“LE ISTITUZIONI ARCAICHE”

PROF.SSA CLAUDIA IODICE

Università Telematica Pegaso Le istituzioni arcaiche

Indice

1 IL MITO DELLE ORIGINI DI ROMA TRA LEGGENDA E STORIOGRAFIA ------3 2 LE CURIAE ------5 3 IL COMIZIO CURIATO ------7 4 LEGISLAZIONE MONARCHICA E IUS PAPIRIANUM ------9 5 DALLA ALLA CITTÀ STATO ------15

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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1 Il mito delle origini di Roma tra leggenda e storiografia

Appare a questo punto indispensabile, ai fini di una ricostruzione quanto più possibile fedele della storia della costituzione romana, presentare per grandi linee la storia delle origini di Roma antica. La parte meno popolata del Latium vetus era nel sec.VIII a.C. rappresentata da quella parte di territorio per gran parte paludoso che si estendeva alla sinistra del Tevere in prossimità di quella che ancora oggi è chiamata isola Tiberina. Quel territorio malsano imponeva una vita frammentata a quelle pochissime famiglie di pastori che con coraggio si erano decisi ad abitarvi. Quello stesso territorio col passar del tempo si rivelò di grande importanza sul piano economico perché permetteva il controllo degli approdi e dei guadi di cui si servivano gli Etruschi per i loro traffici con la Campania nonché i Sabini per l’approvvigionamento del sale sulla riva destra presso il Campus Salinarum. Proprio questi gruppi che abitavano la riva sinistra del Tevere, verso la metà del sec. VIII a.C. diedero impulso a una serie di processi federativi che ne aumentassero ovviamente la forza e al contempo ne garantissero l’autonomia dai Latini stanziati sui Monti Albani nonché dai Sabini e dagli Etruschi. Questo quadro delle origini romane si perde e quasi scompare nella ricostruzione che a posteriori è stata fatta dalla storiografia romana dei primordi. Secondo il racconto avallato da annalisti celebri come Fabio Pittore, Calpurnio Pisone, Celio Antìpatro e Valerio Anziate, massimi esponenti della storiografia pre-augustea, Roma sarebbe stata fondata nel 754 a.C., da Romolo, di stirpe latina, venuto via da Albalonga, città emblema delle antiche popolazioni Latine. Alla nuova comunità, continua il racconto degli annalisti, Romolo avrebbe imposte in una sola volta tutte le istituzioni politiche. Il popolo sarebbe stato diviso nel ceto dominante dei patricii, raccolti in un certo numero di gentes, e nel ceto inferiore dei plebeii, non ammessi alla organizzazione

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gentilizia ed aggregati, in posizione di dipendenza e con il titolo di clientes, alle varie gentes patrizie. I patricii sarebbero stati poi distribuiti nelle tre tribus dei Ramnes, Tities e Lùceres, ciascuna divisa in dieci distretti, le curiae.

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2 Le curiae

Nel trattare, sia pure in maniera sintetica delle istituzioni arcaiche, appare indispensabile esaminare una delle istituzioni più antiche della civitas quiritaria quella appunto delle curiae. In seguito a quello che è stato tramandato dalla tradizione annalistica sembra evidente che le curiae ( da co-viriae, cioè raggruppamenti di uomini) fossero composte dalle gentes. Ciò naturalmente non implica che gli appartenenti ad una fossero tutti astretti da legami di sangue, e questo discorso può farsi senza dubbio anche per le tre tribù originarie dei Tities, Ramnes e Luceres. Queste, come le prime, sembrano essere dunque divisioni artificiali dello stato, come si desume dalla regolarità della distribuzione. Se questo è vero, non altrettanto sicuro è che esse saranno state il risultato di un atto di fondazione o di meditata organizzazione statale. L’esistenza di un rito di fondazione, con l’inauguratio del rex compiuta dagli augures e la determinazione della linea sacra del pomerium come confine per gli auspici del magistrato e delimitazione dell’urbs, fu certamente patrimonio della cultura romana. Questo rito potrebbe essere stato importato dall’Etruria. Da parte sua, Cicerone attribuirà a Catone il Censore un’idea di città profondamente diversa da quella della Grecia. Le città greche avevano un unico fondatore, mentre Roma non si era costituita in base all’ingegno di un uomo, ma attraverso il tempo e le generazioni. Perciò il tema della fondazione “istantanea” , quella per intenderci mitica di Romolo, potrebbe essere emerso anche successivamente, nella coscienza degli antichi e in quella dei moderni. È però esatta l’affermazione che le curiae siano appartenute al periodo della unificazione politica degli abitanti dei Sette colli di Roma. Noi già conosciamo le incertezze della tradizione sulle tre tribù originarie dei Tities, Ramnes e Luceres. Ci viene tramandata la leggenda di un atto d’imperio operato, come si è detto sin d’ora, che avrebbe diviso

