sulla scena tragica latina

Il personaggio di Medea permette uno sguardo trasversale su tre autori che hanno trattato momenti diversi di questa saga e così messo in luce aspetti differenti della figura e delle vicende ad essa legate. Se, infatti, la Medea exul di Ennio ripercorre da vicino la trama dell’omonimo dramma euripideo, con il Medus Pacuvio mette in scena il ritorno dell’eroina in Colchide secondo una versione rara del mito, e, al contrario, la Medea sive Argonautae di Accio è incentrata sull’abbandono della patria e della famiglia da parte di Medea e sulla sua partenza con Giasone2. Evidente sin dai primi versi del dramma, modello della tragedia enniana è la Medea di Euripide, che l’autore latino ‘traduce’ per la scena romana apportando alcune modifiche, che sembrano tanto più interessanti proprio in quanto inserite in una trama (per quello che ci è dato di verificare) molto vicina all’originale e permettono una proficua analisi del vertere eun’individuazione di elementi di romanizzazione e attualizzazione. Più difficile stabilire le fonti e i possibili modelli di Pacuvio: la trama del Medus non trova riscontro in nessuna delle tragedie greche a noi giunte per intero o in frammenti. Particolarmente evidente nel caso di Accio, ma con tracce anche negli altri due tragici, il parallelo con Apollonio Rodio offre interessanti spunti di ricerca sulle modalità di drammatizzazione di un racconto epico da una parte e sulla caratterizzazione del personaggio di Medea come maga dall’altra. Nella grande messe di studi relativi all’affascinante figura di Medea e alla saga degli Argonauti3, i frammenti tragici latini non paiono molto valorizzati. Ma, nonostante la natura frammentaria della tradizione impedisca considerazioni certe, sembra tuttavia che molti dei temi legati a Medea nella letteratura latina possano trovare riscontro già nella produzione tragica di età repubblicana, come risulterà più evidente nel commento ai singoli frammenti e nelle introduzioni ai tre drammi. In particolare, tre aspetti della raffigurazione di Medea a Roma sembrano essere già presenti nei testi scenici repubblicani: a) La magia. L’eroina è la maga per antonomasia e appare legata soprattutto agli episodi di ringiovanimento. La presenza di questo tema appare costante in tutte le fasi della produzione letteraria (e iconografica) già a partire dall’ambito italico e può essere spiegata alla luce delle analogie

2 La scelta di rappresentare diverse fasi dello stesso mito da parte dei tre tragici è stata da tempo notata dalla critica. Cfr. almeno Dondoni 1958; Arcellaschi 1990; Nosarti 1999, 53–78; Cowan 2010; Boyle 2014, lxix–lxxii. 3 Difficile dominare la bibliografia relativa al mito di Medea. Cito solo alcune monografie ‘classiche’ e raccolte di studi: per l’iconografia, oltre alle voci del LIMC, Galli 1906; per la presenza letteraria Mallinger 1897; Boselli 1905; Goedhart 1911; Caracappa 1921; Séchan 1927; von Fritz 1959; Dräger 1993; Clauss–Johnson 1997; Uglione 1997; Gentili–Perusino 2000; Lopez–Pociña 2002; Cipriani 2005; De Martino 2006; Zimmermann 2009; Bartel–Simon 2010; Corrigan 2013; Manuwald 2013.

3 Introduzione

che la figura mitica sembra mostrare con alcune divinità ctonie, e in particolare con la dea Angitia (su cui cfr. infra). b) L’amore. L’attenzione alle fasi dell’innamoramento (che denunciano una dipendenza degli autori latini da Apollonio Rodio) permette di appro- fondire i rapporti (e lo scontro) con la famiglia d’origine, presentando la partenza dalla Colchide come una scelta volontaria oppure anche quasi come una cattività di Medea, preda dello straniero Giasone. Viene dato rilievo al tema della fragilità della donna di fronte a Eros, in particolare in opposizione alla sua sapientia magica, da lei inutilizzabile come difesa. Infine, la vicenda dell’abbandono di Giasone avvicina Medea a eroine elegiache come Arianna o Ipsipile (particolarmente interessante il pa- rallelo con quest’ultima, per la comune esperienza con Giasone), ren- dendola paradigmatica anche in questo senso. c) La ferocia e i delitti. La celebre definizione oraziana dell’Ars Poetica (v. 123) sit Medea ferox invictaque fa riferimento ai numerosi e terribili delitti di cui l’eroina colchica si macchia in nome dell’amore per Giasone: l’omicidio di Absirto, quello di Pelia, l’uccisione di Creusa e, infine, l’infanticidio. La natura cruenta di Medea fa sì che si affermi anche una sua caratterizzazione come menade.

