narrazioni rivista semestrale di autori, libri ed eterotopie diretta da Vito Santoro

n. 4 anno III, I semestre 2014 Direttore Vito Santoro

Redazione Antonio R. Daniele e Lucia Dell’Aia (vicedirezione); Antonella Agostino, Marianna Comitangelo, Francesca Giglio, Marco Marsigliano, Stefania Segatori, Nives Trentini, Luana Tritto

Segretarie di redazione Alessandra Miola, Simona Specchia

Illustrazioni Claudia Lonero

Hanno collaborato a questo numero Luigi Abiusi, Cosimo Argentina, Domenico Calcaterra, Silvia Ceracchini, Giuseppe Del Curatolo, Marco Ignazio De Santis, Mario Desiati, Viola Di Grado, Stefano Disegni, Mariangela Giordano, Carlo Gubitosa, Valentina Introna, Alessandro Leogrande, Domenico Lonigro, Giuseppe Lupo, Mara Mundi, Raffaello Palumbo Mosca, Luca Paulesu, Vincenzo Sparagna, Sergio Staino, Marilù Ursi, Mariapia Veladiano, Vincino

Sede della redazione Dipartimento Filosofia, Letteratura, Scienze Storiche e Sociali (FLESS), Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” Piazza Umberto I, 1, 70125 Bari – tel. 0805714074 email: [email protected] SOMMARIO

SPECIALE SATIRA 5

Comici rivoluzionari guerrieri a cura di Giuseppe Del Curatolo e Vito Santoro 6

Per una storia della satira in Italia dal 1977 ad oggi di Giuseppe Del Curatolo 8

Dove va la satira? 5 domande per 5 direttori 27

Il piccolo Gramsci nel mondo grande e terribile di Vito Santoro 35

SCRITTORI NEL TEMPO 43

Viaggiatori di nuvole: la scrittura al galoppo dei sogni di Stefania Segatori 44

«Lo mestiere più belo xe fantasticulare li homini» Stefania Segatori intervista Giuseppe Lupo 49

Tre sguardi sul periurbano tarantino di Valentina Introna 53

Il tempo e le parole: Il tempo è un dio breve e Ma come tu resisti, vita di Mariapia Veladiano di Nives Trentini 60

«In quel che scrivo passa l’ascolto della vita così come mi appartiene» Nives Trentini intervista Mariapia Veladiano 66

Scrivere per non restare inermi: Il coltello di Permunian di Domenico Lonigro 72

Vivere della morte: su Cuore cavo di Viola Di Grado di Antonio R. Daniele 77

«Come tuffo nello specchio di Alice». Antonio R. Daniele intervista Viola Di Grado 81

3 LAVORO CRITICO 84

“Perriera sentimentale”: L’umanesimo gentile di un soave eroe della mitezza [Il sottosuolo e il cielo di Michele Perriera] di Domenico Calcaterra 86 «Tutto torna alla notte tranne questa grande parola. Diciamo: d’amore». La pietas del romanzo, primi approcci. di Raffaello Palumbo Mosca 93

Le inquadrature su carta. Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani di Mariangela Giordano 104

«Gli avventurosi viaggi del sogno»: L’isola di Arturo di Elsa Morante di Silvia Ceracchini 111

Ciprì e Maresco: un cinico tuffo nel vuoto di Marilù Ursi 118

SCHEDE 125

Walter Siti, Il realismo è l’impossibile di Vito Santoro 126

Luisa Brancaccio, Stanno tutti bene tranne me di Mara Mundi 128

Michele Serra, Gli sdraiati di Alessandra Miola 130

Vincenzo Latronico, La mentalità dell’alveare di Vito Santoro 132

Matteo Marchesini, Atti Mancati di Domenico Calcaterra 134 Cosimo Argentina, Per sempre carnivori di Noemi Malerba 135 Giordano Tedoldi, I segnalati di Raffaello Palumbo Mosca 138 Tilde Pomes, Amore scarno di Luigi Abiusi 139

Domenico Di Palo, Le relazioni di Marco Ignazio De Santis 140

Libri di cinema a cura di Simona Specchia 142

La redazione segnala: 146 Carla Cirillo, 12. Racconti a Hopper Valeria Biuso, Maledettismo Adriano Sconocchia, Mindgap

4 narrazioni n.4

SPECIALE SATIRA COMICI RIVOLUZIONARI GUERRIERI narrazioni n.4 La satira in Italia

a cura di Giuseppe Del Curatolo e Vito Santoro

a satira è un’arte antichissima. Il sotto-diacono de Santeuil usava dire “castigat ridendo mores”, intendendo, con ciò, che alla pubblica opinione bisognava mo- Lstrare aspetti criticabili di persone o costumi mediante il riso, elemento rivelatore (e magari correttivo) dell’ingiustizia. La satira, si sa, non è una somma di battutacce. Anzi, di solito rivela agli occhi del lettore, in qualche tratto di matita e un paio di repliche, qualcosa che egli non aveva con- siderato, pur avendo a disposizione le stesse informazioni del satirico. Perché la satira vede cose che gli altri non vedono. E soprattutto (fatto da sempre assai affascinante) ride e fa ridere di cose tutt’altro che divertenti. Detto questo, sorge subito una domanda: come deve essere la satira? Obiettiva e imparziale, o faziosa e mirata? Elegante e di buon gusto o spietata e volgare? Se ne di- scute da sempre in Italia, specie da quando, a partire dall’anno di grazia 1977, nacquero riviste indimenticabili e con esse esplose una generazione di autori ‘cattivi’, cui si deve riconoscere la qualità rara di saper vivere emotivamente delle idee. È la loro emotività talora isterica, o maniaco-depressiva, o tragi-farsesca, e una certa litigiosità dell’anima che fa di questi maestri un fenomeno prezioso, un vero accadimento dell’intelligenza. Un patrimonio artistico-culturale da non perdere. Un riso amaro, che è sarcasmo, ironia, umorismo nero ma che esprime, attraverso l’arte, il disegno umoristico e lo scherzo, un atto di resistenza: in una società in cui – prendendosi molto sul serio – si fa a chi la spara più grossa, il fatto che ci sia ancora gente che continua a vedere e a far vedere l’ipocrisia dilagante e che ci ride sopra, mette di buon umore. In quei tempi d’oro, c’era qualcuno che se ne lagnava persino. «Troppa», «ripetitiva», «volgare». Appunto. La satira ha le sue leggi, la sua ars poetica. È ripetitiva? Ci fu un tempo, il tempo del sonetto, in cui la ripetizione era una glorio- sa figura retorica; bisognava ripetersi, e possibilmente quasi alla lettera. Ripetersi su di uno spazio breve non è una iterazione, è un ritmo, una monotonia calcolata. Prendendo, ad esempio, il corsivo, un genere naturalmente incline al satirico, il corsivo è per eccel- lenza ripetitivo, e deve esserlo. In più, a vantaggio della satira disegnata, c’è la rapidità: una battuta con disegno è una folgore. A leggere ci si mette più tempo. È volgare? La volgarità è la finezza della satira. La satira non vi può rinunciare. Certo, la volgarità disegnata ha le sue leggi, e non è opportuno violarle, anche quando della volgarità e della brutalità un satirico fa il suo stemma. È troppa? In questo momento non è affatto troppa; il problema è che la satira ha SPECIALE SATIRA oggi a che fare con una fantasia tematica e strutturale straordinaria. Dove va la satira

6 La satira in Italia se un Premier può scherzare sui sinistrati dell’Abruzzo “in campeggio” e può dare del “kapò” a un eurodeputato tedesco (l’ormai storico «la suggerirò per il ruolo di kapò»), mentre se è lei a farlo, viene presto additata come indegna ed immorale? Certo è che la satira non si arrende: se si cercano su internet parole chiave come Staino e Vauro, si trovano tutte le proteste, le accuse e gli scandali che i vignettisti hanno provocato con un semplice disegno e due battute. Si può parlare di libertà di stampa anche per i vignettisti satirici che pubblicano nei giornali? In principio sì: una vignetta è un commento disegnato, spesso molto più chiaro e incisivo di un lungo articolo di analisi. Eppure le vignette satiriche non sono esenti da scandali e denunce, né tanto meno dalla mannaia della censura. Per le ragioni storiche che dicevamo, in Italia la cultura della vignetta non è così sviluppata come in altri paesi e molti la prendono come un elemento puramente deco- rativo dell’articolo. Magari non la leggono neanche, ma forse è solo una questione di rinnovamento del ‘supporto’. Forse oggi non è più il tempo della rivista satirica, del periodico cartaceo a fumetti; è subentrata la stagione dei graphic novel ed è stata forse già superata pure questa: la sa- tira muta e il linguaggio dei fumetti si sta espandendo nel territorio della saggistica ed è ampiamente usato come strumento per il giornalismo, le inchieste e l’informazione alternativa. Nell’era di internet e delle news multimediali, i “vecchi” articoli, editoriali e repor- tage possono raccogliere la sfida dell’era digitale con l’aiuto del fumetto. È come se la vignetta ci dicesse: questa è la realtà. E la forza della satira e del giornalismo disegnato è proprio questa, quella di provocare il riso (o il sorriso) in una sola immagine. Il riso, si sa, fa bene alla salute, anche a quella di un paese. «Una risata li seppellirà» – speriamo – come dicevano nel ’77.

7 narrazioni n.4 PER UNA STORIA DELLA SATIRA IN ITALIA DAL 1977 A OGGI

di Giuseppe Del Curatolo

Quel formidabile 1977! L’avventura del «Male»

e si volesse fissare “l’anno zero” della satira italiana, quello che serve a dividere un “prima” da un “dopo”, quello dopo il quale “nulla sarebbe mai più stato lo stesso”, Ssenza dubbio quell’anno sarebbe il 1977. Ciò, tuttavia, non significa che fino al 1977 in Italia non fosse mai stata fatta della satira scritta disegnata, anzi. Fino ad allora l’Italia aveva prodotto testate storiche quali, tra le altre, «Il Becco Giallo», «Marc’Aure- lio», «Bertoldo», «Candido», che erano state veri e propri punti di rottura nel giornali- smo nazionale di tradizione e fondamentali officine per forgiare autori che si sarebbero rivelati fondamentali nel successivo panorama culturale, dal cinema,all’illustrazione, alla letteratura. Semplicemente, fino ad allora la satira era stata un’altra cosa. Il 1977, anno di fermento, eccitazione, effervescenza e grandi stimoli in molteplici situazioni, segnò, tra le altre cose, l’incontro da parte di un nutrito gruppo di giovani disegnatori che avevano delle cose da dire e volevano farlo attraverso un giornale, non necessariamente satirico, ma che fosse fatto da disegnatori e che si erano stufati di come venivano trattati dagli editori. Insomma, una roba da ’77 a tutti gli effetti. Tuttavia, la cosa più importante che capitò in quella circostanza fu, banalmente, che quegli autori si conobbero tra loro: si trattava di un ardito manipolo di giovani, agguer- riti e geniali disegnatori, tutti alle prime armi tranne uno, Pino Zac, al secolo Giuseppe Zaccaria, già attivo sia nel campo dell’illustrazione sia in quella della regia cinematogra- fica. Zac, che da qualche anno si era trasferito a Parigi, dove era entrato nello staff di «Le Canard Enchainé» (storico giornale satirico francese fondato nel 1915, e tuttora in edicola, peraltro completamente privo di pubblicità), fu richiamato in Italia dall’editore di un mensile di umorismo e costume chiamato «Il quaderno del Sale». Costui intendeva rinnovare la pubblicazione dandogli un taglio satirico e Zac ne fece un feroce quattor- dicinale al quale chiamò a collaborare quei nuovi autori che aveva appena conosciuto e che gli erano piaciuti. Nel frattempo Stefano Tamburini, un giovane romano appassionato di cultura pop- underground, stava ideando e realizzando, con accanto Massimo Mattioli, un’altra rivo- luzionaria pubblicazione satirica: «Cannibale», la cui prima uscita, che cominciava ec- centricamente con il numero 3, fu realizzata e distribuita nel Maggio 1977 da Stampa Alternativa, con vendita militante door-to-door. A seguire, un altrettanto folle numero: un doppio flip-book a quattro copertine nella stessa copia della rivista – ciascuna con un nu- mero diverso (4, 5, 6 e 7) – la cui lettura poteva cominciare da quattro parti differenti, sul quale fecero il loro ingresso Filippo Scòzzari, anima del gruppo bolognese «Traumfa- brik» che già pubblicava su «Linus», e Andrea Pazienza che in quel periodo sulle pagine di «Alter» stava facendo la cronaca in diretta del movimento del ’77 attraverso le tavole

8 La satira in Italia delle straordinarie avventure di Pentothal: per i quattro autori c’era una copertina a testa. Nel terzo numero, in realtà il primo ad uscire in edicola e pertanto chiamato “numero 0”, visto che in copertina non riportava alcuna numerazione, si completò la squadra di «Cannibale» con l’esordio di Tanino Liberatore, trascinato dal suo compagno di scuola Andrea Pazienza. In quell’uscita apparve per la prima volta Rank Xerox, il coatto sinte- tico di Tamburini, destinato successivamente a cambiare nome in Ranxerox per l’inter- vento legale dell’omonimo marchio di fotocopiatrici. La vita de «Il quaderno del Sale» fu molto difficile. Come tutti gli autori di satira, Pino Zac si rivelò ingovernabile e quando l’editore se ne accorse, si pentì della sua scelta, licenziandolo immediatamente e facendo uscire della seconda serie tre numeri appena, tra novembre e dicembre 1977. Di conseguenza, il parco autori della rivista rimase improvvisamente disoccupato e nuovamente senza giornale, ma non si diede per vinto: il gruppo andò personalmente, unito e compatto, dal distributore e disse che il giornale di quell’editore, con Pino Zac direttore, lo avrebbero fatto loro. Il distributore accettò e, davanti agli occhi increduli di quei disegnatori, che si erano autoproclamati editori, staccò subito l’assegno con l’an- ticipo sulla distribuzione: era fatta! Anzi no, mancava ancora una cosa: il nome di quel nuovo giornale che, per non sprecare mesi di lavoro, non doveva troppo discostarsi da «Il Sale», né nella grafica di testata né nel suono. Così, nella maniera più casuale possibile, nacque «Il Male». Quegli autori erano, tra gli altri, Sergio Angeletti detto “Angese”, Vincino Gallo, Vauro Senesi, Riccardo Man- nelli, Roberto Perini, Jacopo Fo (che operava con lo pseudonimo di Giovanni Karen), Sergio Saviane, Enzo Sferra, Cinzia Leone, Francesco Cascioli, Angelo Pasquini, Alain Denis e qualcun altro. Il primo numero de «Il Male», quattordicinale, che sarebbe poi diventato settimanale, uscì nel febbraio 1978, con direttore responsabile Ubaldo Nicola, cui a breve sarebbe successo Calogero Venezia. Al nucleo fondatore si aggiunsero molto presto Vincenzo Sparagna, che proveniva da «Il Manifesto» e firmava gli editoriali con lo pseudonimo “Tersite”, e quel geniale gruppo di autori inizialmente accreditato sul colo- phon della rivista come “colonna romana di Cannibale” di cui si è detto prima: Pazienza, Scòzzari, Tamburini, Liberatore e Mattioli. D’altro canto, la distribuzione in edicola di «Cannibale», con rese imbarazzanti, si stava rivelando un suicidio, ma i cinque brillanti autori (imprenditori sprovveduti che rifiutavano qualsiasi forma di pubblicità) non avevano intenzione di abbandonare il progetto e cercarono sostegno economico presso «Il Male» che, in effetti, in cambio della loro partecipazione sul giornale, permise a «Cannibale» di proseguire il proprio cammino, benché con uscite a cadenza aperiodica, fino a quando proprio non si riuscì ad evitarne la chiusura alla nona uscita, dedicata ad autori underground americani. Tornando a «Il Male», la squadra crebbe molto: vi entrarono interessantissimi autori e collaboratori quali, tra gli altri, Bruno D’Alfonso, Giuliano Rossetti, Mario Canale, Luca Scodellari, Jiga Melik, Stefano Benni, Piero Lo Sardo, Carlo Cagni e tanti altri; ol- tre a una legione straniera di tutto rispetto che comprendeva Reiser, Willem, Yves Got, Wolinski, Topor, Tom Johnston e Oski. La vera forza era la redazione che dimostrò come un giornale di satira fosse un tavolo attorno al quale delle persone buttavano giù qualunque idea passasse loro per la testa. Da quel confronto autostimolante, da quella

9 narrazioni n.4 tempesta di idee doveva per forza venire fuori qualcosa di buono: si trattava semplice- mente di scegliere le cose migliori. Al «Male» la capacità di invenzione era tangibile. Ogni settimana si inventava un gior- nale nuovo, il quale, benché a vederlo sembrasse sempre lo stesso, era frutto di una idea- zione diversa di settimana in settimana e di una capacità unica di interagire sia dentro lo scritto, sia dentro la vignetta: questo faceva sì che ogni numero fosse unico. Allo stesso tempo «Il Male» era un posto aperto, ricco di collaboratori esterni che, insieme agli au- tori, recitavano, si travestivano, creavano finti eventi, fotoromanzi. Insomma, giocavano. «Il Male», una delle più trasgressive riviste della nostra storia editoriale, realizzato da autori che solo apparentemente sembravano cinici, ma erano semplicemente sostenitori della libertà di linguaggio e, senza alcun rispetto per niente, senza porsi dei freni, vole- vano infrangere sempre e comunque ogni regola imposta ed ogni dogma, ricorrendo anche al linguaggio più turpe e volgare e alla pornografia. Tutto ciò provocò centinaia di denunce per oltraggio, continui sequestri e un conse- guente aumento della tiratura e delle vendite per la pubblicità che ne derivava ogni volta che il giornale balzava alla ribalta della cronaca. L’attitudine a divertirsi e sbeffeggiare la realtà trovò il suo apice nei “falsi giornali”, che furono il capolavoro de «Il Male»: il gior- nale era costituito da fogli che, piegati in due, formavano due facciate che fungevano da copertine, ma, quando lo si apriva, il paginone centrale diventava la sua prima pagina; venne fuori l’idea di utilizzare questo paginone come prima pagina di falsi quotidiani di analogo formato, come «La Repubblica», «Il Giorno», «La Stampa» e «Paese Sera» e perché il gioco del falso riuscisse perfettamente, la redazione non ne imitava solo la testata ma anche la grafica, lo spirito, la tendenza politica, lo stile, mettendo a nudo il meccanismo delle notizie e svelando come si potesse costruire l’informazione. I falsi furono la chiave del successo de «Il Male» soprattutto perché all’epoca la co- municazione passava per le edicole, che davano le notizie con l’esposizione delle prime pagine dei quotidiani e la confusione che «Il Male» generò nel mondo dell’informazione fu unica; mostrare le false prime pagine divenne un gioco interattivo: il giornale giocava e gli edicolanti, la gente negli uffici, negli autobus continuava il gioco. In questo, «Il Male» ebbe la capacità di essere sia satira popolare sia di ricerca. I falsi erano ricerca sull’informazione e senza che nessuno se ne rendesse conto, a cominciare dagli stessi redattori, dettero delle bastonate talmente forti alla stampa italiana che la tra- sformarono moltissimo: da allora tutti i giornali hanno imparato ad usare gli strumenti satirici. Dopo 200 numeri e alterne fortune, tra La misura è colma, Tognazzi capo delle Brigate Rosse, Lo Stato si è estinto, la cerimonia di inaugurazione del busto al Pincio di Giulio Andreotti alla presenza di Roberto Benigni, i finti assegni della Banca Romana – che non esisteva più – firmati da Caltagirone, l’annullamento dei Mondiali del ’78, la pub- blicazione di indirizzi e numeri di telefono privati di numerose personalità della politica, della cultura e dello spettacolo e la falsa Pravda distribuita in Russia, beffando il KGB, durante le Olimpiadi di Mosca (solo per citare alcune tra le “imprese” più celebri e riu- scite), «Il Male» (che nel 1979 fu diretto da Giorgio Forattini, autore formatosi su «Paese Sera» ed esploso su «La Repubblica») cessò le pubblicazioni nel 1982.

10 La satira in Italia A fronte della sua importanza storica e del ricordo che se ne ha, «Il Male» durò appena quattro anni, durante i quali, tuttavia, coloro che vi avevano partecipato erano riusciti in un’impresa straordinaria: avevano vissuto un sogno partendo da zero; da sem- plici disegnatori erano diventati editori che rischiavano in proprio, senza controlli né censure e avevano avuto la possibilità di fare esattamente il giornale che volevano, senza dover cercare la minima complicità con i lettori, nei confronti dei quali, anzi, erano stati sempre perfidi.

«Tutto ciò che il buon senso sconsiglia in una rivista formato famiglia»: «Frigidaire»

Per «la Repubblica» nel 1978 Forattini creò e diresse “Satyricon”, il primo inserto di un quotidiano dedicato totalmente alla satira, su cui trovarono spazio vecchi e nuovi au- tori, in molti casi al debutto, come Sergio Staino, Ellekappa, Stefano Disegni, Massimo Caviglia, Giuliano, Angese, Riccardo Mannelli, Guido Buzzelli, Vauro, Dariush, Emilio Giannelli, Cemak, Bruno D’Alfonso, Ro Marcenaro, Giorgio Cavallo, Massimo Bucchi, Ciaci El Kinder, Contemori, Nico Pillinini, fino alla sua chiusura nel 1991. Anche il quotidiano «Lotta Continua» nel 1978 pubblicò un inserto satirico settimanale (in realtà aperiodico per i contrasti che questo foglio suscitava all’interno della redazione), curato e diretto da Vincino: «L’Avventurista», che coinvolse tra gli altri Jacopo Fo, Stefano Tamburini, Massimo Mattioli, Filippo Scòzzari, Alain Denis, Cinzia Leone. La qualità de «L’Avventurista» fu sempre di ottimo livello. Voleva deliberatamente fare una satira sovversiva e ci riuscì, ma il giornale non ebbe fortuna e nello stesso anno chiuse con appena dodici numeri usciti. Sempre in quello stesso periodo «Ca Balà», una rivista umoristica toscana nata nel 1971, ispirata alle francesi «Charlie Hebdo» e «Hara Kiri» e realizzata fino a quel mo- mento in maniera quasi amatoriale, incominciò ad allontanarsi dal mondo underground che la caratterizzava, per emanciparsi professionalmente e avvicinarsi più direttamente alla satira, volendo ripetere il prototipo (e il successo) de «Il Male», che, viceversa, alla sua nascita aveva avuto proprio «Ca Balà» tra i suoi modelli di ispirazione. Ma copiare «Il Male» con numeri scandalistici, irriverenti, spregiudicati e inevitabil- mente scurrili e osceni, non giovò mai alla rivista che perse i suoi iniziali lettori rimasti spiazzati dal cambiamento e all’inizio del 1980 chiuse definitivamente, seppure “satiri- camente” col botto: l’ultimo numero, il decimo della nuova serie, fu l’unico nella storia della rivista a venire sequestrato per aver allegato un’ostia “d’emergenza” contro la be- stemmia; ne seguì un lungo processo, dal quale, in Cassazione, «Ca Balà» venne assolto ma che sancì di fatto la fine del giornale. Alcuni critici riconoscono in «Ca Balà» – che comunque precede, nella sua fondazione, il 1977 – la madre di tutte le esperienze di satira italiana che seguirono. Tornando ai “cannibali” romani, il gruppo con la chiusura della rivista non gettò la spugna e i cinque autori Stefano Tamburini, Filippo Scòzzari, Andrea Pazienza, Massi- mo Mattioli e Tanino Liberatore insieme a Vincenzo Sparagna fondarono nel 1980 la

11 narrazioni n.4 Primo Carnera s.r.l. e realizzarono la rivista «Frigidaire», una testata satirica basata su un concetto ed un’espressione editoriale del tutto nuovi, fatta di fumetti, racconti e repor- tage sensazionali. Su «Frigidaire», oltre al nucleo leader, nel corso degli anni si avvicen- darono molti altri autori, spesso al debutto: Giuseppe Palumbo, Francesca Ghermandi, Massimo Giacon, Silvio Cadelo, i “valvolinici” Igort, Lorenzo Mattotti, Marcello Jori e Giorgio Carpinteri, José Muñoz e Carlos Sampayo, Aldo Di Domenico, Ugo Delucchi, Giovanni “Razor” Bruzzo, Pablo Echaurren, Giorgio Franzaroli, Bicio Fabbri, Pino Creanza, Sebastiano Vilella, Massimo Semerano, il prof. Bad Trip, Hurricane Ivan, Carlo Pasquini, Mario Pischedda e molti altri, compresa una breve partecipazione di Magnus. Caratterizzata da una fortissima innovazione grafica (il progetto, che sarà poi ripetu- tamente plagiato, era di Stefano Tamburini), fumetti rimasti nella storia con personaggi quali Zanardi, Ranxerox, Suor Dentona, Dottor Gek, Snake Agent, Ramarro, Joe Ga- laxy o Squeak the Mouse, inchieste da giornalismo d’assalto, battaglie sociali, provoca- zioni satiriche e non solo (come quando al giornale fu allegato un sacchettino di semi di marijuana che in realtà era tè) e storiche recensioni musicali a cura di Red Vinyle e, sopravvissuta alla tragica fine delle due firme storiche Tamburini e Pazienza, la rivista nel corso degli anni visse alterne fortune, debiti e difficoltà finanziarie, cambi di sede, mancati finanziamenti, disparate periodicità e formati editoriali diversi: sospese più vol- te le sue pubblicazioni per brevi periodi, per un po’ fu pure supplemento del quotidiano «Liberazione» ma, pur passando da rivista in carta patinata all’attuale “edizione popolare d’élite” in formato tabloid, stoicamente e sempre guidata da Vincenzo Sparagna, con- tinua a combattere a testa alta, ancora oggi, tra mille difficoltà, l’avventura dell’edicola. «Il Clandestino», mensile fatto in casa, senza redazione, senza stipendi, senza capi- servizi e note spese, uscì come numero zero allegato a «L’Espresso» nel 1983, ideato e diretto da Vincino e Sergio Saviane, in previsione di farne un periodico che, malgrado l’attenzione riscossa, inizialmente non si concretizzò. Sempre Vincino nello stesso anno diede vita a «Ottovolante», il primo esperimento di giornale di satira con uscita quotidiana, inserto di «Paese Sera»; uscì per appena dieci numeri, in occasione del Festival della Satira dell’Estate Romana ed ebbe i contributi di diversi autori come Andrea Pazienza, Guido Buzzelli, Roland Topor, Jean-Marc Reiser, Jacopo Fo e Willem, ma rimase un esperimento, così come «Radicalchic», numero unico uscito nel 1984, ancora diretto da Vincino, spalleggiato da Roberto Perini, Giuliano, Carlo Cagni, Filippo Scòzzari, Enzo Sferra, Jacopo Fo e Angelo Pasquini.

«L’Unità» balla il «Tango»

Nel 1985, visto il successo che la rivista stava ottenendo, a «Frigidaire» si affiancarono “Freezer”, su cui Vincenzo Sparagna e Andrea Pazienza teorizzarono il movimento del Maivismo (cui oggi è consacrata la Repubblica di Frigolandia, terra di Frigidaire in Umbria, città immaginaria dell’Arte Maivista, in cui vive lo stesso Sparagna) e «Tempi Supplementari», rivista talent-scout ancora su progetto di Tamburini. Entrambe le testa- te chiusero l’anno dopo, nel 1986, anno in cui nacque «Tango», il primo inserto satirico

12 La satira in Italia settimanale de «L’Unità», ideato da Sergio Staino, che in quel periodo era diventato molto popolare per aver creato il personaggio di Bobo, attivista militante, le cui vicende introspettive e familiari venivano pubblicate da un po’ di tempo su «Linus», lanciate entusiasticamente dal direttore della rivista Oreste del Buono. L’importanza di «Tango» nella storia della satira italiana, oltre per il grande livello di collaboratori – tra gli altri furono regolarmente pubblicati disegni di Andrea Pazienza, Altan, Ellekappa, Angese, Roberto Perini, Vincino, Giuliano, Milo Manara, Enzo Luna- ri, Marco Scalia, Wolinski, Pablo Echaurren e testi di Gino e Michele, David Riondino, Michele Serra, Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Jacopo Fo – fu quello di aver costituito la prima prova di satira “dall’interno” da parte di un organo politico all’epoca chiuso, rigido e austero come il Partito Comunista Italiano, che proprio dalle pagine del suo stesso quotidiano divenne il principale bersaglio dell’inserto satirico. Quella di «Tango», pertanto, non fu un’impresa facile: i più rigidi lettori de «L’Unità» non erano preparati a una tale forma di revisionismo e fecero rimbalzare ogni inquie- tudine sulla redazione che puntualmente si infuriava con Staino & Co. su tutto, per esempio sul reportage dei funerali del compagno Guttuso realizzato da Vincino. Pro- babilmente «Tango» avrebbe dovuto svincolarsi da «L’Unità» per evitare ogni pressione e per andare incontro ad un pubblico più vasto rispetto alla nicchia dei lettori del quo- tidiano fondato da Gramsci, che pure avrebbe voluto l’inserto (e lo dimostrava anche il fatto che la Rai realizzò “Teletango”, la versione televisiva della rivista, o la raccolta di figurine di “Tango”), ma che si rifiutava di comprare il giornale che lo ospitava. Alla fine, complice anche il fatto che Staino volle dedicarsi al cinema per debuttare nelle nuove vesti di regista, nel 1988, dopo 127 uscite, «Tango» chiuse. In contemporanea con «Tango», nel 1987, al grido di “Il ritorno del Male!”, in edico- la arrivò «Zut», settimanale patinato di satira diretto da Vincino, nuovamente in coppia con Sergio Saviane. È bene precisare che nel 1977 era stato pubblicato un “foglio di agitazione dadaista” che pure si chiamava «Zut», i cui redattori erano Mario Canale e Angelo Pasquini, futuri scrittori de «Il Male» e di questo nuovo «Zut»; quella del ’77 era in un certo senso satira, ma satira scritta e a Pasquini, accusato ingiustamente di qualcosa di molto vicino al terrorismo, costò persino qualche mese di galera. Tornando a «Zut» ‘87, in redazione c’era gente come Andrea Pazienza, Sergio Staino, Angese, Stefano Disegni, Vauro, Giuliano, Riccardo Mannelli, Roberto Perini, Pablo Echaurren, Guido Buzzelli, Jacopo Fo, Ugo Delucchi, Marco Scalia e, appunto, Canale e Pasquini. Con autori del genere era garantito un continuo rimbalzo di idee valide, che difatti non mancarono; forse per i tempi nuovi, quei satirici si erano fatti un po’ meno aggressivi e “kamikaze” di un decennio prima, ma gli sberleffi non mancarono e su «Zut» furono pubblicate diverse perle tra vignette, articoli e fotoromanzi (come quello in cui Vincino interpretò Bettino Craxi al fianco di Maurizio Ferrini e Paolo Hendel). Sponsorizzato esplicitamente da Benetton, a cui veniva dedicata ad ogni uscita una vignetta pubblicitaria realizzata a rotazione da uno degli autori del giornale, «Zut» aveva un editore legato in qualche modo a «L’Espresso», e ciò costituì il limite del periodico: quando il giornale pubblicò le foto proibite di Eugenio Scalfari “beccato” con la sua amante segreta, l’editore si imbestialì e cacciò Vincino dalla direzione; dopo una pausa

13 narrazioni n.4 forzata «Zut» riprese le pubblicazioni sotto la direzione di Angelo Pasquini, ma le ven- dite crollarono e dopo altri quattro numeri chiuse nel 1988. Ancora grazie ad uno sponsor – un’agenzia viaggi che ogni mese offriva agli autori viaggi all’estero per permettere loro di realizzare dei reportage sotto forma di storia a fumetti da pubblicare – nel 1988 Angese inventò «Avaj» mini-rivista dal piccolo formato “striscia” allegato a «Linus», in quegli anni sempre più “implicato” nella satira sotto la direzione di Fulvia Serra. «Avaj» era l’acronimo di Angese, Vincino, Andrea (Pazienza) e Jacopo (Fo), i quattro esecutori, cui in corso d’opera si affiancarono Roberto Perini e Cinzia Leone. Dopo dieci uscite, anche a causa dell’improvvisa, sconvolgente morte di Pazienza, le pubblicazioni di «Avaj» cessarono, mentre in occasione delle amministrative di Roma del 1989, Vincino diede vita a un interessante numero unico, chiamato “Aglio, Oglio e Campidoglio”, distribuito solo a Roma, cui parteciparono Angese, Vauro, Sergio Staino, Disegni & Caviglia, Jacopo Fo, Roberto Perini, Marco Scalia ed altri.

«Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti»: arriva «Cuore»

Dalle ceneri di «Tango», nel 1989, nacque «Cuore», che iniziò le pubblicazioni a sua volta come inserto satirico de «L’Unità», tre mesi dopo la fine del foglio precedente. L’artefice di «Cuore» fu Michele Serra, giornalista quarantenne de «L’Unità», alla sua prima esperienza come direttore di testata, principale risorsa del giornale, affiancato da due suoi ex-colleghi di redazione Andrea Aloi e Piergiorgio Paterlini e da tanti collabo- ratori, tra i quali si ricordano: Altan, Sergio Staino, Vauro, Vincino, Angese, Ellekappa, Roberto Perini, Disegni & Caviglia, Danilo Maramotti, , Gianni Allegra, Marco Sca- lia, i Marfagno (alias Roberto Marcanti e Francesco Fagnani), Ziche & Minoggio, Ciaci El Kinder, Pat Carra, Beppe Mora, Renato Calligaro, Enzo Lunari, Bruno D’Alfonso, Francesco Cascioli, Gialappa’s Band, Beppe Grillo, Stefano Benni, Domenico Starnone, Gino e Michele, Lia Celi, Pier Maria Romani, Alessandro Robecchi, Luca Bottura, Enri- co Caria, Enzo Costa, Majid Valcarenghi, Daria Bignardi, Fabio Fazio, Patrizio Roversi, Cirri & Ferrentino. Dopo due anni da supplemento e un centinaio di numeri usciti, più l’uscita quoti- diana durante i giorni dei Mondiali di calcio Italia ’90, nel 1991 quasi in contemporanea con la fine del PCI e l’inizio del PDS, si determinò la prima svolta manageriale nella sto- ria della satira: fu costituita la Cuore Corporation, società a responsabilità limitata con tre soci, ovvero la casa editrice de «l’Unità», che restò proprietaria del marchio Cuore, la casa editrice Feltrinelli e un navigato top manager della Mondadori in missione “in proprio” (se l’avesse fatto in quanto Mondadori «Cuore» sarebbe apparso “comprato” e privato quindi della sua credibilità), nominato amministratore unico delegato dagli altri soci. «Cuore» intraprese così il percorso indipendente dell’edicola, diventando “settima- nale di resistenza umana”, definendosi di parte ma non di partito e rifiutando qualunque tipo di controllo e di subordinazione, persino qualunque pubblicità. Libertà assoluta. Il coraggio fu premiato e, a sorpresa, il nuovo corso di «Cuore» si trasformò in un trionfo per Cuore Corporation. I lettori, per la maggior parte giovani, si affezionarono

14 La satira in Italia in fretta tanto alle vignette feroci, agli articoli pungenti e ai titoli in prima pagina – tra i tanti, indimenticabili furono Hanno la faccia come il culo, Scatta l’ora legale, panico tra i sociali- sti, Fanno i comunisti, e poi vanno a fare la settimana bianca, Aiuta lo Stato: uccidi un pensionato o Salvo Lima come John Lennon, ucciso da un fan impazzito – per cui settimanalmente cresceva una febbrile attesa, quanto alle rubriche fisse cui erano chiamati a collaborare in prima persona, come “Il giudizio universale” dove si votavano le tre cose per cui valesse la pena vivere, “Botteghe oscure” che pubblicava delle più stupide insegne dei negozi, “La Posta del Cuore”, “E chi se ne frega”, “Niente resterà impunito” o la premonitrice “Auto-intercettazioni”, arrivando a radunarsi in massa durante l’estate alle feste della rivista (per la verità, nate già con «Tango») che si tenevano a Montecchio nell’Emilia. La redazione si trasferì da Milano a Bologna, il giornale si sdoppiò, inserendo l’inser- to politicamente corretto «Garrone». Le querele, in gran parte provenienti dal mondo cattolico, non mancarono e il business di Cuore Corporation continuò alla grande con la vendita di raccolte cartonate dei numeri pubblicati e di merchandising vario: gadget, magliette, diari scolastici, quaderni, spillette con l’inconfondibile testata rossa su fondo verde. Niente di tutto ciò era mai successo nel mondo della satira, né era stato nemmeno lontanamente sognato; ma dirigere un giornale di satira è faticosissimo: incombe su tutti il rischio dello stress, della disaffezione, della perduta tranquillità, del divertimento che scema. Dopo un po’ Michele Serra si stancò di fare il direttore di «Cuore» e lasciò. Cuore Corporation non si perse d’animo e, ritenendo che un giornale di satira potesse essere diretto non necessariamente da un autore satirico, volle dare un taglio più giornalistico al settimanale e passò la direzione a Claudio Sabelli Fioretti, allora direttore di «Sette», il magazine de «Il Corriere della Sera». Il nuovo corso impostato da Sabelli Fioretti ebbe una condotta molto diversa, con una linea editoriale simile a «Le Canard Enchainé» e l’introduzione di sorpresine-regalo allegate al giornale. Ma l’operazione non riscosse grossi favori: le vendite calarono sen- sibilmente e fecero sì che la direzione passasse nelle mani di Andrea Aloi, che guidò il giornale fino alla sua chiusura nel 1996, dopo quasi 300 uscite, con un numero speciale nuovamente allegato a «L’Unità», nel formato da cui tutto aveva avuto inizio, dal titolo di testata «Muore». Michele Serra commentò la chiusura di «Cuore» definendo la stampa satirica «come lo yogurt: con la scadenza sull’etichetta già alla nascita». In seguito allo scioglimento di Cuore Corporation e alla vendita della testata alla Aspirine, management di Elio e le Storie Tese, «Cuore» tornò dal 1999 al 2001 con redazione a Roma per un’altra sessan- tina di numeri sotto la direzione di Stefano Disegni prima e Paolo Aleandri dopo, con i supplementi «Cuore cult» e «Forza Gnocca» e ancora – ultima incarnazione patinata e coloratissima – come «Il Cuore», diretto da Riccardo Mannelli, sempre nel 2001 per soli otto numeri. Tuttavia, tentativi estremi di rianimazione a parte, la stagione di «Cuore» fu molto felice e senza dubbio rimane l’esempio di satira in Italia se non più riuscito, comunque più longevo e, in quanto meno sperimentale, decisamente più godibile per i lettori, che venivano resi partecipi e complici nella realizzazione del giornale, anziché estranei e maltrattati come faceva invece «Il Male».

15 narrazioni n.4 Rispetto a «Tango», oltre che a tutti i giornali di satira precedenti, «Cuore» fu un pro- getto molto diverso, realizzato da un gruppo di autori prima che per denaro, per gioco, piacere e convinzione politica, che da subito si misero alla ricerca di nuovi filoni satirici. Dalla satira cinica e fastidiosa de «Il Male» si passò a una satira goliardica, pur altrettanto irriverente, spietata, graffiante ed efficace, che raccontava il mondo del “rampantismo” di quel periodo. Non a caso, quando quell’epoca finì, anche «Cuore» irrimediabilmente cessò le pubblicazioni. Ancora una volta aveva vinto la cronaca alternativa: gli anni “patinati” e colorati, come quelli in cui aveva spadroneggiato il settimanale di resistenza umana, erano stati raccontati in maniera diversa da un tabloid stampato rosa e nero su cartaccia verdino-scolorita. Dal craxismo rampante della fine degli anni ’80 in cui era nato, prima della caduta del Muro di Berlino, di Tangentopoli, della Lega e del berlusconismo, «Cuore» rifiutò ogni appartenenza partitica (da cui anche la scelta di allontanarsi da «L’Unità») e sviluppò una sua idea di resistenza umana al sistema politico del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), alla guerra in Iraq, alla mafia e i suoi tragici attentati, allo stragismo misterioso, al sistema corrotto e arraffista, all’ignoranza e alla volgarità arricchita, con un’anima sociale e co- mica, vitale e mortale allo stesso tempo; un cuore, appunto, collocato al centro del cor- po malato – eticamente e culturalmente – dell’Italia. Ma forse il pericolo più grave per gli autori di satira, ciò che devono ripudiare più di ogni altra cosa, è proprio il moralismo. Vincenzo Sparagna, intanto, non se ne stava con le mani in mano: approfittando del fatto che, fin dalla sua nascita, «La Repubblica» non usciva di lunedì, probabilmente per non dedicarsi al carosello calcistico post-domenicale, nel 1990, sul modello dei falsi de «Il Male» inventò «Il Lunedì della Repubblica», il primo giornale vero/falso. Inutile dire quanto la cosa dette fastidio al gruppo Repubblica-L’Espresso, che pur di evitare la permanenza editoriale di questo giornale, fu costretto ad acquistare da Sparagna la sua stessa testata nel 1991, facendone cessare di fatto le pubblicazioni. Con la decisione di uscire anche di lunedì, «La Repubblica» utilizzò concretamente la testata registrata da Sparagna, che era così riuscito a vendere a Scalfari ciò che in qualche modo già gli apparteneva. Nel 1994, invece, Vincino realizzò due grandi ritorni. Il primo fu quello de «Il Clan- destino», ancora una volta insieme a Sergio Saviane: dopo il tentativo fatto anni addietro come supplemento de «L’Espresso», questa volta uscì come mensile autofinanziato che privilegiava soprattutto il disegno. Non mancavano i testi, ma era soprattutto la satira per immagini che la faceva da padrone, in contrapposizione a quanto stava facendo il «Cuore» di Sabelli Fioretti, ma fu un fallimento economico che durò sette numeri. Il secondo ritorno che Vincino realizzò quell’anno, fu quello de «Il Male» con uno slogan che parafrasava Berlusconi: «il Male scende in campo. Porca Italia!». Malgrado una discreta attesa creata dalla stampa nazionale, il numero zero deluse le aspettative. Seguì uno speciale con la riscrittura illustrata della Costituzione Italiana, ma – almeno inizialmente – non vi fu alcun seguito. Anche Vincenzo Sparagna ci volle riprovare e l’anno dopo, assieme a Filippo Scòz- zari che era rimasto suo unico socio nella Primo Carnera, dette vita al primo corso de «Il Nuovo Male», che però sopravvisse solo alcuni mesi. Dopo una lunga gestazione condotta durante i corsi estivi che teneva in Umbria presso “la Libera Università di

16 La satira in Italia Alcatraz” di Jacopo Fo e la sua scuola di Giornalismo Disegnato di Perugia, Angese nel 1996 riuscì a realizzare il suo progetto editoriale più ambizioso, «L’Eco della Carogna»: si trattava di un tipo di satira nuova, una forma di fumetto legato più che altro al giorna- lismo d’inchiesta, alle indagini, alle denunce di tutto quel che non andava bene, piuttosto che alle vignette con battute. A collaborare al giornale, pubblicato dalla casa editrice Hobby & Work specializzata in fascicoli a dispense e collezioni, vi era una squadra di autori noti come Sergio Staino, Filippo Scòzzari, Jacopo Fo, Jiga Melik, Vincino, Danilo Maramotti, Cinzia Leone, Giu- liano, Roberto Perini e qualche giovane firma proveniente dagli stessi corsi, tra cui Paolo Tarabocchia, Roberto Bargagna, Sara Migneco, Roberto Battestini. Il debutto fu trionfale. Da una indagine partita per scommessa, «L’Eco della Caro- gna» denunciò che “il gratta e vinci è tossico da morire”: su tutta la stampa la notizia rimbalzò e il primo numero del giornale (che aveva una vera boccetta di colonia allegata come usavano molte riviste in quel periodo dal significativo nome “Eau de Carogne”) vendette bene. Successivamente però le vendite calarono e la Hobby & Work, abituata a ben altro tipo di pubblicazioni e dati di vendite, nel 1997 chiuse il giornale. Sempre nel 1997 Claudio Sabelli Fioretti ritornò a dirigere una testata satirica: «Za- pata», il giornale che non si dà pace. Malgrado nel suo organico fossero coinvolti au- tori come Altan, Gino & Michele, Enzo Lunari, Cirri & Ferrentino, Giorgio Lauro, un ancora sconosciuto Marco Travaglio, Danilo Maramotti, Gipi, Ziche & Minoggio, Migneco & Amlo, Gianni Allegra e tanti altri, il giornale non riuscì ad andare oltre il primo numero. Nel 1997 Vauro e Vincino realizzarono «Boxer», nato come supplemento a «Il Ma- nifesto» fino al 1998, più qualche altro numero realizzato in proprio a causa di problemi di incompatibilità con scelte editoriali e lettori del quotidiano comunista; nel giornale le firme importanti c’erano tutte: Altan, Sergio Staino, Riccardo Mannelli, Angese, Ro- berto Perini, Danilo Maramotti, Cinzia Leone, Ciaci El Kinder, Gipi, Stefano Disegni e tanti altri, ma evidentemente lo sforzo economico era troppo elevato e «Boxer» non sopravvisse, realizzando, come canto del cigno l’albetto “Il libretto rosso di D’Alemao” allegato a «Panorama». Subito dopo seguì «XL», una rivista costituita da un unico foglio ripiegato su se stesso, che aperto raggiungeva un formato – appunto – “extralarge”, uscito per qualche numero nel 1999 e diretto ancora da Vauro e Vincino, con Sergio Saviane direttore re- sponsabile e lo stesso cast dell’esperienza precedente. Il tentativo successivo si chiamò «Malox», mensile satirico fatto in casa e distribuito soltanto nel Nord-Est, da Trento a Bologna dal 2000 al 2001 per un totale di 15 numeri; artefici furono i “condirettori” Sergio Saviane, Beppe Mora e Vincino con i collaboratori Danilo Maramotti, Ciaci El Kinder, Bicio Fabbri, Giorgio Franzaroli, Maurizio Minoggio e altri.

La satira negli anni Zero

Dal 2001 al 2002, con cinque uscite all’attivo, Vincenzo Sparagna confezionò «La Picco- la Unità», il secondo giornale vero/falso dopo «Il Lunedì della Repubblica», sul quale si

17 narrazioni n.4 firmava Vincenzino Gramsci e a cui presero parte Filippo Scòzzari, Giuliano, Ugo De- lucchi, Giorgio Franzaroli. Ma il periodo non era di quelli buoni, il pubblico era distratto e annoiato e anche in questo caso non rispose: tempi duri per la satira! In un clima del genere, molto timidamente e sostenuto dalla rivista di fumetti «To- tem», nel 2004 si affacciò in edicola «Par Condicio», uno strano tabloid flip-book dalla duplice versione: da una parte “settimanale di satira del popolo”, con Che Guevara in bikini e gli interventi di autori dichiaratamente connotati “a sinistra”; dall’altra parte “settimanale di virile satira”, con il Duce in topless e disegnatori, se non proprio “di destra”, certamente più neutri. Al di là della trovata – e della perplessità che resta alla domanda: può realmente esistere una satira di destra? – il merito di «Par Condicio» fu quello di lanciare nuovi autori che si affiancarono ai soliti noti, per cui oltre a Vauro, Vincino, Danilo Maramot- ti, Massimo Caviglia, Giorgio Franzaroli, Bicio Fabbri, Beppe Mora, Ciaci el Kinder ed altri, c’erano anche Krancic, Nico Pillinini, Lele Corvi, Buttafuoco, Walter Leoni, Vighi, Mauro Biani, Carlo Gubitosa, Frago & Mazza, Alberto Corradi, Simone Frosini. Fu una miccia di nuovo entusiasmo, ma non si andò oltre il 2005. Con uno spirito fresco e con rinnovato interesse satirico, dal 2005 al 2007, a Paler- mo, Giampiero Caldarella, grazie agli sforzi della sua associazione culturale “Scomuni- cazione” mise in piedi «Pizzino», un foglio-poster piegato su se stesso molto innovati- vo. La rivista mensile, distribuita artigianalmente, per corrispondenza o in alcuni punti vendita, ebbe tra i suoi collaboratori Mauro Biani, Massimo Bucchi, Giorgio Franzaroli, Kanjano, Marco Pinna, e la partecipazione di Vincino e Sergio Staino. Proprio Staino, quando fu chiamato nel 2007 da «L’Unità» – dove realizzava la vi- gnetta di prima pagina – per riprogettare e dirigere un nuovo giornale satirico da allegare al quotidiano come ai tempi del suo «Tango» e di «Cuore», pensò subito di coinvolgere Caldarella e la redazione di «Pizzino», ritenendoli la più brillante delle nuove espressioni satiriche, e così nacque «M». Assieme a Sergio Staino e Caldarella, collaboratori di «M» furono Altan, Ellekappa, Vincino, Danilo Maramotti, Stefano Disegni, Paolo Hendel, Milo Manara, Giuliano, Riccardo Mannelli, Roberto Perini, Silvia Ziche, Gianni Alle- gra, Ugo Delucchi, Giorgio Franzaroli, Bicio Fabbri, Franco Bruna, Roberto Bargagna, Mauro Biani, Cemak, Mario Natangelo, Johnny Palomba, Nico Pillinini, Kanjano, Gian- ni Audisio, Bertolotti & De Pirro, Lele Corvi, Frago & Mazza, Simone Frosini, Carlo Gubitosa, Origone, Alberto Patrucco, Beppe Mora, Marco Pinna, Marco Tonus, Pietro Vanessi e tanti altri, all’insegna di un vero e proprio ricambio generazionale tra le firme del mondo della satira. Le scelte economiche ed editoriali de «L’Unità», tuttavia, fecero sì che l’esperienza dell’inserto satirico «M» si concludesse nel 2009, quando a Staino (che fino all’ultimo aveva creduto sia nell’impresa sia in quel manipolo di giovani autori (accanto a quelli navigati) fu comunicata in fretta e furia dalla proprietà del giornale la chiusura del sup- plemento: di fronte a difficoltà evidenti, si sacrificava la satira, il laboratorio di idee, il linguaggio di opposizione al potere e di svelamento delle contraddizioni, merce rarissi- ma in un clima di appiattimento generalizzato. Contemporaneamente, anche «Liberazione» realizzava un suo supplemento satirico,

18 La satira in Italia «Paparazzin», costruito da interessanti autori capeggiati da Mauro Biani, quali Marco Scalia, Makkox, Giorgio Franzaroli, Roberto Grassilli, Kanjano, Marco Pinna, Lele Cor- vi, Frago & Mazza, Mario Natangelo, Bertolotti & De Pirro. Anche stavolta le difficoltà finanziarie del giornale “ammiraglia” costrinsero «Paparazzin» a sopravvivere soltanto dal 2007 al 2008. L’esperienza satirica mutò a quel punto in «Mamma!», la più fresca espressione rea- lizzata al momento. La rivista, nata nel 2009 con il numero 3 per omaggiare «Cannibale», con direttori editoriali Mauro Biani prima e Kanjano poi, e Carlo Gubitosa direttore responsabile, senza alcuna distribuzione, viene tuttora realizzata esclusivamente grazie alle sottoscrizioni dei lettori che la sostengono e al contributo volontario degli autori che vi partecipano. Malgrado l’encomiabile scommessa di fare concretamente ed autenticamente una “libera informazione”, la possibilità di essere raggiunti da un pubblico più vasto è dav- vero un’occasione sprecata dall’industria editoriale, vista la qualità altissima, di gran lun- ga superiore a molte realtà sorrette da potenti gruppi editoriali e da “cifre” completa- mente diverse. Oltre ai citati direttori, a «Mamma!» hanno finora preso parte Makkox, Marco Scalia, Flaviano Armentaro, Giampiero Caldarella, Sergio Staino, Vincino, Ellekappa, Danilo Maramotti, Gianni Allegra, Zerocalcare, Massimo Bucchi, Bicio Fabbri, Bertolotti & De Pirro, Nico Pillinini, Marco Pinna, Cemak, Alessio Spataro, Pietro Vanessi, Pino Cre- anza, Niccolò Storai, Giuseppe Lo Bocchiaro, MP5, Frago e tantissimi altri. La rivista, dalla sua nascita, ha realizzato otto uscite, sfogliando le quali è visibile ad occhio nudo una crescita ed una maturazione che l’ha portata dalla satira più popolare ad una forma molto attenta (e unica in Italia) di giornalismo disegnato, realizzato attraverso l’invenzio- ne delle “grafinchieste” presenti e di un progetto grafico molto accattivante. Tuttora in corso di pubblicazione, è ogni domenica in edicola anche «Il Misfatto», inserto satirico de «Il Fatto Quotidiano» lanciato nel 2010, con la direzione successi- vamente affidata a Stefano Disegni ed il cast dei collaboratori composto tra gli altri da Riccardo Mannelli, Mauro Biani, Giuliano, Marco Scalia, Mario Natangelo, Saverio Raimondo, Dario Vergassola, Lia Celi, Roberto Grassilli e la partecipazione di Milo Manara.

