D’Annunzio e l’Abruzzo

Gli anni della formazione

D’Annunzio nasce il 12 Marzo 1863. Secondo la leggenda, il giorno del lieto evento, la madre avrebbe esclamato: «Figlio mio sei nato di Venerdì e di marzo, chi sa che farai nel mondo!». Era in realtà un Giovedì e nasceva, non sulla tolda di una nave nell’Adriatico come avrebbe raccontato in seguito, ma in Via Manthoné a Pescara. Il suo segno zodiacale era quello dei Pesci e non quello dell’Ariete come invece avrebbe scritto nelle Laudi. Già da queste false voci che circolavano sulla sua biografia ben si comprende come l’autore avesse una particolare passione per la mistificazione delle proprie esperienze e della propria vita, di come il passato sia stato per lui luogo di rielaborazione e laboratorio creativo.

Gabriele d’Annunzio trascorre in Abruzzo gli anni infantili fino all’iscrizione all’istituto scolastico Real collegio – Liceo Cicognini il 1° Novembre 1874. Da quella data non fa ritorno a casa per quattro anni, spendendo anche i mesi estivi in Toscana in modo tale da non inficiare la sua “toscanizzazione”.

Fa rientro in Abruzzo solo per le vacanze estive del 1878 e del 1879, la prima però spesa a studiare per la licenza ginnasiale, la seconda a rivedere l’editio princeps di Primo Vere. L’estate del 1880 dunque è la prima significativa nella sua esperienza matura della terra d’origine. Questo è l’anno di nascita del cenacolo francavillese che il poeta pensa bene di celebrare con una dedica degli Idilli selvaggi, nell’edizione lancianese di Primo Vere. Quasi tutte le poesie che vi aggiunge sono per altro dedicate proprio all’Abruzzo.

Nel 1881, conseguita a giugno la Licenza liceale d’onore, trascorre ancora un’estate abruzzese: le ferie, caratterizzate da grande spensieratezza, lo vedono riunito in fraterna comunione di spiriti e di ideali con gli amici Francesco Paolo Michetti, Paolo Tosti e Costantino Barbella. Con loro intraprende un viaggio alla scoperta di un Abruzzo ignoto: in treno fino a Sulmona, a cavallo nella valle del Gizio fino a Pettorano, poi, in carrozza verso la vallata del sagittario fino a Scanno. Al ritorno soste a Popoli, San Clemente a Casauria, Tocco. A novembre è invece a L’Aquila.

Scrive alla fine di Settembre ad Enrico Nencioni, narrando delle sue gite in montagna e delle nuotate nell’Adriatico: «ho portato via una messe d’ispirazioni nuove, i muscoli rinvigoriti e lo spirito franco»1

1 Per il carteggio tra d’Annunzio e il professore Enrico Nencioni si veda Lettere ad Enrico Nencioni (1880-1896), a cura di R. Forcella, in «Nuova Antologia» XVII 1939, pp. 3-30; D’Annunzio e Nencioni (tredici lettere inedite), a cura di G.

Dai primi componimenti, dell’Abruzzo emergono più che altro elementi del paesaggio: il mare e il fiume su tutti. Per quanto riguarda gli usi e i costumi, l’unica notazione nelle lettere è relativa al fastidio per il fracasso delle feste popolari. A partire dal sodalizio con gli intellettuali del circolo michettiano e dalla lettura di Verga, l’autore sviluppa un interesse non peregrino per la terra natia, un’attenzione crescente per la sua regione ed il suo popolo, che, come vedremo, si sarebbe esteso dal descrittivismo veristico impressionista delle prime raccolte al simbolismo tragico delle più mature opere teatrali. Progetta per altro in questi anni delle «figurine abruzzesi» che avrebbe voluto illustrate dal Michetti.

Così, in Canto novo (1882), se è vero che prevalente è ancora la celebrazione della natura - quella abruzzese in primis e poi la natura tutta, in cui il poeta intende immergersi – si trova però una terza sezione dedicata al lavoro operaio e la manifestazione della volontà di scrivere un poema impegnato ispirato dall’Abruzzo. Il più giovane del cenacolo michettiano, De Cecco, è socialista ed è lui che d’Annunzio informa per primo della prossima uscita di Canto Novo, «con scariche di socialismo feroce»2 scrive. Si può intravedere in questa che è altrimenti considerata una irrilevante parentesi dell’impegno politico dannunziano, la prima e ancora acerba spinta verso il popolo e una verità di popolo.

Canto novo riunisce testi già pubblicati separatamente, arricchiti da illustrazioni dell'amico pittore Michetti. La seconda edizione del 1896 sarebbe stata poi ridotta a soli 23 testi e ogni argomento politico o sociale ne sarebbe stato tagliato fuori così da farne risultare un "poema lirico panteistico" dove D'Annunzio fonda un nuovo paganesimo.

In una lettera a Nencioni dell’84 esprime più apertamente la volontà di scrivere un romanzo storico Pantagruelion:

voglio fare un romanzo, dirò così, omerico, epico, in cui molti personaggi operino e masse di popolo si muovano; un romanzo con moltissimi fatti e pochissima analisi, un romanzo a fondo storico. L’azione si svolgerà a Pescara tra il ’50 e il ’75. Ho qui una meravigliosa miniera di documenti, ci entreranno i Borboni, li uomini di Sapri, i cospiratori politici; ci entrerà tutta la vita religiosa, privata e pubblica piena di pettegolezzi, di congiure di odii, intricatissima, tumultuaria, tutta la vita di una città piazza forte dove il militarismo e il clericalesimo imperavano sovrani. Che scene!3 Il progetto non sarebbe stato mai realizzato ma l’idea - qui ancora di scuola verista con impianto da saga nazionalista - è significativa perché sarebbe stata in parte ripresa per La fiaccola sotto il moggio

Fatini, in «Quaderni dannunziani» XVIII-XIX 1960, pp. 645-704; Nove lettere inedite di G. d’Annunzio a E. Nencioni (1889-95), a cura di A.Brettoni, in «Studi e problemi di critica testuale», 21 1980, pp. 195-207. 2 F. Di Tizio, Lettere di d’Annunzio a Paolo De Cecco, in «Quaderni del vittoriale», 37, 1983, pp. 57-75. 3 Cfr. nota 1. e consente forse una lettura del dramma in senso epico. Di poco più tardi è l’idea per La figlia di Iorio anch’essa stravolta rispetto al nucleo originario. Ciò, come si vedrà, è dovuto ad un cambiamento radicale in quella che è la sua concezione dell’Abruzzo.

Secondo Ivanos Ciani non è ancora presente in d’Annunzio la riflessione che poi sarebbe confluita nel Trionfo della morte, se pure è a questa altezza cronologica che il poeta conosce Antonio De Nino, proprio durante la sua visita a Scanno dell’ ‘85, della quale racconta alla Zucconi:

Vedessi che costumi strani e splendidi portano le donne! Par d’essere in Oriente: l’illusione è perfetta. Turbanti di seta ricamati d’oro e d’argento, grandi grembiuli fiammanti, maniche larghissime, una ricchezza di pieghe meravigliose4 Qui il quadro che ne è emerge è quello di un Abruzzo esotico e decadente, di una terra lontana e avvolta dal mistero.

Nel 1887 è a Casalbordino per il corpus Domini e dalla Maiella scrive lettere che già prefigurano il noto passo del pellegrinaggio nel Trionfo della morte.

Nell’88 anima e presenzia a Francavilla una festa di canzoni abruzzesi, con musiche – fra gli altri – di Tosti. Nello stesso anno è impegnato nella redazione del Piacere.

Nel 1890 parte volontariato militare.

Nel ‘91 scrive l’Innocente a Francavilla.

Dalle lettere a Barbara Leone, quell’anno lo sappiamo prima a Pretoro poi a Casalbordino poi all’Abazia di San clemente a Casauria, celebrata nelle pagine de Il Mattino oltre che nel Trionfo della morte.

Candidato al Parlamento per le elezioni del 1897 con un programma «al di là della destra e della sinistra» pronuncia a Pescara il cosiddetto Discorso della siepe, originariamente intitolato Laude dell’illaudato.

4 G. D’Annunzio, Lettere a Giselda Zucconi, a cura di I. Ciani, Centro Nazionali di Studi Dannunziani, Pescara, 1985. L’Abruzzo letterario: Canto Novo, Novelle della Pescara, Trionfo della morte, Laudi

 Canto Novo Ex Imo Corde. Al mio fiero Abruzzo

Mentre a 'l bel sole de 'l novello aprile rîdono e terra e mare, e fra' capelli uno zefiro gentile mi sento folleggiare,

da questa balza che s'eleva ardita ti guardo, o Sannio mio, e in cor mi sento rifiorir la vita con ardente disìo.

Via per l'azzurro tuo ciel radiante volano i miei pensieri sì come una fugace e gorgheggiante torma d'augelli neri;

e le vigili strofe intorno intorno mi guidano una danza, le strofe ch'io con tanto amore adorno, che son la mia speranza.

Ah sì, le calme de 'l tuo ciel divine mi fecero poeta, i sorrisi d'un mar senza confine là tra la mia pineta:

tra la pineta mia dov'ho passati i momenti più belli, dove ho goduti i miei sogni dorati i canti de li uccelli;

dov'io disteso su l'erbetta molle mille volte piangendo ho mirato il sol che dietro a 'l colle si nascondea fulgendo,

o un nuvolo leggero e luminoso natante via pe 'l cielo ne l'ampio plenilunio silenzioso come un argenteo velo;

dove ho provate voluttà sì strane i murmuri ascoltando de' vecchi pini, a cui da lunge un cane rispondea latrando,

o la solenne musica de l'onde che increspandosi appena venian soavi a le ricurve sponde a ribaciar l'arena...

E con serene ebrezze la speranza ne 'l core mi fioria, mentre i sogni superbi con baldanza puërile inseguia...

I miei sogni di gloria e libertate per l'azzurro fuggenti come una schiera di fanciulle alate o di meteore ardenti!...

Or co' giovini mandorli fioriti a 'l sol rïaprono l'ale gli entusïasmi splendidi sopiti ne l'inverno glaciale, e ti mando un saluto, o Sannio fiero, senza nube d'affanni con tutto il foco prepotente a altero de' miei diciassett'anni!...

Veggo di qui le tue selvagge vette radïanti di neve, da cui si slancian simili a saette l'aquile a l'aer lieve, e la verde pianura co' giardini cui sorridono i fiori che ne' vesperi rossi e ne' mattini intrecciano gli amori.

Veggo i lavacri de 'l mio bel Pescara, immane angue d'argento, co' i salci e i pioppi giù ne l'acqua chiara inchinantisi a 'l vento, con le crete de gli argini fiammanti d'una follìa di gialli che dànno a l'acqua tripudî abbaglianti, splendori di metalli; e là giù in fondo i colli di Spoltore sorrisi da gli olivi, dove le donne cantando d'amore vanno a stormi giulivi....

Con quale ebrezza su' tuoi lieti piani sorvolo galoppando a un'incognita mèta, i più lontani orizzonti agognando, sì come ne gli orrori de 'l deserto il fiero beduino tutto di bianco caffetan coperto galoppa a 'l suo destino!...

Prendi! da l'imo de 'l mio giovin cuore questo canto t'invio o patria bella, o mio divino amore, o vecchio Sannio mio!5

In Canto novo, come si è già accennato, prevale lo slancio di panico fervore naturalistico che si ritrova anche nelle pagine dell’Innocente. L’Abruzzo è il paradiso delle speranze giovanili, la terra dell’armonia della natura ma anche dell’umanità che sembra esserne parte, e che ad essa unisce il suo canto. Così le donne «cantan d’amore» e come uccelli «van a stormi giulivi».

 Nelle Novelle invece è raffigurata la barbarie della regione natia - si pensi alla bestialità dei personaggi di Caruscio di mare - ripetuta dalla brutale rappresentazione del pellegrinaggio degli infermi al santuario di Casalbordino nel Trionfo della morte.

 Laudi Alcyone, Sogni di terre lontane

Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio6 che verde è come i pascoli dei monti. Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d’acqua natía rimanga ne’ cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d’avellano. E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina!7 Ora lungh’esso il litoral cammina la greggia. Senza mutamento è l’aria.8 il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquío, calpestío, dolci romori.

5 G. d’Annunzio, Canto Novo, Liber Liber. 6 Citazione da Carducci «Selvaggio mare» Odi barbare, Per la morte di Napoleone Eugenio. 7 Citazione dantesca (Purg I, 117). 8 «Un’aura dolce senza mutamento» Altra citazione dantesca (Purg XXVIII, 7). Ah perché non son io co’ miei pastori?9

La stessa identica descrizione del gregge, che scende al mare come un fiume, si trova anche in Laude dell’illaudato, nel Fuoco e nel coevo Elettra (Per i marinai d’Italia morti in Cina, Notte di Caprera). Si tratta quasi di un modulo descrittivo, che, come vedremo, cambiando di significato, sarà per noi indizio per decodificare la mutata concezione poetica dannunziana del suo Abruzzo.

