IL VIALE DEGLI OLMI Racconto Di Montanari E Contrabbandieri
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ARTURO ZANUSO IL VIALE DEGLI OLMI Racconto di montanari e contrabbandieri (Parte Terza del romanzo Emilio Ersego) N O T E Il presente romanzo non ha riferimento con fatti realmente avvenuti, né intende rappresentare persone viventi o vissute. Qualsiasi coincidenza di nomi o di fatti è puramente casuale. [Nota dell’autore] Trascrizione dai manoscritti originali a cura di Vittorio Sandri (2006) CAPITOLO I 1 Le spalle e la nuca posate contro il duro schienale di legno, il corpo quasi disteso, Emilio buttò lo sguardo sul portabagagli. La bocca del sacco, che andava stringendosi in tante piccole pieghe, pendeva nel vuoto, on- deggiando agli scotimenti e ai sobbalzi del treno. In quel fagotto di canape scura erano tutte le sue presenti ricchezze: una decina di chili di pane, un grosso salame, una forma intera di cacio e il corredo. S’era provve- duto come gli era stato consigliato e come facevano tutti gli emigranti, perché a Basilea la vita era cara; e an- che trovando subito lavoro, come Bepi gliene aveva data certezza, il primo denaro era meglio tenerlo in caso di estrema occorrenza. Il giovanotto rimase qualche tempo così, con gli occhi fissi sul sacco, senza pensare ad alcunché di ben definito, rivedendo nella sua mente i cibi e gli oggetti quali li aveva messi a uno a uno, avvolti alcuni con stracci, che sarebbero stati poi i suoi asciugamani, perché non si ammaccassero. Il formaggio e specialmente il salame erano soggetti a danni: se si ammaccavano, egli avrebbe dovuto mangiar tutto in pochi giorni, e al- lora addio economia. Pensava come un automa, trovando compagnia nei pensieri ancor più che nelle due persone che gli sede- vano di fronte. Riandava ai particolari, ai segni caratteristici, per così dire, di tutto quanto era contenuto là dentro: il formaggio, con lo spigolo un po’ arrotondato e lievemente gonfio nel mezzo (gli avevano dato quello appunto che per eccessiva fermentazione non sarebbe potuto durare a lungo senza alterarsi); il grosso salame con tanti giri di cordicella attorno, tutto coperto di muffa biancastra sulla parte alta, e scura su quella bassa, dove maggiore era stato il trasudare del grasso. E, a un tratto, senza nemmeno notare il procedere dei propri pensieri, si accorse di stare pensando che tutto ciò costituiva l’ultimo vero legame che lo univa agli Erseghi: le rotaie stesse, anche se a Vicenza fossero state allacciate a quelle del tram, sarebbero arrivate solo fino a Valmandrone. Tuttavia era già molto che quelle due strisce di ferro sulle quali il treno correva potesse- ro giungere tanto vicino a casa. Era una continuità quasi incredibile. Ma ciò che gli appariva ancor più incredibile era l’indifferenza, il distacco col quale riusciva a pensare al- la sua vita trascorsa e alla sua vita avvenire. Era proprio come seguire una rotaia lungo la quale mutasse il paesaggio: noto fino al presente, perdentesi in una nebbia chiara quello futuro, con tante piccole macchie scure delle future stazioni, un buco nella montagna; e dopo altre macchie, una più grande e ancor più indefi- nita perché complessa. Qui v’era una confusione enorme, dalla quale balzavano vivi i grandi palazzi in co- struzione, il cantiere, l’impresario Linder che gli era stato descritto sempre in velada e bombetta, con due baffoni che invece di pendere all’ingiù stavano rigidi con le punte in alto come le corna del toro di Venco. Guardò fuori del finestrino. Ecco, il passato arrivava fin lì: quel ponte, quella casetta, quel sasso, che poi erano il presente; e il futuro, quell’altra casetta, quel gruppo di abeti sul prato, quel piccolo gregge indistinto che si avvicinavano veloci? No, anche quello era presente. Il futuro era solo nebbia, proprio nebbia, con grandi e piccole macchie scure seguite e precedute da quel traforo attraverso il quale sarebbero presto passati. Né gioia né dolore provava, ma uno strano sentimento della coscienza più che del desiderio di proseguire il viaggio, quasi di assistere a una sua propria nuova nascita in un mondo che s’andava formando via via che le immagini si sovrapponevano lungo il cammino percorso; di arrivare, vedere il cantiere, afferrare i manichi della carriuola e spingerla, carica di sassi o di calce, su per i ponti delle lunghe armature che circondavano le nuove costruzioni. Né gioia né dolore: la stessa sensazione che aveva scoperta improvvisamente in sé par- tendo: un’indifferenza che lo portava a considerare i fatti della sua vita passata quali accaduti ad altri, o, al più, reminiscenze di un mondo definitivamente scomparso, del quale fossero rimasti soltanto lui e il suo sac- co. Anche Bepi Merican, che gli sedeva di fronte, non era più un uomo del passato, della sua contrada; eppu- re erano