Politecnico di Milano Facoltà di Architettura Civile Laurea Magistrale in Architettura A.A. 2010/2011

Città-: usi di città e comunità nella Media ed Alta Valle Proposte Progettuali nei comuni di Varallo e Alagna

Relatore:

Prof. Mario Fosso

Correlatori:

Carlo Ponzini, Gianni Grassi, Luca Alberto Piterà

Laureandi:

Fabio Campana 747960 Rossana Marcianò 740029 Denny Pè 749987 Sara Penati 749509 Michela Prandi 740268 Bianca Scuratti 751406 Letizia Spigarelli 750930

Indice Tesi

Città-Sesia: usi di città e comunità nella Media ed Alta Valle Proposte Progettuali nei comuni di Varallo e

1. La Valsesia nel contesto alpino

1.1. Confini regionali e nazionali : la localizzazione della valle 1.2. La Geomorfologia della Valsesia

1.2.1. la catena alpina e il processo di orogenesi 1.2.2. lo scioglimento dei ghiacciai e la formazione della valle

1.3. Risorse naturali, antropizzazione: cultura materiale e tecnica

1.3.1. Il villaggio nel sistema alpino 1.3.2. Il villaggio: studio attraverso un ecosistema

2. Geomorfologia e tradizioni culturali

2.1. Gli insediamenti Walser 2.2. Il sistema dei Sacri Monti nell’arco Alpino

2.3. Tradizione artistica e culturale

2.3.1. Il 2.3.2. La Pinacoteca di Varallo

2.3.3. Devozione e Religiosità

3. La Valsesia nel contesto regionale Piemontese 3.1. Gli strumenti della pianificazione regionale per il governo del territorio

3.1.1. Il piano paesaggistico regionale e linee strategiche di intervento nelle valli alpine

3.1.2. Parchi regionali e tutela del patrimonio naturale 3.2. Infrastrutture e reti di collegamento

3.3. Mobilità e servizi nel nord-est piemontese 3.3.1. Potenzialità, problematiche e linee strategiche di intervento per la Valsesia 3.4. Quadro economico e produttivo 3.5. Demografia dal 1861 ad oggi

4. La Valsesia: uso di città – economia, mobilità e servizi

4.1. Unità e divisioni territoriali.

4.1.1. La comunità montana: limiti amministrativi e comunali

4.2. Trasformazione demografica delle comunità alpine

4.2.1. Economia, sovrappopolamento ed emigrazione

4.3. Agropastorizia, attività estrattive e produzione industriale

4.3.1. Attività produttive nell’ambiente alpino

4.3.2. Insediamenti e forme di sussistenza

4.3.3. Dalla prima industrializzazione al primo novecento

4.4. Sistema viario: ferrovie, strade e loro ruoli ed accessibilità

4.5. Servizi e sistemi funzionali 4.5.1. Sistema dell’assistenza

4.5.2. Sistema dell’istruzione e museale 4.5.3. Attività sportive e turistico-ricreative

4.6. Il tema delle seconde case e l’occupazione del suolo

5 Città Sesia: ipotesi di intervento progettuale e punti applicativi

5.1. La nuova infrastruttura ferroviaria: ruolo e fattibilità 5.2. Modalità insediative e descrizione dei progetti

5.3. Il tema della Sostenibilità insediativa: sue relazioni al paesaggio ai servizi e alla rete di mobilità in relazione al paesaggio

6 Città Sesia progetti e punti applicativi

6.1. Nome del progetto e sua destinazione

6.2. Area località e descrizione del programma 7. Bibliografia

Indice Tavole_ Città-Sesia: usi di città e comunità nella Media e Alta Valle. Proposte Progettuali per i comuni di Varallo e Alagna Valsesia

1. Localizzazione 2. Geomorfologico 3. Grande Topografica in misura della Valle di Sesia col delineamento delle miniere esistente nei territori d’essa valle - 1759 4. Quadro Sinottico 5. Carta del Territorio della Valsesia: economia, mobilità e servizi 6. Ferrovia 7. Varallo_ Quadro storico e territoriale 8. Varallo_ Accessibilità e modalità insediative: ipotesi di intervento 9. Varallo_ Accessibilità e modalità insediative: ipotesi di intervento – stato di fatto ed aree di progetto 10. Varallo_ Proposte progettuali: campus dell’istruzione, hotel e spa, scuola per l’infanzia, completamento ed espansione di un’area urbana, stazione di fermata e percorsi di collegamento 11. Proposte progettuali: campus dell’istruzione 12. Proposte progettuali: hotel e spa 13. Proposte progettuali: scuola per l’infanzia e servizi sociali 14. Proposte progettuali: completamento ed espansione di un area urbana 15. Alagna_Quadro storico e territoriale 16. Alagna_Accessibilità e modalità insediative: ipotesi di intervento 17. Alagna_Accessibilità e modalità insediative: ipotesi di intervento – stato di fatto ed aree di progetto 18. Alagna_Proposte progettuali: stazione, ostello, scuola e centro civico, percorso di collegamento all’impianto Monterosa Ski 19. Proposte progettuali: nuova stazione ed ostello 20. Proposte progettuali: nuova stazione ed ostello 21. Proposte progettuali: nuova scuola e centro civico

Abstract_ Città-Sesia: usi di città e comunità nella Media e Alta Valle. Proposte Progettuali per i comuni di Varallo e Alagna Valsesia

Con il progetto di Città-Sesia si propone una metafora di “uso di città” in cui diversi aspetti insediativi sono coordinati da un’unica strategia. L’analisi è stata lo strumento che ha permesso di mettere in luce problematicità e risorse della Valle. Dal quadro generale costituito emerge una frammentarietà dei caratteri che nel tempo hanno contribuito alla formazione identitaria e culturale della Valsesia. Le proposte progettuali si inseriscono nelle trasformazioni dei processi insediativi e urbani al fine di creare una nuova coerenza a livello locale e territoriale, che ha come scopi e modalità quelli della qualità e della durata. Il nuovo paradigma di sostenibilità inaugura un modo di vivere e risiedere in una valle in cui si incontrano e interagiscono diverse utenze e usi. La ricerca progettuale prevede l’ipotesi di tracciato e di esercizio di una nuova linea ferroviaria lungo il fiume Sesia da ad Alagna, in prosecuzione a quella esistente tra e Varallo. La linea offrirebbe una nuova prospettiva di accessibilità e fruizione del paesaggio valsesiano che si integra con le realtà urbane esistenti, sia per le utilità di trasporto interno alla valle che per i collegamenti con quelle laterali e per nuove categorie di utenti e gruppi sociali legati al turismo ed alla residenzialità. Nell’ottica di uno sviluppo sostenibile i progetti nei comuni di Varallo e Alagna prevedono lo studio del rapporto tra nuova residenzialità e la sua capacità di attrazione di nuove famiglie, nuovi gruppi sociali e nuove attività di carattere produttivo e di servizi. Le proposte progettuali per Varallo consistono nella creazione di nuovi servizi per l’accoglienza e per la comunità, la riqualificazione di un ex edificio industriale in hotel e spa, il progetto di una scuola per l’infanzia e la definizione di un nuovo assetto urbano e residenziale; per Alagna si è indagato sul tema dell’accessibilità, dell’ospitalità e dei servizi con le proposte di una stazione, di un ostello e della nuova scuola - centro civico.

Tesi_ Città-Sesia: usi di città e comunità nella Media e Alta Valle Proposte Progettuali per i comuni di Varallo e Alagna Valsesia

1. LA VALSESIA NEL CONTESTO ALPINO

1.1. Confini regionali e nazionali: la localizzazione della valle La Valsesia è una valle alpina situata nella parte meridionale delle Alpi occidentali. Il suo territorio si estende dalle colline di e Romagnano Sesia fino alle pendici del , nella parte meridionale della catena alpina.

La valle prende il proprio nome dal fiume Sesia che dal Monte Rosa, luogo in cui nasce, percorre trasversalmente la valle principale: la Val Grande. Da questa, si aprono numerose valli laterali, che prendono il nome dai rispettivi torrenti: sul lato sinistro orografico si hanno la Val Mastallone e la Val Sermenza. Sul lato destro la Val Sorba, la Valle Artogna, la Val Vogna e la Val d’Otro. All’altezza di Borgosesia si estende la Valle Sessera.

La Valsesia, benché faccia parte della provincia di , comprende anche tre comuni della provincia di Novara: Romagnano Sesia, Prato Sesia e Grignasco. Alagna, alle pendici del Monte Rosa, è l’unico della provincia a confinare con un altro stato, la Svizzera.

L’unico collegamento esterno alla valle si ha presso Romagnano, con l’autostrada dei laghi A26. La statale SS299, che attraversa l’intera valle costeggiando il Sesia, si interrompe ad Alagna senza possibilità di valico. Altre strade minori permettono il raggiungimento di tutti i comuni valsesiani.

La ferrovia collega Novara con Varallo, capoluogo di importanza culturale, artistica, e sede della zona industriale più sviluppata della parte nord della provincia di Vercelli.

Di recente realizzazione, dove fino al 2010 vi era solo una strada sterrata percorribile solo d’estate, è il collegamento funiviario tra la Valle del Lys, in Valle d’Aosta, e il valico dei Salati a quota 3000 m slm.

1.2. La geomorfologia della Valsesia

1.2.1 La catena alpina e il processo di orogenesi Circa 60 milioni di anni fa, in seguito all’apertura dell’oceano Atlantico e alla conseguente deriva del continente Africano, la violenta collisione tra la placca africana e quella europea ha portato alla formazione della Alpi. Il processo di orogenesi ha causato la chiusura dell’oceano interposto tra i due continenti che, per un fenomeno di subduzione, è scomparso al di sotto del margine africano. Nel 2009, ricercatori italiani e americani condotti rispettivamente dal Professor Sinigoi e dal geologo James Quick, hanno scoperto nelle Alpi occidentali, tra la valsesia e la Valsessera, la presenza di un supervulcano fossile unico nel suo genere. La scoperta, oltre a motivare la presenza di diversi tipi di rocce vulcaniche presenti da Gattinara a , spiega perché tali rocce appartengano a strati molto profondi della crosta terrestre –nella zona di Balmuccia vi sono peridoti di mantello che provengono dalle profondità della Terra.

Durante la fase di orogenesi, il supervulcano, situato sul bordo della piattaforma continentale africana, al momento dell’impatto con la piattaforma europea, si è ribaltato di 90 gradi. La collisione tra il continente africano e quello europeo ha provocato una piegatura della sezione crostale così che gli strati più profondi sono saliti in superficie. Le rocce ritrovate, mappate e catalogate dagli scienziati, dimostrano che il cratere del supervulcano sia ora in prossimità di Prato Sesia mentre le radici si trovano a Balmuccia. Tale fenomeno ha permesso a ricercatori e scienziati di studiare strati molto profondi della crosta terrestre e parti del sistema magmatico di alimentazione del vulcano, in genere inaccessibili: ciò che in origine si trovava a 25 km di profondità è visibile alla quota di calpestio. La linea del canavese -segnata in rosso sulle carte- indica il punto di contatto tra i due continenti e separa rocce con diversi tipi di traslazione delle falde, a seconda della placca terrestre a cui appartenevano al momento dello scontro: vi sono falde traslate verso NO (vergenza europea) e altre con vergenza meridionale (di origine africana). Collocato nell’area tra Varallo e Borgosesia, il supervulcano fu attivo circa 290 milioni di anni fa, dando luogo a eruzioni in grado di oscurare l’atmosfera e alterare il clima globale. Nel momento in cui il supervulcano è stato interessato nel processo di orogenesi, aveva interrotto la sua attività dopo alcuni milioni di anni di funzionamento. Non più alimentato da magmi profondi, era collassato su se stesso, formando una caldera – cioè uno sprofondamento di circa quindici chilometri di diametro. La scoperta del supervulcano valsesiano, anche se ormai inattivo, permette di rivoluzionare le conoscenze sulla struttura profonda dei vulcani in quanto consente di studiare direttamente i processi che avvengono nel sistema di alimentazione, a profondità di chilometri all’interno della crosta terrestre. La scoperta ha inoltre importanti ripercussioni sugli studi atti a definire il comportamento di vulcani in attività e, quindi, sulla capacità da parte della comunità scientifica di interpretare correttamente i segni che questi inviano: sia in termini di definizione dello stato attuale di attività sia in previsione di eventuali eruzioni.

1.2.2. Lo scioglimento dei ghiacciai e la formazione della valle Le principali fasi di strutturazione della catena alpina terminarono intorno a 10 milioni di anni fa. Circa 4 milioni di anni fa lo sbocco della Valsesia -presso la confluenza con il torrente Sessera- era lambito dal mare. I corsi d’acqua formavano grandi delta in prossimità dei quali si depositavano spesse coltri di sedimenti. Circa 1,7 milioni di anni fa ebbe inizio un’era di instabilità climatica con il succedersi di periodi glaciali e interglaciali. La Valsesia, insieme a tutta l’area alpina, fu interessata da diverse avanzate di ghiacciai durante tutto il Pleistocene (1,7 milioni – 10000 milioni di anni fa). Le lingue glaciali, dalle valli confluenti si univano a quella della valle principale formando, così, un unico “fiume”di ghiaccio che arrivò a interessare, durante la sua massima fase espansiva, la zona in cui oggi sorge Borgosesia. Tra 14000 e 1000 anni fa il ritiro del ghiacciaio valsesiano creò condizioni che innescarono fenomeni di collasso o di crollo di grandi porzioni di territorio. Il successivo sollevamento tettonico di tutta l’area alpina determinò una regressione marina con una progressiva migrazione della linea di costa verso SE. Il territorio, dapprima ambiente lagunare si trasformò, con l’accumulo dei detriti trasportati dai corsi d’acqua, in pianura alluvionale. I carichi sedimentari, costituiti da ghiaie grossolane, formarono in prossimità dei delta dei fiumi un ventaglio di terra con un leggero stato di pendenza.

I corsi d’acqua, alimentati dalla fusione dei ghiacci, trasportano verso il fondo della valle grandi quantità di materiale detritico (depositi fluvioglaciali), dando origine a conoidi alluvionali di raccordo delle valli tributarie con quella principale.

1.3. Risorse naturali, antropizzazione: cultura materiale e tecnica Lungo l’arco alpino si sono sviluppati nei secoli diverse tipologie di villaggio e per ognuna è possibile studiarne il suo ecosistema.

Fino agli anni 60 sono state accentuare troppo le somiglianze tra le diverse aree di montagna comportando che le varie aree fossero spogliate delle loro peculiarità rendendo l’arco alpino e il suo studio antropologico un unico sistema. Questo pensiero però negli ultimi 50 anni è stato radicalmente modificato anche se i caratteri fondamentali che li contraddistinguono sono le caratteristiche climatiche e fisiche.

La caratteristica principale dell’habitat montano è naturalmente l’altitudine che esercita una forte influenza su fattori quali climatici quali la pressione la composizione dell’aria, la radiazione solare, la circolazione dei venti, l’evaporazione, l’umidità, le precipitazioni e soprattutto la temperatura

Se pensassimo una sezione traversale dell’arco alpino potremmo vedere un susseguirsi di diverse zone climatiche e le vegetazioni che le caratterizzano

– i viaggiatori che hanno attraversato regioni di montagna amano raccontare come la loro ascesa inizi tra lo splendore di una vegetazione tropicale per attraversare nella zona delle latifoglie sempreverdi per passare nei boschi di conifere fino ad arrivare alle nevi perenni –

Infatti possiamo riconoscere diverse zone climatiche e per ognuna di esse le caratteristiche naturali che permettevano un utilizzo quasi totale del territorio per il mantenimento delle popolazioni:

- la zona collinare fino a 500m dove solitamente troviamo la coltivazione della vite e la maggior concentrazione di prodotti agricoli

- la zona montana tra 800 e 1500m dove troviamo i grandi boschi che venivano utilizzati per la produzione della legna

- la zona dei pascoli tra i 1600 e 2500m dove venivano portati i capi bestiame durante la stagione primaverile ed estiva

- la zona delle nevi perenni dai 2700m in su

Queste zone solitamente dividono anche trasversalmente la valle in alta e bassa valle infatti le prime due zone appartengono all’economia della bassa valle mentre il pascolo è la caratteristica principale dell’alta.

Questi infatti sono elementi che storicamente hanno costituito l’esistenza di principali contrasti tra l’alta e la bassa valle infatti la maggior permanenza della neve sul terreno per l’alta valle ( anche 6 mesi l’anno) modificava i tempi di raccolta rispetto alla bassa valle e la loro possibilità di coltivazione era soprattutto legata ai cereali quali segale e orzo e impediva loro di poter coltivare la vite e i boschi di castagne che sono stati per secoli la base della dieta delle popolazioni della basse valle.

In queste aree marginali la pastorizia era l’elemento principale della loro economia. I sistemi agropastorali alpini erano divise in due zone: i pascoli a più alte quote e campi e prati nelle vicinanze dei villaggi

I pascoli erano caratterizzati da una presenza puntuale sul territorio di diversi alpeggi che solitamente erano gestiti comunitariamente dal villaggio risparmiando così forza lavoro da lasciare nei campi. Anche qui troviamo un utilizzo del territorio che segue i diversi tipi di dislivelli e di clima infatti nella tarda primavera il bestiame cominciava a salire facendo delle “tappe” fino ad arrivare nei pascoli più alti alla fine di luglio quando si erano sciolte tutte le nevi. Negli alpeggi solitamente restavano in funzione per 3-4 mesi l’anno e se era possibile al loro interno si iniziava la lavorazione del primo formaggio.

I campi creati vicino al villaggio solitamente avevano una forte tendenza alla parcellizzazione del territorio questo per anni è stato criticato in diversi studi antropologici perché la dispersione comportava costi di trasporto eccessivamente elevati e che la loro piccola dimensione ostacolava l’utilizzo di macchinari ma approfondendo si è rivelata una risposta razionale ed ecologicamente vincente sugli habitat montani perche permetteva una maggior varietà di colture e diminuiva il rischio di fallimento totale dei raccolti.

1.3.1 Il villaggio nel sistema alpino

Le alpi dagli inizi del 900 sono state un ottimo terreno sul quale studiare l’evoluzione della società perché erano zone dove si erano conservate antiche tradizioni: di lingua, di costume e di religione. Gli studi che principalmente venivano svolti erano su come l’ambiente influisce sul sistema socio- strutturale della comunità e sul provare a definire le caratteristiche distintive dell’area alpina. Questo focalizzarsi di elementi comuni nel sistema alpino uniformando le risposte e non permettevano però di approfondire le diversità linguistiche, etniche e religiose che caratterizzavano il laboratorio alpino. Il fatto che attraverso queste montagne siano passate alcune delle grandi frontiere culturali dell’Europa permettendo l’incontro tra la cultura mediterranea e le culture transalpine .

Questa ha permesso lo studio della coesistenza di diversi gruppi etnici in una stessa valle alpina. Questa coesistenza è cominciata nel medioevo attraverso la migrazione di alcune popolazioni provenienti dal nord Europa sull’arco alpino. Il caso che poi approfondiremo e che più ci coinvolge è il caso della popolazione Walser migrata dalla Germania intorno all’anno mille e stanziatasi in diversi punti dell’arco alpino.

Queste situazioni di contatto ha permesso di scoprire paesi molto vicini fra loro ma completamente diversi come metodo di insediamento; la differenza sostanziale era la discendenza o tedesca o italiana questo comportava un confine linguistico e culturale.

I paesi di origine germanica seguono uno schema che un passo di tacito spiega come i germani non disponevano i villaggi secondo l’uso romano, con edifici adiacenti e connessi tra loro ma abitavano separati l’uno dall’altro , << sparsi qua e là dovunque dove una sorgente un campo o un bosco li avesse attirati>> lasciando spazio aperto intorno alla loro proprietà. Questo paesaggio lo ritroviamo nelle valli colonizzate dalla popolazione Walser dove ritroviamo ancora lo schema fondativo di piccoli gruppi familiari che vivevano isolati circondati dai loro campi mentre i villaggi di origine latina seguono lo schema della compattezza delle edificazioni che si estende fino alla fine del villaggio che è poi circondato dai campi. Queste due caratteristiche le ritroviamo in moltissime valli alpine e era un'altra differenza tra la bassa e l’alta valle ed il passaggio improvviso da insediamenti accentrati a insediamenti sparsi è un indicazione di un confine etnico.

I due schemi insediativi ci aiutano anche a ricostruire l’organizzazione familiare e il metodo di ereditarietà che avevamo in quei villaggi: nei villaggi di origine germanica solitamente il sistema familiare era a ceppo cioè quando un contadino moriva o si ritirava uno dei figli prendeva possesso del terreno e questo gli permetteva di sposarsi e assumere la direzione delle proprietà di famiglia. I fratelli e le sorelle dell’erede non potevano sposarsi quindi restavano loro due possibilità o restare a vivere nella casa di famiglia e lavorare gratuitamente per il fratello o migrare e recidere i legami con la famiglia di origine. Questo è il sistema di impartibilità dove il padrone esercita un’autorità sovrana su moglie e figli e fratelli finche non è costretto a cedere la sua proprietà all’erede che prosegue allo stesso modo con la generazione successiva.

Nei paesi di origine latina solitamente non esiste questo sistema di impartibilità e il sistema ereditario assegna gli stessi diritti a maschi e femmine, questo permetteva un rapporto di equilibrio tra i due coniugi. Questo sistema ereditario però creava un frazionamento costante delle proprietà all’interno del paese arrivando ad avere diversi componenti della famiglia separati per il paese ognuno proprietario del suo appartamento. Questo frazionamento solitamente però non lo ritroviamo nel terreno agricolo perché la parcellizzazione di esso comprometterebbe il valore economico di esso minacciando il delicato rapporto tra pascolo e terreno agricolo.

Questi studi erano molto facili da seguire prima della fine della seconda guerra mondiale. Lo studio delle comunità contadine europee fu compromesso dalla guerra perché aveva agito come elemento catalizzatore di mutamenti economici e sociali e che importanti innovazioni stavano prendendo piede nelle comunità di montagna.

1.3.2. Il villaggio studio attraverso un ecositema

Nelle alpi un particolare insieme di regole comunitarie appare specialmente degno di nota sono el norme che hanno governato l’accesso ai pascoli estivi.

L’uso degli alpeggi erano riservati ai membri della comunità ma nonostante questo il rischio di uno sfruttamento eccessivo del territorio aveva fatto nascere la necessità di limitare l’uso dei pascoli; infatti innumerevoli statuti contenevano una clausola che proibiva al proprietario di caricare il pascolo più animali di quanti ne potesse mantenere durante l’inverno.

Foin usa il temine Alpiwirtschaft per indicare un sistema economico sociale e spaziale unitario, che consiste fondamentalmente di due tipi di suolo produttivo (terra coltivabile e pascolo) e dei due tipi corrispondenti di insediamento (il villaggio in fondo alla valle e l’alpeggio) ma ma egli tarccia una distinzione molto più netta tra Alpiwirtschaft e altri sistemi di sfruttamento quali l’agricoltura sedentaria, il nomadismo e la transumanza, sottolineando che la caratteristica distintiva dell’ Alpiwirtschaft sta nel fatto che gli animali durante l’iverno devono essere custoditi nelle stalle.

Questo ci fa capire che stiamo studiando un sistema chiuso che si basa sulla sua capacità di produrre una quantità di cibo sufficiente per se (cereali) e per il bestiame (fieno) con uno spazio limitato per la creazioni di campi.

Dagli anni 60 si sta studiando il concetto di ecosistema attraverso il quale capire la stretta analisi tra popolazioni umane, istituzioni sociali e ambiente naturale.

I modelli ecologici-culturali studiati su popolazioni di montagna hanno però un limite non è considerata la variabile demografica come un elemento fondamentale per la vita nel villaggio.

Esistono infatti diverse strategie ecologiche l’espansione l’intensificazione e la regolarizzazione.

La regolarizzazione è un metodo che spesso ritroviamo nelle comunità di montagna perché l’impossibilità di espandere il territorio impone un limite sull’espansione della popolazione. Ostacolare l’immigrazione favorire o frenare l’emigrazione ridurre la nuzialità sono caratteristiche comuni nei paesi dell’arco alpino. Attraverso lo studio del sistema ereditario si possono capire la struttura delle relazioni di parentela e le regole di trasmissione che le governavano. Nelle alpi era solito trovare sistemi che impedivano la divisione dei terreni.

2. GEOMORFOLOGIA E TRADIZIONI CULTURALI

2.1. Gli insediamenti Walser Le dinamiche del popolamento

I Walser, dal tedesco Walliser , cioè vallesano, abitante del canton Vallese, sono una popolazione di origine germanica (forse Alemanni, ma più probabilmente Sassoni) migrata dal Nord Europa e giunta attorno all'VIII nell'altoVallese; durante il XIII secolo, coloni walser provenienti dall'alto Vallese si stabilirono in diverse località dell'arco alpino: in Italia, Svizzera e Austria.

Per una conoscenza approfondita dell'habitat rurale di quel tipo di insediamento umano cioè, legato ad un'economia che trova la sua principale forma di sussistenza nell'agricoltura e nella pastorizia, sono di grande interesse gli spostamenti di popolazioni per la conquista di nuove terre.

Sulle origini dell'insediamento umano di lingua tedesca Walser sul versante italiano alle pendici meridionali e orientali del Monte Rosa , sono state formulate ipotesi storico-critiche assai differenti e anche storicamente datate.

Come scrisse, nel 1891 il Giordani: “...non si può ritenere che per formare questa guardia tedesca intorno alla regina delle Alpi, i vallesani tedeschi occupassero prima i pascoli elevati, come pastori nobili, durante l'estate; e poi col tempo fossero qui fermati definitivamente, o volontariamente o col consenso dei signori del paese, ecclesiastici o laici, o costretti da questi; portando con essi loro linguaggio, costumi e religioni” 1.

In Italia comunità Walser sono presenti in Piemonte: alta Valsesia e nell'Ossola; in Val d'Aosta: nella valle del Lys e nell'alta val d'Ayas. L'emigrazione del XIII secolo, sulle cui motivazioni gli studiosi non hanno ancora raggiunto una spiegazione unanime e condivisa, avvenne probabilmente per una serie di cause concomitanti:

• Il sovrappopolamento delle terre dell'Alto Vallese, che spinse i coloni Walser alla ricerca di nuovi pascoli per il loro bestiame e di terre incolte da sfruttare.

• Le condizioni climatiche particolarmente favorevoli (periodo medioevale caldo), che resero possibile la sopravvivenza anche a quote elevate: i ghiacciai si erano ritirati e molti valichi alpini erano percorribili per gran parte dell'anno.

• Gli incentivi offerti ai coloni walser da parte dei proprietari terrieri (nelle zone piemontese e valdostana soprattutto i conti di Biandrate e alcune grandi istituzioni monastiche) delle terre da colonizzare, che favorirono la creazione di nuovi insediamenti con la promessa di libertà personali e di un favorevole trattamento fiscale.

Il popolamento Walser va quindi studiato come fenomeno particolare di quel grandioso processo di allargamento dell'habitat umano in epoca medioevale, che nel movimento di coltura delle terre incolte conquista anche tutte le terre marginali e di alta quota.

1 Giovanni Giordani,in La colonia tedesca di Alagna Valsesia, Torino, cit pp.22 La cultura walser nel territorio valsesiano

La collocazione e il rapporto reciproco dei centri abitati, le forme, le tipologie edilizie e il loro divenire tecnologie costruttive , sono intrecciati alla storia del modo di produzione dominante, ossia all'organizzazione del lavoro e dei rapporti di produzione che legano tra loro gli uomini insediati in quel territorio con i proprietari dei terreni.

In questa prospettiva sociale il territorio entrava come bene comune, organizzato gerarchicamente in aderenza a ragioni funzionali legate principalmente alle attività agricole o pastorali.

Ben poco sappiamo della struttura fisica del primitivo habitat Walser in Valsesia , i resti materiali del XIII secolo non sono pervenuti, ma possiamo ipotizzare l'assetto territoriale che fu fin dall'inizio correlato ad un organizzazione del lavoro di una comunità retta da relativa autonomia di decisioni.

I primi contatti importanti dei Walser con la Valsesia avvengono attorno al 1530, in occasione della coltivazione intensiva delle miniere d'oro del Rosa intrapresa dalla famiglia Scarognini e poi continuata dai D'Adda, all'interno di un economia ormai tutta lombarda. Non si trattava di un rapporto paritetico, ma più duramente, dalla sovrapposizione di un nuovo modo di sfruttamento delle risorse. Dal Seicento in poi si consolida anche per i Walser l'istituto dell'emigrazione stagionale come valvola di sicurezza per la troppo labile economia locale. L'emigrazione si indirizzava prevalentemente in stati di lingua tedesca, solo successivamente anche in Francia e Spagna.

All'inizio del Settecento i nuclei abitativi si vanno precisando nel loro contesto formale e nella loro consistenza. Con la ripresa demografica l'economia agricola registra un decollo notevole, un ulteriore fenomeno legato all'industria estrattiva che con rinnovato vigore potenzia anche in Valsesia lo sfruttamento del suolo. Fu quindi lungo il Settecento ,in un quadro alquanto complesso basato su di un economia mista, dove troviamo la massima espansione demografica che porta i nuclei abitativi a quella consistenza edilizia che ancora oggi, a meno degli interventi recenti , riconosciamo come caratterizzante.

L'architettura e la trama insediativa

L'aderenza stretta tra “funzione” e “prodotto edilizio” appare uno degli elementi più significativi della produzione costruttiva Walser. Nel processo costruttivo appare importante la divisione dei compiti e, nel cantiere, di rilievo sono le fasi di lavorazione successive e specializzate.

Per l'analisi del tipo edilizio ci focalizzeremo prevalentemente sul caso alagnese, motivati dalla forte e ricca presenza di tali esempi.

“La casa rurale di Alagna tipologicamente racchiude sotto un unico tetto l'abitazione, la stalla, il fienile. Mentre altrove è facile distinguere gli edifici o le parti di edificio ad uso rustico dei locali di abitazione umana, qui tutte le funzioni sono accentrate nello nello stesso corpo e composte in architettura unitaria” 2.

Il carattere architettonico peculiare della casa Walser è dato dall'ampio loggiato ( Schotf ) che la circonda diventandone parte integrante. Proprio nel loggiato emerge la cultura e l'intelligenza di questo popolo, tutt'altro che arretrate ; infatti la maestria e la modularità che compare nell'intera costruzione evidenzia il raggiungimento di un preciso risultato estetico oltre che funzionale.

2 Ariando Daverio, in Alagna Valsesia, una comunità Walser, Valsesia Editrice, cit. pp. 195 Per la distribuzione degli ambienti interni, sia in pianta sia in sezione, rivela un'attenta valutazione nelle scelte per la difesa, la sopravvivenza nel lungo e la dura condizione climatica del rigido inverno.

Queste strutture sono un esempio tangibile della saggezza storica nell'arte del costruire che viene inoltre rivelata dall'utilizzo dei materiali e dalle loro ricche suggestioni cromatiche (il larice nelle travi, l'abete nei tavolati, il terriccio e il muschio di tamponamento) e dalla scelta di disporre elementi portati e portanti con esattezza statica.

Per quanto concerne la distribuzione spaziale, al piano terra troviamo la stalla, la cucina e il salotto, sopra le camere da letto e nel sotto-tetto il fienile.

Per ultimo si scorge un'analisi sul territorio, sul rapporto che queste comunità dimostrano verso il paesaggio, le sue ricchezze e le sue aspre mancanze. A questo va aggiunto un ulteriore carattere proprio di Alagna ,il vivere stretto in comunità.

La disposizione degli insediamenti vede crescere insieme diverse abitazioni ravvicinate tra loro e non sparse come elementi puntuali. Si crea cosi uno stretto rapporto fisico tre gli edifici, che riducono la larghezza dei viottoli interni all'aggregato, fino a formare dei percorsi difesi dalla neve dalle larghe sporgenze delle coperture. Ne deriva uno spazio di relazione ( i cui fulcri sono la piazzetta, la fontana, il forno) risolto con tecniche costruttive e materiali analoghi a quelli del basamento delle case.

Questa interpretazione dell'architettura è confermata dalle testimonianze sulle condizioni di parità sociale all'interno del villaggio; ” tutti si aiutavano a vicenda e c'era unione, rispetto reciproco, collaborazione e armonia “...”la sopravvivenza in condizioni ambientali severe poteva essere garantita solo da un tipo di organizzazione socio-economica capace di sviluppare un forte senso del collettivo”.3

Concludendo possiamo soffermarci sul rapporto tra insediamento e terreno coltivabile, che era stato un tempo sostegno strutturale della vita della comunità antica e che ritroviamo oggi fisicamente, se non funzionalmente, ancora integro; esso costituisce ancora una componente eccezionale dell'ambiente costruito e va considerato come elemento verso un nuovo riequilibrio territoriale.

Oggi ci troviamo infatti in un periodo di trasformazione e sconvolgimento degli antichi ordini economici gestionali e insediativi, in cui i Walser rappresentano un enorme patrimonio da salvaguardare.

Ecco che il recupero fisico delle abitazioni Walser avrà un senso soltanto se integrato con quello del contesto ambientale che ne è elemento complementare e indistinguibile.

3 Elio Bertolina Giovanni Bettini, Case rurali e territorio in Valtellina e Valchiavenna , Sondrio, cit. pp.19 2.2. Il sistema dei Sacri Monti nell’arco Alpino

“ I Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia sono gruppi di cappelle disposte su un’altura, ricchi all’interno di opere di scultura e pittura, realizzati tra la fine del XV e la fine del XVII secolo e dedicati agli aspetti della fede cristiana. Oltre al loro significato religioso- simbolico, sono di grande bellezza grazie all’abile integrazione degli elementi architettonici nei paesaggi naturali circostanti di colline, foreste e laghi” (Relazione conclusiva “ Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia” Lista Patrimonio mondiale dei Beni culturali dell’UNESCO, 3 luglio 2003). Il 30 giugno 2003, l’Unesco ha inserito nella lista del Patrimonio Mondiale un nuovo sito denominato “I Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia” che comprende i complessi del:

- Sacro Monte di (1486) Vercelli - Sacro Monte di Crea (1589) Alessandria - Sacro Monte di Orta San Giulio (1590) Novara - Sacro Monte del Rosario di Varese (1598) Varese - Sacro Monte di Oropa (1617) Biella - Sacro Monte di Ossuccio (1635) Como - Sacro Monte di Ghiffa (1591) Verbania - Sacro Monte di Domodossola (1657 Verbania - Sacro Monte di Valperga (1712) Torino

Un Sacro Monte è un sistema di cappelle di piccole dimensioni disposte lungo un percorso definito. I piccoli edifici, internamente affrescati, ospitano statue a grandezza naturale che riproducono fatti tratti dalla Bibbia, dai Vangeli o narrano vicende della vita di Santi a cui la popolazione è devota. Un Sacro Monte è un esempio di utilizzo delle arti figurative per evangelizzare l’uomo attraverso un cammino di ascesa al Paradiso mediante un percorso di sacrificio e fatica. Come tutta l’arte figurativa conservata nelle chiese, anche il pellegrinaggio al Sacro Monte era un importante momento di istruzione attraverso una forma di catechismo visivo. Tali complessi, posti in prossimità di laghi, al limite di valli solcate da fiumi e percorse dalle vecchie importanti vie di comunicazione, sono collocati in punti dove la presenza del paesaggio diventa un elemento dominante nel percorso del pellegrino. Grazie alla posizione panoramica strategica dei complessi –soprattutto durante la Controriforma- i Sacri Monti avevano un ruolo importante: definire e segnare i confini del territorio cristiano che simbolicamente proteggevano. Nel Medio Evo, il pellegrinaggio era un aspetto importante della religiosità. Le grandi mete dei pellegrini erano tre: Santiago de Compostela, Roma e Gerusalemme. In seguito all’indebolimento dell’influenza occidentale in Oriente e al prevalere della potenza turca, il pellegrinaggio in Terra Santa divenne un’esperienza pericolosa e non più praticabile dalle masse di fedeli. Fu così che, per mantenere vivo il senso della peregrinatio , furono introdotte le cosiddette pratiche sostitutive per avere l’indulgenza, acquistabile altrimenti solo in Terra Santa. Per tutto il 1400 il pellegrinaggio verso un luogo particolare – quale ad esempio un santuario- divenne un modo per sostituire il pellegrinaggio a Gerusalemme. Alcuni frati dell’Ordine dei Minori di San Francesco, presenti in Terra Santa tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500 e tornati in patria, vollero ricostruire –rispettando nella costruzione anche la fedeltà topografica con gli originali- i Luoghi Santi di Palestina. Nacquero così la Nuova Gerusalemme di Varallo Sesia in Piemonte, ad opera di padre Bernardino Caimi e la Nuova Gerusalemme di Montaione in Toscana, ad opera di padre Tommaso da Firenze. Entrambe le realizzazioni, diedero vita pellegrinaggi ideali in Terra Santa, non rischiosi e accessibili alle masse di pellegrini. In accesa Controriforma, nel periodo che seguì il Concilio di Trento, furono creati nel territorio delle Alpi e Prealpi Nord-Occidentali, sotto la guida di San Carlo Borromeo (1538-1584) e dei vescovi delle diocesi, una serie di percorsi devozionali definiti Sacri Monti. Abbandonati gli originari intendimenti della corrispondenza topografica propria della Nuova Gerusalemme, si sostituì un intento educativo cronologico e narrativo. Sulla base di questi rinnovati obiettivi, venne modificato il primigenio insediamento di Varallo Sesia e furono fondati i Sacri Monti tardo-cinquecenteschi di Crea e di Orta. All’inizio del 1600 prese forma quello di Varese e nei decenni successivi quelli di Oropa, Ossuccio, Domodossola, Ghiffa e Belmonte. Per edificare i nuovi complessi religiosi venivano scelti luoghi che già possedevano una valenza devozionale, quale un santuario, o tramandavano una memoria di ancor più antico culto pagano, ed erano in tal caso riconvertiti. I temi narrati in ogni singolo complesso risentono delle preesistenze devozionali proprie del luogo e del particolare momento religioso e culturale all’epoca della fondazione. A Varallo prevale la vita di Gesù Cristo, a Orta di San Francesco d’Assisi, a Oropa della Vergine Maria, mentre a Varese e a Ossuccio è la preghiera mariana del Rosario che viene visualizzata nei quindici Misteri. Nell’intento di ripercorrere con Cristo le tappe della sua Passione, a modello della Via Dolorosa percorsa da Gesù a Gerusalemme, il Sacro Monte di Crea si trasforma e vengono fondati i Sacri Monti Calvario di Domodossola e di Belmonte. A Ghiffa la devozione della Santissima Trinità risulterà difficile e astratta da raccontare e nella realizzazione parziale si ritornerà a tema più consueti e immediati, come quello della Via Crucis.

Nei Sacri Monti l’insieme delle architetture stabilisce dei particolari rapporti sia con l’elemento vegetale al suo interno sia con l’ambiente circostante, e conferisce a ogni complesso una sorta di unicità paesaggistica, tipica e riconoscibile. La morfologia e la situazione ambientale dei vari siti prealpini hanno determinato, nel corso del tempo e nelle diverse fasi costruttive, le forme delle nuove composizioni paesaggistiche le quali, nell’odierna concezione di tutela di questo patrimonio, sono considerate importanti al pari delle altre sue valenze storiche, artistiche e architettoniche. I contenuti della predicazione francescana alla base della fondazione dei Sacri Monti traevano ispirazione dagli aspetti più semplici, quasi eremitici, degli ambienti naturali, come tramite per avvicinare l’uomo al mistero della Creazione. Il significato primordiale del bosco diventava valore simbolico e mezzo efficace per rappresentare un mondo spirituale idealmente separato dal mondo terreno. Successivamente, con il modificarsi dei temi religiosi sviluppati dalle scene plastiche e pittoriche all’interno delle cappelle -per seguire le indicazioni controriformiste- si ebbero maggiori trasformazioni nei luoghi prescelti per la costruzione dei Sacri Monti: anche la loro vegetazione originaria assunse forme più articolate. L’aspetto boscoso, caratterizza tutte le pendici dei Sacri Monti e, poiché questi si contrappongono all’ambiente esterno, vi è sempre un preciso rapporto visuale fra il bosco e i bei paesaggi dell’arco prealpino nel quale essi si trovano. La montagna, il lago, il vigneto e i terrazzamenti coltivati, sono a loro volta in stretto rapporto o contrapposizione con l’ambiente urbano sottostante Nei modelli paesaggistici più semplici, Belmonte, Domodossola, Crea e Ghiffa, l’elemento vegetale si aggrega attorno al percorso devozionale, affidando alla naturalezza del bosco il ruolo di integrare le architetture con l’ambiente circostante. A Crea, il bosco che circonda tutte le cappelle ha anche una particolare importanza botanica, essendo formato da un antichissimo residuo di vegetazione naturale, oggi quasi scomparsa ovunque in quella zona, a causa della secolare trasformazione del paesaggio per la coltivazione della vite. Nel Sacro Monte di Varese, invece, le forme costruite prevalgono nettamente sul verde che è assai limitato all’interno del complesso dove il percorso assorbe, con l’enfasi monumentale della sua dimensione, tutto lo spazio sacro, consentendo quasi ovunque la vista verso l’esterno, sul bosco e sul lago sottostanti. Anche a Ossucccio il percorso delle cappelle ha uno spazio preponderante sul disegno complessivo del verde, che manifesta interamente il suo carattere rustico con i muretti in pietra a secco formanti dei terrazzamenti affacciati sul lago di Como un tempo coltivati con ulivi e vigneti. Le condizioni ambientali dell’alta zona montuosa dove è stato edificato il Sacro Monte di Oropa non hanno favorito alcuna modificazione dei luoghi e della vegetazione locale che si alterna, con boschi formati da maestosi esemplari di faggi e abeti, alle superfici erbose dei pascoli. La semplice quinta di conifere separanti visivamente il Sacro Monte dall’adiacente Santuario è stata l’unica concessione a una progettualità ambientale che, altrove, ha raggiunto dei livelli talvolta molto sofisticati. Nei Sacri Monti di Varallo e di Orta, infatti, le forme assunte dalla struttura botanica, sono finalizzate al sostegno di un progetto paesaggistico che pare chiedere anche all’elemento vegetale -così come al percorso, all’architettura, ai dipinti e alle statue- di contribuire alla narrazione del tema religioso proposto all’interno delle cappelle. Siepi, topiarie, aiuole, allineamenti di alberi strategicamente spaziati guidano il pellegrino lungo il percorso sacro e accompagnano il suo sguardo verso la meta, quasi a non volergli permettere distrazioni profane sul paesaggio circostante. A Varallo, la città ideale dell’Alessi, il disegno del verde raggiunge livelli di complicata fattura simili a quelli che si possono trovare nelle piazze e nelle vie urbane, mentre il Sacro Monte di San Francesco ad Orta assume le forme di un giardino, ritmato da siepi e contrappuntato da grandi alberi, che stabiliscono un rapporto dimensionale con le cappelle tutto a favore dell’elemento vegetale, come a sostenere i temi cari alla predicazione del Santo che vedeva l’incommensurabile bellezza divina anche nella natura. Le cappelle che compongono il complesso sistema edilizio dei Sacri Monti sono generalmente costituite da un edificio centrale, a pianta quadrata, circolare o poligonale. Alcune hanno un pronao o un piccolo portico anteriore, altre sono caratterizzate da un portico perimetrale aggiunto in seguito per favorire il riparo del pellegrino e la sosta in prossimità della scena devozionale. L’espressione formale dell’architettura nasce per emulazione dei modelli tardo rinascimentali dell’opera alessiana di Varallo e si diversifica da un luogo all’altro per disegno e dettagli costruttivi propri della tradizione del luogo. In ogni Sacro Monte l’ideazione complessiva dell’opera fu attuata con l’intervento di molti artisti che lavorarono sotto la guida dei padri fondatori delle comunità locali e dell’autorità ecclesiastica. Mentre il progetto del Sacro Monte di Varallo si completa e si trasforma nell’arco di due secoli con l’apporto di diversi grandi maestri, tra i quali il Tabacchetti, il Prestinari, il Morazzone, Giovanni ed Antonio d’Enrico detto il Tanzio. Gli altri Sacri Monti seguono una strada costruttiva relativamente più breve e, per questo, la loro edificazione può essere ricordata per l’attività di alcuni artisti più significativi che ebbero un ruolo di preminenza rispetto ad altri, minori o complementari. Tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento, la costruzione di altri Sacri Monti contribuì alla formazione di maestranze specializzate e botteghe di artisti che si spostavano da un cantiere all’altro. Ancora oggi tutti i Sacri Monti e i loro Santuari sono meta di pellegrinaggi individuali o in gruppo da ogni comunità religiosa delle rispettive diocesi e spesso i motivi all’origine di ogni pellegrinaggio sono testimoniati dalla grandissima quantità di ex-voto qui raccolti. In alcuni casi permangono anche delle tradizioni molto antiche, come quella verso il Sacro Monte di Varese, dove ogni anno, dal 1604, giunge un pellegrinaggio da Malnate per rievocare il luogo e l’anno della prima predicazione finalizzata alla costruzione della Via delle Cappelle. L’antico pellegrinaggio fra il Sacro Monte di Orta verso quello di Varallo, attraverso il lago e poi il passo della Colma, è stato recentemente riproposto e riscuote annualmente un grande successo di partecipazione, così come quello storico che, ogni cinque anni, porta la comunità religiosa di Fontainemore in Valle d’Aosta a raggiungere, attraverso un impervio percorso in montagna, il Santuario di Oropa.

