCHINI 2006, pp. 1088-1089 e relativa bibliografia. 1512. Leonello e l’ipotesi del complotto

L’ultimo scritto del 1512 nelle carte Lea (documento IX) è una lettera di Leo- nello Pio che da Novi, il 30 dicembre, aggiorna Alberto sugli ultimi sviluppi di un processo per tradimento. Il testo, interamente cifrato tranne che nelle righe finali, entra subito nel vivo dell’argomento: La Signoria Vostra mi scrive che la non pò credere quello ha deposto questo sagurato nel suo examino, allegando non le parere verisimile ch’el duca de Ferrara tentasse alchuno maleffecto in Carpi, per esser le terre vicine in man di Nostro Signore et Cesare. Leonello allude a un interrogatorio (come si diceva allora, un examino, procedi- mento più che inquietante per chi fosse destinato a subirlo, prevedendo la normale prassi della tortura) tenutosi recentemente a Novi nell’ambito degli accertamenti su un caso di malversazione ai danni di Alberto. Ma sotto c’è dell’altro, perché l’ille- cito di un singolo, come succede spesso, finisce per scoprire una rete di sotterfugi e collusioni che, nel caso specifico, porta all’ipotesi del complotto politico. Chi sia lo “sciagurato” cui si devono rivelazioni così clamorose da sembrare inve- rosimili lo sapremo tra poco. Intanto leggiamo le considerazioni di Leonello sui nomi eccellenti che sono emersi dalle deposizioni, coinvolgendo alcuni personaggi che gli sembrano insospettabili e qualcun altro su cui non sarebbe disposto a giurare: Li nominati nel processo non li pareno di tanto animo che presmessoro machinare contra Vostra Signoria; in vero anch’io sono stato et sono del parer epsa, che alman- cho de miser Ieanne Baptista [Bellentani] et Michele Angelo [Brusati] non potrei mai pensare; de miser Hectore [Abati] non dico cussì e tenendolo io homo di pesima sor- te, et nemico grande di Vostra Signoria, il quale forse essendo maturo el piro Dio li abarbaglia li occhi et non li lassa considerare tutto quello doverebbe; per questo se pò dubitare di qualche cosa et anche el duca havesse consentito per ruinare in tutto Car- pi, et a ciò non lo godendo lui, che anche la S. V. non lo potesse godere, como quel- lo che credo pensa più alli damni di V. S. che de alchuna altra persona, et tengo per fermo che non porta a persona del mondo tanto odio, quanto a lei; sì che questo me fa stare anche in qualche dubio, et tanto più che novamente questui afferma tutto el processo, excepto che ha negato che missere Rainaldo [Agazzani] non essere mai intervenuto a quello tractato, benché una volta habia negato tutto quello haveva dic- to; et sempre dappoi è stato et sta de volere stare al parangone cum tutti, et questo dimanda di gratia. Contribuiscono a far luce sui fatti e sulle circostanze di cui scrive Leonello alcuni atti del processo conservati presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. Si tratta di tre verbali redatti dal notaio Leonello Coccapani, uno dei quali, datato 25 ottobre 1512, è l’inquisictio [...] contra et adversus Feragutum filium Francisci de Lexenardis alias de Carputiis de Carpo rebellem predicti Domini nostri1. Il pro-

1 BAMI, 281 [V.N. 428], 3, 1512, 25 ottobre, Cass. 20. 68 Luciana Saetti

Natale Marri (1720-1787), Marchesato di Novi. Disegno a penna in Memorie storiche critico-toppo- grafiche…, p. 491, Archivio Guaitoli, n. 165, Archivio storico comunale di Carpi. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 69 cesso è istruito da Alessandro Raimondi di Reggio, podestà di Carpi e commissa- rio di Alberto. L’inquisito, Ferraguto di Francesco Lesinardi, è ritenuto colpevole di avere agi- to ai danni del patrimonio e dei proventi del signore di Carpi, continuativamente dal mese di agosto dell’anno precedente (quando Carpi era stata sottratta con la for- za ad Alberto da Alfonso d’Este) fino al giugno dell’anno in corso, quando ha avu- to inizio l’azione processuale intentata su istanza di Alberto stesso (dunque, subi- to dopo la sentenza imperiale che gli riconobbe il pieno possesso della città). Per tutto quel tempo Ferraguto ha agito come esattore dei dazi dei mulini del carpigia- no in nome di Alfonso d’Este, anche per la metà del territorio spettante ad Alber- to. Ha infranto, così, il giuramento di fedeltà prestato a quest’ultimo, riconoscen- do il duca di Ferrara come solo signore; e ciò, secondo l’accusa, senza averne dirit- to né esservi costretto, ma per lucro personale e a vantaggio del duca, dunque con un atto di ribellione volto scientemente a nuocere ad Alberto medesimo. L’interrogatorio si svolge a Novi, in un edificio situato nel castello detto comu- nemente la Monitione. Ferraguto si giustifica dicendo di essersi comportato come hanno fatto anche gli altri a Carpi, perché il duca si faceva obbedire da tutti come signore anche dell’altra metà di questa terra; e protesta la propria fedeltà ad Alber- to, aggiungendo che la sua intenzione non è stata quella di danneggiarlo o di ribel- larsi, ma lo ha spinto la necessità di sostentare la famiglia, a causa degli ingenti danni arrecatigli dai francesi. Da un secondo verbale, del 17 dicembre 1512, emergono fatti di diversa e più grave portata. L’inquisito è, questa volta, Giovanni di Francesco Zarlatini di Car- pi. L’interrogatorio di svolge sempre a Novi, presente in qualità di commissario Giovan Francesco de Ruere della Mirandulla2, incaricato dal luogotenente di Alberto. Zarlatini ammette di aver portato a Ferrara, in occasione di un suo viag- gio in quella città, nell’ottobre precedente, alcune lettere di Ettore Abati3 a France- sco Lombardini4; nomina anche altre due persone riguardo alla consegna di una let- tera di Violante Pio5, monaca in Santa Chiara a Carpi; e racconta di colloqui avuti con lo stesso Lombardini e con Enea Pio6. Ammette di aver portato a Lombardini,

2 Troviamo lo stesso «dott. Gio. Francesco dalla Rovere» di nuovo in qualità di «Commissario del Magn. Sig. Andrea Crotti, Luogotenente Generale dell’Illustre Sig. Alberto Pio Signor nostro», in un documento del 26 settembre 1512 (AG, b. 234, c. 45); nel 1519 risulta residente in Carpi (AG b. 206, vol. I, p. 368). Trascrizione di Gianfranco Guaitoli. 3 Ettore Abati (m. 1523), canonico di Ganaceto dal 1476, rettore della chiesa di S. Maria in Pan- zano dal 1477, vicario generale della chiesa di Carpi per Galeotto Pio, fratello di Giberto III (a que- sto titolo lo vediamo presiedere il giuramento di fedeltà degli uomini di Carpi ad Alberto Pio), diven- ne arcidiacono della Collegiata dal 1516 (ZARRI 1981, pp. 522-523, 536). 4 Francesco Lombardini, già podestà di Carpi nel 1495 e nel 1497-1499, fu commissario ducale a Carpi dal 1510 al 1512 (AG, b. 106, fasc. 2, nn. 78, 83). 5 Violante, figlia di Marco II Pio e sorella di Giberto III, si fece monaca nel 1500, all’atto della consacrazione del monastero di Santa Chiara in Carpi, assieme alla fondatrice, la propria zia Camilla Pio. 6 Enea Pio, figlio di Marco II, era al servizio del duca di Ferrara. 70 Luciana Saetti in un secondo viaggio, una lettera di Rinaldo Agazzani, dal quale è stato anche incaricato di riferire che, essendo andata a vuoto “la cosa” su cui ci si era accorda- ti, la si sarebbe organizzata di nuovo, allo stesso scopo, nel giro di dieci-quindici giorni. Poiché più di questo l’indagato non vuole dire, viene trasferito nel luogo della tortura, sotto la torre posta all’ingresso della fortezza di Novi, e sottoposto a un mezzo tratto di corda; a quel punto chiede di essere portato in presenza di Leonel- lo per dire tutto ciò che sa su quanto è stato ordito contro Alberto, e per chiedere perdono. Racconta dunque che, nel mese di ottobre, Ettore Abati aveva scritto al com- missario ducale Francesco Lombardini per rallegrarsi del ritorno del duca Alfonso a Ferrara7, dichiarando di volerlo come proprio signore e dicendosi pronto insieme a tutti gli amici a consegnargli la città se questi, dopo quindici-venti giorni, avesse mandato dei soldati. Con tale intento si erano riuniti una sera a Carpi, nella casa del medesimo Abati in Borgo Novo, Giovan Battista Bellentani8, Rinaldo di Alber- to Agazzani, Michelangelo Brusati, Giovan Marco Rossi e lo stesso Zarlatini9. Qui Abati cominciò a dire: «O bene, questa cosa che havemo principiato non gli voles- simo dare fine? Una volta el s’è ragionato de volere chiamare e tore el ducha de Ferrara per nostro signore et adesso seria el tempo deliverare questa cosa e dar- gli adviso che vogliano venire più presto che pono». A queste parole Bellentani rispose che, per lui, aspettare anche solo un’ora di più sarebbe stato come un’atte- sa di mille anni; e tutti, uno per uno, si dissero d’accordo su un’azione immediata. Questa dunque fu la loro decisione: Abati avrebbe comunicato a Lombardini che era il momento di mandare a Carpi due-trecento cavalieri, dandone avviso due giorni prima. Il piano prevedeva che, durante la notte, due di quei cavalieri prece- dessero gli altri portandosi sotto le mura di Carpi e sparando colpi di schioppo; a quel suono, dentro Carpi i congiurati si sarebbero riuniti in casa di Abati, in attesa che un terzo cavaliere, fingendosi un messo, arrivasse davanti alla porta della città a suonare il corno annunciando che aveva delle lettere importanti per Leonello Pio e per il fattore di Alberto; e mentre quello veniva fatto entrare gli altri due lo avreb- bero seguito, scaricando di nuovo gli schioppi e gridando: «Aspectame cavalaro che voglio intrar dentro anchora mi»; e avrebbero presidiato la porta fino all’arri- vo degli uomini dalla casa di Abati e, da fuori, dei soldati del duca. Alle successive domande l’inquisito risponde che a capo dei cavalieri doveva esserci Gerolamo dal Forno e che gli stessi, una volta entrati in Carpi, per prima

7 Dopo la sua fuga da Roma nel luglio 1512, Alfonso d’Este giunse a Ferrara solo nell’ottobre. 8 Giureconsulto, luogotenente del podestà di Carpi nel 1510-1511 (AG b. 106, fasc. 2, n. 83). 9 Tutti i personaggi qui menzionati appartengono alle famiglie più importanti e facoltose di Car- pi, come si evince dai lavori di Paolo Guaitoli, in particolare dai fascicoli di notizie sulle singole famiglie e dai manoscritti rilegati in volumi in cui sunteggiò o trascrisse per intero rogiti e documenti: AG, bb. 85-105, Famiglie, 206, Spogli dell’Archivio Pio e 231, Spogli dell’Archivio notarile, da cui sono ricavate pure le informazioni sui personaggi citati e sulle loro eventuali carriere politiche (per lo più nella trascrizione messa a disposizione da Gianfranco Guaitoli). Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 71 cosa avrebbero dovuto saccheggiare le case dei partigiani di Alberto, anzitutto quelle del suo fattore, di Michele Sigismondi10, di Nicola da Milano e dei Coc- capani. Alla richiesta dei nomi dei carpigiani che avrebbero dovuto prendere le armi, Zarlatini sciorina un elenco che comprende Giovan Marco Rossi con i figli, i figli di Ferraguto, Giovan Battista de Pace, Pietro Jacopo Rossi, Battista Bagassi, Pao- lo Bagassi, Tonio Alessandrini, Bernardino Alessandrini, Battista Pozzoli, France- sco Pozzoli, Taddeo Pozzoli, Gerolamo da Cortile, Iacopo Bres*** e il fratello, e molti uomini del popolo di cui dice di non ricordare il nome. Spiega, poi, come il piano fosse fallito: quando i soldati erano arrivati a Cam- pagnola, gli uomini di Alberto, messi sull’avviso, avevano preso provvedimenti aumentando la sorveglianza alle porte di Carpi, mettendo delle guardie tutt’intor- no alle mura e facendo venire molti fanti dalle ville e altri luoghi; perciò non c’e- ra più modo di introdursi in città. L’interrogato, infine, dice di non conoscere la causa del complotto, ma lo sco- po era che il duca di Ferrara potesse riprendere la città, essendo stato privato di Modena e Reggio e di altre terre perché il pontefice favoriva l’imperatore e Alber- to; si voleva che, recuperando tutto ciò che aveva perduto, il duca diventasse più grande di quanto fosse mai stato.

L’ombra del duca

Nella sua lettera Leonello mostra di condividere la reazione del fratello all’e- normità della cosa: anche a lui sembra incredibile che il complotto faccia capo al duca, per quanto questi possa odiare Alberto. La situazione di Alfonso d’Este, come sappiamo, in quel momento non era del- le migliori: solo in ottobre era riuscito a raggiungere fortunosamente Ferrara, brac- cato dagli agenti del papa dopo la fuga da Roma nel mese di luglio. D’altronde il congresso di Mantova, nell’agosto, sembrava avere allontanato, in modo quasi insperato, le minacce incombenti sul suo stato; ma se da una parte non doveva mancargli lo spirito di rivalsa, dall’altra il duca non era nelle condizioni di sfidare ulteriormente le ire di Giulio II, oltretutto dopo la sentenza imperiale che aveva riconosciuto ad Alberto il pieno possesso di Carpi. Gli sviluppi del processo, però, proiettano sulle mezze verità degli indagati l’ombra del nemico di sempre, e il dubbio che le trame venute alla luce siano ricon- ducibili a una subdola manovra del duca. La lettera, interessante per le informazioni inedite che fornisce su fatti carpi- giani, lo è anche perché mette in luce la personalità di Leonello nei suoi rapporti con Alberto. Il suo discorso, costellato di espressioni che riflettono l’immediatez- za del parlato, è diretto ed esplicito, nei toni di una familiarità improntata al rispet-

10 Cancelliere e luogotenente di Alberto dal 1491 al 1516; godette della sua fiducia anche grazie al prestigio della famiglia, sempre al servizio dei signori di Carpi. 72 Luciana Saetti to e all’obbedienza dovuti al fratello maggiore; al quale rende conto di quanto avviene, trovandosi, come accade spesso, a dover affrontare concretamente e sul momento le complicazioni locali. Nel seguito del suo scritto, infatti, Leonello non manca di motivare puntual- mente le decisioni che deve prendere lui, essendo in facto: per esempio non ha voluto mettere le mani addosso ad alcuni dei sospettati – come invece secondo Alberto sarebbe stato il caso di fare – per non peggiorare la situazione provocando reazioni indesiderate. Il processo infatti coinvolge molti che, havendo il parentato grande, secondo Leonello prenderebbero sicuramente le armi: e la città non è difendibile più di tanto, soprattutto se la minaccia viene non solo da fuori ma anche da dentro; i pochi balestrieri, per di più, sono tutti parenti delli nominati. Quanto ad arrestare Abati, Leonello non ci pensa proprio, anche se sospetta soprattutto di lui, che è uomo ambizioso, e forse essendo maturo el piro Dio li abarbaglia li occhi11; però questi è prete, per cui ci vorrebbe oltretutto il permesso del papa; e lo stesso vale per altri eventuali impratati coinvolti nel complotto. Certo è Alberto che deve decidere, ma facendo diversamente si peggiorerebbe la situazione, siché per me non la saprebe como fare. Come in altre occasioni che fanno scattare in lui il meccanismo conflittuale, Leonello non può fare a meno di esternare le proprie reazioni, sia pure, come si suol dire, con il dovuto rispetto: se Alberto vuole proprio che si proceda in quel modo, la serà contenta per mia satifactione dare quella cura ad altri che a me; non volendo già per questo che la pensi ch’io sia per manchare di quello ch’io posso, et adesso et per sempre in tutti li casi che sono necessarii et periculosi de V. S.; et se io serò in questi paesi, et ch’io sia ricercato da chi farà per lei, io serò così obediente como se lei me comandase de bocha; et se io obedirò, non potrò havere carrico, né da V. S. né da altri. Nelle ultime righe della lettera, in chiaro, si parla invece di certi cavalli che Leonello è stato incaricato da Alberto di procuragli; ma evidentemente non dove- va essere molto facile accontentarlo: La S. V. ha rimandato a Montepolzano li cavalli gli mandai, che me dispiace grande- mente non siano stati a sua satisfactione et maxime quello Turcho che repputavo, per quelli pocchi giorni chel tiene, havesse ad essere in proposito suo; quello altro mio, ben conoscevo io che non era per lei, como gli havea dicto Tuctio; perché la non pensasse io ge lo volesse negare, gel mandai. Com’io sia gionto a Montepolzano, mandarò a V. S. li denari, non restando però de cercare uno che sia bono per lei, alla quale di conto mio me recomando.

11 La vivace espressione di Leonello fonde l’adagio popolare sulla pera matura, pronta a staccar- si dal ramo, e l’antica sentenza secondo la quale “il dio acceca coloro che vuole perdere” facendoli uscire di senno. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1512) 73

In falsità manifesta Tornando agli sviluppi del processo, un terzo verbale riguarda l’interrogatorio cui viene sottoposto Ferraguto Lesinardi una settimana dopo, il 7 gennaio 1513, sui punti della deposizione precedente e in base a nuove prove a suo carico. Si ribadi- sce preliminarmente che questi non poteva non sapere della vendita ad Alberto, da parte di Alfonso d’Este, di tutti i diritti su Carpi: infatti era presente alla pubblica lettura dei privilegi imperiali, e in quella circostanza aveva prestato giuramento di fedeltà al Alberto riconoscendolo come unico signore di Carpi12. Poi gli si chiede conto di quanto egli ha detto e fatto ai danni di quest’ultimo, e gli si contesta di essere stato a conoscenza di ciò che si tramava contro di lui. Ma Ferraguto nega tutto, e quando gli viene chiesto dove si trovasse all’arrivo dei francesi e dei sol- dati del duca di Ferrara, risponde che lui era fuori Carpi, in un suo possedimento nella villa di Cibeno detto al Canale. Racconta che, mentre si trovava lì, erano arri- vati tre cavalieri francesi e l’avevano avvisato che altri stavano sopraggiungendo per assalire Carpi, incaricandolo di dire loro di tornare indietro perché la città era in allarme; poi si erano allontanati dirigendosi verso le Lame (versus lamas)13. Poco dopo – e qui l’incongruo racconto di Ferraguto sembra sfiorare la dimensio- ne onirica – vide arrivare altri quattro o cinque francesi che lo presero prigioniero e lo portarono fino al possedimento di Alberto detto labrada (La Brada o Braida)14 dove lo tennero fino a metà giornata. Lì c’era Ettore Sacrati15, e poi arrivò anche Gerolamo dal Forno, ed entrambi gli dissero di quanto stava accadendo, parlando a lungo con lui; alla fine fu riportato nella casa dalla quale era stato prelevato. Fer- raguto, insomma, cerca maldestramente di confondere le acque per sostenere che fino a quel momento non sapeva niente dell’arrivo dei francesi né di quanto si era stabilito per il giorno seguente, né delle intenzioni di Alberto Agazzani, Ettore Abati, Giovan Battista Bellentani e dei loro rapporti con Gerolamo dal Forno e gli Estensi. Ma gli si contesta di avere invece esortato quei soldati ad attaccare Carpi, dicendo che la città era mal difesa e debolissima; cosa che egli nega ripetutamen- te. Quanto agli illeciti da lui commessi dopo che Alberto era stato costretto a lascia- re la città, risponde di non aver fatto o detto nulla contro di lui, che ha sempre con-

12 Negli elenchi di coloro che giurarono fedeltà ad Alberto nel 1511 figura infatti Faragu Carpu- zo: BAMI, 281, [V.N. 428], 3, 1511, 23 luglio, Cass. 14, Giuramento di fedeltà prestato al Sig.r Alber- to Pio dalli uomini di Carpi, c. 2r dell’elenco dei nomi. Si veda in proposito il contributo di Anna Maria Ori al presente volume, p. 224. 13 Si tratta delle terre basse a nord-est di Carpi, tra Rovereto e San Marino, allora acquitrinose per il lento deflusso delle acque, dove sorgeva, su un rialzo del terreno, il casale fortificato noto appun- to come Palazzo delle Lame (TAVERNELLI 2010, pp. 27-31). 14 Difficile identificare il luogo preciso: in quasi tutte le “ville” di Carpi – come ovunque, nella pianura padana – all’epoca c’erano ancora diverse località e fondi definite Brada, La Brada o Brada- nova: si trattava di terreni precedentemente incolti, spesso destinati a usi comuni, di cui si erano appropriate le autorità civili o religiose, facendole dissodare e mettere a coltura (AG 206, Indice del- le località). 15 Il capitano ducale che il 7 agosto 1511 aveva preso possesso di Carpi per Alfonso d’Este (GUAI- TOLI 1877, p. 193). 74 Luciana Saetti siderato il proprio signore; e quando il commissario Paolo Manfredi minaccia di metterlo sotto tortura se continuerà a negare e a dire il falso, gli risponde che fac- cia di lui ciò che vuole, ma non scoprirà niente di diverso da quanto gli ha già det- to. Si riferisce evidentemente a questo interrogatorio la nota lettera di Alberto, in data 23 gennaio 1513 da Roma, al podestà di Carpi16 che gli ha riferito, il giorno 11, dell’examine di Ferraguto. Alberto si esprime in merito alla deposizione resa da costui, che si è messo suso la negativa del tuto se non de quelle cose chel non po negare, e che egli ritiene in falsità manifesta per rellatione di persona degna di fede. L’episodio è significativo delle tensioni e dei conflitti spesso cruenti tra le fami- glie delle parti cittadine che datavano da più generazioni, ora rinfocolati dalla con- tesa tra Alberto e Alfonso d’Este. Se il processo a Ferraguto sembrerebbe rientra- re, stando al primo interrogatorio, nell’inevitabile resa dei conti dovuta al ritorno di Alberto nel possesso di Carpi, la coincidenza dell’iniziativa dei congiurati con il rientro di Alfonso d’Este a Ferrara e, soprattutto, i contatti mantenuti con l’ex com- missario ducale di Carpi sono un segno eloquente dell’instabilità politica del pic- colo stato carpigiano nelle vicissitudini del dominio di Alberto. Non sono docu- mentate, almeno non dalle fonti qui menzionate, le conseguenze del processo sugli indagati e sui sospettati; sicuramente ne restò indenne Ettore Abati, che nel 1516 fu nominato arcidiacono della Collegiata di Carpi.

Emblemi araldici delle famiglie Pio, Gonzaga e Pico in Stemma [sic] diversi della Famiglia Pii di Savoya e parenti. Manoscritto, APS, b. 38, fasc. 8.

16 MSCD II, 1879-1880, p. 338. 1513. Un messaggio di Paola Gonzaga

La lettera inviata da Leonello ad Alberto il 20 gennaio del nuovo anno (docu- mento X) fa entrare in scena una figura femminile, quella della loro sorella per parte di madre, Paola Gonzaga, da pochi mesi vedova di Niccolò Trivulzio. Leo- nello ne trascrive un messaggio cifrato con urgenti notizie che a lui sembrano, però, cose a me difficile a credere non parendomi verisimile. Paola si premura di informare Alberto su contatti e possibili intese in corso tra il re di Francia e l’im- peratore, e anche tra il re di Francia e Venezia; assicura che entrambe le cose sono vere, pur osservando che l’uno e l’altro non pò stare e che, al momento, non è prevedibile quale partito alla fine prenderà il re. Riferisce, inoltre, di una mis- sione di La Trémoille1 presso gli svizzeri, e raccomanda a Leonello di inoltrare il messaggio: Ve ho voluto avisare tutte quelle cose le qualle sono tutte vere; et poi per essere de quel- la importanza che sono, ne a[vi]sa in zifera al Signore Alberto nostro fratello, che scio sapendolo gli serano grate et li potriano portare utilitate a lo honore et alle cose sue. Questa lettera ci riporta, dai veleni delle cospirazioni locali, al complesso sce- nario dei conflitti internazionali. Come è noto, due mesi prima, nel novembre 1512, l’adesione dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo alla Lega santa contro la Francia di Luigi XII, finalmente firmata a Roma da Lang, lasciava Venezia fuo- ri dall’alleanza; questa rottura diede spazio alle manovre diplomatiche cui fanno riferimento le poche righe del messaggio di Paola. A dispetto dell’incredulità di Leonello, si trattava di notizie fondate. Il proget- to di una nuova lega franco-imperiale, infatti, fu effettivamente portato avanti dal cardinale filofrancese Federico Sanseverino; ma Luigi XII si risolse altrimenti, e l’alleanza con Venezia – di cui era fautore tra gli altri Gian Giacomo Trivulzio – fu sancita il 23 marzo 1513 con il trattato di Blois. Quanto ai tentativi di Trémoille di negoziare con gli Svizzeri alla dieta di Lucerna offrendo loro ingenti somme per avere Milano, non ebbero successo: i cantoni si pronunciarono in favore dei precedenti accordi con il nuovo duca Massimiliano Sforza.

«Poter fare a suo modo»: per un profilo di Paola La breve comparsa, in queste carte, di Paola Gonzaga pone almeno un interro- gativo sul luogo di provenienza del suo messaggio. Dal tentativo di risolverlo, cer- cando le tracce delle sue vicende, è andato emergendo un profilo di questa figura femminile – certamente marginale dal punto di vista storiografico ma interessante per i suoi legami familiari con Alberto e Leonello – che si è voluto proporre qui.

1 Louis de la Trémoille, comandante, con Gian Giacomo Trivulzio, dell’esercito francese in Italia. 76 Luciana Saetti

Paola era nata nel 1486 dal matrimonio di Caterina Pico con Rodolfo Gonzaga2, signore di Luzzara e di Castiglione delle Stiviere; era perciò cugina del marchese di Mantova Francesco II. Rodolfo e Caterina ebbero altri figli: Gian Francesco e Luigi Alessandro3, che ereditarono i possedimenti paterni; Giulia, che all’età di dieci anni entrò nel con- vento di Santa Paola in Mantova dove prese il nome di suor Angela Gabriella4. Paola sposò nel 1501 Gian Nicolò Trivulzio, figlio del famoso Gian Giacomo, maresciallo di Francia, e della prima moglie di questi, Margherita Colleoni. Gian Nicolò aveva tredici anni più di Paola, che andò sposa appena quindicenne. Sempre menzionato come «conte di Musocco» (o «Mesocco») dal possedimento paterno nei Grigioni, Nicolò ebbe inoltre il titolo di marchese di Vigevano5. Fin da giovanissimo seguì il padre nelle sue imprese militari: nel 1495 fu creato cavaliere sul campo di For- novo – dove trovò invece la morte Rodolfo Gonzaga, il padre di Paola – e nel 1499 divenne governatore del castello di Milano; ebbe i titoli (che oggi possono sembrare di facciata, ma che comportavano denaro e poteri) di Gran falconiere e cacciatore ducale; nell’anno del suo matrimonio ricevette da Luigi XII il feudo di Castelnuovo, presso Tortona, e successivamente quello di San Giovanni in Croce, nel cremonese. Nel gennaio 1501 l’ambasciatore veneziano in Francia riferiva alla Signoria che l’accordo matrimoniale stipulato da Gian Giacomo Trivulzio per il figlio aveva mes- so in cattiva luce, a corte, il maresciallo, che in precedenza sembrava propenso a un matrimonio francese e poi si era risolto altrimenti senza informarne il sovrano (e il re l’à ’buto a mal, annotava Sanudo6). D’altronde, più che a imparentarsi nell’ambi- to dell’aristocrazia di Francia, Trivulzio mirava a rafforzare la propria capacità d’in- fluenza nel sistema politico italiano e nella società milanese7: una delle sue figlie naturali, Barbara, fu maritata a Galeazzo Visconti dei signori di Somma, e un’altra, Elisabetta, ad Antonio Maria Pallavicino, del ramo dei marchesi di Busseto8; e negli stessi giorni in cui si celebrava il matrimonio di Nicolò e Paola si stava combinando anche quello di un’altra sua figlia, Francesca, con Ludovico Pico della Mirandola9.

2 Rodolfo (1452-1494), capostipite dei Gonzaga di Castiglione delle Stiviere, Castel Goffredo, Solferino, Luzzara e Poviglio, figlio di Ludovico, marchese di Mantova, e di Barbara di Brandebur- go, era fratello minore di Federico (succeduto al padre nel 1478) e zio di Francesco II, che divenne quarto marchese di Mantova nel 1484. Rodolfo sposò Caterina Pico nel 1484, dopo un primo matri- monio (1481) con Antonia di Sigismondo Pandolfo Malatesta (m. 1483). 3 Gian Francesco (1488-1524), poi signore di Luzzara, sposò Laura Pallavicino; Luigi Alessan- dro (1494-1549), poi signore di Castel Goffredo, Castiglione e Solferino, sposò Caterina Anguissola. 4 Oltre a Giulia (1493-1544), nelle genealogie figurano anche due gemelle, Lucrezia e Barbara (n. 1490), morte infanti; e anche alcuni figli naturali di Rodolfo (LITTA 1835, Gonzaga di Mantova). 5 Nel 1510 Gian Giacomo Trivulzio ottenne che il marchesato fosse eretto in primogenitura a favore del figlio. 6 SANUDO, III 1338. 7 Sulla sua politica matrimoniale, ARCANGELI 2003, pp. 38-39. 8 Sui matrimoni delle figlie di Trivulzio, DE’ROSMINI 1815, vol. I, p. 553. 9 Il 27 gennaio 1501 Ludovico Pico scriveva da Luzzara al marchese di Mantova informandolo delle pratiche in corso per il proprio matrimonio con Francesca Trivulzio («Atti e memorie delle Regie deputazioni di storia patria per le provincie dell’Emilia», V, II, 1880, p. 149). Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 77

Secondo un’altra fonte10, Luigi XII stesso aveva proposto a Trivulzio una propria parente, ma questi declinò l’offerta perché non volle nascondere al re che il figlio era affetto da sifilide: un morbo che non risparmiò, come è noto, molti e insigni personaggi, e nella fattispecie rendeva arduo «un parentado pure più modesto», ma i cui rischi «sono assunti invece dai Gonzaga cadetti, i quali – a quanto si evince – si fanno avanti, loro, tramite un mediatore»11. Colpisce, ciò considerato, la motivazione con cui, ancora secondo l’ambascia- tore veneziano, Trivulzio avrebbe annunciato al re l’avvenuto matrimonio di Nico- lò con Paola, giustificando tale decisione con l’«averla [il figlio] tolta per amor» e aggiungendo che «tamen non è fiola dil marchexe di Mantoa, et ogni volta il re volesse tuor l’impresa contra Mantoa, si offerisse etc.»12. Non è dato sapere se si trattasse davvero di un matrimonio “per amore”, ma è evidente che una simile spie- gazione mirava a minimizzare qualsiasi implicazione politico-sanitaria della deci- sione presa. Si racconta, d’altra parte, che Caterina Pico non fosse del tutto pro- pensa a quel connubio, adducendo il motivo – che a questo punto può suonare pre- testuoso – delle inevitabili e lunghe assenze cui lo sposo sarebbe stato costretto dal- le imprese militari al seguito del padre; al che quest’ultimo avrebbe obiettato «che le guerre errano [sic], le grandezze sue; e sele guere cesaseno, che seria stato biso- gno, metersi a la agricoltura, como gia li antiqui romani»13: argomento che, stando al resoconto del cronista, non ammise repliche.

Da Luzzara a Vigevano Il matrimonio, concordato il 26 dicembre 1500, fu celebrato il 26 gennaio suc- cessivo a Luzzara14, dove Nicolò giunse «cum una bella comitiva» di circa trecen- to cavalieri; «quella medema sera di Lune la sposò; martedì matina fu benedecta; et fu dicta la mesa in la rocha»15. Lo sposo poi ripartì, e Paola lo raggiunse vari mesi dopo: è nota la lettera che, il 6 luglio 1501, Alberto scriveva da Carpi a Enea Gonzaga per chiedergli una cavalcatura adatta all’incombenza, affidatagli dalla madre, di accompagnare la sorella Paola che va a marito a Milano il lunedì seguen- te (12 luglio): che è un termine tanto breve che mi trova sprovisto di assai cose16. Accompagnò Paola a Milano anche Baldassarre Castiglione con altri gentiluomini, per incarico del marchese di Mantova17. Paola ebbe in dote 15.000 ducati d’oro e gioielli per un valore di 5000 ducati. Nel suo ricco corredo figurano due soli libri, un «officiolo», ossia un libretto di pre-

10 REBUCCO, ALBRIONO 2013, p. 170. 11 VIGANÒ 2013, pp. 122-123. 12 SANUDO, III 1429; ARCANGELI 1997, pp. 34, 70 nota 114. 13 REBUCCO, ALBRIONO 2013, p. 77. 14 In proposito v. ancora VIGANÒ 2013, pp. 121-122. 15 Lorenzo Lavagnoli a Gian Francesco II Gonzaga, Luzzara 29 gennaio 1501 (il documento è riprodotto in VIGANò 2013, p. 121). 16 MSDC I, 1877, p. 382. 17 Baldassarre Castiglione era figlio di una Gonzaga, Aloisia. 78 Luciana Saetti ghiere, e un breviario – preziosamente rilegati: l’uno «coperto de veluto cremesino con li gradi d’agento», l’altro «fornito d’argento»18 – a conferma del fatto che, no- nostante l’elevata posizione sociale e salvo rare eccezioni, i libri che possedevano le giovani donne delle famiglie più in vista si limitavano a semplici testi devoti19. Nella lista degli oggetti di corredo, pubblicata da Emilio Motta20, figurano secondo le consuetudini numerosi capi di vestiario e, in primo luogo, tredici abiti realizzati con le stoffe più pregiate – rasi, velluti, damaschi, broccati d’oro e d’ar- gento, seta leggera (zendal) e taffetà (tabì) – e con lavorazioni a inserti (liste di diverso tessuto e di colore contrastante, allora di gran moda), rifiniti con cordelle d’oro alle cuciture e altre cordonature ai bordi, spesso arricchiti da una balza rica- mata, e tutti con le sue maneghe, anch’esse preziosamente lavorate e debitamente staccate dalla veste, cui venivano congiunte da lacci rifiniti con puntali preziosi. I colori vanno dalle tonalità del nero, del berettino (bruno), del morello (viola scu- ro) al verde chiaro, al turchino, al cremesino, al rosado e all’incarnado, al bianco. Di uno di questi vestiti, di brocato d’oro verde, si specifica che è confezionato con 18 braccia di tessuto, del costo di 7 ducati il braccio21. Sarebbe lungo, pur se a suo modo avvincente, render conto qui dell’intero cor- redo, che d’altronde ricalca il costume del tempo: dalle ampie sottane a campana, rese rigide da cerchioni di stoffa imbottita, alle sopravvesti di varie fogge (zipone, mantello a zimara, sbernia da portare su una spalla); dalle camise di finissimo lino o cotone ai guanti e alle calzature, dai nastri e acconciature per capelli ai veli e alle scufie di vari colori e sempre con preziose guarnizioni, agli scufioti (berretti) di velluto con applicazioni di fregi d’oro o d’argento, rubini e perle. Una novità di quegli anni, e che figura ora per la prima volta nei corredi dotali milanesi22, è lo zibellino, in due esemplari, uno con li ungi, e mostacino [musetto] d’argento dorato, l’altro da portare dal lato fornito d’arzento: la pelliccia dell’a- nimale, così impreziosita, si portava appunto gettata su una spalla o era semplice- mente tenuta in mano, o arrotolata intorno a un polso23. Immancabili, poi, gli sparaveri (cortine per il letto) e i copriletti con ricami, ala- mari e cuciture d’oro, oltre a varie paia di lenzuola e numerosi cuscini e cuscinet- ti fatti con varie stoffe lavorate, le grandi tovaglie da tavola con decori a zigli e rose e quelle da mano, i tovaglioli da tenire inanze. Oltre ai due libri di devozioni cui si è accennato, il corredo comprende scato- lette contenenti la costosissima e profumata pasta di musco, così come una “palla

18 MOTTA 1894, p. 21. 19 PEDRALLI 2002, p. 614. 20 MOTTA 1894, pp. 15-25. 21 Un braccio equivaleva a circa 60 cm. Il costo è davvero ragguardevole se si considera quanto osserva Ernesto Sestan nel trattare delle rendite dei conventi a Carpi negli anni 1512-1515: che a quel tempo «si riteneva di poter campare, sia pure modestamente, con 7 ducati all’anno» (SESTAN 1981, p. 689). 22 VENTURELLI 1996, p. 138. 23 Di tale uso troviamo esempi nei dipinti del tempo; con lo zibellino sarà effigiata Paola stessa nel ritratto, posteriore al 1512, conservato a Weimar. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 79 odorosa” in filigrana d’argento; uno specchio d’acciaio ornato d’argento, numerose casse e cassette in materiali diversi (alcune in avorio istoriato), piccoli forzieri in legno di cipresso e vari altri oggetti d’argento (tra cui una cadenela con li feri da net- tare li denti, due didali, una gugia per fare maglia) e d’avorio (pettini, rocche e fusi). All’evocazione dei lavori femminili si aggiungono oggetti per la scrittura: il porta- penna d’argento, il calamaio d’avorio, le fiaschette di polverino per asciugare l’in- chiostro. I passatempi del gioco sono evocati da un tavoliere intarsiato, la musica da una lira e un monochordo da sonare. E, per finire, i gioielli: varie filze di coralli e altre di paternostri di diverso tipo, tre zaffiri incastonati in oro da portare in fronte; tre anelli, rispettivamente con un rubino, uno smeraldo, uno zaffiro. I festeggiamenti con cui si usava presentare la sposa al casato si tennero a Vige- vano. Del banchetto allestito in quell’occasione rimane notizia in un documento in cui compare la lista delle vivande sotto il titolo Pasto quando il conte de Musocho feze le noze24, parte dell’opera di Maestro Martino de Rubeis (Rossi), noto anche come Martino da Como, autore del più importante ricettario quattrocentesco a noi pervenuto, e che fu a lungo al servizio di Gian Giacomo Trivulzio. Da sempre lega- to al Trivulzio anche l’autore dell’epitalamio dedicato agli sposi, l’umanista mila- nese Piattino Piatti25.

Nascite e lutti Paola entrò così nella famiglia del ricchissimo signore lombardo, grande condottie- ro e ambizioso uomo politico. Il nome e lo stemma di lei compaiono nei grandiosi araz- zi con il ciclo dei mesi commissionati da Trivulzio per il castello di Vigevano. Nel 1507 i primi pezzi allora completati furono trasferiti temporaneamente a Milano nel palazzo di via Rugabella, in Porta Romana26, per essere esibiti in occasione del sontuosissimo banchetto offerto, il 30 maggio, da Gian Giacomo Trivulzio a Luigi XII di Francia e a tutti i suoi dignitari. Nella cornice di magnificenza e ostentazione di quell’evento com- pare anche Paola, accanto alla seconda moglie del maresciallo, Beatrice d’Avalos27. La contessa di Musocho, scriveva Isabella d’Este, fu tra le dame che como più pratiche di la lingua francese ebbero il privilegio di conversare con il sovrano28. La vita matrimoniale di Paola fu scandita dalla nascita di sei figli: Ippolita, che morì di sei o sette anni nell’agosto 150929; Gian Francesco (la cui nascita è varia- mente collocata dai genealogisti nel 1504 o nel 150930), destinato a rimanere unico

24 BENPORAT 1998, pp. 109 sgg.; ID. 2001, pp. 282 sgg. 25 MOTTA 1894, p. 15. 26 VIGANÒ 2013, p. 123. 27 Tra le numerose testimonianze dell’evento, D’AUTON 1895, vol. IV, p. 309 sgg.; MOTTA 1894, pp. 11-13. 28 Isabella d’Este a Elisabetta Gonzaga, Mantova, 7 giugno 1507, in LUZIO 1901, pp. 157-158. 29 MOTTA 1890, p. 41; MESCHINI 2006, p. 660. 30 Nell’oroscopo della nascita del «marchese di Bassignana e di Vigevano» si legge la data del 5 ottobre 1509 (PORRO 1884, p. 25). 80 Luciana Saetti erede perché un altro figlio maschio, Luigi, morì in tenerissima età; Margherita, scomparsa anch’essa immaturamente; si ha invece notizia dei matrimoni delle altre due figlie, Giulia e Bianca31. Alla giovanissima Paola non mancarono dunque, nonché i privilegi del rango, lutti e rovesci familiari. Rimase vedova a ventisei anni, nel 1512: Gian Nicolò Tri- vulzio morì, per la malattia di cui si è detto, a Torino nella casa di Sebastiano Fer- rero, che ne informava così il vescovo di Marsiglia, Claude de Seyssel, in una let- tera datata 9 luglio: «Le pauvre Conte de Musocco ce matin a esté enterré et est mort ycy a mon logys, ou sa femme est bien malade, et son premyer fils...»32. Poco più di due settimane prima, il 20 giugno, Ottaviano Maria Sforza, vesco- vo di Lodi, entrava in Milano con gli svizzeri guidati dal cardinale Schiner, pren- dendone possesso in nome di Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro. Gian Giacomo Trivulzio, ritiratosi dal ducato e raggiunta Asti, seguì poi il ripiega- mento dell’esercito francese di La Palice verso Torino, e poco più tardi passò a sua volta le Alpi. Un’altra notizia che riguarda Paola si collega di nuovo alle vicende dei prezio- si Arazzi dei mesi. Gian Giacomo Trivulzio, nell’abbandonare il castello di Vige- vano – e ben sapendo delle mire del cardinale Schiner su di esso33 – aveva provve- duto a metterli in salvo, con altri tesori e oggetti di valore, affidandoli a parenti. Da una lettera di Ludovico Camposampiero al marchese di Mantova, in data 7 agosto 1512 da Vercelli34, si evince che alcuni di questi manufatti sarebbero stati dati dal Trivulzio alla nuora e che si trovassero appunto presso di lei a Vercelli, in attesa di essere portati a Mantova.

Una dedica di Matteo Bandello Il testamento di Gian Nicolò Trivulzio designava come eredi i due figli maschi (indicati come «conte di Bassignana» e «conte di Vespolate») e assegnava a Paola l’usufrutto dei beni loro lasciati in eredità35; veniva inoltre messa a sua disposizio- ne la dote, a condizione che mantenesse lo stato vedovile. Sappiamo che, poco dopo la morte del marito, le fu concesso dal cardinale Schi- ner un salvacondotto che le permetteva di rientrare nel ducato di Milano per poter- si occupare, appunto, della propria dote; e che vi fu riaccompagnata da Antonio Maria Pallavicino. Difficile sapere, invece, se vi trascorresse effettivamente i mesi

31 LITTA 1835. 32 DE’ROSMINI 1815, vol. II, p. 315; altre fonti epistolari in MESCHINI 2006, p. 1050. Sebastiano Fer- rero ricoprì la carica di generale delle finanze nel ducato di Milano durante la dominazione francese. 33 Il marchesato di Vigevano, infatti, nel gennaio 1513 fu donato da Massimiliano Sforza al car- dinale Schiner, che vi si stabilì con la sua corte (BIFFIGNARDI BUCCELLA 1870, p. 237). 34 Cit. in VIGANÒ 2013, pp. 125-126. 35 Sui quattro testamenti stesi da Nicolò Trivulzio nel 1511, «indizio di volontà contrastanti (di Luigi XII, Gian Giacomo, Gian Nicolò e Paola Gonzaga»), e sui testamenti di Gian Giacomo, ARCAN- GELI 2003, pp. 58-63. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 81

Bernardino de’ Conti (?), Ritratto di Paola Gonzaga, XVI secolo. Weimar, Landesmuseum. 82 Luciana Saetti successivi; ma si può supporre che vi si trovasse quando, nel gennaio 1513, scri- veva il suo messaggio per Alberto, anche perché sembra più probabile che proprio qui potesse venire a conoscenza di indiscrezioni e notizie come quelle che si pre- murò di far avere al fratello. Alla sua presenza a Milano fa riferimento la dedica di una novella di Matteo Bandello (I, XXXV) all’«illustrissima signora Paola Gonzaga contessa di Musocco»: l’autore scrive che la fonte del racconto è la vicenda narrata «questi dì» dal «nostro piacevole m. Giulio Oldoino essendo in Milano madama di Mantova Isabella da Este»; e si rivolge alla dedicataria augurandosi che la novella possa divertirla, «avendomela voi richiesta di vederla, perché all’ora [sic] eravate inferma». Il che collocherebbe Paola in un momento topico della restaurazione sforzesca, quel car- nevale del 1513 – che cadeva nella prima metà di febbraio – durante il quale si tro- vava alla corte milanese Isabella d’Este con le sue avvenenti damigelle, una delle quali, la famosa «Brognina», fece perdere la testa tanto al vescovo di Gurk quan- to, e pare ancor più, al viceré di Napoli36. Anche se le circostanze indicate da Bandello come occasioni delle novelle non costituiscono riferimenti certi, la dedica offre comunque un’immagine di Paola che conferma, da una parte, il contesto di intrattenimenti mondani al quale certamente non fu estranea, e dall’altra uno stato di salute precario, al quale con tutta probabi- lità non fu estranea la malattia del marito. Isabella d’Este si trattenne a Milano fino a marzo inoltrato, mentre Paola – a meno che non si mettesse in viaggio in quella medesima circostanza – dovette lasciare il ducato qualche mese dopo, quando, ai primi di giugno, l’esercito fran- cese al comando di Trivulzio e La Trémoille fu sconfitto a Novara dagli svizzeri e si ritirò nuovamente dall’Italia. In ogni caso, Paola si trovava a Carpi quell’estate, perché da qui, il 3 agosto 1513, inviò al marchese di Mantova l’accorata lettera con la quale gli dava l’an- nuncio della morte del piccolo Luigi. Il testo è noto37, ma è il caso di ricordarlo: Con infinito cordoglio et amaritudine aviso la S. V. che, essendo stato amalato questi giorni el mio putino da febre et tosse, de sorte continua et terribile, che el povero puto non l’ha potuta più sustenere, in modo che ha reso el spirito ad Nostro S.re Dio ad hore 24 heri. Io non scrivo a la S.V. ne lo affanno quale mi trovo, perché alligando questa alle altre mie tribulazioni quel il considerarà assai, pregando Dio si degni donarmi patientia. In seguito a questa morte, Gian Francesco rimaneva il solo discendente diretto di Gian Giacomo Trivulzio, che in successivi testamenti stilati nel 1514, 1517, 151838 lo designò come erede ponendolo sotto la tutela del proprio cugino Teodo- ro Trivulzio e di Beatrice d’Avalos.

36 R. ZAPPERI, Brogna, Leonora, DBI vol. 14, 1972; cfr. LUZIO 1906, p. 12; CONIGLIO 1967, pp. 221-223. 37 MSDC XI, 1931, p. 118. 38 ARCANGELI 2003, p. 61. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 83

Nel 1520 l’ambasciatore veneziano Gian Giacomo Caroldo riferiva del testa- mento del Trivulzio, morto l’anno precedente: «...ha lasciato erede suo nipote [Gian Francesco] ex unico filio [Gian Nicolò], il quale è di undici anni, zoppo per una botta di schioppo nel ginocchio»39. All’infortunio occorso al ragazzo sembra rimandare uno degli ex voto offerti da Gian Giacomo Trivulzio alla chiesa di Notre Dame d’Embrun, nelle Hautes-Alpes. Qui nel 1516 – dopo la grande vittoria fran- co-veneta a Marignano – il maresciallo inviò, insieme con ricchi doni, quelle che nei ringraziamenti del capitolo della chiesa sono descritte come «due immagini del Signor conte vostro figlio»: una «d’argento molto bella» e l’altra in legno dorato, con suoi corredi, «da porre davanti a Notre Dame du Réal [...] dove è stata messa l’altra d’argento nella sacrestia con i gioielli e i tesori della chiesa, e dove sarà con- servata in perpetuo, in memoria della grazia ricevuta [...], con la gamba d’argento e il defunto signor conte di Mison [Musocco]»40.

Il fantasma della libertà: Paola e il poverhomo Altre notizie di Paola risalgono al 1514, quando dalla nota lettera di Alberto ai due fratelli Gonzaga41 veniamo a conoscenza di un suo soggiorno a Mantova, di un viaggio a Loreto, di una nuova permanenza a Carpi e di una situazione problema- tica che Alberto cerca di governare nel ruolo di paterfamilias e quindi di autore- vole “destinatore” delle vicende della sorella. Alberto scrive, dunque, il 20 marzo 1514 da Roma, a Giovan Francesco e Lui- gi Gonzaga, chiedendo la loro collaborazione per evitare che la sorella possa, come invece vorrebbe, vivere separata da li soi per poter fare a suo modo: un’espres- sione, quest’ultima, che risuonava ancora nel dialetto dei nostri vecchi come allu- sione a una condotta femminile disdicevole nelle sue scelte incondizionate e incu- rante dell’altrui disapprovazione. Il 22 agosto dell’anno precedente, in una lettera al protonotario Marco Coccapa- ni42 che si diceva turbato da calunnie sul proprio conto, Alberto gli raccomandava di non darvi importanza e di reagire con la prudentia et bontà alle maldicenze: perché a Carpi sempre si vixe da molti cum zance et seditioncelle, il che è uno de mali influ- xi, che habbi quella terra. Queste zance e frasche, ciance e chiacchiere, sono cose che da un grande animo debeno essere despecte. Come le voci sulla condotta di Paola: Apresso di me sempre poco valsero falsi riporti, et simili arti. Crediate ancora, che apresso la Ill.a Signora contessa de Misoco non fano molta radice, se bene nel principio li dessero qualche ombra. In ogni caso, Alberto considera offensiva nei propri confronti qualunque illa- zione sul conto della sorella:

39 ALBÈRI 1858, p. 311. 40 Lettera, 18 giugno 1516. FABRE, FORNIER 1860, pp. 122-125; GAILLAUD 1862, pp. 93-95 (trad. nostra). 41 MSDC XI, 1931, pp. 119-122. 42 ROCCA 1863, pp. 17-18. 84 Luciana Saetti

vi significo chio amo la Sig.a Contessa como mi stesso, et chio voglio sia honorata et riverita più di me, et molto più me risentirei contra chi l’offendesse, né in parole, né in facti che s’io fossi offeso in la persona mia. Alberto scriveva, allora, di una Paola provata dalla recente perdita del figlio minore, e si può immaginare che questo fosse un motivo di più per difenderla da ciò che si vociferava sul suo conto; mesi dopo, invece, lo vediamo deciso e intran- sigente nel difendere la dignità della famiglia da una condotta compromettente. Dalla lettera ai fratelli Gonzaga apprendiamo infatti che Paola per un certo perio- do di tempo, a Mantova, è stata oggetto di murmuratione obbrobriose per una sua relazione con qualcuno al grado suo tanto disparo che, oltre a essere il fatto di - sonorevole di per sé, un matrimonio con costui è assolutamente fuori discussione. Alberto aggiunge di aver sperato che la sorella si fermasse a Carpi per qualche mese: in modo che, nel caso nutrisse ancora alcuno vano pensiere o passione di ceco amore per un una persona così improporzionata al grado suo e nostro, il tem- po e la distanza attenuassero tutto questo e si risolvesse infine a maritarsi con qual- cuno degno di lei. Assicura di non aver mancato nei suoi confronti de tutti quilli officij amorevoli e fraterni che si convenevano, usando in alcuni de epsi forsi magiori rigidità che la sua S. non haverebbe voluto: in sostanza, di averci provato sia con le buone che con le cattive, anche perché Paola coltivava addirittura l’idea andare a vivere per conto proprio a Montecchio43, in libertà vituperosa al grado e stato suo. Ora sembra venuta a più miti consigli, continua Alberto, e se resterà a Carpi penserà lui a evitare situazioni imbarazzanti: perché se simili frequentazioni fossero cominciate a Carpi anziché a Mantova, avrebbe fatto capire subito a quel tale che sbagliava grosso nel mancare di rispetto alla casa Gonzaga e a tutti loro fratelli; ma purtroppo ha saputo della cosa soltanto quando Paola era in viaggio per Loreto. Detto ciò, Alberto si augura che, se Paola vorrà andare a Luzzara o a Mantova, i fratelli useranno nei suoi confronti quella vigilanza che il loro onore impone; per- ché, pur amandola teneramente, la vorrebbe piuttosto vedere morta che vituperata o moglie di colui. Ha avuto da lei l’assicurazione che non si è legata con una pro- messa, e che non ha mai pensato di sposarlo. Perciò Paola può contrarre un nuovo matrimonio, anche se Alberto ha il sospetto che sia ancora alienata ne la mente: perché avendole egli proposto alcuni mariti honorati, giovani et molto più belli di questo poverhomo, lei non ne ha voluto sapere, sostenendo che prima intende recu- perare ciò che è suo e poi penserà a maritarsi. In conclusione, Alberto sollecita dai fratelli tre cose: fare di tutto perché Paola si decida a un matrimonio conveniente; nel frattempo, trovare un uomo grave, di età, che governi la sua casa insieme con una donna anch’essa anziana, e il marchese di Mantova glieli imponga; infine, impedirle nel modo più assoluto di andare a vivere a Montecchio.

43 Il castello di Montecchio, nel reggiano, apparteneva alla Chiesa (Giulio II l’aveva tolto agli Estensi nel 1512); il 16 gennaio 1514 un breve di Leone X ordinava al governatore di Parma e Reg- gio di dare Montecchio a Paola Gonzaga perché vi potesse condurre in modo più onorevole e conve- niente la propria vita “celibe” (GUAITOLI 1877, p. 208; MORSELLI 1931, p. 121). Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 85

Il velo vedovile Ciò che colpisce nella lunga lettera di Alberto non è certo il principio indiscus- so dell’onore, e nemmeno il rigore autoritario del suo atteggiamento, quanto sem- mai la definizione dei sentimenti della sorella, “vani” solo perché socialmente inammissibili, e in quanto tali derubricati a disturbi emotivo-passionali da repri- mere senza esitazione; ma colpisce soprattutto l’immagine in controluce di questa Paola velleitaria ed evasiva, affetta da desideri che la rendono intrattabile quanto più glielo consente il suo stesso rango, in un contraddittorio rapporto con l’autori- tà familiare. Il suo comportamento sembra dettato da un sentimento ambiguo, tra calcolo e insofferenza. Il mantenimento dello stato vedovile, condizione necessaria per rien- trare in possesso della dote, comportava anche un vantaggio di posizione dovuto ai beni trasmessi dal marito defunto, e alla conseguente capacità d’influenza e relati- va autodeterminazione. Nel suo caso, però, all’acquisizione di questi privilegi per così dire “di reversibilità” si frapponevano evidentemente degli ostacoli riconduci- bili alle volontà testamentarie del suocero, che determinarono poco dopo una rot- tura dei rapporti e una causa legale ancora aperta nel 151844. Quanto ai privilegi della vedovanza, l’immagine sociale di tale condizione è testimoniata da vari ritratti femminili dell’epoca nei quali il velo vedovile assurge a emblema di una dignità matronale connotata dalla fedeltà alla memoria del mari- to defunto. Appunto con il velo vedovile Paola è effigiata in una medaglia, con l’i- scrizione PAULA GONZAGA COMIT, il cui rovescio rappresenta una scena d’interno con due donne al telaio, classica evocazione delle virtù domestiche. L’identifica- zione del soggetto con la nostra Paola Gonzaga è sostenuta da argomenti che smen- tiscono altre ipotesi, come quella sull’omonima sorella di Rodolfo Gonzaga, moglie di Leonardo conte di Gorizia45. Indiscutibili, infine, le analogie tra questa effigie e il Ritratto di gentidonna di profilo del Landesmuseum di Weimar46, da cui probabilmente fu tratta. Anche nel dipinto – attribuito a Bernardino de’ Conti, come il famoso ritratto di Gian Giacomo Trivulzio e quelli di alcuni suoi familia- ri47 – Paola, raffigurata di profilo e volta a sinistra, porta il velo vedovile48. Paola tornò a vivere tra Milano e Vigevano dopo che il ducato fu riconquistato dal nuovo re di Francia, Francesco I, nel 1515. Come è noto, nel 1516 ne fu affi- dato il governo a Gian Giacomo Trivulzio, cui poco dopo subentrò Odet de Foix,

44 ARCANGELI 2003, p. 54. 45 LUCIANO 1999, pp. 33-36. 46 Klassik Stiftung, Weimar, SM, G, Inv. n. G 183. L’opera appartenne alla collezione di Goethe (BOTHE, HAUSSMANN 2002, pp. 141 sgg.). 47 SACCHI 2000, pp. 98-102. 48 Del ritratto pittorico esiste una riproduzione fotografica presso la Fondazione Zeri a Bologna (Fototeca, busta 0361, fasc. 5, 25. Foto G. Beyer, ante 1946) in cui non compare la scritta PAULA GON- ZAGA REDULPHI MARCHIONIS FILIA UXORIS NICOLAI COMITIS MUSOCI MAGNI TRIULTII FILII che è invece visibile in quella, più recente, pubblicata qui (p. 81). 86 Luciana Saetti visconte di Lautrec, che riuscì a far gravare su di lui pesanti sospetti di tradimen- to. Perciò quando il quasi ottantenne Trivulzio volle recarsi in Francia per difen- dere le proprie ragioni davanti al re, fu accolto malamente e accusato di sovver- sione. In quei frangenti Paola si trovava a Vigevano, dove fu trattenuta sotto sor- veglianza da Lautrec assieme al figlio49 in attesa che si decidesse il destino del suo- cero. Questi alla fine fu discolpato e ripartì per l’Italia; morì durante il viaggio, a Chartres, il 5 dicembre 1518. Non risulta che Paola passasse a nuove nozze, e comunque non le rimaneva più molto tempo: morì a trentatré anni nella sua casa di Porta Comasina a Milano, nel- la parrocchia di San Marcellino, il 31 maggio 1519, ex colica et doloribus matri- cis, apoplesi superveniente secondo quanto attestò il medico Teodoro da Busto50. Fu tumulata nella cappella Trivulzio in San Nazaro.

Paola Gonzaga. Medaglia, XVI secolo. Collezione privata.

49 GUICCIARDINI, XIII 10. 50 MOTTA 1890, p. 41. 1513. Alla corte di Leone X

Nel 1513 Alberto risiede stabilmente a Roma dove, dall’estate dell’anno prece- dente, ricopre l’incarico di oratore dell’imperatore presso il pontefice. Morto Giulio II il 21 febbraio 1513, è eletto l’11 marzo Leone X (Giovanni de’ Medici). È nota la relazione di Alberto all’imperatore sull’esito del conclave, sul- l’indole del nuovo papa (“È mia opinione che il sommo pontefice sarà, piuttosto, mite come un agnello che feroce come un leone”1), sulla contentezza dei cardinali per essere passati dalla così grande severitas et gravitas di Giulio II alla lenitas et facilitas di Leone X. Di lui – scrive Alberto – si può pensare che preferirà la pace alla guerra, tranne quella contro gli infedeli; che non sarà certamente amico dei francesi ma nemmeno un loro acerrimo nemico quale lo è stato Giulio II. Nell’e- lenco delle sue qualità ricorrono aggettivi che denotano affabilità, pacatezza, ragio- nevolezza, misura, disponibilità, tutti comportamenti che, come scriveva Guicciar- dini, sono una «maniera efficacissima a conciliarsi gli animi degli uomini»2 e che, come dimostreranno i fatti, in Leone X attengono in gran parte all’accortezza e al calcolo. Con la «cauta politica di salvaguardia del ruolo arbitrale del Papato»3 che carat- terizza il suo pontificato, papa Medici persegue anche, nei mutevoli esiti delle vicende internazionali, l’obiettivo di amplificare il potere della propria famiglia, principalmente nelle persone del fratello Giuliano e del nipote Lorenzo. Non si tratta, del resto, di un disegno inusitato o sorprendente; anzi si può nota- re come il nepotismo del pontefice diventi all’occorrenza, per Alberto, un buon motivo da avanzare perché certe mire territoriali di Leone X non suscitino diffi- denze e possano essere assecondate dall’imperatore. Soprattutto quando si tratta di Modena, come vediamo nella minuta scritta il 12 e 13 aprile, poche settimane dopo il trattato franco-veneto di Blois e indirizzata a Lang (documento XV). Alberto, preoccupato perché il duca di Ferrara sembra intenzionato a rivolgersi all’imperatore per riavere quella città, raccomanda a Lang di fare in modo che ciò non avvenga, facendogli presente l’interesse di Leone X a trattarne l’acquisizione sulla base degli accordi un tempo stipulati tra l’imperatore e Giulio II; spiega che il papa intende ottenere Modena per il nipote e il fratello, non per annetterla ai domini della Chiesa; e c’è da augurarsi – conclude – che voglia trattare anche per Reggio, Parma e Piacenza4. In quelle settimane Alfonso d’Este era a Roma: Leone X sospese per due mesi l’interdetto lanciatogli da Giulio II, concedendogli un salvacondotto per permetter-

1 GODEFROY 1712, t. IV, pp. 72-80 (trad. nostra); cfr. PASTOR 1921, IV, I, pp. 29-30. 2 GUICCIARDINI, XII 16. 3 M. PELLEGRINI, Leone X, papa, DBI vol. 64, 2005. 4 Subito dopo la morte di Giulio II, Parma e Piacenza erano state occupate dalle truppe di Ramón de Cardona per il ducato di Milano. 88 Luciana Saetti gli di assistere alla cerimonia d’incoronazione, il 19 marzo, e alla presa di posses- so del Laterano l’11 aprile, cui il duca presenziò portando lo stendardo della Chie- sa. Nella minuta del 25 aprile 1513 (documento XVI) Alberto riferisce all’impera- tore che il duca di Ferrara è ripartito da Roma senza aver ottenuto dal nuovo pon- tefice nulla di quanto sperava, nonostante l’appoggio di alcuni cardinali veneti e di altri notoriamente filofrancesi.

Un omaggio musicale Nella stessa minuta Alberto dà notizia di aver ottenuto dal papa ciò che Massi- miliano aveva chiesto, la diocesi di Pedena, in Istria, per Georg von Slatkonia, da poco nominato maestro di cappella presso la corte imperiale5. Si tratta di uno degli innumerevoli casi in cui si fa tramite dei desiderata dell’imperatore nell’assegna- zione di cariche e benefici ecclesiastici: il ruolo che ricopre, i rapporti con il pon- tefice, il progressivo radicamento a Roma6 fanno della sua posizione un nodo importante nella rete di scambi costituita dalla distribuzione di favori politici, ren- dite e privilegi. Ma questo caso è degno di nota perché l’eminente personaggio qui menzionato ricompare subito dopo, nelle carte Lea, in una circostanza speciale. Il 25 giugno 1513, infatti, Alberto stende le minute di due lettere di ringrazia- mento – una all’imperatore e un’altra al suo tesoriere Jakob Villinger (documenti XVII e XVIII) – per il mottetto dedicato a Leone X da Georg von Slatkonia e dal famoso compositore Heinrich Isaac7. Un recente saggio di Joachim Jacoby8 sottolinea l’importanza di questi scritti, che offrono precise evidenze documentarie sulla paternità, la datazione, l’occasio- ne di una delle più famose composizioni della musica rinascimentale, il mottetto a sei voci di Isaac Optime pastor divino. Oltre alle considerazioni dello studioso sul- la genesi e sulle caratteristiche specifiche dell’opera9, il saggio offre interessanti osservazioni sul significato dell’omaggio e sui motivi per cui Alberto, incaricato di presentarlo al pontefice, portò a termine quell’incombenza con un vistoso ritardo. Il mottetto, la cui composizione fu intrapresa all’indomani dell’elezione di Leone X al pontificato, venne completato nel giro di due mesi e inviato Roma il 7 maggio – come risulta dalla minuta del ringraziamento a Villinger – accompagnato da istru- zioni della cancelleria imperiale e, presumibilmente, da una lettera del tesoriere.

5 Georg von Slatkonia (Jurij Slatkonja, 1456-1522), originario di Lubiana, cappellano dell’impe- ratore (1495) e già cantore nella cappella episcopale di Vienna, poi maestro cantore (1498) e infine maestro di cappella. Oltre ad accumulare numerosi benefici minori e ad ottenere, nel 1513, la titola- rità della diocesi di Pedena di cui era amministratore apostolico, nel novembre dello stesso anno divenne anche vescovo di Vienna. Sul suo ruolo e sulla collaborazione con Isaac, KEMPSON 1998. 6 Si veda in proposito il contributo di Stefano Minarelli al presente volume. 7 Il compositore Heinrich Isaac o Arrigo Tedesco (1450 ca-1517), originario delle Fiandre o del Brabante, attivo nel 1484 alla corte di Massimiliano I, fu poi a Firenze presso Lorenzo il Magnifico (dei cui figli Piero e Giovanni, futuro papa Leone X, probabilmente fu maestro di musica); di nuovo presso l’imperatore dopo la cacciata dei Medici, fece ritorno a Firenze nel 1515. 8 JACOBY 2011. 9 Ibid., pp. 275-278. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 89

Quando pervenisse effettivamente a destinazione non sappiamo; mentre una notizia fornita da Sanudo autorizzerebbe a ritenere che nelle settimane successive all’invio del plico Alberto non si trovasse a Roma. Nei Diarii infatti si legge che egli vi fece ritorno da Genova intorno al 20 maggio10. La sua corrispondenza con la cor- te imperiale riprese da qui nei giorni successivi; ma i due messaggi di ringrazia- mento risultano stilati addirittura un mese dopo, e in essi Alberto si preoccupa innanzitutto di giustificare il ritardo con cui il dono è stato consegnato al pontefice.

Cogliere il momento, scegliere le parole

Lo scritto indirizzato all’imperatore (documento XVII) esordisce infatti con un’e- laborata spiegazione di questo fatto: la stesura del testo è tormentata da riformula- zioni di interi brani e da un intrico di ripensamenti che inseguono un preciso registro espressivo, in un esercizio di retorica cortigiana insolito e quasi eccessivo rispetto all’abituale dettato della corrispondenza diplomatica di Alberto. Riferendosi alle istruzioni imperiali, egli si premura di assicurare che non ha trascurato nulla di quanto gli è sembrato opportuno fare al riguardo; ma potendo immaginare che l’imperatore si meraviglierà del ritardo con cui gli risponde, lo previene con queste parole: “In realtà non c’è motivo che [Vostra Maestà] si meravigli, dato che quando ho ricevu- to la suddetta lettera e il Mottetto non mi sembrava affatto opportuno mescolare, come dicono, la musica al lutto, cioè presentare il Cantico al Santissimo Nostro Signore nel momento in cui è giunta qui quella notizia penosissima per tutti, ossia che i francesi era- no vittoriosi e il ducato di Milano era perduto. Di conseguenza ho volutamente aspet- tato un momento opportuno; infatti, mutata e risoltasi felicemente la situazione con la vergognosa disfatta dei francesi e il riacquisto di Milano e la vittoria dei nostri, allora mi è sembrato degno dell’opera offrire [al pontefice] il lietissimo dono del Reverendo Georg e di Isaac”. L’arrivo del componimento, insomma, avrebbe coinciso con le drammatiche circostanze seguite all’offensiva della Francia contro il ducato di Milano. All’ini- zio di maggio 1513 l’esercito francese al comando di Trivulzio e La Trémoille era entrato in Italia e poco dopo Bartolomeo d’Alviano con l’esercito veneto si accam- pava in Lombardia, mentre il duca di Milano, Massimiliano Sforza, per timore di una sollevazione lasciava la propria capitale portandosi a Novara11. Ma qui, il 6 giugno, i francesi – al di là di ogni previsione data la loro superiorità numerica – furono battuti dagli svizzeri e si ritirarono immediatamente passando di nuovo le Alpi.

10 SANUDO, XVI 302. 11 Sulla situazione a Milano e Genova, MESCHINI 2006, pp. 1093-1098. 90 Luciana Saetti

Stemma di Leone x accanto a quello del re di Francia, nella bolla di abolizione della Prammatica san- zione di Bourges (18 agosto 1516). Parigi, Musée des Archives nationales, AE/III/157. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 91

La ragione e l’appetito Ai fatti di quelle settimane fanno riferimento alcune delle lettere di Andrea de Burgo12 conservate nella raccolta Lea. Una di esse, del 23 giugno (documento XX), informa Alberto della situazione nell’Italia del nord dove, dopo il ripiegamento dei francesi, è assolutamente necessario potenziare lo sforzo militare contro i venezia- ni; perciò gli chiede di adoperarsi presso Leone X perché mandi le proprie milizie, ne solleciti altre dai fiorentini e continui a pagare, almeno per qualche mese, i set- temila fanti svizzeri che difendono il ducato. Il rischio di perdere il controllo della Lombardia, infatti, è accresciuto dal fatto che il pontefice non sembra più disposto, come prima, a finanziare la guerra: Io difficelmente [sic] posso creder la voluntà del Pontefice, che fin a principio tanto era inclinata al benefitio de la Cesarea Maestà et Signor Duca [di Milano] cossì contra veneti como contra francesi, debia esser immutata, como me ha scritto el Signor vice- ré, né alchuna rasone me lo persuade. Una spiegazione, però, secondo lui ci può essere, considerando che non sempre la rasone ha loco, e qualche fiata lo appetito vince: è plausibile che, tardando a mandare gli aiuti, il papa voglia spingere l’imperatore a cedere alle sue richieste su Modena e Reggio; per cui è bene che Alberto quanto piu pò strinza la praticha con la sua Santità e veda quanto ne pò cavare con obligo anchora de adiutare la Cesa- rea Maestà de bona sorte a questa guerra; e faccia sapere al più presto ciò che avrà risolto con il papa13.

L’aquila e i gigli: all’insegna dell’ambiguità Le considerazioni di Andrea de Burgo rilevano le ambiguità e le oscillazioni della politica di Leone X. Va ricordato che nell’aprile 1513 il papa aveva dato, in segreto, la propria adesione alla coalizione stretta a Malines tra Impero, Spagna e Inghilterra contro Venezia e Francia fornendo, sempre segretamente, il denaro per pagare le fanterie svizzere che difendevano Milano; al tempo stesso teneva aperti canali di comunicazione con le altre potenze che partecipavano al conflitto, dichia- randosi neutrale, in modo da indirizzare opportunamente la propria politica nel caso che l’offensiva veneto-francese avesse successo14. Anche alla notizia della vit- toria dei collegati non prese immediatamente posizione, per non tagliare i ponti con

12 Andrea de Burgo (o Borgo; 1467-1533), consigliere e segretario di Massimiliano I, già oratore alla corte di Francia, poi agente imperiale in Italia, tenne il governo effettivo del ducato di Milano dal dicembre 1512, con Cardona e il cardinale Schiner (G. RILL, Borgo, Andrea, DBI vol. 12, 1971). 13 In seguito, nelle lettere ad Alberto del 2 e 4 luglio, Andrea de Burgo si dirà soddisfatto della notizia che Leone X intende mandare quello galiardo aiuto di cui Alberto gli ha scritto; mentre il 7 luglio lamenterà che il papa non voglia più saperne di pagare i settemila svizzeri (v. i documenti XXIII, XXIV, XXV). 14 JACOBY 2011, p. 274; cfr. PASTOR 1921, IV, I, pp. 33-34. 92 Luciana Saetti la Francia mirando a ottenere, come in effetti avvenne, l’avvicinamento di Luigi XII al papato e la sottomissione dei cardinali scismatici del concilio di Pisa. Solo alla fine di giugno15, assicurati questi obiettivi, il suo atteggiamento cambiò in senso antifrancese; e anche nei confronti di Venezia passò dai messaggi conci- lianti all’ostilità, tanto che i veneziani si dissero stupiti di questa sì gran mutation in uno giorno dil papa di non volerne essere contra, e poi mostrarsi a dì 25 [giu- gno] contrariissimo16. Ciò considerato, è del tutto plausibile che il comportamento del pontefice sug- gerisse ad Alberto di temporeggiare nella presentazione dell’omaggio imperiale. La vittoria dei collegati e il rientro dello Sforza in Milano gli diedero poi l’oppor- tunità di riaggiustare la vistosa smagliatura nell’esecuzione delle istruzioni ricevu- te, cogliendo l’occasione e scegliendo accortamente le parole. Nella scena della consegna dell’omaggio musicale da lui descritta assistiamo, innanzitutto, a un magistrale esempio di “neutralizzazione” diplomatica delle ten- sioni latenti: “Non posso descrivere a parole con quanto lieta e serena espressione il pontefice l’ab- bia accolto; infatti ha voluto scorrerlo tutto con grande attenzione anche se stava pran- zando, e ha letto anche i versi, che ha lodato moltissimo; e fatti venire lì i suoi cantori per provarlo glielo ha consegnato. E poi, mentre gli facevo notare che nelle insegne sua e di Vostra Maestà, elegantemente congiunte, al posto dei gigli era stata messa l’aquila, anche di questo si è molto compiaciuto dicendo: ‘Qui17 certamente l’aquila sta meglio dei gigli e incontra di più il mio favore; e accolgo lieto questo auspicio’. Dette queste parole, mi ha specificamente incaricato di porgere infiniti ringraziamenti a Vostra Mae- stà da parte sua e di comunicare che attende con incredibile desiderio l’arrivo di Vostra Maestà per poterla insignire, come spera, con le proprie mani della degnissima corona”.

Assurto al pontificato, Leone X mantenne, come d’uso, il proprio stemma di famiglia, lo scudo con cinque palle rosse in campo oro e una sesta, più grande e sovrastante le altre, “all’arma di Francia”, ossia rivestita d’azzurro e con tre gigli d’oro, insegna dei sovrani francesi: un’onorificenza concessa nel 1465 ai Medici da Luigi XI in segno della benevolenza della corona nei loro confronti. Senonché, nella dedica del mottetto, i tre gigli dello stemma sono sostituiti dall’aquila impe- riale, a significare che è l’impero il garante della sicurezza del papato. Le parole del pontefice, che Alberto riporta e che possiamo immaginare accom- pagnate da un benevolo sorriso per questa invenzione grafica, rivelano solo il necessario – la consapevolezza dell’effettivo indebolimento della potenza francese – e aggirano il punto fondamentale della reciprocità tra papato e impero, implicita nel messaggio di Massimiliano. La sua lettera, nell’esprimere il desiderio e la spe-

15 PASTOR 1921, IV, I, p. 35-39. Il 27 giugno, costretti a un umiliante atto di contrizione, ottenne- ro il perdono e furono reintegrati i cardinali Carvajal e Sanseverino. 16 SANUDO, XVI 424. 17 L’originale è Melius certe hoc in orbe aquila sedet quam lilia, dove il significato di orbis rima- ne volutamente ambiguo. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 93 ranza di portare a Roma i musici della cappella imperiale, sottintendeva uno scopo perseguito da tempo, quello di essere incoronato imperatore dal pontefice18, propo- nendosi così come unico garante della sicurezza della Santa Sede. L’atteggiamen- to condiscendente di Leone X dissimulava invece il fatto che le sue prospettive politiche non contemplavano certo una simile opzione esclusiva. Alberto infatti riformula più volte la frase finale del proprio resoconto, in modo sempre più elaborato e ampolloso, come nelle due stesure qui riportate: “Non tralascerò questo soltanto, che Sua Santità ha provato grandissimo piacere per quel passaggio della lettera in cui Vostra Maestà afferma che spera di venire a Roma insieme con i musici della sua cappella, e ha detto di aspettare con incredibile deside- rio l’arrivo di Vostra Maestà per poterla abbracciare e parlare con lei e, come spera, insi- gnirla con le proprie mani della degnissima corona, lieto che gli sia riservato tale straor- dinario onore”. “[Il pontefice ha detto] che comunicassi [a Vostra Maestà] che tutti i musici della cap- pella di Vostra Maestà, ma per primi lo stesso reverendo Georg e Isaac, godono di spe- ciale considerazione presso di lui, e che li avrà sempre nelle proprie grazie e riserverà loro benefici e favori; e quando gli ho letto quella parte della lettera di Vostra Maestà nella quale scrive che spera di poter portare tra poco ai piedi di Sua Santità tutti i musi- ci della sua cappella, si è straordinariamente rallegrato dicendo che apprendeva così che Vostra Maestà aveva deciso di venire a Roma, e che non poteva accadergli nulla di più gradito e di più lieto che abbracciare Vostra Maestà e parlare familiarmente con lei e accoglierla con quell’onore e quella gloria che si deve a tanto principe; e di ritenere che tra gli altri doni che gli sono stati dati da Dio Ottimo Massimo e, come si dice, dalla Fortuna (che sono stati grandissimi), non è il minore quello che gli sia riservata la glo- ria di dover insignire la Vostra Sacratissima Maestà della corona imperiale; e aspetta con grande desiderio e ogni auspicio quel giorno, che per quanto presto possa giunge- re a estinguere il suo ardentissimo desiderio, gli sembrerà tardare moltissimo”.

L’arte della dissimulazione L’aspetto più interessante dell’episodio sta nel modo in cui Alberto, nel rico- struirlo, ne gestisce la tempistica. Jacoby osserva in proposito che le notizie del- l’offensiva in Lombardia e della fuga dello Sforza da Milano dovettero raggiunge- re Roma intorno alla fine di maggio, e quella della sconfitta dei francesi non più tardi del 10 giugno19. Leone X, come si è accennato, non si risolse tuttavia ad assu- mere apertamente posizioni antifrancesi, e solo il 25 giugno, data di questi scritti, si schierò ufficialmente con i vincitori. I conti, dunque, tornano. Dichiarando di aver ritenuto inopportuno musicam miscere in luctu, far musica nel momento del dolore per le gravissime notizie giun-

18 Massimiliano d’Asburgo non fu mai incoronato imperatore da un pontefice; nel 1508 si era fat- to proclamare, in presenza del vescovo di Trento Georg Neydeck e nel corso di una solenne cerimo- nia nella chiesa di San Vigilio, Imperator Romanorum electus, con il consenso di Giulio II (v. in pro- posito ELZE 1995). 19 Cfr. PASTOR 1921, IV, I, p. 35. 94 Luciana Saetti te da Milano, Alberto focalizza l’attenzione sul precipitare degli eventi bellici, trovando una spiegazione adatta a coprire il contrattempo (l’assenza da Roma nel mese di maggio, di cui non fa parola) all’origine della propria inadempienza e il suo combinarsi con l’atteggiamento ambivalente del papa (altro dal suo presun- to dolore), che rendeva la presentazione del mottetto quanto mai intempestiva. Solo quando si fosse chiusa la partita, e qualunque ne fosse l’esito, quel gesto di omaggio avrebbe assunto il significato voluto, l’affermazione del valore e della stabilità del sostegno imperiale al papato20. La rapida soluzione dell’offensiva francese permise ad Alberto di togliersi d’impaccio, cogliendo con prontezza e abilità l’occasione offerta, come si dice, dalla Fortuna.

UN’ALTRA ESTATE: GUERRA, DIPLOMAZIA, DENARO

Di diverso tenore e argomento sono invece le minute indirizzate poco dopo da Alberto a Lang. Dalle cerimoniose circonvoluzioni con cui è uscito d’imbarazzo nella questione dell’omaggio al pontefice, si passa qui a una precisa valutazione della situazione politico-militare dal punto di vista degli interessi imperiali. La guerra sta proseguendo, in Italia, contro i veneziani, mentre il re di Fran- cia è stato attaccato sul suo stesso territorio dagli inglesi sbarcati a Calais e con- giuntisi con gli imperiali; intanto gli svizzeri preparano una spedizione in Bor- gogna. Nello scritto del 2 luglio 1513 (documento XXII), l’assunto di Alberto è che l’imperatore non può essere in grado di portare avanti la guerra su due fronti, contro i francesi e contro i veneziani: infatti non vi sarà, per concluderla, un con- corso decisivo della Spagna, che non ha nessuna intenzione di rompere la tregua stipulata con la Francia21; e il trascinarsi del conflitto risulterà insostenibile per l’Impero. Dunque Lang deve far sì che Massimiliano venga a patti con l’uno o con l’altro avversario, se non addirittura con entrambi. Alberto individua chiaramente l’indirizzo della politica di Ferdinando il Cat- tolico e il rischio cui l’imperatore va incontro: gli spagnoli cercheranno non solo di evitare che vinca la guerra ma che possa avvantaggiarsi della pace, facendo sì che all’imperatore rimanga, in Italia, la minor parte possibile dei territori cui egli invece ha diritto in base al trattato di Cambrai e che potrebbe costituire in un uni- co stato. Il pontefice, tuttavia, ritiene inattuabile la sottrazione ai veneziani di tut- ti i domini di terraferma, anche se Alberto continua invece a sostenerne la neces- sità assicurandogli che l’imperatore sarà sempre disposto ad assecondare i suoi piani in favore del fratello Giuliano. In definitiva, nel caso che Massimiliano intenda continuare la guerra su

20 JACOBY 2011, p. 272. 21 Si tratta della tregua nella guerra tra le due potenze per il regno di Navarra, stipulata per un anno e «solamente per le cose di là dai monti» (GUICCIARDINI, XI 11). Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 95 entrambi i fronti, potrà contare solo su Enrico VIII d’Inghilterra che, essendo mol- to giovane, potrebbe facilmente mutare orientamento e fare la pace con i francesi. Questa, conclude Alberto, è la sua valutazione, data in tutta franchezza come Lang gli ha chiesto di fare; nel ribadirla sinteticamente, insiste sulla necessità che l’im- peratore si risolva a una pacificazione prima che siano gli spagnoli a uscire dal con- flitto; e sollecita Lang a venire a Roma al più presto per incontrare il pontefice.

Un alloggio per Lang Riguardo a quest’ultima evenienza, Alberto passa dalle considerazioni sul quadro politico internazionale ai problemi pratici da risolvere per poter ospitare degnamente nell’Urbe il luogotenente imperiale con il suo numeroso seguito. Leggiamo così un sintetico ma eloquente esempio degli accorgimenti del caso: “Qui non c’è al momento nessuna dimora libera per Vostra Signoria Reverendissima – se mai qualche cardinale cedesse alla legge di natura, si potrebbe ottenere la sua – e non abbiamo nemmeno trovato, ancora, una locanda abbastanza grande da poter accogliere tutti i familiari di Vostra Signoria Reverendissima; comunque la ricerca continua ogni giorno, e quando deciderà di venire e scriverà che si affitti una casa per lei, ne troveremo senz’altro una grazie all’autorità del papa, che obbligherà qualcuno a cederla se non si potrà fare diversamente”.

Un bonus per l’ambasciatore In quegli stessi giorni, altre lettere di Andrea de Burgo da Milano tengono al corrente Alberto degli sviluppi della situazione in Lombardia. Burgo si dice del tutto d’accordo con Alberto sul fatto che l’imperatore non possa sostenere la guerra sui due fronti, e quindi sulla necessità di stringere i tempi per venire a una composizione conflitto almeno con uno degli avversari. Tra le altre cose, nella lettera del 4 luglio (documento XXIV) risponde ad Alberto – che evidentemente deve essersene lamentato con lui – riguardo alle ingenti spese che questi sta sostenendo nel suo ruolo di oratore imperiale, e gli fa sapere dell’intenzione di Lang di assegnargli un bonus – come si direbbe oggi – se si concluderà positi- vamente l’affare di Modena: Non dubito che Vostra Signoria non habia sostenuto de le spese e damni assai stando là in quella legatione. Ma se io dicessi anchora quelle che io ho sostenuto et sosten- go qui, Vostra Signoria se ne mereviliaria. Monsignore de Gurz però a li zorni passa- ti me scrisse molto amorevelmente che era per provedere a la Signoria Vostra, et maxime se queste partite de Modena andaseveno avanti gli faria parte de quelli dina- ri dimonstrando a questo l’animo tanto inclinato quanto più se possa dire. Non è nota l’entità della gratifica promessa, e non si sa se poi fu effettiva- mente corrisposta; mentre è evidente come, per Alberto, le spese da affrontare in proprio per mantenere il privilegio di servire l’imperatore, a fronte dell’arbitra- rietà dei compensi elargiti, costituiscano un problema sempre più assillante e, come vedremo, destinato a diventare un tema ricorrente nei suoi scritti. 96 Luciana Saetti

Domani nella battaglia A metà agosto, le truppe svizzere sono in marcia con quelle tedesche verso la Borgogna. Alle operazioni di guerra in corso nel frattempo nel nord della Francia si riferisce la prima lettera di Iacopo Bannissi22 presente nel carteggio Lea (docu- mento XXIX). In qualità di consigliere e segretario imperiale, Bannissi si trova sul posto al seguito di Massimiliano d’Asburgo e scrive dal campo presso Thérouan- ne, nell’immediatezza degli eventi che il 16 agosto vedranno la vittoria sui france- si a Guinegatte. La lettera merita di essere menzionata perché, diversamente dalle altre sue ad Alberto23, questa volta Bannissi scrive in latino, e in uno stile che si richiama alla memorialistica e storiografia antiche, per esporre gli eventi di cui è testimone: dall’incontro dei due sovrani24 alla rassegna delle truppe, dalle modali- tà dell’assedio posto alla fortezza di Thérouanne alla configurazione degli accam- pamenti inglese e imperiale, con un excursus sui diversi costumi dei due popoli.

Il cappello del cardinale Nello stesso giorno della battaglia di Guinegatte, 16 agosto 1513, da Roma Alberto sta provvedendo a inviare a Lang quattromila ducati dei cinquemila pro- messi da Leone X all’imperatore. Tiene a dire che gli altri mille saranno versati a giorni, ma ha preferito non aspettare e fargli avere intanto questi, che non è riusci- to a ottenere più in fretta per la lentezza con cui si fanno sempre le cose a Roma. Invia anche il breve papale che concede al prelato di stare nei campi militari sen- za pregiudizio per la sua coscienza o la sua missione spirituale (absque conscien- tiae aut rerum spiritualium iactura). Gli manda anche la veste cardinalizia, ma non il cappello perché non ha ricevuto sue istruzioni in merito (documento XXX). Non si può fare a meno, nel leggere questo accenno al pileus, come lo chiama Alberto in latino, di aprire una parentesi sulla consegna a Lang dell’emblematico accessorio: una faccenda complicata e, come verrebbe da dire oggi un po’ irrispet- tosamente, un tormentone che si trascina dall’anno precedente; ma che è significa- tivo delle tensioni latenti nel rapporto tra il papa e l’uomo forte della politica impe- riale in Italia. Ricapitolando: quando Lang, promosso cardinale in pectore da Giulio II nel concistoro del 10 marzo 1511, viene in Italia nel luglio 1512 per conferire con il

22 L’umanista di origine dalmata Iacopo Bannissi (Jakov Baničević, 1466-1532; variamente men- zionato come Bannissius, Bannisio o de Bannissis quale si firma) dal 1494 circa fu al servizio di Mas- similiano I, che lo incaricò soprattutto delle questioni fiamminghe; ebbe inoltre un ruolo importante nella politica di alleanza con l’Inghilterra. G. Rill, Bannisio, Iacopo, DBI vol. 5, 1963; BIETENHOLZ, DEUTSCHER 2003, ad vocem. 23 Nelle altre lettere ad Alberto della raccolta Lea, Bannissi si esprime con la commistione di - scorsiva di italiano e latino tipica della corrispondenza dell’epoca. 24 L’incontro tra Massimiliano I e Enrico VIII avvenne l’11 e 12 agosto 1513, pochi giorni prima della battaglia di Guinegatte. Sanudo riferisce di altre lettere di Bannissi ad Alberto (nel settembre 1513, da Tournai) sui successivi sviluppi della guerra: capitolazione di Thérouanne, attacco inglese agli scozzesi, morte di Giacomo IV di Scozia a Flodden Field. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 97 pontefice a Roma, l’incontro tanto atteso da quest’ultimo è invece volutamente procrastinato dal plenipotenziario imperiale, che lo condiziona alle risoluzioni del convegno di Mantova e alle risposte del pontefice sulle questioni ancora aperte. Nel frattempo ha avuto inizio il quinto Concilio lateranense (3 maggio 1512-16 marzo 1517)25, convocato da Giulio II come contromossa politica al concilio di Pisa, appoggiato dal re di Francia e dal quale inizialmente Massimiliano d’Asbur- go non prese le distanze26. Il compito di Lang, di conseguenza, consisteva non solo nel risolvere il proble- ma delle alleanze (la tregua con Venezia, l’adesione dell’Impero alla Lega santa contro la Francia) ma anche nel dissipare ogni ombra sulla posizione di Massimi- liano testimoniando ufficialmente la sua piena adesione al concilio lateranense. In quei mesi, i differimenti del sospirato arrivo a Roma di Lang preoccuparono e irritarono Giulio II, che in tale occasione intendeva pubblicare la sua nomina a cardinale ma, date le circostanze, anche farglielo desiderare: l’oratore veneziano a Roma comunicava alla Signoria, il 30 luglio 1512, che il papa quanto a dar il capello al Curzense, non vol mandarlo; ma zonto el sarà a Roma, lo tenirà 15 zor- ni avanti l’habi27. D’altra parte Lang, approdato solo nel novembre a Roma e fattovi il proprio trionfale ingresso, non si mostrò così ansioso di vestire ufficialmente la porpora: dapprima, sembra, con un pretesto economico28, per cui chiese che il cappello gli fosse inviato successivamente a Milano, dove doveva andare per l’entrata in città del nuovo duca Massimiliano Sforza. Infine, accettata il 24 novembre la pubblica- zione della nomina, rifiutò di portare, in concistoro, le insegne cardinalizie «a fine di tener lontana dalla sua missione ogni ombra di equivoco»29. Partecipò infatti in abito secolare, da uomo dell’imperatore, alla terza sessione del concilio (3 dicem- bre), a sancire in nome di Massimiliano d’Asburgo il totale distacco del sovrano dallo scisma di Pisa e la sua adesione al concilio lateranense, prestando l’atto di obbedienza al pontefice. Nell’agosto 1513, quando Alberto scrive, è un altro papa, Leone X, ad aspetta- re l’arrivo di Lang a Roma. La questione del cappello torna dunque d’attualità e viene ripresa da Alberto nella minuta del 26 agosto (documento XXXII): “Ho mandato, tramite Antonio, le vesti cardinalizie; procurerò anche che venga mandato il cappello, come Lei mi dice di desiderare; sappia però che qui [a Roma] non si può far niente in modo abbastanza veloce, ma tutto viene portato a termine con lentezza”.

25 Pronunciò il discorso di apertura, il 15 maggio 1512, Egidio da Viterbo, generale degli Agosti- niani; lo ricordo qui perché si tratta di un personaggio spesso menzionato nelle carte Lea per le mis- sioni diplomatiche affidategli in seguito da Leone X. 26 V. M INNICH 1981, p. 274. 27 SANUDO, XIV 548 (4 agosto 1512). 28 SANUDO, XV 337 (16 novembre 1512, lettere da Roma del 9-12 novembre: «a dì 15, in conci- storio il Papa prononceria cardinal el Curzense; partiria a dì 16 per Milan e lì il Papa li manderìa il capello; non lo vol qui per non aver il modo di far la spexa, è con 250 cavalli etc.»). 29 PASTOR 1932, III, p. 836. 98 Luciana Saetti

Albrecht Dürer, Il cardinale Matthäus Lang von Wellenburg. Penna su carta oliata, 1518 ca. Vienna, Albertina. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 99

Ancora due mesi dopo, il 28 ottobre (documento XXXVII), Alberto ne preannun- cia finalmente la consegna giustificando il contrattempo con una malattia di Sigi- smondo Santi, la persona di fiducia da lui prescelta per questo importante compi- to. Ma anche questa volta, sebbene il papa gli abbia mandato incontro il cappello cardinalizio, Lang lo rifiuta30. Solo dopo essere arrivato a Roma, mantenendo per alcuni giorni l’incognito prima dell’ingresso ufficiale, finalmente accetterà che gli venga consegnato solennemente in concistoro il 9 dicembre 1513. L’evento è ricor- dato da Alberto in una lettera a Massimiliano d’Asburgo conservata a Vienna31.

VENEZIA, MODERNA CARTAGINE

Tornando allo scritto di Alberto del 16 agosto 1513 (documento XXX), vi si pos- sono rilevare altri punti di notevole interesse. Per quanto riguarda la guerra vene- ta, dove i collegati hanno deciso di non assalire Padova non avendo a disposizione forze sufficienti, Alberto esprime la propria approvazione sulla messa in atto di un “embargo” che darà seri problemi ai veneziani: “...e dato che i veneziani persistono nella loro ostinazione, è necessario agire più dura- mente, infierire sui loro beni e impedire loro di ricevere tutto ciò che viene esportato dalla Germania, soprattutto le carni. Se si agirà in questo modo con vera determinazio- ne, soffriranno la più grande penuria. Ma temo che quelli dei nostri che saranno prepo- sti a questa azione, corrotti come al solito dal denaro, forniscano loro le carni e per- mettano anche i commerci delle spezie e delle altre merci tra Venezia e i mercanti tede- schi, cosa che porta ai veneziani molti vantaggi perché per le spezie ricevono oro e argento. Dunque va adottata la massima vigilanza perché ciò non avvenga”. Riguardo all’atteggiamento del papa, è significativo – aggiunge Alberto – che questi abbia richiamato da Venezia il proprio oratore; e tra l’altro ha anche detto, conversando, che secondo il parere di un astrologo egli non sarà mai amico dei veneziani. Si ritorna sulle strategie contro Venezia una decina di giorni dopo, nella minu- ta del 26 agosto (documento XXXII) – cui si è già accennato a proposito del cappello cardinalizio – nella quale Alberto annuncia a Lang l’invio di altro denaro da parte del papa, con il solito ritardo dovuto questa volta alla malattia del tesoriere, affet- to da febbre terzana. Quanto alla guerra veneta, tiene evidentemente a sottolineare

30 CERRETANI 1993, p. 312 (Firenze, fine novembre 1513): «Venne monsignor Gurs et il fratello del ducha di Milano; dixesi andavano a ddare l’ubidientia al papa; fu facto loro honore». 31 Si tratta di una lettera, inedita, da Roma (3 gennaio 1514): “Il Reverendissimo cardinale Gur- cense [...] ha preso l’abito e le insegne del cardinalato e il cappello dalle mani del Santissimo Nostro Signore, nottetempo, il giorno prima di entrare ufficialmente [in Roma], per potervi farvi il suo ingresso con maggiore onore, insignito del cappello” (MAX, 31, I, 9r-12v; la citazione è dalla c. 10v; trad. nostra); cfr. SANUDO, XVII, 380 («Zuoba dì note, fo a dì 9, el Curzense andò dal papa e volse lì li desse il capello, e cussì il papa fu contento dargelo»); PASTOR 1921, IV, I, p. 45. 100 Luciana Saetti il proprio apporto consultivo – amplificandone la portata in modo articolato e fluente – a proposito della rinuncia di Cardona ad attaccare Padova e Treviso: “Ho ritenuto molto opportuna la decisione di Vostra Signoria Reverendissima e dell’il- lustre Viceré e degli altri comandanti dell’esercito di non tentare l’assalto a Padova, data la mia convinzione che Padova non possa essere espugnata da quell’esercito. Aven- do già da prima valutato la situazione, ho scritto nei giorni scorsi a Vostra Signoria Reverendissima il mio parere, conforme a quanto avete stabilito poco fa. [...] Si è dunque deciso molto prudentemente, lasciata Padova, di rivolgere l’animo e le forze a una più fruttuosa impresa, come è stato fatto; non bisogna infatti arrischiarsi in qualcosa che si sa per certo che non può riuscire. Apprezzo molto che portiate avanti la guerra nel modo che è stato stabilito: a mio parere non avreste potuto decidere niente di più conveniente, dato che anche Treviso non può essere espugnata; e se la cosa proce- de come stabilito, arrivo a sperare che i veneziani possano essere comunque tanto fiac- cati da essere costretti a pensare alla pace”.