Non è un caso che la prima delle Terre lontane sia proprio dedicata ai Pastori del suo Abruzzo, terra appunto lontana, perché come vedremo, sospesa nel tempo e trasvalutata. Il progetto comunque è cronologicamente contiguo a quello dei Madrigali dell’estate.10 Siamo in entrambi i casi in un metastorico classicismo: da una parte solare come positivo dall’altra solare come malato d’afa.

Per la prima volta l’autore manifesta in una lirica la volontà di comporre una tragedia pastorale, il desiderio di fare ritorno fra i suoi pastori. Seppure nel componimento alcyonico risultano totalmente assenti le succitate deformazioni de Il trionfo della morte e di certe Novelle che già esprimono in nuce il sentimento che avrebbe pervaso La figlia di Iorio.

D’Annunzio, l’Abruzzo e il dialetto

Per compiere una riflessione sulla rilevanza del dialetto nell’ di D’Annunzio bisogna certo far riferimento alle Novelle della Pescara, di impronta veristica e che – secondo Moretti - , proprio come strumento di impersonalità verghiana, utilizzano il dialetto. Quest’ultimo viene in realtà impiegato solo per i dialoghi e spesso è un dialetto ricostruito mediante mediazioni. Infatti il possesso attivo del dialetto da parte del D’Annunzio viene, se non del tutto, in gran parte perso negli anni del Cicognini. Vito Moretti, rifacendosi a Contini11, afferma ancora che nonostante le mediazioni libresche, per esempio «i nomi dei luoghi in Gli idolatri ripresi da borgate catanesi, e l’assimilazione riduttiva e primitivistica del folklore, sostenuta dal gran numero delle similitudini e, soprattutto, dall’uso ricorrente degli imperfetti, che sopprime - si sa – il riferimento a realtà temporali precise immergendo la narrazione in una indistinta e remota fissità (rimandi alla tragedia greca più che plausibili)», «l’esplorazione dei rapporti tra moralità e natura e il confronto della naturalità del sangue con le vicende quotidiane del destino e delle passioni, impiegano qui un amalgama dialettale per nulla disgiunto dalla materia narrativa, né ad essa sovrapposto meccanicamente, e si accompagnano a

9 G. d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, Mondadori, Milano, 1995. 10 Cfr. G. d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, Mondadori, Milano, 1995, p. 1271. 11 V. Moretti, Il dialetto in D’Annunzio, Atti del X convegno di studi dannunziani, p.84 Cfr. Contini, La letteratura dell’Italia unita 1861-1968. scardinature lessicali o più latamente linguistiche dettate da intimità non sempre convenzionali né sempre enunciatorie ed artificiosamente espressionistiche».

In questi anni la ricerca linguistica rimane tuttavia piuttosto circoscritta. Per essere accantonata e ripresa nella redazione della Figlia di Iorio. Determinanti sono i ritorni in Abruzzo durante i quali, a detta di Moretti, D’Annunzio si «riabbruzzesizza». «C’è una sorta di evoluzione nei rapporti del poeta con l’Abbruzzo, o – se si preferisce – un progressivo ripensamento della materia abruzzese che si coglie non solo sui piani tematici ma su quelli del lessico, della sintassi e dei costrutti dialettali, sempre più aderenti (prolessi del possessivo: fijeme, fijete, ecc. l’aferesi in verne, briache, l’anadiplosi nei raddoppi del tono parlato ecc.). Da questa riflessione nascerebbero le tragedie di ambientazione abruzzese: nella Figlia di Iorio la tragedia è nella folla, nella Fiaccola sotto il moggio negli uomini, ed «è tragedia di stirpe anche se si concentra nel cerchio angusto di una casa»12.

Questa evoluzione è per lo studioso suffragata anche dall’uso del dialetto in componimenti d’occasione: si possono citare Quant’è belle lu journe de Sant’Anne; A l’abbruzzise de Melane; A che la sbruvignate de Mariette; A Galdino e Remigio Sabatini; Ah, Cirù, sta penzate è proprie belle; A Giacumine Acerbe, ma forse la più nota è quella rivolta a Luiggìne d’Amiche (luigino d’Amico di Pescara) o per il suo “Parrozzo” o quella per il “Senza nome” (altro dolce gradito dal d’Annunzio al quale avrebbe dovuto trovare un nome).

E' tante 'bbone stu parrozze nove che pare na pazzie de San Ciattè, c'avesse messe a su gran forne tè la terre lavorata da lu bbove, la terre grasse e lustre che se coce e che dovente a poche a poche chiù doce de qualunque cosa doce.

Gabriele D'Annunzio celebrò con questi versi il Parrozzo di Luigi D'Amico. Il 24 luglio 1927, D Amico aprì a Pescara, poco distante dalla casa natale di Gabriele D'Annunzio, un locale che chiamò il Ritrovo del Parrozzo. Per il taglio del nastro, D'Amico aveva preparato due album destinati a ospi- tare le firme degli ospiti illustri del locale, che chiamò Visitor's book e Albo d'oro. Quattro giorni prima dell'inaugurazione, l'Albo d'Oro fu portato a Gardone dal Vate perché vi lasciasse una sua testimonianza. In una lettera di accompagnamento dell'Albo d'oro, Luigi D'Amico scriveva a D'An- nunzio: «Spero non mi troverete troppo pretenzioso se amassi aver Voi Comandante ne la prima pagina. Dopo di Voi ho già da tempo una lusinghiera fotografia di S.E. Mussolini con dedica; ap- presso verranno tutte le prime personalità d'Italia». Così il 21 luglio 1927, per celebrare il dolce del

12 Monicelli in D'Annunzio e l'Abruzzo: atti del X Convegno di studi dannunziani, Pescara, 5 marzo 1988 / [a cura del] Centro nazionale di studi dannunziani in Pescara. suo amico, lo scrittore pescarese scrisse: «"Colui che ha abitazione in cielo, è visitatore e adiutore di quello luoco" dice l'Antico.

«Colui che abitazione ha nel ritrovo del Parrozzo, è visitatore e perdutissimo goditore di quello parrozzo" dico io Gabriele d'Annunzio».

E ancora:

«Dice Dante che là da Tagliacozzo, ove senz arme vinse il vecchio Alardo, Curradino avrìe vinto quel leccardo se abbuto avessi usbergo di parrozzo». Firmato: Gabriele d'Annunzio parrozzàno

Pur trovandoci concordi sulla “riabbruzzesizzazione” di D’Annunzio per noi le motivazioni sono da ricercarsi non tanto, o non solo, nei rientri in patria, quanto nel viaggio in Grecia e nelle letture di respiro europeo che a questi si alternano..

L’Abruzzo di Gabriele D’Annunzio e di Francesco Paolo Michetti

Francesco Paolo Michetti, La figlia di Iorio,1895

Gustave Courbet, Gli spaccapietre, 1849

Francesco Paolo Michetti

Gustave Courbet, I funerali di Ornans, 1850

Francesco Paolo Michetti, Gli storpi

Francesco Paolo Michetti, Le serpi

Due delle maggiori opere teatrali dannunziane e quelle, in particolare, di ispirazione abruzzese, associano la loro genesi o la loro ideazione alla produzione di Francesco Paolo Michetti.

L’artista, di scuola napoletana, sposa la poetica verghiana dell’opera che si fa da sé e nel campo dell’arte, se si può rintracciare un maestro questi è sicuramente il naturalista Gustave Corbet. Politicamente impegnato in senso socialista, quest’ultimo non fa una pittura di stampo ideologico ma parte dall’osservazione, purificata da categorie aprioristiche, della realtà. Il soggetto non è scelto ma attraversa per caso il suo campo di osservazione, i personaggi non sono soggetti più di quanto non lo siano gli elementi della natura. A questa sua “indifferenza ottica”, si devono scelte compositive, o dovremmo meglio dire inquadrature antigerarchiche. È il caso del quadro di Michetti che raffigura il passaggio della Figlia di Iorio in cui l’uomo - misura di tutte le cose - risulta non solo decentrato ma anche “decapitato”. Pertanto questa tela, il cui precedente iconografico è senza dubbio quello degli Spaccapietre di Courbet, così come le altre, si può a ragione commentare con le parole usate da Giulio Carlo Argan per Courbet:

Tutto ciò che si riteneva a priori poetico è ripudiato: il bello, il grazioso, il sentimento della natura. Courbet vuole vedere la realtà com'è, né bella né brutta: per arrivarci, non avendo altra strada, butta via tutti gli schemi, i pregiudizi, le convenzioni, le inclinazioni del gusto. Per toccar con mano la verità elimina la menzogna, l'illusione, la fantasia. Tale è il suo realismo, principio morale prima che estetico: non culto ed amore, e devota imitazione, ma pura e semplice constatazione del vero. Benché sembri riprendere la realtà com'è, il quadro ha una costruzione complessa e nuovissima. L'orizzonte è alto, quasi non c'è cielo; oltre il ciglio erboso c'è lo smalto celeste dell'acqua sotto il sole [ che in questo caso è lo spiraglio di cielo] ; quello che avrebbe dovuto essere lo sfondo e dare spazio ed aria alla composizione, è soffocato dalla massa folta degli alberi [qui dalla mole imponente della Maiella innevata]. Le foglie che emergono sono individuate una ad una: non per gusto del particolare, ma per dare il senso dell'aria immota. Più che rappresentare un paesaggio con figure, Courbet ha voluto rendere l'atmosfera pesante, […] veduti dall'alto, i corpi quasi premuti sull' erba, belli (semmai) d'una bellezza animale; e come le loro forme non si modellano in uno spazio avvolgente, così i colori delle carni e delle vesti non risultano su uno sfondo arioso ma sul vicino tappeto verde del prato. Manca, volutamente, un centro, un asse ordinatore della visione. L'occhio è portato a spostarsi da un punto all'altro, cedendo al richiamo delle note di colore squillante, disseminate nel pur legatissimo contesto del quadro. Cerca l'orizzonte in quel piccolo tratto di cielo ed è intrecciato dal ramo che si staglia verde sull'azzurro […] Tutto ha la medesima importanza, o non ne ha alcuna: non v'è motivo di attribuire alle figure umane un significato diverso da quello degli alberi, dell'erba, dei fiori, della barca ormeggiata. Benché ogni cosa sia veduta e si dia a vedere con la medesima intensità, la descrizione non è particolareggiata: la pittura è larga e di denso impasto, la scala coloristica limitata a pochi toni dominati (bianchi, rossi, verdi, bruni). L'unità del piano di posa (prato- fiume) e la mancanza di un'architettura compositiva hanno due scopi: bloccare la fuga dello sguardo verso l'orizzonte; far sì che tutte le note coloristiche, ciascuna col proprio timbro, emergano simultaneamente all'attenzione . Il quadro non restituisce un episodio o un aneddoto, ma un frammento di realtà; il paesaggio non vuole rappresentare la natura, ma un luogo qualsiasi; le figure sono vedute come mere presenze fisiche, senza la presenza di interpretarne i sentimenti. La realtà è complessa, qualche volta confusa: bisogna prenderla com'è. Non c'è nessun bisogno che il pittore ami le cose che dipinge né che lo spettatore s'innamori del quadro. E il quadro medesimo non è la proiezione del reale, ma un pezzo di realtà: gli impasti di Courbet sono spessi e pesanti la materia pittorica non è affatto dissimulata, è come la creta in cui l'artista plasma quella cosa reale che è il quadro. […] Un realismo ideologicamente orientato non sarebbe più un realismo, perché non rifletterebbe la realtà com'è, ma come si vorrebbe che fosse. Perciò quel particolare realismo – sì epurato dall’illusorietà degli idealismi, ma ancora animato dalla fiducia positivista nel potere dell’uomo di conoscere e modificare la natura e la società - se ben identifica la poetica di Michetti e degli altri intellettuali del cenacolo michettiano, non esaurisce quella del d’Annunzio. Semmai tracce di essa perdurano nel nostro autore non oltre l’elaborazione della sua prosa novellistica e della spinta socialista della prima edizione di Canto Novo. La figlia di Iorio

Cronologia

La figlia di Iorio viene scritta in poco più di un mese - dal luglio all’agosto 1903, durante un soggiorno con la Duse nella Villa Borghese tra Anzio e Nettuno - come si rileva dall’autografo di prima stesura:

Atto primo: 18-31 luglio; Atto secondo: 3-16 agosto; Atto terzo 22-29 agosto. 13

Antonio Bruers avrebbe poi scoperto negli archivi del Vittoriale una decina di fogli di appunti relativi ad un primo e ad un secondo atto, che retrodatano la prima redazione del soggetto. Qui lo scenario è solo agricolo, senza alcuna incursione pastorale e, rispetto all’edizione del 1903, sono presenti notevoli diversità sia nei nomi dei personaggi che nella vicenda narrata.

L’idea dell’opera, quindi, vive già da tempo nella mente del d’Annunzio. Del 1895 è il famoso quadro del Michetti con lo stesso titolo, quadro che, stando ad una precisazione del poeta, ha la medesima fonte di ispirazione della tragedia: l’episodio a cui i due amici assistono nella piazzetta di Tòcco Casauria.

