Autore: Alberto Paleari Editore: MonteRosa edizioni Via Vigne snc - 28836 Gignese (VB) [email protected] www.monterosaedizioni.it Stampa: Press Grafica ISBN: 9788832260045 Marzo 2020 Tutti i diritti riservati ©MonteRosa edizioni Cartina: Maria Paleari Foto di copertina: Casa walser in Val Vogna (particolare) Alberto Paleari

La finestrella delle anime

Sulle tracce dei Walser dalla Valsesia alla Valle Strona Introduzione Una storia d’amore

Il mio amore per la Valsesia nacque qualche anno fa quan- do conobbi le opere del pittore di Alagna Antonio d’Enrico, detto Tanzio da Varallo, che nel gelido e oscuro Seicento, il vero secolo buio dell’Europa (altro che il medioevo) scese dal Monte Rosa a riscaldare e illuminare con la sua arte i cuori e gli occhi dei con- temporanei e lasciò a Varallo, alla Valsesia e a molte città italiane, alcuni dipinti fra i più preziosi e indimenticabili della nostra pittura. Il suo primo quadro che vidi, nella chiesa di San Brizio a Va- gna di Domodossola, fu la grande pala d’altare della Visitazione di Maria Vergine, del 1626, in cui mi sembrò che la giovanissima Madonna assomigliasse, come se ne fosse la sorella, a un’amica di Alagna della mia figlia più giovane. Il fatto che i tratti di quella Madonna di quasi quattrocento anni fa fossero ancora fra noi, e che la modella avrebbe potuto essere un’antenata dell’amica di mia figlia, mi incuriosirono, mi fecero innamorare di quel quadro e mi spinsero a fare delle ricerche sul pittore che l’aveva dipinto. Le ricerche durarono due anni, in cui visitai in lungo e in largo la Valsesia e i luoghi in tutta Italia dove si trovavano le opere di Tan- zio da Varallo. Furono due anni di immedesimazione nel protago- nista del mio romanzo, in cui dovetti conoscere il suo mondo, le condizioni materiali della vita, l’arte, gli intrighi della politica e della religione, penetrare nella sua sensibilità e per così dire, diventare un pittore walser nato ad a fine Cinquecento. Qualche anno dopo un altro pittore e scultore della bassa Val- sesia e quindi non di origine walser, Gaudenzio Ferrari, nato a pochi chilometri da cento anni prima del d’Enrico e protagonista della grande avventura artistica che fu la creazione del , mi spinse di nuovo sulle strade e sui sentieri della Valsesia partendo dall’Isola di San Giulio di Orta per arrivare in quattro giorni di cammino a Varallo, dove si trovano la maggior parte delle sue opere.

4 Il viaggio si svolse dapprima sulle coste del Lago d’Orta, tra opere d’arte, giardini e ville, poi nei piccoli villaggi delle colline mo- reniche valsesiane, tra vigneti e castagneti, dove visitai le grotte del Monte Fenera, in cui insieme all’orso delle caverne visse l’uomo di Neanderthal, infine a Varallo per ammirare gli affreschi di Santa Maria delle Grazie, “la cappella Sistina delle Alpi”, la pinacoteca che dopo quella sabauda di Torino è la seconda del Piemonte, e la “Nuova Gerusalemme” cioè il Sacro Monte: complesso di cap- pelle, chiese e monumenti sparsi in un grande giardino all’italiana e ornati di pitture e sculture dei maggiori artisti dell’Italia setten- trionale dalla fine del Quattrocento al Settecento, che riproducono i luoghi santi e raccontano la vita di Gesù. Ne nacque un nuovo libro: “Verso la montagna Sacra”, in cui la montagna del titolo non è il Sacro Monte di Varallo ma il Monte Rosa, il quale è sacro solo perché nel corso del racconto non se ne raggiunge la cima. Quando le saliamo il sacro fugge dalle montagne per rifugiarsi in altri luoghi, su altre montagne, che noi alpinisti, nella nostra con- tinua ricerca sconsacriamo a loro volta salendole, perché il sacro è sempre misterioso e nascosto. Lo sapevano bene gli antichi, che non osavano salire l’Olimpo e il Sinai, e ancora oggi i tibetani che si limitano a girare intorno al Kailash.