Oltre ai nove complessi riconosciuti dall’Unesco Patrimonio Mondiale, sono presenti in tutto l’arco alpino e pre-alpino del nord Italia altri Sacri Monti: Nella regione Piemonte: - Sacro Monte di San Carlo di Arona (Novara) - 1614 - Sacro Monte della Beata Vergine di Loreto di Graglia (Biella) - 1615 - Sacro Monte del Santuario di Santa Maria delle Grazie o di Sant’Anna di Montrigone a Borgosesia (Vercelli) - 1630 - Sacro Monte del Santuario di San Giovanni Battista in Valle d’Andorno (Biella) - 1738 - Sacro Monte del Santuario dei Piloni di Montà d’Alba (Cuneo) - 1775 Nella regione Lombardia: - Sacro Monte della Scala di Cerveno (Brescia) - 1752 Nella regione Veneto: - Sacro Monte delle Sette Chiesette di Monselice (Padova) - 1605 Nella regione Toscana: - Sacro Monte o Nuova Gerusalemme di San Vivaldo di Montaione (Firenze) – 1513

2.3. Tradizione artistica e culturale La storia e l’evoluzione del territorio e della cultura della Valsesia devono il loro sviluppo anche alle vicende legate alla diffusione della religione nella valle. Le tracce della fede sono molto profonde in questa valle sia sotto il profilo artistico, sia sotto quello della presenza delle istituzioni ecclesiastiche. La presenza di vari ordini religiosi non ha contribuito soltanto allo sviluppo della produzione artistica, ma anche ad un fenomeno di antropizzazione dal basso della valle, dovuto in parte all’estensione dei poteri feudali ecclesiastici (monasteri) e di quelli vescovili (diocesi di Novara e Vercelli).

Dal XVI sotto la guida della Diocesi di Novara si assiste in Valsesia allo sviluppo di una fiorente produzione artistica, inserita all’interno di una politica più complessa. In questo periodo il Vescovo è Carlo Bescapè (vescovo di Novara dal 1593 al 1615), che sulle orme del vescovo milanese Carlo Borromeo, inizia una politica di lotta alla riforma protestante, attraverso l’incremento della produzione artistica e l’incentivazione del carattere pedagogico di tali riproduzioni, con la promozione dei sacri monti. In Valsesia, con la realizzazione del Sacro Monte a Varallo prima, e in seguito con quello di Sant’Anna nella zona di Borgosesia e con la nascita dei percorsi dell’arte intorno a e ad altre località sia in bassa sia in alta valle, si assiste a un incremento notevole della produzione artistica e alla formazione di un gran numero di botteghe e artigiani specializzati, che costituiscono tutt’oggi motivo di vanto per la comunità, data l’alta richiesta anche al di fuori della comunità montana. All’interno di questi percorsi immagini, pitture e sculture, ricordavano ai fedeli l’episodio della vita di Cristo che vi aveva avuto luogo, consentendogli così di meditare e di pregare. La presenza di immagini conferma i forti legami di questi progetti con le tecniche di predicazione francescana. I libri di meditazione diffusi nel Quattrocento raccomandavano spesso al fedele di provare ad immaginare le scene narrate dalle Scritture e di popolarle di personaggi tratti dal mondo reale per pregare con maggiore facilità. I francescani Minori erano inoltre ottimi predicatori, raccontavano gli avvenimenti della vita di Gesù soffermandosi sui particolari di fatti e luoghi e arricchendo la narrazione con un forte coinvolgimento emotivo. I francescani si servivano delle immagini per aiutare il fedele ad immaginare meglio le scene raccontate. E’ infatti diffusa nelle chiese dell’Osservanza francescana di area lombarda di tardo Quattrocento la presenza di una parete dipinta con le scene della vita di Cristo, posta tra la navata e il coro, che aiutava il predicatore durante la narrazione. Ne è un esempio la parete decorata da (datata 1513), presente nella chiesa della Madonna delle Grazie a Varallo. Una funzione simile doveva avere il Sacro Monte, uno strumento per consentire al pellegrino di compiere l’esperienza spirituale entrando fisicamente nei luoghi dove aveva vissuto Cristo e rivivendo con lui le tappe della sua vita raccontate dalle immagini poste nelle cappelle.

Artigianato e arti minori

«Abita questa terra un popolo modello che ha innato il senso dell'arte e nutre un profondo, nostalgico affetto per la sua Valle. Il Valsesiano è anzitutto un popolo di artisti. Ha sparso per il mondo una folla di pittori, gessatori, scagliolisti, falegnami in grande stile; ha popolato il suo Sacro Monte, le Chiese e Cappellette della sua Valle di Tesori invidiati; ha dato alle sue donne un costume ricco e invidiato quanto mai» 4.

4 In: Don Luigi Ravelli, “Guida della Valsesia” Scriveva così la penna felice di don Luigi Ravelli, storico insigne della Valsesia, disegnando un quadro reale di una valle che ha distillato nel tempo una miriade di produzioni di grande artigianato d’arte. Prodotti ed oggetti un tempo di uso quotidiano, oggi diventati eccellenze produttive che contribuiscono a far conoscere la Valsesia in tutto il mondo.

Di tali attività se ne contano parecchie in tutta la valle, come, ad esempio, il tradizionale puncetto, un pizzo ad ago tipico della Valsesia. Il nome viene dal diminutivo della voce dialettale "punc" che vuol dire "punto" da cui "piccolo punto". Particolarmente adatto ad ornare tessuti quindi usato come bordo per tovagliette, centrini, fazzoletti ma soprattutto in passato ha arricchito paramenti sacri e tradizionali costumi locali. Caratterizzato dalla geometricità dei suoi schemi e dalla bellezza delle sue simmetrie costituisce un vero e proprio emblema della Valsesia, una forma di artigianato che ha toccato i vertici dell’arte. Alcuni storici dicono che sia giunto nel territorio valsesiano come retaggio delle contaminazioni con la cultura araba, durante l'invasione avvenuta nel 900 dopo Cristo. L'ipotesi è plausibile, ma non accertata. Resta il mistero di un’arte che le Valligiane di un tempo, donne prive di cultura, abituate ai duri lavori della vita quotidiana, hanno saputo tramandare con amore, grazia, gentilezza e semplicità, senza rendersi conto che ciò che stavano tessendo con mani rozze e stanche dalla fatica. Non era solo il modo per arrotondare il magro bilancio familiare o di passare le serate dei lunghi inverni, ma era qualcosa di più. Se ne resero conto solo quando nel lontano 1800 fu scoperto dalla Regina Margherita di Savoia, durante una delle sue visite nell'amata Valsesia. Il puncetto ha avuto il suo momento di gloria presso la "noblesse" della capitale grazie anche all'interessamento della nobildonna varallese marchesa D'Adda Prinetti Salvaterra che lo introdusse a corte, dove le dame più illustri fecero a gara per sfoggiare i pizzi più belli. Oggi il puncetto, la cui arte, grazia ed eleganza la si può vedere esposta nella “mostra permanente del puncetto” a , ha varcato le soglie di queste baite ed è giunto ad impreziosire le dimore riuscendo ancora una volta a fare innamorare le donne più emancipate, tanto da portarle a frequentare i corsi che la Comunità Montana Valsesia ha organizzato su tutto il territorio Valsesiano. Qui s'impara a conoscere i metodi più consoni ed a creare fantasiosi motivi e, con il metodo dell'insegnamento su disegno, lo si può rendere più personale e quindi più pregiato. Si da anche la possibilità di presentare il lavoro ad una commissione composta da maestre puncettaie che, presolo in visione, lo giudicheranno e, se meritevole, gli assegneranno il certificato di garanzia, che ne garantirà l'autenticità e la perfezione.

Altro settore che per antonomasia rappresenta la tipicità dell’artigianato valsesiano è quello del marmo finto, tipica attività esercitata dai vecchi abitanti di Rima (val Sermenza). Fu questa una forma artigianale che procurò ai rimesi grandi ricchezze ed onori presso le Corti di tutta Europa, e non solo. Marmi artificiali se ne sono sempre fatti ma il sistema usato dai rimesi dava risultati eccezionali, capaci di ingannare i maggiori esperti in materia. Semplificando va detto che si preparava un impasto di cemento bianco al quale si aggiungeva un colore di base, nelle spaccature formatesi, riempite con dei colori simili alle venature del marmo che si voleva imitare. L'amalgama così ottenuta veniva quindi applicata sulla superficie da ricoprire. La si lasciava aderire al muro quindi si procedeva alla lisciatura della superficie prima con una cazzuola e poi con sette diverse pietre, man mano sempre più dure. Il risultato ottenuto era di stupefacente bellezza.

Intere famiglie rimesi, in un arco di tempo che va dal 1830 al 1963 circa hanno lavorato in parecchi stati europei ed extraeuropei: Germania, Romania, Russia, Norvegia, Svezia, Ungheria, Romania, Russia, Paesi Balcanici, Francia, Algeria e Marocco. Il progresso tecnologico ha inevitabilmente soppiantato quella preziosa tecnica non più competitiva, sul piano economico. Parlare di marmo finto oggi ha quindi in primo luogo un significato "conservativo", col fine di tutelare il patrimonio artistico locale. E inoltre ha un secondo significato, quello di non permettere il totale abbandono della tecnica. Un'altra attività tipica di artigianato è quella della lavorazione del legno. La valle è sempre stata ricca di folti boschi; il legno quindi, era materiale facile da reperire ed a basso costo, conosciuto ed usato sin dai tempi più remoti e di fondamentale uso primario per ogni attività artigiana ed artistica. Nell'architettura valligiana fu insostituibile sia per la casa che per la Chiesa. Nelle Chiese, il legno veniva usato per i ricchissimi ed imponenti altari scolpiti, ma non solo. Oltre a queste opere monumentali, l'abilità degli artigiani valsesiani ha dotato le chiese della valle anche di arredi lignei minori ma come tali non di minor pregio; infatti in essi troviamo l'espressione più autentica della capacità di intagliatori ed ebanisti unici nel loro genere (inferriate e statue lignee). Nelle case il legno trionfa specie nelle tipiche costruzioni Walser dell'alta valle, interamente costruite in legno; in quelle signorili si trovano porte scolpite, mobili (oggi quasi introvabili), veri e propri tesori d'arte come crocifissi, cassepanche, credenze, letti, inginocchiatoi, sedie, eseguite con estrema semplicità ed eleganza. Oggi molti artigiani, oltre alle innovazioni “meccaniche”, seguono ancora tecniche tradizionali, e le produzioni vanno dalla scultura all’intaglio, dal restauro all’ebanistica, dalla tornitura alla liuteria o all’impagliatura. Dalle abili mani nascono o tornano a nuova vita opere ricercando l’armonia fra tradizione, nelle tecniche o nei disegni, ed esigenze moderne.

Un altro caratteristico prodotto di artigianato locale è lo scapin. La tradizione vuole che la tipica pantofola valsesiana (denominata "scapin" o "scufun" a seconda delle zone), nasca insieme ai primi insediamenti Walser nelle valli valsesiane. Certamente è stato creato dalla necessità delle popolazioni alpine che dovevano sopravvivere in un ambiente duro, dove ogni singolo oggetto o materiale veniva possibilmente riciclato. Così dai ritagli degli indumenti ormai logori, la creatività e l'esigenza fecero si che potesse nascere una calzatura economica ma calda e robustissima resa ancora più resistente dalla lavorazione della suola "intralata" con canapa che veniva coltivata appositamente per la tela e per gli "scapin". Le tecniche di lavorazione erano e sono rimaste due: la prima sfrutta l'ausilio di forme in legno ed ha la cucitura esterna, mentre la seconda non usa le forme ed ha la cucitura interna. Calzatura semplice ed umile ma anche sana, calda, comoda e resistente, lo "scapin" si fa amare per questo e nulla è cambiato nella sua lavorazione completamente manuale; solo i tessuti, chiaramente, sono nuovi, spesso pregiati e di diverso tipo, come: panno, velluto, alpaca, cachemire o tessuti con disegni etnici.

Altre attività artigianali praticate in Valsesia, meno diffuse ma altrettanto importanti e significative sono: la lavorazione della pietra ollare, che come il legno veniva una volta utilizzata per la produzione di vasellame e stoviglie; oggi prende forme innovative e fantasiose come ciondoli, giocattoli, casette. Questo materiale si può trovare in Valsesia nelle cave ormai dimesse, come la zona di Stofful, sopra Alagna. Sono un paio di persone che a Varallo e ad Alagna portano avanti questa opera.

E poi ancora il vetro, dal quale nascono pezzi unici di ogni genere: da piccoli oggetti come piatti, posacenere, incensiere, bracciali, ciondoli, a prestigiosi paralumi, a stupende vetrate artistiche.

Il ferro battuto che spesso trasforma semplici ringhiere o cancellate in vere opere d’arte. L’attuale ed avanzato polo industriale che opera a livello mondiale nel comparto delle minuterie metalliche e delle valvole civili ed industriali, affonda le sue radici nell’antica tradizione della fusione in bronzo delle campane, lavorate con l’aggiunta di piccole percentuali d’oro e argento per ottenere suoni di differenti tonalità. Il primo documento che testimonia tale attività risale al 1500; il mestiere, rimasto totalmente manuale, si è protratto sino a due anni fa, quando a anche l’ultimo laboratorio , la Fonderia di Bronzi e Campane Mazzola ha cessato l’attività. Storiche le campane di Valduggia delle Chiese di San Giorgio e Santa Maria Assunta .

La costruzione ed il restauro di strumenti musicali ha solide basi nel nostro territorio; a Borgosesia e Varallo operano esperti liutai. Nonostante le tante difficoltà durante e dopo la guerra, gli artigiani con caparbietà hanno superato la crisi e oggi si sono affermati sui mercati esteri: Francia, Germania, Portogallo e Brasile.

Queste dunque le principali forme di “arte minore” esercitate in tutta la valle che, pur senza dare dei capolavori, creano tuttavia oggetti di forma bella, contenuto originale e uso piacevole, anche se talora di umile destinazione. Esse si distinguono da altre attività, simili solo in apparenza, di tipo manifatturiero, in quanto, pur ispirandosi a canoni estetici legati alla tradizione, lasciano largo spazio alla creatività individuale, all’invenzione e alla fantasia, consentendo così il compiacimento dell’artigiano per la sua opera, rinnovabile in forme diverse per ogni singola realizzazione. L’artigiano- artista può esprimere se stesso nella sua opera. Per questo le attività artigianali permettono il rispetto dell’individualità.

Artisti e arti figurative

La Valsesia è quindi connotata storicamente dalla presenza di maestranze artistiche di altissimo livello che, tra XV e XIX secolo, individuano nell'arte una risorsa di vita e di lavoro, dando lustro in Italia e all' estero al nome della propria terra. Nel corso dell’800, il valore dell’artigianato viene riconosciuto anche grazie all’istituzione di diversi enti. Nel 1778 Varallo Sesia diventa infatti uno dei centri culturali e di formazione di maggiore rilievo del Piemonte in seguito alla fondazione della Scuola di Disegno nella quale insegnano numerosi artisti operanti soprattutto nel cantiere del Sacro Monte: pittori, architetti e scultori che intervengono anche per restaurare le opere dei loro predecessori. Nel 1831 viene poi fondata la Società di Incoraggiamento allo Studio del Disegno che sostiene, anche economicamente, lo sviluppo della Scuola e acquista i locali ad essa limitrofi che costituiscono il nucleo più antico dell’attuale Palazzo dei Musei. Ben presto la società amplia il proprio campo di interesse a tutto il patrimonio artistico del territorio attraverso un’attenta attività di documentazione, conservazione e valorizzazione dei beni culturali. A tale scopo nel 1835 la Società prende in gestione la Scuola – Laboratorio Barolo per l’insegnamento dell’intaglio ligneo, attività tradizionale che da sempre contraddistingue la produzione artistica della valle. Nel 1859 viene fondata la Società Operaia di Mutuo Soccorso, ancora oggi impegnata in prima linea nella tutela e nella valorizzazione dell’artigianato tipico valsesiano. La SOMS gestisce la Bottega dell’Artigianato, punto vendita dei prodotti locali, che ha sede a Varallo, garantisce l’autenticità dei manufatti e fa sì che le antiche tecniche, tra cui puncetto, scapin valsesiano, intaglio del legno, terracotta, pirografia vengano tramandate, attraverso l’organizzazione di corsi. La Società di Incoraggiamento, che gestisce dal 1866 anche il Museo di Storia Naturale “Pietro Calderini” , riceve ripetute donazioni di oggetti d’arte e si fa sempre più urgente il problema della gestione e conservazione del materiale artistico accumulato. A questo scopo viene fondata nel 1875 la Società di Conservazione delle Opere d’Arte e dei Monumenti in Valsesia impegnata nel creare una Pinacoteca che vedrà la luce solo nel 1885 in seguito alla Mostra Artistica Valsesiana allestita in occasione delle celebrazioni dedicate a Gaudenzio Ferrari. A due chilometri dall’abitato di Valduggia, sorge Zuccaro, dove, nella graziosa cornice di Casa Negri , ha sede l’Associazione Ecomuseo della Bassa Valsesia “Colli di Seso” che si propone di recuperare il patrimonio materiale e culturale della tradizione tramite azioni di restauro, interventi di recupero e creazione di percorsi ecomuseali e naturalistici sul territorio. L’Associazione organizza regolarmente corsi per l’apprendimento delle antiche tecniche pittoriche parietali avvalendosi delle materie prime usate all’epoca come la tempera all’uovo e i pigmenti naturali nonché corsi di vetrate a piombo e costruzione di meridiane. Grazie ad un accordo con la popolazione del paese, più di 70 case sono oggi affrescate con i lavori degli allievi di Casa Negri e costituiscono un vero e proprio percorso artistico di interesse turistico. I documenti artistici più antichi del territorio valsesiano risalgono al massimo al XV secolo e sono rappresentati da affreschi e frammenti di fregi scolpiti. Però poco di tutto ciò è purtroppo giunto sino a noi. Si pensa che la maturazione espressiva di artisti locali non abbia avuto origini remote e che invece abbia coinciso con i contatti esterni legati ai fenomeni di emigrazione che ebbero largo sviluppo nei secoli XVI e XVII. La lenta evoluzione del gusto e della tecnica dipesero certamente dalla condizione di isolamento della regione e per le stesse ragioni si spiega come l’evoluzione dello stile espressivo abbia avuto tempi di sviluppo e di maturazione piuttosto lunghi. Inoltre in alta Valsesia l’arte fu sempre un evento essenzialmente popolare, voluto e realizzato da gente del luogo, mentre in altre località (con amministrazioni di tipo feudale) l’arte era voluta e sostenuta da pochi potenti che gareggiavano tra l’oro nell’ospitare artisti esterni di talento. Nel primo caso dunque l’arte fu spontanea espressione della gente, nel secondo fu imposta come modello culturale.

Notevole importanza nella diffusione della pittura e in generale delle arti figurative ebbe l’evento della costruzione del Sacro Monte di Varallo che costituì infatti un centro eccezionale di formazione artistica a cui fecero capo più o meno tutti gli artisti valsesiani di quel tempo, i quali rappresentarono la base di una vera e propria “accademia” locale di arte figurativa. Centro propulsore per l’arte in Valsesia, il grande cantiere del Sacro Monte di Varallo, avviato alla fine del XV secolo dall’idea del frate francescano dei Minori Osservanti Bernardino Caimi , maturata nell’animo durante la sua dimora in Terra Santa dove fu custode del Santo Sepolcro, di creare una Nuova Gerusalemme sul monte dominante Varallo per riprodurre i luoghi santi di Gerusalemme, luoghi che ricordano i momenti caratteristici della permanenza di Gesù in terra (Grotta di Betlemme, Casa di Nazareth, Cenacolo, Calvario, Santo Sepolcro), non più raggiungibili dai pellegrinaggi a causa della caduta di Costantinopoli sotto la dominazione dell’impero Ottomano. Fra Bernardino Caimi iniziò il suo lavoro nel 1486 e ne curò l’attuazione finché visse (1499). Tra i maggiori artisti che parteciparono alla realizzazione di quest’opera c’è Gaudenzio Ferrari (Valduggia 1475/80 - Milano 1546). Valsesiano di origine, pittore, scultore e anche architetto, era un artista colto, formatosi in ambiente lombardo nella bottega degli Scotto, attiva anche a Varallo, ove lasciò la decorazione a fresco della cappellina a destra del coro nella chiesa della Madonna delle Grazie e della cappella del Sepolcro della Vergine, al Sacro Monte (c. 45). Gaudenzio, il cui intervento è stato riconosciuto negli angeli musicanti della cappella del “Sepolcro della Vergine” (c.45), i cui affreschi sono oggi conservati nella Pinacoteca di Varallo, sentì, nel primo Cinquecento la necessità di un viaggio in Italia centrale dove apprese le novità artistiche di Perugino, Signorelli, Filippino Lippi. Al ritorno decorò la cappella di santa Margherita nella chiesa francescana di Varallo (Santa Maria delle Grazie) ove è stata letta la data 1507. Attento anche alle novità apportate alla pittura ed alla teoria della pittura da Leonardo, con l’attenzione per i “moti dell’animo” e la distribuzione accorta e vibrante delle luci e delle ombre, Gaudenzio lavorò in questi anni, con ampio concorso di aiuti, alla decorazione a fresco della grande parete della Madonna delle Grazie di Varallo con i 21 riquadri della storia della vita di Cristo che concluse e firmò nel 1513. In anni vicini a questa data dovette realizzare anche la decorazione a fresco e le statue in terracotta delle cappelle della “Natività” (c.6), dell’ “Adorazione dei pastori” (c.7), nel complesso di Betlemme, nonché della cappella della “Spogliazione delle vesti” (c.40) (oggi detta “della Pietà”) al Sacro Monte e la tavola con le Stigmate di san Francesco, conservata presso la Pinacoteca di Varallo, ma proveniente anch’essa dal complesso religioso soprastante. Nei dipinti di questi anni, per i quali si hanno purtroppo poche date certe, si coglie una profonda maturazione dello stile dell’artista, che giunge a creare figure di una piena e nuova consapevole monumentalità: la lunetta dell’oratorio di Loreto, presso Roccapietra in Valsesia, il polittico per S. Gaudenzio a Novara (dal 1514 al 1521), e quello della collegiata di Varallo. Ma fu con l’allestimento della cappella della “Crocifissione” (c.38) che Gaudenzio lasciò una forte impronta di rinnovamento nel complesso varallese: la scena sacra all’interno delle cappelle assunse uno spazio sempre maggiore. Fu lui a far dialogare insieme i dipinti e le sculture, utilizzando le statue per raccontare la scena principale, e le pitture per continuare il racconto. Con uno stile apparentemente molto naturale, comprensibile a tutti, ma frutto di una cultura complessa, l’artista ha popolato le scene di personaggi tratti dalla vita di tutti i giorni: il gozzuto (figura molto diffusa nelle vallate alpine) che porge a Gesù la spugna imbevuta di acqua e aceto, la zingara coi suoi bambini e il cagnolino la nobildonna con la figlioletta, il valligiano, i soldati, l’anziano sdentato, e di tutte le età ed estrazioni sociali, come si vede nel dramma corale della Crocifissione (c.38) (1515- 1520 circa). In questo modo ha favorito l’immedesimazione e arricchito la narrazione. I personaggi sono definiti con estrema immediatezza, non solo nei tratti fisici, ma anche negli aspetti emotivi, mostrandone anche l’ umanità, i sentimenti, il dolore degli angeli in cielo per la morte di Cristo, lo svenimento della Madonna, lo stupore delle figure del corteo dei Magi quando vedono la cometa in cielo. Gaudenzio dimostra in questo la profondità della sua cultura informata dei modi di Leonardo che aveva teorizzato la necessità di esprimere anche i sentimenti e gli stati d’animo dei personaggi raffigurati. Con una singolare ed attenta regia Gaudenzio continuò il corteo sulle pareti, con figure coordinate con le statue, di analoga scala e proporzioni così da rendere l’illusione di una scena unica che dal vano tridimensionale della cappella continua sulle pareti. Questa tecnica narrativa resterà come modello per gli artisti che lavoreranno al Sacro Monte dopo di lui. Poco più tarda è la decorazione della cappella dell’ “Arrivo dei Magi” (c.5), ultimo lavoro al Sacro Monte dell’artista che si sposterà poi a Vercelli, Vigevano e a Milano ove saprà rinnovarsi ed aggiornarsi con intelligenza, mantenendo un altissimo livello di qualità guardando anche alle novità del gusto manierista che si diffondeva presso la corte spagnola.

Fra gli artisti attivi nel complesso del Sacro Monte, oltre al Gaudenzio e all’Alessi sono da ricordare anche Giovanni D’Enrico, Pier Francesco Mazzucchelli detto “il Morrazzone”, Antonio D’enrico detto “” Pier Francesco Gianoli, personaggi altrettanto importanti nella storia dell’arte valsesiana. Giovanni D’Enrico (Riale d’Alagna 1559 ca. - Borgosesia 1644), fratello del più noto pittore Antonio, detto il “Tanzio”, nacque in una famiglia di artisti attivi e documentati dal 1586 al Sacro Monte di Varallo per la realizzazione, grazie al finanziamento del duca di Savoia Carlo Emanuele I, della cappella della “Strage degli innocenti” (c.11). In questo importante cantiere operarono come capomastri e costruttori i fratelli Enrico, Giacomo e lo stesso più giovane Giovanni. La sua formazione artistica manca purtroppo di punti fermi documentari. Dopo l’intervento per la cappella della Strage (c.11) al Sacro Monte, si impegnò nel 1601 a costruire il coro della chiesa di san Martino a Roccapietra, località prossima a Varallo. Tra il 1609 e il 1614 con Bartolomeo Ravelli lavorò alla progettazione della nuova chiesa dell’Assunta al Sacro Monte e della piazza antistante, nonché del corridoio esterno alla cappella dell’ ”Arrivo dei Magi” (c.5). Anche per Giovanni, come per Tanzio, l’ipotesi più plausibile è che la sua prima formazione artistica sia maturata nell’ambito della bottega di famiglia e nel clima culturale del Sacro Monte. Come architetto non poté non essere condizionato dal grande repertorio del “Libro dei Misteri”; come plasticatore (artista che modella statue in terracotta) risentì delle molteplici esperienze che maturavano a quei tempi. Nel tardo Cinquecento al Monte operavano gli scultori Prestinari, provenienti dal prestigioso cantiere del Duomo di Milano, e altri artisti lombardi ancora non identificati (cappelle del “Secondo sogno di Giuseppe” (c.9), del “Battesimo di Cristo” (c.12) e della “Samaritana al pozzo” (c.14)) che esprimevano una raffinata cultura manierista da cui Giovanni non dovette essere distante ai tempi della sua iniziale attività; inoltre l’esperienza gaudenziana della studiata integrazione di pittura e scultura e di un naturalismo vero e toccante costituiva un riferimento ancora imprescindibile per gli artisti successivi. Probabilmente anche l’allestimento dello spettacolo concitato, drammatico e di evidente realismo della “Strage degli innocenti” (c.11) dovette colpirlo. Dal primo decennio del Seicento Giovanni appare il più importante referente della Fabbriceria (l’organismo laico che gestiva il cantiere del Monte) impegnato come architetto e statuario nell’eseguire i disposti del vescovo Bascapè per la riorganizzazione della parte alta del complesso e la realizzazione delle cappelle della Passione e dei relativi gruppi plastici. Operoso a fianco degli artisti attivi allora al Monte egli lasciò le sue opere più felici nelle cappelle che lo videro accostato al fratello Tanzio (“Cristo condotto la prima volta al Tribunale di Pilato” (c. 27), “Pilato si lava le mani” (c. 34), “Cristo al Tribunale di Erode” (c.28)) in cui l’integrazione di pittura e scultura raggiunsero livelli paragonabili solo ai modelli di Gaudenzio e in cui le sue figure si distinguono per la straordinaria efficacia narrativa ed il realismo di modi e sentimenti. Per quasi quarant’anni ebbe l’esclusiva della produzione plastica nel complesso varallese, plasmando statue per una ventina di cappelle grazie anche all’apporto di una organizzata.

Pier Francesco Mazzucchelli (Morazzone 1573 - Piacenza 1626), chiamato “il Morazzone” dal paese lombardo che gli diede i natali, si trasferì giovanissimo a Roma ove maturò la sua prima formazione artistica. Nel 1598 è di ritorno a Varese, ove dipinge la volta della cappella della chiesa di san Vittore. Del 1602 è il contratto per la decorazione pittorica della cappella della “Salita al Calvario” (c.36) del Sacro Monte di Varallo, la prima delle tre impegnative opere che è chiamato a realizzare in quel complesso, tutte ricadenti nel periodo dell’episcopato del vescovo Carlo Bascapè, vero regista delle scelte figurative che si compiono in quegli anni sul Monte. Bascapè vi voleva attivi artisti di qualità. Il contratto stipulato dall’artista per la decorazione della cappella della “Salita al Calvario” (c.36) indica le linee guida a cui egli dovrà improntare la sua opera: dovrà rispettare scrupolosamente le indicazioni iconografiche fornite dal vescovo Bascapè, operare perché la pittura sia il più possibile integrata con il gruppo plastico già realizzato per la cappella, così che essi raccontino insieme efficacemente lo stesso episodio della storia della vita di Cristo. Infine il paesaggio raffigurato sulle pareti e i personaggi messi in scena avrebbero dovuto prendere a modello la cappella della Crocifissione, allestita quasi un secolo prima da Gaudenzio Ferrari, per lo stretto legame narrativo fra l’episodio della Salita al Calvario e la Crocifissione, ma anche per la capacità di Gaudenzio di raffigurare figure e ambiente in modo vivo e naturale. Questa esperienza, l’immersione nel Sacro Monte gaudenziano, e il vincolo contrattuale che lo induce a studiare attentamente l’opera del maestro lombardo, portano ad una svolta sensibile nel suo percorso artistico che si arricchisce di una rinnovata attenzione ai modi del pieno rinascimento lombardo a cui si accosterà più tardi l’interesse e la conoscenza dei maggiori protagonisti del primo Seicento lombardo e dei manieristi veneti. Attivo tra Varese, Como, Milano, Novara, Pavia e l’entroterra lombardo e piemontese (lavora anche al Castello di Rivoli per il duca di Savoia) è altresì impegnato attivamente in alcuni dei Sacri Monti in costruzione in quegli anni, da Varallo a Varese (cappella della Flagellazione) e ad Orta (cappella della Porziuncola ). A Varallo, tra il 1609 e il 1616, realizza gli affreschi delle cappelle dell’Ecce Homo e della Condanna di Cristo.

Antonio D’Enrico detto “Tanzio da Varallo” (Riale di Alagna 1580 ca.- Varallo 1633) è nell’ambito della bottega di famiglia e nel clima culturale del Sacro Monte che maturò la sua prima formazione artistica, tra le ultime espressioni della tradizione tardogaudenziana (le decorazioni delle cappelle della “Visitazione” (c.3), e delle altre edificate dopo il “ Libro dei Misteri” di Galeazzo Alessi: il “Secondo sogno di Giuseppe” (c.9) e le cappelle seguenti, dal “Battesimo” (c.12) alla “Resurrezione di Lazzaro” (c.18)) e la proposta alla moda, elegantemente descrittiva che univa sapori nordici, aggiornati al manierismo lombardo, dei fratelli Fiamminghini impegnati nella cappella della “Strage degli innocenti” (c.11), mentre i modi della cultura tardomanierista d’oltralpe circolavano in Valsesia anche attraverso le stampe. Nel 1600 Tanzio, con il fratello Melchiorre, si reca a Roma in occasione del Giubileo per ottenere le indulgenze e guadagnarsi da vivere con il suo lavoro e la sua arte. La sua presenza in Italia centrale è documentata da opere lasciate tra l’Abruzzo e Napoli (da Pescocostanzo a Fara San Martino, a Napoli, a Colledimezzo) tra il 1610 e il 1614 circa, che denunciano l’inequivocabile contatto con i modi del tardomanierismo centroitaliano e con le dirompenti novità caravaggesche. Possibile tappa successiva del percorso del pittore è la pala con San Carlo che comunica gli appestati della collegiata di Domodossola (1615-1616), opera che non tutta la critica gli attribuisce con certezza. Primo intervento sicuro, al rientro dal soggiorno in Italia centrale, è la decorazione della cappella ove “Cristo è condotto per la prima volta davanti a Pilato” (c. 27) che il vescovo Taverna vede quasi ultimata nel settembre del 1617, al Sacro Monte di Varallo, ove il fratello Giovanni d'Enrico, plasticatore e architetto, aveva assunto dal primo decennio del secolo un ruolo di primissimo piano nella realizzazione dei gruppi statuari e nelle scelte urbanistiche. Avviate inizialmente con la collaborazione del fratello più anziano, Melchiorre ( i cui modi si riconoscono nella decorazione della parete di destra) queste pitture uniscono alle novità caravaggesche la conoscenza ravvicinata dei modi gaudenziani ed anche un occhio curioso alle recenti opere di Morazzone al Sacro Monte. Il gioco di integrazione fra pittura e scultura, certamente sorretto da complessi studi grafici, raggiunge qui vette di qualità elevatissima nel rapporto fra Tanzio e Giovanni, autore delle statue, vette che si ripetono nella successiva cappella dove “Pilato si lava le mani” (c. 34) caratterizzata da una galleria di figure dalle fisionomie più crude, veri e propri ritratti di gente comune, valligiani e montanari. Il percorso artistico di Tanzio continua nella diocesi di Novara tra Pallanza, Lumellogno, Borgomanero e la Valdossola, con una graduale assimilazione dei modi della contemporanea pittura milanese, dati questi che si leggono anche nella più tarda decorazione della cappella di “Cristo al tribunale di Erode” (c. 28) redatta quasi in parallelo alla impegnativa impresa della cappella dell’Angelo custode nella basilica di san Gaudenzio a Novara (1627). Risulta allora quasi inspiegabile come, nel periodo che intercorre tra i primi lavori al Monte e la prestigiosa allogazione di questi affreschi, le commesse, pur numerose, ricevute da Tanzio riguardino, in modo quasi esclusivo, parrocchie secondarie, disperse nei territori tra Piemonte e Lombardia. Ci sono anche i ritratti di gentildonne e di gentiluomini, eseguiti con un realismo ed una sensibilità psicologica (i due ritratti di Brera ed al Ritratto di gentiluomo con pugnale e copricapo in collezione privata) che li collocano tra la migliore ritrattistica del primo Seicento . Si tratta, verosimilmente di commesse che pervennero a Tanzio da rappresentanti dell'aristocrazia che avevano potuto ammirare i suoi lavori al Monte o che già lo avevano coinvolto nella realizzazione di quadri di soggetto sacro destinati a cappelle poste sotto il loro patronato. Per il resto, il catalogo di Tanzio si compone interamente di quadri devozionali destinati a pievi sperdute, in paesi che si fa fatica a trovare su una carta stradale. Nonostante fossero destinate a committenze di secondo piano, Tanzio profuse, per ciascuna di esse, un grande impegno, una accuratezza di esecuzione artigianale e un "pathos" narrativo che non conosce cali di tensione. Ci sono poi i quadri di soggetto religioso che, con ogni probabilità, erano anch'essi destinati a chiese minori, passati in seguito attraverso alienazioni o attraverso il mercato antiquario, e che ora si ammirano nella cornice più sofisticata di musei o di collezioni private. Tra di esse devono essere citate almeno i due “ Davide con la testa di Golia ” presenti nella pinacoteca di Varallo . Molto, a proposito di questi due ultimi quadri, è stato detto sulla "ambiguità" del personaggio biblico che vi è raffigurato, quasi che un ancora adolescente pastore valsesiano, con il volto arrossato dal vento che gli scompone i capelli, avesse prestato la sua testa al corpo atletico, scolpito nella sua muscolatura, all'eroico uccisore di Golia. Secondo Giovanni Testori si tratta di: « Opera altissima dove la rimeditazione del tema caravaggesco permette al pittore d'affondare nella demente dannazione del personaggio. Risalendo poi dal corpo che una materia acre evidenzia, muscolo per muscolo, come il corpo d'un animale, e giungendo al volto, una sorta di trasalimento par prendere il pittore, sì che un'inconscia gentilezza, riesce ancora su quel corpo, disperata, a fiorire. »

Pier Francesco Gianoli ( 1624 - Milano 1692) è un pittore di origine valsesiana ed uno dei più importanti protagonisti della cultura figurativa piemontese del secondo Seicento, in grado di coniugare la fedeltà alla tradizione locale con il coraggioso confronto con le novità della cultura barocca romana. Dopo una formazione in valle e nel capoluogo lombardo, sentì infatti la necessità di un viaggio di aggiornamento a Roma. Suo costante riferimento, e modello anche facilmente disponibile in loco, nella sua terra di origine, fu Tanzio da Varallo. Intorno al 1650 si recò a Roma, dove si aggiornò al classicismo pittorico del barocco romano. Nel 1654 è residente a Milano, ma probabilmente ritorna nello stesso anno stabilmente in Valsesia ove cerca di inserirsi nel prestigioso cantiere del Sacro Monte, in cui erano venute a mancare, per la scomparsa dei fratelli d’Enrico, figure di primo piano. L’anno successivo presenta infatti alla fabbrica del Sacro Monte alcune proposte per la decorazione della nuova cappella di sant’Anna (demolita negli anni Trenta del XX secolo) di cui termina gli affreschi nel 1656, mentre nel 1657 completa la decorazione della cappella ove “Cristo sale al Pretorio” (c.32). Più complessa è invece la vicenda relativa agli affreschi della cappella in cui “Cristo è condotto la seconda volta davanti a Pilato” (c.29) trascinatasi, probabilmente per difficoltà economiche della fabbrica, dal 1658, anno dell’incarico, alla conclusione avvenuta nel 1679, suggellata dalla firma e dalla data apposta dal pittore sotto il suo autoritratto dipinto sulla parete sinistra (oggi conservato in Pinacoteca di Varallo). Gianoli operò anche nel novarese (dipinse fra l’altro tre scene sacre per il Battistero di Novara) e in Valsesia da Campertogno a Borgosesia, a , a , e a Varallo ove lasciò diverse opere fra cui la serie di tele dedicate alla vita di san Gaudenzio, per la Collegiata. Tra il 1668 e il 1671 realizzò altre cinque grandi tele per la Confraternita varallese di santa Marta esposte in Pinacoteca a Varallo. Dipinse inoltre numerosi quadri da stanza e ritratti per committenti privati.

Tra l’Ottocento e il Novecento si consolidò la tradizione artistica attraverso un gruppo di artisti locali tra cui emerge la personalità di Pier Celestino Gilardi (Campertogno 1837 - Borgosesia 1905), attivo soprattutto a Campertogno. Pittore discendente da una famiglia di valenti scultori in legno, fu uno dei più ammirati pittori della Torino fine Ottocento. La formazione varallese sotto il Frigiolini e la tradizione familiare l’avviarono dapprima alla scultura ed all’intaglio in legno ed in avorio, in cui lasciò alcune opere come: una Madonna in cera, un Cristo in legno, un Putto dormiente, un Prigioniero, i busti lignei di Garibaldi e di Cavour e quello in avorio di Pio IX. Ma come il conterraneo Gianoli non fu contento fino a quando nel ‘60 poté frequentare l’Accademia Albertina dove ebbe per maestro Andrea Gastaldi. Vinta poi la "Pensione Caccia", poté completare gli studi per ben cinque anni, due a Firenze e tre a Roma; nel ‘70 gli fu assegnata da Quintino Sella la cattedra di disegno e plastica nelle scuole professionali di Biella; tre anni dopo venne chiamato dal Gastaldi come insegnante aggiunto all’Albertina; nell’83 ne fu nominato professore di disegno e nell’89 in fine, succedette al Gastaldi stesso nella cattedra di pittura. Iniziò la sua carriera con soggetti storici, molto di moda in quel momento; La morte di Andrea del Sarto del ‘63 fu il primo suo lavoro che lo rivelò al pubblico come fedele allievo del Gastaldi; seguì l’anno successivo Bruto aspetta l’ora della congiura di accademica severità, poi il Machiavelli in carcere. Intanto il suo gusto si andava orientando verso altri soggetti. Il nonno in pensieri del ‘66, l’Offerta del ‘68, Una partita alla morra, temi che denotano ormai la sua predilezione per i quadri di genere, in cui la sua arte trovò l’espressione più genuina, sorretta da una narrativa gustosa, ma soprattutto da una fine e piacevolissima arguzia; ed è con questi soggetti che egli conquistò e mantenne per tanti anni le simpatie del pubblico italiano ed estero in moltissime mostre nazionali ed internazionali. Scenette felicemente umoristiche; gustosi quadretti ; soggetti spiritosi o lievemente scanzonati non potevano far a meno di piacere ed interessare la borghesia di fine secolo; e l’elencazione potrebbe continuare con Al Kirie (Galleria d’Arte Moderna di Torino), Benedizione all’aria aperta, Gli architetti della parrocchia, tutti dell’80, Sbadataccio, pure alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, per giungere alle più note: Tra ferro e fuoco del 1891, Festa all’ospizio e Stampa curiosa. Gli attori poi che compaiono in questi quadri sono di preferenza frati e vecchi, studiati con profonda attenzione e fine psicologia. Due soggetti a parte si possono considerare il Remaiuolo e la Canzone di primavera della Pinacoteca di Varallo, due ampie tele ricche di colore e di vita, dove le figure s’inquadrano felicemente nel paesaggio d’un verismo più romantico e borghese, ma fortemente sentito. Assai notevoli sono pure i ritratti che il Gilardi eseguì in gran numero, anche se d’un verismo accentuato. Anche numerosi sono gli affreschi di soggetto sacro. Se ne conservano in Francia ed in Svizzera, a Reggio Emilia e nel camposanto di Milano; tra quelli eseguiti in Valsesia, nella collegiata di Borgosesia, a Campertogno, a Cravaliana, quelli un po’ leziosi nella Cappella di S. Giuseppe della basilica del Sacro Monte, lo sfondo della cappella della Sindone e particolarmente la Morte di S.Francesco sotto il portico della piazza maggiore del santuario, in cui i vecchi frati formano ora, non più un elemento di umana divagazione, ma di mistico e religioso raccoglimento.

Tra gli artisti operanti nella valle va ricordata anche la grande figura di Giacomo Calderini (Parma 1883 – Varallo 1949). Figlio del rettore dell’Università di Bologna, nativo di Varallo, coltivò i propri studi in disegno e pittura all’Accademia di Bologna dove si diplomò e nella quale in seguito ricoprì le mansioni di assistente. Il Calderini si afermò nelle vesti di ottimo ritrattista, contraddistinto da una grande perizia tecnica e con una naturale predisposizione per cogliere i vari caratteri. Conclusi gli studi, il desiderio di conoscere e studiare da vicino la natura lo spinse a soggiornare per un periodo nell’agro romano dove tracciò sulle tele impressioni chiare, sentite. Dopo aver prestato servizio militare nella prima guerra mondiale, decise di trasferirsi a Varallo, la terra dei suoi antenati, prediligendo in particolare il Sacro Monte. Fu quindi un personaggio legato al mito dell’artista solitario che vive esclusivamente per la propria arte. Dotato di squisita sensibilità artistica, attentissimo nella scoperta dell’attimo fuggente nella fluidità luminosa che conferisce vita e caratteristiche peculiari al paesaggio, ne coglieva le bellezze con grandissimo intuito, nel momento di più intima penetrazione del reale e le traduceva con insuperabile fedeltà e impareggiabile vivacità e senso del colore. Spietato nell’autocritica, dubbioso sulle proprie opere, si allontanò volontariamente dalle competizioni artistiche, rifiutandosi di esibire i propri lavori. Si chiuse così fra le pareti domestiche dedicandosi esclusivamente alle sue creazioni. Calderini lavorò instancabilmente per il resto della sua esistenza in quell’eremo che si era costruito alla Mantegna, diventato il suo microcosmo. Creava, correggeva e distruggeva, divorato dalla mania di raggiungere il capolavoro assoluto. Profondamente credente ha saputo trasfondere nelle proprie opere la Fede, facendosi cantore dello spirito religioso e della devozione popolare che da sempre contraddistingue la Valsesia.