Le “delizie” dei veneziani Lo scritto prosegue assicurando che il pontefice approva totalmente queste azioni di guerra, perché i veneziani hanno sempre risposto con ostinata alterigia alle sue sollecitazioni. Ma ora dovranno venire a più miti consigli, considerando oltretutto come vanno le cose in Francia: “Ma se vedranno infierire ferocemente sulle loro fortune e devastare tutti quei loro luo- ghi di delizie che sono i giardini e le residenze suburbane, e si accorgeranno che questa vessazione continuerà per tutto l’inverno e che hanno perso tutto tranne i campi che si trovano entro le mura di Padova e Treviso, certamente (credo) muteranno parere e fini- ranno per correre ai ripari, soprattutto se sapranno che i francesi sono sopraffatti dagli inglesi e che perciò non possono più sperare nel loro aiuto”. Nel vedere, inoltre, che gli eserciti della lega rimarranno a svernare in quei ter- ritori, realizzeranno di non potersi più procurare i mezzi per mantenere l’esercito. In proposito, Alberto si richiama alla propria diretta esperienza della situazione di Venezia: “Ricordo bene, dato che ero a Venezia fino a un anno fa, con quale affannosa e violen- ta determinazione estorcessero denaro ai privati cittadini, per cui ritengo che ne abbia- no prosciugato le risorse; e anche se la loro avida arroganza aumenta di giorno in gior- no, quando esauriranno le forze dovranno cambiare opinione”. Più avanti, dopo notizie e considerazioni sulla situazione della guerra nel nord della Francia – dove Thérouanne è ormai allo stremo e Luigi XII è impossibilitato a soccorrerla perché in attesa di rinforzi che forse non arriveranno e non avendo più denaro per pagare i soldati – riprende ancora l’argomento:

“Tra le altre cose ho molto apprezzato la decisione di non devastare e distruggere tutto, ma solo le terre più vicine a Venezia, visto che non potrebbero essere mantenute in nostro possesso, come anche i territori di Padova e Treviso, e che le altre, invece, ritor- Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 101

nino intatte sotto il dominio imperiale, in modo da poterne trarre vantaggio per il man- tenimento dell’esercito; ma tutte quelle in cui potrà essere inflitto il maggior danno ai veneziani o dalle quali essi possano ricavare qualcosa di utile, ritengo che debbano essere totalmente spogliate e devastate, e non devono essere risparmiati in nessun modo i possedimenti privati dei veneziani. Ma, come approvo che si debba devastare il terri- torio, così mi sembra opportuno astenersi da ogni genere di crudeltà verso gli abitanti, sia perché a Cesare e ai cesariani deve essere estranea qualsiasi crudeltà, sia perché si deve risparmiare il sangue cristiano e, pur essendo essi innocui, tuttavia i loro animi non siano indotti dalla disperazione a preparare qualche azione violenta questo inverno con- tro i nostri, che non potranno stazionare in un unico luogo”. Colpisce l’insistenza con cui Alberto ritorna sul tema, e anche più volte nel medesimo scritto. Senza dubbio intende valorizzare la propria intelligenza della situazione e la propria esperienza pregressa della realtà veneziana; ma esibisce anche un’animosità intrisa di acredine che rasenta l’accanimento contro il più per- sistente ostacolo all’espansione imperiale in Italia. Per lui infatti non si tratta, come del resto gli scriveva anche Andrea de Burgo nel giugno precedente (documento XIX), di limitarsi a recuperare il terreno perduto, bensì di annientare totalmente Venezia – quasi una moderna Cartagine. Questa fase della guerra si concluse il 7 ottobre con una pesante sconfitta dei veneziani da parte delle truppe spagnole e imperiali alla Motta, presso Vicenza; un evento che non segnò, comunque, la fine del conflitto.

IL PREZZO DELLE CITTÀ

Sempre nello scritto del 16 agosto (documento XXX) si legge una notizia sulle città (Reggio, Parma e Piacenza) che Leone X vuole ottenere, oltre a Modena, dal- l’imperatore, e alla somma che sarebbe disposto a versare per il loro acquisto: “Quanto a ciò che scrive Vostra Signoria Reverendissima, di comunicarle che cosa il Santissimo darebbe per il diritto di investitura di Reggio, farò in modo di saperlo e poi la informerò. In altre occasioni, come ricordo di aver scritto a Vostra Signoria Reve- rendissima, aveva dichiarato che avrebbe dato per il diritto di investitura di quelle quat- tro città una somma di centomila ducati, se la Maestà Cesarea volesse assegnarle al fra- tello [Giuliano de’ Medici] con diritto di feudo come favore nei suoi confronti, pur facendo presente che la Chiesa vanta dei diritti su di esse”. Per quanto riguarda Modena, già nel giugno precedente l’imperatore si era accordato con il papa, in tutta segretezza, per cederla al prezzo di 40.000 ducati; la cosa fu risaputa solo nel novembre32.

32 PASTOR 1921, IV, I, p. 66. 102 Luciana Saetti

«Non conosco l’animo di Leone come conoscevo quello di Giulio» Ma c’è anche un’altra città il cui destino rimane controverso, Ferrara. A quanto sembra, Lang deve avere ingiunto ad Alberto di parlare chiaro circa le intenzioni del pontefice, e probabilmente ha espresso più o meno implicitamente e forse ruvi- damente – almeno a giudicare dalla risposta che leggiamo qui – delle riserve sulla sua franchezza. Alberto reagisce protestando la propria assoluta sincerità, senza temere l’enfasi e la ridondanza nel ribadire la propria totale devozione a Lang: “Quanto a Ferrara, riguardo alla quale mi ha pregato di volerle dire francamente quale sia la volontà del Sommo Pontefice, dico che non ho mai taciuto nulla e non sono mai stato un dissimulatore in nulla, ma le ho sempre palesato apertamente e onestamente tut- to ciò che ho saputo o capito, con estrema sincerità in qualunque cosa, come era giusto avendola eretta a mio solo patrono e signore, nel quale soltanto ho riposto tutte le mie speranze e al quale guardo e porto rispetto come a un mio nume, e che non solo ho caro come un fratello o un genitore ma anche amo ardentemente; perciò nemmeno su questa questione di cui mi chiede con tanta insistenza potrei mutare il mio atteggiamento”. Ciò premesso, attribuisce la poca chiarezza di cui lo si rimprovera al carattere del nuovo pontefice, del quale non è facile intuire i propositi: “In realtà non conosco del tutto l’animo di Leone come conoscevo quello di Giulio, sia perché non è, di natura, altrettanto aperto sia perché non sono ancora legato a lui da tan- ta familiarità come lo ero stato con Giulio. Quindi non credo che Sua Santità mi dia una completa fiducia come faceva Giulio, che negli ultimi giorni di vita trovava in me un intimo conforto; tuttavia, per quanto sono in grado di congetturare (anche se Sua San- tità non si è aperta con me in proposito), ritengo che voglia entrare in possesso di Fer- rara e darla come feudo al fratello”. Di questa intenzione, secondo Alberto, è un segnale il fatto che il papa non abbia fatto nessuna concessione al cardinale Ippolito d’Este, “per quanto questi avesse insistito opportunamente e inopportunamente”33, ma si è soltanto limitato a prorogare fino a sei mesi la sospensione dell’interdetto. D’altronde papa Leone non è uomo cui piaccia condizionare gli altri dichiarando esplicitamente ciò che vor- rebbe da loro: “Il Santissimo infatti è talmente riservato che, pur se desidera anche ardentemente qual- cosa che è nell’interesse dei suoi, tuttavia lo lascia intendere da certi segni e accenni più che palesarlo a parole, e desidera che lo si comprenda così; e preferirebbe anche che fosse compreso piuttosto che spingere gli altri a portarlo a compimento. Tale è l’uomo. Se capirò qualche cosa ancora al riguardo, non tacerò nulla a Vostra Signoria Reveren- dissima”. Alberto prosegue senza risparmiare l’inchiostro nell’elencare i vantaggi per l’imperatore sia della cessione di Modena al papa sia dell’eventuale assegnazione

33 Ippolito d’Este era arrivato a Roma il 21 luglio 1513, direttamente dall’Ungheria, per ottenere dal papa la restituzione di Modena e Reggio al ducato di Ferrara. Sull’episodio, MORSELLI 1937, pp. 3-22. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 103 di Ferrara a un uomo come Giuliano de’ Medici, ben diverso da Alfonso d’Este, del tutto “indegno del principato” e definito qui, con i pesanti toni dell’invettiva, “quel sordido e improbo nemico turpissimo di tutta quanta la nobiltà e di tutti gli onesti”. Per l’imperatore assecondare i progetti di Leone X nel far conseguire lo Stato al fra- tello potrà significare, se seguirà anche un opportuno matrimonio di quest’ultimo – e qui il discorso procede con enfasi crescente – non solo concludere onorevolmen- te la guerra veneta ma assicurarsi, quando verrà a morte Ferdinando il Cattolico, la successione al regno di Napoli, e poter contare per sempre sull’amicizia e il favore di un papa che è giovane, in salute e, salvo imprevisti, destinato a vivere a lungo.

LE “PORTE APERTE” DI LEONE X

Rilevante, nella più volte citata minuta del 26 agosto, anche il resoconto delle risoluzioni di Leone X sui cardinali che hanno partecipato al concilio di Pisa e del- le sue intenzioni nei riguardi della chiesa gallicana. Alberto è stato convocato, insieme con altri oratori delle potenze alleate (Spagna, Inghilterra, Milano), dal papa che ha voluto consultarli perché, sollecitato dagli ora- tori francesi a una composizione con Luigi XII sulla questione religiosa34, intende otte- nere non solo la sottomissione dei cardinali scismatici ma anche l’obbedienza della chiesa gallicana; perciò incaricherà quattro cardinali di ascoltare gli oratori francesi e di discutere con loro le sue condizioni, per poi riferire a lui e al sacro collegio. Le condizioni sono che il re di Francia obblighi i cardinali scismatici a venire a Roma a chiedere perdono e, se non accettano di farlo, che li bandisca dal regno; se dopo un certo tempo, venti o trenta giorni, non l’avrà fatto, egli stesso sarà dichia- rato scismatico e sarà colpito dalla scomunica. A quel punto gli oratori chiedono al papa che cosa farà, poi, nel caso che il re obbedisca a tali ingiunzioni; la risposta è che accetterà di accogliere anche il ritor- no della chiesa gallicana, se ammetterà il proprio errore35. Alberto, allora, interviene osservando che per il momento il pontefice potrebbe limitarsi a far svolgere ai quattro cardinali il compito di sentire i francesi senza imporre condizioni e prendendo tempo: il ritorno della chiesa gallicana, infatti, gioverebbe al re di Francia, al quale sarebbe attribuito senza far distinzione tra i prelati e il re stesso; per cui anche quest’ultimo risulterebbe accolto e restituito all’amicizia della Santa Sede, cosa che sarebbe dannosa per gli altri prìncipi. Leone X replica di dover dare una risposta agli oratori francesi che premono per averla, e la risposta non può essere che egli si oppone al ritorno dei gallicani, per- ché la Chiesa non può respingere chi voglia essere accolto nel suo grembo.

34 All’avvicinamento di Luigi XII al pontefice dopo Novara seguirono l’archiviazione del concilio pisano e, il 19 dicembre 1513, la formale adesione del re di Francia al concilio lateranense: un suc- cesso politico del papato che non diede luogo, tuttavia, a una vera svolta riformatrice (RUBELLO 2013, p. 173; cfr. PASTOR 1921, IV, I, pp. 36-37, 46-47). 35 Si veda, in proposito, MINNICH 1981, pp. 265-267. 104 Luciana Saetti

Il racconto di Alberto merita attenzione anche per l’immediatezza con cui met- te in scena un incontro che diventa progressivamente più difficile. Gli oratori, dovendo esprimere un parere, chiedono tempo per riflettere e, dopo essersi riuniti per due volte nella casa dell’oratore spagnolo Vich che in quei giorni è infermo, tornano dal papa. Prende la parola per tutti il cardinale Francisco Remolines36, facendo presente che, data l’importanza e gravità della questione, loro non posso- no deliberare alcunché senza aver consultato i rispettivi prìncipi, perciò chiedono altro tempo. La reazione del papa non è delle migliori: “Questa risposta ha contrariato Sua Santità, vuoi per il modo di esprimersi del cardina- le oppure perché, come ho scritto in altre mie, Sua Santità sembra averne abbastanza degli spagnoli per la loro sfrontatezza e pedanteria; oppure perché la nostra decisione era del tutto discrepante da quanto aveva stabilito per proprio conto”.

Leone X non mostra affatto, in questa circostanza, l’agiografica facilitas et sua- vitas che era sembrata una promettente prospettiva del suo pontificato. Alberto continua il racconto: “Insomma non so per che cosa, ma [il papa] ha mostrato di essere alquanto in collera e ha risposto al cardinale che mal sopportava che non si agisse con lui con quella dispo- sizione d’animo e quella sincerità con cui egli agiva con noi: aveva comunicato le pro- prie decisioni in modo spassionato e tenendo conto onestamente del bene dei prìncipi confederati non meno che dell’onore e dignità della Sede Apostolica, ma in questa nostra risposta vedeva che diffidavamo di lui e non tenevamo in nessun conto il suo onore e quello della Santa Sede Apostolica; e capiva anche che noi tutti, o alcuni di noi, rispondevamo così per metterlo in difficoltà e tenerlo sempre angustiato, in modo da poterlo dominare a nostro piacimento, ma ci inganniamo parecchio se pensiamo che lui abbia fatto o farà qualcosa per costrizione o per timore anziché di propria volontà”.

A riprova della propria assoluta autodeterminazione Leone X ripercorre le scel- te politiche compiute fin dall’inizio del suo pontificato: ha firmato di propria volontà il trattato (di Malines) con i collegati; ha contribuito a spingere gli svizze- ri contro i francesi con denaro, con brevi, con il suo nunzio, senza esservi costret- to da nessuno; ha scritto al re d’Inghilterra di non perdersi d’animo, cercando di sostenerlo nelle decisioni, e ha fatto molte altre cose in favore della lega, senza aver riguardo a nulla: “ma il modo in cui parlavamo mostrava che diffidavamo di lui e quasi sospettavamo che propendesse ad accordarsi con i francesi, cosa alla quale non era mai stato più avverso; ma essendo egli, Sommo Pontefice, il Pastore di tutti, non poteva chiudere quella por- ta che Dio ha voluto aperta”. Alla fine, comunque, il papa dichiara di volersi attenere alla richiesta degli ora- tori, e che saranno i quattro cardinali ad ascoltare quanto essi avranno da dire, beninteso senza presumere di condizionarlo:

36 Vescovo di Sorrento (m. 1518), dalla fine del 1511 al febbraio 1513 ricoprì il ruolo di luogote- nente nel regno di Napoli in sostituzione di Cardona, impegnato nelle campagne di guerra. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 105

“ma con ciò non dovevamo credere di vincolarlo mettendogli al collo una catena più forte di quella che egli stesso si era imposto di propria volontà: queste sono state pres- sappoco le sue parole. Allora il cardinale Sorrentino [Remolines] ha cercato, con un di- scorso pacato, di lenire il suo animo, e dopo di lui ha parlato anche il cardinale Angli- co37, e dopo questi anch’io ho detto qualche parola che fosse conveniente. Lo stesso ha fatto l’oratore del duca di Milano38 e da ultimo abbiamo detto che ci saremmo riuniti e avremmo discusso tra noi della cosa. Il giorno dopo ha tenuto il Santissimo Concisto- ro, e qui ha designato quei quattro cardinali ai quali ha ordinato che sentissero gli ora- tori francesi e quindi riferissero”. Alberto dà anche una propria valutazione sulla scelta dei cardinali, che gli sem- bra giusta perché due (Vigerio della Rovere e Ciocchi Del Monte) sono nemici dei francesi, un terzo (Pietro Accolti) è neutrale; l’altro “è ritenuto da molti favorevo- le ai francesi, tuttavia è un uomo così remissivo che anche se davvero fosse loro favorevole potrebbe comunque nuocerci poco”: si tratta di Alessandro Farnese, futuro e tutt’altro che remissivo papa Paolo III. In questo lungo scritto, ricco di diverse altre notizie, ritorna anche il tema ini- ziale, il denaro: “Mi sorprende che il denaro versato [all’imperatore] non raggiunga la somma di seimi- la [ducati] ma soltanto di cinquemilasettecento, e ne avrei parlato con il tesoriere se non me lo avesse impedito la sua malattia, comunque lo farò quando starà bene. Sappia però Vostra Signoria Reverendissima che sono stati mandati non seimila ducati larghi, ma ducati di camera39, perché è con questi che si fanno tutti i versamenti e i pagamenti nel- la Camera apostolica”.

LE FESTE ROMANE E LE TASSE DEI CARPIGIANI

Il 1513 è anche l’anno in cui Alberto abbandona, per forza di cose, la speranza nel matrimonio con l’amata Margherita Gonzaga: è nota la sua risposta a Isabella d’Este che cercava di recuperarlo alla promessa d’un tempo, dopo il fallimento dei tentativi del marchese di Mantova di dare quella figlia al ricchissimo Agostino Chi-

37 I rappresentanti della corona inglese a Roma erano il cardinale Christopher Bainbridge e Sil- vestro Gigli, vescovo di Worcester e delegato ufficiale del sovrano nel Concilio lateranense; della delegazione faceva parte anche il cardinale Adriano Castellesi. Sui loro rapporti e rivalità v., oltre alle relative voci in DBI, MELLANO 1970. 38 Era oratore del duca di Milano il protonotario Marino Ascanio Caracciolo, che nell’agosto 1513 fu affiancato da Girolamo Morone, inviato a Roma dal senato milanese nel tentativo di convincere il pontefice a capeggiare una nuova coalizione antifrancese (v. l’Instructio Hyeronimi Moroni ituri Romam, agosto 1513, in MÜLLER 1865, p. 76). 39 Per “ducati” si intendevano le monete d’oro coniate dalle diverse zecche con il medesimo tito- lo (24 carati) e peso (circa 3,5 g); tali erano appunto anche i ducati “papali”. Nel XV secolo la zecca pontificia cominciò a emettere, oltre a questi, i ducati “di Camera”, di peso inferiore (circa 3,4 g), det- ti anche “stretti” rispetto agli altri, detti “larghi”. MORONI 1893, pp. 231-234; MARTINORI 1917, pp. 9-10. 106 Luciana Saetti gi e, subito dopo, a Gianfrancesco da Correggio. Alberto prende le distanze da una situazione non solo dolorosa – perché niuno ci è che sia nato di pietra, scriveva a Isabella40 – ma che ha da tempo passato il segno offendendolo nell’amor proprio e, se vogliamo, dandogli un motivo di più per difendere e accrescere il proprio pre- stigio personale. Tra le occasioni pubbliche deputate a ostentarlo vanno senz’altro annoverate le grandiose feste per il conferimento della cittadinanza romana a Giuliano e Loren- zo de’ Medici, con il fastoso banchetto-spettacolo allestito in Campidoglio il 13 settembre 1513 al quale Alberto prese parte sedendo alla destra del fratello del pontefice41. Ma non è solo nell’ambito romano che si proiettano le ambizioni di Alberto: oltre ad affermarsi sulla scena della diplomazia internazionale, egli mira a fare di Carpi il luogo emblematico del proprio successo e del potere di principe: non è necessario ricordare, qui, le grandi opere di risistemazione urbanistica della città intraprese fin dal momento della sua investitura del dominio di Carpi e sulle quali esiste una vasta letteratura42. Alle tante testimonianze dei rapporti tra Carpi e il suo signore viene ad aggiun- gersi, nelle carte Lea, lo scritto del 20 ottobre 1513 (documento XXXVI). L’impera- tore esige dai carpigiani una tassa di duemila ducati per le spese di guerra, e Alber- to si rivolge a Lang per perorarne l’esenzione descrivendo la loro difficile condi- zione: ricorda i danni che hanno subito l’anno precedente, quando i francesi si sono stanziati in quella terra molte volte, e la multa che hanno imposto e riscosso con prepotenza, dopo che egli stesso ne è stato cacciato; per non parlare delle vessa- zioni del duca di Ferrara e dell’arrivo degli spagnoli alla fine dell’inverno: “Che cosa infatti non hanno subito [gli abitanti di Carpi]? Per ventidue volte in un solo anno tutto l’esercito francese si è stanziato presso di loro, e qualche volta vi è rimasto per venti giorni di seguito; e quegli sventurati erano costretti a sostentarlo a proprie spe- se, nonostante vi fosse proprio quell’anno una grande carenza di derrate; inoltre quan- do io sono stato cacciato dalla patria dai francesi stessi, è stata addirittura imposta loro, e molto aspramente pretesa, una multa dalla quale la Maestà Cesarea voleva difender- li, e per sua benignità ha scritto, dietro mia preghiera, più lettere al signore di Foix43; quelle lettere però non hanno avuto alcun esito, e in aggiunta il duca di Ferrara li ha ves- sati oltremodo, fino a spremergli il sangue; e alla fine dello scorso inverno gli spagno- li hanno succhiato fin nel midollo il sangue rimasto. Perciò sono così estenuati e abbat- tuti da tante calamità accumulatesi l’una sull’altra che riescono a stento a sopravvivere, e molti non sono in grado di versarmi l’imposta annuale né possono sostenere gli one- ri consueti”. La città insomma è esausta, il popolo è fiacco e privo di risorse:

40 Alberto Pio a Isabella d’Este, Roma, 2 maggio 1513, in MORSELLI 1931, pp. 198-199. Su Mar- gherita Gonzaga v. anche MINARELLI 2006. 41 CRUCIANI 1969, p. XLVII. 42 V. S VALDUZ 2001, pp. 137-237 e relativa bibliografia. 43 Gaston de Foix, comandante dell’esercito francese in Italia. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 107

“Quegli infelici risentiranno per molti anni dei danneggiamenti che hanno subito, e non torneranno alla condizione di prima; infatti il popolo, a dir la verità, è fiacco e inerte, non dedito alla mercatura o a mestieri, vive soltanto delle rendite dei suoi cam- pi e non ha altri profitti. Perciò se venisse loro imposto questo nuovo onere, non potrebbero mai più risollevarsi: in un corpo debilitato qualunque lieve ferita risulta grave e la povertà è più esposta a risentire di un danno. Essendo i carpensi così debi- litati, se ne subiranno un altro per loro sarà finita. Né Mirandola, né Modena, né Cor- reggio, né altri luoghi vicini sono stati esenti da vessazioni, ma i carpensi sono stati vessati più di tutti”. Alberto, personalmente, è immune dalla tassazione essendo al servizio dell’im- peratore, che – dichiara – egli è sempre pronto a servire e obbedire, “in anima e corpo e anche con i miei beni”. Ma non vuole escludere se stesso dall’onere impo- sto a Carpi, perché non ritiene equo che i sudditi dell’Impero in Italia debbano for- nire sussidi per portare a termine la guerra veneta: dovrebbero essere i Signori, più che i sudditi, a contribuirvi; e anche se vi fossero obbligate le altre popolazioni del- le città imperiali, i carpigiani a buon diritto dovrebbero essere esenti da un tale pre- lievo, a fronte dei grandissimi disagi e danni subiti. Ora gli abitanti di Carpi – conclude Alberto – che hanno sofferto ogni male a causa dell’odio dei francesi verso di lui, gli hanno scritto pregandolo di renderli esenti da questo nuovo onere, in nome del favore di cui essi ritengono che goda presso l’imperatore. Perciò prega Lang di avere pietà della povertà dei suoi suddi- ti; ma se ritiene invece di dover esigere quel denaro, se ne farà carico egli stesso: che si mandi a Carpi l’ordine di prelevarlo dai suoi propri redditi, e il popolo sap- pia che per suo beneficio è sollevato da questo peso. La perorazione di Alberto pone l’accento sulle difficili condizioni in cui versa la popolazione locale, ma chiama anche in causa, dalla posizione di chi mette al servizio dell’imperatore tutto se stesso, “gli altri feudatari, che servono molto meno Cesare”; facendo così valere un merito e al tempo stesso un’esigenza, quel- la rispondere alla richiesta di protezione dei carpigiani dando loro un segno tangi- bile del proprio potere.

«MA ADESSO ARRIVA QUESTO NUOVO ORATORE...»

Anche negli anni della maggiore fortuna, i privilegi di Alberto sono comunque esposti ai rivolgimenti dovuti all’instabilità del contesto politico e all’arbitrio dei sovrani. Per questo, a Roma, egli si spende infaticabilmente per mantenere la fidu- cia e la benevolenza di Massimiliano d’Asburgo e per consolidare la propria posi- zione presso il pontefice. Non si può certo dire che non dimostri, in questo, un’ec- cezionale tenacia e determinazione, come del resto esige la durezza dei tempi e come dimostrano i suoi scritti: dove lo vediamo impegnato a gestire “in situazio- ne” i rapporti diplomatici puntando sulla propria competenza e affidabilità, sulla tempestività e precisione informativa e sulla validità delle argomentazioni. La posta in gioco è alta e quanto più si fa acuta la percezione del rischio, tanto più il 108 Luciana Saetti discorso si impenna nella polemica o nell’invettiva (cui è abbonato il duca di Fer- rara), e certe volte Alberto intinge la penna nell’amarezza e nel sarcasmo. Un epi- sodio, in particolare, accende espressivamente il suo dettato nello scritto del 28 ottobre 1513 (documento XXXVII). Nella prima parte, Alberto riferisce a Lang quanto si sta facendo a Roma per la guerra veneta (sono stati inviati i brevi pontifici e i commissari per impedire i com- merci dei sudditi della Chiesa con i veneziani e chiudere il transito verso il loro ter- ritorio) e dà suggerimenti per indebolire ulteriormente i nemici (distruggendo tutti i mulini intorno a Treviso e senza risparmiare nessuna delle zone litoranee); espri- me le proprie valutazioni sugli sviluppi della situazione militare (resa preoccupan- te dal fatto che Enrico VIII ha fatto ritorno in Inghilterra senza concludere la guer- ra nel nord della Francia, dopo l’abbandono della spedizione in Borgogna da par- te degli svizzeri). La parte successiva del documento riguarda tra le altre cose – annunci di matri- moni, assegnazioni di diocesi – l’imminente arrivo di Lang a Roma: il papa ha fat- to scrivere ai governatori di Bologna e Romagna perché sia accolto con grande onore ovunque passerà. Alberto manifesta, infine, la sua approvazione per il per- corso scelto da Lang, lungo la via Flaminia, più comoda e piacevole, e che gli darà occasione di visitare il santuario di Loreto. Ma questa nota leggera sui piaceri e le occasioni del viaggio viene a chiudere uno scritto in cui si è inserito, poco prima, un tema che non dà adito a divagazioni e in cui emergono motivi di frizione. Alberto infatti, sollecitato da Lang ad adoperarsi più efficacemente per gli inte- ressi tanto pubblici che privati dell’imperatore, ribatte chiedendo in che cosa mai non lo abbia soddisfatto, se si eccettua il versamento in diverse tranche anziché in unica soluzione dei 40.000 ducati per Modena e il reintegro – che se non altro è riuscito, con molta fatica, a far tenere in sospeso – del cardinale D’Albret44 in un episcopato sul quale l’imperatore avrebbe altre intenzioni. A parte ciò, non vede proprio nient’altro che non sia stato ottenuto di tutte le richieste fatte dall’impera- tore, e che erano molte; aggiunge polemicamente che forse potrà fare di meglio il nuovo oratore appena arrivato a Roma, e al quale, se l’imperatore non è soddisfat- to di lui, cederà volentieri il posto: “Ma adesso arriva questo nuovo oratore, il signore Antonino, che con il suo industrio- so ingegno magari porterà a termine ciò che io non sono riuscito a concludere; e poiché potrebbe accadere che la Maestà Cesarea, come fanno i principi, cominciasse a infasti- dirsi nei miei confronti e non fosse soddisfatta dei miei servizi, io cederò volentieri il posto ad Antonino, e questi lascerà che gli sia anteposto il signore Carlo despoto, essen- do parente di quello e del signore Costantino, dato che io non mi sono prestato a vigi- lare sulla dignità della Maestà Cesarea e ad eseguire i mandati di Vostra Signoria Reve- rendissima; e poi non c’è bisogno di tanti oratori della Cesarea Maestà in Roma, anzi

44 Il cardinale Amanieu d’Albret (1478 ca-1520), che aveva aderito al concilio di Pisa. Sul pro- blema della sua restituzione alla coadiutoria dell’episcopato di Cambrai (nomina revocata da Giulio II, riconfermata da Leone X nel 1513 ma ufficializzata solo nel 1515, v. anche il documento XXXII (Alberto a Lang, 26 agosto 1513). Alberto Pio nelle “lettere americane” (1513) 109

di nessuno, finché in Curia è presente Vostra Signoria Reverendissima; tuttavia, anche se questo contenterà qualcuno, certo mi vergognerei per il mio onore non meno che per quello della Maestà Cesarea se Antonino fosse mio collega, visto che il suo ingegno, qui, è ben più noto di quanto può darsi che lo sia nella Curia di Cesare”. Il personaggio al quale Alberto si riferisce è Antonino Giuppo della Rovere, cugino di Giulio II. Il suo arrivo a Roma con ampie credenziali come speciale lega- to imperiale induce evidentemente in Alberto una reazione difensiva, nel timore di una perdita di prestigio personale se non addirittura della fiducia dell’imperatore. Perciò non nasconde di sentirsi offeso nei suoi meriti e nella sua dignità in con- fronto allo scarso valore del presunto rivale, alludendo acidamente alla sua paren- tela con soggetti quali Costantino Arianiti e il genero Carlo Tocco di Arta45, bei tipi di arrivisti per i quali Alberto non usa eufemismi quando, nella già citata lettera del gennaio 1514 all’imperatore, descrive i maneggi sfrontati del despota di Arta per ottenere favori dai cardinali e i suoi tentativi di corruzione per farsi riconoscere domini ereditari, stigmatizzandone l’insolenza, la vanità, la graeca superbia46. Tornando ad Antonino Giuppo, questi in realtà veniva a Roma con un incarico preciso e particolare. Come chiarisce Nelson Minnich47, l’azione diplomatica di Alberto era volta a guadagnare l’appoggio del papa per creare una nuova alleanza innanzitutto contro Venezia, mentre Luigi XII manovrava per coinvolgere Leone X in una lega antimperiale con gli svizzeri e i veneziani. Nel frattempo Massimilia- no stava trattando un accordo matrimoniale tra gli Asburgo e i Valois, e ne propo- neva un altro fra Giuliano de’ Medici e un’appartenente alla famiglia imperiale (eventualità, come abbiamo visto, auspicata da Alberto): soprattutto per quest’ulti- mo motivo Antonino Giuppo era stato mandato dal papa. La cosa, poi, dovette essere chiarita: in quella medesima lettera del 3 gennaio 1514, Alberto dichiara francamente il proprio sollievo dalle preoccupazioni e ansie suscitate in lui al pensiero che l’arrivo di Antonino avesse lo scopo di supplire a una sua personale manchevolezza o negligenza. Ricostruisce però, puntigliosa- mente, il modo in cui questi ha creato complicazioni e malintesi ancor prima di arrivare a Roma, con le sue lettere, e a voce dopo il suo arrivo: tanto che si è dovu- to faticare molto di più per fare in modo che Lang trovasse pronto ciò che serviva

45 Entrambi appartenevano a famiglie feudali di origine albanese, giunte numerose a Roma dopo la caduta di Costantinopoli e collegate tra loro da una rete fittissima di rapporti matrimoniali. Quella di Costantino Arianiti (detto Cominato o Comneno, 1456-1530) era stata una delle più potenti del- l’Albania medioevale (suo padre Giorgio aveva combattuto contro i turchi a fianco del cognato Gior- gio Castriota Skanderberg, ed era stato accolto nel patriziato veneziano). Opportunista e spregiudi- cato, Costantino si affermò nel corso di un’avventurosa carriera al servizio delle diverse potenze; a Roma ricopriva, negli anni 1512-1517, la carica di capitano generale delle truppe del Concilio late- ranense (PETTA 2000, pp. 151 sgg.; F. BABINGER, Arianiti, Costantino, DBI, vol. 4, 1962). Una sua figlia, Andronica, sposò Carlo III Tocco, despota di Arta, Serbia, Morea. Un’altra figlia era quell’Ip- polita Comneno che nel 1532, rimasta vedova di Zanobio de’ Medici, sposò Leonello Pio. 46 MAX, 31, I, 11v. 47 MINNICH 1981, p. 281. 110 Luciana Saetti per la conclusione delle trattative. Così, mentre si sarebbe potuto fare tutto in pochi giorni, si è rivelato vero “quel che recita quel detto popolare, che uno stolto può facilmente gettare in un attimo nel pozzo una pietra, e molti uomini saggi dureran- no una grande e lunga fatica per tirarla fuori”48. A parte ciò, Alberto dichiara di non avere mai nutrito, nei confronti di Antonino, sentimenti di ostilità o di invidia, e di avere avuto rispetto di lui soprattutto per il nome che porta, che è quello del casa- to di Giulio II; non l’ha mai considerato un uomo cattivo o iniquo, ma lo ritiene vano, leggero e bugiardo, e assai poco degno di rappresentare l’imperatore a Roma, dove – per l’appunto – tutti lo conoscono molto bene.

Maître à la Ratière (?), La battaglia di Marignano. Disegno su carta, sec. XVI. Chantilly, Musée Condé.

48 MAX, 31, I, 9r. 1515. L’anno di Marignano

Con i successivi manoscritti della raccolta Lea siamo al 1515. Risalgono alla prima metà dell’anno una lettera di Leonello e una di Iacopo Bannissi, entrambe ad Alberto e interessanti per alcune notizie che aggiungono alla sua biografia. Si collocano invece tra ottobre e dicembre una lettera dell’imperatore e sette minute di Alberto scritte nelle tappe del suo viaggio al seguito di Leone X, diretto a Bolo- gna per incontrare il re di Francia. Un’altra, l’ultima in ordine cronologico, è inve- ce stata scritta a Carpi. Il pontefice, «sempre mobile nella sua attività diplomatica, attento a non cade- re sotto un’unica potenza, sollecito del bene della sua casa»1, nel 1514 ha conti- nuato a intrecciare quelle intese diplomatiche a valenza multipla con cui pretende di perseguire una pacificazione dell’Europa come condizione necessaria per la cro- ciata contro gli infedeli: assunto programmatico del suo pontificato e formula che ricorre, con l’indiscutibilità della parola d’ordine, a dare l’esclusiva del fine supe- riore e il colore della neutralità alle sue decisioni politiche. Alla fine del 1514, in seguito a un riavvicinamento con Luigi XII, ha concorda- to il matrimonio di Giuliano de’ Medici con Filiberta di Savoia. Le nozze si cele- brano nel gennaio successivo, poco dopo la morte del re (31 dicembre 1514) e l’a- scesa al trono di Francia di Francesco I di Valois-Angoulême: la madre del nuovo re, Luisa, è sorella carnale della sposa. In poco tempo, però, l’accelerazione impressa dal giovane e ambizioso sovrano ai piani del suo predecessore per la riconquista del ducato di Milano porta a una nuova mobilitazione delle potenze europee: contro Francia e Venezia si coalizzano Impero, Spagna, Milano, svizzeri e, infine, anche Firenze. Leone X inizialmente non aderisce alla coalizione e avvia tentativi su più fron- ti chiedendo, in cambio della propria neutralità, da una parte assicurazioni dai col- legati su Parma e Piacenza, dall’altra l’appoggio di Francesco I per l’assegnazione a Lorenzo de’ Medici del regno di Napoli. La prima richiesta è accolta dal solo duca di Milano, mentre il re di Francia le rigetta entrambe; ragion per cui il papa propende a schierarsi con la lega2. Siamo a metà luglio, e l’esercito francese si sta già muovendo per entrare in Italia. Questa volta, la strategia delle trattative incrociate che si è dimostrata vincente nei primi due anni del pontificato di Leone X avrà invece un esito paradossale: il ritorno della dominazione francese nel ducato di Milano. Ma vediamo, intanto, le prime due lettere di quest’anno.

1 ROMBALDI 1977, p. 29. 2 Sulle esitazioni e le motivazioni di Leone X, PASTOR 1921, IV, I, pp. 68-72. 112 Luciana Saetti

LEONELLO, LE MURA E LE ACQUE

Ci riporta a Carpi e al mese di marzo la lettera di Leonello che, ancora una vol- ta in facto per provvedere agli interessi di Alberto e soddisfarne le esigenze, lo tie- ne al corrente della situazione locale (documento XLII). Il 3 marzo scrive di esser venuto appositamente in città in seguito ai disordini che vi si sono verificati e che hanno coinvolto, da una parte, Zoanne Grelinzon et Giberto Muzarino, dall’altra Nicolò Cochapano et Cesare, nei cui confronti si è intervenuti d’autorità: A quella [lettera di Alberto] de 18, non accade altro se non che io l’ho obedita, essendo venuto qui per li inconvenienti accaduti, de li qualli l’haverà inteso per littere de li gubernatori l’origine, né altro si è facto circa ciò, se non che se sono astrecte le parti a dare sicurtà de non se offendere. Zoanne Grelinzon et Giberto Muzarino se dogliono et premono che siano stati astrecti a promettere per le bandite. Nicolò Cochapano et Cesa- re anch’epsi se dogliono de le segurtati richieste et volute per questo conto, non inten- dendo né volendo essere obligati, se non tanto quanto se haverà risposta da V. S.; li qualli per le ferite havute stano senza periculo de la vita. Sembrerebbe trattarsi dell’ennesima lite tra famiglie, sfociata in uno scontro cruento ma che stavolta non ha fatto dei morti, solo qualche ferito. Il Niccolò Coc- capani di cui parla Leonello è menzionato anche da Paolo Guaitoli nelle sue Memo- rie sulla vita di Alberto Pio a proposito di una «sedizione che in quest’anno [1515] avvenne in Carpi, e che senza dubbio fu fomentata dal duca di Ferrara; non ne conosciamo i particolari, e sappiamo solo che propter sedicionem populi terre Car- pi furono imprigionate varie persone, fra le quali un Galeotto Rossi e un Niccolò Coccapani, che nell’agosto, mediante sigurtà, vennero anche rilasciati in libertà»3. La richiesta di liberare dalla detenzione Coccapani perché squadrerio e con- duttore dell’esercito di Leonello, il quale ne abbisogna, risulta da un atto notarile del 4 agosto: a presentarla sono Andrea Crotti e un mandatario di Leonello stesso, tale Gio Lodovico alias Zarandone de’ Collevati della Mirandola, qui definito suo coppiere. Il commissario decide il rilascio di Coccapani con la condizione che deb- ba presentarsi ad ogni sua richiesta sotto pena di 1000 ducati d’oro, per i quali fa da garante Gio Francesco alias il Villano fu Gio Taddeo Coccapani4. Per Galeotto Rossi, invece, garantiscono davanti a Leonello, nel Palazzo della sua solita resi- denza posta nella cittadella di Carpi, il padre Pietro e il fratello di questi, Carlo: promettendo che, qualora venga liberato dalle carceri di Carpi, ad ogni richiesta di S. Signoria Galeotto si presenterà al suo cospetto5.

3 GUAITOLI 1877, p. 215. 4 ASCC, AG, b. 234, c. 64. 5 Ivi, c. 63. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1515) 113

Notizie degli scavi: le fortificazioni di Carpi Lo scritto di Leonello prosegue con notizie sui lavori in corso per rafforzare le difese della città, non privi di inconvenienti: Nicolò Sacacino6 sta in dubio et speranza campando; credo che serà miraculo de forti- ficare la terra; io sollicito et racordo il desiderio et volere di V. S. et il bisogno de la ter- ra; hogi se sono facte le parte per metterli li homini suso, li montanari serano qui doma- ne alli qualli se consignarano le parte, ne se mancharà che lavorano gagliardamente, et accadendo che V. S. sia servita de li homini domandati alli circumvicini anche epsi se metterano in loco, dove haverano da fare; dico però dove se poterà lavorare, perché mi pare che dal ponte del schianco gli è una parte de fossa dove al presente non se poterà mettere mane, et questo per non essere sutta, per certa aqua che gli è che non se può scholare; né anche al presente si può murare per non eserli calcina cocta. In breve li serà il modo col quale subito se comenzarà a lavorare ala porta di S. Antonio, et del schian- cho, et finirasse il muro di borgo forte. I lavori ai quali si riferisce Leonello, e in particolare quelli in Borgo Forte, sono evidentemente una continuazione delle opere del marzo-dicembre dell’anno prece- dente7. Alberto si attivò personalmente perché procedessero secondo i piani: è nota la lettera del 12 marzo 1515 nella quale chiedeva al marchese di Mantova di for- nirgli manodopera per scavare e assestare quelle fosse mie de Carpi che essendo molto spiane, voleva invece cavate e acconze8.

Tirare l’acqua alle soe molline Se l’acqua che non si riesce a far defluire dal fondo dei fossati di Carpi è un ostacolo al potenziamento delle difese della città, un altro problema che si profila nell’immediato riguarda invece l’approvvigionamento idrico del territorio, secola- re motivo di scontri per le comunità e per i poteri signorili della bassa pianura del Secchia: Io, se ben V.S. non me ne ha dato commissione, ho racor[dato] et sollicitato questi Gubernatori a mandare a Regio a fare quelle proteste che V.S. li scrivio; quanto si può fare circa ciò, per sue littere V.S. l’intenderà, ma pegio se appresenta de l’obstinatione del conte Ioanne Boiardo9, che non avendo anchora il Conte Guido10 il possesso di Rubera già quelli da Corregia sono andati al canale, et tutavia li sono, per divertire et tirare l’aqua alle soe molline, il che poterano fare facilmente perché non haverano obstaculo; quanto damno serà a V. S. et a questi homini lei el può pensare senza altre allegatione. Il conte Guido del dono che li ha facto o farà il N. S. lui vorrà che li soi parenti ne partecipano, habia il damno che voglia, et sia bendecto et lui et conte Hani-

6 Della famiglia carpigiana cui appartenevano anche altri familiari di Alberto. 7 GHIZZONI 1997, pp. 60 sgg., spec. pp. 61-62. 8 Trascrizione parziale del testo in SVALDUZ 2001, p. 353. 9 Giovanni Boiardo conte di Scandiano (m. 1523). 10 Il modenese Guido Rangoni, figlio di Niccolò e di Bianca Bentivoglio. Su questo ramo della famiglia, GODI 2001, pp. 90-96; ARCANGELI 2003, p. 100. 114 Luciana Saetti

Natale Marri (1720-1787), Piani dei territori di Carpi, Novi e Soliera. Disegno a penna e acquerello in Miscellanea di scritti e disegni, Archivio Guaitoli, n. 193, Archivio storico comunale di Carpi. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1515) 115

bale11 che hano sapiuto trare la rete al loro benefitio; sel N. S. dà, procede da liberalità; se chi merita non domanda, accusassi de timidità. Il canale di cui si parla qui potrebbe essere il tronco inferiore del Tresinaro, che dopo avere toccato nel corso superiore Scandiano, Arceto e Rubiera – dove nel XIV secolo era stato fatto confluire nel Secchia – prelevava qui le acque del fiume e, seguendo approssimativamente il percorso dell’attuale cavo Tresinaro, arrivava nel Carpigiano per diventare il «canale di Migliarina»12. Quanto ai Boiardo (che nel 1423 avevano ceduto Rubiera agli Estensi riceven- done in cambio Scandiano), non erano nuovi a contrasti con i vicini per l’uso del- le acque del Secchia: si può ricordare, in proposito, la lite con Carpi che nel 1474 contribuì a radicalizzare i loro dissidi familiari. Per irrigare i propri campi, i carpi- giani rompevano sotto Casalgrande gli argini del canale che portava l’acqua del Secchia a Reggio, e danneggiavano anche Matteo Maria Boiardo, conte di Casal- grande e utente del canale13. Come è noto, alle ragioni del futuro autore dell’Or- lando innamorato si oppose, con il cugino Giovanni Boiardo, la madre di questi, Cornelia Taddea Pio, sorella di Marco II Pio di Carpi; i contrasti culminarono in un attentato con il veleno alla vita di Matteo Maria. Ne seguì, condannato solo l’ese- cutore materiale del tentato omicidio, la spartizione del feudo tra i due cugini volu- ta dal duca di Ferrara; ma l’intero dominio rimase alla fine a uno solo, Giovanni, dopo la morte dell’altro nel 1494. Nel marzo 1515, quando Leonello scrive, sono invece i correggesi a tirare l’ac- qua ai loro mulini, approfittando del fatto che la situazione, a monte, è fuori con- trollo. Rubiera doveva passare alla Chiesa insieme con il territorio modenese acquistato da Leone X; ma la transizione fu tutt’altro che pacifica, sia per le resi- stenze del governatore imperiale Veit von Fürst sia per lo scatenarsi della violenza delle fazioni, in un intreccio di interessi politici e privati. Anche dopo la presa di possesso ufficiale di Modena in nome di Giuliano de’ Medici il 30 marzo 151514, la fortezza di Rubiera rimane contesa tra imperiali, pon- tifici e filoestensi; sarà espugnata solo nell’agosto da Guido Rangoni, che la cederà al capitano generale della Chiesa Lorenzo de’ Medici per 2000 (o 1500) ducati15. È questo il conte Guido di cui parla Leonello nella sua lettera; al servizio del pontefice dal 1514, è uno degli esponenti delle fazioni modenesi nelle quali sono schierati i membri di tre rami della famiglia Rangoni, rappresentati, oltre a lui –

11 Annibale Rangoni (m. 1523), fratello minore di Guido; chiamato a Roma da Leone X nel 1513, era capitano delle guardie pontificie. 12 Sotto Rubiera prelevava le acque del Secchia anche il «Canale di Carpi» (o «dei Mulini») che passava per il territorio di Campogalliano e le portava a Carpi, proseguendo verso Cibeno e Novi per poi riconfluire nel Secchia (cfr. TIRABOSCHI 1824, p. 387; GUAITOLI 1894-1895, p. 543; ZARRI 1981, pp. 551, 556). Sulle complesse problematiche riguardanti la sistemazione idraulica del territorio, CORTI 2004, spec. pp. 30-35). 13 Cfr. F. FORTI, Boiardo, Matteo Maria, DBI, vol. 11, 1969. 14 TOMMASINO DE’BIANCHI 1862, p. 150; PANINI 1978, p. 129. 15 TIRABOSCHI 1824, p. 384; TOMMASINO DE’BIANCHI 1862, p. 161. 116 Luciana Saetti detto Guido “il Piccolo” – da Gherardo, di parte imperiale, e da Guido detto “il Grosso”16, che parteggiava per il duca di Ferrara e che si era asserragliato nella for- tezza di Rubiera. Quanto all’obstinatione del Conte Ioanne Boiardo, possiamo sup- porre che, in quei frangenti, tirasse volentieri anche lui l’acqua ai suoi mulini, in senso proprio e figurato: nonostante lo scambio di Rubiera con Scandiano, sembra infatti che Giovanni Boiardo non rinunciasse a farla da padrone anche nell’antico feudo della sua famiglia17. La “moralità” con cui Leonello commenta i vantaggi che potranno trarre Guido e suo fratello Annibale dai servizi resi al papa verte sul punto d’onore: verrebbe tacciato di timidità chi non si facesse avanti a chiedere ciò che merita. Nel riferire poi quanto gli ha scritto, commentando la situazione, la loro sorella madonna Angela, monaca a Mantova18, accenna ai provvedimenti che andrebbero presi con- tro i subditi mal regolati della Chiesa (presumibilmente, i Rangoni di fazione avversa con i loro seguaci e il Boiardo stesso). Infine dà notizie del fratello Teodoro19 e conclude facendo presente che gli impegni della propria condotta militare al servizio di Firenze lo costringono a par- tire20; per cui dovrà subentrargli qualcun altro a eseguire i provvedimenti che Alberto riterrà opportuni: Sono molti giorni che Mons.re nostro fratello non è qui, né io alla mia venuta ge lo tro- vai; como el sia ritornato, che mi è dicto essere andato a Milano, le dirò quanto V. S. mi scrive, benché io penso fra puochi dì retornare in Toschana21; io ho licentia solo per XX giorni di stare fora, et già sono passati cinquanta ch’io mi partì; l’honore mio mi racor- da a dovere tornare alli allogiamenti; però V. S. serà contenta da qui innanzi de scrive- re et dare l’impresa a qualche uno altro de le executione che la vorrà se faciano circa li casi accaduti.

16 I loro padri erano cugini: Guido il Piccolo, signore di Spilamberto (m. 1539), era figlio di Nic- colò; Gherardo, conte di Castelvetro (m. 1523), di Ugo; Guido il Grosso, conte di Castelcrescente e Borgofranco (m. 1520 ca), di Ugone o Uguccione. Sui conflitti del 1514-1515, TOMMASINO DE’BIAN- CHI 1862, pp. 141-147, 160-161; PANINI 1978, pp. 127-130. 17 ARCANGELI 2007, pp. 414-415. 18 Suor Angela Gabriella, al secolo Giulia Gonzaga (1493-1544), figlia di Caterina Pico e Rodol- fo Gonzaga, era monaca nel convento di Santa Paola in Mantova. 19 Teodoro Pio, fratello di Alberto e Leonello in quanto figlio naturale del loro padre e di Polisse- na «del fu Giovanni di Richembach» (TIRABOSCHI 1794, p. 155). Entrato nell’ordine dei Minori osser- vanti, dal 1504 padre guardiano del convento di San Nicolò a Carpi, divenne vescovo di Monopoli nel 1514; fu governatore di Carpi dal 1518 al 1522. 20 Notizie sulle condotte assegnate a Leonello da Firenze in VITI 1987, vol. I, pp. 431, 460. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1515) 117

L’APOCALISSE DI DÜRER E UN RITRATTO DELL’IMPERATORE

Abbiamo già incontrato, tra i corrispondenti di Alberto, Iacopo Bannissi come testimone, nell’agosto 1513, delle operazioni militari nel nord della Francia. Tra le altre sue lettere, tutte del 1516-1517, ce n’è una non datata, da Innsbruck (docu- mento XLIII), di cui si può ipotizzare la collocazione nel 1515; è degna di nota soprattutto per alcune notizie che riguardano direttamente Alberto, le sue condi- zioni di salute e le sue preoccupazioni, ma anche le sue raccolte di libri e opere d’arte. Bannissi scrive mescolando italiano e latino, una commistione discorsiva abi- tuale nella corrispondenza dei letterati del tempo. Nel rispondere a una lettera di Alberto, lo rassicura sul fatto che l’imperatore vole persistere constanter cum la Santità del Nostro Signore et Re Catholico, non essendo favorevole agli accordi fatti in Franza; riferimenti che sembrano ricondurre alla primavera del 1515 e al trattato amichevole siglato a Parigi il 24 marzo tra Francesco I e il giovanissimo Carlo d’Asburgo, nipote dell’imperatore e arciduca di Borgogna – appena entrato, quindicenne, nella maggiore età e quindi effettivo principe dei Paesi Bassi – che stabiliva tra l’altro il suo matrimonio con Renata di Francia (un contratto che in seguito fu annullato).

I «mali humori» e la questione di San Felice Dopo altre notizie della corte imperiale, tra le quali il ritorno di Lang da Poso- nio21, Bannissi parla di una malattia di cui Alberto ha sofferto recentemente (il testo qui, è lacunoso): Per littere de Maestro Sigismundo [Santi] suo secretario ho inteso como la Signoria Vostra in Rechanati inciderat in febres; de che la Maestà Cesarea ne ha havuto singula- rissimo despiacere, et certo tuti questi Signori de la corte. Io ne ho cordial despiacere, né so donde vengano ... egritudine; non dubito che la Signoria Vostra ha optimo regi- me, ma anche ... debeno esser ben evulse dale osse et dale medule; la causa ... li mali humori, dali qualli se generano queste egritudine. La supplico per lo amor de Dio quod post positis omnibus voglia recuperare la bona valitudine, et confermarsi in quella; scri- veva dito secretario che zà la Signoria Vostra era libera, et si aspetava a Roma, et cusì io spero che sia libera et tornata a Roma et sto con grandissimo desiderio de intendere che sia cusì. La malattia dovette essere difficile da debellare – Bannissi si sofferma a consi- derare cause e rimedi rifacendosi alla teoria degli umori – e non può che essere la stessa di cui scrive Paolo Guaitoli nella sua biografia di Alberto, il quale «nel dicembre di quest’anno [1514] andò soggetto in Roma ad una malattia così grave,

21 Bratislava (in ungherese Poszony, in tedesco Pressburg). Lang aveva condotto trattative con i re di Polonia e di Ungheria (v. l’accordo siglato con il primo il 20 maggio: testo in FIEDLER 1863, pp. 267-268), sancite pochi mesi dopo a Vienna. 118 Luciana Saetti che tutti i buoni temettero della sua guarigione» e «per il voto fatto allora dallo stesso Alberto si eseguirono nel successivo febbrajo in Carpi tre processioni in ren- dimento di grazie per la sua guarigione»22. Un altro punto della lettera risponde a una richiesta di Alberto: De San Felice, io per niente non voglio desistere dala impresa; et anche con queste el Nunzio [Lorenzo Campeggi] ne scrive al Nostro Signore rechiedendoli qualche rispo- sta; havuta qualche risposta, saperemo ad che modo procedere. Credo che la Santità Sua vorà havere la investitura de quelli quatro lochi23, senza la qualle non he legitimo pos- sessor; io mi sforzarò, se la vorà, chel facia de San Felice, et se non la vorà me remet- to a la Santità Sua, forsi serria meglio et dar dui San Felici che restare senza quella. Havuta qualche risposta se saperemo guvernare; et io non cessarò fina che non extor- qui questa risposta. Alberto aveva ricevuto dall’imperatore l’investitura del castello di San Felice il 25 luglio 1512, come compenso per l’opera prestata e in risarcimento della rag- guardevole somma, più di 15.000 ducati, da lui spesi al suo servizio24. Dopo quasi tre anni, tuttavia, non ne ha ancora il possesso: per disporne a tutti gli effetti è necessaria la concessione del nuovo pontefice – il quale, dal canto suo, ha richie- sto la ratifica imperiale del passaggio alla Chiesa di Parma e Piacenza, Reggio e Modena. Leone X, comunque, non sembra preoccuparsi di soddisfare le aspettati- ve di Alberto, anche se, come giustamente osserva Bannissi, l’assegnazione al papa di quelle quattro città val bene la cessione, da parte sua, di un San Felice, e anche due. Ma mentre Massimiliano confermerà quel feudo ad Alberto alcuni mesi dopo, il 13 ottobre 1516, la concessione pontificia arriverà solo nel 1519, dopo il matri- monio con Cecilia Orsini25. Al problema di San Felice sembra ricollegarsi anche quanto Bannissi ha fatto, su sollecitazione di Alberto, per recuperare e inviargli la sentenza della causa con- tro il duca di Ferrara26. Nelle sue lettere troveremo più volte accenni a richieste del genere, che fanno intuire la preoccupazione di Alberto di avere a disposizione gli attestati dei propri privilegi e diritti feudali e al tempo stesso mostrano come la

22 GUAITOLI 1877, p. 211. 23 Ossia Modena (passata al pontefice nel 1514), Reggio (sotto il dominio pontificio dal 1512), Parma e Piacenza (cedute nel maggio 1513 dallo Sforza a Leone X in cambio del suo appoggio al ducato di Milano). 24 Contestualmente era confermata ad Alberto anche l’investitura di Marano, Guiglia, Samone, Monterastello e di altri castelli e ville, con la separazione in perpetuo anche di quei luoghi dal terri- torio di Modena e l’unione a quello di Carpi. GUAITOLI 1877, pp. 203-204. Copia del privilegio impe- riale in ASCC, APS, filza 3, 49 bis. 25 Sulla donazione di San Felice ad Alberto, CAMPORI 1879, p. 80; ADEMOLLO 1886, p. 76; BAMI 282 [V.N. 254], Cass. 186, 1519, 11 marzo, Breve di Leone X Pont.e al P.re di S. Felice perché rico- noschino in Vicario perpetuo di d.o Castello per la S. Sede il Sig.r Alberto Pio a cui dall’Imperator Massimiliano fu donato. 26 La sentenza imperiale del 29 maggio 1512, che aveva obbligato Alfonso d’Este a restituire Car- pi ad Alberto e a risarcirlo dei danni subiti. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1515) 119 conservazione e custodia di carte anche così importanti fosse soggetta a inconve- nienti dovuti ai frequenti spostamenti dei loro possessori e a smarrimenti o distru- zioni negli accidenti delle guerre e nei traslochi, forzati o meno, da una residenza a un’altra27.

Un ritratto more antiquo Ma veniamo alle altre notizie, che esulano questa volta dalle questioni legali e dalle manovre politiche: Piaceme che la Signoria Vostra habi receputo la imagine de la Cesarea Maestà et me piace molto che lo fa fare more antiquo; et advertischa che li capelli non sono cusì lon- gi, né vengono più che fina ala massella. Io ne facio far uno etiam ala antiqua piculo, et quam primum lo mandarò ala Signoria Vostra. E a noi piacerebbe sapere quale fosse questo ritratto dell’imperatore che Alber- to ha ricevuto e farà fare “all’antica”. Sappiamo, comunque, quanto Massimiliano fosse interessato alla diffusione della propria immagine: lo testimonia la grande quantità di ritratti pittorici che l’imperatore fece eseguire esigendo la maggiore fedeltà al reale, così come in quelli monetali, altro mezzo di propaganda della sua figura di sovrano presso ampi strati della popolazione28. Va ricordata inoltre l’u- sanza di fare diverse “redazioni” di un determinato ritratto, testimoniata in parti- colare da quelli eseguiti da Bernhard Strigel, che lavorò a lungo a corte29. A questo punto il pensiero corre, inevitabilmente, anche alle opere di Dürer, autore negli anni seguenti dei più famosi ritratti di Massimiliano I, e che troviamo menzionato subito dopo da Bannissi in una delle notizie – rarissime nelle carte Lea – riguardanti le arti figurative e le opere a stampa. Ho scripto a Norimberga per lo Apochalipsis et per la pasione del Nostro Signore fata per Alberto Durer; et subito che la habia la mandarò ala Signoria Vostra, et se l’è qual- che altra cosa che li piace de qua la supplico me vogli avisare, che quello potrò fare lo farò volentieri. Sono stampiti qui adesso Iornades de Rebus Gottorum et Paulus Diaco- nus de Gestis Langobardorum, se li piace li mandarò; ben che non habiano quelli [t]erso dire, pur videntur mihi quod habent animam, idest veritatem. Anche questi libri “hanno un’anima, vale a dire una loro verità”, nonostante lo stile, scrive l’umanista e bibliofilo a proposito delle due opere antiche che ora rive- dono la luce. L’accenno al fatto che fossero appena date alle stampe è un altro indi- zio per la datazione della sua lettera: il De rebus Gothorum (o Getica) di Giorda- ne (Iornades, Iordanes) e il De gestis Langobardorum di Paolo Diacono uscirono entrambi in prima edizione ad Augusta nel 1515.

27 Si veda in proposito il contributo di Anna Maria Ori sugli archivi della famiglia Pio. 28 Su un esempio di tale uso dell’immagine in una coniazione di Massimiliano I, SAETTI 2015, pp. 340-341. 29 Sui ritratti di Massimiliano eseguiti da Strigel e sulle loro varie versioni negli anni 1510-1515, Hispania Austria 1992, pp. 329 sgg. 120 Luciana Saetti

L’Apocalisse e la Passione Bannissi, dunque, si è attivato per procurare ad Alberto l’Apocalisse e la Pas- sione di Cristo di Albrecht Dürer30. Non sappiamo se questi capolavori entrassero effettivamente a far parte delle raccolte del signore di Carpi31. Sono noti, invece, i rapporti di amicizia di Bannissi con il grande artista tedesco, al quale proprio nel 1515 egli riuscì a far assegnare dall’imperatore una pensione annua di cento fiori- ni. Dürer lo menzionerà più volte nel suo diario di viaggio nei Paesi Bassi del 1520-1521, annotando di averlo incontrato a Bruxelles, dove ha mangiato con lui e gli ha donato una Passione incisa su rame; lo incontra di nuovo ad Anversa e, in un’altra occasione, esegue un suo ritratto a carboncino32. La conoscenza tra i due sembrerebbe risalire, se non al viaggio dell’imperatore a Norimberga nel 1512, a uno dei soggiorni in Italia dell’artista, nel 1494 e nel 1505, e all’amicizia di entrambi con l’umanista Willibald Pirckheimer: c’è chi sostiene che l’“uomo in blu” effigiato nella Festa del Rosario, dipinta da Dürer a Venezia nel 1506 per la chiesa annessa al fondaco dei Tedeschi, non sia, come generalmente si ritiene, uno dei banchieri Fugger ma proprio Bannissi, ritratto accanto all’imperato- re e ad altri due personaggi identificabili con lo stesso Dürer e Pirckheimer33. Non è il caso, qui, di azzardare alcun commento al riguardo, lasciando agli esperti il com- pito di valutare questa interpretazione, e anche la possibile identificazione di Ban- nissi con il soggetto di un ritratto a carbone conservato ad Amsterdam, Rijksmu- seum. Una sua immagine certa è invece quella che compare nella medaglia con la scritta IACOBUS BANNISSIUS DALMATA CAES. MAX. A SECRETIS, di cui si conserva un esemplare a Vienna34.

Bannissi e le “Arpie palatine” Nelle lettere di Bannissi ad Alberto avremo ancora occasione di cogliere i toni della confidenza personale, con esternazioni spesso venate di vittimismo: perché nonostante la sua posizione ragguardevole a corte e la stima che riscuote come intellettuale, questo fedele servitore dell’imperatore è privo di mezzi propri e le sue risorse sono costituite soprattutto dalle rendite ecclesiastiche. Infatti ringrazia Alberto dela bona opera che ha fato per me in el Decanato de Anversa35; e per fini-

30 L’Apocalisse fu realizzata nel 1498 e 1511, la Piccola Passione e la Grande Passione nel 1511, la Passione incisa in rame nel 1513. 31 Sugli inventari delle collezioni di Alberto e di Rodolfo Pio e sulla ricostruzione della loro biblioteca, FRANZONI 2002; RICCI 2004. Sui libri a stampa illustrati posseduti da Alberto, URBINI 2004, pp. 198-204. Troviamo invece, nell’inventario (1540-1542) dei beni posseduti da Federico II Gonzaga, «Dui libri della passione di n. s. J. Christo fatti de disegno» (LUZIO, RENIER 1903, p. 84). Sulla loro possibile identificazione con opere di Dürer, BARBIERI 2012, p. 471. 32 DÜRER 1995, pp. 76, 81, 82. 33 Per questa interpretazione, v. Frano Cebalo, Jakov Baničević (Jakob Bannissius Dalmata), http://www.korcula.net/history/fcebalo/jbanicevic.htm www. 34 Vienna, Kunsthistorisches Museum, Münzkabinett. Cfr. HERMANN 1884, vol. I, p. 305. 35 Una nomina ricevuta nel 1513, ma che urtò contro l’opposizione del capitolo e del decano di Alberto Pio nelle “lettere americane” (1515) 121 re gli raccomanda un prelato che rischia di perdere un beneficio: che se perde tal cosa l’è totaliter desperato, che non ha niente al mondo, et sì doto homo, con servitù de tanti principi, se per opera de la Signoria Vostra, como spero, consegui- sca questa cosa, debebit plus Dominationi Vestrae quam omnibus Regibus, a quibus numquam habuit tantundem. Supplico la Signoria Vostra lo vogli aiutare, che certo li fano iniuria et non picula; troppo gran cosa che al presente niuno homo da bene possa sperar cosa alcuna: omnia rapiuntur ab illis Arpiis pallatinis. Una situazione, quella descritta, in cui Bannissi stesso probabilmente si rispec- chia, riconoscendovi una privazione immeritata e osservando quanto sia depreca- bile che un uomo perbene debba disperare, mentre “quelle Arpie del palazzo” si prendono tutto.

Iacopo Bannissi. Medaglia, XVI secolo. Collezione privata.

Lovanio; così come l’altra, del 1512, al decanato del capitolo del duomo di Trento, per il quale Ban- nissi poté far valere i propri diritti solo nel 1514 contro il candidato designato dal capitolo stesso. 1515. Da Roma a Carpi, passando per Bologna

Tra la fine di agosto e i primi di settembre 1515 l’esercito di Francesco I, pas- sate le Alpi al valico dell’Argentera e aggirato così lo sbarramento delle truppe svizzere e pontificie, entra nel milanese e avanza verso la capitale del ducato, accampandosi poco più a sud, presso Marignano. Qui il 13 settembre, mentre le forze spagnole e pontificio-fiorentine rimangono inattive sul Po nelle vicinanze di Piacenza, sferrano l’attacco le milizie elvetiche riorganizzate dal cardinale Schiner in difesa di Milano. Il combattimento, sospeso nella notte, si conclude la mattina seguente con l’intervento della cavalleria veneziana e la ritirata degli svizzeri, lasciando sul campo migliaia di morti. La Francia riconquista così il ducato di Milano1: Massimiliano Sforza si conse- gna a Francesco I, e mentre gli eserciti fermi nel piacentino si ritirano verso sud senza combattere, il nunzio pontificio Ludovico Canossa rende nota al vincitore la propensione di Leone X alla pace2. Nel giro di pochi giorni, il 25 settembre, Canossa porta a Roma le richieste fran- cesi. Per non dare pubblicità alla cosa, il 30 settembre i delegati a discuterne si tra- sferiscono segretamente a Viterbo; il pontefice li raggiunge lasciando Roma il gior- no dopo, come per una delle sue abituali partite di caccia autunnali. Già il 27 settembre, a due giorni dall’arrivo di Canossa con gli articoli dei pre- liminari di pace, Alberto scriveva da Roma al marchese di Mantova di essere certo chel succederà lo appuntamento tra la santità del nostro signore et la maestà del re de Franza, che pur se non ancora fissato credo ben presto habia a succedere et sarà con quelle condition che la predecta maestà li vol concedere3. Il 5 ottobre, a Viterbo, il papa sottoscrive le condizioni di pace; il trattato viene riconsegnato al re da Lorenzo de’ Medici e siglato il 18 ottobre. I principali conte- nuti4 prevedono che, in cambio della protezione della Francia, Leone X ne riconosca la sovranità sul ducato di Milano, al quale cederà Parma e Piacenza; il papa promet- te, inoltre, di restituire Modena e Reggio al duca di Ferrara. Francesco I accetta, d’al- tra parte, le richieste del pontefice di non sottoporre Firenze ad alcuna ritorsione per essersi schierata contro la Francia e di non dare protezione a nessun feudatario o sud- dito della Chiesa contro i diritti della Santa Sede – una clausola, quest’ultima, che in virtù della sua genericità non solo impedirà l’appoggio francese ai duchi di Urbino5

1 Sulla spedizione francese e sulla caduta del ducato, MESCHINI 2014, pp. 22-29 e relativa biblio- grafia. 2 Cfr. PASTOR, IV, I, p. 79. 3 ASMN, AG, Lettere dei Signori di Carpi, b. 1309; trascrizione parziale in SVALDUZ 2001, p. 353. In precedenza, Francesco Gonzaga aveva respinto e schernito la richiesta di Francesco I di schierar- si con lui per la conquista del ducato di Milano (cfr. RUBELLO 2012, p. 3). 4 GUCCIARDINI, XVI 18; PASTOR 1921, vol. IV, I, pp. 76-93; MESCHINI 2014, p. 43. 5 Poco dopo Leone X sottrarrà a Francesco Maria della Rovere il ducato di Urbino per assegnar- lo a Lorenzo de’ Medici. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1515) 123 e di Ferrara, ma avrà la sua importanza nella stipulazione del concordato tra la chiesa di Roma e il regno di Francia. Mentre si concludono gli accordi, si viene a sapere che Francesco I intende con- fermarli a Roma, andandovi a rendere omaggio al pontefice con l’esercito al segui- to per motivi di sicurezza. Di fronte a una tale malaugurata prospettiva, Leone X comunica al re di volergli andare incontro; in un primo tempo progetta di acco- glierlo a Firenze, optando poi per la seconda capitale del proprio Stato, Bologna6. Così, il 21 ottobre, il papa convoca tutti i cardinali a Viterbo per il giorno dei Santi; il 5 novembre parte alla volta di Firenze, facendo tappa a Orvieto e sul Trasimeno, a Cortona, ad Arezzo; il 27 novembre si ferma poco lontano da Firenze, per entrarvi solennemente il 30; ne riparte il 3 dicembre e l’8 entra in Bologna, dove il giorno 11 fa il suo ingresso Francesco I7. Queste, in sintesi, le circostanze in cui si collocano le minute di Alberto. Alcune di esse non sono datate o non specificano il luogo; ma risulta evidente che egli si sposta al seguito del papa fra Corneto (Tarquinia), Civitavecchia, Montefiascone, Viterbo, seguendolo poi a Firenze e infine a Bologna.

“Tra la bocca e il boccone”: le trattative di Viterbo L’atmosfera di quelle settimane, nonostante l’evento sconvolgente della batta- glia che ha riportato i francesi nel ducato di Milano, non si potrebbe definire da day after: almeno non per Leone X, che ha appoggiato la lega badando però a non schierarsi apertamente contro la Francia; non per i principi italiani, che si affretta- no a rendere omaggio al vincitore8. L’ambiguità, d’altronde, non è un’esclusiva del pontefice: anche tra i collegati permane il clima di dissimulazione che ha in parte contribuito alla disfatta di Marignano. Quanto ad Alberto, nei suoi scritti dell’ottobre-novembre lo vediamo impegna- to a mediare tra l’imperatore e il papa, cercando uno sbocco alle pressioni del primo e dando una versione conciliante delle umbratili risoluzioni del secondo. Così almeno in questi scritti, in cui tale operazione diventa, strada facendo, sem- pre meno agevole. In una minuta databile al 26 ottobre (documento XLV) Alberto, a Civitavecchia, scrive all’imperatore del compiacimento di Leone X per il modo in cui questi ha accolto le sue decisioni, dovute a una situazione militare che renderebbe vano ogni tentativo di resistenza: il papa, insomma, ha agito “di necessità”. Alberto si limita, qui, a riportare la formula adottata da Leone X come giustificazione del proprio operato. Ma possiamo ben pensare che in realtà nulla sia come sembra: Ferdinando d’Aragona, per esempio, scriveva a Vich, il suo oratore a Roma, che

6 Sulla scelta della sede dell’incontro, RUBELLO 2012, pp. 9-16. 7 Sull’itinerario di Leone X da Roma a Bologna e su quello da Milano del re di Francia, ibid., pp. 20-39. 8 Sulle reazioni agli eventi, nelle testimonianze dei contemporanei e nei giudizi degli storici, ibid., pp. 162-168. 124 Luciana Saetti conveniva far finta di credere che il papa si fosse risolto alla pace con la Francia “per pura necessità”9. Massimiliano, dal canto suo, pur dicendosi con Alberto “profondamente dispia- ciuto”10 per la prospettiva dell’incontro tra il papa e il re di Francia, si dichiara favo- revole al trattato soprattutto perché gli preme che si venga a un’immediata sospen- sione delle ostilità, non essendo in grado di difendere militarmente i propri territori in Italia. Alberto lo rassicura in proposito: il papa ha sommamente a cuore l’inte- resse dell’imperatore, e tutti i suoi pensieri sono rivolti alla “pace universale”; per- ciò si adopererà perché il re di Francia si astenga dalle armi finché non avverrà il suo incontro con lui, al quale è molto lieto che l’imperatore non si opponga. Quanto al resto, Alberto conferma le notizie precedentemente inviate sulle trat- tative con i francesi tramite Canossa, sull’approvazione degli articoli del trattato e sul fatto che il papa è deciso a incontrare il re: “per questo motivo [il papa] non tornerà a Roma ma rimarrà a Viterbo, dove celebrerà la festa di tutti i Santi e dove ha ordinato che siano presenti i cardinali; e qui tratterà con loro di questo incontro, pur avendo già parlato di alcune cose con questi che sono già con lui, ma senza chiedere il loro parere: quelli non lo approverebbero per niente, e non vorrebbero affatto venire via da Roma”. Commenta poi un’informazione che gli è stata, evidentemente, comunicata dal- l’imperatore: “L’oratore spagnolo ha detto anche a me di aver capito che ai veneziani questo incon- tro è molto sgradito e che fanno di tutto per impedirlo. Il Santissimo invece sta prepa- rando tutto per la partenza; ma tra la bocca e il boccone possono mettersi di mezzo molte cose”. Alberto ricorre a un detto antico, inter os et offam multa intercidere possunt11, per dare spazio all’eventualità che le cose non vadano poi esattamente così come qualcuno vorrebbe: perché qualcun altro, per esempio i veneziani, potrebbe met- tersi di traverso. Comunque sia, è imminente l’arrivo a Viterbo di “un nobile francese, di nome Bonnivet”, inviato dal re: “è il fratello del signore di Boisy, gran maestro di Francia e primo consigliere del re; e questo Bonnivet è molto vicino e caro al re”12. Altri punti sono i rapporti con gli svizzeri, i movimenti del’esercito di Cardona

9 Ibid., p. 173. 10 Massimiliano ad Alberto, s.d. (documento XLIX). 11 Il detto Inter os et offam multa intervenire possunt è una citazione da Catone il Censore, in Aulo Gellio, Noctes Atticae (Torino 2007, vol. II, p. 972); cfr. Erasmo da Rotterdam, Adagi, Milano 2013, p. 436. 12 Guillaume Gouffier signore di Bonnivet, fratello del gran maestro Artus Gouffier signore di Boisy; nel 1516 fu nominato ammiraglio di Francia. Un terzo fratello, Adrien de Gouffier, vescovo di Coutances, fu fatto cardinale nel dicembre 1515, tre giorni dopo l’incontro di Leone X e Francesco I a Bologna. Su questi personaggi, CAROUGE 2011. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1515) 125

– su cui, come vedremo, Alberto si diffonderà in uno scritto successivo – e, per finire, i segnali che coglie nel comportamento del papa: “Sono convinto che Sua Santità proceda con una buona disposizione d’animo per gli interessi di Vostra Maestà e che non l’abbandonerà per nessun motivo; infatti sicura- mente odia i veneziani e non ama i francesi, pur avendo trattato con loro; anche se con il passare del tempo, adescato dai loro espedienti, potrebbe arrivare ad amarli: infatti è arrendevole e timoroso di natura e si lascia allettare dalle lusinghe”.

Con questi apprezzamenti su Leone X, Alberto sembra voler mettere le mani avanti sui possibili risultati dell’incontro, attribuendone i rischi a quella che descri- ve come una timorosa arrendevolezza del pontefice. Comunque ne interpretasse in realtà la condotta altalenante, il suo messaggio in sostanza è che il papa va segui- to molto da vicino, perché non ceda più di tanto al re di Francia.

“Quel nobile di Trissino” Lo stesso giorno, rispondendo a Lang con una brevità dovuta ai tempi stretti della consegna al corriere (documento XLIV), Alberto si dice incessantemente impegnato, giorno e notte, anima e corpo, a tutelare gli interessi dell’imperatore, ben sapendo in quali difficoltà si trovi e quali pericoli stia correndo: tanto che invo- ca per lui la bontà divina e, al tempo stesso, fa presente a Lang che sarebbe il caso di prendere in mano la situazione come questi ha fatto altre volte (verum credo tem- pora exposcere ut D. V. R.ma rursus ferulam accipiat ut alias). E subito dopo lo avverte di non dar retta alle proposte che “quel nobile di Trissino” viene a fare all’imperatore a nome del papa, perché non hanno alcun fondamento: è solo qual- cuno che è stato mandato in Germania e in Dacia (Danimarca) per cercare dei libri, e tutti quei mandati, e quei brevi, e il titolo di nunzio gli sono stati dati solo perché avesse qualcosa da esibire; ma non è a parte delle decisioni del papa e non è un suo familiare, è solo amico di certi suoi familiari, e non è nemmeno tanto che è venu- to a Roma13; a parte ciò, “è un uomo dotto, nobile e giudizioso”. Se quest’uomo era, come tutto fa credere, l’umanista vicentino Gian Giorgio Trissino, ci si può chiedere perché Alberto smentisca in modo così reciso l’atten- dibilità delle sue proposte. Trissino godeva della fiducia di Massimiliano ed era stato mandato presso di lui dal papa per promuovere il progetto della pace univer- sale; era arrivato in quell’ottobre ad Augusta, seguendo poi gli spostamenti della corte imperiale14. Quanto alla missione in Dacia, il 31 ottobre 1515 Giovanni Rucellai15 gli scriveva da Viterbo che il pontefice accondiscendeva alla sua richie- sta di dispensarlo da quel viaggio16.

13 Trissino vi era infatti approdato da Ferrara nell’aprile dell’anno precedente. MORSOLIN 1894, p. 66. 14 Ibid., pp. 80-81. 15 Cugino di Leone X e presso di lui con incarichi politici. 16 G. Rucellai a G.G. Trissino, Viterbo 31 ottobre 1515; testo in ROSCOE 1817, t. X, pp. 174-175. 126 Luciana Saetti

Non è noto lo scopo per cui Trissino avrebbe dovuto recarsi in Danimarca (il cui re Cristiano II, salito al trono nel 1513, aveva sposato nell’agosto 1515 una sorella di Carlo d’Asburgo, Isabella). Comunque il 3 dicembre 1515, da Firenze, Rucellai scriverà ancora che il papa è contento che per questa invernata Trissino non vada in Dacia; ma poi, al tempo nuovo, avrà piacere. Accenna inoltre a una practica di cui questi dovrà occuparsi insieme col vescovo di Feltre, Lorenzo Campeggi17. Il motivo per cui Alberto, qui, minimizza il ruolo di Trissino e il suo incarico è certamente in relazione con le tensioni prodotte dall’annunciato convegno di Bologna e, forse, con quella non meglio precisata practica; è anche plausible che l’imperatore non gradisse iniziative di Roma che interferissero, in quel momento, nei suoi rapporti politici con i regni nordici. Sta di fatto, comunque, che Massimiliano trattenne presso di sé il Trissino, come questi desiderava; quando poi, nel marzo dell’anno seguente, gli diede licenza, fu per «rimandarlo ad aprire il vero stato delle cose al pontefice»: come risulta dall’istruzione imperiale che gli consegnò in quanto Sanctitatis Suae apud Nos Nuncius et Orator, che reca la data dell’8 marzo 1516 «e non è, in gran parte, che una particolareggiata protesta con- tro i patti stipulati tre mesi a dietro in Bologna»18.

«È PROPRIO DIFFICILE CAPIRE GLI SPAGNOLI»

Nell’informare l’imperatore dell’imminente arrivo presso Leone X di Guillaume Gouffier de Bonnivet (documento XLV), Alberto scriveva che anche Ramón de Cardona, lasciato il proprio esercito nella Marca anconitana, veniva a conferire con il pontefice. In un altro scritto non datato, ma del 3 novembre (documento XLVIII), rende conto all’imperatore dell’arrivo di Bonnivet il giorno precedente e delle sue dichia- razioni ufficiali – la soddisfazione del re di Francia per il trattato e il suo desiderio di incontrare il pontefice – aggiungendo che cercherà di sapere se questi abbia rife- rito altre cose in segreto. Ma ciò che rende questo scritto memorabile è che vi tiene la scena il viceré di Napoli, venuto a giustificare davanti al papa e agli oratori dei collegati il modo in cui ha condotto la campagna militare e le decisioni prese dopo la battaglia di Marignano. Al racconto reso da Alberto della sua excusatio fa da corollario quello di un animato confronto tra Cardona stesso e l’oratore Vich sull’impiego del dena- ro versato da Ferdinando d’Aragona per la guerra. Per apprezzare quanto Alberto riferisce bisogna ritornare ai fatti del settembre precedente: mentre l’esercito di Francia passava il Ticino, Cardona muoveva con

17 Ibid., pp. 176-179. Nel 1515 Campeggi era in Germania come legato apostolico (v. CENTA 2004, vol. I, pp. 105-108; vol II, p. 1207); sul finire dell’anno Leone X vi inviò anche, come rappresentan- te straordinario presso l’imperatore, Egidio da Viterbo, che rientrò a Roma dopo qualche mese. 18 Ibid., pp. 84; pp. 398-402 (testo dell’istruzione imperiale). Alberto Pio nelle “lettere americane” (1515) 127 il suo esercito da Verona verso Piacenza, dove stavano convergendo le truppe pon- tificie e fiorentine al comando di Lorenzo de’ Medici. Qui andò anche Schiner, per convincere entrambi i comandanti a congiungersi con i reparti svizzeri che sareb- bero scesi fino a Lodi, per poi marciare su Milano. Cardona e il Medici, dunque, si accordarono per passare il Po; ma questa deli- berazione, come scrisse Guicciardini, «da niuna delle parti fu fatta sinceramente; pensando ciascuno col simulare di voler passare, trasferire la colpa nell’altro senza mettere se stesso in pericolo»19. Nessuno dei due, insomma, era disposto a rischia- re più di tanto e tra loro non vi fu una reale intesa; d’altronde, fin dal mese prece- dente i movimenti irresoluti delle truppe pontificie mostravano l’intenzione del papa di non schierarsi apertamente contro i francesi. Alla fine Cardona si decise a passare il Po e così pure il Medici; ma a questa manovra seguì una veloce ritirata: i francesi, infatti, nel frattempo erano avanzati verso Marignano, interponendosi tra loro e gli svizzeri. Così questi ultimi ebbero ottime ragioni, dopo la battaglia, per accusare gli alleati di non averli aiutati, e Schiner di tacciare Cardona «de anima de lepore»20. Ovvio che fosse poi quest’ul- timo a dover rendere conto al pontefice di quelle manovre inconcludenti; alle quali si aggiunse il fatto che, avuta notizia degli accordi in corso tra Leone X e Francesco I, Cardona ritirò l’esercito per dirigersi verso il regno di Napoli secondo le istru- zioni ricevute dal suo re, mentre l’imperatore e il pontefice lo esortavano a torna- re a Verona per presidiarla.

La versione di Cardona Alberto riferisce all’imperatore la versione di Cardona: è un racconto dettaglia- to, nel quale il comandante spagnolo ripercorre tutti i propri movimenti da quando si era messo in marcia da Verona fermandosi poi a Piacenza. Qui – racconta – aveva passato il Po con l’intenzione di arrivare a Lodi, ma proprio allora gli era stata consegnata una lettera di Massimiliano Sforza, stilata da Girolamo Morone, che annunciandogli un accordo degli svizzeri con i francesi lo esortava a mettersi in salvo con l’esercito. A questo punto decideva di ripiegare21. I comandanti delle truppe pontificie, oltretutto, hanno sempre tergiversato con lui, sostiene Cardona: tant’è vero che anche dopo, quando ha deciso di muovere l’esercito, insieme al loro, da Piacenza verso Cremona per congiungersi con le forze lasciate a Verona, Lorenzo de’ Medici, che prima si era detto d’accordo, non

19 GUICCIARDINI, XIV 15. 20 Giovanni Stefano Rozone al marchese di Mantova, 7 settembre 1515, in BÜCHI 1920, p. 567 (v. TRAXINO 2015, p. 45). 21 L’affermazione di Cardona concordava con quella di Diego del Águila, oratore di Ferdinando il Cattolico a Milano, secondo il quale il messaggio era venuto dallo Sforza con una lettera sottoscritta dal suo più stretto collaboratore, Gerolamo Morone; secondo Morone, invece, era stato l’oratore spa- gnolo a sconsigliare a Cardona la manovra di congiungimento per l’inaffidabilità dimostrata dagli svizzeri. TRAXINO 2015, pp. 21, 43 nota 58. 128 Luciana Saetti ha più voluto farlo e lo ha indotto a retrocedere, nell’interesse delle trattative di pace tra il papa e il re di Francia. Così ha indietreggiato fino al territorio modenese; ma non avendo più denaro per l’esercito ed essendo pericoloso sostare in quei luoghi – dove rischiava un attacco da Ferrara e non poteva contare né sul marchese di Mantova, che aveva mandato il figlio a rendere omaggio al re di Francia, né su Lorenzo de’ Medici, che stava per andarvi anche lui – alla fine si è rimesso in marcia, sollecitato a farlo anche dal legato pontificio a Bologna22. Così, quando ha ricevuto le lettere del papa e di Alberto che invece lo esortavano a tornare a Verona, era già arrivato a Senigallia: è stato allora che ha deciso di venire a rendere conto delle proprie deci- sioni, in modo da proseguire la ritirata verso Napoli se gliene sarà data la facoltà, oltre a denaro e rifornimenti per l’esercito.

Il denaro del re Cattolico A questo colloquio assistono, tra altri, gli spagnoli Vich e Diego del Águila23. Alle spiegazioni del viceré Alberto obietta che comunque non gli sarebbe stato impossibile andare a Verona come avrebbe dovuto; ma quello ribadisce che non ha potuto farlo per mancanza di denaro. A quel punto tutto il discorso si concentra sul problema finanziario, chiamando in causa anche Vich per chiarire che fine hanno fatto i sessantamila ducati stanziati per la guerra da Ferdinando d’Aragona. Una scena da non perdere, quella della discussione tra l’oratore e il viceré, che in un crescendo da commedia si palleggiano responsabilità e si rinfacciano inadempien- ze nell’amministrazione della somma: Cardona sostiene che da Napoli non gli è arrivato nemmeno il denaro ordinario per pagare la cavalleria e di aver dovuto provvedere con il proprio; Vich ribatte che il denaro ordinario non è di sua com- petenza e l’altro, di rimando, afferma di non essere autorizzato a riscuoterlo diret- tamente. Incrociando le cifre di una puntigliosa contabilità da cui risulta un residuo di soli tremila ducati, i due disputano a lungo, racconta Alberto, “pungendosi sul vivo e accusandosi a vicenda, ma con calma e urbanamente secondo il costume dei gentiluomini di corte; e per quel giorno non si è concluso nulla”. Il giorno dopo si arriva a decidere che le truppe di Cardona non avanzino oltre il fiume Tronto (il confine tra il regno di Napoli e lo stato della Chiesa); che il vice- ré vada a Napoli e solo dopo essersi procurato il denaro necessario muova l’eser- cito, al quale sarà concesso il transito in territorio pontificio. Quanto ad Alberto, come sempre molto compreso nel suo ruolo, conclude il suo racconto valutando le spiegazioni di Cardona, che in definitiva giustifica perché effettivamente non ha ricevuto il denaro necessario; infine si dice colpito soprat-

22 Giulio de’ Medici, cugino di Leone X e futuro papa Clemente VII, nel 1515 era cardinale lega- to di Bologna. A questa spiegazione, precedentemente data da Cardona in una lettera, il papa aveva obiettato che il legato pontificio l’aveva sollecitato a fare esattamente il contrario, cioè ad andare a Verona (v. documento XLV). 23 L’oratore imperiale presso il duca di Milano. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1515) 129 tutto dal fatto che, con tutte le tensioni e le evidenti rivalità che ci sono tra i due, Cardona sia ospite di Vich: insomma non è davvero facile capire gli spagnoli.

MOMENTI DI NON TRASCURABILE DIFFICOLTÀ

Sempre il 3 novembre, a Viterbo, un altro scritto di Alberto (documento XLVII) conferma a Lang la buona disposizione di Leone X nei confronti dell’imperatore, la cui presenza territoriale in Italia è una garanzia per la sicurezza della Santa Sede: il papa, infatti, vorrebbe che rimanessero a Massimiliano Brescia e Verona, o almeno quest’ultima: agirà in tal senso con il re, e ha intenzione di promuovere una pace sepa- rata dell’imperatore rispettivamente con la Francia e con Venezia. Ne parlerà intanto con Bonnivet, ma senza mostrargli apertamente il proprio pensiero e pur senza con- tare più di tanto sull’ascendente che questi può avere presso il sovrano. In poche parole, non si arriverà a definire nulla prima dell’incontro di Bologna, compresa la sospensione delle ostilità: il papa si mostra adesso piuttosto cauto in proposito perché non vorrebbe, se la chiedesse, che i francesi diventassero più arro- ganti pensando che l’imperatore sia carente di forze militari. Effettivamente era così, perché Massimiliano non aveva denaro sufficiente per finanziare l’esercito; Alberto infatti gli fa sapere di essere riuscito, pur con molta fatica, a ottenere per lui diecimila ducati dal pontefice. Ma, come si vedrà, l’erogazione di aiuti non compensa, pur essendo sicuramente questa l’intenzione, il disappunto dell’impera- tore per il differimento della tregua delle armi.

Il messaggio dell’imperatore

Intorno alla metà di novembre, la lettera dell’imperatore (documento XLIX) che incarica Alberto di ringraziare il pontefice degli aiuti per la difesa di Brescia e Verona e dei diecimila ducati promessi, gli porta, insieme, una notizia buona e una cattiva. La buona è che gli verrà devoluto un compenso da quella somma. Con la cattiva notizia si apre per lui un grosso problema. Massimiliano esprime la propria contrarietà al convegno di Bologna, che preferirebbe non si tenesse affat- to; ma se la decisione, come Alberto gli ha confermato, è stata presa, allora ribadi- sce fermamente la necessità che Leone X ottenga fin d’ora dal re di Francia la sospensione delle ostilità. Se sarà così, sta bene che Alberto sia presente all’incon- tro insieme a Vich, decidendo tutto d’accordo con lui; in caso contrario, non dovrà parteciparvi ma allontanarsi (nolumus quod intersis neque ipse Vich, sed procul abeas), facendo opera di dissuasione per impedire che avvenga.

A Firenze e per via Il momento, ormai, è sempre più vicino: lunedì 26 novembre 1515, quando scri- ve di nuovo all’imperatore, Alberto è già a Firenze (documento L), come molti altri oratori e cardinali, mentre il papa ha fatto sosta a quindici miglia dalla città per rag- 130 Luciana Saetti giungerla il giorno dopo, fermandosi però nelle vicinanze24 in attesa che sia tutto pronto per accoglierlo quando vi farà il suo ingresso ufficiale. Dopo questi ragguagli logistici, Alberto passa a un punto dolente: Leone X non ha ancora versato il denaro promesso perché al momento non ne dispone; quello che sperava di avere a Bologna è già stato speso dal nipote, e quello che può met- tergli a disposizione il datario, a Roma, è molto meno del previsto; ma dice che provvederà appena arrivato a Firenze. Viaggiando al seguito del papa, Alberto ha avuto molte occasioni di parlare con lui. Tra gli argomenti affrontati, le mire di Francesco I sul regno di Napoli; la noti- zia, di cui il papa si è dispiaciuto, che il re verrà a Bologna con dodicimila cava- lieri anziché con un piccolo seguito, come aveva preannunciato25; quella, riferita dagli oratori francesi, dell’invio di un segretario imperiale al re di Francia, cosa su cui Alberto ha minimizzato. Non minimizza invece, con l’imperatore, il fatto che quegli stessi oratori abbia- no vivamente raccomandato al papa il duca di Ferrara, “che ha mandato quaranta carri carichi di polvere e di palle all’esercito veneziano all’assedio di Brescia”.

Venendo al dunque Detto ciò, Alberto viene al dunque: ha parlato con il cardinale Bibbiena, che è anche lui a Firenze, di quanto Massimiliano ha scritto, cioè che gli oratori imperiali non dovranno andare a Bologna se prima non si sarà ottenuto che cessino le ostilità. Il cardinale ha ribadito i motivi per cui il papa intende differire la richiesta e, quanto alla presenza degli oratori imperiali a Bologna, si è espresso in questi termini: “[ha detto che] data l’importanza delle questioni da trattare, che riguardano anche l’im- peratore, non gli sembra assolutamente conveniente che noi [oratori] ci allontaniamo dal pontefice: è un uomo che bisogna sempre incitare e incalzare, data l’arrendevolezza della sua natura, e se noi ce ne andiamo non ci sarà nessuno presso di lui a prendere le parti di Vostra Maestà e del re Cattolico e a tener testa alle sollecitazioni degli avversari”. A fare quella parte, ha aggiunto Bibbiena, non può essere lui stesso, non essen- dogli lecito contraddire apertamente il pontefice; e poi, come ha detto ancora, “noi non stiamo andando dal re di Francia, ma partiamo con il pontefice per Bologna; e se ci va anche il re di Francia, che vuol dire? Noi non abbiamo niente a che fare con il re di Francia, ma con il pontefice, presso il quale siamo stati designati oratori. Questa la sua opinione, che esprimeva per devozione verso Vostra Maestà; la sottoponeva tut- tavia al giudizio di Vostra Maestà, ma riteneva che noi dovremmo andare comunque,

24 Le ultime tappe toccate da Leone X furono Castiglion Fibocchi, Montevarchi, San Giovanni Valdarno, Figline e Impruneta; ll 27 novembre era a Marignolle (RUBELLO 2012, p. 24). 25 In un altro scritto all’imperatore (documento XLVI), probabilmente degli ultimi giorni d’ottobre, Alberto riferiva di notizie da Milano secondo le quali il re voleva che si disarmasse il popolo di Bologna per poter entrare in città con un seguito minore; in caso contrario, che il papa lo raggiun- gesse a Modena. Sull’ipotesi di Modena come sede dell’incontro, RUBELLO 2012, pp. 13-14. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1515) 131

persino se fosse poco gradito al pontefice. Io tuttavia non verrò meno agli ordini di Vostra Maestà e quando arriverà l’oratore Vich lo informerò di questa opinione di Vostra Maestà”.

Il silenzio di Lang Risale al 26 novembre 1515 anche la minuta di una lettera a Lang (documento LI), del quale Alberto lamenta la laconicità e il prolungato silenzio: “Ho ricevuto la lettera di Vostra Signoria Reverendissima del 16 di questo mese da Innsbruck, per rispondere alla quale non occorre che io mi dilunghi, dato che Lei non scrive nulla di preciso sui negoziati; e non posso finire di meravigliarmi che già da molti mesi Vostra Signoria Reverendissima scriva in modo così scarso e poco significativo sugli affari pubblici, da sembrare (mi scusi se parlo così) fuori dalla realtà: a parte una sola lettera, ossia la sua penultima cifrata, già da un anno non mi ha mai scritto quasi nulla che abbia qualche importanza; eppure avrei bisogno di essere aiutato, in queste ardue trattative, dalla grande saggezza e perspicacia e dalle istruzioni di Vostra Signoria Reverendissima; la quale faccia pure con me come le piace, io comunque nei suoi con- fronti sarò sempre il medesimo”. Dietro questo silenzio di Lang si può intuire un qualche disaccordo con l’impe- ratore: Alberto sembra alludervi nelle righe successive, pronunciandosi sull’inuti- lità dei tentativi che si stanno compiendo e sulla necessità di prendere decisioni “più praticabili”; a meno che Lang non voglia fare quanto Alberto stesso ha sug- gerito in un’altra sua lettera: “ma forse non Le è permesso nemmeno quello”.

Alla finestra

Da Firenze, Alberto seguì Leone X a Bologna; ma l’imperatore non lo autoriz- zò a partecipare all’evento26. Il papa, entrato in città l’8 dicembre, tre giorni dopo assisteva, da una finestra del palazzo pubblico che ospitò l’incontro, all’ingresso solenne di Francesco I. In quella circostanza Alberto non sfilò con gli altri amba- sciatori nell’imponente corteo che accompagnava il re di Francia attraverso la città, al quale non prese parte nemmeno l’oratore di Spagna. Rimase accanto al pontefi- ce, a osservare lo spettacolo da quella finestra della sua stanza (in cubiculo ponti- ficis apud fenestram27). Quando poi, nel corso del lungo e faticoso cerimoniale dell’incontro con il re, tra la ressa di nobili e prelati che si concentrò nel palazzo, si tenne il concistoro, nei posti assegnati agli ambasciatori non erano presenti né Alberto né l’oratore spa-

26 «L’oratore cesareo non intervene a questa cerimonia del Cristianissimo perché dice che l’im- peratore per lettere lielo havea proibito; nè lui né lo hispano lo veneno a incontrare» (gli oratori fio- rentini agli Otto di pratica, Bologna, 12 dicembre 1515; cit. in RUBELLO 2012, p. 91 nota 454). 27 Lo si legge in una relazione anonima pubblicata in LE GLAY 1845, pp. 85-90, e attribuita da Pastor e altri all’oratore di Massimiliano, «evidentemente perché appare in una raccolta di documen- ti diplomatici relativi ai rapporti tra Francia e Impero ed è scritta in aspro tono antifrancese» (RUBELLO 2012, p. 91 nota 434). 132 Luciana Saetti gnolo; quest’ultimo comunque si fece vedere in sala, mentre Alberto seguì l’even- to in disparte: un testimone lo descrive seminascosto dal tendaggio di una porta (latens in quodam ostio post cortinam28). Sul contenuto dei colloqui riservati tra Leone X e Francesco I, tenutisi il pome- riggio e la sera di quello stesso giorno, fu mantenuto il più stretto riserbo. Il loro effetto più evidente fu il successivo sviluppo delle trattative per il concordato29. Quanto all’inconcludenza dei risultati sulle altre questioni, è stato osservato come essa fosse scientemente perseguita da entrambi i protagonisti30, che per non com- promettere i propri veri obiettivi puntarono sull’approccio carismatico-seduttivo, incensandosi a vicenda e blandendosi con vaghe promesse. La “pace universale” fu la nobile insegna delle comunicazioni ufficiali. Il 15 dicembre il re prese congedo dal papa per rientrare a Milano e poi a Parigi. Leone X partì da Bologna alcuni giorni dopo, il 18 dicembre, per Firenze, dove rimase fino alla fine di febbraio facendo ritorno a Roma il 28.

Ritorno a Carpi

Poco dopo la partenza di Leone X Alberto lascia Bologna diretto a Carpi. Qui il 22 dicembre, appena arrivato, stende una minuta per Massimiliano (documento LII) dalla quale risulta che lo ha già informato, in una lettera del 19 da Bologna, su quanto vi si è svolto. Ora aggiunge di aver consegnato al segretario imperiale Maraton31 mille ducati di camera dei duemila versati dal pontefice; il resto arrive- rà tramite i Fugger. Scrive poi di essere venuto a Carpi, come aveva preannuncia- to, per occuparsi delle proprie cose; aspetterà qui le lettere dell’imperatore dato che, nel frattempo, Leone X sarà molto impegnato a Firenze nelle celebrazioni reli- giose del Natale. Se Alberto, fino a quel momento, non si è tenuto lontano dal papa come avreb- be voluto l’imperatore, lo fa adesso: ed è qui, a Carpi, che vive il proprio persona- le day after.

28 Ibid. 29 I risultati dell’incontro di Bologna sulla questione ecclesiastica si seppero più tardi, quando il 18 agosto 1516 fu siglato il concordato che aboliva la Prammatica sanzione di Bourges del 1438, rico- noscendo la supremazia del pontefice; al tempo stesso si sanciva la spartizione tra questi e il re dei vantaggi derivanti dalla rinuncia all’autonomia della chiesa di Francia, ripristinando, da una parte, il versamento delle annate a Roma e dall’altra riservando a Francesco I il diritto di nomina di arcive- scovi, vescovi e abati. 30 V. ancora RUBELLO 2012, p. 182. 31 Ecclesiastico e giurisperito, menzionato altrove come Loys Marraton e Ludovicus Maroton o Marotons (v. BREWER 1864, vol II, I, pp. 300, 305 e passim; GUERRINI 2005, p. 135; PONCELET 1906, pp. XLV, LXVII). 1516. Per Carpi e per l’imperatore

A Bologna, Alberto non ha avuto altra parte che quella di un fantasma dell’im- peratore: et sic egit veluti si absens fuerit1. Ha dovuto rappresentare un’assenza, mentre si consumava un evento di per sé destabilizzante, ma per lui non quanto l’impatto con uno solo e, potenzialmente, il più letale dei suoi portati: la restitu- zione di Modena e Reggio ad Alfonso d’Este promessa dal papa al re di Francia.

