"Il codice di camaldoli, Ezio Vanoni e la nuova terza Via"

L’elaborazione e la redazione del Codice di Camaldoli [1] rappresenta uno dei momenti centrali nella storia della dottrina sociale cattolica del novecento. Non a torto, si è parlato infatti per il Codice di Camaldoli di una “svolta” della dottrina economico-politica del movimento cattolico italiano dovuta all’abbandono delle soluzioni tradizionali (corporativismo, cooperativismo ecc.), all’attenuazione del “partecipazionismo”, e a favore dell’elaborazione di un avveniristico modello di economia “mista”[2].

L’origine storica e ideale del Codice di Camaldoli va rintracciata all’interno della crescente attenzione che il Movimento dei Laureati dell’Azione Cattolica riserva – durante i drammatici anni di guerra - alle tematiche di natura sociale[3]. Organizzatore materiale dell’iniziativa è Vittorino Veronese - elemento di raccordo tra il Movimento dei Laureati e l’Istituto Cattolico di Attività Sociali (ICAS) - che convoca a Camaldoli, per la settimana del 18- 24 luglio 1943, un nutrito gruppo di studiosi col compito di elaborare le basi teoriche di un “testo di «cultura sociale»”[4]. Nonostante i difficili spostamenti, accorrono all’ospizio dei padri camaldolesi numerosi intellettuali: tra loro spiccano i nomi di mons. Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo, Ludovico Montini, , , . Vengono fissati una serie di Enunciati, divisi tematicamente, in cui sono espliciti i riferimenti, oltre che direttamente ai testi sacri (ad es. Le lettere di S. Paolo), ai documenti ufficiali della Santa Sede, come ad es. le Encicliche , , Mit brennender Sorge ecc., ai messaggi di Pio XII o alla dottrina filosofica tomista[5]. Il vero e proprio testo del Codice è però redatto tra l’autunno del ’43 e la primavera dell’anno successivo, e viene pubblicato solo nel 1945 col titolo: Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi, amici di Camaldoli. Gli artefici principali dell’opera sono Sergio Paronetto e Pasquale Saraceno, mentre tra i collaboratori troviamo Ludovico Montini, Gesualdo Nosengo, Giuseppe Capograssi ed Ezio Vanoni. L’assistenza teologica al testo viene da mons. Bernareggi, mons. Emilio Guano e dal gesuita p. Ulpiano Lopez [6].

Il Codice che, al suo interno, prevede capitoli dedicati anche alla famiglia, all’educazione, allo stato e alla vita internazionale, vuole essere però soprattutto un codice “sociale”, centrato cioè sull’elaborazione pratica del concetto di giustizia sociale. Come tale, esso si pone a metà strada tra una semplice recezione del magistero pontificio e un vero e proprio programma politico. Il lavoro infatti “mira esclusivamente al chiarimento e alla miglior formulazione del pensiero sociale cattolico, in vista di offrire alla coscienza del cittadino e dell’uomo sociale, ed in particolare al cattolico, quali che siano le sue preferenze politiche, le basi per un giudizio morale sulla vita della comunità” [7]. Il documento si pone quindi un obiettivo programmatico e ideale per tutti i cattolici, sul genere del precedente Codice di Malines (1927), al di là delle opzioni partitiche: la sua eco sarà notevole, soprattutto tra i padri costituenti, in particolare in occasione della elaborazione del Titolo III della Costituzione, e negli anni a venire esso sarà popolare anche tra la classe dirigente della Democrazia Cristiana, influenzandone in modo rilevante le scelte di politica economica.

Se si tiene conto della centralità che il tema della giustizia sociale riveste nel Codice di Camaldoli, si può comprendere quanto sia fondamentale il contributo di Ezio Vanoni al documento [8]. Vanoni è infatti l’autore principale del Capitolo VI del Codice, dal titolo: L’attività economica pubblica. Il lavoro di Vanoni va letto assieme sia alla Premessa sul fondamento spirituale della vita sociale, sia al Capitolo V, opera di Sergio Paronetto, dedicato alla Destinazione e proprietà dei beni materiali - Produzione e scambio, sia, infine, al Capitolo I sullo Stato, opera del filosofo del diritto Giuseppe Capograssi, e che deriva dalla trascrizione delle conversazioni del pensatore sulmonese avute nella sua abitazione romana con Saraceno e con lo stesso Vanoni [9].