Il ritorno del «Male», anzi dei «Mali»

E proprio due azionisti de «Il Fatto Quotidiano», diventarono editori unici del maggior evento satirico degli ultimi tempi, il ritorno de «Il Male», per il quale venne inscenata un’ “opera” senza precedenti: non solo la storica testata tornò in edicola, ma ne tornarono due! Ecco in breve i fatti. Nel 2010 Vauro, Vincino e Massimo Caviglia (poi spari- to dall’impresa), nelle vesti di zombie, annunciarono davanti a Montecitorio e con il coinvolgimento di alcuni politici, il loro intento di voler riesumare la testata – appunto “morta-vivente” – grazie al finanziamento dell’operazione editoriale ad opera di questi due editori, spinti dalla rinnovata popolarità di Vauro, divenuto personaggio televisi-

19 narrazioni n.4 vo “macina-audience”, grazie alle trasmissioni di Michele Santoro. Mentre fervevano i preparativi, nel 2011, appena pochi giorni prima del debutto, Vincenzo Sparagna giocò d’anticipo e, con un colpo gobbo, raggiunse l’edicola prima degli altri con la sua versio- ne, già riproposta – lo abbiamo detto – nel 1995, chiamata «Il Nuovo Male», edizione popolare e mensile indipendente, e da lui definita “non la penosa furbata editoriale delle nuove star della satira da salotto televisivo”, ma quella dallo spirito autentico, con i pungenti editoriali del suo alter-ego Tersite e con Giuliano, Ugo Delucchi, Giorgio Franzaroli, Giovanni “Razor” Bruzzo, Giuseppe Del Buono, Frago, Roberto Mangosi, Marco Pinna, Carlo Gubitosa ed altri giovani autori, con prestazioni volontarie e gratu- ite, trattandosi di una pubblicazione completamente autofinanziata. Vauro e Vincino arrivarono in edicola con «Il Male di Vauro e Vincino», in ritardo rispetto a Sparagna di un paio di giorni, ma, potendo contare sugli azionisti e su in- serzioni pubblicitarie, con i nomi altisonanti di molti collaboratori storici de «Il Male» come Roberto Perini, Filippo Scòzzari, Tanino Liberatore, Jacopo Fo, Jiga Melik, An- gelo Pasquini, Willem, Giorgio Forattini, e di “new entry” del calibro di Sergio Staino, David Riondino, Makkox, Mauro Biani, Massimo Bucchi, Carali, Alessio Spataro, Bicio Fabbri, Giorgio Franzaroli, Ciaci El Kinder, Bertolotti & De Pirro, Giampiero Calda- rella, Hurricane Ivan, Roberto La Forgia, MP5, Carlo Gubitosa, Johnny Palomba e la partecipazione fissa, una per pagina, delle battute di Spinoza, il popolare sito satirico che stava impazzando sul web. Vauro commentò che della vecchia redazione mancavano in tanti, quelli che nel frattempo sono morti, più Vincenzo Sparagna. Fu realizzata pure una trasmissione te- levisiva in onda su Rai 4 chiamata “Il Male Cabaret”, una breve striscia di pochi minuti con le vignette tratte dal numero in edicola animate e doppiate. È evidente quanto nessuno dei due giornali fosse lo stesso «Male» di 35 anni prima e che probabilmente sarebbe stato più opportuno semplicemente chiamarli in un altro modo. La storia della satira insegna: mai riesumare i morti. «Il Male» era una cosa a sé, funzionava per mille irripetibili motivi e ciò che ne usciva ogni volta era geniale. Fin da subito, sfogliando le prime uscite, il confronto con “i due Mali” recenti era d’obbligo, ma non reggeva, perché in questi nuovi “Mali” forse non c’era niente di geniale. Qualcosa di interessante e ben realizzata, ma niente di rivoluzionario. In ogni caso, malgrado il clamore mediatico suscitato e la buona partenza, «Il Male di Vauro e Vincino» piano piano si è afflosciato, prima con una periodicità sempre più irregolare fino alla chiusura – ma forse è solo uno “stand-by” – nel 2012 (ma con un numero extra uscito nel 2013 in occasione dell’elezione di Papa Francesco), mentre “Il Nuovo Male”, al momento prosegue, sia pure tra molte difficoltà, le sue pubblicazioni, arrivando perfi- no ad ospitare come supplemento centrale la rivista-sorella “Frigidaire” in stato di salute non eccellente. Infine, a proposito di idee nuove e progetti originali e freschi, va segnalata, in ordi- ne cronologico, un’ultimissima testata satirica, «L’Antitempo», pubblicazione bimestrale del tutto indipendente nata nel 2011 e cessata quest’anno dopo sette uscite, merito della passione dei sette autori: Andrea Coccia, Vito Manolo Roma, Rasta Bello, Davide Stro- lippo Caviglia, Giacomo Sargenti e Matteo Rubert. [email protected]

20 narrazioni n.4 Elenco delle principali pubblicazioni satiriche

- CANNIBALE (1977/1979) - IL QUADERNO DEL SALE nuova serie (1977) - IL MALE (1978/1982 - 1994) - SATYRICON (1978/1991) - L’AVVENTURISTA (1978) - CA BALA’ nuova serie (1978/1980) - FRIGIDARE (1980/in corso) - IL CLANDESTINO (1983 - 1994/1995) - OTTOVOLANTE (1983) - RADICALCHIC (1984) - FREEZER (1985/1986) - TEMPI SUPPLEMENTARI (1985/1986) - TANGO (1986/1988) - ZUT (1987/1988) - AVAJ (1988) - AGLIO, OGLIO E CAMPIDOGLIO (1989) - CUORE (1989/1996 - 1999/2001) - IL LUNEDI’ DELLA REPUBBLICA (1990/1991) - IL NUOVO MALE (1995 - 2011/in corso) - L’ECO DELLA CAROGNA (1996/1997) - ZAPATA (1997) - BOXER (1997/1998) - XL (EXTRALARGE) (1999) - MALOX (2000/2001) - LA PICCOLA UNITA’ (2001/2002) - PAR CONDICIO (2004/2005) - PIZZINO (2005/2007) - M (EMME) (2007/2009) - PAPARAZZIN (2007/2008) - MAMMA! (2009/in corso) - IL MISFATTO (2010/in corso) - IL MALE DI VAURO E VINCINO (2011/2013) - L’ANTITEMPO (2011/2013)

21 narrazioni n.4 Per approfondire:

Aa. Vv., Non avrai altro «Cuore» all’infuori di me. Vita e miracoli di un settimanale di resistenza umana, Rizzoli, Milano 2008. Claudio Sabelli Fioretti (a cura di), Enciclopedia della satira, Le Mille Vignette più Famose sull’Italia D’oggi, Panorama, Milano 1978. Filippo Scòzzari, Prima pagare, poi ricordare. Da «Cannibale» a «Frigidarie». Storia di un manipolo di ragazzi geniali, Coniglio, Milano 2004. Vincenzo Sparagna, La commedia dell’informazione, Bollati Boringhieri, Torino 1999. Id., Falsi da ridere, dal Male a Frigidaire, dalla Pravda a Stella Rossa, dal Corriere all’Unità, da Repubblica al Lunedì di Repubblica, Malatempora, Roma 2000. Id., Frigidaire. L’incredibile storia e le sorprendenti avventure della più rivoluzionaria rivista d’arte del mondo, Rizzoli, Milano 2008. Vauro, Critica della ragion satirica, Piemme, Milano 2013. Vincino, Il Male - 1978-1982. I cinque anni che cambiarono la satira, Rizzoli, Mi- lano 2007.

22 La satira in Italia

23 narrazioni n.4

24 La satira in Italia

25 narrazioni n.4

26 narrazioni n.4 DOVE VA LA SATIRA? 5 domande per 5 direttori

er sviluppare un dibattito aperto, per confrontare esperienze, tracciare Pscenari, offrire prospettive per lo sviluppo di questo matrimonio inedito tra “penne e matite” abbiamo posto – in rigoroso ordine alfabetico – a Stefano Disegni (direttore de «Il Misfatto» e di una delle incarnazioni di «Cuore»), Carlo Gubitosa (direttore di «Mamma!»), Vincenzo Sparagna (direttore di «Frigidaire» e «Il Nuovo Male»), Sergio Staino (direttore di «Tango» e «M») e Vincino (direttore de «Il Male» e di un bel po’ di altre pubblicazioni satiriche) cinque brevi domande sullo stato della satira italiana. Ecco i loro personali punti di vista, da cui emergono perfettamente tanto la vivace personalità quanto la forte sensibilità di ognuno dei cinque artisti e il proprio modo di intendere la satira.

Le cinque domande di «narrazioni»

1. In che modo la satira può dare il suo contributo alla società e alla politica? 2. Ti piacciono i fumetti che fanno “giornalismo disegnato”? Li trovi un mezzo interessante ed adeguato? Che differenza c’è tra “satira” e “giornalismo disegnato”? 3. Secondo te c’è differenza nel fare satira su grandi quotidiani o periodici rispetto a pubblicazioni puramente satiriche? E su in- ternet? 4. Trovi che la satira sia un genere e come tale subisce le mode del momento, per cui ci sono periodi in cui “va” e altri in cui “non va”, o come spieghi il fatto che tutte le pubblicazioni storiche come «Il Male», «Cuore» o «Frigidaire» abbiano avuto dei loro momenti irripetibili e dei lettori propri? 5. Da direttore di testata, come vedi i nuovi autori satirici? C’è un ricambio generazionale rispetto alla generazione di autori sto- rici?

27 narrazioni n.4

STEFANO DISEGNI

1. La satira dà il suo contributo stimolando e creando senso critico. Non mi viene da pensare che la satira faccia cadere i governi, cambi il corso della storia o cambi le generazioni, però sono convinto della sua forte funzione sociale, specie quando è usata in maniera intelligente e misurata; non credo nella satira pressappochista, parolacciara e gratuita, pur non disdegnando l’uso di parolacce a seconda del contesto, ma per fare una buona satira la prima regola è avere qualcosa da dire. Fare satira significa incidere positivamente nella testa delle persone.

2. Mi piacciono perché per raccontare utilizzano l’immagine, una forma narrativa colorita e avvincente che arriva prima e accende di più l’attenzione. Un’immagine bella che racconta una storia può essere usata per far arrivare meglio certe realtà. Ci sono grandi autori nel mondo che fanno dell’ottimo giornalismo disegnato: penso a Joe Sacco che ha saputo raccontare situazioni in Palestina che nessun giornalista ha scritto. Certo è uno strumento narrativo molto diverso dalla satira, perché il giornalismo disegnato ha la funzione di raccontare e non necessariamente di esprimere una sua opinione critica, come invece deve fare la satira che deve attaccare la malafede o i vari comportamenti contrari. La satira ha un dovere etico imprescindibile e allo stesso tempo non ha regole.

3. C’è una differenza di libertà. Sui giornali satirici, che nascono per quello, un au- tore ha una maggiore libertà. Non parlo di una libertà che riguarda “quello che dici” ma “come lo dici”, nella fattispecie circa l’uso di parolacce e volgarità. Sinceramente io non ho mai avuto censure, però è chiaro che non posso usare “cazzo” o “figa” su «Il Corriere della Sera» perché è un giornale che va a tutti mentre su «Il Misfatto», che ha un pubblico tutto suo, posso tranquillamente spingermi di più (oltre al fatto che sono pure il direttore!). Anche internet è uno spazio libero, dove la libertà è a discrezione dell’autore che può decidere fino a che livello di provocazione spingersi. Io – pur non lasciandomi prendere dalla “mitologia” di internet come fanno i grillini – ci tengo molto per la potenza che ha: in un secondo sei davanti agli occhi di migliaia di persone, per cui ha un potere enorme che, se usato bene, può permettere davvero tanto sul piano della comunicazione.

4. La pulsione a fare satira è connaturata all’essere umano, come dimostra la storia fin dai tempi più antichi. Tuttavia ci sono fasi storiche più forti e più opache e che conseguentemente determinano più o meno voglia di satira da parte del pubblico. Nei periodi in cui la satira politica ha funzionato di più, probabilmente la differenza era an- che in una classe politica molto più importante e pertanto molto più tosta da affrontare. E poi c’erano meno mezzi di informazione e quindi il giornale di satira era molto più seguito, mentre oggi la funzione divulgativa del cartaceo si è molto attenuata rispetto a prima e rispetto a quella che ha la rete. Nel futuro probabilmente si farà satira di altro genere, satira tridimensionale… chi lo sa?

28 La satira in Italia 5. Praticamente tutti gli autori de «Il Misfatto», tranne tre vecchi babbioni che siamo io, Giuliano e Mannelli, sono tutte persone che prima, professionalmente, non esisteva- no; sono tutti giovani autori cha abbiamo raccolto strada facendo: abbiamo chiesto loro di inviarci del materiale, abbiamo fatto dei bandi veri e propri su internet, su Facebook, o in alcuni casi ci sono stati segnalati da amici di amici. Si tratta di talenti che molto umilmente si affacciano per la prima volta sulla scena satirica: Miguel, ad esempio, ha contattato la redazione per altro e poi incidentalmente ci ha fatto vedere una vignetta che era disegnata da dio ed era scritta anche meglio e adesso pubblica tutte le settima- ne, o Antonello Romano che è un sardo che disegna a livelli pazzeschi, di una bravura strepitosa, con battute molto belle, che incredibilmente non aveva mai pubblicato nulla prima. In Italia i talenti ci sono, le teste ci sono e pure gli spazi ci sono, anche se, pur- troppo, il nostro è un paese in cui si legge poco e ancora di meno si legge la satira: oggi, infatti, in edicola, a parte «Il Vernacoliere», che però è un’espressione locale, non c’è un solo giornale di satira politica disegnata vero e proprio, indipendente; non c’è nemme- no una testata umoristica a fumetti, a differenza del resto dell’Europa. In Francia, in Spagna si trovano ottime testate; in Inghilterra non ne parliamo; persino i tedeschi, che non sono famosi per l’umorismo, hanno più d’una rivista satirica. L’Italia vive una fase storica abbastanza impoverita. Le cause non le so. Un po’ le sospetto ma poi sembra che sono partigiano…

CARLO GUBITOSA

1. La satira è uno dei linguaggi più liberi e profondi di cui possiamo disporre per co- municare, e il grande contributo che può darci è quello di “sgonfiare il potere”, per farci vedere che il re è nudo di fronte ai suoi limiti e ai suoi difetti. Da sempre il linguaggio satirico ha anticipato quei vizi del potere e quel malaffare che i tribunali hanno potuto dimostrare solo anni più tardi, e penso che non solo il linguaggio della satira, ma anche quello del fumetto, possano aprire grandi spazi di espressione per chi ha qualcosa da dire e al tempo stesso offrire grandi opportunità di informazione alle persone curiose, che non sanno o non vogliono fermarsi alla “versione ufficiale” dei media.

2. Ai generi del giornalismo corrispondono altrettanti generi del fumetto e della satira: una vignetta satirica può essere equiparata a un editoriale che porge al lettore una opinione di grande impatto, un racconto a fumetti può essere l’equivalente di un buon reportage, tutto sta nell’allargare la “cassetta degli attrezzi” del giornalista per includere nuovi strumenti di storytelling, proprio come hanno fatto quei giornalisti che nel secolo scorso hanno allargato il loro bagaglio di competenze ai nuovi linguaggi del fotogiorna- lismo e del giornalismo televisivo.

3. Ogni contenitore ha la sua specificità e i suoi limiti: se sei su un grande quotidiano parli a un vasto pubblico ma hai un raggio d’azione più limitato, se sei su una rivista autoprodotta come «Mamma!» hai la libertà che nasce dall’essere editore di te stesso, ma

29 narrazioni n.4 i limiti dovuti al fatto che il pubblico devi conquistartelo cercando i lettori uno per uno. Quanto a internet, noi stiamo sperimentando un ritorno alla carta, perché crediamo non solo nel buon giornalismo e nella buona editoria, ma anche nel valore della buona tipografia e delle buone tecniche di stampa, che trasformano la lettura di un fumetto in una esperienza sensoriale, intellettuale e anche emotiva che i supporti elettronici non sono ancora riusciti a replicare.

4. La satira funziona o non funziona se sa innestarsi nella cultura e nello spirito del proprio tempo. Una rivista è come una creatura viva: ha un suo ciclo vitale che va sapu- to seguire, senza troncare delle esperienze che hanno ancora qualcosa da dire e senza insistere su formule che potrebbero essere arricchite aprendosi a nuovi linguaggi. C’è stato un tempo in cui era di moda andare con una rivista di satira sotto il braccio. Oggi dobbiamo chiederci quali sono gli strumenti editoriali che possono ricreare quel senso di appartenenza ad un “club esclusivo di dissidenti” che univa i lettori di «Cuore», de «Il Male» e di «Frigidaire» alle redazioni di queste storiche riviste di informazione satirica.

5. C’è un forte ricambio generazionale, purtroppo ignorato dai grandi colossi dell’e- ditoria, incapaci di scommettere su nuove generazioni e progetti innovativi. Ma per fortuna siamo nell’era delle autoproduzioni, e oggi grazie alle tecnologie un autore in gamba ha molte più chances di ieri di diventare autore di se stesso.

VINCENZO SPARAGNA

1. Ogni concetto e pensiero, in qualsiasi modo espresso, se sincero e onesto, è un contributo alla società nel suo insieme. La satira è poi un linguaggio particolarmente efficace, poiché può permettersi uno sguardo sul presente che viene, per dire così, dal futuro. Naturalmente la vera satira è cosa del tutto diversa dalla barzelletta o dall’umo- rismo generico. È uno sguardo critico sul presente che, pur partendo dal particolare, ha sempre un orizzonte generale di valori e idee. Fa ridere perché fa pensare e fa pensare proprio perché attraversa senza complessi il paradosso e il riso.

2. Il giornalismo disegnato è molto interessante, ma bisogna sempre ricordarsi che la forma non è neutra. Il disegno è parte della comunicazione, non può essere ridotto a un semplice supporto, non è mai neutro. In questo senso gli equivoci sui graphic novel d’attualità o storici sono tante. Una visione superficiale, semplicemente contenutistica, di questi racconti non fa giustizia della complessità del reale e delle storie stesse. Se vogliamo, è lo stesso problema che ha la cosiddetta letteratura a tesi: la tesi può essere anche giustissima, ma se tradotta in una forma letteraria debole ne esce sconfitta e im- poverita. L’iconografia artistica non è la critica d’arte, che deve tener conto di altri valori stilistici, che sono l’arte propriamente detta. In quanto alla satira, se fatta integrando di- segno, parola, concetto e ironia, è un eccellente giornalismo disegnato. Se invece è solo un appunto superficiale, che si serve del disegno come di un elemento secondario, se è

30 La satira in Italia già vista, non è vera satira, almeno non è la satira di qualità che noi cerchiamo di fare.

3. La differenza del mezzo è uno stimolo in più per la grande satira, una scusa in più per la satira povera e didascalica. Purtroppo, salvo casi assai rari, la satira ospitata dai grandi giornali d’opinione rischia di essere solo un controcanto alla cosiddetta comuni- cazione seria. Questa condizione di prigionia non la esalta, ma la circoscrive e ne limi- ta l’impatto, ne fa insomma un accompagnamento burlesco del discorso serio. D’altra parte, molte pubblicazioni esclusivamente satiriche mancano di quello spirito universale che le collochi sullo stesso piano di verità dei giornali seri e questo ugualmente le rende ghetti chiusi. In quanto a internet, è uno straordinario mezzo, che assicura l’istantaneità e anche la circolazione teoricamente totale, ma che trova il suo limite in se stesso, poiché spesso determina una specie di “rumore di fondo” dal quale non è facile far emergere un motivo o una sinfonia compiuta. Per non parlare dei moltissimi satiri della domenica che affollano internet con qualsiasi loro prodotto, usando la libertà di lanciare in rete disegni e idee per una esibizione ininterrotta di sé. Questo fa sì che la qualità affoghi frequentemente nella pura e semplice quantità.

4. Ci sono momenti in cui l’intelligenza collettiva trova il modo di esplodere e ac- celerare la storia, altri in cui ripiega, si disperde e tutto diventa più difficile. «Il Male» attraversò uno di quei momenti magici in cui la spinta sociale rivoluzionaria crea una grande attenzione all’invenzione e all’intelligenza. «Cuore» fu un fenomeno infinitamen- te più superficiale e indotto. «Frigidaire» si è sempre posto su un piano ancora diverso, quello di costruire ininterrottamente ponti verso la realtà in movimento, a volte incro- ciandola, altre volte anticipandola, mai all’inseguimento ossessivo. Abbiamo agito sem- pre nella convinzione che la storia proceda a salti, in modo discontinuo. Ma non vedo i momenti alti come “mode”, che sono di per sé effimere. Si tratta invece di quei punti di svolta della coscienza collettiva, spesso preparati da anni di processi silenziosi e sot- terranei. Per questo mi piace pensare a «Frigidaire» come a un fiume che a volte emerge tumultuoso, altre si immerge nelle caverne più segrete della terra e in apparenza scom- pare, ma solo per ripresentarsi in superficie, fresco come una sorgente nuova, più a valle.

5. Sarei tentato di affermare che un grande ricambio non c’è stato, poiché è mancato a lungo lo spirito satirico aggressivo e positivamente arrogante di quella stagione di ri- volte e speranze da cui sono nati «Cannibale», «Il Male» e lo stesso «Frigidaire». Tuttavia non sarebbe del tutto giusto, poiché negli ultimi due, tre anni, da quando cioè è ripreso ad uscire «Frigidaire» e in seguito «Il Nuovo Male», ho trovato alcuni autori che posso definire nuovi e che hanno una loro indiscutibile originalità e una loro personalità forte. Tra gli scrittori potrei citare Marino Ramingo Giusti o Guido Giacomo Gattai, tra i di- segnatori Giuseppe Del Buono o Gianlorenzo Ingrami e Cecilia Alessandrini (che si fir- mano insieme Cecigian). In generale credo che per far uscire allo scoperto le qualità dei nuovi autori bisogna che viva una rivista, una iniziativa indipendente. In questo «Il Nuo- vo Male» è un aiuto prezioso. Quella che infatti va battuta in breccia è l’idea che gli autori vivano una dimensione autonoma, del tutto separata dai progetti e dalle realizzazioni

31 narrazioni n.4 editoriali. Nella realtà non è così. Il sistema della comunicazione dominante finisce per schiacciare la creatività del singolo, piegandola ai trend, alle mode, a imitazioni sbagliate. La satira non è un territorio separato dal resto della società e la crisi creativa è legata a un certo conformismo carrieristico, a una certa idea miserabilmente “professionale” della vignetta. Ma le cose, credo e spero, stanno cambiando. Le inquietudini profonde che agitano la società sono convinto che apriranno, nei nostri giornali già aprono, nuove vie anche alla satira dei più giovani, specie se sapranno liberarsi dalla dittatura asfissiante dei giullari di regime alla Vauro o alla Vincino, per non dire di quella caricatura della vera satira rivoluzionaria che è la barzelletta televisiva.

SERGIO STAINO

1. La satira assolve la sua funzione sociale quando diventa sintesi ironica e feroce di una vasta area di opinione pubblica. Un esempio sulla satira disegnata rimane la distruzione del Presidente della Repubblica Giovanni Leone fatta con le copertine de «L’Espresso» disegnate da Tullio Pericoli. In una satira più recente e televisiva il giudice Ingroia di Maurizio Crozza ha contribuito a distruggerne l’immagine più di centinaia di editoriali politici.

2. Il giornalismo disegnato si pone l’obiettivo di offrire una documentazione so- stanzialmente corretta degli avvenimenti narrati e i disegni concorrono a comple- tare e inquadrare i dati informativi. La satira tende invece a forzare gli elementi dell’informazione, amplificandone certe parti o rovesciandone altre, o alludendo a parti non presenti concretamente. Insomma, è una chiara opera di interpretazione non obiet- tiva della realtà ma certo non per questo meno interessante o utile per comprendere poi la realtà.

3. Nelle pubblicazioni satiriche c’è una libertà d’azione che non puoi mai trovare nei grandi quotidiani, non solo perché i grandi quotidiani hanno delle linee editoriali proprie e anche generaliste e quindi non possono permettersi cose troppo trasgressive sia come argomenti sia come immagini. Faccio un esempio: «Charlie Hebdo» è uscito la settimana in cui Benedetto XVI ha annunciato le sue dimissioni con un papa abbracciato a una guardia svizzera dicendogli «Finalmente liberi!». Se «Charlie Hebdo» non fosse stato un giornale specificamente satirico non l’avrebbe potuta pubblicare.

4. La satira politica vive solo in stagioni molto esaltanti per la politica. Non è un caso che la fioritura della satira politica in Italia sia iniziata coi fermenti presessantottini. Oggi viviamo una crescente disaffezione nei confronti della politica e la satira ne subisce le conseguenze. In più la satira disegnata subisce le conseguenze di una crisi più generale dell’editoria e del cartaceo. La satira televisiva invece gode di buona salute e, credo, an-

32 La satira in Italia cora di più quella su internet. Questo spiega perché sia così difficile rimettere in piedi un giornale satirico in cartaceo oggi.

5. Un po’ di ricambio c’è, cito due autori che si possono considerare giovani e che sono molto bravi: Makkox da una parte e Zerocalcare dall’altra. Pochi in confronto a quanti eravamo noi negli anni d’oro della satira disegnata. Ma questo perché molti autori si dirigono verso quei media che ai nostri tempi non potevano essere utilizzati: tv e web. Le novità in quel campo sono tante, da Zoro al Terzo Segreto di Satira, tanto per citare i primi due che mi vengono in mente.

VINCINO

1. La satira ha un suo dovere cardine: deve raccontare la società. E disgraziatamen- te abbiamo dappertutto disastri immani da raccontare. Un autore di satira vive la sua funzione professionale combattendo giorno per giorno per poter raccontare ciò che è possibile raccontare senza diventare moralista e senza fare propaganda, perché la sa- tira, per assolvere la sua funzione, deve mantenersi distante dai poteri. La satira non può mai stare al governo, perché se cerca di farlo, per definizione, viene meno alla sua stessa attività. Beppe Grillo è la dimostrazione pratica di questo: quando la satira vuole farsi politica, non fa altro che combinare guai. Questo è uno dei pericoli più gravi in cui può incorrere la satira: credersi potere. L’altro pericolo grosso che corre la satira è il moralismo: un autore non deve mai essere moralista. Mai. Qui la dimostrazione è data invece da Michele Serra (che peraltro ha lavorato molto anche con Grillo, guarda come si combinano le cose!), che a tutt’oggi potrebbe essere un buon autore di satira e invece fa il moralista ogni giorno sulla sua “Amaca” insopportabile. Questi sono i pericoli in cui da sempre, in tutti i secoli, possono incorrere gli autori di satira. Meglio lasciar fare i moralisti a quelli dell’avanspettacolo.

2. Anche se finora non lo chiamavamo così, io ho sempre fatto del giornalismo dise- gnato. Faccio parte di quel gruppo di disegnatori che sono andati nei tribunali a vedere i processi, anzi i miei primi disegni pubblicati da un giornale riguardavano il processo per la strage di viale Lazio a Palermo. Poi ho seguito processi per le stragi di Stato e sono andato a tantissimi congressi per i quali ho fatto reportage disegnati. Sono stato tanti anni a Montecitorio e ci sono ancora, perché sono convinto che il nostro lavoro più va direttamente a seguire ciò che succede e meglio funziona. Mi piacciono i fumetti di gior- nalismo disegnato fatti con passione e con buone sceneggiature, ma purtroppo tra quelli realizzati attualmente una buona metà è da buttar via, perché non usa la potenzialità e la forza del disegno che invece ha capacità incredibili di racconto. Il giornalismo disegnato non è fare un santino: raccontare la vita di una persona come se fosse la vita di un santo è una cosa ridicola.

3. In un grande quotidiano un autore satirico non è libero al 100%, al contrario che

33 narrazioni n.4 in un giornale di satira in cui l’autore è o proprietario o direttore o comunque è in una situazione in cui la direzione gli dà tutte le possibilità di raccontare ciò che vuole. Non è questione di censure, ma semplicemente ogni luogo ha le sue specificità e per questo uso una metafora: se sei un attore e fai uno spettacolo dentro un grande teatro classico ed elegante non ti metti nudo, urli e pisci su tutto, mentre se sei nella tua cantina puoi fare teatro d’avanguardia, sperimentazione… puoi anche pisciare: sono due contesti completamente diversi. Io, quando ho potuto, ho lavorato in ambedue i contesti. A proposito di internet, secondo me il modo migliore per fare satira in rete è utilizzare l’animazione per le vignette, come abbiamo fatto con «Il Male Cabaret» e come continua a fare Vauro in Servizio Pubblico. Devo dire però che ancora oggi, in internet, non c’è un buon lavoro di satira: ci sono solo delle raccolte di un numero infinito di vignette o battute, il che è una cosa sbagliata, perché la satira richiede dei limiti fisici, è uno spetta- colo che ha una sua dimensione, non è infinito, mentre internet, siccome ha una capacità infinita, viene sfruttato ad esaurimento. Un giornale di satira è uno spazio in cui devono essere selezionate delle cose, ce ne devono essere poche, perché la satira richiede tempi precisi, stretti e veloci. Se ne avessi la possibilità, mi piacerebbe molto produrre un gior- nale di satira su internet a modo mio.

4. Le pubblicazioni satiriche hanno tempi brevi e ci sono motivi seri per questo: quando hanno successo è perché vanno a coincidere casualmente un buon gruppo di autori con una precisa situazione politica che quegli autori sono in grado di capire e raccontare. La crisi della politica del ’78 col rapimento Moro sino all’81 è una precisa fase politica che è stata raccontata da «Il Male». La crisi dei partiti della prima Repub- blica dall’88 al ’94 è stata invece oggetto prima di «Tango» e poi di «Cuore». Lo stesso «Cuore» successivamente non è riuscito ad afferrare quello che è successo dopo; non ha capito del tutto Berlusconi, in realtà, e ancora di più non ha capito Prodi. Sono stati i cinque anni di centro-sinistra che hanno completamente distrutto «Cuore», che già alla seconda settimana del primo governo Prodi prese posizione, sostenendolo dichia- ratamente. L’editoriale diceva che finalmente l’Italia aveva un bel governo, senza più le veline sculettanti del berlusconismo, e veniva completamente meno alla sua funzione satirica, perché quello sempre un governo era, e pieno di difetti per giunta, e il dovere di un giornale di satira è comunque quello di stare all’opposizione.

5. Di giovani autori ne ho conosciuti tanti e ne vedo tanti, spesso dotati di una ric- chezza di racconto pazzesca: Hurricane Ivan, MP5, Roberto La Forgia, che hanno lavo- rato ne «Il Male di Vauro e Vincino», tutti bravissimi, che spero di riprendere il prima possibile. Oggi ci sono tantissimi bravi giovani disegnatori più che autori di satira. Nella mia esperienza, Andrea Pazienza era un grande disegnatore (con una sintonia pazzesca con i suoi coetanei) che con «Il Male» è diventato anche un grande autore di satira. I di- segnatori hanno dei grandi strumenti e poi ogni tanto “suonano” la satira: fare un gior- nale disegnato è come suonare in una jam-session, per lo meno nei pochi momenti felici in cui si riesce a suonare insieme. Alcuni di questi disegnatori sono anche bravi autori di satira, il che non vuol dire che siano specializzati nel disegnare quelle dieci insopporta- bili facce di culo dei politici che abbiamo davanti, ma che piuttosto sappiano raccontare la società: un autore di satira funziona quando il suo racconto è in contemporanea con la società, la racconta bene sotto ogni suo aspetto: dal giovane disoccupato all’uomo politico; dal disgraziato che ruba alle donne che vengono massacrate. Nella mia visione, davanti c’è un mondo non ancora raccontato, ed è quello che ogni giorno mi affascina e mi colpisce. Io ancora oggi ho una grandissima voglia di disegnare per raccontare.

34 narrazioni n.4IL PICCOLO GRAMSCI NEL MONDO GRANDE E TERRIBILE

di Vito Santoro Antonio Gramsci aveva da piccolo una certa passione per il disegno. È quanto confessa in una delle ultime lettere dal carcere, la 422, del 1937, indirizzata al figlio Giuliano; let- tera che riportiamo quasi per intero: «Io da ragazzo disegnavo molto, ma i disegni erano piuttosto lavori di pazienza; nessuno mi aveva insegnato. Riproducevo, ingrandendole, le figure e i quadretti di un giornalino. Cercavo anche di riprodurre i colori fondamentali con un mio sistema non difficile, ma che domandava molta pazienza. Ricordo ancora un quadretto che mi costò almeno tre mesi di lavoro: un contadinello tutto vestito era ca- duto in un tino pieno d’uva, pronto per la pigiatura, e una contadinella tutta rotondetta e grassottella lo guardava tra spaventata e divertita. Il quadretto apparteneva a una serie di avventure in cui il protagonista era un terribile caprone (Barbabucco) che, cozzando all’improvviso e a tradimento, faceva volar per aria i suoi nemici o i ragazzi che gli aveva- no dato la baia. Le conclusioni erano sempre allegre, come nel mio quadretto. Come mi divertivo a ingrandire il disegnino: misure col doppio decimetro e col compasso, prove, riprove colla matita, ecc. I fratelli e le sorelle guardavano, ridevano, ma preferivano cor- rere e gridare e mi lasciavano alle mie esercitazioni». A ben guardare, Gramsci riferisce di disegni, definiti «lavori di pazienza», cui associa una funzione narrativa, dunque fumetti. Particolare curioso questo, visto che Luca Pau- lesu, nipote di Teresina, la sorella prediletta del pensatore sardo, è un cartoonist e un il- lustratore, autore per Feltrinelli, di Nino mi chiamo. Fantabiografia del piccolo Antonio Gramsci. Si tratta di un originale graphic novel, costituito da una componente disegnata alternata ad ampie parti discorsive, tratte dal vastissimo repertorio bibliografico di Gramsci: i suoi scritti dalla libertà e dal carcere, le testimonianze dei parenti, le dichiarazioni dei suoi nemici. La particolarità di questo lavoro risiede nel fatto che il fumetto non segue l’in- dirizzo realistico, alla Will Eisner per intenderci, ma quello delle strisce umoristiche, in particolare le strisce che hanno per protagonisti i bambini, in primis i seminali Peanuts di Charles Schultz. «Mi è venuta l’idea – scrive Paulesu nella Prefazione – di disegnare un piccolo Antonio che facesse da guida nella visita al museo agli studenti delle scuole di Ghilarza. […] Nino l’ho disegnato per primo ed è venuto identico a come lo avevo im- maginato. Ma quando gli ho dato la parola, ragionava da adulto: utilizzava le categorie concettuali della sua maturità e nell’esposizione seguiva il ritmo frammentario dello stile delle note dei Quaderni». Infatti Gramsci viene reso graficamente come un bambino gracile, malinconico e al tempo stesso insofferente, una sorta di Charlie Brown che si colloca al centro della vignetta con lo sguardo rivolto verso il lettore (quello che al cinema viene chiamato camera-look), quasi a chiedergli comprensione e tenerezza. Ecco alcune sue affermazioni: «Porto dieci in tutte le materie. I miei compagni di classe di- cono: “Nino sei una secchia!” E io rispondo: “No. Io sono un intellettuale organico”. Nino mi chiamo». «Sono uno scolaro polemico sul sociale e intervengo a ogni lezione alzando il pugno chiuso. Così il maestro mi manda sotto il Benedetto, a imparare un po’ di moderatismo. Ma è un rischio del tutto inutile. Io sono l’anti-Croce». Nino ha poi un

35 narrazioni n.4 amico immaginario, Palmiro “il Migliore”, presente nei suoi sogni, ma sempre assente nella realtà. E in alcune pagine si presenta come una sorta di Piccolo Principe, pronto ad assumere la stessa espressione sognante dell’eroe di Saint-Exupery, per poi voltarsi di spalle e mostrare la gobba: «Dopo assidue richieste mi è stato comperato il paltò. “Sembri proprio un principino!”, mi adulava mia madre. “Principino”, mi dileggiavano i compagni di classe. Ma non importa. Io non voglio sembrare un principino. Io voglio diventare il moderno principe!» Cosi Paulesu in un chiave ironica e leggera – senza risparmiare riferimenti all’oggi (all’autore non vanno proprio giù le trasformazioni del PCI in PDS, DS e PD) – offre un quadro essenziale e limpido del pensiero del grande zio, rifuggendo qualsiasi intento ce- lebrativo. Aspetto non secondario in tempi come questi in cui gli studi gramsciani sono dominati e avvelenati da un certo filologismo creativo e da un furioso revisionismo. Ma Nino mi chiamo offre al lettore anche pagine struggenti. Penso a come quelle dedicate alla carcerazione, dove Nino é sempre disegnato di spalle, come se fosse la sua gobba a parlare per lui. All’omaggio a Tia Alene e soprattutto alla storia d’amore di Nino con Giulia, mediata dall’Anna Karenina di Tolstoj (anche qui non manca l’ironia: sul comodi- no vediamo un volume I care di Walter Veltroni). In questi passaggi del libro Il piccolo Gramsci si presenta come un freak burtoniano, capace di mescolare dolcezza e tristezza, di avvolgere in una luce oscura e crepuscolare le situazioni più romantiche, sottoline- ando così il legame intrinseco tra la felicità e quel senso di malinconia che di quando in quando attraversa le anime più sensibili. «Sono da molti, da molti anni abituato a pen- sare… che esiste una impossibilità assoluta, quasi fatale… a che io possa essere amato». [email protected]

36 37 38 39 La satira in Italia

40 41 narrazioni n.4 SCRITTORI NEL TEMPO narrazioni n.4

Giuseppe Lupo nel suo bellissimo Viaggiatori di nuvole ab- braccia circa un quindicennio di storia, dal 1499 al 1515, rac- contando del viaggio avventuroso del giovane ebreo Zosimo Aleppo alla ricerca delle pergamene del chierico Pettirosso (SEGATORI). Mario Desiati, Cosimo Argentina e Alessan- dro Leogrande indirizzano il loro sguardo sulla periferia ta- rantina (INTRONA). Mariapia Veladiano nel suo Il tempo è un dio breve oscilla fra i due poli antitetici della ricerca di una totalità della vita e di un’irrimediabile lacerazione fra bene e male (TRENTINI). Con il notevole Il gabinetto del dot- tor Kafka, Francesco Permunian allestisce un «piccolo ma- nuale illustrato di ombre e fantasmi» che prende forma in un personalissimo «boudoir filosofico-ferroviario»LONIGRO ( ). Infine, nella sua opera seconda, Viola Di Grado conferma la sua naturale vocazione alla rilettura e al superamento dei modelli (DANIELE).

43 narrazioni n.4 VIAGGIATORI DI NUVOLE: LA SCRITTURA AL GALOPPO DEI SOGNI. di Stefania Segatori

osimo Aleppo, giovane ebreo al servizio del gigante fiammingo ZErasmo Van Graan, parte da Venezia per un viaggio avventuro- so alla ricerca delle pergamene del chierico Pettirosso. Viaggiatori di nuvole di Giuseppe Lupo tra ampi flashbacks, profezie, sogni e mappe, abbraccia circa un quindicennio di storia, dal 1499 al 1515, snodandosi lungo una geografia ascensionale che sembra perdere man mano le sue coordinate.

onquista il lettore dalla prima all’ultima pagina l’avventuroso ed epico romanzo di Giuseppe Lupo, rimasto nella mente dello scrittore per quindici anni, eppure Cpare scritto d’un fiato narrativo.Viaggiatori di nuvole è la storia di Zosimo Aleppo, giovane torchiatore ebreo al servizio del gigante fiammingo Erasmo Van Graan nella sua stamperia veneziana. Il viaggio del protagonista è un’ossessione vagabonda che da Venezia si muove verso Mantova, Cremona, Milano, giunge in Francia, nelle terre intor- no a Napoli, in Basilicata, percorrendo un tragitto che ripercorre i luoghi dell’esistenza, riemerge dalla memoria, dalla tradizione orale che si tramanda e si conserva tanto nelle storie narrate quanto negli oggetti pedinati. Una «geografia tutta da decifrare» (p. 50), una geografia ascensionale che si eleva dalle mappe, dalle carte, dalle strade perché la dimensione fisica e contingente non basta a racchiudere il viaggio di Zosimo, misterio- samente legato a quello di Ismaele, noto come il chierico Pettirosso, figlio dell’orafo al quale Fra’ Antonio da Bitonto ha lasciato le pergamene. Il romanzo si struttura in tre parti lungo un arco temporale che va dall’ottobre 1499 al dicembre 1515. La prima e la terza sezione sono l’ante e il post del viaggio di Zosimo; la seconda parte, che prende il via dalla storia vera dell’assedio di Atella («era un periodo ad Atella che la gente moriva in un battito d’ali», p. 146), è il cuore del romanzo, quella che Lupo ha scritto in realtà per prima e in prima persona (a differenza delle altre), e interamente dedicata ad Ismaele Machelecco, l’enigmatico personaggio che Zosimo cerca su commissione di Van Graan: «“Ha venido da Milano un omo de sienza” spiega Van Graan e lo fa in un groviglio di fiato e sospiri che mette soggezione solo a sentirlo. Il forestiero si chiama Lionardo, gli ha srotolato sotto gli occhi disegni di bombarde e macchine da guerra, tavole anatomiche di braccia e clavicole senza vita, fazzoletti di cartapecora ornati di tordi e colombi. “Filio de lo demonio” aggiunge, ma quasi si pente di aver detto troppo. Poi, con l’urgenza di chi vuole liberarsi da un peso che ha sullo stomaco, strappa le lenti dal naso e si mette a parlare di un chierico che nasconde in bi- saccia un fascio di carte importanti, un libro d’invenzioni o un catalogo di sogni, chissà che altro, da cui non si separa mai nemmeno quando dorme. Non si conosce il nome, lo chiamano Pettirosso ed è stato visto in uno dei magnifici palazzi di Milano, però non è sicuro che viva ancora in quelle stanze perché in città è passata la guerra e Ludovico il Moro si è dato alla fuga. “Tiene lo naso a beco de civetta, le orecie de cirasa”» (p. 10).

44 Scrittori nel tempo Vale la pena soffermarsi su alcuni elementi del romanzo prima di lasciar spiegare all’autore il motivo di determinate scelte. La figura di Zosimo, al galoppo di Abenante, ha in sé tutta la modernità dei cavalieri erranti, i quali, considerati folli da chi li osserva nelle loro titaniche imprese, girano in lungo e in largo alla recherche di qualcuno o di qual- cosa: «Zosimo si intrufola nelle loro case, si ferma il tempo necessario per riconciliarsi con la sorte e se ne esce sognando di essere un cavaliere alla conquista del mondo» (p. 11). Il senso del camminare del protagonista è essenzialmente il senso della scoperta del mondo, degli altri e, soprattutto, di se stessi: «Cercare il chierico, per voi, sarà come camminare a ritroso nei sentieri della vostra vita» (p. 53). C’è una sottile simmetria tra Zosimo e Orlando, entrambi viaggiatori in quello straordinario secolo che fu il Cinque- cento, periodo ricco di trasformazioni e di invenzioni, passaggio epocale dove l’Italia dominava a livello culturale, crogiuolo di illusioni, utopie e speranze (la storia va intesa come laboratorio di idee, come luogo dove gli uomini inventano il futuro). Ma alle av- venture dell’ingenuo e stralunato Zosimo (cui potremmo aggiungere, oltre a quelle cele- bri dell’Orlando ariostesco, le peripezie del barone di Nicastro nieviano o dell’Agilulfo calviniano) si affianca il continuo intrecciarsi delle vicende dei diversi personaggi che vanno a costituire molteplici fili narrativi entrelacement( ), armonicamente tessuti insieme. La trama è riassunta intorno a due vicende, le peripezie di Zosimo e la storia di Ismaele, facce della stessa medaglia sullo sfondo di un contesto storico ricchissimo culturalmen- te, ma tormentato da guerre locali che in breve tempo divennero di scala europea. Una galleria fittissima di immagini, visioni e personaggi storici e inventati, infatti, popola Viaggiatori di nuvole: il fratello maggiore Simplicio, per il quale Zosimo ha «mille pre- mure» con l’amata Rebecca, che «aspetta impaziente di farsi sposa»; la sensuale e muta Nuevomundo, «fata piovuta dal nulla» della quale si innamora il protagonista; il cavaliere Alvise dei Lanzafame, Sparviero, Melchisedek da Tortona, gli osti delle taverne, Barab- ba della Valassina, Jacomotto; e ancora Ludovico il Moro, Isabella d’Este, Francesco Gonzaga, Gilbert de Montpensier e i fogli con le ottave sconosciute di Boiardo. Zosi- mo è un Pinocchio che si lascia sedurre, si crea identità diverse pur di ottenere notizie, si reinventa ad ogni occasione per trovare le chiavi di accesso alle pergamene (sposo d’Oriente, cantastorie, dipintore di stanze, pellegrino, soldato mercenario). Si riscontra una certa dose di autobiografismo in questo personaggio: chi conosce l’autore sa bene quanto egli sia curioso ed ami lasciarsi distrarre dalle storie e dalle suggestioni di luoghi e paesaggi. Così come, al lettore attento, non può sfuggire la corrispondenza tra Van Graan e Cesare De Michelis, che «aspetta manoscritti in bottiglia sulle rive di Venezia» e al quale è dedicato il romanzo. Attenzione merita anche la funzione svolta dalle lettere all’interno del romanzo, mis- sive che Zosimo invia di volta in volta a tre destinatari fissi: al fratello Simplicio e che servono, oltre che ad aggiornarlo sul viaggio avventuroso, anche per avvicinarlo all’ama- ta Rebecca, la quale gliele legge; al padrone Van Graan; all’illustre copista e traduttore Vinicius de Pamphili, al servizio di Isabella d’Este. Queste lettere sono poste a chiusura dei paragrafi e, come fossero un enjambement, legano tra loro i capitoli. Si ha, così, una puntuale ricorrenza di parole-chiave che contribuisce a rendere ancora più fluida la lettura, un espediente stilistico che riannoda le picaresche avventure del protagonista.

45 narrazioni n.4 Si vedano, ad esempio, le espressioni nel registro dei giorni futuri, i campi del sonno, la casa dei silenzi, una regione di sogni e di speranze, il rumore delle armi, un colpo di stradiotta, poste alla fine delle lettere di Zosimo e subito dopo usate come titolo del capitolo successivo. Alla fluidità della scrittura si aggiunge l’atmosfera fantastica che sorregge l’intera trama. Contribuiscono a creare questo clima le scene rocambolesche che coinvolgono Zosi- mo, le descrizioni di personaggi a tratti circensi (la femmina gallina), i detti degli indovini, gli insegnamenti dei padri, il fascino d’Oriente (come il mantello azzurro indossato da Nuevomundo), l’onomastica, gli uccelli che parlano sui davanzali («Una sera, mentre scrivevo, venne un pettirosso a fermarsi davanti alla tenda e mi benedisse con la voce di mio padre. Fu la prima di tante stranezze», p. 168), alcuni rimandi intertestuali («la vera padrona del mondo non sono le armi o il denaro, ma la fortuna», p. 85). Oltre alla dimensione del sogno, tra i motivi fondamentali del romanzo c’è il vento, presenza fissa al fianco dei personaggi in molte scene; è sicuramente uno degli ingre- dienti che rende ancora più leggera la scrittura, che determina uno spostamento alato sia fisico che immaginario, che riporta a memorie lontane o rimanda a proiezioni future: il vento che nell’incipit soffia su Venezia («è da poco passato mezzogiorno e su Venezia soffia la tramontana», p. 9), che porta via le parole e i libri come foglie, che insieme agli uccelli, altra costante del romanzo, indica sempre qualcosa: destino, conferme dall’aldilà, presagi («la tramontana che il giorno prima soffiava da occidente ha portato il gelo e con il gelo anche un cielo terso, pieno di uccelli che migrano verso il caldo e mettono tristezza», p. 44). Così scrive Zosimo a Van Graan: «Non senza sussulti prosegue il mio cammino e non senza ragione mi sforzo di immaginare dove mai vada a parare questa storia che è cominciata nel vento e dal vento trae la forza per continuare ad allontanar- mi, come temo, dalla sua fine imprecisata» (p. 50); o ancora «la mia investigazione si origina non nelle ali dei fantasmi, ma dalle correnti d’aria che sfiorano le nuvole e i mari e i fiumi e i monti» (p. 103). Viaggiatori di nuvole è un libro che insegue un libro; i libri come motore della storia, come strumento e, soprattutto, come movimento: anche Ismaele ha una missione: «“È per la salvezza del mondo” spiegò mentre mi donava il sacco coi fogli. “Tienili custoditi fino a quando non troverai la macchina che stampa i libri”» (p. 163). Eppure, nonostan- te il ruolo fondamentale svolto dalla carta stampata («I libri, Nuevomundo, non sono carta cucita a carta, parole aggiunte a parole. Sono la cenere della coscienza, legna con cui bruciare i mesi e gli anni della nostra vita», p. 67), l’oralità con la sua forza sovrasta anche la recente scoperta della stampa. L’esistenza stessa delle pergamene si regge sui dicunt, su parole che sfuggono e che vanno perennemente cacciate, parole necessarie per consegnare la memoria ai posteri: «L’aria che veniva da Oriente, aveva confidato una volta a mio padre nella lingua dei mutoli, gli portava una per una le parole che poi andavano a posarsi sulle pergamene apparecchiate sopra il tavolo: pagine di meditazio- ni, commenti, appunti per prediche, opere devozionali, lettere ad amici. Aveva sotto gli occhi un così grosso numero di fogli che nemmeno riusciva ad alzarsi dallo scrittoio per la recita delle lodi e dei vespri, tanto i pensieri bussavano alla sua testa per chiedere la fortuna di fissarsi sulle carte» (p. 136). La potenza della tradizione orale, delle parole, dei racconti, delle parabole è rafforzata nella brevissima nota finale; tre pagine appena

46 Scrittori nel tempo chiudono il romanzo e consegnano al lettore il destino non ancora definito del suo protagonista: «Dicono che Zosimo sia rimasto a bocca aperta mentre Gioacchino Ma- chelecco raccontava dei Re Magi venuti in sogna a fra’ Antonio da Bitonto, seguendo le tracce scritte nei tre libri sospinti dai venti orientali» (p. 231); «Dicono che Zosimo, una volta tornato a Venezia, abbia lasciato la piccola Vitalba tra le forti braccia di Simplicio e che si sia rimesso in viaggio senza nemmeno passare dalla bottega di Van Graan» (p. 232); «Dicono che tornerà con i disegni di questi luoghi per consegnarli a Erasmo Van Graan e farli diventare un magnifico libro di figure. Tornerà quando Van Graan meno se lo aspetta» (p. 233). Parole indelebili come quelle delle Scritture (vi sono diverse allusioni evangeliche nel romanzo) o parole immaginarie: le storie degli uomini parlano tante lingue e Lupo cerca di rendere a suo modo il francese del Vicerè, lo spagnolo di Esteban il Castigliano, il veneziano (in realtà una lingua mescolata) di Van Graan. Una lingua per ogni personag- gio, che contribuisce alla maggiore caratterizzazione dello stesso, ma anche una scrittura polifonica, impastata di filastrocche e detti, parole tronche, parlate inventate dallo scrit- tore, da sempre attratto dal problema del linguaggio e dal desiderio di poter scrivere un giorno una storia in una lingua tutta sua. Anche Ismaele parla «la lingua di famiglia», let- tere di un alfabeto che il padre, a sua volta, aveva appreso dal nonno Shulim, morto nel viaggio verso Atella, e così via a risalire le generazioni: «labbra chiuse, stracci annodati in testa, mani fasciate, gomiti al vento. Pare l’avesse inventato un uomo vecchio vecchio che aveva perso la parola per non aver creduto a una creatura alta e con le ali che gli aveva portato dal cielo una promessa, recitata alle sue orecchie insieme con il nome di un bimbo che sarebbe nato» (p. 131). La struttura circolare del romanzo è data da Venezia, da dove tutto parte e tutto ri- torna, ma anche dalla scoperta delle verità profonde che esistevano in quei dicono che: da un lato, la profezia di Barba Yerarat, riguardante Ismaele («“È la profezia” disse, “non temere”. Barba Yerarat l’aveva ascoltata dalla bocca di un uccello, poi l’aveva ripetuta da- vanti alle cupole di Gerusalemme e la sua voce era davvero arrivata fino a noi, spinta dal vento», p. 162); dall’altro, la ricerca delle misteriose pergamene, missione di Zosimo (« “Siete scritturale?”. “Torchiatore. Al servizio di Messer Erasmo Van Graan”. Jacomotto è come se avesse avuto un’apparizione. Sta lì, fermo davanti a lui, con gli occhi accecati dai ricordi. “Ho conosciuto un ragazzo che cercava stamperie” dice. E comincia a rac- contare la storia dall’inizio», p. 177). Non va sottovalutata l’importanza della dimensione ebraica, descritta nei suoi microcosmi quotidiani, nelle consuetudini, nelle storie genera- zionali: «la vita non può concludersi in una stagione, ma è come una ruota che gira fino a quando il fiato entra ed esce dalla bocca, dopodiché ognuno di noi comincerà il grande viaggio, come diceva Barba Yerarat» (p. 128). L’attenzione per l’ebraismo è un elemento di cui Lupo subisce il fascino. Il popolo ebraico, secondo lo scrittore, è l’unico ad aver legato indissolubilmente la sua storia ad un libro, alla Scrittura, alla parola/Parola: un popolo disperso nel mondo, ma che in realtà non si è mai smarrito perché legato da un collante chiamato Bibbia. Nella terza parte, Il libro di Vitalba, i numerosi tasselli delle due storie parallele, quella di Zosimo e quella di Ismaele, cominciano ad allinearsi; si svelano i segreti delle pro- fezie e vengono a galla gli intrecci che legano i personaggi alla Storia e alle cose. Già

47 narrazioni n.4 il finale della seconda parte annuncia un impalpabile punto di tangenza; così Ismaele: «Navigammo verso la Provenza. Mi facevo cullare dalle onde e stringevo fra le mani le pergamene di frèr Antuàn, sentivo il contatto della carta sotto le dita e speravo in un po’ di quiete. Avrei voluto leggerle e svelare una volta per sempre il mistero che vi si nascondeva dentro. Quei fogli non mi parvero un sudario di morte, ma un lenzuolo leggero come una piuma. Trovare la macchina che stampava i libri, compiere il volere di mio padre e forse anche obbedire alla profezia di Barba Yerarat era l’unico motivo per cui continuare il viaggio insieme al corpo di Mompensiero, la sola certezza che mi restava per sapere chi ero. E chi ero cominciai a capirlo mentre i venti gonfiavano le vele e facevano tremolare le torce. Portai le mani in faccia e dissi a me stesso ch’ero finito in un buio a caccia di sogni» (p. 170). Ed ecco il senso di questo andare che lega Ismaele a Zosimo: entrambi vanno a caccia di sogni. Nell’ultima parte Zosimo viene a conoscenza di alcuni misteri e prende consapevolezza riguardo alla sua missione, che sembra vicina ad una risoluzione («meno male che c’è qualche data a puntellare questa faccenda che pare scritta nel vento», p. 188). Il protagonista scopre, ad esempio, il segreto che legava Jacomotto ad Alvise di Lanzafame, viene a sapere di un colloquio tra Ismaele e Messer Lionardo e, pian piano, inizia a crescere: sa che «finché non è persa la partita» bisogna continuare «a tirare i dadi» (p. 220); sa che è «il tempo la più grande malattia con cui gli uomini devono combattere» (p. 221); percepisce qualcosa di prodigioso e che «Venezia si stava risvegliando da un sonno di stagioni remote» (p. 222). Da Atella Zosimo scrive la sua ultima lettera ad Erasmo Van Graan il 1° luglio del 1500: il chierico Pettirosso «è sparito dalla vista dei viventi in una notte terribile di fuga e di paura», ma tutto ciò che era dentro la sua bisaccia è stato riconsegnato al padre Gioacchino, l’orafo converso amico di Fra’ Antonio, «il solo testimone delle pergamene, l’unico superstite del loro favoloso esistere» (pp. 225-226). È il vecchio Gioacchino che racconta ad un affamato Zosimo il contenuto delle pergamene, che non è opportuno svelare in questa sede così da non togliere la curiosità ai lettori; basti dire che in esse vi è descritto un mondo ideale, un’u- topia, un futuro possibile, in sostanza, l’idea di mondo dello scrittore. Massimo Onofri, tra i primi a recensire il romanzo, ha giustamente notato come l’ascendenza ariostesca sia il tratto caratteristico della nuova leggerezza di Lupo, «quella che forse può arrivare solo con la maturità» («Avvenire», 4 maggio 2013, p. 22). Una leggerezza che si riscontra già nel titolo: le nuvole sembrano voler alleggerire la pesan- tezza, la fatica che è intrinseca ad ogni lungo viaggio. In Viaggiatori di nuvole si disegnano mappe immaginarie, si fanno sogni che non si possono misurare, si corre sopra i tetti, si salta nelle nuvole, si levita da terra e la scrittura va al galoppo dei sogni, come su una giostra dalla quale i personaggi sembrano non scendere mai. Romanzo d’avventura, di viaggio, epico, picaresco, di formazione: Viaggiatori di nuvole è un viaggio dentro un so- gno, o meglio, dentro il sogno che ogni personaggio insegue. Nel leggerlo sembra quasi di ascoltarle davvero quelle storie: la prosa mima l’andamento del racconto orale, un andamento ritmico, colloquiale, a tratti formulaico. Una narrativa evocatrice, che non va dietro la moda del voler raccontare i fatti di cronaca, che si colloca all’opposto di ciò che trasmettono i nuovi media, che ricostruisce la storia falsificandola con una fervida fantasia. Ecco quale dovrebbe essere il compito del romanziere di oggi, ecco l’abilità di Giuseppe Lupo: far fantasticare il lettore.