D’inverno, a casa Del suo ritorno a Carpi dà una notizia significativa il cronista modenese Tom- masino de’ Bianchi: «E a dì 22 [dicembre 1515] el Signor Alberto Pio vigniva da Bologna verso Modena con molti cavalli per andare a Carpe e per suspeto è state serate le porte de Modena sino a mezodì»2. L’immagine di questa cavalcata di armati, filtrata dalla diffidenza dei vicini, rende efficacemente l’animosità con cui il conte di Carpi sta tornando nella sua cit- tà, quasi smessi i panni del diplomatico per quelli del comando. Il Natale e l’inizio del nuovo anno dovettero vederlo rinnovare i rituali della religione e del potere: «quando era in Carpi voleva ritrovarsi presente all’hore canoniche et ufficiava con i canonici», recita una cronaca3. Il giorno dell’Epifania interveniva «forse la prima volta all’aperto tempio [di San Nicolò] accompagnato dall’Ambasciadore del Re di Portogallo e da altri Signori» dove «degnossi essere commensale de’ Religiosi»4. Questa notizia è di particolare interesse per quanto riguarda la presenza a Carpi di un personaggio di rilievo, che poco dopo ripartì per raggiungere la corte papale a Firenze5: si tratta di Miguel da Silva, ambasciatore portoghese a Roma dal 1515 al 1525, prelato e uomo di grande cultura, figura di spicco nei circoli intellettuali romani6. Sembra che nelle settimane successive,

1 “E fece come se non ci fosse”: così scriveva l’anonimo autore della già citata Entrevue (LE GLAY 1845, p. 90). 2 TOMMASINO DE’ BIANCHI 1862, p. 164. 3 Carpi, Museo civico, AG, 183, Cronica di Carpi del Canonico Dottore Gasparo Pozzuoli Car- pigiano, c. 159 (cfr. Svalduz 2001, p. 194). 4 FLAMINIO DI PARMA 1760, vol. I, p. 173. L’autore cita la fonte della notizia, un manoscritto in latino di fra Simone da Reggio che si trovava “nell’archivio del convento” (Cod. ms. P. F. Simon de reg in Arch. Conv.), riportandone alcune righe che forniscono anche altri particolari: “al pranzo nel refettorio con i frati” parteciparono, con Alberto e l’ambasciatore di Portogallo, “sei altri secolari”; in quell’occasione il padre guardiano, frate Bartolomeus de Bobbio, e il “vicario di provvisione” Jacobus de Cervia chiesero un aumento della provvista di grano e il 18 gennaio il fattore di Alberto disse al padre guardiano e a frate Paulo de Carpo suo confessore che così era stato fatto. 5 V. le lettere di Leone Grillenzoni da Firenze (documenti LV, LVI). 6 Miguel da Silva (1480-1556) divenne in seguito vescovo di Viseu (1526) e cardinale (1542). In una lettera al re Manuele I di Portogallo, del 15 aprile 1517, menzionava l’ambasciatore imperiale, 134 Luciana Saetti presso la corte pontificia, fosse tra i pochi a prendersi a cuore la difficile situazio- ne del conte di Carpi.

Le Mosche o le Vespe È uno stato d’animo più che amareggiato, anzi decisamente allarmato e risenti- to, quello che Alberto riversa nella nota lettera a Leone X del 16 gennaio 15167: a cominciare dall’affermazione che il pontefice non ha alcun diritto di alienare Modena in quanto città imperiale che, come Reggio, non può essere perciò ceduta ad altri che all’imperatore. Agli argomenti del diritto, che si rifanno addirittura al dono dell’Esarcato a papa Leone III da parte Carlo Magno, si unisce l’incalzare del- le interrogative in funzione critico-dissuasiva – Perché vuole Vostra Beatitudine far troppo grandi quelli che mai non furono amici di casa sua? – e agli accenti del- la supplica si sovrappongono appunti polemici sulla repentina mutatione del papa: che secondo Alberto, per il modo in cui si comporta, dev’essere “inoppiato” – come ha sentito dire da lui stesso di altri – e corre il rischio di passare per un debo- le che, appunto per imbecillità d’animo, sceglie di punir le mosche, per non ardi- re di castigar quelle che gli pajon Vespe; benché tutte si ritrovarebbero Mosche, se solo lo volesse. Come osservava Riccardo Bacchelli, «mosca sarebbe stato nel caso il duca d’Urbino, e vespa il duca di Ferrara, ed è chiaro che se il papa si lasciava parlar su questo tono, gli argomenti poi, che al Pio avete visto non facevan difetto, dovevano prendere dal tono tanto maggior forza»8. Alberto conclude la lettera esprimendo frustrazione e dispetto nel vedere il papa così pronto a concedere ad ognuno tanto all’ingrosso quello che domandono, etiam nulla vera et subsistente ratione, che si abbino: tanto all’ingrosso e senza fondamento che a questo punto – scrive ancora – presumerò pur anchor io diman- dare quello dove ho perfetta ragione; et è cosa piccola. La cosa che si decide a chiedere esplicitamente, mentre fino a quel momento si è illuso che gli venisse spontaneamente dal papa, è il possesso di San Felice, per il quale più volte, e fino- ra senza alcun esito, l’imperatore stesso ha fatto istanza della concessione pontifi- cia: quest’ultima per Alberto la più importante, havendo da lui [l’imperatore] solo il titolo, et da lei [il papa] l’effetto.

Quel ferrarese come un veleno Alberto, in questo scritto, è un fiume in piena: il suo discorso è animato da una tensione espressiva che colma di passione anche le argomentazioni più serrate.

conte di Carpi, come persona di grande autorità e cultura, di vita sanctissima, molto importante a cor- te dove era assai stimato, e molto devoto a san Francesco, tanto da prendersi a cuore “questa rifor- ma” (dei monasteri francescani in Portogallo); oltre a essere un diplomatico di vaglia, scriveva, he grande meu amigo (REBELLO DA SILVA 1862, p. 424). Sulla figura di Miguel da Silva, DESWARTE 1989; ID. 2001, pp. 355-361; MOTTA 2003, pp. 300 sgg. 7 MSDC II, 1879-1880, pp. 339-343; cfr. GUAITOLI 1877, pp. 215-216. 8 BACCHELLI 1931, p. 45. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 135

Scrive molto, come d’abitudine, ma in quei giorni ancora di più: dice lui stesso, nella lettera al papa, di avergliene inviata una anche il giorno precedente, ma temendo che non si degnasse di leggerla perché troppo lunga ha deciso di scriver- gli quest’altra più breve; che poi tanto breve non è, come non lo è la minuta indi- rizzata all’imperatore in data 11 gennaio (documento LIV). Lo scritto si apre all’insegna dell’inquietudine, perché anche il mancato arrivo a destinazione di alcune sue lettere acuisce l’apprensione del momento: Alberto si è reso conto, dall’ultimo scritto di Massimiliano, che questi non ha ricevuto le sue del 16, 17 e 18 dicembre da Bologna; si chiede come possa essersi verificato un simile disguido e come il plico possa essere stato intercettato o perduto, dato che è sicuramente arrivato a Verona, come gli ha fatto sapere il conte di Cariati9; poi, come sa da Bannissi, è stato mandato a Lang, il quale però era diretto a Salisbur- go e non a corte. Comunque sia, dato che il rischio di intercettazione è alto, Alber- to rinuncia a spedire una copia di quegli scritti, anche perché a quest’ora l’impera- tore sarà già stato informato di tutto da Maraton (che, evidentemente, era a Bolo- gna durante le negoziazioni). Tra le notizie d’ufficio, le sollecitazioni rivolte al cardinale Bibbiena, tesoriere generale, perché sia versato il resto della somma promessa all’imperatore, e le ras- sicurazioni ricevute; ma tutto ciò che deve venire dal papa – commenta ancora una volta Alberto – va sempre a rilento. Quanto ai propositi di Sua Santità, sembra che intenda rimanere a Firenze fino alla Quaresima; Alberto, inoltre, ritiene che stia meditando una spedizione milita- re contro il duca di Urbino10. Ma soprattutto, dopo aver concluso “quel turpe pat- to” con i francesi, sta trattando con il duca di Ferrara e ha deciso di dargli, in cam- bio di una qualche somma di denaro11, Modena e Reggio. Non sta a pensare, il papa – continua Alberto senza mezzi termini – che il suo compito è tutelare l’interesse e la dignità della Sede apostolica; ma anche senza voler parlare di questa sua noncuranza, va detto che non ha nessun diritto di alie- nare quelle città senza il consenso dell’imperatore: “Questo l’ho scritto a Sua Beatitudine; ma temo che non ne terrà affatto conto, perché si è reso talmente subalterno ai francesi che non osa negare loro niente, anzi si premu- ra di compiacerli”.

9 Giovan Battista Spinelli era a Verona come luogotenente imperiale. 10 Urbino e Siena erano già dal novembre precedente «nel mirino» di Leone X (SIMONETTA 2014, pp. 133 sgg.), che trovò il modo di compensare con questi stati la rinuncia a Parma e Piacenza con- cordata con Francesco I. Nel gennaio metteva in moto, con accuse pretestuose, un processo contro Francesco Maria della Rovere cui seguì la spedizione militare. 11 Sembra che proprio in quei giorni Alfonso d’Este si affrettasse a versarla al papa: «E a dì 11 ditto [del gennaio 1516] el se dice che el Ducha de Ferara ha mandato 50000 bixilachi [monete d’o- ro di titolo inferiore a quello, di 24 carati, dei ducati o fiorini] in Fiorenza per havere Modena dala santità del Papa che se ritrova in ditta cità con la sua corte e che el ge comparse uno in nome dela maestà delo Imperatore che vole Modena» (TOMMASINO DE’BIANCHI 1862, p. 164). 136 Luciana Saetti

Motivi più che sufficienti per appellarsi a Massimiliano, perché non consenta quella cessione e salvi Alberto e il suo casato dalla rovina: “Perciò supplico Vostra Maestà che, tutelando il proprio stesso interesse, al tempo stes- so provveda anche alla mia salvezza: perché questo atto, se verrà compiuto, manderà completamente in rovina me e tutta la mia casa, per la vicinanza del mio dominio e della contea carpense a queste città e per il malanimo e l’odio nei miei confronti di quel ferrarese stesso che, come sa Vostra Maestà dal cui beneficio sono stato reinte- grato, mi ha trattato in modo ingiusto e crudele, e me ne ha spogliato con l’appoggio dei francesi”. Che Massimiliano, dunque, faccia pesare la propria autorità: scriva al papa che si guardi dal fare ciò che non gli è lecito e che offende il Sacro romano impero e l’imperatore stesso. Parli anche con il legato pontificio, Lorenzo Campeggi, e reclami quelle città: il denaro in qualche modo si troverà. Può darsi che, così, il papa sia indotto a cambiare pensiero; francesi e veneziani mancheranno il loro obiettivo e il ferrarese sarà costretto a supplicare quel consenso che gli sarà nega- to. Se poi l’imperatore volesse concederglielo a qualche condizione, almeno esiga del denaro e faccia avere a lui, Alberto, San Felice: “e mi faccia ottenere San Felice, che il pontefice senza lasciarsi piegare da nessuna pre- ghiera non mi ha mai voluto concedere, anche se non sono immeritevole presso di lui, e Vostra Maestà ne è testimone, e pur avendo io ricevuto in dono da Lei quel piccolo castello del quale anche i miei antenati furono spogliati; e adesso, per una sola parola del re di Francia, il pontefice vuole dare queste due città con tutte le loro pertinenze al ferrarese, ribelle contumace alla Santa Sede Apostolica”. Ma c’è di più: il papa, addirittura, sostiene che gli interessi di Alberto sarebbe- ro finalmente sistemati e messi al sicuro proprio in virtù del patto con il duca: “Dice anche, il Sommo Pontefice, che si preoccuperà lui di questo; ma per la sua fred- dezza e i modi di agire che conosco, non posso sperare in qualcosa di buono per la mia tranquillità e sicurezza. Perciò preferirei che tutto si risolvesse con l’intervento dell’au- torità e del giudizio di Vostra Maestà piuttosto che tramite il pontefice stesso; anche se nessun accordo potrà bastare a tutelarmi una volta che il ferrarese sia diventato così potente: tutto sarà come un veleno che una volta assunto non uccide subito ma differi- sce la fine a un tempo stabilito”.

Alberto, il tedio e lo sdegno Alberto rimane a Carpi fino a tutto il mese di febbraio: la sua è una lunga assen- za dalla corte papale, con la quale comunque non interrompe i contatti mandando anche, come vedremo, un suo uomo a Firenze. Nella minuta indirizzata a Maraton il 30 gennaio (documento LIX) spiega che ha tardato a tornare presso la corte pontificia non solo per il fastidio e il disgusto di quanto di indegno si stava facendo là (taedio ac molestia affectus ob ea quae indi- gne agebantur) ma anche per la necessità di occuparsi delle proprie cose, non poco compromesse dalla sua lunga lontananza. Oltretutto, aggiunge, non sapeva nem- Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 137 meno che cosa volesse l’imperatore, non avendo ricevuto indicazioni da lui. Ora però ha intenzione di tornare presto, tra due-tre giorni, in curia, dove provvederà con ogni zelo agli interessi di Maraton (che rischia di vedersi revocare la riserva di un beneficio ecclesiastico); prevede comunque che i discorsi serviranno a ben poco se la situazione dell’imperatore non cambia, e perché ciò accada bisogna insistere per piegare le cose a proprio vantaggio.

L’artellaria di Alberto e un “santantonio” magno et nigro Se Alberto non torna a corte così presto come promette qui, è anche per le sue condizioni di salute, alle quali accenna in alcuni scritti successivi e che si som- mano a un tempismo calcolato, perché lo rivolta l’idea di andare a Firenze. E men- tre la questione di Modena si trascina nell’incertezza, con il papa che dice e di - sdice, lui pensa a premunirsi in vista del peggio occupandosi della difesa militare di Carpi. Lo scopo per cui si rivolge a Maraton, infatti, è ottenere dall’imperatore dei pezzi d’artiglieria o, almeno, essere rifornito del materiale per fabbricarli, perché non solo non ha a disposizione il metallo ma nemmeno il denaro per comprarlo. Oltretutto, pochi giorni prima ha subito un danno che non ci voleva: ha mandato a Milano, per pagare certi creditori, due suoi servitori con cinquecento ducati e lun- go la via questi sono stati rapinati e uno di loro ucciso; descrive il superstite come “quel santantonio” magno et nigro che Maraton conosce bene.

La missione di frate Egidio Nel discorso si inserisce un apprezzamento sulla missione in Germania di Egi- dio da Viterbo: riprendendo, evidentemente, un’osservazione del suo corrispon- dente, Alberto dice di non meravigliarsi che frate Egidio riveli modeste capacità nelle cose dello stato: da ciò si può capire quale sia “il giudizio di questi qua nel- lo scegliere i nunzi”. Si è già accennato al fatto che Egidio era stato mandato nel dicembre 1515 pres- so l’imperatore per promuovere la “pace universale”: alla quale, nello specifico, Massimiliano era invitato a contribuire cedendo Brescia e Verona ai veneziani12. L’apprezzamento di Alberto ribadisce il disappunto che ha già manifestato per la missione di Trissino13 e ne chiarisce almeno una ragione: la scelta, da parte del papa, di ambasciatori che fungessero, per così dire, da portatori sani delle sue obli- que proposte.

12 GUICCIARDINI, XII 18. 13 V. sopra, pp. 125-126. 138 Luciana Saetti

LEONE GRILLENZONI O DEI CONTRATTEMPI

Nel frattempo, ai primi di gennaio, Alberto ha mandato uno dei propri uomini a Firenze. Quell’uomo è Leone Grillenzoni, del quale leggiamo nei manoscritti Lea alcune lettere che offrono notizie inedite sui suoi rapporti con Alberto e sugli inca- richi svolti al suo servizio. Gli accenti della familiarità e uno spirito estroverso e vivace fanno di questi scritti una sorta di diario di viaggio dove agli impegni da assolvere si intrecciano ogni volta le complicazioni pratiche, in una catena di contrattempi e casi fortuiti che movimentano la peripezia. Le notizie che possediamo su Leone Grillenzoni, familiare e segretario di Alberto, non sono molte. Sappiamo che, in qualità di notaio, fu presente con lui alla ratifica dei trattati di Cambrai nel 1508: il suo nome infatti si legge in calce a uno di essi14 e ancor prima, nel 1506, compare in una nota di spese pubblicata da Alfon- so Morselli15. Nel 1515, su istanza del signore di Carpi, Leone Grillenzoni fu nominato dal- l’imperatore “Conte del Sacro Palazzo lateranense e dell’Aula cesarea e del Con- siglio imperiale”16. Si conservano inoltre due strumenti notarili, rispettivamente del settembre e novembre 1519, riguardanti la divisione dei beni del defunto Giovan Marco Grillenzoni tra i figli Giovanni, Ercole, Giovan Pietro e la donazione di Leone al fratello Ercole della parte a lui spettante dell’eredità paterna17.

Per desperati camini: incidenti di percorso Leone Grillenzoni, dunque, scrive ad Alberto durante il viaggio che sta com- piendo su suo incarico e che lo porta a Bologna per poi raggiungere la corte pon- tificia a Firenze. La sua lettera del 7 gennaio (documento LIII) merita di essere ricordata perché, oltre a rendere conto dei suoi contatti con il cardinale Giulio de’ Medici18, legato pontificio in quella città, documenta in modo colorito un inciden- te occorso per via. La sera precedente, racconta Grillenzoni, è stato costretto a fermarsi fuori Bolo- gna per le difficoltà del percorso (li desperati camini), tali che a un certo punto messer Stephano e messer Jacopo l’un doppo l’altro cascorno in un ruscello et se reversorno li cavalli addosso, per cui hanno corso il rischio di affogare: entrambi

14 Leo Grilinzonius è uno dei due notai che redigono e autenticano l’accettazione delle condizio- ni del trattato del 10 dicembre da parte di Carlo di Egmont, duca di Gheldria (testo in TRUYOL Y SER- RA 1982, p. 196). 15 «E in contanti dato a Leone Grilinzone che’l prestò al S.re per mandare a Mantua per zucharo e per offrire a S. Caterina a Rovere [la chiesa di Rovereto, dedicata a Santa Caterina di Alessandria] L. 3.15» (MORSELLI 1931, p. 166). 16 ASCC, Archivio Grillenzoni, cass. 10, doc. 14 (copia autentica). 17 Ibid., cass. 8, doc. 11, doc. 12 (copie autentiche). 18 Giulio de’ Medici (1478-1534), futuro papa Clemente VII (1523), era cugino di Leone X, che lo fece cardinale nel 1513. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 139 infatti sono scomparsi alla sua vista, et bebero [bevvero] più che volevano; per soc- correrli lui si è gettato in acqua, adciò non mi avessero invidia de l’essere asciuto, ma io era a pede et loro a cavallo, et io col capo sopra, et epsi sotto; alla fine tut- ti salvi, ma questa matina avanti fosse asciutta la bugata era hora de disinare, in modo che siamo giunti a Bologna a nocte. L’incidente, pur se descritto su un registro tra comico e picaresco che ci piace apprezzare in questo nostro antico conterraneo, dovette lasciare piuttosto scossi i protagonisti: subito dopo infatti Grillenzoni ricorda come Sigismondo Santi aves- se corso anche lui un pericolo del genere, tanto grave da lasciarlo un gran pezo for di sé prima di buttar fuori tutta l’acqua che aveva bevuto; e alla fine del suo scrit- to sottolinea i rischi del viaggio che si accinge a proseguire: le strate son triste et pericolose, e el Cardinal di Grassi19 è stato per affocarsi nel fiume presso a Fio- renzola. Grillenzoni riferisce poi del proprio incontro con Giulio de’ Medici e, in cifra, di quanto il cardinale gli ha detto sulla cessione di Modena e Reggio: in base a notizie avute da Firenze, questi ha l’impressione che si stiano stringendo i tem- pi; gli oratori ferraresi, tra l’altro, non sembrano preoccuparsi del consenso impe- riale, di cui si dicono certi. In un’altra conversazione, Grillenzoni ha portato il di - scorso sugli accordi con la Francia e il cardinale si è limitato a ribadire la solita motivazione: che il pontefice ha agito “per necessità”. Lì a Bologna c’è anche un uomo del duca di Ferrara, Lorenzo Strozzi20, diretto a Firenze. Anche di questo Grillenzoni dà notizia in cifra: El conte Lorenzo Strozo è partito di qua per corte per provedere de denari in Fiorenza, benché dixe al partire di qua che pocho sperava da Fiorenza; ma dapoi lui partì è venu- to qua un altro del duca di Ferara per procurare de havere le promese sel potrà; infin no perdeno tempo a solicitare. Non perdono tempo, quelli di Ferrara. E lui, Grillenzoni, ha saputo da frate Nicolò21 che sono in molti ad aspettarsi, in nome del re di Francia, una conclusio- ne favorevole all’Estense; cosa che il cardinale invece non gli ha detto. È di passaggio a Bologna anche il vescovo di Reggio, Ugo Rangoni22. Sappia- mo che, per mettere fine alle lotte tra le fazioni modenesi, Leone X convocò i mag- giori esponenti delle famiglie che le capeggiavano23 e tra questi Gherardo Rango- ni, che allora si trovava a Carpi con altri fuoriusciti della sua parte dopo esservisi

19 Achille de’ Grassi, arcivescovo di Bologna. 20 Del ramo ferrarese della famiglia; figlio dell’umanista e poeta di corte Tito Vespasiano, che ricoprì anche importanti incarichi amministrativi, e fratello di Ercole, anch’egli poeta e cortigiano, assassinato in circostanze misteriose nel 1508. 21 Il tedesco Nikolaus von Schönberg (1472-1537), segretario e confidente di Giulio de’ Medici; già priore di conventi domenicani a Siena, Lucca, Firenze e dal 1508 procuratore generale dell’Ordi- ne (BIETHENHOLZ, DEUTSCHER 2003, ad vocem). 22 Figlio di Gherardo e dal 1510 vescovo di Reggio (Emilia). 23 Erano stati convocati con altrettanti brevi papali anche gli esponenti della famiglia Tassoni e, per la fazione avversa, dei Fogliani e dei Carandini, insieme con Guido il Grosso Rangoni (TOMMA- SINO DE’ BIANCHI 1862, p. 164; v. anche PANINI 1978, pp. 129-131). 140 Luciana Saetti rifugiato nel maggio 1515. Grillenzoni, incaricato di consegnare a Giulio de’ Medi- ci una sua lettera, riferisce il commento del cardinale: ha apprezzato che il conte Gherardo, non potendo andare di persona perché malato, abbia mandato il figlio a rappresentarlo. Grillenzoni si interessa anche di altre commissioni, come l’acquisto di tessuti, in questo caso di seta, una produzione per cui Bologna era allora rinomata24: El fratello di messer Gasparo dice che quel raso di bavella non li è ordine se habi per meno di megio ducato d’oro el brazo, et non si daria per 34 bolognini25. Tra le altre notizie, l’imminente arrivo del nuovo governatore di Bologna26 eun incontro con Pierio Valeriano27: Io ho trovato qua messer Pierio, et parlatoli a longo, che da poi morto suo patrone, Mon- signore Reverendissimo lo legato li dixe io andarò in Corte et ven[erai] con me, et che spera dal Papa non so che; li ho declarato dextramente quello importino quelle speran- ze con offerirli equal partito a quello havea; egit gratias et non s’ha voluto resolvere. Quello che Grillenzoni definisce il patrone di Pierio potrebbe essere l’arcive- scovo di Torino, Giovanni Francesco della Rovere28, morto poco prima a Bologna: una morte prematura, a ventisei anni, che tra l’altro ha fatto sorgere un contenzio- so per la disponibilità di una casa, attualmente occupata dal governatore, sulla qua- le vantano i propri diritti i parenti del defunto. Cariche e benefici sono stati ridi- stribuiti: la diocesi di Torino è andata a Innocenzo Cibo, nipote del papa; a un cugi- no, Luigi de’ Rossi, è stata data un’abbazia e un’altra abbazia l’ha avuta il cardi- nale Bibbiena. Ormai in procinto di lasciare la città, Grillenzoni si dice preoccupato non solo delle condizioni delle strade ma di quanto si sente dire della caristia che c’è a Firenze – dove infatti, per l’arrivo di Leone X e della sua corte, si era verificato un forte rialzo dei prezzi, soprattutto delle derrate alimentari, che stava rendendo assai sgradito il soggiorno fiorentino ai prelati al seguito del papa29: Se dice miraculi de la caristia in Fiorenza e non so como io farò. El Conte da Cesi30 è qua et teme de la spesa a venire a Fiorenza. Io parto hora per andare sin dove potrò.

24 Sui setifici bolognesi, PONI 2009, pp. 153 sgg. 25 Per raso (o seta) di bavella si intendeva un tessuto fatto con il filamento dello strato esterno del bozzolo. Un braccio era circa 40 cm. Il bolognino era la moneta che si coniava a Bologna dal XII seco- lo; fu chiamato «bolognino d’oro» il ducato d’oro emesso a partire dal 1380, con lo stesso titolo e peso del ducato papale; nel 1516 corrispondeva a 64 bolognini d’argento (cfr. MARTINORI 1915, pp. 39-43). 26 Il genovese Lorenzo Fieschi, vescovo di Mondovì, che succedeva come vicelegato pontificio ad Altobello Averoldi, vescovo di Pola (MASINI 1666, pp. 202-203). 27 Pseudonimo dell’umanista Giovanni Pietro Bolzani dalle Fosse (1477-1558); sui suoi rapporti con Giovanni Francesco della Rovere, TICOZZI 1815, pp. 99-100; GAISSER 1999, pp. 321-322. 28 Pronipote di Giulio II, arcivescovo di Torino dal 1514, morto nel dicembre 1515. 29 In proposito v. RUBELLO 2012, pp. 102-105. 30 Di famiglia modenese e di parte pontificia. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 141

E il papa “sta a vedere” Ritroviamo Grillenzoni a Firenze dopo una settimana, il 15 gennaio (documen- to LV): introdotto dal cardinale Bibbiena alla presenza di Leone X, gli ha conse- gnato personalmente le ultime lettere di Alberto, che il papa ha lette tutte con ani- madversione soffermandosi, tra maldisposto e contrariato, su alcuni passi che leg- geva ad alta voce al cardinale; dopodiché ha detto sbrigativamente non essere anchor concluso cosa alchuna, et che staria un pocho a vedere. Grillenzoni si dà da fare per prendere contatti con oratori e prelati31 e chiedere un loro intervento presso il papa; ma non ottiene grandi risultati e conclude che la situazione richiederebbe la presenza di Alberto, perché lì, in realtà, nessuno ha veramente a cuore un problema che tocca da vicino solo lui: Se Vostra Signoria fosse qua, so io li seria pocho periculo, ma niuno ne ha cura cordia- le perché a niuno tocca como ad epsa. Non mancho di solicitare più ch’io non posso per ogni via ch’io pensi potere giovare, né dì né nocte mai penso ad altro ch’a remedii opportuni. Dimatina intenderò quanto habi operato Portugallo, et sollicitarò Spagna et Angliterra, ma mi smariscono li adversarii perché intendo per molte vie quanto si fano gagliardi. Anche il camerlengo, cardinale Riario32, che ha convocato Grillenzoni per otte- nere un interessamento presso l’imperatore in favore di un proprio parente33, ha auspicato la presenza di Alberto a Firenze, dicendo un gran bene di lui e che non ha al mundo amicitia sopra la qual faci magior fundamento. È un interessante stralcio di conversazione, questo che Grillenzoni riporta nel- la lettera del 21 gennaio (documento LVI): se non altro perché di quell’amicizia su cui si infervora, il ricchissimo e potente porporato avrà motivo di essere molto gra- to quando, l’anno seguente, cadrà nelle maglie della cosiddetta congiura dei cardi- nali o di Petrucci34, sarà imprigionato e destituito, e Alberto si adopererà in favore della sua reintegrazione35. In questo momento Riario, ovviamente ignaro di quel che gli prepara il futuro, si esprime ottimisticamente sulle grandi novità che si annunciano e per come van- no le cose, che hora mostrano volere da sé in effecto farsi grandi: con il suo inge- gno e abilità Alberto, se fosse lì, faria miraculi. Per Grillenzoni invece sarebbe meglio che Alberto fosse da un’altra parte, di là dove se farano le facende, ossia dove si prenderanno davvero delle decisioni. Poco dopo, anche nel riferire di una

31 Tra questi, lo spagnolo Vich e il lucchese Silvestro Gigli, vescovo di Worcester, ambasciatore di Enrico VIII a Roma. 32 Raffaele Sansoni Riario della Rovere (1460-1521), camerlengo di Santa Romana Chiesa dal 1483. 33 Troilo de’ Rossi conte di San Secondo, che aveva sposato una cugina del cardinale, Bianca Riario Sforza. 34 Per una recente ricostruzione della congiura, SIMONETTA 2014, pp. 161-201. 35 V. la lettera di Bannissi ad Alberto, 14 agosto 1517 (documento XCVIII). Sulla restituzione di Riario, PASTOR 1921, IV, I, pp. 120 sgg. 142 Luciana Saetti sua conversazione con il cardinale Bibbiena, ripete che forsi quella [Alberto] potia meglio servire di là che di qua al papa: un’alternativa che sembra alludere a un’im- minente iniziativa dell’imperatore. Quanto a Bibbiena, si sta interessando alla situazione di Alberto: ha detto a Grillenzoni di aver parlato al papa di quella cosa, et mostratoli il privilegio. Ma purtroppo, niente da fare: multa verba hinc inde, nihil resolutum. Si può suppor- re che “quella cosa” fosse, ancora una volta, San Felice: un pensiero fisso per Alberto, che tenta di strappare al papa un segnale tangibile della sua effettiva volontà di tutelarlo. Il cardinale ha anche detto che Alberto deve essere grato all’ambasciatore di Portogallo36 di quanto fa per lui nel tractare le cose di quella [Alberto] come se fos- sero del Re suo o sue proprie. Per quanto riguarda Modena e Reggio, il papa con- tinua volere stare a vedere. Leone X infatti, per tenersi quelle città eludendo la promessa fatta, giocò sul dif- ferimento, con cavilli e pretesti: come scriveva Guicciardini, «non negando ma interponendo varie scuse e dilazioni, e sempre promettendo, ricusò di dargli perfe- zione»37.

Essere a pede

Grillenzoni scrive ancora il 23 gennaio, sempre da Firenze (documento LVII): se la lettera arriva tardi a destinazione, è perché il giorno prima gli è stato promesso dal vescovo Rangoni di spedirla insieme alla corrispondenza destinata a suo padre a Carpi; per cui è rimasto malissimo, quella mattina, nel sentirgli dire che aveva sì fatto partire il corriere, ma scordandosi di lui. A Firenze si fa un gran parlare di Urbino e della citazione emessa da papa con- tro il duca Francesco Maria della Rovere per privarlo38. Corre insistente la notizia dell’alleanza di otto cantoni svizzeri con la Francia, e dà da pensare il silenzio epi- stolare della corte imperiale e dei nunzi: littere non vengono de la Cesarea Maestà né del Nuncio né del Reverendissimo Sedunense né de Verulano39, cosa di cui tutti si stupiscono, et li altri hano ogni dì poste. Grillenzoni accenna poi alle condizioni di salute del duca de Nemours, Giulia- no de’ Medici, il quale si è sentito un po’ peggio del solito, ma poi si è ripreso, i medici dicono fu per alteratione del cibo. Il fratello del papa era in gravissime con- dizioni e morì poco meno di due mesi dopo, il 17 marzo.

36 Miguel da Silva. 37 GUICCIARDINI, XII 18. 38 Il 1° marzo, Francesco Maria della Rovere fu dichiarato decaduto e Lorenzo de’ Medici fu man- dato, come capitano generale della Chiesa, a occupare Urbino. Nel giugno il duca, rinunciando a resi- stere, si rifugiò a Mantova e il 18 agosto Lorenzo ebbe l’investitura del ducato. 39 Nell’ordine: Lorenzo Campeggi, il cardinale Schiner, Ennio Filonardi vescovo di Veroli e lega- to pontificio presso gli svizzeri. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 143

Nel congedarsi, Grillenzoni avverte Alberto che in seguito potranno esserci dei contrattempi, ricordandogli s’el papa si parte ch’io nol posso seguire, per essere a pede, tamen s’io cognoscerò esse- re necessario provederò per qualche via, bench’io possi operare poco. La scarsità di mezzi è un inconveniente che Grillenzoni include, senza vittimi- smi, tra gli inconvenienti del viaggio, proseguendo alla meglio la sua missione.

L’IMPRESA DI MASSIMILIANO

L’ultima delle minute che Alberto scrive a Carpi è del 18 febbraio (documento LX): in quei giorni versa in cattive condizioni di salute, ma spera di non esserne impedito più a lungo. Quel che gli preme, comunque, è dire a Lang che a suo giu- dizio non deve per nessuna ragione rimanere in Germania, anzi dovrebbe andare subito presso la curia pontificia perché la situazione sta precipitando: se l’impera- tore non entrerà presto in Italia con un grosso esercito, sarà escluso dalla Lombar- dia e il regno di Napoli andrà perduto. Alberto si riferisce, qui, all’impresa che Massimiliano preparava per sottrarre a Francesco I il ducato di Milano, sollecitata dagli esuli lombardi e dal cardinale Schiner – che spingeva a scendere in campo i cinque cantoni svizzeri non alleati con i francesi – e appoggiata, con la promessa di truppe e denaro, dalla Spagna e dall’Inghilterra40. Poche settimane prima, il 23 gennaio, la morte Ferdinando d’Aragona veniva a mutare in modo decisivo lo scenario politico d’Europa. Il re Cattolico non lascia- va eredi diretti tranne il nipote Carlo d’Asburgo41, la cui successione innescò con- trasti e disordini in Castiglia e in Aragona; nel regno di Napoli diede luogo a un vuoto di potere e a un lungo periodo di rivolte e congiure. Per Francesco I poteva essere il momento di far valere i diritti francesi su Napo- li e di passare ai fatti con una spedizione militare; ma tale intenzione fu prevarica- ta dalla minaccia imperiale e svizzera sul ducato di Milano: all’inizio di marzo, infatti, Massimiliano muoveva l’esercito scendendo da Trento in Lombardia. Il papa tegnirà da chi vincerà, scriveva in quei giorni l’ambasciatore veneto a Roma42. Leone X infatti, per ogni evenienza, inviò come legato presso l’imperato- re il cardinale Bibbiena, antifrancese, e mandò truppe pontificie in rinforzo agli imperiali. Poi, per non alimentare le diffidenze del re di Francia, fece andare Lorenzo de’ Medici con altre truppe verso Bologna e Reggio, apparentemente per difendere le città emiliane dagli imperiali ma in realtà per essere sicuro che non le occupassero nemmeno i francesi stessi o il duca di Ferrara.

40 Sull’impresa di Massimiliano, MESCHINI 2014, pp. 48-58. 41 Carlo era il maggiore dei due figli maschi nati dal matrimonio di Giovanna di Castiglia (figlia di Ferdinando d’Aragona) e Filippo “il Bello” (figlio di Massimiliano d’Asburgo). 42 SANUDO, XXII 50-51. Cfr. PASTOR 1921, IV, I, p. 98. 144 Luciana Saetti

Qualcosa che non va Alberto, nel frattempo, è di nuovo a Roma. Il 30 marzo, in una breve minuta a Massimiliano (documento LXII), tesse l’elogio del nuovo legato pontificio Bernar- do Dovizi da Bibbiena, in arrivo presso il campo imperiale; si congeda auspican- do i più fausti esiti della spedizione militare in corso. Non può sapere che proprio quel giorno Massimiliano, dopo essersi accampato a poche miglia da Milano, si sta ritirando con l’artiglieria e buona parte della fan- teria per raggiungere speditamente Trento, lasciati sul posto i reparti svizzeri che, non ricevendo gli stipendi, nel giro di una quindicina di giorni se ne torneranno a casa43. Non può nemmeno sapere che Bibbiena, dopo essersi fermato in Emilia in attesa degli sviluppi degli eventi, è tornato sui suoi passi alla notizia della ritirata degli imperiali44. Sempre quel 30 marzo scrive anche a Lang (documento LXIII) e pure a lui espri- me l’auspicio che l’impresa dell’imperatore prosegua felicemente con l’aiuto di Dio. C’è però qualcosa che non va: l’ha molto turbato che Lang non abbia seguito l’imperatore e sia andato invece ad Augusta45. Senza dubbio sarà stato per impegni importantissimi, osserva Alberto, ma rimane il fatto che non dovrebbe rimanere lontano più a lungo in questo momento in cui si sta giocando una partita decisiva per la situazione in Italia. Con l’intelligenza che ha delle cose italiane, lui potreb- be meglio di altri dare delle direttive con cognizione di causa. Se il poco malleabile principe-vescovo di Gurk si comportava così, possiamo supporre che fosse contrariato da qualche cosa: Alberto, qui, non approfondisce i termini della questione ma insiste perché, qualsiasi motivo di giusta indignazione egli abbia, non manchi di andare al più presto dall’imperatore. Gli fa presente che se questi non fosse sceso in Italia, forse il papa sarebbe arrivato a consentire una spedizione della Francia nel regno di Napoli. Oltretutto, continua Alberto, Lang non può rimanere molto tempo lontano dal- la corte senza rischiare una diminuzione di dignità e di prestigio: a Roma tutti si meravigliano della sua assenza, e se cominciassero a ritenerlo meno influente ciò nuocerebbe anche ai suoi interessi sull’arcidiocesi di Salisburgo. Introdotto questo argomento sensibile – date le mire, contrastate, di Lang su quel prestigioso e lucroso episcopato – Alberto gli propone, se proprio non vuole tornare dall’imperatore, di venire almeno a Roma.

43 L’avanzata degli imperiali aveva portato i francesi a ritirarsi entro le mura di Milano; Massi- miliano, che si aspettava uno scontro in campo aperto o una sollevazione che gli aprisse le porte, tem- poreggiò perdendo tempo prezioso. Così, all’arrivo di un grosso contingente di svizzeri degli otto cantoni alleati ai francesi, cui si aggiunse il timore di un’intelligenza col nemico di quelli schierati in campo imperiale, decise improvvisamente di ritirarsi, dando a intendere che sarebbe tornato con il soldo per gli svizzeri lasciati sul posto, cosa che non avvenne (MESCHINI 2014, pp. 55-57). 44 Ibid., p. 59. Bibbiena ricevette istruzioni di fermarsi a Rubiera col pretesto di una malattia (PASTOR 1521, IV, I, p. 99). 45 Qui Lang aveva edificato una prestigiosa residenza. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 145

Segue la rassegna dei fatti più recenti, da cui apprendiamo che Alberto ha man- dato dall’imperatore Sigismondo Santi, di ritorno dal regno di Napoli dove era andato in missione. Santi ha riferito dei preparativi di Cardona per far tornare l’e- sercito spagnolo in Lombardia, ma non prima di aver ricevuto ordini dal “Serenis- simo Principe”, Carlo d’Asburgo ora erede di Spagna; e con l’intenzione di asse- gnare ad altri il comando militare, perché vuole restare a Napoli per tenere sotto controllo la situazione (che, come si è accennato, era già esplosiva). Altre notizie sono quelle sul rivolgimento politico avvenuto a Siena, con la fuga di Borghese Petrucci e l’insediamento di un nuovo governo46; sul duca di Bari Francesco Sforza, ritenuto inadatto a governare Milano da chi si stava adoperando (Galeazzo Visconti47, Schiner e gli svizzeri) per una nuova restaurazione sforzesca.

“E mi chiedo se mi metterà con i morti, come capita di solito agli assenti” Infine Alberto passa dal resoconto d’ufficio al fatto personale: perché c’è qual- cos’altro che non va. Da molti giorni non riceve lettere dell’imperatore, e si chie- de se per caso questo non significhi che ormai è stato messo tra i morti, come di solito capita agli assenti: nescio modo si inter mortuos connumerabor, ut absenti- bus contingere solet. Troveremo ancora, nelle minute successive, le varianti di questo aforisma con cui Alberto manifesta delusione e disagio per un atteggiamento nei suoi confronti che assomiglia in modo preoccupante all’indifferenza.

Cattive notizie e le traversie di un uomo dabbene A metà aprile le cattive notizie sono arrivate: Alberto ha saputo dagli informatori del ritiro degli imperiali, della mancanza di viveri e denaro, dell’intenzione degli svizzeri di andarsene se non verranno pagati. Scrive all’imperatore (15 aprile, docu- mento LXV) di quanto lo addolori tutto questo, mentre i francesi, trionfanti, vogliono dare il via a una spedizione nel regno di Napoli e pretendono dal papa denaro e rin- forzi. Leone X – che per l’insuccesso di Massimiliano ora teme lo strapotere di Fran- cesco I – ha risposto che non dispone di denaro e che le sue truppe rimarranno dislo- cate sui confini dei territori pontifici a presidiare la loro sicurezza. Alberto scrive anche a Lang (18 aprile, documento LXVI): ha saputo dal papa che l’imperatore ha già raggiunto Trento; il suo ritorno in Germania ha turbato quanti gli sono devoti.

46 Borghese Petrucci (1490-1526), fratello del cardinale Alfonso (m. 1517), fuggì da Siena dopo essere stato spodestato nel governo della città dal cugino Raffaele, vescovo di Grosseto, governatore di Castel Sant’Angelo e longa manus del papa, che riportò così la città nell’orbita pontificia. 47 Genero di Gian Giacomo Trivulzio ed esule in Svizzera dopo l’occupazione francese del duca- to di Milano; nel 1516 con Schiner accompagnò l’imperatore nella spedizione in Lombardia. Suc- cessivamente passò di nuovo in Svizzera, ma per conciliare i cantoni al re di Francia: «adoperando- si molto in questa cosa Galeazzo Visconte, il quale essendo esule e in contumacia del re ottenne da lui per questo la restituzione alla patria e in progresso di tempo molte grazie ed onori» (GUICCIAR- DINI, XII 22). 146 Luciana Saetti

In questo scritto, il riferimento a un duro atteggiamento di Lang nei confronti di Stefano Rosino48, procuratore imperiale a Roma, conferma la temibilità delle indignazioni del Gurcense; Alberto si spende in difesa del malcapitato, che – come scrive qui – non ha mai detto e nemmeno pensato ciò che è stato riferito a Lang ed è un uomo onesto, zelante, fidatissimo, a lui devoto e stimato da tutti; quello che hanno scritto di lui è soltanto una serie di falsità costruite da invidiosi che gli sono rivali.

LEONELLO O DELL’IMPAZIENZA

Facciamo un passo indietro tornando al mese precedente, quando ancora il suc- cesso sembrava arridere all’impresa dell’imperatore. Risale ad allora una lettera di Leonello, da Novi (documento LXI), che riporta la data del 14 marzo mentre non vi si legge l’anno; un riferimento alla recente partenza da Carpi di Alberto permette di collocarla nel 1516. Lo scritto riguarda innanzitutto un argomento di carattere privato, una casa che Alberto ha proposto al fratello tramite Sigismondo Santi, giudicandola migliore di quella che piaceva a lui. Il testo non specifica di quale casa si tratti né dove si trovi49, salvo descriverla come adiacente a una canonica; Leonello comunque non intende accettare la pro- posta perché non è commisurata alla sua situazione economica, non avendo egli entrate tali da sostenere le spese necessarie per sistemare l’edificio: Se c’è homo al mondo che desidera de havere una casa, io sono quello, ma la desidero tale, che la vorria potere habitare, perché questo è il mio bisogno, e non una ne la qua- le havesse a consumare bona parte del tempo de la mia vita in fabricarle dentro, et afon- darle et l’entrate mie et forse parte de le stabile. Il giovane Rodolfo Anche se la canonica, continua Leonello, fosse pagata dalle entrate che Alber- to ritiene possa presto avere Rodolfo (già avviato, giovanissimo, alla carriera ecclesiastica)50, tuttavia, per fare cosa che stesse bene, la casa si dovrebbe buttar-

48 Stephan Rösel o Rösslin, Röslein (1473 ca-1548) di Augusta, matematico, teologo e giurista, in carica a Roma come sollicitator (procuratore) dal 1510 circa. I motivi che l’hanno fatto cadere in di - sgrazia saranno superati solo un anno dopo (v. la minuta del 1° maggio 1517, documento XCIII). 49 Leonello risiedeva solitamente a Novi; i documenti d’archivio indicano come sua abitazione a Carpi il “palazzo posto nella cittadella verso la fossa orientale” (il Castelvecchio): nel 1515 un atto notarile lo colloca «nel Palazzo della sua solita residenza posta nella cittadella di Carpi» (ASCC, AG, b. 234, c. 63); un altro, nel 1518, viene redatto in sala viridi, palatii habitationis ad presens illustris- simi Domini Leonelli Pii ... in Civitatella Carpi versus partem orientalem (ASCC, AG, b. 31.1, n. 107). Ringrazio Lucia Armentano e Anna Maria Ori per avermi segnalato questi documenti. 50 Rodolfo Pio (1500-1564), figlio di Leonello e di Maria Martinengo. Si conserva un atto nota- rile, in data 7 febbraio 1515, nel quale il «chierico» Rodolfo Pio, allora minorenne e rappresentato da Manfredotto Pio «suo prossimo», designa Alberto e altre quattro persone, tra cui Leone Grillenzoni, Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 147 la tuta a terra et refondarla cum disegno novo che servisse a la parte contigua, con una spesa appunto insostenibile. Ciò che importa davvero, piuttosto, è che Alberto si stia preoccupando di procu- rare benefici a Rodolfo, perché possa studiare et farsi valente homo: Io, como bene può considerare V. S., non ho il modo de mantenerlo, né in studio, né per- sone docte cum lui, né quella famigliola che li conveneria sì che S.re; se V. S. pur farà have- re benefitii a Rodolpho serà molto più suo utile chel se serva de l’entrate in studiare che in comprare né prede né calcina. Perciò, conclude Leonello, non gli dispiace rinunciare a quella casa, né Alberto deve dispiacersene, imaginandosi ch’io scio meglio il facto mio che la non scia lei. Se queste sue parole esprimono gli auspici di un padre, Leonello fornisce anche, e non incidentalmente, un’altra motivazione, che suona come un’indiscutibile affer- mazione identitaria: Oltra di questo la natura mia repugna et m[axime] in aspectare quella cosa ch’io deside- ro, qualunque volta le vada tempo, et maxime longo.

Il mestere de le arme Lui, insomma, è fatto così. Uomo d’azione, Leonello non sa aspettare, le cose le vuole subito, e quasi a titolo dimostrativo si dichiara impaziente anche riguardo a un’altra questione: infatti – scrive subito dopo – non ha più nessuna intenzione di sta- re al servizio dei fiorentini. Non gli era sembrato il caso di dirlo ad Alberto mentre stava per partire da Carpi preso da questioni ben più importanti, ma si è comunque mosso in tal senso scrivendo a Lorenzo de’ Medici con le dovute maniere (con quel- le più accomodate parole ch’io ho saputo) pregandolo di congedarlo. Ha scritto anche a madama Alfonsina perché faccia in modo, se necessario, che il figlio accon- senta di buon grado. La sua lettera però si è incrociata con quella di Lorenzo che gli dava l’ordine di cavalcare in Modenese e naturalmente lui ha risposto che avrebbe obbedito, ma ribadendo la richiesta di congedo. Infine, come è solito fare, Leonello accampa le proprie ragioni: con i fiorentini non solo non ha più alcuna possibilità di avanzamento, ma per di più prevede che pre- sto preferiranno assegnare le condotte a parenti e cusini anziché a estranei; la sua richiesta comunque non significa che non voglia più fare il mestere de le arme, anzi, se ricevesse una proposta conveniente l’accetterebbe; e fa conto sul fatto che l’im- peratore e il papa, in quel momento, avranno bisogno di armati. A giudicare da altre lettere di Leonello conservate nell’Archivio di Stato di Firen- ze, le sue ragioni di scontento sono giustificate51. Nei mesi precedenti ha scritto più come propri procuratori di cause nella curia di Roma (ASCC, APS, b. 3 bis, n. 65). Su Rodolfo v. anche ASCC, AG, b. 106, fasc. 12 c. 16. 51 Già nel 1514 Alberto stesso, nel raccomandare Leonello a Lorenzo de’ Medici, rinnovava la richiesta di un aumento del compenso che non gli era ancora stato accordato, per cui epso mio fra- tello l’anno passato ha molto patito et speso del suo allo ingrosso per servire honorevolmente la repubblica fiorentina (Roma, 18 maggio 1514; ASFI, MAP 111, 339). 148 Luciana Saetti volte a Lorenzo de’ Medici e al suo segretario Giovanni da Poppi: in gennaio per sollecitare un trattamento più adeguato, chiedendo anche che si provvedesse, dopo ben quattro mesi, ai logiamenti per questa compagnia52. Il 20 febbraio 1516 ha scritto ancora al Poppi lamentando che Lorenzo non abbia dato seguito a quanto promesso o, se l’ha fatto, che Filippo Strozzi non abbia dato esecuzione al paga- mento; chiede di essere assegnato al primo loco che vachi e che gli si mandi la patente del legato pontificio per poter allogiare in Romagna53. A Lorenzo scrive nella stessa data ricordandogli la promessa di un aumento di 200 ducati che però non ha ancora ricevuto54.

Dovessi vendere mogliere et figlioli L’impazienza di Leonello sembra dettare anche la sua lettera del 14 maggio 1516 da Novi (documento LXVII). Con un invio urgente, scrive ad Alberto a Roma di aver ricevuto ottime nuove da un suo villano appena tornato dalla corte – pre- sumibilmente di Mantova – e da un altro dei suoi di ritorno da Verona dove l’ha mandato ad accompagnare Sigismondo Santi: la vittoria sembra sicura, gli svizze- ri hanno ricevuto due mesi di paga e sono arrivati tanti denari dall’Inghilterra che l’imperatore potrà continuare la guerra per molti mesi; Alberto dunque stia di buon animo. Le cose, in realtà, non andavano così alla grande: dopo la ritirata degli imperiali era in corso il contrattacco di francesi e veneziani, Brescia era sotto assedio e sguarnita di difensori, Verona era minacciata. Ma è vero anche che, nel frattempo, il re d’Inghilterra e il cardinale Wolsey spronavano l’imperatore a una nuova cala- ta in Italia continuando a fornirgli denaro55. Non c’erano, però, le condizioni per una ripresa dell’offensiva, dati gli accordi in corso tra Francia e Spagna – con le conseguenti ripercussioni, come vedremo, sul rapporto tra Carlo e Massimiliano. Ciò che preme a Leonello, sulla scia dell’entusiasmo per le notizie ricevute, è che Alberto solleciti per lui il cardinale Bibbiena a mandargli i duemila ducati che ha chiesto e che può garantire con tutti i suoi beni di Marano se non li restituirà entro due mesi: ne ha assolutamente bisogno, perché il cardinale Schiner gli ha scritto da Verona di andare a unirsi con il signor Mutio (Muzio Colonna, stanziato nel modenese per ordine del papa)56; e lui è assolutamente deciso ad andare, anche se dovessi vendere mogliere et figlioli.

52 Leonello a Giovanni da Poppi, Carpi, 24 gennaio 1516 (ASFI, MAP 115, 89); Leonello a Loren- zo de’ Medici, Carpi, 24 gennaio 1516 (ASFI, MAP 114, 161). 53 Leonello a Giovanni da Poppi, ASFI, MAP 115, 127. 54 ASFI, MAP 114, 163. Ringrazio Marcello Simonetta per avermi segnalato questi documenti. 55 MESCHINI 2014, p. 59; cfr. Sebastiano Giustiniani alla Signoria, Londra, 29 aprile e 8 maggio 1516, Calendar of State Papers 1867 pp. 299, 301. 56 Sui successivi movimenti di Muzio Colonna, BONDIOLI 1930, pp. 139, 146-147. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 149

Leonello e i fiorentini Il temperamento di Leonello non si smentisce nella lunga lettera cifrata del 25 mag- gio 1516 da Mantova (documento LXVIII), che risponde a più lettere di Alberto quasi d’uno medesimo tenore: e dalla sua risposta si può intuire di quale tenore si trattasse. Esordisce, infatti, protestando che non da mesi ma da anni va ripetendo al fra- tello di non voler più in nessun modo stare cum fiorentini: preferirebbe servire per famiglio de hoste ne la Magna, fare lo sguattero in un’osteria tedesca, che rimane- re nella condizione in cui si trova alle dipendenze di Lorenzo de’ Medici, dal qua- le egli non può avere altro se non danno, carrichi e scorni. E dato che ha chiesto il congedo infinite volte, e ha avvisato di essersi messo al servizio dell’imperato- re, ora non può certo ritornare a Firenze, dove come minimo verrebbe trattato da instabile et ligiero, da incostante, o addirittura cacciato con disprezzo. Per di più, preferirebbe morire che mancare all’impegno preso con l’imperatore, e Alberto non gli obietti che molti, stando al suo servizio, si sono impoveriti, perché questo non può accadere a lui che è già povero. E poi l’attuale sfortunata situazione del- l’imperatore non durerà per sempre e, se le cose cambieranno, questi lo ricompen- serà per i suoi servigi, così che me potrebbe levare del hospitale, evitargli cioè di finire tra i nullatenenti (e al ricovero, come si diceva da noi una volta); ma se anche andrà male, per lui sarà meglio stentare sperando una volta anziché stentare sem- pre disperato come farebbe stando con i fiorentini. Lo sfogo di Leonello prosegue in tono di rimprovero per il fatto che Alberto non appoggia queste sue decisioni, per cui non si fa più illusioni su di lui: ma poi ch’io conosco l’animo suo, et che da lei non posso sperare favore alcuno, et mancho aiuto, essendo per tutte le vie et modi chiarissimo, cercarò per via de amici aiu- tarmi al meglio ch’io potrò, non volendo però restare mai d’esserli quello bono et obe- diente fratello, che per sin qui gli sono stato, sperando in dio gli farà un giorno remor- dere la conscientia di havermi tenuto cossì mal consolato. Ma, a dispetto del fatto che Alberto non perde nessuna occasione per lamentar- si di lui, gli assicura che si dimostrerà superiore alle sue deprimenti aspettative, senza mai scoraggiarsi: prometto che operarò et viverò di sorte che la serà sforciata laudarsi di me, sebene io non poterò laudarme di lei; perché facia quanto la voglia, mai mi voglio dolere. Nelle ultime righe di questa lettera Leonello dice di trovarsi da otto giorni a Mantova, dove sta pensando di fermarsi e di portare la sua famiglia; infatti è alla ricerca di una casa in affitto perché quella di Novi è troppo pericolosa per le cor- rerie: vintecinque fanti la potriano pigliare una nocte. A Mantova almeno starà al sicuro; e non trovandosi sulle terre del fratello, non lo graverà di ulteriori spese. Infine informa Alberto che tutte le cose sue bone sono in Sancta Paula (il conven- to mantovano in cui si trovava suor Angela Gabriella, al secolo Giulia Gonzaga57).

57 V. p. 117, nota 18. 150 Luciana Saetti

Lettera, parzialmente cifrata, di Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Bologna, 7 gennaio 1516. Fi la del - fia, Pennsylvania University Library, Ms. Coll. 637, 12, 10r. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 151

E conclude: nove non gli scrivo, non vorei dire busie, perché poche veritate vengono qui.

Cifrari I movimenti di Leonello, nelle settimane successive, tengono in apprensione Alberto. Nella nota lettera del 20 giugno 1516 da Roma58, esprime la sua preoccu- pazione per il fratello, che sa – dall’ultima sua – in Villa Forella (presumibilmen- te una località a nord di Concordia, dove esiste tuttora una via Forella59): teme che venga prima o poi intercettato dai nemici, alla Mirandola o altrove, soprattutto se ritenuto al servizio dell’imperatore; lo avverte di non prestar fede a tutte le notizie che vengono da Verona ma di dar retta a lui, Alberto, che lo ama e gli raccomanda di andare a Mantova e restarci fino a quando la situazione non accenni a risolver- si; per ora, meglio lasciar correre voce che è con i fiorentini e sarebbe anche con- sigliabile che licenziasse i suoi soldati. Per fargli accettare l’idea, Alberto lo rassi- cura sul fatto che che come sempre bisognandovi haverostivi il vostro loco con lo imperatore. Il testo di questa lettera è cifrato, tranne che nelle righe iniziali e in quelle fina- li in cui Alberto parla delle proprie non buone condizioni fisiche. La cifra è la stes- sa che impiegano Leonello e Grillenzoni: il sistema crittografico consiste in una semplice sostituzione dei singoli grafemi con altri segni convenzionali (grafemi o simboli grafici di fantasia), senza segni “nulli”. Diverso invece il cifrario adottato da Giovan Battista Spinelli nel dispaccio inviato ad Alberto, da Verona assediata, il 13 giugno 1516 (documento LXX). Il sistema è sempre basato sulla corrispondenza di ciascun grafema con un altro segno convenzionale; ma, in più, qui sono adottati simboli speciali in sostituzione dei nomi propri. Come si è accennato, in Lombardia era in corso il contrattacco franco-veneto: alle fine di maggio Brescia, espugnata da Lautrec, tornava ai veneziani60. Subito dopo veniva stretta d’assedio Verona. Spinelli, governatore della città, manda informazioni sull’entità delle truppe che la difendono, al comando di Marco Anto- nio Colonna, e sugli eventi in corso: i francesi, alla notizia dell’arrivo di un con- tingente di svizzeri, si sono ritirati levando il ponte sull’Adige e ora son passati Mencjo [Mincio], allogiano a la volta Cavriana Moncjanban et Peschera et adia- cente, haveno un ponte in Mencjo sopto Moncjanban.

58 MSDC II, 1879-1880, p. 344. 59 Tiraboschi menziona un convento di Agostiniani «situato a mezzo miglio dalla Concordia ver- so settentrione. Lo avean nel 1420 di là da Secchia ed alzaron quello in un colla chiesa dedicata a S. Catterina cent’anni dipoi nel luogo chiamato la Via Forella» (TIRABOSCHI 1835, p. 153; ANCESCHI 1999, p. 136). 60 SANUDO, XXII 248 (Andrea Trevisan, 26 maggio 1516). MESCHINI 2014, p. 57. 152 Luciana Saetti

Incursioni a Carpi e Mirandola Tornando alle preoccupazioni di Alberto per i grossi pericoli che correva Leo- nello dalle parti di Villa Forella, ne comprendiamo i motivi leggendo la minuta che scriveva lo stesso giorno, 20 giugno, all’imperatore (documento LXXI). Una delle informazioni che contiene, infatti, riguarda Carpi e Mirandola, minacciate dai fran- cesi che poi hanno rinunciato ad assalirle perché dissuasi dal papa; ma i Trivulzio hanno mandato ugualmente la loro cavalleria a Concordia contro Mirandola61 e la situazione rimane molto incerta. Anche qui Alberto accenna alle proprie cattive condizioni di salute. Riferisce inoltre dei movimenti delle truppe spagnole, che dal regno di Napoli finalmente sono in marcia dirette a Verona attraverso il territorio della Chiesa con il consenso e gli aiuti del papa; ma dato che nel mantovano e nel veronese ci sono i francesi, esitano ad avanzare ed è necessario provvedere perché possano farlo in sicurezza.

UN MARGINE D’AZIONE

A luglio l’assedio di Verona era ancora in corso e si aspettavano le truppe spa- gnole al comando di Fabrizio Colonna; il quale, dichiarando di non voler avanza- re se non in condizioni di sicurezza, di fatto temporeggiava (perché erano in corso quelle trattative segrete tra Francia e Spagna che portarono, nell’agosto, alla pace di Noyon tra le due potenze). Intanto il re di Francia continuava a trattare con gli svizzeri per ottenere l’alleanza degli ultimi cinque cantoni oltre agli otto che già vi avevano aderito. Di quanto il papa gli ha comunicato in proposito Alberto scrive all’imperatore il 27 luglio 1516, in una lunga lettera cifrata pubblicata nel 1930 da Pio Bondioli insieme ad alcune altre cui accenno qui perché colmano in parte il silenzio delle carte Lea per i mesi da luglio a settembre 151762 . Sulla base di questi scritti lo stu- dioso formula le proprie considerazioni sulla politica di Leone X nel 1516, espri- mendo al tempo stesso alcuni apprezzamenti non proprio lusinghieri su Alberto. Dei due, scrive Bondioli, «chi vedeva meglio nel groviglio degli avvenimenti» era il pontefice, che «rendendosi perfettamente conto dell’importanza d’una tregua tra Francia e Spagna e avendo presenti gli impegni assunti a Bologna con Francesco I, cominciava a ritenere perduta la partita per l’imperatore. Di qui il suo contegno scaltro con l’oratore cesareo».

61 Sulle incursioni di Camillo Trivulzio (figlio naturale legittimato di Gian Giacomo) e dei fran- cesi nelle “ville” del carpigiano, v. anche la minuta del 21 agosto 1517 (documento XCIX). 62 Si tratta di manoscritti provenenienti dall’archivio della famiglia Gadio di Cremona, entrati poi a far parte di una collezione privata. L’umanista Giorgio Gadio (m. 1538), dapprima al servizio di Ludovico il Moro, dal 1495 fu segretario dell’imperatore (e fino al 1510 anche della sua seconda moglie, Bianca Maria Sforza: v. Giorgio Gadio a Giovan Pietro Visconti, Trento 4 settembre 1509, «Archivio Storico lombardo», XLV, I, 1918, pp. 24-25). Ricoprì inoltre incarichi a Milano durante le due restaurazioni sforzesche (BONDIOLI 1930, pp. 135-136). Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 153

Sappiamo che lo scopo di Leone X è convincere l’imperatore alla pace con Venezia e perciò, passando ad Alberto notizie che tendono a dare un quadro di - sastroso della situazione, cerca di spingere Massimiliano ad affrettare una soluzio- ne per Verona (vale a dire la sua resa). Alberto, nel riferire a Massimiliano, propo- ne dal canto suo tattiche difensive (una sortita dalla città per aprire un varco agli spagnoli, un diversivo su Milano) e strategie politiche: un’intesa con l’Inghilterra per una nuova lega antifrancese con l’imperatore stesso e il papa, il quale – aggiun- ge – si è detto disposto a mandare un ambasciatore a Enrico VIII, pur precisando che non intende essere lui ad “aprire le danze”63. Che Alberto non vedesse la situazione con la stessa chiarezza di Leone X sareb- be dimostrato, secondo Bondioli, dal suo atteggiamento «più ottimista». Nel mano- scritto originale, poi, lo studioso rilevava che la segreteria imperiale ne decifrò sol- tanto la prima parte, riguardante la situazione di Verona: segno che i suggerimenti di Alberto dovevano «avere urtato i nervi imperiali».

Con beneficio d’inventario Una deduzione, mi permetto di dire, un po’ forzata, a parte l’improbabilità di una qualunque reazione dell’imperatore in tempo reale, mentre cioè un segretario lavorava alla trascrizione del testo cifrato. Ciò non toglie che i suggerimenti di Alberto possano apparire poco realistici se non addirittura superati dall’evolversi della situazione. Più che dettate da un ingiustificato ottimismo, quelle proposte così possibiliste sembrerebbero quasi fatte per dovere d’ufficio e con beneficio d’inventario; ma poiché dalla sorte di Verona dipendeva la presenza territoriale dell’Impero in Ita- lia, Alberto tentava di sostenere la riluttanza di Massimiliano a venire a patti: for- se con ipotesi questa volta non particolarmente brillanti, data la situazione64, ma con la volontà, che gli conosciamo, di cercare sempre e ad ogni costo un possibile margine di resistenza e d’azione. Tre settimane dopo, il 13 agosto 1516, fu siglato il trattato di Noyon tra Fran- cia e Spagna65. Le posizioni di Leone X al riguardo sono riferite da Alberto a Mas-

63 BONDIOLI 1930, p. 139. 64 In proposito si vedano anche gli altri documenti pubblicati da Bondioli: le lettere di Cardona, che prevedendo le nuove intese di Carlo con la Francia ritardò la partenza per Verona delle milizie di Fabrizio Colonna, pur continuando a protestarsi cierto servidor dell’imperatore (31 agosto 1516; BONDIOLI 1930, p. 146) e finendo per notificargli l’impossibilità di mantenere a sua disposizione quelle truppe con il pretesto della povertà dei luoghi in cui erano accampate (30 settembre 1516; ibid., pp. 153-155); la lettera di Muzio Colonna, che si trovò a vagare nei territori della Chiesa senza diret- tive (28 settembre 1516; ibid., p. 147); la lettera di Spinelli, che il 13 ottobre descriveva le condizio- ni di Verona sotto assedio, con la popolazione ormai senza viveri, mentre i soldati reclamavano la paga e mancavano ferro, polveri, lance, pece, legna (ibid., pp. 155-156). 65 Il trattato di Noyon dava facoltà all’imperatore di aderire all’alleanza entro due mesi; «ma quan- do bene vi entrasse, fosse lecito al Re di Francia di ajutare i Veneziani alla ricuperazione di Verona; la qual Città se Cesare metteva in mano del Re Cattolico con facoltà di darla infra sei settimane libe- ra al Re di Francia, che ne potesse disporre ad arbitrio suo, gli avessero a esser pagati da lui cento 154 Luciana Saetti similiano nelle lettere cifrate da Viterbo del 29 e 30 settembre66. Papa Medici non si lascia mancare niente: si dice anche dispiaciuto del comportamento tenuto dal re Carlo, spinto dai suoi consiglieri, nei confronti dell’imperatore; e assicura la pro- pria adesione, seppure in segreto e senza poter dare grandi aiuti in denaro, a un eventuale accordo di Massimiliano con il re d’Inghilterra e gli svizzeri. Ma c’è un però: va tenuto conto che entrambi questi potenziali alleati potrebbero seguire l’e- sempio di Carlo e lasciare solo Massimiliano. In conclusione, la cosa migliore da fare è che questi ceda Verona in cambio di una buona somma di denaro. È una soluzione che Alberto, a questo punto, si sforza di presentare all’impe- ratore senza alterarne la pretesa ragionevolezza. Di suo, però, tiene a dire a Mas- similiano che una simile decisione andrebbe subordinata a una verifica dell’effet- tiva situazione della città; torna dunque, di nuovo, sulla possibilità di una sua dife- sa a oltranza, e il motivo di questa insistenza si spiega finalmente qui: se l’impe- ratore cederà Verona, tutti coloro che sono suoi servitori saranno perduti, e più di tutti lui, che è così odiato dai francesi, dai veneziani e dai ferraresi. Il re di Fran- cia, infatti, ha posto sotto la propria protezione come alleati il duca di Ferrara e anche il marchese di Mantova. Per questo è assolutamente necessario, qualora l’imperatore intendesse cedere Verona, che si premunisca prendendo accordi al più presto per tutelare la propria posizione in Italia, dalla quale dipende anche quella di Alberto stesso. Massimiliano acconsentì a cedere la città – facendosi corrispondere, come sta- bilito, un’indennità di duecentomila scudi d’oro67 – con il trattato di Bruxelles del 3 dicembre 1516. Così, nel gennaio 1517, Verona tornava ai veneziani.

AUTUNNALE

Quando scrive le lettere del 29 e 30 settembre 1516 Alberto si trova a Viterbo, probabilmente ai bagni68, o forse perché sta seguendo Leone X in una delle sue lun- ghe partite di caccia autunnali69. Forse si trova ancora fuori Roma quando riceve la lettera di Bannissi del 25 ottobre da Augusta (documento LXXII). mila scudi, e centomil’altri, parte nell’atto della consegnazione, parte tra sei mesi dai Veneziani e liberato di circa trecentomila avuti dal Re Luigi quando erano confederati» (GUICCIARDINI, XII 22). 66 BONDIOLI 1930, pp. 147-15. La prima di esse contiene anche una notizia di carattere personale, perché Alberto scrive di aver ricevuto l’ultima lettera dell’imperatore a L’Aquila, dove è andato per assolvere un voto fatto a san Bernardino. Quanto ai contenuti diplomatici, le argomentazioni e i consi- gli del pontefice vertono sempre sull’opportunità che l’imperatore venga a patti con la Francia, con ciò avendo ben chiaro che per Francesco I la possibilità di qualsiasi intesa implica la resa di Verona. 67 V. sopra, nota 65; cfr. Ordonnances des rois de France 1902, p. 499. 68 In agosto Alberto era invece alle terme a Tivoli, dove invitava a raggiungerlo Angelo Saccac- cini e Leone Grillenzoni (essendo Leone et tu indisposti, venetivene a Tyvoli): lettera del 17 agosto 1516, BAMI 283 [V.N. 255], Carteggio, 1. 69 Quell’autunno il papa, partito il 18 settembre da Roma, dove fece ritorno il 28 ottobre, si spo- stò fra Nepi, Ronciglione, Caprarola, Canapina, Viterbo, Montefiascone, Bolsena, Isola Bisentina, Capodimonte, Toscanella, Corneto, Civitavecchia. GNOLI 1938, p. 245. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 155

Il devoto servitore di Massimiliano attraversa un momento critico: dopo tanto tempo si ritrova ormai vecchio e afflitto da continui malanni, oltre che in una con- dizione di estremo bisogno. Lamenta il proprio destino avverso, perché l’impera- tore, così munifico con chiunque, avrebbe avuto molte occasioni per esserlo anche con lui, e ciò non è avvenuto. Ed è per questa durezza della sua sorte, e per forza di cose, ma non certo per risentimento, che ora deve prendere una decisione, se non vuole esalare l’ultimo respiro in una hospedale over hostaria, de miseria cargo, de debiti et de peccati. Non potrebbe mai concepire di provare collera, overo più pre- sto atrabilis, per un clementissimo et benignissimo principe, dopo che i suoi han- no servito il duca Filippo, e poi Carlo e Maria, e infine Sua Maestà stessa, et dato- li la prima moglie, et prestatoli più che XXXVImila ducati, et morti tuti in soy servi- tii, et da poy la servitù mia de XX et tanti anni. Il discorso di Bannissi, oltre a rendere l’idea di ciò che comporta il privilegio di servire l’imperatore, è importante perché propone un confronto con la situazione di Alberto, che sarà ripreso nella corrispondenza successiva. Anche la richiesta di congedo non è, oltretutto, priva di incognite: Son venuto a la Corte ad mostrar ad ogni uno che questa mia deliberatione he de nece- sità, et non voluntà; spero li serrà satisfato, et se non a lorro saltem a la mia conscien- tia; che ho fato più de quello che debo. Va ricordato, comunque, che Bannissi aveva ottenuto vari benefici ecclesiasti- ci, e tra questi la nomina a decano del capitolo del duomo di Trento nel 1512 e il decanato della chiesa di Santa Maria di Anversa nel 1513; ma riuscì a far valere le proprie ragioni contro l’opposizione del capitolo di Trento solo dopo due anni, e per Anversa dovette penare anche di più. Rimase comunque al servizio di Massi- miliano e, dopo la morte dell’imperatore, ebbe incarichi anche da Carlo V; solo negli ultimi due anni della sua vita gli fu concesso di starsene più tranquillamente a Trento.

Nuove peripezie di Leone Grillenzoni Alla fine di novembre Alberto è a Toscanella (Tuscania) quando Leone Gril- lenzoni, il 18 e il 19, gli scrive da Roma (documenti LXXIII e LXXIV). Anche questa volta il racconto è movimentato da un disguido, nella consegna di una lettera che Grillenzoni ha appena ricevuta da Alberto perché la recapitasse al pontefice: dato che quest’ultimo era occupato con il cardinale de’ Medici, per far- gliela avere prima del concistoro l’ha affidata a frate Nicolò, il quale a sua volta l’a- vrebbe dovuta dare a Baldassarre da Pescia70 perché la consegnasse al cardinale. Solo dopo aver svolto altre incombenze, come la riscossione di duecento duca- ti dal mercante fiorentino Pandolfo della Casa – resa problematica dal fatto che

70 Baldassarre Turini da Pescia, il fondatore della fortuna della famiglia in Roma; segretario medi- ceo di dubbia fama (SIMONETTA 2014, p. 155), divenne datario pontificio nel 1518. 156 Luciana Saetti quello l’è il più rustico homo di Roma – Grillenzoni torna a palazzo, dove trova vari ambasciatori radunati nella loggia grande per parlare con il papa che sta pas- seggiando lì. Dopo che tutti hanno conferito, a turno, con il pontefice andandose- ne contenti, o almeno così sembra, finalmente Grillenzoni può avvicinare il cardi- nale, per rendersi conto però che questi non sa nulla di quella famosa lettera. Non gli rimane che ripercorrere all’inverso la catena, fino a frate Nicolò: il quale restò morto, perché la lettera l’aveva ancora lui, credendo che il papa l’avesse già vista; e lo stesso aveva creduto anche Baldassarre da Pescia, che riconoscendovi il sigil- lo del duca d’Urbino l’aveva mostrata a Lorenzo de’ Medici e a madonna Alfonsi- na. La peripezia, comunque, si conclude per il meglio, con la consegna della lette- ra al suo destinatario.

Sconforto di Bannissi e un viaggio di Sigismondo Santi Mentre Grillenzoni tiene informato Alberto di quel che succede a Roma, Sigi- smondo Santi71 è in Germania, come apprendiamo da due lettere di Bannissi: il 20 dicembre 1516 (documento LXXVI) scrive di essere arrivato a Hagenau insieme con Lang quindici giorni prima, quando Santi ne era già ripartito; ma dalla lettera del 29 dicembre (documento LXXVII) si deduce che lo ha incontrato in precedenza durante il viaggio da Trento ad Augusta, da dove poi ha raggiunto Hagenau. Rac- conta infatti che Sigismondo ha constatato in quali condizioni egli si trovi, affati- cato e oppresso dai suoi malanni, e in quali difficoltà economiche, tanto che gli ha fatto un prestito. E lui non l’ancora potuto restituire perché non ha avuto dalla cor- te il denaro promesso: una speranza senza fondamento – commenta sconsolato – di cui ha fatto esperienza tante volte; e nonostante ciò continua a seguire i padroni con suo grave danno. Santi è stato incaricato da Alberto di consegnare una lettera a Lang e di recupe- rare alcuni importanti documenti: uno, che Bannissi gli ha già fatto avere, è la rati- ficatione del contracto con il duca di Ferrara (ossia della retrovendita ad Alberto della metà di Carpi72), gli altri li sta raccogliendo, in quei giorni, a Innsbruck. Quanto a Bannissi, doveva in effetti essere piuttosto malridotto, a giudicare dal- l’elenco delle sintomatologie sopravvenute una dietro l’altra nelle settimane pre- cedenti: prima una grandissima febbre, dolor de testa, et rene, poi me venne la podagra, et arteticha, che me hano tenuto oppres[s]o; pur sto meglio. Assicura comunque ad Alberto che si occuperà di tutto quanto gli chiede, comprese le artel- larie, se riceverà in proposito istruzioni più precise. Altri punti riguardano l’arrivo a corte di un messo dei signori di Novellara, per richieste relative alla successione nell’investitura del feudo73; la situazione di Stefano Rosino, ancora in disgrazia con

71 Sigismondo Santi fu nominato dall’imperatore, con diploma del 3 ottobre 1516, conte palatino e cavaliere aurato; quest’ultimo titolo fu assegnato anche ai suoi fratelli Pietro e Giovan Battista (GUAITOLI 1871, p. 12). 72 Il documento si conserva in BAMI, 282 [V.N. 254], 2, 1516, 13 ottobre, Cass. 42. 73 La richiesta sembra in relazione con i lunghi e complicati contrasti tra Gian Pietro Gonzaga, Alberto Pio nelle “lettere americane” (1516) 157

Lang. Ma la notizia di maggior momento è l’imminente partenza dell’imperatore per i Paesi Bassi dove incontrerà Carlo, il quale – commenta Bannissi – vorrà con- vincerlo alla pace con i francesi.

L’infelice vicenda di Agostino Coppo Tornando alle minute di Alberto, è datata 5 dicembre 1516 e indirizzata a Lang (documento LXXV) quella di una lettera di raccomandazione, una delle tante che ricorrono nei suoi scambi epistolari. Ne riporto gli estremi a titolo di esempio del- le vicende minori di cui sono costellati tutti questi scritti, e della molteplicità di fat- ti e personaggi che vi compaiono solo di sfuggita. In questo caso il raccomandato è un esule veneto, Agostino Coppo, del quale Lang, avendolo conosciuto a Roma, come gli ricorda Alberto, non può non avere apprezzato l’ingegno e la solerzia, soprattutto vedendo “l’indice e i titoli dei libri della biblioteca che questi ha messo insieme e ordinato”. Ebbene, l’uomo è devo- tissimo all’imperatore e si mette a sua disposizione; e anche se a raccomandarlo basterebbero la sua virtù e umanità, Alberto vuole dichiarare la propria predilezio- ne per lui e unisce alle proprie raccomandazioni quelle del pontefice. Non so se si tratti della stessa persona che Matteo Bandello menziona in una novella74 come «il satirico messer Agostino Coppo» e che figura come «un certo faceto Augustino Coppa» in una lettera che accompagna l’invio a Isabella d’Este di alcuni libri da lui «composti»75. Sanudo registra un episodio di cui fu protagoni- sta, a Venezia nel 1504, «sier Agostin Coppo, quondam sier Fantin, fo avvocato grando», condannato per un furto ai danni di un parente76. L’interessamento di Alberto dovette sortire un qualche effetto, che non bastò però a indirizzare la vicenda verso l’esito sperato: nel cercare notizie su questo per- sonaggio, che dovette effettivamente ottenere qualche incarico piuttosto importan- te, ci si imbatte in un dispaccio da Londra di Sebastiano Giustiniani alla Signoria veneziana (19 maggio 1517)77 secondo la quale il “noto ribelle” si è suicidato a Bruxelles; della sua morte nelle Fiandre riferisce anche un’informativa di France- sco Chiericati al marchese di Mantova il 23 aprile 151778.

signore di Novellara e Bagnolo, morto nel 1515, e i suoi cugini. DAVOLIO 1833, pp. 14-19; ROMBAL- DI 1967. 74 I, XXX. 75 Guido Postumo a Isabella d’Este, 1 dicembre 1513, in LUZIO 1906, pp. 31-32. 76 SANUDO, VI 135. 77 Calendar of State Papers 1867, p. 386. 78 Ibid., p. 381. 1517. La linea d’ombra

Il 1517 è l’anno in cui Alberto manifesta più esplicitamente, in particolare negli scritti indirizzati a Lang, non solo la propria decisa contrarietà alle scelte politiche di Massimiliano ma anche l’insoddisfazione per il modo in cui si sente trattato: non lo si tiene al corrente in modo tempestivo di importanti decisioni e fatti politici, con grave pregiudizio della sua funzione e del suo prestigio; non si provvede alle sue difficoltà finanziarie con compensi adeguati. Tutto questo lo affligge talmente che arriva a pensare di rinunciare, dopo più di cinque anni, a servire l’imperatore per trovare un altro principe che davvero lo tuteli e voglia elevare la sua condizione. Le lettere che riceve da Bannissi in questo periodo sono a loro volta rivelatrici, in modo indiretto, del disagio che Alberto esprime e che l’anziano segretario impe- riale mostra di comprendere e condividere, cercando al tempo stesso di dissuader- lo da una decisione così radicale. A un certo punto arriva un segnale dall’imperatore, che sembra voler andare incontro alle sue necessità: non certo con esborsi di denaro – sempre piuttosto rari e tardivi – ma con l’offerta della carica di viceré di Sicilia: la sua attribuzione è però un’eventualità che dipende da Carlo, il nuovo re di Spagna. Questa nuova pro- spettiva che si presenta ad Alberto è un argomento ricorrente nelle lettere di Ban- nissi e, in una significativa lettera di Spinelli, è abbinata a una proposta di matri- monio che viene dal regno di Napoli. Negli scritti di quest’anno ricorrono anche, come di consueto, notizie sulla ridi- stribuzione di benefici rimasti vacanti per la morte di questo o quel prelato, sul- l’assegnazione di episcopati, canonicati, abbazie e sulle pressioni dei diversi poten- tati per aggiudicarli a parenti, sodali, clienti; sulle intenzioni del pontefice riguar- do al conferimento del cardinalato a quanti l’imperatore raccomanda. Le numerose lettere di Bannissi, infelicemente trascinato in continui sposta- menti tra la Germania e i Paesi Bassi con la corte imperiale mentre Carlo si appre- sta a imbarcarsi per la Spagna, evocano suo malgrado le suggestioni di quell’at- mosfera nordica che nel nostro immaginario compenetra i nomi delle città, Gand, Anversa, Lovanio, Bruxelles, Malines, Vilvoorde, Lier, e le immagini del mare in Zelanda, prossimo all’equinozio autunnale, mentre si armano le navi su cui salpe- rà tanto re. A Roma, intanto, il pontificato leonino attraversa quello che è stato definito il suo annus horribilis1. Gli accordi di pace dell’agosto 1516 tra Francia e Spagna e, nel dicembre, l’adesione dell’imperatore all’alleanza sono stati accolti con soddi- sfazione da Leone X, che in quelle circostanze si mostra «più pieno di felicità che di consiglio»2 finendo poi, con sgomento, per trovarsi in una pericolosa situazione

1 RUBELLO 2013, p. 177. 2 CERRETANI 1993, p. 342 (cit. in RUBELLO 2013, p. 175). Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 159 di isolamento nel far fronte alla seconda guerra di Urbino. Le ripercussioni del- l’inclusione di Siena nell’orbita pontificia, inoltre, danno luogo alla truce vicenda della “congiura dei cardinali”, cui segue la clamorosa operazione politico-finan- ziaria dell’elezione in blocco di trentuno nuovi porporati. Questo nei mesi succes- sivi alla chiusura ex abrupto, il 16 marzo, del concilio lateranense, che lascia inat- tuata la riforma ecclesiastica per cui esso era stato indetto da Giulio II nel 1512. Nell’ottobre 1517, infine, ha inizio l’attacco di Lutero alla Chiesa di Roma. Ma il papa, in quel momento, è impegnato a chiamare a raccolta i principi d’Europa per la guerra contro i turchi.

Bannissi e le grandi manovre Le lettere di Bannissi, nel febbraio 1517, sono una cronaca di quanto accade nelle Fiandre – incontri tra sovrani, ambasciatori, principi tedeschi – oltre che del suo personale sconcerto: come scrive il giorno 9 da Anversa (documento LXXX), se Alberto si lamenta di non essere avvisato tempestivamente di quello che si fa a cor- te, non è che lui invece possa capirci molto di più stando sul posto: dato che nui siamo li ultimi ad sapere le vergogne et danni nostri; basta, ce hanno conduti et spero conduranno meglio ad quello che volno: fiat voluntas Domini. Bannissi appare frastornato e angustiato da quanto si svolge in quei giorni intor- no a lui: sta partendo per Bruxelles a la corte del re Carlo dove, a quanto ne sa, c’è anche frate Nicolò Schönberg e dove il re è ritornato dopo aver incontrato a Mali- nes, insieme con l’imperatore, il gran zamberlano d’Inghilterra, Thomas Wolsey, e a Vilvoorde il vescovo di Parigi e altri ambasciatori francesi; adesso l’imperatore è tornato ad Anversa ed è appunto in partenza per Bruxelles, insomma c’è un gran movimento e in mezzo a questo andirivieni dei grandi e del loro numeroso segui- to io non so che scriver, che me sto tuto confusso, Dio ce aiuti. Le grandi manovre diplomatiche delle quali Bannissi è spettatore sono quelle che si concluderanno, l’11 marzo 1517, con il trattato di Cambrai. Gli incontri allora in corso erano stati fissati nel dicembre dell’anno preceden- te, quando Massimiliano, venute meno le sue resistenze alla politica di Carlo per i problemi finanziari che gli impedivano di continuare la guerra, aveva incaricato il nipote di negoziare a suo nome a Bruxelles con i francesi3. A febbraio, per regola- re preliminarmente le questioni, furono inviati a Cambrai i rappresentanti delle tre potenze. Gli abboccamenti non ebbero, in realtà, carattere preliminare ma appro- darono direttamente al trattato, che stabiliva una generica alleanza volta alla guer- ra contro i turchi4. L’accordo, ratificato nei mesi successivi, includeva però alcuni articoli segreti che prevedevano la spartizione dell’Italia tra Francesco I e Carlo d’Asburgo5; come osserva Ludwig Pastor, non c’è dubbio che «collo strano patto di Cambrai France-

3 Ordonnances des rois de France 1916, pp. 7, 494-502. 4 Ibid., pp. 7-13 (testo del trattato). 5 Ibid., pp. 14-18 (articoli segreti). 160 Luciana Saetti sco I non mirasse se non ad adescare l’imperatore ed a ridurre sia Venezia sia il papato a docile ossequio»6.

Situazioni più o meno imbarazzanti Negli stessi giorni in cui sono in corso gli incontri cui fa riferimento Bannissi, Alberto scrive all’imperatore delle risposte del pontefice a quanto gli ha comuni- cato secondo le istruzioni ricevute (8 febbraio, documento LXXIX). Precisa di esser- si consultato, prima, con Pedro de Urrea – diventato nel dicembre vescovo di Sira- cusa e affiancato a Jerónimo Vich come ambasciatore di Carlo d’Asburgo a Roma – ed è andato dal papa insieme con lui. Ha avvisato anche Vich dell’incontro: gli è sembrato opportuno farlo, spiega, perché questi non avesse l’impressione di esse- re poco considerato. L’accortezza usata da Alberto è dovuta all’avvicendamento che si annunciava di fatto tra il nuovo e il vecchio ambasciatore, tra i quali in quel momento non c’era una buona intesa: l’avvento di Carlo al regno di Spagna met- teva in discussione, anche a Roma, i precedenti equilibri di potere7. Quanto al pontefice – continua Alberto – ha detto di aver accettato di aderire al trattato che si sta negoziando, ma in segreto, in attesa che lo approvi il re Cattoli- co; si augura che le decisioni del re non siano influenzate da altri e non discordino da quelle dell’imperatore. Tuttavia appare molto indignato con i francesi perché li ritiene responsabili dell’attacco di Francesco Maria della Rovere al ducato di Urbi- no; non osa però manifestare il proprio sdegno e lo dissimula. Il re di Francia, inve- ce, nega di avere a che fare con quella guerra e assicura che non ha intenzione di dare nessun aiuto al Rovere, anzi ne darà al papa quanti ne vorrà. Leone X non sa risolversi al riguardo: Alberto gli consiglia di non chiedere né accettare aiuti dai francesi ma il papa teme, non facendolo, di suscitare in loro una maggiore ostilità nei propri confronti; perciò accetterà solo pochi aiuti e il più tar- di possibile8, anche per non rischiare un attacco al regno di Napoli. Leone X continua a usare i suoi soliti accorgimenti, ma gli è difficile districarsi dalla situazione in cui si è andato a cacciare dopo aver giocato più parti in com- media durante l’impresa di Massimiliano in Italia. Nel colloquio con Alberto arri- va a dire che, come l’imperatore, anche lui aveva previsto ciò che sarebbe accadu- to se Verona fosse stata perduta; ma non ha potuto fare nulla perché il re Carlo ascoltava i pareri dei suoi consiglieri più di quello dell’imperatore stesso. Alberto conclude il suo resoconto scrivendo che è appena arrivata la notizia del- la resa di Urbino a Francesco Maria della Rovere9; terrà informato l’imperatore di quanto accadrà in seguito.

6 PASTOR 1921, IV, I, p. 103. 7 Alla morte di Urrea, nel 1518, gli subentrò un altro ambasciatore e Vich rimase a Roma con il generico titolo di “consigliere reale”. Sul conflitto che attraversava i gruppi di potere castigliani, cata- lano-aragonesi e fiamminghi, SERIO 2003, pp. 434-475; v. spec. pp. 460-466 per la posizione di Vich. 8 I francesi parteciparono alla riconquista del ducato con 300 lance, cui se ne aggiunsero nel luglio altre 300 (MESCHINI 2014, p. 69; cfr. GUICCIARDINI, XIII 2). 9 Sull’arrivo della notizia, PASTOR 1921, IV, I, pp. 107-108. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 161

I ripetuti riferimenti all’influenza sul giovane Carlo dei membri del suo consi- glio – per primo il potente ministro Guillaume de Croÿ signore di Chièvres10 – rive- lano preoccupazione e diffidenza, anche da parte di Alberto stesso, nei riguardi del gruppo di potere che si impone presso il re. D’altronde Carlo e i suoi consiglieri avevano le loro buone ragioni per affrettarsi, dopo la morte di Ferdinando il Cat- tolico, a stringere un patto di desistenza con il re di Francia, temendone le insidie su Napoli e le interferenze in Spagna, dove si sollevavano opposizioni alla succes- sione di Carlo: il quale, in cambio dell’impegno di Francesco I a non interferire negli affari iberici, pare certo che fosse disposto a lasciargli anche tutta l’Italia11. Il re di Francia, dal canto suo, «fu ben lieto di stringere accordi con lui, ma si guardò dal coinvolgervi Leone X, volendo evidenziare uno stato di fatto in cui al papa competeva una posizione solamente subalterna, in un’Italia stabilmente con- trollata dagli oltremontani»12.

Una pace da non fare Alberto si è già espresso con Lang, poco tempo prima, in modo molto netto cir- ca l’adesione dell’imperatore alla pace (documento LXXXII). Per prima cosa ha reclamato ragguagli su quanto avviene: non soltanto non è stato informato tempe- stivamente dell’incontro fra l’imperatore e il re Carlo13, ma si è vergognato di dover dire al papa che non aveva notizie al riguardo, quando invece gli oratori spagnoli ne erano già al corrente. Non gli è stato nemmeno fatto sapere che Massimiliano ha dichiarato agli oratori francesi di essere disposto a giurare la pace. Poi, per dire quel che pensa, come Lang gli chiede, Alberto dichiara che appro- verebbe quella pace se fosse davvero a oneste condizioni e se vi aderisse il re d’In- ghilterra; in caso contrario non sarebbe una pace universale ma particolare, e non converrebbe né all’imperatore né al re Cattolico perdere quella solida e sicura alleanza per stringerne una con i francesi14: in tal caso il convegno indetto a Cam- brai sarebbe vano come lo è stato quello di Bologna tra il papa e il re di Francia. Per l’imperatore – continua Alberto – ratificare queste condizioni di pace signi- fica essere escluso dall’Italia: non deve assolutamente accettarle. Non importa se

10 Già consigliere di Massimiliano d’Asburgo, nel 1509 Guillaume I de Croÿ (1458-1521) diven- ne ciambellano e mentore del giovane Carlo; esercitò una forte influenza sulla sua formazione e in seguito sulla sua politica, alla quale impresse un orientamento decisamente mirato agli interessi fiam- minghi. BIETHENHOLZ, DEUTSCHER 2003, ad vocem. 11 PELLEGRINI 2009, p. 151. 12 Ibid., p. 152. 13 Due lettere di Bannissi, del 20 e 29 dicembre 1516 (documenti LXXVI e LXXVII) gli facevano sapere che sicuramente, dapoy le feste, l’imperatore sarebbe andato al Paese Basso per trovarsi con lo Catholico Re, il quale avrebbe cercato in tutti i modi di indurlo alla pace con i francesi. 14 Enrico VIII aveva cercato di dissuadere Massimiliano dall’alleanza con la Francia promuoven- do una coalizione antifrancese con l’imperatore stesso, Carlo d’Asburgo e Leone X (trattato di Lon- dra, 19 ottobre 1516, cui contribuì non poco il cardinale Schiner). PASTOR 1921, IV, I, p. 203; MESCHI- NI 2014, p. 63. 162 Luciana Saetti non è in condizioni di continuare la guerra, perché ormai, perduta Verona, non c’è altro che i nemici possano sottrargli; ma se mantenesse in sospeso la decisione, i francesi si troverebbero in difficoltà finanziarie e militari, sarebbero costretti a veni- re a più miti condizioni o comunque sarebbe più facile cacciarli dall’Italia se con- venissero nel farlo il re Cattolico, il re d’Inghilterra, l’imperatore, il papa e anche gli svizzeri, “che finiscono sempre per fare causa comune con questi prìncipi”15.

Alberto e la «verità effettuale» C’è da chiedersi, un’altra volta, quanto Alberto considerasse realistica una tale prospettiva o quanto il suo giudizio fosse viziato da una falsa coscienza; a meno che non stesse scientemente manipolando l’evidenza dei fatti: ma per far questo ci voleva il cinismo poliedrico di Leone X invece della sua ostinata volontà di essere «più forte della necessità»16. Altro che «andare drieto alla verità effettuale della cosa» invece che «alla immaginazione di essa»17: perché l’immaginazione ad Alberto non mancava, altri- menti non si sarebbe prefigurato nemmeno quella Carpi ideale18 che doveva essere l’emblema del suo casato e della sua grandezza. Così torna alla mente il paradosso di cui parlava Riccardo Bacchelli nel rievo- care la sua «disperata difesa» di Carpi: una partita persa in partenza data la dismi- sura delle forze, tale che «dove noi vediamo una dolorosa tragedia» dell’ingegno e della passione «i contemporanei stentavano a veder appena un paradosso, anche ammirando»19. Ma oggi che ci siamo quasi assuefatti ai paradossi di un presente in cui ci sen- tiamo un po’ paradossali anche noi, la «dolorosa tragedia» del nostro principe e concittadino assume fattezze, per così dire, diversamente tragiche. La sua immagi- ne si connota di una determinazione tanto inquieta e profonda quanto incrollabile e altera che ci fa sentire complici e tifosi e scettici e disingannati di quell’abito del- la grandezza che è anche un’impronta del nostro genius loci. Ma torniamo alla sua presa di posizione: l’imperatore non deve, non può, alli- nearsi con la politica di Carlo. Come argomenti dissuasivi, contempla i motivi per cui potrebbe invece arrivare a farlo (e lo sta già facendo): se non fosse in con- dizioni di portare il nipote sulle sue posizioni usando della propria autorità; se volesse lasciare che questi continui a essere influenzato da altri come lo è stato finora; se decidesse, giurando “questa turpe pace”, di permettere che il mondo sia governato dall’arbitrio dei francesi. La sua ammonizione culmina nella severità

15 In realtà i tredici cantoni svizzeri avevano stipulato, tutti, un trattato di pace con la Francia il 29 novembre 1516. MESCHINI 2014, pp. 63-64. 16 BACCHELLI 1931, p. 48. 17 MACHIAVELLI, Il principe, cap. XV. 18 Si veda l’illuminante osservazione di Anna Maria Ori sul testamento di Alberto, p. 250. 19 BACCHELLI 1931, p. 48. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 163 con cui indica un’uscita (improbabile): se fosse così, allora l’imperatore dovrebbe salvaguardare la propria dignità facendo in modo, almeno, di ottenere il regno di Napoli20 .

Leone X e la vigna del Signore Mentre a Cambrai si concludono i negoziati, un altro scritto all’imperatore, del 12 marzo, affronta un diverso argomento (documento LXXXIV). Alberto rende con- to innanzitutto di quanto ha fatto per il conferimento del cardinalato a coloro che Massimiliano ha raccomandato: la risposta del pontefice è stata che non è possibi- le promuovere contemporaneamente tutti quelli che ne sarebbero degni; e che nel- la scelta egli mette al primo posto il decoro e l’interesse della Santa Sede, poi si preoccuperà di soddisfare anche gli onesti auspici dei principi. Il punto più importante di questo scritto riguarda la chiusura del concilio, che fu proclamata il 16 marzo. Il papa – riferisce Alberto – motiva la decisione, cui pro- pendono i cardinali e molti altri prelati, con il fatto che sono già stati raggiunti gli importanti scopi per i quali il concilio fu indetto: lo scisma è stato debellato, è sta- ta conclusa la pace tra i principi e altro si potrà fare anche dopo la sua conclusione. I sinodi, ha detto ancora il papa, non possono durare in eterno, e questo è già in cor- so da molti anni: se si prolungano più del necessario possono dare spazio a chi vuo- le abusarne, e “dato che la malizia e l’iniquità e la temerità trovano sempre posto in alcuni” e “gli spiriti turbolenti ambiscono sempre a mettere in atto nuovi inauditi propositi”, bisogna togliere loro l’occasione di cui potrebbero approfittare: perché si devono sventare gli scandali ed estirpare i rovi nella vigna del Signore. Sappiamo in che modo, di lì a poco, Leone X estirperà qualcuno di quei “rovi”, perché sia d’esempio ad altri, facendone un fascio nella “congiura dei cardinali”21. Per intanto, il concilio chiude: il papa ha risposto, come ad Alberto, anche a Pedro de Urrea, l’ambasciatore di Spagna, ed entrambi si sono resi conto che, pur facendo tutto il possibile, non riusciranno a evitare che sia così; per cui hanno rite- nuto di rinunciare a ulteriori interventi che potrebbero risultare controproducenti per l’imperatore. Massimiliano, ancora risentito per il contegno del papa nel corso della propria spedizione in Italia dell’anno precedente, non nascondeva la propria contrarietà alla chiusura del concilio. Al legato pontificio Egidio da Viterbo, mandato presso di lui per promuovere la crociata contro i turchi, ribatteva seccamente che opus est

20 La questione napoletana era stata oggetto del trattato di Noyon con un accordo che tratteggia- va un piano di spartizione dell’Italia, con un nord francese e un sud spagnolo. (Ordonnances des rois de France 1902, pp. 409-430; PASTOR 1921, IV, I, p. 103). 21 Come è noto furono colpiti, oltre ad Alfonso Petrucci, strangolato nelle segrete di Castel San- t’Angelo, i cardinali Sauli, Soderini, Castellesi e Riario. Quest’ultimo, come Sauli, fu rilasciato dalla carcerazione dopo mesi, gli altri due fuggirono da Roma; tutti subirono pesanti pene pecu- niarie (Riario addirittura di 150.000 ducati; in suo favore Alberto firmò una garanzia a nome del- l’imperatore: SABATTINI 1994, p. 53). Sulla congiura, RUBELLO 2013, p. 176-177; SIMONETTA 2014, pp. 161-201. 164 Luciana Saetti ante curare vineam Dei et poi attender contra infedeli22: prima, la riforma della Chiesa – una prospettiva che suonava come una sfida a Leone X. Sull’immagine biblica della “vigna del Signore” si proiettano le ragioni di un contraddittorio poli- tico; ma per il papa, una volta approvato il concordato con il re di Francia e mes- se a tacere le posizioni conciliariste, erano esaurite le questioni di politica eccle- siastica che gli interessava risolvere.