In ultimo è significativo accostare Calderini ad un altro grande artista varallese, Lino Tosi (Varallo 1921 – Varallo 2005) pittore e scultore valsesiano caratterizzato da una personalità artistica profondamente complessa, da un animo tormentato e da un carattere solitario, ma permeato da un forte senso di umanità e da un’attrazione appassionata e struggente per la realtà, per la gente e per la sua terra. Nato a Varallo e cresciuto nelle osterie gestite dal padre, Tosi frequenta la Scuola di Disegno di Varallo sotto la guida dell’incisore bolognese Paolo Manaresi (Bologna, 1908-1991) che lo incoraggia a completare la sua formazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Appena iscritto Tosi viene chiamato alle armi; nel 1943 riesce a tornare in Valsesia entrando nelle file partigiane. L’esperienza della guerra segnò profondamente la sua esistenza condizionando fino alla fine gran parte della sua produzione artistica. Conclusa l’Accademia bolognese, Tosi torna a Varallo scegliendo di rifiutare le numerose occasioni di lavoro e allontanandosi dalla strada per la quale si prospettava un futuro di notorietà. Diventa insegnante alla Scuola di Disegno di Varallo, dedicandosi anima e corpo alla produzione e ricerca artistica. Negli anni ’60 acquista il terreno retrostante la Chiesa di San Pietro Martire, facendo emergere dai rovi l’antico chiostro che, divenuto la sua dimora, trasforma in un luogo unico, frutto dell’accatastamento onirico e archeologico di memorie, suggestioni, creatività.

2.3.1. Il Sacro Monte di Varallo

Nel 1478 il milanese Padre Bernardino Caimi, Francescano dell'Antica Osservanza, inviato come Commissario a Gerusalemme, costatando la gravità della minaccia turca per i pellegrini che si recavano in Terra Santa, matura l'idea, di riprodurre con particolare fedeltà in occidente i principali santuari della Palestina, creando quasi una 'Terra Santa in miniatura'. Nella ricerca del luogo più adatto per realizzare quest’opera, giunto a Varallo nel 1481, trova la terrazza di roccia che domina la città rispondente alle sue esigenze. Nel 1486 inizia le pratiche per ottenere i terreni dai maggiorenti varallesi per la realizzazione della chiesa di Santa Maria delle Grazie, da dove partirà il percorso che avrebbe portato i fedeli al complesso di cappelle del Sacro monte.

Le esigenze dei francescani che volevano riprodotta la Terra Santa, popolata di scene coinvolgenti e comunicative per aiutare il raccoglimento e la preghiera, trovarono risposta a partire dal primo Cinquecento nelle capacità narrative e comunicative del pittore, scultore e architetto Gaudenzio Ferrari 5. Gaudenzio diede un ruolo sempre maggiore alla scena sacra illustrata all’interno delle cappelle. Con uno stile molto naturale raccontò le scene del Vangelo popolandole di personaggi tratti dalla vita di tutti i giorni, dalla zingara con i suoi bambini, alla nobildonna, all’anziano. Fu proprio questa sua capacità di rendere in modo vero e naturale le scene sacre, mostrandole nella loro componente umana e di sentimenti, a farne un eccezionale interprete delle esigenze dei frati francescani, che volevano un racconto immediato e popolare in cui ogni fedele potesse immedesimarsi e ritrovarsi, ricco anche delle sfumature emotive e di quei dettagli di vita vera che rendevano la scena sacra ancora più credibile.

5Cfr: Alberto Bossi, “La Chiesa di Santa Maria delle Grazie e la grande Parete Gaudenziana di Varallo”, Borgosesia, 2006

Gaudenzio Ferrari (Valduggia 1475/80 - Milano 1546). Valsesiano di origine, pittore, scultore e anche architetto, era un artista colto, formatosi in ambiente lombardo nella bottega degli Scotto, attiva anche a Varallo, ove lasciò la decorazione a fresco della cappellina a destra del coro nella chiesa della Madonna delle Grazie e della cappella del Sepolcro della Vergine, al Sacro Monte. Nel tardo Cinquecento (1565-69 circa) il complesso fu radicalmente riprogettato ad opera dell’architetto perugino Galeazzo Alessi . Il suo progetto, riportato nel “Libro dei Misteri” conservato presso la Biblioteca Civica di Varallo, fu ostacolato dai frati perché travisava lo spirito del Sacro Monte delle origini e fu perciò realizzato solo in minima parte. Ne conseguirono dei forti contrasti fra i frati e la fabbriceria laica, rappresentata dalle famiglie nobili di Varallo, per il controllo economico e narrativo del Monte. A tali controversie fece da arbitro il vescovo Carlo Borromeo, presente a Varallo in più occasioni tra il 1571 e il 1584. Durante l’episcopato novarese di Carlo Bescapè 6, la fabbrica del Sacromonte riceve un forte impulso, intorno al 1600 infatti vengono realizzate le cappelle dei misteri della passione, la piazza dei tribunali e la chiesa. Tra gli artisti occupati nei lavori c'è la famiglia dei D’Enrico (tra i quali anche Tanzio da Varallo), e il Gianoli da Campertogno. Tutte le opere vengono riformate secondo i dettami dell’ultimo Concilio svoltosi a Trento tra il 1545 e il 1563. Carlo Bescapè infatti riprese le riflessioni avviate da san Carlo per una profonda riorganizzazione del complesso. Il Sacro Monte divenne in questa fase, il banco di prova di un esperimento di didattica religiosa, in linea con gli indirizzi emanati dal concilio che aveva ritenuto le immagini uno strumento importante per educare i fedeli (in massima parte analfabeti) alla vera fede. Il Sacro Monte si presenta oggi come una vera e propria ‘Città sacra ideale’, connotata da un inscindibile legame tra fede, arte e natura, fattore determinante il suo ingresso nel 2003 fra i beni dell’UNESCO. Emblematica la formula coniata da Giovanni Testori di “Gran teatro montano” , che definisce la forza comunicativa del Sacro Monte, in cui pittura, scultura e architettura coesistono in un contesto naturale unico raccontando al visitatore la storia della vita di Cristo. Si tratta di un complesso monumentale costituito da 45 cappelle, distribuite lungo un percorso che si dipana nel verde di una collina sopra l'abitato di Varallo, popolate da oltre 800 sculture a grandezza naturale coronate da affreschi (circa 4.000 figure).

2.3.2. La Pinacoteca di Varallo A seguito degli sviluppi artistici dei secoli XVI-XVII, Varallo acquista crescente importanza tanto da diventare la città più rappresentativa della Valsesia; addirittura nel 1778 diventa uno dei centri culturali e di formazione di maggiore rilievo del Piemonte grazie alla fondazione della Scuola di Disegno, nella quale insegnano numerosi artisti operanti nel cantiere del Sacro Monte: pittori, architetti e scultori che intervengono anche per restaurare le opere dei loro predecessori. Nel 1831 viene fondata la Società di Incoraggiamento allo Studio del Disegno; a tempi brevi la società amplia il proprio campo di interesse a tutto il patrimonio artistico del territorio attraverso un’attenta attività di documentazione, conservazione e valorizzazione dei beni culturali. A seguito dei maturati interessi per la produzione artistica tradizionale della Valle, la Società nel 1835 prende in gestione la Scuola – Laboratorio Barolo per l’insegnamento dell’intaglio ligneo. Nel 1875 viene fondata la Società di Conservazione delle Opere d’Arte e dei Monumenti in Valsesia impegnata nel creare una Pinacoteca che vedrà la luce nel 1885; dalla creazione ad oggi la Pinacoteca di Varallo sarà oggetto di numerose trasformazioni ed ampliamenti, fino al 1960 con il definitivo allestimento per l'esposizione della mostra su Tanzio da Varallo. Nel 1998 la Società di Incoraggiamento allo Studio del Disegno e la Società di Conservazione delle Opere d'Arte in Valsesia danno vita ad un unico Ente senza fini di lucro e di utilità sociale (ONLUS) . A partire dal 2002 sono stati portati a termine importanti interventi di restauro e creati nuovi percorsi espositivi: sono stati riallestiti il Salone dedicato a Tanzio da Varallo, la ex-chiesa di San Carlo (spazio dedicato alle esposizioni temporanee), nuove sale al piano terreno che ospitano una prestigiosa collezione di maioliche e le sale dedicate alla pittura e scultura del Rinascimento.

Oggi la Pinacoteca di Varallo si fa portatrice di quella cultura di conservazione e valorizzazione delle opere artistiche Valsesiane tipica dell'epoca contemporanea, indirizzata al cosiddetto turismo artistico.

6 Carlo Bescapè (Melegnano, 1550- Novara 1615) Vescovo di Novara dal 1593.

Nonostante la sua posizione e conformazione del territorio e le sue vicissitudini storiche che hanno determinato il formarsi di una forte coscienza diffusa di autogestione, nei secoli la Valsesia è riuscita a individuare e sviluppare quelle potenzialità del territorio che l'hanno portata all'estradare la propria cultura. Introducendo quindi il concetto di turismo artistico si vuol parlare di una specifica scelta d'intenti adottata dalla Valsesia, tuttora impegnata nella creazione di luoghi culturali idonei a trasmettere una cultura così prestigiosa ed importante per l'intero ambito nazionale.

Per questo, la conservazione, il recupero e la valorizzazione dei beni artistico-culturali diventano le finalità cardine per organizzare la società verso una promozione dell'intera valle, attraverso le quali tramandare la propria cultura tradizionale a livello più esteso e, soprattutto, indirizzare la Valle verso un processo di rivitalizzazione che la cala in un contesto contemporaneo a scala nazione ed internazionale.

2.3.2. Devozione e religiosità

La storia e l’evoluzione del territorio e della cultura della Valsesia devono il loro sviluppo anche alle vicende legate alla diffusione della religione nella valle. Le tracce della fede sono molto profonde in questa valle sia sotto il profilo artistico, sia sotto quello della presenza delle istituzioni ecclesiastiche. La presenza di vari ordini religiosi non ha contribuito soltanto allo sviluppo della produzione artistica, ma anche ad un fenomeno di antropizzazione dal basso della valle, dovuto in parte all’estensione dei poteri feudali ecclesiastici (monasteri) e di quelli vescovili (diocesi di Novara e Vercelli). La storia religiosa della valle è povera di dati rilevanti almeno fino al XIV secolo, anche se già poco dopo l’anno 1000 si registra nelle valli laterali del Sesia la presenza di conventi e abbazie. Nelle località di Otro, Artogna, Rassa e Boccioleto compaiono i primi insediamenti monastici afferenti all’Abbazia Benedettina di San Nazzaro e Celso. Il fenomeno dell’evangelizzazione in valle tuttavia viene registrato intorno al XII secolo, in seguito al passaggio sotto la Diocesi di Novara. La prima parrocchia è segnalata a Borgosesia nel 1151, mentre una delle parrocchie con il maggior raggio di influenza era quella di San Bartolomeo a Scopa che comprendeva anche le comunità di Alagna e . Alle nuove parrocchie valsesiane, si aggiungono alcuni monasteri di cui si trova testimonianza nei numerosi oratori e conventi eretti dal XIII secolo in avanti. Questa rilevante presenza di enti religiosi nella valle pone l’accento su quanto fosse importante il ruolo di queste istituzioni nella quotidianità delle comunità montane. I conventi e le parrocchie non si occupano solo della diffusione della fede, ma diventano anche punti di riferimento per quanto riguarda l’alfabetizzazione e l’istruzione degli abitanti, nonché luogo di insediamento di alcune attività economiche utili allo sviluppo della Valle. Un esempio interessante può essere quello della città di Varallo, il maggiore centro urbano della Valsesia, dove sono presenti l’ordine delle orsoline e delle delegazioni francescane e benedettine. Questi tre ordini si occupavano all’interno della comunità di Varallo della diffusione della religione, ma anche dell’istruzione, tenuta soprattutto dai due ordini monastici, e dello sviluppo economico, data la presenza di alcune attività produttive direttamente all’interno dei conventi. Ci sono testimonianze infatti della presenza a Varallo di un opificio gestito dalle suore Orsoline nel convento alle porte della città.

Tuttavia la presenza sul territorio di tanti ordini religiosi e la sempre presente volontà di autonomia dei comuni della valle dai potenti locali, che in questo periodo erano i Conti di Biandrate, la rendono terreno fertile nel XIV secolo per una delle lotte all’eresia sicuramente più note, citata direttamente nei versi dell’Inferno di Dante . La vicenda in questione è quella di Fra Dolcino da Novara e degli Apostolici, movimento religioso creato da Gherardino Segalello intorno alla seconda metà del 1200. Questo nuovo ordine si contrappose a quello francescano, e al potere della chiesa di Roma, dichiarando che il clero ormai corrotto, aveva tradito l’insegnamento di Cristo e seguendo nuove regole lontane da quelle definite dalla chiesa cattolica. Gli apostolici di Dolcino rifiutavano qualsiasi gerarchia e anelavano ad una rifondazione della Chiesa dal basso per recuperarla ad un piano puramente spirituale. Sostenevano la parità uomo-donna, la libertà sessuale, la venuta di una società più giusta ed egualitaria, e l’avvento di un nuovo papa santo espresso da un nuovo ordine di monaci, che avrebbe guidato una Chiesa priva di ricchezze e potere. Fra Dolcino stabilitosi inizialmente in Trentino, tornò in Valsesia, la sua terra natia, nel 1304, arrivando sotto la spinta delle truppe dei vescovi di Novara e Vercelli fino alla città di Campertogno. Sebbene avesse trovato numerosi alleati tra i locali, gelosi della propria autonomia e insofferenti verso la politica d’espansione dei Comuni e dei vescovi delle due diocesi piemontesi, non riuscì comunque a contrastare la “crociata” mossa dal Vescovo di Vercelli. L’avventura dolciniana termina nel 1307 sul Monte Rubello nel Biellese con un intervento armato e la morte al rogo di Dolcino e dei suoi più stretti seguaci. Contemporaneamente a queste vicende si assiste nella valle alla progressiva autonomia delle parrocchie, soprattutto nell’alta valle, e di conseguenza alla nascita di nuove parrocchie anche nelle comunità Walser. Questo processo ha inizio nel 1325 con il distacco dalla parrocchia di San Bartolomeo a Scopa delle comunità di Pietre Gemelle, dove viene fondata la Parrocchia di San Michele, che fu seguita poi da Alagna, Campertogno, fino ad arrivare nel XVI secolo al distaccamento di tutti i comuni della valle dalla chiesa di Scopa. Questi avvenimenti della storia religiosa della valle se da un lato rimarcano la volontà di autonomia delle comunità montane, dall’altro rilevano una sempre crescente frammentazione della Valle. Dal XVI sotto la guida della Diocesi di Novara si assiste in Valsesia allo sviluppo di una fiorente produzione artistica, inserita all’interno di una politica più complessa. In questo periodo il Vescovo è Carlo Bescapè (vescovo di Novara dal 1593 al 1615), che sulle orme del vescovo milanese Carlo Borromeo, inizia una politica di lotta alla riforma protestante, attraverso l’incremento della produzione artistica e l’incentivazione del carattere pedagogico di tali riproduzioni, con la promozione dei sacri monti.

In Valsesia, con la realizzazione del Sacro Monte a Varallo prima, e in seguito con quello di Sant’Anna nella zona di Borgosesia e con la nascita dei percorsi dell’arte intorno a Boccioleto e ad altre località sia in bassa sia in alta valle, si assiste a un incremento notevole della produzione artistica e alla formazione di un gran numero di botteghe e artigiani specializzati, che costituiscono tutt’oggi motivo di vanto per la comunità, data l’alta richiesta anche al di fuori della comunità montana. All’interno di questi percorsi immagini, pitture e sculture, ricordavano ai fedeli l’episodio della vita di Cristo che vi aveva avuto luogo, consentendogli così di meditare e di pregare. La presenza di immagini conferma i forti legami di questi progetti con le tecniche di predicazione francescana. I libri di meditazione diffusi nel Quattrocento raccomandavano spesso al fedele di provare ad immaginare le scene narrate dalle Scritture e di popolarle di personaggi tratti dal mondo reale per pregare con maggiore facilità. I francescani Minori erano inoltre ottimi predicatori, raccontavano gli avvenimenti della vita di Gesù soffermandosi sui particolari di fatti e luoghi e arricchendo la narrazione con un forte coinvolgimento emotivo. I francescani si servivano delle immagini per aiutare il fedele ad immaginare meglio le scene raccontate. E’ infatti diffusa nelle chiese dell’Osservanza francescana di area lombarda di tardo Quattrocento la presenza di una parete dipinta con le scene della vita di Cristo, posta tra la navata e il coro, che aiutava il predicatore durante la narrazione. Ne è un esempio la parete decorata da Gaudenzio Ferrari (datata 1513), presente nella chiesa della Madonna delle Grazie a Varallo. Una funzione simile doveva avere il Sacro Monte, uno strumento per consentire al pellegrino di compiere l’esperienza spirituale entrando fisicamente nei luoghi dove aveva vissuto Cristo e rivivendo con lui le tappe della sua vita raccontate dalle immagini poste nelle cappelle. Il Sacro Monte divenne, il banco di prova di un esperimento di didattica religiosa, in linea con gli indirizzi emanati dal concilio che aveva ritenuto le immagini uno strumento importante per educare i fedeli (in massima parte analfabeti) alla vera fede.

Il fenomeno della devozione, ma più in generale la fervente presenza religiosa sull’intero territorio valsesiano, ha contribuito allo sviluppo artistico e socio-economico della valle; gli ordini religiosi attivi nei comuni almeno fino all’avvento napoleonico, e le iniziative portate avanti dai vescovi novaresi, con la loro attività hanno contribuito all’alfabetizzazione della popolazione della valle attraverso l’utilizzo di rappresentazioni figurative e scultoree di rilievo tali da rendere, gli stessi artigiani e artisti della valle delle eccellenze in campo artistico, richieste in tutto il territorio nazionale. Gli ordini monastici e conventuali hanno anche contribuito all’incremento dell’economia, inizialmente attraverso l’amministrazione di consistenti possedimenti agricoli, e successivamente con attività produttive, di tipo artigianale, svolte dalle congregazioni religiose stesse, come nel caso degli opifici gestiti dalle Orsoline a Varallo, e con la loro presenza in varie strutture di sostegno alla comunità (ospedali, scuole). Attualmente l’attività degli ordini non è più così presente come nei secoli passati, ma il patrimonio artistico ereditato rappresenta una delle attrattive maggiori nel vasto panorama delle ricchezze di questa valle, ed è una delle risorse dalle quali può partire un programma di rivalutazione e sviluppo per l’intero territorio della Valsesia.

3. LA VALSESIA NEL CONTESTO REGIONALE

3.1 Gli strumenti di pianificazione regionale per il governo del territorio La pianificazione regionale in Piemonte, nelle sue diverse espressioni, acquista con gli ultimi decreti una dimensione non più basata esclusivamente sul disegno fisico, ma maggiormente attenta ai valori dell’economia e della progettazione partecipata.

La pianificazione territoriale avviata in Piemonte ha infatti come obiettivo il raggiungimento di una modalità cooperativa, di co-pianificazione, tra i diversi soggetti per garantire uno sviluppo del sistema regionale nell’ottica della sua sostenibilità ambientale e paesaggistica.

Operativamente la pianificazione regionale è articolata in due distinti strumenti che svolgono il ruolo fondamentale di definizione e controllo delle trasformazioni territoriali:

- il Piano Territoriale Regionale (Ptr) approvato dal Consiglio Regionale del Piemonte, con DCR n. 122- 29783 del 21 luglio 2011, assicura l’interpretazione strutturale del territorio e rappresenta il riferimento per la pianificazione alle diverse scale.

Il Ptr è lo strumento che riconosce gli elementi fisici, ecologici, culturali, insediativi, infrastrutturali e urbanistici caratterizzanti le varie parti del territorio regionale e stabilisce le regole per la conservazione, la riqualificazione, le limitazioni e le relazioni di lunga durata che condizionano i processi di trasformazione.

Il piano territoriale regionale si articola in tre componenti diverse che interagiscono tra loro.

Il quadro di riferimento rappresenta la componente conoscitivo-strutturale del piano, avente per oggetto la lettura critica del territorio regionale e quindi gli aspetti insediativi, socio-economici, morfologici, paesistico-ambientali ed ecologici e la trama delle reti e dei sistemi locali territoriali che struttura il Piemonte.

La parte strategica è la componente di coordinamento delle politiche e dei progetti di diverso livello istituzionale, di differente scala spaziale e di diverso ambito, sulla quale si individuano gli interessi da tutelare e i grandi assi strategici di sviluppo.

La terza parte del piano è la parte statutaria che costituisce la componente regolamentare del piano, essa ha il compito di definire i ruoli e le funzioni dei diversi ambiti di governo del territorio sulla base dei principi di autonomia locale e sussidiarietà. Le componenti del piano si sviluppano a partire da una matrice territoriale, la quale si basa sulla suddivisione del territorio regionale in 33 Ambiti di Integrazione Territoriale (AIT) che sono sistemi di aggregazione di ambiti sovracomunali nei quali si integrano la dimensione ambientale, sociale, culturale ed economica e i quali sono oggetto di una pianificazione integrata.

Per essi il Ptr definisce percorsi strategici tesi a sfruttare la ricchezza e la varietà dei sistemi produttivi, culturali e paesaggistici presenti nella Regione.

- il Piano Paesaggistico Regionale (Ppr), redatto ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio e coerentemente con la Convenzione Europea del Paesaggio dalla Giunta regionale, con D.G.R. n. 53- 11975 del 04 agosto 2009 , garantisce il rispetto prioritario del patrimonio paesaggistico.

Il Ppr è lo strumento principale per fondare sulla qualità del paesaggio e dell’ambiente lo sviluppo sostenibile dell’intero territorio regionale. L’obiettivo centrale del piano è quello di tutelare e valorizzare il patrimonio paesaggistico, naturale e culturale, ma anche rafforzare l’attrattività della regione e della sua competitività nelle reti di relazioni che si allargano a scala globale.

3.1.1. Il Piano paesaggistico regionale - linee strategiche di intervento nelle valli alpine

Il Ppr evidenzia le principali problematiche relative alle condizioni attuali del paesaggio e dell’ambiente alle quali cerca di dare una soluzione tramite delle linee strategiche di intervento.

Su gran parte del territorio regionale ma in particolare nelle valli alpine si rilevano le seguenti criticità : la crescente vulnerabilità delle risorse primarie, l’insostenibilità per gli aspetti energetici, un consumo di suolo incontrollato e la perdita di identità locali socialmente riconosciute dovuta ai processi di banalizzazione paesaggistica attraverso interventi trasformativi non pertinenti al contesto.

L’esperienza dei Giochi olimpici del 2006 ha rivelato inoltre che i rapporti delle città capitali della regione con le montagne costituiscono uno dei nodi irrisolti dello sviluppo regionale.

Questi rapporti incrociano spesso , sugli stessi territori, i fenomeni di abbandono ed emarginazione, ricorrenti in tutto l’arco alpino occidentale e anche in Valsesia, con quelli degli sviluppi turistici, sportivi e ricreativi che tendono a ridurre le vallate alpine al ruolo di banlieu verte (periferia verde) o di campo giochi dell’area metropolitana.

Esiste una sorta di utilizzo parassitario da parte dei cittadini nei confronti delle località di villeggiatura montane, tale problematica è riscontrabile in maniera evidente in Alta Valsesia dove il turismo sportivo porta ad uno sfruttamento disinteressato della valle.

Malgrado le problematiche delineate, secondo il ppr, le valli alpine e collinari tra cui la Valsesia si configurano all’interno dello scenario regionale come aree source o di alimentazione per la loro elevata naturalità, le loro caratteristiche fisiche e dimensionali; esse costituiscono il fulcro della struttura connettiva regionale e la principale struttura energetica per tutto il Piemonte.

Il piano si pone l’obiettivo di risolvere le problematiche inerenti le valli alpine attraverso delle linee strategiche di intervento mirate alla salvaguardia e alla valorizzazione di questi territori e delle loro potenzialità.

Il caso della Valsesia si inserisce nei “progetti strategici integrati” per la montagna, gli obiettivi riguardanti le vallate alpine sono:

- rivitalizzare e riqualificare i paesaggi alpini e gli insediamenti montani alterati da espansioni come attrezzature e impianti per usi turistici e terziari, - contrastare l’abbandono del territorio potenziando le identità locali attraverso una promozione dei sistemi produttivi locali industriali e artigianali - valorizzare degli itinerari storici e dei percorsi panoramici - costituire dei circuiti di interesse fruitivo sia di interesse naturalistico , sia storico culturale come ad esempio delle greenways “ferrovie verdi” che collegano i principali nodi dei sistemi locali di beni storico culturali o panoramici. - Valorizzazione dei caratteri naturalistici e paesaggistici dei contesti fluviali come nel caso del Fiume Sesia, affluente del Po che attraversa per tutta la sua estensione la Valle a cui da il nome.

3.1.2. Parchi regionali e tutela del patrimonio naturale

In Piemonte dal 1975 sono state istituite con legge regionale 63 Aree protette per una superficie complessiva di 160.000 ettari gestiti da 35 Enti. Oltre alle Aree protette regionali, la Regione Piemonte conta due Parchi Nazionali: il Gran Paradiso istituito nel 1922 e la Val Grande istituito nel 1992 che interessano complessivamente una superficie di 48.500 ettari. Tra le Aree tutelate, particolare importanza riveste il Sistema della Fascia fluviale del Po istituito nel 1990 che interessa tutto il tratto piemontese del Fiume lungo 235 km su una superficie di 35.515 ettari. In totale coprono un territorio di 244.000 ettari, pari al 9,6 % della superficie regionale.

Del Sistema regionale delle Aree protette sono parte integrante sette Sacri Monti piemontesi tra cui la Riserva Naturale Speciale del Sacro Monte di Varallo inseriti nel 2003 nella Lista del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO.

In Valsesia sono presenti due parchi naturali, nella bassa valle il Parco naturale Fenera e il Parco naturale Alta Valsesia che si caratterizza come parco alpino per eccellenza.

Dal 1 gennaio 2012, con l'entrata in vigore del Titolo II e del Titolo VI, Capo III della L.R. 19/2009, il Parco Naturale Alta Valsesia ed il Parco Naturale del Monte Fenera sono confluiti nel nuovo Ente di Gestione delle Aree Protette della Valle Sesia.

Il Parco naturale Fenera prende il nome dal monte che si erge sopra i rilievi della Bassa Valsesia e che, per il suo profilo, è riconoscibile dalla pianura novarese e vercellese: il Fenera. Il suo territorio è situato in zona baricentrica rispetto alla pianura caratterizzata dalle risaie, all'Alta Valsesia, dove si erge il gruppo del Monte Rosa, ai laghi d'Orta e Maggiore. E' quindi un punto di partenza per escursioni correlate al territorio circostante dove storia, cultura e tradizioni si sono espresse e influenzate reciprocamente nel tempo. Il parco naturale Alta Valsesia , sviluppandosi fino ai 4559 m è il parco più alto d'Europa , verso occidente l'area abbraccia la cresta alpina che appartiene al massiccio del Monte Rosa fino a raggiungere la Punta Gnifetti .

In corrispondenza del restringimento della valle, è possibile ammirare le "caldaie del Sesia": formazioni scavate profondamente dal ghiacciaio nel corso dei millenni. Di particolare interesse il "sentiero glaciologico", allestito di fronte al maestoso ghiacciaio del Monte Rosa ; il percorso, unico del genere in Italia, consente di vedere ed apprendere la storia dei ghiacciai della zona.

Tutela del patrimonio naturale

Le nuove politiche ambientali della Regione in materia di tutela del patrimonio naturale hanno l’obiettivo di garantire la salvaguardia delle aree naturali presenti sul territorio regionale e la tutela della biodiversità nel rispetto delle convenzioni internazionali e delle normative europee che regolano la materia.

In particolare la Regione nell’operare per la tutela degli ambienti naturali, si propone di intervenire attraverso una revisione complessiva della normativa vigente che ridisegni il Sistema di tutela e soprattutto lo renda più moderno e differenziato tenendo conto dello sviluppo attuativo delle Zone di Protezione Speciale (ZPS) e dei Siti di Importanza Comunitaria (SIC), introdotti dalle Direttive Europee “Habitat” e “Uccelli”, che costituiscono aree complementari e differenti rispetto al Sistema delle aree naturali protette, ma che si inseriscono in un più complesso disegno di pianificazione e di gestione del territorio regionale. Per raggiungere l’obiettivo di coniugare oggetti diversi come le aree protette, i SIC, le ZPS e quelle parti di territorio che svolgono un ruolo prioritario nella conservazione della natura, rafforzandone il ruolo e le funzioni, la Regione ha scelto di prevedere la costituzione della Rete Ecologica Regionale, comprendente il Sistema delle aree protette piemontesi, le Zone Speciali di Conservazione (ZSC), i SIC e le ZPS derivanti dall’applicazione delle citate Direttive Europee , i corridoi ecologici e le connessioni naturali presenti sul territorio regionale. La Carta della Natura Regionale si configura come uno strumento di studio, valutazione e approfondimento conoscitivo che si colloca all’interno del processo complessivo di pianificazione territoriale, rispondente anche ai nuovi indirizzi che emergono dalle politiche urbanistiche e territoriali in corso di definizione da parte della Regione e comunque collocabile oggi all’interno dei processi previsti dalle vigenti normative in materia. La Rete Ecologica che si verrà a delineare è stata pensata come un elemento di chiarezza e di trasparenza nei confronti degli Enti locali e di tutti i cittadini: infatti attraverso il processo di costruzione della Rete si rende esplicito il disegno complessivo evidenziando i diversi livelli di attenzione, e conseguentemente di regolamentazione, dei territori facenti parte della Rete stessa.

Le aree protette come parchi, riserve e zone di salvaguardia sono infatti oggetti differenti rispetto ai Siti di Importanza Comunitaria, alle Zone di Protezione Speciale ed alle Zone Speciali di Conservazione che, a loro volta, sono oggetti diversi rispetto ai corridoi ecologici ed alle connessioni naturali.

Ciò comporta differenti forme di tutela e differenti forme di gestione, ma compone comunque un quadro omogeneo che ha per oggetto l’insieme dei valori naturali e della biodiversità che connotano il territorio.

L’utilizzo della pianificazione del territorio per l’individuazione e per la gestione dell’intero sistema fa sì che sia possibile una partecipazione collettiva al processo di tutela coinvolgente i livelli di governo locali fino a quello regionale e tutti gli attori interessati alle politiche territoriali.

La struttura di pianificazione territoriale delle diverse aree protette resta quella esistente e consolidata riferita ai Piani di area, ai Piani naturalistici, ai Piani di gestione ed ai Piani di assestamento forestale: a questi va aggiunto il Piano economico-sociale, strumento di programmazione proprio della Comunità delle aree protette che può esercitare pienamente le funzioni di regia ad essa affidate. I Piani territoriali, urbanistici e di settore, i piani agricoli e faunistico-venatori e le loro varianti, possono assumere gli effetti e l’efficacia dei piani di gestione.

3.2 Infrastrutture e reti di collegamento Aspetti storico- culturali

Il sistema della viabilità della regione Piemonte costituisce un primario elemento di strutturazione del territorio e dei suoi insediamenti ; la viabilità è un indicatore significativo di un sistema di valenza sovra locale e costituisce un bene di valenza storico-culturale per la regione.

Dall’analisi riportata nel Ppr , risulta che il sistema stradale piemontese è consolidato dai tempi più antichi, sono riconoscibili infatti sistemi di età romana, medievale, moderna e contemporanea.

Le grandi direttrici viarie della regione Piemonte sono strutturate secondo la trama della viabilità romana e attraversano tutt’oggi i centri che hanno mantenuto nei secoli una specifica rilevanza territoriale.

I sistemi della viabilità regionale e sovra regionale di impianto romano rimasti fino ad oggi fondamentali sono ad esempio: la Monginevro-Torino-Tortona (via Fulvia), la Tortona-Acquiterme- Vado ligure (Via Augusta); la Torino--Pavia, la Ivrea-Vercelli.

Sulla trama infrastrutturale romana, pensata per una scala territoriale vasta, si innesta la fruizione delle aree di strada medievali, nel contesto di connessioni sovra locali e internazionali (come il sistema delle vie francigene) ma anche locali, connesse alla frammentazione politico- istituzionale del territorio.

Successivamente l’infrastrutturazione di antico regime integra i nuovi territori conquistati e vi si riconoscono le aree che ancora oggi risentono di una cultura cinque-seicentesca come i sistemi dei sacri monti.

La realizzazione delle reti viarie e ferroviarie ottocentesche riguarda i luoghi caratterizzati in quegli anni da un ampio processo di appropriazione e modernizzazione legato al loisir e alla villeggiatura: le località prealpine come la Valle di Lanzo, le sponde del lago d’Orta e le località alpine come la Valsesia, mostrano questo rapporto tra infrastrutturazione e nuovo uso dello spazio e del tempo libero.

La rete della mobilità oggi

Lo scenario in cui si colloca il sistema regionale delle infrastrutture è caratterizzato da un profondo cambiamento, derivante dal potenziamento e dalla crescente integrazione delle comunicazioni a livello europeo. Il Piemonte è la parte centrale della piattaforma nord-occidentale che si estende dal confine italo- francese alla conurbazione milanese, per la sua posizione strategica si apre per il territorio piemontese la prospettiva di poter svolgere un ruolo importante di cerniera territoriale a cavallo tra due assi forti di livello continentale, il Corridoio 5 Lisbona-Kiev ed il Corridoio 24 Genova-Rotterdam, che si intersecano in corrispondenza del maggiore polo urbano del sistema orientale, la città di Novara.

Vi sono tre livelli di rete infrastrutturale, il primo è la Trans-European network di cui fanno parte il Corridoio europeo n. 24 , (Genova–Sempione–Loetschberg–Rotterdam),e il Corridoio europeo n 5 nel tratto Lione–Torino–Milano.

Il secondo livello è rappresentato dalle reti transregionali frontaliere: l’asse N-S: trafori alpini della Valle d’Aosta–Ivrea–Torino-Savona e Torino-Alessandria; l’arco meridionale Asti-Cuneo, che, attraverso la tratta Asti-Piacenza della A21, connette le direttrici transalpina Cuneo–Nizza e Cuneo– Marsiglia con l’asse centrale della penisola (A1). Il terzo livello è la rete trasregionale interna: l’asse pedemontano Nord, che prolunga quello lombardo fin al Biellese.

Lungo queste cinque direttrici principali e attorno alle loro intersezioni, si individuano diversi ambiti territoriali e urbani: Novarese-Vercellese (intersezione Corridoi 5 e 24) che riguarda i due nodi di Novara e Vercelli; Torino e valle di Susa (intersezione Corridoio 5 e asse N-S), Alessandrino (intersezione Corridoio 24, asse N-S e arco meridionale);Biellese e Pedemonte settentrionale - VCO (intersezione asse pedemontano e Corridoio 24): comprende Biella e la parte pedemontana di Borgosesia; Cuneese e Medio Tanaro (intersezione asse N-S e arco meridionale).

A seconda della posizione nelle intersezioni delle grandi infrastrutture si individuano i nodi di primo livello (Torino-Chivasso, Novara-Vercelli e Alessandria-Novi-Tortona) e di secondo livello (Cuneo- Fossano-Mondovì, Asti, Biella, Borgomanero-Verbania e Domodossola) nei quali possono trovare ragionevole collocazione attrezzature logistiche di diversa dimensione e funzione.

Confrontando le potenzialità offerte dalla posizione con le dotazioni infrastrutturali e logistiche attuali e con il peso demografico ed economico di alcuni centri maggiori come Torino, Alessandria, Novi, Tortona, Novara, Vercelli e Domodossola si presentano maggiormente dotati rispetto ad altri.

La regione ha una buona accessibilità aeroportuale nell’area metropolitana dove sono presenti gli aereoporti di Cuneo-Levaldigi, di Torino-Aeritalia e Torino- Caselle, mentre la parte nord-est è prossima all’aeroporto di Malpensa.

3.3 Mobilità e servizi nel Nord-est piemontese Il piano regionale territoriale individua quattro grandi quadranti sul territorio regionale i quali sono aggregati di province e di ambiti di integrazione a livello locale (AIT), questi ultimi sono dei luoghi i quali hanno delle caratteristiche condivise che riguardano ad esempio l’ambiente, l’identità, le risorse, le attività produttive.

La Valsesia è situata nel quadrante nord-est il quale raggruppa le Province del Verbano-Cusio-Ossola, di Biella, di Novara e di Vercelli, e gli Ambiti di integrazione territoriale di Domodossola, Verbania- Laghi, Borgomanero, Novara, Vercelli, Borgosesia e Biella.

A monte si estende una seconda zona di media e alta pianura terrazzata prevalentemente agricola, a cui fa seguito la fascia pedemontana, urbanizzata e industrializzata, che penetra anche nelle bassi valli alpine e che verso est si allarga fino a comprendere l’area dei laghi Orta e Maggiore.

Alle spalle di questa si ha infine una vasta zona di montagna, comprendente i bacini vallivi interni del Toce, del Sesia, del Cervo e dell’Elvo e loro affluenti.

L’insediamento si regge su una rete urbana policentrica, comprendente 3 centri di livello superiore Novara, Vercelli, Biella, 6 di livello medio , Verbania, Domodossola, Omegna, Arona, Borgomanero, Borgosesia e 18 di livello inferiore.

Il Quadrante nord est si caratterizza principalmente per la dimensione demografica, comprende 882.000 abitanti, che lo colloca subito dopo il Quadrante metropolitano torinese.

Esso ha una posizione geografica strategica: è cerniera con Milano e le Province di Pavia e Varese ed è prossimo all’aeroporto internazionale di Malpensa e al centro fieristico di Rho inoltre ha una buona accessibilità extraregionale poiché è caratterizzato da collegamenti stradali e ferroviari con i cantoni svizzeri del Ticino e del Vallese e si trova all’incrocio di due Corridoi europei: il n. 5, che corre lungo tutto l’asse della pianura padana, e il n. 24, che connette Genova con il Mare del Nord, il quadrante nord-est ha di conseguenza una già affermata vocazione logistica a livello Europeo.

Il quadrante è dotato di un buon sistema dell’istruzione universitaria, secondo dopo il sistema del quadrante metropolitano torinese, comprende le università del Piemonte Orientale a Vercelli e Novara, il Politecnico di Torino a Vercelli e la Città Studi di Biella.

Il nord est piemontese è caratterizzato dalla presenza di realtà locali industriali di differenti dimensioni, di rilevanza internazionale e con dinamiche innovative: i distretti di Biella e Borgosesia specializzati nel tessile, Borgomanero nella rubinetteria e valvolame, Omegna-Verbania produttivi nei settori dei casalinghi-elettrodomestici; vi è inoltre il cluster chimico-farmaceutico di Novara e i connessi centri di ricerca, oltre alla presenza di grandi imprese multinazionali operanti in altri settori (petrolchimico, grafica e editoria, tessile, abbigliamento, ecc.).

Vi è la presenza della media e bassa pianura risicola, con la sua rete di canali e di cascine e la connessa filiera agro-alimentare che detiene nel settore il primo posto in Italia e in Europa.

Dal punto di vista della ricettività nel nord est si hanno le forti presenze della sponda occidentale del lago Maggiore e il lago d’Orta che costituiscono un comprensorio turistico di rinomanza internazionale, facente parte della più vasta regione lacuale insubrica posta tra Piemonte, Lombardia e Canton Ticino. Il vasto entroterra alpino costituisce con le sue risorse idriche, forestali, climatiche, culturali e paesaggistiche e le stazioni sciistiche i del massiccio del Monte Rosa n Valsesia un vasto bacino turistico .

La Valsesia si trova in un’area strategica a livello regionale ed europeo, ricca di potenzialità non solo paesaggistiche ma anche negli ambiti dei servizi e della mobilità.

3.3.1 Potenzialità, problematiche e linee strategiche di intervento per la Valsesia

La Valsesia fa parte oltre che del quadrante nord- est piemontese anche dell’ Ambito di integrazione del territorio n°5, una sub classificazione a scala locale del piano territoriale regionale.

L a Valsesia ha una popolazione di circa 50.000 abitanti che si concentra principalmente nella bassa valle e allo sbocco di questa nella pianura.

Le potenzialità principali della Valle sono offerte da notevoli risorse ambientali quali il Parco naturale Alta Valsesia, il Monte Fenera e il Monte Rosa. In quest’ultimo le condizioni ambientali hanno reso favorevole lo sviluppo di impianti di risalita che permettono la pratica di sport invernali di alta quota; il distretto sciistico dell’Alta Valsesia ha assunto maggiore attrattività dal 2010, anno della realizzazione del collegamento funiviario tra Alagna e la Valle d’Aosta.

Un punto di forza è la posizione geografica della Valle, che potrebbe essere meglio sfruttata con opportuni investimenti infrastrutturali.

Nel momento in cui diverrà funzionante la pedemontana piemontese, che permetterà alla Valsesia di migliorare i collegamenti in tutte le direzioni, i nodi di entrata e di uscita avranno una accessibilità potenziata grazie al raccordo con la rete autostradale, la ferrovia TAV e la linea aeroportuale Malpensa.

Le potenzialità industriali, ridotte dai processi di ristrutturazione in atto, riguardano soprattutto la presenza di un cluster tessile, collegato al territorio biellese, il principale in tutta la regione Piemonte. Ad esso si affiancano differenti realtà industriali , come quello delle valvole, della rubinetteria (localizzati nei distretti di Borgomanero e della Bassa Valsesia), della carta e dei prodotti alimentari. Le principali criticità della valle riguardano:

- il rischio idrogeologico causato dal regime pluviometrico della bassa e media montagna - il carico edilizio che ha provocato compromissioni ambientali e paesaggistiche soprattutto nelle aree pianeggianti di fondo valle, causando fenomeni di sprawl e di congestione del traffico per i comuni al pedemonte settentrionale; - la mancanza di un piano di sviluppo economico per tutelare la presenza di attività di specializzazioni manifatturiere, particolarmente esposte agli effetti della concorrenza dei paesi emergenti.

Sistema insediativo

I maggiori addensamenti sono costituiti dai centri di Borgosesia, Varallo, Valduggia e , caratterizzati dalla presenza di numerosi insediamenti industriali frammisti alla residenza, concentrati nel fondovalle con uno sviluppo lineare in continua espansione lungo le principali infrastrutture viarie con un elevato consumo di suolo. La parte più alta della valle è caratterizzata da una pressione insediativa relativamente bassa con una consistente presenza di seconde case , oltre l’80% dello stock complessivo, utilizzate a fini turistici. In questo contesto, già particolarmente compromesso, sono previsti dal piano territoriale regionale importanti espansioni del tessuto residenziale nei fondovalle oltre che ad Alagna, mentre le espansioni di aree industriali sono collocate tra Serravalle e Borgosesia, e lungo la viabilità principale oltre che in prossimità di Valduggia e sul tratto di fondovalle presso Quarona.

Ruolo regionale e sovraregionale

La Valsesia non immette a nessun valico internazionale e non offre facilità di scambi transalpini come altre grandi valli della regione. Il ruolo sovraregionale è affidato principalmente alle industrie, al turismo invernale, ambientale e culturale. Le relazioni transfrontaliere della valle sono consolidate attraverso la cooperazione territoriale soprattutto con Aosta e il cantone Vallese.

Dinamiche evolutive, progetti e scenari

Il percorso evolutivo della Valsesia dipende storicamente anzitutto dall’industria laniera, che si lega a quello del Biellese. Analoghe sono le prospettive per quanto riguarda il settore produttivo del valvolame e della rubinetteria, strettamente legato alle sorti del distretto di Borgomanero.

Un discorso di sviluppo più autonomo e più strutturato può farsi per la valorizzazione delle risorse ambientali e patrimoniali, mentre condiviso con gli Ait di Biella e di Borgomanero è il progetto dell’asse viario pedemontano.

