ARCHEOLOGIA DEI PAESAGGI MEDIEVALI

Comune di

Fondazione Monte dei Paschi di

Area di Archeologia Medievale – Università di Siena

Fondazione Musei Senesi

Provincia di Siena

POGGIO IMPERIALE A POGGIBONSI IL TERRITORIO LO SCAVO IL PARCO

A cura di Riccardo Francovich e Marco Valenti

A Ennio Rinaldi e le sue ricerche di vita in una città scomparsa

1 Indice 12 - La popolazione 13 - Dinamiche insediative e nascita dei castelli nell’alta Val I - IL CONTESTO d’Elsa tra X e XI secolo 1 - La collina di Poggio Imperiale 14 - La zona di Poggibonsi tra XI e XII secolo 2 - Storia degli studi 15 – 1155, la fondazione di un grande castello: Poggio Bonizio a. Il territorio 16 – I primi decenni di vita di Poggio Bonizio b. Studi sulla Valdelsa con riferimenti specifici ai 17 - Gli annessi del grande edificio: il silos e la cisterna M.V. territorio di Poggibonsi 18 - La grande cisterna pubblica G.B. c. Studi sui ceti dirigenti toscani 19 - I quartieri abitativi alla fine del XII secolo M.V. d. Studi monografici su castelli, monasteri e chiese 20 - L’urbanistica del castello di fine XII secolo attraverso le nuove e. Studi su Podium Bonizi, Poggibonsi e Poggio tecnologie A.N. Imperiale 21 – Lo sviluppo di Poggio Bonizio in quasi città. XIII secolo 3 - Il complesso monumentale 22 - La ristrutturazione di un lotto di case a schiera in a. La fortezza medicea abitazioni con corte lastricata b. La porta San Francesco 23 – Il quartiere dei fabbri M.V. c. La torre San Francesco 24 – La grande chiesa di XIII secolo (Pieve di Sant’Agostino) d. Il cassero della fortezza M.V. M.A.C., E.G. e. La Fonte del borgo di Vallepiatta G.B. 25 – Poggio Bonizio e Colle Valdelsa: confronto tra due central place M.V. II - PALEOMORFOLOGIA DELLA COLLINA 26 - I consumi in carne a Poggio Bonizio F.S. 1 - Il pianoro 27 - Gli ultimi decenni di Poggio Bonizio. Seconda metà del 2 - I versanti XIII secolo 3 - Rilievi e fiumi 28 - Arrigo VII fonda Monte Imperiale. 1313 4 - Paleogeografia dal miocene al quaternario 29 - Una struttura per la macellazione degli animali ed un 5 - Il percorso geologico del colle A.A. bassofuoco trecentesco. 30 - La Fortezza di Lorenzo il Magnifico. Fine XV-XVI secolo III – GLI ASPETTI VEGETAZIONALI DELLA COLLINA M.V. 1 - La vegetazione attuale 2 - Le specie presenti oggi G.D.P. VI – I MATERIALI PROVENIENTI DALLO SCAVO 1 – Ceramica L.M. IV - I LUOGHI DEL TERRITORIO 2 – Vetro S.Q. 1 - Abbazia di Marturi 3 – Metalli D.C., S.P. 2 - Borgo Marturi 4 – Monete C.C. 3 - San Lucchese 5 – Archeozoologia F.S. 4 - La Magione 6 – Archeobotanica. G.D.C. 5 - Cedda 6 - Papaiano VII – La documentazione 7 - Gavignano 1 – L’informatizzazione 8 - Pian dei Campi 2 - Il sistema di gestione dei dati di scavo 9 - 3 - La piattaforma GIS 10 - Castello di Strozzavolpe 4 - Il DBMS (Data Base Management Sistem) 11 – Lecchi M.V. 5 - La lettura dei dati A.N. 12 - Rocca di Staggia M.V., M.A.C., V.F., C.T. 6 – La produzione multimediale C.T. 7 – I siti web dello scavo e del parco P.P. V – L’INDAGINE ARCHEOLOGICA 1 - L’esperienza Poggibonsi tra ricerca archeologica e VIII – IL PARCO informatica 1 - La collina in età moderna: dagli anni ’60 agli inizi del 2000 2 - L’insediamento di case di terra. V-VI secolo M.V. 2 - Il parco archeologico e tecnologico 3 - L’economia e l’alimentazione nel villaggio tardoantico F.S. 3 - Il Cassero 4 - Il villaggio di età longobarda. Fine VI-VII secolo 4 - La parte espositiva 5 - Il villaggio tra età longobarda ed età carolingia. VIII-inizi IX 5 - I bastioni secolo 6 - Le strategie di intervento sull’area archeologica di Poggio 6 - La trasformazione del villaggio in curtis nel periodo franco. Imperiale IX-X secolo 7 - Il CISAAM R.F. 7 - La longhouse 8 - Archeoval 8 - La corte aperta 9 - I percorsi di visita 9 - Le altre capanne e le strutture artigianali M.V. 10 - Le attività didattiche 10 - Le ossa animali della fase carolingia: il consumo di carne 11 - Eventi culturali M.A.C., V.B. come indicatore sociale F.S. 11 - I cimiteri altomedievali Bibliografia

Autori R.F. – Riccardo Francovich A.A. – Antonia Arnoldus S.P. – Siria Panichi A.N. – Alessandra Nardini S.Q. – Silvia Quattrini C.C. – Cristina Cicali V.B. – Valerie Benvenuti C.T. – Carlo Tronti V.F. – Vittorio Fronza D.C. – Dario Ceppatelli E.G. – Elena Giannini Figure F.S. – Frank Salvadori Ricostruzioni 3D – Mirko Peripimeno G.B. – Giovanna Bianchi Ricostruzioni grafiche – Studio INKLINK Firenze e Università di G.D.P. – Gaetano Di Pasquale Siena L.M. – Luca Mandolesi Schermate GIS – Alessandra Nardini M.A.C. – Marie-Ange Causarano Foto – Archivio Area di Archeologia Medievale Università di M.V. – Marco Valenti Siena P.P. – Pierpaolo Pocaterra Tavole ceramica – Luca Mandolesi

2 Tavole vetri – Silvia Quattrini Grafica volume – Pierpaolo Pocaterra Tavole metalli – Dario Ceppatelli Impaginazione – Luca Carboni

3 Ogni società è il risultato di un pensiero

Michel Rouche, Le radici dell’Europa. La società dell’alto medioevo (568-888), Roma 2005 ed.or. Les racines de l’Europe. Les societes du haut moyen age (568-888), Paris l’Europe. Les societes du haut moyen age (568-888), Paris 2003

4 I - IL CONTESTO 1 - La collina di Poggio Imperiale. Poggio Imperiale è un'appiattita ed allungata collina a 200 m slm di quota, estesa per quasi 12 ettari. E' posta sull'immediato ovest del centro di Poggibonsi, capoluogo comunale e centro economico-imprenditoriale tra i principali della regione. Si caratterizza per essere racchiusa dalle fortificazioni cinquecentesche volute da Lorenzo dei Medici su progetto di Giuliano da Sangallo e per appartenere ad una zona di antica frequentazione della quale fanno parte i prospiscienti convento francescano di San Lucchese e castello di Badia già Marturi, il cui aspetto attuale è frutto di radicali trasformazioni ottocentesche. Ha rappresentato il vero centro storico di Poggibonsi: tra 1155 e 1270 vi sorgeva il castello poi nucleo urbano di Podium Bonzi e nel 1313 fu scelta dall'imperatore Arrigo VII per edificare la nuova città di Monte Imperiale, distrutta dopo appena cinque mesi. Già oggetto di alcuni rinvenimenti occasionali e dell’interesse degli storici locali che hanno sempre guardato a Podium Bonizi come a una sorta di età aurea di Poggibonsi, dal 1992 la collina è al centro di uno studio sistematico condotto dall’area di Archeologia Medievale dell’Università di Siena. Dopo un'indagine preliminare volta a comprendere la reale portata dei depositi archeologici conservati nella fortezza, dal 1993 ha avuto inizio un progetto di scavo a lungo termine che ha rivelato la presenza di forme di popolamento stabili molto più anticipate di quanto attestato dalle fonti scritte; gli archeologi hanno dimostrato che la storia insediativa della collina ha avuto inizio almeno sette secoli prima. Poggio Imperiale costituisce un'area monumentale ed archeologica di grande rilievo che dal settembre 2003 è al centro del Parco Archeologico e Tecnologico di Poggibonsi costituitosi dalla cooperazione tra il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena, il Comune di Poggibonsi e la Fondazione Monte dei Paschi di Siena con il progetto “Archeologia dei Paesaggi Medievali”.

2 - Storia degli studi. a. Il territorio - Una sintesi sul territorio di Poggibonsi non è mai stata tracciata, tranne che nell’edizione della carta archeologica della Provincia di Siena, in collaborazione con l’Università di Siena, dove il terzo volume concerneva l’alta Valdelsa1. Il territorio di Poggibonsi trova comunque citazione in lavori di ampio respiro sulla Toscana medievale e bassomedievale, dove sono presenti notizie di vario genere; nella maggior parte dei casi si tratta di testi nei quali la zona viene citata soprattutto come esempio di rafforzamento alla trattazione affrontata e le uniche parziali eccezioni sono costituite dalle analisi svolte da Cammarosano sulle carte della Badia a Isola2, da Kurze3 e Falce4 sulla Badia di Marturi, la storia di Firenze del Davidsohn5 e l'analisi socio-economica di De La Roncière6, infine da repertori tematici (come i castelli del contado fiorentino di Francovich 7, i castelli del senese

1 VALENTI 1999. 2 CAMMAROSANO 1993. 3 KURZE 1989. 4 FALCE 1921. 5 DAVIDSOHN 1896-1927. 6 DE LA RONCIERE 1976. 7 FRANCOVICH 1976. 5 di Cammarosano e Passeri8, il dizionario storico-geografico di Repetti9 gli schedari incentrati sulle chiese del senese e più specificamente su quelle valdelsane10). Le notizie che si rintracciano nella letteratura disponibile riguardano soprattutto la zona tra Poggibonsi e Staggia per i secoli centrali del medioevo e Poggibonsi per il suo ruolo di centro imprenditoriale e di mercato svolto nel XIV secolo. La storia di Volterra di Fiumi mette in evidenza i diritti di pedaggio che già nel 1189 deteneva su Poggio Bonizio il legato imperiale in Toscana11. Schneider, trattando l'ordinamento pubblico nella Toscana medievale, fa più riferimenti a istituzioni, villaggi e castelli compresi nel territorio poggibonsese e traccia un breve profilo del castello e della Badia di Marturi (non privo di inesattezze)12 sottolineandone la costituzione su proprietà regia, disquisisce sulla chiesa di Sant'Agnese di Talciona pieve già documentata nell'anno 995 donata da Ugo di Toscana alla Badia di Firenze e la colloca nel territorio fiorentino 13, nomina il ponte sull'Elsa nei pressi di Marturi come esistente sino dall'anno 998 ed il pratum e la ripa di Marturi venduti nel 1108 da Matilde di Toscana a Marturi stessa14, ricorda che i Guidi possedevano Podiumbonizi cum tota curte sua, sicut antiquitus fuit de borgo et rocca de Marturi 15. Negli studi di Plesner sul contado fiorentino trova invece posto la disamina sulla donazione di un ottavo del colle e del castello di Podium Bonizi effettuata da Guido Guerra alla Sede episcopale ed a Siena, messa a paragone con le analoghe iniziative concernenti Semifonte, Monterotondo e Castelfiorentino, sottolineando il diritto feudale che il signore continuava però a detenere sulla maggior parte della popolazione; porta poi la pianta topografia dell'odierno Poggibonsi a modello dei cosiddetti «insediamenti di transito»16. Caggese, analizzando il rapporto economico-giuridico tra Siena ed il suo contado nel XIII secolo, tratta la politica adottata dai senesi nei confronti della nobiltà rurale mettendone in risalto l'assenza di comportamenti radicali come segno di «un alto sentimento della libertà e dignità umana». Evidenzia la diffusione di tale atteggiamento anche nei comuni minori ad essa legati e porta come esempio la sottomissione dei Soarzi a Podium Bonizi del 1227 nella quale cedono le loro case «et villanos et colonos et masnaderios et fideles (...) et castrum de Stagia» ed il comune si impegna a non distruggere il castello nè impedire che i detti signori abbiano «a villanis et masnaderiis antiqua servitia»; inoltre il comune garantisce che se mai qualche villano sottoposto ai Soarzi andrà ad abitare in Podium Bonizi, verrà fissato il fitto della terra da lui condotta ed anche il prezzo della manomissione17. Battistini, trattando gli ospedali dell'antica diocesi di Volterra documenta per il 1348 l'esistenza di un ospedale dedicato a San Michele all'interno del borgo di Staggia18. Passeri nella sua analisi sullo sviluppo del comune di Siena, centrata soprattutto sul XII-XIII secolo, affronta anch'egli la fondazione di Podium Bonizi attento a mettere in evidenza gli aspetti politici contenuti negli atti di donazione delle quote del castello e nei giuramenti di fedeltà19, accenna alle successive vicende sui diritti nel castello

8 CAMMAROSANO, PASSERI 1984. 9 REPETTI 1833-1845. 10 MORETTI, STOPANI 1968a; MORETTI, STOPANI 1981; FRATI 1996. 11 FIUMI 1983, p.262. 12 SCHNEIDER 1975, pp.39, 40, 94, 247 n.130, 260 n.193, 263, 265. 13 SCHNEIDER 1975, pp.79, 94-95. 14 SCHNEIDER 1975, p.298 n.320. 15 SCHNEIDER 1975, p.263 n.202. 16 PLESNER 1979, pp.55, 65. 17 CAGGESE 1906, pp.11-12. 18 BATTISTINI 1932, p.88. Per gli ospedali valdelsani si veda anche CAVALLINI, 1942. 19 PASSERI 1944-1947, pp.56-57. 6 delle quali furono attori senesi, fiorentini ed i marchesi del Monferrato 20; tratta inoltre le alternanze partitiche dei Soarzi di Staggia21. Cherubini propone erroneamente Poggibonsi come esempio di sito incastellato di notevole estensione fondato alla metà del Duecento 22 e ricorda poi che nei primi decenni del XIV secolo i Salimbeni, in particolare Benuccio di messer Benuccio ed i nipoti, possedevano cassarum et fortilitiam di Strozzavolpe23. Sottolinea infine come tra XIV-inizi XV secolo Colle, importante centro manifatturiero, produceva panni acquistati e commercializzati dalle compagnie dei mercanti pisani 24. Pinto25, sottolinea che nel 1411 gli ufficiali fiorentini di stanza a Poggibonsi, accoglievano il grano esportato dal territorio senese26 e che il castello di Staggia fu, nella metà del XIV secolo, uno dei centri fiorentini più importanti per la raccolta del grano proveniente dalla Maremma27. Ancora riguardo a Strozzavolpe, il Perogalli ne presenta la topografia come esempio di castello-recinto (volto a proteggere la popolazione in caso di pericolo) mentre Staggia viene portato come esempio di castello-recinto con corte bassa e corte alta (nella prima trovava riparo la popolazione)28; Strozzavolpe viene anche individuato come castello-residenziale e brevemente descritto29. Vismara cita le corti di Staggia, Castiglioni e a proposito del lodo arbitrale del 18 settembre 1221 (RS 598), domandandosi come si potrebbe oggi ricostruire i confini dei distretti castellani in base alle indicazioni dei documenti: «molendinum destructum, quod fuit de eccl.de Bolsano, sicut trahit per podium de Vivaia, super quo remanent ex parte de Stacgia X olivus, alie ex parte de Castillione (...)»30. Affrontando la sottomissione senese del contado nella metà del XII secolo cita, tra i vari esempi portati, le vicende dei Soarzi della famiglia dei Lambardi di Staggia 31 e di Guido Guerra comes Tusciae per la donazione a Siena dell'ottava parte «del castello e poggio di Poggibonsi nella valle di Marturi»32; prosegue riassumendo in poche ma essenziali righe le vicende del castello sino alla sua trasformazione in città autonoma. Ciampoli e Szabò, introducendo la pubblicazione dello Statuto dei Viari di Siena del XIII secolo, osservano che la prima testimonianza dell'elevato impegno del Comune nelle questioni della viabilità è offerta dal conflitto accesosi nel 1155 intorno a Marturi distrutto dai fiorentini ed al quale conseguì la costruzione del «castrum di Poggibonsi»33. Leggermente confusa sui toponimi ed i rapporti di proprietà (per esempio il castello di Marturi viene attribuito tra i possessi di Guido Guerra), la trattazione ha il merito di segnalare la deviazione della Francigena da Borgo Marturi al nuovo castello operata da Guido e dai senesi, l'istituzione di un pedaggio sulle porte (ripartito tra la comunità e Siena), il giuramento degli abitanti di non deviare mai ulteriormente il percorso della strada senza il permesso dei consoli senesi. Queste ultime vicende e gli effetti della politica imperiale in Toscana con il conseguente coinvolgimento dei principali centri valdelsani

20 PASSERI 1944-1947, pp.67-68. 21 PASSERI 1944-1947, pp.58-61, 67. 22 CHERUBINI 1974, p.146. 23 CHERUBINI 1974, p.290. 24 CHERUBINI 1974, p.433. 25 PINTO 1982, p.91. 26 PINTO 1982, p.147 n.250, p.153. 27 PINTO 1982, p.348 n.39. 28 PEROGALLI 1985, p.14. 29 PEROGALLI 1985, pp.26-28. 30 VISMARA 1985, p.229. 31 VISMARA 1985, pp.231, 232-233. 32 VISMARA 1985, pp.232, 239. 33 CIAMPOLI, SZABO' 1992, pp.35-36. 7 sono state trattate ampiamente anche da Davidsohn nel suo studio monumentale sulla storia di Firenze34 dove fornisce numerose notizie per le principali località valdelsane. Tratta la storia di Podium Bonizi sino dalla sua fondazione, che cerca di illustrare più completamente possibile, lo mette a confronto con Semifonte notandone le costituzioni dietro l'unione di singole vicinantie, spiega il passaggio dell'insediamento nel patrimonio dei marchesi del Monferrato e la successiva cessione dei diritti a Firenze nel 1178 35, l'abbattimento delle fortificazioni nel 1257 da parte fiorentina36, l'assedio e la presa di da parte di Carlo d'Angiò, l'entrata a Podium Bonizi di Corradino di Svevia, la distruzione dell'insediamento del 127037. Il castello di Stuppio (scomparso ma nei pressi di Poggibonsi) viene ricordato per lo scontro armato nell'XI secolo con il castello di Marturi. Di Marturi descrive la fondazione ed il rapporto con Ugo di Toscana, lo scontro con Bonifazio, la documentazione di «monast.S.Mich. in castro Marturi» e di «borgo Marture» del 1077, illustra più estesamente la topografia della zona ricordando che nel 1157 la cima ed il borgo di Marturi sono designati «in territorio regis». La Magione viene ricordata come istituto fondato dai cavalieri del Santo Ospedale e mai assurto a grande importanza (in una carta del 1173: «circa vallem que dicitur Martura in valle fluminis Else juxta hospitale, ubi congregati erant fratres hospitalis ad capitulum in loco, qui Turris vocatur»). Staggia trova posto per una disquisizione sulla famiglia originaria e sui suoi successori, i Soarzi 38, la notizia di una fortificazione senese del 126239, l'entrata nel patrimonio dei Franzesi nel 129840. Ancora a proposito di Staggia, Balestracci trattando la formazione del confine senese/fiorentino nella zona del Chianti, mette in evidenza il suo ruolo di avamposto fiorentino dal quale partirono tutte le più importanti azioni militari contro Siena41. Lusini nei suoi studi sulla storia e sull'estensione del vescovado di Siena 42 propone un'ampia discussione intorno all'origine ed ai primi anni di vita del castello di Podium Bonizi e presta molta attenzione alle donazioni e cessioni di Guido Guerra verso la chiesa di Roma, Siena e Firenze (atti importanti per le finalità della propria indagine). Nonostante una lucida comprensione del ruolo territoriale di Podium Bonizi, delle motivazioni politiche legate al continuo confronto tra le due potenze cittadine ed una ricerca d'archivio basata tanto sui testi già esistenti quanto su documenti dei Caleffi, commette però alcuni errori; soprattutto, tentando alcune considerazioni a carattere topografico, non accetta la compresenza di diritti sul castello vedendo i quartieri senesi e fiorentini all'esterno e confondendo la chiesa pievana di S.Agnese in Podium Bonizi con quella di Talciona. Nella guida storica del Chianti di Casabianca viene analizzata la donazioni di un ottavo del castello e del colle di Podium Bonizi effettuata da Guido Guerra a favore dei senesi nel 1156, il condominio dei fiorentini sui privilegi senesi, l'arbitrato di papa Alessandro III del 1163 per la definizione dei confini diocesani senesi e fiorentini, il lodo di Poggibonsi del 1203 pronunciato dal potestà Ogerio. La disamina dei due lodi è molto interessante. La prima mette bene in evidenza la portata di una definizione che rivestiva anche significato politico. La determinazione dei confini del vescovado in realtà stabiliva più o meno implicitamente quelli del contado tra città contrastanti; elemento politico ed ecclesiastico si

34 DAVIDSOHN 1896-1927, I, pp.661-682, 689-721, 738. 35 DAVIDSOHN 1896-1927, I, pp.483-484, 814-817, 830-831. 36 DAVIDSOHN 1896-1927, II, pp.639-640. 37DAVIDSOHN 1896-1927, III, pp. 14-19, 38-39, 88-90. 38 DAVIDSOHN 1896-1927, I, pp. 175-178, 190, 383 n.4, 384 n.1, 525, 607, 676-678, 683-685, 690 n.3, 1046. 39 DAVIDSOHN 1896-1927, II, p.735. 40 DAVIDSOHN 1896-1927, IV, p.88; pp.218, 235, 349 con gli episodi delle visite e delle permanenze a Staggia di Carlo Valois e del Nogaret ambasciatore di Filippo il Bello. 41 BALESTRACCI 1986, p.12. 42 LUSINI 1898; LUSINI 1900; LUSINI 1901, in particolare pp.222-232. 8 compenetravano l'uno con l'altro. Nei confini senesi furono compresi la strada di Poci (attuale Piano di Fosci) e la pieve di Santa Agnese con il suo territorio 43. La seconda, dichiaratamente un atto politico, concerneva i confini dei due contadi e chiudeva entro le pertinenze fiorentine anche la pieve e il piviere di Santa Agnese sino alla corte di Poggio Bonizio; nel testo si stabiliva inoltre la distruzione delle fonti battesimali presenti nella chiesa di Santa Agnese da poco edificata dai senesi in Podium Bonizi stesso e considerarla dipendente dalla pieve di Santa Maria di Marturi44. Casabianca c'informa inoltre che la calata dell'esercito aragonese del 1453 causò la distruzione di molti mulini nelle zone di Colle e Staggia45, la presa di Colle e Poggio Imperiale cadute nel 1479 dopo lungo assedio in mano francese e conseguentemente lo sviluppo della guerra in tutta la Val d'Elsa46. Flower nella sua versione della storia del Chianti tratta la fondazione della Badia di Marturi, attesta Papaiano come curtis acquistata da Ugo di Toscana sino dall'anno 97147 ed anch'egli esamina brevemente la fondazione di Podium Bonizi48. b. Studi sulla Valdelsa con riferimenti specifici ai territorio di Poggibonsi - Gli interventi fondamentali per una introduzione alla realtà attuale ed alla storia della Valdelsa con particolare riferimento alla zona altovaldelsana sono stati curati da Cardini sul finire degli anni 'ottanta. Si tratta di due contributi diversi per struttura, finalità e destinazione. Nel primo, articolato in una scorrevole sezione sulle vicende storico-economiche del territorio e in schede storico-artistiche, viene individuato come momento fondamentale per la consapevolezza di un'identità altovaldelsana la costituzione nel XVI secolo della circoscrizione diocesana di Colle Val d'Elsa49. Nel secondo, uno studio sullo scenario storico valdelsano, sottolinea come questa zona ha svolto un ruolo di primaria importanza nel medioevo ed in età moderna soprattutto quando la direttrice del traffico per Roma si consolidò sulla Francigena, mentre nell'antichità il suo ruolo era stato marginale, distante dalle città confinanti ed esterna alle grandi vie consolari50. Guicciardini sul finire degli anni 'trenta si è occupato della viabilità valdelsana redigendo uno studio che si rivela ancora un punto fermo per questa tematica di ricerca51. Individua per il periodo compreso tra XI-XIV secolo l'esistenza di quattro strade principali, due trasversali all'andamento della valle (volterrane) e le restanti longitudinali (romee o francigene)52. Meli affrontando in un articolo di sintesi la lotta economico-militare e la dinamica degli insediamenti nella Valdelsa medievale, definita il baricentro viario toscano, mette in risalto i diversi elementi insediativi e istituzionali (centri monastici e canonicali, signorie territoriali poi liberi comuni organizzati come modelli cittadini) attivi nel renderla costantemente una zona di frantumazione e di riorganizzazione del potere ed al centro delle contese tra Siena e Firenze53. Già Paoli54 alla fine dell'Ottocento e Gensini agli inizi

43 CASABIANCA 1937, pp.116-117. 44 CASABIANCA 1937; in particolare pp.115-118, 125-129 (Podium Bonizi); inoltre pp.172-174, 197-199 (assedi a Poggio Imperiale durante la guerra aragonese del 1478) 45 CASABIANCA 1937, p.165. 46 CASABIANCA 1937, pp.182, 201. 47 FLOWER 1981, pp.80-82. 48 FLOWER 1981, pp.98, 101. 49 CARDINI 1988. 50 CARDINI 1989. 51 GUICCIARDINI 1939. 52 Nell'ultimo decennio la ricostruzione di Guicciardini è stata parzialmente contestata (STOPANI, 1986a) pur sottolineando ancora la validità dello studio. 53 MELI 1974. 54 PAOLI 1899. 9 degli anni 'cinquanta55 hanno trattato la posizione della Valdelsa nella rivalità tra Siena e Firenze sino al 1260 con ampi riferimenti al ruolo di Poggio Bonizio ed i movimenti politici delle principali casate e comunità. Muzzi si è interessata della zona per l'evoluzione demografica regionale tra 1350-142756 dove propone sotto forma di tabulato l'evoluzione dei fuochi nel comune di Poggibonsi ed evidenzia come nel decennio 1384-1394 da 481 fuochi si passa a 184) verifica un progressivo decremento demografico, che investe anche i grandi centri tipo piccola città come Poggibonsi e Colle, al quale si relaziona un impoverimento della stessa composizione sociale: la depressione derivata dalla congiuntura negativa iniziata nel primo 'trecento livella verso il basso e modifica fortemente le richieste del mercato restringendo la possibilità di sopravvivenza di molte attività commerciali e professionali. Introduce un concetto di "ruralizzazione" della campagna valdelsana dove la crisi colpisce soprattutto «le borgate, i comuni rurali che erano stati promotori, con la vitalità delle loro attività artigianali e commerciali della relativa floridezza del contado»57; in altre parole, la riduzione del ceto intermedio dei piccoli operatori economici e la diminuzione della proprietà contadina (che si concentra in città) radicalizzano la differenza tra la grande massa dei miserabiles e dei nichil habentes e l'esiguo numero delle famiglie emergenti: il grosso della popolazione del contado è ormai formato da laboratores terrarum. De La Roncière, trattando il ruolo di Firenze come centro economico regionale58, propone informazioni molto approfondite sulle vicende del popolamento valdelsano in generale, su Poggibonsi ed accenna anche a Colle. L'autore calcola che nel decennio 1330-1340 la popolazione presente nei dodici maggiori villaggi della Val d'Elsa aveva una densità media di 82 persone per kmq. Affrontando l'argomento flusso migratorio verso la città, evidenzia difficoltà di quantificazione poichè non sembrano verificarsi spostamenti definitivi (famiglia e beni rimangono nel villaggio di appartenenza). In generale sino al XIII secolo la migrazione in città è notevole e Firenze rappresenta un polo di attrazione molto forte, stagna nel decennio 1310-1320 ed è poi in rapida ascesa tra 1330-1348. Di Poggibonsi evidenzia, per il XIV secolo, sia il ruolo di insediamento al centro di un nodo viario interregionale (une etape double, et capitale) sia quello di centro commerciale (il mercato settimanale ivi tenuto esercitava un notevole afflusso di merci e persone tanto da risultare uno dei maggiori nel contado fiorentino); esamina inoltre la popolazione presente e le caratteristiche delle attività imprenditoriali. Il carattere di successo del villaggio viene relazionato alla posizione occupata sulla viabilità ed esamina la disposizione di alberghi e ricoveri per i viandanti; evidenzia per esempio che tra 1334-1383 sono attivi due alberghi (in località Calcinaia e vicino al ponte sulla Staggia) dipendenti dall'ospedale di San Giovanni, mentre un terzo era la "Misericordia di Borgo". Ci informa anche della grande attenzione rivolta alle strade ed alle acque, portando come esempio l'incarico dato a tredici ufficiali poggibonsesi nel 1319 per il riassetto della strada per Firenze e delle porte della borgata (la ripartizione del lavoro avvenne fra i villaggi vicini) 59 ed il ruolo del Podestà

55 GENSINI 1951-1952. 56 MUZZI 1984. 57 MUZZI 1984, p.137. 58 DE LA RONCIERE 1976; si vedano soprattutto i numerosi rinvii alle pagine 643-696, 1170-1173 (trend demografico di Firenze e del suo contado; calcolo della percentuale di decremento della popolazione di Poggibonsi e mestieri attestati tra 1350-1360), 837-856, 951-958, 965-988 (analisi tendente a individuare i punti nodali della problematica connessa alla viabilità nello stato fiorentino, il suo sviluppo ed i mercati ad essa collegati), 1121-1126, 1268 (produzione agricola della Valdelsa e grano ivi acquistato dalla città), 1187- 1188 (evidenza del ruolo economico privilegiato degli insediamenti valdelsani, tra i quali Poggibonsi). 59 De la Roncière riporta le dimensioni della strada alle porte di Poggibonsi: larghezza 4,95 m; fosse di scolo (fissate dai responsabili della comunità) larghe 80 cm circa e profonde 55 cm. Lo scolo delle acque rappresentava comunque un grande problema, il fondo stradale infatti si deteriorava spesso. 10 locale che interviene personalmente nel sorvegliare sia il mantenimento di alcuni fiumi sia le strade e le infrastrutture (spesso attribuite ad appositi ufficiali). Moretti e Stopani, nel loro lavoro sulle chiese romaniche in Valdelsa, specificano le caratteristiche di area di confine ecclesiastico (divisa tra le diocesi di Firenze, Fiesole, Siena e Volterra) segnata dal passaggio della via Francigena; sottolineano come tra X-XIII secolo, soprattutto, si presenta come un territorio privilegiato dove convergono apporti culturali diversi: lombardi, pisano-lucchese, alto laziali, francesi60. Ancora i due autori, nella monografia sul romanico nel senese, individuano i limiti religiosi e politici di questo territorio per il XIII secolo citando anch'essi gli importanti episodi legati all'assoggettamento dei signori di Staggia nel 1137 e le principali tappe dell'alleanza tra Siena e Podium Bonizi61. Le chiese romaniche della Valdelsa sono ancora trattate da Poli in un agile volumetto articolato per schede contenenti anche una sintesi storica ed un ampia documentazione grafica ed iconografica; si tratta di un utile lavoro didascalico, talvolta condotto con toni eccessivamente narrativi e popolari, giustificabile comunque dal fatto che le versioni originali delle stesse schede derivano da una rubrica tenuta in precedenza su periodici locali62. Recentemente le chiese medievali valdelsane hanno trovato una edizione esaustiva in una serie di pubblicazioni curate dagli Editori dell'Acero nelle quali sono raccolti contributi ed ampie schedature dovuti a molti autori63. Il volume III contempla gli edifici presenti nei comuni di Colle e Poggibonsi e vede la presenza di saggi di sintesi molto approfonditi; tra essi si distinguono le pagine di Cammarosano sull'articolazione dei poteri laici ed ecclesiastici nel territorio altovaldelsano fra XI e XIII secolo64, quelle di Frati sugli aspetti ed i problemi interpretativi dell'architettura religiosa medievale altovaldelsana65, inoltre l'indagine di Mennucci sulle maestranze e sulle attrezzature impiegate nella costruzione degli edifici66. c. Studi sui ceti dirigenti toscani - Risultano numerose le citazioni di località valdelsane in studi riguardanti la nobiltà toscana o la fondazione e lo sviluppo di istituzioni monastiche. Nobili, studiando le famiglie marchionali della Tuscia, ricorda la fondazione del monastero di Marturi ad opera di Ugo e la devastazione effettuata dal suo successore, il marchese Bonifacio, quando incontrò la tenace resistenza dei monaci contro la sua volontà di disporre liberamente dei beni inseriti nella dotazione67. Falce nel suo studio sul marchese Ugo regesta e commenta tutta una serie di documenti rogati tra gli anni 953/4-1001 dove sono citate e caratterizzate molte località68. La fondazione di Marturi trova ampio spazio nelle sue pagine anche se non riconosce i due falsi del 970 e del 25 luglio 99869; Bibbiano viene attestato molto probabilmente come «castello et burgo, curte et domnicato et

60 MORETTI, STOPANI 1968a. Si vedano per Santa Maria Assunta e cappella di San Gregorio a Poggibonsi pp.133-135, 143, 145, 146, 147, 304; Talciona pp.14, 161-165, 304; Cedda pp.11, 14, 153-160, 198, 203, 304; Papaiano pp.140-142, 143, 304; San Bartolomeo al Pino pp.147, 304; Pian di Campi pp.145, 304; Luco pp.143-144, 304; San Lucchese pp.146, 304; La Magione pp.136-139, 304; Marturi pp.12, 13, 140, 305. 61 MORETTI, STOPANI 1981, pp.4-7. 62 POLI 1985. 63 AA.VV. 1996. Si vedano per Santa Maria Assunta e cappella di San Gregorio a Poggibonsi pp.103-106; Talciona pp.121-123; Cedda pp.123-126; Papaiano pp.128-130; San Silvestro a Staggia pp.148-149, Santa Maria a Staggia pp.149-150; Pian di Campi pp.186-187; Luco pp.187-188; Villole p.188; San Lucchese pp.189-192; La Magione pp.192-195; San Lorenzo a Poggibonsi pp.195-197; Marturi pp.220-222. 64 CAMMAROSANO 1996. 65 FRATI 1996. 66 MENNUCCI 1996. 67 NOBILI 1981, pp.100-101. 68 FALCE, 1921. 11 ecclesia Sancti Martini» da cui dipendono trentasette sorti sino dal 99770; Papaiano con corte, castello e la chiesa titolata a Sant’Andrea è oggetto di una transazione effettuata dopo il 971 e prima del 100171. Mucciarelli, nel suo studio sulla casata senese dei Tolomei tra XIII e XIV secolo, ricorda che Musciatto Franzesi ottenne l'investitura sui diritti imperiali di Poggibonsi ed il fratello Albizzo ebbe da Siena il permesso di reincastellare Staggia 72. Anche Bowsky cita ed analizza molto dettagliatamente questa richiesta dei Franzesi73. Esistono poi numerosi accenni in lavori di diverso respiro (quasi tutti legati alla genealogia od alla politica dei conti Guidi e della nobiltà della zona) attenti al significato dell'atto di fondazione del castello di Podium Bonizi rintracciabili nel contributo di sintesi dovuto a Milo74. Le vicende della famiglia dei Lambardi di Staggia (affermatisi in Val d'Elsa sino dalla prima metà del X secolo, con possedimenti che si estendevano tra l'area di Staggia e la zona della Montagnola senese, confermati nei loro beni nel 953 dai re Berengario e Adalberto) e la loro fondazione della Badia a Isola agli inizi dell'XI secolo (posta in comune di Monteriggioni) è trattata esemplarmente da Cammarosano75 ed in parte da Kurze76. Cammarosano prende spunto dallo studio dell'archivio di Isola, contenente carte datate tra 953-1215, disponibili in trascrizione integrale, per studiare sia l'evoluzione della famiglia nobiliare (estintasi verso la metà del XII secolo e sostituita dai Soarzi, già individuati in alcuni documenti come filii Rustici) sia la consistenza e le vicende patrimoniali del monastero; conseguentemente tratta gli aspetti insediativi ed economici di un'ampia zona compresa tra il meridione ed il settentrione di Siena dove trovano ampiamente posto località e nuclei di popolamento compresi nelle aree di Colle e Poggibonsi tra la fine del X secolo ed il XIII secolo. Da sottolineare nell'ampia sintesi, la lucida ricostruzione della trasformazione verificatasi sul territorio tra metà XII-XIII secolo e la descrizione degli effetti conseguenti al venire meno di un assetto agrario unitario di base, articolato nel collegamento potere signorile-terra-famiglia contadina. d. Studi monografici su castelli, monasteri e chiese - Staggia in particolare è stata al centro di interessi eruditi e di ricerca sino dall'inizio del Novecento. Bargellini ha redatto uno studio sulle più celebri famiglie signorili susseguitesi nel dominio del castello, riportando numerosissime informazioni non tutte pienamente attendibili ed alcune interessanti foto d'epoca77. Molto utile ed apprezzabile risulta comunque lo sforzo di raccogliere il maggiore numero possibile di fonti documentarie tra le quali il morgengabe del 29 Aprile 994 del lambardo Tegrimo del fu Ildeprando (la più antica attestazione di Staggia), l'istrumento di fondazione della Badia a Isola (rogato nel castello) del 1001, numerose donazioni e vendite di beni posti nel territorio del castello e diritti su quest'ultimo. Altri contributi sullo stesso tenore narrativo si devono a Piranesi78 ed a Marzini79. Il primo nota come nel 1431 le fortificazioni subirono un rafforzamento tale da resistere con successo all'attacco del Piccinino (al servizio di Filippo Maria Visconti). Il secondo propone anche un excursus sulla chiesa di Santa Maria per la quale viene attribuita la titolatura di

69 FALCE 1921, pp.50-52, 66, 75, 96-97, 99, 134, 136-146, 149, 156, 182-203, 206-208, 210-212, 214-215, 217, 225, 230-231, 237-240. 70 FALCE 1921, p.135. 71 FALCE, 1921, p.149. 72 MUCCIARELLI 1995, p.226. 73 BOWSKY 1967, pp.193-243. 74 Si veda soprattutto la bibliografia citata in MILO 1981. 75 CAMMAROSANO 1993. 76 KURZE 1981; KURZE 1989. 77 BARGELLINI 1914. 78 PIRANESI 1924. 79 MARZINI 1922; MARZINI 1923. 12 pieve a partire dal XIV secolo e vengono documentate le principali vicende edilizie (costruzione di un loggiato nel 1580 e sua distruzione nel 1720; sbassata con il campanile nel 1690; interamente restaurata nel 1904). Staggia è stata anche recentemente al centro di una monografia curata dal Centro Studi Romei in occasione del cosi detto "millenario" cioè mille anni dalla prima attestazione della località80. Si tratta di una pubblicazione dove sono presenti più contributi centrati per la maggior parte sulle vicende bassomedievali della comunità ma introdotti da una breve nota di Cammarosano sulla sede altomedievale; in essa viene ricordato il ruolo centrale che Staggia aveva avuto nel consolidamento dei beni della famiglia dei Lambardi, ruolo ancora rivestito quando, dopo l'estinzione della dinastia longobarda, subentrarono i Soarzi81. Il breve contributo di Stopani non si pone oltre ad un riassunto di ipotesi sull'andamento della via Francigena in tale zona, peraltro funzionale a spiegare la collocazione geografica del castello che viene vista come di importanza strategica per il controllo della strada stessa, inoltre come una «sorta di testa di ponte del comitato volterrano» ai confini con i contadi senese e fiorentino. I dati a disposizione dell'autore non ci sembrano sufficienti nè probanti, bensì molto vaghi ed aleatori; la presenza nella zona di Stecchi (sul Montemaggio dove si estendevano molte proprietà dei Lambardi) di un probabile cippo confinario dell'episcopato volterrano; l'espressione di Marche Castellum (marca come frontiera, usata da Filippo II Augusto nel 1191 nella descrizione del suo ritorno dalla terza crociata) nella quale viene riconosciuto Staggia: «Chi scrive in precedenza (...) aveva creduto di riconoscere in "Marche Castellum" l'insediamento fiorentino di (...). Ci ricrediamo. Con "Marche Castellum" è assai probabile che Filippo II Augusto abbia voluto riferirsi a Staggia. Nel XII secolo, infatti, sul piano formale vigevano ancora (come ci ricordano gli atti notarili) le confinazioni degli antichi comitati e le nuove realtà politiche che andavano formandosi non possedevano ancora i connotati di stati territoriali»82. Pirillo affronta invece le vicende relative al reincastellamento tardo duecentesco (il castello era andato agli inizi della seconda metà del secolo) e il dominio dei Franzesi, ricca famiglia di grandi finanzieri e magnati originari del contado fiorentino che ne acquistò i diritti e si fece concedere in feudo dall'impero tutti i diritti giurisdizionali 83. L'acquisto e la rifortificazione di Staggia non rappresentarono un "ritorno alla terra" dei nuovi signori dopo gli anni del commercio e della finanza internazionale; significarono piuttosto i passi reputati necessari alla creazione di un solido punto di partenza (per consolidare potere fondiario ed economico che interessava anche la valle dell'Ombrone senese e il Valdarno superiore) e trampolino di lancio per ambizioni politiche di dimensioni regionali. Pucci, infine, introduce ed illustra lo statuto quattrocentesco di Staggia nel quale è contenuto il tipo di organizzazione vigente in una comunità autonoma84. Moretti e Stopani hanno studiato da un punto di vista stilistico i resti monumentali del complesso85. In particolare hanno notato un inglobamento dei resti della fortificazione di Staggia andata distrutta nella seconda metà del XIII secolo (il basamento di una torre in accurato filaretto di travertino che doveva servire da cassero, con due portali manomessi, archivolti a sesti acuti, un'apertura con architrave sorretto da due mensole stondate e sormontato da archivolto e lunetta) nella nuova costruzione voluta dai Franzesi e ipotizzato che quest'ultima ricalcasse modelli extraregionali (forse francesi) tanto che suggeriscono l'attività di maestranze provenienti d'oltralpe: le due torri cilindriche, ascritte

80 CAMMAROSANO et alii 1995. 81 CAMMAROSANO 1995. 82 STOPANI 1995, pp.17, 20 n.19. 83 PIRILLO 1995. 84 PUCCI, 1995. 85 MORETTI, STOPANI 1971. 13 alla fine del XIII secolo, non trovano infatti confronti in ambito toscano (se non a partire dalla seconda metà del XV secolo rese necessarie dalla nuova efficacia dell'artiglieria) mentre in Francia, nello stesso periodo, erano ampiamente diffuse come ricorda Stopani86. L'ipotesi risulta poi rafforzata dalla notizia riportata da Davidsohn circa una speciale competenza di Musciatto Franzesi in architettura, tanto che durante il suo soggiorno in Francia Bianca di Navarra gli affidò la direzione della costruzione di un palazzo. Kurze si è occupato della storia del monastero di San Michele sul poggio di Marturi chiarendo definitivamente l'incongruenza ed i dubbi creati dai tre documenti relativi alla fondazione; dopo una seria esegesi delle fonti afferma che sulla base della donazione di Ugo di Toscana del 10 agosto 998, i monaci di Marturi redassero poi due falsi nel corso del XII secolo apponendo una data all'anno 970 ed una al 25 luglio 998. Vede poi nella fondazione di Ugo non un atto ex novo, bensì la rifondazione di un monastero decaduto; sposta quindi la prima costituzione dell'abbazia in epoca longobarda, all'VIII secolo. Per fare ciò, si basa sullo studio della vita di Bononio (primo abate), su considerazioni a carattere generale circa l'edificazione di monasteri in Toscana, non ultima una presunta identificazione della stessa Marturi con l'abbazia di San Michele menzionata in un documento dell'anno 762 relativo all'archivio di San Salvatore a Monte Amiata 87. Anche Neri in un contributo di fine 'ottocento si occupa specificatamente della Badia di Marturi 88, chiarendo la distinzione tra Podium Bonizi e Poggio Marturi, errore che continuava a perpetuarsi in molti autori contemporanei ed ancora presente in lavori più vicini al nostro tempo come nelle storie di Siena di Valenti89 e di Cagliaritano90. Inoltre attesta che la Magione (l'ospedale di San Giovanni al Ponte di Bonizzo) esisteva già prima del 1140 quando venne donata all'abbazia di Marturi. La chiesa di San Lucchese e la sua costruzione nella zona del borgo di Camaldo sono inoltre state affrontate da vari autori tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni di questo secolo. Mattone Vezzi si interessa di San Lucchese trattando la presenza francescana a Poggio Bonizio e successivamente descriverà più da vicino il convento91. Neri descrive sia architettonicamente sia storicamente il complesso (segnala la data "MCCC" incisa sull'altare maggiore e la riedificazione della struttura nel periodo 1250-1300, le tracce della chiesa primitiva nelle lesene e sul muro orientale)92, Del Zanna documenta restauri e ripristini effettuati nel periodo 1903-1905 e nel 191093, Bucchi ne parla estesamente in un pur breve contributo sulle chiese francescane in Valdelsa94, anche Piranesi dedica molte pagine all'interno di una monografia su Poggibonsi95 così come Rosati96. A tali contributi devono essere aggiunti quelli di Ciaspini97 e Pratelli98 inclusi nelle loro storie di Poggibonsi. Nei decenni a noi più vicini si segnala la piccola monografia di Bertagna sul culto del santo con molti rimandi storici ed architettonici (per esempio le ipotesi sulle dimensioni della

86 STOPANI 1995. 87 KURZE 1967; KURZE 1989. 88 NERI 1895; NERI 1901. Oltre a Kurze e Neri, si vedano per Marturi anche le pagine dedicate in PRATELLI 1929-1938, pp.14, 21-27, 457-464, 567-568. 89 VALENTI 1963. 90 CAGLIARITANO 1982. 91 MATTONE VEZZI 1960. 92 NERI 1893. 93 DEL ZANNA 1918. 94 BUCCHI 1924, pp.20-23; 95 PIRANESI 1926. 96 ROSATI 1924. 97 CIASPINI 1898, pp.23-25, 89, 120, 123. 98 PRATELLI 1929-1938, pp.33-34, 112-125, 269-277. 14 chiesa primitiva di Santa Maria di Camaldo o la citazione di una lapide marmorea sul tamponamento di una porta del lato nord, con iscrizione del 1252 relativa ad un Magister Nicholettus)99. La Magione, casa templare sulla via Francigena, è stata oggetto di varie attenzioni e si segnalano le pagine di inizio secolo del Canestrelli100, lo studio architettonico di Moretti completato dai rilievi effettuati dopo il restauro del 1979101, i due volumi di Mantelli interamente dedicati alla storia del complesso sino ai giorni nostri 102, vari riferimenti nel convegno sulla Magione dei Templari del 1989103. Guicciardini tratta invece la Magione di Torri evidenziando la prima attestazione documentaria del 1173 (quando fu luogo di riunione del Capitolo generale dei Cavalieri Gerosolimitani), la cessione in enfiteusi ai Rinuccini di Firenze nel 1323 (dalla quale vennero esclusi l'oratorio ed il cimitero) ed il successivo passaggio nel patrimonio degli Spinelli di Castelfiorentino. Ipotizza poi una seconda torre (oggi scomparsa) parallela a quella tuttora esistente104. e. Studi su Podium Bonizi, Poggibonsi e Poggio Imperiale - Abbiamo distinto queste tre sezioni poichè, di fatto, Podium Bonizi, Poggibonsi e Poggio Imperiale hanno avuto la loro letteratura specifica prodotta rispettivamente da storici locali, storici bassomedievisti, storici dell'architettura. La collina è stata studiata sia come importante realizzazione di architettura militare sia in relazione al grande castello di Poggio Bonizio. In genere le trattazioni della fortezza rinascimentale risultano di buon livello105 ma, nell'insieme, sono superate per spessore e profondità della ricerca, dal volume di Masi sulle sue vicende edilizie: oltre un accurato repertorio grafico e fotografico sul monumento, abbina una completa appendice documentaria ricercata in archivio e ricostruisce le vicende del cantiere sangallesco106. Maggiori attenzioni si sono concentrate su Podium Bonzi, soprattutto in opere dedicate alle due città, Siena e Firenze, che influirono costantemente sulle sue vicende. Ampie menzioni inoltre sono legate alla copiosa produzione saggistica concernente la via Francigena, anche se il villaggio viene citato soprattutto perchè al centro di un importante nodo viario e mai ci si addentra specificatamente nella sua realtà urbanistica e socio- economica107. Parlare di una storia degli studi significa prendere in esame la consolidata produzione storica locale. Gli autori che s'inseriscono in questo genere, sono stati infatti gli unici che hanno tentato di ricomporre in una narrazione coerente ed organica le numerose informazioni sparse tra archivi e letteratura erudita, producendo alcune trattazioni di oggettivo valore ed utilità nonostante una valutazione delle fonti talvolta ingenua; inoltre si fornisce un immagine duecentesca del castello che viene proiettata anche nel cinquantennio precedente, come se la struttura fosse stata cristallizzata e priva di evoluzione urbanistica. Costante è invece la trascrizione di molti documenti in appendice e una sezione, articolata per profili biografici, dedicata ai personaggi poggibonsesi che si

99 BERTAGNA 1969. 100 CANESTRELLI 1907. 101 MORETTI et alii 1986. 102 MANTELLI 1984-1990. 103 CRISTOFANI DELLA MAGIONE 1987. 104 GUICCIARDINI 1929. 105 Si vedano tra i tanti MARCHINI 1942; SEVERINI 1970; PEROGALLI 1980. 106 MASI 1992; inoltre il precedente MASI 1989. 107 In particolare si vedano MORETTI et alii 1986; CAUCCI VON SAUCKEN 1984; SZABO' 1992; STERPOS 1964; STOPANI 1984; STOPANI 1986a; STOPANI 1986b; STOPANI 1988; STOPANI 1995; MANTELLI 1984-90; RISTORI 1996; MUZZI et alii 1988; AA.VV. 1993a; AA.VV. 1995. 15 sono distinti tra medioevo ed età moderna; quest'ultima rientra d'altronde nei canoni di quello spirito campanilistico caratterizzante i lavori in oggetto. Le «Notizie diverse per servire alla storia di Poggibonsi» di Ciaspini, pubblicato postumo nel 1850, è articolato in una disamina su origine e sviluppo degli insediamenti di Marturi (castello e borgo), Asturpio (Poggio Tondo) e Camaldo (cioè la collina di San Lucchese), funzionale a introdurre la storia di Podium Bonizi. Prende in esame le notizie riportate da Villani, Ammirato, Cermenate, Malespini, Pignotti, Scala, Targioni Tozzetti, Muratori e Gigli, elaborando criticamente una propria versione diacronica con spunti interessanti ma non privi di numerose inesattezze, soprattutto per le cronologie proposte; accettando alcune tra le diverse tradizioni erudite, tende infatti a retrodatazioni spesso sino all'età romana e lega la costituzione dei diversi insediamenti costantemente ad eventi storici particolari. E' un processo di nobilitazione delle origini. La fondazione di Borgo Marturi viene attribuita ad un gruppo di soldati militanti sotto Catilina ivi stanziatisi, il castello di Marturi fu costruito dai Longobardi, Camaldo venne fondato nel 1010 da profughi fiesolani scampati ad un'occupazione fiorentina, l’edificazione del castello di Asturpio seguì ad una lite tra camaldolesi terminata in un fatto di sangue. Riguardo a Podium Bonizi rifiuta per primo la data di fondazione fissata al 1174 già da Villani e Ammirato, ma effettua alcune errate interpretazioni circa gli atti di Guido Guerra raccolti nei Caleffi del Comune di Siena, sostenendo che nel 1156 il castello era già «ben formato» da molto tempo; inoltre anticipa in questi stessi anni, nonostante il contenuto dei documenti presi in esame, l'indipendenza della popolazione sia da Guido Guerra (secondo l'autore aveva il possesso di molti fondi ma non il dominio feudale sul villaggio) sia da Siena e Firenze. Passaggi questi, che precludono ad una entusiatica rassegna sulle tradizioni civiche, eroiche ed intellettuali degli abitanti, proposte nelle sezioni «suo Governo», «sua Potenza», «carattere dei Bonizzesi». Narra comunque della scoperta e ripristino della Fonte delle Fate nel 1837, ne attribuisce la costruzione a Balugano da Crema, c'informa dell'esistenza di una galleria ad essa collegata e «scavata nel tufo che per più di trecento braccia s'inoltra sotto Poggio Bonizzo, e che più volte nell'interno si dirama. Alcuni tratti di muri fatti di pietre squadrate s'incontrano in vari punti di questa galleria; forse dove il tufo più minacciava di smottare»108. Indica inoltre «le vestigia di una vasta chiesa che aveva tre porte d'ingresso in facciata assai ben lavorate e architettate, delle quali una sola e forse per pochi giorni sussiste». Si segnalano infine in appendice due lettere molto polemiche, indirizzate a Repetti colpevole "volontariamente" di avere commesso errori riguardo la trattazione di Poggibonsi e di omissioni mirate a screditare l'immagine della comunità. La «Storia di Poggibonsi» del canonico Pratelli, divisa in due volumi editati integralmente negli anni trenta del nostro secolo, è probabilmente lo studio più approfondito prodotto sino ad oggi. Narrata con tono piacevole, colma di riferimenti a documentazione archivistica studiata ed interpretata direttamente, ha in parte la stessa struttura del lavoro di Ciaspini (introduzione alle diverse località dei dintorni, lunga trattazione di Podium Bonzi e continuo tono declamatorio delle eroiche gesta dei bonizzesi e loro tradizioni civiche) ma uno spessore critico ed una dimensione di histoire événementielle decisamente matura che raggiunge il XIX secolo. Risulta utilissima la rassegna degli elementi topografici riguardanti il castello (anche se sono presenti alcuni errori di ipervalutazione: per esempio vede le fortificazioni estendersi sino al poggio di San Lucchese) con indicazioni tratte sia dalla tradizione erudita che dall'osservazione di emergenze monumentali al tempo ancora visibili; tra questi sottolineiamo: - San Donato, era la chiesa posta sulla via del poderino presso il "quercione" dove si conservò per lungo tempo un frammento architettonico in marmo recante iscrizione (poi

108 CIASPINI 1850. 16 trasportato alla porta di fortezza sulla via di San Lucchese e vi fu posta una croce; quest'ultima ancora presente; - Sant’Agostino, era chiesa pievana, posta a pochi metri dalla porta che guarda il Galloria; nel 1660 il clero poggibonsese usava ancora recarsi in processione presso i ruderi molto vistosi e comprendenti "stupende" arcate romaniche; tali resti furono definitivamente asportati nel 1860 per decisione del fattore Francesco Calastrini di Lecchi per edificare il nuovo fabbricato poderale delle Piaggiole presso Strozzavolpe («non si può, alla fine dei conti esigere che la storia sia il forte dei fattori»); - nei pressi della chiesa era una grandiosa cisterna che gradualmente i coloni di fortezza riempirono con la moltitudine di sassi presenti sui campi109. Il «Poggibonsi» di Antichi, pur contenente una trattazione molto veloce del medioevo, esamina però oggettivamente (ed astenendosi dai toni celebrativi che caratterizzano i due autori precedenti) la letteratura esistente, portando a sintesi le diverse informazioni; ne mostra i punti deboli e tende a fare chiarezza critica sulla realtà dei fatti. Per quanto riguarda le pagine dedicate a Poggio Bonizio possiamo osservare che Antichi non va oltre ad un agile riassunto del lavoro di Pratelli ma a lui si devono le prime divulgazioni parziali del «Fioretto delle historie del nobile castello di Poggiobonizio» attribuito a Jacopo Sassi di Staggia detto Sasso Cattaneo, datato alla prima metà del XIV secolo e già trascritto nel 1775 in «Relazioni di alcuni viaggi fatti nelle diverse parti della Toscana» curate da Targioni Tozzetti110. Rinaldi rappresenta l'ultimo esponente della tradizione storica poggibonsese e riassume palesemente le due diverse anime conviventi nei suoi predecessori: una visione quasi da leggenda agiografica di Podium Bonizi abbinata ad una seria analisi delle fonti scritte. Assiduo frequentatore di archivi, attento nella regestazione e nella trascrizione dei documenti, ha pubblicato due interessanti volumi nei quali tale compenetrazione è ben riassunta nei titoli proposti: «Il nobile castello di Poggio Bonizio», «Il nobile castello di Poggio Bonizio. Vol.II. Ricerche di vita in una città scomparsa». Rinaldi redige un'attenta analisi della struttura topografica del castello e ricerca sul territorio i resti delle diverse fontane che servivano il borgo; individua sulla documentazione archivistica le varie citazioni di edifici, viabilità, chiese, porte e ricompone un interessante quadro delle strutture materiali di Podium Bonizi al quale compara, e trascrive anche integralmente, il «Fioretto» di Sasso Cattaneo, facendo notare per primo le significative corrispondenze. Tenta anche di ricostruire per sommi capi un quadro della vita nel castello durante il XIII secolo e sposta poi la sua attenzione sulla Poggibonsi del XIV secolo prendendo in esame un estimo del 1318 rinvenuto nella Biblioteca Guarnacci di Volterra. La produzione di questo autore è senza dubbio da porre sullo stesso piano delle ricerche di Pratelli, ma assume decisamente maggiore rilievo proprio per il tentativo di chiarire per primo, e sinora l’unico, gli aspetti del quotidiano111. Il centro di Poggibonsi, già Borgo Maarturi, non è stato invece al centro di molti studi sino ad anni recenti, poichè l'attenzione dei ricercatori si coagulava soprattutto intorno alle vicende del monastero di San Michele a Marturi ed, in piccola parte, su quelle relative al villaggio fortificato di Poggio Bonizio. Se trova citazione in sintesi e trattazioni dedicate alla Francigena e se viene spesso confuso con lo stesso Poggio Bonizio, solo pochi interventi hanno affrontato la sua storia più approfonditamente. Poggibonsi origina da Borgo Marturi e si lega strettamente a Poggio Bonizio, sia dopo la fondazione di questo nel 1155 sia dopo la sua distruzione del 1270, ma non possiamo accomunarli sotto un unico toponimo come invece è stato fatto spesso. Dalla metà dell'XI secolo, infatti, sugli spazi immediatamente adiacenti al castello e monastero di Marturi ed

109 PRATELLI 1929-1938. 110 ANTICHI 1965. 111 RINALDI 1980; RINALDI 1986. 17 in quelli pianeggianti verso il torrente Staggia, vediamo attestate numerose abitazioni sparse, appezzamenti di terreno dotati di casa e un agglomerato aperto noto con il toponimo di Borgo Marturi. A questo periodo ed alle vicende svoltesi, si sono interessati soprattutto gli storici locali, attenti per la maggior parte a nobilitare le origini della loro patria ed al rapporto villaggio-monastero. Ciaspini, Pratelli, Antichi, in tempi diversi e riprendendo un'antica tradizione già raccolta da Villani, da Malespini, da Machiavelli, nonchè dal compilatore del «Fioretto delle historie del nobile castello di Poggiobonizio», hanno indicato la fondazione di Borgo Marturi nel 62 a.C. ad opera dei soldati di Catilina scampati alla sconfitta di Piteccio. Riporta per esempio Antichi citando il Fioretto: «Fu chiamato il detto luogo la prima abitazione il Borgo di Marte; perchè quando in quel luogo dimorarono (...) convenne loro posarsi in quel luogo per curarsi e guarire le loro ferite. Soggiornonno in detto luogo e dimororno per alquanto tempo; et per essere buono sito e luogo vi fecero habitazione e stanze per habitare (...) esercitandosi anche a lavorare mercantie. Divenne in breve tempo richo luogo et chiamaronnolo Borgo di Marte perchè era appresso ad un fiumicello che si chiamava Marti e questo nome seppono da un uomo che era della terra di Monte Lonti, quivi vicino, (...) fu fatto dai sopraddetti romani un tempio dello Iddio Marte e quello adoravano»112. Anche Pratelli non si distacca molto da tale linea, cercando però di spiegare meglio l'ipotetico sviluppo del villaggio dopo la sua fase romana e andando ad analizzarne la realtà di XIII e XIV secolo, soprattutto in relazione alla pieve di Santa Maria; propone poi una rassegna di tipo quasi araldico sulle «illustri casate di Borgo Marturi» che «ebbero gran parte nell'edificazione e nel governo di Poggiobonizio»113. Rinaldi invece, precisa le origini di Borgo Marturi e le sue successive vicende attenendosi alla documentazione d'archivio da lui raccolta e studiata; è il primo degli storici locali che affronta tale argomento in una prospettiva di seria verifica delle informazioni disponibili, sgombrando il campo da false argomentazioni. Le indagini storiche che hanno coinvolto la realtà insediativa ed economica di Poggibonsi dopo il 1270, cioè post distruzione di Poggio Bonizio, non concernono per la maggiore parte la sola comunità; s'inseriscono invece all'interno di un'ampia trattatistica storica dedicata a popolamento ed economia basso medievale nelle zone di dominio fiorentino e senese. Plesner, interessandosi del contado fiorentino, illustra la pianta topografia dell'odierno Poggibonsi come esempio e modello dei cosiddetti «insediamenti di transito»114. Muzzi, affrontando le vicende del popolamento valdelsano tra XIV-XV secolo, presenta sotto forma di tabulato l'evoluzione dei fuochi nel comune di Poggibonsi tra gli anni 1350-1427115. Pinto precisa che nel 1411 gli ufficiali fiorentini di stanza a Poggibonsi, accoglievano il grano esportato dal territorio senese116. De La Ronciere, nella sua poderosa opera su Firenze come centro economico regionale, mette in evidenza l'importanza che Poggibonsi continuava a detenere nel XIV secolo come insediamento al centro di un nodo viario interregionale e come centro commerciale; esamina inoltre la popolazione presente e le caratteristiche delle attività imprenditoriali117. Centrati specificatamente su Poggibonsi sono invece alcuni interventi di breve respiro ma estremamente puntuali. Balestracci affronta gli aspetti inerenti il salariato nel contado della seconda metà del XIV secolo, attraverso una micro-analisi sull'ospedale di Santa Maria a Poggibonsi per gli anni

112 ANTICHI 1965, p.2. 113 PRATELLI 1929-1938, pp.14-17, 37-45. 114 PLESNER 1979, p.65. 115 MUZZI 1984. 116 PINTO 1982, pp.140-141. 117 DE LA RONCIERE 1976, soprattutto pp.643-696, 837-856, 951-958, 965-988, 1121-1126, 1170-1173, 1187-1188, 1268. 18 1373-1374118. Zdekauer analizza gli statuti comunali del 1332119 ed in seguito, il riesame del documento, viene nuovamente effettuato in ambito storico-localistico da Morandi 120. Anche Pucci si dedica allo statuto del 1332121, lo pubblica, completandolo però con un'analisi economico-sociale di De la Roncière; quest'ultima si articolata sull'illustrazione particolareggiata della vita economica di Poggibonsi, con una disamina sulle professionalità presenti nel villaggio e sull'emigrazione verso Firenze; dimostra inoltre che la comunità conservava i due tratti caratterizzanti di un'economia urbana (l'artigianato e il commercio), descrive il decadimento tra gli anni 1365-1370122. Ravenni, infine, nella sua analisi sul distretto territoriale poggibonsese nel basso medioevo, redige una scheda abbastanza approfondita sul capolugo123.

3 - Il complesso monumentale. a. La fortezza medicea - Il complesso fortificato rinascimentale di Poggio Imperiale è un interessante esempio legato al cosiddetto "periodo di transito" dell'arte militare, caratterizzato dalla nascita e dallo sviluppo funzionale del fronte bastionato. La sostituzione degli strumenti bellici da lancio medievali (catapulte, mangani, baliste) con l’artiglieria (bombarde, colubrine, mortai) sovvertì infatti, nell’arco di pochi decenni, le usuali tecniche difensive. Questo periodo si caratterizza in Toscana per la sperimentazione e la messa a punto di “prototipi”, quali ad esempio la ristrutturazione delle mura di Colle Val d’Elsa (1487), la costruzione del circuito murario di Firenzuola (1488) e l’edificazione della fortezza di Poggio Imperiale (1489-1510) che ben si inserisce in questo nuovo sistema di pensare e di fare l’architettura fortificata. La fortezza si compone di una cinta muraria perimetrante la collina con eccezione del lato nord ed una fortezza pentagono, cioè il cassero, posta nella zona orientale. Le mura, conservate solo nella zona della scarpa, delimitate da un cordolo in pietra, molto alte e di profilo fortemente inclinato, sono costruite con il sistema a sacco; delle fodere di mattoni contenenti conglomerati di calcina, pietre ed altri laterizi di risulta, sono ben riconoscibili nelle parti sbrecciate della fabbrica e in coincidenza dell'ammorsatura della cinta con il cassero. Comprendono alcuni pseudobastioni, nei quali si aprono troniere, in parte collegate tramite un sistema di gallerie, con feritoie dette "bocche di volata" a forma di chiave rovesciata. Le pareti a piombo ed il coronamento non hanno lasciato traccia in alcun tratto. Sul circuito si aprono quattro porte realizzate con la stessa tecnica; sono in pietra, con conci squadrati, caratterizzate da duplice accesso, quello esterno con alloggio dei bolzoni per il sollevamento di un ponte levatoio, collegati tramite una camera di passaggio. Il cantiere fu impostato non prima della fine del gennaio 1489, iniziando la costruzione dalle mura urbiche per poter sviluppare, al loro interno, un abitato. Nei primi mesi di dell’anno i lavori procedevano regolarmente ed è attestato il reimpiego di materiale proveniente dai resti degli edifici e delle mura castellane di Podium Bonzi. Con la morte improvvisa di Lorenzo il Magnifico, nell'aprile 1492, si iniziava un periodo di inattività e di progressivo abbandono; nel 1496, anche per l'incuria delle opere, numerose erano le persone che continuavano ad impadronirsi dei materiali incustoditi. Una ripresa del cantiere si ebbe soltanto nel 1498 con la sostituzione del personale preposto all'amministrazione dell'opera ma, dalla scarsa documentazione e dalla lentezza degli

118 BALESTRACCI 1977. 119 ZDEKAUER 1894. 120 MORANDI 1960. 121 PUCCI 1995. 122 DE LA RONCIERE 1995. 123 RAVENNI 1995, pp.116-125. 19 interventi eseguiti, si desume che i lavori fossero limitati a pochi interventi necessari ed improrogabili. Dopo un’ulteriore interruzione, la rinnovata necessità di difendersi da minacce esterne impose un nuovo impulso alle attività di cantiere. E' questo il periodo in cui si pone mano alla costruzione del cassero, lavorandovi dal 1505 al 1510, quando i registri furono riconsegnati ai "Magnifici ed eccelsi priori di libertà et gonfaloniere di giustizia del popolo fiorentino". L'incompletezza delle mura urbiche attesta il ridimensionamento dell'ambizioso progetto di Lorenzo il Magnifico, tanto più che il tratto mancante coincideva con il lato più scosceso e meglio difendibile del pendio; più probabilmente non si procedette al recupero della cinta castellana di Poggio Bonizio, che, come lo scavo ha mostrato, era ancora presente su questa parte della collina. Benchè alla fine del 1510 il corpo di fabbrica del cassero fosse ormai ultimato mancavano però numerosi lavori per rendere operativo il fortilizio; si procedeva ancora allo scavo ed alla definizione di cannoniere e casamatte, alla messa in opera degli scarichi dei fumi di volata ed agli alloggi delle artiglierie. Nel 1511 non erano stati edificati gli acquartieramenti per le milizie, nè consegnati gli armamenti difensivi. Neanche un sopralluogo eseguito da Niccolò Machiavelli riuscì ad accelerare le attività e nel 1513, all'indomani del restaurato dominio mediceo, la fortezza risultava sempre priva degli alloggiamenti. L'impresa urbanistica di Poggio Imperiale, giudicata ormai troppo costosa per le limitate possibilità dello stato fiorentino, veniva definitivamente abbandonata nel luglio di quell'anno. Alcuni lavori di ammodernamento sono ancora attestati intorno alla metà del secolo, così come degli interventi di restauro sono documentati negli anni 1634 e 1659. Degli interventi operati successivamente alla cessione a privati del complesso, il più influente fu senza dubbio la costruzione dell'edificio interno al cassero; questo, ancora assente nel rilievo del Belluzzi, eseguito intorno agli anni 1546-47, sembra già in opera nella planimetria riferibile alla prima metà del secolo XVIII. b. La porta San Francesco - Le quattro porte della fortezza, dette del Giglio, della Fonte, di San Francesco, di Calcinaia, rispondono tutte ad una medesima tipologia che accosta, in un efficace bicromatismo, l'impiego del travertino locale a quello del laterizio delle mura di cinta; sono realizzate con la stessa tecnica costruttiva e costituite da due archi a tutto sesto in pietra, uno esterno ed uno interno, collegati da una rampa in mattoni voltata a botte. La porta di San Francesco, la principale, è quella in miglior stato di conservazione. L'arco più esterno è sormontato da due profonde scanalature per l'alloggiamento dei bolzoni relativi al sollevamento del ponte levatoio. La volta in mattoni copre interamente le strutture della porta e risulta forata da due piombatoi a scivolo. All'interno dell'arco, sulle pareti di destra e di sinistra dello strombo, sono individuabili alcune tracce relative al sistema di chiusura: una porta a doppio battente, che doveva aprirsi verso l'interno ed il cui trave di fermo scorreva da sinistra verso destra. Al di sopra dell'arco più interno, anch'esso in travertino, che immette con ampio strombo all'interno della zona fortificata, furono sistemati due grandi stemmi, gli emblemi del popolo e del comune di Firenze: la croce ed il giglio. Anche qui doveva essere presente una porta analoga a quella relativa all'arco più esterno. Immediatamente sopra l'arco, impostata su di un massiccio architrave in pietra e che presenta un piccolo foro di forma regolare, era visibile una immagine sacra o uno stemma, asportata successivamente. Nel lungo periodo in cui la fortificazione, non era più in uso, la porta subì infatti una serie di spoliazioni ed in epoca moderna, nei camminamenti all’interno delle mura e nei bastioni, si ricavarono delle cantine124.

124 Sulla porta San Francesco si vedano BARDI, PALLECCHI 1996. 20 c. La torre San Francesco - La torre di San Francesco, posta all'interno delle mura di cinta della fortezza medicea ed arretrata di pochi metri rispetto alla porta omonima, ha pianta quadrangolare ed è costruita su tre lati. Presenta un paramento esterno in conci di travertino ben squadrati, disposti su corsi orizzontali paralleli. La maggior parte dei conci fu rifinita con la creazione di una superficie spianata tramite ascettino, alcune pietre mostrano una lavorazione del nastrino, mentre il resto della superficie venne lasciato allo stato di bugnato grezzo. La torre si presenta come un evento costruttivo omogeneo, inquadrabile quindi in un'unica fase. I rapporti stratigrafici, la tipologia costruttiva, il tipo dei materiali impiegati e la loro finitura ed i confronti con edifici valdelsani ben datati, collocano la sua costruzione nella seconda metà del XIII secolo. In particolare un deciso parallelismo con strutture simili è osservabile sia sulla cinta muraria di San Gimignano che su quella famosissima di Monteriggioni: dei recinti edificati intorno alla metà del XIII secolo. Benchè già in pieno XIV secolo, nella fortificazione della vicina Staggia, si continuasse ancora a mettere in opera torri quadrangolari, alternate ai tratti rettilinei di cortina, la loro associazione con strutture poligonali utilizzate anche nella coeva Rocca di Montestaffoli (a San Gimignano) e le numerose differenze costruttive, fanno sì che l'esempio più prossimo alla torre di Poggibonsi sia ancora costituito dagli apparati difensivi di Monteriggioni. La torre è quindi riconducibile alle mura di Poggio Bonizio; quasi sicuramente ancora visibile nella seconda metà del XV secolo, entrò a far parte del progetto di Giuliano da Sangallo: venne inserita nella fortificazione addossandole le strutture della porta e della stessa cinta muraria, fungendo così come bastione125. d. Il cassero della fortezza - Il cassero, edificato in mattoni, è posto su una sommità rocciosa e protesa a valle come un bastione naturale; ha pianta rettangolare, con bastioni agli angoli e in corrispondenza del lato breve est, si protende una punta bastionata: costituisce quindi un pentagono. La sua costruzione, avvenuta tra gli anni 1505 e 1510, prese avvio con l’edificazione della cortina, della porta d’ingresso e i due bastioni laterali, continuando poi con la realizzazione della cortina posta a nord-est verso San Lucchese, il “mastio” formato da due “baluardetti” con al centro il bastione di punta (detto “puntone”) e la lunga cortina verso Poggibonsi. Dalla parte opposta è situata l’unica porta d’ingresso; dotata un tempo di ponte levatoio, immette dentro un lungo corridoio voltato a botte e, al termine del percorso in salita, da accesso ad una grande sala di pianta circolare riconoscibile come la sala d’armi. Questa ha una copertura a volta a vela, con sesto ribassato, realizzata con la cosiddetta “apparecchiatura alla fiorentina”, cioè spirali di mattoni a spina pesce, tipica dell’architettura dei da Sangallo; era dotata di un ampio camino. Da lì si accedeva, in origine attraverso un'arcata laterale, in una vasta area a cielo aperto, la piazza d’armi, interna alla cittadella; la costruzione dell'edificio più tardo ridisegnò in gran parte la planimetria di questo livello. Anche questo fabbricato, benchè nella realizzazione delle sue grandi masse risulti abbastanza omogenea, presenta una serie di rimaneggiamenti localizzabili, oltre che nella chiusura dell'ampia loggia a due arcate di diverse dimensioni, nella realizzazione di nuove aperture. Sono invece da considerarsi previste già nella fase di impianto le vaste zone in laterizio che, oltre a definire numerose canne fumarie, costituiscono anche la regolarizzazione delle superfici in prossimità dei vani funzionali, indispensabile su murature messe in opera con il concorso di materiale eterogeneo e spesso privo di qualsiasi lavorazione. L'altezza delle sue cortine murarie non ha un identico sviluppo su tutti i lati; è infatti limitata alla scarpa sulla punta estrema, dotata di pareti a piombo, al di sopra della cornice che delimita la porzione inclinata, sui lati lunghi, e dotata di una ulteriore sopraelevazione

125 Sulla torre San Francesco si vedano BARDI, PALLECCHI 1996; MENNUCCI 1996. 21 verticale e di un "attico" sul tratto ove si apre la porta di accesso. Questa apertura, nonostante le minori dimensioni, presenta affinità con quelle delle mura urbiche, definita in pietra, con un arco a tutto sesto, in una interruzione quadrangolare della scarpa. Dalla porta, tramite una lunga rampa voltata a botte, si giungeva, prima di accedere alla piazza d'armi, ad un ampio locale di forma quadrangolare oggi situato al piano terreno dello stretto fabbricato disposto trasversalmente alla fortezza. Alla fine dell’estate del 1508 la parte nord-ovest della cittadella, corrispondente alla porta d’ingresso e ai due pseudobastioni laterali, era già terminata. Le due “torri”, come venivano chiamati i bastioni, erano dotate di una copertura con tetto in laterizi a più falde che, impostato sulle murature merlate circostanti, era sorretto da una struttura portante lignea. Internamente i bastioni sono organizzati su tre livelli di casematte, uno corrispondente alla parete verticale e due alle scarpe. Entrambi sono dotati dello stesso numero di cannoniere ma presentano differenti soluzioni di collegamento tra i vari ambienti, sia in orizzontale che in verticale, nonché diverse tipologie di tiraggio per la fuoriuscita dei fumi da sparo. Ognuno infatti sembra assolvere a funzioni diverse. Il bastione di nord-ovest è caratterizzato da un corridoio di ingresso con camere interne, accessi di comunicazione in orizzontale e verticale e una grande “cupola” centrale, con funzioni di camera di contromina, la cui realizzazione richiese una complessa distribuzione interna dei collegamenti orizzontali e verticali tra le varie camere di volata. Gli accessi ai vari ambienti sono spesso labirintici ed il collegamento tra i diversi piani è garantito da due strette scalinate, situate ai lati della camera emisferica. Nel bastione orientato ad ovest, dotato anch’esso di una fucina ubicata nel livello superiore, si trova il pozzo dell’acqua potabile, ricavato nel livello più basso della scarpa, al termine di un cunicolo scavato nella roccia le cui pareti laterali sono dotate di una canaletta per la raccolta dell’acqua di stillicidio. Caratteristica di questo bastione sono gli ampi camini di tiraggio che servono le cannoniere situate nei livelli più bassi della scarpa e attraversano le murature perimetrali del bastione, anziché passare dagli ambienti soprastanti126. M.V. e. La Fonte del borgo di Vallepiatta (detta “delle Fate”) – I documenti relativi all'assetto del castello indicano la presenza perlomeno di cinque fonti oltre naturalmente a quella delle Fate, ossia la fonte di Boccabarili, dei Lunati sopra Campostaggia, dei Buonamenti nel Vallone, dei Bacinelli, e un'altra fonte senza nome rinvenuta vicino alla Fortezza127. L'attuale cartografia I.G.M. 1:25.000 attesta ancora, oltre al Rio Marturi, oggi canalizzato ed interrato, solo tre fonti in parte coincidenti con quelle dedotte dalle notizie scritte ossia la fonte presente ad est del "Poderino" forse identificabile con Buonamenti, quella delle Fate e la fonte di Boccabarili posta alle pendici di Poggio Marturi 128. Di tutte queste strutture l'unica sfuggita alle progressive distruzioni e che si riesce ad osservare nell'originaria magnificenza è proprio quella delle Fate. Alcuni resti della fonte di Boccabarili, vasca e muro di sostegno, sono stati infatti quasi completamente cancellati a seguito di moderne sistemazioni stradali. Notizie sulle fonti di Poggio Bonizio sono riportate anche nella trascrizione anonima tardocinquecentesca delle Historie di sasso chatanio da staggia fatte dette storie per Ser Jacopo de sassi da Staggia129; la cronaca parla di«bellissime fontane fatte di pietre concie

126 Si veda per tutti MASI 1992. 127 RINALDI 1980, p.58. 128 SALVINI 1982, pp.67-68. 129 Biblioteca Nazionale di Firenze, Magliabechiana, VII, 356, c.425 r. Cronica inserita in una raccolta di manoscritti del XVII secolo. 22 come per maestro Balugano»130 ed ancora «e quelli della casa de buonamenti portavano per insegna uno scudo doro dentro tre teste daquila nera e facano fare una fonte a pie del borgo e per il nome della casa la chiamorno la fonte buonamenti»131. I documenti attestano la presenza dell’odierna Fonte delle Fate all'interno di un borgo, denominato di Vallepiatta, costituitosi intorno al nucleo originario del castello, lungo le pendici del poggio, fin dalle prime fasi insediative. Se infatti in un atto del 1207 si parla già di vendita di case tra privati nel borgo di Vallepiatta132 è evidente che un consistente nucleo doveva già essersi formato nella seconda metà del XII secolo. La fonte venne quindi costruita in un impluvio, oggi meno marcato, corrispondente all'antico toponimo di Valle Piacta, colmato poi da terra di riporto con i lavori per la realizzazione degli spalti della fortezza medicea nel 1484. Fu riportata in luce a seguito di un grosso lavoro di escavazione per realizzare un vigneto solo nel 1803 da Clemente Casini: «Nel mese di maggio dell’anno corrente 1803 in un mio podere denominato La Sassa, presso la strada di San Lucchese, sul confine con S:°E:° il Sig: Senatore Venturi nobile fiorentino; vi esistono fino al tempo dell’antico Poggibonsi alto, le bellissime Fonti Pubbliche, denominate allora di Vallepiatta; oggi volgarmente dette Le Fate; abbondantissime d’acqua perenne, le quali per sua Maestosa Struttura, ed antichità, fino di qualche tempo indietro mi venne volontà di scavarne dai Fondamenti, per vederne senza Ostacolo alcuno l’intiera sua figura. Ma atteso il grandissimo rinterro, mi sembrò un’impresa assai forte, e costosa. Onde mi risolsi di scavarne soltanto un’Arcata conforme feci, che vedutane una serve per averle vedute tutte, giacchè lo spartito è tutto eguale. Questa bella fabbrica è tutta in Volta Reale, spartita in sei Arcate, lunga sopra le braccia trenta, e larga le Braccia dodici circa. Vi è il Chiusino di Sorgente, dove nasce, e viene l’acqua per stillicidio; vi sono di poi i suoi rifiuti, o smaltitoi, per quando la Vasca trabocca, per matenerla sempre in colmo. Fatto che ebbi questo scavo,ne rilevai esattamente la Pianta, facendone diverse sezioni, per vederne in tutti i punti minutamente l’esterno, e interno della medesima; riportandomi precisamente alle misure, e proporzioni nello stato in cui trovasi. Questo Disegno si conserva presso di me, per memoria sicura della struttura delle medesime; poiché vedo che col tempo nella situazione ove sono, anderanno a chiudersi, e interrarsi affatto, ed in conseguenza a perdersene la memoria; poiché uno di questi Archi esterni di già è interrato fino sopra l’impostatura, e non vi resta che poca luce più per terminarsi di chiudere»133. La fonte di Vallepiatta, interamente costruita utilizzando il travertino, ha la facciata caratterizzata da un portico costituito da sei arcate doppie a sesto acuto. Le arcate sono sostenute da pilastri di grande spessore (2 m) all'interno dei quali vennero ricavate delle arcatelle sempre a sesto acuto probabilmente per facilitare la circolazione delle acque e al tempo stesso diminuire lo spessore dei parapetti della vasca presenti tra un pilastro e l'altro. Le arcate sono legate alla muratura portante, così come i parapetti ai pilastri. Dall'osservazione dell'andamento dei filari e dello spessore dei conci è però possibile risalire alle differenti fasi di cantiere. La microlettura stratigrafica evidenzia infatti come la facciata venne iniziata partendo dal lato a monte. In un unico momento furono edificate le prime tre arcate e parte della muratura portante compresa tra gli archi. In un secondo momento fu realizzata la quarta arcata, con l'intradossi leggermente più alto e la muratura compresa tra quest'ultima e la precedente. Dopodiché sempre con una medesima altezza di intradosso fu costruita la quinta arcata e il tratto di muro compreso tra quest'ultimo e la

130 Biblioteca Nazionale di Firenze, Magliabechiana, VII, 356, c.441 v. 131 Biblioteca Nazionale di Firenze, Magliabechiana, VII, 356, c.442 r. 132 RINALDI 1980, p.51; per altri successivi atti di vendita sempre di abitazioni poste in questo quartiere RINALDI 1980 p.34. 133 CASINI 1986, pp.40-41. 23 quarta apertura. Infine venne realizzato l'ultimo arco, con un'ulteriore maggiore altezza di intradosso e la muratura compresa fra queste ultime due arcate. Il motivo per cui l'ultimo arco a valle si presenta con un'altezza maggiore rispetto agli altri non è di immediata intuizione. Si può pertanto ipotizzare che in tal modo i costruttori volessero enfatizzare architettonicamente questo elemento in relazione anche alla presenza della prospiciente vasca, contemporanea alla facciata, dal momento che le due murature si legano, e per la quale era stato previsto un foro per l'afflusso delle acque in sovrappiù proprio all'interno del parapetto di questa arcata. Il dislivello naturale del terreno su cui venne costruita la fonte e la risoluzione statica di alzare la quota di alcuni elementi architettonici per creare un unico livello, potrebbe poi essere una secondo motivo da cui dipesero le scelte dei costruttori. A quest'ultima ipotesi del resto si accorderebbe meglio la strana posa in opera che si riscontra nella muratura immediatamente sopra le arcate. Una volta terminate le aperture, in una successiva fase del cantiere, si cominciò infatti a costruire la parte alta della facciata. Come nella fase precedente il lavoro iniziò dal lato a monte con la realizzazione di un primo filare. Al di sopra dell'estradosso del quarto arco, dopo una pausa di cantiere questo fu continuato cominciando una sdoppiatura con piccoli conci in pietra che gradatamente andò sempre più accentuandosi mano a mano che procedeva verso il lato a valle, in modo così da riuscire a mantenere parallelo il piano di appoggio dei filari superiori. Creato quindi il piano di muratura ad un medesimo livello si procedette con la costruzione della parte alta della facciata, oggi quasi totalmente crollata. All'interno del portico si trova la grande vasca di raccolta delle acque che arrivavano in questo bacino per stillicidio o lento deflusso dalla soprastante collina di Podium Bonizi. Le strutture murarie ancora visibili da ricollegare a questo sistema di approvigionamento sono il piccolo foro collocato nell'angolo formato dalla parete interna nord e quella di ovest e l'apertura con archetto a sesto acuto e stipiti in pietra situata in prossimità di quest'ultimo angolo nella parete nord interna. È proprio tale caratteristica che ci porta a confrontare la fonte di Valle piatta con le principali fonti senesi, come quella Nuova di Ovile o Pescaia, dove una simile apertura costituiva lo sbocco delle acque incanalate e trasportate dai bottini della città. La presenza del resto di strutture sicuramente identificabili come bottini è attestata anche dalle testimonianze dirette o indirette di Francesco Pratelli. Quest'ultimo parla infatti di gallerie sotterranee scavate nel tufo, che dal cassero si dirigevano alle pendici del poggio ed inoltre fa chiaro riferimento, parlando della Fonte delle Fate, ad una "galleria o grotta" che si inoltrava nelle viscere di Podium Bonizi per più di trecento braccia134. Le caratteristiche tecniche della muratura così come la cura degli elementi decorativi e le soluzioni architettoniche rimandano a maestri lapicidi dotati di un’eccellente preparazione, forse provenienti dalla pianura padana così come sembrerebbe l'origine di quel Balugano da Crema, al quale viene attribuita tradizionalmente la costruzione. La loro presenza sicuramente non costituiva un fatto anomalo in questo territorio: all’operato di maestri lombardo-emiliani si devono infatti molti edifici del fondo valle valdelsano tra il XII e XIII secolo. E' possibile che esistesse una struttura precedente alla fonte delle Fate sulla cui forma e struttura risulta difficile formulare delle ipotesi. A tale proposito risultano di grande interesse alcuni tratti di muratura che in base alla lettura stratigrafica risulterebbero precedenti al resto delle strutture della fonte. Sulla parete nord interna è infatti visibile un lacerto di muratura in pietra di limitate dimensioni, situato nell'angolo tra quest'ultima parete e quella di ovest. La stratigrafia indica un rapporto di anteriorità rispetto alle altre strutture della fonte. A questa originaria struttura muraria, successivamente distrutta, si appoggia infatti sia la muratura portante nord che quella ovest. Poco più in alto, sempre in vicinanza dell'angolo si riconoscono due pietre di un arco obliterato. Nell'angolo opposto di

134 PRATELLI 1929-1938, pp.56-57. 24 nord est è inoltre individuabile un lacerto di muro alla stessa quota dell'altro, sporgente rispetto alla muratura portante che gli si appoggia ed è quindi a questo cronologicamente successiva. Malgrado le incrostazioni calcaree rendano assai difficoltosa la lettura, sembrerebbe che a quest'ultima preesistenza sia legata e quindi contemporanea la parte inferiore della muratura relativa alla parete est interna alla fonte, a seguito di un taglio successivamente ricostruita in contemporanea ai definitivi lavori di sistemazione della fonte135. G.B.

135 Sulla Fonte di Vallepiatta si veda soprattutto BIANCHI 1996; inoltre STOPANI et alii 1990. 25 II - PALEOMORFOLOGIA DELLA COLLINA 1 - Il pianoro. Il pianoro ha una morfologia lievemente ondulata, con due larghe sommità dalle quali si sviluppano a raggiera i solchi di percorso delle acque. Nei campi del poggio si possono osservare le caratteristiche dei terreni superficiali, che solitamente rispecchiano la natura dei sottostanti strati geologici e l’intensità dei processi erosivi avvenuti nei secoli sotto l’effetto delle piogge battenti. Suoli originari della sommità si erano conservati in alcune aree dello scavo archeologico. Sul pianoro al di fuori dello scavo, lo stesso tipo di terreno si riconosce dal colore rossastro o arancione e dal carattere compatto delle zolle. I terreni maggiormente erosi, oltre ad essere leggermente più pendenti, si presentano qui solitamente giallastri e sciolti. Alcuni suoli del pianoro riflettono fortemente il carattere della sottostante roccia geologica. Le zone a maggiore accumulo naturale si riconoscono dal colore scuro della terra e dalla forma concava della superficie. Sono queste le aree dove si conservano meglio i reperti archeologici. Un fenomeno particolare del pianoro della Fortezza è il piccolo stagno d’acqua vicino alla chiesa, che non si asciuga nemmeno d’estate, motivo per cui la sua origine non è riconducibile alla semplice raccolta delle acque piovane.

2 - I versanti. Le formazioni geologiche si osservano meglio lungo i versanti dei rilievi. Il corpo della collina di Poggio Imperiale è costituito interamente da sabbie cementate, comunemente detto “tufo”. Si tratta dei prodotti di una fase di sedimentazione avvenuta nel mare pliocenico. Lungo le scarpate del paesaggio sono esposte localmente, all’interno di questa roccia, croste calcaree cementate. Al di fuori della collina, la sabbia poggia talvolta su argille plioceniche. Sopra il tufo si trova il cosiddetto “conglomerato di Poggibonsi”, di origine fluviale. Si tratta di sabbie e ghiaie del Quaternario, localmente cementate. La presenza o meno del conglomerato determina la ripidità dei versanti ed il conseguente rischio di frane. In cima al colle della Fortezza si trova il travertino “antico”, il relitto di un ambiente lacustre- paludoso qui esistente alla fine del Pleistocene. La formazione è composta da travertino variabilmente consistente, da sabbia calcarea e da argilla. Il travertino antico, come anche tutte le formazioni precedenti, ha subito un notevole sollevamento, come dimostra l’attuale dislivello con la valle dello Staggia.

3 - Rilievi e fiumi. I singoli rilievi che compongono il paesaggio sono il risultato dell’azione erosiva delle acque di scorrimento superficiale, dal più piccolo ruscello ai fiumi stessi, sulle rocce esposte. Il reticolo idrografico intorno a Poggibonsi è composto dal fiume Elsa e dal torrente Staggia, che confluiscono a poca distanza a valle della città. Le vallate dei due fiumi sono parzialmente riempite dal travertino “recente”, una formazione olocenica di origine termale, sulla quale si appoggia il Castello di Staggia. La città moderna di Poggibonsi è stata fondata su un terrazzo fluviale. Nell’arco dell’Olocene, sia i travertini che quest’ultimo terrazzo sono stati reincisi dai corsi d’acqua. Dalla terrazza dove vi trovate ora, si può osservare, verso nord, la profonda incisione valliva creata dallo Staggia, un evento avvenuto nell’intervallo di tempo tra la deposizione dei travertini antichi (sopra il colle) e dei travertini recenti (nelle vallate).

26 Oltre il fiume, verso nord, si può osservare il paesaggio delle colline plioceniche, qui dolcemente ondulato proprio perché manca la dura cappa di conglomerato. Ancora più lontano, a circa 5 km di distanza, si vedono i rilievi più aspri delle rocce pre-plioceniche.

4 . Paleogeografia dal miocene al quaternario. Durante il periodo geologico del Miocene, movimenti tettonici provocarono nella Toscana meridionale la frammentazione della crosta terrestre lungo una rete di faglie. I blocchi sprofondati divennero dei bacini lacustri o marini, mentre le zone sollevate costituirono delle dorsali che separavano le varie fosse di sedimentazione. Ancora oggi, queste vicende tettoniche determinano lo schema della variabilità litologica e morfologica dei rilievi. I blocchi sprofondati costituiscono oggi i paesaggi collinari delle formazioni plioceniche, ed i blocchi sollevati i rilievi aspri delle rocce più antiche. Così, il tratto della superstrada Siena-Firenze, anche se segue tendenzialmente i bassi strutturali (Siena, Poggibonsi, San Casciano, Firenze), passa anche per tre alti (Monteriggioni, San Donato e Impruneta). Successivamente al Miocene si verificò una serie di ingressioni e regressioni marine, in relazione ai movimenti tettonici generalizzati. Una trasgressione molto estesa si verificò nel Pliocene inferiore, seguita da un generale sollevamento e poi da una nuova trasgressione nel Pliocene medio. Con la fine del Pliocene si verificò un generale ritiro del mare. Il mare è rientrato limitatamente nel Pleistocene inferiore.

5. Il percorso geologico del colle Varie rocce affiorano lungo il percorso geologico della Fortezza. 1. Il “tufo”, la formazione che costituisce il corpo della collina. Si tratta di una sabbia pliocenica indurita (1). La formazione è permeabile, quindi difficilmente può essere la sede dell’acquifero da cui ha origine la Fonte delle Fate. 2. Qui si osserva il contatto ondulato tra il tufo ed il sovrastante conglomerato (2). 3. Affioramento di strati travertinosi poco consistenti sotto il Cassero (3) 4. Il “conglomerato di Poggibonsi”, un deposito pleistocenico di origine fluviale. Qui è visibile, in un ambiente chiuso,l’alternanza tra sabbie e strati con piccole ghiaie (4). 5. Il travertino su cui poggia il Cassero della Fortezza Medicea (5). Si tratta di una formazione tardo-pleistocenica di evidente origine lacustre-paludosa, come si può notare dai resti vegetali conservati (5.1). Localmente sono presenti cristalli di calcite, formati con la circolazione dell’acqua all’interno della roccia (5.2). 6. In questo affioramento il conglomerato è ben cementato e composto da grosse ghiaie (6). Si tratta forse di un masso crollato dalla formazione geologica. A.A.

27 III – GLI ASPETTI VEGETAZIONALI DELLA COLLINA 1 - La vegetazione attuale. La vegetazione che oggi copre i versanti di Poggio Imperiale è costituita da un boschetto rado che risale dalla Fonte delle Fate verso la fortezza e da un secondo bosco più chiuso, con grandi alberi, che si estende sul versante retrostante la collina e guarda l’odierna Poggibonsi. In realtà i due boschi confluiscono in corrispondenza del piccolo pendio che corre lungo il sentiero che circonda il cassero, ma sono diversi come struttura e come varietà di specie. Il bosco che incontriamo salendo al cassero è composto da specie tipiche del paesaggio collinare toscano quali la quercia, l’olmo (Ulmus minor Miller), il leccio (Quercus ilex L.), il corniolo (Cornus mas L.), il bagolaro (Celtis australis L.), il ligustro (Ligustrum vulgare L.), l’alloro (Laurus nobilis L.) e l’edera (Hedera helix L.) e da specie importate ma ormai facenti parte del nostro paesaggio, come l’acacia (Robinia pseudoacacia L.). E’ un bosco molto rado, rispetto all’altro, e dispone di una minore porzione di territorio sul quale svilupparsi; essendo da sempre vicino alla via di accesso al sito, ha subito più interventi e rimaneggiamenti. Nelle porzioni di bosco più chiuso sono frequenti il pungitopo (Ruscus aculeatus L.) e la berretta del prete (Euonymus europaeus L.). Il secondo bosco scende lungo il ripido versante della collina che guarda Poggibonsi; si tratta di un bosco di caducifoglie termofile, tipico delle aree collinari toscane, composto principalmente da roverelle (Quercus pubescens Willd.), da ornielli (Fraxinus ornus L.) e da cerri (Quercus cerris L.). Gli alberi raggiungono i 10 metri di altezza e con le loro chiome creano una copertura continua che non consente un’importante sviluppo delle specie arbustive di sottobosco. Sul crinale lungo il sentiero si incontrano alberi piantati recentemente, come il bagolaro o alcuni esemplari di (Fraxinus excelsior L.).

2 - Le specie presenti oggi. a. Roverella (Quercus pubescens Willd) E’ una quercia, della famiglia delle Fagaceae; si tratta di un albero a foglie semipersistenti che caratterizza i boschi decidui della fascia collinare della nostra penisola (assieme al cerro, all’orniello, al carpino nero e agli aceri) e dell’Europa meridionale e sudorientale in genere. E’ diffusa anche nelle aree costiere (assieme al leccio) e nella fascia montana (assieme al faggio). Nell’Europa meridionale e sud-orientale la roverella costituisce uno dei componenti fondamentali dei querceti e dei boschi misti a latifoglie. Nel nord della Francia, in Germania e in Ungheria esistono aree relitte, a testimonianza della maggior diffusione che la roverella ebbe durante periodi interglaciali caldi e secchi. In seguito al peggioramento climatico, esse sono gradualmente regredite cedendo terreno al faggio. Attualmente la roverella occupa la fascia di transizione tra i boschi sempreverdi mediterranei e quelli di caducifoglie submontane. È un albero che cresce velocemente e può raggiungere anche 30 metri d’altezza; ha un’accentuata capacità di resistere alla siccità e ben si adatta quindi a colonizzare pendii aridi, suoli calcarei, argillosi e rocciosi. Il legno della roverella è duro e resistente, come quello della rovere, ma di difficile lavorazione e tende facilmente ad imbarcarsi; è invece un buon combustibile e viene utilizzato soprattutto come legname da ardere e carbone. Il riconoscimento delle numerose specie di querce caducifloglie è spesso difficoltoso anche perché si ibridano tra loro con facilità, dando origine ad alberi di difficile interpretazione.

28 La roverella presenta generalmente una densa pelosità biancastra nella pagina inferiore delle foglie ma l’esatta determinazione della specie può essere fatta utilizzando i caratteri della ghianda e, soprattutto, quelli della cupola (involucro che contiene la ghianda).

Cerro (Quercus cerris L.) Specie di quercia appartenente alla famiglia delle Fagaceae. Albero di grandi dimensioni, può raggiungere i 35 metri di altezza, e di notevole longevità; il cerro è caratterizzato da un fusto dritto e slanciato e da una chioma ovale di media compattezza. Il cerro è facilmente riconoscibile dalle altre querce sia attraverso il frutto (la ghianda ha dimensioni superiori a quelle delle altre querce, è protetta dalla cupola emisferica dotata di squame lunghe e leggermente arricciate), che per le foglie (di forma più allungata, profondamente lobate, con lobi terminanti a punta). Ha un areale più ristretto della roverella e si trova comunemente nelle aree collinari e submontane comprese tra i 500 e i 1200 metri di altitudine, nei boschi dominati da roverella e carpino nero e nelle faggete montane. Può formare boschi puri o misti con roverella, orniello, acero, carpino e faggio. Da tempi remoti molte cerrete sono state però sostituite dall’uomo con la coltivazione del castagno, che ha esigenze climatiche e edafiche (di suolo) simili a quelle del cerro. Soprattutto nell’Italia settentrionale, i boschi di cerro sono oggi molto frammentari, limitati ai terreni calcarei.Il cerro preferisce terreni profondi, fertili e umidi, di natura silicea; suoi terreni di elezione sono ad esempio quelli di origine vulcanica, ma si adatta anche a quelli argillosi e a suoli calcarei subalcalini ricchi di calcio. In simbiosi con il cerro si possono trovare i tartufi. Il cerro ha una crescita rapida ma il suo legname non è molto pregiato, è di difficile lavorazione e veniva utilizzato soprattutto per traverse ferroviarie, doghe di botte e per paleria.

Orniello (Fraxinus ornus L.) Albero caducifoglie della famiglia dell’olivo (Oleaceae) che non supera i 15 metri d’altezza, con chioma arrotondata ed espansa. Ha il tronco dritto con corteccia liscia e grigiastra. Le foglie dell’orniello sono opposte e composte da 5–9 foglioline. I fiori bianchi formano pannocchie dense, fortemente odorose; il frutto è una samare lanceolata che viene facilmente dispersa dal vento. E’ la specie di frassino più diffusa in Italia. Forma raramente boschi puri e di solito lo si trova nei boschi misti di latifoglie (carpini, roverella, cerri, leccio) e nelle boscaglie aperte termofile della fascia submediterranea; raggiunge i 1400 metri nell’Appennino meridionale, mentre sulle Alpi (dove è ugualmente diffuso) non supera i 600 metri. E’ una specie poco esigente per quanto riguarda il terreno, adattandosi anche a terreni aridi, calcarei o argillosi, capace di colonizzare terreni nudi e rocciosi. L’orniello è un albero ad elevata capacità pollonifera, cioè produce velocemente e facilmente nuovi ricacci (polloni) dopo essere stato ceduato. Il suo legno è elastico e resistente, ma è anche un buon combustibile. In Sicilia viene tuttora coltivato per la produzione della “manna”, una sostanza zuccherina che si ricava dalla linfa che fuoriesce dai tronchi incisi (solo degli esemplari dai sette ai dodici anni) e che si rapprende rapidamente all’aria sottoforma di una gomma giallastra. Viene utilizzata in medicina come blando lassativo e dall’industria dolciaria per farne uno sciroppo.

Acacia o robinia (Robinia pseudoacacia.L.)

29 Questa pianta giunse per la prima volta in Francia, dall’America settentrionale, nel 1601, portata del francese Jean Robin (dal quale ha poi preso il nome), erborista del re Enrico IV di Francia, come albero ornamentale. Fu introdotta in Italia agli inizi dell’800 e la sua coltivazione si è rapidamente diffusa fino a diventare spontanea in tutto il territorio. Visto che cresce rapidamente anche sui terreni difficili (grazie all’espansione del suo apparato radicale) è stata usata a lungo per consolidare le scarpate delle ferrovie, o per i rimboschimenti in pianura. La si può facilmente trovare lungo gli argini, nei boschi misti di querce e castagni. Tende a comportarsi come infestante, sostituendosi rapidamente alla vegetazione locale, impedendo la crescita degli altri alberi e formando boscaglie dense e spinose povere di sottobosco erbaceo e di funghi. A suo favore, va ricordata l’opera di miglioramento che può svolgere nei terreni poveri e degradati dove attecchisce, sia grazie all’azione di fissazione dell’azoto, sia concorrendo alla formazione di un buon terriccio con il deposito delle proprie foglie, che si decompongono rapidamente. È un albero della famiglia delle Leguminosae che raggiunge i 20-25 metri d’altezza e i suoi rami tortuosi formano una bella chioma; il tronco, dotato di spine robuste, si fessura irregolarmente formando delle scanalature. Il suo legno è duro, ottimo per la robustezza e la ricchezza di tannini che lo rendono resistente all’umidità; tuttavia in Italia è utilizzato soprattutto come combustibile o per farne pali e liste per pavimenti. Oggi la robinia si trova diffusa in tutta Italia fino ai 1000 metri d’altitudine. Il fiore, particolarmente bello con i suoi grappoli bianchi, lo si può ammirare da maggio a luglio e il miele prodotto dal suo nettare è particolarmente apprezzato. I suoi fiori si possono mangiare fritti in una pastella dolce, ma è bene farne un uso limitato, in quanto l’acacia è una pianta velenosa. G.D.P.

30 IV - I LUOGHI DEL TERRITORIO 1 - Abbazia di Marturi. Marturi, sede castrense e abbaziale, fu fondata, o più probabilmente rifondata, alla fine del X secolo per volere del marchese Ugo di Tuscia. Lo studio maggiormente esauriente si deve a Kurze, che sul finire degli anni 'sessanta ha fatto chiarezza sulla nascita dell'abbazia e sgombrato il campo da interpretazioni fuorvianti, derivate dal non riconoscimento di alcuni falsi documenti redatti dai monaci di Marturi alla fine dell'XI secolo; ha tracciato scrupolosamente le vicende inerenti la nascita e lo sviluppo del monastero dalla fine del X secolo e prospettato una più antica fase altomedievale136. Kurze si è basato sull'analisi della documentazione archivistica disponibile e sulla Vita di San Bononio scritta prima del 1044 a Vercelli, quindi molto vicina agli anni della presenza del monaco in Toscana. Di tale Vita esiste una seconda redazione (Vita dello pseudo- Rotberto), più ampia della precedente, considerata anch'essa autentica dagli studiosi sinchè Schwartz nel 1915 e Tabacco nel 1954137 hanno riconosciuto una falsificazione dovuta all'abate Guido Grandi nel corso del XVIII secolo. Bononio, monaco benedettino vissuto nel periodo a cavallo tra X secolo e XI secolo, abile nella ricostituzione e rivitalizzazione di cenobi e di enti religiosi decaduti, operava in Toscana non prima dell'anno 997 (fuggiasco dal monastero piemontese di Locedio, dove era abate, poichè vessato dal marchese Arduino d'Ivrea); qui, probabilmente dopo avere ricevuto asilo dal marchese Ugo di Toscana e dietro richiesta di questo operò affinchè «reparato ad plenum monasterio et secundum legem Dei et sancti Benedicti regulam instituto». Condusse quindi la rifondazione di un monastero andato distrutto o non efficiente, oppure non sviluppatosi, del quale viene omesso il toponimo ma che i documenti di poco posteriori, lasciano facilmente identificare in Marturi. L'abbazia, ricostituita da Bononio, fu poi dotata nell'anno 998 da Ugo di Toscana di numerose proprietà; dalla dotazione veniamo così a sapere che era fondata «in monte et poio qui dicitur castello de Marturi» e che la «casa et curte (...) cum omnibus casis (...) castello de Marturi» furono anch'essi trasferiti ai monaci138. Siamo quindi di fronte ad un'abbazia posta all'interno di un castello e sono sconosciute le vicende che condussero all'edificazione del fortilizio. In altre parole, come avvenne la sua costruzione ed in quale rapporto si era posto con il cenobio già esistente anche se in disgrazia o mai decollato? Sulla natura insediativa di Marturi precedente alla fine del X secolo, non siamo però in grado di esporre alcuna informazione più dettagliata. L'esistenza di tre privilegi rilasciati dalla cancelleria di Ugo al monastero ha dato luogo ad alcuni problemi interpretativi139. Il primo documento è datato 12 luglio 970 e concerne la donazione della curtis «Antoniano» nella zona del comitato di Bologna-Ferrara. Il secondo documento, del 25 luglio 998, attesta la volontà di Ugo di trasformare la chiesa dedicata a San Michele a Marturi, da lui eretta in passato, in monastero; conseguentemente dona, al costituendo cenobio ed al suo abate, il terreno su cui era edificata la badia, la località ed il castello di Marturi, nonchè 210 proprietà sparse per l'Italia centro-settentrionale; promulga inoltre le norme da seguire per la libera elezione dell'abate. Il terzo documento, datato 10 agosto 998, è un'ulteriore donazione, simile, ma formulata in netto contrasto con quella del 25 luglio. Pur venendo donate, con piccole variazioni, le stesse proprietà (sono esclusi alcuni beni situati in luoghi che erano già stati oggetto di un privilegio alla Badia di Firenze), non comprende però il terreno su cui sorgeva il

136 KURZE 1989. 137 SCHWART 1915; TABACCO 1954. 138 FALCE 1921. 139 Analizzati ancora in FALCE 1921. 31 monastero, non viene affermato il suo ruolo protagonista nella fondazione di chiesa e monastero; inoltre specifica, dettagliatamente ed in modo molto chiaro, che ogni donazione avrà compimento soltanto alla morte di Ugo e solo in caso che egli muoia senza eredi diretti. Nel documento del 12 luglio del 970, la chiesa e il monastero di San Michele risultano già esistenti, senza che il marchese se ne attribuisca la fondazione; la donazione viene inoltre fatta all'abate Bononio. Kurze, ricordando che in quella data Bononio si trovava ancora in Egitto e portando a prova elementi paleografici inconfutabili, riconosce l'atto come falso. I documenti usciti dalla cancelleria di Ugo nell'anno 998, potrebbero invece fare pensare ad un cambiamento di volontà del donatore. Questa ipotesi non è però convincente e l'autore riconosce nel documento del 25 luglio un falso opera dei monaci marturensi, pur se cancellerescamente corretto poichè ricalcato sulla carta del 10 agosto. Alcuni chiari elementi pongono infatti la stesura della donazione del 25 luglio alla fine dell'XI secolo, una puntualizzazione basata da Kurze su tre elementi principali: corrisponde al periodo in cui Marturi aveva necessità di legittimare il proprio patrimonio, alterato e minacciato nella sua integrità da espropri ed abusi; la presenza tra i testimoni di un conte Aldobrandeschi non sembra logica, poichè esponente di una casata che in questi stessi anni era pervenuta a grande potenza e che aveva perseguito una severa politica a scapito dei beni di alcuni monasteri; l'esposizione delle norme di elezione dell'abate, per il tono polemico e durissimo verso l'istituto giuridico delle chiese private, si colloca decisamente alla fine dell'XI secolo. A conferma del suo carattere apocrifo, concorre anche il maggiore vantaggio di cui beneficia Marturi: non solo riceve un patrimonio più vasto, ma anche e soprattutto si vede concessa la libera elezione dell'abate (elemento alquanto originale per gli anni intorno alla fine del X secolo) e le viene ceduto, senza alcuna riserva o condizione, il terreno dove sorgeva il monastero ed il castello; cessione collocata all'inizio del documento e lungamente descritta. Dunque, si intendeva far credere che il marchese Ugo avesse fondato il monastero, strutturandolo come un ente completamente indipendente ed autonomo, al riparo da ogni tipo di ingerenza, proprietario sia del terreno su cui sorgeva sia di molti beni. In conclusione, secondo l'ipotesi più attendibile, il monastero era già esistente nell'anno 997 (non si conosce però la vera data di fondazione e il fondatore); avviato verso la decadenza o mai decollato dal punto di vista patrimoniale, fu rinvigorito dalla gestione del nuovo abate Bononio. Ugo di Toscana effettuò poi il 10 agosto del 998 una ricca donazione, ma escluse il terreno su cui sorgeva Marturi e vincolò la validità dell'atto all'avvenuta estinzione della sua famiglia. In altre parole, la mancata cessione degli spazi occupati dalle strutture materiali del monastero prospetta che tali terreni dovevano essere di proprietà regia così come molti degli stessi beni dotali; in tale direzione spingono più indizi riconoscibili nelle vicende che caratterizzarano l'istituzione nel corso dell'XI secolo. Per quanto riguarda la realtà di Marturi precedente al 997, cioè sul monastero andato poi in rovina, Kurze ipotizza che la fondazione risalisse all'epoca longobarda e che la sua dedicazione a San Michele fosse stata la stessa anche in passato; inoltre viene proposta come data l'VIII secolo140. Alla morte di Ugo, il suo successore Bonifacio si appropriò nel 1009 di tutti i beni del monastero, rivendicò il terreno su cui sorgeva l'edificio ed occupò l'edificio stesso; i monaci denunciarono quasi settant'anni più tardi alcuni presunti episodi di violenza nei loro confronti e la presenza di concubine e schiave del marchese. Non sembra però trattarsi di un'imposizione arbitraria; Bonifacio doveva essersi fatto forte di ragioni giuridiche, la principale delle quali è la natura di beni regi della maggior parte delle pertinenze inserite nella donazione del 998: la sua azione era, per diritto, legittima. Bonifacio non deteneva

140 KURZE 1989, p.230 e n.131. 32 grandi proprietà in Toscana ed il complesso centrale dei beni di Marturi rappresentava quindi un'importante base patrimoniale. Al di là della testimonianza più tarde dei monaci, il confronto con Bononio ed i suoi confratelli non deve essersi rivelato violento; l'abate sembra avere compreso sia le ragioni del marchese sia la legalità del suo agire, ed approfittando della calma ristabilitasi a Locedio vi fece ritorno (la Vita Bononii riporta infatti in maniera assolutamente pacata le modalità del rientro: «prioris loci commotio sedata (...) ad monasterium Locediense rediit»). Anche gli accadimenti successivi confermano lo status di proprietà regia dell'area sulla quale sorgeva il monastero, del castello e di molti immobili inseriti nella dotazione. Rainerio, succeduto a Bonifacio nel 1012, ebbe ordine dall'imperatore, che lo nominò «advocator monasterii de Marturi», di reintegrare il monastero nei suoi beni; questi eseguì la direttiva, ma trattenne quella parte del patrimonio che considerava di proprietà del regno. Di fatto, a Marturi, venne trasferito legalmente il terreno su cui sorgeva il monastero solo per decisione dell'imperatore che, così facendo, alienava beni già della corona. Lo stesso processo intentato dai monaci nell'anno 1075 per la proprietà di Papaiano, porta ulteriori elementi a sostegno dell'ipotesi141. Nel lungo verbale conservato, i monaci non prendono come punto di partenza la donazione di Ugo (della quale, nonostante il falso del 25 luglio, conoscevano bene i contenuti), bensì cercano di dimostrare che Papaiano faceva parte dei beni allodiali del marchese e quindi la donazione risultava perfettamente legale. Sino dai tempi di Bonifacio, il castello dovette rientrare tra i beni feudali della famiglia comitale e rimanervi stabilmente, tanto che Matilde di Toscana lo trasferirà nel patrimonio dei Guidi agli inizi del XII secolo a seguito dell'adozione di Guido Guerra. Anche il castrum non poteva considerarsi un bene allodiale di Ugo, che vi possedeva invece una curtis domnicata142; la stessa Narratio inserita nel processo del 1075 cita, per esempio, «Bonizo gastaldo de Marturi» ed il «vicecomes de Marturi» che «liberabat» e «placitabat», la cui presenza e le cui azioni male si accordano con i caratteri di una proprietà personale. Alla metà dell'XI secolo il monastero era già diventato un centro importante. Nel 1022 vi aveva soggiornato l'imperatore Enrico II143 e nel 1046 il cancelliere imperiale Enrico; soggetto direttamente all'autorità papale sino dal 1068144, nove anni dopo ospitò il pontefice Gregorio VII che qui, il 28 agosto, definì le divergenze ecclesiastiche tra i canonici fiorentini ed i monaci del vicino convento di San Miniato. Con gli anni aveva sviluppato un cospicuo patrimonio fondiario sia in Val d'Elsa sia fuori della regione. Inoltre, godeva della protezione di Matilde di Toscana, concessa ufficialmente dal 1099 (dove si ricorda per altro l'«hospitale (...) iuxta burgum»145; la successiva memoria dell'ospedale è contenuta in una carta del 1191 e ultima in una carta del 1210, quando l'imperatore Ottone IV lo prende sotto la sua protezione e lo definisce «hospitale Sancti michaelis apud podium bonizi»146). Anche il rapporto stabilitosi con la contessa è un chiaro segno della posizione preminente raggiunta da Marturi. La troviamo infatti presente nel monastero o nel vicino borgo di Marturi, con la sua corte, promulgare atti e donazioni che trascendono anche dall'ambito locale (anni 1076, 1078, 1110, 1103, 1109); nel 1107, presso il fiume «Cecinete», cioè il Cecina, ella donò al monastero alcuni terreni posti lungo la riva destra dell'Elsa comprese le decime di pertinenza147.

