QUADERNI PARMENIDE Rivista di cultura e didattica

ANNO IX | 19 | DICEMBRE 2014

ISTITUTO SUPERIORE PARMENIDE VALLO DELLA LUCANIA salerno QUADERNI PARMENIDE

Rivista semestrale dell’Istituto di Istruzione Superiore “Parmenide” Vallo della Lucania Anno IX – n° 19 – dicembre 2014

Direttore Francesco Massanova

Redazione Santa Aiello, Eugenia Rizzo

Copyright Istituto di Istruzione Superiore “Parmenide” Via L. Rinaldi, 1 84078 Vallo della Lucania Tel /fax 0974/4147 www. liceoparmenidevallo. it

Stampa Editrice Gaia Srl – www. editricegaia. it

In copertina: Marc Chagall, Il pittore alla Luna Indice

Editoriale Francesco Massanova pag. 7

I sentieri della luna 11 Maurizio Tortora

Presentazione del libro «‘A Vintulera ri lu cielo» 17 Antonio De Vita

La poesia di Maurizio Tortora 27 Francesco D’Episcopo

Didattica e laboratori

Un viaggio astrale 33 Santa Aiello

“I sentieri della Luna”: la nostra interiorità allo specchio 39 Teresa Apone

«Il tramonto della Luna» di Giacomo Leopardi. Analisi testuale 45 Eugenia Rizzo

Amor di Luna. Endimione e Selene nell’arte 53 Antonella Nigro

A white human form 65 Angela D’Angelo Sotto gli occhi della Luna 71 Alessandra Santomauro

Alla Luna 81 Samira Galietta

Il figlio della Luna 85 Arianna D’Angelo

Ho creduto in un sogno 91 Benedetta D’Ambrosio

Il sentiero della Luna 95 Gabriella Giordano

Fuga con la Luna 99 Mariagabriella Leo

Lunatiche... menti 105 Fabiana M. Cammarano, Margherita Farnetano, Ludovica Giordano

Leggiadra Luna 111 Nicola Sagaria

Il tema della Luna nella poesia di Gabriele D’annunzio e di Alda Merini 115 Simona Lanzara

Considerazioni emozionali sul tema della Luna in Chopin e Debussy 119 Pietro Merola

Ad ogni sorgere della luna… 123 Gabriella Di Lorenzo

Il conforto guardando ella 127 Sabrina Del Gaudio Luna... Dialogo di una ragazza e la Luna 131 Wiktoria Rutyna

APPENDICE

Una giornata al Santuario. La madonna nera del Monte sacro 137 Carlo Di Legge

Hanno collaborato a questo numero:

Francesco Massanova Dirigente Istituto Maurizio Tortora Poeta Antonio De Vita ex Dirigente Istituto Carlo Di Legge ex Dirigente Istituto Francesco D’Episcopo Docente Università di Napoli “Federico II” Santa Aiello Docente Istituto Maria Teresa Apone ex Docente Istituto Antonella Nigro Docente Istituto Eugenia Rizzo Docente Istituto

Studenti: Angela D’Angelo V B Liceo Classico; Arianna D’Angelo V A Liceo delle Scienze Umane; Gabriella Giordano, Maria Gabriella Leo e Samira Galietta IV A Liceo Classico; Fabiana Margherita Cammarano, Margherita Farnetano e Ludovica Giordano I B Liceo Classico; Nicola Sagaria II B Liceo Classico; Simona Lanzara V B Liceo delle Scienze Umane; Pietro Merola V B Liceo del- le Scienze Umane; Alessandra Santomauro III B Liceo delle Scienze Umane; Gabriella Di Lorenzo IV A Liceo delle Scienze Umane; Benedetta D’Ambro- sio III A Liceo delle Scienze Umane; Wiktoria Rutyna e Sabrina Del Gaudio IB Liceo delle Scienze Umane.

Francesco Massanova

editoriale

La luna e i paesaggi del Cilento che essa inonda con la sua luce, costituisco- no Il filo conduttore degli articoli pubblicati su questo numero della rivista. Lo spunto è scaturito ancora una volta, dalla tematica trattata nella prima giornata della poesia di quest’anno scolastico, che ha visto, quale ospite prin- cipale, il poeta dott. Maurizio Tortora. Egli si rivolge alla luna con un’espres- sione amichevole anzi direi confidenziale, chiamandola nel dialetto “colto”, perché antico, del suo paese, Ascea, “a vintulera ri lu cielo”. Devo ringraziar- lo, per averci dato l’opportunità di immergerci nelle affascinanti atmosfere di un Cilento che, anche se oggi non è più lo stesso di quello che rivive nel ricordo, ha visto da sempre, e per sempre continuerà a vedere, il sorgere e il tramontare della immutabile VINTULERA. Quanti poeti, musicisti, scritto- ri, pittori e artisti in genere, la luna ha ispirato. E in quanti modi essa è stata poeticamente definita. Mi sono chiesto come mai la luna eserciti tanto fascino sugli animi sensibili e confesso che quando mi soffermo a contemplarla, insie- me alle tante sensazioni che mi si aggrovigliano dentro, provo ammirazione per chi, come il dott. Tortora, riesca con estrema naturalezza ad esprimere ciò che sente. In tutte le civiltà la luna è associata a miti e leggende, non sempre legati all’aspetto idilliaco della vita, ma spesso al lato oscuro di essa (d’altra parte la luna ha due facce e quella visibile non è sempre illuminata). Una con- ferma dell’attrazione positiva che la luna esercita sull’uomo, è rintracciabile ne “Le mille e una notte”. In esse l’idea della bellezza lunare, lungi dall’essere malinconica e soffusa è affatto gioiosa e vitale, infatti, in tutti i racconti, alla luna piena è paragonata la bellezza, femminile o maschile che sia. Il motivo credo risieda nell’essere la luna la regina della notte ossia nell’essere nel buio un faro che attrae lo sguardo senza ferirlo, a differenza del sole che non con- sente che lo si guardi: il sole in un certo senso non è bello, ma rende belle le cose che illumina e tra queste la luna, la più bella di tutte.

editoriale. 9 Altro filo conduttore, come dicevo in principio, è il Cilento con i suoi pa- esaggi e la sua gente che nella poesia di Tortora rivive nelle espressioni più genuine. Non a caso il poeta parla e fa parlare le persone che popolano i suoi quadri con la lingua dei padri, il dialetto asceota, ricco di antica musicalità. A tal proposito devo ringraziare il professore Antonio De Vita, già dirigente scolastico del Liceo Classico Parmenide, per l’importante contributo, offerto in occasione della giornata della poesia, teso a fornire elementi indispensabili ad un’esegesi anche linguistica dell’opera di Tortora. Sono, inoltre, grato al professor Francesco D’Episcopo che nelle occasioni importanti non fa mai mancare la sua presenza. I suoi interventi, cogliendo con estrema precisione l’essenza del tema trattato, riescono a toccare im- mancabilmente la sensibilità dell’ascoltatore e, naturalmente, del lettore. La partecipazione del professore alla giornata della poesia dedicata all’opera di Tortora e alla redazione di questo numero della rivista, per la profonda ami- cizia che lega i due studiosi, è stata particolarmente significativa, va detto infatti, che le raccolte “A vintulera ri lu cielo” e “A musica mea” portano le presentazioni di D’Episcopo e che il poeta ha dedicato ben due poesie al suo amico. Un rigraziamento va a Carlo Di Legge, mio predecessore che chiude la rassegna con l’articolo in appendice dedicato alla Madonna nera del monte sacro, ulteriore e importante elemento del territorio. Infine un sincero plau- so va ai ragazzi del Parmenide e ai docenti che, guidandoli con professionali- tà e competenza, hanno consentito loro di dare un apporto determinante alla riuscita della manifestazione del 13 novembre e, con i loro articoli, alla reda- zione dei “Quaderni Parmenide”. Ricordo con piacere le declamazioni delle liriche di Tortora curate dalle professoresse Eugenia Rizzo e Santa Aiello e le danze coreografate dalla prof. ssa Noemi Lenza, le quali hanno spaziato dall’ etnico al contemporaneo, alcune su musiche originali composte ed eseguite da alunne dell’Istituto. Non mi resta, a questo punto, che augurare una buona e proficua lettura a tutti coloro che vorranno dedicare un po’ di tempo a quanto ragazzi, profes- sori e collaboratori del Parmenide hanno scritto nella rivista, trasfondendo in essa lo spirito del nostro Istituto, e dare appuntamento al prossimo numero.

10 FRANCESCO MASSANOVA Maurizio Tortora

I SENTIERI DELLA LUNA

Il 13 Ottobre 2014, in occasione della “I Giornata della Poesia 2014-2015”, intitolata “I sentieri della Luna”, indetta e organizzata dal Dirigente del Liceo “Parmenide” di Vallo della Lucania, prof. Francesco Massanova, sono stato invitato a presentare il mio ultimo libro di versi in dialetto cilentano “’A Vintu- lera ri lu Cielo”, edito dal Centro di Produzione Culturale per il Cilento. La manifestazione si è tenuta presso l’Auditorium del Seminario di Vallo della Lucania, con la partecipazione di ampia rappresentanza di alunni di tutte le classi liceali dell’Istituto, nella veste sia di ascoltatori che di protago- nisti. Infatti la presentazione del libro, tenuta dal Prof. Antonio De Vita e dal Prof. Francesco D’Episcopo, è stata incorniciata dall’intervento sul palcosce- nico di straordinari giovani interpreti di musica, danza, dizione e canto, tutti coordinati e guidati nelle loro esibizioni, dalle bravissime insegnanti Prof. Santa Aiello, Prof. Eugenia Rizzo, Prof. Noemi Lenza che sono riuscite ad amalgamare e dirigere le innate capacità artistiche degli studenti in maniera impareggiabile. Lo spettacolo, perché proprio di questo si è trattato, è iniziato con una tarantella dedicata al Cilento, sotto la direzione artistica della Prof. Noemi Lenza, cui hanno partecipato 8 danzatrici: Carrato Ines, Greco Clelia, Greco Elena, Gnarra Martina, Musto Sara, Sansone Stefania, Santi Melissa e Scola Francesca, che con armonia, personalità, spontanea vivacità, hanno eseguito con grande impegno la loro performance. Dopo i saluti ai convenuti da parte del Dirigente Scolastico prof. Francesco Massanova, che è entrato nel clima poetico della manifestazione declamando una sua inedita composizione poetica in lingua, si è esibita l’allieva Bruzzese Arianna che ha musicato e interpretato una poesia del sottoscritto intitolata “Luna ri Vierno”. Nel mio primo intervento mi ha fatto piacere intrattenere i giovani ascol-

I SENTIERI DELLA LUNA 13 tatori sul significato attuale della parola “Patria”, oggi del tutto desueta, ho letto loro una breve riflessione di Giacomo Leopardi, rivolta ai giovani del suo tempo, appunto su questa parola. Per suggellare il discorso, leggendo loro un mio acrostico proprio sulla parola “Patria” e un’anonima definizione, per me di grande efficacia, sulla poesia. Successivamente si sono esibite l’allieva Lettieri Federica della IV classe del Liceo Linguistico, che, con dizione perfetta, ha recitato in lingua tedesca la poesia Mondnacht di Eichendorff. Successivamente è intervenuta l’allieva Rizzo Giovanna della classe IV-B di Scienze Umane con la recitazione di una mia lirica in dialetto cilentano dal titolo “Luna” interpretata con grande sensibilità, efficacia ed ottima dizione. Ha concluso questa prima parte della manifestazione, l’allieva Feola Valeria, Classe IV-B Liceo delle Scienze Uma- ne, che ha interpretato con grande suggestione vocale l’Ave Maria di Gomez. Il secondo intervento è iniziato con la prolusione del Prof. Antonio De Vita che con straordinario acume introspettivo e con lucida interpretazione dell’anima della mia opera poetica, ha avvinto l’uditorio creando un’atmo- sfera di tesa e viva partecipazione, salutata, alla fine, da un fragoroso assenso della platea giovanile e non. A seguire è salita sul palco una mia deliziosa piccola conterranea e concitta- dina, Claudia Ramauro, classe V-B del Liceo Classico che, in maniera molto gradevole, ha cantato “’A Canzuncedda Cilentana” di cui sono l’autore, su- scitando anch’essa una grande ovazione finale. Nel mio secondo intervento ho declamato la prima Lirica del libro dedicata a Parmenide, dal titolo “’A Zappuliata ‘e Parmenide” ed una seconda piutto- sto lunga successione di brevi metafore poetiche sull’amore che nutro per il Cilento in tutti i suoi aspetti, dal titolo “Si’ Sapurita”. Il terzo e conclusivo intervento dell’incontro poetico è iniziato con un balletto di danza contemporanea e ginnastica artistica, accompagnato dalla musica di “Nuvole Bianche” di Ludovico Einaudi, con protagonisti Marinel- li Ilena, Perretta Arianna, Mastrogiovanni Virginia, Greco Nicol, e la regia impeccabile dell’insegnante Prof. Noemi Lenza che ha riscosso il meritato successo. È salito poi sul palco il Prof. Fancesco D’Episcopo, professore emerito dell’Università Federico II di Napoli di Letteratura Italiana, che, “a braccio”, com’è suo costume, ha deliziato la platea con l’uso straordinario che possiede della parola, la quale accende come un fuoco d’artificio la mente, i cuori, la fantasia degli uditori, questa volta per entrare con assoluta disinvoltura e con sbalorditivo acume, nell’anima poetica di chi scrive.

14 Maurizio Tortora Tra gli scroscianti applausi e le festose grida di plauso del giovanissimo ed interessatissimo pubblico per la straordinaria performance letteraria del Prof D’Episcopo, (non ci si stanca mai di ascoltarlo), è salita sul proscenio l’allieva Clelia Greco della II-B del Liceo Classico, che ha declamato una delle prime liriche da me scritte negli anni giovanili, dal titolo “Facitimi Parlari”, il cui contesto è anch’esso una summa di cosa mi suggerisce la terra cilentana. Alla fine della declamazione, semplicemente perfetta per intensità, ritmo, pause e sonorità vocali, non ho vergogna a confessare la mia profonda intima commozione tanto da volere, alla fine, questa studentessa, anch’essa mia gio- vanissima compaesana, al mio fianco durante la declamazione delle mie ulti- me tre liriche “’A la Vintulera ri lu Cielu”, “Faccia Niura”, dedicate al nostro beneamato satellite, e l’ultima una seconda lirica ”’A Serenga ‘e Parmenide”, dedicata a Parmenide. Per concludere veramente in bellezza questo per me splendido e indimen- ticabile spettacolo, vi è stato un bellissimo “finale a sorpresa” che gli orga- nizzatori, ma direi meglio “le organizzatrici” ci hanno regalato con allegre, scoppiettanti, leggiadre tarantelle nelle quali hanno coinvolto anche la mia persona, basita e nello stesso tempo incredula di tanta originale e spontanea allegria. Non ho potuto infine non esprimere ai tanti giovani che mi hanno ascoltato e seguito nel mio percorso poetico, quanta gioia ha pervaso il mio animo nel vederli così partecipi ed attenti alle mie parole e quanto abbia apprezzato il loro comportamento e la loro attenzione. Poichè tutta la mia vita io l’ho trascorsa con i giovani e tra i giovani, prima come radiologo pediatra, presso gli Ospedali Riuniti per Bambini di Napoli, dove ho trascorso ben 42 anni della mia vita professionale e poi come sporti- vo praticante sin dalla mia giovanissima età ed ancora come Medico Sportivo presso il centro CONI di Nuoto di Napoli e presso il mio beneamato Circo- lo Canottieri Napoli e ancora Medico Federale della FIN, vedere oggi, nel decadente clima sociale in cui viviamo, una folta rappresentanza scolastica attenta e partecipe ad un’attività culturale, della quale sono stati anche pro- tagonisti eccellenti, non può non aprirmi il cuore alla speranza. In conclusione all’ultimo giovane studente che è venuto a stringermi la mano, ho detto, a mia volta stringendo la sua, proprio questo: sono felice oggi, perché spero nel vostro futuro.

I SENTIERI DELLA LUNA 15

Antonio De Vita

PRESENTAZIONE DEL LIBRO «‘A VINTULERA RI LU CIELO»

È un vero piacere che questa mattina io possa presentare l’ultima silloge di poesie dialettali del caro dott. Maurizio Tortora, dal suggestivo titolo ‘A Vintulera ri lu cielo, edita dal Centro di Promozione Culturale del Cilento del prof. Amedeo la Greca. Permettemi, però, prima di tutto, di ringraziare il Dirigente Scolastico del Parmenide, prof. Francesco Massanova per la sua cordiale ospitalità e per la sua squisita sensibilità culturale con la quale interpreta, esaltandola, la mission di un liceo classico come il Parmenide, puntando al recupero e alla valorizzazione di un sapere non orientato e appiattito sul profitto di un effi- cientismo che distribuisce premi solo per quel che si fa e si ha, ma teso alla crescita civile, culturale e spirituale dell’uomo, come viene molto efficace- mente sottolineato dal prof. Nuccio Ordine, docente di Letteratura Italiana nell’Università della Calabria, nel suo straordinario saggio dal titolo ossimo- ricamente molto significativo “L’utilità dell’inutile” nella sua ultima edizione aggiornata dell’agosto scorso. Saluto anche i docenti e gli alunni tutti e vi confesso che mi sembra quasi di non essermi allontanato mai da questa scuola, avendovi prestato servizio per oltre venticinque anni, prima in qualità di docente di storia e filosofia e poi di Dirigente Scolastico. Premetto che non sono un critico letterario ma un appassionato, da sem- pre, di poesia e, in particolare, di poesia dialettale cilentana. Pertanto, il compito che mi sono ritagliato, questa mattina, è solo quello di esprimere alcune impressioni di lettura, le emozioni e i sentimenti che in me ha suscitato da sempre, e continua a suscitare, la poesia di Maurizio Tortora, che mi onora della sua amicizia da tanti anni. Ebbene, la presentazione del suo libro non poteva avere location migliore di questa, in mezzo ai giovani, essendo l’autore per ben quattro volte venten-

PRESENTAZIONE DEL LIBRO «‘A VINTULERA RI LU CIELO» 19 ne, conservando, pur sotto la barba ormai candida, la freschezza, il vigore, l’energia prorompente, la spontaneità, l’entusiasmo la forza creativa dei suoi primi venti anni. Direi che non a caso egli si è trovato a nascere e a vivere nella terra di Parmenide, là dove, appunto, il tempo è senza tempo e il fluire, il consumarsi e il perire delle cose è solo apparenza. E, per chi lo avvicina la prima volta, è proprio questa vitalità straripante il carattere distintivo della sua personalità, che finisce col coinvolgerti in una spirale di suoni e di parole, che si risolvono in una sorta di crepitio di fuochi pirotecnici, proprio come quelli che, d’estate, nei paesi cilentani, aggiungono fantasmagoriche forme di luce e di musica alle notti stellate. Non a caso, nella bellissima postfazione al libro, che porta, emblematica- mente, il titolo “Suonando il cilentano”, il poeta Manrico Murzi trova nella musicalità e nella sonorità del dialetto cilentano la chiave di lettura e di fru- ibilità della poesia di Maurizio Tortora. “La sua cetra – Murzi efficacemente sottolinea – è il suo torace, carapace di tartaruga catturata in una grotta di Palinuro, con corde di budella di capra che ha brucato arbusti sui monti Al- burni. E con essa cetra mette in scena risonanze e percussioni che fanno teatro, arricchiscono gli angoli del panorama interiore”. . La straordinaria immagine delle corde della cetra interiore (le budella di capra), quasi in maniera plastica, mette in evidenza quello che, a mio parere, si accompagna e connota la musicalità dei versi di Maurizio: la loro selvag- gia, istintiva, ancestrale natura che viene svelata e riportata alla luce dai più reconditi anfratti della terra cilentana nei suoi miti, nel suo candore e nella sua innocenza. E, in questa operazione, Maurizio si rivela erede e figlio della cultura greca, di quell’ansia di verità non ingannatrice e superficiale che portava Parmenide a percorrere attraverso il sentiero di Porta Rosa, accompagnato dalle Eliadi (le figlie del sole), le vie del logos divino per ritrovare la dimensione eterna dell’essere (la ben rotonda verità). Non a caso il libro si apre e si chiude con una poesia ispirata e dedicata a Parmenide, quasi a voler suggellare un vincolo di sangue, di amore filiale con il padre della filosofia occidentale. Dalla poesia di Maurizio Tortora viene fuori un mondo nascosto, mai sopi- to, solo obnubilato dalle scorie del tempo, che vibra nelle più intime pieghe della nostra anima e che solo chi è dotato di una particolare sensibilità, il poeta appunto, è capace di riportare alla luce. I greci, infatti, – come sottolinea il grande filosofo Martin Heidegger – nell’usare la parola a-lètheia, indicavano tutto ciò che esce dall’oblio (lèthe) e si lascia vedere.