Progettazione integrata

La progettazione integrata in Valsesia è piuttosto carente e presenta, per ora, scarse capacità di svolgere un ruolo attivo nelle politiche territoriale di livello regionale. Questa carenza deriva principalmente dalla debole organizzazione degli attori locali, mentre è forte l’ancoraggio territoriale delle iniziative.

Tali caratteri interessano principalmente le parti montane dell’ambito, mentre si evidenziano maggiori criticità nella zona di collina. Nella rete degli attori locali che si attiva per la progettazione integrata, svolgono un ruolo decisamente centrale i soggetti pubblici (in specifico la Comunità Montana), mentre praticamente inesistente è la partecipazione degli attori privati.

Le prospettive sulle quali la progettazione integrata intende puntare sono rivolte verso lo sviluppo del turismo, della valorizzazione del patrimonio artistico-monumentale, soprattutto nella zona montana, dell’industria e della produzione energetica da fonti rinnovabili. Vanno in proposito richiamati il PISL di Varallo e dell’Alta Valsesia, il PTI “Valsesia, risorse di qualità in concerto”, gli interventi legati al Programma provinciale per le opere di accompagnamento all’Olimpiade di Torino 2006, gli effetti delle realizzazioni dovute all’attuazione del PIA 2000-2006 della Provincia di Vercelli.

Interazioni tra le componenti

Le ingenti risorse forestali e idriche potrebbero essere messe in sinergia con la produzione energetica, con la difesa e la fruizione dell’ambiente naturale. In generale tutte le risorse dell’area montana interna potrebbero essere orientate a uno sviluppo rurale che combini silvicoltura, agricoltura, artigianato, turismo escursionistico e culturale, sport e altri servizi (anche di formazione, di ricerca e di recupero ambientale). Sinergie di questo tipo permetterebbero di contrastare lo spopolamento, l’invecchiamento, la carenza di servizi e il sottoutilizzo del patrimonio insediativo della montagna.

3.4. Quadro economico e produttivo

3.5. Demografia dal 1861 ad oggi Nel 1861 il primo censimento ufficiale italiano ci fornisce i primi dati ufficiali sull’intera popolazione della Valsesia, il confronto di questi con quelli successivi mette in evidenza un notevole processo di spopolamento della valle.

Per quanto riguarda i secoli precedenti le stime che possiamo fare basandoci sui “censimenti delle anime” fatte dalle diocesi, viziati da criteri poco scientifici che escludevano dal conteggio donne e uomini poco virtuosi, ci consentono di affermare che una politica di controllo delle nascite e di vincoli sui matrimoni aveva mantenuto la popolazione della valle su valori costanti.

Il processo di spopolamento ha inizio nella prima metà dell’ 800, quando l’attrattiva della grande città in pieno periodo di sviluppo industriale , la voglia di cercare carriere alternative alla sola economia agricola o alle piccole aziende dalla valle porta verso le città più industrializzate parte della popolazione. Da questo momento il processo continua con sempre maggiore intensità fino agli anni della prima guerra mondiale quando si ferma la produzione industriale nei grandi centri e la ricerca del lavoro riporta nelle valli parte della popolazione. Terminato il conflitto, lo spopolamento riprende con ancora più impeto fino a diventare un vero e proprio problema sociale.

I comuni dell’alta valle e delle valli limitrofe sono quelli dove il fenomeno risulta più importante , con una diminuzione percentuale della popolazione superiore all’80% mente per i paesi della bassa valle, in particolare Varallo e Borgosesia , sede di poli industriali e delle maggiori arterie di collegamento, si ha un processo inverso con il riscontro di una crescita demografica di notevole entità.

4. LA VALSESIA : USI DI CITTA’- ECONOMIA, MOBILITA’ E SERVIZI

4.1. Unità e divisioni territoriali Età medievale: i feudi nella Valsesia (dal X secolo al 1275)

La prima volta che viene nominata la Valsesia come luogo a sé stante, e non come parte di altri territori, risale ad un documento redatto a Pavia e datato 4 maggio 945 d.C., quando il Marchese di Provenza Ugo d’Arles e il figlio Lotario II, suo successore come Re d’Italia, donano al fedele Riccardo tre mansi in “Vallis Siccidae”. Certamente era già nota e conosciuta, ma veniva considerata solo una boscosa e selvaggia valle: un territorio con pochi sbocchi commerciali, utile per la transumanza del bestiame e per l’esportazione nella pianura di formaggi, legname, torce di alberi resinosi, castagne, miele e cera. “Dalle nivee cime del monte Rosa discende a mezzodì gradatamente sino alle vinifere colline di Grignasco a sinistra, ed a quelle di Gattinara a destra, le quali fanno luogo per una parte alle pianure novaresi e per l’altra alle vercellesi. (…) Questa valle fu divisa in due parti, chiamate anticamente Curie, una superiore che dalle perpetue nevi s’abbassa sino a Varallo, centro e principal luogo di Valsesia, e l’altra inferiore che da questo luogo discende alle pianure. La prima rimarchevole per le orridezze delle sue montagne, coperte di pascoli e vestite di secolari foreste; e la seconda per la sua giocondità e per la varietà dei suoi prodotti. Fiorite praterie e campi con arte fertilizzati, che le acque del Sesia vanno di continuo rodendo, formano il piano della Valle. Succedon quindi colli e poggi, tappezzati d’erbe e di viole; e poscia ancora sui ripidi fianchi delle montagne i boschi ombrosi e le foreste. E più su le rupi, solo accessibili alle capre ed ai camosci, si rizzano orridamente cinte dalle nembose nubi. ”1 Il X secolo registra per la Valsesia un significativo aumento demografico dovuto soprattutto a un più stabile regime economico sotto il potere dei feudatari: ciò nonostante il territorio sia oggetto di diatribe, anche sanguinose, tra i vescovi di Novara e Vercelli, che ne contendono lungamente il possesso unicamente per assicurarsi la zona collinare al di qua ed al di là del fiume Sesia. Nel giorno 7 maggio 999, a Roma, l’imperatore del Sacro Romano Impero Ottone III conferma a Leone, vescovo di Vercelli, le donazioni fatte dal suo predecessore Carlo il Grosso al vescovo Lituardo, e gli concede tutti i beni di Ardoino e dei suoi seguaci, più il distretto della Valsesia con Grignasco, Bornate, Serravalle e Gattinara. Alla morte di Ottone III, nel 1002, i più importanti nobili italiani si radunano a Pavia e acclamano il coraggioso Ardoino, Marchese di Ivrea, come nuovo Re d’Italia. Questo nuovo slancio di patriottica indipendenza eleva Ardoino come oppositore dei vescovi (potere temporale della Chiesa) e degli stranieri (potere temporale dell’Imperatore). Solo nel 1013 il nuovo re tedesco Enrico, esortato dal pontefice e dai vescovi, ritorna in Italia con il suo esercito e, dopo una serie di assedi portati avanti dalle truppe di Ardoino, riesce a raggiungere Roma il 14 febbraio 1014, dove finalmente è acclamato e unto imperatore del Sacro Romano Impero. Per vendicarsi in qualche modo degli italiani dispensa maggiori favori e privilegi alle chiese, e specialmente ai vescovi di Novara e di Vercelli, che cercano di trarre opportuni vantaggi dalle sventure di Ardoino. Con il nuovo diploma imperiale la Valsesia ritorna alla Chiesa vescovile di Vercelli. Nel 1025, invece, il rex romanorum Corrado II il Salico, successore di Enrico, ottiene assoluta fedeltà dal vescovo di Novara, e attraverso il diploma imperiale di Costanza del 10 giugno 1025 investe la Chiesa vescovile di Novara della giurisdizione sulla Valsesia: in questo documento è menzionata per la prima volta anche l’Alta Valle, segno che ormai di essa si hanno precise nozioni geografiche, ed è anche presumibile che, accanto alle alpi (sedi degli alpeggi e del pascolo estivo), vi siano presenti insediamenti stabili.

Ricevuto il diadema imperiale dal papa Giovanni XIX, il vescovo di Novara decide di rinnovare il patto con l’imperatore Corrado (le concessioni precedenti erano state rilasciate da Corrado ancora re di Germania), rilasciato nel 1028 ad Aquisgrana. “Prima di tutto possiamo riconoscere che gli straordinari e continui favori prodigati dall’impero ai vescovi, anziché giovare ai medesimi, produssero invece effetti interamente contrari ai desideri ed alle speranze loro. Perciocché essi furono che principalmente facilitarono nelle città la fondazione dei comuni. Infatti le esenzioni che furono accordate a quelle città per mezzo dei vescovi, servirono bensì ad esse per sciogliersi a poco a poco dalla dipendenza dei grandi vassalli, ma i vescovi sia che fossero incapaci di afferrare quell’impero a cui agognavano, o sia che il risvegliatosi spirito municipale li costringesse bentosto ad abbandonarlo, si videro dai cittadini stessi strappare i frutti della loro artificiosa politica. Parimenti l’autorità politica dei vescovi difficilmente poté stabilirsi e raffermarsi nei contadi e nei feudi rurali, dove avevano ancor saldo fondamento le antiche famiglie, che realmente quei territori tenevano o possedevano, attraverso l’investitura e conferma a titolo di privilegio ereditario direttamente dall’impero.

(…) nei diplomi imperiali rilasciati a favore delle Chiese di Novara e di Vercelli, ben pochi paesi rimanessero realmente soggetti alla giurisdizione dei vescovi di quelle città, o come l’autorità loro in quei paesi si limitasse all’esercizio di alcuni diritti di poco momento, diritti che nulla avevano a che fare con la vera sovranità .” 2

Per tutti questi motivi, i vescovi devono cedere il controllo della Valsesia ad alcuni nobili, che per ben tre secoli circa se ne trasmetteranno il possesso in eredità feudale: la S ignoria dei Conti di Biandrate . È da questo periodo che si può sicuramente far cominciare il periodo feudale storicamente noto in tutta la Valsesia. Il conte Uberto, o Viberto, fratello del re Ardoino, era possessore di alcune terre in Valsesia ed anche del contado di Pombia. Dal suo figlio secondogenito Guido I, nominato conte di Pombia, si sviluppa quel ramo della sua famiglia che, attraverso una serie di eredità e di acquisizioni, nel giro di due generazioni riesce ad entrare in possesso di beni nei territori di Borgosesia, Agnona, Rocca, Quarona e Varallo, oltre a terreni nel Canavese, Piacentino, Pavese e Novarese; e prendono il titolo di conti di Biandrate dal luogo principale dei loro possedimenti. I Biandrate unificano istituzionalmente la Valsesia e la amministrano dall’interno attraverso diplomi imperiali che ne sanciscono la legittimità (1142, 17 ottobre 1152, 1159): segni della loro presenza sul territorio sono i resti dei castelli, soprattutto nella Bassa Valle, situati a Grignasco, Roccapietra, Robiallo, Vanzone, Montrigone ed Arlezze. “ L’incastellamento, però, non sarà mai una condizione di maggiore sviluppo degli insediamenti che ne erano sede rispetto a quei villaggi che ne erano privi ”.3 “Secondo il noto sistema feudale avevano i conti dovunque (in Valsesia) i loro vassalli e valvassori, ai quali affidavano l’incarico di riscuotere per essi i tributi, le tasse e le rendite di qualunque genere, e quello di sostituirli nell’esercizio delle funzioni attenenti ai rispettivi feudi. (…) Quali fossero queste rendite ci è ampiamente insegnato dagli stessi diplomi imperiali. I diritti territoriali sugli immobili e sui fondi colti od incolti, sui boschi e sui pascoli, sui pedaggi e sui transiti dei fiumi, sulla derivazione e canalizzazione delle acque, sui mulini, sulla pesca e sulla caccia, e molti altri diritti o rendite reali, dai possessori od usuari dei fondi erano devolute ai Conti, e questi potevano esigerle senz’altro controllo d’autorità superiore. (…) Fra i privilegi goduti dai Conti nel territorio menzioneremo pure i diritti gabellari, che riguardavano le concessioni che essi soli potevano dare per tenere mercati e fiere, od esercitare il commercio. Uno dei più oltraggiosi diritti, o per meglio dire, uno degli abusi più abominevoli della prepotenza feudale, era certamente quello che si chiamava Ius Foderis, od anche il diritto del cunaggio. Dobbiamo finalmente considerare ancora un altro degli effetti più singolari del feudalesimo, cioè di quel potere discrezionale del feudatario sopra gli uomini rustici e i servi della gleba i quali erano considerati come facenti parte annessa e connessa del terreno, su cui nascevano ed abitavano, e che essi per tutta la loro vita dovevano coi propri sudori coltivare a totale profitto del loro padrone. ”4 L’autorità dei Biandrate, sotto la guida del conte Alberto prima, e in seguito di suo figlio Guido III soprannominato il Grande, acquista sempre più importanza e raggiunge il massimo della potenza seguendo la fortuna in Italia dell’imperatore Federico I Barbarossa. Si introduce così un elemento di originalità della valle: in quest’area vengono ad intrecciarsi ed opporsi gli interessi economici e politici di quattro protagonisti principali, le comunità rurali del presenti sul territorio, i signori feudali Biandrate, la diocesi di Novara e la diocesi di Vercelli; “un elemento da non trascurare, perché nei momenti di maggiore conflittualità i Valsesiani avranno sempre un più ampio spettro di trattativa e di allacciare alleanze vantaggiose, riuscendo spesso ad avanzare pretese sempre più ambiziose. ”5 La situazione rimane stabile fino al 1176, quando la Valsesia aderisce alla Lega Lombarda; aiutata dal papa Alessandro III, la Lega si oppone all’esercito di Barbarossa e il 29 maggio dello stesso anno nei pressi di Legnano si assiste alla completa disfatta delle truppe imperiali, e di conseguenza anche dei suoi alleati Biandrate. L’autorità dei conti inizia così a vacillare, mentre il potere popolare della valle che aspira alla libera amministrazione comincia ad avere coscienza delle proprie potenzialità.

Le speranze che con la Pace di Costanza, del 1183, inizi un periodo di stabilità e tranquillità svaniscono presto: le diocesi di Novara e Vercelli, impegnate in quegli anni in altri ambiti, quali la crisi spirituale e le lotte interne, permettono l’intromissione di nuovi attori, il Comune di Novara e il Comune di Vercelli, che entrano in lotta fra loro per l’”accaparramento” della Valle ed il controllo delle acque del Sesia. Seguono anni molto vivaci: la giurisdizione della Valsesia passa continuamente dal Comune di Novara al Comune di Vercelli. In questo periodo di crisi i Valsesiani acquistano una crescente autocoscienza, che li porta a determinare le proprie scelte politiche e le proprie alleanze, a vantaggio di maggiori libertà amministrative (di fatto ribellandosi ai vincoli feudali dei Biandrate e del loro alleato, il Comune di Vercelli, proprio grazie ai continui interventi da parte della città di Novara). “L’autorità dei conti di Biandrate anche in Vallesesia erasi grandemente mutata da quella che era in antico. La loro autorità era anche qui venuta assai diminuendo, e i loro sudditi, aiutati dalle circostanze, di buon grado o per forza avevano loro strappati molti diritti. Già dal 1168 i Valsesiani, prevalendosi anche della sconfitta dei Conti contro la Lega Lombarda, avevano cercato di scuoterne il giogo e di costituirsi liberamente a comune ad esempio delle città e dei popoli lombardi. Fu un tentativo, che andò fallito. Ma non fu assolutamente infecondo di grandi e durevoli risultati. ”6 Per la fortuna della Valsesia, il trattato di pace del 1254 firmato a Pavia tra Novara e Vercelli, in cui Novara prometteva di non intromettersi più negli affari della valle, non viene mai rispettato. Il primo risultato ottenuto dai Valsesiani è il declassamento dei Biandrate a semplici proprietari terrieri; così la giurisdizione passa direttamente nelle mani del Comune di Vercelli. “Cedettero inoltre irrevocabilmente ogni impero mero e misto, cioè ogni giurisdizione civile e criminale sopra tutta la Valsesia, e nominatamente sulle valli del Mastallone, della Sermenza, del Pascone, di Camasco e sulla val d’Uggia, estendibile a tutti i luoghi e a tutti gli uomini in quelle valli. Di maniera che il Comune di Vercelli poteva ivi in perpetuo e senza contestazione dei Conti esercitare ogni funzione civile e criminale, relativa alle imposizione del fodro, alle contribuzioni per gli eserciti, le cavalcate, gli acquartieramenti, ed ogni altra prestazione spettante di diritto all’impero mero e misto. Restavano ai Conti solamente le possessioni e le rendite, cioè i diritti sulle terre, sulle alpi, sui boschi, sulle acque, sui mulini, sulla pesca e simili, meno quelli che erano da essi stati ceduti in varie epoche ai loro uomini, o dai Valsesiani erano stati riscattati. Così i conti di Biandrate da assoluti padroni della Valsesia erano decaduti alla semplice condizione di grandi proprietari territoriali. ”7

Età Medievale: i municipi valsesiani (1275-1395) La lotta fra Guelfi e Ghibellini, sin da principio lotta di preminenza fra i due poteri civile ed ecclesiastico, fra l’Impero e la Chiesa, diviene poco per volta una vera lotta sociale fra il popolo e la nobiltà. Il popolo rappresentato dai gran consigli, dai consoli, dai podestà, sogna ed invoca un Papa che lo protegga contro i nobili, partigiani dell’Impero. I Guelfi rappresentano la vita, il progresso, la democrazia; i Ghibellini l’intelligenza, la costanza, la legge. Con il popolo trionfano le arti, i mestieri ed il commercio; con i nobili ritornano in vigore le antiche tradizioni e i privilegi delle famiglie e delle caste. Stanchi delle proprie guerre intestine, nel 1263 i Novaresi affidano il governo della loro repubblica a Martino Della Torre; l’anno successivo gli succede col titolo di podestà perpetuo il fratello Filippo Della Torre. E’ proprio con la protezione del Podestà Filippo Della Torre che i Valsesiani iniziano nel 1264 la loro guerra interna per assalire e cacciare dalla valle i Biandrate; ed in seguito alla nomina di Pagano Della Torre come podestà anche di Vercelli, si riconosce ai Valsesiani il diritto ad autoamministrarsi con Statuti propri. La svolta è datata 1275: con il Trattato di Gozzano e grazie alla protezione Viscontea la Valsesia si costituisce nell’ Universitas Vallis Sicidae . Un “comune” come insieme e difesa delle specifiche identità locali, che tutela la gestione delle risorse vallive, dei rapporti con l’esterno, dei singoli attori. Il periodo di relativa tranquillità è alle porte: con l’atto del 14 novembre 1312 il conte Guglielmo di Biandrate, benché di diritto riconosciuto signore di Valsesia, rinuncia a tutti i diritti e ai suoi privilegi nella valle a favore di Filippo di Savoia, che li riceveva in qualità di vicario imperiale; si conclude con la definitiva vittoria del popolo valsesiano contro i Conti di Biandrate lo scontro durato ben tre secoli. La Valsesia, libera non solo di fatto ma anche di diritto dal giogo feudale, ritorna nominalmente sotto la diretta dipendenza dell’Impero, ma si governa interamente da sé con Statuti e leggi propri, approvati dal vicariato imperiale. L’autocoscienza valsesiana è finalmente raggiunta.

La Valsesia tutta intera costituiva una Università o Comunità generale, ripartita in due Curiae o Corti di Giustizia: l’una comprendeva tutti i comuni della Valsesia Superiore, con sede a Varallo (conta in sé 15 comuni, ed è rappresentata dal patrono San Gaudenzio); l’altra racchiudeva i comuni della Valsesia Inferiore, con sede principale a Valduggia (5 comuni, rappresentati dal patrono San Giorgio). Alla base di questo nuovo ordinamento civile e politico si costituiscono degli Statuti speciali fatti rispettare da un Podestà che amministra con la cooperazione dei due Consigli Generali (organi a capo di ciascuna curia). Gli statuti della Curia inferiore di Valsesia, contenenti centosettantatre capitoli, sono approvati il 20 marzo 1387 dallo stesso vicario imperiale Giovanni Galeazzo Visconti, signore di Milano; quelli della Curia superiore, di duecentoventotto capi, il 26 marzo 1393. Questi ultimi però riflettono l’Università della Valle, e sono fatti “ ad laudem beato rum Gaudentii et Georgii, qui sunt Patroni Communitatis Vallis Siccidae.” Anche il Consiglio generale, presieduto dal Podestà, si radunava a Varallo, nella Sala della Vicinanza (poi convertito ad uso di teatro cittadino). Già dai primi passi della nuova istituzione si legge la sostanziale identità tra la Curia Superior e l’Universitas , e l’importanza della centralità di potere del comune di Varallo nell’intera Valsesia. Si chiamavano Vicini gli abitanti della Comunità; ciascun comune della Curia aveva pure un Consiglio composto da persone che si erano guadagnate la fiducia popolare e quindi definiti Credenzieri . A presiedere il Consiglio della Vicinanza si eleggevano uno o più consoli, secondo la popolazione; essi dovevano tutelare gli interessi della propria vicinanza. Nel Consiglio Generale invece dovevano difendere sempre ed unicamente gli interessi generali della Curia stessa. Il principale magistrato della repubblica era il Podestà o Rettore; esso era sempre forestiere e veniva scelto fra le persone integre e devote alle discipline giuridiche. La carica durava solo un anno ma in quel tempo doveva risiedere in Valsesia; egli “ giurava di mantenere e difendere tutti i diritti, i privilegi e le giurisdizioni della Valsesia; di osservare e far osservare i trattati e le convenzioni stipulate dal Comune con qualunque persona o collegio; di amministrare lealmente il patrimonio del comune; di rendere giustizia e far ragionare a qualunque persona di qualsiasi grado, età e condizione.

Età medievale: le comunità Walser (dal XIII secolo)

“Il nuovo paese, che questi popoli vallesani vennero ad abitare, era ancora selvaggio e deserto. Epperò incominciarono a fermarsi sulla costa del monte, fertile di grassi pascoli, e quivi costrussero i primi abituri con grossi travi di larice, che infatti si riconoscono essere i più antichi. Siffatto bizzarro sistema di costruzioni, non in uso presso gli altri valsesiani, è invece praticato appunto a Saas ed a Zermatt. Quei pastori scesero poi dal monte al piano, cioè nel Land, col quale chiamarono e chiamano ancora il loro paese, cioè dos Land (Alagna). (…) Il conte Goffredo di Biandrate, nel 1250, trasferì nella valle Anzasca alcuni abitanti dell’Alto Vallese, i quali formarono le colonie di Macugnaga, da cui derivarono ancora quelle di Alagna, di Rima e di in Valsesia, se queste come le altre non provennero anch’esse direttamente dal Vallese in eguali circostanze. Si assiste così a uno dei fatti più singolari dell’epoca e del regime feudale, in forza di cui, senza tener conto dei limiti politici, nazionali e geografici, intere popolazioni erano obbligate a portarsi in luoghi remoti ed ancora selvaggi delle contrade montane per formarvi delle stazioni permanenti. (…) Il nome di Alagna si incontra per la prima volta citato in una convenzione, che vedremo essere seguita tra i Valsesiani e il visconte Ibletto, signore di Challant, nel 1270. Dunque queste colonie walser non esistevano prima del XIII secolo. ”10 Il documento, firmato il 30 agosto 1270 a Brusson nella chiesa di S.Maurizio, è importante perché indirettamente dimostra che la Valsesia aveva già rapporti di comunicazione con la Valle d’Ayas tramite la via alta del Monte Rosa, che consentiva il transito verso la Svizzera. La Valsesia era dunque la porta per accedere alla Valle d’Aosta e alla Svizzera: un passaggio obbligato ed importante dal punto di vista strategico e militare.

Valsesia Lombarda (1395-1535) .

Il 1395 vede la nascita del Ducato di Milano, che faceva parte del Sacro Romano Impero ma che di fatto era uno stato indipendente. L’Italia Settentrionale ha così un nuovo importante attore, che annovera tra i suoi territori anche la Valsesia (e ne seguirà la sorte fino al 1707). La valle però mantiene inalterati i propri privilegi e i propri Statuti, istituiti nel 1275. Almeno fino al 1402, quando Gian Galeazzo Visconti cede al nobile novarese Francesco Barbavara i territori appartenuti ai Conti di Biandrate, conferendogli il titolo di Conte di Pietre Gemelle (il territorio di Riva Valdobbia e Alagna, simbolo della Valsesia): la storia si ripete e la valle è nuovamente infeudata. Il potere raggiunto dalla Communitas Communitatis valsesiane però permette la cacciata dei feudatari Barbavara già nel 1413, ritornando alla diretta dominazione del Duca di Milano, nella quale rimarrà anche durante l’età degli Sforza. Addirittura nel 1415 i Valsesiani redigono con il nuovo duca Filippo Maria Visconti la “ Carta dei Privilegi ”, che continueranno a rivendicare fino al 1770. La Valsesia giunge così alla sperata e ricercata autonomia politica, supportata da una solida struttura amministrativa ed a una stabile interrelazione tra le diverse identità del proprio territorio. Questi fattori consentono alla valle di superare i danni e le molestie sofferte negli anni successivi, quando diviene terra di confine tra lo Stato di Milano e il Ducato di Savoia, due forti protagonisti della scena italiana destinati ad essere spesso in contrasto per la supremazia. Ed è proprio questo il periodo di maggior splendore della Valsesia, rappresentato a livello mondiale dall’edificazione del Sacro Monte di Varallo (dal 2003 patrimonio mondiale dell’umanità). L’idea fu concepita nel 1481 dal frate francescano Padre Bernardino Caimi, come riproduzione dei luoghi emblematici della Terra Santa e alternativa al pellegrinaggio: da qui la denominazione Nuova Gerusalemme . Nel 1486 Ludovico il Moro dà il suo benestare alla realizzazione della chiesa di Santa Maria delle Grazie e alle prime cappelle del Sacro Monte. Nel 1499 il re di Francia Luigi XII, con la Seconda Guerra d’Italia, s’impossessa del Ducato di Milano, ma comunque riconferma ai Valsesiani tutti i privilegi firmati con i precedenti signori. L’incertezza politica si manifesta anche nella valle, con due tentativi rivoluzionari innescati da lotte partitiche interne alla Valsesia: il primo ad opera di Giacomo Preti di Boccioleto, il Giacomaccio, e Alberto Giordano di Fobello, una sorta di crociata contro i massimi esponenti del potere del Consiglio Generale di Varallo; il secondo un’incursione di truppe spagnole guidate dal marchese Cesare Maggi, stroncata a Loreto (Varallo). Francesco I di Francia prova allora a consolidare il controllo sulla valle ed evitare successivi tentativi di rivolta investendo del feudo di Valsesia il Conte Caccia: ma la popolazione locale, non volendo e non potendo più accettare un nuovo potere signorile, insorge unita ed aggredisce il conte, che si recava a prendere possesso delle terre, gettandolo nel fiume presso il ponte di S. Quirico. La Valsesia quindi si riconfigura come entità ben delineata ed autonoma. E dopo la battaglia di Pavia, del 1525, nella quale il re di Francia è sconfitto da Carlo V d’Asburgo, re di Spagna e imperatore dei romani, prestando giuramento di fedeltà al nuovo duca Francesco II Sforza, si vede nuovamente riconosciuti tutti gli antichi privilegi e Statuti come ricompensa alla lealtà dimostrata.

La dominazione spagnola (1535-1707)

Il Cinquecento vede il suolo italiano sede di una serie di otto conflitti, le Guerre d’Italia, aventi come obiettivo finale la supremazia in Europa; inizialmente avviate dai sovrani francesi scesi in Italia per far valere i propri diritti ereditari sul Regno di Napoli e sul Ducato di Milano, ben presto coinvolgono la Spagna e il Sacro Romano Impero. Al termine delle guerre è proprio la Spagna ad affermarsi come principale potenza del panorama continentale, ponendo gran parte della penisola sotto la sua dominazione diretta (quali il Regno di Napoli, Sicilia e Sardegna, il Ducato di Milano) o indiretta (una certa autonomia è mantenuta solamente dalla Repubblica di Venezia e dal Ducato di Savoia). Anche la Valsesia è campo di battaglia nella guerra tra Francesi e Spagnoli; importantissima la Battaglia di Romagnano Sesia, combattuta il 30 aprile 1524 fra le truppe spagnole di Carlo V e l’esercito francese di Francesco I nel corso della Quarta Guerra d’Italia. La battaglia si risolve in due scontri successivi sulla destra del fiume Sesia, tra Romagnano e Gattinara; la retroguardia dell’esercito francese in ritirata è sconfitta dagli inseguitori imperiali, che mostrano l’efficacia delle armi da fuoco anche contro la cavalleria pesante. Nel 1535 muore Francesco II Sforza senza lasciare eredi: il Ducato di Milano è annesso al regno di Carlo V di Spagna, che mantiene comunque in vigore gli Statuti Valsesiani.

Ciò che caratterizza in questi anni la Valsesia e ne accentua al tempo stesso la sua fragilità è il fatto di configurarsi come una costellazione di istituzioni caritative di natura territoriale segmentaria, le “carità ”. Il vescovo di Novara Carlo Bascapè, seguace di san Carlo Borromeo, segnala che Varallo possiede tre carità: la confraria, la carità dei poveri e la carità di San Marco; successivamente nascerà anche l’Opera Pia Massarotti. Un documento straordinario ritrovato a Valduggia dimostra come le carità fossero concepite deliberatamente come istituzioni per la costruzione di luoghi. Sono un ambito all’interno del quale si istituiscono le regole della coesione in territori specifici orientati dalle vicende insediative, demografiche e politiche dell’insediamento; un ambito che attrae o respinge le vicinanze. Ma la plasticità delle pratiche territoriali valsesiane è data dal fatto che unioni, smembramenti tra cantoni, parrocchie, confrarie, sono revocabili secondo le necessità del momento. 11

Valsesia Sabauda (1707-1799)

La situazione in Valsesia si mantiene immutata e stabile fino alla Guerra di Successione di Spagna, combattuta fra il 1701 e il 1714. Nel 1707 la Valle passa sotto la dominazione dei Savoia per volontà di Giuseppe I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, disponendo che siano accordate ai Valsesiani tutte le facilitazioni e i privilegi di un tempo, compresi gli statuti. La guerra si risolve dopo lunghe e laboriose trattative il 13 luglio 1713 con la firma del trattato di pace di Utrecht tra Francia, Inghilterra, Portogallo, Prussia, Olanda e Savoia: il secolo XVIII è infatti noto come il secolo della politica dell’equilibrio; la stessa Valsesia è una pedina di una scacchiera ben più vasta, e assegnata al duca Vittorio Amedeo II di Savoia, che assume il relativo titolo regio.

L’articolazione del territorio rappresenta però un problema di primaria importanza per il controllo e l’amministrazione della valle per il nuovo regno; ciò è suggerito dalle approssimazioni con cui essa è colta dagli sguardi esterni degli amministratori sabaudi. Il metodo tradizionale di conoscenza del territorio attraverso la divisione in “ terre ” si dimostra un fallimento; negli anni Venti si tenta una nuova ricognizione della Valsesia con un’altra unità di misura: il “ cantone ”, un aggregato di insediamenti che può far parte di una molteplicità di circoscrizioni, come unità rituale responsabile del processo di apparrocchiamento e come costruzione politica di un territorio gerarchicamente ordinato. Da questa duttilità del concetto di cantone deriva un’ulteriore problematicità nella definizione di termini base per la geografia politica ed amministrativa, come luogo , comunità o comune . Un “luogo” è una circoscrizione all’interno della quale si possono ripartire i carichi fiscali, e conseguentemente una giurisdizione. Mentre, nella terminologia valsesiana, una “comunità” è percepita come una federazione di insediamenti su basi non sempre esplicitate. Ed ancora più fragile la nozione di “comune”: in Valsesia la coesione politica comunale è indebolita da istituzioni di più ampia scala, che precedentemente avevano fatto la fortuna della valle stessa. Alcune già ben note, come le Curie , che di fatto la dividono in due sezioni distinte dal punto di vista giuridico (per il tribunale) e rappresentativo (per il Consiglio); ma si possono riconoscere anche coalizioni di località, denominate Riviere .12 A partire da queste entità sovrapposte ed intrecciate si è sviluppata nei secoli una forte identità giurisdizionale, che coincide con l’area di validità dei suoi statuti, cioè delle sue esenzioni, dei suoi privilegi e delle sue pratiche specifiche. Anche la cartografia piemontese inizia a descrivere in maniera più approfondita il territorio; viene data maggiore importanza all’orografia e alla toponomastica delle valli. Solo nella seconda metà del 1700, dopo che la Valsesia diventa ufficialmente territorio piemontese, viene rivalutato l’argomento “monti e miniere”, affidato al Cav. Esprit-Benoit Nicolis de Robilant, capo dei servizi mineralogici del Regno Sabaudo; negli anni 1784-85 offre una carta mineralogica topografica di grande importanza, correlata da 505 nomi di luoghi, miniere e montagne.

Con il 1770 cambiano molte cose per la Valsesia: re Carlo Emanuele III intende estendere anche alla valle la sua raccolta di leggi, allo scopo di creare una costituzione unitaria per tutte le province del Regno Sabaudo, rendendo territorialmente sempre più coesa l’applicazione della normativa regia. La Valsesia cessa quindi di godere dei propri privilegi amministrativi, giudiziari e finanziari (tra cui l’autonomia del Consiglio Generale).

Valsesia rivoluzionaria (1800-1814)

Scoppiata la rivoluzione francese anche la Valsesia inneggia ai principi di libertà e uguaglianza; ma rimane un breve momento, fino alla battaglia di Marengo, avvenuta nel giugno 1800: Napoleone valica il passo del Gran San Bernardo ed entra in Italia, puntando su Milano, si scontra con le truppe della coalizione italiana, vince e i francesi ritornano padroni di gran parte dell’Italia Settentrionale. I consoli francesi emettono un decreto destinato a sconvolgere la situazione dell’intera valle. La Valsesia viene “divisa” in due: Borgosesia, Varallo e Valduggia sono incorporate nella Repubblica Cisalpina, poi Regno Italico, sotto il nuovo Dipartimento dell’Agogna; mentre le altre terre della riva destra del fiume Sesia sono inglobate nel territorio francese, come parte del Piemonte, sotto il controllo del Dipartimento della Sesia; il fiume Sesia diventa, in tutta la sua lunghezza, il confine tra l’Impero di Francia e il Regno Italico. L’improvvisa divisione del territorio in due distinte nazionalità, per cui gli abitanti della riva destra del fiume, annessi al Piemonte, facevano capo a Vercelli, sede del Dipartimento della Sesia, mentre quelli della sponda sinistra dipendevano dal Dipartimento dell’Agogna, porta a una serie di conseguenze determinanti per il futuro della valle stessa: la scomparsa delle antiche istituzioni e delle consuetudini politico-amministrative, derivanti dagli antichi privilegi; l’imposizione della leva militare; l’introduzione di un nuovo sistema di riscossione delle tasse e di amministrazione della giustizia; l’istituzione del dazio quale luogo di confine, anche su prodotti di prima necessità come il sale. La breve parentesi napoleonica porta con sé ben pochi vantaggi al regno italiano; anzi, l’economia si ridimensiona a tal punto che la popolazione valsesiana è costretta in molti casi a vendere fieno, animali, addirittura le proprie case, andando ad aumentare il numero degli emigranti.

Valsesia Provincia (1815-1861)

Nel riordinamento politico del 1815, deciso con il Congresso di Vienna 13 , e della cosiddetta Restaurazione, vengono riconfermati i confini pre-napoleonici: la Valsesia ritorna sotto il dominio del Re di Sardegna Vittorio Emanuele I e il fiume Sesia cessa di essere la frontiera tra Francia ed Italia. Inoltre vengono ristabiliti i vecchi ordinamenti sabaudi del 1770 e soprattutto sono ridotte le imposte sui prodotti tassati, come il sale e la carne. Nel 1819 la Valsesia è costituita provincia divisa in tre mandamenti, con capoluogo la città di Varallo. La nuova circoscrizione amministrativa viene parificata alle altre regioni dello Stato Sabaudo, lasciando però sussistere gli antichi privilegi di cui la valle godeva nei secoli precedenti (privilegiata per la povertà della sua economia), abolendo invece il Consiglio Generale e l’antica carica di Reggente (sostituito da un tribunale di Prefettura). È del 1823 la completa sistemazione della strada provinciale che collega il capoluogo Varallo alla città di Novara. Successivamente, nel 1837, la provincia autonoma della Valsesia viene abolita e aggregata a Novara; già nel 1844 viene nuovamente ricostituita. Questa situazione si protrae fino al 4 marzo 1848, cioè all’entrata in vigore dello Statuto Albertino (dal nome del re Carlo Alberto di Savoia): l’articolo 24 sancisce l’uguaglianza della legge verso tutti i cittadini del regno ed abolisce qualsiasi passato privilegio, di cui godevano i Valsesiani. Tutto quello che ricorda l’autonomia della comunità viene annullato, negato, sottratto dai Savoia (come il simbolo bronzeo dell’Universitas Vallis Sicidae, portato a Torino): la Valsesia è a tutti gli effetti possedimento del Regno di Sardegna nella zona che poi sarà denominata Piemonte.

Regno D’Italia (1861-1945)

Il 17 marzo 1861 il nuovo parlamento italiano proclama il Regno d’Italia, con capitale Torino; Vittorio Emanuele II assume il titolo di “Re d’Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione”. La Valsesia è ora italiana; con l’abolizione della provincia autonoma e il ritorno sotto la giurisdizione della provincia di Novara nel 1859, la Valsesia seguirà le vicende dell’Unità d’Italia.

Negli anni a cavallo tra il secolo XIX e il secolo XX, la cosiddetta “Belle Epoque”, la Valsesia comincia a sviluppare sempre più la propria vocazione al turismo: le strutture alberghiere si moltiplicano e si modernizzano; i principali centri si dotano di illuminazione elettrica (a Varallo viene inaugurata il 2 settembre 1893); sempre a Varallo viene inaugurata la Pinacoteca nel 1885; due anni più tardi nasce la sezione varallese del Club Alpino Italiano, dando il via alla grande stagione dell’alpinismo e alla scoperta della montagna come risorsa promotrice della valle, quale luogo di villeggiatura, relax e attività sportive; sulla linea di espansione delle potenzialità turistiche, è del 1893 la fondazione a Varallo del grande Stabilimento Idroterapico e Climatico, che negli anni successivi è annoverato tra i centri termali più chic d’Europa. Sempre in questo quadro di grande crescita economica e sviluppo turistico si inserisce la volontà della stessa città di Varallo di incaricare nel 1869 l’ingegner Giuseppe Antonini delle modifiche a un suo precedente progetto della linea ferroviaria che mettesse in comunicazione la Valsesia a Novara; e da questo studio l’ingegnere Cesare Rota realizza il progetto definitivo della ferrovia: i lavori partono nel 1879, e si concludono con l’inaugurazione del 12 aprile 1886 a Varallo del tronco finale della ferrovia che collega la Valsesia a Novara.

Un grande futuro si comincia a delineare; ma a bruciare le speranze arriverà la Prima Guerra Mondiale. Tra il 1915 e il 1918 la Valsesia si mobilita proprio per la guerra: l’ospedale di Varallo diventa ospedale militare; il collegio d’Adda un ospedale ausiliario; lo stesso Stabilimento Idroterapico chiude i battenti dell’hotel termale e apre le sue stanze ai malati e ai feriti. Fino all’armistizio del 1918, che decreta la fine delle ostilità. Dopo la Grande Guerra si cerca di riprendere la precedente linea di sviluppo turistico: nel 1927 Varallo riceve lo status di “stazione di cura, soggiorno e turismo”, mentre nel 1935 viene inaugurata la funivia del Sacro Monte per richiamare e rivitalizzare il movimento di fedeli. L’innato senso di libertà che per secoli ha pervaso la valle rivive durante il periodo fascista, fra il 1922 e il 1939: la Valsesia non appoggia la nuova ed eccessiva linea politica che acquista sempre più potere in Italia, portando la dittatura a tentare di smobilitare quel poco di potere locale ancora vivo. Nel 1926 viene così scorporata definitivamente dalla provincia di Novara e annessa alla nascente provincia di Vercelli. L’effetto di questo fenomeno resistenziale comprende: tutta l’opposizione antifascista anteriore all’8 settembre 1943, data dell’armistizio, e successivamente l’azione antitedesca; la resistenza morale e culturale operata da uomini di cultura coraggiosi che tengono viva la libertà di pensiero; la resistenza delle piccole cose, silenziosa, delle donne, dei sacerdoti, degli anziani e di alcuni operai attraverso scioperi; e culmina con il movimento dei partigiani. In effetti su questo territorio agiscono alcune delle formazioni partigiane più celebri, le Brigate Garibaldi guidate da Cino Moscatelli, Beltrami e i fratelli Di Dio: supportate dai semplici cittadini rendono possibile il ritorno della libertà e della democrazia nella valle. Tra l’11 giugno e il 10 luglio 1944 la Valsesia diventa la seconda repubblica partigiana, mentre il 23 aprile 1945 è dato il via all’offensiva partigiana delle Brigate Garibaldi Valsesiane che porta alla liberazione di Novara e di tutta la Valsesia la sera del 25 e all’entrata a Milano la mattina del 28. Proprio a riconoscenza del loro valore, la stessa Valsesia è insignita della medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza e la liberazione dal nazifascismo.

Valsesia nella Repubblica Italiana (dal 1946 all’oggi)

Il 2 giugno 1946 si celebrano le prime libere elezioni dopo la parentesi fascista: hanno diritto di voto tutti gli italiani maggiorenni maschi e, per la prima volta, femmine. Gli italiani votavano, oltre che per il Referendum Istituzionale, per l’elezione dei deputati all’Assemblea Costituente, l’organo preposto alla stesura della Costituzione per la neonata Repubblica Italiana; alle sedute, che si svolsero fra il 25 giugno 1946 e il 22 dicembre 1947, giorno dell’approvazione in aula del testo finale della Costituzione, partecipa anche Giulio Pastore, deputato DC, che per anni aveva vissuto in Valsesia tra Borgosesia e Varallo. Dopo la ricostruzione, a partire dalla fine degli anni ’50 e per il decennio successivo si innesca in Italia il boom economico, un periodo di forte crescita economica e di rapida evoluzione che trasforma la penisola italiana in un moderno paese industrializzato. Tale processo investe anche i centri principali della Valsesia, quali Borgosesia, Quarona e Varallo, e soprattutto la sua frazione di Roccapietra; mentre per gli altri paesi della valle si riscopre la vocazione al turismo, non solamente legato alle risorse naturali, ma anche aperto alla cultura e all’arte locali come fattore di identità del luogo Valsesia. Infatti nel 1957 viene fondata la Società Valsesiana di Cultura, nel luglio del 1960 è inaugurato il Palazzo dei Musei a Varallo, mentre nel settembre 1976 avviene l’apertura del Museo Walser di Alagna. È datata 1973 la nascita della Comunità Montana Valsesia, l’ente che rappresenta complessivamente la realtà territoriale della Valsesia. Il territorio della valle si estende per 763 Km quadrati, di cui il 60% è ricoperto da boschi: per la protezione di questo patrimonio nel 1979 nasce il Parco Naturale dell’Alta Valsesia. Di diversa natura è l’istituzione nel 1980 della Riserva Naturale Speciale del Sacro Monte di Varallo, durante il convegno internazionale sui Sacri Monti tenutosi proprio a Varallo, per la difesa di questo luogo, della sua natura, della sua spiritualità, e simbolo della cultura e dell’arte valsesiana. Nel 1984 lo stesso Papa Giovanni Paolo II visita Varallo e la Nuova Gerusalemme.

4.1.1. La comunità montana: limiti amministrativi e comunali

Le Comunità Montane sono gli enti di secondo livello che rappresentano complessivamente le realtà territoriali dei Comuni delle valli alpine e dei Comuni pedemontani, anche appartenenti a province diverse.