141 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 1075 circa. 142 SCHNEIDER 1975. 143 CAMMAROSANO 1993, n.10, 14 luglio 1022. 144 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 1 novembre 1068. 145 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 20 giugno 1099. 146 Archivio di Stato di Firenze, Cavalieri di Malta, 23 ottobre 1191; Diplomatico Bonifazio, 8 novembre 1210. 147 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 24 luglio 1107. 33 Nel frattempo, molti elementi avevano concorso allo sviluppo del popolamento su uno spazio territoriale circoscrivibile in un raggio di quasi due chilometri quadrati intorno al monastero ed al castello; mostrano inoltre Marturi intento ad allargare, garantire e tutelare il proprio patrimonio. Nel 1108 l'abate Giovanni e prete Bonaldo in rappresentanza della pieve di Santa Maria a Marturi, si trovarono di fronte per una vertenza concernente il possesso di terreni lungo il fiume Elsa, quegli stessi appezzamenti che abbiamo visto ceduti nel 1107 dalla contessa Matilde e che il pievano aveva acquistato da lei in precedenza148. Nello stesso atto compaiono le prime avvisaglie di un conflitto di interessi, che si protrarrà per molti decenni, tra i due enti religiosi; infatti il pievano nega a tutti gli uomini della sua pieve il permesso di essere seppelliti presso la chiesa dell'abbazia. Alla metà del XII secolo, i monaci erano anche in relazione con i signori di Staggia e con i conti Guidi, con i quali permutaro il terreno sulla collina di Bonizio. Il 28-29 marzo 1156, l'abate Ranieri scambiò con Guido Guerra conte di Toscana «una petia de terram que habeo e tengo in monte qui dicitur bonizi (...): ex uno latere est domo boni, exalio est via publica (...), desuper est strata, desubtus fossa predicto castelli»149. Questa permuta rappresenta un chiaro segno dell'ineluttabile e nuovo processo insediativo che stava verificandosi nella zona. Il monastero, sia per ragioni di sicurezza legate alla fondazione di un castello, sia per la posizione preminente dei Guidi come rappresentanti del potere pubblico ed al tempo stesso potenti proprietari in loco, sia per la presenza di Siena nell'impresa che sin dal 1135 aveva iniziato ad espandersi nella Val d'Elsa, non potè che assecondarli. In coincidenza delle prime opere apprestate per la fondazione di Poggio Bonizio, Firenze attaccò la zona e distrusse il castello di Marturi. Le proprietà dell’abbazia non risentirono dell’episodio e con lo sviluppo del nuovo centro, Marturi adattò la sua politica patrimoniale alla nuova dimensione assunta dal popolamento e dalla rete insediativa. I monaci aprirono un nuovo fronte di attività; si impegnarono in continue compra-vendite e permute di terreni e di case posti sia fuori che dentro Poggio Bonizio; inoltre concedevano spesso in affitto spazi aperti dentro e fuori dal circuito murario castellano e nei suoi borghi, affinchè vi venissero costruite altre case. Alla concessione di platee e case, si legò un'ulteriore forma di entrata: quasi sempre, tra le clausole del fitto, veniva esplicitata chiaramente la promessa dell'assegnatario di seppellire i propri morti in perpetuo presso il monastero. Tutto ciò significava quindi ricevere un compenso per il servizio reso (denaro, vesti e parte dell'eredità del defunto) secondo l'uso dell'abbazia. Si aggiungano inoltre i molti benefici goduti (per esempio il monastero non pagava decime come risulta dalla sua assenza negli elenchi delle Rationes Decimarum) e nuove entrate, conseguenti tanto alla volontà di molti abitanti del castello e dei borghi, di farsi seppellire nel cimitero di Marturi anche se ascritti in altre parrocchie, quanto il giuspatronato di molte chiese nei dintorni (Sant'Andrea a Papaiano, San Martino a Luco, Casaglia, San Fabiano, San Bartolomeo a Pino, San Pietro a Megognano, San Lorenzo in Piandicampi150) per avere un quadro del florido quadro economico venutosi a creare. Questa situazione portò presto ad un conflitto di interessi con la Pieve di Santa Maria a Marturi; al di là delle chiese in Poggio Bonizio officiate dai canonici di Talciona (Sant'Agnese edificata dai senesi e Santo Stefano posta nella contrada fondata dai talcionesi), l'intero novero delle chiese sorte nel villaggio era infatti sotto la sua cura; a seguito del costume funerario invalso nella popolazione e della politica abbaziale, si vedeva conseguentemente privata di forti entrate. L'antagonismo tra i due enti religiosi

148 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, marzo 1108; si veda anche RINALDI 1986, p.16 e SCHNEIDER 1975, p.263 n.202. 149 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 28-29 marzo 1156. 150 Si vedano per l'acquisizione dei patronati KURZE 1989, p.193, 200; NERI 1895; NERI 1901. 34 arrivò a tal punto da sfociare in un episodio di eccessivo malcostume. Il verbale riportato in una pergamena del 1174 narra infatti che, durante il funerale di una giovane donna, i monaci furono assaliti dai partigiani del clero plebano; la mischia fu molto furibonda ed i monaci gettarono la salma per terra dandosi alla fuga; il marito della donna fu costretto a caricarsi le spoglie sulle spalle e raggiungere la fossa predisposta151. Di fatto, (dopo il caso già citato del 1108), la situazione era diventata talmente insostenibile che le due istituzioni si citarono reciprocamente in giudizio nel 1174 152. Pieve e abbazia si accusarono e si difesero. Il pievano era indubbiamente molto più agguerrito dell'abate, sentendosi derubato ed offeso; dopo avere denunciato alcuni comportamenti scorretti tenuti dai monaci durante alcune festività religiose di sua competenza (soprattutto la festa di Santa Maria Assunta), passò a rivendicare la competenza delle chiese di Santa Croce e San Martino di Luco che invece venivano amministrate, dal punto di vista religioso, dall'abbazia; richiese la regolamentazione delle decime legate a molte località e possessi (anche per case in Poggio Bonizio nelle quali si erano trasferite famiglie precedentemente residenti in Borgo Marturi), domandò il rispetto di confini in alcune zone dove le due proprietà erano contigue. L'abate accusò nuovamente il pievano ed anch'egli protestò per scorrettezze subite nel corso delle feste titolari. La decisione presa dai giudici fu abbastanza favorevole al pievano. Stabilì che il popolo di Borgo Marturi era da attribuire alla pieve; conseguentemente in caso di decisioni circa la sepoltura presso il cimitero del monastero Santa Maria doveva ricevere metà delle decime e dei vestimenti incamerati dal monastero; allo stesso modo eventuali pellegrini che fossero deceduti in zona dovevano trovare tumulazione presso la pieve ed in caso di esplicita richiesta di sepoltura nel cimitero abbaziale, anche in questo caso erano in vigore le divisioni pecuniarie già descritte; per quanto riguarda il diritto di decime, esse venivano ripartite tra i due enti. In conclusione, la politica patrimoniale sviluppata dal monastero ed i casi di conflitti d'interesse verificatisi, sono indice senza alcuno dubbio del potere raggiunto da Marturi, a partire dall'XI secolo e soprattutto a cavallo tra XII-XIII secolo. Si tratta chiaramente di una condotta mirata e programmata; a riprova di quanto affermiamo sottolineiamo sia la continua ricerca di legittimazione della propria base patrimoniale, come attestano le numerose conferme ricevute dai pontefici nei beni donati da Ugo di Toscana sino sino alla prima metà del XII secolo, sia la decisa rivendicazione di beni posti in Poggio Bonizio e nel suo circondario (fuori dalla porta Santa Maria), permutati con Guido Guerra nel 1156 alla fondazione del villaggio e poi sottrattigli dallo stesso Guido (come si evince dalla copia autenticata di detto documento, l'abate vinse la causa e fu reintegrato). L'accrescimento delle proprietà sembra subire uno stop dopo il 1225; gli atti concernenti acquisizioni o concessioni dietro corrispettivo di fitto diminuiscono decisamente, anzi assistiamo quasi ad un crollo in verticale. Dopo una fase di stallo, nella quale le operazioni svolte furono realmente molto poche (3 nel periodo 1230-1240, 2 nel periodo 1241-1250, 2 nel periodo 1251-1260, 1 nel 1261), la decadenza di Marturi come ente patrimoniale sembra avere definitivamente luogo. Senza dubbio contribuì in maniera decisiva il declino di Poggio Bonizio (attorno al quale, come abbiamo visto, gli abati avevano concentrato molti dei loro sforzi), iniziato nel 1254 con l'occupazione fiorentina e lo smantellamento delle sue fortificazioni. Già nel gennaio del 1257, il monastero protestava davanti all'abate del monastero di San Pancrazio di Firenze perchè, a seguito delle distruzioni recate al castello di Poggio Bonizio dai fiorentini, non era in grado di pagare le imposizioni153; ancora un mese dopo Ventura

151 Su tale episodio si veda anche PRATELLI 1929-1938, p.76. 152 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 20 dicembre; sul processo si consultino anche le belle pagine in RINALDI 1986, pp.21-36. 153 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 3 gennaio 1257. 35 sindaco e procuratore di Benno abate del monastero ripeteva la supplica al procuratore delle diocesi fiorentine perchè, essendo andati in rovina molti beni del detto monastero nel castello di Poggio Bonizio, e quindi per la sopraggiunta povertà, non poteva pagare le imposte154. La situazione economica dovette precipitare definitivamente con i guasti conseguiti all'assedio e all'occupazione di Poggio Bonizio da parte delle truppe francesi nel 1267 e dopo la feroce distruzione fiorentina del 1270 che lasciò in piedi solo il vecchio Borgo Marturi, l’odierno Poggibonsi. Oltre al venire improvvisamente meno della maggior parte dei beni immobili (qualsiasi tentativo di ricostituzione era reso difficoltoso dal solenne divieto di ricostruire il castello imposto da Firenze), ebbero fine le numerose entrate per enfiteusi e affitto provenienti dai terreni e dalle case possedute in Poggio Bonizio, nonchè quella notevole ricchezza derivata dalle molte decime e dai servizi funebri resi alla popolazione. Forse l'abbazia fu anche depredata dall'esercito155. Dopo questa data rintracciamo una sola nuova operazione finanziaria nel 1274, concernente una permuta per pochi terreni intorno al monastero; le successive azioni di Marturi furono poi focalizzate sul giuspatronato ed il controllo di chiese, come dimostra l'ennesima controversia con la pieve di Santa Maria per l’elezione del rettore della chiesa di Sant'Ansano156. Le devastazioni seguite nel 1313 all'impresa di Arrigo VII, e la pesante crisi di metà XIV secolo, non aiutarono certo Marturi a recuperare e ricostituire una solida base patrimoniale. Nell'Estimo del 1318, stilato a Poggibonsi e conservato in copia presso la biblioteca Guarnacci di Volterra157, di fronte ad un censimento che interessò la proprietà immobiliare di settantuno soggetti d'imposta, le citazioni di terreni confinanti con beni del monastero sono pochissime (in tutto quattro) e collocate a breve distanze dallo stesso: alla Sassa, a Calcinaia, a Monteleonti, a Luco. Dopo la grave perdita subita nella seconda metà del XIII secolo, la decadenza non sembra quindi arrestarsi e su di essa influì anche la crescita del vicino convento di San Lucchese. Quest'ultimo, già presente in atti notarili rogati dopo il 1270 come luogo di stipula individuata come «Casa 'a Frati» o «Casa dei Frati», crebbe d'importanza durante tutto il XIV secolo; quando passò sotto dalla direzione dei Padri conventuali a quella dei francescani dell'Osservanza, agli inizi del XV secolo, soppiantò gradualmente Marturi per il ruolo rivestito nella vita della comunità, acquisendone sia il peso economico sia quello devozionale158. Pochi decenni dopo, nel 1445, Marturi fu ceduto in commenda al monastero femminile di Santa Brigida a Firenze; la popolazione poggibonsese reclamò con la sede apostolica nel 1451 per la nuova gestione che aveva fatto decadere la fortificazione del monastero. Sappiamo che nel 1479 subì gravi danneggiamenti per l'assedio portato dal Duca di Calabria nella sua guerra con i fiorentini usandolo spesso come fortilizio 159. Le Brigidine continuarono comunque a ritenerne l'amministrazione sinché papa Clemente XII, con bolla del 15 maggio 1734, abolì tale ordine e unì i loro beni al nuovo conservatorio dei poveri dell'ospedale San Bonifazio di Firenze160. L'incuria ed il deterioramento a cui andò soggetto il complesso portarono i rettori dell'ospedale a cedere Marturi a privati che lo ridussero ad uso agricolo. Nel 1886 la

154 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 1 febbraio 1257. 155 PRATELLI 1929-1938, p.25. 156 MORI 1991, p.20, 23 luglio 1285. 157 RINALDI 1986, pp.69-107. 158 RAVENNI 1995, p.85. 159 PRATELLI 1929-1838, pp.338-345. 160 ANTICHI, 1982 p.190. 36 proprietà passò al signor Marcell Galli-Dun che riedificò le mura e ricostruì l'intero stabile in stile neogotico, risparmiando solo gran parte dell'antico chiostro161.

2 - Borgo Marturi-Poggibonsi. Poggibonsi origina dal centro di Borgo Marturi attestato dalla metà dell'XI secolo. Si formò sia in conseguenza degli effetti prodotti dalla politica economica attuata dal monastero di Marturi, sia per il passaggio del tracciato stradale detto la Francigena di fondovalle. Ospitava anche una sede pievana, Santa Maria a Marturi, attestata dall'anno 1075 e per la metà del XII secolo conosciamo l'esistenza di due ulteriori chiese nominate San Benedetto e Santa Croce. Borgo Marturi doveva avere avuto un repentino sviluppo e acquistato importanza già dalla seconda metà dell'XI secolo. L'abate Uberto di Marturi fondò un ospedale nelle sue immediate vicinanze162; Matilde di Toscana con la sua corte soggiornò nel villaggio più volte, deliberando concessioni ed effettuando donazioni (nel 1077, con atto in Borgo Marturi, donava un cospicuo patrimonio fondiario al Capitolo di Pisa; nel 1078, nel Borgo di Marturi, assicurava in giudizio i beni della chiesa di Volterra) 163. Vediamo inoltre nel 1108 prete Bonaldo in rappresentanza della pieve di Santa Maria a Marturi, opposto all'abate Giovanni del monastero di San Michele di Marturi, per la rivendicazione di alcuni terreni lungo l'Elsa e per problemi legati alla sepoltura dei defunti nei rispettivi cimiteri164. E’ ricordato anche nelle fonti intinerarie di XII e XIII secolo, alla stregua di una tappa importante sulla Francigena, con il toponimo corrotto in Martinus Borg, Macelburg, Michelburg, Marthirburg. Le vicende del villaggio rimangono poi ignote; sappiamo però che nel 1156, dopo l'inizio della costruzione di Podium Bonitii, alla quale i martigiani stessi presero parte, Borgo Marturi fu nuovamente al centro di uno scontro vittorioso con Firenze, preoccupata della nascita del nuovo castello165. In questo periodo il villaggio stava iniziando a trasformarsi in uno dei borghi di Poggio Bonizio e nel 1174 era infatti indicato come borgo vecchio166; la sua vita sembra svolgersi in relazione al grande castello. Con lo sviluppo del nuovo centro urbano, gli abati di Marturi presero il controllo dei numerosi mulini e proprietà fondiarie che dovevano collocarsi nella piana di Borgo Marturi. L'espansione tanto patrimoniale quanto spirituale del monastero fu tale che si arrivò ad un contrasto deciso con la Pieve di Santa Maria a Marturi dalla quale dipendeva quasi l'intero novero delle chiese sorte nel villaggio167. Con la distruzione fiorentina di Poggio Bonizio del 1270, Borgo di Marturi, probabilmente anch'esso devastato, ospitò la popolazione sfollata e si trasformò in breve nel nuovo centro dominante della zona, assumendo l'odierno toponimo di Poggibonsi. Nonostante la sconfitta e la pesante punizione, la nuova comunità ereditò l'autonomia comunale di Podium Bonizi, continuando ancora quasi venti anni più tardi nella sua politica

161 Su Marturi si vedano inoltre ANTICHI 1965, pp.88-91; BEZZINI 1992; CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.132; CAPPELLETTI 1862, XVII, pp.290, 291, 301, 302; CIONI 1911, pp.69-70; DAVIDSOHN 1896-1927, I, pp.175-178, 190, 383-384 n.1, 676-678, 690 n.3; FALCE 1921; NERI 1895; NERI 1901; PRATELLI 1929- 1938, pp.21-27, 338-345; RAVENNI 1995; REPETTI 1833-1846, I, p.22; IV, pp.480-483; RINALDI 1986; SCHNEIDER 1975, pp.39, 40, 94, 247 n.130, 260 n.193, 263, 265, 270 n.297, 298 n.320, 303, 325, 339; STOPANI 1990; STOPANI 1995; VALENTI 1999. 162 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 4 marzo 1089; indicato anche come «hospitale (...) iuxta burgum»: Diplomatico Bonifazio, 20 giugno 1099. 163 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 27 agosto 1077; Diplomatico Bonifazio, 11 febbraio 1078. 164 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, marzo 1108. 165 PRATELLI 1929-1938, pp.50-51. 166 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 20 dicembre 1174. 167 RINALDI 1986, pp.21-36. 37 filo-imperiale. Nel 1281 accolse i ghibellini senesi fuoriusciti e nel 1284, anno della sottomissione de facto a Firenze, rivolgeva ancora alcuni appelli a Rodolfo d'Asburgo per ottenere la protezione imperiale che venne concessa. Due anni dopo troviamo Poggibonsi nel novero dei membri della Lega Guelfa, quando forti erano le possibilità di uno scontro con la ghibellina Pisa, mentre dal 1293 la sottomissione a Firenze divenne formale. Poco dopo ebbe la concessione di cingersi di mura, lavori che nel 1300 erano stati portati a compimento. Ancora però i poggibonsesi continuavano a mostrare la loro indole ghibellina, tanto che nel 1302, Firenze impose una riforma amministrativa conseguentemente all'ambigua posizione assunta dai Capitani di Parte Guelfa che peraltro, furono fatti decadere dalla carica e sostituiti168. Enrico VII, nel gennaio 1313, si accampò nei pressi dell'altura di Podium Bonizi; qui, un mese più tardi, iniziò la ricostruzione di un villaggio fortificato cui dette il nome di Monte Imperiale e che avrebbe dovuto rappresentare il simbolo della rinnovata potenza dell'impero. Questo evento coincise con una nuova insurrezione dei poggibonsesi; donarono le chiavi della città all'imperatore, evento svoltosi presso l'allora porta Santa Maria poi detta porta delle Chiavi, ed in molti si trasferirono sulla collina. L'avventura di Arrigò fu brevissima e ad aprile l'esercito fiorentino portò nuovamente la distruzione. La conseguenza fu senza dubbio un'immediata decadenza economica della comunità; nel maggio 1314 la situazione disastrosa è testimoniata dall'assoluzione da qualsiasi pagamento imposto dal comune di Firenze a Poggibonsi ed in particolare dalla gabella su otto dei mulini che aveva nel fiume Elsa in Poggiosecco. Firenze iniziò comunque a riorganizzare il proprio dominio sulla zona; tra 1319 e 1329 tutti i villaggi posti nel vecchio distretto di Poggio Bonizio, giurarono fedeltà al podestà di Poggibonsi in rappresentanza dello stesso comune fiorentino. Ancora nel 1319 venivano eletti tredici ufficiali per modificare, alle porte della borgata, il tracciato della strada per Firenze, prevederne i ponti e i loro materiali costruttivi. Nel 1321, da carte concernenti problemi con San Gimignano, legati al furto di bestiame169, vediamo Poggibonsi definito «Comune Podii Bonitii districtus Florentinie», mentre i suoi abitanti sono appellati come subditi di Firenze. Nel 1334, a seguito del lodo fiorentino per la definizione dei confini tra gli stessi Poggibonsi e San Gimignano, si prevedeva una demarcazione materiale attraverso l'impianto di piloni che in sommità, sul lato di Poggibonsi, dovevano recare due scudi lapidei ben murati: uno con lo stemma del comune di Firenze, l'altro con quello del comune di Poggio Bonizio170. Anche nello Statuto redatto nel 1332 per Poggibonsi, nel Quadernus Statutorum, sotto la rubrica De observando arbitrio lato inter Comune Podiiboniçii et Comune castri Geminiani(II), si rinvengono le tracce dell'antica disputa con San Gimignano; contiene il giuramento, fatto dallo stesso podestà, di rispettare l'arbitrato intercorso nel 1209. La necessità di ribadire un arbitrato risalente a più di un secolo prima, denota la permanenza di vertenze non ancora risolte tra i due comuni; tutto ciò nonostante i cambiamenti radicali intervenuti nella situazione politica: Colle e San Gimignano avevano ceduto alla potenza guelfa fiorentina molto prima di Poggibonsi e già nel 1267 avevano partecipato all’abbattimento delle fortificazioni di Poggio Bonizio. I rapporti fra San Gimignano e Poggibonsi erano dunque improntati alla competizione nell'ambito valdelsano. Il 31 gennaio 1332, veniva approvato dal Consiglio Generale di Poggibonsi il nuovo e già citato statuto della comunità, in sostituzione del precedente per il quale abbiamo notizie solo da una pergamena del 27 settembre 1281. Riusciamo così a conoscere la nuova realtà amministrativa dell'insediamento. L'ordinamento cittadino risultava composto da un podestà imposto da Firenze fino dal 1293, affiancato da un Vicarius e da un notaio; il governo era invece formato da otto priori

168 Archivio di Stato di Siena, Arch. Riformagioni, 15 febbraio 1302. 169 Libro Bianco, n.226, 1321-2. 170 Libro Bianco, n.228, 1334; si veda per tali aspetti WALEY 1996. 38 (due Capitani di Parte Guelfa e sei Governatori del Comune) eletti dal Consiglio generale: sessanta membri che decidevano sulle proposte dei priori in materia finanziaria, riunendosi nella Casa Comunale o nella Chiesa di Santa Maria. Il bilancio comunale, che risultava in pessime condizioni per le frequenti incursioni fiorentine e le ingenti tasse imposte, era affidato al Camerlengo. Esistevano poi i custodi del carcere e i custodi segreti; venivano inoltre previsti incarichi di nunzi, banditori del Comune, quattro ufficiali dei mulini, gli ufficiali del distretto (avevano preso il posto dei Sindaci villarum) e due Vicecomites, una magistratura con diverse competenze come la tutela e la divisione dei beni immobili, la definizione dei confini ecc. Nella Distinctio Criminalis, dove i reati gravi erano di competenza delle magistrature fiorentine, risulta evidente la situazione di subordinazione di Poggibonsi: si facevano eccezioni, in tema di cattura e detenzione, per i cittadini di Firenze; in caso di scorribanda, furto, incendio e devastazioni, i rei dovevano essere inviati a Firenze ed era severamente punito chi avesse accolto presso di sé banditi fiorentini. Il corpo legislativo poggibonsese non cessò comunque di crescere, come testimoniano le varie reformationes successive e le sei nuove disposizioni modificanti norme del 1332. Le riforme del 1382 istituirono e regolamentarono una nuova magistratura: i Dodici addetti alla riattazione dello steccato, segno evidente della situazione militare ancora incerta, nonostante la soggiacenza alla potenza fiorentina. Tra le norme statutarie, si segnalano anche due disposizioni concernenti il prelievo di materiale edilizio sul Poggio di Bonizio solo dietro finalità di edificare nel sottostante Poggibonsi ed il divieto di innalzare portici nella via Maestra171. Nel XIV secolo Poggibonsi rivestiva però, sia l'importante ruolo di insediamento al centro di un nodo viario interregionale, sia quello di centro commerciale; il mercato settimanale ivi tenuto esercitava un notevole afflusso di merci e persone tanto da risultare uno dei maggiori nel contado fiorentino. Il carattere di successo del villaggio si relazionava alla posizione occupata sulla viabilità come dimostrano le stesse numerose presenze di alberghi e ricoveri per i viandanti: per esempio tra 1334-1383 erano attivi due alberghi in località Calcinaia e vicino al ponte sulla Staggia, dipendenti dall'ospedale di San Giovanni. Si contano anche tre ospedali; oltre al già citato San Giovanni situato nelle vicinanze della Via Maestra, vicino alla porta San Iacopo, conosciamo la Misericordia di Borgo ed il Santa Maria della Scala, filiazione dell'istituto senese, ambedue posti nei pressi della porta delle Chiavi. La natura di insediamento di transito era chiaramente avvertita dalle autorità, tanto che la strada si poneva al centro di grandi attenzioni; fu oggetto di ripetuti lavori e trasformazioni: il 21 settembre 1332 per esempio, tredici ufficiali eletti in proposito, ridefinirono il suo tracciato alle porte di Poggibonsi trasformandola in una carreggiata di 9 braccia (quasi 5 metri), compresa fra fosse di scolo che si dovevano «bene inghiaiari», larghe 80 cm circa e profonde 55 cm; lo scolo delle acque rappresentava comunque un grande problema, il fondo stradale infatti si deteriorava spesso 172. In questo periodo, Poggibonsi mostrava un'economia molto articolata. Lo statuto del 1332, a proposito dell'attività tessile, cita l'esistenza dei tessitori maschi e femmine e la lavorazione dei panni in lana e lino173. Le matricole delle Arti forniscono notizie sin da prima del 1350 e segnalano la presenza di sette calzolai, quattro fabbri, cinque ferratores ed un coltellarius. Sono attestate botteghe di fornacciarii che fabbricavano mattoni e tegole, di orciolai con una prospera produzione a diffusione regionale. Esisteva un florido artigianato del cuoio impegnato anche nell'esportazione; venivano inoltre commerciati legno, vino, zafferano, oltre a cereali, fave, lino, pollame, formaggi, cacciagione, uova,

171 RAVENNI 1995, p.117. 172 DE LA RONCIERE 1976. 173 PUCCI 1995. 39 bestiame, lana. I macellai erano molto numerosi e ne sono attestati ben 16 in dieci anni; erano inoltre attivi panicoccoli (panettieri), fornarii, trecche, pizzicagnoli-oliandoli, vinattieri, granaiuoli, biadaiuoli174. Da un estimo del 1338 si evincono 795 contribuenti, ma la crisi di metà Trecento, nella quale agirono l'impatto di brigantaggio, violenze e devastazioni, oltre alla peste, guerre e fiscalità oppressiva, portò ad una situazione economica critica che costrinse ben 75 capifamiglia a lasciare la comunità. L'estimo del 1371 elenca 221 fuochi e 781 persone nella terra, 279 fuochi e 1121 persone fuori le mura, 1900 anime in tutto: la popolazione era quindi diminuita della metà rispetto al 1338. L’emigrazione fu spesso definitiva e indirizzata sia verso le contrade vicine (Colle e San Gimignano) sia verso mete extraregionali: Romagna, Puglia, Roma, Padova. Nel 1383 si ebbe poi un ulteriore calo: 1800 abitanti e una diminuzione del 12% degli abitanti nella terra. L'analisi di Balestracci per gli anni 1373-1374 permette di intravedere la gestione della proprietà rurale e le condizioni del salariato, seguendo le attività dell'ospedale di Santa Maria a Poggibonsi, titolare di un consistente patrimonio immobiliare e fondiario situato in varie località vicine e di alcune case all'interno di Poggibonsi stesso; conduceva le proprietà con un rapporto di tipo mezzadrile ed è possibile intravedere una serie di strettissimi rapporti con i mezzaioli che non avevano probabilmente l'obbligo di lavorare esclusivamente il fondo loro assegnato, dato che alcuni di loro prestavano opere anche in altre terre dell'ente: è il caso dei mezzadri di Campostaggia, di Calcinaia e di Montelonti175. Nel 1376 molti cittadini fiorentini, allargarono i propri possedimenti all'interno del villaggio; l'occasione si presentò con la vendita di gran parte dei beni della pieve di Santa Maria su ordine degli Ufficiali de' Livellatori del comune di Firenze176; in un estimo di poco successivo riscontriamo infatti tra proprietà di cittadini fiorentini «beni che erano de' preti»177. Nel 1381 vennero restaurate le fortificazioni e sette anni più tardi fu ricostruito il ponte sullo Staggia; seguirono altri danni subiti nei primi decenni del XV secolo, causati dai numerosi scontri in cui Firenze ed il suo stato venivano coinvolti; il villaggio fu nuovamente rafforzato nel 1478, dietro la minaccia dell'esercito aragonese-pontificio. Dopo l'incompiuta impresa edilizia della fortezza medicea di Poggio Imperiale, che poteva cambiare decisamente la storia di Poggibonsi, alla vigilia della guerra con Siena, Cosimo de' Medici smantellò per sicurezza le fortificazioni di Poggibonsi. E' possibile ricostruire l'andamento della cinta muraria di XIV secolo attraverso alcuni resti monumentali evidenti e, come Meli e Ravenni hanno sottolineato, con il supporto di una pianta settecentesca conservata presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. Nella zona est, nell'attuale Piazza Berlinguer (già "del Gioco del Pallone"), è presente ancora un lungo tratto di muro scarpato delimitato da cordolo, in gran parte inglobato nelle costruzioni moderne. Nella zona di ponente, nei pressi della Chiesa della Collegiata, si riconoscono tracce ancora più consistenti; sono murature costituite da conci squadrati di arenaria di medie dimensioni, con aperture tipo feritoie di forma quadrangolare. Sempre su questo lato, alcuni edifici abitativi si dimostrano ricavati in torri di pianta rettangolare facenti parte dell'antica fortificazione; benchè le strutture conservino molto parzialmente i paramenti murari originari, risulta chiara la persistenza della pianta degli edifici più antichi. I tratti conservati in questa zona si estendono sino all'ex caserma dei carabinieri (attualmente in ristrutturazione per trasformarla in abitazioni), un edificio che agli inizi del 'novecento ha alterato la cortina murara occupando in parte l'antica "Piazza Calda" che si appoggiava alle mura.

174 DE LA RONCIERE 1995. 175 BALESTRACCI 1977. 176 PRATELLI 1929-1938, pp.292-294. 177 RAVENNI 1995, p.117. 40 Sulla zona sud in coincidenza della antica porta del Poggiarello (oggi scomparsa come del resto le altre tre esistenti: San Iacopo o Fiorentina, Santa Maria o delle Chiavi, San Lorenzo o a Corneto), si conserva ancora un'alta torre rotonda, le cui murature non sono osservabili poichè completamente intonacate; la struttura, nella quale si inserisce un tratto murario moderno, presenta un'alta e spessa base scarpata, mediamente inclinata e sormontata da un cordolo in pietra. La discrepanza tipologica con le altre torri rettangolari e la sua stessa pianta, rimandano ad una cronologia più tarda e sembrano quindi riferibili ad un intervento posteriore, probabimente al restauro delle fortificazioni avvenuto nel 1381. Nel complesso, e lo ricordiamo con il supporto della planimetria 'settecentesca, Poggibonsi tra XIV e XV secolo doveva avere una pianta quasi rettangolare con una protuberanza appuntita in direzione nord; sul suo circuito sono ipotizzabili almeno nove torri. La viabilità si incentrava sulla così detta Via Maestra che attraversava in senso sud- nord il villaggio da porta Santa Maria a Porta San Iacopo; il centro era rappresentato dalla Piazza del Mercato, di fronte alla vecchia Pieve di Marturi ed al Palazzo Pretorio. Quest'ultimo, restaurato da pochi anni, presenta numerosi stemmi lapidei appartenenti ai podestà succedutisi; si tratta di una costruzione trecentesca, sormontata da una torre alterata e di edificazione posteriore; in origine doveva presentare un loggiato le cui arcate sono oggi murate178.

3 - San Lucchese. San Lucchese è un grande complesso francescano composto da una chiesa di edificazione romanica e dall’attiguo convento. La sua storia è stata al centro di interessi eruditi sia per la monumentalità sia per il suo legame diretto con San Francesco e San Lucchese, popolano di Poggio Bonizio realmente vissuto nella prima metà del XIII secolo, fondatore del convento e successivamente innalzato a santo patrono di Poggibonsi179. Fu costruito nell’area in cui doveva sorgere il piccolo villaggio di Camaldo, dotato della chiesa di Santa Maria, le cui tracce sono pressochè inconsistenti e di difficile riconoscimento. Una parte dell'antico borgo rimane in vita fino alla distruzione avvenuta nel 1267 quando i soldati di Carlo d'Angiò strinsero d'assedio Poggio Bonizio. Ancora nel 1213, infatti, in occasione della probabile venuta di San Francesco, gli abitanti di Poggio Bonizio avevano fatto dono al santo di alcune case, presso la chiesa di San Maria di Camaldo; qui San Francesco fondò un convento indicato per tutto il XV secolo con il nome di «La Casa dei Frati»: compare ancora nel 1400, nei libri comunali, la menzione della sovvenzione elargita dal Sindaco in favore dell'ente. Nel XVI secolo prese invece il nome di San Lucchese, santo protettore della Comunità di Poggibonsi. Una storia degli studi specifici su San Lucchese non risulta propriamente ricomponibile. Il complesso è però stato al centro di numerosi interventi tra la fine del XIX secolo e i primi decenni di questo secolo. Padre Mattone Vezzi se ne interessò trattando il carattere della presenza francescana a Poggio Bonizio e descrivendolo in un secondo momento180. La chiesa e la sua costruzione nella zona del borgo di Camaldo sono state affrontate da vari autori. Neri descrive sia architettonicamente sia storicamente il complesso e riporta la presenza della data "MCCC" incisa sull'altare maggiore nonchè le tracce della chiesa

178 In generale su Poggibonsi, oltre alla bibliografia già citata, si vedano ANTICHI 1965; BISCARINI, DEL ZANNA 1993; CAMMAROSANO, PASSERI 1984, pp.133-134; CIASPINI 1850; DAVIDSHON, I, pp.483, 484, 676-681, 685, 727, 738, 739, 807-810, 815, 816, 855, 901n, 932, 933, 939, 950, 970-972, 1167; II, soprattutto pp. 85-87, 211-213, 301-305; III, soprattutto pp.13-20, 88-90; DE LA RONCIERE 1976; DE LA RONCIERE 1995; GIORGETTI 1929; GUICCIARDINI 1939, pp.5-8; MASI 1992; MELI 1974, pp.37-62; MORANDI 1960; MUZZI 1984; PINTO 1982, pp.140-141; PLESNER 1979, p.65; PUCCI 1995; REPETTI 1833-1846, IV, p.480; Supp., p.193; RINALDI 1980; ZDEKAUER 1894; VALENTI 1999. 179 MORANDI 1980 e RINALDI 1986. 180 MATTONE VEZZI 1937; MATTONE VEZZI 1960. 41 primitiva nelle lesene e sul muro orientale181. Del Zanna documenta restauri e ripristini effettuati nel periodo 1903-1905 e nel 1910182. Bucchi ne parla estesamente in un pur breve contributo sulle chiese francescane in Valdelsa183. Piranesi e Rosati le dedicano molto pagine all'interno di contributi inerenti Poggibonsi184. Nella lista non possono chiaramente essere omesse le pagine di Ciaspini e Pratelli nelle loro storie di Poggibonsi nonchè la scheda di Antichi185. Da segnalare inoltre una breve monografia di Bertagna sul culto del santo con ipotesi sulle dimensioni della chiesa primitiva di Santa Maria di Camaldo o la citazione di una lapide marmorea sul tamponamento di una porta del lato nord, con iscrizione del 1252 relativa ad un Magister Nicholettus186. Secondo il Pratelli alcune case del borgo di Camaldo, compresa la chiesa intitolata a Santa Maria, furono donate dal comune di Poggio Bonizio ai francescani affinchè potessero costruirvi il loro convento. La tradizione individua in frate Elia l'architetto che diresse i lavori. Causa le continue guerre contro i fiorentini, il cantiere subì presumibili interruzioni intorno al 1257 e al 1270. Prima del 1270 presso la chiesa doveva essere posto un cimitero, di cui resta una lapide sepolcrale. Nel 1300 veniva realizzato l'altare maggiore, collocato al centro del coro: a questa data i lavori di trasformazione dell'edificio romanico nella prima chiesa a capanna dovevano essere stati conclusi. Nel novembre del 1400 la chiesa versava in cattivo stato, tanto che fu restaurata e riedificato il tetto con tegole e materiale proveniente da San Gimignano. Nel 1580 si verificarono nuovi problemi, crollarono i tre ultimi cavalletti e parte del tetto; anche la facciata che guardava il convento si staccò quasi completamente. Dal 14 agosto 1581 ebbero inizio i nuovi restauri; durante tali opere, nel tentativo di reintegrare un lacerto di pavimentazione laterizia dietro all'altare, fu scoperto casualmente un tavolone di noce sotto cui era deposta una cassetta di travertino con coperchio in marmo bianco dove era incisa la frase «Corpus Sancti Luchesij». Nel XVII secolo, dopo ulteriori restauri, furono tolte le superfetazioni, riaperti gli otto finestroni oblunghi a sesto acuto della navata principale, quello imponente del coro, quelli delle cappelle e l'occhio della facciata. Nel luglio del 1944 fu fortemente danneggiata da un intenso cannoneggiamento. Incorporati nel lato sinistro della basilica francescana sono i resti della chiesa di Camaldo consistenti in un tratto di paramento, realizzato in grossi conci di travertino spianati e accuratamente squadrati, e di un portale, probabilmente della facciata, di forme pisane. L'archivolto è leggermente estradossato e decorato da una doppia cornice. Date le dimensioni e l'altezza del portale è da ritenere che la chiesa fosse di notevoli dimensioni. La parte terminale è formata dalla scarsella quadrangolare affiancata da due cappelle. I tre vani sono voltati a crociera con costoloni in laterizio. Gli archi, realizzati in laterizio, con risega segnano l’imposta delle scarselle che sono a sesto acuto tranne in corrispondenza della cappella destra il cui arco è stranamente a tutto sesto. L’imposta degli archi è decorata da sculture a motivo vegetale estremamente stilizzato in travertino. Il transetto, elemento architettonico presente nelle chiese mendicanti dei centri più grandi, è notevolmente pronunciato rispetto ad altri esempi di chiese francescane. Esternamente la scarsella centrale e le cappelle laterali prendono luce da bifore con archetti trilobati. La fabbrica all’esterno mostra fasi costruttive distinte caratterizzate

181 NERI 1893. 182 DEL ZANNA 1918. 183 BUCCHI 1926, pp.20-23. 184 PIRANESI 1926; ROSATI 1924. 185 CIASPINI 1898, pp.23-25, 89, 120, 123; PRATELLI 1929-1938, pp.33-34, 112-125, 269-277; ANTICHI 1965, pp.177-180. 186 BERTAGNA 1969. 42 dall’uso di materiali e tecnica muraria diversa: le cappelle del transetto sembrano essere un’aggiunta posteriore per la tecnica meno accurata del paramento murario e per il fatto che si appoggiano alla fabbrica della chiesa. Sul lato destro la cortina muraria è formata da un paramento in laterizi fino ai puntoni della copertura del chiostro. Sul lato sinistro il paramento murario si presenta composto da bozzette di travertino disposte secondo corsi orizzontali. Cinque finestroni con arco a sesto acuto e archivolto polilobato si aprono sul medesimo fianco che ingloba parte della romanica chiesetta di Camaldo. La facciata è inquadrata da due lesene angolari, di ampiezza diversa, e da uno zoccolo smussato alla base. La parte superiore del prospetto presenta un paramento rimaneggiato con l’aggiunta di zeppe in laterizio interposte tra i corsi di bozze di travertino. Sul lato occidentale del chiostro è visibile la porta a sesto acuto affiancata da due bifore con archivolti a sesto acuto che permetteva l’ingresso alla sala capitolare. Il complesso, eccetto il prolungamento del transetto, è da riferire ai primi anni del XIV secolo. Mennucci, nella sua indagine sulle tipologie edilizie riconoscibili sul territorio poggibonsese ha trattato l'edificio attraverso una lettura archeologica degli elevati 187. L'autore nota che il complesso rivela, anche ad un’indagine sommaria, la notevole stratificazione resa ancor più complessa dalla giustapposizione di corpi di fabbrica più tardi, fra i quali il chiostro, e dalla diffusione di superfici intonacate anche all'esterno. Le strutture più antiche, pertinenti alla primitiva chiesa di Santa Maria a Camaldo, sono individuabili nella porzione inferiore della facciata e sul fianco sinistro del tempio attuale. Queste murature superstiti, anche di notevole entità, rivelano il mutato orientamento della chiesa; il portale di accesso dell'antica Santa Maria, con arco a tutto sesto estradossato, è infatti visibile sulla porzione del fianco. Le dimensioni del paramento riferibile a questa fase sembrano attestare una profondità maggiore dell'edificio originario. La demolizione di gran parte delle strutture della primitiva chiesa dette l'avvio all'impianto di una nuova fabbrica, con orientamento nord-sud, nella quale furono utilizzati sia nuovi materiali sia molti conci di riuso. E' dunque a questa disponibilità eterogenea, e non ad interventi anche cronologicamente diversificati, che si devono le disomogeneità riscontrabili sulle diverse superfici edificate. Una delle prime operazioni che si resero necessarie fu la realizzazione dei nuovi allineamenti sul tratto occidentale e su quello meridionale; il primo, accorciando la profondità della chiesa di Santa Maria, doveva definire il nuovo fianco destro; il secondo avrebbe dovuto costituire il nuovo limite dell'area presbiteriale superando il limite imposto dalle murature più antiche. Alcuni dubbi interpretativi sorgono dall'osservazione dei rapporti intercorrenti fra le cappelle che costituiscono i bracci trasversali, la scarsella absidale ed il corpo principale dell'edificio. Nella porzione più prossima al terreno tutte queste parti sembrano concepite sincronicamente e legate fra loro; da circa un metro e mezzo di altezza in poi, la coesione unitaria fra le varie strutture viene però meno e risulta evidente la costruzione più tarda di bracci e scarsella rispetto alla nave della chiesa. Benchè questa evidenza non renda possibile un’intrepretazione immediata è forse possibile trovare la spiegazione in uno iato nella costruzione delle strutture durante il quale la chiesa sarebbe stata condotta a compimento in una forma diversa da quella progettata; una ripresa più tarda dei lavori avrebbe infine dotato il tempio delle cappelle laterali e dell'abside quadrangolare, delle quali erano rimaste in atto soltanto le porzioni basamentali. Se questa è, a grandi linee, la genesi dell'imponente complesso ecclesiastico, non ci è possibile aggiungere molto circa la successione degli interventi che, tramite una articolata giustapposizione di corpi di fabbrica, condusse alla definizione dei fabbricati del monastero. Da segnalare sono l'apertura più tarda delle monofore archiacute dei fianchi, il taglio dell'oculo della facciata, la definizione del nuovo portale e delle aperture dell'area absidale. Risultano anche evidenti i restauri subiti dal prospetto principale rappresentati, in

187 MENNUCCI 1996. 43 massima parte, da una diffusa rizzeppatura dei letti di posa tramite l'impiego di frammenti di laterizi. L'indagine condotta all'interno dell'area valdelsana non ha rivelato, fino a questo momento, una diffusione di portali con archi a tutto sesto estradossati costruiti prima di metà XII secolo188. Anche alla luce di questo dato sembra di poter privilegiare la datazione proposta da Moretti e Stopani (XII secolo), per i resti superstiti della chiesa di Santa Maria a Camaldo189, che non quella avanzata da Agostino Neri (XI secolo)190. Sempre dal Neri, però, veniamo a sapere che questa chiesa, fra le più importanti suffraganee della pieve di Poggibonsi, era ancora intatta nel 1221. Per l'impossibilità di risalire alla fonte a cui ha attinto l'erudito e per le forzature di molte sue attribuzioni, ci vediamo costretti a valutare questa informazione con una certa cautela. Nonostante ciò, la costruzione dell'edificio francescano dopo i primi decenni del XIII secolo sembra abbastanza plausibile visto che quasi tutte le chiese valdelsane dell’ordine risultano edificate a partire da quegli anni. Abbastanza interessanti risultano anche le osservazioni sulla successione e la durata degli interventi avanzati dal Neri, soprattutto per quanto concerneva la zona absidale: aveva già ipotizzato l'esistenza di più fasi di cantiere talvolta intervallate a prolungati momenti di stasi. Non molto sappiamo relativamente all'incidenza degli interventi di restauro sulle superfici del complesso; una prima stagione di "salvaguardia" delle strutture dovette venire operata fra la fine del secolo scorso e gli inizi dell'attuale per merito del canonico Luigi Valiani, già deceduto nel 1918. In questa fase si procedette, oltre al rifacimento del pavimento della chiesa e del loggiato esterno (pare che si tratti di gran parte del chiostro appoggiato al fianco destro della chiesa), alla riapertura dell'occhio centrale della facciata e degli otto finestroni della navata centrale; oltre a questi furono anche restaurati quelli del coro e delle cappelle absidali, obliterati nei secoli precedenti e sostituiti con "finestre da granaio"191. Sempre da questo canonico furono riaperte, durante i lavori alla sala capitolare, le bifore archiacute che si affacciano sul chiostro. Il successore del Valiani, canonico Giovanni Neri, non interruppe l'opera intrapresa aprendo anzi due nuove finestre con arco acuto per dar luce alla sacrestia e procedendo alla sistemazione delle volte del portico, situato davanti alla facciata, e di quelle del chiostro. In seguito ai pesanti bombardamenti subiti dalla cittadina durante l'ultimo conflitto, dei nuovi restauri si resero necessari nell'immediato dopoguerra ma, a quanto sembra, finalizzati soprattutto al rifacimento delle coperture.

4 - La Magione. Una carta redatta in data 5 settembre 1140 informa della donazione voluta da Arnolfo e Arnolfino di Cristofano, eredi dei fondatori in favore di Rodolfo, abate della Badia di Marturi, nella quale si comprende «unum hospitalem positum juxta pontem Bonitti»192. L’ospedale non figura nella bolla pontificia riguardante le dipendenze della pieve di Poggibonsi, mentre è registrato l’ospedale del ponte di Lappeto che doveva però essere posto più a sud. Definito anche con il termine di «xenodochio», venne poi ceduto nel 1191 dal proprio rettore, insieme a tutti i beni ad esso legati, al rettore Roberto, Maestro del Gerosolimitano di Pisa193 (l'ospedale non compare infatti nel 1173 quando gli ospedalieri della Valdelsa sono riuniti a Torri). Non è chiaro il motivo della decisione di alienarlo dal patrimonio della Magione; data l'assenza totale di documentazione intermedia, non c'è dato di proporre soluzioni certe nè

188 MENNUCCI 1993-94. 189 MORETTI, STOPANI 1968a, p.146; MORETTI, STOPANI 1969, p.16. 190 NERI 1893, II, p.28. 191 DEL ZANNA 1918, p.52. 192 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 1 novembre 1068. 193 RINALDI 1980, p.48. 44 tantomeno uscire dal campo delle pure supposizioni. Giuseppe Mantelli, nei suoi lavori concernenti le vicende della Magione in relazione all'ordine dei Templari, suppone che negli anni successivi al 1140, in concomitanza dell'ascesa dei Templari stessi e con la nomina al seggio pontificio di Alessandro III, papa senese sostenitore dell'Ordine, i monaci avessero affidato ai cavalieri la Magione, proprio per l'importante ruolo da essa svolto; dopo la caduta di Gerusalemme, avvenuta nel 1187, i Templari, sempre con il consenso dei monaci, l'avrebbe poi alienata, secondo il loro costume, insieme a molte delle loro proprietà per soccorrere gli stati cristiani d'Oltremare194. Tutto ciò spiegherebbe la cessione testimoniata nel documento del 1191; in seguito, dopo la ripresa dei Templari, sempre più supportati dall'appoggio dei pontefici ed in particolar modo di Innocenzo III, avrebbero spinto i monaci di Marturi a richiedere la proprietà della Magione; si arriva dunque alla bolla emessa da Gregorio IX nel 1228 che elargiva privilegi a Marturi, ne confermava i possessi fra i quali anche lo «hospitalem quod est justa pontem Bonitii (...)»195. Nel periodo compreso fra questa data ed il 1290 la Magione venne poi affidata o, secondo l'ipotesi appena esposta, riaffidata ai Templari. L'Ordine infatti alla fine del XIII secolo era certamente alla conduzione dell'ospedale; forse già nel 1290, come riporta sia un'iscrizione incisa sulla culatta di una delle campane trascritta da Clemente Casini, sia una pietra tombale con una croce a otto punte scolpita posta, ancora secondo Casini, alla fine del XVIII-inizi XIX secolo al centro della Magione con la data 1300 sul bordo (anche se difficilmente leggibile). Dopo la soppressione dell'Ordine Templare subentrarono gli Ospedalieri; essi la manterranno anche in quelle condizioni di difficoltà economiche che spinsero a cedere la magione di Torri presso Cusona. La Magione svolse ruolo di pellegrinaio ancora nel 1450 quando, in occasione del giubileo indetto da papa Niccolò V, accolse molti pellegrini. Nel 1550, i beni della Magione furono trasferiti nel patrimonio del Gran Priorato di Pisa; nove anni dopo il Gran Priore Antonio de'Medici fece compilare un elenco dei beni dal quale risulta che il complesso si trovava ancora in buono stato di conservazione. Nel 1664 la Magione venne eretta a commenda. Nel 1758, come attestano molte iscrizioni conservate all'interno della Magione stessa, Lorenzo Corsini effettuò molti restauri all'edificio. Nell'ottobre 1822 lo Staggia straripò e inondò l'intero complesso; i Corsini, che avevano in enfiteusi l'ospedale ormai ridotto a usi colonici, decisero di fare interdire la chiesa e trasportare l'officiatura alla chiesa Priora di Megognano, insieme alle ceneri e alla pietra tombale del cavaliere Sorcello tutt'oggi visibile nella chiesa, gli arredi sacri, una delle due campane fatte fondere dai templari nel 1290 e una tavola dipinta da Taddeo Gaddi nel 1315. Negli anni successivi, venne sempre più interessata dai frequenti straripamenti del torrente, tanto che i depositi alluvionali raggiunsero nel 1981 il piano della strada attuale. Agli inizi degli anni ottanta del nostro secolo, con la costituzione a Milizia del Tempio, venne sottoposta ai restauri che le conferiscono il suo attuale aspetto. Il Ponte detto di Bonizzo era posto sul torrente Staggia, di fronte alla Magione dei Cavalieri di Malta; in un atto datato al 1 novembre 1068 se ne conosce l'attestazione più antica. Come abbiamo visto il 5 settembre 1140 veniva definita la Magione come «unum hospitalem juxta pontem Bonitii»; nuovamente nel 1174 nella cosiddetta Narratio di Marturi era nominato il ponte per una decima connessa ad un terreno nelle sue vicinanze; nel 1191 si parlava dello xenodochio del ponte di Bonizio con la casa del ponte; ancora nel 1210 e 1228 l'«hospitalem et ecclesiam quod est juxta pontem Bonitii». La struttura venne utilizzata senza soluzione di continuità, ma non se ne conosce il momento di disuso che forse è da relazionare alla distruzione di Poggio Bonizio. Nel 1364, infatti, gli Officiales

194 MANTELLI 1984-90, pp.65, 337. 195 AUVRAY 1896-1902, I, n.180, pp.101-103. 45 Pontium di Poggibonsi procedettero alla sua ricostruzione. Nuovamente, in età moderna, il ponte dovette essere ancora stato distrutto. Nel 1818 comunque, alcune nobili famiglie fiorentine, con proprietà nei pressi del torrente nei pressi della Magione fecero istanza al Magistrato Comunitativo perchè autorizzasse e sovvenzionasse la costruzione di un ponte di legno. Secondo Pratelli, esistevano tracce della struttura nei cespugli nel letto del torrente ed interpretati come resti di un muro su cui il ponte poggiava. La chiesa è un edificio romanico, riferibile al tardo XII secolo, dalla semplice icnografia tipica delle chiese suffraganee a una navatella con abside. La fabbrica presenta diversi elementi decorativi e formali che la rendono tra gli edifici romanici minori più interessanti. Il paramento murario, formato da bozze di travertino squadrate e spianate e disposte secondo corsi orizzontali è particolarmente curato. Nella facciata, al di sopra dell’arco a tutto sesto del portale si apre una finestrella dall’insolita forma a denti di sega. Al vertice della facciata rimangono i due sostegni del campanile a vela. L’abside è decorata da una cornice a smusso ed archetti pensili con mensole decorate a motivi vegetali e zoomorfi. Motivi di derivazione pisano-lucchese sono anche la mensola della monofora abidale, la presenza dell’oculo nella testata absidale e l’archivolto gradonato delle monofore che si aprono nelle pareti laterali196.

5 – Cedda. Nella donazione del 10 agosto 998 in favore della Badia di Marturi vengono registrati tre mansi a Cedda197. Non abbiamo notizie relative alle vicende di un eventuale insediamento, che però compare come già dotato di una chiesa nella prima metà dell'XI secolo. Per un periodo di quasi quattro secoli, le fonti scritte non forniscono nessuno indizio, se non la presenza del toponimo e dei tre mansi nel falso documento redatto nell'XI secolo dai monaci di Marturi e datato al 25 luglio 998. Il silenzio si interrompe nel XIV secolo, quando Cedda ricompare definita come villa da cui dipendevano alcuni fondi. Infatti delle proprietà fondiarie ed alcuni edifici pertinenti al villaggio sono ricordate anche in una donazione in favore della chiesa e del monastero di Sant'Ambrogio di Montecellese, inoltre nell'Estimo della comunità di Poggibonsi del 1318198. Nel 1320 il popolo di Cedda, esteso a comprendere vicine località quali Sornano, Montignano e Verniano, giurava sottomissione al podestà di Poggibonsi199. San Pietro a Cedda è una chiesa ad unica navata con abside semicircolare e torre campanaria impostata a destra dell'edificio. La facciata a capanna, parzialmente coperta da un edificio più recente, presenta un portale con piedritti e lunetta monolitica; la ghiera dell'archivolto a tutto sesto, ispirata al gusto pisano, propone motivi vegetali ottenuti a stiacciato: si riconoscono grappoli d'uva, intrecci viminei, palmette e fiori. Un fregio a racemi stilizzati incornicia l'architrave decorato con una croce romanica posta a distinguere rosette quadrate, secondo un motivo già operato nella pieve di Sant'Agnese. Internamente la chiesa è divisa in due settori da un arco trasversale. L'arco si imposta su un pilastro cruciforme addossato alla parete laterale. Entrambe le semicolonne, alle cui basi sono visibili tori, presentano un capitello riccamente decorato. Il capitello della semicolonna destra, danneggiato nella parte superiore, è scolpito con rozze figure antropomorfe separate da tralci di vite e grappoli d'uva.

196 Si veda in generale, oltre alla bibliografia già citata, ANTICHI 1965, pp.180-182; BEZZINI 1992, pp.18-19; CASINI 1986, pp.140-143; CIONI 1911, p.92; DE LA RONCIERE 1976, pp.965-988; GIUSTI, GUIDI 1942, n.35; GUICCIARDINI 1929 p.34; LAMI 1758, II, p.1289; MANTELLI 1984-90, pp.65, 337; MENNUCCI 1996, pp.341-342; MORETTI, STOPANI 1968a, pp.136-139; MORETTI, STOPANI 1974, p.155; NERI 1894 pp.206-207; PRATELLI 1929-1938, pp.17, 28-29; RAVENNI 1995, pp.171-175; REPETTI 1833-1845, IV, p.483; SALMI 1928, p.51 n.51; VALENTI 1999; VENEROSI PESCIOLINI 1933, p.125. 197 FALCE 1921, p.186. 198 RINALDI 1986, pp.75, 84, 102. 199 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico di Poggibonsi, carta 92. 46 L'abside, spartita da due lesene a sezione semicilindrica, è ricassata alla maniera lombarda e due arcate cieche percorrono le pareti laterali in prossimità del presbiterio. La monofora absidale presenta un archivolto decorato con il consueto motivo a rosette e, nella ricassatura, due colonnette di cui una tortile, sorreggono l'archetto interno. Questa soluzione decorativa è molto rara da trovare nelle chiese rurali toscane e testimonia la vivacità culturale presente in Valdelsa nel medioevo; vivacità che acquista caratteristiche autonome nella fusione di elementi locali con altri di diversa provenienza. Si tratta di un’elaborazione mediata dalla grande arteria della Francigena, veicolo di trasmissione di linguaggi culturali di provenienza lombardo-padana, incrociatasi con l'uso di linguaggi propriamente locali, come la tradizione decorativa volterrana200.

6 – Papaiano. Un atto di compravendita redatto in data marzo 971 ci informa dell'acquisto, da parte di Ugo marchese di Toscana, di una parte della corte, del poggio e del castello di Papaiano con la chiesa di Sant'Andrea (insieme ad una parte della corte di Bulisiano con la chiesa di San Giorgio) di proprietà di un tale Uunisi-Guinizo201. Guinizo, con tale vendita, era riuscito a rivendicare la parte dei beni paterni spettantigli per eredità; il padre Azzo, signore di Papaiano, era stato ucciso dal fratello Ugone per sposarne la moglie ed impadronirsi del suo patrimonio. Le indicazioni cronologiche contenute nella carta hanno portato dubbi relativi all'anno di stesura: infatti l'anno decimo di Ottone I e quarto di Ottone II suggerisce il 970, mentre la menzione dell'indizione 13 indicherebbe il 971. Comunque, in seguito a questa compravendita, Papaiano e Buliciano furono nuovamente concessi in usufrutto al precedente proprietario; il contratto venne registrato in una carta andata perduta ma ricordata nella cosiddetta "narrazione di Marturi"202. La cronaca denominata «Fioretto di Sasso Cattaneo» tramanda la tradizione di una famiglia nominata Vivenzi che, fuggendo dal villaggio di Camaldo a seguito di un fatto di sangue di cui fu protagonista il nobile Asturpio, si trasferì a Papaiano. Nell'anno 989, quasi venti anni dopo la prima attestazione del castello, Papaiano risulta invece citato come «villa», quindi un villaggio aperto203. Ma con la donazione del 10 agosto 998 di Ugo a Marturi, a seguito della quale le proprietà di Papaiano passarono ai monaci, il toponimo si legava nuovamente ad una forma insediativa tipo castello204. Possiamo formulare due ipotesi: un errore di definizione nella carta del 989; un caso di decastellamento del quale restano però sconosciute le cause, verificatosi nella seconda

200 Si vedano in generale ANTICHI 1965, pp.184-185; AA.VV.1995, pp.80-83; III, pp.78-79; AA.VV. 1996, pp.123-126; BOSI, SCARFIOTTI 1990, p.139; CANESTRELLI 1904, pp.15, 19, 24, 27, 37, 45, 47, 54; CARDINI 1988, pp.64, 89, 98; CENCETTI 1994, pp.14, 91, 164, 165; CIONI 1911, p.89; DE FILLA et alii 1986, p.31 n.22; FALCE 1921, pp.135, 186; FRATI 1995, p.45; KURZE 1989, p.194; GIUSTI, GUIDI 1942, p.145 n.2520; GUIDI 1932, p.109 n. 2467, p.116 n.2644; LAMI 1758, I, p.231; II, p.1059; III, p.1582; MANTELLI 1984-90, II, p.239; MARRI MARTINI 1926, pp.92-93, 96; MARRI MARTINI 1922, p.4; MENNUCCI 1993-94, pp.310-313; MENNUCCI 1996, pp.340-341; MORETTI 1962, pp.217-220; MORETTI 1962, p.10, 49, 138, 162, 217-220, 336, 342; MORETTI et alii 1975, p.55; MORETTI, STOPANI 1968a, pp.153-159; MORETTI, STOPANI 1974, p.215; MORETTI, STOPANI 1982, pp.383-384, 386; MORETTI, STOPANI 1981, 30b, 89b, 106, 136, 137, 138a, 151 n.25, 151 n.27, 152 n.83, 171 n.9, 175; NEGRI 1978, pp.38, 347-349; PAMPALONI 1901, p.39; POLI 1985, pp.21-29, 33, 58; RAVENNI 1991, pp.35, 47, 103; RAVENNI 1995, pp.154-158; REDI 1989, pp.27, 61; REPETTI 1833-1846, I, pp.58, 640; IV, 487; Suppl., p.67; SALMI 1927, pp.21, 53 n. 57, 61 n.72; SALMI 1958, p.24, Tav.82; SALMI 1961, p.29, Tav.106; SALMI 1928, pp.27, 33 n.35, fig.14; SALVINI, VON BORSIG 1973, pp.11, 22; STOPANI 1987, p.57; STOPANI 1979, p.78; STOPANI 1990, pp.77-78; STOPANI 1986, pp.76 -77; TOESCA 1927, I, p.664 n.54; VALENTI 1999: ZUCCAGNI ORLANDINI 1857, p.93. 201 FALCE 1921, n.49, p.138. 202 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, circa anno 1075. 203 Regestum Volaterranum, n.75, p.27, 10 marzo 989. 204 FALCE 1921, p.187. 47 metà del X secolo ed a seguire, durante lo stesso periodo, la riedificazione delle fortificazioni. Agli inizi dell'XI secolo il marchese Bonifazio, successore di Ugo, privò il monastero di questa dotazione; seguì così una lunga serie di sentenze, conservate per lo più nel Diplomatico Ospedale Bonifazio dell'Archivio di Stato di Firenze, che si risolsero sempre a favore di Marturi (cinque bolle pontificie in quasi settant'anni, sino alla prima metà del XIII secolo; autori Alessandro II, Pasquale II, Adriano IV, Alessandro III, Innocenzo II; non tutte sono considerate completamente autentiche o esenti da interpolazioni più tarde). Nello stesso processo intentato dai monaci nell'anno 1075 per la proprietà di Papaiano, inoltre, si cercò di dimostrare che gli immobili ivi posti facevano parte dei beni allodiali del marchese e quindi la donazione risultava perfettamente legale. I monaci avevano ragione; i beni di Ugo in Papaiano, infatti, erano assolutamente di natura allodiale, in quanto acquistati mediante un atto privato (il documento del marzo 971 specifica «Ego Guinizio vindo et trado tibi Ugo, dux et marchio»205), dunque totalmente estranei al potere marchionale: le confische eseguite da Bonifazio quindi, risultano del tutto arbitrarie e prive di diritto: una vera e proprio usurpazione. Il castello alla fine dell'XI secolo apparteneva però ancora ad esponenti della nobiltà locale e nel settembre 1089 Mingarda di Morando lo donò ad un Giovanni da Benzo; dal documento veniamo a conoscere l'esistenza di una seconda chiesa, una cappella dedicata a Sant'Angelo206. Dall’esame del documento sembra che la chiesa fosse localizzabile presso il fabbricato posto a monte della chiesa di Sant’Andrea che nel Catasto Leopoldino del 1825 era denominato “Castellare”; tale fabbricato non mostra comunque elementi riferibili a una chiesa medievale. Queste sono le ultime notizie in nostro possesso, dopo di che ritroviamo Papaiano citato per acquisti e acquisizioni di terre dalla fine del XII secolo al primo quarantennio del XIV secolo, periodo in cui il monastero di Marturi stava qui consolidando un numero cospicuo di proprietà fondiarie. Dagli atti veniamo così a conoscere alcune caratteristiche topografiche del suo circondario ed alcune località individuate attraverso quella toponomastica minore oggi in gran parte scomparsa: l'esistenza di una zona paludosa o acquitrinosa (nel 1176 fu venduta una terra nel padule di Papaiano207), di un mulino (nel 1221 gli abitanti di Papaiano parteciparono al giuramento di alleanza prestato da Poggio Bonizio a Siena e fra i testimoni compare un «Rector de Papaiano, rector molendinorum»208), di spazi messi a coltura adiacenti alle fortificazioni (nel 1225 furono venduti un terreno a Papaiano confinante con le mura castellane ed un secondo terreno in località la Fonte di Papaiano presso lo Staggia 209), la presenza di una strada che congiungeva il castello all'insediamento di Luco (nel 1237 fu venduto un pezzo di terra in Campo dell'Abate presso tale via 210), di un ponte (nel 1239 fu venduta una vigna in Campo dell'Abate al di là del ponte di Papaiano211). Sconosciute sono invece le vicende successive del centro castrense. La canonica di Sant'Andrea viene nominata nel privilegio del 10 agosto 998, come anche nel falso del 25 luglio 998, in favore del monastero di Marturi. Nel 1076 la canonica di Sant'Andrea fu oggetto della controversia tra l’abate del cenobio e un certo Sigizio che fu arbitrata dal ministro comitale Nordillo, il quale emise parere favorevole al cenobio. Nonostate la soluzione favorevole di questa vertenza, i religiosi continuarono ad avere controversie con i rettori della chiesa; solamente nel 1232 si giunse ad un accordo con il

205 FALCE 1921, n.49, p.138. 206 Regestum Senese, n.120, p.45, settembre 1089. 207 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 4 marzo 1176. 208 Regestum Senese, n.595, p.265, 10-12 luglio 1221. 209 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 9 aprile 1225. 210 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 11 febbraio 1237. 211 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 23 marzo 1239. 48 riconoscimento dei diritti accampati dai monaci. Probabilmente, questi, persero il patronato della chiesa se nelle decime del 1276 è registrata tra gli enti sottoposti alla decima papale. Antichi, tracciando un breve profilo della chiesa, riporta sia una sua personale lettura delle stratigrafie murarie sia che l'edificio fu restaurato nel 1881 e nel 1893 su disegni dell'ingegnere Giovani Pampaloni; quest'ultimo «fece riaprire nelle pareti laterali le finestre oblunghe a doppia strombatura e ricostruì la finestra frontale bifora del secolo XI. Così la chiesa mostra quattro epoche diverse; il secolo IX della sua costruzione originaria in basso, il secolo XI nei più antichi restauri, il secolo XVII per la deturpazione degli intonachi e dei colori, il secolo XIX per la restituzione in gran parte al suo stato primitivo»212. Sconosciute sono invece le vicende successive del centro castrense, del quale oggi rimangono realmente scarsissime indicazioni, soprattutto la parte di una torre, fortemente degradata, incorporata nel podere Castellare. La chiesa presenta un’icnografia desueta per una semplice canonica. L’edificio infatti consta di una navata con transetto, mancante oggi del braccio destro e dell’abside corrispondente, conclusa da una tribuna a tre absidi. Il tipo di icnografia è solitamente usato nelle chiese monastiche ed è probabile che rifletta quella del monastero di Marturi, oggi perduto, che la detenne per almeno due secoli. La parete sinistra della chiesa presenta un coronamento a dentelli e mensola che si ritrova nei lati del braccio del transetto superstite. Tre monofore si aprono in ognuna delle pareti perimetrali. L’abside maggiore ha un semplice coronamento a smusso e in essa si aprono tre monofore fortemente strombate con archivolto composto da cunei di travertino, analoga foggia presentano l’unica monofora dell’absidiola e quella nel lato settentrionale del transetto. La facciata, dall’accentuato slancio verticale, è stata restaurata con la reinvenzione dell’apertura bifora e dell’architrave del portale. Alcune caratteristiche decorative e costruttive pongono la chiesa di Papaiano in risalto rispetto alla produzione del romanico minore in questa parte della regione. Oltre l'impianto a croce latina con tribuna triabsidata tipicamente di origine monastica, singolare, almeno per questa parte della Valdelsa, è anche il tipo di decorazione a mensola poggiante su dentelli e la fattura particolare delle monofore absidali: a forte strombo con archivolto formato da cunei di pietra di piccole dimensioni ma posti in opera con estrema accuratezza. La muratura del prospetto della facciata presenta due diverse tessiture murarie: nella parte inferiore fino a circa mezzo metro al di sopra dell’arco del portale il paramento è composto da bozzette di arenaria e travertino sommariamente sbozzate; nella parte superiore il paramento è invece più accurato e le bozze sono di pezzatura più grossa. Tuttavia, l’esistenza di buche pontaie assiali in entrambi i rivestimenti murari rimandono ad una contemporaneità di messa in opera. Poco al di sotto del vertice della facciata è una finestra cruciforme e sotto di questa si nota un arco tamponato, probabilmente la ricassatura della finestra originale213.

212 ANTICHI 1965, p.200. 213 Si vedano in generale, oltre alla bibliografia già citata ANTICHI 1965, pp.199-200; AA.VV. 1996, pp.128- 129; BANDINI 1777, IV, p.551; BOSI, SCARFIOTTI 1990, p.139; CAMMAROSANO 1993, pp.363, 379, 418; CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.136; CARDINI 1988, pp.63, 64, 88; CENCETTI 1994, p.14; CIONI 1911, p.88; DE FILLA et alii 1986, p.31 n.22; GIUSTI, GUIDI 1942, p.30 n.586; GUIDI 1932, p.23 n. 526; KURZE 1967, pp.557 n.92, 561 n.105; LAMI 1758, I, pp.231, 536; III, pp.1523, 1528, 1581; IV, p.12; LISINI 1908, pp.102, 121, 144; MANTELLI 1984-90, II, pp.63 n.13, 239; MARRI MARTINI 1926, p.96; MENNUCCI 1993-94, pp.306-309; MENNUCCI 1996, pp.339-340; MORETTI et alii 1975, p.55; MORETTI, STOPANI 1974, pp.137 n.2, 140 n.8, 144, 147, 212-213; MORETTI, STOPANI 1968a, pp.140-142, 143, 304; MORETTI 1962, pp.214, 336; MURATORI 1738-42, VI, p.39; NERI 1901, pp.80, 81, 82, 83, 174; POLI 1985, pp.43, 44-46; PRATELLI 1929-1938, pp.14-15; PRUNAI 1977-78, p.246 n.106; PUCCINELLI 1664, p.205; RAVENNI 1991, pp.29, 32, 33, 35, 47; RAVENNI 1995, pp.96, 97, 187-191; REPETTI 1833-1846, IV, pp.55- 56, 483, 484, 486; SALMI 1927, p.50 n.46; SCHNEIDER 1911, p.45 n.120, 98 n.258; SCHNEIDER 1907, 27, n.75; STOPANI 1979, p.78; STOPANI 1990, p.77; STOPANI 1986, pp.16, 25 n.40; STOPANI 1988, p.76; 49 7 – Gavignano. La prima attestazione risale ad una vendita privata stipulata nel dicembre 990214. Un fondo posto in Gavignano è poi inserito nella falsa donazione del marchese Ugo del 25 luglio 998 redatta dai monaci di Marturi alla fine dell'XI secolo215. Non possediamo ulteriori notizie della località sino al XIII secolo. Nel luglio 1221, però, uomini provenienti da Gavignano compaiono nel giuramento prestato dagli abitanti di Poggio Bonizio a Siena; dalla seconda metà del XIII secolo viene anche documentata una chiesa. E' probabile che il toponimo abbia iniziato ad indicare una piccola realtà insediativa solo dopo l'acquisizione nel patrimonio di Marturi e che il suo sviluppo in un villaggio si collochi nella metà del XIII secolo, periodo in cui dovette anche essere eretta la chiesa. Numerose particelle fondiarie poste all'interno delle pertinenze del villaggio di Gavignano sono censite poi nell'estimo redatto nel 1318216. La chiesa, faceva parte del piviere di Sant'Appiano, nella diocesi medievale di Firenze; è documentata per la prima volta nei Decimari di fine del XIII secolo (1276-1277; 1302- 1303)217. Anche nel 1221, in occasione del giuramento degli uomini di Gavignano in favore dei Senesi a Poggio Bonizio, non è fatta menzione del popolo della parrocchia rurale, indicato invece nella sottomissione al Podestà di Poggibonsi del 1323. La chiesa ha conservato la struttura romanica. E’ una piccola aula originariamente conclusa da un’abside semicircolare, di cui si nota oggi la tamponatura dell’arco nella parete terminale. La facciata presenta un portale con stipiti costituiti da due conci di arenaria, disposti in senso longitudinale e due conci in senso orizzontale. L’arco a tutto sesto del portale, che racchiude la lunetta monolitica, ha l’estradosso impostato sull’architrave, soluzione insolita nel romanico toscano rurale. Al di sopra del portale è una finestra bifora rifatta negli archivolti ma che conserva l’originale capitello decorato con una rosetta. La colonnina è invece di restauro. Un campanile a vela a due luci, di epoca moderna, si imposta sulla pendenza destra della facciata, la cui parte superiore è frutto di un rimontaggio. Anche le pareti laterali conservano il regolare paramento murario, formato da conci di arenaria accuratamente squadrati e spianati218.

8 - Pian dei Campi. La chiesa di San Lorenzo è ricordata nel 1130, nella supplica rivolta dagli uomini di Poggio Asturpio al pontefice contro le pretese degli abitanti di Marturi; è definita come dipendente dalla pieve volterrana di Castello. Venticinque anni dopo risultava far parte del piviere fiorentino di Poggibonsi. Nel tempo San Lorenzo dovette decadere anche economicamente, tanto che fu censita, sia nell'estimo del 1290 che in quello del 1302- 1303, come non solvente. La chiesa, oggi restaurata, è un edificio risalente al tardo medioevo. Riferibile all’epoca romanica resta il portale della facciata ad arco ribassato; nella lunetta è reimpiegato un frammento marmoreo decorato a quadrati incisi. L’edificio sembra essere stato rimontato

VALENTI 1999. 214 Regestum Volaterranum, n.78, 16 dicembre 990. 215 FALCE 1921, p.185, 25 luglio 998. 216 RINALDI 1986, pp.78, 80, 86-87, 88, 93. 217 GIUSTI, GUIDI 1942, n.622; GUIDI 1932, n.534. 218 Si vedano in generale, oltre alla bibliografia citata, CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.134; MORETTI, STOPANI 1968a, pp.234-235; MORETTI, STOPANI 1974, p.155; RAVENNI 1995, pp.164-165; REPETTI 1833-1846, II, p.413; VALENTI 1999. 50 in seguito, utilizzando parte del materiale lapideo della chiesa medievale. Anche l’abside semicircolare è da attribuire ad una fase successiva219. Il toponimo si lega anche e soprattutto ad un importante rinvenimento archeologico. Si tratta di un corredo eucaristico noto con il nome di «Tesoro di Galognano», composto da una serie di sei oggetti in argento databili nel corso del VI secolo: quattro calici, una patena ed un cucchiaio. La scoperta è stata effettuata in corrispondenza di un campo posto a circa 80 metri in direzione nord dalla chiesa romanica nel 1963. Mancano dati precisi sul carattere del deposito al momento del rinvenimento; gli oggetti dovevano comunque essere stati impilati (sulla cima si trovava il cucchiaio) e racchiusi in un sacco poi logoratosi ed assimilatosi al terreno. Le operazioni di sterramento avevano prodotto alcuni danneggiamenti, soprattutto ammaccature e tagli, agli oggetti ed in particolare a due dei calici più piccoli220. Il Tesoro fu inizialmente depositato presso il convento francescano di San Lucchese; intorno alla fine degli anni 'settanta venne restaurato dai tecnici dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze e nel 1981 fu trasferito per ragioni di sicurezza alla Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Siena. Dopo aver trovato spazio all'interno di mostre e pubblicazioni per lo più incentrate sull'Italia barbarica e su oggetti ed opere d'interesse artistico221, oggi è stato destinato al Museo di Arte Sacra di Colle Val d'Elsa, evento al quale hanno fatto seguito alcune risentite polemiche da parte di Poggibonsi, comune proteso ormai verao un deciso recupero e valorizzazione del proprio passato. E' costituito da manifatture in argento: un calice grande (24,3 x 10 cm; diametro della coppa 16,5 cm; peso 780 grammi), un calice medio (16,3 x 7 cm; diametro della coppa 11 cm; peso 350 grammi), un secondo calice medio (13 x 7 cm; diametro della coppa 11,7 cm; peso 330 grammi), un calice piccolo (10,4 x 5,7 cm; diametro della coppa 8 cm; peso 120 grammi), una patena (diametro 20,3 cm; peso 200 grammi), un cucchiaio (15,6 cm). Si distingue da analoghi tesori altomedievali rinvenuti in Italia perchè sicuramente ex proprietà di una chiesa, quella di Galognano, oggi scomparsa ma che era posta nel comune di Colle Val d'Elsa, come attesta l'iscrizione presente su uno dei calici medi: «+ HUNC CALICE (M) PUSUET HIMNIGILDA AECLISIAE GALLUNIANI». Sulla patena corre invece la scritta incisa a bulino e poi niellata (si scorge il residuo in corrispondenza della "S") «+ SIVEGERNA PRO ANIMAM SUAM FECIT». Dal punto di vista linguistico si tratta senza dubbio di un latino ormai lontano dalle forme classiche e con elementi estranei alla declinazione; per esempio «CALICE» è privo della terminazione dell'accusativo, «PUSUET» sostituisce pusuit, «AECLISIAE» sostituisce invece ecclesiae. I nomi delle due donatrici, cioè «HIMNIGILDA» e «SIVEGERNA» sono di origine ostrogota; il secondo, per esempio, è un nome composto con i temi germanici sibajo- (stirpe) e -gerno (premurosa).

219 Si vedano in generale CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.135; CARDINI 1988, p.95; CENCETTI 1994, p.37; CIONI 1911, p.95, DAVIDSOHN 1896-1927 I, pp.525 n.1, 607; DINI 1897, pp.14-20; GIUSTI, GUIDI 1942, p.30 n.587; GUICCIARDINI 1939, p.20 n.17; KEHR 1908, p.60; LAMI 1758, I, p.536; III, pp.1524, 1532, 1581; IV, p.12; MANTELLI 1984-90, II, p.63 n.13, 64 n.14, 158, 217, 239; MORI 1990, p.24; MORETTI et alii 1975, p.55; MORETTI, STOPANI 1968a, p.145; RAVENNI 1995, pp.200-202; REPETTI 1833-1846, IV, pp.176, 484; RINALDI 1980, p.9; SALVINI 1982, p.61; STOPANI 1979, p.78; VALENTI 1999. 220 Le foto antecedenti al restauro pubblicate in von HESSEN et alii 1977 ed in KURZE 1989 mostrano chiaramente l'entità dei danni inferti; la foto edita in SANTI 1994, scattata post restauro, rivela invece dei tagli ancora visibili sulla coppa del calice grande. 221 Oltre ai già citati von HESSEN et alii 1977, KURZE 1989, SANTI 1994 nella mostra Panis Vivus concernente arredi e testimonianze figurative del culto eucaristico tra VI e XIX secolo, segnaliamo MUNDELI MANGO 1986, nella mostra americana sugli argenti dall'antica Bisanzio, von HESSEN 1990 nella mostra di Cividale del Friuli sui Longobardi; inoltre ARCAMONE 1984 in una trattazione sui riflessi linguistici germanici in Italia. 51 Attestano indubbiamente la presenza di nuclei goti nella zona; inoltre evidenziano che le suppellettili liturgiche appartengono all'epoca precedente la venuta dei longobardi e che furono probabilmente interrati al momento in cui essi occuparono la Toscana; sembra trattarsi di oggetti rubati in tale occasione, come anche nei casi degli analoghi tesori di Isola Rizza-Verona e Canoscio-Città di Castello222. A proposito delle due donne, Kurze si è domandato se potessero essere proposte anche come le fondatrici della chiesa; l'autore evidenzia che l'avere donato i due oggetti d'altare più prestigiosi (pur non essendo dichiarata esplicitamente la fondazione nelle iscrizioni degli arredi) corrisponderebbe ad un elemento a favore, ma il peso della patena farebbe saltare l'ipotesi. Infatti, si ricava chiaramente che nel VI secolo una fondazione corredata in conformità alle esigenze del tempo, prevedeva una patena d'altare dal peso di almeno tre o quattro volte maggiore del calice o teca eucaristica; a Galognano il calice eucaristico, cioè quello dedicato, pesava 300 grammi e la patena avrebbe quindi dovuto pesare circa un chilogrammo invece dei 200 grammi attestati223. Il riferimento all'Eucarestia è subito avvertibile nelle iscrizioni votive e lo stesso cucchiaio, monco della parte terminale, in origine probabilmente a ricciolo, che reca nel rocchetto terminale il monogramma di Cristo, doveva essere impiegato per la distribuzione del pane consacrato; la difformità dimensionale dei calici rientra anch'essa nella ritualità eucaristica, adattandosi al numero dei presenti alla celebrazione224. Tenendo conto delle caratteristiche d'uso legate alle suppellettili, della mancata compatibilità tra essi e del confronto con i già citati casi di Isola Rizza-Verona e Canoscio- Città di Castello, è ipotizzabile che l'entità del Tesoro di Galognano fosse stata in origine maggiore. Il confronto con documenti noti, come per esempio il testamento di Aredio abate di Attanum al tempo di Gregorio di Tours, trova significativi raccordi tra i reperti di Galognano ed il corredo minimo stabilito per una chiesa: quattro pissidi a forma di torre, tre pendagli di seta, quattro calici d'argento tra i quali i due più grandi con manici del valore di almeno trenta solidi, il mediano dorato dello stesso valore, il quarto più piccolo del valore di tredici solidi, una patena d'argento del valore di settantadue solidi, coperte d'altare in seta o in lino, paramenti per la messa, una corona in argento dorato. Il numero e l'ordine di grandezza dei calici si accorda benissimo con la serie dei calici rinvenuti in Pian dei Campi; ai due calici grandi, uno di media grandezza messo in risalto dalla doratura (probabilmente una pisside) ed un quarto calice della lista di Aredio «corrispondono a *Gallunianu: uno molto grande, uno medio e poi, un po' più piccolo, un terzo calice messo in rilievo dalla scritta dedicatoria, ed infine un calice piccolo del peso di circa 1/3 rispetto al calice II»225. Per quanto riguarda la provenienza degli oggetti possiamo proporre la collocazione del cucchiaio nel più ampio contesto produttivo del Mediterraneo tardoantico; si tratta cioè di un esemplare appartenente a produzioni su larga scala e ad ampio raggio di diffusione e smercio (Inghilterra, Africa settentrionale, Spagna, Siria)226. Per i calici invece, dopo un'iniziale incertezza dovuta all'assenza di confronti con altri tesori altomedievali tipo quelli di Canoscio e Reggio Emilia, si è accertata, esaminandone accuratamente le forme, un'esecuzione occidentale nonostante la somiglianza con analoghi arredi di origine bizantina.

9 – Talciona.

222 si veda von HESSEN 1990, p.231. 223 KURZE 1989, pp.210-211. 224 SANTI 1994, p.92. 225 KURZE 1989, p.209. 226 Per tali aspetti si veda soprattutto BIERBRAUER 1975, pp.331-332; BIERBRAUER 1978. 52 Il castello di Talciona viene ricordato nella donazione di Ugo, marchese di Toscana, redatta il 10 agosto 998 in favore della Badia di Marturi con l'indicazione «castello de Calcione»227; nel 1089, risulta citato in un'altra donazione stipulata dalla nobile Mingarda di Morando. Agli inizi del XII secolo vi risiedevano i «filii rustici», la futura famiglia dei Soarzi signori di Staggia228. Nel 1203, durante la definizione dei confini tra i territori senese e fiorentino in questa zona, il castello di Talciona non venne citato mentre se ne nominava la chiesa. Dopo il suo inserimento nel contado fiorentino, la località nel XV secolo entrava poi in possesso della famiglia Adimari e indicata come villa. Il complesso fu quindi decastellato e ridotto a villaggio aperto, probabilmente tra gli inizi del XIII secolo ed il XV secolo; sembra più probabile comunque la prima data proposta. La prima attestazione della chiesa di Santa Maria risale al 1156, quando presso la canonica fu rogato un atto con il quale i conti Guidi fecero una permuta di beni posti presso Talciona. Parte del suo popolo si trasferì nella parte senese del castello di Poggio Bonizio ove edificò una chiesa di Santo Stefano in Talciona nel 1156. Tracce materiali del castello si ritrovano in una torre molto rimaneggiata, incorporata in una villa cinquecentesca. La chiesa è invece un interessante esempio di edificio tardoromanico pressochè conservato integralmente; è costituita da una navata rettangolare absidata con copertura a tetto realizzata con conci di travertino, arenaria e calcare disposti a corsi orizzontali e paralleli. La facciata a capanna presenta portale ad arco crescente con ghiera avvolgente decorata con motivi simili a quelli proposti nell'occhio sovrapposto. Sull'architrave, sorretto da mensolette concave decorate con figure bestiali, è scolpita l’Adorazione dei Magi, di forme piuttosto rozze probabilmente opera di maestranze locali; la datazione è fornita dall'incisione dell'anno 1234. E’ da ritenere che questo rilievo sia opera di maestranze locali che hanno assemblato suggestioni di varia provenienza (il tipo di rilievo lombardo e la decorazione a traforo duecentesca) innestandole su una concezione costruttiva tradizionale (la chiesa absidata di tradizione romanica). L’imbotto dell’archivolto della monofora è decorato con rozze figure astratte. Il coronamento delle pareti laterali preannunciano, con l’uso di corsi sovrapposti di laterizi disposti a denti di sega, l’imminente stagione tardomedievale. Sul lato destro dell’edificio si apre una rosone in arenaria traforato che rimanda anch’esso esperienze culturali non toscane229.

227 FALCE 1921, p.187. 228 CAMMAROSANO 1993, n.58, 1-24 marzo 1135. 229 In generale si vedano AA.VV. 1995, pp.80, 81; AA.VV. 1996, pp.121-122; ANTICHI 1965, p.201; AUVRAY 1896-1902, p.1132; CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.140; CARDINI 1988, pp.64, 89; CASABIANCA 1937, p.48; CENCETTI 1994, pp.18, 165; MURATORI 1738-42, V, p.861; CIONI 1911, p.90; DE FILLA et alii 1986, pp.29, 31 n.22; GIUSTI, GUIDI 1942, p.145 n.2525; GUIDI 1932, pp.109 n.2466, 116 n. 2649; GUIDONI 1970, p.435; KURZE 1967, p.543 n. 49; LAMI 1758, II, pp.796-797, 1289; III, p.1582; IV, p.17; LISINI 1908, p.73; LUSINI 1901, pp.226-227; MANTELLI 1984-90, II, p.239; MARRI MARTINI 1926, pp.90-92; MENNUCCI 1993-94, pp.319-321; MENNUCCI 1996; p.343; MORETTI et alii 1975, p.55; MORETTI, STOPANI 1974, pp.137, 139-140, 140 n.7, 145, 147, 215-216; MORETTI, STOPANI 1968a, pp.14, 161-165, 304; MORETTI, STOPANI 1966; MORETTI, STOPANI 1981, pp.30b, 69a, 114b, 137, 138a, 152 n.85, 162b, 171 n.9, 175; MORETTI, 1962, pp.10, 336, 343; NERI 1894, pp.113-131; NERI 1895, pp.9- 29, 122-131,197-207; NERI 1896, pp.80-92, 165; PICONE 1986, p.114; POLI 1985, pp.49-55; PRATELLI 1929-1938, pp.15, 83, 472-473, 477; RAVENNI 1995, pp.96, 101, 234-237; RAVENNI 1991, pp.58, 33 n.103, 35, 36, 37; REDI 1989, pp.27, 61, 65; REPETTI 1833-1846, I, p.58; IV, p.486; V, pp.499-500; GUIDI 1932, n.2649; GIUSTI, GUIDI 1942, n.2525; SALMI 1928, p.51 n.51; SALMI 1927, pp.28, 32, n.29, 57; SANTINI 1895-1952, I, pp.29, 124, 129, 132, 136; SCHNEIDER 1911, pp.61 n.164, 413 n.933; SCHNEDEIR 1914, p.89; SCHWARTZ 1915, p.236; STOPANI 1979, p.78; STOPANI 1990, p.77; STOPANI 1986, pp.16, 70, 71; STOPANI 1988, p.76; TARGIONI TOZZETTI 1775, VIII, pp.29, 31; VALENTI 1999; ZUCCAGNI ORLANDINI 1857, p.359. 53 10 - Castello di Strozzavolpe. Probabilmente il castello è da riconoscere nel toponimo di Scoriavolpe, attestato nel 1154 in un documento di Badia a Isola230. Non abbiamo alcuna notizia per tutto il medioevo e non siamo in grado di prospettarne una pur schematica storia. Nella seconda metà del XIII secolo apparteneva comunque alla famiglia degli Alberti e tramite legami matrimoniali passò nel patrimonio dei Salimbeni. Nel 1313 Arrigo VII lo occupò e se ne servì come base per devastare il contado senese sino alle soglie di Porta Camollia. Nel 1318 i Salimbeni, in particolare Benuccio di messer Benuccio ed i nipoti, possedevano «cassarum et fortilitiam» di Strozzavolpe; la struttura venne poi venduta alla fine del XIV secolo agli Adimari di Firenze; lo stemma di questa famiglia si trova scolpito su un caminetto in locali adibiti ancora nel 1960 a fattoria. Nel 1479, al tempo della presa di Poggibonsi da parte del Duca di Calabria, anche Strozzavolpe subì l'assedio ma non cadde; l'affresco esistente nella Sala del Consiglio del palazzo comunale di Siena, opera di Giovanni di Cristoforo Ghini e Francesco d'Andrea nel 1480, mostra infatti il castello come unico con il vessillo ancora issato (bandiera bianca con croce rossa: i mercanti fiorentini). Il castello è stato oggetto di un interessante studio dallo storico locale Arcangeli. Questo autore, contando su confronti iconografici di vecchie stampe e tramite verifica di persona, osserva come il complesso originario si componesse di due torri, muri a scarpa con fossi intorno, un ponte levatoio ed «un maschio centrale». Le due torri erano poste una sul ponte e l'altra all'estremità opposta. All'interno, oltre il maschio, erano collocati dei piccoli edifici lungo le mura che ancora sussistevano, i sotterranei e l'ingresso di una galleria. Nel XIX secolo il proprietario Alessandro Bizzarri fece effettuare un restauro integrale al maschio, in stile romantico tedesco, dall'ingegnere Jacopo Rigacci: nacque così un grande corpo sproporzionato alle mura e fu quindi giocoforza innalzare la torre d'accesso, i cui vecchi merli sono incorporati nel rialzamento, dove ancora si distinguono, mentre la nuova merlatura fu fatta in mattoni e poggiante su becattelli, inoltre venne aperto il fossato. Del castello rimane soprattutto la cinta muraria di forma irregolare con alcuni tratti di muratura almeno in parte originaria231.

11 – Lecchi. La località, con varia grafia di Liccle, Liche, Lecchie, Leke, è nominata per la prima volta nella dotazione nunziale compiuta da Tegrimo di Ildebrando, della famiglia dei Lambardi di Staggia fondatori della Badia a Isola per la sposa Sindrada232. Conosciamo poco della realtà insediativa di fine X secolo ma la citazione nel morgengabe come «Liccle cum eius pertinentia», lascia intravedere una località ben nota, riferimento per beni fondiari e persone non certo trascurabile. Nel 1086 fu donata al monastero di Isola una «portione de curte de Liche cum ecllesia sancte Marie». Ritroviamo dunque Lecchi al centro di una curtis dotata di chiesa233. Il villaggio tra l'ultimo quindicennio dell'XI secolo e la metà del XII secolo venne poi fortificato. L'albero genealogico dei Lambardi, contenuto nel cartulario della Badia a Isola indica infatti Lecchi come centro curtense incastellato: il «Castellum de Leke» e la «curte de Like»234; il monaco che redasse la pergamena tracciò anche una rappresentazione sotto forma di una costruzione rettangolare merlata con porta sormontata da un arco a

230 CAMMAROSANO 1993, n.71, novembre 1154. 231 In generale si vedano ARCANGELI 1960; CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.136; CHERUBINI 1974, p.290; CIONI 1911, pp.90-91; LISINI 1893, p.202; PEROGALLI 1985, pp.14, 26-28; PRATELLI 1929-1938, p.52; REPETTI 1833-1846, V, p.483; VALENTI 1999. 232 CAMMAROSANO 1993, n.2, 29 aprile 994. 233 CAMMAROSANO 1993, n.38. 4 aprile 1086. 234 CAMMAROSANO 1993, pp.326-332, ante 1164. 54 tutto sesto. In seguito non si hanno più tracce documentarie del castello, nè si conoscono le vicende a cui andò incontro. La Genealogia fornisce però un quadro ben preciso dei rapporti di proprietà e dei diritti presenti nel distretto curtense di Lecchi nella metà del XII secolo; dopo essere stato diviso in quote di successione tra i vari eredi dei Lambardi, l'intero novero dei beni fondiari era stato ceduto a vari enti ed altri gruppi famigliari emergenti: il monastero di Isola, l'ospedale di Graticola le consorterie dei filii Rustici e dei filii Mazzi (esponenti di una nobiltà minore emergente; dai primi originarono poi i Soarzi futuri signori di Staggia e partigiani fiorentini). La chiesa di Lecchi, intitolata a Santa Maria, è ricordata come sottoposta alla pieve di Sant’Agnese in Chianti nel 1056. Successivamente la parte di chiesa di Sancte Marie de Liche pertinente a una certa Fiopia viene donata nell’aprile 1086 al monastero di Isola. Nelle decime della fine del Duecento-inizio del Trecento compare come suffraganea della pieve senese di Sant’Agnese.Nel corso dei secoli XI e XII, insieme al villaggio, entra nella giurisdizione della Badia a Isola; compare ancora nel patrimonio del monastero nel 1446, al momento dell'unione di quest'ultimo con il monastero Sant'Eugenio. L’attuale edificio, preceduto da un avancorpo ottocentesco non presenta in vista elementi architettonici medievali235. . 12 - Rocca di Staggia. Staggia è un castello di precoce attestazione; le prime notizie risalgono infatti all'anno 994 e sono contenute in un documento del fondo di : la chartula de morgengabe di Trigesimo236. Il castello ed il centro fondiario ad esso connaturato appartenevano probabilmente da secoli al gruppo aristocratico dei Lambardi. La genealogia della famiglia, raffigurata in una pergamena miniata nella metà del XII secolo proveniente dall'archivio della Badia a Isola, attesta infatti l'antichità di tale gruppo e non dobbiamo quindi escludere che il primo nucleo fondiario intorno a Staggia possa risalire almeno al regno longobardo. Il personaggio più noto della famiglia dei Lambardi, Ildebrando (il quale risulta in età virile nel 953 e morto già nel 994), doveva essere nato intorno al 930; calcolando uno scarto medio generazionale di circa 40 anni per ciascuno dei suoi antenati (Rodulfiatus, Odalberto, Gisalprando ed infine il quadrisavolo e capostipite Reifredo), si può collocare quindi la nascita di Reifredo nel decennio 770-780. In realtà lo scavo archeologico d’emergenza svoltosi tra la fine del 2004 e la prima metà del 2005, coordinato dall’Università di Siena ed i cui materiali sono attualmente in corso di studio ma del quale si dà conto in queste pagine, sta mostrando una frequentazione della collina molto più antica, iniziata probabilmente nell’età della transizione all’alto medioevo e successive fasi insediative per capanne ancora da datare con certezza. a. Storia degli studi - L'articolata storia del complesso, l'attivismo nelle vicende politico- istituzionali toscane mostrato dalle casate dominanti, il legame con Isola, gli imponenti resti monumentali ancora esistenti, l'interesse per la ricostruzione dell'itinerario romeo e la posizione di questo centro sul suo percorso, hanno rappresentato un argomento di studio attraente e suggestivo per molti. Una storia degli studi incentrati sul castello di Staggia, proprio per l'eterogenea sfera di argomenti di ricerca che le si legano, deve quindi essere divisa in alcuni filoni ben precisi: interventi sulla genealogia della famiglia di Ildebrando (i Lambardi, primi signori del castello) e dei loro successori cioè i Soarzi ed i Franzesi; trattazioni sulla storia di Abbadia a Isola alla quale Staggia viene strettamente correlata per il ruolo avuto dalle famiglie

235 In generale si vedano CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.135; GIUSTI, GUIDI 1942, n.2522; GUIDI 1932, n.2651; RAVENNI 1995, pp.177-178; REPETTI 1833-1846, p.668; SCHNEIDER 1914, p.89; KURZE 1989, pp.37, 94; VALENTI 1999, 236 CAMMAROSANO 1993, n.2, 29 aprile 994. 55 egemoni; indagini, spesso compilative, sulla citazione di Staggia nelle fonti intinerarie di XII-XIII secolo e per la sua importante posizione su una variante di percorso di primo piano della Francigena. La fine del XIX secolo e soprattutto i primi decenni del 'novecento, vedono uscire molti interventi di diverso spessore. Davidshon nel 1896 aveva trattato, nella sua storia di Firenze, il tribolato rapporto tra il monastero e Ranuccio di Staggia nel quadro del confronto fra Siena e Firenze, disquisito sulle casate dei Lambardi e dei Soarzi, riportato la notizia di una fortificazione senese del 1262, descritto l'entrata nel patrimonio dei Franzesi nel 1298237. Anche Lusini si occupò di Staggia un anno dopo, nella sua storia di Isola, cercando però di fornire soprattutto una solida base di partenza per iniziare a discutere sulla storia dell'abbazia238. Piranesi, nei primi anni del nostro secolo, stimolato dalle rovine imponenti del complesso, si avvicinò alle sue vicende, paragonandolo a castelli valdostani come Fenis e Graines, raggiungendo conclusioni fantasiose, non sorrette da una men che minima attendibilità documentaria. In un secondo contributo, l'autore dimostrava invece di avere maturato maggiori conoscenze, producendo una sintesi decorosa, anche se permeata di uno spiccato spirito campanilistico manifestato speculando sulla trasformazionne del toponimo in ; notava poi come, nel 1431, le fortificazioni subirono un rafforzamento tale da resistere con successo all'attacco del Piccinino al servizio di Filippo Maria Visconti239. Sei anni dopo Bargellini affrontò, in un esteso saggio, le più remote vicende di Staggia ed il comportamento dei suoi signori nel rapporto con l'Abbadia a Isola fra XII e XIII secolo 240. E' essenzialmente uno studio sulle famiglie susseguitesi nel dominio del castello, riportando numerosissime informazioni non tutte pienamente attendibili ed alcune interessanti foto d'epoca; molto utile ed apprezzabile risulta comunque lo sforzo di raccogliere il maggiore numero possibile di fonti documentarie. Come ha giustamente osservato Kurze, si è trattato di un positivo spunto di ricerca all'interno di argomentazioni narrative di per sè stesse mediocri e caratterizzate da grossolani errori (per esempio i Lambardi sono detti conti di origine franca); comunque non originale, in quanto il tormentato legame con il monastero era già stato individuato brillantemente dal Davidshon241. Se alcuni contributi risultano trascurabili242, i lavori di Cecchini e Guicciardini rappresentano due momenti di raggiunta crescita; soprattutto il secondo, ricostruendo il tracciato viario della Francigena, mette in giusta luce la posizione strategica di Staggia243. In tempi più recenti, il castello e la nobiltà ad esso legata sono stati finalmente studiati in tre lavori specifici dovuti a Kurze, Cammarosano e nuovamente a Cammarosano con Pirillo, Stopani e Pucci. Kurze ha posto al centro delle proprie indagini le vicende dei Lambardi ed i rapporti intercorsi con Isola244; inoltre ha collocato il suo lavoro in un più generale quadro delle relazioni nobiltà-monasteri nella Toscana altomedievale245. Tratteggia le origini, la genealogia e le vicende patrimoniali della famiglia, per la quale abbiamo notizie documentarie sino dalla metà del X secolo attraverso la conferma di alcune loro proprietà

237 DAVIDSHON, I, pp.683-686; II, pp.706, 735; III, p.517; IV, pp.236, 349, 484, 484, 564; VI, p.462. 238 LUSINI 1897. 239 PIRANESI 1908; PIRANESI 1924. 240 BARGELLINI 1914. 241 KURZE 1989, p.25. 242 MAZZI 1897; CANESTRELLI 1907; MARZINI 1922/1923. 243 CECCHINI 1932; GUICCIARDINI 1939. 244 KURZE 1989, pp.23-154. 245 KURZE 1981; KURZE 1989, pp.295-318. 56 da parte dei re Berengario e Adalberto (il preceptum Berengarii et Adelberti Regnum del 953). Riconosce in Ildebrando, figlio di Isalfredo e sposo di Ava figlia del conte Zenobio, un'esponente di quella nobiltà longobarda che era riuscita ad infiltrarsi nel novero della sfera dirigente laica formata, nell'Italia centro settentrionale, soprattutto e quasi esclusivamente da immigrati d'Oltralpe. Evidenzia come, con la fondazione di Isola nel 1001, emerge chiaramente dalla cerchia di consanguinei (che avevano spezzettato nelle proprie mani un vasto patrimonio fondiario prima compatto), una famiglia per la quale la dominatio sul monastero è il segno distintivo di appartenenza e l'elemento unificante sia del gruppo parentale sia della proprietà dei vari membri. Inoltre affronta il percorso verso l'indipendenza di Isola dopo l'estinzione dei Lambardi ed il nuovo rapporto con la consorteria dei Soarzi. Conclude la sua indagine mostrando il tentativo dei Soarzi stessi di sottomettere il monastero al proprio controllo ed il fallimento della loro impresa con l'estensione di una sorta di protettorato senese su Isola; una nuova posizione che, comunque portò a notevoli ingerenze da parte della città. Il bellissimo lavoro di Cammarosano sulla Badia a Isola, amplia notevolmente lo studio di Kurze, entrando nei minimi particolari delle linee già tracciate da questo, ed accompagna la narrazione con la trascrizione integrale del fondo diplomatico del monastero. Tutte le notizie sulla consorteria dei Lambardi e sui loro successori, nonchè il ruolo del castello di Staggia non possono che essere tratte dal suo lavoro; inoltre, per primo, colloca sia il castello sia il monastero in una prospettiva di lettura di ampio respiro, affrontando le vicende da lui presentate nel più esteso quadro della Val d'Elsa medievale e del rapporto di tale area territoriale con la città di Siena246. Il terzo studio a cui abbiamo accennato, apre nuove prospettive per completare ed approfondire la storia di Staggia. Ad essa dedicato in occasione del millenario dalla sua prima attestazione documentaria, i contributi sono centrati per la maggior parte sulle vicende bassomedievali della comunità. Vede Cammarosano introdurre le origini del castello e delle più antiche proprietà fondiarie, sottolineando il ruolo centrale che Staggia aveva avuto nel consolidamento dei beni della famiglia dei Lambardi, ruolo ancora rivestito quando, dopo l'estinzione della dinastia, subentrarono i Soarzi247. Prosegue con Stopani che tenta di leggere Staggia nel percorso della Francigena, proponendone un ruolo di testa di ponte del comitato Volterrano e redige poi una nota storico-architettonica del complesso monumentale esistente248. Il capitolo iniziale non si pone oltre ad un riassunto di ipotesi sull'andamento della via Francigena nella zona, peraltro funzionale a spiegare la collocazione geografica del castello, di importanza strategica per il controllo della strada stessa. I dati proposti non sembrano comunque pienamente probanti: la presenza, non verificabile, di un probabile cippo confinario dell'episcopato volterrano nella zona di Stecchi; l'espressione di Marche Castellum, nel senso di frontiera, usata da Filippo II Augusto nel 1191, nella quale viene riconosciuta Staggia. Pirillo traccia invece un approfondito profilo del dominio dei Franzesi nel XIV secolo, una ricca famiglia di grandi finanzieri e magnati originari del contado fiorentino detentrice di tutti i diritti giurisdizionali legati al castello; accende così nuova luce su un periodo ed una fase di Staggia che, pur estremamente interessante, non aveva ancora trovato grandi attenzioni249. Legge nell'acquisto e nella successiva rifortificazione di Staggia, il tentativo di creare un punto di partenza per il consolidamento di poteri fondiari ed economici molto estesi ed alla base di ambizioni politiche di dimensioni regionali. Conclude infine il volume Pucci con un'introduzione allo statuto quattrocentesco di Staggia e con la sua trascrizione; l'obiettivo è osservare la vita quotidiana di un agglomerato rurale

246 CAMMAROSANO 1993. 247 CAMMAROSANO et alii 1995, pp.7-9. 248 CAMMAROSANO et alii 1995, pp.13-17, 53-55. 249 CAMMAROSANO et alii 1995, pp.23-35. 57 della campagna senese agli inizi del XV secolo, attraverso il tipo di organizzazione vigente in una comunità amministrativamente autonoma, ma anche un avamposto fiorentino incuneato nel territorio della rivale250. b. Staggia tra X e XVI secolo - Reifredi, il primo esponente conosciuto, doveva avere dato inizio alla formazione di una qualche base patrimoniale, estesa anche nella vicina zona del Monte maggio (già inizialmente oppure con i suoi successori). Forse non è casuale che il nome più antico ricordato nella genealogia sia stato il suo. Tale proprietà non fu oggetto di alcuna divisione ereditaria, restò integra nel suo complesso e fu trasmessa in linea maschile sino ad Ildebrando; per queste ragioni si dovette rafforzare, e prima del 953 Isalfredi (padre di Ildebrando, a questa data già sostituito dal figlio nel dominio) costruiva una chiesa «in onore sancte Marie» nella curtis di Staggia251. Questo atto sembra indiziare che Staggia era stata definitivamente scelta per rappresentare il nucleo principale della dinastia, almeno dalla prima metà del X secolo. La conferma a Ildebrando nei suoi beni concessa dai re Berengario e Adalberto nel 953 252, il suo ingresso nella cerchia dei protetti del marchese Oberto ed il matrimonio con Ava, figlia del conte Zenobio (quest'ultimo forse proveniente dalla zona di Firenze/Fiesole ed attestato come già defunto nel 977 in un documento del fondo di Passignano253): precisano la raggiunta importanza della famiglia ed il suo tentativo di innalzarsi ancora. La successiva linea politico-matrimoniale condotta da Ildebrando fu finalizzata in tal senso. Il figlio, anch'egli di nome Ildebrando, ebbe in moglie Cunigunda-Cuniza figlia del conte Valfredo (di essa parla un documento del 1048254). Il figlio Teuzo-Tegrim sposò Sinderada- Sindiza, figlia del visconte Vidone della famiglia di ceppo salico dei vicecomites di Siena; questi ultimi erano un gruppo ben radicato in città per la sua dignità d'ufficio, legato anche all'episcopio senese poichè alcuni esponenti avevano svolto la funzione di vicedomini, detentori di beni fondiari sia in Siena e nel suburbio, sia nelle campagne ma privi di un dominio di castello255. Con Ildebrando, in conclusione, Staggia assurge definitivamente al ruolo di nucleo patrimoniale forte e centrale nel novero delle proprietà fondiarie dei Lambardi. Anche la genealogia, attribuendo al padre Isalfredo la prima azione degna di ricordo (cioè la fondazione della chiesa), e raffigurando Ildebrando stesso al centro dei due figli ed in posizione dominante nell'albero genealogico, sembra così confermare sia il periodo di crescita d'importanza della zona, sia il suo definitivo emergere nel complesso delle altre proprietà. La famiglia aveva aggiunto tra i suoi beni anche altre otto chiese prima della fine del X secolo e deteneva la proprietà di altri sei nuclei di concentrazione e gestione della terra (le curtes incastellate di Strove, Gallule, Fulignano, Elsa, Piscina Nera-Gallena, Proclano); ostentava ambizioni politiche, impegnandosi fattivamente a raggiungere una consacrazione di tipo pubblico, con l'inserimento nella cerchia dei dignitari comitali della fine del X secolo e dei primi anni dell'XI secolo. Assistiamo cioè al tentativo di acquisire un potere pubblico, aggiungendo al proprio carattere di domini l'esercizio dell'honor e del districtus. La fondazione di Isola nel 1001 da parte di Ava, vedova di Ildebrando, rientrava ancora in tale linea: concentrare la famiglia e garantire l'unità dinastica, impedire la dispersione ereditaria dei beni che erano articolati su più castelli posti in una complessa

250 CAMMAROSANO et alii 1995, pp.41-50, 59-83. 251 La titolatura è nota dalla carta di morgengabe del 994: CAMMAROSANO 1993, n.2, 1 gennaio 994-23 settembre. 252 CAMMAROSANO 1993, n.1, 23 giugno 953. 253 KURZE 1989, p.29. 254 Si veda KURZE 1989, p.28 n.26 per l'identificazione. 255 Si veda CAMMAROSANO 1981, pp.234-235. 58 serie di confini distrettuali (contee di Volterra, Firenze, Fiesole e Siena 256 e distribuiti almeno in trentuno località257, conservando così una potente base di dominio giudicata fondamentale per accedere alle investiture perseguite. Lo sviluppo di un castello a Staggia, fortificando la corte esistente, dovrebbe essersi realizzato con Ildebrando, nel momento di maggiore ascesa della famiglia, quindi prima del 994 e dopo, o intorno, al 953 (anno in cui egli faceva già parte della cerchia del marchese Oberto). Non crediamo all'esistenza di un castello nel periodo di Isalfredi, nonostante il suo operato (compresa la politica matrimoniale scelta per il figlio e da questo continuata) avesse posto le basi della crescita sociale e patrimoniale; contrariamente a quanto affermato da Cammarosano258, la genealogia, non attesta una fondazione certa della chiesa nel castello, bensì riporta «ipsam ecclesiam fundavit avus eorum Isalfredus in proprio suo». Anche a livello territoriale senese, vediamo un'affermazione dei gruppi nobiliari, tra i quali un'aristocrazia militare con notevoli proprietà rurali, a partire dalla metà del X secolo e sino agli inizi del XII secolo. La loro adesione alla terra era avvenuta per tutta la durata del regno italico attraverso agglomerati aperti; solo nel corso della seconda metà del X secolo, dettero vita ad un nuovo tessuto insediativo dove, non fungevano più da riferimento i villaggi privi di difese, bensì una rete di castra259. I documenti disponibili per questo periodo260, danno comunque modo di intravedere meglio la realtà insediativa di Staggia alle soglie dell'anno mille e di precisare tali affermazioni. Osserviamo infatti, per la seconda metà del X secolo, una gestione della terra polarizzata intorno a centri curtensi controllati da gruppi familiari eminenti; curtes per lo più incastellate e dotate di chiesa, che si dislocavano soprattutto negli spazi compresi tra gli attuali confini comunali di Poggibonsi, Colle, e San Gimignano. Ma l'impressione che si trae da queste carte, è che il castello sia stata una forma insediativa sviluppatasi solo da poco. Non doveva rappresentare ancora l'entità principale di identificazione amministrativa della proprietà; la curtis, nonostante l'avvenuta trasformazione materiale, continuava verso la fine del X secolo a connotarsi come un concetto ancora forte e preponderante, e nei documenti il castello stesso viene posto quasi in secondo piano. Verso tale conclusione indirizzano citazioni come «casa et curte Strove cum turre et castello seo ecclesia q(ue) est in onore sancti Martini», «casa et curte Gallule cum castello», «curte Fulignano cum ecclesia q(ue) est in onore sancti Laurentii et castro»; anche per Staggia si cita «casa et curte est posita / (l)oco Stagia (un)a insimul cum ipso castro q(uod) castello vocatur et turre et ecclesia q(ue) est in onore sancte Marie»261. Il castello veniva quindi ancora distinto dalla corte, pur essendo in procinto di divenirne il nucleo centrale, e di fatto sembra quasi rappresentare la sola residenza signorile fortificata, per altro di recente costituzione. Non veniamo poi a conoscere nessun altro particolare concernente la realtà insediativa e materiale di Staggia dopo la citazione del 994. Conosciamo invece le vicende a cui andò soggetta nei decenni successivi, parallelamente alla storia dinastica dei Lambardi, connotata dalle deluse aspirazioni di innalzamento nella cerchia delle famiglie comitali dell'XI secolo, dalla dispersione del patrimonio nonostante i tentativi di coesione (si veda come esempio l'azione di Bonifacio, figlio di Berizio, nipote di Ava e di Ildebrando, nel

256 CAMMAROSANO 1993, n.46, pp.35-37. 257 KURZE 1989, pp.28-29. 258 CAMMAROSANO et alii 1995, p.8. 259 Si veda al riguardo CAMMAROSANO 1981. 260 CAMMAROSANO 1993, n.1, 23 giugno 953; CAMMAROSANO 1993, n.2, 29 aprile 994; CAMMAROSANO 1993, n.3, 23 settembre 994; CAMMAROSANO 1993, n.4, 4 febbraio 1001; FALCE 1921, 10 agosto 998. 261 CAMMAROSANO 1993, n.2, 29 aprile 994. 59 decennio 1070-1080262) e dalla progressiva estinzione della discendenza maschile definitivamente realizzatasi prima della fine del XII secolo. Il castello e la sua corte, già frazionati in più mani, iniziarono così, verso la metà dell'XI secolo, ad entrare nel patrimonio dell'Abbadia a Isola per mezzo di acquisti e di donazioni (peraltro estese anche agli altri castelli e chiese della famiglia). Nel 1048 il monastero riceveva «parte de castello et curte de Stazia»263; nel 1086 accettava la donazione di una «portione de curtis et castello de Staia cum turre et ecclesia sancte Marie ibi consistente et sancti Cirini»264 ed acquistava una «portionem de la curte et castello de Stagia cum terris et vineis et eclesiis et sortis et donicatis et rebus» tranne «la turre qui est infra ipso castello de Stagia» 265. Un anno dopo Staggia, come gran parte del patrimonio dei Lambardi, doveva essere già saldamente nelle mani dei monaci di Isola, se questi concessero ad un esponente della dinastia dei fondatori, a livello vitalizio, la «curte et castello et turre et ecclesia cui vocabulum est sancti Marie de loco Staia» con il castello, torre e chiesa di San Martino a Strove, la corte, il castello, la chiesa e la torre di Santa Maria a Montemaggio, il castello e la chiesa di San Biagio in Castiglioni, il castello e la chiesa di Santi Filippo e Iacopo di Buciniano266. L'abbazia, comunque, tra 1105 e 1108 ottenne un'autonomia istituzionale pressochè completa dalla dinastia dei fondatori e si rafforzò ulteriormente, autonomizzandosi dalle ingerenze della diocesi volterrana alla quale apparteneva (quando la sede apostolica le concesse l'ambito privilegio di esenzione, cioè la facoltà per gli abati eletti di rivolgersi a qualunque vescovo per riceverne l'ordinazione sacra267. Isola nel periodo 1104-1123 era entrata in relazione con una nuova famiglia di milites, i Soarzi: uno dei gruppi parentali minori legati alla dinastia dei Lambardi, già indicati in alcune carte come filii Rustici e provenienti dalla vicina Talciona. Nel 1123 Staggia, insieme a beni posti tanto nei dintorni quanto nei castelli di Strove e Castiglioni, fu concessa in feudo agli esponenti di questa famiglia. Il castello continuava a rivestire nella sua zona un ruolo centrale, ed i Soarzi ricevettero infatti la concessione della residenza signorile, la «pensione palatii de Stagia»268. Tentarono presto di emanciparsi dal monastero e, come risulta da una carta ascrivibile in un periodo compreso tra il 1123 e prima del 1157, usurparono persino i suoi beni, costringendo i suoi contadini a «laborare (...) in curte et castello de Stagia»269. Pochi anni dopo ebbero inizio i primi interventi senesi nella zona in funzione antifiorentina. Nel 1135 il vescovo senese Ranieri, che ebbe un ruolo di primo piano nell'affermazione comunale di Siena, assicurò la tutela cittadina ad Isola ed ai suoi possedimenti e sino dal 1137 ottenne dai Soarzi alcuni giuramenti di fedeltà. La posizione dei signori di Staggia fu però mutevole e caratterizzata da alternanze partitiche. Ancora nel 1156 Siena, evidentemente non sicura della loro obbedienza, li costrinse a giurare nuovamente fedeltà ricevendone in pegno il castello di Strove 270; nel 1163 riusciva ad acquisire le diverse quote di vari esponenti degli stessi Soarzi sui castelli di Monteagutolo, Montemaggio e Montecastelli271; un anno più tardi Ubaldino di Ugolino Soarzi donò al vescovo ed alla cattedrale senese i propri diritti sui castelli di Staggia,

262 CAMMAROSANO 1993, pp.59-68. 263 CAMMAROSANO 1993, n.22, 1 maggio 1048. 264 CAMMAROSANO 1993, n.38, 4 aprile 1086. 265 CAMMAROSANO 1993, n.39, 25 aprile 1086. 266 CAMMAROSANO 1993, n.40, 23 ottobre 1087. 267 Si veda CAMMAROSANO 1993, pp.79-81; inoltre la breve recordationis in Isola, 45, 5 maggio 1108. 268 CAMMAROSANO 1993, n.49, 1123 settembre 1. 269 CAMMAROSANO 1993, n.105, XII secolo. 270 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.6, pp.12-13, 27 febbraio 1156. 271 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.7, p.14, gennaio 1163; n.8, vol.I, pp.14-16, febbraio 1163. 60 Strove, Stecchi, Castiglione, Montecastelli, Stomennano e Montemaggio272; inoltre, nel 1167, l'arcicancelliere imperiale Rainaldo confermava i diritti senesi sul castello di Podium Bonizi e sui domini nella zona Elsa-Staggia compreso il castello di Staggia273. Ma i rapporti continuarono ad essere mutevoli e persino ostili; già nel 1158-1159 Ranuccio, signore del castello, si era distinto negli episodi di guerra intorno al Monte maggio, teatro di una sconfitta senese, per la sua appartenenza fiorentina e per la cattura di un certo Guglielmo alla quale seguì una rappresaglia sugli «homines et villanos ipsorum de Stadia» residenti a Stecchi ed imprigionati («in foveam misit») a Siena 274; ancora nel 1170 Ranuccio veniva indicato come potestas fiorentino, cioè detentore di funzioni coercitive e amministrative nel contado di Firenze275. A seguito della definizione dei confini tra i contadi senese e fiorentino del 1176, Staggia tornò nuovamente verso Siena ed i Soarzi furono costretti ad atti di sottomissione e di regolamentazione delle proprietà immobili e dei diritti ad esse legati. Dopo la morte di Ranuccio, i suoi eredi giuravano nel 1186 di rispettare i diritti dell'Abbazia a Isola nel castello, nella sua corte, nella chiesa e di non alienarlo276. Staggia in questo periodo aveva già iniziato a trasformarsi; soprattutto l'impulso dato da Isola con la propria espansione patrimoniale, aveva portato ad una nuova dimensione del popolamento ed alla nascita di un borgo. Molte carte lasciano infatti intravedere l'esistenza di un distretto rurale, caratterizzato tanto da vivacità quanto da circolazione delle stesse proprietà; nel 1128 i preti di Santa Maria e San Pietro di Porclano davano in affitto un pezzo di terra posto a Staggia, confinante con i beni dell'Abbadia di Montecellese 277; nel 1144 viene venduta al suddiacono della chiesa di San Leonardo un pezzo di terra a Staggia278; nel 1153 veniva venduto un pezzo di terra sotto il ponte Staggia 279, inoltre venivano donate a Isola «terram (...) in Staia»280; per il 1154 conosciamo una donazione al monastero di Isola delle terre di Setiminano, Breciano, Staggia e Monteriggioni 281; nel 1167 venivano vendute alcune terre nel piano di Staggia a piè di Montenero presso la terra di San Leonardo282; nel 1173 erano donati ad Isola beni situati nella zona che va dal fossato di Fontegrossoli fino alla Staggia, e dal Gena alla Staggia283. Nel corso del XIII secolo inoltre, sia l'ascesa economico-politica di Poggio Bonizio, sia l'effetto della circolazione di beni e persone sulla via Francigena, avevano creato le condizioni per una fioritura di Staggia, per un'ulteriore espansione del popolamento e quindi un allargamento del suo borgo. Nella zona oltretutto operavano più soggetti; oltre a Isola ed ai Soarzi, vediamo attivi molti privati e lo stesso monastero di Marturi; conosciamo così una permuta di terreni nella quale il monastero riceveva due terreni a Staggia in cambio di quattro piccoli appezzamenti alle Caselle284, l'acquisto di un terreno posto lungo lo Staggia sempre da parte di Marturi285.