20 Antonio De Vita E a vedere o, meglio, a intravvedere l’essere nella sua nudità concorre prepo- tentemente la poesia e l’arte in genere, per quel mostrare ed evocare una realtà non altrimenti dicibile o eventualmente esprimibile in termini concettuali. Accostarsi alla poesia di Maurizio Tortora è come accingersi ad ascoltare una canzone del cuore, le cui note ci riportano lontano nel tempo, una di quelle canzoni alle quali ritorniamo sempre, perché hanno scandito in ma- niera indelebile le stagioni della nostra vita : una canzone, ancora, nella quale parole e musica sono inscindibilmente e mirabilmente fuse, sicché è impossi- bile isolare una componente senza compromettere l’altra. Ecco perché, per poter leggere in maniera adeguata le poesie di Maurizio, in stretto dialetto asceota (una delle tante caratteristiche isole linguistiche che disegnano la geografia umana del Cilento), occorre superare l’iniziale diffi- coltà di decodificazione del lessico e delle cadenze foniche di ogni singola parola, e immergersi completamente in un mondo di suoni, di metafore, di assonanze, di onomatopee e di termini onomatopeici, che caratterizzano ica- stiche espressioni gergali e, in genere, il linguaggio del popolo. In questo contesto, straordinario e inimitabile declamatore delle liriche è l’autore stesso che, con la sua voce, la sua cadenza, il suo timbro, la sua mimi- ca, il calore del suo eloquio, restituisce alla parlata cilentana, la bellezza dei suoni, oltre che dei colori e dei sapori di una terra generosa. Maurizio utilizza il dialetto come l’unica lingua capace di scendere dentro la sua anima e cogliere i significati più profondi delle cose. Tentare di trasferire in altra lingua o di tradurre, in genere, il testo dalla sua genuina veste gergale, significa far perdere molto in termini di poesia e di musica, è come un po’ tradire (come, sotto alcuni aspetti, lo è ogni forma di traduzione) l’originaria valenza poetica delle liriche. L’autore-poeta è come un archeologo, scava in profondità col piccone della sua sensibilità, nella sua memoria, nel suo passato, nella sua vita e in quella delle cose e delle persone, riportando alla luce le parole, come fossili che, ripuliti e ritornati alla luce, raccontano di un passato remoto, di echi lontani, di mondi misteriosi, di brandelli di vita, di tesori smarriti, svelano, appunto (come accennavo poc’anzi) l’originaria dimensione del nostro stesso essere. Accostarsi alla poesia di Maurizio è come accostare una conchiglia all’orec- chio e sentire in lontananza la musica del mare, i suoi infiniti silenzi e l’antica eco del canto delle sirene. E il Cilento è nel suo passato, nei suoi miti, nei suoi saperi, nelle sue tra- dizioni, nelle mille storie di vita mai raccontate, sulle quali, ahimé, in ma- niera strumentale, è stata fatta calare, come una pesante scure, una sorta di

PRESENTAZIONE DEL LIBRO «‘A VINTULERA RI LU CIELO» 21 “damnatio memoriae”, quasi a cancellare qualsiasi traccia che potesse essere tramandata a noi. Ma il passato prepotentemente riaffiora e, come un fiume carsico, riemerge alla luce nella poesia, sicché il poeta si fa storico e interprete della sua gente, leggendone, in filigrana, gli aneliti e i moti dell’anima più profondi. E l’autore vive in simbiosi con il suo mare, la sua terra e con i suoi abitanti; gli artigiani, i contadini, i pescatori, sono gli ispiratori della sua poesia; è con- sapevole – come egli stesso annota nella breve prefazione al libro – che nel “suo sentire la vita” si è “avvicinato al loro intimo vissuto esistenziale”. Ecco perché la sua poesia ci coinvolge così direttamente, perché ci ritro- viamo un po’ tutti anche nella sua vis polemica, nelle sue proteste verso un mondo che sembra impazzito, nei suoi esilaranti moti dei sensi, nelle sue incontinenze, in tutto ciò che la vita prepotentemente reclama al di là di ogni convenzione o di falsi moralismi. Il libro contiene ben 102 poesie in ordine sparso. Penso che questo apparente disordine sia stato voluto dall’autore, quasi a voler indicare che non possiamo programmare o ipotecare a tavolino i nostri giorni e non è dato a noi razionalizzare e necessariamente passare al vaglio della riflessione le nostre scelte. La vita è quella che è, vita come bia che, in greco, significa appunto forza, vitalità, imprevedibilità, creatività, personi- ficazione anche della violenza, figlia del Titano Pallante e della ninfa Stige, sorella di Cratos (la potenza), di Zelos (l’ardore) e di Nike ( la vittoria). La poesia è vintulera, vagabonda come la luna nell’immensità del cielo; essa si posa di qua e di là inseguendo il suo istinto e succhiando il nettare di fiore in fiore; e di fiori profumati la sterminata prateria della vita è ricca: basta sa- perli cogliere, annusare, sfiorare, accarezzare. Non c’è aspetto della natura, non c’è essere del creato, fosse il più insignifi- cante o a prima vista repellente, che non attiri la sua attenzione, che non su- sciti la sua curiosità, che non consenta all’autore un momento di riflessione, di stupore e di meraviglia: un riccio, un fringuello, un’allodola, un merlo at- tirano la sua attenzione, lo costringono a fermarsi e cogliere in essi, estasiato, i segni dello slancio creativo della natura. Tortora è, da questo punto di vista, il poeta della natura, delle piccole, pa- scoliniane cose: egli sa guardare là dove gli altri non guardano e non vedono. Mi verrebbe da ricordare, in questo momento il grande attore Massimo Troisi che, nell’indimenticabile film “Il Postino”, chiede a Pablo Neruda “Come si fa a diventare poeta?” e il grande poeta cileno risponde: “Prova a camminare lentamente sulla riva fino alla baia, guardando intorno a te “.

22 Antonio De Vita Il tutto, d’altro canto, è squisitamente leopardiano, come annotava Cesare Pavese. Maurizio Tortora – e forse questo è il segno della sua eterna giovinezza –, non conosce mai la noia o l’indifferenza che portano all’insignificanza e all’abbandono, è continuamente sorpreso, stupito e meravigliato: è preso, cioè, da quella sorta di meraviglia che, come avevano straordinariamente colto Platone e Aristotele, è la porta del sapere e della ricerca filosofica. Perciò Maurizio cammina e percorre le strade, i vicoli del suo paese, si immerge nel brulichio incessante della quotidianità, si tuffa con poderose bracciate nel suo mare per ritemprarsi, cerca il silenzio della campagna, cer- ca – come il Leopardi – nel corso delle stelle e della luna (la vintulera re lo cielo) il senso del mistero e dell’infinito; si incanta, e non può non gridare al miracolo, di fronte alla perfezione di una “ PODDULA” che “vulava leggia a nu parmo re l’aqqa, filici re viva, ind’a luci ri lu suli ri staggiuni”; si abbandona alla danza delle onde, regalandoci, come nella poesia A rena spirtusata, versi poetici che si librano leggeri verso il cielo : “Sciabordia lu mari a lo vattende / roce jè carmo / comu ‘na morra ri penzieri aunesti…/ jè lu suli sbrenne lieggio, / nu cauro e nu friddo / ind’a chissu maggio / ri nova primavera”… Mi piace sottolineare il momento lirico della sua poesia perché credo che sia una delle note più sincere dell’animo dell’autore: un lirismo, però, che non si lascia soltanto guidare dai sentimenti, ma che si nutre, trova continuo alimento, richiama e risveglia il pensiero, la riflessione. E proprio questo pensiero poetante ( e in ciò credo di essere in sintonia con il prof. D’Episcopo) sottende l’ispirazione di Maurizio Tortora nella sua ten- sione verso l’infinito, sorregge i suoi timidi ma continui tentativi di accesso al grande mistero della vita, rafforzando in lui il sentimento religioso di una luce infinita. A volte basta una pietra, raccolta lì per caso sulla spiaggia, dopo una nuota- ta, a coinvolgerlo in un’attenta osservazione delle sua fattezze, del suo colore a testimonianza del segreto insondabile della natura e di un’impronta divi- na, e così pensieri su pensieri si rincorrono sul tempo che passa, sull’azione millenaria di un demiurgo interiore, che modella la materia in forme sempre nuove e sorprendenti. Ogni pietra “nu penziero re Dio, / ‘na storia longa miliardi ri staggiuni / cu inda miliardi ri misterii…/ je po’ ‘a fantasia ri li risigni / ca se ‘ntrezzano, se lassano, / se tornano a ‘ntrezzare. / Tutto chisso pi ‘a mente me passi / miranno chidde quattto petre”. Ed essendo in tema, non posso non rievocare la musicalità e la leggerezza

PRESENTAZIONE DEL LIBRO «‘A VINTULERA RI LU CIELO» 23 sognante di altre due liriche che il silenzio della notte e la complicità di nuvo- le pellegrine nel cielo e di un tremulo raggio di luna vagabonda immergono il lettore in un’aura incantata di attesa, di mistero, di vita, di felicità. Le due liriche, sono “Li vrenzole” e “L’urdemo triemmolo”. In un empito di generosità, dei sentimenti d’amore che il poeta ha il privi- legio di provare vorrebbe fare dono a tutti. Eccone uno squarcio lirico, tratto da “L’urdemo triemmolo”: “ Jè lu triem- mulu tennero je fino / mua forte, mua zico, mùa gauto / ca pì mari se spanne lucende / ju lu sonno comu tuttu l’ammore ca ara viva ‘ngora me sento / pì, filici, rialarlo a lu munno / je nun ‘mporta, nun ‘nporta si iddu / nun viri, nun sende, nun ‘ndenne”. Molte liriche portano segnate, in calce, la data e l’ora, quasi a voler fermare il tempo, l’attimo intenso di ispirazione, la divina mania (la chiamerebbe Pla- tone) che prende l’autore: quell’attimo che è il suo kairòs religioso e artistico, quasi l’epifania di un mistero, un vivere nel tempo un’esperienza interiore extratemporale. Ma la vena poetica di Maurizio Tortora non si nutre soltanto di squarci lirici, né si eleva, diciamo così, solo su un piano puramente contemplativo ed estati- co; essa, si alimenta anche di carne, di passioni, di sanguigne ed esplosive ener- gie che traboccano e che con il loro magma incandescente inondano di vitalità tutto, uomini e cose, in un’esplosione di gioventù e di ottimismo, lasciandosi guidare solo dalla forza dell’istinto, anche attraverso toni irriverenti. È il poeta dei gustosi quadretti di vita paesana, della musa godereccia e scanzonata che, di fronte alle delizie di un piatto fumante di fusilli, del caldo profumo di una sprizzata di latte di capra e, per tutte le prelibatezze della cucina, della mitica lasagna di mamma, celebra, nello spirito di una sacra convivialità, la festa della vita, azzannandola – come sottolinea Francesco D’Episcopo nella nota di presentazione del libro – mentre è ancora calda di saperi e sapori. Allora eccolo lì, il Maurizio, gagliardo nuotatore, che ha scelto il mare come sua palestra più congeniale, a trarre quasi dal seno materno, nuova linfa per continuare ancora a nuotare e a vivere. Il mare, sì il mare è la sua dimora naturale, egli vi guazza e vi si avvolge come nel liquido amniotico del grembo materno. “Sciffiti-sciffiti natanno / ‘drumme ‘dramme vuganno / ra quant’anni m’arrecrèo / miezo lu mari / cu chissi rui sunate /…uo’ core mio / uò màri mio / “grazie”. Pitagora, la cui dottrina non era estranea nella terra di Elea, parlava di armonia universale, di musica prodotta dell’eterno movimento delle sfere ce-

24 Antonio De Vita lesti: musica, però, che i comuni mortali non erano in grado di percepire con le loro orecchie. Maurizio, di fronte al suo mare di Elea, si sente inconsapevolmente come pervaso da quella musica, che le stelle trasmettono anche alle onde del mare, facendole vibrare: in esse vi si tuffa e torna a riva rigenerato! E non importa che gli anni passano: sulla soglia degli ottant’anni, è ancora lì a fare ‘na tirata insieme al figlio “ra li scuogli a la Marina… Figliu / una tirata / senza mai ti firmari!... cu mico vicino / sutta lu suli / ind’a lu mari / filici / ’ngora senza lu sapiri, / ri ‘a vita toja / nova, bedda, je forti. Padre e figlio: felici e liberi come due creature del mare in una chiara mat- tinata settembrina! Straordinaria lirica, questa, che mi ha istintivamente richiamato alla memo- ria, facendone da sottofondo musicale, la bellissima canzone di , Delfini, cantata insieme al figlio : siamo delfini, è un gioco da bam- bini…il mare! È, questa, la terza silloge di poesie che Maurizio Tortora pubblica, dopo “Cilientu mia” del 1977 e “A musica mea” del 2004, contenenti entrambi, questi due ultimi libri, un DVD audio con alcune liriche declamate diretta- mente dall’autore che, da fine e impareggiabile dicitore, è capace di restituire al non facile dialetto asceota (dialetto storico, sottolineo, non contaminato da neologismi, ma colto nella sua purezza originaria) tutte le sue vibrazioni, le sue tonalità, il suo colore. E nella scuola della progettualità e dell’autonomia, la ricomposizione della propria identità, nelle sue radici e nelle sue potenzialità, comporta, necessa- riamente, la conoscenza e la valorizzazione dei saperi locali, anche attraverso la voce dei suoi poeti e cantori. Eugenio Montale, in un’intervista rilasciata dopo l’assegnazione del premio Nobel nel 1975, con un senso di amarezza constatava che “oggi la gente non richiede più nulla ai poeti, i quali sono voci che parlano nel deserto”. E, forse, sotto alcuni aspetti, questa riflessione, oggi, è ancora attuale in un mondo che corre ancora più in fretta rispetto a qualche decennio fa. Ma io sono convinto che la voce della vera poesia non muore. E la voce di Maurizio non rimarrà fredda e muta nel chiuso delle pagine, perché essa è viva, parla la lingua della sua gente, esprime l’anima di tutto un popolo, racchiude un patrimonio di valori umani, culturali e spirituali nei quali i giovani e, soprat- tutto, i giovani cilentani, potranno trovare nuovo vigore e ispirazione, per dare, un senso al loro impegno e trovare un sicuro ancoraggio di salvezza.

PRESENTAZIONE DEL LIBRO «‘A VINTULERA RI LU CIELO» 25

Francesco D’Episcopo

LA POESIA DI MAURIZIO TORTORA

Siamo nella terra e nel mare dell’Essere, dove Parmenide ha gettato le basi di una filosofia, capace di congiungere il pensiero e il sentimento. Egli stesso era poeta e le sue parole rincorrevano una “luce” che, oltre quella naturale di Elea, provasse a raggiungere i recessi più profondi dell’anima. Fu anche me- dico e la sua scuola può e deve ritenersi un modello di riferimento esemplare per la futura Scuola Medica Salernitana. Quante cose insieme! Alcune della quali sono indotte a trapassare nella vita e nell’opera del napoletano Giambattista Vico, che a Vatolla, nel cuore del Ci- lento eleatico, trascorse nove fondamentali anni della sua vita. Vico, anch’egli filosofo e insieme poeta, che diede un formidabile scossone alla filosofia del proprio tempo, invaghita dei troppo sicuri moduli cartesiani, dimostrando la funzione decisiva della storia, che opera dentro le vene dell’umanità, secondo una ciclicità, che è, dalle sue origini, di natura essenzialmente poetica: di qui il mito-realtà di una infanzia dell’umanità, che sarebbe divenuta in Leopardi la stagione inimitabile del passato, che stenta a farsi presente e futuro. Maurizio Tortora è rappresentato nel giardino della Fondazione Alario di Ascea dall’artista Enzo Cerino come la imponente figurazione di Parmenide e al filosofo-poeta dedica una poesia del suo canzoniere, pregandolo di torna- re su questo strano mondo, per farvi un’iniezione di saggezza e felicità. Maurizio Tortora, medico radiologo, nella sua opera poetica, radiografa l’anima sua e degli altri, affidando alla poesia filosofica il compito di alleviare le pene di un’umanità, sempre più afflitta da crescenti disarmonie. Figlio di un padre cilentano e di una madre napoletana, votata all’arte della musica e della letteratura, compendia nel suo DNA quell’”allegra” malinco- nia, di ungarettiana memoria, che non può fare a meno di volare negli alti cieli della poesia, ma sempre ancorandosi a fatti e situazioni concrete, che lo coinvolgono mentalmente ed emotivamente.

LA POESIA DI MAURIZIO TORTORA 29 Egli, insomma, pensa e sente contemporaneamente e ogni sua poesia è la testimonianza, fervida e insieme lucida, di un trasporto nei meandri della vita ma anche di un approfondimento di problematiche, che attraversano la vita stessa, il mistero della morte, sino a sconfinare, in tempi più recenti, in una cosmologia, che aiuta forse a meglio capire che cosa noi uomini ci facciamo sulla terra e qual è il nostro, precario provvisorio destino. A sbrogliare questa matassa di felicità e mistero interviene la luna, quella dei poeti, ma anche degli scienziati, la quale è «vindulera», mobile e viandan- te, come la vita; che si sposta continuamente agli occhi di chi la guarda e la cerca come in un gioco a nascondino. Quale migliore metafora di un destino, sempre inedito e imprevisto, che la vita propone con le sue gesta, eroica- mente quotidiane, destinate a lasciare un segno in uno spartito poetico, che molto somiglia a un rotolo di pensieri e meraviglie, racchiuso in una bottiglia lanciato nel mare della vita? Il grande mare, che è madre per Maurizio e per tutti, come ricordava Gu- stav Jung, dove la sera si leva la luna <> ad illuminare il suo specchio. Una luna, la cui falce tanto somiglia al grembo materno in attesa e, come tale, invoca un ascolto amoroso, una carezza discreta. Maurizio Tortora festeggia i suoi ottant’anni con questa silloge, che molto sa di Parmenide e Vico, numi tutelari di un percorso dentro una filosofia po- etica e dentro una ciclicità, che ci conduce nei segreti di una storia, personale e universale, che reclama una voce, che solo la poesia sa dare nei ritmi delle stagioni che si susseguono e rendono la vita sempre diversa. Il padre di Maurizio piantò tre alberi nel giardino della casa di Ascea, che guarda il mare, il cielo, i monti lontani e registra tutte le variabilità di un cuo- re, esposto alle sue ragioni e non ragioni, alla storia e al mito, al desiderio e al sogno. Qui passano le opere e i giorni di un uomo, cilentano-napoletano, che ha forgiato, più che un dialetto, una lingua, destinata a sfidare le tempeste e a godere delle bonacce, perché il mondo riassapori antiche armonie, ricette inimitabili di saperi e sapori, nelle quali affondare quella inesorabile voglia di vita, che contraddistingue il nostro Mezzogiorno mediterraneo; quel con- tinente, baciato dal mare e abbagliato dalla luna, dal cui grembo abbiamo tratto la vita e nel cui liquido amniotico continuiamo a galleggiare nel ritmo sinuoso del sogno e dell’amore.

30 FRANCESCO D’EPISCOPO DIDATTICA E LABORATORI

Santa Aiello

UN VIAGGIO ASTRALE

Questo lavoro è dedicato a tutti coloro che hanno ideato, progettato e attuato i POR per la regione Campania, all’Istituto di Istruzione Superiore “Parmenide”, all’Europa

Devo raggiungere il gruppo di studenti del Liceo Linguistico impegnati nel progetto Improve Your English. Il viaggio inizia il 13 settembre 2014, alle 04 da Vallo della Lucania, mentre cupi e violenti bagliori incendiano un cielo nero e vien giù un temporale alluvionale. Sarà un buon auspicio per la par- tenza! Un autista silente mi conduce all’aereoporto di Napoli. Volo IG 371 ore 9. 05 e l’aereo decolla, destinazione Londra LGW. Il viaggio è favoloso, il cielo sereno mi permette di godere di visioni para- disiache, dall’oblò vedo le ali bianche e imponenti dell’aereo mentre solcano con naturalezza il cielo e mi sovvien Icaro e poco importa se il sole è sempre più vicino, è la prima volta anche per me. Le città, le spiagge, i laghi, il mare, la catena invincibile delle Alpi con la potente pietra resa eterna dal tempo mi inondano di sublime. Osservare la terra da un altro punto di vista, dall’alto verso il basso, dà un senso di onnipotenza, e soprattutto le nuvole. Bianche, diafane, spumose come le onde del mare si abbeverano ai raggi del sole e si inebriano di colori, i più variopinti: un arcobaleno di tonalità. All’aereoporto di Londra intravedo un cartello con su scritto “Parmenide” e mi sento a casa. Al Campus i ragazzi mi accolgono festosi desiderosi di raccontare le esperienze già fatte ed in modo particolare la positività delle lezioni e le notizie di seguito riportate. Siamo a Chalfont St. Giles, nel Newland Park, un tempo campus della Bu- ckinghamshire University a circa quaranta chilometri da Londra, luogo di re- sidenza molto ambito dai pendolari londinesi. Chalfont “sorgente di gesso” è un piccolo villaggio meraviglioso ricco di storia, letteratura e cinematografia. A Chalfont St. Giles è nato Harry Golombek, campione britannico di scac- chi, il musicista pop Brian Connolly degli Sweet, Brian Cant, l’attrice Marga- ret Rutherford, nota per la serie televisiva Miss Marple. Inoltre, Chalfont St. Giles è stata la Walmington on Sea del 1971 del film Dad’s Army e nel 2003 è

DIDATTICA E LABORATORI 35 stato girato il dramma della BBC I racconti di Canterbury con riprese dentro e fuori il pub Merlin’s Cave, che ho visitato. Chalfont St. Giles fu il rifugio dei giovani Jean e Lionel nella sitcom della BBC As Time Goes By in un epi- sodio della serie filmato nel villaggio. Ho visitato il cottage in cui ha vissuto John Milton, durante la peste di Londra del 1665, dove completò il Paradiso perduto e trovò l’ispirazione per il Paradiso riconquistato. Va ricordato anche il personaggio dei fumetti Viz chiamato Nobby Piles, che si lamenta sempre Ooh me chalfonts! Il clima è gradevole, la nebbia scende e avvolge tutto solo mattina e sera; e con la nebbia il paesaggio diventa surreale e magico nello stesso tempo. Ho visitato Londra anche di notte quando è avvolta dalla nebbia. E, quando il grigio fumo ovatta tutto e tutti è un tripudio di colori! La nebbia culla acqua, cielo e terra in un eterno presente in continua trasformazione, è l’anima della città che unisce il passato e il futuro. I giorni sono lunghi e intensi di scoperte e apprendimento. Quando posso, nei momenti di relax osservo dalla finestra della mia camera l’imponenza se- colare degli ippocastani, il verde costellato di fiori esili e variopinti e mi fanno compagnia gli scoiattoli che naturalmente vanno e vengono, scendono e salgo fin sui rami più alti e ondeggiano come vele al vento.O sservo le loro fattezze e movenze in armonia con la natura. Quasi per celia, li chiamo e li invito a venire sotto il davanzale della finestra, e vengono e mi guardano con occhietti furbi e attenti, gli stessi di tutti gli animali. A volte, poi, di notte quando non riesco a dormire la luna, la stessa di casa mia, mi fa compagnia e le racconto i miei sogni, i desideri e penso alle sofferenze umane che ho visto io e lei più di me. La guardo e mi sembra più luminosa; l’ammiro per la sua costanza e mi sembra più amabile; la spio mentre dona emozioni all’umanità e la ringrazio. Le chiedo se, a volte, si sente sola come me, ma non mi risponde, continua il suo andare, quasi beffarda della mia attenzione. E, allora, mi torna alla mente il poeta Shelley. Egli pensava che la luna era stanca di osservare la terra e che il suo mutare continuo era solo per ovviare alla sua eterna solitudine.