“Non so perché continuo a scrivere” Alberto conclude lo scritto del 12 marzo all’imperatore con le solite rimostran- ze: continua a non ricevere notizie, a differenza degli oratori degli altri sovrani; ma tanto, aggiunge con polemica rassegnazione, è così avvezzo a doversi vergognare di fronte a tutti per la propria disinformazione che nemmeno più ne arrossisce come gli accadeva prima, anche perché ormai è raro che si vengano a cercare novi- tà da lui. Di quei silenzi epistolari, che lo lasciano sprovvisto di istruzioni indispensabili e lo precipitano nelle più cupe previsioni circa le proprie fortune personali, Alber- to si lamenta, in tono più risentito, anche con Lang (documento LXXXV): non sa più a che scopo stia continuando a scrivere, dato che quasi mai gli si risponde e, quan- do lo si fa, gli si mandano notizie vecchie di due mesi, giustificandosi con la gran mole di impegni: perché dev’essere davvero molto impegnativo – osserva sarca- stico – dire ai segretari di scrivere a Roma, per esempio, della pace conclusa dal- l’imperatore con il re di Francia o di analoghe piccolezze che capitano tutti i gior- ni. Il re Cattolico e i suoi ministri avranno i loro impegni, eppure scrivono molto spesso ai propri ambasciatori. D’altronde lui non può lamentarsi dell’imperatore, che ha il diritto di comportarsi come vuole con un suo servitore; ma non gli con- viene invece, con questo, dare a vedere che trascura il papa e la curia. Quanto a lui, Alberto, se l’imperatore non si comporterà diversamente, sarà costretto a pensare a se stesso e a provvedere in qualche modo alla propria situazione. Quest’ultima frase, che gli abbiamo sentito dire altre volte, prelude qui a una richiesta particolare. Pur dichiarando a Lang la propria eterna gratitudine e dedi- zione, Alberto gli rimprovera di non provvedere a lui, che ha sempre trascurato i propri interessi per occuparsi dei suoi, e gli chiede di agire presso l’imperatore in modo che si comporti diversamente, data anche l’occasione del suo incontro con il re Cattolico: il regno di Napoli infatti è vastissimo e molti possedimenti vacanti possono essere assegnati con ben poco disturbo; lui si accontenterebbe di qualco- sa anche di poco conto, ma che lo ripaghi di quanto ha speso al suo servizio in cin- que anni e per cui adesso è costretto a uscire da un riserbo che evidentemente vie- ne preso per dabbenaggine, se si pensa a tutto quel denaro. Teme anche che Lang, con i molti impegni che ha, tardi a occuparsi della sua situazione, per cui aveva pensato di mandare un proprio nunzio presso l’imperatore:

22 SANUDO, XXII 39, cit. in PASTOR 1921, IV, I, p. 98. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 165

“ma poi mi sono chiesto quale bisogno ci fosse di sommare inutilmente spese a spese ed essere sempre più oppresso dai debiti. Per otto mesi consecutivi ho avuto un nunzio23 presso Cesare con mio grande dispendio, ed è tornato a mani vuote”. La sua condizione di bisogno, adesso, è tale che “ieri sera i miei cavalli hanno digiunato, dico davvero, per mancanza di avena, perché l’incaricato non aveva più denaro; ma dato che siamo in tempo di digiuno quaresimale, con loro si è anche fatto bene. Oggi ho avuto un prestito dai Fugger e ho sommato un altro debito ai debiti. Non so come mai ho scritto tutto questo, che non avevo pensato di scrivere; da ciò comunque si renderà conto della condizione in cui mi trovo e di quan- to ci si comporti bene con me”. Andrà a finire – conclude Alberto – che se l’imperatore, come alcuni dicono, verrà a Roma a ricevere la corona dal pontefice, con tutta probabilità lo troverà in prigione a Tor di Nona, a meno che nel frattempo non si sia risolta la sua incre- sciosa situazione.

IL MIRAGGIO SICILIANO

Le rimostranze di Alberto sarebbero fuori luogo nel caso che, quando stendeva queste minute, avesse già ricevuto la lunga lettera di Massimiliano del 28 febbraio 1517 da Malines (oggi conservata a Milano presso la Biblioteca Ambrosiana)24. L’imperatore infatti gli dà molte notizie, per prima quella della pace conclusa con Francesco I e degli incontri in corso per le questioni rimanenti, nei quali un commissario imperiale avrà cura che il re di Francia garantisca la tutela degli inte- ressi di Alberto, proteggendoli “dall’offesa di chiunque e soprattutto del duca di Ferrara, cosa che crediamo farà”. Uno dei molti punti della lettera riguarda la chiusura del Concilio: “Quanto agli abusi della Chiesa, come già detto, non è affatto conveniente e anzi è scan- daloso chiudere il concilio prima di avervi provveduto bene e opportunamente. Infatti con il vescovo di Siracusa [Pedro de Urrea], oratore del serenissimo figlio nostro [Car- lo], insistiamo perché il concilio prosegua e non sia sciolto, ma si provveda a ciò che ancora rimane da fare”. Altri punti riguardano i brevi papali sulla pace tra i cristiani e la spedizione con- tro gli infedeli; gli aiuti al pontefice per la guerra di Urbino; la riforma del calen- dario (uno dei programmi del concilio attinenti alla riforma della Chiesa ma rima- sto inattuato); la questione della diocesi di Salisburgo e altri benefici in favore di Lang; il cardinalato promesso a Francesco Sforza e tuttora non ottenuto; la disap- provazione di Leone X per le trattative condotte da Schiner in Inghilterra; l’asse-

23 Questo “nunzio” è, evidentemente, Sigismondo Santi, come si desume dalle lettere di Bannis- si del 20 e 29 dicembre 1516 (documenti LXXVI e LXXVII). 24 BAMI, 283 [V. N. 255], 11, Massimiliano I imperatore, 1, 1517, febbraio 28 (FIORINA 1980, p. 71). 166 Luciana Saetti gnazione dell’episcopato di Coria a Bibbiena, per il quale ci si assicurerà che Car- lo non lo destini ad altri25. Ma è quest’altra parte che riveste per noi una particolare importanza: “Abbiamo operato anche presso il serenissimo nostro figlio dilettissimo perché ti nomi- ni viceré di Sicilia, cosa cui ha consentito, e ha promesso benignamente che vi provve- derà a tutti gli effetti nel caso che destituisca l’altro [il viceré Hugo de Moncada] e quando sarà stato destituito; poi ti invierà i mandati e il titolo di viceré perché tu parta per andarvi. Dunque puoi, nel frattempo, sistemare le tue cose private e prepararti alla partenza per assumere il governo di tale provincia. Anche se non dubitiamo che ti sarà alquanto difficile per le condizioni del Regno e lo stato presente delle cose, nondimeno conosciamo la tua prudenza e la tua singolare accortezza, che dimostrerai sia in tutte le circostanze, e soprattutto in questa amministrazione, sia al servizio del figlio nostro medesimo e a tua massima lode; tanto che meriterai e otterrai di gran lunga molto di più dal medesimo serenissimo re nostro figlio, presso il quale noi ti saremo sempre di mas- simo sostegno. Dunque ti farai carico di questa provincia con buona e pronta disposi- zione d’animo; e lì amministrerai sempre bene, come fai, le nostre cose” 26. In calce alla lettera si legge la firma di Iacopo Bannissi che la sottoscrive come segretario e che quello stesso giorno scrive ad Alberto (documento LXXXIII) ritor- nando su alcuni dei medesimi temi. Quanto all’incarico in Sicilia, l’imperatore ha ottenuto che gli sia conferito in via provvisoria: Carlo infatti ha deciso di mandare sul posto tre commissari a verificare le ragioni del viceré e dei nobili del regno: se il loro giudizio sarà favorevole al primo, questi riprenderà il suo posto; in caso con- trario la carica andrà ad Alberto. A Bannissi quest’ultima riserva è sembrata fuori luogo e ha chiesto all’impera- tore di limitarsi a comunicare il proprio beneplacito ad Alberto e a consigliarlo sul da farsi. Così è stato, e il consiglio è che aspetti ad accettare finché quei giudici non abbiano svolto il loro compito: se il responso sarà sfavorevole al viceré, allora Alberto accetti e vada in Sicilia. L’imperatore si dice convinto che la carica andrà a lui, e ha anche promesso che provvederà a mandargli del denaro, come gli sarà comunicato da Lang.

25 V. la lettera di Bannissi ad Alberto, Bruxelles, 25 maggio 1517 (documento XCVI): Carlo sem- brava intenzionato a risolvere, con l’assegnazione di quella diocesi, contrasti tra prelati e in partico- lare quelli per il priorato dell’ordine degli Ospitalieri (cfr. SERIO 2003, pp. 454-456). Bibbiena otten- ne infine quell’episcopato nel novembre. 26 Egimus etiam cum serenissimo Filio nostro charissimo quod te constituat viceregem Siciliae, quod et nobis annuit et benigne pollicitus est se facturum omnem operam ut id fiat casu quo alter destituat et diciter quo erit destitutus, deinde mittet tibi mandata et titulum Viceregis ut eo profici- scaris. Ideo potes interim bono modo disponere res tuas et parare te ad profectionem ad suscipien- dam huiusmodi provinciam. Quam et si non dubitamus tibi aliquantum laboriosam futuram ob con- ditiones Regni et statum rerum praesentium, nihilominus novimus prudentiam et singularem dexteri- tatem tuam quam cum in cunctis, in hac praesertim administratione exhibebis, cum servitio eiusdem filii nostri et maxima laude tua; adeo quo longe maiora promereberis et obtinebis ab eodem seren.mo Rege Filio nostro ad quod erimus tibi semper maximo suffragio; igitur bono et alacri animo Provin- ciam hanc suscipies; et interim res nostras ibidem sicuti facis continue bene administrabis. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 167

Dopo alcuni aggiornamenti sui negoziati e sulla presenza a corte dei maggiori esponenti della nobiltà tedesca e degli ambasciatori e ministri del re d’Inghilterra, Bannissi si congeda con l’immediatezza espressiva che già gli conosciamo: nel- l’allegare delle lettere di risposta a vari brevi papali precisa che di tutte c’è anche la copia, meno una che è arrivata dalla cancelleria asay imbratata e riguarda certi denari del Giubileo, che cerca de agrapare le Arpie de la nostra corte; saprà Alber- to come rispondere convenientemente a queste Arpie.

Un futuro improbabile L’offerta ad Alberto dell’incarico in Sicilia non è una notizia inedita; ma finora non ne sono state approfondite le circostanze, né i motivi per cui la cosa non ebbe seguito. Fu una falsa promessa, un’aspettativa tradita, un’occasione perduta? Va tenuto presente che la situazione nel vicereame era più che mai problemati- ca: alla morte di Ferdinando il Cattolico si era aperta, in Sicilia, una crisi i cui moti- vi di fondo – fiscalismo, tensioni sociali, congiunture economiche, lotte tra fazio- ni locali, reazioni antifeudali – determinarono, tra rivolte, repressioni, congiure, una situazione d’instabilità che si protrasse per quasi un decennio27. Nella confusa sequenza degli avvenimenti isoliamo solo pochi fatti, seguiti alla rivolta scoppiata nel gennaio 1516 a Palermo contro il viceré Hugo de Moncada – espressione del blocco di potere fedele alla corte spagnola – il quale fu considera- to di fatto decaduto. Perso il controllo della situazione, questi lasciò la città rifu- giandosi a Messina, quindi fu convocato a corte da Carlo, che in quel momento non ritenne prudente riconfermarlo28. Nel luglio il re nominò presidente provvisorio del regno Giovanni de Luna, conte di Caltabellotta, che con un’azione di repressione restaurò i vecchi assetti di potere. Arriviamo così al 1517, quando a de Luna su - bentrò Ettore Pignatelli conte di Monteleone, nominato luogotenente e capitano generale del regno di Sicilia il 22 febbraio29 e promosso viceré il 28 maggio, dopo la destituzione ufficiale di Moncada. Con la scelta di Pignatelli il governo dell’i- sola veniva affidato a una figura di provata fedeltà alla corona ed estranea alle dinamiche delle fazioni locali30. La proposta di assumere il governo di Sicilia viene fatta ad Alberto, come abbiamo visto, il 28 febbraio; è possibile che Massimiliano non fosse ancora al cor- rente del fatto che proprio allora Carlo aveva conferito la carica a Pignatelli. E se è vero che ciò non implicava necessariamente un insediamento definitivo, è anche

27 Sugli eventi e sulle relative interpretazioni storiografiche, GIURATO 2003, pp. 4-13, 294 sgg.; RIBOT GARCIA 2007, pp. 461-472. 28 Questo perché essendo allora in fermento anche la Spagna, in Sicilia si fece, in quei mesi, una politica di “normalizzazione”. Carlo convocò e trattenne a corte, a Bruxelles, i personaggi più com- promessi con la rivolta, riservandosi per il futuro di mostrare le proprie vere intenzioni: solo nel 1518, fallite le sollevazioni e le congiure, fu chiaro che avrebbe governato ignorando totalmente le esigen- ze dei gruppi sociali che si erano ribellati (GIURATO 2003, p. 320). 29 TRASSELLI 1982, p. 724. 30 GIURATO 2003, p. 306; cfr. GIARRIZZO 1989, p. 587. 168 Luciana Saetti vero che Pignatelli era un uomo di Guillaume de Chièvres, da Carlo molto più ascoltato dell’imperatore. Quanto ai tre commissari, può darsi che si trattasse dei medesimi che furono incaricati di un’ispezione dell’apparato fiscale e amministra- tivo del regno di Napoli, tra i quali ritroviamo Giovan Battista Spinelli31. All’offerta che Massimiliano gli presenta come una concreta possibilità, di cui conosce però le condizioni dirimenti, Alberto non può che dare una risposta inter- locutoria: il 19 marzo (documento LXXXVI) ringrazia l’imperatore di quanto fa pres- so il re Cattolico perché gli venga affidata l’amministrazione del regno di Sicilia “essendo stato destituito il titolare di quel privilegio”. Ma affronta con cautela la questione: nell’estate precedente, racconta, “alcuni siciliani” gli avevano prospet- tato la cosa, che egli però non ha poi valutato a fondo come invece ora si ripromette di fare. Non sa se l’incarico sia commisurato alle sue forze e dovrà informarsi e verificare, assicurandosi anche e soprattutto della sistemazione dei propri interessi privati. Si dichiara comunque pronto a ubbidire alla volontà dell’imperatore, che ha voluto assegnargli quella provincia; cosa che non può che essergli accetta e di cui gli sarà grato anche se non andasse a buon fine, nel caso che il re cambiasse parere o se egli stesso decidesse di rinunciare per meditate e fondate ragioni. Solo questo può promettere, che se assumerà quel governo si adopererà con tutte le sue forze affinché il re Cattolico non si penta di aver deciso di concederglielo, né gli isolani e i regnicoli di avervi consentito, né l’imperatore di averglielo affidato. Alberto, insomma, sembra un po’ spiazzato dalla prospettiva che gli si presen- ta: dopo aver reclamato genericamente un qualche possedimento nel regno di Napoli, ora si vede proporre una posizione di potere, prestigiosa ma piena di inco- gnite. Sulle sue riserve, formalizzate come “meditate e fondate ragioni”, possiamo tentare qualche ipotesi. Un effetto non secondario dell’assunzione di quel ruolo sarebbe, in primo luo- go, un distacco da Roma, dove Alberto si è progressivamente radicato e dove può mantenere uno stretto rapporto con il pontefice: un rapporto che rimane fonda- mentale per lui sul piano politico e personale. Si può pensare, anche, che le sue condizioni fisiche gli facciano realisticamen- te considerare la difficoltà di affrontare una situazione convulsa come quella sici- liana, a parte il rischio oggettivo della sua incolumità personale. Ma ciò che probabilmente conta più di tutto è il fatto che l’assegnazione di quel- l’incarico dipenda da Carlo: accettarlo significa passare al servizio della Spagna, e sappiamo bene che cosa Alberto pensasse non solo degli spagnoli ma anche della politica del loro nuovo re. Gli era anche evidente la debolezza dell’imperatore, nel quale continuava tuttavia a voler vedere, pur combattuto tra fiducia e disinganno, il garante della sua sicurezza.

31 Gli altri erano Ludovico di Montalto, già confermato (1516) negli uffici perpetui di reggente della Cancelleria; il borgognone Charles Leclerc, giunto a Napoli nel 1517 come delegato speciale di Chièvres e controllore generale delle finanze (M.N. MILETTI, Montalto, Ludovico, DBI, vol. 75, 2011; DELLE DONNE 2012, p. 121). Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 169

Anche se non ci sono precise evidenze sulle ragioni di quella risposta sostan- zialmente reticente, esistono invece, come vedremo, vari indizi della crisi che Alberto sta attraversando.

Lang, o dei malintesi Il 20 marzo – il giorno dopo aver dato la sua risposta all’imperatore – in uno scritto indirizzato a Lang (documento LXXXVII) Alberto smentisce ciò che questi sembra aver capito da una sua precedente lettera, cioè che aspirerebbe all’ammini- strazione del regno di Napoli: chiarisce che si stava invece riferendo al governo della Sicilia quando gli scriveva che un simile incarico sarebbe stato per lui meno gravoso (molestus, cioè “pesante” soprattutto nel senso di importuno e spiacevole) nel caso che Lang ottenesse la cura e la reggenza del vicino regno di Napoli. Un’uscita che fa riflettere, anche perché non conosciamo i termini del prece- dente scambio epistolare tra i due. Alberto qui ha esordito ringraziando Lang per- ché si impegna in suo favore e dichiarandogli la sua totale dedizione; quindi la pre- cisazione sui due regni non sembra polemica. Forse con quella pura ipotesi Alber- to ha voluto giustificare le proprie esitazioni sottolineando le difficoltà del compi- to. Difficile credere che ritenga davvero possibile l’assunzione di quella carica da parte di Lang, anche se va ricordato che, scrivendo all’imperatore riguardo alla sua adesione all’alleanza con la Francia (documento LXXXII), Alberto lo esortava a pre- tendere, almeno, il regno di Napoli. I fraintendimenti, comunque, non si limitano a questo, perché Lang gli ha impu- tato una fuga di notizie sulle negoziazioni con la Francia: alcune cose che aveva scritto ad Alberto sono venute a conoscenza degli inglesi, che ora sembrano inso- spettiti sul suo conto. Alberto si difende con precisi argomenti (nessuna di quelle notizie poteva urtare gli inglesi; potrebbe essere stato il papa a lasciarsi sfuggire qualcosa con il loro oratore, ma a quanto gli ha detto non ricorda di averlo fatto) e conclude in tono risentito che, quanto a lui, sa ben distinguere ciò che si deve o non si deve dire, perché ha imparato a tacere prima di imparare a parlare: silere enim didici antequam loqui discerem; et ni fallor, puto me scire discernere tacenda ab aperiendis. Trova poi da ridire sui compensi che gli sono stati promessi: Lang gli ha anti- cipato che l’imperatore gli assegnerà una somma del denaro avuto dagli inglesi, perché quello dei francesi è già stato spartito: ovviamente – polemizza Alberto – spartito tra i presenti, dato che gli assenti sono come i morti; e non dirà altro, per- ché già troppe volte ha fatto presente la propria condizione di bisogno. Pochi giorni dopo, il 25 marzo (documento LXXXVIII) gli arriva da Bannissi la conferma che Lang ha ottenuto per lui tremila fiorini, per i quali dovrebbero già essergli state inviate le lettere di cambio. Vedremo poi quanto sarà lunga e labo- riosa la procedura per intascarli. Bannissi al momento ha un attacco di febbre ter- zana, ma si ripromette, appena starà meglio, di andare a corte a sollecitare la spe- dizione dei documenti che Alberto gli ha chiesto. Ormai sono tutti ritornati da Cambrai; l’imperatore è ad Anversa, dove l’indomani tornerà anche lui stesso, da 170 Luciana Saetti

Bruxelles dove si trova attualmente, insieme con Lang e appena arrivato leggerà a Massimiliano la lettera di Alberto del 12 marzo.

Una proposta di matrimonio Sono numerosi e indiscutibili, nella corrispondenza del 1517, i segnali della volontà di Alberto di dare una svolta decisiva alla propria situazione. A conferma- re questa esigenza c’è anche il progetto di prendere finalmente moglie. Come sap- piamo, un estremo tentativo per concludere il suo matrimonio con Margherita Gon- zaga era stato fatto, l’anno precedente, dall’imperatore stesso32; ma Alberto ormai vuole risolversi altrimenti, come dichiara in una lettera del 3 gennaio 1517 a Gio- vanni Antonio Alessandrini33: Sapiati che non manco desidero io pigliare moglie che voi, cussì prego dio me concedi gratia de trovarne una che sia a mia satisfactione et de voi altri tutti mei subditi. Troviamo, in proposito, una notizia finora inedita nella lettera che Giovan Batti- sta Spinelli gli scrive il 16 aprile da Malines (documento LXXXIX), fornendogli infor- mazioni sul matrimonio offerto ad la s.v. de la figliola del s. Duca de Trayecto. Spiega che il duca è de casa gaytana (Onorato Gaetani dell’Aquila d’Aragona); che si tratta di signori di li principali del Regno (di Napoli), la mogliera figliola naturale del Re Ferrante (Lucrezia d’Aragona, figlia naturale di Ferdinando I); e se non bastasse, la matre del signor Duca de Trayecto fo Ursina, sorella de la madre del signor Duca de Urbino (Costanza Orsini, sorella di Alfonsina da parte di padre). Quanto alla qualità delle figliole, Spinelli non è in grado di precisare nulla, per- ché sono parecchi anni che manca da Napoli e sa solo che la maggiore, sposata al duca di Ferrandina, è ora vedova con una figlia. Consiglia perciò ad Alberto, se vuole saperne di più, di mandare maestro Sigismundo a la Contessa mia mogliere et li donerà notitia de tucto; allega infatti una lettera di presentazione per Sigi- smondo Santi alla moglie, Livia Caracciolo (documento XC). Non è dato sapere quanto quella proposta fosse attraente per Alberto, che scel- se comunque un diverso partito sposando l’anno seguente Cecilia Orsini. Ma è significativo che un’offerta matrimoniale gli venisse, proprio allora, dal regno di Napoli. Nella stessa lettera, infatti, Spinelli fa alcune considerazioni sull’incarico in Sicilia, incoraggiandolo e al tempo stesso facendogli presenti, senza mezzi termi- ni, i rischi da affrontare: A la andata de Sicilia: lo loco è digno et honorato con tremilia ducati di salario et mil- le li dà el Regno, altro non pò havere recte; è lo secundo officio de Italia dignissimo; la

32 Massimiliano d’Asburgo a Francesco Gonzaga, 31 luglio 1916, MSDC, I, 1877, pp. 394-395. V. anche MORSELLI 1931, pp. 200-201. 33 Alberto Pio a Giovanni Antonio Alessandrini, Roma, 3 gennaio 1517. ASCC, AG, b. 108, fasc. 8 n. 17. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 171

gente è sinistra et periculosa; penso che V. S. con la sua prudentia superirà la malitia de epsi. Bisognerà guardarese da veneno et da furia de populi; et advertire a le cose de Car- pi durante la absentia sua. In tucte le cose predicte haverà favor dal Re Catholico. Io crederia che la S. V. deveria acceptare et andare bonis avibus. Io cqua o dove serrò farrò per V. S. lo officio conveniente a la amicitia nostra. Spinelli parla con cognizione di causa del clima inferocito e insidioso che regna in Sicilia; ma ha stima delle capacità di Alberto e si dice certo della fiducia del nuo- vo re, dato che al momento gli è stato proposto di entrare nel consiglio della corona34. Si premura poi di dire ad Alberto che parlerà di lui e delle cose che lo riguar- dano con Lang e con l’imperatore; ma anche con Carlo, dato che l’imperatore non vuole intromettersi più di tanto per non avere problemi con i consiglieri di que- st’ultimo. Arrivato ai saluti, prega Alberto di ricordarlo a Sigismondo Santi, che como è con Vostra Signoria se dismentica con li amici et con tucto. Aggiunge infine di non aver visto Leonello, che si trova ad Anversa; una noti- zia che riconduce all’intenzione espressa da Leonello di passare al servizio del- l’imperatore (documento LXVIII); il suo effettivo ingaggio è confermato dalla lette- ra che Massimiliano gli indirizza da Baden l’1 ottobre 151735, dove lo qualifica come “nostro comandante” (nostro armorum ductori) e gli assicura il prossimo pagamento di mille fiorini; fa cenno anche a una condotta che spera gli assegnerà Carlo, al quale ha scritto in proposito. Dunque Leonello continui a ben sperare di lui, e tanto di più – conclude significativamente – se le cose avranno esiti miglio- ri: si fortuna nostra in melius mutabitur. Tornando al matrimonio “napoletano”, non si può non cogliere una di quelle coincidenze che si accampano nell’immaginazione con la suggestiva insignifican- za della casualità. Nell’indagare sull’identità della candidata a quelle nozze non avvenute troviamo, oltre alla già menzionata Giovanna – la vedova che poco dopo si risposò con un Acquaviva d’Aragona – altre quattro figlie di Onorato Gaetani; difficile stabilire se in quel momento non fossero ancora accasate Isabella (che spo- sò Ugolino Trinci dei signori di Foligno), Porzia (che divenne la terza moglie del vecchio conte di Maddaloni, Diomede Carafa) o Vittoria (che andò sposa a un altro Carafa); ma per certo era già accasata Beatrice, moglie di Camillo Caetani di Ser- moneta e madre di quel Bonifacio (nato nel 1514) che nel 1540 sposò la primoge- nita di Alberto e di Cecilia Orsini, Caterina.

34 Sulle cariche ricoperte successivamente da Spinelli, sui suoi introiti e sui feudi poi acquisiti, SICILIA 2010, pp. 17, 129. 35 BAMI 468 [V.N. 434], 7, Massimiliano I imperatore, 1517 (FIORINA 1980, p. 109). La lettera è sottoscritta da Giorgio Gadio come segretario. 172 Luciana Saetti

Barent van Orley, Carlo d’Asburgo, 1516. Bourg-en-Bresse, Musée du Brou. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 173

Perplessità di Bannissi e un relator de malasorte Mentre non troviamo, nelle carte Lea, altri riferimenti al matrimonio napoleta- no, gli accenni all’incarico in Sicilia ricorrono invece in varie lettere di Iacopo Bannissi: perché se Alberto continua a ricevere scarse notizie dall’imperatore e da Lang, lui in compenso lo tiene diligentemente aggiornato su quanto accade a cor- te, senza dimenticare appunto le cose di Sicilia – come scrive l’1 maggio da Bru- xelles (documento XCIV) – di cui intende occuparsi ulteriormente approfittando degli incontri tra Carlo e Massimiliano. Nel dispiacersi della partenza di Lang, che torna in Germania, Bannissi espri- me ancora una volta il proprio avvilimento: me ne serria andato anchor io, se havesse poduto dar pur qualche forma al mio vivere et essere; ma sono reduto che non posso né andare né stare, né so dove andare; adeo che continuo mi trovo in piu perplexità. L’11 maggio, dopo aver assistito quella mattina, a Bruxelles, al giuramento del- l’alleanza con l’Inghilterra nella cappella della corte, scrive (documento XCV) per riferire – come aveva promesso – di aver visto di persona, in quella circostanza, le serenissime madame Margarita, figlia di Massimiliano36, et Leonora37, sorella di Carlo. E anche una Barbara piculina, non meglio identificata. Il primo maggio l’imperatore è caduto malato e si temeva una pleurite, ma dopo tre giorni era già a caccia col falcone. Anche re Carlo ha avuto qualche malanno ma si è ripreso, e sta per incontrare l’imperatore; in quell’occasione Bannissi cercherà di mandare a buon fine le cose de Sicilia. Intanto fervono i preparativi per la partenza di Carlo per la Spagna: il 25 maggio da Bruxelles (documento XCVI) Bannissi riferisce che il re è andato a Lovanio e sta per andare a Gand a congedarsi dagli Stati (l’assemblea rappresentativa delle pro- vince dei Paesi Bassi) e subito dopo andrà in Zelanda per prendere il mare. È sta- ta firmata, a Lier, l’ultima confederatione dei trattati di Cambrai, in cui dicono sia compreso il pontefice. Bannissi non ha visto gli articoli, ma è soddisfatto della notizia: se è così, e dato che ha firmato anche l’Inghilterra, nessuno può più costringere il papa a fare nulla contro la propria volontà, perché tutti gli alleati saranno obbligati a difenderlo. Lo scritto si chiude con un insolito avvertimento riguardo a un certo Michiel de Abbatis, che è stato segretario di Massimiliano Sforza e ora si dice segretario del- l’imperatore; è munito di salvacondotto e porta una lettera che lo raccomanda ad Alberto, ma questi faccia attenzione, non gli creda, non si fidi di lui e non lo lasci frequentare troppo la sua casa, perché he relator de malasorte.

36 Margherita d’Asburgo o d’Austria (1480-1530) figlia di Massimiliano e di Maria di Borgogna, governatrice dei Paesi Bassi fino alla maggiore età di Carlo. 37 Eleonora d’Asburgo, sorella di Carlo e cresciuta con lui alla corte di Margherita insieme alle sorelle Isabella e Maria. Nel 1518 fu data in sposa a Manuele I di Portogallo; rimasta vedova (1521), sposò Francesco I di Francia (1530). 174 Luciana Saetti

Un personaggio, insomma, più che sospetto. Il ruolo da lui ricoperto a Milano è attestato nel 1513, quando vi figura come cancelliere ducale38; in un documento del 20 ottobre 1515 risulta delegato al pagamento di 10.000 ducati l’anno a Tho- mas Wolsey a partire dal momento in cui Massimiliano Sforza avrà ripreso pos- sesso del ducato39. Si ha notizia della sua corrispondenza con Wolsey e con Schi- ner nel 1515 e nel 151740; secondo un’informativa del 1518 è al servizio dell’im- peratore41, presso il quale poi cade in discredito42. Risulta ancora attivo nel decen- nio seguente: Molini, nel riportarne due interessanti lettere del 1522 a Robertet (tesoriere di Francesco I) del quale figura allora al servizio, lo definisce «oscuro ministro di oscure pratiche»43. Il suo profilo, insomma, sarebbe quello di una spia; c’è chi considera il suo nome uno pseudonimo.

Saccheggi nel carpigiano e scambi di cortesie In Italia intanto è ancora in corso la guerra di Urbino, della quale Alberto rife- risce dettagliatamente all’imperatore il 21 agosto (documento XCIX), i recenti svi- luppi militari e diplomatici. Si tratta di un lungo scritto, denso di notizie rilevanti: sulle incertezze del papa, in attesa di sapere se arriveranno i fanti chiesti agli sviz- zeri, e in quale numero, o se dovrà assoldare anche i lanzichenecchi offerti dal- l’imperatore; sul fallito tentativo di accordo con Francesco Maria della Rovere; sull’arrivo a Roma di suoi ambasciatori, che il papa non ha ricevuto personalmen- te e di cui ha subito rigettato le richieste come disonorevoli. In quell’occasione Alberto ha agito secondo le istruzioni portate da Rorario44, cercando di persuader- lo a non interrompere la trattativa ma ad accelerare i tempi per evitare che qualcu- no approfitti di questa guerra. Nel frattempo Francesco Maria della Rovere ha attaccato i duemila svizzeri accampati presso Rimini ed è stata una dura battaglia, con circa settecento caduti in ciascuno dei due schieramenti. Si è poi stipulata una tregua di dieci giorni, e a Roma è arrivato un altro oratore con condizioni meno ini- que. Il papa è giunto alla decisione che l’imperatore vedrà dalla copia allegata, e aspetta la risposta. Tra le altre notizie, la situazione di Mirandola: i Trivulzio e gli altri soldati sti- pendiati dal re di Francia che assediavano la città si sono dati a scorrerie nelle cam- pagne portando via tutto il raccolto e hanno distrutto e incendiato anche alcune vil- le nel territorio di Carpi, dove hanno fatto gran preda di bestiame. Alla fine, aven-

38 SANTORO 1968, p. 387. 39 BREWER 1864, II, I, p. 279. 40 Il 12 novembre 1515 scrive da Innsbruck a Enrico VIII e a Wolsey (Ibid., p. 301). 41 «It is true that the Emperor sent Michael Abbatis Asten. to recommend Cardinal Hadrian.» (BREWER 1864, II, II, p. 1371). 42 Robert Wingfield a Thomas Wolsey, Bruxelles, 14 febbraio 1522 (BREWER 1867, III, II, 1, p. 881) 43 MOLINI 1836, pp. 152-160. 44 Il pordenonese Girolamo Rorario (1485-1556), umanista e diplomatico, mandato in missione dall’imperatore per una conciliazione tra Leone X e Francesco Maria della Rovere. Sulla sua figura, SCALA 2006, pp. 25-41. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 175 do saputo che stavano arrivando delle milizie messe insieme per soccorrere Miran- dola, hanno desistito e levato l’assedio. Facendosi poi tramite di uno scambio di cortesie tra sovrani, Alberto scrive di aver consegnato al papa la lettera con cui l’imperatore lo ringraziava per aver ele- vato alla dignità cardinalizia Lorenzo Campeggi45, vescovo di Feltre; ha aggiunto a quello scritto, secondo le istruzioni ricevute, un discorso più ampio in nome del- l’imperatore stesso, con una richiesta al papa di nuovi benefici per il neo-cardina- le in considerazione delle ingenti spese da questi sostenute come legato pontificio alla corte imperiale. Il papa ha accolto con molta benevolenza tale raccomanda- zione e poi, rivolgendogli un sorriso, ha soggiunto che ricambierà l’interessamen- to dell’imperatore per gli oratori pontifici facendo altrettanto per quelli imperiali presso la Santa Sede. Alberto osserva in proposito come molti prelati ambiscano a una legazione in Germania, quasi convinti, dato che è accaduto già in due casi, a Grassi46 e a Campeggi, che chiunque assuma questo incarico tornerà a Roma insi- gnito della dignità cardinalizia.

La “faccenda di Worms” Tra le altre notizie che si impongono all’attenzione, nella medesima minuta del 21 agosto, ci sono le vicissitudini di tale Joannes Hettelberger, associate alla “fac- cenda di Worms”47 della quale Alberto scrive che si sta occupando alacremente. Anche se non entra nello specifico, si riferisce a una sentenza contro la quale Het- telberger si è appellato, per cui si tratta di trovare il modo di soddisfare l’impera- tore con il minor danno possibile alla dignità della Santa Sede. Alberto racconta di aver fatto convocare Hettelberger e di averlo apostrofato con parole severe e minacciose per la sua presunzione di sostenere questa causa contro i decreti dell’imperatore. Era presente Stefano Rosino48, del quale costui si lagnava, molto risentito.

45 In una lettera ad Alberto del 13 luglio 1517 da Augusta (documento XCVII) Lorenzo Campeggi si effonde in ringraziamenti nei confronti di Alberto per il sollecito interessamento con cui ha con- corso alla sua promozione al cardinalato. 46 Il bolognese Achille de’ Grassi (1465-1523), mandato in Germania da Giulio II nel 1510 e fat- to cardinale l’anno seguente. In occasione di quella missione, però, l’imperatore non era stato affat- to benevolo con lui (S. TABACCHI, Grassi, Achille, DBI, vol. 58, 2002). 47 Hettelberger era cittadino di Worms; il suo nome compare in una notizia frammentaria su una veri- fica contabile dalla quale sarebbe emersa una sottrazione di denaro da parte dei rappresentanti della città. Vi compare anche il nome di Franz von Sickingen come promotore dell’accusa di peculato. Si ha anche notizia di un Hans Hettelberger, di Worms, dichiarato fuorilegge da un decreto imperiale (Hagenau, 2 dicembre 1516). https://books.google.it/books/about/W_Ir_Maximilian_Als_wir_verschiener_zeit.ht- ml?id=ZZuPtgAACAAJ&redir_esc=y. 48 Sulla sua posizione a Roma e sui suoi rapporti con gli umanisti tedeschi in relazione al lungo processo a Johannes Reuchlin, v. Deutscher Humanismus 2012, s.v. Rosinus, Stephanus. In JACOBY 2011, pp. 267-268, nota 5, si fa riferimento a una sua lettera a Iacopo Bannissi, anch’essa del 21 ago- sto, nella quale è menzionato Hettelberger (MAX, 37, 138v). 176 Luciana Saetti

A suscitare curiosità su questi fatti, più che i problemi politico-istituzionali che sembrano sottendere, è soprattutto il semisconosciuto personaggio che nel raccon- to di Alberto arriva a prendere tutta la scena, portato in primo piano a evocare la classica figura del perdente senza remissione: “[Hettelberger] ha detto molte cose per giustificarsi e discolparsi, deplorando e pian- gendo la propria disgrazia e la privazione dei suoi beni, sudicio e trasandato negli abi- ti e nell’aspetto, con la barba lunga, non diverso da un mendicante; e addirittura non sembra sano di mente, a meno che non stia simulando”. Alberto propone un atto di clemenza; se l’imperatore volesse essere indulgente nei suoi confronti, agirebbe in modo compassionevole: “infatti costui piange davanti a tutti, spargendo lacrime ovunque, per cui suscita com- miserazione in alcuni di coloro che trattano questa causa; dicono comunque che, atter- rito dalle mie parole, abbia lasciato Roma e abbandonato la causa”.

Millecinquecento fiorini de Rheno e il denaro del cardinale Adriano Novità di carattere pecuniario arrivano da Iacopo Bannissi il 14 agosto 1517, da Middelburg (documento XCVIII): il tesoriere Villinger ha promesso che, non appe- na sarà ad Anversa, farà avere ad Alberto millecinquecento fiorini de Rheno49. In quel momento Carlo sta ancora aspettando il vento favorevole per navigare verso la Spagna; ma se entro la fine del mese il vento non cambia – si preoccupa Bannissi – non si sa come potrà mettersi in mare con l’arrivo dell’autunno, quan- do in quei luoghi il mare è più tempestoso che d’inverno. Tra le altre notizie, quella del ritorno a corte di Robert Wingfield come orato- re del re d’Inghilterra; di qui il discorso passa alla fuga da Roma di Adriano Castellesi, coinvolto nella “congiura dei cardinali”50: quando a Londra lo si è saputo, prontamente Thomas Wolsey ha ottenuto dal re la diocesi di Bath, di cui quello era stato privato, e dubito – è il commento di Bannissi – che difficilmente may se li cava più quella Chiexia da le mano. Riferisce anche che nello scrivere all’imperatore raccomandandosi a lui, Castellesi ha raccontato, tra le sue disgra- zie, come Alberto fosse andato con il cardinale Cibo a casa sua, di notte, a esige- re quel denaro che egli non aveva. Quanto al cardinale Riario, si è saputo della sua reintegrazione: de che ne ho singolarissimo apiacere; non dubito che la opera de la S.a V. lo habi salva- to, et certo ha fato gran ben, et Dio la remunerarà.

Qualche settimana dopo, il 4 settembre (documento C) i millecinquecento fiori- ni sono già stati depositati presso il banco dei Fugger ad Anversa, con l’invio del- la relativa lettera di cambio che Alberto dovrebbe ormai avere ricevuto. Bannissi

49 I fiorini tedeschi, di vario tipo, erano di peso e titolo aureo minore dei ducati o fiorini emessi dalle zecche italiane. Il fiorino renano era la moneta più usata nella Germania occidentale. 50 Castellesi aveva lasciato Roma alla fine di giugno, riparando a Venezia. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 177 gli raccomanda di avvisarlo se il cambio risulterà svantaggioso, come è probabile dato che quei banchieri soleno esere asay duri. Il tesoriere, poi, ha detto che verserà ad Alberto un’identica somma il prossimo gennaio, e in proposito Bannissi non trattiene un commento indispettito: ma che cossa he questa, ad tante spese che ha fato et fa continuamente la Signoria Vostra per la Maestà Cesarea. Si avvicina l’equinozio d’autunno e le condizioni del tempo non permettono ancora a Carlo di imbarcarsi dalla Zelanda per la Spagna. Un po’ agitato anche lui come il tempo che impedisce la navigazione, Bannissi si chiede come si farà a met- tere tanto re in questo mare, ed esclude che in alternativa Carlo possa salpare dal- l’Inghilterra, per questo sudor che amaza i homini – è l’epidemia che colpì Londra nell’agosto 1517 con la peste detta “del sudor freddo” – e in VI in VII et in 24 hore spaza: ti fa fuori nel giro di poche ore, massimo un giorno. I frequenti riferimenti all’Inghilterra sono dovuti al fatto che Bannissi in quel periodo e già nei due anni precedenti manteneva continui contatti con i diplomati- ci inglesi, in relazione alla politica di alleanza con Enrico VIII intrapresa da Massi- miliano. Riferisce infatti, qui, di aver scritto a Bartolomeo Tizzoni, che si trova là come oratore imperiale, della difficile situazione del pontefice, al quale nessuno dà aiuto (per la guerra di Urbino) perché ne parlasse con Wolsey; e questi ha risposto che la colpa è del papa: se fosse entrato nell’alleanza con l’Inghilterra, ora il suo re farebbe quanto deve per difenderlo. Ma – commenta un po’ sconcertato Bannissi – non aveva detto, il papa, di avere approvato l’alleanza e di esservi entrato segreta- mente? A ogni modo, allega la lettera che ha ricevuto. Invia ad Alberto anche un documento che questi gli ha richiesto: si tratta della reserva del marchesato di Massa (concessa da Massimiliano nel 1514)51, privilegio che ha consegnato per lui, ben ocluso et obsignato, al cardinale Colonna approfit- tando della sua venuta a corte.

51 L’originale del diploma imperiale (in data 4 maggio 1514, con patente esecutoria 8 dicembre 1514) si conserva in BAMI, 282 [V.N. 254], 2, Cass. 97; con esso l’imperatore assegnava ad Alberto l’investitura o meglio, come la definisce qui Bannissi, la reserva del marchesato di Massa, vale a dire un’investitura a determinate condizioni, in questo caso l’estinzione senza eredi maschi del marchese Alberico II Malaspina (1481-1519). Alberto non entrò mai in possesso del feudo, che nel 1520 pas- sò ai Cibo attraverso il matrimonio di Ricciarda Malaspina, erede di Alberico, con Lorenzo Cibo, nipote di Leone X. Ricciarda era rimasta vedova, poco dopo la morte del padre, di Lorenzo Fieschi; ottenne poi l’investitura del marchesato da Carlo V nel 1529. VIANI 1808, pp. 22, 88-90; NARDI 1858, p. 30. 178 Luciana Saetti

DIMENTICARE L’IMPERATORE?

Quando, il 6 settembre, Alberto scrive a Lang (documento CI) non sa ancora niente del denaro di cui gli è stato preannunciato l’arrivo. Al solito, si lamenta del- le sue poche e sbrigative lettere, nelle quali oltretutto ha solo saputo dirgli di scri- vere a qualcuno che insista con il tesoriere in modo da accorciare i tempi: ma lui non vede a chi mai dovrebbe scrivere ancora, dopo aver già chiesto agli agenti dei Fugger che operano a Roma di sollecitare in questo senso i propri colleghi in Ger- mania. D’altra parte non sa nemmeno a che cosa potrà giovargli, quella piccola somma che è già stata “due volte deglutita e digerita” da quando gli è stata asse- gnata, e che non potrà certo sostentarlo in futuro. In attesa di una soluzione dall’imperatore, al quale si è rivolto per lo stesso motivo, si augura che questi gli risponda sollevandolo da tutte le spese e i disagi, liberando così anche se stesso dal servizio che gli presta e dal relativo incomodo e dispendio che gli causa. Chiede dunque a Lang di adoperarsi perché gli sia concesso di votarsi agli osse- qui di un qualche principe che possa e voglia, oltre che sostentarlo, accrescere la sua condizione, dato che finora non è stata fatta per lui nessuna delle due cose. Non può aspettare più a lungo, se non vuole godere di un qualche benessere solo dopo morto; e Dio gli è testimone che se potesse usufruire del proprio Stato con sicu- rezza e tranquillità, trascorrerebbe contento il tempo che gli rimane da vivere, dicendo per sempre addio al servizio dei principi. Tuttavia, dovunque sarà, rimar- rà sempre devoto all’imperatore, e non sarà mai immemore dell’onore di cui l’ha stimato degno. Non ha potuto dargli ciò che doveva, ma gli ha dato ciò che ha potu- to, con fedeltà e integrità. Quanto a Lang, voglia credere che gli è dolorosissimo ciò cui è costretto per necessità e per pudore: perché tutti lo deridono sapendo in che modo sia stato considerato e trattato. Alberto si esprime, questa volta, in termini ultimativi e sfoga con enfasi una cri- si di insoddisfazione e di sfiducia: alla sua situazione può cercare di porre rimedio soltanto lasciando, seppure a malincuore, l’imperatore per mettersi al servizio di un altro principe. Quest’“altro principe” non può che essere, per lui, che il papa: alternativa da cui cerca di dissuaderlo Bannissi, in una lettera del 21 settembre 1517 e in un’altra non datata (documenti CIII e CIV). Pur prendendo atto dei suoi problemi, non giudica assolutamente conveniente che Alberto lasci l’imperatore per passare a servire il pontefice: potrebbe invece servire entrambi bene e fedelmente, mantenendoli con- cordi e unanimi. E poi i pontefici passano, e spesso i successori sono dei nemici, mentre chi serve l’imperatore serve anche i suoi figli. Quanto alla questione economica, dovrebbe incoraggiarlo il fatto che Villinger abbia promesso di costituire per lui una provision ordinaria ossia un compenso fis- so, una pensione. Bannissi si sta dando da fare perché gli arrivino al più presto quei sospirati fiorini, e al cambio più vantaggioso. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1517) 179

Le “cose de Sicilia” e un crescendo rivendicativo Le premure di Bannissi non finiscono qui: in un’altra lettera non datata (docu- mento CV) ma collocabile nel mese di ottobre, ritorna sulle cose de Sicilia dando ad Alberto i suoi consigli: la cosa migliore è che mandi dall’imperatore Sigi- smondo Santi, che è in grado di negoziare meglio di chiunque altro; e riguardo a quell’incarico gli faccia dire che lui, Alberto, mai cercò tal cosa e per essa non è disposto a fare né spendere nulla; ma che, trattandosi di un servizio per l’una e l’altra maestà (ossia l’imperatore e il re di Spagna), e se le condizioni sono con- venienti, farà il proprio dovere come ha fatto finora. Se l’incarico gli viene dato, il consiglio di Bannissi è che Alberto lo accetti, perché è onorevole e non indegno di lui; ma non lo chieda, per non rischiare un umiliante rifiuto. Questi suggerimenti mostrano che, almeno a giudizio di Bannissi, i giochi non erano ancora chiusi e che, indicandogli la strategia più opportuna, egli rispondeva probabilmente a una sollecitazione di Alberto, ancora in attesa – tra imbarazzo e irritazione, si può pensare – di una parola definitiva sulla questione. Detto ciò, Bannissi ribadisce l’opinione che Alberto, anche se intende metter- si al servizio del pontefice, non debba abbandonare quello dell’imperatore, per- ché ne avrà così anche un terzo, per il re Cattolico; e ha bisogno di tutte queste protezioni, per la grandezza de li inimici soi. Con argomentazioni analoghe a quelle delle lettere precedenti, gli raccoman- da di chiarire tutto quanto con l’imperatore stesso, e di chiedere che gli assicuri quel compenso fisso che Villinger ha promesso; ma se alla fine non vorranno concedergli nulla, allora potrà chiedere licenza senza sembrare in difetto dando l’impressione di mirare a un altro servizio; al contrario, risulterà che assume un altro servizio perché loro sono in difetto con lui. Come preso, per immedesimazione, da un crescendo rivendicativo, Bannissi esorta Alberto a sollecitare attraverso il suo emissario il pagamento dei millecin- quecento fiorini, perché non se ne scordino, come farebbero volentieri – lui lo sa bene – se nessuno glielo ricordasse; e, ancora, chieda che l’imperatore esiga dal re di Francia un risarcimento dei danni arrecati dai Trivulzio a Mirandola e soprattutto ai suoi possedimenti di Carpi, in quanto soggetti all’impero; e che lo condanni come perturbatore e violatore della pace; infine – e qui Bannissi alza ulteriormente la posta – solleciti l’imperatore a non confermare l’alienazione di Modena e Reggio, e a tenersi Modena in pegno del suddetto risarcimento.

“Quasi tutto tace, forse per l’imperversare dell’inverno” Forse queste esortazioni ebbero un qualche effetto su Alberto, e soprattutto dovette finalmente arrivargli una qualche somma. Sta di fatto che negli scritti successivi non si fa più alcun cenno al denaro. Non sappiamo nemmeno se aves- se poi mandato Sigismondo Santi a chiudere definitivamente la questione sici- liana, come gli consigliava Bannissi. 180 Luciana Saetti

In una breve minuta si felicita della notizia che Carlo è approdato in Spagna (30 ottobre, documento CVI); in un’altra annuncia il ritorno in Germania di Girolamo Rorario (15 novembre, documento CVII). L’argomento centrale di una minuta del 7 novembre (documento CVIII), senza indicazione dell’anno ma collocabile nel 1517 per i riferimenti alla conquista del- l’Egitto da parte del sultano Selim (Solimano) è il discorso di Leone X agli oratori presso la Santa Sede sui grandissimi pericoli in cui versa la “repubblica cristiana universale” per l’avanzata del “massimo nemico del nome cristiano, il sovrano dei turchi”, e sulla necessità che i principi prendano decisioni per una spedizione asso- lutamente necessaria, dichiarando che cosa intendono offrire per tale guerra. Il pontefice ha ingiunto a tutti gli oratori di scrivere ai rispettivi principi in proposi- to, e per primo ad Alberto, dato che l’imperatore è “la difesa e il capo della repub- blica cristiana”; ha chiesto che ciascun principe rifletta sulla gravissima minaccia che incombe e gli comunichi la propria decisione su tale spedizione dichiarando, insieme, ciò che intende offrire per questa guerra. Arriviamo così all’ultimo scritto, del 26 dicembre (documento CIX). Alberto vi rinnova il solito disappunto per la rarefazione degli scambi epistolari: l’ultima let- tera che ha ricevuto dall’imperatore risale alla fine di ottobre. Gli aggiornamenti d’ufficio riguardano la nomina di Campeggi a cardinale protettore della Germania e i conseguenti malumori del cardinale Colonna; la richiesta del cardinalato per Alberto di Hohenzollern, vescovo e principe elettore di Magonza, che per ora il pontefice non potrà soddisfare data la recente creazione di numerosi cardinali; ma lo farà in via straordinaria non appena gliene offrirà l’occasione la morte di un car- dinale o qualche altra circostanza. Altra questione è quella del carcere per i reli- giosi, che l’imperatore desidera siano puniti senza però essere privati dell’ufficio sacerdotale. Infine, le opinioni del pontefice sui diversi partiti su cui sta trattando, per il nipote Lorenzo, sia con il re di Francia sia con Carlo52. Oltre che di matri- moni, il papa si occupa solo di un’altra questione, la spedizione contro gli infede- li. Sugli affari di stato Alberto ha poco da scrivere; tutto sembra tacere, forse per l’imperversare dell’inverno: videntur enim nunc omnia fere silere, quod forte acci- dit hyemis saevitia.

52 Le candidate, in quel momento, sono una nipote di Chièvres e una figlia del “Gran capitano” (Gonzalo Fernández de Córdoba). V. in proposito Documenti risguardanti Giuliano de’ Medici e il pontefice Leone X, «Archivio storico italiano», Firenze 1842-1844, Appendice, t. I, n. 8, p. 318 nota 1: «Cercando in un copia lettere assai voluminoso di Goro Gheri pistoiese, vescovo di Fano, gover- natore pei Medici di Parma e Piacenza e poi di Firenze, qualche notizia intorno a questo progetto di maritare a Lorenzo una parente del Re Cattolico, trovammo che costei era la nipote del duca di Chie- vres, il quale fu ajo di Carlo V. Nel medesimo tempo però il Papa e l’Alfonsina madre di Lorenzo mantenevano per lui vive pratiche di matrimonio con una figlia del Gran Capitano, con Bona figlia d’Isabella d’Aragona, la quale sposò l’anno seguente Sigismondo re di Polonia, colla figlia di Gio- vanni d’Albret re di Navarra e finalmente con Maddalena de la Tour contessa di Boulogne e d’Au- vergne, nipote del duca di Vendome e cugina del re Francesco. A quest’ultima si sposò Lorenzo solen- nemente in Parigi il 25 aprile 1518». 1518-1523. Nel labirinto

Abbiamo lasciato Alberto nell’immobilità quasi straniante di un tempo sospe- so, il giorno di Santo Stefano del 1517. È questa l’immagine che ci restituisce il suo ultimo scritto nelle carte Lea. Per gli anni successivi, fino al 1523, si conser- vano alcune altre lettere dei suoi corrispondenti, altri frammenti di tempo che si sgranano nello scorrere delle sue vicende. Del 1518 abbiamo una lettera di Leonello, del 10 febbraio, da Carpi (documen- to CX). Finalmente ottenuto un incarico da Massimiliano1, è in attesa del compen- so che gli è stato assegnato e che per ora non ha avuto né il tutto né parte: il ritar- do, spiega, è dovuto agli impegni del tesoriere. L’imperatore gli ha anche scritto di essersi adoperato per la condotta che gli è stata promessa dal re Carlo nel Reame (di Napoli). Dal canto suo, essendo desideroso e bisognoso di entrambe le cose, e avendo saputo che l’imperatore è “molto vicino”, avrebbe pensato bene de fare uno volo per raggiungerlo e per cavare li denari a sufficientia per simile bisogno, ossia per organizzare quella condotta. Sull’onda di una fretta sempre un po’ smaniosa, chiede ad Alberto, se non l’a- vesse ancora fatto, di sollecitare l’abate di San Benedetto perché saldi un debito che ha con lui. Infine gli ricorda anche di essere in attesa di una sua risposta sulla pratica de Montechio: si tratta del castello che nel 1514 Leone X aveva voluto dare, per riguardo ad Alberto, a Paola Gonzaga e che nel 1519 fu assegnato a Ludovico Rangoni, fratello di Guido2.

Gli sponsalitii di Alberto Leonello scrive questa lettera pochi giorni prima delle nozze di Alberto e Ceci- lia Orsini. Della cerimonia e dei festeggiamenti, che ebbero inizio il 14 febbraio, rimangono numerose testimonianze3 e, data l’imminenza dell’evento, ci aspette- remmo qualche accenno in proposito; ma il caso ha voluto che a noi pervenisse sol- tanto questa tra le sue lettere di allora. Nelle carte Lea, l’unico documento che rimanda agli sponsalitii di Alberto è una bozza di strumento notarile datata 28 apri- le 1518 e relativa a una parte della dote di Cecilia (documento CXI). Quattromila ducati da versarsi in tre anni, più la cessione del “casale” di Vaco- ne, in Sabina: questo l’oggetto dello scritto sul quale compare l’annotazione: Spon- salitii / Copia de la conssignatione de Vachone / Et recordo Ill. notaro. Il soggetto interessato è il cardinale Franciotto Orsini, cui corre l’obbligo di onorare, nei con- fronti di Alberto, i relativi capitoli degli sponsali della figlia. Par di capire – perché

1 Si veda la già citata lettera di Massimiliano da Baden, 1 ottobre 1517, p. 171. 2 ARCANGELI 2003, p. 100. 3 V. S VALDUZ 2001, pp. 356-360; SEMPER, SCHULTZE, BARTH 1999, pp. 462-467. 182 Luciana Saetti si fatica a decifrare questa brutta copia così ingarbugliata, di cui magari esisterà ancora, chissà dove, una versione in chiare lettere – che la somma stabilita sarà cor- risposta sotto forma di usufrutto e garantita dalle rendite anche di altri possedi- menti, con la clausola che se la rendita annua sarà inferiore o superiore al dovuto si procederà a un conguaglio. Come è noto, alla dote della sposa, che comprendeva anche i castelli di Poggio e Sommavilla, Leone X aggiunse (finalmente) San Felice4, più altre terre in Roma- gna, Meldola, Sarsina, Bertinoro; inoltre il papa diede, in moneta sonante, nove- mila ducati d’oro che si aggiunsero ai seimila del padre della sposa5. Di quest’ulti- ma notizia l’ambasciatore Costabili scriveva al marchese di Mantova, il 13 gennaio 15186, dicendo di averla avuta da uno amico; dal che si può dedurre che il matri- monio di Alberto fu stabilito poco tempo prima. Lasciando il solito Ciarlini a inneggiare alla romana propago7 che veniva ad accrescere il prestigio, nonché le sostanze, del principe di Carpi, possiamo chie- derci quali fossero le implicazioni politiche di quel matrimonio. Il padre della sposa, quasi coetaneo di Alberto essendo nato nel 1473, discen- deva dagli Orsini di Monterotondo ed era cugino di Leone X8; aveva abbracciato la carriera ecclesiastica dopo la morte della moglie ed era stato fatto cardinale nella grande promozione del luglio 1517, insieme con altri esponenti della nobiltà roma- na tra i quali Pompeo Colonna. Senza addentrarci, qui, nelle complesse problema- tiche dei rapporti tra i membri di queste potentissime famiglie romane e tra le medesime e il papato nonché con le potenze europee9, basti ricordare che l’appar- tenenza alla famiglia Orsini qualificava Franciotto come filofrancese e che, nel luglio 1520, egli non si presentò all’incontro dell’ambasciatore di Carlo V con gli alti prelati e con i sudditi spagnoli a Roma eventualmente disposti ad appoggiare la politica imperiale10. In ogni caso, la scelta matrimoniale di Alberto appare del tutto coerente con quell’esigenza di consolidare la propria posizione presso il pontefice che si può considerare uno dei motivi delle sue personali riserve riguardo all’incarico in Sici- lia; il medesimo incarico che Vich, per rimanere a Roma, rifiutò decisamente11.

4 V. il breve del 4 marzo 1518 al governatore di quel castello perché riconoscesse Alberto come vicario perpetuo della Santa Sede, BAMI [V.N. 254], 3. 5 SABATTINI 1994, p. 53. Sull’entità di tali somme, però, si hanno notizie discordanti: secondo altri il papa diede 13.000 ducati e l’Orsini 7000 (Giovanni Perlotto a Marco Foscari, Roma 28 febbraio 1518; testo in SVALDUZ 2001, p. 358). 6 Costabili al marchese di Mantova, 13 gennaio 1518 (cit. in SEMPER, SCHULZE, BARTH 1999, p. 462). 7 Si vedano i versi riportati, dal suo De arbore poetarum, in MORSELLI 1931, p. 203. 8 Franciotto Orsini (m. 1534) era fratello di Clarice Orsini, moglie di Lorenzo il Magnifico. 9 Si vedano in proposito SHAW 2003; SERIO 2008. 10 Sul suo conto l’ambasciatore imperiale Juan Manuel riferiva che, in base a quanto sapeva e gli era stato detto, l’Orsini non era né sarebbe stato mai disposto e idoneo a servire l’imperatore (N. BAZ- ZANO, Orsini, Franciotto, DBI, vol. 79, 2013; SERIO 2008, p. 465). 11 Sull’importanza, per Vich, della permanenza a Roma v. il già citato SERIO 2003, pp. 454 sgg. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1518-1523) 183

Quel partito dunque, per Alberto, è più che un’opportunità residuale e, in ogni caso, apre finalmente una prospettiva alle sue speranze di avere un erede: me sono maritato per desiderio de non morire senza posterità, scriveva al segretario del marchese di Mantova, Tolomeo Spagnoli, il 23 marzo 151812, dopo aver saputo che quel matrimonio aveva indignato il Gonzaga. Alberto scrisse dell’evento a Isabella d’Este il 15 febbraio13, il giorno immedia- tamente successivo agli “sponsali”; il rito nuziale fu celebrato il 28 febbraio e tra queste due date si svolsero i festeggiamenti, anch’essi di rito come l’ostentazione della magnificenza che ne costituiva la ragion d’essere. Sotto questo aspetto, la vita romana di Alberto non fu mai priva di occasioni per rappresentarsi nel mondo con la grandiosità cui aspirava. Dei suoi ricevimenti troviamo gli echi in alcune notizie registrate da Sanudo, come quella del banchetto che fece seguito al conferimento di un’onorificenza pontificia a due capitani svizzeri: Poi il signor Alberto di Carpi li dete una sontuosa cena con molte sorte di vivande et bandison et musiche; il qual signor Alberto fa molto il grande14. Il buon matrimonio, insomma, sembra dare ad Alberto un sollievo alle frustra- zioni e difficoltà in cui l’abbiamo visto ancora immerso alla fine del 1517. Ma rimane pur sempre il nodo, tenace e complesso, del suo rapporto con l’imperatore e con Carlo: che non verrà reciso da lui, magari con un epico fendente di spada, ma dalla somma delle circostanze e delle forze in gioco, e comunque a partire da que- sto momento in cui, di fatto, Alberto instaura un legame privilegiato con il papa. Ciò implicherà il suo coinvolgimento, per conto di quest’ultimo, nei rapporti con la Francia: un effetto collaterale che diventerà, alla fine, una scelta obbligata e a tutti gli effetti.

Un matrimonio mantovano in casa Gambara Un altro progetto matrimoniale è l’argomento della lettera che, il 15 agosto 1518, Leone Grillenzoni scrive da Carpi ad Alberto (documento CXII). Qui è tornata, da Guastalla, Madonna Alda (Alda Pio, figlia di Marco II e vedo- va di Gianfrancesco Gambara15) che lo ha convocato per parlargli di un matrimonio al quale è contraria. Infatti il protonotario, suo figlio Uberto Gambara, è in trattati- ve per maritare la sorella Violante con il cavaliere cognato di messer Tolemeo (si tratta di Valente Valenti, cognato del segretario del marchese di Mantova, Tolomeo

Al rifiuto da lui opposto, nel 1516, alla nomina a viceré di Sicilia, respinta poco dopo anche da Car- dona, accennano VISCEGLIA 2001, p. 82; HERNANDO SÁNCHEZ 2001, pp. 230-231. 12 Testo in GUAITOLI 1877, pp. 391-394. 13 Ibid., pp. 390-391. 14 SANUDO, XXX 254, da un dispaccio di Marco Minio alla Signoria, 15 maggio 1521. 15 Gianfrancesco Gambara, di nobile famiglia bresciana, era morto nel 1511; quando, nel 1516, Brescia fu presa da Lautrec e tornò ai veneziani, Alda riparò a Carpi. Ricordiamo che dei suoi figli, almeno sette e di cui due menzionati qui, una era la celebre Veronica, allora già sposata a Correggio. 184 Luciana Saetti

Spagnoli), sebbene Alberto gli abbia fatto presente che si tratta di un matrimonio non abbastanza onorevole per la sua casa. Perciò Alda ha pregato Grillenzoni di parlare a Uberto per persuaderlo a non abbassare la propria condizione. Così egli ha fatto, ma il protonotario gli ha detto che la cosa sta andando a buon fine e che lo sposo è ricchissimo, e il marchese di Mantova gli darà un castello e lo farà de casa Gonzaga, assicurandogli un’ottima contraddote. Ha concluso che, con due sorelle che hanno già passato l’età da mari- to, deve attaccarsi a quello che può e anche se lo sposo non è di alto lignaggio, è un partito che non gli sembra indecoroso; comunque si consiglierà con gli amici. A questo punto – riferisce ancora Grillenzoni – vedendolo così propenso a conclu- dere, lui non ha replicato granché; e crede che il matrimonio si farà anche se la madre è di parere contrario. Sappiamo che quel matrimonio fu effettivamente con- cluso, e che Valente Valenti ricevette dal marchese di Mantova il diritto di fregiar- si delle insegne e del nome dei Gonzaga.

Carpi e la fiera d’agosto Subito dopo, la lettera di Grillenzoni ci regala un’istantanea di Carpi in quel giorno di Ferragosto: La fera che hogi si è facta qua è stata assai più trista dil mercato se li fece giovedì pas- sato; la oferta anchora credo serà stata debile. Sembra di vederla, la piazza, in una luce crepuscolare, nel disperdersi dell’ani- mazione e della gente che la fiera del 15 agosto richiamava a Carpi dai dintorni, a fare affari e a divertirsi. La ricorrenza coincideva con quella religiosa dell’Assun- ta, alla quale Alberto dedicò la collegiata allora in costruzione. Nel 1516 dispose che quel giorno tutti partecipassero al solenne cerimoniale cittadino “dell’offerta”, il contributo che ciascuno era tenuto a versare per la fabbrica della nuova chiesa, fissato in proporzione al suo patrimonio e condizione; il signore di Carpi vi con- tribuiva con 200 scudi16. Grillenzoni conclude brevemente, sapendo che Alberto ha già avuto esaurienti informazioni da altri, con un accenno ai cantieri: qua mi pare se lavori con molta lentezza17.

Contrattempi Nel settembre 1518 Alberto è alle terme a Vignone (Siena), come apprendiamo da quanto Leonello gli scrive da Novi il giorno 12 (documento CXIII): ha ricevuto una sua lettera del giorno 5 da quella località, ma non l’altra che Alberto dice di avergli scritto perché andasse a incontrare il duca di Urbino, Lorenzo de’ Medici, che nell’agosto si era fermato a Modena durante il viaggio di ritorno dalla Francia

16 MAINI 1849, pp. 9-13; SVALDUZ 2001, pp. 200, 234 nota 190 (fonti archivistiche). 17 Sull’avanzamento dei lavori per la collegiata e sul «ripiegamento» di quel progetto edilizio nel 1517-1518, SVALDUZ 2001, p. 201. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1518-1523) 185 dove si era celebrato il suo matrimonio con Madeleine de la Tour d’Auvergne. Anche questa volta Leonello deve giustificarsi per aver scontentato il fratello: quella lettera non gli è mai arrivata, e quando Sigismondo Santi gli ha scritto a sua volta per lo stesso motivo era troppo tardi, perché a quel punto il duca era già a Firenze. Le rimostranze di Alberto devono essere state piuttosto aspre se Leonello, dopo aver dichiarato di voler essere sempre per lui obediente fratello et servitore come è stato per il passato, cerca di neutralizzarle addebitando la sua irritazione alla cattiva salute: ma credo che la indispositione sua sia più presto causa di farla colericha verso di me che la ragione; per questo desidera ancor di più vederlo sano e gagliardo. Il soggiorno di Alberto ai bagni è piuttosto prolungato: [il] signor Alberto è alcuni mesi è fuora di Roma a Siena, a mutar aere, etiam per star lontano di la moglie, ch’è restata in Roma graveda scriveva Sanudo alla fine di ottobre18. Pochi mesi dopo nasceva la primogenita, cui Alberto diede il nome della propria madre, Caterina.

LIBERO DA UN CLEMENTISSIMO PADRONE

La notizia della morte di Massimiliano d’Asburgo apre la lettera (documento CXIV) che Leone Grillenzoni scrive ad Alberto il 13 gennaio 1519 da Wels, in Austria. L’imperatore si è spento il giorno precedente, e Alberto ne sarà stato già informato dalla comunicazione fatta immediatamente al pontefice dal cardinale di San Sisto (il legato pontificio Tommaso De Vio). La solennità del momento e l’e- mozione suggeriscono a Grillenzoni un compunto quadro delle ultime ore del sovrano: l’estrema unzione, il pianto degli astanti, le volontà testamentarie, com- presa quella di essere sepolto more pauperorum et che non li siano extracte le viscere come si costuma ai grandi signori, il pubblico perdono ad amici e nemici, e la fine: dicendo nel passare bene in tedesco vadamus et essendo interrogato dove, rispose ad regnum coelorum, et sic obdormuit. Grillenzoni scrive solo all’indomani dell’evento, non avendo potuto usufruire immediatamente del corriere. Lang non è sul posto ma si trova ancora a Linz, e non c’è nemmeno il nunzio Caracciolo, che è ad Augusta.

«Ma qua siamo tutti faliti» Quanto agli incarichi per cui è stato mandato lì, non c’è bisogno di dire quanto poco abbia potuto concludere date le circostanze: Alberto può immaginarlo da sé, quindi è inutile scendere in particolari, tanto più che gliene potrà parlare a voce perché tornerà presto in Italia. Lui ha fatto quel che poteva, ma tutto è andato a rovescio e delle persone con cui doveva trovarsi per affari, uno non è mai arrivato, un altro è andato ad Augusta e non è stato possibile rintracciarlo. Non dirà altro,

18 SANUDO, XXVI 220 (da una lettera dell’oratore veneziano a Roma del 20 ottobre 1518). 186 Luciana Saetti

Albrecht Dürer, Disegno preparatorio per il ritratto di Massimiliano I d’Asburgo, 1518. Vienna, Albertina. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1518-1523) 187 perché non sa che cosa può capitare ancora; sarà più preciso in una prossima lette- ra oppure a voce, come spera: benché non so come fare a ritornare, ma mi confi- do in la furfantaria. Grillenzoni è demoralizzato e contrariato; tiene a dire che è insoddisfatto di se stesso, pur con l’attenuante della confusa situazione che si è venuta a creare: Se in alcuna cosa mancharò qua di quanto deverei, procederà da incapacità et non perché io non li pensi haverò io sempre per scusa la confusione è qua. A me basta essere venuto a solazo in questi tempi piacevoli. Parlato ho io ad ogniuno, ma qua siamo tutti faliti. E conclude con una considerazione che suona, in tutti i sensi, tombale: Hora che vostra signoria è libera per la perdita de un clementissimo patrone, la potrà meglio attendere alle cose spectante alla sanità. Alla morte di Massimiliano seguì la competizione tra Carlo di Spagna e il re di Francia per la successione imperiale. Leone X si avvalse della consueta doppiezza, bilanciando promesse e prendendo accordi segreti con entrambe le potenze, preoc- cupato di non soggiacere al prepotere spagnolo ma subendo al tempo stesso le esor- bitanti pretese di Francesco I19. Con la morte di Lorenzo de’ Medici, nel maggio 1519, non si estinguevano tut- tavia in Leone X le mire di ampliamento dei territori pontifici in Emilia. Il 28 giugno 1519 Carlo fu eletto imperatore. Il pontefice dovette allora, da una parte, confermare le promesse fatte in precedenza all’Asburgo; dall’altra, sempre assillato dal bisogno di cautelarsi, continuò a tessere trame con Francia, Venezia, Svizzera, Inghilterra; nell’ottobre riconfermò l’alleanza difensiva con Francesco I. In quelle circostanze anche Alberto, come scrive Odoardo Rombaldi nel suo profilo biografico, «giocò la partita su due tavoli diversi» e agì «in sostanziale con- formità con gli interessi di Leone X», condividendone i rischi. Dal nuovo imperatore Alberto non ricevette alcuna conferma del suo incarico: si è già accennato al processo di avvicendamento messo in atto nel sistema diplo- matico spagnolo-imperiale presso la corte papale che, per quanto riguarda il ruolo fino ad allora ricoperto dal conte di Carpi, si compirà con l’arrivo a Roma come ambasciatore, nell’aprile 1520, di Juan Manuel, grande di Castiglia, da tempo vici- no a Carlo e all’ambiente fiammingo20.

Alberto «maneggia le cose di Francia» Tra l’agosto e il settembre 1519 Alberto versa in pessime condizioni di salute: è quasi un bollettino medico quello che stende Baldassarre Castiglione nelle sue note lettere da Roma a Federico Gonzaga (nuovo marchese di Mantova dopo la morte, nel marzo, del padre) e a Francesco Maria della Rovere21: Alberto non è

19 V. M ESCHINI 2014, pp. 107 sgg. 20 SERIO 2003, p. 463. 21 Lettere di Baldassarre Castiglione, a cura di U. Morando, R. Vetrugno, AITER, ad indicem. 188 Luciana Saetti anchor ben guarito della sua passata infirmità (12 agosto); sta in letto continua- mente (20 agosto), per anchor non è uscito di casa (31 agosto). Castiglione non riesce a incontrarlo, sebbene ne abbia urgenza: la causa, dice el suo M.ro Sigismundo che è perch’el si sente tanto afastidito, che ha a noia ognu- no (31 agosto). Il comportamento di Alberto, che sta chiuso in casa e si nega a tutti, fa intuire che sul suo malessere fisico pesa anche un disagio psicologico. Il S.r Alberto da Carpi maneggia le cose di Francia, e serà qui ambasciatore residente del Christianissimo (il re di Francia), scrive ancora Castiglione il 10 set- tembre; per il momento, comunque, non se parte di camera, et io insino a qui non gli ho mai potuto parlare; lo stesso vale per alchuni Cardinali di questa corte, che da lui non possono havere audientia; vero è che per anchor sta molto indisposto. Intanto i francesi fanno grandissima instantia perché Leone X prenda aperta- mente posizione in loro favore, e Alberto si occupa della questione: la maneggia, benché stia in letto: tanto che io non ho mai potuto haver gratia di parlargli, con tutto che io li sia andato cinquanta volte, riferisce ancora Castiglione. Quando, dopo due settimane, finalmente riesce a parlare con lui, trova che lo si possa scu- sare per come si è comportato, perché lo vede tanto magro e mal condutto, come egli è, che invero sta in mal termine (24 settembre). Anche il mese seguente Alberto non è troppo gagliardo; ma M.r Giovanmattheo [Giberti] è venuto ogni dì a parlarli longamente (8 ottobre). Sappiamo come Alberto, pur fungendo da tramite e fautore dei rapporti di Leo- ne X con il re di Francia, opponesse una certa resistenza alla formalizzazione uffi- ciale del ruolo che entrambi lo sollecitavano ad assumere22.

Un’estate a Napoli «Effettivamente, mai il destino di Alberto apparve così pericolosamente espo- sto come nel 1520» scrive Odoardo Rombaldi nel considerare la parte da lui avuta nell’assecondare e ispirare la politica di Leone X23: dal tentativo abortito di un col- po di mano contro Ferrara alla fine del 151924 alle negoziazioni con la Francia con- dotte di concerto con Giulio de’ Medici, mentre il papa si destreggia tra le propo- ste del nuovo ambasciatore imperiale Juan Manuel e le sollecitazioni di Francesco I, di cui si fa tramite il legato pontificio Bibbiena. Alberto si impegna a fondo nelle trattative diplomatiche con la Francia finché, spossato nel fisico e nello spirito, nella primavera del 1520 lascia Roma per Poz- zuoli e Napoli25. Rimane lontano a lungo, sebbene reclamino insistentemente la sua

22 Sui documenti relativi al rapporto di Alberto con Francesco I, SVALDUZ 2001, p. 220, nota 48. 23 ROMBALDI 1977, p. 33. 24 In proposito, GUAITOLI 1877, pp. 228-229; MESCHINI 2014, p. 118. 25 V. Bibbiena a Luisa di Savoia, 2 aprile 1520 (so che Monsign il Conte di Carpi con fede et con diligentia scrive del continuo al Re et a voi); 19 maggio 1520 (El povero Monsign. di Carpi non mai ben guarito della indisposition sua se ne va a Bagni di Pozuolo per veder se potessino giovarli ma più per la speranza che ha in un Maestro Leon medico). Testi in MOLINI 1836, vol. I, pp. 76-78, 82-87. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1518-1523) 189 presenza gli emissari francesi: in agosto arriva a Roma il signore di Morette, che s’installa negli appartamenti di Giulio de’ Medici dove stava el S.r Alberto26. Intan- to, come scrive ancora Castiglione, el papa si sta su le feste: risi, e giochi, e musi- che27 e in città imperversa un’epidemia. In ottobre arriva Saint Marsault, e dopo ripetute insistenze finalmente Alberto, benché infirmo, e mal condicionato, si è posto in via, e viene28.

Non video ubi d’altro lato consistamus Poco dopo il suo arrivo a Napoli, Alberto riceve la prima delle lettere di Gio- van Matteo Giberti conservate nelle carte Lea (documento CXV). Questi gli scrive il 26 maggio 1520 da Roma, augurandosi che sia arrivato senza troppi disagi e che il soggiorno in quel clima, con la buona compagnia di amici e servitori, nonché l’o- pera di maestro Lione – il medico noto come Leone Ebreo – possano restituirgli la salute. Giberti, ormai da diversi anni al fianco del cardinale Giulio de’ Medici come segretario e diplomatico, aggiorna Alberto con le notizie che gli vengono dal nord della Francia sull’imminente incontro di Enrico VIII e Francesco I29, riferendo como li dui re Anglico e Cristianissimo si accostavono nel loco convenuto et che già compariva di gran gente da l’un canto et de l’altro, et ogniuno ben per certo seguiva con grandissima pompa e tripudio. Carlo V, intanto, si appresta a imbarcarsi dalle Fiandre per l’Inghilterra dove, sicondo si ha da più lati, si existima sia già stato trattato et conclusa grande stret- tezza tra quel Re et la M.tà Sua.

Il 9 giugno (documento CXVI) scrive dell’apprensione suscitata in lui dalla noti- zia, ricevuta il giorno precedente, di un’incursione dei turchi sul litorale di Poz- zuoli. La sua vicinanza ad Alberto si manifesta anche nelle ricorrenti raccomanda- zione di ricordarlo a tutti di casa uno per uno; li nominerebbe singolarmente ma teme un qualche rebuffo se gli capitasse di scambiarne uno per un altro. Il 21 luglio (documento CXVII) si sofferma sulla situazione politica, deplorando l’atteggiamento arrogante dei francesi che senza mai compiere il minimo gesto in favore della sede apostolica e del papa non fanno che protestare di non ottenere niente da lui, dimenticandosi di quanto hanno ricevuto in passato e gratuitamente.

26 Castiglione a Federico Gonzaga, Roma, 4 e 5 agosto 1520, AITER. Qui (in pallazzo nelli allo- giamenti de monsignor R.mo de’ Medici) Alberto si era trasferito nei mesi precedenti, per operare in stretta collaborazione con il cardinale; cfr. SANUDO, XXVII 635. 27 Castiglione a Federico Gonzaga, 4 e 5 agosto 1520, AITER. 28 Castiglione a Federico Gonzaga, 23 ottobre 1520; 4 novembre 1520, ibid. 29 L’incontro che doveva attestare la fraterna concordia tra i due sovrani avvenne, in una cornice di straordinaria magnificenza, il 7 giugno, nella pianura tra le città di Guînes, occupata dagli inglesi, e Ardres in territorio francese. Carlo V, che come il re di Francia cercava l’appoggio inglese, andò a sua volta a incontrare Enrico. 190 Luciana Saetti

A questo sfogo Giberti aggiunge che non parlerebbe così con altri, perché pen- serebbero ch’io non mi fussi posto a far invettive contro franzesi; ma sa a chi sta scrivendo, e sa che Alberto a sua volta lo conosce bene: dice tutto questo con di - spiacere, nella consapevolezza che, come ha detto Alberto stesso discorrendo con lui, non c’è nessuna alternativa: non video ubi d’altro lato consistamus. Si infittiscono, qui, le notizie giunte a Giberti da Calais con lettere dell’8 giu- gno su un incontro fra Wolsey e Chièvres e su quello che si doveva tenere il gior- no seguente, sempre a Calais, tra Carlo e Enrico.

Giberti e le bravarie di Wolsey

Di poco successiva è un’altra lettera, non datata (documento CXVIII), con infor- mazioni sul nuovo abboccamento tra Carlo e il re d’Inghilterra e sui risultati di tut- ti quegli incontri al vertice, nei quali non c’è stato nessun segno né parola di pace con i francesi; Giberti acclude le copie di quanto gli si scrive del fine di queste benedette comedie qual Dio vogli non diventino tragedie. In proposito il papa ha riconosciuto che le cose sono andate secondo le previsioni di Alberto, che cioè Car- lo e chi lo consigliava non sarebbero scesi a patti con la Francia a meno che non si fossero persi d’animo per timore delle bravarie di Wolsey. Costui – commenta Giberti – essendo stato trattato da una bestia come meritava, non fa che spargere veleno contro il pontefice e gli altri tranne i francesi, ai quali forse è simile. Gio- vanni Rucellai, giunto in Francia come nunzio pontificio, è già contento che non si sia ricevuta qualche nuova villania e riferisce che Francesco I vuole venire in Ita- lia per incontrare il papa; perché pur essendo ben tumefacto del vento di Ebora- cen.30, ossia gonfio e tronfio per l’appoggio di Wolsey, gli danno da pensare quei tremila lanzichenecchi mandati da Carlo V in Navarra, e non si sa mai alle volte che qualche bon piede todesco non sgonfiasse la balla. Giberti non si trattiene dall’esprimere tutta l’indignazione che prova nei con- fronti dei francesi, che non cessono mai pratichar designiare contro di noi. Accen- na, in proposito, all’intenzione del pontefice di assoldare un contingente svizzero stabile per non haver a star sempre in questi timori e in mano de questi nostri sol- dati che ci assassinano, aggiungendo che una simile decisione sarebbe un rimedio salutare per mantenere le terre nostre anziché lassarle usurpare a tiranni compor- tati per noi. Una preoccupazione, questa, a dir poco tardiva e irrisoria: il conflitto che sta per scatenarsi tra Carlo V e la Francia non si giocherà più solo per il territorio italiano ma assumerà una portata europea, travalicando le forze e le difese dei piccoli stati.

30 Eboracense, ossia di York (in latino Eboracum), la diocesi di cui Wolsey era il vescovo. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1518-1523) 191

A tutto si trova discanso, pur che la sanità gli sia

Quando, l’8 settembre 1520, Giberti scrive ancora ad Alberto (documento CXX), le notizie riguardano la salute del papa, che si è ripreso, e la sua propria: anche se da un mese non ha più febbre, rimangono tutti gli altri malesseri, per cui se la passa come può: io sto in calma come dicono e marinari quando non vanno né inanti né indrieto. Cinque giorni prima è morto il cardinale Ippolito d’Este: Giberti passa in rasse- gna i benefici del defunto e la ridistribuzione che ne ha fatto il papa, i lasciti ai figli e al fratello: intendo le facultà sue in denari passavano più de 100 mila ducati. Altra notizia è che il signor Enea parente de vostra signoria31 è venuto a Roma a negoziare per il duca di Ferrara ed è intrato su le girandole de parentato per la restituzione di Modena e Reggio, arrivando a dire che quando il duca serà dispe- rato pigliarà de li extremi partiti accettando dar il stato o a Franza o a’ venetiani; d’altronde – commenta Giberti – il re di Francia fa di tutto per favorirlo. C’è poi una notizia sul marchese di Mantova, che Leone X, con l’interessamento di messer Baldesar (Castiglione) sembra disposto a nominare capitano della Chiesa, presup- ponendo Sua Santità, come è bona lei, di privare così di un appoggio i propri nemi- ci e di potersene avvalere contra chi sa V. S., cioè contro il duca di Ferrara. Giber- ti ha fatto opera di dissuasione, ma non sa come andrà a finire ed è certo che se la cosa si conclude il papa finirà per pentirsene. Alla fine Giberti raccomanda ad Alberto di pensare soprattutto a guarire, perché per quello poco ch’io ho provato e provo, a tutto si trova discanso, pur che la sani- tà gli sia.

MADAMA CATARINA E IL «PALACIO ROMANO»

A quell’estate napoletana di Alberto risale anche una lettera di Giovan Battista Spinelli, che il 25 luglio 1520 gli scrive da Carpi (documento CXIX) dove è arriva- to il giorno prima, accolto con benevola familiarità dalla contessa Cecilia: haveria voluto che fosse restato cqua ad minus per dece dì, li so restato ogi per non esse- re rustico; l’indomani si fermerà alla Mirandola, poi proseguirà per Verona e Tren- to da dove spera di raggiungere presto le Fiandre e la corte imperiale. Spicca, in questo scritto di Spinelli, un bel ritratto dal vivo di Caterina Pio all’e- tà di un anno e mezzo32: Ma li dirò de Madama Catarina, la quale barbuglia assay sebene exprime poco, camina con una fortieza como havesse tre anni, fa quanto vede, me vole basare la mano quan- te volte vene da me, è piu bella chel patre et la matre, al mio iuditio sarà V. S. conten- ta de ipsa, mostra ingegno et rubustieza, de corpo grassetta respettive como ad me, pre- go Nostro Signore la conserve et ve done de li masculi che li desidero como ad Ferran- te mio figlio per vedere V. S. contenta et la succession sua certa.

31 Enea Pio, figlio di Marco II; viveva a Ferrara ed era al servizio del duca. 32 Caterina era nata nel gennaio 1519 (SPAGGIARI 1978, p. 10). 192 Luciana Saetti

Ha anche visto e ammirato la fabrica del palacio che, cosa singulare, serà pala- cio romano, e gli altri nuovi edifici: le ecclesie, la colligiata, et di li fra minori, mi piaceno molto. Ha apprezzato anche la fabrica et fortificatione de la terra e a questo proposi- to dà ad Alberto due suggerimenti: il primo è di far venire Antonello di Trani – un ingegnere militare allora attivo nel regno di Napoli – che potrà fornire il “disegno” più adeguato a rendere la città inespugnabile e con minore spesa di quella attuale. Infine gli raccomanda vivamente che non habiate compassione a li arbori, et a li patruni alchuna recompensa, et tagliati- li intorno la terra tanto che non se li possa assentare campo, et haverete la forticia migliore che Crema.

La forza delle cose Dell’anno seguente si conserva, nelle carte Lea, una sola lettera (documento CXXI). Chi scrive ad Alberto il 22 febbraio 1521 è Federico Fregoso, arcivescovo di Salerno e vescovo di Gubbio, fratello di Ottaviano, doge di Genova. Il suo pro- blema, in quel momento, riguarda la nomina all’episcopato di Coutances, in Nor- mandia, vacante dall’anno precedente per la morte di Bibbiena e che gli è stata conferita da Francesco I. Né in quel ponto me occorse che alchuno obstando dove- se interrompere el corso de questa mia alegresa, scrive Fregoso, che si è visto invece opporre, inaspettatamente, un ostacolo dalla palese malevolenza del ponte- fice. La preoccupazione dunque è grande, perché non può immaginare che cosa lo renda indegno del suo favore; gli ha scritto, ma la sua lettera è stata respinta; ha saputo anche di calunnie nei propri confronti. Perciò chiede ad Alberto di interce- dere per lui, anche a nome del re. Fregoso avrà un ben più grave motivo di preoccuparsi quando, pochi mesi dopo, dovrà difendere Genova dagli spagnoli33. Con la morte di Bibbiena, il 9 novembre 1520, era uscito di scena uno dei più fervidi sostenitori dell’amicizia con la Francia nella curia romana. Nel dicembre il papa stipulò un trattato segreto con Carlo V, pur senza annullare quello con Fran- cesco I. Ma dopo alcuni mesi, e fondamentalmente per l’interesse ad agire di con- certo con l’Impero nella repressione dell’eresia luterana, aderì pienamente a un’al- leanza offensiva con Carlo V, l’8 maggio 1521. Una settimana dopo, il 15 maggio, l’imperatore conferma ad Alberto l’investi- tura di Carpi34. Nel novembre, l’offensiva delle truppe spagnole in Lombardia estromette i francesi dall’Italia e restituisce Parma e Piacenza alla Chiesa. Leone X muore l’1 dicembre, a quarantasei anni.

33 Nel 1515 Ottaviano Fregoso aveva posto Genova sotto il dominio del re di Francia. 34 BAMI 278 [V. N. 425], 61, Cass. 97, Investitura concessa da Carlo V Imperatore ad Alberto Pio, di Carpi, Soliera..., 15 maggio 1521. Alberto Pio nelle “lettere americane” (1518-1523) 193

Perché aperte sono state l’opre mie Arriviamo al settembre 1522 con un altro scritto di Giovan Matteo Giberti (documento CXX) che dopo le missioni diplomatiche affidategli da Giulio de’ Medici rientra in Italia dalla Spagna insieme al nuovo pontefice Adriano VI, eletto il 9 gennaio 1522 ma arrivato a Roma solo allora. Non si può non ricordare, qui, la notissima lettera che mesi prima, il 25 aprile, Alberto ha scritto a Giberti nella disperata consapevolezza di trovarsi in una situa- zione insostenibile. Da lui ha, evidentemente, ricevuto notizie tali che può solo pre- pararsi al peggio, qualunque sia lo sviluppo degli eventi; ma almeno adesso lo sa per certo: Però la rengratio, che mi habbia aperto, in quanto laberinto mi ritrovi, non per mia col- pa, ma per mala sorte. Sono in disdetta, et disgratia grande di Francesi, né aspetto altro che la total ruina, vincendo loro, et in odio della Cesarea Maestà et del suo consiglio35. È una lunga lettera, in cui Alberto rivendica la propria fedeltà al pontefice e la propria onestà – perché aperte sono state l’opre mie – e che scrive da Carpi, dove è rientrato dopo che Francesco I gli ha ordinato di lasciare Roma. Tornando alla lettera del 24 settembre 1522, Giberti si dice dispiaciuto che Alberto abbia pensato che la distanza o il tempo potessero indebolire la sua dedi- zione; ma cose importanti non ne sono accadute o non ne ha avuto notizia, e non potendo essergli utile in alcun modo gli avrebbe parlato solo dei propri affanni, e anche della poca riconoscenza che altri hanno verso chi meriterebbe invece tanto perché tanto ha servito. Ma tale è il tempo presente, conclude, e bisogna passarlo con quella pazienza che ci si può dare, e che purtroppo anche Alberto si trova a dover esercitare. La let- tera contiene anche altre notizie, tra le quali l’intenzione del cardinale de’ Medici di ritirarsi a Civita Castellana finché non sia passato questo influxo de la peste – un’altra epidemia che colpì Roma in quelle settimane. Altre lettere di Giberti sono del 1523; una del 19 gennaio (documento CXXV), all’indomani dell’occupazione di Carpi da parte degli spagnoli di Prospero Colon- na: nel rispondere a una lettera di Alberto, Giberti ne attribuisce la brevità al fatto che questi non aspetti da altri quella consolatione, della quale la prudentia sua li dà largamente o che, data la situazione, gli siano a noia le troppe parole. Propen- de per la prima ipotesi, e la cosa lo conforta sia per quanto riguarda Alberto sia per se stesso, anche perché non saprebbe come consolarlo, che se sempre valsi pocho hor vaglio meno, per star sbattuto di vedere andare ogni cosa male: e più delle pri- vate, soprattutto le cose pubbliche e quelle dei suoi signori, e se la situazione di Alberto, per lui, non fusse la precipua certo si poria iudicare mi manchassi quel poco cervello mi resta. Di tutt’altro tenore la lettera del 30 maggio (documento CXXVIII), nella quale Giberti si premura di far sapere per primo ad Alberto, che è stato partecipe dei suoi

35 Lettere di Principi, 1562, vol. I, p. 85. 194 Luciana Saetti dispiaceri e dei fastidi passati riguardo al suo ufficio, di essere arrivato finalmente in porto: il papa, mosso credo da Dio che non ha voluto la ruina mia, gli ha asse- gnato l’importante carica di abbreviatore nella cancelleria pontificia. E conclude: ciò che io sono, ciò che ho, è al servitio di vostra signoria, però penso harà pia- cere ch’io sia uscito di labyrintho.

LEONELLO E «IL GUICIARDINO»

Nel frattempo Leonello si è trovato in prima linea nella questione di Reggio, la cui difesa è stata affidata ad Alberto dal collegio cardinalizio durante la sede vacan- te; ma dopo l’arrivo a Roma di Adriano VI il governo della città è assegnato di nuo- vo a Francesco Guicciardini. La lettera di Leonello datata 22 novembre 1522 (documento CXXIII) rende con- to di un passaggio di consegne non certo indolore. Avendo saputo che il Guiciar- dino voleva entrare in città per assumere l’ufficio di governatore, et vedere chi lo caciarebbe, Leonello ha mandato a Reggio una parte dei fanti, tenendo gli altri con sé per andarvi la mattina seguente. Poi però, saputo dell’arrivo del breve pontificio che restituiva quel governo a Guicciardini, ha rinunciato, ritenendo meno vergo- gnoso non essere presente quando si doveva lasciare la città. Immediatamente Guicciardini ha fatto fare in Reggio gride e proclami a proprio nome, e ha notificato a Leonello la titolarità di quel governo con istanza di ricon- segnarlo nelle sue mani; il messo da lui inviato ha anche aggiunto che in caso di resistenza avrebbe avuto a che fare, a Reggio, con Giovanni de’ Medici (Giovanni dalle Bande nere) e a Modena con Guido Rangoni. Al che Leonello ha ordinato che tutti i fanti e cavalieri si ritirassero in cittadella lasciandone di guardia solo due per porta, perché comunque le forze non sarebbero stati sufficienti a resistere. Per il momento – continua – gli basta mantenere il controllo della rocca, e se Alberto deciderà di non restituire la città vi andrà di persona; a tutti i suoi dispiace che la ceda, parendoli li habi a essere scorno. Quella mattina è andato a Reggio Bocha- lino (Francesco Boccalini, capitano dei balestrieri) per rimanervi finché non si sia arrivati a una soluzione. Questa parola, scorno, nella sua schiettezza connota di puntiglio la gestione del- la questione d’onore su cui Leonello si arrovella. Un altro scritto, frammentario (documento CXXIV), forse un poscritto alla lettera precedente, esordisce così: ...andando pur pensando ognhora qualche modo de non dare questo governo al Gui- ciardino per non havere noi a patire tal scorno mi è venuto in mente preponere lo infra- scripto partito a vostra signoria. Dopo averle pensate tutte, Leonello illustra ad Alberto la sua ipotesi, con il cre- scente entusiasmo di chi vede già la cosa fatta: si potrebbe proporre al pontefice di dare a lui, Leonello, per cinque anni il governo di Reggio, naturalmente con una serie di garanzie riguardanti i dazi, la difesa, la polizia, le spese ordinarie, le ele- mosine, le tasse e via dicendo; a fronte di un pagamento netto a sua Santità di set- Alberto Pio nelle “lettere americane” (1518-1523) 195 temila ducati l’anno. Se Alberto è d’accordo si affretti a rispondergli, perché li datii si allocano a Natale; e faccia in modo che la cosa non vada a le orecchie al Gui- ciardino, il quale se venisse a saperla potrebbe mettersi in mezzo facendo un’of- ferta maggiore per avere li tre governi insieme (Piacenza, Modena e Reggio). Ad ogni buon conto, Leonello si dice pronto ad andare immediatamente a Roma se necessario.

Non me sono mai tirato da canto de correre la cattiva fortuna cum lei

Con l’ultima delle lettere di Leonello (documento CXXVI) siamo al 23 febbraio 1523, due mesi dopo l’occupazione di Carpi da parte degli spagnoli. Leonello ancora una volta si sente giudicato sommariamente: se Alberto avesse letto la sua ultima lettera ora non lo accuserebbe di incostanza; ma Monsignore nostro fratel- lo (Teodoro) non gliel’ha consegnata perché – dice – nel montare a cavallo per andare da lui la brusò insieme cun tutte l’altre littere havea, insomma l’ha persa. In quella lettera Leonello spiegava ad Alberto il motivo per cui gli aveva scritto cose sempre diverse: e il motivo è che non poteva fare altro andando di qua omni cosa variamente, et li andamenti mutano l’opinioni. Gli aveva detto di volersi pro- curare uomini e cavalli per andare a Carpi, poi si era offerto di andare in Spagna e in Francia, ma sempre rimettendosi al suo volere, dal quale non si è mai discosta- to né intende farlo; e se gli ha scritto che voleva andare a Trento per consigliarsi con Bannissi, si trattava solo di sei giorni, che non impedivano un altro viaggio nel caso Alberto l’avesse voluto. Con questo non pensava di recargli offesa e nemme- no di meritare ciò che Alberto gli scrive, sapendo bene che io non me sono mai tira- to da canto de correre la cattiva fortuna cum lei, né mai sono per fugire damni né periculi. Quanto al contenuto della lettera che è andata persa, anche se non tiene copia di quanto scrive e non ha memoria per ricordarselo, Leonello si dice comun- que certo che rispondeva a tutti i punti di quella di Alberto. Qui, inoltre, riferisce di certe scripture che sono nella capsa e che Alberto gli ha chiesto di recuperare – ancora una ricerca di documenti – ma tutto dipende dal vescovo Ragono (Ugo Rangoni, vescovo di Reggio), dato che quella famosa cassa è in un luogo segreto; questi però non si mostra disposto a fare ciò che gli si chie- de, e a Leonello è sembrato opportuno lasciar perdere; Alberto vedrà dalla lettera del fattore che cosa cercano i nemici, e che cosa hanno già mandato a Roma. In ogni caso, per proseguire la ricerca è necessario che Alberto mandi uno qui che habbia intelligentia de scripture, et ch’intenda; io per me confesso, et me ne dole, che in simile cose sono come uno bue. Con tutta probabilità si tratta di documenti che riguardano i beni e la giurisdi- zione del castello di Novi, oggetto di annose vertenze tra Alberto da una parte e Alfonso d’Este e i Pio di Sassuolo dall’altra; ora che Carpi è nelle mani di Prospe- ro Colonna, anche Novi – dove si sono rifugiati Leonello e Cecilia Orsini – è minacciata. È nota la lettera che un mese prima, il 24 gennaio 1523, Cecilia scri- veva al marchese di Mantova facendogli presente che Prospero Colonna, dicendo- 196 Luciana Saetti si forte dell’appoggio del duca di Ferrara e del marchese stesso, avanza pretese anche su quel luogo, che invece se recognosce della Chiesa et dove sono assicu- rata sopra per la mia dote; ma si dice certa che il marchese avrà valutato che per lui è meglio avere come vicini quelli sono nati soi servitori, piuttosto che dei soi eguali et che se reputano magiori, anche se non lo sono affatto. In ogni caso, la for- tezza è talmente ben munita da non rendere temibili nemici anche ben più forti del Colonna, che non potrebbe vantarsi di aver vinto una donna Ursina36. Leonello intanto provvede a rafforzare ulteriormente le difese di Novi e nella sua lettera scrive dei lavori che sta portando avanti: si prevede di mandare in su più se potrà quel torrione di verso Bertholla; ed essendo finiti li terrai di fori farà allar- gare la fossa davanti alla porta per poi dar fine alla stratta coperta.