48 «Lo mestiere più belo xe fantasticulare li homini» Stefania Segatori intervista Giuseppe Lupo

Partiamo dal titolo: i tuoi romanzi precedenti si caratterizzano per il fatto di avere già in esso il dato geografico (Celenne, Agropinto, Palmira). In Viaggiatori di nuvole, invece, non ci sono i nomi propri o i luoghi di provenienza ad indicare il campo d’azione entro il quale si muovono i personaggi. Stavolta c’è l’Italia da Nord a Sud, l’Europa, l’Oriente, c’è il cielo che sta sopra e guarda ogni luogo. Come mai questa scelta? Cos’è cambiato rispetto alle altre storie? A monte dei precedenti titoli c’era il desiderio di dare al lettore un’indicazione ge- ografica, anche se falsa. Quei paesi, infatti, erano inesistenti o, meglio, il lettore poteva trovarli dentro una mappa che avevo inserito all’inizio del mio secondo romanzo, Ballo ad Agropinto (2004), disegnata da me per individuare il mio territorio. Un’operazione che ricordava un po’ la Contea di Yoknapatawpha di Faulkner. Tutta la mia scrittura insegue luoghi che non ci sono, geografie invisibili. In Viaggiatori di nuvole, dal momento che i personaggi si muovono nel vento, ho abolito nel titolo nomi di città inesistenti per sot- tolineare che invece i piedi poggiano sulle nuvole. In realtà anche in questo romanzo, tra le tante città vere (Venezia, Milano, Mantova, Montpensier, Napoli, Atella) ce n’è una inventata: Vitalba.

I fatti storici sui quali punti la lente di ingrandimento sono la tua fonte di ispirazione, lo start, in questo come nei precedenti romanzi, a partire dal quale imbastisci le tue trame. Quali sono i tuoi modelli di riferimento? Come dico di solito, quando me lo chiedono, io sono piuttosto diffidente nei con- fronti della Storia. Sospetto che non tutto ciò che ci è stato raccontato sia davvero avvenuto. Insomma continuo a pensare al racconto della Storia come al racconto di una falsificazione o mistificazione (Sciascia avrebbe usato il termine “impostura”). Perciò, più che dalla Storia, sono attratto dal sogno della Storia: sogno inteso nel senso di pro- getto, utopia. La letteratura, può sembrare paradossale, è il miglior luogo dove sognare la Storia. Motivo per cui spesso parto da situazioni storiche abbastanza precise, ma poi sconfino nel sogno. Più che i cronisti della Storia, mi piacciano gli scrittori visionari, quelli che hanno ascoltato le profezie della Storia e ne hanno tratto materia per le utopie: Ariosto, Cervantes, Marquez, Borges, Vittorini.

Viaggiatori di nuvole è stato definito da molti, e a ragione, un romanzo epico. Oggi si fa un gran parlare del fatto se esista ancora un’epica: è indubbio che sopravvivano tenacemente alcuni dei caratteri dell’epos antico (il personaggio/ eroe, ad esempio, che ha il compito di tramandare la memoria, l’identità di una comunità). C’è chi considera epica moderna la trilogia di Tolkien oppure c’è la New Epic Fiction, la narrativa metastorica che prende le distanze dal romanzo post-moderno. Cosa pensi di questi fenomeni? Secondo te, è realmente possibile un’epica oggi? Penso che sia possibile un’epica oggi, anzi è necessaria, anche se dobbiamo fissare

49 narrazioni n.4 il significato del termine “epica”. A me pare che così come è stato declinato ultimamente s’intenda per epica qualcosa che non lo è, qualcosa che è figlia di tendenze e di mode, in un certo modo lega- ta al mercato editoriale. Quando parliamo di epica, invece, dovrem- mo pensare a quel tipo di raccon- to che nasce nell’oralità, prolifera nella civiltà dei popoli mediterra- nei, contiene caratteri identitari. Epico è il racconto della comuni- tà, delle radici antropologiche: il racconto del paese, del villaggio, della famiglia. E poi è anche il rac- conto del tempo lungo, sacrale e memorabile, tutto il contrario del racconto minimo (o minimalista), che presenta i caratteri della cronaca, del tempo frantumato e quotidiano.

Ripercorriamo velocemente i tuoi romanzi, tutti pubblicati con Marsilio: ne L’Americano di Celenne (2000) la storia si snoda negli USA dei primi trent’anni del Novecento; Ballo ad Agropinto (2004) ha come sfondo l’Appennino degli anni 1943-1957; La carovana Zanardelli (2008) è ambientata nella Basilicata dei primissimi anni del secolo scorso; L’ultima sposa di Palmira (2011), finalista al Campiello, racconta il terremoto del 1980 che ha colpito la Basilicata. Quale altro periodo o personaggio storico ti affascina particolarmente? A parte il Novecento, a cui ho dedicato i primi quattro romanzi, amo le epoche di passaggio, i momenti in cui sono accaduti quegli eventi che hanno dato la sensazione di un cambiamento, di una trasformazione. Uno di questi, per esempio, è il crinale tra la fine del Settecento e l’Ottocento (la fine della rivoluzione napoletana del 1799, il crollo della Repubblica partenopea). Non da meno è anche il tempo di fine Ottocento, con le rivoluzioni sudamericane e l’affermarsi in Europa della civiltà industriale.

Nel doppio viaggio, reale e fantasioso, di Zosimo si inseriscono la piccola Vitalba («Le pietre di Vitalba sono l’ultimo ricordo che conservo del luogo dove sono nato», p. 166), che non è soltanto un luogo fisico preesistente, ma una sorta di casa del Nespolo, lo spazio della propria identità, e Atella, tua città natale, a riprova di una geografia dell’anima che fa di ogni terra un’appartenenza («Ab- biamo un morto in questa terra. Quando un uomo ha un morto in una terra che non è quella dov’è nato, quella terra gli appartiene», p. 127) e di ogni viaggio, per quanto lungo e avventuroso, un ritorno. Cosa rappresentano questi luoghi? Atella è il luogo dove sono venuto al mondo ed è perciò, come accade per tutti gli uomini, un luogo privilegiato. È lì che abbiamo aperto per la prima volta gli occhi e i

50 Scrittori nel tempo polmoni si sono riempiti di aria. Me ne sono andato a diciott’anni per approdare a Mi- lano (che ha significato gli studi universitari, ma anche lo spaesamento, la lacerazione degli affetti, la lotta dell’individuo con il mondo, l’affermarsi nel cerchio degli adulti), ma ci ritorno tutte le sere prima di andare a letto, quando spengo le luci di casa, mi siedo in poltrona e ripercorro mentalmente strade, case, tetti. Se chiudo gli occhi, sarei capace di disegnare l’immagine che vedevo dal balcone della casa dove ho vissuto nella mia infan- zia. In fondo, se ci penso, tutto quello che scrivo non è altro che tracciare e ritracciare e ritracciare le linee di quell’immagine che ho fotografato da bambino. L’altro nome, Vitalba, appartiene ad un paese che c’era (chissà quando) e non c’è più, un paese che si perduto nelle stratificazioni della Storia. Qualcuno ha provato a individuarne l’origine: un santuario, una chiesa, un villaggio. Ma non ci è riuscito a sapere più dei frammenti che conosciamo. E forse è meglio così.

Ti è propria una particolare abilità di scrittura, che a volte ricorda il realismo magico sudamericano, una pratica affinata negli anni nella rubrica Atlante im- maginario di «Avvenire», dove ogni domenica fai evadere i lettori nella storia, nel tempo e nello spazio a partire da un rumore, uno sguardo, un oggetto, un’occa- sione quotidiana. Quanto questa pratica, sperimentata settimanalmente in for- ma breve, ti è tornata utile nella stesura, invece, di storie più lunghe? Non tutte le forme di scritture sono uguali. Dipende dai contesti e dal pubblico a cui ti rivolgi. Però è vero che si può trovare una certa coerenza tra lo stile dei miei ro- manzi e gli articoli dell’Atlante immaginario. Anzi, se vogliamo essere più precisi, i capitoli della rubrica potrebbero essere letti in controluce rispetto ai romanzi, come la luna che vediamo riflettere la luce del sole (che invece è tramontato). Voglio dire, insomma, che nell’Atlante immaginario un lettore che conosce i romanzi trova spunti, snodi, passaggi, chiarificazioni. Una specie di “libretto di istruzione”: ti dice come funziona l’elettrodo- mestico, poi tocca al lettore accenderlo.

La geografia reale non basta a contenere i sogni degli uomini: possediamo un atlante di luoghi e di emozioni che è in noi, forse già prima di noi. Una geogra- fia che oggi si arricchisce, grazie alle scoperte tecnologiche e al mondo virtuale che allarga maggiormente gli orizzonti. Dato che il mestiere dello scrittore è far fantasticare, proviamo ad immaginare per un attimo solo la storia di uno Zosi- mo oggi, in un altro momento cruciale per la storia del libro (il passaggio dal cartaceo all’e-book), alla ricerca di una storia universale da raccontare, affamato e folle come lo sono i visionari dei nostri tempi, supportato magari da Google maps, con quella continua voglia di evadere e ritornare, con il suo innato senso di andare e venire, comune, in fondo, a tutti gli uomini di tutti i secoli… Il mito del viaggio e della ricerca ci accompagna da sempre, la letteratura è nata da questo mito e credo che si nutrirà a lungo. Cambiano gli oggetti – i tablet o gli e-reader al posto della carta e prima ancora dei rotoli –, ma nella sostanza le operazioni restano le stesse. Scrivere e raccontare penso siano tra le azioni più antiche del genere umano. A differenza di quanto è accaduto a Zosimo Aleppo alla fine del Quattrocento, oggi sareb-

51 narrazioni n.4 be più facile muoversi, esistono più strumenti tecnologici a supporto, però chi viaggia potrebbe essere vittima delle stesse allucinazioni e della stessa follia che accompagna ossessivamente Zosimo, perché chiunque si metta in cerca di qualcuno/qualcosa prova le stesse sensazioni, a prescindere dal tempo e dalla civiltà. Questo ci fa capire perché il viaggio di Ulisse o il viaggio di Don Chisciotte sono ripetibili ancora oggi esattamente con lo stesso tasso di emotività. La Storia è movimento, il racconto è movimento, la letteratura nasce dall’incrocio di culture e di lingue. Guai a fermare tutto questo. [email protected]

52 narrazioni n.4TRE SGUARDI SUL PERIURBANO TARANTINO

di Valentina Introna

l lavoro analizza, partendo dalla definizione del movimento TQ, il Icambio di sguardo dello scrittore pugliese nella nuova narrativa italiana: da una dimensione urbana e corale a una periurbana e for- mativa. Si prendono ad esempio Mario Desiati, Cosimo Argentina e Alessandro Leogrande: il primo fornisce una visione sentimentale della periferia, gli ultimi due una visione periferica amara.

i è molto discusso del movimento, o dell’etichetta, TQ, nella quale sono conflu- iti, come è noto, scrittori di Trenta-Quaranta anni, i quali, sotto l’egida comu- S ne dell’appartenenza ad una “provvisorietà lavorativa”(Manifesto TQ, 2011) sono mossi dall’intento, in verità alquanto scivoloso, di creare un’identità che cerchi di “smet- tere di piangere sulle macerie di un’epoca passata”, in nome della ricerca di un orizzon- te comune, sia pure “frastagliato, contraddittorio, conflittuale”. Slegarsi dalla mera di- mensione “immateriale della comunicazione letteraria”, riappropriandosi di quei luoghi “dismessi, sofferenti, mercificati”, è il punto di novità di questa generazione. Se infatti mettiamo da parte le scelte poetiche e stilistiche che caratterizzano ciascun autore, viene facile scorgere un filo comune, quello di trasferire la narrazione dalla dimensione urbana a quella periferica. Questi autori, probabilmente affrancati da una volontà progettuale ben definita, sembrano cercare «un’improvvisa passione identitaria» (Cassano 2005, p. V) a partire dalla «riflessione sul lato d’ombra», individuando nella provincia una chiave interpretativa della realtà. «In tutta la nazione, – osserva Asor Rosa – si affermano scrit- tori nelle cui opere ritorna a galla, da protagonista, l’antica Italia: quella delle campagne e dei borghi, della provincia e delle periferie» (Asor Rosa, 2009), ma, sottolinea Marocco, «non si tratta di un ritorno nostalgico della narrazione in una provincia folclorizzata o neorealista, quanto piuttosto di una necessità condivisa che porta una generazione di artisti a guardare alla provincia come a un tracciato di lettura del presente, mettendo a fuoco in essa una figura interpretativa che, in filigrana, sia metafora stessa della moder- nità» (Marocco 2013, p. 191). L’abbandono della città per lo sbarco in periferia si raffigura come una sorta di ma- nifesto narrativo che, assecondando le trasformazioni del tempo, ricalca quel confine, vivo e fermentato, che fa del cosiddetto “periurbano” la metafora del cambiamento. Lì dove ci sono spazi da riqualificare approda lo sguardo dello scrittore che, approprian- dosi della terra-di-nessuno, afferma la sua identità su una nuova proposta di Sud. Ci si allontana completamente dall’immaginario paradisiaco di un ritorno alla natura e da una dimensione pastorale e consolatoria. La fisicità del territorio, seppur ben presente, non è connessa alle nostalgie materne di appartenenza a una patria, ma spicca nello scarto con la città, uno scarto segnato da una visione amara, soggettiva, e quindi ferinamente sentimentale della terra. «L’epica di un mondo arcaico, certo fondata anche su violenza e oscurantismo, – scrive La Porta – si è diluita nel variopinto catalogo della postmoder-

53 narrazioni n.4 nità, mentre il Sud si è disperso dentro un pulviscolo di culture particolaristiche, locali, regionali. In molti scrittori meridionali proprio il congedo è avventura conoscitiva e privilegiata modalità di relazione con la propria piccola patria (per conoscere qualcosa occorre distaccarsene). […] Coltivano soprattutto un desiderio (estraneo a quelli del Nord): la fuga» (La Porta 2010, p. 94). La produzione narrativa pugliese, in tal senso, rappresenta un ottimo esempio di quella che potremmo definire la letteratura della fuga, la prova di autenticità di cui lo sguardo maieutico dello scrittore necessita per abilitare spazi vergini, fondando così sé stesso. Proviamo a concentrare la nostra attenzione su tre autori come Mario Desiati, Cosimo Argentina e Alessandro Leogrande, che nei loro scritti si sono confrontati con le devastazioni ambientali e sociali che lo sviluppo industriale ha determinato in una città come Taranto. Ne Il paese delle spose infelici di Mario Desiati, l’apparizione di una sposa nel torrente del Taras, luogo in cui i lavoratori dell’Ilva trascorrono la loro pausa pranzo, rende la periferia sudata di affascino, termine con il quale l’autore indica la maledizione, il sotte- so spirituale tra dimensione onirica e territorio periurbano tarantino. «Anni prima un cavallo zoppo e morente fu gettato nel ruscello, invece di annegare riprese vitalità ed emerse correndo per il lungofiume. […] La dozzina di operai che mangiava panini […] ebbe un miraggio collettivo, una visione che avrebbe sbalordito chiunque: una donna vestita da sposa avanzava all’orizzonte fosco delle campagne. […] Gli occhi parevano dipinti, nei sistemi solari delle deliziose efelidi attorno alla bocca c’era il manifestarsi di una divinazione». Quando poi la sposa fa gonfiare il suo vestito nel Taras, adagiandosi sull’acqua come se volesse sedersi, gli uomini, in preda all’affascino, hanno verso di lei un sentimento di occupazione evidentemente sessuale («così gli uomini sfidarono il freddo e spogliandosi con concitazione, zampettando su una gamba per togliersi i pantaloni il più in fretta possibile, si gettarono dietro a quella sirena, quel mistero di bianco, oro e avvertimenti»): Mario Desiati 2008, p.10. La maledizione che Desiati chiama affascino altro non è se non un desiderio carnale e di assedio, scaturito dalla fatica del lavoro, dai fumi, dalle polveri dell’altoforno e dal fascinum, cioè dal membro virile, che la sposa si carica addosso. Icona questa da sempre legata, in chiave ancestrale, a riti apotropaici: non a caso, si legge nel romanzo, «per molto tempo la gente di Taranto pensò di curarsi dalle malattie e dai sortilegi con i bagni nel Taras» (Desiati 2008, p.9). Così, ritornare al Taras, luogo indicato come primo inse- diamento tarantino, è l’elementare tentativo di rifondare il proprio spazio (soggiogato dai fumi del Siderurgico). Se originariamente la fondazione di una città era compiuta da uno Ktisis, da un fondatore appunto, che con una pietra ne tracciava il pomerium (limite sacro che la delimitava), è curioso pensare che la “Ktisis”, dea personificazione della fondazione, sia rappresentata nel mosaico della Villa costantiniana di Antiochia come una donna vestita in una tunica bianca. A significare che la rifondazione della propria città può avvenire solo con una fuga dalla stessa e, in questo caso specifico, nella oc- cupazione fisica della sua personificazione, la donna del Taras, la sposa del periurbano. Del resto, già il primo romanzo di Desiati, Neppure quando è notte, si muoveva sul terreno della periferia come realtà da abbandonare, unico modo per raggiungere un

54 Scrittori nel tempo riscatto morale ed intellettuale. Franz Maria, protagonista ultraventenne di queste pagi- ne, è spogliato della sua giovane età: si definisce crepante, sta morendo poco per volta, lasciandosi vivere addosso, facendo scivolare sulla sua pelle meridionale quegli idioletti del Sud mortis causa. La paura di una morte intellettuale lo condurrà a Roma alla vigilia del Giubileo del 2000, con uno zaino in spalla pieno di libri e una bottiglia di Aglianico del Vulture: elementi utili a fornire l’immagine melò del giovane spiantato che rinuncia a morire. Vi è chiaramente in questo personaggio un sottotesto autobiografico: al mo- mento della stesura del libro il ‘giovane scrittore’ Desiati, residente a Martina Franca, praticante in uno studio legale, reca già con sé la nostalgia di una periferia che si ap- presterà a lasciare: la descrizione che Franz Maria propone di Taranto è infatti colma di semi romantici amarissimi «lontano anni luce da Taranto ex Italsider, Belelli, ENI, e la morte certa dentro un forno, schiacciato da una gru, bruciato nel combustibile liquido, consumato da un puntualissimo tumore all’apparato respiratorio, soffocato da misteriose polveri di colore arancione che riempiono i balconi, le terrazze, il bucato, le foglie, i cigli delle strade, il naso, la bocca, i capelli, tutta Taranto e i suoi mari metallici» (Desiati 2003, p. 14). E questo abbandono della terra natia sembra accomunare Desiati al poeta, anch’egli pugliese, Vittorio Bodini, il quale in alcuni versi de La luna dei Borboni, cinquant’anni prima, diceva così: «Qui non vorrei morire dove vivere/ mi tocca, mio paese,/ così sgradito da doverti amare» (Macrì 2010, p. 106). Della Taranto degli anni Settanta, invece, ci regala una visione emblematica Cosimo Argentina con il suo Cuore di Cuoio. Camillo Marlo, protagonista di queste pagine che «valuta il bene e il male in base a ciò che accade in un raggio di trecento metri» (Argen- tina 2010, p. 61), non è solo il personaggio principale di una storia, ma un cittadino di quel meridione che Asor Rosa chiama «specchio negativo della modernità». L’allontana- mento dai confini cittadini, fa perdere i precisi contorni del tutto, provocando un senso di smarrimento che troverà coordinate solo in un altro spazio delimitato: un campo di calcio. Se i rapporti umani sembrano non sussistere nell’abbandono della città, come se nel ‘periurbano’ fosse in vigore una sorta di atarassia sentimentale, all’interno del campo di calcio, che con i suoi confini riecheggia quel pomerium che delimita la sacralità della città, ritornano a stringersi patti di amicizia e di autodeterminazione.

La periferia dei quartieri […] Montegranaro, Salinella, Paolo Sesto, nei quali si muove il giovane Camillo Marlo, è un luogo smagliato, un pezzo di città nel quale gli spazi aperti si limitano a rientrare nella categoria di spazi in negativo, come luo- ghi non costruiti, non progettati, non disegnati, non abitati e persino non dotati di un riconoscimento toponimico. Sono solo le pratiche irregolari ed estemporanee dei ragazzi che giocano, a dotare un grande spazio urbano di un disegno (quello delle linee del campo da calcio) e di un nome (Maracanà) con una sensibilità e una mutevolezza inaccessibili alla rigidità degli strumenti dell’architettura e dell’urba- nistica. (Marocco 2013, p. 193).

Alessandro Leogrande, tarantino anche lui, rappresenta quello che Filippo La Porta chiama «un onesto e immaginativo giornalismo narrativo» (La Porta 2010, p. 71). In Uomini e Caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi delle campagne del Sud le vicende raccontate,

55 narrazioni n.4 cruente perché crudeli e rispondenti ad una realtà mai descritta, sono ambientate in una periferia amorfa: amorfa secondo lo sguardo degli schiavi che non conoscono le terra che li rende prigionieri e amorfa secondo i passanti che ignorano quei ghetti piantanti nelle campagne. La descrizione dei luoghi risponde spesso a una logica esemplare e di- dascalica, volta a dare alle immagini un carattere fisiognomico e non puramente visivo. È la narrazione a richiederlo, la materia trattata e la delicatezza di dare uno spazio a nomi spesso dispersi, come se i luoghi si ritirassero in un ‘periurbano’ ancora più remoto. Senza perdere i connotati della realtà e la verità del dato preciso, – elementi utilissimi al lettore per non straniarsi nel flusso narrativo – Uomini e Caporali è l’esempio di quella periferia amara che è pregna di fuga: fuga per gli indigeni che riconoscono la brutalità della terra e per chi, ancora una volta lasciandosi alle spalle una concezione arcadica della Puglia, viene accolto per essere reso schiavo. Gli spazi aperti delle campagne sono spazi essenzialmente vuoti che acquisiscono verità descrittiva nel campo di pomodoro, nel ghetto, nell’insediamento umano delimi- tato dal recinto-frontiera. «È sulle frontiere che si misura tutta la terribile inquietudine che attraversa la storia degli uomini» (Cassano 2005, p.51). «Le frontiere sono i luoghi in cui i paesi e gli uomini che li abitano stanno di fronte. Questo essere di fronte può significare molte cose: in primo luogo guardare l’altro, acquisirne conoscenza, confron- tarsi […]. Ma l’esistenza dell’altro può essere anche insidia. Come nella dialettica delle “autocoscienze opposte” di Hegel, in questo star di fronte è in palio il riconoscimento». Quel che però emerge dalle pagine di Leogrande è proprio il mancato riconosci- mento: gli schiavi che pure vivono su una frontiera si rapportano a un non-luogo, o meglio, a un luogo privato della sua morale che non può garantire l’autodeterminazione dell’individuo. «Taranto è una città a strati. Una città in cui i piani storici, temporali, sociologici si accavallano» (Leogrande 2013, p.7), scrive l’autore di Fumo sulla città, il reportage che abbraccia il ventennio di trasformazioni tarantine, dagli “intortamenti” di Giancarlo Cito all’ultimo biennio in cui sembra riecheggiare la voce di Arbasino: «ossigenarsi a Taranto / è stato il primo errore». La sua città, diversa da quella descritta da Argentina, è più centrale, meno periferica e diviene spazio d’esperimento per tutto il territorio ita- liano, in chiave assolutamente positiva se si pensa allo spirito imprenditoriale collegato al sogno della Grande Fabbrica. Leogrande però, lungi dal dare un’immagine chimerica della città, si sofferma sul neologismo, coniato da Walter Tobagi, “metalmezzadro”, con il quale il giornalista soleva rubricare lo stretto legame tra il profilo urbano dell’operaio che lavora in fabbrica e quello periferico del bracciante che mantiene un legame eco- nomico con la terra. Ebbene, quello di Leogrande è un riordino in chiave temporale di una realtà complessa, un riordino mosso dalla coscienza di creare sguardi alternativi alle braci borboniche. «Cito non ha fatto altro che ricoprire la carica di governatore di queste terre così come si è definita nei secoli con le sue solite fondamentali caratteristiche: sud- ditanza nei confronti dei poteri forti che venivano qui a depredare» (Leogrande 2013, p. 23), afferma l’autore, puntando il dito su quel greve sentimento lascivo che ha fatto del nostro suolo la periferia d’Italia. Taranto, dunque, periferia della periferia, anche in chiave negativa assurgerebbe a città-esperimento, a ologramma di un meridione da sempre soggiogato, perché soggiogabile. Lo sguardo di Leogrande, tuttavia, al termine

56 Scrittori nel tempo del saggio si carica di un afflato propositivo narrato in toni quasi romantici. Lo scrittore- reporter guarda le sue terre deserte e silenziose, fino a scorgere, quasi in preda ad un affascino, i morti da lì partoriti. Così, ricoprendola di poesia, restituisce dignità a Taranto:

Sì, inizia proprio da qui, […] guardo dal terrazzo della casa in cui sono cresciuto le ciminiere dell’Ilva chi si stagliano davanti a me, le gru immobili del porto, le navi ormeggiate […], il golfo che si allarga all’orizzonte, le isole di San Pietro e di San Paolo, e poi ancora la città vecchia, il traffico incolonnato della sera, i palazzoni che si susseguono quartiere dopo quartiere spesso identici tra loro, l’inizio della campagna e la strada che corre dritta, verso la collina di Martina Franca» (Leo- grande 2013, p. 270). [email protected]

bbiamo chiesto a Cosimo Argentina e a Alessandro Leogrande di rac- Acontare come il loro sguardo da scrittori si sia appuntato sul periurbano.

Cosimo Argentina

Sono sempre stato affascinato da quell’interregno che è rappresentato dalle periferie e dai quartieri che sono sorti e poi si sono sviluppati in modo a volte caotico e abnorme durante l’industrializzazione. Taranto è un esempio emblematico. Voglio dire: esiste una Taranto pre-Ilva costituita da un nucleo storico e dall’identità di una città da quaranta, massimo cinquantamila abitanti e poi c’è la Taranto post insediamento siderurgico. Nel mio quartiere i tarantini veri sono sempre stati pochi. C’era grande contaminazione. Gente che lavorava nelle cokerie, all’arsenale, in marina, nell’indotto e proveniva da Genova, dal resto della Puglia, dalla Lucania, dalla Calabria e dall’estero. C’erano gli olandesi coi polsini di cuoio e i capelli lungi, i giapponesi, coreani e Dio solo sa cos’altro. Le vie partivano dal centro, ma poi si frantumavano contro palazzi o facciate di chiese rimaste in piedi e da lì in poi lo stradario diventava complicato e come pensato da un epilettico. Più ti allontanavi dal centro, più cambiava il linguaggio, gli accenti, lo slang, le abitudini. Noi del rione di Italia Montegranaro non avevamo nemmeno la percezione del mare come i bambini di Taranto vecchia. Io sono cresciuto con il catrame di dei Beni Stabili, un agglomerato di piazze mattonate, grattacieli poi invasi dai baraccati sfollati dalla pubblica sicurezza e dalle betoniere che andavano e venivano davanti casa mia. Noi ragazzini giocavamo per strada e vedevamo il mare solo d’estate. Non potevamo andare in Città Vecchia perché era pericoloso e ci ricordavamo di essere tarantini solo allo stadio o quando passava per la via un personaggio storico che vendeva le buste di qualche lotteria. Ancora oggi ci sono vie oscure, piccole traverse dove non entra mai il sole e a un isolato grandi strade intasate di traffico. Lì sono cresciuto. Un’incoerenza e una disarmonia che tutt’oggi fa dei quartieri popolari e di quelli satellitari un mondo a parte rispetto al Borgo e all’Isola, ma che ai miei occhi conservano il fascino che ho sviluppato nell’adolescenza.

57 narrazioni n.4

Alessandro Leogrande

Credo di essere stato attratto da sempre al tema della città e dei suoi margini. Perché se è vero che la città è lo spazio principe della letteratura (e si potrebbe anche dire del pensiero politico), è anche vero che la città in cui siamo cresciuti (per chi è nato nella seconda metà del Novecento) è uno spazio profondamente mutato. Qual è il centro? Quali sono le periferie? Qual è il confine tra città e non città, specie quando questo confine viene interiorizzato nello stesso spazio apparentemente “centra- le” della città? (Ci sono città porose che iniziano a essere non-città già nelle loro piazze centrali...) Essere nato e cresciuto a Taranto, ovviamente, ha posto tale questione, almeno ai miei occhi, sotto una certa radicalità. Credo che ciò emerga in “Fumo sulla città”, un libro scritto praticamente nell’arco di tredici anni. Non si tratta solo del rapporto tra città e fabbrica, dal momento che non ho mai pensato che queste fossero due entità aprioristicamente separate (quanto c’è della città nella fabbrica? Quanto c’è della fabbrica nella città? Quali sono le forme dell’osmosi? Chi sono i cittadini-operai? Chi sono i non operai-cittadini? Chi sono i non cittadini?). A me è sempre interessato raccontare la terra di mezzo, l’interstizio fisico e psichico tra le due realtà, il modo in cui questo ha condizionato la vita di tanti. E poi c’è un oltre la fabbrica, essenziale per capire la Taranto contemporanea. È la non-città costituita dalle periferie sempre più anonime o dal crollo della città vecchia – due fenomeni, questi, che contraddistinguono molte grandi città meridionali degli ultimi trent’anni. Questo processo di sprawl in salsa meridionale in città come Taranto è più radicale che altrove. Più che il rapporto città-campagna o il rapporto città-fabbrica, mi interessa raccontare quelle sei-sette sotto-città che si sono create al suo interno e il modo in cui interagiscono o non interagiscono tra loro. Essere nato in Puglia mi ha aiutato? Forse sì. Come ho scritto più volte, con la caduta del Muro (e l’approdo della Vlora nel porto di Bari) la periferia della periferia dell’Im- pero è divenuta ponte tra Est e Ovest. Questo ha sostanzialmente sprovincializzato chi voleva lasciarsi sprovincializzare. Una volta mi è capitato di dire che la forbice tra la città dei ricchi e quella dei poveri si estendeva lungo tutto il Canale d’Otranto. Osservando Valona dall’interno mi sembrava evidente come questa fosse una città rovesciata rispetto alle città pugliesi della costa adriatica. Anche qui: quali sono i reali confini della città nel XXI secolo? Con Uomini e caporali poi mi è capitato di raccontare le nuove borgate agricole del Tavoliere. Quello spazio ai margini dei paesoni agricoli, abbandonato nei decenni scorsi dai cafoni pugliesi, è stato ripopolato dai braccianti stranieri, che patiscono condizioni di sfruttamento tali e quali, se non peggiori. In questo, l’estrema periferia meridionale è all’avanguardia nei processi di globalizzazione della forza lavoro (tanto più globale, quanto più vulnerabile). Raccontare i nuovi cafoni, alla luce della memoria storica della violenza subita dai cafoni di ieri, è il modo per raccontare come cambia la campagna pugliese. Uno spazio ancora popolato, ma in modo diverso. Le distanze reali spesso non corrispondono alle

58 Scrittori nel tempo distanze di fatto. Per un gruppo di ghanesi che vivono in un ghetto messo in piedi in poco tempo a 20-30 km da Foggia, la distanza “reale” con il cuore della città e i suoi di- narrazioni n.4 ritti non sono semplicemente 20-30 km. È come se fossero due o tremila! È tale dilatarsi delle maglie e dei fili invisibili che ci tengono insieme o ci allontanano, a mio avviso, a dover essere indagato e raccontato. Qual è il ruolo della non fiction, del reportage narrativo, della letteratura che indaga il reale, in tutto questo? Essere attenti alla dimensione umana, alle persone in carne e ossa alla base o ai margini di questi processi. Raccontare le loro vite in relazione a queste trasformazioni generali. Dire il non detto. Lasciarsi stupire da quante siano complicate, e a volte incredibili, le cose degli uomini.

Bibliografia:

Aa. Vv., 2011, Manifesto TQ Cosimo Argentina, 2010, Cuore di cuoio, Fandango, Roma Alberto Asor Rosa, 15 dicembre 2009, Ritorno in provincia. Le cento Italie dei giovani scrittori, «la Repubblica» Franco Cassano, 2005, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari Mario Desiati, 2003, Neppure quando è notte, peQuod, Ancona Id., 2008, Il paese delle spose infelici, Mondadori, Milano Filippo La Porta, 2010, Meno letteratura, per favore!, Bollati Boringhieri, Torino Alessandro Leogrande, 2008, Uomini e Caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi delle campa- gne del Sud, Mondadori, Milano Id., 2013, Fumo sulla città, Fandango, Roma Oreste Macrì, 2010, Vittorio Bodini. Tutte le poesie, Besa, Lecce Francesco Marocco, 2013, Un luogo esiste solo se raccontato, Tesi di Dottorato in Archi- tecture and Urban Phenomenology, Università degli studi della Basilicata, 2013

59 narrazioni n.4 IL TEMPO E LE PAROLE: Il tempo è un dio breve e Ma come tu resisti, vita di Mariapia Veladiano

di Nives Trentini

ariapia Veladiano descrive, nel suo Il tempo è un dio breve, la frequente Moscillazione fra i due poli antitetici della ricerca di una totalità della vita e di un’irrimediabile lacerazione fra bene e male. Lo strappo è vissuto come una ferita, poi come necessità e insieme come tentativo di trovare un senso. Il monologo che percorre tutto il libro è incentrato sul tema della sof- ferenza inevitabile appagata anche dai doni ricevuti che portano Ildegarda a ringraziare Dio con le parole delle preghiere canoniche e, infine, a giungere a una sua decifrazione personale del mistero dell’esistenza: il mistero c’è ed è impossibile indagarlo fino in fondo, ma il mondo terreno è espressione di questo stesso mistero e come tale va vissuto, come un orizzonte pieno di interrogativi che non sempre hanno risposta.

l romanzo del 2012 di Mariapia Veladiano ha la veste stilistica dell’opera ibrida, a metà fra la diaristica e il monologo, nutrita di meditazione e di spunti di filosofia Imorale e teologici, di storia personale, famigliare, collettiva; ed è anche un testo difficilmente analizzabile che pone il problema assillante della sua specificità, individua- bile non tanto e non solo nella finzione dello smascheramento di più identità, quanto piuttosto nella forzatura dell’indicibile, nel suo porsi come strumento della registrazione di una porzione di tempo che si oppone alla vanificazione del vissuto attraverso la scrit- tura. Inoltre, di primo acchito, la sensazione subitanea che viene in mente è che l’autrice non sia una scrittrice di trame articolate e complesse, anzi; questa definizione palesa per la Veladiano parte della sua peculiarità poiché ciò che colpisce nella sua scrittura, soprattutto in questa seconda pubblicazione, è la notevole capacità di fissare per afo- rismi, riflessioni apparentemente disorganiche, considerazioni, i pensieri che ci abitano in modo occasionale e l’incessante articolarsi, l’assillo, l’insistita quête sull’esistenza che fanno da sottofondo al libro intero. Dal rifugio di Campodalba, paesino immaginario dell’Alto Adige, la protagonista scrive per ‘ordinare’ la sua esistenza, per ri-scoprire il senso delle cose ormai discontinuo e confuso a causa della malattia. L’ordine nel/del racconto va di pari passo con l’assot- tigliarsi del tempo ed è garantito, in piena finzione, solo dalla scrittura. La vita detta o semplicemente tracciata con l’intento di fornire una sequenzialità e una disposizione all’accaduto è percorsa dall’istanza interrogativa della protagonista che rivolge a sé, alla fede, a Dio e infine al lettore domande sulla paura connessa al vivere, alle continue sfide a cui si deve far fronte, al rapporto dell’uomo con la religiosità. Da un luogo quasi miti- co, memore vagamente della Montagna incantata di Thomas Mann, la protagonista riper- corre la sua vita suddividendola in due parti: quella difficile del matrimonio con Pierre e quella dell’arrivo a Campodalba, dell’amore intenso per un altro uomo e verso se stessa. Quindi mentre nella prima parte sfilano i personaggi fondamentali della narrazione, ne vengono presentati pregi e difetti, ferite dell’animo, dall’arrivo in Alto Adige nell’affa- bulazione, o nell’allucinazione della malattia, tutto riacquista senso, ricupera quella forza che accompagna l’amore e la precaria armonia con se stessi.

60 Scrittori nel tempo Benché da questa presentazione sommaria il libro possa sembrare un testo semplice, va detto che non lo è affatto. Forse per gli argomenti che tocca o forse perché, come suggerisce Angelo Guglielmi con tono vagamente ironico, questo è un romanzo che tie- ne in ostaggio il lettore su temi come l’amore, e le sue tante forme, sulla sofferenza non solo fisica, sulla paura che costantemente ci accompagna, sulla genitorialità mai sconta- ta, sulla morte e sulla fede. Ed è soprattutto quest’ultimo nucleo che potrebbe mettere in difficoltà chi legge perché lo spinge di fatto a confrontarsi con un campo esperienziale o culturale sempre meno conosciuto e quindi a fare i conti con una sorta di inadeguatezza che obbliga ad accettare tout court la finzione romanzesca come punto di partenza e di arrivo. Il cosiddetto patto autoriale va accettato senza riserve perché più entriamo nel vivo del romanzo più il tema religioso è dichiarato e assume le tonalità e le espressioni tipiche della ‘dottrina’ cioè di una modalità (poco ricorrente) di ragionare con se stessi che tocca l’espressività interiore, caricando il linguaggio intimo di interrogativi, dubbi, certezze: il numero delle parole si riduce e diventa più intenso fino a trasformarsi in un tessuto di comunicazione essenziale, tanto che nelle ultime pagine i capitoli/lasse sono di poche righe, utili a dire un unico, ma chiaro, concetto. Ed è proprio questa precisa scelta di campo che fa sì che la lettura non lasci indifferenti davanti a questa visione della complessità e del bisogno per ognuno di noi di trasformarci da dentro, come potrebbe insegnare Emily Dickinson a cui molto si avvicina, nelle riflessioni e nella forma afo- ristica, il discorrere di Ildegarda. E se è importante accettare fin dal titolo il dispiegarsi “breve” del tempo, è altresì necessario accogliere la prospettiva religiosa del dialogo interiore della protagonista, innanzi tutto, e del dialogo con tutti gli altri interlocutori di questo lungo colloquio che nella parte finale rivela la fragilità di ogni credo. Il tono meditativo e la centralità del tempo di attesa ci portano a ragionare sulle due sequenze del testo, molto diverse sia nel tono che nell’intensità: nella prima prevale la caratterizzazione del dolore umano, potremmo dire dell’animo, con le storie degli avi tramandate a Villacadra di una struggente bellezza a cui fa da controparte l’affidarsi alla natura dei genitori della protagonista, umili contadini a cui appartiene però la saggezza della terra e la semplicità del ciclo delle stagioni; nella seconda parte subentra un mon- do nuovo, reso incontaminato dalla neve, lontano dal tempo e dallo spazio dove anzi, chronos sembra perdere il suo potere transeunte in cui tutto scorre ed è effimero. In un luogo incantato da far dimenticare il «male che aveva toccato» la vita di Tommaso, figlio della protagonista, Ildegarda inizia la sua rinascita e, dominata da «un’immaginazione forsennata» (p. 79), parla con Dio, gli chiede e scambia consigli. La protagonista vorrebbe fuggire nell’occhio della Croda, la montagna di Campo- dalba, e terminare lì il suo percorso come per la morte aspettata e liberatrice delle Nevi del Kilimangiaro o per la Ballata di Narayama (1958) (trasposto in film da Shohei Imamura nel 1983), ma il sapienziale compiersi della vita deve essere realizzato e necessita il suo svolgimento completo. Il libro ha un ritmo altalenante e oscilla frequentemente fra il racconto dei pochi fatti e le riflessioni di Ildegarda in un percorso tutto interiore che deve vincere le paure che l’accompagnano per lasciarsi andare a un’intimità con se stessa, con i suoi pensieri e sentimenti che rendono sempre più intensa e partecipata l’ultima parte del romanzo.

61 narrazioni n.4 Spesso a inizio capitolo la scrittrice riallaccia il filo con il destinatario del suo scritto: il richiamo al lettore, o a se stessa, svela fin dalle prime pagine, senza farvi accenno, il progredire della malattia, il desiderio di lasciarsi trasportare e l’urgenza della scrittura come atto di ‘amore’. Come recita il titolo del Tempo è un dio breve la centralità del tempo, e la sua brevità per ciò che concerne la vita, è quella tutta umana della protagonista che si arrovella nella scansione della durata data al corpo e prolungata o accorciata dall’irrealtà delle allucinazioni che estendono, dilatano, deformano la realtà fino a farle prospettare, per lei credente, l’eternità anche fisica. Fondamentale si rivela il titolo con quel dio minuscolo che sottolinea il tempo che ci domina, la caducità umana, e nella prospettiva cristiana il tempo del transito vitale. Il tema della caducità, dell’essere sempre in balia dell’oggi, di ciò che non si sa e non si può sapere è fondamentale e alimenta, anche al di fuori di un discorso teologico vero e proprio, l’essere umano sottoposto all’ignoto. Ma quello che noi possiamo leggere è la sfida, se vogliamo chiamarla così, contro uno scorrere che se- gue delle logiche tutte sue e che non si ferma davanti a niente. E il tempo segna, innanzi tutto, il nucleo famigliare che la protagonista ha costruito con il marito e il figlio Tom- maso; e infine c’è il tempo di Ildegarda che occupa la parte finale del libro, chiarendone il senso e approfondendo in pieno il significato del titolo. Il tempo “breve” è quello dell’attesa ma già a una lettura sommaria pare chiaro che Pierre e Ildegarda sono portatori di attese diverse. Pierre, figlio malearrivato, dovrà sottostare fino all’età adulta all’amore/odio della madre. Il sentimento molto contrad- ditorio della madre che ama senza saper di amare e che lega a sé morbosamente il figlio per fargli scontare la colpa della gravidanza, rivela alla fine tutta la sua violenza quando Pierre partirà per sempre per Londra prima e poi per Washington. Mentre Pierre deve subire l’avversa sorte del figlio inatteso, Ildegarda per paralleli- smo e contrapposizione è al contempo ‘inattesa’ e un dono. A evidenziare il discrimine dell’essere o no desiderati, il libro inizia con una repentina cesura temporale, una svolta nel normale viavai quotidiano che ha il senso di un’inter- ruzione, di un negativo presagio sul domani che lascia il lettore in sospeso («Una sera ti giri perché senti tuo figlio piangere e senza che nulla lo abbia annunciato scopri il male del mondo», p. 3). La frattura subitanea che differisce dal rituale corso dell’esistenza è l’attacco ex abrupto che porta il lettore nel percorso a ritroso narrato nel diario della protagonista secondo un «ordine» che «è una forma d’amore» perché è «l’amore che ci dà forma» (p. 5). Il ritmo sincopato del tempo d’ora in poi accompagna la vicenda di Ildegarda in un alternarsi di male (soprattutto come malattia fisica e mentale) e di bene sotto forma di amore secondo la domanda più volte ripetuta «Quanto amore serve a salvare un amore?» (p. 59 e p. 220). Pierre non voleva figli e la nascita di Tommaso è per lui un disordine, una paura, «una crepa irrimediabile nello scorrere già faticoso dei giorni. Una crepa del tempo» (p. 8). Per contro la vita a Tommaso, come dovrebbe sempre essere, «gli appariva un’avven- tura» (p. 13) da esplorare senza tregua: «correva sempre» e il tempo che lui conosceva era «solo il presente» perché i bambini niente «sanno del futuro, che non è atteso né temuto, semplicemente non c’è» (pp. 13-14). Tommaso viveva «un anticipo di eterno

62 Scrittori nel tempo nella inconsapevolezza dell’attimo consumato tutto intero». Anche per la madre giornalista e teologa tutto si trasforma, nell’enfasi di un’esempla- rità volutamente marcata, in una lunga attesa, sia che si tratti del banale ritorno del figlio dal campeggio estivo, della cena settimanale con il marito o del confronto con l’ospite indesiderato che segna però quel discrimine ineluttabile fra un prima e un dopo, valido solo per chi ha fede. La malattia cambia Ildegarda: la forte cesura originata in lei dal male incurabile, il tempo che si «addipana», toccato dall’«irreversibile», riavvolgendosi su di sé dà il via al monologo che vuole ‘regolare’ una vita. Ma la malattia è l’inizio di una nuova attesa, mai sospettata prima, così diversa da tutte le altre che avevano segnato il fluire della routine: ora prevale l’ignoto, il progredire sconosciuto del male. Nell’attesa di Ildegarda importanti sono i presagi, i sogni, i messaggi da decifrare. I presagi compaiono già nelle primissime pagine del romanzo, ma li ritroviamo trasforma- ti in simboli cristiani di un certo rilievo nella scena del pettirosso e del pavone a pagina 163. Tanti sono gli esempi ma pare più interessante osservare che a questi si affiancano le allucinazioni determinate dalla malattia (come il matrimonio che riconcilia tutta la famiglia) e tre sogni. Senza voler insistere anche qui su un simbolismo generico e noto, pare significativo rifarsi all’ultimo episodio onirico che non solo presagisce la morte di Ildegarda e il futuro sereno di Tommaso, ma ricalca la Salita al monte Carmelo di San Giovanni della Croce. La particolare modalità narrativa scelta dalla Veladiano per que- sto sogno trova qui una giustificazione estetica nelle tradizione teologica. L’andamento della prosa, gli improvvisi addensamenti, i diversi strati dell’enunciazione, il crollo del tempo della fabula di fronte al tempo della narrazione: tutto contribuisce a mettere in atto, fra sogno e realtà, la sintesi del pensiero canonizzato di San Giovanni e la scelta dell’allusione mistica consente alla scrittura, esteriorizzando ricordi, immagini e pensieri attraverso la cultura religiosa, di veicolare ciò che normalmente rimane circoscritto e che qui viene trasmesso senza indugi. Cesare Segre recensendo Il tempo è un dio breve mette come sottofondo religioso del libro la meditazione su Dio e sul male al quale nessuno può sottrarsi, ma davanti al quale tutti possono solo «reclinare la testa». Parafrasando le parole del critico, molte sono le considerazioni che la donna rivolge direttamente a Dio sulla sofferenza, sull’amore e sul bene, arrivando quasi a disputare con lui su tali argomenti: Ildegarda, afferma Segre, «attraversa secoli di riflessioni sui grandi problemi» menzionando «la Bibbia e in particolare i libri sapienziali, poi qualche mistico come San Giovanni della Croce»; il critico suppone l’allusione di «opere altissime come le Provin- ciales di Pascal (1656-57), con il loro dibattito teologico, talora satirico, sulle controversie fra gesuiti e giansenisti» (Cesare Segre, Se una mamma discute con Dio, «Corriere della sera», 15 novembre 2012). L’incedere del testo è marcato anche dai nomi che sono portatori di un significato, di un destino, di un mistero che solo poco a poco si rivela nel vissuto. Tommaso per la ma- dre Ildegarda è «la luce», una luce che «non può essere nascosta» (p. 4), ma questo nome è impegnativo e diffuso, specie nella sfera religiosa, per la famosa incredulità che ha come rovescio una devozione per la conoscenza. Il significato etimologico di Tommaso indica il doppio, ma la duplicità è compenetrazione degli opposti (San Tommaso, ad

63 narrazioni n.4 esempio è patrono dei filosofi, dei librai, degli scolari, delle scuole cattoliche, dei teologi; ed era chiamato anche “Doctor Angelicus” come appunto il dottor Angelico che cura il tumore della protagonista). Nomen omen, insomma. Il nome di Ildegarda è, per esplicita dichiarazione della scrittrice, memore del voto che la madre fa a santa Hildegarda von Bringen (la nota mistica del XII secolo), mentre Pierre sta a indicare le durezza della pietra. I nomi hanno un ascendente sulla vita di chi poi li porta, sono dei punti di par- tenza attraverso i quali l’esistenza si sviluppa con azioni, relazioni. L’onomastica, come poi gli episodi onirici e i presagi, sono ricorsi testuali che affascinano proprio per la loro forza evocativa, cioè di ex-vocare, di richiamare dal passato o da un luogo altro qualcosa che è ancora sconosciuto e aspetta la sua realizzazione. Gli unici personaggi a non avere nome sono la nonna e la mamma di Pierre. Della nonna, affetta da una «malinconia invincibile», si racconta l’abbandono del marito, della casa di Carcassonne e la morte a Villacadra (pp. 27-28); della figlia sconvolta dalla maternità non desiderata si narra che restò per ben quattro anni in ospedale a causa di un forte esaurimento (pp. 14-16) e fece tagliare la «maestà degli alberi che un tempo svettavano» sulla campagna lombarda come «il miracolo di un’oasi nel deserto». La sofferenza della nonna e poi della madre crea una sorta di «percorso del dolore che attraversa le generazioni» perché come i nomi evidenziano chiaramente nel romanzo, «esistiamo da molto prima di nascere» e quindi il nostro destino o meglio la «nostra libertà» ne è inevitabilmente limitata (p. 29). Queste due tranches de vie senza nome ricordano, nel surrealismo dell’affabulazione, certe vicen- de di Cent’anni di solitudine o della Casa degli spiriti, orchestrate proprio su una specifica visione del tempo (la circolarità nel ripetersi delle esistenze, il presagio, il presente dei singoli aneddoti, il futuro delle nuove generazioni), dell’amore, del male e della morte. La protagonista non parla quasi mai della malattia, del suo ospite. La precarietà delle prospettive e l’amore di Tommaso e di Dieter, però, ridà centralità alle sue considera- zioni sulla vita. L’attesa si sta concludendo, ma non parliamo di fine per Ildegarda: la protagonista muore nel fisico all’insegna del Mysterium che consegna all’eternità la finitudine umana. Se la condizione del corpo è menomata, la biologia si rivela insufficiente, la percezione conoscitiva di questa umanità dall’imperfetta natura dedica molte aperture alle potenzia- lità conoscitive della fede nel dubbio, nella solitudine, nella paura, nell’angoscia. Mariapia Veladiano nel suo Il tempo è un dio breve descrive la frequente oscillazione fra i due poli antitetici della ricerca di una totalità della vita e di un’irrimediabile lacerazione fra bene e male. Lo strappo è vissuto inizialmente come una ferita, poi come necessità e insieme come tentativo di trovare un senso. Il monologo che percorre tutto il libro è incentrato sul tema della sofferenza inevitabile appagata anche dai doni ricevuti che portano Ildegarda a ringraziare Dio con le parole delle preghiere canoniche e, infine, a giungere a una sua decifrazione personale del mistero dell’esistenza: il mistero c’è ed è impossibile indagarlo fino in fondo, ma il mondo terreno è espressione di questo stesso mistero e come tale va vissuto, come un orizzonte pieno di interrogativi che non sempre hanno risposta.