272 CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.138. 273 CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.133. 274 CAMMAROSANO 1993, p.110. 275 CAMMAROSANO 1993, pp.110-115. 276 CAMMAROSANO 1993, n.94, 22 settembre 1186; si veda poi CAMMAROSANO 1993, pp.117-121. 277 LISINI 1908, p.75, febbraio 1128. 278 LISINI 1908, p.81, marzo 1144. 279 LISINI 1908, p.85, 25 marzo 1153. 280 CAMMAROSANO 1993, n.69; 29 novembre 1153. 281 LISINI 1908, p.86, 29 novembre 1154. 282 LISINI 1908, p.93, gennaio 1167. 283 LISINI 1908, p.96, aprile 1173. 284 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, dicembre 1206. 285 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 15 dicembre 1212. 61 Nel 1221 fu attribuita dai senesi al territorio del comune di Poggio Bonizio suo alleato: «Nos potestas, iudex, camerarius Sen. donamus vobis potestati et camerario Podiibonizi castellum de Stagi, salvo quod, si quando comune Flor. vel episcopus Vulterr. vel alius controversia faceret, ita quod questio verteretur de Staggia, comune Sen. possit castrum defendere et postea restituere»286. Venivano poi regolati gli acquisti e la circolazione dei prodotti agricoli stabilendo «homines bonos et idoneos nos electuros iuramus, quos die electionis iurare faciemus, quod abinde ad XV dies confinabunt curtem de Staggia a curte de Castillione et a curte de Strove287. Inoltre sempre nello stesso anno gli uomini di Poggio Bonizio e di Staggia giuravano società tra i comuni di Poggio Bonizio e Siena288. Anche dopo questa data, i documenti disponibili continuano a dimostrare una zona molto attiva ed ampiamente sfruttata dal punto di vista della produzione agricola; per il 1225 conosciamo la donazione a Marturi di molti beni tra i quali un terreno a Papaiano confinante con le mura castellane ed un secondo in località la Fonte di Papaiano presso lo Staggia289 ed un contratto d'affitto concernente una casa e terre nella corte di Staggia 290; nel 1232 privati vendono ad Isola un pezzo di terra con vigna posto oltre Staggia 291; nel 1248 venivano ceduti al rettore dello spedale di Santa Maria di Siena diversi terreni al Pontevecchio, al Piano di Staggia, a Calvano292. Nel cinquantennio che va dal 1220 al 1270 Staggia fu soggetta agli effetti prodotti dall'alterno confronto che vedeva impegnate Siena e Firenze; dopo essere rientrata prima in possesso dei fiorentini poi di nuovo dei senesi, e dopo gli scontri che portarono anche alla scomparsa di Poggio Bonizio, il castello andò distrutto o per lo meno molto danneggiato. Verso la fine del XIII secolo Staggia vide un periodo di rinascita, protrattosi per oltre un sessantennio. L'insediamento venne infatti individuato dalla famiglia dei Franzesi (i fratelli Musciatto, Albizo e Niccolò) come punto strategico fondamentale nel disegno politico che li animava e che concerneva ambizioni di portata regionale. I Franzesi, potenti finanzieri e magnati di origine fiorentina protagonisti di una grande esperienza politico-economica in Francia alla corte di Filippo il Bello, legatasi poi programmaticamente all'ambito senese, avevano iniziato a costituire un solido ed articolato dominio di terre e castelli esteso sino alla valle dell'Ombrone senese ed al Valdarno di Sopra. Musciatto ottenne l'investitura dei diritti imperiali su Poggibonsi e Fucecchio; Albizzo acquistata Staggia, ebbe dall'imperatore Alberto I d'Asburgo nel novembre del 1298 la facoltà di ricostruire il castello e l'autorizzazione all'esercizio dei diritti inerenti ad esso come dipendente dell'impero293. Il castello fu quindi riedificato nello spazio di quattro anni; nelle sue nuove forme, marcatamente ricalcate da modelli extraregionali e più specificatamente d'Oltralpe, si proponeva come l'espressione tangibile dei Frazesi nella loro veste di rappresentanti dell'impero e sotto la sua protezione. Dopo un'iniziale successo della scalata tentata dalla famiglia, l'improvvisa rovina, della quale fu senza dubbio maggiore causa le conseguenze del fallimento subito dalla compagnia senese dei Buonsignori o Grande Tavola, costrinse Niccolò a ricomporre gli interessi dei fratelli in un unico patrimonio e Staggia, della quale divenne signore, fu eletta sua residenza.

286 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.168, pp.232-238; 10 luglio 1221. 287 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.167, pp.231-232; 24-25 luglio 1221. 288 LISINI 1908, p.226, 16-23 novembre 1231. 289 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 9 aprile 1225. 290 LISINI 1908, p.187, 12 dicembre 1225. 291 Archivio di Stato di Firenze, Dipl. Colle, I, n.28; 1 febbraio 1232. 292 LISINI 1908, p.392, 4 maggio 1248. 293 CAMMAROSANO et alii 1995, pp.26-27. 62 Il rapporto di Niccolò con il castello si caratterizza come una vera e propria signoria territoriale; era conscio di uno status che gli permetteva di agire da dominus. Firenze, nonostante la sua posizione di debitore, non poteva fare altro che riconoscerne la posizione di signore feodali titolo. Alcuni esempi riportati da Pirillo ben illustrano questo comportamento e quindi la sua gestione della zona come una signoria territoriale. Nel 1345 il fiorentino Bindo di Simone Gherardi, garantito da una sentenza, inviò un suo emissario a Staggia per reclamare i crediti detenuti dalla sua famiglia nei confronti dei Franzesi e questo venne aggredito. Sempre nello stesso anno un messo di Bindo si era recato al castello di Montedomenichi dove viveva il figlio primogenito di Niccolò; si ripetè l'aggressione con l'aiuto di un discreto numero di uomini armati dipendenti di Niccolò e tutti provenienti da Staggia. Al tempo stesso, nel 1341, dietro richiesta della Signoria di Firenze, inviò da Staggia quaranta fanti in aiuto dell'esercito cittadino. La politica di Niccolò fu comunque molto intelligente ed abile; la prova è nella scelta di Staggia come sede per la firma di un'alleanza che vedeva riuniti nella chiesa di Santa Maria i rappresentanti di Firenze, Arezzo, Siena e Cortona. Nel 1361 Staggia fu ceduta dai suoi eredi a Firenze ed entrava finalmente nel dominio della città, trasformandosi da centro autonomio ed importante a centro periferico di un ben più ampio stato. Dieci anni più tardi la stessa Firenze provvide ad un restauro del castello e, nello spazio di altri due anni, cinse il borgo di mura; inizialmente le fortificazioni furono innalzate per circa 7 metri poi, dopo la necessaria prova di fedeltà della popolazione, vennero accresciute sino a 10 metri e mezzo; vi fu posta inoltre una guarnigione di armati. Nonostante tutto, l'insediamento manteneva ancora l'importante connotazione di base strategica per eventuali scorrerie contro Siena. Agli inizi del XV secolo era uno dei centri fiorentini più importanti per la raccolta del grano proveniente dalla Maremma294 e fu inserita nella Lega del Chianti. Nel 1422 i Consiglieri del Consiglio Generale di Staggia decisero, dietro votazione quasi unanime, di comporre una commissione per redigere uno statuto in modo da «governarsi con regola e con buono ordine vivere»; sembra comunque, dal tono della deliberazione, trattarsi di una ricompilazione di normative già esistenti295. Lo statuto ci da modo di osservare l'organizzazione amministrativa della comunità e la sua economia. E' assente la carica di Podestà (chiaramente corrisponde a quello di Radda e della Lega del Chianti), ma i Priori erano rappresentati dai «Tre delle spese» che avevano un mandato di tre mesi, si alternavano alla carica di Priore ed il loro compito era governare la comunità e relazionare tutti gli affari riguardanti il Comune al Consiglio Generale. Esistevano poi un Camarlengo, due Viari, due Estimatori, due Pennonieri, due Paciari, infine quattro guardie segrete per vigilare in materia criminale e soprattutto sull'integrità dei campi. La maggiore parte delle disposizioni statutarie riguardavano l'agricoltura e l'allevamento, attente in particolare alle vigne, alle coltivazioni di zafferano (all'epoca fonte di grande ricchezza, sia per l'uso speziale sia per il suo impiego come tintura), alle norme di macellazione delle carni. Altre disposizioni riguardavano le feste religiose dedicata alla Vergine Maria e a Sant'Antonio, per le quali si curavano offerte di ceri, i funerali, le bestemmie ed il gioco d'azzardo. Infine si dedicava molta attenzione alla cura delle vie, dei ponti e delle strade. Staggia era quindi in questo periodo una comunità rurale molto interessata ad una gestione ottimale delle istituzioni ed attenta a regolarizzare, sia in fatto di giustizia sia in ambito normativo, le attività produttive che la connotavano, nonchè ad amministrare la cura di quella viabilità che per secoli aveva condizionato la sua storia.

294 PINTO 1982, p.348 n.39. 295 CAMMAROSANO et alii 1995, pp.42-43. 63 Ancora in questi anni il castello appare abbandonato all'incuria, tanto che nello Statuto si imponeva agli abitanti di mantenerne pulite le ripe e tenere lontane le bestie296. Nel 1431, le fortificazioni del castello furono oggetto di rimaneggiamenti e rafforzamenti che permisero di resistere con successo all'assedio portato dagli uomini di Filippo Maria Visconti impegnato contro Firenze297. Dopo il coinvolgimento nella guerra tra Alfonso di Aragona e Firenze del 1452, Staggia salì nuovamente al ruolo di base principale nelle offensive contro Siena nel 1555. Già nel 1545 le autorità locali, insieme a quelle poggibonsesi, avevano presentato al duca Cosimo la richiesta di esclusione di Staggia dalla podesteria di Radda in Chianti ed il suo accorpamento nella podesteria di Poggibonsi. Dopo la definitiva sconfitta di Siena, la comunità tornò definitivamente a rappresentare un nucleo rurale periferico del dominio fiorentino e le sue fortificazioni caddero lentamente in disuso, parallelamente al declinare dell'importanza strategica del luogo. c. La Rocca ed il borgo - Il castello presenta oggi una pianta subrettangolare, divisa internamente in due parti da un lungo muro interno con orientamento ovest est; la cinta ha due torrioni rotondi, collocati a nord ovest e a sud, mentre nel lato nord est, in posizione angolare, si erge una terza torre a pianta quadrata. A cavallo del muro interno è collocato il così detto mastio; si tratta di una quarta torre in pietra, con porte ad arco acuto e tre bifore ad arco tondo su due archetti acuti in alto, e con coronamento ad archetti su mensole a piramide rovescia; questi ultimi sono sormontati dalla merlatura e da un campanile a vela, prodotto da un restauro moderno. Nel complesso la fortificazione risulta articola in una bipartizione haut cur-basse cour e ricorda nella sua struttura modelli estranei alla Toscana. L'impianto, nella sua concezione urbanistica, insiste indubbiamente sul progetto di rifortificazione realizzato alla fine del XIII- inizi XIV secolo dai nuovi signori, i Franzesi. La divisione tra un ampio cassero ed un grande recinto aperto, così come la presenza di torri cilindriche angolari, rimandano ad analoghe tipologie francesi; è secondo noi ben centrato il confronto con il castello francese di Coudray-Salbart (Niort) impiantato nei primi decenni del XIII secolo298. Anche le due torri cilindriche non trovano diffusione in ambito toscano, se non a partire dalla seconda metà del XV secolo, quando furono rese necessarie dalla nuova efficacia dell'artiglieria; in Francia, nello stesso periodo della loro costruzione a Staggia, erano invece ampiamente diffuse. L'eventuale attività di maestranze provenienti d'oltralpe, è un'ipotesi che trova elementi di supporto nelle pagine di Davidsohn, quando accenna ad una speciale competenza ed esperienza di Musciatto Franzesi nell'arte di costruire. Le due torri cilindriche con ampia base scarpata delimitata da un cordolo in pietra e la cinta muraria orientata nord ovest-sud rappresentano quindi la parte più antica della fortificazione, mentre tutta la parte del castello che guarda a nord e nord est è attribuita comunemente all'opera di ristrutturazione fiorentina negli anni 1371-1373 (come attestato dai caratteri stessi delle murature, molto simili a quelle riscontrabili nella cinta del borgo). In conclusione, la rifortificazione franzese di Staggia si conserva quasi integralmente sul lato che guarda il borgo, mentre i successivi interventi cittadini non mutarono, bensì ripercorsero, la topografia dettata ad inizi trecento. Della fortificazione operata dai fiorentini resta anche la torre a pianta quadrata, collocata sulla cinta in coincidenza dell'angolo orientale; tale struttura risulta fortemente danneggiata e cadente ma si riconoscono molto bene tracce di difesa "piombante" che potrebbero essere ricondotte agli interventi di prima metà del XV secolo: alcune caditoie parzialmente a scivolo e caditoie pienamente appiombo disposte casualmente e tutte riprese nei successivi restauri.

296 Si veda per maggiori approfondimenti l'ampio studio di Pucci in CAMMAROSANO et alii 1995. 297 PIRANESI 1924, p.21. 298 Proposto in CAMMAROSANO et alii 1995, tav.12. 64 Le persistenze del castello franzese sono poi riscontrabili in coincidenza della torre indicata come mastio e sul circuito della corte di più piccola estensione. Mentre il suo aspetto attuale è stato prodotto dalle successive ricostruzioni iniziate a partire dalla fine del XIV secolo, il basamento della torre mostra invece un tratto di muratura reintegrata nelle successive ristrutturazioni; è in accurato filaretto di travertino e presenta due portali ogivali manomessi, archivolti a sesti acuti, un'apertura con architrave sorretto da due mensole stondate e sormontato da archivolto e lunetta; il portale posteriore è tamponato e comunenemente viene indicata come l'accesso di una cappella del castello. La torre si affacciava su spazi per gran parte occupati dal palazzo signorile. Di questo edificio restano pochi indizi ma sappiamo di un'articolazione su almeno due piani. Alcune grandi buche pontaie, che permettevano l'inserimento di grosse travi atte a sorreggere la pavimentazione di ambienti sopraelevati, indicano infatti l'esistenza di un piano superiore; si caratterizza per due finestre con sedili laterali, molto ampie e ad arco ribassato, in mezzo alle quali rimangono le tracce di un elegante camino gotico, con due colonnette scolpite a tortiglione. Sono inoltre erano visibili sul terreno, prima della ristrutturazione del complesso, alcuni capitelli erratici che potrebbero avere fatto parte tanto del palazzo quanto della chiesa del castello. Il borgo appare completamente circondato da mura e da torri ed aveva tre accessi rappresentati dalla porta Romana, scomparsa nei primi del 'novecento, dalla porta Fiorentina e dalla più piccola porta a Lecchi. La descrizione di Bargellini ci da modo di sapere che la porta Romana o Senese introduceva nella via principale del paese ed era completamente in pietra come il resto delle mura; caratterizzata da due archi scemi, quello interno più basso, sulla sua sinistra sorgeva un'alta torre a pianta quadrata, già mozzata. La porta Fiorentina è ad arco ribassato doppio con intercapedine, senza posto sovrastante per la saracinesca, prolunga all'esterno con un arco più alto e strombato all'interno; ai suoi lati sono poste due torri quadrate con all'interno una grande arcata alta, in seguito chiusa ed utilizzata come abitazione. Anche la porta a Lecchi è ad arco ribassato, sormontato esternamente da due grandi mensole. All'esterno si osservano i resti di un antemurale composto di due alti pilastri e un arco rotondo; sono senza dubbio indizio di un apparato a sporgere, nella fattispecie una caditoia che fungeva da difesa piombante su uno dei punti più vulnerabili della cinta. La via Francigena attraversava longitudinalmente il borgo dalla porta Romana alla porta Fiorentina, dividendosi con una biforcazione sulla destra in direzione della porta a Lecchi. Le mura attualmente visibili, con circuito a poligono irregolare, risalgono all'intervento fiorentino del 1431, quando cioé Firenze trovando gli edifici di Staggia privi di difese e soggette di conseguenza ai saccheggi dei soldati di ventura, decise di fortificarla. Non sono rimaste tracce della fortificazione senese del 1273 e di quella ancora fiorentina di un secolo più tardi. La cinta si conserva quasi interamente, eccetto il breve tratto a sud in coincidenza della scomparsa porta Romana; racchiude uno spazio di circa 300 metri ed era intervallata da numerose torri, conservate oggi in numero di undici; sei sono quadrate, di cui una nell'angolo nord ovest, mentre negli altri angoli hanno forma pentagonale. Le torri sono in buono stato di conservazione, anche se la parte sommitale è spesso alterata; quella pentagonale di sud ovest presenta all'esterno una serie di mensole in mattoni. Su tutto il circuito delle mura, in vario stato di conservazione, sono ancora visibili dei beccatelli composti ognuno da tre pietre bozze di pietra rastremate in modo da assumere forma triangolare. Erano destinati a sostenere un cammino di ronda per la maggior parte in assito di legno; alcuni dei becattelli, infatti, presentano anche degli archetti in laterizio, indiziando la presenza (più ridotta nella sua diffusione) di camminamenti in muratura. Tali

65 mensole rappresentano uno dei pochi esempi toscani, e tra i migliori per conservazione, di apparati a sporgere interni. Una soluzione simile trova confronto nel vicino castello chiantigiano di Rencine nel comune di ; segnaliamo, come ha riportato Moretti a più riprese, che le due fortificazioni sono accomunate dalla visita di Filippo Brunelleschi nel 1431, inviato di Firenze al fine di esaminare e relazionare sul da farsi per il riordino delle difese di quei castelli ancora controllati dalla repubblica. M.V. d. Lo scavo archeologico; novembre 2004 – maggio 2005: risultati preliminari Dall’inizio del 2003 la Rocca di Staggia è oggetto di un intervento di restauro e ristrutturazione. Tenendo conto dell’importanza del sito ricostruita sulla base delle indagini storiche e delle emergenze monumentali ancora visibili e, soprattutto, in seguito ai dati emersi nei 6 saggi di scavo condotti preliminarmente dalla proprietà (gennaio-luglio 2003), l’Amministrazione Comunale di Poggibonsi ha sollecitato un’indagine stratigrafica più estesa da parte dell’Area di Archeologia Medievale dell’Università degli Studi di Siena. L’indagine si è concentrata su due aree. La prima (Area 1, circa 400 mq) si colloca nella parte settentrionale della corte alta ed è divisa in tre settori distinti sulla base delle emergenze murarie attualmente visibili. La seconda (Area 2, anch’essa circa 400 mq) occupa buona parte della corte bassa (porzione sud-ovest del sito), sede delle maggiori attività relative al cantiere edile per il restauro della Rocca durante il periodo dell’indagine archeologica. La strategia di intervento ha previsto la conduzione di uno scavo stratigrafico per l’area 1, mentre nell’area 2 gli archeologi hanno solamente messo in atto un’attività di controllo sulle operazioni di scavo con mezzi meccanici effettuate della ditta di costruzioni responsabile dei lavori di restauro, al fine di valutare la consistenza del deposito archeologico e documentare le evidenze messe in luce. d.1. Area 1. Settore A - Il palazzo dei Soarzi e le fasi bassomedievali Il primo intervento archeologico in ordine di tempo è stato svolto nella cosiddetta “corte alta”, nel settore A di scavo. L’area indagata era delimitata dai muri di un edificio medievale, crollati oppure volutamente rasati in periodo post-rinascimentale. Questi muri racchiudevano uno spazio destinato ad un’abitazione di tipo privilegiato, forse anche con funzioni di rappresentanza, come sembra far supporre la presenza di una porta monumentale sul lato est. Inoltre, il notevole spessore dei muri (più di 1 metro) fa ipotizzare che si trattasse di un edificio a più piani, nel quale al piano terreno si trovava un’aula di rappresentanza e ai piani superiori erano collocati i veri e propri ambienti abitativi. Si tratta in sostanza di un edificio palaziale, la cui costruzione, sulla base delle tecniche murarie utilizzate, può essere riferita al periodo compreso tra XII e XIII secolo, quando il castello era di proprietà della famiglia dei Soarzi. La lettura stratigrafica degli elevati conservatisi per la maggior parte al livello delle fondazioni, messe in evidenza con l’approfondimento dello scavo in quest’area, ha permesso di ricostruire le diverse fasi costruttive dell’edificio. Il nucleo originario del palazzo, risalente all’XI-XII secolo, era costituito da una struttura quadrangolare, che si sviluppava verso ovest e della quale non si possono ipotizzare le dimensioni e la pianta precisa; i notevoli rifacimenti e livellamenti successivi devono avere cancellato le tracce archeologiche riferibili a questo periodo, poiché lo scavo non ha restituito alcun livello di frequentazione. Successivamente, tra XII-XIII secolo, la struttura fu ricostruita, ampliandone le dimensioni che raggiunsero circa i 16x10,50 m, e prevedendo un ingresso con arco a tutto sesto nel lato orientale; anche di questa fase di vita dell’area non sono state individuate tracce nel deposito stratigrafico.

66 Con la costruzione della nuova fortezza da parte della famiglia dei Franzesi a fine XIII-XIV secolo, vennero rialzati i muri del palazzo e circondati da un nuovo circuito di fortificazione; l’ingresso est fu tamponato con la costruzione di nuovo muro, che divideva la “corte alta” del castello da quella bassa; venne prevista una nuova apertura sul lato sud, come si evince dalla quota della soglia monumentale inserita nel muro meridionale del palazzo. In un ultimo momento, probabilmente durante i rifacimenti fiorentini alla rocca e all’abitato di Staggia nel periodo compreso tra l’inizio del XV e il XVI secolo, all’interno dell’edificio venne costruito un pavimento in laterizi posti di piatto, che terminava ad ovest con la base per un camino monumentale; era probabilmente simile a quello visibile lungo il primo piano del circuito murario dei Franzesi e si conserva parzialmente solo la parte ovest, mentre quella est manca quasi completamente, forse perché asportata da interventi costruttivi moderni e contemporanei. Una misurazione dei pochi laterizi ancora interi del pavimento e del camino (analisi mensiocronologica) ha permesso di dare una datazione di massima intorno alla metà del XVI secolo. Gli interventi successivi saranno solo di consolidamento. La costruzione di un contrafforte lungo il muro portante sud e di un pilastro posto al centro dell’ambiente serviva a sorreggere probabilmente i piani superiori dell’edificio; i pilastri e i contrafforti riutilizzano in maniera disomogenea conci di travertino a forma trapezoidale forse relativi al periodo dei Franzesi, laterizi e pietre non lavorate di varie dimensioni. Questi servivano probabilmente a suddividere in due vani il vecchio ambiente palaziale, lasciando però due aperture di collegamento. Più tardi le aperture vennero tamponate con un muro continuo, costituito da pietre di forma disomogenea, asportato probabilmente dai lavori del cantiere moderno, e fu lasciata solo una piccola apertura di passaggio da un vano all’altro. d.2. Area 1. Settore A - Le fasi precedenti al palazzo Lo scavo ha mostrato la presenza di tracce precedenti alla costruzione dell’edificio palaziale, sulle quali non si possono formulare ipotesi approfondite a causa delle limitate dimensioni dell’area scavata, delle interferenze causata dai lavori di restauro in corso e dai rifacimenti subiti durante la vita della struttura. In particolare, la presenza del pavimento in mattoni pertinente all’ultima fase del palazzo, che non poteva essere asportato senza il parere positivo delle Soprintendenze competenti, ha ritardato lo scavo di tutta la porzione nord-ovest dell’ambiente, indagata solamente durante la parte finale dell’intervento; inoltre, la presenza di pozzetti e numerose fognature impiantati in seguito ai lavori del cantiere edile attuale (la cui realizzazione ha comportato perdita di deposito archeologico e l’alterazione della fondazione del muro meridionale del palazzo) e la presenza di numerosi tagli attribuibili a vari rifacimenti della struttura nel corso del tempo hanno limitato la superficie che conservava intatto il deposito altomedievale. Due strutture murarie di fattura poco accurata con orientamento est-ovest sono state messe in luce con l’approfondimento dello scavo nella parte centrale e in quella sud dell’ambiente; le due evidenze sembrano essere state costruite in un periodo precedente all’edificazione del palazzo dei Soarzi: una si colloca esattamente al centro dell’area di scavo ed è forse interpretabile come base per pilastro (dimensioni 1,20 x 0,80 m); l’altro muro si trova nella porzione sudovest (dimensioni identificate 5,3 x 0,80 m) ed è stato spoliato in epoca successiva (in un punto si è individuato solamente il taglio di fondazione). Non sappiamo a quali edifici ricollegare questi due muri; potrebbero essere riferibili all’insediamento di fine X secolo attestato dalle fonti scritte come ‘curtis’, ma solo uno studio approfondito dei reperti e il confronto con la sequenza stratigrafica degli altri settori potrà chiarire maggiormente la situazione. Nello spazio compreso tra i due muri sono stati messi in luce dei piani di tufo abbastanza compatto, tagliati da un’escavazione piuttosto bassa riempita da terra di colore marrone scuro con frequenti tracce di carbone. L’evidenza è probabilmente interpretabile come il

67 disfacimento di una capanna lignea semiscavata tipo Grubenhaus, a pianta rettangolare con angoli fortemente stondati (dimensioni 3,60 x min. 1,8 m; la struttura non è interamente conservata in larghezza e nella profondità dell’escavazione). All’interno del taglio si sono individuate almeno 4 buche di palo, due angolari e due lungo i lati corti. Due concentrazioni di carboni e terra fortemente concotta rinvenute all’esterno dell’escavazione (una presso l’angolo sudovest e una nella porzione nordovest del settore) sono interpretabili come focolari aperti esterni o come semplici livelli di abbandono. La capanna e i punti di fuoco sembrano essere in fase e possono essere collocati in periodo sicuramente precedente alla costruzione dei due muri sopra descritti, che tagliano le stratigrafie carboniose. Altre tracce relative ad una frequentazione precedente l’impianto palaziale dei Soarzi si sono individuate, seppure in modo discontinuo, su tutta l’area scavata e nel ristretto spazio sul retro dell’edificio, compreso fra il muro perimetrale di quest’ultimo e la fortificazione più tarda. In particolare, si segnala la presenza di piani di calpestio, livelli di terra fortemente organica, livelli di terra annerita e diverse buche di palo; per un’interpretazione affidabile di queste evidenze occorrerà attendere uno studio più approfondito della documentazione e dei reperti. d.3. Area 1. Settore B - Il palazzo dei Franzesi e le fasi di frequentazione del castello Il settore B dello scavo era occupato in età tardomedievale dal palazzo trecentesco dei Franzesi; l’edificio si appoggiava verso ovest direttamente al circuito murario, sul quale sono ancora ben visibili le tracce di vita del palazzo (un camino monumentale al primo piano, due finestroni con sedili, i buchi delle travi che sorreggevano il piano superiore); ad est era delimitato da un muro con pilastri a base ottagonale su cui si impostavano delle colonne che reggevano una serie di aperture, probabilmente ad arco acuto. Ciò significa che il piano terreno della struttura era aperto e dava probabilmente su un’area aperta (il settore C?). Nulla sappiamo delle pavimentazioni interne al palazzo, perché sono state rinvenute nello scavo solo le tracce del cantiere per la costruzione dell’edificio tra le quali si sono identificati livelli di disfacimento con forte presenza di malta, alcune buche di palo riferibili a ponteggi e una struttura in muratura probabilmente di natura temporanea. Inoltre alcuni strati di livellamento (la cui datazione alla fase dei Franzesi o ad un periodo precedente resta per ora incerta) servivano a creare il piano di frequentazione bassomedievale. Alcuni livelli precedenti a questa frequentazione sono al momento di difficile interpretazione. Potrebbe trattarsi ancora di attività di cantiere e, almeno in parte, livelli di vita riferibili alle prime fasi del castello. Il cattivo stato di conservazione del deposito, pesantemente intaccato fino a queste quote dalla frequentazione successiva, non permette di avanzare ipotesi più circostanziate. Un’analisi più dettagliata della sequenza, anche alla luce dello studio dei reperti, potrà in futuro chiarire meglio la situazione. Lo scavo ha comunque rilevato che la costruzione di questa imponente struttura aveva determinato la distruzione di un precedente circuito di fortificazione (descritto in seguito), che tagliava obliquamente tutto il settore, dal muro con pilastri a sud fino alle fondazioni del muro di cinta dei Franzesi a nord. d.4. Area 1. Settore B - Fasi precedenti il castello La parte di insediamento individuato in questa zona si dispone, fin dalla sua fase più antica, su almeno tre terrazzi, che regolarizzano il naturale andamento digradante della collina e sono chiaramente leggibili nella parte indagata; si nota soprattutto una notevole differenza nella conservazione del deposito relativo alle fasi qui trattate. Per la porzione più alta il deposito più antico è stato in buona parte compromesso a seguito delle attività di livellamento e riuso degli spazi effettuate durante la vita della rocca;

68 a ciò vanno aggiunti i naturali fenomeni di dilavamento, trattandosi della porzione più elevata dell’intero sito. Si sono conservate solamente alcune buche di palo che possiamo attribuire a questo periodo in quanto tagliate dalla cinta muraria costruita successivamente. Nel terrazzo a valle, dove il deposito si è ben conservato anche a causa della presenza della cinta muraria della rocca, si sono messi in luce chiari allineamenti di buche di palo in buono stato di conservazione; presentano forma squadrata e sono quasi sempre dotate di ciambella tufacea al fine di rinforzare la stabilità del palo; in diversi casi si sono riscontrate evidenze di un riuso anche multiplo degli alloggi. Altre evidenze che completano il quadro strutturale sono rappresentate dai disfacimenti di muri in terra, presenti su buona parte dell’area indagata. In via del tutto preliminare si possono identificare due strutture in legno di medie dimensioni (oppure una di grandi dimensioni) che occupano tutto lo spazio indagato; la presenza di almeno due punti di fuoco e di una pavimentazione in terra con chiare tracce di frequentazione (spargimento di cenere e carboni), oltre al rinvenimento di numerosi reperti (ceramica da fuoco e da mensa, ossa animali), orienta l’interpretazione delle capanne verso una funzione abitativa. Un allineamento di buche di palo parallelo alla più tarda cinta in muratura (che in alcuni casi taglia le buche stesse) non preclude l’ipotesi circa l’esistenza di una fortificazione in legno, la cui presenza andrà comunque verificata alla luce di una più attenta interpretazione delle evidenze. Il primo insediamento finora rintracciato sulla collina è quindi costituito da strutture in armatura di pali con elevati in terra, forse disposte all’interno di un recinto ligneo. La dimensione delle strutture, la regolarità degli allineamenti e l’uso di pali squadrati sono chiaro indice di una buona tecnica costruttiva degli edifici individuati; sembra di poter individuare la presenza di una comunità che possiede conoscenze tecnologiche di un certo livello, soprattutto per quanto riguarda il ciclo di lavorazione del legno. In un momento successivo viene dismessa la grande struttura in legno riferibile alla fase più antica e si procede alla costruzione di una cinta muraria che mantiene comunque l’orientamento dell’insediamento precedente. La struttura alloggia all’interno di un taglio di fondazione (irregolare e a fossa larga nella parte superiore, a fossa stretta nella parte inferiore; ed è costituita da grandi conci di calcare sommariamente lavorati, legati da malta di calce e, a tratti, da terra tufacea. In corrispondenza del terrazzamento artificiale che livella il pendio naturale e divide lo spazio interno in senso ortogonale al muro di cinta, è stata individuata una sorta di palizzata o robusto steccato; l’evidenza, per ora attribuita a questa fase sulla base di rapporti stratigrafici non del tutto inequivocabili, attende una datazione relativa ed assoluta che potrà venire dai risultati della campionatura di carboni in corso di analisi al C14 e da uno studio sistematico dei corredi ceramici (in assenza di altri chiari reperti datanti quali monete, small finds, ecc.). Nella terrazza più alta non si è conservato il deposito relativo a questa fase, ma solo le tracce di cantiere della fortificazione, con chiare evidenze riferibili alla cava delle pietre necessarie per la sua realizzazione. Nella parte più a valle si è messo in luce un livello fortemente organico con evidenti tracce di vita (numerosissimi reperti ceramici da fuoco e da mensa) e di attività artigianali (scorie di forgia, probabile macellazione di maiali in loco). Le uniche tracce strutturali sono riferibili ad una capanna rettangolare in armatura di pali; l’edificio, di modeste dimensioni (circa 4x2,5 m), presenta una tecnica costruttiva abbastanza approssimativa, soprattutto se paragonato alle evidenze della fase precedente. In definitiva, non è al momento possibile avanzare ipotesi interpretative circa la destinazione della porzione più elevata, sia per la pessima conservazione del deposito, sia per le incertezze circa un eventuale divisorio interno in legno che contribuirebbe a caratterizzare quest’area come centrale. Per quanto riguarda la terrazza più bassa si può invece proporre un’interpretazione, se pur preliminare, come area adibita allo scarico di

69 materiali e/o allo svolgimento di attività artigianali, con la presenza di piccole strutture in armatura di pali. La fase che, a livello stratigrafico, precede immediatamente i livelli riferibili al castello vede l’obliterazione della situazione precedente da parte di una nuova pavimentazione in terra battuta cui sono associati basamenti in muratura legata da terra fortemente tufacea, allineati con la cinta muraria (sia ortogonali, sia paralleli); a questi si aggiungono le evidenze relative ad un piccolo focolare a pozzetto, alcune buche di palo almeno in parte direttamente impostate sui basamenti in muratura e, sparse su buona parte del settore, numerose tracce probabilmente riferibili a disfacimenti di muri in terra. Basandoci ancora una volta sui pochi rapporti stratigrafici disponibili per la porzione che divide le due terrazze dell’insediamento, sembra che la divisione interna in legno ipoteticamente riferibile alla fase precedente sia ora sostituita da una struttura in muratura legata da terra sulla quale si impostano in un primo momento degli alloggi per pali, probabilmente poi sostituiti da elevati in terra. Pur avendo preliminarmente collocato entrambe le fasi d’uso del muro in questo periodo, non è da escludere che almeno la prima delle due sia da riferirsi al periodo precedente. Riassumendo, si configura una fase insediativa costituita da strutture in “materiali misti”. Con le necessarie cautele dovute all’esiguo spazio indagato, pare di poter individuare nelle case in terra su basamento in muratura la tipologia edilizia più diffusa. Queste si dispongono sia all’interno, sia all’esterno del circuito murario in pietra e sono affiancate da strutture di modeste dimensioni realizzate in armatura di pali. Ancora una volta non possediamo evidenze per la parte più alta dell’insediamento. d.5. Area 1. Settore C Lo scavo in questo settore della Rocca è consistito nella ripulitura del banco roccioso affiorante; infatti, l’asportazione del deposito stratigrafico è avvenuta mediante escavatore meccanico da parte della ditta edile in collaborazione con l’archeologa Cosi. Nonostante dalla documentazione fotografica effettuata prima dello scavo sembra che il deposito in questo punto fosse di scarsa consistenza e probabilmente riferibile ad attività di epoca moderna, è stato impossibile controllare di persona questa ipotesi. Lo scavo, quindi ha riguardato solamente le tracce più antiche conservatesi in questo punto del castello, ovvero la costruzione di edifici in materiale deperibile direttamente sullo sperone roccioso; quest’ultimo probabilmente fu regolarizzato e spianato sia in epoca medievale sia in epoca post-medievale: in particolare sono ancora visibili in alcuni punti le tracce dell’escavatore meccanico sul banco di roccia. Lungo il muro che chiude ad ovest il settore di scavo sono state individuate le maggiori tracce; si tratta di una serie di buche e fosse scavate sullo strato roccioso in vari periodi e con varie funzioni. Infatti, alcune delle buche individuate sono servite per l’impianto di impalcature lignee nella costruzione del muro che unisce la torre quadrata a quella rotonda (quindi in epoca trecentesca), mentre almeno una può essere riferita alle radici di un albero, che si trovava in questo punto prima dei lavori di restauro e di scavo. Altre tracce di buche di palo e di silos potrebbero, invece, essere riferite alla frequentazione altomedievale dell’area; non è possibile allo stato attuale fare ipotesi sull’andamento degli edifici lignei, anche perché molto probabilmente lo spianamento medievale o moderno della parte più alta dello sperone roccioso ha asportato il deposito stratigrafico di questo periodo (battuti, piani di vita, focolari, disfacimenti), così come ha asportato anche i livelli relativi alle prime fasi di vita del castello (X-XIII secolo). Le tracce maggiori della frequentazione altomedievale si conservano a nord, dove lo sperone roccioso inizia ad abbassarsi di quota con una specie di terrazzo; qui sono state individuate tracce di buche di palo che sembra avere un orientamento simile all’andamento del terrazzo che prosegue nel settore B (vedi descrizione). Non è stato

70 possibile però approfondire lo scavo in questo punto per la presenza di uno dei pozzetti costruiti dal cantiere attuale. d.6. Area 2 L’indagine condotta nella corte bassa del castello di Staggia ha evidenziato la presenza di tre emergenze monumentali sinora sconosciute: una cinta muraria precedente a quella costruita dai Franzesi, i resti di un edificio bugnato che si sviluppa ad ovest della cinta muraria e una cantina quadrangolare costruita tra le due suddette strutture. Il muro di cinta rinvenuto è caratterizzato da una muratura in pietre squadrate e corre parallelo all’odierna cinta muraria costruita dai Franzesi (fine XIII – XIV secolo). Il forte spessore del muro, circa 1,5 m, permette di interpretare la struttura come una cinta muraria relativa al castello della famiglia dei Soarzi (XII-XIII secolo). In alcuni tratti il muro risulta scarsamente conservato; nella porzione sud-est segue la pendenza della collina che aumenta progressivamente verso sud. I saggi eseguiti a ruspa hanno dimostrato la conservazione in elevato del muro per almeno due metri di altezza, dimensioni destinate ad aumentare considerevolmente nel caso si operassero ulteriori interventi di scavo nel tratto in questione. Alcune evidenze individuate durante lo scasso effettuato dal cantiere edile per la collocazione di tubature e pozzetti per la corrente elettrica nella porzione settentrionale del settore, fanno ipotizzare una conservazione del muro anche su questo lato; seppure tranciato dalle attività dell’escavatore, ne è stato infatti individuato un tratto con un orientamento diverso, perpendicolare a quello sopra descritto, che probabilmente ricollegava il circuito di fortificazione con il palazzo dei Soarzi (XI-XIII secolo) sito nella corte alta. Nel complesso si può quindi ipotizzare che il muro fosse lungo circa 50 metri, di cui 20 m ancora ben conservati. I resti di un edificio, costruito con pietre squadrate e rifinite negli angoli con decorazioni a bugne, sono stati rinvenuti a circa 5 metri di distanza dal muro di cinta. I resti per ora sono costituiti da due muri legati ad angolo retto: il primo che si sviluppa in senso Nord-Sud si conserva per 13 metri, mentre il perimentrale sud è lungo 5 metri. Nella parte nord sembra di intravedere l’angolo nord-est dell’edificio, al quale si lega un terzo muro con direzione est-ovest, probabilmente il perimetrale nord della struttura. Per la tecnica di lavorazione delle superfici dei conci, con decorazione a bugne, si può ipotizzare che si tratti di un edificio privilegiato posto all’interno del castello, costruito probabilmente nel XIII secolo. L’area interna ai muri, in cui la ruspa ha messo in luce una sezione esposta, ha rivelato al di sotto di un forte strato di abbandono i livelli di vita dell’edificio. Quindi, gli strati di frequentazione di questa struttura ed i reperti ad esso collegati sono ancora totalmente da indagare. Lo spazio compreso tra il muro di cinta e i resti dell’edificio privilegiato vennero occupati nel XV secolo da una cantina che sfruttava le antiche murature come muri perimetrali. La cantina presenta una pianta leggermente trapezoidale e occupa una superficie di circa 12 x 5 m. Sul lato nord si apriva un ingresso monumentale con una serie di gradini che ovviavano alle differenze di quota tra il piano di frequentazione del castello e quello seminterrato della cantina. Il lato sud venne chiuso con un nuovo muro, ora in condizioni statiche precarie. Per l’edificazione della struttura vennero probabilmente riutilizzate le pietre spogliate dai muri ormai in disuso. Il riempimento e il definitivo interramento della struttura sembra essere stato effettuato in un unico momento dopo il suo abbandono (gli strati di terra sono piuttosto omogenei e presentano pochi reperti al loro interno), probabilmente tra XVII e XIX secolo, in un momento in un cui il castello aveva perso ogni importanza abitativa o strategica. La copertura, rinvenuta crollata al momento dell’intervento di recupero, era realizzata con una volta a botte in laterizi e si impostava sulle murature preesistenti, preventivamente

71 scalpellate. Le pareti interne della struttura sono ricoperte da uno spesso strato di intonaco bianco sul quale sono state rilevate le tracce di incisioni manuali probabilmente riferibili a conteggi effettuati durante l’uso come magazzino per derrate alimentari. A nord di questo edificio è stato messo in luce un muro con orientamento est-ovest, parallelo al muro nord della cantina, che presenta alla base almeno due archi a tutto sesto tamponati, con funzione di scarico del peso della muratura. L’altezza del muro aumenta verso est, dove è maggiore il salto di quota. Tra il perimetrale nord della cantina e questo muro si trova un conglomerato in cementizio, interpretabile come la base per una scalinata, probabilmente per passare dal livello di vita della corte bassa del castello fino agli ambienti seminterrati. All’interno della ‘corte bassa’ è stata rilevata la presenza di altre murature isolate, per lo più in relazione con la costruzione delle mura di XIV secolo e con le fasi di ampliamento di XV-XVI secolo. Il rinvenimento di materiali moderni (fra i quali oggetti in plastica) direttamente sopra le creste dei muri di quest’area ha confermato che alcune di queste strutture erano già state individuate in tempi recenti: o nei lavori di recupero del monumento effettuati negli anni ’80 oppure dal cantiere attuale; in particolare a sud della cantina, sopra l’angolo sud delle mura di fortificazione più antiche, è stato rinvenuto un grande blocco di cemento con traversine in ferro ributtato in una fossa scavata da un mezzo meccanico durante le ultime operazioni di restauro delle mura della Rocca. Tutte le evidenze fin qui descritte sembrano indicare chiaramente la buona conservazione del deposito stratigrafico orizzontale su tutta la corte bassa, con particolare riferimento alla frequentazione medievale; sarebbe auspicabile, in futuro, prevedere un intervento di scavo in estensione, mirato alla comprensione delle diverse fasi di occupazione in un’area dal forte potenziale archeologico finora interessata solamente da limitati sondaggi e da interventi operati mediante escavatore meccanico. M.A.C., V.F., C.T.

72 V – L’INDAGINE ARCHEOLOGICA 1 - L’esperienza Poggibonsi tra ricerca archeologica e informatica. Tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ‘90 il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena ha condotto un progetto di cartografia archeologica nella Val d’Elsa, in collaborazione con la Provincia di Siena, sui distretti comunali di Colle Val d’Elsa e Poggibonsi. L’indagine, articolata sull'integrazione fra fonti storiche e fonti archeologiche, è proseguita poi con un approfondimento a Poggio Imperiale per verificare i modelli redatti sull’evoluzione del popolamento nel medio evo. Tra il 1991 ed il 1992 la collina è stata sottoposta a ricerche preliminari basate sulla ricognizione archeologica di superficie, affiancata dallo studio dei suoli destinati a seminativo trattando al calcolatore una serie di fotogrammi aerei scattati a varie scale299. L'esplorazione del terreno ha permesso di riconoscere ampi spazi caratterizzati da una massiccia presenza di reperti mobili emergenti in concentrazioni con ottimo grado di lettura ed alcune tracce superstiti in elevato per le quali è stata effettuata una lettura stratigrafica muraria ovvero la torre e la porta San Francesco, la Fonte delle Fate ed i corpi di fabbrica ad essa addossati; i risultati hanno fornito un quadro complessivo ed articolato del potenziale archeologico in nuce riconducibile tanto al grande castello di XII-XIII secolo, quanto alla fase cantieristica della fortezza. Con il processamento delle foto aeree ad alta quota si sono ottenute macro-indicazioni sulla forma e sulle dimensioni dei depositi nel sottosuolo, individuando soprattutto nella zona sommitale indizi consistenti dei quartieri abitativi e nella zona nord est un tratto della cinta muraria medievale, spostata di pochi metri dalle mura rinascimentali. Le foto tramite aereo da turismo, prese più volte ed in condizioni atmosferiche diverse, hanno evidenziato un gran numero di tracce relazionabili alle fasi finali di vita di Poggio Bonizio, quando l’abitato si doveva estendere sull’intera collina. Inoltre il rilevamento di un probabile circuito murario di forte spessore e grandi dimensioni, che attraversava in trasversalmente il versante est, sembra invece riconducibile ad una fase più antica nella quale il castello, pur sempre di grande estensione, doveva occupare parzialmente il rilievo. Il processamento delle foto evidenzia una serie di tracciati viari che traguardano il circuito murario, ma che non si interrompono nelle sue vicinanze, per poi riprendere oltre il muro stesso; la loro continuità (passano sopra e non attraverso) è senz'altro indizio di un impianto viario successivo all'abbattimento dell'elevato. In conclusione sembra plausibile individuare in corrispondenza degli spazi sommitali il nucleo originario di Poggio Bonizio e nelle aree di versante il borgo sviluppatosi all’esterno delle fortificazioni, in seguito anch’esso recinto e forse in parte ridisegnato nella viabilità. Le foto da bassa quota scattate tramite pallone hanno permesso di realizzare uno zoom sui depositi archeologici, con immagini in scala di circa 1:300 e 1:150. In particolare la zona sommitale evidenzia una serie di strutture con dimensioni comprese tra 8 x 12 m, 10 x 6 m, 10 x 8 m ed un blocco di edifici più ampio con dimensioni complessive di 20 x 18 m, corredato da un ambiente laterale più piccolo, di forma quadrata, con lati intorno 5 m. I versanti della collina hanno invece rivelato un vero e proprio impianto urbanistico, diviso in estesi lotti di abitazioni poste in allineamento ed intersecate da viabilità secondaria. Le strutture di migliore lettura mostrano sia pianta rettangolare sia quadrata, dimensioni alternate tra 4 x 5 m circa, 8 x 7 m, 6 x 3,30 m circa, 4 x 4 m, 7 x 7 m; la loro disposizione conferma l'ipotesi redatta sull'andamento del circuito murario. Dopo aver accertato l’entità del deposito archeologico e redatto prime ipotesi sulla forma, dimensioni e consistenza di Poggio Bonizio, alle quali è seguito un’ulteriore battitura a terra, dal 1993 ha avuto inizio lo scavo sistematico300 che con il 2005 ha raggiunto un totale di 39 mesi di lavoro, una rotazione di oltre 1000 archeologi e l’esplorazione di quasi

299 VALENTI 1992a; VALENTI 1993. 300 VALENTI 1999. 73 2 ettari di terreno301. Questo intervento sta comunque continuando per tre mesi all’anno e fornisce ulteriori ed interessanti spunti di ricerca che rivelano sempre di più il grande potenziale archeologico e monumentale dell’area della fortezza. La complessa sequenza archeologica offre un significativo campione della storia insediativa medievale toscana, rivelando un’inaspettata occupazione di lunga durata: ha inizio nei secoli della transizione dalla tarda romanità, prosegue per tutto l’alto medioevo e, dopo un’apparente interruzione, riprende fra metà XII secolo e inizi XIV secolo. L’occupazione più antica, durata per circa cinque secoli, che le indagini preliminari non aveva rilevato e che non ha lasciato traccia nelle fonti scritte, è suddivisibile in quattro macro fasi di villaggio. Tra V e VI secolo, la collina ospitava un nucleo di carattere agricolo ed allevatizio, del quale sinora sono state riconosciute solo alcune componenti. Dagli inizi del VII secolo agli inizi del X secolo l’insediamento evolve poi lentamente in un’azienda fondiaria. L’estensione dei contesti insediativi succedutisi, pur significative, sono da considerare parziali; abbiamo sino ad oggi indagato poco più del 16% del terreno, corrispondente a gran parte dell’area sommitale ed una porzione del versante sud est. Il cantiere è nato come sperimentale, coniugando inedite strategie di indagine con le risorse messe a disposizione dalle nuove tecnologie. Il tentativo di gestire interamente in digitale lo scavo archeologico, si è imposto nel tempo come il contributo di grande novità metodologica che il progetto Poggio Imperiale ha portato. E’ infatti l’unico cantiere interamente catastato all’interno di una piattaforma GIS (Geographic Information System o sistema informativo territoriale) relazionata ad un articolato sistema di archivi; contiene l’intera memoria dell’intervento dalle indagini preliminari al deposito archeologico, dagli scarichi di terreno derivati dalle operazioni di scavo al progetto di parco; permette inoltre lo sviluppo di nuove metodologie di interpretazione del record e la progettazione mirata sia dell’ampliamento dello scavo sia della sua musealizzazione302. Il processamento digitale ci mette anche in grado di ottenere informazioni con valore conoscitivo retroattivo, tale da condurre ad un monitoraggio del monumento sempre più approfondito e dettagliato, di fare interagire i risultati delle indagini preliminari con la progressione dei dati di scavo per ipotizzare l’evoluzione e la consistenza del grande castello di Poggio Bonizio, per confrontare le caratteristiche delle diverse forme insediative succedutesi sulla collina e comprenderne le trasformazioni.

2 - L’insediamento di case di terra. V-VI secolo. Le tracce dell’insediamento più antico sono costituite dai resti di abitazioni a pianta rettangolare, con muri in terra fondati su zoccoli in pietra e tetto in laterizi od in paglia ad unico spiovente nel quale venivano utilizzati un ampio numero di chiodi da carpenteria. Erano edifici monovano, con porte in legno chiuse da chiavi, estesi mediamente sui 30 mq circa, pareti intonacate e piani pavimentali sottoforma di battuto in terra (un solo caso in basolato di lastre di calcare); il focolare posto nei pressi di una parete, talvolta delimitato da pietre o semplicemente appoggiato a terra, doveva essere sormontato da un palo su cui pendeva un gancio in ferro da paiolo303. I rifiuti venivano smaltiti gettandoli all’esterno delle abitazioni, sia per compattare maggiormente il terreno sia ad uso di concimazione: sull’immediato lato ovest di una delle

301 VALENTI 1996a; VALENTI 1996d; VALENTI 1998b; VALENTI 2000a; FRANCOVICH, VALENTI 1996; FRANCOVICH, VALENTI 1997a. 302 FRANCOVICH, NARDINI, VALENTI 2000; FRANCOVICH, VALENTI 2000; FRANCOVICH, FRONZA, NARDINI, VALENTI 2003; FRONZA 2000; FRONZA, NARDINI, SALZOTTI, VALENTI 2001; FRONZA, NARDINI, VALENTI 2003; FRONZA, VALENTI 2000; NARDINI 2000; NARDINI, VALENTI 2004; NARDINI, SALVADORI 2000; VALENTI 1998a; VALENTI 1998c; VALENTI 2000b; VALENTI 2002; WORKSHOP SIENA 2001. 303 Un esempiare di bella fattura presenta un’asta a sezione circolare piegata a torciglione ed estremità divisa in due apppendici astiformi a sezione rettangolare 74 case era presente una superficie coltivata con sistemazione “a porche”, probabilmente interpretabile come orto, che ha restituito una grande quantità di frammenti ceramici, ossa animali, vetro e metalli. Gli oggetti metallici più diffusi nelle abitazioni sono inerenti la sfera domestica e soprattutto del lavoro: coltelli304, cunei305, campanelli in bronzo306, passanti per briglie, chiodi da ferratura e ferrature per equini e bovini307. Tra essi sono poi presenti accessori di abbigliamento come spilli fermamantello in bronzo o monili che confermano la cronologia al VI secolo del contesto; tra gli altri si segnala un anello digitale in bronzo con fascia circolare leggermente allargata al centro dove è presente la decorazione incisa: quattro cerchi inscritti nei quattro angoli di una croce greca308. Facevano parte del corredo domestico anche oggetti in vetro d’uso quotidiano, in particolare bicchieri a bordo liscio più o meno svasato e forme aperte con bordo ribattuto all’interno che potrebbero essere riconducibili a lampade oppure a bottiglie con bordo molto svasato. La stoviglieria era composta soprattutto da olle e testi ad impasto grezzo, da boccali, ciotole e catini ad impasto depurato e con ingobbio rosso sulle superfici di una bassa percentuale di pezzi. Gli anforacei o i grandi contenitori per derrate erano distribuiti più o meno omogeneamente nelle abitazioni e indicano la conservazione di cibi o liquidi a livello domestico; l’ampia presenza di fuseruole e pesi da telaio evidenzia soprattutto la produzione casalinga di tessuti in fibra vegetale. In generale il villaggio non sembra aver avuto accesso a mercati urbani o di più ampio raggio, dove era possibile reperire prodotti di importazione ed una gamma di oggetti maggiormente articolata, bensì doveva essere immesso in un circuito di scambio locale. Queste case trovano confronto in analoghe strutture scavate nel Chianti senese ed a Siena nella piazza del Duomo datate intorno alla metà del VI secolo 309; occupavano circa 20 mq, anch’esse con pianta rettangolare, elevati in terra (nel caso di Siena con fondazione in pezzame di pietra legata da grumi di calce e sabbia), tetto ad uno spiovente (in materiale deperibile a Siena, in tegole e coppi nel Chianti), focolare circoscritto da pietre; in un angolo alcuni grandi contenitori fungevano da dispensa (un'anfora di produzione orientale a Siena; due dolia nel Chianti). L’insediamento di Poggio Imperiale, del quale sinora sono state individuate sei unità abitative, sembra caratterizzarsi per un tenore di vita omogeneo; le famiglie vivevano in case uguali per dimensioni e tecnica costruttiva e dovevano contare in alcuni casi su un’area ortiva. Esistevano infrastrutture funzionali come una grande calcara, un deposito per acqua ed una zona per la macellazione di animali costituita da una fossa terragna riempita da ossa di scarto, mentre una canaletta rivestita in pietrisco ad essa collegata lascia intravedere un espediente per la raccolta del sangue. Questo complesso di

304 Essenzialmente di due tipi: “whittle tang” (nel nostro caso databile al V secolo), con codolo allungato e rastremato inserito in manici compatti in osso o legno; “scale tang”, (nel nostro caso databile al VI secolo con confronto in HALBOUT, PILET, VAUDOUR 1987, p.165, n. 618) con codolo largo e appiattito foderato ugualmente con manici in legno o osso fissati tramite rivetti, oppure tramite cuoio o stoffa. 305 Erano realizzati in ferro e probabilmente impiegati per lavorare il legno, come indicano le dimensioni. 306 Avevano forma troncoconica, appiccagnolo solidale con il corpo dell’oggetto sulla parte superiore e battiglio costituito da una sfera in ferro. Il tipo, per le dimensioni, era riservato probabilmente all’allevamento ovino, legato tramite un laccio al collo dell’animale. 307 Sono riconoscibili sia ferrature da mulo che da cavallo. Le ferrature da mulo hanno rami paralleli che si assottigliano gradualmente terminando in uno spesso rampone. La differenza essenziale rispetto alle ferrature da cavallo, oltre alle dimensioni, è costituita dai rami, paralleli (arcuati nelle altre), a descrivere un cerchio imperfetto. 308 L’anello è formato da una fascia circolare leggermente allargata nel punto che doveva essere al centro del dito e qui è presente la decorazione incisa: quattro cerchi inscritti nei quattro angoli di una croce greca. Un confronto puntuale è attestato nello scavo della Mola di Monte Gelato (POTTER et alii 1988, p.269). 309 VALENTI 1995a; VALENTI 2004; BOLDRINI, PARENTI 1991. 75 evidenze suggerisce, allo stato attuale della ricerca, due interpretazioni: pertinenze di una più ampia azienda o villa di età gota, di cui non è ancora stata individuata la parte centrale oppure, come sembra più probabile, un generico complesso rurale tipo piccolo villaggio di contadini-pastori. Le sue vicende si inseriscono nel più ampio quadro della storia del popolamento rurale toscano alla fine dei paesaggi tardo romani310. Come mostrano le indagini ventennali, condotte attraverso ricognizioni di superficie che hanno interessato oltre 1900 kmq delle province di Siena e Grosseto, la Toscana era caratterizzata da alti indici demografici sino al III secolo, ben esemplificati dalla presenza media di 1,27 siti per kmq (ville, fattorie, villaggi, case sparse). Le famiglie rurali iniziarono a diminuire dal IV secolo, mentre una marcata selezione avvenne tra la metà e la fine del V secolo, quando si allargarono le distanze tra le zone abitate attestandosi mediamente sul valore di 1 sito disposto su 4 kmq (ville, villaggi, case sparse). L’occupazione della terra fu ancora più diradata, raggiungendo la media di 1 sito per 10 kmq, nel corso del VI secolo, con un’accentuazione progressiva del fenomeno nella seconda metà, dopo la guerra greco-gotica (piccoli nuclei rurali e case sparse)311. Dall’età teodosiana, in uno scenario economico di recessione costante, quasi tutte le forme insediative rurali sopravvissute al fallimento dei latifondi cessarono gradualmente di vivere. Il centro di Poggio Imperiale trova per esempio analogie nelle vicende di Gronda di Luscignano nel carrarese: un piccolo insediamento composto probabilmente di capanne con fondazione in pezzame di pietra ed elevati in graticcio costituitosi nel IV secolo ed abbandonato nel VI secolo312. Tendenzialmente alle stesse cronologie si data un ridotto agglomerato di capanne in legno con elevati ad intreccio intonacati in argilla individuato a Filattiera (ancora nel carrarese), distrutto da un evento traumatico improvviso, forse un incendio313. La pesante decadenza della rete insediativa non prospetta una definitiva desertazione della campagna, anche se alcune fonti parlano di estesi movimenti migratori dalla Tuscia al Piceno314. Gli abbandoni non possono essere ricondotti solo ad un fenomeno di spostamento della popolazione ed a una serie di cause tra le quali le conseguenze della guerra greco-gotica, i durissimi anni bizantini e lo stato di guerra più o meno latente che si protrasse, oppure i guasti provocati dall’azione delle bande armate longobarde. Il caso di Poggio Imperiale, così come gli scavi effettuati nella maggior parte dei castelli toscani, rivelano che alcuni gruppi di contadini non abbandonarono la terra ma fecero delle scelte di tipo diverso. Se dobbiamo pensare ad una percentuale non quantificabile di persone che possono essere scomparse od emigrate, la popolazione restante si raccolse invece in forme comunitarie di vita: fu la formazione di una nuova rete di villaggi a livello regionale, fenomeno con il quale, dal punto di vista della storia dell’insediamento rurale, si può fare iniziare l’alto medioevo315. M.V.

3 - L’economia nel villaggio tardoantico. Dal punto di vista delle restituzioni archeozoologiche, è possibile fare dei confronti tra il nucleo di Poggio Imperiale ed altri insediamenti rurali tardoantichi indagati nel centro-nord italiano, in particolare le ville di Lomello (PV), Calvatone (CR) e Villa Clelia (Imola, BO) od il caso di Pantani le Gore (Torrita, SI)316, che propongono resti faunistici datati tra il V secolo e la prima metà del VI secolo. In tutti i casi le specie domestiche sono gli animali

310 VALENTI 1996c; FRANCOVICH, HODGES 2003; VALENTI 2004. 311 FRANCOVICH, VALENTI 2005. 312 DAVITE 1988. 313 GIANNICHEDDA, LANZA 2003. 314 CRACCO RUGGINI 1995. 315 VALENTI 2005. 76 maggiormente attestati; capriovini, bovini e suini il cui diverso rapporto percentuale dei campioni rappresenta un indicatore utile per comprendere quale o quali attività economiche erano praticate. Osservando le diverse frequenze degli animali domestici, spicca immediatamente l’alta percentuale di bovini, tranne che per il caso di Lomello, dove i capriovini ed i suini, se pur non di molto, sono più diffusi. Negli altri esempi il bue è, invece, la prima specie in ordine d’importanza; a Calvatone rappresenta il 93% dell’intero campione, a Villa Clelia il 45%, un valore sicuramente alto considerando il 36% relativo all’ittiofauna, la quale aumenta notevolmente il grado di affidabilità dell’intero campione dal punto di vista del recupero dei reperti, mentre capriovini e suini occupano assieme solamente l’11%; a Pantani le Gore i buoi interessano il 90% dei reperti, infine a Poggio Imperiale il 47% contro il 42% dei suini e l’11% dei capriovini. L’impiego di questi animali nelle attività agricole è probabilmente uno dei principali fattori tafonomici che potrebbero aver determinato le distribuzioni osservate. Altri tipi di indicatori, che concordano con tali ipotesi, sono stati individuati a Calvatone 317 e Pantani le Gore. Nel primo caso, la netta maggioranza di individui maschili o castrati 318 e alcune tracce di usura anomale riscontrate alla radice dei denti canini, ricondotte all’utilizzo di morsi e briglie 319, rafforzano l’ipotesi di un utilizzo per la trazione; mentre a Pantani le Gore lo stesso impiego è stato suggerito in base alla taglia, maggiore rispetto a varie razze bovine attuali, la quale è da riferire a soggetti che si prestavano ad un impiego come forza lavoro. Un ulteriore conferma proviene da Poggio Imperiale, Calvatone, Villa Clelia e da Pantani le Gore dove è attestata una netta maggioranza dei bovini generalmente abbattuti in età senile, solo quando diventavano bestiae inutiles; cioè, destinandoli al consumo quando veniva meno il loro impiego come mezzo di trazione. La carne suina, in tutti i casi, rappresentò probabilmente una delle fonti di sostentamento primario; veniva consumata quando l’animale raggiungeva il peso ottimale, cioè intorno ai due-tre anni320, garantendo quindi un buon livello qualitativo. La carne bovina, che costituiva nei casi di Calvatone, Villa Clelia, Torrita e Poggio Imperiale un’importante fonte di proteine animali, era di minor qualità (provenendo dall’abbattimento di soggetti anziani), ma poteva in alcuni casi essere integrata dall’apporto occasionale di carne di miglior pregio proveniente dai soggetti giovani giudicati in eccesso321. Calvatone, Villa Clelia e Poggio Imperiale, oltre a similitudini di ordine economico, presentano alcune analogie nelle tecniche di macellazione. In particolare nella suddivisione della carcassa bovina è stata riscontrata in entrambi gli insediamenti l’usanza di non spezzare l’animale in due mezzene; in pratica non veniva sollevato e diviso in parti uguali, procedendo ad una separazione del corpo lungo la colonna vertebrale, ma era disteso su di un fianco e diviso in tagli di carne scelta 322. Questa tecnica di suddivisione del

316 A Lomello i resti animali provengono da una buca per rifiuti che ha restituito materiale di V-VI secolo, KING 1987, p.175; il materiale faunistico di Calvatone proviene da una trincea tardoantica di seconda metà V-inizi VI secolo, SENA CHIESA, WILKENS 1990, p.307; mentre a Villa Clelia i resti appartengono ad una fase insediativa di VI secolo, FARELLO 1990a, p.130, FARELLO 1990B, p.208. Per Pantani-Le Gore si tratta di una comunicazione personale di Paolo Boscato che ha studiato le restituzioni archeozoologiche. 317 SENA CHIESA, WILKENS 1990, pp.307-322. 318SENA CHIESA, WILKENS 1990, pp.308-311. 319 Tra i canini dei soggetti adulti è stata, infatti, individuata un’usura atipica posta nel colletto del dente, la quale ha intaccato la radice in profondità. Questo tipo di degrado può essere imputabile solamente all’azione di oggetti estranei alla dentatura dell’animale, SENA CHIESA, WILKENS 1990, p.311. 320 KING 1987, p.176, FARELLO 1990a, p.133, SENA CHIESA, WILKENS 1990, p.308. 321 SENA CHIESA, WILKENS 1990, pp. 308-311. 322 SENA CHIESA, WILKENS 1990, pp.311-318; FARELLO 1990a, p.132. 77 corpo sembra essere tipicamente romana e trova confronti con insediamenti di area francese323. L’omogeneità dei dati fino ad ora disponibili potrebbe quindi rispecchiare un assetto economico, per alcune zone dell’Italia centro-settentrionale, contraddistinto da un’attività agricola intensiva. Il modello decadente del sistema economico antico, proposto sulla scorta delle fonti scritte324, secondo il quale nel corso del V secolo le ville si trasformarono da aziende produttive di generi cerealicoli a complessi autosufficienti connotati da una prevalente attività silvopastorale, non trova conferma negli insediamenti dell’area padana orientale e della toscana centro-meridionale. Solamente per la villa di Lomello, quindi, il passaggio ad un’economia “naturalizzata” sembra un processo già avviato nel V secolo; la maggiore frequenza dei resti di capriovini, combinata con la distribuzione delle età di macellazione, indica come attività predominante questo tipo di allevamento, solo in parte integrato dai suini e dall’agricoltura; era un’attività finalizzata principalmente alla produzione di lana e latte mentre forniva carne solo quando l’animale raggiungeva una buona resa: sono infatti assenti soggetti abbattuti molto giovani325. Le caratteristiche dei resti faunistici attestano soprattutto il progressivo adattamento delle ville tardoantiche e dei centri rurali da un’economia di mercato ad un ambito produttivo finalizzato all’autoconsumo, mentre il passaggio a forme di allevamento come attività predominante, se non esclusiva, si realizzò con l’inizio dell’alto medioevo. A Poggio Imperiale sembra concretizzarsi con la costituzione del villaggio di capanne alla fine del VI secolo; l’agricoltura aveva invece costituito la forma di occupazione predominante nell’insediamento di case in terra ed i buoi trovavano impiego come forza-lavoro nei campi. F.S.

4 - Il villaggio di età longobarda. Fine VI-VII secolo. A distanza di alcuni decenni dall’abbandono delle case in terra, fu impiantato un villaggio di capanne. Era diviso in nuclei composti da abitazioni dotate di recinti, steccati ed annessi che rappresentavano delle unità di circa 80 mq, distanti fra i 20 ed i 25 metri l’una dall’altra e difese naturalmente da un ripido dirupo con dislivello di quasi 100 m sul lato nord est del rilievo. Ad oggi sono sei le unità individuate326 e se l’estensione della superficie insediata si confermerà intorno ai due ettari, in pratica l’area attualmente sotto scavo, la sommità della collina potrebbe essere stata occupata da dodici nuclei circa, permettendo di ipotizzare almeno una sessantina di abitanti. Questa stima è da considerare molto livellata verso il basso e destinata ad accrescersi con l’allargamento progressivo del cantiere. In Toscana anche altri scavi (come Scarlino nel grossetano327, Donoratico nel livornese e San Genesio nel pisano)328 concorrono a chiarire quali furono le modalità di formazione dei villaggi: vennero privilegiate soprattutto le aree di sommità e talvolta gli spazi pianeggianti, ripercorrendo dei siti che più o meno stabilmente erano stati oggetto di frequentazione in età tardoantica e, come sembra, abbandonati da poco tempo; luoghi in cui lo spazio fisico,

323 La Bourse (Marsiglia), JOURDAN 1977. 324 ANDREOLLI, MONTANARI 1983; GRAND, DELATOUCHE 1981. 325 KING 1987, p.175. 326 Il tipo di articolazione urbanistica rilevato, quasi sicuramente da estendere alla maggior parte dei villaggi in vita durante l’età longobarda, trova degli agganci nella stessa produzione legislativa barbarica dove vengono tratteggiate strutture abitative circoscritte da siepi «concepite come "clausurae", il cui centro è rappresentato dalla "curtis", il cortile attorno al quale si raggruppano gli "aedificia" e le "casae"». Si veda GALETTI 1994a. 327 Oltre a FRANCOVICH 1985, si veda la recente tesi di laurea MARASCO 2003. 328 Si veda VALENTI 2005. 78 seppur decaduto, era già predisposto per la costruzione di nuovi edifici e per recuperare con pochi sforzi delle superfici abitative e produttive caratterizzate da processi di rimboschimento appena agli inizi. Durante il VII secolo questi nuovi centri di popolamento non sembrano essere stati gestiti direttamente o indirettamente da grandi proprietari; non siamo in grado di riconoscere, nell’assenza di segni materiali distintivi, una relazione con aristocrazie stanziate in città e dotate di proprietà rurali. L’accentramento dei contadini consentiva di raggiungere «una ‘massa biologica’ di consistenza adeguata, vale a dire un numero di abitanti che giungesse almeno alla soglia del centinaio di individui, al di sotto della quale difficilmente la solidarietà e la sussidiarietà comunitaria potevano raggiungere quella massa critica utile per ottenere una produttività agricola efficace per la sopravvivenza»329. Solo in un secondo momento sembrano trasformarsi in centri di gestione del lavoro. Sullo sviluppo dei centri toscani che dettero inizio al processo di costituzione della nuova rete insediativa seguita al crollo dei paesaggi tardoromani, dovettero interagire l’instabilità della fase storica in corso e la necessità di governare meglio, tramite la forza collettiva, una terra deteriorata e riconquistata dalla natura. La massa dei rustici, liberi di prendere decisioni e di spostamento, per motivi di convenienza pratica, si raccolse in villaggi. Essi trovarono uno spazio di iniziativa, all’incirca quasi un cinquantennio forse anche meno, dopo la scomparsa o la rovina dei latifondisti e prima dello sviluppo o della stabilizzazione di una nuova classe di possessores di età longobarda. Tendenzialmente i contesti indagati nelle campagne toscane furono centri di coagulo del popolamento per meglio organizzare il territorio rurale330. La riorganizzazione delle basi economiche dopo la fine dei paesaggi romani iniziò quindi come un processo lento, innescatosi poco prima del dominio longobardo, collateralmente ad un assetto istituzionale in definizione e con interventi di basso profilo di aristocrazie rurali nascenti che dovevano ancora delinearsi nella propria conformazione 331. L’unica spia archeologica pervenutaci, di una possibile serie di vincoli a cui la popolazione doveva sottostare, sembra riconoscibile nell’assenza di selvaggina dalla dieta quotidiana delle persone; la mancanza di ossa pertinenti ad animali selvatici dai depositi di queste fasi potrebbe indicare spazi il cui uso per attività venatorie era vietato o riservato ad altri soggetti: quindi cacciare doveva rappresentare un privilegio. Ma da sola non autorizza ad ipotizzare una strategia economica decisa da proprietari o chi sa quali iniziative che non si pongano al di là del semplice controllo del villaggio per autoconsumo sviluppatosi in breve tempo. Potrebbe essere data anche una spiegazione di diverso tipo all’apparente divieto venatorio dei contadini: i terreni boschivi che circondavano il villaggio e lo spazio agricolo ad esso legato dovevano essere di carattere fiscale e quindi pertinenti alla corona. Ma, per quanto suggestiva, non trova altri e necessari appigli archeologici; solo il caso valdelsano sembrerebbe fornire prove maggiormente indiziarie, a condizione che le ipotesi sulla fondazione della vicinissima abbazia di Marturi su terreni statali in età longobarda si confermassero332. Il villaggio di Poggio Imperiale sembra essere stato inserito al centro di zone incolte e boschive, con una popolazione priva di differenze sociali ed economiche poiché non si notano gruppi o individui segnalati da maggior grado di benessere. Le capanne risultano

329 FRANCOVICH 2004. 330 FRANCOVICH 2004. 331 Su questi temi e sull'accentuazione data ai processi in corso, già volti alla decomposizione dell'organizzazione tardo imperiale, si veda in particolare DELOGU 1994. 332 KURZE 1989, pp.228-235; l'autore sposta la fondazione dell'abbazia in epoca longobarda basandosi sullo studio della vita di Bononio (primo abate), sulla scorta di considerazioni a carattere generale circa l'edificazione di monasteri in Toscana. Non ultima, una presunta identificazione della stessa Marturi con l'abbazia di San Michele menzionata in un documento dell'anno 762 relativo all'archivio di San Salvatore a Monte Amiata. Si veda al riguardo capitolo IV paragrafo 1 di questo volume. 79 per lo più tutte uguali, caratterizzate da scarso mobilio in legno (sono stati rinvenuti pochissimi reperti metallici interpretabili come applicazioni, cerniere o boncinelli ecc.) e corredi ceramici essenziali, incentrati in particolare su olle ad impasto grezzo e boccali depurati, mentre la bassa presenza di forme aperte fa pensare all’abitudine di consumare i pasti in recipienti da portata comunitari od in stoviglieria individuale in legno della quale non resta traccia. La bassa presenza di fuseruole può lasciare intravedere una scarsa abitudine nel filare in casa i propri panni e forse un maggior uso di pelli per vestirsi; in questa direzione potrebbero essere anche letti l’assenza di utensili metallici per la lavorazione di lana e tessuti ed i pocchissimi oggetti riconducibili ad abbigliamento od ornanento, in totale un bubbolo, un finale per lacci, un gancio per abito in bronzo, due applicazioni in lamina bronzea di forma prevalentemente rettangolare, con piccoli fori per l’inserimento dei rivetti, una borchia in bronzo con testa di forma circolare bombata e asta a sezione quadrata, acuminata. A collane o bracciali molto semplici rimandano invece alcuni vaghi colorati in pasta vitrea, mentre ad oggetti da tenere appesi alle vesti sono pertinenti quei pochi lacci di bronzo rinvenuti333. La dotazione di vetri di ogni capanna risulta invece più articolata, seppur sempre omogenea; ne fanno parte soprattutto oggetti destinati alla mensa ed in particolare coppe “a sacchetto”, bottiglie a fondo apodo, bicchieri o calici e corni potori. Mentre nell’illuminazione venivano impiegate lampade pensili in vetro con tesa orizzontale (appese tramite catenelle metalliche). Sono infine pochissimi gli strumenti in metallo rinvenuti: si tratta di un coltello tipo “whittle- tang” con lama a sezione triangolare allungata, di alcuni utensili per la lavorazione di pietra o legno (due cunei in ferro di forma trapezoidale allungata a sezione rettangolare) e di fili in ferro con possibilità di impiego sia nella sfera domestica che nei lavori artigianali (il dato comune è la funzione di collegamento e tenuta di parti separate). Il villaggio operava in regime economico specializzato nell’allevamento, mostrato oltre che dalle restituzioni osteologiche dalla presenza di quasi un centinaio di chiodi da ferratura e due ferri da mulo; l’agricoltura, invece, rivestiva un ruolo marginale, soprattutto ad integrazione della dieta quotidiana: un aspetto di cui è indizio la scarsa attestazione di ossa di bue dalle restituzioni archeozoologiche. In base all’età di morte degli animali domestici, possiamo riconoscere che la popolazione era caratterizzata da un livello alimentare e proteico qualitativamente alto. La letteratura storica associa simili forme insediative alla realtà del “casale”, cioè un nucleo rurale spesso destinato ad attività allevatizie, di nuovo impianto e di una certa qual consistenza demica, impegnato con il tempo nello sforzo di ridurre a coltura gli spazi intercalari e di rottura di fronte al bosco. Se in questo modello di insediamento potessimo riconoscere il nostro centro, dobbiamo però osservare come la messa a coltura di nuovi terreni non fu l’occupazione prioritaria dei suoi abitanti, anzi si trattò di un processo realizzatosi nella lunga durata che ebbe luogo oltre un secolo dopo la fondazione. Le attività silvo-pastorali raggiunsero l’apice alla fine del VII-inizi VIII secolo, con una grande superiorità numerica delle capre e delle pecore su tutte le specie riconosciute ed un aumento progressivo dei suini. Tale crescita sembra dunque indicare un’estensione progressiva delle superfici boschive, adatte all’ingrasso dei maiali di solito allevati allo stato brado334, verificatasi sino dalla fasi iniziali di vita del villaggio; rientra inoltre in quel fenomeno di espansione delle aree incolte, ipotizzato a livello europeo335.

333 Si tratta di lacci a sezione piatta con ingrossamenti circolari in corrispondenza dei fori circolari dove veniva inserita la parte che chiudeva il laccio intorno all’oggetto da tenere. 334 BARUZZI, MONTANARI 1981. 335 SLICHER VAN BATH 1972. 80 Le capanne, costruite talvolta sui crolli delle case in terra tardoantiche, erano per lo più scavate nel terreno ad una profondità di circa mezzo metro, avevano forma circolare ed un’estensione media di 50 mq; sono definite dalla letteratura specialistica del tipo grubenhaus. Dovevano essere costituite da un'armatura lignea rivestita da alzati in terra; la pianta e la presenza di grossi pali interni, combinate con le tracce di buche esterne al taglio perimetrale, possono fare intravedere una copertura a cono molto alta ed appuntita appoggiata fuori dal circuito della capanna. L'accesso spesso era rappresentato da un breve ingresso a scivolo, rettangolare e largo 1 m circa, scavato anch'esso sul terreno come una sorta di corridoio di fronte al quale si doveva stagliare una chiusura tipo graticcio di legno e paglia alloggiata a due paletti posti ai lati. Nella loro costruzione non furono utilizzati chiodi se non in rari casi, ma si impiegarono quasi sempre legacci, cordame, perni, pioli e puntoni. Lo spazio abitativo risulta diviso in due navate da una fila di pali centrali; in un caso, la presenza di un vasto taglio di forma rettangolare con fondo spianato (2,60 x 2 m; profondità 40 cm) è da leggere come una lettiera che doveva ospitare un semplice pagliericcio. Le grubenhauser, o sunken-featured buildings, sono un tipo di capanna sulla quale il dibattito è ancora aperto per quanto riguarda la loro introduzione 336. Oltre ai casi di Poggio Imperiale ed i recenti esempi parziali di Staggia337, sono state rinvenute a Brescia338, a Rodengo Saiano (BS)339, Aspo (VR)340, Collegno (TO)341 e l’altro caso piemontese di Frascaro342, in Veneto a Oderzo (TV)343 e Brega di Rosà (VI)344, Siena (sottosuolo del Duomo)345, Donoratico (LI; per fasi un po’ più tarde), a Supersano (LE) 346. Tutte le strutture, tranne, per il momento, quella di Donoratico, sono datate tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo. Molto diffuse nell’Europa settentrionale, soprattutto in area slava, la discussione in passato si è incentrata sulla disposizione dei piani di calpestio e sulla presenza o meno di pavimenti lignei. In realtà il problema non sussiste, in quanto sono riscontrabili ambedue le possibilità: sia vita sul fondo della capanna sia pavimenti in assi con un vano sottostante ad uso cantina-magazzino. Inoltre non devono essere confusi con le grubenhauser quegli edifici che, pur seminterrati (i cosiddetti fond de cabannes), sono però destinati a piccoli laboratori-tessitoi ed i cui esempi più noti provengono dall’area merovingia347. Confronti abbastanza puntuali per le strutture di Poggio Imperiale si hanno a Tiszafuered in Ungheria, dove tra V-VI secolo, sono presenti capanne circolari, semiscavate per una profondità incerta ma probabilmente compresa tra 70 cm e 150 cm, costituite da un solo ambiente senza divisioni interne dotato di focolare; quattro-cinque pali si disponevano ai lati ed uno al centro del battuto e non sono state trovate tracce della soglia; spesso uno dei lati presenta un ulteriore taglio quasi rettangolare che potrebbe anche essere interpretato come un largo accesso ma più verosimilmente come una lettiera. Rappresentano abitazioni che erano legate a popolazione di stirpe gepida e longobarda

336 Per il dibattito avvenuto in Italia sulle grubenhauser si veda VALENTI 2004; inoltre il recente BROGIOLO, CHAVARRIA 2005. 337 Si veda capitolo IV paragrafo 12 di questo volume. 338 BROGIOLO 1992. 339 BROGIOLO 1983; BROGIOLO 1986. 340 SAGGIORO 2005. 341 PEJRANI BARICCO 2004 342 MICHELETTO 2003; MICHELETTO 2004. 343 POSSENTI 2004. 344 TUZZATO 2004. 345 CAUSARANO, FRANCOVICH, VALENTI 2003. 346 ARTHUR 1999; ARTHUR, MELISSANO 2004. 347 Per una sintesi LORREN, PERIN 1995. 81 prima delle loro migrazioni348. Nella repubblica Slovacca, a Siladice tra VI-VII secolo vengono attestate capanne seminterrate con escavazione pari a 70 cm, di forma circolare irregolare con pali perimetrali e centrale, di breve estensione (assi 3,6 x 3,3 m; 3,5 x 2,9 m; 3,5 x 3,3 m; 3,9 x 3,2 m) e spesso dotate di focolare. A Syrynia in Polonia, VIII-IX secolo, sono documentati due esempi: capanna semiscavata irregolarmente ellittica (escavazione 65 cm) ad ambiente unico con pali perimetrali portanti, focolare nella parte sud; capanna semiscavata irregolarmente ellittica (escavazione 25 cm) con ambiente unico e due coppie di pali perimetrali portanti. Altri esempi polacchi si osservano a Bazar Nowy per periodi più tardi (metà XII secolo); hanno struttura semiscavata circolare quasi ovale, asse maggiore 7,6 m, presentano nove buche di palo perimetrali ed alcune centrali349. Ulteriori confronti sono recentemente stati forniti dalle ricerche ungheresi, soprattutto per la pianta delle strutture che risulta pressoché identica con i casi attestati nel villaggio di Ménfocsanak; la ricostruzione grafica proposta e quella sperimentale realizzata nel Parco Storico di Kisrozvagy sono identiche alle interpretazioni ed alle ricostruzioni ipotetiche proposte a più riprese per i nostri casi350. Alcune delle abitazioni di Poggio Imperiale erano affiancate da piccoli edifici con funzione di rimessa/magazzino. Uno di questi aveva pianta leggermente trapezoidale (base maggiore 3,5 m, base minore 2 m, altezza 6 m) e struttura portante in pali perimetrali, probabilmente rinforzati da un allineamento interno asimmetrico rispetto all'asse longitudinale; proprio tale asimmetria fa presuppore la presenza di una copertura ad unico spiovente, inclinata da est verso ovest. Gli elevati dovevano essere ad intreccio di ramaglia e vimini, o incannicciata, ricoperti da intonaco di argilla; una parete trasversale interna, sempre in armatura di pali ed incannicciato, divideva la struttura in due ambienti: quello nord, dove con ogni probabilità si trovava l'ingresso, sembra avere funzioni di magazzino per la conservazione delle derrate alimentari e si caratterizza infatti per la presenza di un piccolo silos; il vano a sud invece sembra essere stato utilizzato quale semplice rimessa per attrezzi od altro, caratterizzandosi per un'estrema povertà di reperti. Non esistono confronti puntuali in ambito europeo, in particolare per quanto riguarda la pianta e la copertura ad uno spiovente. L'unica struttura trapezoidale simile per dimensioni alla capanna 8 e con elevati ad intreccio si trova a Czeladz Wielka in Polonia, dove però si tratta di un'abitazione351. Buoni confronti per la nostra struttura si trovano invece sui magazzini o granai rettangolari a due navate, con elevati in incannicciato e cronologia di VII secolo. Fra i diversi esempi (almeno sei, tutti in Germania e Olanda), vale la pena citare almeno quelli di Gladbach, dove il tipo è attestato in due casi e presenta caratteristiche molto simili352; tali strutture assomigliano ai granai del tipo a sei e nove pali (sempre in ambito germanico), anche se non sono interpretabili come strutture aperte su piattaforma di legno, ma sembrano piuttosto veri e propri edifici.

5 - Il villaggio tra età longobarda ed età carolingia. VIII-inizi IX secolo. Dopo una fase intermedia nella quale furono edificate nuove capanne sia abitative sia funzionali, che si affiancavano ad alcuni degli edifici già esistenti, nel corso dell’VIII secolo il villaggio di Poggio Imperiale iniziò a cambiare. Le trasformazioni riguardarono molti aspetti, tra i quali la forma delle abitazioni, l’urbanistica insediativa, i rapporti sociali ed economici, le attività produttive. In questi decenni, dal punto di vista edilizio, non vennero più costruite grubenhauser ma troviamo attestati tre diversi tipi di capanne: a livello del suolo con pianta ellittica o

348 BONA 1976a, pp.29-30; BONA 1976b. 349 DONAT 1980, pp.28, 58, 188, 193, 207. 350 TAKACS 2005. 351 DONAT 1980, p.28. 352 SAGE 1969. 82 circolare oppure rettangolare. La capanna a pianta circolare posta al centro dell’area di scavo, per esempio, era una struttura in armatura di pali a livello del suolo con diametro di 8 m. Sfruttava le soluzioni spaziali di una delle grubenhauser più tarde nel riempire e coprire il suo taglio di escavazione; ha mostrato due battuti di vita in successione continua. Era perimetrata da pali di grandi dimensioni, con diametro medio intorno a 45 cm, posti a distanza più o meno regolare di circa 150 cm; non possediamo tracce del materiale impiegato negli elevati tranne che pochissimi frustoli di intonaco e veli di polvere tipo gesso-legante sabbioso che fanno ipotizzare un incannicciato rivestito di terra intonacata. Il tetto, in paglia, doveva avere forma di un cono molto largo con armatura di travi tenuti insieme da legacci vegetali e puntoni in legno. Il piano di calpestio era in terra battuta poggiante su un vespaio di pietre in assetto caotico spesso circa mezzo metro, l'ingresso era invece aperto a nord ovest. Confronti si hanno nei contesti di Miranduolo e Rocchetto Pannocchieschi dove le dimensioni ed i materiali edilizi impiegati sono più o meno gli stessi e sono attestate tra VIII e X secolo. Nel caso di Miranduolo la struttura si appoggiava alla palizzata che coronava la parte sommatale della collina ed i pali perimetrali erano molto ravvicinati fra loro, tanto da far pensare all’assenza di elevati in terra di collegamento; aveva una pavimentazione in assi di legno ed al suo interno doveva vivere una famiglia che sembra essere impegnata nella lavorazione dell’osso e del corno353. A livello europeo sono invece pochi i riferimenti disponibili e l'unico che si avvicina decisamente alla nostra struttura, proviene dalla Germania: a Vreden, tra fine VIII-inizio IX secolo, era in uso una capanna circolare con diametro di 4,5 m circa, costituita da un'armatura di pali con elevati in argilla, paglia e vimini intrecciati, battuto in terra354. La trama delle abitazioni si fece più fitta e si accompagnò ad un progressivo raggruppamento di sei edifici intorno ad una piccola corte, in parte cinta da una bassa palizzata o steccato e costeggiata da una viabilità in terra battuta. Lo steccato era lineare, costituito da pali di medie e medio-piccole dimensioni con diametro di 10-20 cm contigui l’uno all’altro ed in alcuni casi in doppia fila; si estendeva in direzione nord-sud per almeno 5,3 m, anche se non è escluso un proseguimento in entrambe le direzioni che la storia edilizia della collina ha cancellato; il tratto di viabilità si conservava per circa 6 m, con una larghezza di circa 1,60 m e faceva parte di un percorso interno dell’insediamento. La successione di edifici rilevata denota l'esistenza di una realtà dinamica ed il villaggio, nonostante il nuovo gruppo di strutture che si distinguono dal complesso delle abitazioni e conformemente alla maggior parte dei siti altomedievali scavati in Europa, non mostra di evolvere secondo progetti di pianificazione. Le cause del costante rinnovamento edilizio vanno individuate nella presenza di una popolazione stanziale che cambiava dietro la spinta delle vicende generazionali e di eventuali nuove famiglie attratte all'interno dell’insediamento, nonchè nel grado di usura a cui erano soggette le capanne: avevano una durata medio-bassa, essendo frequentate apparentemente nell'arco di 50-60 anni ognuna355. Non crediamo inoltre che il disuso e le ricostruzioni possano essere imputate alle clausole del conquestum, cioè la parte di beni mobili a cui l'affittuario aveva diritto alla fine del contratto; ovvero smontare le abitazioni e trasportarne i pezzi, soprattutto il legno, sul luogo di nuova costruzione della propria casa356. Come spiegare infatti le buche di palo che mostrano evidenti tracce di carboni o parti di pali ancora al loro interno? Sembra plausibile trasportare elevati in graticcio, ramaglie o in terra? Il legno per sua natura è

353 VALENTI 2004 per una rassegna e per la bibliografia relativa. Inoltre NARDINI, VALENTI 2005. 354 REICHMANN 1982, pp.174-175. 355 Anche in ROSENER 1989, p.90 si concorda su tale durata di vita; l'autore prende in considerazione soprattuto dati archeologici tedeschi e inglesi. 356 GALETTI 1987, p.98. Posizione ribadita in GALETTI 1994b ed accettata in PARENTI 1994. 83 soggetto ad usura e non può avere un impiego ripetuto nei decenni; forse si smontavano e recuperavano determinati elementi di infrastruttura eventualmente dotati di un maggiore grado di conservazione (assi e pali di colmo) o la copertura del tetto in quei casi in cui si utilizzavano tegole in legno (le scandole), o staccionate e recinti. In un modo e nell'altro, la spoliazione di componenti edilizie avrebbe comunque causato una distruzione o gravi danneggiamenti all'edificio357. Qualunque sia stata la realtà, non ci sembra comunque opportuno generalizzarne la portata; le abitazioni rurali erano stabili e la durata più o meno breve è da imputare soprattutto alla loro stessa natura edilizia358. Il villaggio di Poggio Imperiale era costituito da capanne abitative, magazzini-deposito, stalle od altri ricoveri per animali, spazi aperti destinati allo svolgimento di attività rurali ed artigianali. Il grosso della popolazione continuava ad essere economicamente uniforme (non ci sono cambiamenti sostanziali dei corredi ceramici, vitrei e metallici dalla fase precedente), benché la costruzione del complesso di edifici raccolti intorno ad una corte, le cui prime tracce sono presenti agli inizi del secolo in forma già evidente, è interpretabile come l’inserimento all’interno del centro di un proprietario o di un suo agente (actor). Questa novità rappresenta non solo l’indizio dello sviluppo o dell’avvento di una prima forma di gerarchizzazione sociale, ma anche la spia di un cambiamento ed un controllo diretto sulla produzione e sul lavoro delle famiglie rurali. Si accompagnò inoltre ad un apparente aumento della popolazione, ipotizzabile in un centinaio di persone circa e quindi quasi raddoppiata (dato che però potrà accrescersi con l’ampliamento dello scavo) ed alla diversificazione delle attività produttive. Durante la prima età longobarda l’economia silvopastorale rappresentava l’occupazione trainante. La strategia di allevamento adottata era orientata principalmente verso la produzione di carne; in tal senso maiali, capre e pecore mostrano un’alta mortalità di individui giovani che non trova confronti, se non parziali, in altri insediamenti altomedievali. Con l’VIII secolo soprattutto il maiale e secondariamente il bue vennero scelti come i principali produttori di carne, mentre i capriovini erano funzionali ad ottenere beni secondari, in particolare lana e pelli, visto l’aumento dell’età minima di abbattimento: nessuna testimonianza di individui macellati al di sotto dei 24 mesi. I cambiamenti evidenziano come, accanto all’allevamento ed alla pastorizia, iniziò ad avere un peso sempre più rilevante l’agricoltura. L’aumento numerico dei bovini e la presenza di soli individui anziani sembra indicare un loro utilizzo principale per la coltivazione, mentre venivano soppressi solo quando il loro apporto come forza-lavoro sui campi giungeva a termine. Tra i maiali, inoltre, non sono stati rinvenuti soggetti abbattuti prima del secondo anno, indice di una maggiore attenzione verso la massima resa in carne, anche a seguito di una diminuzione del numero di capi allevati e forse di una contrazione delle superfici boschive, derivanti dalla messa a coltura di nuovi spazi359. L’insediamento in questo periodo è riconducibile ad un modello semplificato di Haufendorf, inteso soprattutto come nucleo accentrato con abitazioni disposte a maglie strette al centro di superfici boschive e di un agro coltivato in progressivo allargamento. A distanza di oltre un secolo dalla sua costituzione il villaggio si era trasformato in un centro rurale economicamente ben diverso dalle origini; inoltre era in parte od in toto nella

357 Si tratta di contratti databili tra IX-X secolo; per il loro contenuto si veda GALETTI 1987, p.98. 358 Esempi di capanne smontabili e trasportabili esistono, è vero, ma sono strutture di piccolissima estensione, quasi dei ripari provvisori. In Toscana, per esempio, è stata scavata in località Orentano (Catelfranco di Sotto-Lucca) una piccola capanna di età tardoantica costruita su un livellamento di pietre e laterizi, a pianta sub-rettangolare, con dimensioni di 4 x 2 m, in fasci di vimini o rami semplicemente intrecciati e legati gli uni agli altri; una sorta di tenda che ha trovato confronto nei modelli rappresentati sul sarcofago «pastorale» di Villa Doria Pamphilj (dove è presente un contadino con questo tipo di capanna caricata sulle spalle). Si veda ANDREOTTI, CIAMPOLTRINI 1989. 359 NARDINI, SALVADORI 2000; SALVADORI, VALENTI 2003. 84 proprietà di una famiglia dominante della quale non possiamo conoscere la storia della sua affermazione: dinamiche interne alla comunità, piccoli proprietari che erano riusciti ad acquisirlo tra i propri beni, oppure rappresentanti di un possidente maggiore ed esterno a questo villaggio? Lo scavo non può fornire risposte in tal senso e gli interrogativi sono destinati a rimanere tali; ma evidenzia con chiarezza il cambiamento in atto, lo sviluppo delle attività produttive ed una gerarchizzazione tra gli abitanti in precedenza assente. L’archeologia dei villaggi toscani in generale rileva come la formazione e la stabilizzazione di ricchezze rurali private si siano andate definendo tra la metà del VII e l’VIII secolo; ne sono testimonianze i cambiamenti urbanistici dei centri esistenti e la fondazione di nuovi insediamenti sino dall’origine con trame più articolate e caratterizzate dalla presenza di spazi con carattere distinto, talvolta fortificati, spesso dotati di locali destinati all’accumulo ed alla conservazione di scorte alimentari. Tali strutture sono interpretabili come indizio di un coordinamento della produzione assente nelle fasi più antiche 360; i nuclei di popolamento iniziarono ad evolvere in centri di gestione del lavoro. Per esempio tra metà VII-metà VIII secolo, si costituì l’insediamento di Montarrenti, con piccole strutture di forma rettangolare ed ovaleggiante disposte sull’intera superficie del rilievo collinare. Il sito era circondato da due palizzate che difendevano tanto i versanti quanto la sommità del rilievo e l’insediamento si estendeva per quasi un ettaro; la palizzata sommitale delimitava poco più di un terzo dello spazio edificato. Una stima di massima lascia ipotizzare un carico demografico intorno alle 150 persone, cifra che pare ripetersi costantemente durante la vita del villaggio361. La topografia dell’insediamento altomedievale di Donoratico è invece da chiarire, così come un eventuale rapporto con tracce di frequentazione tardoantica che stanno iniziando a comparire ma che non sono riconducibili per il momento ad alcun modello. Tuttavia il colle, non sappiamo ancora se per tutta la sua estensione di oltre 8000 mq, fu occupato da capanne almeno dalla metà dell’VIII secolo e subirono numerosi rifacimenti e ristrutturazioni. Gli eventi per ora riconoscibili lasciano forse intravedere la costruzione di una palizzata che delimitava una zona distinta: un tratto di circa 2 m, caratterizzato da un allineamento di grossi pali ravvicinati, in alcuni casi in doppia fila, è presente nell’area occupata in seguito dalla chiesa. Nell’esempio di Poggio Imperiale ci troviamo di fronte ad un villaggio che pare svilupparsi in un’azienda di età longobarda; nella sua conformazione ricorda, pur non essendolo, una curtis di piccola estensione, compatta e con elementi pertinenti sia ad una casa dominica sia ad un nucleo massaricio all’interno dello stesso centro; un esempio tangibile di quelle forme pre-curtensi intuite da molti autori362, ma mai tratteggiate urbanisticamente, la cui comparsa facilitò in seguito l’applicazione dei modelli franchi di un maturo sistema curtense363. Le evidenze riscontrate possono quindi essere ricondotte ad uno dei villaggi- azienda presenti nel regno longobardo, dei quali le fonti scritte non forniscono che scarne descrizioni e che vengono definiti con poca chiarezza dalla ricerca storica a proposito della loro articolazione urbanistica e della loro realtà insediativo-produttiva364. L’Archeologia, pur lasciando alcune domande aperte, ci mostra invece come erano fatti materialmente questi centri, come si viveva e cosa si produceva, quali dovevano essere i rapporti interni nelle comunità rurali dell’VIII-IX secolo. Un nuovo gruppo di possessores iniziò quindi ad affermarsi almeno sino dagli anni del regno di Rotari, raggiungendo nello spazio di alcuni decenni una dimensione più matura. Nell’insieme rappresentavano dei nuovi proprietari fondiari dalle origini etniche promiscue,

360 FRANCOVICH 2004; VALENTI 2004; VALENTI 2005. 361 CANTINI 2003. 362 Si veda in particolare ANDREOLLI, MONTANARI 1983; PASQUALI 2002 con bibliografie. 363 Per le trasformazioni in corso nell’Italia carolingia si veda ALBERTONI 1997. 364 Si vedano al riguardo MODZELZWSKI 1978 e TOUBERT 1995. 85 definiti dalle fonti scritte come arimanni, componenti dell’exercitus e longobardi di diritto. Ad essi si affiancarono successivamente gli esponenti di un’alta aristocrazia promossa dalla corona, insediata per gruppi parentali nei centri di potere laico ed episcopale cittadini, che aderì in breve con una vasta base economica al paesaggio rurale365. Nel corso dell’VIII secolo la campagna stava quindi vivendo un processo di crescita; era caratterizzata da rapporti di proprietà più o meno stabilizzati366 e da una società rurale che tendeva nel tempo a farsi sempre più differenziata socialmente con la crescita di una massa anonima indicata dalle leggi come pauperes o rustici367.

6 - La trasformazione del villaggio in curtis nel periodo franco. IX-X secolo. La ricerca storica prospetta un modello di habitat delle famiglie rurali quasi stereotipato, esteso all’intero altomedioevo benchè estrapolato soprattutto dalla lettura di documenti eterogenei datati all'età carolingia. Il villaggio sembrerebbe così una realtà cristallizzata nel tempo, priva di evoluzione urbanistica, se non la costruzione di nuove abitazioni per usura delle vecchie. Era composto da capanne, ognuna inserita in un complesso che raggruppava elementi insediativi diversi, organizzati, costruiti e strutturati dal contadino stesso: stalle, granai, fienili, tettoie, recinti, laboratori artigianali, forni, cucine, pozzi ecc., raccolti intorno ad uno spazio aperto e spesso recintati368. Questo tipo di insediamento, in realtà, non pare essere stato in vita nel VII e nell’VIII secolo ed anche per il IX ed il X secolo difficilmente trova riscontri archeologici. La sua descrizione sembra collegata ad un centro rurale idealizzato, costituito da strutture attestate singolarmente in carte d’archivio di diversa provenienza geografica e mai recanti descrizioni urbanisticamente dettagliate; forse anche all’adattamento retroattivo di modelli insediativi-produttivi legati alla grande fattoria mezzadrile di età moderna. In Italia non esistono testimonianze in tal senso ed alcuni agganci cercati in contesti archeologici germanici, per esempio il caso famoso di Warendorf o quello di Merdingen, convincono poco369.

365 Il fenomeno è riconoscibile almeno dai decenni della reggenza di Ariperto II (TABACCO 1969 e TABACCO 1973). Troviamo attestazione della loro presenza nei documenti scritti, ma sono assenti delle chiare tracce materiali sul territorio; tale vuoto archeologico sembra prospettare il controllo in forma indiretta del proprio patrimonio e individua nella città la loro sede di residenza stabile. In Toscana non sono stati rinvenuti contesti archeologici come quelli dell’Italia settentrionale che provano la territorializzazione di un ceto di fideles del re, divenendo esponenti di spicco della nuova classe dei proprietari terrieri (da ultimo BROGIOLO, CHAVARRIA 2005). Tra la metà del VII e la metà dell’VIII secolo si assiste così in generale ad una proliferazione di chiese, ospedali e monasteri dovuti all’iniziativa laica, probabilmente al servizio di una serie di insediamenti posti nei loro dintorni; a questo periodo datano per esempio i primi interventi sulla campagna senese di esponenti delle aristocrazie di origine longobarda come il restauro dell'oracolo di S.Ansano a Dofana ad opera dei gastaldi senesi Vuillerat e Zottone suo figlio, la costruzione all'interno della stessa chiesa di due altaria fatti poi consacrare da Magno vescovo di Siena o la fondazione del monastero di Sant’Eugenio del gastaldo Warnefrit (si veda per tutti TABACCO 1973). 366 In tale direzione ceve essere per esempio letta la ben nota disputa tra i vescovi di Siena e di Arezzo sulle chiese battesimali poste nella fascia di confine tra le due città. Evento che testimonia soprattutto quella vasta mole di relazioni e compenetrazioni tra laici di medio e di alto livello sociale ed istituzioni religiose che, al di là delle motivazioni spirituali esistenti, rappresentarono soprattutto occasioni economiche e di affermazione- consolidamento familiare. Si vedano soprattutto TABACCO 1973 e VIOLANTE 1982. 367 GASPARRI 1983, pp.107-113. 368 GALETTI 1987, p.96; anche ROSENER 1989, pp.87-90 con bibliografia. 369 Tali casi mostrano villaggi articolati in unità poderali molto più estese e composite di quanto non lasci intendere la documentazione scritta, circondate da palizzate e con un ampio numero di edifici (una media di 14-15 strutture) in parte funzionali alle attività agricole (fienili, pagliai ottagonali ed esagonali, piccole capanne con e senza focolare lette come annessi funzionali, piccoli magazzini per grano e stalle), in parte adibiti a residenza sia del detentore del manso (abitazione più estesa, con due ingressi contrapposti, su uno di essi viene ipotizzato una sorta di trono in legno come segno esplicito di gerarchizzazione) sia di manodopera servile. 86 In età carolingia avvennero cambiamenti nell’articolazione dei villaggi ma nessuna abitazione comune pare aver mai avuto una strutturazione così complessa; strutturazione che invece si adatta più da vicino a quegli spazi particolari dell’insediamento che, archeologicamente, sono stati interpretati come zone di potere e di coordinamento del lavoro dei rustici. In questo periodo l’insediamento di Poggio Imperiale si trasformò radicalmente, assumendo le caratteristiche di una curtis, cioè una grande azienda rurale, strutturata in un complesso di terre gestite direttamente dal proprietario (dominicum) ed altre date in gestione a coloni (massaricium) che avevano anche l'obbligo di prestare delle giornate di lavoro (operae, corvées) sui terreni padronali370. Tale cambiamento non fu improvviso, venne bensì preceduto da una frequentazione di alcuni decenni, probabilmente agli inizi del IX secolo, della quale non riusciamo per il momento a definirne bene le unità abitative e l'estensione, in quanto le loro tracce risultano compresse tra i depositi più antichi e quelli più recenti. La capanna in parte coperta dalla viabilità in terra che entrerà in uso con la curtis, dal calpestio esterno ad altri edifici più tardi, in parte riutilizzata per una nuova struttura abitativa e in parte asportata dalla fondazione di un muro in pietra di XIII secolo, rappresenta un buon esempio dello stato delle giaciture di questa fase intermedia. Era parzialmente conservata ed alloggiata all'interno di un breve taglio sul terreno di forma rettangolare con angoli stondati; l’intero lato est venne spoliato e le dimensioni superstiti erano di 5,5 x 2 m circa benché ipotizzabili in 5,5 x 3 m. Doveva aver avuto pianta rettangolare, forse divisa in due navate da un palo centrale, il tetto era a doppio spiovente orientato est-ovest; fu dotata di un focolare ed il piano di vita presentava molte piccole buche da leggere come alloggio di arredi371. La nuova organizzazione del villaggio ruotava intorno ad una grande abitazione (longhouse) che costituiva la residenza padronale. Da questa si dipartiva una strada in terra battuta, affiancata da un edificio di servizio destinato alla macellazione della carne e contornata da capanne di dimensioni minori forse riconducibili a servi o dipendenti, da un’area destinata a strutture artigianali che comprendeva una fornace da ceramica ed una forgia da ferro e da un grande granaio. Uno spazio aperto con contenitori infissi nel terreno, steccati e concimaia ha mostrato i resti delle attività quotidiane di una popolazione rurale. Tale complesso era il centro della curtis e gli studi sulla fauna delineano i suoi caratteri economici. La distribuzione delle specie rivela un nucleo dedicato prevalentemente ad attività agricole e di pastorizia specializzata; continuano ad essere presenti i buoi, soprattutto impiegati nei lavori di trazione e nei campi, ed i caprovini destinati alla produzione di latticini, della lana e per il consumo di carne; scompaiono però i suini. Nella casa dominica si svolgevano quindi attività economiche incentrate sullo sfruttamento agricolo dei terreni circostanti e sull’allevamento, mentre l’uso della selva appare meno decisivo nei processi produttivi, forse limitato esclusivamente alla raccolta ed al recupero di materiale ligneo per l’edilizia ed alle altre attività quotidiane ad esso rapportabili. Qui i contadini avevano mansioni collegate soprattutto all’allevamento degli animali (oltre alle ossa sono stati rinvenuti circa 60 oggetti metallici riconducibili a tale attività), alla produzione di generi alimentari e di strumenti di lavoro. La specializzazione nell’allevamento di caprovini e la presenza di bovini macellati in età avanzata, fanno pensare infatti che le superfici agricole del dominico venissero gestite soprattutto tramite corvées, concedendo quindi l’impiego dei propri animali, mentre l’esistenza di strutture di accumulo può essere riconducibile all’immagazzinamento di quote canonarie.