La paga dei poveri Dopo aver accennato ad altri fatti, Leonello risponde di certa farina e denari dati ad homini et a Novi di cui Alberto gli ha chiesto conto meravigliandosi della cosa, e spiega che quando sono cominciate tutte le difficoltà, non avendo potuto procurarsi con denaro degli schoppetteri da Ramazotto37, dal conte Guirardo (Ran- goni) o dalla Mirandola, dubitando la furia ne venissi addosso, e dato che gli uomi- ni che c’erano fuggivano, la cosa migliore gli è sembrata assoldare gente del posto, de quelli sonno pratici alle guerre, che facessero da soldati e guastatori, e gli è par- so più utile compensarli, invece che con uno stipendio, con un po’ di denaro e una soma di farina ciascuno, non di frumento però, ma di cavezallo, cioè di crusca; per- ché non c’è nessuno che abbia modo di fare quattro pani, e Alberto resterebbe sba- lordito se vedesse la loro povertà, dovuta alle acque che hanno distrutto i raccolti: infatti non c’è famiglia che mangi pane di frumento, e quello di meliga se ne han- no gli pare bono.

36 MSDC XI, 1931, p. 128. 37 Melchiorre Ramazzotti, condottiero al servizio della Chiesa (v. RUBELLO 2012, pp. 25-26). Alberto Pio nelle “lettere americane” 197

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La basilica di San Bernardino a L’Aquila, dove nel settembre 1516 Alberto Pio andò per adempiere un voto. Incisione, in Salvatore Massonio, Dialogo dell’origine della città dell’Aquila, 1594. A Carpi, nel frattempo

Anna Maria Ori

...aveva imparato a sue spese come dai più forti si manchi di parola ai più deboli1 .

Le lettere “americane” restituiscono l’immagine di un Alberto Pio pienamente investito del ruolo di ambasciatore cesareo alla corte pontificia, alle prese con mil- le diverse questioni, adulato e corteggiato da raccomandazioni e richieste di postu- lanti, ma anche spiato e denigrato; appare sempre più stanco, col passare del tem- po, sempre più chiuso in sé stesso, consumato dalla podagra e dell’impietoso pas- sare del tempo, che gli presenta il conto di tutte le tensioni, i pericoli e gli strapaz- zi affrontati spavaldamente nella giovinezza e nella prima maturità2. Per chi è nato a Carpi viene spontaneo porsi nell’ottica dei suoi sudditi, chie- dersi quanto apprezzassero il loro signore e come abbiano vissuto in quegli anni tumultuosi di guerre e invasioni. Le pagine seguenti cercano di rispondere a questi interrogativi, sulla base delle cronache coeve e di documenti in gran parte inediti dell’Archivio storico comunale di Carpi3 e dell’Archivio Falcò Pio di Savoia pres- so la Biblioteca Ambrosiana di Milano4.

1 BACCHELLI 1958, p. 81. La considerazione, riferita dall’autore ad Ercole d’Este, si adatta per- fettamente anche ad Alberto III Pio. 2 Ad esempio, nel 1510 si sparse a Roma la voce che Alberto Pio, un intellettuale, esperto di filo- sofia e di retorica, era riuscito utilizzando cavalli delle poste ad arrivare nell’urbe dalla Francia nel- l’arco delle Quattro tempora di febbraio, inviato da Luigi XII per cercare di impedire l’accordo di Giu- lio II coi veneziani e lo scioglimento della lega di Cambrai: Pauli Cortesii protonotarii apostolici de Cardinalatu libri tres ad Iulium Secundum Pont. Max., Castel Cortesio, 1510, Libro secondo, De Equitatione. p. LXXIIII. 3 Ho un grande debito di riconoscenza nei confronti di Lucia Armentano e d Enrica Risposi del- l’Archivio storico comunale di Carpi per la disponibilità e collaborazione dimostratami in ogni fase della ricerca. In particolare la dottoressa Armentano mi ha aiutato a individuare alcuni documenti, grazie alla sua conoscenza dell’archivio, ed ha mostrato la stessa sollecitudine nei confronti di tutte le richieste degli autori, facendo da tramite fra noi e altri archivi per ottenere materiali utili alla ricer- ca. Inoltre non potrò mai ringraziare a sufficienza l’amico Gianfranco Guaitoli per aver messo a nostra disposizione le sue trascrizioni in formato digitale di molti documenti dell’Archivio storico comunale di Carpi, in particolare della Storia di Carpi del Tornini, tuttora inedita, e dei transunti otto- centeschi di don Paolo Guaitoli dei documenti dell’Archivio notarile e dell’Archivio Pio di Savoia, in corso d’opera al momento in cui scrivo. Un lavoro prezioso, un serbatoio di notizie che ho utiliz- zato sia in sé, sia come base per successive ricerche sugli originali. 4 Segnalati e in parte trascritti da Valeria Tomasi, a cui va la nostra gratitudine, durante una ricer- ca nell’Archivio Falcò promossa nel 2008 dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi per il secon- do volume della Storia di Carpi. 204 Anna Maria Ori

CARPI E I CARPIGIANI

La ‘terra’ e i suoi abitanti Carpi, pur essendo un centro abitato di piccole dimensioni, come indica il ter- mine ‘terra’ con cui è definita nei documenti dell’epoca5, era però la capitale di una piccola signoria6, che assunse una propria identità sempre più marcata nel corso del Quattrocento, anche per l’arricchirsi della documentazione in sintonia con la mag- giore complessità della vita economica, mentre l’attività edilizia nei borghi che cir- condavano l’antico castrum dimostra che esso stava diventando un polo di attra- zione demografica non solo per persone in cerca di fortuna, ma anche per profes- sionisti e artigiani qualificati provenienti da località non sempre vicinissime7. Le stime di questo trend positivo consentono di valutare, per il solo centro abitato, una popolazione di circa 5500 abitanti a fine Quattrocento, che continuano a crescere per assestarsi attorno a 6000 nel periodo 1516-1523, «livello che sarebbe stato eguagliato e superato solo nel secondo Settecento», dopo il crollo del 1530 a 4000 individui8. Ai tempi di Alberto Pio stava cambiando lo spazio mentale in cui vivevano i carpigiani, tuttavia ancora fortemente legato alle consuetudini precedenti, che non sentivano l’agglomerato urbano come una città ma come un insieme composto da due sezioni distinte: il cuore della ‘terra’, l’antico castrum sorto attorno alla pieve e i borghi esterni, ben distinti fra loro, che si erano aggiunti via via nel corso dei secoli9. Gli statuti sottolineano sempre la differenza tra gli abitanti del castrum e i burgenses, perché di fatto non erano tutti uguali, né nell’autorappresentazione, né nei diritti, di cui erano titolari soprattutto i castellani, privilegiati in quanto discen- denti del nucleo più antico di residenti del castrum10. Questo, il centro nevralgico del potere, era protetto dalle mura edificate da Manfredo Pio, mentre i borghi avevano difese più modeste, foveae e cirche, cioè fosse e terrapieni, palancati e butifredi, strutture lignee e torri, sempre di legno11,

5 Così è citato l’agglomerato urbano negli statuti, oltre che come Castrum Carpi, Castrum et bur- gi de Carpo. 6 La parte di pianura dello stato dei Pio (Carpi e Novi) non raggiunse mai i 150 km di superficie (PINI 1981, p. 561), ma i feudi sopra Modena e della montagna ne ampliavano in misura considere- vole la superficie, anche se, tranne Marano, erano terre povere. 7 CATTINI 1981, pp. 658-661. L’A. fa notare che la popolazione di Modena, nel 1509, era di 12.268 persone e quella di Parma (1508) di 15.898. 8 CATTINI 2000, cit. p. 151, dati p. 155. Sulla demografia carpigiana si veda anche ARMENTANO 2000, pp. 209-212. 9 BOCCHI 1981, 459-466 e BOCCHI 1986. 10 Le case situate nel castrum non pagavano la tassa di occupazione di suolo detta ‘affitto’; i nobi- li, i castellani antiqui e adjuncti pagavano la metà della sopraguardia, legata alla vigilanza e prote- zione, rispetto ai burgenses. GHINATO 1985, p. 65. 11 Forse il testo degli Statuti (Statuti 1905, p. 119) enfatizza un po’ la realtà di queste difese: «Sta- tutum est quod nemo audeat vel presumat tollere vel accipere de lignis butifredorum aut palancati qui sunt super foveis burgorum et circharum comunis Carpi: È stabilito che nessuno osi o presuma A Carpi, nel frattempo 205

Castelli e borghi di Carpi secondo le indicazioni del catasto urbano del 1472, disegno in BOCCHI 1981, p. 465. L’inserimento entro il perimetro delle mura dell’epoca di Alberto III Pio consente di cogliere l’espansione dell’abitato tra il 1470 e il 1518/20. 206 Anna Maria Ori costruite alla meglio dai residenti, organizzati in forme di ‘vicinia’ urbana, assem- blee o comitati elettivi a tutela della tranquillità e sicurezza di ogni borgo e della difesa di diritti comuni, associazioni ‘dal basso’ citate espressamente nell’ordinan- za di Alberto Pio sulle offerte per la celebrazione del 15 agosto12. Nel primo decen- nio del Quattrocento castrum e borghi erano stati protetti da un’unica cinta di mura cittadine, ma i burgenses dovettero pagare una sopraguardia, per questa protezio- ne, da cui invece erano in parte esentati i castellani. Nel castello oltre i signori Pio, separatisi da metà Quattrocento in residenze diverse per gruppi familiari, abitavano da tempo i castellani antiqui, a quell’epoca incoraggiati o costretti a trasferirsi gradualmente fuori di quell’area che andava spe- cializzandosi come residenza signorile e centro della vita amministrativa locale. Gli espulsi costruirono le loro nuove abitazioni per lo più nell’area immediatamente a ovest delle mura della cittadella, il borgo della Teza, precedentemente occupato da stalle e in gran parte libero. Come sappiamo, Alberto ridisegnò la pianta del castrum, trasformando in palazzo il precedente coacervo di residenze signorili, creando nuove aree verdi, riducendo la pieve di Santa Maria e soprattutto abbattendo le mura del lato ovest e creando la nuova facciata del palazzo aperta verso la piazza, di fronte alla schiera di case col portico costruite dagli ex castellani già prima del 147213. Non solo, ma razionalizzò anche la pianta di Carpi con la costruzione del duomo e di altri edifi- ci religiosi e la fondazione di monasteri, fino a cancellare il quadro mentale e le distinzioni sopra descritte. Cambiò anche il lessico: nelle sue aggiunte agli statuti gli abitanti di Carpi sono cives, cittadini, al luogo dei precedenti carpenses, habi- tantes o habitatores, subditi de Carpo, terarii o terigeni o terricoli, homines terre Carpi e simili. Gli antichi residenti del castello continuarono però per tutto il dominio Pio ad usufruire dei vantaggi di cui godevano in precedenza, privilegio esteso nel corso del secolo XV anche ad alcune famiglie di protetti o benemeriti della famiglia domi- nante, i castellani adjuncti. Il Catasto del 1472 fotografa questa situazione social- fiscale, distinguendo in rubriche diverse i nobiles exempti, cioè i membri della famiglia Pio e parentela allargata, i castellani antiqui e gli adjuncti, e infine i bur- genses, distinti per borghi.

togliere o prendere dei legni dei battifredi o del palancato che sono sopra le fosse dei borghi o le dife- se esterne del comune di Carpi» (trad. nostra). 12 Statuti 1905, p. 405: «Primo quod pro qualibet domo sita in terra et territorio Carpi solvatur soldus unus per habitantes in eis, et exigi debeat, in dicta terra per massarios viciniarium seu quar- teriorum, et in dicto territorio per massarios villarum... Primo, che per ogni casa situata nella terra e nel territorio di Carpi sia pagato un soldo per abitante (in esse), e che debba essere raccolto nella ter- ra dai massari delle vicinie o quartieri e nel territorio dai massari delle ville...» (trad. nostra). 13 BOCCHI 1985. A Carpi, nel frattempo 207

Il territorio e le ‘ville’ Lo stato dei Pio aveva un’economia basata soprattutto sull’agricoltura e dunque sullo sfruttamento del territorio extraurbano, suddiviso in ‘ville’ o frazioni, per lo più raccolte attorno alle chiese che lo costellavano ab antiquo; le frazioni attuali hanno però nel tempo assunto nomi ed estensione diversi da quelli che troviamo, ad esempio, in un documento del 1506: Zaccaria (o Zaccarelli/o, oggi parte orien- tale di Budrione), Cibeno, San Marino, Limido, Budrione, Giandetulo (o Giande- gola, oggi Quartirolo), Pezzolo (o Pozzoli/Pozzuoli, oggi Santa Croce), Fossolo, Bertolasco (oggi parte occidentale di Quartirolo), Gargallo, Villa Galli (oggi Soz- zigalli)14. In ogni ‘villa’ un Massaro teneva i rapporti tra la comunità cittadina e i pro- prietari di terre, sovrintendendo ai lavori collettivi di cura del territorio, per esem- pio alle strade e alla pulizia dei canali, mentre l’esazione delle colte (imposte diret- te) era affidata a degli appaltatori, a volte accusati di non cancellare dai loro libri i debitori dopo che avevano saldato le somme dovute, e di reiterare spesso la richie- sta di importi già versati15. I coloni e i mezzadri o terzadri (laboratores parciarii) vivevano in condizione precarie: gli Statuti li considerano per ultimi, elencandone soprattutto i doveri verso i proprietari dei terreni, visto che la rubrica che li riguar- da esordisce così: «Intendentes providere utilitati habitantibus in terra Carpi et ut eorum possessiones sint bene culte... »16. Alle ‘ville’ occorsero tempi più lunghi, rispetto alla ‘terra’, per uscire dalla sta- gnazione del Trecento, della cui gravità sono chiaro indizio all’epoca i numerosi contratti di sòccida, ossia di affitto di bestiame, nel nostro caso di bovini da lavo- ro17; ma nello studio dell’Estimo delle terre del 1448 Valeria Braidi mette in luce una fase di miglioramento grazie alle concessioni in affitto di terreni dei signori Pio, grazie alle quali una fitta rete di relazioni univa i signori cittadini a una miriade di piccoli affittuari – cui venivano affidati terreni di estensione modesta, oscillante tra le 5 e le 10 biolche al mas- simo, spesso contigui a piccoli terreni di loro proprietà – e ai notabili cittadini più in vista (ad esempio Silvestro Coccapani, Giovanni Bellentani, Marsilio Grillenzoni), beneficiati dalla concessione di estensioni di terreno ben più ampie. Ragioni politiche ed economi- che muovevano i signori a stipulare contratti migliorativi dei suoli, ed ebbero l’effetto – così come la progressiva affermazione dei campi chiusi – di cambiare gradualmente la facies agraria del territorio carpigiano dalla seconda metà del Quattrocento18. Questa ‘manovra’ incoraggiò altri cittadini a investire in terreni, cosa che rivi- talizzò il mercato fondiario fino ad allora assai depresso e accelerò la tendenza al

14 AG 206, I, p. 335. 15 Statuti 1905, 1447, p. 196, Rubrica De offitio duodecim sapientium. 16 «Intendendo provvedere all’utilità degli abitanti di Carpi e affinché le loro proprietà siano ben col- tivate... (trad. nostra)», STATUTI 1905, 1447, pp. 376, rubrica De colonis et lavoratoribus parciariis. 17 ANDREOLLI 2009, pp. 30-34. 18 BRAIDI 2009, p. 175. 208 Anna Maria Ori

Natale Marri (1720-1787), mappa delle “ville” del territorio di Carpi. Disegno a penna. Carpi, Archivio storico comunale, AG, b. 193. A Carpi, nel frattempo 209 progressivo abbandono delle colture estensive e dell’allevamento semibrado per una agricoltura più ‘moderna’, che richiedeva investimenti e innovazioni nella recinzione dei campi coltivati, sottratti alle servitù collettive di pascolo, nell’ado- zione della ‘piantata’, forma di coltivazione che integrava cerealicoltura, viticoltu- ra in filari di sostegni vivi, e nell’allevamento di bovini da lavoro, oltre a disbo- scamenti e bonifiche, ma fece aumentare nel contempo la produzione di cereali e colture pregiate e modificò notevolmente e per secoli il paesaggio agrario locale19.

Il governo cittadino Il governo del territorio, diretto dall’alto dai signori, era regolato dagli statuti; ma nel periodo di condominio il quadro dell’apparato burocratico-amministrativo cambiò, diventando più macchinoso e soprattutto limitò il raggio d’azione dei vari ‘officiali’, frazionando competenze fino ad allora collegiali e sottoponendoli a numerose forme di controllo politico: in pratica la lealtà verso l’uno o l’altro signo- re era molto più importante del benessere generale. I signori non si fidavano l’uno dell’altro, e nemmeno dei loro sudditi. A questa azione di controllo furono nominati due ‘Commissari’, uno per cia- scuno dei signori della ‘terra’, Alberto e Giberto o i duchi d’Este, con ampi poteri e il compito di verificare l’equità del reciproco comportamento in ogni aspetto del- la vita cittadina, e quindi anche l’imparzialità degli ufficiali sottoposti. Furono sostituiti da un governatore nel periodo in cui Alberto fu unico signore di Carpi. Tra gli altri ‘officiali’, il ‘Podestà’ in quanto forestiero, laureato in giurispru- denza e in carica per un solo anno, conservò le solite mansioni di amministrazione della giustizia, ma nelle cause più delicate poteva essere sostituito o assistito dai commissari. Il ‘Camerlengo’ amministrava le finanze dello stato, in quanto cassie- re generale e addetto alle entrate; aveva come sottoposti il ‘Massario’ per le verifi- che sull’approvvigionamento e il controllo dei generi alimentari e l’‘Officiallo alle colte’ per la riscossione delle tasse. La sicurezza era affidata al ‘Capitanio alla piaz- za’, che comandava i quarantaquattro soldati di presidio alla città, i capitani alle quattro porte delle mura cittadine e i due a quelle del castrum o ‘Citatella’, il ‘Capi- tanio alla Torre Blancha’, responsabile della prigione, e il ‘Campanaro’ che dove- va segnalare dalla torre della Sagra ogni caso di pericolo. Poi c’erano gli ‘officiali alla tromba’ e ‘alle appellationi’ per comunicare gli ordini o le ‘gride’ dei signori alla cittadinanza e informarla di convocazioni e avvenimenti particolari, mentre il ‘Cancelliero’ doveva registrare tutti gli atti ufficiali e il ‘Chiavero’ aveva in conse- gna le chiavi degli edifici pubblici. Infine due ‘Medici’ e due ‘Maestri de schola’ rivelano l’attenzione dei signori Pio al livello di istruzione e alla salute dei suoi sudditi; queste cariche scomparvero nella successiva dominazione estense, deman- date alla comunità cittadina e alle opere pie.

19 CATTINI 1981, p. 670-71. 210 Anna Maria Ori

Personale di corte Attorno alla corte, o meglio, alle famiglie dei signori, c’era un variegato fiorire di personale, sia per l’amministrazione – segretari, cancellieri, fattori, massari... – sia per ogni aspetto della vita quotidiana. Possiamo ricordare cuochi (quello di Marco Pio era chiamato Mastro Fatigha20: sembra di vederlo, sudato e affannato in una cucina-antro infernale!), scalchi e sommelier21, ma anche cappellani, per esi- genze più spirituali, oltre a camerieri e cameriere per le signore. Tutto questo appa- rato prendeva vita solo quando Alberto era a Carpi; possiamo supporre che duran- te le sue assenze il suo commissario, come quello ducale, non avesse le stesse necessità e disponesse di un personale ridotto. Della vita di corte a Carpi resta solo una nota di spese del 1506, studiata da Alfonso Morselli, che ne sottolinea la vivacità22; ma essa deve essere ripresa, in modo diverso, tra il 1520 e il 1523, quando abbiamo la certezza che, se non Alber- to, almeno la sua giovane moglie Cecilia Orsini fu a Carpi con la primogenita Cate- rina. Ce lo rivela una fonte inaspettata, le fedi di battesimo della Collegiata di Car- pi, che registrano i nomi di padrini e madrine dei bambini battezzati. Tra questi figu- ra, una sola volta, nel 1520, la stessa Cecilia Orsini, mentre negli anni successivi compaiono le sue damigelle o ‘camarere’ Camilla, Cassandra e Julia; le ultime due dovevano essere molto socievoli e integrate nella società carpigiana, perché nel solo 1523 sono madrine per cinque volte23 ! Tutt’altro tipo di personale di corte erano gli armigeri, sempre dipendenti dal- l’uno o dall’altro dei signori; tra loro c’erano capitani, alfieri e balestrieri; alcuni erano carpigiani d’origine24, altri, di varia provenienza, si stabilirono a Carpi spo- sandosi, comprando case e terreni nelle ‘ville’. Oltre al personale che dipendeva direttamente dalla corte o vi lavorava con incarichi temporanei, un po’ tutti gli abitanti di Carpi dovevano essere orgogliosi di vivere a contatto coi loro signori, di poterli incontrare quando uscivano dalla cit- tadella, di assistere all’arrivo di ospiti importanti, di partecipare a festeggiamenti e di fare mille pettegolezzi; ciò forse li induceva a sentirsi in un certo senso superiori agli abitanti di città come Modena e Reggio, più ricche e popolose, ma lontane dai signori estensi. Si rafforzava così quella forma di campanilismo locale legata fin dal XII secolo all’autonomia della Pieve di Santa Maria, svincolata dalle vicine dio- cesi di Reggio e Modena e legata direttamente a Roma in una sorta di criptosigno- ria ecclesiastica25, che forse aveva sviluppato in loro caratteristiche a volte di ecces-

20 AG, b. 231, vol. 2, c. 311. 21 Ibidem, c. 325: per esempio, Silvestro de Curtili, pinzerna di Marco Pio, 1489. 22 MORSELLI 1931, pp. 152-1533. 23 AG, b. 102, fasc. 2, Nascite Matrimoni e Morti dei Pio estratte dai registri della cattedrale di Carpi. Sulla piccola Caterina si veda, nel contributo di Luciana Saetti, la descrizione che ne fa Gio- van Battista Spinelli nella lettera da Carpi ad Alberto, 25 luglio 1520 (p. 191). 24 Il più noto è senz’altro Francesco Polianesi dè Ribaldi detto Boccalino, capo degli armigeri di Alberto Pio, bandito da Carpi nel 1525. AG 206, I, ad indicem. 25 La pieve di Santa Maria (detta la Sagra) nel 1123 fu resa indipendente dalla diocesi di Reggio A Carpi, nel frattempo 211 siva sicurezza di sé, di intraprendenza e di desiderio di autoaffermazione, che sem- brano far parte del carattere dei carpigiani.

I notabili carpigiani A Carpi, a parte le famiglie dei signori Pio26 (più un ramo collaterale e uno in linea femminile), e la sporadica presenza di quella del conte e senatore bolognese Andrea Bentivoglio27, non c’erano nobili. I notabili locali erano rappresentati, in ordine di prestigio, dall’élite religiosa, dalle casate locali più influenti e dai mastri artigiani, i primi due di solito appartenenti alle stesse famiglie, ma con cespiti di introiti diversificati. Sul gruppo dei notabili Marco Cattini precisa: [...] tra le molte che si potrebbero elencare, sembra che tre caratteristiche siano indispen- sabili (se non sufficienti) per assurge allo status di Messere e cioè: il possesso di terre, il possesso di case in Carpi e la disponibilità di ricchezze mobiliari. Tre elementi che nei periodi di gravi crisi economiche assicurano una invidiabile condizione di indipendenza28. Queste persone in genere erano abbastanza istruite, avevano viaggiato e cono- scevano il mondo; anche per questo godevano di largo prestigio. Tra loro molti si qualificavano giurisperiti o notai, ma spesso si occupavano più dei loro affari, di affitti delle case e negozi, dei lavori in campagna o di appalti, per esempio del sale o delle ‘colte’, le imposte, o delle ‘molendine’, la macina... Quel- li che praticavano l’arte notarile erano presenti ad ogni avvenimento di qualche importanza della vita pubblica e della vita quotidiana e registravano di tutto: com- pravendite, assegnazioni di doti, affitti, quietanze, prestiti, permute, donazioni, risar- cimenti; redigevano inventari e rogavano tregue e paci tra famiglie o all’interno di famiglie, testamenti, atti di matrimonio e di nascita, procure, diffide, incarichi tuto- ri... Forse portavano con sé carta, penna e calamaio, o qualche aiutante, perché roga- vano dappertutto: nelle sale dei palazzi dei Pio e nelle stanze di case modeste, ma anche in piazza, sotto i portici, per strada, nei negozi, nei laboratori, sotto le porte del- le mura cittadine o appena fuori di esse; tra i luoghi preferiti il sagrato della Sagra. Alcuni erano medici, artium et medicine doctores, ma non tutti esercitavano. da cui dipendeva e assunse il titolo di diocesis nullius, il cui arciprete era dotato di prerogative qua- si vescovili. ANDREOLLI 2006. 26 A cui si aggiungeva un ramo collaterale discendente da un Giovanni Pio di Modena detto il Che- rico († 1312 ca., cfr. AG, b. 107, fasc. 10, Memorie dei Pio Marchesi di Trentino) e quello di Taliano Delci, capitano di ventura cui era stato concesso il cognome della madre, Apollonia di Nolfo Pio, qua- si a risarcimento dell’esclusione dalla successione al potere di quest’ultimo, figlio legittimo di Mar- silio, signore di Carpi (†1384) e di Agnese da Castelbarco, imposta con la forza da Giberto I, fratel- lo e condomino dello stesso Marsilio. AG, b. 106, fasc. 3, Figli di Galasso. 27 Di un ramo collaterale a quello dei signori di Bologna, era nato a Carpi nel 1436, «levato dal sacro fonte» da Galasso II Pio, che aveva ospitato a Carpi il padre Ludovico, esiliato da Bologna, dal 1430 al 1438, conservando la proprietà di una casa nel borgo di San Francesco (in angolo tra Corso Roma e via San Francesco, nota come “il portico dei Bentivoglio”). DEGLI ARIENTI 1840, pp. 8, 41. 28 CATTINI 1981, p. 666. 212 Anna Maria Ori

Commercianti e artigiani Subito al di sotto di questo gruppo di possidenti e professionisti, quanto a pro- filo sociale, c’erano gli artigiani, in particolare quelli riconosciuti come ‘mastri’, termine usato non solo per indicare i capi delle ‘arti’ o corporazioni presenti a Car- pi, ma tutti coloro che si distinguevano per capacità imprenditoriali, fossero carpi- giani o venuti da fuori. Fa piacere poter affermare che a quei tempi questi immigrati non erano guardati con sospetto né paura: i carpigiani facevano affari con loro, affittavano o vendeva- no case, davano e prendevano reciprocamente in mogli le figlie: grazie al trend positivo di cui godeva Carpi tra Quattro e Cinquecento, c’era posto per tutti, meglio però per chi ci sapeva fare davvero. Come oggi, il centro commerciale di Carpi era rappresentato dalla strada mae- stra che collegava, disegnando una grande T, porta Modena alla piazza in direzio- ne nord-sud, e l’antica porta di Sant’Antonio (poi porta Barriera, verso la stazione) a porta Mantova in direzione est-ovest. Sotto tutti i portici era un fiorire di negozi, quelli più eleganti soprattutto in piazza, e di laboratori, dove non solo si contratta- va e si facevano acquisti, ma si discuteva o si spettegolava, si litigava e si stipula- vano contratti. I mestieri dichiarati negli atti dei notai sono molto più numerosi e coloriti di quelli elencati negli statuti: vi troviamo molti ‘drappieri’ ma anche un ‘tapeterio’, cinque sarti, sei calzolai e sei barbieri (barbitonsores); i profumieri (aromatarii) si distinguono dagli speziali, piuttosto numerosi; ma ci sono anche tre orefici e quat- tro pellicciai. Tra i pittori Bernardino Loschi batte tutti: nel campione preso in esa- me compare come attante o testimone in ben quattordici atti notarili! Inoltre vediamo che le attività si tramandano di padre in figlio, che spesso com- mercianti e artigiani non sono proprietari del locali in cui lavorano, ma quando lo sono lo dichiarano con orgoglio. Non è sempre facile distinguere tra commercianti o arti- giani, spesso erano entrambe le cose. Gli artigiani con attività pericolose o inquinanti si trovavano in zone più decentrate: le tintorie sono in genere a nord, nella parte più bassa, vicino all’uscita del canale di città, o addirittura fuori città, mentre due ‘ferare- cie’ sono nel borgo superiore, ma il cuore dell’artigianato sembra il popoloso quartie- re di San Francesco, di cui fa parte anche il lato ovest dell’attuale corso Alberto Pio. IL GIOCO DELLE PARTI

Gli abitanti di Carpi avevano imparato nel corso del tempo a conoscere i rischi di vivere un feudo in cui molti signori condividevano il potere, come voleva l’in- vestitura iniziale concessa a Manfredo Pio1: non solo ricordavano momenti dram- matici di tensioni e violenze tra fratelli rivali2, ma essi stessi erano schierati in fazioni, in cui a motivazioni politiche si sommavano discordie e rivalità private anche all’interno della stessa famiglia3. Forse sperarono in un miglioramento, quando Marco II Pio e Leonello ottennero dall’imperatore Federico III la limita- zione dell’investitura ai soli primogeniti dei due loro rami, gibertino e albertino, nel 1470, dopo l’estromissione dei nove figli di Galasso II4. Ma fu solo un’illu- sione temporanea. Alberto, infatti, succedette al padre a soli due anni, associato al cugino di secon- do grado Marco II, già padre di figli adulti, spregiudicato capitano d’armi e di casa nella corte estense: è ovvio che Marco agisse da unico signore e che i carpigiani si abituassero a questa condizione, apprezzando la stabilità che ciò garantiva. Perciò fu tanto più difficile per il giovane Alberto, dopo gli studi a Ferrara e a Padova, rientrare nei suoi diritti; la situazione peggiorò dopo la morte di Marco (1494), quando suo figlio Giberto riuscì ad ottenere dall’imperatore Massimiliano I l’inve- stitura come unico signore di Carpi. Alberto si fece reintegrare nei suoi diritti, ma ebbe inizio una spirale di ritorsioni reciproche in cui Carpi conobbe momenti di guerra civile, anche se il gioco era in realtà molto più esteso e coinvolgeva gli avi- di interessi non solo di tutte le piccole signorie confinanti5 e persino di Ludovico il Moro, ma dei più direttamente implicati Giovanni Bentivoglio, suocero di Giber- to, Francesco Gonzaga, quasi suocero di Alberto, ed Ercole d’Este, quest’ultimo solo ufficialmente imparziale, che riuscì a farsi nominare dall’imperatore giudice fra i due contendenti, e convinse Giberto, nel 1500, a scambiare con lui la sua metà di Carpi con Sassuolo e altre cinque podesterie ‘della montagna’. Alberto ebbe ragione ad accusare il cugino di dappocaggine6, ma se di questo

1 MATTALIANO 1981; GHIZZONI 2004. 2 Nel 1474 Carpi fu messa a ferro e fuoco per due volte dai figli di Galasso I in lotta tra loro; ebbe- ro la meglio i due maggiori, Giberto e Marsilio, che cacciarono definitivamente Giacomo e Antonio. Ma presto si scontrarono tra loro e non bastò la rinuncia di Marsilio a trasmettere il potere ai figli legittimi avuti da Agnese di Castelbarco né la divisione dell’abitato, dei sudditi e dei territori esterni (1378 e 1383): solo la morte di Marsilio (1384) pose fine ai contrasti. ORI in DBI, Famiglia Pio di Savoia in corso di stampa. 3 Un esempio dei tempi di Alberto: nella nobile famiglia dei Sigismondi, Giovan Lazzaro, il pri- mogenito, conte palatino, era cancelliere di Giberto III Pio, il fratello Michele, invece, segretario e fat- tore generale di Alberto III Pio; un loro zio, Sigismondo Sigismondi, fu cancelliere di Alberto. AG, b. 206, I, passim (ad indicem). 4 La congiura dei Pio 1865; FORNER, VARANINI 2013, pp. 234-35. Un cenno anche qui, a p. 41. 5 La situazione emerge con chiarezza dal carteggio tra Ercole d’Este e Giovanni Bentivoglio: DALLARI 1901, pp. 266-299, lettere 402, 436, 442-46, 459, 467-68, 470, 473-74, 486-87, 489-90, 494- 95. Cfr anche SESTAN 1981, p. 680; SVALDUZ 2001, pp. 61-86. 6 Lettera di Alberto Pio al marchese di Mantova, 18 luglio 1499, MSDC I, p. 373. 214 Anna Maria Ori si trattava, e non di pura malizia, ebbe conseguenze gravissime, su cui vale la pena di soffermarsi un attimo. Lo stato restava diviso tra due signori, quindi esposto alle stesse difficoltà che si proclamava di voler eliminare, ma con l’aggravante che essi non erano più su un piano di parità in quanto membri di una stessa famiglia, ma c’era tra loro una differenza abissale. Ercole d’Este aveva un peso incomparabil- mente superiore nello scacchiere politico dell’epoca per ricchezza e dimensioni dello stato, oltre che per potenza militare in uomini e armamenti (la possente arti- glieria di Alfonso, suo figlio), rispetto ad Alberto, signore della metà di uno stato di cui lui stesso valutava irrisorie le entrate7 e per di più composto anche di terri- tori (i feudi della montagna) estesi ma poveri e rissosi, che creavano forse più pro- blemi che utili. Sembra ovvio, oggi, constatare che fosse prevedibile che tutte le potenze coinvolte in qualche modo nella vicenda non avrebbero fatto altro che fini- re con lo schierarsi col più forte, abbandonando Alberto e il suo stato all'inevitabi- le destino di estromissione, il primo, e di inglobamento nel più ampio stato esten- se, il secondo. Tuttavia la nuova situazione sembrò portare un po’ di quiete agli abitanti di Car- pi, che avevano già vissuto tra il 1496 e 1498 momenti di crisi raccontati quasi in presa diretta da Jacopino de’ Bianchi nella sua Cronaca modenese8: un crescendo di scaramucce, scontri armati, attacchi con bombarde e spingarde, incendi e sac- cheggi di case, impiccagioni, arresti e torture per estorcere taglie. Nessun orrore fu risparmiato alla città; anzi, i carpigiani più esagitati si distinsero in questa gara di violenze. È comprensibile l’iniziativa di trecentocinquanta cittadini di inoltrare nel 1498 una supplica al duca Ercole, denunciando l’insostenibilità della situazione per le discordie continuate e ogni dì cresciute tra gli Mag.ci S.re Giberto e S.re Alberto, per- ché non poteva esserci pluralitate in uno dominio et esser impossibile che dui pos- sano insieme in uno medesimo luoco pacificamente dominare; pertanto supplicava- no il duca di voler confirmare e mantenere el Mag.co S.re Giberto come loro unico e solo signore9. I firmatari erano senz’altro partigiani di Giberto, ma forse anche persone che rimpiangevano i tempi di Marco Pio e pensavano che Giberto, già suo luogote- nente, desse maggiori garanzie di Alberto, praticamente quasi sconosciuto a Carpi. Le firme dei membri della stessa famiglia si susseguono in blocco nella stessa pagi- na: devono essersi presentati tutti insieme davanti al notaio. Ad esempio vediamo l’intero clan dei Coccapani (33 nomi), seguiti dai Grillenzoni (12), gli Agazzani (10), gli Abati (8, tra cui don Ettore), ma i più numerosi sono i Bellentani con 39 nomi, anche se divisi in due elenchi distinti in pagine diverse, forse indizio di di - scordia. Tutti i firmatari, comunque, appartenevano a famiglie importanti: erano

7 Scrive al cardinale Ippolito d’Este, il 12 ottobre 1510, per contenere il prezzo dell’acquisto di metà Carpi: «Le entrate della ‘terra’ non eccedono i duemila ducati...». MSDC, XI, pp. 113-114. 8 JACOPINO DE’BIANCHI 1861, soprattutto pp. 145-155, 174-177. 9 BAMI, n. 417 (v.n. 402), 1, 1497 [recte 1498]: Cass. 14, Supplica delli uomini di Carpi perché non sia rimesso in Carpi il Sig.r Alberto Pio, ma resti al governo di quello il solo Sig.r Giberto Pio. A Carpi, nel frattempo 215 possidenti, professionisti o religiosi con laute prebende; abitavano nella civitatel- la, nei burgi o nelle ‘ville’; molti erano mastri artigiani e negozianti o imprendito- ri; tutti erano certo danneggiati dall’instabilità della situazione o colpiti negli affet- ti e nei beni da lutti, incendi, violenze e saccheggi durante gli scontri armati. Forse non era la prima volta, ma sarebbe stata l’ultima in cui gli abitanti di Car- pi presero l’iniziativa di sottoscrivere un atto che li esponeva politicamente, in cui si dichiaravano schierati per uno dei loro signori e contro l’altro: negli anni suc- cessivi sarebbero stati chiamati a pacificazioni tra famiglie e a giuramenti di fedel- tà, nella sostanza ad atti obbligati di obbedienza, non a espressioni di libera scelta.

Tregue e giuramenti Diamo un breve campionario di documenti di questo tipo, iniziando con un solenne giuramento del 1496, sollecitato da Ercole d’Este e prestato da tutti gli uomini di Carpi due anni prima della supplica precedente, con la promessa di fedeltà e obbedienza a Giberto e Alberto come loro signori. La sacralità del giu- ramento era anche garantita dal fatto che si tenne nel sagrato antistante la chiesa di San Francesco che allora guardava verso le mura, nel borgo più popoloso e probabilmente più coinvolto nelle violenze. Tra i testimoni figurano i rappresen- tanti delle famiglie più importanti di entrambe le fazioni. Si noti la clausola fina- le che impone obbedienza anche all’Illustre Sig.r Duca di Ferrara attraverso i suoi Commissari... 1496, 22 Giugno Giurarono gli uomini di Carpi nelle mani di un sacerdote, Corpore Christi astante, che erano unanimemente disposti alla difesa dei Magnifici Signori nostri Giberto ed Alber- to Pio, e dei loro figli, giusta i loro privilegi imperiali, e che nessuno prenderà le armi per l’uno o per l’altro, se non nel caso che l’uno voglia scacciare l’altro, o recare ad esso ingiuria, o perturbare la parte, o lo stato dell’altro; nel qual caso sia lecito e dovere di tutto il popolo di difenderlo. Come pure [giurarono] che tutti sarebbero ubbidienti ai Magnifici Commissari dell’Illustre Sig.r Duca di Ferrara in tutto ciò che avrà rapporto alla difesa e utilità degli stessi Magnifici Signori de’ Pii10. Anche le tregue, sospensioni temporanee delle ostilità tra singole famiglie riva- li o a livello di fazioni cittadine, furono innumerevoli: erano stipulate soprattutto in seguito a uccisioni, ferimenti o danneggiamenti gravi, su sollecitazione o impo- sizione di personaggi autorevoli o degli stessi signori. Ne potremmo stilare un vero e proprio catalogo, perché le ostilità e le faide rimasero accese per tutto il periodo del dominio di Alberto, anche dopo che egli fu unico signore. Ne ricordiamo solo due, tra le molte che si sono susseguite nel 1500, tratte dai regesti di don Paolo Guaitoli, nelle quali compare Ferraguto Carpucci, alias Lesi- nardi, l’imputato principale del processo del 1512-13 di cui dà ampia notizia Luciana Saetti alle pagine 73-74.

10 Rogito di Cristoforo Carnevali, AG, b. 234, cc. 97-98. 216 Anna Maria Ori

25 Aprile 1500. Costituiti alla presenza del Magn.co S.r Commissario Ducale di Carpi e dell’Ill.mo e del Magn.co Sig.r Alberto Pio, Ferraguto fu Francesco Carpucci, a nome anche di tutti i suoi agnati da una parte, Gio Francesco fu Barba Bertesi, Stefano fu Madroverto Bertesi alias Madroverti; a nome anche di tutti i loro agnati dall’altra par- te, fanno tregua fra loro fino ai 15 d’Agosto11. Questa tregua di pochi mesi è stata stipulata nella sala magna del palazzo di Alberto Pio, alla presenza del podestà di Carpi, Tommaso degli Arienti, e di altri rappresentanti delle fazioni cittadine. Tanta solennità forse ha garantito quattro mesi di tranquillità, ma nel novembre la faida si è ripetuta, con più gravi conse- guenze: 2 Novembre 1500. Ser Gaspare Mazzoccoli, Paolo, Pietro e Annibale lui figli da una parte, Ferraguto Carpucci, Filippo da Budrio e Francesco dall’Olio, assenti Ludovico figlio di detto Filippo ed Ettore figlio di detto Ferraguto, dall’altra parte, fanno una tre- gua di sei mesi fra loro, per la circostanza della morte (=uccisione) di Bernardino fra- tello de detti Mazzoccoli a lui data da detti Assenti12. Le violenze e le tregue continuano con fasi alterne, come si è detto; ma restia- mo ancora nello stesso ambito cronologico per avere un’idea dell’atmosfera che si respirava allora a Carpi. Ci giunge da una testimonianza rilasciata il 17 ottobre del 1500 da due armigeri ducali, che giurano di aver sentito con le loro orecchie Gia- como di Faustino Barigazzi (il futuro Berengario da Carpi, cresciuto assieme ad Alberto Pio alla scuola di Aldo Manuzio) pronunciare queste parole: «Vorressimo piuttosto essere sotto uno porcharo che sotto il Duca di Ferrara o sotto altra caxa che la caxa di Pii, et multa alia mala verba». Perciò il Magn.co Sig.r Commissario condanna detto Giacomo di Faustino a pagare 100 ducati d’oro da applicarsi alla Came- ra del Sig. Duca, e da pagarsi entro un mese, altrimenti gli verranno tagliate le nari ossia il naso dal volto13. La frase del Berengario era stata senz’altro pesante, e peggio possono essere state le successive non riportate molte male parole; ma non era da meno la multa di 100 ducati d’oro, considerato che con sette ducati si poteva vivere senza lussi per un anno14 e che la mutilazione del naso era una condanna all’emarginazione perpetua. Quasi sicuramente il padre di Giacomo, barbitonsore e chirurgo, con altri quattro figli, non volle o non fu in grado di pagare la multa, e ciò sembra giu- stificare l’assunzione dello pseudonimo “Berengario” e il trasferimento a Bologna del focoso giovane, già apprezzato e destinato a un’importante carriera di medico, docente universitario e anatomista15.

11 Stesso notaio, ivi, c. 376. 12 Rogito di Giacomo Maggi, AG, b. 206.1, c. 317. 13 Stesso notaio, Ibidem. 14 ZARRI 1981, p. 521. 15 Su Berengario da Carpi: GELATI 1879-80; l’intero volumetto di MSDC XI, parte II, Modena 1931; BELLONI 1977; FRENCH 1985; PREVIDI 2005. A Carpi, nel frattempo 217

Pittore emiliano (metà XVIII secolo), Ritratto di Jacopo Berengario. Olio su tela. Carpi, Musei di Palazzo dei Pio. 218 Anna Maria Ori

Le ‘prese’ di Carpi Come già detto, si potrebbe continuare a lungo nell’elenco delle faide, che dopo momentanee sospensioni si riaccendevano al minimo pretesto, vista la situazione di conflittualità semipermanente all’interno delle mura nella piccola ‘terra’ di Car- pi. Perciò spostiamoci più avanti nel tempo, ad anni in cui questa ‘normalità’ fu acuita dal concentrarsi di eserciti nella pianura padana, che inevitabilmente porta- rono Carpi ad essere occupata da truppe, più o meno ostili di bandiera, ma tutte e sempre animate da spirito di rapina. Non è questo il luogo in cui parlare né della politica di papa Giulio II, né delle manovre di guerra dei suoi capitani e dei loro avversari, pontifici, imperiali o fran- cesi, di cui alla popolazione cittadina arrivavano soprattutto i racconti di viaggia- tori di passaggio, deformati dalla paura o dall’eccitazione. Teniamo presente solo la profonda diffidenza di papa Giulio II nei confronti di chi credeva potesse minacciare i suoi interessi, e quindi la sua tendenza a cambia- re alleati e avversari secondo il momento; unico punto fermo, la sua avversione nei confronti di Alfonso d’Este, da cui l’occupazione di territori estensi e i ripetuti, inu- tili, tentativi di prendere Ferrara. Perciò l’Emilia e le terre vicine al Po furono a lungo percorse da armati, e città e centri abitati presi e perduti più volte dagli uni e dagli altri negli anni tra il 1510 e il 1512. Per quel che riguarda Carpi, tutto cominciò nel 1510: trovandosi tra Reggio e Rubiera, piazzeforti francesi, e Modena, occupata dai pontifici, il 19 agosto dovet- te aprire le porte a questi ultimi, giunti in forze sotto le mura minacciando il sac- cheggio se qualcuno avesse tentato di resistere: un rituale obbligato, che si sareb- be ripetuto spesso da quel giorno. Si può ricordare che il comandante delle forze occupanti, capitano al soldo del papa, era un Pio, nato e cresciuto a Carpi: Lodo- vico di Marco II Pio, uno dei fratelli di Giberto. Ma si attenne agli ordini e sembra si sia limitato soltanto a prendere la ‘terra’ di Carpi, senza toccare né la popolazio- ne né la parte di Alberto e senza coinvolgere il suo luogotenente Andrea Crotti e Leonello Pio, che il giorno dopo assistettero in silenzio all’ingresso del cardinale , legato di Bologna, e alla sua presa di possesso in nome del papa della metà già del duca d’Este, lasciandovi un piccolo presidio e un commissario apostolico16. Metà dei carpigiani dunque non erano più sudditi del duca di Ferrara, ma di Giulio II. Ma per poco. Infatti il re di Francia aveva nel frattempo deciso di conti- nuare la guerra e per assecondare Alfonso d’Este, che lo sollecitava in tal senso, una delle prime azioni militari fu quella di togliere al papa la metà di Carpi già estense: con tale scopo il 4 ottobre Jacques de Chabannes signore de la Palice ven- ne da Reggio con un corpo d’armati. E qui, se fosse la scena finale d’un film d’avventura, vedremmo inaspettata- mente arrivare alle porte di Carpi tra squilli di tromba e ovazioni dei suoi sudditi

16 APS, b. 3, n. 38, Commissione del cardinal di Pavia... per impadronirsi della parte di Carpi spettante al Sig.r Duca di Ferrara, 1510, 19 agosto. A Carpi, nel frattempo 219 dall’alto delle mura, niente meno che lo stesso Alberto Pio sul suo cavallo bianco, cappello piumato in testa, precedendo la colonna francese con un trombettiere e un piccolo, veloce drappello. Ma nella realtà le cose andarono molto diversamente, come possiamo leggere nella relazione del fatto che il conte di Carpi manda il giorno dopo al cardinale Ippolito d’Este a Parma17. Poiché gli era stato comandato di accordarsi con Monsignor de la Palice per sol- levare gli abitanti di Carpi contro il presidio del papa, per facilitarne la presa, avea mandato uno a fare intendere a li homini de la terra ch’io venia col campo. Di subi- to pigliorno le arme in mano et guadagnorno una porta. Il che vedendo, le fanterie ch’e- rano dentro abandonorno la terra uscendo per una porta opposita, et il Commissario papale fu il primo a fugir suso uno cavallo turcho. Io da breve spacio in poi arrivai a la porta de la terra, venuto avanti de la gente per vedere d’entrare dentro avanti de la loro gionta, per obviare al sacho de la terra, la quale haveano gran desiderio dicte genti d’ar- me de sacagiare. [...] Feci ogni conato, arrivate le genti d’arme, a ciò se contentassero allogiare de fori; a lo che fu gran difficultà, pur si impetrò cum l’auctorità de la Excel- lentia d’epso Gran Maestro et col mezo, maximo tra li altri, de la bontà de Monsignore de la Palliza. Nondemeno la difficultà fu grandissima, et si stette in tanto gran periculo che non se pote estimare. Tute le genti allogiorno de fori et credo che ’l paese patirà gran damno perché sin hora pigliavano tuto il bestiame et prigioni tuti gli homini che ritrovavano, et credo che hogi nel dilogiar farano anche pegio. [...] Li fanti [papalini] che se n andavano furno seguiti da le genti d’arme et, gionti, tagliati quasi tuti in pezi. Questa è dunque la realtà della prima, vera, ‘presa’ di Carpi, ‘terra’ che per i francesi diventa una specie di tappa obbligata tra Reggio e Mirandola; una ‘terra’ dove si susseguono, tra dicembre 1510 e gennaio 1511, le allarmanti voci di Miran- dola assediata e presa dal papa; una ‘terra’, infine, che ha delle difese debolissime per fronteggiare scorrerie di truppe nel territorio, tanto che Alberto chiede al mar- chese di Mantova un esperto di fortificazioni che dia consigli per migliorarne la sicurezza, adciò da ogni piccolo numero di gente la non sia sacheggiata18. Lo stesso Alberto, nelle “lettere americane”, ricorda che i francesi nel 1512 occuparono Carpi per ventidue volte, come possiamo riscontrare nei documenti locali. Dunque, il quadro che egli descrive a Matteo Lang il 20 ottobre 151319 è rea- listico nella su tragicità, soprattutto la sua descrizione di una ‘terra’ spettrale, stre- mata da imposizioni ‘ufficiali’ degli occupanti, cioè alloggiamenti forzosi, requisi- zioni di viveri, legna e taglie in denaro, a cui sono da aggiungere tutte le prevari- cazioni, ruberie e violenze da parte dei singoli soldati delle truppe occupanti, tan- to più gravi e frequenti nelle campagne isolate e indifese. Ma in tempi simili il saccheggio poteva diventate un mestiere, come si appren-

17 Lettera di Alberto Pio da Carpi a Ippolito d’Este, 5 ottobre 1510, MSDC 11, pp. 112-13. Si veda anche GUAITOLI 1877, p. 177. È strano come nel Guaitoli prevalga il tono epico, mentre Alberto mini- mizza su di sé e si mostra soprattutto preoccupato per le violenze contro la popolazione. 18 Lettera di Alberto al marchese di Mantova, 8 maggio 1511, SABATTINI 1994, p. 182. 19 Si veda qui SAETTI, pp. 106-107. 220 Anna Maria Ori de dal seguente contratto sottoscritto da un abitante di Carpi, con tanto di regole e percentuali di spartizione del bottino: 1515, 10 Marzo. Francesco fu Andrea Bellati si pone per un anno al servigio di Gio Bat- tista alias Magnano fu Bernardino Marescalchi promettendo di andare con lui nella Milizia e a saccomannare come fanno gli altri Saccomanni degli altri soldati, colla con- dizione che facendo bottino in qualche luogo detto Francesco debba avere il terzo di detto bottino, che il bottino minore dei sacchi debba essere tutto di detto Francesco, e nessuna parte di detto Gio Batta suo patrono; che detto Francesco debba allestire un solo cavallo per saccomannare, e viceversa detto Gio Batta sia tenuto dare il salario a detto Francesco ogni due mesi e gli dà ora uno scudo per il salario dei due primi mesi20.

La ‘compra’ di metà Carpi Nello stesso contesto di violenze e occupazioni si colloca la tribolata vicenda della ‘compra’ di Alberto dal duca di Ferrara della metà di Carpi, che si protrasse dal 1510 al 1516. Il 14 giugno 1509 l’imperatore Massimiliano aveva annullato la permuta di Giberto con Ercole d’Este e investito Alberto dell’intero stato di Carpi, elevato a contea21; scattò immediatamente il prevedibile ricorso di Alfonso d’Este: suo padre, infatti, la sua metà l’aveva ottenuta scambiandola con lo stato di Sassuolo, che Alessandro Pio, l’erede di Giberto, non intendeva cedere e che Alfonso d’Este stes- so non voleva riavere. Massimiliano lo sapeva bene, perché aveva autorizzato lui la permuta22, anche se ora la considerava illegale. Già nel maggio 1510 Alberto, però, stava trattando la ‘compra’ della metà di Car- pi dal duca d’Este. Forse voleva essere sicuro della pienezza del proprio possesso ed evitare rivalse future, come si deduce dalla dichiarazione da lui rilasciata nel novem- bre dello stesso anno, in cui sostiene di essersi deciso all’acquisto per solo mottivo di timore per l’armate che scorrono l’Italia, e della potenza del Duca di Ferrara23. Il negoziato si svolse a Parma, dove risiedeva il cardinale Ippolito d’Este, che seguiva dall’alto tutta la vicenda assieme al Gran Maestro di Francia, Charles d’Amboise signore di Chaumont, in nome del suo re, per garantirne la legalità; pro- curatore di parte ducale era infatti il luogotenente della compagnia del Gran Mae- stro di Francia, Bernard de Ricault, noto soprattutto come “capitano Riccardo24”, assistito dal segretario-cancelliere del cardinale, Benedetto Fantini. Agli incontri erano spesso presenti anche Enea Pio, collaboratore del duca, e Ettore Sacrati, governatore di Reggio, mentre Alberto trattava in prima persona con molta fretta di concludere, per potersi dedicare più liberamente agli impegni politici. In teoria l’ambiente sembrava favorevole a un rapido accordo: acquirente e ven- ditore erano entrambi di parte francese, ma in realtà la differenza sostanziale non

20 Rogito di Michele Savani, AG, b. 234, c. 64. 21 BAMI, 282 (v. n. 254), 1, Privilegio imperiale, Trento 14 giugno 1509. 22 BAMI, 417 (v. n. 402), 2, Cass. 91, Ratifica imperiale della permuta di Sassuolo, 1499 (copia). 23 BAMI, 281 (v. n. 428), 3, Cass. 76, Dichiarazione del Sig.r Alberto Pio..., 29 novembre 1510. 24 MESCHINI 2004, p. 283. A Carpi, nel frattempo 221 era politica, ma tra chi poteva offriva maggior vantaggio a Luigi XII. Sotto questo punto di vista Alberto era destinato in partenza a restare sconfitto. Inoltre gli avver- sari non si fidavano di lui, temendo che potesse acuire l’ostilità di Giulio II contro Alfonso d’Este. Tutto ciò emerge con chiarezza dalle lettere che Benedetto Fantini inviava a Ferrara25, soprattutto da quelle indirizzate a un amico, anch’egli funzionario esten- se, Giovanni Antonio Beneventano da Correggio, in cui si coglie non solo una ben condivisa ostilità nei confronti di Alberto, ma anche la sottile, sadica soddisfazio- ne generale nel provocarlo, nel creare pretesti per portare in lungo le cose. Lo conoscevano fin troppo bene; il Beneventano aveva addirittura avvertito il Fantini che guardi como vadi nel trattare con Alberto; sapevano toccare i tasti giusti per farlo trascendere in esplosioni di collera, come quando, dopo una breve collutta- zione col Fantini – un subalterno! – che aveva osato tentare di strappargli di mano una bozza del contratto che stava studiando, montò in tanta colera che haveria magnato il ferro et mi cominzò a minazare cum dire che havevo havuto uno grande ardimento a volerli torre una scriptura de mano et che sel non fusse suso quella sala che era la sala del Gran Maestro che mi faria, etc... e poiché l’avversario gli rispondeva provocatoriamente alhora lui se mandò la veste indrieto er pose la mano suso uno pugnale che lo haveva sotto dicendo: – Al corpo de Dio, io non scio che mi tenga, etc...26 Per fortuna il Fantini era disarmato e Alberto riuscì a trattenersi; ma il raccon- to deve aver fatto il giro delle cancellerie italiane e non solo, visto che il Fantini si affrettò a scrivere all’amico Benventano e che la scena si era svolta alla presenza del Capitano Riccardo et a Monsignore de Borsi27, el Sig. Antonio Maria Pallavi- cino28 et Nicolao segretario del Gran Maestro29. Da parte sua quest’ultimo non condivideva il prolungarsi della trattativa, forse annoiato di tante lungaggini, non certo per favorire Alberto. Sempre il Fantini riferisce: [El Gran Maestro] dice non se volere più impaciare né travagliare, perché [...] potevamo pigliare questi dinari et poi morto questo papa on pacificate le cose se li seria ritolto non che la mità ma tutto et se seriano serati li occhij perché la Maestà Christianissima et Sua Excellentia [l’imperatore] cognoscono le sue versutie [= ambiguità, astuzie]...30

25 Trascrizioni di Alfonso Morselli in ASCC, AMORS, b. 15, fasc. 4, n. 2. Gli originali delle lettere di Benedetto Fantini, 1510 sono in ASMO, Carteggi di referendari, ecc., b. 6a. 26 Lettera di Benedetto Fantini a Gio. Antonio Beneventano, 5 maggio 1510. Trascrizione Alfon- so Morselli, AMORS, b. 15, fasc. 4, 2. 27 Un ‘Monsignor de Borsi’ è ricordato tra i caduti nella battaglia di Pavia: v. DELL’ACQUA 1877, pp. 194, 203. 28 Antonio Maria Pallavicino, del ramo dei marchesi di Busseto, grande amico del D’Amboise. MESCHINI 2004. 29 Nicolas de Neufville, segretario del Gran Maestro. MESCHINI 2004. 30 Lettera di Benedetto Fantini forse al duca Alfonso da Herberia (Rubiera), 15 ottobre [1510]. Trascrizione Alfonso Morselli, AMORS, b. 15, fasc. 4, 2. 222 Anna Maria Ori

Eppure tra fine ottobre e primi di novembre l’accordo sembrava praticamente raggiunto, mancava solo di definire l’importo31, mentre i venti di guerra (e Giulio II) si avvicinavano sempre più. Perciò a questo punto Alberto affidò la trattativa a suo fratello Leonello, nominandolo suo procuratore assieme ai fedelissimi Sigi- smondo Santi e Andrea Crotti32, quindi si recò in Francia presso Luigi XII, che lo trattenne presso di sé fino a febbraio, quando lo inviò a Roma in gran fretta per bloccare l’accordo tra il papa e Venezia. Era tornato da poco, quando il Gran Maestro Charles d’Amboise incontrò la mor- te con una modalità che richiama il contrappasso dantesco: fermatosi a Carpi per svernarvi col grosso delle truppe, a fine febbraio 1511 cadde in un canale, si amma- lò (si pensò a un avvelenamento, ma doveva essere polmonite) e morì a Correggio il 10 marzo, senza aver potuto vedere l’assoluzione papale dalla scomunica fulminata- gli per aver combattuto contro la santa sede, che Giulio II gli aveva concesso grazie alla mediazione di Alberto Pio e arrivata da Ravenna il giorno dopo la sua morte33. Nell’assenza di Alberto la trattativa per l’acquisto di Carpi continuò, e continuò pure la collaudata tattica di logoramento dei ferraresi, questa volta nei confronti del- l’anziano Andrea Crotti. Stabilito il prezzo della metà di Carpi, 26.000 scudi dal Sole34, tra marzo e aprile la vicenda si confonde e si complica. Dopo il pagamento di 23.000 scudi e la promessa di Andrea Crotti di versare il saldo entro una certa data, la contro- parte intende rimettere in gioco entità e data del saldo stesso: a questo punto il povero Crotti ha un tracollo fisico che muove a compassione lo stesso Benedetto Fantini, il quale, vedendolo reducto a tanto chel non sapea quello chel se dicesse, né poteva exprimere la parola, commenta: Mai viddi el da mancho corpo né il più insomniato35. Finalmente, il 19 aprile 1511 venne rogato l’atto ufficiale della ‘Compra’, sti- pulato a Reggio e controfirmato dal capitano Sacrati. Seguì a Carpi, il giorno 24, un atto di ratifica della presa di possesso dell’intero stato da parte di Alberto36, for- se prematuro per la pendenza del pagamento dell’ultima rata37.

31 Lettere di Alberto Pio da Carpi a Ippolito d’Este, 10 ottobre e 3 novembre 1510, MSDC 11, pp. 113-116. 32 Rogito di Gasparo Mazzoccoli, 2 dicembre 1510. APS, b. 3, n. 39. 33 Da GUAITOLI 1877, pp. 169-209, e dai relativi appunti in AG, b. 107, fascc. 2-6. 34 BAMI, 281, [v.n 428], 3, Cass. 104, Compra del Sig.r Alberto Pio..., 19 aprile 1511. Lo scudo dal sole era una moneta francese. 35 Lettera di Benedetto Fantini a Gio. Antonio Beneventano, 14 marzo 1511. Trascrizione Alfon- so Morselli, AMORS, b. 15, fasc. 4, 2. Si osservi, in proposito, che sono ben dieci i rogiti della tratta- tiva gestita dal Crotti nel periodo gennaio-giugno 1511, tra strumenti di acquisto, quietanze, ratifiche e proteste di entrambe le parti, conservati in BAMI 281 (v. s. 428), 3, Cass. 13, 14, 84, 104. 36 L’atto è rogato a Carpi da Sigismondo Sigismondi, nel palazzo di Alberto, nella sua camera da letto al piano superiore, alla presenza dei suoi più stretti collaboratori: il segretario Michele Sigi- smondi, il luogotenente Andrea Crotti, il commissario Bonifacio Bellentani, Bartolomeo da l’Olio, Gerolamo Trotti suo maestro di casa, Leonello Coccapani massario, Bochalino capitano dei bale- strieri, Angelo Sagacino capitano della piazza di Carpi. BAMI 281 (v. s. 428), 3, Cass. 72, Possesso preso dal Sig. Alberto Pio..., 24 aprile 1511. 37 Probabilmente una cifra oscillante fra i 3 e i 4 mila scudi, ma le carte sono confuse e ricche di cancellature sulla cifra, come sul termine ultimo del versamento. A Carpi, nel frattempo 223

Intermezzo: due cerimonie Tuttavia egli si considera a buon diritto unico signore di Carpi e vuole celebra- re il fatto con tutta la pompa e la grandiosità necessarie: una solenne cerimonia che coinvolga tutti gli uomini di Carpi nei festeggiamenti, dopo aver giurato fedeltà al nuovo unico signore, e che porti nella piccola, provinciale ‘terra’ di Carpi un sof- fio di ritualità curiale, sottolineata da un’accorta regia che illumina e isola il prota- gonista dal gruppo dei comprimari, notabili di città vicine e carpigiani, e dalla fol- la dei cives, burgenses e populares, non a caso così definiti nel dettagliatissimo verbale dell’atto, redatto dal cancelliere di Alberto, Sigismondo Sigismondi, da quattro notai e dal vice podestà Giovan Battista Bellentani38. Il mercoledì 23 luglio 1511, dichiarato giorno festivo per questa cerimonia, gli uomini di Carpi si radunarono nella piazza antistante la chiesa della Sagra, ancora integra, dove il loro signore, Alberto, sontuosamente abbigliato e accompagnato da una scorta di dignitari e armigeri scese dal suo palazzo ed entrò in chiesa. Dopo essersi raccolto in preghiera, sedette su uno scanno al centro del presbiterio e rivol- se alla folla che gremiva la chiesa un ampio discorso costruito secondo i canoni della retorica classica. Dopo aver ricordato il buongoverno dei suoi antenati, ammessa e giustificata la propria involontaria trascuratezza nei suoi doveri verso i sudditi, sottolineati i sacrifici economici e le vendite di proprietà sostenute per comprare dal duca d’Este la sua metà di Carpi, di cui peraltro era già stato investi- to dall’imperatore, esclamò, non senza ironia: «E io ho comprato ciò che era già mio per molti e diversi diritti...» per aggiungere, rassicurante e generoso: « ...ma ho voluto usare il mio denaro per impedire a voi di subire ulteriori soprusi e sopraffazioni». Promise poi una serie di condoni e di riduzioni fiscali, e infine si obbligò con solenne giuramento a governare in futuro secondo legalità e giustizia, astenendosi da ogni rapacità e tirannica esazione39. In cambio chiese a tutti di pre- stargli il giuramento di fedeltà. Ma prima il vice podestà e dottore di leggi Giovan Battista Bellentani tenne un dotto discorso dal pulpito, quasi un’omelia sui doveri di governanti e governati, tradotto in volgare e spiegato da Monsignor Ettore Abati, vicario generale della chiesa di Carpi e professore di diritto pontificio: la partecipazione paritaria di que- sti due illustri rappresentanti delle opposte fazioni cittadine doveva servire da esempio alla cittadinanza. A questo punto il notaio Gaspare Mazzoccoli lesse, tradusse e spiegò la formu- la del giuramento, che tutti i presenti ripeterono, giurando sul crocifisso e i sacri vangeli, molti senza riuscire a trattenere lacrime di gioia, davanti ai quattro notai

38 BAMI, 281, (v.n. 428), 3, Cass. 14, Giuramento di fedeltà prestato al Sig.r Alberto Pio dalli uomi- ni di Carpi, 23 luglio 1511. L’intero documento è in latino (traduzione nostra). 39 Qui le promesse di Alberto dimostrano che egli condivide nella sostanza il noto (oggi, allora inedito) giudizio di Machiavelli: «Debbe non di manco el principe [...], sopra a tutto, astenersi dalla roba d’altri; perché li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimo- nio». N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi, Milano, 1960, cap. XVII, pp. 69-70. 224 Anna Maria Ori incaricati di rogare l’atto e sotto lo sguardo del loro signore e dei testimoni uffi- ciali, i padri guardiani e i priori dei monasteri di Carpi, i loro assistenti e alcuni nobili venuti da fuori. Conclusa questa cerimonia, Alberto uscì di chiesa tra l’esultanza dei presenti e invitò a un banchetto preparato nell’aula magna del suo palazzo tutti i notabili; cit- tadini e popolani erano invece attesi da un ricco buffet (epulas ac congiarium) alle- stito su mense disposte in altre sale e nei cortili. La giornata si concluse con fuochi, luminarie, spari di artiglieria e inneggiamenti ad Alberto. Il documento è accompagnato da un voluminoso incarto di 1936 firme40, rac- colte tra il 23 e il 25 luglio, con un ultimo elenco aggiunto il 27 dello stesso mese. Il primo foglio è stato compilato forse già in chiesa o durante il banchetto, comun- que con molta fretta, perché tra le righe iniziali sono aggiunti parecchi nomi, che offrono il quadro dei notabili, delle persone da tenere d’occhio e dei fedelissimi d’Alberto41. Qui infatti i titoli di rispetto che precedono i nomi (Reverendo Don, Ser, Messer e Mastro) sono molto più numerosi che in tutti i fogli successivi, che sembrano compilati in ordine gerarchico. Tra i notabili firmatari della c. 3 c'è anche Faragu Carpuzo. A circa metà dell’elenco compaiono i nomi degli ebrei di Carpi42, che non giurarono certo sul Crocifisso e sul Vangelo, ma sulla Torah, supponiamo: la loro presenza, documentata dagli inizi del Quattrocento, continuava ad essere importante per l’economia locale. L’elenco inizia col nome del capo della piccola comunità, Simone Ebreo, distinto dall’appellativo di Mastro e dalla precisazione rico, per non confonderlo con un altro Simone, povero. Esattamente quindici giorni dopo il duca di Ferrara mette scena un’altra cerimo- nia, sbrigativa e battagliera quanto solenne e grandiosa era stata quella di Alberto. La mattina del 7 agosto, infatti, il barone Roger di Béarn, luogotenente della compagnia di Gaston de Foix duca di Nemours, da giugno governatore di Milano, compare a Carpi davanti alla porta dello Schianco43 accompagnato da Ettore Sacra-

40 Accettiamo la somma dei numeri di nomi calcolati all’epoca per ciascuna delle tre colonne di nomi nelle quindici carte che compongono l’elenco. 41 Il primo nome è quello del Rev. Don Ettore Abati, seguito da don Manfredotto Pio, del ramo collaterale dei Pio di Modena, quindi da altri tre “don”: Alberto Agazzani, Simone Brusati e Giovan- ni Carpucci (o Lesinardi), i capi delle famiglie più rissose e forse ostili ad Alberto Pio, mentre i fede- lissimi appaiono nella colonna successiva, che si apre con Francesco Boccalino, capitano della piaz- za di Carpi, abile armigero, che ritroveremo più avanti, ma che qui piace ricordare come agile vinci- tore nella corsa dei tori tenutasi nella piazza del mercato (oggi piazza Garibaldi) nel febbraio del 1514 in occasione dell’inizio dei lavori per la nuova collegiata (CABASSI 1986, p. 68). 42 I loro nomi (corsivi miei): «Mastro Simone Ebreo (rico); Sal[omo] suo fratello; Li fiolli del dic- to (Salomo e Daniele); Simone ebreo famiglio del dicto; Il suo maestro di soi fiolli (Manuello da Bologna); Vadrili (?) ebreo inf(ermo?) sta in casa di soprascripto ebreo (Daniele); ...... di Daniello; Simoneto Ebreo povero». Le numerose correzioni rendono difficoltosa la lettura; il numero degli adulti sembra sufficiente per una Schola con un rabbino, visto che si debbono aggiungere anche i ragazzi sopra gli undici anni che qui non figurano. 43 Eruditi e storici hanno discusso a lungo sull’ubicazione di questa porta, successivamente chiu- sa, che dava anche il nome alla relativa contrada; forse era l’antico nome di porta Modena. GHIZZO- NI 1997, pp. 78-81. A Carpi, nel frattempo 225 ti, capitano ducale in Reggio, e seguito da un contingente di armati con tanto di artiglieria. Chiede che gli siano aperte le porte per entrare in città. Alberto manda a parlamentare don Ettore Abati e il dottor Giovan Battista Bellentani, che già conosciamo, e i suoi fedeli Baldassarre Spagnuolo e Nicolò Trotti. Ma il barone non intende trattare, tanto meno con Alberto e coi suoi rappresentanti. Pretende che gli uomini di Carpi lo facciano entrare, assieme al Sacrati e alle sue truppe, nella parte di Carpi del duca di Ferrara. Se non obbediscono è deciso a usare la forza e non avrà pietà per nessuno. Non vuole nemmeno vedere l’investitura imperiale del 14 giugno 1509 e le altre carte che documentano i diritti di Alberto. Quest’ultimo, riconoscendo la città incapace di resistere, decide di cedere perché i suoi sudditi non subiscano danni. Entrano in Carpi alcune squadre francesi e i balestrieri a cavallo ferraresi guidati dal capitano Mesino dal Forno, quindi Alberto fa conse- gnare al barone di Béarn le chiavi del torrione, degli edifici e delle porte della cit- tà che erano state della parte del duca. Ecco dunque il contraltare laico della cerimonia di Alberto: le armi invece del- l’incenso, una dimostrazione pubblica di segno diverso ma di uguale se non mag- giore efficacia, anch’essa documentata da un atto rogato da pubblici notai44. Alberto Pio reagisce immediatamente: il giorno dopo, l’8 agosto, promette al barone di Béarn di pagare a garanzia della sua persona e del suo dominio, 2.000 ducati entro l’8 settembre45, ma nello stesso giorno fa spedire in un luogo impreci- sato molti indumenti e oggetti personali, seguiti da altri inviati il giorno 2446; pos- siamo seguire alcuni suoi movimenti da lettere e rogiti: da Trento (12 settembre) a Castellarano (2 ottobre), dove vende dei terreni a Ercole d’Este, signore di quella località e suo amico47, e poi di nuovo a nord, a Innichen (San Candido, 17 ottobre), ma è già Venezia, come ambasciatore di Massimiliano I il 23 novembre48. Nel frattempo il barone di Béarn ha imposto agli uomini di Carpi una multa di 1500 scudi. Se ne raccolgono in fretta 510; per i restanti offrono garanzia lo stes- so Ettore Sacrati, governatore ducale di Reggio, Giovan Marco Rossi e Pellegrino Brusati, a nome della comunità di Carpi. E la vita riprende, mentre Alberto sarà a lungo lontano da Carpi. In questi anni che abbiamo solo sommariamente tratteggiato, seguendo soprat- tutto i filoni legati alla realtà locale, i carpigiani, oltre alle occupazioni militari, hanno sperimentato tutte le possibili combinazioni di dominio: abbiamo visto la

44 Originale in BAMI 281 (v. s. 428) 3, Cass. 14, Dichiarazione, Relazione e protesta..., 7 agosto 1511. Diverse copie e trascrizioni in AG, b. 107, fasc. 2 e APS, b. 31 bis, fasc. 4, c. 8. 45 GUAITOLI 1877, p. 195. 46 Originale in APS, b. 45 bis, fasc. 2, n. 15. Trascrizioni in AG 107, fasc. 4 e in AMORS, b. 15, fasc. 4, n. 20. 47 Ercole d’Este signore di Castellarano apparteneva a un ramo collaterale della famiglia d’Este, in quanto figlio di Sigismondo di Nicolò III e di Ricciarda di Saluzzo, sua ultima moglie. CHIAPPINI 2001, p. 351. 48 Trento (12 settembre) e Innichen (San Candido, 17 ottobre): SABATTINI 1994, p. 183; Castella- rano (2 ottobre): AG, b. 107, n. 83; Venezia: SANUDO, XIII, p. 261 (v. SAETTI qui, p. 49, nota 4). 226 Anna Maria Ori condivisione dello stato tra Alberto e il papa (19 agosto-4 ottobre 1510), seguita da quella, più normale, di Alberto e Alfonso d’Este (4 ottobre 1510-aprile 1511), men- tre Alfonso resta unico signore dal 7 agosto 1511 fino al principio di giugno 1512, quando dovrà cedere ad Alberto il pieno possesso del suo stato49. Infatti Massimiliano I pronuncia il 19 maggio 1512 la sentenza che impone ad Alfonso I di restituire i beni di Alberto Pio e rilascia il 29 maggio la relativa paten- te esecutoria. Ma la ratifica imperiale della ‘compra’ della metà del dominio si farà attendere fino al 13 ottobre 151650.

La prima pagina dell’elenco di firme del giuramento di fedeltà ad Alberto Pio, 23 luglio 1510. Milano, Biblioteca Ambrosiana, Archivio Falcò Pio di Savoia.

49 Sulla periodizzazione: AG 107, fasc. 2, n. 83. 50 Tutto in BAMI, 282 (v. s. 254), 2, Cass. 42, Rattifica dell’imperatore..., 13 ottobre 1516. PROVE DI NORMALITÀ

Durante i dieci anni successivi, mentre Alberto è lontano e Carpi è tutto un can- tiere per il programma di opere pubbliche da lui promosso (la nuova collegiata, i lavori al palazzo, le mura, San Nicolò, la chiesa delle Grazie), i rapporti tra le fami- glie rivali continuano coi problemi di sempre, anche se sembrano più sotterranei, perché, mentre i rogiti che registrano tregue e pacificazioni si diradano col passa- re del tempo, i cittadini ora sembrano tutti d’accordo nel lamentarsi e protestare contro le imposizioni e le prestazioni d’opera richieste da quei lavori, come appa- re dalla risposta di Alberto a una lettera di Giovanni Antonio Alessandrini del 16 agosto 15161: ... non scio come se possano instantemente querellar quelli homini, perché non ho inno- vato alcuna gravezza, anci levatogene. Non faccio già fare alcuno argene né fosse a le mie possessioni, come faceva el S.re Marco, che se habiano a dolere di me in essere tan- to malcontenti. Li careggi son pur soliti farli; del murare la Terra, essendo necessario per utile et beneficio loro, non se debbono lamentare. [...] Se hano de la spesa, procede da la loro inobendientia; se sono in continue opere, è per la dapochisia et ignavia loro, che quello dovevano fare in uno dì stano octo o dieci a farlo. Dopo aver di nuovo ricordato i maggiori e più pesanti servigi prestati al duca di Ferrara, osserva che più se doleno adesso di quello che è a beneficio suo che non facevano a dicto tempo de quello [che] non li resultava ad alcun loro comodo, per concludere: Ma bisogna far verso epsi come il padre verso il figliolo quando se li fa far per forza el bene suo; quale fuge di fare per nol conoscere. Che i suoi sudditi avessero bisogno di essere obbligati per forza a fare il bene suo Alberto potrebbe essersi accorto durante il soggiorno a Carpi da fine dicembre 1515 al febbraio successivo, perché da quell’epoca, oltre alla sostituzione di Nico- lò Bosi di Forlì col fedelissimo segretario Andrea Crotti nella carica di governato- re2, si assiste a un maggiore controllo sulla popolazione attraverso una serie di gri- de e ordinanze che tentano di regolarizzare la vita cittadina dal punto di vista del- la sicurezza, dell’equità fiscale e della moralità privata con maggiore risolutezza rispetto al passato3. Sono infatti riprese e in parte attualizzate le gride emesse nei primi anni del Cinquecento da Alberto e da Ercole d’Este, prime fra tutte quelle in materia fiscale e di controllo dei prodotti agrari, ma anche il divieto di circolare armati (con la precisazione delle diverse pene da applicarsi secondo il tipo di arma:

1 Lettera di Alberto Pio a Giovanni Antonio Alessandrini, da Tivoli, 17 agosto 1516. AG b. 108, fasc. 8, n. 16. Pubblicata in MSDC XI, pp. 122-3. 2 Il cambio di governatore avviene già nel gennaio 1516. Il Bosi, a sua volta, aveva sostituito dal maggio 1515 una reggenza collegiale composta da sei membri, in carica dal dicembre del 1512. GUAITOLI 1877, p. 216. 3 Infatti tra le gride conservate negli archivi locali si nota un intervallo di circa dieci anni, tra il 1506 e il 1515. Tutte le gride qui citate sono trascritte in AG, b. 107, fasc. 7, Gride. 228 Anna Maria Ori

Alberto Pio, lettera a Giovanni Antonio Alessandrini da Tivoli, 16 agosto 1516. Carpi, Archivio sto- rico comunale, Archivio Guaitoli, b. 108, fasc. 8, n. 16. A Carpi, nel frattempo 229 armi hastate o vero stilli e ballotte de ferro o vero piombo, il luogo e l’ora in cui i contravventori sono stati colti in flagrante o denunciati), la condanna per i barat- tieri e i bestemmiatori (sempre penalizzati con importi diversi secondo il grado gerarchico dell’offeso: contro lo Onnipotente ed Eterno Idio lire vinte cinque; la Gloriosissima sempre Vergine Madona Sancta Maria lire vinte et ciascuno de li altri soi Sancti lire quindece); alcune sono rafforzate da un preambolo didascalico, come quella contro i giocatori, del 4 marzo 1515, la prima ad essere rinnovata (cor- sivi nostri): Sapendo che in questa terra de Carpi li giovani siano occjosi, ne inclinati a darsi ad alcun esercitio virtuoso nè industrioso in arti liberali ne mestieri di sorte alcuna, del che causono le discordie, risse er factioni che ogni di naseno per non havere essi gioveni unde occuparsi se non in giuocho et altri vitij et male cogitazioni, desideroso Sua Signo- ria di levarle tute le ocasioni che li possano indurli a tali vitij, et fare lo offitio che se convenirebbe a li loro patri, [...] fa espresso comandamento che non sia persona alcu- na de conditione, stato o preminentia siasi non presuma ne ardisca giocare ne fare gio- care in casa propria a zocho alcuno di azardo ne di flusxi, basseta, primiera ne altri gio- chi soliti come dadi o carte prohibiti, [...] excepto di Triumphi, Schachi e tavolero soto la pena de lire vintecinque; et se non havera da pagare de tracti tri de corda per cia- scheduna volta contraparsa, et comunque restituire quello sara vinto. Lo stesso intento pedagogico si ritrova pure in una grida probabilmente del 1522, in cui Alberto obbliga i cittadini e i burgenses che possiedono terre a non risiedere su di esse, cioè fuori Carpi, oltre la stagione del raccolto, perché l’abita- re in campagna non solo li porta a vivere in modo rustico, ma anche a crescere i figli senza abituarli allo studio, alle lettere e a quelle virtù ed esercizi lodevoli che rendono più grandi le città, e quindi procurano un grave danno e disonore a questa sua terra di Carpi; perciò condanna i renitenti alla privazione della cittadinanza, e di conseguenza a trovare caricati i loro beni e le loro persone di tutte le imposte e i gravami rusticali. Quest’ultima grida, senza data, è pubblicata nelle Aggiunte agli Statuti4 prece- duta da un’altra datata 18 giugno 1522, che proibisce alle spose, ai mariti e ai parenti di indossare in occasione delle nozze abiti neri, un abuso che nasconde il grado e il livello sociale delle famiglie, oltre ad essere più adatto a raffigurare dolore piuttosto che letizia, premesso che nel congruo abbigliamento di uomini e donne si riconoscono benissimo non solo il livello di civiltà e l’armoniosa convivenza dei vari ceti di ogni città, poiché l’ornato del- le vesti mostra di per sé la varietà di condizioni sociali e la ricchezza delle famiglie. Solo tra le righe si può capire che il nero è un colore riservato alla nobiltà, e che quindi questa grida si inserisce nell’impari lotta sulla limitazione del lusso tentata

4 Statuti 1905, rispettivamente pp. 404-405 la prima, Quod omnes cives et burgenses venire debeant ad habitandum intra muros Carpi, e pp. 402-403, la seconda, Ne vestes nigri coloris sposis fiant pro eorum ornatu (traduzioni nostre). 230 Anna Maria Ori in molte altre città nello stesso periodo5; Alberto ne dà comunque soprattutto una giustificazione sociale. È forse invece legata a problemi di sicurezza la proibizione, datata 28 dicembre 1516, a ciascheduna persona che non debia fare ne andare in maschara a la pena de ducati 5 d’oro in oro per ciasscheduna volta, o di stare otto dì in prisone, che almeno riduce la pena prevista per lo stesso reato nel 1506, cioè la forcha e la confiscatione de tuti li soi beni. Lascia un po' stupiti la grida dell'11 gennaio 1517 che ordina che sotto pena de ducati quattro [...] alcuno non debia sonare ni pive, ni gnachere, ni sordina, ni zimbali, ni sibiolli, ni altri instrumenti o fare altro sono di qualonche sorte per ballare o fare ballare in le contrade di Carpi. Questo divieto mostra in controluce una caratteristica di socievolezza sponta- nea della popolazione di Carpi, una tendenza ad improvvisare musiche e balli di strada, una disponibilità a divertirsi assieme, suonatori, ballerini e pubblico, e vor- remmo, questa volta, conoscere le motivazioni che hanno ispirato il legislatore a reprimere.

Fratelli: Teodoro... Tra il 1512 e il 1522, se Alberto è lontano, sono invece presenti a Carpi i suoi fratelli, Leonello e Teodoro, quest’ultimo figlio naturale, legittimato e cresciuto nella famiglia Pio. Leonello senior infatti, morto neanche trentenne nel 14776, lo aveva legittimato assieme a un altro figlio naturale, Angelo7, e nel suo testamento ordinò che fossero allevati e istruiti insieme ai legittimi, ma Angelo deve essere morto molto presto, perché non se ne trova traccia in seguito. Teodoro invece creb- be insieme ai fratelli; fu frate minore osservante, padre guardiano del convento di San Nicolò in Carpi, vescovo di Monopoli e titolare di ricche prebende di cui fu investito da papa Leone X nel 15138; fu pure governatore di Carpi dopo la morte di Andrea Crotti, dal 1519 al 1523, quindi si trasferì a Meldola dove esercitò la stes- sa carica per qualche tempo. Era nato da Polissena di Richenbach9, che dal marito,

5 Per esempio TOSI BRANDI 2000. 6 Leonello doveva essere nato poco prima del 1450, se in un rogito del 1464 ha più di 14 anni e meno di 25. AG, b. 231, c. 253. 7 Lo stesso nome del fratello naturale di suo padre Leonello, Angelo di Alberto II, rimasto ucciso nel 1451 a Bologna durante un attacco alla città della fazione che lo aveva assoldato. 8 APS, b. 3 bis, n. 55. 9 Secondo il Tiraboschi era figlia di Johannes Richenbach (TIRABOSCHI 1794, p. 155). Potrebbe trattarsi dello stesso Johannes Richenbach, cappellano dal 1463 al 1486, anno della morte, della chie- sa di Geislingen, diocesi di Costanza, che fu uno dei primi legatori di libri, più che altro per suo per- sonale piacere e per quello dei suoi amici. Di lui, il primo a datare una sua opera (1469), sono state identificate circa 40 legature. OTTINO 1885, p. 67. Polissena, già moglie di Michele da Berino da Cre- mona, nel suo testamento del febbraio 1522 lascia erede il figlio legittimo, Antonio Maria. A Carpi, nel frattempo 231

Michele da Berino, aveva avuto un figlio, Antonio Maria, i cui figli più tardi si tra- sferirono anch’essi a Meldola con la famiglia e furono eredi del vescovo Teodoro, morto nel 153910. Di Teodoro Pio sappiamo inoltre che a Carpi aveva comprato la casa in Borgo Novo in angolo con via San Giovanni, oggi angolo tra corso Manfredo Fanti e via Andrea Costa, oltre a molti terreni e proprietà, che furono confiscati nel 1525 con tutti i beni Pio. Lo troviamo presente abbastanza spesso come padrino di battesi- mo11 negli anni 1516-1524, assieme ai nipoti Giovanni, che sarà suo erede, e Bar- bara, a cui egli costituisce una ricca dote nel 1522, quando sposa Antonio Valenti- ni di Modena, celebrando lui stesso il matrimonio12. Stranamente, nel carteggio di Alberto Pio oggi conosciuto non figurano lettere scritte o dirette a Teodoro Pio, mentre se ne trovano, ad esempio, nel carteggio coi Conservatori modenesi nell’archivio storico comunale di Modena.

... e Leonello Teodoro, nonostante la sua carica, era in un certo senso oscurato dal fratello minore, Leonello, che con la sua famiglia era figura di riferimento e al centro del- la visibilità a Carpi, nell’assenza del fratello maggiore. Già in prima linea nelle lot- te con Giberto e i suoi sostenitori, forse ferito e in pericolo di vita a vent’anni, nel 1497, come si può presumere da un suo testamento di quell’anno13, è un combat- tente tenace ma anche prudente, che sa ritirarsi di fronte a un nemico più forte pri- ma di essere sconfitto, come fa nel 1498 ma anche più tardi, durante l’occupazio- ne spagnola, rifugiandosi con la famiglia a Novi, nel castello da lui trasformato in palazzo-fortezza, e riesce ogni volta a portare con sé armi, preziosi e masserizie salvati dal saccheggio selvaggio delle abitazioni sue e del fratello. Doveva godere di grande popolarità tra gli abitanti di Carpi, perché è richie- stissimo come padrino di battesimo, assieme ai suoi figli, Rodolfo, il futuro cardi- nale, familiarmente Dolfo o Nolfo, gettonassimo (dodici presenze in due anni, pri- ma di andare a studiare a Padova) e Trojano (nove presenze, come il padre), alla moglie Maria Martinengo ed anche alla Zoana ... che sta col Magnifico signor Leo- nello, la madre del suo primo figlio naturale, peraltro legittimato, che con sottile iro- nia il padre volle chiamare Teodoro, e che fu anch’egli vescovo, ma di Ravenna14. Non sappiamo se Leonello Pio, in certi momenti, abbia provato il desiderio di essere figlio unico, ma dai documenti che restano sembra legato ad Alberto da un forte senso di lealtà: con lui è sempre rispettoso, ma senza condiscendenza e tanto

10 ZACCARIA 1980, pp. 174-176, che precisa l’anno di morte, nelle fonti francescane erroneamen- te datata al 1546. 11 Trascrizione di don Paolo Guaitoli dei nomi di padrini e madrine di battesimo dal Registro dei nati della Collegiata di Carpi, AG, B. 106, FASC.12, N. 27. 12 APS, b. 4, n. 30. 13 APS, b. 2 bis, n. 85, Testamento di Leonello Pio di altro Leonello fatto l’anno 1497, 11 marzo. 14 Trascrizione di don Paolo Guaitoli dei nomi di padrini e madrine di battesimo dal Registro dei nati della Collegiata di Carpi, AG, B. 106, FASC.12, N. 27. 232 Anna Maria Ori meno adulazione; è schietto di parola, disposto a eseguire ciò di cui lo incarica, quando è necessario, senza rinunciare a esprimere al fratello le proprie opinioni e a fare le proprie scelte. Uomo d’azione, più che di parola, ammette di non cavar- sela troppo bene col latino e coi cavilli legali, cui preferisce le attività pratiche e il mestiere delle armi; ma fa di tutto per assicurare a Rodolfo un’educazione di otti- mo livello per garantirgli la sicurezza in futuro, forse perché ha riconosciuto in lui interessi e predisposizioni simili a quelli di Alberto. Leonello rivela il lato migliore di sé dopo la scomparsa del fratello maggiore, da cui ha sempre voluto distinguersi finché era vivo e da cui ha appreso come si amministra una ‘terra’, come dimostra a Meldola e negli altri feudi della Romagna quando ne diventa signore. Di suo ha, però, un piglio tutto battagliero, una volon- tà di farsi valere per sé e non per la sua casata, e, sembra di capire, un ottimo rap- porto coi suoi sottoposti. Meriterebbe davvero uno studio approfondito e non poche righe in un volume dedicato al fratello, se non altro per la sua capacità di gustare i piaceri della vita, a qualunque età: ancora a novantuno/novantadue anni, sopravvissuto a due mogli, a molte amanti, a quasi tutti i suoi figli e a malattie e pericoli, soggiorna serenamente in una lunga vacanza a Venezia, o meglio a Mura- no dove possiede un villa, senza mostrare troppa voglia di tornarsene a Meldola: è davvero un personaggio che merita di essere studiato e capito, se non imitato15. Restano di lui due ritratti giovanili di Bernardino Loschi nella cappella del palazzo di Carpi, dove è raffigurato con una vivacità e una finezza psicologica superiori rispetto ai fratelli. In particolare nella scena più nota, quella coi perso- naggi di corte che circondano Alberto, egli è l’unico che fissa lo spettatore con occhio attento e l’aria di chi la sa lunga, suggerendo un’attenzione a quel che acca- de intorno a lui ben diversa dalla serenità concentrata in se stesso di Alberto e degli altri personaggi, compreso Teodoro (non Aldo Manuzio!) al centro della scena, mentre la figura all’estrema destra, che potrebbe essere Leonello padre, sembra fis- sare lo sguardo su lui. Inoltre nell’altro ritratto, nella scena dello Sposalizio della Vergine, egli è l’unica figura in movimento, per quel che consente il pennello del buon Bernardino: è il pretendente deluso che spezza la verga col ginocchio, sulla destra, mentre Alberto e Teodoro sono alle sue spalle. I suoi lineamenti, le guance scavate e la bocca, somigliano abbastanza a quelli di sant'Anna, la madre della Ver- gine, rappresentata al suo fianco, tanto da far pensare alla possibilità che quest’ul- timo possa essere un ritratto di Caterina Pico. Ciò, rafforzando l’identificazione di Leonello padre nell’altra scena, suggerirebbe l’ipotesi che l’ideatore del ciclo di affreschi avesse la volontà di ricreare sulle pareti della cappella un ricongiungi- mento ideale di tutti membri della famiglia di Alberto, vivi e defunti, raffigurati come attori della sacra rappresentazione16.

15 ZACCARIA 1980, passim. 16 Mi sembra doveroso riprendere l’identificazione proposta da Alfonso Garuti nel riconoscere, per motivi storici, Teodoro Pio nel personaggio centrale della scena principale, e non Aldo Manuzio come è stato proposto di recente. Siamo a Carpi, dove Aldo Manuzio aveva sì beni concessigli dai A Carpi, nel frattempo 233

Bernardino Loschi, affreschi della cappella di palazzo Pio, 1505 ca. Scene con ritratti di personaggi della famiglia Pio. Sopra, da destra: Leonello di Carpi, Leonello suo figlio, Alberto III, Teodoro e un dignitario locale. Sotto, da destra: Alberto, Teodoro, Leonello e Caterina Pico, qui nelle vesti di sant’Anna. 234 Anna Maria Ori

1523: LA TRAGEDIA HA INIZIO In questa parte ci poniamo nell’ottica degli abitanti di Carpi negli ultimi anni del dominio Pio; immaginiamoli immersi nella loro quotidianità, ignorando l’an- damento della grande storia e le vicende diplomatiche e militari (per cui si riman- da ai contributi di Luciana Saetti e Marcello Simonetta in questo volume), se non per le notizie spesso contradditorie che giungono attraverso le voci di chi viene da fuori, ma vivendone le conseguenze, via via più pesanti. Deve aver suscitato grande scalpore la visita a Carpi di Alberto Pio con la moglie e il cognato Ottavio Orsini nel novembre del 1519, e un’altra nel maggio del 1520, in cui però è documentata solo Cecilia Orsini col cardinale Innocenzo Cibo17; ma soltanto nel 1522 il conte di Carpi rimane piuttosto a lungo nella capi- tale del suo stato con la famiglia, sembra da marzo a fine anno, quando già la sua stella stava declinando. I carpigiani hanno la prima prova dell’ostilità di Carlo V nei confronti del loro signore quando ricevono l’obbligo, nell’agosto del 1522, di alloggiare 400 fanti e 200 cavalieri spagnoli per quattro mesi: si tratta di una vera e propria occupazio- ne, con tutte le conseguenze che ormai conosciamo bene. Ma è solo l’inizio: il 3 gennaio 1523, scaduti i quattro mesi, invece del sospira- to sgombro da parte degli scomodi occupanti, arriva un contingente militare gui- dato da Giovan Battista Castaldi e Giovan Vincenzo Cossa che prendono possesso dello stato in nome dell’imperatore: Carlo V ha spogliato Aberto Pio di Carpi, inve- stendone Prospero Colonna. Alberto è ai bagni di Lucca, Leonello e Cecilia Orsi- ni fanno appena in tempo a rifugiarsi nella fortezza di Novi, con effetti personali, masserizie e artiglierie. Giovan Vincenzo Cossa dichiara decaduto Alberto e assume il titolo di Luogo- tenente o Commissario imperiale. In questa veste assegna a Giovan Battista Castal- di il comando della guarnigione e a Giacomo di Castiglia il titolo di podestà. Quin- di prende possesso a nome della camera imperiale di tutti i beni mobili e immobi- li della famiglia Pio, bandita dalla città, disarma gli abitanti di Carpi e pubblica una grida che impone di denunciare eventuali altri beni Pio sfuggiti a questa prima con- fisca. Solo Maria Martinengo, la battagliera moglie di Leonello, rimasta in Castel- vecchio, rifiuta di andarsene se non viene prima risarcita della sua dote, garantita

Pio, ma era “solo” il maestro di un’arte che qui aveva vissuto brevemente molto tempo prima, negli anni Ottanta del Quattrocento, e pochi lo forse lo ricordavano a Carpi. Teodoro invece era figura pub- blica, verso cui tutti avevano obblighi di rispetto e di riverenza. Chi ha progettato il discorso icono- grafico della cappella ha voluto rendere omaggio al signore di Carpi, ai suoi fratelli, principali colla- boratori e ospiti di rango (che purtroppo non siamo in grado di identificare), così come li vedeva pas- sare nelle vie della ‘terra’, ma non può aver pensato di onorare un maestro, per quanto importante fosse stato in passato per la formazione del signore stesso, ma conosciuto soprattutto fuori Carpi e all’interno di un gruppo di intellettuali internazionali. 17 Trascrizione di don Paolo Guaitoli dei nomi di padrini e madrine di battesimo dal Registro dei nati della Collegiata di Carpi, AG, B. 106, FASC.12, n. 27. A Carpi, nel frattempo 235 dai beni del marito nel territorio di Carpi; il podestà si trova in imbarazzo, ma la esorta ad andarsene, cosa che lei fa continuando a protestare18. Nei giorni seguenti un nuovo giuramento di fedeltà è imposto sbrigativamente a tutti gli ex sudditi di Alberto, non solo di Carpi, ma anche dei lontani feudi della montagna, questi ultimi rappresentati dai loro massari e procuratori. La Comunità di Carpi rivolge una supplica a Prospero Colonna con la richiesta di poter mante- nere anche sotto il suo dominio le loro solite consuetudini previste dagli statuti, di cui allegano un sintetico elenco, e soprattutto che esse siano rispettate anche dai suoi rappresentati e dai soldati spagnoli. Nonostante l’assenso del Colonna, rila- sciato a Milano il 21 gennaio, gli occupanti continuano a comportarsi da padroni, senza alcun riguardo per cose e persone19. Il 25 aprile si tiene un’assemblea generale della cittadinanza di Carpi nella cat- tedrale, in cui Paolo Cabassi, sindaco della Comunità, a nome della collettività lamenta la mancanza di controllo nelle esazioni degli spagnoli e propone di man- dare una delegazione a Prospero Colonna per documentare le irregolarità da loro commesse fino a quel momento. A tal fine chiede che gli esattori di tali taglioni debbano presentare tutti li libri vacchette e scartafacci di tut- to ciò che hanno esatto in detto tempo a persona idonea, accioché emerga che sono sta- ti impiegati in utilità di detta Comunità... È una reazione civile, una richiesta di regolarità e rispetto da parte di tutti per una migliore convivenza. Non sappiamo se i libri mastri siano mai stati consegnati, né se la delegazione sia andata a Milano, ma i fatti suggeriscono una risposta negativa. Continuano per tutta l’estate le pretese negli alloggiamenti, le appropriazioni indebite, i maltratta- menti, le scorrerie nel territorio... Solo il palazzo-castello di Novi resiste con successo ad ogni attacco, protetto da una minaccia di scomunica di papa Adriano VI contro chiunque tenti di imposses- sarsene20, che sembra quasi una beffa, vista la mancanza di autorevolezza del lon- tano pontefice; ma il territorio che lo circonda è soggetto a continue scorrerie e a tentativi di impossessarsi di luoghi strategici, come un mulino. Perciò il 25 agosto Cecilia Comitissa de Carpe scrive una risentita lettera a Giovan Vincenzo Cossa imponendogli di metter termine a tutto ciò e dichiarandosi decisa a controbattere all’uso della forza con uguale forza21.

