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Marco Cuzzi

26 ottobre 1927. Principessa Mafalda

Riva Trigoso. Una frazione di , in Liguria. È il 22 settembre 1907. La campana della chiesa di Trigoso, il borgo più antico che si erge sulla collina, rintocca mezzogiorno. Il suono, autorevole, grave e minaccioso, giunge verso il mare, a Riva, il paese costiero che vent’anni prima è stato unito al vecchio villaggio dell’entroterra. Un torrente lo divide: lo chiamano Petronio, come l’arbiter elegantiae di Nerone. All’uso ligure, qui non esiste né l’ovest né l’est. C’è Riva di ponente e Riva di levante. E in mezzo, c’è il Petronio. Ponente è il passato: un borgo di pescatori, una spiaggia intonsa, non ancora invasa dal turismo e soltanto presidiata dai gozzi, le antiche barche da pesca della tradizione. Allora erano strumenti necessari per sopravvivere, e non status symbol del vanesio di turno, pronto a deturparne la sacralità della loro antica natura. Ma Riva di ponente, quel tiepido primo giorno d’autunno, non raccoglie vanesi. Semmai, tanti increduli spettatori di ciò che sta accadendo oltre il Petronio. Perché la frazione di levante, per l’ennesima volta, sta per varare una nave.

Riva di levante è il futuro. Nel 1898, al posto di osterie e reti da pesca, sono stati innalzati enormi capannoni e telai giganteschi: sono i cantieri navali della Società Esercizio Bacini, ovvero il mondo di domani sognato dal comandante e senatore Erasmo Piaggio, armatore e finanziere genovese, discendente dalla più schietta, tenace, pragmatica borghesia mercantile della Superba. Erasmo ha capito che l’età dei velieri è tramontata, e in breve tempo porterà con lei, nei musei del passato, anche i tempi delle carrozze e delle mongolfiere. Il nuovo mezzo di trasporto è il piroscafo transoceanico, straordinaria miscela fatta di grandi hotel di lusso per le antiche e le nuove aristocrazie, sobrie pensioni per il dinamico ceto medio e dignitosi dormitori per chi migra in cerca di fortuna. Eleganza, opulenza, funzionalità, tecnologia. Comodamente, si viaggia veloci verso il nuovo mondo. Piaggio non è l’imprenditore genovese di vecchio stampo, ottuso, bigotto, reazionario, come i personaggi che verranno interpretati da Gilberto Govi. A ventun’anni ha combattuto a Bezzecca, indossando la camicia rossa. Eletto alla camera dei deputati, ha militato nelle fila della sinistra, prima di passare al Senato del Regno. Dopo essere stato per alcuni anni alla guida della Navigazione Generale Italiana insieme alle potenti famiglie Florio, Rubattino e Raggio, nel 1904 ha fondato il Lloyd Italiano, la prima compagnia di navigazione che destina piroscafi principalmente alla terza classe, e quindi agli emigranti.

Piaggio lo fa per interesse, ovviamente: da bravo genovese sa fare i conti, e tra un centinaio di capricciosi aristocratici e alto borghesi ai quali bisogna presentare un piroscafo trasformato in un palazzo reale e un paio di migliaia di semplici disperati abituati a sopravvivere nelle mense solidali, decide che gli 2 conviene riempire le navi di questi ultimi. Che, a differenza dei baroni e dei capitani d’industria, crescono ogni anni in modo esponenziale: tutti si imbarcano alla ricerca di un futuro, oltre l’Oceano.

Ma conoscendone la biografia e la grande propensione alla solidarietà, si può comprendere perché questo vecchio garibaldino trasformatosi in uno degli uomini più ricchi del Regno introduca un concetto rivoluzionario, almeno in Italia: quello del comfort garantito per tutti, anche per la terza classe. Ha scritto lo storico della marina e della navigazione Giorgio Giorgerini:

Chi ricorda le sofferenze atroci cui erano sottoposti gli emigranti durante i giorni di navigazione su vecchi e malconci bastimenti? Ammassati in locali malsani, in promiscuità, senza alcuna aereazione, in condizioni sanitarie e di vita estreme. Ogni traversata provocava la morte del 6-10 % dei passeggeri migranti e la triste falcidia si abbatteva soprattutto sui bambini. Senza parlare dei naufragi, con alta perdita di vite umane.1

Piaggio, e con lui una nuova generazione di armatori, vuole dare dignità al viaggiatore, di qualunque ceto sociale sia, secondo un combinato di convenienza e positivismo umanitario caratteristico di quell’epoca. Il comfort sarà ovviamente progressivo: di base per tutti, con ampi benefits per chi può spendere di più.

Ma non c’è solo questo. Il comandante Piaggio ha idee che vanno ben oltre la semplice copertura delle rotte atlantiche, oppure la garanzia di viaggi comodi e sicuri. L’armatore, non dimentichiamocelo, è un ex garibaldino, ha militato nella Sinistra di Depretis e Crispi. Probabilmente ha letto Alfredo Oriani, il cantore della più grande Italia. Da Riva Trigoso devono essere messi in mare gli emblemi di una Nazione giovane ma determinata. L’Italia che crede di essere in grado di riscattare secoli di dominazioni, umiliazioni, divisioni. L’Italia che si sente, all’alba del nuovo secolo, finalmente erede legittima di un antico impero. Dopo la Roma dei Cesari e dei Papi, ecco comparire all’orizzonte la Roma di questo nuovo secolo che –non v’è alcun dubbio- sarà dominato dalla pace, dal progresso, dalla prosperità. E da un’Italia sempre più grande. Ci vogliono dunque navi imponenti, che possano perlomeno sostenere il confronto con le grandi compagnie britanniche (la White Star o la Cunard), tedesche (la Norddeutscher Llyod e la Hamburg-Amerika) o asburgiche (il Lloyd Austriaco). La politica di potenza non è solo militare. Tutti, in quel primo scorcio del nuovo secolo, desiderano varare mastodonti transoceanici, gareggiando per stabilire chi detiene il primato del tonnellaggio più grande, dei fumaioli più numerosi, dello scafo più lungo, del salone più sfarzoso, del più estremo nodo raggiunto sulla rotta. Ogni transatlantico diventa così la messa in scena della vanità di Narciso, dell’arroganza di Prometeo, dell’opulenza di Creso, della cupidigia di Mida. E l’Italia si aggrega, in un combinato di interessi privati e ambizioni nazionali.

1 Giorgio Giorgerini, Il disastro del Principessa Mafalda: un’ombra sulla politica marittima italiana di inizio XX secolo, in: Luciano Gariboldi, Giorgio Giorgerini, Enrica Magnani Bosio, Principessa Mafalda Titanic italiano, a cura di Riccardo Garosci, Novara, DeAgostini, 2010, p. 56. 3

E così, Erasmo Piaggio ha deciso: costruirà le più grandi navi passeggeri italiane. Non potranno forse competere con le ciclopiche produzioni straniere, come il sontuoso Amerika, varato nel 1905 dalla tedesca Hamburg-Amerika, un palazzo galleggiante di più di 22 mila tonnellate (di “stazza lorda”), arredato in stile tudor, giacobiano, old England e Luigi XIV, con ascensori elettrici intarsiati in uno sconcertante stile rinascimentale; oppure la coppia gemella del Mauritania e del Lusitania, transatlantici di circa 30 mila tonnellate ciascuno, varati nel 1907 dalla Cunard, e definiti da Kipling “mostruose città a nove ponti e settantamila cavalli”.2 Corre anche voce che la White Star di Pierpont Morgan stia per rispondere ai concorrenti commissionando ai cantieri di Belfast tre meravigliose mostruosità di almeno 46 mila tonnellate ciascuna, dalla dimensioni davvero titaniche. No, competere con tali trust internazionali è impossibile per il dinamico ma lillipuziano Lloyd Italiano. Meglio muoversi su stazze più abbordabili, ribadendo anche nel campo del trasporto navale il principio dell’Italia “più piccola tra le grandi potenze”, tante volte sbandierato dalla retorica patriottica dell’epoca. E poi, si può contrastare comunque la concorrenza di casa: la Navigazione generale italiana prosegue il dominio delle rotte sud-atlantiche con le ottomila tonnellate e i sedici nodi di velocità garantiti dei piroscafi Re Vittorio, Regina Elena, Principe Umberto. E a questi nomi regali, Piaggio risponderà con nomi altrettanto augusti: i suoi nuovi piroscafi si chiameranno Principessa Jolanda e Principessa Mafalda di Savoia, le due prime figlie del sovrano. E saranno davvero imponenti, per la media italiana: 9.210 tonnellate di stazza lorda, 148 metri di lunghezza, 17 metri di larghezza, un pescaggio di poco meno di 8 metri.