370 Si vedano tra i tanti PASQUALI 1981; SERGI 1993; TOUBERT 1983; TOUBERT 1988. 371 Confronti per suppellettili analoghe si rintracciano a Brescia-via Alberto Mario, in un edificio databile alla fine dell'età tardoantica, circa dove sessanta piccole buche di palo sono state interpretate come indizio di mobilio minuto tipo panche o sgabelli con gambe appuntite: BROGIOLO 1994, p.108 e bibliografa citata. 87 Il granaio aveva forma rettangolare, esteso 8,5 x 5,5 m, costituito da un'armatura di pali perimetrali estremamente robusta e da un piano di calpestio molto scuro con evidenti tracce di frequentazione di tipo non domestico. La letteratura nord europea ha spesso associato questo tipo di evidenze archeologiche a granai con piattaforma pavimentale sopraelevata per isolare i cereali dall'umidità, pareti in assi di legno orizzontali e copertura a due spioventi. Trova confronto con l’analoga struttura scavata a Montarrenti e datata metà VIII-IX secolo; un grande edificio esteso 13 x 4 m, a pianta rettangolare con un lato leggermente stondato, diviso in tre ambienti, quello centrale di dimensioni minori, dotato di una grande apertura sul lato sud. Inoltre mostra strette analogie con le planimetrie di alcuni edifici riconosciuti nella Francia in villaggi frequentati fra IX e inizi XI secolo; nel contesto di Baillet-en-France il granaio era rettangolare, a sei pali perimetrali molto robusti (quattro ai vertici e due al centro dei lati lunghi; diametro medio 1,10 m) sui quali poggiava la piattaforma sopraelevata del pavimento; nel contesto di Villiers-le-Sec il granaio era quadrato irregolare a sei pali perimetrali con diametro medio 1,20 m, sui quali poggiava la piattaforma sopraelevata del pavimento e si accedeva attraverso una scala372. L’alimentazione rappresenta uno degli indicatori più evidenti a conferma della presenza di una differenziazione sociale e di una scala gerarchica; al riguardo è significativo il tipo di distribuzione della carne che effettua la famiglia dominante tra i suoi diretti dipendenti con un collegamento fra qualità della carne e diverso ruolo o posizione rivestita da coloro che la ricevevano. Un modello semplificato di distribuzione e consumo vede la famiglia dominante mangiare molta carne di prima scelta e di tipo diversificato, i dipendenti più stretti accedevano a tagli di seconda scelta, il resto della popolazione a tagli di terza scelta e, sia per qualità sia per quantità, doveva forzatamente integrare i pasti con abbondanza di altri generi alimentari373. I modelli storici inerenti la topografia della casa dominica di una curtis, tratteggiano un’area residenziale che doveva essere poco estesa, per l'importanza preponderante della parte dell'azienda lottizzata ai coloni affittuari, articolata in case abitate dal padrone o dal suo agente e dai servi prebendari, magazzini o altri edifici agricoli; solo occasionalmente erano presenti delle stalle poichè gli animali sembrano avere trovato riparo in edifici staccati dal centro curtense. Dovevano poi essere assenti strutture funzionali alla produzione di manufatti artigianali, nella maggior parte dei casi oggetto di canoni, quindi forniti dai massari. Quest’immagine è tratta soprattutto dai Polittici della grande proprietà monastica dell’Italia settentrionale, redatti tra seconda metà del IX–inizi del X secolo374, mentre le curtes più piccole, come quelle che sono state scavate in Toscana e che dovevano essere le più diffuse, articolarono probabilmente rapporti e strategie produttive diverse. Il caso di Poggio Imperiale è in linea di massima aderente al quadro proposto dalla storiografia, ma ci sono significative differenze; in particolare, lo spazio intorno alla capanna dominica era organizzato come una specie di fattoria dotata di annessi e strutture di servizio; gli animali erano custoditi all’interno del centro e le attività artigianali venivano svolte sotto il diretto controllo del proprietario. La forgia da ferro e la fornace da ceramica disposte poco lontano dalla longhouse lasciano infatti intravedere come la fabbricazione dei beni necessari alla vita ed al lavoro quotidiano avveniva negli spazi del dominico e può

372 GUADAGNIN 1988, pp.140-141, 146, 151-152, 160-161. 373 Si veda per tali aspetti soprattutto SALVADORI, VALENTI 2003. 374 Per esempio gli inventari del monastero di Bobbio mostrano la fornitura di prodotti artigianali da parte dei coloni del massaricio; come la corte di Luliatica, nel pavese, che era adibita alla produzione ed alla lavorazione del ferro, altre a fornire il vestimentum cioè l’abbigliamento dei monaci (FUMAGALLI 1969, pp.38-49). Oppure gli inventari del monastero di Santa Giulia di Brescia attestano che circa un quinto dei coloni dipendenti (su un totale di quasi 1000 capifamiglia suddivisi in 80 aziende curtensi) fornivano annualmente censi sottoforma di beni materiali. Sono stati calcolati circa 170 kg di ferro grezzo, attrezzi in metallo (3 falci, 2 forconi, 3 scuri, 1 mannaia, 29 vomeri), oggetti in legno (400 scandolas cioè tegole lignee per tetto), quantitativi di lana e lino, tele e stoffe grezze (FUMAGALLI 1980). 88 rappresentare sia una tendenza all’autosufficienza sia l’esercizio di una bannalità: i contadini ed i pastori del massaricio dovevano forse approvvigionarsi del necessario presso la casa dominica. Resta ancora aperti i problemi della natura e dell’estensione del centro curtense. Delle tre variabili proposte da Toubert tentando uno sforzo di semplificazione della casistica probabilmente esistente375, sono senz’altro da escludere la curtis "pioniere" (organismi di rottura di fronte all'incolto nei quali era assente una casa dominica tra le componenti dell’insediamento) e la curtis con sfruttamento diretto verso i settori di profitto agricolo (caratterizzata da un piccolo settore silvo-pastorale, con produzione specializzata nell'olivicoltura e viticoltura mentre la cerealicoltura aveva un ruolo secondario, deteneva il controllo e si operava per il mantenimento di dispositivi tecnici con al primo posto i mulini). L’insediamento di Poggio Imperiale, se proprio vogliamo inserirlo all’interno di una categoria, pare somigliare molto più da vicino alle curtes di tipo "classico", divise in parte domocoltile e massaricia, quest’ultima da collocare sulle superfici sud della collina non ancora scavate (ipotesi più plausibile che verificheremo presto) o in altra zona del territorio circostante. Nel massaricio dovevano svolgersi le stesse attività lavorative attestate nel dominico, cioè agricoltura e pastorizia; le quote canonarie venivano raccolte nel grande granaio o, nel caso di prodotti alimentari, portate direttamente alla casa dominica. In tal senso è un chiaro indicatore la presenza e la distribuzione dei reperti osteologici del maiale: gli unici elementi anatomici rinvenuti corrispondono alla spalla dell’animale. In altre parole, i suini venivano allevati solo nel massaricio e giungevano nell’insediamento già macellati come parti scelte di carne lavorata ed oggetto di canone; probabilmente il proprietario effettuava poi una redistribuzione di alcune spalle fra i suoi servi. Insieme al villaggio valdelsano, altri casi toscani, come Scarlino, Montarrenti, Miranduolo e Donoratico, mostrano processi analoghi: le tracce di un’evidente riorganizzazione che portò ad una nuova tipologia insediativa ed a nuove connotazioni economiche. Se nella matura età longobarda riusciamo a cogliere archeologicamente i primi segni di un’evoluzione urbanistica dei villaggi, che deve essere collegata allo sviluppo di forme di controllo della produzione, con l’età carolingia il cambiamento fu ancora più significativo. Gli scavi attestano l’inizio di una stagione di rinnovamento urbanistico e di riprogettazione, segni di una più marcata capacità di organizzare la società locale e di coordinare il lavoro della popolazione che assumeva dei marcati caratteri di dipendenza. Le tracce sono riconoscibili soprattutto nella topografia dei centri di popolamento, distinguendo lo spazio del potere economico dagli spazi occupati dalla massa dei poderi, nella presenza tangibile di una famiglia dominante, da opere che i contadini erano tenuti a realizzare, dal tipo di accesso alle derrate alimentari e dalla gestione dei mezzi di produzione. Il consolidamento delle aristocrazie rurali fu un processo di lunga gestazione; tra VIII e IX secolo le élite stabilizzarono i propri patrimoni affermandosi definitivamente ed i contadini, attraverso vie differenti che sono state già tratteggiate a sufficienza dalla storiografia, dovettero entrare per la maggior parte nella dipendenza di grandi proprietari. In questo periodo i nuclei di popolamento non differirono molto da aziende; con l’introduzione del latifondo di modello franco si può affermare che ambedue le connotazioni convissero, influenzandosi reciprocamente. A Scarlino la sommità fu circoscritta e difesa da una cortina in pietra e materiali deperibili e si ristrutturarono interamente gli spazi interni. L’abitato, ancora poco esteso, sembra ora disporsi irregolarmente intorno ad un’area aperta, sfruttata anche per piccole attività metallugiche ed immagazzinamento dei prodotti agricoli. Vennero edificate cinque nuove capanne con destinazione abitativa, tendenzialmente di medio-piccole dimensioni, fra 15 e 50 mq circa, ed una struttura molto grande, non individuata interamente, ma con un lato

375 TOUBERT 1995, pp.159-167. 89 compreso fra 9 e 12 m. Questo edificio, nella sua ultima frequentazione, sembra aver subito un rifacimento quasi integrale, ricostruendo sia il tetto in cui vennero impiegati chiodi sia gli elevati mettendo in opera pietra mista a terra e frasche; gli elementi esposti, insieme ad un corredo di ceramiche e di oggetti in metallo maggiormente ricco, hanno fatto ipotizzare il carattere più importante dell’abitazione. Sul limite nord ovest della collina sorse nel X secolo una chiesa monoabsidata, decorata da affreschi, estesa 14 x 5,5 m, elevati in grandi conci di pietra locale posti in opera irregolarmente e legati da malta. A circa 4 m di distanza, e connessa all’edificio religioso, fu impiantata un’ulteriore costruzione in pietra di 35-40 mq circa, caratterizzata dalla stessa tecnica edilizia ma della quale non è possibile definire la funzionalità. La popolazione, nella zona sommitale, poteva raggiungere un numero di circa 40 persone calcolando la presenza di un prete ed un numero maggiore d’individui all’interno dell’edificio più esteso. Non è invece calcolabile la demografia delle zone di versante dove lo scavo non è stato esteso. A Montarrenti, dopo la metà dell’VIII secolo, la parte alta fu soggetta ad una ristrutturazione: la palizzata lignea venne sostituita da un muro in pietra legato da malta e le capanne, a loro volta, soppiantate da un grande magazzino in legno di forma rettangolare. L’area sommitale sembra destinata non solo alla raccolta delle derrate agricole ma anche alla loro lavorazione, che viene attestata dal rinvenimento di una macina e di un piccolo fornetto impiegato per l’essiccazione delle granaglie. Nella seconda metà del IX secolo il grande magazzino andò a fuoco e furono costruite nuove strutture in legno che non sembrano rispettare i limiti del muro di cinta in parte crollato. Miranduolo dista circa 20 km da Montarrenti. Lo scavo sta rivelando una frequentazione stabile della collina che pare avere inizio nel corso dell’VIII secolo e proseguire senza soluzione di continuità sino alle fasi d’incastellamento. Sinora l’intervento ha interessato soprattutto la sommità del rilievo e per gli attuali limiti spaziali non siamo ancora in grado di effettuare stime attendibili sull’entità della popolazione; se le capanne si estesero sull’intera collina possiamo ipotizzare almeno 150 persone ma ogni calcolo è rimandato ad ulteriori sviluppi dello scavo. Intorno alla metà del IX secolo gli spazi più innalzati del rilievo collinare furono riprogettati; venne dato avvio ad una imponente opera di escavazione della roccia, realizzando un profondo fossato dalla larghezza di circa 7 m ed erigendo un’estesa palizzata difensiva, in alcuni punti doppia. L’insediamento doveva ora ruotare intorno ad un’estesa capanna centrale con fasi continue di restauro e rifacimenti, in parte obliterata dai resti del palazzo in pietra di XII secolo. Questo edificio era al centro di strutture di servizio, contornato da magazzini per prodotti agricoli ed ambienti destinati alla macinatura ed allo stoccaggio dei grani posti sul lato nord376. La topografia dell’insediamento altomedievale di Donoratico cambiò forse un po’ più tardi, durante il X secolo quando fu realizzato un primo muro, che tagliava in due parti la zona edificata, ancora costituito da capanne ed obliterato da ceramica a vetrina sparsa. La sua presenza è stata preliminarmente letta come una divisione fra parte artigianale e parte abitativa. Poggio Imperiale e gli altri esempi toscani descritti fanno luce sull’aspetto e sulla connotazione materiale ed urbanistica del potere. Gli spazi governati direttamente dalle famiglie dominanti dei centri si presentano come un complesso organizzato, separato topograficamente dalle case dei contadini e collocato al centro dell’insediamento come a Poggio Imperialei, o sulla sommità del rilievo come le aree con palizzate a Montarrenti (poi sostituite da un muro) e Miranduolo, lo spazio poi cinto da mura in materiali misti di Scarlino e la divisione interna di Donoratico L’aspetto del villaggio cambiò anche attraverso la costruzione di edifici per accumulo e conservazione che mostrano la presenza di una famiglia dominante in grado di razionalizzare prelievi sulla produzione agricola come a Montarrenti, Poggio Imperiale,

376 NARDINI, VALENTI 2003; NARDINI, VALENTI 2005. 90 Miranduolo e probabilmente a Scarlino; di accentrare le strutture per la fabbricazione di beni (forge e fornaci: soprattutto Montarrenti e Poggio Imperiale, probabilmente Donoratico e Rocchette) o per il trattamento dei prodotti alimentari (forni per essiccazione dei cereali, strutture per la macinatura, edifici per la macellazione e la lavorazione della carne: Montarrenti, Miranduolo, Poggio Imperiale, Donoratico); di esigere opere dai propri contadini (erezioni di palizzate o di muri, escavazione di fossati: Montarrenti, Miranduolo, forse Scarlino) o di assoldare maestranze specializzate per specifici interventi (la costruzione della chiesa di Scarlino e forse quella di Donoratico). In definitiva è possibile descrivere la casa dominica come un’area residenziale poco estesa, articolata in un’edificio abitato dal padrone o dal suo agente (come la longhouse di Poggio Imperiale, le grandi capanne di Scarlino e di Miranduolo), contornata da magazzini e granai, aie, stalle e recinti per gli animali, da strutture funzionali alla produzione di manufatti artigianali od alla lavorazione ed al trattamento dei prodotti agricoli. L’occupazione principale dei diretti dipendenti e dei servi sembra essere stata lo svolgimento di attività artigianali, l’allevamento e la cura degli animali (concentrati per esempio nel dominico a Poggio Imperiale e Montarrenti). Dovevano inoltre essere parzialmente impiegati nei campi gestiti direttamente dal centro domocotile, ai quali si destinavano comunque alcuni buoi e talvolta degli equini per operazioni di trazione; l’impegno quasi preminente nella pastorizia e nelle attività di tipo artigianale, lasciano intravedere la presenza di opere svolte dai massari, per le quali non è possibile quantificare archeologicamente l’apporto o l’ammontare ma che sembrano essere state prevalenti. Lo studio delle ossa animali fornisce elementi interpretativi delle diverse strategie economiche in atto nella diacronia e sui cambiamenti ai quali andarono soggette; Poggio Imperiale mostra l’evoluzione progressiva da nucleo di pastori sino a centro agricolo con una minore importanza finale dell’allevamento che si specializza; ancora a Poggio Imperiale ed a Montarrenti gli animali venivano gestiti rigorosamente nel dominico, mentre alcuni centri (come Campiglia Marittima377 o come il massaricio che si legava al centro domocotile di Poggio Imperiale) erano specializzati nell’allevamento dei suini. Il villaggio-azienda di Poggio Imperiale venne abbandonato apparentemente nel corso del X secolo. Al momento lo scavo non riesce a rispondere all’interrogativo se si trattò di un vero abbandono (in questo caso potrebbe trattarsi di un centro che faceva parte di quel patrimonio fondiario legato all’abbazia di Marturi poi andato disperso ed in sfacelo, al quale pose rimedio nel 998 il monaco laudicense Bononio con la rifondazione della comunità religiosa su mandato di Ugo di Toscana)378 oppure di una fase di evoluzione dell’insediamento, che cambiò connotazione, purtroppo cancellata dai grandi interventi edilizi che seguirono alla fondazione del centro di Poggio Bonizio alla metà del XII secolo. A questo riguardo le fonti scritte non danno indicazioni positive; la cessione della collina da parte dell'abate Ranieri a Guido Guerra del marzo 1156 sembra escludere la presenza di forme di popolamento attestando il monte qui dicitur bonzi e fornendo indicazioni di strutture insediative solo in relazione ai suoi confini: «ex uno latere est domo boni, exalio est via publica (...), desuper est strata, desubtus fossa predicto castelli»379. Occorre comunque una verifica archeologica per accertare continuità o discontinuità.

7 - La longhouse. Il grande edificio, tipo longhouse, nome con il quale gli archeologi hanno indicato tali tipi di strutture in coevi insediamenti dell’Europa settentrionale, aveva forma di barca. Era una

377 BIANCHI 2004. 378 Su Bononio ed il suo rapporto con Marturi in particolare KURZE 1989. 379 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 28-29 marzo 1156. 91 struttura accuratamente pianificata, con un lato seminterrato e dimensioni di 17 x 8,5 m, occupante quindi uno spazio di circa 144 mq. Venne costruita scavandone la pianta sul terreno vergine in corrispondenza del lato lungo sud e dei lati brevi; per la parte nord fu sfruttato lo spazio che precedentemente ospitava altre capanne. Qui viveva la famiglia dominante del villaggio-azienda. Aveva uno scheletro in armatura di pali con diametro medio di 35 cm ed elevati in terra (forse a rivestimento di graticci nella zona sud ovest) appoggiati al suolo in corrispondenza del lato nord e alloggiati all'interno del taglio sul lato sud est; la trincea di fondazione è rappresentata da uno scalino ricavato sulla parte mediana del taglio stesso mentre numerosi paletti di medie e piccole dimensioni piantati sul piano di calpestio fungevano da rinforzo interno. Il tetto, in paglia o altro materiale vegetale, era a doppio spiovente. Due accessi si contrapponevano sui lati nord e sud ed erano chiusi da porte in legno con cardini. Mostra una suddivisione in tre ambienti: zona domestica (8,50 x m 6,70), zona magazzino (6 x 3,60 m), zona ad uso misto (4,70 x 2,20 m). L'ambiente domestico presentava un focolare ricavato su una base quadrangolare di terra vergine sormontata da un'incastellatura di almeno tre pali. A breve distanza veniva lavorato il grano come prova la macinella rinvenuta sul piano di calpestio e dove era stata inserita una pietra rettangolare, con incavo al centro del lato esterno per alloggio di un paletto atto a fare ruotare macine di piccole dimensioni; la farina era poi raccolta in una grande buca scavata ai piedi della pietra e delimitata da zeppe: al suo interno doveva trovare posto un recipiente ceramico od in legno. Il centro dell'ambiente risulta interamente tramezzato da una fila di piccoli paletti che fungevano da rinforzo al sistema di sostegno del tetto e sulla parte nord est, forse anche da appoggio per attrezzature artigianali: probabilmente un telaio in legno del tipo a due colonne, di cui sembrano fornire testimonianza due buche di medio-grandi dimensioni parallele ad altrettante piccole buche (alloggi per i montanti verticali) ed alcune fuseruole rinvenute in loro prossimità. Una fila di paletti posta in orizzontale nella zona ovest separava poi lo spazio domestico dall'ambiente destinato a magazzino, dove liquidi e derrate alimentari venivano conservati in contenitori ceramici di grandi dimensioni alloggiati in buche poco profonde; i grani erano invece accumulati in due silos di forma cilindrica del diametro 1 m e con profondità 1,40 m circa. I paletti sui lati brevi sembrano essere stati coperti da stuoie vegetali o da paglia intrecciata; in corrispondenza del lato est una porta probabilmente in legno ha lasciato traccia in tre buche di piccole dimensioni disposte a "v" e in un taglio rettangolare che, formando uno scalino, fungeva da battente: la porta si apriva tirando in fuori. A fianco dell'accesso, nove piccole buche componenti una forma regolarmente quadrata (90 x 90 cm) sono interpretabili come traccia di un'infrastruttura di mobilio: sostegni di un piccolo granaio sopraelevato oppure l'ossatura di una sorta di armadietto realizzato in armatura di pali, diviso in ripiani attraverso tavole orizzontali ed accostato alla parete di terra? Alcune componenti del corredo domestico di stoviglieria dovevano essere poi riposte nello spazio tra la parete ovest e la cantonata della capanna (80 cm-1 m circa) come testimoniano i resti di olle e ciotole/coperchio rinvenutevi. Per quanto riguarda la zona di conserva, sono possibili raffronti con il magazzino rinvenuto in Germania, a Morken380, topograficamente diverso perchè autonomo dall'abitazione cui pertine; era comunque anch'esso seminterrato e presenta buche circolari di poca profondità destinate ad ospitare grandi contenitori ad impasto grezzo. Ambienti semiscavati, con funzione di magazzino o di spazio per attività artigianali, posti all'interno di capanne sono documentati anche in Lombardia per periodi più antichi, a Rodengo

380 HINZ 1964; CHAPELOT, FOSSIER 1980, p.128. 92 Saiano tra V-VI secolo381, nel villaggio di Idro con frequentazione sino al V secolo 382, a Pieve di Manerba per la seconda metà del VII secolo383. Il terzo ambiente era disposto sulla parte nord ovest e ricavato nello spazio restante tra magazzino e parete perimetrale, leggermente soprelevato rispetto alla zona domestica. Probabilmente privo di chiusura e quindi continuo con la navata nord della capanna, non sembra destinato ad usi particolari; presenta comunque una specie di piccolo pozzetto circolare, con pareti rivestite in pezzame di pietra e legante poverissimo (1,24 x 1,20 m; profondità individuata sino a 45 cm) interpretabile forse come luogo di conservazione per alimenti384. Quest’edificio ha mostrato, contrariamente alle altre capanne coeve, una notevole presenza di metalli, quantificabile in 110 reperti; si tratta per la maggior parte di chiodi e ganci da parete. I chiodi rinvenuti sono sia di grandi dimensioni con utilizzo nei lavori di carpenteria per la costruzione dell’edificio, sia, in numero cospicuo, di medie e piccole dimensioni probabile testimonianza di mobilio ed arredi in legno. Per quanto riguarda lo strumentario superstite si sono rinvenuti un coltello, uno scalpello forse impiegato nella lavorazione del legno ed un paio di tenaglie da collegare alla lavorazione dei metalli; queste ultime, insieme ad alcune scorie da ferro presenti sui battuti, trovano una spiegazione nell’esistenza di una forgia posta a pochi metri di distanza dalla longhouse, della quale parleremo più avanti, ma che sembra controllata dalla famiglia dominante. Un ferro di mulo ed i molti chiodi da ferratura attestano la presenza di equidi. L'abitazione era inoltre completata a sud est da un recinto in legno (2 x 5,50 m) forse destinato ad ospitare alcuni animali di piccola taglia, a nord invece da una grande e profonda buca circolare nella quale venivano smaltiti rifiuti organici (diametro 1,10 m, profondità 1 m)385. Una seconda ipotesi di lavoro vede nel piccolo recinto di paletti l'indizio di una struttura tipo pollaio; anche se propendiamo per la prima interpretazione, l'eventualità non è del tutto da scartare visto anche il grande numero di ossa relative a animali da cortile rinvenute sui battuti della grande capanna. Longhouse a forma di barca e parzialmente seminterrate non hanno sinora confronti in Italia tranne il caso di Donoratico del quale parleremo più avanti. In generale, abitazioni a due navate sono particolarmente diffuse in area franco-alamanna con dimensioni analoghe all’esempio di Poggio Imperiale386.

381 BROGIOLO 1986; BROGIOLO 1994, p.110. 382 Sono comunque ambienti spesso caratterizzati da perimetrali con muratura ad un solo filare di pietre legate con terriccio; fanno parte di abitazioni con alzati lignei su zoccolo in muratura (BROGIOLO 1980; BROGIOLO 1994, p.111). 383 Si tratta di fosse scavate per ospitare attività artigianali e una cantina foderata con muri a secco, forse coperta da una tavola in legno (CARVER et alii 1982; BROGIOLO 1994, p.111). 384 Infrastrutture simili sono state rinvenute a Brescia per il periodo longobardo; ci riferiamo al pozzetto identificato in corrispondenza dell'edificio IV; BROGIOLO 1991, p.105. 385 Per la descrizione in dettaglio dei depositi riconducibili alla longhouse si veda VALENTI 1996a. 386 A Eching per il generico altomedioevo, la casa B era costruita in armatura di pali con elevati in materiale deperibile, battuto in terra, pianta a due navate di 10 x 8 m; mentre la casa D era estesa 17,4 x 6 m ed i molti frammenti bruciati di intonaco in argilla rinvenuti fanno pensare a pareti con intonaco d’argilla misto a pagliericcio intrecciato (WINGHART 1987, pp.139-140). A Gladbach la casa 14 aveva misure di 13 x 7 m (DONAT 1980, pp 15, 17; SAGE 1969); a Wuelfingen, è stata indagata una struttura a livello del suolo con armatura di pali, a due navate, misure di 16 x 8 m (DONAT 1980, p.17); a Barbis, la casa III.1, aveva misure di 18 x 6 m ed una parete divisoria di due vani entrambi dotati di focolare (DONAT 1980, p.24). In molti insediamenti rurali sassoni individuati in Germania e in modo chiaro per Warendorf, capanne a barca con dimensioni simili alla longhouse di Poggio Imperiale venivano destinate alla manovalanza servile mentre i proprietari dimoravano in strutture anch'esse a barca ma molto estese, sino a raggiungere i 30 m. La differenza più significativa tra il nostro caso e molte delle abitazioni di Warendorf è riconoscibile nella presenza diffusa di paletti esterni inclinati a rinforzo delle pareti (uno in corrispondenza di ogni palo), 93 Alcuni elementi di notevole somiglianza sono rintracciabili invece in edifici attestati in Germania, in Danimarca ed in Francia. In Germania presso Altenschieldesche, due capanne a barca si caratterizzano per essere edificate a livello del suolo con armatura di pali, a navata unica, estese 18 x 7 m. Un secondo esempio è attestato in Danimarca a Omgard, tra IX-X secolo; ha misure di 19,40 x 6,80 m, struttura a barca con armatura di pali a livello del suolo, a tre navate ed articolata in due vani. Altri confronti sono da porsi con capanne bipartite tipo wohnstallhaus; in particolare l'edificio 1 di Eielstaedt, frequentato tra IX-XI secolo, misure pari a 16 x 8 m, aveva forma di barca con due ingressi contrapposti sui lati lunghi e un’allineamento di buche di palo orientato nord-sud che fungeva da separazione tra i due vani;387 a Telgte-Woeste, nella prima metà del IX secolo, la capanna aveva dimensioni 19 x 7 m388. Anche dei rinvenimenti francesi mostrano analogie per pianta e dimensioni: per esempio la casa VII del timber castle di Mirville era una capanna a barca con misure di 17 x 8 m389. Recentemente è stato individuato a Donoratico il secondo caso di longhouse italiana. La struttura, ancora incompleta nella sua planimetria, ha elementi di somiglianza con Poggio Imperiale non tanto per i suoi caratteri edilizi quanto per forma e per cultura materiale presente. Questa capanna aveva sicuramente una larghezza di 5,80 m ed una lunghezza, per la parte ad oggi visibile, intorno agli 8 m (dovrebbe comunque essere più estesa e la pianta finale sarà probabilmente definita nella campagna di scavi 2006); le buche di palo hanno tutte un rinforzo con corona di terra argillosa; all’interno presenta due focolari, una macinella da grano e una concentrazione di molte fuseruole (zona del telaio?). Lo strato di cenere e carboni del focolare, analizzati al C14, hanno mostrato una cronologia di fine IX- inizi X secolo ed il piano di calpestio di seconda metà del IX secolo390.

8 - La corte aperta e le strutture artigianali. Immediatamente a nord della longhouse si estende uno spazio aperto di oltre 400 mq, delimitato a nord da una capanna abitativa, ad est da una tettoia/recinto per animali, a sud da due capanne di piccole dimensioni. Non esiste un limite chiaro ad ovest; l’allineamento di tutte le strutture lungo il percorso della strada bassomedievale può far supporre l’esistenza, fin dall’età carolingia, di una viabilità interna all’insediamento: in questo caso, delimiterebbe anche lo spazio aperto. Le numerose tracce relative ad attività, descritte di seguito, permettono di interpretare l’area come corte/aia. La tettoia rettangolare (5,1 x 2,1 m) aveva probabilmente funzione di ricovero per animali; un allineamento regolare di pali immediatamente a sud può essere interpretato come recinto ancora collegato ad attività di allevamento; è anche possibile che la tettoia e l’allineamento descritti formino in realtà un’unica struttura di maggiori dimensioni. Numerose buche di piccole dimensioni, sparse senza ordine nell’area, possono essere riconosciute come paletti temporanei. Di più difficile interpretazione sono tre grosse buche nelle quali si sono rinvenuti frammenti di grandi contenitori ceramici: piccoli silos per la conservazione di derrate alimentari in recipienti o abbeveratoi collegati alla tettoia? nell'assenza di navate interne e dalla costante apertura di due ingressi contrapposti. Si vedano DONAT 1980; FEHRING 1991, pp.162-163; inoltre la tipologia abitativa presentate in CHAPELOT, FOSSIER 1980, Fig.17 pp.86-87. Per altri esempi si vedano le capanne documentate a Haldern, Wijk bij Duurstede e Sleen tra VIII-IX secolo, a Odoorn tra VII-VIII secolo (DONAT 1980, pp.11-12), a Kirchheim (CHRISTLEIN 1980, pp.162-163). 387 WILBERS 1985, pp.219-221 e fig.4. 388 REICHMANN 1982, pp.170, 171 fig. 113.1. 389 HIGHAM, BARKER 1992, pp.265-267. 390 Informazione fornitaci da Giovanna Bianchi, direttore “sul campo” dello scavo, che ringraziamo per la disponibilità mostrata. 94 Una serie di buche di medio-piccole dimensioni che formano numerosi allineamenti sono distribuite nella parte centro-occidentale dello spazio aperto; si tratta con ogni probabilità di uno o più recinti con frequenti rifacimenti e cambiamenti di planimetria. Anche in questo caso le strutture sono funzionali al ricovero di animali. Immediatamente ad est, un’area di butto di circa 10 mq, contraddistinta dalla composizione fortemente organica dei suoli e da alcune buche di palo, può essere interpretata come letamaio o scarico di rifiuti legati alle attività agricole del villaggio. Una diversa caratterizzazione sembra avere avuto la parte sud-ovest, dove alcune buche di forma irregolare e dimensioni maggiori (fino ad 1,2 m di diametro) e numerose buche di palo di modeste dimensioni, distribuite in ordine sparso su tutta lo spazio aperto, sono da riferirsi ad impianti temporanei collegati alle attività agricole e di allevamento (pali per legare gli animali, pagliai, cataste di legna, ecc). Almeno due focolari si collocano nella parte centrale dell’area, che insieme a varie chiazze d’argilla concotta, terra molto scura, terra con inclusi carboniosi e chiazze di calce (accumulo di intonaco impiegato nella costruzione di capanne?) testimoniano lo svolgimento di numerose operazioni. Ad alcune decine di metri di distanza dalla corte aperta erano poste tre strutture artigianali: una capanna destinata alla macellazione ed alla lavorazione della carne consumata nella longhouse, una forgia da ferro ed una fornace da ceramica. La capanna, costruita sull’immediato lato ovest della stessa longhouse, era una struttura molto semplice, a pianta rettangolare con un lato leggermente semiscavato e dimensioni medio-piccole (5,5 x 4,40 m); il lato nord ovest veniva delimitato da un taglio profondo 10- 15 cm che, livellando il terreno, comportava un piano di calpestio leggermente seminterrato; i pali portanti erano dislocati regolarmente lungo il perimetro, fungendo da collegamento per elevati in terra e sostenendo una copertura a doppio spiovente del tipo Sparrendach: poggiava infatti su tre travi, uno di colmo impostato sui due pali contrapposti al centro dei lati corti e due laterali impostati sull'allineamento di pali dei lati maggiori. L'ingresso era ad escavazione e di forma rettangolare allungata (lunghezza 1,70 m; larghezza 94 cm). Al suo interno, oltre a chiodi e ganci da parete, si è rinvenuto un raschiatoio in ferro per la lavorazione delle pelli, quindi del cuoio, che ben si accordano con la funzione ipotizzata. L’esistenza di una forgia, sugli spazi ad ovest, viene attestata da un allineamento di pali orientato nord-sud di circa 2,6 m, da un livello di frequentazione a tratti molto annerito, ricco di materiale organico, tracce di carbone e frammenti laterizi (dimensioni 4,1 x 4,3 m), di una buca nella parte sud dal diametro circa 1,30 m conservata solo parzialmente in quanto tagliata da un muro di epoca bassomedievale e contenente scorie. Lungo il lato nord del livello di frequentazione si collocava un taglio lineare interpretabile come una probabile canaletta da collegarsi alle attività artigianali. La forgia, con cappa realizzata tramite pietre e laterizi impastati con l’argilla, era quindi coperta da una tettoia ipotizzabile nelle dimensioni di 4 x 2 m, parzialmente chiusa da bassi muretti in terra con fondazione in pietra sui lati nord ed est. Nelle sue immediate adiacenze, e sugli spazi in direzione della longhouse, sono state rinvenute numerose scorie e soprattutto una notevole presenza di chiodi da ferratura. La coincidenza tra questa struttura ed un grande aumento numerico degli oggetti metallici non sembra casuale. Il periodo carolingio è quello che infatti ha restituito la maggior parte dei reperti ed in cui sono attestate gran parte delle categorie funzionali. La fornace per ceramica, sugli spazi a nord, era di forma cilindrica, costituita da una cupola di laterizi circondata da un rinforzo formato da pietre, ciottoli e altri laterizi frammentati; su due grandi conci di pietra ben squadrati e lavorati si impostava la bocca e le pareti mostrano vistose tracce di annerimento da fuoco. Benchè si tratti del probabile riuso di un deposito per acqua di età tardoantica, gli elementi per la sua attribuzione interpretativa sono molto chiari e ad essi si aggiunge la presenza di

95 frammenti di distanziatori in terracotta nonchè i numerosi strati di terra molto annerita che le si appoggiano. I livelli della struttura confermano il suo funzionamento in fase con la longhouse. Sembra essere stata destinata alla produzione di ceramica grezza di buona fattura come testimoniano due olle rinvenute al suo interno. Esistevano quindi dei vasai nel villaggio ai quali la popolazione si riforniva e la cui produzione (come quella della forgia), per la stessa collocazione della struttura nell’area del dominico, sembra controllata dalla famiglia che abitava la longhouse. Il villaggio doveva comunque approvigionarsi anche in altri punti del territorio dei quali si riconosce l’esistenza nell’ampia varietà degli impasti impiegati per la foggiatura del vasellame e nella presenza di forme chiuse ad impasto depurato. Dove operassero tali vasai ancora attivi professionalmente non lo sappiamo (in città? sul territorio?); la loro presenza e l'esercizio di un'attività produttiva, pur se limitata a precise micro-aree, sembra però proporsi come una quasi certezza. Resta il dubbio sulla loro localizzazione e dove avvenisse materialmente la contrattazione e la vendita: luoghi di scambio comuni interzonali come piccoli mercati periodici o tipo fiere? venditori itineranti? approvvigionamento diretto alle fornaci? Questo tipo di produzione, articolato cioè sulla presenza contemporanea di forni legati ai villaggi e piccoli centri specializzati operanti per una forma di commercio, è del resto indiziata dalla stessa circolazione di vetro. A Poggio Imperiale in particolare, il vetro è presente con una grande quantità di frammenti (riconducibili a bicchieri, bottiglie, forme aperte, calici e lampade), così articolati da permettere in molti casi una vera e propria tipologia che rimanda indubbiamente a fornaci specializzate. Non dobbiamo pensare comunque all’esistenza di imprenditorie industriali e di un sistema di distribuzione organizzato; questo tipo di circolazione delle ceramiche è invece derivato da un progressivo localismo delle produzioni. A livello regionale, già alla fine del V-inizi VI secolo, è dato osservare un quadro variegato nella circolazione dei diversi prodotti, caratterizzato da zone dotate di modalità e capacità di accesso differenziate ai mercati; sono già riconoscibili particolarità sub-regionali ma, nel complesso, siamo in grado di constatare la presenza di una popolazione che affonda ancora le proprie radici in uno sfondo socioeconomico comune e tendenzialmente uniformato; in esso operano ancora fornaci che producono vasellame in serie, diffondendolo a medio-largo raggio. Con la seconda metà del VI secolo sembra quindi decadere definitivamente il mercato urbano (cessano di esistere anche le aziende che vi coinvogliavano i propri prodotti agricoli) e scompaiono gradualmente le importazione sul territorio. La circolazione di merci diviene decisamente limitata, articolandosi solo sulle produzioni locali benchè, in generale, non si può però parlare di completo regime autarchico e di una iniziale chiusura ad ogni tipo di mercato o punto di scambio; esistono ancora alcune fornaci a produzione seriale anche se il processo di particolarismo zonale nella produzione-distribuzione di ceramiche sia ormai sempre più marcato ed in pieno sviluppo. Dal VII secolo doveva invece essere terminata quasi completamente la produzione industriale di ceramica ed il vasellame sembra ora provenire da vasai operanti per una committenza mirata; allo stesso tempo si riducono molto le componenti di corredi da mensa e da fuoco. Risulta evidente la scomparsa di produzioni ad impasto grezzo che, sino alla fine del VI-inizi VII secolo, seguivano criteri formali e stilistici molto simili. Anche la contemporanea rarefazione delle suppellettili da mensa con coperta rossa, segna il venire meno della distribuzione di corredi ceramici uniformi (pur se usciti da fornaci diverse) prodotti industrialmente ed immessi in un mercato ancora ricettivo. Si giunge, in definitiva, alla circolazione di nuovo vasellame definibile pienamente altomedievale, con caratteri propri e relativamente influenzati da archetipi tardoantichi; sono manufatti emancipati dalla tradizione del passato e, a maggiore conferma della loro originalità, influenzeranno poi decisamente le ceramiche in circolazione tra X-XII secolo.

96 Quest’impressione si conferma, per esempio, osservando l'evoluzione tipologica dei boccali/brocche ad impasto depurato rinvenuti in Toscana. Sino agli inizi del VII secolo sono attestate forme che mostrano ancora stretti legami con gli esemplari tardoantichi. Al tipo caratterizzato da bordo estroflesso, collo breve, corpo spesso ovoidale, fondo piano e apode in uso tra V e VI secolo, viene affiancato il tipo con ventre decisamente ovoidale ed il collo molto stretto già nel V secolo avanzato e raggiunge la metà VI-VII secolo (come attestano per esempio in altre aree della regione come gli esemplari di Massaciuccoli e Fiesole391). Quest'ultimo è strettamente legato ai tipi con ansa a nastro leggermente insellata e complanare o impostata poco sotto il bordo, bocca appena trilobata o circolare, corpo quasi a sacchetto in parte coperto da vernice rossa, databili tra fine VI-VII secolo. Nel complesso si tratta delle ultime forme diffuse a livello regionale e distribuite da più centri produttivi (riscontrate a Fiesole ed a Chiusi-Arcisa392; Massaciuccoli, Pistoia e Chianti senese393); le stesse bottiglie attestate a Fiesole rimandano decisamente ad una produzione specializzata. Sembra poi proponibile una diversificazione delle forme (boccali trilobati o tendenzialmente a bocca triangolare a bocca stretta e corpo ovoidale, od a bocca larga, corpo globulare, fondo piano e apode) sino a tutto il X secolo che sottintende ad elaborazioni locali; in altre parole i boccali in uso per il pieno altomedioevo potrebbero essere stati foggiati da vasai operanti per una committenza composta da più nuclei di popolamento dislocati in più circondari. Un elemento di ulteriore supporto all'esistenza di vasai interni al proprio villaggio e di vasai operanti per più nuclei di popolamento vicini, è osservabile nelle stesse caratteristiche tipologiche delle olle. Confrontando così tre dei principali contesti toscani altomedievali, cioè nel senese Poggio Imperiale e Montarrenti, nel grossetano Scarlino, sono chiaramente attestate due diverse produzioni che segnalano altrettante zone caratterizzate da sapere tecnologico diversificato. Nei due contesti senesi, le olle sono di ottima fattura, ben cotte, con decorazioni in parete regolari ed accurate; si tratta di forme globulari od ovoidali, generalmente con bordo più o meno dritto, orlo arrotondato superiormente piatto oppure con bordo estroflesso ed orlo quasi appuntito; non mostrano somiglianza con alcuna delle forme tardoantiche e di età della transizione attestate nei vicini Chianti e Val di Merse. Nel villaggio grossetano, le olle sono invece riconducibili in genere ad un unico grande gruppo, connotato da corpo ovoidale, bordo molto estroflesso, presenza diffusa di alloggio per coperchio, orlo arrotondato od ingrossato o spesso tendente ad assottigliarsi; la loro fattura è molto spesso grossolana ed in alcuni casi risultano chiaramente realizzate a mano; inoltre sono riconoscibili solo differenze minime tra gli esemplari di VI-VII e quelli di IX-X secolo, facendo così sospettare una tradizione stilistica e formale perpetuatasi (se non fossilizzata) all'interno della comunità. Lo stesso contesto del Podere Aione, prossimo al villaggio di Scarlino e forse ad esso coevo (sia per la fase di VI-VII che per quella pre-incastellamento) evidenzia ceramiche che, pur ricordando gli esemplari scarlinesi, sembrano però opera di mani diverse e forse realizzati dagli stessi abitanti del complesso. In quelle aree nelle quali ci si è interrogati sui centri di produzione delle ceramiche altomedievali, sono state riscontrate situazioni che in parte ricordano il quadro che abbiamo delineato ed al tempo stesso differiscono per alcuni aspetti. Nell'Emilia, per esempio, sino alla metà del VII secolo, è stata ipotizzata la compresenza di più modalità di produzione nelle quali erano protagonisti centri operanti in forme ancora sufficientemente organizzate, contemporaneamente a forme di produzione artigianali o casalinghe. Dopo la

391 CIAMPOLTRINI, NOTINI 1993; VON HESSEN 1975. 392 VON HESSEN 1971; FRANCOVICH 1984. 393 VANNINI 1985; VALENTI 1995b. 97 metà del VII secolo, le seconde presero il sopravvento sulle prime, sinchè sul finire dell'altomedioevo riemersero modelli produttivi sicuramenti di carattere non domestico394. Nel centro sud, le produzioni industriali (rappresentate soprattutto dalla ceramica decorata a bande rosse) non decadettero mai e ad esse si affiancarono (o continuarono) forme di produzione locale395; rimane ancora dubbio se il vasellame invetriato, fosse prodotto artigianalmente nelle sue fasi più antiche o se facesse già parte di una e vera e propria industria sin dagli inizi396.

9 - Le altre capanne. Le capanne destinate alla popolazione erano diverse dalla longhouse, avevano dimensioni più ridotte. Sono riconoscibili due tipi di edificio: a pianta rettangolare ed a pianta ellittica. Le capanne rettangolari, avevano un’estensione media di circa 33 mq e dimensioni intorno ai 6,9 x 4,8 m. La struttura portante era costituita da un allineamento centrale e da pali perimetrali piuttosto regolari che denotano una buona qualità delle tecniche costruttive. La distanza intercorrente tra le buche perimetrali ed il rinvenimento di grandi e piccoli grumi di intonaco di capanna lasciano facilmente prospettare la presenza di elevati in terra che rivestivano lo scheletro delle strutture. Confronti sono rintracciabili in una vasta serie di strutture indagate nei contesti altomedievali della Toscana centro-meridionale. A Scarlino, agli inizi del X secolo, tali abitazioni erano estese tra i 5 x 3,5 m ed i 10 m circa x 4-4,50 m; avevano strutture portanti sotto forma di pali ed alzati forse di frasche impastate con argilla cruda. La copertura, in paglia tenuta insieme da legature vegetali, doveva poggiare su un sistema di incastri e perni ed il focolare, circoscritto da pietre, si posizionava alle estremità e nei pressi della porta. Le capanne di Montarrenti sono anch'esse al livello del suolo e pianta rettangolare. La più piccola occupava uno spazio di circa 11 mq; l'armatura dei pali perimetrali era alloggiata in buche scavate nella roccia. Tra fine X-inizi XI secolo altre tre capanne rettangolari avevano dimensioni più o meno simili; la più piccola, di pianta irregolare, occupava uno spazio di 27,5 mq ed aveva dimensioni di 5,5 x 5 m; l’intermedia, con pianta regolare, occupava uno spazio di 33 mq ed aveva dimensioni di 5,5 x 6 m; la più grande occupava uno spazio di 37 mq ed aveva dimensioni di 7,5 x 5 m. A Donoratico sono state individuate recentemente una serie di capanne a livello del suolo ed a pianta rettangolare, con focolare centrale e misure piccole di circa 4 x 3 m397. Le capanne di forma ellittica erano di piccole e medie dimensioni, occupavano uno spazio variabile fra 20 mq e 52-53 mq circa ed avevano elevati alloggiati in una trincea di fondazione; erano cioè costituiti da pali di media circonferenza inseriti all'interno di una canaletta scavata nel terreno: un tracciato con larghezza variabile tra 28-30 cm che ospitava anche terra di riempimento e pietre a zeppa. La copertura, a doppio spiovente, veniva sorretta internamente da pali con diametro di 25-30 cm, alternati a paletti con diametro di circa 15 cm, collocati sia regolarmente lungo il limite del battuto sia con disposizione caotica verso il centro; in altre parole il tetto veniva eretto sui pali più grandi destinati a sopportare il peso maggiore e rinforzato lateralmente. L'assenza di chiodi conferma un largo impiego di legacci vegetali e puntoni di legno. Una delle capanne ellittiche era completata da recinzione esterna realizzata in paletti, probabilmente da leggere come limite di una piccola area ortiva, testimoniata da piccole buche in successione continua. In alcuni casi erano dotate di un focolare interno sottoforma di punto di fuoco appoggiato sul battuto e collocato in posizione laterale appena spostato verso il centro del piano di vita; all'esterno sono visibili spesso le tracce

394 GELICHI, GIORDANI 1994, p.90. 395 PATTERSON, 1985, pp.101-102. Inoltre GELICHI, GIORDANI 1994, pp.88-92 per elementi di sintesi riassuntiva. 396 ANNIS 1992, p.412-413. 397 VALENTI 2004 per una rassegna e per la bibliografia relativa. 98 di un secondo focolare forse circoscritto in alcuni casi da pietre. Il primo punto di fuoco dovrebbe essere visto soprattutto in funzione del riscaldamento dell'ambiente, mentre il secondo, che restituisce spesso resti osteologici, sembra indicare un punto di cottura per cibi posto al di là dello spazio coperto. Focolari all'aperto, a fianco di edifici abitativi sono attestati a Piadena, Lombardia, in contesto di IX-X secolo398. Non è possibile effettuare confronti precisi con capanne altomedievali scavate in Italia; il tipo non risulta attestato anche se, in generale, gli esempi disponibili sono pochi. Capanne ellittiche, però a livello del suolo, della stessa cronologia dei casi di Poggio Imperiale provengono dal contesto livornese di Campiglia Marittima; qui le tracce di capanne sono disposte lungo il margine del pianoro, presentano dimensioni standardizzate (11-12 x 4 m) e sono suddivise in due navate dall’allineamaneto centrale di pali per il sostegno della copertura399. Strutture a canaletta sono invece documentate in Inghilterra a Portchester Castle tra VII-metà IX secolo con navata unica, estese 6 x 5,4 m e 4,2 x 5,2 m, mentre nel timber castle di Penmaen, tra X-XI secolo, era presente una capanna a canaletta con navata unica e dimensioni di 10 x 5 m400. Esempi analoghi provengono da Trellenborg in Danimarca, dove si riconoscono tre capanne di piccole dimensioni, con un solo ambiente e senza alcuna separazione interna, a forma di ferro di cavallo e struttura costituita da una canala appositamente scavata con buche a metà di ogni suo lato ed è quindi presumibile che nella trincea alloggiassero i pali costituendo così l’ossatura della capanna401. Capanne di questo tipo hanno diffusione anche in Germania. A Gristede, IX secolo, esistevano due abitazioni con pianta a ferro di cavallo (misure: 5,2 x 4 m; 5,8 x 3,5 m) ed elevati in assi e paletti verticali alloggiati nella canaletta; a Burgdorf nel IX secolo troviamo due capanne a navata unica, perimetrate da una canaletta chiaramente destinata ad ospitare paletti verticali (misure: 4,25 x 3,3 m; 4,5 x 3,5 m); a Epolding-Muehltal, VII-IX secolo, con dimensioni un po' più grandi, le strutture hanno pianta rettangolare a navata unica e un'armatura di pali perimetrali molto vicini gli uni agli altri sistemati all'interno di una canaletta (larghezza 0,50-1 m)402. Infine è attestato un unicum, la capanna seminterrata con pianta a «T», affacciata sulla strada che portava alla longhouse tramite un ingresso semiscavato (1 x 0,70 m) dotato di canaletta per lo scolo delle acque; si tratta di una struttura in armatura di pali, di pianta rettangolare irregolare e con dimensioni ricostruibili in 4 x 4 m. Il piano di calpestio, in battuto di terra, era seminterrato e posto allo stesso livello della strada. Si sono rinvenute due fasi di vita ed un probabile focolare nella parte sud ovest forse pertinente alla sola fase d’uso più antica. La struttura portante presenta qualche problema di interpretazione in quanto vi sono pali sia interni disposti irregolarmente sia pali esterni all'escavazione. In ambito europeo, soprattutto in Germania, troviamo confronti su capanne a livello del suolo con pavimento seminterrato e funzione abitativa. Tre casi datati tra VII-VIII secolo, provengono da Leegebruch ed hanno misure 7 x 5,5 m e 4,8 x 3,8 m. Confronti con capanne semiscavate, limitandosi agli esempi di IX secolo e con dimensioni simili, sono attestati con funzione abitativa a Uetz; gli altri casi rintracciati si riferiscono ad annessi funzionali: Bredstedt, Burgheim, Dolberg, Itzehoe, Neumuenster-Grotenkamp, Pinneberg- Eggerstedt403. M.V.

398 BREDA, BROGIOLO 1985; inoltre BROGIOLO, MANCASSOLA 2005. 399 BIANCHI 2004. 400 CUNLIFFE 1976, p.59; HIGHAM, BARKER 1992, pp.308-311. 401 STOUMANN 1979a, pp.100-102; STOUMANN 1979b. 402 DONAT 1980, pp.16, 78-79, 85, 160, 162. 403 DONAT 1980, pp.35-36, 64, 85-86, 156-158, 165, 171, 182. 99 10 - Le ossa animali della fase carolingia: il consumo di carne come indicatore sociale. L’analisi dei reperti osteologici è stata impostata sul confronto tra i reperti restituiti dalla longhouse e dalle altre capanne; si è studiato quindi la disposizione delle ossa animali nello spazio per comprenderne le dinamiche di accumulo. A tal fine, l’utilizzo della piattaforma GIS, quale strumento di analisi, è risultato molto proficuo per la costruzione di carte tematiche in cui sono riportati i risultati delle quantificazioni operate dal data base, incrementando le possibilità di valutazione dei depositi. La consistenza anatomica dei resti di bue, elaborata per “zone diagnostiche”, ovvero prendendo in esame unicamente i segmenti relativi alle ossa lunghe, mostra una disparità tra le capanne del villaggio. Nella capanna a pianta ellittica con fondazione in canaletta, per esempio, non sono stati rinvenuti resti di ossa lunghe degli arti dell’animale, mentre sono presenti pochi segmenti ossei associabili a tagli di terza scelta (falangi e denti). Anche tra la longhouse e la capanna a “T” si osservano delle differenze (tabella 1), non tanto nella distribuzione dei resti di bue quanto piuttosto nel tipo di frammentazione riscontrata. Le ossa presenti sembrano indiziare un consumo minore di carne bovina, da parte degli abitanti della capanna a “T”, forse associabile a tagli di seconda scelta. Lo stesso procedimento, applicato ai segmenti osteologici di capriovini, ha evidenziato nuovamente delle differenze associate ai costumi alimentari degli abitanti del villaggio. Nella capanna a pianta ellittica con fondazione in canaletta, l’assenza di carne bovina sembra essere stata compensata da quella capriovina, ma anche in questo caso appaiono delle divergenze evidenziate dalla presenza quasi assoluta di ossa dell’arto anteriore. Le restanti abitazioni, infatti, presentano una distribuzione anatomica differente, più completa e molto affine tra loro, anche nello stato di frammentazione. Un discorso a parte spetta, infine, per la capanna quadrangolare con tetto tipo sparrendach, la quale in base alle evidenze archeologiche sembra essere una struttura accessoria, dove si praticavano le operazioni di macellazione e si ripartivano tra gli abitanti i tagli di carne secondo quanto ci suggeriscono i rifiuti alimentari. Il campione osseo presenta forti analogie con le distribuzioni della longhouse, tranne la maggiore presenza di ossa con tracce di macellazione ed i numerosi frammenti associabili agli scarti della macellazione (frammenti craniali, denti, ossa di piccole dimensioni). Sulla scorta delle informazioni archeologiche e faunistiche il caso di Poggio Imperiale mostra un villaggio socialmente strutturato in cui quantità e qualità della carne ne riflettono l’organizzazione. La carne bovina ed il quarto posteriore dei capriovini rappresentano i resti materiali di questo costume e le modalità di suddivisione del vitto tra i villani. Se la capanna a pianta ellittica con fondazione in canaletta si configura come abitazione di contadini più vicini alla famiglia dominante, i rifiuti di pasto ci indicano una mensa in cui comparivano quasi unicamente il quarto anteriore dei capriovini oppure gli scarti della carne bovina. Gli abitanti della capanna a “T”, invece, sembrano avere accesso a tagli migliori, anche se di seconda scelta. Al nucleo familiare risiedente nella longhouse, spettavano i tagli migliori e la maggior quantità. Nel nostro caso, quindi, la carne acquisterebbe un valore socialmente distintivo con cui la famiglia dominante mostra la propria condizione ed il proprio potere di controllo sugli uomini. In precedenza non si è fatto alcun riferimento alla disposizione di ossa suine all’interno delle strutture emerse a Poggio Imperiale. Il motivo di questa scelta è stato dettato dalla sostanziale omogeneità riscontrata negli edifici, ma soprattutto dalla consistenza anatomica di questa specie considerando il campione del villaggio nel suo insieme. Il dato più rilevante si osserva nella bassa frequenza di elementi anatomici dell’arto posteriore rispetto a quello anteriore, dall’assenza di frammenti femorali e, infine, dal limitato numero di elementi craniali.

100 Nella letteratura archeozoologica il problema dello stato di integrità anatomico delle specie animali presenti nei depositi archeologici è stato spesso oggetto di discussione ed ha assunto un ruolo rilevante il termine schleep effect, spesso utilizzato per motivare le differenti distribuzioni anatomiche delle specie404. Tale concetto, applicato in prevalenza nei contesti preistorici e protostorici, è il risultato di una riflessione condizionata da un determinismo geografico e naturalistico. In altre parole la disparità anatomica, qualora sia osservabile in un campione, si deve essenzialmente alla massa degli animali ed alla distanza tra il luogo di uccisione della preda e quello di consumo. Maggiori saranno i loro valori, espressi dal peso e dalla distanza, minori saranno le parti anatomiche trasportate nell’insediamento. La più articolata complessità dei sistemi economici di periodo storico, rispetto alle epoche precedenti, come anche lo sviluppo di mezzi e vie di comunicazione tra abitati, introducono nuove variabili, di cui il ricercatore deve tenere conto per spiegare l’eventuale difformità nelle distribuzioni anatomiche delle specie. Applicare il concetto di schleep effect alle comunità di età storica significa considerare anche i fattori di ordine economico e sociale, in quanto componenti decisive nella formazione di un campione osteologico e conseguentemente nella distribuzione anatomica delle ossa. Come è stato sintetizzato di recente non esiste un metodo univoco di conteggio delle parti anatomiche per valutare un deposito osseo. Sono la qualità e la quantità dei dati, in associazione al contesto archeologico e storico, che permettono di volta in volta di interpretare i conteggi e di procedere ad una ricostruzione storica connotata da un buon grado di affidabilità. Nel nostro caso, quindi, è stata considerata la disparità tra i segmenti anatomici della specie suina, in particolare quella evidenziata tra arto anteriore e posteriore, e dal loro rapporto con le parti corrispondenti alla testa, per proporre l’ipotesi di un’importazione di questo animale nel villaggio sotto forma di tagli di carne, nello specifico la spalla. Le suggestioni che sembravano scaturire da questo contesto sono state perciò confrontate con altre realtà insediative limitrofe e coeve, applicando lo stesso criterio di lettura, al fine di comprendere quanto l’ipotesi di un’importazione in sito sia corretta. I campioni interessati dallo studio comparativo, tutti datati tra la seconda metà del IX-X secolo, sono Poggio Imperiale, Rocca di Campiglia (LI), Miranduolo (SI) e Rocchette Pannoccchieschi (GR). Il dato più evidente è la differente consistenza di ossa della testa in rapporto alle altre parti anatomiche: in tutti i siti, ad esclusione di Poggio Imperiale, questa è la regione meglio rappresentata. La presenza di numerosi frammenti osteologici riferibili agli scarti di macellazione, quali i denti, il cranio e le mandibole, è solitamente ricollegabile ad una macellazione in sito dell’animale. Il villaggio di Poggio Imperiale, quindi, si distingue nettamente dagli altri insediamenti e per tale motivo crediamo che l’ipotesi di un’importazione sia avvalorata dai trend rilevati. Esaminando il rapporto tra arto anteriore e posteriore si osserva, invece, una forte analogia tra Poggio Imperiale e la Rocca di Campiglia405. In questo caso, la preminenza di ossa craniali e le età di abbattimento riscontrati a Campiglia M.ma, suggeriscono due realtà opposte. Nel primo esempio si tratterebbe d’importazione, mentre nel secondo di esportazione. Tentare di ricollegare quanto sembra emergere dall’analisi delle fonti materiali con il contesto storico in cui si colloca il villaggio di Poggio Imperiale, è certamente un processo non facile ma che necessita di approfondimenti qualora il fine ultimo della ricerca sia quello della ricostruzione storica. Si tratta perciò di capire quali possano essere stati i processi economici che sottintendono l’ipotesi di un’importazione in sito di porzioni di maiale, quali erano le reti di mercato in cui si inseriva il villaggio e quali le forme di

404 ALHAIQUE 2000; WHITE 1953; O’ CONNOR 2000. 405 SALVADORI 2004. 101 scambio instaurate con le realtà insediative limitrofe. Gli elementi specifici dell’economia carolingia sono stati ampiamente esposti e discussi da numerosi storici, sulla scorta delle fonti scritte; il sistema curtense è la realtà economica che maggiormente condiziona la vita sociale ed economica europea di questo periodo406. In tal senso siamo convinti che Poggio Imperiale, secondo quanto già accennato nei paragrafi precedenti, si configuri come un centro amministrativo curtense, dove si raccoglievano i beni prodotti dall’azienda, connotato da una struttura sociale ed una disposizione topografica precisi. Il rapporto tra proprietà fondiaria e mansi dipendenti era regolato, in età altomedievale, secondo diverse modalità che comprendevano prestazioni d’opera sulle terre di diretta dipendenza dal centro (corvées) e canoni in natura o in denaro. Il riferimento più suggestivo, per le evidenti analogie con il nostro caso, è una forma di tassazione o donativo, sviluppatasi in Italia centro-settentrionale a partire dal X secolo, riportata con il termine di Amiscere. Questa espressione, in genere, indicava la spalla del maiale oppure alcuni denari407. In definitiva, non possiamo affermare con certezza assoluta che i rifiuti alimentari rispecchino quanto riportato dalle fonti, ma la convergenza di tutti gli indicatori discussi, archeologici, zoologici e documentari concorrono a delineare l’insediamento come centro amministrativo di un’azienda curtense. In questo quadro di riferimento, quindi, i resti di maiale sarebbero forse in parte da riferire alle corresponsioni che i livellari, insediati nei mansi o in altri villaggi legati alla curtis, dovevano al dominico. Un ulteriore aspetto da sottolineare nelle restituzioni archeozoologiche del villaggio di Poggio Imperiale è l’assenza di resti pertinenti ad animali selvatici, che rimandino quindi ad attività venatorie. Il dato risulta comune a quasi tutti i contesti altomedievali toscani nei quali sono state effettuate analisi faunistiche approfondite e sottolinea un uso limitato dei boschi, dove certamente si raccoglievano legna e frutti spontanei e si pascolavano gli animali ma dove non si poteva cacciare. L’esercizio venatorio doveva quindi rivestire un’importanza indiscussa come mezzo di affermazione del proprio status sociale. A Montarrenti, per esempio, le uniche e scarse attestazioni di selvaggina provengono dall’area di sommità e la caccia sembra essere stata un’attività probabilmente esclusiva e riservata alla famiglia dominante, un elemento distintivo che costituiva una prerogativa di chi deteneva proprietà e potere. Queste valutazioni portano a riconsiderare i rapporti tra classi egemoni e subalterne, in particolare l’ipotetico diritto dei contadini di cacciare nelle selve408, alla luce dei rinvenimenti faunistici. La caccia, infatti, appare un’attività intimamente legata all’evoluzione della società altomedievale tanto da divenire un vero e proprio costume d’elite nel momento in cui si afferma la signoria territoriale. Questo processo è riconosciuto da gran parte degli storici, i quali ravvisano nell’affermazione dei poteri locali il momento topico in cui la contrapposizione di stili di vita e di modelli alimentari, tra ceti egemoni e subalterni, sono ormai definiti409. La caccia assunse un ruolo socialmente determinante, un privilegio di pochi, ovvero un esercizio di casta quale legittimazione del potere di chi lo deteneva 410. Il

406 In generale si veda DUBY 1975 per l’Europa centro-settentrionale; ANDREOLLI, MONTANARI 1983 per l’Italia. 407 In particolare, a partire dal X secolo, in alcune zone d’Italia si diffuse una contribuzione nuova riportata con il termine di amiscere, ad indicare in genere un canone che equivaleva ad una spalla del maiale oppure l’equivalente valore in moneta. La coincidenza dei dati documentari ed archeozoologici rinforza quindi l’ipotesi del centro curtense nel quale, a differenza del villaggio di età longobarda, sembra svilupparsi un’economia variegata, dedita in parte all’agricoltura ed in parte all’allevamento dei capriovini e ovviamente dei bovini impiegati come forza lavoro nei campi. Si veda per una chiara esposizione sul significato del termine amiscere DU CANGE 1954; inoltre ANDREOLLI 1999, pp.206-208. 408 Al riguardo si vedano MONTANARI 1979; MONTANARI 1985; ADREOLLI, MONTANARI 1983. 409 MONTANARI 1979; GRAND, DELATOUCHE 1981; GALLONI 1993; FLANDRIN, MONTANARI 1997. 410 GALLONI 1993. 102 momento decisivo dell’evoluzione che portò la caccia a trasformarsi in un privilegio di casta sembra iniziare dall’VIII-IX secolo e diverse sono le tesi proposte per spiegarne le dinamiche di affermazione. Secondo Grand e Delatouche la caccia era in principio aperta a tutti ma si distingueva a seconda dell’appartenenza sociale, i grandi proprietari cacciavano selvaggina di grossa taglia mentre rimaneva preclusa ai contadini non avendo, quest’ultimi, né il tempo né i mezzi per dedicarvisi. La storia della caccia nel Medioevo è, sempre secondo gli autori, il riflesso dell’evoluzione compiuta dalla civiltà rurale, in pratica dell’affermazione dell’agricoltura. Nell’altomedioevo, quindi, l’unico interesse venatorio contadino era determinato dalla necessità di preservare i raccolti ed il bestiame, mentre nei secoli successivi sarà la selvaggina, in calo demografico a causa dei continui dissodamenti, ad essere oggetto di difesa da parte delle aristocrazie411. Per la scuola bolognese, invece, la caccia nel corso dell’altomedioevo rappresentò una risorsa economica fondamentale per il sostentamento dell’intera popolazione sia contadina che nobiliare412. La sua evoluzione è però spiegata secondo una prospettiva principalmente sociale. La contrapposizione tra modelli comportamentali nobiliari e contadini, che venne precisandosi tra VIII e IX secolo, era nei primi secoli del medioevo abbastanza sfumata, per la forte presenza sociale del ceto “misto” di contadini-guerrieri 413. La scomparsa di questo ceto, o meglio il livellamento sociale iniziato fin dai primi secoli del medioevo e culminato nella società feudale414, è documentata nel IX secolo dove il mondo dei laici è programmaticamente, ma non ancora istituzionalmente, spaccato tra bellatores e laboratores. Il termine laboratores, viene ad assumere il significato non già di “lavoratori” in genere, ma assai più specificamente di “contadini”, di lavoratori della terra. Dal IX secolo, i luoghi eletti alla caccia, ovvero le foreste, vennero sistematicamente preclusi alle comunità rurali, per essere sempre più avvertiti come spazio riservato ai potenti e ai loro esercizi venatori. Qui il signore altomedievale, sostanzialmente disinteressato al lavoro agricolo e alla conduzione dei campi, trovava il suo vero interesse “produttivo” nella pratica della caccia415. Secondo Galloni, infine, l’appropriazione dei diritti di venazione da parte delle aristocrazie è il risultato di un fenomeno iniziato fin dai primi secoli dell’altomedioevo. I contadini erano allora virtualmente liberi di cacciare, in quanto non esistono disposizioni nelle leggi barbariche che vietino loro questa pratica, a differenza di quanto accadrà a partire dall’XI secolo416. Unica eccezione è costituita dalle riserve regie, testimoniate fin dal VII secolo per la Francia, dove il divieto era esteso a tutti i sudditi del regno nobiltà inclusa 417. L’appropriazione da parte delle signorie locali dei diritti di venazione è spiegato come processo di acculturazione da parte del loro ceto. In pratica si assiste ad un’acquisizione, lenta ma continua, di prerogative regie fin dai primi secoli del medioevo e che trova la sua massima espressione dopo il Mille, con la definitiva affermazione della signoria territoriale; la pratica venatoria venne sempre più condizionata dalla volontà dei potentes: potevano interdirla oppure permetterla dietro il pagamento di tributi, riservandosi determinate specie o parti di esse418.

411 GRAND, DELATOUCHE 1981. 412 MONTANARI 1979, FUMAGALLI 1994. 413 FLANDRIN, MONTANARI 1997. 414 DUBY 1975. 415 FLANDRIN, MONTANARI 1997. 416 GALLONI 1993. 417 GALLONI 1993; MONTANARI 1979. 418 GALLONI 1993. 103 In questo orizzonte il censimento dei depositi archeologici, dove si attesta la presenza di specie selvatiche, rappresenta il significativo contributo storico che archeologia e zoologia propongono attraverso lo studio dei resti materiali. Secondo una prima recensione prodotta agli inizi degli anni novanta, i campioni datati tra V e XI secolo mostrano l’assenza o la presenza irrisoria di ossa appartenenti a specie selvatiche. Questo dato, quindi, non confermava l’ipotesi che la caccia fosse stata una risorsa particolarmente importante per le popolazioni rurali durante l’altomedioevo419. A conferma di quanto presumiamo, il censimento dei dati archeozoologici editi, in corso presso il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Siena, mostra attestazioni di caccia in molti campioni faunistici rinvenuti nei castelli del centro-nord Italia. Diversi campioni faunistici rinvenuti nei castelli italiani registrano, infatti, la costante presenza, a volte consistente, di specie selvatiche nelle stratigrafie legate alla comparsa delle prime strutture in pietra, oppure in quelle immediatamente successive. Questo trend è ancor più significativo se paragonato ai villaggi altomedievali, come Poggio Imperiale dove tali specie risultano spesso assenti. In toscana è particolarmente significativo il confronto diacronico tra i depositi conservati nei castelli, dove la ricerca archeologica ha ormai assodato come queste forme insediative siano state spesso fondate su insediamenti altomedievali preesistenti420. In particolare, questa coincidenza è emersa con chiarezza nei campioni archeozoologici dei castelli di Campiglia M.ma e Rocca San Silvestro (LI)421, Scarlino422 e Rocchette Pannochieschi (GR)423, Montarrenti424 e Miranduolo425, infine, di Rocca Sillana (PI)426. Il caso di Campiglia, ad esempio, esemplifica chiaramente il fenomeno. Nel corso dell’XI secolo, la comparsa delle specie selvatiche tra le restituzioni faunistiche (il cervo, il daino, il cinghiale, la lepre ed il tasso) pare coincidere con la trasformazione del villaggio in castello e la probabile presenza di un rappresentante dell’aristocrazia militare, insediato dai Gherardeschi a controllo del centro e del territorio limitrofo. In tal senso è stata interpretata anche la ripartizione anatomica del cinghiale e la presenza di specie selvatiche di grossa taglia427. A Miranduolo, agli inizi dell’XI secolo, in associazione alla prima cinta di pietra, che sostituì una palizzata lignea di X secolosono stati ritrovati resti di capriolo, assenti nelle stratigrafie precedenti. A Montarrenti, sono stati riconosciuti alcuni frammenti di capriolo nel deposito datato seconda metà VIII-IX secolo, cioè nel momento in cui appare la prima fortificazione di pietra, mentre sono assenti nei livelli più antichi. A Rocchette Pannochieschi, in associazione con la prima cinta fortificata di fine IX-inizi X secolo, sono stati riconosciuti resti di capriolo e cervo. Nei castelli di Rocca San Silvestro e Scarlino, sono stati rinvenuti resti di cervo e capriolo nelle faune datate genericamente tra X e XIII secolo. A Rocca Sillana, in un riempimento rinvenuto all’interno della torre e datato all’XI secolo, la frequenza di resti ossei di capriolo risulta percentualmente maggiore di tutte le altre specie.

419 BAKER, CLARK 1993. 420 FRANCOVICH, HODGES 1990; FRANCOVICH, HODGES 2003, VALENTI 2004. 421 SALVADORI 2004; BEDINI 1987. 422 BEDINI 1987. 423 Il campione è oggetto di una tesi di Dottorato, in corso presso il Dipartimento di Archeologia dell’ateneo di Siena. 424 CLARK 2003. 425 Il campione è oggetto di una tesi di Dottorato, in corso presso il Dipartimento di Archeologia dell’ateneo di Siena. 426 CORRIDI 1996. Per una rassegna esaustiva dei casi con presenza di specie selvatiche si veda SALVADORI 2003. 427 SALVADORI 2004. 104 La stessa tendenza sembra presentarsi anche al di fuori del territorio toscano, in Piemonte abbiamo al momento tre attestazioni: rispettivamente Castello di Manzano, Santo Stefano in Belbo e San Michele di Trino, un insediamento che ebbe continuità insediativa dall’età romana sino al tardomedioevo. In quest’ultimo caso la concentrazione maggiore di selvatici è stata rilevata negli strati di XI secolo relativi ad un villaggio ligneo dove si impiantò una struttura in pietra quadrangolare di ottima fattura, la cui costruzione non pare imputabile all’iniziativa contadina. In Liguria troviamo un’attestazione, presso il castello di Delfino, dove negli strati di XIII secolo (i più antichi), il cervo è la seconda specie più frequente. Spostandoci nell’Italia nord-orientale resti di selvatici sono attestati nei livelli di XI secolo, presso la Rocca di Asolo in Veneto, mentre in Friuli, negli strati di X-XI secolo conservati presso il castello di Montereale Valcellina sono stati segnalati resti di selvatici di grossa taglia428. L’associazione tra tipologia insediativa e presenza di resti osteologici di animali selvatici, come sembra emergere dai castelli e dai villaggi introduce nuovi spunti di riflessione sul ruolo svolto dalla caccia nella società altomedievale del centro-nord Italia. Secondo Wickham l’incastellamento in Toscana nel corso soprattutto dell’XI secolo rappresenta l’affermazione di uno status symbol: ovvero il possesso da parte di una famiglia di una fortificazione. Il castello diviene la prova necessaria della sua appartenenza alla “nuova aristocrazia”. Di questi attributi i castelli erano chiari segni, e in questo senso rappresentavano la privatizzazione crescente delle strutture del potere429. Sulla scorta di quanto è stato sinora esposto viene spontaneo chiedersi quale sia il significato dell’associazione tra sequenze archeologiche, analisi zoologiche ed evidenze documentarie. Allo stato attuale della ricerca i dati raccolti ci spingono a valutare quanto l’esercizio venatorio appaia decisamente come una prerogativa eminentemente nobiliare. Il passaggio da un’edilizia in legno ad una nuova tecnica contraddistinta dall’uso anche se non ancora imponente della pietra, la comparsa di specie selvatiche negli strati relativi, il passaggio da una signoria fondiaria ad una eminentemente territoriale che accentra su di sé il potere pubblico e ne fa un uso privatistico, come la facoltà di vietare o meno l’esercizio della caccia nelle riserve o foreste o garenne; sono tutti indicatori che convergono in un’unica direzione: la pratica della caccia si identifica con la presenza di un personaggio in qualche modo legato all’aristocrazia militare, mentre il contadino si dedica ad altre forme di attività di sussistenza. Non avrebbero quindi avuto torto Grand e Delatouche ad affermare che la caccia agli animali quali il cervo, il capriolo, il cinghiale era praticata principalmente dai ceti più abbienti «perché i contadini non possedevano né i mezzi né tantomeno il tempo per dedicarvisi»430; ma possiamo aggiungere, perfezionando la frase, che questo tipo di caccia era molto più probabilmente a loro vietato. In tal senso, le stesse affermazioni di Duby sulle attività del contadino altomedievale per il quale «Tutto lascia credere che egli maneggiasse lo spiedo, la rete o il bastone scavatore altrettanto che l’aratro»431 devono senz’altro essere riviste. Gli fa eco Montanari quando tratta la presunta grande disponibilità di carne a disposizione del contadino collegandola all’ampiezza degli spazi incolti che consentiva a tutti i villici di svolgere attività venatorie liberamente o dietro pagamento di una tassa. La dieta carnea, ed il suo completamento attraverso la cacciagione, è individuata come un aspetto essenziale della realtà economica altomedievale ed il più importante nel determinare la specificità di questo periodo rispetto ai secoli successivi; «dipendente o meno che fosse, il contadino aveva a disposizione

428 Per una rassegna bibliografica completa si veda SALVADORI 2003. 429 WICKHAM 1990. 430 GRAND, DELATOUCHE 1981. 431 DUBY 1970, p.11. 105 risorse molteplici e differenziate: oltre a coltivare i campi egli era anche allevatore, cacciatore, pescatore, raccoglitore di prodotti spontanei; la sua alimentazione era perciò ricca di carne e di pesce: carne di maiale innanzitutto (…); carne ovina, poi, e di animali selvatici, dai più grandi (cervi, cinghiali, caprioli) ai più piccoli, numerosi come lo permetteva un ambiente ecologicamente integro e solo marginalmente intaccato dall’uomo; quanto al pesce, tutti ne avevano a disposizione in abbondanza, nei corsi d’acqua dell’interno non meno che sulle coste. Questi e gli altri prodotti dell’economia silvo-pastorale (…) entravano regolarmente nella dieta contadina assicurandole quel tanto di varietà che le impediva, ad un tempo, di essere qualitativamente monotona e quantitativamente precaria»432. La carne consumata dalla popolazione dei contesti di età carolingia toscani era in realtà molto poca e di basso livello proteico; l’apporto della caccia risulta inesistente così come quello della pesca ed il quadro ideale dell’alimentazione del contadino altomedievale proposto da Montanari non trova una conferma archeologica; anzi, sia l’archeozoologia sia l’analisi antropologica degli inumati, rivelano un tipo di dieta diametralmente opposta e ricca soprattutto di cereali: frequentare i boschi regolarmente ed allevare gli animali non significava aver potuto disporre delle loro risorse per sfamarsi. Su questa idea sembrano essere anche alcune elaborazioni della storiografia più recente. Devroey per esempio, nella sua sintesi sull’economia e la società rurale nell’Europa franca, trattando la caccia riconosce che solo il XVII secolo segnerà il momento finale dell’esclusione del mondo contadino da tale attività. Riporta inoltre un’interessante descrizione della fauna rinvenuta nello scavo della villa royale di Wellin nelle Ardenne belghe; in questo contesto, datato tra metà VII-metà IX secolo, le restituzioni sono dominate dagli animali domestici (tra essi i maiali detengono una percentuale del 60,6%) mentre i mammiferi selvatici rappresentano il 4% ed i piccoli mammiferi e gli uccelli selvatici costituiscono invece il 6%. Sono state fatte alcune ipotesi tra le quali una caccia per gli animali di grande taglia svolta da cavalieri e per quelli di piccola taglia da contadini. E’ più probabile che l’esiguo peso percentuale degli animali selvatici (ancora di minor valore, come quello dei domestici, se si pensa che è relativo ad almeno due secoli) rispecchi però una realtà diversa come episodi saltuari di battute operate da aristocratici ed iniziative di bracconaggio occasionale da parte dei contadini. Il dato fondamentale è comunque il ruolo quasi inesistente delle attività venatorie e la loro inconsistenza in funzione della dieta quotidiana della popolazione. Devroey, nel ricordare l’esclusivo privilegio detenuto dalla nobiltà, si chiede poi se in realtà, dietro concessione, la caccia venisse svolta più o meno regolarmente dagli abitanti portando a Wellin solo la carne già macellata, quindi privata della carcassa, e soprattutto quei materiali adatti alla fabbricazione di oggetti ed utensili come le corna e determinati tipi d’osso. Questa pratica, non riconosciuta però archeologicamente se non per la lavorazione di ossi e corni, potrebbe trovare conferme in alcuni documenti scritti che, comunque, testimoniano ulteriormente il generale divieto di venazione: per esempio nell’anno 800 Carlo Magno concesse all’abate ed ai monaci di Saint-Bertin il diritto di cacciare nei loro stessi boschi (in eorum proprias silvas ma non nella foresta) solo affinché i monaci potessero così avere pelli per confezionare cinture, vestiti e le copertine dei loro libri433. Interessanti risultano i confronti con i contesti francesi, dove la fauna ha ricevuto attenzioni particolari da parte dei ricercatori. Un villaggio altomedievale che presenta caratteristiche simili a quello di Poggio Imperiale, per articolazione e cronologia, è l’insediamento di Villiers-le-Sec dipendente dalla grande abbazia di Saint Denis (per il villaggio valdelsano si è ipotizzato un legame con l’Abbazia di Marturi). Anche a Villiers-le-Sec la caccia, così come la pesca, erano praticamente inesistenti; i resti di animali selvatici variano in un

432 MONTANARI 1985, pp.198-199. 433 DEVROEY 2003, pp.90-94. 106 rapporto percentuale dallo 0 all’1,4% tra VII e XI secolo ed anche altri contesti noti della Francia settentrionale propongono proporzioni molto simili. Gli scarsi resti di uccelli o lepri possono essere interpretati come frutto di una cattura fatta dal contadino soprattutto all’interno del proprio campo: questo, e solo questo, era il suo terreno di caccia. I dati sono stati confrontati con quanto elaborato dalla ricerca storica ed in particolare con alcune conclusioni di Fossier nella sua indagine sulla Piccardia in cui si sottolineava come i contadini consumavano pochissima carne (ipotesi peraltro confermata dallo studio paleoantropologico del cimitero di Viliers) ma che integravano il deficit proteico facendo ricorso sistematicamente agli animali selvatici, un’attività però non rilevata dagli archeologi: cacciare era infatti un privilegio esclusivo delle classi più elevate come confermano le indagini svolte su centri signorili di età carolingia. La pur scarsa dieta di carne si basava soprattutto sui bovini che rappresentavano la specie maggiormente presente sulla tavola (70%) ed in parte sui suini, sui caprovini e sugli equini (cavallo ed asino). I maiali erano consumati nel momento della migliore resa in carne, cioè entro i due anni di età, mentre gli altri animali venivano invece abbattuti in età anziana cioè quando avevano terminato il ciclo produttivo. Il dato è confermato anche nel contesto di metà X secolo di La Grande-Paroisse434. L’unica vera differenza con il villaggio di Poggio Imperiale si riscontra nel pollame; a Villiers veniva scarsamente consumato poichè faceva soprattutto parte dei canoni dovuti all’abbazia e quindi considerato un cibo esclusivamente fruibile in occasioni speciali (celebrazioni, feste o ricorrenze; si tratta della cosiddetta bonne viande). La necessaria copertura proteica doveva essere raggiunta attraverso alimenti che non sono apprezzabili dall’analisi archeozoologica, cioè burro, formaggi, strutto, sugna e lardo435. Anche nella Regione del Rhone-Alpes è stata effettuata una ricerca sulla fauna di una ventina di insediamenti scavati con cronologie comprese tra VI e XI-XII secolo. I dati proposti divergono leggermente per quanto riguarda il tipo di attività allevatizia. L’allevamento infatti era basato soprattutto sui bovini e sui suini nei centri più antichi, mentre in età carolingia venivano privilegiati gli ovicaprini. Il consumo di carne era basato esclusivamente sulle specie domestiche tradizionali: montoni, capre, maiali, buoi e polli abbattuti anziani. Nei centri di carattere distintivo tutti gli animali venivano invece macellati anche giovani. Il cavallo raramente rappresentava una fonte di cibo mentre la caccia aveva un ruolo trascurabile ed è attestata ancora e solo nei centri che sono stati individuati come privilegiati436. F.S.

11 - I cimiteri altomedievali. Le aree cimiteriali del villaggio dovevano essere almeno due, disposte sui limiti sud e nord della sommità collinare; allo stato attuale della ricerca solo una di esse è stata interamente studiata, mentre l’altra, quella a sud, è ancora in corso di scavo437. Le tracce deI nucleo sepolcrale sud sono state individuate nel 1993 rinvenendo un’inumazione contenente due scheletri, distesi e supini, sottostante la lastricatura della piazza con cisterna di Poggio Bonizio438; altre indicazioni di molte ossa umane provenienti

434 GUADAGNIN 1988, pp.147-149. 435 GUADAGNIN 1988, pp.228-234. 436 FAURE-BOUCHARLAT 2001. 437 WALKER 1996a; WALKER 1996b. Il contesto è in corso di studio da parte di Angelica Vitello, dietro la supervisione di Gino Fornaciari, dell’Istituto di Patologia Medica dell’Università di Pisa che sta analizzando l’intero cimitero. I dati paleopatologici che presenteremo in queste pagine sono tratti dalle relazioni di lavoro redatte da Angelica Vitello in questi anni e dalla relazione finale “Paleobiologia degli inumati del cimitero medievale di Poggibonsi” ancora inedita. Inoltre sono state svolte due tesi di laurea triennali, relatore Gino Fornaciari, per le quali si vedano PELLEGRINO 2003-2004 e RINA 2002-2003. 438 Si vedano i paragrafi 16 e 18 di questo capitolo. 107 dalla vigna prospiscente, rinvenute durante lo scasso per l’impianto, erano state riportate oralmente dagli operai agricoli. La doppia sepoltura conteneva una femmina di 17-25 anni e un uomo con più di 35 anni; la loro disposizione era particolare, poichè la donna teneva sul petto e fra le mani la testa dell'uomo. Gli individui erano deceduti contemporaneamente e la morte doveva essere sopravvenuta in seguito a grave infezione; sembra lecito supporre che essi fossero legati da una qualche parentela di sangue oppure che si sia trattato di una coppia di sposi. L’uomo era affetto da displasia acetabolare congenita che causò una disabilità nell'uso della gamba sinistra. La donna si distingue invece per la poca usura della sua dentizione, anche dei primi molari che in individui della stessa età presenti nella seconda area cimiteriale erano solitamente molto più consumati; pare aver avuto una dieta esclusivamente a base di cibi molli, forse in conseguenza di una grave malattia cronica. Nella campagna 2005, l’allargamento del cantiere in direzione sud-ovest ha rivelato il proseguimento di questo cimitero, dato che numerose sepolture con lo stesso orientamento, sia interne sia esterne all’edificio religioso qui presente e databile nella metà del XIII secolo439, risultano essere precedenti al suo impianto440. Lungo il muro perimetrale sud e in prossimità del muro perimetrale ovest della chiesa sono state infatti rinvenute inumazioni in fossa terragna, scavate nello strato vergine del terreno ed alcune risultavano tagliate rispettivamente dalla realizzazione del muro perimetrale meridionale della chiesa e da una delle coeve sepolture in cassa litica. Nella maggior parte dei casi i corpi, spesso deposti in sepolture singole, erano orientati in direzione est-ovest o nord-est/sud-ovest e prive di corredo. Tali individui sono adesso in corso di studio e gli interrogativi aperti restano molti; in particolare dovremo comprendere se il cimitero sud sia stato contemporaneo o posteriore od anteriore a quello nord. Quest’eventualità ci permetterebbe di ampliare notevolmente il quadro della storia demografica e socio- antropologica del villaggio. La seconda area cimiteriale, sul limite nord della collina, pur incompleta, ha restituito 115 sepolture, alcune mal ridotte, che mostrano il carattere di una popolazione impegnata prevalentemente nei lavori della campagna. Nel complesso sono riconoscibili 92 scheletri in connessione anatomica, mentre i rimanenti erano stati disarticolati sia in antico sia durante le vicende edilizie che hanno investito la collina nella sua storia e, non ultime, le moderne operazioni agricole. Il cimitero risulta parzialmente conservato; copriva un'area di 16 x 18 metri che originariamente, doveva estendersi almeno verso nord-ovest e in direzione sud-est; il rapporto tra sessi e l’assenza pressoché totale di bambini convergono nell’indicare come una serie di inumazioni sia andata sicuramente persa. Dei 77 individui, a cui è stato attribuito il sesso, 57 sono maschi e 20 femmine; il rapporto maschi/femmine risulta così di 2,85:1 e la prevalenza degli uomini è troppo spiccata per riflettere la reale situazione biologica della popolazione vivente. Ragioni culturali potrebbero avere determinato una particolare distribuzione topografica nel cimitero legata al sesso dei defunti ma questa eventualità non convince. Anche l’assenza di tombe di bambini e neonati, a dispetto dell’alto tasso di mortalità infantile ben noto per l’antichità, non deve essere interpretato necessariamente come il mancato riconoscimento di un’area particolare del cimitero ad essi dedicata oppure ancora da individuare, esistendo la possibilità che le sepolture siano andate distrutte forse a seguito delle arature; lo strato di humus che copriva le stratigrafie ha restituito molte ossa isolate riconducibili ad almeno 6 bambini compresi tra i 2-3 anni ed i 7-8 anni di età, ma il problema resta aperto poichè potrebbero appartenere anche al vicino e piccolo cimitero bassomedievale.

439 Si veda paragrafo 26 di questo capitolo. 440 Questa parte del nuovo cimitero è stata indagata da parte di un team di paleopatologi dell’Istituto di Patologia Medica dell’Università di Pisa. I risultati sono in corso di elaborazione. 108 Il cimitero risulta composto quasi esclusivamente da sepolture in fossa terragna con la sola eccezione di quattro tombe realizzate coprendo le salme con lastre di travertino (scheletri 36, 54, 106, 111), tendenzialmente a conferma della presenza di un’articolazione gerarchica all'interno della popolazione; la particolarità di questo gruppo è rafforzata dalla loro collocazione spaziale in una zona ben definita e dalla presenza di un neonato in una piccola cassetta di travertino, l'unico sinora rinvenuto e deposto ai piedi di un uomo (scheletro 110 ai piedi di 111). Era ordinato e strutturato, sebbene si facesse poca attenzione al rimescolamento di resti osteologici pertineti a vecchie e nuove inumazioni; venne organizzato su cinque file orientate est-ovest ciascuna con un numero massimo di 11 individui, e la densità delle sepolture aumenta nella porzione nord. Le fasi di inumazione sono state distinte soprattutto sulla successione stratigrafica delle fosse combinata, nelle situazioni più chiare, all’orientamento dei corpi: con testa a sud e piedi a nord ed una progressiva e leggera rotazione in senso sud-ovest/nord-est nel corso del suo utilizzo. Ne sono state isolate quattro (0°-5°; 10°-15°; 25°-35°; 350°-355°), apparentemente succedutesi a pochi decenni di distanza l’una dall’altra. Tutte le inumazioni erano distese e supine, con una o entrambe le braccia raccolte sul corpo, di solito sull'addome, o con braccia lungo i fianchi ed orientate con la testa a nord. Non si è rinvenuto alcun tipo di corredo funerario e nessuna traccia di bare; la loro probabile assenza è testimoniata anche dai molti resti disarticolati e sembra dimostrare addirittura che gli inumati non venivano coperti neppure con un sudario di qualche genere. Il cimitero doveva essere strutturato prevalentemente per nuclei familiari come mostrano i diversi raggruppamenti e le deposizioni multiple. Le sepolture non sono distribuite omogeneamente, sembrano piuttosto formare dei gruppi di dimensione variabile, alternati a spazi vuoti; l’inumazione volontaria degli individui dove già erano presenti altre sepolture potrebbe infatti implicare l’esistenza di una parentela. Per fornire ulteriori elementi di supporto a questa interpretazione, gli antropologi hanno analizzato dettagliatamente la presenza di ossa non in connessione accanto o sopra inumati in connessione e cercato di identificare in laboratorio l’esistenza di caratteri ereditari sulle ossa recuperate. E’ risultato evidente, in base allo studio della disposizione dei resti scheletrici articolati e non articolati, che era diffuso il riuso dei lotti funerari ed in molti casi è stato possibile attribuire le ossa non in connessione a inumati la cui sepoltura era stata disturbata da una sepoltura successiva; la parte dello scheletro asportata, veniva poi rideposta, nella fossa dell’ultimo inumato. Per esempio lo scheletro 33 venne in parte disturbato dalla fossa dello scheletro 29; alcune ossa non in connessione, rinvenute vicino allo scheletro 29, gli sono state attribuite perché sono molto simili per morfologia e morfometria ad alcune ossa articolate. Oppure il caso dello scheletro 34, le cui ossa sono state in parte asportate dalla fossa dello scheletro 31 e rideposte accanto a quest’ultimo. Talvolta, invece, non si è potuto attribuire resti disarticolati ad individui che mantenevano una parziale connessione a causa del pessimo stato di conservazione delle ossa che ha impedito una valutazione sufficientemente sicura. In altri casi non è stato possibile ricostruire l’unità scheletrica, anche se i dati archeologici suggerivano l’attribuzione di ossa non articolate ad un individuo in parziale connessione. Lo scheletro 88, per esempio, era stato tagliato a livello delle gambe dalla fossa dello scheletro 89. Tra le ossa non in connessione, che si trovavano vicino all’inumato 89, erano state rinvenute anche una tibia e una fibula destra, che sembrava appartenessero allo scheletro 88. In base all’analisi antropologica, invece, l’attribuzione è stata esclusa sulla base della morfologia delle ossa, molto più esili di quelle dell’individuo articolato. Sono riconoscibili fosse con due individui, di cui uno articolato e l’altro non più in connessione, come lo scheletro 42 deposto vicino allo scheletro articolato 36 o come i resti, non in connessione, di un soggetto femminile accanto allo scheletro articolato 87.

109 Sono presenti anche sepolture multiple, con un solo individuo articolato, come la fossa che conteneva lo scheletro 29 in connessione anatomica, i due crani 38 e 39 e due postcraniali non in connessione; o la fossa con lo scheletro 66 e i resti non in connessione di altri quattro adulti e di un giovane; oppure la fossa dello scheletro 70 e i resti non in connessione di tre adulti e un giovane. Soprattutto le analisi paleopatologiche portano ulteriori elementi di conferma alla presenza di gruppi parentali; in particolare lo studio odontologico degli scheletri ha rilevato un’ampia diffusione di incisivi “a pala”, 10 casi di agenesia dei terzi molari e 18 casi di foramen coecum molare, che sono collegabili all’esistenza di legami genetici tra individui441; nella stessa direzione deve essere letta l’alta incidenza di altri caratteri trasmessivi come quelli discontinui del cranio e del post craniale (sono piccole variazioni riscontrabili sulle ossa) 442: 28 crani sui 62 rinvenuti (45.16%) presentano gli ossicini lambdoidei, che sono considerati carattere ereditario e l’incidenza è molto superiore a quella media delle antiche popolazioni, che è del 20-25%. La datazione del contesto proviene essenzialmente dall'osservazione dei rapporti stratigrafici e delle caratteristiche degli inumati, poiché le sepolture sono nella quasi totalità prive di corredo. Si colloca in un'area dove, con la fondazione del castello di Poggio Bonizio nel 1155, fu edificata un’estesa chiesa a tre navate con colonnato; i muri e i grandi pilastri hanno tagliato ed in parte asportato molte delle sepolture. In breve, ciò significa che il contesto era precedente alla metà del XII secolo e collegabile all'unica forma insediativa preesistente al nucleo medievale. Anche il confronto con il piccolo cimitero legato alla frequentazione della chiesa (posto su lato esterno ovest del campanile e completato da un ossario a sud dell'abside), porta elementi di conferma all’alternanza di due diversi tipi di comunità. Gli inumati collegati al villaggio di capanne propongono caratteri fisici particolari; la statura media è molto alta, la durata della vita bassa, la loro corporatura risulta notevolmente robusta, le patologie sono legate soprattutto ad un precoce avviamento al lavoro pesante ed alla conseguenza di un'alimentazione scarsamente arricchita da proteine e calcio; pessime risultano anche le condizioni della dentatura. Si tratta in conclusione di una popolazione dedita ad attività rurali e con un tenore di vita pressoché uniforme. Gli abitanti di Poggio Bonizio mostrano invece statura più bassa (indicativamente 1,65 m per gli uomini, 1,56 m per le donne), una corporatura più esile, migliore condizione delle dentature e soprattutto una durata della vita più lunga (almeno di 10 anni)443. Era inoltre un cimitero pienamente cristiano, con l’assenza di qualsiasi tipo di corredo e questo fa già escludere una sua attribuzione al complesso tardoantico (per il quale sarebbero più appropriate delle tombe realizzate in laterizio) e le prime fasi di frequentazione del villaggio di capanne, prendendo in considerazione solo i decenni dopo la metà del VII secolo. Tenendo conto dell’età media di morte riscontrata dall’analisi degli inumati, che si attesta sui 35 anni444, e delle quattro fasi di uso riconoscibili, si può ipotizzare che il cimitero fu sfruttato per più di un secolo. Ulteriori osservazioni fanno ascrivere l’area cimiteriale alle ultime fasi del villaggio altomedievale, pertanto può essere attendibile circoscriverne la frequentazione almeno a partire dalla seconda metà-fine VIII secolo sino alla prima metà del X secolo. Due elementi in particolare sembrano paralleli ai caratteri riscontrati nell’insediamento di età carolingia: la presenza di un esiguo gruppo di tombe coperte da lastre litiche e concentrate in una precisa zona che si lascia ricollegare alla famiglia

441 Al riguardo si veda CAPASSO, DI TOTA 1989-90. 442 Si vedano PELLEGRINO 2003-2004 e RINA 2002-2003. 443 WALKER 1996b. 444 Si veda paragrafo successivo di questo capitolo. 110 dominante (con caratteristiche paleopatologiche che sembrano ben attestare il loro ruolo e la loro consanguineità)445; il tipo di alimentazione riscontrata nella gran parte degli individui che, povera di carne e soprattutto bilanciata sui vegetali, si conforma decisamente alla gerarchizzazione del consumo della carne stessa constatata per la fase della curtis e non alle fasi precedenti dove questo apporto proteico, come rivela l’analisi archeozoologica, era decisamente maggiore. Esiste comunque un ulteriore interrogativo a cui trovare risposte e riguarda l’assenza di un edificio religioso. Il contesto è particolare; due aree cimiteriali altomedievali sulle quali sorsero poi due edifici religiosi a distanza di almeno tre secoli, lasciano infatti pensare che doveva esistere almeno una chiesa più antica od una cappella. Lo scavo sinora non ha rivelato alcuna traccia; si può allora pensare che la popolazione avesse fatto riferimento alla vicina Marturi per i bisogni religiosi, ma perché non svolse il ruolo di chiesa funeraria nell’alto medioevo, così come è attestato dalle fonti scritte almeno dall’anno 1108?446 Se da un lato l’assenza di edifici religiosi in villaggi di capanne con cimitero non costituisce un’anomalia nel panorama degli scavi europei, dall’altro è proprio la continuità d’uso degli stessi spazi che lascia irrisolti i dubbi al riguardo. Si possono elencare una serie di ipotesi ognuna valida di per sè stessa ma nessuna più probabile dell’altra allo stato attuale della ricerca: - la coincidenza chiese-aree cimiteriali è solo casuale; - il villaggio non era dotato di edificio religioso; a livello regionale, sotto il profilo dell’organizzazione religiosa, dobbiamo infatti evidenziare che non emerge un ruolo centrale delle chiese rurali nella costituzione di una identità socio-insediativa di villaggio447; - l’edificio religioso altomedievale non è stato ancora individuato e potrebbe porsi nei dintorni del cimitero a sud oppure del cimitero a nord dove non abbiamo ancora scavato; in questo caso sarebbe possibile pensare ad un suo spostamento dalla prima area cimiteriale alla seconda o viceversa? - l’edificio religioso era in legno, caso non raro per l’alto medioevo448, e le sue tracce sono andate distrutte ad opera dei cantieri relativi alle grandi chiese di Poggio Bonizio; - esisteva una continuità insediativa dopo la fase carolingia che i grandi rimaneggiamenti del terreno ancora legati ai 115 anni di vita di Poggio Bonizio ha cancellato, asportando anche i resti di una chiesa che ancora dovevano in qualche modo essere visibili.

12 - La popolazione. Le analisi paleoantropologiche e paleopatologiche hanno mostrato che il tenore di vita degli abitanti era pressoché uniforme, così come le condizioni di lavoro e la durata della loro esistenza. Erano in generale di costituzione robusta e di alta statura 449. Dal punto di

445 Si veda ancora paragrafo successivo di questo capitolo. 446 Si veda capitolo IV, paragrafo 1 di questo volume. 447 FRANCOVICH 2004, dove si sottolinea che per secoli i villaggi d’altura, da un lato, e le chiese pievane, dall’altro, si fronteggiarono in un rapporto dialettico che improntava l’organizzazione religiosa e insediativa delle campagne toscane. Generalmente i villaggi giunsero, alla fine, ad attrarre presso di sé gli edifici religiosi, ma ciò accadde solo nel corso di un arco temporale molto esteso. 448 I casi indagati di chiese in legno sono pochi e provengono soprattutto dall’Italia settentrionale: San Pietro a Gravesano (sacello di IV secolo), San Martino a Sonvico (prima metà del VII secolo), Chiesa Rossa a Castel San Pietro (VII secolo?), Sant’Ilario a Bioggio (prima metà VIII secolo), San Vittore a Terno d’Isola e Santa Maria Nullate a Fermo alla Battaglia (generico altomedioevo), infine San Tomè a Carvico (prima metà VII secolo). De Marchi, tipologizzando gli impianti edilizi fra tardoantico ed altomedioevo, ha sottolineato che le strutture in legno possono presentarsi come un semplice sacello rettangolare od essere provviste di abside trapezoidale o semicircolare sia realizzato tramite pali sia in pietre; in un secondo momento vennero ricostruite in muratura (DE MARCHI 2001). Una ricca tipologia di églises en bois du haut moyen-age riconosciute da scavo è invece disponibile per la Svizzera; al riguardo si veda BONNET 1997. 449 Il cattivo stato di conservazione del materiale scheletrico ha impedito il rilievo sistematico degli indici più significativi, in particolare di quelli di robustezza che richiedono, per essere calcolati, la lunghezza massima 111 vista paleogenetico, alcuni indizi suggeriscono un sensibile grado di endogamia, rivelato in particolare dalla percentuale elevata di ossa wormiane nettamente superiore agli standard delle antiche popolazioni. La famiglia contadina media era rappresentata da un uomo alto 174 cm e da una donna alta 162 cm, con uno scarto intersessuale di 12 cm che rappresenta un valore analogo a quello riscontrabile nelle popolazioni attuali (10-12 cm). Le stature maschili variano da un minimo di 167 cm ad un massimo di 185 cm, quelle femminili da un minimo di 158 cm ad un massimo di 166 cm. Secondo la classificazione di Martin e Saller450 le stature maschili di Poggio Imperiale sono sia sopra la media sia alte che altissime; anche quelle femminili rientrano nella classe sopra la media e nella classe delle alte stature. Il numero dei figli non è precisabile ma sappiamo, grazie agli indicatori di patologie da precoce affaticamento, che soprattutto i maschi erano avviati al lavoro contribuendo fin dall’età adolescenziale all’economia del nucleo. Uomini e donne, infatti, si distinguono nettamente per quanto riguarda una particolare patologia vertebrale, riscontrata sulle superfici dei corpi delle vertebre toraciche e lombari: le ernie di Schmorl. Ben il 55% dei maschi ne risulta affetto, mentre nessuna delle femmine presenta questa lesione che si manifesta nella colonna vertebrale se soggetta a sollecitazioni compressive fino dalla giovane età451. La vita si svolgeva in condizioni ambientali poco salubri causando alle persone forti dolori artrosici e probabilmente reumatici452. Erano spesso soggette a malattie infettive che interessavano soprattutto la superficie delle ossa, mentre molto rari sembrano essere stati i tumori453. Le infezioni affliggevano le parti del corpo più esposte in relazione al tipo di attività svolta ed a Poggio Imperiale è attestata periostite in 16 individui (12 di sesso maschile, 4 di sesso femminile) soprattutto in coincidenza delle tibie e delle fibule: 4 individui presentano periostite sia delle tibie che delle fibule, 5 solo delle tibie e 2 solo delle fibule. Questa lesione colpiva quindi la gamba, le cui ossa, essendo più superficiali, sono delle ossa. Su un numero abbastanza consistente di ossa si sono però potuti calcolare l’indice diafisario degli omeri, l’indice olenico delle ulne, gli indici pilastrico e merico dei femori e l’indice cnemico delle tibie. La maggior parte dei maschi e delle femmine del campione di Poggio Imperiale hanno gli omeri euribrachici (diafisi tondeggianti) e le ulne euroleniche. La platibrachia (diafisi appiattite) e la platolenia caratterizzano, rispettivamente il 23.73% e il 14% degli individui. Non si osserva un forte dimorfismo sessuale rispetto agli indici degli arti superiori. Il 77.77% del campione presenta il pilastrismo del femore. Il forte sviluppo della linea aspra e, in conseguenza, dei muscoli che su di essa si inseriscono, è da porsi in relazione, secondo molti autori, con lo svolgimento di attività pesanti a carico della muscolatura della regione posteriore della coscia. Il 55.10% degli individui presenta femori platimerici. 450 MARTIN, SALLER 1956-1959. 451 Le ernie intraspongiose di Schmorl, caratterizzate anatomicamente da una penetrazione della sostanza discale attraverso le placche cartilaginee, sono il risultato dell’esposizione della colonna a pesi eccessivi in epoca giovanile, unito a un difetto di resistenza delle stesse placche cartilaginee, forse di origine costituzionale. Non è strano, quindi, trovare questa patologia in individui adulto-giovani, se questi erano avviati precocemente ad un lavoro caratterizzato da forti sovraccarichi ponderali. 452 Nel campione di Poggio Imperiale sembra prevalere l’artrosi delle faccette costali dei corpi e delle apofisi trasverse delle vertebre toraciche. Diverse articolazioni costo-vertebrali (articolazioni che si instaurano tra le teste delle coste e i corpi delle vertebre toraciche) e costo-trasversarie (tra la faccetta articolare del tubercolo della costa e la faccetta costale trasversaria della vertebra toracica) presentano segni di artrosi. Per quanto riguarda l’artrosi extravertebrale, sono presenti soprattutto casi di artrosi dell’articolazione atlanto-occipitale, dell’articolazione sterno-clavicolare, della spalla, del gomito, dell’articolazione coxo-femorale e del ginocchio. Nessuna di queste articolazioni è tuttavia colpita in modo grave. Si osservano segni di artrosi anche su falangi della mano e del piede. 453 Sono presenti tre casi di tumore benigno: un piccolo osteoma sul frontale, uno sulla faccia dorsale del corpo di una falange di una mano destra e uno sulla diafisi di una tibia sinistra. Sulla troclea di un omero destro è presente una piccola zona di osteolisi, dovuta con tutta probabilità ad un condroma (tumore benigno del tessuto cartilagineo). Si osservano le impronte di piccole neoformazioni cistiche su un trapezio della mano destra e su un coxale destro, tra il margine superiore dell’impronta auricolare e la tuberosità iliaca. 112 maggiormente esposte ad eventi traumatici454; le popolazioni agricole e pastorali risultano particolarmente soggette in quanto, camminando su terreni impervi, si espongono a microtraumi ripetuti in particolare a livello delle creste tibiali. Sono inoltre presenti due casi di osteomielite ad un osso della mano di un maschio di 24- 27 anni ed a tre coste di un individuo di sesso non determinabile di 24-30 anni 455. Un solo uomo, in età compresa tra 33-47 anni, era probabilmente affetto da poliomielite evidenziata da un’ipotrofia grave dell’avambraccio sinistro e un’ipotrofia della gamba destra. Alcuni individui avevano invece malformazioni congenite. Due maschi evidenziano la dilatazione aneurismatica dell’arteria meningea media, mentre un altro maschio mostra la fusione della quarta e quinta vertebra cervicale. In un soggetto maschile di 50-55 anni si rileva la mancata fusione del processo trasverso dell’atlante. Una femmina di 30-35 anni era affetta da lussazione congenita dell’anca sinistra; la risalita della testa del femore oltre il bordo acetabolare determinò la formazione di un neocotile nella parte posteriore dell’ala iliaca e la deformazione del collo del femore: la difficoltà nella deambulazione causò l’iposviluppo dell’arto inferiore sinistro. La dieta quotidiana si basava su cibi non raffinati e carenti di minerali, quali calcio e ferro; tali deficit portavano oltre il 40% degli individui ad anemie benchè non gravi. Talvolta questa patologia, come nel caso della iperostosi porotica, può essere ricondotta anche a parassitosi. Alcuni indicatori indiretti evidenziano un’alimentazione più o meno sufficiente alle necessità della popolazione; in tal senso sono interpretabili le poche lesioni dette cribra orbitalia e cribra cranii: delle porosità nella volta cranica e/o nelle orbite causate da ipertrofia del midollo emopoietico contenuto nel tessuto spugnoso del cranio a seguito di quadri anemici cronici del periodo giovanile, verosimilmente malnutrizionali o secondari a parassitosi intestinali. I cribra orbitalia sono appena visibili, o di grado lieve, sul tetto delle orbite di 19 individui (erano colpiti il 32.43% dei maschi e il 33.33% delle femmine), mentre presentano cribra cranii 13 individui (colpiti il 25% dei maschi e il 6.25% delle femmine); i fenomeni sono sempre in forma lieve e in fase di riassorbimento, ad indicare buone capacità di superamento degli episodi di stress. Le percentuali di cribra orbitalia e cribra cranii possono considerarsi piuttosto basse se confrontate con altre popolazioni di epoca altomedievale. Lo studio odontologico dei resti scheletrici permette di precisare meglio il tipo di alimentazione. In generale i denti, molto consumati, venivano colpiti da tartaro anche sotto le gengive causandone la caduta e mediamente da circa due carie 456. L’usura dentaria, ovvero la progressiva perdita dello smalto e in seguito della dentina, fornisce invece informazioni preziose sulle abitudini alimentari e sui metodi di preparazione del cibo 457. I dati evidenziano un grado di usura dentaria piuttosto avanzato, formatosi prevalentemente attraverso abrasione cioè dai movimenti scorrevoli di materiali più duri sui tessuti dentali:

454 La periostite è una complicazione infettiva che riguarda soltanto la corticale dell’osso. Può dipendere da traumi che abbiano determinato la lacerazione della cute, dei tessuti sottocutanei e dei muscoli. In conseguenza si attivano processi reattivo-riparativi dei tessuti, con coinvolgimento del periostio, sia direttamente che indirettamente, per il propagarsi di fenomeni flogistici e/o infettivi. L’infezione si manifesta con la comparsa di piccoli fori, striature longitudinali e placche più o meno estese. Nella fase acuta dell’infezione il tessuto di neoformazione appare organizzato in modo disordinato (osso a fibre intrecciate), mentre, nella fase di guarigione ed a causa dell’attivazione dei fenomeni riparativi, l’osso assume una struttura più compatta, con superficie liscia, rimodellata e rigonfia. 455 Per osteomielite si intende un’infezione che non si limita al periostio ma si estende anche all’endostio. Per quanto riguarda le coste, che presentano la superficie superiore ed inferiore con cavitazioni e lesioni proliferative, si ipotizza un’osteomielite conseguente ad un trauma ma non si possono escludere gli esiti di una infezione specifica da Mycobacterium tubercolosis. 456 Si vedano al riguardo le carte di distribuzione presentate in FRANCOVICH, NARDINI, VALENTI 2000. 457 FORNACIARI, MALLEGNI 1981 per il trattamento di tali dati in relazione alle popolazioni antiche. 113 una patologia causata dalla masticazione. Nel complesso si può affermare che gli alimenti consumati avevano un alto grado di abrasività e sono riconoscibili soprattutto cibi di origine vegetale, ricchi di fibre, costituiti per lo più da farinacei preparati grossolanamente con macine in pietra tenera i cui granuli residui provocavano delle sensibili smerigliature; in tale processo influiva anche la loro cottura attraverso vasellame di terracotta che, frantumandosi, lasciava residui duri. L’ipotesi sembra essere confermata anche dalla presenza di usura obliqua dei molari, dovuta all’utilizzo di una grande quantità e varietà di grani come hanno dimostrato gli studi di Smith condotti su campioni umani appartenenti a cinque popolazioni di cacciatori-raccoglitori e a cinque popolazioni di agricoltori; è risultato che i molari dei primi presentavano, rispetto ai secondi, un’usura notevolmente piatta, mentre l’angolo di usura del piano occlusale dei molari degli agricoltori era maggiore di 10° con un livello più avanzato di usura, rispetto a quello dei cacciatori-raccoglitori458. Poveri sembrano inoltre gli apporti di origine animale e la carne doveva rappresentare una semplice integrazione, talvolta occasionale. La scarsità di carie (colpivano il 10% della popolazione459) conferma un’alimentazione povera di zuccheri e ricca di fibre, caratterizzata da cibi duri e particolarmente abrasivi che producevano un’efficace detersione dentale. Uomini e donne avevano però sofferto di stress da carenze alimentari, anche se non gravi, che causavano una particolare patologia dei denti: l’ipoplasia dello smalto460. Le ceramiche rinvenute nello scavo portano ulteriori elementi di conferma al tipo di alimentazione tratteggiata. Per tutto l’alto medioevo la netta radicalizzazione della ceramica da fuoco, stigmatizzata dall'egemonica presenza di olle, si accompagna alla riduzione del vasellame da mensa. Tali fenomeni rappresentano chiari indizi del disuso di stoviglieria individuale e di una diversa cultura alimentare che andò affermandosi dopo i secoli della tarda romanità; i cibi in essa compresi necessitavano di batterie da cucina e da mensa molto semplici. Le olle sembrano indicare indubbiamente nelle minestre a base di cereali una costante della dieta quotidiana. Per consumare tali derrate erano infatti sufficienti quelle ciotole ad impasto depurato costantemente presenti nelle capanne ed eventuale stoviglieria in legno. L'assenza di testi per il VII secolo e soprattutto dei testi da pane sino a tutto l'VIII secolo, potrebbe inoltre indicare la mancanza del pane stesso o di focacce dalle abitudini alimentari; oppure, più verosimilmente, l'indizio di sistemi organizzati e comunitari per la loro cottura; procedimento poi trasformatosi in casalingo nel IX secolo, quando tali forme iniziano a ricomparire in gran quantità nelle stratigrafie461. Con il IX secolo, l'avvento di tipi da fuoco inediti come i piccoli tegami, segna indubbiamente una variazione nel carattere degli alimenti o nelle tecniche di cottura. Questo cambiamento, che richiese l'utilizzo dei nuovi recipienti ad impasto grezzo, sembra evidenziato anche da un impiego per cucina di boccali ad impasto depurato probabilmente per zuppe; il loro uso promiscuo è attestato a Poggo Imperiale nel IX secolo avanzato e

458 SMITH 1984. 459 Nel campione di Poggio Imperiale su 1402 denti di scheletri articolati, 145 sono cariati (10,3 %). Su 1018 denti maschili 102 sono cariati (10 %). Su 305 denti femminili 35 sono cariati (11,5%). I denti più colpiti dalle carie sono quelli mascellari e il tipo di dente più colpito è il molare sia mascellare che mandibolare. I denti degli individui di sesso femminile risultano più colpiti dalla carie rispetto a quelli degli individui di sesso maschile. Questo fenomeno potrebbe essere collegato ad alcuni stati fisiologici femminili, quali la gravidanza e l’allattamento. PELLEGRINO 2003-2004. 460 La frequenza di ipoplasia dello smalto (si tratta di segni indelebili) con un valore del 17,6 % è alta, ma la presenza nella maggior parte dei denti di 1 e/o 2 linee ipoplasiche leggere, fa ritenere che gli individui non avessero subito episodi di stress molto gravi. 461 A Roma e nei siti rurali del Lazio il testo si diffonde dalla seconda metà del IX secolo e la sua presenza viene letta come un probabile riflesso della crisi di un sistema organizzato per la cottura del pane (PATTERSON 1993). 114 continuò sino a tutto il X secolo, come provano le stesse restituzioni di Pistoia e Fiesole 462. Rimane comunque dubbio se la doppia funzione dei boccali rappresenti realmente la spia di una variazione nelle tecniche di cottura (come è stato proposto per il Veneto 463), oppure se tali contenitori non fossero in realtà impiegati occasionalmente per riscaldare acqua, bevande, minestre, brodi. L'impoverimento delle forme da cucina trova una chiara conferma anche nella semplicità dei focolari individuati dalle indagini stratigrafiche: strutture elementari, senza dubbio funzionali alla cottura tramite riverbero del fuoco di cibi in contenitori a fondo piatto. Nelle capanne di Poggio Imperiale il focolare era ricavato sui battuti appoggiando semplicemente legna a terra, mentre nella longhouse di IX secolo fu alloggiato su una base rettangolare di terreno vergine sormontata da un'incastellatura di tre paletti. Tornando alle analisi odontologiche, sono inoltre ampiamente presenti i casi di usura delle superfici dentali causate da attività extramasticatoria, cioè dall’impiego volontario dei denti come veri e propri utensili; patologie che ci forniscono un quadro molto particolareggiato di alcune delle attività svolte dalla popolazione. In tal senso l’usura linguale degli incisivi inferiori e superiori è stata interpretata come l’utilizzo di denti per tirare e tendere pelli; le incisioni sulle superfici occlusali degli incisivi e dei canini erano causate dalla lavorazione di fibre vegetali e dal loro impiego per la preparazione di corde, canestri, reti e gabbie; i solchi interprossimali dei primi premolari o dei molari a seguito della preparazione di tendini animali utilizzati per attaccare oggetti o ripararli, fissare lame ecc 464. La zigrinatura dei bordi dei denti anteriori, soprattutto sugli incisivi centrali superiori, sono invece da relazionare all’uso di trattenere tra i denti degli oggetti duri come chiodi, aghi od anche all’abitudine di tagliare con i denti fibre e fili; l’usura occlusale derivava dall’azione abrasiva di un oggetto che agiva tra il dente e la lingua od il labbro inferiore465. I membri della comunità di Poggio Imperiale avevano lavorato duramente per tutta la loro esistenza portandone i segni, come mostrano la presenza di forti impronte muscolari e soprattutto delle entesopatie (alterazioni patologiche delle ossa presenti nelle aree di inserzioni dei muscoli e dei legamenti), che suggeriscono una sollecitazione ripetuta e intensa dei muscoli; la localizzazione delle aree d’inserzione più sollecitate e la specifica azione di ogni muscolo danno indicazioni preziose sui tipi di attività occupazionali prevalenti. L’intera popolazione propone un elevato grado di entesopatie dei legamenti e dei muscoli; tali caratteristiche sono osservabili sia negli arti inferiori che superiori. A livello degli arti inferiori sono particolarmente forti le impronte del muscolo grande gluteo (70%), dell’ileopsoas (51.61%), del femore e del soleo della tibia (60%); l’entesopatia del tendine di Achille riguarda poi il 50% dei calcagni osservati. Le inserzioni molto marcate e le entesopatie del grande gluteo sono conseguenti ad intensi e ripetuti movimenti di rotazione esterna ed estensione della coscia; quelle dell’ileopsoas indicano ripetuti movimenti di flessione della gamba; nell’osso dell’anca, per il 28% dei casi, particolarmente forte è l’area d’inserzione del semimembranoso situata sull’ischio, muscolo che flette la gamba sulla coscia, imprimendole anche un leggero movimento di rotazione mediale. I muscoli flessori plantari, gastrocnemio e soleo, si inseriscono sul calcagno attraverso il tendine di Achille; le impronte marcate e le entesopatie di questi muscoli e del tendine di Achille sono da considerare, perciò, il risultato di eventi microtraumatici conseguenti a lunghe marce su terreni accidentati. Inoltre gli indici

462 FRANCOVICH, VANNINI 1989. 463 SPAGNOL 1996. 464 I tendini venivano tirati tra i denti posteriori occlusi con un movimento da sinistra guidato dalla mano destra, mentre la mano sinistra teneva l’altra estremità. La finalità di tale pratica era quella di ammorbidire e assottigliare i tendini stessi per poi utilizzarli. Si vedano BROWN, MOLNAR 1990; LARSEN 2000. 465 PELLEGRINO 2003-2004. 115 postcraniali, in particolare dei femori che sono caratterizzati da pilastrismo e platimeria, indicano una forte sollecitazione dei muscoli impegnati nella marcia. Ambedue i sessi rivelano patologie comuni che derivano anche da impegni considerevoli della parte superiore del corpo. Sono attestate lesioni da sovraccarico (sindesmopatie dei legamenti), soprattutto a livello del cingolo scapolare, conseguenti ad attività fisicamente molto impegnative, spesso collegate al lavoro dell’aratura: lo sforzo di affondare l’aratro nel terreno sollecita fortemente il legamento costo-clavicolare (ben l’88.88% di sindesmopatie maschili contro appena il 36.36% di sindesmopatie femminili)466. Le donne presentano quindi le ossa molto modellate, con impronte muscolari marcate e con entosapatie, tanto da far supporre che fossero impegnate in lavori altrettanto pesanti di quelli maschili seppure in percentuale inferiore; avevano quindi un ruolo molto importante nell’economia del villaggio che non si limitava ai lavori domestici e all’allevamento dei figli. Per esempio lo scheletro femminile 98, di 28-32 anni, è caratterizzato da impronte muscolari molto marcate e da entesopatie a livello degli arti inferiori; l’area d’inserzione dell’ileopsoas nel femore destro si presenta rugosa e un esile labbro è presente sul margine laterale, l’area d’inserzione del grande gluteo in entrambi i femori presenta formazioni osteofitiche così come l’area d’inserzione del soleo nella tibia destra. L’ileopsoas è il muscolo che permette la rotazione e la flessione a livello dell’anca, il grande gluteo e il soleo sono i muscoli fortemente impegnati nella stazione eretta e il soleo è il muscolo sviluppato in particolare nei grandi camminatori. Lo scheletro 76, di 25-30 anni, oltre a presentare l’entesopatia del grande gluteo nei femori, ha diverse impronte muscolari molto marcate sia a livello dell’ileopsoas destro e del vasto mediale sinistro, sia a livello degli arti superiori: il piccolo rotondo sinistro, il gran pettorale sinistro e il deltoide destro e sinistro negli omeri, la tuberosità bicipitale nel radio destro, il brachiale in entrambe le ulne. Anche lo scheletro 34, di 20-25 anni, presenta non solo entesopatie del legamento costoclavicolare della clavicola e del deltoide di entrambi gli omeri, ma ha anche impronte muscolari molto marcate del gran pettorale sinistro (il destro non è rilevabile), del gran dorsale e gran rotondo sinistri mentre il destro ha l’area d’inserzione meno forte. In conclusione l’intera famiglia era impegnata in un'attività lavorativa che sollecitava tutto il corpo con una prevalenza nei maschi per la parte inferiore della colonna vertebrale. Il fatto che camminassero molto indica che i campi e le aree di pascolo erano disposti al di fuori dell’area del villaggio ed in alcuni casi anche ad una certa distanza. Non si doveva disporre sempre di animali di grossa taglia (che, come abbiamo visto, erano concentrati solo nel dominico) poiché l’aratro sembra essere stato trainato dalle persone. Anche attrezzi e prodotti dei campi erano trasportati dall’uomo come mostrano il 36% dei radii con impronte muscolari molto marcate e le entesopatie del bicipite; l’ipertofia di queste inserzioni suggerisce un’attività frequente di sollevamento di pesi e di trasporto di carichi con gomiti flessi467. Per 75 individui è stato possibile attribuire l’età di morte. Il 13.34% sono giovani di età inferiore a 20 anni ma tra questi c’è un solo infans468 e tutti gli altri sono adolescenti con

466 Tutti i movimenti del braccio e della spalla coinvolgono anche questo legamento, che è uno dei più robusti del corpo umano. Il 46.66% delle clavicole osservate ha impronte muscolari molto forti o entosopatie a livello del deltoide, che è il più importante muscolo abduttore della spalla. A livello degli arti superiori sono molto marcate le impronte muscolari del grande pettorale dell’omero (50%) e del brachiale dell’ulna (48.86%). 467 PELLEGRINO 2003-2004. A livello degli arti superiori sono molto marcate anche le impronte muscolari del grande pettorale dell’omero (50% sul totale delle osservazioni) e del brachiale dell’ulna (48.86% sul totale delle osservazioni). Il grande pettorale è attivo nell’adduzione omerale, avvicina cioè il braccio al tronco, nella rotazione mediale e nella flessione, mentre il brachiale è il più importante flessore dell’avambraccio. Il 38.46% dei radii presenta impronte muscolari molto marcate ed entesopatie del bicipite. Il bicipite, come il brachiale, è responsabile della flessione del braccio. 116 un’età superiore ai 13 anni; il 44% degli individui sono morti tra i 20 e i 30 anni, il 29.34% tra i 31 e i 40, il 10.66% tra i 41 e i 50 e soltanto il 2.66% sopra i 50 anni. Distinguendo la mortalità maschile da quella femminile, si osserva che il 68% dei maschi e il 76% delle femmine concludevano la loro vita entro i 35 anni di vita; nessuna femmina supera i 45 anni di età, mentre due maschi superano i 50 anni. La più alta percentuale di decessi femminili entro i 35 anni di età, che è frequente in molte serie antiche, può essere spiegata con gli stress dell’attività riproduttiva; in piena età fertile, quando le gravidanze, i parti e gli allattamenti si susseguivano a ritmo ravvicinato, i rischi connessi al parto e al puerperio erano alti e gli allattamenti prolungati potevano debilitare l’organismo che diventava più soggetto a malattie infettive. Nel complesso, quindi, il 45% circa degli uomini e delle donne decedevano tra i 25 e i 35 anni di età. Tra le cause di morte sono da escludere eventi violenti, per i quali nessun esempio è stato riconosciuto, ed i traumi la cui incidenza è molto bassa colpendo soltanto gli scheletri maschili. Quattro traumi, di entità non grave, sono a livello cranico; è inoltre presente una sola frattura, perfettamente riparata, nell’ulna destra di un maschio di 35-38 anni che per le sue caratteristiche sembra sia avvenuta durante l’infanzia (frattura a legno verde). La popolazione, perciò, pur essendo impegnata in attività lavorative pesanti, non era esposta ad un elevato rischio traumatico ed i decessi avvenivano per cause naturali; un solo individuo presenta due segni di profonde ferite sul cranio causate da uno strumento a punta alle quali comunque sopravvisse. La bassa aspettativa media di vita ci fa riflettere sulla durata dei contratti o dei patti colonici attraverso cui si affidavano ai rustici appezzamenti di terreno da coltivare e generalmente indicata nell’ordine dei 29 anni. Se i dati di Poggio Imperiale testimoniano una situazione generalizzata, allora questo periodo di tempo copriva praticamente l’intera vita del contadino ed assicurava alla famiglia dominante una conduzione stabile della proprietà. Stabilità che, comunque, si protraeva per generazioni come sembrano indicare la presenza di una popolazione stabilmente radicata alla terra, il riconoscimento di diffusi caratteri ereditari e l’alto tasso di endogamia. Considerando nel loro insieme caratteristiche degli spazi insediati, tipi di strutture indagate, presenza significativa degli animali accanto agli uomini, alimentazione e patologie, si osserva che le condizioni di vita nel villaggio di Poggio Imperiale dovevano essere più o meno le stesse per gli individui che sembrano inumati in sepolture di tipo “privilegiato” e per la massa della popolazione. Sia la probabile élite sia i dipendenti vivevano nello stesso ambiente, in case umide per gran parte dell’anno, a contatto continuo con buoi e caprovini, con un’alimentazione che pur differenziandosi e coprendo le necessità caloriche, probabilmente non compensava con efficacia i bisogni vitaminici e proteici indispensabili per una dieta salutare e per evitare disfunzioni fisiche e che, in età infantile aveva causato problemi fisici legati a malnutrizione. Ambedue, cioè il gruppo distintivo ed il resto della popolazione, avevano svolto in vita delle attività che sviluppavano i muscoli del corpo, soffrivano di dolori artrosici e di forti patologie odontoiatriche ed erano forse affetti da parassitosi. Tutti erano deceduti per cause naturali. Dal punto di vista archeologico le reali differenze tra il gruppo privilegiato ed il resto della popolazione contadina sono percepibili nella maggiore disponibilità di cibo e nel decidere la sua distribuzione (non significa però una migliore e più sana alimentazione), nel vivere in un edificio circa tre volte più grande degli altri, nell’avere alcuni servi e dipendenti che svolgevano mansioni diverse legate all’economia del centro.