La magia Magia e ringiovanimento La figura di Medea si lega in modo particolare con il tema della magia4 ela rappresentazione dell’eroina come maga sembra avere un’importanza notevole a Roma5. La donna e la sua regione di provenienza, la Colchide, sono dunque elementi, potremmo dire topici, spesso presenti nei contesti poetici in cui si parli in qualche modo di magia. Importante notare come i poteri magici siano visti da una parte come spaventosi, pericolosi e negativi, ma al contrario anche come positivi, iatrici e curativi. Tutte le abilità solitamente attribuite alle maghe (necromanzia, conoscenza dei carmina, capacità di tirare giù la luna dal cielo e di nascondere il carro del sole), per esempio, ricorrono in relazione a Medea nella celebre rappresentazione di Ov. met. 7eepist. 6, 85–96 (in cui la focalizzazione di Ipsipile fa sì che sia messa in risalto soprattutto la magia nera), e la rappresen- tazione dell’eroina colchica come maga viene valorizzata in modo particolare soprattutto dai poeti di età augustea, ma anche da quelli successivi6. Una possibile

4 Tema, questo, molto caro agli autori latini: cfr. in particolare Fahz 1904 e Tupet 1976. 5 Le osservazioni di Caracappa 1921, 101 e 114, sembrano in questo senso tuttora valide. 6 In età augustea cfr. Hor. carm. 2, 13, 8 e epod. 17, 35; Manil. 5, 34s.; in seguito Val. Fl. 6, 439–453 (cfr. Fucecchi 1997, ad loc.; Elm 2007, 56s.) e 275s. con le parole di Anausi in punto di morte, che si riferisce al potere curativo della magia; Stat. Theb. 4, 505s. e 549–551, mentre in 9, 610s. e 734s. si fa riferimento alla Colchide come terra di maghe; Claud. carm. 3, 145–153.

4 Medea sulla scena tragica latina traccia del tema della magia bianca sembra essere presente già nei testi drammatici repubblicani, in particolare nel fr. 16 del Medus pacuviano (possum ego istam capite cladem averruncassere), mentre un legame con le arti divinatorie e i prodigi è evidenziabile sulla base del fr. 9 della Medea sive Argonautae di Accio (principio extispicium ex prodigiis congruens ars te arguit): non è possibile spingersi oltre in assenza di ulteriori materiali. Uno degli episodi di magia più noti nel panorama latino a proposito di Medea è quello del ringiovanimento di Esone7, legato anche all’inganno teso da Medea ai danni delle figlie di Pelia: trasformato davanti a loro un ariete in agnello e forte della sua fama di maga, infatti, la donna le convince ad uccidere il loro padre, prospettando loro la possibilità di far ringiovanire anche lui. L’episodio negativo di Pelia, del resto, è altrettanto noto nel mondo antico8 e compare molto spesso nella letteratura latina (per esempio nelle Peliades di Gracco e poi, soprattutto in Ov. met. 7, 297ss., di cui si ricorda Sen. Med. 670–8489); a esso è riferito un momento parodico dello Pseudolus di Plauto ai vv. 868–87210. Il discorso fa parte di una gag tra Ballione e il cuoco che, essendo stato appena ingaggiato, vuole mettere in mostra la sua arte utilizzando linguaggio e stile elevati (si noti, ad esempio, l’elemento paratragico Neptuni pecudes al posto di pisces al v. 834). In questo passo egli si paragona a Medea nell’atto di ringiovanire Pelia. La menzione di questo personaggio è stata interpretata in modi diversi: a) Plauto farebbe confusione e intenderebbe qui Esone oppure Giasone11; b) il passo testimonierebbe una variante del mito per cui Medea avrebbe realmente ringiovanito Pelia12;c)il cuoco plautino mescolerebbe volutamente le carte per confondere Ballione (mal) celando dietro le sue promesse una minaccia13. Sembra che la fama di cui godevano i miti del ringiovanimento in generale e dell’uccisione di Pelia in particolare possa confermare l’interpretazione del passo come confusione consapevole da parte del poeta14 e ciò sembra possibile anche tenendo conto di un particolare del momento scenico plautino, cioè del fatto che si sta festeggiando il compleanno di Ballione.

7 Il tema è anche uno dei più rappresentati nella pittura vascolare magno-greca, cfr. Dugas 1944, 5ss., ma la sua fama è messa bene in evidenza, in letteratura e nelle arti figurative, anche da Giusti 1928, 169–171 e Masselli 2009. 8 Per la presenza del mito di Pelia nella letteratura greca cfr. da ultimo Burkert 2009, soprattutto 156. 9 Su questo cfr. Gamberale 2008, 625–630 e bibliografia ivi citata. 10 Questi i versi: quia sorbitione faciam ego hodie te mea / item ut Medea Peliam concoxit senem, / quem medicamento et suis venenis dicitur, / fecisse rursus ex sene adulescentulum: / item ego te faciam. In realtà già al v. 193 Ballione fa riferimento al mito argonautico, augurandosi per il suo compleanno di essere proclamato “re Giasone”, cfr. Bianco 2006, 59. 11 Così Willcock 1987, sulla base del confronto con Cic. sen. 83, in cui il riferimento a Pelia è sicuramente errato; anche secondo Powell 2006, 262s. sia per Cicerone sia per Plauto si deve pensare a un errore, la cui genesi è da individuare in un filone mitologico romano corrente. 12 Così, tra gli altri, Sturtevant 1979 (= 1932); Dugas 1944, 8s. 13 Così Arcellaschi 1990, 120 ss. 14 L’episodio, infatti, è inserito in un contesto in cui sono presenti termini afferenti alla sola sfera semantica della magia (striges, v 820; veneficus, v. 872) o anche a quella della cucina (herbae,