Erano navi dal profilo piacevole ed elegante, contraddistinte da due alberi e due fumaioli, a scafo continuo flush deck con prora dritta e poppa ellittica, con ponti superiori estesi e passeggiate coperte. La propulsione era assicurata da 4 motrici a quadruplice espansione che agivano su due assi portaelica. La velocità raggiungeva il ragguardevole valore di 17.5 nodi.3

Le due navi hanno 100 cabine di lusso, 80 di prima classe e 150 di seconda. Per i 1200 emigranti di terza classe sono state predisposte soluzioni spartane ma confortevoli, secondo il principio già detto della dignità del viaggiatore.

Il primo varo spetterà al Jolanda di Savoia, mentre la gemella è ancora in fase di allestimento. Torniamo così al 22 settembre 1907. La popolazione dell’antico borgo marinaro di Riva di Ponente, interprete inconsapevole di un’Italia altra, in apparenza antica e superata, guarda emozionata oltre il fiume Petronio il varo del primo vero gigante dei mari del giovane Regno. A levante, presso lo scivolo, il palco delle autorità è gremito. Ci sono numerosi giornalisti stranieri, sempre presenti quando uno di quei mastodonti viene fatto calare in acqua. Il varo è un evento, e come tale deve essere celebrato dalla carta stampata.

2 Richard Davenport-Hines, Lo spettro del ghiaccio. Vite perdute sul Titanic, Torino, Einaudi, 2012, pp. 69-70. 3 Giorgio Giorgerini, cit., p. 60. Il flush deck è un termine dell’architettura navale che si riferisce a un ponte “liscio” o “raso”, e quindi senza sovrastrutture (“tughe”) o casseri. 4

Madrina della cerimonia è Ester, la moglie di Erasmo Piaggio. Quello che accade di lì a poco è incredibile.

Alle 12.25 il Jolanda, pavesato a festa, inizia la sua discesa, dopo i discorsi ufficiali e la tradizionale benedizione con la bottiglia di champagne. Tra le acclamazioni della folla, la nave scivola dolcemente ed entra in acqua. Subito dopo aver preso l’abbrivio, a poco più di cento metri dalla riva, ecco che questo gigante inizia a ingavonarsi sul lato sinistro.4 Mentre la nave si inclina fino a 80 gradi, dalle aperture sul fianco (devono ancora essere montati oblò, portelli e finestroni), l’acqua entra, aumentando lo sbandamento. Possiamo immaginarci il pubblico, lo sguardo attonito degli uomini, le donne che soffocano un grido con una mano, i bambini incantati, a bocca aperta. I gozzi, che come piccoli pesci pilota accompagnano sempre queste cerimonie, si avvicinano al mastodonte morente: le fotografie dell’epoca, scattate in sequenza, mostrano la nave circondata da barchette, con a bordo impietriti gentiluomini e sconvolte o divertite signore riparate da ombrellini parasole; i traghetti portuali agganciano il Jolanda per tentare invano di trascinarlo verso una secca. L’agonia dura venti minuti, e questo permette ai passeggeri di essere tratti in salvo. All’una meno un quarto, come un cetaceo ferito a morte, il Jolanda si corica del tutto, appoggiando il fianco di babordo al fondale. Il recupero verrà escluso, e anche il ripristino: troppo costosi e anche controproducenti per l’immagine del Lloyd Italiano. Meglio lasciare tutto dove sta. Verranno recuperati i macchinari, e in seguito, lo scafo e il resto saranno demoliti in mare.

Ma cosa è accaduto? Probabilmente, un cedimento dell’avanscalo, la parte sommersa dello scivolo, che non ha retto sul lato sinistro il carico di una nave già quasi del tutto allestita e quindi molto pesante: una prassi bizzarra, voluta da Piaggio per risparmiare sui costi di permanenza nel cantiere; forse, l’avanscalo è stato danneggiato in fase di scivolamento, e una parte di esso ha aperto una falla nello scafo. Di certo, il transatlantico –che peraltro dalle fotografie risulta avere un pescaggio minimo e un baricentro troppo alto- è entrato in mare già inclinato e lo spostamento dell’allestimento interno (mobili, suppellettili, carico) ha aggravato la situazione; inoltre, il carbone non era ancora stato stivato, sottraendo al natante il contrappeso; infine, le aperture per gli oblò di babordo e il conseguente flusso d’acqua dall’esterno fin dentro le paratie, hanno perfezionato il disastro.

È sera, quando la gente rientra a casa o si riunisce nelle osterie di Riva di Ponente. Il Mondo Nuovo che doveva essere santificato quel 22 settembre dovrà aspettare. La natura, alleata alla bisogna con l’imperizia dell’uomo, ha per l’ennesima volta spiegato a Prometeo chi tiene il timone. Lo spiegherà tante altre volte, nel corso del secolo. Ci possiamo immaginare un anziano marinaio, che si avvicina al bancone di una sciamadda, la tradizionale osteria dove si cuoce la

4 Raffaele Staiano, Un varo sfortunato, in: www.raffaelestaiano.com (ultimo accesso maggio 2015). 5 farinata; ordina un bicchiere di bianchetta e poi scuote la testa: “Mâ”, male, continua a ripetere in dialetto, guardando il fondo del bicchiere come se fosse quello del caffè, quasi volesse interrogare i numi. Un varo sfortunato è un presagio, un avvertimento. Il senatore Piaggio dovrebbe rifletterci.

Ma Piaggio è l’uomo del secolo della scienza e della tecnica, non di quello delle leggende e delle superstizioni. L’assicurazione navale rimborserà parte dei costi, e con quel denaro si metterà mano al Mafalda, rendendolo –lui sì- a prova di varo e quindi, inaffondabile. E questo nonostante nel settembre 1906, esattamente un anno prima lo sfortunato varo del Jolanda, un piroscafo dallo stesso nome, Principessa Mafalda, varato nel 1903 dal Cantiere della Foce di Genova, è naufragato vicino a Sumatra. Ma anche di questo Piaggio non si cura. Lui è l’uomo del Novecento.

Il Mafalda attenderà un anno: l’esperienza fatta con il Jolanda è servita, e la nave viene varata il 22 ottobre 1908 con solo una parte di sovrastrutture, allestimenti non completi, rinforzi adeguati sull’avanscalo. Timori e apprensioni vengono rapidamente fugati. Il Mafalda scivola velocemente in acqua, galleggia ed è stabile. L’allestimento proseguirà in mare, e il 9 marzo 1909 il transatlantico viene trasferito a Genova, dove il 29 aprile, con madrina d’eccezione la regina Elena, partirà per il suo viaggio inaugurale verso il Brasile e il Plata. Inizia così la storia della più grande sciagura navale italiana di tutti i tempi.