Alla luna

Sei pallida perché sei stanca di scalare il cielo e fissare la terra tu che ti aggiri senza compagnia tra le stelle che hanno una differente

36 DIDATTICA E LABORATORI nascita, tu che cambi sempre come un occhio senza gioia che non trova un oggetto degno della sua costanza?

È, questa, una delle poesie più belle sulla luna di E Percy B. Shelley poe- ta inglese romantico. Una poesia malinconica, che descrive l’animo umano quando si volge alla luna, pallida e solitaria; e che mese dopo mese, cambia volto e luce. Nelle notti insonni, è lì per far compagnia ai troppi pensieri che viaggiano nel silenzioso buio dell’anima. Forse, Shelley aveva veramente un debole per la luna e quando nel 1818 venne in Italia in solo quattro anni, soggiornò a Venezia, Livorno, Lucca, Este, Roma, Napoli, Firenze, Pisa e Villa Magni a San Terenzo di Lerici (La Spezia), quasi a voler imitare il vagabondare della luna.

Percy Bysshe Shelley ha vissuto una vita turbolenta e momenti tristi. La sua morte avvenuta nel 1822 a Lerici lega profondamente questo poeta inglese all’Italia. Diverse commemorazioni e intitolazioni lo hanno ricordato e lo ri- cordano a Lerici e Viareggio. Giosuè Carducci scrisse, Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley: L’ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge; sol nel passato è il bello, sol ne la morte è il vero. Mi verrebbe da chiedere al poeta Shelley se nella morte ha trovato il Vero, ma so che, come la luna, non mi risponderà! E, allora, mi piace pensarlo in compagnia della luna come tutti i grandi e giusti della terra! Il diario di bordo ha molte pagine ancora non trascritte, la memoria le cu- stodirà. Il lettore saprà sicuramente cogliere l’essenza e l’intendo di questo breve scritto. Ora che l’esperienza di studio fatta in Inghilterra è passata, il ricordo è ancora più bello. Immaginate! Immaginate le colonne d’Ercole. Immaginate, il ricordo di un’esperienza moltiplicata per trenta alunni del “Parmenide”, che hanno saputo cogliere e vivere l’opportunità di ampliare i propri orizzonti, la bellezza e il linguaggio di un altro mondo.

DIDATTICA E LABORATORI 37

Teresa Apone

“I SENTIERI DELLA LUNA”: LA NOSTRA INTERIORITÀ ALLO SPECCHIO

“Placida notte, e verecondo raggio Della cadente luna; tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, nunzio del giorno…”1

“Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra tetti e in mezzo agli orti posa la luna... ”2

Sin da piccola ho avuto come amica la luna nei momenti di rara solitudine. Quando viaggiavo, di sera, in macchina con i miei, mi piaceva seguirla con lo sguardo e pensare che facesse il viaggio insieme a me. Il mio spirito, per un attimo trasaliva, mi sentivo felice e meno sola e nel mio cuore di bambina si apriva un sorriso... Tuttora, nelle mie passeggiate serali, la cerco in alto, tra le nubi, nel primo chiarore della sera o nel blu intenso della notte. E lei è lì, immobile, ferma, surreale. La sensazione è sempre la stessa, il mio respiro si apre, il mio animo pare “dilatarsi”... prendo ossigeno dalla luna e sento un calore dentro che mi regala un sorriso. Credo che, almeno in parte, questa sia la sensazione che ogni bimbo o adulto provi di fronte alla luna. Tra i poeti, San Francesco la chiamava “sorella”, per Leopardi è fraterna amica, partecipe del suo immenso dolore. Amica nella malinconia, compagna dell’infelicità e del pianto del poeta. Essa sovente è associata al tema della “ri- membranza”, tanto che la poesia che la richiama interamente nel titolo, Alla luna, appare per la prima volta col titolo La rimembranza nel 1819. Il ricordo e la luna sono due topos della poesia leopardiana imprescindi- bili e spesso legati. Il ricordo diventa più dolce sotto la luce dolce e febbrile della luna e si confonde con l‘effetto nebbioso, ma romantico del ricordo. Il ricordo rende il passato meno triste, anche se esso è più piacevole in gioventù perché “il tempo della memoria” è più breve e la speranza ha più spazio…

“…Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e ha la memoria il corso,

1 Ultimo canto di Saffo, Giacomo Leopardi , Canti, vv. 1-4 2 La sera del dì di festa, Giacomo Leopardi, Canti, vv. 1-3

DIDATTICA E LABORATORI 41 il rimembrar delle cose passate, ancor che triste, che l’affanno duri!”3

Siamo in pieno Romanticismo, Leopardi con il suo contributo si allinea alla temperie del romanticismo europeo e lo arricchisce con il suo singolare, unico, originale, contributo, forse inconsapevolmente. Lui che, appena un anno prima, nel Discorso di un italiano sulla poesia romantica e nel 1816, nella lettera ai Compilatori della “Biblioteca italiana”, storceva il naso contro l’a- spetto truculento e le tinte troppo fosche della letteratura nordica. Anche lui “era... romanticismo”, anche lui operava con la sua poesia il rivoluzionario cambiamento che aveva apportato questo favoloso movimento. E a proposito di paesaggi romantici, questa volta, con reminiscenze pe- trarchesche, ne “La vita solitaria”(1821), così il poeta si rivolgeva alla luna, riferendosi al suo raggio…

“…Or sempre loderollo, o ch’io ti miri veleggiar tra le nubi, o che serena dominatrice dell’etereo campo, questa flebil riguardi umana sede. Me spesso rivedrai solingo e muto Errar pe’ boschi e per le verdi rive, o seder sovra l’erbe, assai contento se core e lena sospirar m’avanza”4.

Ma non sono solo questi i luoghi della luna nella poesia leopardiana, ho già parlato in un altro mio scritto del viaggio della luna e del pastore in Can- to notturno di un pastore errante dell’Asia, di questa luna amica, compagna depositaria di mille perché, a cui il poeta confessa se stesso e tutto il suo tormento. Ho accennato a Petrarca, altro autore in cui natura e sentimento vivono un rapporto quasi simbiotico, come da specchio a specchio, e anche qui il tema della solitudine è preminente:

“Solo et pensoso i piú deserti campi vo mesurando a passi tardi et lenti, et gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio human l’arena stampi. Altro scher- mo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché negli

3 Alla luna, Giacomo Leopardi, Canti, vv. 12-16 4 La vita solitaria, Giacomo Leopardi, Canti, vv. 100-108

42 DIDATTICA E LABORATORI atti d’alegrezza spenti di fuor si legge com’io dentro avampi: sì ch’io mi credo omai che monti et piagge et fiumi et selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch’è celata altrui…”. 5

Le analogie con la poesia di Petrarca sono molteplici, così come il continuo riferimento alla luna in tutta la produzione leopardiana. Non basterebbe una rivista per citarli tutti, ma passando alla prosa, ne richiamo solo un ultimo:

“Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; secondo che ho inteso mol- te volte dai poeti :oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro... ”6

Siamo nel 1824, l’anno della composizione della maggior parte delle Ope- rette morali. Siamo dinanzi ad un nuovo ed originale Leopardi che riorga- nizza in uno stile originale “i risultati delle ultime riflessioni che negli ultimi quattro anni avevano affollato le pagine dello Zibaldone”, creando “una forma letteraria originalissima entro la quale si snoda l’ormai implacabile percorso del pessimismo materialistico”7.

Leopardi è questo e non solo… molto molto altro… ma il tempo e la pagi- na, come ho già detto sono pochi…

Da poco più di un mese è uscito un film dedicato a lui Il giovane favoloso di Mario Martone, film straordinariamente intenso. Ma ne voglio ricordare altri due: uno del 1990, La voce della luna di Federico Fellini, l’altro del 1987, Stregata dalla luna, due pellicole degli anni della mia giovinezza. Il primo, intriso di mistero, fascino, poesia e memoria leopardiana. Il secondo, grande e poetico nella sua realistica semplicità. Entrambi testimo- niano, ancor una volta, che la luna non solo, in Leopardi, ma in tutti noi, spesso esercita un’atmosfera interiore e un fascino strabiliante... da mozzare il fiato e che nella luna ognuno di noi proietta il proprio mondo interiore. …Come se quella palla gialla, un po’ evanescente che colora con il suo alone sfumato il blu intenso della notte, ci riportasse in un mondo lontano o forse…troppo vicino, tanto vicino da abitare dentro di noi!

5 Solo et pensoso, Francesco Petrrca, Rerum vulgarium fragmenta 6 Dialogo della terra e della luna, Giacomo Leopardi, Operette morali 7 Novella Bellucci, Per leggere Leopardi, Bonacci Editore, Roma, p. 18

DIDATTICA E LABORATORI 43

Eugenia Rizzo

«IL TRAMONTO DELLA LUNA» DI GIACOMO LEOPARDI ANALISI TESTUALE

È giudizio unanime della contemporanea critica leopardiana che il canto Il tramonto della luna, composto dal Leopardi insieme a La Ginestra a Torre del Greco, nella villa del cognato di Ranieri, nel 1836, contenga i temi più cari alla sensibilità del poeta e rappresenti il testamento poetico, il suo ultimo tormentato messaggio di poeta-filosofo. La prima parte del canto ha carattere idillico ed elegiaco e comprende la prima e la seconda strofa. Esso inizia con l’uso di una figura retorica inconsueta per il poeta recanate- se: una similitudine, il cui primo termine (vv. 1-19) è la luna, presenza astrale più volte ricorrente nelle liriche leopardiane, descritta però ora non nell’atto di risplendere nel cielo rischiarando la notte, ma nel momento in cui tra- monta dietro gli Appennini o le Alpi, o nell’infinito grembo del Mar Tirreno. La luna scompare sullo sfondo di una notte solitaria, su campagne e corsi d’acqua inargentati, là dove lo zefiro spira e le ombre lontane in mezzo alle acque tranquille, ai rami, alle siepi, alle collinette e alle case di campagna ci presentano mille indefinite apparenze ed oggetti irreali. Il mondo si scolora, le ombre spariscono ed una sola oscurità avvolge la valle ed il monte, la notte rimane priva di luce. Il carrettiere, cantando, con una malinconica melodia, saluta dalla sua strada l’estremo albore della luce che scompare e che l’ha guidato fino a quel punto. Il secondo termine della similitudine (vv. 20-33) è rappresentato dalla gio- vinezza che si dilegua e, svanendo, lascia la vita degli uomini priva di luce. Le ombre e le apparenze delle dilettose, ma ingannevoli illusioni scompaiono, le speranze con cui il giovane rende belli gli anni futuri vengono meno. La vita rimane abbandonata a sé, priva della luce della giovinezza e della speranza. Il viaggiatore smarrito, volgendo lo sguardo innanzi, verso il percorso che gli rimane da vivere, ricerca inutilmente una meta o una ragione della vita che sa

DIDATTICA E LABORATORI 47 rimanergli ancora da percorrere, e si rende conto che la terra è estranea a lui e che lui è estraneo alla terra. La seconda parte ha carattere razionale. Ai versi 34-50 il poeta affida alcune sue considerazioni sulla condizione umana: la misera sorte degli uomini sarebbe apparsa in cielo troppo felice se l’età giovanile, dove pure ogni bene è frutto di mille sofferenze, fosse durata lungo tutto il corso della vita. Sarebbe un decreto troppo mite quello che condannerebbe a morte ogni essere vivente, se prima non gli venisse asse- gnata la vecchiaia, seconda metà del cammino della vita, più dolorosa del- la terribile morte. Gli eterni escogitarono la vecchiaia, invenzione degna di menti immortali, estremo tra tutti i mali, nella quale il desiderio continuasse a vivere, la speranza fosse morta, le fonti del piacere inaridite, le sofferenze sempre più grandi ed il bene non più concesso. Nell’ultima strofa il poeta riprende il motivo idillico ed elegiaco iniziale. Nei versi 51-68 il paragone tra la natura e la vita mortale è ripreso in chiave di contrasto. Le collinette e le pianure, venuto meno lo splendore della luna che inar- gentava l’atmosfera notturna, non rimarranno ancora a lungo prive di luce, dal momento che presto vedranno di nuovo il cielo imbiancarsi verso oriente e l’alba sorgere. Il sole, levandosi insieme all’alba, e contemporaneamente effondendo intorno i suoi raggi simili a potenti fiamme, inonderà la volta celeste di splendenti flussi di luce. Ma la vita degli uomini, dopo che è scom- parsa la giovinezza, non si colora mai di altra luce, né di una nuova aurora. Essa rimane simile ad una notte senza luna, in uno stato di abbandono fino alla fine. Gli dei posero come termine alle tenebre che coprono ugualmente tutte le età che succedono alla giovinezza, la morte. Leopardi crea immagini altamente poetiche di artigiani o di altre figure umili riprese attraverso brevi flash (ne Il sabato del villaggio, la figura del falegname “che veglia nella chiusa bottega”, l’artigiano “che riede a tarda notte…al suo povero ostello”), o delle lunghe descrizioni nel corso della not- te (ne Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia, il pastore che veglia sul gregge addormentato). In questo canto compare la figura del carrettiere che saluta con il suo canto “l’estremo albor della fuggente luce”: l’immagine del canto notturno compare anche nell’idillio “La sera del dì di festa” (v. 44 e se- guenti) e l’espressione “fuggente luce” ricorda i Sepolcri del Foscolo (v. 123). Il discorso si articola in 4 strofe libere, che procedono con una cadenza stanca e lenta, ma che rivelano un Leopardi che domina da abile artista la sua materia, elaborandola letterariamente.

48 DIDATTICA E LABORATORI Nell’arco dei versi 1-19 compare una ricca presenza di aggettivazioni qua- lificative, alcune molto care al poeta: solinga, inargentate, vaghe, ingannevoli, lontane, tranquille, mesta, fuggente. In verità il Leopardi può essere definito “il poeta dell’aggettivo”, del ritmo e della musicalità nella scelta e nella dispo- sizione delle parole. Possiamo anzi affermare che egli trova la motivazione psicologica capace di far entrare le parole nella mente, come ad esempio avviene nell’incipit de L’Infinito: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” con l’avverbio “sempre” che continua ad echeggiarci nella mente, con la forza di un persistente sussurro. C’è una netta prevalenza numerica, come in tutto il resto della composizio- ne, dei settenari sugli endecasillabi. La rima è piuttosto libera ed asseconda gli impulsi dell’ispirazione poetica: compaiono rime baciate come aspetti/ obbietti, tranquille/ville, Tirreno/seno, una/imbruna, luce/duce. La parola “luna” crea una forte pausa di interpunzione e rima nel mezzo del verso con “una” e “imbruna” dei versi successivi. Il tramonto della luna, tutto sintetizzato nell’emistichio “scende la luna” è preparato dagli undici versi precedenti e l’azione è resa ancora più lenta dal settenario “nell’infinito seno”. La lentezza del processo ed il ritmo de- scrittivo sono accentuati dal polisindeto: “e mille vaghi aspetti/e ingannevoli obbietti…e rami e siepi e collinette e ville…e si scolora il mondo… ed una oscurità…e cantando”. Il polisindeto non solo congiunge le varie espressio- ni, ma ci suggerisce anche l’impressione che le immagini o i pensieri vengano da lontano, come accade, ad esempio, nell’Infinito: vv. 5-7 “…e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo”, vv. 11-13 “e mi sov- vien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva e il suon di lei”, v. 15 “e il naufragar m’è dolce in questo mare”. “Fingon” al verso 6 è un verbo ricorrente nella poesia leopardiana. Compa- re, ad esempio, nell’Infinito, v. 7: “Io nel pensier mi fingo”; nelle Ricordanze, v. 24: “Felicità fingendo al viver mio”, e v. 76 “e celeste beltà fingendo ammi- ra2. Questo verbo si carica di valenze semantiche particolari: significa fon- damentalmente “rappresento”, o ancora “scolpisco nella mente”, ma sembra anche alludere a quello che di vano, di finto, di “ingannevole” insomma ha quella incantevole visione. D’altra parte il concetto di visione ingannevole è implicito nelle precedenti espressioni: “mille vaghi aspetti e ingannevoli ob- bietti”. Il poeta anticipa, in questa visione retrospettiva che lo porta a consta- tare il crollo dei sogni e delle speranze della giovinezza, tematiche decadenti legate al tema della malattia e della memoria. Al v. 20 l’anafora: “tal…e tale”, contiene un duplice riferimento, in quanto

DIDATTICA E LABORATORI 49 il primo “tal” si riferisce alla giovinezza, il secondo all’età mortale. Frequente in Leopardi è anche l’uso della sineddoche: ad esempio, la “mortal natura” sta ad indicare l’intera umanità, “l’umana sede” è la terra. “L’ombre e le sem- bianze dei dilettosi inganni” richiamano i “mille vaghi aspetti e ingannevoli obbietti” dei versi 4 e 5, quasi in una sorta di parallelismo semantico. Un uguale parallelismo si può riscontrare tra la figura del carrettiere del verso 19 ed il confuso “viatore” del verso 29. Nella seconda strofa continuano ad alternarsi endecasillabi e settenari, con prevalenza di questi ultimi. L’alternanza del metro conferisce varietà e musi- calità al ritmo poetico. Compaiono rime baciate: tale/mortale, natura/oscura, vede/sede, rime alternate: sembianze/speranze o più lontane corrispondenze, come, a distanza di 4 versi: invano/estrano. I punti al centro del verso se- gnano importanti pause di senso, come dopo “giovinezza” e “vita”. Il poli- sindeto si ripete (…e vengon meno… e vede). I versi 31-34 racchiudono il concetto espresso dal poeta in altri canti e nelle Operette Morali dell’assoluta indifferenza della natura nei riguardi della vicenda umana. Lo stesso concet- to viene ulteriormente approfondito nell’ultima strofa, nella quale il poeta contrappone all’eterno avvicendarsi del ciclo naturale del sole che sorge e tramonta, la condizione di ineluttabile finitezza della vita umana che una vol- ta tramontata non risorge più, perché e destinata a concludersi con la morte (Canto notturno di un pastore errante, v. 35 e ss. ). I versi 34 e 39 presentano all’inizio l’anafora: “troppo…troppo”. Il concet- to della vecchiaia come estremo di tutti i mali compare anche nelle Operette Morali, quando l’Islandese dice nel dialogo che lo vede comprotagonista: “E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e mani- festo male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi”. In questa terza strofa sono frequenti gli iperbati: “tutto della vita il corso” (v. 38), “della terribil morte assai più dura”, “d’intelletti immortali degno trovato” (v. 44). Un’altra più semplice transmutatio poetica, come “ritrovar gli eterni la vec- chiezza”, ponendo accanto, uno in fine, l’altro all’inizio di verso due termini opposti come “eterni” e “vecchiezza”, sembra condensare in sé il concetto classico di vendetta degli dei nei riguardi dell’uomo, o, peggio ancora, di una divinità ostile e malvagia. La relativa locale introdotta da “ove” fino a “bene” presenta un’interessante disposizione degli elementi strutturali: al verso 48 si susseguono un aggettivo (incolume) ed un sostantivo (il desio) e poi un so- stantivo (la speme) ed un participio con funzione aggettivale (estinta), ai versi 49-50, un aggettivo (secche) ed un sostantivo (le fonti) con complemento di