5 Introduzione

Agli episodi riusciti di Esone o dell’ariete o, più in generale, alla capacità magica di Medea in relazione agli incantesimi di ringiovanimento fanno riferi- mento diversi passi (eleg. in Maecen. 1, 107–113; Manil. 5, 465–46815; Lucan. 6, 440–44216; probabilmente anche Val.Fl. 6, 444s.17), e soprattutto Ov. met. 7, 159ss. Per quanto riguarda i frammenti tragici repubblicani, un riferimento all’uc- cisione di Pelia, con la menzione delle figlie e quindi con l’allusione all’inganno teso ai loro danni, si ha nel fr. 12 di Ennio (quo nunc me vortam? quod iter incipiam ingredi? / domum paternamne anne ad Peliae filias?), che traduce i vv. 502–504 del modello euripideo.

Medea, Angitia e i serpenti18 La rappresentazione di Medea come maga, dunque, gode di molta fortuna a Roma. Le ragioni di questa predilezione potrebbero essere legate anche a una possibile associazione tra l’eroina colchica e una divinità italica, Angitia. Due testimonianze di età imperiale raccolgono una tradizione secondo cui il mito di Medea si collegava in qualche modo con il culto di Angitia. Nei Collectanea di Solino (2, 28–30), infatti, si legge: C. Coelius Aeetae tres filias dicit Angitiam Medeam Circen: Circen Circeios insedisse montes, carminum maleficiis varias imaginum facies mentiantem: Angitiam vicina Fucino occupa- visse ibique salubri scientia adversus morbos resistentem cum dedisset homines vivere deam habitam: Medeam ab Iasone Buthroti sepultam filiumque eius Marsis imperasse. Medea e Angitia, dunque, sarebbero sorelle, figlie di Eeta (come , che viene fatta risiedere nelle regioni occidentali, nel territorio situato tra il Lazio meridionale e la Campania)19.L’altra fonte è il commento di Serv. Aen. 7, 750:

passim; sorbitio, v. 868). Inoltre, il riferimento a un episodio mitico negativo, come quello di Pelia, potrebbe essere confermato dalla scelta di concoquere (v. 869) preferito a recoquere (più abitualmente utilizzato in contesti legati al ringiovanimento, cfr. Catull. 54, 5; Hor. sat. 2, 5, 55): concoquere, infatti, ricorre anche in Accio, trag. 220s. Ribb.3 (concoquit / partem vapore flammae . . .) in riferimento alla preparazione della cena tiestea. Forse eccessivo leggere nel brano una parodia del Medus di Pacuvio, sulla scorta di Arcellaschi 1990, 120–124, ipotesi non del tutto esclusa da Bianco 2006, 59 n. 16. 15 Che Manilio si riferisca ad Esone e non a Pelia è stato dimostrato da Flores 1966, 82s. e da Baldini Moscadi 1993, 226. 16 Cfr. Sannicandro 2010, 208, che sottolinea l’allusione lucanea all’episodio delle Metamorfosi di Ovidio. 17 ...recoquit fessos aetate parentes / datque alias sine lege colus, su cui cfr. Caviglia 1999, 507 e 601s. Concordo con Caviglia (ed Ehlers) nel preferire al tràdito recolit (v. 444) la proposta di Gronovius recoquit, più comprensibilmente adeguato in un contesto di ringiovanimento, ma il problema è complesso: per recolit si pronuncia Fucecchi 1997, 95–97, che nota anche (97) come il verso possa essere riferito sia a Esone sia a Pelia. 18 Riporto qui parzialmente, dopo opportuna risistemazione, quanto ho discusso in Falcone 2011, cui rimando per maggiori dettagli e più ampia documentazione. 19 Il passo di Solino è discusso brevemente da Arcellaschi 1990, 436s., che riporta il nome della dea come Anguitia e suggerisce (437) che l’ingresso di Medea nel mondo culturale romano sia