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il popolo in queste tre tribù e trenta curiae, dando ad esse i nomi delle sabine rapite. Tutto ciò potrebbe rimanere incerto, se non apprendessimo, da una tarda testimonianza, che negli annales pontificali di cui si è parlato in precedenza, erano annotati, con sigle, i nomi delle tribù, delle curiae e delle decuriae. Se essi erano registrati nella cronaca pontificale, ne consegue che avessero evidentemente carattere ufficiale. Tuttavia, in un sistema originario in cui il dato più pregnante è costituito da progressive suddivisioni delle sfere del potere, è il senato a manifestarsi come un organismo cui sono destinati evidenti compiti di organizzazione sociale e di governo. Da esso può scaturire il monarca, o il consenso per il monarca. In tutti i casi, il senato arcaico appare come un gruppo relativamente ristretto, alla continua ricerca di elementi di omogeneità e di unione, richiesti anche dalle difficili condizioni esterne, e si manifesta come la struttura guida della politica romana e dell’organizzazione della città.

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3 Il comizio curiato

L’unica assemblea costituzionale dei cittadini contemplata nella civitas dei Quiriti, fu quella denominata dei comitia curiata, cioè del consesso generale dei patrizi di sesso maschile nelle trenta curiae. Le adunanze si svolgevano di norma nel Forum, una vasta piazza a ridosso del Campidoglio, all’interno di uno spazio denominato per l’appunto Comitium. Soltanto successivamente e comunque sempre a titolo eccezionale, in occasione di particolari cerimonie religiose, i comizi si riunirono sul Campidoglio, davanti alla sede del collegio pontificale. Una volta giunti al luogo di riunione, i Quirites si ripartivano ordinatamente per curiae, ciascuna presieduta da un curio e la riunione era diretta dal rex in carica. Un lungo dibattito si è svolto nella storiografia moderna intorno alle possibili attribuzioni di questa particolarissima e antichissima assemblea. Secondo l’orientamento tradizionale queste attribuzioni sarebbero state per certi atti, semplicemente di partecipazione passiva. Per altre categorie di atti, invece, i comitiia, sembra abbiano rivestito una vera e propria competenza deliberativa. Queste ultime, per noi di maggior interesse, possono essere ricondotte essenzialmente a due: a) una funzione elettorale, consistente in un primo voto di approvazione del nuovo rex, così come designato dall’, e in un secondo voto inteso al riconoscimento solenne dell’imperium (comando) del monarca detta ; b) una funzione legislativa in senso sostanziale, consistente nella votazione delle leges normative proposte dal re (leges regiae o curiatae) In età storica, al comizio curiato, oltre alla lex curiata de imperio, rimarranno le vestigia di una sua centralità, incidente soprattutto sull’organizzazione familiare. Il testamentum calatis comitiis si presenta ai nostri occhi come la più antica forma testamentaria, compiuta in tempo di pace, in due giorni dell’anno prestabiliti, davanti