18 Rogito Giovan Battista Carnevali, AG, b. 234, p. 48. La lettera: ASCMO, Ex actis, b. 5. 19 GUAITOLI 1877, pp. 244-225. 20 BAMI 282 (v.n. 254) 3, Cass. 86: Breve di Adriano VI Pontefice, che minaccia di scomunica chiunque occupasse, o tentasse di occupare il Castello di Novi spettante ai Sig.ri Alberto Pio, e Ceci- lia Orsini, 29 gennaio 1523. 21 AG, b. 107, fasc. 8, n. 24. 236 Anna Maria Ori

Spade nell’ombra... Ma le cose stanno per cambiare. Seguiamo il racconto degli avvenimenti suc- cessivi dall’inedita Storia di Carpi di padre Luca Tornini22: Erasi diminuita di molto la guarnigione Spagnola di Carpi, [...] a cagione dei vari di- staccamenti qua e là mandati, affine se non altro di depredare, onde resone consapevo- le Alberto, che vegliava a’ propri interessi, si risolvette di far avanzare a questa volta le dette sue truppe, e già avvicinatasi a Carpi nel giorno predetto la vanguardia, si spicca- rono tosto da questa alcuni soldati de’ più animosi, ed appoggiate alle mura dalla parte del Monistero di S. Chiara alcune scale trovate fuori a proposito, senza incontrare verun contrasto entrarono in città. Indi portatisi alla contigua porta di San Bartolomeo, ora detta di Mantova, riuscì loro con egual facilezza d’impadronirsene, non avendovi tro- vate guardia di sorta alcuna che però, rotte per forza le serrature, aprironla, ed intro- dussero immediatamente i compagni, i quali appena entrati occuparono subito con tut- to silenzio tutte le strade, e luoghi più forti, e poscia si misero a gridare: Alberto! Alber- to! A questo improvviso rumore saltarono subito fuori dalle case, ov’erano dispersi, li Spagnuoli, per correre, e farsi forti nella cittadella; ma trovando preclusi tutti li passi, altri si ritirarono nel Torrione, che ora serve per residenza del Podestà, ed altri non potendovi entrare se ne fuggirono qua e là, involandosi così alli aggressori, dopo però averne lasciati alcuni per le strade feriti e morti. In tanta confusione di cose, e per le addotte rimostranze, riuscì facile ai nostri lo impos- sessarsi della Rocca, ossia fortezza, nel mentre che altri sotto il comando di Bernardi- no Grillenzone e Francesco di Gio di Paolo Alessio Ribaldi, esperti Capitani Carpigia- ni, conosciuti nelle storie sotto i loro due nomi di guerra, il primo di Morgante, che sot- to nome pure di Morgante trovasi nel Libro de’ morti li 19 Febbraro 1524, il secondo di Boccalino, portaronsi a dirittura ad investire il detto Torrione, che ora chiamasi anco- ra Palazzo della Monizione, e preso già il solajo inferiore, accesero tosto il fuoco al superiore, e già le fiamme comminciavano a giugnere al tetto, quando il Comandante degli Spagnuoli, che era il Mastro di campo Gian Vincenzo Cossa, [...] dimandò di capi- tolare, il che gli fu accordato. Ma nell’atto stesso, che egli da una finestra stava trattan- do la resa con Sigismondo Santi Secretario d’Alberto [...], rilevata avendo tutt’all’im- provviso una schioppettata nel volto da un soldato gregario, che sparò affatto contro ordine, e senza potersi rinvenire chi egli fosse, talmente vieppiù si avvilirono li Spa- gnuoli che senz’altri trattati si arresero alla discrezione de’ nemici. Il Cossa poi tra- sportato in casa di Gio Batta della Porta Fattore del Principe Alberto, affine di medicarsi della sua ferita riconosciuta già per mortale, ordinò subito l’ultimo nuncupativo suo Testamento, che può vedersi nei Rogiti di Lionello Coccapani23, e li 16 del venturo Set- tembre fece passaggio all’altro mondo, e d’ordine suo fu sepolto nella Chiesa di San Niccolò. Crebbe intanto nel giorno seguente il numero delle truppe di Alberto, e sac- cheggiate le case de’ cittadini avversi al Dominio Pio, condussero quanti di questi pote- vano avere prigioni nella fortezza di Novi, e perché Tono Coccapani e Giovanni Pitto-

22 AG, b. 246, tomo I, pp. 271-272, trascrizione di Gianfranco Guaitoli, che qui si ringrazia di nuo- vo. Padre Luca Tornini (Carpi, 1719-1790), minore osservante nel convento di san Nicolò, è figura di rilievo per i suoi interessi storici e culturali. La pubblicazione della sua Storia di Carpi a spese della Comunità fu interrotta dalla sua morte. Su di lui vedasi GIUSTI 2000, in particolare pp. 59-62. 23 Rogito di Leonello Coccapani, AG, b. 206, 1, p. 40. A Carpi, nel frattempo 237

ri avevano parlato a favore del Cossa, furono pubblicamente torturati sulla corda, affi- ne d’intimorire i loro seguaci. L’amministrazione dei Pio viene ristabilita; il capitano Castaldi, imprigionato a Novi, è liberato poco dopo senza taglia, ma non si contano le vendette sui carpigia- ni ‘collaborazionisti’, in particolare sugli esponenti del patriziato sostenitori del duca d’Este, e molto pesanti. Oltre alle pene corporali ricordate nel passo del Tor- nini, si ricordano pesanti obblighi di alloggiamento di militari: Giuliano Coccapani, ad esempio, dovette fornire alloggio nelle sue case e relative dipendenze a un cen- tinaio di soldati, con le conseguenze e i danni che si possono immaginare. Alberto ha recuperato lo stato, ma è una vittoria di Pirro. Lo è per lui, perché Carlo v la considererà sempre un atto di fellonia, un’imperdonabile ribellione con- tro la sua persona; per i suoi sostenitori, che dovranno scontare a caro prezzo la riconquistata libertà, perché di nuovo la pianura padana è teatro di guerra di eserci- ti stranieri. Anche Alfonso d’Este recupera territori perduti e minaccia Carpi, men- tre a Roma, dove Alberto riappare in ottobre, la morte improvvisa di Adriano VI por- ta al soglio papale Giulio de’ Medici, Clemente VII, il 19 novembre. Alla fine dell’anno muore Prospero Colonna; in teoria lo stato di Carpi dovreb- be passare a suo figlio Sebastiano, ma questa investitura non è certo tra le priorità di Carlo v, in una situazione fluida e mutevole in cui forse solo lo stato di Carpi, attraverso la persona di Alberto, resta legato alla Francia... Ma il suo destino è segnato. Già nel corso del 1524 la situazione non induce nessuno a sperare, in un affol- larsi confuso di notizie, ora allarmanti (nel maggio c’è una prima diaspora della popolazione nelle località vicine, per il timore dell’esercito imperiale) ora meno, come nell’ottobre, quando Francesco I riprende Milano... Per Alberto, però, l’anno si conclude con la grande gioia della nascita dell’erede tanto atteso, Francesco, come si vedrà più oltre.

I quattro cavalieri dell’Apocalisse Nel nuovo anno, le notizie sui movimenti degli spagnoli si succedono inces- santi, diffondendo angoscia e terrore, soprattutto dopo la disfatta di Francesco I a Pavia, il 24 febbraio 1525. Seguono giornate convulse, a partire dal 3 marzo quando il governatore Con- versini lancia un destabilizzante Si salvi chi può!: il giorno 4 Carpe se voda a furia, il 5 Leonello Pio abbandona Carpi nottetempo e si trasferisce con l’artiglieria a Novi, il 6 i possidenti carpigiani vendono a Modena il loro frumento e le granaglie a prezzi bassissimi, piuttosto che lasciarlo preda agli spagnoli, mentre i soldati del- l’armata francese scampati al massacro di Pavia cercano rifugio in una Carpi semi- deserta e spettrale. Poi tutto tace, e finalmente, dopo due giorni da incubo, la sera del 9 marzo, arrivano gli spagnoli24:

24 TOMASINO 1862, pp. 301. 238 Anna Maria Ori

... vene nova como li spagnoli hano prexe Carpe da hore 19 el quale posedeva el signor Alberto Pio, pochi homini dela tera gerano dentre, perché sono fuziti, e quelli francexi che gerano dentre sono fuziti a Modena spogliati, e feriti e vano male habiando, el tut- to se pigliò per la maestà delo Imperatore25. Gli spagnoli entrano in Carpi senza trovare opposizione, guidati da Giovan Andrea Spinola, commissario imperiale; il giorno 13 arriva con una squadra di cavalli leggeri Giovan Francesco Castaldi, nominato governatore da Ferdinando Francesco d’Avalos d’Aquino, marchese di Pescara, successore di Prospero Colonna come comandante in capo delle truppe spagnole. L’occupazione spagnola questa volta è terribile, molto peggiore della prece- dente. La vendetta del Castaldi si abbatte implacabile sui collaboratori più diretti di Alberto Pio: il 30 luglio vengono risarciti alcuni soldati spagnoli derubati e spogliati dei loro cavalli e delle loro armi e di altre cose mobili due anni sono dagli agenti a nome dell’Illustre Sig. Alberto Pio, coi beni confiscati a Sigismon- do Santi, a Boccalino e ad Angelo Saccaccini, Caporali e comandanti dei solda- ti ed armati condotti ad espugnate la Terra di Carpi in tempo di notte26. Ma più che le carte notarili, in questo periodo la nostra fonte principale è Tomasino de’ Lancellotti che registra quasi quotidianamente le incursioni degli Spagnoli de Carpe nei territori limitrofi, annotando scrupolosamente tutte le noti- zie che gli arrivano, di cui non ha modo, e nemmeno noi, di verificare l’attendi- bilità, ma che rendono bene invece il clima di violenza che regna nel territorio, che fa davvero pensare all’infierire dei quattro cavalieri dell’Apocalisse portando lutti, violenze, fame, peste e morte anche sui destini degli stessi signori. Alberto Pio, infatti, perde in giugno il piccolo Francesco e poco dopo anche il fido Sigi- smondo Santi, ucciso in un’imboscata; Prospero Colonna è morto improvvisa- mente il 31 dicembre 1524; persino il suo successore nel comando dell’esercito imperiale, il marchese di Pescara, è stroncato a 36 anni dalla tisi il 30 ottobre 152527. Quest’ultimo, tanto elogiato dal Giovio per la sua umanità, non la dimostra certo agli uomini di Carpi: risponde a una loro supplica di mettere un freno o una regola alle pretese dei soldati spagnoli con minacce di ulteriori aggravi: sotto pena di mille scudi devono continuare a portare ai soldati di stanza a Carpi per sub- stenctatione di dicti soldati et loro cavalli tutta quella strama et legna che sera

25 TOMASINO 1862, p. 302. Si noti che il cronista riporta due volte i fatti del 1522-26, ampliando e accrescendo la narrazione dei fatti nel tomo secondo del suo manoscritto; tuttavia i redattori del- l’edizione a stampa di Parma (1861-1871) hanno deciso di omettere nel secondo tomo le informa- zioni presenti nel primo, per ovviare a inutili ripetizioni, tranne que’ pochi casi in cui qualche noti- zia o circostanza, pria sconosciuta, ci raccomandasse di concederle il passo (nota in TOMASINO 1865, pp. 370-71), costringendo così chi è interessato a consultare e confrontare entrambi i volumi. 26 Rogito di Leonello Coccapani, AG, b. 206, 1, p. 403. 27 GIOVIO 1557 ne ricorda la morte prematura, il dolore della moglie, la poetessa Vittoria Colon- na e il funerale il 30 novembre, pp. 138-140; dà notizie anche della morte di Sigismondo Santi, pp. 138-39. A Carpi, nel frattempo 239 ordinata; e inoltre si riserva, in caso di renitenza, di mandar ad allogiare in epsa quella gente che ad lui parera et non faciano el contrario28. Nel nuovo anno, il 1526, non muta la situazione: gli spagnoli continuano nelle loro scorrerie e violenze, allargandosi a zone sempre più lontane e continuano a fare altri mali assai a tutti li carpexani, cossì de dentre, como de fora29 (21 giugno). Non mancano attacchi e rappresaglie a Novi, nei confronti Leonello Pio: 15 zugno. Vene nova como gli spagnoli che sono in Carpe hanno tolo tutti li cavalli al signor Lionello di Pii, quali teniva in stalla de fora de Novo, et fatto cinque prexoni che però risponde per le rime, senza farsi troppi scrupoli: E a dì ultimo (30 giugno) vene nova como li soldati del signor Lionelo di Pii che sta in Novo hano dato una grande spelazada ali spagnoli de Carpe, quali avevano fatto una coreria in quelo de Nove, et dicono avere scorticato uno spagnolo vivo. A Carpi in luglio aumenta il numero di soldati spagnoli di stanza; il governato- re Castaldi impone contribuzioni anche agli abitanti delle località vicine (20 scudi quelli di Correggio, 10 quelli di Concordia)30. Nonostante ciò continuano le rube- rie di sostanze e di bestiame e gli incendi di case anche nel modenese, tanto da pro- vocare l’intervento della guarnigione di Modena in scontri sanguinosi, nei quali tuttavia la peggio tocca sempre a chi abita e lavora nelle campagne, siano di Carpi o di Modena o di altre località. Si spera in una sospensione delle ostilità ad agosto, quando viene firmata una tregua per consentire il raccolto, con la promessa di rispettare i contadini e le loro robe; ma resta praticamente sulla carta. Deve essere rimasta bloccata anche un’ambasceria che la Comunità di Carpi aveva intenzione di mandare a Milano, per denunciare a Carlo III duca di Borbone, comandante in capo dell’esercito di Carlo V, le irregolarità nelle esazioni spagno- le. Resta solo una bozza del promemoria, databile all’ottobre 1526, in cui sono elencate minuziosamente le irregolarità e le ruberie subite nell’arco di oltre 20 mesi31 . Qui basti solo sottolineare l’impudenza degli spagnoli, che pretendono che la comunità di Carpi mantenga anche le putane in bon numero che hano, che a loro volta hanno molte pretese su como volino sieno tratade, esse familij e loro caval- li, e riportare l’amara conclusione: se il duca di Borbone non provede il resto di Cittadini restati se ben se dovesino gitarse zoso per le fosse se ne andaranno.

Tutto per tutto Dunque la situazione è giunta a un punto che sembra insostenibile, soprattutto ad alcuni cospicui cittadini di Carpi, detentori di appalti pubblici pesantemente danneggiati dalle ruberie degli spagnoli e da accuse di aver illecitamente portato

28 Lettera da Milano, il 29 luglio 1525, APS, b. 4 bis, n. 74. 29 TOMASINO 1862, pp. 350, 352. 30 Rogito di Leonello Coccapani, AG 206, 1, p. 406. 31 AG, b. 234, pp. 124-125. 240 Anna Maria Ori fuori Carpi beni e valori di proprietà di Alberto Pio32. Sollecitati da Lodovico Gril- lenzoni detto Rizzolo, amministratore delle rendite imperiali in Carpi in debito di oltre seimila ducati alla Camera imperiale, organizzano un piano per cacciare gli spagnoli in nome di Alberto Pio, forse col suo consenso, certo con la collaborazio- ne di Leonello Pio e dei suoi soldati. Il progetto è quello di introdurre in Carpi di prima mattina un certo numero di congiurati nascosti nel doppio fondo di dodici carri solo apparentemente carichi di fieno e guidati da alcuni di loro travestiti da contadini; dopo l’ingresso dalla Porta di Sant’Antonio dei primi sei carri, il settimo, simulando una rottura, doveva bloc- carsi sul ponte; i congiurati dovevano uscire dai nascondigli, impadronirsi delle armi disposte nei rastrelli lungo il muro della porta, uccidere le guardie e tenere la posizione fino all’arrivo dei fanti di Leonello, nascosti in attesa del loro segnale in luogo vicino, e tutti insieme sollevare la popolazione di Carpi contro gli spagnoli. Ma qualcuno (la fama vuole che fosse una donna, Francesca Pozzoli, moglie di Bartolomeo Brusati e amante di un alfiere spagnolo che alloggiava nella sua casa) rivela il piano. Il governatore Castaldi prende le opportune contromisure e i con- giurati, la mattina del 20 ottobre 1526, sono attesi da un nutrito drappello di sol- dati, mentre gli addetti alla porta rallentano l’ingresso dei carri, insospettendo però gli uomini nascosti negli ultimi carri della fila, che si danno alla fuga e si salvano grazie all’intervento dei soldati di Leonello, mentre i loro compagni già entrati in Carpi sono scoperti e arrestati. I processi si susseguono per giorni; tutti gli arrestati, processati singolarmente, sono condannati a morte. Seguiamo Tomasino de’ Bianchi, con l’avvertenza che egli riferisce le voci che gli sono giunte, senza controllarle; quindi forse i partico- lari più macabri sono esagerazioni, come già sospettava padre Luca Tornini nella sua Storia di Carpi, ma rappresentano però quello che ci si poteva aspettare e che alcuni credevano fosse accaduto veramente. Il 21 ottobre, arrivata a Modena la notizia della scoperta della congiura di Car- pi, si dice già che li spagnoli ge fani impiccare deli carpexan, ancora non se sà quanti né chi se sia. Il 22 si viene a sapere che gli impiccati sono dodici, ma anco- ra non se ne conoscono i nomi. Il 24 gli impiccati sono scesi a undici, e se ne ripor- tano i nomi: Balaran, Nicolò Baschera (Baschieri) e Fanton, sei contadin, uno pre- to de Porin e Andrea de Polin (Paolino) Grilenzon et se dice che ne hanno in pre- xon deli altri asai. Un’annotazione successiva aggiunge che in nottata ci sono sta- ti altri tre impiccati e che hanno in prexon dele persone cento. Il commento di Tomasino: el non se finirà la festa del tratato che ruinaran Carpe e le persone. Il 25 ottobre si aggiungono incendi: questa note pasata ge bruxato sette case; sembra che i prigionieri siano stati rilasciati, ma che pagaran de molti dinari, noti- zia confermata il 27, assieme a quella che gli spagnoli costringono i carpigiani a comprare il frumento che è stato loro sequestrato, pagandolo una cifra sproposita-

32 Rogito di Leonello Coccapani, AG, b. 234, pp. 96-97. A Carpi, nel frattempo 241 ta, 5 lire a staio; il commento: el non se poteria estimare la grande crudeltà che ha fato e fano gli spagnoli ali diti carpexani in ogni casa. Il 10 novembre si apprende che gli spagnoli che sono in carpe chiudono due delle quattro porte e guastano le moline de sotto, cioè verso la bassa, verso nord, perché temono di essere attaccati de la Signoria de Venetia e de’ Francesi. Nello stesso giorno se dice che ditti spagnoli a dì passati hano fatto impiccare 15 persone de quelli del trat- tato, e le soe teste sono poste per la tera in cima delle lanze e dapoi che furono in par- te soterrati li fecero desoterrare per mozarge la testa, dicono esser a vederlo una cru- deltà33. In questo contesto è inevitabile che si scopra pure la peste, a Carpi, che infieri- rà fino al 1528 per poi riprendere in modo sporadico per alcuni anni, accompagna- ta dall’immancabile carestia: per colmo di nostre sciagure, si vide qui, dopo molte alluvioni d’acque, a serpeggiare nel 1526 quella peste, che nel 1524 tante aveva fatte stragi nel Milanese, e sul Reggia- no nel 1525; peste che durò fino all’anno 1528, ed ebbe al solito per compagna indis- solubile la carestia, che andò seco d’accordo nel finire di desolare quasi affatto questo sciagurato paese, fino a farlo divenire in quelli infelicissimi tempi, presso che un deser- to. Infatti moltissime famiglie rimasero miseramente estinte, e fra queste, molte delle principali ancora, come può vedersi presso il Padre Maggi, e Monsignor Bellentani34. Il governatore Castaldi, inoltre, condanna a morte in contumacia i congiurati che sono riusciti a fuggire, ne confisca i beni e li dona a suoi collaboratori e appro- fitta della congiura per estorcere denari a una quindicina di carpigiani benestanti, minacciando di incriminarli: da duecento a cinquecento ducati d’oro ciascuno, e una serie di taglie minori imposte ad altri cittadini35. Ancora una fine d’anno tristissima e un inizio ancora più difficile per la deci- sione di Francesco Guicciardini, governatore di Modena, di combattere gli spa- gnoli ‘di Carpi’, ormai in difficoltà per il mutato clima politico e in procinto di abbandonare la zona. L’11 febbraio Tomasino de’ Lancellotti scrive:36 Se dice che li spagnoli che son in Carpe se vano con Dio, perché el Ducha de Ferrara non vole che stiano più in Carpe per essere suo, e li soldati de Modena stano al ordine de andargli dreto e pigliarli se poteran. Finalmente arriva il 7 marzo 1527: gli spagnoli escono da Carpi per unirsi all’e- sercito imperiale e Pietro Antonio Torelli, come rappresentante di Alfonso d’Este prende possesso di Carpi, sue pertinenze e allodiali già di Alberto per volontà di Carlo V e del duca di Borbone.

33 TOMASINO 1865, 129-136. 34 AG, b. 246, tomo I, p. 237. 35 Tutte in AG, b. 206, pp. 407-409. 36 TOMASINO 1865, p. 182. 242 Anna Maria Ori

Tomasino registra la voce che Alfonso d’Este concederà ai cittadini di Carpi l’esenzione dalle tasse per dieci anni, per risarcirli dei danni subiti durante gli oltre due interminabili anni di occupazione spagnola. Il Maggi parla di quindici giorni di processioni di ringraziamento e di fuochi di gioia, ma forse li confonde con incendi lasciati dagli spagnoli37: Carpi è ormai ridotta quasi a un deserto (e tra peste e carestie continuerà a spopolarsi): le persone più attive e intraprendenti se ne sono andate, i partigiani di Alberto nei suoi possedimenti romagnoli, altri a Ferrara o altrove; qualcuno forse ritornerà, molti si rifaranno una vita altrove. A Carpi sono rimasti i più poveri o deboli, i vecchi e i malati. Certo sono sollevati per la partenza degli occupanti, ma non devono aver troppa voglia di fare proces- sioni o fuochi artificiali.

Giovan Francesco Rustici, Monumento funebre di Alberto III Pio da Carpi. Bronzo a patina nera, con tracce di doratura. Particolare. Parigi, Museo del Louvre. Foto proprietà Alfonso Garuti.

37 MAGGI 1707, p. 103. TU DELL’INUTIL VITA ESTREMO UNICO FIOR...

Della vita privata di Alberto si conosce poco, a differenza di quella culturale e politica. I sentimenti sembrano non far parte della sua personalità. In tutti gli studi pubblicati su di lui, a eccezione di alcuni sul suo amore per Margherita Gonzaga1 e di accenni a suoi scoppi di collera o di indignazione, solo poche righe sono dedi- cate alla sua vita affettiva, al suo mondo interiore di passioni, speranze, delusioni... Nulla sui suoi rapporti con la moglie, Cecilia Orsini, venticinque anni meno di lui; nulla su quelli con le figlie; e addirittura per molto tempo si è ignorata perfino l’e- sistenza di un figlio, un erede, che ha avuto vita brevissima. E in questa vicenda invece Alberto appare con tutta la passione di un uomo, un principe, che finalmente ha un erede e sente che la sua vita ha uno scopo: insomma Alberto Pio mostra di essere un uomo capace di amare e soffrire, non l’icona del diplomatico, sfinge o camaleonte a seconda dei momenti e dei casi. Il primo indizio dell'esistenza di questo bambino è stato trovato da don Paolo Guaitoli, che segnalò il ritrovamento di un carme latino composto in occasione del- la sua nascita nella Bibliografia carpigiana e nei regesti dell’archivio Pio2. Poiché poteva trattarsi anche di un’esercitazione scolastica, il fatto passò sotto silenzio fino al 1931, quando Alfonso Morselli3 pubblicò una lettera in cui lo stesso Alberto, il 25 dicembre 1524, comunicava a Federico Gonzaga4, marchese di Mantova, di essere diventato padre; ma nemmeno questa volta si modificò granché la percezione del fatto, né da parte del pubblico, né degli studiosi, e nemmeno dopo la pubblicazione del volumetto di Ettore Spaggiari5 I figli di Alberto Pio (1978)6, che utilizzava altre notizie e ricerche raccolte nel frattempo dal Morselli e rimaste inedite. Riordiniamo quindi tutto ciò e ricordiamo questo bambino, che ebbe nome Francesco, con le parole del padre che così annunciava la sua nascita: Sendo antiqua consuetudine di casa mia, per l’observantia et servitù ha continuamente portata alla Ill.ma casa de V. Ex. [...] farli nota qualunque cosa mesta o lieta li occur-

1 MORSELLI 1931; LORENZONI 1977; MINARELLI 2006. 2 GUAITOLI 1882-83, vol. I, p. 263; Nota del Guaitoli in AG, Estratti dell’Archivio Pio, vol II, p. 37: «In una carta unita, in fine, a questo rogito [Gerolamo Cattani, Bologna, 30 luglio 1516] leggesi una composizione latina in versi scritta da un anonimo in occasione della nascita di un figlio maschio di Alberto Pio conte di Carpi, e della signora Cecilia di lui moglie». 3 Alfonso Morselli (1886-1982), insegnante e studioso di letteratura e storia locale, ha pubblica- to i suoi studi su periodici e nelle raccolte di «Atti e memorie» della Deputazione modenese e nelle «Memorie storiche» della Commissione di Carpi. Gli eredi hanno donato all’Archivio storico comu- nale di Carpi la sue raccolte di studio, che comprendono documenti originali assieme ad appunti, schede e opere a stampa, tra cui gli scritti editi dallo stesso Morselli. 4 Figlio di Francesco Gonzaga e Isabella d’Este, succeduto al padre nel 1519. 5 Ettore Spaggiari (1913-1992), letterato, musicista e giornalista, autore di numerosi saggi storici e critici; ha lasciato all’Archivio storico comunale di Carpi il proprio archivio privato, costituito da suoi manoscritti e pubblicazioni di argomento storico-letterario. 6 SPAGGIARI 1978. 244 Anna Maria Ori

resse; non volendo io deviare da quella [...], sendo piaciuto a N.S. Dio farmi gratia de uno figliolo maschio, m’è parso significarglielo, rendendome certo per sua humanità haver a piacere intendere li sia nato un novo servitore7. Lo stile cerimonioso e curiale sembra eccessivo, visto che il destinatario è, sì, il marchese di Mantova, ma è Federico, un giovane con la metà dei suoi anni che ha conosciuto bambino e visto crescere; forse Alberto si è imposto un rigido auto- controllo, secondo le buone maniere, per non manifestare tutta la gioia che lo ani- ma: finalmente, a 49 anni, gli è nato un erede, il desiderio di tutta la sua vita, e sta assaporando l’appagamento della certezza di «non morire senza posterità»8, di ave- re qualcuno che continuerà la sua opera e il suo nome. Così lo descrive, senza fil- tri, il destinatario, Federico Gonzaga, nel comunicare da Roma il 28 dicembre la notizia alla madre, Isabella d’Este, legata ad Alberto da una lunga amicizia9: [...] Hoggi Nostra Santità [il Papa] ha doppo manzare dispensato tutto il dì in dare audientie, cioè prima del Duca di Sessa et poi del signor Alberto da Carpi, il quale, per quanto intendo, è tutto alegro, esendoli novamente [da poco] nato un figliolo maschio desiderato da Sua Segnoria sopramodo. L’8 e il 9 gennaio 1525, i festeggiamenti per il battesimo di Francesco si accom- pagnano a quelli per l’alleanza stretta tra Clemente VII, i Fiorentini, i Veneziani e il re di Francia contro gli Spagnoli; anche Marin Sanudo vi accenna, mentre infor- ma il Senato veneto: a dì 8, Domenega de sera, il Signor Alberto da Carpi, orator francese, et li altri oratori francesi havevano fatto festa et fuogi et trar artilarie per alegreza de la liga fata col Papa. [...] Item par, la moglie del signor Alberto da Carpi predito [...] habbi parturito uno fiòl e l’ha fato batizar e fato festa e bellissimo pranzo, dove li è stato 8 cardinali10. Pietro Bembo, a Roma per il Giubileo, ne dà pure notizia, con un pizzico di malignità – forse non era stato invitato alla festa? – scrivendo il 12 gennaio a Rodolfo Pio, il nipote di Alberto studente a Padova, già avviato alla carriera reli- giosa11: Il Sig. vostro zio ha fatto questi di fuochi & feste, senza haver molte legna da farle. Esso sta all’usato, il bambino & la madre benissimo12.

7 ASMN, Archivio Gonzaga, E XXXVI 1, b. 1309. Pubblicata in MORSELLI 1931, lettera LIV, pp. 129-30. 8 Lettera di Alberto Pio a Tolomeo de Gonzaga, marchionale segretario, da Roma, 23 marzo 1518. ASMN, Archivio Gonzaga, E XXXVI 1, b. 1309; pubblicata in MSDC I, pp. 391-394 (la citazione è a p. 392). 9 ASMN, Archivio Gonzaga, E XXV, 3, b. 868. Pubblicata in SPAGGIARI 1978, p. 15. 10 SANUDO 1893, vol. XXXVII, p. 432. Pubblicata in SPAGGIARI 1978, p. 15. 11 Alberto Pio e Pietro Bembo si erano frequentati a Ferrara e Venezia, durante gli studi, tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. 12 Delle lettere di M. Pietro Bembo a Prencipi, Signori et suoi famigliari amici scritte, III, Di nuo- vo riveduto et corretto per Francesco Sansovino, in Venetia per Comin da Trino di Monferrato, 1564, pp. 47/48. A Carpi, nel frattempo 245

Purtroppo, la gioia di Alberto dura poco, anche se forse il piccolo Francesco lo aiuta a sopportare e a reagire alla presa di Carpi e alla confisca di tutti i suoi beni, compresi gli allodiali, ordinata da Carlo v dopo la sconfitta dell’esercito francese a Pavia, il 24 febbraio 1525. Ma è solo una tregua: in giugno, mentre lui è lonta- no, ai bagni di Viterbo per curare la podagra, il bambino cessa di vivere. Appren- diamo la notizia della morte dagli stessi testimoni che ne avevano comunicato la nascita, tranne Alberto, annichilito dal dolore. Federico Gonzaga, il 21 giugno, informa la madre con parole di commossa partecipazione, che un po’ stupiscono in questo personaggio, ma forse la sofferenza di Alberto ha fatto riaffiorare in lui la sensibilità del fanciullo viziatissimo strappato alla madre e ostaggio a dieci anni alla corte di Giulio II13: Novamente è mancato il fiol unico dell’Ill.mo Signor Alberto da Carpi, qual se ritrova alli bagni di Viterbo. Stimase che questa perdita li debba gravar più d’alchun’altra che l’abbia patito per il passato, perché parea che ne le sue adversità non havesse altro refu- gio che questo figliolo. Pure Marin Sanudo informa il Senato veneto, copiando pari pari la prima frase ex litteris domini Federici Gonzaga, datis Romae 21 Junii [1525]14, ma non il com- mento successivo. Queste sono, ad oggi, tutte le informazioni sulla breve vita di Francesco Pio; e tut- te provengono da Roma. E a Carpi? Come reagirono i sudditi di Alberto alla notizia di questa nascita? Non ne abbiamo idea: non c’è nessuna traccia di lui negli archivi locali; come si è detto la sua nascita è ignorata da studiosi come il Tiraboschi o il Semper, che pure avevano raccolto con attenzione le memorie di Alberto Pio. Eppure fino al febbraio 1525 Carpi era ancora sotto il dominio di Alberto, dopo il colpo di mano di fine agosto 1523; quindi la notizia aveva avuto il tempo di dif- fondersi e la comunità cittadina l’opportunità di inviare felicitazioni e organizzare festeggiamenti. Forse tutto era stato rimandato ad una stagione più propizia al viag- gio del piccolo conte di Carpi da Roma fino al ‘suo’ stato, viaggio reso impossibi- le dal precipitare degli eventi dopo la disfatta di Pavia. In seguito la durezza stes- sa dei tempi e la damnatio memoriae del regime Pio contribuirono a cancellare ogni eventuale ricordo del piccolo, in un’epoca in cui la mortalità infantile era accettata come cosa consueta15.

13 ASMN, Archivio Gonzaga, E XXV, 3, b. 870. Pubblicata in SPAGGIARI 1978, p. 16. 14 SANUDO 1893, vol. XXXIX, p. 129. Pubblicata in SPAGGIARI 1978, p. 15. 15 Lo stesso fratello di Alberto, Leonello, vide arrivare all’età adulta pochi dei suoi numerosi figli. Una cronaca inedita del ravennate Giovan Pietro Ferretti, vescovo di Lavello, dedicata al cardinal Rodolfo Pio gli attribuisce ventiquattro figli nati dalla prima moglie, Maria Martinengo (tra cui un parto quinquegemino), di cui solo due sopravvissuti. In un suo testamento del 1497, lo stesso Leo- nello, ventenne, ricorda un primogenito Manfredotto e due figlie. APS, b. 2 bis, n. 85. 246 Anna Maria Ori

Salve Nate Puer Tuttavia, come dianzi accennato, nella seconda metà dell’Ottocento, un indi- zio dell’esistenza del piccolo Francesco emerse inaspettatamente durante le ricerche di don Paolo Guaitoli nell’archivio della famiglia Pio. Era un foglio piuttosto malconcio inserito tra carte di data e tenore insospettabili16, su cui una mano stanca aveva steso faticosamente la minuta di un carme in latino senza tito- lo, che si rivelò per un Componimento per la nascita d’un figlio d’Alberto Pio, come il Guaitoli annotò sul foglio stesso, senza poterlo datare per mancanza di altre informazioni. Se non fosse stato lo storico scrupoloso che tutti conosciamo, avrebbe potuto azzardare l’identificazione dell’autore che non può essere altri che Giovan Fran- cesco Ciarlini, canonico e arcidiacono della collegiata di Santa Maria di Carpi, che aveva già dato prova del suo valore in un poema encomiastico dedicato ad Alberto Pio, De arbore poetarum17. Oltre al fatto di essere l’unico carpigiano che amava comporre versi latini (che definire mediocri è azzardato), il Ciarlini ave- va molti motivi di riconoscenza verso Alberto Pio: nato a Carpi attorno al 1478 da famiglia benestante18, aveva ottenuto un canonicato nella nuova collegiata e la carica di arcidiacono della stessa nel 1523, dopo la morte di Ettore Abati, che abbiamo incontrato più volte in queste pagine. Infine, determinante il fatto che il carme presenta una notevole analogia stilistica col poemetto De arbore poeta- rum, come si può verificare nei numerosi passi citati dal Tiraboschi e da Albano Biondi, che lo definisce fin troppo generosamente «artisticamente [...] un pro- dotto acerbo, misto di rozzezza e di sofisticheria, velleitario e ingenuo». Percorriamone insieme il contenuto, anteponendo un commento-parafrasi-tra- duzione al testo latino (per chi volesse cimentarsi, ma va specificato che la tra- scrizione è incerta per le condizioni del documento e per i numerosi pentimenti e riscritture del testo).

16 Era tra le carte di rogito redatto in Bologna nel 1516. Il Guaitoli aveva pure precisato che l’o- riginale faceva parte della sua raccolta, forse concessogli dai proprietari per studiarlo o trascriverlo. Oggi è infatti in AG, b. 107, fasc. 1, n. 27, con due trascrizioni, una di mano del Guaitoli, l’altra del Morselli. 17 L’originale, JOANNIS FRANCISCI CIARLINI De arbore poetarum ... ad illustrem principem Albertum Pium Carpi Comitem, si trova nella Biblioteca Estense di Modena, ms. lat. 125, alpha T.612. Ne dà ampia notizia il Tiraboschi nella Biblioteca Modenese (TIRABOSCHI 1782, pp. 28-35) e vi si è pure sof- fermato, in tempi più vicini a noi, Albano Biondi negli atti del convegno su Alberto Pio (BIONDI 1981, pp. 102-112). Il testo, di oltre mille versi, è dedicato ad Alberto Pio, ma in realtà è un misto indeciso tra autobiografia, mitologia e fatti storici del periodo, intriso di compiaciuto moralismo. Il Ciarlini morì nel marzo del 1529; volle essere sepolto nella collegiata, dopo aver scritto il testo della propria epigrafe funeraria, in latino, in cui rivendicava la posa della prima pietra del nuovo duomo: Hic jacet Franciscus Ciarlinus Archidiaconus qui primum hujus Sacri Templi lapidem posuit, et hoc altare seu sacellum Divo Hieronimo propriis expensis dicavit, construxit et dotavit. AG, b. 234, c. 72. 18 Il fratello di suo padre, Giacomo Ciarlini, fu arciprete della chiesa di Novi, oltre che vicario e collaboratore di Galeotto Pio, arciprete commendatario della pieve di Carpi. TIRABOSCHI 1782, p. 35. A Carpi, nel frattempo 247

Si apre con un saluto ad Alberto, alla madre e al neonato: Salve, Alberte Comes Carpi, celeberrime Princeps Salve, Nate Puer, et Comitissa parens! Quindi l’autore si dichiara certo che nessuno possa descrivere né i bei frutti che Alberto raccoglie dalla cara moglie Cecilia Orsini, né quanta letizia e quanto gau- dio abbiano provato gli abitanti di Carpi alla notizia della nascita: Quos e Cecilia [Ursinia] Coniuge cara Formosos fructus collige valde bonos. Quantae letitiae fuerint, et gaudia quanta Carpicolis posset scribere nemo puto. Non appena giunto a Carpi il messo con la notizia della nascita dell’erede, il popolo esplose in una sola voce in felicitazioni per Alberto: «O Alberto, Alberto fortunato vivrà nei secoli colui a cui è nato un figlio, che ha finalmente il figlio che desiderava con ardore»: Unica vox populi fertur ubique tue (sic) Alberte, Alberte felix per secula vivet Cui puer est natus, quem cupiebat, habet. Seguono alcuni versi che ricordano lo scampanio a festa e l’accorrere del popo- lo e del clero in cerimonie e preghiere per augurare lunga vita al neonato, che deve crescere e vivere per sé e per loro Et mox campane resonantes aere sonoro Tinnitus faciunt nocte dieque suos. Conveniunt populus confestim clerus et omnes Devote celebrant, suppliciterque rogant Ut puer iste tuus longiores compleat annos Tam sibi quam nobis vivat et ... A questo punto, c’è qualcosa che non funziona, forse manca qualcosa o qualche verso di troppo non è stato cancellato: compaiono bombarde che fanno stragi, muri che precipitano, finché da un groviglio di immagini un po’ ovvie (strade illumina- te dai fuochi sulle torri) e di ricordi mitologici sembrano emergere allusioni alla realtà di Carpi, assimilata a Troia, presa con l’inganno, l’argolica fraude di Ulisse; il tutto reso ancor più difficoltoso da problemi di lettura, o meglio decifrazione, del testo. ... Et cum bombardis hominum que maxima strages Esseque murorum sepe ruina solent Per vicos ignes super altas denique turres Lumine [...] sydera clara suo Arderent iterum tua moenia Foebe putaret Argolica fraude que cecidisse ferunt At vividique suas ornaverunt hedera Arsere et speculis lumina [...] suis. 248 Anna Maria Ori

Uscito finalmente dal ginepraio, l’autore si rivolge al piccolo Francesco: i cit- tadini di Carpi non hanno più né oro né ricchezze, ma gli offrono una collana d’o- ro, pegno del grande amore e di sicura fedeltà. I cuori e la lealtà degli uomini di Carpi saranno per lui baluardi, roccaforte, macchine da guerra e torri. Non aurum nec opes: sed te pensare (?) putantes Cor magis atque fidem, qua nihil est melius Hanc auri torquem per magni pignus Amoris Accipe: quam populi nomine sponte damus Connexumque fide populum complectere firma Nec dubites ullo tempore deficiat Corda, fides hominum tibi propugnacula, fortis Arx et munimentum, machinae, turris erunt. Si rivolge poi ad Alberto e lo esorta a mostrarsi indulgente e benigno verso il popolo tutto di Carpi, che aspetta avidamente il suo ritorno per acclamarlo e lo invoca a soccorrerlo, beneficarlo, sostenerlo, perdonarlo e proteggerlo. Non c’è dubbio sulla sua pietà, anzi Alberto brilla per la sua pietà: essendo Pio di nome, gli si addice essere pio. Te facilem exibeas nobisque Alberte benignum Carpensi populo, quaesumus esse velis Et qui nos avide redituros sperat ovantes Subvenias, benefac, substine, parce, fave: Nec dubium est pietas; an tu pietate refulges Cum sis nomine Pius, te decet esse pium. Dopo l’agghiacciante gioco di parole, l’autore ha ancora la forza di concludere promettendo che il popolo pregherà perché il cielo conservi incolumi i suoi signo- ri, padre e figlio. Non sembra grave perdita l’impossibilità di cogliere l’eventuale finezza del concetto finale, visto che gli ultimi due versi sono ancor meno leggibi- li dei precedenti per una lacerazione del testo. Ut vos incolumes conservent numina dominos Orabit populi...... tui Cui bonitate tua grates rescribe tabellas ... quam [suam?] sibi [tibi?] nos exposuisse. Vale.

L’oroscopo di Sigismondo Un’altra traccia dimostra che a Carpi non era del tutto ignota la nascita di Fran- cesco; ma l’indizio era quasi sospeso nel suggestivo mondo dell’astrologia, allora ritenuta una vera scienza. Protagonista Sigismondo Sigismondi19, cancelliere di Alberto Pio, noto soprat-

19 Lo abbiamo già incontrato come redattore del giuramento di fedeltà del 1511. Nato poco dopo il 1450, figlio naturale di Antonio Sigismondi, era stato un abile e apprezzato calligrafo, come docu- mentano i suoi codici per Mattia Corvino, i Medici, Emanuele di Portogallo. Era tornato a Carpi ver- A Carpi, nel frattempo 249 tutto come astrologo. Si diceva che potesse conoscere il passato di persone che non aveva mai frequentato e predire il futuro di chi glielo chiedeva, e che molti pote- vano testimoniare che le sue predizioni si erano verificate puntualmente; come astrologo, era considerato anche medico, soprattutto in grado di preparare rimedi per tener lontana la peste, attribuita a influssi astrali. Nel giugno del 1524 a Roma imperversa un’epidemia di peste; Alberto chiede a Sigismondo Sigismondi un preparato per difendersene e l’astrologo gli invia la ricetta richiesta, ma con l’avvertenza che non va bene per le donne incinte. Quin- di aggiunge: Quattro figure20 ho tratte per la signora Contessa; tutte sono state a questo modo, come è quella ch’io mando introclusa. Per fine io mando questa introclusa ricetta, perché se mai fosse di bisogno ad alcuno, si possa prevalersene, che è cosa probatissima21. Da ciò si ricava: primo, Cecilia Orsini aspetta un figlio, altrimenti non avrebbe avuto senso la seconda ricetta; secondo, che le «quattro figure tratte per la signora Contessa» dovevano rappresentare un oroscopo per conoscere il sesso del nascitu- ro. Il fatto che le figure fossero quattro, concordi nell’esito doveva rassicurarla che sarebbe stato un maschio. Dunque almeno Sigismondo Sigismondi, a Carpi, sape- va che sarebbe nato un figlio al suo signore. E se era davvero così abile, forse ave- va previsto la sua morte prematura, ma si è limitato a rispondere a quanto gli era stato richiesto.

Come non bastasse... Abbiamo visto Alberto distrutto per la morte di Francesco; ma non passa mol- to tempo che una nuova speranza si accende in lui: Cecilia è di nuovo incinta, si annuncia una nuova nascita. Non sappiamo se si sia rivolto al Sigismondi, per l’o- roscopo, ma arriviamo all’ottobre del 1526. Matteo Casella, oratore del duca di Ferrara a Roma, scrive al suo signore in data 29 ottobre 152622: ...dico appresso a Vostra Excellentia la più bella burla del mondo: parturiendo la moglie del signor Alberto, in la nasione le donne che erano lì comenzorno a dire ‘l’è maschio, l’è maschio!’ de sorte che la nova fu portata al signor Alberto ‘che era maschio’; qual subito a Nostra Santità, al Datario, al Cardinal Ursino e a tutti gli amici suoi mandò a

so il 1500 dandosi all’attività notarile, e fu notaio e cancelliere di Alberto Pio, ma raggiunse la fama come astrologo, conosciuto e consultato da personaggi importanti come Gaston de Foix, Pierre Ter- rail signore di Bayard, La Palice; ed è definito astrologo anche dal padre guardiano di San Nicolò di Carpi nell'annotazione della morte, nel luglio del 1525. Notizie più ampie in MORSELLI 1939. 20 Vocabolario della Crusca, «FIGURA: termine d’astrologia: Rappresentazione dello stato del cie- lo, ossia della disposizione dei pianeti e delle stelle in un determinato punto di tempo». MORSELLI 1978, p. 17, nota 2. 21 Pubblicata in Catalogue raisonné de la collection des livres del P. A. CREVENNA, Amsterdam 1775 2 1776, vol II, p. 207. Ivi, p. 3, nota 1. 22 Lettera di Matteo Casella al duca di Ferrara, ASMO, Cancelleria ducale. Carteggi degli Agenti ducali a Roma, b. 22. Pubblicata in SPAGGIARI 1978, p. 11. 250 Anna Maria Ori

nuntiare che li era nato un figliol maschio; ma dapoi che l’è nato, s’è ritrovato esser femmina, per il che è rimasto tutto scornato. Oltre al danno, le beffe dell’intera Roma, e non solo. Ma questa stessa fretta di condividere la gioia della notizia, senza aspettare, senza nemmeno averlo visto, quel bambino di cui fa annunciare la nascita, ci dice molto di Alberto. E possiamo imma- ginare l’abisso della sua delusione e del suo imbarazzo, nei giorni successivi.

Qui in parochia quiescit Il passare del tempo, il ‘sacco’ di Roma, l’isolamento e la quasi povertà nell’e- silio di Parigi sembrano tappe di avvicinamento alla fine, che giunge pietosa nel gennaio del 1531. Ma Alberto non ha dimenticato Francesco. Lo conferma il suo testamento, in un passo che ha il tono e la valenza di una visione, dove la Carpi e il tempio di San Nicolò che lui vede non sono la città e la chiesa reali in cui vivono e si muovono persone in carne e ossa, soggette al domi- nio estense e alle difficoltà quotidiane della vita normale, ma un luogo ideale, per lui più reale di quello vero, dove hanno preso vita tutti i suoi progetti e dove uno stuolo di cittadini-fantasmi celebra la sua grandezza e quella del suo casato. Dopo aver espresso il suo desiderio di essere sepolto nel tempio di San Nicolò di Carpi, purtoppo irrealizzabile, continua: Et quia corpus meum non potuit condi in sepulcro maiore precipue patri mei in eadem ecclesia sepulti, ne prorsus memoriam apud fratres et populum deprecaturum pro me deperat, volo xenotaphium in aliquo loco illius ecclesie construi et in illo ossa Franci- sci filii mei unigeniti, pro me defuncti, qui in parrochia quiescit, trasferri er reponi, et quod in ea ecclesia fiant officia mortuorum pro me, que fieri solita sunt pro anima parentis mei23. E poiché il mio corpo non ha potuto essere riposto in un sepolcro più grande in parti- colare in quello di mio padre sepolto nella stessa chiesa [San Nicolo di Carpi], poiché non si perda del tutto la memoria di me presso i frati e il popolo che pregherà per me, voglio che si costruisca un cenotafio [sepolcro vuoto] in un qualche luogo di quella chiesa e che in esso siano traslate e deposte, invece di me, le ossa di Francesco, il mio figlio unigenito defunto, che ora riposa nella parrocchia, e che in quella chiesa si cele- brino per me gli uffici dei morti che sono soliti farsi per l’anima di mio padre24. Le tre figure di Leonello, di Alberto e di Francesco in questo passo si accomu- nano dopo la morte fin quasi a fondersi nella visione di Alberto, teso a esorcizzare il rischio di essere obliato: Parigi avrà il suo cadavere, ma nel cenotafio col nome di Alberto le ossa di Francesco saranno garanzia della sua presenza in patria, for- mando un ponte ideale con quelle di Leonello. Fuori del sogno salta all’occhio del lettore un particolare, questo sì reale, con- creto e non visionario: Alberto afferma che Francesco quiescit in parrochia, ripo-

23 Il testamento di Alberto Pio è trascritto e commentato in SVALDUZ 1999, pp. 467-482 (citazio- ne p. 478); altra trascrizione in SVALDUZ 2001, pp. 364-372 (citazione p. 369). 24 Traduzione nostra. A Carpi, nel frattempo 251 sa nella chiesa parrocchiale di Carpi, cioè nella Collegiata, il duomo voluto da suo padre. E si apre il mistero su come, quando e da chi il corpicino o le ossa siano sta- te portate da Roma a Carpi, e in quale posizione del duomo e in quali circostanze siano state sepolte, in una città in mano a nemici dove evidentemente c’erano anco- ra persone così legate ad Alberto da rischiare la vita per obbedire a un desiderio del loro principe che non poteva più dare ordini. Ma questa è una storia tutta da immaginare, e forse da scrivere.

Vergine Madre... Forse Alberto aveva sempre pensato a una propria sepoltura in San Nicolò, dove riposava suo padre: infatti già dopo il 1501 aveva deciso di sistemarvi la tavola del Compianto sul Cristo morto con i santi Francesco e Bernardino commissionata a Cima da Conegliano25. Il dipinto, però, rimase presso di lui anche a Roma, ma è documentato nella destinazione originale a metà Cinquecento, sull’altare maggio- re, dove rimase fin verso la metà del secolo successivo, quando Francesco I d’Este la volle a Modena nella sua galleria. Nel dipinto era pure raffigurato Alberto, secondo quanto scrive il canonico don Gaspare Pozzuoli nella sua Cronaca di Carpi datata 162426; ma non era questo il motivo per cui egli vi era così legato: la Vergine in deliquio aveva le fattezze di Caterina Pico, sua madre, ricavate dalla maschera funeraria, secondo la suggestiva ipotesi avanzata da Silvia Urbini nel 200427: Il rigor mortis che caratterizza il volto della Vergine, i tratti somatici molto individua- lizzati ma totalmente inespressivi, la mascella cadente, così come la mani contratte, rivelano che siamo in presenza di una maschera mortuaria: quella, ipotizzo, di Caterina Pico, in memoria della quale potrebbe essere stato eseguito il Compianto. L’attenzione dei personaggi – a parte lo sguardo dei due francescani rivolto a Cristo, e quello di Nicodemo rivolto a noi – è tutta sbilanciata verso la Vergine morta, vera pro- tagonista della rappresentazione. Oggi questa ipotesi sta prendendo sempre più peso, sia riguardo al motivo del- la committenza, legato alla commemorazione della tragica morte della madre, sia perché aiuta a fissare la datazione della tavola dopo il 1501, riducendo l’arco tem- porale delle datazioni principali, tra il 1495 e il 150528. Inoltre non mancano esempi coevi di uso di maschere funerarie per raffigurare

25 HUMPHREY 1994, a cui si rimanda per le vicissitudini della tavola e per l’ampia dissertazione sul significato. 26 Cronaca di Carpi del canonico dottore Gasparo Pozzuoli, stesa l’anno 1624. AG 183. Il Poz- zuoli non precisa nelle vesti di quale personaggio sia da identificarsi Alberto Pio. HUMPHREY 1994; MINARELLI 2013. 27 URBINI 2004, p. 198. 28 Caterina Pico morì il 6 dicembre 1501, avvelenata da una dama di compagnia. Le datazioni del dipinto oscillano tra il 1495 e il 1505. SBARAGLIO 2014, p. 25. 252 Anna Maria Ori come personaggi sacri defunti legati da vincoli di parentela al committente, come mostra recentemente Lorenzo Sbaraglio29. È dunque possibile che questo dipinto fosse caro ad Alberto, oltre che per il significato morale, anche perché raffigurava sua madre, a cui era molto legato30. E forse, aggiungiamo sottovoce, la maschera funeraria di Caterina può essere servi- ta anche alla mano più modesta di Bernardino Loschi per il volto di sant'Anna, che vediamo ritratta accanto a Leonello al centro della scena dello Sposalizio della Ver- gine nella Cappella di palazzo Pio, vista la somiglianza.

29 SBARAGLIO 2014, pp. 25-26. Si veda anche la scheda sull’opera CIMA DA CONEGLIANO, Com- pianto su Cristo morto, a cura dello staff della Galleria estense di Modena (Opera del mese, novem- bre 2014, http://www.galleriaestense.org/1498/compianto/). 30 Alberto rimase annichilito per l’assassinio della madre, e lo sgomento fu condiviso da molti, tra cui Lodovico Ariosto, che gli dedicò il carme consolatorio Ad Albertum Pium (POLIDORI 1857, pp. 321-326). Ma le sue lettere mostrano anche una spietata volontà di vendetta, in particolare quella del 18 dicembre 1501 al marchese di Mantova. Premesso che la morte di sua madre è stato un atto tanto crudele, horrendo e miserando, da Haverne compassione fino alinferno, per colei che ha commesso quello atrocissimo et horribile assassinamento ne la persona, non de privata, ma duna madonna e de la Casa da Gonzaga esige una condanna esemplare, un martirio così crudo e una morte di maggior stratio, per esempio ad essere squartata o tanayata, anche se il Gonzaga non sembra molto incline ad assecondarlo. MSDC I, pp. 383-385. A Carpi, nel frattempo 253

Cima da Conegliano. Compianto su Cristo morto con San Francesco e San Bernardino da Siena. Par- ticolare con la Vergine in deliquio, possibile ritratto di Caterina Pico da maschera funeraria. Modena, Galleria Estense. Su concessione del Ministero dei Beni culturali e del Turismo - Archivio Fotografico della Galleria Estense di Modena. 254 Anna Maria Ori

Bibliografia

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Stefano Minarelli

L’inizio della fine

Roma, 19 gennaio 1527: Clemente VII ratifica l’acquisto di un imponente palaz- zo che affaccia il Lungotevere in rione Ponte. L’acquirente dell’immobile è Alberto III Pio1, che si godrà la proprietà per poco più di tre mesi. Il 6 maggio di quello stes- so drammatico anno, il nobiluomo si trasferisce con la famiglia in Castel Sant’An- gelo, al seguito del papa e dei più alti esponenti della corte pontificia2. Tutti loro sono stati costretti a rifugiarsi nell’imprendibile fortezza per sfuggire alla furia distruttiva dell’esercito imperiale di Carlo V. Soldati spagnoli, lanzichenecchi, mercenari italia- ni arruolati senza guardare troppo ai precedenti penali, sciamano per la città incon- trando ben poca resistenza. E si abbandonano ad atti di violenza inaudita. È il ‘sacco’ di Roma: l’evento traumatico che in qualche modo pone fine ad una stagione irripetibile della storia italiana, il Rinascimento, nonché alla parabola politica e sociale dell’ex principe di Carpi. Ci si domanda quale percezione degli eventi che stavano per scatenarsi abbia avuto Alberto III al momento dell’acquisto, poco prima del più impressionante sac- cheggio che la città eterna avesse mai vissuto. Si tratta di una domanda legittima, perché il Signore di Carpi aveva fama di esse- re un diplomatico dal fiuto infallibile nel capire quale piega prendessero gli eventi politici di cui era testimone (e che sovente contribuiva ad orientare)3. Invece, pare pro- prio che in questa circostanza egli non sia stato in grado di cogliere la gravità di alcu- ni segnali che potevano far presagire la tragedia che stava per abbattersi sull’Urbe4.

1 Roma, Archivio Caetani, perg. 2488, 19 gennaio 1527. Riferimento archivistico in SVALDUZ 2001, p. 327, nota 203. L’autrice si sofferma sul palatium sive domum magnam di Alberto alle pp. 294-297. Questo sorgeva a pochi passi da strada Canale di Ponte (poi via Banco di S. Spirito), quel- la che Melissa M. Bullard definisce molto efficacemente la Wall Street di Roma (BULLARD 1980, p. 93). Nel rione, molto ben collegato ai palazzi vaticani (e con Castel Sant’Angelo), si concentrava la ‘nazione fiorentina’, nella quale operava una ben nutrita business community di banchieri e mercan- ti che avevano scelto Roma come sede per i loro affari. Visti i legami, anche di tipo famigliare, esi- stenti tra Alberto III e i Medici, ci si chiede se la sua scelta di abitare a stretto contatto con la colonia fiorentina sia stata casuale. 2 GUICCIARDINI 1867, p. 194. 3 Fama peraltro non immeritata, come dimostra la sua puntuale previsione di quell’assaggio del ‘sacco’ che fu la spedizione capeggiata da Pompeo Colonna a Roma nel settembre del 1526, in cui in spregio al papa si videro i palazzi vaticani messi a ferro e a fuoco. Al riguardo si veda MOLINI 1886, vol. I, p. 203, n. 105. 4 Il che è confermato da GUICCIARDINI 1867, p. 194, secondo il quale Alberto insieme agli altri notabili rinchiusi in Castello assisteva al saccheggio di Roma «con tanto travaglio e spavento, quan- to si può stimare, essendo da loro ogni altro accidente aspettato, che tanta ruina». 258 Stefano Minarelli

Il dilagare dei lanzichenecchi a sud del Po nel novembre del 1526; il congedo di quasi tutte le milizie pontificie all’indomani della tregua concordata con il vice- ré di Napoli Charles de Lannoy; la conclamata inettitudine di Francesco Maria del- la Rovere, comandante generale delle truppe confederate della Lega Santa, nel condurre le operazioni belliche contro l’esercito imperiale; la morte prematura di Giovanni de’ Medici (Giovanni dalle Bande nere), l’unico comandante carismati- co dell’esercito confederato, sono tutti eventi che avrebbero dovuto allertare un uomo esperto come il Pio. Il quale, invece, a fronte di circostanze così sfavorevo- li, pensò bene di metter su casa a Roma. Nel frattempo, il ‘sacco’ veniva puntualmente previsto da altri osservatori5. Tra questi si segnala Pietro Aretino, che aveva pronosticato in anticipo la cadu- ta della città pontificia nelle mani degli Imperiali6. Lo si ricorda perché, in quei tra- gici giorni di efferata violenza, il ‘castigatore dei principi’ dedicò una ‘pasquinata’ fulminante a quelli che egli considerava responsabili di tanta distruzione. Tra gli altri, ma con un ruolo di primo piano, c’è anche Alberto Pio:

Pax vobis, brigata (V, 13–25) Dirovi ancho el mio nome Perché voi nol sapete. Non sono né mai fui prete o loro amico; notate ciò ch’io dico: io non sono Gian Mattheo, archimulo e plebeo, (nimico a Chri)sto; né (l’Armellin) quel tristo, né ‘l compagno Saluiati, né degli sciagurati il caffo Alberto: vò dir di quel diserto7,

5 Tra i ‘profeti’ del ‘sacco’, sono sicuramente da annoverare Ludovico Canossa e Filippo Strozzi. Il primo, già nunzio apostolico a Parigi ed in seguito portavoce del re di Francia, era un diplomatico di lungo corso che, in occasione dell’ennesima piroetta politico-diplomatica di Clemente VII, l’11 novembre 1526 scrisse una lettera al Datario Gian Matteo Giberti dai toni talmente apocalittici che, all’indomani del ‘sacco’, fu unanimemente considerata una «profetia profetizata tanti mesi innanzi» dell’avvenimento (PROSPERI 1969, p. 77). Filippo Strozzi, banchiere, finanziere, intrallazzatore, imparentato con i Medici, dopo la spedizione romana di Pompeo Colonna e il relativo saccheggio dei palazzi vaticani, si era spontaneamente consegnato come ostaggio al viceré di Napoli. Dalla sua pri- gionia partenopea, il 26 dicembre del 1526 indirizzò un’accorata lettera a Francesco Vettori, amba- sciatore fiorentino, nella quale previde il ‘sacco’ e le sue drammatiche conseguenze. Per un puntuale esame, ma sarebbe meglio dire un’esegesi, di questo straordinario documento si veda SIMONETTA 2014, pp. 283-284 e p. 389 note 84-85. Simonetta (Ibid., pp. 285-286) ricorda anche la figura del pre- dicatore senese Brandano, che inveiva sulle colpe della città eterna evocando i fantasmi dell’immi- nente disastro: «Roma, fa’ penitenza! Con te si procederà come con Sodoma e Gomorra.» 6 LUZIO 1900, pp. X-XI. 7 Sul carattere ‘desertico’ di Carpi aveva insistito anche Machiavelli, che scrivendo a Francesco Guicciardini dalla città dei Pio ne parla in termini di «diserti d’Arabia e dove non è se non frati» (BIONDI 1981, vol. I, p. 125). Si direbbe quasi un luogo comune sul quale meriterebbe soffermarsi. Alberto III Pio Civis Romanus 259

di Carpi già signore, ribaldo traditore, hoggi in Castello. Non io, ch’io non son quello...8

L’indignazione dell’Aretino per quel che sta accadendo a Roma è sincera. Tra i colpevoli di quel disastro, egli addita proprio il ‘caffo’Alberto, trincerato in Castel Sant’Angelo assieme a Clemente VII. Le sue responsabilità, agli occhi del poeta, devono essere sembrate enormi. Quasi a volerne quantificare il peso, egli dedica ben quattro versi al dirompente ritratto concepito per il Signore di Carpi: esatta- mente lo spazio totale destinato ai suoi sodali (il cardinale Francesco Armellini, il Datario Gian Matteo Giberti e Jacopo Salviati, ambasciatore fiorentino presso il papa), liquidati in gruppo in una sola strofa. Alberto ne esce malissimo; egli è il numero uno (il ‘caffo’) degli sciagurati, un mascalzone scellerato e voltagabbana. E questo giudizio, si badi, non costituisce un caso isolato. All’indomani del ‘sac- co’, infatti, non saranno in pochi a contestargli «la ruina de Italia con el suo sape- re persuadere li soi principi alla guera e non ala pace…»9. Quello che di questa testimonianza è interessante, tuttavia, non è tanto il ritrat- to di Alberto che se ne ricava10. Piuttosto, i versi dell’Aretino – accostando la figu- ra del principe ad alcuni dei più influenti esponenti della Curia pontificia – impli- citamente attestano di una rete di relazioni che, al di là della chiamata in correità, sono state di carattere personale, sociale, politico e anche economico. Ciò contribuisce almeno in parte a definire quale sia stato il ruolo interpretato da Alberto III Pio sulla scena romana per circa un ventennio, e forse quelle fre- quentazioni danno anche ragione del suo clamoroso cambio di campo, per cui lo si vide passare – in piena coerenza con gli ondivaghi orientamenti politici papali – dal partito filoasburgico a quello filofrancese.

Un carpigiano a Roma Il Pio era arrivato nella ‘città eterna’ nel 1512. Ve lo aveva inviato l’imperatore Massimiliano in qualità di suo ambasciatore. C’è da dire che, negli ultimi anni del suo regno, l’Asburgo non aveva amba- sciatori residenti né in Francia, né in Spagna, né in Inghilterra. E non ne avrebbe

8 ARETINO 2012, pp. 124-125. 9 È una considerazione del cronachista modenese Tomasino de’ Bianchi de’ Lancellotti, riportata da BIONDI 1981, p. 127. Le parole di Lancellotti fanno il paio con quelle di GUICCIARDINI 1867, p. 209, dove il Pio viene costantemente associato ai medesimi personaggi chiamati in causa dall’Areti- no: «E così seguitando i vincitori oltramontani, non attendendo ad altro che ad empiere e saziare, con danno spesso, nondimeno, di loro medesimi, la ingorda voglia loro, innanzi agli occhi del Santo Padre, di Iacopo Salviati, del cardinale Ermellino, del signor Renzo, del Datario e del signor Alber- to, stati tutti per diverse cagioni (che ora non è tempo a narrarle) mera e propria causa di tanto vitu- perosa e tanto dannosa preda.» 10 Il che peraltro contribuisce a definire quale fosse realmente l’immagine del principe, quella per- cepita dai contemporanei, che non coincide con quella idealizzata che una certa storiografia venata di agiografia ha, anche di recente, tramandato. 260 Stefano Minarelli avuto neanche a Roma, se Alberto III non si fosse accontentato della protezione imperiale come unico compenso per eventuali perdite derivanti dal suo ruolo11. Il prestigioso incarico di ‘oratore’ cesareo presso la Santa Sede, che il Signore di Car- pi avrebbe ricoperto fino al 1521, dunque, non gli rendeva praticamente nulla. Un problema non da poco per uomo abituato a coltivare la propria immagine pubblica esibendo una magnificientia sfarzosa, che di fatto l’entità del suo modesto princi- pato non gli consentiva12. Vero è che dalla sua posizione di fiduciario dell’imperatore e di umanista di rico- nosciuta fama, Alberto III Pio poteva trarre vantaggi enormi. Che gli derivavano soprattutto dalla sua indubbia capacità di conquistare la fiducia quasi incondizionata dei potenti con i quali veniva in contatto, fossero essi papi, imperatori o alti funzio- nari di corte. Questa particolare attitudine, oltre che alla nobiltà dei natali, poteva essere ascritta all’innata eleganza del principe; alla sua vasta cultura; al suo eloquio fluente e alla sua memoria tenace. Erano doti importanti per chiunque fosse inten- zionato a ritagliarsi un proprio spazio sul palcoscenico politico-diplomatico interna- zionale. Alberto ne era consapevole, e giunto a Roma giocò bene le sue carte. Con papa Giulio II l’intesa appare immediata, anche perché i due condivideva- no un nemico: Alfonso I d’Este. Sarà stato per la comunanza di interessi o per l’in- dubbio fascino che riusciva ad esercitare su chi lo stesse ad ascoltare, sta di fatto che a partire dal 1513 il principe viene aggregato alla Famiglia pontificia: ovvero, all’insieme degli addetti (ecclesiastici e laici) al servizio personale del papa nelle sue funzioni di sovrano e capo di Stato. Tale privilegio gli derivava dall’aver rice- vuto da Giulio II l’incarico di Abbreviatore del ‘parco minore’13, cioè di funziona- rio della Cancelleria vaticana addetto alla stesura delle minute delle suppliche e delle bozze di documenti pontifici (bolle, brevi, ecc.)14.

11 MITTINGLY 1964, p. 136. 12 La tendenza di Alberto III Pio a fare ‘il passo più lungo della gamba’ anche in campo economi- co, è stata sottolineata da PINI 1981, p. 589, il quale scrive che «... un’economia di spesa e di lusso quale portò avanti Alberto III nel periodo della sua signoria non solo era fatta gravare in maniera eccessiva sui ceti produttivi del suo troppo piccolo stato, ma scavava una voragine difficilmente col- mabile.» Si potrebbe dire, conclude Pini, che se la Carpi del Pio non fosse caduta sotto i colpi della congiuntura politica, probabilmente non avrebbe resistito a quelli della congiuntura economica, e «se ciò non avvenne ai tempi di Alberto III è solo perché non ve ne fu il tempo.» 13 Traggo questa importante informazione dall’Introduzione di MINNICH 2005, p. XXXVI, nota 25, da cui riporto i riferimenti archivistici: Archivio Segreto Vaticano Reg. Vat. 990, cc. 204v-205r e 1211, c. 2r. Il nome di Alberto, tuttavia, era già comparso negli elenchi dei funzionari della cancelle- ria pubblicati da FRENZ 1986, p. 272, n. 49. 14 Gli Abbreviatori erano un corpo di scrittori della Cancelleria pontificia, la cui attività consiste- va sostanzialmente nell’abbozzare per poi preparare in forma compiuta le bolle papali, le note ponti- ficie ed i decreti concistoriali. Tali documenti venivano successivamente passati agli scriptores per la trascrizione definitiva. Dal nome dello spazio che occupavano nella Cancelleria, gli Abbreviatori venivano classificati de parco majori o minore, a seconda della vicinanza alla postazione del Vice- cancelliere. I più importanti erano quelli de parco majori, spesso prelati e giuristi rinomati. In nume- ro di 12, si occupavano delle pratiche più difficili e assieme al Vice-cancelliere rivedevano i docu- menti prima della loro spedizione. Quelli de parco minore avevano pochissime incombenze e si Alberto III Pio Civis Romanus 261

Era, quello di Abbreviatore minoris praesidentiae, uno dei tanti Uffici venali che la Camera Apostolica metteva a disposizione di chi andasse in cerca di una ren- dita sicura. Il prezzo a cui veniva venduto l’Ufficio, di fatto, andava a finanziare il debito pubblico dello Stato della Chiesa. Come quasi tutti gli uffici venali, anche questo era vacabile: ovvero, con la morte del titolare, esso rientrava nella piena dis- ponibilità del pontefice. Il quale poteva conferirlo ad un nuovo assegnatario o per donazione gratuita, o per contratto, o per rassegna15. Poiché mettere piede in Cancelleria, in concreto, significava partecipare alla gestione di uno dei gangli vitali della burocrazia vaticana, l’incarico di Abbrevia- tore del ‘parco minore’ era particolarmente ambito da chi fosse interessato a ‘fare carriera’ presso la Corte pontificia. Chi poteva permetterselo, era disposto a sbor- sare somme ingenti per ottenere quel posto. Si dice che, nel 1500, il futuro cardi- nale Lodovico Podocataro se lo sia aggiudicato per la ragguardevole cifra di 500 fiorini (da settantadue bolognini)16. È probabile che Alberto Pio lo abbia ottenuto per donazione gratuita. Un vero colpo di fortuna, dal momento che gli emolumenti derivanti dall’incarico rendeva- no assai bene. Essi erano riconducibili alla riscossione di una parte delle tasse che accompagnavano l’iter burocratico che una pratica inoltrata in Cancelleria doveva necessariamente seguire. Il mittente di una supplica, ad esempio, doveva rivolgersi ad un Abbreviatore del ‘parco minore’ per la stesura della minuta della stessa. La minuta passava poi nelle mani di uno Scrittore, che la riscriveva in bella copia. Solo a questo punto il documento poteva essere esaminato, previa bollatura e registrazione, dagli Abbre- viatori del ‘parco maggiore’, cioè dagli assistenti del Vice-cancelliere, per il giudi- zio finale. Redazione di minuta, bella copia, bollatura e registrazione erano sotto- poste a tassazione, intascata dai funzionari competenti. L’importo della tassazione non dipendeva dal lavoro concretamente svolto dagli addetti, ma dal contenuto stesso della supplica. Questioni di carattere giudiziario erano relativamente a buon limitavano a coadiuvare i colleghi majoris praesidentiae nell’estensione delle lettere apostoliche e nello scrivere estratti delle suppliche. Originariamente in numero di 24, gli abbreviatori furono por- tati a 70 da papa Pio II (1463). Papa Paolo II abolì temporaneamente il collegio, insospettito dal cli- ma eterodosso che animava quell’ambiente formato prevalentemente da umanisti. Ne nacquero vio- lente polemiche, che costarono il carcere e la tortura a Bartolomeo Platina, una delle non poche per- sonalità che ricoprirono l’incarico. Tra di esse sono da ricordare altre insigni figure di umanisti, qua- li Poggio Bracciolini, Leon Battista Alberti, Johannes Burckardt. Sisto IV, nel 1479, riorganizzò il Collegio degli abbreviatori, portando a 72 il numero degli addetti e dividendoli in tre categorie: alle prime due aggiunse quella degli Abbreviatores de prima visione, destinata ad essere abolita nei pri- mi decenni del XVI secolo. Ai tempi di Alberto III, quella di Abbreviatore era sostanzialmente una cari- ca venale. Sulla funzione dell’Abbreviatore nell’ambito della Cancelleria papale si rimanda a DE LASALA CLAVEO e P. RABIKAUSKAS 2003, pp. 233–234. Cenni storici sugli abbreviatori anche in F.A. BECCHETTI 1792, vol. V, pp. 361-366; DE NOVAES 1706, t. XII, pp. 16-17, nota d.; MORONI, s.v. ‘Abbre- viatore’ vol. I, 1840, pp. 16-18. 15 Al riguardo si veda Gli Uffizi vacabili 1906, pp. 62-63. La ‘rassegna’ era la possibilità di tra- smettere il possesso dell’Ufficio dall’acquirente ad un terzo, che poteva essere un suo erede. 16 MORONI, s.v. ‘Abbreviatore’, vol. I, 1840, p. 17. 262 Stefano Minarelli mercato; la concessione di prebende era più costosa; decisamente onerose erano le dispense papali e le indulgenze. L’invio delle quali al destinatario, di nuovo richie- deva l’intervento dei funzionari competenti. Anche se negli elenchi del Frenz Alberto III Pio appare effettivamente citato come Abbreviatore a partire dal 19 febbraio 1513 – in sostituzione di tal Advita- medei de Advene, defunto17 – è difficile credere che egli abbia personalmente redatto la minuta di una supplica o di un qualsiasi altro documento pontificio. È verosimile che il principe, impegnato come era sul fronte della politica internazio- nale, abbia ceduto ad un terzo se non la titolarità dell’ufficio, almeno le mansioni ad esso inerenti. All’epoca, era una pratica decisamente diffusa. A partire dal pontificato di Leone X, il grande protettore di Alberto, venne infat- ti legalizzata l’applicazione della forma delle società agli uffici venali. Il che stava a significare che era possibile ad un terzo partecipare legalmente alla proprietà e/o alle entrate dei venalia et vacabilia18. Normalmente, il titolare di un ufficio non intenzionato a ricoprire l’incarico in prima persona (ma solo a goderne la rendita) vendeva ad un acquirente una parte percentuale del valore dell’ufficio stesso. L’acquirente, previo pagamento di una tassa di 50 ducati alla Camera apostolica, diventava socio del titolare a tutti gli effetti. Come tale, egli avrebbe materialmente esercitato l’attività al posto del detentore dell’Ufficio, condividendone con lui gli emolumenti derivanti, il lucrum, in proporzione alla percentuale acquistata. Gli importi in ballo erano consistenti. Da una tabella pubblicata dal Litva, si ricava che, nel 1514, il prezzo standard di un ufficio di Abbreviatore del ‘parco minore’ era di 1.100 ducati (il costo reale variava in relazione alla domanda, ovvia- mente)19. Da un’altra tabella risulta che la rendita dell’ufficio, sempre per 1514, oscillava intorno al 22% annuo, equivalenti a 242 ducati20. Una cifra decisamente interessante, considerando che, all’epoca, tanto per fare un esempio, Niccolò Machiavelli raccomandava alla Repubblica fiorentina di non erogare ad un capita- no al comando di 300 soldati uno stipendio annuo superiore ai 120 ducati21. Certamente, tale rendita non rappresentava la fonte principale di entrate per Alberto III, che era costituita dai proventi della spietata tassazione con la quale egli spremeva i propri sudditi22. Essa tuttavia contribuiva all’integrazione del suo red- dito. Integrazione del resto necessaria, visto lo stile di vita decisamente dispendio- so del principe, che non lesinava spese nel promuovere la propria immagine.

17 Vedi supra, nota 13. 18 Al riguardo si veda ESPOSITO 2007, § 5-10. 19 LITVA 1967, p. 170, tabella V. 20 Ibidem, p. 172, tabella VII. 21 MACHIAVELLI 1971, p. 111. 22 BIONDI 1981, p. 126, riporta una considerazione del solito Tomasino de’ Bianchi de’ Lancellot- ti, il quale non manca di rimarcare come la gran dottrina di cui il Pio si vantava avesse nuociuto a lui e prima ancora ai suoi sudditi «per le spese excessive et somptuoxe che lui faceva molto li angare- zava con colte datii e gabelle e adicione, de modo che non potevano apena vivere en el suo stato...» Alberto III Pio Civis Romanus 263

A Roma si parlava spesso, e si ironizzava anche, sulla figura di un principe, un certo Savoja, novello Ganimede coinvolto in importanti affari di Stato: un elegan- tone che spendeva fior di quattrini nell’acquisto di profumi, cosmetici ed abiti di lusso e le cui fortune cessarono con il ‘sacco’. Non si sa esattamente chi realmen- te fosse costui, ma i sospetti gravano su Alberto III 23. I Pio, infatti, sin dal 1450 potevano esibire il titolo ‘di Savoia’ accanto al cognome di famiglia. A parte que- sto, i codici manoscritti, i libri, le antichità, le opere d’arte di cui il Pio faceva incet- ta costavano. Come pure costava l’affitto dei sontuosi palazzi che abitava, dal momento che prima del 1527 non risulta egli abbia posseduto degli immobili in cit- tà. E costavano anche le sessantaquattro ‘bocche’ che formavano la non piccola corte di cui Alberto III si era dotato a Roma, e che doveva mantenere24. Di sicuro, il matrimonio del principe con Cecilia Orsini, celebrato nel febbraio del 1518, avrà contribuito a migliorare ulteriormente il suo tenore di vita. Bella, ma non ‘oltra le belle bella’25, la ragazza era quello che si suole definire un buon partito. Figlia legittima del cardinale Franciotto Orsini e nipote di papa Leone X, Cecilia gli portò in dote 3.000 ducati e i castelli di Vaccone, Poggio e Sommavilla in Sabina da parte di padre, e ben 9.000 ducati da parte dello zio26. Ma, come si sa, i soldi non bastano mai ed il Signore di Carpi era uno che pen- sava al domani. Per garantirsi un ulteriore vitalizio, nel 1520 egli acquistò, per 1000 fiorini aurei di camera, uno dei ‘vacabili’ più appetibili istituiti da Leone X: l’Ufficio di ‘Cavaliere di San Pietro’. A dispetto del nome, in questo ufficio non vi era niente di cavalleresco. In veri- tà, il cavalierato di San Pietro non era altro che un espediente ideato per finanzia- re con denaro liquido il tesoro pontificio. Il meccanismo era stato congegnato dal cardinale Francesco Armellini, quello tirato in ballo dall’Aretino, il più ascoltato consigliere finanziario di papa Medici. Il quale, a causa della guerra per il ducato di Urbino e del suo dissennato mecenatismo aveva in breve tempo prosciugato le casse dello Stato della Chiesa27.

23 Al riguardo si rimanda a CESAREO 1938, pp. 236-237, 256-257, citato in MINNICH 2005, p. XXXV nota 23. 24 LEE 1985, p. 227. 25 È una confidenza di Giovanni Perlotto a Marco Foscari riportata da SVALDUZ 2001, p. 358. La lettera del Perlotto è interessante perché vi si afferma che la dote portata dalla diciottenne al princi- pe sarebbe stata di ben 20.000 ducati. 26 Sulla dote di Cecilia Orsini si rimanda a MINNICH 2005, pp. XXXIII-XXXIV. Ricca la documenta- zione sull’evento che si trova in Svalduz 2001, pp. 141-143, 356-360. 27 Non a caso, sotto il pontificato di Leone X le cariche venali si moltiplicarono a dismisura, pas- sando dalle 936 che avevano caratterizzato il regno di Giulio II a ben 2.232. Al riguardo si veda ESPO- SITO 2007, § 4 e BULLARD 1980, p. 125, la quale sottolinea come, da un punto di vista strettamente finanziario, la vendita degli uffici venali fosse «a very creative way to raise money and expand avai- lable credit.» La Bullard (Ibid., pp. 124-125) si sofferma anche sulle tre leve economiche approntate dal papato per incrementare le entrate dello Stato della Chiesa nei primi tre decenni del Cinquecen- to, consistenti in a) rivalutazione della moneta in un rapporto di 13.5 a 10, attuata da Giulio II; b) crea- zione di nuove fonti di entrate attraverso la vendita degli uffici venali, pratica in cui si distinse Leo- ne X; c) aumento dell’imposizione diretta e indiretta ai danni degli abitanti di Roma e dello Stato del- la Chiesa, di cui si rese responsabile soprattutto Clemente VII. 264 Stefano Minarelli

Odiato dal popolo per il suo fiscalismo rapace e pervasivo, l’Armellini era un affarista, o meglio, uno speculatore, che a Roma aveva accumulato una fortuna appaltando dazi e gabelle e maneggiando con gli Uffici. Per condurre in grande sti- le i suoi traffici più o meno loschi, aveva intrapreso la carriera ecclesiastica. A fron- te di un esborso di 40.000 ducati, ottenne da Leone X il cardinalato: uno dei casi di simonia più clamorosi dell’epoca. Altri 15.000 ducati gli valsero la carica di Camerlengo, e con essa il pieno controllo della politica economica della Chiesa. In tale veste di dimostrò spregiudicato amministratore, sia a vantaggio della Camera Apostolica sia in proprio: moltiplicò i balzelli, vendette titoli, uffici e appalti, tassò senza pietà impiegati di Corte e prelati, impegnò per cifre enormi le rendite future della curia. Anche per quanto riguarda la vendita delle indul- genze per i defunti, documenti assai significativi, anche se non numerosi, dimostrano che l’Armellini fu tra gli animatori di quel traffico28. Per far risparmiare alle anemiche casse pontificie 30.000 scudi delle paghe, furono lui e Jacopo Salviati – ‘l compagno Saluiati – a suggerire a Clemente VII di congedare le milizie papali, che nel 1527 avrebbero dovuto difendere Roma dagli Imperiali29. Si dice che questi siano penetrati in città passando attraverso una finestrella che l’Armellini aveva fatto aprire abusivamente in una cantina del suo palazzo in rione Borgo, che dava sulle mura. Pare inoltre che, al momento dell’attacco decisivo, il camerlengo si sia attardato nel giardino di casa per sotterrare denaro, oro, gioielli e altri beni preziosi; e che presentatosi in ritardo in mezzo alla calca che premeva per entrare in Castel Sant’Angelo, abbia trovato gli accessi alla fortezza già sbar- rati. Fu poco dignitosamente issato all’interno del castello tramite una cesta calata dagli spalti con una fune. Qui, tra gli altri, si ritrovò con Alberto III Pio, che aveva a suo tempo aderito a quel capolavoro di finanza ‘creativa’, sia detto senza ironia, che fu il Collegio dei Cavalieri di San Pietro. Come si è ricordato, si tratta probabilmente della prima emissione di titoli di debito volti a finanziare in senso moderno il fabbisogno di liquidità di uno Stato. I 401 sottoscrittori di questa vera e propria società per azioni dovevano versare 1000 fiorini aurei di camera30 ciascuno alla Camera Apostolica. In cambio riceve-

28 G. DE CARO, Armellini Medici Francesco, in DBI, vol. 4, (1962), p. 235. 29 Ibid., p. 237. Secondo Benvenuto Cellini (Vita de Benvenuto Cellini, scritta da lui medesimo, I, 7), Salviati convinse il papa a licenziare cinque compagnie che gli aveva inviato il defunto Gio- vanni dalle Bande nere, perché formate da soldati eccessivamente arroganti e indisciplinati. France- sco Vettori considerava Jacopo Salviati il perfetto esempio di colui ‘che ce l’aveva fatta’alla corte del papa. Imparentato con Leone X, di cui aveva sposato la sorella, abbastanza ricco da non doversi umi- liare a chiedere favori, era il classico tipo che non perdeva occasione di rimarcare la propria lealtà alla famiglia Medici in presenza del pontefice, e la sua simpatia nei confronti dei detrattori della stes- sa alle sue spalle. Lo ricorda BULLARD 1980, p. 76. 30 Il Fiorino d’oro di camera valeva un po’ meno del Ducato papale. Coniato in purissimo oro a 24 carati, da una libbra di metallo se ne ricavavano 100. Dalla stessa quantità di metallo si otteneva- no invece 96,5 Ducati. Al riguardo si veda ZANETTI 1779, vol. 2, p. 448. Alberto III Pio Civis Romanus 265 vano una rendita annua che derivava dal 10% delle entrate che provenivano all’e- rario pontificio da tutte le chiese, monasteri e benefici ecclesiastici. Come se non bastasse, a comporre la rendita contribuivano quote fisse delle entrate derivanti da altri importanti cespiti camerali che interessavano tutte le province e le principali città dello Stato ecclesiastico, quali le saline, le concessioni di pascolo, i dazi, i diritti di tesoreria. Il tutto era stato puntigliosamente riassunto nella Bulla erectio- nis officii Dominorum Militi Sancti Petri31, «con la quale si ha l’istituzione forma- le e giuridica dell’uffizio venale, vacabile, trasmissibile, lucrativo»32. Alla lunga, il Collegio dei Cavalieri di San Pietro si dimostrerà un’operazione particolarmente onerosa per le finanze papali. Infatti, a differenza degli altri uffici, ad esempio quello di Abbreviatore, la rendita annua dovuta ai sottoscrittori non derivava dalla tassa pagata da un utente in cambio di un servizio comunque eroga- to, ma tale rendita gravava completamente sulle casse dello Stato ecclesiastico. Teoricamente, i membri del collegio avrebbero dovuto vigilare sulla corretta gestione dei proventi derivanti dall’estrazione e dalla commercializzazione dell’al- lume, scoperto in grandi quantità sui monti della Tolfa nella seconda metà del seco- lo XV33. I rappresentanti dei cavalieri avevano pertanto una collocazione ben preci- sa nei locali della Cancelleria. In realtà, i 401 militi di San Pietro non facevano nul- la di tutto questo. Anzi, non facevano proprio niente, dal momento che la carica era puramente onorifica. Di fatto, il Cavalierato di San Pietro costituisce uno dei pri- mi esempi, se non il primo, di prestito pubblico, abilmente mascherato da conces- sioni e benefici.

31 Bvlla erectionis officii Dominorum Militum Sancti Petri de numero participantium nuncupato- rum quamplurimis privilegiis decorati, S.I., s.n. [1521?]. 32 Gli Uffizi vacabili 1906, pp. 64-65. 33 L’allume era una delle più importanti materie prime dell’Antichità, del Medioevo e dell’Età moderna. Utilizzato per fissare i colori sui tessuti, nella concia delle pelli, come emostatico in Medici- na, è un sale costituito da solfato di ammonio e potassio. Si presenta sotto forma di cristalli solubili in acqua, e pertanto è molto raro in natura, poiché nel corso delle ere geologiche le piogge lo hanno quasi completamente dilavato. Si può ottenere artificialmente per trasformazione di minerali di alluminio meno solubili, come la allumite o alunite, un solfato basico di alluminio e potassio. È quanto hanno fat- to per tutto il Medioevo gli artigiani dell’Asia Minore, dove si trovano grandi giacimenti di allumite. Con la conquista di Maometto II dell’Asia Minore, gli ‘infedeli’ si ritrovarono a gestire in regime di mono- polio la produzione e la commercializzazione di questa importante risorsa. Tuttavia, nella seconda metà del XV secolo, si scoprirono sui monti della Tolfa, presso Civitavecchia, ingenti giacimenti di Allumite, dei quali papa Pio II Piccolomini intuì l’importanza strategica per l’economia dello Stato pontificio. Intorno al 1465, l’industria dell’allume ‘cristiano’ era già partita ed impiegava alcune centinaia di lavo- ratori che trattavano il minerale. Quello stesso anno, papa Paolo II imponeva ai cristiani d’Europa di uti- lizzare, pena la scomunica, solo allume papale. Si trattava di un affare talmente importante, che papa Leone X escluse il ‘peccato’ da quelli condonabili con l’Indulgenza. Egli inoltre appaltò l’intero proces- so produttivo e la commercializzazione del prodotto ad Agostino Chigi, che impostò la lavorazione su scala industriale, arrivando ad edificare ex novo un intero villaggio per gli operai, il cui numero conti- nuava a crescere: l’attuale Allumiere, conosciuta anche come Allumiere ‘delle sante crociate’, perché i proventi derivanti alle casse papali di quell’industria avrebbero dovuto finanziare l’ennesima crociata contro il Turco. Al riguardo si veda NEBBIA 2009 (http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/ - articolo.aspx?id_articolo=14&tipo_articolo=d_cose&id=55). 266 Stefano Minarelli

Come qualsiasi moderno titolo di debito, i cavalierati potevano infatti essere ceduti senza l’autorizzazione della Dataria. Per questo venivano acquistati e com- mercializzati in gran numero anche da singoli acquirenti; venivano inoltre dati in pegno come garanzia per affari e transazioni di ogni tipo; soprattutto, per ottenerli bastava pagare: non era necessario possedere nessuna competenza specifica34. Formalmente, il titolare di un cavalierato di San Pietro godeva di alcuni privi- legi: famigliare e commensale del papa, all’atto dell’acquisto riceveva una meda- glia d’oro con l’immagine di San Pietro sul diritto e l’arme del pontefice sul rove- scio. Aveva il diritto di indossare l’abito di Cameriere papale, da portarsi di colore rosso il giorno dell’incoronazione di un nuovo pontefice e nero in occasione del funerale. Equiparato a Conte palatino, poteva nobilitare tre persone, legittimare figli bastardi, conferire lauree35. Erano tutte concessioni di cui Alberto III Pio non aveva bisogno, avendole già ottenute nel 1509 quando era stato elevato al rango di Conte dall’imperatore Massimiliano. Il che sta ad indicare che la sua adesione al Collegio fu dettata soprattutto da motivazioni economiche, e non da esigenze di autopromozione sociale. Anche in questo caso, gli introiti in gioco erano notevoli. Si parla infatti di un tasso di interesse superiore al 10% annuo. Da un’altra tavola pubblicata dal Litva36, si evince che nel 1520 le rendite tota- li garantite dal cavalierato ai 401 membri del Collegio ammontavano a 50.610 fio- rini d’oro di camera, corrispondenti a circa 126,2 fiorini per ogni quota sottoscrit- ta. Nel 1526, le rendita totale corrispondeva a 50.551 fiorini, equivalenti a 126 fio- rini esatti per il detentore di ogni quota. Era una bella somma; quasi il triplo dello stipendio annuo di un professore del Ginnasio Romano37. Ci si potevano comprare molti libri, con quei soldi. È degno di nota il fatto che il titolo di Cavaliere di San Pietro acquistato da Alberto Pio fosse uno dei 26 su 401 che costituivano un appannaggio particolare del Vice-cancelliere38. Il che significava che, alla morte del titolare, esso sarebbe tornato nella disponibilità non del papa, ma dal reggente della Cancelleria39, che all’epoca era il cardinale Giulio de’ Medici (il futuro papa Clemente VII). Ciò atte- sta di un rapporto privilegiato del principe di Carpi con quell’ambiente, nel quale, alla fin fine, dovevano per forza transitare tutti coloro che volevano farsi strada nell’àmbito della Curia romana.

34 F. GUIDI BRUSCOLI 2007, § 22 (http://books.openedition.org/efr/2415?lang=it). 35 BUONANNI 1729, n. XCV. 36 LITVA 1967, p. 166, tabella III. 37 CRUCIANI 1968, p. XL. C’è da dire che 50 fiorini costituivano lo stipendio minimo erogato ad un insegnante del Ginnasio. Al riguardo si veda RENAZZI 1804, vol. II, pp. 235-239. 38 Collectio diversarum constitutionum et litterarum Rom. pont. a Gregorio VII usque ad Sanctis- simum D.N.D Gregorium XIII, Romae apud heredes Antonij Bladij, MCLXXIX, pp. 165. 39 Formalmente, il capo della Cancelleria era il pontefice; per questo motivo il reggente della stes- sa portava il titolo di Vice-cancelliere. Alberto III Pio Civis Romanus 267

Conferimento della cittadinanza romana all’Ill.ms Dominus Robertus de Carpi Christianissimis regis Orator, con l’evidente errore del copista nello scrivere Robertus invece di Albertus, 23 febbraio 1525. Roma, Archivio storico capitolino. 268 Stefano Minarelli

C’è da dire che, proprio entrando in Cancelleria, il principe può essere venuto in contatto con personaggi quali Gian Matteo Giberti e Francesco Armellini, che nelle stanze di palazzo Riario si muovevano con grande disinvoltura. Entrambi, infatti, furono dei grandi collezionisti di Uffici40. Non è forse un caso che il Giberti, nel maggio del 1523, appena ottenuto l’uffi- cio di Abbreviatore maiori praesidentiae (previo esborso di ben 7000 ducati), abbia voluto comunicare in anteprima la bella notizia proprio ad Alberto Pio, qua- si a voler condividere con l’amico la soddisfazione di chi finalmente corona con successo un obiettivo inseguito da tempo41.