64 Scrittori nel tempo

Ma come tu resisti, vita

Alla fine d’ottobre è uscito Ma come tu resisti, vita, un libro agile da consultare, i cui testi traggono origine dalla pubblicazione, tra l’aprile e il giugno del 2012, di brevi articoli comparsi sull’«Avvenire». Il titolo, che funziona da viatico mattutino, è tratto, su indi- cazione dell’autrice, da San Giovanni della Croce: i pochi versi del Cantico spirituale B, trascritti nelle Fonti delle citazioni, mettono in risalto il coraggio dell’uomo davanti alle contrarietà della vita e la sfida verso le molte tentazioni dell’esistenza, ma sottolineano anche l’impegno della scrittrice nel ‘rinominare’ il mondo con una lingua dettata da una sensibilità poetica, centrata sul valore della parola quale cifra di un mondo che cambia di continuo. Articolato nelle tre sezioni Sentimenti, Azioni, Parole/a di quasi ugual misura questo «racconto un po’ transumante» nasce dalla constatazione «felice» che noi «un po’ angeli tuttavia restiamo» e conserviamo la necessità di distanziarci da quel «vivere composto e scellerato» che tutti ci riguarda. La Veladiano consegna la propria scrittura all’acco- stamento di realtà diverse che possono far sorgere in chi legge sensazioni contrastanti: i “minuscoli”, giocati sulle tante immagini definite da pennellate forti e/o da tratteggi leggeri, ben riescono a circoscrivere e a rappresentare una quotidianità sfumata e non facilmente afferrabile grazie anche a un linguaggio ripetitivo, ma solo apparentemente semplice e calibrato sulle tante facce della vita. Ogni piccola voce contiene al suo in- terno un incanto fonico, un cantilenante procedere, una concatenazione di frasi che mettono in risalto, soprattutto nel finale, il particolare nitido, l’attenzione a tutto ciò che è unico e perituro, transitorio ed eterno al tempo stesso. Non c’è gratuità nelle emozioni o nei sentimenti mai condannati: la narrazione procede sempre sul discrimine tra una normalità turbata dagli scherzi del destino, dalle scelte individuali soggette all’errore e la soggezione a un ordine altro di possibilità. Un termine relativo a un sentimento, a un’azione, a una parola, si fa portatore di pensieri, dubbi, certezze, siglate nella breve frase finale dall’inciso assertivo «Della Parola si vive». Non sempre c’è rispondenza im- mediata tra titolo e argomentazione perché la declinazione della voce è ricercata negli opposti e coniugata nelle possibilità dell’esistenza. Il sovrapporsi di stati d’animo muta nella descrizione di un’umanità spesso esitante, distratta, inerte che solo nelle ultime righe del “mattutino” pare ritrovare il suo nucleo e la sua centralità. Sotto la superficie apparentemente sottile dei singoli vocaboli si cela la lotta che la narratrice ingaggia con l’essenza impalpabile dell’argomento trattato, sempre difficile da circoscrivere, del male che affianca il bene e al quale non si sfugge mai. Fra le tre sezioni Sentimenti, Azioni, Parole/a esiste un filo che tutto unisce Tracce( ), che sposta il centro dell’argomento dal «corpo», ciò che di più umano abbiamo, allo “spiri- to”, alle possibili interpretazioni delle parole che ci abitano in un’oscillazione continua fra oggettualità e tensione conoscitiva, emotività e armonizzazione degli opposti. A dar forza al fluttuare degli stati d’animo c’è un fraseggio che pur presentandosi come prosa rasenta in moltissimi punti la poesia, ne mima il procedere per immagini improvvise, forti, seguite da chiuse esplicite. In Rancore, ad esempio, prevalgono le anafore («Sen- za»), gli elenchi («per denaro, invidia, potere, indifferenza, malvagità»), le parole-frasi

65 narrazioni n.4 che racchiudono versi («Pensie- ro preminente, su tutto, che mi precede, accompagna, segue»), le sinestesie («Nitido colpo. Ricordo solitario»): un veloce procedere della scrittura che se nell’enucleare ricorda l’usuale discorrere diurno, rimarca, per contro, un’ispirazione poetica già presente in Il tempo è un dio breve e mette in evidenza l’illu- minante e affettuosa semplici- tà di una testimone dei nostri giorni e il suo sguardo sottile e acuto che sa dare ai termini scelti un valore esemplificati- vo, lontano dall’occasionalità o dall’attualità. I “Mattutini” sono arricchiti da frasi di grandi autori, o estra- polate dalla Bibbia, che ampli- ficano e fanno riecheggiare con la loro elementare intensità le singole voci che fra Sentimenti, Azioni, Parole/a accompa- gnano il lettore e in cui San Giovanni, già ben presente nel recente romanzo del 2012, assume un ruolo pervasivo.

«In quel che scrivo passa l’ascolto della vita così come mi appartiene» Nives Trentini intervista Mariapia Veladiano

Innanzitutto cominciamo dal tempo, quello del titolo che come un “dio bre- ve” governa la nostra vita e che nel libro si declina soprattutto attraverso le vite di Tommaso, Pierre e Ildegarda. Vorremmo inoltre sapere che idea del tempo emerge dal romanzo nel continuo confronto fra dispersione nel quotidiano e af- fermazione in una dimensione altra (cioè religiosa, anche in senso lato)? Il nostro vivere accade nel tempo, è segnato da un limite per tutti. Eppure c’è una dissipazione pazzesca di questo nostro tempo. Giorni e pensieri e azioni che non ci danno gioia. Una specie di distrazione di massa. Sempre a inseguire qualcosa che sta davanti a noi da qualche parte, immaginata o sognata, oppure a rimpiangere quel che ci siamo lasciati sfuggire. E chissà se era vero. Qualche volta quel che abbiamo lo scopria-

66 Scrittori nel tempo mo quando non c’è più. Ecco, Il tempo è un dio breve racconta la storia di Ildegarda, della bufera che investe la sua vita, di come lei scopra il tempo breve e prezioso. Attraverso lo scontro con il male e soprattutto attraverso l’amore per il figlio, per un uomo, per la natura, per Dio. Il tempo è un dio per tutti, credenti e no. È il nostro partecipare all’e- sistenza. Il romanzo, sorta di diario scritto a ritroso nell’“attesa”, suggerisce l’impres- sione a chi legge di ascoltare un’interlocutrice che svela dubbi, pentimenti, ar- rabbiature, riconoscimenti, ecc. Nella dinamica di un monologo confidenziale mi pare salti la trama poiché il libro procede per riflessioni, pensieri interioriz- zati dove la storia, inverosimile e, come dice Segre, in funzione simbolica, tutto sommato, non è poi così rilevante e serve da contenitore. Questo dialogo in as- senza a noi sembra un valore aggiunto del romanzo. Lei cosa ne pensa? Un romanzo in cui “salti la trama” è un completo fallimento e spero proprio che non sia così! Cesare Segre conclude la recensione che lei cita scrivendo che “mentre si con- tinua a dibattere sulla morte o sulla vita del romanzo, la Veladiano ci ha offerto, contro ogni canone e ogni aspettativa, un grande romanzo che è anche un romanzo religioso”. Ora, il giudizio di Segre è personale e generoso e ogni lettore è assolutamente sovrano nel momento in cui giudica bello o orribile un libro, ma difendo il fatto che si tratta di un romanzo, una narrazione, in cui la storia non può davvero essere irrilevante. Un libro è sempre una realtà parallela e l’accentuazione di alcuni aspetti della storia in funzione simbolica serve proprio a rivelare in veste finzionale qualcosa che esisteva già, ma che non aveva trovato ancora la sua forma. Cosa ci vogliono dire queste due donne (Ildegarda vs. mamma di Pierre) così diverse che rivendi- cano la problematicità della maternità e della femminilità mai sufficientemente trattata? La mamma di Pierre non ha le parole e i gesti per dire i propri sentimenti e sembra quasi non avere sentimenti, tranne quello di fastidio assoluto per questo figlio inatteso e indesiderato che è Pierre. Ma non è così. Non sa dirsi e allora agisce, distrugge il mondo intorno a sé, anche quello dei figli. O ci prova. Marguerite si salverà, è forse il perso- naggio più limpido del romanzo la figlia Marguerite. Ma la madre di Pierre è a sua volta figlia di una storia, che la disegna fin nei vestiti che porta, il blu nobiltà, il cappellino di ermellino in testa. Un tempo le donne del suo mondo sociale erano fortemente segnate dal ruolo, madri e non mamme. Non è mai chiamata “mamma” nel romanzo. Ildegarda vive invece la tempesta di tutti i sentimenti possibili. Nata dopo un’attesa carica di desi- derio, lei non ha paura dei sentimenti. Si ascolta, racconta il suo dialogo con Dio, con il figlio, con Dieter, un amore che si impone con la forza della realtà. Nel romanzo ci sono tante incarnazioni dei legami parentali e amicali quan- te sono i personaggi che le rappresentano. L’amore più caratterizzato è certo quello materno (Ildegarda e la madre di Pierre), ma non mancano altre per- sonificazioni della sfera affettiva filtrate da figure esistenziali che vivono tutte l’interiorità in modo diverso. Partendo proprio da questa costatazione vorremmo sapere perché la domanda centrale del libro è proprio «Quanto amore serve a salvare un amore?»

67 narrazioni n.4 Perché l’amore nella nostra vita non ci appare sempre salvifico. Né per noi né per chi amiamo. Eppure è questa la promessa che l’amore porta in sé. Nessuno dice a un altro: «Ti amo per un paio di giorni». Oppure: «Ti amo per un anno o due». Chi ama prova qualcosa da cui la sua vita non può più prescindere. È una promessa di eternità e quindi una promessa di poter misteriosamente sconfiggere la fine del nostro tempo personale. Ildegarda si chiede quanto l’amore possa essere salvifico, se può proteggere i suoi af- fetti con l’amore. Se lo chiede da credente sì. Ma quando lei, all’inizio del libro, dice di credere, non dice: «Io credo», dice: «Io ho conosciuto Dio, la presenza e l’assenza». Il suo credere è insieme dubbio, consapevolezza di un Dio che tace anche. E allora il suo interrogare avviene dalla sponda della nostra comune umanità, non dall’interno di un fortino protettivo. E del resto, questo è il credere. Se accettiamo che l’amore (come gli altri sentimenti) è il fil rouge che lega i personaggi e le situazioni del romanzo, sorge spontaneo chiedersi perché la scrittura o più correttamente il “raccontare” secondo un “ordine” sia una forma d’amore. Ildegarda ricostruisce a ritroso in forma diaristica la vita vissuta che non è né lineare, né definibile. Perché, quindi, la protagonista attribuisce alla narrazione la valenza specifica di un atto d’amore? E di conseguenza che ruolo assegna lei alla scrittura? Sull’amore si scrivono trattati, si sa. Ma l’amore è storia, accade tra persone, cambia le cose, rovescia il nostro mondo. Difficile dire cosa sia l’amore se non raccontando storie. La scrittura è questo raccontare infinite volte la vita perché la vita è infinitamente raccontabile. Noi non possiamo vivere tutte le vite e allora le narrazioni ci permettono di conoscere le vite degli altri, di sentirne i sentimenti, che sono anche nostri, di capire il mondo. Ci regalano il piacere di riconoscerci. Ci piacerebbe sapere come procede nella scelta dei nomi dei personaggi, per- ché ci sembra di notare una marcata tendenza, fin dal primo libro, a un certo carattere simbolico che culmina nell’assenza del nome della mamma di Pierre. Sì. Anche la mamma e il papà di Rebecca, nel primo libro, La vita accanto, non ave- vano un nome. Come fissati nel rappresentare soprattutto la loro incapacità di vivere. E certamente i nomi sono scelti con intenzione nei due romanzi. Credo che i nomi ci consegnino delle storie che contribuiscono a disegnare le nostre vite. Nessuno che si chiami Chiara può ignorare la santa, le sante con questo nome. E questo vale per chi si chiama Francesco, o Riccardo o Elisabetta. A volte si tratta di storie di famiglia, il nome di un nonno, di una zia eccentrica e ammirata. Oppure, un tempo, il nome di un fratelli- no morto prima della nostra nascita. Pensiamo al peso di un nome così. Nel romanzo Il tempo è un dio breve Ildegarda porta il nome di una santa straordinaria, erborista, donna di fede potente, combattente. Amava Dio con una fisicità inconsueta, amava gli uomini e le donne del suo tempo attraverso la cura dei loro corpi malati. Ildegarda nel libro scopre nella sua storia la potenza del corpo. È combattente, anche lei. Ama la natura, le piante. È terra oltre che cielo. La sua fede passa attraverso il corpo e la terra. Poi c’è Pierre, suo marito. Nel Vangelo Pietro è la solidità, la chiesa che non crolla. Qui il nome è antifrasti- co, Pierre ha il nome che ricorda ogni momento una vita sentita come un peso, un ma- cigno da portare. Poi c’è Tommaso, il bambino. E’ l’interrogante, come il Tommaso del

68 Scrittori nel tempo Vangelo. I nodi teologici più complessi sono sciolti attraverso le sue parole di bambino. In molte interviste per Tommaso lei ha parlato di «male innocente», ma mi pare che nella storia il male e il suo temporaneo superamento riguardi più Ilde- garda e la mamma di Pierre o, se vogliamo, l’uomo nella sua quotidianità e nelle contraddizioni della vita. Riproporre il ‘tema del male’ oggigiorno non è affatto facile, relazionarlo a Dio, poi, complica ulteriormente il piano d’indagine. Cosa ci può dire? In realtà molti romanzi mettono a tema il male. Soprattutto la cattiveria estrema dell’uomo. E lo fanno spesso con molta violenza, una violenza che quasi ottunde la capacità di pensare e il lettore si sente trasportato in questo vortice, indistinto rispetto al male di cui legge. È un modo per non vederlo, per accettarlo come inevitabile. Lo definisco un modo “ammiccante” di parlare del male. Credo che sia inevitabile parlare del male, in fondo gran parte della letteratura di tutti i tempi ne ha parlato, ma credo che la scrittura, il linguaggio abbia il compito di permettere la distanza, non quella emotiva, quella ci deve essere, ma la distanza critica, il pensiero, che permette di capire, di riflet- tere e di prendere una propria posizione. E di riconoscere il male come male, contro cui combattere sempre. Ci piacerebbe sapere qualcosa di più sui tempi lunghi di gestazione del libro. Lei parla di molti anni in cui il testo è rimasto sospeso, in attesa del momento giusto. Che cosa ci può dire? Sì, dodici anni. In cui ho intanto fatto molto altro, ho lavorato nella scuola, ho scritto altri romanzi e racconti. Il tempo è un dio breve ha avuto una prima stesura fra il 2000 e il 2005. Ma aveva bisogno di tempo e di vita per diventare così come è ora. Alcuni perso- naggi sono diventati molto più innocenti, le parti più riflessive sono diventate dialogo e vita. Credo che fosse necessario. In fondo si trattava di trasformare un tema filosofico e teologico, “perché il male?”, in una storia, in tante storie. È un romanzo a cui tengo moltissimo, certo quello a cui tengo di più, anche rispetto a quelli non pubblicati. Lei è definita una scrittrice ‘cattolica’. Le etichettature di questo tipo hanno sovente un ruolo esemplificativo che nella tradizione culturale italiana si com- plica ulteriormente giacché una netta linea di demarcazione tra cattolico e non risulta abbastanza difficile. Comunque, al di là delle convinzioni personali, al termine suddetto preferirei per la sua scrittura il più generico ‘religioso’ che riguarda la sfera spirituale dell’esistenza e che appartiene a tutti. Trovo inoltre stimolante e forse inusuale che nelle parole della protagonista filtrino delle men- zioni più o meno dirette a grandi pensatori religiosi. Ce ne vorrebbe parlare? Non mi riconosco nella definizione di “scrittore cattolico”. Scrivo e in quel che scri- vo passa l’ascolto della vita così come mi appartiene, da persona che crede. Come capita allo scrittore che non crede o che è agnostico. E nessuno parla di “scrittori agnostici” o “scrittori atei”. E poi ci sono infiniti modi di essere agnostici o atei o cattolici. Esistono moltissimi autori che hanno scritto a partire da un immaginario cattolico, o semplice- mente a partire da una cultura in cui il cattolicesimo ha un ruolo di costruzione enorme. Io sono vicentina: credo che Piovene in questo senso sia più cattolico di Fogazzaro. E Virgilio Scapin ancora di più. Non c’è pagina sua che non abbia questo mondo cattolico

69 narrazioni n.4 come sfondo. E certo non era credente. E restando al romanzo, tutta la riflessione re- ligiosa di Ildegarda passa attraverso il suo essere credente, ma quando lei dice di essere credente lo dice con parole non “confessionali”. Pierre, come del resto la madre e le sorelle, sono tutti bellissimi e ricchissimi ma purtroppo irrimediabilmente corrosi dal male di non essere stati desiderati o di non essere stati accolti nella vita con sufficiente amore. Come già nellaVita accanto la bellezza, quasi una legge del contrappasso, è segnata dall’incapacità di amare e fa emergere il tema del pregiudizio riassumibile nell’equazione brut- to equivale a ‘male’. Ci piacerebbe sapere perché questa indubbia limitazione del tutto umana è estesamente trattata? Questa è una distorsione della nostra modernità che del bello ha fatto un feticcio falso e abbagliante. Il termine “brutto” nel primo romanzo non definisce il brutto in qualche modo reale. La bambina Rebecca non viene nemmeno descritta. Definisce la bruttezza di un mondo giudicante che chiama brutto quel che brutto non è e non vede la sua bruttezza. Il romanzo è costruito da incessanti interrogativi sull’esistenza e sul con- fronto dell’essere con il male. In questa ‘autobiografia dei sentimenti’ sono più importanti le domande o le risposte? È importante l’onestà dell’interrogare. E, trattandosi di un romanzo, è importante che tutto avvenga in un impianto narrativo che tiene. Con personaggi credibili, che ri- mangono nella verità delle loro vite narrate. Il suo recentissimo Ma come tu resisti, vita, frutto dell’elaborazione di brevi riflessioni pubblicate sull’«Avvenire», si colloca su una linea di continuità con Il tempo è un dio breve per le tematiche affrontate, per la citazione da san Gio- vanni della Croce che dà il titolo al libro, per il pavone della copertina che nel romanzo, fra sogno e presagio, annuncia la nuova vita di Ildegarda. Ci vuole dire come nasce questo suo «racconto» mattutino e quanto del romanzo dell’anno scorso permane nel nuovo lavoro? Questa è una raccolta di minuscole riflessioni sul nostro sentire e agire di tutti i giorni e su come sia possibile guardare dentro di noi e trovare la forza, il movimento per mi- gliorare il mondo che ci circonda o almeno il nostro modo di leggerlo e di reagire agli eventi. Il tempo distratto in cui viviamo fa sì che le cose spesso ci sembrino inevitabili: così va il mondo, si dice. E invece no. Come nel romanzo Il tempo è un dio breve anche qui c’è la volontà di raccontare che si può provare a non soccombere al male. Un ottimismo che viene da una decisione razionale di non smettere di resistere. Perché non si può. E la scrittura forse può aiutare ad avere uno sguardo sul mondo che ce lo restituisca più nostro. I testi disposti in tre sezioni e suddivisi in parti di quasi ugual misura – 25 la prima, 26 la seconda e la terza – subiscono all’interno di ogni capitoletto un’evi- dente espansione delle voci Amore, Vedere, Parole/a attraverso l’uso di iterazio- ni, elenchi, anafore interne alla pagina o di collegamento fra più testi, aperture- chiusure che simulano un parlato vicino al quotidiano, all’occasionalità da cui sono nati i suoi Mattutini, allo scorrere e riallacciarsi del tempo. La struttura fluida di cui si avvale la forma meditativa del suo discorrere aiuta ad avvicinare il lettore al suo pensiero di persona e di scrittrice? Questi “minuscoli” sono sì stati pubblicati con ritmo quotidiano ma non rispon- devano in nessun modo all’attualità. Sono riflessioni sulla vita, vengono da un ascolto

70 Scrittori nel tempo e sono una restituzione. Le parole vorrebbero essere al servizio di un meditare che narrazioni n.4 permetta di riconoscere una parte di noi che sappiamo esistere ma che non si lascia guardare nel nostro frullare il tempo. Certo c’è molto di quel che sento e penso in queste parole scritte e riscritte nella speranza di trovare il suono che non faccia da inciampo al pensiero. La composizione di «questo racconto un po’ transumante», quasi un sillaba- rio in sezioni e voci singole può, secondo lei, spingere il lettore a trasformarsi in attivo co-autore che esercita la propria creatività scegliendo anche solo uno dei testi come viatico quotidiano, a inventarsi un proprio modo di leggere magari annullando la specificità del singolo Mattutino in nome di un «racconto» unico (come suggerisce lei nell’Introduzione), a creare dei giochi combinatori finaliz- zati a una ricerca di senso individuale? Sì. Sicuramente ha un suo piccolo disegno, che abbraccia i sentimenti e le azioni e le parole. Però i singoli “minuscoli” possono essere letti anche in modo autonomo. “Gioia”, “Speranza”, “Ciechi”, “Amore”; si può seguire la curiosità oppure il desiderio del momento, per sentire o dissentire. Non c’è una tesi dietro queste riflessioni, c’è l’ur- genza di una vita da vivere, e vivere bene, e la fiducia nella scrittura. Ci si prova e non si sa se poi ne siamo capaci, ma credo proprio che la scrittura possa insieme dar piacere e aiutarci a capire il mondo e noi stessi. Mi è parso di cogliere nel libro una velata spinta che, nell’intreccio sottile di Sentimento, Azione e Parole/a, dal primissimo «Si commuove il corpo […]. Si commuove a tradimento» avanza progressivamente verso la chiusa «Della Parola si vive». Questo movimento sotterraneo, magari «scritto con l’inchiostro simpa- tico», come lei dice, e articolato in pensieri «arrivati in sciame», aiuta a educare l’io oltre «un vivere composto e scellerato», a fargli riscoprire lo «stupore» e la «grazia» tanto lontani da «centratura su di noi che deforma il mondo»? Sì, ma senza mai allontanarsi dal corpo, dalla materialità del nostro vivere. Non c’è un percorso di spiritualizzazione, dal corpo alla parola. C’è la necessità di una vita ma- teriale da preservare buona e di un vivere comune e non solo individuale da custodire. Se si perde la materialità del nostro vivere e comunicare, si perde quella prossimità che ci fa sentire il sentire degli altri. Spesso il corpo ci dice più di quel che sappiamo con il pensiero. Nei Sentimenti prevale un fraseggio lirico, direi quasi poetico che lambisce la sinestesia, la parola cristallizzata in figura; nelle Azioni molte sono le citazioni, gli interrogativi al singolo e alla collettività; nelle Parole/a la polivalenza del lem- ma declinata e le immagini suggerite riconducono, in positivo e in negativo, alle molteplici incarnazioni della realtà. Tornando a una delle mie prime domande non crede che nella sua scrittura, e in specifico nei Mattutini, ci sia una tenden- za a trasferire in prosa un linguaggio lirico, un’inclinazione all’uso di aforismi, un utilizzo di riflessioni/sentenze che nella loro brevità “misurano” la nostra esistenza? “Fede” ha una sintassi molto articolata, quasi avvolgente. A volte c’è l’aforisma a volte c’è l’ostinazione del pensiero che non si rassegna all’ovvio, e allora è capace di arrivare a leggere la realtà rovesciata. In alcuni casi comunque ho scritto prima in versi e poi trasformato in prosa. I confini non sono così netti. A volte il dire ci porta dove non sappiamo e ci si trova ad assecondarlo.

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71 narrazioni n.4 SCRIVERE PER NON RESTARE INERMI: Il coltello di Permunian

di Domenico Lonigro

ra memorie di un passato che non vuol riposare e visioni infernali Tin grado di togliere il sonno, con Il gabinetto del dottor Kafka Francesco Permunian allestisce un «piccolo manuale illustrato di ombre e fantasmi» che prende forma nel personalissimo «boudoir filosofico-ferroviario» dell’autore: il bagno alla turca della stazione di Desenzano del Garda.

rancesco Permunian è un randagio di razza e Il gabinetto del dottor Kafka conferma una attitudine evidente fin dal tardo esordio del bibliotecario di Cavarzere, avve- F nuto nel 1999 con Cronaca di un servo felice. Il rifiuto di ogni ordine precostituito si esprime in una scrittura innervata di suggestioni letterarie e sostenuta da un tono ironico, che spesso indulge alla satira dissacrante, attraverso cui Permunian oppone una netta, categorica presa di posizione nei confronti di qualsiasi compartimento stagno:

Io nutro ancora qualche barlume di fiducia soltanto in una forma di scrittura essenzialmente erratica e randagia la quale, per sua intima necessità, diffida istin- tivamente di madame Letteratura e di tutte le sue istituzioni, beghe, gabellieri e servitori vari. […] la mia «domus» ideale è sempre stata (e sempre sarà) collocata al di fuori di ogni potere costituito. Sia esso religioso o letterario.

Letteratura e religione sono gli ambiti privilegiati in cui lo scrittore veneto dimostra di voler correre da solo e di poterlo fare. Permunian non ha padroni né dei e i trentuno brevi capitoli che compongono il «piccolo manuale illustrato di ombre e fantasmi» che è Il gabinetto del dottor Kafka non fanno che scavare l’orbita eccentrica in cui si muove un autore quant’altri mai fuori dagli schemi. La libertà nasce dalla possibilità di scegliere e Permunian può compiere la sua scelta in virtù di una cifra stilistica e di un quoziente letterario elevatissimi, che gli consentono di raccontare la propria condizione di apolide nel contesto editoriale italiano e di irredimibile ateo agli occhi compassionevoli della Chiesa. Non stupisce quindi che, alla ricerca di un ospizio dove trascorrere una serena pensione, l’autore finisca in una setta di «preti spretati» – figure ricorrenti dellasua narrativa – che cercano di ricondurlo sulla retta via, ricevendo come unica risposta una rivoltella puntata contro e la minaccia di essere gambizzati in caso di mancata libera- zione. Sorte analoga toccava del resto a don Ottorino, il prete di Cronaca di un servo felice spinto giù per le scale perché contrario a celebrare il matrimonio tra il protagonista e la sua compagna di vita Griselda, una bambola di gomma, sposata in gran segreto in una chiesa sconsacrata. Maggior fortuna, ma è questione di punti di vista, tocca al funzionario di uno dei maggiori gruppi editoriali italiani: la grottesca richiesta di un provino canoro al telefono, sulla base del quale ricevere un contratto di pubblicazione, si conclude con la risposta più sdegnata e sorprendente: una scoreggia, e tanti saluti ai piani alti dell’editoria, in

72 Scrittori nel tempo cui gozzovigliano «servi in livrea», ex sessantottini e brigate rosse in pensione, e da cui Permunian è ignorato, snobbato o nel migliore dei casi, come nell’episodio narrato, de- finito «teppista di latrina». Un’etichetta involontariamente profetica, per un autore che ha dedicato la sua ultima opera ad una toeletta. Il gabinetto del dottor Kafka mette in scena una girandola di immagini e personaggi che ruotano attorno ad un centro di gravità: il bagno alla turca della stazione ferroviaria di Desenzano del Garda, dove Permunian si reca ogni mattina, puntualissimo, dopo il cap- puccino delle 6.30, a dar forma ai dèmoni e alle visioni che gli tolgono il sonno durante la notte. Il primo di questi è Amin, un immigrato clandestino di origini senegalesi che estingue sul corpo il debito per il suo arrivo illegale in Italia e che lo scrittore sorpren- de, di buon mattino, ad occupare abusivamente il suo «boudoir filosofico-ferroviario». Davanti allo stesso specchio in cui si erano guardati Kafka e Sebald, due capisaldi del suo pantheon letterario che include, tra gli altri, Antunes e Walser, Permunian incontra il «cacciatore delle sette piaghe» e decide di aiutare quella figura così misteriosa per il lettore, in bilico fino all’ultima pagina tra la persona reale e la creazione immaginaria. Di figure così il libro di Permunian è pieno, tanto da assomigliare ad una casa infesta- ta dai fantasmi che, come spiega Daniele Giglioli nella nota al testo, l’autore incoraggia ed intervista, spalancando loro le porte della propria mente e della pagina, «registran- done le opinioni deliranti con scrupolo puntiglioso di archivista». Con un’operazione antifrastica rispetto a quella messa in atto dalla narrativa di Manganelli, Permunian non scende negli inferi per rincorrere i suoi spiriti, bensì lascia che essi risalgano dai bassi- fondi della coscienza e dell’immaginazione, allestendo un salotto accogliente per le loro malefatte e i loro vizi. Nel circo di visioni allucinate orchestrato dall’autore, c’è spazio per personaggi so- litari come per canti corali: Mr. Cipollino, il vicino di casa colombofilo oppresso dalla moglie, si lancia sotto un treno per sfuggire alla futura vedova gaudente; i piccioni viaggiatori che lo accompagnano al cimitero, amorevolmente allevati per una vita nelle soffitte condominiali, finiscono per perseguitare l’autore col loro frullo martellante; l’at- tempato cavalier Ermenegildo Tentorio si agghinda tutte le sere davanti allo specchio, come un damerino settecentesco incartapecorito, per poi andare a letto. Vedovo da troppo tempo ormai, non ha perso la speranza di una nuova, romantica liaison dietro l’angolo. Nelle pagine di Permunian c’è posto soprattutto per figure che riemergono dal pas- sato personale dell’autore, dai vecchi compagni di classe ormai abbandonatisi alla crapu- la e invecchiati in malo modo, incontrati dopo decenni in una cena trimalchionica, allo zio Berto e alla sua amante gitana Zefirina. In arte Fred & Flo, come Fred Buscaglione e Flo Sandon’s, i due – lui un dongiovanni fanfarone, lei una creatura dai tratti animaleschi – partecipano ad una improvvisata Corrida che costa la vita allo zio e fa le fortune della furba e seducente zingara. Il secondo funerale, in un libro che di morte si rivela intriso come il suo autore, è una grottesca carovana di gitani che accompagnano lo zio alla fossa in una chiassosa sinfonia di clacson d’auto. Presenza ricorrente ne Il gabinetto del dottor Kafka – e personaggio a cui Permunian guarda con più affetto – è Carmen Barriento, detta la Bimba per la sua straordinaria

73 narrazioni n.4 bellezza, amica d’infanzia cresciuta assieme allo scrittore nel podere di Ca’ Labia, dove i genitori di entrambi lavoravano presso la nobiltà locale. Di origini spagnole, come il suo nome lascia intendere, Carmen ha dovuto convivere fin da giovanissima con il male, perpetratole fisicamente dall’incesto col padre, di cui porta ancora i segni in una psiche devastata da immagini infernali che la tormentano e la spingono ad accecarsi, per non vedere più l’orrore negli occhi del suo aguzzino che viene a farle visita in manicomio. Se gli occhi sono destinati ad un buio perenne, così non è per la mente e, tra un delirio e l’altro, Carmen riesce a far luce sul vero rovello dell’amico:

Al contrario di me, tu sei condannato invece a vedere ancora a lungo i tuoi fan- tasmi. Ti accompagneranno fino alla tomba, te l’assicuro, i tuoi dannati incubi diurni e notturni. […]Tu sei vissuto finora murato vivo dentro il carcere della memoria. Sepolto sotto un cumulo di ricordi e con la mente sempre rivolta verso l’infanzia, alla fine sei diventato pazzo di nostalgia. La nostalgia dell’infanzia, è questo il tuo dramma. La tua malattia. Una malattia subdola e regressiva che ti obbliga a rielaborare ossessivamente il lutto per la perdita della tua innocenza pue- rile, conservandoti così al riparo dal terrore della morte. Una malattia incurabile che ti costringe a tenere lo sguardo puntato non verso il futuro, di cui non ti è mai interessato un accidente, bensì verso il passato (p. 172).

Il tempo è la costante tematica su cui Permunian si interroga e che la sciagurata Sibilla rivela più al lettore che allo scrittore venuto a farle visita e ormai lucidamente consapevole, a sessant’anni, di destreggiarsi tra le dolci memorie delle sue radici venete e l’inesorabile traguardo universale, che si avvicina di anno in anno: «La verità è che a me, in sostanza, hanno sempre interessato solo e soltanto due stagioni della vita, ossia la giovinezza e la vecchiaia». La prima assume i contorni polverosi e fangosi del Polesine, terra d’origine martoriata dalle alluvioni, sul quale sfondo campeggia una figura mitica nell’infanzia dello scrittore. È l’avo Eugenio Marode, «eroe del fango» impegnato a difendere dalle tracimanti acque dell’infernale Tartaro la piccola comunità di Ca’ Labia, di cui Permunian si fa abile etnografo nel riprodurne la geografia e le tradizioni, attra- verso la descrizione della Sagra dell’Assunta, dei suoi riti, delle sue attrazioni e dei suoi partecipanti. La vecchiaia ha invece la forma, e lascia il segno, del capestro che l’autore avverte attorno al collo. È lo «stemma di famiglia» che Permunian ha ereditato dallo zio Berto, il quale, ancora bambino, assistette all’impiccagione di suo padre partigiano. Da allora, il passare del tempo è, nella famiglia dello scrittore, un cappio che si stringe attorno alla gola e che di notte toglie il fiato ed il sonno, lasciando sulla pelle i segni di una lotta coi dèmoni interiori e le unghie sporche del proprio sangue, nel tentativo di liberarsi da quel vincolo ineludibile come ciò che rappresenta. Tra la culla e il cimitero, a Permunian non resta che condurre una vita in cui il senso di perdita, che il ricordo del passato ispira, è acuito dal timore della morte, costantemen- te esorcizzato dalle periodiche visite al proprio loculo, già acquistato come regalo per il quarantaduesimo compleanno. Perché, con le parole del filosofo romeno Emil Cioran, «è meglio visitare la propria tomba prima di morire, che dopo».

74 Scrittori nel tempo

«Ho vissuto insomma una banalissima esistenza da travet osservando il mondo con gli occhi di un sonnambulo, con un piede ben piantato per terra e l›altro piede perso invece tra le nuvole. E in tal modo, anno dopo anno, ho finito per assomi- gliare a un vampiro che succhiava sangue a destra e manca, pur di mantenere in vita quella folla insaziabile di fantasmi che mi mulinavano nel cervello» (p. 35).

La scrittura si configura per Permunian come «una scialuppa che poteva salvarmi dalla follia di una vita consacrata interamente alla letteratura». Incapace di rassegnarsi alla prospettiva di finire, un giorno, ombra tra le ombre, dopo un›esistenza passata a maneggiare libri e farsi attraversare la mente dai loro personaggi, Permunian ha trovato in quel «fiore selvatico», scoperto a vent›anni e coltivato gelosamente fino ai cinquanta, il punto di equilibrio ed espressione delle spinte costitutive del suo essere, per organiz- zare, come il principe di Salina, «quel tanto di morte che è possibile mettere su conti- nuando a vivere».

«Contro il gelo, contro la stupidità, contro il silenzio, io rimango comunque avvin- ghiato alle parole. Solamente la parola può distruggere o salvare un uomo come me».

Ci sembra, pertanto, che il giudizio espresso da Andrea Cortellessa trovi una sua puntuale conferma: quella di Permunian è una parola che gioca sulla doppiezza della letteratura, per raccontare la duplicità dell›esistenza, attraverso una scrittura in grado di alternare ad un registro malinconico-elegiaco, sempre pronto a sfociare nella lagna, uno invece satirico-demoniaco che si risolve in sferzate rabbiose e laceranti. Quando il lettore crede di avere a che fare con le annacquate memorie di un ex bibliotecario veneto in pensione sul lago di Garda, appassionato di letteratura mitteleuropea e amico di Zanzotto, abituato a fare lunghe passeggiate e ad andare a letto presto, ecco affiorare il ghigno beffardo del satiro senza sonno, che sente le voci dei propri spettri e si ritira con loro in un bagno alla turca; che a vent›anni entra in manicomio per stare vicino agli amici tossicodipendenti e mettere in ordine le cartelle cliniche dei malati e che ai funerali di Maria Corti scoppia in una risata divertita – di cui ode l›eco di risposta provenire dal feretro – dinanzi agli alti quadri dell›intellighenzia nazionale, vestiti a lutto e con l’espres- sione contrita. Aveva ragione Giulio Mozzi quando, all’apparire di Cronaca di un servo felice, battezzò sulle pagine di «Alias» l’esordio di Permunian con l’appellativo di “Hannibal the Can- nibal”. Dietro l’eleganza di uno stile agile e rapido nel tracciare ritratti espressionistici a tinte forti e fotografie sbiadite di una provincia ridotta alla polvere dei ricordi e della terra, si cela una lingua tagliente che non risparmia niente e che fa della lucidità un’arte. Eppure Permunian si tradisce. E lo fa quando smette i panni, abilmente indossati, dell’ascoltatore passivo, della vittima delle voci, in balia degli spettri della memoria e dell’immaginazione, per indossare quelli oscuri e cruenti del mandante di un omicidio troppo efferato per essere vero. Il carrozzone che lo scrittore porta a spasso per quasi duecento pagine si ferma, alla fine, nel parcheggio di un distributore di benzina: lì, Per-

75 narrazioni n.4 munian rivela tutta la sua umanità, sciogliendosi in un pianto silenzioso dopo aver fatto visita a Carmen, ormai destinata a rimanere cieca per sempre. Un uomo lo avvicina e gli chiede se c’è qualche problema: è Amin, il cacciatore delle sette piaghe, che non ha dimenticato il benefattore incontrato nel bagno della stazione ed è pronto a tutto per disobbligarsi, anche a vendicare la sciagurata sorte di Carmen, punendo il colpevole con una morte atroce. Nel finale deIl gabinetto del dottor Kafka si realizza il passaggio dai sinistri sussurri ispi- ratori della scrittura dell’autore, alla voce di quest’ultimo, che così si impone a rivendica- re un ruolo attivo, per se stesso e per la letteratura. Permunian immagina – questa volta è davvero troppo, per cadere nell’incertezza e confondere la cruenta immaginazione con una realtà che sarebbe criminosa – di commissionare ad uno dei suoi personaggi l’omi- cidio del più grande dei dèmoni, il padre-aguzzino di Carmen, perché, come ha sottoli- neato Giglioli, «si scrive per non restare inermi, per passare dall’altra parte del coltello». Se a Permunian basti davvero semplicemente immaginare, per passare dalla parte del manico, è difficile da dire. Quel che è certo è che la fervida immaginazione dello scrit- tore restituisce al lettore frammenti di umanità così vera, indifesa, e per questo ad ogni modo genuina – pazienti di manicomio, professionisti viziosi, parenti peccaminosi, finti intellettuali, poeti ipocondriaci, amici dannati – da incutere timore. È il timore che Per- munian riesca davvero a servirsi di quelle voci che lo tormentano come di un coltello, un bisturi con cui incidere la corteccia delle apparenze e spiare nel cuore di ognuna delle sue creature. Se i personaggi sono così realistici da sembrare – e a volte essere – persone vere, allora ecco di cosa ha paura chi sta dall’altra parte della pagina: di Permunian, e del suo sguardo capace di arrivare nelle più oscure profondità. Anche in quelle dei lettori. [email protected]

76 narrazioni n.4 VIVERE DELLA MORTE: su Cuore cavo di Viola Di Grado

di Antonio R. Daniele Dopo Settanta acrilico trenta lana, il secondo romanzo della scrittrice sicilia- na è la “vita da morta” di una ex studentessa in biologia. In questo diario “da postuma”, Dorotea Giglio vive accanto a tutto ciò che la uccide, dai parassiti del suo corpo alle persone dei suoi anni “organici”. Eterea, la ragazza cerca margini di presenza mentre la materia la abbandona, come il padre che non ha conosciuto e il ragazzo che le fa battere un cuore cavo. Con una scrittura impulsiva e un timbro narrativo insolito, Viola Di Grado si candida a un posto di rilievo nella narrativa odierna, forte di una naturale vocazione alla rilettura e al superamento dei modelli.

La storia di Cuore cavo (edizioni e/o, 2013) è ormai nota: un giorno di luglio Dorotea Giglio si taglia i polsi nella vasca da bagno. Mentre il suo mondo finisce, comincia il romanzo di Viola Di Grado, il secondo dopo il successo di Settanta acrilico trenta lana (edizioni e/o, 2011), sorprendente esordio della giovane scrittrice catanese. Il romanzo ha un impulso vitale nella morte: nasce quando le cose paiono morire. E, anzi, più la morte disfa, rovescia e annichilisce, più la storia prende corpo. È su questo paradosso che la scrittrice fonda la propria scrittura, sulla forza e la salutare vittoria di uno strappo. Si può dire, da questi due romanzi, che stia sorgendo il “violadigradismo”. Potremmo avere la tentazione di chiamarla “categoria” o “maniera” ma non è corretto e faremmo un torto a una proposta artistica in effetti ricca di spunti, intrigante in forme che sono al tempo stesso naturali e ben consapevoli. Questo nuovo “ismo” che si affac- cia sullo scenario del romanzo italiano ha una radice nella persona stessa della scrittrice, una radice che non possiede solo la forza di riverberare sulla pagina momenti e crono- logie della sua vita (il soggiorno inglese, gli studi e le passioni orientali), ma che genera il frutto aspro delle cose pungenti e battagliere. Dietro questa ragazza che scivola via nel sangue della vasca, dietro la storia, gli spazi e i tempi, i volti e i rapporti che si dipanano, vi è la singolare percezione di una lotta, necessaria e crudele, uno “scarto” della vita, forse anche uno scacco ad essa, se intesa nella sua più vile e ordinaria traccia quotidiana. Abbiamo detto “radice” e non a caso: Dorotea Giglio non è un nome buono come un altro; non lo era Camelia del primo romanzo, non lo è, evidentemente, Viola, che della tempera inquieta del fiore, del suo pastello carico di sgradevole voluttà, del pig- mento serotino di questo colore ha fatto ormai la sua sagoma. Una simile onomastica floreale è tra i primi elementi che saltano all’occhio leggendo: c’è qualcosa che non finisce nella bieca polvere di quel che non è più e, mentre si incammina nella stretta strada del niente, trova qualcosa sulla quale sopravvivere. Come ogni fiore si compone, si alimenta e svetta dalla sua terra, quasi lieto della decomposizione che lo ha germinato, così le donne della Di Grado (non tutte, ma coloro alle quali è concesso di entrare nella vita, schivando la pletora di viete strutture sociali e finanche biologiche) vivono “sopra” la fine. Ma anche a lato o dietro. A Dorotea, infatti, è consegnato il compito di spostare il tempo dello sguardo narrativo, di alterarlo senza sosta. La ragazza, morta ma in gra-

77 narrazioni n.4 do di assistere il mondo che il suo corpo ha voluto lasciare, quasi con la pietà di una creatura che disprezza la mediocre piattezza della società degli uomini, cammina negli edifici della sua biologia precedente: la casa di Trecastagni, la noia della villeggiatura e del Natale; l’Etna imponente e minaccioso; la madre che fotografa febbrilmente angoli di una esistenza che sempre la precede o la sorpassa; due zie, una che prova a vivere fra i suoi uomini, l’altra che abbandona il proscenio affondandosi con le pietre in tasca. Un padre mai visto. Col padre tutto era cominciato. Ma la scrittrice lo nasconde in quel «buco del pro- filattico» (p. 27) sul quale pende la colpa, «lo sbaglio». Viola Di Grado conferma, con questo e col romanzo d’esordio, una certa inclinazione della nostra narrativa “al femmi- nile” a delineare l’uomo o il maschio con uno spettro che va dall’insensibilità all’assenza. Quasi una imperfezione di genere. Tanto per restare agli ultimi anni, i primi due lavori di Mariapia Veladiano (La vita accanto; Il tempo è un dio breve) sono segnati da uomini che in un caso sono incapaci di sostenere il peso di una famiglia disturbata, cedono mesta- mente il passo agli eventi e incassano la fatalità di una esistenza subita; nell’altro sono pregiudicati da un silenzio impotente, da quella rocca inespugnabile che una venuta al mondo indesiderata può edificare. In un romanzo comeCuore cavo, con una misura ver- bale equilibrata, ma energica e spesso brillante, la nostra autrice sa realizzare una feroce armonia fra gli elementi, ricompone puntualmente ogni cosa per mezzo del brulichio deformante e altrettanto feroce del saggio entomologico che di tanto in tanto incastra fra le parti dei fatti rivissuti; lascia, invece, sulla soglia il rapporto con gli uomini. Il difet- to di presenza del padre resta un vuoto che ne perpetua la recriminazione. E, soprattut- to, finisce avvolto dalle forme della morte senza esserne riscattato, mentre una famiglia in vacanza, penosamente normale, si proietta allo sguardo della ragazza:

Vidi un’auto passare, vidi un uomo di spalle. Una sensazione fortissima e spaventosa mi assalì. La macchina scomparve. La sensazione no. Quell’uomo era mio padre. Non l’avevo visto in faccia. E comunque, se anche l’avessi visto in faccia, non avrei potuto riconoscerlo: io non sapevo che faccia avesse mio padre. Però quell’uomo era mio padre. Un pensiero così forte da non aver bisogno del treppiedi della logica. Rimasi lì, nel centro del vialetto. Una famiglia strisciava i piedi verso il mare, le mani piene di materassini gonfiabili e braccioli, secchielli, i corpi lucidi di sudore, in testa cappellini con visiera gialli e rossi. […] Solo allora vidi il gatto. [...] Le budella di fuori, la testa rivoltata, un occhio sganciato dall’orbita come un bottone di porcellana. Il sangue secco era già bru- no, e nel suo interno si muoveva una linea tratteggiata di formiche. […] La famiglia si mosse. Cominciarono ad andare verso il mare. Mi guardai le mani. Le dita. Le gambe. Il muretto. Lo stomaco. Il gatto. Mi tremavano le gi- nocchia. Dovevo rimuovere il suo corpo? Seppellirlo nel mio giardino? Fargli un funerale, recitargli una preghiera? Almeno, spingere con le dita verso l’interno l’osso dello sterno che sporgeva troppo? (pp. 38-39)

78 Scrittori nel tempo Dorotea si ripercorre bambina. E pare delinearci una sorta di manifesto di vita fu- tura. Pure della vita dopo la vita: mutila negli affetti, attratta dalla consunzione, anche tenera: il gatto morto è una felice immagine, poiché compendia la domesticità di una compagnia e di un trastullo con una ferinità stroncata. E destinata all’abbandono del- la “forma” sociale (Dorotea pensa alla preghiera poiché vi è meccanicamente indotta dall’ingenuità dei suoi anni). Oltretutto Viola Di Grado torna su questo curioso acco- stamento fra il diletto infantile e la materia vivente – informe più che viva, e per questo simile alla morte – col feto di Geremia, il corpo minuto e cessato che la ragazza morta finisce anche per portare con sé, in un bagaglio, come le provviste per la sopravvivenza. E poi vi gioca cogli altri morti che compongono le sue nuove relazioni. Questa fase del diario ci sembra, francamente, tra le più riuscite di tutto il romanzo. La soluzione di una creatura non ancora compiuta proprio per “insufficienza di morte” – a dirci, rovescian- do i predicati, che è pronta alla vita in ragione di cellule che muoiono, che si vive poiché si muore – possiede l’abbruttimento di un fatto tanto irritante quanto inesorabile. Il passaggio è lungo, stratificato. Contiene quella piccola didattica libresca – forse un vi- zio – presente in tante parti della storia; ma siamo in quel momento della narrazione in cui il lettore ha trovato il modo e il tempo di assorbirla e ne sente addirittura il bisogno:

Presi Geremia da sotto il cuscino, lo strinsi al petto. Piangevo. Lo guardavo con invidia. Aveva ancora le mani palmate, il che significa che non erano ancora morte abbastanza cellule da separargli le dita. […] È la morte di miliardi di cellule che ci rende individui. […] La forma compiuta delle nostre mani, delle nostre orbite, delle nostre labbra è solo il risultato di una catena di fallimenti, di suicidi impediti, di vite protratte oltre il loro desiderio. La punta del naso, la cavità delle narici, gli occhi che osservano il mondo e non si chiudono, sono il risultato di una costrizione molecolare che ha impedito tutta una serie di morti predestinate. Quel feto era quanto di più vicino a Dio, al paradiso, alla materia astratta e infinita dell’universo io avessi mai visto. Era pura pulsione di morte non com- pletamente inibita dallo sviluppo. Quel feto era tutti noi prima che la morte delle cellule scolpisse il nostro assoluto in piccoli meschini stampi di biscotti. […] Il giorno dopo misi Geremia nel mio borsone grigio e mi trasferii a casa di Alberto. (pp. 151-152)

Geremia evoca profezie. In questo scenario, attesa la dialettica di un romanzo pog- giato sul tentativo di “comprendere” quel che vive dalla postazione diafana della mor- te, e di scarnificare per fare l’esperienza della carne, vale la pena rammentare – senza pretendere di aver individuato nessi forse del tutto involontari, se non proprio arbitrari – che a quel nome si lega l’incarnazione divina della tradizione giudaica. Questo “feto vicino a Dio” (e Dorotea stessa vale “dono di Dio”), ma dalla prospettiva contraria e distorta di ciò che è incorporeo o dissipato, sembra predire una specie di atavica de-incarnazione. Che Dorotea se ne munisca per recarsi a casa di Alberto acclude un ulteriore motivo di riflessione. È il primo amore della sua nuova condizione, è “l’amore della sua morte”, ma la ragazza, da fantasma, non può goderne. Lo insegue, lo scruta ma

79 narrazioni n.4 egli resta tanto distante quanto la tanatologia putrescente del suo corpo avanza: «il pe- riodo del mio innamoramento per Alberto coincise col periodo ammoniacale» (p. 133). Lo scudo di questo feto che persiste nella sua inevitabile atonia, vorrebbe propiziare il ritorno di Alberto il quale, intanto, ha lasciato la propria abitazione. Una fatale contro- profezia conferma quel paradigma di cui abbiamo già scritto: la figura maschile è fattore di distacco, non colmato. È anzi, con singolare passaggio semantico, disgiunzione fino allo smembramento. Sembra, insomma, che i tessuti vuoti, gli insetti e i vermi famelici che cavano Dorotea fino al cuore, siano il segno spasmodico del dolore originario ed elementare di un abbandono. Dopotutto Dorotea si è uccisa quando Lorenzo, l’“amore della sua vita”, l’ha lasciata. Così, la periodica contemplazione del tappeto degli invertebrati che popola il roman- zo diventa un talismano non tanto per scongiurare la definitiva scomparsa di Alberto, quanto per confermare una placida ma – vorremmo dire – appagante “cosmoagonia”, il tratto dominante di questo Cuore cavo:

Il quarto giorno, improvvisamente, le fragole non erano più loro: si erano trasformate in oggetti molli ricoperti di peli marrone chiaro. Il quinto giorno c’erano sopra dei piccoli vermi verdi. Le portai nella camera da letto di Alberto, le misi al centro del letto, mi sdrai- ai accanto a loro. […] A furia di aspettare, sul letto vuoto della stanza vuota della casa vuota di Alberto, mi sarei meritata il loro segreto. E allora Alberto sarebbe tornato. Le riposi nel cassetto, tra i profilattici e le aspirine.

26/02/2015: le mie ossa sono così fragili ormai. Tra poco si romperanno. Il mio teschio ha delle macchie verdi intorno agli occhi e alla bocca. Presto smetterò di essere organica, di- venterò polvere bianca. Probabilmente per quel giorno anche il nome sulla mia lapide sarà del tutto svanito. (pp. 153-154)

Il diario di Dorotea Giglio sui suoi “amabili resti” è lo strumento col quale Viola Di Grado tenta di salvarne almeno l’urto verbale. Ma l’intimo possesso della carta ripiega anch’esso nella leggerezza delle tante lettere scritte e indirizzate, finite non si sa dove. In un desiderio prolungato (e quasi eccessivo nell’esercizio tragico dell’autodistruzione) la ragazza cede alla speranza finale della provvida infiorescenza che chiude il romanzo e che promette una corporeità alla quale tutto, infine, è affidato. Anche l’auspicio di un padre, chiunque sia, una scoperta della vita (come l’autrice stessa chiarisce nell’intervista che segue) raggiunta mediante il setaccio inevitabile dei suoi crepuscoli fisiologici:

Finisco di scrivere questo diario, poi strapperò le pagine e le infilerò in una grande bottiglia di vetro: a casa ne ho una perfetta, un tempo ci mettevamo i fiori che fotografa mia madre. […] C’è una foto, da qualche parte, scattata da lei, in cui le restanti due si tengono per mano su un prato lucente, sorridono. Andrò al mare e lascerò la bottiglia con la lettera in mezzo alle onde. Non so cosa c’è scritto, ma so che arriverà a te. Non so chi sei – forse mio padre? – ma

80 Scrittori nel tempo so che l’ho scritta io. Oggi è il primo marzo 2015, e sopra la terra è arrivata la primavera. Oggi è il primo marzo 2015 e mia madre mi ha portato dei fiori. (p. 166)

«Come tuffo nello specchio di Alice». Antonio R. Daniele intervista Viola Di Grado

I tuoi primi romanzi sono segnati dalla morte; gli ultimi due lavori di tua madre sono fatti di suicidi, vedove e indagini su donne morte: esiste davvero – come ha scritto Massimo Onofri – una «Wu Ming familiare»? C’è un progetto comune? Esiste un progetto comune a livello inconscio. Io e mia madre abbiamo un rapporto simbiotico: i nostri inconsci sono in perenne comunicazione e scambio. Infatti, mentre stiamo scrivendo un romanzo ci proibiamo di leggere le nostre cose. Ma poi, inevitabil- mente, troviamo un sacco di punti comuni. È come essere un mostro a due teste. Per fortuna sono due teste molto diverse; infatti abbiamo scritture, idee e linguaggi molto diversi che però hanno lo stesso cuore.

C’è una tendenza nelle scrittrici italiane degli ultimi anni – penso anche a Mariapia Veladiano – a connotare i personaggi maschili come insensibili, in- sicuri o assenti. In questo romanzo Dorotea non ha mai conosciuto suo padre; Lorenzo lascia Dorotea e Dorotea si uccide. Cosa si nasconde dietro questa to- pica dell’abbandono? La psiche femminile è molto più affascinante e quindi mi interessa indagarla più di quella maschile. L’abbandono è una delle conseguenze dell’incomunicabilità, uno dei temi che mi interessa di più indagare e che in questo romanzo spingo all’estremo: Do- rotea da morta non può più essere sentita, ma questa tendenza all’invisibilità e quest’im- possibilità di comunicare erano già suoi problemi da viva.

Hai voluto infrangere un tabù occidentale: raccontare la separazione fra vita e morte. Il tuo romanzo non è esso stesso una infrazione perenne? È un dark ma sempre sulla soglia, è un fantasy ma lungo i confini delle cose reali, è un diario della propria morte e la memoria delle vite altrui, è un saggio psicologico che rovescia le regole del saggio. Ti sei vista morire e disfarti, e ne hai scritto: cosa ci diresti di te se ti vedessi scrivere? Sì, certo, il mio romanzo è un’infrazione perenne. È l’unico tipo di narrazione che m’interessa, quella che sconfina costantemente, cambia stato fisico e dimensione, lin- guaggio, pelle, identità e che costantemente distrugge per ricreare da zero. Da fuori io che scrivo sono una ricetrasmittente in comunicazione con l’interno e l’esterno: vado in due direzioni. Da fuori sembro – così dicono – un’aliena distante da tutti e tutto, ma non è così. Il mio dramma è, al contrario, esserci troppo, vedere le cose fin dentro il loro nocciolo, il che è molto pericoloso. Se poi si percepisce una distanza, è quel poco

81 narrazioni n.4 di filtro che ho per non soccombere.