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ai comizi curiati, presieduto dal pontefice massimo o dal . Davanti al comizio curiato si svolgeva l’adrogatio, vale a dire l’arrogazione. In questo modo, la famiglia del sottoposto veniva incorporata nella prima. Ciò implicava la detestatio sacrorum, consistente nella rinuncia ai culti familiari dell’arrogato. La lex curiata de imperio richiede un momento di riflessione. La formula è insicura. In età storica essa è poco più di un cerimoniale, mediante il quale le curiae, rappresentate da trenta lictores, riconoscono l’imperium del magistrato repubblicano. È più che verosimile considerarla come un residuo monarchico, improbabile invece pretendere ch’essa sia stata anticipata al regnum dagli annalisti. Se la lex curiata de imperio è dunque di età monarchica, siamo costretti a porla prima della riforma serviana, e quindi prima della nascita dei comitia centuriata che la tradizione attribuisce a Servio Tullio. Se è così, essa prova il fondarsi molto antico di un dualismo costituzionale fra patres e populus, quest’ultimo rappresentato dalle curiae, dalle quali sono esclusi i plebei. Ma è anche possibile proporre un modello esplicativo leggermente diverso da questo. Prendendo le mosse dall’idea del Mommsen del senato antico come di una magistratura collegiale, è possibile intendere la lex curiata de imperio come il momento critico in cui l’interrex temporaneo originario si impone come re vitalizio, forse anche contro la volontà dei patres. Questo è un atto in cui si riconosce la forza. I littori, che rappresentano il segno del potere basato sulla forza militare, potrebbero costituire un non irrilevante indizio. D’altra parte, la tradizione è concorde nell’ammettere l’esistenza di leges curiatae, vale a dire leges datae, da parte dei re alle curiae.

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4 Legislazione monarchica e ius Papirianum

Queste leges curiatae devono essere identificate con le leges regiae. Così risulta dalla tradizione raccolta da un illustre esponente della giurisprudenza. Nel “manuale” che Sesto Pomponio scrisse nel secondo secolo d.C., fra il principato di Adriano e quello di Antonino Pio, si distingue tra un periodo monarchico in cui omnia manu a regibus gubernabantur, e quello iniziatosi a partire dall’età di Romolo e dalla divisione del popolo in curiae, che coincide con l’emanazione delle leges regiae. E’ in questa seconda fase, in cui il re è posto dal giurista Pomponio all’origine delle magistrature, che il potere monarchico si caratterizza come potestas. È opportuno sottolineare la differenza non eliminabile fra manus e potestas. Il valore di manus si può ricondurre a quello del termine militare, che indica appunto la forza intrinseca del manipolo, nucleo dell’antica coorte ( Come vedremo successivamente, fu Mario ad introdurre le Coorti come suddivisione operativa dell’esercito al posto del manipolo adottato nelle guerre Sannitiche). Ciò implica la necessità di accentuare la distinzione fra i re che hanno agito manu e quelli che hanno agito mediante la potestas. In questo secondo caso, essi sono correttamente considerati come magistrati, e per questo dotati di potestas. Il manu gubernare indica dunque, per Pomponio, una fase storica precedente alla età di Romolo e quindi alla formazione delle curie. La storia del diritto, per la cultura giuridica dell’età adrianea, incomincia con le leggi curiate di Romolo e prosegue con quella delle leges regiae, fino al loro dissolversi nella desuetudine determinatasi a seguito della caduta della monarchia. La legge dunque, come momento di interazione fra il popolo, originariamente rappresentato dalle curiae, e il monarca che la propone, è il momento costitutivo del diritto più antico, del diritto certo. Da questo punto di

