68. Il Novecento (14)

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68. Il Novecento (14) Blitz nell’arte figurativa 68. Il Novecento (14) L’arte figurativa tradizionale fu emarginata nel ‘900 perché considerata anacronistica. La considerazione è sicuramente eccessiva. Essa, per ignoranza, si riferisce all’arte accademica, tipica dell’800. Ma quest’ultima ha ben poco a che fare con l’arte figurativa per eccellenza. La questione sta nel fatto che la calligrafia pittorica e scultoria due secoli fa, con la presa del potere da parte della borghesia, s’inaridì, cristallizzandosi intorno a ripetizioni parodistiche esangui. Quando il Dada attacca questo tipo di arte, in realtà attacca l’egemonia borghese, cieca e sorda nei confronti della crescita culturale. Si ha una conservazione che si organizza in corporazioni nelle quali il “diverso” non entra. L’arte è solo un contorno da esibire, qualcosa di prezioso, o reso tale dalla propaganda economicamente interessata. Nulla a che vedere con il concetto artistico originale, ben orientato a coprire le necessità spirituali dell’uomo: un’evoluzione nella rappresentazione dell’immagine per scoprirvi verità assolute. Il fenomeno toccò il culmine durante Umanesimo e Rinascimento, l’uno per razionalizzare la spiritualità (per dare alla spiritualità una logica), l’altro per celebrare sentimentalmente questa razionalizzazione. Le immagini del tempo (siamo nel ‘400 e ‘500) contengono perfezioni mentali più che estetiche. La perfezione consiste nel fatto che il contenuto – ammirevole e profondo – si fa, inevitabilmente, forma esemplare. Dunque, la figura oggettiva, e soggettivamente partecipata, si conferma, con Leonardo, Raffaello e Michelangelo, con Tiziano, il solo autentico e possibile linguaggio delle arti figurative. La soggettività del Novecento è responsabile di un protagonismo fisico generale – prodotto dal sistema – sublimato in modo pseudo-intellettuale. L’arte figurativa tradizionale nel ‘900 è derisa, tuttavia fortunatamente sopravvive. I concetti espressi dal Postmodernismo le hanno ridato dignità, ancora di più la crisi dell’arte moderna, sempre più incolpata di auto-supervalutazione e di superficialità. La crisi delle gallerie si spiega anche così. Resistono i grandi nomi per via di una robusta rete commerciale che sa tramutare una cosa in qualcos’altro. Dunque, l’arte figurativa tradizionale può, tenendo conto della modernità delle visioni e considerazioni, continuare il suo cammino in modo più agevole. Insomma, non si può più dipingere e scolpire come nel ‘500 perché i tempi oggi sono molto diversi di quelli di ieri, le situazioni completamente cambiate, i riferimenti altri a causa di un’evidente emancipazione pratica e intellettuale. Quella pratica è preminente, per via dei benefici portati dalle varie rivoluzioni industriali, quella intellettuale vive quasi a parte, confortata dagli strascichi sentimentali del Romanticismo che tramuta in varie considerazioni morali, sovente incisive e naturalmente moderne. Il relativismo che ha caratterizzato il ‘900 è stato un terreno di coltura per queste considerazioni. Esse, negli animi più sensibili, hanno determinato espressioni intense. La figurazione è passata da una certa fissità accademica alla dinamicità grazie agli Impressionisti. Il linguaggio pittorico è cambiato per il loro intervento rivoluzionario nella partecipazione alla realtà e nella resurrezione dell’idealismo. Gli Impressionisti rappresentano una borghesia illuminata, avviata a fondare una cultura nuova, più umana, sganciata dalla musealità. Eredi di questa illuminazione sono gli Espressionisti, campioni di una seconda rivoluzione espressiva, meno romantica della prima, che la pittura figurativa sta tuttora vivendo, provando a migliorarla, a renderla più efficace nei confronti dell’interpretazione della realtà e del conseguente intervento su di essa. Qui procederemo a esempi, presunti, di pittori che hanno lavorato sull’immagine convenzionale, puntando sull’espressività nascosta e adeguandola alla modernità della visione della vita e dell’umanità, gli stessi intenti perseguiti dall’arte moderna, ma ovviamente con più chiarezza e maggiore umiltà, vale a dire senza pretese psicologiche e psicanalitiche. L’emarginazione dell’arte classica fu prodotta dall’irruenza delle avanguardie che spazzò via l’accademismo, come pure il concetto d’immagine tradizionale, per quanto rivisitata da Impressionismo ed Espressionismo. Rimase, meno a margine, il Simbolismo da cui le avanguardie trassero maggiore ispirazione, potendo limitarsi a lavorare intorno a simboli segnici e a sottintesi resi cromaticamente. La ripresa della figurazione ortodossa avvenne principalmente in Italia: per quanto ormai culturalmente secondario, il Belpaese reagì, sommessamente ma orgogliosamente, allo strapotere avanguardistico con almeno tre iniziative di rilievo: il movimento