In Tutta Coscienza
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GIOVANNI PASETTI IN TUTTA COSCIENZA GIOVANNI PASETTI IN TUTTA COSCIENZA 1 I don’t wanna be in a story. All I want is to not look forward or back. I just wanna be in the moment I’m in. Dolores, in Westworld 2 0. prime mosse 3 4 Riconosco un uomo di fronte a me, un uomo che porta un impermeabile chiaro, come nei film polizieschi degli anni quaranta. Mentre mi avvicino a lui sento crescere l’ansia, che in breve si tramuta in paura. Una paura terribile, ingiustificabile, come se fossi sospeso nel bel mezzo di un incubo. Eppure non posso fare a meno di avanzare. Anzi, il marciapiede si trasforma in un tapis roulant che mi costringe a procedere in fretta, molto più in fretta del necessario. Quando l’uomo si volta, lentamente, scopro che i timori erano giustificati. È un mostro. Assomiglia ad un lupo, anche se un orologio costoso fa bella mostra di sé intorno al suo polso. Forse dovrei dire: intorno alla sua zampa. Vorrei scappare, ma un terrore atavico mi blocca. Sto già per urlare, quando... Mi ritrovo nel mio letto, illuminato dalla prima luce dell’alba. Sono sudato, il cuore batte forte. Ma sono vivo, nessun pericolo mi perseguita. Era solo un sogno. Questa breve narrazione, che forse avrebbe reso felice Sigmund Freud, non serve ad iniziare un saggio di psicoana- lisi, o un volume di ricordi personali. Potrebbe essere un sogno vero, oppure completamente inventato. Non importa. L’essenziale è che la mia coscienza lo ha prodotto, selezio- nando durante il giorno e durante la notte ricordi lontani e vicini: Humphrey Bogart, i licantropi, l’orologio che ho intravisto poco tempo fa nella vetrina di un gioielliere, mentre camminavo distrattamente verso casa. L’autore di questo strano pastiche sono sicuramente io, o piuttosto alcune peculiari attività del mio cervello, che hanno appunto a che vedere con le facoltà cognitive da cui tutti noi - noi umani - siamo percorsi, e che nei secoli sono state definite dal concetto di coscienza, fenomeno controverso già dal suo primo, remoto apparire. Coscienza è accorgersi di qualcosa, innanzitutto, nel sonno o nella veglia. Perdere coscienza corrisponde allo smarrire in modo provvisorio o definitivo 5 la via privilegiata d’accesso ai dati del mondo esterno o interno, smarrendo la capacità di sintetizzarli in forme su- scettibili d’essere memorizzate e comunicate ad altri. La mascherina dell’anestesista si appoggia al mio viso, mentre la duplice assunzione di una miscela farmacologica (‘‘Re- spiri, respiri a fondo’’) si tramuta nel veloce precipizio che mi conduce, per ragioni che la scienza non spiega ancora con precisione assoluta, ad un abisso di nulla dal quale un’altra miscela mi rapirà, al termine dell’operazione chirurgica. Però, è evidente che il mio corpo, quando sembra privo di coscienza, ha molti rapporti con gli stimoli della realtà. Durante un sonno senza sogni siamo in apparenza inerti, eppure un rumore abbastanza forte può svegliarci, quindi l’abbiamo percepito, appena prima del risveglio. Mentre guidiamo la nostra automobile, ascoltando una musica da cui siamo quasi rapiti, di solito non rischiamo d’uscire di strada, perché le caratteristiche salienti del percorso vengo- no elaborate e risolte continuamente, anche se non ci accor- giamo affatto di ogni piccolo dettaglio. Ci accorgiamo di poco o nulla. D’altronde, la coscienza è molto più di un semplice accorgersi. Come abbiamo già ricordato, può diventare nella quiete notturna o nella meditazione diurna il regista di invenzioni e spettacoli sorprendenti. Inoltre, a lei viene normalmente attribuito il sentimento di identità personale, ovvero il curioso reticolo di sicurezze che, a partire da una certa età, ci induce a rappresentare noi stessi, istante dopo istante, come soggetto immodificabile. Anche se la materia di cui è composto il nostro organismo viene perduta senza sosta. Anche se l’ambiente sociale intorno a noi muta radi- calmente. Anche se, crescendo, assumiamo un aspetto diver- so, cambiamo opinione, lavoro, paese. È una situazione strana. Di fronte al trascorrere infinito delle situazioni che sperimentiamo con i nostri sensi, o 6 creiamo con la nostra fantasia, noi ci comportiamo come uno spettatore accanto ad una finestra, che osserva di fronte a sé lo svolgersi in successione degli eventi e che neppure per un attimo, neppure sotto l’effetto di una droga moderata, perde fiducia nella propria personale identità. Io penso, io sono. Cogito, ergo sum. Una frase, un motto, dal repentino e inarrestabile successo. Il trionfo della modernità e della ragione, la liberazione dalle ombre del medioevo. Cartesio pubblica Il discorso sul metodo nel 1637, a Leida. ‘‘Sono stato nutrito fin dall’infanzia di studi lettera- ri... Mi ritrovai impacciato da tanti dubbi ed errori che mi sembrava di non aver ricavato altro profitto, cercando di istruirmi, se non di avere scoperto sempre di più la mia ignoranza...’’ Ogni sapere rende l’uomo incerto. Occorre trovare un terreno saldo su cui erigere una costruzione filosofica, una nuova visione del mondo. ‘‘E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglier- la senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo.’’ Se il soggetto viene circondato da fiabe durante il corso della sua esistenza, se è possibile dubitare di qualsiasi cosa, se la verità appare una parola vana, allora proprio dalla debolezza del soggetto che sente, ascolta e pensa è ricavabile una forza sinceramente fondata. Nella fragilità del pensiero si annida la vastità dell’essere. Io non posso non pensare; anche se dubito, penso. Quindi sono, e proclamare il mio essere mi porta ad affermare, di seguito, la realtà del mondo e la presenza di Dio. Trentasette anni dopo Amleto, l’ango- scia epocale del pallido principe smarrito nel cosmo, tra delitti e massacri, viene riscattata da una mossa intellettuale abile e risoluta, che non può prescindere dall’entità coscien- te. Entità che sarà in breve ricondotta da Cartesio all’interno della mente dell’individuo, una mente lontana anni luce dal 7 corpo, tanto che occorre l’azione necessaria del Creatore per collegare i reami dello spirito e della quantità materiale. Nasce allora un singolare dualismo, niente affatto simile al conflitto consueto tra luce e tenebra, bene e male, angeli e demoni. È una separazione vicina alla divisione platonica tra l’idea e la materia, ma caratterizzata in più dal singolare sbilanciamento dell’intelletto verso una realtà di puro pen- siero in cui si riflette pienamente la capacità sensoriale. La res cogitans si contrappone alla res extensa proprio perché il nostro io è in grado di sopportare da solo (ma con estrema naturalezza) il peso dell’essere. Così, nello stesso secolo che segna il trionfo della rivoluzione scientifica di Galileo, e che si appresta a sancire l’unificazione dei moti celesti e terrestri grazie alle leggi gravitazionali esposte da Isaac Newton, la coscienza sale sul trono, nel mezzo del palcosce- nico delle apparenze. Ogni fallacia, ogni mancanza, ogni approssimazione del giudizio umano viene redenta dalla certezza del legame indissolubile tra il medesimo giudizio e la fonte della verità esistenziale. È spettacolare la carriera di questa parola, che dodici secoli prima era scivolata negli scritti di Sant’Agostino, manifestandosi nella sete di sapere e nella feconda incertez- za che accompagna il credente verso la visione e la scoperta di Dio. L’incontro con il Cristo avviene nella nostra interio- rità; il soggettivismo viene superato dalla capacità del sog- getto di abitare l’assoluto. C’è dunque un filo logico, sottile e resistente, che accom- pagna il farsi largo di questo concetto nella filosofia occi- dentale. È interessante notare che la sua piena manifestazio- ne avviene nel momento in cui l’uomo sembra scalzato dal centro del mondo, sospinto nel relativismo, precipitato in un meccanismo di forze in cui il pianeta da lui conosciuto non conta più di qualsiasi altro pulviscolo viaggiante nelle pro- fondità dello spazio. Invece, la scienza nascente porta in sé 8 il marchio dell’osservatore. Chi osserva, chi esperimenta, affrancato dal timore di sfidare l’ordine segreto delle cose, conserva e recupera pienamente lo statuto di privilegio a cui pareva aver abdicato un attimo prima. All’alchimista segue il chimico. All’astrologo, l’astronomo. Al libero pensatore del Rinascimento, il cattedratico di fisica o matematica. Il calcolo infinitesimale, elaborato in modo diverso da Leibniz e Newton, si dimostra lo strumento più adatto per esplorare il divenire. Da qui in poi, sembra acclarato che la nostra mente possiede un linguaggio privilegiato di formule e di simboli adatto ad interpretare il grande libro della natura. Cento anni dopo, il marchese Pierre-Simon Laplace affer- merà che le trasformazioni del cosmo sono perfettamente definibili e calcolabili, una volta conosciute le condizioni di partenza dell’equazione che le descrive: è il trionfo del determinismo, che non si limita a unire ovunque la causa all’effetto, ma dichiara la validità del cammino pre-determi- nato di ogni fenomeno. Intanto la coscienza, quella coscienza che ha giustificato l’audace passo iniziale, ritorna nell’ombra, almeno per quanto riguarda i progressi delle nuove discipline. Numerosi filoso- fi si avvicendano per cercare di interpretarne limiti e signi- ficato, ma il distacco tra il rigore dell’esplorazione speri- mentale e il debole affaccendarsi della speculazione intellet- tuale è ormai compiuto. Gli scienziati lasciano chiacchierare i filosofi, ma non se ne curano. Anche nella Germania tanto feconda di uomini che appartengono all’una o all’altra delle due categorie, il colloquio non esiste. Viene interrotto. Goethe studia la dottrina dei colori, è un genio, ma per gli studenti delle università è un semplice poeta e romanziere. I pensatori romantici si limitano appunto a pensare mentre, intorno a loro, la tecnica ottocentesca sfrutta i risultati delle indagini scientifiche per accumulare invenzioni capaci di cambiare radicalmente e in meglio la qualità della vita dei 9 popoli.