6 Medea sulla scena tragica latina

Medea quando relictis Iasonem secuta est, dicitur ad Italiam pervenisse, et populos quosdam circa Fucinum ingentem lacum habitantes, qui Marrubii appellabantur quasi circa mare habitantes, propter paludis magnitudinem, docuit remedia contra serpentes: quamquam alii Marrubios a rege dictos velint. hi ergo populi Medeam Angitiam nominaverunt ab eo quod eius carminibus serpentes angerent. ab his nunc Umbronem venisse dicit, non regem, sed ducem. sunt autem isti Marsorum populi. In questo caso le figure di Medea e Angitia appaiono completamente sovrapposte. Particolarmente interessante risulta un aspetto della vicenda mitica e sovran- naturale di Medea: il suo legame con i serpenti, rappresentato (a) dall’episodio dell’incantamento del draco e (b) dal carro, cui si aggiungono alcuni, più rari, cenni alla sua abilità di incantatrice di serpenti (in particolare, in Ov. met. 7, 203 ed epist. 6, 97s.; Hyg. fab. 26). Esso potrebbe costituire un elemento comune tra Medea e Angitia, dea legata a un culto locale (diffuso intorno all’attuale zona del Fucino, in Abruzzo).

Medea e l’incantamento del draco Mentre in Pindaro (Pyth. 4, 249s.) è Giasone a uccidere il drago con l’astuzia, l’episodio ha invece per protagonista assoluta Medea nel racconto di Apollonio Rodio (4, 144–166), che diventa il modello di riferimento principale per gli autori latini. Il poeta ellenistico riserva particolare attenzione alla tecnica utilizzata da Medea per addormentare il serpente (“attento” e “dagli occhi insonni” [v. 128], come poi spesso sarà definito anche nei testi latini): dopo l’invocazione del Sonno e di Ecate (vv. 146–148), la giovane cosparge di filtri gli occhi del draco utilizzando un ramoscello di ginepro appena colto, e mentre Giasone stacca il vello dalla quercia, continua a cospargere di droghe la testa del serpente20. Pare che l’episodio fosse noto nella penisola italica, se è corretta l’interpretazione corrente relativa ad un’anfora del Pittore di Amsterdam, proveniente quasi sicuramente da Cerveteri e risalente alla metà del VII secolo a. C., in cui è rappresentata una donna dal capo coperto che sta davanti a un serpente a tre teste21. L’incantamento del draco, cui fanno spesso riferimento gli scrittori latini22,è già presente sulla scena tragica repubblicana. Medea, infatti, lo rievoca nel primo verso del fr. 11 attribuito alla Medea exul di Ennio (attribuzione, questa, preferibile a quella acciana per le argomentazioni discusse infra nel commento ad loc.): non

avvenuto per via iconografica ed etrusca, prima che letteraria e greca. Senza voler escludere l’importanza degli Etruschi, pare che la stretta connessione di Angitia con i renda la questione molto più complessa di quanto non mostri lo studioso francese, e che l’attenzione vada spostata su altre popolazioni italiche, abbandonando la prospettiva panetrusca. 20 Sull’episodio cfr. Livrea 1973, 51–59 e Fränkel 1968, 466; per le tecniche di incantamento dei serpenti cfr. anche Giusti 1928, 162–168; Tupet 1976, 194s. 21 Cfr. LIMC VI/1 (1992), s. v. ‘Medeia’ (Schmidt), 388, 2* e 396. 22 In particolare Prop. 3, 11, 11; Ov. epist. 6, 13s., 37, 97s., 101s. e 12, 4, 17s., 23, 49s., 60, 103s., 107–110; Ov. met. 7, 149–156; Sen. Med. 472s., 681–684 e 703s.; Val. Fl. 8, 58–108.

7 Introduzione commemoro quod draconis saevi sopivi impetum / non quod domui vim taurorum et segetis armatae manus. I versi sembrano costituire la resa di Eur. Med. 475–482, da cui si discostano per un dettaglio non trascurabile: l’ordine cronologico, infatti, è rovesciato da Ennio mediante l’uso di uno hysteron proteron, figura retorica che si accompagna a quella della preterizione (sottolineata dal non anaforico) e che pone all’inizio proprio l’episodio del draco, a sottolineare il rapporto affettivo che legava Medea e il mostro, di ascendenza apolloniana, poi tematizzato da Valerio Flacco (in particolare nel monologo di 8, 92–108, in cui Medea compiange il corpo del draco umanizzato, simbolo del tradimento familiare23).