50 DIDATTICA E LABORATORI specificazione e un sostantivo (le pene) con un aggettivo (maggiori). Nella strofa finale numerose sono le immagini metaforiche: “della notte il velo” indica la tenebra notturna, i “lucidi torrenti” sono i raggi del sole, gli “eterei campi” sono la volta celeste. L’espressione “la vita mortal” è particolarmente cara al poeta: compare in A Silvia, v. 2, e nel Canto notturno..., v. 38. Il verso finale (“…ed alla notte/ che l’altre etadi oscura, / segno poser gli Dei la sepoltura”), che presenta anche un iperbato nella disposizione del ver- bo (poser), soggetto (gli Dei) e complemento oggetto (la sepoltura), ricorda concettualmente la chiusa di A Silvia: “…e con la mano/la fredda morte ed una tomba ignuda/ mostravi di lontano”. La vecchiaia viene paragonata “alla notte che l’altre etadi oscura”. In questa concezione, il Leopardi rivela la matrice classicicista dei suoi studi: egli sicuramente lesse e meditò, durante gli anni del suo studio “matto e disperatissimo”, Omero, Anacreonte, Mim- nermo e la lirica greca in generale. Non dobbiam dimenticare che il primo approccio del poeta al culto della vera e grande poesia avviene proprio attra- verso un “passaggio dall’erudizione al bello” (nello Zibaldone colloca questo passaggio intorno al 1816) cioè superando quella che lui definisce l’arida filo- logia ed il falso gusto arcadico e riscoprendo l’intima natura poetica dell’arte classica, che è stata grande poiché ha imitato direttamente la natura ed ha espresso il sentimento con sincerità ed immediatezza. Successivamente, nel 1819, avviene un secondo passaggio” dal bello al vero”, e cioè dalla poesia d’immaginazione a quella moderna, sentimentale e filosofica, che è caratterizzata dalla presenza più accesa di un sentimento individuale. Egli afferma nello Zibaldone che la “perfezione dell’essere” può trovarsi solo nella gioventù, il fiore dell’età, quando la facoltà dell’uomo sono in pie- no vigore. La giovinezza è “l’epoca della perfezione e quindi della possibile felicità dell’uomo”. La giovinezza a volte, nella poesia leopardiana, diviene anche il simbolo del primo modo di “vedere le cose”, che è quello fantastico, illusorio, felice e poetico del faciullo, dell’adolescente e dell’uomo primitivo. La condizione giovanile è quella caratterizzata dalla piena adesione alla vita in tutte le sue forme. Lo stato dell’uomo adulto rappresenta la rassegnata accettazione “borghese” e “volgare” della realtà quotidiana. In questo canto poi i motivi tipicamente leopardiani del notturno lunare, del canto lontano del carrettiere, dei “dilettosi inganni”, dell’orrore della vecchiaia, della se- poltura presenti in A Silvia, nelle Ricordanze, nel Passero solitario, nella Vita solitaria e nella Sera del dì di festa, ritornano come da lontano, ormai svuotati

DIDATTICA E LABORATORI 51 di passione, svincolati dai cari pretesti della memoria dei canti precedenti, riportati nel tono di meditazione suprema e di supremo rigore stilistico dei canti sepolcrali. Per questo motivo il canto, come fa notare anche il Sapegno, si apparenta ai cosiddetti carmi sepolcrali del poeta: “sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima” e “Sopra un basso rilievo antico sepolcrale”, entrambi composti tra l’aprile 1831 e il set- tembre 1835. Scompare ogni riferimento alla propria esperienza ed il canto si sviluppa in forma di meditazione impersonale. Si può accettare il giudizio del Binni che ritiene Il tramonto della luna del tutto conforme all’ultims poetica leopardiana dell’eroica persuasione. La lettura di questo canto si inquadra all’interno del pessimismo leopar- diano che, da una dimensione di dolore individuale, per la quale egli solo ritiene di essere incapace di ogni felicità, passa alla constatazione di come il dolore sia una caratteristica della storia umana e quindi dell’intero universo. Il Leopardi, però, afferma il De Sanctis, “produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso e te lo fa desiderare; non crede alla libertà e te la fa amare…”, mentre rinnega la natura, ne pone in luce gli aspet- ti più seducenti e irrimediabilmente affascinanti. La sua poesia è, in ultima analisi, appagamento rasserenante. Essa non abbatte né deprime l’animo, ma insegna ad accettare la vita e a sopportare virilmente il dolore. Anche quando egli riconosce la vanità delle illusioni, ne sente sempre la dolcezza e l’incanto. È sicuramente affascinante ricostruire il percorso intimo del poeta, senza scinderlo dalle sue vicende personali, cogliendo nell’ultimo Leopardi l’in- canto descrittivo e l’abbandono lirico dei primi componimenti, ma un più amaro disincanto ed una più lucida riflessione sull’arido vero, più vicino ad una filosofia-poesia.

52 DIDATTICA E LABORATORI Antonella Nigro

AMOR DI LUNA ENDIMIONE E SELENE NELL’ARTE

A Francesco Saverio, tenera aurora

La forza dell’amore, gli arcani nascosti del sonno, il mistero della notte e soprattutto la magia della luna, sono gli affascinanti temi che legano, nel mito classico, le figure della dea Selene e del mortale cacciatore Endimione. L’arte, in tutte le sue forme, si è occupata della loro antica e articolata storia, lascian- do mirabili esempi dalla pittura alla scultura, dalla letteratura alla poesia. Chi sono, dunque, i due protagonisti che hanno ispirato le creazioni di tanti artisti e perché sono stati scelti a dispetto di molti altri miti che non hanno goduto di pari fortuna? La genealogia di Endimione risulta complessa e varia a seconda degli autori. Il più delle volte è considerato figlio di Etlio e di Calice, altre volte gli si attribuisce come padre direttamente Zeus, di natali illustri perché figlio di un re, ma anche cacciatore e pastore. Aveva guidato gli Eoli dalla Tessaglia nell’Elide e regnava su di loro. Si era sposato (il nome della moglie cambia a seconda degli scrittori) e aveva avuto tre figli, Peone, Epeo ed Etolo, e una figlia Euricide. Gli si attribu- isce anche un’altra figlia Pisa, eponima, della città di Pisa, in Elide1. La leggenda più famosa, narrata a proposito di Endimione, è, però, quella dei suoi amori con la Luna (la greca Selene). A questo punto il mito ha numerose versioni, la prima vede Zeus condannare Endimione a dormire per trent’anni in una grotta del monte Latmos in Caria per aver offeso Hera; la seconda racconta che fu lo stes- so Endimione a chiedere un sonno eterno per non dover conoscere né malattia, né vecchiezza, né morte. Secondo alcune trasposizioni durante questo sonno felice Selene lo vide e se ne innamorò, mentre secondo altre fu amato dalla dea che concepì con lui cinquanta figlie e per questo motivo chiese a Zeus di farlo dormire eternamente per non essere più schiava di quella passione travolgente2.

1 Pierre Grimal, Mitologia, Garzanti Editori, Milano 2004, p. 204. 2 Anna Maria Carassiti, Dizionario mitologico, Gulliver Libri, Perugia 1997, p. 90.

DIDATTICA E LABORATORI 55 “Come si siano svolti i suoi amori con la Luna e, soprattutto, come la abbia resa madre non è facile capire… Ma da un mito così romantico non è possibile pre- tendere una logica ferrea”3. La tradizione impreziosiva, infine, la vicenda con un dolce epilogo: nella fase di luna nuova, Selene era invisibile perché scendeva nella grotta ove riposava Endimione per contemplarlo. Legata alla figura di Endimione è anche quella di Hipnos, personificazione del Sonno, figlio della Notte e dell’Erebo e fratello gemello di Thanatos (la Morte). Spesso alato, percorreva velocemente la terra e il mare facendo asso- pire gli esseri. Una sola leggenda può essere collegata a lui: innamoratosi di Endimione gli avrebbe accordato il dono di dormire a occhi aperti per poter ammirare incessantemente l’amato4. Selene è, invece, la personificazione della luna. Figlia dei titani Iperione e Teia, sorella di Helios, è raffigurata come una fanciulla dalla pelle candida che iniziava il suo cammino, su un carro d’argento tirato da cavalli bianchi, appena il fratello aveva raggiunto l’estremo occidentale. Anch’ella celebre per i suoi amori: da Zeus ebbe una figlia chiamata Pandia, la luce del plenilunio, mentre in Arcadia il suo amante fu il dio Pan che la sedusse con l’inganno5. Ma fu un mortale a rubarle davvero il cuore, infatti, Selene deve la sua fama all’amore che la legò al bel pastore dal quale ebbe le famose cinquanta fanciulle6. Fu assimilata, spesso, ad Artemide-Diana e nella cultura romana divenne Luna, continuando a suggerire nuovi spunti d’interpretazione ad artisti e poeti. Considerata la vasta produzione artistica inerente il mito di Selene ed Endi- mione, si è deciso di circoscrivere il saggio ad alcuni esempi presenti nell’arte pittorica e scultorea tra Seicento e inizi Novecento per comprenderne l’evo- luzione iconografica, eventuali analogie e discordanze, nonché l’utilizzo del simbolo per arricchirne o mutarne la raffigurazione e/o il messaggio. Il Seicento vede alcuni tra i maggiori pittori europei occuparsi del mito di Selene-Diana ed Endimione, come Gérard de Lairesse che dipinge Diana ed Endimione (1680, Rijksmuseum, Amsterdam) mostrando una dea che si fa lar- go e, con amorevole impazienza, scosta l’amorino lucifero che, indicando l’a- mante addormentato, sembra ostacolarne l’incontro: leggera si distacca dalla luna, luminosa sovrana dello sfondo e, danzando eterea, si avvicina alla figura

3 Eva Cantarella, L’amore è un Dio, Feltrinelli Editore, Milano 2007, p. 17. 4 Pierre Grimal, Op. cit., p. 356. 5 Robert Graves, I miti greci, Longanesi & C., Firenze 1995, p. 90. 6 “Il mito ricorda come un capo eolico invadesse l’Elide e accettasse le conseguenze di tale conquista sposando la sacerdotessa di Hera, la pelasgica dea lunare che era a capo di cinquanta sacer- dotesse acquaiole”. Ibid., p. 189.

56 DIDATTICA E LABORATORI in ombra di Endimio- ne resa con un inten- so chiaroscuro. L’ar- tista olandese, infatti, rappresentante di spicco del secolo d’o- ro, conobbe la pittura barocca ma si attenne ad uno stile più vicino alla sobrietà del clas- sico, caratteristica che connota Diana ed En- dimione. Interessante ed originale l’amorino che reca la fiaccola, dettaglio raramente riscontrabile nell’i- conografia di questo mito, dal momento che la stessa Selene illumina la scena, e probabilmente riferito ai segreti legati alla notte, al suo potere spirituale, all’iniziazione e alla conoscenza7. Del mito in esame, Pietro Liberi, propone Endimione addormentato (1660) opera nella quale non compare Selene, o meglio è presente ma non si mostra se non attraverso dettagli: l’amorino, araldo della dea, gioca con i cani caratteriz- zazione del seguito del protagonista che, nel suo profondo sonno, esibisce una straordinaria e nuda bellezza in abbandono e il braccio destro impreziosito da una collana di grani di corallo, dono apotropaico8 dell’amata. Filippo Lauri, pittore barocco attivo a Roma, propone un’opera (Selene ed Endimione, 1650 Academy of Fine Arts Vienna, fig. 1) pervasa da una toc- cante dolcezza: Selene, argentea quasi evanescente, sospinta da una brezza divina che ne gonfia e libra le bianche vesti, custodisce il sonno di Endimio- ne sorreggendogli il viso con la mano destra come in una eterna carezza, mentre con la sinistra accomoda delicatamente il purpureo manto dell’ama-

7 Corinne Morel, Dizionario dei simboli, dei miti e delle credenze, Giunti Editore, Firenze 2006, p. 359. 8 Hans Biedermann, Enciclopedia dei Simboli, Garzanti Editore, Milano 1995, p. 135.

DIDATTICA E LABORATORI 57 to. La grande falce che sembra sostenerla nel suo volo notturno, conferisce al dipinto un particolare punto di fuga, fantastico e illusorio, un vortice che cattura i protagonisti e l’osservatore, una prigionia che si fa soave similmen- te al viso di Selene, reclinato e conquistato da quello di Endimione. È un Endimione dotto, in linea con gli studi di Galileo Galilei, il protago- nista della tela di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, che riposa custodendo in grembo un cannocchiale (Endimione dormiente, 1647, Galle- ria Doria Pamphilj, Roma). Nella scelta dell’artista si può non solo ravvisare un omaggio alle scoperte dello scienziato pisano, ma anche la citazione di una spiegazione razionalistica degli antichi, secondo la quale Endimione fu il primo che avrebbe studiato di notte le fasi della luna9. Sebastiano Ricci verticalizza la scena (Selene e Endimione, 1713, Chiswick House, Londra) donandole un andamento discendente, elegante e sugge- stivo, in cui i due protagonisti occupano esattamente la stessa porzione di spazio. Tutto appare bilanciato, nella scelta attenta dei colori e nella cura della composizione: Selene porge all’osservatore il profilo destro, Endimione il sinistro; un nastro sottile attraversa trasversalmente il busto niveo di Selene trattenendole maliziosamente l’abito e, ugualmente, fa il laccio della faretra sul torace di Endimione; ancora, un drappeggio blu copre, in parte, le gambe della dea, così come accade al tessuto ocra sul corpo dell’uomo; infine al fe- dele e vigile cane del protagonista in basso a sinistra, fa da pendant l’amorino accorto e volteggiante in alto a destra. L’artista, come dimostra Selene ed Endimione, prende le distanze da soluzioni ampollose e ricercate come pure dai “tenebrosi” e, con una cultura d’ampie vedute che lo aveva portato ad avere committenze in gran parte d’Europa, “recupera tecniche e atmosfere dell’aurea stagione rinascimentale”10. Pier Francesco Mola concepisce un’immagine casta della coppia (Diana ed Endimione, 1660, Musei Capitolini, Roma) lungi dall’eros che pur contrad- distingue tale mito: Endimione è accovacciato e vestito, immerso in un sonno composto, l’amorino fa cenno alla dea di non fare rumore, ma ella è comun- que troppo lontana, incastonata come un freddo diamante nel suo empireo lunare e osserva, con distacco, il giovane. Come nella maggior parte delle raffigurazioni, anche qui Diana/Selene è più candida di una perla, poiché è la trasfigurazione della lucentezza della luna, ma è anche la quintessenza del co-

9 Angelo Taccone inTreccani.it L’Enciclopedia Italiana, http://www.treccani.it/enciclopedia/en- dimione. 10 Riccardo Pacciani, Barocco e Rococò, Arnaldo Mondadori Editore, Milano 1990, p. 279.

58 DIDATTICA E LABORATORI lore bianco “che ispira il senso dell’assoluto, della perfezione, del divino”11. Nicolas Poussin nel 1630 realizza un’interpretazione del mito (Selene e En- dimione, Institute of Art, Detroit) unica nel suo genere, nella quale il giovane Endimione è rapito e in ginocchio dinanzi alla bella Selene che lo guarda in piedi, dall’alto della sua grazia. Tutt’intorno è un tripudio di magnifici dei nei loro fasti e uffici divini, con una forte teatralizzazione della composizione enfa- tizzata da un’ancella che apre un panneggio a mostrare la scena. Fedele, anche in quest’opera, alla sua inedita combinazione di vivacità e ricchezza del colore e di severo controllo compositivo di figure, gruppi e paesaggi desunti dall’an- tichità classica e cristiana, Poussin sottolinea come “tematiche e modi rappre- sentativi risultino, così, coerenti all’interno della poetica del classicismo”12. Il napoletano Luca Giordano dipinge una procace e dinamica Diana (Dia- na ed Endimione, 1675-1680, Museo di Castelvecchio, Verona) che, con la fronte ingemmata, a seno nudo e armata di un piccolo arco, sua peculiarità, sovrasta Endimione dormiente circondato da cani attenti e amorini solerti a dare il silenzio ai presenti. All’energia della composizione contribuiscono i colori che non sono giocati su tonalità lievi, “lunari”, bensì su cromie accese e intense quali il blu del tessuto che, in un gioco impertinente, vola intorno al corpo di Diana e il rosso del mantello che fa da coltre ad Endimione. È anche attraverso questo dipinto che lo stile barocco dal quale proveniva l’ar- tista mutò a favore delle generazioni successive, illuminandosi ed aprendosi a tematiche che non indagassero esclusivamente il divino, come ribadì Roberto Longhi, ma che celebrassero anche la vita umana. Francesco Trevisani si pone tra Seicento e Settecento italiano con una produzione pittorica essenzialmente realizzata a Roma e, dell’Accademia dell’Arcadia che conobbe e amò, trasferì nelle sue opere, il gusto per la grazia e l’equilibrio. Il suo dipinto Diana ed Endimione (1670-1746, Museumslan- dschaft Hessen Kassel, Kassel) può essere diviso in diagonale per l’andamen- to delle figure e per il bilanciamento dei colori: la bella Diana, sdraiata sulla sua bianca nube, domina tutte le tonalità dell’azzurro, dalla falce lunare, al drappo, al cielo dal quale proviene, mentre Endimione regge le gradazioni del rosso del suo manto e della faretra della quale si è impossessato un curio- so amorino. L’artista, pone in primo piano una ricerca languida e sentimenta- le che si esprime nel delicato abbraccio di Selene e nelle labbra della dea che sfiorano il viso dell’amato. Ella si protende dal suo luminoso cerchio contesa

11 Stefano Zuffi, I colori dell’arte, Rizzoli, Milano 2007, p. 222. 12 Riccardo Pacciani, Op. cit., p. 277.

DIDATTICA E LABORATORI 59 tra due mondi: impossibilitata a lasciare l’Olimpo, ma ugualmente incapace di sottrarsi ad una passione umana. Intensa l’interpretazione settecentesca che del mito fa Ubaldo Gandolfi, pittore bolognese, nella quale Selene è davvero, e per la prima volta, presen- tata nella sua maestà di dea (1770, Collezioni Comunali d’Arte, Bologna) Bel- lissima e solenne, mentre la luna le fa da corona, accenna un sorriso dall’alto del suo dominio celeste, ammira e veglia ma non sfiora il suo amato, proteg- gendolo da una sensualità troppo, solo umana. La virtù è tratto distintivo dell’opera: la protagonista è composta nel suo contemplare ed elegante nel mostrarsi, il braccio flesso nasconde il seno, le mani gentili sono intrecciate tra loro, non protese amorevolmente verso Endimione e la luce che ella dona è soffusa e tenue. Statuario e, allo stesso tempo, verosimile il sonno del ma- gnifico Endimione che, addormentato, su rocce lavorate, poste in spigolo verso l’osservatore e in linea col nodoso bastone da pastore, mostra una posa che ne accentua l’abbandono plastico, ove una tale sublime soluzione è me- more della lezione dei Carracci. Il marmo diventa carne e sangue nell’opera datata 1725, Endimione (fig. 2), di Antonio Corradini noto per le sue figure velate realizzate anche per la Cappella Sansevero a Napoli. Endimione ha le fattezze delicate di un fan- ciullo, il capo reclinato dolcemente tra la spalla e il giaciglio e mani gentili con lunghe dita affusolate, più simili a quelle di un musico che non a quelle di un pastore-cacciatore. Anche la posizione rivela un atteggiamento langui- damente classicheggiante e i finissimi calzari ricordano quelli indossati da Hermes messaggero. Il marmo bianco infonde alla scultura una luminosità

60 DIDATTICA E LABORATORI che si confà pienamente al mito: il protagonista, investito dalla splendida luce di Selene, riposa cullato dai suoi candidi raggi. Sorridente, licenziosa, straordinariamente eburnea e con le gote dipinte d’un rosa acceso, è la Diana di Jean Honorè Fragonard, (Diana ed Endimione, 1753, Tinken Collection, National Gallery of Art, Washington, fig. 3) che esibisce un nudo, delizioso e minuto piedino - che è e sarà protagonista delle opere più famose dell’artista – col quale si accinge a lambire Endimione dormiente. Fra- gonard, che amò animare i suoi dipinti di leggerezze fatte di venti che gonfiano soffici vesti e ampi panneggi, trova in Diana ed Endimione il soggetto più con- sono a questo modus operandi: innumerevoli e delicate volute avvolgono la dea e i suoi amorini in arabeschi di veli cangianti e trasparenti, mentre Endimione è perduto in una luce sovrumana che proviene dalla bella Diana poggiata sul suo trono lunare, splendente nella sua “spiritosa sensualità”13. Per William Cavendish, sesto duca di Devonshire, Antonio Canova pre- senta Endimione dormiente (1819-1822, Collezione Devonshire, Chatsworth House), una figura distesa su una morbida clamide dalla consistenza simile al velluto che lo separa, vistosamente, dalla ruvida e angolosa roccia che gli fa da letto. Artista neoclassico, Canova, ha come ideale la bellezza intesa come

13 Riccardo Pacciani, Op. cit., p. 294.

DIDATTICA E LABORATORI 61 equilibrio delle masse, nitidezza del disegno, accentuata accura- tezza formale e studio attento ai minimi particolari stilisti- ci14. Endimione dormiente è l’idea della grazia classica privata delle passioni e del- le tensioni che fu il punto nodale nella concezione dell’artista per il raggiungi- mento della sublime e perfet- ta armonia delle forme. Tra Ottocento e Novecento si affermano in Europa le avanguardie storiche, mentre in Inghilterra continua l’interesse di artisti e committenze per dipinti conformi ai tratti culturali dell’epoca. Sir Joseph Noel Paton pone l’accento sul sogno, su una dimensione onirica che vagheggia del mito, non lo narra, ma lo evoca e lo confonde, piacevol- mente, alla visione: Diana cacciatrice, con l’attributo della faretra, la mano sul cuore come a soffrire di una fitta d’amore, guarda con dolore e tenerezza il suo amato, malinconicamente, col volto circonfuso di un’incantevole e sferica luce, mentre Endimione, scrigno inconsapevole d’una malìa incantatrice, col viso appena reclinato come a rubare baci, riposa con gli occhi socchiusi sotto gli archi perfetti delle sopracciglia. Anch’egli, cinto di pelli maculate, è dedito all’arte venatoria e impugna una freccia dorata che lo avvicina alla leggiadria di Eros. La pittura vittoriana vede l’affermarsi di due correnti, quella preraffa- ellita che tratta temi biblici, letterari e storici e la fairy painting ritraente mon- di incantati, entrambi, nell’artista scozzese, trovano un punto d’unione. Egli, infatti, pur vantando una vasta produzione pittorica relativa all’immaginario, in A dream of Latmos (fig. 4) per la scelta di simboli e riferimenti relativi alla mitologia greco-romana “lascia trasparire la sua formazione classica”15. Il coevo Sir Edward John Poynter, presidente della Royal Academy, propone un dipinto (La visione di Endimione, 1901, Manchester Art Gallery, fig. 5) d’i-

14 Gabriele Crepaldi, L’Ottocento, Mondadori Electa, Milano 2008, p.8. 15 Iain Zaczek, Amanti fatati su una conchiglia in Sentieri d’arte. Angeli e fate, Logos Editore, Modena 2006, p. 206.