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vista, il manu gubernare appartiene al prediritto. Al di là dei tentativi più volte compiuti, che si esauriscono in suggestioni, ma non propongono concetti costitutivi, a noi qui interessa rilevare che, nella fase individuata da Pomponio, il manu gubernare riassume un quadro di incertezza giuridica. Questa considerazione implica che l’agere iniziale della comunità è orientato in modo sintomatico dal manu gubernare, il che tende a condurre verso contraddizioni e incertezze. Tutto ciò non può essere attribuito al regime monarchico inaugurato da Romolo che, non dimentichiamolo, per Pomponio è una figura storica e, al contempo, il creatore della legislazione curiata. Il manu gubernare segnerebbe l’incerta epoca precedente. Esso comunque non coincide, né tanto meno è sinonimo, della potestas monarchica così come, in seguito, si era venuta costituendo. Pomponio inoltre riferisce, se non direttamente, in base a informazioni ch’egli accetta, l’esistenza di una raccolta di leges regiae, compilata da un Papirio. Egli sa anche che queste leges caddero in desuetudine, e questo si verificò dopo la rovina finale della monarchia. Appare evidente che, per il giurista adrianeo, quella raccolta aveva il valore di un dato antiquario, non essendosi innervata nel processo di sviluppo e crescita delle partes iuris, così come egli lo andava ricostruendo nella sua opera. D’altra parte, quella tradizione era tale, da consentirgli di descrivere, sia pure sommariamente, la figura e la personalità di Papirio, e di illustrare la natura di quella raccolta. Secondo Pomponio, la raccolta di Papirio ordinava, senza alcun intervento da parte del suo autore, leggi emanate sine ordine. La raccolta sarebbe stata compiuta sotto il regno del Superbo, che per Pomponio è il figlio di Demarato di Corinto, in cui Papirio sarebbe stato uno fra i principales viri. Infine, dopo la caduta della monarchia, le leggi dei re sarebbero cadute in una sorta di desuetudine e si sarebbe ritornati all’incertezza precedente.

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Vi sono, in questo racconto, alcuni dati sospetti. Pomponio infatti fa del Superbo un figlio di Demarato di Corinto, mentre noi sappiamo che, secondo la tradizione seguita da Cicerone nel De re publica, quella discendenza dovrebbe essere riferita a Tarquinio Prisco. Dobbiamo tuttavia ritenere verosimile che Pomponio intenda comunque affermare che la raccolta papiriana sia stata compiuta alla fine della monarchia etrusca. Secondo il suo giudizio, dunque, fu in quell’epoca che sarebbe stata compilata una raccolta organica delle leges regiae. La raccolta denominata ius civile Papirianum non comportava come si è detto, alcun intervento da parte del suo autore, oltre quello di ordinare il materiale legislativo. Esso riguardava lo ius civile così come emergeva dalle disposizioni monarchiche. Ciò implica che Papirio deve aver proceduto costruendo un testo organico. Il riferimento al suo alto rango sociale ci propone perciò questo personaggio quale membro influente di una corte, e la sua opera la dobbiamo presumere gradita al monarca del tempo. Possiamo immaginarci quella raccolta come un codice primordiale, voluto dai capi etruschi quale segno di una monarchia decisa a imporre stabili regole di comportamento giuridico. Se a ciò si aggiunge la sottolineatura pomponiana della partecipazione di Papirio alla corte del monarca, la rappresentazione dell’Enchiridion assume toni tali, da accentuare una volontà ordinatrice dell’ultimo re etrusco, circondato dai suoi dignitari, dei quali Papirio faceva parte. Essa doveva apparirgli come una congerie di disposizioni prive di organicità, ma proposte per regolare, volta per volta, determinate fattispecie. Ciò fa presumere la preesistenza di un corpus normativo in certo modo controllabile e applicabile, al cui ordinamento si sarà accinto l’uomo del Superbo. L’uomo che raccolse le leges regiae, dovette compiere un’opera “codificatoria” con il consenso del monarca, della cui cerchia di consiglieri egli faceva parte. Non si può dubitare del fatto che questa raccolta, ricordata come ius civile Papirianum, consentiva un completo controllo sulle regole di diritto da parte del re che in quel