Il carro di Medea La rappresentazione di Medea sul carro è stata ipotizzata sulla base degli scolii e dell’iconografia relativa all’eroina colchica già per la scena finale della Medea di Euripide (vv. 1317 ss.)24, criticata – come è noto – da Aristotele (poet. 1254 b 1–2) per il fatto che, grazie all’espediente del carro, la lysis avviene attraverso un elemento esterno alla trama. Medea sul carro trainato da serpenti costituisce una delle rappresentazioni iconografiche più frequenti in ambito italico (le raffigu- razioni, su vasi falisci o provenienti dall’Italia meridionale e su urne etrusche, datate dal Val III secolo a. C., rappresentano la donna sul carro con i cadaveri dei figli e a volte Giasone o altre figure25). La celebrità della scena è tale che la rappresentazione appare spesso slegata dal momento della fuga conseguente all’assassinio dei figli e il carro diventa quasi un attributo della donna, un segno distintivo che la contraddistingue a livello iconografico, come risulta da tre terrecotte di età ellenistica provenienti dall’Italia centrale o meridionale, ora conservate a Napoli, Berlino e Bologna, in cui Medea è rappresentata alla guida del carro, senza armi né cadaveri, semplicemente come maga26. Non stupisce, dunque, la frequenza con cui ricorre nei testi letterari latini27 sin dall’età repubblicana. In particolare, i frammenti 11*, 12 e 13 del Medus di Pacuvio contengono riferimenti evidenti al carro trainato da serpenti, di cui forniscono via via sempre più precisi dettagli: il primo frustulo (invehens alitum anguium curru) sembra descrivere l’arrivo di Medea, ed è una sequenza ad andamento cretico trasmessa da Cic. rep. 3, 14 (sull’opportunità di considerare il testo un frammento pacuviano, cfr. infra il commento ad loc.); il secondo (angues ingentes alites iuncti

23 Cfr. per questo passo Pellucchi 2012, 114–116 e 158–168 e Lazzarini 2012, 130–142, che parla di “consapevole variazione del modello” (130) e si sofferma molto sull’umanizzazione del draco: significative soprattutto le espressioni cari . . . draconis (v. 92); miserande (v. 99); immemor oro mei (v. 103). 24 Cfr. Matelli 2009, 308s. (con ulteriore bibliografia). 25 Si tratta delle figure 35–41 del LIMC (VI/2). 26 Sono le figure 43–45 del LIMC (VI/2). 27 Cfr. Ov. met. 7, 217–221, 234, 350; trist. 3, 8, 3s.; Hor. epist. 3, 14; Sen. Med. 1022–1025; Luc. 9, 727–731; Val. Fl. 5, 453s.; Aug. conf. 3, 6, 11; soliloq. 2, 15, 29; epist. 7, 2, 4; retract. 1, 1; Drac. Rom. 10, 24.

8 Medea sulla scena tragica latina iugo) offre una descrizione sommaria degli animali legati al giogo (sull’attribu- zione al Medus, comunemente accolta dalla critica, cfr. infra); il terzo (linguae bisulcis actu crispo fulgere) si sofferma su un particolare degli stessi dracones, vale a dire il rapido movimento delle lingue biforcute28. Che la presenza del carro di Medea sulle scene avesse una qualche importanza sembra essere confermato dalle numerose critiche all’inverosimiglianza ed eccessiva spettacolarità di questa rappresentazione: in particolare, si ricordano Lucil. 604 K. (= 587 M.): nisi portenta anguisque volucris ac pinnatos scribitis e Cic. inv. 1, 27, testimone del fr. 12 di Pacuvio (da cui dipendono Mar. Victorin. rhet. 1, 19, p. 202 H = p. 67 Riesenweber29 e Aug. soliloq. 2, 15 2930): fabula est in qua nec verae nec veri similes res continentur,cuiusmodi est: angues . . . iugo. Il medesimo intento critico- letterario, con ascendenza tragica, si può ipotizzare anche a proposito del fr. 284 Astbury del Marcipor varroniano (dixe regi Medeam advectam per aera in raeda anguibus), che con ogni verisimiglianza potrebbe riferirsi proprio alla scena del Medus di Pacuvio ricostruibile sulla base dei frammenti 11*–1331.

Angitia e i Marsi La maggior parte delle informazioni a noi giunte sulla dea Angitia provengono da materiale epigrafico32, cui si aggiungono un’unica immagine cultuale (un bron- zetto proveniente dal Fucino, conservato per un certo periodo presso il museo di Avezzano e oggi disperso, che rappresenta una donna con un serpente attorcigliato attorno a collo e braccia33) e alcuni testi letterari (su cui cfr. poco oltre). Del nome sono attestate diverse forme: oltre ad Angitia e alla variante grafica Ancitia, si trovano Anagtiai (solo al dativo) in osco, An(a)c(e)ta e Anacta in peligno, e il plurale Ancites, considerato normale nel caso di divinità ctonie34;a queste forme si aggiunge Anguitia, che tuttavia non ricorre nelle iscrizioni ed è