Nelle recensioni e nelle interviste di questi mesi sei stata via via accostata ad Amélie Nothomb, Edgar Lee Masters, Alice Sebold. Cercare ad ogni costo il modello di riferimento di una giovane scrittrice è sintomo di provincialismo cul- turale o pensi sia importante che il lettore abbia una traccia da seguire per avvi- cinarsi a un nome nuovo? Ti senti debitrice di qualche nome o di qualche opera? È comodo inserire in categorie. Io non sono catalogabile in nessun modo né associa- bile ad altre voci, come per fortuna è stato spesso notato. Non mi sento debitrice perché l’arte è uno scambio, non produce debiti, e perché non credo nei modelli, non ne ho; l’arte dev’essere creazione da zero, altrimenti non ne vale la pena.

I tuoi non sono romanzi di intrattenimento eppure hanno riscosso un certo successo; l’amore – specie in questa seconda prova – è trattato con un po’ di sfiducia. Ma Dorotea si suicida per restare attaccata alla vita e ai sentimenti passati: cosa pensi del paradosso romantico (di cui il titolo in qualche modo è rivelatore) che si produce dal tuo romanzo, apparentemente votato alla sola de- composizione, all’afasia e a rapporti non più possibili? È un romanzo pieno di amore. Sì, c’è lo svuotamento del cuore, anche in senso bio- logico, ma il cuore è un muscolo cavo per definizione, e Dorotea scopre la bellezza della vita attraverso la morte, attraverso un processo di unione con il mondo.

Nel tuo libro si legge che l’«oggettività è il male delle cose in quanto tali» (p. 127). Perché oggi c’è una corsa a scavalcare l’ordine delle cose sensibili e a immaginarsi fantasmi? La nudità del puro dato reale fa paura? È lo stesso in letteratura? Dorotea è sempre stata un fanta- sma: non ha mai avuto confini netti che la separassero dal mondo. Sua madre la immortalava in foto in cui faceva in modo che sfumasse nella parete, e lei da piccola percepisce la sua crescita come parte dei processi che hanno luogo nel mondo intorno a sé come il corrodersi dei muri. La sua condizione di morte può essere interpretata in tanti modi. Schizofre- nia, per esempio, o una condizione foto di Chus Sanchez più comune di morte in vita nel senso

82 Scrittori nel tempo di impossibilità di comunicare. Avere confini deboli è un pericolo immenso, nel suo caso la porta al suicidio, ma da morta l’estremizzarsi di questa condizione attraverso l’incorporeità la porta a una comprensione mistica del mondo attraverso il convergere in esso.

I tuoi due romanzi sono storie di “mali” e malesseri, e Corneille diceva che «a raccontare i propri mali, spesso se ne trova sollievo». Al di là dell’eventuale sottofondo autobiografico, si nota la ricerca di una terapia nella tua scrittura. È così? Non c’è il timore che essa possa un giorno diventare “mestiere”? Non c’è nulla di autobiografico, non mi diverte raccontare di me in senso stretto. La scrittura m’interessa come trasformazione, trasfigurazione, come tuffo nello specchio di Alice. In questo senso, sì, terapeutica, nel senso di creazione di dimensioni alternative che implicano uno sfasamento di base, un big-bang di creazione di senso nuovo da cui prende corpo una dimensione diversa. Ma no, non ho paura che possa diventare me- stiere perché la scrittura per me è una funzione biologica. Fin da quando avevo 4 anni è il mio modo di stare al mondo, di filtrare la realtà e ricrearla. La narrazione è il mio modo di espirare dopo aver inspirato la realtà, è costitutiva del mio organismo. Quindi non può diventare mestiere come non lo può diventare essere donna o mammifero o essere umani.

Entriamo nell’officina della scrittrice: il mini trattato di entomologia del tuo romanzo è il segno che oggi chi si dedica alla narrazione deve praticare i linguaggi settoriali delle scienze per attrarre lettori eterogenei. C’è il pericolo dell’ammiccamento? È una strada che seguirai ancora? A cosa stai lavorando? Non m’interessa minimamente ammiccare. L’autenticità è la condizione necessaria per il funzionamento di un organismo-romanzo o qualsiasi altra forma d’arte. Non m’interessano i lettori come clienti di un servizio e come scrittrice faccio solo quello che voglio fare e chi vuole entrare nei miei universi è il benvenuto, se no se ne stia fuori: non faccio agevolazioni di senso, tipo sconti per studenti all’entrata del cinema. Inserire lin- guaggi diversi e usarli come veicolo per altri linguaggi è una delle funzioni della scrittura che m’interessano di più. Utilizzare anche i linguaggi più diversi e lontani. La creatività è creare ponti: non si può stare fermi. Sto lavorando a delle poesie. [email protected]

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LAVORO CRITICO

Domenico Calcaterra mette a fuoco la qualità “sentimentale” e “politica” dell’umanesimo di Michele Perriera, scrittore a torto ancora misconosciuto. Raffaello Palumbo Mosca analizza il rapporto tra il senti- mento della pietas e il romanzo novecentesco e contempora- neo attraverso il riferimento ad autori contemporanei e non (tra gli altri, Franchini e Forest, R.M. Rilke, M. Proust) e a filosofi qualiFreud e Vattimo. Seguono ben tre saggi realizzati su tre riletture: Mariange- la Giordano evidenzia come ne Gli occhiali d’oro la scrittura di Giorgio Bassani assuma un connotato fortemente visuale, mentre Silvia Ceracchini indaga sulla dimensione onirica che caratterizza L’Isola di Arturo di Elsa Morante. Infine,M arilù Ursi, in occasione della recente pubblicazione in cofanetto della serie completa di Cinico tv, riflette su una fase cruciale della televisione italiana, alla quale corrispose un altrettanto importante periodo della storia sociale del Paese.

85 “PERRIERA SENTIMENTALE”: L’UMANESIMO narrazioni n.4GENTILE DI UN SOAVE EROE DELLA MITEZZA [Il sottosuolo e il cielo di Michele Perriera]

di Domenico Calcaterra

artendo dall’endiadi polare sottosuolo/cielo - il sottosuolo della Prealtà (così come appare) e il cielo d’una carica immaginativa e stilistica di grande ariosità -, quella che forse più d’ogni altra mostra il senso della ricerca dello scrittore palermitano, il saggio mette a fuoco la qualità “sentimentale” dell’umanesimo che innerva tanto il teatro che la narrativa di uno scrittore a torto ancora misconosciuto. Umanesimo dal rilievo pienamente politico, nel momento in cui si propone, contro ogni preconcetta rigidità di pensiero, di bypassare ogni stortura privata e pubblica, in nome di una autentica renaissan- ce etico-estetica.

«Lascio in eredità tutti i miei sogni» (M. Perriera, Il romboide, 2007, p. 99)

a suggestiva polarità sottosuolo/cielo ben si presta a definire, a più livelli, la geo- grafia letteraria (la poetica, si usava dire un tempo) di Michele Perriera; a meglio Ldefinire la cifra della sua letteratura, la sua parabola d’intellettuale, la sintetica ma efficace espressione del suo teatro. La dialettica, sarebbe meglio dire la polarità reversibile, sottosuolo/cielo, giova innanzi- tutto a segnare i due poli entro i quali si muove la letteratura e il teatro di Perriera: da una parte la complessità, mai scontata, della natura umana, l’arrivare a somigliarsi di vittima e carnefice - si pensi a testi teatrali come Il signor X (1961), Lo scivolo (1962), Tu, tu e tu, Relax (1966), Morte per vanto (1970) o al meno distante nel tempo Anticamera (1989), solo per citarne alcuni -, insieme alla messa in scena delle contorsioni della macchina mon- diale del potere, delle sue infinite e cancrenose seduzioni, le imbellettate malie - questo per stare al sottosuolo; cui però fa da contraltare il cielo perrieriano, di quella che (altrove) s’è voluta definire la «religione del possibile» Storia( di una riscrittura…, p. 733), l’esiguo ma incontestabile spazio che, per lo scrittore, occupa il pensiero utopico che scaturisce dalle regioni del «troppo tardi», la cui cellula generativa è da ricondurre alla volontà di ripartire dalla declinazione d’una riscoperta dimensione di umanesimo, di grande visio- narietà e straordinario coinvolgimento (ma su questo punto ritorneremo tra poco). Ma può leggersi anche, una simile bipolare indicazione, sottotraccia, come il segno sintetico della sua parabola intellettuale, per il trascorrere dal sottosuolo della neoavanguardia al cielo più disteso e luminoso, ma non per questo meno problematico, della sua produzio- ne degli ultimi vent’anni: dal conformismo eslege della neoavanguardia e del Gruppo ’63 (basti qui indicare l’esordio con Principessa Montalbo, nel volume a tre, con Gaetano Testa e Roberto De Marco, intitolato La scuola di Palermo, Feltrinelli, 1963), fino all’urgenza progressiva di liberarsi dagli astratti furori di ribellione di quella stagione pervenendo a

86 Lavoro critico un necessario percorso di autochiarificazione che si va a intrecciare con il presupposto primo di una rinnovata disposizione “umanistica” (e in tal senso non possono tacersi le indicazioni che vengono anche dalla rivalutazione, per stessa ammissione dello scrittore, epperò in chiave positiva, di quel pessimismo leopardiano, sul quale negli ultimi anni Perriera sembra meditare, ribattezzandolo come «strategico»). E come non pensare, immediatamente, evocando una volta ancora il sottosuolo e il cielo, all’idea di teatro descritto, con efficace immagine, in quella cattedrale di scrittura che è Romanzo d’amore (2002), come un far reagire «ciò che sta al di qua con ciò che sta al di là delle grate» (ivi, p. 113): un teatro che esibisce la prigione e insieme l’eversione fantastica e tremenda della fuga, la falla che allenta le maglie di un sistema di vita e di potere, agghindato come fosse il più desiderabile, il solo possibile; che scruta, mettendo a nudo colpa e innocenza, l’incubo e il grido, l’SOS lanciato per la vita (cfr. DC, Romanzo d’amore di MP., pp. 139-140). Punto di contatto/frizione, sotto il quale è possibile legge- re anche lo speciale «marionettismo» dei personaggi perrieriani sulla scena: mancanza d’autonomia, desiderio d’una mancanza, in attesa sempre di «un possibile risveglio, un possibile ri-conoscere» (Con quelle idee da canguro, p. 290). Si pensi, a ulteriore completezza del discorso, a due messe in scena di Michele Perriera dei primi anni Ottanta: la riscrittu- ra de Il gabbiano (1981) di Čechov e la regia di Occupati di Amelia (1983) di Feydeau, nelle quali, rispettivamente, in maniera speculare e antitetica, nella costrizione-castrazione (si pensi all’ardua posizione richiesta agli attori sulla scena ne Il gabbiano) e in quell’iperdina- mismo cartoonistico e vacuamente giocoso, che trasformano i personaggi del comico di Feydeau in un inquietante carnevale di allegri atomi impazziti, Perriera offre una polarità d’atteggiamenti che rimandano, infine, alla medesima conclusione: che la posta in gioco sia sempre quella dell’oblio della coscienza, il disagio della spersonalizzazione, dell’an- nullamento. Come pure, inforcando la medesima lente bifocale, può leggersi l’ibrido esito d’una scrittura che si colloca sempre su di un ambiguo e altro punto di tangenza; capace di contemplare insieme il sottosuolo della realtà (così come appare) e il cielo d’una carica immaginativa e stilistica di grande ariosità (e per capirne la speciale qualità, ci vengono in soccorso le straordinarie pagine saggistiche di libri assai luminosi come La spola infinita o come le «note ai margini» di Con quelle idee da canguro). Ma qui si vuole accennare, appena mettere a fuoco una sola delle possibili parallele direttrici di lettura dell’opera di Michele Perriera, suggerite dall’endiadi polare (“il sot- tosuolo e il cielo”), quella che forse più d’ogni altra mostra il senso della ricerca dello scrittore palermitano, coinvolgendo tutti i piani delle coordinate fin qui delineate. E mi riferisco alla necessità, progressivamente avvertita da Perriera, di smarcarsi dall’angu- sta riserva degli incendiari contestatori del Gruppo ’63; così come dal “collettivo” de La scuola di Palermo (si rammenti il volume edito da Feltrinelli nel 1963, che conteneva l’esordio perrieriano con Principessa Montalbo) i cui autori - Perriera, Testa, Di Marco - assumevano, stando alle parole di Alfredo Giuliani nella prefazione a quel volume emblematico d’una stagione, il «caos esteriore [della città] a modello interiore», per rap- presentarlo attraverso l’altrettanto caotica deflagrazione del linguaggio, il polverizzarsi del racconto tradizionalmente inteso. L’uscita da quel limo, la presa di distanza dalle «ore pesanti» del Gruppo ‘63 (del resto basta scorrere talune pagine di Con quelle idee da canguro o Romanzo d’amore per rendersi conto dell’onesto disamore nutrito da Perriera

87 narrazioni n.4 verso quell’esperienza), il comprendere, quasi da subito, che il “gruppo” non gli si addi- ce: preferendo, a quel confuso sottoscala, il solitario cielo d’una maggiore e più distesa chiarità di discorso (senza per questo rinunciare a uno sguardo strabico gettato sulla re- altà). Epperò, nonostante questo palese trascorrere, non gli verrà risparmiato (sovente) il torto di essere confinato e ricondotto (sempre e comunque) a uno stanco seguitare sugli echi degli astratti furori di quella tumultuosa e per certi versi vacua stagione di neoavanguardia (nelle storie letterarie rubricato, al massimo, tra gli esponenti di quella limitata e limitante stagione). Prende strada in lui l’aristotelica certezza che non possa darsi vita alla rappresen- tazione o al racconto, senza una fabula che ne faccia da cassa di risonanza, «cristallino contenitore» (RA, p. 1135). Così sarà, in narrativa, nella più compiuta realizzazione di tale assunto, con A presto (1990), atto inaugurale e saldo punto di partenza di quella trilogia fantagialla (con i successivi passi nel 1995 di Delirium cordis e nel 2004 di Finirà questa malìa), ambientata in una Palermo-universo, claustrofobica e concentrazionaria; rappresentazione, in scala e in proiezione fantascientifica, della macchina mondiale: in- gombrante metafora d’una realtà di frontiera, nell’era del totale disincanto, del perpe- tuo rischio dell’espropriazione di ogni identità. Conferire dunque alle sue scritture una maggiore (ma non per questo meno insidiosa) linearità di dettato, ricercare la favola come struttura dei suoi testi, l’insistere spesso su di una «vicenda inverosimile che ha tutti i caratteri di una simbolica verosimiglianza» (ivi, p. 1134), come sarà anche nel- le scritture teatrali che preludono e insieme accompagnano il primo movimento della trilogia. Come definire, per dirne una, un breve testo come Ogni giorno può essere buono (1984/1990), se non paradigmatico di una simile esigenza? - dove il mito della ricerca dell’eternità, della sconfitta della morte, passa per la costruzione di una felicità a venire posticcia e svagata, edificata sulla menzogna (su una verità fittizia concepita in labora- torio), sull’annientamento della coscienza, della memoria. Superfluo qui sottolineare che narrativa e teatro, nel sistema Perriera, risultano indissolubilmente legati, dritto e rovescio della stessa medaglia, in simmetrico contrappunto: per cui la sua narrativa può intendersi come strutturata teatralmente, imperniata su quel narcisistico gusto del dire che è poi basamento non solo del teatro perrieriano ma del teatro tout court; così come il suo teatro finisce per mantenere sempre un che di narrativo. A una linearità di trama e alla tendenza a strutturarsi come apologhi, caratteristiche che stridono con gli esiti degli esordi nel novero dei decostruttori-sperimentatori della neoavanguardia, riportano anche i racconti scritti tra gli anni Cinquanta e Sessanta da Perriera, e soltanto più tardi riveduti e accolti, dopo rigorosa selezione e revisione, in volume (Il piano segreto, 1984), da leggere come veri e propri «palinsesti» ad alto tasso di visionarietà simbolica (così li definisce Ignazio Romeo in un saggio dove indugia sul gruppo di racconti del primis- simo Perriera che precede, nella maniera, quello del rivelarsi al grande pubblico con l’esordio di Principessa Montalbo e in netta discontinuità con esso): non a caso tre delle sei storie contenute ne Il piano segreto offriranno materia per altrettante pièces negli anni Ot- tanta, Anticamera, I pavoni, Dove hai lasciato la mia barca? (che riprendono, rispettivamente, i racconti “Anticamera”, “I pavoni”, “Il polverone”). L’opera nella quale è visibile, a livello proprio macroscopico (confortato dalla col- lazione tra una prima e una seconda riveduta edizione), il passaggio dal sottosuolo del-

88 Lavoro critico la neoavanguardia al cielo della “nuova” (o solo più autentica?) maniera perrieriana, è senz’altro la versione aggiornata del suo secondo romanzo, Il romboide (Lerici, 1968; Pro- va d’Autore, 2007²). La decisione di rimettere mano, a quarant’anni di distanza, a quel “romanzo difettivo” (volendo alludere alla sua mancanza di centro, al senso d’incom- piutezza che se ne riceveva alla lettura) di una «soffocata e soffocante» stagione (Storia di una riscrittura…, 2008, p. 722), è la prova della maturazione intellettuale ed artistica della quale si sta tentando di descrivere l’itinerario intellettuale. Operazione significativa e non da poco se, nello stesso anno dell’uscita della revisione-riscrittura del Romboide, Nanni Balestrini ripropone, al contrario, il “romanzo multiplo” Tristano (DeriveApprodi, 2007) portando a termine (grazie alla tecnologica oggi disponibile) un vecchio progetto risa- lente al 1966 (più o meno gli stessi anni in cui Perriera viene scrivendo il primo nucleo del romanzo in questione). Mentre Perriera si preoccupa di far approdare a un più disteso e luminoso orizzonte di scrittura quel primo magmatico nucleo narrativo degli anni Sessanta con il quale «premeditatamente e deliberatamente» (come ebbe a scrivere Sebastiano Addamo, recensendolo su L’Ora) continuava (sulla scia dell’esordio narra- tivo di Principessa Montalbo) a inverare l’assurdo contemporaneo nella scrittura (ergo nel linguaggio), il novissimo (?) Balestrini - che rimane, sia detto en passant, scrittore della violenza rivoluzionaria, pura e straniante, di un’epica che potremmo definire soreliana (cfr. quanto scrive sull’ultimo Balestrini di Girano voci. Tre storie, Giglioli, 2012) - si attarda ancora a lucidare gli obsoleti e consunti arnesi dell’armamentario iper-sperimentale. L’ormai datato prodotto letterario d’una peculiare stagione, sotto la spinta di «creare spazi interpretativi nuovi all’interno del romanzo», «rendere più esplicito e causalistico l’evento narrativo» (Scrivo per evocare una nuova alba del mondo…, 2008, p. 61) viene rivisi- tato e liberato dunque dalle incrostazioni del tempo, dall’anacronismo letterario d’una «tridimensionalità di scrittura» (come altrove la si è voluta definire facendo eco a Renato Barilli che ha invece parlato di «attraente sfaccettatura cubista», 1969) che aveva come solo scopo l’incarnazione d’un senso d’incompiutezza e impossibilità. E così, decom- presso, assumendo la forma esteriore di un più leggibile «diario-raccontato», si muta pienamente, in romanzo, filosofico, del difficile ma possibile accordo di libertà e verità. Evidente infatti, pur a una sommaria collazione, lo stacco netto voluto da Perriera con questa riscrittura, per l’essenzializzarsi della trama e l’appianarsi d’ogni ambiguità, l’im- porsi del racconto come insistita perorazione, in virtù anche di un protagonista, Pippo Badalamenti, divenuto più maturo, degno fratello dei personaggi che hanno animato la trilogia fantagialla. L’inserto più significativo, a valere in ultimo come esplicito manife- sto d’un definitivo e alternativo orientamento, è la lettera-testamento del protagonista, chiaro alter-ego dello scrittore, che lascia in eredità alla figlia Francuccia la sua persona- le illuminazione d’un umanesimo gentile che non possa prescindere dall’avvertimento d’un sentimento di «infinita pena del mondo» (Romb², p. 125), spalancarsi al desiderio di «perlustrare l’ignoto» (ivi, p. 124), e ciò facendo abbandonandosi a una «vigile so- litudine»: un ritrarsi e placarsi in attesa di meglio affrontare il nostro «destino di reci- divi» (ivi, p. 148). L’aspirazione di Badalamenti-Perriera diviene quella di farsi «uomo mite», sottoponendosi ad una catartica operazione di «stereotassi», bisognoso com’è di liberarsi dalle scorie di una esasperata furia (senza tuttavia misconoscere il senso di quell’inquietudine), e, pur tuttavia, senza rinunciare a dare voce al suo atto di denuncia.

89 narrazioni n.4 E come non pensare - rispetto a questo ritrarsi per ripartire - al Dio della favo- la teatrale in tre giornate di Ritorno (2003) che, nel momento di maggiore impotenza, schiacciato dal libero arbitrio dell’uomo e dal dilagare incontrastato del Male, fa ritorno appunto - da sconfitto - sulla terra, ad incarnare, come personaggio-feticcio, l’utopia tutta terrestre d’una ritrovata mitezza, sotto il sole d’una smarrita innocenza. Potremmo dire che la capacità di rinascere al mondo sia il tratto distintivo specifico dei personaggi della maturità artistica di Michele Perriera: come in A presto, dove il prima e il dopo del Badalamenti maggiore, si sdoppia nei complementari atteggiamenti dei coniugi Respon- si, con Amalia vigile e ostinata indagatrice sui presunti misteri da smascherare e Ruggero che sparisce, senza lasciar traccia alcuna di sé, per poi fare ritorno, in maniera inattesa, sul finale del romanzo. Una vicinanza d’intenti che ancor più motiva la opportunità della riscrittura, se si va a rileggere la nota della quarta di copertina della prima edizione dove Il romboide (scritto tra il 1962 e il 1965) veniva presentato come l’iniziale capitolo d’un più ambizioso e articolato progetto a lunga distanza che avrebbe dovuto comprendere ben quattro libri. Che i capitoli successivi siano da rintracciare nel ciclo di romanzi fantagialli che principiano con A presto, ce lo suggerisce anche la rielaborazione di quella originaria e ribollente matassa narrativa. Si badi poi a non cadere nell’errore di considerare le soavi figure di eroi della mi- tezza create da Perriera come un implicito invito alla fuga dalla storia. Siamo sempre dinnanzi a una scelta strategica, trattandosi di un astrarsi per meglio ragionare, reclamare un più salubre spazio d’attesa per l’intellettuale, un guadagnato distacco dal caos nar- cotizzante della vita. E nel nuovo Romboide questo forte movente intellettuale necessita anche l’intervento di riscrittura, nella direzione di un maggiore distendersi e chiarificarsi del dettato narrativo. Inoltre, la riedizione del romanzo si offre pure come repertorio aggiornato delle tematiche da sempre intrecciate nell’edificazione del suo personale e totale romanzo sul Potere: per esempio - vera e propria costante nella letteratura perrie- riana - il somigliarsi di vittima e carnefice, a sottolineare il nebuloso e ambiguo legame che unisce chi il potere lo esercita a chi invece lo subisce; di come l’oppresso può, a suo volta, tramutarsi in oppressore, essendo bene e male categorie non asetticamente dialet- tiche (si rammentino testi teatrali come Lo scivolo, 1963; Morte per vanto, 1970 o I pavoni, 1984). E con il nuovo Romboide, Perriera, scrive l’ennesima variazione sul tema unico e onnicomprensivo del Potere, vero e proprio palinsesto di senso da leggere a più livelli, non ultimo (accanto all’immediato motivo della denuncia dei suoi mefitici gangli, per quanto imbellettati e occulti) quello dell’avventura esistenziale, della rinascita, del rilan- cio d’una utopia del possibile. Qualche parola ancora sulla mitezza. Dire mitezza equivale per il nostro a far riferi- mento a un tratto di gentilezza imprescindibile, contromisura non solo esistenziale ma che tanto trova giustificazione quanto più diventa divisa di una spiazzante eticità che ambisce a un utopico e gentile destino. Ecco che l’umanesimo perrieriano acquista un rilievo pienamente politico nel momento in cui si propone, contro ogni preconcetta rigi- dità di pensiero, di bypassare ogni stortura privata e pubblica, in nome di una autentica renaissance etico-estetica; dissonante scommessa intellettuale che, con felice espressione, Marcello Benfante ha sapientemente voluto ribattezzare stilnovismo politico: la genti- lezza diviene così «regola della convivenza, doveroso senso civico» (Benfante, 2011, p.

90 Lavoro critico 24). E nella densissima geografia simbolica dell’universo perrieriano, è proprio il “rom- boide” del titolo - più volte i personaggi, nel corso del racconto, vengono descritti muoversi parallelamente, l’uno accanto all’altro, ciascuno rinchiuso nel raggio d’uno spazio, ciascuno a incarnare il vertice isolato d’un romboide -, ad emblematizzare una condizione di blocco e confusione e, nel contempo, il limite da oltrepassare verso il quale orientare il proprio desiderio di liberazione, di movimento: trasformare quel rom- boide da castrante gabbia in barca capace di prendere il mare, riacciuffare i più terrestri sogni, la «voglia d’una vita d’amore» (Romb², p. 93). Come la barca del Dio di Ritorno, in perenne rischio di naufragio, assediata dai dannati. Quel Dio che rinuncia a una incolore e impotente eternità per incarnare, sulla terra, la fede laica nelle possibilità, fragili ma intatte, dell’uomo, di salvarsi nella storia e dalla storia («io non rappresento che la voce del possibile: la qualità del mondo», Ritorno, p. 152). Da questa soglia, che conduce da un pessimismo estremo a un radicale ribaltamento d’orizzonti, scaturisce la qualità vi- sionaria e diciamo pure “sentimentale” di tante pagine di Michele Perriera. Ed essendo il suo un simbolismo verticale, mai del tutto chiuso e riducibile a pura equazione di senso, il romboide diventa anche correlativo-oggettivo, scrigno rilucente della memoria, d’una scomoda verità testimoniata: talismano d’una inestinguibile speranza. Un romboide che, come quello di Mariù in Delirium cordis (1995), può ritornare a parlare, a parlarci, solo a patto che il racconto abbia un esito tra noi. E a un meraviglioso romboide, in conclu- sione, può paragonarsi l’intera opera di Michele Perriera, narrativa e teatrale, che non finisce mai di parlare a chi ha avuto la fortuna di averlo conosciuto, avuto come amico e involontario maestro. [email protected]

BIBLIOGRAFIA:

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91 narrazioni n.4 1984, I pavoni, in Qui è quasi giorno. Testi di teatro, Rosenberg & Sellier,Torino, 1994. 1989, Anticamera, Sellerio, Palermo, 1994. 1990, Dove hai lasciato la sua barca?, in Atti del bradipo, Sellerio, Palermo, 1998. 1990, A presto, Sellerio, Palermo. 1995, La spola infinita, Sellerio, Palermo. 1995, Delirium cordis, Sellerio, Palermo. 1997, Con quelle idee da canguro, Sellerio, Palermo. 2002, Romanzo d’amore, Sellerio, Palermo. 2003, Ritorno, Sellerio, Palermo. 2004, Finirà questa malìa, Sellerio, Palermo. 2007, Il romboide, Prova d’Autore, Catania.

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92 «Tutto torna alla notte tranne questa grande narrazioni n.4parola. Diciamo: d’amore». La pietas del romanzo, primi approcci.

di Raffaello Palumbo Mosca

l saggio costituisce il punto di partenza di un progetto più ampio nel Iquale si intende analizzare il rapporto tra il sentimento della pietas e il romanzo novecentesco e contemporaneo. Attraverso il riferimento ad autori contemporanei e non (tra gli altri, A. Franchini e P. Forest, R.M. Rilke, M. Proust) e a filosofi quali S. Freud e G. Vattimo, il saggio si propone di istituire una relazione cogente tra la pietas intesa come sentimento della costitutiva fragilità dell’uomo e la forma-romanzo in quanto traccia che commemora il caduco e, nello stesso momento, si apre progettualmente verso il futuro.

o letto con commozione il ritratto di un amico morto scritto da un altro amico. Non so se è perché io sono rimasto sensibile soprattutto, o solo, alle cose Hche mi toccano da vicino, come forse è normale sia per tutti. Se invece la maggiore commozione dipendesse dal fatto che anche coloro che scrivono riescono a emozionarsi soprattutto quando raccontano qualcosa che, a loro volta, li tocca da vicino, questo sarebbe già meno normale. La letteratura non dovrebbe funzionare così, la letteratura dovrebbe essere finzione. O anche finzione. Eppure secondo me le pagine più belle - o sono le più facili? - scritte dai miei coetanei sono ricordi di morti. Non deve sorprenderci che la nostra umanità sia restia a scuotersi se prima la nostra intimità non è toccata. Per quanto riguarda la letteratura, invece, questa è forse solo una fissazione mia, ma alle volte mi sembra che essa sia diventata (se non lo è sempre stata) soprattutto treno, epicedio, canto funebre (Franchini 2001, 56).

È uno dei passi più citati dell’Abusivo di Antonio Franchini del 2001, un romanzo complesso, che mescola sapientemente la ricostruzione documentale di una “vicenda di ordinaria infamia” (l’omicidio del giornalista del «Mattino» Giancarlo Siani per mano della camorra) e l’autofiction (ibid., 175). L’abusivo non è però (solo) un testo di denuncia, né un racconto a matrice indiziaria quanto, piuttosto, l’interrogazione sul senso di quella morte – di ogni morte – e del rapporto che la scrittura intrattiene con essa. Franchini racconta quella morte e a partire da quella morte, ma sente dolorosamente come l’atto dello scriverne sia, se non inutile, grottescamente sproporzionato rispetto ad essa. Il passo, dicevo, è fra i più commentati del libro, soprattutto perché affronta esplicitamente uno dei nodi fondamentali della narrativa contemporanea (italiana ma non solo), ovvero la tendenza a sfumare consapevolmente i confini tra fiction e non fiction come espediente per raggiungere un di più di realismo – o ancor meglio: di realtà – in grado di scuotere l’indifferenza del lettore (e io stesso, quando ho proposto la definizione di “romanzi

93 ibridi” per un filone della narrativa italiana a partire dagli anni Novanta del secolo scorso sono partito proprio da qui, da questa “narrazione spuria”, da questa felice ibridazione di documento e finzione). Nel passo citato c’è però qualcosa di più, c’è un’ipotesi – se pure, con un understatement tipico in Franchini – sull’essenza stessa della letteratura: essa sarebbe, al suo cuore, un volgersi pietosamente a ciò che è stato per onorarlo attraverso il canto. È attraverso questo canto che la letteratura produce il suo effetto, se pure “miserevole”: «costringere chi è vivo a rifletterci e a darsene pena»; e questo “riflettere” è insieme un interrogarsi «con quale diritto [il vivo] continua a fare le cose che l’altro non può fare più», ma anche un processo di riconoscimento della propria fragilità nella fragilità dell’altro: «il pensiero elementare, quello che slitta in zone remote della percezione, è immaginare di stare parcheggiando sotto casa quando sentiamo esploderci la testa. Quanto dura? Quanto dolore c’è? Quanta consapevolezza? Alle volte ci penso, quando parcheggio sotto casa: ora spengo il motore e mi scoppia la testa» (Franchini 2001, 56, 70).

Anche L’enfant éternel di Philippe Forest parte da una morte “indecente”, ammesso che ne esistano di “decenti”: se è vero, come scrive Gadda nella Cognizione del dolore, che «ogni oltraggio è morte» non possiamo fare a meno di pensare anche l’esatto opposto, ovvero che ogni morte è oltraggio; ogni morte, alla fine, è morte violenta. La morte di Pauline, una bambina di quattro anni figlia dell’autore, è una morte rispetto alla quale nessuna consolazione sembra possibile, e di fronte alla quale persino la religione tace sbigottita: «[…] ci raggiunge un prete. Ascolta le parole che diciamo. Annuisce. Sembra accusare il colpo di quell’immagine a cui nessuna religione prepara» (Forest 2007, 340). Se la religione tace, il romanzo rimane invece fedele al suo compito, e racconta. Ogni sera per tre mesi Forest si è seduto alla scrivania e ha scritto fino a trasformare sua figlia in «un essere di carta» (ibid., 343). Come già Franchini, anche Forest non rinuncia a farsi la domanda – terribile – che noi lettori, forse per pudore, mai oseremmo rivolgergli: perché? Le «parole non danno nessun soccorso», e la letteratura, da sé e da sempre, «non salva niente. Non riabilita nessuno» (Forest 2006, web); eppure ogni sera, rimasto solo, Forest si china sulla scrivania e lascia la sua testimonianza sotto forma di segni tracciati sulla carta. «Non si dice più: la bambina. Ancor meno si pronuncia il suo nome. I morti - scrive - perdono per prima cosa il diritto di essere nominati» (Forest 2007, 338); il romanzo, invece, può ancora dire: “Pauline”; quando l’ultimo oltraggio è stato consumato, quando il suo corpo è stato truccato e “preparato” per essere seppellito, quando la bellezza imperfetta di Pauline è stata trasformata in una «ripugnante bellezza artificiale», il rammemorare pietoso del romanzo è tutto ciò che rimane del prima. Non dà la consolazione di un senso, ma è traccia.

Un romanzo è un’incisione nel legno del tempo [...] Così come spesso s’è detto, tutti gli scrittori di tutte le epoche non sono che uno, il quale affronta con parole sue – sublimi o miserabili, grandiose o mediocri – la rivelazione unica e schiacciante del Tempo. Da sempre ci ripetono che siamo mortali, che la vita dura un giorno, che tutti

94 saremo colpiti nell’affetto più caro, che l’ultimo atto, inevitabilmente, è cruento, quale che sia la commedia in cartellone... Ma chi ci crede? [...] E se veramente il romanzo è un’incisione nel legno del tempo, esso obbliga ciascuno a guardare dritta in faccia la vertigine di durata in cui passa. Una rozza visione profetica è sempre all’orizzonte del racconto vero [...] Non pensavo che la verità fosse così semplice e che tutto in sostanza fosse simile al disegno lasciato sulla pietra dalle cinque dita di una bambina (Forest 2007, 113, 118-19).

Il romanzo, che parte da una morte, è rammemorazione pietosa di ciò che non è più e insieme memento per chi resta: «obbliga ciascuno a guardare dritta in faccia la vertigine di durata in cui passa» (ivi); e ogni romanzo, in questo senso, è autobiografico, poiché la sua «rozza visione profetica» è niente più che la prefigurazione della propria morte a partire dalla morte dell’altro. Le affermazioni di Franchini e di Forest devono essere intese su due livelli. Innanzitutto come reazione a una concezione puramente estetica, iper-letteraria, del romanzo, inteso come gioco o “menzogna”; diremo, con un’approssimazione: al romanzo postmoderno (o ad alcune sue caratteristiche fondamentali). In Quando vi ucciderete, maestro? (Franchini 1996), il narratore autobiografico racconta di come il vecchio professore «allievo di Croce» che lo aveva accompagnato «nel periodo più delicato della [sua] formazione» liquidasse gli autori della neo-avanguardia con un giudizio tranchant e un po’ rétro: «mostrano la loro cultura come le ballerine mostrano le gambe» (ibid., 40). Ovvero: riducono la letteratura – che secondo Forest dovrebbe testimoniare “il disastro del vivere” – a mero sfoggio citazionistico o gioco intertestuale. La rievocazione delle parole del professore serve a preparare il terreno per l’affondo vero e proprio; è il narratore stesso, questa volta, a commentare un passo, riportato per intero nel testo, della Letteratura come menzogna di Manganelli:

Chiunque abbia pratica un poco svezzata della scrittura e dei suoi percorsi associativi si può facilmente accorgere che qui a Manganelli non interessa tanto, come dichiara, sostenere la tesi dell’immoralità della letteratura. In realtà non lo appassiona nessuna idea. Ciò che davvero lo attira [...] è la palese soddisfazione di aver escogitato espressioni come “animali di capzioso pelame”, “astratti deretani” [...]. Niente di male, gli scrittori godono anche - alcuni soprattutto – di questi virtuosismi. Niente di male anche se avessimo detto “avventuroso pelame” o “capziose isoglosse” [...] i sintagmi forse sarebbero stati meno brillanti, ma il significato non sarebbe cambiato di molto e nessuno si sarebbe accorto di niente. Un po’ di male c’è nell’attribuire a questi giochetti fondati sullo scambio e lo slittamento dei significati la grandezza sinistra dell’immoralità. L’immoralità è un concetto che pochi hanno potuto evocare con qualche ragione. La civetteria delle parole, che ha molti brillanti cultori, è un’altra cosa (Franchini 1996, 48).

Eppure, Franchini non è certo un narratore ingenuo, e sa bene che la “civetteria” è in qualche modo inscritta nella sostanza stessa della letteratura: le parole sono sempre, come affermava il vecchio professore, un po’ “delle puttane”, ovvero ci ammaliano,

95 ma tradiscono immancabilmente la realtà. Esattamente come le arti marziali, anche la letteratura richiede «grande spreco di studio e di proponimenti», culla «infiniti sogni d’impatto sulla realtà» ma è, alla fine «finzione» (ibid., 52). Ovvero: la letteratura, come le arti marziali, mima una prossimità alla morte che le è costitutivamente negata. È per questo che anche il tentativo, sulla falsariga del Leiris della Letteratura come tauromachia, di introdurre, scrivendo, i pericoli dall’esterno (il tentativo di trovare «l’equivalente (di) quello che per i toreri è il corno aguzzo del toro») è destinato al fallimento: come e più di Leiris, Franchini riconosce che, più che la figura del torero che rischia la vita, lo scrittore evoca quella, decisamente meno “eroica”, del macellaio:

Però alla fine di ogni promessa, al di sopra di ogni sbandierata sincerità, al di là della più feroce ostinazione nel mettere a repentaglio tutto se stesso nella carta e pur considerando, dall’altra parte, che sono proprio gli aspetti rituali e il ferreo codice stilistico a distinguere il torero dal macellaio e a costituire il senso dell’espressione artistica, Leiris deve riconoscere che il torero rischia la vita e il macellaio (e lo scrittore) no (Franchini 1996, 49-50).

La contraddizione non si risolve (non è risolvibile); in disparte, lontano dalla vita (e dalla morte), il romanziere può solo assolvere meglio che può il suo compito, per quanto “miserabile”: volgere uno sguardo pietoso sull’uomo, sulla sua costitutiva fragilità, ricordando – ovvero commemorando – chi non è più. Allo stesso modo, anche Forest ha spesso chiarito come la sua narrativa nasca (anche) in aperta contraddizione con, quando non opposizione a, molti caratteri della poetica postmoderna. Uno degli obiettivi dichiarati di L’enfant éternel, ma anche del successivo Le nouvel amour, è infatti recuperare il legame tra letteratura ed emozione; tale legame, spesso negato nel gioco ironico, rappresenta invece per Forest l’unica risposta possibile del romanzo, la sua stessa ragion d’essere:

Mi sembra che l’attuale letteratura postmoderna si è persa recidendo ogni legame con l’emozione. Tutti i maggiori romanzi di oggi arretrano davanti all’emozione perché essi vengono meno di fronte al reale e vanno a cercare rifugio dalle parti dell’ironia, del gioco, del virtuale [...] Ma io diffido di quel sentimentalismo che costituisce una maniera di trasformare la sofferenza in un oggetto di gioia inoffensiva e di speculazione interessata. Bisogna ricordarsi lo scandalo della sofferenza e la risposta incompleta che ci consegna l’amore. Se la letteratura serve a qualche cosa, serve, malgrado tutto, a questo (Forest dicembre 10, 2006).

E in effetti, ci si può stupire di come, talvolta, si sia dimenticata questa verità semplicissima e fondamentale: la letteratura deve – anche, forse soprattutto – muovere l’animo del lettore. Come ha scritto Gombrowicz in una memorabile pagina del Diario, in letteratura «è come in amore: bisogna toccare la carne viva attraverso i vestiti» (Gombrowicz 2008, 326). Le posizioni di Franchini e Forest non sono certo isolate, e anzi già da qualche anno si è cominciato a parlare, per il romanzo europeo, di “nuovo

96 realismo” (con tutte le ambiguità che questa definizione comporta) e, più in generale, di una “fine del postmoderno”, se non di una sua “liquidazione” (in proposito si vedano almeno Donnarumma 2008 e Mazzoni 2011). La cesura, ormai conclamata, si è giocata essenzialmente sul problema della rappresentazione ironica e meta-ironica, percepita come (colpevole) allontanamento della letteratura dal sentimento. Tale cesura ha poi trovato la sua certificazione simbolica con le riflessioni di David Foster Wallace e Michel Houellebecq, due autori enormemente letti e commentati che quella sensibilità postmoderna avevano almeno in parte condiviso. In E Unibus Pluram: T.V. and US Fiction, Wallace stabilisce una netta distinzione tra un uso positivo dell’ironia come smascheramento dell’ipocrisia degli pseudo-valori dominanti, e il cinismo contemporaneo che non nega l’essere in vista di un dover essere ma serve, semplicemente, a produrre macerie, a “ridicolizzare” ogni afflato ideale senza essere in grado di proporre alternative all’esistente. Tale pervertimento dell’atteggiamento ironico ha portato, secondo Wallace, a una duplice conseguenza: da una parte ha contribuito a creare una sorta di “spirito del tempo” che vede nel cinismo l’unica manifestazione socialmente accettabile delle emozioni, e d’altro canto ha portato allo slittamento di un’idea condivisa sulla funzione stessa dell’arte: non più rappresentazione creativa di valori positivi, ma semplice rifiuto (ironico, scettico, sarcastico) di valori fasulli. In modo molto simile, nella Ricerca della felicità, Michel Houellebecq ha stigmatizzato la «derisione, [e il] secondo grado» quali elementi che hanno «minato rapidamente l’attività artistica e filosofica trasformandole in retorica generalizzata» (Houellebecq 2008, 184- 85). E così, questo (solo apparentemente) spietato notomizzatore delle miserie umane, questo cinico nipotino di Céline, è arrivato ad affermare, in un’intervista con Sabine Auderie, che l’artista in grado di sviluppare un discorso “onesto” (ovvero: di raccontare la solitudine e la miseria in cui si dibatte l’uomo) ma anche “positivo”, potrà cambiare non solo la storia della letteratura ma, addirittura, la storia “del mondo”:

Tenuto conto del discorso quasi fiabesco sviluppato dai media, è facile dare prova di qualità letterarie sviluppando l’ironia, la negatività, il cinismo. È dopo che diventa molto difficile: quando si desidera oltrepassare il cinismo. Se qualcuno oggi riesce a sviluppare un discorso al tempo stesso onesto e positivo, modificherà la storia del mondo (Houellebecq 2008, 221).

Tuttavia: le affermazioni di Franchini e di Forest sono molto più rilevanti se intese non solo in termini di contrapposizione di poetiche, ma – come si deve – in senso più ampio, come riflessioni sull’essenza stessa dello scrivere romanzesco da una prospettiva a-storica o trans-storica; come tentativo, cioè, di individuare quell’elemento semplice che giustifica il romanzo di fronte alla realtà. Per entrambi, lo si è visto, la letteratura si configurerebbe come tentativo di sottrarre l’essere al tempo, al suo rotolare verso la fine; un tentativo vano, se la vittoria del romanzo sul tempo è sempre «segreta, inutile, risibile», e verrà il giorno in cui tutte le opere, esattamente come i libri di Don Ferrante, saranno ridotte a polvere: «come gli esseri viventi, le parole sono in partenza per il nulla che aspetta al varco» (Forest 2007,

97 213). D’altra parte, è anche un tentativo necessario, e la sua parola finale coincide forse con quella evangelica: «tutto torna alla notte tranne questa grande parola. Diciamo: d’amore» (ibid., 128). Al netto di ogni poetica o teoria, il romanzo si ridurrebbe quindi a nulla più (e nulla meno) che a peritura traccia di ciò che è stato, una traccia che costringe chi legge a guardare pietosamente alla transitorietà dell’essere: «non pensavo, scrive ancora Forest, che la verità fosse così semplice e che tutto in sostanza fosse simile al disegno lasciato sulla pietra dalle cinque dita di una bambina» (ibid., 219). La traccia provvisoriamente lasciata dal romanzo è innanzi tutto traccia della particolarità. In Caducità, un breve saggio di andamento narrativo del 1915, Freud racconta di tre uomini che passeggiano per la campagna tedesca; il primo, che riporta il fatto, è Sigmund Freud stesso; il secondo, di cui non viene svelato il nome, è quasi certamente il giovane poeta Rainer Maria Rilke; il terzo uomo, anch’egli non riconosciuto, è invece con tutta probabilità una donna, Lou Andreas-Salomé. Siamo nel 1913 e i tre, camminando, ammirano il paesaggio; la natura in pieno rigoglio (è un radioso giorno d’estate) ispira però al «poeta già famoso nonostante la giovane età» sentimenti contrastanti (Freud 1991, 219); anch’egli, come Freud, gode della bellezza che vede, ma a differenza di quest’ultimo è allo stesso momento preda di una invincibile tristezza, di una sgomenta malinconia: sente l’intima fragilità della natura che lo circonda, sa che tutte le cose del mondo «del morire vivono» e presto non saranno più (Rilke 2000, 323). All’esatto opposto di Freud che vede nella caducità di tutto ciò che esiste un aumento di valore delle cose stesse, e interpreta – va detto: piuttosto banalmente – il dolore di Rilke come il rifiuto del lutto futuro, Rilke non può essere consolato poiché, con sensibilità poetica e non economica, sa che nessuna primavera a venire potrà consolare della perdita di questa. Come ha notato Elvio Facchinelli nel suo commento/integrazione al saggio, Rilke non anticipa un lutto futuro poiché «la distruzione, in lui, è già presente nel momento in cui contempla quella campagna fiorita»; il lutto che Rilke prova è quindi «non risolvibile, perché tutte le cose che vivono vanno verso la fine, muoiono davanti ai suoi occhi ed esse sono uniche, non sostituibili, al pari dell’uomo che le guarda» (Facchinelli 2012, 90). Proprio questa costitutiva transitorietà del mondo e dell’uomo sarà il cuore pulsante delle Elegie duinesi nelle quali, attraverso la «più dolorosa identificazione con l’effimero», Rilke giungerà infine a ribaltare il classico rapporto uomo-natura: sarà infatti quest’ultima, non più madre e nutrice ma fragile compagna, a invocare l’aiuto dell’uomo, la più effimera delle creature, che tuttavia può salvarla col suo canto:

Perché sembra abbia bisogno di noi tutto quello che è qui, l’effimero che stranamente ci riguarda. Di noi, i più effimeri. Una volta ogni cosa, soltanto una volta. Una volta e non più. E anche noi una volta. Mai più. Ma questo essere stati una volta, seppure solo una volta: essere stati terreni, non pare sia revocabile. (Rilke 2000, 321)

98 Il riconoscimento della propria singolarità e fragilità nella singolarità e fragilità dell’altro da sé – un riconoscimento che però non annulla l’altro nel medesimo – costituisce quindi, per l’ultimo Rilke, il cuore della sensibilità poetica; lo sguardo carico di pietas per l’uomo e il mondo che ne scaturisce è la poesia stessa, il suo compito insieme etico ed estetico: «siamo qui forse per dire: casa / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra, – / al più: colonna, torre... ma per dire, comprendilo» (ibid.).

Da un certo punto di vista si potrebbe forse affermare che non c’è nulla di nuovo sotto il sole: il legame tra letteratura e memoria è un topos consolidato dalle narrazioni dell’antichità fino a Primo Levi, passando, ad esempio, peri Sepolcri di Foscolo o il “rimembrare” di Leopardi. Il concetto di pietas come «termine che evoca innanzi tutto la mortalità, la finitezza e la caducità» (Vattimo 2011, 22) è stato poi, negli anni Ottanta, al centro dell’ “ontologia debole” di Gianni Vattimo, un’ontologia che mirava esattamente a riconoscere nell’opera d’arte il luogo dell’incontro tra il soggetto tardo-moderno e «l’essere come traccia, ricordo, un essere consumato e indebolito (e per questo soltanto degno di attenzione)» (Vattimo e Rovatti 2011, 9). Eppure, credo che sia necessario continuare a interrogarsi su cosa significhi questo essere traccia e quali siano i modi attraverso i quali, il romanzo in particolare, dispiega il suo sguardo pietoso sull’essere.

Memoria e fantasia Perché il romanzo in particolare? Innanzitutto perché è il genere della modernità, il più letto e commentato – forse il più rappresentativo – ma anche quello che, attraverso la costruzione di una trama, meglio incorpora «le impalcature primarie della nostra vita in quanto esistenza finita, individuata, situata, squilibrata» (Mazzoni 2011, 61). Ovvero: il romanzo più di ogni altro genere di discorso è, per sua stessa natura, discorso della e sulla finitezza dell’uomo. In più: almeno partire dal realismo ottocentesco, l’oggetto per eccellenza del romanzo è la vita di «persone e di avvenimenti qualsiasi e di ogni giorno» (in fondo ogni romanzo moderno potrebbe intitolarsi Vite di uomini non illustri, come il fortunato libro di Giuseppe Pontiggia). È soprattutto per questa sua “medietà” che, pur parlando sempre di “nomi propri” (di individui specifici), il romanzo parla sempre anche di noi: perché la «grammatica dell’esistenza» degli eroi del romanzo è anche la nostra (Mazzoni 2011, 398). Nella sua descrizione del «mondo della prosa quotidiana» il romanzo è il genere che con più evidenza afferma la dignità di ogni essere in quanto tale, indipendentemente dall’importanza – storica, civile, sociale – delle sue azioni. Occorrerà tuttavia procedere a piccoli passi. Che cosa significa, per il romanzo, rammemorare? Significa innanzi tutto creare una traccia, ovvero un análogon che non è la cosa, così come il disegno delle cinque dita della mano sulla pietra non è la mano; a rigore, quindi, il romanzo non conserva nulla del passato (se non, forse e in modo parziale, la lingua), ma costruisce un’immagine nuova che del passato è interpretazione, e ogni interpretazione è tradimento. Il double bind del romanzo è qui, nella contraddizione tra la necessità di raccontare e la parzialità di ogni testimonianza. Nell’Impossibilità di un diario di guerra, Carlo Emilio Gadda riflette esattamente sul carattere inevitabilmente spurio, soggettivo, quando non grottescamente umorale, del suo ricordo; tale parzialità

99 nega la possibilità stessa di un racconto veritiero (lo rende, appunto, “impossibile”): «al complesso guerra – scrive il giovane Gadda – si uniscono e si aggrovigliano, è ovvio, i preesistenti miei propri complessi, cioè l’insieme delle mie cinquecento disgrazie, ragioni e irragioni [...] il mio diario di guerra è una cosa impossibile» (Gadda 1988, 134, 136). Tale impossibilità è anche uno dei nodi più dolorosi della riflessione di Primo Levi. Come è scritto a chiare lettere ne I sommersi e i salvati, infatti, colui che scrive non è (non può mai essere) il testimone integrale. Il testimone completo, ma anche, come ha scritto Paolin nel suo recente saggio (2013), il testimone moralmente degno (il testimone integro), è infatti il “mussulmano”, colui che non è tornato e non può raccontare:

Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco [...]. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i mussulmani, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale (Levi 1986, 64).

Eppure il Diario viene scritto e pubblicato, così come Se questo è un uomo e La tregua, in ragione di un imperativo morale (il termine kantiano non apparirà sproporzionato quando si ricorderà l’incipit della Meditazione breve circa il dire e il fare: «quando scriverò la Poetica, dovrà, ognuno che si proponga intenderla, rifarsi dal leggere l’Etica: e anzi la Poetica sarà poco più che un capitolo dell’Etica: e questa deriverà dalla Metafisica»). Il problema di Gadda, così come di Levi, è che le parole, parziali, forse inadeguate ma non false, «possano arrivare dentro l’anima, un giorno!, di qualcheduno, che abbia lume di memoria e di cognizione e, se Iddio voglia, capacità di giusta elezione» (Gadda 1991, 441, Gadda 1988, 134). Il romanzo è quindi il luogo di una (ri)evocazione per metafora in cui il passato è consegnato al tempo futuro del lettore: non è museo, ma progetto. Ed è in virtù di questo suo esser progetto che il double bind fin qui notato è non risolto (il che è, a mio avviso, impossibile) ma sospeso e quindi continuamente rinnovato. In quanto progetto, allora, qualsiasi romanzo – anzi: qualsiasi narrazione – mente; se non altro perché la sua prospettiva è sempre parziale, perché gli eventi del racconto sono assemblati secondo un ordine che è (o dovrebbe essere) logico, ma che è anche arbitrario. Se, come vuole il Forster di Casa Howard, il romanzo deve «soltanto connettere» ciò che nella vita sembra (è?) un affastellarsi irrelato di giorni ed eventi, esso è tanto più “leggibile” quanto più si allontana dal caos della vita. Ovvero: è tanto più romanzo quanto più tradisce la nostra esperienza “vera”, immediata del mondo. È principalmente per questo che (lo hanno visto molto bene, tra gli altri, Sartre e Kermode) la prospettiva dalla quale il romanzo narra la vita è ribaltata; in quanto ripetizione interpretante, ogni romanzo comincia sempre “dalla fine” (ovvero: l’inizio può essere tale e acquistare senso solo alla luce di ciò che verrà):

Gli eventi si svolgono in un modo e noi li raccontiamo in modo inverso. Diamo l’impressione di cominciare dalla fine: “Era una bella serata dell’autunno del 1922.

100 Lavoravo presso un notaio a Marommes”. In realtà abbiamo cominciato dalla fine. La fine è là, invisibile e presente; è la fine che dà a queste poche parole la pompa e il valore di un inizio (Sartre cit. in Mazzoni 2011, 62).