La disciplina delle comunità montane della Regione Piemonte è stata recentemente riordinata per:

a) adeguare la consistenza territoriale e demografica ai criteri di omogeneità socio-economica, rafforzandone la natura per garantire l'effettività delle misure di sostegno delle zone montane e la promozione, lo sviluppo e la tutela del territorio; b) razionalizzare gli apparati istituzionali allo scopo di rendere più efficace l'azione politica ed amministrativa; c) concorrere agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, in ottemperanza a quanto stabilito dall' articolo 2, comma 17 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008). Il 28 agosto 2009, le nuove Comunità Montane sono state formalmente costituite con distinti decreti della Presidenza della giunta regionale.14

La Comunità Montana Valsesia è:

1. Agenzia di sviluppo del territorio montano, ai sensi dell’art. 8 dello Statuto della Regione Piemonte e della legge regionale 1 luglio 2008 n. 19, con lo scopo di rendere effettive le misure di sostegno ai territori montani, promuovere lo sviluppo socio-economico del proprio territorio, rafforzare la cultura del territorio e perseguire l'armonico riequilibrio delle condizioni di esistenza delle popolazioni montane mediante mirate politiche di coesione sociale e di sviluppo economico. 2. Ente locale autonomo di governo della comunità locale che concorre con Province e Comuni a realizzare un coordinato sistema delle autonomie, ai sensi dell’art. 3, comma 2, dello Statuto della Regione Piemonte, con lo scopo di promuovere la valorizzazione della zona montana attraverso l’esercizio di funzioni proprie e di funzioni delegate.

3. Unione di Comuni per l’esercizio associato delle funzioni comunali ai sensi del decreto legislativo n. 267 del 2000 e della legge regionale n. 19 del 2008, anche al fine di conseguire una più efficace erogazione dei servizi comunali.

4. Ente di bonifica ai sensi della legge 3 dicembre 1971, n. 1102 e volge le funzioni di consorzio di bonifica ai sensi della legge regionale n. 19 del 2008, al fine di garantire migliori condizioni di abitabilità del territorio, in particolare assicurando il mantenimento dell'assetto idrogeologico e la tutela delle fonti idriche.

La Comunità montana Valsesia è costituita da 28 Comuni (Alagna Valsesia, Balmuccia, Boccioleto, Borgosesia, Breia, Campertogno, , Cellio, , , , Fobello, , Pila, , Quarona, Rassa, Rima San Giuseppe, Rimasco, Rimella, Riva Valdobbia, Rossa, , Scopa, Scopello, Valduggia, Varallo Sesia, ), per un totale di circa 34mila abitanti, e si estende per 763 Km quadrati.

Questo ente pubblico gestisce i servizi associati su delega dei Comuni appartenenti e persegue una strategia unitaria per lo sviluppo d’insieme dell’area montana.

La funzione più importante della Comunità Montana Valsesia è quella di programmare lo sviluppo socio-economico; ciò si concretizza attraverso diversi strumenti:

a) il "Piano Pluriennale di Sviluppo Socio-Economico" b) i “Programmi annuali operativi”, attraverso i quali interagisce con Provincia e Regione c) i “Piani di Settore”, per quanto riguarda le risorse idriche ed energie rinnovabili, lo sviluppo turistico, la valorizzazione delle produzioni agro-silvo-pastorali ed artigianali, la filiera forestale. All'interno di questo quadro l'Ente, per attribuzioni dirette da parte legislativa o per deleghe specifiche dalla Regione, dalla Provincia e soprattutto dai Comuni partecipi, esercita le proprie azioni operative e di servizio al territorio, oltre a sviluppare progetti innovativi finanziati con risorse comunitarie, nazionali o regionali.

CENNI STORICI

La Comunità Montana Valsesia è nata ufficialmente nel 1973 in ottemperanza alla “legge nazionale sulla montagna n°1102 del 03/12/1971”, ma già nel 1946 a Varallo si era costituito il “ Consiglio della Valle ”, in assoluto la prima esperienza sul territorio nazionale di organismo di rappresentanza istituzionale di un'area montana. Il Consiglio della Valle ha così anticipato di 25 anni i caratteri del futuro Ente Comunità Montana, nella composizione dei Comuni Valsesiani e nei ruoli di rappresentanza e di servizio sul territorio.

La sua sede è stata presso il Comune di Varallo fino al 1957. In seguito, fino al 1964, viene spostata presso l’Azienda di Soggiorno e Turismo di Varallo, ed infine presso il Palazzo dei Musei sempre in Varallo.

Il testimone del Consiglio della Valle sarà appunto ereditato dalla Comunità Montana Valsesia. Costituita nel 1973, la Comunità montana Valsesia eredita il testimone del Consiglio della Valle e diventa operativa nel 1974, con sede sempre nel Palazzo dei Musei a Varallo, e il primo presidente eletto è il Dr. Ing. Gianni Pastore. Solo nel 1995 la sede definitiva diventa Villa Virginia, in Corso Roma a Varallo.

Il 13 aprile 1975 viene approvato dal Consiglio della Comunità montana Valsesia il primo Piano di Sviluppo Economico-Sociale Pluriennale, frutto di un'accurata analisi della realtà territoriale valsesiana che si è tradotta in importanti scelte strategiche ed in impegni programmatico-operativi ancor oggi di grande attualità.

Nel 1980 segue l’elaborazione del Piano Regolatore Intercomunale nel rispetto della Legge Regionale n. 56 del 1977 “Tutela ed uso del suolo”: questo piano regolatore viene sviluppato in parallelo allo schema di Piano di Sviluppo del costituendo Comprensorio di Borgosesia che comprendeva tutta l’area valsesiana e i Comuni di pianura a sud di Borgosesia.

Il più recente Piano pluriennale è stato elaborato nel 1999 e approvato all’inizio del 2000.

La storia e il ruolo istituzionale dell’Ente Comunità Montana sono stati sicuramente influenzati dalle controverse vicende storiche dell’assetto delle autonomie locali a livello nazionale; in particolare, alla fine degli anni ’70, le discussioni sugli Enti intermedi fra Regione e Comuni, sull’ipotesi dei Comprensori in sostituzione delle Province e poi la scelta di consolidare le Province ed abbandonare l’idea stessa dei Comprensori, hanno segnato profondamente il ruolo di tutte le Comunità Montane.

Se consideriamo poi le carenze legislative sulla montagna e i recenti tagli finanziari subiti, il quadro che permane è assai critico. Molte Comunità Montane hanno gettato la spugna, altre hanno ridotto il loro ruolo a semplice funzione di rappresentanza.

In questa critica situazione la Comunità Montana Valsesia si è sicuramente distinta con convinzione e caparbietà in una missione più ampia sul territorio: di “guida”, di “coordinamento” e di “ricerca dell’unità dei Comuni” nell’azione complessiva e nell’erogazione di servizi importanti che le difficoltà e la frammentazione del territorio rendevano e rendono tuttora problematici.

1 Cfr. Federico Tonetti, Storia della Vallesesia e dell’alto Novarese , ristampa dell’edizione di Varallo 1875-1880 a cura della Libreria Corradini di Borgosesia, Bologna 1975, pp. 28-29. 2 O.cit. Federico Tonetti, Storia della Vallesesia e dell’alto Novarese , pp. 141-142. 3 Cfr. Gandino G., Sergi G., Tonella Regis F. per Società Valsesiana di Cultura, Borgofranco di Seso 1247-1997. I tempi lunghi del territorio medievale di Borgosesia, Torino 1999, pp. 67. 4 O.cit. Federico Tonetti, Storia della Vallesesia e dell’alto Novarese , pp. 262-268. 5 O.cit. Gandino G., Sergi G., Tonella Regis F., “ Borgofranco di Seso 1247-1997. I tempi lunghi del territorio medievale di Borgosesia. ”, pp. 53. 6 O.cit. Federico Tonetti, Storia della Vallesesia e dell’alto Novarese , pp. 193. 7 O.cit. Federico Tonetti, Storia della Vallesesia e dell’alto Novarese , pp. 245. 8 O.cit. Federico Tonetti, Storia della Vallesesia e dell’alto Novarese , pp. 359. 9 O.cit. Federico Tonetti, Storia della Vallesesia e dell’alto Novarese , pp. 362. 10 O.cit. Federico Tonetti, Storia della Vallesesia e dell’alto Novarese , pp. 274-281. 11 O.cit. Gandino G., Sergi G., Tonella Regis F., “ Borgofranco di Seso 1247-1997. I tempi lunghi del territorio medievale di Borgosesia. ”, pp. 86-89. 12 O.cit. Gandino G., Sergi G., Tonella Regis F., “ Borgofranco di Seso 1247-1997. I tempi lunghi del territorio medievale di Borgosesia. ”, pp. 82-85. 13 « S'identificò la storia della civiltà con la storia della religione, e si scorse una forza provvidenziale non solo nelle monarchie, ma sin nel carnefice, che non potrebbe sorgere e operare nella sua sinistra funzione se non lo suscitasse, a tutela della giustizia, Iddio: tanto è lungi dall'essere operatore e costruttore di storia l'arbitrio individuale e il raziocino logico. » A. Omodeo riferito al “Conservare Progredendo”, L'età del Risorgimento Italiano , Napoli 1955. 14 Cfr. Supplemento ordinario n. 1 del 31 agosto 2009 al BUR n. 34 del 27 agosto 2009. 4.2. Trasformazione demografica delle comunità alpine Per acquisire coscienza sullo stato e la struttura della popolazione è necessario studiare la variabile popolazione nei suoi mutamenti bel tempo. Le serie demografiche, nel caso delle Alpi, ci informano tramite testimonianze archeologiche, seppur scarse e non sempre adeguate, che la penetrazione dell’uomo nella regione alpina iniziò circa 100 000 anni fa. L’acquisizione di informazioni relative ad un periodo molto esteso è necessaria per lo studio dell’ecologia umana di un’area di montagna, in quanto la presenza di costrizioni ambientali particolarmente incisive ed apparentemente immutabili potrebbe suggerire la conseguente interpretazione di uno sviluppo immutabile per lunghi periodi mentre nella realtà, per il periodo Preistorico e per l’età Romana e Medioevale, scarse documentazioni dimostrano una demografia ed ecologia umana delle Alpi stimolata da numerosi mutamenti critici. Gli archeologi fanno risalire gli inizi dell’occupazione della regione alpina da parte dell’uomo all’interglaciale Russ-Wurm (circa 100 000 anni fa). La successiva risalita di piccoli gruppi umani lungo le valli alpine si riscontra solamente 10 000 anni fa, al termine dell’era glaciale; “bande di cacciatori si avventuravano nelle larghe valli e nelle alture più accessibili durante l’estate seguendo le migrazioni stagionali della selvaggina …” . Il Neolitico però, sancisce il vero inizio del popolamento della Alpi da parte di gruppi che praticavano un’economia produttiva articolata tra allevamento del bestiame ed agricoltura, sistema simile all’attuale. L’espansione conseguita ha come base due diversi insiemi di fattori di natura tecnologica e climatica: la permanenza ad altitudini relativamente elevate diventò tollerabile a seguito di un miglioramento climatico, ora caldo e piuttosto secco, e le evoluzioni tecniche di fabbricazione degli utensili resero possibile un più sistematico disboscamento dei pendii delle valli. Altro fattore propulsivo per l’insediamento è la scoperta,durante l’età del Bronzo, che le Alpi contenevano ricchi giacimenti di rame che contribuirono ad un accrescimento dell’attività mineraria. La tendenza all’espansione dell’insediamento e alla crescita della popolazione perdura durante l’età del Ferro e, con la migrazione delle tribù celtiche verso le Alpi si individuano testimonianze di “una tribù numerosissima di uomini che abita le Alpi”. Un successivo mutamento si ha nel tardo Medioevo, quando le Alpi sono coinvolte in un ampio processo di colonizzazione ed espansione degli insediamenti promosso principalmente dall’aristocrazia terriera ed i monasteri con l’intento di sfruttare più intensivamente i possedimenti nelle terre marginali delle alte valli, anche se, in alcuni casi la colonizzazione sembra aver costituito la risposta alla crescente pressione demografica delle regioni di pianura. Un esempio tipico ma anche particolare (per provenienza e tipologia d’insediamento) è la fondazione di Alagna. Nella seconda metà del XIII secolo la parte superiore della Valsesia era perlopiù spopolata, l’intero territorio formava un'unica parrocchia e Riva Valdobbia era l’ultimo insediamento permanente posto più in alto nella valle, la struttura insediativa era costituta da un piccolo gruppo di case circondato da veste aree a pascolo di proprietà di due monasteri. I monasteri sin dal Medioevo hanno rivestito un ruolo importante nell’amministrazione del territorio, grazie alle vaste proprietà di terreni in bassa valle, alle stazioni (pedes) situate a media altitudine e gli alpeggi estivi dell’alta valle gestivano la maggior parte di movimenti di mandrie transumanti dalla pianura alle alte valli. L’insediamento da parte dei coloni Walser, provenienti dalle vallate svizzere, innesca un potente cambiamento nel paesaggio antropizzato dell’alta valle, le cause dipendono dalla scelta di stanziare le prime frazioni abitate proprio in concomitanza degli accampamenti temporanei dei mandriani ai piedi degli alpeggi per le transumanze. Già nel XIV secolo si trasformano in insediamenti permanenti limitando così parti di territorio prima ben sfruttate dall’allevamento e spingendo più in alto il limiti dei pascoli, da ciò ne conseguirà un mutamento decisivo sia nell’ecologia umana che nella demografia delle alte valli. Il passaggio ad una transumanza su lunga distanza è ormai necessario ed avviene grazie all’aristocrazia terriera ed ai monasteri fondati ai piedi delle Alpi che, disponendo di risorse in denaro e terreni, permettono lo spostamento di greggi e mandrie di grosse dimensioni su pascoli di loro proprietà o sotto la loro giurisdizione ed inoltre rafforzano la domanda sul mercato per i prodotti della pastorizia e permettono una sufficiente stabilità politica; si compie un grande mutamento storico nell’economia e nell’ecologia delle Alpi. La vera grande svolta si ha però due o tre secoli dopo, i coloni delle Alpi sviluppano una “strategia produttiva” più intensiva che abbandona il modello di uso estensivo della terra basato sulla pastorizia transumante per favorire un modello produttivo più intensivo che combinava agricoltura con pastorizia. Le distese erbose utilizzate a pascolo vengono trasformate in campi e prati e nuovi pascoli si ricavano dall’arretramento del limite boschivo. Elemento importante è la fondazione e la successiva crescita di nuovi insediamenti che, se da un lato rappresenta un’ulteriore sviluppo, dall’altro crea ripercussioni profonde sull’economia degli insediamenti più antichi privando gli abitanti dei pascoli utilizzati per la stagione estiva. Dal punto di vista ecologico e demografico questo processo di intensificazione innesca un cambiamento molto significativo, la colonizzazione medioevale consente lo sviluppo di una forma matura di Alpwirtschaft, un sistema economico, sociale e spaziale unitario, di tipo agricolo - pastorale , che gestisce due tipi di suolo produttivo, la terra coltivabile ed il pascolo , e si articola in due corrispondenti tipi di insediamento, il villaggio di fondovalle e l’alpeggio. La struttura organizzativa dell’Alpwirtschaft funziona ad anello concentrico, di inverno gli animali devono restare nelle stalle, la presenza di fieno quindi risulta essenziale ed è il punto di congiunzione tra pastorizia ed agricoltura. Dalla produzione del fieno dipende la quantità di animali pascolati sugli alpeggi ma anche il limite della quantità di terra che può essere destinata alla coltivazione. Il mantenimento di un delicato equilibrio tra agricoltura e pastorizia costituisce il nucleo del modello di questo sistema chiuso, per cui norme impedivano ai proprietari di bestiame di pascolare sugli alpeggi più animali di quanti ne potessero tenere , inoltre i membri della comunità di villaggio godevano di accesso comune ed esclusivo alle risorse del territorio che abitavano. Ciò delinea un modello insediativo imperniato si un sistema produttivo locale di notevole chiusura economica e demografica. Con lo sviluppo medioevale dell’Alpwirtschaft si consolida la forma istituzionale della comunità corporata chiusa. Le forme di comunità corporate chiuse hanno origini disparate ma la caratteristica comune è il loro grado di autonomia rispetto ai signori feudali che permetti di autoregolarsi, di conservare i caratteri originari e negare accesso a forestieri alle risorse locali. La colonizzazione delle alte valli, lo sviluppo dell’Alpwirtschaft ed il consolidamento della comunità corporata chiusa concorsero a produrre, nel tardo Medioevo, una discontinuità nell’ecologia umana e demografia delle Alpi; l’articolazione per strutture comunitarie chiuse in alta valle regolava il proprio carico di popolazione e la presenza nelle Alpi di ampie zone di frontiera era attrattiva per nuovi coloni che volevano stanziarsi in terre libere. Si può dedurre che nel XIV secolo ampie zone delle alpi risultano ancora fortemente sottopopolate a differenza delle zone pianeggianti e nonostante la colonizzazione dell’alta valle, questo concorre a favorire lungo tutto il periodo del tardo Medioevo allo sviluppo di un periodo di crescita demografica per l’area alpina in discordanza al disastroso crollo demografico che si manifesta nelle pianure circostanti a causa delle epidemie di peste. Le ragioni di queste differenti evoluzioni riguardano la localizzazione: l’insediamento di pianura presenta condizioni di sovrappopolamento, a vicinanza diretta al contagio, poca salubrità dell’aria e sistema igienico insufficiente mentre l’insediamento di alta valle è caratterizzato da un maggiore isolamento, una densità controllata ed una maggior salubrità dell’aria ,il diffondersi tuttavia di gravi epidemie di peste nera è riscontrato anche in alta valle anche se con incidenze di mortalità minori. In linea con l’andamento generale di crescita demografica ne l corso del XVI secolo la alpi raggiungono un primo culmine demografico seguito da un periodo di stagnazione o addirittura di declino che dura fino alla metà del Settecento. Il conseguimento del primo tetto demografico si attua intorno al 1500 dove si osserva un rapido e consistente aumento dell’emigrazione, sia stagionale che permanente, e questa è la dimostrazione del raggiungimento in quel periodo nelle Alpi di uno stato di sovrappopolamento che aveva incentivato l’esodo verso le pianure. Alla fine del XVI secolo però si manifesta un improvviso balzo dell’emigrazione alpina e la cause sono riconducibili ad un deterioramento del clima, negli ultimi decenni del Cinquecento infatti vi è l’inizio della cosiddetta piccola Era Glaciale, in cui in tute la Alpi vi fu una spettacolare rapida espansione dei ghiacciai nello spazio di pochi anni e vi furono effetti devastanti sulla produzione agricola. Nonostante questi cambiamenti, grazie alle documentazioni relative ad Alagna, si può supporre che lo sviluppo demografico persiste fino a giungere a conclusione con l’arrivo del 1600. Successivamente in tutta la Valsesia si assiste ad un momento di stasi e nonostante la crisi del 1630 causata da un epidemia di peste nera il processo di crescita si arresta senza però subire effetti catastrofici nell’intera valle, a seguito di censimenti risultò che Riva Valdobbia fu una delle località più colpite mentre altre località anche se contagiate seriamente come Campertogno non subirono perdite ingenti. La seconda metà del Seicento è portatrice in tutta la Valsesia di una generale tendenza alla crescita, tranne in casi isolati coma Alagna e Rimella dove si registra un leggero declino forse causato dall’introduzione di pratiche di controllo delle nascite (già da tempo attuate in Francia) mentre in contrasto è lo sviluppo delle altre aree alpine caratterizzato da un periodo di stasi della crescita demografica. Nella prima metà del Settecento però vi è un’inversione di marcia, solo in Val Mastallone perdura la crescita mentre nei centri della bassa valle, come Varallo e Borgosesia, e insediamenti dell’alta valle, quale Alagna, e la Val Sermenza, si manifesta un regime di stasi e, al contrario, nella zona di Valduggia e nella Valgrande si denota un calo di crescita. Si manifesta quindi in centri come Alagna un regime demografico di bassa pressione in cui i tassi di mortalità non sono elevati ma anche al natalità si presenta contenuta (probabili interventi di controllo delle nascite). Nonostante questo la disparità degli andamenti si equilibra ed il totale della popolazione totale della vallata censita risulta invariato. A partire dalla metà del Settecento è generalmente distribuito nelle Alpi un regime a bassa pressione demografica, anche se esempi di moderati tassi di natalità e mortalità si registravano già dal 1500 in alcune località, si può definire decisiva in questo periodo la caduta del tasso di mortalità ,le cui cause derivano dall’introduzione su larga scala della coltivazione della patata che contribuisce ad un aumento della produttività agricola per la facilità di coltivazione e l’alta resa produttiva (maggior resistenza anche ad agenti climatici). Invece in Valsesia e soprattutto in alta valle si registra una tendenza contraria, la coltivazione della patata, che era già stata introdotta nei primi anni del Settecento, non si afferma in modo decisivo nel sistema agricolo valse siano e, tra la fine del Settecento ed i primi decenni del secolo successivo, la Valsesia si confronta con un grande declino demografico causato dalle conseguenze della guerra francese. Particolarmente incisivo è l’aumento della tassazione che trasformerà molta emigrazione stagionale in un distacco definitivo; da una relazione redatta nel 1806 si evince infatti che l’emigrazione dei valsesiani va crescendo coinvolgendo questa volta intere famiglie che decidono di abbandonare definitivamente i loro insediamenti. Ma l’evento che stravolge l’assetto sociale demografico della Valsesia agli inizi del 1800 è il decreto dei consoli francesi di Napoleone che pone il fiume Sesia come confine tra la Francia e l’Italia. La Valsesia è divisa a metà in tutta la sua lunghezza: i comuni situati alla destra del fiume furono annessi al Piemonte e quindi appartenevano alla Repubblica Francese e dipendevano dal Dipartimento del Sesia con capo Vercelli, i comuni a sinistra del fiume dipendevano dal Dipartimento dell’Agogna con Novara come centro amministrativo della Repubblica Cisalpina. La divisione in due nazionalità della Valsesia portò a serie conseguenze: l’organizzazione amministrativa e sociale fondata sul rispetto degli antichi privilegi, gli statuti e le leggi municipali della Valsesia, scompare ed enormi limiti sono imposti dalla presenza del confine tra i due stati, gravando la popolazione di imposizioni fiscali, impedendo il passaggio tra le due parti del fiume e creando difficoltà di praticare commercio. In questo clima di accresciute difficoltà gran parte della popolazione va a far parte delle file di emigranti. Solo nel 1814 la Valsesia cessa di esser frontiera e riacquista la propria unità amministrativa. Ne segue un periodo di ripresa che riporta la situazione demografica al pari dei livelli della prima metà del Settecento. L’elemento che colpisce analizzando l’evoluzione demografica della valle dal 1600 al 1850 è la stabilità del numero totale degli abitanti , stabilità che è giustificata della significative differenze tra la popolazione delle varie zone della Valsesia che subirono tendenze divergenti di sviluppo mantenendo ugualmente un risultato costante. L’elemento riconoscibile come componente strutturale del sistema demografico della Valsesia capace di influenzare in misura decisiva questi squilibri è l’emigrazione permanente. Nonostante non raggiungesse quote elevate fino alla prima Guerra Mondiale, nel periodo tra Ottocento e Novecento, l’emigrazione si registra come un fenomeno in accrescimento. Durante il periodo delle due Guerre subisce una diminuzione a causa delle restrizioni attuate sia dal governo francese (1926) che italiano (1927) imposte per porre freno al movimento migratorio, ma dopo la guerra, con la crisi economica degli anni ’30, la coscrizione militare e lo scoppio della seconda Guerra Mondiale si sancisce il termine dell’emigrazione stagionale a favore di un emigrazione permanente. Gli anni ’50 segnano un’impennata delle partenze tanto da svuotare quasi totalmente le montagne della loro popolazione. La fine della seconda Guerra Mondiale sancisce l’ulteriore ultimo cambiamento, l’emigrazione diventa spopolamento e l’assetto demografico della Valsesia è pronto per mutare nuovamente.

4.2.1. Economia, sovrappopolamento ed emigrazione

La Valsesia è una valle chiusa e le sue caratteristiche morfologiche hanno rappresentato per secoli un ostacolo nei collegamenti tra i vari punti della valle e tra la valle ed i territori circostanti. Nel Settecento e per parte dell’Ottocento i collegamenti in alta valle con le zone confinanti ed i rapporti con le valli minori erano gestiti dai valligiani per mezzo di sentieri di montagna che attraversavano gli alpeggi ed i passi alpini, anche nella bassa valle , pur essendo più pianeggiante, non vi erano sufficienti infrastrutture per rendere agevole il raggiungimento dei paesi posti su entrambe le sponde del Sesia. Questa marginalità del territorio ha contribuito ad escludere la Valsesia dai traffici internazionali producendo conseguenze negative sulle possibilità di sviluppo economico, soprattutto per la parte più settentrionale della valle; le cime del Monte Rosa rappresentavano da Varallo ad Alagna una barriera naturale che non concedeva sbocchi a Nord mentre la parte inferiore, da Romagnano fino a Varallo, aveva possibilità di connettersi con più facilità alle grandi vie di collegamento. La presenza eterogenea di possibilità di comunicazione e le diverse realtà del territorio furono determinanti per lo sviluppo del popolamento e dell’economia. In alta valla le popolazione insediata instaura un regime di sussistenza legato ad uno sfruttamento ottimale dell’ambiente che comprende un utilizzo variegato delle diverse zone vegetative poste a diverse altitudini. Già a partire dal Medioevo, con la colonizzazione dell’alta valla da parte di popolazioni Walser, è individuabile un sistema economico di tipo agro-pastorale che persisterà nei vari secoli come modello produttivo dominante per l’alta valle. La combinazione di pastorizia ed agricoltura comprende due sfere di produzione spazialmente separate tra loro: i campi e prati posti nelle vicinanze del villaggio producono raccolti per l’alimentazione umana ed il fieno per la stabulazione invernale degli animali, i pascoli ad alta quota (alpeggi) in estate sono luogo di stazionamento di mucche, pecore e capre. Il sistema agropastorale ha cadenza stagionale, è organizzato su una sequenza di spostamenti “a scala” ascendenti e discendenti, dal villaggio alle cascine (o stazioni) agli alpeggi inferiori e poi superiori e viceversa, e scandisce i movimenti dei pascoli nell’arco dell’intero anno, da una permanenza ad alta quota nei mesi estivi ad un rientro invernale nel villaggio. Anche nella sfera agricola il ruolo della verticalità è di primaria importanza; i diversi tempi di maturazione legati alla diversità di altitudine consentono una equilibrata distribuzione del terreno disponibile in particelle poste ad altezze diverse con colture differenti in modo da ottenere un carico di lavoro ottimale rispetto alle tipologie di colture praticate. Questo modello di sussistenza ha interazioni molto evidenti con l’organizzazione sociale della popolazione, si generano diversi modelli di insediamento nelle Alpi legati a questo tipo di sistema economico: insediamenti a conduzione comunitaria, sviluppati soprattutto nella Alpi Occidentali (villaggi romanci del Cantone svizzero) , dove vige una conduzione associativa degli alpeggi affidata ad u n gruppo di esperti che si prende carico di tutti gli animali del villaggio e li pascola negli alpeggi comuni mentre i proprietari e le loro famiglie si occupano dei campi e del taglio del fieno; insediamenti a conduzione individuale, dove è riconoscibile il modello Walser , fondati sulla proprietà privata per famiglia di un piccolo alpeggio dove condurre i propri animali e lavorare i prodotti per uso domestico. Particolarità è l’organizzazione all’interno del nucleo famigliare di questa comunità, l’attività agricola che richiede una carico di lavoro molto invasivo è affidata agli uomini mentre le donne hanno la gestione del alpeggi, in questo modo però si creano dinamiche all’interno del ciclo produttivo di sussistenza che coinvolgono altri fattori essenziali per comprendere il modello insediativo dell’alta Valsesia. Quest’economia a scansione stagionale ha contrasti interni legati all’intensità dell’utilizzo di manodopera. In estate vi è un sovraccarico di richiesta per le attività agricole invece con l’inverno cessa l’attività agricola, vi è il rientro delle donne dagli alpeggi e si crea una sproporzione nel rapporto tra popolazione presente e risorse disponibili per il sostentamento, conseguenza è il sovrappopolamento che diventa uno dei motivi fondanti dello sviluppo della pratica dell’emigrazione. Introducendo il concetto di emigrazione si vuol trattare di un fenomeno ad implicazioni socio- economiche che in ambito valsesiano è stato il fattore più condizionante dello sviluppo demografico dell’intera valle.

Migrazioni ed emigrazioni

Lo spopolamento montano è un fenomeno grave, che interessa tutto il mondo e persiste tuttora. Le montagne hanno iniziato a popolarsi durante il Medioevo, la loro popolazione è costantemente cresciuta fino al 1900, ad eccezione del XVII secolo che ha segnato un calo demografico a causa della peste. Dal Novecento e, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, inizia lo spopolamento: molte sono infatti le famiglie che scelgono un altro luogo per vivere abbandonando per sempre l’ambiente montano. Tra le cause che hanno generato questo fenomeno si annoverano la conformazione pedologica e il clima che rendono difficile la coltivazione e quindi un aumento di produzione in caso di incremento di popolazione, la conseguente povertà dei montanari, la meccanizzazione e la creazione delle industrie che hanno reso non più economiche tutte le produzioni locali, la necessità dell’uomo di voler raggiungere migliori posizioni sociali ed economiche e desiderare migliori stili di vita.

Essendo una valle prettamente montana, anche la Valsesia è stata fortemente interessata dallo spopolamento montano. Fin da secoli antichissimi la sua popolazione era incline a una forte emigrazione stagionale 7, prevalentemente estiva e praticata quasi esclusivamente da uomini che portavano altrove le loro capacità artigianali. Le donne e gli anziani rimanevano nel proprio villaggio, portavano avanti l’economia agro-pastorale della zona e si occupavano della sussistenza della famiglia. Man mano iniziò a svilupparsi anche un’emigrazione permanente che diventò quantitativamente importante solo dopo la fine della prima guerra mondiale. Da questo momento in poi le montagne persero gran parte della loro popolazione e iniziò così il drastico calo demografico che comportò lo spopolamento.

Le partenze degli emigranti divennero definitive e l’emigrazione, da fenomeno esclusivamente maschile, si allargò a tutta la popolazione: intere famiglie emigrarono, molte le mogli che raggiunsero i mariti già stabilitisi altrove e anche le donne iniziarono così ad allontanarsi dalla propria valle.

La condizione delle valli montane quindi peggiora: l’agricoltura viene praticata dai pochi rimasti e aumentano così i campi incolti, i sentieri vengono coperti da una vegetazione non più controllata dall’uomo, aumenta il rischio idro-geologico perché non vengono più usate e poste a manutenzione le opere atte all’agricoltura e alla regolazione delle acque, i servizi pubblici e privati si rarefanno fino a scomparire. Tutto ciò certo non incentiva a rimanere nelle proprie terre ma al contrario alimenta ulteriormente il fenomeno migratorio.

Come si è detto la Valsesia è stata fin da tempi antichissimi caratterizzata dall’emigrazione, fenomeno che nel ‘900 l’ha portata a una cospicua perdita di popolazione causandone lo spopolamento che ancora oggi la caratterizza. Nel periodo che va dal 1838 al 2004, la Valsesia ha subito infatti un continuo calo di popolazione: molto elevato nelle zone prettamente montane e più lieve nella bassa valle. I maggiori picchi di spopolamento si sono registrati tra il 1921 e il 1951 e tra il 1981 e il 1991; nell’ultimo decennio lo spopolamento è un fenomeno ancora in atto ma è evidente che la sua intensità è minore rispetto al passato.

Erroneamente però si fa risalire l’origine dell’emigrazione in Valsesia al XIX e XX secolo perché proprio in quel periodo il fenomeno migratorio conobbe un fortissimo aumento, iniziò a diventare permanente e a lasciare, quindi, tracce visibili dando la percezione che iniziasse in quei secoli. L’emigrazione ha invece radici molto antiche: già nel 1200 si hanno infatti testimonianze di un flusso migratorio valsesiano nelle terre limitrofe; nel 1300 e 1400 ciò aumenta sempre più e si sviluppa in zone sempre più lontane come Milano, Torino, Genova, la Svizzera e la Francia. Verso la fine del XV secolo l’emigrazione aveva raggiunto un livello altissimo, probabilmente non inferiore a quello dell’800. A emigrare in questi secoli non erano solo le famiglie umili e disagiate che cercavano lavoro in altri paesi ma anche le casate più distinte che, per emergere e acquisire maggior prestigio, dovevano uscire dagli angusti confini delle loro terre. Tra il 1570 e il 1590 vi fu un periodo di magra dell’emigrazione

7 Con riferimento alla loro durata si possono distinguere emigrazioni temporanee e permanenti. L' emigrazione temporanea è quella che caratterizza i fenomeni migratori di manovalanza. È più difficile descrivere l'emigrazione quando si tratta di una permanenza nello Stato ospitante per vari anni. Queste persone cercano di far fortuna e di accumulare quel capitale necessario per acquistare un terreno od un’attività propria nella terra d'origine. Le emigrazioni temporanee possono essere distinte a loro volta da quelle definitive solo a posteriori in quanto possono coprire periodi estremamente differenziati, cioè mesi, anni, decenni. Le emigrazioni sul piano giuridico possono, invece, essere individuate come emigrazioni interne. Questa distinzione risulta anch'essa essere un principio classificatorio del tutto insufficiente, poiché non tiene conto delle reali distanze geografiche e della portata dei mutamenti di stile di vita. Un'altra distinzione può essere fatta tra emigrazione coatta e volontaria. Nel primo caso si tratta di espulsione forzata dal paese di origine, di individui da parte di autorità politiche o religiose; nel secondo caso si tratta della libera scelta da parte di questi soggetti di andare alla ricerca di una nuova sede ove poter condurre una vita migliore.

Nella penisola italiana prima del 1860 il termine “emigrazione temporanea” è usato per lo più per descrivere il fenomeno dei compromessi politici, prima con Napoleone , poi con i vari moti rivoluzionari. Questi erano intellettuali, militari, artigiani. Dopo il 1830 molti di loro affluirono nella Legione Straniera che la Francia aveva istituito in Algeria ; si calcola che quasi la metà dei legionari proveniva dalla penisola italiana. Dopo l' Unità d'Italia , ed una fase in cui a partire furono gli intellettuali ed industriali favorevoli ai Borbone di Napoli , il termine emigrazione è legato a quella economica.

valsesiana probabilmente a causa delle misure prese dai vescovi di Novara per porre un freno all’emigrazione verso le zone toccate dalla Riforma 8. Nell’ultimo decennio del ‘500 invece si registra un’improvvisa crescita dell’emigrazione stagionale, in corrispondenza del cambiamento climatico di quegli anni, denominato piccola era glaciale, che ebbe effetti devastanti sulla produzione agricola. Ciò è testimoniato dall’alta concentrazione stagionale delle nascite in autunno.

Alla vigilia della peste del 1630 la popolazione della Valsesia doveva essere quindi di circa 34.000 unità. Rispetto agli ultimi anni del 1500 è dunque ipotizzabile un aumento di popolazione del 10 %. La crisi del 1630, pur contribuendo in maniera decisiva ad arrestare il processo di crescita, non ebbe effetti catastrofici. In alcune parrocchie, quali quelle di Fobello e Agnona, la crescita sembra addirittura non aver subito arresti; ciò lascia supporre che siano riuscite a sfuggire quasi completamente al contagio. Non significa però che in altre località gli effetti della peste non siano stati disastrosi: la popolazione di Riva Valdobbia fu infatti una delle località valsesiane più colpite, ed è probabile che non sia stato un caso isolato, però anche nelle altre località contagiate seriamente dalla peste, come Campertogno, le perdite furono assorbite completamente in meno di un decennio. Perdite particolarmente elevate sono evidenti soprattutto in Val Semenza dove di registrano cali del 20% per Rimasco e Rima, del 30% per Boccioleto e addirittura del 35% per Fervento. La seconda metà del 1600 vide poi in tutta la valle una generale tendenza alla crescita; i casi di Alagna e Rimella, dove si registra invece un certo declino, sono da ritenersi anomali in ambito valsesiano. Contrariamente a quanto sarebbe lecito attendersi, quindi, il 1600 non fu per la Valsesia un secolo di stasi o crisi come invece avvenne in altre aree alpine. Le migrazioni appaiono orientate in misura preponderante verso l’Italia; perlopiù Piemonte e Lombardia e gli unici ad uscire dai confini italiani per dirigersi verso i paesi di lingua tedesca erano gli abitanti di Alagna e parzialmente quelli di Rima e Riva Valdobbia, mentre alcuni emigranti di Cravagliana erano soliti esercitare la mercatura nella zona di Ginevra.

Nella prima metà del 1700 si assiste però ad un’inversione di tendenza rispetto alla crescita del Seicento: solo la Val Mastallone continua a crescere mentre i centri di Varallo e Borgosesia, con i loro circondari, mostrano segni di stasi, così come la zona di Cellio e la Val Sermenza, mentre calano la zona di Valduggia e vistosamente la Val Grande.

E’ opinione comune che la popolazione alpina dopo un lungo periodo di stasi protrattosi per tutto il ‘600, abbia conosciuto una lenta ripresa nel corso del 1700 e poi una forte crescita tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, grazie soprattutto all’introduzione su larga scala della coltivazione della patata, che, traducendosi in un considerevole aumento della produttività agricola locale, avrebbe concorso, oltre ad altri elementi soprattutto di tipo economico e politico, a frenare l’emigrazione e avrebbe stimolato la crescita della popolazione alpina. Nulla di tutto ciò sembra invece essere avvenuto in Valsesia, dove tra la fine del ‘700 e i primi decenni del secolo successivo la valle avrebbe addirittura perso gran parte della sua popolazione, flessione che viene attribuita alle nefaste conseguenze della conquista francese, particolarmente ad un aumento della tassazione che avrebbe trasformato molta emigrazione stagionale in un distacco definitivo.

Sotto il dominio napoleonico, dopo la battaglia di Marengo nel 1800, i consoli francesi emisero un decreto destinato a sconvolgere l’intera valle: il fiume Sesia fu posto come confine tra l’Italia e la Francia alla quale il Piemonte fu definitivamente unito. La Valsesia venne così divisa a metà per tutta la sua lunghezza: i comuni situati alla destra del fiume furono annessi al Piemonte, quindi alla Repubblica Francese e dipendevano dal Dipartimento della Sesia di cui era a capo Vercelli, l’altra parte della valle invece, posta a sinistra del fiume, dipendeva dal dipartimento dell’Agogna con Novara per centro amministrativo, facendo parte così della Repubblica cisalpina. L’improvvisa divisione in due

8 Le roccaforti del protestantesimo svizzero, ritenute zone infette di eresia,. Già a partire dal 1572 l’emigrazione verso questi paesi venne fortemente scoraggiata con decreti che limitavano e regolavano i viaggi in quelle zone: gli emigranti dovevano ottenere licenza dal vescovo in persona, ma tale licenza non si poteva concedere ai minori di venticinque anni e chi si assentava per lungo periodo era tenuto a ritornare una volta all’anno per confessarsi e comunicarsi o inviare prova scritta di avere già ricevuto quei sacramenti. nazionalità portò serie conseguenze: scomparvero infatti tutte le tracce degli antichi privilegi, gli statuti e le leggi municipali della Valsesia rispettati in passato da re e principi, fu imposta la leva militare obbligatoria e dovettero prestare servizio non solo a difesa della valle ma anche per la Francia, cambiò il sistema di riscossione delle tasse e l’amministrazione della giustizia. La divisione della Valsesia creava gravissimi e insolubili problemi: molti comuni, il cui abitato teneva entrambe le sponde del fiume vennero divise in due Stati, in alcuni casi la chiesa era su una sponda e l’abitato sull’altra; da qualunque parte si volesse entrare nella Valsesia francese bisognava passare per forza sul suolo italiano in quanto non esistevano strade in quella parte di valle, per ragioni doganali i valsesiani che erano alla destra del Sesia avevano scarse possibilità di sopravvivere perché, non avendo vie di comunicazione, per ogni spostamento, dovevano passare il fiume e attraversare il confine di stato e quindi erano soggetti alle imposizioni e gravami fiscali del Regno d’Italia ed era necessario il passaporto. In questo periodo l’esercizio dei mestieri era sottoposto a licenza con pagamento di canone annuo; l’uniformità dei pesi e delle misure imposto per tutta la Repubblica cisalpina portò molti problemi nei rapporti commerciali tra i due Stati. L’istituzione del dazio su alcuni prodotti e sui luoghi di confine accrebbero le difficoltà delle popolazioni valsesiane costrette e vendere fieno e animali, se non addirittura le proprie case e costringendo molti ad aumentare le file degli emigranti. Nonostante le proteste la situazione non cambiò fino alla caduta di Napoleone.

Fu nel 1814 che la Valsesia cessò di essere frontiere tra Francia e Italia trovandosi nuovamente unita sotto il Piemonte con il regime dei Savoia e per la valle fu una grande fortuna, in quanto riacquisii i vecchi privilegi, soprattutto quelli relativi alla diminuzione delle imposte indirette su sale, carne e cuoio e, ancora più importante, l’unità amministrativa della valle.

Il caso della Valsesia è quindi anomalo rispetto al più ampio contesto alpino che conobbe una lenta ripresa nel corso del ‘700 e quindi una forte crescita tra fine del ‘700 e l’inizio dell’800. Non è però corretto generalizzare questo processo per tutta la valle; infatti, ad esempio, i libri di stati d’anime di Rimella mostrano che in queste località la curva della popolazione abbia avuto un andamento del tutto diverso: dopo il declino del ‘600, la popolazione iniziò a crescere impennandosi addirittura sul finire del 1700. Tra il 1760-63 e il 1821-32 c’è stato un certo declino della popolazione della Valsesia ma fu modesto, poi seguito da un periodo di ripresa. Verso la metà del ‘700 la popolazione della valle era pressoché identica a quella della metà ‘800.

Dai dati totali della popolazione della Valsesia si ricava dunque l’impressione di una sostanziale stabilità. L’elemento che più colpisce dell’evoluzione demografica della valle è la stabilità del numero totale degli abitanti dal 1600 al 1850. Neppure nella prima metà del ‘600 si vedono segni di catastrofiche crisi di mortalità, e tanto nelle fasi di crescita quanto in quelle di recessione, i tassi di incremento e decremento si mantengono piuttosto modesti.

Dietro a questa stabilità però, esistono significative differenze tra la popolazione delle varie zone della Valsesia, che conobbero talvolta variazioni brusche e seguirono tendenze spesso divergenti. Questa secolare stabilità della popolazione era ottenuta attraverso l’emigrazione permanente. Nel Novecento i ritorni dalle emigrazioni stagionali tendevano a farsi meno fissi; la permanenza in Italia si riduceva a uno o due mesi intorno al periodo natalizio e ciò era preludio al grande esodo che sarebbe avvenuto negli anni futuri. Accadeva sempre più di frequente che all’estero si svolgessero mestieri diversi da quelli conosciuti o svolti in patria e che l’emigrante praticasse nel corso del tempo più mestieri perché i continui spostamenti da un luogo all’altro non sempre risultavano sufficienti a trovare posti di lavoro sicuri o rispondenti ai propri requisiti. Dagli ultimi anni dell’800 alla prima guerra mondiale il Piemonte si industrializzò intensamente, ma la fase di crescita industriale ebbe l’effetto di incrementare la mobilità della popolazione oltre frontiera anziché ridurla. Si creò una coesistenza di movimenti migratori in diverse direzioni: verso la regione in sviluppo, verso altre regioni, altri paesi europei e oltre oceano. Ciò avvenne anche in Valsesia in quanto essendo l’emigrazione un fenomeno già ampiamente avviato e consolidato ben prima dell’affermazione del processo di industrializzazione in Piemonte, gli emigranti preferivano seguire i flussi tradizionali di emigrazione piuttosto che intraprenderne di nuovi perché avevano dei punti di riferimento in località lontane.