28 A questi testi si potrebbe aggiungere il fr. 13 della Medea sive Argonautae di Accio (perite in stabulis frenos immittens feris): l’esegesi del testo è però incerta (cfr. infra, commento ad loc.)e sulla base del testimone sembra doversi escludere l’attinenza con il carro di Medea che, come è noto, non era trainato da cavalli, bensì da dracones. 29 Fabulam dicit esse quae nihil veri nec veri simile continet, et dat exemplum: cuiusmodi est: angues . . . iugo. 30 A. Sed tamen solet falsum dici etiam, quod a veri similitudine longe abest. R. Non enim, cum dicitur iunctis alitibus anguibus Medeam volasse, ulla ex parte res ista verum imitatur, quippe quae nulla sit nec imitari aliquid possit ea res, quae omnino non sit. R. Recte dicis; sed non adtendis eam rem, quae omnino nulla sit, ne falsum quidem posse dici. Si enim falsum est, est: si non est non est . A. Non ergo dicemus illud de Medea nescio quod monstrum falsum esse? R. Non utique; nam si factum est, quomodo falsum est, si non est factum, quomodo monstrum est? A. Miram rem video. Itane tandem cum audio: angues . . . iugo, non dico falsum? 31 Ho sostenuto questa tesi in Falcone 2015, 41–45, cui rimando per ulteriori dettagli sulla presenza del mito di Medea nella Menippea. 32 Per una raccolta del corpus epigrafico cfr. Ernout 1965, 195–199; Rocca 1994; Letta 1999. 33 Su cui cfr. Fernique 1883; la riproduzione della tavola si trova anche in Falcone 2011, 97. 34 Per la forma plurale sono state fornite diverse interpretazioni, su cui cfr. Falcone 2011, 87 n. 23.

9 Introduzione evidentemente una grafia paretimologica sviluppatasi per mettere in risalto il rapporto con anguis. In parte del materiale epigrafico ascritto al dossier della dea ricorre la dedica ad An(a)c(e)ta Cerria, ma la questione dell’identificazione tra Angitia e questa figura senz’altro legata a Cerere è molto dibattuta; altrettanto problematica e discussa, infine, l’associazione con , fondata su un’unica testimonianza riportata da Boccaccio (genealog. deor. 4, 15)35. Anche l’etimologia del nome è controversa. Angitia viene considerato ora equipollente di Indiges, con riferimento alla sua natura di ‘datrice di vita’36, ora corradicale di alcuni termini, quali angor e angere (e ancora anguis, evidentemente paretimologico). Sembra ragionevole pensare che, essendo la divinità legata a un culto provinciale, il nome non abbia nulla in comune con i termini latini cui viene in seguito associato e che possa essere legato alla toponomastica (si è pensato in particolare ad Anagnia, fondazione marsica, alla leggendaria città di ’Αγχίση, fondata insieme con Capua da un ecista troiano, forse lo stesso Enea, e ad Anxur, nonché al nome proprio Ancus), denunciando la natura gentilizia della divinità stessa37. La provenienza delle epigrafi permette di evidenziare la diffusione del culto riservato ad Angitia non solo tra i Marsi, ma anche tra tutti i popoli sabellici e anche, forse, tra Umbri e Oschi: centro principale doveva essere l’attuale , presso il Fucino (come dimostrano i ritrovamenti archeologici nel territorio del Angitiae, alcuni ex voto fittili e due basi bronzee38 qui rinvenuti, nonché CIL 9, 3885); il culto è testimoniato, sempre in Abruzzo, anche presso Civita d’Antino (CIL 1, 1763), Furfo (CIL 9, 3515), Pentima (Vetter 211) e Sulmona (CIL 9, 3074 e Vetter 204–208), e si estendeva fino ai Sabini di Trebula Mutuesca (odierna Monteleone Sabino, in provincia di Rieti), dove sorgeva ancora nel I secolo d. C. un santuario della dea39, agli Oschi, come testimonia un’iscrizione su anello aureo dedicato alla dea proveniente da Aesernia40, e probabilmente agli Umbri, se è legato ad Angitia l’uso di Acetus nelle Tavole Iguvine. La dea non entrò mai nel pantheon ufficiale, ma le si riservarono a lungo culti in forma privata anche a Roma41. Per quanto riguarda i testi letterari, Vibio Sequestre (geogr. 200: Angitiae vel Anguitiae <. . .> Lucaniae) parla di un nemus dedicato ad Angitia, menzionato anche da Virgilio, Aen. 7, 759s. (te nemus Angitiae, vitrea te Fucinus unda, / te

35 Per ulteriori dettagli su Anaceta Cerria e Angerona rinvio a Falcone 2011, 87s. e note 24 e 25. 36 Cfr. LEW, s. v. 2. Indiges. 37 Su Anagnia fondazione marsica, cfr. Schol. Ver. Aen. 7, 689: [Ana]gniam habitant Marsorum coloni.Su’Αγχίση cfr. Letta 1993, 34s. 38 Su cui cfr. Letta 1999. 39 Da qui proviene un’iscrizione datata al I sec. d. C., su cui cfr. Rocca 1994, 224s.: ]ngitiae sacr P. Calestro Agr[3. 40 Paris, Cabinet des Médailles, Collezione Froehner (inv. Fr. V, 246): Stenis.Kalaviis.G / Anagtiai.Diiviiai. / dunum.deded. 41 Cfr. Wissowa 1912, 49s.