Nel 1899 Rolland incontra D’Annunzio con la Duse a Zurigo e del loro colloquio appunta che, terminato il Fuoco, il poeta è impegnato nella scrittura delle Laudi e nella conclusione delle Vergini delle rocce ma ha anche in programma due drammi: la Francesca da Rimini e la Figlia di Iorio. 14

Nel 1901 i giornali letterari annunciano la prossima uscita di una tragedia chiamata I figli della terra, parte di una ideale trilogia con La fiaccola sotto il moggio e Il dio scacciato, o di un più ambizioso ciclo costituito di cinque tragedie, con l’aggiunta di Primavera Sacra e di Giosìa Acquaviva. Si tratta di un progetto di ampiezza rilevante, il primo interamente dedicato al suo Abruzzo.

A Edmondo De Amicis nel 1902 l’autore confida di essere all’opera con «una tragedia rustica d’argomento abruzzese». Poi al Pascoli nel 1903 scrive: «buona carte su cui scrivere la mia tragedia pastorale»15. Unitamente al succitato autografo, anche queste dichiarazioni ci fanno presumere che una svolta nella scelta e nella trattazione del soggetto sia avvenuta fra il 1902 e il 1903.

La Figlia di Iorio viene rappresentata per la prima volta il 2 marzo 1904 al Teatro Lirico di Milano con allestimento scenico basato sui bozzetti di Francesco Paolo Michetti e con una minuziosa cura

13 G. D’Annunzio, Libro segreto, in Prose di ricerca, II, pp. 748-749. Il tempo di composizione fu di trentasei giorni non di diciotto Cfr. pagina precedente. 14 Cfr. G. Tosi, D’Annunzio visto da R. Rolland. Con documenti inediti (1), in «Il Ponte», XIX 1963, pp.. 339-62, a p. 349. 15 Cfr. E. Mariano, Il primo autografo della “Figlia di Iorio” in La figlia di Iorio: atti del VII Convegno di studi dannunziani, Pescara, 24-26 ottobre / [a cura del] Centro nazionale di studi dannunziani in Pescara, p.13. nei costumi e negli arredi, in parte acquistati originali in Abruzzo. La prima riscuote un trionfale successo, confermato il giorno seguente dalla critica.

Subito dopo la rappresentazione viene messo in vendita il volume stampato con particolare cura dai fratelli Treves, ed illustrato con xilografie di Adolfo De Carolis. Nel 1904 d’Annunzio dona il libro alla città di Pescara, siamo di fronte all’editio definitiva.

La tragedia sarebbe stata musicata nel 1906 da , su del d’Annunzio.

Trama

Precede l’opera un’indicazione che la colloca in un passato indeterminato o meglio in una dimensione temporale indefiniti e perciò quasi universale ed archetipica:

Ora è molt’anni

Lo stesso d'Annunzio scrive in una lettera al pittore Michetti, amico e corealizzatore della trama:

Tutto è nuovo in questa tragedia e tutto e semplice. Tutto è violento e tutto è pacato nello stesso tempo. L'uomo primitivo, nella natura immutabile, parla il linguaggio delle passioni elementari...E qualcosa di omerico si diffonde su certe scene di dolore. Per rappresentare una tale tragedia son necessari attori vergini, pieni di vita raccolta. Perché qui tutto è canto e mimica...Bisogna assolutamente rifiutare ogni falsità teatrale16

La vicenda è ambientata in Abruzzo, nel giorno di San Giovanni. La famiglia di Lazaro di Iorio sta preparando le nozze del figlio Aligi; l'atmosfera è gaia grazie ai canti e ai dialoghi allusivi ed effervescenti delle tre sorelle. Aligi pare comunque turbato da strane sensazioni e da presagi e si esprime in un linguaggio onirico. Mentre la cerimonia nuziale sta procedendo con un frammisto di riti rurali, ancestrali, pagani precristiani, irrompe nella casa Mila per cercarvi rifugio; lei è una donna dalla cattiva fama, figlia di un mago Iorio di Codro e maga ella stessa, ma è costretta a fuggire per evitare le molestie di un gruppo di mietitori ubriachi. Essi sono autorizzati da una consuetudine contadina a fare la cosiddetta “incanata”: offendere e assalire lo straniero di passaggio nei campi, tanto più se donna. Quando Aligi, incitato dalle donne presenti al matrimonio, sta per colpirla, viene fermato dalla visione dell'angelo custode e dai pianti delle sorelle. Aligi riesce persino a convincere i mietitori a rinunciare alla loro preda. Mila e Aligi finiscono per convivere assieme in una caverna pastorale in montagna; la loro unione non è peccaminosa e anzi sperano ardentemente di recarsi a Roma per ottenere la dispensa papale e poi sposarsi felici e contenti. Ma la situazione precipita rapidamente: Ornella, una sorella di Aligi, addolora profondamente Mila con il racconto sullo stato

16 Cfr. I. Ciani, Sulla genesi della figlia di Iorio, in La figlia di Iorio: Atti, p. 43. di disperazione in cui è caduta la sua famiglia, dopo la partenza di Aligi. Mila decide allora di fuggire, ma viene fermata da Lazaro che cerca di sedurla con la forza; Aligi interviene a difendere la donna e nasce così una colluttazione tra padre e figlio che terminerà con la morte del padre. Aligi evita la condanna solo per la falsa confessione di Mila, che si addebita ogni colpa, autoproclamandosi strega. Verrà condotta alla catasta per morire sulle fiamme.

L'autore stesso, nella lettera a Michetti, descrive perfettamente le motivazioni e gli intenti dell'opera: rivivere le sue radici della terra natale, nell'intento di eternizzare le figure pastorali antiche, grazie alla scoperta dell'immutata sostanza della natura umana. L'autore ricerca oggetti come utensili, suppellettili che abbiano l'impronta della vita vera, e nel tempo medesimo vuole diffondere sulla realtà dei quadri un velo di sogno antico. Perciò è proprio un sogno antico che riconduce il poeta alla sua terra d'origine. È infatti alla natura aspra della sua gente che il poeta salda la tragedia del destino. È un'opera variegata pervasa dal filo conduttore della musicalità dannunziana. Ecco perché sembra quasi rientrare nella normalità delle cose, la vicinanza della frase ricercata e colta con la filastrocca invece basata su temi popolari; oppure il tono realistico alternato a quello trasognato, indefinito e misterioso. Lo stesso poeta definirà il suo verso come: «intero, senza spezzamenti, semplice e diritto, entra nell'anima e vi resta». Le critiche, sia quelle contemporanee alla realizzazione dell'opera sia quelle successive, sono state, generalmente, positive. Scrive il Paratore: «È l'unica opera del poeta, che pur concedendo il debito posto al furore dei sensi, si solleva in un clima in cui i palpiti dell'umana passionalità vibrano di una risonanza universale». Rileva invece Umberto Artioli: «Nei paesaggi - stati d'animo, negli oggetti - emblemi, nei personaggi che solidarizzano o si contrappongono come frammenti di un'unica individualità scissa in se stessa ed affiorante sulla scena in una pletora di sembianti diversi, circola quel che gli espressionisti definiranno Ich - Drama: un'opzione drammaturgica a fondamento allegorico in cui l'eredità romantica, prende quota su un impianto di sapore medievale».

Il dramma di D'Annunzio è oggetto della rielaborazione parodica rappresentata il 3 dicembre del 1904 al Teatro Mercadante di Napoli da Eduardo Scarpetta con il titolo Il figlio di Iorio. Per la messa in scena senza autorizzazione, Scarpetta viene querelato dalla Società Italiana degli Autori ed Editori per plagio e contraffazione. Croce ne prende le parti, asserendo che è nello stesso spirito della tragedia la rivisitazione napoletana fatta dallo Scarpetta.

Esortata e seguita dall’autore nella sua realizzazione è invece la versione in dialetto abruzzese di Cesare De Titta del 1923.

Degna di nota è la rappresentazione scenica del 1934 al Teatro Argentina di Roma.a cura di Luigi Pirandello. L’autore si interessa a questo testo per le implicazioni simboliche, riscoprendone insieme ad altri una sorta di epos nazional-popolare. Le scenografie sono per l’occasione studiate da De Chirico, che immerge la vicenda in un ambiente di favola metafisico.

Esegesi della tragedia Torna integro nelle pagine della trageda l’immaginario, potremmo dire di repertorio, dell’Abruzzo dannunziano fino a questo momento costituitosi: la montagna della Maiella come seno datore di vita o, per traslato, come grande madre dalle nevi perpetue, con allusione a una castità di fondo (metafora ripresa da Pavese nella «Langa-mammella» di Paesi tuoi); i pastori che se ne distaccano per un destino loro assegnato dagli inizi del mondo; i riti dedicati alle fogge persistenti che sono «testimonianze della nobiltà e della bellezza di una vita anteriore»; i doni frumentari offerti un giorno alle divinità pagane il giorno dopo a quelle cristiane, senza soluzione di continuità. Ma anche altre e nuove indicazioni folkloriche:

 Viene nominata la gara del solco diritto simbolo di forza e non di abiezione bestiale.

Di cosa si tratta? Oggi essa è praticata a Rocca di Mezzo, in provincia dell'Aquila e si svolge nella notte a cavallo tra il sabato e l'ultima domenica di agosto. Pur essendo fatta risalire al XV sec., la gara è attestata per la prima volta negli "Atti Capitolari" della parrocchia nell'anno 1625. Un'antica leg- genda narra che questa tradizione nacque come voto fatto alla Madonna della Neve perché liberasse il paese dalla pestilenza che vi imperversava, offrendole in cambio un solco tracciato in suo onore. È da allora che tutti gli anni si svolge la gara: le squadre prescelte, radunate all'imbrunire alle pendici del Monte Rotondo, attendono l'accensione della luce sul campanile della chiesa della Madonna della Neve, il segnale d'inizio che dà il via alla gara. Il confronto si protrae per tutta la notte, durante la quale le squadre, composte da caposquadra, detto imbiffatore o impiffatore, aratore e zappatori, alla luce di lanterne artigianali, cercano di tracciare con un aratro il solco più diritto possibile nel percorso di circa 3 km in direzione del Faro del Calvario, la zona più elevata del paese.

La vittoria viene decretata al mattino seguente da un'apposita giuria che, posta in cima al campanile, verifica con un filo a piombo quale squadra abbia tracciato il solco "più diritto". I vincitori ricevono in premio e conservano per un anno il gonfalone del comune, sul quale è raffigurato l'aratro tirato dai buoi e che viene solitamente portato in processione insieme alla statua della Madonna della Neve.

 Fra i riti abruzzesi, notevolmente interessanti sono quelli descritti nella Fiaccola sotto il moggio costituiti da pratiche di purificazione e immunizzazione dai morsi dei serpenti. Prima fonte di ispirazione per il quadro di Michetti e solo dopo per l’opera teatrale del d’Annunzio, come vedremo questi riti e la figura del serpente trovano riscontro e acquisiscono un significato particolare in quella che tratteggeremo come la rinnovata concezione dannunziana della terra natia.

 Una notazione si deve certo riservare al giorno in cui le vicende si svolgono: la notte di San Giovanni, ovvero il solstizio d’estate. Diversi proverbi e credenza popolari continuano ad associare questa data ad eventi straordinari: “La notte di San Giovanni destina il mosto, i matrimoni, il grano e il granturco” recita un proverbio popolare a sfondo religioso, diffuso in molte zone d'Italia e la cui spiegazione va ricercata nella straordinarietà della notte di San Giovanni e nelle innumerevoli credenze e superstizioni legate alla festa e che variano da regione a regione. Ma anche per i popoli dell'Europa settentrionale, gli inglesi ad esempio, la trazione è simile ed è proprio questa la notte nella quale è stata ambientata l'opera di Shakespeare Sogno di una notte di mezza estate.

Un dialetto istriano dice invece: «San Giovanni col su' fogo el brusa le strighe, el moro, e 'l lovo» "San Giovanni con il suo fuoco, brucia le streghe, il moro ed il lupo." Il proverbio rileva l'usanza antica di accendere i fuochi, utili per allontanare la sfortuna e i contagi.

Nella Figlia di Iorio in effetti in questa giornata si celebrano le nozze di Aligi e Vienda, nozze fru- mentarie secondo la tradizione. Durante la mietitura tra i contadini si consuma l’”incanata”. Il pas- saggio della straniera-strega altera l’ordine costituito nel giorno del rito e infine paga il suo peccato essendo messa al rogo dalla comunità. Interessate in questo senso è che la strega nel proverbio venga associata al lupo, infatti il suo ruolo e la sua funzione nell’organismo sociale arcaico della tragedia ricordano da vicino la funzione svolta nell’antica Roma dalla cerimonia dei lupercalia. “Capro espia- torio”, ancora nell’accezione romana, dei peccati della comunità, il personaggio di Mila si è difatti interpretato in senso cristologico come colei che permette l’espiazione del peccato attraverso il sacri- ficio. Dichiarata e dimostrata “sacra” dalla presenza vicino a lei dell’angelo muto e dalla testimo- nianza di Aligi e Ornella, la si può anche associare all’homo sacer agambeniano17, seguendo questo ordine di idee.