Il Mafalda è una nave elegante, con sale sontuose, alte il doppio delle cabine, ottenute dall’unione di due ponti e dall’eliminazione di un soffitto; gli arredi sono lussuosi, con arazzi, quadri, colonne, stucchi, tappeti, tende riccamente ricamate. Le cento cabine di classe lusso sono appartamenti con cabinati esterni, che danno sul mare; altre ottanta cabine di prima classe sono state arredate con allestimenti forniti dagli hotel Excelsior di Roma e Napoli e dall’hotel National di Lucerna. La seconda classe prevede 150 dignitose cabine, con adeguati e funzionali spazi comuni e camminamenti all’aperto. La terza, con una capacità fino a 1.200 passeggeri, prevede ampi stanzoni e corridoi allestiti con servizi igienici e vasti spazi comuni che garantiscono una certa comodità, fatto da ritenersi innovativo rispetto alla media. Il ponte superiore ha spaziosi saloni, una grande hall, una sala da pranzo, un salone delle feste, una sala musica con il podio per l’orchestra e un grande pianoforte a coda; un salotto per le signore, un fumoir per i gentiluomini, una saletta per i bambini, un jardin d’hiver, una veranda e larghi camminamenti coperti sul ponte. L’intera nave è illuminata elettricamente, ed è una delle prime in Italia; le cabine di prima classe sono dotate di telefono interno. Tutto questo rende il Mafalda 6

Un luogo senza uguali, di indiscusso appeal, l’equivalente marino del tanto favoleggiato Orient Express che traversava nelle notti buie le pianure fino a Istanbul, famoso per il suo comfort e lusso e la raffinata cucina.5

A disposizione dei passeggeri, ma anche del comandante, sono previsti 300 uomini di equipaggio. Perché il Mafalda è una nave elegante, ma anche potente: ha lo stesso tonnellaggio lordo della sfortunata gemella (9.120 tonnellate), è lunga 146 metri, larga 16.80 metri, con un pescaggio di 8 metri; due macchine a vapore a quadruplice espansione garantiscono una potenza di 10.500 cavalli che azionano due grandi eliche che possono far raggiungere al Mafalda i 18 nodi, una velocità impressionante per l’epoca. Ricordiamoci di queste eliche, avranno un ruolo fondamentale nella nostra storia.

La rappresentazione più emblematica di questo trionfo della scienza e della tecnica la darà il 9 settembre 1910 Guglielmo Marconi, che a bordo del piroscafo effettuerà uno dei suoi numerosi esperimenti sulle onde radio, ricevendo tramite un’antenna sostenuta da un pallone gonfiato ad elio il segnale dalla località irlandese di Clifden e ritrasmettendolo Buenos Aires. Come premio, il transatlantico riceverà oltre a un telegrafo senza fili, una radio ricetrasmittente, altro fatto innovativo e da ricordare per il futuro della vicenda.

Con un simile biglietto da visita, il Mafalda diventa uno dei più richiesti piroscafi da parte del jet set italiano ed europeo dell’epoca: oltre a Marconi, vi viaggeranno l’attrice russa Tatania Pavlova, il commediografo Luigi Pirandello, lo scrittore Carlo Emilio Gadda, il maestro Arturo Toscanini e l’intera squadra di calcio del . Anche la ricca borghesia argentina, uruguayana e brasiliana prediligerà questa nave per il ritorno in patria o per recarsi in Europa. Si ricorda tra gli ospiti il grande compositore di tanghi, l’argentino Carlos Gardel.6 Le rotte del Mafalda infatti saranno quasi sempre dirette verso il Sudamerica, e per questo sarà anche preso d’assalto da emigranti provenienti da tutta Italia, soprattutto dalle regioni del nord, tradizionalmente orientate verso il continente latino-americano. Ma non pochi saranno anche i meridionali, soprattutto provenienti dalle località più povere della Calabria e della Basilicata.7 Soltanto nell’agosto 1914 verrà organizzata una rotta verso New York, per riportare a casa un numeroso gruppo di cittadini statunitensi che hanno lasciato un’Europa da poco caduta nell’immane conflitto mondiale.

L’ingresso in guerra dell’Italia nel maggio 1915 vede il Mafalda -che da cinque anni appartiene alla Navigazione generale italiana in seguito all’assorbimento da parte di questa società del Lloyd Italiano- requisito dalla Regia Marina. Farà il suo dovere, diventando alloggio ufficiali delle marine alleate

5 Enrica Magnani Bosio, Storia di un naufragio, in: Luciano Gariboldi, Giorgio Giorgerini, Enrica Magnani Bosio, cit., p. 72. 6 Ivi, p. 72. 7 Pasquale Guaglianone, Il naufragio previsto. Il Principessa Mafalda: l’ultimo tragico viaggio, Cosenza, Nuova Santelli Edizioni, 2011, pp. 21 e segg. 7 nel porto di . Finito il conflitto, il transatlantico torna in servizio sulla sua abituale rotta sudamericana. Nel frattempo, il mondo è cambiato. Alcuno dei giganti dei mari sono scomparsi in immani disastri: il Princess of Ireland, il Titanic, il Lusitania. La loro versione italiana è sopravvissuta, ma i fasti del passato sono un lontano ricordo. Il tempo, l’innovazione tecnologica e la sempre presente ricerca del record della velocità hanno reso il Mafalda un piroscafo sempre più malandato, eppure ancora utile:

L’Italia aveva ormai lanciato un cospicuo programma di rinnovamento che vedeva in primo luogo la costruzione di numerose navi moderne destinate alle rotte atlantiche e ora anche a quelle per l’Oriente, per la cui realizzazione serviva qualche anno.8

Si deve lasciare il Mafalda in servizio ancora per qualche tempo, nonostante la scarsa manutenzione che la Navigazione generale italiana gli riserva, impegnata com’è nella realizzazione di nuovi e più efficienti bastimenti. È necessario farlo, per mantenere sotto controllo le rotte, in attesa dei nuovi vari. Il regime fascista in stato nascente non può permettersi anche da questo punto di vista di perdere il prestigio, e la società armatrice non può affatto rinunciare a consolidate quote di mercato. Per tutti il Mafalda è sinonimo di Sudamerica, e deve restare tale fino al suo avvicendamento.

Ma il transatlantico è ormai una anziana signora del mare, elegante e raffinata, ma con le ossa fragili, il cuore meccanico malmesso, la circolazione di lubrificante compromessa. Se ne accorge il nuovo comandante, Simone Gulì, che vi sale a bordo nel 1924. Gulì, un palermitano di 62 anni, è un vero capitano di lungo corso, un lupo di mare con ben 44 anni di servizio. Lavora per la Navigazione Generale Italiana dal 1894, dopo aver passato dieci anni a bordo di velieri da carico: è uno degli ultimi reduci dell’epopea della vela, prima dell’affermazione del vapore. Ha vissuto l’esperienza di due naufragi, durante la guerra, con l’affondamento nel 1916 del , che trasportava materiale logistico per le truppe combattenti, e nel 1918 del Verona, che aveva a bordo 1.500 soldati. Soprattutto in quest’ultimo frangente, Gulì aveva dimostrato perizia, coraggio, senso del dovere.9 Il ritratto del comandante che ci dà il “Secolo” di Milano, pur nella retorica celebrazione, è significativo e inquadra il personaggio:

Era nato sul mare e vissuto sempre sul mare. Non lasciava mai il suo piroscafo, neppure durante le soste nei porti. Austero nel dovere sino al sacrificio, anche nei lunghi viaggi oceanici difficilmente era veduto passare il tempo fra i passeggeri, perché preferiva occuparsi personalmente della rotta o delle osservazioni marine e dell’andamento die servizi, anziché divagarsi in considerazioni e in complimenti.10

8 Giorgio Giorgerini, cit., p. 62. 9 Due piroscafi sbarcano a Rio 884 superstiti del “Mafalda”, in: “Corriere della Sera”, 29 ottobre 1927. Si ringrazia Lorenza Giovanardi per l’aiuto nella ricerca emerografica. 10 Il naufragio del “Mafalda”. La figura del comandante, in: “Il Secolo – La Sera”, 28 ottobre 1927. 8

Gulì è considerato uno degli ufficiali più competenti della flotta, e a lui viene data la responsabilità del finale di partita del Mafalda. Il comandante comunica alla Compagnia lo stato della nave e le sue precarie condizioni tecniche: l’armatore decide quindi una prossima radiazione del piroscafo. Tuttavia, per il momento la nave resta in servizio e la decisione finale viene presa solo nel 1926: il Principessa Mafalda effettuerà il suo ultimo viaggio l’anno seguente. L’idea è quella di trasformarlo in piroscafo turistico da far navigare lungo le coste italiane, sottraendolo ai pericoli degli oceani.11 E infine, sarà demolito. Un finale poco glorioso, forse, ma incruento. Una dolce morte per l’anziana signora del mare.