5 Da alpinista e guida alpina ho sempre dato per scontato di conoscere bene l’alta Valsesia e il Monte Rosa, e in effetti posso dire che per il Monte Rosa è vero. Ma erano le catene montuose secondarie, le vere e proprie cordigliere adiacenti, le valli profonde e infinite, i paesini di origine walser in fondo alle valli, i colli che li mettono in comunicazione e gli alpeggi che li popolano di pa- stori e armenti, che prima di scrivere questo mio terzo libro sulla Valsesia non conoscevo. La consapevolezza di non saper nulla di pittori, scultori e storia dell’arte mi aveva fatto conoscere Tanzio e Gaudenzio, la presunzione di conoscere le montagne della Valse- sia mi avrebbe tenuto nell’ignoranza se nel 2018 il gruppo walser di Campello Monti, villaggio della Valle Strona, che non fa parte della Valsesia ma che vi confina e fu fondato dai Walser valsesiani di Rimella, non mi avesse invitato a presentarvi “L’angelo che scese a piedi dal Monte Rosa”, il mio romanzo su Tanzio da Varallo. Campello Monti, forse per la sua la prossimità alla Valsesia e la sua origine valsesiana, pur appartenendo alla provincia di Ver- bania e al bacino imbrifero dell’Ossola (le acque del torrente che nasce dalle sue montagne sfociano, mescolandosi a Gravellona con quelle della Toce, nel Lago Maggiore), non assomiglia ai pa- esi di montagna ossolani: la sua valle è molto più simile alle valli minori valsesiane che si diramano da che a qualsiasi altra valle ossolana. Le montagne della Valle Strona non superano i 2400 metri, nascono da un fondovalle impervio e boscoso per diventare poi meno ripide, con veri e propri altopiani che ospitano alpeggi e più in alto ampie terrazze erbose e sassose. Gli ultimi metri sono spesso rocciosi anche se mai difficili o impraticabili. Di quelle qui descritte è la valle meno frequentata, per cui è rimasta genuina e quasi intatta, e per il suo fascino antico e discreto, per il desiderio di rendere giustizia alla sua bellezza, per la sua vicinanza a dove abito, cioè per la sua comodità, benché la strada per raggiungerne la testata sia tutt’altro che comoda, le ho dedicato molte pagine e attenzioni. Questa valle, però, anche se vicina, è stata per me una scoperta recente, un’altra scoperta è stato vedere quanto sia frequentata dagli escursionisti stranieri, soprattutto svizzeri, che l’attraversano per recarsi ad Alagna in cinque giorni di cammino.

6 È sul loro esempio che nell’estate del 2019, con la mia compa- gna Livia, ed Enea, un vivace border collie di due anni, ho intra- preso lo stesso percorso, ma nel senso opposto, e in seguito ci siamo dedicati agli itinerari più interessanti e significativi delle valli visitate. Il racconto che ne ho fatto si articola in due parti: la prima descrive la traversata Alagna - Campello Monti (con il suo prolun- gamento a Sabbia e a Varallo Sesia), la seconda si occupa di una manciata di escursioni a partire dalle testate delle varie valli, e cioè quelle che fanno capo a Riva Valdobbia, Alagna, Rima, Carcoforo, Rimella e Campello Monti.