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tempo deteneva il potere. Il suo autore doveva avere accesso agli archivi che contenevano le leggi, o ai diretti depositari della loro memoria. Di conseguenza ne risulta confermata la notizia del suo alto rango sociale. Non chiunque, con o senza il consenso del re, avrebbe potuto pubblicare un libro la cui autorità di “codice” non sarebbe stata messa in discussione. Ciò che era scritto nel libro di Papirio era dunque accettato come autentico. Se ne deve allora dedurre che quell’opera rendeva visibile e controllabile l’applicazione nella prassi delle norme regali. Non vi sono argomenti per ammettere che Papirio sia appartenuto al collegio pontificale, tanto meno che sia stato pontefice massimo, anzi, ve ne sono per escluderlo. Il catalogo pomponiano che si inizia col suo nome, prosegue con altri, dei quali solo quello di Sempronio Sofo è quello di un sicuro pontefice. I predecessori non necessariamente dovevano, per Pomponio, essere appartenuti alla massima istituzione sacerdotale. Inoltre l’argomento che si ricava da una famosa lettera ciceroniana e che è stato utilizzato per mettere in dubbio la tradizione su Papirio, prova che Cicerone ignorava l’esistenza di un Papirio pontefice massimo, e nient’altro che questo. Il presupposto che Papirio, per condurre a termine la sua raccolta, doveva essere necessariamente un pontefice massimo è un’induzione costruita a posteriori dagli antichi i quali, conoscendo il controllo del collegio sul diritto, non potevano concepire che il redattore delle leges regiae non fosse un pontefice massimo. Allo stesso modo hanno ragionato anche i moderni, proiettando sull’uomo del Superbo la carica di pontefice massimo. Per di più, il rango eminente di Papirio, attestato da Pomponio con le parole principalis vir, sembra alludere più a una preminenza nel seguito del re che a un ruolo sacerdotale, soprattutto se poi le rapportiamo a peritus, del tutto superfluo e addirittura erroneo, nel caso in cui Papirio fosse stato veramente un pontefice massimo. Se Papirio non fu che un sia pure autorevole dignitario della corte dei Tarquini, è ragionevole dedurre che la sua opera contrastava nei fatti quella che noi sappiamo

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essere la tendenza del collegio pontificale alla segretezza e al controllo del diritto. Una compilazione fissa ne rende visibili le norme. Essa le poneva sotto il diretto controllo del re, sottraendole alle versatili applicazioni del collegio. Non è dunque un caso che, subito dopo la caduta della monarchia, la tradizione pone il rex sacrorum, segno evidente del riacquistato prestigio delle forze filosacerdotali. (sacerdoti e profani) Si comincia a delineare, dunque, un’ipotesi ricostruttiva del periodo arcaico in cui si vengono contrapponendo forze militari e profane a ceti sacerdotali, ipotesi nella quale il controllo sugli strumenti dell’agire giuridico oscilla da una tendenza alla segretezza al tentativo di renderli fissi e conoscibili. Da quanto siamo venuti dicendo, l’opera di Papirio sembra coerente con un’epoca segnata dalla prevalenza militare e laica, e non può essere ricondotta al modus operandi del collegio pontificale. Solo le più tarde ricostruzioni, alle quali era noto il compito primario del collegio nel diritto, avranno di riflesso investito Papirio della carica pontificale. Ciò spiega perché, dopo la caduta della monarchia, le leges regiae sarebbero cadute in una sorta di desuetudine, nonostante i chiari segni di una prevalenza del collegio pontificale nella vita della società. Il motivo va ricercato nella liquidazione di una raccolta “laica” e nel ritorno al regime pontificale di controllo delle forme giuridiche. Anche la notizia liviana relativa al rinvenimento di alcune leggi regie dopo l’incendio gallico, che i pontefici decisero di tenere celate può essere vista come il tentativo di porre fondate premesse alla conservazione pontificale del più antico nucleo normativo. Poiché non vi è ragione di dubitare delle parole del De re publica, con le quali si fa esplicito riferimento a leggi di Numa, dobbiamo ritenere che i pontefici avranno conservato, probabilmente adattandole o anche attribuendole al buon re sabino, norme di comportamento poi rese note come leggi di Numa. Ciò che Pomponio ha definito come ius civile Papirianum può dunque essere visto come una raccolta di norme, di valore civilistico, costruita in senso antipontificale da