E poi, lo sappiamo, il romanzo mente perché è finzione. Mi spingerei ancora oltre: il romanzo è, essenzialmente, fantasia. A patto però che si intenda, come il Vico della cinquantesima “degnità”, la fantasia come «memoria, dilatata o composta» (Vico 1990, 514). Identificando memoria e fantasia, Vico intuiva ciò che, grazie agli studi psicologici e neuro-scientifici in proposito, è oggi una certezza difficilmente confutabile: la memoria non è “registrazione letterale” di qualcosa, ma una “costruzione complessa” che trasfigura la “realtà” (e che quindi sempre da essa si diparte) (cfr. Schacter 1996, 10 e sgg.). In quanto “costruzione”, in quanto progettualità, il romanzo, come la memoria stessa, non si limita a rievocare il passato, o ad alludervi, ma lo costruisce per il futuro. Cosa è infatti il passato se non l’immagine costruita da tutti i discorsi su di esso? Cosa è se non la differenza con la quale misuriamo il presente e progettiamo il futuro? Parlare di progettualità del romanzo significa comprendere, insieme al Borgese di Poetica dell’unità, come esso sia sempre anche «spinta a una modificazione del mondo» (Borgese 1934, xviii). Tale “sovrannatura”, che Borgese attribuisce all’arte tutta, è il prodotto dell’attività trasfigurante come “sintesi tra reale e ideale” (Borgese 1934, 165). Quando Forest crea il suo “essere di carta” che (ri)evoca la morte della Pauline “reale” apre ad un sentimento di pietà per la fragilità dell’essere, ma ci fa anche sentire la straziante necessità di un essere diverso, non soggetto al leggi della malattia e del tempo (di quella malattia che il tempo è). L’enfant éternel è quindi ribellione di fronte allo scandalo di un mondo che è finito, e che ci (s)finisce. Allo stesso modo, la ricostruzione della vicenda Siani rivela l’inaccettabile differenza tra la realtà della morte somministrata dall’uomo all’uomo e la pietas dovuta a tutto ciò che esiste: «nell’intrecciarsi della loro trama, gli omicidi che talvolta si ricordano per sollevare le più svariate questioni finiscono col nascondere la considerazione più semplice, che un corpo si è rotto per mano di qualcuno e che somministrare la morte è un’indecenza» (Franchini 2001, 70). O ancora, e ben prima: cos’è il grottesco «ballo di maschere» al termine della Recherche di Proust se non la rivelazione dell’ «azione distruttrice del Tempo» che trasforma «il più fiero dei volti [in un] cencio imputridito, sballottato da ogni parte»; e l’opera stessa, pensata e scritta come rifiuto del Tempo che sfigura e annienta, è a quel Tempo soggetta: «un giorno anche i miei libri, come il mio essere di carne – si dice nel Tempo ritrovato – avrebbero certo finito per morire [...] La durata eterna non è promessa ai libri più che agli uomini» (Proust 1993, 609, 755). La parola finale dellaRecherche non è, come spesso si è creduto, una parola di giubilo per la scoperta di leggi universali, ma la commemorazione pietosa di tutto ciò che è fragile e impermanente: «scoprivo l’azione distruttrice del Tempo proprio nel momento in cui volevo accingermi a rendere chiare, a intellettualizzare in un’opera d’arte, delle realtà extratemporali» (Ibid., 619). Proust, come e più di ogni narratore, è Sharazade: il racconto, come la vita, è essenzialmente un “pervertimento” del tempo, ovvero una minima dilazione della fine (o del fine) cui entrambi tendono, la morte. E sovviene ancora Gadda con il suo Tendo al mio fine, racconto-saggio

101 tutto giocato proprio su questa ambiguità semantica tra il fine come scopo e la fine come «conclusione, fine dell’esperienza e della vita, appunto, morte. Morte che arriverà puntuale in chiusura del testo nella sua forma più organica e fisiologica, brutalmente materiale della lassitudine» (De Michelis 2003):

Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di propormi come formate cose ed obbietti: come paragrafi immoti della sapiente sua legge. Umiliato dal destino, sacrificato alla inutilità, nella bestialità corrotto, e però atterrito dalla vanità vana del nulla, io, che di tutti li scrittori della Italia antichi e moderni sono quello che più possiede di comodini da notte, vorrò dipartirmi un giorno dalle sfiancate sèggiole dove m’ha collocato la sapienza e la virtù de’ sapienti e de’ virtuosi, e, andando verso l’orrida solitudine mia, leverò in lode di quelli quel canto, a che il mandolino dell’anima, ben grattato, potrà dare bellezza nel ghigno (Gadda 1988, 219).

Gli esempi potrebbero essere moltissimi e, naturalmente, diversi; fermiamoci per ora a questi, per rilevare, almeno in sede di ipotesi, come la verità del romanzo – anche dei romanzi più fedeli alla realtà o al dato storico – appartenga ad una sfera diversa da quella fattuale. Non solo perché, aristotelicamente, la “poesia dice gli universali” (sempre però incarnandoli in “nomi propri”), ma perché dice una verità che pertiene prima di tutto alla sfera morale: ricreando progettualmente ciò che non è più, il romanzo svela anche la necessità di negare il reale in virtù dell’ideale. Come, con estrema semplicità, ha scritto Adorno nella sua Teoria Estetica, nella vera opera d’arte c’è sempre anche «il desiderio di produrre un mondo migliore» (Adorno 1975, 15); un “mondo migliore” che non è forse direttamente il risultato dell’opera, ma che l’opera ci induce a desiderare, e di cui afferma la necessità. «Il futuro - scriveva Rilke nelle Lettere a un giovane poeta - entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima di essere accaduto» (Rilke 1980). [email protected]

Bibliografia:

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103 narrazioni n.4 narrazioni n.4 LE INQUADRATURE SU CARTA Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani

di Mariangela Giordano

e Gli occhiali d’oro, romanzo breve del 1958, la scrittura di Gior- Ngio Bassani assume un connotato fortemente visuale, frutto an- che delle coeve esperienze cinematografiche dell’autore.

ivere sulla soglia di un mondo inaccessibile può ridurre l’esistenza alla pura osservazione di un reale che scorre al di là di un paio d’occhiali, bordati d’oro. È V appunto questo il destino entro cui è circoscritto il protagonista de Gli occhiali d’oro, romanzo breve di Giorgio Bassani, pubblicato nel 1958 (ma scritto nei due anni precedenti) in «Paragone-Letteratura» e riedito presso Einaudi, nello stesso anno (Bas- sani, 2009, p. 1767), con dedica a Mario Soldati. Assume gradazioni nuove la scrittura di Bassani per raccontare la storia di Athos Fadigati, dottore otorinolaringoiatra, il cui aspetto è contraddistinto da «quegli occhiali d’oro che scintillavano simpaticamente sul colorito terreo delle guancie glabre». Infatti lo scrittore per la prima volta osa dire finalmente “io”, esce dalla sua tana, si qualifica ed attraverso l’uso della prima persona, include anche se stesso in questa vicenda di progressiva esclusione e solitudine, verso cui vanno incontro parallelamente dottore ed io narrante. Se nelle Cinque storie ferraresi le vicende sono state sempre descritte secondo una prospettiva, per così dire, esterna (cfr. Dolfi, 2003, pp. 28-33), negli Occhiali d’oro si ac- corciano le distanze con la nascita di un personaggio, così illustrato da Bassani:

Debbo in ogni caso ricordare che il deuteragonista de Gli Occhiali d’oro è un perso- naggio, non sono io. Si tratta cioè di un giovanotto molto simile, a come ero io molti anni fa, ma non di me stesso: prova ne sia che non viene mai chiamato per nome, anzi che non ha nome. Il giovanotto è dunque, in sostanza, soltanto una forma del mio sentimento, una parte di me. Io a quell’epoca ero quasi così, ma non così. (Bassani, cit., pp. 1322-1323)

Il narratore cambia postazione e muta il punto di osservazione su quello che lo circonda. «Ciò che lo isola non gli sta più intorno ma davanti», questo il salto compiu- to da chi scrive e così espresso dalle parole di Anna Dolfi (Dolfi, 2003, pp. 28-33). In seguito lo scrittore ferrarese, ne L’odore del fieno, spiega con queste parole il suo “cambio di rotta”:

[…] Ma da ora in poi come avrei potuto - ragionavo tra me e me- continuare così, ridotto in sostanza a una pura mano che scrive? […] ormai sulla scena del mio teatrino provinciale era proprio a me stesso che dovevo trovare una collo- cazione all’altezza, non secondaria. Riflettori dunque anche su me, d’ora in poi scrivente e non scrivente: su tutto me (Bassani, 2013, p. 769).

104 Lavoro critico La collocazione adatta che Bassani aveva faticato a trovare al suo io, sembra definirsi, dopo i primi tre capitoli, laddove l’io scrivente si rivela nei panni di un giovane ebreo fer- rarese, studente all’università di Lettere a Bologna (Durante, 2008, p. 101) . Una scelta narrativa “a metà strada” tra il romanzo breve e il racconto lungo, questa fatta da Bassani ne Gli Occhiali d’oro. Si ricordi, che nel corso degli anni Cinquanta, Giorgio Bassani ha fatto la conoscenza diretta con il mondo del cinema. L’influenza che la settima arte esercita sulla scrittura bassaniana si fa progressivamente più chiara racconto dopo racconto, tanto da giungere ne Gli Occhiali d’oro ad una narrativa in cui i periodi si alternano sulla pagina, come in- quadrature in una scena. Il libro si apre con un’inquadratura su Fadigati, ricordato attraverso le prime coor- dinate necessarie per localizzarlo, poi con un campo lungo, l’obiettivo si sposta sulla città di Ferrara su quelle strade, corso Giovenca e corso Roma, che ne sono il centro pulsante. Dopo un rapido flash back sulla città di Venezia, luogo d’origine di Fadigati, si assiste a un progressivo primissimo piano su quei caratteristici occhiali d’oro. La penna di Bassani si muove sapientemente tra i commenti dei ferraresi e gli ambienti interni ed esterni frequentati dal medico: zoom sulla vita di Fadigati che trascorre la mattina in am- bulatorio e la sera vive la città nei suoi luoghi più vitali: piazze, ristoranti, cinema, circoli, teatri: «Dopo un’intensa giornata di lavoro gli piaceva certo sentirsi tra la folla: la folla allegra, vociante, indifferenziata». Fadigati si rivela un “amante della folla”, un riservato cercatore di contatti. Egli non vive un’esistenza nascosta, non si autoesclude (come fa Alberto col trascorrere la sua giovinezza entro le mura della magna domus) ma anzi cerca quanto più possibile di sopperire la sua solitudine frequentando i luoghi pubblici. Poi ancora cambio scena e cambio data, 1936, il treno cha da Ferrara va a Bologna ha tra i suoi passeggeri Fadigati e un gruppo di studenti. Qui ha inizio il vero tempo della storia, dove i personaggi parlano ed agiscono dando il via al racconto. I primi anni a Ferrara sono i più floridi e acclamati per il dottore, visto come la ricca borghesia «prendeva a pretesto il più piccolo mal di gola» per frequentare gli accoglien- ti e caldi interni dello studio medico: tra poltrone e divanetti, posti accanto a tavolini sempre forniti di carta stampata, arredano le pareti delle stanze quadri e stampe antiche e moderne. Bassani introduce il lettore nel fulcro in cui sembra svolgersi la perfetta routine del dottore. Ma, a ben guardare, la vita vera, gli accadimenti più importanti per lo svolgimento della vicenda, avverranno proprio all’esterno, fuori dai luoghi conven- zionali entro cui è stato “rinchiuso” Fadigati. Sempre avvolto in soffici lane inglesi e con fare rassicurante e discreto, il dottor Fa- digati rende le visite piacevoli «e perfino stimolanti per il cervello» poiché solito intrat- tenere i pazienti con conversazioni di musica ed arte, di cui era un ottimo conoscitore (Toni, 2001, p. 82). Sono le «stranissime voci» messe in giro dal solito chiacchiericcio ferrarese, a far circolare in città la notizia circa la vera natura del dottor Fadigati, il reale motivo per cui, giunto ai quarant’anni, ancora non avesse preso moglie. Ha i tratti di un segreto svelato l’omosessualità di Athos Fadigati, una realtà vergognosa per gli abitanti di Ferrara che mutano il proprio atteggiamento nei confronti del medico, così precedentemente tanto

105 narrazioni n.4 stimato (Ferretti, 1974, p. 45). Alla luce del sole, la borghesia ferrarese continua, o per lo meno così dice, a simulare ancora stima e rispetto per l’otorinolaringoiatra, ma nel buio della sera, finalmente, quando il medico è fuori dal suo studio, possono rivelare la loro indifferenza e disprezzo. Il contrasto luce-buio è presente anche in questo romanzo breve, dove l’oscurità della sera si fa, ancora una volta, rivelatrice di quelle verità che la luce del mattino offusca: nelle opere bassaniane analizzate, Pino Barilari scopre il tradi- mento della moglie nel buio di quella notte, mentre il protagonista de Il Giardino dei Finzi- Contini acquista coraggio e consapevolezza scavalcando, di notte, le mura della villa. Ed è per assurdo che nell’oscurità più acuta, le cose iniziano a diventare sempre più nitide. Fadigati è un abituale frequentatore dei cinema Excelsior, Salvini, Rex, Diana (luoghi d’invenzione, secondo quella topografia immaginaria peculiare, come è noto dell’opera di Bassani). Il luccichio dei suoi occhiali ne permette la localizzazione nel buio della sala, negli ultimi posti della platea. E se prima della scoperta del “vizio”, molta era la curiosità nel scorgerlo («…ai posti di galleria,… preferiva gli ultimi posti di platea… Era proprio di buon gusto-sospiravano, volgendo accorati gli sguardi altrove -, ostentare fino a quel segno lo spirito di bohème?»), ora «che cosa importava adesso, non appena entrati, aver subito conferma della sua presenza? E perché mai avrebbero atteso col disagio di una volta ogni ritorno della luce in sala?». Luce e buio in sala, ancora una volta, contraddi- stinguono il rapporto tra Fadigati e i ferraresi. Ne Gli Occhiali d’oro è in una sala cinematografica, quella dell’Excelsior, che giunge la consapevolezza del giovane narratore su quella condizione di escluso, che si fa progres- sivamente più chiara nel corso del racconto e che lo fa sentire così prossimo a Fadigati. Alla cassiera che con fare sicuro, gli porge un biglietto per la galleria, il narratore chiede un posto in platea, nel luogo in cui, meglio che altrove, torna alla mente il dottore, l’u- nico borghese «al quale fosse riconoscibile il diritto di frequentare le platee popolari», dove si intravedeva il suo viso cercare, forse qualche giovane militare (Santoro, 2007, pp. 1349-1350). Su binari paralleli scorre il percorso di isolamento che tocca Fadigati e il giovane narratore perché ebreo, anche se uno in modo più vistoso, l’altro in modo più riservato e segreto (Grillandi, 1997, pp. 96-99). Sono proprio i binari a veder nascere la conoscenza più ravvicinata che il gruppo di studenti fa di Fadigati.

Volgendo lo sguardo al treno fermo, e passandolo poi da vagone a vagone, a un certo punto potevamo scorgere il dottor Fadigati, che da dietro lo spesso cri- stallo del suo scompartimento, osservava la gente attraversare i binari e affrettarsi verso le carrozze di terza. Dall’espressione di invidia accorata sul suo viso, dalle occhiate di rimpianto con le quali seguiva la piccola folla campagnola a noi così indigesta, pareva poco meno che un recluso: un confinato politico di riguardo, in viaggio di trasferimento a Ponza o alle Tremiti per restarci chissà quanto. (Bassani, 2012, p. 199)

Anche qui Fadigati intrattiene i suoi uditori con piacevoli chiacchierate su cinema, sport e politica (dove da sempre si era dichiarato apolitico, malgrado avesse ricevuto in dono la tessera del fascio) non senza trovare chi gli si opponesse: Nino Bottecchiari,

106 Lavoro critico intellettuale del gruppo e nipote del socialista Mauro, sembra divertirsi a contraddirlo e ad alzare la voce ogni qualvolta gli si presenti l’occasione; poi, c’è il più sfrontato Eraldo Deliliers, che fin da subito sembra scoprire le carte, distinguendosi dal resto del gruppo nel dar voce al disprezzo verso quel, così lo definisce la prima volta, «vecchio finocchio». Egli si sente un «reuccio locale vero e proprio» sia per la bellezza statuaria, che per i suoi meriti sportivi alla boxe; anche se in realtà le maggiori vittorie sembra averle con le donne, come con quella sua compagna di scuola che, per amor suo, si era ammazzata nel Po. La notizia risuona come un campanello d’allarme sulle capacità del giovane adone di mettere ko le sue conquiste. Eraldo incarna la mascolinità per eccellenza, stereoti- pata nella figura del tiratore di boxe: colui che con modi bruschi e strafottenti, non ha voglia di far niente ma cerca facili espedienti per “sopravvivere”. Il suo fascino e la sua sfrontatezza, però, arrivano a far breccia nel discreto e riservato Fadigati (malgrado la maleducazione e la volgare ironia dimostrata nei suoi confronti nelle conversazioni in treno) che fino ad allora si era ben guardato dal far trapelare ogni sua relazione amorosa. Non è Ferrara, però, lo scenario in cui Fadigati mostra con coraggio la sua «amicizia scandalosa», ma a Riccione dove tutta la borghesia ferrarese si trasferisce per le vacanze estive. La scelta del coming out fuori le mura non è quindi dettata dal voler continuare nel segreto le proprie relazioni sentimentali. Sembra quasi che Fadigati abbia bisogno di trasferirsi per poter iniziare un nuovo capitolo della propria vita, in una nuova città dove il corso d’acqua è però una presenza costante. Venezia, l’aveva visto nascere nella sua casa sul Canal Grande, ma il destino in quella città si era rivelato solitario ed infelice a causa dei diversi lutti subiti (si ricordi come anche la famiglia Herrera della moglie del professor Ermanno era di Venezia, nel quale cimitero era avvenuto il fidanzamento tra i due; poi Micòl si era lì trasferita per studiare; cfr.: Limentani, 1981, p. 47). Successivamente Fadigati giunge a Ferrara che con il suo Po lo accoglie nel perio- do più brillante della sua carriera medica ma che alle prime voci maliziose, sembra già voltargli le spalle, per poi riaccoglierlo “in quel suo progressivo annegamento”. Ed ora Riccione, che lo vede felicemente innamorato del giovane Eraldo sui litorali del Mar Adriatico. Niente di più conveniente per le malelingue in vacanze, che trovano nella coppia, “pane” per le loro conversazioni. Su tutte emerge la signora Lavezzoli «per la sua veloce lingua di toscana» e per «la tecnica quasi di un cronista sportivo della radio», con cui informa tutti i bagnanti sulle vicende riguardanti la coppia di «sposini». Le voci sprezzanti che circolano circa l’omosessualità di Fadigati si personificano nella Lavez- zoli, esemplare della borghesia emiliana e specchio di quegli abitanti di provincia, che nella loro ipocrisia deformano la realtà (cfr.: Id., pp. 54-68). Moglie di un noto civilista ferrarese, sostenitrice della politica di Mussolini e superficiale cattolica, esercita con l’aria da maestra la sua demolizione nei confronti del medico, senza poi risparmiarsi nel dare anche giudizi antisemiti (Toni, 2001, pp. 85-86). Infatti troneggiante sulla sua chaise longue, la signora Lavezzoli introduce il tema dell’eterno dualismo tra il cristianesimo e l’ebraismo, dove lei incarna i cristiani, che si innalzano a giudici degli eventi storici ab- battutisi sugli ebrei, e coloro i quali in passato avevano già rilegato gli ebrei nel ghetto;

107 narrazioni n.4 qui il narratore, esplicitando la sua rabbia verso i cattolici, anticipa rievocando il passato, il futuro che toccherà gli ebrei «ammassati l’uno sull’altro dietro i cancelli» del ghetto. La Lavezzoli è mal sopportata dal giovane narratore, che non crede all’etichetta di «“vecchio degenerato e sporcaccione”» che la signora dà a Fadigati; non solo perché riconosce in Eraldo il fautore di quegli atteggiamenti così vistosi, ma anche perché sente un graduale senso di solidarietà con il dottore (Ferretti, 1964, p. 47). Sembra ritrovare in Fadigati quella solitudine che lentamente sta crescendo in lui, ebreo alle soglie della deportazione. Anche quando Deliliers lo invita ad andare a Rimini, il narratore sceglie di non accettare, per non venir meno a questo “sottaciuto rapporto di solidarietà”. Così Deliliers stesso finisce per abbandonarlo con una plateale uscita di scena in cui, dopo una discussione che aveva causato il labbro gonfio a Fadigati, lo deruba di tutti i suoi soldi e vestiti, e gli causa nuove sofferenze al suo già debole cuore. Il dottore otorino- laringoiatra sembra incapace di vedere il comportamento meschino e opportunista del giovane amato ma, d’altronde, lui si era sempre solo occupato di curare tre sensi: udito, olfatto e gola, ed inesperto e ottuso appare per ciò che riguarda gli altri due. Per quel pa- radosso tipico che caratterizza molti personaggi bassaniani, la vista, senso a cui si allude nel titolo, è l’unico mezzo di contatto che progressivamente Fadigati potrà usare con l’esterno, attraverso quei suoi occhiali dai bordi d’oro; poi il tatto, che verrà inutilizzato, perché ogni suo gesto, ogni contatto, sarà malvisto e tacciato di osceno. La fallimentare storia d’amore di Fadigati si conclude nell’estate trascorsa a Riccione, mentre per il narratore è ottobre, il mese in cui iniziano l’attuazione delle leggi razziali. Anche Nino Bottecchiari ritorna nella storia per contribuire con il suo punto di vista da socialista, a narrare le sorti di Ferrara: il suo ottimismo, secondo cui in Italia gli ebrei non verranno toccati, mal si confà con lo spirito del narratore che cercherà quanto più possibile di allontanarlo. Alle conversazioni, il giovane ebreo preferisce le solitarie passeggiate in bicicletta che lo condurranno una sera nei pressi del cimitero ebraico. Lo sguardo sui cari defunti vie- ne dall’alto, dove a distanza vede dei forestieri, degli ospiti che si aggirano tra le tombe ed attraverso i quali, da lassù, sente riappropriarsi di quel senso di appartenenza perso.

Mi sentii d’un tratto penetrare da una gran dolcezza, da una pace e da una gra- titudine tenerissime. Il sole al tramonto, forando una scura coltre di nuvole bassa all’orizzonte illuminava vivamente ogni cosa: il cimitero ebraico ai miei piedi, l’ab- side e il campanile della chiesa di San Cristoforo poco più in là, e sullo sfondo alte sopra la bruna distesa dei tetti, le lontane moli del castello Estense e del duomo. Mi era bastato recuperare l’antico volto materno della mia città, riaverlo ancora una volta tutto per me, perché quell’atroce senso di esclusione che mi aveva tor- mentato nei giorni scorsi cadesse all’istante. Il futuro di persecuzioni e massacri che forse ci attendeva […] non mi faceva più paura (Bassani, 2012, pp. 240-241).

Questo occhio così cinematografico, è il comune denominatore che lega tutti gli scritti confluiti, non solo per una ricorrenza dei luoghi e persone, nel grande Romanzo di Fer- rara. Quasi al termine del romanzo, i due protagonisti arrivano a sancire esplicitamente

108 Lavoro critico questo loro rapporto: soli, in giro per la città i due “esclusi” parlano delle proprie di- sgrazie, o meglio è ancora Fadigati a parlare dei cambiamenti che la sua vita ha subito, mentre il narratore ascolta e poco alla volta prende consapevolezza sulla sua condizio- ne. Il narratore, invece, non si rassegna a quello che sembra essere il suo irrimediabile destino, infatti non cede al compromesso, consapevole della forte ferita che le leggi razziali hanno aperto (Ferretti, 1964, p. 48). Ma la loro amicizia resta sospesa in quella notte, dove «rimarrà soltanto il non detto», qualche parola sussurrata e solo l’accenno a un’amicizia mai realizzata fino a fondo. Con la tipica discrezione bassaniana, il legame tra i protagonisti è accennato, sottaciuto, «perché meritano di essere trattati con pudore» senza alcun elemento esterno che ne falsifichi il rapporto (cfr. Camon, 1973, pp. 65-66). L’ultimo contatto che il narratore ha con il dottore avviene per telefono attraverso un sottile filo, come quello su cui si è stabilita la loro amicizia, così intensa ma così breve, perché la troppa somiglianza non può comunque esser «un’ancora di salvataggio» per le loro situazioni (si ricordi come per la troppa somiglianza, Micòl aveva allontanato l’in- namorato narratore de Il Giardino dei Finzi-Contini, impedendo la nascita di una relazione amorosa). Fadigati è solo ed abbandonato da tutti (a differenza del giovane che può contare su una comunità e una famiglia). La sua morte avviene fuori scena ed è raccontata dalle parole lette dal narratore su un giornale: si avvia la scena con un primo piano sul giova- ne, del quale vengono mostrati i movimenti, intervallati dai pensieri sulla loro situazione di ebrei. Poi zoom sul giornale e lentamente viene mostrato in dettaglio, il titolo che annuncia lapidario la morte del dottore:

NOTO PROFESSIONISTA FERRARESE ANNEGATO NELLE ACQUE DEL PO PRESSO PONTELAGOSCURO

Il Po diventa l’ambientazione per il suo gesto estremo, le sue acque lo accolgono definitivamente, senza poterlo rifiutare ancora una volta. Ma anche da morto, il suo atto verrà sottaciuto, falsificato come un incidente, che il regime e la borghesia tutta non poteva credere conforme alle proprie buone regole (cfr. Camilleri, 2000). L’inquadratu- ra si allarga ritornando sul narratore di cui vengono descritte emozioni e i pensieri, ed ancora lento nei suoi gesti dà voce, per il lettore e per chi lo circonda, all’annuncio sulla morte di Fadigati. A Bassani la storia di Athos Fadigati appare come uno svelamento, un passaggio obbligato attraverso il quale poter giungere a una nuova consapevolezza visiva, a una nuova scrittura attraverso cui poter, in seguito, ritornare a raccontare la sua vicenda personale con altri occhi. [email protected]

BIBLIOGRAFIA:

Giorgio Bassani, 1998, Opere, a cura e con un saggio di Roberto Cotroneo, Meri- diani, Milano.

109 Id., 2012, Il romanzo di Ferrara, postfazione di Cristiano Spila, Feltrinelli, Milano. , 2000, Il triste finale degli Occhiali d’oro, La Naciòn, 14 maggio. Ferdinando Camon, 1973, Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche, Garzanti, Mi- lano. Anna Dolfi, 2003, Giorgio Bassani: una scrittura della malinconia, Bulzoni, Roma. Lea Durante, 2008, L’io suddiviso, l’io distribuito. Identità e autobiografia ne Romanzo di Ferrara, in Avventure dell’identità: letture contemporanee, Palomar, Bari. Gian Carlo Ferretti, 1964, Letteratura e ideologia: Bassani, Cassola, Pasolini, Editori Riuniti, Roma, pp. 37-48. Massimo Grillandi 1972, Invito alla lettura di Giorgio Bassani, Mursia, Milano. Alberto Limentani, 1981, La narrativa di Giorgio Bassani, Giardini editori e stampa- tori, Pisa. Vito Santoro 2007, «Arreso a uno sguardo infinito». Osservazioni su Giorgio Bassani e il cinema, in Elisabetta Menetti e Carlo Varotti (a cura di), La letteratura e la storia. Atti del IX Congresso nazionale dell’ADI. Bologna-Rimini 21-24 settembre 2005, Gedit, Bolo- gna, pp. 1349-1358. Alberto Toni, 2001, Con Bassani verso Ferrara, Edizioni Unicopli, Milano.

110 narrazioni n.4 «GLI AVVENTUROSI VIAGGI DEL SOGNO»: L’isola di Arturo di Elsa Morante.

di Silvia Ceracchini

ocalizzando l’attenzione su delicati momenti della narrazione e Fsui tormentati desideri informi dell’inconscio, nell’Isola di Arturo, secondo romanzo di Elsa Morante, la dimensione onirica ha un ruo- lo di grande rilievo ed è associata in particolare a due personaggi: Arturo Gerace e Romeo l’Amalfitano. Questa singolare peculiarità suggella il legame tra il giovane procidano e l’originario proprietario della Casa dei guaglioni.

a misteriosa sfera del sogno ha esercitato grande fascino su Elsa Morante, dai primi scritti fino all’ultimo romanzo Aracoeli, in cui continue sfumature oniriche Linvadono il tessuto narrativo caratterizzandone in maniera esemplare la natura. Poco più che ventenne, nel 1938, lontana dai primi riconoscimenti di Menzogna e sortile- gio, la scrittrice appunta i suoi sogni in un diario personale dal titolo Lettere ad Antonio. Eloquente epigrafe del libro, insieme con dei versi tratti dal Purgatorio di Dante («Tosto sarà che a veder queste cose / non ti fia grave, ma fieti diletto / quanto natura a sentir ti dispuose»), è il titolo dell’opera di Pedro Calderón de La Barca, La vida es sueño. L’indagi- ne delle sue visioni notturne, «vere e proprie creazioni artistiche» (Morante 1990, p. 1593), porta la Morante alla riflessione:

Che miracolo il sogno! Ora capisco da dove è nata la grande e ombrosa cat- tedrale del mio. Ieri sera discorrendo dell’arte nel romanzo e nell’intreccio con V. ricordo di avere di sfuggita paragonato la costruzione del racconto a un’architet- tura, a una cattedrale, le scene isolate alle vetrate. Da questa parola fuggitiva è nata quell’immensa cattedrale sognata. Basta una parola, uno sguardo della giornata per spingere verso gli indicibili cammini, gli avventurosi viaggi del sogno. È come un filo esile, che si compone in un fiabesco ricamo.

Che il segreto dell’arte sia qui? Ricordare come l’opera si è vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista, cercare soprattutto di ricordare. Ché forse tutto l’inventare è ricordare (p. 1592).

Nel riconoscere la reciproca influenza tra realtà, sogni e scrittura, la scrittrice com- para «la costruzione del racconto a un’architettura, a una cattedrale, le scene isolate alle vetrate». L’immagine riporta alla memoria l’affermazione di William Wordsworth, che nella prefazione al The Excursion paragona il The Recluse a una «gothic Church» e il The Prelude, sua prima parte, alla «Anti-chapel» (Wordsworth 1814, p. IX). Il riferimento alla memoria come fonte primaria della materia dell’arte torna nel febbraio del 1957, quando la scrittrice si trova a presentare in una lettera a Giacomo Debenedetti il suo

111 narrazioni n.4 nuovo romanzo, L’isola di Arturo. In particolare Elsa Morante afferma di aver scritto il libro ispirandosi a una «rimpianta condizione di ragazzo, che [le] sembrava di ricordare» (Morante 2012, p. 190). Pur non essendo qui mai nominato esplicitamente il seme del ricordo, è al sogno che sembra rifarsi tale memoria artificiale e il «fiabesco ricamo» che ne deriva: è con L’isola di Arturo, tramite il giovane protagonista, che la scrittrice realizza, come specifica nella lettera a Debenedetti, il suo «antico inguaribile desiderio di essere un ragazzo» (p. 190) vivendo un lungo e avventuroso sogno a occhi aperti. All’interno del romanzo stesso, così come per gli altri, i sogni hanno un ruolo fon- damentale, in particolare in merito a due personaggi: Arturo Gerace, protagonista e narratore della storia, e Romeo l’Amalfitano. Noto agli isolani per le straordinarie feste dalle quali le procidane, odiate, erano escluse, Romeo è l’originario proprietario della Casa dei guaglioni, il «palazzo negato alle donne» (Morante 1988, p. 970) lasciato in eredità a Wilhelm Gerace, padre di Arturo, la cui giovane compagnia, pur se spesso cru- dele, gli è di conforto negli ultimi anni desolati della sua vita. Il ritratto dell’Amalfitano, l’unico possibile amico procidano di Wilhelm, come lui stesso ha promesso dopo la sua morte, è saldamente appeso nella Casa dei guaglioni, e Arturo, costantemente in cerca dell’amore paterno, lo guarda con invidia, come il conquistatore inconsapevole di un premio leggendario:

E così, dunque, mio padre sull’isola aveva sempre accanto Romeo, quale fido compagno, allo stesso modo che, fuori dell’isola, aveva sempre accanto Pugnale Algerino! L’uno e l’altro si dividevano la sua predilezione, e i suoi segreti; e l’uno e l’altro, per me, rimanevano sconosciuti e irraggiungibili. La mia fanciullezza, pensai sospirando, era sempre la causa di questo mio destino amaro. La morte di Romeo, la maturità di Pugnale Algerino, la lasciavano indietro, esclusa dai reami incantati di mio padre (pp. 1013-1014).

Nonostante le loro differenze, Arturo e Romeo sono in realtà due personaggi molto simili e in qualche modo speculari. Prevalentemente soli, consolati dalla fedeltà dei loro cani e dalla sola speranza di poter godere dell’attenzione di Wilhelm Gerace, entrambi sono ciechi di fronte alla realtà delle cose: Romeo, letteralmente cieco per la vecchiaia, è ossessionato dal giovane dal sangue mezzo tedesco e mezzo procidano, riconoscendo nella sua persona «tutta la bellezza della vita» (p. 1009), nonostante riceva, in cambio della sua adorazione, solo crudeli giochi sadici. La trasfigurazione mitica del futuro ca- pofamiglia Gerace, alimentata dall’impedimento visivo, è fomentata da Wilhelm stesso, che come un dio irriverente si prende gioco della curiosità dell’Amalfitano, descrivendo ad esempio i tratti del suo viso secondo una vanità fantastica e il capriccio:

E io, per non dare troppe soddisfazioni alla sua curiosità, gli rispondevo ora a un modo, ora a un altro, secondo la fantasia. Una volta gli dicevo che avevo gli occhi iniettati di sangue come le tigri; e una volta, che avevo un occhio azzurro e un altro nero. Oppure gli affermavo che avevo uno sfregio sulla gota, e subito contraevo i muscoli del volto in una maniera, che lui, allorché per sincerarsi mi toccava la gota, vi trovava un profondo incavo, e quasi rimaneva in dubbio (ibid.).

112 Lavoro critico Solo dopo la morte dell’Amalfitano Wilhelm, forse come ultima beffa, gli promette eterna ed esclusiva amicizia sull’isola di Procida, dove i loro nomi uniti «sono scritti perfino sui sassi, perfino nell’aria» (p. 1013). Anche Arturo, vittima di un vero e proprio culto, esalta le imprese e la bellezza di suo padre come se fosse un eroe benedetto dagli dei, e lo ama quanto più questo lo ferisce, offuscato da una nube illusoria e infantile, che Schopenhauer definirebbe “velo di Maya”, che lo priva della vista del reale. A ben vedere è il ragazzo, più che suo padre, spesso assente da Procida, il vero ereditario di Romeo l’Amalfitano ed effettivo proprietario della Casa dei guaglioni. L’affinità tra i due personaggi è sottolineata, come già accennato, dal fatto che i loro siano i sogni su cui la scrittrice si soffermi con maggiore attenzione. Al tempo degli incontri tra il vecchio Romeo e Wilhelm, l’Amalfitano elenca al giovane, credendo di stupirlo con presunte capacità profetiche dovute alla cecità, una serie di sogni fatti a suo dire la notte prima di conoscerlo, tutti con la comune premonizione di un tesoro prezioso ed esotico:

Aveva sognato, per esempio, di essere tornato al tempo che faceva lo spedizio- niere; e di ricevere, senza sapere da parte di chi, una cassetta di legno odoroso che conteneva magnifiche pietre colorate, e spezie orientali che profumavano come un giardino. Poi aveva sognato di andare a caccia, ancora sano e svelto, nell’isola di Vivara; e che i suoi cani stanavano (ma senza ferirla), una famiglia di lepri, fra cui un leprotto bello come un angelo, che nella pelliccia nera aveva una frezza d’oro. Poi aveva sognato che in camera sua cresceva un albero di melangoli, fatato, tutto inargentato dalla luna... e altre visioni di questo genere (p. 1007).

Nel riportare alla sua novella sposa Nunziata e ad Arturo tali racconti dell’Amalfita- no, Wilhelm li definisce «tutte fanfaronate» (ibid.), perché nonostante l’amico affermas- se, dopo essere divenuto cieco, di fare «sempre dei sogni fantastici, assai più colorati della realtà» (p. 1008), vecchio e malato com’era, soffriva d’insonnia e gli era dunque finita anche la consolazione del sogno. Romeo avrebbe voluto far credere a Wilhelm, per vanità ma soprattutto per incuriosirlo e tenerlo vicino a sé, che la sua cecità, elemen- to che ritornerà poi nell’Edipo della Serata a Colono, l’opera teatrale del Mondo salvato dai ragazzini, fosse, come tradizione vuole, uno strumento per vedere un mondo fantastico celato ai comuni strumenti sensibili. L’intenzione è invece freddata dal cinismo del tede- sco, che già da ragazzo riconosceva nella vecchia cecità dell’Amalfitano nient’altro che una vecchia cecità, spesso derisa come patetica: «Mi pentivo, ma nel tempo stesso mi tornava quasi da ridere, al ricordo, per esempio, di certe volte che, mentre lui discorreva e mi raccontava con gran gesti i suoi sogni, d’un tratto io m’allontanavo senza rumore, e andavo a nascondermi in qualche angolo, fingendo di sparire come la nebbia» (p. 1012). Dopo aver insistito sui “sogni profetici” dell’Amalfitano e sulla fittizia realtà alternativa incontrata di notte, tanto straordinaria che «addormentarsi era diventata una festa di gala, un’avventura da romanzo, insomma, una seconda vita» (p. 1008), a sostegno del legame tra Romeo e Arturo, la scrittrice dedica a due loro sogni due diversi paragrafi successivi, intitolandoli, a specchio, Un sogno dell’Amalfitano e Un sogno di Arturo, incentra- ti significativamente entrambi su Wilhelm Gerace. Il primo sogno, raccontato sempre da

113 narrazioni n.4 Wilhelm, è ispirato alle Mille e una notte:

Ho sognato di essere giovanotto, elegante, baldanzoso. Dovevo esser diventa- to un grande Vizir, o qualcosa di simile: ero vestito con un costume turco di seta sgargiante, del colore (dirò per dartene un’idea) dei girasoli; macché girasoli! più bello assai! non è possibile trovargli un paragone adatto! Avevo un turbantino con una lunga penna, ai piedi due babbucce da ballerino, e me ne andavo canticchian- do per un bel luogo delle parti dell’Asia, dove non c’era nessun’altra persona, in mezzo a prati tutti di rose (p. 1016).

Proseguendo, Romeo dichiara di aver sentito nel sogno sospirare intorno a lui. Il motivo di questo sospiro cosmico e naturale si trova in «un vero concetto di filosofia» esposto dall’Amalfitano. Come già notato da Marco Bardini, queste parole «sono una delle chiavi del romanzo» (Bardini 1999, p. 437): esistono due diversi destini, quello di chi nasce ape, che ruba il miele alle rose, e quello di chi nasce rosa, essere divino igno- rante dei propri misteri che talvolta sospira di solitudine, e che il miele, «il più adorato, il più prezioso» (Morante 1988, p. 1017), ce l’ha in se stessa. Dopo aver riconosciuto nell’ape il più fortunato tra i due e di essersi proclamato Ape Regina, Romeo identifica il destino di Wilhelm come il più dolce e insieme il più amaro, in un verso che sarà ripreso identico nella poesia dell’omonima raccolta del 1958, Alibi: «“tu sei l’ape e sei la rosa”» (ibid.). In questa solenne definizione compromessa dall’idolatria dell’Amalfitano, giunta a lui tramite un’illuminazione notturna inventata ad arte, è racchiuso tutto il destino dol- ceamaro dell’eroe tragico, il cui «sangue-misto», scontroso e irrequieto, «di rado si trova contento in compagnia» (p. 1016), e come quello di un «animale doppio», «come un cavallo grifone» o «una sirena» (ibid.), ha il fascino irraggiungibile di una fiaba d’Oriente e porta il peso della solitudine che lo distingue. Anche il sogno di Arturo, questa volta realmente avvenuto, ha per oggetto la sfuggevolezza di Wilhelm e il desiderio profondo di ricevere la sua benevolenza: «Io, a somiglianza dei mistici, non volevo ricevere spie- gazioni da lui, ma dedicare a lui la mia fede. Quello che aspettavo da lui, era un premio per la mia fede; e questo Paradiso sospirato mi sembrava ancora tanto lontano che (non lo dico per modo di dire), io non riuscivo a raggiungerlo nemmeno in sogno» (p. 1018). Arturo sogna di scendere con suo padre per una strada deserta. Wilhelm, bello e fiero nel suo essere «altissimo» e «ricoperto d’un’armatura scintillante», come Achille in battaglia, è evidentemente il comandante, mentre Arturo, «ragazzino» che gli arriva «appena al fianco», una goffa recluta, «con le fasce intorno ai polpacci e una divisa di panno grigio-verde troppo larga per le [sue] misure» (ibid.). Continua il sogno:

Egli, senza neppur guardarmi, mi ordina bruscamente: - Va’ a comperarmi le sigarette -. Fiero di ricevere i suoi comandi, io di corsa risalgo indietro alla tabac- cheria, e, di nascosto da lui, bacio il pacchetto delle sigarette prima di darglielo. Lui, pur non avendomi veduto baciare il pacchetto, avverte in esso, appena l’ha toccato e guardato, qualcosa che merita il suo disprezzo. E in tono sferzante mi grida: - Smorfioso moro! (pp. 1018-1019)

114 Lavoro critico Tutti gli elementi presenti suggeriscono chiaramente un’interpretazione piuttosto semplice, dall’ordine brusco e regale che Arturo è fiero di ricevere, al bacio nascosto che s’imprime come un marchio infame sulle sigarette e che merita il disprezzo del comandante. In particolare Arturo torna a insistere più volte all’interno del romanzo, riflettendo sul rapporto con Wilhelm, sul bacio e sulla mancanza tra loro di dimostra- zioni affettive fisiche di qualsiasi tipo. La distanza con suo padre è così incolmabile che perfino in sogno il desiderio di baciarlo è troppo ardito, ed è costretto a ripiegare sul pacchetto di sigarette:

Mi venne una nostalgia ch’egli mi baciasse e mi accarezzasse, come fanno altri padri coi figli. Era la prima volta che avvertivo questo desiderio. Fra lui e me non c’erano mai state simili espansioni, degne piuttosto delle femmine, evidentemente, e poco virili: l’unico bacio, fra noi due, era stato quello che una notte, in sogno, io avevo dato di nascosto a un suo pacchetto di sigarette, ma, quanto a lui, nemmeno in sogno m’era mai balenata l’idea che la sua bocca potesse dare dei baci. Si pensano, simili cose, di un dio? (p. 1111)

Per Romeo e per Arturo, Wilhelm Gerace è una divinità misteriosa, indifferente, panica e selvaggia, indomabile. L’ennesimo capriccio che li vuole uno contro l’altro, i due sudditi, è l’affetto improvviso dimostrato all’Amalfitano dopo la sua morte, e quel bacio al suo ritratto che è motivo d’invidia per Arturo e di riscatto per Romeo, o che è forse solo ulteriore conferma di frivola e beffarda mutevolezza: «Il primo bacio ch’io gli avessi veduto dare ad alcuno, da quando ero vivo, era stato quello toccato, oggi, al ritratto dell’Amalfitano. E al vederlo, ero stato morso da una specie d’invidia. Perché al ritratto di un morto doveva toccare quello che io non avevo?» (ibid.). Oltre a quelli appena descritti, altri sogni sono presenti nel romanzo, compiuti e raccontati dal pro- tagonista. Ad alcuni sogni favolosi solo accennati, in cui il ragazzo dichiara di vivere avventure «da Mille e una notte» (p. 1242) come Romeo prima di lui, si accompagnano altri più cupi e tormentati. Durante la prima notte di convivenza con Nunziata dopo la consueta partenza di Wilhelm, Arturo è costretto suo malgrado a ospitare nella sua camera la matrigna, non avvezza a dormire sola, dato l’affollamento del suo vecchio stanzone di Napoli. Evidentemente turbato da questa presenza, il ragazzo ha due sogni. Il primo, di virgiliana e dantesca memoria, è incentrato su un albero di corallo che nello strappo, tinge l’acqua di sangue:

Mi pareva di nuotare in una grotta profonda, ombrosa. Mi tuffavo, per impa- dronirmi di un bell’alberello di corallo che avevo scòrto sul fondo; e, allo strappo, con orrore vedevo l’acqua tingersi tutta di sangue. Mi riscossi, e, nel momento stesso che riaprivo gli occhi, istintivamente accesi la luce, con l’idea confusa di dovere accorrere in qualche luogo, per impedire non so quale delitto, o tragedia... (pp. 1116-1117)

Non è forse un caso che questo stesso elemento del corallo ritorni quando Arturo

115 narrazioni n.4 scopre la sessualità con Assuntina, la sua «prima amante» (p. 1261): incontrata casual- mente durante una passeggiata per l’isola, la vedova, che riesce infine a far entrare Ar- turo in casa, porta al collo una collana di coralli, oggetto così simbolico e importante da ispirare il titolo del paragrafo, I coralli. In seguito a questa nuova esperienza «la vi- sta dei coralli» diventa per Arturo l’associazione naturale della sua «prima impressione dell’amore, con un sapore di violenza cieca e festante, d’estate precoce», tanto da fargli ammettere: «ogni tanto, la notte, risogno i coralli» (ibid.). Il secondo sogno è altrettanto angosciante e simbolico e completa il significato del primo: dopo essersi svegliato di soprassalto per l’incubo dell’albero di corallo, Arturo sogna di trovarsi, come nella realtà, nella sua camera con la matrigna, ma qui travestita da ragazzo per poterlo ingannare e dormire così nella sua stanza, con «una camicina che le cadeva sul petto liscia liscia, quasi che sotto non avesse forme di donna» (p. 1118). Infuriato, il giovane sogna di avvicinarsi verso la «dormiente armato di un pugnale, per punirla della sua impostura», e di sbugiardarla «aprendole la camicia sul petto, così da scoprire le sue mammelle candide, rotonde...» (ibid.). La tensione noir ed erotica è in- terrotta improvvisamente da un grido della matrigna, svegliata, sempre all’interno del sogno, dalla furia del ragazzo che l’ha appena denudata. L’immagine del seno scoperto, candido e pieno, racchiude due aspetti caratteristici di Nunziata, la maternità e l’eros. Giovanna Rosa riconosce infatti nel personaggio della matrigna «l’estremo tentativo morantiano di inverare espressivamente i valori positivi di una femminilità capace di coniugare la dolcezza dell’istinto procreativo con l’ardore appassionato dell’eros» (Rosa 1995, p. 157). Il misterioso grido che pone fine al sogno non è nuovo alle orecchie di Arturo: «lo avevo già udito, non ricordavo più quando, né dove. E non conoscevo nessun altro suono altrettanto orrendo, capace di scuotermi l’animo e i nervi come questo» (Morante 1988, p. 1118). Questo suono insopportabile sognato da Arturo potrebbe probabilmente riferirsi a un passo precedente del romanzo. L’episodio, di grande e profonda importanza nella formazione di Arturo, descrive la prima notte di nozze tra Wilhelm e Nunziata, secondo la percezione esterna del ragazzo. Ancora inconsapevole dei segni che gli sarebbero rimasti, Arturo, sentendo bisbigliare dalla camera degli sposi, è istintivamente risentito pur non comprendendone la ragione: «Nel passare davanti alla camera di mio padre, udii di là dagli usci chiusi un concitato bisbiglio. Raggiunsi la mia camera quasi di corsa: provavo d’un tratto il sentimento incomprensibile e acuto di ricevere da qualcuno (che non sapevo tuttavia riconoscere), un’offesa impossibile a vendicarsi, disumana» (pp. 1089-1090). La sensazione di fastidio è poi inesprimibile quando il bisbiglio diventa un grido: «Mi spogliai in fretta; e mentre impetuosamente mi coricavo, involgendomi nelle coperte fin sopra il capo, mi giunse attraverso le pareti un grido di lei: tenero, stranamente feroce, e puerile». Il ricordo di questo stesso grido sembra tornare prepotente nel sogno di Arturo, che infatti, svegliatosi incattivito, caccia Nunziata fuori dalla stanza, ancora più rabbioso alla vista delle sue «spallucce nude», simbolo di una confidenza familiare che il ragazzo inconsciamente rinnega: « - Perché non ti copri, schifosa? - le gridai, - perché non ti vergogni di me?! Voglio che ti vergogni di me!» (p. 1118). Un altro sogno in cui sono indagate le paure e le passioni inconsce di Arturo è de-

116 scritto nella parte finale del libro, quando il giovane procidano, che dall’Africa e ferito a una gamba avrebbe dovuto iniziare il suo racconto secondo le carte autografe del romanzo, alla maniera di (cfr. Zagra 2006 e Bardini 1999, pp. 87-105), è ormai pronto ad abbandonare l’isola per arruolarsi con Silvestro, il suo affezionato balio, e ad affrontare la morte, da sempre sua più grande nemica. Nunziata, il nuovo fratellino e suo padre, che rappresentano la vita che sta per lasciare, si confondono in uno scenario di guerra:

In contrasto con la serata, così bella, che avevo trascorsa, ebbi dei sogni affan- nosi. Accorrevano confusamente N., Carminiello, mio padre. E poi un disordine e un fracasso di carri armati, di bandiere nere stemmate di teschi, di combattenti in divisa nera, mescolati con re mori e filosofi indiani e femmine smorte e san- guinanti. Tutta questa folla passava con un rombo enorme su una trincea murata nella quale io giacevo disteso. E avrei voluto uscire per andare alla battaglia, ma non c’era uscita. Sentivo intorno al corpo un peso di sabbia che mi ingoiava, producendo, nel risucchio, una specie di orribile sospiro umano. E chiamavo tutta quella gente che passava sopra di me, ma nessuno mi udiva (p. 1363).

L’infanzia per lui ormai tramontata spetta ora al piccolo Carmine Arturo, che anche nel nome racchiude il vecchio e il nuovo, in un ciclo naturale inevitabile e senza fine. [email protected]

Bibliografia:

Elsa Morante, 1988, Opere, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, vol. I, Monda- dori, Milano. Ea, 1990, Opere, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, vol. II, Mondadori, Milano. Marco Bardini, 1999, Morante Elsa. Italiana. Di professione, poeta, Nistri-Lischi, Pisa. Daniele Morante, 2012 (a cura di), L’Amata. Lettere di e a Elsa Morante, con la colla- borazione di Giuliana Zagra, Einaudi, Torino. Giovanna Rosa, 1995, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Il Saggiatore, Mi- lano. William Wordsworth, 1814, Preface, in Id., The Excursion: Being a portion of The Re- cluse, Longman-Hurst-Rees-Orme-Brown, pp. VII-XX, . Giuliana Zagra, 2006, Il racconto di due prigionieri. I manoscritti di Menzogna e sortilegio e L’isola di Arturo, in Zagra, Giuliana, Buttò, Simonetta, 2006 (a cura di): Le stanze di Elsa. Dentro la scrittura di Elsa Morante, Colombo, Roma, pp. 23-36.

117 narrazioni n.4 CIPRÌ E MARESCO: Un cinico tuffo nel vuoto

di Marilù Ursi

a pubblicazione in doppio cofanetto della serie completa di Cinico LTv di Ciprì e Maresco, consente una ampia riflessione su quella che è stata una delle esperienze televisive più clamorose degli anni Novanta. Cinico Tv ha rappresentato la possibilità di costruire con una forma estetica originale e ben definita un universo particolare di derelitti che vivono tra le macerie in una Palermo che non è Palermo, ma un antro infernale dopo-storico, fatto di mafia, di povertà, di pri- vazioni, di mostruosità, simbolo e allegoria di un male indecifrabile su cui ridere amaramente.

È degli uomini e di loro soltanto che bisogna avere paura, sempre Luis Ferdinand Céline

Il 1992 è stato per l’Italia un anno particolarmente significativo. Strani e inquietanti eventi si affacciarono nella vita pubblica del Paese: l’arresto a febbraio di Mario Chiesa e la scoperta di Tangentopoli; la morte a maggio di Falcone e quella di Borsellino a luglio. E intanto su Rai3, all’interno dello storico programma Blob, fece capolino un mondo in bianco e nero con una Palermo immobile e popolata da figure arcaiche. Tra il 2011 e il 2013 la Cineteca di Bologna ha voluto rendere omaggio a quell’universo con la pub- blicazione di Cinico Tv, volume primo 1989-1992 e Cinico Tv, volume secondo 1993-19961, due cofanetti utili a ricordare che meno di vent’anni fa alle otto di sera sulla rai gli italiani si confrontavano con un universo tragicamente complesso come quello creato da Ciprì e Maresco, una wasteland popolata da personaggi che molto devono agli uomini-pupazzo protagonisti delle opere pirandelliane, uomini che agiscono risolvendo le loro azioni sempre in una nulla di fatto, nella ripetizione di una beckettiana stasi esistenziale. Che senso ha oggi rivedere i volti e i corpi di Paviglianiti, Miranda, Tirone, dei fratelli Abbate, dopo vent’anni dal loro esordio su Blob? Nostalgia per un tipo di tv che non sarebbe più possibile fare e che si inserisce perfettamente nel contesto di quel fortunato periodo culturale che in viale Mazzini si manifestò con la direzione di Angelo Gugliel- mi a Rai3? Nostalgia sì, ma anche tanta rabbia, la stessa manifestata tredici anni fa da Franco Maresco che addita Maurizio Costanzo e Maria De Filippi come due criminali, i cui programmi televisivi rappresentano perfettamente l’Italia di quegli anni, e quella di oggi – possiamo aggiungere – che continua inesorabilmente a sprofondare nel pauroso vuoto culturale anticipato da «i due grandi manieristi di Palermo» come li ha definiti Bernardo Bertolucci (Morreale: 22; 2003). Perché Ciprì e Maresco hanno saputo unire alla cura estetica la coerenza concettuale creando una rivoluzione nel campo audiovisivo

1 Le due pubblicazioni contengono ore di filmati delle storiche strisce di Cinico Tv, cortometraggi e documentari impreziositi da interviste e interventi video e cartacei di critici, studiosi, addetti ai lavori e collaboratori di Ciprì e Maresco. Un vero gioiello per tutti gli appassionati della “ruvida grazia” che appartiene al mondo creato dai due registi siciliani.