10 Medea sulla scena tragica latina liquidi flevere lacus)42; ma la più lunga menzione della dea in poesia è in Silio Italico (8, 497–500: Aeetae prolem Angitiam mala gramina primam / monstravisse ferunt tactuque domare venena / et lunam excussisse polo, stridoribus amnes / frenare ac silvis montes nudasse vocatis), in un contesto relativo ai Marsi, dei quali è citata la conoscenza delle arti incantatorie (in particolare ai vv. 495–497). La menzione siliana è particolarmente interessante perché cronologicamente costi- tuisce la prima testimonianza diretta di un legame parentale tra Angitia ed Eeta43:in questo caso non è chiaro se si tratti di totale sovrapposizione come in Servio, o se Angitia vada considerata un’altra figlia di Eeta come in Solino. Il passo è molto significativo, dal momento che al suo interno convergono tutti gli elementi che ci interessano: le figure di Eeta e di Angitia, le erbe, i carmina, i serpenti, e soprattutto i Marsi. Questa popolazione, nota fino ai tempi di Agostino per la professione di incantatori di serpenti, grazie ai contatti con la Campania greco-etrusca (con- fermati dal ritrovamento nella zona di monete campane della zecca di Cuma e di Phistelia), aveva ripreso o rielaborato, in epoca anteriore alla Guerra Sociale e dunque senza mediazione romana, miti e culti greci (per i miti si ricordi quello di Marsia o quello di Circe e Medea, collegate ad Angitia, con cui condividevano i caratteri solari44, mentre per i culti basti ricordare la dea Vesuna, legata proba- bilmente a Demetra, la stessa Angitia, e poi Ercole, Apollo e i Dioscuri) e aveva mantenuto la propria autonomia rispetto ai Romani sul piano religioso, diver- samente che sul piano linguistico, onomastico, istituzionale e militare45. I rapporti con Roma iniziarono molto presto, certamente almeno nel 340 a. C., come risulta da una testimonianza liviana (9, 45, 8), e i Marsi divennero presto fedeli alleati dei Romani, come pare evidente dalla cosiddetta lamina di Caso Cantovios (CIL I2,5) che riporta una dedica per il santuario della dea Angitia da parte di un contingente marsico che aveva combattuto al fianco dei Romani. Il legame di Medea con la dea dei Marsi, come nota Tupet46, può rivestire particolare interesse se si pensa che le donne di questa popolazione erano note per intonare le neniae, dei canti di magia curativa, anche probabilmente amorosa. Non mancano passi letterari nei quali il legame tra Medea e i Marsi sembra essere stato valorizzato (come, probabilmente, Ov. ars 2, 101s.47). Una serie di indizi permette di ritenere Angitia una divinità ‘ellenizzata’ dai Marsi. Gli elementi su cui si innestò l’accostamento della dea con la famiglia di Eeta, e in particolare con Medea, sono molteplici e si possono ricondurre a due filoni fondamentali: quello celeste e quello ctonio. Per quanto riguarda il primo, è

42 Secondo Horsfall 2000, 493s. il riferimento al nemus di Angitia “is altogether in keeping both with the tone of the passage and with what is known of Italic religion”. 43 Cfr. anche Spaltenstein 1986 e Ariemma 2000, ad loc. 44 Si veda in proposito Letta 1972. 45 Cfr. Letta in Campanelli 2001, 145. 46 Tupet 1976, 195 ss., in particolare 197. 47 Per questa ipotesi cfr. Falcone 2011, 95.

11 Introduzione verisimile pensare che l’associazione tra le figure sia stata favorita anche dalla comune discendenza solare48, sottolineata dai Marsi anche nel 91 a. C. nel giuramento di fedeltà a Livio Druso, in cui il Sole è invocato come ‘progenitore della stirpe’49. Forse più forti e immediatamente individuabili sono però gli elementi ctonii, che legavano Angitia ai serpenti e alla magia, e che furono poi particolarmente valorizzati a Roma in ambito letterario e antiquario, specializ- zando la figura della dea marsica e caratterizzandola in maniera sempre più simile a Medea50. A queste osservazioni si può anche aggiungere la tradizione di un legame dei Marsi con il figlio di Circe e Ulisse, Marso, dal quale avrebbero appreso l’arte di incantare i serpenti (come risulta da Plin. nat. 7, 15 e 25, 11 e Gell. 16, 11, 1–251). È evidente, dunque, un tentativo di collegare questa popolazione legata alla sfera del magico con le maghe mitiche per antonomasia, Medea e Circe appunto, utilizzando o meno il tramite di Angitia.