Tra l’800 e il ‘900 il fenomeno migratorio è in continuo accrescimento; tra le due guerre subisce una diminuzione ma riprenderà più forte di prima dagli anni ’50, anni in cui le montagne si svuoteranno quasi totalmente della loro popolazione. Dopo la fine della prima guerra mondiale l’emigrazione stagionale declinò rapidamente in Francia e Svizzera perché imposero restrizioni all’emigrazione e in Germania in quanto aveva poco da offrire ai lavoratori stranieri: i giovani, al posto di iniziare il loro periodo di apprendistato, rimasero a casa e partirono solo le persone che erano specializzati in un mestiere e avevano già lavorato all’estero per i quali non era proibita l’emigrazione ma, temendo che la situazione poteva ulteriormente deteriorarsi, molti decisero di stabilirsi permanentemente all’estero facendo aumentare la percentuale di emigranti permanenti. Le cause dello spopolamento sono diverse e concomitanti ma la principale è il forte dislivello fra il tenore di vita che si conduce nelle alte valli e quello delle regioni limitrofe più fortunate che spinge i montanari ad auspicare a migliori prospettive: la terra rende poco, non vi sono generi vendibili con un buon margine di ricavo, gli alimenti che provengono dalla pianura arrivano aumentati di prezzo e le tasse colpiscono bestiame e terre; spesso la casa è una baracca dove mensa, letto e stalla sono un tutt’uno; inoltre, l’isolamento dal mondo causa problemi per l’assistenza. Tra la fine del ‘700 e primi anni dell’800 inizia a delinearsi un nuovo fenomeno accanto all’emigrazione stagionale: l’emigrazione permanente; essa però non fu particolarmente numerosa almeno fino alla prima guerra mondiale. L’emigrazione permanente in Valsesia, così come in altre parti dell’arco alpino, è probabilmente stata per secoli una componente strutturale del sistema demografico; capace di influenzare in misura decisiva la nuzialità e la natalità. Se, come nel caso di Alagna, l’emigrazione permanente interessava molti maschi, ciò non diventa importante in termini di individui espulsi, ma poteva avere enormi conseguenze per la nuzialità. Le direzioni privilegiate di questa emigrazione erano soprattutto la Francia, seguita dalla Svizzera e infine altri paesi europei ed extraeuropei quali l’Australia, l’America settentrionale e meridionale. Nel corso dell’800 e ‘900 la popolazione residente in Valsesia ha subito una forte contrazione numerica dovuta alla forte migrazione della forza-lavoro verso i centri più industrializzati della bassa valle o verso l’estero. Alcuni centri, quali ad esempio: Boccioleto, Cellio, Cravagliana, Fobello, Rimella, che presentavano agli inizi dell'800 concentrazioni demografiche di tutto rispetto, hanno registrato nel tempo una drastica diminuzione dei residenti, riducendosi a micro - comuni.

Ben diversa è, in ogni caso, la situazione di quelle stesse località nei periodi delle vacanze estive e invernali, quando l'affollamento turistico e l'occupazione delle "seconde case" fanno sì che anche i più piccoli paesi tornino ad essere vivacizzati da una folla di persone che supera di gran lunga il numero degli abitanti "di una volta". E spesso è proprio grazie alla presenza di questa massa di "forestieri" che vengono mantenute in essere talune tradizioni e salvaguardati alcuni tesori che altrimenti verrebbero cancellati anche dalla memoria.

La situazione delle montagne è quindi grave e bisognerebbe fare qualcosa per valorizzare il loro territorio e renderlo nuovamente attrattivo anziché repulsivo per le persone. Già dagli anni Venti inizia l’interesse e la preoccupazione verso questo fenomeno e viene sviluppata la prima inchiesta sullo spopolamento montano. Molte sono le organizzazioni che hanno promosso progetti per la tutela della montagna: chi a favore del suo ambiente naturale, chi spinto da logiche economiche o politiche ma necessita soprattutto di un’azione corale, mirata a favorire lo sviluppo e la tutela dell’ambiente e dei suoi abitanti.

In un articolo del Corriere della Sera del 1928 vengono evidenziati i rimedi contro lo spopolamento: “Bisognerebbe avere il coraggio di un provvedimento radicale: esentare da imposte e tasse di qualsiasi specie l’agricoltura di montagna sopra i mille metri […]. Migliorare i mezzi di comunicazione […]. Rimboschire e risistemare l’industria del forestiero e la propaganda per essa; incoraggiare ed estendere le piccole industrie montanare dell’apicoltura, della coltivazione e raccolta di piante aromatiche medicinali e di funghi; migliorare il patrimonio zootecnico con la selezione e le razionali cure; diffondere la cooperazione, accrescere l’istruzione […]”; ciò è quello che viene proposto per salvare la montagna dal suo spopolamento.

Caratteri e peculiarità dell’emigrazione valsesiana

L’emigrazione valsesiana presenta i caratteri tipici di quella alpina ma nel contempo mostra anche delle peculiarità.

L’emigrazione dalle aree di montagna ha storicamente un carattere strutturale, non è cioè connessa alle congiunture economiche, politiche e sociali che caratterizzano ogni secolo. Questo aspetto ne costituisce la specificità e la distingue nettamente da altre emigrazioni. Per comprendere il carattere strutturale dell’emigrazione alpina e quindi di quella valsesiana, occorre considerarne le cause che lo hanno prodotto, cioè lo squilibrio esistente tra una popolazione spesso di elevata densità e la povertà del suolo dovuta alla scarsità delle risorse dell’agricoltura e dell’allevamento del tutto insufficienti a garantire la sussistenza e la riproduzione in loco. Questo divario tra scarsità di terreno produttivo e popolazione costrinse da sempre il valsesiano a cercare lavoro lontano dalla propria patria, e l’emigrazione così, diventa il mezzo che consente di colmare questo divario. Secondo le tesi di Pier Paolo Viazzo 9 invece le popolazioni alpine non emigravano a causa della miseria o del sovrappopolamento, infatti l’emigrazione tendeva ad essere più frequente tra i membri più agiati della comunità piuttosto che tra i poveri anche perché richiedeva l’impiego di una quantità di denaro non indifferente. L’emigrazione alpina, inizialmente stimolata dalla povertà sia del terreno montuoso che dei suoi abitanti, era una strategia di sopravvivenza imposta dall’ambiente alpino ma divenne ben presto un importante fattore di mobilità nella gerarchia economica e sociale del villaggio. Il giornale “La Valsesia” 10 , in un articolo del 1879, analizza i motivi che già dal XIV secolo hanno originato il fenomeno migratorio e asserisce che “le cause stanno nell’eccedenza della popolazione in confronto alle risorse locali e nell’amor dell’arte, in quanto, essendosi per i lavori del Sacro Monte formatasi in Valsesia una vera e grande scuola d’arte e non trovando tutti i suoi allievi sufficiente lavoro, si ha un flusso migratorio di costoro in altre contrade” . I redditi guadagnati dagli emigranti in città e in villaggi lontani dalle comunità d’origine, all’interno e all’esterno dei confini dello Stato, si aggiungevano ai prodotti di un’attività agricolo-pastorale perlopiù diretta all’autoconsumo familiare, ma non li sostituivano in quanto erano insufficienti a garantire da soli la sussistenza della famiglia, perché l’esercizio dei vari mestieri degli emigranti non assicurava né livelli di guadagno, né stabilità occupazionale tali da giustificare l’abbandono della base rurale nel villaggio di residenza. Nonostante ciò rappresentava comunque un elemento irrinunciabile per l’economia familiare. Proprio per questo motivo l’emigrazione dalle aree di montagna era prevalentemente stagionale e temporanea, fondata quindi sul ritorno dopo qualche mese o qualche anno di lavoro fuori dal proprio paese d’origine. Quando si parla di emigrazione, quindi, non bisogna pensare a un conseguente spopolamento poichè, se stagionale, consente di non impoverirsi demograficamente e quindi non le consegue un esodo ma solo un calo della popolazione presente.

9 Cifr. Pier Paolo Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi, Ed. Il mulino, Bologna, 1990.

10 Fondatore del giornale è Giovanni Zanfa, nativo di Agarla di Breia, classe 1859. Desideroso di darsi all’arte tipografica, si stabilì in giovane età a Varallo dove entrò come apprendista nella tipografia Colleoni e poi in quella delle sorelle Camaschella allora diretta dal Mossotti. Per trentacinque anni egli dedicò al "Corriere Valsesiano", fin dal suo primo numero, ogni sua migliore energia di tipografo, di gerente responsabile, di direttore, di pubblicista.

A differenza di altre parti delle Alpi, dove il motivo che spingeva all’emigrazione era il periodo di forzata inattività invernale dell’attività agricola, in Valsesia l’emigrazione avveniva in estate, cioè nel periodo che necessitava di maggiori lavorazioni agricole. Ciò può sembrare un paradosso, ma in realtà c’è una base razionale: le risorse agricole e pastorali della valle erano così limitate da non rendere necessaria la permanenza in patria di gran parte degli uomini in questa stagione, in quanto le donne bastavano per svolgere le attività campestri. Nel libro “Comunità alpine”, Pier Paolo Viazzo afferma invece che l’emigrazione maschile nel periodo estivo era possibile perché, essendo la Valsesia una zona molto piovosa, non necessitava di opere di irrigazione, attività tra le più pesanti e che richiedono il maggior dispendio di tempo, consentendo quindi un considerevole risparmio di forza lavoro. Probabilmente le motivazioni sopra esposte erano concomitanti, quindi entrambe corrette. La povertà ambientale della valle comunque è un fenomeno di lunga durata che causa quindi un effetto di lungo periodo; con ciò si spiega la tradizione secolare valsesiana all’emigrazione stagionale. L’emigrazione era propria di tutta la valle, ma il fenomeno è sempre stato molto più accentuato nell’alta valle, in quanto le condizioni agricole e climatiche erano peggiori che nel resto della Valsesia e inoltre lo sviluppo industriale avvenne soprattutto nella bassa valle. Particolarmente accentuata da Varallo in su interessò soprattutto alcune località quali Rima, Alagna, Riva Valdobbia, Mollia, Campertogno, Scopa, Vocca; Valduggia, Rossa, Sabbia, Carcoforo e Varallo; nella bassa valle i paesi più coinvolti dall’emigrazione furono Quarona, Doccio, Cellio, Agnona e Borgosesia. In particolare il comune di Cravagliana nella Val Mastallone, figura come uno dei dieci comuni che si sono maggiormente spopolati. Anch’esso fu caratterizzato da una forte emigrazione stagionale che venne però soppiantata da quella permanente dopo la fine della prima guerra mondiale.

Già nella seconda metà del 1500 nascevano le categorie di mestiere, cioè specializzazioni artigianali e commerciali. Queste segmentazioni di tipo corporativo erano talmente significative che valevano come criteri di identificazione di gruppi di persone migranti, ossia, ogni gruppo, in base al lavoro svolto, poteva essere associato a distinte aree geografiche o addirittura a singole vallate o comunità. Gli abitanti di ogni valle o paese, per consuetudine radicata nei secoli, si applicavano a determinati mestieri, sempre gli stessi, tramandati di padre in figlio. Ogni comunità della Valsesia era quindi caratterizzata da uno specifico mestiere: osti, brentatori e calzolai in Val Mastallone, stagnini nella zona di Cellio e Valduggia, stuccatori, muratori e piccapietre in Val Grande e Val Semenza e falegnami, secchionari e calzolai dominavano soprattutto nella bassa valle.

In base al mestiere praticato l’emigrante si dirigeva in una determinata area geografica; ad esempio, la Francia e la Svizzera erano le mete preferite per i lavoratori edili, il Piemonte e la Lombardia per osti, secchionari, calzolai, stagnini, tessitori e falegnami; la Spagna per albergatori e camerieri, Germania e Alsazia per i peltrai, Milano per i calzolai e la Lomellina e il Novarese per i tessitori. Altri mestieri praticati e molto richiesti all’estero erano quelli di gessatori, decoratori, intagliatori, scultori, pittori, cuochi, caffettieri, ebanisti, muratori, terrazzieri, fumisti e bottai.

Tra ‘800 e ‘900 si ebbe un cambiamento nella pratica dell’emigrazione stagionale: mentre prima il mestiere veniva imparato in patria e poi svolto nelle zone di emigrazione, col nuovo secolo il lavoro viene appreso direttamente sul luogo di emigrazione, a seconda delle richieste di mercato; a ciò consegue che ai giovani apprendisti venivano sempre meno insegnati mestieri tipici della loro zona d’origine e sempre più quelli richiesti dalla domanda di lavoro.

In base, infatti, alle congiunture economiche e alle richieste del mercato del lavoro, nel corso dei secoli cambiò la proporzione con cui venivano praticati i vari mestieri: nel 1600, ad esempio, gli occupati nel settore edilizio nell’alta valle erano molto inferiori rispetto a quelli del 1800, ciò è significativo in quanto, ad ogni mutamento del settore professionale fa riscontro un cambiamento nella destinazione e nella quantità degli emigranti. Essi avevano la tendenza a muoversi in gruppi provenienti dalla stessa località; quindi i flussi migratori si sviluppavano attraverso canali di mediazione parentale o di compaesani e anche grazie a imprenditori valsesiani e maestri di bottega che aggregavano lavoratori del proprio paese o delle zone limitrofe. Gli emigranti si innestavano sulla traiettoria tradizionale dei percorsi di mestiere intrapresi da parenti o conoscenti già all’estero; essi fornivano indicazioni sulle condizioni favorevoli o meno all’emigrazione e sulla condizione del mercato del lavoro. L’importanza di avere collegamenti sicuri o punti di riferimento si evidenziava non solo nel momento in cui l’emigrante lasciava il proprio paese, ma anche quando, durante il periodo di permanenza all’estero, l’estrema variabilità del mercato del lavoro rendeva indispensabile un’elevata mobilità dei lavoratori. L’esigenza di spostamenti continui fra zone anche lontane fra loro poggiava proprio sui legami parentali o valligiani, creando un reticolo informale di collocamento che garantiva la permanenza dei valsesiani all’estero anche in momenti difficili. Con le rimesse gli emigranti solitamente acquistavano la casa o rimodernavano quella dei genitori oppure compravano dei terreni; ciò indica che l’emigrazione non era permanente e che il sogno era quello di ristabilirsi definitivamente nel paese natale. Il concetto di emigrazione in Valsesia non era quindi connesso all’idea di fare fortuna ma al massimo alla speranza di migliorare la propria vita, sentimento mosso da un’esigenza di sopravvivenza. Non tutti gli emigranti però riuscivano in questo; molti sono infatti anche i casi di un mancato miglioramento economico dovuti a cause soggettive o a modificazioni del mercato del lavoro, alle ripercussioni dei movimenti xenofobi e delle guerre. Ad emigrare erano soprattutto uomini e bambini; la donna valsesiana raramente emigrava, fatte salve le eccezioni delle serventi nel milanese. Il fenomeno migratorio femminile era composto da mogli e sorelle degli emigranti; ciò sembra diventare significativo soprattutto a partire dal primo dopoguerra, quando cioè l’emigrazione tende a farsi permanente e l’esercizio del mestiere meno vincolato dall’andamento incerto del mercato del lavoro. Per quanto riguarda l’emigrazione di giovani donne al fianco dei fratelli, va sottolineato che, quasi mai questo significava lavoro extradomestico per la ragazza che invece aveva il compito di accudire la casa, cucinare, garantire la cura degli abiti dei fratelli e di altri emigranti del paese che non avevano in loco familiari. La realtà di chi “stava a casa” rappresenta un aspetto fondamentale della storia sociale e culturale della Valsesia. La donna, rimanendo a casa durante il periodo di assenza del marito aveva un ruolo centrale in quanto doveva svolgere tutti i lavori agricolo - pastorali necessari alla sopravvivenza della famiglia. Alle donne competevano in primo luogo la cura dei figli, i lavori domestici, la mungitura e lavorazione del latte per i bisogni familiari, e di notte la filatura di lana e canapa. L’agricoltura era lasciata alle donne, anche per le pratiche più disagevoli: pascolare le greggi sulla montagna, lavorare la terra, mietere, segare la legna e trasportare i raccolti sulle loro spalle. Alla condizione di vita della valle è legata anche la condizione dei bambini, cioè un’infanzia breve e il lavoro che inizia prestissimo: andare agli alpeggi durante l’estate era un fatto normale e molto spesso ciò includeva la cura di bambini più piccoli. Il ruolo dei bambini nell’economia e nell’organizzazione della vita familiare assumeva quindi, fin dalla tenera età, i caratteri di pieno coinvolgimento.

Essendo l’emigrazione così radicata nei secoli, non veniva vista come un atto di rottura, un atto traumatico ma faceva parte di un modo di vita, lo strutturava e lo influenzava; diventava l’orizzonte sociale e culturale della vita di molti individui, famiglie e gruppi di mestiere; creando così una cultura dell’emigrazione. La percezione dell’emigrazione da parte delle varie comunità valsesiane era quindi di totale normalità. La partenza per l’estero, l’assenza per periodi più o meno lunghi veniva vissuta come un fatto assolutamente scontato; quasi una sorta di conseguenza dell’ordine naturale delle cose.

La colonizzazione dei Walser

In questo quadro di migrazioni non è da dimenticare la colonizzazione e l’insediamento di quel gruppo di coloni alemanni che si stabilirono nell'alto Vallese, nell’attuale Svizzera, tra l’ 800 e il 900 d.C. formando il primo nucleo di quella che sarebbe poi diventata la grande comunità Walser. La povertà delle terre dell'alto bacino del Rodano, l'aumento della popolazione, indussero nuclei di vallesani a cercare sostentamento in nuove località. Dal 1200 al 1300 iniziarono le emigrazioni. Il loro non fu un esodo di massa, bensì di piccoli gruppi che, attraverso i più alti valichi alpini, raggiungevano e si stabilivano in zone ancora libere. Quando il nuovo insediamento si era perfezionato, quando le terre dissodate davano i primi frutti, nuovi nuclei si aggiungevano ai primi coloni. In questo modo con gradualità, ad ondate successive i Walser si diffusero in tutto l'arco alpino.

Gli studiosi dei flussi migratori ritengono che gli avamposti valsesiani siano stati fondati da coloni provenienti da Gressoney attraverso il Col d'Olen o da Macugnaga attraverso il Passo del Turlo Secondo altre versioni i Walser avrebbero attraversato il Colle del Lys che in quegli anni, a causa delle scarse condizioni di innevamento, era percorribile. Con l'estendersi dei ghiacciai il colle divenne impraticabile precludendo ogni comunicazione dei Walser con le terre di origine. Da qui nacque la leggenda della valle perduta che doveva esistere al di la del Monte Rosa, valle ricca di estesi pascoli per il bestiame e di fitte foreste con molta selvaggina. I Walser furono indotti all'emigrazione principalmente dalle condizioni economiche, non bisogna però trascurare il loro carattere di uomini liberi amanti dell'avventura e della conquista. Le terre che i Walser occuparono erano collocate nelle regioni più alte delle Alpi che le genti già residenti nelle parti inferiori delle valli, non erano in grado sfruttare per l'ostilità dell'ambiente che non si adattava alle culture da essi praticate. La loro vita in località di montagna poco ospitali non era certamente facile. Comunità composte da pastori, si organizzarono in casolari sparsi sulla montagna, trasformando i boschi in pascoli produttivi, indispensabili per mantenere il bestiame(altra sola fonte di sussistenza) nel lungo inverno alpino; dissodando e coltivando i terreni fino sui versanti più alti; costruendo acquedotti per il recupero delle acque del disgelo; perfezionando tecniche e strumenti di lavoro fino allora sconosciuti, diffondendoli di valle in valle e tramandandoli di padre in figlio. Per procurarsi quello che non erano in grado di produrre, ma indispensabile per la loro sopravvivenza, furono costretti a commerciare con le popolazioni limitrofe. Inizialmente si rifornivano direttamente dal Vallese per i generi di prima necessità, acquistando via via sempre maggior autosufficienza, fino ad approvvigionarsi al mercato locale, scambiando i prodotti della loro economia. Nonostante queste difficoltà le comunità Walser progredivano e si espandevano. Le donne, da parte loro, durante le pause dei lavori di campagna, impegnate nella tessitura e nel ricamo, seppero produrre opere raffinatissime, come mostra la ricchezza dei costumi femminili e dei prodotti artigianali.

L'emigrazione Walser raggiunse la massima espansione negli anni 1400, 1500, per poi rallentare ed estinguersi con la completa integrazione dei primi gruppi di coloni nelle nuove patrie. Di essi esistono molte testimonianze principalmente nello stile dei loro edifici e nei loro dialetti, nelle tradizioni e nel folklore ancora oggi presenti e vitali.

4.3. Agropastorizia, Attività estrattive e produzione industriale 4.3.1. Attività produttive nell’ambiente alpino Il tema delle attività produttive mette in rapporto il caratteristico territorio delle Alpi, con i vari mezzi di sussistenza sviluppatisi internamente, dalle popolazioni che lo hanno abitato. Inizialmente la concentrazione è posta sui fattori che rendono identificativo questo habitat. Nelle zone di montagna le attività agricole sono condizionate, in misura decisiva dagli effetti climatici dell’altitudine e molto significativa è anche l’influenza dei fattori edafici che determinano una distribuzione biotica altamente irregolare. Occorre inoltre sottolineare che nelle aeree di montagna il terreno produttivo è non solo marginale, ma anche scarso. Si può stimare, ad esempio, che all’interno del territorio che si estende tra le cime delle alpi e le pianure circostanti, non meno di un quarto sia completamente sterile, essendo costituito da nevai, ghiacciai, rocce nude, laghi e corsi d’acqua. Poiché circa la metà del territorio è occupata da foreste e pascoli d’alta quota rimane solo un quarto per la coltivazione suddiviso tra vigneti, campi e prati. È quasi superfluo aggiungere che il rapporto fra terreno produttivo e improduttivo peggiora con l’altitudine: nelle alpi la maggior parte delle comunità delle alte valli occupa un terreno di cui meno del 10% si presta alla coltivazione. Pur criticamente importanti, i prodotti dei campi situati nelle vicinanze dei villaggi non possono essere dunque sufficienti al sostentamento della popolazione. Come avviene in molte aeree marginali la pastorizia offre l’unico modo di rendere questi terreni utilizzabili a fini produttivi, grazie alla capacità degli animali in prodotti nutritivi una vegetazione naturale povera. Il modello produttivo dominante è stato in effetti costituito, fino a tempi molto recenti, da una combinazione di coltivazione e allevamento variamente designata come agropastoralismo, agricoltura mista di montagna o Alpwirtschaft . Nella società di montagna l’ipotesi dell’imperativo ecologico è di conciliare le esigente delle attività agricole e pastorali e che generino modelli analoghi di organizzazione sociali. Particolarmente nel settore occidentale della catena delle Alpi ciascun aggregato domestico possedeva tipicamente due tre mucche, un paio di giovenche, alcune pecore, qualche capra, dei maiali e animali da cortile; inoltre durante l’estate era opportuno suddividere la piccola mandria di famiglia in base alle diverse esigenze delle varie specie e categorie di animali. In linea di principio , la maniere più efficace nel risolvere il problema, della suddivisione del pascolo, consiste nel mettere in comune gli animali e le risorse pastorali ed affidare il bestiame ad un numero ottimale di mandriani. Non stupisce che gli antropologi abbiano considerato la conduzione comunitaria delle attività pastorali come una risposta decisiva agli spinosi problemi dell’economia agropastorale di montagna e che abbiano sottolineato la razionalità e i vantaggi adattivi di questa pratica. Essi suggeriscono pertanto che le strategie miste implicano una sfera sovra familiare e hanno sostenuto più specificatamente che i piccoli campi coltivati e i prati da fieno vengano sfruttati più efficientemente nelle singole famiglie mentre per i suoi particolari requisiti, il pascolo degli animali e del villaggio necessità di un impegno coordinato per avere un buon esito. Il termine Alpwirtschaft si usa per indicare un sistema economico, sociale e spaziale unitario, che consiste fondamentalmente di due tipi di suolo produttivo ( terra coltivabile e pascolo) e dei due tipi corrispondenti di insediamento ( il villaggio di fondovalle e l’alpeggio). Sembrerebbe pertanto che le popolazioni delle comunità di montagna cercassero attivamente di mantenere i sistemi produttivi locali in uno stato di equilibrio e di raggiungere un livello considerevole di chiusura demografica ed economica; ciò incoraggia l’adozione di un modello eco sistemico e più specificatamente a concettualizzare il villaggio alpino come un ecosistema. Nella letteratura storica e geografica, l’evoluzione economica delle Alpi viene convenzionalmente suddivisa in tre fasi: la cosiddetta “età dell’autarchia”, protrattasi fino alla metà dell’ Ottocento; una fase di transizione compresa fra il 1850 e la seconda guerra mondiale, caratterizzata soprattutto dal miglioramento delle comunicazioni e infine, dopo la guerra, gli anni della trasformazione rapida e radicale. Quando si prende in considerazione la lunga dell’età dell’autarchia, la tendenza prevalente è quella di assumere che la comunità alpine fossero socialmente ed economicamente chiuse e virtualmente autosufficienti. Eppure nel corso del tempo l’economia alpina non èn stata immune da mutamenti, un esempio è il traffico commerciale transalpino. Su questo lo studioso Bergier (1980) ha sostenuto l’opportunità di concettualizzare l’intera storia medioevale delle Alpi come un lungo ciclo economico e commerciale. Secondo Bergier, nel XIV secolo le Alpi sarebbero passate da una situazione di chiusura economica e culturale a una fase di apertura, che avrebbe rappresentato l’apogeo commerciale per l’area alpina nel suo complesso. Alla fine del XV secolo, quando il traffico perse parte della sua importanza e la ripresa dell’agricoltura nelle pianure dell’Europa centrale rese il bestiame alpino meno necessario e pregiato, cosi le Alpi sarebbero ritornate ad una situazione di chiusura economica.

4.3.2. Insediamenti e forme di sussistenza Analizzando le diverse forme di sopravvivenza delle popolazioni che hanno abitato il vasto territorio della Valsesia risulta che l’attività produttiva della valle, strettamente legata alla ricchezza delle risorse del territorio, va a distinguersi nei secoli tra l’Alta e la Bassa Valle per ragioni di conformazione naturale del territorio, e ciascuna delle due parti ha vocazione economica e potenzialità differenti. L’Alta Valle presenta gli aspetti morfologici tipici degli insediamenti alpini.Chiusa tra le montagne si presenta stretta e dotata di una sola via carrabile, che contribuisce all’isolamento di alcuni centri abitati difficilmente raggiungibili. L’ area che si estende da Varallo Sesia fino ad Alagna offre una grande quantità di risorse minerarie, un patrimonio boschivo e rurale che consente lo sviluppo di un economia basata per la maggior parte su agricoltura e pastorizia, anche se non mancano nei secoli attività artigianali che assumeranno caratteri di una modesta iniziativa industriale. La Bassa Valle, al contrario, è di conformazione pianeggiante e ha una spazialità più aperta, è maggiormente accessibile in quanto offre una rete di collegamenti migliore, è infatti il luogo dove si sviluppa l’industria valsesiana. “La penetrazione dell’uomo nella valle della Sesia si sviluppò in gran parte dalla pianura. Progressivamente furono colonizzati i solchi della valle e dei pendii adatti al pascolo a spese delle foreste originarie. Lentamente si organizzarono le comunità e nacquero i villaggi.” 11

Allevamento, agricoltura e agro-pastorizia L’economia dei centri dell’Alta Valle si basava essenzialmente sulle attività di allevamento e agricoltura; il processo si sviluppa nel tardo medioevo, negli insediamenti cosiddetti di “frontiera ecologica” 12 , ovvero in quegli insediamenti che presentano caratteristiche morfologico - climatiche che rendono difficile lo sviluppo e lo stabilirsi di una comunità dedita all’agricoltura e all’allevamento, come nel caso dei due comuni di Carcoforo e Rima situati nei punti più elevati, rispettivamente a 1305 m e 1411 m. Il fattore climatico si dimostra di notevole importanza per la scelta delle sedi adatte ad ospitare gli alpeggi, tale aspetto è talmente importante da determinare una diversa tipologia delle costruzioni e modalità differenziate di sfruttamento dei pascoli, in rapporto all’altitudine. Altro elemento importante è il soleggiamento; nella maggior parte dei casi sono preferiti i versanti esposti a mezzogiorno sia per la precoce scomparsa della neve, sia per le migliori condizioni di abitabilità. La presenza di una rigogliosa vegetazione è stata la condizione fondamentale per la destinazione del terreno all’attività pastorale. Allo scopo di mantenere e migliorare questa caratteristica la crescita di arbusti e felci viene controllata dai pastori mediante eradicazione periodica. La Valsesia, come molte valli alpine, vanta un’antica tradizione agro-pastorale; la diffusione dell’agricoltura anche in Alta Valle è testimoniata, durante il Quattrocento e il Cinquecento, dall’elevato numero d’appezzamenti di terra a campo citati negli atti notarili. L’importanza della cerealicoltura è confermata dalla diffusione dei mulini, che compaiono già come parte integrante degli atti di fondazione dei nuovi insediamenti colonici. A Rimella, nel 1256, nel 1270 era chiaramente indicato il diritto di “costruire case e mulini, impiantare prati e campi” 13 .Altre attività produttive diffuse soprattutto nella Valmastallone sono le concerie.Intorno al nucleo abitato, costituito da case che accorpano le funzioni civili e rurali, l’uso del territorio è caratterizzato da orti, campi, prati, pascoli.

11 Cit. Alagna e le Sue Miniere, Varallo

12 Roberto Fantoni, Atti del Convegno di Carcoforo, Carcoforo, 2007 – (p 8)

13 Roberto Fantoni, Atti del Convegno di Carcoforo, Carcoforo, 2007 – (p 18) I diversi appezzamenti di terra si distribuiscono generalmente in fasce concentriche attorno al villaggio; gli orti sono ubicati quasi esclusivamente presso le case; i campi e i prati nelle immediate vicinanze del paese. La proprietà di campi e prati è privata ed individuale; quella degli alpeggi privata ma indivisa. Le selve, salvo alcune eccezioni, restano in gran parte di proprietà collettiva. In Valsesia per diversi secoli sono coltivati cereali. La più antica attestazione di coltura cerealicola risale al 1345: una pergamena che descrive la vendita di un appezzamento di terra, una frazione del territorio di Riva Valdobbia attualmente scomparsa. I cereali prodotti dalla pianura assumono un ruolo fondamentale nell’alimentazione della popolazione. Oltre ai cereali usati nella panificazione e nella preparazione di pappe e polente, nel Seicento è documentata anche negli inventari dell’alta valle la presenza di scorte di riso, che probabilmente sostituisce nelle minestre molti cereali tipicamente medievali. A fianco dei prodotti tradizionalmente coltivati vengono introdotte in valle anche le coltivazioni importate dall’America. Il mais compare sporadicamente in alcune vallate alpine alla fine del Cinquecento, si diffonde durante il Seicento e si afferma solo nel corso del Settecento, con forti differenze tra i diversi settori della catena alpina. Ancora più lenta è la diffusione della patata, che raggiunge le Alpi solo nella seconda metà del settecento. La segale è coltivata dalle popolazioni valsesiane e walser insediatesi in tutte le testate delle valli. Essa è caratterizzata da una capacità di germogliare rapidamente anche alle basse temperature e da un breve ciclo vegetativo. Presente in maniera diffusa anche l’orzo, che, sebbene meno resistente al freddo della segale, cresce anche dove il frumento non si adatta bene. Non mancano poi cereali come il miglio, e l’avena; questa, oltre ad adattarsi bene ai climi freddi come cereale a semina estiva, può essere facilmente coltivata nei terreni recentemente roncati 14 . Vi sono anche gli orti situati presso le case o al margine dell’abitato, dedicati alla produzione di ortaggi e legumi. Nel Medio Evo le rape, grazie alla loro facilità di coltivazione e di conservazione, sono, insieme ai cavoli, i vegetali più diffusi nelle mense. I cereali prodotti dalla pianura assumono un ruolo fondamentale nell’alimentazione della popolazione valsesiana, soprattutto quando la diminuzione dell’attività agricola provoca una riduzione della produzione alimentare. Ad esempio a causa del peggioramento del clima, tra il Seicento e la prima metà dell’Ottocento ci sono annate di carestia che costringono molti valsesiani ad emigrare in cerca di lavoro, il che causa una diminuzione della mano d’opera nei campi e il relativo abbandono di molte colture. Aumenta così l’acquisto di granaglie e farine nei mercati della bassa valle. La diminuzione vien compensata dalle risorse economiche derivanti dal lavoro esercitato fuori dalla valle, che permette l’acquisto di prodotti alimentari importati dalla pianura lombarda e piemontese. Durante il Cinquecento il patrimonio di bestiame medio d’ogni gruppo familiare può essere identificato con quanto inventariato nel 1563. Per il mantenimento di questo si sfrutta accuratamente tutto il territorio; negli appezzamenti di terreno non vi sono solo orti: i prati, considerati meno importanti dei campi, occupano le zone periferiche rispetto agli insediamenti. L’attività pastorale è svolta sostanzialmente dai proprietari o dagli affittuari. Tuttavia in molte famiglie è consuetudine affidare i minori a conoscenti con attività pastorale sugli alpeggi per una forma di apprendistato stagionale. Durante il pascolo le donne utilizzano il tempo per lavori di ricamo e cucito, gli uomini per lavori di intaglio in legno di suppellettili di uso pastorale: bastoni, forme per il burro, mestoli, cucchiai. Gli animali sono un tempo allevati con due scopi: i bovini e le capre principalmente per ricavarne latte il più a lungo possibile, e in secondo luogo, per la riproduzione; più raramente erano utilizzati per la macellazione per gli usi locali. I prodotti sono utilizzati direttamente per l’alimentazione, è solo negli ultimi tempi che divengono oggetto di commercio. La maggior parte degli attrezzi necessari per la lavorazione del latte vengono un tempo prodotti artigianalmente secondo antiche tradizioni, spesso con materiali reperiti sul posto. L’allevamento per la Valsesia è un aspetto caratteristico, rappresentato dalla costante presenza di animali di varie specie.

La produttività La ricchezza dei boschi facilita sicuramente l’attività di lavorazione del legname: vi sono infatti in gran quantità alberi di faggio, abeti e larici. La falegnameria deve essere esercitata con una certa intensità, soprattutto per rispondere al fabbisogno locale di arredi e strumenti di lavoro.

14 Roncatura : potatura, taglio della radice di una pianta La lavorazione del legno è un’ attività da sempre caratteristica dell’Alta Valsesia, infatti la valle è sempre stata ricca di folti boschi, il legno quindi, era materiale facile da reperire ed a basso costo, conosciuto ed usato sin dai tempi più remoti e di fondamentale uso primario per ogni attività artigiana ed artistica. Nell’architettura fu insostituibile sia per la casa che per la chiesa. Nelle Chiese, il legno viene usato per i ricchissimi ed imponenti altari scolpiti ma non solo; oltre che per queste opere monumentali l’abilità degli artigiani valsesiani ha dotato le chiese della valle anche di arredi lignei minori ma come tali non di minor pregio; infatti in essi troviamo l’espressione più autentica della capacità di intagliatori ed ebanisti unici nel loro genere (inferriate e statue lignee). Nelle case in legno trionfa, specie nelle tipiche costruzioni dell’alta valle, interamente costruite in legno; in quelle signorili si trovano porte scolpite, mobili (oggi quasi introvabili) veri e propri tesori d’arte come cassapanche, credenze, letti, inginocchiatoi, sedie eseguite con estrema semplicità ed eleganza 15 . A conferma delle attività produttive della valle, vi è la “Carta delle industrie esistenti in Valsesia nel secolo XVII” al cui interno vengono elencate numerose attività. Per la lavorazione dei metalli vi sono fonderie di campane, oro e argento, ferro, rame. Ad esempio la lavorazione del rame è indicata nelle zone di Roccapietra, Scopa ed Alagna. Industrie estrattive di marmo, ardesia, pietra ollare e granito sono indicate a Grignasco, Cellio, Quarona, Roccapietra, Varallo, Vocca, Rimella, Rassa e Rima San Giuseppe. Numerose industrie di tessitura della tela e del panno nella zona di Borgosesia e Quarona, Roccapietra, Varallo, Scopa, Mollia, Alagna e Fobello. La produzione e lavorazione del legname è localizzata in molti centri abitati della valle, partendo da Borgosesia, passando per Quarona, Vocca, Boccioleto, Rimasco, Scopa, Scopello, proseguendo su Campertogno, Rassa, Alagna, fino a Fobello e Rimella. Importanti sono poi le attività di lavorazione della seta e della lana nelle zone di Borgosesia e Varallo.Sin dal 1400 è documentata la lavorazione di ferro, pietra, tessuti (canapa, lino, lana) oro e legno. L’arte del legno in Valsesia è strettamente legata alle vicende storiche della zona. Dopo la metà del Seicento la maggior parte delle parrocchie sella zona hanno tolto gli antichi tabernacoli sostituendoli con i nuovi a forma piramidale di caratteristiche monumentali, legandoli sempre meno agli schemi architettonici dell’edificio religioso. Vengono in oltre costruiti complessi lignei per gli organi, in parallelo con la realizzazione dei primi strumenti nella valle. La maggior parte di questi fenomeni hanno come centro focale il complesso del Sacro Monte di Varallo. Principali figure dell’arte lignea valsesiana sono Bartolomeo Ravelli (1589- 1646) e Giovanni d’Enrico 16 .

L’attività estrattiva Nelle Alpi l’immigrazione viene comunemente presentata come un fenomeno relativamente recente, una conseguenza dei mutamenti che segnarono, dopo il 1850, la fine dell’età dell’autarcia: la rivoluzione ferroviaria. Questo quadro è essenzialmente corretto nel collegare l’immigrazione alla disponibilità di posti di lavoro nell’industria o comunque in attività non agricole. Ciò che può essere facilmente essere messo in discussione è invece che le valli alpine siano state investite da consistenti flussi di immigrazione solo dopo la fine della cosiddetta età dell’autarcia. Ma la proprietà dello studio della proto industria dovrebbe oscurare il fatto che in molte parti delle Alpi mobilità e immigrazione erano state stimolate ben prima dallo sviluppo dell’industria domestica dall’attività mineraria. L’importanza di risorse naturali che, pur non fornendo direttamente nutrimento possono tuttavia rivelarsi decisive nel plasmare la struttura economica, sociale e demografica di una comunità. In ampie zone delle Alpi lo sfruttamento dei giacimenti minerari ha costituito insieme con l’agricoltura, una delle attività fondamentali per secoli o anche millenni. Nel medioevo l’industria mineraria sembra essere stata prevalentemente un’attività di piccola scala spesso a conduzione familiare. L’impressione generale è che la seconda metà del XV secolo che fu caratterizzata da un gran numero di rivoluzionarie innovazioni tecnologiche, abbia segnato, una netta linea di demarcazione nella storia dell’industria mineraria alpina. A partire dalla meta del Quattrocento l’Europa centrale conobbe una crescita improvvisa dell’industria mineraria, dovuta in gran parte a miglioramenti tecnologici che permisero lo sfruttamento di miniere fino ad allora marginali.

15 Lorenza Frascotti, Orientamento e sbocchi socio-economico-culturali dell’alta Valsesia, Torino, AA 1999/00

16 Luca Duella, Gli organi storici della Valsesia: storia e interventi di restauro, Varallo, AA 2006/07 Le Alpi austriache forniscono gli esempi più spettacolari di mutamenti legati all’intensificazione dell’industria mineraria. Ma un esempio quanto mai probante dell’impatto che l’industria mineraria poteva avere su una comunità alpina e sulla sua popolazione viene proprio da Alagna. Non molto si sa delle sue origini, ma si vuole che le miniere d’oro abbiano cominciato ad essere coltivate intorno al 1530 dagli Scarognini una famiglia di imprenditori della bassa Valsesia. Una fase di sfruttamento più intensivo sembra tuttavia essersi aperta nel 1634 con Giorgio d’Adda. È in ogni caso improbabile che in tutto il Seicento l’industria mineraria abbia potuto acquistare un’importanza centrale nell’economia di Alagna e influenzare la demografia. Le cose cominciarono a cambiare dopo il 1707 quando Alagna e le sue miniere furono annesse allo stato piemontese. Fu tuttavia solo verso la metà del Settecento che conobbe un vero e proprio boom minerario. Nel 1752 le miniere d’oro e di rame di Alagna furono giudicate particolarmente promettenti e la loro conduzione venne affidata agli artigiani minatori, un corpo di nuova costituzione formato da soldati specializzati nell’attività mineraria e reclutati soprattutto nella valle di Andorno e nella Val Chiusella. Per una dozzina d’anni emerge nelle fonti come un villaggio brulicante di attività e non di rado turbato di disordini a cui questa comunità di montagna non era abituata. Nel 1763 fu deciso di ridurre drasticamente l’attività. Appare soprattutto chiaro che le miniere alpine costituirono spesso un potente polo d’attrazione, capace di richiamare lavoratori provenienti da regioni anche molto lontane e di stimolare inoltre considerevoli flussi migratori da un distretto alpino all’altro. In una prospettiva locale, tuttavia, si direbbe che gli effetti dell’attività mineraria, fossero destinati ad essere effimeri. Quando l’industria declinava i minatori se ne andavano e quelli che erano stati attivi centri minerari ritornavano alle loro precedenti condizioni economiche. L’esempio di Alagna illustra una delle più diffuse importanti conseguenze dell’industria mineraria nelle Alpi, vale a dire la formazione di gruppi costituiti in origine prevalentemente da immigrati e poi capaci di mantenere nel tempo un grado considerevole di comunità e di identità etnica e professionale.

Il caso Walser Il passaggio improvviso da insediamenti accentrati e insediamenti sparsi rappresenta in molte parti delle Alpi la più chiara indicazione dell’esistenza di un confine etnico. Questo passaggio si avverte con particolare nettezza nelle valli colonizzate dai Walser: mentre i villaggi di lingua romanza posti ad altitudini inferiori sono caratteristicamente compatti, gli insediamenti walser rivelano ancora oggi la loro struttura spaziale originaria costituita da singoli gruppi familiari che vivevano in fattorie isolate e in piccole frazioni, ognuna circondata dagli appezzamenti di terreno che queste famiglie usavano per l’agricoltura. Gli insediamenti sparsi sarebbero una caratteristica distintiva delle popolazioni germaniche. Ma è sufficiente esaminare il caso dei walser per rendersi conto che la questione è in realtà molto più intricata. Abbiamo visto che le comunità walser offrono esempi cospicui di insediamenti sparsi, in netto contrasto rispetto ai villaggi accentrati delle popolazioni romanze. Nella madre patria dei walser ( l’Alto Vallese tedesco) gli insediamenti sparsi sono però ben lontani da essere la norma, e ciò dimostra che il modello insediativo dei walser deve essere considerato un prodotto della colonizzazione. Come visto prima i villaggi romanci sono stati tradizionalmente caratterizzati da una condizione associativa degli alpeggi. Nelle comunità walser, al contrario, gli alpeggi venivano condotti individualmente da ciascuna famiglia. Le aree da pascolo sfruttate dai Walser non erano meno grandi o compatte che altrove, ma erano suddivise in piccoli alpeggi privati, prevalentemente orientati verso la produzione del burro e di formaggio magro destinato al consumo domestico. Anche se potevano esserci forme di pascolo comunitario, le operazioni relative alla lavorazione del latte venivano compiute dai proprietari. Una conseguenza importante era che la gestione degli alpeggi, dovendo gli uomini restare nel villaggio a lavorare i campi ricadeva largamente o esclusivamente sulle donne. Le forme di conduzione individuale si incontrano in comunità dove i diritti sui pascoli sembrano essere stati originariamente conferiti al momento della colonizzazione a singoli aggregati domestici o a particolari corporazioni familiari. Questa circostanza si sostiene avrebbe portato allo sviluppo della proprietà privata non solo dei campi e dei prati ma anche dei pascoli di alta quota, e questo fatto avrebbe a sua volta agito come fattore decisivo in favore della conduzione individuale degli alpeggi. In tutte le Alpi negli anni immediatamente seguenti la seconda guerra mondiale hanno visto una crescente attrazione delle popolazioni alpine verso l’industria a scapito delle attività agropastorali, e che più recentemente il turismo è diventato il settore economico e professionale dominante. Il caso di Davos una delle colonie walser del Canton Grigioni in cui la popolazione è aumentata di dieci volte, può essere visto come uno dei due estremi di un ampio spettro di situazioni. All’estremo opposto troviamo quelle comunità in cui la maggioranza della popolazione è ancora oggi prevalentemente occupata nell’agricoltura. Non è casuale che queste comunità siano quasi tutte situate in alte valli di difficile accesso. Se le caratteristiche morfologiche del territorio ostacolano lo sviluppo turistico, agli abitanti rimangono infatti ben poche alternative all’agricoltura, poiché la distanza le difficili comunicazioni impediscono agli uomini di recarsi a lavorare nelle città industriali poste ai piedi della montagna. Particolarmente nelle località dove la localizzazione dell’agricoltura non si è spinta molto avanti, l’organizzazione economica appare assai poco cambiata rispetto al passato. Ma è del tutto evidente che il futuro di queste comunità è seriamente minacciato dallo spopolamento di conseguenza i villaggi alpini più marginali stanno ora trasformandosi in comunità economicamente e demograficamente residuali. Un esempio si può ritrovare nelle comunità walser nella Valsesia di quanto diversa fosse la situazione di Alagna rispetto a quella di Rima e Rimella. Le popolazioni di questi ultimi due nuclei abitativi , hanno subito un massiccio spopolamento, le cause si possono individuare da una parte il clima rigido che rendeva l’agricoltura di montagna incapace di competere in un’ampia economia di mercato, dall’altra la ripidezza e la rocciosità del territorio che oltre a sfavorire le attività agricole, ostacolavano ogni tentativo di sviluppo turistico legato allo sci. Inoltre Rima e Rimella si trovano alle sommità di due anguste vallette laterali, circondate da montagne di nessun interesse alpinistico, Alagna è posta ai piedi del Monte Rosa ed era dunque destinata ad attirare viaggiatori, scienziati e sciatori, ai tempi d’oro dell’alpinismo, una delle più note località turistiche delle Alpi.