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un gruppo politico filoetrusco e imposta alla città stato allo scopo di uniformarne in modo unitario i comportamenti. Nella visione pomponiana, esso ha lo stesso valore dirompente della più tarda pubblicazione flaviana, sulla quale ritorneremo. Per ora sarà opportuno sottolineare che, come Papirio, così Gneo Flavio non aggiunse nulla di suo alla raccolta delle azioni sottratte ai pontefici. Idealmente congiunte da questa proposizione, ambedue le opere hanno comunanza in questo modello di appropriazione di un sapere. Ma torniamo alla natura delle leges regiae. Come si è visto, esse presuppongono la lex curiata de imperio, che sarà stata imposta quando al potere temporaneo dell’interrex si sarà venuto sostituendo il monarca vitalizio. È possibile congetturare la stabilizzazione monarchica dell’originario interrex nella volontà di parte delle curiae di riconoscere ad esso la forza necessaria per impedire la rotazione tradizionale. La tarda attribuzione al mitico fondatore di governare in base alla maggioranza delle curiae, potrebbe dare una conferma a questa congettura. Da questo punto di vista, l’auctoritas patrum sembra essere il residuo affievolito dell’originario potere regio del senato, prima ch’esso fosse espropriato dall’imporsi della monarchia vitalizia.

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5 Dalla gens alla città stato

Oltre all’interregnum e alla patrum auctoritas, vi è un altro elemento che può confermare l’esistenza, fin dalle origini, di una dicotomia fra il re ed il senato. Essa consiste nell’accusa, riconoscibile nella tradizione, di regnum adfectare. In età storica, essa fa tutt’uno con l’odio del regno. Come atto penalmente perseguibile, appare molto risalente. Figure alto repubblicane come quelle di Spurio Cassio, M. Manlio Capitolino o Spurio Melio, sembrano essere state considerate, dalla tradizione, tendenzialmente protese verso un potere monarchico. A parte il problema relativo alla loro storicità, è la struttura dell’accusa che deve attirare l’attenzione. Essa è sottoposta al giudizio dei duoviri perduellionis, gli antichi ausiliari del rex, come i quaestores, i quali giudicano non di tradimento, ma appunto del delitto di regnum adfectare. Questo crimine, così come è attestato in età repubblicana, presuppone un ordinamento giuridico che ha espunto strutturalmente la monarchia. Ma costituisce anche una “sopravvivenza” dell’antica monarchia, dato che la teoria del regnum adfectare è saldamente costituita nel secondo secolo a. C., ma è certamente risalente al quarto o al quinto secolo a. C. Essa si è dunque venuta formando come reazione a possibili restaurazioni monarchiche, ed avrà costituito uno strumento di ostacolo per i pretendenti al trono. In quanto tale, il suo fondarsi come crimine reprimibile con la condanna capitale appartiene sicuramente alla cultura politica senatoria della fine della monarchia, uscita vincente dallo scontro con i dominatori etruschi. Se il formarsi del crimen è così risalente, ci troviamo di fronte alla consapevolezza politica di una rottura decisiva nei confronti dell’istituzione monarchica, ma anche di fronte a tendenze sopravviventi di conquista di quel potere. Non si criminalizza un

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comportamento se non ha un alto grado di diffusione. Il gruppo oligarchico che ebbe il sopravvento dopo la fine della monarchia etrusca costituì, attraverso la fondazione del crimine del regnum adfectare, un rigido baluardo per impedire l’incrinarsi del proprio potere. Ma si può risalire ancora più indietro. La costituzione del crimen rimanda ad un’epoca nella quale regnum adfectare costituiva un comportamento riconosciuto come lecito nella città in formazione. La tradizione che ricorda la nascita della monarchia etrusca non carica, per quel periodo, di alcun significato negativo quel comportamento. Ciò implica, per l’età delle origini, la tendenza dei capi di bande di raccogliere forze e consensi per regnum adfectare, evidentemente contro o al di fuori della volontà federale espressa nel senato, che in questo modo si vedeva privato della originaria potestà sovrana esercitata attraverso l’interregnum. Si può ritenere più che verosimile che il blocco oligarchico abbia imposto la criminalizzazione del regnum adfectare nel periodo successivo alla monarchia etrusca, per fermare tentativi che pur permanevano anche all’interno della propria organizzazione sociale. Tornando alle istituzioni arcaiche, possiamo notare come anche le regole di diritto internazionale offrono interessanti indizi sull’antica costituzione cittadina. Nella sua colorita descrizione dei convulsi rapporti fra Roma e Alba ai tempi del re Tullo Ostilio, Livio riporta la formula dei feziali, al cui collegio compete la stipula dei trattati internazionali e della dichiarazione di guerra. Sul piano metodico, è stato da tempo riconosciuto che questo, come altri formulari, costituiscono reliquie autentiche, in quanto non sottoposte, per il carattere di immutabilità loro intrinseco, a modificazioni successive. Questa formula è strutturata in quattro parti, consistenti nella recitazione di un carmen, nella lettura del trattato, nel giuramento e nel sacrificio. Essa è preceduta dalla nomina di due feziali, il verbenarius e il pater patratus, il quale era nominato, presente tutto il collegio, con un giuramento, ed era colui che avrebbe poi dovuto concludere (patro) il foedus.