 Altro elemento che afferisce alla tradizione antico-romana è la fine cui viene destinato il parricida, alla quale Aligi scampa grazie alla falsa confessione di Mila. La pena tipica era quella del sacco (culleus), nel quale il parricida era chiuso insieme con bestie capaci di martoriarlo (un cane, un gallo, una vipera e una scimmia) e poi gettato in mare profundum; quest'ultima esigenza fa supporre un'im-

17 G. Agamben, Homo sacer, Torino, Einaudi, 1995. portazione straniera, forse etrusca. Certo, la pena (che troviamo riportata al tempo del secondo Tar- quinio, ma per un caso di sacrilegio) fu applicata spesso in epoca repubblicana; e probabilmente il parricidio era uno dei delitti in seguito ai quali più difficilmente si tollerava che il colpevole si sot- traesse alla condanna con l'esilio. Nemmeno la legge Pompea de parricidio, votata su proposta di Cn. Pompeo Magno nel primo o nel secondo dei suoi consolati (55 o 52 a. C.), mutò radicalmente la situazione giuridica, quantunque il deferire anche il parricida al giudizio di uno dei soliti giurì presie- duti da pretori portasse a largheggiare nella pratica di evitare per i cittadini la pena di morte. Nel primo secolo dell'impero, l'applicazione della pena del sacco nei nuovi tribunali imperiali è sicura- mente attestata; nel sec. II Adriano la sostituisce, dove il mare sia lontano, con l'esposizione del de- linquente alle belve; più tardi il giurista Paolo (o un suo epitomatore del sec. IV) ne parla come di pena non più praticata, ricordando fra i surrogati anche la pena del rogo.

Tuttavia la pena del sacco, passata nella legge romana dei Visigoti e in compilazioni analoghe, si trova ancora applicata nel Medioevo in qualche parte della : altrove la pena di morte è aggravata o resa più infame.

Metro Dopo aver brevemente tracciato i temi della tragedia, passiamo ad analizzarne la forma e lo stile al fine di comprendere più a fondo quale sia la lettura che d’Annunzio intende fare del suo Abruzzo ne La figlia di Iorio.

La scelta dei versi già rimanda a un’idea di tragedia ripresa dalla tradizione greca antica, della quale d’altra parte d’Annunzio non fa mistero. Notorio è anche il suo sogno che i resti del teatro romano di Nettuno fungessero da scenario per la messa in scena dei suoi drammi.

La presenza del coro d’altra parte è una conferma in questo senso: coro composto inizialmente dalle sorelle di Aligi, dalle parenti, poi dai mietitori e più avanti ancora dalle parenti e dalla turba.

Il metro è vario: favorito è l’endecasillabo dattilico per la pacatezza del mondo pastorale, e i versi brevi con un certo privilegio per l’ottonario e il novenario melodrammatico, per connotare la violenza del mondo agricolo

Nel dare indicazioni sulla traduzione francese ad Herelle, d’Annunzio spiega come l’assonanza debba preferirsi alla rima. L’assonanza ha infatti un valore musicale infinitamente superiore a quello della rima perché inconscio, legato all’oralità e all’udito più che all’identità grafica e alla vista.

Inoltre con le seguenti parole chiarisce l’andamento metrico e la funzione del ritmo spezzato nel verso: I miei novenari, nel testo, ora acquistano un piede ora ne perdono uno: diventano decasillabi e ottonari e l’accento si sposta specialmente nel primo emistichio – di continuo. Nessuna regolarità18

Siamo di fronte ad un recupero dell’anisosillabismo giullaresco medievale, la metrica dei grandi poemi orali. La riscoperta della prima poesia religiosa o profana in lingua italiana, d’altra parte, avviene in questi anni anche nelle Laudi.

Pone l’accento su questa stretta correlazione anche il Gibellini, che nota come il Ditirambo IV Il volo di Icaro, una volta ricondotto alla sua vera data (volutamente depistata dal poeta) - ottobre 1903 e non agosto 1902 - riassorba «nell’estrema esperienza alcionia i brividi mitopsicanalitici saggiati nella tragedia abruzzese». La vicenda di Icaro, a lungo pensata, può dunque pienamente narrarsi dopo una doppia fondamentale esperienza: la rivisitazione (anche nietzscheana) della Grecia in Laus vitae, conchiusa nel maggio 1903, e la regressione dei conflitti elementari e metastorici della Figlia di Iorio, in terra d’Abruzzi «or è molt’anni» (18/07-29/08 1903), spartiacque per una materia difficile e bruciante, ma anche di una misura ritmica e metrica nuova e antica:

La mia volontà di dire rompeva il metro, superava il numero. Ogni grande strofa del ditirambo m’incominciava «Icaro disse», mi si rifaceva «Icaro disse».

«La misura ‘poematica’ del più esteso componimento di Alcyone poteva compirsi con singolare libertà metrica dopo la liberatoria esperienza della strofa lunga di Laus vitae e lo sperimentalismo ritmico della Figlia; recuperando attraverso il maturato tirocinio dell’assonanza, gli accenti di un’epica metacronica: Ovidio, ma anche, per la tecnica delle lasse similari (ço dist Rolland – Icaro disse) quella Chanson de Roland con cui da poco si era cimentato anche Pascoli. Con la caduta partecipe di Icaro, sarebbe caduto anche l’universo metrico della sezione più schiettamente mitico- metamorfica di Alcyone e dopo il Ditirambo, anche metricamente il sogno di Alcyone tenderà a ridefinirsi in metri tendenzialmente chiusi»19. Un ditirambo poematico che direttamente deriva dalla grande rappresentazione mitico-giullaresca che è La figlia di Iorio.

Lingua e stile

La lingua de La figlia di Iorio non è una lingua reale: si tratta di un esperimento eseguito in laboratorio, giustificato dall’«ora è molt’anni» dell’incipit. D’Annunzio non opta per il dialetto né per la lingua media del dramma borghese, decide piuttosto di recuperare o meglio ricostruire l’italiano

18 G. Parenti, La traduzione francese della “Figlia di Iorio”, in La figlia di Iorio: atti, p. 165. 19 P. Gibellini Logos e Mythos: studi su Gabriele d’Annunzio, L. S. Olschki, Firenze, 1985, pp.131-132. del ‘300. È una materia lessicale ricucita su base sintattica popolare/dialettale con frequenti inversioni arcaizzanti, solo a tratti filologicamente giustificate. Vi si aggiungono formule dialettali, strutture latine, lessemi del folklore, religiosi, popolari, scritturali. Il repertorio lessicale è primitivo, desunto da Jacopone, Cavalca, Passavanti e simili, per situare l’evento drammatico nel clima della nostra più antica poesia religiosa

Nel manoscritto originale è visibile una tensione emendatrice del poeta che sposta il dettato proprio verso quell’idea mitico-arcaica. Dalle correzioni è visibile la tendenza ad una maggiore letterarietà (morfologica e lessicale), ad una maggiore espressività, determinazione, arcaicità (anche nella disposizione sintattica) e dialettalità o regionalismo. Dialettalità e arcaismo risultano le facce sovente inestricabili di un unico paleolinguaggio.

Come si è già visto elementi popolari sono innestati nella tragedia, e fra questi non si distinguono solo tradizioni folkloriche riportate indirettamente ma anche veri e propri componimenti o proverbi, canzoni e preghiere incastonate nel testo. Ma «Il d’Annunzio non interrogò il popolo direttamente: intermediario fra questo e il poeta fu Antonio De Nino il quale ridestava con le narrazioni e i suggerimenti, a volta a volta, il fuoco sacro della terra natia»20.

In De Nino non è l’unico a ricoprire questo ruolo, di seguito si riportano le altre sue principali fonti:

-Tommaseo: Vocabolario; Canti toscani, corsi, illirici, greci ; Proverbi (i proverbi talvolta diventano motore stesso dell’azione perché indizio di una precisa mentalità: sono d’esempio i seguenti motti dai quali deriva parte della trama de La figlia di Iorio: «La lampada degli empi si estinguerà»; «Guarda il comandamento di tuo padre/ segui l’insegnamento di tua made. Fissali stretti sul tuo cuore, appendili al tuo collo»)

-Antonio De Nino: Usi e costumi abruzzesi

-Gennaro Finamore21: Tradizioni popolari abruzzesi. Dagli antropologi d’Annunzio attinge per i canti popolari che traduce dal dialetto abruzzese al toscano antico

-Angelo De Gubernatis: Studi nunziali

20 O. Giannangeli, “La figlia di Iorio” e il canto popolare, in La figlia di Iorio: atti, p. 121. 21 Cfr. B. Mosca, Un amico abruzzese del d’Annunzio e Michetti, in «Il libro italiano», Roma, n 4, Aprile 1939, pp. 203- 16). Il D’Annunzio ricorse anche agli scritti di un altro cultore di tradizioni popolari, il Finamore e altre fonti per lo più conosciute per il tramite dei citati studiosi; Crocioni Problemi fondamentali del folklore con due lezioni su il folklore e d'annunzio; Rosina, Mezzo secolo ella figlia di Iorio. Questi gli studi che mettono in luce il folklore abruzzese in d’Annunzio. -Pitré: Archivio per lo studio delle tradizioni popolari

-Bibbia Diodati (soprattutto nel secondo atto come dimostra Milva Cappellini22)

- È presente inoltre una vera e propria lauda francescana, rifacimento di quelle laudi medioevali che nel popolo abruzzese sono tutt’ora in uso. È la lauda della scena seconda dell’atto terzo: imitazione del pianto della madonna in una lauda del Venerdì Santo.

D’Annunzio dichiara apertamente le sue fonti nel Commentaire allegato alla versione francese dell’opera, al fine di sottrarsi alle accuse di plagio nei rispetti de La lebbrosa di Henrie Bataille (1896). In questa tragedia, con la quale Bataille si mette sulla scia del folklore bretone, compare la figura dell’angelo muto, ma anche un rapporto d’amore, quello di Evroanik e Aliette, molto simile a quello tra Aligi e Mila. Per di più vari rituali sono sovrapponibili a quelli abruzzesi e, ad una più attenta disamina, risulta documentata la richiesta pervenuta alla Biblioteca Nazionale di Roma dalla villa di Nettuno del volume Barzaz-Breiz. Chants populaires de la Bretagne. Tale testimonianza ci consegna un’immagine dell’Abruzzo filtrata o strettamente connessa con la tradizione bretone.

Ancora sulla traduzione in francese della Figlia di Iorio, si esprime Giovanni Parenti:

Herelle doveva fare i conti con la forma più subdola del preziosismo, la simulazione della sua assenza. Per incutere quel senso di remota maestà ancestrale che sembra ricondursi alle origini omeriche della letteratura occidentale, anteriore ad ogni specializzazione sociale degli stili, per cui in Omero il pastore di genti non si distingue stilisticamente dal pastore di greggi, e per la Figlia di Iorio la qualifica stessa di tragedia pastorale è a rigore classicistico una contraddizione in termini.23

Gli espedienti suggeriti dal d’Annunzio ad Herelle vanno dall’uso dei patronimici alle inversioni, marchi retorici della poesia orale presenti anche nella versione italiana. Gli suggerisce inoltre di seguire la linearità sintattica della frase italiana traducendo solo il lessema, sostituendo alla parola italiana quella francese nell’ordine della frase nostrano. Convinto che ciò avrebbe determinato spostamenti altamente poetici, rimane deluso al venir meno di tutto il ritmo del testo.24 Il severo giudizio di d’Annunzio sul lavoro di Herelle testimonia inoltre la grandissima importanza riservata alla forma. Di qui sarebbe nato nell’autore il desiderio di provarsi nel teatro francese, laddove la

22 R Bertazzoli, L’abruzzo senza tempo nella scrittura tragica della “Figlia di Iorio”, in La lingua del teatro fra d’Annunzio e Pirandello: atti del Convegno di studi, Macerata, 19-20 ottobre 2004, a cura di L. Melosi e D. Poli, EUM, Macerata, 2007, p. 41. 23 G.Parenti La traduzione francese, p. 167. 24 Un’operazione dall’affinità spiazzante è quella che vede l’inglese ricalcare in traduzione lineare la sinassi del gaelico nell’opera di Synge, drammaturgo del Gaelic revival. Dal 1898 al 1902 ogni anno l’autore irlandese si reca nelle isole Aran per appuntare frasi e detti indigeni, tuttavia anche nella sua lingua teatrale si può rintracciare un massiccio filtro libresco. lingua della prima letteratura romanza, quella del poema cavalleresco di popolo, è più antica e più strutturata. In francese antico avrebbe allora scritto tragedie come Il martirio di San Sebastiano.