Il 1927 è l’anno della velocità. De Pinedo ha compito da febbraio a giugno il suo viaggio di 44 mila chilometri con il suo idrovolante SM-55, toccando tre continenti; Umberto Nobile sta allestendo la sua infausta spedizione polare con un dirigibile; vengono inaugurate le prime linee aeree civili da Milano per Genova, Roma, Napoli, Palermo. Da Roma si vola verso Vienna. Nel corso dell’anno si calcoleranno 18 mila passeggeri partiti dai primi aeroporti civili italiani. Ormai si vola, come ha dimostrato Charles A. Lindbergh con il suo Spirit of St. Louis, e non c’è più tanto spazio per le sbuffanti carrette come il vecchio Mafalda. L’11 ottobre il piroscafo parte da Genova per il suo ultimo viaggio verso il Brasile e il Plata. Il capoluogo ligure è in festa: l’indomani si celebra la scoperta dell’America. Gulì è al comando. Con lui ci sono tre personaggi che diventeranno protagonisti della tragedia: gli ufficiali marconisti Francesco Boldracchi e Luigi Reschia, originari di Gamalero, in provincia di Alessandria, e il direttore di macchina, Silvio Scarabicchi, vecchio marinaio di Sampierdarena. Enrica Magnani Bosio riporta un brano che Scarabicchi scrive a un amico, prima della partenza:

Personale nuovo, nuovi ufficiali, nuovi sottufficiali, nuova la nassa forza. Figurati quali molteplici preoccupazioni ho avuto e per di più con la macchina sinistra in avaria. È tanto da cambiar mestiere.12

Nelle bettole genovesi di Sottoripa, il transatlantico ha un nome: a-balaìna, la ballerina. Per la sua navigazione incerta, ondeggiante, talvolta inclinata. Anche Gulì, parlando con la moglie, sembra avere un’angoscia irrazionale. Il presagio del Jolanda di vent’anni prima? Un confronto con il direttore di macchine? O semplicemente un sesto senso, sviluppato in anni di navigazione? Sta di fatto che la moglie lo accompagna fino al porto, per tranquillizzarlo.

Che il Mafalda sia a dir poco logorato, è intuitivo. La partenza è rinviata più volte: tecnici e meccanici si alternano nel salire e scendere dal bastimento, mentre i passeggeri guardano con sospetto questo andirivieni. Ci sono problemi alla macchina di babordo. E persino con i reparti frigoriferi. La Compagnia propone ai viaggiatori un trasferimento sul Giulio Cesare, che è diretto in Argentina passando per le coste brasiliane. Gli ufficiali, per tranquillizzare i

11 “Il Principessa Mafalda” affondato nei mari del Brasile, in: “Il Secolo – La Sera”, 26 ottobre 1927. 12 Enrica Magnani Bosio, cit., p. 75. 9 passeggeri, adducono come motivazione le scarse prenotazioni in prima classe. Alcuni accettano, altri preferiscono il Mafalda, conoscendone la fama e ignari del suo reale stato. Alla fine, verso le 18 –con un ritardo di molte ore- il vecchio transatlantico inizia il suo ultimo viaggio. Gulì da l’ordine di omaggiare la città, con i tradizionali tre fischi lunghi. Saluti dal ponte, ricambiati dalla banchina. Si parte.

A bordo si contano 52 viaggiatori di prima classe (tra i quali il più famoso è il Professor Corrado Gini, presidente dell’Istituto italiano di statistica), 89 di seconda, 827 di terza (per lo più emigranti stagionali, provenienti dal Piemonte, Liguria, Veneto, Marche e Calabria, ma ci sono anche numerosi siriani, spagnoli, jugoslavi, austriaci, un ungherese, uno svizzero, un argentino e un uruguaiano) più 289 membri dell’equipaggio, tra cui 19 ufficiali. In totale, 1257 persone.13 Quasi le stesse del Titanic. C’è anche un vicebrigadiere della Pubblica Sicurezza, Vincenzo Piccioni. Deve custodire un baule incatenato e chiuso da un lucchetto contenente duecentocinquanta mila lire in monete e lingotti d’oro che devono essere versate alla sede argentina della Banca d’Italia. Altre fonti parlano anche di 64 milioni di lire in titoli di Stato.14 Non è chiaro a cosa serva questa fortuna: forse a rimpinguare le casse dell’istituto italiano in Argentina, forse è un dono di Mussolini al governo di Buenos Aires, per favorire i rapporti tra i due paesi e ringraziare la nazione sudamericana dell’accoglienza riservata ai nostri emigranti.

Gulì comanda una velocità di crociera abituale, anche se in sala macchine gli uomini di Scarabicchi guardano preoccupati il motore di sinistra. Hanno l’orecchio allenato, come quello di un accordatore di pianoforti: sentono che la musica dei riduttori e degli alberi cardanici non è armonica. Ma si prosegue. Il primo problema si verifica verso la costa spagnola, e, dopo ben otto arresti in mare, la nave è costretta a fermarsi nel porto di Barcellona per riparare la pompa di un aspiratore. Appena ripartito, il Mafalda è di nuovo obbligato a una sosta in mare aperto: è necessaria una riparazione alla coppetta di lubrificazione della testata del motore di sinistra. Nuova partenza, ma la nave vibra in modo incessante, e particolarmente fastidioso per i passeggeri. Il calvario del Mafalda è solo all’inizio: presso Gibilterra, dopo un forte sbandamento, si ferma la macchina di babordo. Nuova sosta in mare aperto, di ben sei ore. Si cerca di riparare il guasto: Scarabicchi diventa matto, ma non riesce a trovare la causa dell’avaria e il transatlantico riparte con un solo motore, navigando leggermente ingavonato per un giorno intero. L’inclinazione è percepita a bordo e con essa anche la gravità della situazione: “Avemmo l’impressione che ci fosse un guasto”, dichiarerà un passeggero tedesco in seguito.15

13 Il “Principessa Mafalda” naufraga nelle acque brasiliane, in: “La Tribuna – L’Idea Nazionale”, 27 ottobre 1927. Il numero dei passeggeri varia a seconda delle fonti, e probabilmente si dovrebbe aggiungere un imprecisato numero di clandestini, come era uso all’epoca, che viaggiavano senza essere stati registrati. 14 Il racconto dei superstiti del “Mafalda”, in: “Corriere della Sera”, 28 ottobre 1927. 15 Gian Antonio Stella, Odissee. Italiani sulle rotte del sogno e del dolore, Milano, Rizzoli, 2004, p. 10

Un nuovo problema viene segnalato al comandante, e riguarda l’asse dell’elica sinistra, il primo avvertimento di ciò che sta per capitare. La nave è costretta a fermarsi di nuovo a Dakar, per le necessarie riparazioni. Non ci sono solo problemi al reparto macchine. Poco dopo la partenza si sono rotti anche i frigoriferi, e la carne si è deteriorata. Il medico di bordo ha registrato diversi casi di intossicazione alimentare. Nuova sosta forzata a São Vincente, sull’isola di Capoverde. È passata una settimana dalla partenza, e il ritardo è superiore a una giornata. Allo scalo non si risolve nulla, e vengono imbarcati numerosi maiali e anche un bue, da macellare a bordo. Giusto per restare nel campo dei presagi, dal porto africano si imbarcano due turisti argentini rimasti a terra dopo un’avaria alle caldaie che ha colpito il loro piroscafo. Probabilmente, i più superstiziosi tra il personale di bordo, venuti a conoscenza del fatto, hanno interpretato nel modo peggiore la vicenda.