Se Campello di tutta la traversata è il paese più piccolo e ormai da anni abitato solo in estate, Alagna e Riva Valdobbia, uniti dal 2018 in un solo comune, sono il vero capoluogo della comunità walser valsesiana, il paese più popoloso e importante, anche turi-

7 sticamente, non solo perché si trova alla base del Monte Rosa ed è il punto di partenza per la sua ascensione, ma anche in quanto collegato dal comprensorio sciistico del Monterosa Ski alle valli valdostane di Gressoney e d’Ayas. Ma cosa resta in queste valli dei Walser? Dal punto di vista materiale ciò che prima di tutto salta all’occhio è l’architettura delle case tradizionali di legno che sono ancora numerosissime a Riva e ad Alagna e soprattutto nelle loro frazioni in Val Vogna e in Valle d’Otro; dal punto di vista culturale una rete di associazioni con sedi in tutti i paesi walser della valle, che tengono vive le tradizio- ni, studiano il titzschu, lingua appartenente al ceppo linguistico tedesco ormai parlata solo da pochi anziani, e l’arte, le usanze, la storia dei Walser. Si sono fatti nel corso del tempo alcuni tentativi di mantenere in vita il titzschu insegnandolo nelle scuole: lo so anche perché una delle mie figlie ha frequentato per tre anni la scuola primaria di Alagna, dove di questa lingua le è stata impartita una leggera infarinatura, ma crescendo l’ha quasi del tutto dimenticata per la mancanza di occasioni in cui parlarla. Il titzschu è ormai una lin- gua morta, come il latino, però a differenza del latino, o meglio, come l’italiano di Dante e Boccaccio rispetto a quello moderno, equivale al tedesco che si parlava nel 1300, qui rimasto immutato nei secoli per la mancanza di scambi culturali con la madrepatria e divenuto oggetto di studio dei linguisti. Quello che sto per dire, lo so, è da romantici visionari, il mon- do sta andando in tutt’altra direzione, ma penso che attraverso lo studio del titzschu, perché no, coi nonni a fare da maestri, i ragazzi dell’alta Valsesia, oltre che a conoscere la lingua dei loro avi, potrebbero arrivare in modo più naturale e facile a imparare il tedesco moderno, utilissimo nelle loro valli in quanto parlato dalla maggior parte dei turisti che le visitano. L’arte walser è ricca di sculture e intarsi lignei che si trovano un po’ in tutte le chiese della valle e in alcuni musei, soprattutto nella Pinacoteca di Varallo. Queste sculture, quali gli altaroli portatili, che non si sa se dovuti ad artisti locali o se arrivati dalla loro patria al di là delle Alpi, queste opere “svizzeresi”, come le definì il gran- de scrittore e critico d’arte Giovanni Testori che molte ne scoprì,

8 costituirono, sempre per usare le sue parole, “le fibre lignee della parlata valsesiana”, intendendo per parlata lo stile primitivo, po- vero, dialettale, che col tempo, pur mantenendo la sua originalità, divenne più raffinato e che fu la loro caratteristica. Parlata che ri- mase nei secoli a influenzare l’arte locale, anche quella altissima di Gaudenzio Ferrari e dei due fratelli d’Enrico: Antonio, il pittore co- nosciuto come Tanzio da Varallo, e lo scultore Giovanni, che lavo- rarono spesso insieme nelle cappelle del Sacro Monte. Influenza che non si limitò alla scultura, ma anche alla pittura dei capolavori di Gaudenzio Ferrari. Tale originalità della scultura valsesiana, che nacque tra la metà e la fine del Quattrocento, figlia della capacità

di lavorare il legno dei Walser, ed esercitata nella costruzione delle loro case, si protrasse ben oltre l’epoca d’oro del Cinquecento e del primo Seicento, fino a tutto il Settecento, estendendosi dalla scultura anche alla pittura. Le chiese della Valsesia sono tuttora abbellite da bassorilie- vi lignei, porte e armadi intarsiati, ancone, cornici monumenta- li, confessionali, fonti battesimali, stalli di cori, architravi scolpite, Madonne, crocefissi, tabernacoli piramidali che s’innalzano verso il cielo come torri di Babele barocche, presepi, statuette di sante, putti e angeli di legno dorato di straordinaria fattura, veri gioielli