118 narrazioni n.4 a cui l’Italia non assisteva ormai dalla morte di Pier Paolo Pasolini2. Il poeta friulano ap- pare una specie di nume tutelare della poetica di Ciprì e Maresco, soprattutto in qualità di regista e polemista, basti pensare all’insistenza su una corporeità sporca, decadente e degradata che riprende esplicitamente il Salò di Pasolini e insieme la sua ostinazione contro quella inesorabile “mutazione antropologica” a cui l’Italia degli anni Sessanta andava incontro e che negli anni d’esordio di Ciprì e Maresco si è definitivamente e amaramente compiuta. Di qui il recupero di personaggi volutamente brutti, sgradevoli e fisicamente ingombranti da contrapporre ai veri mostri, quelli lindi e omologati che popolano il cinema e la tv odierna. L’universo ciprimareschiano mette subito in crisi concetti base come quelli di spazio e tempo; un’operazione per deviare la percezione dello spettatore verso una realtà altra, speculare a quella contingente, un mondo che ci circonda continuamente ma che non riusciamo, o fingiamo di non riuscire, ad osservare, un universo sgradevole, brutto e pronto al collasso definitivo. Il luogo è la Palermo violenta delle bombe contro i magistrati, ferita dalle stragi di mafia, una Sicilia che proprio in quel momento, l’estate del 1992, data d’esordio diCinico tv su Blob, è protagonista sulle emittenti nazionali con le immagini dell’autostrada sven- trata per la strage di Capaci e non attenderà molto per mostrare i tragici risultati della bomba in via D’Amelio; la Palermo dei mafiosi, della violenza che spaventa tutta Italia e che contribuisce a creare di sé un’immagine di fitti luoghi comuni tra i quali è difficile districarsi senza esserne influenzato. Ma la Palermo di questi due trentenni è una città in cui i cliché mafiosi vengono consapevolmente usati per essere destrutturati3 e che usa i riferimenti alle stragi sempre in funzione di un’estetica umoristica cupa e volutamente irritante; tra gli esempi ricordiamo quello del dialogo tra la “voce” e i fratelli Abbate mentre sistemano gli addobbi funebri in una bara:

Fratelli Abbate - Dica - Che genere di viaggi organizzate? - Il viaggio finale - Il viaggio estremo? - Sì - Quello verso un mondo dai cui confini non torna alcuno? - Sì - Bravi - Grazie - Prego […] - Dica - Il lavoro in questo momento va bene?

2 Per il venticinquesimo anniversario dalla morte di Pier Paolo Pasolini, Ciprì e Maresco firmano Arruso, il loro iconoclasta omaggio al regista, il cui titolo significa “frocio” in palermitano. 3 In questo senso credo che il massimo esempio di decostruzione del cliché mafioso siciliano venga perfettamente esplicato nel lungometraggio del 1998 Totò che visse due volte ed in particolare nel terzo episodio, dove l’ambientazione mafiosa si mescola a quella d’impronta marcatamente cristiana.

119 Lavoro critico - Sì, c’è quando si lavora e quando non si lavora … - E in questo momento? - Si lavora! - Gli affari vanno bene? - Sì!

La corporeità così accentuata dei soggetti in campo e l’onirica alterazione cromatica dell’ambiente crea, insieme alla relazione interno esterno che la “voce” incarna, una Pa- lermo come «luogo ideale in cui aspettare il giudizio universale o l’esplosione nucleare, la immaginiamo all’indomani di questo estremo evento» (Morreale: 81; 2003) una città rarefatta e stilizzata dall’iperrealismo della curatissima estetica fotografica con la scelta del bianco e nero e dei filtri oscuranti in set quasi sempre esterni, accorgimenti che se- gnano un uso della fotografia in senso scenografico favorito dalla profondità di campo (Gregg Toland è chiaramente considerato un riferimento imprescindibile dai due registi palermitani). Gli accorgimenti fotografici, non a caso cifra estetica riconoscibilissima di Ciprì e Maresco, sono la chiave di volta per leggere il lavoro dei due artisti palermitani, come chiarisce Enrico Ghezzi nel suo intervento Illuminati a futura memoria dell’oscurità: «In piena luce è il segreto del cinema di Ciprì e Maresco. Anzi, è la luce stessa. In essa consiste, aura immateriale e garanzia della visibile e «mostruosa» e eccessiva materialità dei corpi» (Curti-Ghezzi: 3, 2005). La novità assoluta nel panorama italiano è dettata anche dall’incredibile atipicità con cui questi due artisti riescono a raccontare il sud lontanissimo dagli stereotipi televisivi e cinematografici consolidati recuperando «l’anomalia del nostro meridione, l’atempo- ralità e la follia di una città come Palermo» (Cristalli P. – Cavazza A.: 37; 2013) come sottolinea Luca Bigazzi, direttore della fotografia dei primi due lungometraggi del duo palermitano: Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte; caratteristiche che si muovono a partire da alcuni chiari modelli letterari siciliani come il Pirandello più paradossale, Bran- cati e Vittorini e ancora modelli meridionali considerati minori come Savarese, Amiante, Bufalino e Consolo; non vanno dimenticati inoltre continui rimandi al surrealismo dei primi lavori di Dalì, la visionarietà del primo Buñuel, la pittura metafisica di De Chirico e ancora la stima e l’influenza artistica di Carmelo Bene4. Ne viene fuori un’immagine del sud del tutto inedita e originale, di una Sicilia ferma e misteriosa (Fofi, 1996). Il mondo creato da Ciprì e Maresco è un universo che sembra distante da noi anni luce, un mondo irreale, in cui però siamo già entrati senza neanche accorgercene. Il tempo serrato e velocissimo della tv viene sgretolato grazie a una continua dilatazione temporale dettata dall’uso della macchina fissa e di lenti piani sequenza che capovolgo- no il senso del tempo televisivo e la stessa concezione cronologica del quotidiano per sfociare in una realtà che, come suggerisce Fofi, ci racconta sempre un “dopo” messo in scena in luoghi lunari dalle atmosfere postatomiche dove rovine architettoniche si mescolano a residui umani. Una concezione del tempo che si pone in modo assoluta- mente dialettico rispetto alla forma di Cinico Tv, una forma frammentaria, che concorda

4 Si veda il meraviglioso cortometraggio di Ciprì e Maresco Ai rotoli in cui Carmelo Bene legge Signorina Rosina, componimento di Antonio Pizzuto, mentre sullo schermo scorrono le immagini del cimitero di Santa Maria dei Rotoli a Palermo.

120 narrazioni n.4

pienamente con lo stile di Blob in cui Maresco riconosce «un modo di sconvolgere il senso tradizionale del guardare la tv, giocando sul corso e ricorso delle immagini, che significa stimolare l’attenzione, la curiosità, la partecipazione attiva dello spettatore che accetta di giocare e di mettersi in discussione. […] È un gioco sul corpo, in questo caso del cinema, su immagini che diventano frammenti di suggestioni, frammenti di emozio- ni» (Morreale: 82, 2003). Le strisce di Cinico tv consolidano un tipo di struttura scandita da frammenti che al loro interno si dilatano fino all’inverosimile, le cui caratteristiche più lampanti sono la reiterazione di rumori o addirittura di silenzi, accompagnati dall’immobilità della mac- china da presa o del soggetto in campo con una controparte sonora che si muove tra il silenzio assoluto e una colonna sonora fortemente ritmata. Tracce di musica jazz, in totale asincronia rispetto ai ritmi recitativi e registici, creano un effetto destabilizzante assecondando una percezione surreale del girato, che in contrasto con le immagini, esplicita l’aspetto che secondo Maresco è il più sottovalutato del loro lavoro, quello sonoro. Le voci stesse dei personaggi sono musica, dal “certamente” di Paviglianiti allo sproloquio di Tirone (Curti-Ghezzi: 19-21; 2005). Un contributo fondamentale a questa dilatazione temporale è dato dallo svolgersi di dialoghi che tendono costantemente a ripiegarsi su se stessi, interrogativi reiterati dalla voce fuori campo che infieriscono sul protagonista immobile in scena creando una situazione di scontro e spaesamento, ciò che accade specialmente nei documentari dove: «Lo sguardo – di Ciprì – è immobile, come pietrificato. La parola – di Maresco – è mobile come una tarantola»; è in questo contesto che, secondo Canova, il duo palermitano può essere considerato l’unico vero erede di Ejzenštejn portando avanti un montaggio delle attrazioni che si manifesta da un punto di vista visivo e sonoro5.

5 In particolare Gianni Canova propone come esempio di montaggio delle attrazioni visivo il documentario Grazie Lia in cui le immagine di una nave da crociera dall’emblematico nome “Costa Romantica” si alternano a inquadrature di spiagge-immondezzaio; mentre un esempio sonoro viene indicato nell’insistente voce di Maresco che continua a falsifi- care i dati reali del personaggio Filangeri (cfr. Conversazioni in Sicilia, i documentari degli anni novanta; G. Canova in Cristalli

121 Lavoro critico In questo contesto di rovine paesaggistiche e dissoluzione del linguaggio si muovo- no larve umane caratterizzate da oscene peculiarità. I corpi-feticcio di questi personag- gi rivelano un’attenzione artistica che fonde l’escatologico al metafisico (emblematici i quasi quattro minuti di carrellata in primissimo piano sul corpo di Paviglianiti accom- pagnati dalle note di Nessun Dorma), personaggi che si relazionano dialetticamente con il fuori campo, la voce di Franco Maresco, che interroga, vessa i protagonisti inesorabil- mente destinati a rispondere e quindi a soccombere davanti agli interrogativi. Al sentirsi cambiare sesso, identità, attribuire malattia e devianze sessuali di ogni tipo il corpo in campo, risponde, obietta ma rimane fermo come a proclamare una resistenza tramite l’immobilità lì dove chiunque avrebbe già abbandonato il campo. Emblematici in questo contesto sono i due capri espiatori per eccellenza: Filangeri (trentunenne miope che con la sua esile voce cerca inutilmente di contraddire l’implacabile voce fuori campo che gli attribuisce le più svariate sciagure e manie) e il ciclista Tirone6 (definito sodomita, “mer- dosetto”, don Giovanni, e per esemplificare, in una striscia presentato dalle parole di Maresco: «Cinico Tv vi presenta un avvenimento che non ha precedenti: la notte scorsa in questo capannone abbandonato venti marocchini indaffarati hanno stuprato a turno il ciclista che vedete inquadrato, il suo nome è Francesco Leccone, il signor Leccone al termine ha ringraziato i suddetti marocchini ed è andato via»). Ma la florida fauna di rifiuti umani comprende i più svariati personaggi: i fratelli Abbate misogini da manuale continuamente provocati dalle donne per il semplice fatto di avere «le tette, la minigon- na e il culo» inesorabilmente pronti a rispondere a ogni tipo di domanda assurda, giochi di parole e trabocchetti a cui Maresco li sottopone: si veda il geniale spot della pastiglia Idiot-ment che potenzia l’intelligenza di cui è protagonista da solo Franco Abbate. L’a- nomalia linguistica palermitana viene perfettamente incarnata da Fortunato Cirricione che dialoga con un incomprensibile eloquio, incapace di pronunciare addirittura il suo nome. Tra i più longevi e apprezzati protagonisti c’è Pietro Giordano vittima della me- morabile persecuzione del terribile Roccocane (Miranda) e additato, nelle varie strisce, come pezzo di merda, topo di fogna, profilattico usato e pronto a calarsi nella parte di una “bomba umana in attesa di magistrato” o di una “pallottola vagante”; tra le scene memorabili c’è l’interruzione del film Lo zio di Brooklyn in cui Giordano, guardando e sputando in macchina, stronca il film e insulta gli spettatori. Sarà protagonista degli sketch anche negli ultimi progetti televisivi del duo palermitano su La7. Altri personaggi da ricordare sono Carlo Giordano, presente in tutti i lungometraggi della coppia sici- liana, protagonista nel secondo episodio di Totò che visse due volte di una storia d’amore omosessuale finita in tragedia per un furto; da ricordare inoltre personaggi considerati minori ma efficacissimi nella loro comicità: Bernardo Greco, esilarante quando tortura Miranda con una lunghissima imitazione di una incomprensibile telecronaca calcistica, e Giovanni Lo Giudice, ballerino e cantante fallito. Su tutti campeggia Giuseppe Paviglianiti, “il budda di Palermo”, che tra un peto e l’altro esclama il suo “certamente” con soave accento inglese, un personaggio che dalle

- Cavazza, pp. 13-17; 2013). 6 Francesco Tirone è il protagonista di un’ode A Silvio sottoforma di intervista televisiva che risulta, a mio parere, una delle più eff icaci forme di Satira sulla figura di Silvio Berlusconi e sulla sua pubblica tendenza alla megalomania. Il ciclista infatti risponde a domande che appaiono in sovrimpressione come: «Berlusconi comprerà la Sicilia?/ Berlusconi è “il grande fratello”?/È più potente Berlusconi o il papa?/ E se Berlusconi non esistesse?».

122 narrazioni n.4 prime apparizioni – “Il samurai” – alla memorabile mangiata di fagioli (in più versio- ni) rappresenta il versante più osceno ed esilarante dell’estetica ciprimareschiana. Altro protagonista indiscusso è Marcello Miranda che appare in moltissime strisce come per- sonaggio muto, colui “che guarda stando all’interno”, dal 1994 interpreta il celebre per- sonaggio di Roccocane e rappresenta stupendamente il malinconico e satiresco Paletta nel primo episodio di Totò che visse due volte. Un vero e proprio esempio umano da paesaggio postatomico orchestrato a dove- re da due registi attentissimi nella fusione di un potente materiale antropologico con a un’estetica cinematografica che ripercorre i modelli classici hollywoodiani (Ford e Keaton su tutti) passando per uno stile musicale jazz post-bebop. La scelta degli attori e il rapporto che i registi instaurano con questi permette un metodo di lavoro unico, esplicitato dalle parole di Maresco: «il nostro cinema è un cinema jazzistico, cioè basato sull’improvvisazione e sull’immediatezza» (Curti-Ghezzi: 19; 2005) Interessante è il tipo di lavorazione applicato da Ciprì e Maresco, la loro divisione del lavoro e l’affidarsi all’improvvisazione, soprattutto in quest’ultimo aspetto un ruolo di primissimo piano lo giocano gli attori che spesso partecipavano ai sopralluoghi e contribuivano al processo creativo stimolando situazioni che i due registi sviluppavano in fase di scrittura, un canovaccio flessibile sul set, perché gestito dalla voce di Maresco e basato sulla conoscenza decennale degli attori/collaboratori. È inoltre importantissimo nelle strisce di cinico tv il ruolo del montaggio in cui i registi giustappongono, secondo delle precise idee estetiche e concettuali, personaggi, dialoghi, suoni e rumori con un risultato di impatto creato non solo durante il lavoro sul set ma anche successivamente in studio in fase di missaggio. Emerge un contesto creativo sviluppato in tandem, un metodo che a loro dire ha molto a che fare con una impostazione teatrale, anche se chiaramente le predisposizioni personali e la diversa formazione7 farebbero pensare a una possibile divisione del lavoro tra l’uomo tecni- co (Ciprì) e l’uomo artistico (Maresco). In questo caso ci vengono in aiuto le parole del produttore Rean Mazzone8: «Quando parliamo di una sorta di divisione del lavoro all’interno della coppia intendiamo che Daniele si è occupato molto dell’aspetto tecnico: fotografia, formati, set […] Daniele ha una sua spontaneità […] non amava le riunioni, il suo lavoro si concentrava sul set, dietro la macchina da presa, al montaggio. Mentre Franco pensava ad elaborare e mettere in scena la sua visione del mondo». (Cristalli – Cavazza: 28; 2013). Le parole di Mazzone riguardano però il set dei due primi lun- gometraggi della coppia palermitana; è ipotizzabile che per le strisce televisive ci fosse una maggiore libertà e flessibilità nella divisione delle mansioni tra i due. Daniele Ciprì è molto chiaro ricordando i primi tempi del lavoro con Franco Maresco e parlando del clima creativo vissuto in quel periodo: «Noi condividevamo tutto. Eravamo contaminati l’uno dall’altro. […] Avevamo un rapporto continuo, giravamo i sabati, le domeniche, c’era una condivisione totale. […] fino a sposarci con i nostri personaggi, perché con

7 Daniele Ciprì (Palermo, 1962) e Franco Maresco (Palermo, 1958) si conoscono nel quartiere ad alta densità mafiosa di Palermo, Brancaccio, dove un gruppo di giovani ha fondato un cineclub d’essai. Il più giovane dei due lavora come fotografo per matrimoni mentre il secondo gestisce un negozio di videocassette, la comune passione per il cinema e la musica jazz li unisce in un sodalizio artistico che durerà vent’anni. 8 Produttore di molti lavori del duo palermitano, in particolare dei primi due lungometraggi: Lo zio di Brooklyn (1995) e Totò che visse due volte (1997); e di altri lavori legati a Cinico Tv: Il Gattoparve, Aspettando Totò, Grazie Lia, Il Manocchio, A memoria etc.

123 Lavoro critico loro alla fine eravamo una specie di famiglia. Con Franco eravamo come fratelli. Aveva- mo un carattere diverso, ma abbiamo condiviso da dentro quel periodo di Palermo, che era sicuramente orrendo. La cosa bella è che non c’era la convinzione di fare chissà che: ci divertivamo». (Cristalli – Cavazza: 42; 2013) La spontaneità ideologica e la cura estetica dei lavori di Ciprì e Maresco ha creato un mondo che ci illumina su come l’Italia, il sud e in particolar modo la Sicilia, sia un luogo pregno di conflitti combattuti nel bel mezzo di un universo di macerie, dove la satira sociale e politica si carica di un peso esistenziale importantissimo. Un universo fatto di esseri mostruosi, lontani dal distante mondo cinematografico del genere horror o fan- tascientifico, che si manifestano nella loro tragica iperrealisticità. La creazione di questo universo unico è stata una vera e propria illuminazione nel campo televisivo prima e cinematografico poi, un’illuminazione che ha avuto la forza e la velocità di un lampo. [email protected]

Bibliografia:

Alessandro Cavazzi e Paola Cristalli (a cura di), Cinico tv, volume primo 1989-1992, Cineteca di Bologna edizioni, Bologna 2011 Id. (a cura di), Cinico tv, volume secondo 1993-1996, Cineteca di Bologna edizioni, Bo- logna 2013. Enrico Ghezzi e Stefano Curti (a cura di), kind of Cinico, Daniele Ciprì e Franco Ma- resco, Raro Video, Roma 2005. , In memoria di Ciprì e Maresco, Doppiozero, e-book, 2012. Emiliano Morreale, Ciprì e Maresco, Falsopiano, Alessandria 2003.

124 Schede SCHEDE:

• Walter Siti, Il realismo è l’impossibile • Luisa Brancaccio, Stanno tutti bene tranne me • Michele Serra, Gli sdraiati • Vincenzo Latronico, La mentalità dell’alveare • Matteo Marchesini, Atti Mancati • Cosimo Argentina, Per sempre carnivori • Giordano Tedoldi, I segnalati • Tilde Pomes, Amore scarno • Domenico Di Palo, Le relazioni

LIBRI DI CINEMA a cura di Simona Specchia

LA REDAZIONE SEGNALA: Carla Cirillo, 12. Racconti a Hopper Valeria Biuso, Maledettismo Adriano Sconocchia, Mindgap

125 narrazioni n.4

Walter Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo 2013, pp. 80, € 6,00

«Le réalisme, c’est l’impossible… pare l’abbia detto Picasso guardando una fica… non una fica reale ma quella dipinta da Courbet per un diplomatico turco e poi posseduta da una psicanalista francese…», dice il ‘narratore’ a Tommaso nelle ultime pagine di Resiste- re non serve e niente di Walter Siti, quando i due tentano un bilancio dell’esperienza che li ha uniti durante il periodo della stesura del romanzo. E il quadro di Courbet e la celebre frase di Picasso ritornano nel breve saggio (80 pagine in formato 10×15) che lo stesso Siti ha dato alle stampe per Nottetempo, Il realismo è l’impossibile, a indicare chiaramente che i due testi devono essere letti l’uno accanto all’altro. Del resto, è lo stesso autore a chiederlo, irrompendo con il proprio io a pagina 48 del ‘libretto’, che fino ad allora si era presentato come una riflessione sul realismo, sia pure – come si legge nella nota finale – priva di scrupolo filologico e con citazioni spesso «a orecchio» e di «seconda mano»: «ormai non mi scuso nemmeno più se parlo di me, tanto è chiaro che il pudore è andato a farsi benedire e che questo non è un saggio sul realismo ma una bieca ammissione di poetica». In Il realismo è l’impossibile L’origine du monde di Courbet viene indicato come un «buon esempio di oltranza e di audacia nel superare i limiti che il realismo si era imposto fino a quel momento in termini di rappresentazione del corpo e del sesso». In altri termini, il quadro è esplicativo di come sia impossibile inseguire la realtà nella sua informe infi- nitezza. Nel descrivere una fica, l’artista ha decapitato la donna, non ha mostrato il suo volto: per raffigurare minuziosamente uno strato della realtà, ne ha nascosto un altro. Il grande realismo, sia in arte che in letteratura, punta infatti a mostrare la realtà in maniera diversa da come essa appare nell’esperienza comune. «Nel vero realismo – scrive Siti – la realtà non è mai qualcosa di ovvio: è sempre in statu nascendi, un intarsio traforato e instabile che può crollare in un soffio se lo scrittore appena si distrae – come svaniscono in un soffio i castelli della magia». Il realismo è dunque l’«antiabitudine», che squarcia la nostra «stereotipia mentale»: «realismo è quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà)». Peraltro, già nel primo capitolo del suo primo libro, Il realismo dell’avanguardia del 1975, il giovane accademico Siti, dal confronto con testi e autori di orientamento mar- xista come Lukàcs, Adorno, Fortini, che saranno da lui sottoposti a una ridiscussione e a un quasi disconoscimento, scrive a proposito del realismo, come di «una scelta strut- turata (e storica) nella determinazione di un rapporto formale tra testo ed extra-testo», intendendo per extra-testo la realtà non rappresentata. E nei suoi romanzi, a partire dal capolavoro d’esordio del 1994 Scuola di nudo, Siti si fa vessillifero di un «realismo d’emer- genza e di resistenza», fondato sull’attribuire fatti «esplicitamente fittizi» a persone reali, cioè sull’immergere gli avvenimenti veri in un «flusso che li falsifica». In questo modo si crea un corto circuito tra fiction e non fiction con l’esito di raggiungere una verità di secondo grado, la sola possibile nel mondo caratterizzato da un continuo e inesorabile impulso alla autorappresentazione. Da qui l’invenzione del «Walter Siti, come tutti», una

126 Schede sorta di avatar, il quale, al pari di un novello Dante, percorre un mondo fittizio, una vera e propria realtà 2.0. La devastazione, cioè la pandemia antropologica e culturale, che ha cancellato qualsiasi ipotesi di “altrove” e di “lontano”, è talmente vasta e pervasiva che può essere dicibile solo attraverso una scrittura che implica la presenza di un sosia capa- ce di vivere al posto dell’autore stesso e di ricercare (è Siti a scriverlo in una recensione del Casanova di se stessi di Aldo Busi), «dai particolari privati indicazioni sui fenomeni pubblici, sapendo che in indagini del genere è impossibile non essere personalmente coinvolti, fino ai modi più oscuri e alle resistenze più profonde». Del resto, nella chiusa di Resistere non serve a niente alla domanda di Tommaso – «che cosa sono io per te? – lo “scrittore Walter” risponde: «Me lo sono chiesto anch’io… forse sei il mio stuntman, quello che esegue per me le scene pericolose… un prototipo della mutazione… […] questo è il vantaggio dei romanzi… ti ho delegato a vivere temi che sono i miei…». Tornando a Il realismo è l’impossibile, Siti definisce il suo realismo “gnostico”, «un realismo che si fa preciso per accogliere il Sacro: una realtà frugata per rivelarne la man- canza, l’inadeguatezza a una luce superiore». Un realismo che fa pendant con il «corpo gnostico» di Marcello di Troppi paradisi, quel corpo che recava in sé una bellezza “essen- ziale”, diversa da quella fissata dai parametri estetici, in quanto fusione di «realtà e oltre- mondo» in una «terza cosa», quale l’amore: «non più il desiderio assoluto, astratto, di un corpo iperuranio, né la necessità biologica, concreta di procreare in un altro». Dunque un realismo figlio di pulsioni del tutto individuali, di fantasmi e di paure personali – «paura di morire muto, paura che se parlavo sinceramente tutti mi avrebbero abbandonato, paura di sostenere le mie idee senza nascondermi dietro il piagnucolio» – che ha il suo giusto compendio nel verbo «sporgersi». Per questo Siti non può che mostrare un certo – giustificatissimo, a nostro avviso – scetticismo dinanzi a quelle scritture, che programmaticamente hanno mirato, e mirano, alla riappropriazione della realtà, dalla cosiddetta letteratura della precarietà alla docufiction alla Saviano, dal romanzo autobio- grafico a quello mimetico tradizionale. Scritture dominate o da immagini stereotipate («il verosimile è l’irrealtà, l’impegno coincide espressivamente con l’evasione e l’identi- ficazione scatta col luogo comune») o dal puntare tutto «sull’atto performativo e sulla voce del narratore più che sull’illusionismo della rappresentazione». Per Siti invece il re- alismo consiste in un continuo denudamento di se stessi, in un mettersi continuamente in gioco: «lo scrittore realista è una scimmia della natura ma anche uno stolto demiurgo che cerca di mimare una Creazione che non conosce». Ma – confessa il grande studioso di Pasolini – il suo Assoluto è «un’utopia kitsch, che per l’appunto assolve il reale dalla colpa di essere quello che è: «penso, come tutti gli illuministi di destra, che l’uomo sia “un singe malfaisant” e di questo mi compiaccio – il realismo è impossibile come la rivoluzione». Vito Santoro, [email protected]

127 narrazioni n.4

Luisa Brancaccio, Stanno tutti bene tranne me, Einaudi 2013, pp. 139, € 15,50

Non ha nulla di artificiale l’approccio ecosistemico che irrompe dalle pagine di Stanno tutti bene tranne me, esordio letterario di Luisa Brancaccio, che nel 1996 aveva scritto con Niccolò Ammaniti il racconto Seratina, in Gioventù cannibale, pubblicato sempre per Ei- naudi. È piuttosto uno sguardo sul mondo che ha l’urgenza della necessità: le diverse forme della vita – umana, animale e vegetale – coabitano per celebrare l’esistenza, no- nostante lutti e orrori. E difatti questo romanzo testimonia la forza di saltare oltre il precipizio che pure all’improvviso viola la normalità, così come accade a Margherita, tra le protagoniste del libro: 44enne, madre di tre figli, venti, diciannove, diciotto anni; moglie di un cardio- chirurgo, anaffettivo, razionale, distante, all’apparenza solido e sicuro. Lei invece si è smarrita lentamente, non dorme la notte, prende le benzodiazepine, si sveglia nel primo pomeriggio, stanca, disordinata. Il racconto è in terza persona, ma gli inserimenti dialo- gici e il parlato interiore, con una scrittura a tratti paratattica e sincopata, restituiscono in modo autentico le contraddizioni emotive di chi non trova più il senso. È anche una scrittura molto carnale, non soltanto per la sua scabrosità sintattica, che non fa sconti a parolacce, imprecazioni e sfoghi, ma anche per la scelta di nominare senza giri di parole: le cosce nude, il clitoride, la fica, l’uccello. Una scelta stilistica precisa, che rende i perso- naggi pluridimensionali, materia e spirito, bios e logos, corpo ed emozioni. Margherita sente la distanza dal branco, cioè dal marito e dai figli che sembrano essersi coalizzati da quando i suoi tre bambini sono entrati nell’adolescenza. I maschi contro la femmina. Lei si tiene incollata come può, grazie al cane Tokyo, vicino e pre- sente, ai libri che affollano gli scaffali in cucina, tanti, citati per titolo e autore, divorati senza gusto, per mantenersi intera. E poi c’è il cibo da preparare, ogni giorno, come un dovere, per la sua famiglia. Così, quando scoprirà che il mostro le viveva a fianco, dopo la morte del figlio suicida, saranno ancora il cane, i libri e il cibo a sorreggerla, in qualche modo. L’immagine di una crostata, da offrire al vicino, chiude con una speranza la storia di Margherita. Ma questo è anche un libro di vite che si sfiorano, in cui i diversi personaggi in- teragiscono nella narrazione, anche se l’autrice dedica loro interi capitoli a sé stanti, alternando le vicende dei protagonisti, per tratteggiarli con profondità psicologica e credibilità biografica. Sono tutti colti nella loro individualità, in momenti di intima ri- flessione e di bilancio, in una società, quella attuale, in cui non esiste più una comunità cui rivolgersi, nei momenti di bisogno, con strutture, istituzioni, aggregazioni. Allora, in questo vuoto comunitario, è più facile chiedersi come facciano gli altri a tirare avanti, quelli che ci vivono a fianco, i vicini di casa, per esempio, come noi, ma diversi da noi. Ecco che la storia di Margherita si intreccia con quella della giovane coppia che abita accanto a loro. Hanno perso un bambino di due mesi, morte in culla, hanno detto i dottori. Dopo poco tempo, marito e moglie si sono trasferiti, temporaneamente, nel Chianti, in campagna, in «un posto senza storia», per provare a ricominciare, a dimenti- care. Margherita si chiede come facciano loro a trovare il coraggio, e se lo chiede quando

128 Schede nella sua vita non è ancora esplosa la tragedia. Ai vicini, la scrittrice dedica il quinto e il settimo capitolo del libro, quello finale, con una ripresa narrativa di quanto anticipato a metà del secondo capitolo. Hitchcock ripeteva spesso che se in un film viene mostrato il dettaglio di un chiodo qualcosa accadrà, nella storia, che avrà a che fare con quel chiodo. Estraneo ai motivi della suspense, questo romanzo dissemina indizi che potrebbero far intuire uno degli epi- loghi, il più terribile. Lo fa, però, attraverso la capacità introspettiva dei personaggi, di Margherita in particolare, che arriva ad una «scoperta senza sorpresa». Anche la scelta di aprire il romanzo con il frammento di un’altra storia, quella di un fratello e di una sorella problematici e inquieti, raggiunti da Viola, che ricomparirà più avanti, a fatto accaduto, conferisce organicità al racconto, racchiudendolo in una struttura circolare. Sorprende ad ogni pagina la capacità di piegare le parole alle emozioni, quasi di curvarle sul dolore, o sui brevi lampi di speranza. Efficace il sapiente, e mai virtuoso, uso di simmetrie e ripetizioni, come quando gli stati d’animo della caposala Lilli e di Margherita sono rias- sunti in due frasi che si somigliano e si contrappongono: «occhi azzurri e ombretto viola […] Occhi scuri e occhiaie». Il senso del compartecipare all’esistente, del tutto interrelato fra le varie espressioni e declinazioni del vivere, torna anche nelle altre vicende. In quella dello psichiatra, il dot- tor De Seta, che a 82 anni, in piena notte, si domanda come sia possibile addormentarsi quando c’è tutta quella vita fuori: il vento, la luna quasi piena, le foglie che si agitano in giardino. Anche lui ha una storia difficile alle spalle: sua moglie, nemmeno trentenne, si era suicidata, dopo appena tre anni di matrimonio, consumata da una forte depressione. Sente la nostalgia della sorella, con cui ha convissuto tanti anni, scomparsa da poco, e pure di Luce, la gatta maculata che gli aveva tenuto compagnia per vent’anni. È uno psichiatra sui generis, che ha diretto persino un manicomio, prima della legge Basaglia, ma che adesso crede nelle relazioni e nell’empatia, piuttosto che nei processi psichici. An- che lui sfiora una storia, quella della sua giovane vicina ventunenne, anche lei con il suo cane, un beagle di nome Sonny. Ha lasciato giurisprudenza, ha lasciato filosofia, e ora sta pensando a qualcos’altro. Nel giardino del condominio, di notte, fra lei, il dottore, il cane e tutta la vegetazione attorno, si crea un dialogo di parole, di gesti e di sensazioni. Un attraversamento di età, di cose perdute e di altre ancora da afferrare. La distanza anagrafica fra i due pare solo un imprevisto, tanto che il capitolo si chiude con una considerazione riportata anche in copertina: «il muro che li separa è solo un incidente». Ed è una storia di vicinato e di vita immersa nel tutto che ci circonda, infine, quella che chiude il romanzo: i vicini di Margherita, i vicini giovani che hanno perso il bambino e che si sono trasferiti nel Chianti. È lì che lei cerca una via d’uscita: nel ritorno all’es- senzialità, nell’ostinazione a realizzare un orto sinergico, circolare, senza pesticidi, dove fiori e ortaggi convivono, seguendo i consigli di un contadino, bellissimo e solitario, che vive accanto a loro. Anche qui c’è un cane: Stella lo chiamerà lei. In realtà è il cane del vicino, e si chiama Bianca. Poco importa: in ogni caso è proprio lui che, strisciando sotto lo steccato per passare dall’altra parte, unisce storia a storia. Mara Mundi, [email protected]

129 narrazioni n.4

Michele Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli 2013, pp. 108, € 12,00

Basterà a un padre, per ricucire il rapporto con il figlio adolescente, il disperato, accorato invito per una passeggiata in montagna al Colle della Nasca? Sembrerebbe questa domanda il filo conduttore de Gli sdraiati di Michele Serra. Chi sono gli ‘sdraiati’? Sono i figli adolescenti, i quali hanno abbandonato i tratti fanciulle- schi ma non hanno ancora integralmente raggiunto la fisionomia adulta. Sono ragazzi che ritengono di vivere il periodo più difficile della loro esistenza, in cui un amore non corrisposto ha la stessa tragicità di un mutuo sulle spalle, un pessimo voto rasenta la di- sgrazia di una bolletta pervenuta prima del percepire lo stipendio che investe un adulto. Tra divagazioni letterarie, tormente psichiche che degenerano in guerre immaginarie, satira sociale, il racconto, con impennate di comicità che rasentano il riso amaro, affonda nel mondo ignoto dei figli, e in quello altrettanto ignoto dei padri, per antonomasia il mestiere più complicato in quanto non insegnato: «Del padre non ho che alcune attitu- dini. Per esempio quella, non trascurabile, di mantenerti con il mio lavoro e la mia fatica. Ma so che è sconveniente farlo pesare». Gli sdraiati si può considerare il piccolo monumento a una generazione di padri e madri che devono districarsi tra pericoli ancora più voluminosi rispetto a quelli da cui precedentemente erano stati a loro volta protetti. C’è da dire che per il protagonista, ed io narrante, del libro, che non ha un nome e per questo chiameremo Michele Serra come l’autore (immaginando sia un racconto autobiografico, una sorta di diario) la sua infan- zia è stata molto più semplice di quella che ha vissuto il figlio, dal momento che all’epoca i padri di famiglia conservavano il buonsenso di relegare i propri figli in un mondo altro, anche quando veniva servita la cena, rendendoli in questo modo meno complici, meno maliziosi, meno invischiati nelle dinamiche adulte. Per preoccuparsi delle “cose” da adulti ci sarebbe stato sempre tempo… ma fino ad allora ci sarebbero state ancora mille estati da trascorrere, bivaccando sul divano, magari con la compagnia di un «Topolino». La generazione che invece si è allungata orizzontalmente nel mondo (è questa l’im- magine che il lettore visualizza mentalmente leggendo il libro), è invece quella che gioca a fare gli adulti ancora prima di averne effettivamente le fattezze e le capacità. E su questo presupposto si ergono i pericoli della nuova generazione (droga, alcool, sesso non sicuro e via discorrendo). Pericoli di cui i genitori sono a conoscenza informati dai media, non dai figli (visto che tra generazione adulta e adolescente è infatti una sorta di incomunicabilità, di non dialogo, che porta a un allontanamento etico e morale prima ancora che affettivo), al punto da non riuscire a dormire serenamente la notte (se non ricorrendo a metodi poco naturali). Il papà del nostro libro non si sente responsabile di ciò. Al tatuatore invadente che gli chiede di interessarsi maggiormente delle vicende del figlio risponde piccato: «Guar- di che è mio figlio che non parla con me». Eppure in fondo sarebbe solo una questione di autorità e di capacità di farsi ascoltare, senza per questo invadere gli spazi altrui, senza prevaricare, senza imporre il proprio punto di vista, senza sembrare arroganti, o maestri, o maturi, o pieni di sé, più esperti, più ricchi, più potenti: «Da solo a prendere il sole sul tetto della scuola. Mi piace. Anche se fosse una balla – una delle tante che mi racconti – mi piace. Non che conti molto, per te, il fatto che mi piaccia o non mi piaccia. Peggio: se mi piace, rischia di smettere di piacerti».

130 Schede Il grande paradosso con il quale si confronta Michele Serra in questo libro, che è a metà tra un romanzo e un diario, è proprio questo: è possibile riuscire a partecipare alla vita dei propri figli adolescenti? È possibile attirare, anche solo per un attimo, la loro attenzione per non avere costantemente la sensazione che parlino con qualcuno che chiamano papà, ma che in realtà è un tizio invisibile che sta vicino di un metro? Il figlio, anche lui senza nome – lo chiameremo “Tizio” così come lo chiama l’autore – è il classico adolescente diciottenne. Il papà passa molto tempo ad osservarlo, mentre giace sul letto oltre mezzogiorno circondato da una serie di iPhone, iPad, iPod e chi più ne ha più ne metta, senza destare per altro la sua minima reazione, per cercare di com- prendere la sua natura intrinseca senza mai arrivare ad una verità consolidata. Forse si avvicina un po’ a cogliere la sua essenza un pomeriggio in cui racconta: «Eri sdraiato sul divano, dentro un accrocco spiegazzato di cuscini e briciole. Annoto con zelo scientifico, e nessun ricamo letterario. Sopra la pancia tenevi appoggiato il computer acceso. Con la mano destra digitavi qualcosa sullo Smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero testo di chimica, a evitare che sprofondasse per sempre nella tenebrosa intercapedine tra lo schienale e i cuscini, lad- dove una volta ritrovai anche un würstel crudo, uno dei tuoi alimenti prediletti […] Alle orecchie tenevi le cuffiette, collegate all’iPod occultato in qualche anfratto: è possibile, dunque, che tu stessi anche ascoltando musica». Appartiene alla generazione degli sdraiati, frutto di un mondo in cui per la prima volta nella storia del mondo i vecchi lavorano e i giovani riposano: «Cosa che non si era mai vista prima». Mano a mano che la scrittura va avanti, Serra immagina di scrivere il suo grande ro- manzo inedito dall’impianto epico che impegnerà gli ultimi anni della sua vita, La Grande Guerra Finale, quella tra vecchi e giovani, una grandiosa epopea bellica che vedrà scon- trarsi i numerosissimi vecchi, più resistenti e risoluti, e i pochi sonnolenti giovani in una guerra all’ultimo sangue. Ma prima che la battaglia abbia inizio e che la sua generazione perisca sotto la spinta di questi nuovi organismi mutanti, Serra coltiva un unico grande desiderio: vuole che suo figlio lo segua in una scalata al Colle della Nasca, una cima brul- la e spazzata dal vento di tremila metri, un vecchio sentiero di montagna che lui faceva sempre con suo padre e per questo da lui fortemente idealizzato: «Perché spingerti a tutti i costi nel mondo insicuro? Perché costringere anche te alle mie stesse prove in fin dei conti risapute, banalissime, ripetute per centinaia di generazioni con la monotonia della scimmia, sempre la stessa roba, la paura di non farcela, di precipitare, di sfigurare, di non essere all’altezza, la sopravvalutazione delle proprie forze, la sottovalutazione dell’inesausta ferocia del mondo, perché ti ho rotto l’anima così implacabilmente, negli ultimi dieci anni, per trascinarti su un mucchio di sassi stupidamente mitizzato dal bam- bino che fui, certamente ingannato a mia volta da un adulto invadente così come oggi pretendo di fare con te?» Ma il protagonista si riappacifica almeno temporaneamente con se stesso, quando vede il figlio divertirsi, esattamente come faceva con suo padre da bambino. Ora può finalmente diventare vecchio. C’è stato un passaggio di testimone sul Colle della Nasca per cui adesso è suo figlio ad entrare nell’età adulta. Sarà lui tra vent’anni a costringere suo figlio alla scalata con la minaccia di legnate dietro la schiena e il rischio di castighi eterni. Alessandra Miola, [email protected]

131 Vincenzo Latronico, La mentalità dell’alveare, Bompiani 2013, pp. 208, € 12,50

Maurizio Ferraris in un suo saggio del 2009, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, osserva come con l’esplosione della scrittura digitale e delle registrazioni, ogni singolo atto è diventato pubblico e pubblicabile a bassissimo costo e in forma tecnica- mente facilissima. Cosa che rende, in maniera molto più semplice e rapida rispetto al passato, la costituzione di una collettività, di un «noi». Quella che il filosofo ha rubricato sotto il nome di «documentalità», è oggi rappresentata dal web e dai social network, cui si è portati ottimisticamente (o scelleratamente) ad attribuire una intenzionalità collet- tiva. Su questo problema ha recentemente riflettuto anche Roberta De Monticelli in un testo breve, uscito per i tipi di Cortina, intitolato Sull’idea di rinnovamento, osservando come nella Rete – pensiamo alle pagine di Facebook – «un clic può essere l’espressione comunicativa dell’approvazione». Con un «mi piace» si possono innescare due mec- canismi contrapposti: o si accresce la propria esperienza valoriale o si risponde alla chiamata a raccolta del tribuno di turno per condividere delle idee che normalmente esprimono indignazione. Indignazione che «di rado resta tale, cioè cognizione dolo- rosa», trasformandosi più spesso in urlo, sfascio e rancore. Queste osservazioni di Ferraris e di De Monticelli ci sono venute in mente durante la lettura de La mentalità dell’alveare di Vincenzo Latronico, da poco uscito per i tipi della Bompiani. Si tratta, avverte l’autore nella prefazione, non tanto di un romanzo, quanto di un «pamphlet di intervento politico in forma narrativa», scritto di getto all’indomani delle elezioni politiche. Un pamphlet che ruota appunto intorno al concetto di democra- zia digitale. Spinto dall’esigenza di non parlare di principi generali, ma «dell’effetto che questi principi potrebbero avere nel particolare, sulla vita di chi li applica o di chi li subisce», Latronico immagina un prossimo futuro, o un presente prossimo, in cui un movimento, la Rete dei Volenterosi, è diventato il primo partito italiano. Il suo fondatore è Pino Calabrò, un ex presentatore televisivo, noto al grande pubblico per aver condotto una trasmissione di successo in difesa dei consumatori. Allontanato dalla televisione pubblica per aver urtato gli interessi di un importante inserzionista pubblicitario, Cal- abrò si è posto a capo, o meglio a garante, di un movimento ‘liquido’ che ha la sua piat- taforma in un sito web, l’Alveare, dove i ‘volenterosi’ discutono e votano, sottoponendo quanti di loro sono stati eletti, i ‘cittadini’, ad uno scrutinio periodico e a un turn over. Dunque, ogni riferimento al Movimento Cinque Stelle è assolutamente voluto. La- tronico però non è interessato a fornire un’analisi o un ritratto della creatura di Grillo e Casaleggio, quanto a mostrare i rischi insiti nella trasformazione di un social network da soggetto collettivo che condivide informazioni e discute su questo o quel problema, a “soggetto collettivo di decisioni”, cioè a soggetto politico, che punta ad una trasformazi- one radicale della politica italiana, da democrazia rappresentativa a democrazia diretta. Infatti lo scrittore non si sofferma tanto sul pittoresco leader della Rete, la cui figura resta marginale per tutto il corso del libro, ma opta per il punto di vista di due convinti militanti neo-sposi, Leonardo e Camilla, uniti dalla passione politica e dall’amore. Latronico nella sua storia immagina che l’approvazione della legge sulla non pignor-

132 abilità della prima casa (è questo peraltro anche nella realtà uno dei punti program- matici del Movimento Cinque Stelle), ha portato ad un inevitabile aumento del costo dei mutui. Però fatta la legge, trovato l’inganno. Comprando anche una piccola quota di un altro immobile, magari di proprietà dei genitori – pensano i due volenterosi – la prima casa da acquistare diventa la seconda: si ottiene così dalla banca un prestito a con- dizioni decisamente più vantaggiose, dal momento che per l’istituto è meno rischioso prestare a chi ha già un immobile come potenziale garanzia. Chiaramente la trovata è eticamente discutibile, specie se proviene da due iscritti, ma dal momento che è in ballo il bene comune e che le banche sono il male per eccellenza, Leonardo, giovane docente universitario, va avanti, anzi crea un’associazione denominata Casa2.0, che offre a titolo del tutto gratuito consulenze a giovani coppie in cerca di un mutuo. L’Alveare impone di non divulgare questa ‘furbata’, dal momento che potrebbe essere interpretata come una critica piuttosto esplicita ad una legge voluta così fortemente dal movimento. Ma lo scandalo scoppia lo stesso: Leonardo fa riferimento alla sua associazione in un articolo sul «Guardian», cui collabora. Ciò scatena un vero e proprio processo on line che finisce per trasformare la sua vita e stravolgere il suo fino ad allora felice menage matrimoniale. Come già nel romanzo d’esordio, Gin­na­stica e rivo­lu­zione e ancora di più nel note- vole La cospira­ ­zione delle colombe, anche ne La mentalità dell’alveare la scrittura di Latronico procede precisa e geometrica senza sussulti dall’inizio alla fine. L’intreccio è interamente strutturato su un continuo gioco di azioni e reazioni, come se ci si trovasse di fronte ad un esperimento scientifico, dove gli uomini, le donne, le loro vite, i loro affetti, la loro passione politica, sembrano soggetti ad una serie di regole inscalfibili, che portano verso l’abisso. Filippo, che non ha mai messo in discussione le regole del Movimento, si trova infatti a confessare pubblicamente colpe che colpe non sono (come il Proctor del Crogiuolo di Miller o il Rubasciov di Buio a mezzogiorno di Koestler): la sua Casa 2.0 aiuta legalmente i cittadini a non farsi spennare dalle banche; egli offre un rimborso spese di 500 euro a un’assistente che lo aiuta nell’immensa mole di lavoro; ha semplicemente messo un link dell’Alveare sul sito dell’associazione (collegamento diretto, che contraddirebbe i valori della Rete). Niente di particolare, se non che il suo «io» è in contrasto con il «noi». Che per Latronico il mondo sia una pirandelliana prigione, era bene evidente già nel testo teatrale Linee guida sulla fero­cia, dove aveva imprigionato i suoi personaggi in un ufficio­ per due setti­ ­mane, onde affrontare un pro­cesso di selezione­ a opera di un Doma­ tore. Nella Mentalità dell’alveare sono invece le maglie della Rete a soffocare qualsiasi punto di vista personale. Così quello che agli occhi di alcuni è il luogo democratico e giusto per eccellenza, in realtà o determina la paralisi decisionale (le voci da consultare sono troppe e spesso prive dei saperi necessari) o dà luogo all’autocrazia, se il totem della democrazia diretta viene usato artatamente come alibi. Esito quest’ultimo per cui sembrerebbe propendere Latronico (e noi con lui), seguendo la lezione dell’Elias Canet- ti di Massa e potere, citato in esergo, «[nel forum] la massa sta seduta dinanzi a se stessa. Ognuno ha di fronte a sé mille uomini e mille teste. Fin quando c’è lui ci sono tutti. Ciò che lo agita, agita anche loro, ed egli se ne accorge. […] Egli percepisce in loro solo ciò che in un dato momento riempie lui stesso. La loro visibile agitazione accresce la sua». Vito Santoro, [email protected]

133 narrazioni n.4

Matteo Marchesini, Atti Mancati, Voland 2013, pp. 125, € 13,00

Desta sempre curiosità l’affacciarsi alla narrativa dei critici, per quell’ibrido sguardo che aspira a fare romanzo, talvolta con esiti felici. Penso, per esempio, al Giorgio Manacor- da de Il corridoio di legno (Voland, 2012), che innalza una delle pagine più incandescenti della storia nazionale (la contestazione e il terrorismo) a esemplare e cupissima favola, occasione di riflessione sui concetti di rivoluzione e di potere. O, volendo andare indietro di un paio di anni, si prenda il grottesco teatrino a orologeria messo in moto, con impla- cabile e chirurgico dettato, da Fabrizio Ottaviani in La gallina (Marsilio, 2011), salutare boccata d’ossigeno controcorrente – tanto nella lingua quanto nella scelta delle cose da raccontare – rispetto al consolidato imperativo di una obliterante narrazione in presa diretta della realtà. A un corpo a corpo totale con il romanzo e le sue possibilità si presta invece il poeta, critico e saggista (tra le ultime cose segnaliamo il suo Soli e civili, 2012) Matteo Marchesi- ni, se ad aprire il libro troviamo questa citazione-antifona ripresa da Raboni: «Ma in casa dell’impiccato se di corda non si deve parlare di cosa mai parleremo?». E in effetti il libro è costellato di inserti metanarrativi che chiamano in causa le sorti del genere letterario per antonomasia, anzi: trova proprio nel romanzo accantonato e rimasto inconcluso del protagonista, il giovane e brillante intellettuale bolognese Marco Molinari, il nucleo pri- mo, il feticcio di un’asettica esistenza in panne. La tetragona solitudine di Marco viene scossa dal ricomparire di Lucia, l’ex fidanzata con la quale aveva interrotto i rapporti anni prima, subito dopo la tragica morte del comune amico Ernesto (anch’egli mosso da ambizioni letterarie). Lucia lo cinge d’assedio: quasi ossessionata dalla loro Bologna d’antan, lo costringe a riacciuffare luoghi e persone del loro passato insieme. In quel che assomiglia a un aggirarsi tra le rovine, Marco è inchiodato alla contraddizione tra l’enor- mità cristallina del suo talento («io sono tutto nei miei scritti, come un mostriciattolo crociano») e la non meno conclamata incapacità di stare dentro i gangli della vita, tra rigorosa urgenza di verità nella scrittura e sospensione raggelante nel rapporto con gli altri; impantanato com’è nella palude di un quotidiano che lo lascia ebete e indifferente, in attesa di palingenetici cambiamenti. Un disagio esistenziale che si condensa, spesso, in un tic fisico, il rimanere ad «occhi chiusi» (come non pensare a Tozzi?), autodenun- cia del suo porsi a testa bassa, nella realtà. Quella realtà (verso la quale si dimostra per indole refrattario) gli ritorna come onda d’urto nelle parole, dure, di Lucia, che quasi lo psicanalizza, lo rivela a se stesso in tutta la sua arresa nudità. Marchesini lavora agile di scalpello e bulino nel delineare la condizione bloccata dell’io narrante. Inutile dire che non si fatica a trovare più di un punto di tangenza tra Molinari e l’autore: analogo rigore, straordinaria verve polemica, medesima genealogia di riferimento, stessi cromosomi intellettuali, insomma. Così come per il personaggio di Bernardo Pagi (mentore di Marco, Lucia ed Ernesto, antiestremista nutrito di qualche radice mistica, che cita Chiaromonte e ama Herzen e la Weil) non si può non pensare al ritratto di uno dei più autorevoli critici italiani, Alfonso Berardinelli. All’appartato Pagi sono infatti affidate le impennate di certo più polemiche del libro: sul romanzo ridotto a «genere editoriale» (facendo eco al motto del critico: non incoraggiate il romanzo), sullo

134 Schede «storicismo della camera da letto», il vecchio trucco di libri smerciati come imperdibili affreschi al nero del Belpaese; contro l’impraticabile utopia d’una militanza intesa (alla Pampaloni) come critica giornaliera, pena il piombare nel servaggio editoriale; l’impieto- so ritratto della frangia più intransigente e settaria dell’intellettualità della sinistra italiana (capace di un partigiano e accecato odio culturale), giocattolo diabolico che farebbe la gioia di un comportamentista alla Pavlov; o ancora, la lucidissima definizione del gusto, in letteratura, come speciale cognizione (anche sul piano dell’autobiografia). Romanzo autobiografico, genealogico e insieme generazionale? Senz’altro. Ma Atti mancati non è solo questo. Marchesini, partendo dal nuovo (?) orizzonte sociologico cir- ca l’inganno sulla «totale inesperienza dei fatti», portato alla ribalta da Scurati e Giglioli, insiste sugli snodi della vita, s’intrufola tra le pieghe del privato dei personaggi che mette in scena. E usa il motivo assai novecentesco della malattia come fuoco, segno unificante di una crisi: quella del corpo, in Lucia (alle prese con un tumore); quella della mente, di Davide (il fratello di Ernesto da anni ricoverato in una clinica); che alla fine agisce da specchio nel quale si riverbera la patologica incapacità del protagonista di tener testa alla vita. Scandito da una scrittura millimetrata, quasi chirurgica, nervosa ad arte, l’esordio di Matteo Marchesini è un prismatico oggetto che addensa spunti diversi, lasciandoli (talvolta grezzi) a reagire. Forse, proprio in conseguenza di questa compressione, non un romanzo perfetto si direbbe. Eppure come non leggere nel circolare coincidere, alla fine, della storia del romanzo di Marco con quello delle ultime settimane vissute con Lu- cia, una faticosa vittoria sulle cose non dette, sul rischio e la tentazione grande dell’afa- sia? Sta qui, nella dimensione ultimativa entro cui l’autore proietta la partita decisiva sul romanzo, la sua qualità maggiore: come a dire che il romanzo è ancora plausibile quando sa riconciliarsi con la vita, quando si fa esso stesso vita; e la vita si traduce in racconto, diviene finalmente romanzo. Domenico Calcaterra, [email protected]

Cosimo Argentina, Per sempre carnivori, Minimum Fax 2013, pp. 190, € 14,00

Tra le pubblicazioni che hanno caratterizzato questa stagione calda ormai al capolinea, e che ancora faranno parlare di sé, la letteratura “made in Puglia” occupa ancora una volta una posizione di riguardo. Spicca, tra gli altri, il nome di Cosimo Argentina, docente precario di diritto nonché prolifico autore di origine tarantina trasferitosi a Milano, che con il suo ha aggiunto un altro tassello alla sua serie di ben sei romanzi, scritti in poco meno di quindici anni. Più crudo e sottile di un romanzo noir, Per sempre carnivori presenta una trama ap- parentemente scarna, come brullo e a tratti primitivo è il paesaggio della provincia ta- rantina che fa da sfondo all’intera vicenda. Protagonista del romanzo è Leone Polonia, insegnante precario al pari dell’autore, voce narrante ed emblema (persino nel nome) di quella vita da carnivori che impersona con la sua esistenza disfatta, al limite della sregolatezza da perdenti («L’umanità è fatta di perdenti. Il novanta per cento degli esseri