Il Mafalda riparte, ma le vibrazioni non cessano, anzi sono aumentate, facendo tremare soffitti e paratie. Una passeggera di terza classe originaria della Calabria avrebbe in seguito raccontato:

Eravamo in ritardo di 27 ore perché la nave era partita con molti problemi e durante tutta la traversata era rimasta pericolosamente storta, navigando a velocità molto bassa. L’inclinazione era tale che la mattina non potevamo appoggiare la tazza con il caffelatte perché si sarebbe rovesciata. I passeggeri erano tutti nervosi. Via via che ci avvicinavamo al Brasile i problemi sembravano moltiplicarsi.16

Gulì telegrafa alla Compagnia, che gli risponde perentoria: “Proseguite fino al porto previsto e attendere istruzioni”: dunque, si prosegue per Rio de Janeiro.17 La nave continua la rotta, ma riducendo la velocità fino a 13 nodi. Per tranquillizzare tutti, il comandante acconsente al tradizionale festeggiamento al passaggio dell’Equatore, con musica, balli e persino la presenza di un tipo vestito da Dio Nettuno, che distribuisce piccoli doni ai bambini.18

Nel pomeriggio del 24 ottobre, a breve distanza, il piroscafo italiano viene superato dal cargo olandese Ahlena: il suo comandante nota il rollio verso sinistra del Mafalda, che naviga vistosamente inclinato a babordo. Dalla nave italiana, tuttavia, non giungono segnali d’aiuto, e il cargo prosegue nel suo viaggio. Verso sera il transatlantico viene affiancato anche dal piroscafo britannico Empire Star, diretto a Londra. Anche in questo caso, nessuna allerta. Giunge così il fatidico giorno del 25 ottobre 1927. Il Mafalda, sbandante di due gradi verso sinistra, si trova a 85 miglia da Porto Seguro, presso Bahia. Porto Sicuro: un nome che risulta paradossale. Lo sbandamento è dovuto anche a un eccessivo prelevamento di carbone dalla carbonaia di dritta, che riduce la zavorra. Ma il motore di sinistra continua a fare capricci. Da lontano si intravedono le coste dell’arcipelago delle cinque isole di Abrolhos (dette anche di Santa Barbara), da sempre infestate da

16 Ivi, p. 17 Enrica Magnani Bosio, cit., p. 80. 18 Riccardo Garosci, Il Titanic italiano, in: Luciano Gariboldi, Giorgio Giorgerini, Enrica Magnani Bosio, cit., p. 32. 11 barracuda e squali. Magnani Bosio ci descrive la scena immediatamente precedente al disastro:

Era il crepuscolo. Il giorno si dissolveva in un luminoso e tiepido tramonto, nell’incanto di un cielo sgombro di nuvole e nel lucore di un oceano iridescente, che stava per ingoiare il disco rosso del sole.19

Ci sono mamme che giocano coi bambini sui camminamenti; altri passeggiano. Al bar c’è chi si beve un aperitivo. Le coppiette sono sdraiate sulle chaise-longue, coperti da un plaid, e romanticamente si godono il tramonto sull’oceano. In terza classe si odono suoni di fisarmonica e chitarra, mentre nella sala musica di prima classe l’orchestra intona un black-bottom, il più popolare ballo veloce dei roaring twenties, i forsennati anni ruggenti. Per chi ha fame viene servito il primo turno del pasto serale. È un sabato, e quindi sono previsti riso e piselli, tonno e uovo sodo, insalata di patate e cipolle. Ma per i più abbienti, c’è una scelta più raffinata. Qualcuno si lamenta della carne: il bue caricato a Dakar è stato macellato di fresco, non è frollato ed è quindi molto duro. Il comandante Gulì entra in sala, accompagnato dal mâitre e da un ufficiale in seconda. Sembra preoccupato, ma esorta tutti a mangiare: il tormentato viaggio sta per concludersi, e si può brindare. Lo può fare anche lui, che è prossimo alla pensione. Come lo era il comandante Smith, sul Titanic.

Mentre tutto ciò accade, c’è un passeggero di seconda classe che ha appena finito di farsi radere nella barberia di bordo. Si chiama Ruggero Bauli, è un già affermato pasticcere veronese che si sta recando in Argentina per aprire un’attività. In stiva ha fatto caricare i suoi macchinari. Con quelli vorrebbe produrre, tra gli altri dolci, il suo pandoro, quello che ne renderà celebre il cognome. Bauli sta facendo una passeggiata, approfittando della serata serena, anche se le acque dell’oceano stanno cominciando ad agitarsi, come spesso succede all’imbrunire. Si reca a poppa, per guardare la scia bianca che il Mafalda lascia dietro di sé. Guarda il mare con una certa inquietudine: è uomo di terraferma, non sa nuotare. Sono le 17.25 locali, le 23.25 in Italia.20 Un fragore assordante lo raggiunge dal basso. Scogli? Una secca? Le prime notizie che giungeranno in Italia ne parleranno.21 Impossibile, data la distanza dalla costa. La realtà è un’altra. Il pasticcere veronese guarda in basso e vede, racconterà al figlio Alberto, “sfilarsi l’elica e l’albero”.22 Segue uno scossone, avvertito su tutti i ponti. I passeggeri escono all’aperto. Gulì li informa di non preoccuparsi. In sé, la perdita di un’elica non è pericolosa: la navigazione infatti, sempre inclinata, prosegue.

19 Enrica Magnani Bosio, cit., p. 82. 20 Come s’è inabissata, in: “Corriere della Sera”, 12 novembre 1927. 21 Il “Principessa Mafalda” naufragato al largo del Brasile, in: “Corriere della Sera”, 27 ottobre 1927. 22 Alberto Bauli, Ruggero Bauli: dal naufragio al successo, in: Luciano Gariboldi, Giorgio Giorgerini, Enrica Magnani Bosio, cit., p.17. 12

Ma sopraggiungono gli ufficiali dalla sala macchine. L’albero dell’elica di sinistra si è effettivamente sfilato dai cuscinetti: il tunnel di guaina non è più a tenuta stagna, e dall’apertura l’acqua ha iniziato a inondare la sala macchine.23 Le paratie, vecchie e non più stagne, hanno ceduto alla pressione e l’acqua sta raggiungendo il locale caldaie e tutto il resto. Un macchinista superstite racconterà: “L’acqua si era lanciata all’assalto del Mafalda come un nemico avido di preda”.24 Gulì lascia il suo vice, Francesco Moresco, a calmare gli agitati passeggeri e si precipita in sala macchine. Moresco ordina all’orchestra di continuare a suonare, un’altra coincidenza con il disastro del Titanic.25 Con sangue freddo, il vicecomandante rincuora tutti, cerca di tranquillizzare i bambini, dà amichevoli pacche sulle spalle ai più preoccupati. Qualcuno, rincuorato, torna in sala da pranzo a terminare la cena. Altri ufficiali si recano nelle classe inferiori, dove l’agitazione è maggiore. A nessuno viene detta la verità, e si eludono le domande adducendo i soliti problemi tecnici, già malamente risolti in precedenza: “Un piccolo guasto alle macchine che presto verrà riparato”, diranno.26 La meta è vicina, forse un giorno di navigazione ancora e si arriverà a destinazione sani e salvi. Non c’è nulla di cui preoccuparsi.