Interpretazione

- La figlia di Iorio e la canzone popolare

Il 31 agosto 1903 il Michetti è il primo a ricevere la voce di giubilio del poeta per l’opera compiuta. A lui d’Annunzio scrive:

L’azione è fuori dal tempo, retrocessa in una lontananza leggendaria, come nelle narrazioni popolari. Le canzoni del popolo e del contado mi hanno dato i modi e gli accenti. Il verso è intero, senza spezzamenti, semplice e dritto; entra nell’anima e vi resta. E qualcosa di omerico – senza che io l’abbia voluto – si diffonde su certe scene di dolore. Il pianto di un pecoraio ricorda la lamentazione di Priamo.25

E ancora il 3 settembre al Pascoli in una già citata epistola: La mia tragedia pastorale è terminata. Immagina una grande canzone popolare in forma drammatica. L’argomento è abruzzese. E questa volta ho sentito salire la poesia dalle radici profonde. Mi consenti di dedicartela in testimonianza d’amore?26

Si profila immediato e centrale il collegamento con la canzone di popolo e con i poemi omerici. Molti anni più tardi nel libro segreto spiega la chiave di lettura dell’opera:

La canzone popolare è quasi una rivelazione musicale del mondo, in ogni canzone popolare (vera, terrestra, nata di popolo) è un’immagine di sogno che interpreta l’apparenza. La melodia primordiale che si manifesta nelle canzoni popolari ed è modulate in diversi modi dall’istinto del popolo mi sembra la più profonda parola sull’Essenza del mondo. Ora l’alto valore del dramma La figlia di Iorio, consiste nel suo disegno melodico, nell’esser cantato come una schietta canzone popolare, nel contenere la rappresentazione musicale di un’antica gente. Il mio sforzo (in verità maldico “sforzo” che io composi l’intera tragedia pastorale in diciotto giorni, tra cielo e mare, quasi obbedendo al demone della stirpe che ripeteva in me i suoi canti) la mia obbedienza consisteva nel seguire la musica col sentimento d’inventarla27

C’è in queste parole quasi la pretesa che l’opera sia il prodotto di una sapienza collettiva, che gli sia stata dettata, che sia stata una forza inconscia a scriverla, che lui si sia fatto solo voce, intermediario di una coscienza popolare o di un genius loci, di «un demone della stirpe». Di tutt’altro segno le dichiarazioni rilasciate anni prima, nel 1914, in un’intervista a Jarro. Qui, parlando a posteriori della lingua della Figlia di Iorio, sembra ammetterne la genesi artificiosa, il linguaggio creato a tavolino.

25 Cfr. O. Giannangeli, “La figlia di Iorio” e il canto popolare p. 119-120. 26 Ibidem. 27 G. D’Annunzio, Libro segreto, in Prose di ricerca, II, pp. 748-749. Questa mia frequenza con i nostri classici, l’abito dell’antico parlare, la dovizia di parole acquistata, divennero per me una connaturata facoltà […] e lo stesso dico per la figlia di Jorio, tutta in linguaggio popolare del ‘300: e ove sono canzoni che i folkloristi credettero essere genuini canti popolari, pe’ loro ritornelli, il loro atteggiamento, tutto il loro andamento di espressione. […]. Così un uomo di studio (noi aggiungiamo di genio) può fare, in poche ore, per una facoltà sapientemente nutricata, e balzata fuori d’improvviso, quel che il popolo fa, in virtù della istintiva espressione del suo sentimento, per secoli.28

È in queste dichiarazioni contradditorie che si deve rintracciare il fulcro dell’intero progetto che anima la redazione delle tragedie di materia abruzzese come grandi canti popolari. L’Abruzzo delle raccolte e dei romanzi precedenti assume una dimensione sovra-territoriale e sovra-temporale, si staglia all’origine di tutti i tempi e di tutte le vicende umane. È la forma – mai disgiunta dal contenuto o neutra – della canzone popolare a produrre tale effetto? A filtrare i ricordi di un Abruzzo ormai distante a renderne l’essenza?

Bisogna aspettare gli anni ’20 per riconoscere nell’operazione compiuta da d’Annunzio una cosciente riproduzione di quanto, secondo le rivoluzionarie teorie di Milman Parry, ha rappresentato la composizione dei poemi omerici, composizioni destiate alla recitazione e accompagnate dalla musica, tramandate solo oralmente e che dell’oralità portano il marchio in precisi elementi (i patronimici, la formularità ecc.). Ma già noti al tempo di d’Annunzio erano gli studi di Gaston Paris e, a seguire, della scuola tradizionalista in materia di filologia romanza. Ancora precedenti poi sono le fiabe dei fratelli Grimm (1812) e la scoperta dell’indoeuropeo con il Sistema di coniugazioni di Franz Bopp (sempre 1812), che in altre forme portavano alla luce il potere della sapienza popolare di conservare, riprodurre e replicare un sistema di valori, un immaginario, una cosmogonia mitologica trasversale rispetto a latitudini spazio-temporali, archetipica quasi e per questo capace di parlare a tutti indistintamente.

Pertanto la dedica di d’Annunzio al suo Abruzzo, come luogo fisico, e alla sua famiglia, vera e presente, subito si estende, nel recinto della tragedia, ad un sistema sovratemporale, ad una stirpe tragica, una trinità cristiana e precristiana.

Alla terra d’Abruzzi Alla mia madre alle mie sorelle Al mio fratello esule al mio padre sepolto A tutti i miei morti a tutta la mia gente Fra la montagna e il mare Questo canto Dell’antico sangue consacro

28 N. Merola, D’Annunzio e la poesia di massa: guida storica e critica, Laterza, Bari, 1979. Proietta perciò nel suo Abruzzo, già finemente dipinto nelle raccolte poetiche e nei romanzi precedenti, una identità nuova. Grazie alla presa di coscienza di una sostanziale immutabilità dell’animo e dell’istinto umano ma anche della comunanza storica delle sue origini, applica alla terra natìa la sapienza millenaria della cultura occidentale. Quale sia stato il salto decisivo che ha permesso questa metamorfosi del tema nell’opera di d’Annunzio, lo vedremo in seguito, con l’appurarne, seppur a volo d’uccello, la continuità e la irreversibilità.

Per riannodare dunque i fili di quanto detto: d’Annunzio con La figlia di Iorio scrive una canzone popolare, nei modi e nelle tematiche delle grandi composizioni orali tradizionali. Come vi riesce?

Secondo Giannangeli per coniare una vera canzone popolare d’Annunzio parte dal ricordo per poi riempirlo con le succitate fonti antropologiche.29

Lo studioso prende a prestito il pensiero di Bela Bartòk per meglio far comprendere l’operazione compiuta dal poeta. Il musicologo ne L’influenza della musica contadina sulla musica colta moderna del 1931 avrebbe profilato tre possibili strade:

- usare la musica contadina senza apportare modifica, aggiungendovi solo una melodia, incastonandola tra preludio e postludio

- Non utilizzarla testualmente ma inventarne un rifacimento

- Non rielaborare delle melodie ma dare alla propria musica la stessa atmosfera della musica popolare

Nelle novelle e nel Trionfo della morte secondo Giannangeli ci troviamo di fronte ai primi due casi. Nella Figlia di Iorio al terzo.

- Sospensione del tempo

D’Annunzio scrive, in occasione della prima rappresentazione, una lettera a Michetti (suo scenografo): «Penso che, per esprimere poesia, la lontananza e il ricordo giovino più che lo studio della realtà presente; giova allontanarsi dalla terra di Aligi e di Mila per entrare nello spirito della tragedia». La sospensione del tempo si dimostra essere il mezzo attraverso il quale trasfigurare l’Abruzzo ed, eternandone le vicende, produrre autentica poesia tragica.

29 O. Giannangeli, “La figlia di Iorio e il canto popolare”. Secondo Ruggero Morresi30 infatti il testo riscuote grande successo di pubblico anche perché è pensato per una platea trasversale: la stessa lingua, infarcita di prelievi che il d’Annunzio fa da diverse realtà linguistiche, copre una trasversalità tale per cui ognuno può sentire propria la tragedia. A livello paradigmatico più che a livello sintagmatico, secondo lo studioso, va perciò concepito lo spazio e il tempo tragico per d’Annunzio. Esso risulta molto diverso rispetto alle coeve Laudi in cui la linearità del verso contiene tutto, dai cinque sensi alla geometria del luogo e dello scorrere temporale. Non siamo però unicamente di fronte ad un espediente pubblicitario del pur avvedutissimo poeta.

A proposito dell’espansione paradigmatica del tempo: troppo spesso si è parlato di un non tempo lasciandone però in sospeso le dovute spiegazioni. Questa notazione è giustificata dall’”ora è molt’anni” della prefazione. Quest’ultimo però è un tempo indeterminato: un passato indefinitamente lontano che significa “oggi e sempre”. Altra cosa è il tempo circolare, a più riprese menzionato dagli studiosi, che ben descrive la vita ripetitiva della comunità contadina degli abitanti della valle. L’arrivo della straniera determina l’uscita da tale temporalità ciclica, per l’innesto di un tempo storico o cristologico. Questo evento quindi, l’immissione della linearità storica nella ciclicità naturale, è una costante dell’umanità – ora è molt’anni-. Umanità che, d’altra parte, ha una collocazione almeno geografica: l’Abruzzo, motivo per cui ci sembra giustificato fare una distinzione tra le terre completamente “colonizzate” dalla dimensione storica, e quelle che non lo sono, il sud Italia per esempio, in cui D’Annunzio rivede le origini della civiltà, l’alba della cultura greca. Ciò che è interessante è quindi il fatto che la canzone popolare possa aprire in un qualsiasi momento (tempo indefinito) un vuoto temporale, un non tempo, per cui attraverso il canto la storia è sospesa e ricondotta ai ritmi della terra. In questa sospensione si rappresenta quindi l’immissione del tempo storico come la violazione di un ordine e di una consuetudine quasi sacri.

Nell’abbozzo dell’opera non è ancora presente questa specificazione temporale né si riscontra una massiccia ripresa del De Nino. Non si è ancora consumata quella che potremmo chiamare la svolta del soggetto abruzzese nella poetica dannunziana. Per tali ragioni nella prima stesura è ancora accettabile una interpretazione politica o sociale del dramma pastorale. Con l’indefinitezza d’Annunzio si chiama fuori da queste implicazioni, o forse decide di sposarle tutte. Tutte le dimensioni politiche di rivolta possono essere convogliate in quella lotta tra dike e nomos, che ripete in altre forme il dramma politico per eccellenza: l’Antigone di Sofocle. Nell’interpretazione

30 R. Morresi, Lo spazio riempito: un’ipotesi sul rapporto linguaggio poetico/linguaggio teatrale in d’Annunzio, in La lingua del teatro, pp. 49-61. Anche secondo la Gunsberg (Primitivismo e arcaismo ne La figlia di Iorio) è lo stile e l’uso della lingua che trasportano in contesto astorico, anzi antistorico. lacaniana31 l’eroina tragica di fa portatrice, quasi in balia di una forza che trascende la sua volontà, di una legge del desiderio opposta ad una legge del bene comune.

Anche Aligi è quasi incosciente, infatti dice a più riprese di avere la sensazione di aver dormito settecento anni. Ne La figlia di Iorio a dividere i due spazi di giurisdizione della legge e del desiderio è il fiume. Quest’ultimo, separando montagna e pianura, separa due mondi e due tempi:

Io era come un uomo all’altra riva D’una fiumana che vede le cose Di là da l’acqua e tra mezzo passare Vede l’acqua che passa eternamente32

Raffaella Bertazzoli così riassume efficacemente quanto qui si è tentato di illustrare:

Nell’imitazione dell’archetipo l’«eterno drama» ripropone la riutilizzazione del momento mitico [il “gran tempo” in Eliade, il cui spazio genetico si colloca tra i ritmi ciclici della Natura (si apre al solstizio d’estate) e nelle cadenze del calendario liturgico (siamo nel giorno di S. Giovanni)] [..] La violenza dell’atto di Aligi sui nomoi arriva alla katastrophé, spezzando l’equilibrio atavico grazie al quale è possibile l’eterno ritorno. Per buona parte del dramma infatti Aligi uscirà dal tempo circolare per entrare nel tempo storico, il presente in cui è Mila. Aligi vi giunge in uno stato di alienazione che è in parte mimesi della condizione dell’eroe gestito dal Fato. […] Riemerso da uno stato di onirismo alienato, Aligi cercherà di essere finalmente l’auctor del proprio destino: ma sarà il furor a guidare la sua mano di parricida, con il conseguente ritorno all’oblio della realtà […] così verrà riaccolto nel suo nucleo sociale senza aver compiuto una vera katarsis.33

- Lo straniero come il lebbroso per mezzo del quale la società si conferma e si legittima

Come già anticipato, in molti hanno interpretato la tragedia in senso patriottico34. In effetti ci sono alcuni rimandi significativi, come per esempio l’uccisione del padre da parte del figlio, che non solo in senso edipico, significa il subentrare di una generazione alla precedente nella guida del nucleo sociale. Inoltre tale presa di potere avviene a causa, grazie e per tramite dello straniero, o meglio della straniera; ancor più connotata negativamente come alter che definisce e conferma l’ego della comunità. Mila sarebbe invero destinata al sacrificio, come ciascuno straniero che attraversi il campo nel momento della mietitura. Il sacrificio umano è, dai tempi dei tempi, il contrappasso necessario per un buon raccolto, è parte della vita dei campi, di un passato storico quanto mitico. Ricordiamo il celebre sacrificio di Ifigenìa per la navigazione da parte di Agamennone. Sfuggire questo sacrificio, o essere complice equivale a ribellarsi alla comunità e alle sue leggi.