468 In base alla formazione delle gemme dentarie è un neonato di ±2 mesi: le corone degli incisivi superiori e degli incisivi inferiori laterali sono formate, mentre la formazione delle corone incomplete dei molari indica un’età leggermente superiore alla nascita. Patologie scheletriche: tetto dell’orbita sinistra con cribra (diffusa porosità); sulla superficie del frammento dell’emifrontale destro e sul tetto dell’orbita destra si osserva una fitta porosità. Frammento cranico con ipervascolarizzazione sulla superficie endocranica. 117 Dal punto di vista antropologico, invece, si osservano alcune specificità. Lo scheletro 106 e lo scheletro 111 (prima fase del cimitero), lo scheletro 36 e lo scheletro 54 (quarta fase del cimitero) rappresentano i quattro individui che fanno parte del piccolo gruppo distinto e propongono delle carte d’identità fisica che non differiscono molto dai restanti inumati riconosciuti come la massa; struttura fisica e malattie sono simili ma l’esame dettagliato dei loro scheletri, soprattutto dei primi tre, permette di percepire alcune caratteristiche che evidenziano delle differenze. Gli individui 36, 106 e 111 presentano caratteri discontinui o discreti (piccole variazioni riscontrabili sia sulle ossa craniche che su quelle postcraniali) di tipo ereditario e sembrano essere appartenuti allo stesso gruppo parentale 469. Lo scheletro 106 era stato uno degli uomini più vecchi del villaggio avendo vissuto ben vent’anni oltre la media generale ed anche lo scheletro 111 rientravano in una fascia più anziana essendo deceduto oltre i 40 anni di età. Mentre lo scheletro 36, pur robusto, era però affetto completamente da artrosi e forse una delle persone meno sane del villaggio. Lo scheletro 54 invece morì per una malattia in giovane età. I marcatori di attività svolte in vita sottolineano una comune pratica dell’equitazione. Lo scheletro 106 presenta gli indicatori più evidenti. Uno dei caratteri discontinui o discreti, le faccette sulle epifisi distali delle tibie, rilevato su 36 è conseguente al trascorrimento di molte ore con il piede iperdorsiflesso (posizione accovacciata o a cavallo); tra i marcatori scheletrici di attività si aggiungono inoltre all’altezza dei due femori entesopatie dell’Ileopsoas, grande gluteo, vasto mediale e linea aspra: indicano il forte impegno dei muscoli estensori e rotatori che partecipano alla postura del cavaliere; inoltre l’ossificazione della linea aspra evidenzia la forte sollecitazione degli adduttori 470. Anche il 111 propone alcuni indicatori che potrebbero indirizzare verso il riconoscimento della pratica equestre; l’inserzione del retto del femore del coxale destro è molto marcata; l’area d’inserzione del bicipite e semitendinoso è caratterizzata da osteofiti; l’inserzione del semimembranoso del coxale sinistro è molto marcata; tutte le inserzioni osservabili di entrambi i femori (grande gluteo, vasto mediale, labbro mediale e laterale della linea aspra) sono molto marcate; l’inserzione del legamento patellare di entrambe le patelle è marcata; le inserzioni del soleo di entrambe le fibule sono molto marcate, il legamento patellare della tibia sinistra è evidente; esostosi nell’area d’inserzione del tendine di Achille. Il muscolo soleo non solo è estensore del piede sulla gamba ma, a ginocchio parzialmente flesso, è responsabile della flessione plantare della caviglia; quindi non è fortemente sollecitato soltanto nella deambulazione e nel salto, ma anche nella pratica equestre. Tali dati potrebbero trovare un riscontro con le restituzioni della capanna a “T” (una lancia a foglia471, una punta di freccia472, elementi della bardatura di un cavallo473) interpretata come un’abitazione-magazzino, occupata da un diretto dipendente, forse un servo, che custodiva alcuni beni fra i quali le armi del suo padrone ed identificabile quindi in un miles

469 Scheletro 36 - osso o distretto: cranio e tibia sinistra; carattere discontinuo: ossicini lambdoidei e faccetta sull’epifisi distale anteriore. Scheletro 106 - osso o distretto: calcagno; carattere discontinuo: faccetta calcaneare sdoppiata. Scheletro 111 - osso o distretto: cranio e calcagni; carattere discontinuo: ossicini lambdoidei e faccetta calcaneare sdoppiata. 470 FORNACIARI, GIUSIANI, VITELLO 2003. 471 Si tratta di una cuspide di lancia in ferro, di forma foliacea con probabili alette di arresto molto ampie e cannone di forma cilindrica cavo. Sul cannone è ancora inserito un chiodo per fissare la cuspide all’asta in legno. La sua forma non trova riscontri in contesti o collezioni note. 472 Punta di freccia da arco in ferro con codolo a sezione quadrata e cuspide piramidale a base quadrata. Venivano inastata tramite l’inserimento del codolo in un foro praticato nell’asta. 473 Elemento decorativo in ferro formato da due elementi a calotta semisferica uniti tramite un meccanismo snodabile formato dalle prosecuzioni delle calotte. Sul retro di una di queste, è presente l’asta attraverso la quale l’oggetto veniva fissato ad un elemento in materiale deperibile, mentre l’altro restava mobile, grazie al meccanismo snodabile. 118 od un exercitalis. Coincidenze si hanno anche con le restituzioni archeozoologiche della longhouse dove sono evidenti i resti di un cavallo, di un mulo e numerosi i chiodi da ferratura. La famiglia dominante non era comunque da ascrivere nel novero dei grandi possidenti; il profilo che si delinea dall’insieme dei dati raccolti individua piuttosto dei piccoli possidenti, sicuramente non agiati e non ricchi nel significato comune del termine, che vivevano in campagna gestendo la propria azienda, accumulando derrate alimentari e provvedendo alla distribuzione del cibo verso i loro dipendenti diretti. Segue in dettaglio la descrizione dei quattro individui. Lo scheletro 36 apparteneva ad un individuo di sesso maschile, di età compresa fra i 33 ed i 41 anni alto 1,78 m; aveva svolto in vita un'attività fisica che impegnava in modo omogeneo tutta la struttura muscolare e scheletrica474. Era un soggetto pesantemente colpito da artrosi primaria come evidenziano le diffuse patologie degenerative riconosciute nelle vertebre lombari e cervicali. Alle entesopatie si accompagnano infatti artrosi vertebrale in tutta la colonna con maggiore accentuazione nella regione lombare ed artrosi extravertebrale all’articolazione della spalla, all’articolazione coxo-femorale, all’articolazione del ginocchio e alla prima falangetta del piede destro. L'esostosi alla clavicola sinistra può ricondursi invece ad un precoce episodio infiammatorio occorso prima dei 15 anni; la patologia si manifesta in età puberale, prima che si completi il processo di ossificazione delle cartilagini. L’ipoplasia dello smalto dei denti anteriori mascellari attesta che l’individuo aveva subito episodi di stress all’età di 2 e 3 anni, inoltre mostra un’accentuata abrasione dei denti anteriori ed aveva tre carie che, con l’usura perforante, provocarono molto probabilmente l’infiammazione della superficie palatale del mascellare. La maggior parte dei denti superiori è ricoperta da lievi formazioni di tartaro. Lo scheletro 106, riferibile ad un maschio di 50-55 anni alto circa 171± 3,27 cm. Aveva perso in vita sei denti dell’arcata mandibolare e sono presenti lievi formazioni di tartaro; l’usura appare piuttosto grave sulle superfici occlusali di alcuni denti, mettendo allo scoperto ampie zone di dentina secondaria. I processi alveolari presentano grave riassorbimento alveolare. Quest’individuo era caratterizzato da impronte muscolari molto profonde e da entesopatie nei vari distretti scheletrici. Le inserzioni muscolari e ligamentarie particolarmente marcate o con entesopatie, nella parte superiore dello scheletro, sono quelle del muscolo deltoide nella clavicola destra, del legamento coraco-clavicolare, del tricipite nelle scapole, del bicipite nei radii e del brachiale nelle ulne. Il muscolo deltoide costituisce il principale abduttore del braccio; il capo lungo del muscolo tricipite agisce sull’articolazione della spalla, dove partecipa ai movimenti di adduzione; la forte inserzione del bicipite nei radii e del brachiale nell’ulna destra indica una flessione e una supinazione forzata e ripetuta del gomito. I marcatori scheletrici che si rilevano, in particolare, nella parte inferiore dello scheletro forniscono preziose indicazioni sul tipo di attività fisica esercitata. L’associazione dell’ovalizzazione dell’acetabolo con l’ipertrofia del retto del femore a livello dei coxali, con il bordo rilevato della fovea dei femori, con gli osteofiti della fossa trocanterica, con lo schiacciamento e la rotazione del piccolo trocantere, con l’ipertrofia di tutti i muscoli dei femori, sembra delineare il quadro di un’intensa pratica equestre. Questa particolare attività fisica porta, infatti, ad una serie di alterazioni microtraumatiche sull’anca e sul femore. L’ovalizzazione dell’acetabolo è dovuta alla sollecitazione della testa del femore sulla parte superiore dell’acetabolo durante le cavalcate. La deformazione della fovea,

474Presenta entesopatie del muscolo deltoide nella clavicola sinistra (a destra non è rilevabile), dell’anconeo, dell’origine comune degli estensori e dei flessori nell’omero sinistro e dell’origine comune dei flessori nell’omero destro, della tuberosità bicipitale nel radio destro e sinistro, del tricipite nell’ulna sinistra e del brachiale nell’ulna destra; tutti i muscoli rilevabili dei coxali e dei femori presentano entesopatie; anche i calcagni presentano formazioni osteofitiche nell’aree d’inserzione del tendine di Achille. 119 dove si inserisce il legamento rotondo, e la compressione della testa del femore in senso antero-posteriore, sono determinati dalla sollecitazione continua ed intensa della testa del femore a contatto con l’acetabolo. I muscoli glutei e gli adduttori sono fortemente impegnati per rimanere saldi in sella al cavallo; il piccolo trocantere dove si inserisce il muscolo ileopsoas, che permette la flessione e la rotazione dell’articolazione a livello dell’anca, viene sollecitato in modo tale da subire una rotazione mediale e uno schiacciamento. A livello della fossa trocanterica, dove è localizzata l’inserzione del muscolo otturatore interno e dei muscoli gemelli, la formazione di osteofiti è dovuta a movimenti continui ed energici di rotazione esterna della coscia. Lo scheletro 111 era un individuo di sesso maschile, di età compresa 40-44 anni, molto robusto ma in cattivo stato di salute, con numerose patologie a carico dell'apparato scheletrico e di quello articolare. L'attività svolta si caratterizzava per pesanti sforzi, sviluppando forme di artrosi anche agli arti superiori; mostra una spondiloartrosi di grado avanzato di tipo anchilosante con fusione dell’ottava, nona e decima vertebra toracica, con formazione di ponti ossei intersomatici; aveva artrosi a due costole, clavicola destra e scapola destra. I denti mostrano un pessimo stato di salute della bocca; l’ipoplasia attesta un episodio di stress occorso all’età di 2 anni. Tanto le quattro carie che l’usura grave di tutti i denti, particolarmente quelli superiori, hanno favorito la localizzazione di germi nel paradenzio, causando lo sviluppo di processi infiammatori cronici, con conseguenti osteolisi dei processi alveolari. Anche lo scheletro 54 apparteneva ad un membro maschio della famiglia dominante che però non aveva avuto fortuna. Pur svolgendo molta attività fisica, era morto tra i 20 ed i 24 anni probabilmente per una lesione che potrebbe essere l’esito di un’infiammazione dell’orecchio penetrata nella cavità endocranica provocando una meningite con conseguente decesso. L’ipoplasia dello smalto dei denti attesta vari episodi di stress dai 10 mesi ai 4 anni; l’abrasione linguale degli incisivi e dei canini era molto probabilmente la conseguenza di un impiego extramasticatorio della dentatura; i segni di rimaneggiamento osseo sul mascellare sono probabilmente gli esiti di un’infezione. Gli scheletri 107, 30 e 89 costituiscono tre esempi della popolazione contadina. Lo scheletro 107, maschio con un’età tra i 22 e i 24 anni, statura di 176 cm, mostra marcatori scheletrici di attività occupazionali ed entesopatie molto accentuati relativi ad un individuo che aveva sollecitato fortemente sia la parte superiore del corpo che l’inferiore e soprattutto le gambe. L’esostosi dell’inion, appiattimento leggero dei condili mandibolari, l’inserzione del deltoide della clavicola destra molto marcata, la cavità romboide della clavicola sinistra, dove si inserisce il legamento costo-clavicolare, a forma di placca sollevata rivelano movimenti di sforzo, come quelli necessari all’attività di aratura, ripetuti frequentemente nel tempo. Le scapole presentando le aree d’inserzione del deltoide, tricipite e piccolo rotondo evidenti, mostrano la ripetizione continua di movimenti di avvicinamento del braccio al tronco. Le aree d’inserzione del sottoscapolare, sopraspinato e infraspinato, del piccolo rotondo e del gran pettorale sono evidenti in entrambi gli omeri; l’area di inserzione del grande dorsale e gran rotondo dell’omero destro si presenta leggermente erosa, quella del sinistro non è erosa ma evidente; nei radii l’area d’inserzione del bicipite è più evidente a sinistra, l’inserzione del pronatore rotondo destro è poco evidente; l’area d’inserzione più marcata a livello delle ulne è quella del brachiale destro. Questi marcatori attestano continui movimenti di flessione dell’avambraccio. L’effettuazione di ripetuti movimenti di flessione della gamba sono invece attestati dalle aree d’inserzione più evidenti nel femore destro del piriforme, del gluteo medio, del piccolo gluteo e dell’ileopsoas. Intensi e ripetuti movimenti di rotazione esterna e estensione della coscia sono evidenziati del femore destro dove si possono rilevare le inserzioni del piriforme, dell’ileopsoas e quelle del grande gluteo e degli adduttori. L’inserzione del

120 tendine di Achille è evidente in entrambi i calcagni come segno di eventi microtraumatici conseguenti a lunge marce su terreni accidentati. Le patologie scheletriche sono soprattutto legate ad eventi di malnutrizione e/o parassitosi in età giovanile che dettero luogo ad iperostosi porotica sull’intero cranio e sullo zigomo sinistro; tracce di cribra orbitalia si rilevano inoltre sul tetto dell’orbita sinistra. La faccia mediale della tibia sinistra presenta strie longitudinale e una zona leggermente rigonfia a metà dialisi; sono gli esiti di una leggera periostite, cioè di un trauma con complicazione infettiva a seguito del laceramento della cute, dei tessuti sottocutanei, dei muscoli. Quasi tutti i denti presentano formazioni di tartaro di grado leggero ed una sola carie. La maggiore usura dei denti anteriori rispetto ai posteriori e la presenza di scheggiature sulle loro superfici occlusali, potrebbero essere dovute all’impiego di questi denti in attività extra-masticatorie. Lo scheletro 30 mostra un quadro entesopatico molto diffuso, accompagnato da artrosi della colonna e da ernie di Schmorl. Si osserva anche periostite tibiale. Era un uomo alto intorno ai 185 cm, deceduto tra i 35-44 anni, con entesopatie del grande pettorale nell’omero destro (il sinistro è assente), del bicipite nel radio destro (il sinistro è assente), del tricipite nell’ulna sinistra (la destra è assente), dell’ileopsoas nella linea aspra, del soleo e del legamento patellare nella tibia sinistra (la destra è assente), del lungo flessore del grosso dito e del lungo peroneo della fibula sinistra (la destra è assente). Le altre aree d’inserzione muscolare sono tutte molto marcate. Si evidenzia il quadro di un forte impegno funzionale sia dei muscoli flessori ed estensori degli arti superiori, che dei muscoli estensori e rotatori degli arti inferiori, legati alla deambulazione. Il grado di sviluppo delle entesi e le entesopatie indicano che l’individuo fu impegnato in vita in attività fisiche molto dure, confermate anche dalla presenza di numerose ernie di Schmorl a livello della regione toracica e lombare per sovraccarichi ponderali. Anche l’artrosi vertebrale potrebbe essere correlata ad un impegno eccessivo della colonna. Aveva perso due denti in vita; i terzi molari mascellari sono cariati, quello di destra è interessato da un’ampia cavità cariosa sulla faccia mesiale e quello di sinistra da una carie nella medesima sede. Quasi tutti i denti presentano formazioni di tartaro a carico delle facce linguali e vestibolari delle corone e sono usurati, ma l’usura appare più marcata sugli incisivi centrali e sui primi e secondi molari sia mascellari che mandibolari, con comparsa notevole di dentina secondaria. Le ossa mascellari sembrano mostrare nella faccia palatale probabili esiti di un’infiammazione. L’ipoplasia lineare dello smalto indica una serie di episodi di stress dai 10 mesi ai 3 anni. I probabili esiti infiammatori del mascellare e la perdita di alcuni elementi dentari in vita possono essere correlati alla forte usura dei denti menzionati sopra ed alla carie. Inoltre l’usura, insieme all’ipercementosi delle radici di alcuni denti e al grave riassorbimento alveolare, farebbe ipotizzare un forte stress masticatorio occlusale. Lo scheletro 89, un maschio di 45-50 anni e di altezza non rilevabile, presenta entesopatie nelle aree d’inserzione di quasi tutti i muscoli degli arti superiori ed inferiori: gran pettorale, gran dorsale e gran rotondo, deltoide negli omeri, pronatore rotondo nel radio destro (il radio sinistro è assente), tricipite nell’ulna destra (l’ulna sinistra è assente), grande gluteo, adduttori, vasto mediale nei femori, legamento patellare della tibia sinistra. Lo stesso individuo presenta artrosi severa nella regione toracica e lombare della colonna vertebrale. L’insieme delle entesopatie e dei segni artrosici è da ascriversi a stress biomeccanici, la cui intensità e durata nel tempo hanno portato ad alterazioni patologiche su tutti i distretti scheletrici. Episodi non gravi di malnutrizione in età giovanile causarono una lieve iperostosi porotica del cranio sul frontale e sui parietali, lungo la sagittale. Aveva perso due denti in vita e soffriva di parodontite cronica nonché di tre carie delle quali una destruente, che ha comportato la distruzione totale della corona, riducendo il dente alla sola radice; scarse invece le incrostazioni di tartaro. Le superfici occlusali di tre

121 denti si presentano particolarmente abrase, con comparsa di dentina secondaria. L’ipoplasia attesta episodi di stress occorsi all’età di 2 e 3 anni e la particolare usura dei molari è correlabile ad un’alimentazione basata su cibi particolarmente abrasivi; quella del canino mascellare invece è dovuta probabilmente ad un’attività extramasticatoria e secondo alcuni autori tale tipo di usura è provocata dall’impiego dei denti nella conciatura delle pelli.

13 - Dinamiche insediative e nascita dei castelli nell’alta Val d’Elsa tra X e XI secolo. Uno dei problemi centrali, per la storia del popolamento, è sapere quali tra i centri rurali conosciuti la prima volta a seguito della loro menzione nelle fonti scritte avevano in realtà storie più antiche. La risposta a questo interrogativo sta nell’appurare se la rete insediativa documentata dalla seconda metà del X secolo era nata ex novo o se si impostava su equilibri già costituiti dall'altomedioevo. Le tendenze mostrate dalle indagini territoriali, nelle quali l’insediamento altomedievale costituisce un vero e proprio “vuoto” archeologico, e quelle evidenziate dagli scavi dei castelli toscani dopo oltre un ventennio di ricerche sistematiche, lasciano pochi dubbi al riguardo: la maggior parte dei centri si sviluppò su insediamenti preesistenti 475. L’incastellamento interessò soprattutto realtà insediative stabilmente popolate, dei siti altomedievali di successo ed aziende rurali talvolta riconoscibili come curtes o come il loro nucleo centrale. Fu un fenomeno che aderì ad una rete di popolamento già stabilizzata e sulla cui ossatura si era modellata la gestione del lavoro nelle campagne. Ciò non significa volere rintracciare l’origine di tutti i castelli nei nuclei accentrati altomedievali; tale processo si lega soprattutto ai castelli di prima fase, mentre non si esclude, come alcuni casi comprovano, uno per tutti Rocca San Silvestro nel livornese476, la fondazione ex novo dietro interessi particolari (lo sfruttamento minerario nell’esempio citato) e per i castelli di seconda fase. Per questi motivi, la ricostruzione delle dinamiche insediative territoriali ha quasi sempre una brusca frenata dopo il periodo della transizione. Non si ritrovano infatti sul terreno gli indizi di quei contesti altomedievali, che pur dovevano esistere e talvolta attestati dalla stessa documentazione d’archivio, poiché i depositi ad essi relazionabili sono per la maggior parte sepolti od erosi dalle successive fasi di vita, fino all’edificazione ed allo sviluppo dei castelli o di altri siti di successo, probabilmente quei nuclei di villaggio che hanno continuato ad essere frequentati fino ai nostri giorni477.

475 FRANCOVICH, HODGES 2003; VALENTI 2004; FRANCOVICH, VALENTI 2005. 476 FRANCOVICH 1991. 477 In generale, l'eventualità di rintracciare depositi altomedievali tramite la ricognizione di superficie è risultata possibile di fronte a contesti con cronologia di IX-XI secolo: siti definibili "fallimentari" e siti incastellati abbandonati con superfici circostanti non urbanizzate. Si tratta in tutti i casi di insediamenti accentrati. La definizione di "siti fallimentari" individua quei nuclei di popolamento che, costituitisi durante una congiuntura favorevole allo sviluppo della rete insediativa, furono abbandonati più o meno precocemente. Un recente scavo svolto in località Casa Andreoni, nel grossetano, conseguito all’individuazione su superfici agricole di una vasta concentrazione di materiali ceramici mobili, conferma tendenzialmente queste interpretazioni, mostrando parte di un piccolo insediamento accentrato abbandonato probabilmente nel corso del IX secolo (contesto scavato nell’estate 2005 da Emanuele Vaccaro). Le indagini sui siti incastellati abbandonati e con superfici circostanti non urbanizzate hanno dato modo di rintracciare stratificazioni altomedievali, confermando l'esistenza di agglomerati aperti successivamente cinti da mura. Un’ultima variante si individua nel riconoscimento di alcune singole unità agricole legate ad organizzazioni aziendali. Si tratta in tutti gli esempi di poderi contadini con cronologie di IX-XI secolo che non prospettano eccezioni al modello "siti di successo". La loro collocazione, sempre a brevissima distanza se non contigui ad un toponimo attestato come azienda curtense (si veda il caso del Podere Aione nel follonichese: CUCINI 1989) sottolinea di nuovo come il popolamento accentrato rappresenti ancora in questa fase una realtà dominante e come la continuità insediativa, quindi il carattere di "successo", sia un dato di fatto incontestabile. 122 Il caso di Poggibonsi in particolare è molto significativo. Qui la frequentazione nota aveva inizio alla metà del XII secolo con la fondazione del villaggio fortificato di Podium Bonizi che si collocava in un contesto territoriale caratterizzato dalla via Francigena e dalle sue numerose diramazioni e dove, tra X-XIII secolo, si incrociarono forti possessi e pertinenze del potere laico ed ecclesiastico (la casa marchionale di Tuscia, i potenti conti Guidi, l'abbazia altomedievale di Marturi). Tutti elementi che potevano fare presagire una frequentazione anche di età altomedievale non attestata dalle fonti scritte. Tracce di una qualsiasi forma insediativa precedente al villaggio di XII secolo non sono assolutamente comparse; oppure, se presenti, come potevamo riconoscere ceramiche comuni altomedievali all'interno dei grandi quantitativi raccolti di reperti databili tra XII-XIV secolo? Tutto ciò, nonostante una strategia di valutazione del potenziale archeologico molto attenta e sperimentale articolata in cinque steps di approfondimento articolati tra battiture a terra ed impiego di tecnologie innovative che hanno permesso una prima ed attendibile identificazione di depositi di XII e XIII secolo. La causa del vuoto di presenze deve essere quindi ricercata nelle modalità di sviluppo della rete insediativa, che dalla fine del VI-VII secolo ebbe inizio prevalentemente attraverso la costituzione di villaggi. Furono frequentazioni di lungo periodo come nel caso di Poggio Imperiale, talvolta ininterrotte sino ad oggi, dove le testimonianze più antiche venivano obliterate con il succedersi delle fasi di occupazione e delle ristrutturazioni funzionali degli spazi. Questi villaggi rappresentarono l’ossatura sulla quale s’impostò l’insediamento dei secoli centrali del medioevo e le cui tracce sono riconoscibili pienamente solo scavando. Sono la stessa trasformazione del popolamento da sparso ad accentrato di inizi VII secolo, nonchè il "successo" della maggior parte degli insediamenti costituitisi, che impediscono di rinvenire le tracce dei depositi se non attraverso l'indagine stratigrafica. Ed in tal senso la collina di Poggio Imperiale, così come il chilometro quadrato di cui è al centro, costituisce anch’essa un’area di successo; l’insediamento, talvolta spostandosi di alcuni centinaia di metri, nonchè la viabilità qui presente, si sono protratti sino ai nostri giorni senza soluzione di continuità: abbandonato Poggio Imperiale, Marturi, pur dietro vicende altalenanti, continuava a vivere e nel frattempo si andava sviluppando il centro di Borgo Marturi; scelta di nuovo la collina per fondare il grande castello, Borgo Marturi si trasformò in un sua appendice e Marturi intervenne nelle sue vicende urbanistiche; sul rilievo prospiscente di San Lucchese, prima della fondazione del convento, esisteva il villaggio di Camaldo; dopo la distruzione di Poggio Bonizio il centro di Borgo Marturi divenne nuovamente dominante, sviluppandosi economicamente ed urbanisticamente. Privo di continuità o meno, il rilievo di Poggio Imperiale ha mostrato di entrare pienamente nella tendenza generale riscontrata negli scavi di castelli; la collocazione territoriale e la conformazione della collina ha costantemente attratto insediamento. Sulla base di tale modello interpretativo della storia del popolamento delle campagne toscane, l'altomedioevo risulterebbe così un periodo altamente popolato ed il villaggio valdelsano di capanne a lunga frequentazione non costituirebbe un caso, piuttosto un tipo di realtà insediativa molto diffusa. Potremmo inoltre intravedere già in azione alcune di quelle famiglie che sappiamo variamente affermate nell’alta Valdelsa del X secolo. Soprattutto il preceptum Berengarii et Adelberti Regnum del 953478, la chartula de morgengabe di Trigesimo del 994479 e la chartula venditionis di Teuzo dello stesso anno480, nonchè gli atti di fondazione di Marturi481 e di Isola482, attestano una gestione della terra

478 CAMMAROSANO 1993, n.1, 23 giugno 953. 479 CAMMAROSANO 1993, n.2, 29 aprile 994. 480 CAMMAROSANO 1993, n.3, 1 gennaio 1-23 settembre 994. 481 CAMMAROSANO 1993, n.4, 4 febbraio 1001. 482 FALCE 1921, p.187, 10 agosto 998. 123 polarizzata intorno a centri curtensi controllati da gruppi familiari eminenti; curtes per lo più incastellate e talvolta dotate di chiesa, poste tra gli attuali confini comunali di Poggibonsi, Colle, e San Gimignano, mentre le zone di Casole e Monteriggioni mostrano invece attestazioni più sporadiche. I loro patrimoni si dislocavano a Gavignano (al centro di proprietà fondiarie già nel 990)483, Staggia (attestato dal 994484 ed il recente scavo, ancora in elaborazione, rivela una frequentazione che ha inizio molti secoli prima sottoforma di nucleo di capanne485), Papaiano (attestato dal 997)486, Talciona (citato la prima volta nel 998)487, La Valle (citato la prima volta nel 1021 come castello scomparso)488, forse Lecchi (attestato nei primi anni dell'XI secolo)489, Marturi (attestato nel 998)490, Mugnano (dal 970 castello)491, Bibbiano (attestato a partire dal 994)492, Gracciano (attestato a partire dal 994)493, (attestato dal 996)494, Buliciano (attestato nel 970)495.

483 Regestum Volaterranum, n.78, 16 dicembre 990: proprietà sono poste in Gavignano. FALCE 1921, p.185, 25 luglio 998 (falso di fine XI secolo), attestati tre mansi in Gauignano. 484 CAMMAROSANO 1993, n.2, 29 aprile 994: Chartula de morgengab. Cessione a titolo di morgengabe da parte di Tegrimo figlio di Ildebrando alla moglie di beni posti nelle contee di Volterra, Firenze, Fiesole e Siena; tra essi «casa et curte est posita / (l)oco Stagia (un)a insimul cum ipso castro q(uod) castello vocatur et turre et ecclesia q(ue) est in onore sancte Marie». 485 Si veda paragrafo 12 del capitolo IV di questo volume. 486 FALCE 1921, n.49, p.138, marzo 971: «(...) Ego Guinizo (...) vindo et trado tibi Ugo, dux et marchio, f.b.m. Uberti, (...) integra mea portione de curte et castello et poio, qui nominatur Papaiano, et ecclesia cui vocabulo est sancti Andree». Regestum Volaterranum, n.75, p.27, 10 marzo 989: citati «Petro diac. f. Petri eccl. s. angneli Mihaeli in Papaiano» e «in villa de Pappiano». FALCE 1921, p.187, 10 agosto 998/ 25 luglio 998: donazione di due mansi «in Papaiano de intus pars que fuit Guinizi, f. Ugonis, et alia pars in ipso castello Papaiano cum omni pertinentia et intus et foris qui fuit de Azo, f. Petri Nigri». 487 FALCE 1921, p.187, 10 agosto 998/25 luglio 998: donazione di due mansi posti «intus castello de Talciona». 488 CAMMAROSANO 1993, n.29, 11 dicembre 1021: Chartula libelli. Il monastero cede a livello 4 pezzi di terra posti in Valle: «prima petia de terra q(ue) est posita prope ipso poio de Valle, in qua iam fuit castello; secunda (...) in loco qui dicitur Pratale; tertia (...) in loco qui dicitur Panta; quarta (..) in loco qui dicitur Pelago Iugi». 489 CAMMAROSANO 1993, n.2, 29 aprile 994: la località è nominata per la prima volta nella dotazione nunziale compiuta da Tegrimo di Ildebrando, della famiglia dei Lambardi di Staggia fondatori della Badia a Isola per la sposa Sindrada. Conosciamo poco della realtà insediativa di fine X secolo ma la citazione nel morgengabe come «Liccle cum eius pertinentia», lascia intravedere una località ben nota, di riferimento per beni fondiari e persone, non certo trascurabile. Non sappiamo però se poteva trattarsi di una azienda curtense come invece viene individuata quasi novanta anni dopo; nel 1086 infatti fu donata al monastero di Isola una «portione de curte de Liche cum ecclesia sancte Marie”. Ritroviamo dunque Lecchi al centro di una curtis dotata di chiesa (CAMMAROSANO 1993, n.38, 4 aprile 1086). 490 FALCE 1921, p.187, 10 agosto 998/25 luglio 998. 491 Regestum Volaterranum, n.46, p.15, 7 giugno 970: Chartula venditionis; «Actum intus castello de Mugnano terreturio Vulterris». 492 SCHIAPARELLI 1913, n.3 pp.7-8, 11 giugno 972: Tebaldo detto Teuzo, figlio del fu Gualtieri, vende a Willa «duo ex ipsis esse videntur in loco ubi dicitur Bibbiano (...) et cum omnibus casis et terris seu vineis atque rebus quod sunt domnicatis quem habeo (...) cum omnibus suis pertinentiis et adiacentiis». CAMMAROSANO 1993, n.3, 1 gennaio-23 settembre 994: Chartula venditionis. Vendita fra privati di «casa et curte mea illa domnicata fra castello ubi Bibiano vocatur (...) Actum loco intus castello de Bibiano, territurio Voloterrense». 493 CAMMAROSANO 1993, n.2, 29 aprile 994: Chartula de morgengab (cessione a titolo di morgengabe) da parte del Lambardo Tegrimo figlio di Ildebrando alla moglie Sinderada di beni posti nelle contee di Volterra, Firenze, Fiesole e Siena tra i quali la «curte sive rocca et ecclesia Elsa iusto fluvi ipsius Elsa» (citato anche in Regesto Senese, n.21, 29 aprile 994). 494 Regestum Volaterranum, n.86, p.32, 12 marzo 996: il marchese Ugo di Toscana offre alla chiesa di Santa Maria di Volterra una ricca donazione in terreni fra cui «I in Gabro, recta per castello». 495 PUCCINELLI 1664, p.205, marzo 971: il marchese Ugo compera per 100 soldi da “Uinisi”, detto Guinizio, «integra mea portione de curte que nominatur Bulis et mea portione de ecclesia cui vocabulo est S.Georgii 124 L'intera valle si ripartiva quindi in territori rurali strutturatisi da molto tempo e legati ad un gruppo di possidenti che tra X e XI secolo iniziarono a incastellare i propri centri di controllo della produzione e del popolamento; la nascita dei castelli rappresentò il consolidamento dei rapporti di proprietà e degli equilibri già esistenti ed il tentativo di un’affermazione di tipo signorile all’interno del distretto territoriale496. La tendenza pare interessare la Valdelsa nel suo complesso e si uniforma con quella già riconosciuta su tutta l’area senese: a partire dalla metà del X secolo si affermarono gruppi nobiliari, tra i quali un'aristocrazia di milites con notevoli proprietà rurali, la cui adesione alla terra era avvenuta per tutta la durata del regno italico497. Nel convegno di Gambassi Terme del 1997, incentrato sui castelli della Valdelsa, i contributi che si sono occupati dell’origine dei castelli (Salvestrini per la zona di San Miniato498, Duccini per il gambassino499, Wickham nelle conclusioni500) hanno prospettato un quadro molto simile. Il popolamento del territorio viene letto in una gerarchia di piccoli centri aperti con curtis che, fra fine X-inizi XI secolo, vennero trasformati in castelli. Per comprendere in quale forma tali gruppi di possidenti si erano divisi la campagna altovaldelsana siamo ricorsi a modelli geografici; l'estensione territoriale dei centri di curtes o di castello può così essere ipotizzata applicando alla rete insediativa di X secolo la teoria dei poligoni di Thiessen (interpretabili come territori ipotetici di dominio dei centri di riferimento)501. Il risultato mostra 6 poligoni, intorno a Staggia, Talciona, Lecchi, Marturi, Papaiano, Bibbiano, con un’estensione media di poco superiore ai 13 kmq: una divisione più o meno equa della terra. Abbiamo tentato di leggere la rete insediativa anche in rapporto alla viabilità, per perfezionare l’applicazione dei poligoni di Thiessen e definire quali centri potevano rivestire più importanza. Il reticolo viario nel X secolo mostra punti nodali in corrispondenza di Marturi, Lecchi, Galognano, Gracciano e Mugnano (ognuno a crocevia di quattro strade) che quindi dovevano fungere da centri di raccordo per l’immissione nella Francigena. Questa raggiungeva anche Staggia, una tappa importante poichè vi convergevano le due strade provenienti da Galognano e Lecchi indirizzandole sulla curtis di Stecchi in direzione Siena. Nel complesso, la zona nord est di Poggibonsi si afferma così come un'area di successo. La strada e la rete insediativa si influenzarono reciprocamente; vediamo gli insediamenti nascere nelle sue vicinanze, i tracciati viari stessi adeguarsi e vari soggetti tentare di radicarvisi estendendo il proprio potere ed i propri diritti. Di tale azione risultano protagonisti principali la grande feudalità nella persona del marchese Ugo di Tuscia, poi di suo figlio Bonifacio e le élites rurali nelle figure di proprietari terrieri dominanti come per esempio i signori di Staggia o gruppi minori come quelli rappresentati dai Uunisi-Guinizo, Azzo e Ugone presenti a Mugnano e Buliciano ed il Tebaldo detto Teuzo di Bibbiano502. I marchesi di Toscana erano patrimonialmente presenti a Marturi, Lecchi, La Valle, Talciona, Papaiano; qui si adoperarono per acquisire aziende dalle principali famiglie locali, vi fondarono il monastero di Marturi e si garantirono anche proprietà nel colligiano et est infra territorio de plebe S. Hipoliti» (FALCE 1921, p.149). 496 Su tutti, si veda FRANCOVICH, GINATEMPO 2000. 497 CAMMAROSANO 1981. 498 SALVESTRINI 1998. 499 DUCCINI 1998. 500 WICKHAM 1998. 501 Nei poligoni di Thiessen il calcolo dei territori teorici intorno ad una serie di centri viene effettuato tracciando linee perpendicolari passanti per il punto mediano della linea che unisce ciascun centro ai più vicini; tutti i punti dello spazio all'interno di un poligono sono più vicini al centro situato nel poligono stesso che ai centri dei poligoni vicini. 502 FALCE 1921, n.49, p.138, marzo 971; SCHIAPARELLI 1913, n.3 pp.7-8, 11 Giugno 972. 125 con acquisti a Mugnano e Bibbiano; controllavano quindi la produzione agricola ed i maggiori centri nodali di immissione sulla Francigena e sulla Volterrana. Sulla Volterrana non trovarono grande opposizione; gli Aldobrandeschi infatti non riuscirono a stabilizzare il proprio potere sui centri nodali principali; erano presenti in una fascia più interna, a Piticciano (il futuro Colle Val d’Elsa) e tenteranno agli inizi dell’XI secolo, prima in contrasto con il vescovo volterrano e poi attraverso la fondazione dell’abbazia di Spugna, di affacciarsi sul tracciato o per lo meno controllarne il traffico di immissione. Sulla Francigena invece si era radicalmente insediata la famiglia di Staggia almeno a partire dall’VIII secolo e si era espansa nei quattro punti cardinali rafforzandosi nella sua connotazione di controllo dell’intera area e dei percorsi provenienti dalla Montagnola e dal principale centro nodale chiantigiano di ; la fondazione nel 1001 dell’abbazia di Isola, rientrava ancora in questa politica. Con i primi decenni dell'XI secolo la riorganizzazione della rete insediativa e produttiva portò quindi ad un incremento numerico dei castelli e dei villaggi aperti e ad una ripartizione della terra fra un numero accresciuto di soggetti. Quattro monasteri erano divenuti potenti realtà economiche: Marturi503, Isola504, Coneo505, Spugna506. La loro presenza andò ad incrociarsi con quella delle famiglie dominanti implementate ulteriormente dietro la spinta dei frazionamenti ereditari e dall’emergere di nuovi milites (si

503 Marturi aveva sviluppato un ampio patrimonio sia in Val d'Elsa sia fuori della regione; i suoi abati si garantirono vasti appezzamenti da concedere poi a livello, zone boschive produttive come i castagneti citati spesso nei documenti, il controllo dei numerosi mulini che dovevano collocarsi sia nella piana di Borgo Marturi sia soprattutto nella zona a nord ovest dell'abbazia, in località Piandicampi e Vada. Inoltre, per le zone di Poggibonsi e Colle vediamo concentrare proprietà nelle aree di Calcinaia, Megognano, Talciona ed il suo borgo, Papaiano, Luco, la canonica di Casaglia e la chiesa di San Pietro nello stesso castello di Casaglia, la pieve di San Pietro a Cassiano. Per Marturi si veda VALENTI 1999 con bibliografia e paragrafo 1 capitolo IV in questo volume. 504 L'abbazia di Isola, fondata nel 1001 dai signori di Staggia ebbe anch’essa ampi possedimenti nelle aree di Monteriggioni, Colle e nella parte sud di Poggibonsi, incamerando la maggior parte del patrimonio dei fondatori ed inserendosi poi nella politica senese di consolidamento nella Val d'Elsa. Per Isola si veda CAMMAROSANO 1993. 505 L'abbazia di Santa Maria a Coneo fu un'importante istituzione vallombrosana ma sono scarse le notizie sulle sue vicende patrimoniali. Sappiamo comunque che nel 1108 fu contesa tra il vescovo di Volterra e l'abate di San Salvatore all'Isola e che nel XII secolo le sue proprietà si ponevano soprattutto nella zona colligiana. Per Coneo si veda VALENTI 1999 con bibliografia. 506 San Salvatore a Spugna fu fondato dagli Aldobrandeschi tra la fine del X secolo e l'inizio dell'XI secolo e dovette essere molto potente come indiziano numerose bolle papali di concessione di possessi e diritti su chiese, le quote di corti e castelli disseminati in tutta la Toscana, nonché le esenzioni fiscali ottenute. Per Spugna si veda VALENTI 1999 con bibliografia. 126 vedano i casi di Talciona507, Castiglioni508, Staggia509, Lecchi510, Stipule511, Papaiano512, Bibbiano513, Montegabbro514).

14 - La zona di Poggibonsi tra XI e XII secolo. La storia conosciuta della zona, prima degli scavi archeologici, ha inizio con la fondazione nell'altomedievo del monastero di San Salvatore a Marturi, le cui vicende sono più nitide solo con la rifondazione di Bononio nel 998; un monaco vissuto nel periodo a cavallo tra X secolo e XI secolo, esperto nella ricostituzione e rivitalizzazione di cenobi e di enti religiosi decaduti. L'abbazia, in questo anno, fu dotata da Ugo di Toscana di numerose proprietà; dalla dotazione veniamo così a sapere che era fondata in monte et poio qui dicitur castello

507 Nel castello di Talciona agli inizi del XII secolo risiedevano i filii rustici, la futura famiglia dei Soarzi signori di Staggia. 508 Castiglioni nel 1081 era compreso nel patrimonio dei Lambardi di Staggia, e Bonifazio del fu Berizio concedeva a Mazzo di la metà della «curte et castello et eclesiis» come pegno per l'osservanza della sua istituzione di solidarietà consortile tra i figli. Nel 1086 Fiozia, moglie di Ranieri e nuora di Bonifazio donava al monastero di Isola una «portione de curtis et castello de Castillone» e comprendeva anche la «ecclesia sancti Blasii»; poco dopo i figli di Mazzo da Ancaiano (che dovevano avere acquistato da uno dei figli di Bonifazio alcune quote di Castiglioni) vendevano al monastero vari beni tra i quali una casa nel castello ed un manso al di fuori. Ma l'acquisizione di quote del castello da parte di Isola dovette continuare, tanto che quasi quarantanni dopo, nel 1123, la vediamo effettuare concessioni alla famiglia dominante nel castello di Talciona (individuata come i figli di Gottolo e di Enrico); nel 1126 comprò da Bernardino del fu Bernardo la sua parte della corte e del castello; nel 1135 Ranieri vescovo di Siena allivellava a San Salvatore dell'Isola la metà di vari beni compresa la corte di Castiglioni ricevuta dal lambardo Tegrimo vescovo di Massa; nel 1142 acquistava anche dagli ultimi discendenti in linea femminile di Ildebrando e di Ava (cioè dei i fondatori dello stesso monastero) le loro quote. 509 Staggia, fu ripartita tra numerosi soggetti di diritto secondo il sistema longobardo di successione che ne determinava il frazionamento in metà, quarti, ottavi ecc. In varia misura tali quote furono in seguito trasferite al monastero di Isola il quale, poi, le concesse nuovamente a privati: quei Soarzi che nella metà del XII secolo, dopo l'ottenuta sudditanza con Isola, ne usurparono i beni ed i diritti nei principali castelli. 510 Nel distretto curtense di Lecchi, dopo la divisone in quote di successione tra i vari eredi dei Lambardi, l'intero novero dei beni fondiari era stato ceduto a vari enti ed altri gruppi famigliari emergenti: il monastero di Isola, l'ospedale di Graticola le consorterie dei filii Rustici e dei filii Mazzi. 511 Il castello di Stipule e la sua corte, nei primi decenni del XII secolo, risultavano frazionati in più mani; era inoltre dotato di una chiesa pievana intitolata a San Donato e compresa nel vescovato di Volterra. Verso il 1130, deceduto un certo conte Richelmo (tra i più potenti signori del castello), le figlie Felicula ed Umilia sue eredi cedettero il castello a più soggetti. La prima donò la propria parte all'abbazia di San Pietro de' Cieli e la seconda alla chiesa di S. Maria di Volterra. La costruzione di una nuova chiesa pievana in sede diversa dalla precedente portò allo scontro con il vicino castello di Marturi; in questa circostanza il prete di San Lorenzo in Pian de' Campi approfittò per porsi sotto la giurisdizione della pieve di Marturi. 512 Papaiano, inserito per il X secolo nel patrimonio di una élite rurale minore, era stato acquistato da Ugo marchese di Toscana e poi inserito nella dotazione patrimoniale di Marturi. Il castello, rientrato tra i beni marchionali con l’intervento di Bonifacio (successore di Ugo) era stato poi trasferito alla fine dell'XI secolo ancora ad esponenti della nobiltà locale e nel settembre 1089 Mingarda di Morando lo donò ad un Giovanni da Benzo. I monaci riuscirono comunque a riacquisire nel loro patrimonio la zona ed il complesso castellano sino dalla fine del XII secolo. 513 Bibbiano, sino dal X secolo, era nelle mani di una famiglia di possessori che non riusciamo a connotare con precisione: nel 972 conosciamo Tebaldo detto Teuzo e Willa; ventidue anni dopo Guido, figlio del fu Teudingo detto Teuzo e Rollinda sua figlia e moglie di Adelmo. La curtis ed il castello passarono poi in parte tra i beni della badia di San Salvatore di Sesto nell'XI secolo e continuarono ad intrecciarvisi diritti diversi. Nel 1047 Isola era entrata in possesso di fondi posti nelle pertinenze del castello e della chiesa; nel 1061 il monastero di Santa Maria a Firenze e nel 1081 il vescovo di Volterra detenevano proprietà nella zona. Alla metà del XII secolo Bibbiano, per privilegio imperiale di Federico I, fu poi inserito all'interno del patrimonio dei conti Guidi, i quali vi esercitavano anche diritti di tipo pubblico; un privilegio imperiale di conferma emanato da Enrico VI nel 1191, forse riportando una formula standard ripetuta anche in una carta del 1220, attesta per i beneficiari l'attribuzione di diritti come «bannum, placitum, districtum, theoloneum, pedagium, ripaticum, mercata, molendina aquas, acquarumque decursus, piscationes, venationes, paludes» e diritti di estrazione dei metalli: «paludes, argenti fodinas, ferri fodinas, et quicquid metalli vel thesauri». 127 de Marturi e che la casa et curte (...) cum omnibus casis (...) castello de Marturi furono anch'essi trasferiti ai monaci515. La proprietà demaniale ed i beni allodiali detenuti dalla casata marchionale di Toscana, la politica patrimoniale del monastero stesso, il flusso di merci e persone che comportava la presenza di un importante diverticolo della via Francigena, favorirono una sensibile crescita della rete insediativa; ad essa si legò anche lo sviluppo di un villaggio aperto più a valle, noto con il toponimo di Borgo Marturi: l’odierno Poggibonsi. In merito all'importante direttrice viaria, la letteratura specializzata ha ricostruito un itinerario principale in funzione già alla fine del X secolo e con andamento parallelo ai corsi dell'Elsa e dello Staggia che, proveniente da Lucca, toccava San Gimignano, San Martino ai Fosci, Campiglia, , Pieve d'Elsa e Badia a Isola, raggiungendo poi Siena. L’estesa collina che sarà scelta per edificare il castello di Poggio Bonizio era collocata con Marturi su uno dei suoi diverticoli, proveniente da Lucca-Certaldo, diretto verso Siena costeggiando la riva sinistra dell'Elsa e dello Staggia; si tratta della Francigena di fondovalle alla quale si collegavano alcuni dei maggiori raccordi toscani516. La crescente importanza che tale angolo della Val d'Elsa assunse nel corso dei secoli XI e XII, la sua posizione strategica al confine meridionale del contado fiorentino, la forte base patrimoniale qui detenuta da Guido Guerra fedele all'autorità imperiale (Matilde di Toscana trasferì Marturi nel patrimonio dei Guidi agli inizi del XII secolo) e, non ultima, la probabile ricerca di autonomia dalla giurisdizione spirituale del vescovo fiorentino operata dalla pieve di Marturi, portarono ben presto Firenze ad intervenire. Nel 1155 le sue milizie attaccarono la zona e distrussero il castello di Marturi517. L'azione ostile s'inseriva nel quadro di una forte inimicizia, che dette luogo a numerosi scontri anche in altre aree toscane. Guido Guerra aveva già combattuto contro il Comune di Firenze nel 1140 in Val di Sieve; nel 1143 le truppe fiorentine distrussero il castello di Cuona feudo dei Guidi e il monastero di Rosano di cui era badessa Sofia, sorella dello stesso Guido; inoltre avevano assalito il castello di Monte di Croce che fu occupato nel 1147. Questo conflitto spinse definitivamente i Guidi all'alleanza con Siena in una lega che comprendeva anche Lucca,

514 Sul territorio di Montegabbro, castello donato da Ugo di Toscana alla chiesa di Santa Maria di Volterra nel 996, si incrociavano anche proprietà laiche, delle quali non conosciamo però l'entità, ed una presenza del monastero di Coneo che nel 1197 riceveva in donazione da privati dei coloni e delle terre. Si veda VALENTI 1999 con bibliografia. 515 FALCE 1921, p.187, 10 agosto 998. 516 BEZZINI 1992. In generale però la vasta bibliografia costruita sulla Via Francigena costituisce una produzione dai contenuti ripetitivi. Ogni lavoro ha come base la trascrizione di alcuni manoscritti tra i quali le annotazioni di viaggio di Sigerico arcivescovo di Canterbury negli anni 990-994 conservate presso il British Museum (STUBBS 1874, pp.391-395), il diario di Nicola di Munkthvera abate del monastero islandese di Thingor in pellegrinaggio a Roma nel 1154 (WERLAUFF 1821), il resoconto dei messaggeri di Richard di Anesty in viaggio a Roma nel 1158, il viaggio di Wolfager vescovo di Passau e patriarca di Aquileia del 1204 (ZINGERLE 1877), la descrizione del viaggio di Filippo augusto re di Francia di ritorno dalla terza crociata nel 1191 (VON PETERROROUGH 1885). Vengono poi presentate fotograficamente le stesse emergenze monumentali medievali ed alcuni tratti selciati di strade boschive o campestri (ma non sono mai forniti elementi probanti ai fini di una loro datazione) per sostenere le ipotesi sull'andamento dei diversi tracciati stradali. 517 Il «castrum veteres de martura destructus fuit a florentinnis» riporta un documento della seconda metà del XII secolo (Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 20 Dicembre 1174). La distruzione dovette avvenire nel 1155 e non nel 1115 come attestato nel repertorio sui castelli senesi di Cammarosano e Passeri. I due autori forniscono infatti una data, a parere nostro, errata e si evince che l’anno 1115 viene tratto dalla traduzione italiana del volume del Davidshon sulla storia di Firenze; qui, analizzando l’andamento della narrazione, risulta un evidente errore di battitura. Dopo il 1155 il castello fu poi ricostruito ed è quasi certa una partecipazione attiva dello stesso monastero ai lavori. Una carta del 1180 vede infatti tra i firmatari un Iacobo Longhi «castaldi ipsi monasteri» (Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 1180); con la riedificazione i monaci sembrano finalmente entrare in possesso di quel castello rivendicato sino dalla fine dell'XI secolo con la falsa donazione di Ugo del 25 luglio 998. 128 Pistoia e gli Alberti e come conseguenza dell’attacco a Marturi, il conte Guido ed i senesi decisero la costruzione del castello di Poggio Bonizio sulla collina di fronte all’abbazia518. Già con la metà del XII secolo, comunque, le vicende e le trasformazioni della rete insediativa erano decisamente relazionate ad un mutato quadro politico-territoriale caratterizzato dal continuo confronto tra le due città per l'affermazione in Chianti e Val d'Elsa, inaspritosi sin dal 1145 con la battaglia del Monte Maggio; in esso agivano la nobiltà locale legata a Siena da giuramenti di fedeltà e protagonista di alternanze partitiche, l'impero mediante l'istituzione di podestà (i potestates theutonici che andavano ad affiancarsi nei domini signorili su castelli e territorio), le nuove realtà come Colle e San Gimignano che si andavano organizzando in comuni autonomi ed intente in una loro azione espansionistica. Si tratta quindi di una situazione molto fluida ed eterogenea nella quale i castelli, oltre a centri principali della circoscrizione che ad essi si legava e punto di riferimento amministrativo per la popolazione rurale, assurgevano al ruolo di basi d'appoggio in caso di conflitto.

15 - 1155, la fondazione di un grande castello: Poggio Bonizio. Poggio Bonizio, toponimo che sembra trovare origine dal nome di Bonizo gastaldo de Marturi citato in una carta dell'anno 1075519, ebbe un impianto urbano ispirato a modelli cittadini. Guido Guerra, definito dalla cronachistica di poco successiva «il potentissimo conte Guido, che di per sè vale quasi una città e una provincia» 520, dovette impegnare dei capitali cospicui nell’impresa. Riporta il Villani: «Lo edificarono con ricche mura e porte, e con torri di pietra adornarono» e poi «questo Podium Bonizi fu il più forte e bello castello d'Italia, posto quasi nel bilico della Toscana ed era con belle mura e torri e con molte belle chiese e pievi e ricche badie e con bellissime fontane lavorate di marmo e abitato e accasato di gente, come una buona città»521. Il vicinissimo monastero di Marturi, proprietario della collina, sia per ragioni di sicurezza legate alla fondazione di un castello, sia per la posizione preminente dei Guidi come rappresentanti del potere pubblico ed al tempo stesso potenti proprietari in loco, sia per la partecipazione di Siena (sin dal 1135 aveva iniziato ad espandersi nella Val d'Elsa) 522, non potè che assecondare l'impresa. I monaci permutarono quindi con i conti Guidi il terreno sulla collina di Bonizio e nell'aprile del 1156, quando Podium Bonizi doveva essere in gran parte edificato, le milizie fiorentine mossero immediatamente guerra al nuovo centro ma furono sconfitte. La fondazione del grande castello valdelsano faceva parte di quei tentativi legati alle casate forti, agli enti monastici più potenti ed alle autorità vescovili, di consolidarsi territorialmente a fronte di una progressiva e sempre più pressante espansione delle città verso le aree rurali interne. E’ espressione del cosiddetto "secondo incastellamento", che si caratterizzò per la capacità signorile di coordinare e progettare la nascita o la

518 Si veda su tali vicende DAVIDSOHN 1896-1927, I, pp.643-649. 519 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 1075. 520 Cronaca di Sanzanome, ripresa in DAVIDSOHN 1896-1927, I, p.644. 521 CRONICA DEL VILLANI, Lib.VII, cap.36. 522 Siena andava consolidando il proprio dominio sulla zona da tempo; già tra 1135-1159 instaurò stretti rapporti con la Badia a Isola (CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.106); nel 1156 aveva fatto giurare fedeltà ai Soarzi ricevendone in pegno il castello di Strove (Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.6,pp.12-13, 27 febbraio 1156); nel 1163 riusciva ad acquisire le diverse quote di vari esponenti degli stessi Soarzi sui castelli di Monteagutolo, Montemaggio e Montecastelli (Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.7, p.14, 8 gennaio 1163; n.8, pp.14-16 febbraio 1163); un anno più tardi Ubaldino di Ugolino Soarzi donò al vescovo ed alla cattedrale senese i propri diritti sui castelli di Staggia, Strove, Stecchi, Castiglione, Montecastelli, Stomennano e Montemaggio (CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.138); inoltre, nel 1167, l'arcicancelliere imperiale Rainaldo confermava i diritti senesi sul castello di Podium Bonizi e sui domini nella zona Elsa- Staggia (CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.133). 129 ristrutturazione ordinata dei propri centri di potere. Si poneva nel novero delle imprese di tipo monumentale, delle quali fecero parte anche altre iniziative come Semifonte fondata dai conti Alberti, Gambassi novum dal vescovo di Volterra523, Radicondoli dai conti Aldobrandeschi, Belforte in collaborazione tra i conti Aldobrandeschi ed il vescovo di Volterra524, Castelnuovo dell’Abate dal monastero di Sant'Antimo, Castel di Badia e Piancastagnaio entrambi dall'abbazia di San Salvatore sull’Amiata525. Aggiungiamo anche il caso particolare del castello di Montecurliano nel grossetano, utopia signorile dei conti Aldobrandeschi che, progettato nella seconda metà del XII secolo, venne però poi strutturato come un semplice castello dopo pochi anni. Poggio Bonizio, ereditando le prerogative di Marturi, era collocato al centro di un territorio con un’area di circa 43 kmq i cui vertici, attestati anche dalle fonti scritte, erano rappresentati da quelle località che costituivano punti nodali di collegamento della rete insediativa e controllavano i percorsi maggiori tra la Francigena ed il traffico verso il Chianti: Casaglia, La Valle, Cedda, Villole, San Fabiano, Lecchi, Galognano, Castiglioni, Bucignano, le chiese di Pino e Padule. Sorse in prossimità di spazi ad alta densità demografica ed i primi abitanti del castello dovettero arrivare soprattutto dalle zone circostanti; in particolare dalle località comprese nel suo territorio o poco distanti da esso. L’azione di accentramento, l’amassamentum ominum, sembra essere stata mediata dallo stesso Guido Guerra che quindi programmò non solo l’urbanistica del nuovo centro ma anche il suo popolamento; oltre ad una probabile immigrazione spontanea, la documentazione archivistica mostra persone provenienti da località nelle quali i Guidi erano presenti patrimonialmente: vennero fatte trasferire famiglie già sotto la loro egida 526. L’iniziativa, alla quale parteciparono i senesi, rappresentò la creazione di un nuovo nucleo di riferimento nell’alta Valdelsa; il controllo della strada Francigena verso Staggia e Abbadia a Isola permetteva la crescita del mercato principale ed il carattere di centro nodale primario facilitava nel tempo l’immigrazione dagli insediamenti del territorio a medio ed ampio raggio. Rafforzava poi la posizione di Siena nell’area sud di Poggibonsi; i Soarzi di Staggia venivano minacciati da un potente alleato sia da nord (appunto Poggio Bonizio) sia da sud dove la città proteggeva l’abbazia di Isola, il rivale patrimoniale per eccellenza della casata. Infine costituiva una posizione strategica sul confine settentrionale; la nuova roccaforte concepita per svilupparsi in un grande centro, fungeva da sbarramento alle offensive fiorentine e, controllando la viabilità, permetteva i collegamenti ad oriente con la Berardenga già senese. Il rapporto con Siena, dietro approvazione dell'imperatore Federico I grande protettore di Guido Guerra, iniziò subito a profilarsi attraverso alcuni atti formali. In data 10 luglio, Guido donava alla chiesa di Roma il colle su cui stava sorgendo il castello e undici giorni dopo papa Adriano IV concedeva al vescovo di Siena la facoltà di edificarvi una chiesa titolata a Sant’Agnese per la cura spirituale di quei senesi che vi si fossero stabiliti527. Nell'aprile del

523 DUCCINI 1998. 524 CUCINI 1990. 525 FARINELLI, GIORGI 1998. 526 Tali considerazioni trovano indizi e conferme sia nella tradizione cronachistica (il castello fu fondato da nove “popoli” dei quali sono noti quelli provenienti da Siena, Marturi, Camaldo, Talciona, Papaiano, Gavignano e la Pieve di Sant’Agnese nell’attuale territorio di Castellina in Chianti) sia in documenti coevi; al riguardo si veda PRATELLI 1929-1938. Nella sentenza pronunciata da Ugo arciprete di Volterra e da Mauro abate di Spugna del 1174 viene citato Borgo Marturi come borgo vecchio dal quale erano emigrati in Poggio Bonizio alcune famiglie che vi avevano ricevuto case o corti (Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 20 Dicembre 1174). A conferma della forte presenza dei talcionesi nel 1188 vediamo redigere una convenzione tra i chierici di Marturi ed il parroco di Talciona per officiare la chiesa edificata dai talcionesi nel villaggio (PRATELLI 1929-1938, p.471; 14 Giugno 1188). 527 DAVIDSOHN 1896-1927, I, p.678; si veda inoltre Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, 113, 1155, luglio 21, pp.165-166. 130 1156 furono ceduti alla repubblica senese l'ottava parte del colle e del castello, un quartiere con una sua chiesa, una porta sul circuito delle mura528; tale legame venne sancito ulteriormente attraverso l'impegno solenne di Guido Guerra a non cedere mai ad altri i diritti sulla parte da lui detenuta529 e rafforzato dal giuramento degli stessi abitanti di proteggere gli interessi senesi530. Con questo atto, come osserva Plesner nei suoi studi sul contado fiorentino (dove la donazione a Siena è paragonata con le analoghe iniziative concernenti Semifonte, Monterotondo e Castelfiorentino) Guido Guerra pur divenendo un potente alleato dei senesi continuava però a detenere la sua autonomia ed il diritto feudale sulla maggior parte della popolazione531.

16 – I primi decenni di vita di Poggio Bonizio. Poggio Bonizio fu edificato attraverso l’impiego di maestranze specializzate di alto livello ed i resti materiali superstiti rivelano sia il grande investimento in denaro effettuato da Guido Guerra sia l’esistenza di un disegno progettuale ben definito. Il castello, atipico per l’epoca nelle sue dimensioni e nell’assetto urbanistico, era di grande estensione, ospitava strutture monumentali, non presentava un cassero come invece nella maggior parte dei casi, l’articolazione degli spazi era ben pianificata ed aveva il carattere del central place attraendo la popolazione dagli insediamenti circostanti. Si trattava di un vero e proprio impianto urbano esteso per più di 7 ettari, molto probabilmente delimitato da un fossato532. Le difese erano inoltre costituite da una possente cinta dallo spessore di 1,40 metri; questa circoscriveva la parte alta della collina e, come mostra l’analisi della fotoaerea, attraversava longitudinalmente il versante sud ovest. L’insediamento sembra essere stato articolato in due zone contrapposte per destinazione: la parte sommitale rappresentava gli spazi più propriamente signorili mentre i versanti dovevano essere destinati alla popolazione.

528 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, 1, 1156, aprile 4, p.7; in questo atto si riconosce anche il diritto di riscuotere i pedaggi inerenti alla porta detenuta da Siena: «Et pedagium ibi positum pro ea parte, quam Senenses habent in predicto castello, Senenses retinere adiuvabo aut patiar Senenses in sua porta pro sua parte tollere pedagium»; inoltre viene sancito il diritto dei senesi di edificare qualsiasi tipo di edificio nella loro parte con l'eccezione di una torre. 529 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, 2, 1156, aprile 4, p.8.. 530 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, 13, 1156, aprile 4, pp.19-20; nello stesso atto si riconosce il diritto di riscuotere i pedaggi inerenti alla porta detenuta da Siena: «Et pedagium ibi positum pro ea parte, quam Senenses habent in predicto castello, Senenses retinere adiuvabo aut patiar Senenses in sua porta pro sua parte tollere pedagium»; inoltre viene sancito il diritto dei senesi di edificare qualsiasi tipo di edificio nella loro parte con l'eccezione di una torre. 531 PLESNER 1979, pp.55, 65. Lusini, invece, nei suoi studi sulla storia e sull'estensione del vescovado di nonostante una lucida comprensione del ruolo territoriale di Podium Bonizi, delle motivazioni politiche legate al continuo confronto tra le due potenze cittadine ed una ricerca d'archivio basata tanto sui testi già esistenti quanto su documenti dei Caleffi, commette però alcuni errori; soprattutto, tentando alcune considerazioni a carattere topografico, non accetta la compresenza di diritti sul castello vedendo i quartieri senesi e fiorentini all'esterno e confondendo la chiesa pievana di Sant’Agnese a Poggio Bonizio con quella di Talciona (LUSINI 1898; LUSINI 1900; LUSINI 1901, in particolare pp.222-232.). Anche nella guida storica del Chianti di Casabianca viene analizzata la donazioni di un ottavo del castello e del colle di Podium Bonizi effettuata da Guido Guerra a favore dei senesi. Mette bene in evidenza la portata di una definizione che rivestiva anche significato politico. La determinazione dei confini del vescovado in realtà stabiliva più o meno implicitamente quelli del contado tra città contrastanti; elemento politico ed ecclesiastico si compenetravano l'uno con l'altro. Nei confini senesi furono compresi la strada di Poci (attuale Piano di Fosci) e la pieve di S.Agnese con il suo territorio (CASABIANCA 1937, pp.116-117.). 532 Il fossato trova attestazione documentaria in Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 31 ottobre 1219. Di mura molto alte e di un grande fossato intorno scrive anche Fra' Mauro da Poggibonsi nel 1310: si vedano i versi di questo autore in calce al Tesoro di Brunetto Latini nella Biblioteca Laurenziana, Codice 28 Panciatichiano a 160. 131 Sono state rinvenute tracce del cantiere sugli spazi al centro della collina, evidenziate da un’esteso strato costituito da sabbia di fiume, contenente pietre squadrate non utilizzate e pochi carboni; la sabbia fu adoperato indubbiamente nell'impasto della malta utilizzata come legante nei muri e nei pilastri delle costruzioni qui presenti; la parte avanzata di questa sabbia, quella cioè che rimase inutilizzata, non venne più rimossa dal luogo in cui si trovava e la stratigrafia posteriore si sovrappose direttamente sopra. Conoscendo la situazione geologica della collina di Poggio Imperiale, si può escludere la presenza di uno strato naturale alluvionale; d'altronde i reperti malacologici in esso contenuti si ritrovano anche nella sabbia proveniente dal fiume Elsa. E' quindi chiaro che questa venne trasportata fino sul poggio con il proposito di utilizzarla per costruire. Anche due limitati strati di calce, posti nei pressi del muro appartenente ad un grande edificio, dovevano essere serviti per preparare l'intonacatura dei muri stessi, a conclusione della costruzione vera e propria. Le buche di palo contemporane a questi strati non hanno omogeneità, nel senso che non individuano alcuna struttura completa o almeno ricostruibile; possono però indicare l'esistenza di edifici lignei temporanei, forse funzionali al cantiere. Nella parte sommitale, al centro degli scavi archeologici da dodici anni, erano state edificate strutture di tipo monumentale. La zona ovest doveva ruotare intorno ad una chiesa per la quale non siamo in grado, allo stato attuale dell’indagine, di fornire una planimetria definitiva; la ristrutturazione- ricostruzione di XIII secolo ci ha consegnato infatti un impianto di grandissime dimensioni che presenta anche murature più antiche riferibili a questa fase (si tratta della Pieve di Sant’Agostino, della quale parleremo più avanti). Si affacciava su una piazza lastricata al cui centro era posto il pozzo, oggi scomparso, sovrastante la grande cisterna qui individuata e della quale parlò per la prima volta Francesco Pratelli nella sua "Storia di Poggibonsi". Nell’Ottocento poté osservare i contadini della Fortezza riempirla con i sassi trovati nei campi533. Dopo il definitivo interramento se ne era persa completamente traccia sino al suo rinvenimento durante la campagna di scavo del 1993. La zona centrale sembra accogliere edifici di tipo distintivo e destinati ai leader della comunità. Un grande edificio, indagato sino dai primi anni dell’intervento di scavo, mostra le loro caratteristiche. Si tratta di una struttura estesa 23 x 9 m, con ingresso a doppia arcata, realizzata in travertino e copertura in lastre di calcare scistoso, a due o più piani e con pavimentazione in lastrine di travertino; si affacciava su una strada lastricata, probabilmente quella principale nell’insediamento, ed era completata da una cisterna quadrangolare realizzata in conci di travertino e da un silos per grano anch'esso in muratura. Risulta indubbio il carattere distintivo del complesso: tecnica costruttiva, articolazione strutturale ed infrastrutture di servizio sono chiari segni elitari e di distinzione. La stessa cisterna sottolinea la posizione sociale della famiglia residente; mentre la popolazione attingeva acqua al pozzo nella zona ovest o alle altri fonti che furono edificate dentro e fuori le mura, qui invece si disponeva della propria riserva. La zona est, probabilmente la superficie donata a Siena da Guido Guerra, era occupata invece da una chiesa con campanile, dedicata a Sant’Agnese, che negli ultimi anni di vita del villaggio aveva un'estensione di almeno 19 x 40 m. Papa Adriano IV nel 1155 aveva confermato al vescovo di Siena un possedimento che il «dilectus filius noster nobilis vir Guido comes in Monte Bonizi beato Petro et nobis (...), dignoscitur concessisse, liceat tibi ecclesiam construhere et constructam sine conradictione aliqua consecrare (...)»534; nel 1175 la chiesa risultava dotata di «claustro et domum clericorum (...) cum suo cimiterio

533 PRATELLI 1929-1938, pp.52-60. 534 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.113, pp.165-166, 21 luglio 1155. Adriano IV, quindi, concedeva al vescovo di Siena la facoltà di edificarvi una chiesa titolata a Sant’Agnese per la cura spirituale di quei senesi che vi si fossero stabiliti; i diritti sulla chiesa furono poi abrogati nel dicembre di un anno dopo ed infine riconfermati nel 1176 da papa Alessandro III, nel 1187 da papa Clemente III. 132 iuxta eam in quo seppelliuntur corpora mortuorum, reservata ipsi ecclesie consuetudine populi sui»535. L’edificio dovette essere progettato come una struttura imponente sino dalla fondazione. Le ristrutturazioni che si susseguirono ci hanno consegnato un impianto con abside rettangolare, che venne realizzato inizialmente in conci di travertino (mentre nelle ristrutturazioni seguenti furono utilizzate pietre di calcare sbozzato più sommariamente) ed era diviso in tre navate da cinque coppie di pilastri che sorreggevano dei colonnati collegati ad arcate. La facciata, quindi l’accesso alla chiesa stessa, è andata distrutta con l’escavazione di un grosso invaso per acqua in età moderna ed i muri laterali sono in parte spoliati; sul perimetrale di nord est si riconoscono però le tracce di una piccola porta laterale. Il presbiterio propone due cappelle laterali, forse private, che potevano avere due piccoli altari dei quali non è rimasta alcuna evidenza. Le fondamenta molto profonde dell’abside, la lavorazione e la messa in opera delle pietre, indicano che durante la sua costruzione si prevedette anche una cripta, poi mai conclusa. La pavimentazione sembra essere stata realizzata in lastrine di travertino inframezzata da decorazioni a tarsia con tessere rettangolari, quadrate ed a foglia di quercia in serpentino verde e nero. Gli elevati invece furono coperti di un intonaco molto spesso e colorato uniformemente; il colore non è ben riconoscibile poiché i pigmenti si annerirono, forse per il fumo delle candele, forse per un incendio sviluppatosi al momento della distruzione di Poggio Bonizio. Sul lato sud ovest dell’edificio, adiacente la navata sinistra, si trovava una possente torre campanaria di pianta quadrangolare, estesa 4,80 x 3,88 m e con muri di forte spessore pari a 1,50 m; al momento della costruzione, nelle fondazioni, venne inserito con intenti propiziatori un bicchiere in vetro contenente sabbia (forse proveniente dalla terra santa?) coperto da una lastrina di calcare e databile nella seconda metà del XII secolo. Questo particolare, oltre al riconoscimento di tre fasi edilizie nel campanile stesso e la successione delle murature nel corpo principale, permettono di retrodatare la costruzione della chiesa che l'icnografia dell’ultimo impianto fa apparentemente riferire alla metà del XIII secolo536. All’interno del campanile sono state rinvenute delle sepolture di tipo “privilegiato” mentre un piccolo cimitero con tombe in travertino o in mattoni si estendeva all’esterno; queste sepolture erano state fortemente compromesse. Era inoltre presente un ossario esterno al muro absidale. La tomba interna al campanile conteneva i resti di almeno undici individui che sono stati calcolati in base all’osso più rappresentato, la scapola: due subadulti (un bambino, un adolescente), un adulto giovane di circa 20 anni, cinque adulti maschi di cui quattro di età

535 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.14, pp.20-26, 22 marzo 1175. 536 La pianta a tre navate con abside rettangolare ricalca molto da vicino l'unica documentazione grafica esistente della scomparsa pieve di Santa Maria a Marturi a Poggibonsi, attestata già dall'XI secolo, ma distrutta nell'Ottocento; non sappiamo quindi se la pianta di questa chiesa (riportata da autori locali prima delle demolizioni del secolo scorso) sia quella originale od il risultato di rifacimenti posteriori. Se fosse vera la prima ipotesi, non sarebbe più un caso una così stretta vicinanza tra due chiese che presentano uguale struttura planimetrica e stessi accorgimenti funzionali (tre navate, abside quadrangolare, semipilastri a formare il presbiterio e le cappelle laterali). La costruzione della chiesa di Poggio Bonizio, con le stesse caratteristiche della preesistente chiesa pievana posta nel borgo, potrebbe rivelarsi anche la prova materiale di quel tentativo di sostituzione della pieve stessa che Sant'Agnese di fatto effettuò sin dai suoi primi anni di vita. Tentativo che fu però sempre osteggiato dalla sede pontificia; nel 1203 fu ordinata la distruzione delle sue fonti battesimali: «Item ecclesiam de novo edificatam in castro Podii Bonizi pro ecclesia sancte Agnetis pro priore et canonica de Talcione Senenses faciant esse et morari pro plebe ancte Marie de Podio Bonizio et pro episcopatu florentino, et sub ea sicut aliae ecclesiae que sunt in Podio Bonizi de florentino episcopatu morantur sub predicta plebe sancte Marie; et de cetero non edificent nec edificare faciant aliquam ecclesiam in Podio Bonizio pro se aut pro plebe sancte Agnetis (...). Item fontes constructos in ecclesia sancte Agnetis, que est edificata in Podio Bonizi et pro episcopatu Senensi, penitus destruant vel detrui faciant Senense, et ulterius nullo modo rehedificent vel rehedificari faciant sue permittant (...)» (Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n. 65, pp. 90-93; 4 giugno 1203). 133 matura, due femmine, due di età non determinabile. L’ossario conteneva i resti di almeno diciassette individui (sono riconoscibili due bambini in età compresa tra 5-10 anni; tre giovani tra 17 e 25 anni; cinque adulti tra 25-35 anni e tre tra 35-45 anni; due individui di oltre 45 anni). Effettuare descrizioni e statistiche dettagliate come per gli inumati del cimitero altomedievale non è possibile. Alcuni dati preliminari sono proponibili, in attesa che lo studio di un secondo cimitero con scheletri in buono stato di conservazione, individuato nella campagna di scavi del 2005, venga realizzato. Lo scheletro 16 per esempio, era un adulto maschio alto forse intorno ai 170 cm con patologie da artrosi a livello del ginocchio destro e sinistro, con un’ossificazione dei legamenti conseguita ad una distorsione della caviglia e tracce di posteriore alla tibia sinistra. Lo scheletro 83, un maschio adulto di età e di altezza non determinabili, sepolto in una delle tombe esterne alla chiesa, era privo di patologie scheletriche ed i marcatori di attività occupazionali ed entesopatie rivelano in vita una discreta attività delle braccia. In prossimità di quella che doveva essere la facciata, come abbiamo già detto andata distrutta a seguito di interventi moderni, è stata rinvenuta una fornace in mattoni per la fusione della campana secondo la tipologia descritta da Teofilo nel XII secolo. Per realizzare la fornace era stata scavata una fossa circolare sull’argilla naturale ed i bordi rivestiti in mattoni posti su due file; al centro della fossa vene ritagliata una canaletta rettangolare (il condotto o camera di combustione) delimitata dalla costruzione di due muretti ai lati mettendo in opera sei file di mattoni ai quali si sovrapposero su ognuno dei lati sette mattoni posti a coltello (fornello o base di appoggio dello stampo; di quest’ultimo rimane ancora ben impressa la forma sui laterizi e permette di riconoscere una campana del diametro basale di circa 70 cm); lo spazio tra i muretti ed i bordi della fossa fu riempito di argilla e sabbia. La fossa di alimentazione era collocata sul lato est e la camera di cottura doveva anch’essa essere state realizzata in laterizi costituendo una calotta semisferica; la camera fu aperta al termine della lavorazione in coincidenza della fossa di alimentazione per estrarre la campana537. La fornace dovette funzionare una sola volta; venne impiegato uno stampo in argilla con anima in cera posto al centro del piano di cottura e che fu probabilmente posizionato togliendo quella terra di cui era stato precedentemente riempita la camera (i suoi resti sono ancora visibili, essendosi concretizzati sui mattoni del fornello e presentano cospicui resti di carboni); la cera fondendosi veniva espulsa da un foro precedentemente praticato lasciando lo spazio per la colatura del bronzo. Una volta raffreddato il metallo, la calotta del forno venne rimossa e grattata via l’argilla dello stampo rimase il prodotto finito538. Negli strati di abbandono della fornace rimasero molti scarti di lavorazione del bronzo ma non si sono rinvenuti pezzi dello

537 Sulle fornaci da campane si veda soprattutto il recente contributo NERI 2004 con vasta bibliografia. 538 Teofilo, "De campanis fundendis" della sua opera, descrive la produzione delle campane a partire dalla creazione, su tornio orizzontale, del "maschio". Questo viene realizzato per sovrapposizione di strati di argilla e regolarizzato per conferirgli la forma che avrà l'interno della campana finita. Su di esso si modella la falsa campana in sego che verrà a sua volta ricoperta da uno spessa "camicia" formata da numerosi strati di argilla. Applicato il gancio per il batacchio e la forma per le manigliere con il foro di ingresso per il metallo, si provvede alla cerchiatura e ad alleggerire la forma rimuovendo materiale all'interno del maschio. La forma viene fatta scendere lentamente nella fossa appositamente preparata dove, poggiata su supporti rialzati, viene fatta cuocere. Il sego viene fatto fuoriuscire da fori praticati alla base e raccolto in vasi. La fossa viene colmata da combustibile per portare a termine la cottura dello stampo. La fornace per la fusione del bronzo viene apprestata nelle vicinanze e, tenendo conto della quantità di metallo necessario, si prepara il numero occorrente di crogioli e si dà avvio alla fusione della lega composta da quattro parti di rame e una di stagno. Intanto nella fossa si asportano le pietre di rivestimento ed i carboni e si riempie con attenzione di terra pressata: lo stampo è pronto a ricevere il metallo che viene versato con tutte le precauzioni. Lasciata opportunamente raffreddare, la forma viene fatta risalire e quindi spaccata per recuperare la campana pronta ad essere rifinita. Si veda DODWELL 1961. La fornace è in corso di studio da parte di Lucia Ferrari nell’ambito del XVIII ciclo della Scuola di Dottorato di Ricerca in Storia e Archeologia del Medioevo. Istituzioni e Archivi dell’Università di Siena; totitolo del progetto: Campane e fornaci da campane dal Medioevo all’Età Moderna: archeologia di una produzione. 134 stampo in argilla (utili per comprendere la forma del battiglio e individuare eventuali presenze di decorazioni sulle pareti esterne della campana). I rinvenimenti di fornaci analoghe, interne od in prossimità di edifici ecclesiastici o civili con campanile, testimoniano come fosse stato considerato più conveniente edificare le strutture produttive non lontano dal luogo dove poi sarebbe stata issata la campana, per facilitare e rendere privo di rischi lo spostamento di un oggetto molto pesante e che aveva richiesto una lunga preparazione. In genere il riconoscimento della struttura avviene, come nel nostro caso, sotto al livello pavimentale e spesso in prossimità di quello che era il sagrato della chiesa; rispetto a molti degli esempi noti, a Poggio Imperiale non è stato possibile rinvenire nelle immediate vicinanze le strutture impiegate per la fusione del metallo impiegato nella colata, probabilmente da imputare (come per la facciata della chiesa) all’escavazione di uno stagno nelle immediate adiacenze. La fusione della campana dovette essere svolta da maestranze itineranti, depositarie di saperi che portavano nei luoghi dove tale conoscenza era richiesta539. Fra i rinvenimenti editi si riconoscono forti analogie della fornace della chiesa di Sant’Agnese con i casi individuati a Genova – Piazza Matteotti 540 ed a Sarzana541. La fornace di Genova, impiegata nel XIV secolo per fondere la campana poi issata sul Palazzo Ducale, presenta una struttura molto simile ma di dimensioni più ridotte: circolare, in mattoni con zoccoli centrali per reggere lo stampo anch’essi in laterizio. La fornace di Sarzana, nella chiesa di Sant’Andrea e datata al XII secolo, presentava invece due fosse, una rivestita in laterizi e l’altra, separata, con zoccoli centrali in laterizio (elementi che nel caso di Poggio Imperiale e di Genova erano riuniti in un’unica fossa). Infine nello scavo della chiesa di Santa Reparata a Lucca sono attestate delle vasche artigianali interpretate come funzionali alla lavorazione del metallo; dalla loro descrizione, di forma circolare e con zoccoli paralleli interni realizzati in laterizio, sembra trattarsi anche in questo esempio di fornaci da campane utilizzate nel XII secolo e analoghe all’esemplare valdelsano542. Se non possiamo dire con assoluta certezza quali fossero le dimensioni della chiesa nel castello di fondazione di Guido Guerra, anche se non dovevano discostarsi molto da quelle riconosciute, indubbiamente la struttura a tre navate, la superficie occupata e la presenza di un campanile esterno sono alcune delle caratteristiche che la distinguono nettamente dagli edifici di culto finora individuati dagli scavi all’interno dei complessi fortificati di XI e XII secolo. Queste chiese castrali hanno forma rettangolare, spesso absidata, sempre a navata unica543; le dimensioni sono ridotte: raggiungono mediamente

539 Si veda GIANNICHEDDA 1996, pp.83-84. 540 BOATO, VARALDO, GROTTIN 1992. 541 BONORA et alii 1988. 542 PANI ERMINI 1993. 543 Il recente scavo della chiesa di Monte di Croce in comune di Pontassieve, ha evidenziato un edificio in funzione almeno dall’inizio dell’XI secolo. La fondazione di questa cappella sembra essere dovuta all’iniziativa della stessa famiglia signorile che abitava nell’insediamento e che lo amministrava. I dati riguardanti la struttura e la posizione del cimitero, la tipologia delle tombe in muratura e soprattutto i risultati delle analisi antropologiche e paleopatologiche sui reperti scheletrici della necropoli ci inducono a pensare non tanto ad un complesso religioso rappresentativo di tutta la popolazione presente all’interno del castello, quanto ad un vero e proprio oratorio privato, frequentato solo dai componenti del gruppo nobiliare e da loro utilizzato come cappella a carattere funerario. Intorno alla metà del XII secolo avvenne la ricostruzione della chiesa, con un ampliamento in lunghezza di circa 10 m e il ribaltamento dell’abside da est ad ovest. Il progetto di trasformazione edilizia dell’edificio potrebbe corrispondere ad un cambiamento nella funzione religiosa: da semplice cappella privata diventa chiesa parrocchiale, con dimensioni più ampie per contenere un numero maggiore di fedeli. Il progetto fu interrotto nel 1153, con la conquista del castello da parte di Firenze. L’edificio religioso aveva forma rettangolare ed era costituito da due muri paralleli in conci di alberese, orientati est-ovest (21,5 m di lunghezza) e da un muro trasversale rivolto ad est (10 m di lunghezza); da questo lato si accedeva alla chiesa tramite un ingresso, con soglia e architrave in pietra serena. Manca totalmente il quarto lato, ad ovest, su cui doveva impostarsi l’abside. Un secondo ingresso, 135 una lunghezza compresa tra 9 e 16 m ed una larghezza di 5-8 m (fanno eccezione le chiese della Rocca di Tulfa Nova e di Sorgenti della Nova entrambe nel Lazio lunghe rispettivamente 18 e 20 m)544. Molte di esse rappresentano soprattutto cappelle appartenenti alle famiglie proprietarie del castello e sono spesso poste all’interno del cassero. Nessuna presenta una torre campanaria esterna simile a quello di Poggio Bonizio, il che significa che il campanile doveva essere a vela, inglobato nella facciata come nel caso di Rocca San Silvestro. Edifici a tre navate con terminazione triabsidata invece sono stati rinvenuti nel castello di Monte Tiriolo in Calabria (17 x 22 m) ed a S. Michele a Trino nel Vercellese (15 x 13 m)545. Nell’articolazione del grande castello di Poggio Bonizio si potrebbe iniziare ad intravedere la rivisitazione, nelle linee di un impianto di tipo urbano, dei simboli di potere signorile. Non fu costruito un cassero con funzione di separazione spaziale tangibile tra signore e popolazione; la distinzione tra aree con importanza diversa venne eseguita costruendo una zona monumentale (priva di cortine attestanti il distacco fisico e la posizione esclusiva), da un lato delimitata dal quartiere attribuito ai senesi (la chiesa è inserita nella parte sommitale mentre le abitazioni dovrebbero disporsi in direzione del cassero mediceo e di San Lucchese) e dall'altro lato dalla strada selciata che in pratica doveva dividere in due metà l'intero complesso: sembra trattarsi della via di mezzo citata in molte carte concernenti transazioni di edifici. Nella parte sommitale si collocavano le strutture edilizie legate al signore e qui gli abitanti trovavano le chiese e la grande cisterna per approvvigionarsi di acqua; l'articolazione sembra tale da fare convergere su tali spazi i bisogni primari, spirituali e materiali, degli individui residenti ed anche dei viaggiatori in transito sulla Francigena. La commistione tra fondazione signorile-natura urbana dell'insediamento, non portò dunque ad una zona topograficamente centrale che rappresentava il nucleo intorno al quale disporre o sviluppare l'insediamento. Contrariamente alle formazioni urbane semplici, cresciute simmetricamente intorno ad un centro segnato da una chiesa o da una piazza, la zona monumentale di Podium Bonizi propone gli aspetti di distinzione e di zona elitaria connaturati alla figura del cassero signorile nella sua posizione sommitale e di zona maggiormente difesa (racchiusa dalle abitazioni sui tre lati e inaccessibile per conformazione della collina dal lato nord est); accoglieva inoltre i valori del centro, evocando i principi fondamentali ai quali aderivano gli abitanti cioè il potere signorile e sue emanazioni (le abitazioni distintive), il meraviglioso cristiano (le chiese sorgono in tale zona)546, l’alleanza con i senesi (qui si collocava l'ottavo donato a Siena). Guido Guerra si pose a controllo di un'area molto particolare, di grande importanza strategica ed economica, fonte sia di entrate (per il flusso di persone lungo la Francigena e per le attività commerciali cresciute intorno ad essa) sia di rilievo politico (per il ruolo di baluardo verso il territorio fiorentino e per il peso assunto nel rapporto con Siena). Sono proprio tali aspetti che caratterizzarono la sua azione: conservò e ribadì il proprio carattere di esponente feudale dominante e non mortificabile nell'ambito di patti più o meno espliciti di asservimento allo stato cittadino547. E' questa la differenza e la particolarità della figura del conte Guido Guerra a confronto di altri nobili; egli sembra essere solo ed esclusivamente un alleato alla pari dello stato cittadino. laterale, si apre nel muro perimetrale sud. Si veda CAUSARANO, FRANCOVICH, TRONTI 2003. 544 Si vedano rispettivamente NARDI 1992 e GARNER MCTAGGART 1984. 545 Si vedano rispettivamente CUTERI 1997 e NEGRO PONZI MANCINI et alii 1991. 546 Sulla tematica del meraviglioso cristiano e sul risveglio d'interesse a partire dal XII secolo si veda LE GOFF 1990. 547 Sugli aspetti e le vicende della sottomissione della nobiltà locale (e dei comuni rurali), si veda BERTELLI 1978, pp.21-33 e l'ampia bibliografia riportata. 136 In questi aspetti si osservano le differenze con i centri toscani sviluppatisi nello stesso periodo. Stia, cresciuta alla confluenza dello Staggia in Arno come centro di servizi lungo strada, vede il proprio centro costituito dalla piazza e dalla chiesa; San Gimignano presenta una redazione urbana originaria contenuta tra il castello del Vescovo e la Rocca, con il centro segnato da tre piazze comunicanti, il duomo e gli altri edifici che si assiepano intorno; Montevarchi, edificata nel XII secolo, propone un centro imperniato su una piazza, due chiese ad essa affiancate e due strade tangenti alla stessa piazza intorno alle quali si sviluppano con andamento concentrico le strade secondarie548. In altri, benché rari, casi di scavo si può riscontrare l’esistenza di una volontà pianificatrice nella costruzione di insediamenti fortificati: ne sono un esempio la struttura urbanistica della città-villaggio di Castelfiorentino in Capitanata nella provincia di Foggia 549 di fondazione imperiale (prima metà del XII secolo), il borgo di Formello 550 a nord di Roma (alla fine dell’XI secolo presenta già una realtà urbana consolidata), il castello di Monsummano Alto nella Valdinievole (XI secolo)551. Sono però molto più piccoli di Poggio Bonizio e caratterizzati da un’estensione nettamente superiore all’ettaro e da un'organizzazione degli spazi incentrata su una strada longitudinale che attraversa tutta la lunghezza dell’insediamento e sulla quale si dispongono gli edifici più importanti. Non esistono strutture difensive a parte il muro di cinta: il cassero signorile è in questi casi sostituito dalla piazza, posta esattamente al centro, ed i nuclei edilizi principali sono le chiese (Monsummano Alto, Formello) oppure le residenze palaziali (Castelfiorentino). Solo

548 Si vedano per esempio le piante e l'interpretazione riportate in LAZZARESCHI 1994, pp.18, 20-21, 30. Inoltre per San Gimignano lo schema interpretativo proposto in PICCINNATO 1968. Effettuare confronti con i centri costituitisi nel periodo del secondo incastellamento (che in gran parte hanno continuato a vivere fino ai giorni nostri in una forma definibile come cristallizzata) può limitarsi solo alla trama topografica originaria. Tutti si caratterizzano per essere degli insediamenti di altura definiti da un impianto urbanistico regolare costituito da una o più strade longitudinali lungo le quali si dispongono gli edifici abitativi più importanti; tuttavia si adattano ancora alla conformazione naturale del terreno, che ne determina in alcuni casi la forma irregolare (vedi il caso di Colle Val d’Elsa, posto su uno sperone stretto ed allungato). Gli esempi più articolati sono costituiti da uno o più assi stradali che corrono paralleli a quello principale, il quale si incrocia perpendicolarmente con uno più modesto, formando di solito al centro del complesso una piazza. Fanno parte di questo gruppo i castelli di più grandi dimensioni: Poggio Bonizio (1155-56), Colle Val d’Elsa (1138-83), Gambassi (1171), Belforte (1180), Abbadia San Salvatore (1194), Castelnuovo dell’Abate (1208-27) e Radicondoli (1209-13). Alcuni castelli mostrano una struttura più semplice ed una minore estensione rispetto al precedente: sono formati da un'unica strada principale che taglia in due tutta l'estensione del castello e che mantiene dimensioni costanti per tutta la sua lunghezza; lungo la strada si dispongono delle abitazioni seriali, che mantengono indistintamente lo stesso modulo. Sono i casi di Stia (appartenente ai conti Guidi), Caprigliola e Soliera (fondati dal vescovo di Luni nella seconda metà del XII secolo), Rometta, Ceserano e Moncigoli (fondati sempre dal vescovo di Luni però tra il 1231 e il 1232). L’impianto urbanistico di alcuni castelli, invece che allungarsi a seguire una strada, può assumere un andamento radiale, formato da grossi anelli regolari che degradano progressivamente lungo le pendici di un rilievo; in questi casi sia la viabilità che gli edifici abitativi si dispongono concentricamente. Si tratta soprattutto di fondazioni ecclesiastiche della seconda metà del XII secolo: Seggiano (monastero di Sant'Antimo), Marciaso (vescovo di Luni), Montecastelli e Gerfalco (vescovo di Volterra). Al contrario in quei siti dove esiste già un cassero, lo sviluppo topografico di XII-XIII secolo viene organizzato diversamente: il borgo compreso all’interno delle mura o racchiuso più tardi da una nuova cinta diventa l'oggetto principale delle trasformazioni. Si tratta di ristrutturazioni e ripianificazioni di quartieri residenziali, all’interno di castelli già in vita tra l’XI e la prima metà del XII secolo, volute e controllate ancora dal signore. Questi nuovi spazi si sviluppano in alcuni casi concentricamente intorno alla prima cinta o intorno al cassero signorile, come ad esempio l’espansione dell’abitato di Chiusdino, di Montepescali (CITTER 1997), di Ripafratta (REDI, VANNI 1987; REDI, VANNI 1988), ed i borghi ad anello di Montarrenti e di Larciano (MILANESE, PATERA, PIERI 1997); in altri casi lo sviluppo si focalizza solo su un lato dell’insediamento: è il caso di alcuni castelli che sono stati oggetto di scavo: Rocca San Silvestro, Campiglia Marittima, Scarlino, Rocchette Pannocchieschi. 549 BECK 1990. 550 BOANELLI 1997. 551 VANNINI et alii 1985. 137 nei casi di Montecorvino e di Vaccarizza entrambi nel Foggiano 552, le superfici cittadine fortificate sono completate da una motta che domina l’abitato, lo protegge e lo sorveglia, ed è anche la sede della residenza signorile (solo qui si ritrovano oggetti di qualità). La formazione di questi central places più grandi coincide con l’abbandono dei centri incastellati minori. A Castelfiorentino in Capitanata la via principale attraversa longitudinalmente la città, assecondando la topografia del luogo costituito da una collina lunga e stretta. Lungo la viabilità interna si costruiscono le abitazioni, fino a formare, negli spazi compresi tra le costruzioni più importanti (la chiesa, il palazzo imperiale, le torri) dei quartieri residenziali. Questa struttura pseudo-urbana, che rimane per il momento un’eccezione, diventerà dopo la metà del XII secolo un modello a cui ispirarsi sia per le nuove fondazioni signorili che per la pianificazione dei nuovi borghi nei vecchi castelli.

17 - Gli annessi del grande edificio: il silos e la cisterna Il silos era una struttura ipogea circolare in muratura, costituita da conci in travertino di medie e grandi dimensioni, squadrati e lavorati, legati con malta molto tenace. Il diametro esterno misura 2,50 m, quello interno 1,50 m; la profondità è pari a 1,90 m. Ha un profilo interno leggermente ovoidale, che nella parte superiore conferisce una forma a ziro. Le cortine interne, sia quelle delle pareti sia quelle del fondo, sono rivestite da uno strato di intonaco rosso tipo cocciopesto, steso per impermeabilizzare e per isolare meglio il suo contenuto. Indubbiamente ha funzione di conservazione delle granaglie ed ha sempre avuto tale funzione, sia nei primi anni di vita del villaggio (quando era di pertinenza del palazzo) sia nel XIII secolo (legato alla casa a due piani) sia nel 1313 (riusato nell'occupazione di Arrigo VII). In effetti i silos da grano hanno preferibilmente la struttura esterna circolare, quella interna ovoidale, spesso un rivestimento impermeabilizzante e sono sempre ipogei, sia scavati nel terreno sabbioso o tufaceo che costruiti in muratura. Il loro uso è specificatamente privato, relativo ad una o a più famiglie, ma può essere anche pubblico con un incremento delle sue dimensioni e con una migliore tecnica costruttiva. Sono attestati praticamente dovunque nell'area mediterranea e nell'Europa occidentale già dall'età preistorica. Il silos di Podium Bonizi risulta alterato nella sua parte superiore; manca, infatti, una parte dell'elevato nord e la zona terminale; è impossibile perciò capire come funzionasse il meccanismo di chiusura. In genere però sappiamo che la copertura degli esemplari scavati nel tufo è costituita da pietre monolitiche circolari poggianti su un alloggio ricavato nella parte terminale, oppure da tavole lignee incastrate in una risega posta al livello della bocca. A San Giovanni Valdarno si adottava quest'ultima soluzione, con l'aggiunta di una chiusura cilindrica in muratura, che isolava completamente l'ambiente e demolita al momento dell'uso delle granaglie553. Ad est della grande abitazione è posta una cisterna quadrangolare sotterranea; misura 4,20 x 3,70 m, scavata nel terreno e delimitata da quattro muri del tipo a sacco con filari orizzontali di altezza regolare costituiti prevalentemente da bozze di travertino ben squadrate all'esterno, ben lavorate e rifinite a polca; la malta dei giunti e dei letti di posa è di colore grigiastro, media durezza con inclusi di piccole e medie dimensioni. I muri perimetrali, costruiti con pietre di calcare ben squadrate e spianate superficialmente, erano ricoperti da malta idraulica di colore rosso e terminano in alto con una volta a botte attualmente crollata nella sua quasi totalità. Nella parete settentrionale, in alto si trova un'apertura nella muratura collegata ad una canaletta larga 10-15 cm, realizzata in laterizi per le pareti e in lastre di ardesia per il fondo e la copertura; si tratta di un piccolo canale funzionale allo scolmo dell'acqua quando questa era in sovrabbondanza: il troppo pieno.

552 MARTIN, NOYE' 1986. 553 BOLDRINI, DELUCA 1988. 138 Una seconda canaletta dello stesso tipo, ma realizzata e coperta da lastre di pietra calcarea e travertino, è invece collocata in corrispondenza del lato sud est e purtroppo non esiste più il collegamento terminale tra il canale e il muro meridionale della cisterna stessa. Sono strutture dall'uso simile, ma funzionanti in due periodi distinti nella frequentazione del grande edificio; la seconda risulta contemporanea alla costruzione della cisterna (o almeno a una delle prime fasi di sfruttamento) mentre la prima è senz'altro da collegare ad un rifacimento di metà XIII secolo. La cisterna nei primi anni di vita del villaggio era di pertinenza della casa a schiera; risultava quindi privata e rappresentava indubbiamente un segno di potere riconoscibile nella gestione della riserva d'acqua personale. Nel XIII secolo risulta invece una struttura di servizio ad almeno tre ambiente e doveva essere racchiusa all'interno di una sorta di corte lastricata in travertino ed aperta. Nel 1313, l'ambiente sembra riutilizzato come vano abitativo, appongiando un piano di terra battuta sui voluminosi crolli della volta. M.V.

18 - La grande cisterna pubblica. La cisterna è costruita con conci del locale travertino e la camera di raccolta delle acque ha una pianta circolare del diametro di 5,20 m coperta da una volta a cupola sempre in pietra. Attualmente, a causa del crollo parziale di quest'ultima e delle pietre lanciate nel secolo scorso dai coloni la cisterna è quasi totalmente interrata ed il suo paramento murario al di sotto dell'imposta della volta è visibile solo per un'altezza di circa cinque metri. La muratura presenta una posa in opera estremamente regolare con conci di medie e grandi dimensioni perfettamente squadrati e spianati in superficie con un attrezzo a lama piana. L'altezza dei filari è variabile con corsi di limitato spessore (dai 20-26 cm a 8-10 cm) alternati ad altri di maggiore misura. In particolare l'altezza diminuisce visibilmente nei filari della volta per l'evidente esigenza di alleggerire il peso della struttura. Poco al di sotto dell'imposta di volta sono visibili una serie di buche legate alla muratura; due di esse, di misura maggiore, alla stessa altezza e diametralmente opposte situate ad una quota leggermente inferiore (20 cm), le altre quattro più piccole poste ad un filare superiore sempre simmetricamente opposte le une alle altre. La loro posizione, le dimensioni e la contemporaneità con la muratura della cisterna le fa pensare funzionali alle impalcature di cantiere necessarie per la costruzione della volta. Ugualmente a tale funzione sono riferibili le quattro più piccole buche di forma quadrata presenti invece sopra l'imposta della volta, non passanti e sempre legate all'originaria muratura. Altre buche (quattro al di sotto di 1,50 m dalla altre) successivamente tamponate ancora riferibili alle fasi di cantiere sono visibili più in basso quasi in corrispondenza dell'altezza dell'interro. Sul lato ovest della cisterna, poco al di sotto dell'imposta della volta si conserva invece l'unico elemento, attualmente visibile, da connettere con il sistema di approvvigionamento delle acque. Si tratta infatti di una canaletta in pietra legata alla muratura che per posizione ed inclinazione è da ritenersi funzionale all'apporto di acque all'interno della camera. Sul tipo di acque raccolte all'interno della cisterna vi sono alcuni elementi che farebbero propendere per una loro derivazione meteorica; la posizione ad esempio della cisterna, sicuramente al centro di una piazza (testimoniata dai resti di selciatura circostanti la stessa cisterna), sulla quale si apriva probabilmente la facciata della chiesa di S.Agostino, in una condizione ideale quindi per la raccolta, tramite apposite canalizzazioni, dell'acqua piovana proveniente dai tetti degli edifici circostanti o esclusivamente proprio da quello della chiesa; la forma ed il tipo che trovano confronti con cisterne della vicina S.Gimignano alimentate da acque meteoriche554. Una particolarità di questa cisterna è proprio rappresentata dall'assenza nel paramento murario, nel punto dove solitamente trova

554 In particolare la grande cisterna, similmente a Poggiobonizio, di fronte alla chiesa di Sant’Agostino e pertinente al palazzo comunale (posta, appunto, nella piazza della Cisterna). 139 collocazione poco al di sotto della quota della canaletta di sbocco, dove usualmente trova collocazione, del foro di uscita delle acque necessario nel momento di massimo riempimento della camera. Ciò comporta di conseguenza due conclusioni, ossia che la cisterna probabilmente doveva avere una notevole profondità per non pensare fin dal momento della costruzione l'inconveniente del "troppo pieno". In secondo luogo per questa cisterna non fu mai prevista all'interno della camera una quantità tale di acqua da doverne permettere la fuoriuscita. Nel caso di raccolta di acqua piovana in genere tutte le cisterne erano provviste di un sistema di filtraggio che permetteva la depurazione idrica. I filtri solitamente erano costituiti da strati di carbone minuto, ghiaia o sabbia e potevano essere posti o sul fondo della cisterna e in quel caso vi era un pozzetto laterale esterno dove l'acqua si versava per essere attinta, oppure su di un vano sotterraneo laterale dove l'acqua passava prima di penetrare nella camera. Oltre a questi casi vi erano poi delle cisterne provviste di una doppia camera, dove in quella più esterna erano posti i filtri e quella più interna fungeva da serbatoio di raccolta delle acque passanti dalla prima alla seconda camera attraverso uno più fori comunicanti. Escludendo per la nostra cisterna il primo tipo di filtro descritto, data l'assenza del pozzetto laterale, si possono pertanto ipotizzare gli ultimi due sistemi di filtraggio a favore o contro i quali sono riscontrabili una serie di prove sino a che, con la continuazione dello scavo nelle immediate adiacenze della cisterna non si rinverranno elementi a favore dell'una o dell'altra ipotesi. La profondità infatti della canaletta di sbocco delle acque che sembrerebbe escludere la presenza di una camera esterna, farebbe propendere verso l'ipotesi di un pozzetto sotterraneo di filtraggio dove le acque sarebbero passate prima di entrare nella camera di raccolta. L'assoluta assenza però di un rivestimento impermiabilizzante delle pareti porta immediatamente a confrontare questa con le cisterne a doppia camera di Perugia 555, dove solo l'esterna di filtraggio era provvista di malta idraulica. Inoltre la presenza di una doppia camera trova dei confronti con le principali e monumentali cisterne di S.Gimignano. In ogni caso, indipendentemente dalla futura convalida dell'una o dell'altra ipotesi, per ambedue i sistemi di filtraggio doveva essere presente in corrispondenza della volta una vera che metteva in comunicazione la cisterna con un pozzetto monumentale esterno, oggi distrutto insieme alla copertura, da cui gli abitanti di Podium Bonizi attingevano l'acqua. In relazione invece alla datazione della struttura, la perfezione degli elementi architettonici, l'estrema perizia costruttiva, il confronto diretto con il tipo di tecnica muraria impiegata nel lacerto pertinente la chiesa di Sant’Agostino e nelle altre strutture murarie rimesse in luce durante le indagini archeologiche e datate grazie agli elementi dedotti dallo scavo, portano ad ipotizzare la costruzione di questa struttura nel momento di originario impianto dell'insediamento, cronologicamente ascrivibile alla seconda metà del XII secolo. G.B.