Ma la situazione è un’altra. Sotto, Scarabicchi ha ordinato l’attivazione delle pompe di esaurimento, per drenare l’inondazione. Gulì è un vecchio lupo di mare, è reduce da due naufragi. Sa bene cosa sta accadendo. Ordina pertanto di fermare i motori, diminuendo la pressione delle valvole, nella speranza di impedire l’esplosione delle caldaie. Poi sale in plancia e chiama l’equipaggio. Bisogna allestire le lance di salvataggio. Al marconista Reschia comanda di lanciare l’SOS, informando le navi più vicine della posizione del Mafalda. Richiamati dalle cabine, dai ponti e dalle sale comuni, i passeggeri devono indossare i giubbotti salvagente. Il panico inizia a diffondersi, nonostante l’impegno degli ufficiali nel tranquillizzare tutti. L’orchestra intona un’aria del Trovatore, e al contempo viene lanciato il fischio di allarme: sei suoni brevi, uno lungo. Mentre i passeggeri iniziano ad allinearsi in coperta, l’equipaggio agli ordini di Scarabicchi tenta di chiudere la breccia, invano. L’acqua sfonda le plance di riparazione e stavolta invade del tutto la sala macchine: “Non è più possibile far nulla” esclama il direttore di macchina, “Andiamo a fondo”.27 Gulì lo ha capito: il Mafalda è perduto. Il comandante non ha perso tempo, come verrà scritto su alcuni giornali stranieri, ha solo sperato che il danno potesse essere riparato. Ora si devono mettere in salvo i passeggeri. Tuttavia, crede di avere a disposizione molte ore, per organizzare l’evacuazione. Non sarà così.

Ormai è buio e il mare, da leggermente agitato inizia a ingrossarsi minacciosamente. La nave sta appoppandosi, lentamente la prora s’innalza e si

23 Come s’è inabissata, in: “Corriere della Sera”, 12 novembre 1927. 24 Gian Antonio Stella, cit., p. 25 933 superstiti sbarcati finora, in: “Corriere della Sera”29 ottobre 1927. 26 Il “Principessa Mafalda” naufragato al largo del Brasile, in: “Corriere della Sera”, 27 ottobre 1927. 27 Come s’è inabissata, in: “Corriere della Sera”, 12 novembre 1927. 13 accentua l’inclinazione verso sinistra. Inizia a udirsi il lugubre e allarmante rumore degli oggetti e delle suppellettili che cadono e si rompono. Dalla terza classe sopraggiungono gli emigranti: quelli stranieri non capiscono una parola di italiano, e per loro le frasi tranquillizzanti dell’equipaggio non servono a nulla. Il panico si diffonde ovunque: gli ufficiali estraggono le armi, per sedare il peggio. Ci sono in seconda classe due militari della marina argentina, Juan Santoro e Anacleto Bernardi, che sono stati imbarcati a Genova dove si trovava la loro fregata da guerra. Colpiti da polmonite stanno tornando a casa. Si mettono agli ordini di Gulì, e lo aiuteranno soprattutto con i passeggeri sudamericani.

Il comandante è sul ponte e con in mano una lampada e nell’altra il megafono, dà gli ordini. Le lance iniziano a riempirsi di passeggeri. L’ordine è quello solito, prima donne e bambini. Si assiste così alla solita, varia umanità: c’è il gentiluomo che accompagna la signora, e il pavido che si infila tra le donne, mettendosi al sicuro sulla scialuppa; c’è il membro dell’equipaggio eroico che si presta al soccorso e quello che tenta di occupare un posto sulla lancia al posto di un passeggero. Dalla terza classe, secondo una versione non confermata ma ampiamente utilizzata in seguito per giustificare il poco marziale caos e attribuirne la colpa a stranieri, i passeggeri siriani, non comprendendo l’italiano, si lanciano verso le scialuppe: molti di loro, provenienti da zone desertiche, non sanno nuotare. Sovente, lanciano sulle scialuppe e i canotti quello che hanno con sé, tutto il loro mondo: casse, sacchi e soprattutto tappeti. Diverse lance si danneggiano.28

Gulì si accorge che il Mafalda sta affondano sempre più rapidamente. In sala radio, gli ufficiali marconisti Boldracchi e Reschia continuano disperatamente a lanciare l’SOS. Rispondono alla chiamata numerose navi: l’inglese Empire Star, che era stato avvistata il giorno prima; l’olandese Alhena, che si era già accorto del rollio del piroscafo italiano; il francese Moselle e l’inglese Avelona, sebbene più lontane. Arriverà anche l’incrociatore della marina brasiliana Rio Grande di Sul, che raccoglierà una parte dei naufraghi, come faranno l’inglese Pianhy, il brasiliano Rossetti e il francese Massillia. Alla fine, se ne conteranno una decina. Il primo a sopraggiungere è l’Ahlena, che si posiziona a quattrocento metri dal Mafalda, temendo che le caldaie della nave italiana possano esplodere. L’acqua è piena di naufraghi: sono quelli caduti dalle scialuppe o che si sono gettati in acqua di loro volontà.29 Il capitano olandese Smoolenaars ricorderà di non aver mai visto una scena più spaventosa.30 L’Ahlena inizia la raccolta dei passeggeri della nave italiana sparsi in mare e sulle lance, mentre stanno sopraggiungendo il Moselle, l’Empire Star e un grande transatlantico francese, il Formose. Alle 19.58 il Mafalda smette di trasmettere: le

28 Come s’è inabissata, in: “Corriere della Sera”, 12 novembre 1927. 29 I drammatici episodi dell’affondamento, in: “Il Secolo – La Sera”, 28 ottobre 1927. 30 Enrica Magnani Bosio, cit., p. 91. 14 luci si spengono, l’energia elettrica si è interrotta e il buio cala su una scena dantesca.

Giunto sul luogo del disastro, il comandante del Formose, Allemand, vede il Mafalda affondare di poppa, mentre la prua, illuminata dai fari delle altre navi, è sempre più alta nel cielo stellato. Dal ponte, attaccato a una battagliola, Gulì lo saluta agitando il berretto. Si odono i primi colpi di pistola: alcuni sono esplosi dagli ufficiali, nel tentativo di mantenere una parvenza d’ordine; altri sono quelli di chi preferisce uccidersi sparandosi che morire affogato. Tra loro, anche il capo macchina Scarabicchi, che fino all’ultimo ha tentato di risolvere l’irrisolvibile. Le testimonianze di quegli ultimi minuti di agonia del Mafalda sono terribili: madri separate dai figli, ufficiali aggrediti da passeggeri per sottrargli la rivoltella; altri che lottano per un salvagente; gente che rifiuta di gettarsi in mare, e resta sulla nave prossima all’inabissamento; altri ancora lottano in acqua, uccidendo chi disperato cerca un appiglio. La scena si trasforma in un orribile massacro quando sopraggiunge affamato un branco di tiburones, i temibili squali delle isole Abrolhos. Molti naufraghi vengono divorati vivi, e il sangue attira altri predatori. Ai soccorritori si presenta uno spettacolo atroce, terrificante, indelebile: “Mi sembra ancora di udire le urla strazianti delle donne, dei bambini, delle giovinette, dei vecchi…”, dirà il comandante del Moselle.31

Bauli è finito in mare. Si salverà, lui che non sa nuotare, per merito di un salvagente e di un’ondata che lo lancia tra le reti di soccorso di una nave. Gli ufficiali nel complesso si comportano con eroismo. Il secondo ufficiale Attilio Bocca compie con la sua scialuppa quattro viaggi dal Mafalda alle navi di soccorso; l’economo della nave italiana, Carlo Longobardi, è uno degli ultimi ad abbandonare il piroscafo, dopo aver messo in salvo numerosi passeggeri; i due medici di bordo, il dottor Giuseppe Lellis e il dottor Figarolli, aiutano tutti. Solo il primo si salverà.