31 J. Lacan, Il seminario Libro VII, Einaudi, Torino, 1994. 32 G. D’Annunzio, La figlia di Iorio, Liber Liber, Atto II, scena 2, p. 69. 33 R. Bertazzoli, L’abruzzo senza tempo, p. 44. 34 «Tragedia greca? No, ma tragedia nazionale» Morello ;«Un contributo alla nazione» Scarfoglio. Ne La fiaccola sotto il moggio è più accentuato ed esplicito l’impegno politico della tragedia greca. La straniera può e deve essere legittimamente sacrificata, come il “lebbroso” in senso medievale, l’homo sacer in senso romano, o il capro espiatorio. La straniera invade la patria, viola la Casa, merita la morte. Anche l’azione sovversiva di Aligi viene meno e si purifica con l’accusa e l’autoaccusa da parte di Mila. La straniera, il paria calamita su di sé tutte le scorie dell’ordine civile e, condannata a morte, purifica la comunità.

Lode a Dio! Gloria a Dio! Gloria Patri! L’infamia è tolta da noi La macchia non è sopra noi. Di nostra gente non viene Il parricida. A Dio gloria! Lazaro l’uccise la femmina Straniera, di Codra alle Farne35

ALIGI Cancellate da me ogni traccia! Fate che udito e creduto io non abbia giammai! […] Sì, per un poco scioglimi Iona, solo ch’io possa levar le mani contra costei (no, non l’ardete: la fiamma è bella!), chiamare i morti tutti i miei morti, tutti i miei morti nella mia terra, quelli degli anni dimenticati, i più lontani, i più lontani, settanta braccia sotto la zolla, a maledirla, a maledirla!36

Mila lancia maledizioni anche mentre cerca di portarsi in salvo. È chiamata strega e come una strega merita il rogo. Lo stesso spettatore alla fine viene colto dal dubbio che Mila davvero abbia ingannato tutti, che abbia Plagiato Aligi e la sorella Ornella, proiettando con le sue arti magiche l’angelo muto. Effettivamente è dipinta in modo ambiguo, dove non idiosincratico: da una parte accompagna ogni battuta con un invocazione al Signore e ai Santi, ma maledice e fa iatture ai suoi nemici, fino al grido finale elevato dal fuoco del rogo: «la fiamma è bella, la fiamma è bella!». È così che il male è riassorbito e perdonato.

La straniera dà ad Aligi la possibilità di uscire dalla dimensione mitico-naturale in cui vive. In preda anche lui al “demone del mezzogiorno”, dice di aver dormito settecento anni e di non ricordare la sua culla, la terra natìa, la sua origine. Recupero che avviene invece alla fine, proprio grazie alla straniera, quando, purificato delle sue colpe Aligi è reintegrato nella società. Allo stesso tempo la comunità acquisisce il respiro di un altro tempo, è fisiologica l’immissione di un’altra legge nella legge della società, il male è perdonato e tolto.

35 G. D’Annunzio, La figlia di Iorio, Liber Liber, Atto III, scena Ultima, p. 151. 36 G. D’Annunzio, La figlia di Iorio, Liber Liber, Atto III, scena Ultima, p. 157.

- L’interpretazione cristologica e il sacrificio che libera dal male.

Come si è già accennato, c’è continuità tra liturgia pagana e liturgia cristiana, e per essere più precisi, la fede contadina è una diretta filiazione e trasformazione dell’antica credenza negli dei della terra e negli spiriti. Il cristianesimo, come d’altra parte la superstizione, altro non è che un insieme di comportamenti conservativi tesi a proteggere il sistema. E nella tragedia viene a manifestarsi questa continuità, è, l’opera stessa, un atto ostensorio dell’episodio storico della venuta di Cristo in terra. Ruggero Morresi parla del «passaggio del fatto cristiano per eccellenza, la morte salvifica di Gesù, in un Cristo al femminile che si amalgama col mito della madre terra». Cristo, Dio umanato che discende sulla terra per liberare il mondo dal peccato originale. Oppostosi alla legge dell’ebraismo, abbattuto il tempio sconta la sua pena morendo in croce.

Diffusa è l’interpretazione cristologica di Mila, alter ego di Aligi, anche lui Cristo, maschile di un Cristo sdoppiato. Infatti nel dedicare al figlio una laude della Passione, Candia eleva definitivamente il rapporto madre figlio alla sacralità di quello fra la Madonna e Cristo.

Non è un caso che anche di Antigone sia stata fatta un’interpretazione cristologica. Ma se entrambi - Antigone e Cristo - nel momento della fine tradiscono la loro mortale imperfezione – elevando grida di pianto l’una e invocando il padre l’altro – la Mila dannunziana, superuomo al femminile e proprio perché al femminile ancor più superomistica, accoglie ridendo il fuoco.

- Opposizione tra mondo agricolo e mondo pastorale

La figura del pastore, dalla Bibbia a Leopardi, assume particolari connotazioni. Il pastore è anche il cantore, quindi è simbolo del poeta, che si allontana dalla vita civile e in eremitaggio innalza il suo canto. È nello stesso tempo un eversivo, in questo senso Aligi può essere considerato l’apoteosi del pastore ribelle e può rappresentare, fra le altre cose, una figura storica come il brigante. Il mondo agricolo è invece considerato un mondo più evoluto anche in termini di storia dell’economia. A partire dall’insediamento sedentario agricolo si attua un progresso della civiltà che comincia a compiere i suoi scambi col denaro ed è il beneficio economico che Lazzaro oppone alle parole d’amore del pastore artista nell’offerta, inizialmente non violenta, prospettata a Mila di Codro.

L’Abruzzo trasfigurato e trasvalutato delle Laudi

Ad una più attenta analisi l’Abruzzo delle Laudi non è solo quello dei Pastori delle Terre lontane, è anche e soprattutto l’Abruzzo mitico de La figlia di Iorio. Quell’Abruzzo, filtrato e reinterpretato alla luce del viaggio in Grecia - motore di tutte le Laudi e non solo della Laus (vitae) d’apertura -, torna con gli stessi tratti portanti, eppure trasvalutati, tanto nella tragedia quanto nelle liriche della raccolta. Pertanto solo da una lettura incrociata con le coeve Laudi si può comprendere il senso dell’operazione compiuta da d’Annunzio nel suo dramma pastorale - il voler ricreare una canzone di popolo con le forme e le fonti di originali canzoni di popolo, che racconti una storia senza tempo e in cui l’ordine sociale risulti violato e restaurato. Si tratta, come vedremo, di una riflessione sul mito e sulla tragedia greca, mediata dalla filosofia di Nietzsche, che nel frattempo ha investito il lavoro di d’Annunzio poeta in misura totalizzante. È tramite la sua produzione tragica in primis, e quella laudistica poi, che d’Annunzio si presenta come nuovo eroe rifondatore del mito e di un tempo rinnovato, trasvalutato appunto nell’atto di riassorbire e risolvere in sé la possibilità del non-tempo. Quanto fin qui enunciato dovrà ora dimostrarsi alla luce dei versi dell’Annunzio, delle prime strofe della Laus vitae, di parte di Alcyone e ancora di alcuni versi di Maia.

L'annunzio è del 1899. Maia completa è pubblicata da Treves nel 1903.

Udite, udite, o figli della terra, udite il grande annunzio ch'io vi reco sopra il vento palpitante con la mia bocca forte! Udite, o agricoltori, alzati nei diritti solchi, e voi che contro la possa dei giovenchi, o bifolchi, tendete le corde ritorte come quelle del suono tese nelle antiche lire, e voi, femmine possenti in oprare e partorite, alzate su le porte, e voi nella luce floridi, e voi nell'ombra curvi, fanciulli loquaci, vecchi taciturni, o vita, o morte, uditemi! Udite l'annunziatore di lontano che reca l'annunzio del prodigio meridiano onde fu pieno tutto quanto il cielo nell'ora ardente! V'empirò di meraviglia; v'infiammerò di gioia; vi trarrò dalle ciglia il riso e il pianto. Salirà dai profondi cuori un grido immenso come quel che improvviso tonò nel silenzio del giorno santo.

Ornate di purpuree bende il giogo oneroso, delle più fresche erbe gli alari che il fuoco ha róso nel fervido camino; sospendete alla trave arida la ghirlanda aulente, coronate la fronte del toro, il vaso lucente, la pietra del confino. La bellezza del mondo sopita si ridesta. Il mio canto vi chiama a una divina festa. Nelle vostre rene rudi, ecco, il mio canto versa un sangue divino. […] Mentì, mentì la voce dinanzi alle dentate Echìnadi tonante nella calma d'estate verso la nave. Il giorno spegneasi entro quell'acque, fumido; come una pira ardea Paxo; Achelòo, pensoso di Deianira e del divelto corno dalla forza d'Eràcle nell'iterata lotta, respirava per la sua vasta bocca nel mare e sola la sua brama era intorno. O padre fecondatore dei piani, re violento, atroce sposo, testimonio eterno sei tu. Mentì la voce che gridò: «Pan è morto!». Ma pieno era il giorno, ma era a sommo del cerchio il Sole, il maestro dell'opre eccellenti, lo specchio infaticabile degli umani, l'amico delle fonti, la chiara faccia, il puro occhio che vede tutte le cose (udite, udite!); e tutto il silenzio dei piani l'adorava offerendo al suo fuoco le messi altrici delle stirpi, i mietitori genuflessi dalle consacrate mani, e le falci terribili, e i vasi d'argilla proni onde l'acqua trasuda, simili alle fronti madide nella fatica, tramandati dai padri nella forma immortale, e i rossi carri aspettanti il peso cereale fermi presso la bica, e le chiome delle femmine seguaci, e le criniere dei cavalli furibondi sotto la sferza crudele e la schiuma di quel furore, e le preghiere grandi su l'opra antica. Pieno era il giorno, o figli, era il Sole imminente; e tutto il silenzio dei mari l'adorava offerendo al suo fuoco l'aroma del sale purificante, la felicità dell'onda, della rupe immobile, dell'alga vagabonda, della ferrea prora, il promontorio fulvo come leone in agguato con proteso l'artiglio, il golfo dominato dalla città che dolora nelle sue mura ansiosa, e i vitrei meandri delle correnti, e i gemmei limitari degli antri che solo il vento esplora. Tutto era silenzio, luce, forza, desìo. L'attesa del prodigio gonfiava questo mio cuore come il cuor del mondo. Era questa carne mortale impaziente di risplendere, come se d'un sangue fulgente l'astro ne rigasse il pondo. La sostanza del Sole era la mia sostanza. Erano in me i cieli infiniti, l'abondanza dei piani, il Mar profondo. […] E il terrore sacro si propagò ai confini dell'Universo. Ma gli uomini non tremarono, chini sotto le consuete onte. Tutte le creature udirono la voce vivente; ma non gli uomini cui l'ombra d'una croce umiliò la fronte. Ed io, che l'udii solo, stetti con le tremanti creature muto. E il dio mi disse: «O tu che canti, io son l'Eterna Fonte. Canta le mie laudi eterne». Parvemi ch'io morissi e ch'io rinascessi. O Morte, o Vita, o Eternità! E dissi: «Canterò, Signore».

Dissi: «Canterò i tuoi mille nomi e le tue membra innumerevoli, perocché la fiamma e la semenza, l'alveare ed il gregge, l'oceano e la luna, la montagna ed il pomo son le tue membra, Signore; e l'opera dell'uomo è retta dalla tua legge. Canterò l'uomo che ara, che naviga, che combatte, che trae dalla rupe il ferro, dalla mammella il latte, il suono dalle avene.

Canterò la grandezza dei mari e degli eroi, la guerra delle stirpi, la pazienza dei buoi, l'antichità del giogo, l'atto magnifico di colui che intride la farina e di colui che versa nel vaso l'olio d'oliva e di colui che accende il fuoco; perocché i cuori umani, come per un lungo esiglio, hanno obliato queste tue glorie, Signore, e che il giglio dei campi è un gaudio eterno». E il dio mi disse: «O figlio, canta anche il tuo alloro».37

L’annunzio del prodigio meridiano è l’annunzio, nel culmine della calura, del demone del mezzogiorno: il grande Pan non è morto e con lui rivivono le grandi glorie passate obliate come per un lungo sonno.

Maia, libro primo Laus vitae

I. O Vita, o Vita, dono terribile del dio, come una spada fedele, come una ruggente face,

37 G. D’Annunzio, Laudi del cielo, del mare della terra e degli eroi, Liber liber, pp. 7-8. come la gorgóna, come la centàurea veste; o Vita, o Vita, dono d'oblìo, offerta agreste, come un'acqua chiara, come una corona, come un fiale, come il miele che la bocca separa dalla cera tenace; o Vita, o Vita, dono dell'Immortale alla mia sete crudele, alla mia fame vorace, alla mia sete e alla mia fame […] Tutto fu ambìto e tutto fu tentato. Quel che non fu fatto io lo sognai; e tanto era l'ardore che il sogno eguagliò l'atto. Laudato sii, potere del sogno ond'io m'incorono imperialmente sopra le mie sorti e ascendo il trono della mia speranza, io che nacqui in una stanza di porpora e per nutrice ebbi una grande e taciturna donna discesa da una rupe roggia! Laudato sii intanto, o tu che apri il mio petto troppo angusto pel respiro della mia anima! E avrai da me un altro canto.