62 DIDATTICA E LABORATORI spirazione preraffaellita. La bella Selene scende danzando dal cielo col capo coronato di stelle e, nei gorghi dei suoi veli azzurri simili a curve di onde marine, raggiunge l’amato in un bosco ove rosseg- giano papaveri16, fiori carissimi al repertorio iconografico della Confraternita anche per la valen- za legata al laudano e alla morte. La figura femminile è sublimata, il mondo immaginario presentato è capace d’incantare l’osservatore, “nasce quella dimensione simbo- lista che invaderà l’Europa”17. Il mito di Selene ed Endimio- ne è stato indagato con tanta frequenza e passione poiché rac- conta, con profonda liricità, l’i- neluttabilità dell’amore, la sua inesorabile fatalità che travalica la morte, che addirittura la chiama in causa per poterla ingannare rivestendola di sogno. Il rivivere del mito, poi, è costante: ogni notte, il cielo stellato mostra l’incantata aureola d’argento, rammentandoci il coraggioso giuramento di Selene al suo amato, per il quale una dea dona il suo cuore ad un mortale, per l’eternità.

16 “Questo fiore favorisce il sonno e l’oblio. Allevia e, allo stesso tempo, distanzia la separazione tra desiderio e realtà, tra immaginario e reale.” Corinne Morel, Op. cit., p. 636. 17 Alison Smith, Preraffaelliti. L’utopia della bellezza, 24 Ore Cultura, Catalogo della mostra, Milano-aprile 2014, p. 212.

DIDATTICA E LABORATORI 63

Angela D’Angelo

A white human form

La natura ha un ruolo preponderante nella concezione letteraria e artistica del Romanticismo, il movimento culturale nato alla fine del XVIII secolo in Gran Bretagna e in Germania e diffusosi progressivamente nel resto d’Euro- pa e negli Stati Uniti. Particolare “attenzione” è stata dedicata dagli artisti romantici agli scenari notturni, suggestivi, meravigliosi e “terribili”; frequenti sono le rappresentazioni della luna, descritta ed “interpretata” tramite le immagini, i suoni, le parole. Ad esempio, il celebre dipinto di Caspar David Friedrich “Un uomo e una donna davanti alla luna” (1819) è espressione del destino di solitudine dell’uomo, a cui, tuttavia, mai sono negate la speranza e la fede della vita; il compositore polacco Fryderyk Chopin predilesse il “notturno” come genere musicale dalla massima libertà d’espressione e “l’indomito” Ludwig van Beethoven, nella Sonata per pianoforte n. 14 “Chiaro di luna”, vede con amara dolcezza il compiersi del proprio destino, e si rassegna di fronte ad un amore non corrisposto. Nella letteratura del periodo romantico ogni autore ha lasciato una sua riflessione sul rapporto quasi mistico tra l’essere umano e la luna, “aprendo” una porta al sogno, all’immaginazione, alla fantasia. Charlotte Brontë, scrittrice inglese vissuta tra il 1816 e il 1855, pubblicò nel 1847, con lo pseudonimo di Currer Bell, il romanzo che le diede in seguito noto- rietà e che riscosse un grande successo all’epoca: Jane Eyre. An Autobiography. Questa è la storia di una giovane donna, Jane Eyre che, messa dal destino di fronte a situazioni “difficili” ed apparentemente senza via d’uscita, mostrerà la forza del suo carattere e dei suoi principi morali, qualità che favoriscono la felice conclusione delle vicende; “Jane Eyre” si è rivelato un successo fin dalla sua prima edizione per la straordinaria caratterizzazione psicologica dei personaggi, soprattutto della protagonista, i cui pensieri e le sue emozioni costituiscono la mente e l’anima del romanzo.

DIDATTICA E LABORATORI 67 Jane sceglie spesso come confidente delle sue impressioni la Natura, vista come quella madre mai conosciuta, assente nel periodo della sua infanzia in- felice e di cui avverte un disperato bisogno; è a Lei che si rivolge nei momenti critici della sua vita, attribuendole fattezze umane.

Il seguente passo, tratto dal capitolo XXVII, descrive in modo singolare “l’in- contro” tra Jane e la luna, sempiterna osservatrice delle azioni degli uomini.

“That night I never thought to sleep; “Non avrei creduto di dormire quella but a slumber fell on me as soon as I notte. Invece caddi profondamente ad- lay down in bed. I was transported in dormentata appena mi coricai. In sogno thought to the scenes childhood: I dre- rividi scene dell’infanzia. Mi sembrava amt I lay in the red-room at Gateshead; di trovarmi nella camera rossa di Ga- that the night was dark, and my mind teshead, al buio, e perseguitata da strane impressed with strange fears. The light paure. Rivedevo la luce che tanto tempo that long ago had struck me into synco- addietro mi aveva spaventata, e mi sem- pe, recalled in this vision, seemed glidin- brava che strisciasse su per la parete e si gly to mount the wall, and tremblingly fermasse tremolante al centro del soffit- to pause in the centre: of the obscured to scuro. Sollevai la testa. Il soffitto era ceiling. I lifted up my head to look: the costituito da nuvole alte e fosche, che si roof resolved : to clouds, high and dim; dividevano al chiarore della luna. E at- the gleam was such as the moon imparts tendevo il suo apparire, l’attendevo con to vapours; she is about to sever. uno strano presentimento, come se il I watched her come – watched with mio destino fosse scritto sulla sua faccia. the strangest: anticipation; as though Ma la luna, quando appare, non squarcia some word of doom were to be written le nuvole in tal modo. Prima una mano on her disk. diradò le tenebrose cortine, poi, non la She broke forth as never moon yet burst luna, ma una figura umana brillò lumi- from cloud: a hand first : penetrated the nosa nell’azzurro, con la fronte inclinata sable folds and waved them away; then, verso la terra. E continuava a fissarmi. not a moon, but a white human form sho- Parlava, e la sua voce, sebbene infinita- ne in the azure, inclining a glorious brow: mente lontana, giunse al mio orecchio: earthward. It gazed and gazed on me. It “Figlia mia, fuggi la tentazione!” spoke to my spirit immeasurably. “Madre, la fuggirò!” Distant was the tone, yet so near, it whispered in my heart: “My daughter, flee temptation. ” “Mother, I will. ”

C. Brontë, Jane Eyre, cap. XXVII

68 DIDATTICA E LABORATORI Particolarmente significativo è il punto in cui Jane, con stupore, nota che dalle nubi non spunta il viso rubicondo della luna, bensì “a white human form”; quella bianca figura umana protende la fronte verso di lei come per proteggerla, fa sentire la sua voce remota, la chiama “figlia”, le impone e qua- si la supplica di perseverare nella virtù. E Jane, ribattendo alla voce della sua coscienza, le dà una risposta affermativa. Nel corso del romanzo sono frequenti i riferimenti alla luna, e spesso coin- cidono con punti di svolta nella vita della protagonista. Cos’è la luna per Jane? Il riflesso delle sue emozioni e dei suoi stati d’animo, lo specchio del suo desiderio di evasione dalla realtà e lo specchio della sua realtà; è la perso- nificazione alla sua aspirazione alla libertà, che è anche una sorta di ribellione contro la società prettamente maschilista dell’epoca vittoriana. Jane compie un percorso di formazione che la porterà a sentirsi pienamen- te donna, conscia delle sue capacità, consapevole dei suoi diritti e doveri; la luna, che “sorge” e “tramonta” ogni giorno, è presente nella sua esistenza come una luminescente compagna notturna. Jane dice di attendere l’apparizione della luna “con uno strano presenti- mento, come se il mio destino fosse scritto sulla sua faccia”; imporrebbe sog- gezione e paura, infatti, il vedersi comparire davanti agli occhi, sotto forma di mari e crateri lunari, il proprio destino! Bisognerebbe rivalutare a questo punto il concetto stesso di destino: questo è un’entità superiore che regola la vita di noi esseri umani oppure è soltanto il pallido riflesso di un oscuro processo interiore che ci spinge ad immaginare quell’entità superiore e a credere in essa per sentirci più sicuri? Oppure il destino è unicamente il risultato dell’insieme delle nostre azioni nel corso del tempo? Emblematica è anche la presenza del destino sulla “faccia” della luna a noi visibile: cosa c’è sul lato “nascosto” del nostro satellite? Con uno sforzo dell’immaginazione, si potrebbe pensare che la parte oscu- ra della luna corrisponda al lato latente del nostro essere, alla porzione di carattere che non mostriamo mai agli altri e che spesso temiamo perfino di riconoscere ed accettare dentro di noi. L’indole umana è portata per natura a sentirsi attratta e ad immedesimarsi in entità con cui avverte una particolare affinità: “l’indipendenza” della luna, la quale è “sciolta” dai legami con gli altri oggetti della volta celeste, è il ri- flesso della solitudine dell’uomo, è l’apoteosi del nostro desiderio di sfuggire alla presa ferrea della quotidianità. La luna, meraviglioso “essere” del Creato, influenza quindi non solo le ma-

DIDATTICA E LABORATORI 69 ree, ma anche le nostre emozioni; ci ricorda che siamo un piccolo, grandioso, prezioso e forse unico sistema nell’Universo, e ci fa sentire responsabili. Abbiamo il dovere, infatti, di conservare tutto ciò che di nobile e giusto si è costruito nel corso dei secoli: i valori morali, la cultura, il pensiero, la libertà. Questa parola è cara a tutti, ma non bisogna dimenticare che “la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro”; d’altronde, anche la luna è soggetta alla forza di gravità! Dopo secoli di osservazioni, interrogativi e scoperte, resta il piacere di se- dersi, di sera, per ammirare la superficie irregolare della luna e far chiarezza sui nostri sentimenti. Non si hanno remore nel confidare i propri stati d’animo alla luna e perder- si nella concatenazione di pensieri, congettura dopo congettura; Hoffmann affermò che la vera essenza del romanticismo non è altro che la “brama d’in- finito”…

70 DIDATTICA E LABORATORI Alessandra Santomauro sotto gli occhi della luna

Dicembre 1857, Londra

Sul litorale est del Tamigi si poteva ammirare tranquillamente la luna, men- tre ristagnava di ombre la Londra di fine ottocento. Le signore dell’aristo- crazia londinese misero da parte gli sfavillanti ombrelli da sole dando uno sguardo distratto a quel bagliore, quasi a farsi beffa di tanta insolenza che altro non fece se non impedir loro di sfoggiare quei superflui accessori. Il ponte era gremito di uomini intenti a fumare un sigaro affacciati di mezzo busto sul fiume corrente, donne che portavano per mano la vivace prole, di tanto in tanto un cane solitario passava di lì moribondo. Gente che andava e veniva seguendo una meta sconosciuta, parole su pa- role si rimescolavano in un continuo mormorare. Un ragazzo osservava di- strattamente la scena, seduto a terra con le spalle contro il muretto del ponte. I pallidi raggi della luna fecero strizzare a tratti gli occhi color caramello del giovane finché egli non distolse lo sguardo sui passanti e la luna illuminò di riflessi ambrati i capelli castani. Nelle vicinanze un cappello attendeva il suono metallico delle monete. Poggiò la testa sulla pietra fredda dirigendo lo sguardo sulle calzature dei passanti, stivali foderati da calda lana e velluto che proteggevano l’alta borghesia londinese dal freddo invernale. Una bambina strattonava la gonna della madre pretendendo un altro paio di stivali. Continuava a ripetere che non le bastavano tre paia, ne voleva un altro a costo di doversi lagnare per il resto della serata. Il ragazzo la guardò disgustato costringendo i piedi a riscaldarsi invano, nelle sue misere scarpe bucate, ormai impregnate dal freddo delle strade di Londra. Decise di lasciar perdere l’impresa titanica di racimolare qualche spicciolo, la gente era troppo occupata a gettar in compere superflue per dargli retta. Raccolse il cappello e si alzò illuminato lievemente dai primi raggi di luna. Gli uomini affacciati sul fiume avevano finito da un pezzo la loro droga e parlavano di affari e progetti che avrebbero fatto comodo unicamente a loro.

DIDATTICA E LABORATORI 73 Un ragazzo dall’aria divertita lo urtò per sbaglio accennando una lieve scu- sa, poi volse lo sguardo verso di lui e si zittì improvvisamente disorientato.

Dicembre 1856, Londra

Le tende di tessuto verde non permettevano alla luce di far capolino nelle stanze accuratamente arredate del palazzo della famiglia Landwolf. Si poteva anche chiamare notte l’oscurità che le ristagnava in pieno giorno. Una donna dall’aspetto rude fece irruzione nella camera da letto dirigendo- si avidamente verso le tende. Il bagliore dei primi raggi di sole penetrò i vetri sottili del balcone mettendo in fuga le ombre della notte. Un ragazzo dall’aspetto principesco volse lo sguardo sull’intrusa dei suoi sogni e fece una smorfia. “Signor John si alzi coraggio! Suo padre la sta aspettando” esordì con voce greve. Il ragazzo si rigirò nel letto incurante del richiamo. La donna lo guardò truce aspettando che si alzasse. Dopo un po’ cedette a quei fulmini sprezzanti e si mise in piedi. “Incredibile non le pare?” sbuffò. “A cosa si riferisce?” domandò incuriosita la domestica. Il giovane non rispose e fece segno alla donna di andarsene cercando con lo sguardo i vestiti riccamente decorati posti con cura sulla poltrona di vimini.

“Non mi va di lavorare e soprattutto non tollero il semplice spreco di tem- po in qualcosa di tremendamente inutile come il lavoro in banca” ammise John furioso, dinanzi a suo padre. Lord Richard Landwolf sfoggiò uno sorriso amaro. “Figlio mio da dove pensi che venga tanta ricchezza?” esordì indicando lo sfarzo della sala da pranzo con un gesto teatrale. “Ho già tutto quello che potessi desiderare e non esagero nel dire che po- trei usufruirne per tutta la vita” affermò John spalancando le braccia quasi a voler abbracciare l’intero palazzo. “L’immaturità ti porta a tali conclusioni, col tempo capirai l’importanza di un lavoro sicuro” lo avvertì l’uomo con voce roca. “Non avrò bisogno di lavorare, e poi sono ancora giovane per pensare a questo” si lamentò lasciandosi cadere sulla poltrona. “Figlio mio non sai quel che dici” lo ammonì imperterrito. Una fredda rab-

74 DIDATTICA E LABORATORI bia mista a disappunto balenò negli occhi del padre. “Lo so invece. E poi oggi ho un appuntamento col mio amico Julian, deve mostrarmi una scacchiera per la mia collezione. Ah dimenticavo! Avrò biso- gno di una giacca per la cena di stasera col signor Mendez. Ha fatto un lungo viaggio dalla Spagna per portarmi alcuni giochi da tavolo e non escludo che mi ritroverò uno di quegli enormi cappelli colorati a dir poco bizzarri” pro- testò John sviando la conversazione. “Il sombrero…” “Si esatto padre!” lo interruppe il figlio “ e poi domani ho un ricevimento al palazzo della duchessa…” “Insomma John! Hai raggiunto la maggiore età ormai e credo dovresti ini- ziare a pensare al tuo futuro. E non voglio sentire alcuna obiezione, il denaro non è eterno e soltanto col guadagno potrai creare ricchezza, non con lo sperpero incondizionato finalizzato a soddisfare i tuoi inutili capricci!” Il ragazzo parve riflettere specchiandosi negli occhi scuri di suo padre. Nes- suno lo avrebbe mai cambiato. Quell’ammonimento era destinato a rimanere fine a se stesso. Decise di rimandare il discorso ad un giorno più propizio ai diverbi familiari e uscì contrariato dalla stanza col suo immancabile porta- mento di chi non ha mai veramente vissuto.

Le acque del Tamigi scorrevano quiete sotto il cielo plumbeo di mezzogior- no, Julian Kant nonostante i continui richiami dell’amico, tardava ad arriva- re. John attraversò il ponte colle mani nelle tasche della giacca infastidito. Il bar era pieno di studenti universitari e uomini d’affari intenti ad intrattenere noiose discussioni sulla politica e su quante incombenze potesse procurargli la nebbia di Londra. Julian fece il suo ingresso mezzora dopo seguito dai saluti da parte di alcuni avventori del locale. Prese posto sulla poltrona di fronte e si scusò brevemen- te del ritardo inventando una scusa ben poco plausibile. “Tu e i tuoi impegni amico mio” sorrise John “la scacchiera?” “Ah si eccola” aprì la valigia in pelle dando mostra alla preziosa creazione in stile francese. “Che te ne pare?” chiese sorridendo. John la guardò meravigliato, sarebbe stato il pezzo forte della sua colle- zione senza alcun dubbio. Si sporse in avanti per ammirarla meglio mentre alcuni ragazzi alle loro spalle si scambiarono occhiate furtive. “Stupenda!” esultò entusiasta. “Sei a conoscenza del valore inestimabile di questo pezzo d’arte francese?”

DIDATTICA E LABORATORI 75 chiese l’amico con fare malizioso. John prese il re tra le mani come se il contatto con la superficie liscia del legno pregiato gli rivelasse chissà quale segreto riguardo la sua natura. Un sorriso di trionfo si disegnò sulle labbra del compagno conferendogli un aspetto burlesco. “Perché fai quella faccia?” indagò John posando il re sulla scacchiera. “10.000” sbottò compiaciuto. John lo guardò a bocca aperta aspettandosi una smentita. Posò lo sguardo sui quadretti bianchi e neri perdendosi nel fascino miste- rioso che trapelava da ogni finitura. Estrasse il portafogli soppesandolo tra le mani mentre l’interlocutore sor- preso da tale gesto lo guardò stupefatto. “Non mi dirai che hai intenzione…” iniziò. “Si” tagliò corto. Contò tranquillamente le banconote sotto la pesante giacca al riparo da sguardi indiscreti. Estrasse poi altre banconote arrotolate dalla tasca interna. Sembrava che gli nascessero addosso come le fragole in un bosco. Pochi mi- nuti dopo con movimenti rapidi gliele passò con circospezione sotto il tavolo del bar. Julian soppesò il malloppo sempre più sbalordito. “Perché vai in giro con 10.000 sterline?” domandò pensieroso. “Julian sai benissimo il motivo del nostro incontro” si difese “non capisco perché fai tante domande” “John tu non sapevi di certo a quanto ammontasse la scacchiera” ribatté energico. “Meglio abbondare che rimanere a secco. Vanto la bellezza di miliardi di sterline e mi stupisco che ti meravigli per così poco.” ammise soddisfatto della sua presunzione. “Sono anni che sperperi il tuo patrimonio per futili capricci. Andrai in rovina amico mio, finirai per chiedere l’elemosina nei sobborghi di Londra” sogghignò. “Non farmi ridere! Lo trovo pressappoco impossibile” replicò divertito. L’eco delle loro risate si mescolò al frastuono degli altri avventori come se tutta la felicità si concentrasse in quella confusione.