Alle 21.50, sorprendentemente la radio del Mafalda riprende a lanciare l’SOS: “Abbiamo ancora molta gente a bordo”; seguono altri scambi di informazioni con le navi di soccorso. Non si sa in che modo la radio abbia ripreso a funzionare, probabilmente i due marconisti hanno approntato un generatore d’emergenza: di certo, i due ufficiali Boldracchi e Reschia restano al loro posto sino all’ultimo, e periranno con la loro nave, dimostrando così un eroismo degno del migliore degli uomini del mare. Le navi proseguono nella raccolta dei naufraghi, mentre poco o nulla si sa di quello che sta accadendo a bordo della nave italiana. Ormai il Mafalda è vistosamente appoppato e inclinato a tribordo. L’acqua sta invadendo i ponti superiori e la coperta. L’orchestra intona la Marcia Reale, e Gulì si mette sugli attenti e fa il saluto militare, portando la mano alla visiera.32 Pare che abbia gridato “Viva l’Italia”, le sue ultime parole. Forse è retorica, abilmente orchestrata dalla propaganda. Ma conoscendo l’eroico

31 I drammatici episodi dell’affondamento, in: “Il Secolo – La Sera”, 28 ottobre 1927. 32 Il racconto dei superstiti del “Mafalda”, in: “Corriere della Sera”, 28 ottobre 1927. 15 comandante, c’è da crederci. I marconisti lanciano l’ultimo messaggio al comandante del Formose: “Dica alle sue imbarcazioni che vengano al nostro babordo. A tribordo è impossibile”.33 Poi, più nulla.

Sono le 23.20. L’ultimo istante di vita del gigante sognato da Erasmo Piaggio più di vent’anni prima. Il comandante Simone Gulì ha lanciato il “si salvi chi può”, liberando anche l’equipaggio dai suoi obblighi. Getta il sigaro, mette in bocca il fischietto con il quale ha fino a quel momento impartito gli ordini ed emette due suoni lunghi e penetranti. L’ultimo saluto. Tuttavia vi è anche un testimone, l’armatore italo-brasiliano Giovanni Rossetti, che trovandosi a bordo del Formose racconterà un’altra storia:

Giungemmo vicino al piroscafo. Ricordo –quando questi affondava- lo spaventoso momento pur virando per non essere anche noi inghiottiti. Vidi il Comandante del “Mafalda” lanciare in aria il berretto e uccidersi.34

Una morte sempre gloriosa ma forse meno evocativa. È andata così? Oppure Rossetti ha scambiato un altro ufficiale suicida per Gulì? Di certo, la versione del comandante che emette i due fischi e si immola, magari facendo il saluto militare, come ricorderà il comandante del Moselle,35 è più marziale e rientra in pieno nella tradizione. Confermata da molte testimonianze, è la più citata e celebrata dai giornali italiani, che infatti non riprenderanno più la versione dell’armatore italo-brasiliano.

Il superstite Andrea Botto, originario di Lurisia, presso Cuneo, ha raccontato ai suoi figli cosa ha visto, mentre si trovava in mare, aggrappato a una trave di legno:

Cullata dall’acqua sudicia di carbone e di olio, aveva visto d’un tratto la prua del Mafalda emergere ritta sopra la sua testa, con l’albero maestro di prua scendere completamente orizzontale verso il mare. Alla vista, che aveva l’aspetto apocalittico, seguì un momento terribile, le onde del mare si richiusero sul Mafalda, come le fauci di una balena su un pesciolino.36

Finisce così la storia del Principessa Mafalda di Savoia, affondato dieci minuti dopo la mezzanotte locale del 26 ottobre 1927 e da allora giacente sul fondo, a 1.200 metri di profondità. Con il transatlantico, muoiono almeno 314 persone. Di questi, 27 passeggeri di prima classe (pari al 51 %), 37 di seconda (il 41 %), 204 di terza (il 24 %), 37 uomini dell’equipaggio (il 13 %) e 9 ufficiali (il 47 %),37 tra i quali Gulì, il suo vice Francesco Moresco, il medico Figaroli, il capo Scarabicchi e i due marconisti Reschia e Boldracchi. Muore anche il marinaio argentino

33 Enrica Magnani Bosio, cit., p. 101. 34 Il sacrificio del com. Gulì e le cause del sinistro del “Mafalda” nella narrazione del cap. Rossetti, in: “La Tribuna – L’Idea Nazionale”, 3 dicembre 1927. 35 I drammatici episodi dell’affondamento, in: “Il Secolo – La Sera”, 28 ottobre 1927. 36 Riccardo Garosci, cit., pp. 38-39. 37 Il computo definitivo delle vittime, in: “Il Sole”, 3 novembre 1927. Si tenga conto che molti clandestini non erano registrati: questo e le contraddizioni delle cifre suggeriscono che i morti siano stati molti di più (Giorgio Giorgerini, cit., p. 53). 16

Bernardi, che si era prodigato nel salvataggio di tanti passeggeri. Lui e il suo collega Santoro saranno decorati dal governo argentino e, in onore di Bernardi, il 25 ottobre verrà dichiarato Dia del Conscripto Naval dalle autorità di Buenos Aires. Altra vittima illustre fu il vicebrigadiere Piccioni, che sembra sia restato a guardia del baule contenente l’oro e i titoli per la sede argentina della Banca d’Italia:38 di quel tesoro non se ne saprà più nulla. Affondato? Sottratto durante il viaggio oppure nel corso del naufragio? Anche in questo aspetto, quasi leggendario, c’è tanto del Titanic, che si immaginava colmo di ricchezze.39

La notizia del naufragio giunge in Italia alla vigilia del quinto anniversario della Marcia su Roma. Il regime è ormai saldamente consolidato, e il duce non ha nessuna voglia di celebrare il suo trionfo con un naufragio. È superstizioso, si sa. Ma è anche avveduto, e non c’è nulla di peggio di una catastrofe navale per compromettere l’immagine della Grande Italia fascista. I giornali, quindi, riportano la notizia riducendo la portata tragica della vicenda ed esaltando eroismo ed efficienza. In primo luogo, non si tratta di un disastro. Il “Secolo” di Milano ne appare particolarmente convinto: “Il danno materiale non è poi enorme. Si tratta di una nave alla vigilia di passare in disarmo”; inoltre, “il numero delle vittime …si è fortunatamente ridotto”. Insomma, “non perdiamo il senso della proporzione”. E prosegue, ribadendo una confronto ormai consolidato con l’”Italietta” del passato:

Bastava prima un terremoto, una alluvione, una collisione, un’esplosione, una disgrazia qualunque che non fosse il solito incidente sulla strada, perché subito se ne esagerasse la portata, perché la fervida e morbosa fantasia ne moltiplicasse le conseguenze. Eravamo sempre in lutto, sempre in rovina…non avevamo ancora lottato e sofferto abbastanza per darci quella forza d’animo che poi è tornata e si è irrobustita come nella circostanza del Mafalda. Si è dimostrata attraverso le dure prove della guerra, le aspre lotte del dopoguerra e l’’educazione fascista.40