Alberto III nelle stanze ‘che contano’ In qualità di Abbreviatore e famigliare del papa, Alberto III Pio potrebbe addi- rittura comparire in uno degli affreschi più famosi di Raffaello nelle Stanze vati- cane: La cacciata di Eliodoro dal Tempio (fig. 1). Lo si può forse riconoscere nel- la figura dell’imponente sediario barbuto e dalla chioma fluente che sorregge lo scranno su cui siede Giulio II (fig. 2). Si tratta di un’ipotesi su cui merita soffermarsi42, poiché essa si àncora a consi- derazioni di carattere fisionomico; a fattori inerenti all’apparato ideologico sotteso dell’affresco; ed infine si giustifica per la sicura presenza sulla scena di un perso- naggio – Giovan Pietro de Foliariis – che in Curia ricopriva gli stessi incarichi di Alberto Pio. Certamente il sediario dipinto da Raffaello ne La cacciata di Eliodoro non pas- sa inosservato. Osservandone la fisionomia, egli ricorda da vicino il gentiluomo barbuto dipinto da Bartolomeo Veneto in una tavola, ora a New York, nella quale Bernard Berenson ha riconosciuto il principe di Carpi43 (fig. 3). Di Alberto III, Juan de Sepúlveda scrive inoltre che era molto alto di statura44; Paolo Giovio ne ribadi- sce il vigore fisico, adatto al maneggio delle armi45. E puntualmente, la figura nel- la quale potrebbe riconoscersi il Pio presenta una struttura fisica importante, deci- samente superiore a quella degli altri componenti del corteo papale. Soprattutto, il personaggio è molto somigliante al cardinale Rodolfo Pio, il nipote di Alberto, di cui si conserva il ritratto di Vienna attribuito a Francesco Salviati (fig. 4). In parti-

40 Al riguardo si rimanda a FRENZ 1986, p. 325 n. 677 per gli uffici ricoperti dall’Armellini; p. 374 n. 1258 per quelli ottenuti da Giberti. 41 Lettera di Giovan Matteo Giberti ad Alberto Pio, 30 maggio 1523. Dagli elenchi del Frenz si ricava che, nel settembre del 1523, Giberti aveva già ‘rassegnato’ al vescovo Giovanni Firmani l’in- carico ottenuto il 26 maggio precedente. Il 19 settembre 1524 Giberti otterrà anche un ufficio di Abbreviatore del ‘parco minore’, che pare non abbia mai ceduto. 42 Sull’iconografia di Alberto III Pio ed in particolare sulla sua identificazione con il sediario dipinto da Raffaello nella Stanza di Eliodoro si rimanda a MINARELLI 2013, pp. 156-173. L’ipotesi avanzata in quella sede viene qui riproposta con alcune significative integrazioni e precisazioni. 43 BERENSON 1957, tav. 540. 44 Per la citazione si veda SEMPER 1999, p.174. 45 GIOVIO 2006, p. 244. Alberto III Pio Civis Romanus 269 colare, la convessità della linea nasale e l’incavatura tra la radice del naso e la fron- te – caratteri la cui ereditarietà si conserva tenacemente – nel sediario e nel cardi- nale sembrano identiche, come molto somigliante appare il disegno delle arcate sopraccigliari. Tuttavia, quello della somiglianza dei tratti somatici e fisici è obiet- tivamente un terreno troppo fragile su cui poggiare un’ipotesi. I fattori che confe- riscono una certa verosimiglianza a questa proposta sono invece tutti interni all’af- fresco di Raffaello, sul quale è necessario richiamare l’attenzione. Raffaello dipinse la Stanza di Eliodoro tra il 1511 e il 1514 per papa Giulio II. Sono gli anni in cui il Signore di Carpi consolida il suo prestigio sulla scena poli- tica internazionale. La Stanza si trova in posizione intermedia tra la Stanza della Segnatura e la Stanza di Costantino, con le quali comunica direttamente. La fun- zione della Stanza come ‘Camera de l’Audentia’ è documentata a partire dal 151746, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che essa non fosse destinata a questo scopo già sot- to Giulio II47. Come si vedrà, il programma degli affreschi sembra proprio essere funzionale all’accoglienza di ospiti illustri, come sovrani e principi, ambasciatori e diplomatici: la stessa categoria di persone cui apparteneva Alberto III Pio. Che nel- le Stanze era di casa non solo in qualità di ‘oratore’ dell’imperatore presso la Santa Sede, ma anche e soprattutto per la considerazione in cui veniva tenuto da papa Giu- lio, che lo annoverò ben presto tra i suoi più stretti, e ascoltati, collaboratori48. Oltre all’episodio di Eliodoro cacciato dal Tempio di Gerusalemme, la Stanza presenta altre tre storie: la Liberazione di San Pietro dal carcere di Erode; l’In- contro tra papa Leone Magno e Attila re degli Unni; il Miracolo della Messa di Bolsena. Si tratta di quattro eventi fondamentali, per papa Giulio, nella storia del popolo di Dio: quattro eventi lontani tra loro nel tempo e nello spazio ma che illu- strano la provvidenza di Dio e il suo intervento miracoloso a favore della Chiesa. Nell’insieme i quattro episodi dovevano costituire una sorta di ammonimento nei confronti di chiunque avesse voluto mettere in discussione il potere della Chiesa, sia in campo spirituale che in quello temporale. Detta in sintesi, il messaggio vei- colato dall’apparato iconografico dalla Stanza è: chi tocca la Chiesa ed i suoi beni sarà abbattuto, esattamente come è capitato ad Eliodoro, la cui vicenda assume un valore paradigmatico. Nello specifico, l’episodio è narrato nel II libro dei Maccabei (c. III), un testo veterotestamentario considerato ispirato dalla tradizione cattolica e ortodossa, ma che sarà inserito tra gli apocrifi da quella protestante. Eliodoro è il cancelliere del re di Siria Seleuco Filopatore, che lo invia presso il Tempio di Gerusalemme per riscuotere tributi. Il gran sacerdote Onias dimostra

46 SHEARMAN 1983, p. 92. 47 Al riguardo si veda NESSELRATH 1993, p. 222, da cui si attingono gran parte delle considera- zioni relative all’apparato ideologico-politico sotteso all’affresco di Raffaello. 48 Su Alberto III Pio «consigliere di riputazione e authorità grandissime» presso Giulio II si riman- da a GIRALDI CINZIO 1597, p. 91 e pp. 126-127. I testi in questione sono riportati in SEMPER 1999, pp. 265-266, nota 61, della quale sono da tenere in considerazione le importanti precisazioni ed integra- zioni bibliografiche di L. Giordano curatrice del volume. 270 Stefano Minarelli ad Eliodoro che il tesoro del Tempio è riservato alle vedove e egli orfani del Popo- lo eletto. Il cancelliere ne esige tuttavia la consegna, il che provoca la sua rovina. Due angeli inviati direttamente da Dio guidano un cavaliere che travolge Eliodo- ro, facendolo rotolare nella polvere. Frastornato ed umiliato Eliodoro torna da Seleuco e gli consiglia di non mettersi mai più contro gli Ebrei, perché chiunque lo avesse fatto sarebbe stato abbattuto. Nella lunetta dipinta da Raffaello, papa Giulio II in mozzetta e calotta rossa, ‘artigliato’ alla Sedia gestatoria, assiste alla caduta di Eliodoro. Con questa e con le altre storie della Stanza viene ribadito «il diritto della Chiesa al potere tempora- le e politico, ossia Giulio II legittima in questi affreschi la sua politica di cesaropa- pismo e pone questi exempla davanti agli occhi dei Signori, ambasciatori e ospiti che riceve in questa stanza»49. In ballo c’erano i possedimenti secolari e quindi il potere temporale della Chiesa. Un potere che, nella prima decade del Cinquecen- to, era stato messo in discussione da Luigi XII re di Francia, che a tal fine non ave- va esitato a sostenere il Concilio di Pisa, convocato nel luglio del 1511 dai cardi- nali maggiormente ostili al papa. La presenza puntuale di Giulio II nell’episodio di Eliodoro sottolinea il carattere fortemente propagandistico dell’affresco, che vuo- le rappresentare la controffensiva del pontefice nei confronti dei principi ribelli e degli ecclesiastici scismatici. In pratica, ogni scena della Stanza «esemplifica la futilità di ogni ribellione contro l’autorità, sia nelle questioni di fede che in quelle temporali»50. Della politica perseguita da Giulio II e della sua visione del ruolo della Chiesa, Alberto III Pio non fu un mero spettatore. Di fatto, il principe di Carpi quella poli- tica la sposò in pieno e in qualità di consigliere del papa contribuì non poco ad orientarla. Lo fece perché ci credeva e perché gli conveniva. Se per Giulio II ricon- durre Ferrara sotto il controllo della Chiesa significava recuperare una città tribu- taria, per Alberto Pio significava eliminare un pericoloso concorrente, Alfonso I, nel controllo di Carpi, e forse sostituirsi a lui nell’esercizio del potere su una vasta porzione della valle Padana. E della politica di Giulio, proprio di quella politica celebrata nell’affresco di Eliodoro, il Pio è stato sempre un convinto assertore e apologeta. Si leggano a tale proposito certi passi del «Dialogus nuncupatus Leo» di Raffaele Brandolini Lippi (1513), di cui il principe è uno dei protagonisti. L’autore del dialogo non manca di mettere in bocca ad Alberto parole che giu- stificano l’azione politica di Giulio II, tutta tesa a ricostituire l’integrità del patri- monio della Sede Apostolica51: quippe qui integrum apostolicae Sedis patrimonium Majorum suorum partim negligen- tia amissum, partim avaritia neglectum, partim profusione absumtum uni sibi recupe- randum, servandum, augendumque proponens…52

49 NESSELRATH 1993, p. 222. 50 SHEARMAN 1993, p. 26. 51 Così in BIONDI 1981, vol. 1, p. 98. 52 BRANDOLINI 1753, pp. 79-80. Il riferimento all’Avarizia nelle parole di Alberto appare rimar- chevole, poiché negli affreschi di questa Stanza il VASARI 1879 – forse per il tramite di Dante (Purg., Alberto III Pio Civis Romanus 271

Raffaello Sanzio, La cacciata di Eliodoro dal tempio (particolare), Roma, Palazzi Vaticani, Stanza di Eliodoro. 272 Stefano Minarelli

Un patrimonio la cui legittimità viene ribadita dal Pio nella Responsio ad Era- smo da Rotterdam (c. XXII), là dove egli afferma che Piacque dunque a Cristo, sapientissimo monarca, che la sua Chiesa abbondasse di ric- chezze e che una volta costituito lo stato cristiano esso disponesse del potere in modo tale da potersi rivelare come il vero re di tutti, di ciò che sta in cielo come di ciò che sta in terra e da poter mostrare che a lui è stato attribuito ogni potere, non solo in cielo ma anche in terra53 perché grazie ai beni materiali, la Chiesa ha i mezzi per debellare i superbi, per costringere i ribelli, per frenare gli audaci nell’ambito delle loro competenze, premiare i benemeriti, aiutare i poveri, vendicare gli oppressi dalle offese, svolgere con decoro e dignità i solenni sacrifici e le numerose altre incombenze di tal genere che vengono compiute dai sacerdoti con l’aiuto del denaro54. Il che conferma – lo ha rilevato Albano Biondi – il valore di documento atten- dibile che deve essere attribuito al dialogus del Brandolini55. Alla luce di quanto detto fino ad ora, una prima conclusione che si può trarre è che l’eventuale presenza del Signore di Carpi sulla scena di Eliodoro cacciato dal Tempio di Gerusalemme sarebbe quantomeno coerente con l’apparato ideologico sotteso all’affresco. Alberto III Pio condivideva e sosteneva quella ideologia, così come il sediario sostiene sulle sue robuste spalle lo scranno papale. Ma chi erano (o meglio: chi sono, dal momento che esistono ancora) realmente i Sediari? Quale era la loro

XX, 113) – leggeva proprio un esplicito riferimento a questo vizio: «[Raffaello] fece ancora, in una delle pareti nette, il culto divino e l’arca de gli Ebrei et il candelabro e Papa Giulio che caccia l’ava- rizia dalla Chiesa [...]. Nella quale storia si veggono alcuni ritratti di palafrenieri, che vivevano allo- ra, i quali in su la sedia portano Papa Giulio veramente vivissimo» (ed. Milanesi, IV, p. 345). Il vaso rovesciato dal quale fuoriescono le monete sotto il braccio sinistro di Eliodoro, che non viene nomi- nato nel passo biblico da cui è tratta la vicenda, è stato interpretato di recente come un’immagine del- l’avaritia. Al riguardo si veda NESSELRATH 1993, p. 226. È forse di qualche interesse ricordare che ad Alberto Pio fu attribuita una felicissima definizione dell’Avaro, che per lui sarebbe paragonabile al coccodrillo: un animale che si riteneva continuasse ad accrescersi per tutta la vita. Lo ricorda il Cor- tesi, citato da MINNICH 2005, p. XXXI e nota 17. 53 «Placuit igitur sapientissimo monarchae Christo ecclesiam suam affluere diviitis, pollere pote- state iam constituta republica ut se omnium verum regem declararet, caelestium pariter ac terre- strium, omnemque potestatem sibi tributum esse doceret non solum in caelo, sed etiam in terris…», FORNER 2002, vol. 1, pp. 172-173. 54 «ut habeat facultates ecclesia quibus valeat debellare superbos, contumaces cohercere, in offi- cio continere audaces, benemeritos praemiis afficere, inopibus subvenire, oppressos ab iniuria vindi- care, solemnia sacrificia et caetera id genus plurima, quae a sacerdotibus suppeditante facultate pera- guntur, cum decore et dignitate facere», Ibidem. Il superbo debellato (Eliodoro), i poveri oppressi (gli orfani e le vedove), il rito celebrato con solennità (Onias in preghiera) sono gli elementi che scandi- scono la trama narrativa dell’Eliodoro cacciato dal tempio, che Raffaello ha integrato con il corteo papale per proiettare la vicenda nella contingenza storica del suo tempo. 55 BIONDI 1981, p. 102. Alberto III Pio Civis Romanus 273 posizione nell’àmbito della Corte pontificia al tempo di Alberto? La risposta a que- ste due semplici domande contribuisce a rendere maggiormente verosimile l’iden- tificazione del personaggio affrescato da Raffaello con il principe di Carpi. I Sediari formano il più antico collegio di laici al servizio del pontefice tuttora esistente. Più antichi della Guardia Svizzera, nei secoli essi godettero di privilegi enormi, che toccarono il massimo sotto Giulio II, Leone X e Clemente VII56. Que- st’ultimo conferì loro, tra le altre, le dignità di ‘notaro’, conte palatino e nobile, la facoltà di creare dottori in teologia e legge, baccellieri e licenziati nonché quella di legittimare i bastardi57. Le stesse che avevano i cavalieri di San Pietro. Si dice che durante il ‘sacco’ di Roma alcuni sediari abbiano seguito Clemente in Castel San- t’Angelo, dove era sicuramente presente anche Alberto III. I titoli e i privilegi accumulati dai sediari basterebbero di per sé a rendere quan- tomeno sospetta l’identificazione di quello che regge Giulio II con l’incisore di stampe Marcantonio Raimondi58. Essi erano dei veri gentiluomini provenienti dal- le famiglie più in vista d’Italia e d’Europa, che ricoprivano mansioni spesso mol- to delicate all’interno della Curia romana. Solo gli appartenenti alla Famiglia pon- tificia, infatti, potevano accedere alla carica. Alberto III – lo si è detto – faceva par- te di questo ambiente decisamente esclusivo sin dal febbraio del 1513, quando era stato nominato Abbreviatore. Questo ultimo aspetto non è irrilevante per quanto concerne l’identificazione del sediario con Alberto III, perché il corteo papale dipinto da Raffaello mostra un altro personaggio che apparteneva sicuramente alla burocrazia pontificia. Si parla della figura in primo piano che tiene il berretto ed un piccolo cartiglio in mano. L’iscrizione sul foglietto, coeva alla stesura dell’affresco, identifica con cer- tezza il personaggio nel cremonese Giovan Pietro de Foliariis: anche lui abbreviato- re de parco minore59, che in quanto tale sarà stato sicuramente in contatto con il Pio. Dal momento che erano ‘colleghi’, ossia prestavano formalmente servizio per la medesima Amministrazione nel medesimo ufficio e con il medesimo grado, i due potrebbero benissimo essere stati ritratti insieme, nel contesto di una situazio- ne volta a celebrare papa Giulio II e la sua corte di collaboratori60.

56 Detto per inciso, i papi con i quali Alberto III Pio strinse i legami più solidi. 57 Al riguardo si veda MORONI, s.v ‘Palafreniere o Parafreniere’, vol. L, 1851, p. 189. 58 Identificazione alla quale attualmente si tende a dare sempre meno credito: «L’identificazione del Vasari del Sediario in primo piano con Marcantonio Raimondi è convincente poco quanto quella più recente con Albrecht Dürer». NESSELRATH 1993, p. 226. 59 Al riguardo si veda TANZI 2009, p. 27 e nota 21. Per i riferimenti archivistici si rimanda a FRENZ 1986, p. 373 n. 1243a e p. 427 n. 1885a. Al riguardo anche SHEARMAN 2003, pp. 157-158. 60 Sull’identificazione dei membri del corteo papale affrescato da Raffaello sono stati versati fiu- mi di inchiostro. Raffaello stesso è stato di volta in volta identificato sia con de Foliariis che con il sediario di sinistra. In quest’ultimo c’è chi vi ha visto Baldassarre Peruzzi o addirittura Giulio Roma- no, che essendo nato nel 1499 all’epoca dell’affresco non poteva avere più di 15 anni. Altri ancora identificano Giulio Romano con de Foliariis. Sulla scorta del Vasari, l’identificazione del sediario barbuto con Marcantonio Raimondi è accettata da storici autorevolissimi, tra i quali basti citare Redig de Campos e Oberhuber. Essi tuttavia sembrano non tenere conto della grande considerazione che 274 Stefano Minarelli

Ma c’è dell’altro: congiunti nelle loro funzioni ai Parafrenieri pontifici, di cui condividevano anche i servizi61, i Sediari costituirono fin dal 1378 una confrater- nita62, ancora attiva, intitolata a Sant’Anna loro patrona, che veniva venerata in una cappella all’interno della basilica di San Pietro. Alcuni indizi inducono a ritenere che anche Alberto III Pio fosse un devoto della Santa. Di fatto lo furono diversi esponenti di spicco del mondo intellettuale capitolino, con i quali il principe era in stretti rapporti63. Primo tra tutti il prelato lussemburghese Johannes Goritz, Ianus Corycius, figura importante della Curia romana, ‘Segretario delle suppliche’64 e mecenate, che si fece promotore della realizzazione di un gruppo statuario dedica- to a Sant’Anna, la Vergine e il Bambino destinato ad un altare della chiesa di San- t’Agostino. Affidata l’opera allo scalpello di Andrea Sansovino, tra i finanziatori dell’im- presa figurano il Sadoleto, il Bembo, il Castiglione, il Giovio e anche Alberto Pio65. Il quale doveva essere molto affezionato alla madre della Vergine. Lo si desume dal fatto che proprio a Sant’Anna furono dedicati ben tre inni in forma di preghiera di ringraziamento per la guarigione del principe di Carpi da una grave malattia66. Gli inni furono composti dagli umanisti Giano Francesco Vitale e Gaius Silvanus Ger- manicus, che li recitarono verosimilmente presso l’abitazione del Goritz, dove abi- tualmente, il 26 luglio, il gruppo celebrava la festa in onore della Santa67. Riassumendo: il sediario che sostiene Giulio II ne La cacciata di Eliodoro è tipologicamente somigliante ad Alberto III Pio. Questi era in rapporti molto stretti con papa Giulio II. Era un suo consigliere ed apparteneva alla cerchia dei suoi col- laboratori più fidati. Della politica papale, egli condivideva tutto; come condivide- va l’idea di una «Chiesa trionfalistica, maestosa e suntuosa»68: la stessa idea che

Giulio II attribuiva al corpo dei Sediari: il 19 aprile 1517 egli istituì il ‘Nobile Collegio de’ Parafre- nieri Pontifici’, che fu poi confermato da Leone X. Il Collegio era costituito da persone molto vicine al papa, che appartenevano alla sua Corte e godevano della sua fiducia. Non a caso, nella Stanza di Eliodoro, i Sediari – e non gli ‘Svizzeri’, come spesso si racconta – appaiono anche nel Miracolo del- la Messa di Bolsena. Proprio per la loro ‘vicinanza’ al papa, è difficile credere che costoro non abbia- no ‘preteso’ di comparire di persona tra i personaggi del corteo e che il pontefice non abbia conces- so loro questo privilegio. 61 Poiché le mansioni dei ‘Sediari’ e dei ‘Palafrenieri’ erano interscambiabili, ‘Sediario’ e ‘Pala- freniere’ sono termini sinonimi. Così in Vasari, vedi supra, nota 52. 62 Al riguardo si veda MORONI, s.v ‘Palafreniere o Parafreniere’, vol. L, 1851, pp. 191-192. 63 Tra gli altri, si segnala proprio Gian Matteo Giberti. 64 Dagli elenchi di FRENZ 1986, p. 375 n. 1262, Goritz risulta ascritto al Collegio degli Scriptores cancellarie a partire dal 1513 (il riferimento archivistico Reg. Vat. 1211 è lo stesso di Alberto Pio). Come tale, egli è identificabile, in via di ipotesi, nel sediario di sinistra che compare nel corteo di papa Giulio. 65 Al riguardo si veda Prandi 2001, p. 19. 66 Tali inni appaiono in una silloge di componimenti poetici, i Coryciana, ispirati dalla statua del Sansovino. Pubblicata a Roma nel 1524, la silloge comprende componimenti poetici di diversi auto- ri composti nell’arco di un decennio, in occasione della festa di Sant’Anna. 67 Coricyana, Roma apud Ludovicum Vicentinum et Lautitium Perusinum, MDXXIV, pp. Ddiiir, Eeiiiv, Eeiiir. 68 Biondi 1981, p. 102. Alberto III Pio Civis Romanus 275 vogliono esprimere gli affreschi della Stanza. I fruitori della quale appartenevano all’aristocrazia politica e diplomatica internazionale, della quale il Pio faceva par- te a pieno titolo. Il credito di cui egli godeva presso il papa, inoltre, gli aveva aper- to le porte della Famiglia pontificia: l’élite cui appartenevano anche i Sediari, con i quali il principe condivideva il culto per Sant’Anna. Per di più, Alberto Pio face- va formalmente parte della burocrazia vaticana e nell’àmbito della Cancelleria pontificia occupava un ruolo che sicuramente lo metteva in rapporto con Giovan Pietro de Foliariis, che pure compare nel corteo papale. Il che rende non del tutto inverosimile l’ipotesi che Raffaello abbia dipinto proprio il Signore di Carpi nei panni del sediario di Giulio II nella Stanza di Eliodoro69. Un sediario del quale, peraltro, si dice sia vestito, ‘alla tedesca’70, il che sarebbe del tutto coerente con il prestigioso incarico di ambasciatore ‘cesareo’ presso la Santa Sede che Alberto III in quegli anni ricopriva. È inoltre degno di nota che, tanto Alberto III, quanto Giovan Pietro de Foliariis, siano stati ascritti alla Cancelleria Pontificia esattamente nello stesso anno, il 1513, a un mese esatto di distanza l’uno dall’altro71. Come se non bastasse, il carpigiano ed il cremonese avrebbero in seguito con- diviso anche la militanza tra i Cavalieri di San Pietro.

Liaison dangereuse La Cancelleria pontificia si conferma quindi luogo privilegiato di incontro per le élites capitoline, specie per quelle non autoctone, immigrate da ogni parte d’Ita- lia e d’Europa in quello che nei primi due decenni del Cinquecento era il baricen- tro politico, culturale e artistico del continente. Nelle stanze di palazzo Riario si creavano relazioni sociali, si tessevano alleanze politiche, si stringevano accordi (anche di tipo economico). È stato forse frequentando la Cancelleria che Alberto può aver approfondito la conoscenza di Gian Matteo Giberti, il quale entrò a farne parte nel 151772.

69 In riferimento agli affreschi della Stanza della Segnatura, Hans Semper ipotizza che «Alberto Pio, il principe filosofo, abbia molta voce in capitolo sulla scelta dei temi nelle prime Stanze vatica- ne che Raffaello comincia a dipingere su incarico di Giulio II…». SEMPER 1999, p. 117. 70 Lo sostiene REDIG DE CAMPOS 1983, p. 25: «Il portatore di destra, coi capelli spioventi e vesti- to alla tedesca, come il suo ammirato Dürer, è Marcantonio Raimondi, intagliatore dei quadri di Raf- faello». Anche il ritratto ‘ufficiale’ di Alberto, quello della National Gallery, attribuito al Loschi, mostra il principe abbigliato in «a courious combination of Italian and German fashion at that period» (Gould 1975, p. 131). Sull’abbigliamento del principe è da vedere DAVENPORT 1948, vol. II, p. 494, scheda n. 1311. Poiché a quanto sembra questa fonte è stata costantemente trascurata da tutti coloro che si sono occupati del ritratto di Alberto III Pio, la si riporta qui di seguito per intero: «XVI c. 1512. Italia (Siena). Baldassarre Peruzzi. Alberto Pio di Carpi. The learned ambassador, though bearded in the new fashion wears his hair extremely conservative in form; italian caps and bonnets seldom shows the excesses of slitting, binding and decoration seen elsewhere. His gown is lined with a varie- gate fur, which appears as a fringed edge, caught by loosely knotted, tasseled cords». 71 Il 19 febbraio Alberto Pio; il 19 marzo, de Foliariis. 72 Vedi supra, nota 40. 276 Stefano Minarelli

Bartolomeo Veneto (?), Ritratto di gentiluomo, New York, collezione privata. Alberto III Pio Civis Romanus 277

Dei tre sodali menzionati dall’Aretino, sicuramente egli era il più intimo del Pio. Oscurità dei natali a parte, i due avevano molto in comune: una solida prepara- zione culturale73; una notevole esperienza in campo diplomatico74; una sincera ansia di riforma della Chiesa (se non nella struttura di potere, almeno nei compor- tamenti esteriori degli ecclesiastici)75. Curiosamente, le loro posizioni differivano sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Erasmo da Rotterdam: entrambi lo ammiravano come maestro di Umanesimo; ma mentre Alberto Pio arriverà a considerarlo un nemico da combat- tere, Gian Matteo Giberti non gli negherà mai il suo sostegno. Tale differenza di disposizione meriterebbe di essere indagata. In parte, potreb- be dipendere dall’estrazione dei due personaggi. Il Giberti, «archimulo e plebeo», non era di origini nobili. La sua famiglia apparteneva all’aristocrazia mercantile genovese. Il padre Francesco lo aveva avuto da una certa Maddalena: una paler- mitana di cui non si sa niente. In quanto figlio naturale, era stato naturalmente destinato alla carriera ecclesiastica. La sua presenza in Curia aveva lo scopo di consolidare il potere della famiglia, contribuendo ad aumentarne il prestigio socia- le, l’influenza politica e, alla fine della storia, il giro di affari. Non si può dire che Gian Matteo abbia tradito le aspettative. Dopo essere stato nominato vescovo di Verona alla fine del 1523, dopo l'elezione di Clemente VII, la sua folgorante carriera culminò con la nomina a Datario: in pratica, egli era a capo dell’Agenzia delle entrate pontificia76. Un motivo in più per averlo come amico. Proprio perché apparteneva agli homines novi, Giberti forse non condivideva o non condivideva in pieno l’etica feudale che caratterizzava invece un uomo come Alberto Pio, per il quale il principio di subordinazione gerarchica valeva in ogni situazione.

73 Giberti si era formato alla scuola di Mariangelo Accursio e poi presso l’Università di Bologna, dove aveva frequentato le lezioni del latinista Gian Battista Pio. Al riguardo si veda TURCHINI 2000, p. 624. Sull’attività dei segretari in generale e di Giberti in particolare si veda SIMONETTA 2015, in corso di pubblicazione. 74 Entrato giovanissimo a servizio del cardinale Giulio de’ Medici, Giberti – come il Pio – aveva cominciato a muoversi con disinvoltura negli ambienti sdrucciolevoli della diplomazia internaziona- le. L’esperienza maturata in quegli anni giovanili venne messa al servizio di papa Leone X, che cominciò ad affidargli importanti incarichi e legazioni (SIMONETTA 2015). 75 Sul riformismo cattolico di Gian Matteo Giberti rimane fondamentale PROSPERI 1969, pp. 181-287. 76 Il compito istituzionale della Dataria era la vendita degli uffici venali. Poiché a cavallo tra XV e XVI secolo tale pratica ebbe uno straordinario incremento, la Dataria cominciò a controllare una por- zione sempre più grande degli introiti papali, il che ne fece uno degli uffici più potenti della Curia. La Dataria aveva una propria banca, finanziata dalla famiglia fiorentina dei Bini, attraverso la quale transitavano gli introiti della vendita dei venalia. Al riguardo si veda BULLARD 1980, pp. 102-103, che ricorda come, nel quadro delle entrate e delle uscite pontificie, non si possa fare riferimento ai soli libri contabili della Depositeria generale (la banca centrale della Camera apostolica), poiché questi non comprendono le scritture contabili della Dataria, né della Penitenzieria (che si occupava della raccolta degli introiti derivanti dalla vendita delle indulgenze), e nemmeno quelle della Tesoreria segreta (che registravano le spese personali del papa). 278 Stefano Minarelli

In base a tale principio, un richiamo proveniente da una superiore autorità dove- va essere necessariamente tenuto in considerazione da chi lo avesse ricevuto. Soprattutto se esso riguardava questioni inerenti alla vita religiosa. Alberto Pio aveva avuto a suo tempo un esempio in famiglia di tale atteggia- mento ossequioso nei confronti della Chiesa. Suo zio Giovanni Pico della Miran- dola, di fronte alla censura di alcune delle sue Tesi, non si era forse faticosamente, dolorosamente, sottomesso alla suprema autorità ecclesiastica? Pur non essendo stato tirato in ballo ‘ufficialmente’ dalla Chiesa, Erasmo era stato duramente attaccato da personaggi molto influenti in Curia, quali Martin van Dorp, Lefèvre d’Etaples, Edward Lee, Iacobus Stunica, Noel Beda e Pierre Coutu- rier (Petrus Sutor)77. In sostanza, costoro lo accusavano tutti di essere un criptolu- terano e comunque un anticipatore delle idee di Lutero. Ce ne era abbastanza per chinare il capo e ribadire pubblicamente la propria incondizionata fedeltà alla Chiesa di Roma. Era ciò che Alberto Pio si aspettava che Erasmo facesse. Ma Erasmo non era Pico. Egli era figlio illegittimo di un prete ed era espres- sione di quella borghesia urbana che, grazie alla propria forza finanziaria, andava acquistando spazi di autonomia sempre più grandi anche in campo etico. Era un mondo, quello da cui proveniva Erasmo, che stava elaborando una propria gamma di valori, che non coincidevano più con quelli dell’aristocrazia del sangue. E da quello stesso mondo, in fin dei conti, proveniva anche il potente Gian Matteo Giberti. Il quale, pur non condividendo la religiosità dell’olandese, dell’uomo ave- va colto la psicologia e il carattere78. Soprattutto, egli aveva intuito che nella lotta contro Lutero sarebbe stato più utile poter ascrivere Erasmo nel novero degli allea- ti della Chiesa piuttosto che tra i suoi avversari. E in vista di questo fine aveva impostato il suo rapporto con lui. Tatticismo? Forse. Di certo, nel quadro dell’a- zione di contrasto al ‘veleno luterano’ che il Datario andava perseguendo, la figu- ra del grande umanista giocava una parte importante sul piano della propaganda cattolica79. Giberti di questo era consapevole. Alberto Pio, no. Il che, peraltro, non impediva ai due di stimarsi reciprocamente80. È proprio a Giberti che il Pio indirizza la ben nota lettera dell’aprile del 152281, nella quale egli professa la sua buona fede nei confronti dell’imperatore, che inve- ce lo considera un traditore per avere condotto trattative segrete tra il papa e Fran- cesco I di Francia.

77 Al riguardo si veda FORNER 2001, vol. I, p. XXIII. 78 Lo sostiene PROSPERI 1969, p. 109. 79 Ibidem. 80 Non a caso, Giberti appare nel novero dei sottoscrittori dell’atto di compravendita del palazzo acquistato in rione Ponte da Alberto Pio. Per i riferimenti archivistici, vedi supra nota 1. Il Datario, inoltre, figura insieme ad altri notabili tra gli esecutori testamentari dell’ex principe di Carpi. Al riguardo si veda SVALDUZ 2001, p. 253, che pubblica in Appendice la trascrizione integrale del testa- mento (pp. 364-372). 81 Lettere di principi 1570, vol. I, cc. 85v-87r. Per il testo della lettera si rimanda a SVALDUZ 2001, pp. 361-363. Alberto III Pio Civis Romanus 279

Francesco Salviati (attr.), Ritratto del cardinale Rodolfo Pio, Vienna, Kunsthistorisches Museum. 280 Stefano Minarelli

La lettera è un documento di straordinaria importanza per la biografia di Alber- to. Essa sembra essere stata scritta a futura memoria, nel tentativo invero alquanto goffo di giustificare l’atteggiamento equivoco assunto dal principe sul tormentato scacchiere politico europeo82. Atteggiamento equivoco che di lì a poco caratteriz- zerà anche il Datario. Il quale, a partire dal 1515 e per circa un decennio, si era occupato di politica internazionale, impostando la propria azione diplomatica su posizioni decisamen- te filoimperiali83. Poi, nel 1524, come già aveva fatto Alberto III nel 1521, che su di lui pare avesse un ascendente fortissimo84, anche Giberti ‘cambia mantello’, e spo- sa la causa di Francesco I di Francia (che per questo lo gratifica con la diocesi di Lodève)85. Fu una scelta quasi obbligata per chi, come lui, riteneva che l’ingerenza di una superpotenza continentale – in questo caso l’Impero, ma a parti rovesciate avreb- be potuto essere la Francia – negli affari della Penisola costituisse la più grande minaccia alla ‘libertà d’Italia’. Questa espressione, la ‘libertà d’Italia’, utilizzata spessissimo da Giberti nei suoi carteggi86, non era una mera affermazione di orgoglio nazionalistico e umani- stico (che spesso allora coincidevano). Non si trattava di ribadire pubblicamente il senso di appartenenza ad una comunità e ad una cultura che da sempre si ‘con- frontava’ con gli oltramontani. Dietro le perorazioni di Giberti c’era un’attenta ana- lisi della situazione politica italiana ed europea. Era il sistema stesso degli Stati ita- liani, di cui il papa era l’arbitro, che veniva minacciato dalle ambizioni egemoni- che del ‘monarca universale’ incarnato da Carlo V. La risposta del vescovo di Vero-

82 Alberto scrive che è stato solo per compiacere papa Leone X (ormai defunto) se si mosso per favorire l’avvicinamento tra il papato e la Francia. 83 È anche grazie ai suoi uffici se, nel 1521, si giunse alla ratifica del trattato di alleanza tra il papa e l’imperatore, il quale, nel 1519, gli aveva già concesso l’investitura dell’abbazia siciliana di San- t’Angelo in Brolo, a compenso dei suoi servigi (TURCHINI 2000, p. 624). 84 In una lettera scritta da Pietro Bembo a Rodolfo Pio, l’autore della missiva rimarca «la molta autorità» di cui il principe di Carpi gode presso il Datario «che lo ama et lo honora quanto il mondo sa» (citazione tratta da SVALDUZ 2001, p. 245 e p. 308 nota 45 per i riferimenti archivistici). Sarebbe interessante indagare in quale àmbiti si esplicasse «la molta autorità» di Alberto nei confronti di Giberti. In particolare, sarebbe utile soffermarsi sulle peculiarità delle rispettive sensibilità religiose, per rinvenirne tratti comuni. Una tale indagine esula dai limiti del presente studio, ma forse non è solo l’ambizione di vedere Carpi promossa al rango di sede episcopale, che spinge Alberto a beneficiare la Chiesa del suo Stato in mancanza di eredi diretti. La clausola del suo testamento che prevede espli- citamente l’elezione di un vescovo residente, attesta una comunanza di intenti con l’opera riforma- trice di Giberti che verosimilmente data dagli anni del soggiorno romano di entrambi. Ne accenna Elena Svalduz (2001, pp. 251-253), la quale rileva inoltre come la «riforma avviata a Verona da Giberti, a partire dal 1528, solleva la protesta dei canonici, poiché crea la figura del prelato, diretta- mente nominato dal vescovo e superiore di grado ai canonici. Lo stesso rapporto era stato stabilito da Alberto Pio tra l’arciprete e i canonici all’interno della collegiata di Carpi» (ibid., p. 315 nota 103). 85 TURCHINI 2000, p. 624. 86 Sul motivo della ‘libertà d’Italia’ negli scritti del Giberti, che per lui significava libertà d’azio- ne del papato in tutta la Penisola, ha insistito PROSPERI 1969, pp. 32-92. Alberto III Pio Civis Romanus 281 na – e del principe di Carpi – a questa minaccia fu individuata nella restaurazione dell’autorità papale ed ecclesiastica su tutta quella rete di piccoli Stati che, soprat- tutto in area padana, fungevano da cuscinetto alle mire espansionistiche imperiali da un lato, e alla diffusione delle idee luterane dall’altro. Che poi, nel contesto del sistema degli Stati italiani, la sopravvivenza del pic- colo principato di Alberto fosse garantita esclusivamente dalla protezione del pon- tefice, era una ragione in più per adoperarsi attivamente in favore della Chiesa e dei suoi interessi politici, che in quella congiuntura coincidevano con quelli della Francia. Fu quello che i due, il principe e il Datario, puntualmente fecero, con con- vinzione e con determinazione. A cavallo tra il 1524 e il 1525, essi sembrano muoversi in coppia: tramano, con- giurano, trattano segrete alleanze. Forti dei momentanei successi francesi nel nord Italia, favoriscono l’intesa tra Clemente VII, Firenze e Venezia con Francesco I, cui aggregano anche Ferrara, Lucca e Siena. Carlo V attribuisce a Giberti l’alleanza franco-pontificia del 1525 e se la lega al dito, ripromettendosi di punire la ‘perfidia’ del Datario così come aveva punito quella di Alberto, che era già stato formalmente spogliato dei suoi diritti su Carpi nel 1522. La rovinosa sconfitta dell’esercito francese a Pavia, il 24 febbraio del 1525, con la cattura e l’imprigionamento di Francesco I, scompaginerà irrimediabilmente i disegni politici di entrambi. Per Alberto deve essere stato un colpo durissimo. Le notizie in arrivo da Carpi erano terribili. Il 9 marzo le truppe spagnole gli occupano il feudo natio. Non era la prima volta che accadeva, ma questa sarà quella definitiva. Nonostante egli si muova a tutto campo per ridurre l’influenza di Carlo V sulla penisola e – conte- stualmente – per rientrare in possesso del suo principato, non metterà mai più pie- de nella sua città.

La nemesi di Alberto Pio Gli rimaneva la consolazione di aver ottenuto il conferimento della Cittadinan- za romana (23 febbraio 1525)87, ma era davvero una magra consolazione per chi, come lui, era consapevole del fatto che il suo status dipendeva esclusivamente dal- l’essere il Signore di uno Stato. Certo, il significato simbolico dell’attribuzione del titolo non poteva lasciarlo indifferente: quotidianamente, gli si squadernavano sot- to gli occhi le memorie dell’antica grandezza di Roma. In gioventù, sotto la guida di Aldo Manuzio, sugli exempla di quella grandezza aveva modellato la propria educazione. Ora, in quanto cittadino adottivo, poteva sentirsi parte integrante di quella storia. E, non da ultimo, poteva godere dei diritti e privilegi dei cives roma- ni nati. Volendo, poteva prendere parte alle sedute del Senato, ricoprire magistra- ture, avere il diritto di voto, conseguire sacerdotia, avere proprietà di beni non sog-

87 Al riguardo si veda il Liber decretorum Pietro Rutili, Manoscritto A: ASCR, Cam. Cap., Cred. I, t. 15, f. 137v. 282 Stefano Minarelli getti a imposta. La cittadinanza, inoltre, costituiva un importante trampolino di lancio per avviare verso la carriera ecclesiastica figli e congiunti. La qual cosa forse ha avuto il suo peso nell’ascesa di Rodolfo Pio, nominato vescovo di Faen- za nel 152888. Tuttavia, i bei tempi di Leone X per l’ex principe rappresentavano ormai solo un lontano ricordo. Erano stati davvero giorni straordinari, quelli trascorsi di qua e di là dal Tevere, tra feste, banchetti, riunioni accademiche cui partecipavano i migliori ingegni del suo tempo, quali Sadoleto, Castiglione, Bembo, Colocci assie- me a tanti altri esponenti del milieu intellettuale capitolino. In quelle circostanze, il principe si distingueva per la prontezza di spirito, per le battute argute, per la sagacia dei suoi ragionamenti. Dall’alto della sua invidiabile cultura, egli sapeva dispensare giudizi autorevoli tanto sulle più ardue questioni filosofiche e teologi- che, quanto su quelle letterarie ed artistiche. La sua competenza in campo archi- tettonico, poi, destava autentica ammirazione89. Facile immaginarsi quale fosse il suo stato d’animo di fronte ai progetti di rinnovamento edilizio promossi dal papa: osservando i cantieri edili avviati dai più famosi architetti attivi nell’Urbe, sicura- mente Alberto Pio avrà meditato sugli interventi necessari per rilanciare l’immagi- ne della sua piccola capitale. In quel periodo di straordinario fermento creativo, nessuna impresa doveva sembrare troppo ardita a chi, come lui, avesse avuto la volontà e l’intelligenza di portare avanti progetti intesi ad emulare in magnificenza le onnipresenti vestigia dell’Antichità. Per quanto riguardava le risorse da mettere in campo, quello era un altro discorso: il credito e gli appoggi di cui il principe godeva a corte di certo favo- rivano le sue ambizioni, che si alimentavano anche dell’illusione diffusa che la grande fortuna (e le grandi fortune) della famiglia Medici non finissero mai. Eppure, si sbaglierebbe a ritenere che gli anni di regno del primo papa mediceo abbiano visto il ritorno dell’Età dell’oro sulla terra, nonostante in molti abbiano tentato di accreditare tale mito. In realtà, il pontificato di Giovanni de’ Medici si era caratterizzato anche per le trame oscure, gli affari sporchi, gli accordi sottobanco, i sotterfugi, i maneggi ine- narrabili90. Nel corso della sua permanenza a Roma, Alberto III ne deve aver viste di cotte e di crude dal suo osservatorio privilegiato di diplomatico e di famigliare del papa. Non a caso, di lui si diceva che, «... è un diavolo, sa tutto e si mescola in tutto...»; c’è da credere che egli non disdegnasse di utilizzare a proprio vantaggio (o a van- taggio di colui per il quale operava in quel momento) le sue informazioni, se è vero che l’autore della citazione – Lope Hurtado de Mendoza, ambasciatore di Carlo V

88 Sulla cittadinanza romana si rimanda a REHBERG 2005, § 39-43 (ed. dig. cons. http://books.openedition.org/efr/1213). 89 Fin dal 1498, Pietro Bembo guarda ad Alberto come ad una vera autorità in campo architetto- nico. Al riguardo si veda la lettera del 21 agosto pubblicata in SEMPER 1999, pp. 103-104. Sulla cul- tura e sulla strategia architettonica del principe di Carpi non si può non fare riferimento che a SVAL- DUZ 2001. Alberto III Pio Civis Romanus 283

– concludeva il suo giudizio sul Pio invitando l’imperatore o a «guadagnarselo o ad annientarlo»91. Purtroppo per Alberto, Carlo V scelse la seconda opzione. Nondimeno, fintanto che Leone X se ne è stato ben assiso sul soglio di Pietro, Alberto III Pio ha vissuto veramente alla grande. Sebbene fosse il Signore di uno stato insignificante, forte dei suoi potenti appoggi politici e della posizione di pri- mo piano che si era conquistato nel contesto della diplomazia internazionale, in ogni circostanza egli non mancava di rimarcare l’importanza della sua persona del suo status. Famoso per essere oltremodo superbo, il principe sapeva diventare addirittura brutale nei confronti di chi si mostrava irriguardoso nei suoi confronti, soprattutto in occasione di incontri ufficiali e di cerimonie pubbliche. Assai noto è l’alterco, violentissimo, che egli ebbe il 22 aprile del 1517 in anti- camera papale con Beltrame Costabili, vescovo di Adria e ambasciatore di Alfon- so I d’Este a Roma, per una questione di protocollo: la possibilità di parlare per pri- mo con il pontefice, che il legato ferrarese aveva educatamente domandato. La richiesta indispettisce il Carpi, che reagisce in maniera scomposta. Volano parole grosse, alle quali il Costabili replica con un certo stile. Stava per finire male: solo l’intervento congiunto di Pietro Bembo e dell’ambasciatore portoghese impedisce che i due si mettano le mani addosso92. Frattura insanabile, quella tra i due diplo- matici93. Che Leone x in persona tenterà invano di comporre. Non era la prima volta che il principe di Carpi si rendeva protagonista di simi- li episodi. Si sa che, in occasione di una rappresentazione teatrale allestita nell’àmbito del- la festa per il conferimento della Cittadinanza romana a Giuliano de’ Medici, egli ebbe un scontro rabbioso con il despota di Morea94. Era il 13 settembre 1513; moti-

90 Ai ‘disinvolti’ intrecci politici e finanziari che hanno caratterizzato il papato di Leone X e Cle- mente VII, è dedicato il recente SIMONETTA 2014, in cui si mette in luce come sia stato proprio il regno di Leone X a creare i presupposti politici ed economici che porteranno al ‘sacco’ del 1527. 91 Citazione tratta da BIONDI 1981, p. 125. 92 Sull’episodio si veda SEMPER 1999, pp. 70-71, che trae le sue informazioni da BALAN 1879- 1880. 93 Vero è che, pochi giorni dopo l’episodio dell’anticamera papale, Costabili suggerirà ad Alfon- so I di ‘ruinare’ il Pio, sottraendogli lo Stato. Il farlo «cum l’adiuto de Francesi» (al cui servizio il principe si sarebbe messo appena tre anni dopo), non fa che confermare l’estrema fluidità della situa- zione politica italiana nei primi decenni del XVI secolo. Il dispaccio del Costabili è reperibile presso ASMO, Archivio segreto estense, Cancelleria ducale, Carteggio Ambasciatori, Roma b. 21, dispaccio Costabili, 19 maggio 1517. 94 L’episodio è stato tramandato in diversi resoconti della spettacolare festa organizzata in Cam- pidoglio per celebrare Giuliano dè Medici cittadino romano. Li ha raccolti CRUCIANI 1968, p. XXXIX, p. XLVII n. 21, p. 35. In tutti i resoconti, ‘lo Oratore de la Cesarea Maestà’ si trova sempre a ‘man destra’ del festeggiato. Elena Svalduz si è soffermata sull’episodio perché, nella circostanza, Alberto Pio sarebbe venuto a contatto diretto con l’opera del Peruzzi, che aveva allestito i monumentali appa- rati della scenografia (SVALDUZ 2001, p. 139-140). La studiosa ritiene che il despota di Morea sia Andrea Paleologo, ma è impossibile, essendo questi morto a Roma nel 1502. 284 Stefano Minarelli vo del contendere: una «controversia di precedentia», ovvero il diritto di tenere la destra di «Juliano duca di Nemours». L’episodio è stato tramandato grazie al reso- conto di un osservatore veneto, Vetor Lippomano, riportato nei Diarii di Marin Sanuto: «..., el signor Alberto da Carpi, come orator cesareo, si messe a man destra del magnifico Juliano, e il dispota di la Morea li volse andar lui, et vene a parole, e si non fosse stato l’orator di Spagna che menò via el dispota, se davano»95. Il resoconto, che ricorre raramente nelle biografie del principe, non entra nei dettagli della vicenda, che sono alquanto sgradevoli. Quello che è realmente suc- cesso, è stato invece inaspettatamente tramandato da Pierio Valeriano nel Dialogo della Volgar Lingua96. Nella finzione del Dialogo, uno dei protagonisti riferisce di aver assistito ad una disputa sulla preminenza della lingua volgare tra quattro importanti intellettuali: Antonio Tebaldeo, Giangiorgio Trissino, Claudio Tolomei e Alessandro de’ Pazzi. Al senese Tolomei, che rivendica la dignità e l’autonomia del Toscano dal Lati- no, il Tebaldeo, lievemente spazientito, replica citando per esteso l’episodio roma- no. E ce ne è abbastanza per giustificare la reazione violenta del Paleologo: Certamente molto grandi, magnifiche et eccellenti sono le cose che messer Claudio per virtù dell’ingegno e facondia sua ha alla toscana lingua attribuite. Ma mi ha fatto ricor- dar la illustre genealogia del Despota della Morea, quando in Campidoglio, dove si reci- tava il Penulo di Plauto, voleva preceder al Sig. Alberto Pio Sig. di Carpi e Vicario general della Maestà Cesarea in tutta Italia. Quanti nobili signori, quanti principi, quan- ti titoli allegava detto Sign. Despota in suo favore e del suo Sangue. Ma il Sig. Alberto gli rispose che veramente riconosceva quella nobiltà, quella grandezza in quei principi e signori che ‘l Despota raccontava, ma che di presente altro non vedeva di quella pro- genie, se non un povero fuoruscito, che mendicava il vivere, né di tante cose s’era riser- vato altro che l’honorato nome con una bella barba e un lungo cappello in forma di quel vaso che noi usamo in uso sordido.

Quel giorno di settembre del 1513, Alberto III Pio non sapeva che nel giro di quindici anni esatti lui stesso si sarebbe ritrovato nelle medesime angustie del despota della Morea. Il ritratto del Paleologo che aveva tratteggiato con gaia fero- cia, in realtà era un autoritratto. Se avesse immaginato che, nel settembre del 1528, a Parigi, avrebbe vissuto in prima persona nella condizione del «povero fuorusci- to, che mendicava il vivere, né di tante cose s’era riservato altro che l’honorato nome», probabilmente si sarebbe risparmiato un po’ di aggressività.

95 SANUTO 1886, vol. XVII, col. 73-74, 13 settembre 1513. 96 VALERIANO 1620, pp. 31-32. Alberto III Pio Civis Romanus 285

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Luciana Saetti

Il carteggio Lea (Ms. Coll 637) consta di 15 fascicoli nei quali i manoscritti1 sono raccolti per mittente, nel seguente ordine: Alberto Pio (ff. 1-62), Leonello Pio (f. 7), Giovan Matteo Giberti (f. 8), Lorenzo Campeg- gi (f. 9), Andrea de Burgo (f. 10), Federico Fregoso (f. 11), Leone Grillenzoni (f. 12), Gio- van Battista Spinelli (f. 13), Iacopo Bannissi (ff. 14-15). L’elenco che segue è basato su un esame dei manoscritti che ha consentito di ricondurre alla collocazione originaria vari fogli sciolti e non datati. Si sono così individuati comples- sivamente 128 documenti, qui indicati con numeri romani che esprimono la loro succes- sione cronologica. Per ciascun documento si dà, in parentesi quadra, la segnatura d’archivio delle carte corri- spondenti, preceduta dalla numerazione di pagina corrente e seguita dal rispettivo incipit. I documenti consistono in: 54 minute di lettere di Alberto Pio, in latino, indirizzate rispettivamente a Matthäus Lang (29); Massimiliano I d’Asburgo (22); Jakob Villinger (1); Ludwig Maraton (1); un destina- tario non identificato (1); 72 lettere ad Alberto Pio, rispettivamente di Iacopo Bannissi (20); Andrea de Burgo (13); Leonello Pio (13, compresa la trascrizione del testo cifrato di una di esse); Giovan Matteo Giberti (8); Leone Grillenzoni (8); Giovan Battista Spinelli (5); Massimiliano I d’Asburgo (2); Lorenzo Campeggi (1); Federico Fregoso (1); un mittente non identificato (1); 1 lette- ra di Giovan Battista Spinelli a Livia Caracciolo; 1 bozza di atto notarile.

ELENCO DEI DOCUMENTI

1 [1, 1r] Coperta: Lettere latine di Alberto Pio Conte di Carpi Ambasciatore della Maestà Cesa- rea in Roma 2 [1, 1v] bianca

I. Massimiliano I ad Alberto Pio (?), Linz, 12 gennaio 1512 3 [1, 2r] Ex litteris nostris 4 [1, 2v] facile habere poterit

II. Giovan Battista Spinelli ad Alberto Pio, Venezia, 24 maggio 1512 375 [13, 1r] Questa matina ho receputo

1 Per complessive 464 pagine correnti (facciate): v. la numerazione online. 2 Oltre agli scritti di Alberto, il f. 1 comprende anche una lettera di Massimiliano I (2r-v), il f. 2 una lettera di mittente non identificato (7r-v); il f. 6 una bozza di atto notarile (1r-v) e un’altra let- tera di Massimiliano I (27r-v). 288 Luciana Saetti

376 [13, 1v] ha partido de aquj 377 [13, 2r] bianca 378 [13, 2v] A lo Ill. S. el S. Alberto Pio Conte de Carpi, del Consiglio [de] la M.tà Cesarea

III. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l. (Venezia), s.d. (7? agosto 1512) 197 [6, 11r] Die Mercurii sub ortu solis 198 [6, 11v] dixerunt severe nimis 195 [6, 10r] et multa alia praeterea 196 [6, 10v] verum tamen semper

IV. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l. (Venezia), s.d. (7/8? agosto 1512) 201 [6, 13r] ... istum conventum Mantuanum 202 [6, 13v] nomine marchionis Mantuae 199 [6, 12r] Quo ad Pescheriam dixi 200 [6, 12v] Nota di spese

V. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l. (Venezia), s.d. (7/8? agosto 1512) 191 [6, 8r] Ut equidem arbitror 192 [6, 8v] hic enim conventus 193 [6, 9r] nonnulla mala verba 194 [6, 9v] Significatum mihi fuit

VI. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l. (Roma), s.d. (17? agosto 1512) 221 [6, 23r] Quartadecima huius 222 [6, 23v] Venetam sic resolute 223 [6, 24r] Sanctissimae Ligae deponeretur 224 [6, 24v] cum divisione earum rerum

VII. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l. (Roma), 13 (settembre 1512) 204 [6, 14v] Nona huius huc pervenit 203 [6, 14r] cum dixit sibi placere 205 [6, 15r] loca sed longe maiora 206 [6, 15v] consentirent sed 209 [6, 17r] omnia quae senatus 210 [6, 17v] nilque agendum restaret 207 [6, 16r] respondit se scripturum 208 [6, 16v] praeteriti temporis habere

VIII. Alberto Pio a Matthäus Lang, Roma, 14 settembre 1512 5 [1, 3r] Summus Pontifex recepit 6 [1, 3v] dedisse Caesareae Maiestati 7 [1, 4r] qui tot res incenderunt 8 [1, 4v] bianca

IX. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l., 2 ottobre 1512 9 [1, 5r] Scripsit R.mus Sedunensis 10 [1, 5v] contendere sed

X. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l., 2 ottobre 1512 11 [1, 6r] Tertia dies agitur 12 [1, 6v] Germanos milites Appendice 1 289

XI. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l., 6 ottobre 1512 13 [1, 7r] Heri hora 24 accepi litteras 14 [1, 7v] decreverat 15 [1, 8r] bianca 16 [1, 8v] bianca 24 [2, 4v] dixitque mihi 23 [2, 4r] Quo ad oratorem

XII. Leonello Pio ad Alberto Pio, Novi, 30 dicembre 1512 231 [7, 1r] La S. V. 232 [7, 1v] mandava il processo 233 [7, 2r] a questui 234 [7, 2v] Allo Ill.re S.re f.llo obser.mo lo S.re di Carpi. Romae

XIII. Leonello Pio ad Alberto Pio, Novi, 13 gennaio 1513 235 [7, 3r] Scio che V. S. 236 [7, 3v ] Allo Ill.re S.re f.llo obser.mo lo S.re di Carpi. Romae

XIV. Leonello Pio ad Alberto Pio, Novi, 20 gennaio 1513 237 [7, 4r] La S.ra contessa di Misoch 238 [7, 4v] Allo [Ill. f.]llo obser.mo lo S.re di [Carpi]. Romae

XV. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l., 12 e 13 aprile 1513 17 [2, 1r] Plurimum terruit me 18 [2, 1v] Litterae ad D. Gurcensem 12 et 13 Aprilis 1513

XVI. Alberto Pio a Massimiliano I, s.l. (Roma), 25 aprile 1513 19 [2, 2r] Dux Ferrariae discessit 20 [2, 2v] hoc certe scio 21 [2, 3r] Id autem 22 [2, 3v] Ad Caes. M. 25 aprilis 1513

XVII. Alberto Pio a Massimiliano I, s.l. (Roma), s.d. (25 giugno 1513) 27 [2, 6r] Diebus elapsis 28 [2, 6v] Melius certe hoc in orbe

XVIII. Alberto Pio a Jakob Villinger, s.l. (Roma), 25 giugno 1513 25 [2, 5r] Cum litteris Caesareae Maiestatis A sinistra: Domino Ja. Villinger Thes.rio Caesareo 25 Junii 1513 26 [2, 5v] Ex. L.ris M.tis V. die septima

XIX. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 21 giugno 1513 303 [10, 1r] Heri scripse per altre mie 304 [10, 1v] et che tutto in breve 305 [10, 2r] El Signor Duca con Helvetii 306 [10, 2v] Ill.mo D.no Alberto Pio Comiti Carpi. ac Caes. M.tis Romae or.i D.no meo hon. Romae

XX. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 23 giugno 1513 307 [10, 3r] È stata dopo el retorno mio 308 [10, 3v] contra venetiani 309 [10, 4r] promesse fatte 310 [10, 4v] una summa 290 Luciana Saetti

XXI. Mittente e destinatario n.i., Castenedolo, 27 giugno 1513 29 [2, 7r] Proximas litteras D.V.R.mae 30 [2, 7v] mille pedites istinc

XXII. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l., 2 luglio 1513 31 [2, 8r] Quid egerim apud S.mum D. N. 32 [2, 8v] numquam voluerint 33 [2, 9r] iacentia Caesaris 34 [2, 9v] componere decreverit

XXIII. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 2 luglio 1513 311 [10, 5r] Stando in expedir la posta 312 [10, 5v] una grande et intrinseca 313 [10, 6r] bianca 314 [10, 6v] Ill. D.no Alberto Pio Comiti Carpi et Caes. M.tis Romae oratori mihi hon. Romae

XXIV. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 4 luglio 1513 315 [10, 7r] Heri recevette 316 [10, 7v] per haverla 317 [10, 8r] R.mo de Trento 318 [10, 8v] Ill.mus D. Dux erat 319 [10, 9r] Post scriptum. 320 [10, 9v] Ill. D.no Alberto Pio Comiti Carpi ac Caes. M.tis Romae oratori, D.ne mihi hon. Romae

XXV. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 7 luglio 1513 321 [10, 10r] L’altro heri scrisse 322 [10, 10v] Ill D.no Alberto Pio Comiti Carpi ac Caes. M.tis Rome O.ri D.no mihi hon.mo. Romae

XXVI. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 2 agosto 1513 339 [10, 19r] Già quatro dì fano 340 [10, 19v] Mons.re R.mo de Gurz 341 [10, 20r] Mons.re R.mo firmate 342 [10, 20v] como aveva in seno

XXVII. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 6 agosto 1513 323 [10, 11r] Le mie ultime a la S. V. 324 [10, 11v] farà quello li serà 325 [10, 12r] Circa publica tractata 326 [10, 12v] Ill. D.no Alberto Pio Comiti Carpi ac Caes.ae M.tis Romae o.ri, D.no mihi obser.o Romae

XXVIII. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 10 agosto 1513 327 [10, 13r] Nota est singularis fides 328 [10, 13v] Ill. D.no Alberto Pio Comiti Carpi ac Imp.lis M.tis Rome o.ri, D.no mihi obser.o Romae Sotto: Pro Lucensibus

XXIX. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, s.l., s.d. (agosto 1513) 395 [14, 1r] Pridie scripsi Ill. D. V. 396 [14, 1v] nuncians obsesis Appendice 1 291

397 [14, 2r] hiis castris iux 398 [14, 2v] Anglorum nulla est

XXX. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l., 16 agosto 1513 35 [2, 10r] Mitto ad D.em V. R. quattuor 36 [2, 10v] Antonium mittere potui 37 [2, 11r] ac etiam permittant 38 [2, 11v] observo uti autem 39 [2, 12r] significet quam verbis 40 [2, 12v] auctoritate sua ac viribus 41 [2, 13r] oratorem agat 42 [2, 13v] L.rae ad R.mum D. Gurcens. XVI Augusti MDXIII

XXXI. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 20 agosto 1513 329 [10, 14r] Me sono venute l.re 330 [10, 14v] Ill. D.no honor. D.no Alberto Comiti Carpi ac Caes. M.tis Cons.rio et o.ri. Romae. Cito cito cito.

XXXII. Alberto Pio a Matthäus Lang, Roma, 26 Agosto 1513 43 [2, 14r] Tardiores sunt l.rae meae 44 [2, 14v] non in parvam spem 53 [2, 19r] et quingentas super mille 54 [2, 19v] brevi et Hispanorum 47 [2, 16r] quo coepti sunt Venetos 48 [2, 16v] sine discrimine ubicunque 45 [2, 15r] Quo ad confederationem 46 [2, 15v] etiam si procuratorium

215 [6, 20r] ... sibi videri respondendum 216 [6, 20v] ipsam petere 217 [6, 21r] in ea re inconsultis 218 [6, 21v] ipsum animum inclinasse

49 [2, 17r] ad eis resistendum 50 [2, 17v] Quantum ad id quod 51 [2, 18r] auctoritatem id faciendi 52 [2, 18v] Misi per Antonium

XXXIII. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 31 agosto 1513 331 [10, 15r] Ho visto quello me scrive 332 [10, 15v] andar a torno senza 333 [10, 16r] Baiardo barone de Bergna 334 [10, 16v] Ill. D.no Alberto Pio Comiti Carpi ac Caes.ae M.tis Cons.rio et Romae Oratori D.no mihi observan.o. Romae

XXXIV. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 31 agosto 1513 335 [10, 17r] Hozi dopo disnare 336 [10, 17v] bianca 337 [10, 18r] bianca 338 [10, 18v] Ill. D.no Alberto Pio Comiti Carpi ac Caes. M.tis Con.rio et Romae [oratori] D.no mi hon. Romae 292 Luciana Saetti

XXXV. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 11 settembre 1513 343 [10, 21r] Le nove quale la S. V. 344 [10, 21v] de Gurz era zoncto 345 [10, 22r] bianca 346 [10, 22v] Ill. D.no hon. D.no Alberto Pio Comiti Carpi Con.o et o.ri ns.o dignissimo. Romae

XXXVI. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l., 20 ottobre 1513 55 [2, 20r] Vidi mandatum Caes. M.tis 56 [2, 20v] et plurimi sunt qui 57 [2, 21r] id esse debere censuerit 58 [2, 21v] L.rae ad R.m D. Gurcen. XX oct. 1513

XXXVII. Alberto Pio a Matthäus Lang, Roma, 28 ottobre 1513 59 [2, 22r] Accepi litteras D.nis V. R.mae 60 [2, 22v] et eam misisse 61 [2, 23r] et fortuna arridebat 62 [2, 23v] plenas bonae voluntatis 63 [2, 24r] in consistorio procurante 64 [2, 24v] me fastideri inciperet 65 [2, 25r] meo refert 66 [2, 25v] L.rae ad Gurcen. 28 oct. 1513

XXXVIII. Alberto Pio a Matthäus Lang, Roma, s.d. (ottobre 1513?) 71 [2, 28r] Vacavit nuper beneficium 72 [2, 28v] bianca

XXXIX. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l. (Roma), s.d. (ottobre? 1513) 181 [6, 3r] Dixit mihi R. D. Praepositus 182 [6, 3v] bianca

XL. Alberto Pio a (?), s.l., s.d. 189 [6, 7r] Accepi litteras Caes. M.tis 190 [6, 7v] bianca

XLI. Andrea de Burgo ad Alberto Pio, Milano, 10 gennaio 1515 347 [10, 23r] Essendo successa la tregua 348 [10, 23v] Ill. D.no Alberto Pio Comiti Carpi ac Caes. M.tis Cons.rio et Romae O.ri D.no mihi hon. Romae

XLII. Leonello Pio ad Alberto Pio, Carpi, 3 marzo 1515 239 [7, 5r] Ho avuto tre di V. S. 240 [7, 5v] trare la rete al loro benefitio

XLIII. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Innsbruck, s.d. (1515) 403 [14, 5r] Da poi la partita 404 [14, 5v] che sia libera et tornata 405 [14, 6r] De re Cameracensi 406 [14, 6v] necessario per far taxar

XLIV. Alberto Pio a Matthäus Lang, Civitavecchia, 26 ottobre 1515 81 [3, 5r] MDXV / In Civitate Veteri / L.rae ad Caesarem et R.mum Card.lem Gurcen. ...ei XXVI octobris Appendice 1 293

82 [3, 5v] Doleo non posse respondere 83 [3, 6r] necessarii sui quasi omnes 84 [3, 6v] bianca

XLV. Alberto Pio a Massimiliano I, s.l. (Civitavecchia), s.d. (26 ottobre 1515) 135 [5, 11r] Heri recepi litteras M.tis V. 136 [5, 11v] duos dies ad summum 137 [5, 12r] me illud laudarent 138 [5, 12v] sed potius Veronam

XLVI. Alberto Pio a Massimiliano I, s.l., s.d. (ottobre 1515) 183 [6, 4r] Intelligo oratores Venetorum 184 [6, 4v] bianca

XLVII. Alberto Pio a Matthäus Lang, Viterbo, 3 novembre s.a. (1515) 67 [2, 26r] Scripsi ad D.nem V. R.mam 68 [2, 26v] nec credere quenpiam posse 69 [2, 27r] Sanct.musque nullo pacto 70 [2, 27v] bianca

XLVIII. Alberto Pio a Massimiliano I, s.l. (Viterbo), s.d. (3 novembre 1515) 211 [6, 18r] Ex Civitate Veteri 212 [6, 18v] se paratum esse 213 [6, 19r] ipsum esse viceregem 214 [6, 19v] Quod autem ad

XLIX. Massimiliano I ad Alberto Pio, s.l., s.d. (novembre 1515) 229 [6, 27r] maturet adventum suum 230 [6, 27v] sed et Suae B.nis

L. Alberto Pio a Massimiliano I, Firenze, 26 novembre 1515 73 [3, 1r] His proximis diebus 74 [3, 1v] In hoc negocio 75 [3, 2r] futuros in rebus 76 [3, 2v] L.rae ad Caes. XXVI Novemb. 1515

LI. Alberto Pio a Matthäus Lang, Firenze, 26 novembre 1515 77 [3, 3r] Accepi litteras D.nis V. R.mae 78 [3, 3v] Florentiae / Litterae ad Gurcen. XXVI Novembris 1515

LII. Alberto Pio a Massimiliano I, Carpi, 22 dicembre 1515 79 [3, 4r] Cum scripserim ad M.tem V. 80 [3, 4v] Ad Caes. M.tem XXII Xbris 1515

LIII. Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Bologna, 7 gennaio (1516) 371 [12, 10r] Heri sera alogiassemo 372 [12, 10v] de le cose di Modena 373 [12, 11r] Mi ha dimandato prefato 374 [12, 11v] Me ha dicto Antonio Sotto: Allo Ill. et excell. unico mio S.re lo S.or Conte di Carpi 294 Luciana Saetti

LIV. Alberto Pio a Massimiliano I, Carpi, 11 gennaio 1516 85 [4, 1r] Redditae sunt mihi litterae 86 [4, 1v] aut hostes facilius 87 [4, 2r] pacto retrovendendi 88 [4, 2v] perficerentur

LV. Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Firenze, 15 Gennaio 1516 353 [12, 1r] Questa matina sono andato 354 [12, 1v] Dimatina intenderò quanto

LVI. Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Firenze, 21 gennaio 1516 355 [12, 2r] Questa matina sono andato 356 [12, 2v] dal quale si guardano

LVII. Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Firenze, 23 gennaio 1516 357 [12, 3r] Se V. S. havrà tardo 358 [12, 3v] Allo Ill. et Ex. unico mio S.re lo S.re Conte di Carpi

LVIII. Giovan Battista Spinelli ad Alberto Pio, Verona, 26 gennaio 1516 381 [13, 4r] Mando le alligate 382 [13, 4v] bianca 383 [13, 5r] bianca 384 [13, 5v] Al Ill. S.or lo S.or Alberto Pio Conte de Carpi del conseglio et amb.re dela M.tà ...... rte de Roma LIX. Alberto Pio a Ludwig Maraton, Carpi, 30 gennaio 1516 89 [4, 3r] Quam ingenti dolore 90 [4, 3v] Binas accepi. 91 [4, 4r] Accessit non parva 92 [4, 4v] Carpi / L.rae ad D. Ludovicum Maraton penul.a Ian. 1516

LX. Alberto Pio a Matthäus Lang, Carpi, 18 febbraio 1516 93 [4, 5r] Accepi litteras D V R.mae datas IIIIa februarii 94 [4, 5v] Carpi / L.rae ad R.mum Car.lem Gurcen. / XVIII febr. 1516

LXI. Leonello Pio ad Alberto Pio, Novi, 14 marzo s.a. (1516?) 259 [7, 15r] M.ro Sigismondo 260 [7, 15v] ... la parte de la casa 261 [7, 16r] de core 262 [7, 16v] Allo Ill. S.re mio et fratello obser.mo lo S.re de Carpi. Romae. Capovolto, altra mano: Diverse lettere di diversi personaggi all’Ill.mo S. Conte Alberto Pio di Carpi

LXII. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 30 marzo 1516 95 [4, 6r] Sanc.mus D. N. mittit R.mum D. 96 [4, 6v] bianca 97 [4, 7r] bianca 98 [4, 7v] Romae / L.rae ad Caes.am Maiestatem XXX Martii 1516

LXIII. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l. (Roma), 30 marzo 1516 99 [4, 8r] Non omisi cum scriberem 100 [4, 8v] Scripsi deinde S.mum 101 [4, 9r] cum decore suo venire 102 [4, 9v] Litterae ad R.mum Gurcen. datae XXX Martii MDXVI Appendice 1 295

LXIV. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 31 marzo 1516 103 [4, 10r] Praesentium exhibitor 104 [4, 10v] Litter. ad Caes. M.tem datae ultima Martii MDXVI /Romae

LXV. Alberto Pio a Massimiliano I, s.l., 15 aprile 1516 105 [4, 11r] Cum ego singulis diebus 106 [4, 11v] Galli priorem 107 [4, 12r] Pontifex Archiepiscopum 108 [4, 12v] Litter. ad Caes. M.tem datae XV Aprilis MDXVI

LXVI. Alberto Pio a Matthäus Lang, Roma, 17 (18?) aprile 1516 109 [4, 13r] Accepi humanissimas 110 [4, 13v] Romae / Litterae ad R.mum Gurcen. Datae XVII (XVIII?) Aprilis

LXVII. Leonello Pio ad Alberto Pio, Novi, 14 maggio 1516 241 [7, 6r] Il villano mio è venuto 242 [7, 6v] Allo Ill.e S.re mio fr.llo observandissimo lo S.re di Carpi. / Romae cito / Romae cito.

LXVIII. Leonello Pio ad Alberto Pio, Mantova, 25 maggio 1516 243 [7, 7r]. Più littere facte in diversi dì 244 [7, 7v] reverentemente la ringratio 245 [7, 8r] Che l’habbia mo a parere 246 [7, 8v] Al Ill.e S.re mio fr.llo observand.mo lo S.re di Carpi. Romae

LXIX. Trascrizione di testo cifrato (v. documento LXVIII) 263 [7, 17r] V. S. scia che non solo 264 [7, 17v] pregai V. S. a scriverli

LXX. Giovan Battista Spinelli ad Alberto Pio, Verona, 13 giugno 1516 379 [13, 3r] cqua havemo 380 [13, 3v] bianca

LXXI. Alberto Pio a Massimiliano I, s.l., 20 giugno 1516 111 [4, 14r] Non habeo multa quae 112 [4, 14v] Ad Caesaream M.tem XX Iunii 1516

LXXII. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Augusta 25 ottobre 1516 415 [14, 11r] Mi dispiaceria 416 [14, 11v] sorte mia may 417 [14, 12r] bianca 418 [14, 12v] Ill.ri et Ex.ti Domino meo colen.mo Domino Comiti Carpi Caes. Ma.tis consi[liario et] ora[tori]

LXXIII. Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Roma, 18 novembre 1516 359 [12, 4r] Il R.do Padre fra Nicolò 360 [12, 4r] Allo Ill. et Excell. unico mio S.re lo S.re Conte de Carpi

LXXIV. Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Roma, 19 novembre 1516 361 [12, 5r] Essendo io già in lecto 362 [12, 5v] Post praedicta ritornai 363 [12, 6r] communiter volere fare 364 [12, 6v] Allo Ill. et Excell. unico mio S.re lo S.re Conte di Carpi 296 Luciana Saetti

LXXV. Alberto Pio a Matthäus Lang, Roma, 5 dicembre 1516 113 [4, 15r] Non est opus me multis 114 [4, 15v] Ad R.mum Gurcen.

LXXVI. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Hagenau, 20 dicembre 1516 419 [14, 13r] Avanti la venuta mia 420 [14, 13v] Scripte queste Sotto: Illu. et Excellen. Dom.io D.no Alberto Pio Comiti [Carpi]... Caes. Maie.ti Consilia[rio et] Oratori apud [S.mum] D. N. Dom.no colen.

LXXVII. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Hagenau, 29 dicembre 1516 421 [14, 14r] L’altro giorno per una 422 [14, 14v] -cribus et maximis 423 [14, 15r] ha recuperato bona parte 424 [14, 15v] Per esser molto molestato Sotto: Illu. et Excellen. Domino D. Alberto Pio Comiti Carpi Caes. Maie.ti Consi[liario et] Ora- tori ... Domino Colen.

LXXVIII. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio. Malines, 5 febbraio 1517 425 [15, 1r] Bastardus Carrandoleti 426 [15, 1v] Illu. et Excellen. Domino D. Alberto Pio Comiti Carpi Caes. Maie.tis Consiliario et Oratori apud ... Domino colen.

LXXIX. Alberto Pio a Massimiliano I, s.l. (Roma), 8 febbraio 1517 115 [5, 1r] Episcopus Curiensis 116 [5, 1v] liberaliter ei offerebat 117 [5, 2r] quibus ostendebat omnino 118 [5, 2v] pecunias et si illis minime 119 [5, 3r] se acceptaturum et auxilia 120 [5, 3v] Instant oratores Galli e 121 [5, 4r] bianca 122 [5, 4v] L.rae ad Caes. M.tem VIII februarii 1517

LXXX. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Anversa, 9 febbraio 1517 427 [15, 2r] A la sua de V de Genaro 428 [15, 2v] Illu. et Excellen. Domino D. Alberto Pio Comiti Carpi Caes. Maie.tis Con[siliario] et Oratori ... Domino colen.

LXXXI. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Bruxelles, 17 febbraio 1517 429 [15, 3r] Caes. Maie.tas Do. V. Ill. in 430 [15, 3v] Illu. et Excellen. Domino Alberto Pio Comiti Carpi Caes. Maie.tis Consiliario et Oratori apud ... Domino colen.

LXXXII. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l., s.d. (1517) 225 [6, 25r] Accepi itteras D. V. R.mae 226 [6, 25v] ... scribit eadem D. V. R.ma 227 [6, 26r] Pacem Gallicam 228 [6, 26v] semper trahentur

LXXXIII. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Malines, 28 febbraio 1517 431 [15, 4r] Dio sa quanto despiacere 432 [15, 4v] ha operato per quella Appendice 1 297

433 [15, 5r] La M.tà Caes. ad Burselle 434 [15, 5v] Illu. et Excellen. Domino D. Alberto Pio Comiti Carpi Caes. Maie.ti Con[siliario] et Oratori ... Domino colen.

LXXXIV. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 12 marzo 1517 124 [5, 5v] Rursus post alias meas 123 [5, 5r] de obsistendo ipsis nihil 125 [5, 6r] iam decretum sit 126 [5, 6v] etiam a paucissimis 127 [5, 7r] bianca 128 [5, 7v] Romae XII Martii 1517 ad M.tem Caes. 129 [5, 8r] bianca 130 [5, 8v] Romae ad M.tem Caes XII Martii 1517

LXXXV. Alberto Pio a Matthäus Lang, Roma, 12 marzo 1517 131 [5, 9r] Praeteritis diebus scripsi 132 [5, 9v] Rogo D. V. R.mam ut pro suo 133 [5, 10r] quam opus esset 134 [5, 10v] uti ego offendi

LXXXVI. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 19 Marzo 1517 139 [5, 12v] Praeterea immortales 140 [5, 13r] aut Rege Cath.co non 141 [5, 13v] nepos R.mi S.ti Georgii 142 [5, 14r] L.rae ad M.tem Caes. XIX Martii 1517, Romae. In alto a destra, altra mano: Diverse l.re di diverse cose et persone all’Ill. S. Alberto Pio Conte di Carpi

LXXXVII. Alberto Pio a Matthäus Lang, Roma, 20 marzo 1517 143 [5, 15r] Ex litteris R.mae quamvis 144 [5, 15v] esse significaverat 145 [5, 16r] adversus Christi hostes 146 [5, 16v] Romae. L.rae ad R.mum Car.lem Gurcen. XX Martii 1517

LXXXVIII. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Bruxelles, 25 marzo 1517 435 [15, 6r] Pocho mi resta ad scrivere 436 [15, 6v] Mando con queste 437 [15, 7r] Hogi la M.tà Catho. 438 [15, 7v] Illu. et Excellen. Domino D. Alberto Pio Comiti Carpi Caes. Maie.tis [Consili]ario et Oratori ... D. N. Domino colen.

LXXXIX. Giovan Battista Spinelli ad Alberto Pio, Malines, 16 aprile 1517 385 [13, 6r] Dapoi multi misi ho pur 386 [13, 6v] Fin qua non intendo 387 [13, 7r] -domi ad la S.V. 388 [13, 7v] Al Ill. S.or lo S.or Alberto Pio Conte di Carpi et ... de la Ma.tà Cesarea. Romae XC. Giovan Battista Spinelli a Livia Caracciolo, Malines, 19 aprile 1517 389 [13, 8r] Lo Ill. S. Conte de Carpi 390 [13, 8v] bianca XCI. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Anversa, 22 aprile 1517 439 [15, 8r] Una de la S.a V. de prima 298 Luciana Saetti

440 [15, 8v] a la S.tà del N. S.re circa 441 [15, 9r] servitor in ogni cosa 442 [15, 9v] Illu. et Excellen. Domino D. Alberto Pio Comiti Carpi Caes. Maie.tis Consiliario et Oratori ... Domino colen.

XCII. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 1 maggio 1517 147 [5, 17r] Plurima praeteritis diebus 148 [5, 17v] praestitisse causam 149 [5, 18r] hanc S.tam Sedem 150 [5, 18v] quod et plurimis aliis 151 [5, 19r] dessignatis nonnullae 152 [5, 19v] sed S.mus mihi rem 153 [5, 20r] bianca 154 [5, 20v] Romae. Ad M.tem Caes Ia Maii 1517

XCIII. Alberto Pio a Matthäus Lang, Roma, 1 maggio 1517 155 [5, 21r] Novissimae litterae quas 156 [5, 21v] nec praeterea iniquum

XCIV. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Bruxelles, 1 maggio 1517 443 [15, 10r] A li giorni passati scripse 444 [15, 10v] Illu. et Excellen. Domino meo colen.mo D.no Alberto Pio Comiti Carpen. Caesar. Maie.tis Consiliario et Oratori apud Beat.mum Ponti.cem

XCV. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Bruxelles, 11 maggio 1517 445 [15, 11r] Già giorni 8 scripse 446 [15, 11v] Re fece intrar in la Terra 447 [15, 12r] bianca 448 [15, 12v] Ill.ri et Ex.ti Domino meo Colen.mo D.no Alberto Pio Comiti Carpi Caes. [M.tis Consil]iario et apud ... Oratori. Romae

XCVI. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio. Bruxelles, 25 maggio 1517 449 [15, 13r] A li giorni passati al partir 450 [15, 13v] de questi paesi et aspetar 451 [15, 14r] tanto che me sia provisto 452 [15, 14v] Illu. et Excellen. Domino D.no Alberto Pio Comiti Carpi Caesar. Maie.ti [Consi- liar]io et Oratori D.num N.rm ... meo Colen.

XCVII. Lorenzo Campeggi ad Alberto Pio, Augusta, 13 luglio 1517 299 [9, 1r] Confesso ingenuamente 300 [9, 1v] bianca 301 [9, 2r] bianca 302 [9, 2v] Ill D.no Alberto comiti Carpen. Sac.mae M.tis Caes. apud S.mum D. N. or.i Tamquam fr.i hon. Romae

XCVIII. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Middelburg, 14 agosto 1517 453 [15, 15r] A li giorni passati scripse 454 [15, 15v] Partì da Magunza 455 [15, 16r] El privilegio del qualle 456 [15, 16v] Ill.ri et Ex.ti Domino meo colend.mo Domino Comiti Carpi Caes. et Catho.[Con]siliario et oratori Appendice 1 299

XCIX. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 21 agosto 1517 159 [5, 23r] Proximis meis admonui 160 [5, 23v] industria sic responsum 161 [5, 24r] quas detulit D. Hieronimus 162 [5, 24v] quamobrem requiescat 163 [5, 25r] hiis quibus S.mus inclinare 164 [5, 25v] diripuerunt et universam 165 [5, 26r] et R.mum D. Campegium 166 [5, 26v] Indultum pro esu carnium C. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio. Middelburg, 4 settembre 1517 457 [15, 17r] Più mie ho scripto 458 [15, 17v] Prefato Villinger 459 [15, 18r] Havea scripto al Tition 460 [15, 18v] Ill. et Ex.ti Domino meo colen.mo Domino Comiti Carpi Caes. et Catho. Ma.tis [consilia]rio et oratori CI. Alberto Pio a Matthäus Lang, s.l., 6 settembre s.a. (1517) 179 [6, 2r] Accepi litteras R.mae Do. V. In alto: R.mo Gurcensi A margine: R.mo Gurcensi VI Sept. 180 [6, 2v] amplificare velit et possit

CII. Alberto Pio a Massimiliano I, s.l., 9 settembre (1517) 185 [6, 5r] Postremis meis scripsi 186 [6, 5v] et adhuc ad Franc.m M.m 187 [6, 6r] bianca 188 [6, 6v] In alto, a sinistra: Cardinali Sedunensi. Sotto, a destra: Caes. M.ti VIIII sept. CIII. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, s.l., s.d. (settembre 1517) 399 [14, 3r] Tandem ho receputo 400 [14, 3v] convenuto restar fina hora 401 [14, 4r] Et de quello 402 [14, 4v] Del arivar del re in Spagna CIV. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Malines, 21 settembre 1517 461 [15, 19r] prudentia potrà farli 462 [15, 19v] che ruinava el suo fratello 463 [15, 20r] Per el Car.le Colona 464 [15, 20v] Ill. et Ex.mo Colen.mo Domino C...... Caes. et Catho. ... Consiliario et Oratori CV. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, s.l., s.d. (ottobre 1517) 411 [14, 9r] Credando expedire subito 412 [14, 9v] et disse ad Sua M.tà 413 [14, 10r] Son diversi omini 414 [14, 10v] per el Triulci

CVI. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 20 ottobre 1517 157 [5, 22r] Etsi nihil in praesentiarum 158 [5, 22v] L.rae ad Caes. M.tem XX Octobris 1517

CVII. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 7 novembre 1517 219 [6, 22r] Sanct.us D. N. diebus 220 [6, 22v] eius San.tas ut quisque 300 Luciana Saetti

CVIII. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 15 novembre 1517 167 [5, 27r] Ad Caes.am M.tem. Romae 15 novemb. 1517 168 [5, 27v] Sacr.mo Imperatori

CIX. Alberto Pio a Massimiliano I, s.l., 26 dicembre 1517 169 [5, 28r] Post discessum domini 170 [5, 28v] tempus aliorum comitiorum 171 [5, 29r] levitatem ut nemini petenti 172 [5, 29v] defectu pecuniarum 173 [5, 30r] assentiatur 174 [5, 30v] bianca 175 [5, 31r] bianca 176 [5, 31v] Ad Caes. M.tem 26 Decembr. 1517

CX. Leonello Pio ad Alberto Pio, Carpi, 10 febbraio 1518 247 [7, 9r] De li dinari qualli mi furno 248 [7, 9r] Allo Ill. mio S.re et fratello obser.mo lo S.re Conte de Carpi.

CXI. Bozza di atto notarile, s.l. (Roma), 28 aprile 1518 177 [6, 1r] Die XXVIII aprilis 1518 Stipulatum Tranquillus de Romulis 178 [6, 1v] Sponsalitii. Copia de la conssignatione de Vachone. Et recordo Ill. notaro

CXII. Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Carpi, 15 agosto 1518 365 [12, 7r] Expectando Madonna Alda 366 [12, 7v] Allo Ill. et Excell. unico mio S.re lo S.re Conte de Carpi.

CXIII. Leonello Pio ad Alberto Pio, Novi, 12 settembre 1518 249 [7, 10r] Io ho receputo una de V. S. 250 [7, 10v] Allo Ill. S.re mio et fr.ello observan.mo lo S.re Conte de Carpi

CXIV. Leone Grillenzoni ad Alberto Pio, Wels, 13 gennaio 1519 367 [12, 8r] Infine le male nove 368 [12, 8v] Senza ch’io scrivi 369 [12, 9r] bianca 370 [12, 9v] Allo Ill. et Excell. unico mio S.re lo S.re Conte di Carpi In alto a sinistra, scritt. coeva: L.rae non comburendae

CXV. Giovan Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 26 maggio 1520 279 [8, 7r] Se mentre che V. S. è stata 280 [8, 7v] sapendo meglio di me 281 [8, 8r] Per consolatione di V. S. 282 [8, 8v] Al Ill. S.or mio el S. Alberto Conte de Carpi ... dig.mo

CXVI. Giovan Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 9 giugno 1520 271 [8, 3r] Non credo che mai più 272 [8, 3v] quel che si desidera 273 [8, 4r] se degniano haver grata 274 [8, 4v] Al multo Ill. S.or mio el S. Alberto Conte de Carpi … dig.mo

CXVII. Giovan Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 21 luglio 1520 283 [8, 9r] Di poi ch’io scrissi anchor 284 [8, 9v] a ogni altro rispetto Appendice 1 301

285 [8, 10r] una villa di sua Ces.a M.tà 286 [8, 10v] Al Ill.mo S.or mio el S. Alberto S.re de Carpi ...mo

CXVIII. Giovan Matteo Giberti ad Alberto Pio, s.l., s.d. (luglio? 1520) 267 [8, 1r] Havrà V. S. qui alligate 268 [8, 1v] e perché li consigliava 269 [8, 2r] e per tutto el stato 270 [8, 2v] Son circa dui mesi

CXIX. Giovan Battista Spinelli ad Alberto Pio, Carpi, 25 luglio 1520 391 [13, 9r] Venni cqua heri matino 392 [13, 9v] Ho vista la fabrica 393 [13, 10r] et piglie parere 394 [13, 10v] Al Ill. S.or lo S.or Conte de Carpi

CXX. Giovan Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 8 settembre 1520 275 [8, 5r] Non scrisse poi la mia 276 [8, 5v] cavare qualche cosa 277 [8, 6r] ducati di dota 278 [8, 6v] Allo Il. S.or el S.or Alberto S.or de Carpi digniss.o

CXXI. Federico Fregoso ad Alberto Pio, Genova, 22 febbraio 1521 349 [11, 1r] Essendome stato necessario 350 [11, 1v] cum quella maior humilità 351 [11, 2r] date ma non intendo 352 [11, 2v] Ill. et Ex. D.no Alberto de Carpi D.no honor.mo Romae

CXXII. Giovan Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 24 settembre 1522 287 [8, 11r] Mi doglio multo di V. S. 288 [8, 11v] et secedere a Civita 289 [8, 12r] che quanto sono non sia 290 [8, 12v] Al Ill. S.or mio el S.re A... S.re de Carpi ...

CXXIII. Leonello Pio ad Alberto Pio, Carpi, 22 novembre 1522 251 [7, 11r] Scripsi a V. S. ch’io volevo 252 [7, 11v] bianca 253 [7, 12r] bianca 254 [7, 12v] Al Ill. et ex.te S.re Conte de Carpi, fr.llo obser.mo

CXXIV. Leonello Pio ad Alberto Pio, s.l. (Carpi), s.d. (22 novembre 1522) 265 [7, 18r] ...ndando pur pensando 266 [7, 18v] Altra mano: il Sig. Lionello Pio

CXXV. Giovan Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 19 gennaio 1523 295 [8, 15r] La brevità della l.ra 296 [8, 15v] bianca 297 [8, 16r] bianca 298 [8, 16v] Al Ill. et Ex.te S.or mio el Sig. Alberto Pio Conte de Carpi. In alto a destra, altra mano: L.re de M. Io. Matheo et lo Arcivesc.o et M. Jac.o Salviati

CXXVI. Leonello Pio ad Alberto Pio, Novi, 23 febbraio 1523 255 [7, 13r] Se Mons. nostro fratello 256 [7, 13v] V. S. vederà anchora 302 Luciana Saetti

257 [7, 14r] bianca 258 [7, 14v] Allo Ill. et Ex.te S. mio et fr. observ.mo lo S. Conte di Carpi

CXXVII. Iacopo Bannissi ad Alberto Pio, Bolzano, 21 marzo 1523 407 [14, 7r] Essendo nel camino 408 [14, 7v] bianca 409 [14, 8r] bianca. 410 [14, 8v] Illu. et Eccellen.mo Domino meo colen. D.no Aberto Pio Comiti Carpi

CXXVIII. Giovan Matteo Giberti ad Alberto Pio, Roma, 30 maggio 1523 291 [8, 13r] S’io fussi atto ad alcun 292 [8, 13v] bianca 293 [8, 14r] bianca 294 [8, 14v] Allo Ill. et Ex. S.or mio, el S.or Alberto Pio, Conte de Carpi. A Pisa Appendice 2 a cura di Marcello Simonetta

Sono trascritte le seguenti lettere:

1. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 29 maggio 1513 (p. XI) 2. Alberto Pio a Francesco II Gonzaga, Roma, 30 giugno 1517 (p. XVI) 3. Giovan Francesco Nigrino ad Alberto Pio, Firenze, 9 settembre 1522 (p. XXXIV) 4. Alberto Pio [all’ammiraglio Bonnivet], Bagni di Lucca, 24 settembre 1523 (p. XXXV) 5. Alberto Pio all’ammiraglio Bonnivet, Roma, 4 gennaio 1524 (p. XXXVII) 6. Lorenzo Toscano ad Alberto Pio, Blois, 30 aprile 1524 (p. XLI) 7. Lorenzo Toscano ad Alberto Pio, Tours, 2 giugno 1524 (p. XLI) 8. Lodovico Canossa ad Alberto Pio da Carpi, 30 agosto 1525 (p. XLV) 9. Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, [21 settembre 1525] (p. XLVI) 10. Francesco Sforza II ad Alberto Pio, Crema, 13 ottobre 1526 (p. LII) 11. Alberto Pio a Iacopo Salviati, Compiègne, 12 settembre 1527 (p. LIV) 12. Alberto Pio a [Anne de Montmorency?], Parigi, 2 febbraio [1529] (p. LVII) 13. Il vescovo di Tarbes a Francesco I, Roma, aprile 1530 (p. LVIII)

1. Alberto Pio a Massimiliano I, Roma, 29 maggio 1513 (MAX 29 [1-6], in gran parte cifra- ta; estratto dalla cifra, 5r-v) 5r [...] Ill. Dnus Julianus de Medicis iam incipit satis aversus es/se a practicis gallorum cui rei ego preter / cetera studeo. Verum est quod galli conti/nuo novis pollicitationibus et prac[t]icis/ eum corrumpere conantur offerunt ei lanceas / centum ordinem diabolicum uxo- rem ditis/simam ac nobilissimam regis consanguineam / pensionem annuam valde magnam, unum / Dominium in Francia aliud in Italia / cum titulo ducatus et per insinuationem / etiam administrationem et gubernationem / Ducatus Mediolani. S.mo autem D.N. afferunt fedus / per metuum omni securitati quam petere / possint extinguere conci[l]iabulum pisanum / et abolire pragmaticam sanctionem et in Ita/lia illas copias habituros que sibi prefige/rentur, a S.te sua et non plures quibus [pontifex] eque / precipere possit uti et suis et quod propriis / expensis illas mittent et ea bella //5v// agent que [pontifex] iubebit regnumque que nea/politanum (ut intellexi) promittunt si [pontifex] illud / cupiat. Verum id non ita mihi com- pertum est / uti cetera de quibus vidi literas hec tamen / omnia negliguntur et ut spero frustra in hoc / laborabunt quamvis multi eis faveant etiam / ex familiaribus domesticis S.mi D. N. et extrema utantur / diligentia ipsi et qui pro eis agunt et admirabili / quidem arte sua [...] enim [pontifex] ipsum univ[e]rsam / Italiam administraturum modo seipsis coniun/geret Mediolanum videlicet statum ecclesias/ticum et florentinorum. 304 Marcello Simonetta

2. Alberto Pio a Francesco II Gonzaga, Roma, 30 giugno 1517 (ASMN, b. 1309) Ill.mo et Ex.mo S.re mio observandissimo. Perché so che V. Ex.tia ha sempre amato il R.mo Mons.re Car.le di S. Georgio1 et desidera ogni suo bene, mi è parso significarli per que- sta mia come quantunque sua S. R.ma insieme con li altri dui Car.li incarcerati fosse stato de tutti li officij et benefitij et dignità privato, et condennato in carcere perpetuo, et traditus curie seculari, nondimeno la S.tà del N.S. per sua clemente natura è stato contento restituirlo alla pristina dignità et commutare ogni pena in una summa pecuniaria, ma con conditione però che’l non possi havere voce activa, né passiva. La qual conditione col tempo forsi il N.S. li potria levare, portandosi bene con sua Santità. Ne ho voluto dare adviso a V. Ex.tia perché son certo che la ne haverà piacere. De li altri dui Cardinali2 credo non li sia speranza alcuna. Non mi extenderò in scrivere a V. Ex.tia del gran numero de Cardinali novi creati3 per- ché è cosa tanto nota, che son certo quella ne serà advisata da M. Berardo et da altri, alcu- ni de epsi pagarono qualche cosa per adiutare la S.tà del N.S. per le necessità, ne le qual se ritrova, ma molti anchora serano facti gratis. Tra quilli se sono affatichati per la restitutione de Mons.re R.mo di S. Georgio, io ne son stato uno, per la molta observantia, che sempre li ho portato, et perché sapevo fare cosa che piaceria a V. Ex.tia. In bona gratia dela quale con reverentia di continuo me ricom- mando. Rome XXX Junij M D XVIJ. Di V. Ill.ma S. humile servitore A. Carpi etc.

3. Giovan Francesco Nigrino ad Alberto Pio, Firenze, 9 settembre 1522 (BAMI, 283, fasc. 13, originale e copia coeva) Ill.mo et Ex.mo S. mio. Heri mattina comparse el mio Servitor con la lettera de V.S. che vista la hebi la mi condusse di sorte che non fu in me sangue per uno pezo. Tamen laudo Dio che non vole tanta ruina et così Dominus mihi adiutor et non timebo etc.4. Dio non abandonò mai V.S. per el passato così farà per lo advenire però mi paro dreto ale spalle le malignità d’ogni malivolo quale so non saranno mai per offenderla. Mostrai la lettera al S. arcivescovo5 quale molte volte lesse maravigliandosi non per la bontà delo amicho ma per li temporali corrono che habi non solo fatto quello à, ma pensa- tolo et se non che à visti molti riscontri, teneva li advisi havea herono dati con pocho iudi- tio et fondavala costui manda suo figliolo a Roma et vole misericordia da N.S. quale sa ama el S. di Carpi et porrà mano in simile negotio. Risposi che non sa bene chi è esso amicho, che quando S.S. si pensarà haverlo per el mezo, lo tenirà per la coda6 et tanto quanto sarà

1 Raffaele Sansoni Riario, allora vicencancelliere, fu riscattato in luglio per l’ingente somma di 150.000 ducati, dopo aver perso tutti i suoi benefici cardinalizi. 2 Alfonso Petrucci fu strangolato in Castel Sant’Angelo il 4 luglio 1517, mentre Bendinello Sauli fu liberato molti mesi dopo, sotto cauzione di 50.000 ducati, e morì a Monterotondo il 29 marzo 1518 per le conseguenze della prigionia. Il trattamento a loro riservato è una riprova della “clemente natura” del papa. 3 Il primo luglio 1517 furono creati trentuno nuovi cardinali, molti dei quali pagarono una cifra fra i 20 e i 40.000 ducati. Su tutta questa vicenda, cfr. SIMONETTA 2014, pp. 194ss. Questa elezione fu l’origine del detto «Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno». 4 Ps. 117, 6. 5 L’arcivescovo di Capua, Nikolaus Schomberg. 6 In altre parole, sta dicendo che Ercole d’Este è un diavolo. A questa data era considerato un amico. Appendice 2 305 suo proposito observare et terrà conto del patrone et di lui che anchora glielo aricordarà et però non si maravigli di questo sucesso né succederà de casi sua et precipue verso V.S. et mille altre cose li dissi. Subito andò a trovare uno m. Matteo7 che molto più che Enea8 fa, et li contò questa cosa, dolendosi assai et che suo patrone / havea unpocho juditio se pensava per questa via conciare sue cose et che se venivano a lume a S. S.tà, como verranno, che hera certissimo, noceriano assai etc. Rispose esso m. Matteo che non poteva credere simile caso in suo patrone sapendo quante volte li è stato detto “se tu voi farò al S. di Carpi” et lui mai à voluto intenderne niente et si poteva facilmente fare per la commodità et tempi che hora né uno né altro ci correva. Sono tutte materie per sturbare esso mio patrone che fa ditto S. di Carpi. È ben vero che 150 cavalli venneno là unde voi dite perché mio patrone voleva fare dimostratione de la morte di Cato9 verso non che castello et con questo sospecto può essere nato quello mi dite d’esto mio S.re questo che l’è stato a parlare a Ferrara et poi fare gente questo Perino etc. Rispose costoro sono tutti in arme che sono dela parte del morto che non ponno stare altrimenti. Queste furono le justificatione di questo m. Matteo quale subito spacciò a suo patrone. Vederemo quello dirà. A m. Jacomo Salviati10 fece similmente legere ditta lettera che sequì; l’altro si maravigliò, questo stupefacto de simile legerezza molto dolendosi comeché deli travagli di V.S. et che la si riguardi, che poi si vede el mal animo di costui che quella pensi serà per queste vie che non li havendo potuto fare hora tentarà d’altre volte et però como prudentissimo pensi a quello possa intervenire, dicendomi che seben costui va a Roma, che non farà nulla perché già li hanno domandato 200milia ducati et lui se ne fa beffe a mal stento / ne vorria dare 60milia, siché pensa non si habino acordare. Ditto m. Jacomo assai si raccomanda a V.S. et sta di bona voglia perché el suo priore di Roma è gua- rito11 et mi à ditto che non à altro desiderio che abocarsi con V.S. et adesso è el tempo perché vi à conferire uno caso de una grandissima importantia, che non lo vole dire a persona che a V.S., suplicandola quando non li fusse grave venire di qua ne receveria gratia etc. Mi ò sde- mentecato dire ad V.S. che mons. arcivescovo dice che bisognando scriverà a luchesi et man- darà gente a V.S. et venirà in persona, che sebene el patrone12 non ci è, che farà el bisogno

7 Secondo la voce DBI su Matteo Casella «il duca mandò a Roma suo figlio Ercole per le congra- tulazioni ed insieme vi spedì il Casella ed Enea Pio a spalleggiare l’oratore residente Lodovico Cato. Si trattava di fare assolvere il duca dalle censure, far togliere l’interdetto a Ferrara, ottenere la con- ferma del possesso delle terre rioccupate e la restituzione di Modena e Reggio». 8 Enea Pio da Carpi, ambasciatore ferrarese. 9 Secondo la voce DBI Cato da Castagneto «Domenico Bretti (Amorotto) da Carpineti, nemico dei da Castagneto dal 1506, si alleò invece con le forze pontificie e col conte Alberto (III) Pio, signore di Carpi, controllando così la montagna reggiana. Inserite ormai nel più ampio contesto delle guerre d’Italia e della lotta per il dominio sul Ducato estense, dal 1516 le lotte di fazione sulle montagne modenesi e reggiane s’inasprirono, vista la politica militarmente aggressiva perseguita da Francesco Guicciardini, governatore di Modena dal 29 giugno. L’occupazione della rocca di Sestola, ad opera di aderenti alla fazione di Cato da Castagneto, concluse nel dicembre 1521 la breve occupazione pon- tificia del Frignano iniziata il 25 settembre. Insieme con il tentativo di riconquistare Bologna ai Bentivoglio, nella Pasqua del 1522, la dedizione frignanese fu una delle ultime imprese di Cato al ser- vizio dei duchi d’Este. Assalito dal Bretti nella sua casa-torre di Fanano, Cato morì il 15 agosto 1522». 10 Iacopo Salviati, banchiere, cognato di papa Leone X (era sposato con sua sorella Lucrezia de’ Medici). 11 Forse si tratta di Piero Salviati. Dal 1525 fu Bernardo Salviati nato nel 1508 e futuro cardinale nel 1561, sotto Pio IV. 12 Il cardinale Giulio de’ Medici. 306 Marcello Simonetta di quello V.S. ricercharà et molto si raccomanda. A Roma a m. Balthass.o13 subito mandai la copia de quello V.S. mi avisa ad causa se ne vaglia ma che prima con el patrone comunichi duplicata la mandai. El patrone sta bene ma la peste molto bene levata in palazo non ci sta che Sedonense14. Don Jo. non ci à voluto andare15 a stare et tutto fa lui et Hechfort16 mandai sabato a V.S. uno pachetto mi penso lo habi havuto. Questo duchetto17 partì stamani quale è stato molto molto charezato insino a mostrarli la gloriosa nuntiata; m. Antonio Costabili18 non c’era. Altro non ò ad V. Ill.ma S. mi racomando a mons. di Salamancha19 et lo oratore di Portogallo dirò tutto ad causa le culpe di questo traditore non rimangono sepulte. Dio dia / sanità a V.S. che’l resto so sarà con sua prudentia benissimo custodito perché così lo ordina- rà N.S. Dio altro non ò. Ad V. Ill.ma S. mi raccomando. Florentia, IX 7bre 1522. Di V. Ill.ma S. Servitore Francesco Nigrino Mano di Nigrino sul verso dell’ultima pagina della copia: questa ò data a un altro ad causa che dua ne ò scripto. La una vadi bene. La via dritta fa ditto duchetto.