II. Io nacqui ogni mattina. Ogni mio risveglio fu come un'improvvisa nascita nella luce: attoniti i miei occhi miravano la luce e il mondo. Chiedea l'ignaro: «Perché ti meravigli?». Attonito io rimirava la luce e il mondo. Quanti furono i miei giacigli! Giacqui su la bica flava udendo sotto il mio peso stridere l'aride ariste. Giacqui su i fragranti fieni, su le sabbie calde, su i carri, su i navigli, nelle logge di marmo, sotto le pergole, sotto le tende, sotto le querci. Dove giacqui, rinacqui. Mi persuase i sonni il canto della trebbia, il canto dei marinai, il canto delle sartie al vento, l'odore della pece, l'odore degli otri, l'odore dei rosai, il gemitìo del siero giù dai vimini sospesi nella cascina, la vece delle spole nei telai notturna, il ruggir cupo dei forni accesi, il favellar leggero dell'acque pei botri, il battere della maciulla nell'aia. E parvemi talora su quei familiari suoni farsi un alto silenzio e riudire il lontano canto della mia culla.

Mi destò il Sole raggiandomi la faccia. Vidi per le trame delle mie palpebre il fulgore del mio sangue. Il mozzo pendulo dal cordame gittò a me supino il suo grido, il suo grido annunziatore; e rise il lieve lido come un labbro su la bonaccia. Le secchie all'alba nel pozzo traboccanti d'acqua ghiaccia con lor croscio argentino suscitaron nel mio vigore nudo il brivido salubre del lavacro mattutino. Le allodole gloriose in alto in alto in alto dalla rocca dell'Azzurro mi chiamarono al grande assalto38

Rimembrando i giacigli dove nacque alla vita, l’autore rievoca i paesaggi e i personaggi abruzzesi della Figlia di Iorio, parimenti rievoca quella culla che Aligi credeva aver obliato dopo un sonno lungo settecento anni. Nella Grecia della Laus Vitae, nell’annuncio della venuta del grande Pan, si manifesta quella che sarà la verità de La figlia di Iorio, il cui abbozzo – si è visto - è già del 1899. La stesura finale del dramma,

38 G. D’Annunzio, Laudi, Liber liber, pp. 14-20. invece, si colloca cronologicamente prima dell’ultima sezione di Alcyone, a breve distanza dal ditirambo di Icaro e da Sogni di terre lontane ambientati di nuovo nelle terre natie.

Furit aestus

Un falco stride nel color di perla: tutto il cielo si squarcia come un velo. O brivido su i mari taciturni, o soffio, indizio del sùbito nembo! O sangue mio come i mari d'estate! La forza annoda tutte le radici: sotto la terra sta, nascosta e immensa. La pietra brilla più d'ogni altra inerzia. La luce copre abissi di silenzio, simile ad occhio immobile che celi moltitudini folli di desiri. L'Ignoto viene a me, l'Ignoto attendo! Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano. Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento. T'amo, o tagliente pietra che su l'erta brilli pronta a ferire il nudo piede. Mia dira sete, tu mi sei più cara che tutte le dolci acque dei ruscelli. Abita nella mia selvaggia pace la febbre come dentro le paludi. Pieno di grida è il riposato petto. L'ora è giunta, o mia Mèsse, l'ora è giunta! Terribile nel cuore del meriggio pesa, o Mèsse, la tua maturità.39

La stagione della mietitura è l’apice della consapevolezza. È il momento della manifestazione dell’unità di tutte le cose, è il meriggio come tempo della scelta nietzscheano.

Ditirambo I Romae frugiferae dic.

Ove sono i cavalli del Sole criniti di furia e di fiamma? le code prolisse annodate con liste di porpora, l'ugne adorne di lampi su l'aride ariste? Ove l'aie come circhi le trebbie come pugne, come atleti la rustica prole? Ove sono i cavalli del Sole disgiunti dal carro celeste?

39 G. D’Annunzio, Laudi, Liber liber, pp. 521- 522. Ove le sferze sonanti, le rèdine lunghe sbandite, il tinnir dei metalli, il brillar delle madide groppe? Ove gli urli, ove i canti, ove i balli? Ove la femmina bella coperta di loppe e di reste40 come d'ori e di gemme? Ove gli scherni, le risse, le nude coltella, il sangue che fuma e che bolle, il giovine ucciso che cade nelle sue biade asperse del suo ricco sangue e del vin suo vermiglio? Ove il tuo nume, o Dionìso, e il tuo riso e il tuo furore e il tuo periglio? Qui scarsa mèsse per piccole vite, aia angusta, fatica molle, mani prudenti, fievoli gole. O Maremme, o Maremme, bellezza immite nata dalla Febbre e dal Sole, o regni diurni di Dite, voi l'anima mia sogna!41

Nel Ditirambo I è irrevocabilmente enunciata la coincidenza tra «il nume», «il riso, il furore e il periglio di Dioniso» e «gli urli, i canti, i balli» de La figlia di Iorio Mila di Codro, qui esplicitamente rievocata: «femmina bella coperta di loppe di reste come d’ori e di gemme». Nella tragedia infatti si legge specularmente: «In corsa, ansante di fatica e di spavento, coperta di polvere e di pruni, simile alla preda di caccia inseguita dalla muta, una donna col volto tutto nascosto dall'ammantatura en- trerà». Nelle Laudi è svelata la vera essenza di quella cenere sparsa sul capo di Mila: «ori e gemme», la ricchezza che si cela nel male. È evidente che l’invocazione di Dioniso si rifà qui a La nascita della tragedia di Nietzsche - influenza ancor più interiorizzata a seguito del viaggio in Grecia - e che l’unità poetica delle due opere prese in esame è nel pensiero del filosofo tedesco che deve ricercarsi.

Maia XVIII

Or giunto è quel giorno per l'uomo audace e paziente, che vinse il dolore e il disgusto e la stanchezza e sé stesso. È giunto il giorno promesso.

40 ‘Loppa’: involucro dei granelli di cereali. Sinonimo di ‘lolla’. ‘Rèsta’ in botanica: ciascuno dei filamenti rigidi con cui terminano le spighe delle graminacee. 41 G. D’Annunzio, Laudi, Liber liber, pp. 522-523. O solstizio d'estate! La man ritrovò, come nido nel cavo del tronco vetusto, le ricchezze della sua gente; e come le uova lasciate si raccolgono, ella raccolse il retaggio della sua gente; e non s'udì muovere ala né pigolare nel nido ma tutto era luce calore odor di glebe odor d'erbe fragranza di miele selvaggio e fremito di biade già fulvide nella pianura. O solstizio d'estate, annunzio della mietitura!42

Non a caso il solstizio d’estate coincide qui con il giorno della mietitura, che abbiamo già visto rap- presentare l’apice della maturità dei tempi, il giorno in cui la mano ritrova «nel cavo del tronco vetusto le ricchezze della sua gente», che riconosce l’oro nella polvere, che vince il rifiuto a se stessa.

Maia, Laus Vitae VII

E dissi: «O Zeus, tu anche tu anche mandami un segno su le vie della Terra. Per togliere tutti i miei beni, per cogliere tutti i miei pomi, improbe fatiche sopporto, mostri multiformi combatto che mi precludono i varchi, ma più terribili quelli, ahi, ch'entro me di repente insorgono dalle profonde oscurità dove torpe il fango delle geniture!». E, movendo i passi per l'Alti, scorgere parvemi l'ombra dell'indovino di Zeus, il responso udire improvviso «Combattere e vincere i mostri non ti varrà su la Terra se trasfigurarli non sai, Aedo, in fanciulli divini».

E i campani d'un gregge sonavan tra i marmi abbattuti. Subitamente si tacque in me l'audace tumulto, come se la preghiera accolta mi fosse e compiuto il desiderio e mutato

42G. D’Annunzio, Laudi, Liber liber, pp. 262-263. già l'orizzonte in cintura più bella e mondata la Terra e disvelata la faccia di Pan che conduce nei tempi il Ritorno eternale. E un fanciullo pastore m'apparve, il pastore del gregge: simile a riflesso di stella in tremule acque m'apparve il puerile sorriso. Al lume dei cieli biancheggiar vidi i suoi denti puri nel saluto venusto: sentii la rugiada cadere. Volto avea Boote l'obliquo timon del plaustro fra i Trioni. Sì lucida era la notte che gli arbori su le colline leggere di là dall'Alfeo segnavano l'ombre visibili. Tanto era dolce il lineamento dei gioghi che parea, come il fiume, continuamente fluire. Giaceva sul dorico tempio il gregge lanoso; gli umili velli ed i marmi augusti in tepore spirante parean convivere. Tutto era plenitudine e pace: non morte, non ruina: armonia di forme perfette, concordia del Coro infinito. Necessità, come l'urto del piè nella danza tu eri! Su l'erba colcato il pastore poggiava il florido capo al tronco d'un platano. E quivi io vigile stetti al suo fianco in silenzio. Ed èramo volti ai monti d'Arcadia, all'indizio del di nascituro. E il fanciullo mordeva mentastro odoroso, scendendogli il fiore del sonno su' cigli virginei. Caddegli il ramicello selvaggio dalla bocca aulente che al fiato eguale si schiuse. La valle parve tutta allora una cuna divina per quella innocenza. Vidi su i vertici l'Alba avvolgere al piè della Notte il lembo del suo primo velo. D'amore tremai come s'ella ver me si piegasse e dicesse: «O tu che m'attendi, io ti cerco!».43

Un pastore fanciullo, dal volto sorridente, è l’immagine che annuncia la venuta del grande Pan, Pan che «conduce nei tempi il ritorno eternale». Ecco nominato l’eterno ritorno nietzscheano, la possibi- lità di un tempo circolare alternativo a quello lineare che permette al superuomo di pensare l’impen- sabile. Il giorno del solstizio d’estate, il giorno di San Giovanni in cui si svolgono le vicende de La figlia di Iorio non è che il grande meriggio nietzscheano, l’attimo in cui il passato e il futuro si incon- trano alla porta carraia. È il giorno della trasvalutazione di tutti i valori, in cui il superuomo, vinti «il dolore e il disgusto e la stanchezza a se stesso», divenuto da drago leone, si prepara finalmente all’ul- tima delle metamorfosi: da leone diventa fanciullo. «Vincere la stanchezza a se stesso» significa ac- cogliere il negativo, tramutare la sofferenza e la morte in gioia e vita. «E come le uova lasciate si raccolgono, ella raccolse il retaggio della sua gente»: il negativo del suo passato, la terra natia come grande rimosso della produzione, ma soprattutto della ideologia dannunziana, sempre trasceso e dis- solto nella gioia panica della natura, viene ora recuperato e accolto, finanche desiderato. Non più «così fu» ma «così volli che fosse». È il giorno in cui l’uomo, e l’intera stirpe per tramite del supe- ruomo vate, accetta la possibilità dell’impossibile, ovvero l’inversione della linearità del tempo e la sua reversibilità nell’eterno ritorno. Nel paesaggio ellenico del ditirambo si ritrova la mandria abruz- zese che discende dal colle alla valle in volute simili al lineamento di un fiume, «sul dorico tempio trova infine riposo il gregge lanoso». L’immagine usata già tante volte diventa simbolo del ritorno eternale e la Grecia non solo ricorda l’Abruzzo, ma diventa il suo Abruzzo. D’Annunzio, una volta allontanatosi dalla terra della sua infanzia, può finalmente guardarla in tutta la sua bestialità, nuda e terribile ed accoglierla come momento essenziale e imprescindibile di un’elevazione. Perciò l’Abruzzo in d’Annunzio è non solo scoperto o riscoperto, ma trasvalutato. Di seguito l’aforisma de La gaia scienza in cui Nietzsche introduce l’immagine dell’eterno ritorno - immagine sempre fuori fuoco e detta per metafore, mai sistematizzata, come è proprio della sua filosofia -:

Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più

43 G. D’Annunzio, Laudi, Liber liber, pp. 82-85. grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun'altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?"44

L’Abruzzo del mito

Riconsiderata la vitalità del tema abruzzese nelle opere dannunziane si può tirare un bilancio sulla sua evoluzione. L’Abruzzo è prima paesaggio dell’anima e correlativo oggettivo di un sentire empatico con il mondo naturale. Più tardi trova sviluppo, nelle Novelle e nel Trionfo della morte, una estraneità rispetto ai luoghi d’origine, al netto di un rifiuto, per quanto commisto a fascinazione, per gli usi bestiali di quella civiltà.

Ma il verismo delle Novelle della Pescara, ancora comparabile al naturalismo del Michetti, viene superato in quella che Raffaella Bertazzoli definisce un’operazione conclusiva: «il contatto violento con le proprie origini […] un parentesi aperta sulla narrazione del mito greco che permea tutta la stesura di Alcyone»45, oltre alla stesura de La figlia di Iorio.

La riflessione sul mito che ad oggi si avvarrebbe del contributo di studiosi come Mircea Eliade e Furio Jesi – i quali ne hanno fatto il nocciolo della loro riflessione filosofica – è già presentita in d’Annunzio e si esplica ne La figlia di Iorio per poi riannodarsi al superomismo delle Laudi per tramite, appunto, della figura dell’eterno ritorno.