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Ma torniamo alla formula. Al di là delle discussioni ch’essa ha provocato, e che si estendono alla complessità delle procedure utilizzate dai Romani nelle relazioni internazionali, essa implica che la città aveva avvertito ben presto l’esigenza di dotarsi di rituali idonei e flessibili per regolare i rapporti con gli altri popoli. A parte la questione dell’antichità, sia essa monarchica o alto repubblicana, l’esistenza di una figura definita come pater patratus implica la coincidenza di questi con un membro dell’antico senato, essendo infatti tale coincidenza piuttosto la norma che l’eccezione nel sistema costituzionale romano. Non ci sentiremmo di riconoscere, nel pater patratus, il fossile del re di una corte feudale, precedente alla città dei re, o di un signore fra i signori. La suggestione di questa congettura vacilla di fronte al disincanto che destano le fonti. È invece necessario ammettere che l’istituzione dei feziali e la creazione dei relativi formulari è inclusiva del senato, al quale, come organo composto dai capi delle più antiche confederazioni gentilizie, era affidato il compito di regolare, attraverso l’individuazione di forme extragiuridiche e sovranazionali, i rapporti fra i vari gruppi sociali che venivano assestandosi nel territorio romano. Il quadro rappresentativo più accettabile è quello di considerare l’origine delle più antiche istituzioni il frutto di un difficile equilibrio fra gruppi, depositari ciascuno di una sovranità che si rende stabile col governo di uno solo, sulla base di un riconoscimento di confederazioni. La ricerca di riti e modelli di comportamento comuni è un elemento costante nella formazione della città stato. Gli originari depositari della monarchia, i patres, devono ben presto aver visto il loro spodestamento, avvenuto forse spesso in ragione della forza, da interreges che da temporanei divenivano vitalizi, o da capi di bande che si venivano insediando in un territorio ricettivo, impadronendosi della forma regia. Il gruppo originario dei senatori avrà dovuto comporre queste spinte con opportune alleanze, o con improvvisi colpi di mano.

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Strumenti adeguati potevano essere i sacerdozi. Collegi come quello pontificale e augurale, e quello dei feziali svolgono, ancora in età storica, compiti politici di estrema rilevanza che si intrecciano con le determinazioni dei magistrati e del senato. Di grande rilievo, soprattutto nel campo del diritto, è il collegio pontificale. Come è stato ben precisato in sede storiografica, i loro esponenti non erano “uomini di Dio”, bensì honoratiores, dotati di mezzi economici rilevanti, e che avevano di solito rivestito una magistratura curule. Cicerone lo testimonia con chiarezza. Egli ricorda come fosse antica, e valida tradizione, quella di affidare la tutela dello stato e della religione ai cittadini più illustri. In particolare ancora in epoca storica, ai pontefici compete, in quanto esperti dei sacra, custodire i riti supremi dello stato e di mantenere quindi la pax deorum. Essi controllano il culto pubblico e privato, custodiscono il calendario e sono depositari del sapere giuridico, delle forme degli atti negoziali e delle azioni giudiziarie. I pontefici svolsero a lungo queste funzioni in monopolio, conservandole in segreto. La loro nomina avveniva per cooptazione, almeno fino al 104 a.C., quando la lex Domitia trasferì al comizio centuriato la loro elezione nel collegio. La presenza di auguri, di pontefici e di flamini nel senato è attestata dalle fonti, le quali non passano sotto silenzio i pur rari conflitti fra essi e il massimo organo di governo della città.

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