detto “Novecento”; il “Chiarismo”, “Corrente”. Seguì poi da vicino l’importantissimo fenomeno denominato “Realismo Magico”, di portata internazionale. Achille Funi (1890-1972), pittore nato a Ferrara, fu dapprima futurista, seguendo le orme di Boccioni, poi, dopo aver partecipato come volontario alla Grande guerra, si staccò dal movimento e fondò, insieme con altri, “Novecento” con il proposito di riprendere a dipingere tradizionalmente, avvalendosi delle esperienze impressioniste ed espressioniste, nonché dei suggerimenti indiretti delle avanguardie. “Novecento”, cui fecero parte Mario Sironi, Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville e altri, fu una formazione nata nel 1922, coordinata, e sostenuta, da Margherita Sarfatti, musa e rifugio degli artisti del tempo. Funi, fascista della prima ora, fu molto aiutato dal regime di Mussolini che gli commissionò affreschi e mosaici. Nel dopoguerra fu insegnante e direttore a Brera per diversi anni. Nell’ultima parte della sua vita si dedicò all’arte pompeiana e raffaellesca e dipinse paesaggi. L’arte di Funi è eterogenea. Pomposa, pur con qualche moderazione, quella del regime, incerta quella del momento futurista, cezanniana molta parte della successiva, interessante, pur con qualche riserva, quella del breve periodo novecentista. Il pittore ferrarese appare, in tale periodo, diviso fra la tentazione estetica e la volontà espressiva. Difficile è per lui la mescolanza delle due cose, a volte risolta con il ricorso a una poetica remota, modernizzata a fatica, con l’aiuto del colore limpido, per timore di una caduta inerte nel passato. Da considerare questa sua “Maternità”, anno 1925. L’amore per l’espressione figurativa tradizionale è evidente in questo “Ritratto di marinaio” del 1916, realizzato da Anselmo Bucci (1887-1955) di Fossombrone (provincia di Pesaro e Urbino), per molto tempo residente a Monza, dove morì. Fece parte di “Novecento” ma se ne distaccò presto per realizzarsi anche come scrittore. Studiò a Brera, conobbe Boccioni. Nel 1906 fu a Parigi con Dudreville, amò l’incisione. Fu volontario nella Grande guerra. Si mantenne decorando piroscafi, visse isolato, pur facendo molte mostre. Il suo marinaio è un personaggio dotato di malinconia emblematica, come avesse tutta l’esperienza della marineria (dell’umanità) sulle spalle. L’opera appare per molti versi datata, ma la cura, l’affetto per il personaggio e per ciò che rappresenta hanno ragione della ripetersi. Più articolata e personale sembra la pittura di Leonardo Dudreville (1895-1975), pittore veneziano. Era attratto dalle opere di Segantini e sulle prime fu divisionista. Nel 1906 fu a Parigi con Anselmo bucci ma, evento eccezionale, dichiarò di esserne stato deluso. Tentò dell’astrattismo. Evitò l’arruolamento nella Grande guerra perché orbo a causa di un incidente giovanile. Studiò musica e divenne violinista e violoncellista, ma compose pure alcuni poemi sinfonici. Dall’astrattismo passò al realismo subito dopo non essere stato accettato da Boccioni nella compagine futurista. Nel 1921 espose a Berlino, nel 1921, con “Valori Plastici” (Soffici, de Chirico, Savinio, Morandi e altri). l’anno successivo fu fra i fondatori di “Novecento” da cui si distaccò due anni dopo per seguire un proprio programma pittorico. Dudreville riteneva di poter dipingere come i fiamminghi. Intendeva lasciare la ricerca della realtà ultima delle cose – che secondo lui si poteva fare solo con la pittura realistica – per semplicemente contemplarle. La contemplazione prevedeva una spiritualità di tipo scientifico grazie alla quale la comunione con la realtà era maggiormente possibile. Nel 1942 Dudreville fuggì dai bombardamenti su Milano e si rifugiò a Ghiffa sul Lago Maggiore, dove rimase sino alla fine. Nel suo “buen retiro”, l’artista continuò a dipingere, scrisse le sue memorie e s’impegno nella costruzione di barche. La sua produzione è piuttosto eterogenea. Le cose migliori appartengono al primo realismo, quello non fiammingo, peraltro mai raggiunto, né raggiungibile, non per incapacità tecnica quanto per anacronismo concettuale. Interessante, per resa analitica e per una certa empatia con il personaggio, questo “Studio di carattere” del 1921. Una delle migliori nature morte italiane, una poesia dipinta, fu realizzata nel 1930 da Pietro Marussig (1879-1937), triestino. Fu a Vienna e Monaco nei primi anni del Novecento, dove ammirò la pittura della Secessione Viennese (l’Art Nouveau, il Liberty). Nel 1905 visitò Parigi e ammirò la pittura di Cézanne, Gauguin e Matisse. Fu amico fraterno dello scultore triestino Antonio Camour. Partecipò alla Grande guerra, per nulla volentieri. Divenne poi uno dei fondatori di “Novecento”, trovando qui la possibilità di sviluppare il suo talento. Marussig non amava la plasticità, il movimento, il virtuosismo
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