Il freddo del primo pomeriggio era insopportabile, se non fosse stato per il tepore procurato dalla cioccolata calda del bar, persino le ossa si sarebbero congelate. Le strade nonostante le intemperie erano gremite di gente indaffa-

76 DIDATTICA E LABORATORI rata nelle compere natalizie. All’angolo si stagliava come un ombra tra la nebbia, un uomo disteso sulle pietre grigie della strada. Un cappello vuoto al suo fianco, aspettava il suono metallico delle monete. Era pallido e magro, vestito di stracci. Quando i due amici gli passarono di fianco, parve emettere un sussurro smorzato dal fred- do. Con un movimento rapido afferrò la caviglia di John supplicandolo con lo sguardo. “Cosa vuoi? Lasciami stare demente!” urlò John disgustato. L’uomo lasciò la presa impaurito. Le mani livide erano piene di graffi e il viso sporco di neve mista a terriccio. Allungò la mano a fatica invocando aiu- to. La gente vestita di indifferenza, passava incurante della scena. “Non ho soldi da darti! Vai a lavorare e forse ti daranno il misero salario che meriti!” imprecò John “Andiamo Julian, questo miserabile non merita nemmeno la nostra attenzione” Con fare sprezzante continuarono per la loro strada lasciando alle loro spalle la scia invisibile del fato.

Nel marzo dell’anno successivo la famiglia Landwolf, andò lentamente in rovina. Gli sperperi continui, i debiti e gli imbrogli politici fecero si che l’in- tero patrimonio andasse in fumo. Per rimediare Lord Richard cercò di ab- bassare le spese di palazzo licenziando i dipendenti. Ma non bastò a ripagare i debiti. Il salotto ormai era quasi spoglio a parte due poltrone e un mobile antico. Ludmilla entrò nella stanza trovando il suo padrone con lo sguardo perso nel vuoto. “Vado signor John” si congedò Ludmilla. “Ci rivedremo Ludmilla” sospirò il ragazzo seduto sulla poltrona. “Si risolverà presto la questione” cercò di consolarlo la donna. “Non ci credi nemmeno tu” sbottò guardandola negli occhi. La ricchezza e il prestigio della famiglia andò di giorno in giorno perdendo- si tra la nebbia della città come se non fosse mai esistita. I nobili e l’alta borghesia interruppero i contatti con i Landwolf. Quelli che erano stati loro amici ed alleati si erano allontanati in cerca di qualche altro esponente da ingraziarsi. La famiglia Kant che da anni intratteneva un profondo rapporto di amicizia con la casata Landwolf, non si fece viva da quando la notizia della loro rovina era trapelata. Si trasferirono in un sobborgo nei vicoli bui e stretti della città. Lord Ri- chard venne arrestato per aver rubato il portafogli di un ricco imprenditore

DIDATTICA E LABORATORI 77 londinese. Colto sul fatto venne immediatamente messo al fresco. Lady Margareth sua moglie, abituata ad uno stile di vita rigoroso, colse al volo l’occasione e finì per diventare l’amante dell’imprenditore che non volle saperne del ragazzo nonostante le suppliche della donna. John si riscoprì solo e sapeva che lo sarebbe stato per molto tempo.

Londra, 1857

Julian continuò a fissarlo. Sembrava quasi disprezzarlo per ciò che era di- ventato. Il ponte pareva scomparire sotto i loro sguardi e l’ascendere della luna quella sera di dicembre del 1857 posò il suo dolce saluto sui due ragazzi, un tempo amici inseparabili. In lontananza le urla isteriche della bambina si perdevano tra le voci della calca di gente indifferente. Con fare sprezzante Julian vociò frasi di scherno al compagno che si era materializzato al suo fianco. “Ecco la fine che si merita! Poveraccio” riuscì a percepire John. Si guardarono negli occhi ancora per qualche secondo finché i due decisero proseguire la loro corsa con una smorfia di disprezzo disegnata sulle labbra. John si sedette nuovamente a terra, con la schiena poggiata sulle fredde pietre del ponte. Calde lacrime gli scivolarono lungo le guance scavate dalla fame. Non ave- va perso il suo immancabile aspetto di giovane e affascinante aristocratico londinese, se non fosse per i vestiti consunti e per la perdita di peso. Improvvisamente sentì qualcosa cadergli sulle gambe. Aprì gli occhi in cer- ca della fonte finché scorse un pezzo di pane bianco sui suoi pantaloni. Un uomo vestito di stracci ed incredibilmente magro si stagliava al suo cospetto. Gli ci volle un po’ per mettere a fuoco l’immagine di quel volto nella sua memoria. Riaffiorò il ricordo di un uomo steso in un angolo spoglio della città. Ricor- dò il suono sprezzante della sua stessa voce mentre rivolgeva parole di scher- no al pover’uomo. Ricordò la cruda indifferenza che gli ristagnava il cuore, la supplica silenziosa di quegli occhi che reclamavano aiuto nel silenzio, tra l’indifferenza del mondo. Quello stesso uomo ora offriva un pezzo di pane per ingannare la fame proprio a lui. Meritava di essere disprezzato da chi un tempo gli era amico o da chiunque altro passasse lungo la sua stessa strada per ciò che un tempo

78 DIDATTICA E LABORATORI era stato. Ma non capiva il perché di tale gesto. Un giorno forse gli sarebbe stato tutto chiaro e trasparente ma quella sera si limitò soltanto a quello stato di stupore. Guardò con gratitudine l’uomo e sussurrò un “grazie”. Era quasi sul punto di piangere. Il mendicante gli sorrise benevolo e si allontanò lungo il ponte colle mani dietro la schiena rimirando a tratti il fiume dorato dagli ultimi raggi di sole. Un bambino scalzo passò a capo chino vicino ad un gruppo di uomini in- tenti a passeggiare accompagnati dai loro stupidi cani, che avevano in corpo più di quanto John potesse accumulare in una settimana. Con un fischio richiamò l’attenzione del bambino che si voltò di scatto nella sua direzione. “Vieni qui” urlò John. Il bambino sorpreso si avvicinò con passo incerto. “Tieni” disse porgendogli il pezzo di pane bianco. Gli occhi gli si illuminarono e le sue manine afferrarono avidamente il pane. “Grazie, grazie!” esclamò addentandone un po’. Qualche secondo dopo si immerse di nuovo tra la folla scomparendo ben presto alla vista. John si alzò a fatica. Sembrava quasi non aver più fame. Rivolse uno sguar- do di gratitudine alla luna, accogliendo con un sorriso la notte crescente. Fiocchi di neve iniziarono a cadere dolcemente su Londra, a far da cornice alla scena di tante vite che danzavano sul ponte quella sera. A chi si ostinava ad urlare a gran voce sciocche pretese, a chi osava cancellare schernendo chi un tempo gli era amico, a chi perdonava e non portava rancore, a chi cerca- va di espiare le proprie colpe con un semplice e meraviglioso gesto di pura nobiltà d’animo. Una nobiltà vestita di stracci con l’oro nel cuore, che riesce a placare la fame con la sazietà di un sorriso strappato alla luna di Londra.

DIDATTICA E LABORATORI 79

Samira Galietta

ALLA LUNA

Si è vero, sarà banale, buffo, incomprensibile, visto che fin da piccola ho sognato di diventare prima ballerina alla Scala, cantante professionista, pre- sidente della repubblica italiana, e addirittura principessa, ma ora crescendo ho scoperto di essere affine alle tue caratteristiche, Luna, di volerti contem- plare. Non perchè sei bella, luminosa, non da tutti raggiungibile, regina del- la notte, musa del silenzio, mistero tra i misteri. Tanto meno perchè piangi stelle, muti forme, regni in cielo, fai sognare, ma solamente per non vivere in questo dannato mondo che va a rotoli, per essere del tutto imparziale! Non stimo più questa società che non si prefigge degli obiettivi, delle mete precise, dei punti di riferimento, degli scopi, che non ha più dei valori concreti, quasi del tutto astratti, quella stessa società che assomiglia ad un gregge che vive ignorando il domani, o meglio, che pensa al futuro ma che non è in grado di vivere neanche l’oggi, il presente, l’attimo. Perchè, Luna? Perchè tu te ne stai tranquilla nel cielo rapito? Perchè la beatitudine sembra appartenerti? Perchè nonostante le tempeste che subisci torni sempre a risplendere più ap- pariscente di prima nella notte, e noi, società che se si destabilizza non riesce più a trovare la giusta strada? Perchè quest’ingiustizia, Luna? Devi sapere che gli esseri che oggiggiorno popolano la Terra sono dei semplici apparati locomotori, degli assemblaggi di cellule vive che hanno perso la propria di- gnità e vagano in sù e in giù senza costrutto. Pochi mesi or sono da quando ho iniziato a screditarmi, a perdere la mia autostima, il mio “IO POSSO” giornaliero. Sono arrivata al culmine dell’esasperazione. Ormai mi vedo come un semplice corpo che vedrà la putrefazione, come una sagoma allo specchio che non localizza e che forse ha quasi smarrito la sua anima, come una scimmia evoluta che diviene ciò che la società stessa le impone di essere, ovvero un nulla, rappresentato da un insignificante ereditario nome inciso su una carta bianca. Mia cara Luna, è questo che succede quando sei circondata

DIDATTICA E LABORATORI 83 e frequenti individui cupi, spenti, individui che hanno del tutto rimosso la capacità di intendere e di volere. Delle sagome che si muovono soltanto poi- chè è la loro quotidianetà, la loro routine giornaliera o per la loro punta di diamante: l’esibizionismo. Tutto ciò ti porta alla tua stessa autodistruzione, e che invece di aiutarti a raggiungere la soddisfazione, ti rovina il fulcro della vita. E te la chiamano vita questo specie di ciclo autoannientante, Luna? Di- cono che è un’esperienza tutta da vivere, che è unica, che è grandiosa, che è una fortuna, che è... da vivere infatti. Nessuno però capisce che è pure come il mare: può tradirti e stupirti in qualunque momento, quando meno te lo aspetti. Luna non puoi capirmi. Non puoi nemmeno esperire ad avvertire le sensazioni ed il dolore che provo enunciando e affermando i problemi della realtà d’oggi, che sarà senza dubbio sogno per me domani. Non puoi neanche lontanamente immedesimarti nella mia persona, nel dimenticare gli errori commessi da coloro che avevano il dovere di tutelarci, di farci volare in alto fino all’esaltazione. Molto vera è la tesi che afferma che: “Chi vola troppo in alto rischia di farsi male cadendo”, può essere... ma quello che si potrebbe vedere lassù varrebbe ogni dolore precipitando a terra. Purtroppo però, per la società odierna quel volo non ha mai avuto principio. Ed ora che vedo te, Luna, rabbruinirti e costellarti di nuvole intorno, chiudo la finestra e sdraiata sul caldo manto del mio letto, decido di accantonare il proseguire della vita nel reparto rassegnazione. Quella vittoria dei vinti che mi ha portata alla disperazione cronica e all’indifferenza, condizione umana principale per ri- uscire a soddisfare i bisogni del singolo. Un’ultima cosa, stasera facciamo un patto... io il tuo segreto e tu la mia confidente. Per sempre Luna, per sempre!

84 DIDATTICA E LABORATORI Arianna D’Angelo

IL FIGLIO DELLA LUNA

In una società globalizzata come la nostra, dove le notizie viaggiano in tem- po reale ed è possibile in un sol giorno raggiungere l’altro capo del Mon- do, ancora esistono preconcetti sulla disabilità che nascono soprattutto dalla mancanza d’informazioni. Molti di noi non conoscono le disabilità che ab- biamo intorno e, per tale motivo, tendono a guardare questo mondo con un certo distacco o una certa compassione, ma ancor peggio, almeno qui al Sud, e che il disabile non viene visto come una persona che può fare e sentire tutto ciò che facciamo e sentiamo noi e avere gli stessi diritti e doveri. Spesso ve- diamo, per le strade dei nostri paesi o delle città, persone di una certa età in carrozzella che non sono in grado né di parlare né di muovere correttamente gli arti superiori: i cosiddetti spastici o come li ha definiti il regista Gianfran- co Albano, nel suo celebre film ispirato alla vita di Fulvio Frisione, “Il figlio della luna”. Tale denominazione è data esclusivamente alla fantasia e imma- ginazione del regista che, probabilmente, ha voluto attribuire almeno due delle qualità della luna al disabile: il bello dell’anima che è molto più gentile della nostra, e i crateri, la continua lotta per far valere i propri diritti. Parla- vo prima delle cause che, negli anni precedenti, hanno determinato alcune disabilità e queste le possiamo riassumere in due parole: ventosa e forcipe attrezzi usati dai ginecologici per far nascere i bambini e che, come si è visto, hanno causato gravi conseguenze. I diritti, come l’integrazione scolastica o il posto di lavoro, che i disabili oggi hanno a pieno titolo, negli anni del forcipe non esistevano per cui, come si può vedere anche da molte scene del film di Gianfranco Albano, i genitori si battevano con tutti i mezzi a loro disposi- zione per far sì che i loro figli potessero avere il diritto di un’istruzione e di formarsi il proprio avvenire e ci riuscirono anche se, inizialmente, i disabili, venivano inseriti nelle cosiddette “sezioni speciali” ovvero classi composte esclusivamente da portatori di handicap. Oggi, nella nostra bella e democra-

DIDATTICA E LABORATORI 87 tica società, il disabile ha diritto a una vita dignitosa e quindi a un’istruzione e a un lavoro, a regolari visite mediche, ad ausili che rendano più comode le loro abitazioni, a strutture operative sul territorio in cui la loro personalità si può manifestare in toto. Tutti i diritti di cui godono i disabili, nei lontani anni ’50, erano le cosiddette “Colonne d’Ercole”, un limite, una sorta di barriera che i portatori di handicap non potevano valicare, infatti, era inconcepibile che persone affette da malattie cognitive (anche se lievi) e/o fisiche potesse- ro occupare un ruolo nella società o godere di “autonomia propria”. Ora, sicuramente, vi starete chiedendo come può un disabile avere una propria autonomia senza gravare troppo sui familiari? Vi sono disabili che abitano da soli o con la propria famiglia (intendo sia quella d’origine sia quella che si viene a creare nel tempo composta da marito/moglie e figli) in abitazioni con ausili tecnologici che permettono di condurre una vita normale.

“Ho capito che non potevo dipendere da altri quando una sera sono stato per due ore a guardare telenovele. Mia madre dormiva e la tv era sintonizzata su un canale che trasmetteva solo telenovele. Ora in perfetta autonomia e quando sono nella mia stanza mi sento un re. ” Stefano

Tali parole furono pronunciate da Stefano, nome fittizio, un ragazzo con disabilità acquisita costretto sulla sedia a rotelle e completamente paralizza- to, nell’ambito della visita al CAT (Centro d’Ausili Tecnologici) organizzato dall’A. I. A. S ONLUS di Bologna dove quest’anno ho svolto un tirocinio for- mativo di tre settimane con altri ragazzi dell’Istituto. Stefano, nel raccontare la sua storia, volle porre l’accento sulla sua autonomia che si era conquistato nel tempo tanto che ora viaggia, sensibilizza i bambini alla disabilità e aiuta il CAT a sperimentare i diversi ausili. Il caso di Stefano, tengo a precisare, è solo uno dei tanti presenti in Italia e nel Mondo e ognuno è importante e speciale perché ottenuto con il sudore sulla fronte.

“Io non posso parlare ma posso comunicare, non posso camminare ma posso muovermi, non posso usare le mani ma ho scritto sette libri”. Carmine

Spesso dimentichiamo che si può sopperire alla mancanza di qualcosa con qualcos’altro: ora per noi che abbiamo una lingua sciolta, senza nodi, pensare che un giorno ci potremmo svegliare e trovare quella stessa lingua talmente annodata da non riuscire nemmeno a fare plot è, quasi, una visione surreale, ma ci sono persone che di questa nostra surrealità ne hanno fatto una realtà

88 DIDATTICA E LABORATORI e si sono dovuti adoperare, in ogni modo, per snodare la propria lingua, per cercare di dire ciò che pensavano: tra di questi ci sta Carmine, giornalista e fondatore, uno dei tanti, del CDH (Centro Documentazione Handicap), che grazie ad una tavoletta in plastica, su cui sono trascritte le lettere dell’alfabeto e grazie all’aiuto dei suoi occhi e di un educatore che attentamente li segue, riesce a comunicare con chiunque egli voglia e a tenere conferenze su tutti gli aspetti della disabilità. Carmine, inoltre, anche se non può usare le mani, è riuscito a scrivere sette libri come abbia fatto, rimane un mistero anche per la sottoscritta ma dopo aver visto l’ingente numero di ausili tecnologici che esistono credo che nulla sia impossibile. Sappiamo che si può comunicare in mille modi, e durante questa esperien- za ho partecipato a un corso di comunicazione musicale in cui, a turni di due, gli utenti suonavano lo xilofono e poi riascoltavano la propria esibizione per capire se vi era stata una buona comunicazione. Non sempre, ovviamente, c’erano i risultati sperati, ma al di là di tutto, gli utenti riuscivano anche a divertirsi tramite il mezzo che noi usiamo ogni giorno: la musica.

“Uno dei miei ricordi più felici è quando mio padre mi disse che poteva mori- re perché sapeva che me la sarei cavata da solo”. Alberto

Ora ci addentriamo in un argomento un po’ difficile da trattare in poche righe: la famiglia. Esistono due tipi, catalogate in base al comportamento mantenuto verso il familiare disabile: la famiglia “chioccia”, che priva il disa- bile di qualsiasi autonomia e gli fa vivere una non-vita, e la famiglia “equili- brata”, che conscia delle difficoltà che potrà incontrare nella vita non evita di aiutare il proprio familiare a vivere una vita normale e a frequentare serena- mente e autonomamente edifici pubblici, piazze e centri. Il comportamento che solitamente scaturisce da parte di una persona portatrice di handicap dinanzi una famiglia chioccia è “vivi e lascia vivere” ma questo, solitamente, fin quando non nasce quella voglia di scoprire e di fare che porta il disabile “acchiocciato” a una ribellione tale che vede costretti i familiari ad assecon- darlo nelle sue scelte. Alberto, spastico, ha lasciato la famiglia, probabilmente chioccia, all’età di diciotto anni e ha tentato in tutti i modi di cavarsela da solo, e c’è riuscito è sposato con Anna, anche lei spastica, e vivono insieme in un condominio partecipato, un condominio privo di barriere architettoniche in cui abitano otto famiglia compresa quella del portiere sociale, il quale ha potuto accedere tramite ISEE, e non tramite la gravità dell’handicap. Alberto è riuscito, par-

DIDATTICA E LABORATORI 89 tendo da una famiglia, forse chioccia, a crearsi un nucleo familiare proprio e ad acquisire l’autonomia cui tutti ambiscono e nonostante il suo handicap non si è fatto mancare nulla dalla vita. Ed eccomi giunta alla fine di quest’articolo, le cose da scrivere, da dire e da testimoniare sarebbero ancora molte ma non basterebbero le pagine di questo giornale per raccontarle tutte per cui mi fermo qui con la speranze che queste mie parole abbiano incuriosito i lettori sul grande mondo della disabilità che non si ferma ai corridoi scolastici ma che va ben oltre ciò che noi possiamo pensare. Benedetta D’Ambrosio

Ho creduto in un sogno

Ho un sogno. Un sogno che agli occhi di tutti può sembrare banale, senza alcun significato; ma per me questo sogno, invece, significa molto, tanto da met- termi contro la volontà di mio padre, nonostante il mio stretto rapporto con lui. Mi chiamo Landon Parker e questa è la mia storia. Era l’estate dei miei diciotto anni quando la mia vita diede una svolta, il mio sogno si stava per avverare. Era un sogno opaco per gli altri ma con gran significato per me. Fin dall’età di tre anni sognavo di andare sulla Luna proprio come il grande Neil Armstrong che il ventuno Luglio del 1969 posò i suoi piedi su quell’enorme satellite naturale della Terra. Immaginavo la Luna come luogo di salvezza ed ero sicuro che era così, quell’enorme cerchio, già all’età di tre anni mi dava protezione e volontà di credere in qualcosa. Cre- scendo incominciai a creare delle piccole astronauti in legno; ovviamente quelle banali costruzioni non servivano a niente. Così all’età di quindici anni decisi di iscrivermi alla scuola di astronautica, un sogno si stava spalancando a me. Ma come tutti i sogni il mio era destinato ad infrangersi contro la realtà. Mi fu proibito da mio padre di andare in quella scuola, “Non è per te caro Landon” mi diceva “Tu sei portato per le materie letterarie. ” Ma non era così. Io volevo fare l’astronauta; volevo andare sulla Luna. Andai così in un college di lettere. Finiti gli studi del college decisi di non continuare non aveva significato scegliere una facoltà e non sentirsi portato per quell’abilità. Ogni sera rimanevo ore ed ore a fissarla e promettevo a me stesso che un giorno potevo dire di avercela fatta. E fu così. Mi chiamo Landon Parker e nel 1989, a distanza di venti anni, ho messo piede per la prima volta su quell’enorme satellite che noi chiamiamo Luna.

“I sogni sono come le stelle basta alzare gli occhi e sono sempre là. ” Jim Morrison.