19 - I quartieri abitativi alla fine del XII secolo. Guido Guerra morì nel 1157, a due anni dall’inizio della costruzione del grande castello. Dopo la sua precoce scomparsa, Poggio Bonizio fu oggetto di vari interventi e trasferimenti di pertinenze per circa un ventennio. Nel 1164 Federico Barbarossa, perseguendo il suo disegno di rafforzo del potere imperiale potenziando le casate comitali, aveva confermato i diritti ai Guidi («al caro principe e cugino nostro» Guido Guerra, «conte di Toscana», riporta la conferma); nel 1175 Firenze, a seguito della vittoria nella battaglia di Asciano, aveva ottenuto un condominio sui possessi e privilegi dei senesi 556; nel 1177

555 Ci riferiamo in particolare alle cisterne della Sapienza Vecchia e di Palazzo Veracchi, analizzate in AA.VV. 1981, p.14. 556 I patti tra Siena e Firenze sono contenuti in Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, 14, pp.20-25, 22 marzo 1175. 140 Guido Guerra il giovane cedette le proprie pertinenze in risarcimento a Corrado di Monferrato557 e questi, previa visita ai suoi nuovi possedimenti, li trasferì tanto a Siena che a Firenze; otto anni dopo, infine, l'imperatore annullò ad ambedue le città i diritti così acquistati e Poggio Bonizio si costituì da lì a poco in Comune con propri consoli o podestà558. Si rivelò immediatamente come un insediamento di notevole rilevanza e fu soggetto ad una repentina ascesa sia demografica sia urbanistica grazie alla sua posizione geografica privilegiata ed alla presenza di un’attiva classe imprenditoriale. In questi decenni la costruzione dell’insediamento era proseguita e si ha la netta impressione di una progettualità originaria che continuava ad influenzare la forma, la disposizione e l’aspetto dei quartieri. Sulle griglie già tracciate da Guido Guerra, pur con alcuni cambiamenti, proseguì lo sviluppo urbanistico tramite l’edificazione di lunghe case a schiera (dimensioni medie intorno a 21 x 5,50 m) articolate in moduli regolari, con tetto in lastrine di calcare e ingresso a doppia arcata. Queste strutture sono molto rare all'interno dei castelli ed i confronti più probanti provengono infatti dall’articolata tipologia degli edifici urbani ben noti in ambito pisano 559. Si tratta però di modelli tradotti in una scala dimensionale più modesta e meno elaborata: minore numero di piani e di annessi, tecniche costruttive meno sofisticate e che si avvicinano maggiormente alle abitazioni di tipo popolare seppure con elementi di tipo distintivo. La differenza sostanziale tra le case popolari di Pisa e quelle a schiera di Poggio Bonizio è l’assenza di muri comuni; nell’insediamento valdelsano non sono riscontrabili quelle pareti perimetrali indivise che, nelle lottizzazioni programmate, permettevano di risparmiare spazio, forze e risorse economiche (i muri venivano pagati da entrambi gli abitanti con particolari modalità). La costruzione di muri contigui privati è invece tipica delle residenze signorili. Uno degli elementi più evidenti che attestano un adattamento progettuale, od una sua interruzione per poi riprendere dopo poco tempo, è rilevabile nella tecnica costruttiva e nei materiali lapidei utiilizzati per i muri; questi, nelle case a schiera attribuibili al progetto iniziale, vennero edificati in travertino ben squadrato e regolare, messo in opera da maestranze chiaramente specializzate al soldo di Guido Guerra. I nuovi edifici evidenziano invece murature realizzate in conci di calcare non perfettamente lavorati e sembrano opera di maestranze locali seppure di buon livello. Si verificò quindi anche un cambio di maestranze in relazione al diverso tipo e tenore economico della committenza. Queste case dovevano essere abitate per lo più dalle famiglie eminenti della comunità; commercianti e imprenditori che avevano fatto fortuna durante la favorevole congiuntura economica degli ultimi decenni del XII secolo. L’insediamento mostra pienamente in questo momento il suo carattere cittadino, del resto già insito nella fondazione dello stesso Guido Guerra; si era sviluppato in una realtà urbana, una "quasi città" secondo una felice definizione di Chittolini560. M.V.

20 – L’urbanistica del castello di fine XII secolo attraverso le nuove tecnologie. La gestione dello scavo su piattaforma GIS ha permesso di interrogare i dati andando alla costruzione di piante storiche ipotetiche basate sulla lettura sincronica di tre diversi piani

557 Poggio Bonizio era stato ceduto a titolo di risarcimento ai marchesi del Monferrato dopo che Guido Guerra il giovane aveva ripudiato la mogli Agnese, sorella di Corrado. Sulla vicenda e la sua contestualizzazione nello scenario dei rapporti tra aristocrazie italiane e Impero si veda BORDONE 2004. 558 Su tali vicende si veda PRATELLI 1929-1938, pp.70-73. 559 REDI 1991, pp. 177-313. 560 CHITTOLINI 1990. 141 informativi: le tracce di strutture visibili in fotoaeree di voli presi a scale diverse, i risultati dello scavo e quelli dell'indagine geoarcheologica561. La lettura delle simulazioni GIS mostra che lo spazio racchiuso dalle fortificazioni si estendeva ancora per circa 7 ettari, come alla fondazione. All'interno della cinta possiamo riconoscere una topografia articolata sulla presenza di due chiese poste a nord ovest ed a sud est, di due piazze di fronte alle chiese stesse (la piazza a nord ovest dotata della grande cisterna e che doveva essere sormontata da un pozzo). Tra le due chiese e le due piazze si disponeva la maglia delle case a schiera; queste erano ripartite in due grandi quartieri, definiti dal tracciato di una viabilità rettilinea (osservata in parte sullo scavo ed in tutta la sua estensione richiamando i crop-marks in relazione al volo regionale) che sicuramente raggiungeva la piazza con cisterna. Intorno alle mura, in coincidenza dell'area interna, si disponevano spazi aperti con cadenza non regolare. Con certezza possiamo contare almeno 15 case a schiera sul lato ovest e 14 sul lato est. Gli edifici si disponevano almeno su due file; la prima fila composta da case più grandi che si affacciavano sulla strada, la seconda fila da case con dimensioni più piccole in coincidenza del lato est, dove la collina ha andamento più irregolare e curvilineo. Nel quartiere est sembra cessare la doppia fila di case avvicinandosi alla chiesa di Sant’Agnese. Qui, la stessa curva di livello che demarca la zona caratterizzata da una sola fila di case, posizionava anche l'edificio religioso in posizione dominante. Se la maglia degli edifici ha continuità spaziale (pur non avendo prove da fotoaerea la regolarità della disposizione tracciata sul calcolatore lascia pochi dubbi al riguardo) siamo in grado di proporre per il quartiere ovest un numero massimo di 30 case a schiera e per il quartiere est un numero massimo di 36. Nelle case più grandi il rapporto tra lato lungo e lato corto risulta di 1:2,8 (21 x 7,50 m in media), nelle case più piccole sembra adattarsi all'andamento della collina attestandosi su 1:2,3 circa in media (16 x 6,80 m) ma con punte anche di 1:3. La viabilità in uso durante questa fase si discosta nell'andamento da quella attuale che invece, come lo scavo mostra, pare ricalcare la viabilità riprogettata nel XIII secolo; ciò presuppone che indagando in connessione del lato nord, dove il cambio di orientamento dei due tracciati è molto marcato, dovremmo trovare al di là della strada odierna la parte iniziale della prima fila di case a schiera del quartiere ovest; in altre parole, questi edifici sono in parte coperti dalla strada attuale. Osservando la regolarità nella disposizione delle cisterne (le due che corredano le case a schiera e che sono state individuate da scavo distano 9 m circa tra loro; la prima cisterna dista 90 m dalla grande cisterna della piazza a nord ovest) e calcolandone l'ingombro medio (10 mq), possiamo ipotizzare un numero totale di cisterne ancora da scavare pari a 5/6 sul lato nord del quartiere est e 4/5 sul lato sud; in totale dovevano esserne in uso 10/13. Quindi consegue che non tutte le case a schiera erano dotate di tale pertinenza; se il quartiere ovest, per il quale non disponiamo ancora di dati di scavo, mostrasse la stessa tendenza, il villaggio dovrebbe rivelare un complesso di cisterne private pari 20/26 cioè la media di una cisterna ogni 2/3 case. Per verificare questa ipotesi sono stati aperti tre settori di scavo sui lati nord e sud del quartiere est. L'indagine ha confermato l'esistenza di una progettazione e la regolarità del rapporto di 1:2,8 delle case a schiera sulla prima fila. In coincidenza del lato nord la casa a schiera della prima fila misura 25,60 x 8,10; sul lato sud sono state riconosciute e scavate due case a schiera affiancate e con misure di 22 x 6,5 m in un caso e 27 x 7,50 nell'altro. Questa terza abitazione evidenzia come lo spazio occupato poteva essere maggiore per gli edifici posti nei pressi della chiesa dove, infatti, abbiamo ipotizzato una sola fila di abitazioni.

561 Per le analisi GIS qui descritte si veda in particolare il capitolo VII di questo volume con bibliografia completa. 142 Anche le case della seconda fila a sud sono risultate di più piccole dimensioni ed in adattamento alla conformazione della collina; due edifici rivelano misure intorno ai 12,30 x 5 m con un rapporto di 1:2,5 che supporta la nostra simulazione ma per le quali avevamo però previsto un rapporto di 1:3. In realtà la nostra simulazione avrebbe trovato riscontro sul terreno se avessimo potuto indagare la situazione morfologica originaria. In coincidenza di questo lato, in semipendio e su uno strapiombo di oltre 100 m, si sono infatti riconosciuti dei chiari segni di un terremoto o la conseguenza di pressione e di spinte delle acque piovane: un forte cedimento del terreno, lesioni nei muri e sulla terra, ricostruzioni della cinta e degli edifici nelle vicinanze. Le indagini geoarcheologiche effettuate, lo stesso rapporto tra i muri chiaramente accorciati, infine il restauro della cinta difensiva, stimano in una misura di circa 5 m il terreno franato a valle. Ricostruendo nel GIS la porzione di spazio franata e riposizionando sul limite la cinta muraria, la parte mancante dei due edifici potrebbe essere calcolata in 2,70 m circa (raggiungendo così un rapporto di 1:3) e lo spazio aperto in un metro circa. Alla fine del XII secolo, si verificò quindi un evento traumatico nella vita di Poggio Bonizio. La parte settentrionale della collina, a seguito di uno smottamento del terreno, subì gravi danni; le case a schiera in questa zona crollarono parzialmente e, allo stesso modo, un lungo tratto della cinta muraria andò distrutto. Le cause possono essere imputabili ad un evento naturale: un terremoto, che le fonti cronachistiche toscane documentano in questo periodo con epicentro ad Arezzo con scossa del sesto grado della scala Mercalli; oppure ad uno smottamento del terreno provocato da ripetute infiltrazioni d’acqua piovana combinato alla mole imponente degli edifici costruiti sul versante. I lotti abitativi di Poggio Bonizio possono richiamare gli schemi planimetrici delle più tarde fondazioni di terre nuove nella zona del basso Valdarno da parte dei comuni di Lucca e Pisa (comprese tra la prima metà del XIII e la fine del XIV secolo) per quanto riguarda la regolarità degli impianti e per la disposizione omogenea degli edifici. Alcuni di questi castelli di pianura nascono con uno schema urbanistico ortogonale interno, racchiuso ancora da una cinta muraria irregolare. In realtà l'organizzazione di borghi nuovi basata su un reticolo geometrico regolare è rintracciabile già verso la fine del XII secolo sia in alcune regioni europee che in Italia, nei borghi di fondazione dell’area padana562. Della seconda metà del XII secolo è il caso del castrum di Bientina (fondazione vescovile del 1179); ha una struttura pianificata delimitata da un circuito murario pentagonale irregolare con torri su quattro angoli; una strada costituisce l’asse di simmetria, incrociato da vie secondarie ortogonali. Gli isolati hanno grandezza quasi fissa e sono suddivisi da vicoli, che formano lotti di dimensioni costanti563. Bientina anticipa di qualche decina di anni gli esempi più evidenti e conosciuti di Buonconvento una fondazione del comune di Siena del 1208 e di Città Nuova una fondazione del comune di Massa Marittima del 1225. In molti casi alla planimetria ortogonale si aggiunge anche una regolarizzazione del circuito murario, molto spesso rettangolare, sempre però incentrato su una disposizione pianificata dei lotti abitativi, localizzati lungo assi viari paralleli. Sono i casi di Villafranca in Lunigiana voluta dai marchesi di Malaspina nel 1191, di Pontedera fondata dal comune di Pisa nella prima metà del XIII secolo, di Castelfranco di Sotto e Santa Croce sull’Arno fondate dal comune di Lucca tra 1249 e 1253), di Camaiore e Pietrasanta (fondate dal comune di Lucca, entrambe nel 1255, di Paganico voluta dal comune di Siena nel 1292-98 e di San Giovanni Valdarno e Terranuova Bracciolini fondate dal comune di Firenze rispettivamente nel 1299 e nel 1337. A.N.

21 - Lo sviluppo di Poggio Bonizio in quasi città. XIII secolo.

562 FRIEDMAN 1996. 563 DETTI, DI PIETRO, FANELLI 1968. 143 L'aspetto del grande castello iniziò ad evolvere verso la fine del XII secolo, proprio gli anni in cui si andava affermando il Comune ed iniziava anche una breve stagione di politica territoriale autonoma; nel 1197 aderiva alla Lega Toscana ed entrò in conflitto con i vicini Colle e San Gimignano con i quali, tra 1201-1209, firmò accordi per la definizione delle rispettive sfere d'influenza564. Agli inizi del XIII secolo, Siena fu costretta alla rinuncia definitiva dei propri diritti sul castello a vantaggio di Firenze attraverso il lodo pronunciato dal podestà di Podium Bonizi, eletto dalle due parti, per la definizione delle rispettive giurisdizioni territoriali e la successiva cessione ai fiorentini di tutto ciò che era stato deciso nel lodo565. Nell'ottobre del 1208 le autorità comunali stipularono però un patto segreto di alleanza con Siena; alleanza che si cementò ulteriormente un anno più tardi dopo lo scioglimento di ogni tipo di vincolo con i fiorentini pronunciato da Wolfgero, patriarca di Aquileia566. Con la raggiunta autonomia iniziò a regolare la parte fortificata dell'insediamento; si ridisegnava la topografia di una base urbana molto probabilmente ancora permeata e condizionata dalla originaria progettualità di Guido Guerra. Alla trasformazione politico-istituzionale si affiancava quindi quella urbanistica ed è anche attestato lo sviluppo di un esteso borgo fuori dalle mura, suddiviso in almeno quattro, forse cinque contrade. Due documenti scelti tra i tanti ci mostrano questo processo già ampiamente in corso a trent’anni circa dall’iniziativa di Guido Guerra. Il 6 ottobre 1186 in una sentenza si citavano una casa fuori dalla porta Santa Maria con un lato sulla via, la seconda facciata aveva un lato confinante con la via e la terra di proprietà di Marturi, un altro lato confinava ancora con la via, con l’abitazione di Scotti presso la predetta porta, di Pietro Fabbri vicino alla porta di San Michele, di Pietro Vulpe e del figlio del fiorentino 567. Il 22 luglio 1191 la cessione di un diritto di livello da parte di Rolando abate di Marturi a Bardellino, concerneva un’area aperta posta fuori dalla porta di San Michele a confine con il castello, dietro l'impegno di costruire nella platea una casa; i confini vennero così definiti: da un lato Bacinelli taverniere, dall'altro Ugolino nipote di Bernarduccio, di sopra Ugolino de granaro e Martino pignolaio, di sotto il fossato del castello, in mezzo la strada568. La volontà di ordinare continuamente l'articolazione topografica di una piccola città con una vasta espansione extra muram, può essere testimoniata dalla stessa presenza di 43 magister tra gli abitanti del 1226; in altre parole, si ha l'impressione di un agglomerato in continua espansione e trasformazione, un grande cantiere. Poggio Bonizio era un centro in marcato sviluppo, dotato di almeno tre chiese (le due individuate dallo scavo ed una terza attestata nelle fonti scritte); una comunità in continua crescita con una popolazione caratterizzata da intraprendenza imprenditoriale ed impegnata in una vasta gamma di attività artigianali. Le ulteriori trasformazioni a cui andò soggetto il centro, rappresentano la testimonianza di uno sviluppo costante e l'adeguamento della funzionalità degli spazi alla nuova realtà demografica ed economica di una fiorente comunità. Una delle sue caratteristiche principali e costante nei 115 anni di vita dell’insediamento, cioè la grande attenzione alle acque, deve essere letta in un'ottica di impianto urbano regolato, ben progettato ed eseguito da maestranze di rilievo. Le cisterne rinvenute, la presenza di murature più antiche ed attribuibili alla metà del XII secolo rilevate nel

564 CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.133; per i patti con San Gimignano si vedano anche gli accenni in PLESNER 1979, p.132 e soprattutto ZDEKAUER 1899. 565 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.65, pp.90-93, 4 giugno 1203; Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.66, pp.93-95, 8 giugno 1203. 566 CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.133. 567 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 6 ottobre 1186. 568 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 22 luglio 1191. 144 complesso Fonte delle Fate569, le notizie dei cronachisti sulle numerose fontane presenti nel villaggio, non ultime le testimonianze di Ciaspini e Pratelli sulla galleria in gran parte murata che si dipartiva dalla stessa fonte in direzione della collina e quindi verso la grande cisterna570, lasciano facilmente ipotizzare l'esistenza di una accurata rete di bottini. Le strutture emerse nello scavo archeologico mostrano, per questo periodo, i profondi cambiamenti che avvennero nel tessuto urbano conseguenti anche al costante aumento di popolazione. Il borgo rivela una forma regolare ed è stato individuato, assai prima dell’inizio dello scavo, attraverso l’elaborazione al computer di fotoaeree. Si riorganizzò la viabilità e le lunghe case a schiera costruite nella seconda metà del XII secolo vennero trasformate in un quartiere artigianale ed in case più piccole. La crescita delle abitazioni fu regolata destinando spazi ben precisi e delimitati da bassi muri a nuove edificazioni. Un esempio di questi ambienti, di dimensioni abbastanza piccole, si riconosce pochi metri ad ovest della casa a schiera dotata di silos e cisterna privata. L'ampiezza è pari a 7,60 x 3,40 m ed ha orientamento nord ovest-sud est. Gli elevati sono costituiti da conci in alberese, di medie dimensioni, leggermente sbozzati e legati da malta; hanno uno spessore variabile, calcolato in una media di 50-60 cm, raggiungendo anche i 70 cm, l'altezza non è invece ipotizzabile ma non dovevano esserci stati molti altri filari. Il battuto interno non occupa tutto lo spazio compreso tra i muri, ma solamente la parte sud (2,10 x 2,70 m) perchè asportato da un taglio posteriore; è costituito da argilla pressata di colore giallastro, poggia su uno spesso vespaio realizzato in pietre di piccola e media pezzatura che livellava ed isolava il terreno. Si tratta di un casalino, ovvero un'area impostata nel piano di lottizzazione, delimitata da muri ma in attesa di trovare una sua funzione. Poggio Bonizio aveva in questi anni un'economia polivalente, dove il terziario si accompagnava all’agricoltura, con mestieri spesso organizzati in corporazioni; nei documenti sono citati il consul fabrorum, il consul calzolariorum, il consul mercatorum, il consul pizzicariolorum, il consul cambiatorum ed una gamma di attività molto articolata571. Sappiamo, per esempio, che esistevano relazioni commerciali con il sud Italia, come testimonia un atto del 1244 in cui sono documentati alcuni mercanti di Podium Bonizi che stipulano un contratto a Messina presso la loggia dei pisani572; al tempo stesso la grande restituzione di monete ci permette di ricostruire il quadro di scambi nel quale era inserita l’imprenditoria poggiobonizzese e la circolazione su questo tratto della via Francigena: Ancona, Pavia, Ravenna, Brindisi, Verona, Pisa, Lucca, Siena, Arezzo, Viterbo, Gaeta, Roma, la Sicilia ma anche la Normandia, Toledo, Salamanca, Orange, la Navarra e la Carinzia573. Erano dunque la dimensione economica dell'insediamento ed il suo carattere imprenditoriale che indirizzarono verso la trasformazione dell'area monumentale in una tappa obbligatoria sul percorso della via Francigena, dove il viaggiatore trovava i servizi religiosi (le grandi chiese) e quelli commerciali (le botteghe artigianali); inoltre non si esclude che proprio in tale zona si collocasse quel forum Podii Bonizi dove si effettuava il mercato, in cui l'arte degli speziali nei primi anni del XIII secolo aveva posto ai suoi lati due grandi bilance per la pesatura dello zafferano574. E la sua caratteristica di tappa importante sull’arteria stradale si riconosce anche nei numerosi signa peregrinationis restituiti sia dallo

569 Si veda BIANCHI 1996. 570 In particolare si veda CIASPINI 1850; Pratelli riporta la notizia del precedente autore. 571 Si tratta di due giuramenti di patti con Siena del 1221 e del 1226; si vedano le carte contenute in: Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.168, pp.232-238, 10 luglio 1221; n.170, pp.239-249, 10-12 luglio 1221; n.235, pp.345-346, 22 giugno 1226; n.234, pp.336-345, 21-26 novembre 1226. 572 FIUMI 1961, p.76. 573 Si veda Capitolo VI paragrafo 4 di questo volume. 574 Si veda FIUMI 1961, p.34 nota 68. 145 scavo delle abitazioni sia delle aree cimiteriali. Sono infatti presenti numerose quadrangulae attestanti il passaggio o la presenza nel villaggio di romei (coloro che si erano recati a Roma a visitare la tomba degli apostoli Pietro e Paolo e la basilica di San Pietro) e molte valve destre di pecten jacobaeus di incerta provenienza: simbolo universale di pellegrinaggio ma anche, se provenienti dalle sponde dell’Atlantico, da collegare alla presenza di jaquot (o jaquet oppure jaquaire, coloro che erano stati a visitare la tomba dell’apostolo Giacomo a Campostela)575. Con lo sviluppo del centro, vediamo anche l'adattamento dell’abbazia di Marturi e della sua politica patrimoniale alla nuova dimensione assunta dal popolamento. Gli abati già dal 1159 si erano impegnati in una continua compra-vendita e permute di terreni e di case posti sia fuori che dentro il castello576. Inoltre, andando incontro ad una domanda di abitazioni che sicuramente esisteva per il continuo boom del popolamento, concedevano spesso in affitto spazi aperti sia dentro sia fuori dal circuito murario castellano e nei suoi borghi, affinchè vi venissero costruite altre case. La punta più alta di tale operazione si riscontra nel primo trentennio del XIII secolo, cioè in coincidenza del periodo di maggiore crescita demografica ed espansione urbanistica mostrato dall’indagine archeologica. Non sembra casuale in questo contesto la differenza tra l’ammontare dei giuratari dei patti di alleanza con Siena del 1221 e quelli del 1226 (+ 137) e le attività dichiarate; il 1226 sottolinea non solo un’evidente crescita demografica ma anche lo sviluppo di professionalità legate ad un contesto in trasformazione sia strutturale sia nelle esigenze della popolazione577. E’ così osservabile un deciso aumento dei capocantiere (i magister hanno una crescita del 716%), dei fabbri (166%) e dei ferratori che sembra sottolineare il momento di intensa attività edilizia riscontrabile in questi anni; un incremento delle attività legate alla produzione-distribuzione delle derrate alimentari nel quale si distinguono i mugnai (+350%), raddoppiano i tavernieri ed i pizzicaioli; una crescita di medici, notai e giudici. La popolazione doveva oscillare tra 5000 e 7000 unità.

22 – La ristrutturazione di un lotto di case a schiera in abitazioni con corte lastricata e botteghe. Il giuramento dei patti di lega con Siena del 1226 ci mostra come, dopo settant’anni, Poggio Bonizio continuava ad attrarre immigrazione. 53 capifamiglia erano originari di località della Valdelsa come Bibbiano, Bolsano, Casaglia, Galognano, Gavignano, Luco, Orneto, Papaiano, Castiglioni, Cerna, Cinciano, Foci, Galliano, Lecchi, Ormanni, Piandicampi, Staggia, Vizzano, Stoppio, Talciona. Le opportunità offerte dal grande castello attirarono popolazione anche da zone più distanti, come il Chianti senese e fiorentino e, in tono minore, dalla Montagnola; 20 capofamiglia provenivano da Albola, La Leccia, Lucardo, Cintoia, , Castellina, Olena, Panzano, Radda, Monti, ,

575 I signa peregrinationis portati dal pellegrino al ritorno dal suo viaggio come prova del raggiungimento della metà permettevano quindi di riconoscere il luogo da lui visitato; per una vasta trattazione dal punto di vista archeologico dei pellegrinaggi si veda BULGARELLI, GARDINI, MELLI 2001. 576 Si veda VALENTI 1999. 577 Le liste dei giuratari del 1221 e del 1226 riportano mestieri spesso organizzati in corporazioni, ed una gamma di attività molto articolata; si conoscono il magister (43 casi), il medicus (7 casi), il tavernarius (6 casi), il faber (15 casi), lo iudex (3 casi), il notarius (10 casi), il mugnarius (21 casi), il piczicaiolus (3 casi), il ferrator (2 casi), il pectinaiolus, il pellicciarius (2 casi), il fornarius, il pignolarius (3 casi), il sellarius (2 casi), il pegoloctus (2 casi), lo spetialis, lo scudarius (2 casi), il calzolarius (2 casi), il chiavarius, il bovarius. Tale lista è relativa al giuramento del 1226. Per il 1221 sono invece documentati il faber (9 casi), il medicus (3 casi), il mungnaius (6 casi), il calzolarius (3 casi), il tavernaius (3 casi), il pignolaius (3 casi), il sartor (2 casi), il clavarius (2 casi), lo iogulator, il frenarius (2 casi), il piczicaiolus, il magister (6 casi), il barberius (2 casi), il notarius (5 casi), lo iudex, il palliaius (2 casi), il porcarius, il battelana, il fornarius, lo specialis, l'olearius, lo scudaius. Per una rapida consultazione si veda l'indice del Caleffo Vecchio del comune di Siena curato da Mario Ascheri.

146 Ricavo, Vignale; 3 capofamiglia da Sovicille e Strove. Inoltre l’ampia possibilità di mercato e commercio fecero arrivare anche popolazione da nuclei urbani regionali ed extraregionali come Arezzo, Firenze, Grosseto, Lucca, Montalcino, San Miniato, Semifonte, Siena, Volterra e Ancona, Benevento, Bologna, Foligno, Milano, Orvieto, Perugia. Lo sviluppo demografico ed economico portò ad un adeguamento urbanistico reso necessario dalla nuova realtà. A livello di edilizia, iI cambiamento in corso viene evidenziato dalle caratteristiche delle nuove costruzioni, dai molti riusi e trasformazioni di edifici preesistenti, dalla realizzazione di muri con tecnica diversa da quelli precedenti, connotati dall'impiego di ciottoli di fiume e conci non lavorati. Può trattarsi del ricorso a manovalanze locali talvolta dotate forse di scarsa maestria e si trae l’impressione di un cantiere continuamente aperto. Ma la chiesa riportata in luce ancora parzialmente nel biennio 2004-2005 attesta la floridezza della comunità e con ogni probabilità la salute delle casse pubbliche; fu ristrutturata infatti nella metà del XIII secolo da maestranze altamente specializzate che la ingrandirono portandola a dimensioni probabili di 1365 mq circa e la abbellirono con monumentali capitelli in travertino di accurata fattura. La sua estensione, così come le dimensioni dell’altra chiesa collocata sul lato est della collina (760 mq circa), confermano il costante incremento di popolazione; le due chiese erano infatti in grado di ospitare ben oltre 2000 persone. L’area indagata rivela gli effetti di questa stagione costruttiva e di impennamento demografico con grande chiarezza; la maggior parte delle case a schiera furono al centro di una riprogettazione che dette luogo ad un nuovo quartiere. Era caratterizzato dalla commistione di botteghe artigiane ed abitazioni e più in dettaglio da due botteghe di fabbro, due fonditori, un'ulteriore generica bottega, tre abitazioni di grandi dimensioni e sviluppo in orizzontale, tre case a due piani, due case monovano di forma allungata, uno spazio aperto con connotazione ortiva o di giardino, tre ambienti delimitati da muri ed in attesa di ricevere una destinazione funzionale. Più in dettaglio, di nove case a schiera individuate nella prima fila ed affacciate sulla strada, restarono immutate solo tre (due sul lato ovest ed una sul lato est); tutte le altre furono interamente frazionate in molteplici strutture e talvolta parzialmente accorpate. L’ingombro delle due case a schiera al centro della lottizzazione fu trasformato in una bottega di fabbro che occupava la parte iniziale degli edifici; sulla parte retrostante si ricavarono due case affiancate di misura 11,50 x 4 m con corte e 15 x 4 m confinante con un’area aperta (in precedenza una casa a schiera della seconda fila, ora compresa nella viabilità interna al quartiere). Le due case a schiera al centro della lottizzazione subirono anch’esse radicali trasformazioni; la loro parte iniziale venne destinata ad una seconda bottega di fabbro di grandi dimensioni; nella parte retrostante dei due edifici furono ricavate un’abitazione con corte rettangolare e pozzo (la casa di scotto di Boncompagno), un’area aperta con uso ortivo-giardino di 9 x 7 m ed un’abitazione su due piani anch’essa con corte e cisterna. Dopo una delle lunghe abitazioni rimaste intatte, le ultime due strutture vennero trasformate in tre abitazioni (5,30 x 8,30 m; 6,50 x 13,50 m; 10 x 6 m) di cui due con piccola corte ed in una bottega di fonditore. La seconda fila di case a schiera, cioè gli edifici a contatto con la cinta muraria, fu anch’essa oggetto di notevoli ristrutturazioni e cambi di funzione; rimase in uso una sola casa a schiera, mentre accanto a nuove abitazioni su due piani ed a spazi che entrarono a far parte di una tortuosa viabilità interna al nuovo quartiere, furono definiti anche tre casalini con dimensioni simili e pari a 8,30 x 14 m, 8 x 16 m, 8,50 x 11 m. Venne infine destinato il retro di uno degli edifici più esterni all’area scavata ad accoglere una bottega artigiana di problematica interpretazione. La strada lastricata in uso sino dalla fondazione del castello, venne dismessa ed in parte spostata in corrispondenza dell'attuale sentiero rurale; la sua quota fu rialzata di quasi un

147 metro attraverso gettate di terra e pietrisco nonché molti degli scarti di lavorazione delle botteghe di fabbro. Anche le cisterne, in precedenza di pertinenza esclusiva delle case a schiera, furono comprese in corti scoperte annesse alle abitazioni, pavimentate e racchiuse da mura perimetrali. L’abbassamento qualitativo delle costruzioni ed il nuovo tipo di edilizia viene ben esemplificato dalla descrizione di due abitazioni con sviluppo in verticale; sono molto indicative della ristrutturazione avvenuta e della disarticolazione dei lotti di case a schiera. Il primo esempio di edificio a due piani che proponiamo sfruttò molti degli spazi relativi ad una casa a schiera, in particolare la sua parte orientale opposta all'ingresso a due arcate e l'area retrostante che comprendeva una cisterna quadrangolare. Tutte le strutture murarie precedenti alla sua costruzione furono riutilizzate come fondazione o come appoggio per i nuovi muri, oppure a sostegno di elementi rialzati come una scala in pietra di accesso al secondo piano ed il ballatoio che si appoggiava a quest'ultimo. Il pianterreno dell'edificio era costituito da un ambiente pavimentato in battuto di terra ed adibito a cantina o rimessa; quello superiore, identificabile come la vera e propria abitazione, era sorretto da un solaio in legno pavimentato con mattoni e coperto da un tetto ad un'unica falda che spioveva ad ovest. La scala in pietra si appoggiava al muro orientale; il ballatoio, forse sovrastato da una copertura in legno, si impostava su un pilastro in travertino che nella seconda metà del XII secolo faceva parte dell’ingresso a doppia arcata di un’ulteriore casa a schiera. La struttura aveva accesso a due aree aperte. Quella ad est, di piccola estensione, era un cortile delimitato da mura, pavimentato in lastre di travertino, con una cisterna quadrangolare adibita alla raccolta dell'acqua piovana e sormontata da un piccolo pozzo. Quella ad ovest era invece un'area adibita ad orto/giardino. Trovandosi quasi totalmente chiuso dagli edifici circostanti, la zona ovest poteva essere in collegamento diretto con la bottega del fabbro; in pratica rappresentava il raccordo tra le due strutture e quindi un unico grande complesso che comprendeva l'edificio artigianale ad ovest e l'edificio abitativo con annessi ad est. Il secondo esempio di edificio s'impostava anch'esso sugli spazi relativi ad una casa a schiera, sfruttandone però solo una parte attraverso l’innalzamento da un nuovo muro perimetrale di chiusura. Le opere di modifica della struttura più antica risultano leggibili con chiarezza negli elevati; i muri originari mostrano un'apparecchiatura molto accurata a filari orizzontali regolari di conci di travertino ben squadrati, con superfici spianate, il legante è la malta; quelli successivi, invece, costruiti con conci di travertino di reimpiego associati a pietre, furono messi in opera irregolarmente e legati quasi esclusivamente da terra. La casa aveva pianta rettangolare, dimensioni 8 x 10 m, orientamento est-ovest e la copertura realizzata di tegole e coppi. Era divisa in tre ambienti; i due più piccoli (dimensioni 6 x 1,20 m; 6 x 1,40 m) posti nella porzione occidentale erano ad unico piano; il terzo ambiente di dimensioni più ampie (6 x 4 m) occupava la parte orientale e si sviluppava su due piani come attesta l'evidenza archeologica del crollo del solaio in mattoni. Il piano superiore rappresentava con tutta probabilità lo spazio abitativo principale e qui doveva essere collocato quel focolare del quale, oltre ai livelli relativi, sono testimonianza un elemento di catena, una catenella, due ganci ed uno spillone da fuoco; era dotato di infissi e porte con serrature e chiavi, mentre il mobilio risulta essere stato interamente di legno e caratterizzato da boncinelli, cerniere, piccole chiavi ed applicazioni. Venivano utilizzati una grande quantità di bicchieri e bottiglie in vetro di varie forme e fogge; sono stati rinvenuti bicchieri decorati a bugne con base d’appoggio ad anello o decorata da un cordone di vetro pieno applicato, bicchieri apodi privi di decorazioni, calici, bottiglie con fondo ad anello, bottiglie apodi con corpo cilindrico o globulare e bottigliette con bordo estroflesso, collo cilindrico e fondo apode. L’illuminazione si basava su lampade

148 pensili anch’esse in vetro di forma conica o con parete superiore emisferica ed inferiore tronco-conica più stretta. Le prime due stanze potevano avere una generica destinazione domestica ed erano conservati alcuni attrezzi tra i quali un cuneo ed una punta di trapano destinati alla lavorazione di pietra, legno o metallo, forse una bilancia di cui sono testimoniaza dei pesi, coltelli con fodero dotato di puntale, delle freccie, di cui solo una collegata all’attività venatoria e che rappresenta un unicum a Podium Bonizi. Il piano terra del terzo ambiente è interpretabile come stalla, sia per dimensioni e forma sia per i 28 oggetti rinvenutivi pertinenti ad equidi: oltre ai chiodi da ferratura, sono presenti un ferro da cavallo e due ferri da mulo, tre fibbie e due passanti relativi alla bardatura Sia l'articolazione interna sia l'organizzazione in elevato furono condizionate dalla morfologia dello spazio, una pendenza naturale digradante in direzione est verso il circuito murario. I tramezzi in realtà sembrano avere assecondato le variazioni di quota, come una sorta di terrazzamento; i primi due ambienti erano disposti secondo una pendenza più graduale mentre, in corrispondenza del terzo ambiente, venne ricavato un piano inferiore a fronte di un marcato sbalzo di quota; il secondo piano risultava solo di poco sfalsato rispetto ai primi due vani e dunque la casa dall'esterno doveva presentarsi uguale o poco più alta rispetto a quelle circostanti. La comunicazione interna fra il primo e secondo ambiente avveniva attraverso un passaggio risparmiato tra i muri e scalini tagliati direttamente nella terra; fra il secondo e terzo ambiente è ipotizzabile la presenza di una scala a salire forse in muratura. L'edificio aveva due ingressi. Il primo, probabilmente quello principale, era sul lato occidentale ed è rappresentato da un taglio dai limiti molto netti; comunicava con una piccola corte e confinava con l'asse viario riconosciuto come la via publica citata da molti documenti. Il secondo ingresso posto sul lato orientale immetteva nel piano terra del terzo ambiente ed era probabilmente adibito a passaggio degli animali. Queste abitazioni facevano parte di quartieri non molto diversi dalla descrizione saltuaria riportata da molti contratti immobiliari redatti a Poggio Bonizio nel corso del XIII secolo. Per esempio il 7 agosto 1227 veniva venduta una «casa bassa» con platea posta in Vallepiatta; la casa, con uscite e ingresso confinava con la casa di Guido notaio di Volterra, con Diotifeci Battozzi, con la piazza e la strada, sul retro invece erano la casa alta di Guido e Lotterigo di Buono578. Oppure il 25 maggio 1263, un inventario di beni inerenti una successione citava dodici notai operanti a Poggio Bonizio ed alcune proprietà localizzate tramite la toponomastica di zone ben definite dell'insediamento. In particolare si attestano: una casa posta nel borgo di Vallepiatta e tra i confinatari la strada, la casa dei figli di Ruggeri della Volta, la «plateam» che era di medici Franco; una casa confinate con la strada, sul secondo lato con la casa che era di Ciampolo di Taccio e sul terzo con la «plateam et casam» che era di Volta Dolci Amorini; una «plateam» vicina la porta di Vallepiatta che confina con la via e con la greppa del mugnaio; un orto con case posto fuori della porta della Cateratta del Castelnuovo, che confina su tre lati con la via che va a borgo vecchio579. Infine ricordiamo l’edificio scavati detto “la casa di Scotto di Boncompagno”; all’interno è stato ritrovato un sigillo plumbeo recante inciso il suo nome. L'abitazione è caratterizzata da un unico grande ambiente a pianta rettangolare con dimensioni 14 x 8,5 m; anche questo edificio sorgeva nell'area occupata precedentemente da una delle case a schiera. I muri che delimitano l'edificio sui lati est e sud sono costituiti da conci di travertino di grandi dimensioni, squadrati e lavorati in superficie, legati con malta abbastanza tenace. La loro costruzione è da collocarsi a cavallo del XII-XIII secolo (si tratta di un riutilizzo del XIII secolo). Gli altri due muri sono lunghi 6,70 m e spessi 80 cm, costituiti da pietre di medie

578 RINALDI 1980, p.51. 579 RINALDI 1980, p.55. 149 dimensioni, legate con malta, rozzamente squadrate, che non presentano lavorazioni sulle superfici. Il lato meridionale dell'abitazione confinava con un'area aperta compresa nella struttura abitativa confinante mentre quello orientale su un cortile interno delimitato da muri e probabilmente pavimentato. Ad occidente, infine, la casa era affiancata dalla bottega del fabbro. La matrice - Come la maggior parte delle matrici è in bronzo, anche se il colore quasi argentato fa pensare all'introduzione di piombo. La forma è "a scudo triangolare", le misure 23 x 28 mm. Sul recto la legenda è inquadrata da un doppio filetto: quello esterno è liscio ed è assente lungo la base del triangolo; quello interno è decorato con punzonature e delimita anche il campo, occupato da uno scudo triangolare con croce di Sant'Andrea. Il verso è privo di decorazioni e dotato di una presa fissa con ansa circolare (diametro 4 mm) per l'immanicatura o la sospensione. La legenda - La legenda, ad intaglio, in lettere moderne, si svolge lungo il giro del tipario: + S(igillum) (punto triangolare) SCOTII BONCOMPAGNI Il proprietario - Scotto Boncompagni compare in due documenti, datati rispettivamente al 1226580 e al 1252581. Il primo è un Giuramento dei Consiglieri di Poggibonsi che promettono alleanza con il Comune di Siena; qui Scotto Boncompagni compare come testimone. Il secondo si tratta di un inventario di beni di tal Simone Guicciardi, redatto dal notaio Ildebrandino da Ricovero a favore dei figli eredi. Scotto Boncompagni è nominato come confinante di una casa posta «in aio della Senese» di proprietà del dufunto Guicciardi. Il suo nome non compare invece nella lista dei notai di Poggio Bonizio della metà del XIII secolo e del resto neppure la legenda del tipario riporta la qualifica lavorativa. Sembrerebbe quindi una matrice a carattere esclusivamente privato, anche se bisogna ricordare che spesso, ma soprattutto nei piccoli centri, addirittura il podestà o il giudice potevano omettere la professione, in quanto universalmente noti582. Un secondo reperto rinvenuto poco fuori la casa di Scotto lascia comunque pensare ad un’occupazione connessa con cariche amministrative di tipo pubblico; si tratta di un sigillo plumbeo pendente per bolla papale di Onorio III (1216-1227), a profilo circolare e sezione piena, decorata su entrambi i lati, con fori alle estremità per il passaggio del laccio che doveva fissarlo ad una pergamena583.

23 – Il quartiere dei fabbri. Le botteghe artigiane legate alla lavorazione dei metalli (individuate dagli archeologi come edificio 09, edificio 21 e edificio 31) si affacciavano sulla via principale ed in esse si svolgevano delle attività specifiche ognuna rappresentativa delle diverse fasi del ciclo di lavorazione del ferro: il minerale veniva ridotto nell’edificio 21, la forgiatura avveniva nell’edificio 31 e la rifinitura nell’edificio 09. Erano artigiani specializzati che probabilmente operavano in sinergia e considerando nel complesso il tipo di lavorazione del metallo svolta e la collocazione spaziale delle botteghe, si può forse ipotizzare una sorta di catena produttiva articolate su tre diversi edifici. Un ulteriore elemento indiziario può essere riconosciuto nella comunicazione interna, attraverso una porta aperta su un vicolo con canaletta di scolo, che avveniva tra le due strutture in cui si realizzavano le fasi finali della lavorazione (edifici 09 e 31). Come sappiamo, la documentazione scritta attesta per questo periodo la presenza dei mestieri del faber, del ferrator e del chiavarius. L’edificio 21 era esteso 5,50 x 9,50 m e disposto ortogonalmente rispetto alla strada. Le numerose testimonianze riconducibili alla pratica di attività metallurgica sono state

580 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.234, pp.336-345, 21-26 novembre 1226. 581 Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 23 ottobre 1252. 582 Sul sigillo in questione si veda BANDINI 1996. 583 Confronto perfettamente identico nella raccolta di bolle in BASCAPE’ 1978, pp.17, 27, 82-83. 150 individuate nella presenza di una struttura destinata alla riduzione del minerale. La zona di lavorazione, posizionata nei pressi dell’accesso ad un vicolo interno al quartiere largo 1,90 m (necessario allo smaltimento dei fumi), era delimitata da un perimetro rettangolare di laterizi al centro del quale venne costruito un forno costituito da una base circolare in lastre di travertino di medie e piccole dimensioni sormontata da una calotta in terra concotta; un taglio di forma allungata praticato sul limite ovest lascia ipotizzare una funzione di alloggio per ugello e quindi il posizionamento del mantice in questo lato. L’intero ambiente è inoltre caratterizzato dalla presenza di molti livelli di argilla concotta di colore rosso, quasi violaceo, con abbondanti carboni, ceneri, pietre appiattite con tracce di metallo fuso, scorie e resti di minerale ridotto non avviato a lavorazioni successive, che testimoniano un lungo sfruttamento della bottega ed una successione di strutture di forno nel tempo. Oltre al minerale la lavorazione interessava, seppur in quantità minore, oggetti in metallo riciclato come insegne da pellegrino, fibbie, o “semilavorati” come chiodi, coltelli, puntali di pugnale, barrette già forgiate da riutilizzare ecc. L’edificio 31, molto danneggiato da spoliazioni moderne e dalle pratiche agricole aveva dimensioni di 7 x 8 m ed era destinato ad attività di forgiatura; l’intera pavimentazione in terra battuta, oltre che annerita, mostra ampie tracce di forti esposizioni al calore mentre la struttura si collocava sul lato est dove sono stati individuati due tagli circolari riempiti da terra molto carica di carboni e numerose scorie di battitura; un piccolo vano a nord doveva invece fungere da deposito della riserva di legna e carbone. I livelli di riempimento e di abbandono della forgia hanno restituito, oltre alle già menzionate scorie di battitura di varia forma e dimensione, delle barrette e delle lamelle, oggetti in metallo pronti per essere riciclati, oggetti in corso di lavorazione come una chiave con tracce di esposizione ad alte temperature all’altezza dell’ingegno, catene, fibbie, cunei e soprattutto chiodi da ferratura. La presenza di uno spillone da focolare, se non faceva parte del campionario dei prodotti, doveva essere stato impiegato per l’innescamento del fuoco. Lo scavo ha inoltre evidenziato che i residui di lavorazione venivano abitualmente scaricati all’esterno sul prospiscente piano stradale. L’edificio 09 aveva misure di 15 x 11 m, si componeva di quattro ambienti non tutti interpretabili nella loro funzione, era dotato di una piccola cisterna rettangolare con canaletta di scolo posta sul lato sud e vi si accedeva dalla strada principale. Le tracce di cotture ad alte temperature sono ampiamente evidenti in ognuna delle stanze (carboni, svariati punti di fuoco, tracce di lunghe esposizione al calore presenti sui piani di calpestio) ma il vano in cui avveniva la battitura a caldo od a freddo del prodotto semi-lavorato era quello centrale (8,60 x 2,50 m); i resti di questa attività sono riconoscibili nella presenza sul pavimento ed in posizione centrale di una buca di forma ovale (85 x 50 cm), riempita di terra e pietre, che doveva fungere da alloggio per la base di sostenimento di un’incudine ed i cui limiti esterni erano costituiti da argilla molto indurita ed annerita interpretabili come probabili resti della battitura. Qui probabilmente dovevano anche essere svolte le operazioni di decorazione di alcuni dei pezzi rinvenuti (incisione, punzonatura, sbalzo e stampaggio) nonchèil trattamento delle loro superfici tramite doratura o argentatura. Questa bottega era anche il luogo di vendita dei propri prodotti direttamente sulla strada ed il rinvenimento di un gran numero di monete (oltre 45 esemplari) sui piani pavimentali, evidenzia un abbandono improvviso dell'edificio. A queste officine si aggiunge un quarto caso: la bottega d’incerta interpretazione sorta poco distante dalla cinta muraria in corrispondenza di una delle case a schiera della seconda fila. Era articolata su due vani comunicanti, di forma quasi quadrata, con misure di circa 5,70 x 5 m ognuno, contraddistinti dalla presenza di piani di argilla molto indurita con punti di cottura al centro. Nell’ambiente più esterno era stato realizzato un piccolo vano laterale dotato di un grande mortaio in pietra ancora in situ.

151 Le grandi restituzioni di reperti in vetro di ogni tipo, combinata con la presenza di ossa animali e molte conchiglie di madreperla, fanno pensare ad una struttura produttiva legata al riciclaggio di materiale vitreo che forse veniva nuovamente lavorato. Questa bottega si dedicava comunque anche al riciclo di metalli; ambedue gli ambienti hanno infatti restituito un numero molto ampio di esemplari pari a 375 oggetti fabbricati principalmente in ferro (37 invece sono in bronzo, mentre soltanto due rispettivamente in piombo e in argento e bronzo) suddivisibili in 13 categorie funzionali. Il numero così elevato di oggetti dipende dal grande quantitativo di chiodi presente nell’edificio: ben 190, attestati in varie forme e dimensioni ma non tutti collegati ad elementi strutturali dell’edificio. Anche gli elementi utilizzati nell’equipaggiamento del cavallo e del cavaliere e nell’allevamento sono numerosi: sono stati rinvenuti 46 chiodi da ferratura, un ferro da mulo, quattro fibbie ed un finimento relativi alla bardatura. 17 reperti sono relativi all’abbigliamento: si tratta di due applicazioni, un passante ed un puntale per cintura, un bottone, tre bubboli, sette fibbie, un finale per laccio e una placchetta applicativa per fibbia. Anche le armi sono relativamente numerose, 15, tutte ascrivibili alla tipologia delle punte di freccia da arco. Le applicazioni decorative insieme alle borchie, sono 11, mentre gli oggetti relativi a serrature, infissi e mobilio sono 10: tre elementi applicativi per mobilio, un cardine, due cerniere, tre chiavi ed un elemento di serratura. Lo strumentario domestico è limitato a tre catene e quattro ganci, legati alla presenza di focolari, visto il rinvenimento di alcuni di essi in zone esposte a cottura prolungata. La lavorazione di pietra, legno o metallo è testimoniata dalla presenza di un cuneo, tre punte di tipo generico ed una punta di trapano, mentre la lavorazione di cuoio, lana o tessuti si evince dalla presenza di due ditali ed un raschietto. La categoria dei coltelli riunisce quattro oggetti, compreso un puntale. Sono presenti anche un anello di funzione generica ed un laccio. A chiudere le restituzioni un pendaglio in argento e bronzo, con probabili funzioni di reliquiario, che costituisce un unicum all’interno del sito. La ricchezza quantitativa e qualitativa di questo corredo potrebbe far pensare ad altri tipi di attività svolte nell’edificio al di là della lavorazione del vetro, non inerenti la produzione metallurgica, vista l’assenza di indicatori produttivi, ma forse legate alla loro raccolta e/o smistamento. In pratica potrebbe trattarsi di una sorta di rigattiere specializzato in vetro e metalli che, soprattutto per i primi, effettuava anche un primo trattamento (frantumazione nel mortaio e produzione di fritte?). M.V.

24 – La grande chiesa di XIII secolo (Pieve di Sant’Agostino). Le campagne di scavo 2004 e 2005 hanno visto l’apertura di una nuova nella zona sud- ovest della collina, dove erano visibili, in gran parte coperti dalla vegetazione, i ruderi di una grande struttura in muratura. Il canonico Francesco Pratelli, nella sua Storia di Poggibonsi, riconduceva tali ruderi alla chiesa pievana intitolata a Sant’Agostino584. L’indagine archeologica sta portando alla luce i resti di un grande edificio religioso, costruito interamente in conci squadrati di travertino. Allo stato attuale delle indagini, la struttura risulta scandita in tre navate da 8 campate (è però ipotizzabile la presenza, nell’area antistante alla grande cisterna, di almeno un’altra campata) da pilastri perfettamente quadrati (1,30 m circa per lato) che scandivano campate con una “luce”

584 In tutto sono note tre chiese (Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.11, pp.17-18, 15 settembre 1168; Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 26 novembre 1180, 14 giugno 1188) di cui due già individuate dallo scavo. Sappiamo che le chiese venivano officiate dal proposto di Marturi per mezzo dei suoi canonici e dei suoi preti che dimoravano a turno in Poggio Bonizio, dove avevano un dormitorio. Questo risulta abbastanza chiaro dalla convenzione tra i chierici di Marturi ed il parroco di Talciona del 14 giugno 1188, rogata in «Podiobonizi intus dormitorio clericorum supradicte plebis Marturensis» (PRATELLI 1929- 1938 p.471 per la trascrizione integrale; Archivio di Stato di Firenze, Capitoli del Comune di Poggibonsi, XXVI, 76, 14 giugno 1188). 152 media di 3,20 m. Il rinvenimento, durante la rimozione con mezzo meccanico della vegetazione, di un monumentale capitello in travertino a base quadrata, decorato a foglie su due dei quattro lati, conferma la scansione interna a pilastri quadrangolari e denota l’importanza dell’edificio. La decorazione a fogliame, di accurata fattura, su due delle quattro facce del capitello indica che era probabilmente utilizzato in una semicolonna d’angolo. Il confronto con la vicina chiesa riconosciuta come Sant’Agnese conferma le dimensioni eccezionali dell’edificio religioso in corso di scavo; sono misurabili 47 m di lunghezza x 21,20 m di larghezza, con una estensione planimetrica finale stimabile (se calcoliamo l’esistenza di almeno un’altra campata, ancora da scavare, situabile nell’area antistante alla grande cisterna circolare) in 60-65 m circa x 21,20 m. L’analisi delle murature ha evidenziato la presenza di tre differenti tipologie costruttive che contraddistinguono le principali murature dell’edificio religioso. Le tecniche riscontrate rientrano tutte nel tipo di apparecchiatura cosiddetta romanica: conci squadrati posti su filari orizzontali e paralleli. Un paramento in conci squadrati ma con faccia a vista non spianata, semplicemente sbozzata a picconcello, è caratteristico della muratura di tre pilastri quadrati di grandi dimensioni (3,20 m di lato), situati nella parte sud-ovest dell’area: diversi per dimensioni e tecnica costruttiva dagli altri pilastri dell’edificio, sono forse riconducibili ad una struttura più antica, al momento difficilmente interpretabile. Il muro perimetrale sud ed i pilastri della navata laterale della chiesa presentano invece tutti tecnica simile, in conci di travertino perfettamente squadrati e spianati ad ascettino con nastrino lavorato a scalpello a lama piana. Questo tipo di muratura è quella maggiormente attestata all’interno dell’edificio, caratterizzando sia l’elevato del muro perimetrale sud della chiesa sia i pilastri della navata laterale: a questa tipologia costruttiva va probabilmente attribuito l’impianto principale dell’edificio religioso. La tecnica si caratterizza per un abile utilizzo di conci perfettamente spianati alternati ad altri, più rari, non perfettamente lavorati, a creare alternanza e movimento nel tessuto murario. La terza tecnica, simile alla seconda, si distingue da questa per l’utilizzo esclusivo di conci di travertino perfettamente spianati e squadrati e per una minore altezza dei filari (sono pressoché rettangolari, a differenza degli elementi lapidei utilizzati nelle altre due tecniche riscontrate, di dimensioni maggiori e posti in opera spesso per faccia quadra); è attestata in un unico caso, in entrambi i paramenti di un muro “a catasta” posto a chiudere lo spazio della seconda campata sud-ovest dell’edificio. Per lavorazione, tecnica di esecuzione e tipologia costruttiva, le murature caratterizzanti l’edificio sono probabilmente riconducibili ai primi decenni-metà XIII secolo. Alle fasi di vita della chiesa è collegabile un’area cimiteriale sviluppatasi esternamente, lungo i muri perimetrali meridionale e occidentale; allo stesso modo le sepolture infantili individuate all’interno della navata centrale e laterale meridionale. Sul lato meridionale della chiesa, addossate al muro, erano state costruite alcune tombe con cassa litica, orientate in direzione nord-sud, dove gli inumati venivano deposti con la testa rivolta a nord; erano realizzate in conci di calcare e pietra legati da malta e probabilmente dotate di lastre di copertura. Si tratta di sepolture multiple con riduzione degli individui precedentemente deposti all’interno delle strutture. Una di queste si è rivelata di grande interesse in quanto al di sotto e intorno al cranio di uno degli individui sepolti al suo interno, sono state rinvenute quattro conchiglie di Santiago di Compostela forate ai margini, come per essere cucite ad un abito o per farvi passare un laccetto in cuoio, appartenenti probabilmente ad un pellegrino. Il lato occidentale della chiesa doveva presentare un’organizzazione similare. A causa della quota molto vicina al piano di campagna, si sono conservate però solo due strutture, contenenti inumati in pessimo stato di conservazione.

153 Nella navata centrale ed in quella laterale meridionale sono emerse numerose sepolture pertinenti per lo più ad individui di età compresa fra 0 e 6 anni. Si tratta di casse litiche costituite da conci in pietra di piccola pezzatura o da laterizi di reimpiego, talvolta dotate di una parziale copertura in lastre di calcare. Al loro interno, i corpi furono inumati in posizione fetale o supina, senza corredo. Tutte le tombe si trovavano al di sotto dell’originario piano pavimentale della chiesa. Dopo la distruzione di Poggio Bonizio (1270) sembra verosimile che almeno in una parte dell’edificio, seppur parzialmente in rovina, si sia continuato a seppellire e a celebrare qualche funzione religiosa, come attestano anche i due loculi in muratura, databili tra XVII e XVIII secolo, rivenuti nella parte sud-ovest della navata meridionale. Tale considerazione concorda con la notizia di Pratelli che riporta come nel 1660 il clero poggibonsese usava ancora recarsi in processione presso i ruderi molto vistosi585. M.A.C., E.G.

25 - Poggio Bonizio e Colle Valdelsa: confronto tra due central place. Dalla fine del XII secolo, la Valdelsa mostra una storia territoriale atipica a confronto del resto della Toscana. Come ha sintetizzato Wickham, tratteggiandone il carattere di frontiera tra XI e XII secolo, la marginalità politica di quest’area (posta al confine di quattro città: Siena, Firenze, Volterra e Lucca), unita all’attraversamento della via Francigena, della Volterrana ed alla notevole pressione demografica, costituivano il motore potentissimo dello sviluppo economico586. La valle si differenziava dalle aree limitrofe assumendo un’identità distinta: divenne una zona di grandi nuclei urbani. Tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII secolo i centri maggiori, ampliatisi e connotati da una crescente vocazione economica multiforme, si resero autonomi e continuarono nella programmazione del proprio sviluppo demografico e produttivo. I tre grandi nuclei urbani di Colle, Poggio Bonizio e San Gimignano rappresentarono nella valle il punto di riferimento per i centri minori come Gambassi o Casole, anch’essi peraltro sviluppatisi sia demograficamente sia territorialmente che istituzionalmente. La loro crescita rappresentò una nuova forma di organizzazione della campagna, dove costituivano una seria alternativa al potere delle grandi città ed all’attrazione sui loro mercati. Più nello specifico, alla volontà signorile, al carattere di zone strategiche ed alla presenza di una rete viaria di importanza primaria si lega sia la nascita del castello di Poggio Bonizio sia quella del castello di Colle ed il loro successivo sviluppo in agglomerati urbani. Mentre la fondazione e la crescita di Poggio Bonizio, come abbiamo visto, risultano mirate e programmate alla creazione di un evidente central place, Colle mostra una tendenza molto simile, pur se con implicazioni topografiche e politiche diverse. Il territorio di Colle racchiudeva circa 46 kmq, inserendosi quindi in un’area quasi uguale per estensione a quella di Poggio Bonizio, ed il castello si collocava a distanze medie pressochè identiche dai centri circostanti (intorno ai 4 km Colle; oltre 3,8 km Poggio Bonizio). Anch’esso rappresentava il centro economico e di mercato principale; dal punto di vista topografico; rivela inoltre lo stesso modello insediativo: un nuovo centro di riferimento per la zona, destinato a crescere. La sua posizione spostata verso nord ovest (media distanza dai centri a sud 4,62 km; media distanza dai centri del nord 2,93 km; una differenza di 1,69 km) non contraddice la modellizzazione; l’agglomerato si sviluppa sugli spazi più vicini alla strada Volterrana tra quelli soggetti agli Aldobrandeschi. A Poggio Bonizio i Guidi sono inseriti in un gioco delle parti più ampio, di cui sono protagonisti assoluti Siena e Firenze, mentre la nobiltà locale ha un ruolo più marginale e

585 PRATELLI 1929-1938, pp.52-60. 586 WICKHAM 1998a. 154 non di primo piano tanto che deve obbligatoriamente schierarsi. A Colle, invece, lo sviluppo di una realtà urbana ha motivazioni diverse. I signori del luogo, gli Aldobrandeschi, dovevano avere proprietà già estese a Piticciano già prima dell’XI secolo587, un'area probabilmente caratterizzata da popolamento dislocato su poderi accentrati. I prodromi della crescita e della trasformazione del nucleo sono rintracciabili nella volontà aldobrandesca di affermarsi patrimonialmente ai danni del vescovo volterrano con l’occupazione della Pieve a Elsa, consolidare diritti e proprietà e controllare da vicino il traffico di immissione sulla strada Volterrana; a tal fine edificano anche il proprio monastero di famiglia: San Salvatore a Spugna. Nel luogo di Piticciano nacque quindi un centro insediativo che tra la fine dell'XI secolo e l'inizio del XII secolo doveva ormai essere ben formato588. La conferma dello sviluppo di una realtà consistentemente insediata e controllata dagli Aldobrandeschi, con il supporto dei monaci di Spugna attivi in una politica di espansione anche sul territorio circostante, si ha ancora ventitre anni più tardi, quando nel giuramento di fedeltà a Firenze prestato dal conte Uguccione si citavano come pegno di alleanza la rocca di Sillano, il castello di Tremali e Colle novo, qui Pititiano vocatur589. Il radicamento della famiglia rese Colle il più importante centro nodale della zona e topograficamente vediamo almeno sei tratti viari convergere a ragnatela sull’insediamento da nord. Inoltre vi si riunivano i raccordi di altri centri nodali primari come Galognano per il territorio poggibonsese ed il Chianti e Gracciano per i tratti provenienti da un ulteriore punto nodale, quello di Abbadia a Isola, che conseguentemente venivano posti in secondo piano590. L'ampliamento demografico conseguì molto probabilmente anche in questo caso all'immigrazione di famiglie dai villaggi circostanti, spinti sia dall'attrattiva rivestita da un nucleo insediativo in piena crescita sia dai pericoli legati dalle politiche espansionistico- militari di Siena e Firenze su tale area della Valdelsa. In conclusione, Poggio Bonizio e Colle furono ambedue fondati per iniziativa signorile; alla base ci furono motivazioni diverse (garantirsi alleanza con Siena e rafforzarsi contro Firenze per i Guidi; affermazione del proprio potere economico e territoriale a danno di Volterra per gli Aldobrandeschi), forma originaria simile (ambedue castelli), processi evolutivi urbani anch’essi simili ma con tempi diversificati (immediata crescita dietro programmazione a Poggio Bonizio; crescita più graduale a Colle), scelte topografiche uguali (zone di convergenza dei principali tratti stradali e creazione dei più importanti centri nodali), centralità primaria ma con valore diverso (più spiccata a Poggio Bonizio per il ruolo strategico rivestito e per essere immediatamente a contatto con la strada nella zona più centrale della Valdelsa). Per questi due casi si può parlare di un nuovo tipo di castello, le cui caratteristiche sono: - fondazione da parte di un potere signorile forte (laico od ecclesiastico); - grandi estensioni che superano facilmente i 2-3 ettari; - presenza di strutture monumentali; - frequente assenza di cassero; - pianificazione nell’articolazione degli spazi;

587 SCHNEIDER 1975, pp.269-270, n.233. 588 Si doveva estendere sino all'attuale Piazza del Duomo; la bolla concistoriale di Pasquale II del 1115, indica infatti tra le chiese dipendenti della Pieve a Elsa la cappellam sancti Salvatoris de Colle veteri cum pertinentiis, quest'ultima poi inglobata nell'attuale duomo di Colle nel XVI secolo (Archivio di Stato di Firenze, Comune di Colle, 27 Novembre 1115; SCHNEIDER 1907, n.152, p.55, 27 Novembre 1115; NINCI 1995, p.10, n.5; NINCI 1996, p.14). 589 SANTINI 1895-1952, pp.1-3. 590 La stessa costituzione di Spugna non sembra topograficamente slegata dalla strada; il monastero andava ad inserirsi sugli spazi migliori per essere vicino a Colle ed al tempo stesso mediare i due punti nodali ad est e sud est. 155 - carattere di central place (attrazione della popolazione dagli insediamenti circostanti). Il progressivo sviluppo topografico di Colle giunse a compimento agli inizi del XIII secolo; le due parti distinte dell’insediamento (il castellum Piticcianum, qui Colle vocatur591 ed il Castronovo colle cum pertinentiis suis592) ebbero un raccordo urbanistico definitivo con la formazione del burgus de Colle de Valle Else593, sviluppatosi grazie al forte potere signorile dei conti Alberti di Certaldo sostituitisi alla Badia fiorentina detentrice di proprietà nella zona: fu un tentativo di controllare il nuovo agglomerato sostituendosi all'autorità comitale. Firenze era riuscita dal 1138 a stabilirvi un presidio, che mantenne fino all’intervento imperiale in Toscana avvenuto circa trent’anni più tardi594. Le finalità dell’occupazione fiorentina erano duplici: liberare il punto d’incrocio delle strade per Volterra e per Grosseto, dominato dal castello e sul quale i conti dovevano avere imposto un pedaggio595; allontanare gli Aldobrandeschi dal Comitato fiorentino, colpendoli in corrispondenza dei domini più lontani dal loro raggio d’influenza ovvero il mezzogiorno del senese e la Maremma grossetana. Nella società colligiana convivevano ancora due realtà differenti: le proprietà detenute da cittadini fiorentini e senesi e la persistenza di diritti dei conti Aldobrandeschi e dei conti Alberti di Certaldo596. Il forte incremento demografico e lo sviluppo di floridi mercati su grandi arterie tali da attrarre persone anche dalle località più distanti, come a Poggio Bonizio portarono ad una diversa configurazione sociale dove la nobiltà e l’ingerenza delle città venivano gradualmente emarginate. L’organizzazione comunale era ormai preponderante e, con la parallela decadenza del monastero di Spugna, seguì il declino della famiglia fondatrice. Ciò è testimoniato anche dalla costituzione di una Societas Franchorum597 da parte di dipendenti dell'abbazia, agricoltori e artigiani sottrattisi al dominio signorile e stanziatisi a valle, organizzati in una sorta di confraternita o consorteria (Franchi = affrancati) che influenzò la nascita del Comune già dall'ultimo decennio del XII secolo598. Agli inizi del XIII secolo si osserva inoltre l’esistenza nel castello di zone lottizzate e destinate all'immigrazione, all'interno di una programmazione guidata dagli stessi leader della comunità; una situazione uguale è stata rinvenuta anche a Poggio Bonizio. In questo periodo la popolazione dell’intera valle doveva essere molto estesa; i nuovi capoluoghi attirarono gente dagli insediamenti vicini, ma lo sviluppo economico dovette indirizzare persone anche nelle campagne. L'autonomia ormai raggiunta dai grandi castelli e le loro trasformazioni portarono alla definizione dei rispettivi territori distrettuali599; tra

591 Si vedano MOROZZI 1777, p.56; KEHR 1908, n. 29, pp. 274-276, 23 Novembre 1183; NINCI 1995, p.10 e n.7; NINCI 1996, p.14. 592 Archivio di Stato di Firenze, Comune di Colle, 27 Novembre 1115; SCHNEIDER 1907, n.152, p.55, 27 Novembre 1115; NINCI 1995, p.10 n.5; NINCI 1996, p.14. 593 Archivio di Stato di Firenze, Comune di Colle, 26, cc. 24v-26v, 1201; NINCI 1995, p.10 e n.4; più tardi definito anche burgo superiori: Archivio di Stato di Firenze, Comune di Colle, 14 febbraio 1227; inoltre NINCI 1995, p.10 e n.4. 594 Firenze, nonostante la sua ingerenza si protraesse negli anni, non riuscì comunque ad imporre un controllo stabile, tanto che nel 1175 i colligiani apparivano come alleati di Siena: Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.14, pp.20-26; 22 Marzo 1175. 595 Ne abbiamo notizia nel 1202; DAVIDSOHN 1896-1927, p.630 e n.3. 596 Archivio di Stato di Firenze, Comune di Colle, 26, cc. 24v-26v, 1201; NINCI 1995, p.15. 597 Citata in numerose carte del XIII secolo. NINCI 1995, p.10, n.8; DINI 1900, p.211, 1 Gennaio 1218;. SCHNEIDER 1907, n.368, p.130, 9 Dicembre 1218. 598 In questo periodo si hanno le prime attestazioni di boni homines e consoli; CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.64. 599 Colle tra gli anni 1200-1231 consolidava il proprio territorio a scapito del vescovo di Volterra occupando i castelli di Pulicciano, , Gambassi e Montignoso in alleanza con San Gimignano, con il quale 156 1206-1209 Colle formalizzò i confini territoriali con San Gimignano e con Poggio Bonizio600. Risulta significativa l’estensione iniziale del distretto, corrispondente al poligono del central place: occupando gli spazi che topograficamente gli ruotavano intorno, il centro aveva assolto, dal punto di vista geografico, la funzione per cui era nato601. Anche nel caso di Poggio Bonizio osserviamo la stessa tendenza602. Il confine ovest viene autenticato dal confine est di Colle; la linea di demarcazione nord (Casaglia)603, est (Talciona)604 e sud (Galognano)605 trova ampia documentazione606. Gli allargamenti di Colle a Montegabbro e , nonchè di Poggio Bonizio a Staggia e tra il 1221 ed il 1245 rappresentano i successivi movimenti espansionistici dei due centri607. In questo momento Poggio Bonizio e Colle erano nel pieno del loro sviluppo. L’economia del primo si articolava su un equilibrio tra attività legate allo scambio ed attività finalizzate alla produzione agricola tramite una fitta rete di mulini circostante 608. L’economia del secondo aveva visto lo sviluppo dei settori artigianali e manifatturieri, come la lavorazione della lana ed attività di forgiatura dei metalli, ed il consolidarsi della tradizione agricola. Dalla prima metà del XIII secolo i fabbri e gli spadari colligiani si affermarono come una importante forza economica e sociale (occupavano addirittura un'intera zona all'interno dell'insediamento), che riforniva quasi monopolisticamente l'importante mercato senese609. Il successo di tali settori fu molto marcato ed ebbe un’espansione anche sul territorio, come mostra la ricognizione archeologica nella zona nord di Colle probabilmente specializzata in tali produzioni: ben 4 forni da ferro e 5 piccoli complessi articolati su un’abitazione ed un forno da ferro databili tra la seconda metà del XIII secolo ed il XIV secolo. Queste strutture si disponevano su spazi che permettevano con estrema facilità puntualizzò anche alcune norme in fatto di restituzione dei villanos provenienti dal territorio sangimignanese ai loro domini (il central place continuava ad attirare persone) e delimitò i propri territori (WALEY 1996, pp.12- 23). 600 BIADI 1859, p.56, che cita la carta contenuta in Archivio di Stato di Firenze, Dipl. Colle, 10 gennaio 1206. Inoltre SERCHI 1956, n.10, p.43; 10 Agosto 1209. Si veda poi CIAMPOLI 1996, pp. 56-65 (Libro Bianco, 10 agosto 1209): 5, pp. 65-69 (Libro Bianco, luglio-agosto 1209). 601 Il poligono tracciato per Colle, come abbiamo visto, comprende Galognano, Scarna, Gracciano, Pieve a Elsa, , Santinovo, Lano, , San Donato in Poggio, Coneo, Picchena, Foci, Monti, Bibbiano, Padule, Pino, Bucignano, Castiglioni.

Il confine settentrionale Picchena-Castiglioni è documentato nei patti redatti tra 1199-1231; ed allo stesso modo sappiamo che il confine meridionale Scarna-Lano, tagliando fuori Partena, demarcava le aree di pertinenza senese e volterrana. Partena fu inclusa nel territorio di Colle solo dal 1245; si veda FICKER 1868- 1874, n.395, pp.408-409; 2 Agosto 1245. Quartaia e Lano facevano parte del territorio colligiano sino dagli inizi del XII secolo (si veda Regestum Volaterrano, n. 152, p. 55; 27 Novembre 1115 per il privilegio a favore della Pieve d’Elsa e KEHR 1908, n.29, p.274; 23 Novembre 1183 per la bolla di Lucio III a favore del monastero di Spugna). Scarna demarcava il territorio senese e fu consegnata a Poggio Bonizio nel 1245). 602 Il poligono tracciato tra Casaglia, La Valle, Cedda, Villole, San Fabiano, Lecchi, Galognano, Castiglioni, Bucignano e dalle chiese di Pino e Padule trova conferma topografica e storica. 603 Casaglia segnava il confine con San Gimignano; si veda CIAMPOLI 1996, 4, pp.56-65 (Libro Bianco, 10 agosto 1209): 5, pp.65-69 (Libro Bianco, luglio-agosto 1209). 604 Talciona era compresa nei confini di Poggio Bonizio sino dal lodo di Ogerio del 1203 (Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.65, pp.90-93; 4 Giugno 1203). 605 In PRATELLI 1929-1938, pp. 480-481 ne viene attestata l’appartenenza alla pieve di Marturi per il 1130. 606 La zona di Staggia fu ceduta a Poggio Bonizio nel 1221; Caleffo Vecchio del Comune di Siena, n.168, p.236; SCHNEIDER 1911, n. 594, pp.263-264; 10 Luglio 1221. 607 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, n.168, pp.236; SCHNEIDER 1911, n.594, pp.263-264; 10 Luglio 1221. Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, 168, 1221, luglio 10; Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, 170, 1221, luglio 10-12, pp. 239-249; FICKER 1868-1874, IV, n. 395, pp. 408-409; 2 Agosto 1245. 608 In questo periodo sono per esempio attestati nove mulini lungo l'Elsa appartenenti al monastero di Marturi (Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Bonifazio, 10 ottobre 1257). 609 Dovevano porsi quasi interamente nel Borgo di Santa Caterina (NINCI 1995, p.20); MUZZI 1995, pp.239- 240. 157 l’accesso ai territori di Poggio Bonizio e San Gimignano, al mercato colligiano ed alle vie Francigena e Volterrana. La crescita dei centri ed il loro consolidamento sul territorio andarono di pari passo con i ripetuti tentativi fiorentini e senesi di estendere il loro controllo. Siena capì per prima l’importanza strategica insita nella fondazione di Poggio Bonizio, cooperando e rafforzandone i confini; Firenze invece si inserì a Colle per quasi un trentennio e strinse con essa ripetuti patti di alleanza610. Con la seconda metà del XIII secolo, i due insediamenti rinforzarono così le proprie difese. Colle fu interamente fortificata, con una progettazione dei lavori forse iniziata poco dopo il 1269 611; dagli Statuti del 1307 risulta infatti cinta di mura e ripartita in quattro contrade612. A Poggio Bonizio venne costruita una nuova cinta muraria che, oltre a sostiuire quella primitiva, inglobava una parte del borgo. M.V.

26 - I consumi in carne a Poggio Bonizio. Durante i 115 anni di vita di Poggio Bonizio la fauna dell'insediamento era caratterizzata da specie di tipo domestico; tra le ossa si riconoscono soprattutto bovini, suini, caprovini, ed in minor numero conigli, gatti e cani. Gli animali di grossa taglia sono maggiormente attestati, in particolare i bovini, che risultano la specie più diffusa, e gli equidi (cavallo ed asino) praticamente quasi assenti nel periodo altomedievale. Aumenta anche la percentuale di suini rispetto ai caprovini mentre i cani sono stati riconosciuti per la presenza di ossa con evidenti tracce di masticazione. Per i bovini e gli equidi non sono emersi individui giovani; questi animali venivano quindi ancora utilizzati soprattutto come forza lavoro o mezzo di trasporto e consumati quando il loro apporto produttivo cessava. Per quanto riguarda i suini sono state individuate due tendenze principali d'età: una discreta percentuale del campione è compresa tra 0 e 2 anni, mentre la maggior parte ha età superiore ai quattro anni, pochissimi sono invece gli individui compresi tra i due e i quattro anni. L'allevamento dei suini risulta quindi mirato al commercio; alcuni individui adulti venivano destinati alla riproduzione fino a quando il loro ciclo era redditizio e poi immessi sul mercato; il grosso dei capi era invece macellato giovane quando cioè la resa in carne è maggiore e di miglior qualità. Anche i caprovini presentano solo individui adulti e dovevano essere allevati forse a livello "domestico", cioè praticato in ambito familiare, unicamente per la produzione casearia e di lana, come sembra dimostrare la percentuale secondaria rispetto alle presenze di bovini e di suini. Le rivendite attive a Poggio Bonizio dovevano approvvigionarsi presso villaggi e poderi del circondario impegnati nell'allevamento delle specie di grossa taglia, come bovini ed equini, immesse nel circuito di vendita della carne solo in tarda età; allo stesso modo i caprovini erano destinati alla vendita od al consumo quando giungeva a termine il loro ciclo produttivo; solo i suini venivano invece allevati per il consumo. L'intera popolazione consumava una notevole quantità di carne nel XIII secolo. Le abitazioni caratterizate da un maggiore tenore economico avevano una dieta impostata sui bovini, in particolare i tagli provenienti dall'arto posteriore, e su giovani suini. Il consumo attestato nelle abitazioni che sembrano meno abbienti era invece basato solo su carni provenienti da individui anziani; in questi casi la specie maggiormente attestata è il suino,

610 Colle nel 1208 era alleata di Firenze nella guerra contro Siena; nel 1221 si pose in lega con Siena e Poggio Bonizio contro Firenze e l'anno dopo, a seguito della sconfitta senese, rivolse le armi contro gli alleati in ritirata; nel 1232 si alleò nuovamente con i fiorentini. Dopo essere divenuta vicariato imperiale nel 1241 si alleò con San Gimignano contro Poggio Bonizio nel 1252. Divisa politicamente fra fazioni filo-senesi e fazioni filo-fiorentine, dopo la battaglia di Benevento del 1266 (che segnava una pesante sconfitta del ghibellinismo) Colle si legò definitivamente ai secondi (CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p 64). 611 BASTIANONI 1970. 612 Archivio di Stato di Firenze, Comune di Colle, 1, cc. 51r-83v e 87r-88v; NINCI 1995, pp.17-18 e n. 35. 158 seguono poi in più bassa percentuale bovini e caprovini per i quali la scelta era rivolta quasi esclusivamente ai quarti anteriori, quelli più poveri in resa di carne. Pisa è il contesto urbano più vicino con il quale effettuare confronti. Nello scavo di Piazza Dante, in fasi comprese tra XII e XIII secolo, sono stati rilevati i dati faunistici di alcune case torri, di una struttura abitativa di minore tenore economico e di un'area non identificata con precisione613. Nel complesso si riconoscono molti punti di contatto per le specie attestate e cambiano leggermente le età degli animali macellati. Se a Pisa si può osservare il mercato della carne di una grande città, le differenze con Poggio Bonizio (un nucleo di 5000-7000 abitanti) sono però quasi esclusivamente rintracciabili a livello di fonti di approvvigionamento. Mentre nel centro valdelsano gli animali, con l'eccezione del maiale, venivano importati da aziende rurali che immettevano esemplari soprattutto adulti, a Pisa ci si riferiva invece con molta probabilità a centri specializzati nell'allevamento per la vendita. Nelle case torri si osserva infatti un consumo di carni molto variegato; era articolato su caprovini (il gruppo più numeroso ed in età compresa tra i 2-3 anni)614, suini (in due gruppi: con età di un anno e con età oltre due anni; qui il parallelo con Poggio Bonizio è molto calzante) e bovini (bestie giovani, sui 2 anni di età, ma anche bestie semi-adulte). Nella struttura di minore tenore economico le similitudini con Poggio Bonizio sono ancora più evidenti. Veniva consumata molta carne di caprovino e di suino e pochissima di bovino; si tratta in tutti i casi di individui anziani per i quali è ipotizzabile un costo minore. Una seconda area di scavo (il cosiddetto Settore II) che non permette, per l'alto grado di alterazione, il riconoscimento di edifici integri, lascia comunque intravedere una zona caratterizzata da un tenore economico simile. Anche qui si consumavano bovini, caprovini e suini; la carne di bovino era scarsa e relativa ad individui molto adulti; la carne di maiale e di caprovino proveniva sia da capi giovani che da capi adulti. Anche la caccia, per Poggio Bonizio inesistente, era praticata a Pisa solo per gli animali di grossa taglia: non veniva finalizzata alla mensa (sono solo poche le ossa di cervo rinvenute) piuttosto per procurarsi trofei come mostra il cranio con corna appartenente ad un capriolo. Altre realtà indagate archeologicamente come Argenta (FE) e Tuscania (VT) rappresentano centri demici di notevole spessore, delle “quasi città”, che consentono di confrontare i consumi in carne con Poggio Bonizio. In questi centri minori di popolamento, le specie domestiche rappresentavano la principale fonte carnea, anche se il rifornimento avveniva secondo modalità diverse. Tuscania era un insediamento spiccatamente rurale, dove l’attività dominante sembra risolversi

613 BRUNI 1993. 614 Analogamente, in altre città del XIII secolo, si nota la costante superiorità dei capriovini; il dato è sicuramente da ricollegare ad un periodo di forte espansione dell’agricoltura, che subirà invece un regresso a partire dal XIV secolo a favore di un’economia improntata maggiormente sullo sfruttamento dell’incolto per l’allevamento, dunque in buona parte mirato alla produzione di carne. A Genova, per esempio, dove sono stati rinvenuti due campioni di XIII secolo provenienti da zone distinte della città alle quali corrispondono due realtà sociali diverse, è confermata la presenza superiore di capriovini: nei livelli ortivi del complesso conventuale di S. Agostino e nello scarico di rifiuti utilizzato dai Fieschi, una famiglia nobile tra le più potenti nella Genova del tempo (BIASOTTI, ISETTI 1981). A Pavia, nella torre civica, dove sono emerse stratigrafie databili tra fine XI e inizi XVI secolo, si rileva una superiorità costante di capriovini; invece è interessante la diminuzione dei bovini tra XI e XIII secolo e la successiva ripresa nel corso del XIV secolo a danno dei suini (BARKER, WHEELER 1978, p. 254), probabilmente a causa di un processo generale di crescita dell’incolto, a partire dal XIV secolo: sfruttato per il pascolo e la produzione, quindi, di carne bovina, assicura la maggiore disponibilità di risorsa carnea per il consumo. Anche nella Firenze di XIII secolo, i capriovini sono la specie maggiormente presente nei rifiuti di pasto. I resti trovati in un pozzo di seconda metà del XIII secolo, rinvenuto in Piazza della Signoria, evidenziano una superiorità a dir poco schiacciante dei capriovini rispetto alle altre specie; in un altro pozzo, posto in via de’ Castellani, nel quale il materiale presente è riferibile ad un lasso cronologico più ampio (1350-1550), i capriovini sono ancora le specie più abbondanti; si evidenzia però un aumento dei bovini, tra i quali si registra la comparsa di vitelli non segnalata nel pozzo di Piazza della Signoria. Si veda CORRIDI 1995, p.332. 159 nell’allevamento ovino615. Poggio Bonizio era un centro che si sviluppava lungo uno degli assi della Francigena, era caratterizzato da una spiccata attività commerciale, in cui gli animali, con l’eccezione del maiale, venivano importati da aziende rurali che rifornivano esemplari soprattutto adulti ed al termine del loro ciclo produttivo. Argenta, nel corso del XIII secolo, era un insediamento rurale caratterizzato da un’attività spiccatamente agricola su cui l’arcivescovo di Ferrara esercitava diritti comitali, ed era inoltre utilizzato come residenza estiva di quest’ultimo. La provenienza dei campioni faunistici è diversa nei tre contesti analizzati. A Poggio Bonizio i resti ossei provengono da diversi livelli di frequentazione dell’abitato, a Tuscania sono stati recuperati dai riempimenti di alcune cisterne e pozzi 616, mentre ad Argenta i resti animali provengono dal riempimento di un canale per la bonifica del territorio circostante il nucleo urbano, avvenuto tra l’ultimo quarto del XIII secolo e i primi decenni del XIV secolo. In tutti i casi si tratta comunque dei resti di pasto o scarti di macellazione. La prima differenza evidente, tra gli insediamenti esaminati, riguarda il rapporto percentuale tra le specie rinvenute: Tuscania e Poggio Bonizio presentano entrambi una maggiore percentuale di capriovini, mentre ad Argenta risulta maggiore la presenza di bovini. L’allevamento dei bovini era in tutti gli insediamenti finalizzato principalmente allo sfruttamento del bestiame come risorsa viva, probabilmente come forza lavoro nei campi. Lo sfruttamento dei capriovini risulta invece differenziato; negli insediamenti toscano e laziale erano impiegati principalmente per la produzione di beni secondari (lana e formaggio)617, mentre una piccola parte delle greggi era destinata al consumo. Visto il basso valore percentuale degli individui giovani, cioè in età compresa tra il primo ed il secondo anno, è probabile che non fosse praticato un vero e proprio allevamento per la produzione di carne ma che i soggetti destinati al consumo rappresentassero delle eccedenze nelle greggi: maschi in eccesso e femmine sterili. Ad Argenta, invece, i capriovini erano custoditi principalmente per la produzione di carne; più della metà della “popolazione” rinvenuta è infatti composta da individui che hanno un’età massima di due anni, mentre secondario era l’allevamento per la produzione di latte e lana. La presenza di greggi poco numerose di capre e pecore, rappresentata dal basso valore percentuale nel campione, sembrerebbe imputabile alle costrizioni ambientali del ferrarese, dove la bassa percentuale di capre e pecore era determinato dai pascoli umidi, che risultano nocivi a queste specie618. Non è perciò escluso che i capriovini giovani fossero in realtà giunti nell’insediamento attraverso il mercato per mezzo di fornitori lontanti. Anche a Poggio Bonizio, la distribuzione anatomica di capre e pecore ha permesso di evidenziare un’importazione di carne dall’esterno; qui le aziende rurali che rifornivano il mercato dovevano però trovarsi nel territorio limitrofo, in quanto la Valdelsa ed il Chianti non costituirono mai un problema per lo stato di salute delle greggi ovine e caprine. L’ambiente dovette realmente rappresentare un fattore determinante nelle strategie di allevamento adottate nel territorio ferrarese, viste le notevoli analogie del campione di Argenta con la città di Ferrara dove tre delle quattro zone della città, indagate archeologicamente, hanno restituito una frequenza maggiore di bovini619. Le strategie adottate per l’allevamento dei suini sono anch’esse risultate diverse tra Argenta e gli altri insediamenti. A Tuscania e Poggio Bonizio, i maiali venivano solitamente

615 BARKER 1973, p.159. 616 BARKER 1973, p.161. 617 A Poggio Bonizio come a Tuscania l’età media di abbattimento dei capriovini risulta generalmente al di spora dei tre anni, quindi quando l’apporto produttivo dei soggetti iniziava a decrescere, per Tuscania vedi BARKER 1973, p.161. 618 FARELLO 1994, p. 490. 619 Si veda Tabella 1 in FARELLO 1994, p. 489. 160 macellati tra il primo ed il secondo anno, cioè nel momento di massima resa dell’animale; ad Argenta l’età media dei decessi di suini è intorno all’anno, ad indicare un tipo di allevamento in cui la popolazione veniva rinnovata ogni anno a discapito di una maggiore resa. F.S.

27 - Gli ultimi decenni di Poggio Bonizio. Seconda metà del XIII secolo. La riprogettazione della zona sommitale e della viabilità, la forma del borgo individuata tramite fotointerpretazione, molto probabilmente articolato in lotti di edifici raccolti all'interno di una rete viaria per linee parallele con andamento regolare e continuo che si dispongono sia in verticale che in orizzontale, formando una maglia molto fitta ed apparentemente a scacchiera, lasciano ipotizzare l'esistenza di una volontà di regolamentazione del tessuto urbano. Sembra quindi che si voglia continuare a guidare lo sviluppo topografico dell'insediamento. In questi anni le vicende politiche di Podium Bonizi si erano legate strettamente a quelle del partito ghibellino, promuovendo azioni apertamente ostili verso Firenze. Già nel 1221 si alleò con Siena in funzione antifiorentina ottenendo l'allargamento del proprio territorio sino al castello di Staggia620. cinque anni dopo l'intera popolazione giurava fedeltà all'alleata621 e nel 1228 Podium Bonizi, Siena e Pisa si costituirono in lega contro lo schieramento Firenze-Lucca622. Con la pace del 1235, in pratica una vittoria fiorentina, pronunciata dal cardinale Giacomo, vescovo di Palestrina623, si sciolse l'alleanza e furono ripristinati gli antichi diritti dei vincitori sul castello624; ma, quasi contemporaneamente, divenne il caposaldo delle iniziative imperiali e poi di nuovo nello schieramento ghibellino, pagandone pesantemente le conseguenze. L'aspetto di Podium Bonizi cambiò nuovamente nel 1260625, anno che segna l'emancipazione dal dominio fiorentino iniziato nel 1254 ed a cui, come sappiamo, era conseguito un abbattimento graduale delle fortificazioni tanto che le carte del tempo lo identificano come burgo626. L'insediamento fu allora rifortificato e le difese furono allargate all'intera collina includendo parte dei borghi. A questo evento sono da ricollegare alcune tracce materiali in elevato e la presenza della torre posta all'interno della porta San

620 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.168, pp.232-238, 10 luglio 1221. Il giuramento di fedeltà della popolazione è riportato in Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.170, pp.239-249, 10-12 luglio 1221. Caggese, analizzando il rapporto economico-giuridico tra Siena ed il suo contado nel XIII secolo, tratta la politica adottata dai senesi nei confronti della nobiltà rurale mettendone in risalto l'assenza di comportamenti radicali. Evidenzia la diffusione di tale atteggiamento anche nei comuni minori ad essa legati e porta come esempio la sottomissione dei Soarzi a Podium Bonizi nella quale cedevano le loro case «et villanos et colonos et masnaderios et fideles (...) et castrum de Stagia» ed il comune si impegnava a non distruggere il castello nè impedire che i detti signori abbiano «a villanis et masnaderiis antiqua servitia»; inoltre il comune garantisce che se mai qualche villano sottoposto ai Soarzi andrà ad abitare in Podium Bonizi, verrà fissato il fitto della terra da lui condotta ed anche il prezzo della manomissione (CAGGESE 1906, pp.11-12). 621 nel mese di giugno i consiglieri del comune di Podium Bonizi avevano già giurato la lega: Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.235, pp.345-346, 22 giugno 1226; nel novembre giura la popolazione: Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.234, pp.336-345, 21-26 novembre 1226. 622 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, I, n.254, pp.360-364, 7 giugno 1228 623 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, II, n.275, pp.427-432, 30 giugno 1235; II, n.276, pp.432-434, 13 giugno 1235; II, n.277, pp.434-436, 16 giugno 1235; II, n.278, pp.436-437, 8 giugno 1235; II, n.279, pp.437- 438, 12 giugno 1235. 624 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, II, n.280, p.438, 10 giugno 1235; II, n.281,pp.438-439, 11 agosto 1235; II, n.287, pp.443-444, 7 agosto 1235; II, n.282, pp.439-440, 11 agosto 1235. 625 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, II, 625, 1260, novembre 25, pp.837-841: cessione di Firenze a Siena dei diritti su Podium Bonizi. Alla morte di Manfredi ed il conseguente potenziamento della parte guelfa, Podium Bonizi divenne anche ricovero di fuoriusciti ghibellini. 626 PAOLI 1899, p.68. 161 Francesco: frutto di un evento costruttivo omogeneo (con confronti in edifici datati alla seconda metà del XIII secolo) mostra sulla parete est evidenti tracce dell'ammorsamento di un possente muro; inoltre, la sezione posta sempre sul lato est, smottando, ha messo in luce una cospicua presenza di conci a grandi dimensioni. Da qui la cinta, prendendo una leggera angolazione, doveva scendere ad una curva di livello sottostante, corrispondente a quella su cui è posta la Fonte delle Fate, continuando in linea retta sino a raggiungerla, inglobarla e risalire, ricongiungendosi alla parte sommitale; in questa zona sono stati infatti riconosciuti tratti murari attribuibili alla cinta (lato a valle e lato a monte). In corrispondenza del lato est della collina, le nuove mura dovevano ripercorrere l'attuale cinta di fortezza, ampliandosi sulla zona oggi destinata a vigna e raggiungendo la piccola area alle spalle dell'attuale residenza agricola; qui il processamento del volo regionale sui centri storici mostra anomalie relative al circuito e una sua svolta in direzione nord, tagliando fuori la vigna antistante il cassero mediceo ed il cassero stesso. Poggio Bonizio doveva avere all’ora un’estensione di 12 ettari627. A seguito della vittoria senese di Montaperti, il grande castello riprese la propria autonomia ed il proprio ruolo di centro territoriale primario delle iniziative ghibelline 628. Alla morte di Manfredi ed il conseguente potenziamento della parte guelfa, Podium Bonizi divenne anche ricovero di fuoriusciti ghibellini. Dopo la conquista di Carlo d'Angiò del 1267 e l'inizio della costruzione di un cassero (quasi sicuramente da porre nell'attuale area del cassero mediceo), Firenze acquistò i diritti sul villaggio e vi pose un proprio presidio 629. Un anno più tardi, spinta dalla calata di Corradino di Svevia, la popolazione scacciò gli occupanti e si pose sotto la sua protezione. Il destino di Podium Bonizi fu a questo punto inscindibilmente legato alla breve avventura dell'imperatore. A distanza di due mesi dalla sua morte, nel 1270 il castello fu assediato ed espugnato da Guido di Monfort vicario generale di Carlo d'Angiò; Firenze pagò una grossa somma in denaro per il diritto alla completa distruzione che non si limitò alle difese ed agli edifici principali, ma pare essere stata totale; alla distruzione parteciparono anche i vicini comuni di Colle Val d'Elsa e San Gimignano. La cronachistica di poco posteriore narra dell'abbattimento di abitazioni, chiese e dell'interramento delle fontane630. La distruzione e la destrutturazione dell'insediamento, voluti da Firenze nel 1270, investì quindi la massima espansione degli spazi fortificati e un Podium Bonizi che occupava più o meno lo stesso spazio poi delimitato dalla cinta rinascimentale. La popolazione fu fatta trasferire nel sottostante Borgo di Marturi e venne promulgato solenne divieto di ricostruire il castello. La nuova comunità riuscì ancora per alcuni anni nel condurre una politica autonoma ed a fortificare con un'estesa cinta muraria il villaggio; nonostante la sconfitta e la pesante punizione, il centro continuò ancora dieci anni più tardi nella sua politica filo-imperiale e ad accogliere fuoriusciti ghibellini senesi. Il caso di Poggio Bonizio (abbandonato, come Semifonte, a causa di una distruzione violenta), è archeologicamente molto significativo: ci permette di indagare una "quasi città" medievale sino dalla sua fondazione e nel suo sviluppo successivo, di conoscere i monumenti e le costruzioni che lo componevano.

28 - Arrigo VII fonda Monte Imperiale. 1313.

627 Pratelli, che scrisse autorevolmente nella prima metà del nostro secolo, propone un'utilissima rassegna di elementi topografici riguardanti il castello anche se sono presenti alcuni errori di ipervalutazione: per esempio vede le fortificazioni estendersi sino al poggio di San Lucchese. 628 Caleffo Vecchio del Comune di Siena, II, n.265, pp.837-841, 25 novembre 1260: cessione di Firenze a Siena dei diritti su Podium Bonizi. 629 PESCATORI 1992, p.223. 630 Cronache più o meno coeve agli eventi trascritte in TARGIONI TOZZETTI 1775, VIII, p.420; CIASPINI 1850, p.34; RINALDI 1980. 162 Dopo la distruzione fiorentina di Poggio Bonizio del 1270, il luogo venne scelto poco più di quarantanni dopo dall’imperatore Arrigo VII per la fondazione di una nuova città che doveva svolgere la funzione di caposaldo per la stabilizzazione del potere imperiale in Toscana e rappresentare il simbolo della rinnovata potenza. Nel gennaio 1313, dopo avere tentato inutilmente di assediare Firenze e devastatone il contado per rappresaglia, si accampò nei pressi della collina; qui, un mese più tardi, iniziò la ricostruzione di Monte Imperiale. Le fonti riportano che furono forse definiti il tracciato delle fortificazioni e la posizione delle porte; venne inoltre iniziata la costruzione delle abitazioni per richiamare gente dai dintorni. La cerimonia di posa della prima pietra fu raffigurata in una miniatura del Codice di Balduino di Coblenza datato al XIV secolo631. Le macerie ancora presenti sul luogo furono impiegate per livellare la forte pendenza della collina. Sono riconoscibili, inoltre, nuovi edifici, costruiti riusando le strutture in migliore stato di conservazione sia sottoforma di case sia di strutture produttive. In particolare il quartiere est rivela riusi di alcune delle lunghe case a schiera, innalzando nuovamente muri con finestre dotate di vetrate di colore azzurro intenso, stendendo piani pavimentali in terra battuta, realizzando focolari quadrangolari in mattone, sfruttando di un silos per grano probabilmente come pozzo per acqua piovana mentre una cisterna (forse perchè pesantemente obliterata dal crollo delle proprie strutture sommitali e da quello delle strutture circostanti) venne riutilizzata come un ambiente abitativo appoggiandovi uno spesso battuto di terra. Non escludiamo che questa zona sia stata destinata anche per gli alloggi o l’acquartieramento di membri del seguito imperiale e di truppe; sembrano riconducibili ai primi alcuni oggetti metallici tra cui un precoce esempio di forchetta in ferro con inforcatura a quattro rebbi acuminati e immanicatura a sezione circolare (inizialmente considerato un oggetto di lusso, fabbricato talvolta in materiale pregiato)632, mentre tra la grande quantità di vetri (presenti brocche, bottiglie, fiaschi, bicchier gambassini di quattro tipi e calici) sono venuti in luce reperti molto particolari come un reliquario di fattura estremamente pregiata con pochissimi confronti in Europa: il bicchiere di Edvige, una produzione di lusso, importata probabilmente dal Medio Oriente e decorata con la tecnica della molatura. In generale la quantità di reperti metallici è molto elevata e caratterizza la frequentazione della collina legata all’imperatore. Una delle lunghe case a schiera riutilizzate, che può considerarsi l’alloggio di ufficiali e del loro staff, ha restituito per esempio 120 oggetti, fabbricati per lo più in ferro e 23 oggetti in bronzo ed uno in piombo. Alcuni oggetti risultano relativi all’abbigliamento (un bottone, un bubbolo, un pendaglio, una placchetta applicativa per fibbie); sono poi presenti sei coltelli e due puntali per guaina, applicazioni decorative ed oggetti pertinenti all’equipaggiamento di cavallo e cavaliere, chiodi da ferratura ed uno sperone, tre punte di freccia per arco ed una per balestra, arma che favorirà in seguito l’introduzione delle armature a placca, qui ancora non introdotte come testimonia la presenza di un frammento di maglia metallica. La presenza di molti armati e delle loro cavalcature, al seguito di Arrigo, si riconosce del resto nei numerosi frammenti di maglie metalliche usate per proteggere varie parti del

631 La cerimonia di posa della prima pietra raffigurata in una miniatura del «Codice di Balduino» di Coblenza datato al XIV secolo è riprodotta in TOSTI-CROCE 1993. 632 Le forchette, “instrumentun diabolicum”, dopo sporadiche apparizioni, fanno una comparsa saltuaria sulle tavole italiane nel corso del XIV secolo, per poi affermarsi definitivamente fra il XV e il XVI secolo (MARCHESE 1989, pp.37-91). 163 corpo umano e del cavallo633 ma anche in cinque speroni da cavaliere634. Per quanto riguarda le armi si sottolinea il passaggio dall’utilizzo di punte di freccia per arco a punte di freccia per balestra, che fanno qui una precoce apparizione. I livelli rilevati indicano comunque che molte delle strutture relative a Poggio Bonizio erano ancora ben visibili nel 1313 ed Arrigo progettò meticolosamente la nuova città di Monte Imperiale tenendone conto; intendeva sicuramente riusare la possente cinta muraria superstite e realizzò un esteso sistema di fognature che sembra attraversare la collina con regolarità. Indagando una delle strutture del nuovo centro, al di sotto di alcuni strati di pietrisco, è stato individuato un taglio di forma allungata relativo alla sepoltura di un individuo. La tomba, oltre ad essere in una posizione insolita, cioè all’interno di un edificio abitativo, si trovava a pochi centimetri dai piani pavimentali in terra battuta di XIV secolo e ha tagliato un muro in travertino. Tutti questi indicatori fanno presupporre l’occultamento molto sommario di un cadavere. La posizone dell’inumato infatti, buttato all’interno della fossa con il cranio ruotato di 180°, fa pensare ad un omicidio, come il coltello rinvenuto accanto ai piedi all’interno della tomba. La fine della breve avventura italiana di Arrigo VII coincise con la fine del nuovo centro; quasi subito, l'imperatore si spostò in Val d'Era dove morì e nel breve spazio di cinque mesi il tentativo di dare vita al nuovo centro venne interrotto; le milizie fiorentine attaccarono la collina e distrussero nuovamente l’abitato635. La popolazione fu definitivamente trasferita nel sottostante Borgo Marturi, l’odierna Poggibonsi e la collina ebbe essenzialmente funzione di cava per materiali lapidei. Tra le norme statutarie del 1338 di questa comunità, si segnalano infatti due disposizioni concernenti il prelievo di materiale edilizio sul Poggio di Bonizio solo dietro finalità di edificare nel sottostante Poggibonsi636. L'estimo del contado redatto nel 1318, attesta l'esistenza di numerosi campi e di un fossato che doveva essere relazionato al castello637.

29 - Una struttura per la macellazione degli animali ed un bassofuco trecentesco. La struttura, posta circa 40-50 cm al di sotto del piano di campagna, ha dimensioni di 21 x 6,5 m ed orientamento nord ovest-sud est nei lati lunghi. Internamente, l'edificio è costituito da un livello pavimentale di terra tufacea compattata e mista a pietre, con grandi capacità di assorbimento dell'acqua; poggia su un vespaio di

633 Ogni parte del corpo umano o animale aveva la sua protezione corrispondente, che acquisiva nomi diversi nei vari casi; si ricordano, ad esempio: buffa di maglia, cuffia di maglia, camicia di maglia, maniche di maglia, pellegrina di maglia, braghe di maglia, ecc. (BOCCIA 1982, pp. 18-20). Le maglie rinvenute erano costruite attraverso la concatenazione di un anello ad altri quattro uguali, fabbricati in modo che si potessero chiudere tramite un piccolo rivetto una volta inserito all’interno dell’altro anello. Lo stato di conservazioni non ci permette di stabilire il tipo di disegno che andavano a formare e se fossero del tipo a grana d’orzo, introdotto nel corso del XIII secolo. 634 Gli speroni sono di due tipi. “A rotella” con sei o dieci punte inserite in una forcella ricavata al termine del corto collo a sezione circolare; le braccia sono arcuate a sezione rettangolare e terminano su un lato con un occhio ovale, mentre nel foro circolare dell’altro è inserito un gancio che si immagina collegato al cinturino di chiusura. “A brocco” (grazie al nome della caratteristica appendice con la quale veniva pungolato l’animale) con ampio e corto collo circolare e brocco bipiramidale appuntito, braccia larghe a sezione ovoidale; in alcuni esemplari, al termine di un braccio, è stata trovata una placca rettangolare unita tramite rivetti, che doveva essere collegata al cinturino di chiusura dell’oggetto o al sottopiede; l’altra estremità termina invece con l’occhio funzionale anch’esso alla chiusura. Lo sperone a rotella mostra una attestazione anticipata di alcuni anni essendo generalmente documentato a partire dal secondo ventennio del XIV secolo. 635 Sulla vicenda si vedano CAMMAROSANO, PASSERI 1984, p.135; DAVIDSOHN 1896-1927 1896-1927, IV, pp.705-707; PRATELLI 1929-1938, pp.240-255. 636 RAVENNI 1995, p.117. 637 RINALDI 1986. 164 pietre di piccole e medie dimensioni, che serviva sia per livellare il terreno, sia per isolare i battuti dall'umidità. Il pavimento di terra ha un'estensione di circa 20 m sul lato lungo e di 5 m su quello corto; è delimitato da muri costruiti con pietre non squadrate (pietrame e ciottoli di fiume) di varie dimensioni e con argilla usata come legante. E' escluso che potesse esistere un piano superiore, sia perchè non si riscontrano tracce di scale in muratura o in legno, sia perchè i muri, vista la loro tecnica edilizia grossolana, non sembrano progettati per sorreggere il peso di un solaio. L'unica porta riscontrata nella struttura si apre sul lato ovest, affiancato alla strada sterrata moderna, che in questo punto dovrebbe ricalcare la direttrice medievale. Se la strada duecentesca corrispondesse (come è probabile), in tutto il suo percorso, a quella che oggi taglia in direzione nord ovest-sud est l'area della fortezza, potrebbe essere interpretata, per le dimensioni e le funzioni di collegamento, come uno degli assi più importanti del castello di Podium Bonizi. Quindi l'accesso alla macelleria, che avveniva direttamente da questa strada, testimonia la posizione privilegiata in cui si trovava la bottega. Al centro del battuto interno dell'ambiente si trovano tre buche circolari, molto grandi (dal diametro di circa 60 cm), ravvicinate tra loro ed allineate in direzione nord ovest-sud est, come i muri dei lati lunghi. Servivano ad alloggiare tre grossi pali del diametro di circa 50 cm, che dovevano sostenere la copertura nella parte centrale. Quest'ultima era costituita nelle sue parti essenziali, come tutti gli altri edifici dell'area, da legno ed erano in legno i pali che la sostenevano. Trovandosi i pali esattamente al centro dell'ambiente, la copertura doveva essere costituita da un tetto a due falde piuttosto che ad una sola; l'incastro delle travi era assicurato da chiodi di varie dimensioni. La copertura minuta del tetto, presenta un accorgimento particolare: l'uso di lastre lavorate in calcare scistoso di piccole e grandi dimensioni, trovate in quantità sul battuto della macelleria. Nella parte nord est il pavimento della macelleria è coperto da uno strato composto di pietrisco legato con calce, messo in opera per creare una sorta di acciottolato, di forma irregolarmente semicircolare e limitato solamente a questa zona (3 x 3 m). Date le dimensioni ridotte di questa struttura, è impossibile darne una corretta interpretazione; potrebbe però trattarsi di una piattaforma funzionale ad attività specifiche, come per esempio la vera e propria macellazione degli animali, oppure di un tentativo, non portato a termine, di ripavimentazione e di riuso del complesso in un periodo più tardo. I muri interni non erano rivestiti, non c'è infatti traccia di frammenti d'intonaco nella stratigrafia di questo edificio; è probabile invece che sulle pareti si trovassero degli uncini di ferro che sorreggevano gli animali macellati, come testimoniano i numerosi ritrovamenti di oggetti in metallo (ganci, chiodi di grandi dimensioni). D'altronde sono proprio i reperti metallici come ferri di cavallo e di asino ed osteologici che indicano la funzione di questo ambiente e che permettono di identificarlo. L’edificio si caratterizza per l'alta percentuale di ossa "di scarto" e per le numerose ossa con visibili tracce di macellazione distinte in diverse tipologie; presentano segni di fendenti sulle diafisi delle ossa lunghe praticati sia a metà del corpo diafisiario (per l'estrazione del midollo) sia in prossimità delle articolazioni (per il distacco di porzioni di carne). Inizialmente gli animali venivano divisi in due parti lungo la spina dorsale come testimoniano alcune vertebre tagliate longitudinalmente. Nella bottega si lavoravano tutti gli animali domestici, ma veniva maggiormente venduta carne di bovino ed al secondo posto quella dei maiali; quest'ultimi erano disponibili sia giovani che adulti e l'alta percentuale di individui di tarda età sembra indicare un loro più ampio commercio in quanto meno costosi. Si segnala anche un probabile smercio di carne di gatto (pur se marginale) come sembrano attestare alcune delle ossa rinvenute.

165 Il bassofuoco per la riduzione del ferro era molto spostato in direzione nord rispetto alla zona deputata alla lavorazione dei metalli riconosciuta nei livelli di Poggio Bonizio; questo elemento, oltre alla cronologia offerta dalla ceramica, conferma la cesura abitativa che contraddistingue i due diversi momenti. La struttura fu impiantata all’interno dei ruderi di un edificio del quale erano state asportate molte delle macerie conseguite al suo abbandono; aveva forma vagamente rettangolare, con dimensioni di 1,60 x 1,40 m, ed era costituita da pietre e frammenti di laterizio mentre veniva delimitata ad est da un piano di calpestio di forma semicircolare allungata composto anch’esso di pietre e laterizi. Era riempita da due livelli di terra, cenere e carboni associate a scorie e minerale ridotto non avviato a lavorazioni successive; è difficile stabilire dove fosse stato alloggiato il mantice non avendo rinvenuto indicatori materiali sulla posizione dell’augello od al suo sorreggimento ed anche la presenza di un muretto rasato che potrebbe essere collegata a tale scopo lascia però dubbi poichè la posizione del mantice risulterebbe disassata rispetto all’orientamento generale della struttura. Sul lato est è presente un taglio con dimensioni di 2,30 x 1,30 m, riempito da due livelli composti soprattutto da carboni e cenere; potrebbero rappresentare una zona di arrostimento del minerale, una lavorazione necessaria prima del suo trattamento nel vicino bassofuoco. L’impianto trova confronti con quello indagato nel villaggio minerario di Rocca San Silvestro datato tra fine XI-inizi Xii secolo e separato dalla zona abitativa638. La sua attività doveva essere finalizzata a sopperire le necessità del cantiere edilizio e dovette funzionare per pochissimo tempo; allo stesso modo ebbe breve vita la probabile struttura di forgia individuata in un contiguo edificio le cui stratigrafie sono risultate molto alterate dalle operazioni agricole.

30 - La Fortezza di Lorenzo il Magnifico. Fine XV-XVI secolo. La collina continuò a rappresentare un punto strategico e di controllo. Firenze nel 1429 edificò delle nuove fortificazioni delle quali non si conosce la portata ma che probabilmente si limitavano alla zona dell'attuale cassero mediceo. Cinquant'anni più tardi ospitavano una numerosa guarnigione a presidio dei confini con Siena e contro l'avanzata della lega instauratasi tra questa, papa Sisto IV e Ferdinando di Napoli639. Fu a seguito del generale piano di rafforzamento dei confini meridionali dello stato fiorentino, che Lorenzo dei Medici promosse agli inizi del XVI secolo la fortificazione di Poggio Imperiale a presidio del territorio senese. L'uso delle nuove armi da fuoco, che aveva reso possibile espugnare roccaforti giudicate imprendibili, indirizzò verso un necessario adeguamento delle strutture difensive 640. La fortezza di Lorenzo il Magnifico ebbe quindi come traduttore dei suoi “pensieri architettonici” Giuliano da Sangallo e come capomastro il fratello Antonio. Il complesso presenta una notevole omogeneità costruttiva data dal prevalente uso del mattone e, con funzione soprattutto decorativa, del travertino locale. La pianta segue la morfologia del rilievo, adattandosi ad esso per sfruttarne le naturali potenzialità difensive. La fortezza, unica in Toscana, ha una struttura che riprende la forma antropomorfa teorizzata da Francesco di Giorgio Martini per la ”città ideale”641. E’ un’opera di

638 FRANCOVICH 1987, pp.91-96. 639 Si vedano FANTOZZI 1982, p.213; PRATELLI 1929-1938, p.341. 640 In generale, nella prima metà del XV secolo aveva già avuto inizio un primo adeguamento delle fortificazioni attraverso uno sviluppo maggiore degli elevati in spessore (corrispondente ad un abbassamento di mura e torri), dotandoli di terrapieni interni per aumentarne la capacità di resistenza agli impatti, rafforzandoli con scarpature molto pronunciate; inoltre le feritoie vennero trasformate da rettangolari e strette in troncoconiche e strombate (si vedano GURRIERI 1980, pp.58-60; MASI 1992, pp.26-27). Nella seconda metà del XV secolo invece fu sviluppato il motivo del bastione acutagolo e dal profilo molto tagliente, come unico vero elemento difensivo contro il fuoco avversario (MASI 1992, pp.27-28). 166 fortificazione bastionata, poligonale, inseribile in un rettangolo dotato ai quattro vertici di bastioni e proteso verso la valle. E’ composta essenzialmente da un cassero, o cittadella, posto sul lato est della collina e da un ampio circuito murario642, programmaticamente interrotto sul lato nord est, dove si intendevano riusare le mura superstiti dell’insediamento di XII-XIII secolo. La sua costruzione procedette con discontinuità; si alternarono infatti lunghi intervalli di sospensione dei lavori e cambiamenti di progetto. Firenze destinò al cantiere, oltre che un ampio numero di maestranze specializzate (muratori, tagliatori, spianatori, fornaciai, carpentieri ecc.), centinaia di prigionieri pisani643. La costruzione della fortezza rinascimentale colpì pesantemente i depositi archeologici più antichi ed in particolare i resti delle strutture relative a Poggio Bonizio. La zona della piazza lastricata con la grande cisterna subì i maggiori danni essendo impiegata come zona per la produzione della calce e sottoposta ad una sistematica spoliazione delle strutture murarie qui presenti. Altre tracce dell'attività cantieristica 'cinquecentesca sono individuabili nell’escavazione di molte trincee di spoliazione allo scopo, anche qui, di recuperare pietre. Infine attraverso la ricognizione di superficie sono state individuate due chiare concentrazioni di reperti mobili riferibili a fornaci per mattoni. La cittadella non sembra avere mai funzionato pienamente e fu presidiata da truppe fiorentine, male armate, solo per alcuni decenni. Durante la cosiddetta “guerra di Siena”, fra il 1554 ed il 1555, non ebbe un ruolo strategicamente importante nel quadro dell’organizzazione militare come dimostra la sua destinazione a deposito di vettovagliamento per l’esercito fiorentino in Valdelsa. Con la definitiva annessione di Siena al Ducato mediceo del 1557, la fortezza perse ogni funzione strategica ed agli inizi del XVII secolo venne disarmata. Alla metà del XVIII secolo l'intera area fu concessa a livello al cavaliere Alamanno de' Topi e sino ai nostri giorni è rimasta adibita ad uso agricolo. Questa destinazione ha permesso la conservazione del complesso (non vi è stato costruito nè ha subito riutilizzi) ma al tempo stesso ha causato gravi danni e stati di degrado avanzato644. M.V.