Medea e Angitia Può riuscire utile riassumere gli elementi comuni alle due figure e verisimilmente già valorizzati in relazione a Medea dai tragici repubblicani: – la condivisione di elementi ctonii e solari. Per quanto riguarda Angitia, la coesistenza di celeste e ctonio sembra potersi dedurre dagli attributi cerria e diiviia che ricorrono nel materiale epigrafico. La dimensione ctonia, oltre che dal rapporto privilegiato con i serpenti, è sottolineata dal legame con Ecate, mentre la valorizzazione del legame di Medea con il Sole è evidente nelle invocazioni che la donna rivolge al suo avo, già nei testi teatrali repubblicani: in particolare, in Ennio, frr. 15 (Sol, qui candentem in caelo sublimat facem) e 17 (Iuppiter tuque adeo summe Sol, qui res omnis spicis, / quique tuo lumine mare terram caelum contines, / inspice hoc facinus, prius quam fiat: prohibessis scelus!), in Pacuvio, fr. 1 (. . . te, Sol, invoco, ut mihi potestatem duis / inquirendi mei parentis), e in Accio, frr. 8 (tun dia Mede’s, cuius aditum pervixi usque adhuc?)e9(principio extispicium ex prodigiis congruens ars te arguit).

48 Letta 1993, 33, avanza l’ipotesi, suggestiva ma difficilmente dimostrabile (anche in forza delle considerazioni fatte sopra sulle caratteristiche della dea Angitia), che proprio l’elemento solare sarebbe stato valorizzato per primo da parte dei Marsi. 49 Cfr. ancora Letta 1993, 34. 50 Sull’influenza di Medea per la caratterizzazione di Angitia in ambito letterario cfr. Ernout 1965, 196 e n. 1; Santi 1994, 244–248. 51 Questo è il passo di Gellio: Gens in Italia Marsorum orta esse fertur a Circae filio. Propterea Marsis hominibus, quorum dumtaxat familiae cum externis cognationibus nondum etiam permixtae corruptaeque sunt, vi quadam genitali datum ut et serpentium virulentorum domitores sint et incentionibus herbarumque sucis faciant medelarum miracula. In Sol. 2, 30, come visto, sarebbe invece un figlio di Medea ad aver regnato sui Marsi.

12 Medea sulla scena tragica latina

– il legame con i serpenti e i metodi incantatori52: si veda quanto discusso supra; in particolare, il tema ricorre nel fr. 11 della Medea enniana e nei frr. 11*–13 del Medus di Pacuvio. – lo stretto rapporto di entrambe le figure con la magia e con quegli elementi ambivalenti della natura (quali le erbe o il veleno dei serpenti), che sono utilizzati con valenza benefica da parte di Angitia e, in alcuni episodi, anche di Medea, e che rendono le maghe delle figure bifronti capaci di aiutare ma anche danneggiare. In relazione a questo aspetto, si può citare il fr. 16 del Medus (possum ego istam capite cladem averruncassere), in cui un personaggio (verisimilmente Medea, cfr. infra, commento ad loc.) dichiara il suo potere iatrico-magico. – il legame con i sacerdozi femminili, che pare possa dedursi, nel caso di Angitia, soprattutto dall’epigrafe di Sulmona, e che coinvolge Medea in prima persona in qualità di sacerdotessa di Ecate, a cui potrebbe riferirsi, in modo volutamente elusivo, la difficile espressione caelitum camilla del fr. 15 del Medus, e che potrebbe essere celata dietro il riferimento al templum Cereris del fr. 14 della Medea exul di Ennio53.

L’amore L’innamoramento Il tema dell’amore gioca un ruolo fondamentale per il mito di Medea, essendo – in positivo e in negativo – il motore delle azioni e degli incantesimi stessi dell’eroina. In nome del suo amore per Giasone Medea mette la sua sapientia al servizio della causa degli Argonauti, parte con loro scegliendo di diventare una donna straniera in terra d’altri piuttosto che la regina nella sua patria, uccide suo fratello Absirto. Una volta giunta in Grecia, sempre per amore di Giasone ringiovanisce Esone e inganna le figlie di Pelia. Per vendicarsi infine dell’amore non più corrisposto, del tradimento e dell’abbandono, ricorre ancora alla magia e fa morire Creusa, arrivando persino ad uccidere i propri figli. La donna maga e la donna preda d’amore sono dunque strettamente legate nel mito e nei racconti che di esso hanno fatto i poeti latini. L’innamoramento è presentato tradizionalmente come la resa di fronte a una potenza sovrannaturale, contro cui nulla sipuò fare: così nel monologo di Ov.met. 7 (inparticolarevv. 7–18e55:maximus. . .deusest)54 einValerioFlacco,incuilefasi

52 Sulla presenza di riferimenti alle tecniche incantatorie e all’utilizzo dei veleni dei serpenti nella letteratura latina cfr. Tupet 1976, 187–199, con una ricca antologia di passi; sul tactus, elemento comune a molte rappresentazioni letterarie dell’incantamento del draco, cfr. ancora Tupet 1976, 192 e n. 6. 53 L’interpretazione e la stessa attribuzione del frammento sono discusse, ma proprio la menzione di Cerere potrebbe costituire uno spunto interessante per la sua contestualizzazione, cfr. commento ad loc. 54 Cfr. Bessone 1997, 36–41 e Kenney 2011 ad loc.

13