Ne la Figlia di Iorio si apre, come si è già detto, un vuoto temporale, una realtà dal tempo sospeso. Emilio Mariano a questo proposito parla di mito e chiama in causa proprio Eliade46: l’opposizione che si consuma è quella tra Storia (dove niente si ripete) e Natura (dove tutto si ripete). Eliade scrive:

Ogni festa religiosa, ogni periodo liturgico consistono nella riattualizzazione di un evento sacro avvenuto in un passato mitico, al ‘principio’. Partecipare religiosamente ad una festa significa uscire dalla ‘normale’ durata temporale e reintegrare il Tempo mitico riattualizzato dalla festa stessa. Ne consegue che il Tempo sacro è indefinitamente recuperabile, indefinitamente ripetibile È mediante la liturgia e la natura liturgica del canto popolare, seppur laico, nonché della natura catartica del teatro greco, che si accede dunque al gran tempo. Anche per De Martino il rito perpetua il mito.47 Qualcosa di simile sembra enunciare Jesi quando parla del “luogo comune”, che, come il mito, è innanzitutto ciò su cui un’esperienza creativa insiste per farci credere nell’esistenza di una

44 F. Nietzsche, La gaia scienza, Newton Compton, Roma, 2008, Libro IV, n 341. 45 R. Bertazzoli, L’Abruzzo senza tempo, pp. 33-34. 46 47 E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1982. realtà altra, tenendocene al tempo stesso ben celata l’essenza.48 Jesi parla quindi dell’ “uomo del ci- non-è” destinato a divenire profeta al pari dell’oltre-uomo nietzscheano mediante la scelta dell’oltre- tempo. Quest’ultimo non è l’eterno ritorno ma il tempo che assume in sé la possibilità dell’eterno ritorno, che la accetta e la accoglie.

Possiamo dunque affermare che l’Abruzzo, come luogo del non tempo, o come luogo dell’altro tempo che mette in discussione quello storico e lineare, è il male che l’oltre-uomo deve accogliere e risolvere in sé. L’Abruzzo è il grande rimosso in d’Annunzio, presente in controluce in molti dei suoi componimenti. Il rapporto con la terra d’origine è di vergogna mista a legame ancestrale, di orgoglio e di repulsione. L’operazione della rimozione è dall’autore stesso dichiarata: identificatosi almeno in parte con Aligi – cosa che possiamo affermare alla luce della sovrapponibilità delle loro vicende biografiche e delle loro dinamiche familiari– comunica l’impressione di aver dormito settecento anni e di aver obliato la sua culla. Secondo Giannangeli La figlia di Iorio è il grande sforzo di riimmedesimazione di D’Annunzio nella terra d’Abruzzo. Scrive infatti il poeta all’amico pittore in una lettera del 1903: «Ho sentito vivere le mie radici nella terra natale, e ne ho avuto una felicità indicibile».

Nel Libro segreto scrive molti anni più tardi:

Porto la terra d’Abruzzi, porto il limo della mia foce alle suole delle mie scarpe, al tacco de’ miei stivali. Quando mi ritrovo fra gente estranea dissociato, diverso, ostilmente selvatico, io mi seggo e, ponendo una coscia su l’altra accavallata, agito leggermente il piede ché mi sembra quasi appesantirsi di quella terra, di quel poco di gleba, di quell’umido sabbione ed è come il peso d’un pezzo d’armatura: dell’acciaio difensivo. Suo se pondere firmat.

L’Abruzzo è il negativo, è il peso più grande, la zolla di fango che, tuttavia, garantisce la stabilità. Il negativo e il rimosso sono dunque accolti e riassorbiti. È con fierezza che infatti conclude:

Io sono di remotissima stirpe. i miei padri erano anacoreti nella Maiella, si flagellavano a sangue, mastica- vano la neve onde s’empievan le pugna, strozzavano i lupi, spennavano le aquile, intagliavano la sigla nei massi con un chiodo della Croce raccolto da Elena.49

Laddove gli usi e le tradizioni, i riti e la bestialità ad essi connaturata, avevano sempre attirato e al contempo respinto D’Annunzio – fattore d’altra parte, come ha già sottolineato Lombardinilo, strettamente connesso al mondo inconscio dell’autore e dell’uomo, e al rapporto inevitabilmente ambivalente con la figura della madre – di qui in poi ricevono una precisa ed estesa connotazione.

48 F. Jesi, Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud, Quodlibet, Macerata, 1996. 49 G. D’Annunzio, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D'Annunzio tentato di morire, Liber Liber, pp. 281-282. All’insofferenza del Trionfo della morte per la casa natia, che solo indirettamente lasciava trapelare una fascinazione per quel mondo, si sostituisce un’accettazione superomistica e un andare incontro al negativo e alla sofferenza come dimensione auspicabile.

L’accesso a un altro tempo si realizza dunque nella tragedia, laddove diventa reale quello che per il superuomo è solo ipotesi. L’oltretempo si estende per tramite del tempo rituale della festa di San Giovanni, il solstizio d’estate appunto. Si prefigura il disordine e l’orgia, la società viene minata e il percorso di Aligi viene deviato dalla vita sociale ordinata. La risposta superomistica è quella di Mila che, dalla pira in cui arde, grida: «Il fuoco è bello! Il fuoco è bello!».

Questi versi non possono non ricordare il riso delirante del pastore di Così parlò Zarathustra, in cui viene illustrata ancora una volta la scelta dell’amaro presente e dell’irreversibile passato:

E, davvero, ciò che vidi, non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e - lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava - invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: "Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me - buono o cattivo - gridava da dentro di me, fuso in un sol grido.- Voi, uomini arditi che mi circondate! Voi, dediti alla ricerca e al tentativo, e chiunque tra di voi si sia mai imbarcato con vele ingegnose per mari inesplorati! Voi che amate gli enigmi! Sciogliete dunque l'enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uo- mini! Giacché era una visione e una previsione: - che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il pastore, cui il serprente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l'uomo, cui le più grevi e le più nere fra le cose strisceranno nelle fauci?- Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente -; e balzò in piedi.- Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, - e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! - Così parlò Zarathustra.50

Il mito e il popolo È tramite la canzone popolare che d’Annunzio può far sì che la trasvalutazione superomistica arrivi a toccare tutti. La canzone di popolo è la veste in cui il mito - rivelazione della relatività e della parzialità della vita attuale - arriva a manifestarsi a tutti.

È una riappropriazione quella che il popolo attua rispetto al mito e alle proprie più autentiche radici Riappropriazione veicolata, favorita e sfruttata dal vate al fine di essere riconosciuto come tale.

50 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, BUR, Milano, 2008. L’autore contempla da sempre l’obiettivo poetico di suggestionare e smuovere le masse, come d’altronde enuncia a più riprese nel Fuoco.

Nicola Merola in D’Annunzio e la poesia di massa spiega:

L’arte può essere ancora eterna e universale solo se riafferma il suo fondamento popolare e ridiventa un mito: solo se quindi le masse sapranno l’unica verità di cui essa è capace, quella che le deriva dall’essere una finzione radicata e vivace nell’esperienza delle moltitudini.51 Ciò è possibile attraverso un saccheggio sistematico dei classici: «gli innumerevoli volumi di una sapienza obliata e inerte», come li definisce d’Annunzio nel Fuoco. L’aspirazione, e la sottile presunzione, è infatti quella di ripetere il lavoro ciclopico dei fondatori della cultura precedente, «vasto come una cosmogonia».

Esse [Le immagini] sono distanti ed estranee. Ma facendole apparire nel silenzio ritmico, facendole accompagnare dalla musica alla soglia del mondo visibile, io le avvicino meravigliosamente poiché rischiaro i fondi più segreti della volontà che le produce. Intendi? La loro intima essenza è là, discoperta e messa in comunione immediata con l′anima della folla che sente sotto le Idee significate dalle voci e dai gesti la profondità dei Motivi musicali che a quelle corrispondono nelle sinfonie. Io mostro insomma le imagini dipinte sul velo e ciò che accade di là dal velo. Intendi? E per mezzo della musica, della danza e del canto lirico creo intorno ai miei eroi un′atmosfera ideale in cui vibra tutta la vita della Natura così che in ogni loro atto sembrino convergere non soltanto le potenze dei loro destini prefissi ma pur anche le più oscure volontà delle cose circostanti, delle anime elementari che vivono nel gran cerchio tragico; poiché vorrei che, come le creature di Eschilo portano in loro qualche cosa dei miti naturali ond′escirono, le mie creature fossero sentite palpitare nel torrente delle forze selvagge, dolorare al contatto della terra, accomunarsi con l′aria, con l′acqua, col fuoco, con le montagne, con le nubi nella lotta patetica contro il Fato che deve esser vinto, e la Natura fosse intorno a loro quale fu veduta dagli antichissimi padri: l′attrice appassionata di un eterno drama.52 E ancora così definisce la potenza che l’opera poetica assume quando si fa discorso diretto, viva voce, parola non scritta ma orale, canto popolare:

Io comprendo che la parola scritta sia adoperata a creare una pura forma di bellezza che il libro intonso contiene e chiude come un tabernacolo a cui non si accede se non per elezione con quella stessa determinata volontà che è necessaria ad infrangere un suggello; ma mi sembra che la parola orale, rivolta in modo diretto a una moltitudine, non debba aver per fine se non l′azione, e sia pure un′azione violenta. A questo solo patto uno spirito un po′ fiero può, senza diminuirsi, comunicare con la folla per le virtù sensuali della voce e del gesto.53

Riesce in questa operazione? A rispondere è qualche decennio dopo Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, dove leggiamo:

Venne finalmente la sera della recita. Aveva cessato di piovere, le stelle brillavano mentre mi avviavo verso il fondo del paese. Non esistevano sale o saloni che potessero servire di teatro: si era scelto una specie di cantina o grotta seminterrata, e ci avevano portato delle panche, dalla scuola, sul pavimento di terra battuta. In fondo avevano costruito un piccolo palco, chiuso da un vecchio sipario. Lo stanzone era

51 N. Merola, D’Annunzio e la poesia di massa: guida storica e critica, Laterza, Bari, 1979. 52 G. D’Annunzio, Il fuoco, Mondadori, Milano, 2015. 53 Ivi. pieno di contadini, che aspettavano con meraviglia l'inizio della rappresentazione. Si recitava La Fiaccola sotto il Moggio, di Gabriele d'Annunzio. Naturalmente mi aspettavo un gran noia da questo dramma retorico, recitato da attori inesperti, e aspettavo il piacere della serata soltanto dal suo carattere di distrazione e di novità. Ma le cose andarono diversamente. Quelle donne divine, dai grandi occhi vuoti e dai gesti pieni di una passione fissata e immobile, come le statue, recitavano superbamente; e, su quel palco largo quattro passi, sembravano gigantesche. Tutta la retorica, il linguismo, la vuotaggine tronfia della tragedia svaniva, e rimaneva quello che avrebbe dovuto essere, e non era, l'opera di d'Annunzio, una feroce vicenda di passioni ferme, nel mondo senza tempo della terra. Per la prima volta, un lavoro del poeta abruzzese mi pareva bello, liberato da ogni estetismo. Mi accorsi subito che questa sorta di purificazione era dovuta, più ancora che alle attrici, al pubblico. I contadini partecipavano alla vicenda con interesse vivissimo. I paesi, i fiumi, i monti di cui si parlava, non erano lontani di qui. Così li conoscevano, erano delle terre come la loro e davano in esclamazioni di consenso sentendo quei nomi. Gli spiriti e i demoni che passano nella tragedia, e che si sentono dietro le vicende, erano gli stessi spiriti e demoni che abitano queste grotte e queste argille. Tutto diventava naturale, veniva riportato al pubblico alla sua vera atmosfera, che è il mondo chiuso, disperato e senza espressione dei contadini. In quella serata, spogliata la tragedia, dagli attori e dal pubblico, di tutto il dannunzianesimo, restava soltanto un contenuto grezzo ed elementare, che i contadini sentivano proprio. Era un'illusione, ma mostrava la verità.

Ma prosegue…

D’Annunzio era uno dei loro: ma era un letterato italiano, e non poteva non tradirli. Egli era partito di qui, da un mondo senza espressione, e aveva voluto sovrapporgli la veste brillante della poesia contemporanea, che è tutta espressività, sensualità, senso del tempo. Aveva perciò degradato quel mondo a puro strumento retorico, quella poesia a vuoto formalismo linguistico. Il suo tentativo non poteva che essere un tradimento e un fallimento. Da quel connubio ibrido non poteva che nascere un mostro. Le attrici siciliane e i contadini di Grassano avevano, spontaneamente, fatta la strada opposta; avevano eliminato quella veste posticcia, e ritrovato a modo loro il nocciolo paesano; e di questo si commovevano ed entusiasmavano. I due mondi malamente fusi nella vuotezza estetizzante, tornavano a scindersi poiché ogni loro contatto è impossibile, e sotto quell’onda di inutili parole riappariva, per i contadini, la Morte vera e il Destino.54

54 C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino, 2006, pp. 161-162.