641 Rappresenta la metafora del corpo sociale: città come un tutto organico, dominata e al tempo stesso governata con uguale razionalità per ognuna delle membra dalla rocca (posizionata, appunto, sulla testa) ovvero dal signore 642 Le mura comprendono alcuni pseudobastioni nei quali si aprono troniere, in parte collegate tramite un sistema di gallerie, con feritoie dette "bocche di volata" a forma di chiave rovesciata; queste ultime (così come le liste verticali in travertino che, scandendo le cortine, costituiscono anche i vertici dei puntoni di bastione) rappresentano elementi tipici delle opere del Sangallo. Il motivo delle cerniere in travertino, nel quale si commistionano intenzioni decorative e funzionali, è infatti presente anche a Pisa, Arezzo, Sansepolcro, Livorno, Civita Castellana. Si veda al riguardo PESCATORI 1992 pp.224-225. 643 Si veda MASI 1992 per un completo studio del cantiere edilizio e le appendici qui presenti per un'analisi esauriente della documentazione archivistica relativa alla costruzione della fortezza. 644 Una relazione dettagliata dei problemi legati allo stato del monumento è contenuta in PERINI 1992. 167 VI – I MATERIALI PROVENIENTI DALLO SCAVO 1 – Ceramica a. Il villaggio tardoantico Il corredo ceramico rinvenuto all’interno delle abitazioni tardoantiche di Poggio Imperiale è composto essenzialmente da una minima percentuale di ingobbiate di rosso, mentre si attestano su valori preponderanti e piuttosto simili acrome depurate e ad impasto grossolano. Nel villaggio circolano ancora i laterizi, per lo più coppi e mattoni di reimpiego utilizzati per la realizzazione delle coperture delle case. Già questo primo dato inquadra Poggibonsi nel trend individuato per la Toscana tardoantica, dove si riscontra un progressivo impoverimento della varietà delle produzioni rispetto al periodo tardo imperiale; il fenomeno porterà alla fine del VI-inizi del VII secolo alla decadenza tdell’organizzazione delle officine di tipo industriale, per passare a fornaci che lavoravano su scala sub-regionale o a livello del singolo villaggio. a.1 Ingobbiata di rosso La ceramica ingobbiata di rosso non è presente in grandi quantità e proviene per lo più dalle zone cortilizie tra casa e casa e da spazi destinati all’agricoltura. Sono stoviglie dedicate in prevalenza alla mensa e la serie morfologica si articola su forme aperte quali ciotole e catini ed una forma chiusa, il boccale. Ciotole/Catini - Come per il resto della Toscana, anche a Poggio Imperiale le ceramiche a coperta di colore rosso ripetono e rielaborano archetipi in sigillata africana D; in particolare un catino con bordo piano orizzontale e orlo assottigliato, rientra nelle forme che circolano a livello regionale tra V e VII secolo645, mentre un altro tipo di catino con bordo piano orizzontale e orlo assottigliato rientra nelle forme diffuse a livello regionale a partire dal V- VI secolo, con confronti soprattutto nel Chianti senese. Questi manufatti sono foggiati su torni veloci e talvolta presentano in parete o sul labbro decorazioni ricavate con linee sinusoidali. Boccali - Accanto a catini e ciotole compaiono i boccali, ingobbiati di rosso sulla parete esterna; tuttavia le modeste dimensioni dei frammenti rinvenuti non ci permettono di analizzarli in maniera più approfondita, fatta eccezione per la presenza di linee di lavorazione, prodotte quasi sicuramente da una foggiatura su tornio veloce. a.2 Acroma depurata Come per le ceramiche ingobbiate di rosso, anche il complesso di manufatti in depurata destinati alla mensa si articola sostanzialmente su tre forme: il boccale, la ciotola e il catino.

Boccale - I boccali sono sempre realizzati al tornio veloce e presentano decorazioni a filettature più o meno fitte che ne ricoprono integralmente o in parte il corpo ceramico. In alternativa, riscontriamo in alcuni casi la presenza in parete di linee sinusoidali che avvolgevano orizzontalmente il manufatto. Ciotole/Catini - Stoviglie da portata o per il consumo del pasto quali ciotole e catini risultano foggiati al tornio veloce e le superfici esterne presentano frequentemente una rifinitura mediante steccatura del corpo, che rende più lucido il prodotto; in alcuni casi applicazioni a rilievo e linee sinusoidali sono state individuate sia in parete che sui bordi.

645 Trova confronti con forme rinvenute a Fiesole e Volcascio in stratigrafie di V secolo, mentre a Lucca continua a circolare fino al VI secolo (FRANCOVICH, VALENTI 1997b, p.132-133) Nel Chianti senese questi catini sono stati individuati in associazione a oreficerie datate al VI-VII. Sono riconducibili in alcuni casi alla forma HAYES103A-103B, inizi VI-terzo quarto VI secolo; è collocabile per determinati esemplari tra le forme HAYES87, nella prima metà del VI secolo e alla forme HAYES105, a fine VI-inizi-VII secolo (VALENTI 1996b, p.145). 168 Anforacei e grandi contenitori - Dallo scavo sono emersi anche frammenti non molto numerosi pertinenti ad anforacei e grandi contenitori per la conservazione e il trasporto di derrate. Risultano sempre foggiati al torno veloce e presentano in alcuni casi sinusoidi singole o incisioni realizzate per lo più sulla spalla. Fuseruole - In misura modesta sono presenti per questo periodo fuseruole e pesi da telaio bitroncoconici impiegati nella filatura e tessitura e realizzati per lo più a stampo o a mano. a.3 Acroma grezza Per quanto riguarda le ceramiche acrome da fuoco o da conserva, lo studio autoptico degli impasti mette in rilievo una situazione abbastanza articolata sulle zone di provenienza e sulle tecnologie di lavorazione e cottura delle argille; da un punto di vista formale invece il corredo da cucina è molto semplificato e si basa quasi esclusivamente su una forma chiusa, l’olla, e sull’uso di testi e tegami; sono altresì presenti anche in quantità abbastanza trascurabili ciotole, coperchi e boccali. Olle - L’olla, un contenitore molto diffusa per la conservazione di cibi o nella preparazione delle pietanze, veniva prodotta con almeno nove differenti tipi di impasto, che non vengono riscontrati nei cicli produttivi di altre forme. La maggior parte del corredo ceramico era realizzato con torni lenti e non presenta alcun tipo di trattamento sulla superficie esterna; solo in alcuni casi sono state riconosciute sul corpo ceramico filettature rade e non molto marcate. Un numero esiguo di olle risulta foggiato su torni veloci e presenta come caratteristica comune una decorazione con filettatura rada. Lo studio tipologico dei bordi delle olle recentemente terminato, mostra per il V-VI secolo un certo distacco dalle seriazioni morfologiche proposte per il Chianti senese e per Siena città, senza tuttavia perdere punti di contatto evidenti. Le olle, per lo più con corpo globulare e raramente ovoidale, presentano fogge dei bordi che guardano più all’orizzonte dell’alto medioevo che alla tarda antichità; molte forme hanno un alto collo estroflesso, con bordo superiormente appiattito o arrotondato. In alcuni casi il labbro è indistinto, mentre a volte appare appuntito e rivolto verso l’esterno In particolare la variante di un tipo a labbro indistinto con contatto superiore trova un confronto abbastanza puntuale con olle rinvenute in livelli di fine V-metà VI secolo nel corso degli scavi dell’Ospedale Santa Maria della Scala di Siena. Un altro tipo di olla caratterizzata da bordo estroflesso, orlo arrotondato esternamente confluente trova confronti con contesti di VI-VII a Scarlino, mentre nell’alto medioevo (VIII-X secolo ) ritroviamo tale forma a Pisa, al Podere Aione (Follonica - Grosseto), a Scarlino e a San Salvatore a Vaiano. Solo alcuni tipi, numericamente inferiori rispetto al campione al momento in nostro possesso, presentano bordi allungati verso l’alto o estroflessi e corti con rientranza interna, che sembrerebbero mutuare le forme da manufatti di V-VI secolo rinvenuti nel Chianti senese e ben riconoscibili per il bordo svasato caratterizzato da alloggio per coperchio. Testi/Tegami - Quantitativamente inferiori in confronto alle olle, testi e tegami sono realizzati con impasti molto grossolani destinati esclusivamente a queste produzioni; dalle tracce presenti sulle pareti sembra che venissero prodotti principalmente al tornio veloce, mentre solo pochi esemplari presentano una realizzazione a mano. Altre forme - Come accennato, una produzione marginale é rappresentata da boccali, ciotole e coperchi, foggiati al tornio lento con impasti dedicati solitamente alle olle o ai tegami. Non presentano particolari finiture e decorazioni e alcuni impasti impiegati in questa fase nella realizzazione di ciotole e coperchi, saranno utilizzati a partire dal VII secolo nella preparazione delle olle. a.4 Discussione La popolazione del villaggio non sembra aver avuto accesso a mercati urbani, dove era possibile reperire prodotti di importazione, dovevano bensì rivolgersi ad un circuito di

169 scambio locale, del quale sono testimonianza la presenza quantitativamente ampia ma tipologicamente limitata di produzioni acrome od ingobbiate di rosso ad imitazione della stoviglieria in sigillata tarda. Per le produzioni in acroma grezza è possibile ipotizzare la presenza di approvvigionamento presso un numero esteso di botteghe, come sembrano indicare i nove tipi di argille impiegati nelle olle e i due per testi e i tegami. Olle legate solo in parte alle tradizioni morfologiche riscontrate per il Chianti senese e per Siena città, possono essere lette come un primo frazionamento di un artigianato che si va sviluppando sul territorio intorno a Poggibonsi. In particolare, l’assenza di confronti puntuali con il Chianti senese per le olle con alloggio per il coperchio, andrebbe visto come un segno di un minor afflusso di prodotti sull’asse viario tra Siena e Firenze, causa del fiorire di una nuova serie di botteghe a livello locale. b. Altomedioevo L’altomedioevo è caratterizzato da un impoverimento della produzione tra la fine del VI e i primi del VIII secolo, quando inizia ad articolarsi nuovamente il panorama degli impasti e l’elaborazione di nuove forme tipicamente medievali, per arrivare ad una stabilizzazione del corredo nel IX-X secolo. b.1 - Ingobbiata di rosso Catino - Tra la fine del VII e gli inizi dell’VIII circola ancora un tipo di catino con bordo piano orizzontale e orlo assottigliato, già presente nel villaggio tardoantico. Un esemplare appartenente a questa tipologia e rinvenuto in un discreto stato di conservazione presenta una lavorazione al tornio veloce e mostra come oltre all’ingobbiatura rossa, il manufatto fosse decorato sulla parete esterna con semplice linea sinusoidale. Seppure siano stati individuati anche una serie di frammenti di boccali in alcuni livelli databili tra il VII e il X secolo, la loro posizione stratigrafica non permette di considerarli reperti contestualizzati; considerandoli presenza residua è lecito supporre che nell’abitato tra il VII e gli inizi dell’VIII secolo le forme aperte siano le uniche stoviglie a ingobbio rosso che ancora circolano sui mercati ai quali il villaggio aveva accesso. b.2 - Ceramica a Vetrina Pesante Si attesta sul sito con livelli molto bassi tra IX e X secolo la cosiddetta ceramica "a vetrina pesante" o “invetriata in monocottura”, così chiamata per la tecnica utilizzata nel ciclo di produzione, che prevede, dopo la fase di essicazione del pezzo, la stesura di uno spesso strato di vetrina e la cottura in un’unica infornata. Le vetrina pesante di Poggio Imperiale trova confronti puntuali per il rivestimento e per l’impasto con le produzioni rinvenute a Roma nello scavo della Crypta Balbi: invetriatura spessa e di colore verde scuro, caratterizzata da macchie più scure ed impasto di colore bianco/rosato. I quattro frammenti provengono dalla longhouse, dalla capanna a ”T” e dalla struttura adibita a macelleria; tuttavia trattandosi di fondi, non ci permettono di definirne meglio la forma e non è possibile al momento, in attesa di effettuare analisi archeometriche, individuare con certezza l’area di provenienza. b.3 - Acroma Depurata Dall’osservazione delle ceramiche realizzate con impasti depurati si evince tra la fine del VI e il VII secolo una relativa continuità nel repertorio formale con le produzioni iniziate nel V secolo; di contro, gli esemplari rinvenuti si discostano morfologicamente dagli archetipi tardoantichi, segnando la nascita di una nuova tradizione artigianale. Le principali forme chiuse che circolano nel villaggio sono ancora gli anforacei e i boccali, mentre per le stoviglie da mensa i catini e le ciotole continuano ad essere le uniche forme presenti. Alcune innovazioni sono rilevate tra il VII e il IX secolo sia nel corredo di forme aperte che

170 tra recipienti per liquidi: un nuovo tipo di coperchio appare sulla mensa, mentre da metà VIII secolo compariranno i cosiddetti “colini”; tra il VII e gli inizi del IX secolo appaiono delle forme definite come fiasche o bottiglie, mentre nel IX-X secolo riscontriamo la presenza dell'olpe. Boccale - Seppure a livello quantitativo vi sia una flessione di presenza all’interno del villaggio rispetto al periodo precedente, il boccale rimane tra VI e VII secolo la forma ad impasto depurato che circola maggiormente. Si tratta di boccali monoansati, tendenzialmente globulari e realizzati con impasti rosati, che nel IX-X secolo diverranno biancastri con uno schiarimento delle superfici. Le anse si dividono principalmente in due tipi: a sella e a nastro. I più antichi, a partire dal VII secolo, presentano un orlo arrotondato con bordo estroflesso e forte espansione delle pareti; successivamente, tra VIII e IX secolo, le forme mutano e i precedenti boccali con orlo arrotondato sviluppano un collo cilindrico e un orlo superiormente appiattito646, mentre appaiono boccali dall’orlo confluente che si sviluppa su un alto collo647. Nel IX-X secolo si attesteranno definitivamente i boccali trilobati con forte espansione delle pareti. Tra il IX e il X secolo circola un piccolo boccale, meglio definibile come olpe, realizzato al tornio veloce e caratterizzato da una trilobatura molto piccola su alto collo e dall'accentuazione dell’espansione delle pareti all’attacco della spalla648. I boccali in depurata risultano prodotti al tornio veloce e sono decorati sul corpo da linee fitte a volte associate ad incisioni a crudo o da filettature rade più o meno marcate. Spostandosi verso l’VIII secolo, oltre a rilevare un aumento della presenza di questo prodotto nelle capanne, anche la serie di decorazioni si fa più articolata. Vengono alternate decorazioni a bande di filettature fitte con linee rade, aumentando o diminuendo l’incisione del solco; a volte il motivo viene arricchito con linee sinusoidali, per lo più sulla spalla, realizzate singolarmente o a coppie. Da qui in poi e fino agli inizi del X secolo rileviamo una stabilizzazione nel campionario delle decorazioni, dove l’unica eccezione è data nell’VIII secolo dalla lucidatura a stecca del corpo ceramico. A partire dalla metà dell’VIII secolo, seppure con valori quantitativi non molto incisivi, è stata rilevata una produzione marginale di boccali al tornio lento che si protrae fino alle capanne dell’ultimo villaggio di inizi X secolo. In particolare una spalla di boccale riporta una serie di linee sinusoidali che rimandano alle decorazioni delle ceramiche fiesolane di epoca longobarda, cronologia confermata anche dai materiali rinvenuti in associazione. Fiasca/bottiglia - I frammenti di fiasca o bottiglia rinvenuti tra VI-VII e inizi IX secolo sono prodotti con impasti rosa scuro e foggiati su torni veloci; presentano un collo cilindrico alto e stretto che termina con un bordo superiormente appiattito e labbro a punta. Si distinguono dalle produzioni coeve in depurata per l'accuratezza delle decorazioni: il bordo mostra superiormente una linea sinusoidale, mentre il collo é rifinito da tacche verticali con all'interno linee ondulate realizzate su due registri sovrapposti e divisi da filettature fitte. La decorazione e il profilo del bordo ricordano rinvenimenti di fine VI -VII secolo in necropoli longobarde e in special modo i ritrovamenti di Fiesole649. Ciotole/Catini - La mensa continua ad essere caratterizzata da catini e ciotole, destinati nei pasti all'uso comunitario o impiegati come piatto singolo. Si distinguono principalmente per la forma del bordo in tre gruppi: con bordo rientrante e parete estroflessa diviso in più tipi

646 Questo tipo di boccale trova confronti con esemplari rinvenuti a Napoli acrivibili all’VIII secolo e con rinvenimenti di Ostia Antica da livelli di inizi IX secolo (VALENTI 1996a, p.135). 647 Anche i boccali con orlo confluente su alto collo trovano riscontri con materiali napoletani di VIII secolo (VALENTI 1996a, p.135). 648 Il tipo sembra essere diffuso tra IX e X secolo nel Chianti senese (FRANCOVICH, VALENTI 1997b, p.134). 649 FRANCOVICH, VALENTI 1997b, p.135.

171 riscontrati tra la fine del VI e gli inizi del X secolo650; i restanti due gruppi sono invece tipici del IX-X secolo e si caratterizzano o per il bordo arrotondato ed ingrossato, piuttosto che per un bordo a sezione rettangolare e parete estroflessa. In tutte le fasi del villaggio di capanne ciotole e catini escono da botteghe che lavorano al tornio veloce, eccetto per una forma rinvenuta nel battuto di una capanna di VIII secolo realizzata al tornio lento. Un motivo decorativo costante per le forme aperte é la sinusoide, realizzata sia sulla parete esterna del corpo ceramico sia sul bordo; questa decorazione verrà affiancata fin dal VI- VII secolo da filettature più o meno fitte o marcate. Spostandosi verso il IX secolo la varietà nel combinare motivi ornamentali differenti aumenta, per raggiungere il massimo grado di sperimentazione tra IX e X secolo, quando viene aggiunta la decorazione a tacche del bordo. Di notevole fattura è una ciotola rinvenuta nei livelli di VII secolo, caratterizzata da un bordo estroflesso e verticale, con labbro inclinato verso l’esterno; è rifinita sull’orlo da tacche mentre una doppio registro di linee sinusoidali decora la parete esterna del pezzo651. Coperchi e colini - Rispetto alla fase tardoantica, tra il VI e il VII secolo compaiono sul sito due nuove forme realizzate con argille depurate: il coperchio, che segue morfologicamente la foggia dei bordi di ciotole e catini, ma si distingue per una più accentuata inclinazione verso l'interno, e il colino, riconoscibile per i fondi rifiniti con fori del diametro di mezzo centimetro e realizzati sul pezzo a crudo. Sono stoviglie foggiate esclusivamente al tornio veloce e non presenta alcun tipo particolare di trattamento delle superfici o decorazioni. Fuseruole - Le fuseruole e i pesi da telaio, prodotti sempre a stampo, continuano ad attestarsi tra la fine del VI e la metà del IX secolo su bassi livelli quantitativi; un aumento considerevole della loro presenza all'interno di tutte le capanne é stato riscontrato con il villaggio in vita tra la metà del IX e gli inizi del X secolo. Anforacei - Per quanto riguarda i grandi contenitori da trasporto e conserva di liquidi e derrate, sul sito circolano nel VII e nel IX secolo una modesta quantità di anforacei; il numero aumenta considerevolmente con l'ultima fase del villaggio, quando ritroviamo una serie di anforacei distribuiti in varie abitazioni e concentrati sostanzialmente nella longhouse e in maniera preponderante all'interno di una struttura non ancora definita. Tra il IX e il X secolo sono stati riconosciuti alcuni frammenti riferibili a fondi e colli di anfore, realizzate al tornio veloce. L'esiguità delle dimensioni dei reperti, ci fa propendere per una definizione abbastanza incerta e che necessiterà in futuro di un'analisi morfologica più attenta, per stabilire se si possa trattare di tale forma, poco diffusa nella Toscana carolingia. b.4 - Acroma selezionata Boccale - Tra il IX e gli inizi del X secolo circola sul sito una serie di boccali in acroma selezionata foggiati al tornio veloce, probabilmente dal corpo globulare e bocca trilobata; sono decorati sulla spalla da una serie di filettature fitte e ben marcate a crudo sul pezzo652. b.5 - Acroma Grezza

650 Alcune varianti di questo tipo sono simili a esemplari di IX secolo rinvenuti nel Chianti Senese (FRANCOVICH, VALENTI 1997b, pp.132-133). 651 Questo particolare tipo di ciotola trova nelle sua decorazione un confronto con le rifiniture riscontrate su “orcioli” e bottiglie rinvenuti a Fiesole e a Siena in contesti di VI-VII secolo (FRANCOVICH, VALENTI 1997b, p.135) 652 Tipi simili sono stati individuati negli scavi di Prato e a Fiesole sia in sepolture di VI-VII secolo, che in contesti di X-XI secolo. (FRANCOVICH, VALENTI 1997b, p.134, VALENTI 1996a, p.120 e note n.196 e 197). 172 Con valori simili alle produzioni in depurata, continuano ad arrivare nel villaggio numerose stoviglie acrome da cucina e da conserva realizzate con impasti grossolani. Le forme sono sostanzialmente quattro: l'olla, il coperchio, il testo e il tegame. Notiamo differenze sostanziali dal periodo tardoantico man mano che si passa dalla fine del VI agli inizi del X secolo; c'é una progressiva frammentazione nella scelta dei giacimenti e nelle tecnologie per la preparazione delle argille, oltre alla diversificazione dei processi di cottura. Si nota anche una differenziazione a livello delle singole produzioni dove un unico impasto destinato alla realizzazione esclusiva di un tipo di stoviglia, inizia ad essere impiegato per la foggiatura di un corredo più ampio (tuttavia rimanendo nei limiti delle quattro forme sopraccitate). A partire soprattutto dal VII secolo si rileva un uso sempre più predominante del tornio lento, che relega l'uso del tornio a volano alle sole forme in depurata. Solo con il IX-X secolo il tornio veloce appare di nuovo impiegato con rinnovata frequenza. Olla - L'olla é il contenitore maggiormente rappresentata sul sito, fatto che ne conferma il vasto impiego a livello domestico. Dall'età tardoantica fino al pieno VII secolo continuano ad essere utilizzati i medesimi nove tipi di impasto, affiancati tra VIII e inizi X secolo da almeno cinque nuovi tipi di produzioni. I manufatti realizzati tramite impiego di torni lenti sembrano essere predominanti nel villaggio tra la fine del VI e il pieno VIII secolo, mentre a partire dal IX e fino ai primi decenni del X secolo la lavorazione al tornio veloce ritorna ad essere una caratteristica tecnologica assai più presente. Il villaggio di capanne in vita nel primo altomedioevo (fine VI - inizi VII secolo) ha accesso ad un mercato con un repertorio morfologico abbastanza limitato: olle per lo più globulari, con un alto collo verticale o estroflesso, terminano con bordi superiormente appiattiti o inclinati verso l'alto e con labbri indistinti o appuntiti. Sono forme che mutuano solo in parte alcune caratteristiche dal periodo precedente, in particolare il solco all'interno del bordo riferibile ad un alloggio per coperchio, come riscontrato per i tipi di V secolo. I colli molto allungati e svasati iniziano a inquadrare queste forme in un panorama artigianale definibile come altomedievale. I vasi presentano inoltre diametri di medie dimensioni variabili tra il 15-17 cm associati a contenitori di media-grande capacità con diametro intorno ai 30 cm653. Tra la metà del VII e gli inizi dell'VIII secolo continuano ad essere presenti le olle con orlo superiormente appiattito e leggermente inclinato all'interno, a volte con il labbro appuntito; alcune presentano un breve orlo superiormente convesso, mentre altre si distinguono per gli orli arrotondati e ingrossati, oppure squadrati e con il labbro inclinato verso l'esterno 654. Ad un'articolazione morfologica maggiore é associata una continuità e un arricchimento della gamma delle olle da fuoco con diametro di 17 cm e delle olle di grandi dimensioni; tra le forme di nuova foggia sono rilevati diametri leggermente inferiori al periodo precedente che si avvicinano ai 15 cm655. Il panorama morfologico conferma nel passaggio dall'VIII

653 Le olle di questa fase trovano confronti interni alla Toscana con reperti provenienti da Campiglia (IX-XIII secolo, BIANCHI 2004, p.281, Tav.II, I.2.5 e I.2.5a), Arezzo, Chianti senese, Prato (FRANCOVICH, VALENTI 1997b, p.130) e da altri siti in cui pare abbastanza certo che il tipo entri in uso tra V-VI secolo e ritorni in circolazione alla fine del X-inizi XI secolo (VALENTI 1996a, p.115). Anche per Poggibonsi si ripete una situazione simile dove gli esemplari di fine VI – inizi VII secolo, riappaiono nei livelli di vita del villaggio di IX-X secolo. 654 Per le fasi di passaggio dall’VIII al IX secolo le olle sono simili a tipi rinvenuti a Monte Barro datate al primo altomedioevo e negli scavi della Crypta Balbi (Roma) ascritti all’VIII secolo. In contesti coevi di VIII-IX secolo alcune forme trovano riscontro nei tipi di Ostia Antica (VALENTI 1996a, p.116). Spostandosi verso il IX secolo è stato rilevato un confronto con ceramiche da cucina del Monastero di San Vincenzo al Volturno, mentre fogge dei bordi simili a quelle di Poggibonsi sono presenti in livelli datati tra il X e il XII secolo e riconosciuti presso il Santa Maria della Scala di Siena e Montarrenti (CANTINI 2003, p.101; CANTINI 2005, p.147, Tav. 34, p.89, p.98, ARTHUR, PATTERSON 1994, p.434 Fig.11 n. 7, SPAGNOL 1995, p.74 tav.III n.36; PACETTI 2004, p.451 tav. VIII n.56; PAGANELLI 2004, p.195 tav.VI n. 101, BERTOLDI, VATTA 2004, p. 464 tav. V n.37). 655 In questa fase sono riscontrati confronti con tipi provenienti da Luni relativi all’occupazione di metà VI-VII secolo, da Montarrenti VIII-IX secolo e dai contesti urbani del Santa Maria della Scala di Siena ascritti tra la 173 secolo al IX la presenza di alcuni tipi rinvenuti nel secolo precedente, fornendo però indizi sull'arrivo di nuove varianti. E' il momento di massima articolazione nella foggia delle olle. Si affermano oltre alle olle globulari anche olle dal corpo ovoide e di pari passo un ritorno sempre più frequente all'uso del tornio veloce, appaiono più olle con bordi arrotondati o con labbro indistinto e inclinato verso l'esterno. Con il pieno IX secolo e i primi decenni del X si arriva ad uso preponderante del tornio veloce e ad una stabilizzazione nel panorama delle forme prodotte. Filo conduttore delle produzioni di questo periodo é la preponderante presenza di un collo alto, più o meno verticale, sul quale riscontriamo per lo più bordi appiattiti o inclinati verso l'interno, mentre con minor frequenza appaiono arrotondati. Gli orli sono rifiniti con labbri appuntiti o indistinti, e in rarissimi casi rileviamo la presenza di solcature interne per l'alloggio del coperchio656. Il panorama decorativo continua ad essere affidato a filettature realizzate orizzontalmente o sulla spalla o sull'intero corpo ceramico e associate talvolta a linee sinusoidali. Il solo carattere distintivo rimane la profondità nell'incidere la decorazione e la maggiore o minore distanza fra le linee. Le forme rinvenute rivelano una certa omogeneità decorativa tra la fine del VI e gli inizi del IX secolo, quando in concomitanza con l'aumento delle forme prodotte, si arriva alla più alta varietà di combinazioni nel tipo di filettature realizzate. Testi e tegami - Due forme aperte destinate alla cottura dei cibi, presenti in maniera modesta già nel villaggio tardoantico, sono i testi e i tegami, che, spostandosi dal VII al X secolo andranno sempre più affermandosi e stabilizzandosi in una serie di caratteristiche morfologiche ben riconoscibili. Il tegame, prodotto in età tardoantica con pochi e precipui tipi di impasto, inizia tra VII e VIII secolo ad essere realizzato con una gamma sempre più vasta di argille, impiegate in precedenza per la sola foggiatura dell'olla; per il primo altomedioevo le forme rinvenute presentano soprattutto una lavorazione al tornio lento, mentre solo con il pieno IX secolo si attesta l'uso del tornio veloce. Quantitativamente le unità attestate tra VII e inizi IX secolo sono solo un 39% rispetto al 70% riscontrato nel villaggio di IX-X secolo, quando il tegame raggiunge una stabilità morfologica e il massimo sviluppo quantitativo e nell'articolazione dell'utilizzo degli impasti. I tegami dell'ultimo periodo di vita del villaggio di capanne possono essere suddivisi per lo più per le differenze formali dei fondi, che sono sempre piani e con evidenti tracce di distacco dal tornio, ma distinti dalla presenza o meno del piede. Un primo gruppo apode propone il fondo piano e apode, mentre l'orlo appare caratterizzato o da un bordo piatto e orizzontale, che a volte risulta essere molto estroflesso e inclinato; altri tipi vedono il bordo assottigliarsi o ricevono in fase di foggiatura un arrotondamento. In ultimo un tegame con piede e bordo estroflesso era contemporaneo ai recipienti sopra descritti. Il testo, forma aperta solitamente destinata alla cottura di focacce, sembra seguire le vicende produttive dei tegami e come questi, dopo un'articolazione nell'uso degli impasti piuttosto modesta agli inizi del VII secolo, vede l'impiego di almeno 11 modi diversi di preparazione delle argille con il villaggio di IX-X secolo. Sempre come per il tegame il 30% circa della produzione é omogeneamente distribuito tra VII e metà IX secolo e l'uso del tornio lento é affiancato da modeste realizzazioni a mano; il restante 70% delle forme seconda metà del VII e l’VIII secolo. Alcune fogge trovano similitudini con olle rinvenute a Campiglia e datate all’XI-XIII secolo (VALENTI 1996a, pp.123-127; CANTINI 2003, p.89 tav.8, p.91 tav.9, p.101; CANTINI 2005, p.147 tav.34; ARTHUR, PATTERSON 1994, p.434, fig.11, n.7, SPAGNOL 1995, p.74 tav. III n.36; PACETTI 2004, p.451 Tav. VIII n. 56; PAGANELLI 2004, p.195 tav.VI n.101; BERTOLDI, VATTA 2004, p.464 tav. V n.37). Tipologie con bordo estroflesso e orlo arrotondato sono confrontabili con Scarlino, Pisa, Podere Aione (Follonica - Grosseto) e San Salvatore a Vaiano (FRANCOVICH, VALENTI 1997b, pp.130-131). 656 Le forme di IX-X secolo che circolano nell’ultima fase di vita del villaggio sono confrontabili con numerosi tipi rinvenuti in Toscana e con cronologie proposte coeve ai reperti di poggibonsesi; nello specifico i reperti provengono da Scarlino, Montarrenti, dal Chianti senese, Castellaccio di Strettoia (Pietrasanta - Lucca), Vivo d’Orcia e Santa Maria della Scala di Siena (FRANCOVICH, VALENTI 1997b, p.131; CANTINI 2003, p.89 tav.8 e 101; CANTINI 2005, p.147 tav.34; SPAGNOL 1995, p.74, tav. III n.36; PACETTI 2004, p.451 tav. VIII n. 56; PAGANELLI 2004, p.195 tav. VI n. 101). 174 rinvenute era collocato nei livelli di vita di IX e X secolo, quando la quantità dei prodotti realizzati a livello domestico riscontra una sensibile impennata rispetto ai torni lenti. Anche se il carattere di produzione a mano renda poco affidabili i testi per definizioni cronologiche é possibile suddividerli in almeno tre gruppi: con breve bordo ingrossato, fondo piano e apode; questo gruppo presenta varianti quasi a disco e con bordi allungati e più dritti; altro gruppo é contraddistinto da bordo più o meno breve, fondo piano e marcato. In ultimo rileviamo la presenza di testi con bordo mediamente inclinato e spesso assottigliato, caratterizzati anche da fondo piano quasi sempre apode e di forte spessore. Ciotole e Coperchi - Ciotole e coperchi sono rinvenuti in quantità abbastanza marginali e seguono il trend produttivo delle forme più attestate proprio nel IX-X secolo. Anche queste stoviglie, preparate nella maggior parte dei casi con i medesimi impasti riservati alle olle, vedono un graduale aumento del numero di forme prodotte e di argille impiegate proprio nel passaggio dal VII-VIII al IX-X secolo. Accanto agli anforacei in acroma depurata fanno la loro comparsa tra la metà del IX e gli inizi del X secolo anche i grandi contenitori in acroma grezza, realizzati al tornio lento e prodotti con impasti molto grossolani, scelta probabilmente dettata dalla necessità di un’alta plasticità dell'argilla al momento della foggiatura. b.6 – Discussione Tra il VI e il VII secolo gli abitanti del villaggio accedevano ad un mercato che offriva per lo più stoviglie in acroma depurata o in grezza ed i contenitori maggiormente acquistati erano le olle e i boccali. Il corredo ceramico si incentrava essenzialmente su queste due forme e la bassa presenza di ciotole e catini, fa pensare ad una progressiva abitudine di consumare i pasti in recipienti da portata comunitari od all’impiego di stoviglie in legno; solo con il IX-X secolo sono attestate in quantità significative le ciotole, apparentemente segno di un probabile ritorno al piatto individuale. L'appiattimento del corredo ceramico tra VI e IX secolo riflette quanto emerso dall'analisi degli altri reperti e dallo studio della diacronia del sito, abitato da una popolazione per lo più di allevatori gradualmente evoluta verso l’agricoltura ed un’organizzazione di tipo curtense. La produzione di testi modellati a mano vede un incremento sensibile tra il IX e il X secolo; i nuovi sistemi di conduzione della terra e quindi la coltivazione dei cereali in epoca carolingia, potrebbero aver influito sull’alimentazione, favorendo un consumo più elevato di focacce non lievitate. Il progressivo incremento intorno al IX secolo degli impasti impiegati per realizzare un ristretto corredo di forme, é sintomatico della presenza di artigiani ormai operanti a livello locale e distribuiti sempre più capillarmente sul territorio ed il riflesso di una domanda accresciuta dovuta forse ad un aumento del numero dei villaggi. Questo é confermato in parte anche dall'aumento delle differenze morfologiche in tutti i tipi di recipiente. La presenza di ceramiche a vetrina pesante é sicuramente un primo labile ma effettivo sintomo di riapertura verso circuiti commerciali non più operanti ad esclusivo livello zonale, ma perlomeno interregionale, dovuti più alla volontà di una nuova classe dirigente che ad una nuova organizzazione commerciale. c. - Da Poggio Bonizio a Monte Imperiale c.1 - Acroma depurata Il panorama delle forme prodotte con argille depurate raggiunto tra IX e X secolo continua a permanere anche tra la metà del XII e gli inizi del XIV secolo. La serie di forme aperte rimane incentrata su ciotole/catini, colini e coperchi, mentre tra i recipienti oltre agli anforacei e ai boccali, appaiono le brocche. Boccali e Brocche - I boccali, numericamente i più rappresentati all'interno degli edifici scavati, sono per lo più monoansati e foggiati al tornio veloce con corpi globulari e con orlo

175 trilobato. Principalmente si possono dividere in quattro gruppi: boccali globulari alti tra i 13 e 15 cm, con bocca trilobata, ansa complanare e per lo più apodi; un secondo gruppo é rappresentato da un boccale monoansato con corpo ovoide alto circa 16 cm, collo molto slanciato e piede a disco, che trova un confronto abbastanza puntuale con forme destinate dalla prima metà del XIV secolo alla produzione di maioliche arcaiche; il terzo gruppo presenta boccali globulari alti circa 12 cm, monoansati e apodi, molto simili nella foggiatura del corpo ad olle da fuoco coeve. Questi primi tre gruppi sono stati rinvenuti in contesti stratigrafici di XIII secolo, mentre i boccali monoansati appartenenti all'ultimo gruppo, caratterizzati da un'altezza maggiore (20 cm circa), da corpi ovoidi o con pance svasate verso il fondo apode o con piede a disco, sono rinvenuti solamente nella fase di Monte Imperiale agli inizi del XIV secolo. Queste considerazioni si basano sulle restituzioni di forme integre o parzialmente ricostruite, mentre ben più articolato é il panorama che emerge dalla lettura dei numerosi frammenti, soprattutto fondi e anse. Dall'analisi dei fondi e delle anse é possibile ricavare una seriazione morfologica abbastanza puntuale, che tuttavia non può costituire un buon appiglio cronologico per l'alta standardizzazione di queste parti del corpo ceramico. I fondi possono essere divisi in almeno tre gruppi, che vedono al proprio interno alcune varianti. Il primo gruppo corrisponde a fondi piani apodi con espansione in corrispondenza dell'attacco fondo- parete, si distingue in almeno quattro tipi: dall'interno concavo e con diametro di 18 cm; con concavità interna molto marcata, forte espansione all'attacco fondo-parete, fondo arrotondato e diametro di circa 14 cm. Questi due tipi sono presenti soprattutto tra la metà del XIII secolo e gli inizi del XIV secolo. Un terzo tipo con fondo convesso e diametro sui 15 cm é una specie di forma di passaggio tra il XIII e il XIV secolo. Con fondo arrotondato e parete molto svasata é il quarto tipo di boccale tipico degli inizi del Trecento. Il secondo gruppo di fondi, distinto per l'interno concavo, il piede marcato da leggera depressione e la parete svasata, si articola su quattro varianti distribuiti in maniera omogenea tra Duecento e inizi XIV secolo; anche per il terzo gruppo di boccali di piccole dimensioni con leggera depressione del piede, interno leggermente convesso e parete che si sviluppa in verticale si propone una situazione del tutto analoga al gruppo precedente. Le anse si dividono principalmente in due gruppi: anse a nastro, divise in quattro varianti, sono rinvenute esclusivamente nei livelli di vita del castello di XIII secolo, mentre anse a bastoncello, provengono dai contesti di XIV secolo e tipologicamente sembrano essere riconducibili ad una serie di contenitori legati al terzo gruppo di fondi. 657 In quantità modeste si rinvengono sul sito anche le brocche, contenitori di dimensioni superiori al boccale con capacità di circa 2 litri e utilizzati per la conservazione o mescita dei liquidi. Due esemplari rinvenuti in buono stato di conservazione provengono da una cisterna di XIII secolo e dal riempimento di un silos per grano databile al XIV secolo. La forma rinvenuta nei livelli duecenteschi é alta circa 30 cm e presenta un corpo globulare con un'espansione massima di 22 cm di diametro; il fondo é apode e l'ansa a nastro si sviluppa dalla metà del recipiente fino risultare complanare al bordo trilobato. Il vaso trecentesco é stato rinvenuto privo dell'ansa e del bordo; presenta un corpo ovoide sul quale si sviluppa un collo alto e verticale; l'altezza massima raggiunta dal pezzo inferiore alla brocca duecentesca, attestandosi sui 22 cm circa e anche la capienza risulta inferiore mostrando il corpo un'espansione massima di 18 cm. Entrambe le brocche sono realizzate al tornio veloce e non presentano particolari decorazioni se non la presenza di alcune filettature sul collo e sulla trilobatura. Alcuni bordi di brocche sono stati rinvenuti nei livelli due-trecenteschi; in particolare una forma recuperata in posizione residua da contesti stratigrafici quattrocenteschi trova un confronto con le cosiddette "anforette pisane" di XIII- XIV secolo658.

657 VALENTI 1996a, pp.268-269. 658 BERTI, GELICHI 1995, pp.191-240. 176 Anforacei - Si attestano su valori abbastanza bassi gli anforacei per le fasi di XII e XIII secolo del castello, mentre la loro presenza aumenta in maniera considerevole con l'insediarsi di Arrigo VII nel 1313. Non sono mai stati rinvenuti in buono stato di conservazioni, e lo stato frammentario pregiudica al momento un qualsiasi tipo di seriazione morfologica, se una generica considerazione sull'uso quasi totale di anse a sella e di bocche trilobate. I vasi escono per lo più da botteghe che lavorano al tornio veloce, ma sono state riscontrate anche produzioni al tornio lento solo per il XII-XIII secolo. Essendo forme utilizzate per il trasporto e la conservazione di cibi e liquidi non presentano particolari decorazioni o rifiniture, affidate a qualche filettatura e linea sinusoidale, in prevalenza realizzate sul collo e la spalla. Ciotole - La ciotola é costantemente presente e fa registrare valori quantitativi particolarmente alti come i boccali. Proprio la mole di frammenti rinvenuti ha permesso la realizzazione di una seriazione tipologica molto puntuale, in cui discriminante principale é la forma del bordo. I gruppi riconosciuti sono principalmente quattro: il primo comprende vasi emisferici, con bordo rientrante e parete estroflessa. All'interno di questo primo gruppo sono state riconosciute almeno quattro varianti in base alla diversa inclinazione del bordo: con bordo superiormente piatto e inclinato denota il periodo tra la metà del XIII secolo e gli inizi del XIV. La seconda variante presenta una maggiore inclinazione del bordo distinto dalla parete ed é diffuso tra la metà del XIII secolo e inizi Trecento. Il terzo tipo con orlo orizzontale e piatto superiormente presenta trova confronti abbastanza puntuali con materiali provenienti dallo scavo dell'Esedra della Crypta Balbi e da Prato e riporta ad una cronologia compresa tra la prima metà del XIII secolo e gli inizi del XIV. La quarta variante a orlo quasi orizzontale, inclinato ed introflesso, bordo arrotondato e distinto dalla parete da una marcata solcatura esterna si rintraccia in prevalenza nei livelli di inizi Trecento. Un secondo gruppo che non prevede varianti interne é caratterizzato da orlo indistinto, bordo arrotondato ed introflesso; non risulta numericamente molto presente e sembra essere diffuso soprattutto nel Trecento. Terzo gruppo con orlo indistinto e piatto superiormente rivela una diffusione limitata e sembra circolare solo nelle fasi Quattrocentesche della Fortezza Medicea. Infine l'ultimo gruppo di ciotole, scarsamente presente agli inizi del XIV secolo é connotato da orlo più o meno inclinato verso l'esterno e bordo a nastro variabilmente schiacciato. Le ciotole prodotte quasi sempre su torni veloci presentano decorazioni abbastanza articolate affidate a filettature più o meno marcate realizzate sulla parete esterna, talvolta alternate a linee sinusoidali. Anche i bordi delle ciotole potevano essere rifiniti con semplici linee orizzontali, con sinusoidi o tacche. 659 Fuseruole - Le fuseruole sono state rinvenute in quasi tutti gli edifici e si dividono essenzialmente in due tipi: troncoconici e bitroncoconici. Sono riscontrate in egual misura si a nel castelli di XII-XIII secolo, sia nei contesti associabili alla rioccupazione del 1313. In entrambi i periodi rinveniamo in egual misura fuseruole lavorate a stampo e a mano.660 Colino - Il colino, una forma poco diffusa, é presente nel castello fin dagli inizi del duecento e la sua presenza si sviluppa gradualmente fino agli inizi del trecento. Questo tipo di vaso, riconoscibile solo per la presenza di fori sui fondi, rinvenuti per lo più in condizioni fortemente frammentarie, non é mai stato ritrovato intero o parzialmente ricostruibile; di conseguenza non conoscendone la forma dei bordi risulta chiara l'impossibilità per Poggibonsi di costruirne una seriazione morfologica attendibile. Particolari risultano due esemplari rinvenuti in livelli di vita duecenteschi che presentavano al loro interno residui di incrostazioni di calce per costruire muri, quasi a segnalarne un impiego nell'edilizia. Anche il coperchio risulta essere una produzione marginale e solo 8 esemplari sono stati riconosciuti tra il XIII e XIV secolo.

659 VALENTI 1996a, p.269. 660 VALENTI 1996a, p.269. 177 Altri manufatti - Una serie di manufatti ceramici modesti dal punto di vista quantitativo ma degni di nota sono tappi, palline, pedine e altri frammenti nati dal riuso quotidiano di frammenti di ceramica e destinati ad uso domestici o ludico. c.2 - Acroma Grezza Olle - Le Olle continuano ad essere le forme più presenti nelle abitazioni e se da un lato mostrano una continuità morfologica con tipi apparsi a partire dal IX-X secolo, dall'altro non mancano innovazioni o mutazioni nelle fogge che porteranno a forme tipicamente bassomedievali. Ci troviamo di fronte a recipienti globulari ed ovoidi sempre con fondi piani e apodi divisibili per la forma del bordo in cinque gruppi principali che presentano al loro interno alcune varianti. Il primo gruppo raccoglie i contenitori con orlo arrotondato più o meno estroflesso e si articola in nove tipi. Il secondo gruppo comprende olle a orlo arrotondato verso l'esterno su alto collo e non presenta varianti. Il terzo raggruppamento presenta orli indistinti e leggermente arrotondati, con bordo estroflesso ed é composto da tre tipi. Il quarto gruppo si divide in due diverse fogge e é caratterizzato da orlo arrotondato ed ingrossato con bordo verticale e appena ingrossato. L'ultimo gruppo comprende due tipi e si contraddistingue per l'orlo indistinto e il bordo leggermente introflesso. La distribuzione cronologica dei tipi all'interno delle fasi del castello di Poggio Bonizio delinea un panorama abbastanza puntuale, suffragata da una serie di confronti con altri contesti toscani sia di ambito urbano che rurale. Al pieno Duecento é riferibile una variante del primo gruppo distinguibile per l'orlo superiormente piatto e leggermente inclinato verso l'interno con un diametro di circa 17 cm661. Sempre al XIII secolo vanno ascritti due varianti del terzo gruppo, riconoscibili entrambe per un orlo indistinto più o meno estroflesso con diametri compresi tra i 13 e i 17 cm. Sempre nel Duecento risultano pertinenti al quarto e al quinto gruppo un paio di varianti, con orlo indistinto e breve con diametro medio di 21 cm 662 e un'olla distinguibile in due sottotipi con orlo arrotondato ed ingrossato, bordo verticale o appena introflesso di medie dimensioni oppure con orlo indistinto e bordo superiormente piatto leggermente introflesso. Sono stati individuati una serie di tipi che compaiono indistintamente nelle fasi di pieno XIII secolo e nella breve rioccupazione di Arrigo VII avvenuta nel 1313. La maggior parte delle olle é riferibile al primo gruppo e in particolare é attestata la presenza di quattro sue varianti: con orlo assottigliato, bordo estroflesso e diametro medio di 15 cm 663; con orlo quasi appuntito superiormente piatto e ed inclinato verso l'interno; la terza variante appartiene a olle con breve orlo superiormente piatto e bordo molto estroflesso; in ultimo é presente un'olla con breve orlo superiormente convesso. Altra produzione databile soprattutto per associazione tra XIII e XIV secolo é un'olla relativa al quattro gruppo, si distingue per le grandi dimensioni e per l'orlo arrotondato e ingrossato, con bordo verticale. Tipiche invece della rioccupazione del castello nel 1313 sono olle appartenenti al primo gruppo con orlo arrotondato e bordo molto estroflesso e marcato, dal diametro medio di 21 cm. Una seconda produzione relativa a questa fase appartiene al secondo gruppo ed é foggiata con alto collo ed orlo arrotondato ed indistinto rivolto verso l'alto, con diametro di 14 cm. I restanti tipi sono stati rinvenuti in associazione al cantiere di XV-XVI secolo durante la costruzione della fortezza medicea.664.

661 Questa variante trova confronto nei siti di Castel Delfino (Savona), Pistoia e Prato (VALENTI 1996a, pp.265-266). 662 Sono state datate al XIII secolo sulla base di confronti con esemplari rinvenuti a Pisa, Piazza Dante e Rocca San Silvestro (VALENTI 1996a, p.266). 663 Si trova conferma della cronologia proposta con materiali presenti negli scavi di Rocca San Silvestro e Grosseto e datati tra il XIII e il XIV secolo (VALENTI 1996a, p.266). 178 Osservando le percentuali di presenza dei tipi risulta inoltre che la maggior parte delle olle venivano foggiate con orli appuntiti e inclinati verso l'interno o con bordi superiormente appiattiti e collo alto; da un confronto con il periodo carolingio é osservabile come tra XII e XIII secolo siano i tipi prodotti a partire dall'altomedioevo a rimanere i più diffusi. Muta invece il panorama degli impasti impiegati nella produzione delle olle che passano dai quindici tipi attestati tra IX e X secolo, ad otto in pieno XIII secolo. Ben sette produzioni infatti sembrano terminare nelle fasi di passaggio tra il X e il XII secolo, mentre sette continuano dall'altomedioevo fino agli inizi del XIV secolo. E' osservabile poi la scomparsa di una produzione alla fine del XII secolo e contemporaneamente la circolazione di un'olla realizzata con un impasto inedito per il sito. Sia nel XII che nel XIII secolo i prodotti realizzati al tornio lento e veloce si equivalgono, mentre riscontriamo per le produzioni di inizio XIV secolo una prevalenza nell'uso del tornio veloce; le decorazioni continuano ad essere limitate a filettature fitte o rade associate talvolta a linee sinusoidali o tacche. Non si riscontra più l'alta varietà nel combinare le decorazioni tipica dell'alto medioevo, ma i recipienti risultano rifiniti con nella maggior parte dei casi un solo tipo di soluzione, che campisce o l'interno corpo ceramico o la porzione compresa tra la spalla e l'orlo. Coperchio - Il coperchio risulta una forma poco diffusa e in base alla forma del bordo la produzione può essere ricondotta a tre gruppi principali. Il primo, suddiviso in due varianti, si distingue o per l'orlo arrotondato ripiegato all'esterno con un diametro medio di 25 cm, databile tra il XIII e il XIV secolo, o per l'orlo arrotondato solo esternamente e diffuso solo nelle prime fasi del castello di Poggio Bonizio (seconda metà XII secolo). Il secondo gruppo veniva foggiato con orlo appuntito ripiegato all'esterno e con un diametro di 17 cm, mentre nel terzo sono riuniti coperchi dall'orlo piatto con diametro medio di 20 cm; entrambi i gruppi sono stati rinvenuti in livelli databili esclusivamente al pieno XIII secolo e in associazione ai tipi ascrivibili alla seconda metà XIII-inizi XIV secolo. Un tipo appartenente al XIII secolo e rinvenuto in un buono stato di conservazione é caratterizzato da bordo appuntito, superiormente appiattito e aggettante, e presenta un fondo munito di piccolo manico a nastro e una serie di fori di mezzo centimetro di diametro per permettere la fuoriuscita dei vapori. Da un punto di vista tecnologico i coperchi risultano foggiati prevalentemente al tornio lento e solo una parte é lavorata al tornio veloce; le forme vengono raramente rifinite e filettature più o meno marcate sono le uniche decorazioni presenti sui pezzi. Ciotola - La ciotola é una forma presente in tutte le fasi bassomedievali del castello e risulta abbastanza diffusa soprattutto in pieno Duecento. Almeno tre tipi di ciotole continuano ad essere prodotte col medesimo impasto fin dal periodo carolingio, affiancate nel corso de XII e XIII secolo da sette nuovi tipi di argille, utilizzate contemporaneamente anche nei cicli di realizzazione di testi, tegami e olle. Le tecniche di lavorazione vedono un impiego maggiore del tornio veloce su quello lento, mentre le decorazioni sono affidate a filettature più o meno marcate e linee sinusoidali. Sulla base delle caratteristiche formali dei fondi le ciotole possono essere divise in due gruppi: piano e apode per il primo gruppo, con piede il secondo. Il primo gruppo si articola su quattro varianti distinguibili dalla foggia dei bordi: si riconoscono tra XII e XIII secolo ciotole con bordo superiormente piatto e orizzontale del diametro di 18 cm; ciotole con bordi assottigliati e orli del diametro di venti centimetri sono tipi delle fasi di metà XII secolo; un terzo tipo con bordo arrotondato e un diametro di 20 cm si attesta nel corso del XIII secolo. Il quarto tipo del primo gruppo é presente esclusivamente nei livelli di fondazione di metà XII secolo ed ha bordo molto estroflesso, superiormente piatto e inclinato e un orlo del diametro medio di 22 cm. Il secondo gruppo di ciotole con fondo con

664 Le forme di inizi XIV secolo sono raffrontabili con esemplari trecenteschi rinvenuti negli scavi di Zignago ed Anteggi, oltre ad una serie di forme provenienti dalle ricognizioni nel Chianti senese. Altri reperti possono essere confrontati con i materiali degli scavi di Pistoia e Prato (VALENTI 1996a, p.266). 179 piede e bordo estroflesso arrotondato comprende pochi esemplari presenti solo nelle fasi di cantiere quattrocentesche. 665 Testo - Nella cottura dei cibi dai dati é possibile leggere una continuità d'uso del testo, realizzato a mano o al tornio con pareti alte, mentre spariscono o quasi i tegami in grezza, forse sostituiti da prodotti invetriati. I dieci impasti impiegati in età carolingia per la preparazione dei testi perdurano anche tra XII e XIII secolo, affiancati da almeno tre produzioni con nuovi tipi di argille. Sulla base delle caratteristiche dei bordi si distinguono essenzialmente in due gruppi: il primo si distingue per il bordo estroflesso arrotondato ed ingrossato, distinto nella variante con breve bordo e diametro di 17 cm o con lungo bordo e diametro medio di 26 cm; il secondo raggruppamento comprende esemplari piatti, quasi a disco, di cui un primo tipo presenta bordo allungato ripiegato verso l'alto, mentre un'altro ha un breve bordo ingrossato. Ad eccezione dell'ultimo tipi, rinvenuto nelle spoliazioni quattrocentesche, tutti gli altri testi sono omogeneamente distribuiti tra la metà del XII e gli inizi del XIV secolo. 666

Boccale - I boccali in acroma grezza sono una produzione marginale e quantitativamente omogenea tra XII e XIV secolo. La frammentarietà dei reperti non permette analisi morfologiche precise, mentre informazioni interessanti si ricavano dall'osservazione delle tecnologie impiegate nella realizzazione: i recipienti sono lavorati sia su torni lenti che veloci e, dei sei impasti impiegati in epoca carolingia, solo uno perdura fino agli inizi del Duecento, quando ne compaiono quattro nuovi tipi destinati a sparire dopo la distruzione fiorentina del 1270. c.3 - Maiolica arcaica La maiolica arcaica, che inizia ad essere prodotta e a circolare in Toscana dalla metà del Duecento circa, é presente in quantità modeste nei livelli due-trecenteschi del castello di Poggio Bonizio. Le forme sono sostanzialmente due: il boccale e la ciotola. Gli impasti riconosciuti per la maiolica arcaica sono sei e rimangono gli stessi tra la distruzione del castello del 1270 e la rioccupazione di Arrigo nel 1313. Inoltre agli inizi del XIV secolo impasti dedicati per la produzione di boccali o ciotole, sono riscontrati nella foggiatura di entrambe le forme. Boccale - La maggior parte dei reperti si presenta allo stato di frammento, ma alcuni rinvenimenti hanno permesso la ricostruzione parziale di alcuni boccali, permettendo una prima distinzione in tre tipi sulla base della morfologia del fondo o del corpo ceramico. Un primo tipo, di cui é stato rinvenuto esclusivamente il fondo, presenta un piede piano e a disco; é associato ad un motivo zoomorfo mal conservato, forse una coda di un pesce o di uccello: il contorno é realizzato in manganese e all'interno é riempito da un motivo a graticcio eseguito in ramina. Il motivo é a sua volta inquadrato da doppie bande verticali e orizzontali in manganese. La forma ricorda boccali di XIII-XIV secolo, mentre il motivo può essere ricondotto per forma, riempimento a graticcio in ramina e inquadratura tra bande verticali e orizzontali, ad un boccale rinvenuto a Montalcino e databile tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo667. Un secondo tipo, databile tra XIII e XIV secolo si presenta con bocca trilobata, piede svasato, corpo ovoide e ansa a sezione ellittica. E' esternamente smaltato di bianco mentre il piede risulta invetriato con vetrina di colore marrone chiaro, applicata anche all'interno. Il collo é decorato con motivo a treccia in ramina tra bande orizzontali in manganese. Un motivo di forma irregolare riempito con un graticcio in ramina é alternato a punti cerchiati in manganese realizzati sul corpo. L'ultimo tipo é rappresentato da un

665 VALENTI 1996a, pp.267-268. 666 VALENTI 1996a, p.267. 667 FRANCOVICH 1982, p.35 fig.24. 180 boccale cosiddetto "a palla". presenta un motivo a cerchi successivi ricavati sul corpo e riempiti con una croce in ramina e manganese. E' una produzione tipica delle prime fasi della maiolica pisana e attesta la precocità dell'accesso di Poggio Bonizio a mercati in cui circolavano i primi prodotti smaltati. Forme aperte - Per le forme aperte, i pochi rinvenimenti non permettono di eseguire una tipologizzazione morfologica, ma i reperti sono riconducibili per lo più a ciotole. c.4 - Maiolica umbra e protomaiolica Il rinvenimento nei livelli trecenteschi di un boccale in maiolica umbra e in livelli di XIII secolo di una serie di frammenti di maiolica colorati con la ferraccia (un pigmento utilizzato nelle cosiddette “protomaioliche” tipiche dell’Italia meridionale), sono un chiaro indizio per il XIII-XIV secolo di un commercio che agiva su scala interregionale. c.5 - Invetriata Tra le stoviglie da cucina destinate alla preparazione dei cibi, accanto ai tegami e ai testi ad impasto grossolano compaiono tegami rivestiti internamente con vetrine trasparenti o di colore marrone, provenienti prevalentemente da focolari scavati all’interno delle abitazioni di XIII e XIV secolo. Due tegami ricostruiti interamente o in parte non mostrano differenze sostanziali e possono essere considerati come varianti di un medesimo gruppo: il primo tipo di tegame si presenta con bordo dritto e arrotondato al quale sono applicate quattro presine, corpo troncoconico, fondo piano e orlo del diametro di circa 15 cm. E' rivestito internamente da una invetriatura marrone, mentre esternamente risulta acromo con colature di vetrina. Trova confronti puntuali con esemplari rinvenuti in livelli di XIII-XIV secolo668. Il secondo tipo ha forma simile alla prima e differisce per la forma della presina, più grossa e applicata leggermente al di sotto del bordo e per il diametro maggiore che raggiunge i 25 cm circa. Internamente é rivestito con vetrina verde chiara e all'esterno mostra evidenti colature. Dai livelli di XIII e di XIV secolo sono emersi una serie di frammenti di boccali invetriati di verde e distinguibili per tre differenti tipi di impasto: purtroppo anche in questo caso l'esiguità delle dimensioni non permettono seriazioni morfologiche. c.6 - Discussione Il panorama delle produzioni rinvenute in livelli coevi alle fasi di fondazione del castello di metà XII secolo mostra una certa continuità con il panorama formale affermatosi in epoca carolingia con qualche riduzione: acrome depurate e ad impasto grossolano sono ancora le classi ceramiche più attestate e il corredo dei manufatti per la mensa é limitato ad boccali, ciotole/catini e coperchi, mentre le stoviglie impiegate in cucina sono sostanzialmente l'olla e il testo. Si nota anche una diminuzione nella serie di impasti impiegati, alcuni dei quali iniziano ad essere destinati alla realizzazione di più forme, di pari passo con una standardizzazione maggiore dei repertori morfologici riscontrati nella foggiatura degli orli e dei fondi. Questa serie di tendenze contemporanee con la nascita del castello e il loro perdurare fino alla distruzione fiorentina del 1270, potrebbe essere il risultato della presenza di botteghe legate al centro castrense e che iniziarono ad avere un certo monopolio nella vendita dei prodotti. Una stabilizzazione dei corredi e una riduzione drastica delle tipologie di impasto può essere imputabile a più fenomeni. La presenza di un nuovo centro abitato può da un lato aver attratto e unito differenti botteghe, andando verso la nascita di officine di carattere proto-industriale; dall’altro, se effettivamente si verificò un simile fenomeno, è possibile che alcuni centri di produzione

668 GRASSI 1999, pp.99-105. 181 rimanessero tagliati fuori e fossero costretti o a cambiare circuito commerciale o ad aggregarsi a nuove officine. Il XII-XIII secolo, per molte attività artigianali che si svolgevano a livello domestico nel contado, vide, sotto la spinta accentratrice dei cosiddetti maestri d’arte, la nascita di associazioni corporative dei mestieri. Queste solitamente davano vita all’interno delle città o dei castelli a dei quartieri in cui gli artigiani che esercitavano una stessa attività vivevano e lavoravano. Che tale fenomeno si verificasse anche per Poggio Bonizio è testimoniato dalla presenza di un quartiere di fabbri, localizzato lungo la viabilità principale a partire dal XIII secolo. In poco più di un secolo di vita del castello non si notano radicali mutamenti, fatta eccezione per la comparsa di due nuove classi ceramiche: le maioliche e le invetriate da fuoco e da mensa. L’introduzione sul mercato di nuovi tipi ceramici, quali maioliche e invetriate, può aver determinato la scomparsa di alcune botteghe. Questi prodotti più raffinati, richiesti dalle classi medio-alte che abitavano il castello, iniziano a circolare sui mercati con grande diffusione e sostituiscono parte del corredo da mensa e da cottura, facendo diminuire la richiesta di ceramiche acrome, che tuttavia rimarranno fino al XV secolo una dominante sulle tavole e nelle cucine dell’epoca. La continuità di presenza di ceramiche invetriate e maioliche tra l'ultima fase di vita di Poggio Bonizio e l'occupazione imperiale del 1313 potrebbe essere letto come l'arrivo di queste produzioni dall'esterno e che non sparirono con la fine del castello. Il Duecento quindi testimonia la ripresa di scambi commerciali di lungo raggio, confermati dalla presenza di maioliche umbre e protomaioliche tra XIII e XIV secolo, segno che le merci avevano ripreso a circolare su livelli nuovamente interregionali. Durante l’occupazione di Poggio Imperiale da parte delle truppe di Arrigo VII, ritroviamo nelle abitazioni ricostruite dopo la distruzione fiorentina nel 1270 un corredo ceramico del tutto simile a quello di quarant’anni prima, che vede però l'assenza di alcuni tipi di impasto forse legati ad officine presenti all’interno del castello e termite a seguito dell’assedio fiorentino. L.M.

2 – Vetro. Sono stati rinvenuti 5.333 frammenti di vetro, dei quali circa il 60% è stato identificato; i reperti coprono un arco cronologico di circa dieci secoli (V-VI secolo-primi decenni del XVI secolo). Il panorama del materiale vitreo rinvenuto si presenta piuttosto vasto, suddiviso in undici forme diverse, distribuite in cinque macro categorie funzionali: vasellame da mensa (bicchieri, coppe, bottiglie, calici, fiaschi e brocche, generiche forme aperte), suppellettile da illuminazione (lampade a sospensione), materiale vitreo per uso edilizio (lastre da finestra), materiale vitreo per piccoli oggetti di ornamento o di culto (vaghi da collana) e, infine, vasellame da spezieria e per la pratica medica (fiale). Il colore dei reperti analizzati varia all’interno di un largo spettro, ma principalmente sono presenti il giallo e il verde, con tutte le possibili gradazioni fino all’incolore. In particolare il colore dei reperti si presenta così suddiviso: giallo e sue sfumature (38,4%), verde e sue sfumature (36,9%), incolore (12,8%), colore non identificabile (9,6%). In numero notevolmente ridotto sono attestati frammenti color fumé (0,85%), blu e viola (0,3%), azzurro e viola chiaro (0,25%), rosso e rosa (0,1%), marrone e giallo opaco, arancio, nero (0,05%). I vetri di Poggio Imperiale sono stati tutti eseguiti con la tecnica della soffiatura (a canna libera o in forma): costituiscono eccezioni le lastre da finestra e i vaghi da collana in pasta vitrea669. La soffiatura a canna libera è una tecnica di lavorazione relativamente semplice,

669 Per una descrizione esaustiva delle tecniche di produzione vitra in uso durante il Medioevo si rimanda a STIAFFINI 1999, pp.89-94. 182 ma che permette una gran varietà di creazioni tramite l’utilizzo di pochi attrezzi quali la canna (lungo tubo in metallo forato all’interno), il cosiddetto marmor (lastra di pietra o marmo utilizzata per conferire simmetria al bolo di vetro durante la fase di lavorazione iniziale), il pontello (asta di ferro utilizzata nella fase del distacco dell’oggetto dalla canna), pinze e cesoie. La lavorazione del vetro inizia introducendo la canna all’interno del crogiolo posto nel forno fusorio, per prelevare la giusta quantità di vetro, detta bolo. Successivamente il bolo viene reso simmetrico, facendolo rotolare più volte sul marmor; a questo punto inizia la fase della soffiatura vera e propria e il maestro forma un globo al quale si imprime la forma finale desiderata attraverso una serie di allungamenti e insaccature, aiutandosi anche con pinze e cesoie. Infine l’oggetto, dopo essere stato attaccato al pontello tramite una pasticca di vetro fuso posto sul fondo, viene staccato con le cesoie dalla canna, permettendo così al maestro di modellarne l’orlo o di decorarlo. Per ottenere calici o coppe su piede, le due parti (calice o coppa e piede) erano soffiate separatamente e unite in un secondo momento. La soffiatura in forma (o dentro matrice, o a stampo), prevede che il globo di vetro sia soffiato all’interno di una forma (in legno o metallo) decorata internamente, in modo da imprimere il disegno sull’oggetto. a. V-VI secolo - Per la frequentazione tardoantica, le cui tracce sono state in parte distrutte dalla attività successive, è attestato un numero esiguo di frammenti vitrei; tuttavia i reperti rinvenuti non mancano di interesse. Tra questi, quelli di maggior valore sono rappresentati da una decina di frammenti, decorati a motivo geometrico tramite incisione o molatura (FIG…). La molatura è un particolare tipo di incisione che viene effettuata sul prodotto finito tramite appositi utensili, ottenendo in questo modo un solco che forma la decorazione: disegni geometrici, fitomorfi o figurati670. In Italia è diffusa fino alla fine del IV-inizio V secolo671. Già durante la prima metà del V secolo, questi tipi decorativi iniziano a rarefarsi, per lasciare il posto ad altre tecniche, di più semplice esecuzione, quali l’applicazione di filamenti alla parete. In contesti tardoantichi, ritrovamenti di reperti simili sono avvenuti in Italia settentrionale a Roma672 e a Brescia673; in ambito non nazionale si ricordano la Francia674 e la Gran Bretagna675. Si tratta, sicuramente, di manufatti di produzione non locale, importati da qualche atelier di una certa rilevanza, che doveva possedere le conoscenze tecnologiche per la fabbricazione di questo tipo di oggetti, di tradizione romana. Oltre ai frammenti molati ed incisi, sono stati individuati anche oggetti di uso comune. Tra questi, bicchieri a bordo liscio più o meno svasato e una forma aperta (lampada o bottiglia a bordo molto svasato) con bordo ribattuto all’interno, tecnica quest’ultima tipica del periodo. b. Fine VI-VIII secolo - Pur nelle difficoltà determinate da una stratigrafia altomedievale alterata dalle successive occupazioni della collina, è stato possibile riconoscere alcune tipologie caratteristiche dell’età longobarda. Sono presenti, tra gli altri, frammenti di coppa

670 STIAFFINI 1999, p.92. 671 Per una sintesi sui vetri incisi dell’Italia settentrionale e della Rezia nel periodo che parte dalla seconda metà del II secolo e arriva fino all’inizio del V secolo, si veda PAOLUCCI 1997 e relativa bibliografia. 672 Presso la Schola Praeconum, WHITEHOUSE 1995, fig.4, nn.34-37; nel Lungotevere Testaccio, STERNINI 1989, tav.1, n.4b, tav.4, nn.16-21, tav.5, n.31; presso le tabernae del tempio della Magna Mater, STERNINI 1995, tig.2, nn.1-1a, fig.3, nn.1-9, fig.7, nn. 45-47, 49, 52-53, 55-56, 58. 673 Presso il monastero di Santa Giulia, UBOLDI 1999, tav.CXVII, nn.11-18, tav CXXII, nn.6-12. 674 HOCHULI GYSEL 1995, fig.1, n.1; MARTIN 1995, fig.1, n.8, fig. 2, n.1, fig.3, nn.3-4, 11. 675 COOL 1995, fig.2, n.3, fig.3, n.1, fig.5, n.4; PRICE 1995, fig.8-10, 12-14. 183 “a sacchetto” e altri decorati da filamenti applicati, le bottiglie a fondo apodo, e, tra la suppellettile per l’illuminazione, alcuni esemplari di lampada. Come già accennato, una produzione tipica dell’età longobarda è la “coppa a sacchetto”, che continua ad essere attestata non oltre la fine del VII secolo. Secondo alcuni studiosi, dovrebbe trattarsi di una produzione esclusiva delle officine vetrarie italiane del VII secolo, poiché, per i secoli precedenti, non è attestata, né in Italia, né oltre le Alpi676. Il nome “ a sacchetto” deriva dalla particolare morfologia di questo tipo di coppa che presenta il corpo bulboso, tendente ad allargarsi verso il fondo; è caratterizzata, inoltre, da una decorazione che disegna festoni o piumaggio, ottenuta tramite l’applicazione di filamenti colorati. Rinvenimenti di “coppe a sacchetto” sono tipici nelle necropoli di età longobarda (tra le altre, ricordiamo Villa Clelia ad Imola677, Castel Trosino678 e Cividale679), ma alcuni esemplari sono stati recuperati anche in contesti abitativi, presso la Crypta Balbi a Roma680. Si trovano, inoltre, bicchieri privi di decorazioni utilizzati, comunemente, insieme a bottiglie apode a corpo globulare. Per la mensa venivano impiegate anche forme aperte (probabilmente coppe) con bacino svasato o emisferico. Tra i frammenti non identificati (FIG), sono comunque presenti una serie di reperti, interessanti per il tipo di decorazione a filamenti applicati: si tratta, con tutta probabilità, anche per questi, di oggetti legati alla mensa (coppe, bicchieri o calici, corni potori, bottiglie). Per l’illuminazione, venivano utilizzate lampade pensili681 con bordo a tesa orizzontale (appese tramite catenelle metalliche): normalmente erano riempite d’olio o altro combustibile mentre lo stoppino era mantenuto verticale grazie ad un “gancetto “ metallico appositamente fabbricato. Infine, quanto riguarda i piccoli oggetti per l’ornamento personale, sono stati identificati alcuni vaghi di collana colorati (FIG). c. Metà VIII-X secolo - Per il periodo compreso tra seconda metà VIII-prima metà IX secolo, i reperti rinvenuti sembrano mostrare una sostanziale continuità d’uso dei manufatti vitrei rispetto al periodo precedente. Sono presenti alcuni manufatti legati alla suppellettile da mensa comune: bicchieri o calici dal bordo svasato e bottiglie apode di diverse dimensioni con corpo ad andamento cilindrico o globulare. Oltre a questi, troviamo alcuni esemplari di lampade pensili, impiegate per l’illuminazione degli ambienti interni. Anche per il secolo successivo, si configura un panorama in cui il materiale vitreo veniva utilizzato, quasi esclusivamente, come vasellame da mensa comune e, in qualche caso, per illuminare gli ambienti o come ornamento per la persona. Nel primo caso si tratta di bicchieri o calici privi di decorazioni, bottiglie apode, ovvero senza un piede d’appoggio, coppe emisferiche su piede tronco-conico. Per l’illuminazione venivano utilizzate, come in precedenza, lampade pensili a bacino svasato o emisferico. Infine continuano ad essere indossate collane con vaghi in pasta vitrea. d. Tra 1155 ed il primo quarto del XIII secolo - Il panorama offerto dai reperti relativi alla prima fase di vita di Poggio Bonizio, nonostante la varietà di forme non sia così ampia

676 STAFFINI 1999, p.103. 677 MAIOLI 1992, p.34, fig.4. 678 MENGARELLI 1902, pp.209, 221 e tav.V, 12. 679 MUTINELLI 1960-1961, pp.24-25, fig.25. 680 ARENA et alii 2001, p.311 e figg.II.3.347- II.3.347a. 681 Per una prima sintesi sulla tipologia delle lampade in età altomedievale si veda UBOLDI 1995. 184 come nel periodo successivo, mostra comunque un certo dinamismo all’interno del castello appena fondato. Il materiale vitreo in questo periodo è utilizzato per il vasellame da mensa comune e, in alcuni rari casi, si presenta come produzione di lusso; è attestato inoltre come suppellettile per l’illuminazione di edifici abitativi e materiale per l’edilizia (lastre di vetro da finestra). Per quanto riguarda la suppellettile da mensa, si tratta di bicchieri privi di decorazione o, novità di questo periodo (comune dal secolo successivo in poi), manufatti decorati con gocce applicate sul corpo dell’oggetto682 (FIG…). Un’altra innovazione decorativa nasce in questo periodo: si tratta del bicchiere non più apodo ma con fondo su base ad anello vuoto, la cui fabbricazione prevede una conoscenza tecnologica piuttosto avanzata. Le forme chiuse da mensa sono poco attestate, con qualche esemplare di bottiglia apoda o, anche in questo caso, con base d’appoggio su anello vuoto; il corpo si presenta globulare per entrambi i tipi. Le forme aperte, probabilmente coppe, sono presenti soprattutto nella variante a bacino emisferico, ma non manca un esemplare a bordo svasato. Infine sono attestati alcuni frammenti di forma non identificabile, interessanti per le caratteristiche decorative: filamenti blu applicati alla parete. Questo tipo di decorazione attesta, verosimilmente, una produzione di lusso, presente nelle case degli abitanti più facoltosi. In questo periodo, il vetro con caratteristiche funzionali diverse da quelle fin qui descritte, ovvero per l’illuminazione o per l’edilizia, è stato rinvenuto in un numero esiguo di esemplari. Al periodo di fondazione del castello risale anche il bicchiere tronco-conico, con base ad anello vuoto, decorato da filamenti applicati in forma di piumaggio o festoni, inserito all’interno di una nicchia risparmiata nelle fondazioni del campanile della chiesa (FIG…): il motivo decorativo, applicato ad un bicchiere con queste tipo di caratteristiche morfologiche, rappresenta un unicum all’interno del panorama nazionale, ad ulteriore riprova, non solo del panorama variegato, ma anche della particolarità morfologica e decorativa che contraddistingue la produzione in questo periodo. La funzione del recipiente emerge dal contesto stesso di rinvenimento: l’oggetto è stato inserito all’interno della nicchia, a scopo rituale, durante i lavori di cantiere per la costruzione della chiesa. Per quanto riguarda confronti per il tipo di rinvenimento, l’unico noto, riguarda la chiesa di San Sigismondo, vicino a Cremona683. Durante i lavori di restauro emersero, all’interno di una celletta risparmiata in uno dei pilastri, due bottiglie in vetro, identiche tra loro. Nonostante non siano conosciuti altri casi, si ricorda comunque la tradizionale usanza di riporre oggetti, pergamene o iscrizioni a ricordo nella fondazione di edifici destinati al culto. Per quanto riguarda il contenuto delle due bottiglie di San Sigismondo, esso era ancora presente all’interno: si trattava di due liquidi, probabilmente olio e vino. Nel nostro caso, invece, sembra piuttosto improbabile che racchiudesse liquidi, proprio in considerazione del fatto che i recipienti più adatti a questo scopo, sarebbero stati una bottiglia o, eventualmente, un’ampolla. D’altra parte, l’utilizzo di bicchieri o calici (sia in vetro che in metallo) utilizzati come reliquiari è noto dal Medioevo fino all’Età Moderna: in mancanza di ulteriori analisi si può comunque ipotizzare che il contenuto del bicchiere di Poggio Bonizio fosse composto da una reliquia. e. XIII secolo - Il maggior numero di forme minime rispetto al totale, è stato riconosciuto nella seconda fase di vita di Poggio Bonizio: infatti circa un quarto dei reperti vitrei rinvenuto durante lo scavo è attestato durante questo periodo.

682 Per una sintesi esaustiva sulle ipotesi circa l’origine di questo bicchiere, si veda STIAFFINI 1991, p.202- 207 e relativa bibliografia. 683 MARIACHER 1964, p.70. 185 Risulta un quadro variegato per forme, tipi e varianti decorative che, in mancanza di indicatori di produzione certi, conferma la vivacità dei commerci già attestata dai risultati dell’indagine archeologica e dalle fonti scritte. Sono attestati il bicchiere decorato a bugne, quello con base d’appoggio ad anello e quello decorato da un cordone di vetro pieno applicato al fondo: questo dato ben si inserisce all’interno del panorama italiano poiché è proprio da contesti di XII-XIII secolo che sono emersi il maggior numero di esemplari riferibili a questi tipi di recipiente. Non mancano neanche i bicchieri apodi, privi di decorazione, anche questi in numero superiore rispetto a quasi tutti gli altri periodi. Inoltre, tra i recipienti potori, sono presenti i calici, attestati in soli sei esemplari ma, a conferma della varietà, in quattro varianti morfologiche e decorative. Ancora sono presenti due tipi di forme aperte, a bacino svasato o emisferico. Quanto alle forme chiuse da mensa, sono attestate dalle bottiglie su base d’appoggio ad anello, dalle bottiglie apode, con corpo cilindrico o globulare e, infine, dalla bottiglietta a bordo estroflesso, collo cilindrico, anche questa apoda. Tra i frammenti non identificabili, notevoli per il tipo di decorazione presente, sono attestate la decorazione a filamento applicato (blu o dello stesso colore della parete) e la decorazione a gocce blu applicate. Inoltre è stato rinvenuto un frammento decorato da un cordone di vetro pieno applicato alla parete al quale sono state applicate successivamente, bugne allungate. Per quanto riguarda il materiale vitreo utilizzato per l’illuminazione sono attestati alcuni esemplari di lampade, utilizzate all’interno di strutture abitative: la lampada conica e quella con la parte superiore emisferica e la parte inferiore tronco-conico più stretta. Il materiale vitreo da edilizia, come nella prima fase di occupazione, è qui testimoniato dalla presenza di frammenti pertinenti a lastre da finestra. f. 1313 - L’occupazione trecentesca da parte dell’imperatore Arrigo VII, nonostante la sua brevità, attesta comunque un consumo di vetro che ben si inserisce nel panorama coevo: sono presenti, tra gli altri, per il vasellame da mensa comune, i bicchieri “gambasini”, produzione tipica di fine XIII-XIV secolo, con una certa varietà di motivi decorativi impressi tramite la soffiatura entro matrice. Come già accennato, per la fabbricazione di questo tipo di manufatti, il vetro veniva soffiato dentro una forma o matrice (solitamente in legno o metallica) che presentava sulla superficie interna un motivo geometrico “in negativo”, impresso all’oggetto proprio tramite la soffiatura. Si tratta di una tecnica “rivoluzionaria”, poiché è proprio grazie a questa che inizia a diffondersi un nuovo modo di fare il vetro, non più legato agli aspetti prettamente artigianali della produzione, ma la cui tecnica di fabbricazione può essere definita semi-industriale, con la conseguente riduzione dei costi e dei tempi di produzione, nonché standardizzazione delle forme684. In generale, continuano ad essere in uso, anche i bicchieri decorati a bugne, quelli caratterizzati dalla base di appoggio ad anello vuoto o apodi, le bottiglie apode prive di decorazione e a decorazione impressa, quelle su alto piede ad anello. Tra le novità, rispetto ai periodi precedenti, sono attestati un esemplare di brocca 685 e uno di fiasco. Quest’ultimo era normalmente utilizzato per il trasporto e la conservazione di liquidi ma nel nostro caso, per le caratteristiche morfologiche del corpo e dell’orlo, nonché per le piccole dimensioni, questo recipiente può essere interpretato non tanto come

684 Questo tipo di produzione è attestata a Gambassi (FI), si veda MENDERA 1989, ma, considerata la diffusione, viene rinvenuta in quasi in quasi la totalità degli scavi italiani relativi a questo periodo. Sulla diffusione del bicchiere gambasino, si vedano ZECCHIN 1973, pp.121-122; NEPOTI 1978, pp.326-333; BIAVATI 1981, pp.630-631. 685 Sull’utilizzo di brocche in vetro durante l’età medievale, si veda STIAFFINI 1991, p.217. 186 contenitore per la conservazione di vino, quanto come fiasco utilizzato da viandanti o pellegrini durante il viaggio (FIG…). Tra i recipienti potori, sono presenti alcuni calici (in quattro tipologie diverse) che attestano un certa ripresa di questa forma, dopo la parentesi di quasi totale assenza durante i secoli centrali del Medioevo. Il materiale vitreo utilizzato nell’edilizia è presente con alcuni frammenti di lastre di vetro da finestra, uno dei quali di color azzurro intenso. I frammenti pertinenti a lampada testimoniano l’utilizzo di suppellettile in vetro per l’illuminazione degli ambienti, probabilmente di edifici abitativi piuttosto che ecclesiastici. Infine, dalle stratigrafie pertinenti alla breve frequentazione imperiale, è emerso un rinvenimento di notevole rilievo, non solo per sito di Poggio Imperiale ma a livello nazionale. Si tratta di un frammento di Hedwig beaker decorato con un motivo geometrico “a scaglia di pino” (FIG…). Il nome (bicchiere di Edvige) nacque in riferimento ad un esemplare utilizzato per conservare alcuni frammenti ossei di Sant’Edvige. Si tratta di un tipo bicchiere conosciuto in pochi esemplari, una produzione di lusso con funzione di reliquiario, importata probabilmente dal Medio Oriente e decorata con la tecnica della molatura. Non è improbabile ipotizzare che potesse far parte del corredo dell’imperatore o del suo seguito. S.Q.

3 – Metalli. Lo scavo ha restituito un vero e proprio “campionario” di oggetti di uso quotidiano e non, che trovano applicazione nell’attività edilizia, nelle attività artigianali, nelle attività militari, in quelle agricole e nella vita di tutti i giorni. La maggior parte di questi oggetti furono realizzati in loco, come sembra mostrare il ritrovamento di varie strutture produttive. In strati riferibili al periodo altomedievale (più precisamente alla fase di IX-X secolo) è stata individuata una forgia; i depositi si presentano come una lente di spessore limitato in cui sono stati rinvenuti carboni, scorie di lavorazione di ferro ed un probabile frammento della struttura che conteneva il fuoco di forgia. La struttura doveva essere coperta da una tettoia in paglia o frasche innalzata su quattro pali; purtroppo, tali resti sono stati danneggiati durante la costruzione di un edificio nella fondazione di Poggio Bonizio. Al castello-città di Poggio Bonizio (dove, come sappiamo dai giuramenti di patti con Siena del 1221 e del 1226, esisteva un nutrito numero di “faber”, “ferrator” e un “chiavarius”) è attribuibile un grande complesso artigianale per la lavorazione del metallo. Questa bottega è costituita da tre ambienti raggruppati nei pressi dell’unica grande strada cittadina rinvenuta finora (probabilmente la principale), attrezzati per l’esecuzione delle tre fasi principali della produzione di oggetti in ferro. Nel primo ambiente avveniva la riduzione del minerale, nel secondo venivano forgiati gli oggetti e infine, nel terzo doveva avvenire la rifinitura e la vendita al dettaglio, probabilmente utilizzando un bancone affacciato sulla strada. Ad un un tipo di attività diversa (la costruzione di una delle chiese di Poggio Bonizio nella quale vennero impiegate maestranze specializzate) si collega la fornace da campane datata alla metà del XII secolo rinvenuta all’ingresso della probabile chiesa dedicata a Sant’Agnese che ha molte caratteristiche in comune con altre fornaci per campane trovate in siti archeologici italiani ed europei, e rientrando nel tipo descritto da Teofilo nel XVII secolo. Anche negli strati appartenenti al breve periodo di vita del cantiere promosso da Arrigo VII per la fondazione del castello di Monte Imperiale, si trovano tracce di attività metallurgica. Si tratta di un bassofuoco per la riduzione del minerale ferroso. La struttura, di forma rettangolare, costruita con pietre e frammenti di laterizi, sembra essere in relazione con una zona posta a breve distanza che presenta livelli ricchi di carbone e cenere, tale da far

187 pensare ad uno spazio adibito all’arrostimento del minerale. Pur se molto degradate, queste evidenze ci forniscono informazioni sufficienti ad ipotizzare un’attività di lavorazione del metallo anche in quei pochi mesi del 1313, quasi sicuramente riferibile alle attività di cantiere.

I reperti La categoria che presenta il maggior numero di reperti è quella degli accessori per l’abbigliamento e gli oggetti da ornamento. Si tratta di manufatti realizzati nella maggioranza dei casi in bronzo, ma anche in ferro, argento o piombo. Provengono per il 90% da strati bassomedievali ma non mancano attestazioni in strati datati a periodi più antichi. a. Reperti collegate all’ornamento personale Bottoni: compaiono nel XIII secolo sostituendo gradualmente lacci, fibule e ganci per abiti fino a diventare, nel secolo successivo, un oggetto di moda e ampiamente diffuso. Gli esemplari rinvenuti a Poggio Imperiale hanno datazioni che vanno dal XIII secolo al 1313. Si tratta di bottoni sferici o emisferici, dotati di “appiccagnolo” per essere cuciti alle vesti, realizzati soprattutto in bronzo; alcuni presentano tracce di dorature, argentature o decorazioni a sbalzo.

Finali: sono lamine di metallo avvolte su lacci da abiti, in stoffa o pelle, a formare uno stretto cilindro o un cono che favorisce, conferendoli rigidità, il passaggio del laccio nell’asola secondo un sistema molto diffuso dal XIII al XVI secolo. I finali rinvenuti nello scavo hanno una datazione che va dalla fine del XII secolo al 1313 con la maggiore attestazione nella seconda metà del XIII secolo. Solo due esemplari sono stati rinvenuti in strati altomedievali.

Ganci da abiti: venivano usati prima dell’introduzione dei bottoni per chiudere gli abiti. La datazione degli oggetti ritrovati a Poggio Imperiale, realizzati in bronzo, va dalla fine del VI secolo al 1313; dato, quest’ultimo, che evidenzia il protrarsi del loro uso parallelamente all’uso dei bottoni.

Fibule: sono realizzate sin da epoca preistorica e nel corso dei secoli hanno avuto una notevole diffusione sotto varie forme, sono oggetti molto simili, per funzionamento, alle moderne “spille da balia”. Lo scavo di Poggio Imperiale ha restituito un frammento di fibula in bronzo proveniente da un’attività cantieristica con datazione riferibile ad un periodo che va dal X secolo al 1155.

Anelli: si tratta di anelli digitali in bronzo diffusi sia in età romana che durante tutto il medioevo; alcuni sono di fattura molto semplice, formati da una fascia circolare leggermente allargata in corrispondenza del centro del dito; uno, datato al VI secolo, presenta una decorazione cruciforme; altri due esemplari presentano una applicazione quadrata al centro, in cui è inserito un castone di pietra dura; solo uno di questi è stato datato con sicurezza agli inizi del IX secolo.

Bubboli: si tratta di oggetti formati da due lamine in bronzo bombate, unite a formare una sfera cava all’interno della quale si trova un battiglio sferico. Un emisfero è dotato di “appiccagnolo”, sull’altro è praticata un’apertura a forma di manubrio per produrre il caratteristico tintinnio. Questo tipo di oggetto veniva applicato sulle vesti con la funzione di bottone o decorazione ma veniva anche fissato alle bardature dei cavalli con scopo decorativo o, nel caso di bardature da guerra, per aumentare l’impatto psicologico sul

188 nemico durante la carica. La maggior parte dei reperti di questo tipo rinvenuti a Poggio Imperiale provengono da strati datati tra il secondo quarto del XIII secolo e il 1313. Tre esemplari, invece, provengono da livelli altomedievali, di cui l’unico datato con certezza si riferisce alla metà del VII secolo.

Pendagli: oggetti puramente decorativi, applicabili al vestiario o ad altri ambiti non identificabili. Di varie forme e dimensioni sono realizzati prevalentemente in bronzo ed hanno datazioni che vanno dal 1313 all’età moderna. Due esemplari presentano una doratura ed uno di questi, di cui non si trovano confronti in epoca medievale, sembra riferirsi all’oreficeria sarda di fine XIX secolo.

Pinzette: realizzate piegando un due una sottile striscia di bronzo, alcune presentano decorazioni ad incisione, sono certamente da considerare oggetti relativi all’ornamento personale ed hanno datazioni che vanno dall’alto medioevo all’età moderna.

Placchette applicative: si tratta di applicazioni ornamentali di piombo in lega con stagno o argento. Si presentano come fasce decorate a rilievo e incisione alle cui estremità sono presenti due occhielli rettangolari in cui doveva passare la striscia di stoffa o pelle a cui erano applicate. Le decorazioni riproducono vari motivi geometrici o floreali, alcune sono dotate di fori che mettono in vista il colore della stoffa sottostante creando un gradevole effetto cromatico. Una di queste, datata all’ultimo quarto del XII secolo, presenta sette appendici decorative sporgenti a forma di sfera o giglio fiorentino. Le datazioni vanno dall’alto medioevo al 1313.

Accessori da cintura: sono raggruppati in questa categoria i reperti metallici riconducibili ad un uso funzionale o decorativo di cinture indossabili, cinghie o cinturini utilizzati in vari ambiti. Lo scavo ha restituito reperti di questo genere databili al bassomedievo. Si tratta di oggetti prevalentemente in bronzo identificati come placchette applicative da fibbia, con cui venivano fissati alla striscia di cuoio alcuni tipi di fibbia, applicazioni da cintura, parti decorative costituite da lamine di bronzo che avevano, in modo meno elaborato, la stessa funzione dei puntali da cintura. Questi ultimi, costituiti da una lamina di bronzo ripiegata in modo da formare un alloggio semiovale per il cuoio, servivano a rinforzare la punta delle cinture e favorire la loro allacciatura; a Poggio Imperiale è stato ritrovato un solo esemplare di questo tipo datato al secondo quarto del XIII secolo.

Fibbie: anche se strettamente collegato alla struttura delle cinture, questo tipo di oggetto merita di essere analizzato a parte. A Poggio Imperiale è stata rinvenuta una gran quantità di tali reperti, di forme diverse ed ottenuti da materiali diversi (bronzo, ferro, argento, leghe e, in un solo caso, piombo). Le datazioni vanno dall’alto medioevo all’età moderna anche se il periodo con maggiori attestazioni a quello bassomedievale. Le fibbie sono uno dei rari oggetti su cui sono stati svolti studi cronotipologici; la loro forma varia, infatti, a seconda delle mode dei diversi periodi rendendo possibile collegare una forma ad un periodo storico preciso. Nei vari periodi di vita degli insediamenti che si sono susseguiti sul Poggio Imperiale sono state forgiate e utilizzate fibbie di forme e dimensioni diverse: dalle più semplici costituite da un anello di ferro o bronzo a cui veniva applicato un ardiglione, alle più eleganti fibbie doppie attestate a partire dal XIV secolo. Due soli esemplari sono stati realizzati in argento; uno, di forma rettangolare con traversa di alloggio dell’ardiglione, datato al 1313 ed un altro di forma circolare, con ardiglione in bronzo, datato al decennio 1260-1270.

189 Insegne da pellegrino: l’importanza del sito come punto di passaggio e di sosta su una delle diramazioni della via Francigena o Romea è confermata dal ritrovamento delle insegne che i pellegrini usavano cucirsi sulle vesti per testimoniare l’avvenuto pellegrinaggio in un determinato luogo sacro. I cinque reperti trovati a Poggio Imperiale, uno datato alla fine del X secolo, uno al XII, due al XIII e l’ultimo al XV secolo, raffigurano i santi Pietro e Paolo indicando quindi un pellegrinaggio di tipo romeo.

Pendaglio/Reliquiario: scatoletta a forma di cuore senza punta in lega di argento utilizzabile come pendaglio sfruttando due anelli applicati ai due lati che potevano essere usati per appendere l’oggetto. Uno dei lati è decorato con un giglio stilizzato e all’interno sono stati rinvenuti alcuni semi (di una pianta non ancora identificata) interpretati come reliquia.

Insegna imperiale: si tratta di un oggetto in lega di piombo di forma circolare lavorata a traforo raffigurante un’aquila in maestà (probabilmente un simbolo imperiale). L’oggetto doveva essere applicato a qualche supporto utilizzando quattro ganci presenti sul bordo esterno. b. Reperti non collegati al vestiario o all’ornamento personale. Chiodi, grappe e rivetti: come si intuisce questi tipi di oggetto vengono utilizzati in svariati ambiti (edilizia, falegnameria, carpenteriae ecc); in particolare i chiodi a Poggio Imperiale costituiscono in assoluto la classe numericamente più attestata tra i reperti metallici. Presenti in tutte le fasi studiate, non variano morfologicamente con il passare dei secoli ma rimangono sostanzialmente della stessa forma e con le stesse caratteristiche fino all’età industriale. Sono a sezione quadrata, di varie lunghezze, e possono avere la capocchia più o meno squadrata. Le grappe invece vengono utilizzate prevalentemente in ambito edilizio. Costituite da aste di ferro a sezione quadrangolare piegate in due punti a 90° per formare una sorta di lettera “U”, venivano applicate a sostegno di strutture edilizie in legno. Sono stati rinvenuti anche rivetti, chiodi di piccole dimensioni, utilizzati per unire tra loro oggetti o lamine metalliche tramite ribattitura.

Coltelli: questi oggetti non sono distinguibili per specifici ambiti d’uso (cucina, caccia, difesa ecc) e per questo motivo sono stati raggruppati in un’unica categoria. L’unica distinzione che possiamo fare è di tipo morfologico a seconda del tipo di codolo di cui sono dotati: il coltello detto “whittle tang”, ovvero con il codolo allungato e rastremato da inserire in manici compatti in legno o osso, e lo “scale tang” con codolo largo e schiacciato a cui viene fissato un manico in legno o osso diviso in due parti fissate ai due lati del codolo con ribattini oppure strisce di stoffa o pelle. Il tipo più numeroso è il “whittle tang” attestato a Poggio Imperiale dagli inizi del IX secolo al 1313 con una sola eccezione costituita da un esemplare unico risalente al V secolo. Generalmente è dotato di una lama a sezione triangolare allungata che può terminare con una punta acuminata o avere una forma rettangolare come l’odierna “mozzetta”. La lama dello “scale teng” presenta, invece, una maggiore varietà di forme ed ha una datazione che va dalla metà del VII secolo al XVI secolo.

Equipaggiamento del cavallo e del cavaliere: tale categoria, molto ampia, raggruppa gli oggetti relativi alla bardatura e alla ferratura di equini e animali da allevamento; fanno parte di questo gruppo anche gli speroni da cavaliere. Il materiale maggiormente usato è il ferro, pochissimi oggetti sono realizzati in bronzo o piombo. Gli oltre milleseicento chiodi da ferratura rinvenuti rendono questa categoria tra le più consistenti a livello numerico. Si tratta di piccoli chiodi con la testa schiacciata lateralmente

190 che servivano per fissare il ferro allo zoccolo dell’animale; si riscontrano due tipi principali di chiodi da ferratura: il primo, chiamato “a chiave di violino”, con il bordo superiore della testa arrotondato (simile ai bischeri del violino), in uso fino al XI-XII secolo, e il secondo, con testa rettangolare, in uso nel XIII e XIV secolo. Il ritrovamento dei chiodi nelle forge, alcuni in corso di lavorazione, testimoniano la loro fabbricazione sul sito; nella lista dei giurati del 1226 sono presenti, infatti, due ferrator. I ferrator erano poi sicuramente in grado di realizzare i ferri di cavallo, i ferri di mulo, i ferri d’asino e i ferri di bue, come quelli rinvenuti, utilizzati per proteggere lo zoccolo della bestia durante le attività lavorative o militari. I primi due tipi di ferratura sono semicircolari e si distinguono fra loro solo per le dimensioni; il terzo tipo presenta i due rami paralleli mentre il quarto tipo consiste in una forma completamente diversa: si tratta di un ferro realizzato con due lamine semiovali, utilizzate a coppie per ogni piede, sul cui bordo vengono praticati fori per i chiodi. La datazione delle ferrature va dal VI secolo all’età moderna. L’uso di animali da lavoro o da guerra è testimoniato anche dal ritrovamento di elementi di bardatura, più o meno decorati, che completavano la realizzazione di selle o finimenti. Sono presenti fibbie in ferro per le cinghie da sella, decorazioni in bronzo applicabili ai finimenti o alle selle, campanelli per animali da allevamento e un esemplare di guardia per redini, ovvero un oggetto costituito da due placchette rettangolari inchiodate ai capi delle redini ed unite tra loro da un occhiello per il quale venivano fissate al morso del cavallo. Indossati dal cavaliere, ma direttamente collegati all’utilizzo di cavalcature, sono gli speroni. Gli esemplari rinvenuti sono di ferro ed hanno una datazione riferibile al basso medioevo; si distinguono in due tipi: speroni a brocco e speroni a rotella; il primo tipo, più antico, consiste in una semplice punta che, una volta indossato lo sperone, veniva a posizionarsi sul calcagno del cavaliere; il secondo tipo, al posto della punta, presenta una rotella mobile dotata di punte.

Serrature, infissi, mobilio: questo nutrito gruppo di reperti raggruppa gli oggetti metallici relativi alla struttura di porte, sportelli o bauli. Si tratta di una vasta gamma di manufatti di ferro o, in misura minore, di bronzo aventi funzione strutturale o decorativa sul mobilio o gli infissi delle abitazioni esistenti nelle varie fasi di Poggio Imperiale. Sono state rinvenute applicazioni a mobilio, prevaletemente in bronzo, con una datazione molto ampia (dall’alto medioevo al 1313). Si tratta di lamine bronzee di varie fogge che presentano fori per l’alloggio dei chiodi o rivetti di fissaggio alla superficie del mobile. Con funzione propriamente funzinale alla chiusura di bauli o cofanetti sono stati rinvenuti vari boncinelli. Si tratta di oggetti costituiti da una lamina di ferro dotata di un’appendice ad anello in cui veniva inserito il chiavistello; venivano fissati al coperchio del baule tramite chiodi alloggiati nei fori presenti sul corpo del reperto. La datazione di questi reperti va dall’alto medioevo al 1270. Tra il corpo ed il coperchio di bauli e cofanetti sono fissate le cerniere. Gli oggetti di questo tipo rinvenuti a Poggio Imperiale sono realizzati in ferro ed hanno dimenzioni variabili. La loro datazione va dall’alto medioevo all’età moderna. L’elemento metallico che permetteva, invece, l’apertura delle porte era il cardine. Realizzato in ferro, è composto di due parti: una viene fissata al legno della porta (bandella); l’altra, introdotta nello stipite in muratura o legno, si lega alla prima tramite un perno. I reperti rinvenuti si dividono essenzialmente in due tipi: il primo ha il perno sulla bandella, l’altro sulla parte inserita nello stipite. Anche in questo caso, il tipo di reperto è presente per un vasto arco di tempo (dal X secolo all’età moderna).

Chiavi: il gruppo riunisce sia chiavi in ferro che in bronzo. Queste ultime sono di piccole dimenzioni e sembrano essere relative a serrature applicate a piccoli cofanetti; sono tre esemplari di fattura elaborata e datate al 1313. Le chiavi in ferro, molto più numerose, si

191 presentano di vari tipi distinguibili morfologicamente tra loro. La maggior parte è datata al basso medioevo ma esistono anche esemplari risalenti ad età altomedievale o moderna.

Lucchetti e serrature: direttamente collegati agli oggetti precedentemente descritti i lucchetti e le serrature sono stati raggruppati a parte. L’uso dei lucchetti è documentato durante il medioevo ma l’unico rinvenuto a Poggio Imperiale è datato all’età moderna. Le serrature, invece, più numerose appartengono a periodi compresi tra il 1155 e il 1313. Si tratta di framenti di serrature a toppa in ferro applicabili a porte o mobilio di grandi dimensioni ricavate da piastre a sezione piatta con toppa centrale. Nessuno di questi reperti si è conservato interamente.

Pesi e pesatura: nel caso di Poggio Imperiale, questa categoria raggruppa oggetti diversi tra loro per forma e funzione. Sono stati rinvenuti diversi pesi per bilancia; realizzati in piombo, alcuni di essi presentano una forma troncoconica cava. E’ testimoniato l’uso di impilarli per raggiungere il peso desiderato sul piatto della bilancia. Un altro tipo di peso da bilancia si presenta di forma cilindrica a sezione piena. Hanno una datazione che va dal VI secolo al 1313 con una sola eccezione rinvenuta in uno strato di età moderna. Pesi per reti da pesca sono poi stati rinvenuti e datati tra il X secolo e il 1155. Sono in piombo e di forma cilindrica o troncoconica e venivano applicati a reti da pesca come massa. Un esemplare di peso per filo a piombo, largamente documentato per l’attività edilizia del medioevo, è stato rinvenuto in uno strato datato all’ultimo quarto del XII secolo.

Strumentario domestico: è’ stato rinvenuto un vero e proprio campionario di strumenti relativi alla sfera domestica o utilizzati in relazione al focolare e all’illuminazione degli ambienti. Sono stati rinvenuti strumenti come gli acciarini, per accendere il fuoco, o un frammento di lucerna in lamina bronzea. Una buona percentuale dei reperti di questo tipo è costituita da catene e catenelle, le prime in ferro, le seconde realizzate in bronzo. Avevano funzioni molteplici che possono solo essere ipotizzate tenendo conto dello spessore degli anelli. Lo scavo ha restituito anche oggetti come maniglie o anse metalliche che autorizzano ad ipotizzare la presenza di recipienti metallici. Presenti anche vari tipi di ganci in ferro utilizzati per vari scopi: dalla sospensione di vivande alla sospensione di paioli sul focolare. In particolare, l’unico gancio da paiolo rinvenuto appartiene ad uno strato di VI secolo. Le posate, intese come forchette e cucchiai, vengono introdotte nel corso del XIV secolo. Gli esemplari rinvenuti a Poggio Imperiale, risalgono ad un epoca non anteriore al 1313, in alcuni casi le datazioni arrivano all’età contemporanea.

Utensili per uso agricolo: solo pochi reperti appartengono a questa categoria. La maggior parte, quasi tutti falcetti, proivenienti da strati di età moderna, sono sicuramente legati ad attività agricole svolte sulla collina di Poggio Imperiale. L’unico reperto appartenente al periodo di Poggio Bonizio, datato cioè al XIII secolo, è una serpetta (strumento in ferro simile alla roncola utilizzata in vigna) che presenta ancora parte dell’immanicatura in legno.

Utensili da lavoro: l’intensa attività artigianale è testimoniata anche dal ritrovamento di molti strumenti metallici legati a vari ambiti del lavoro della pietra, del legno, dei metalli, del pellame ecc. Oggetti come martelli, cunei, scalpelli, punte di trapano e tenaglie sono adatti alla pesante lavorazione della pietra e del legno per l’attività edilizia o metallurgica. Accanto a questi reperti, sono stati rinvenuti anche strumenti più leggeri come bulini, aghi, ditali, punteruoli (lesine) e forbici legati ad attività produttive leggere come la sartoria e la lavorazione dei pellami. Provenienti da periodi diversi, questi oggetti vennero utilizzati

192 dagli individui che vissero sull’attuale collina di Poggio Imperiale dall’ alto medioevo all’età moderna. c. Armi Nonostante i numerosi fatti d’arme avvenuti sulla collina di Poggio Imperiale in epoca bassomedievale, lo scavo ha riportato alla luce solo un modesto numero di manufatti metallici riferibili all’attività militare. Uno dei motivi di questa scarsità di tracce è probabilmente da ricercarsi nel fatto che l’area indagata finora rappresenta solo la parte dell’abitato di Poggio Bonizio morfologicamente più protetta da eventuali attacchi esterni e distante dalle maggiori strutture difensive. A parte il tratto di cinta muraria costruita sulla scarpata che sovrasta l’attuale via San Gallo, probabilmente sguarnita data la posizione difficilmente attaccabile, non si sono ritrovati resti di edifici militari come torri o porte fortificate, presenti invece lungo il tratto di cinta muraria che chiudeva la città dalla parte di San Lucchese. I reperti rinvenuti in numero maggiore appartenenti a questa categoria sono le punte di freccia. Tali manufatti, (un centinaio di esemplari), sono datati ad un periodo di tempo che va dal XII secolo al XV. Si tratta di punte di freccia da arco o da balestra divisi in due principali tipologie. La prima si presenta di forma più o meno affusolata a sezione quadrangolare, progettate per penetrare attraverso gli anelli delle protezioni in maglia metallica, e munite di gorbia (parte posteriore della punta, nella maggioranza dei casi di forma cilindrica cava, dove si inserisce l’asta di legno della freccia). Sono reperti relativi alla città di Poggio Bonizio ed alla breve occupazione da parte di Arrigo VIII. La maggior parte di esse sembra appartenere al tipo usato per le frecce da arco anche se, specialmente per il XIII secolo e il primo XIV, è molto difficile distinguerle tra loro; in questo periodo, infatti, il tipo di punte usate per le frecce da arco non era molto diverso da quelle montate sui corti dardi delle balestre; generalmente il criterio di distinzione è la misura del diametro interno della gorbia; nelle punte di dardo da balestra, di solito, questa è più larga per poter alloggiare un’asta più tozza. Comunque, nei casi di balestre di minore potenza, si armavano le aste con le stesse punte utilizzate per le frecce da arco. Una forte distinzione si ha, tuttavia, a partire dal XIV secolo. Con la comparsa di armature più efficaci e con la consequente introduzione di balestre più potenti, le punte dei dardi da balestra si distinguono sempre di più da quelle per arco: da leggère e affusolate divengono sempre più tozze, pesanti e resistenti favorendo la forza d’impatto a scapito del potere di penetrazione. Solo tre punte rinvenute a Poggio Imperiale appartengono a questa tipologia. Hanno la cuspide di forma piramidale a base quadrata ben distinta dalla gorbia. La loro presenza a Poggio Imperiale è dovuta probabilmente ai fatti d’arme del 1478 che videro l’esecito senese e quello fiorentino scontrarsi proprio sulla collina di poggio imperiale. Decisamente meno rilevante, dal punto di vista quantitativo, è la presenza di elementi strutturali relativi ad armi inastate. E’stato rinvenuto un solo esemplare identificabile come punta di lancia. Si tratta di un manufatto in ferro che presenta una larga cuspide a “foglia d’alloro”, anche se danneggiata se ne può ricostruire interamente la linea; è dotata di una gorbia conica, cava fino alla base della lama, per l’alloggio dell’asta lignea. Si è conservato anche il chiodo che fissava il legno. Il diametro della gorbia fa pensare ad un’asta abbastanza spessa da resistere ad un combattimento corpo a corpo facendoci scartare l’idea che si tratti di un’arma da getto (giavellotto ecc.). Lo strato in cui è stata rinvenuta è datato tra la seconda metà del IX secolo e gli inizi del X secolo. Non ci è dato conoscere la lunghezza dell’asta su cui era applicata ma l’iconografia relativa a questo periodo storico presenta lance di lunghezza poco superiore a quella di un uomo. Utilizzata sia a piedi che a cavallo, la lancia era l’arma principale del combattente di quest’epoca e trovava applicazione anche nella caccia alla grossa selvaggina.

193 Altri due reperti relativi a questo tipo arma, sono due calzuoli in ferro. Si tratta di manufatti di forma conica cava che venivano fissati al “calcio” della lancia, cioè dalla parte opposta rispetto alla punta. In tutti e due si rileva la presenza di un chiodo che assicurava il legno nell’alloggio predisposto. Sicuramente non sono relativi alla punta di lancia sopradescritta; l’unico calzuolo rinvenuto in livelli di età medievale, infatti, è datato all’ultimo quarto del XII secolo; l’altro proviene dagli strati di humus e non è databile. Tali elementi avevano due funzioni principali: la prima era quella di proteggere l’asta dal contatto con il terreno; durante le marce, infatti, i soldati appiedati si appoggiavano alla lancia come ad un bastone da passeggio. La seconda funzione ci è suggerita dal modo in cui è stato rinvenuto uno dei reperti: il calciuolo si trovava inflitto nel terreno in posizione verticale con la punta rivolta verso il basso e la cavità d’alloggio dell’asta rivolta verso l’alto, come se un soldato in un momento di riposo, qualche secolo fa, avesse lasciato conficcata nel terreno la sua arma. Tra le armi rinvenute sulla collina di Poggio imperiale vanno registrate tre piccole palle metalliche, una in ferro le altre in piombo, appartenenti sicuramente alle fasi moderne del sito. I due pallini di piombo, del diametro di 80-90 millimetri, probabilmente vanno interpretati come proiettili relativi ad un fucile o moschetto o altra arma ad avancarica utilizzata in epoca moderna, molto probabilmente riferibile ad attività venatoria. La terza, una palla di ferro del diametro di circa due centimetri potrebbe essere riferita ad un arma da fuoco più antica, probabilmente un archibugio, comparso sui campi di battaglia sul finire del XIV secolo. Anche questo reperto potrebbe essere un residuo dei fatti del 1478. Lo scavo ha restituito anche frammenti di armi da difesa. Si tratta di anelli per maglia metallica del diametro di 1,2 cm e dello spessore di 0,2 cm. Hanno forma circolare, ricavati da un filo di ferro a sezione circolare e chiuso tramite un rivetto. Sono stati datati ad epoca basso medievale (tre al 1313 ed uno all’ultimo quarto del XII secolo). Anelli simili, concatenati in modo che ogni anello si agganciasse ad altri quattro, andavano a formare la maglia metallica. Questo tipo di protezione, di origine celtica, è certamente il tipo di difesa individuale metallica più usato nel continente euroasiatico fino alla massiccia diffusione delle armi da fuoco. La concatenazione degli anelli andava a formare una sorta di tessuto metallico con il quale si realizzavano veri e propri abiti indossati a protezione di varie parti del corpo garantendo il giusto compromesso tra protezione, mobilità e comodità d’utilizzo; se indossati, infatti, sopra un indumento imbottito, lasciavano piena libertà di movimento ed una certa protezione dai fendenti e dai colpi di punta se non erano vibrati con eccessiva violenza. Nel periodo di vita di Poggio Bonizio e della breve presenza del cantiere di Arrigo VII, la maglia metallica vide il periodo di massima diffusione. Si potevano realizzare “usberghi” che coprivano praticamente tutto il corpo del combattente (in alcuni casi costituiti da più di 200.000 anelli concatenati e chiusi tramite rivetto). Ovviamente, le protezioni integrali erano appannaggio di ricchi cavalieri, tuttavia pezze singole (camice di maglia, maniche di maglia, cuffie di maglia ecc.) andavano a proteggere anche i le parti più esposte del corpo dei fanti. S.P., D.C.

4 – Monete. Le indagini archeologiche condotte fino ad oggi a Poggibonsi hanno restituito un numero complessivo di 352 monete. Di queste 4 sono d’epoca classica e più precisamente d’età imperiale mentre il resto dei pezzi è rappresentato dalla moneta piccola medievale in mistura e da un unico grosso in argento emesso dalla zecca di Volterra. La presenza d’esemplari riferibili al periodo classico anche in stratigrafie medievali è attestata in molti siti archeologici poiché, probabilmente, una volta ritrovate, queste monete venivano utilizzate come gettoni di conto, oppure come merce di scambio, visto che comunque si trattava d’oggetti in metallo.

194 Quasi tutto il circolante rinvenuto proviene da zecche toscane ed è costituito maggiormente dai denari lucchesi emessi dall’XI al XII secolo a nome dell’imperatore Enrico III-IV-V di Franconia, che rappresentavano per buona parte dell’Italia centrale il conio più forte per intrinseco e per valore fiduciario; la città di Lucca fu l’unica che per molto tempo ebbe il riconoscimento del diritto di zecca, concesso dall’imperatore Ottone I di Sassonia. Seguono i denari di Pisa a nome di Federico I coniati dopo il 1181, quelli di Siena emessi dalla fine del XII alla seconda metà dal XIII secolo e per finire i denari di Arezzo ed un grosso Volterrano. [Fig….] La grande maggioranza delle monete rinvenute (ben 233 pezzi) è riferibile al periodo di emissione che va dall’XI al XII secolo, a testimoniare come, dopo la fondazione di Poggio Bonizio ad opera dei conti Guidi, l’insediamento fosse in una fase di grande sviluppo economico, legato all’autonomia comunale ed alla grande ascesa urbanistica. Come molte delle città toscane anche Poggibonsi in questo periodo usò il denaro lucchese, per poi passare al denaro pisano che, fino all'apertura della zecca di Siena (1191 ca.) diverrà la moneta di conto ufficiale senese e quindi dei territori di pertinenza politica. L’ottima posizione geografica di Podium Bonizi, ubicato sulla sommità di un colle e al centro di un sistema viario eccellente, ha contribuito in maniera rilevante al ritrovamento di esemplari di varia provenienza, specchio di una circolazione internazionale con monete forestiere extraregionali ma anche provenienti dagli Stati europei più vicini all’Italia. Monete di Ancona, Pavia, Ravenna Brindisi, ma anche di Toledo, Salamanca, Orange; della Navarra, della Normandia e della Carinzia, ci parlano di un sito ad economia monetaria, in cui il’denaro’ è testimonianza dell’evoluzione socio economica tipica delle prime esperienze comunali, ma anche di flussi di merci e di uomini che a Poggio Bonizio giungevano per svolgere le loro attività commerciali e artigiane, di mercatura e cambio [Figg. …-…]. Un’ulteriore prova di questo fervore economico sono le 9 piccole tessere (o gettoni) in piombo, quasi certamente prodotte in stampi da botteghe di Poggio Bonizio, che sottolineano ancora una volta il dinamismo delle attività commerciali ed artigianali del centro [Fig. …]. Interessante è il numero abbastanza considerevole dei denari scodellati di Verona (12 pezzi) della prima metà del XIII secolo; con molta probabilità questo nominale era adottato, in genere per il suo basso valore, come mezzo denaro, sufficiente a soddisfare modeste transazioni quotidiane per l’acquisto di generi alimentari o piccole suppellettili La quantità e i tipi degli esemplari rinvenuti a Poggio Bonizio, ci consentono di fare un breve cenno sulle tecniche di fabbricazione dei tondelli e sugli elementi iconografici presenti sulle monete, quasi tutte in mistura, vale a dire rame e argento legati insieme in percentuali diverse, in base al nominale da coniare (picciolo, quattrino, grosso ecc.). Il procedimento per ottenere la moneta medievale consisteva in due momenti essenziali: produzione del tondello e sua coniazione. Il tondello era prodotto ritagliando una lastra del giusto spessore, in strisce di poco più piccole del diametro dei coni; queste, a loro volta, venivano divise in piastrine quadrangolari, le quali, dopo aver asportato i quattro spigoli, erano poi martellate sui bordi, per ottenere così una forma il più possibile circolare (arrotondamento per espansione) [Fig. …]. In periodi di forte richiesta di circolante, poteva accadere, però, che questa fosse superiore alle consuete possibilità di coniazione di una zecca, ciò comportava l'emissione di pezzi a titolo più basso (cioè con una quantità minore d’argento) e soprattutto una frettolosa esecuzione che si ripercuoteva sulla qualità dei tondelli che spesso erano malamente tagliati e addirittura privi di arrotondamento per espansione. Dopo la fabbricazione del tondello i dischetti ottenuti venivano a volte 'imbiancati', cioè ripetutamente lavati in prodotti chimici di origine naturale, schiarendo così la moneta fino a

195 farla apparire più ricca di argento di quanto non fosse. Prima della coniazione vera e propria, le persone addette preparavano i coni incidendo con bulini e punzoni diversi le raffigurazioni e le legende (cioè le parti scritte che compaiono sulle monete). Di punzoni (barrette di acciaio temperato) fino al XII secolo ne venivano impiegati cinque o sei: uno per le mezzelune, adatte per eseguire le lettere come la C e i tratti tondeggianti della P, B e D, uno per i punti, ed altri ancora per le aste verticali, per i cerchi e per i cunei. Si ottengono così i due coni, quello di incudine, di forma tronco-conica, con un puntale nell’estremità inferiore per poterlo unire saldamente al ceppo di legno e con la matrice nella parte superiore, e quello di martello, mobile e di forma cilindrica, sul quale veniva vibrato il colpo per imprimere i caratteri della matrice sulla moneta [Fig. …]. Procedendo nella lettura della moneta, possiamo dire che si compone di due parti fondamentali, il dritto e il rovescio, vale a dire l'una e l'altra faccia del tondello; con il dritto s’identifica solitamente la faccia in cui è incisa la denominazione dell'autorità emittente, che negli esemplari più antichi è solitamente il monogramma dell'Imperatore o il suo nome per esteso, e con il rovescio quella faccia dedicata ai simboli o, sempre nei tipi più arcaici, al nome della città. Ognuna delle due facce presenta una particolare suddivisione della superficie: il cosiddetto campo, cioè la superficie interna riservata ai simboli, e il giro, che è lo spazio in cui s’inserisce la parte scritta della moneta (legenda). Le linee che dividono le due parti sono dette corone di cui esistono tre tipi: corona di perline, liscia e rigata.[Fig….] Nel corso del Duecento si ricorre ad immagini sempre più elaborate, che mirano ad una ricerca estetica più attenta favorita anche dalle nuove attrezzature a disposizione degli incisori che si perfezionano a beneficio anche delle monete piccole, dove le immagini iniziano a contendere il posto alle legende. L’introduzione del ‘grosso’ di buon argento nel corso del XII secolo aveva spinto le maestranze addette a porre sempre più attenzione all’aspetto formale dei tipi; nonostante tecniche e sistemi di produzione non fossero cambiate, migliorò la strumentazione a disposizione che in poco tempo aumentarono in numero e qualità i punzoni. Nel corso de secoli, si evolve ancora il corredo tecnico e gli incisori possono elaborare per ogni tipo di moneta eleganti figure ed alfabeti dettagliati, come ci dimostra il bellissimo grosso di Volterra del XIV secolo rinvenuto a Poggibonsi [Fig…] C.C.