9 dell’arte lignea, opera di scultori locali cresciuti in quell’ambiente, in quella scuola. Ma non solo, anche il più piccolo oratorio, le chiesette nei boschi dedicate alla Madonna della neve, le cappel- lette sulle svolte dei sentieri montani, si sono dotate di pitture e affreschi, eseguiti con buon gusto e grande maestria da centinaia di pittori, sempre valsesiani, che nel corso dei secoli hanno passa- to il testimone dell’arte da padre in figlio. Non c’è che da girare la Valsesia a piedi per accorgersi di quanto buongusto ed eleganza vi siano ancora nelle sue cittadine, nei suoi villaggi, nelle case che hanno sempre un fregio, un ab-

bellimento, una decorazione, anche solo un traforo di legno nella balconata, una gronda intarsiata, una Madonna o una meridiana dipinta sulla facciata: secoli di arte hanno educato un intero po- polo alla bellezza. Anche in Valsesia ci sono a volte le brutture che sconciano il nostro paese, ma sono più rare che altrove, e in genere qui vige il lavoro ben fatto, l’ordine, la moderazione, il recupero delle vecchie costruzioni e l’uniformazione delle moderne all’eleganza delle an- tiche resa possibile da un fiorente artigianato locale. Vedremo du- rante il nostro cammino che questo gusto e l’amore per il bello dei

10 valsesiani si è tramutato nei secoli in una vera e propria industria, che occupò migliaia di loro in tutta Europa; parlo tra gli altri dei maestri prismellesi, originari di Riva Valdobbia, che costruirono ponti, palazzi, chiese e cattedrali in tutta la Svizzera, e dell’inven- zione del marmo finto, o marmorino, di cui per quasi un secolo gli abitanti di Rima ebbero il monopolio nell’intero continente, e che portò benessere e ricchezza a tutta la valle.

Tutte queste opere d’arte sono sparse in una miriade di chie- se e, oltre alla Pinacoteca di Varallo, esistono nelle valli numerosi piccoli musei locali dedicati alla cultura walser. Purtroppo sia le chiese che i piccoli musei sono spesso chiusi ed è difficile visitarli. I parroci della valle sono relativamente pochi e ognuno di loro deve occuparsi di più paesi e di decine di chiese, che si posso- no visitare quasi solo durante la messa domenicale poiché non è possibile lasciarle aperte e incustodite in balia dei furti. A Varallo, oltre alla bellissima e importante pinacoteca, esiste l’Istituto Su- periore d’Adda, con liceo classico, linguistico e artistico. Durante la stesura dei miei precedenti libri sulla Valsesia sono stato un assiduo frequentatore della pinacoteca cittadina, dove ho sem- pre trovato studenti e studentesse del liceo artistico che mi hanno fatto da guida con passione e rara competenza. Forse si potrebbe estendere questa collaborazione fra musei e scuola ad altre realtà artistiche e culturali della valle, ma ciò potrebbe essere solo un inizio: in Valsesia c’è un immenso patrimonio artistico ancora in gran parte sconosciuto, la cui valorizzazione e divulgazione po- trebbe costituire un lavoro per gli studenti che escono dal liceo. Penso che il futuro del turismo valligiano sia da ricercare nelle sue bellezze naturali e artistiche, che vanno studiate, preservate e fatte conoscere. Penso che si debba investire in questo campo. Bisogna immaginare la Valsesia come un immenso giacimento costituito dalle sue opere d’arte sconosciute, portarle alla luce potrebbe di- ventare, con politiche e investimenti adeguati, il futuro lavoro di molti giovani valsesiani.