135 narrazioni n.4 viventi è perdente e i vincenti esistono affinché gli altri trovino una collocazione. Mako e il dentuso erano sconfitti alla nascita. E io forse mi abbinavo a loro perché fatto della stessa pasta») e con il suo vivere in una casa in riva al mare (muffa sui muri inclusa) con a carico un padre alcolizzato e forse anche pedofilo. Ad accompagnarlo nelle sue torbide avventure, sempre in cerca di nuova carne con cui sfamare le proprie voglie voraci, ci sono i suoi due “compari di sfortune”, Peppe Maconi detto Mako e Goffredo Mon- ti, detto il Dentuso, come lui insegnanti precari presso l’istituto privato per ragionieri “Nuova Caledonia”, a Ginosa, e ancora come lui lontani dal modello di professore au- stero e statuario, ma al contrario privi di qualunque ambizione al cambiamento e tanto meno al miglioramento. Così Polonia descrive se stesso e i suoi due soci: «Eravamo tre animali braccati, ma eravamo anche tre predatori di quelli buoni»; tre precari dunque, così come precario è l’equilibrio su cui si gioca il filo delle loro vite, la loro routine fatta di alcool, “sbulinamento” e corse per le aride e mortali vie della provincia tarantina, sempre alla ricerca di carne viva, matura come quella delle loro colleghe, compagne di frustrazioni e allo stesso tempo fuori dal giro di morte dei tre, ma soprattutto carne giovane e fresca di studentesse o “trovatelle”, donne degli altri dunque, il cui possesso sarà un errore che la delinquenza locale non perdonerà. Capovolgimenti dei ruoli sociali, mosse azzardate prive di qualunque senso di colpa e verità nascoste persino agli stessi soci non potranno che riservare un risvolto tragico. E così il cerchio si chiude, con la morte che fa da sentinella costante durante tutta la storia, con una testa mozzata che rotola lungo l’intero romanzo, mostrandosi a tratti in tutta la sua crudezza, quasi come un monito intermittente. Acclamato dalla critica come una delle migliori opere italiane uscite nell’ultimo anno, Per sempre carnivori vanta la presenza di immagini crude e dirette e di una lingua espressio- nista, tagliente, intrisa di quella rabbia e cinismo che pervade lo stesso io narrante; una lingua che spesso rischia però di risultare ridondante ed eccessiva, seppur efficace, con tutte le sue espressioni gergali, le tante parole retoriche e gli eccessivi neologismi, per lo più di natura carnale. Poi, per quanto riguarda la trama del romanzo, nonostante gli avvenimenti siano a ben guardare retrodatati di una quindicina d’anni, la vicenda risulta essere molto attuale e avvincente, anche grazie alla bravura di Argentina, che riesce a giostrare la tensione in maniera impeccabile, alternando momenti più lenti (le riflessioni del protagonista) o meno irrilevanti (le divagazioni sulle bevute tra soci) a momenti di maggior vivacità emotiva, sempre con la testa mozzata, definita da qualcuno “un sangio- vanni marino” che fa capolino su una spiaggia deserta, rotolandoci innanzi ogniqualvol- ta sembriamo averla dimenticata, ravvivando così di continuo l’attenzione e la curiosità del lettore. Eppure Fabrizio Ottavini de «Il giornale» non ha visto di buon occhio l’ec- cesso di catastrofismo del romanzo, catastrofismo e negatività concentrati soprattutto sulla scuola. Argentina, però, pare proprio voler mostrare quel lato dell’istruzione che la televisione e i media ci nascondono, mettendo in luce quale sia il vero stato delle cose e come «si è voluto scientemente degradare la scuola a rango di contenitori per frustrati della patria». Oggi la cultura non paga, ma si paga: «Nessun impegno veniva premiato, solo i soldi, solo i quattrini avevano senso, là dentro. La scuola non era come me la ricordavo. Lo studio era un accessorio riservato ai buoni di cuore. L’attività dei padri,

136 Schede quello contava, e un pezzo di carta per l’iscrizione alla Camera di Commercio. Mercanti medievali, di questo stiamo parlando. Stavamo in mezzo a dei mercanti del dodicesimo secolo che consideravano la cultura una faccenda da congegnati e da mezzi preti». L’intero romanzo è pervaso da un senso di precarietà sociale, dei sentimenti e di lavoro. Precarietà impersonata alla perfezione dal Polonia e da tutti gli altri personaggi che si rincorrono in quella ruota della fortuna, o sarebbe meglio dire della sfortuna, che è la loro esistenza così travagliata. Tre sono i temi che ricorrono costanti nel romanzo: la provincia tarantina, i rapporti umani e la scuola, tutti e tre osservati e analizzati però in una luce accecante, negativa, e nel loro aspetto distruttivo. Innanzitutto vi è Ginosa e le altre periferie che costellano la provincia di Taranto, con i loro paesaggi aridi e le «strade [che] puntavano tutte verso la notte»: uno scenario di morte, dunque, che di turistico ha ben poco ma che al contrario nasconde dentro di sé quella natura arida e “carnivora” tale da divenire parte della vita dei protagonisti e non semplice sfondo degli avvenimenti. Vi è poi la scuola, luogo dove domina il degrado, dove non esistono più confini e distanze tra professori e alunni, ma i ruoli si sono ormai invertiti se non addirittura annullati. E la scuola stessa non è più una promessa di futuro ma diventa un luogo transitorio, un teatrino di insegnanti-fantocci che considerano la loro professione come un mero ripiego lavorativo alle loro ambizioni mancate e alunni che apprendono sin da giovani che i soldi sono garanzia di una par- venza di istruzione. Sprezzante e disincantato, infatti, è il pensiero di Leone Polonia di fronte ai suoi allievi: «Mi state tutti sullo stomaco ma vi devo sopportare e allora venia- moci incontro: vi spiego due cazzate, voi ve le studiate, io becco punti e quattro lire al salto e voi il diplomino da usare come carta igienica o per incartare il pesce. Stabiliamo recinti di competenza e fate conto che la cattedra sia una vecchia trincea dove un soldato superstite se ne sta svaccato e incazzato perché ha finito i viveri. Se voi non mi create problemi, io non li creerò a voi. Amen». Infine, è evidente come di umano ci sia ben poco: il romanzo rivela che le relazioni tra uomini e donne possono esistere solo se intese in chiave sessuale, altrimenti non hanno ragion d’essere. Non c’è spazio per sentimenti che non siano mere pulsioni e chi cerca storie d’amore all’interno del romanzo rimarrà apparentemente a bocca asciutta. Eppure è lo stesso io narrante ad affermare in diverse parti della storia che tutta la tragedia finale che ha portato via qualunque possibilità di riscatto e di salvezza non è stata invece altro che un triste pegno d’amore; all’inizio del romanzo, infatti, egli dà un’anticipazione di quello che sarà l’epilogo tragico della vicenda e soprattutto di quale sia stata la causa scatenante di tutto: «Torno indietro, dicevo, e vi racconto questa storia di vittime e carnefici, ma forse anche di amore e passione e io credo che è probabile che un giorno, chissà, fra trent’anni, qualcuno nel valutare il caso dirà che si trattò solo d’amore. Niente di più e niente di meno». Ed è alla fine che scopriamo come più che amore, Leone Polonia e i suoi soci rincorrono tutto ciò che ruota intorno ad esso: più che amore, infatti, si tratta di corteggiamento, di voglie, di violenza, di sesso, il tutto però condito a tratti da briciole di sentimentalismo, da chiamare tale solo per rivestire i sensi di colpa animaleschi che mirano solamente al possesso. Nell’ultima pagina del romanzo, infatti, è lo stesso Polonia a parlare di «una spiaggia in cui s’è consumato un disastro

137 narrazioni n.4 nato dal desiderio d’amore. Amore! Ricordate? Amore, quel petardo fatto esplodere in una cristalleria nel giorno dell’inaugurazione…una ruspa in un laboratorio di analisi. Mako cercava carne per sentirsi vivo. L’aspro sapore del sesso proibito per punire la mia carcassa. Il dentuso per strappare braccio e puntina di grafite al babbo ballerino sulle spoglie della moglie … e tutto questo cos’è se non amore?» Voglia sfrenata di libertà da ottenere a qualunque costo: questo forse è ciò che il protagonista intende quando parla di amore. Avventure, voglie carnali nate tra i fumi dell’alcool e mancanza di senso di responsabilità, riserveranno dunque un finale tragi- co e spettrale, in una notte desolata in cui addirittura «il nero del cielo è rovinato dalla luna». Eppure, come in ogni storia che si rispetti, non tutto è perduto. Ormai immobile, il Polonia, dopo averci accompagnato su quella spiaggia di morte con i suoi “occhi che non tradiscono mai”, con l’accortezza di averci nascosto al riparo dai colpi tra le siepi e le dune, riesce a riservarci un’ultima piccola perla di speranza più che di saggezza; e così, quasi fosse un finale in stileVanilla sky, decide di lasciarci con queste ultime e dolci- amare parole: «Ma forse la giustizia arriverà solo in punto di morte […] tra venti, trenta, sessant’anni. Quando tutti ci risveglieremo da questo sogno che chiamiamo vita pronti a saltare il fosso e cominciare a fare le cose sul serio». Noemi Malerba, [email protected]

Giordano Tedoldi, I segnalati, Fazi 2013, pp. 317, € 13,90

I segnalati, primo romanzo di Giordano Tedoldi dopo la fortunata raccolta di racconti Io odio John Updike, è un libro decisamente spiazzante. A lungo mi sono chiesto come fosse possibile parlarne, se non evocando immagini e suoni: l’angoscia straziante e finemente modulata del Pierrot Lunaire di Schönberg, ad esempio, o L’urlo di Munch o ancora, e più in generale, quelle atmosfere decadenti e arcaiche così care a un certo pensiero mitico- magico degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Forse il modo migliore di procedere è per avvicinamenti progressivi. Iniziamo, allora con il titolo, che è un chiaro riferimento all’opera Die Gezeichneten (I predestinati o, appunto, I segnalati, del 1918) di Franz Schrecker (1878-1934). Le trame dell’opera di Schrecker e del romanzo di Tedoldi sono, come è ovvio, molto diverse, ma comuni sono i temi fondanti: la deformità, la sessualità mor- bosa, l’inquietante inafferrabilità della bellezza, tutti temi, del resto, usuali dell’espressio- nismo tedesco del tempo; comune a Schrecker e Tedoldi è poi l’azzardo massimalista di trattare e fondere tutti questi motivi all’interno di un’unica opera. Il romanzo di Tedoldi si configura innanzitutto come una discesa agli inferi dei due protagonisti: Fulvia, la ragazza con le All-star rosse ossessionata da un senso di colpa tanto pervasivo quanto ingiustificato, e il narratore della storia, un ventiquattren- ne romano senza nome. Detto questo, tuttavia, non si è detto (quasi) nulla del potere ipnotico della narrazione, ambientata in una Roma contemporanea ma senza tempo (mitico-magica, appunto), notturna, ctonia. Attorno ai due protagonisti si muove poi tutta una serie di personaggi sulfurei, ambigui – sessualmente e psicologicamente – e che aiuteranno, più o meno inconsapevolmente, Fulvia e il suo compagno/amante/

138 Schede gemello a compiere il loro destino di “segnalati”. Parte del fascino della narrazione ri- siede nel perfetto gioco di rimandi e allusioni costruito da Tedoldi: personaggi e oggetti hanno un loro doppio al quale infondono alcune loro qualità salienti (ad esempio, il pu- gnale Regina Nigra duplicato nel Regina Ossea; il flautista prodigio Giovanni come doppio di Ruggero, morto all’inizio del racconto). Il mondo de I segnalati è alchemico, ovvero mostra continuamente la segreta corrispondenza tra le cose. Più che mettere in scena delle individualità, Tedoldi mostra le forze e le ossessioni da cui gli uomini sono agiti. Eppure i personaggi riescono tutti memorabili, proprio perché incarnano forze e osses- sioni in modo particolarissimo prima ancora che esemplare. Viene in mente il Mishima del Tempio dell’alba, e per il continuo gioco di rimandi tra i personaggi, e per la teoria della reincarnazione che conclude – ovvero non conclude – il libro (anche se, al contrario di quanto accade in Mishima, qui la reincarnazione non è studiata nelle sue diverse decli- nazioni filosofico-religiose ma solo accennata). Se a una tale trama, intricata e profonda- mente anti-realistica, aggiungiamo poi l’insistenza freudiana sul sogno e sulle colpe dei padri, nonché il tema saggistico della musica colta – dal barocco alla dodecafonia – che attraversa come una lama tutta la narrazione, capiamo immediatamente fino a che pun- to Tedoldi abbia scritto un romanzo lontano dallo «spirito del tempo». E non è detto, ovviamente, che tale distanza sia un male. Se, da una parte, non si può non ammirare la qualità della prosa - una prosa matura, sempre sorvegliata – nonché il fascino sinistro della trama, d’altro canto si rimane anche un po’ interdetti nel chiedersi quale sia il sen- so profondo di un romanzo che si situa in una terra di mezzo tra il kitsch e l’iper-colto. Nella sua recensione per «Il giornale», Marco Drago, dopo essersi chiesto se I segnalati non rappresenti «una versione di alto profilo del genere fantasy o un testo di letteratura tardo-romantica fuori stagione», ipotizza che esso sia, al contrario, un romanzo della piena contemporaneità, se non avanguardistico, ovvero uno di quei romanzi «onnivori, predicati da Giuseppe Genna e Antonio Moresco». Potrebbe anche darsi; io credo però che Tedoldi sia un outsider vero, indifferente – quando non insofferente – a poetiche e mode, anche a quelle che si presentano come anti-mode. I segnalati è un viaggio nella Pazzia («Prima che il caos regnasse tra Fulvia e me fu molto bello […] Giunsi invece alla Pazzia» leggiamo già nella prima pagina), un viaggio al fondo di ossessioni che sono dolorosamente intime perché culturali; cosa c’è, infatti, di più singolare, di più profonda- mente nostro della nostra storia intellettuale? Ecco: forse, al di là del dolore riversato a piene mani in tutto il racconto, Tedoldi ci consegna anche questo piccolo messaggio cifrato: il nostro essere più vero e originale è fatto da tutte le opere d’arte che abbiamo amato. Non è, soprattutto di questi tempi, messaggio da poco. Raffaello Palumbo Mosca, [email protected]

Tilde Pomes, Amore scarno, Manni 2013, p. 192, € 13,60

Il presupposto di Amore scarno non sarebbe tanto una scrittura di tipo realistico (con tutte le derive che riguarderebbero questo approccio), quanto, fortunatamente, quella

139 narrazioni n.4 disarticolazione del realismo (mettiamo anche di quello familiare, derobertisiano, e in genere siciliano, ma comunque vicino a un lessico familiare) che trova terreno prospero da una parte nello psicologismo frammentato, molto icastico, e dall’altra in una rappresen- tazione colorita, rivolta all’esterno, atta a sottolineare (baroccamente) il versante plastico e materico della composizione, per quanto si fondi sugli scatti improvvisi di sagome e sugli scorci perentori, di palazzi, strade, stanze soprattutto, nelle penombre in sfacelo. In ef- fetti la lingua, per nulla mimetica (ma letteraria e lavorata per non sembrare artificiosa) contribuisce a questa mise en scène di tipo grottesco, con molti accessi di violenza che però non escono da un’aura, come dire, di consapevole finzione, costruzione appunto della scena, per quanto è marcata la gestica, teatrata, sottolineata ad ogni lite, ogni ac- capigliamento, tanto che le parole prendono carne, capelli, sangue (sia pure masticato nell’antro del palato e, a un tratto, sussunto a una rimuginazione interiore di tipo oni- rico): tutta una fenomenologia dell’attrito, dello scontro interpersonale che non manca di sfumature ironiche per quanto è marcata, si direbbe anche divertita. Tale che allora il senso bruto del mondo emerge con ancora maggior forza (in questa finzione letteraria) che se l’impianto fosse di tipo documentale; e del resto è il centro di queste pagine, so- prattutto in rapporto con “l’interno”, come dicevo, dei meandri psicologici dell’infante/ adolescente/ragazza. Un romanzo che sembra scandito appunto da questa dialettica dentro/fuori, interno/esterno, che crea immagini anzitutto, ma anche inferenze, dilata- zioni emotivo-psichiche, teorie anche letterarie se è vero che altro elemento topico del romanzo è il diario su cui la protagonista appunta i suoi pensieri, sorta di incunabolo di quello che poi sarà, pagina dopo pagina, Amore scarno. All’esterno spiccano i compri- mari: padre e madre innanzitutto, tali in misura di una loro perspicua contraddittorietà, specie di marionette appassionate (Marionette che passione!, si direbbe, nella loro esasperata gesticolazione della vita) che non li salva all’interno di quella che sarebbe potuta essere una scrittura sinottica che distinguesse senza mezzi termini i buoni dai cattivi, il morale (o moralistico) dall’immorale, e li staglia invece invischiati nel magma, nell’orografia discontinua di un’immanenza miserabile. Luigi Abiusi, [email protected]

Domenico Di Palo, Le relazioni, Bastogi 2012, pp. 64, € 7,00

Dopo l’apprezzato antiromanzo Renato e i Giacobini, edito da Palomar di Bari nel 2006 (v. «Misure critiche», a. IV, n. 1-2, genn.-dic. 2005, pp. 264-266), Domenico di Palo è torna- to a percorrere i campi narrativi con sei densi racconti radunati nella silloge Le relazioni, apparsa nel 2012 sotto l’etichetta della casa editrice foggiana Bastogi. Questi racconti sono stati ripubblicati con un certo ritardo rispetto all’originaria uscita per una serie di motivi che mette conto rivelare perlomeno sommariamente. Incassato un buon successo di critica con la raccolta La bella sorte e altri versi (1985), era almeno dal 1996 che Mimì di Palo valutava l’opportunità di riportare alla luce un gruzzolo di racconti stampati negli anni Ottanta del Novecento su “Singolare/Plurale” di Trani, un periodico di critica e costume da lui diretto e circolato in Puglia e altrove tra

140 il 1978 e il 1991 come originale veicolo non solo di dispute e dibattiti politici, ma anche di proposte e indagini letterarie. Purtuttavia, ragioni di diversa convenienza di scelta ne narrazioni n.4 hanno rimandato di volta in volta la pubblicazione in volume, inducendo l’autore trane- se a preferire piuttosto le sapide sillogi satiriche a partire da Sotto coperta (1997) per giun- gere fino aEstravaganti (2011) oppure a promuovere il citato romanzo Renato e i Giacobini. Finalmente Domenico di Palo ha superato le esitazioni e scavalcato le perplessità, votandosi all’ennesima intrapresa culturale per salvare quei racconti dalla dispersione e così aggiungere un nuovo screziato tassello al suo cospicuo e variegato mosaico lettera- rio, dando maggiore completezza al macrotesto approntato nei precedenti ultimi cinque lustri. Se desta particolare interesse, per le implicazioni sottese, la riproduzione in copertina di un quadro di René Magritte, La condition humaine, quello che di primo acchito colpi- sce nella lettura dell’opera Le relazioni è lo iato con alcuni schemi ed esiti narrativi della tradizione otto-novecentesca, anche grazie alla mai dimenticata lezione di Pirandello e Svevo, per limitarci alla sola letteratura italiana. Nei racconti di questa raccolta, di Palo evita accuratamente le blandizie del mestiere, le lusinghe della bella prosa e le ambàgi dell’introspezione, a favore di uno stile asciutto, freddo e antilirico, tendente all’oggettivazione della rappresentazione o allo svisamento ironico e farsesco degli accadimenti interpersonali. I racconti focalizzano impietosa- mente lo sguardo su di un campionario umano composto da piccoli borghesi e intellet- tuali di provincia avvinti dalla crisi sociale, politica ed esistenziale. Dai frammenti narrativi emergono esempi di leadership profittatrice contrapposta a un ingenuo gregarismo (Il mio amico G.) o entra in campo l’ipocrisia di talune convenzio- ni sociali alla fine proditoriamente smascherate proprio dall’individuo che per primo si era farisaicamente ammantato delle formalità di rito (La faccia di circostanza). In altre pagine risalta il maschilismo velatamente misogino di certe relazioni senti- mentali e sessuali (La doccia) oppure si descrive il delinearsi di un approccio femmina- maschio bruscamente interrotto dalla donna, ma rinviato per calcolata promessa a una nuova visita della stessa (L’approccio). Segue un lungo dialogo, che può anche leggersi come una parodia delle disquisizioni cerebrali della filosofia linguistica e nominalistica e, volendo, perfino delle deduzioni e controdeduzioni del genere poliziesco. In questo denso dialogo una voce raziocinante in senso pseudo-scientifico, col pretesto di aiutare il colloquiante nella risoluzione di un problema sentimentale, servendosi di un metodo artificiosamente deduttivo e maieuti- co, lo prevarica strada facendo senza minimamente aiutarlo (La tromba delle scale). Chiude il volume una novella incentrata sugli effetti di una vita e di un ménage coniu- gale alienanti, che sfociano negli atti di insania di un laborioso e coscienzioso impiegato, poi condannato a incollare le vecchie fotografie di famiglia sui numerosi album di casa dopo la ribellione della moglie, risentita per essere stata troppo a lungo relegata alla stessa mansione (L’album). Si tratta, in definitiva, di momenti e lacerti di vita contemporanea, che, proponendosi come exempla significativi, si dilatano a rappresentare per induzione il flusso dellerelazio - ni umane asetticamente impresse o grottescamente deformate nella rètina e nella mente di un autore magrittianamente affacciato alla finestra del mondo. Marco Ignazio De Santis

141 narrazioni n.4LIBRI DI CINEMA

a cura di Simona Specchia

Fabio Cleto, Intrigo Internazionale. Pop, chic, spie degli anni sessanta, Il Saggiatore 2013, pp. 160, € 13,00

Formidabile 1964. Esplode la Beatlesmania. Il movimento della Beat Generation si è ormai ben radicato nella cultura di massa. Susan Sontag nell’autunno 1964 pubblica il fonda- mentale articolo Note sul Camp sul «Partisan Review». E poi tre icone si fanno portavoce di tre fenomeni destinati a innervarsi nel substrato sociale: James Bond, il camp e la lette- ratura pulp omosessuale. Partendo dal filmMissione Goldfinger, Fabio Cleto in questo suo Intrigo Internazionale. Pop, chic, spie degli anni sessanta (Il Saggiatore) indaga circa le modalità con cui «figure tanto diverse […] si intreccino, coinvolgendo altri protagonisti di quella scena, rispecchiandosi, rivelandosi a vicenda e mettendo così in atto la complessa, para- dossale economia – possiamo chiamarla fin da oral’economia del segreto pop – che inquadra la produzione culturale transatlantica nella seconda metà degli anni Sessanta». James Bond, l’elegante e affascinante spia britannica versione moderna del dandy ottocentesco, diventa un’icona pop. La sua ironia autorizza i lettori e gli spettatori ad accettare nel personaggio la coesistenza delle caratteristiche più spregiudicate dell’an- tieroe e quelle dell’eroe positivo. Intorno al personaggio creato da Ian Fleming si crea un’allure mediatica che gli consente di diventare oggetto – soggetto d’imitazione per gli adolescenti, emblema dell’affermazione della virilità maschile e, al contempo, testimone del trionfo della rivoluzione e dell’emancipazione femminista, in quanto oggetto sessua- le. E sessuato, del desiderio femminile. Attraverso la spia pop – chic e disinibita, la Gran Bretagna ha così modo di riaffermare, nella sfera culturale e sociale, un primato che aveva perso in campo economico. «Come a dire: una spia serve certamente degli scopi, ma non quelli evidenti. E non agisce mai per conto proprio». All’ironia bon ton della spia inglese, l’analisi di Cleto affianca quella sferzante e dissa- crante del camp. Dal momento che «le categorie tradizionali del gusto, verità e realtà non sembrano […] più attuali o adeguate nella New York del tardo 1964», «il camp si offre come modalità sovversiva per eccellenza», in quanto mira a scardinare la tradizionale percezione del giudizio: esiste «un buon gusto del cattivo gusto», e intende sfidare da un lato l’ermeneutica e dall’altro l’ontologia, invitando a preferire la superficie e la copia, a scapito dell’autenticità e dell’originalità. Decantando la riproducibilità in quanto valore, il camp si pone, di fatto, come elemento chiave dell’essenza della celebrità: James Bond sostiene la liceità dell’esistenza degli innumerevoli agenti segreti–copie diffusi nel mon- do cinematografico, televisivo e letterario. Ma, accanto al concetto di copia, il camp si fa anche portavoce di un’idea di travestitismo radicato nella logica della perversione, pre- diligendo tutto ciò che può essere definito queer, ovvero «storto, sbilenco, strano, falso,

142 Schede fuori norma». La queerness camp è, dunque, legata a una specifica visione dell’erotismo: «la forma più raffinata di attrazione sessuale (nonché del piacere sessuale) consiste nell’an- dar contro la natura del proprio sesso». È proprio a tal proposito che in Intrigo Interna- zionale Fabio Cleto inserisce la terza e ultima figura che completa e chiude il triangolo, una figura insieme pop e camp: Jackie Holmes, agente segreto nato dalla penna di Victor Banis. Giocando sull’accessibilità dell’osceno, in un periodo che vede l’esplosione del genere pulp erotico omosessuale, le avventure di Jakie portano alla luce «una realtà sor- dida, ed eccitante». L’operazione di Banis diventa molto più che un’iniziativa letteraria, mediatica e commerciale: la sua spia offre in quegli anni «la possibilità di rendere politico il desiderio, di essere omosessuali e anche andarne fieri: di essere cioè davvero gay, nel senso pieno del termine». Il personaggio di Banis, imponendosi ironicamente come «Regina delle Spie», romperà la consueta trama dei romanzi omoerotici degli anni Qua- ranta e Cinquanta, ispirando i suoi lettori ad acquisire una consapevolezza politicamente attiva che si esternerà in episodi come quello di Stonewall del 1969. Dipanando la matassa di un intrigo basato essenzialmente sull’ironia e sulla sessua- lità, Cleto nel suo saggio ci mostra un mondo frizzante, culturalmente attivo, ma ormai lontano. L’analisi della storia degli anni Sessanta, non può che offrire al lettore una le- zione di Storia del presente, in cui i concetti di camp, di icona e di queer sono più che mai invocati, abusati e completamente svuotati della loro essenza. Nel perverso meccanismo dello Spettacolo Totale «lo scarto è norma. L’ostensione di sé è marca del dominante. La retroguardia non subisce più le incursioni dell’avanguardia: la affianca con garbata iro- nia, e la spiazza. Perché nell’economia dello Spettacolo Totale l’ironia produce accumulo e paccottiglia, ma non effettivo scarto. Non apre le distanze: le colma».

Ilaria A. De Pascalis, Commedia nell’Italia contemporanea, Il Castoro (collana Italiana) 2012, pp. 178, € 15,50

Come si sa la commedia è l’unico vero genere di successo negli schermi italiani degli ultimi vent’anni. Soltanto nel 2013 sono stati realizzati circa sessanta titoli, tutt’altro che memorabili. Individuarne «le categorie interpretative più diffuse nella riflessione sulle declinazioni dei modelli identitari, sulle traiettorie di crescita e sulle forme di co- municazione e relazione intersoggettiva più comuni» è lo scopo della studiosa Ilaria A. De Pascalis in questo suo Commedia nell’Italia contemporanea. Suddiviso in due sezioni e supportato da un solido apparato teorico, secondo il format della Collana ‘Italiana’ del Castoro, il volume ripercorre all’inizio gli elementi e le dinamiche caratterizzanti la commedia contemporanea in relazione alla società, per poi esaminare otto film, ognuno ritenuto paradigmatico di uno specifico tema. Così si passa da Mediterraneo e l’oriente a Tano da morire e il camp, da Figli di Annibale e il viaggio di una identità a Chiedimi se sono felice e la contaminazione, da Notte prima degli esami e l’adolescenza a Basilicata coast to coast e il paesaggio meridionale, fino ai treManuale d’amore e la “normalità” della coppia. A partire dagli anni Novanta la commedia ha assunto contorni più sfumati, conno- tandosi di una «molteplicità di declinazioni», che ne ha reso artificiosa ogni definizione

143 narrazioni n.4 unilaterale, incapace di tenere conto dell’essenziale binomio film-contesto in cui esso è prodotto. Ciononostante è ancora possibile, secondo De Pascalis, operare un distinguo tra film comico, strutturato sulla successione di gag che mirano a provocare il riso nel pubblico, e commedia, costruita mediante il susseguirsi di eventi che si risolvono in un lieto fine. Diversamente dal film comico, inoltre, la commedia si propone «come espres- sione delle forme dell’immaginario dominanti nell’Italia contemporanea», inglobando in sé le caratteristiche dei concetti gramsciani di “nazionale-popolare” e di “egemonia”, al fine di generare e indagare quella che viene opportunamente definita come una «comu- nità immaginata nazionale». Primi termini di confronto, esaminati nel capitolo più corposo del libro, per la com- media contemporanea sono l’individuo e la comunità. Emerge così che le modalità della narrazione risultano essere molteplici ma ben definite e stereotipate: sono, ad esempio, legate alla figura edipica e inevitabilmente convenzionale dell’adolescente in contrasto con i suoi genitori, rappresentanti di una categoria in crisi e poco autorevole, oppure afferiscono a quel desiderio omosociale alla base delle relazioni fra individui di sesso maschile, finalizzato alla volontà di appartenere a un gruppo. Se, dunque, il protagonista preferito delle commedie risulta essere un uomo o un ragazzo, la figura femminile, de- clinata secondo precise caratteristiche, nella maggior parte dei casi assume la funzione di contraltare al fine di rendere più evidente, per contrasto, la complessità della masco- linità. Eccezioni a questa regola sono, secondo De Pascalis, due film, Caterina va in città di Paolo Virzì e Pane e tulipani di Silvio Soldini, dove i personaggi femminili «si collocano al di là della dialettica fra omologazione e rifiuto, fra convenzione e opposizione» in una costante introspezione psicologica volta alla ricerca del sé. Nella maggior parte dei casi, infatti, anche la costruzione della coppia e delle vicissi- tudini familiari risponde a uno schema e una forma precisi. Come è evidente la comme- dia romantica italiana tende a «“rappresentare” il mondo in modo apparentemente ve- rosimile» della piccola realtà quotidiana di provincia, ricercando nel lieto fine la forma- zione o ricomposizione della coppia, rispecchiando in pieno lo stile della screwball comedy degli anni Trenta. Esistono, però, casi dissimili, in cui, pur mantenendo la formazione della coppia come punto di convergenza della vicenda, il film tenta di riflettere «sulla -co struzione dell’identità individuale e della coppia proprio in quanto costruzione formale, ovvero sottolineando la problematicità dei circuiti culturali e sociali di riferimento». Un ulteriore sistema per rappresentare la realtà è il grottesco, attraverso cui la com- media propone la «fusione fra l’assurdo e il verosimile». Mediante l’eccesso delle situa- zioni e dei personaggi è possibile riproporre sullo schermo le brutture che si celano nel- la quotidianità e vederne insieme il lato amaro e ironico. È quanto accade, ad esempio, nei film di Carlo Verdone e Nanni Moretti. I temi percorsi nella prima parte di Commedia nell’Italia contemporanea vengono riela- borati nella seconda, in relazione agli otto film, presi in esame ognuno per una precisa peculiarità. In questo senso, Mediterraneo, Figli di Annibale e Basilicata coast to coast, potreb- bero costituire una sorta di trilogia sul tema del paesaggio: se nel film di Salvatores il luogo è un oriente esotico e simbolico in cui i personaggi, specchio della mascolinità media contemporanea, possono vivere quella che De Pascalis definisce una “pausa”, in

144 Figli di Annibale viene raccontata la fuga da nord a sud attraverso la messa «in scena le dinamiche del soggetto nomade postmoderno», il quale, alla fine del viaggio si ritrove- rà, di fatto, al punto di partenza. In Basilicata coast to coast, invece, il paesaggio diventa davvero il centro focale del film, il primo personaggio con cui tutti gli altri, attraverso l’accettazione o il rifiuto, devono confrontarsi: la De Pascalis riconosce la volontà di Rocco Papaleo di combinare quei tre registri che, secondo la teoria di Lefebvre, de- scrivono l’ambiente, vale a dire il setting, il paesaggio e il territorio. L’estetica camp e il grottesco accompagnano il film Tano da morire: qui la regista Roberta Torre, mediante l’ironia e il kitsch tenta di mettere in scena il rapporto dei protagonisti con la mafia e la religione senza, però, riuscire a emanciparsi dal rischio di «assumere una posizione paternalista e considerare nonostante tutto il mondo rappresentato come “tradiziona- le” e “genuino”». Quarto film analizzato in Commedia nell’Italia contemporanea è Chiedimi se sono felice, una delle commedie che nell’anno 2000 ha ottenuto il maggior successo al botteghino. La contaminazione dal teatro e dalla televisione, individuata da De Pascalis, ha permesso ai tre attori di tracciare una linea narrativa «legata alle costruzioni sociali e sentimentali dei personaggi», esplicate mediante la tradizionale forma dello sketch. I binomi amore – adolescenza e amore – età adulta, sono approfonditi, invece, nei capitoli che trattano i filmNotte prima degli esami e Manuale d’amore 1, 2, 3. Nel primo caso, il successo del film risiede nel fatto di essere indirizzato a un duplicetarget : riproponen- do una realtà non “storicamente” pertinente, ma ideale e nostalgica degli anni Ottanta, questa commedia romantica si rivolge agli adolescenti e a coloro che adolescenti lo sono stati nell’anno in cui è ambientato la vicenda. Diversamente, in tutti e tre i Manuale d’amore il tema dell’amore e, dunque, della formazione e ricomposizione della coppia è affrontato nell’accezione stereotipata secondo cui quasi tutti i protagonisti sono bor- ghesi eterosessuali e «le uniche problematiche affrontate […] sono quelle emotive e sentimentali, presentate come private e individuali, e mai in relazione con situazioni che coinvolgono esplicitamente la collettività». Infine, nel film di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti, è possibile riconoscere l’Italia della crisi economica, dove «il fulcro del discorso è l’irrecuperabilità di ogni dualismo fra corpo e anima, fra essenza e maschera, in un definitivo sfocamento dei confini fra acquirente e merce, produttore e prodotto, attore e spettatore». Analizzando lucidamente tutti gli elementi e le caratteristiche di un genere che ha da sempre come fonte d’ispirazione la società e le problematiche individuali, Commedia nell’Italia contemporanea presenta inevitabilmente una nazione scialba, in crisi economica, morale e soprattutto culturale. L’idea, radicatasi pian piano negli anni in queste produ- zioni, di dover ridurre ogni personaggio a una maschera stereotipata e ogni vicenda a una storia necessariamente lineare, finisce «per celebrare l’esistente come il migliore dei mondi possibili» e offrire «modelli distorti ai comportamenti sociali e agli stili di vita degli italiani»: da qui la normalizzazione e la stereotipia del reale, segno emblematico del crescente provincialismo italico, laddove si impone la necessità di «andare oltre la visione della commedia come impoverimento e omologazione delle forme dell’imma- ginario». [email protected]

145 narrazioni n.4La redazione segnala:

Carla Cirillo, 12. Racconti a Hopper Aracne 2013, pp. 119, € 10,00

Si racconta che Edward Hopper, come tutti quei pittori che osservano molto o sono in- dotti a farlo dagli ambienti nei quali crescono, abbia cominciato piccolissimo realizzan- do ritratti di familiari e abbozzando ambienti della propria infanzia. Nottambuli, che resta forse il lavoro più noto, è un fascio di luce su uomini e donne che si scrutano gli uni le altre. Questo passaggio dall’intimità degli affetti alle istantanee di vita notturna è quanto di più naturale si trovi nel tratto dell’artista americano. Tutto sommato, è anche l’aspetto più intrinsecamente riparato, quello che sfugge a letture facili e per questo improvvide. Leggendo i dodici momenti narrativi che Carla Cirillo ha modellato su altrettanti quadri di Hopper, abbiamo la sensazione che sia proprio questo il punto nel quale la sua scrittura, l’agile e capriccioso folletto che la ispira, ha incocciato la curiosa traiettoria del pittore. A ciascuno di essi è stato assegnato il medesimo titolo di un dipinto, quasi con l’intenzione di possederli, di ridisegnarli. O, come fece Mark Strand una ventina di anni fa, leggerli in una sorta di compartecipazione artistica: allora un poeta e un traduttore che volle misurarsi con linee geometriche e incastri di luce (fino a ricavarne una sintesi di suggestioni figurative, timbri e valori cromatici come accadde, ad esempio, nel 2006 con Black sea o altre liriche di Man and camel), oggi una scrittrice non proprio esordiente, ma con un nome ancora poco esposto all’attenzione dei lettori, nella quale l’evidente fascino dell’artista si combina al bisogno di indagare le strutture dell’esistenza. Talora, nella successione di quadretti domestici o di vicende sentimentali aleatorie, emerge una specie di infatuazione per la terapia che le opere di Hopper somministra a uomini e donne afflitti da eterne passioni e assorte malinconie.Domenica mattina presto, consacrato ad agosto come i romani facevano col dio Sole, celebra la luce e il caldo, il deserto delle strade secondo un vecchio paradigma hopperiano. Ma di qui, da questa calma protratta, Carla Cirillo inoltra elementi italici. Con un conflitto che non dispiace, espone i “pro- dotti tipici” di un intessuto antropologico di marca meridionale: la messa in televisione; “la mano di Dio”; scendere a comprare le sigarette; la gita al mare; il capofamiglia; deci- dere ed essere uomini; servire Gesù da bambini. Mentre il lettore si avvia lungo questo itinerario, scopre che è appena la superficie del tutto: la scrittrice pone in nota, come in una tesi, le sue letture preferite, il “lessico fami- liare” rivisitato alla luce di Spinoza, Platone e Beckett, oppure suonato su un arpeggio folk-rock di Simon & Garfunkel. Marzo, cui è dato in consegna Una stanza a New York, si destreggia fra Emily Dickinson e Lacan, ma soprattutto ci lascia gli sguardi, le voci e i “combattimenti” di una donna e un uomo. Non è che questo, in fondo, l’opera di Carla Cirillo: uomini e donne che faticano a stare l’uno di fronte all’altra: «“A me piace molto tornare a casa e trovarti. Mi stupisco ogni volta che entro e…”. Lei scrollava le spalle, non voleva ascoltarlo» (“Sole in un caffè”, aprile, p. 36); contatti mancati, rapporti

146 ambiti senza alcuna presenza di spirito: «“Sei triste” / Lei ha negato. / “Soffri per me?” / “No. Davvero”. / E le sue tasche erano piene di mance non date» (“Western Hotel”, ottobre, p. 75). La curiosa soluzione tipografica di questi racconti – le note a pie’ di pagina degli autori citati, come se l’autrice non volesse mai correre il rischio di pretendere appro- priazioni indebite o provasse a sedurre il lettore con una strana didattica, scientemente studiata – ci conduce all’excursus platonico posto ad anticamera del congedo, vero e proprio pretesto offerto alla libera sovrapposizione di uno sguardo di donna sulle cose del mondo: i legami, l’assenza, le attese. 12. Racconti a Hopper, finalista all’ultimo premio Settembrini-Mestre, suggerisce iti- nerari narrativi inediti, sull’orizzonte della contemplazione placida della tenue pasta di colore che Hopper disegnava sull’incombente dissoluzione delle strutture umane.

Valeria Biuso, Maledettismo Aracne 2013, pp. 101, € 10,00

Esplorazione in salsa maudite di tutte le gradazioni del vizio e del male è il libro d’esordio della giovanissima Valeria Biuso, classe 1993, che riunisce in un agile volumetto otto brevi racconti ambientati prevalentemente nella Francia di fine Ottocento e ai quali conviene l’epigrafe dell’ultimo brano: «Qui pourrait déterminer le point où la volupté devient un mal et celui où le mal est encore la volupté ?». Balzac batte Epicuro e l’identificazione tra bene e piacere non resiste alla vague di maledettismo che esalta, al contrario, il principio secondo cui è il male a generare il piacere. Ma il lettore non s’illuda – suggerisce l’autrice – di veder agire nel teatro della crudeltà sofisticati interpreti di abomini e nefandezze, ché l’uomo è mediocre sempre, nel bene come nel male. Questo è nel non conoscere, nell’abbandono cieco alle nevrosi, alle ossessioni che si rifiutano all’elaborazione della coscienza. Di fronte al buio dell’a- nima e all’angoscia esistenziale si porrebbe un bivio: lo sforzo conoscitivo o la morte. Vince quest’ultima e nessuno dei personaggi contempla la possibilità della prima scelta, si ribella alla morte o all’infelicità, piuttosto le corre incontro con una naturalezza che è, essa sì, crudele, perché inevitabile. Nemmeno la morte suscita uno sguardo pietoso. Se ne vanno, uomini e donne, senza lasciare traccia, senza che la loro fine si carichi di senso o possa servire da exemplum. Sono dannati in vita, risucchiati nella spirale del nonsenso, dell’assenza di speranza e di prospettive che è propria di ogni inferno che si rispetti. L’atrofia del pensiero e della coscienza (tutti sembrano agire come mossi da fili invisibili e in nome di un’unica legge: la gratuità) ne fa individui a due dimensioni, mancando a essi e per essi la profondità dell’analisi e dell’introspezione, un coro di meschini che non solleva mai la domanda sull’origine e la finalità del male. Anche il deragliamento dei sen- si, che spinge alcuni di loro a forzare i limiti del consentito, non è mai programmatico, proiettato in un orizzonte conoscitivo o di potenziamento delle facoltà creative, ma fine a sé stesso, un ritorno alle forze indifferenziate che sottraggono l’individuo al dovere della determinazione. L’istinto impedisce la conversione dei fatti in valori, la creazione di un destino personale nel quale la vita trovi il suo legittimo compimento. Le otto istantanee, da intendersi come variazioni sullo stesso tema, e dunque parte di un medesimo disegno, sono altresì scatti di un mondo che esiste solo nella memoria

147 letteraria, di una Parigi restituita ai miti romantici e decadenti. E lo stesso può dirsi dei personaggi, chiusi in un universo lontano e inattuale, e che una ventata, non dico di speranza, ma almeno di ironia, avrebbe potuto riscattare dal pieno disfacimento. Essi sfilano invece privi di mondo, condannati all’anonimato e all’impossibilità di autodeter- minarsi. E questo è chiaro alla Biuso che mette in guardia il lettore da qualsiasi giudizio di carattere morale. Al contrario, il lettore riaffiora dalla lettura diMaledettismo senza portare con sé brani di un’altra realtà, echi corporei di esistenze possibili, ma con la vertigine di un breve, interminato viaggio nel nulla.

Adriano Sconocchia, Mindgap, Aracne, 2013, pp. 176, € 12,00

Ha la narrazione calma del quotidiano Mindgap, romanzo d’esordio di Adriano Sco- nocchia, già autore di saggi storici e di testi teatrali, tra cui l’atto unico Bustop, tradotto in cirillico e pubblicato a Mosca. La calma iniziale cede presto il passo all’inquietudine, seguendo le vicende del protagonista, Luca Rosati, raccontate in prima persona, con l’introduzione di un prologo. Poco più che cinquantenne, funzionario di banca, donna- iolo impenitente, quest’uomo è piuttosto banale e prevedibile, con linguaggio e modi da adolescente, restituiti con enfasi caricaturale negli slang giovanilistici: non mi si è filata di pezza, e poi questa risposta della minchia (p. 12). L’ambientazione è quella romana, una città che però resta abbastanza sullo sfondo, senza troppo dialogare con le vicende raccontate, se si fa eccezione per l’amico Fabrizio che articola sempre suoni troppo borgatari. Luca vive da dieci anni con Domitilla, detta Tilly, che vanta una solida posi- zione economica ereditata dal padre. È un uomo opportunista, Luca, che però già dalle primissime pagine racconta dei suoi attacchi di panico giovanili, circa venticinque anni prima, «curati da un neurologo con fiumi di Lexotan» (p. 139). È tutto qui il mindgap, il vuoto nella mente, il salto nel niente, che si ripresenterà ancora più cattivo, fino allo sdoppiamento di personalità, in un incedere di accadimenti, a tratti bizzarri, resi credi- bili da una scrittura piana, intima, quasi diaristica, con brevi riprese dialogiche rivolte direttamente al lettore. Se c’è un motivo, un’ispirazione, un sentimento dietro una trama, probabilmente la voglia di rinascita è ciò che regge questa storia, che attinge alla precarietà dell’esistenza, come tratto comune dei vivi, senza distinzione di sesso, di razza, di estrazione sociale e di età. Qui non è in bilico soltanto Luca, che deve fare i conti con gli irrisolti dell’in- fanzia, tra crisi di identità e psicofarmaci. In questo libro, sul filo incerto del divenire ci finiscono un po’ tutti e tutti provano a uscirne, a conferma che la vita vuole la vita, anche quando le vicende si ingarbugliano, fino al paradosso. Così, succede a Roy, sessant’anni, che da giovane non seguiva regole e convenzioni, girava il mondo e provava a fare il musicista. E poi, «con i capelli grigi raccolti in una crocchia» (p. 17), si stabilisce a Rioverde, in una cascina, per gestire una comunità di ex-tossicodipendenti e malati di Aids, dove l’ambientazione diventa elemento attivo del racconto. Ed è proprio la paura del contagio che confonde e getta nel panico Luca, coin-

148 volto in una rapina all’interno di una gioielleria, con relativo ferimento: viene punto dalla siringa che agitava uno dei due rapinatori e l’incubo di aver contratto il virus lo getta nel panico, ai bordi del delirio. A quel punto, comincia la discesa dolorosa e dissociata del protagonista, con un cambio di registro significativo nella narrazione, sempre in prima persona, che con immagini forti e dolorose descrive il suo dissidio: «[...] Mi sentii aggre- dire alle spalle dall’orso, che iniziò a graffiarmi e poi a sbranarmi le pareti dello stomaco […] Mi catapultai d’istinto sul pianerottolo, sperando che qualcuno potesse salvarmi da me stesso» (pp. 79-80). Sembrano tutti in cerca di una salvezza da sé, in questo romanzo, che impone cam- biamenti e chiede coraggio. Anche il trittico di figure femminili mostra un’umanità assai diversa, eppure vicina nella comune voglia di oltrepassare il mindgap dei giorni uguali. Domitilla è prigioniera della sua storia familiare, dell’essere figlia di quel “signor Fran- co”, a cui tutti dovevano un favore; fu amministratore delegato di una grande parteci- pata statale, e le lasciò in eredità il carattere fermo e autoritario. Tilly, «una miscela di determinazione, razionalità e passionalità» (p. 131), è ancora concentrata sul fatto che il suo corpo possa piacere, trascorre le giornate in modo indefinito, spende un intero pomeriggio e 3.500 euro per acquistare un trumeau stile Luigi XVIII, con la sua Ame- rican Express platinum. E però, quando arriva il momento, sa reinventarsi una vita: all’abbandono di Luca, risponde con un impensato amore nuovo, nato dal niente, anzi dall’iniziale antipatia. Che qualcosa stia cambiando lo si capisce nella scena, resa quasi in modo cinematografico, in cui lei, per alterne vicende, si trova nel monolocale disordina- tissimo di quest’uomo, e comincia a stirargli le camicie, mostrando una parte inedita di sé, a dimostrazione che siamo sempre una cosa e tante altre insieme, in una complessità sfaccettata mai riassumibile in schemi rigidi e unidimensionali. Anche Flavia, a suo modo, cerca il cambiamento: lo fa, all’improvviso, quando co- nosce Luca, nel corso della rapina nella gioielleria. Lei è la figlia del proprietario e s’in- namorerà prestissimo di Luca, coraggioso e intrepido, che ha rischiato di infettarsi con l’Hiv, pur di salvarla. Mette in discussione il matrimonio già programmato con Mauro, un avvocato trentacinquenne, scontato e noioso, ma affidabile: un’assicurazione per la vecchiaia. E anche Flavia, quando le circostanze mutano, è capace di un cambiamento, di tornare indietro, di ripercorrere più e meglio i suoi passi. Ma la storia che davvero commuove, la storia che più tocca l’animo del lettore, è quella di Anna, trent’anni, ospite della cascina di Roy, con un passato di dolori, una con- danna per il presente e un sorriso che emoziona, oltre il niente del suo futuro. Anche la scrittura si fa più morbida, a tratti rarefatta, quando l’autore descrive la forza di questa donna e dell’amore che esplode, inaspettato, nel cuore di Luca, in cerca di conforto nella comunità dell’amico di sempre. Anna era innamorata di Francesco, un tossico che le ha trasmesso l’Aids, ma lei vive come se la morte non le appartenesse, con la gioia e l’ostinazione di chi vuole cambiare il mondo, attraverso la storia e la grazia. Tutte le sue energie sono concentrare nell’ultimo sogno, nell’ultimo progetto: laurearsi in lettere, finire la tesi sulla peste a Rioverde a metà del Trecento, con la ferma intenzione di con- cludere il lavoro con il paragone tra gli appestati di ieri e quelli di oggi, proprio come lo sono gli ospiti della sua comunità, malvista da tutto il paese.

149 Insieme a lei, Luca torna ad essere uno: il suo doppio viene affogato nelle lacrime che finalmente superano ogni resistenza di pudore, di dignità, e gli lavano l’anima. C’è una frase, in particolare, che tiene insieme morte e vita, cuce a doppio filo le zone limi- nari dell’essere: «[...] E la baciai d’istinto, con immensa tenerezza, perché avrei voluto infonderle un po’ della mia vita per farla vivere il più a lungo possibile». In questo bacio, nella volontà di darsi al di là delle paure, c’è il saluto di Anna e la rinascita di Luca. Che torna uno, e torna migliore.

150 rivista semestrale narrazioni di autori, libri ed eterotopie diretta da Vito Santoro n. 4/2014, anno III

Speciale satira. La satira è un’arte antichissima. Il sotto-diacono de San- teuil usava dire “castigat ridendo mores”, intendendo, con ciò, che alla pub- blica opinione bisognava mostrare aspetti criticabili di persone o costumi mediante il riso, elemento rivelatore (e magari correttivo) dell’ingiustizia. La satira, si sa, non è una somma di battutacce. Anzi, di solito rivela agli oc- chi del lettore, in qualche tratto di matita e un paio di repliche, qualcosa che egli non aveva considerato, pur avendo a disposizione le stesse informazioni del satirico. Perché la satira vede cose che gli altri non vedono. È ripetitiva? È volgare? È troppa? Certo è che la satira non si arrende: se si cercano su internet parole chiave come Staino e Vauro, si trovano tutte le proteste, le accuse e gli scandali che i vignettisti hanno provocato con un semplice disegno e due battute. Forse oggi non è più il tempo della rivista satirica, del periodico cartaceo a fumetti; è subentrata la stagione dei graphic novel ed è stata forse già supe- rata pure questa: la satira muta e il linguaggio dei fumetti si sta espandendo nel territorio della saggistica ed è ampiamente usato come strumento per il giornalismo, le inchieste e l’informazione alternativa.

Saggi di Giuseppe Del Curatolo e Vito Santoro con cinque domande rivolte a Stefano Disegni, Carlo Gubitosa, Vincenzo Sparagna, Sergio Staino e Vin- cino.

Scrittori nel tempo. Giuseppe Lupo nel suo bellissimo Viaggiatori di nuvo- le abbraccia circa un quindicennio di storia, dal 1499 al 1515, raccontando del viaggio avventuroso del giovane ebreo Zosimo Aleppo alla ricerca delle pergamene del chierico Pettirosso (Segatori). Mario Desiati, Cosimo Argen- tina e Alessandro Leogrande indirizzano il loro sguardo sulla periferia ta- rantina (Introna). Mariapia Veladiano nel suo Il tempo è un dio breve oscilla fra i due poli antitetici della ricerca di una totalità della vita e di un’irrime- diabile lacerazione fra bene e male (Trentini). Con il notevole Il gabinetto del dottor Kafka, Francesco Permunian allestisce un «piccolo manuale illu- strato di ombre e fantasmi» che prende forma in un personalissimo «boudoir filosofico-ferroviario»Lonigro ( ). Infine, nella sua opera seconda, Viola Di Grado conferma la sua naturale vocazione alla rilettura e al superamento dei modelli (Daniele).

Lavoro critico. Domenico Calcaterra mette a fuoco la qualità “sentimenta- le” e “politica” dell’umanesimo di Michele Perriera, scrittore a torto ancora misconosciuto. Raffaello Palumbo Mosca analizza il rapporto tra il sentimen- to della pietas e il romanzo novecentesco e contemporaneo attraverso il riferimento ad autori contemporanei e non (tra gli altri, Franchini e Forest, R.M. Rilke, M. Proust) e a filosofi quali Freud e Vattimo. Seguono ben tre saggi realizzati su tre riletture: Mariangela Giordano evi­ denzia come ne Gli occhiali d’oro la scrittura di Giorgio Bassani assuma un con­notato fortemente visuale, mentre Silvia Ceracchini indaga sulla di- mensione onirica che caratterizza L’Isola di Arturo di Elsa Morante. Infine, Marilù Ursi, in occasione della recente pubblicazione in cofanetto della serie completa di Ci­nico tv, riflette su una fase cruciale della televisione italiana, alla quale corrispose un altrettanto importante periodo della storia sociale del Paese.

Schede. Letture e recensioni delle novità dell’ultimo semestre, anche sul versante della saggistica cinematografica: Cosimo Argentina, Valeria Biuso, Luisa Brancaccio, Carla Cirillo, Fabio Cleto, Ilaria A. De Pascalis, Vincenzo Latronico, Matteo Marchesini, Tilde Pomes, Adriano Sconocchia, Michele Serra, Walter Siti, Giordano Tedoldi.

in copertina: illustrazione di Claudia Lonero.