4.3.3. Dalla prima industrializzazione al primo novecento

L’economia dell’alta Valle nel periodo preindustriale è di tipo tradizionale, le attività produttive principali sono quelle manifatturiere e artigianali, affiancate dalle secolari attività agro-pastorali. Fino alla prima metà dell’Ottocento è diffusa l’attività delle botteghe artigiane dedite alla lavorazione del legno, del ferro, della pietra, del vetro soffiato, dei tessuti e dell’oreficeria. Un’altra attività artigiana tipica della valle, esercitata dagli abitanti dell’Alta Valle di Rima, è la lavorazione del finto marmo di cui si ha la presenza nelle chiese e in alcuni edifici pubblici nella valle. La lavorazione della canapa e della lana sono le attività più diffuse nei piccoli centri principalmente dell’Alta Valle, la filatura e la tessitura sono mansioni prettamente femminili che hanno luogo infatti nei nuclei abitativi, tipica è la produzione del puncetto 17 . E mentre le donne si dedicano al lavoro manuale e alla cura della casa, gli uomini emigrano stagionalmente in cerca di lavoro per integrare i redditi. Si registrano fenomeni di emigrazione soprattutto nei centri dell’alta Valsesia, tra le cause si annoverano la povertà del terreno e la difficoltà nel lavoralo sia per l’inclemenza del clima che per la conformazione del suolo, lo scarso sviluppo del commercio legato all’insufficienza delle comunicazione. Altre attività produttive erano legate all’allevamento, esistono soprattutto negli alpeggi della Val Mastallone diverse concerie. Nel XVIII secolo, con la gestione delle cave dello stato Sabaudo, l’attività estrattiva nell’Alta Valle si intensifica tanto da consentire un articolato e diffuso sviluppo di fonderie, officine meccaniche e laboratori di lavorazione dei metalli in molti centri dell’intera vallata 18 . Ma anche nella Bassa Valle le attività produttive sono legate alla lavorazione del legno, del ferro e della canapa, come nell’Alta Valle si formano piccole attività manifatturiere a carattere familiare. Questo fenomeno viene favorito dalla presenza di un fiorente mercato laniero, molto frequentato anche dai mercanti biellesi, che vi acquistano le lane ricavate dalle greggi provenienti dai vasti pascoli dell'Alta Valle che si fermano nel fondovalle per la tosatura.

17 Cfr. Lorenza Frascotti, Orientamenti e sbocchi socio-economico-culturali dell'Alta Vaslesia, 1999-2000, pp.152-153

18 Alagna e le sue miniere. Cinquecento anni di attività mineraria ai piedi del Monte Rosa, Associazione turistica pro loco Alagna - Club Alpino Italiano sezione di Varallo Sesia - Sezione di Archivio di Stato di Varallo Sesia pp.40 Varallo diviene in questo periodo centro eminente della Valsesia, nonché luogo di scambi commerciali dei prodotti artigianali, dove vi confluiscono nelle fiere e nei mercati sia gli abitanti Walser che gli abitanti delle vallate confinanti. Si sviluppano attività di tintoria a servizio dei fabbricanti di tele che delle lavorazioni a domicilio. Gli anni di maggior sviluppo economico sono quelli del Risorgimento in cui si assiste al decollo industriale che favorisce un grande incremento economico. In Valsesia il settore che si sviluppa per la maggiore è quello tessile. L’origine della grande industria nella Bassa Valle è individuata da diversi fattori; i principali sono l’abbondanza delle materie prime offerte dalle attività agricole e di allevamento, la grande quantità di acqua perenne e la facilità nel trasformarla in forza motrice. Sono infatti presenti dal Settecento sul territorio mulini ad acqua, che oggi fanno parte del patrimonio architettonico e storico della valle. Un altro elemento molto importante è la disponibilità di manodopera locale, persone quiete, diligenti e facilmente affezionabili al lavoro 19 . L’inizio del XIX secolo rappresenta per la Valsesia un periodo difficile dal punto di vista amministrativo e conseguentemente economico: essa si ritrova divisa in due tronconi, segnati dal fiume Sesia. Uno continua a far parte dell’amministrazione piemontese, sotto il dominio francese, mentre l’altro fa parte della Repubblica Cisalpina. La parte rimasta con il Piemonte sperimenta mutamenti nell’organizzazione economica e amministrativa, subisce l’influenza francese sulle conoscenze tecnologiche ma non è soggetta ad una trasformazione radicale di usi e abitudini, poiché i francesi cercano di salvaguardare gli schemi precedenti. Mentre l’altra parte subisce cambiamenti più radicali 20 . L’industria tessile diviene lo strumento propulsore per il miglioramento delle infrastrutture locali, soprattutto nei trasporti; vi è infatti la necessità sia di soddisfare le esigenze di rifornimento di materiale sia quelle di esportazione dei prodotti finiti. Nei primi anni dell’Ottocento, lungo il Sesia si vede lo sviluppo di ponti che facilitano gli scambi commerciali e la mobilitazione di maestranze. Nel 1856 l’ingegnere Giuseppe Antonini presenta all’amministrazione di Varallo Sesia il progetto che prevede la realizzazione di una strada ferrata che avrebbe collegato Novara e la Valsesia, la ferrovia avrebbe dovuto attraversare l’intera vallata fino a raggiungere i centri dell’Alta Valle. Per questioni politico-economiche il progetto non verrà attuato secondo l’idea iniziale, l’ingegner Cesare Rota modifica la tratta e nel 1886 viene inaugurata la strada ferrata Varallo-Novara 21 senza però la prosecuzione della tratta verso Alagna. La ferrovia facilita gli scambi e inaugura un periodo commerciale molto fervido. Un altro importante fattore che ha favorito lo sviluppo dell’industria in Valsesia è l’introduzione nel 1822 dell’energia delle ruote a turbine, in grado di garantire una potenza e una velocità di rotazione delle complesse nuove macchine dell’industria tessile. Già nel Settecento vengono trattati i problemi inerenti alla conversione dell’energia idraulica in energia meccanica e si pongono le prime premesse per una trasformazione delle tradizionali ruote idrauliche. Una notevole spinta viene data inoltre dall’apporto di capitali dei nuovi imprenditori. Importanti sono la famiglia Antongini che fonda nel 1850 lo stabilimento di Manifattura Lane di Borgosesia, la famiglia Avondo, proprietaria della cartiera a Serravalle Sesia e la famiglia Loro Piana, proprietaria dei lanifici a Quarona e a Borgosesia, attualmente attivi sul mercato internazionale. Negli anni Settanta dell’Ottocento si introduce l’industria cotoniera, con impianti tecnologicamente evoluti con una rendita e un efficienza avanzate. In particolare a Varallo si avvia uno stabilimento per la filatura del cotone da parte della Manifattura di Courgné, attuale sede dell’archivio di stato di Varallo. Qui si lavorano cotoni americani e indiani, con una produzione per l’Alta Italia e per l’Italia centrale; consisteva in filati ritorti e catene ordite. Si aprono le porte ad un commercio di livello internazionale. La rete delle comunicazioni si amplia nel 1887, quando viene completata la strada carrozzabile fino ad Alagna. Questo evento cambia le sorti economiche dell’Alta Valle, che vede il progressivo espandersi del turismo. Nel 1893 viene introdotta nella città di Varallo l’illuminazione

19 Cfr. Chiara Benedetta Zorzoli, Cinquant'anni di industria tessile in Valsesia 1900-1950, 2004-2005, pp.22-23

20 Cfr. G.Bracco ,Con ponti e turbini, lo sviluppo industriale della Valsesia fra Ottocento e Novecento, 1999, pp.140-145

21 Cfr. Cfr. G.Bracco ,Con ponti e turbini, lo sviluppo industriale della Valsesia fra Ottocento e Novecento, 1999, p.158 elettrica, anche questa è un’importante conquista tecnologica che facilita sia il lavoro in fabbrica che la vita quotidiana. Nei primi decenni dell’Ottocento inizia l’epoca dell’alpinismo, l’ interesse per la montagna diventa un fattore di sviluppo per il turismo. Il primo avvio di uno sfruttamento delle possibilità turistiche ed ambientali della Valsesia appare con la costituzione di una Società dello stabilimento idroterapico di Varallo nel 1891 22 . Il turismo costituisce rappresenta una potenziale risorsa per lo sviluppo economico della valle, esso si interessa soprattutto i centri più rinominati artisticamente, come Varallo, e i centri favoriti da bellezze paesaggistiche come Alagna, meta di numerose famiglie dell’alta società e di stranieri, Riva nella Val Grande, Rima nella Val Sermenza, Carcoforo nella Val d’Egua, Fobello nella Val Mastallone. Nei primi del Novecento si definisce il duplice aspetto di turismo, quello stagionale residenziale e quello legato all’ alpinismo Con l’industrializzazione si inverte la tendenza demografica, la popolazione aumenta a Bassa Valle e diminuisce nell’Alta, il censimento del 1881 registra infatti un decremento di popolazione in 27 comuni su 43 dell’alta Valle. L’emigrazione verso la Bassa Valle e verso l’estero, in particolare verso la Francia, continua fino agli anni Trenta del Novecento, con una crescente tendenza a trasformarsi da stagionale in definitiva, da maschile in familiare, a danno dell’agricoltura e allevamento. Gli ultimi anni dell’Ottocento vedono l’apparire di società in nome collettivo e di cooperative di mutuo soccorso ed anche di produzione. Sono l’espressione di tentativi di trasformare le attività tradizionali con l’apporto di capitali nuovi, se pur sempre limitati, ed anche di affrontare le opportunità delle innovazioni. In questo periodo l’energia elettrica si consolida sia con l’auto-produzione ottenuta dai turbini, che con la nascita di industrie idroelettriche; viene ripreso un settore che aveva antiche tradizioni artigianali, quello della meccanica 23 . L’industria siderurgica si sviluppa, inizialmente, come indotto per garantire le necessità di riparazioni e manutenzioni dell’apparato industriale esistente; la richiesta delle forniture militari per la Grande Guerra rappresenterà la sua grande occasione di affermazione, con la preparazione di maestranze adeguate. Il periodo immediatamente seguente al conflitto mondiale pone a quasi tutta la grande industria italiana il grave problema della riconversione ad una economia e ad una produzione di pace e per il settore meccanico non ci sarà modo di svilupparsi ulteriormente. La crescita industriale della valle disegna un preciso ordine di importanza dei centri sul territorio, Borgosesia assume il ruolo di maggior centralità con la presenza di un tessuto produttivo variegato e diversificato sia nella dimensione delle imprese che nei settori di intervento. Gli altri centri importanti sono Varallo, Gattinara, Grignasco, Quarona, Romagnano, Serravalle e Valduggia; questi sono i comuni che diventeranno i maggiori centri industriali attualmente attivi sul mercato internazionale.

22 Silvia Carrara, I progetti di valorizzazione dei patrimoni storico-ambientali come occasione di sviluppo locale, 1998-1999, pp.70

23 Cfr. G.Bracco ,Con ponti e turbini, lo sviluppo industriale della Valsesia fra Ottocento e Novecento, 1999, pp.180 4.4. Sistema Viario: ferrovie, strade e loro ruoli ed accessibilità. L’origine del sistema viario è da collocarsi in ragioni storico-amministrative succedute nel corso dei secoli, agli insediamenti presenti nella valle. Un’efficiente strutturazione dell’accessibilità è dovuta ad un interesse socio-economico delle diverse dominazioni. La Valsesia presenta un susseguirsi di poteri da diverse parti del territorio adiacente, questi rapporti erano principalmente legati alla bassa valle e alle città di pianura, mentre l’alta valle rimaneva più isolata.

Furono le dominazioni prima lombarda, spagnola e poi sabauda a sviluppare una serie di collegamenti che rendessero più agevoli gli scambi tra l’intera valle e i centri di potere. Nel XVIII secolo con la dominazione sabauda il territorio viene considerato nella sua interezza come una risorsa economica, da poter censire e governare. Nel 1759 viene appunto redatta la prima carta attendibile che rappresenta quasi con la perfezione odierna la morfologia propria della valle. La cartografia mostra i caratteri fisici e antropizzati della valle; da questa emerge un primo dato che definisce lo squilibrio di sviluppo tra la Val Grande, cioè lungo il corso del fiume Sesia, e le valli laterali ( Val Sermenza, Val Mastallone).

Il rapporto tra la fisicità del luogo e la sua accessibilità va a definire la strutturazione di un sistema viario più efficiente; per questo la scelta di porre lungo i corsi d’acqua principali le infrastrutture ha agevolato i collegamenti fra i paesi posti lungo il principale fiume che da il nome alla valle: il Sesia.

A seguito di cambiamenti economici e politici la Valsesia raggiunge una sua indipendenza amministrativa e pone come obbiettivo la modernizzazione del sistema viario interno e di collegamento. Precisamente nel 1823 avviene la completa sistemazione della strada provinciale che collega il capoluogo Varallo alla città di Novara.

Lo sviluppo prima industriale poi turistico sancisce un interesse non solo nazionale di scambi e collegamenti della valle.

La maggior disponibilità di energia e la più efficiente organizzazione della viabilità hanno consentito lo svilupparsi di impianti industriali per la lavorazione di materie prima e semilavorati, anche non di provenienza locale, trasformando la vocazione artigianale dei valsesiani in attività industriale di prestigio nazionale e internazionale, operante in diversi settori dal cartario al tessile, dalle pelli alla meccanica, fino all’industria estrattiva diffusa in tutta la valle.

Il progresso in agricoltura, nel commercio, nella finanza e nella produzione dei beni (rivoluzione industriale) trovava un vincolo grave ed effettivo nelle strade e nelle comunicazioni rimaste arretrate o addirittura inesistenti. Nei circoli intellettuali l’attenzione più tesa fu, all’epoca, riservata alla grande novità europea: la ferrovia, con l’incredibile innovazione della macchina a vapore dotata di meccanismi, stantuffi e bielle, collegati con le ruote in ferro, capaci di trainare un convoglio di carri, purché fosse predisposta una idonea strada: la strada ferrata. La classe dirigente valsesiana non aveva espresso solo artisti, religiosi e causidici, ma anche scienziati, medici, ingegneri, inventori e politici capaci di produrre progetti e di renderli pubblici e di perorarne la realizzazione. Tra questi l’ingegnere Giuseppe Antonini che sin dal 1856 studiò il primo progetto della ferrovia da Novara per Varallo.

Ci fu poi l’ingegnere Biglia, altro valsesiano insigne negli studi ferroviari, che propose l’introduzione anche negli Stati Sabaudi del trasporto su binari a scartamento ridotto, già sperimentato con successo aldilà delle Alpi che riduceva considerevolmente l’impegno finanziario nell’impianto e nell’armamento.

In questo periodo di grande innovazione, il problema dei collegamenti ferroviari non era solo quindi della Valsesia e del Novarese: tutta la giovane nazione ne soffriva, progettava, ma innanzitutto premeva sui governi. L’abile azione di lobbing dei valsesiani nei confronti del Governo, presieduto da Depretis, riuscì a far ricomprendere la tratta in un importante finanziamento statale.

Oltre all’approvazione e all’attuzione del progetto ferroviario, in Valsesia nuove strade furono aperte al traffico dei carri, nuovi ponti furono gettati, e in particolare furono adottati i ponti strallati, sospesi a funi metalliche su cui potevano transitare gli operai delle manifatture.

Per quanto riguarda le vicissitudini della ferrovia in Valsesia: il progetto sviluppato nel 1869 dall’ingegnere Giuseppe Antonini; fu poi ripreso e portato al disegno esecutivo dall’ingegner Cesare Rota: i primi lavori partirono nel 1879,a seguito dei finanziamenti, e si conclusero con l’inaugurazione del 11 aprile 1866 a Varallo del tronco finale della ferrovia che la collega a Novara.

Qui sotto riportiamo il discorso del primo cittadino di Varallo nel 1866, che enuncia in poche battute lo spirito di fervore grazie alla realizzazione di un cosi importante progetto per la città

“Concittadini! Domenica si inaugura solennemente la nostra ferrovia. E si inaugurano insieme i modelli monumentali che la gratitudine cittadina ha eretto agli ingegneri Antonini e Axerio che per ottenere alla Valsesia il beneficio della ferrovia così alacremente e così efficacemente si adoperarono tutta la Valsesia parteciperà a questa festa che segna un’era nuova per essa.”

Divenuta realtà la ferrovia e il fervore di iniziative analoghe, con questa correlate fu incredibilmente vasto e articolato. Era immediatamente balzato all’evidenza che questo tronco poteva essere integrato verso il Biellese e ancora di più verso i laghi per connettersi con la ferrovia del Sempione.

Nel 1880 appena iniziati i lavori della Novara-Varallo, fu depositata una domanda per numerose linee tra Novara, Vercelli e la Valsesia, tra le quali una linea Romagnano-Cossato, nel 1895 la Varallo- Alagna, e nel 1897 una Vercelli-Borgovercelli-Fara-Prato. Con l’introduzione della ferrovia lo scenario socio-economico si trasforma radicalmente, il cambiamento investe numerosi settori, ma soprattutto il modo di vivere e intendere un territorio, da parte dei cittadini e dei fruitori di tale mezzo di trasporto.

Siamo all’inizio del XX secolo. La Valsesia, da secoli condizionata dal fenomeno dell’emigrazione stagionale della sua gente, quasi d’improvviso si trova collegata quel resto di Europa che si era abituata a raggiungere superando le montagne. Dall’11 aprile 1886 con l’inaugurazione della linea Novara-Varallo, la Valle entra con decisione nella storia dello sviluppo industriale italiano.

Il collegamento su rotaia non solo favorisce traffici e commercio, ma, nello stesso tempo, aiuta gli emigrati valsesiani, che possono tornare più in fretta e più spesso al loro paese d’origine. La Valle si ritaglia e costruisce addosso un nuovo vestito, quello della ricezione turistica.

Per primo fu l’onorevole Rizzetti che dominò la scena politica valsesiana in quegli anni, presentò l’idea di una possibile ferrovia elettrica che potesse collegare Alagna a Varallo.

Anche Giacomo Antonio Perello venne a conoscenza del fermento che scosse la Valsesia rispetto al miglioramento dei collegamenti lungo l’asse vallivo e cominciò un accurato studio su una possibile fattibilità e realizzazione della rete ferrata lungo tutta la Val Grande.

Da una lettera di Perello all’amico e onorevole Grobert, riferendosi all’idea della ferrovia:

“ i bisogni industriali che la Valsesia attende da lungo non potranno mai fiorire se non si affronta direttamente la via normale la quale per sempre sarà cosa fatta a mai di dover pentirsene di aver fatto quel sacrificio, assicurando con ciò alla Valsesia un avvenire al suo popolo ed una Valle invidiata da tutti tanto per l’industria che per l’alpinismo il quale per la sua situazione della Valle e dei monti può paragonare con tante altre situazioni alpine di suo genere; questo è un fatto che non può lasciar il minimo dubbio quando si osserva e si conosce bene di quanto hanno fatto altri paesi in uguali condizioni.“

A seguito di una lunga corrispondenza avvenuta nel 1908 Perello enuncia diverse soluzioni e punti focali, che potrebbero giustificare un intervento di tale importanza:

“La concessione di una ferrovia Varallo-Alagna, a trazione elettrica e a scartamento normale e economica, permette di allacciarsi alla stazione di Varallo ottenere in questo modo trasporti rapidi ed economici permetterà lungo la valle introduzione dell’industria di qualsiasi genere, utilizzando in qual modo la forza delle acque le quale fino là a ben poco servono. Accanto di questo abbiamo l’attrazione dei villeggianti e dell’alpinismo nel quale è sommo interesse di tener calcolo e fare tutto il possibile a che si porti maggior sviluppo a questo sport, unica risorsa di tanto capitale impiegato commisera vendibilità tanto a che invece di aprire gli alberghi e le ville poco a poco si chiudono visto che l’attrazione di questa gente si porta in altri luoghi ove possano accedere con molto meno di tempo e spese minime. “

“…Malgrado i mezzi di comunicazione assai primitivi la Valsesia si sviluppa. L’istituto scientifico internazionale del Monte Rosa attira sempre più sapienti nelle nostre contrade. Le miniere di Alagna, il profitto che si trae dalle foreste, dal bestiame quali articoli di esportazione i materiali da costruzione e le derrate alimentari per la popolazione di tutta la vallata, esigono mezzi di trasporto più adatti all’epoca del progresso nella quale viviamo. Le forze motrici naturali e numerose che possiede la Valsesia serviranno alla trazione della ferrovia e noi speriamo che questo nuovo mezzo di trasporto rapido ed economico aumenterà ancora sensibilmente lo sviluppo economico di questa vallata. “ (da: Il treno dei desideri, via ferrata Novara-Varallo,Giornata del FAI,MARZO 2010)

La storia della ferrovia di Alagna continua tra alterne vicende fino a poco prima della grande guerra: molti alagnesi sottoscrivono una raccolta fondi; la ditta Alessi di Milano prosegue ricerche e studi, progetta un nuovo percorso, comincia i sopraluoghi. La guerra sospende questo come tanti altri progetti, ma al termine del conflitto trattative e lavori riprendono con rinnovato spirito. Ma sembra che qualcosa sia cambiato, la forza motrice che sapeva realizzare e portare a termine in pochi anni progetti ambiziosi e a prima vista irrealizzabili, non esiste più, cancellata dal terrore e dallo sconforto di quei anni terribili.

Oggi è possibile leggere e ricostruire fra le righe il ricordo di quegli anni travolgenti e positivi, nella consapevolezza di aver probabilmente perduto un’occasione che avrebbe cambiato e molto il destino della Valle nel secolo appena trascorso.

A seguito della trattazione degli eventi storci susseguitisi per la nascita della linea ferrata in Valsesia, l’attenzione va posta su di una visione analitica della situazione odierna in cui vertono le diverse parti della valle.

Il vasto territorio della Val Sesia mostra infatti scenari insediativi e di sviluppo socio-econoimico di diverso ordine a seconda della posizione geografica e dell’altitudine in cui sono collocati i paesi.

L’obiettivo , con l’analisi gia affrontata nei capitoli precedenti, e quello di creare un quadro unitario che possa spiegare la realtà della valle nei secoli, nell’attualità e in diversi ambiti di interesse.

Nel dettaglio la Val Grande, con il suo sviluppo industriale nella Bassa e turistico nell’Alta, fu sottoposta ad un interesse maggiore nella costruzione e nel potenziamento di vie di comunicazione sempre più efficienti; rispetto alle valli laterali che non vennero interessate da nuovi interventi. Mettendo quindi a paragone i paesi posti alle valli presenti in Val Sesia, possiamo cogliere delle differenze di sviluppo anche in ambito infrastrutturale. Un esempio si può trovare nel paese di Alagna, che pur essendo l’ultimo insediamento della valle, ha goduto e gode tutt’ora di opportunità molto favorevoli grazie alla sua particolare posizione geografica d’interesse turistico. Mentre Rima e Rimella, che si trovano alla sommità di due anguste vallette laterali, circondate da montagne di nessun interesse alpinistico sono tutt’oggi trascurate.

Si sottolinea l’importanza di Alagna, che negli ultimi decenni dell’ottocento si trovò ad un passo dall’essere toccata da quella rivoluzione ferroviaria le cui conseguenze sono state di grande portata in molte altre zone delle alpi, ma venne comunque costruita una nuova strada che assicura ancora oggi comunicazioni agevoli con la bassa valle. Al contrario le strade che portano a Rima e Rimella strette e tortuose sono spesso danneggiate o bloccate dalle forti nevicate, dalle valanghe o da smottamenti del terreno.

La situazione odierna mostra quindi squilibri sull’accessibilità di determinate parti della Valle, ponendo l’interesse su fattori turistici ed economici che agevolano la Val Grande.

Se ci si sposta poi nella media valle, e in particolare dalle città di Varallo scendendo verso Quarona e Borgosesia, oltre alla presenza della ferrovia, le gerarchie di reti aumentano e si intensificano, rendendo i collegamenti tra le parti più veloci ed agevoli. Emergono diverse situazioni all’interno della Valle che rendono una zona maggiormente accessibile rispetto ad un'altra, le cause sono state brevemente enunciate poc’anzi, ma è necessario approfondire la posizione rispetto al quadro odierno.

L’analisi finora condotta ha portato alle luce caratteri propri di diverse aree della Valle, constatando svariati interessi già presenti nel passato, fattori emersi ma mai sviluppati in un discorso unitario.

Uno degli aspetti formativi di questo lavoro si basa sulla realizzazione di un possibile asse ferroviario tra Varallo e Alagna, che si lega all’idea di Città-Sesia. L’infrastruttura rappresenta un carattere propulsivo per una serie di sistemi sparsi su tutta la valle che potrebbero cooperare tra di loro. Rappresenterebbe il principale legante che potrebbe rende agevoli e proficui le relazioni tra i vari paesi favorendo gli spostamenti degli abitanti e dei fruitori.

4.5. Servizi e sistemi funzionali Il sistema dei servizi rappresenta, in aree come la Valsesia, un elemento fondamentale per garantire una capacità di attrazione e di mantenimento delle proprie prerogative sociali e produttive, in mancanza delle quali la popolazione residente si trova costretta in una situazione di inferiorità rispetto alle realtà di pianura.

Fanno parte di questo sistema tutte quelle attività utili all’assistenza del cittadino e al soddisfacimento dei bisogni primari della comunità, nonché anche tutte le attività legate all’istruzione, alla cultura e al turismo.

Attualmente i servizi maggiormente sviluppati sono quelli legati alla sfera del turismo e delle attività sportive, ciò però ha portato, con il passare del tempo, ad un aumento del numero di seconde case rispetto alle abitazioni fisse, favorendo così fenomeni di svuotamento stagionale e la mancanza di sviluppo dei centri della valle secondo una logica d’insediamento che abbia come scopo e modalità quelle della durabilità e della sostenibilità .

Inoltre la sempre maggiore presenza di servizi solo all’interno di alcuni centri ha contribuito a far risaltare la mancanza e l’insufficienza di sistemi di collegamento adatti tra i centri minori e le sedi principali dei servizi e una scarsa accessibilità, dovuta ad un aumento degli utenti e delle funzioni in spazi poco adeguati o non ben progettati.

Il maggior numero dei servizi primari si collocano nei paesi della Bassa Valle,soprattutto a Varallo e Borgosesia, mentre sono scarsi, se non del tutto inesistenti nelle località dell’Alta Valle, per altro colpite in maggior misura dal turismo parassitario stagionale.

Le tipologie di servizi all’interno del panorama valsesiano possono essere distinte in tre categorie principali (nelle quali si collocano sia quelli legati ai bisogni primari sia quelli legati ai bisogni secondari degli abitanti):

- Sistema dell’assistenza

- Sistema dell’istruzione e cultura

- Attività sportive e turistiche

4.5.1. Sistema dell’assistenza

Nell’ambito dell’assistenza rientrano tutte quelle categorie di attività atte a soddisfare prevalentemente i bisogni essenziali per il cittadino: assistenza sanitaria, servizi di mobilità e trasporti, servizi amministrativi a livello comunale e comunitario, servizi primari.

Per quanto riguarda i servizi legati all’assistenza primaria e sanitaria, escludendo le strutture ospedaliere, tra le quali la più prossima è quella sita a Gattinara, si trovano sparsi per il territorio valsesiano alcune strutture ed enti che svolgono in parte alcune di queste funzioni (Asl, associazioni, strutture private o convenzionate).

A livello amministrativo i centri della valle sono regolati, oltre che singolarmente a livello comunale, anche dalla Comunità Montana, un ente che rappresenta complessivamente la realtà territoriale della Valsesia, e che si occupa nello specifico: del coordinamento e della gestione degli ecomusei, del supporto dell’attività agrosilvopastorali, dell’amministrazione dei paesi della comunità, della promozione dell’artigianato locale e di programmi per la valorizzazione del patrimonio culturale e per attività per l’istruzione.

Come già accennato in precedenza, la maggior parte di questi servizi ha la sua base nelle località della Bassa Valle, soprattutto nella città di Varallo, dove appunto si trovano la sede della Comunità Montana valsesiana, il centro assistenziale sanitario e il maggior numero di servizi per l’intera valle.

Attualmente la concentrazione di un gran numero di attività di tale entità in un unico centro, mentre tutte le altre realtà della comunità della Valsesia rimangono pressoché sfornite in questo senso, porta a focalizzare l’attenzione e gli utenti residenti nella Valle sulla città di Varallo, che tuttavia non riesce ormai a soddisfare tali necessità non solo per la scarsa organizzazione dei servizi, ma anche e soprattutto dal punto di vista dei trasporti e dell’accessibilità.

Il sistema del trasporto pubblico e le reti di collegamento risultano infatti ad oggi insufficienti per soddisfare le esigenze degli abitanti della valle, per portare l’incremento demografico, economico di cui questa realtà a bisogno e per promuovere un’ idea del risiedere, vivere e lavorare permanenti nelle località lungo il Sesia.

Se infatti la realizzazione della stazione ferroviaria di Varallo, a coronamento della tratta delle ferrovie dello Stato che giunge da Novara, nella seconda metà dell’Ottocento favorì inizialmente i collegamenti tra la Valsesia e i grandi centri del Piemonte, insieme alla strada statale SS 299, che correndo parallelamente al corso del fiume Sesia collega tutti i centri da Varallo ad Alagna, ora risultano inappropriate. Si rende evidente infatti la necessità di una miglior distribuzione nel territorio dei servizi primari e assistenziali rivolti agli abitanti della valle, e nel caso della localizzazione della maggior parte di essi, e dei più importanti, nella città di Varallo, di un incremento dell’offerta di trasporti pubblici di collegamento, così da migliorare l’accessibilità a tali attività.

4.5.2. Sistema dell’istruzione

La Valsesia in passato è stata luogo di una grande crescita artistico culturale che ha portato all’innumerevole presenza di opere e rappresentazioni di tale fervore, sparse nel territorio di questa valle e ammirabili ancora oggi.

Lo sviluppo dell’istruzione e della cultura è legato anche in parte alla diffusione di queste esperienze artistiche.

Gli ordini religiosi attivi nei comuni almeno fino all’avvento napoleonico, e le iniziative portate avanti dai vescovi novaresi, con la loro attività hanno contribuito all’alfabetizzazione della popolazione della valle attraverso l’utilizzo di rappresentazioni figurative e scultoree di rilievo tali da rendere, gli stessi artigiani e artisti della valle delle eccellenze in campo artistico, richieste in tutto il territorio nazionale. Ne sono un esempio il Sacromonte e le opere conservate nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Varallo.

Le esigenze dei francescani che volevano riprodotta la Terra Santa, popolata di scene coinvolgenti e comunicative per aiutare il raccoglimento e la preghiera, trovarono risposta a partire dal primo Cinquecento nelle capacità narrative e comunicative del pittore, scultore e architetto Gaudenzio Ferrari .

Gaudenzio diede un ruolo sempre maggiore alla scena sacra illustrata all’interno delle cappelle. Con uno stile molto naturale raccontò le scene del Vangelo popolandole di personaggi tratti dalla vita di tutti i giorni, dalla zingara con i suoi bambini, alla nobildonna, all’anziano. Fu proprio questa sua capacità di rendere in modo vero e naturale le scene sacre, mostrandole nella loro componente umana e di sentimenti, a farne un eccezionale interprete delle esigenze dei frati francescani, che volevano un racconto immediato e popolare in cui ogni fedele potesse immedesimarsi e ritrovarsi, ricco anche delle sfumature emotive e di quei dettagli di vita vera che rendevano la scena sacra ancora più credibile.

L’arte diventa quindi una prima forma di istruzione della popolazione della valle.

Nei paesi dell’Alta Valle, come ad esempio Alagna l’alfabetizzazione si diffuse già prima della fondazione della scuola comunale, nata nel 1759 per iniziativa dell’architetto Pietro Antonio Guala, anche se esistono testimonianze della presenza di docenti attivi già nella seconda metà del Cinquecento.

Accanto alle modalità di insegnamento citate in precedenza, anche in Bassa Valle si sviluppano le istituzioni, più canoniche, legate all’istruzione quali complessi scolastici pubblici come ad esempio l’istituto che nasceva nel 1573 sotto il patronato dei Marchesi D'Adda il "Seminarium pauperum", in seguito convertito in Ginnasio per gli studi classici e ceduto nel 1876 alla Città di Varallo; fu riconosciuto Regio Ginnasio nel 1908.

Come per gli altri servizi, anche per quanto riguarda l’istruzione e la cultura, la sede principale e il punto di riferimento dell’intera Valle restano le località della bassa valle (Borgosesia e Gattinara) e la città di Varallo. In quasi tutti i centri della Valsesia è garantita un’offerta formativa base con la presenza di scuole per l’infanzia e strutture per la l’istruzione a livello primario, con suole elementari e medie. Per l’istruzione secondaria di tipo superiore invece ci si deve necessariamente spostare a Varallo, dove hanno sede l’Istituto Superiore D’Adda (Liceo Classico, Liceo Linguistico, Liceo Artistico, Istituto Tecnico Economico) nato dall’unione, nel Settembre del 2000, del Liceo Classico "D'Adda" insieme all'Istituto Tecnico Commerciale "B. Caimi", presente nello stesso edificio; e La Scuola Alberghiera nata a metà del secolo scorso a Varallo Sesia, assumendo la denominazione nel 1964 di Istituto Professionale Alberghiero di Stato., nell’edificio che in precedenza nell’Ottocento era stato sede del “Grande Stabilimento Idroterapico e Climatico” dello Splendid Park Hotel, capace di ricettare duecento clienti. Un numero rilevante di allievi proviene dall’alta e media Valsesia, ma l’utenza dell’Ipssar “Pastore” si è allargata alle aree del “basso” Vercellese e del Novarese, ospitata presso la sede associata di Gattinara.

Tuttavia l’offerta formativa proposta dalla città di Varallo risulta insufficiente, se si pensa ad una specializzazione post diploma e un livello d’istruzione più elevato.

Per garantire uno sviluppo a livello culturale e nel campo dell’istruzione in tutta la Valsesia, è innanzitutto fondamentale garantire anche per i paesi dell’alta Valle la presenza di luoghi adatti per ospitare i livelli primari dell’istruzione, sebbene il numero degli studenti attualmente non risulti essere elevato, ma in previsione di una crescita demografica diventa necessario.

Inoltre in Valsesia manca del tutto un’offerta di strutture per la formazione post diploma e l’orientamento al mondo del lavoro e alla specializzazione in alcuni ambiti specifici, che possano garantire la possibilità di un’occupazione futura all’interno del contesto della Valle. Nasce l’esigenza di sfruttare le strutture scolastiche già presenti in Bassa Valle e prevedere luoghi di formazione post diploma collegati nell’ottica della creazione di un Campus diffuso di conoscenze ed istruzione.

4.5.3. Attività sportive e turistico-ricreative

Il turismo costituisce una fonte economica potenziale per la valle, esso si indirizza soprattutto nei centri più rinomati artisticamente, come Varallo, che diventa “ da crocevia di bisogni montanari, ben raffigurati e di signorile snobismo delle famiglie blasonate, a cittadella della vita politica e sociale varia e vivace” 24 o nei centri favoriti da bellezze paesaggistiche come Alagna, luogo di ritrovo di numerose famiglie dell’alta società e stranieri da numerose nazioni, Riva nella Val Grande, Rima nella Val Sermenza, Carcoforo nella Val d’Egua, Fobello nella Val Mastallone.

Nei primi del Novecento si definisce il duplice aspetto di turismo, quello stagionale residenziale e quello legato all’ alpinismo.

Con il passare degli anni soprattutto nell'alta Valsesia le attività industriali lasciano spazio al turismo estivo e invernale, oltre che a sempre minori attività pastorali e artigianali.

Questo ha portato ad una condizione attualmente poco favorevole caratterizzata da fenomeni di spopolamento delle zone montane, da una bassa o quasi inesistente attività industriale che porta un insufficiente tenore di vita, dovuta anche dall’asperità dei luoghi e dalla inesistenza di adeguate strutture ed attrezzature. Il turismo tuttavia ha subito negli anni un graduale ridimensionamento dovuto soprattutto ai pochi mal strutturati interventi effettuati nel tempo, che hanno portato così all’attuale situazione.

La Valsesia è nota anche per la bellezza e la varietà dei suoi paesaggi montani, e conta frequentati centri di villeggiatura estiva e invernale come ad esempio Alagna, Scopello, Riva Valdobbia, Campertogno, Rassa e Alpe di Mera. Essa quindi presenta un ambiente con infinite attrattive ed opportunità, non solo per gli appassionati sportivi, sia nella stagione invernale sia in quella estiva.

In estate le possibilità sono soprattutto legate alle escursioni in alta montagna e al trekking.

Per la stagione invernale le possibilità sono molte, dallo sci all’arrampicata sul ghiaccio, alle racchette da neve, allo sci fuori pista.

Località fulcro per le attività descritte, per la presenza di stazioni sciistiche, sono Alagna e Alpe di Mera. Ambedue facenti parte del Monterosa ski, uno dei comprensori sciistici più grandi d'Europa.

Nato a cavallo fra il XIX e il XX secolo, in un momento in cui le famiglie più agiate vi trascorrevano le vacanze, il turismo in Valsesia, è stato caratterizzato da risultati altalenanti.

Considerando il periodo che va dal secondo dopo guerra ad oggi, si vede come gli anni cinquanta siano stati caratterizzati dalla speranza e dalla volontà di portare la Valsesia nel circuito delle zone turistiche e di pregio.

Gli anni sessanta sono stati fra i più importanti dal punto di vista delle realizzazioni, e un’intensa attività ha aperto nuove speranze per il futuro. Gli anni settanta sono stati gli anni della conferma e del consolidamento delle strutture esistenti.

Le prime flessioni nel campo del turismo si riscontrano durante gli anni ottanta, a causa soprattutto di un lavoro portato avanti in maniera frammentaria dagli enti della valle, per campanilismi, concorrenze

24 Cit. Silvia Carrara, I progetti di valorizzazione dei patrimoni storico-ambientali come occasione di sviluppo locale,

1998-1999,pp.56 e divisioni. Inoltre la flessione verificatasi in questi anni è stata causata anche da una crescente e sempre più competitiva concorrenza, come gli impianti più moderni e più attrezzati della Val D’Aosta.

Negli anni novanta si è cercato di risollevarsi dalla decadenza in cui la valle era immersa. Basti pensare al potenziamento degli impianti di Alagna (terminata nel 2005) e Alpe di Mera, e al progetto della Comunità Montana “Marchio Valsesia-Monte Rosa”, nato per la promozione e la valorizzazione a livello nazionale e internazionale della Valsesia come bacino del Monte Rosa.

Più recente è lo sviluppo di un turismo acquatico: il fiume Sesia è infatti uno dei migliori fiumi in Italia per gli sport canoistici, arrivando ad ospitare nel 2001 i campionati europei di Kayak e nel 2002 i campionati mondiali della stessa specialità. Lungo il fiume sono sorte alcune scuole di canoa, che organizzano corsi e discese.

Accanto al turismo montano, c’è un turismo artistico-culturale nato dalla presenza di un patrimonio artistico di valore, per la maggior parte non adeguatamente valorizzato.

Il monumento più conosciuto è il Sacromonte di Varallo, a cui si affiancano altre importanti opere nella città di Varallo e nella restante valle.

Di grande importanza è la collezione custodita nella Pinacoteca di Varallo, ospitata nel Palazzo dei Musei di Varallo, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie e la Chiesa di San Marco. Degni di nota sono una miriade di chiese sparse nelle frazioni, come in quelle di tutta la valle, di oratori minori, cappelle e cappellete che nonostante l’elevato valore artistico ad architettonico il più delle volte risultano pressochè sconosciute.

Di rilevante importanza storica ed architettonica è il centro storico di Varallo, unico per grandezza e rilevanza artistica.

Degna di nota è l’architettura valsesiana nel suo complesso accanto a quella Walser, esempio importante è la basilica di S. Giacomo Maggiore a Campertogno.

Discorso a parte meritano gli insediamenti walser nel territorio della valle: insediamenti dalle tipologie completamente differenti da quelli della valle. Tali insediamenti si trovano nelle terre di Alagna, Rima, Rimella, Carcoforo e Rimasco

Importante per lo sviluppo del turismo culturale in Valsesia è anche la creazione di numerosi musei sparsi nel territorio: la Pinacoteca di Varallo e il Museo di Scienze Naturali, il Walser Museum ad Alagna, la Collezione d’arte sacra a Campertogno, il museo Civico a Civiasco, la Mostra del puncetto e il Museo Ebraico a Fobello, la Gipsoteca a Rima, il Museo “Filippa” a Rimella, ed il Museo Etnografico nel comune di Riva Valdobbia.

A queste realtà si aggiungono infine, quelli che vengono indicati adesso dalle guide turistiche come i “ Sentieri dell’ Arte”. Tali complessi si sono formati prevalentemente tra il XIV e il XVIII secolo, e sono il risultato della costruzione di edifici religiosi e cappelle lungo tutti i percorsi di collegamento tra i paesi della valle.

Vengono definiti oggi sentieri dell’arte poiché anche in questi luoghi (oratori, chiese, cappelle e conventi) si possono ammirare grandi opere di pittura e scultura lignea, realizzate sempre con l’intento primario di insegnamento e alfabetizzazione degli abitanti della valle. Inoltre costituivano, al pari dei Sacri Monti, un percorso aggiuntivo singolare per i pellegrini che giungevano in Valsesia per visitare la “Nuova Gerusalemme” di Varallo. Tra questi sentieri si collocano ad esempio i due percorsi che da Boccioleto attraversano tutto il territorio comunale collegando le varie frazioni:

- Boccioleto/Alpe Seccio;

- Piaggiogna/Madonna del Sasso.

Altri sentieri sono presenti a Campertogno, Rassa, Scopa e Scopello, e in generale in tutta la valle e collegano tutte le cappelle e le circa 450 chiese sparse lungo il Sesia.

4.6. Il tema delle seconde case e l’occupazione del suolo

L’Origine del Turismo Moderno: il Grand Tour

Fu al tempo del regno di Elisabetta I, regina d’Inghilterra, che il viaggio per l’Europa divenne un programma educativo: prevedeva la conoscenza di Francia, Belgio e Paesi Bassi, in secondo ordine di Germania, Austria e Svizzera, concludendosi in ogni caso con l’Italia (paese che da sempre occupò un posto di privilegio). Conoscenza non solo delle istituzioni politiche, dei sistemi economici e degli assetti sociali, ma anche di arte e letteratura, storia antica e moderna, musica e teatro, costumi e folclore, città e paesi diversi dalla propria patria. Questa vera e propria avventura intellettuale, che contemplava il finanziamento da parte della Corona inglese per i propri sudditi, fossero essi ricchi borghesi, futura classe dirigente, o rampolli dell’aristocrazia anglosassone, è il primo atto del Grand Tour . John Locke, filosofo e fisico britannico, ne elencò i meriti: “ il viaggio arricchisce lo spirito, rettifica il giudizio, rimuove i pregiudizi, forgia le maniere esteriori che plasmano il complete gentleman ”.

Sono comunque numerosi i viaggiatori che intrapresero il viaggio nel continente ben prima dell’avvento al trono di Elisabetta I: in evidenza il relativo interesse per l’arte e lo spiccato interesse per i costumi e la tradizione del pensiero politico; lo studio di autori come Baldassarre Castiglione e Machiavelli; Venezia, Padova, Firenze e Roma le città maggiormente visitate dalla prima generazione di tourists . Così descrisse l’Italia l’umanista William Thomas, nella sua opera “ Historye of Italye ” (Londra, 1549): “ dal tempo della decadenza dell’impero romano, nessun regno al mondo è stato tanto soggetto a cambiamenti e a guerre, a causa principalmente degli stessi abitanti, che sono sempre divisi nel prender partito, provocando così la loro rovina ”. Un modello singolare di resoconto di viaggio, strutturato sulla conoscenza della storia, dei costumi, della geografia, che diverrà punto di riferimento nella cultura anglosassone per quei viaggiatori sulla rotta dell’Italia nei due secoli successivi.