4. Alberto Pio [all’ammiraglio Bonnivet], Bagni di Lucca, 24 settembre 1523 (ASMN, b. 1309) Ill.mo Monsignore osservandissimo. Io me recommando ben humilmente ala vostra bona gratia. Ill.mo Monsignore. Credo dala corte V.S. fusse advisata, como la M.tà del Re expedì M. Lorenzo Toscano20 questi proximi dì avanti la nova dela morte del papa, a ciò andasse a S. S.tà per farli intendere el bono animo havea verso S. Beatitudine et santa sede aposto- lica, et ala pace universale de Christiani, quantunche venisse per recuperare el suo stato de Millano etc. el quale, havendo ordine capitare da me con farmi intendere la carica sua, et pigliare anchor el mio debil parere, heri gionse qua, et inteso per me el tutto, parendomj in proposito, et poter servire a più cose, el referire la medema imbassata tanto honesta al sacro collegio de’ Cardinali, avanti intrino in Conclave, l’ho exhortato a continuare el suo viagio, non obstante la detta morte (per la quale esso pensava tornarsene in dreto), et che si sforzi arrivare più presto a Roma che serà possibile, perché di già le exequie del fu papa21 sono principiate, et poi li Cardinali se accelerano molto, et così esso questa matina se n’è parti- to in posta informato bene da me di tutto quello potevo dire. Il che mi è parso significarlo

13 Si tratta forse di Baldassarre Turini da Pescia, ex datario di Leone X, menzionato altrove nelle lettere di Nigrino. 14 Il cardinale Matteo Schiner, che in effetti morì il 30 settembre 1522. 15 Juan Emanuel, ambasciatore imperiale presso il papa infatti scrive da Marino a Carlo V il 30 settembre 1522 (SPAIN II, 479) sulla peste a Roma e sul fatto che alcune persone erano morte anche nel palazzo papale. 16 Il cardinale Willem Enckenwoirt, braccio destro del papa olandese Adriano VI. 17 Ercole d’Este. Cfr. Adriano VI a Carlo V, Roma, 30 settembre 1522 (SPAIN II, 478) informan- dolo del suo viaggio e arrivo a Roma, e del fatto che il duca di Ferrara gli ha inviato suo figlio. Non sa ancora cosa vuole, ma promette di non concludere nulla senza la conoscenza e approvazione di don Juan Emanuel e del viceré di Napoli; ha detto così allo stesso don Juan. 18 Antonio Costabili, ambasciatore ferrarese. 19 Francisco de Cabreza. 20 Lorenzo Toscano, vicario di Cahors, agente francese. 21 Adriano VI era morto il 14 settembre 1523. Appendice 2 307 ala S.V., havendo inteso da esso esser aperto uno camino da poter mandare securamente da quella22. Monsignore. Io me credo la M.tà del Re habia saputo già sono più dì la morte di esso papa et che subito harà fatti mettere in camino li S.ri Cardinali Francesi et che sono appres- so S. M.tà et che già debiano esser vicini per passare o per la via de Lombardia, o per di qua. Il che ben requiriria, si vogliono giongere a tempo et quanto ciò importi per il servitio de la M.tà del Re. So V.S. l’intende benissimo. Però si fussero gionti a lej, debe sollicitar- li a venirsene volando con far ogni extrema diligentia possibile et si fussero impediti nel passo dali nemicj de S. M.tà serà in proposito protestino solennemente avanti uno notaro, et testimonij, dela violentia li è usata, et per essi non essere mancato ritrovarse ala electio- ne etc. Il che si potrà poi usare et non serà di poca importantia secondo il papa, che serà eletto. Monsignore. Quando io havesse pensato potere fare qualche servitio de momento / ala M.tà del Re quantunche io sia mal gagliardo, et me mettesse a grandissimo pericolo dela vita nel camino per le grande persecutione mi fano questi spagnoli et Colonnesi, serej anda- to io stesso a Roma. Ma sapendo la banda contraria esser molto gagliarda et la nostra debi- le, iudicando non poter far cosa de frutto, che ad ogni modo non havesse a succedere papa uno più ale voglie loro che nostre, me ne son restato, non omettendo però fare tutti quelli offitij mi sono stati possibili con scrivere a più S.ri Cardinali, con chi ho magior stretteza et vincoli etc. et così al mio secretario che è lì et advertire M.ro Nicolas23 del modo mi pare habi a tenere etc., ma se li cardinali Francesi venissero accrescerebbe l’animo a quelli pochi amici ha lì la M.tà del Re, et il numero dela banda serebe magiore, si non sufficiente a fare un papa a lor modo, al manco bastarebono ad impedire, che alcuno nemicissimo non potes- se succedere in quel loco, et così forsi la cosa cascarebe in uno neutrale, non potendo suc- cedere né del’una banda, né del’altra, ma non venendo essi vedo la cosa in grandissimo pericolo, per il che in ogni evento ho ditte ad esso m. Lorenzo alcune parole habi a dire et recordare al Cardinale de’ Medici24 etc. el quale per li advisi ho sin qua, pare li habi gran parte et fatti anchor li officij accadeano per la liberatione di Volterra etc. Monsignore. A questi dì per la via di Genua (havendo mandato io uno mio lì), se inte- se la nova del trattato scoperto de Mons.re de Borbon25, il qual, parendomi una cosa tanto dishonesta et fuor di ragione, non poti in alcuno modo crederla, ma pensai fusse confitta dali adversarij, per contenere li populi, in recompensa dela mala nova succedea loro dela morte del papa; né mai dipoi benché se confirmasse da più parte, li poti prestar fede, si non hora, che da m. Lorenzo son stato chiarito, esser pur vera, del che son restato così attonito, che quasi non sono in me stesso, restando stupido, come sia stato possibile, che uno tale personaggio di sangue reale habi potuto pensare o lassarse indure ad una tanta perfidia, et non minore pazia, che scelerità, pensando li dovesse reuscire. Et ho laudato Dio, habi pre- servata la M.tà del Re da sì imminente pericolo et quel Chr.mo regno da tanto gran’ ruina, et così anchor tutti noi altri poveri Italiani devotissimi servi de S. M.tà da tanto exterminio, che periclitando essa eramo perduti / perpetuamente senza essere loro né in celo né in terra

22 L’ottimismo di Alberto evidentemente era mal riposto, e le lettere furono intercettate dai man- tovani. 23 Nicolas Raince, segretario d’ambasciata francese a Roma. 24 Il cardinale Giulio de’ Medici che di lì a poco sarebbe stato eletto papa Clemente VII. 25 Carlo di Borbone tradì il re Francesco I e in seguito diventò un capitano per Carlo V. Morì nel- l’assalto contro le mura di Roma che portò al Sacco del maggio 1527. 308 Marcello Simonetta ne havesse capito, o dove havessemo potuto havere refugio, et parimente ho rengratiato Idio habi confirmata la mente et l’animo de S. M.tà a non se perturbare in tanto travaglio con revocare la S.V. con l’exercito di là, et abandonare la impresa già più de la mità vinta, nel che ha ben dimonstrata S. M.tà la prudentia sua et generosità de animo, et così la S.V. la sua virtù a persistere et continuare, et procedere più animosamente che prima. Advisando V.S. che a Roma et Fiorenza et per tutto altrove nel principio venne tal nova si pensava la impresa dovere essere in tutto ruinata, et di già volavano le lettere di qua in là, che lo exer- cito de nemici volea passare in Francia ala coda del nostro, quale diceano se retirava, et di già haveano diviso el reame de Francia in più parte etc. Ma quando dipoi hano visto per tal novità non si essere cambiato niente, ma procedutosi come prima son restati magiormente impauriti et sol se confortano uno poco sul non essere passata la persona dela M.tà del Re, iudicando esser processo da questo movimento et che anchora li sia da fare. Tamen pare in alcuni lochi et cità dico dale bande di qua (tanto stano perturbati) quasi habino l’exercito propinquo alle mura. Monsignore. Io so voi haver inteso quello seguì a Carpi a dì passati, che el primo gior- no del presente mese recuperai la terra dali nemici con restare pregioni quelli vi erano den- tro come poi recettai el S.re Renzo26 lì et Andrea da Birago27 et altri, il che tutto ho fatto per seguire l’ordine portò el mio secretario nel ritorno suo dala M.tà del Re et de V.S., che altri- menti se serebe aspettato depoi la vittoria a recuperare el mio, che succedea senza perico- lo, travaglio, né spesa. Ma per desiderio de far servitio ala M.tà del Re et ad essa impresa, subito intesa la passata del exercito di qua da’ monti si fece il detto effetto, con animo de seguire quanto era stato ordinato in Venetia con l’Ambassadore et quelli S.ri, che fecero andare là mio fratello28 per tal causa, et così dipoi si è fatto tutto quello si è potuto, ma come V.S. sa con piccole forze et senza modo non si possono fare gran facende. El S.re Renzo con quelli altri, che haveano detto vorrebono con bona banda de cavalli et gente / son venu- ti con pochissima, et senza modo de poterne fare, per il che non si è potuto seguire quello era stato designato. Non di meno per quelo poco si è fatto, se perturborno tanto li nemici che in tutte quelle bande erano in grandissimo timore, et sino in Fiorenza cessò il scotere de’ denari et non se poter più vincere de fare uno soldo, pensando ognuno la cosa fusse fatta con altre forze et fondamento, ma poi vedendo procedersi sì debilmente, tutti se sono asse- curati et pensano hora al offendere, sì come prima dubitavano molto de poterse defendere et per tal conto hano condutto el Conte Guido Rangone29 con bon numero de cavalli et fanti, per essere vicino a ciò venga contra Carpi et indri- zano duomilia fanti, che hano facti in Roma, pure a quella via con pensiero de farci danno, o almeno restrengere li nostri, che non possino uscire né scorrere la strada, como hano fatto sin qua. Per il che Monsignore è bisogno si pensate che quello si è fatto lì, et Carpi con quelle poche gente vi sono habi a servire ala impresa in alcuno modo mandate l’ordine di quello volete si faccia, et modo di gente, o di denari da potere farle et battere li nemici, che se sono ingrossati, che essendo stato destrutto come io sono, non ho forze sufficiente, né li altri venuti in Carpi da poterlo fare, che con extrema fatica potuti pagare et interte- nere li fanti che vi sono con quelli pochi cavalli. Ma bene ve assecuro, Monsignore, che si

26 Renzo Orsini da Ceri, condottiero e parente di Alberto. 27 Andrea da Birago, condottiero, considerato ribelle dal duca di Milano. 28 Leonello Pio. 29 Guido Rangoni, condottiere modenese. 30 Niccolò Vitelli, condottiere umbro. Appendice 2 309 pur una parte de quello era stato detto in Venetia se fusse osservato, el Marchese di Mantua31 non serebe cavalcato contra la M.tà del Re, ma harebe hauto a fare assai a guar- dare casa sua et dele altre cose si serebono fatte de importantia, che harebono divertite necessariamente in parte le forze de nemici, le quale cose anchor se farano con poco adiu- to, si voi così vorrete et commandarete si anchora vi pare non se facci altro si starà solo a defendersi al meglio si potrà. Però ve prego Monsignore a resolvervi circa ciò et mandare el vostro bon volere, se sino qua non l’havete fatto, perché più volte ho scrit- to di là mandassero a V.S. per farvi intendere in che termine si era, et sapere da essa quel- lo volea si facesse et così li facessero sapere alcuni altri advisi ch’io li davo, il che penso harano fatto, se via alcuna serà stata aperta da potere passare. Monsignore. Per la stretteza de’ passi, et difficultà del camino se son potute intendere poche volte nove de’ vostri progressi, perché li nemici teneano celate le male nove / per loro. Pur se intese quella esser gionta a Tesino, et che’l S.re Prospero havea promesso a Milanesi resisterebe a quel passagio, et che non passareste mai, et poi si è inteso, che pur sete passato a suo despetto con la Idio gratia, et che sete gionto sino a Cascino. Il che ha messo quello gran timore dale bande di qua, che ho tocco di sopra. Spero anchor in breve se intenderà sete intrato in Milano, et che Idio ve darà la total vittoria. Non di meno quan- do anchor sì presto non vi intraste, per esser redutta molta gente de’ nemici in esso Milano, ad ogni modo guadagnerete la impresa persistendo, perché costoro non possono regere ala spesa più molto, che di già hano gran difficultà ritrovare più denari et chi la durarà la vin- cerà et non è poco havere guadagnate sì presto tante cità et essere S.re dela campagna et havere serrati li nemici nele terre et credo certo si non fusse stata la speranza hano hauta in questi moti et trattati de Francia non harebono tanto expettato, ma si serebono di già reti- rati. V.S. sa che Consalvo Ferrando dicto el Gran Capitanio32, con stare forte nel regno, ben- ché fusse quasi ruinato, et havesse poca gente, ala fine cacciò tutti li nostri del regno. Stando forte V.S. et mantenendo la reputatione spero se scioglierà la liga et che da più bande vi serano offerti patti. Io ho fatto intendere a Lucchesi et Senesi in nome dela M.tà del Re non debano più dare denari ala parte adversa, che più non hano scusa farlo per paura, sendo S. M.tà sì forte et più in Lombardia non sono li soi nemici et che dandogline li haverà per nemici, non l’ho fatto con Fiorentini, per essere loro più grandi, che vi harebono bisognate lettere del Re et se ricerca usar con loro altri modi et cerimonie, che con questi altri. Monsignore. Sì come quando la M.tà del Re perse el ducato de Milano, morì el papa, facendose la impresa, così hora facendo l’impresa per recuperarlo è morto questo altro papa, che è un presagio manifesto S. M.tà lo recupererà ad ogni modo.33 Monsignore. Questo gen- tilhomo34 che porta la presente, dirà a V.S. alcune altre cose a bocca in mio nome. Vi prego piacciavi prestarli fede, poi expedirlo perché / ha commissione da me (parendo a quella così) andarsene in Corte per fermarse lì non li havendo hora io alcuno homo mio. Non di meno se V.S. volesse restasse appresso lei o le paresse altrimente, farà quanto per quel- la li serà commandato. Non dirò adunche altro, si non che di novo ala bona gratia di V.S. quanto più posso me recommando. Al Bagno ad Aqua XXIIIJ septembris M D XXIIJ. Humile servitore A. di Carpi etc.

31 Federico Gonzaga. 32 Gonzalo Fernández de Córdoba, morto nel 1515. 33 Si riferisce alla morte di Leone X il primo dicembre 1521, subito dopo la perdita di Milano da parte dei francesi, e la recente scomparsa di Adriano VI il 14 settembre 1523. 34 Il conte Ulisse Bentivogli, signore del castello di San Martino in Soverzano. 310 Marcello Simonetta

5. Alberto Pio all’ammiraglio Bonnivet, Roma, 4 gennaio 1524 (BNF, Fr. 3897, ff. 166-167)

Monseigneur j’au receu vos lettres qu’il vous a pleu m’escripre des XX.e et XXII.e et XXV.e du moys passé, ensemble entendu du gentilhomme de mons.r R.me de Lorraine ce qu’il a apporté de la court, et que vous luy avez donné charge de dire à mess.rs R.mes et à moy. Monseigneur je vouleroye bien que vostre personne peust estre en plusieurs lieux tout en ung temps car je croy que si vous eussez esté en court la depesche d’ung gentilhomme n’eust pas esté si maygre et au moings il eust apporté une lettre du Roy a nostre tressainct pére congratulatoire de sa creation, et plaine de bonnes et amyables parolles qui ne seroit esté que honneste chose et à propoz pour les affaires qui au temps present […]ent. Je ne scay pourquoy l’on aye laissé de le faire, actendu que le pape n’est plus pape, luy escrip- vant le Roy, que non luy escripvant, et qu’il n’est point vergongne audict seigneur ne a nul autre prince user tel office envers le pape, encores que paravant qu’il feust en tel estat, il eust esté contraire ou ennemy, et si l’on estime estre bon que le pape feust amy du Roy et que le temps et affaires recherchent que l’on doyve tascher de le faire tel, je ne scay pour- quoy l’on laisse de faire les choses raisonnables et qui ne pevent estre preiudiciables au Roy pour venir à telle fin, car, comme vous monseigneur scavez, faire les choses au commance- ment et à temps importe assez, mesmement pour donner à congnoistre d’avoir bon voulloir ou peult estre quelque souspecon qui puisse estre au contraire paraventure poveroit estre que je ne l’entends pas bien, mais aussi pourroit que quelcun qui estoit en court à faire ladicte depesche l’entend plus mal que moy et s’il mesurast les affaires et fraiz que le Roy a sur ses bras et le temps qui court ou qu’il feust icy pour quelque temps qu’il l’entendroit autrement. Quant à moy je confesse si l’on […]t ce train et qu’il ne se face nulle chose de ce que ceulz qui sont sur le lieu advisent, que les choses ne peuvent aller sinon tresmal, et si n’eust esté la presence de messieurs seigneurs les cardinaulx francoys icy et le travail que l’on a prins pour entretenir les matieres jusques à ceste heure et rabiller par quelque moyen ladicte mei- gre despesche laquelle a esté fort rabillée de votre tressaige et advisée commision, je doub- te que desià l’on s’en feust commancé a apparecevoir. Nous n’avons des ennemys assez sans ce que desià l’on commance à se gouvener avec le pape, qui a esté jusques à sa création joint avec noz adversaires, de sorte qu’il aye à se declairer votre ennemy, et devant qu’il feust par- venu au papat l’on mandoit faire tout pour le gaigner amy. Monseigneur il me semble estre mon devoir pour la charge que j’ay vous escripre rou- dement des choses comme je l’entends et me plaindre à vous si de la court n’est respondu comme les affaires requierent. Vous voyez ne que de Felice35 ne que de nulle autre chose l’on n’a voulu faire la moindre demonstration du monde qui puisse donner à congnoistre au pape, le Roy avoit bon voulloir envers luy, et l’on travaille plus /166v/ sur ce point, que en nul autre de asseurer Sa Saincteté que voulant elle avoit le Roy pour bon filz, nonobs- tant les choses passées. Il sera tel en amour et observance envers sa S.té que fut jamais Roy treschrestien envers pape, et cela affin qu’il n’ait a suyvit le train qu’il tenoit estant cardi- nal cuydant autrement, ne tendant noz adversaires à autre et pour cela je vous escripvoye par mes lettres du XI.e qu’il me sembloit estre bon que le Roy envoyast ung gentilhomme se congratuler avec le pape à quoy voz me respondez que je vous ay escript que Sa Saincteté estoit fort esbayé que le Roy n’avoit envoyé quelque personnaige de ceulx qui sont près de sa personne pour se congratuler de son assumption, ce que monseigneur je ne vous ay jamais escript comme vous verrez en revoyant lesdictes lettres car cela fut de mon advis et jamais sadicte Saincteté ne m’en toucha mot.

35 Felice Trofino, che alla sua liberazione fu creato vescovo di Chieti da Clemente VII. Appendice 2 311

Monseigneur touchant les responses que nostre tres sainct père me feit au discours et propoz qui furent entre Sa S.té et moy, qui vous ont semblé froiddes je vous manday la sub- stance de tout quasi de mot à mot, et me semble estre le debvoir de faire avise en chose de si grosse importance affin que vous et le M.e puissez juger des parolles, ce que vous en pouvez esperer ou non pourautant que n’est mon office d’en estre le juge, mais seullement refferer ce que m’est dict non laissant toutesfoys après d’en dire ma petite opinion comme je feray encores maintenant. Monseigneur sans point de faulte j’eusse bien voulu lesdictes responces et parolles estre plus chaudes qu’elles ne furent, mais actendu la complexion de nostredict tressainct père et ce qu’il a esté avec nos ennemys avant qu’il parvenist au papat et les termes en quoy il a retrouvé les choses faictes par son prédécesseur36 et n’avoit eu à l’heure encores nulles nou- velles du roy despuis sa creation en laquelle luy avoit esté si extremement contraire, elles ne feurent pas en tout si froiddes comme elles apparent et me semble monseigneur que à ce commencement l’on ne doyve pas presser à vouloir que le pape se declare mais prevue- ment faire noz fondaments et s’il feust pour se d[…] faite pour l’en garder, car il servoit à doubter actendu l’estroicte amytié qu’il avoit avec noz ennemys qu’il se eust plustost a[…] et le faveur que en la nostre […] quant il feust declaré et obligé avec eulx il ne pouveroit pas retirer mais tandis qu’il est en suspens encore qu’il feist quelque chose contre de nous il se peult retirer et l’on peult travailler pour le gaigner et aussi se doit avoir regard à ce qu’il auroit peu faire pour nous chasser d’Italye, comme vous monseigneur l’entendez bien, mais en effect jusques icy et de parolles et par effect il s’est porté tres modestement et ne croy pas qu’il ayt baillé ung seul denir à nosdicts ennemys pour just[…] qu’ilz luy ayent sceu faire, car l’on a cherché tous les moyens qu’il a esté possible, et qu’on a bien pour /167r/ le scavoir, et ne s’en est riens trouvé mais le contraire, et à grant peyne se pourroit faire qu’il ne se sceust et de telles nouvelles qui sont escriptes il n’est que bien s’en repo- ser sur quelcun de la verité, car adjouster soy à tant d’escripvans ne peult que troubler la fantasie, et nuyre beaucop aux affaires, comme est escheu par le passé et mesmement à gens qui se jugerent, car il en y a tout plain qui parlent à la voilée et autres <à> mauvaise fin, de l’adveint. Je n’en puis asseurer, mais quant à moy je croy qu’il ayt bon voulloir et intention d’estre neutre et de travailler tant qu’il pourra pour faire ou paix ou tresve, et espere encores voyant le Roy et vous qui estes depandera aller de bonne sorte et estant bien asseuré de nous que ledict bon voulloir luy congnoistra de jour en jour, mais qui feroit autrement je croy qu’il se […]oit en tout et par tout avec nos ennemys et mettroit toute sa puissance pour nous chasser d’Italie. Monseigneur pour estre ung peu mal disposé du jour de sainct Estienne37 […] je n’ay pas peu aller devers nostre tressainct père, mais ay envoyé luy parler plusieurs foys par le secretaire38, et aussi mess.rs les cardinaulx de Bourbon et de Lorraine ont esté de leur grace devers moy despuis le retour dudict gentilhomme, et debatismes les affaires bien au long et avec l’ayde de vostredicte bonne commission retrouvasmes moyen rabiller icelle imper- faicte venue de la court de sorte que mesicts seigneurs après s’en allerent devers nostredict tressainct père auquel ilz parlerent si honnestement et saigement portant les parolles mon- seigneur R.me de Lorraine qui est bien agreable à sa S.té que icelle retrouva le retour dudict gentilhomme et son rapport encores qu’il n’eust lettres à elle le meilleur du monde et se

36 Adriano VI. 37 Il 26 dicembre 1523. 38 Nicolas Raince. 312 Marcello Simonetta contenta de tout tresfort et respondit a mesdicts seigneurs aussi tres honnestement comme vous entendrez par l’autre lettre, et après cela vint devers moy M. Jacques Salviati fort joyeulx et me dist nostredict sainct père estre fort content et satisfaict du rapport dudict gentilhomme me disant aussi que tenant tel train l’on pourra bien faire quelque chose de bon et devisay longuement avec luy de bons propoz, et après aussi avec le dataire m. Jehan Matheo39, lequel n’est pas tel envers nous qu’il a esté quelque espace de temps par le passé, et sur ce point monseigneur je vous recorde ce que avez trouvé bon en mes lettres touchant de gaigner des amys et que j’en aye quelque responce. Monseigneur touchant le poinct de tresve ou paix j’ay bien veu et entendu ce que m’en respondez par votre lettre du xxii.e et aussi les bonnes nouvelles que me mandez de votre armée, et de la bonne disposition dicelle et que nostres pour bouger de là sans faire quelque bon effect et des nouveaulx suisses que vous sont venuz qui sont bonnes nouvelles et pou- vez estre sceur monseigneur que l’on n’a jamais parlé de paix ne de tresve qu’on n’aye en l’œil principal à la reputation /167v/ qui ne se pensast qu’on le feist ou par foiblesse, ou autres causes desfavorables de noz affaires, ne jamais on l’a demandée ne de vostre part ne d’autre, mais quant vous escripvestes estant messeigneurs dedans le conclave qu’on la deust honnestement mettre en avant, l’on meist toute peyne de faire qu’il ne s’en sceust, riens comme lors vous fut respondu et s’il a esté tenu quelque propoz de cela ce a esté par manière de devises respondant et disant que le Roy seroit retrouvé tousiours prest à toutes choses honnestes et qu’il ne reffuseroit pas ne paix ne tresve avec conditions raisonnables combien qu’il n’eust besoing de le faire, et qu’il fust le plusfort, et plustost pour battre ses ennemys que pour estre battu et me semble monseigneur que en la plus grande guerre du monde et quant bien l’on feust deliberé de ne faire autre chose que guerre encores se deb- vroit prester les oreilles à qui parlast de paix ou tresve et ne laisser pour cela à faire son cas et soyez sceur monseigneur qu’il n’y a homme au monde qui ayt plus de regard à la repu- tation en traictant les affaire de son Maistre que moy. Monseigneur au jourd’huy mesdicts seigneurs sont retournez devers nostre tressainct père et ont parlé à sa saincteté longuement et touché tous les poinctz principaulx comme entend- rez par ladicte autre lettre et tous les propoz et responces qu’ilz ont eu de sa S.té et aussi de ce que ledict gentilhomme qu’il intenderent à sa S.té soit lequel bien honnestement et saige- ment se acquitta de sadicte charge et porta parolles à sa S.té que luy feurent fort agreables. Monseigneur avec l’ayde de dieu j’espere dedans deux ou troys jours pouvoir bien aller devers nostredict sainct père et après que je auray parlé bien au long a sa S.té l’on vous fera une autre despesche que sera fin de la presente après m’estre recommandé tres humblement à vostre bonne grace, priant dieu monseigneur qu’il vous donit tres bonne et longue vie de Rome ce IIIIe. jour de janvier MVCXXIIIJ.

Vostre tres humble serviteur de Carpj etc.

6. Lorenzo Toscano ad Alberto Pio, Blois, 30 aprile 1524 (BAMI 283, fasc. 10) Signor mio. Hebbi heri la lettera de V.S. di x di marzo, la quale benché tardi mi sia capi- tata, non di meno, a miglior camino s’è rendrizata, che l’altre, scritte prima ch’io non ho haute, che questa solamente ho riceuto dopoi ch’io partì de Roma. Ho visto S.or mio, quel che V.S. mi scrive de l’haver parlato con metre Nicolas40 in pre-

39 Gian Matteo Giberti, datario di Clemente VII. 40 Raince. Appendice 2 313 sentia di San Marsault, dolendosi del scrivere che l’havea facto contra di me et che lui rispose, ciò havere facto gran tempo fa, non per odio che’l mi havesse, ma perché così ricerchava l’offitio suo, essendo lui advertito de la parentela mia col Morone41, et che ulti- mamente ch’io son stato a Roma ha hauto bona opinion di me, et che’l comunicare che’l faceva meco, le sue lettere et le cose importanti, era segno de l’amore et fede che l’havea in me, et che quanto mi fece il torno col Sormano42 non havea anchora hauto le lettere de V.S. et di Mons. di San Marsault. Signor mio. Io havevo deliberato non fastidir più V.S. di questa novella, ma poi ch’io vedo essergli piaciuto di scrivermi sì particularmente la risposta di metre Nicolas, la quale è al tutto opposita al vero, sono astretto a dirgliene anchora diece parole, le quali prego V.S. intenda (sì come la sole) patientemente et huma- namente. La domenica sera a li 27 di settembre43 io gionsi a Roma, et non havendo io al gionger mio trovato in casa M.e Nicolas, dedi al suo famiglio la lettera de V.S. et di Mons. di San Marsault, le quali facevano fede di me et de la commission mia. Quella medesima sera, lui le lesse a M. Lelio secretario di V.S. et al prevosto del R.mo Triultio44, et il lunedì matina anzi ch’io potessi trovarlo le lesse al R.mo di Como45 et al Sormano, et io sopra- gionsi alhora, et alhora mi fe’ quel torno, et in quel tempo scrisse di qua, maravigliarsi che mi fusse data commissione alchuna, apertamente charicando me, et copertamente Mons. gran Maestro del quale lui sapeva ch’io ero servitore, et V.S. la quale mi havea facto anda- re dal bagno a Roma et partito ch’io ne fui, havendomi lui comunicato quelle lettere et secreti che’l dice, non havendo cognosciuto in me cosa che non convenisse a homo da bene, né ricevuto alchuna offesa da me, se non forsi quella che sogliono imaginarsi et teme- re chi offende, scrisse a Mons.r l’armiraglio quella venenata lettera che ne mandai el capi- tolo a V.S. scritta a li 26 di genaro, et io a li 27 di decembre ero partito de Roma. Né dico hora quel che’l disse di me a li R.mo di Borbon et Loreno46 al Sormano et al Champio, siché signor mio mere bosie sono le parole che sopra ciò li dette aperta malignità, invidia, vani- tà e la sua et oltre è sì arrogante, che col dire el scriver suo, arguisse et nota V.S. di mal iuditio o di mala fede / comendandomi, et confidandosene, essendo io homo non sicuro. Ma Dio gratia il iuditio de li homini da bene non si farà secondo il suo lacerare, serà in primis secondo la singularissima vertù et prudentia de V.S. poi anche secondo l’innocentia et actione mie, et rimarrassi lui metre Nicolas et io Lorenzo. Signor mio le parole non che gli effecti tal continuo vorrei mi manchano, per ringratia- re V.S. del decto amorevole offitio che per me ha facto, et poi che altro non è in me che molto desiderio di farle servitio, prego Dio che pò tutto, che ogni bene li conceda longa- mente. Non nego di questa cosa di m.e Nicolas non mi sia risentito assai et assai, ma al parer mio, non oltra quel che si conviene quando si agita de l’honore, poi essendosi comu- ne, o per natura, o adesso più per usanza, questa tanta facilità di credere più presto il mal che’l bene, et s’io potessi scrivere quel ch’io direi a V.S. s’io fussi dove ella è, forsi che la direbbe che non senza rasone io sia in questo caso sì sensitivo come l’ha dice in questa sua,

41 Girolamo Morone, cancelliere del ducato di Milano. Fu coinvolto in una congiura anti-impe- riale nell’autunno 1525, ma a questa data era considerato un nemico dei francesi. Non sappiamo esat- tamente quale fosse la sua parentela col milanese Lorenzo Toscano. 42 Si tratta probabilmente di Gaspare Sormani, agente francese. 43 Il 27 settembre 1523, dopo essersi fermato a Carpi per un paio di giorni. 44 Il cardinale Agostino Trivulzio. 45 Scaramuccia Trivulzio, cardinale protettore di Francia. 46 Erano i due più influenti cardinali francesi, Louis de Bourbon e Jean de Lorraine. 314 Marcello Simonetta et non dubito che la iudicarebbe che fusse stato necessario l’havere scritto un motto al Re et a li altri del conseglio, di questa accusatione che l’altro mi havea data, che io gli ne ho parlato più d’una volta et credo essermi assai ben diffeso da le sue dentature, et ho cogno- sciuto fra l’altre cose, che non bisognava molta fatica a farlo cognoscere lui, che bon prin- cipij et boni insegnamenti ne havevano. Ben voglio credere che V.S. non habbi scritto in discarico mio, vedendo non potere farlo, senza [gran] carico grande di m.e Nicolas homo messo et lassato lì da Mons. San Marsault, et questa risposta ho facto io a qualche hom da bene di qua, che mi ha decto: “Je suis esbay, que monsieur le Conte qui cognoit vous et l’autre, qui scet comme tout va, n’en ait escript un mot au Roy et à la compaignie, après qu’il a entendu ce que l’autre a escript contre vous, encores depuys que avez porté au Roy les lettres contenans la grant foy qu’il a en vous” et certamente il rispetto a mons. de San Marsault è rasonevole, tutta volta non vedo come l’havesse possuto haverse per male che col testimonio di V.S. la verità si fusse meglio intesa et creduta. Questa lettera di V.S. di X marzo hebbi essendo io con mons. Robertet47, et gli la lessi, et mi consegliò di mostrarla anche a Mons. il canzellero48. Il che feci, et videla tutta et quando el capitolo ove V.S. iustifica la sua lettera che l’altro mandò poi di qua, onde li dui che m. Sismondo49 debbe havere decto a V.S. se ne turborno alquanto, disse: “Credo che mons. le conte scriva iudi- chi et operi quel che’l crede essere il meglio del Re. Non di meno se’l fusse / stato qui et inteso le bone rasone che inducevano alhora il Re a non fare sì subito quel che’l ricordava, credo l’harebbe trovate bone”. Il rasonamento nostro fu longo a questo proposito et lon- ghissimo serebe a scriverlo adesso. Dissegli ch’io desideravo assai che l’havesse più noti- tia di V.S. ch’io credevo che’l non havesse, et ch’io sapeva in quanta bona estimatione et riverenza V.S. lo havesse et il gran desiderio che haveva V.S. di farli servitio. Risposemi che longo tempo è che’l cognosce domesticamente V.S. et che al tempo del Re Loys spes- so erano le S.V. insieme su mons. di Lodève50, et molte laude mi disse de V.S. a lui et tutto il mondo note, et che gli era bon amico pronto a mostrarlo con li effecti quando accade- rebbe et perché veneva benissimo in proposito gli lessi un’altra volta l’ultimo capitolo de la lettera, che tracta de le cose particularj di V.S., al che rispose, che venuto che fosse il Re et mons. gran Maestro non mancherebbe di bono offitio, et havendo io mostrato questa let- tera de V.S. a li dui sopradetti, et che intendevo che’l Re non verrebbe sì presto, né io ero per andare a la corte, havendo io qualche preocessi et negotij al gran conseglio che è rima- sto qui, parvemi ben facto di mandare la detta lettera a Mons. gran Maestro et così la messi in una mia ne la quale scrivo de la vera et rasonevole excusatione di V.S. circa la lettera de l’amico, et che bisognava che’l Re desse ordine di subvenire a li bisogni de V.S. altramen- te che sin qui non si è facto, perché anche la necessità ci è magiore che per il passato. Io non ho anchora hauto la risposta et forsi che non l’haverò, se non a boccha, perché dicesi che’l Re serà di ritorno fra sei giornj, alhora non mancherò di sollicitare qualche assigna- mento insieme col Conte Ulisse51, et serà se non bene che V.S. gli mandi qualche biancho signato per fare de le quetanze, se alchun pagamento si potrà ritrharre et la S.V. serà avista

47 Florimond de Robertet, tesoriere di Francia. 48 Antoine Du Prat, cancelliere di Francia e futuro cardinale. 49 Sigismondo Santi, segretario di Alberto. 50 All’epoca di Luigi XII il vescovo di Lodève era il potentissimo Guillaume de Briçonnet. Il tito- lo passò a suo figlio Denis nel 1519, e dal 1524 appartenne al Giberti. Dal 1528, fu lo stesso Lorenzo Toscano ad ottenerlo. 51 Il conte Ulisse Bentivogli, inviato da Alberto in Francia nel settembre 1523. Appendice 2 315 del tutto a la giornata. Io non credo già possermi partir de qui di qua da San Giovanni et se pur fusse, V.S. lo saprà prima. Mons. di Capua52, per mia disgratia, stetti molti dì qui, in tempo ch’io ero a Paris col figliolo di Mons.r. gran Maestro53 che era restato lì amalato, et io per carestia de megliorj hebbi cura di condurlo qui bellamente, et l’arcivescovo partì de qui el giorno ch’io gionsi, il che certamente ascrivo a mia disgratia, che desideravo et desi- dero farli servitio, et forsi anche / che nel resto harei facto qualche uno, hor sia con Dio, s’aspecta in breve di ritorno. Il Champio anchora fu qui sabbato passato, et se n’è andato dal Re. Io alhora ero andato [già] a Tors, credo mi harà portato qualche lettera de V.S. et così il contribuisse [...] il medesimo. Né altro per hora, se non che humilmente mi raco- mando in bona gratia de V.S. que felicissime valeat. A Bles, a l’ultimo d’aprile 1524. De v. Ill. S.a humil servitore Lo[renzo] Tos[cano]

7. Lorenzo Toscano ad Alberto Pio, Tours, 2 giugno 1524 (BAMI, 283, fasc. 10)

Ill. et Ex.so signor mio observandissimo. Di XXI del passato è la lettera che ho ricevu- to da V.S. ne la quale fa risposta a le mie che alhora l’havea haute, et quando a la mia que- rela di m.e Nicolas et del resto che in dette mie si conteneva, che habbi offeso la S.V. sì come questa sua, mi fa dubitare, supplico V.S. che non solo me ne scusi, ma me ne perdo- ni, che in vero ogni altra cosa impertinente pò essermi passata per fantasia, che’l pensare, non che scrivere né far cosa che rasonevolmente possa dispiacere a la S.V.. Le reprensione che la mi fa et le correctione, mi sono grate a mia laude et utilità le ascrivo, et quan- to posso ne ringratio V.S. quella mi è signore et padrone, et io gli sono humil et obediente servitore et hormai valeat questo Nicolas, del qual non scrissi però mai né in voto mio fu, che V.S. per mio rispetto, sì come quella scrive che le mie lettere denotavano, h’avea a scacciare, che tropo grande seria stata la mia fatuità, et vanità se l’havessi creduto né richie- sto, ma havendomi M. Clemente54, che maravigliandose lui con Mons.r de San Marsault, che’l lasse più la solita impresa a m.e Nicolas che’l rispose “Mons. le conte55 le veult ainsi” et de qui scrissi io, che essendo esso Nicolas chi egli è et cognosciuto da V.S. ch’io ancho- ra hav[uta] qualche maraviglia che sì intimamente se servisse et pò essere che ragion- gess[e] che sapendo lui la servitù mia verso V.S. et l’amore et fede che quella havea in me, che’l non dovea scrivere quella lettera a mons. l’armiraglio et che harei voluto che la S.V. se ne fusse un po’ più risentita non che l’havesse stracciato Nicolas per me, ch’io sono como sì dice un vil verme e vil festuca in questo modo, quanto sia a dire, che altri ne hab- bino a far stima ma per sapere io che radici prendino le mal impressioni, se presto non si s[radica]no, desideravo che la verità venesse in luce, et in ciò secondo il iudicio di V.S. son stato tropo vehemente et tanto che forsi la se ne è turbata, dil che me ne re[ncre]scie, se così è et gli ne chiuedo perdono, perdono mi concederà anche la S.V. se gli firò che altramente ch’io non ho scritto, l’ha interpretato quel che gli scrissi de l’ha- vermi messo a pari passo col Palavicino, che la mia doglienza de la parità non era de titu-

52 L’arcivescovo di Capua Nikolaus Schomberg. 53 Si tratta forse di Claudio di Savoia, conte di Tenda e Sommariva, figlio del Bastardo di Savoia, gran maestro di Francia. 54 Forse si tratta di Clemente Stanga, agente francese. 55 Alberto Pio. 316 Marcello Simonetta li, prenomi o precedentie, che Dio gratia, sì puerile et insulsa vanagloria non è in me, ma dolevami et dorrommi sempre che V.S. né altri facessino pare la servitù et affectione mia verso V.S. a quella del Palavicino che tal la faceva scrivendo qui / al Conte Ulisse, voi hare- te lì Lorenzo et Filippo che sono mei come sapete etc. et da la troppa affection mia veneva desiderio, che qualche più differentia fusse stata prescritta , circa al comu- nicare, al negotiare per V.S. al che oltra la volontà, forse era in me qualche habilità, più che in altro et questa era la pretermesse differenza di che parlavo, et non posso credere che se per caso il suo secretario la mia lettera, che relegendola non trovasse questa sentenza in le mie parole; et circa, signor mio, l’essere io scrupoloso in scrivere le cose publice, in meno extendermi che non seria conveniente, s’io potessi scrivere quel che spero dire in altro tempo a V.S. credo che la non continuaria in culparmente, né se la sapesse quel che ho detto, per li particulari de V.S. direbbe ch’io tacessi, per dubio, o timore di dispia- cere ad altri, mia disgratia, qual stimo grande, se’l bene s’aloca per il male, il tempo credo ne darà meglior cognitione. Ho detto a mons. de San Marsault, et presente il Conte Ulisse, de li scudi 4.m hauti et spesi, et di meglior provisione, ch’è hor più che mai necessaria. Hersera hebbi poi più tempo di mostrarli el capitolo de li particulari de V.S. disse farebbe bono offitio. Questa matina l’ho similmente letto a mons.r gran maestro56 et facto le racomandationi et simil- mente mi ha detto essere rasonevole, che sia provista a V.S. et che si farà. El medesimo mi ha detto mons.r il canzellero. Mons. Robertet restò l’altro giorno a Bles. S’aspettava più dì fa qui ma non è anchor comparso, mentre ch’io starò qui, che potrà essere forsi un XV. o XX. giorni non cesserò di ricordare et sollicitare li detti mei signori, perché assegnino et ordineno, che la pensione et provisione se paghi effectualmente, et a hora per hora ne advertirò il Conte Ulisse. Parlando heri meco Mons.r de Capua del scriver suo in Spagna per le cose di V.S. sì como N.S. gli scrivea, ricordai quel che sua s. ha poi facto molto più apertamente, como V.S. intenderà a bocca, et forsi per le lettere del Conte Ulisse che lui mi ha detto quel che Mons.r di San Marsault gli ha detto che’l scriva a V.S., la qual certifico che Mons.r de Capua parte da questa / corte lassando di sé un optima opinione. Mons.r Gran M.tro mi ha affermato et giurato che’l Re et Madama a’ quali ha più volte parlato a longo sono mara- vegliosamente satisfacti d’esso S.re Arcivesco[vo], et si confessano persuasi da le bone rasone che ha adducto loro circa il desiderio ha principalmente N.S. et poi lui suo ministro de la quiete fra li principi Christianj. Con bona licentia de la M.tà del Re spaccia un correro in Spagna, specialmente per obe- dire a N.S. che gli comanda instantemente che s’adoperi perché non così come si minaccia in Italia, si proceda in le cose de Carpi, et mi ha mostrato esso S.re Arcivesco[vo], la lette- ra che’l scrive al nuntio de N.S. in Spagna57, la quale insta, prega et exhorta et consiglia chi pò, di commettere a li soi in Italia, che N.S. sia compiaciuto de la dimanda sua, et parmi che la lettera sia bonissima, ha in sé stimulo et prudentia. Et circa a l’officio fatto qui dal detto Arcivescovo al suo ritorno de Spagna che fu il refe- rire la mala contenteza che ha Cesare di V.S. s’io non mi inganno hora se ne coglie questo frutto che con più facilità et con manco suspitione si lassa fare quest’opera a l’arcivescovo et bench’io sapessi, che la fede et opere de V.S. siano state tali, che non dovessero biso-

56 Nel 1524 il gran maestro di Francia era ancora Renato di Savoia, che morì nella battaglia di Pavia nel febbraio 1525. Lo sostituì in seguito Anne de Montmorency. 57 Baldassarre Castiglione. Appendice 2 317 gnare de testimonij, non di meno col Re non possea essere superfluo, et con altri forsi necessario, che quella relatione si facesse, hor sia como si voglia, a bon fine et cum bona volontà, ricordai et feci quella instanza a l’arcivesco[vo], et lui in quella et in ogni altra cosa di V.S. s’è mostrato grandemente affectionato a V.S. Questa matina, l’arcivescovo ha magnificamente refutato un magnifico presente di vasella d’argento, che’l Re gli ha mandato a casa. De la provisione che fa il re per la diffesa del suo regno, che potria facilmente conver- tirse a l’offendere altri, esso S.re Arcivescovo ne reguaglierà la S.V. amplamente però ne scriverò manco adesso. La parte che V.S. mi scrive circa le conditione / de li apontamenti che si trattano, ho lecta a mons.r gran Maestro et a Mons.r de San Marsault, il quale se già non mostra aperto odio contra me, mostra bene al contegno, ch’io non gli sia grato, il che mi dispiace sì et molto certamente, ma più mi cruciarebbe s’io fussi conscio di haverglie- ne dato causa. Speravo che la notitia che l’harebbe hauto a Roma de l’innocentia mia, et l’auctorità de V.S. et benivolentia che è fra voi, dovesse haver lavato le macchie che Nicolas havea sperse contra me, tamen la mia non bona ventura pò più che’l resto, et biso- gna però havere patientia del mal che non ha rimedio. Io mi retirerò piacendo a Dio da que- sta corte, et come ho già detto me n’anderò al vescovado per qualche mesi, sperando che interim le cose del mondo pigliano qualche assetto, et ch’io possi redurmi se non a vivere, almeno a morire in corte di Roma sotto il pontificato di papa Clemente, doverà anche farsi l’expeditione del vescovato di Cahors et a questi giorni feci spac- ciare de nove lettere del Re al papa, et a V.S. per la detta expeditione. Né altro per adesso, se non che di continuo et humilmente mi racomando in bona gratia de V.S., la qual prego Dio consoli d’ogni cosa longamente. A Tors a li 2 di giugno 1524. De V.S. ill. Humil et obediente servitore Lorenzo Toscano

8. Lodovico Canossa ad Alberto Pio da Carpi, 30 agosto 1525 (BCV, Carteggi Canossa, Pio, 4) Illustre Signor mio, per le lettre di V.S. ho inteso quanto ragionevolmente quella resti maravigliata de la lettra scrita da madama de li 7 del presente et così certo ne resto io, se bene in ogni cosa assai meno cognosco di quello se faci V.S. ma ben forse me ne maraviglio man- cho perché sono molti dì che in l’animo mio mi son risoluto che li francesi non stringiarebe- no la pratica de Italia sino a tanto che havesseno speranza di quella di Spagna, la quale spe- ranza serà tanto facile allo imperatore de intertenerli quanto è ragionevole che li intertengi. Dico anche quando non volesse fare cosa che essi volesseno, non obstante che io penso che lo accordo deba sequire, et che non è da maravigliarsi che havendo li francesi molti modi ragionevoli da intertenere questa pratica de Italia et non mostrare sì pocho de stimarla doven- dola stimare tanto habiano del modo scrito, che gli hano, perché non usando essi molta dili- gientia né molto studio in le cose che essi desiderano, como vogliamo nuy che l’usino in quel- le che non vogliono? et se mandareno a Milano io credo che solo fusse intendere como il duca di Bari stava che a quello tempo per fama stava male et che fusse con desegno sopra de Maximiliano58, atiò che quello stato sequendo la morte, non fusse prima che lo accordo sequisse, restato in mane de spagnoli, pensando con il mezo del dito stato potere causare la liberatione del Re, pure como se sia è d’aiutare quanto si pò questa pia passione di madama et haverli compassione de ogni errore che facesse per la dita liberatione.

58 Massimiliano Sforza, duca di Milano, poi sostituito dal fratello Francesco, duca di Bari. 318 Marcello Simonetta

Apresso ho inteso il spazo che V.S. ha fato et così la deliberatione di mandare uno suo il che non posso se non sumamente laudare et aspetare con desiderio la risposta io non penso mandarli altrimente havendoli dali 5 del presente in qua spazato cinque volte a posta et scritoli quanto io sapevo et forsa più di quello che si mi convenea sapendo quanto dis- piace alli superiori d’essere importunati dali soli di rispondere a quello che essi non voglio- no / e non sanno che rispondere oltra di questo io bene cognosco quanto poco augumento farebeno le persuasione mie apresso quelle di V.S. et massime in questa cosa la quale dil tuto è remessa a Roma. Io bene qua mi sforzarò de intertenere li animi di questi Signori59 quanto mi serà posibile cognoscendo quanto importa alla liberatione del Re ma non so già se serà bastante perché certo stano assai suspesi et li modi di francesi ci assegurarli non posso più scrivere et prego V.S. che mi perdoni quanto ho scrito alla quale humilmente mi racomando.

9. Lodovico Canossa ad Alberto Pio, Venezia, «Non fu mandata perché venne Claudio. Era di 21 settembre 1525» (BCV, Carteggi Canossa, Pio, 6) Illustre Signor mio, per la lettra di V.S. ho inteso quanto quella è restata maravigliata et sì como essa dice confusa de la lettra di madama scrita alli 7 del presente60, il che gli deve dare manifesto iuditio como sia restato io per causa di dita lettra, essendo tanto mancho prudente di V.S. quanto io sono, avenga che li men prudenti molte volte più se acostino alli penseri et alle cause de le accione de li francesi di quello che fano li prudentissimi et que- sto perché sono più simili alla natura et sapere loro et però confidandomi in tale similitu- dine ardirò de dire quello che mi occore et prima quanto alla risposta fata a tante lettre che se li sono scrite de la importantia sa V.S. dico che, mentre stavo in speranza de lo accordo con lo imperatore, non rispondevano mai cosa che importi nulla et tale speranza non per- devano mai, dico anche quando lo imperatore dicesse di non volere liberare il Re, il che non è già ragionevole che dica, ma si il contrario almeno sino a tanto che haveva asegura- te o adormentate le cose de Italia de la sorte vedemo che tenta de asegurare et tanto più se haverà intesa la dispositione de Italia (sì como ha) al benefitio di Franza contra S. M.tà, le quale cose se si assecura, sì como al credere mio se assicurarà, tenendo li francesi quelli modi che certo terano, potrebbe esser che li facesse costare assai più cara la liberatione del Re di quello che essi hora pensano di spendervi, avenga che per molto che li disseno gli parerebbe haverne bono mercato, perché sperarebeno anzi secondo loro sarebeno certi de ritore subito non solo quanto havesseno dato allo imperatore, ma quanto anche S. M.tà hora possede. Bene anche è vero che io non vedo como li francesi potesseno concludere con Italia havendo la pratica tanto avanti con lo imperatore quanto ci mostrano di iuditii che deveno havere essendo l’una pratica tanto contraria all’altra et havendo conceputa questa de Italia solo per concludere quella di Spagna, non passando il fine di madama più avanti che a liberare il Re et non solo liberarlo ma prestissimo, che bene sa V.S. le cose / lontane quanto pocho li prememo et quanto sono impatienti ad aspetarle et se V.S. dicesse dovere- bono pure intertenere questa pratica de Italia di altro modo di quello che fano, importan- doli quanto importa alla liberatione del Re, dico che è vero et che molti modi aparenti vi erano per intertenerla, ma como vole V.S. che li francesi pongano diligentia o studio in

59 I Veneziani. 60 Se è la stessa lettera di Luisa di Canossa a cui il Canossa si riferisce nella precedente lettera del 30 agosto 1525, si tratterebbe del 7 agosto. Appendice 2 319 quelle cose che non vogliono fare non lo ponendo in quello che molto desiderano et anche è assai possibile che in Ingaltera habi in la pace novamente fata con Franza nominato lo imperatore per suo confederato et di sorte che non se li possa per via recta o non recta farli contra et li francesi non haverano acettato di poterli fare guerra in evento che lo imperato- re non liberasse il Re perché da che cominzereno la pratica de lo acordo l’haveano per libe- ro, non havendo mai dubio in le cose che essi desiderano.

10. Francesco Sforza II ad Alberto Pio, Crema, 13 ottobre 1526 (BAMI 283, fasc. 11) Ill. S. Conte como Patre honorando. Le de V.S. de ij del presente ni sonno state gratis- sime. Havendo cognosciuto per esse quel che sempre se siamo persuasi di ley, che è stato uno ferventissimo desyderio alla quiete, et stabilimento d’Italia per la quale et per la con- servatione nostra in ogni tempo non è amanchata de boni offitij et benché V.S. per li tempi passati fosse transferta ad altri servitij, et non potesse demonstrare il bono animo suo et fede integerrima, non è perhò stato che sempre non la habbiamo havuta per tale. Hora che il stato de le cose è ridutto di sorte, che nui possiamo senza suspitione alchuna usare de l’o- pera di V.S. et lei dimonstrarsi senza lesione de l’honore suo et contravenire al servitio del suo S.re et Patrone, se n’allegramo grandemente, desyderando di continuare in ogni tempo, essendo certiss. non havere da V.S. se non prudentissimi raccordi, indrizzi, et adiuti al sta- bilimento, et beneficio nostro. Et perhò sarà contenta ovunque l’occorrerà, non manchare de li soi soliti offitij, de li quali il Rever. et M.co Cavallier Landriano Oratore nostro n’ha sempre fatto amplo testimonio, perché gli ne restaremo con perpetuo obligo, et havendo commisso al prefato nostro Oratore, che de tutte l’occurrentie ne conferisca con ley, la pre- ghiamo essere contenta d’ascoltarlo voluntieri et secondo li bisogni non mancharli del suo consiglio, et adiuto, perché de tuto terremo memoria, et si sforzaremo farli cognoscere, che non servirà ad Principe ingrato. Ad V.S. si raccomandano et offerimo. Dat. Cremae XIIJ octobris M.D.XXVJ. De V.S.Ill. obediente filio Francesco Duca de Milano

11. Alberto Pio a Iacopo Salviati, Compiègne, 12 settembre 1527 (CS I 238, 166r-167r) Magnifico S.r M. Iacomo como patre Amantissimo. Continere non mi posso, ch’io non scriva questa mia a V.S. ralegrandomi cum lei, per lettere inteso s’è conservata sana in tanti travaglij et pericoli de varie malathie et maxime dela peste, che tanto è abando[na]ta in Roma dipoi el mio partire. Idio vi concedi gratia a perservarvi anchor per l’advenire cum liberare la S.tà di N.S. et tutti voi altri de ogni fastidio et calamità, che pur sonno stati trop- po excessivi et longhi, il che spero farà la divina bontà per la sua magnificentia, apresso mi ralegro anchor secco havere ritrovato qua il R.mo legato sano, contento no, per li casi di N.S. et vostri, ma in optima reputatione in questa corte, como il merita, perché vi promet- to havete un figliolo61 che de prudentia integrità et bontà ha pochi pari. Io ben havevo gran concetto di S.S. R.ma, ma dipoi l’ho manegiato qua l’ho ritrovato molto magiore homo di quello mi pensavo, unde benché prima l’amasse et observasse asai, hora m’è tanto augu- mentato l’amore mio et observantia verso S.S.R.ma che quasi presumerei certare cum voi,

61 Il cardinale legato Giovanni Salviati. 320 Marcello Simonetta chi l’amasse più. È un dignissimo e honestissimo Signor; cusì Dio lo conservi longamente per el servitio dela sua santa chiesa. Cum la M.tà del Re, la Serenissima Madama62 et Monsignor il Cancellero63 ho fatto li officij ch’io dovevo, per li crediti de’ vostri Spini et compagni, ho / havutto bona risposta da tutti et spero sarano satisfatti, perché Monsignor el Cancellero che solo ha el manegio del tutto et maxime del denaro, si ritrova ben contento del N.S. per haverti refferito io, S. Santità haverlo creato cardinale insieme cum li altri avanti el caso dela ruina di Roma, et havere io visto la bolla etc. che fu smarita in quelli travaglij per li quali anchor fu impedi- to, non fusse fatto el concistoro publico, dove fussero publicati li cardinali creati, secondo il solito. Dolevassi asai prima, dubitando di ciò, dicendo che ultra la promessa glie ne fece Capino col iuramento, anchor vi era la bolla, per la quale N.S. havea assicurato la M.tà del Re, Madama et lui, et che sarebbe pubblicato ne la creatione. Inteso da me il tutto si è aquietato et ripossato, et vi prometto che dipoi la mia venutta, molte cose sonno state sere- ne, che erano torbide, in questa corte, et non è pegiorato niente la bona opinione versso N.S. et cose sue, et fatto molto migliore ciera al legato, di quello si faceva prima, benché fosse quanto per sé in optima oppinione et reputatione, come ci è detto di sopra. Ho molto pen- nato in camino per varie cause che me hano fatto sugiornare in più lochi al mio dispetto pur per la Dio gratia sono arivato asai a tempo, cioè di questo convento ha fatto el R.mo lega- to d’Angleterra64 cum questa christianissma Maestà, il che non è stato for di proposito. Vi ricordo amorevolmente a non fare alchuna cosa per timore che vi possi nocere. Haveti tol- lerato il più et pegio che vi potessi acascare, hora le cose non sonno che per migliorare o per un modo o per l’altro. / Dimostrate non è captivo l’animo, ma solo il corpo. In questo regno in tutte le chiese se fano oratione continue per Nostro Signore, siché non si manca col spirituale et temporale di adiutarvi. Mi meraviglio non habbiati mai mandato el breve al legato de usare le facultà che fu ordinato, avanti il mio partire, V.S. me disse lo manderebbe per la via di Venetia. Vorei scrivere molte altre cose ma li tempi nol patiscono, però farò fine cum racoman- darmi a V.S. et pregarla a volere basare li santissimi piedi a N.S. in nome mio. Le piacerà anchor dire al nostro M. Piero Polo65 che io li toco el ditto grosso dela mano dritta, su che se riderà, che io venisi cum lui anchor in queste bande etc. In Compiena ali xii di 7.re 1527 Come figliolo A. Carpi etc.

12. Alberto Pio a [Anne de Montmorency?], Parigi, 2 febbraio [1529] (Fr. 3005, f. 191, in Le Grand, Histoire du divorce de Henri VIII, Paris 1688, III, p. 297) Monseigneur, ledit Tresorier66 me dit aussi de par vous, touchant mon affaire particu- liere, que pour avoir esté empesché en mes nouvelles survenues et depesches qui sont à faire sur icelles, n’avez encore pu entendre à y prendre ressolution, mais bien en avoir parlé au Roy, et que à tout se donneroit bon ordre, de quoy, Monseigneur, je vous remercie tres humblement, et aussy ay bien en vous fiance parfaicte que ainsi ferez par vostre bonté et gracieuseté que m’avez monstré au demourant de mes affaires, et croy pareillement que ledit Seigneur ainsi entende qu’il soit faict, comme il ordonna l’an passée, et qu’il ne voul-

62 Luisa di Savoia. 63 Antoine Du Prat. 64 Il cardinale Thomas Wolsey. 65 Forse Pietro Paolo Crescentio, agente francese. 66 Robertet. Appendice 2 321 loit pas que en cela je fusse pis traité que les aultres, qui n’ont pas esté destruicts pour son service com-je [sic] suis, et qui ne se retrouvent en telle necessité et pouvretté comme est la mienne… A Paris, ce jourd’uy feste Nostre Dame, IIme de fevrier [1529]

13. Il vescovo di Tarbes a Francesco I, Roma, aprile 1530 (BNF, Fr. 3005, f. 35) […] Sire, je vous ay par cy devant escript que l’empereur à son partement de Boullongne avoit accordé au pape de rendre l’estat de Carpy au Conte moyennant quelque somme d’argent honneste; et que sa Sainteté, du consentement du dict empereur avoit donné commission à Monseigneur Anthoine Mousetula67 de rammentevoir le dict affaire au dict empereur à Manthoue, de le faire depescher; et que neantmoins l’evesque de Fayence68 estoit allé au dict Manthoue par l’advis et conseil de sa dicte Saincteté, pour de la part du dict Conte poursuivre l’expediction, et que le duc de Ferrare avoit conduit le dict empereur jusque au dict Manthoue, ou il est encore, et pour trouver l’empereur, à ce qu’il ecripvit au pays de sa main, en très grande necessité d’argent, tant pour le fait de Florance que autre- ment, il a laissé le dict Carpy au dict duc moyennant soixante mil excuz contans qu’il luy a balliez. Toutesfois il le fait entendre à nostre dict sainct pere le contenu de sa dicte lettre, qu’il a retenu le revenu de deux ans dedans les quels le dict Conte poura faire son argent, l’asseurant qu’il luy tiendra promesse: à quoy je doubte, si ce n’est qu’elle convienne s’ac- corder à le servir, car il en fait grosse instance à ses parens et serviteur par deça plusieurs de ses lettres où il se plainct merveilleusement, en entre autres il en escript unes au sécre- taire Raince, dont je vous envoye le double, et vous sire les faire veoir, et pour l’importan- ce de quoy je voy ses [sic] lettres sont par deça: je vous supplye très humblement, sire, qu’il vous plaise le faire entretenir de bonnes paroles et de grant contantement pendant qu’il sera par delà. Je vous asseure que sa réputation est merveilleusement grande par deça, et ne fays aucune doubte que le tenant comme l’on fait icy vous ne faciez la plus grande partie de ce que vouldrez avec le pape; et fays tout ce que je puis pour excuser toutes choses dont il se plaint par deça; et combien que je ne le cognoisse que de veue, si luy ay je escript dernie- rement le contantement que vous aviez des grans bien que je vous en avoys oy dire, le priant vouloir croyre que si son traictement n’estoit tel qu’il le meritoit, les grans affaires ou vous estiez de present, dont je le povoys asseurer comme tesmoing de veue, estoient cause de non obliance ny faulte de volonté en son endroit. D’autant, sire, que je desire vos- tre service sur toutes choses dans ce monde, je suis contrainct vous supplier tres humble- ment encores ung bon coup, qu’il vous plaise de le faire entretenir de quelques lettres, luy faisant entendre que vous avez souvent souvenance de luy et l’estimez […]

67 Antonio Muscettola, ambasciatore imperiale. 68 Rodolfo Pio, nipote di Alberto, vescovo di Faenza e futuro cardinale.

Sigle

AITER Archivio Italiano Tradizione Epistolare in Rete AN Archives Nationales, Paris ASCR Archivio Storico Capitolino, Roma AO Archivio Orsini, in ASCR ASCC Archivio storico comunale Carpi AG Archivio Guaitoli, in ASCC AMORS Archivio Alfonso Morselli, in ASCC APS Archivio Pio di Savoia, in ASCC ASMN Archivio di Stato di Mantova ASMO Archivio di Stato di Modena ASV Archivio Segreto Vaticano BAMI Archivio Falcò Pio di Savoia, in Biblioteca Ambrosiana, Milano BAV Biblioteca Apostolica Vaticana BCV Biblioteca Civica di Verona BEMO Biblioteca Estense, Modena BL British Library, London BNCF Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze BNF Bibliothèque nationale de France, Paris Chantilly Archives du Musée Condé, Chantilly CS Carte Strozziane, Archivio di Stato di Firenze MAP Mediceo Avanti Principato, Archivio di Stato di Firenze MAX Österreichisches Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Maximiliana, Wien

AMDM «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi» DBI Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana MSDC «Memorie storiche e documenti sulla Città e sull’antico principato di Carpi Studi e indagini della Commissione Municipale di Storia patria e Arti belle» MSPPM «Monumenti di storia patria delle provincie modenesi» PAS Pubblicazioni degli Archivi di Stato, a cura del Ministero dell’interno Abbreviazioni a.a. anno accademico n.s. nuova serie b. busta p., pp. pagina, pagine c., cc. carta, carte r/v recto/verso ca circa rel. relatore cfr. confronta rist. anast. ristampa anastatica ed. edizione s. serie es. esempio s.d. senza indicazione di data fasc., fascc. fascicolo, fascicoli s.e. senza “ di editore fig., figg. figura, figure s.l. senza “ di luogo f., ff foglio, fogli s., ss. seguente, seguenti ibid. ibidem t. tomo Id. Idem tav. tavola, tavole ms., mss. manoscritto, manoscritti v. vedasi n., nn. numero, numeri vol. volume

Indice dei nomi di persona a cura di Viviana Salardi Non sono stati indicizzati i nomi di persona presenti nell'Introduzione e nelle Appendici per motivi tecnici, mentre si è escluso Alberto Pio, citato quasi in ogni pagina.

Abati, famiglia, 214 Asburgo (d’), Massimiliano I, 1, 2, 4-7, 9-11, Abati, Ettore, 67, 69, 70, 72-74, 214, 223-225, 13, 14, 16, 41, 49, 51, 63, 66, 75, 88, 91- 246 94, 96, 97, 99, 107, 109, 118, 119, 124- Abbatis (de), Michiel, 173, 174 126, 129-132, 135-137, 143-145, 148, Accolti, Pietro, 105 153-155, 158-161, 163, 165, 167, 168, Accursio, Mariangelo, 277 170, 171, 173, 177, 181, 185, 187, 213, Adriano VI, papa, 193, 194, 235, 237 220, 225, 226, 259, 266 Advene (de), Advitamedei, 262 Aulo Gellio, 124 Agazzani, famiglia, 214 Avalos (d’), Beatrice, 79, 82 Agazzani, Alberto, 73, 224 Avalos d’Aquino (d’), Ferdinando Francesco, Agazzani, Rinaldo, 67, 70 238 Águila (del), Diego, 127, 128 Averoldi, Altobello, 140 Alberti, Leon Battista, 261 Avogadro, Luigi, 52 Albret (d’), Amanieu, 108 Aldobrandini, Giovan Francesco, 34 Bacchelli, Riccardo, 134, 162 Alessandrini, Bernardino, 71 Bagassi, Battista, 71 Alessandrini, Giovanni Antonio, 170, 227 Bagassi, Paolo, 71 Alessandrini, Tonio, 71 Bainbridge, Christopher, 105 Alidosi, Francesco, 218 Bandello, Matteo, 80-83, 157 Alviano (d’), Bartolomeo, 89 Bannissi, Iacopo [Jacopo], 4, 5, 9, 11, 14, 96, Amboise (d’), Charles, 220, 222 111, 117-121, 135, 141, 154-161, 165-167, Anguissola, Caterina, 76 169, 173-179, 195 Aragona (d’) [Aragonesi], famiglia, 51 Barangier, Louis, 49 Aragona (d’), Ferdinando II detto il Cattolico, Barberino, Antonio, 34 51, 60, 63, 65, 94, 103, 124, 126-128, 143, Barigazzi, Giacomo vedi Berengario da Carpi 161, 167 Baroni, Giovanni, 35 Aragona (d’), Giovanna detta la Pazza, 143 Baroni, Pier Luigi, 42 Aragona (d’), Lucrezia, 170 Baschieri [Baschera], Nicolò, 240 Aretino, Pietro, 258, 259, 263, 277 Béarn (di), Roger, 224, 225 Arianiti, Andronica, 109 Beda, Noel, 278 Arianiti, Costantino, 109 Bellati, Francesco, 220 Arianiti, Giorgio, 109 Bellentani, famiglia, 214 Arianiti, Ippolita vedi Comneno, Ippolita Bellentani, Bonifacio, 222 Arienti (degli), Tommaso, 216 Bellentani, Giovan Battista, 67, 70, 73, 223, Ariosto, Lodovico, 252 225 Armellini, Francesco, 259, 263, 264, 268 Bellentani, Giovanni, 207 Armentano, Lucia, 146, 203 Bembo, Pietro, 16, 244, 274, 280, 282, 283 Asburgo (d’), famiglia, 9, 10, 109 Benedetto XIV, papa, 37 Asburgo (d’) d’Austria, Margherita, 173 Beneventano, Giovanni Antonio, 221, 222 Asburgo (d’), Carlo V, 5, 6, 16, 51, 60, 64, 117, Bentivoglio [Rangoni], Bianca, 65, 113 143, 145, 148, 153, 157-162, 165-168, Bentivoglio, Andrea, 211 171, 173, 176, 177, 180-183, 187, 189, Bentivoglio, Giovanni, 65, 213 190, 192, 234, 237, 239, 241, 245, 257, Berengario da Carpi, 216 280-283 Berenson, Bernard, 268 Asburgo (d’), Eleonora, 173 Berino (da), Antonio Maria, 231 Asburgo (d’), Federico III, 30, 213 Berino (da), Michele, 230, 231 Asburgo (d’), Filippo detto il Bello, 143 Bertesi, Giovan Francesco, 216 Asburgo (d’), Isabella, 126, 173 Bertesi, Stefano, 216 326 Viviana Salardi

Bianchi de’ Lancellotti, Jacopino, 214 Castelbarco (da), Agnese, 211, 213 Bianchi de’ Lancellotti, Tom[m]asino, 133, Castellesi, Adriano, 105, 163, 176 139, 238, 240-242, 259, 262 Castiglia (di), Giacomo, 234 Biel, Friedrich, 15 Castiglione, Baldassarre, 77, 187-189, 191, Bini, famiglia, 277 274, 282 Biondi, Albano, 246, 272 Castriota Skanderberg, Giorgio, 109 Bobbio (de), Bartolomeus, 133 Cattini, Marco, 211 Boc[c]alino vedi Ribaldi Polianesi (dè), Cebalo, Frano, 120 Francesco Cellini, Benvenuto, 264 Boccalini, Giovanni, 3 Celtis, Conrad, 10 Boccalini, Traiano, 3 Chabannes de La Palice (de), Jacques, 54, 80, Boiardo, famiglia, 115 218, 219, 249 Boiardo, Giovanni, 113, 115, 116 Chiericati, Francesco, 14, 15, 157 Boiardo, Matteo Maria, 115 Chigi, Agostino, 105, 106, 265 Bologna (da), Manuello, 224 Ciarlini, Giacomo, 246 Bolzani dalle Fosse, Giovanni Pietro alias Ciarlini, Giovan Francesco, 182, 246 Pierio Valeriano, 11, 140, 284 Cibo, famiglia, 177 Bondioli, Pio, 152, 153 Cibo, Innocenzo, 140, 176 Borbone-Montpensier, Carlo III, 239, 241 Cibo, Lorenzo, 177 Bosi, Nicolò, 227 Claudio, Michele, 54 Bracciolini, Poggio, 261 Clavière (de la), René Maulde, 39, 40 Braidi, Valeria, 207 Clemente VII, papa, 32, 128, 138, 237, 244, Bramante, Donato, 3 257-259, 263, 264, 266, 273, 277, 281, Brandolini Lippi, Raffaele, 270, 272 283 vedi anche Medici (de’), Giulio Briçonnet, Guillaume, 6, 52 Clemente VIII, papa, 34 Brusati, Michele Angelo, 67, 70 Clough, Cecil H., 35, 37, 39, 40 Brusati, Pellegrino, 225 Coccapani, famiglia, 71, 214 Brusati, Simone, 224 Coccapani, Cesare, 112 Budrio (da), Filippo, 216 Coccapani, Giovan Francesco detto il Villano, Budrio (da), Ludovico, 216 112 Bullard, Melissa M., 257, 263 Coccapani, Giuliano, 237 Burckardt, Johannes, 261 Coccapani, Leonello [Lionello], 67, 222, 236, Burgo (de), Andrea, 66, 91, 95, 101 238-240 Busto (da), Teodoro, 86 Coccapani, Marco, 83 Coccapani, Niccolò, 112 Cabassi, Paolo, 235 Coccapani, Paolo, 34 Caetani, famiglia, 31 Coccapani, Silvestro, 207 Caetani, Bonifacio, 31, 32, 171 Coccapani, Tono, 236 Campeggi, Lorenzo, 118, 126, 136, 142, 175, 180 Colla, Giovanni, 49, 51-53, 55, 56 Camposampiero, Ludovico, 80 Colleoni, Margherita, 76 Canossa, Ludovico, 122, 124, 258 Colocci, Angelo, 282 Caracciolo, Livia, 170 Colonna, Fabrizio, 152, 153 Caracciolo, Marino Ascanio, 105, 185 Colonna, Marco Antonio, 151 Carandini, famiglia, 139 Colonna, Muzio, 148, 153 Cardona (de), Ramón, 53, 54, 62, 65, 87, 91, Colonna, Pompeo, 177, 180, 182, 257, 258 100, 104, 124-129, 145, 153, 183 Colonna, Prospero, 193, 195, 196, 234, 235, Carey, Henry Charles, 20 237, 238 Carey, Mathew, 20 Colonna, Sebastiano, 237 Carlo Magno, 134 Colonna, Vittoria, 238 Carlo V, imperatore vedi Asburgo (d’), Carlo V Comneno, Ippolita, 32, 34, 109 Caroldo, Gian Giacomo, 83 Conegliano (da), Cima, 251 Casati Stampa, Camillo, 40 Conti (de’), Bernardino, 85 Casella, Matteo, 249 Coppo, Agostino, 15, 16, 157 Castaldi, Giovan Battista, 234, 237 Correggio (da), Gianfrancesco, 106 Castaldi, Giovan Francesco, 238-241 Cortesi, Paolo, 203, 272 Indice dei nomi di persona 327

Cortile (da), Gerolamo, 71 Firmani, Giovanni, 268 Corvino Bruni, Massimo, 54 Fogliani, famiglia, 139 Corvino, Mattia, 248 Foix (de), Gaston, 52, 53, 106, 224, 249 Cossa, Giovan Vincenzo, 234-237 Foix (de), Odet, visconte di Lautrec, 85-86, Costabili, Beltrame, 182, 283 151, 183 Couturier, Pierre [Petrus Sutor], 278 Foliariis (de), Giovan Pietro, 268, 273, 275 Crotti, Andrea, 69, 112, 218, 222, 227, 230 Forner, Fabio, 41 Croÿ (de), Ferry, 51, 55 Forno (dal), Gerolamo, 70, 73 Croÿ (de), Guillaume, signore di Chièvres, Forno (dal), Mesino, 225 161, 168, 190 Foscari, Francesco, 55 Foscari, Marco, 182, 263 De Vio, Tommaso, 185 Fraas, Mitch, 19, 27 Del Monte, Ciocchi, 105 Francesco I, re di Francia vedi Valois- Delci, Taliano, 211 Angoulême, Francesco I Disraeli, Benjamin, 22 Fregoso, Federico, 192 Dorp (van), Martin, 278 Fregoso, Ottaviano, 192 Dovizi, Bernardo detto il Bibbiena, 13, 14, 16, Frenz, Thomas, 262, 268 130, 135, 140-144, 148, 166, 188, 192 Froben, Johann, 3 Dürer, Albert [Albrecht], 14, 117, 119, 120, Furness, Frank, 23 273, 275 Fürst (von), Veit, 115

Egmont (di), Carlo, 138 Gadio, Giorgio, 152, 171 Enrico VIII, re d’Inghilterra vedi Tudor, Enrico Gaetani dell’Aquila d’Aragona, Beatrice, 171 VIII Gaetani dell’Aquila d’Aragona, Giovanna, Erasmo da Rotterdam, 3, 7, 9, 10, 14, 15, 32, 171 124, 272, 277, 278 Gaetani dell’Aquila d’Aragona, Isabella, 171 Este (d’), Alfonso I, 2, 31, 54, 56, 69-71, 73, Gaetani dell’Aquila d’Aragona, Onorato, 170 74, 87, 103, 118, 133, 135, 195, 214, 218, Gaetani dell’Aquila d’Aragona, Porzia, 171 220, 221, 226, 237, 241, 242, 260, 270, Gaetani dell’Aquila d’Aragona, Vittoria 171 283 Gaius Silvanus Germanicus, 271 Este (d’), Borso, 37, 41 Gambara, famiglia, 183, 184 Este (d’), Cesare, 35, 42 Gambara, Gianfrancesco, 183 Este (d’), Eleonora, 35 Gambara, Uberto, 183, 184 Este (d’), Ercole I, 37, 203, 213-215, 220, 227 Gambara, Veronica, 183 Este (d’), Ercole, 225 Gambara, Violante, 183 Este (d’), Francesco I, 251 Garuti, Alfonso, 42, 232 Este (d’), Giulio, 37 Gheri, Goro, 180 Este (d’), Ippolito, 37, 54, 56, 60, 102, 191, Giberti, Francesco, 277 214, 219, 220, 222 Giberti, Gian [Giovan] Matteo, 188-191, 193, Este (d’), Isabella, 60, 79, 82, 105, 106, 157, 258, 259, 268, 274, 275, 277, 278, 280, 281 183, 243, 244 Gigli, Silvestro, 105, 141 Etaples (d’), Lefèvre, 278 Giordano, Luisa, 269 Giovio, Paolo, 238, 268, 274 Faconti, Arturo, 39, 40, 43 Giulio II, papa, 3, 49, 51-53, 56, 57, 59-66, 71, Falcò Pio di Savoia, famiglia, 37 84, 87, 93, 96, 97, 102, 103, 108-110, 159, Falcò Pio di Savoia, Alfonso, 39, 40 175, 203, 218, 221, 222, 245, 260, 263, Falcò Pio di Savoia, Giovanni, 39 268-270, 272-275 Fantini, Benedetto, 220-222 Giuppo della Rovere, Antonino, 109 Farnese, Alessandro vedi Paolo III, papa Giustini, Egisto, 41 Fernández de Córdoba, Gonzalo, 180 Giustiniani, Sebastiano, 148, 157 Ferrero, Sebastiano, 80 Gonzaga, Elisabetta, 79 Ferretti, Giovan Pietro, 245 Gonzaga, Federico I, 76 Fieschi, Lorenzo, 140, 177 Gonzaga, Federico II, 120, 187, 189, 243-245 Filonardi, Ennio, 142 Gonzaga, Francesco II, 56, 76, 122, 170, 183, Fiorina, Ugo, 35, 40, 42 213, 243, 252 328 Viviana Salardi

Gonzaga, Ludovico, 76 Lang von Wellenburg, Matthäus, 1-6, 11, 15, Gonzaga, Margherita, 105, 106, 170, 243 49, 51, 55-57, 59-66, 75, 87, 94-97, 99, Gonzaga, Tolomeo, 244 102, 106-109, 117, 125, 129, 131, 135, Gonzaga di Luzzara, Giovan [Gian] 143-146, 156-158, 161, 164-166, 169-171, Francesco, 76, 77, 83 173, 178, 185, 219 Gonzaga di Luzzara, Giulia [Suor Angela Lannoy (de) Charles, 258 Gabriella], 76, 116, 149 Lavagnoli, Lorenzo, 77 Gonzaga di Luzzara, Lucrezia e Barbara, 76 Le Veau, Jean, 49 Lea, Arthur, 22, 23 Gonzaga di Luzzara, Luigi Alessandro, 83 Lea, Henry Charles, 20, 22, 23 Gonzaga di Luzzara, Paola, 75-86, 181 Lea, Isaac, 20 Gonzaga di Luzzara, Rodolfo, 76, 85, 116 Lea, Nina, 22, 23 Gonzaga di Novellara, Gian Pietro, 156 Leclerc, Charles, 168 Goritz, Johannes, 274 Lee, Edward, 278 Gouffier, Adrien, 124 Leone III, papa, 134 Gouffier, Artus, signore di Boisy, 124 Leone X, papa, 6, 7, 9, 11, 13, 16, 84, 87-111, Gouffier, Guillaume, signore di Bonnivet, 115, 118, 122-132, 134, 135, 138-143, 124, 126, 129 145, 152-154, 158, 160-165, 174, 177, Grassi (de’), Achille, 139, 175 180-182, 187, 188, 191, 192, 230, 262- Grillenzoni, famiglia, 214 265, 273, 274, 277, 280, 282, 283 vedi Grillenzoni, Andrea, 240 anche Medici (de’), Giovanni Grillenzoni, Ercole, 138 Lesinardi (o Carpucci), Ettore, 216 Grillenzoni, Giovan Marco, 138 Lesinardi (o Carpucci), Ferraguto, 69, 73, 74, Grillenzoni, Giovan Pietro, 138 215, 216 Grillenzoni, Giovanni, 138 Lesinardi (o Carpucci), Giovanni, 224 Grillenzoni, Leone, 10, 11, 133, 138-143, 146, Leyva (de), Marianna, 35 Leyva (de), Martino, 35 151, 154-156, 183-185, 187 Lippomano, Vetor, 284 Grillenzoni, Lodovico detto Rizzolo, 240 Litva, Felice, 262, 266 Grillenzoni, Marsilio, 207 Lombardini, Francesco, 69, 70 Gritti, Andrea, 52 López de Carvajal, Bernardino, 6, 52, 92 Guaitoli, Gianfranco, 69, 70, 203, 236 Loredan, Leonardo, 16, 55 Guaitoli, Paolo, 30, 70, 112, 117, 203, 215, Loschi, Bernardino, 53, 212, 232, 252, 275 219, 231, 234, 243, 246 Luigi XI, re di Francia vedi Valois, Luigi XI Gualdi, Antonio Maria, 40 Luigi XII, re di Francia vedi Valois-Orléans, Guicciardini, Francesco, 87, 127, 142, 194, Luigi XII 241, 258 Luna (de), Giovanni, 167 Lutero, Martin, 10, 159, 278 Heinrich, Isaac detto Arrigo Tedesco, 9, 88, 89, 93 Machiavelli, Niccolò, 223, 258, 262 Hettelberger, Johannes, 175, 176 Maggi, Giacomo, 216 Hohenzollern (di), Alberto, 180 Maggi, Gugliemo, 242 Howland, Arthur C., 22 Malaguzzi Valeri, Ippolito, 41 Hurtado de Mendoza, Lope, 282 Malaspina, Alberico II, 177 Malaspina, Ricciarda, 177 Hutchins, Amey, 19 Malatesta, Antonia, 76 Hutten (von), Ulrich, 10 Manfredi, Paolo, 74 Manuel, Juan, 182, 187, 188 Iordanes, 14, 119 Manuele [Emanuele] I, re del Portogallo, 133, 173, 248 Jacoby, Joachim, 88, 93 Manuzio, Aldo, 216, 232, 281 Manzoni, Alessandro, 34, 35 La Monte, John L., 25 Maometto II, 265 Maraton, Ludwig, 13, 132, 135-137 Marineo Siculo, Lucio, 15 Indice dei nomi di persona 329

Marino, Virginia, 35 Orsini di Monterotondo, Franciotto, 181, 182, Martinengo, Maria, 146, 231, 234, 245 263 Massimiliano, imperatore vedi Asburgo (d’), Orsini di Monterotondo, Ottavio, 234 Massimiliano I Orsini, Alfonsina, 147, 156, 170, 180 Mayer, Hans Eberhard, 25 Orsini, Beatrice, 39 Medici, famiglia, 13, 60, 88, 92, 180, 248, Orsini, Costanza, 170 257, 258, 264, 282 Medici (de’), Alessandro, 11 Pace (de), Giovan Battista, 71 Medici (de’), Giovanni detto Giovanni dalle Paleologo, Andrea, 283, 284 Bande nere, 194, 258, 264 Pallavicino, Antonio Maria, 76, 80, 221 Medici (de’), Giovanni, 13, 87, 88, 282 vedi Pallavicino, Laura, 76 anche Leone X, papa Paolo Diacono, 14, 119 Medici (de’), Giuliano, 87, 94, 101, 103, 106, Paolo II, papa, 261, 265 109, 111, 115, 142, 283, 284 Paolo III, papa, 105 Medici (de’), Giulio, 11, 128, 138-140, 155, Pastor, Ludwig, 131, 159 188, 189, 193, 237, 266, 277 vedi anche Patterson Van Pelt, Charles, 23 Clemente VII, papa Pazzi (de’), Alessandro, 284 Medici (de’), Ippolito, 11 Perlotto, Giovanni, 182, 263 Medici (de’), Lorenzo detto il Magnifico, 41, Peruzzi, Baldassarre, 273, 275, 283 88, 182 Petrucci, Alfonso, 141, 145, 163 Medici (de’), Lorenzo, 87, 106, 111, 115, 122, Petrucci, Borghese, 145 127, 128, 142, 143, 147-149, 156, 180, Petrucci, Raffaele, 145 184, 187 Peutinger, Konrad, 14 Medici (de’), Piero, 88 Piatti, Piattino, 79 Medici (de’), Zanobio, 109 Piccolomini, Enea Silvio vedi Pio II, papa Milano (da), Nicola, 71 Pico della Mirandola, Caterina, 76, 77, 116, Miller, Johann, 14 232, 251, 252 Minarelli, Stefano, 88 Pico della Mirandola, Galeotto, 65 Minio, Marco, 183 Pico della Mirandola, Giovan Francesco, 65 Minnich, Nelson H., 109 Pico della Mirandola, Giovanni, 278 Molini, Francesco, 174 Pico della Mirandola, Ludovico, 65, 76 Moncada (de), Hugo, 166, 167 Pierio Valeriano vedi Bolzani dalle Fosse, Montalto, Ludovico, 168 Giovanni Pietro Morando, Umberto, 187 Pignatelli, Ettore, 167, 168 Morone, Girolamo, 105, 127 Pini, Antonio Ivan, 260 Morselli, Alfonso, 138, 210, 221, 222, 243, 246 Pio di Savoia, Alberto II, 30 Motta, Emilio, 78 Pio di Savoia, Alberto, signore di Meldola, 34 Pio di Savoia, Alda, 183, 184 Nerucci, Raniero, 3 Pio di Savoia, Alessandro, 220 Neufville (de), Nicolas, 221 Pio di Savoia, Angelo, 230 Neydeck, Georg, 93 Pio di Savoia, Ascanio, 35 Pio di Savoia, Barbara, 231 Oberhuber, Walter, 273 Pio di Savoia, Borso, 41 Ockham (da), Gugliemo, 15 Pio di Savoia, Camilla, 69 Oldoino, Giulio, 82 Pio di Savoia, Carlo di Ascanio, 37 Olio (da l’), Bartolomeo, 222 Pio di Savoia, Carlo Emanuele, 35, 37, 43 Olio (dall’), Francesco, 216 Pio di Savoia, Caterina, 31, 32, 171, 185, 191, Ori, Anna Maria, 1, 14, 27, 49, 73, 119, 146, 210 162 Pio di Savoia, Cornelia Taddea, 115 Orsini di Monterotondo, famiglia, 32 Pio di Savoia, Enea di Marco II, 69, 191, 220 Orsini di Monterotondo, Aurante/Orante, 41 Pio di Savoia, Enea, 35, 43 Orsini di Monterotondo, Cecilia, 31, 118, 170, Pio di Savoia, Francesco, 238, 243-246, 248- 171, 181, 191, 195, 210, 234, 235, 243, 250 247, 249, 263 Pio di Savoia, Galasso di Giovan Lodovico, 41 Orsini di Monterotondo, Clarice, 41, 182 Pio di Savoia, Galasso II, 30, 41, 213 330 Viviana Salardi

Pio di Savoia, Galasso, 42 Pirckheimer, Willibald, 10, 120 Pio di Savoia, Galeotto, 69, 246 Pittori, Giovanni, 236, 237 Pio di Savoia, Giberto di Alessandro, 37 Platina, Bartolomeo, 261 Pio di Savoia, Giberto II, 30 Podocataro, Lodovico, 261 Pio di Savoia, Giberto III, 37, 209, 213-215, Pollack, John, 19 218, 220, 231 Poppi (da), Giovanni, 148 Pio di Savoia, Giberto, 37 Porcìa (di), Girolamo, 49 Pio di Savoia, Ginevra, 35 Porta (della), Giovan Battista, 236 Pio di Savoia, Giovan Lodovico, 41 Postumo, Guido, 157 Pio di Savoia, Giovan Marco, 41 Pozzoli, Battista, 71 Pio di Savoia, Giovan Marsilio, 41 Pozzoli, Francesca, 240 Pio di Savoia, Isabella, 37 Pozzoli, Francesco, 71 Pio di Savoia, Latino, 41 Pozzoli, Taddeo, 71 Pio di Savoia, Leonello, signore di Carpi, 30, Pozzuoli, Gaspare, 251 213, 230, 250 Prie (de), René, 6, 52 Pio di Savoia, Leonello, signore di Meldola, 9, 16, 32, 34, 41, 48, 67-75, 109, 111-113, Raimondi, Alessandro, 69 115, 116, 146-149, 151, 152, 171, 181, Raimondi, Marcantonio, 273, 275 184, 185, 194-196, 218, 222, 230-232, Ramazzotti, Melchiorre, 196 234, 237, 239, 240, 245, 252 Rangoni, Annibale, 115, 116 Pio di Savoia, Lodovico Maria, 34, 35 Rangoni, Gherardo, 116, 139, 140 Pio di Savoia, Lucrezia, 32, 34, 35 Rangoni, Guido di Uguccione, 113, 116, 139, Pio di Savoia, Manfredotto, 146, 245 181, 194 Pio di Savoia, Marco II, 30, 69, 115, 183, 191, Rangoni, Guido di Niccolò, 115, 116 210, 213, 214, 218, 227 Rangoni, Ludovico, 181 Pio di Savoia, Marco, signore di Sassuolo, 34, Rangoni, Niccolò, 65, 113, 116 35, 37, 43 Rangoni, Ugo, 139, 142, 195 Pio di Savoia, Margherita, 32 Rangoni, Ugone o Uguccione, 116 Pio di Savoia, Maria, 34, 35 Redig de Campos, Deoclecio, 273 Pio di Savoia, Rodolfo, cardinale, 3, 9, 32, 37, Reggio (da), Simone, 133 39, 120, 146, 147, 231, 232, 244, 245, 268, Remolines, Francisco, 104, 105 280, 282 Reuchlin, Johannes, 13, 175 Pio di Savoia, Rodolfo, signore di Meldola, Riario Sforza, Bianca, 141 34, 35 Riario, Raffaele, 141, 163, 176 Pio di Savoia, Teodoro di Leonello signore di Ribaldi Polianesi (dè), Francesco detto Carpi, 116, 195, 230-232, 234 Boc[c]alino, 210, 224, 210, 236, 238 Pio di Savoia, Teodoro di Leonello signore di Ricault (de), Bernard detto capitano Riccardo, Meldola, 231 220, 221 Pio di Savoia, Trojano, 231 Richenbach (di), Polissena, 116, 230 Pio di Savoia, Violante, 69 Richenbach, Johannes, 230 Pio II, papa, 261, 265 Risposi, Enrica, 203 Pio, Angelo di Alberto II, 230 Rizzi, Renzo, 27 Pio, Antonio di Galasso I, 213 Romano, Giulio, 273 Pio, Antonio, marchese di Trentino, 41, 42 Rombaldi, Odoardo, 187, 188 Pio, Apollonia, 211 Rorario, Antonio, 10 Pio, Egidio, 41 Rorario, Girolamo, 9, 10, 174, 180 Pio, Giacomo di Galasso I, 213 Rosino [Rösel / Rösslin / Röslein], Stefano, Pio, Giberto I di Galasso I, 211 14, 146, 156, 175 Pio, Giovanni detto il Cherico, 211 Rossi (de’), Luigi, 140 Pio, Guido, 41 Rossi (de’), Troilo, 141 Pio, Manfredo, primo signore di Carpi, 30, 41, Rossi, Carlo, 112 204, 213 Rossi, Galeotto, 112 Pio, Manfredotto, 35, 224 Rossi, Giovan Marco, 70, 71, 225 Pio, Marco I, 37 Rossi, Pietro Jacopo, 71 Pio, Marsilio di Galasso I, 211, 213 Rossi, Pietro, 112 Indice dei nomi di persona 331

Rovere (dalla), Giovan Francesco, 69 Sigismondi, famiglia, 213 Rovere (della), Francesco Maria, 63, 122, 135, Sigismondi, Antonio, 248 142, 160, 174, 187, 258 Sigismondi, Giovan Lazzaro, 213 Rovere (della), Giovanni Francesco, 140 Sigismondi, Michele, 71, 213, 222 Rovere (della), Maria Giovanna, 63 Sigismondi, Sigismondo, 213, 222, 223, 248, Rozone, Giovanni Stefano, 127 249 Rubeis [Rossi] (de), Martino, 79 Silva (da), Miguel, 133, 134, 142 Rucellai, Giovanni, 125, 126, 190 Simonetta, Marcello, 14, 148, 234, 258 Rutili, Pietro, 281 Sisto IV, papa, 261 Slatkonia (von), Georg, 88, 89, 93 Saccaccini, Angelo, 154, 222, 238 Solimano [Selim], 41, 180 Sacrati, Ettore, 73, 220, 222, 224, 225 Spaggiari, Ettore, 243 Sadoleto, Jacopo, 274, 282 Spagnoli, Tolomeo, 183, 184 Saetti, Luciana, 2, 19, 210, 215, 219, 234 Spagnuolo, Baldassarre, 225 Saint-Marsault (de), François, 189 Spinelli, Giovan Battista, 51, 52, 54, 55, 135, Salviati, Francesco, 268 151, 153, 158, 168, 170, 171, 191, 210 Salviati, Jacopo, 259, 264 Spinola, Giovan Andrea, 238 Sangallo (da), Antonio, 3 Stabius, Iohannes, 10 Sanseverino, Federico, 6, 52, 75, 92 Stella, Giovan Pietro, 64 Sansovino, Andrea, 3, 274 Strigel, Bernhard, 119 Sansovino, Francesco, 244 Strozzi, Ercole, 139 Santi, Giovan Battista, 156 Strozzi, Filippo, 148, 258 Santi, Pietro, 156 Strozzi, Lorenzo, 139 Santi, Sigismondo, 54, 55, 99, 117, 139, 145, Strozzi, Tito Vespasiano, 139 146, 148, 156, 165, 170, 171, 179, 185, Stunica, Iacobus, 278 222, 236, 238 Svalduz, Elena, 30, 280, 283 Sanudo [Sanuto], Marin, 49, 51-57, 76, 89, 96, 157, 183, 185, 244, 245, 284 Tamagnini, Cecilia, 42 Sanzio, Raffaello, 268-270, 272, 273, 275 Tassoni, famiglia, 139 Savani, Michele, 220 Tebaldeo, Antonio, 284 Savoia (di), Filiberta, 111 Tiraboschi, Girolamo, 151, 230, 245, 246 Savoia (di), Lodovico, 30 Tizzoni, Bartolomeo, 177 Savoia (di), Luisa, 7, 111, 188 Tocco, Carlo, 109 Sbaraglio, Lorenzo, 251 Tolomei, Claudio, 284 Schiner, Matthäus, 57, 60, 64, 65, 80, 91, 122, Tomasi, Valeria, 1, 203 127, 142, 143, 145, 148, 161, 165, 174 Torelli, Pietro Antonio, 241 Schönberg, Nicolò, 139, 155, 156, 159 Tornini, Luca, 203, 236, 237, 240 Scozia (di), Giacomo IV, 96 Tour d’Auvergne (de la), Madeleine, 180, 185 Semper, Hans, 245, 275 Trani (di), Antonello, 192 Sepúlveda (de), Juan, 268 Trémoille (de la), Louis, 75, 82, 89 Sestan, Ernesto, 78 Trevisan, Andrea, 151 Setton, Kenneth M., 19, 23, 25-27, 29, 43 Trissino, Gian Giorgio, 11, 13, 125, 126, 137, Seyssel (de), Claude, 80 284 Sforza, Bianca Maria, 152 Trivulzio, famiglia, 152, 174, 179 Sforza, Francesco, 145, 165 Trivulzio, Barbara, 76 Sforza, Guido Ascanio, 32 Trivulzio, Bianca, 80 Sforza, Ludovico Maria detto il Moro, 41, 49, Trivulzio, Camillo, 152 60, 80, 152, 213 Trivulzio, Elisabetta, 76 Sforza, Maria Pia, 35 Trivulzio, Francesca, 65, 76 Sforza, Massimiliano, 60, 62-65, 80, 89, 92, Trivulzio, Gian Francesco, 79, 82, 83 93, 97, 118, 122, 127, 173, 174 Trivulzio, Gian Giacomo, 75-77, 79, 80, 82, Sforza, Ottaviano, 62, 80 83, 85, 86, 89, 145, 152 Sforza, Paolo, 32 Trivulzio, Gian Nicolò, 75-77, 80, 83 Sforza, Sforzino, 34 Trivulzio, Giulia, 80 Sickingen (von), Franz, 175 Trivulzio, Ippolita, 79 332 Viviana Salardi

Trivulzio, Luigi, 80 Valois-Orléans, Renata, 64, 117 Trivulzio, Margherita, 80 Valois, Luigi XI, 92 Trivulzio, Scaramuccia, 31 Vasari, Giorgio, 273, 274 Trivulzio, Teodoro, 82 Veneto, Bartolomeo, 268 Trotti, Gerolamo, 222 Vettori, Francesco, 258, 264 Trotti, Nicolò, 225 Vich, Jerónimo, 63, 104, 124, 126, 128, 129, Tudor, Enrico VIII, re d’Inghilterra, 95, 96, 131, 141, 160, 182 141, 153, 161, 174, 177, 189, 108 Vigerio della Rovere, Marco, 105 Turini, Baldassarre, 155 Villani, Stefano, 1, 29 Villinger, Jakob, 5, 9, 88, 176, 178, 179 Urbano VIII, papa, 34 Visconti, Galeazzo, 76, 145 Urbini, Silvia, 251 Visconti, Giovan Pietro, 152 Urrea (de), Pedro, 160, 163, 165 Vitale, Giano Francesco, 274 Valenti, Valente, 183, 184 Viterbo (da), Egidio, 13, 97, 126, 137, 163 Valentini, Antonio, 231 Valois-Angoulême, Francesco I, 7, 85, 111, Wingfield, Robert, 174, 176 117, 122-124, 127, 130-132, 135, 143, Witten, Laurence, 27 145, 152, 154, 159, 161, 165, 173, 180, Wolsey, Thomas, 148, 159, 174, 176, 177, 190 187-190, 192, 193, 237, 278, 280, 281 Valois-Orléans, Luigi XII, 2, 49, 52, 64, 75-77, Zarlatini, Giovanni, 69, 70, 71 79, 80, 92, 100, 103, 109, 111, 117, 154, Ziegler, Nikolaus, 14 203, 221, 222, 270 Ziegler, Paul, 14

Finito di stampare nel mese di Novembre 2014 Mc Offset Modena