Altro che disastro: sul Mafalda è andata in scena la più genuina rappresentazione dell’eroismo italiano, come recita “La Tribuna”.41 Tutti gli ufficiali si sono prodigati per salvare i passeggeri, e molti si sono immolati, a cominciare da Gulì, evocato in pratica da tutti gli organi di stampa come un eroe italiano. Per alcuni giorni il numero delle vittime sarà celato, o almeno ridotto a “poche decine”:42 ci si basa sull’iniziale dichiarazione dell’ambasciatore d’Italia in Brasile, Bernardo Attolico, per il quale la perdita di vite umane è “in definitiva nulla”.43 Solo dal 29 ottobre si comincerà a pubblicare un computo realistico, prima in eccesso (330)44 e poi attestato sulla cifra ufficiale (314).45 Cifra, peraltro, ritenuta da “La Tribuna” più

38 www.cadutipolizia.it (ultimo accesso: maggio 2015). 39 Claudio Bossi, Titanic. Storie, leggende e superstizioni sul tragico primo e ultimo viaggio del gigante dei mari, Firenze-Milano, Giunti, 2012, pp. 242-243. 40 Quasi tutti i naufraghi del “Mafalda” salvati dai piroscafi accorsi, in: “Il Secolo – La Sera”, 27 ottobre 1927. 41 Esempio, in: “La Tribuna – L’Idea Nazionale”, 28 ottobre 1927. 42 Il “Principessa Mafalda” naufragato al largo del Brasile, in: “Corriere della Sera”, 27 ottobre 1927. 43 Ibidem. 44 Gli scomparsi sarebbero 330, in: “Corriere della Sera”, 29 ottobre 1927. 45 Il computo definitivo delle vittime, in: “Il Sole”, 3 novembre 1927. 17 bassa rispetto ad altre analoghe tragedie.46 Si insisterà, in modo particolare, sul limitato numero di vittime della terza classe: in realtà le percentuali non sono particolarmente diverse da quelle di altre tragedie, ma ovviamente il dato viene astutamente omesso.47

La stampa straniera, soprattutto brasiliana e tedesca, parlerà invece di una tragedia annunciata, basandosi soprattutto su alcune testimonianze come quella del professor Gini, il presidente dell’Istituto di statistica, scampato al naufragio. Il Mafalda aveva poche scialuppe –altra coincidenza con il Titanic-, diverse di queste erano “vecchie e permeabili”, e alcune erano affondate “appena toccavano il mare”. Inoltre, la nave antiquata e malandata, prossima al disarmo, era tecnicamente impossibilitata ad affrontare un viaggio transoceanico.48 Un giornale tedesco parlerà anche di comportamento fellone degli ufficiali italiani, fatto questo contestato da tutta la stampa nazionale, che si prodiga nel ricostruire dettagliatamente i numerosi episodi di eroismo riportati dai superstiti.

Il ministro della Comunicazioni Costanzo Ciano, dal quale dipende la navigazione civile, ribadirà l’efficienza e la sicurezza del Mafalda. Le scialuppe a bordo erano addirittura superiori al numero minimo consentito dalle autorità marittime.49 Una nave sicura, dunque. Ma allora come è possibile che sia perito nel disastro almeno un quarto dei passeggeri? Farà eco al ministro la Navigazione generale italiana che, per voce dell’onorevole Dionigi Biancardi, suo direttore generale, confermerà che le scialuppe, in perfetta efficienza, erano superiori di numero rispetto alla norma e il piroscafo era partito da Genova “in perfette condizioni di navigabilità”.50 Ma il Mafalda non era prossimo a essere trasformato in un battello turistico per viaggi brevi e tirrenici? E non era in programma uno futuro disarmo, come peraltro la stessa stampa italiana aveva scritto inizialmente? I quotidiani di regime faranno a gara nel respingere ogni accusa straniera, evidentemente letta come una provocazione e un attacco all’Italia fascista. Inoltre, come farà notare ancora la disciplinata “Tribuna”, il Mafalda aveva “soltanto” diciotto anni di navigazione, contro numerosi piroscafi stranieri che hanno da tempo superato i vent’anni ed erano ancora in piena attività.51 Tralasciando che si tratta, tuttavia, di navi in perfetta efficienza, a differenza dello sfortunato transatlantico italiano.

La commissione d’inchiesta, presieduta dal colonnello di porto Francesco Marena riconoscerà invece che i problemi tecnici riscontrati durante la crociera erano stati “causa indiretta” del naufragio e che questo era stato causato dallo sfilamento dell’elica; tuttavia, i mezzi di salvataggio a bordo erano sufficienti, e

46 Realtà e congetture sull’affondamento, in “La Tribuna – L’Idea Nazionale”, 4 novembre 1927. 47 Sul transatlantico britannico perse la vita il 25.5 % dei passeggeri di terza classe; sul Mafalda la terza classe ebbe il 24 % dei morti, senza contare i possibili clandestini (Richard Davenport-Hines, cit., p. 330). 48 Passeggeri e armatori del “Mafalda” discordi, in: “Corriere della Sera”, 1 novembre 1927. 49 Un comunicato del ministro Ciano, in: “Il Sole”, 28 ottobre 1927. 50 Passeggeri ed armatori del “Mafalda” discordi, in: “Corriere della Sera”, 1 novembre 1927. 51 Realtà e congetture sull’affondamento, in: “La Tribuna – L’Idea Nazionale”, 4 novembre 1927. 18 che la nave era stata certificata idonea alla navigazione pochi giorni prima della partenza. Al termine dei lavori, la commissione Marena si dichiarerà però incapace di emettere alcun giudizio sulle responsabilità di ordine giuridico a carico sia delle persone imbarcate, sia della Società armatrice, sia degli enti preposti alle prescritte visite di controllo e verifiche.52

Una sorta di insufficienza di prove, che lascia trasparire dubbi e incertezze. La commissione termina i suoi lavori nel febbraio 1928. La stampa di regime, dopo aver raccontato non senza evidente imbarazzo, le contraddizioni delle cifre e delle cause, spegnerà rapidamente i riflettori sull’intera vicenda. L’Italia si deve ora apprestare a “nuove conquiste sul mare e sugli Oceani”, come ha recitato la “Tribuna” già il giorno dopo la tragedia.53 E nessuna conquista può essere compiuta seguitando a citare un disastro come quello. Del Principessa Mafalda per decenni non si parlerà più, e i suoi ricordi resteranno legati alla memoria degli scampati e a una celebre canzone popolare che ne narrerà la tragedia: “E da Genova il Mafalda partiva/con un migliaio e più passegger. L’equipaggio solerte ubbidiva/ai comandi del vecchio nocchier”.54

L’11 novembre 1927, nel capoluogo ligure, presso la cattedrale metropolitana di San Lorenzo, si tiene la cerimonia religiosa per le vittime del Mafalda, alla presenza di tutte le personalità della città, del prefetto, del podestà e del segretario federale del Partito. Manca il direttore della Navigazione generale italiana, Biancardi, ufficialmente trattenuto a Roma.55 Non sappiamo se è presente anche l’anziano Erasmo Piaggio: ha più di ottant’anni, e morirà tra poco meno di cinque. Forse la sua salute, ormai cagionevole, non gli ha permesso di partecipare.

Forse non vuole assistere alla cerimonia funebre della sua amata creatura: il Principessa Mafalda di Savoia, nato, sotto i peggior auspici, in un piccolo borgo ligure, all’alba di un Mondo Nuovo; perito, con il suo carico di sfarzo e di speranza, al largo del Nuovo Mondo.

52 Il naufragio del “Mafalda” – La relazione della Commissione d’inchiesta, in: “La Stampa”, 23 febbraio 1928. 53 L’impressione a Genova, in: “La Tribuna – L’Idea Nazionale”, 27 ottobre 1927. 54 “La canzone della Mafalda” in: : Luciano Gariboldi, Giorgio Giorgerini, Enrica Magnani Bosio, cit., p. 140. 55 Solenna cerimonia religiosa per le vittime del “Mafalda”, in: “Il Secolo – La Sera”, 12 novembre 1927.