Ferma restando la primogenitura inglese, il Grand Tour fu fenomeno paneuropeo e a questo si deve la sua eccezionale rilevanza nella storia della civiltà dell’antico continente. “La storia del Grand Tour si snoda per circa due secoli e mezzo: principia con l’età elisabettiana e si conclude al finire del secolo dei Lumi. Quello del Grand Tour è un tema tipico di storia della cultura e di storia della mentalità e le arti sono parte di un tutto che contribuisce a formare la coscienza intellettuale dell’Europa moderna. La pratica del viaggio formativo nell’Europa d’Ancien Régime è dapprima un torrente con esili affluenti, poi in età elisabettiana il torrente si trasforma in fiume. Diviene un’istituzione per la formazione della classe dirigente inglese e a ingrossarlo contribuiscono viaggiatori francesi già al tempo di Luigi XIV, il Re Sole; con essi fiamminghi, olandesi, tedeschi, svedesi, russi, polacchi, e ancora altri provenienti da ogni paese d’Europa. Nel corso della seconda metà del Cinquecento e per tutto il Seicento il Grand Tour ha una connotazione prevalentemente aristocratica, anche se artisti e intellettuali possono in qualche misura considerarsi l’avanguardia di un’armata volta alla conquista pacifica dell’Europa … Nel Settecento è ormai un grande fiume rigoglioso che attraversa la letteratura e le arti … La comunità dei tourists è, nel corso del Settecento, la più numerosa e libera accademia itinerante che la civiltà occidentale abbia conosciuto .” 25

Questo programma intellettuale prese forma tra crisi e pause più o meno lunghe, a causa dei conflitti tra le nazioni e dello scontro che oppose la Chiesa di Roma al mondo protestante dopo lo scisma di Lutero. Con la conclusione della Guerra dei Sette Anni, nell’inverno 1763, l’Europa ha conosciuto una stagione di pace e nel corso del XVIII secolo il Grand Tour visse la sua età dell’oro. Ogni europeo rivive il mito di Ulisse, compone una sua Odissea che diviene Diary, Journal o Tagebuch : la ricca produzione letteraria è testimonianza e memoria di ogni viaggio formativo (Lord Byron, Samuel T. Coleridge, William Wordsworth, Victor Hugo, Alexandre Dumas, Stendhal, Goethe).

25 Cesare de Seta, Il fascino dell’Italia nell’età moderna. Dal rinascimento al grand tour , Raffaello Cortina editore, Milano 2011, pp. 93-94

Sicura è la data di quando possiamo considerare conclusa quest’avventura: dallo scoppio della Rivoluzione Francese, che iniziò a paralizzare ogni genere di viaggio nel continente, all’irrompere dell’armata francese in Italia nel 1796. “Il grande trauma delle guerre napoleoniche segna la fine del Grand Tour come istituzione d’origine aristocratica: non solo si trasforma il genere letterario del diario di viaggio, ma si assiste a una mutazione genetica della cultura materiale e dei mezzi economici che lo connotano. L’apparire della prima locomotiva e l’organizzazione in gruppi del viaggio nel Continente sono l’inequivocabile segno di questa trasformazione .” 26 Quanto alle condizioni tecniche ed economiche del viaggio, la Rivoluzione Industriale, nelle sue diverse fasi di sviluppo, ha introdotto tecnologie di trasporto che hanno progressivamente diminuito il tempo, la fatica, il costo; ciò che era possibile a pochissimi, con una grande spesa e una difficile organizzazione, è divenuto addirittura un’esperienza di grandi masse.

Nel corso di questi due secoli “ la turrita e “terrifica” corona delle Alpi, le pianure floride della Padania, l’aspro Appennino, le coste lussureggianti dalla Liguria alla Sicilia, lagune e riviere, cascate e vulcani – tipici soggetti “pittoreschi” – divengono soggetto artistico e oggetto d’attenzione scientifica. ”27

La “scoperta delle Alpi”: figlia del Tour e del Romanticismo

Nel 1741 l’antropologo William Windham e il proprietario terriero Richard Pococke erano a Ginevra, tappa del loro Tour europeo . Durante una riunione del circolo The Common Room, che raggruppava i tourists britannici, si discuteva con alcuni cristallai svizzeri che parlarono loro dei ghiacciai perenni che scendono fino a Chamonix. Incantati dalle loro parole, organizzarono una spedizione nella vallata ai piedi del Monte Bianco (in quel periodo appartenente al Ducato di Savoia); nel loro diario di viaggio raccontarono l’arrivo a Chamonix e la salita al ghiacciaio Mar de Glace , a cui diedero il nome. I resoconti di viaggio dei due inglesi, “ Letter from an English gentleman … giving an account of a journey to the glacieres or ice of Savoy ”, si diffusero presto nei salotti di tutta Europa; i giornali letterari di ogni paese scrivevano di questa eccezionale “scoperta”, di una natura incontaminata dei passi alpini, di splendidi colori delle Alpi e della maestosa vista del Monte Bianco. Ciò ispirò l’animo avventuriero e artistico della società aristocratica e intellettuale europea, sempre più curiosa e interessata a visitare i paesaggi magici descritti; gli stessi monti cessarono di essere “orribili” diventando “sublimi”, degni di nome e di essere conquistati.

La curiosità suscitata crebbe a tal punto che il paese ai piedi del Monte Bianco venne preso d’assalto dai nuovi appassionati della montagna, dando vita ad una prima rudimentale forma di Alpinismo . Nel 1760 un ricco aristocratico di Ginevra, Horace Benedict de Saussure, promise una lauta ricompensa a colui che per primo avesse trovato la via per raggiungere la vetta del Monte Bianco. “La storia dello sport comincia con la patriottica ambizione del dottor Michel Gabriel Paccard, con le sue prime esplorazioni e con la sua ascensione vittoriosa del Monte Bianco l’8 agosto 1786 ”28 , accompagnato dal suo concittadino Jacques Balmat, entrambi di Chamonix. L’anno successivo lo stesso Saussure si unì alla seconda ascensione, spinto da un fortissimo interesse scientifico; le sue osservazioni sono infervorate da un animo romantico: “Quali magnifici contrasti formano queste rocce di granito imbrunite che si stagliano con tanta nettezza e tanta audacia fra le nevi rilucenti! L’animo si eleva, le viste dello spirito sembrano ampliarsi, e

26 Cesare de Seta, Il fascino dell’Italia nell’età moderna. Dal rinascimento al grand tour , Raffaello Cortina editore, Milano 2011, pp. 114

27 Cesare de Seta, Il fascino dell’Italia nell’età moderna. Dal rinascimento al grand tour , Raffaello Cortina editore, Milano 2011, pp. 102-103

28 Atti del convegno “ Patria, scienza e montagna negli anni risorgimentali. Una prospettiva valsesiana ”, Centro Studi Zeisciu, pp. 57 in questo maestoso silenzio la natura sembra parlare, la sua voce confidarvi le sue operazioni più segrete. ”29

Lo stretto rapporto scienza-alpinismo non può non colpire; qui di seguito vengono riportate le parole del prof. Pietro Calderini durante il discorso d’inaugurazione del Museo di Storia Naturale di Varallo, tenuto il 28 settembre 1867: “L’alpinista intelligente che brama aumentare co’ suoi studi il patrimonio scientifico, non ascende le ardue cime de’ monti solo per deliziare gli sguardi in un vasto o magnifico orizzonte; non si affatica anelo per sentieri rocciosi e per aspri dirupi nell’unico scopo di rafforzarsi le membra o di rinfrancare la salute o di respirare sciolto d’ogni cura una boccata di purissima aria. No, o Signori, l’alpinista che ha mente e cuore imprende faticosi viaggi per allargare del suo sapere i confini; per trasmettere nel dominio della scienza il frutto delle sue osservazioni; per istudiare le epoche dei terreni che percorre, la natura delle roccie che incontra, le erbe e i fiori che belli si parano d’avanti, i rettili che gli strisciano sotto i piedi e gli uccelli che gli svolazzano intorno, salutandolo il ben venuto colla lietezza de’ loro canti. Tale è lo scopo del viaggiatore alpino… ”30

La bellezza della natura e l’attenzione scientifica nei confronti del mondo e di tutto ciò che provoca nell’animo umano forti sentimenti sono certamente figlie del proprio tempo. Il Romanticismo infatti è stato un movimento culturale, letterario, artistico e musicale sviluppatosi in Germania nella seconda metà del XVIII secolo, per poi diffondersi ben presto in tutta Europa. Come reazione all’Illuminismo e al Neoclassicismo, cioè alla razionalità e al culto della bellezza classica, il Romanticismo contrappone la spiritualità, l’emotività, la fantasia, l’immaginazione, ma soprattutto l’affermazione dei caratteri individuali di ogni artista e letterato. Il Romanticismo si rifà in linea di massima alla necessità di attingere all’infinito, in tutte le sue forme. Caratteristica inequivocabile è appunto la teorizzazione dell’ assoluto , l’infinito intrinseco nella realtà e spesso coincidente con la natura, che provoca nell’uomo una perenne e struggente tensione verso l’illimitato e la sua spiritualità. L’elaborazione teorica dell’arte romantica venne attuata da F.W. Schelling nel 1807 col saggio Le arti figurative e la Natura , nel quale pone la pittura al centro, quale legame attivo, tra i due poli dell’anima e della natura. In questo rapporto, la natura viene letta in chiave romantica come luogo dell’immersione e dell’esperienza spirituale di ogni individuo, luogo dove si attua la nostalgia della lontananza e l’espressione del divino in terra. La natura con la sua bellezza scaturisce nell’uomo sentimenti contrastanti in grado di terrorizzarlo quanto di rasserenarlo. Il più grande esponente della pittura romantica in Germania, e più in generale la figura che meglio incarna i canoni dell’arte romantica, è Caspar David Friedrich . Nei suoi dipinti scaturisce un profondo senso di panico nei confronti della natura e la consapevolezza attonita, quasi dolorosa, dell’insufficienza dell’uomo posto di fronte alla sua grandezza. Soprattutto ne Il viaggiatore sopra il mare di nebbia del 1818 (Amburgo, Kunsthalle), al di là di ogni simbolismo cristiano, ritroviamo il manifesto di tutto il primo Romanticismo: sembra rappresentare l’uomo solo, con i suoi errori, i suoi dubbi e le sue certezze, posto di spalle a contemplare la profondità del paesaggio mozzafiato cui è rivolto; il sentimento che affligge il soggetto lo spinge ad oltrepassare i limiti della realtà terrena, opprimente e soffocante, per rifugiarsi nell’interiorità o in una dimensione che supera lo spazio-tempo. In Inghilterra alla concezione romantica della natura contribuiva la teoria del sublime . Secondo i romantici, l’infinito genera nell’uomo un senso di terrore ed impotenza, definito “sublime”, che non sono tuttavia recepiti in modo violento, tali da deprimere il soggetto, ma al contrario la paralisi nei confronti dell’assoluto si traduce nell’uomo in un piacere indistinto; ciò che è orrido, terrificante ed incontrollabile diventa bello. Unita alle teorie del pittoresco, l’arte romantica dà così luogo a una corrente più naturalistica che ha in J.M.W. Turner e in J. Constable i suoi maggiori esponenti. Il celebre critico d’arte John Ruskin parlò di Turner come dell’artista che più di ogni altro era capace di “rappresentare gli umori della natura in modo emozionante e sincero ”.

29 Marc Boyer, Il turismo. Dal grand tour ai viaggi organizzati , Electa-Gallimard, Trieste 1997

30 Atti del convegno “ Patria, scienza e montagna negli anni risorgimentali. Una prospettiva valsesiana ”, Centro Studi Zeisciu, pp. 120-121 Lo stesso Turner, incantato e incuriosito dai resoconti dei viaggi sulle Alpi, raggiunse Chamonix; il Glacier des Bois , insieme alle Grotte d’Aveyron , divennero soggetti importanti per la formazione personale del pittore inglese.

La nascita dei Club Alpini

Fino a metà Ottocento scalare il Monte Bianco è stabilmente considerata una prodezza atletica estrema, opinione confermata dalla sua rarità. Questa fase iniziale dell’alpinismo, in cui le guide locali collaudano e codificano la tecnica dello sport, attraversa la stasi dovuta alla Rivoluzione Francese e alle guerre napoleoniche. Poi bruscamente il numero delle ascensioni aumenta a un ritmo sempre più sostenuto, perché “ si ingrossa il fiume dei turisti benestanti che da tutta Europa e soprattutto dall’Inghilterra, favoriti dalla nuova rete ferroviaria, dai battelli a vapore sui laghi e da lussuosi alberghi alpini in tutto simili a quelli delle città. (…) Il cambio di mentalità che fa decollare l’alpinismo come sport coincide con l’ascensione al Monte Bianco compiuta nel 1851 da Albert Smith, un medico e giornalista londinese divenuto uomo di spettacolo. O meglio, è influenzato dalla sua conferenza-spettacolo The ascent of Mont Blanc che furoreggia a Londra dal 1852 e viene replicata fino al 1858 per circa duemila volte. ”31 “La fondazione dell’Alpine Club, nel 1857, fu la conseguenza di una nuova concezione dello sport, lanciata dai visitatori inglesi delle Alpi e che era allora agli inizi della sua popolarità; ma lo sport stesso non era allora una scoperta nuova, sebbene ciò sia stato spesso e a torto affermato. ”32 La maggioranza delle spedizioni sono compiute sì da inglesi, secondo “ un appassionante gioco di conquista (dapprima del Monte Bianco e poi di tutte le altre cime delle Alpi) dall’intenso significato metaforico, perfettamente congeniale ai sudditi della regina Vittoria che governa la superpotenza colonizzatrice dell’epoca ”33 . Ma è ovvio che ogni ascensione comportava l’impiego di più guide alpine. I pionieri inglesi quindi non hanno inventato l’alpinismo da soli, ex nihilo; bensì fin da principio lo hanno fatto con l’assistenza decisiva delle guide di Chamonix, e successivamente grazie alla Società delle guide di Courmayeur nel 1850 e alla Compagnie des Guides di Saint Gervais nel 1864 (andando a incrinare il monopolio della Compagnia di Chamonix). Il decennio 1850-1860 delle prime ascensioni inglesi provocò la reazione degli svizzeri, austriaci e italiani: nascono così i primi club alpini dopo quello di Londra, ufficialmente in nome della scienza e della cultura, ma senza dimenticare l’onore della patria e riprendere il controllo del proprio territorio. Le neonate associazioni alpinistiche sono l’Österreichischer Alpenverein (Austria, 1862), lo Schweizer Alpen-Club (Svizzera, 1863), il Club Alpino Italiano – CAI (Torino, 1863) e per ultimo il Club Alpine Française - CAF (Parigi, 1874). Questo desiderio di conoscenza e di riappropriazione cresce nelle élite culturali del luogo, naturalisti, topografi, geologi, ingegneri ed anche preti, che erano già soliti frequentare e studiare per primi le loro montagne, sotto la spinta della classe borghese in via di graduale affermazione.

L’Alpinismo nasce nel Regno di Sardegna

Il Dépot Générale de la Guerre di Parigi che a inizio Ottocento coordina i lavori topografici della Francia napoleonica, che ha inglobato il Regno di Sardegna, nel 1803 riconosce: “ Non c’è in Europa governo che abbia fatto lavorare sulla topografia del proprio territorio quanto quello del Piemonte: confini, strade, corsi d’acqua, dettagli di economia rurale, carte militari, fortificazioni, tutto è stato

31 Atti del convegno “ Patria, scienza e montagna negli anni risorgimentali. Una prospettiva valsesiana ”, Centro Studi Zeisciu, pp. 60-61

32 T. Graham Brown, G. de Beer, La prima ascensione al Monte Bianco , Martello, Milano 1960, pp.3-4

33 Atti del convegno “ Patria, scienza e montagna negli anni risorgimentali. Una prospettiva valsesiana ”, Centro Studi Zeisciu, pp. 62 trattato con una cura, si potrebbe dire anche con un lusso, che i principi più lungimiranti non hanno mai raggiunto ”34 . Il lavoro dei topografi sardi continuò negli anni della Restaurazione, e nel trentennio 1820-1850 includeva per la prima volta il rilevamento scientifico dell’altimetria che renderà possibile la pubblicazione, completata nel 1867, della Gran Carta degli Stati Sardi di Terraferma (scala 1:50000). In seguito, nella seconda metà dell’Ottocento partirono le campagne di un impegnativo lavoro sul territorio di livellazione trigonometrica ad opera del Corpo Reale dello Stato Maggiore, terminato con la realizzazione della Carta topografica degli stati di terraferma di S.M. il Re di Sardegna alla scala di 1:50.000 ; questa sarà la base delle successive carte ed edizioni dell’Istituto Geografico Militare. Questo ci permette di dedurre che furono proprio i topografi militari a inaugurare le prime esplorazioni delle Alpi Occidentali nella prima metà dell’Ottocento, compiendo un’intensa attività alpinistica. E questo da veri pionieri, spesso cercando una via d’accesso alla vetta, ingaggiando montanari locali come portatori e come operai, dando il via alla predisposizione al mestiere di guida alpina nelle alte valli.

“Non è affatto casuale che l’iniziativa della spedizione italiana al Monviso innescata nel 1863 dall’esempio dei primi salitori inglesi sia frutto dell’alleanza tra Quintino Sella e il conte Paolo Ballada di Saint Robert … Il connubio tra il dinamico geologo prestato alla politica e l’ex ufficiale pieno di interessi scientifici diventa emblematico e decisivo sia per il successo dell’ascensione, sia per la fondazione del Club Alpino perché mette assieme due componenti chiave per il futuro del nuovo sodalizio: il partito dei geologi, degli ingegneri minerari e dei naturalisti con il partito dei militari di tradizione sabauda.”35 L’ascensione del Monviso, compiuta il 12 agosto 1863, viene considerato il vero atto fondatore dell’alpinismo italiano. Il ruolo trainante degli uomini di scienza non è certo messo in discussione, in quanto il sodalizio del Club Alpino Italiano vide la luce il 23 ottobre 1863 al Castello del Valentino, sede della Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, negli ambienti tecnico-scientifici ed accademici di Torino capitale. A porre le basi del Club furono un gruppo di uomini che si formarono secondo un comune cammino di specializzazione: allievi ingegneri del Regio Corpo delle Miniere particolarmente meritevoli, che attraverso la concessione di borse di studio ebbero la possibilità prima di frequentare un corso triennale all’” Ecole del mines ” di Parigi, per poi proseguire con itinerari di studio e pratica nei principali bacini minerario-metallurgici europei. Tra questi, oltre il già citato Quintino Sella, vi furono anche i valsesiani Costantino Perazzi e Giulio Axerio. Nelle primissime fasi di vita del Club Alpino chi partecipava alle riunioni frequentava la montagna per amore delle scienze o comunque ne era attratto in primo luogo per disposizione culturale: “ ebbene, un quarto erano proprio ingegneri minerari, ingegneri ferroviari, insieme a personaggi legati tanto al Corpo delle miniere che alla rete di strade ferrate nazionale, e se ad essi aggiungiamo naturalisti di professione o per diletto arriviamo alla metà dell’elenco ”. 36

L’Alpinismo in Valsesia

In Valsesia nei decenni centrali dell’Ottocento i sacerdoti furono i principali artefici della “Scoperta delle Alpi”. “ Questi sacerdoti delle nostre Alpi furono semplicemente punte eminenti dell’élite culturale di un mondo borghese in fermento, menti fervide e illuminate che trovandosi in prima linea seppero cogliere e promuovere il soffio del nuovo, facendosi mediatori tra il piccolo mondo delle loro terre di montagna e le grandi istanze di cambiamento che giungevano dall’esterno ”. 37

34 Atti del convegno “ Patria, scienza e montagna negli anni risorgimentali. Una prospettiva valsesiana ”, Centro Studi Zeisciu, pp. 37 35 Atti del convegno “ Patria, scienza e montagna negli anni risorgimentali. Una prospettiva valsesiana ”, Centro Studi Zeisciu, pp. 43 36 Atti del convegno “ Patria, scienza e montagna negli anni risorgimentali. Una prospettiva valsesiana ”, Centro Studi Zeisciu, pp. 109 37 Atti del convegno “ Patria, scienza e montagna negli anni risorgimentali. Una prospettiva valsesiana ”, Centro Studi Zeisciu, pp. 126 Giovanni Gnifetti nasce ad Alagna nel 1801, nello stesso anno della conquista della cima Giordani; prende possesso della parrocchia in cui è nato nel 1834 e lì vi rimane fino alla sua morte. Il parroco Gnifetti è un alpinista: il 9 agosto 1842, al quarto tentativo, raggiunge la vetta della SignalKuppe. La salita costituisce un’appropriazione della cima, “un vero istante di festa, di tripudio e di trionfo”. Gnifetti coniuga la montagna alla patria, ma la patria è la piccola patria alagnese, in cui è nato e vissuto. Con Gnifetti salgono sulla SignalKuppe anche alcuni giovani alagnesi, tra cui Giuseppe Farinetti (nato nel 1821) e Giovanni Giordani (1822). In essi è vivo il piacere di contemplare ed esplorare il massiccio del Monte Rosa con lo scopo di aprirlo alla conoscenza altrui e promuovere anche il potenziale turistico di Alagna. Non sono solo alpinisti: essi portano avanti un’indagine sull’ambiente naturale e culturale del proprio territorio, dedicandosi in particolar modo a riscoprire le tradizioni antiche e l’identità storica della loro patria, Alagna. Nel 1878 don Farinetti pubblica sul Bollettino del CAI uno studio sull’origine delle popolazioni tedesche a sud del Monte Rosa, mentre Giordani scrive “La colonia tedesca di Alagna Valsesia e suo dialetto”. Entrambi coniugano la montagna con una piccola patria di cui ri-scoprono l’identità etnica.

Antonio Carestia nasce a Riva Valdobbia nel 1824. Nel 1848 diviene sacerdote e ritorna al suo paese natale. L’abate Carestia è alpinista e patriota; sale ripetutamente sul Corno Bianco e lascia sul libro di vetta auspici all’”Italia libera, indipendente e una” e omaggi a Giuseppe Garibaldi. Ma è stato soprattutto uno scienziato di alto profilo, un botanico autodidatta, che contribuirà in modo significativo alla conoscenza della flora della Valsesia e del settore centro-occidentale delle Alpi.

Pietro Calderini nasce a Borgosesia nel 1824. Nel 1850 viene ordinato sacerdote ma dal 1859 assume la direzione delle Scuole Tecniche di Varallo. Nella seconda metà dell’Ottocento la montagna si apre, fisicamente e culturalmente, alla ricerca scientifica. Meteorologia e geologia sono i campi di studio più frequentati durante questa scoperta scientifica. In questi anni Pietro Calderini gestisce l’apertura di osservatori meteorologici a Varallo e al Colle di Valdobbia e si dedica con particolare competenza agli studi geologici. Calderini coniuga la montagna alla scienza; la montagna a cui viene dedicata la sua attenzione scientifica non è la montagna valsesiana per eccellenza, è soltanto una modesta cima alle porte della valle, il Monte Fenera. Il 16 giugno 1867 il “Casino di lettura e conversazione” aggiunge al proprio nome il titolo di “ Sede succursale del Club Alpino Italiano ”, ufficialmente inaugurata nel settembre alla presenza di Quintino Sella. Artefice della fondazione è stato proprio don Pietro Calderini, in un progetto integrato di politica, progresso, scienza e montagna. Il suo principale collaboratore è Carlo Montanaro, il quale pubblica su uno dei primi numeri del Bollettino del Club Alpino una innovativa “ Guida per viaggi alpini nella Valsesia ”. Uno strumento di cui già il parroco Giovanni Gnifetti aveva intuito la necessità per il territorio della sua Alagna, tanto da iniziare a redigerne lui stesso una bozza, rimasta incompiuta a causa della sua morte proprio in questo stesso anno. Grazie a questo progetto culturale, a fine Ottocento la Valsesia era costantemente presente sulla stampa nazionale, nelle guide internazionali e sulle riviste scientifiche, nonché apprezzata e frequentata da viaggiatori e turisti, italiani e stranieri. Una ricostruzione delle prime vicende dell’alpinismo in Valsesia ci offre un contributo significativo per comprenderne la sua “ teoria evoluzionista ”. Nel corso del XX secolo un acceso dibattito intorno alla “teoria creazionista ” dell’alpinismo ha visto opposti due schieramenti intellettuali: i sostenitori di un modello “ esogeno ”, secondo i quali i pionieri dell’esplorazione delle cime delle Alpi sarebbero venuti dall’esterno, dall’Inghilterra o dalle città, mancando alle popolazioni di montagna l’intraprendenza per spingersi verso l’alto; contro, i sostenitori del modello “ endogeno ”, che sottolineavano e celebravano i primati delle comunità alpine e l’ardimento dei montanari, come dimostrato dalla spedizione gressonara del 1778 alla Roccia della Scoperta (che aveva portato a conseguire “ un primato d’altezza mai toccato da piede umano ” otto anni prima della conquista del Monte Bianco da parte di Paccard e Balmat). Ora si cerca di mettere in comunione fra loro i due modelli creazionisti a favore di un “evoluzionismo” che fa emergere le complesse interazioni fra interno ed esterno: nota è la presenza già dai primi anni dell’Ottocento di geologi e studiosi naturalisti inglesi che studiavano sulle Alpi l’orografia e lo sviluppo delle ere storiche; la loro presenza è stata documentata anche nei registri parrocchiali di Alagna, grazie a don Gnifetti e all’abate Carestia (riscoperti dagli studi del docente di Antropologia sociale Pier Paolo Viazzo). Questi studiosi entrarono però in contatto con l’élite culturale valsesiana, espressione del mondo borghese in fermento, risiedente sia ad Alagna, dove la ricchezza materiale dell’ambiente naturale vivacizzava lo spirito della conoscenza, sia a Varallo, capoluogo intellettuale della Valsesia, ed in stretto contatto con l’ambiente scientifico-accademico di Torino.

L’ospitalità in Valsesia

Il movimento alpinistico si sarebbe evoluto molto in fretta negli anni a seguire. Già nei primi anni di vita dell’Alpine Club si erano viste avvisaglie di un alpinismo tendente ad abbandonare la propria connotazione scientifico-culturale iniziale e sempre più attratto da altri richiami, un Alpinismo Sportivo . “ Presto sarebbe finito in ogni caso il periodo classico della conquista alpinistica della montagna, non più riservato ai membri dell’élite culturale, ma divenuto ormai attività sociale tanto diffusa da permettere che su di essa si potesse impostare un’attività professionale a tutti gli effetti, quella delle guide. Già si erano poi avviate decisamente sulla via dello sviluppo alberghiero sia la Valsesia che la Valle d’Aosta. ”38 Proprio ad Alagna, grazie al patrocinio del CAI di Varallo, venne fondato nel 1872 il secondo corpo guide più antico d’Italia, dopo quello di Courmayeur del 1850. Il passo successivo fu quello di costruire i primi rifugi sul massiccio del Monte Rosa. Nel 1876 venne realizzato un riparo nel luogo dove il Gnifetti trascorse la notte antecedente la vittoriosa ascesa alla Signalkuppe del 1842 (ed in seguito ampliato fino a trasformarlo nell’odierno Rifugio Gnifetti, situato a 3647 metri d’altezza). Il 21 agosto 1878 veniva inaugurato, a 2909 metri sul livello del mare, il Ricovero al Col d’Olen . Le ragioni che portarono Giuseppe Guglielmina, calzolaio di Mollia, a espandere la sua attività alberghiera al di fuori dei canonici confini della valle vanno ricercate, oltre al particolare clima di apertura turistica che seguì l’impresa della conquista del Monte Rosa, anche nell’innato spirito imprenditoriale di molti valsesiani di fine secolo. Solo otto anni dopo l’ascensione alla SignalKuppe (oggi conosciuta anche come Punta Gnifetti), la famiglia Guglielmina era in grado di gestire l’Albergo Monte Rosa, inaugurato ad Alagna nel 1850 e successivamente ampliato; quindi nel 1871 l’Albergo delle Alpi a Riva Valdobbia, nel 1878 il sopracitato Ricovero del Col d’Olen, ed infine nel 1879 l’acquisizione del convento delle Orsoline a Varallo e la successiva trasformazione in Albergo Italia. Determinante fu sicuramente l’appoggio dato da due personaggi alagnesi a lui contemporanei, il parroco Gnifetti e il dottor Giovanni Giordani. Essi infatti esortarono l’albergatore a dare maggiore impulso allo sviluppo ricettivo locale; per sostenere il crescente afflusso di turisti, in maggioranza stranieri, un efficiente sistema di ospitalità e la costruzione di un punto di appoggio ad alta quota avrebbe recato un notevole vantaggio per raggiungere la “Cima del Segnale”. Il 18 agosto 1893 veniva inaugurato il rifugio-osservatorio Capanna Regina Margherita, proprio in presenza della regina italiana. Esso sorge sulla vetta della Punta Gnifetti, a quota 4559 metri sul livello del mare, ed è il più alto rifugio alpino d’Europa. “Si trattò di un avvenimento davvero emblematico in quanto esso decretava la fine dell’epopea di conquista non solo del Monte Rosa, ma delle Alpi intere: sulla vetta dove il Gnifetti cinquant’anni prima era giunto dopo quattro assalti, ora veniva eretto addirittura un rifugio-osservatorio, fatto che elevava la soglia psicologica di raggiungibilità delle regioni d’alta quota ”39 .

38 Atti del convegno “ Patria, scienza e montagna negli anni risorgimentali. Una prospettiva valsesiana ”, Centro Studi Zeisciu, pp. 127

39 Atti del convegno “ Patria, scienza e montagna negli anni risorgimentali. Una prospettiva valsesiana ”, Centro Studi Zeisciu, pp. 128 5. CITTA’ SESIA: IPOTESI DI INTERVENTO PROGETTUALE E PUNTI APPLICATIVI.

5.1. La nuova infrastruttura ferroviaria: ruolo e fattibilità. Lo scopo è quello di documentare e rendere pubblica un’idea di progetto infrastrutturale che vada nel segno di un cosiddetto uso di città con l’altra componente che è quella di comunità; non è cioè un’infrastruttura che viene imposta ma che riconnette una realtà storico insediativa costituita da tutte le frazioni nate lungo il Sesia.

La documentazione consiste in una tavola di tracciato e in un’esemplificazione del numero e della localizzazione delle stazioni e nell’attendibilità di questo progetto in ragione del rapporto con le modalità di pianificazione di infrastrutture, di sua messa a punto in termini gestionali, di conduzione ecc.

Dal punto di vista storico ci sono stati nel passato dei progetti di tipo ferroviari.

A Varallo vi è il progetto di proseguire la ferrovia, verso Alagna, verso la Svizzera. Nel passato l’unico progetto che è stato fatto risale all’inizio del secolo scorso: unico progetto ipotetico di una società mista privata, che partiva da Varallo Sesia ed arrivava fino ad Alagna ed era per così dire la conseguenza del processo di industrializzazione. Ma fu interrotto. Infatti col fascismo tutti gli aspetti di pianificazione “dal basso”sono stati interrotti.

Noi abbiamo degli esempi a cui rivolgerci che sono quelli Svizzeri che sono prevalentemente linee proprio a carattere alpino, tutte a scartamento metrico e non tradizionale (che prevede una distanza tra le rotaie di 1,47 mt). Questo perché il sistema metrico permette di avere delle curve più strette e delle sagome limitate permettendo ovviamente di ridurre i costi sia per quanto riguarda le gallerie che per i ponti.

Si è dunque optato per un sistema di questo tipo, ossia di adottare un sistema metrico ma di collegare si Varallo con Alagna ma anche con Borgosesia. C’è la possibilità di inserire il binario a scartamento metrico nel binario a scartamento normale. Per cui è fattibilissimo utilizzare il sedime ferroviario esistente ed arrivare direttamente a Borgosesia realizzando una stazione di testa più o meno nella zona dove ora c’è il fabbricato dello scalo merci inutilizzato.

Questa linea ferroviaria va progettata per una velocità intorno ai 100-120 Km/h e alcune tratte saranno inevitabilmente a velocità ridotta (intorno ai 90 Km/h)e questo per renderlo competitivo con il sistema dei trasporti oggi esistenti.

Una linea di questo tipo, caratterizzata da queste velocità e da tratte a velocità ridotta, permette di avere raggi di curvatura di 200-250 mt. anziché 500-600 mt.

Il successo di una ferrovia di questo tipo è però legato a determinate precondizioni. È chiaro che se viene lasciata libera la circolazione dei mezzi su gomma, il rischio è che una ferrovia così ipotizzata venga utilizzata soltanto da determinati soggetti (studenti, operai, coloro che non hanno un margine economico sufficiente per poter gestire un mezzo individuale di trasporto come un autoveicolo).

Per cui è necessario prevedere anche una politica di riduzione degli accessi nella zona della Valle, soprattutto dal punto di vista turistico, predisporre opportune aree di parcheggio e “obbligare”, come accade in determinate zone svizzere, all’uso del treno per poter raggiungere le località interne della Valle. È però un discorso che esula dalle considerazioni dal punto di vista tecnico.

È necessario fare un piano di esercizio che tenga conto di diversi elementi:

- quanti treni devono transitare

- con che frequenza

- quanti posti viaggiatori

- la velocità

- le fermate (obbligatorie e facoltative/ a richiesta che possono essere richieste da persone a terra o da persone a bordo del treno su prenotazione e attraverso un sistema di richiesta al macchinista)

Un servizio minimo sufficiente prevede un treno per direzione ogni ora e nelle ore di punta un treno ogni mezz’ora, ipotizzando un arco temporale di esercizio che vada dalle 5.00 alla 1.00, lasciando l’intervallo che intercorre tra l’ 1.00 e le 5.00 per i servizi di manutenzione degli impianti.

Per ogni fermata tra accelerazione, decelerazione e sosta bisogna tener presente circa 100”-120” circa. Per cui è necessario cercare di limitare al minimo il numero delle fermate fisse.

Un altro punto molto interessante è la gestione di questa ferrovia che può essere svolta da un posto centralizzato che in teoria nel tempo potrebbe essere completamente automatizzato e quindi senza la necessità della presenza del macchinista e del personale viaggiante a bordo del treno.

In realtà oggi si può gestire il treno con un solo macchinista, una sola persona a bordo costantemente collegata con il posto di comando centrale che funziona sostanzialmente come un impianto funiviario, ossia si controlla sia la circolazione dei treni, eventuali anomalie, guasti, problematiche e richieste dei viaggiatori. Quindi deve essere sempre garantita la presenza di almeno due persone: una che segue l’andamento del treno e tutto ciò che è connesso col treno e l’altra che sostiene i servizi verso gli utenti.

Tutto ciò comporta che per poter fare un corretto e funzionale programma di esercizio si individui appunto il numero dei treni necessari. Nel nostro caso 5 complessi di cui 4 in esercizio completo e uno di riserva per le emergenze o per necessità di utenza occorre un treno doppio.

Un treno composto da (su esempio dello Stadler ):

- 3 elementi , sufficienti per portare intorno ai 120 posti a sedere

- Lunghezza di ogni treno: 36 mt.

- Possono essere elettrici o ibridi. Si inserisce fra la vettura di testa e la vettura intermedia un elemento che può essere un diesel, un diesel-elettrico o un elettrico, o si possono mettere entrambi accoppiati, quindi può andare sia coll’elettrico che col diesel-elettrico. Nel nostro caso la soluzione migliore è il diesel-elettrico perché permette delle accelerazioni decisamente più veloci perché i motori sono elettrici (non è il disel che aziona il carrello motore attraverso un sistema di ingranaggi come nelle auto e negli autocarri) ma in questo caso sul carrello ci sono dei motori elettrici asincroni e da una parte c’è il diesel che produce su un motore energia elettrica che viene regolata in frequenza e tensione con un sistema elettronico. Per cui la soluzione iniziale, per ridurre i costi, è quella di inserire tra i diversi treni quest’unità diesel-elettrica.

Si potrebbe poi elettrificare in un secondo tempo, ma ciò significa spendere mediamente 200mila € al Km e prevedere la costruzioni di due piccole sotto stazioni alle estremità per garantire l’alimentazione della linea.

- Optando per un sistema metrico si riducono i costi delle opere civili e alcune tratte si possono fare a doppio binario per fare gli incroci dinamici .

Le stazioni sono fatte in modo da permettere l’ingresso contemporaneo di due treni riducendo i tempi. Ad oggi nella maggior parte delle reti ferroviarie italiana prima entra un treno e solo quando è fermo viene autorizzata l’entrata dell’altro treno per cui si perdono mediamente dai 4 ai 5 minuti con queste operazioni di incrocio. Con l’ingresso contemporaneo i tempi si riducono notevolmente, pur essendoci sempre dei tempi morti. Per questo conviene fare nei tratti scoperti se è possibile degli incroci dinamici tra una stazione e l’altra. Questo comporta doppie banchine. (Vedi Stazione di Terlano sulla linea Bolzano-Merano)

- Marciapiedi di 50 mt. Prefabbricati con una struttura, un telaio in profilati in acciaio e un calpestio in legno ricoperto in gomma con tutte le diverse protezioni, che possono essere anche solo parzialmente coperti per facilitare la salita e la discesa di persone anziane, piuttosto che di persone con difficoltà e/o handicap.

Per il periodo invernale bisognerà prevedere un mezzo particolare per la pulizia delle rotaie che deve entrare in funzione un’ora prima dell’esercizio. Una sorta di locomotore con davanti una turbina per pulire il binario. Mentre per la pulizia dei marciapiedi sono previsti la messa in opera di cavi elettrici che quando la temperatura si abbassa entrano in funzione scaldando sempre di più (più la temperatura si abbassa minore è la resistenza).

Le pendenze sono un altro fattore molto importante da considerare in quest’ambito.

Questa società, la Staddler, riesce a realizzare treni anche per pendenze molto elevate (si arriva anche al 15% o più. Normalmente si riesce ad affrontare il 30‰ per piccole tratte, max di 200 mt. e prive di fermate), che sono treni cosiddetti a cremagliera (Vedi esempio Catanzaro-Lido a sistema metrico con scartamento a cremagliera).

Da Alagna a Varallo vi è un dislivello di circa 740 mt. su una lunghezza di 35 Km. Il tratto da Borgosesia a Varallo è pressoché in piano. La nuova linea dovrebbe staccarsi prima della stazione di Varallo e seguire il percorso più vicino alla nuova strada.

Un altro elemento che incide sia sulla modalità di esecuzione e realizzazione del tracciato che sulla velocità è quello dello scorrimento a livello stradale in alcune tratte con il limite dei 30 Km/h.

In alcune situazioni la ferrovia dovrebbe passare al di sopra o al di sotto del livello stradale mentre in altre, come nella zona di Scopello, il tracciato passa in una zona urbana vicinissimo al centro abitato.

Il modello ipotizzato rende fattibile tutto questo in quanto sono innanzitutto treni estremamente silenziosi; da una parte c’è una lunga rotaia saldata, non ci sono più dunque le giunzioni tra le rotaie, che più estendersi anche per parecchi Km, e i carrelli possono essere montati su sistemi in gomma. Inoltre si può pensare a un sistema di elementi inibitori dei rumori con delle barriere non altissime ma limitate. Oppure si possono ipotizzare dei sistemi in trincea guardando dove passa il treno e se è un elemento impattante o meno. Vi è poi la questione della sovrapposizione delle due linee che prevede un binario dentro l’altro e comporta il rifacimento di tutto il binario, da Borgosesia a Varallo. Questo si potrebbe programmare in occasione di un rinnovo poiché ogni 30 anni i binari vanno rinnovati.

Aspetto importante è quello della manutenzione, che può essere affidata a società multiservices come, ad esempio, la Manutencoop.

Solitamente quando si fa la fornitura di un materiale rotabile, di un treno si unisce un certo periodo di manutenzione iniziale (3-5 anni) e poi può essere prolungata o si cambia il manutentore. Questo perché sono sistemi ormai non più coperti da brevetti; ci sono solo delle parti come il locomotore e il materiale rotabile, che hanno dei brevetti ma sono parti infinitesimali.

È necessario poi fare considerazioni sui costi. Per quanto riguarda il quadro economico bisogna tener presente:

- Il discorso degli espropri % di incisione: tra il 7% e il 10%

- Opere civili: ponti e gallerie % di incisione: tra il 60% e il 70%

- Armamento % di incisione: tra il 12% e il 15%

- Sistemi telefonici, di sicurezza % di incisione: circa il 30%

- Impianti di trazione elettrica % di incisione: 5%

- Costo lordo a Km 8 milioni al Km (240/300 milioni di €)

I tempi di realizzazioni previsti vanno da 5 anni in poi partendo dalla progettazione definitiva e non da quella preliminare.

Per la progettazione e la costruzione possono farsi dei consorzi tra imprese locali e imprese nazionali.

Una strategia per coinvolgere e convincere i singoli amministratori potrebbe essere quella di consolidare un turismo (di cui ha vissuto prevalentemente l’economia negli ultimi 30 anni) in grado di aumentare la capacità del reddito pro-capite e nello stesso tempo di non depauperare la proprio risorsa primaria.

Inoltre per spingere all’utilizzo e alla fruizione del servizio si possono fornire delle tessere di libera circolazione su tutta l’area a dei prezzi agevolati ai residenti e i non residenti con seconde case e realizzare dei sistemi a pettine per i collegamenti alle valli laterali con dei mezzi leggeri.

Il terreno su cui possiamo essere dimostrativi ai fini del progetto è proprio il disegno urbano, urbanistico e anche di una quantificazione delle utenze a regime per quello che riguarda questo “uso di Città”.

Un elemento molto importante è l’accesso non distruttivo a delle bellezze, quali il fiume e l’Alta Valle ad esempio.

Impiego del personale necessario:

- Posto centrale: 11-12 persone su turni (2 persone a turni)

- Macchinisti: 24 persone - Personale amministrativo, di supporto e di pubbliche relazioni: 10 persone circa

- Manutenzione

Ponti: sullo standard ferroviario sono previsti con luce tra i 30 e i 32mt. nel nostro caso si può utilizzare un sistema ridotto con delle pile a forma circolare in c.a. con pali di fondazione o meno in base alla consistenza del terreno. Sopra è previsto l’impiego di una sovrastruttura in acciaio che può essere con travi reticolari.

Gallerie (previste per un totale di circa 5 km): rispetto al binario, al piano delle rotarie necessita un’altezza di 7mt libero.

In larghezza bisogna calcolare la sagoma del treno (2,30-2,60mt); la distanza tra un treno e l’altro di almeno 50cm. Poi 80cm a destra e sinistra su singolo binario. Nel caso di doppio binario minimo 50 cm.

6. CITTA’ SESIA: PROGETTO E PUNTI APPLICATIVI

Bibliografia_ Città-Sesia: usi di città e comunità nella Media e Alta Valle. Proposte Progettuali per i comuni di Varallo e Alagna Valsesia

- Alagna e le sue miniere. Cinquecento anni di attività mineraria ai piedi del Monte Rosa, Associazione turistica pro loco Alagna - Club Alpino Italiano sezione di Varallo Sesia - Sezione di Archivio di Stato di Varallo Sesia

- Alberto Bossi, La chiesa di santa maria delle grazie e la grande parete gaudenziana di varallo , Borgosesia 2006

- Alessandra Ceralli (tesi), La chiesa di varallo nel xviii secolo , 1998-1999

- Anna Maria Marchetti Grasso, Passeggiate Valsesiane . Borgosesia, 2008

- Arialdo Daverio, L'architettura delle case di Alagna. Estratto da "Alagna. Valsesia, una comunità walser", Valsesia Editrice, Borgosesia , 1983

- Arialdo Daverio, Alagna Valsesia. Censimento delle antiche case in legno , Riedizione New Vision Grafic Multimedia; 2005

- Atlante toponomastico del Piemonte Monatano. Alagna Valsesia ; Il Leone Verde Edizioni, Torino, 2007

- Barbano E., Bangher il bandito e altre storie. Un secolo di vita in Valsesia , Idea Editrice, Olgiate Olona, 1996.

- Chiara Benedetta Zorzoli, Cinquant'anni di industria tessile in Valsesia 1900-1950 , 2004-2005, Pasquale Galea, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Facoltà di Economia. Corso di Laurea in Economia e Commercio

- Dagradi P., Uomo, ambiente e società. Introduzione alla geografia umana , Ed. Patron, Bologna, 1995.

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