partiti insieme. Agli Erseghi era suo cugino, ma a Valmandrone era già cambiato. A Vicenza, poi, quando erano entrati nella stazione e l’aveva visto staccarsi da lui e mettersi in fila fra tutta la gente per com- perare i biglietti, gli era sembrato addirittura un estraneo. Forse perché egli era stato dieci anni in Argentina sulle linee ferroviarie, due anni in Prussia Nuova a lavorare nei forti e aveva passato cinque stagioni a Basi- lea sotto il Linder? No, non era per questo. E chi fosse ora, che cosa fosse per lui, se il cugino Bepi o un es- sere, una specie d’angelo custode del nuovo mondo, non avrebbe potuto dirlo: sapeva soltanto che doveva stargli vicino, altrimenti si sarebbe perduto. La vita di Emilio in famiglia, dopo il ritorno dalla valle di Ronchi era diventata sempre più triste. La pre- dilezione stessa dimostratagli dallo zio Raniero, anziché motivo di consolazione, aveva contribuito all’accrescersi dell’ostilità dei fratelli e particolarmente delle cognate, cui bruciava il sospetto, se non la cer- 1 tezza ch’egli fosse destinato a diventarne l’erede. Ma, se anche il vecchio Fire aveva compreso quanto fosse penosa la sua condizione, che avrebbe potuto fare? C’erano già gli animali che gli davano tanti pensieri; e poi, sopra tutto, non si doveva pensare ad alcunché di spiacevole più di quanto fosse inevitabile. Con l’aver fatto testamento a favore di Emilio, tutto il possibile l’aveva già fatto: mica poteva mettersi in lite con tutti gli altri. Dividersi e andar a star fuori di casa con lui? Bellissima idea, ma non c’erano donne; e non si poteva pensare di far ritornare una delle ragazze che da più di tre anni si trovavano a servizio a Valmandrone o a Recoaro. Quelle ormai avevano prese le abitudini dei signori. Purtroppo l’aveva capito durante le rare visite che esse facevano lassù: spontaneamente non sarebbero tornate; e in quanto a farle venire per forza, ora che i loro genitori erano morti, non c’era neanche da pensarlo. Inoltre, nel caso di una divisione, egli avrebbe per- duto più di metà degli animali, ed era troppo affezionato a ciascuno di essi per poterli lasciare senza, più che provare rimpianto, sentire che si sarebbe strappato qualcosa di lui, proprio come una parte del corpo. Lo sa- peva bene che cosa provava quando se ne andava un vitello: anche un solo vitello nato da un mese, che si dovesse vendere perché fuor di latte ed eccedente le possibilità dell’allevamento. Eppure, anche quello, quale dolore! Rientrare in stalla alla sera e vedere la piccola posta vuota, e sentire che qualcosa era perduto per sempre... Quel pelo morbido da accarezzare distrattamente ogni tanto, gli scatti subitanei sulle quattro zam- pette rigide, che gli mettevano in cuore un’allegria di gioventù, quel mugghio breve ch’era come il balbettare di un figlio... Valevano poco, eppure il vederli partire era un dolore più profondo, più radicato di quando se ne andava qualche bestia grossa. Queste, del resto, venivano vendute quando non rendevano più: una vacca dal petto raggrinzito, dai capezzoli lunghi lunghi, quasi incartapecoriti, oppure torizza, a che serviva ormai? Com’era quindi possibile di adattarsi alla perdita di tanti animali in piena salute, che muggivano al suo entrare, che comprendevano la sua parola, e che la sua parola riusciva a calmare quando erano agitati? Egli aveva respinto quasi con senso di smarrimento l’ipotesi non appena gli si era affacciata alla mente, ma tuttavia il pensiero di Emilio non gli dava pace, anche per il fatto che presto egli avrebbe dovuto prestare servizio militare. Già gli era stato notificato l’ordine di presentarsi alla visita per il prossimo marzo. Abile lo avrebbero fat- to senza dubbio: con un po’ di sfortuna, pescando un numero basso, sarebbe stato arrolato. Non era un ri- schio da correre. Sotto l’Austria, ciò era certamente un onore, ma sotto l’Italia e il suo tristo governo di ladri e di frammassoni... lo stesso governo che mentre lui combatteva contro la Prussia aveva osato attaccare l’Impero!... Governo dannato, che ammantava il suo odio contro la religione e i suoi ministri col pretesto di una necessità di giustizia e di uguaglianza davanti alla legge. Purtroppo erano passati tanti anni, e ormai troppa gente aveva dimenticato che prima anche gli Erseghi facevano parte di un grande Impero. Chi oramai resisteva agli ordini di questa nuova Roma sconsacrata? Fors’anche il suo Emilio non capiva che fare il soldato sotto l’Italia era un tradimento; ma lui, il vecchio füh- rer, non doveva dimenticare, e vigilare piuttosto perché almeno i suoi serbassero intatto l’onore. Poi, a pre- scindere dal tradimento, c’erano i pericoli per il corpo e per l’anima cui il nipote sarebbe andato incontro e che avrebbero gravato sulla sua coscienza se lui non si fosse adoperato di farglieli evitare.