DIDATTICA E LABORATORI 93

Gabriella Giordano

Il sentiero della luna

Verso le tre della notte Silvia si svegliò di botto e, senza far rumore, corse in cucina a guardare dalla finestra: era tutto magnifico fuori. Aprì la finestra per far entrare l’aria fresca della notte e per ammirare la luna: quella notte le sembrava più bella del solito. Discreta e silenziosa essa rischiarava tutto il bosco: gli alberi erano incantevoli ed i fiori brillavano. I lunghi capelli di Silvia erano di un intenso ebano e le riscaldavano la nuca. Silvia sospirò e per l’ennesima volta si chiese perché si sentisse attratta dalla notte; da tredici anni, infatti, ogni notte si svegliava all’improvviso col desiderio di percorrere il sentiero che portava in cima alla montagna, dove vedeva spuntare la luna, quasi volesse toccarla…; si riscosse dai suoi pensieri e chiuse la finestra. Pro- prio in quel momento un ululato la fece sussultare e corse al balcone della sua stanza per capire da dove provenisse quel suono. Fu proprio lì che Silvia vide la lupa apparire sulla vetta della montagna e ululare alla luna: era una scena incantevole! Sembrava che la lupa parlasse alla luna chiedendole qualcosa, un consiglio, un aiuto. La ragazzina non seppe resistere a quel richiamo e volle avventurarsi in montagna. Sempre silenziosamente prese una torcia ed uscì. Il sentiero era buio e tutt’intorno faceva una gran paura oltre al gran freddo, ma Silvia era spinta dal desiderio di incontrare il bellissimo animale di cui aveva sempre sentito parlare. Ad un tratto la luna comparve in tutta la sua pienezza, illuminandole il sentiero, come per indicarle la strada. Silvia si accorse di essersi avvicinata a una specie di nascondiglio: capì subito che era la tana della lupa e questo significava che l’animale non era così lontano. Vo- leva quasi tornare indietro, ma i piedi nudi e infreddoliti e il sonno rubato la costrinsero a stendersi nella grande tana. La lupa, intanto, si era incamminata verso la sua tana e, giunta lì, fiutò una presenza umana. Ormai sulla soglia del suo rifugio uno spettacolo apparve ai suoi occhi: una bambina dalla pelle bianca, le labbra rosse, i lunghi capelli color ebano, con

DIDATTICA E LABORATORI 97 solo una vestaglia fino alle caviglie e lo sguardo sognante. I suoi occhi feroci di lupa videro un angelo innocente stanco ed infreddolito. Si accucciò accan- to a lei per proteggerla dal freddo e con una leccata materna sulla guancia si addormentò anch’essa. Ci sono incontri misteriosi che uniscono esseri diversi: è il potere dell’amo- re. La luna li guardò e sorrise…

98 DIDATTICA E LABORATORI Mariagabriella Leo

Fuga con la Luna

Nadia, Pakistan, 14 anni

Ecco qua. Lo zaino è pronto. Dallo spezzone del velluto nero chiamato cielo visibile dal buco nella stoffa della mia tenda mi accorgo che è già notte fonda. Saranno all’incirca le tre. Se faccio piano non mi vedranno. Lo so, è una follia, ho un marito, dieci fratelli, mi sono trasferita in quest’oasi poco tempo fa con il mio villaggio. Ma lo sto facendo. Sto scappando di casa. Se si può chiamare casa, la mia. Fuori soffia un vento gelido, tipico delle notti nel deserto, e la luna è grande e bianca. Non capita spesso, un plenilunio così bello. Sai notte, vorrei che la Luna potesse piangere con me, adesso. Che potesse condividere con me fino all’ultimo ricordo. Perché, mentre cammi- no nella sabbia e quelle prigioni di cristallo chiamate lacrime mi scendono rapidamente dagli occhi neri come stanotte, ripenso a tutte le volte che ho desiderato questo momento. E a tutte le volte che me ne sono pentita. Non ho portato nulla con me. Solo il rimpianto per quello che lascio e la curiosità per quello che trovo. E il pallido e luminoso viso della Luna. Sono sicura che quella pioggia di stelle sia il suo pianto luminoso, la sua scia celeste di ricordi. Che anche lei sia in viaggio come me, tra i sentieri della notte e i bivi offerti dal vento della vita, che a volte è brezza e a volte tempesta. Per noi due, Luna, stanotte soffia solo tramontana.

Jamie, U. S. A., 15 anni

Dannata frizione. Che senso ha, dico io, fare dei comandi così complicati se poi neanche ti danno le istruzioni? Ok, Jamie, sei tu che non sai guidare. E con questo? Uno che scappa di casa a notte fonda e sfreccia sulle strade di Los Angeles con l’auto di suo padre in modalità city non si preoccupa mica di aver preso la patente. Stanotte fa caldissimo, qui. Persino le palme si

DIDATTICA E LABORATORI 101 ribellano, e anche il mare, tutto è fermo. E dai, Luna, non mi guardare così. Ci mancava solo che la Luna, stasera, avesse la faccia di mia madre quando torno a casa troppo tardi la sera. Non so dire il perché, ma è come se stasera la luna mi stesse dicendo che sono un immorale, che il biglietto con scritto “NON torno subito” che ho lasciato sul frigorifero ai miei è una cosa da per- fetti idioti. Che scappare da una famiglia che ti vuole bene e ti permette di studiare e avere degli amici è da perfetti idioti. Ma vedi, Luna, mi meraviglio che anche tu, da lassù, con quella vista, abbia pensato la stessa cosa che pen- sano tutti. Ma, due giorni or sono, io li ho visti quei piatti, lo sai? Il servizio buono di porcellana che andava in frantumi. I miei, Luna, stavano litigando. Per la prima volta da quando è nata mia sorella Daisy. E perciò me ne vado, Luna. Perché se fossi restato avrei assistito a una realtà che non mi sarebbe più appartenuta, chissà che fine avrebbero fatto tutte le parole e tutte le pro- messe. Perché sono inutili le parole, lo sai, Luna? Le canzoni sono insiemi di parole, e le canzoni sono un inutile svago. Quindi le parole sono un inutile svago. Il passatempo del cuore che si arrugginisce e per funzionare deve pas- sare per il cervello, obbligatoriamente. Lo svago di chi non ha più nulla da fare e da dire, ha esaurito le risate ma ha esaurito anche le lacrime. Lo sapevi, vero, Luna? Ma sì, che lo sapevi. Dannata frizione. Com’è difficile guidare, con gli occhi bagnati. Di lacrime, Luna. Di lacrime.

Harumi, Giappone, 14 anni

Mi sembra ancora di vederla, quella faccia d’angelo. Capelli rossi, occhi scuri, naso piccolo, gonne svolazzanti. Eccola qua, l’angioletta dell’ipocrisia. Da quando è arrivata lei ho perso tutte le mie migliori amiche, il mio primo amore, e ho imparato cos’è l’ipocrisia. È come le tarme; si trova dappertut- to e dentro tutti: e non c’è naftalina che possa fermarla. È come il tumore; sceglie le vittime e ne infetta l’anima espandendosi di parte in parte di essa, di sentimento in sentimento, di emozione in emozione, di sorriso in lacrima: ma non c’è chemio per curarla. È come la mafia; fa paura, ma è un invito per l’illusione che crea, un’illusione di potere infinito, senza comportare danni: ma non c’è squadra armata per arrestare la sua espansione. Mi ha rovinato la vita, questa ipocrisia. Perciò sto scappando. Ma scappo per modo di dire, chi scappa ha un posto dove andare, lontano, lontanissimo. Io no. L’ipocrisia è dovunque, è un germe che ha causato un’epidemia ormai diffusa in tutto il mondo. Ma, armata solo del mio vestito preferito con il collo di merletto

102 DIDATTICA E LABORATORI da inondare di lacrime e delle mie converse rosa da riempire di passi, vorrei poter scappare sulla Luna; volare via in un soffio. Lì dove non importerà a nessuno se non voglio fumare, se non ho i capelli rossi, gli occhi scuri, il naso piccolo o le gonne di merletto. Lì dove non ci saranno ragazzi da cui separarsi e amiche da cui essere tradite. Lì dove non ci sarà puzza di fumo, di immondizia e di quartieri troppo affollati. Lì dove finalmente sarò libera. Di camminare sulla Luna. E invece sono su un muretto. Libera solo di guar- darla, la Luna.

Juan, Spagna, 16 anni

Ce la posso fare. Lo dicono le statistiche, che ce la posso fare. E se lo dicono le statistiche, allora deve essere vero. Che sciocco. Finirò per dimenticarmi che le statistiche sono il motivo per cui sto scappando. Ero un hacker. Di quelli bravissimi, anche. Rubavo nelle migliori banche. Fino a che un colpo è andato storto. Mi hanno individuato, e la mia vita è cambiata: sono dovuto scappare da casa, e ora i miei compagni di rapine, che sono nei guai, lo am- metto, per colpa mia, mi stanno inseguendo. Scusate un attimo, ho trovato una cosa. Una scala. E porta su un tetto. Ok. Quando si dice “un colpo di fortuna”. Da qui si vede tutto. Che bella Luna, stasera. Dimmi, Luna, cosa staranno facendo i miei? Siamo nella stessa città, ma così lontani. Da quan- do sono scappato, hanno annunciato la mia scomparsa. Sono persino stato analizzato come caso dell’anno in un programma televisivo. Certo, non era così che volevo andare in TV. Forse staranno guardando la TV come sempre, con le gemelle. Marìa sarà appollaiata addosso a papà e Delisia starà finen- do il nono pacco di biscotti. O forse no. Dio, come mi mancano. E dimmi, Luna, tu mi perdoneresti? Hai ragione, nessuno può farlo, se non lo faccio io. E dimmi, al mio posto ti arrampicheresti su questo tetto? O smetteresti di scappare e andresti incontro al tuo giusto destino? Sai che faccio, Luna? Mi perdono, Luna. Mi perdono. E aiutami: non ricordo dove ho messo le chiavi di casa.

DIDATTICA E LABORATORI 103

Fabiana M. Cammarano, Margherita Farnetano, Ludovica Giordano

Lunatiche… menti

La Luna, che da sempre si staglia tra le miriadi di stelle nel cielo notturno, allo stesso modo si è posta al centro delle menti di poeti, pensatori, scrittori, musicisti… A partire dalla Genesi fino ad arrivare a D’Annunzio e Pavese, ha coinvolto grandi nomi della letteratura italiana come Dante Alighieri, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi e straniera come il francese Jules Verne, Wolfgang Goethe, Paul Verlaine, Rainer Maria Rilke catturando l’at- tenzione di scienziati da Galileo Galilei ad astronauti quali Neil Armstrong, Samantha Cristoforetti e di tanti altri semplici curiosi, ma anche di musicisti del calibro di Puccini, Bellini, Beethoven e Debussy. Ma la Luna ha ispirato anche autori della cultura classica come Omero, Saffo e Luciano di Samosata. Sebbene la Luna sia uno degli elementi più venerati della mitologia greca, al punto che il suo culto pare sia nato prima ancora di quello di Hèlios, non compare nella mitologia greca più arcaica, ma soltanto più tardi, personifi- cata in tre divinità benigne che simboleggiano il divenire ciclico della vita in quanto vengono identificate con le fasi del satellite (Luna crescente = nascita; Luna calante = morte; Luna piena = vita). Apollodoro tratta della nascita della Luna nella sua “Biblioteca”. Bisognerà arrivare a Esiodo per poterne conoscere la genealogia e conferirle il prestigioso attributo di “dea” e l’epiteto “splendente – lampràn te Selène” che le attribuisce il poeta di Ascra e che sarà poi ripreso nelle sue diverse declinazioni nel corso del tempo. Tuttavia, nei poemi omerici – in quanto antecedenti a Esiodo - non viene espressa la natura divina della Luna a cui è dedicata una suggestiva descrizio- ne nel VIII libro dell’Iliade ai versi 761/780:

DIDATTICA E LABORATORI 107 “Siccome quando in ciel tersa è la luna, e tremole e vezzose a lei d’intorno sfavillano le stelle, allor che l’aria è senza vento, ed allo sguardo tutte si scuoprono le torri e le foreste e le cime de’ monti; immenso e puro l’etra si spande, gli astri tutto il volto rivelano ridenti, e in cor ne gode l’attonito pastor; tali al vederli e altrettanti apparìan de’ Teucri i fuochi tra le navi e del Xanto le correnti sotto il muro di Troia. Erano mille che di gran fiamma interrompeano il campo, e cinquanta guerrieri a ciascheduno sedeansi al lume delle vampe ardenti. Presso i carri frattanto orzo ed avena i cavalli pascevano, aspettando che dal bel trono suo l’Alba sorgesse. ”

La Luna, o meglio Selene, illumina l’aretè dei guerrieri facendo luce sul campo insanguinato dove gli eroi vincono, perdono, vivono momenti di gloria e di paura dando continua prova del loro valore. Così alla lucentezza e alla luminosità si contrappone l’oscura brutalità della guerra, dell’uomo che cerca di prevaricare sull’altro in un’eterna lotta che viene svelata da una “si- lenzïosa Luna”. Secondo Pietro Citati la similitudine omerica in cui, i fuochi accesi dei Troiani nella notte vengono paragonati alle stelle che splendono in cielo nella luce lunare, colpisce Leopardi undicenne e lo ispira per tutta la vita. Gabriella Mongardi in un suo studio “Leopardi, Omero e la luna” so- stiene che solo ad un artista-gigante, quale fu Omero, poteva venire in mente di paragonare un accampamento di soldati al cielo notturno, per mettere in evidenza con un’iperbole il numero dei soldati (tanti quanti sono le stelle in cielo) e nel tessere questo paragone realizzare un’immagine mozzafiato, per la sua bellezza “le stelle sono fuochi che brillano intorno alla luna”.

La stessa idea di luminosità e leggiadria la ritroviamo anche in diversi fram- menti della poetessa Saffo.

Nel frammento IV, “Plenilunio” leggiamo:

108 DIDATTICA E LABORATORI “Gli astri d’intorno alla leggiadra luna Nascondono l’immagine lucente quando piena più risplende, bianca sopra la terra

La poetessa di Lesbo si ricollega al tema della lucentezza non solo, esplici- tamente, con termini legati allo stesso campo semantico (lucente, risplende, bianca), ma anche attraverso l’uso di consonanti liquide. E così una Selene delicata e “leggiadra” con fattezze prettamente femminili diventa attrice principale in uno scenario di astri, occupando una posizione dominante e centrale nel componimento stesso. Se Omero e Saffo si sono limitati ad osservare la Luna dalla Terra, Luciano di Samosata l’ha descritta più da vicino. Infatti, è stato il primo a immaginare un vero e proprio viaggio sul nostro satellite, spianando la strada a scrittori come Jules Verne e alla scienza stessa. La Luna di Luciano ha caratteristiche simili alla Terra: è abitata (dai Gipip- pi), coltivata e governata dal re Endimione (che per di più è greco!). Seppur discostandosi dagli autori precedentemente citati, Luciano mantiene delle caratteristiche base come la luminosità, la forma sferica e le dimensioni simili a quelle terrestri. E chissà se Luciano una volta approdato su Selene non abbia esclamato: “That’s one small step for [a] man, one giant leap for mankind”/“Questo è un piccolo passo per l’uomo, un gigantesco balzo per l’umanità”. Perchè l’idea di un viaggio sulla Luna non ha stuzzicato solo la fantasia di tanti scrittori ma, insieme alla voglia di conoscere e di ampliare i propri orizzonti, si è insinuata sempre più insistentemente nelle menti degli uomini finché non è diventata un vero e proprio obiettivo, un sogno che l’astronauta Neil Armstrong ha realizzato il 21 luglio 1969. Era un sogno e come tutti i sogni doveva diventare realtà perché questo è il loro destino naturale.

DIDATTICA E LABORATORI 109

Nicola Sagaria

Leggiadra luna

Ἄστερες μὲν ἀμφὶ κάλαν σελάνναν Le stelle alla leggiadra luna intorno ἂψ ἀπυκρύπτοισι φάεννον εἶδος, nascondono l’immago che riluce ὄπποτα πλήθοισα μάλιστα λάμπῃ allorché tonda più che sol di giorno γᾶν ‹ἐπὶ παῖσαν›. in terra luce. Σαπφώ Saffo

[traduzione in metrica di Nicola Sagaria]

Ecco alcuni dei versi più antichi dedicati alla Luna, risalenti addirittura al VII secolo a.C. Da sempre Selene ha accompagnato la vita degli uomini, senza sosta, inin- terrottamente: ha brillato nel cielo durante i periodi di guerra, ha allietato le notti di festa, ha illuminato il sentiero sconosciuto ed impervio all’esule, ha riaccompagnato giovani lieti nel cuore delle notte alle mura paterne, ha ispirato con la sua sola presenza migliaia di poeti, pensatori, cantori, pittori e artisti di ogni genere… eppure… eppure il suo viaggio è appena iniziato! Chiunque si senta solo, chiunque senta il bisogno di confidarsi con qual- cuno, chiunque cerchi incessantemente una compagnia… la Luna, occhio notturno del celeste manto, sarà sempre disposta ad ascoltarci, a seguirci, ad essere nostra amica, nostra amante… Ci sarà, sempre, per ciascuno, la Luna, sia costui un Leopardi o una Saffo, un suonatore di paese o una star dello spettacolo, un personaggio famoso o “uno” ignoto a fama e fortuna, come me. Ci sarà, anche per me, sempre, la Luna… drizzando al dolce ciel il triste volto.

Sonetto di endecasillabi con schema rimico AXAB BYBA CXD DYC composto nell’agosto del 2014

La straordinaria lucentezza dei raggi lunari, che offuscano le stelle, offre al poeta lo spunto per celebrare la donna amata. Lo schema rimico utilizzato è innovativo, ma il componimento può essere considerato, per struttura e metrica, un normalissimo sonetto.

DIDATTICA E LABORATORI 113 Drizzando al dolce ciel il triste volto

Drizzando al dolce ciel il triste volto, mie luminose stelle, io non vi scorgo. La Luna invece ride, splende molto: la notte in dì coi dolci rai trasforma.

Sì tanto son diverse dalla norma queste sere d’estate, così tanto che il lume cela degli astri la torma, onde minor spettacolo m’è tolto.

Dorme la Terra… pure Ipno sonnecchia… E io, solo, nella notte chiara, porgo mente a colei che tutto m’incatena coi suoi bei lacci; e più il mio cuor si pena. Ché gli rimembri, o Luna, quell’ incanto che non sol per beltà ̌in te si specchia.

114 DIDATTICA E LABORATORI Simona Lanzara

Il tema della luna nella poesia di Gabriele D’Annunzio e di Alda Merini

O falce di luna calante che brilli su l’acque deserte, o falce d’argento, qual mèsse di sogni ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

Aneliti brevi di foglie, sospiri di fiori dal bosco esalano al mare: non canto non grido non suono pe ’l vasto silenzïo va.

Oppresso d’amor, di piacere, il popol de’ vivi s’addorme... O falce calante, qual mèsse di sogni ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

Gabriele D’Annunzio

La luna, nell’antica Grecia, era associata ad una divinità e, come tale, ve- nerata. Fin dagli esordi della poesia la luna è stata l’interlocutrice prediletta degli animi più sensibili. La poetessa Saffo nella famosa Tramontata è la luna fu una delle prime a narrare la sua magia e il suo fascino associandola, ma- linconicamente, alla giovineza che fugge e, dopo di lei, numerosi altri autori ne hanno illustrato la bellezza e la suggestione. Durante il Medioevo Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, sottintende alla luna e alla sua deli- cata e rassicurante luce quando cita le stelle alla fine di ogni cantica, poiché esse con la loro luminosa chiarezza sono la naturale e ovvia meta dell’uomo e della sua voglia di conoscenza, infatti si stagliano dinanzi a lui come una meravigliosa e luminosa visione. Nell’Ottocento romantico, Ugo Foscolo nel sonetto Alla sera allude alla luna e ne fa la metafora della fine della vita, ma ciò non costituisce una riflessione infelice o mesta, bensì una pace da sempre desiderata che colma l’animo inquieto del poeta. Il Novecento conosce una delle liriche più intense ove la luna è tematica carissima al poeta: Gabriele D’Annunzio in O falce di luna calante, conte- nuta nella raccolta Canto novo, descrive la serenità della notte ove il mare, illuminato dalla luna, accompagna il sonno di tutti gli esseri viventi che ripo- sano dolcemente abbandonati in un incantato silenzio. Quest’ultimo è rotto dall’improvviso e fugace fruscio delle foglie degli alberi che, assomigliando ad un fragile e delicato sospiro, anima dolcemente la quiete profonda del

DIDATTICA E LABORATORI 117 paesaggio. Con questa immagine D’Annunzio fonde lo scenario naturale e l’elmento umano, e in questa assoluta tranquillità la gentile luce lunare appa- re come d’argento, preziosa e unica, capace di trasfigurare il reale e renderlo una percezione immobile e sognante. Nell’ambito della poesia contemporanea, nella quale la tematica della luna resta toccante e commovente anche perché legata all’amore, emerge la lirica Canto alla luna di Alda Merini contenuta nella raccolta Vuoto d’amore del 1991 e ispirata anch’essa ad un paesaggio dominato dalla luce soffusa dell’astro not- turno. L’autrice presenta un tono autobiografico nei versi del componimento e questo accresce l’intensità del pathos quando ella, pur affermando di essere “nata zingara”, cioè di non avere un posto stabile e saldo nel mondo, confessa che si fermerebbe alla luce della luna per dare un bacio al suo unico amore. Col suo fascino immortale la luna suggerisce all’essere umano di sostare, di arrestare il cammino per dedicare importanza e valore al sentimento, alla tene- rezza, al cuore, l’unica vera ragione della nostra esistenza, che, nei versi dolci e indimenticabili della Merini, appare più forte di ogni destino.