5 – La fauna. a. I bovini - I bovini (Bos taurus) medievali di Poggio Imperiale sono di piccole dimensioni, con un’altezza al garrese compresa tra 120 cm e 140 cm. Si tratta di valori modesti: una chianina attuale, ad esempio, varia da 150 cm a quasi due metri; una maremmana da 150 cm a 170 cm. Tuttavia, si osserva una trasformazione diacronica della taglia degli animali, come emerge dal confronto tra il bestiame allevato nel villaggio di legno con quello di pietra. La percezione è quella di un lento ma consistente aumento delle dimensioni dei bovini nel corso del bassomedioevo. I soggetti più grandi sono stati rinvenuti nei livelli del 1313, in questo caso forse si tratta di soggetti più grandi perché utilizzati nei pesanti lavori del cantiere urbano. Un accrescimento si registra però gia nel corso del secolo precedente. Durante i secoli bassomedievali, quindi, sembra siano stati adottati criteri di selezione delle razze bovine, come si osserva dal generico aumento della taglia, forse imposti dall’affermarsi dell’agricoltura. b. Il ruolo del maiale nell’altomedioevo - Lo sfruttamento intenso dell’incolto, nell’altomedioevo, è testimoniato dall’abbondanza di resti ossei di maiale in diversi

196 campioni toscani datati tra VII e X secolo. L’importanza dei suini, in un periodo di forte espansione dell’incolto, è affermata anche dai documenti scritti: nelle leggi promulgate dal re longobardo Rotari, ad esempio, si fa frequente riferimento alla figura del porcaro ed all’importanza economica da questi rivestita nella vita quotidiana del regno. L’unità di misura con cui si stimava l’estensione delle superfici boschive era il maiale: ovvero quanti capi era possibile ingrassarvi. L’allevamento di questo animale a fini eminentemente alimentari e come merce di scambio ha trovato anche conferme nei resti di pasto e di macellazione rinvenuti in diversi siti archeologici. A poggio Imperiale, ad esempio, la spalla del maiale (Sus domesticus) era utilizzata come corresponsione (nei documenti riportata come amiscere) che gli affittuari dovevano al centro dominico. c. I capriovini - I capriovini (Ovis vel Capra) hanno rappresentato per tutto il medioevo un’importante risorsa economica ed alimentare per la comunità valdelsana. La triplice attitudine produttiva (latte, lana e carne) di questi animali ha certamente enfatizzato tale ruolo, fondamentale per l’economia rurale del periodo. Queste specie si adattano a diversi tipi di ambienti, sia a prevalenza incolta che agricola, anche se prediligono spazi aperti piuttosto che a copertura arborea. Per tali motivi, resti di questi animali sono stati ritrovati in abbondaza in tutti i livelli di occupazione del sito. Sono però soprattutto le pecore, in luogo delle capre, ad essere state allevate. Gli ovini (Ovis aries) mostrano una tendenza alla crescita tra il periodo altomedievale e bassomedievale. Le altezze al garrese indicano un valore medio di 54,5 cm per l’altomedioevo, di 58,5 cm per Poggio Bonizio e di 61,1 cm per gli inizi del XVI secolo. Si tratta, in tutti i casi, di razze di dimensioni piccole, più modeste delle attuali appenninica e sarda. d. Gli equini - Le specie equine (cavalli ed asini) non sono molto frequenti nelle stratigrafie della collina. I resti più antichi sono stati ritrovati a partire dal VII secolo, mentre sono assenti nei livelli tardoantichi. Nel corso dell’altomedioevo la loro presenza aumenta fino a raggiungere la massima consistenza nel villaggio di XIII secolo. Questo trend forse riflette un processo economico, l’affermazione dell’agricoltura, e culturale, il cavallo inizia ad essere allevato non solo per scopi militari ma anche per il lavoro, di conseguenza si accentuerebbe anche il loro utilizzo alimentare. Il consumo di carne equina non sembra però essere stato molto diffuso: solo tre resti ossei conservano tracce di macellazione. L’asino (Equus asinus) nel XIII secolo doveva essere di taglia media (110 cm), più grande dell’asino Sardo ma inferiore dell’asino Amiatino. Anche i cavalli (Equus caballus) mdi XIII secolo erano di taglia media (154 cm), molto simili al cavallo Agricolo Italiano, ma più piccoli del maremmano. F.C.

6 – Archeobotanica: primi risutati delle ricerche paleoambientali. L’archeobotanica studia tutti quei materiali botanici rinvenuti negli scavi archeologici, come carboni, semi, frutti e pollini. L’antracologia ne è una branca e studia i frammenti di legno carbonizzato presenti nei siti archeologici. La semplice osservazione al microscopio della microstruttura del legno carbonizzato consente la sua identificazione; in questo modo è possibile ricostruire il paesaggio antico e la sua trasformazione nel tempo. Le prime analisi antracologiche sui carboni provenienti dallo scavo di Poggio Imperiale hanno permesso una prima ricostruzione del paesaggio di Poggio Imperiale nel periodo

197 altomedievale; si tratta di una prima serie di campioni che coprono un arco cronologico compreso tra il VI e il X secolo d. C. Sono state identificate diverse specie arbustive tipiche della macchia mediterranea come cisto (Cistus), mirto (Myrtus), lentisco (Pistacia lentiscus), alaterno (Rhamnus alaternus), erica (Erica), edera (Hedera Helix), corbezzolo (Arbutus unedo), che arboree come quercia caducifoglia (Quercus), olivo (Olea europaea), castagno (Castanea sativa), frassino (Fraxinus), carpino (Carpinus), pioppo (Populus). Il dato più rilevante è proprio la presenza di specie della macchia, che sono tipiche di ambienti fortemente degradati dall’impatto antropico (tagli ripetuti, pascolo intenso), non più idonei ad una vegetazione forestale. Un dato su cui vale la pena soffermarsi è la presenza del castagno, che doveva anche allora essere un elemento primario del paesaggio; questa pianta originaria dell’Europa sud-orientale, era già largamente diffusa nel medioevo. I suoi frutti hanno costituito per secoli un’importante fonte di nutrimento. Dalle castagne infatti si ricava una farina che spesso ha sostituito quella di grano; le castagne meno pregiate, assieme alle ghiande erano anche usate anche come cibo per i maiali. Il legno di castagno è inoltre ottimo come materiale da costruzione e la sua ricchezza di tannini lo protegge dall’attacco dei tarli. Un altro elemento di particolare interesse è dato dalla presenza di due specie della macchia, come l’erica (Erica) e il corbezzolo (Arbutus unedo), anche quest’ultimo appartenente alla famiglia delle Ericaceae, che ha la caratteristica di presentare contemporaneamente fiori e frutti in autunno. Sappiamo che l’approvvigionamento del legname, soprattutto se usato come combustibile, non doveva essere effettuato in zone troppo distanti dall’abitato, in quanto questa raccolta non prevede una scelta selettiva delle specie. Dobbiamo quindi immaginare che le specie identificate con le analisi fossero tutte presenti in prossimità del sito. La vegetazione intorno a Poggio Imperiale era probabilmente costituita così come oggi, da boschi di querce da castagneti, mentre i versanti della collina, oggi interessati da un bosco, dovevano essere probabilmente coltivati o pascolati, ma comunque privi di vegetazione arborea. G.D.P.

198 VII – La documentazione

1 – L’informatizzazione. L'attività di analisi delle opportunità in nuce nel progresso tecnologico, iniziata con la documentazione svolta a Poggio Imperiale, è tuttora il motore di spinta di una progettazione, che ha visto realizzare e svilupparsi un sistema di gestione dell'informazione archeologica di tipo ipermediale, concernente tutte le attività dell’area di Archeologia Medievale dell’Università di Siena686. L'informatica ha completamente trasformato il tipo di lavoro svolto nei laboratori ed essendo un momento di passaggio, il cambiamento è andato di pari passo con l'aumento delle nostre capacità di gestione dell'hardware e del software e con lo stesso sviluppo dei prodotti immessi sul mercato. La nostra attenzione si è concentrata su varie tecniche ed applicativi, tra i quali citiamo la costruzione di banche dati ad architettura relazionale, il processamento al calcolatore di foto aeree, la gestione GIS di scavi e territori, la catastazione multimediale della risorsa archeologica, la modellazione 3D, il rendering fotorealistico e l’animazione per strutture e reperti, lo sviluppo di tecniche di morphing delle strutture individuate tramite scavo, la produzione di filmati multimediali, la creazione siti e pagine web concernenti ricerche e parchi archeologico-culturali. L'esigenza di ricondurre le banche dati e le piattaforme costruite, all'interno di un unico sistema di gestione e la necessità di poter osservare e fare interagire le informazioni prodotte a tutte le scale spaziali, ci ha poi condotti alla ricerca di una soluzione di gestione ipermediale del dato archeologico. L'ipermedialità rappresenta infatti il nuovo punto di arrivo del rapporto archeologia-informatica. Questa categoria di creazioni racchiude tutto ciò che è programmabile e riconducibile in un sistema composito di documentazione integrata; siamo infatti convinti che la programmazione costituisca la frontiera che l'archeologo deve varcare affinché il computer non venga utilizzato come un semplice elettrodomestico. A Poggio Imperiale abbiamo quindi deciso di impostare una gestione dello scavo interamente informatizzata, iniziando dalla fase diagnostica del sito e perseguendo cinque obiettivi principali: - applicazione di tecnologia come mezzo di ricerca e documentazione sul campo; - applicazione di tecnologia come mezzo di archiviazione in laboratorio; - uso di tecnologia come mezzo di interrogazione delle informazioni e di fruizione virtuale dello scavo; - continua apertura ed attenzione alle novità tecnologiche immesse sul mercato; - gestione fatta in proprio da archeologi che, con il tempo, raggiungano non il know how di tecnici informatici bensì un livello utenza di fascia alta. L’esperienza pluriennale svolta dall’Università di Siena ha mostrato, come nel caso di altri punti di eccellenza italiani, le potenzialità delle applicazioni digitali in ambito archeologico. I presupposti della nostra sperimentazione sono stati, e sono tuttora, verificare le possibilità legate all’uso sistematico del calcolatore nelle fasi di raccolta, gestione e trattamento del dato, raggiungendo degli standard di utilizzo destinati ad accrescerne il potenziale informativo e consentire una diffusione a tutto tondo dell’informazione. L’approccio è di tipo metodologico; la tecnologia si configura come il mezzo per raggiungere un grado ottimale di organizzazione e lettura del record prodotto dalla ricerca “sul campo”, contribuendo così a migliorare ed accelerare la costruzione di modelli storici fondati sulla fonte materiale. Se l’informatica non permettesse una più completa conoscenza archeologica, non ricercheremmo la sua applicazione sistematica; siamo

686 Riguardo alle sperimentazioni condotte e ai principi sostenuti dal LIAAM inerenti il metodo citiamo come contributi di riferimento FRANCOVICH 1990 e FRANCOVICH 1999; VALENTI 1998a, VALENTI 1998c, VALENTI 2000b, VALENTI 2002; ISABELLA, SALZOTTI, VALENTI 2001. 199 archeologi che ne fanno uso per migliorare la propria ricerca e non informatici che sperimentano applicazioni destinate agli archeologi. Per questi motivi, l’impiego della tecnologia deve essere vissuto come una fase di evoluzione delle metodologie di documentazione. Fino dall’inizio delle attività del LIAAM (Laboratorio di Informatica Applicata all’Archeologia Medievale attivo nell’Università di Siena e con una “costola” aperta presso il cassero della fortezza di Poggio Imperiale), abbiamo cercato di individuare “modelli” di registrazione- organizzazione di dati cartografici, alfanumerici e multimediali, nell’ottica di una gestione complessiva che soddisfacesse le diverse esigenze analitiche dell’indagine archeologica: strumenti funzionali all’accumulo di sapere ed alla produzione di conoscenza, ovvero applicativi, grandi banche dati e sistemi di processamento. Il fine ultimo del nostro lavoro si identifica nell’ottimizzazione dell’intero patrimonio di dati raccolto, ed in crescita esponenziale, sia in consultazione sia in chiave interpretativa. Non si tratta di porsi in antagonismo con le procedure tradizionali di registrazione ed analisi, bensì di accrescere gli strumenti di processamento a disposizione del ricercatore. Si aprono infatti prospettive conoscitive difficilmente ottenibili senza il ricorso alla potenza dei computer odierni ed alla loro capacità di relazionare una mole impressionante di dati eterogenei. Ignorare, o non sfruttare appieno, le potenzialità dell’Informatica applicata significa fare a meno di uno strumento metodologico innovativo per il progresso della ricerca.

2 - Il sistema di gestione dei dati di scavo. Durante il 1996, nell’ambito delle indagini svolte a Poggio Imperiale, ha avuto inizio sperimentalmente l’applicazione della tecnologia GIS alla gestione della documentazione di scavo. L’obiettivo era, ed è ancora, produrre uno strumento di lavoro che permettesse la consultazione integrata di tutti i dati raccolti, svincolato da processi interpretativi preliminari, ad eccezione dell’identificazione data dall’archeologo durante lo scavo. Dunque, uno strumento realmente utile ad una ricerca in fieri e non solo di supporto ad elaborazioni già compiute. In questo senso, la “soluzione GIS” costituisce una concreta risposta ad uno dei problemi più ricorrenti e pressanti nell’ambito delle applicazioni informatiche in archeologia: la difficoltà di relazionare ed integrare il dato alfanumerico con quello grafico. Per soluzione GIS s'intende quindi una serie di piattaforme e di archivi che interagiscono tra loro. La gestione del cantiere di scavo deve prevedere la possibilità di accedere su richiesta a tutta la documentazione catastata; questa, per il suo carattere obbligato di esaustività, deve accogliere una grande e composita mole di documenti. Realizzare una soluzione GIS dello scavo significa mettere a punto il sistema degli archivi e la piattaforma GIS dando modo, a qualsiasi ricercatore interessato, di interrogare personalmente i dati e quindi offrirgli la possibilità di reinterpretare687. Per fare ciò è necessario creare almeno tre applicazioni e metterle in relazione: - la piattaforma dello scavo (il sito e tutte le piante); - il DBMS alfanumerico (il sistema degli archivi US, reperti ecc.); - il DBMS delle pictures (il sistema degli archivi fotografici e grafici). Questa sperimentazione, cioè il tentativo di gestire interamente in digitale lo scavo archeologico, si è imposto nel tempo come il contributo di grande novità che il progetto Poggio Imperiale ha portato, aldilà dei risultati archeologici. Poggibonsi è stato il primo cantiere (ed ancora uno dei pochi) interamente registrato all’interno di una piattaforma GIS relazionata ad un articolato sistema di archivi; contiene l’intera memoria dell’intervento

687 Rispetto al sistema complessivo di gestione dei dati di scavo e all’interfaccia OpenArcheo, rimandiamo a FRANCOVICH, VALENTI 2000; FRONZA, NARDINI, VALENTI 2003; FRONZA, NARDINI, SALZOTTI, VALENTI 2001; NARDINI, VALENTI 2004; VALENTI et alii 2001. 200 (dalle indagini preliminari al deposito archeologico, dagli scarichi della terra al progetto di parco), permette inoltre lo sviluppo di nuove metodologie di interpretazione del record e la progettazione mirata sia dell’ampliamento dello scavo sia della sua musealizzazione. Nella maggior parte dei casi proposti in Italia a partire dalla seconda metà degli anni '80, non si è mai giunti ad una vera applicazione GIS dell'intervento stratigrafico. E' stata privilegiata la gestione del dato alfanumerico (gli archivi), considerando come accessoria la parte grafica (il rilievo di scavo), che trova posto essenzialmente in programmi CAD. L'assunzione in vettoriale dei rilievi non è imperniata sul principio della digitalizzazione di una macro pianta composita (tutti gli strati scavati), bensì di piante di fase o di periodo; cioè non tutti i dati ma dati selezionati e già interpretati. Oppure, come abbiamo visto tentare in altre sperimentazioni, leggermente più avanzate dal punto di vista concettuale ed ancora inedite, si tenta di costringere tutti i dati nella piattaforma GIS (mai l'intero rilievo dello scavo, spesso le strutture murarie e gli strati più importanti) cercando nel software in uso la possibilità di inserire all’interno dell’oggetto rappresentato (cioè l’unità stratigrafica) l’intera scheda US o una sua versione semplificata. L'impiego della tecnologia però non può essere limitato o limitante. La portata dell'errore è così paragonabile all’impiego di un database lineare nella catastazione delle US e delle classi di reperti ad esse correlate, cioè ogni volta che non si riempiono i formati previsti per questi ultimi, il programma inserisce automaticamente schede bianche. In tempi più o meno brevi la macchina si pianterà e farà sempre una fatica enorme nel fornire risposta alle interrogazioni effettuate: si tratta di vie senza uscita e tali da non permettere una completa consultazione multidirezionale di tutti i dati. Anche la necessità di dover accedere alla documentazione fotografica conduce a soluzioni limitate; nella maggioranza dei casi, si legano attraverso i famigerati “hot link” (spesso visti a torto come la soluzione ottimale) foto contenute in cartelle esterne (mai tutte le foto, quasi sempre una foto per oggetto) rinunciando alla possibilità di visionare relazionalmente tutte le immagini catastate. La ricerca di una “soluzione GIS” reale ci ha quindi portato a progettare e sviluppare l’interfaccia “Open Archeo”, che di fatto rappresenta una soluzione GIS ipermediale a tutto tondo. E’ un sistema di gestione integrato ed aperto; tramite un'interfaccia semplice permette di collegare vari tipi di dati (cartografici, planimetrici, alfanumerici, grafici, multimediali, ecc.) in modo multidirezionale fra le diverse applicazioni usate. Il concetto di base sul quale si fonda il sistema ruota attorno a due parametri che corrispondono a due quesiti fondamentali: la documentazione (quale tipo di documentazione intendiamo reperire?) e la keyword di relazione (in base a quale chiave di ricerca vogliamo reperire la documentazione?). In pratica possiamo accedere, su richiesta mirata od anche casuale, a tutte le informazioni disponibili, partendo da qualunque base in consultazione. Il progetto quindi ha costituito, e costituisce tuttora, un’assoluta novità nel panorama delle precedenti esperienze di gestione della documentazione di scavo in forma digitale.

3 - La piattaforma GIS. Il GIS dello scavo viene concepito come una piattaforma che contiene la memoria di tutte le operazioni e le ricerche effettuate688. La collina di Poggio Imperiale è stata interamente vettorializzata ed inserita nel suo immediato contesto paesaggistico ed insediativo. Sono stati poi catastati la carta geologica di dettaglio, le indagini geoarcheologiche (sezioni geologiche della collina, carta della probabilità archeologica, ipotesi su un eventuale sistema di captazione delle acque), le indagini preliminari sul terreno (fieldwalking 1991 e 1992), le letture al calcolatore delle fotoaeree effettuate nel 1991-1992 (fotoaeree regionali

688 Sui principi della progettazione di un GIS di scavo si veda NARDINI 2000; NARDINI 2001; NARDINI, VALENTI 2004. 201 per levata cartografica, volo centri storici, foto da aereo da turismo, foto da pallone), la lettura al calcolatore delle fotoaeree prese tramite velivolo da turismo negli anni 1996 e 1997. Infine l’intero scavo e le aree di scarico, nei loro spostamenti progressivi, in quanto anch'esse fanno pienamente parte della storia della collina. I dati stratigrafici riportati sono completi, dall'humus al terreno vergine; viene rappresentata l'intera realtà dei depositi archeologici nella loro successione fisica. Proponiamo di seguito una breve “carta d’identità” della base GIS di Poggio Imperiale, complesso esteso per 12 ettari e del quale sono stati scavati sinora poco più di due ettari con 5757 unità stratigrafiche sino alla campagna del 2005. Ad oggi censisce oltre 90000 elementi vettorializzati e raggiunge un peso di 120 megabyte; viene gestita su un MacIntosh G4 a 450 MHz - 256 MB di memoria RAM ed ha tempi di caricamento dei dati di circa 5-10 secondi, mentre quelli di elaborazione oscillano fra i 15-20 secondi per le ricerche più semplici ed i 25-35 secondi per quelle più articolate. I tempi di impostazione e di registrazione non possono essere quantificati nel loro complesso con precisione, in quanto fortemente condizionati sia dalla mole dei dati da processare ogni anno (non sempre uguale) sia dall’abilità dell’operatore (in crescita esponenziale). In genere l'assunzione delle piante di scavo viene svolta da tre operatori nel corso delle attività invernali di laboratorio; la campagna 1998 ha per esempio richiesto un totale di 160 ore circa a persona nella digitalizzazione di tre grandi settori di scavo (il più grande raggiungeva i 30 x 12 m) caratterizzati da stratigrafie molto articolate. Nel suo insieme, si tratta di un prodotto che, nonostante una notevole complessità strutturale, consente una fruizione molto agevole e veloce, anche per utenti non alfabetizzati. Grazie alle sue caratteristiche, il GIS rappresenta una risposta valida alle esigenze sinora illustrate e soprattutto consente di risolvere in maniera ottimale uno dei problemi più gravosi, cioè la gestione e la consultazione della stratigrafia archeologica. La maggior parte dei ricercatori, attenti al potenziale analitico della tecnologia, si sono mostrati invece sostanzialmente diffidenti verso il suo carattere innovativo in questa direzione. Nelle varie esperienze, pur valide, condotte nell’ambito di alcune università italiane, l’impegno maggiore è stato rivolto alle fasi di processamento, per lo più legate ad analisi distributive e di frequenza. In tempi recenti molte energie sono state spese nel compilare procedure di riproduzione 3D del contesto di scavo, sfruttando il modulo 3D analyst della ESRI con risultati insoddisfacenti: in realtà riproduce molto male le stratigrafie, non essendo progettato per questo uso, e soprattutto è solo un visualizzatore tridimensionale in cui la “z” è un attributo, pertanto ogni misurazione è ancora bidimensionale! Allo scopo di fare il punto sulla situazione italiana nell’ambito del GIS di scavo, l’Area di Archeologia Medievale di Siena ha organizzato nel giugno 2001 un workshop in cui erano richieste relazioni muovendo le piattaforma GIS. Ne è emerso un quadro ancora sostanzialmente immaturo, ad oggi rimasto sostanzialmente inalterato, almeno stando ai lavori pubblicati689. Gli esempi proposti, incentrati per lo più su specifici casi di studi, mostravano una struttura omogenea, articolata su CAD e DBMS correlati da un motore GIS che svolge funzioni di interrogazione spesso utilizzando lo standard SQL; tralasciando gli aspetti legati alla progettazione del DBMS, si è potuto constatare che la documentazione grafica continua ad essere catastata per layers su software CAD con tutti i problemi connaturati a tali

689 I contributi presentati al workshop sono consultabili in rete, e scaricabili, all’indirizzo http://archeologiamedievale.unisi.it/NewPages/WORKSHOP.html. Per un quadro generale, anche se non recente, delle esperienze condotte in ambito italiano si veda MOSCATI 1998.

202 sistemi; allo stesso modo, non viene mai prospettata l’esigenza di una documentazione oggettiva690. Le questioni relative alle potenzialità di gestione dei GIS sono rimaste quasi sempre a latere e mai testate fino in fondo: ancora una volta intendiamo soffermarci su questi aspetti ed esporre la nostra idea di piattaforma GIS di scavo e quali devono essere le sue caratteristiche per diventare un mezzo efficace per le elaborazioni più sofisticate. In definitiva, il GIS di scavo può essere definito come contenitore del dato archeologico stratigrafico integralmente e realisticamente riprodotto, dove ogni singolo oggetto individuato assume il ruolo di elemento di indagine e strumento di elaborazione. Una definizione di questo tipo sembra in apparenza banale: di fatto non è altro che la riproposizione del significato generale e standard di GIS, come software in grado di catastare, presentare, analizzare e processare i dati relativi ad un contesto territoriale, rappresentato nella sua realtà. Forse è proprio questo il punto: perché dovrebbe essere diversa? Perché il GIS di scavo dovrebbe assumere una connotazione differente da quella di qualsiasi altra applicazione del genere? Paradossalmente, invece, uno dei problemi maggiori nell’approccio al GIS di scavo riguarda proprio tale aspetto: cosa inserire nella piattaforma, quanta e quale documentazione stratigrafica catastare, con quale dettaglio, con quale accuratezza di disegno. Quando si gestiscono le indagini territoriali, ci poniamo forse il problema di selezionare la documentazione registrabile fra quella disponibile? Non cerchiamo piuttosto di avere cartografia di maggior dettaglio, costruendo così supporti sempre più validi e completi per le analisi che intendiamo effettuare? Se questo è vero, come lo è, perché nei confronti dei contesti di scavo dobbiamo porci il problema di cosa è giusto, conveniente o utile inserire? La realtà di uno scavo è ricostruibile solo attraverso l’inserimento di tutte le sue componenti; così come non approssimiamo l’immissione della rete idrografica di un territorio, inserendo tanto i grandi fiumi quanto i piccoli ruscelli, è sbagliato operare delle selezioni nel registrare la stratigrafia: in sintesi, non siamo autorizzati ad operare tagli solo perché siamo i principali interpreti di quella realtà. Gestire graficamente lo scavo è difficile ed organizzare la stratigrafia all’interno della piattaforma è problematico e laborioso. E’ necessario creare delle basi vettoriali spesso molto complesse, necessariamente “autoprodotte”, che richiedono un alto grado di dettaglio e che comportano tempi di realizzazione molto lunghi. D’altro canto, questa è la condizione imprescindibile per ottenere un buon GIS di scavo. Tentare soluzioni di compromesso come l’inserimento delle piante significative (quasi sempre identificate con piante di fase o di periodo) o l’abolizione delle caratterizzazioni delle emergenze (le creste dei muri, i reperti rinvenuti in strato, ecc) riduce irrimediabilmente la funzionalità della piattaforma sia come semplice archivio di documentazione grafica sia come strumento di elaborazione del dato. In altre parole, una base GIS nella quale si è proceduto ad un inserimento parziale, pur se in alta percentuale, delle unità stratigrafiche documentate durante lo scavo, fornirà dati scorretti e non esaustivi (per esempio nella costruzione dei modelli distributivi dei reperti). Allo stesso modo, semplificare la rappresentazione del deposito, riducendolo ad un insieme di scarne superfici, prive di elementi di caratterizzazione, renderà la base inutilizzabile come supporto di consultazione integrale del dato e di produzione di piante a stampa691.

4 - Il DBMS (Data Base Management Sistem).

690 NARDINI, VALENTI 2004. 691 NARDINI, VALENTI 2004. 203 Il sistema degli archivi grafici e multimediali692 vede l'uso di databases appositamente creati per la gestione di immagini, filmati e suoni e rappresenta uno strumento utile solo se si lavora intensamente con grafica e files multimediali; i documenti che ne fanno parte non sono inseriti in un unico file, ma vengono ricercati dallo stesso database nelle loro svariate collocazioni; alle immagini, rappresentate in una galleria di miniature (e visibili a grandezza naturale con un semplice doppio click), sono associabili uno spazio descrittivo e una serie di chiavi che permettono visualizzazioni per soggetti; le keywords scelte per il nostro archivio corrispondono ai numeri delle unità stratigrafiche rappresentate, area, settore, quadrato, definizione US stratigrafica, definizione US interpretata, anno di scavo, struttura, periodo, fase, area per fase, responsabile di area. Ad oggi sono catastati oltre 6000 documenti tra immagini, filmati e animazioni. Il sistema degli archivi alfanumerici è stato concepito come un'applicazione relazionale che vede convergere in interrogazione i dati di unità stratigrafiche, schedature ceramica, metalli, monete, vetri, ossa animali, reperti osteologici umani, eventuali analisi specialistiche, bibliografia. Sono state sinora inserite 19425 schede. La base di dati alfanumerica rappresenta un nodo essenziale nell’elaborazione di una soluzione informatica che gestisce in modo efficiente il complesso dei dati generati da un’indagine stratigrafica. Da essa dipende in buona parte la qualità e la fruibilità delle informazioni catastate. Sotto questo profilo assume importanza primaria il momento progettuale del database relazionale; in questa fase occorre, a nostro avviso, basarsi in primo luogo sulle necessità specifiche connesse alla ricerca archeologica, elaborando un modello informatico che coniughi il rigore logico proprio della computer science con la semplicità d’uso e la facilità d’implementazione sull’ambiente hardware/software a disposizione (nel nostro caso una LAN di personal computer gestita attraverso un server Alpha, e applicazioni commerciali largamente diffuse e facilmente reperibili). Va tenuto presente che i processi cognitivi applicati dall’archeologia e finalizzati alla produzione di modelli storiografici non sempre si adattano ai metodi dell’analisi informatica; le incompatibilità più evidenti si rilevano nella necessità, propria dell’analisi, di giungere ad un modello dei dati definitivo (le applicazioni classiche nell’ambito della realizzazione di database relazionali riguardano solitamente processi che non mutano nel tempo e difficilmente necessitano un aggiornamento continuo dell’architettura dei dati; basti pensare alla gestione contabile di un’azienda, all’archivio anagrafico di un comune, ecc.). Un sistema simile è applicabile tutt’al più all’elaborazione di strumenti per la tutela del patrimonio archeologico, costituiti da banche dati contenenti le notizie essenziali pertinenti ad un sito. Durante la progettazione di un database (e, più in generale, di una soluzione informatica globale) che si riveli funzionale alla ricerca si rende invece necessario porre la massima attenzione a due aspetti: la creazione di un’architettura aperta e facilmente integrabile con nuove tipologie di informazioni e la definizione, fin dall’inizio, del grado di dettaglio cui si vuole giungere nella catastazione del dato. Non considerare queste problematiche significherebbe realizzare soluzioni parziali o, nel peggiore dei casi, inefficienti. L’esigenza di un’architettura aperta si rivela direttamente connaturata al concetto di ricerca archeologica. Questa infatti, pur partendo da basi metodologiche sufficientemente consolidate, presenta spesso dinamiche mutevoli e strettamente connesse al contesto ed agli obiettivi del progetto; lo stesso procedere delle indagini è spesso fonte di idee per approfondimenti in direzioni non previste inizialmente. Il grado di dettaglio delle informazioni, non necessariamente uniforme per tutte le categorie dei dati, è invece direttamente legato all’efficienza della base di dati.

692 Per un approfondimento sulle tematiche relative alla progettazione del sistema di archivi, rimandiamo a FRONZA 2000 e FRONZA 2001. 204 Si tratta di coniugare le esigenze specifiche degli approfondimenti su particolari aspetti del progetto di ricerca con i criteri di agilità indispensabili per una proficua fruizione dei dati; giungere ad una soluzione di compromesso che rispetti le esigenze coinvolte rappresenta un momento importante nella progettazione del database.

5 - La lettura dei dati. Il sistema di gestione adottato rende possibile processare ogni singolo dato archeologico e, tramite un’interrogazione multilivello, produrre nuova informazione; il trattamento può e riguardare sia la produzione di carte tematiche sia l’elaborazione di modelli interpretativi e predittivi tramite l’applicazione di tecniche statistiche e spaziali di analisi693. a - Carte tematiche - L’organizzazione per tematismi delle informazioni è il livello più elementare di fruizione della base GIS e prevede la combinazioni delle varie entità presenti nella piattaforma che rispondono ai criteri di ricerca desiderati. Gli oggetti vengono richiamati a video o definiti attraverso cromatismi, secondo una query impostata sui valori contenuti in appositi campi di identificazione presenti in archivio; dunque la composizione di queste carte non avviene sulla base di elaborazioni matematiche, statistiche o spaziali bensì attraverso semplici combinazioni di identificatori. La semplicità di questo processo non deve comunque farne travisare o sottovalutare l’importanza; è proprio grazie a queste potenzialità che il GIS può essere definito come strumento principe nella gestione dei dati e sono queste, prima ancora delle capacità di calcolo matematico-statistico, che lo rendono elemento essenziale per la ricerca archeologica: basti solo pensare alla polverizzazione dei tempi nella composizione di piante di fase, periodo e struttura e alla consultazione immediata ed interpretata delle informazioni stratigrafiche. b - Carte di distribuzione – Fra le analisi applicate ai contesti di scavo, lo studio delle frequenze distributive e percentuali dei diversi campioni di reperti occupa un posto privilegiato; sfruttando le potenzialità del software GIS, vengono prodotte informazioni utili alla definizione dei modelli storico-archeologici e socio-economici del sito indagato. In questo caso, la natura stessa della materia d’indagine obbliga all’interrogazione integrata dell’archivio alfanumerico esterno e di quello grafico, poichè il parametro di ricerca (ovvero il singolo frammento di osso animale o di ceramica o di vetro) non appartiene alla base come informazione grafica autonoma. I dati relativi al campione di materiale vengono importati all’interno della piattaforma di scavo, sottoforma di grafi puntiformi, in seguito all’esportazione dei risultati delle quantificazioni in precedenza elaborate dal database; la x e la y del punto che li rappresenta esprimono convenzionalmente una posizione generica all’interno dell’unità stratigrafica che li contiene. I valori quantitativi possono anche essere assegnati come attributo dell’unità stratigrafica di rinvenimento, che viene quindi caratterizzata da cromatismi variabili a seconda della percentuale di presenza. Le stime quantitative prodotte dal database vengono successivamente tarate sull’estensione dello spazio di rinvenimento in modo da ottenere l’effettiva distribuzione del materiale. c - Misurazioni e calcolo: carte interpretative e predittive - Le funzioni di misurazione e calcolo spaziale rappresentano un utile strumento di supporto all’interpretazione delle evidenze di scavo; consentono di considerare elementi difficilmente valutabili senza l’ausilio del calcolatore e producono risultati ancora inconsueti nell’ambito dei processi interpretativi sinora svolti sui dati di scavo.

693 Per consultare le sperimentazioni di gestione e di analisi condotte sullo scavo di Poggio Imperiale citiamo i seguenti articoli: BOSCATO, FRONZA, SALVADORI 2000; FRANCOVICH, NARDINI, VALENTI 2000; FRONZA, VALENTI 2000; NARDINI, SALVADORI 2000. Per una sintesi delle funzioni analitiche del GIS di scavo si veda NARDINI, VALENTI 2004. 205 Un presupposto fondamentale per procedere correttamente all’intepretazione dello spazio scavato attraverso procedure automatizzate è la possibilità di disporre di cartografia di dettaglio “autoprodotta”. La cartografia disponibile presso enti pubblici o in commercio prevede al massimo un intervallo di quota pari a 50 cm (nei casi più fortunati) ma più generalmente a 1 m; se applicata ad un contesto di scavo, tale definizione è insufficiente e si è quindi obbligati a produrre cartografia, attraverso stazione totale, con il grado di definizione richiesto dalla ricerca stessa. La sperimentazione di questi sistemi sullo scavo di Poggio Imperiale ha permesso di studiare i contesti stratigrafici relativi a buche di palo ed alle strutture di capanna secondo criteri oggettivi, dettati dalla macchina in forma automatica ed ottenuti attraverso metodi matematici e geometrici. Valutando dimensioni e profondità sono state selezionate le probabili buche portanti; applicando alle buche la distanza desunta dal calcolo operato sulle buche perimetrali delle strutture certe, sono state individuate altre probabili buche portanti. I risultati sono stati sovrapposti e verificati. Dopo aver riportato su pianta i dati metrici ottenuti è stato possibile individuare il perimetro di alcune strutture attraverso una valutazione degli allineamenti di buche; grazie alla verifica della distanza minima fra pali portanti, calcolare gli eventuali tagli non conservati, ricostruendo così anche edifici molto compromessi. L’analisi di tipo predittivo prevede una valutazione globale del contesto in cui si intende operare; corrisponde dunque ad una lettura verticale di tutti i dati catastati all’interno della base, al fine di ottenere indicazioni astratte da tradurre in un trend; l’individuazione delle tendenze aiuterà poi a produrre ipotesi possibili (o probabili) riguardo all’interpretazione progressiva dell’insediamento nel suo complesso, oppure all’orientamento dei nuovi settori di intervento. Ad esempio, nella costruzione della pianta ipotetica della fase di case a schiera del XIII secolo costruite nel nucleo urbano di Poggio Bonizio (i risultati sono stati illustrati nel capitolo V) abbiamo integrato dati di scavo, emergenze di superficie, evidenze di scavo e crop marks, inserendoli dentro una griglia definita dal calcolatore sulla base della media dell’ingombro degli edifici scavati. Abbiamo impostato macro di calcolo affinchè la macchina assegnasse cromatismi diversi a ciascuna delle celle definite dalla griglia nello spazio non ancora indagato a seconda del grado maggiore o minore di probabilità (in base alla concomitanza del tipo dei dati) della presenza di edifici ancora nascosti. Per arrivare a produrre un’ipotesi di questo tipo è stato però necessario implementare preventivamente il dato grafico e assegnare ai diversi elementi interessati dei valori numerici (relativi per esempio al grado di affidabilità) in modo che potesse avvenire correttamente l’integrazione del dato spaziale e matematico. Per chiarire in che modo la soluzione GIS possa agevolare il processo interpretativo, illustriamo un momento di lavoro pratico in fase di lettura combinata dei dati, attraverso la metodologia applicata nella comprensione delle trasformazioni cui andò soggetto il nucleo fortificato medievale di Poggio Imperiale nei suoi 115 anni di vita. Lo sviluppo in estensione del villaggio. Domande poste alla base GIS: quali erano le dimensioni del villaggio alla fondazione? La parte fortificata si era allargata nel tempo e, di conseguenza, quali erano le sue dimensioni nel 1270, anno di distruzione? Metodo di verifica: abbiamo deciso di leggere in sovrapposizione dati di natura diversa (overlays topologico), incrociando i risultati delle indagini preliminari con lo scavo ed osservando le coincidenze. Operazioni per rispondere alla prima domanda: le stratigrafie relative alla fondazione del 1155 sono state richiamate a video; dalla visualizzazione della cinta di prima fase, sovrapposta ai crop-marks osservati sul processamento del volo sui centri storici, abbiamo definito l'andamento della fortificazione sull'intera superficie.

206 I risultati della ricognizione sul lato nord ovest hanno evidenziato l'estensione dell'insediamento su questo versante. Il risultato del processamento dei voli da aereo da turismo ha mostrato invece l'andamento della cinta sulle superfici a sud. La sovrapposizione della ricognizione con il trattamento dei voli regionali ha permesso di definire la portata della cinta sul lato est, la cui natura ha trovato una netta precisazione ed una conferma nei risultati del volo su aereo da turismo del 1997. Risposta alla prima domanda: alla fondazione, quindi, è proponibile un agglomerato urbano esteso per quasi 7 ettari. Tutti i voli a bassa quota (i due tramite aereo da turismo ed il pallone) disegnano poi, al di là del crop-mark della cinta posta sulle superfici sud, una vasta maglia di strutture regolari (sia quadrate sia rettangolari), interpretabili come edifici dei borghi, che sappiamo essersi sviluppati nella seconda metà del XII secolo. Tra le evidenze, risulta molto chiaro l'andamento e le biforcazioni di una viabilità che attraversa il muro di cinta; questo nuovo crop-mark, relazionato alla successione della viabilità riconosciuta da scavo, ci fa ipotizzare l'articolazione della rete viaria interna al nucleo urbano: si rivela imperniata su un tracciato centrale e dritto, dal quale si dipartono vie minori collaterali. Operazioni per rispondere alla seconda domanda: il richiamo di tutte le strutture di XIII secolo ha poi mostrato la presenza di una torre (posta nei pressi della cinta rinascimentale) e lacerti di muri in coincidenza del complesso Fonte delle Fate. Sono tutti elementi che indiziano la cessazione di uso del muro sulle superfici a sud e l'allargamento delle fortificazioni a parte del borgo. Risposta alla seconda domanda: in questa fase l'insediamento fortificato occupava una superficie di oltre 12 ettari. Gli esempi illustrano pienamente i mezzi di elaborazione dati e di feed back connaturati all'interrogazione di una piattaforma GIS di scavo. Permettono di formulare modelli nella diacronia e realizzare piante ipotetiche sulla natura dell'insediamento. Materializzano topografie urbane simulate, che indicano spazialmente le diverse trasformazioni succedutesi; mostrano l'articolazione e le tendenze urbanistiche dell'insediamento nelle sue diverse fasi; infine stimolano nuove domande e permettono di orientare i settori di scavo per verificare sul campo ed eventualmente correggere la simulazione, inserendo nuove variabili tra i dati certi694. Il GIS mostra in questo caso la sua natura di mezzo per la produzione di informazioni e modelli. Questa caratteristica va ad affiancarsi alla sua eccellenza nella gestione pratica di tutta la stratigrafia indagata ed alla sua prerogativa di rendere praticabili ricerche di tipo spaziale in automatico. A.N.

6 – La produzione multimediale. La crescita tecnologica dell'industria dell'hardware e delle periferiche, nonchè l'adattamento degli applicativi alle nuove potenzialità disponibili, hanno portato alla diffusione della multimedialità anche nella sfera dell'utenza archeologica. Grazie alle conoscenze tecniche acquisite nel campo delle edizioni multimediali, gli archeologi hanno avuto la possibilità di «raccontare» in prima persona i risultati delle ricerche svolte sul campo in forme alternative alla carta stampata. Senza dover ricorrere all’aiuto di professionisti dell’informatica, di programmatori o di ditte informatiche specializzate nel campo multimediale (ad esempio nell’edizione di Cd-Rom su larga scala), la delicatissima fase della divulgazione al grande pubblico dei dati scientifici può essere seguita nel migliore dei modi ed in ogni passo, dalla selezione del dato archeologico da presentare alla scelta delle tecniche più adatte per la divulgazione finale.

694 VALENTI 2000b. 207 Le occasioni per la realizzazione di prodotti multimediali sono diverse, dal convegno alla mostra all’edizione vera e propria, di cui vengono curate anche le fasi di authoring. Indipendentemente dalla destinazione i criteri e le regole di base sono sempre gli stessi: facilità di consultazione dei dati, semplicità di navigazione attraverso interfacce amichevoli e vivaci, cura estrema nella costruzione di percorsi narrativi che possano offrire al maggior numero di persone, al di là delle conoscenze personali di ciascuno, la possibilità di cogliere il senso del lavoro dell’archeologo e di intuirne il fascino. I programmi e le tecniche impiegate vengono scelte e sviluppate proprio in questo senso, alla ricerca del modo migliore di illustrare dati e progetti altrimenti difficili e faticosi da capire. Grande attenzione è stata così prestata alle tecniche di comunicazione e alla presentazione grafica, che ha un impatto immediato e determinante sul pubblico degli utenti. Per quanto riguarda i contenuti, è stato impiegato un linguaggio iconico, diretto e non specialistico, dedicando ampio spazio alle immagini e ricercando la migliore integrazione di queste con il testo. Si è cercato di elaborare percorsi di visita semplificati, moltiplicando i collegamenti interattivi e i menu tematici: in questo modo l’utente ha la possibilità di seguire gli argomenti a cui è maggiormente interessato e di crearsi il proprio percorso al di fuori dei vincoli di un normale slide-show. Nel corso degli ultimi quattro anni la produzione multimediale dell'Area di Archeologia Medievale dell'Università di Siena si è definitivamente organizzata all’interno di una collana che porta il nome “Archeologia dei Paesaggi Medievali”. Tale collana, giunta alla 6° uscita, è il frutto della collaborazione con la casa editrice All’Insegna del Giglio, una collaborazione editoriale che si rinnova sul campo delle nuove tecniche di divulgazione scientifica e che risulta significativa per gli sviluppi futuri che lascia intravedere. La collana multimediale non rappresenta però l’unico contenitore per la produzione multimediale del LIAAM. In occasione di incontri disciplinari e durante la preparazione delle regolari lezioni dell’anno accademico, raccogliere il materiale a disposizione, organizzarlo all’interno di un percorso narrativo, corredare le immagini di sintetici messaggi di testo, il tutto al fine di costruire un prodotto multimediale, rappresenta un’ottima opportunità per “fare il punto” e per scoprire nuovi possibili sviluppi per la divulgazione e per progettare altre applicazioni. Nascono così nel corso dell’anno molti lavori, di dimensioni e argomento vari (quasi ogni scavo o progetto archeologico si è dotato negli anni di un supporto più o meno complesso di presentazione multimediale), che, al di là dello scopo immediato per cui sono stati creati, rimangono a disposizione di tutti, condivisi all’interno della rete locale del Dipartimento. Nell’ambito della produzione multimediale per Poggibonsi sono stati realizzati nel tempo due tipi di supporti: i prodotti multimediali interattivi (i cosiddetti CD-ROM, editi sia su piattaforma Mac che Windows) e i video editi su supporto DVD (o presentati su videocassette VHS). Nel realizzare entrambi i tipi di supporti è stata utilizzata tutta la documentazione digitale a disposizione: scansioni di disegni ricostruttivi realizzati da illustratori professionisti e animati attraverso tecniche di morphing, immagini e filmati digitali, videodocumentazione zenitale (tecniche di rilievo zenitale di unità stratigrafiche attraverso videocamera o camera), fotografie aeree, modelli 3D di strutture, di reperti e di paesaggi, testi concepiti appositamente per una fruizione veloce e sintetica delle interpretazioni archeologiche. Per quanto riguarda l'uso di CD-Rom interattivi nella presentazione dei risultati archeologici l'esperienza di Poggibonsi è stata sempre avanzata; già a partire dal 1997, con il convegno sulla nascita dei castelli nel Medioevo italiano organizzato proprio a Poggibonsi, è stato sperimentato il primo supporto completamente interattivo, messo a disposizione del pubblico e dei relatori del convegno. Il lavoro, come quelli che sono seguiti negli anni successivi, è stato realizzato utilizzando il programma Macromedia Director, insieme ad applicativi per il trattamento delle immagini digitali. Negli anni 1998-

208 2001 sono aumentati i supporti multimediali a disposizione dello scavo di Poggio Imperiale, sia per quanto riguarda gli argomenti affrontati (lo studio dei reperti archeozoologici, l'analisi dei dati antropologici sul cimitero altomedievale, le analisi territoriali svolte nella Valdelsa, i confronti con i castelli scavati in Italia centrale e settentrionale, mostre di arte contemporanea sugli scavi) sia per quanto riguarda le tecniche utilizzate all'interno dei percorsi interattivi: utilizzo di scansioni 3D dei reperti, creazione di modelli 3D per le strutture e per il paesaggio, realizzazione di panorami interattivi QTVR visualizzabili a 360°, visite virtuali alle aree di scavo, utilizzo di tecniche di morphing. Dal 2001, invece, sono stati sviluppati in maniera professionale l'acquisizione, la gestione, il montaggio e la compressione di filmati e di suoni con il programma Apple Final Cut e sono stati realizzati i primi lavori sperimentali (presentazione del progetto 'Archeologia dei Paesaggi Medievali', video riassuntivo dello scavo e dell'allestimento della mostra C'era Una Volta). Con l'apertura nel 2003 del Parco di Poggibonsi è stato realizzato un video che racconta i risultati di dodici anni di scavo; questo video, musicato e sottolineato da una voce fuori campo, è confluito in un'edizione in DVD con menu interattivi e con alcuni video aggiuntivi che documentano tutti gli aspetti archeologici, architettonici e naturalistici della collina di Poggio Imperiale. L'edizione in DVD uscirà all'interno della collana multimediale 'Archeologia dei Paesaggi Medievali'. Poggibonsi, inoltre, dal 2004 è stato il luogo di un'ennesima sperimentazione: la proiezione di filmati che narrano la storia del sito direttamente sui muri della fortezza medicea, utilizzando come schermo un paramento murario di 36 x 9 m. L'evento, ripetuto sia nel 2004 che nel 2005 all'interno delle Notti dell'Archeologia, voleva presentare il progetto di un Museo itinerante, chiamato I Muri Parlano, formato solo dai proiettori, dai video in DVD e dai monumenti storici più importanti della provincia di Siena. C.T.

7 – I siti web dello scavo e del parco. http://www.paesaggimedievali.it/luoghi/Poggibonsi/index.html http://www.paesaggimedievali.it/luoghi/Poggibonsi/indexparco.html

Il sito internet dello scavo di Poggio Imperiale è stato il primo cantiere archeologico dell’Università di Siena immesso in rete; l’operazione data infatti al 1995. Implementate e gestite dal LIAAM, le pagine web sono state rinnovate più volte sia per la veste grafica sia per i contenuti, tendendo ad aumentarne la fruibilità e l’immediatezza di navigazione per gli utenti, siano essi studiosi, ricercatori, studenti o semplici appassionati di archeologia. Con l’inizio del progetto Paesaggi Medievali (ottobre 2000), trasferito all’interno delle pagine legate al progetto stesso, ha ricevuto un ulteriore restyling nel settembre del 2005. Quest’ultima revisione ha migliorato l’accessibilità alle parti che lo compongono tramite un semplice menù laterale stabile che guida l’utente attraverso le quasi 200 pagine visitabili; si è scelto di inoltre di organizzare i contenuti attraverso sezioni che abbracciano, oltre ai risultati dello scavo archeologico, anche il contesto in cui lo scavo è inserito (la Fortezza Medicea ), la vegetazione e la morfologia della collina ed il territorio circostante. All’interno di ogni sezione trovano posto delle “schede” sugli argomenti trattati, corredate da mappe navigabili che collegano direttamente l’utente alle informazioni desiderate. Si è scelto di curare particolarmente il repertorio iconografico dove, accanto ad immagini dello scavo, delle evidenze storico-archeologiche presenti sul territorio, trovano posto ricostruzioni grafiche, modellazioni tridimensionali e schermate GIS illustrative dell’evoluzione dello scavo.

209 Nella sezione “Contesto” sono consultabili alcuni approfondimenti sull’area in cui il sito di Poggio imperiale è inserito: vengono prese in esame la Fortezza Medicea, i Bastioni ed il Cassero, la Torre di San Francesco, la Porta di San Francesco e la Fonte delle Fate. Le sezioni “Paleomorfologia” e “Vegetazione” sono frutto di un lavoro svolto in sinergia tra l’Area di Archeologia Medievale del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena e alcuni collaboratori (Antonia Arnoldus per la parte paleomorfologica e Gaetano di Pasquale per quella ambientale) dove sono analizzati i cambiamenti geologici e ambientali della collina. Visitando invece la sezione “Territorio” è possibile esplorare le emergenze monumentali e le più significative tracce storico-archeologiche del territorio poggibonsese. Grande attenzione è dedicata alla Rocca di Staggia Senese, oggetto di un’indagine archeologica condotta dall’Università di Siena tra il 2004 e il 2005 che a breve verrà illustrato da nuove pagine web molto più approfondite. “Lo Scavo”, ultima delle cinque sezioni in cui il sito web è strutturato, ha al suo interno una scansione temporale, che permette al visitatore di ripercorrere attraverso testi, immagini, approfondimenti la lunga storia insediativa della collina di Poggio Imperiale, dalla tarda antichità alla costruzione della Fortezza per volere di Lorenzo il Magnifico. Il sito web del Parco Archeologico e Tecnologico di Poggibonsi è il naturale output online della struttura inaugurata nel settembre 2003, nell'ambito delle iniziative di valorizzazione, studio e ricerca del Progetto Paesaggi Medievali, finanziato dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena e coordinato dall' Area di Archeologia Medievale del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell'Università di Siena. La sua realizzazione ha tenuto conto della necessità di coniugare una semplice interfaccia di navigazione con una completa panoramica dei servizi delle attività svolte e delle offerte culturali; si compone di circa un centinaio di pagine corredate da un ricco apparato di immagini. Dalla home page è possibile raggiungere le diverse sezioni che compongono il sito per mezzo di un menù laterale sempre accessibile durante la navigazione. All'interno della sezione “Strutture” la navigazione porta alle pagine concernenti le diverse entità che compongono il Parco. Nella pagina dei “Laboratori di informatica” dell’Area di Archeologia Medievale dell’Università degli Studi di Siena sono reperibili delle panoramiche delle tecniche di documentazione digitale finalizzate ad una gestione dei più svariati tipi di dati e ad un loro inserimento in politiche di valorizzazione e tutela del patrimonio archeologico e monumentale. In particolare, all’interno dei laboratori, vengono realizzati database alfanumerici e multimediali, cartografia digitale, piattaforme GIS di scavo, di contesti urbani e territoriali, modellazioni 3D, produzione grafica e multimediale, editoria archeologica e realizzazioni grafiche per allestimenti museali. Le pagine relative al “Centro di documentazione” permettono di esplorare le quattro sale espositive attraverso numerose immagini ed ottenere informazioni sugli orari di apertura e sulle visite guidate. Altre pagine della sezione “Strutture” sono dedicate ai bastioni restaurati ed inaugurati nell’estate 2005, con una breve panoramica, corredata di numerose immagini, sul magazzino-museo (bastione nord-est) e sul Laboratorio del Gusto (bastione nord-ovest). Infine sono navigabili le pagine web relative al bookshop, ai percorsi di visita dello scavo archeologico di Poggio Imperiale ed ai servizi offerti ai visitatori (bar, ristorante, foresteria). La sezione “Attività” raccoglie le iniziative realizzate all’interno del Parco le attività del Master MUASA, del Centro Interuniversitario per la Storia e l’Archeologia dell’alto medioevo attivato in sinergia dall’Università di Siena (Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti e il Dipartimento di Storia ), l’Università Ca’ Foscari di Venezia (Dipartimento di Studi Storici, Dipartimento di Scienze dell'Antichità e del Vicino Oriente ), l’Università di Padova (Dipartimento di Scienze dell'Antichità, Dipartimento di Storia ) e dal Progetto "Paesaggi Medievali" della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, al fine di promuovere l’attività di formazione, di ricerca e di conservazione. Altre pagine web esplorano gli eventi

210 culturali (ad esempio le Notti dell’Archeologia, o la Settimana della Cultura ) realizzati nell’ambito del Parco Archeologico e Tecnologico di Poggibonsi. In più, è possibile reperire informazioni sulle attività didattiche e sulle visite guidate al sito archeologico di Poggio Imperiale e al centro di documentazione, organizzate dalla Cooperativa Archeoval. La sezione “Galleria di Immagini”, in costante aggiornamento, ha lo scopo di offrire una panoramica delle iniziative del Parco. E’ inoltre disponibile una sezione con alcune pagine web che offrono utili informazioni sul modo per raggiungere il Parco Archeologico e Tecnologico di Poggibonsi, sugli orari di apertura e di fruizione. Nella sezione “Materiali Scaricabili” sono a disposizione dei visitatori brochure informative, listini prezzi e tariffari relativi alle attività del Parco, scaricabili direttamente dal web in formato pdf. P.P.

211 VIII – IL PARCO 1 - La collina in età moderna: dagli anni ’60 agli inizi del 2000 Se dal XVIII secolo la collina è rimasta un corpo estraneo al nucleo urbano di Poggibonsi ed al tempo stesso un luogo principe dell'immaginario collettivo locale, è però dalla seconda metà del Novecento che Poggio Imperiale ha iniziato progressivamente ad interessare sia la popolazione sia l'Amministrazione comunale. A Rinaldi, già attivo studioso di storia locale, si legano alcune delle prime azioni intentate dal Comune di Poggibonsi sulla collina. Nella sua veste di geometra dell’Ufficio Tecnico, riuscì per esempio ad impedire nel 1964 la costruzione di una villetta al centro della fortezza e su un'area che si è rivelata ad alti contenuti archeologici. Il valore di tale gesto si rafforza se pensiamo che stiamo parlando dei primi anni '60, caratterizzati fortemente dall'espansione edilizia selvaggia e da un uso incontrollato del cemento. Sino alla metà del decennio successivo la collina non ricevette però altre attenzioni. La proprietà del monumento era ancora interamente privata con la residenza padronale al centro, articolata ancora oggi in due grandi edifici ed alcuni annessi rurali. Il terreno veniva sottoposto interamente e regolarmente ai lavori agricoli. Le esigenze legate al passaggio di automezzi provocarono alcuni danni alla porta del Poderino, il cui ingresso venne allargato smontando molti dei filari laterali. Al tempo stesso l'agricoltura provocava danni anche ai depositi archeologici conservati nel sottosuolo. La superficie era coperta di reperti mobili tratti in superficie dalle arature ed alcune strutture venivano progressivamente intaccate. Sul lato est del campo più innalzato, una vasta raccolta di conci squadrati in travertino testimonia ancora oggi la distruzione di molti muri causati dall'innalzamento di un capannone per la raccolta del fieno e dall'escavazione di uno stagno circolare. Il Cassero della fortezza era invece abitato e ripartito in appartamenti; nel tempo aveva subito numerosi rimaneggiamenti stravolgendo quasi completamente il grande edificio al suo interno ed i bastioni della struttura pentagona risultavano quasi interamente interrati mentre ne veniva ignorato l'accesso. Non solo, la vegetazione spontanea accresceva di stagione in stagione ed all'esterno delle mura vennero impiantati una serie di orti con conseguente aumento di rifiuti, infrastrutture metalliche intrusive, ammasso di cartoni e di detriti. Nel complesso la fortezza medicea versava in pessimo stato di conservazione. Negli anni 1976-1978, a seguito di un esame di restauro svolto da alcuni studenti della Facoltà di Architettura di Firenze fu effettuata una prima documentazione del monumento con il rilievo del bastione di punta e dei due bastioni laterali. Questo intervento segna un momento importante nella storia recente della fortezza in quanto facevano parte del gruppo di lavoro alcuni personaggi che poi ritroveremo anche in seguito attivi in opere di studio e valorizzazione del monumento: Luciana Masi (autrice di un volume molto approfondito sul cantiere del Sangallo), Pietro Bucciarelli e Marco Martini (poi nel personale dell'ufficio urbanistica del Comune e molto attivi nel recupero e nel restauro della struttura). In questo stesso periodo l'Amministrazione comunale inserì la collina nel nuovo piano regolatore come area destinata alla fruibilità pubblica e bandì un concorso per un progetto di valorizzazione della fortezza. Nel 1981 comparve quindi la prima proposta di "riuso delle opere di architettura fortificata" di Poggio Imperiale, editata dalla sezione Toscana dell'Istituto Italiano dei Castelli. Il volumetto, curato dagli architetti Taddei e Collini e da Rinaldi per la parte di memoria storica, vedeva la luce in un decennio di vivace dibattito in ambito architettonico, antropologico e sociologico sul riuso dei centri storici o di importanti manufatti

212 architettonici" e per un "recupero in funzione uomo'"; ricercava inoltre il confronto con altre proposte che si auspicavano provenire dall'ambito universitario. In quest'occasione furono presentati alcuni rilievi della fortezza; tra essi la planimetria generale, la pianta e la sezione della porta S. Francesco, il bastione fra porta Calcinaia e porta S. Francesco, la porta d'ingresso al Cassero, la sezione dell'ingresso al Cassero. Il progetto intendeva "riqualificare, funzionalizzare il poggio” e ricucire “la futura struttura con l'esistente”: in breve, non guastare nulla, anzi migliorare l'inserimento. Punti di partenza dovevano essere un restauro conservativo e la creazione di una struttura rialzata dalla quota di campagna (poichè l'archeologia non doveva essere danneggiata ma rappresentare in futuro una delle risorse: "sotto il pelo del terreno di Poggio Bonizio ci si troverà di fronte alle fondazioni e a certi alzati di una vera e propria città") che fungesse da polmone vitale al monumento. La struttura doveva occupare l'intera area della collina adibita a seminativi e veniva concepita come un centro destinato alle attività più disparate (culturali, commerciali, artigianali) prevedendo anche aree sperimentali per agricoltura e floricultura, una biblioteca, un teatro, sale convegni, sale esposizioni, punti informativi, sportelli bancari ecc.; inoltre venivano previste due piattaforme removibili (dette "piastre") e come ingresso un tubo modulare in stile Centre Pompidou di Parigi. Il centro doveva essere poi raggiunto da una serie di zone dette "nastri" caratterizzate da ulteriori strutture primarie e secondarie incentrate sulle attività commerciali del comprensorio valdelsano e sul ristoro. Il progetto non ebbe alcun seguito; pur se significativo per il nascente interesse verso il monumento da parte dell'Amministrazione comunale, rappresentava però una pesante intrusione di metallo e vetro sull'intera collina ed una sorta di fiera del commercio valdelsano. Quattro anni più tardi si verificò comunque un primo intervento strutturale; la Soprintendenza ai Monumenti, con incarico all'architetto Pietramellara, procedette al rilievo ed al restauro della Fonte delle Fate. Il complesso venne completamente ripulito, ripristinato ed ebbe luogo un grande movimento di terra sulla zona sommitale senza però alcuna consulenza da parte di archeologi. Al restauro non venne abbinato uno studio del monumento con lettura delle stratigrafie degli elevati. Allo stesso tempo, nella volontà di recupero e valorizzazione, il Comune procedette alla creazione di giardini negli spazi che separano la fonte dalla strada. Da lì a poco si fece largo definitivamente la consapevolezza dell'Amministrazione di non poter continuare ad ignorare l'importanza della fortezza per Poggibonsi e la necessità di procedere ad un suo inserimento nella politica culturale e turistica della comunità. Il Comune dette così l'avvio alle trattative che nel 1990 portarono all'acquisto del Cassero. Quasi contemporaneamente usciva un lavoro ineccepibile della Masi sul cantiere sangallesco, seguito a breve da una prima sintesi sul monumento nel suo complesso (origini, archeologia, stato di degrado ecc.) nata in occasione delle mostre inerenti il cinquecentenario di Lorenzo il Magnifico, operazione in cui la Soprintendenza ai monumenti di Siena commissionò anche il rilievo fotogrammetrico dello strutture rinascimentali. A questi stessi anni data l'incontro con l'Università di Siena, che fu mediato dall’Ufficio Cultura della Provincia ed ebbe inizio una lunga stagione di ricerca. E’ infatti dall’unione dei tre soggetti che hanno avuto origine le linee programmatiche del successivo quindicennio, caratterizzate dal massiccio intervento archeologico che ha coinvolto il comprensorio poggibonsese sino ad oggi: prospezione sul territorio per la redazione della carta archeologica, approfondimento dell'indagine sulla collina di Poggio Imperiale ed intervento di scavo, allargamento di scavi ad altri monumenti valdelsani, come per esempio il caso della Rocca di Staggia, progettazione del parco archeologico e

213 monumentale incentrato sulla fortezza. L'intervento nel suo insieme si è sposato con un uso sperimentale della tecnologia digitale che ha portato la collina di Poggio Imperiale a rappresentare il primo cantiere di scavo italiano interamente informatizzato, raggiungendo punte di eccellenza a livello europeo. Data alla metà degli anni ’90 il contributo professionale del landscape architet James Buchanan, in collaborazione con l’Università di Siena, per la redazione di un protocollo progettuale, il masterplan, tuttora alla base dell’attuale Parco Archeologico e Tecnologico. Dal 2000, dopo il restauro del Cassero ed un primo diserbo delle mura, dietro la consapevolezza dell’alto potenziale archeologico e delle strutture monumentali ancora esistenti, Amministrazione Comunale, Università di Siena e Fondazione Monte dei Paschi di Siena hanno poi operato congiunti per progettare e realizzare il parco archeologico e un centro di documentazione negli stessi ambienti restaurati del Cassero.

2 - Il Parco Archeologico e Tecnologico La fortezza di Poggio Imperiale costituisce inoltre un patrimonio storico, archeologico e ambientale di grande rilievo nazionale ed il progetto di Parco Archeologico e Tecnologico rappresenta la prima significativa scelta politica intrapresa dal Comune di Poggibonsi per la sua valorizzazione . Il parco è stato inaugurato nel settembre 2003. Si estende sull’intera collina di Poggio Imperiale ed è articolato su due poli principali: l’area archeologica ed il Cassero. Ad essi si lega un sistema di percorsi che ricollegano la Fonte delle Fate alle altre emergenze monumentali del sito. L’idea di progetto ha mirato a restituire a Poggibonsi la propria eredità storica; inserire la città nella geografia delle offerte culturali della regione; sviluppare l’uso di tecnologia d’avanguardia ed innovativa per la registrazione, la gestione e la divulgazione dei beni culturali. La creazione del parco di Poggio Imperiale si colloca in una fase di profonde polemiche sulle politiche dei beni culturali, che caratterizzano il dibattito nazionale e regionale, e rappresenta un’operazione che sembra indicare quale sia la strada giusta per superare inutili e dannosi conflitti. Qui infatti strutture della tutela, governi locali, mondo della ricerca, fondazioni e imprenditoria hanno operato in forma sinergica e stanno costruendo nuove prospettive nell’ambito della valorizzazione del patrimonio e nella definizione di nuove occasioni per l’occupazione. All’interno del progetto assume un ruolo fondamentale, oltre ai due ettari di aree archeologiche monumentali già emerse, il Cassero della Fortezza Medicea. Questo rappresenta il punto di riferimento del “sistema parco”; in particolare è sede di un centro di documentazione complesso con sala congressi, foresteria, laboratori archeologico- informatici, bar, ristorante e bookshop. L’idea è stata quella di creare un centro polivalente nel quale svolgere attività di ricerca scientifica, organizzare convegni, attività formative e, soprattutto, presentare i risultati delle indagini archeologiche sul sito di Poggio Imperiale attraverso l’allestimento di un percorso segnato dalla coesistenza di elementi tradizionali e tecnologie innovative. Buona parte delle funzioni richiamate sono già attivate all’interno della struttura grazie all’impegno di Comune e Università, ma sopratutto a quello dei giovani laureati e diplomati della Cooperativa Archeoval ai quali, con la supervisione dell’Università stessa, sono affidati la continuazione dello scavo archeologico, la registrazione e la gestione informatica dei dati, il funzionamento dei laboratori tecnologici e tutte le attività didattiche che fanno parte della vita del parco. Nel 2003, seguendo il programma di creazione e sviluppo progressivo del parco, sono state aperte tutte le aree indagate fino a quel momento, con una sistemazione rispettosa delle nuove “emergenze” (i lotti abitativi del XII e XIII secolo, chiesa, cisterna e tratti della “Francigena” interna al castello) e del Centro di Documentazione, dove, oltre ai materiali rinvenuti nello scavo, sono posti al centro dell’attenzione i pannelli con le tavole illustrative,

214 frutto del lavoro integrato degli archeologi e dello Studio Inklink. Una operazione destinata a creare strumenti interpretativi innovativi a disposizione di un grande pubblico. Inoltre sono stati predisposti i laboratori informatici e le strutture di servizio. I tempi di realizzazione sono stati brevissimi e sembra che si percorrano con rapidità le tappe e si stiano raggiungendo gli obiettivi indicati nel 2002 dal Sindaco del Comune di Poggibonsi dott. Rugi e dal Magnifico Rettore Prof. Tosi. Allora Sindaco e Rettore scrivevano che l’iniziativa era destinata “a valorizzare il patrimonio storico, culturale ed ambientale pubblico dell’area della Fortezza Medicea di Poggio Imperiale a Poggibonsi, alla creazione di servizi culturali e turistici, a dare continuità e a promuovere l’attività di formazione, di ricerca e di conservazione intrapresa da oltre un decennio in forma collaborativa dall’Università di Siena e dal Comune di Poggibonsi, andando alla creazione di un Centro Europeo Interuniversitario di Archeologia Medievale, che opererà in stretto rapporto con il Dottorato in Archeologia Medievale dell’Università di Siena e in collaborazione con il Progetto “Paesaggi Medievali” della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, attraverso l’attivazione di master, a forte contenuto innovativo e professionalizzante” e sottolineavano come si trattasse di una iniziativa dai forti caratteri innovativi che intendeva testimoniare la pluriennale attività di collaborazione del governo locale e della struttura universitaria, che hanno dato prova di contribuire concretamente nel progettare nuove prospettive di sviluppo. Infatti se è vero che la valorizzazione dei dodici ettari della Fortezza di Poggio Imperiale costituisce un risultato di altissimo impegno culturale in una porzione di territorio che viene soltanto marginalmente toccato dal passaggio di grandi flussi turistici diretti verso i più noti centri storici delle aree circostanti, è altrettanto vero che l’iniziativa avrà una significativa ricaduta sulle dinamiche economiche e sociali dell’area. La strategia di ottimizzare le ricadute in termini di utilità sociale delle attività di ricerca dell’Università e di valorizzazione dell’Ente del Governo locale si configura come una prospettiva concreta e vitale e, allo stesso tempo, una sfida importante da percorrere con decisone. Ricerca archeologica, valorizzazione del patrimonio culturale, innovazione tecnologica e attività sinergica fra diversi soggetti pubblici e privati, nel caso di Poggibonsi, sembrano costituire davvero un modello da ‘esportare’. Come già detto, si tratta di un “parco in progress” che si evolverà nel tempo, con lo svolgimento continuativo dello scavo nell’area archeologica e con l’apertura ed il recupero di nuove parti della fortezza medicea. Nelle strutture restaurate del Cassero convergono seminari e convegni internazionali, master specialistici sull’altomedioevo, sul restauro e sulla conservazione dei monumenti, sulla gestione informatica della risorsa archeologica, attività di archeologia sperimentale ed anche didattiche dell’Università. Un gruppo di archeologi altamente specializzati nell’informatica conduce le attività di ricerca, sviluppa l’avanzamento delle iniziative espositive, il rinnovamento dei contenuti e la loro diffusione al pubblico. Il parco dovrà rappresentare un centro di eccellenza dell’Archeologia Medievale in Europa e delle applicazioni tecnologiche al patrimonio dei beni culturali.

3 - Il Cassero Le linee programmatiche alla base del parco hanno trovato una forma e una funzione nei differenti ambienti del complesso del Cassero. Agli spazi dedicati alla ricerca e ai laboratori occupati dall’Università di Siena e dalla Cooperativa Archeoval, si sono accostati spazi pubblici come il Centro di Documentazione, un bookshop per accogliere i visitatori e offrire servizi di informazione sulle attività e gli eventi in programmazione nel Parco, ma anche servizi come il bar e il ristorante e una foresteria per ospitare coloro che svolgeranno attività nella struttura. La cerniera di collegamento è l’ambiente più grande di tutta la struttura, situato al piano più alto e pensato come una sala polifunzionale allestita con un particolare arredo in grado di

215 essere facilmente adattato e modulato a differenti funzioni. Nella sala si tengono le lezioni del master di specializzazione, le proiezioni dei documentari che completano il percorso espositivo del centro di documentazione, i convegni, i seminari e i corsi di aggiornamento organizzati dal Comune di Poggibonsi, le cene e le cerimonie organizzate dal ristorante e altri eventi in programmazione gestiti direttamente dalla società Politeama. Questo ambiente assume una particolare importanza non solo per la sua strategica flessibilità di adattarsi a molte funzioni, ma anche metaforicamente come simbolo della compartecipazione nella gestione del Cassero da parte del Comune, della Società Politeama e dell’Università. Il progetto museografico, fin dall’inizio, è stato pensato come un indice e una sintesi di un percorso da sviluppare in futuro in ambienti più grandi proporzionati alla quantità di materiale redatto negli ultimi undici anni di ricerca su Poggio Imperiale. Nel Centro di Documentazione del Parco Archeologico e Tecnologico di Poggibonsi, primo nucleo di una struttura museale destinata a crescere col progredire delle ricerche e in rapporto con processi formativi innovativi, narriamo attraverso pannelli illustrativi, frutto del lavoro integrato di archeologi, archeometristi, naturalisti e disegnatori, le vicende dell’insediamento nella sua lunga durata, così come abbiamo potuto ricostruirla sulla base degli indicatori materiali. Le stanze sono allestite con una sequenza progressiva di cinque o più pannelli per stanza che illustrano, attraverso le ricostruzioni grafiche dello Studio Inklink accompagnate e completate da testi e immagini, le tappe principali di occupazione del sito. Dalla prima stanza, in cui sono illustrate le fasi relative al periodo tardoantico ed altomedievale, si procede nelle stanze successive in ordine cronologico fino ad arrivare all’età moderna e alle fasi di costruzione della fortezza medicea. I pannelli stessi tracciano il percorso di visita di stanza in stanza, ognuna delle quali è dotata di computer con supporti multimediali (video, archivi multimediali della documentazione di scavo, prodotti multimediali, ecc.) in modo da accompagnare il visitatore attraverso la storia delle indagini archeologiche e la ricostruzione della storia dell’insediamento.

Accanto ai pannelli, il percorso di visita permette di accedere ad una limitata selezione dei materiali che hanno offerto un’ottima occasione per ricostruire gli “arredi” degli ambienti o specifiche attività agricole o artigianali, rappresentative della vita quotidiana dell’insediamento nelle diverse fasi di vita. Il visitatore si trova quindi di fronte una narrazione per immagini che, se ha il merito di offrire immediatamente un quadro esauriente delle trasformazioni urbanistiche, edilizie e di organizzazione del potere subite dal sito di Podium Bonitii, potrà forse lasciare stupiti per la mancanza di una documentazione rappresentata da “scientifici ed asettici” rilievi di materiali immobili e da dettagliati disegni di materiali mobili, che appaiono tanto necessari a chi per anni ha pazientemente e analiticamente raccolto sul campo, ma spesso di ostacolo al fine di raggiungere una interpretazione globale del sito per i non addetti ai lavori. Abbiamo scelto, in questa occasione, di lasciare alle diverse capacità di lettura del visitatore i complessi e necessari passaggi interpretativi, mettendo a disposizione la documentazione analitica della ricerca scientifica condotta sul terreno ed in laboratorio su innovative strumentazioni informatiche implementate sui computer distribuiti, di fianco ai pannelli, negli spazi del Centro di Documentazione.

4 - La parte espositiva

216 La costruzione della parte espositiva e di conservazione dei materiali rinvenuti nel corso dell’indagine archeologica è stata progettata con l’intento di realizzare una gestione integrata dell’area di scavo con le strutture della fortezza medicea di Poggio Imperiale. Nella quarta, ed ultima, delle sale che compongono i locali del Centro di Documentazione, sono stati esposti, su un apposito bancone-teca, i materiali più significativi rinvenuti durante le campagne di scavo. Preliminarmente, si è intervenuti tramite restauro conservativo su un considerevole quantitativo di manufatti (ceramica, monete, vetri, metalli e altri tipi di reperti): il restauro era necessario sia per evitare il naturale degrado dei manufatti sia per restituire leggibilità al reperto, lasciando però inalterate le sue caratteristiche originarie. Le diverse tipologie di materiale hanno richiesto metodi distinti d’intervento: tecniche di pulitura ‘classiche’ oppure tramite mezzi meccanici o agenti chimici. L’uso d’integrazioni nelle parti mancanti è stato invece applicato solamente dove necessario e al solo scopo di garantire la staticità dei reperti. Si è intervenuto su un totale di 779 oggetti, 372 dei quali esposti. Il materiale restaurato è composto da 154 forme ceramiche, 48 delle quali esposte, 358 monete, 134 delle quali esposte, 12 reperti vitrei, 9 dei quali esposti e, infine, 108 reperti metallici, 86 dei quali esposti. Per i reperti in buono stato, tali da non richiedere un restauro conservativo vero e proprio (ovvero i restanti 147 reperti particolari, 95 dei quali esposti), è stata eseguita la sola ripulitura del manufatto dagli agenti di degrado. I reperti ceramici esposti sono stati selezionati in base ad una scelta cronologica e ‘stilistica’ (dove per ‘stilistica’ s’intende i manufatti più rappresentativi e/o in migliore stato di conservazione). La cernita del materiale da esporre si è basata sulla continuità delle forme tipologiche, sul loro sviluppo e sull’incremento quantitativo. Gli oggetti esposti coprono un arco cronologico che, partendo dal VI secolo, arriva fino al XVI secolo. Inoltre, sono stati esposti 100 frammenti di ossa animali, una selezione certamente ridotta rispetto ai 5801 frammenti che sono stati oggetto di analisi archeozoologiche. La scelta dei reperti da esporre è stata condotta su base tassonomica e cronologica, con un affondo legato ad alcuni aspetti legati alla cultura materiale, come i consumi sociali evidenziati nel villaggio carolingio, e alle tecniche di macellazione di epoca medievale. Nelle specie domestiche vengono presentati i segmenti osteologici delle principali razze rinvenute in contesti datati tra la fine del IX secolo ed il XIV secolo. Per il maiale, inoltre, sono state messe a confronto le razze medievali con quelle moderne, così da rendere evidente al visitatore come le razze medievali fossero di taglia notevolmente inferiore. Sono inoltre presentati gli avanzi di pasto rinvenuti in tre strutture datate tra la metà del IX secolo e gli inizi del X secolo. Per questo motivo i resti osteologici sono stati reggruppati in tre ‘insiemi’ relativi ad altrettante strutture: l’abitazione del signore, o di un suo intendente (la longhouse), dove si consumava molta carne bovina oltre a quella suina e capriovina; la capanna di un servo, come mostra il rinvenimento di resti ossei soprattutto di animali di medio-piccola taglia (capriovini, suini e coniglio) ed, infine, una struttura funzionale dove si macellavano gli animali. Infine, sono stati esposti alcuni tra i reperti che meglio conservano tracce di macellazione con strumenti da taglio, evidenziando una continuità dal VI secolo fino al XIV secolo. I reperti sono stati suddivisi, anche in questo caso, in tre gruppi che rappresentano rispettivamente i tagli presenti sull’arto anteriore, su quello posteriore e sulla colonna vertebrale. Nella teca sono stati esposti 34 oggetti in vetro, selezione ridottissima rispetto ai 2895 esemplari rinvenuti durante lo scavo e dovuta, anche in questo caso, ai ristretti spazi espositivi. La scelta dei manufatti è stata condotta su base estetica (i reperti in miglior stato di conservazione) e cronologica (la decisione di esporre reperti rinvenuti durante

217 tutte le fasi di frequentazione del sito). Sul totale degli oggetti esposti, 9 sono stati sottoposti a restauro sia al fine di ottenere la staticità degli esemplari, sia per preservare i manufatti dagli agenti di degrado. Sono stati riuniti in venti gruppi tipologici; questi, a loro volta, sono stati organizzati in quattro sezioni orizzontali, secondo criteri cronologici: i reperti altomedievali (VII-IX secolo), quelli datati al XII-XIII secolo, i reperti pertinenti al XIV secolo e infine i manufatti di età rinascimentale. Oltre ai reperti vitrei, sono stati esposti i reperti numismatici. Dei 358 esemplari schedati, ne sono stati musealizzati 134, a rappresentare il circolante minuto toscano bassomedievale, nonché i vari coni rinvenuti nel sito di Poggio Imperiale. Si tratta di monete che coprono un arco cronologico che va dall’XI al XVIII secolo, anche se il maggior quantitativo di esemplari è riferibile alla metà del XIII secolo, la fase di vita più intensa del sito, durante la quale operano non solo attività commerciali e artigiane, ma anche mercatura e cambio. Sono esposte soprattutto monete toscane, come i denari in mistura di Lucca a nome dell’Imperatore Enrico III, IV e V di Franconia, i denari cosiddetti ‘Federiciani’ di Pisa, e piccioli provenienti dalle zecche di Arezzo, Siena e Firenze. Fra tutti spicca per materia e conservazione un grosso in argento coniato dalla zecca di Volterra. Non mancano inoltre esemplari di provenienza italiana e straniera; troviamo, infatti, rispettivamente denari scodellati di Verona, denari di Ravenna, Pavia, Brindisi, quattrini di Viterbo, Pesaro e . Per le zecche non italiane le maggiori presenze sono di denari francesi e spagnoli, segue un denaro frisiacense (Carinzia). Ultimi, in ordine di esposizione, sono 9 tessere o gettoni in piombo, in mediocre stato di conservazione, ma assai interessanti nel panorama degli studi numismatici per la loro frequenza negli scavi medievali e per il recente interesse verso le tecniche e i luoghi di fabbricazione. Di seguito ai reperti numismatici, sono visibili i reperti metallici. La scelta, limitata a pochi esemplari fra i 6.962 rinvenuti, cerca di rappresentare tutte le classi di reperti attestate attraverso gli oggetti più significativi, con un arco cronologico che va dall’epoca tardoantica all’età moderna. Sono quindi presentati gli utensili d’uso quotidiano, gli oggetti per la bardatura del cavallo e del cavaliere, le armi, le fibbie, le chiavi e gli elementi da serratura, i pesi e gli oggetti da cucito, le borchie e le applicazioni, gli oggetti relativi all’abbigliamento ed all’ornamento personale, quelli inerenti la sfera devozionale e le insegne laiche. Per ogni classe si è cercato di evidenziare la continuità formale o l’evoluzione che gli oggetti hanno subito nel corso delle varie epoche. L’ultima sezione della teca contiene i cosiddetti ‘reperti particolari’: elementi decorativi, oggetti da gioco, ossi lavorati, vaghi di collana, pesi da telaio, ceramica. Il primo gruppo è formato da frammenti d’intonaco dipinto, un elemento decorativo e da tessere di serpentino per la pavimentazione. Nel secondo gruppo sono stati inseriti dadi da gioco in osso e pedine da gioco in maiolica, in osso e in pietra. Il terzo gruppo, composto da strumenti in osso d’uso vario, presenta immanicature, parti di fibbie da cintura, frammenti di spilli, un frammento di bottone e due fischietti. Il quarto ed il quinto gruppo comprendono al loro interno rispettivamente vaghi e fuseruole. Il sesto gruppo è una sezione speciale dedicata ai reperti ceramici particolari, che – a causa delle loro ridotte dimensioni- necessitavano di essere esposti nella teca e non sul bancone insieme agli altri reperti ceramici.

5 - I bastioni Un nuovo progetto per l’apertura al pubblico dei due bastioni del Cassero ha previsto di implementare ancora l’offerta culturale creando due distinti spazi con funzioni e contenuti differenti, ma orientati entrambi a valorizzare e comunicare le risorse e il patrimonio culturale dell’intero territorio.

218 Questo modello di sviluppo, costruzione e gestione di un parco ci permette di procedere secondo un masterplan di intenti definito all’inizio e programmare occasioni ed eventi annuali in cui si inaugurano e si aprono al pubblico nuove strutture, percorsi e spazi espositivi. L’obiettivo è raggiungere offerte e standard qualitativi proporzionali alle richieste di un turismo intelligente che attraversa l’asse Firenze-Siena non più distrattamente, ma attratto e incuriosito da uno dei centri in cui il governo locale, l’innovazione tecnologica e la ricerca archeologica sono riusciti a convivere e a trovare soluzioni differenti per diffondere e raccontare il patrimonio culturale del territorio. Il bastione Nord – Est - Nel luglio del 2005, nei locali del bastione Nord-Est del Cassero, recentemente restaurati, sono state inaugurate le nuove esposizioni museali del Parco Archeologico e Tecnologico, incentrate sul tema delle fortezze rinascimentali e sull’allestimento del Magazzino-Museo, dove sono custoditi i reperti provenienti dallo scavo archeologico. Alcune delle sale del piano superiore del bastione ospitano la pannellistica inerente alle trasformazioni avvenute nell’architettura militare a seguito dell’introduzione della polvere da sparo e dell’evoluzione tecnologica dell’artiglieria tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, con particolare riferimento all’ambito toscano, alla storia e all’architettura della fortezza di Poggio Imperiale. Le particolari soluzioni d’arredo studiate per l’allestimento interno dei locali permettono di trasformare le strutture in un Laboratorio per l’Archeo-didattica. Il Magazzino-Museo si caratterizza per la particolarità di poter essere visitato e capito anche da parte dei ‘non addetti’ ai lavori. A differenza di quanto avviene nei comuni depositi di materiale archeologico infatti, particolari teche dotate di vetrine e pannelli esplicativi permettono di comunicare ai visitatori tutte le informazioni desumibili dai reperti di scavo in esse custoditi. In una delle sale del piano superiore sono esposti i reperti osteologici animali. Nei relativi pannelli trovano spazio spiegazioni sulle specie zoologiche presenti nella tarda antichità e nel medioevo sul sito di Poggio Imperiale ed i relativi dati storico-economici. Le teche collocate nei locali del piano intermedio sono state utilizzate per immagazzinare i reperti ceramici. Nelle vetrine sono stati esposti alcuni pezzi particolarmente significativi, mentre i pannelli ne spiegano i processi produttivi, gli impasti, le forme, i rivestimenti. Nei piani inferiori del bastione, infine, sono visitabili due cannoniere con i relativi sfiatatoi. Il Bastione Nord-Ovest. Laboratorio del gusto - Nei locali del bastione del Cassero che guarda a Nord-Ovest è stato realizzato il “Laboratorio del gusto”. Si tratta di un luogo dalle caratteristiche ben diverse rispetto a quelle di un convenzionale ristorante o enoteca. Nella struttura infatti è possibile degustare, comunicare e scambiare produzioni tipiche di qualità, condividendo l’identità di un territorio attraverso i suoi sapori, i suoi profumi e la vista del suo paesaggio. Dalla sala centrale della struttura, nel quale trova posto un ampio bancone destinato alla preparazione delle pietanze, un percorso si snoda tra le sale adiacenti. All’interno di questi ambienti i tavoli sono imbanditi per degustazioni guidate, affiancati da comunicazioni didattiche, informazioni, piccole biblioteche e collegamenti al web per esplorare le più importanti produzioni del territorio di Poggibonsi, della Val d’Elsa e di altre colture e culture della regione Toscana. Il recupero del bastione Nord-Ovest offre quindi una soluzione originale per apprezzare risorse alimentari, quali olio e cereali, vini, aromi e spezie, formaggi e salumi. La stagionalità costituisce un’ottima occasione per aggiornare, rinnovare e diversificare interesse e attenzione del pubblico, in perfetto accordo con la regola fondamentale che guida l’alternarsi di produzioni alimentari innovative e sostenibili. Gli spazi interni del laboratorio ed i percorsi della Piazza d’Armi rappresentano una vetrina disponibile e aperta a tutti i produttori che possono utilizzarla per “raccontare” e promuovere i loro prodotti,

219 prevedendo incontri, workshop, degustazioni ed eventi speciali, secondo un calendario articolato nelle diverse stagioni e per un’utenza diversificata: cittadini di Poggibonsi, studenti, turisti e tutti coloro che sono attenti a ciò che “si mette in tavola”.

6 - Le strategie di intervento sull’area archeologica di Poggio Imperiale Il progetto di interventi sull’area archeologica di Poggio Imperiale nasce dalla necessità di intervenire per integrare e sovrapporre il momento della ricerca e di indagine archeologica a quello altrettanto importante della fruizione e musealizzazione del sito stesso. In questo senso le soluzioni proposte sono state scelte tra quelle compatibili e integrabili con le future campagne di scavo. Gli interventi per la valorizzazione si articolano principalmente intorno agli scavi, rimandando le attività di consolidamento e restauro della monumentalità ad occasioni didattiche e formative da programmare a carattere multidisciplinare. Le opere per l’apertura al pubblico dell’area si sono state articolate in cinque fasi: - ripulitura dell’area dalla vegetazione - messa in sicurezza di alcune aree destinate alla fruizione - sistemazione del suolo all’interno e nell’immediato intorno delle aree di scavo - realizzazione dei percorsi pedonali di visita - installazione di pannelli illustrativi e didattici lungo i percorsi di visita L’accesso all’area è stato realizzato da due diverse direzioni: dai percorsi che attraversano il bosco che separa il sito dalla città e dalla strada esistente che attraversa le mura della fortezza passando sotto la porta ovest. Su quest’ultima si innesta il percorso vero e proprio che circoscrive l’intero sito: partendo dalla cisterna e raggiungendo la chiesa, si affianca esternamente all’area archeologica lungo il tracciato storico chiaramente segnato dall’allineamento delle soglie delle strutture a schiera del borgo bassomedievale. Dalla chiesa si scende, accerchiando l’area archeologica per percorrere esternamente le mura difensive che ci riconducono nuovamente verso la cisterna risalendo a nord del sito. Il percorso è stato realizzato con una sistemazione a terra del terreno mediante riporto di ghiaia su un tracciato precedentemente spianato per una larghezza di un metro e mezzo. Inoltre il percorso è stato attrezzato con supporti ancorati a terra per pannelli didattici e illustrativi che raccontano la successione diacronica dell’insediamento attraverso ricostruzioni grafiche delle differenti fasi. Come per le strutture utilizzate per mettere in sicurezza le cisterne ed eventuali passaggi su pendii scoscesi, anche per la posa in opera dei supporti dei pannelli illustrativi si è scelto una soluzione che non aggredisce la stratigrafia con plinti e fondazioni invasive. Per ottenere questo, i supporti sono realizzati in lamiera piegata secondo una precisa forma che consente di bloccarli a terra attraverso un sistema di zavorra ottenuto con materiali recuperati dallo scavo, quali grandi conci di pietra e uno strato di ghiaia, rendendo minimo anche l’impatto visivo nel contesto archeologico. Per i pannelli si sono “esplosi” nell’area di scavo i contenuti, le forme e la narrazione presenti nel Centro di Documentazione del Cassero, cercando le opportune corrispondenze tra le scene e le ambientazioni ricostruite e le strutture superstiti ancora visibili nell’area. Così il pannello in cui si ricostruisce la scena del cantiere di fondazione della chiesa lo abbiamo posizionato esattamente nel punto in cui si percepisce con identico cono prospettico la sequenza delle fondazioni dei pilastri della navata centrale e della fornace per la fusione della campana, anch’essa rappresentata nella ricostruzione. Allo stesso modo la bottega del fabbro o la corte di una delle case a schiera del lotto scavate. Un altro criterio di esposizione dei pannelli è stato quello di riunire più ricostruzioni in un gruppo di pannelli disposti in sequenza, per cercare di evidenziare le trasformazioni dell’insediamento, visualizzate scegliendo un identico punto di vista dal quale si sono

220 scattate le “istantanee” delle principali fasi insediative di Poggio Bonizio. In questo modo la sequenza evolutiva delle fasi altomedievali è stata disposta al centro dell’area in cui si trovava il villaggio longobardo, mentre le ricostruzioni dell’insediamento bassomedievale sono state esposte sulla sommità di una collina artificiale da cui si riesce a cogliere a colpo d’occhio l’assetto della struttura urbanistica delle case a schiera e la viabilità dell’intero sito. La collina panoramica è stata realizzata utilizzando esclusivamente parte della terra di scarico accumulata durante le undici campagne di scavo precedenti. In questo modo si sono abbattuti i costi di trasporto del materiale ad eventuali discariche e si è dato una forma e una “memoria” all’intervento archeologico.

7 - Il CISAAM Presso il Cassero è stato costituito nel 2004 il “Centro interuniversitario per la storia e l’archeologia dell’alto medioevo” cui aderiscono il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti e il Dipartimento di Storia dell’Università degli Studi di Siena, il Dipartimento di Studi Storici e il Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Dipartimento di Scienze dell’Antichità e il Dipartimento di Storia dell’Università degli Studi Padova. Il CISAAM svolge attività di ricerca nel campo degli studi altomedievali, sviluppando anche rapporti di collaborazione scientifica con enti e istituzioni nazionali, stranieri ed internazionali operanti nel settore; attività didattica finalizzata in particolare alla formazione di operatori (storici, archeologi, storici dell’arte, architetti, urbanisti) che operano o intendono operare sul territorio nell’ambito della conservazione dei Beni Culturali. Nel 2004 l’Assemblea del Centro, formata inizialmente dai soggetti proponenti (Gian Pietro Brogiolo, Riccardo Francovich, Stefano Gasparri, Sauro Gelichi, Maria Ausiliatrice Ginatempo, Maria Cristina La Rocca, Marco Valenti), si è strutturata nominando il Consiglio Direttivo (composto da tutti gli aderenti al Centro), il Direttore (Stefano Gasparri, Università degli Studi di Venezia) e il Vice Direttore (Riccardo Francovich, Università degli Studi di Siena). Attualmente l’Assemblea del Centro è allargata e annovera tra i suoi membri: Paul Arthur, Andrea Augenti, François Bougard, Gian Piero Brogiolo, Paolo Delogu, Flavia De Rubeis, Richard Hodges, Maria Cristina La Rocca, Noyé Ghislaine, Lidia Paroli, Juan Antonio Quirós Castillo, Alessia Rovelli, Giuliano Volpe, Chris Wickham, Claudio Azzara e Salvatore Cosentino. Tra le iniziative adottate dal Centro nel corso dell’anno 2004 si segnala soprattutto il Master di II Livello in “Archeologia e Storia dell’alto medioevo: interpretazione, analisi e valorizzazione delle fonti, sistemi informatici e pratiche di gestione” (MUASA) per gli Anni Accademici 2003/2004, 2004/2005 e 2005/2006. Il Master ha durata annuale e prevede il conseguimento di 60 crediti formativi; ha sede presso il "CISAM" nel Cassero della Fortezza medicea di Poggio Imperiale a Poggibonsi, dove sono disponibili i laboratori e gli spazi per le pratiche archeologiche. Finalità del master è quella di creare figure in grado di svolgere numerose funzioni, dalla ricerca vera e propria, da svolgere anche con il supporto di strumenti avanzati di gestione delle informazioni, sulle fonti scritte e materiali relative dal tardo antico all'XI secolo, fino alla pianificazione degli interventi sia di conservazione che di valorizzazione di determinate realtà territoriali e all'ottimizzazione delle pratiche di conservazione della documentazione archeologica. L’offerta didattica è imperniata sulle principali tematiche inerenti la storia e l’archeologia dell’altomedioevo italiano ed europeo, l’organizzazione e la gestione di scavi, parchi e musei, gestione di archivi e banche dati archeologici, problemi di legislazione dei beni

221 culturali e di economia della cultura. I corsi prevedevo inoltre la frequenza di 120 ore di laboratorio informatico e 200 ore di pratica di scavo archeologico. Il MUASA intende fornire impianto teorico, metodologie e tecniche: - per la ricerca, da svolgere anche con il supporto di strumenti avanzati di gestione delle informazioni, sulle fonti scritte e materiali relative dal tardo antico all’XI secolo (con la possibilità, per leggere correttamente determinati fenomeni di lungo periodo, di giungere sino alle soglie dell’età moderna); - per la pianificazione e la progettazione degli interventi di individuazione delle risorse di valorizzazione, integrati nelle diverse realtà territoriali; - per l'organizzazione, la gestione economica e la fruizione dei beni archeologici, storico artistici e architettonici; - per la progettazione di interventi conservativi sia di carattere areale (parchi archeologici tradizionali) sia di carattere sistemico (valorizzazione diffusa); - per l’ottimizzazione delle pratiche di conservazione della documentazione archeologica. Il Master è consultabile in rete agli indirizzi: http://www.unisi.it/postlaurea/master.htm http://www.paesaggimedievali.it/luoghi/Poggibonsi/att.parco01.html http://archeologiamedievale.unisi.it/NewPages/masteram.html

Al master sono poi collegate alcune iniziative di studio e confronto. E’ stato organizzato nei giorni 9 e 10 dicembre 2004 il seminario ”Scavi Fortunati” e invisibilità archeologica dell’altomedioevo. La formazione del villaggio altomedievale (VI-X secolo) presso il Cassero della Fortezza medicea di Poggio Imperiale a Poggibonsi (SI), sede del “Centro” e del Master MUASA. Il seminario è stato articolato in una serie di interventi inerenti la formazione del villaggio altomedievale (tema affrontato e approfondito in parte durante le lezioni del Master), soggetto di interesse primario nel dibattito sulla storia del popolamento medievale nelle campagne. Gli interventi sono attualmente consultabili in rete dall’home page del sito dell’Area di Archeologia medievale dell’Università degli Studi di Siena (http://archeologiamedievale.unisi.it/). Tra il novembre 2004 ed il maggio 2005, presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Padova, il Centro ha organizzato un seminario interdisciplinare di Storia e Archeologia dell’alto medioevo (La memoria nell’Altomedioevo, la memoria dell’Altomedioevo). Il seminario intende riflettere su alcuni punti nodali della ricerca altomedievistica attuale ed è indirizzato agli studenti delle Lauree Specialistiche di Storia Medievale e di Archeologia, ai dottorandi in Storia, Storia del Cristianesimo e delle Chiese, Archeologia, ai borsisti post- dottorato del Dipartimento di Storia e di Studi Storici, ai borsisti post-dottorato del Dipartimento di Scienze dell’Antichità e di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente delle Università di Padova e Venezia e, più in generale, ai contrattisti, agli assegnisti, agli specializzandi in storia e archeologia. Il 6 dicembre 2005 si è invece tenuta una tavola rotonda, coordinata d Paolo Delogu, Stefano Gasparri, Riccardo Francovich e Marco Valenti, sul concetto di medioevo e sulle ragioni alla base di un master sull’alto medioevo in cui si incontrano storici ed archeologi; anche quest’iniziativa è consultabile in rete (http://archeologiamedievale.unisi.it). Di recente si è svolto infine il Seminario Internazionale “774: ipotesi su una transizione”, con sede al Cassero della Fortezza medicea di Poggio Imperiale a Poggibonsi (SI) nei giorni 16-18 Febbraio 2006. Il Seminario verteva sui temi della transizione verso la società carolingia in Italia e in Europa sullo scorcio dell’VIII secolo, ed era suddiviso in diverse sezioni di approfondimento basate sui seguenti argomenti: la politica e la memoria della politica; economia e produzione tra VIII e IX secolo; insediamenti rurali e città: evidenze

222 archeologiche e rappresentazione scritta; produzione documentaria e letteraria (iniziativa consultabile in rete dalla pagina http://archeologiamedievale.unisi.it). R.F.

8 – Archeoval La Cooperativa Archeoval è nata nel mese di Ottobre 2002 nell’ambito del corso di formazione professionale “Tecnico di catastazione multimediale” (progetto Archeoval-POR Ob.3 2000-2006), rilasciato dalla Regione Toscana in collaborazione con l’Università degli Studi di Siena e l’Università degli Studi di Pisa. Il corso prevedeva fin dalla sua nascita la creazione di una cooperativa di giovani in grado di entrare, con valide competenze professionalizzanti, nel mondo del lavoro; a questi si sono poi aggiunti altri membri scelti in base alle loro specifiche capacità in campo archeologico ed informatico. La cooperativa è attualmente composta da 10 soci tra laureati e laureandi in archeologia, che hanno ricevuto la loro formazione professionale all’interno del Laboratorio di Informatica Applicata all’Archeologia Medievale e del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena, partecipando fin dal 1997 a numerosi eventi ed attività ivi organizzati. Dal 2003, anno di inaugurazione del Parco Archeologico e Tecnologico di Poggibonsi, i soci lavorano nei locali del Cassero, sede del Laboratorio Informatico dell’Area di Archeologia medievale dell’Università di Siena, curando la ricerca, la conservazione, la valorizzazione del sito di Poggio Imperiale e la sua promozione culturale e turistica. I membri della cooperativa, sotto la direzione scientifica dell’Area di Archeologia Medievale dell’Università di Siena, sono direttamente impegnati nell’organizzazione e nella gestione del cantiere di scavo archeologico di Poggio Imperiale. Alle attività di scavo affiancano quelle di ricerca, curando l’interpretazione dei dati emersi e lo studio del materiale rinvenuto (reperti vitrei, ceramici, metallici, numismatici ed osteologici). Archeoval si occupa inoltre di catalogare e documentare il dato archeologico attraverso l’impiego di strumenti informatici all’avanguardia, implementando i database alfanumerici e multimediali e la piattaforma GIS di scavo. Al fine di promuovere il sito e divulgare i risultati scientifici delle ricerche, la cooperativa collabora con il Comune di Poggibonsi ed il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena alla realizzazione della pannellistica e degli allestimenti museali realizzati all’interno del Parco (Sale Espositive, Bastione nord-est, percorso a tema diacronico lungo la cinta muraria della fortezza medicea, percorso archeologico presso l’area di scavo, percorso geologico-naturalistico lungo le pendici della collina). I soci inoltre elaborano e realizzano prodotti mirati alla trasmissione di tutte le attività svolte a Poggio Imperiale, aggiornando il sito web dello scavo e del Parco Archeologico e Tecnologico, preparando materiale illustrativo e informativo in forma sia cartacea che multimediale. La cooperativa organizza infine eventi destinati alla conoscenza ed alla fruizione del sito da parte del pubblico. Oltre a costituire il personale altamente specializzato che gestisce l’apertura al pubblico del Centro di Documentazione del Parco, Archeoval organizza le visite guidate. Queste possono snodarsi, a seconda delle esigenze e delle curiosità dei partecipanti, tra le Sale Espositive, gli allestimenti del Bastione nord-est, le strutture archeologiche emerse dagli scavi ed i percorsi di visita tematici presenti sulla collina e lungo il perimetro della fortezza. Per i più giovani, durante il periodo scolastico, vengono svolti laboratori didattici che hanno per tema la storia insediativa della collina e la vita quotidiana dei suoi abitanti nell’antichità, con riproduzioni di oggetti di vario tipo secondo le tecnologie del tempo. Ovviamente anche l’archeologia riveste un ruolo fondamentale in questo tipo di attività, con simulazioni delle diverse metodologie di ricerca impiegate nel settore: scavo, ricognizioni di superficie,

223 lettura stratigrafica degli elevati, restauro e documentazione di reperti. In estate questi laboratori vengono proposti anche nell’ambito di campi estivi. I membri della cooperativa si occupano inoltre di preparare la programmazione delle attività legate a manifestazioni culturali promosse dal Ministero per i Beni Culturali e dalla Regione Toscana, quali, fra le altre, le “Notti dell’Archeologia”, la “Settimana della Cultura”, “Amico Museo”, le “Giornate dei Castelli e delle Fortezze”.

9 - I percorsi di visita All’interno del Parco sono presenti percorsi didattico-informativi incentrati su tematiche di varia tipologia e corredati da numerosi pannelli illustrativi. In particolare è possibile percorrere sentieri con tema archeologico, storico-architettonico, geologico-morfologico, naturalistico-ambientale, panoramico-monumentale. L’allestimento ha lo scopo di illustrare le principali emergenze monumentali e storico- archeologiche presenti sul sito di Poggio Imperiale e nel vicino territorio, inquadrandole nel più ampio contesto naturalistico-geografico. La segnaletica riportata sui pannelli, contenente le indicazioni topografiche relative alle diverse aree di interesse culturale ed ambientale della collina, permette ai visitatori del Parco di orientarsi e fruire agevolmente della sentieristica. ll percorso archeologico si snoda all’interno dell’area di scavo. Cinque pannelli illustrano l’evoluzione della topografia abitativa nel periodo tardo-antico ed altomedievale. Altri cinque pannelli, posizionati su una collinetta artificiale panoramica, spiegano in generale la diacronia insediativa della collina dalla metà del XII secolo all’inizio del XIV. Altri sono posizionati invece in corrispondenza dei ritrovamenti archeologici di maggiore importanza: la chiesa di Sant’Agnese e il cimitero altomedievale rinvenuto al di sotto della chiesa; la corte interna di una casa a schiera; la Via Francigena; il laboratorio di un fabbro; la grande cisterna monumentale; la cinta fortificata e la frana del XIII secolo. Il percorso storico-architettonico si articola dalla Fonte di Vallepiatta al Cassero della Fortezza Medicea, fiancheggiandone la cortina muraria. Alcuni pannelli forniscono informazioni di carattere generale sul Parco e sul Cassero, sul territorio circostante, sulla diacronia insediativa della collina dalla fondazione di Poggio Bonizio alla realizzazione della Fortezza rinascimentale, sulle metodologie di indagine e di ricerca applicate; altri sono posti in corrispondenza dei monumenti di particolare rilievo presenti sulla collina, quali la Fonte di Vallepiatta, detta delle Fate, la torre medievale di San Francesco e la omonima porta rinascimentale. Il percorso panoramico-monumentale è stato concepito per fornire al visitatore un inquadramento morfologico del territorio di Poggibonsi ed illustrare alcuni dei luoghi storicamente più rappresentativi: il Castello di Badia; Borgo Marturi; l’ospedale della Magione; il convento di San Lucchese. I pannelli, posizionati nella Piazza d’Armi in direzione dei luoghi descritti, fanno del Cassero un osservatorio privilegiato sulla regione circostante. Il percorso naturalistico-ambientale ha lo scopo di illustrare al visitatore le essenze e le specie arboree tipiche della collina di Poggio Imperiale, contestualizzando il sito dal punto di vista naturalistico. Lungo i sentieri sono state allestite aree attrezzate per la sosta e per il pic-nic. Il percorso geologico-morfologico è destinato ad illustrare al visitatore la geologia della collina di Poggio Imperiale. I pannelli sono collocati in prossimità delle aree dove si conservano le sezioni con esposte le stratigrafie geologiche del sito. E’ possibile effettuare tutto l’anno visite guidate diversificate sulla base dell’interesse dei visitatori. Sotto la guida degli archeologi che lavorano nel sito, possono infatti essere effettuati i seguenti percorsi di visita:

224 - Area degli scavi archeologici; la spiegazione prevede di illustrare le diverse fasi dell’insediamento sulla base delle evidenze archeologiche messe in luce e delle numerose ricostruzioni grafiche presenti nella pannellistica. - Sala Polvalente, all’interno della quale è possibile vedere il filmato "Poggio Imperiale a Poggibonsi. 1992 – 2003. Dallo scavo archeologico alla costruzione del Parco", e Sale Espositive del Centro di Documentazione. Questa visita permette di avere una chiara immagine degli oltre mille anni di storia insediativa dell’abitato grazie alla visione delle numerose tavole ricostruttive. Maggiori dettagli sugli aspetti della vita quotidiana nelle varie fasi storiche vengono poi forniti visionando i più significativi reperti archeologici rinvenuti nel corso degli scavi. Le postazioni informatiche posizionate nelle diverse sale permettono infine a chi fosse interessato di effettuare approfondimenti tematici su vari aspetti che riguardano la ricerca e la documentazione scientifica dei dati provenienti dallo scavo archeologico (prodotti multimediali, filmati, ricostruzioni tridimensionali di reperti, archivi alfanumerici e multimediali, sistemi informativi territoriali, piattaforma GIS dello scavo, sito web). - Bastione Nord-Ovest, con la visita alle strutture da poco restaurate ed agli allestimenti museali dedicati alla storia dell’architettura militare rinascimentale, alla produzione ceramica locale nel medioevo ed ai risultati degli studi archeozoologici effettuati sui reperti animali rinvenuti nel sito di Poggio Imperiale. - Percorsi storico-architettonici, durante i quali la guida illustra le principali emergenze monumentali presenti sulla collina di Poggio Imperiale: la Fortezza Medicea, il Cassero, la Fonte detta delle Fate, la Torre medievale di San Francesco. - Percorsi naturalistici, effettuati con la guida di esperti in materia, alla scoperta delle sezioni geologiche esposte e delle specie vegetali presenti nel sito.

10 - Le attività didattiche Le attività didattiche che hanno luogo nel Parco Archeologico e Tecnologico di Poggibonsi, prendendo spunto in particolare dal contesto storico-culturale ed ambientale presente sul sito di Poggio Imperiale, hanno lo scopo di fornire un approccio graduale alla conoscenza del territorio, della storia, dell’archeologia, compresi i processi produttivi e le tecnologie antiche. Al fine di avvicinare gli alunni a queste discipline, vengono integrate metodologie diversificate, che vanno dalle più tradizionali lezioni in aula alle visite guidate, dai laboratori archeologici all’impiego di tecnologie all’avanguardia. Un ruolo fondamentale è rivestito dalle presentazioni multimediali e dalle attività pratiche, che permettono un contatto diretto, coinvolgente ed immediato, con vari aspetti della storia e dell’archeologia. I laboratori, tarati sull’età e sul livello di apprendimento scolare, sono numerosi e diversificati. - Per la scuola dell’infanzia sono previste “rappresentazioni teatrali” con marionette che raccontano la storia del sito e attività ludico-manipolative. - Per la scuola primaria viene proposta la realizzazione di manufatti di diversa tipologia e materiale secondo le tecnologie impiegate nell’antichità. - Per le scuole secondarie di primo grado sono organizzate attività simulate di scavo archeologico, di ricognizione di superficie, di documentazione, di restauro dei reperti e di lettura stratigrafica delle murature. - Per le scuole secondarie di secondo grado vengono effettuate vere sperimentazioni pratiche delle metodologie applicate alla ricerca archeologica, dal lavoro sul campo all’elaborazione dei dati tramite strumenti informatici.

225 Durante i mesi estivi all’interno della Casa ecologica ubicata nell’area archeologica del Parco vengono organizzati campi estivi dedicati a bambini di età compresa tra i cinque ed i tredici anni. Le attività ludico-didattiche proposte sono le seguenti: - realizzazione di manufatti in argilla essiccata con la tecnica del colombino e con il tornio a pedale. - lavorazione di tessuti al telaio e loro tintura con colori naturali sulla base di procedimenti antichi. - produzione di giochi medievali: fischietti in canna, dadi, biglie, pedine, perline e gioco del filetto. - creazione di stemmi araldici di famiglie di Poggio Bonizio su supporti lignei. - visione di armature e vesti realizzate sulla base di modelli medievali e lavorazione della pelle al fine di realizzare piccoli capi di vestiario. - escursioni geologico-botaniche con visione diretta di sezioni geologiche, campioni di fossili e minerali pertinenti al sito di Poggio Imperiale ed essenze arboree tipiche della collina. Tutti i laboratori vengono preceduti da spiegazioni, effettuate anche grazie al supporto di prodotti multimediali o alla visione diretta dei reperti archeologici esposti nelle Sale Espositive del Centro di Documentazione. In questo modo si intende fornire un inquadramento generale sui diversi processi produttivi impiegati nell’antichità e sulle funzioni dei manufatti realizzati dai bambini.

11 - Eventi culturali Le Notti dell'Archeologia - Le Notti dell’Archeologia sono un’iniziativa annuale promossa dalla Regione Toscana con l’intento di far scoprire, o “riscoprire”, a tutti i cittadini siti di interesse archeologico nella suggestione delle ore notturne. Nel mese di luglio, in tutte le province della Toscana, vengono organizzate aperture notturne di musei e parchi. Protagoniste dell’evento sono iniziative speciali quali esposizioni, visite guidate, attività didattiche, proiezioni, degustazioni di prodotti tipici, trekking archeologici, conferenze, concerti e rappresentazioni teatrali, con ingressi gratuiti e riduzioni per le visite guidate. Il Parco Archeologico e Tecnologico di Poggibonsi partecipa all’iniziativa con varie proposte. Vengono organizzate escursioni notturne agli scavi archeologici illuminati da fiaccole, con un sottofondo di musica jazz suonata dal vivo, e visite guidate agli allestimenti museali del bastione Nord-Est. La Piazza d’Armi si anima di luci, colori e suoni: su un gigantesco schermo di 36 x 9 m, costituito dalla facciata dell’edificio interno al Cassero, viene proiettata la videoinstallazione I Muri Parlano. Sulla muratura sfilano le illustrazioni ricostruttive ed i filmati di scavo che, a tempo di musica, spiegano la storia della collina e “danzano” le ricostruzioni tridimensionali dei reperti archeologici trovati nel sito di Poggio Imperiale. Nella Piazza d’Armi e nel Laboratorio del gusto vengono inoltre allestite degustazioni di sapori toscani. Settimana della Cultura, Giornate Europee del Patrimonio, Amico Museo - Nell’ambito della Settimana della Cultura, delle Giornate Europee del Patrimonio e di Amico Museo, iniziative patrocinate rispettivamente dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dalla Regione Toscana, il Parco Archeologico e Tecnologico di Poggibonsi programma una serie di eventi di interesse culturale. Oltre all’apertura straordinaria delle Sale Espositive e dei Bastioni, vengono organizzate visite guidate agli scavi archeologici, laboratori didattici, mostre ed installazioni di arte contemporanea, spettacoli, escursioni geologico- naturalistiche nei percorsi allestiti lungo la collina di Poggio Imperiale, degustazioni di prodotti tipici locali.

226 Lo scopo è quello di offrire ai nuovi visitatori uno stimolo in più per scoprire il sito di Poggio Imperiale, mentre a tutti gli altri vengono proposti ulteriori spunti per approfondirne la conoscenza, sotto punti di vista ogni volta diversi. M.A.C., V.B.

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