È arrivato il momento di spiegare il titolo del libro: “La fine- strella delle anime”, in titzschu “Seelabalgga”, un pertugio praticato

11 in una parete della casa walser, che poteva essere chiuso con un blocchetto di legno o con un’anta scorrevole su cui a volte era incisa una croce. La finestrella veniva aperta quando moriva un membro della famiglia per dar modo alla sua anima di salire in cielo, e veniva rinchiusa subito dopo perché il fantasma non tor- nasse a tormentare i parenti. Fra i Walser del Goms e del Vallese, come pure fra quelli di Zermatt, cioè fra i fondatori delle colonie meridionali, sembra sconosciuta, mentre di “Seelabalgga” che io sappia se ne trovano a Rima, Alagna, Bosco Gurin, Val d’Avers. Alcuni studiosi sostengono che sia un’usanza relativamente re- cente, che non faccia parte dell’antica cultura walser. Nel mio viag- gio in Valsesia ho avuto una testimonianza della sua esistenza in una casa di Alagna che risale almeno al ‘600. Noi moderni siamo portati a sorridere di tali usanze o a liquidarle come “superstizio- ni”, invece esse fanno parte di un mondo inconscio e misterioso che appartiene anche a noi e che ancora si manifesta nei nostri sogni notturni, un mondo che abbiamo perduto e che andrebbe ascoltato per capire meglio chi siamo. La mitologia walser è tragi- camente pessimista, il loro aldilà sembra più un luogo di pene per i peccatori che un premio per le anime dei buoni cristiani. Anche la finestrella delle anime pare appartenere a questa natura pessi- mista: ma perché mai i nostri cari defunti dovrebbero tornare a tormentarci? Infatti il testimone di Alagna che me ne ha parlato mi ha confidato che dei suoi morti non ha paura, al contrario, ne trae serenità e consolazione. Ma di ciò a tempo debito.

Dalla lettura di questa introduzione il lettore potrebbe credere che il mio amore per la Valsesia sia soprattutto dovuto alla sua arte e all’architettura, al contrario, ciò che me ne ha fatto innamo- rare sono state prima di tutto le bellezze naturali: se le sue opere d’arte non fossero inserite in un contesto naturale grandioso ai miei occhi varrebbero sicuramente meno. Prima ancora dell’arte e dell’architettura, ciò che ha reso la Valsesia unica e indimenti- cabile, sono le sue montagne, le foreste, i prati, le creste, la ve- getazione lussureggiante, i torrenti limpidi e pescosi, gli animali selvatici che la popolano, la presenza costante del Monte Rosa che con l’immane massa scintillante dei suoi ghiacciai è stato la

12 bussola del nostro viaggio. Ci sono poi stati gli incontri con le persone: pastori, contadini, guide alpine, eruditi locali, villeggianti, escursionisti come noi, la scoperta dell’industriosità degli abitanti, l’ospitalità e la simpatia degli albergatori e non ultima la buona cucina di cui abbiamo sempre goduto. Della Valsesia ho anche amato tutto ciò che pur non essendo opera della natura, con essa si è ormai talmente compenetrato da confondersi: i boschi rego- lati e sfruttati da secoli, i pascoli, gli alpeggi, i canali di irrigazione, i terrazzamenti, la rete di sentieri e mulattiere che l’attraversano e che abbiamo percorso come in pellegrinaggio pensando a coloro che li costruirono nel medioevo. Vi accorgerete fin dalle prime pagine che i sentieri non sono descritti come mezzi per raggiungere una meta, questo libro non è una guida escursionistica, il suo scopo non è descrivere itinerari ma raccontare luoghi, uomini, storie. Non è neppure un saggio storico, sociologico o artistico, né una raccolta di leggende e di usanze, o di interviste a personaggi locali, ma è solo il racconto di un’estate passata a camminare fra le montagne della Valsesia. Soprattutto è un libro sincero, anche se non è un libro serio, nel senso che non si prende sul serio, e spesso, almeno negli intenti dell’autore, è scherzoso e leggero. Infine questo non è nemmeno il libro di un profondo conoscitore della valle, ma di una persona che l’ha scoperta, si può dire solo ultimamente, passo dopo passo, con lo stupore, l’ammirazione, l’innocenza, l’entusiasmo e l’amore degli antichi esploratori, e così come l’ha vista, passo dopo passo, ha cercato di raccontarla.

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