La luna geme sui fondali del mare, o Dio quanta morta paura di queste siepi terrene, o quanti sguardi attoniti che salgono dal buio a ghermirti nell’anima ferita.

La luna grava su tutto il nostro io e anche quando sei prossima alla fine senti odore di luna sempre sui cespugli martoriati dai mantici dalle parodie del destino.

Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo, ma forse al chiaro di luna mi fermerò il tuo momento, quanto basti per darti un unico bacio d’amore.

Alda Merini

118 DIDATTICA E LABORATORI Pietro Merola

Considerazioni emozionali sul tema della luna in Chopin e Debussy

La tematica del chiaro di luna, del mistero e della notte è stata indagata da nu- merosi musicisti, basti pensare al celebre Adagio al Chiaro di Luna di Ludwig van Beethoven o al Notturno di Igor Stravinsky, ma probabilmente i brani più famosi sono quelli composti da Fryderyk Chopin e Claude Debussy. Tra tutte le arti amo profondamente la musica, forse perché ha il pregio di essere un linguaggio universale, perché con essa la comunicazione delle emozioni è immediata e diretta. Dopo un ripetuto e attento ascolto di Cho- pin e Debussy mi sono interrogato sui cambiamenti che le note avevano dato nella percezione di ciò che mi stava intorno, dei ricordi che affioravano, delle immagini che evocavano scoprendo sogni e memorie personali come se fosse la prima volta. Dapprima Chopin col suo Notturno (op. 9 n. 2) mi ha gradualmente con- dotto verso un primo livello d’indagine, lieve, sensoriale, appena suggerita che mi ha aperto la strada all’aspetto emotivo di questa conoscenza: ed ecco farsi avanti la piacevolezza del tema principale del brano che infonde im- mediatamente un’intima tenerezza. Questo primo gradino mi ha portato ad associare, paradossalmente, la dolcezza del passaggio musicale ad una rifles- sione sulla condizione umana nei suoi momenti più difficili, ossia di prova, nella quale non bisogna arrendersi ma dimostrare forza e risolutezza: l’in- tensità dell’incipit suggeriva, quindi, di vivere sempre e comunque con pas- sione. Pian piano dinanzi a me si svolgevano, poi, piacevoli immagini legate ad interminabili passeggiate all’aperto in ampi spazi verdi dominati da una leggera brezza accanto agli affetti più cari, sempre presenti, sempre parteci- pi. All’improvviso, un’insolita insicurezza e una dolce nostalgia, a tratti così intensa da muovere al pianto, si è insinuata sottile ed ostinata, per la fine di quella giornata spesa felicemente su un prato, con una compagnia tanto desiderata, in luoghi così voluti e cercati. Un po’ di paura e una strana inquie-

DIDATTICA E LABORATORI 121 tudine ha preso il posto nel mio cuore verso la fine del Notturno di Chopin perché, in fondo, nessuno si rassegna ed accetta che qualcosa di bello possa davvero terminare. L’indagine emozionale del Chiaro di luna (Clair de lune) di Claude Debussy ha anch’essa riservato delle sorprese poiché, rispetto a Chopin, ho ravvisato sensazioni completamente contrapposte a quelle suscitate da quest’ultimo. Debussy ha dato questo titolo al suo componimento ispirandosi ad una li- rica di Paul Verlaine, poesia e musica s’incontrano per dare vita a qualco- sa di immortale. Il percorso emozionale suggeritomi dalle note di Chiaro di luna, però, mi ha trasportato in una notte dominata da una malinconia lega- ta all’ambientazione: l’oscurità non era più ispirazione di vita ma di dolore. Ecco, dunque, i vari volti della luna e della notte: a volte culla di tenerezza e di pensieri felici, altre momento cupo, fin troppo solitario che sembra spe- gnere ogni letizia, ma sempre compagna prediletta dei momenti più intensi di riflessione di ognuno.

122 DIDATTICA E LABORATORI Gabriella Di Lorenzo

Ad ogni sorgere della luna…

Credo sia più facile pensare di impugnare una penna e scrivere qualun- que cosa, che poi farlo realmente. Ma cercherò di raccontarvi la storia di una ragazza che iniziava a vivere ogni volta che la luna colorava il buio del cielo notturno. Era una tradizione oramai, aveva bisogno di un modo per dire tutto ciò che difficilmente esprimeva a parole e non so se l’atmosfera notturna le portasse ispirazione o se semplicemente guardare il cielo e vedere che in mezzo a mi- liardi di stelle era solo la luna a fare da padrona, la faceva sentire un po’ più viva… più viva del solito. Allora iniziava così, non sempre, ma molto spesso, lei iniziava a puntare la penna sul foglio e tutto all’improvviso sembrava più facile, quasi migliore. Aveva imparato che tra miliardi di parole una sola era quella giusta che avreb- be dato un senso a tutto, così come le stelle si perdono nella loro immensità e quasi nessuno più ne parla, nessuno più le ammira. Evidentemente bisognava essere più riflessivi del solito per cogliere ciò che quella ragazza voleva trasmettere a chi ascoltava o leggeva le sue parole, ma infondo non è certo una passeggiata raggiungere la luna! Aveva bisogno proprio di questo, aveva bisogno di qualcuno che impie- gasse se stesso per arrivare a capirla, capire ciò che scriveva, ciò che provava mentre scriveva. Come fate voi a descrivere un’emozione? Con quali parole, con quante parole? Esiste un’unità di misura in grado di stabilire quanto grande possa essere un’emozione? Quella ragazza, non so come, era in grado di dare un senso a ciò che prova- va in base a ciò che scriveva. Non so bene quando sia iniziata questa storia, ma so per certo che non avrà mai una fine… Proprio come il giorno e la notte si susseguono così la storia

DIDATTICA E LABORATORI 125 di quella ragazza ricominciava ogni volta che quel satellite naturale, più co- munemente chiamato “luna” tinge il cielo con il suo bianco puro.

126 DIDATTICA E LABORATORI Sabrina Del Gaudio

IL CONFORTO GUARDANDO ELLA

Di giorno, la nostra vita, il nostro mondo ci sembra bello, candido, amorevole almeno pensiamo ciò in base a quello che possiamo vedere; perché, in realtà noi non abbiamo mai visto oltre. Vediamo alberi, colline, fiumi, vediamo una parte del mondo, del nostro mondo . Vediamo il limite, il finito. Ma in realtà dietro tutto ciò, c’è qualcosa di inimmaginabile, immenso, che prosegue e va e va… Ad un tratto chiudiamo gli occhi, vedendo scendere in noi tutti i ricordi più rari, il passato :che non ritornerà. Mentre cominciamo ad affliggerci scende la sera e con essa anche, la LUNA. Cosi prendiamo una sedia, ci sediamo apriamo gli occhi e… cominciamo ad osservarla a guardarla, piangendo con essa nostro conforto. Quella luna, ci appare come noi stessi. Si… Proprio cosi, la luna e noi unica cosa. Ci appare simile o meglio come noi vogliamo che appaia. Lei un giorno felice, piena di desiderio ci illumina e ci sorride, e comincia a vagar nel ciel e a spostarsi. E noi con essa a vagar in noi stessi. Per trovar poi un momento di stabilità, pace e quando lo troviamo ci sentia- mo pronti per alzarci e lasciar quella sedia, chiudendo la porta e… dicen- do ciao, ad essa, alla nostra amica.

DIDATTICA E LABORATORI 129 Dirigendoci poi verso la nostra solita vita. E lei, che non è altro la figura allo specchio del nostro io, rimane li intenta a darci un consiglio, pronta a guidarci nel momento del bisogno.

130 DIDATTICA E LABORATORI Wiktoria Rutyna

Luna... Dialogo di una ragazza e la Luna

“Luna tu parli solamente con colui che è innamorato e chissà quante perso- ne ti hanno già dedicato un’opera; io non sono come tutti gli altri, per te ho progetti più importanti, o Luna”. Sei l’unico corpo celeste che gira intorno alla Terra . Se tu fossi molto lontano dal Sole saresti un globo freddo e scuro , invece brilli e illumini la Terra mostrando sempre , come una donna cura- ta , la tua parte migliore . Quando ti guardo in fondo ad un lago o al mare sembri un ciondolo argentato. Sei l’unico satellite naturale della Terra, e pur avendo un diametro di 3473,26 km hai tre tipi di movimenti: un giro di ri- voluzione intorno alla Terra (che vista da te sembra una pozzanghera),uno di rotazione intorno al tuo asse e un altro intorno al Sole. Rivolgi a noi sempre la medesima faccia, stai sempre sola e diffidente come una persona altera... forse non vuoi amici, né cerchi amore! La tua velocità Luna e di circa 100 km al secondo; ma non sei stanca di girare? Dalla Terra sembra che tu cambi forma ogni notte e forse lo fai per non annoiarci,quando stanchi dopo un giorno senza storia,vogliamo darcene una. I tuoi mutamenti, che avvengono in forme apparenti, sono causati dalle varie posizioni che tu assumi durante il giro di rivoluzione intorno alla Terra. Questo è ciò che conosco e desidero esprimere sulla Luna. La Luna, però, nella letteratura e nell’arte ha assunto diverse posizioni. Nel mito di “Ero e Leandro” la Luna era una compagna servizievole che era di compagnia a Leandro quando attraversava a nuoto il mare,per raggiungere la sua amata Ero. La Luna è stata anche molto amata dai poeti come Giacomo Leopardi, che scrisse un canto: Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

“Che fai tu, luna in ciel? dimmi, che fai, silenziosa Luna? Sorgi la sera, e vai,

DIDATTICA E LABORATORI 133 contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga, di minar queste valli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore”.

Leopardi scrisse anche un’operetta morale: Dialogo della Terra e della Luna, un dialogo che ha come interlocutori la Terra piena di pregiudizi e false cre- denze degli umani e la Luna, indifferente, inconscia quasi medesima di sé. Nelle fiabe invece la Luna è una figura buona, animata o inanimata; nella fiaba di “Alice nel paese delle meraviglie” il gatto magico scompariva lascian- do di sé solo il sorriso che poi si trasformava nella Luna. La Luna compare anche nelle leggende. Secondo la leggenda islamica quando l’arca di Noè fu invasa dai topi, Noè accompagnato dalla Luna chiesa aiuto alla regina dei animali che diede loro due gatti chiamati rispettivamente Sole e Luna. Ho trovato anche molti detti popolari che riguardano il nostro satellite: “I cani abbaiano alla Luna”, “Cercare la Luna nel pozzo”, “Gli arcadi sono più an- tichi della Luna”,”Le donne della Luna sono ovipare”, “La Luna è di cacio fresco”, oppure, “La Luna è trafora”. La Luna va usata anche nella musica “I Gorillaz” nella canzone “Every planet we reach is death” scappano sulla Luna per guadagnare la libertà. Anche nell’occulto, la Luna ha un compito importante , infatti nelle carte dei tarocchi uno degli arcani maggior è “La Luna nera”. La Luna affascina gli uomini da sempre e lo fa ancora, poco tempo fa l’a- stronauta Samantha Cristoforetti ha esaudito il suo sogno di andare nello spazio; in un intervista rilasciata alla Mediaset ha dichiarato: “Ho realizzato il mio obiettivo di sempre ovvero vedere La Luna da più vicino che si può ed è ciò che desidero adesso per tutti che hanno dei sogni, come me”.

134 DIDATTICA E LABORATORI APPENDICE

Carlo Di Legge

Una giornata al Santuario La madonna nera del Monte sacro

Domenica scorsa, 6 luglio 2014, ero stato invitato da Vincenzo Guarracino al Monte Sacro, sopra Novi Velia nel Cilento, al celebre Santuario della Ma- donna Nera. Credevo fosse l’unica ma mi dice Francesco Lazzari (Filosofia delle Religioni a Napoli, Università di Napoli “L’Orientale”) che ce n’è anche altre (poche) nella parte occidentale dell’Europa, tra cui quella celebre di Montserrat. Le altre, ovviamente, si trovano all’Est. A sua volta, Guarracino, invitato da don Carmine Troccoli, il sacerdote che da quarant’anni si occupa del complesso dei fabbricati e della chiesa, organizza tre domeniche con storici della cultura e del culto mariano – con- siderato in epoche diverse – e con letture di poeti, alcuni invitati da lui e altri resisi disponibili, sempre sull’argomento di Maria. E questa domenica è toccato a me. Come non mi aspettavo l’invito, così non mi aspettavo quasi nulla di quel che ho visto e sentito. Ci accoglieva al Santuario lui, don Carmine: sembra una persona concreta, dedita all’organizzazione e al culto, ma anche un uomo dolce e calmo, senza impazienze, nonostante il gran movimento che gestisce. Colpiscono in lui anche la gran compostezza dei comportamenti, la dignità e persino una certa eleganza, nel clergyman – il rigoroso completo grigio scuro, un po’ spiegaz- zato forse, ma ben messo, del tutto adeguato addosso a un prete da trincea e da battaglia e non certo da salotto. Si tratta, dapprima, di assistere alla Messa. Scopro la vera dimensione reli- giosa del complesso, meta di numerosi fedeli e di turisti, provenienti questa domenica soprattutto da Tricarico, con il rispettivo parroco. La chiesa sulla vetta è gremita. Il coro è venuto da Tricarico. Vedo per la prima volta la bruna Madonna. Spiega dopo don Carmine che la originaria provenienza dell’icona è certamente orientale, dall’est europeo. L’attuale busto della Vergine con

DIDATTICA E LABORATORI 139 bambino presente in chiesa (alla sinistra, e mano destra sul proprio ginoc- chio) è stato creato, pare, nel Rinascimento. Ma l’originale doveva essere una icona lignea, come ve n’erano tante nel Balcani, portata probabilmente da religiosi all’altezza di tempo della battaglia iconoclastica. Di quell’originario oggetto di venerazione non c’è traccia se non nella memoria; adesso i fedeli si rivolgono al busto comunque multicentenario, nuovo oggetto di culto. Vincenzo Guarracino ha organizzato bene ma i minuti tra una messa del mattino e l’altra risultano pochi, cosicché riusciamo a stento a leggere noi po- eti invitati, mentre Guarracino comprime all’inverosimile la propria relazio- ne sulle tracce del culto mariano in Dante, e addirittura in Pascoli e Leopardi (autori in cui non si direbbe … ). Dopo, dileguati nel caldo della discesa gli altri due lettori (Mele e Caiazza), veniamo invitati a pranzo con una certa cortese sollecitudine da don Carmine e non sentiamo di rifiutare. Così nasce un’autentica piccola avventura, che impegna il pomeriggio fin dopo le sedici e ha come protagonista il prete che da tanti decenni si dedica al Santuario. Con noi, oltre la madre di Vincenzo Guarracino, sono uno sculture amico e la moglie, il parroco di Tricarico, e un monaco proveniente da Napoli; provvedono alla cucina le quattro monache e porta in tavola un addetto al santuario. Tengono banco la maniera di Don Carmine, un modo gentile di interessarsi ad ognuno, di conversare, di difendersi e di attaccare con garbo; il suo senso della misura e il suo umorismo colto. Un uomo sicuramente di fede; ma Guarracino me ne aveva parlato come di un grosso intellettuale, e non posso che confermarne il giudizio. Si evidenzia la misura della sua cultura classica e storica. Don Carmine, nel pomeriggio, dopo i discorsi a tavola, si presta a guidarci nel ventre delle rocce che costi- tuiscono la vetta – una delle due – del Monte Sacro, e sito naturale del San- tuario della Vergine nera. Dall’esterno si scorgono severi, grandi, piuttosto poveri e austeri caseggiati; all’interno, per i camminamenti scavati o risultanti, i muri rivelano rocce, grot- te, corridoi che sono gallerie, stanze che furono celle, ora spesso stillanti umi- dità, data l’impossibilità di una manutenzione totale. Si è pervasi dall’emozione se si pensa che, un tempo, vi soggiornarono i monaci, coloro che costituirono le prime comunità del Santuario, nei primi secoli del Cristianesimo. A volte, don Carmine commenta mostrando certe sue invenzioni, eseguite da artisti, come il presepio in muratura, protetto da vetrate colorate verso l’esterno, occupando un intero grande ambiente, e distinto in svariate parti, organizzate a raffigurare per immagini bibliche l’impianto teologico della Salvezza.

140 DIDATTICA E LABORATORI A volte si tratta di autentiche reliquie, come la porticina che, nel Settecen- to, proteggeva la statua della Madonna nera con bambino. La deliziosa porta, che a sua volta rappresenta la vergine nera, reca le cinque serrature con cui veniva chiusa, per assicurare maggiore protezione al prezioso oggetto, e viene a sua volta, oggi, custodita gelosamente tra pareti e rocce. Ma ciò che sbalordisce è la traccia evidente dell’Heraion, il tempio greco ad Era Argiva, che i greci avevano costruito proprio là. Evidente a quel punto il segreto del Santuario: il luogo privilegiato era stato notato dai Greci, che, ottimi costruttori, vi avevano edificato il loro tempio alla dea. I blocchi bene squadrati parlavano la lingua degli antichi operai e architetti, che sappiamo per avere visto Elea e Paestum – essi sapevano bene cosa e come fare; e della sensibilità pagana, che conosceva il sentimento religioso, e dove costruire i luoghi del culto. I cristiani furono dopo e si erano sovrapposti, come spesso è avvenuto. Nemmeno a farlo apposta, la mia poesia, Navigazione di ottobre, parlava pro- prio di questo e delle manifestazioni dello spirito. Così la chiesa costruita alla Madonna nera era fatta in buona parte proprio di quei blocchi, che erano serviti al tempio di Era. Il culto della Madonna riprendeva quello di Era, come al Santuario della Madonna del Granato (Capaccio) quella forma mariana viene pensata sulla scia della Era di Paestum, cioè con il melograno (punica granatum)? Questo a me è difficile dirlo, basta attenersi alla continuità che ho già espo- sto. Sull’importanza del luogo, Guarracino si sofferma a ricordare come ad Elea (Ascea) il sole sorgesse proprio tra le due vette del Monte Sacro (quindi attraverso il “passo beta”) poco dopo le cinque del mattino, mentre a Vallo della Lucania arriva ore dopo; e di come il sole fosse, per i Greci, Apollo “guaritore”. Don Carmine ci racconta a questo punto di come le pietre fossero state rico- perte, e di come egli, fiutando la basilica pagana, le avesse riportate in luce per amore della cultura e della storia. Racconta della lotta contro il tempo, qual- che volta contro l’ottusa burocrazia e talora contro il tempo e l’invidia volta a impedire l’azione compiuta a fin di bene. I suoi riferimenti sono sempre lucidi e puntuali, senza compiaciute esibizioni. Sembra conosca tutto del Cilento e delle connessioni alla storia antico-medievale, comprese le indagini sugli in- sediamenti basiliani presso Laurino, condotte da un altro mio amico, Cosmo Schiavo. Don Carmine lavora a portare in piena efficienza il luogo di devozio- ne, da tutta la sua vita. Ma anche ad altro, come si vede. Nei mesi freddi, da ottobre in poi, torna alla sua parrocchia, a Sacco, storico comune cilentano, e

DIDATTICA E LABORATORI 141 gli edifici al sommo del Monte Sacro appaiono deserti a chi vi si avventura. È un piacere ascoltarlo e parlare con lui: a volte con i preti si può parlare di tutto, dalle dimostrazioni dell’esistenza di Dio alle esigenze dei muratori con cui, se ho ben capito, don Carmine lavora lassù, quasi ogni mattina. Così arriva l’ora di lasciarci, e, sebbene la notte prima non avessi dormito, la compagnia mi ha tenuto ben sveglio. Ci congediamo promettendo di rive- derci. Don Carmine mi invita per una domenica e rispondo che, comunque, scriverò questa testimonianza per la rivista del Santuario e, forse, per i Qua- derni Parmenide, rivista del Liceo di Vallo della Lucania. Guarracino prende accordi per le giornate successive. Lasciano la Chiesa le ultime comitive di fedeli, camminando a ritroso verso il portale, per non volgere le spalle alla Madonna. Camminano in circolo tre volte intorno alla croce all’inizio della salita in pietra, una volta percorsa sulle ginocchia o con il viso a terra in segno di penitenza; tre volte intorno al cu- mulo prima dell’ultima parte in salita, tre volte intorno alla Chiesa: nove volte in tutto, sta per i nove cori angelici. Ancora una volta, come per la Madonna di Pattano, il monastero prima di Vallo, devo dire e sento che questi luoghi fanno parte della nostra storia e che vi siamo connessi per vie che non sappiamo. Gli insediamenti monastici qui presenti, in Cilento e anche sull’imponente, suggestivo Bulgheria, di cui ab- biamo avuto un quadro più preciso in quello stesso pomeriggio, le caverne, le mura e le celle, sono parte delle nostre stesse menti. Abbiamo connessioni di natura e cultura e le portiamo senza sospettarne l’esistenza, ma è bello ve- nirne a conoscenza. Perciò le propongo agli uomini di buona volontà.

142 DIDATTICA E LABORATORI