Il Codice riconosce che “origine e scopo della società è unicamente la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento dell’uomo” (art. 3.3) [10]. La società è, quindi, “l’insieme o complesso di tutte le libere iniziative degli uomini dirette a realizzare i loro interessi e fini umani e delle istituzioni ed opere a cui queste iniziative danno vita. Come tale… è molteplicità di forme, di sfere, di esperienze e di fini umani, e perciò è per sua intrinseca sostanza libertà (art. 4)”;[11] lo Stato, in quest’ottica, ha una natura meramente strumentale, limitandosi ad essere il “modo di organizzazione di tutte le forze sociali (art. 8)” [12]. Ma la vita sociale non è solo libertà: essa è “sorretta dalla duplice legge della giustizia e della carità”. Attraverso la giustizia è garantito il suum di ciascuno, mentre nella carità “l’individuo è tenuto ad amare Dio negli altri e gli altri in Dio e perciò a mettere in comune con gli altri che ne hanno bisogno tutti i beni (art. 4)”: si afferma che questa duplice legge “è così necessaria nella vita sociale, che senza di essa la società stessa si dissolve nella terribile crisi della questione sociale”.[13] Il modello di stato che fuoriesce dal Codice di Camaldoli non si limita quindi a svolgere le classiche funzioni degli ordinamenti liberali, ossia la “tutela dei diritti degli individui”, ma ha come fine esplicito la giustizia sociale - definita “concreta espressione del bene comune”[14] - attraverso “la creazione di condizioni generali di aiuto e di sostegno di tutti gli sforzi particolari degli individui, delle famiglie, dei gruppi e della società, in modo che siano eliminate le situazioni di privilegio derivanti da differenze di classe, di ricchezza, di educazione” (art. 11)[15].

Immediatamente propedeutico al testo di Vanoni è poi il Capitolo V (Destinazione e proprietà dei beni materiali – Produzione e scambio) in cui entrano in scena in modo chiaro i temi, tra loro connessi, del libero mercato e dell’intervento pubblico nell’economia. L’importante art. 71 afferma che principio direttivo della vita economica è la giustizia sociale, ossia l’equa ripartizione dei beni materiali “per cui non possa un individuo o una classe escludere altri dalla partecipazione ai beni comuni”[16]. Il testo riconosce la funzione sociale sia dei beni di consumo e di godimento che dei beni strumentali alla produzione di nuova ricchezza: l’intervento statale si attua, nel caso dei primi, con una limitazione nel loro uso e nel loro accumulo (art. 80) - o, se necessario per la comunità, con la loro diretta costituzione (art. 78). Per i beni strumentali, si riconosce che – in caso di concorrenza tra proprietari – l’ordinamento pubblico debba limitarsi a garantire questa situazione (art. 75); diversamente, in caso cioè di non concorrenza, se il proprietario non è in grado o non ha intenzione di “conciliare i propri interessi con quelli della comunità”, lo stato è legittimato ad intervenire o “escludendo che date categorie di beni strumentali possano essere oggetto di proprietà privata” oppure ponendo delle limitazioni a tale diritto (art. 76)[17]. Molto importante, sempre nell’art. 76, è proprio l’elencazione delle forme di intervento pubblico in caso di una iniziativa privata “manchevole o insufficiente” e cioè: l’agevolazione dell’iniziativa privata, la creazione di forme di proprietà “mista” o, direttamente, la collettivizzazione dei beni strumentali[18].

Nel capitolo in cui è prevalente la mano di Vanoni (Cap. VI: L’attività economica pubblica), si sancisce ancora una volta la necessità di armonizzare le attività economiche private al fine di “impedire che le energie individuali rimangano puramente potenziali o siano ostacolate nel loro sviluppo” (art. 85)[19]; una tale armonizzazione deve avvenire – prima di tutto – attraverso l’azione delle stesse forze sociali “adeguatamente organizzate”, e solo in via subordinata allo stato, confermando, in tal modo, l’adesione degli autori del Codice ad una impostazione sussidiarista, come si può rilevare anche in altri articoli (ad es. art. 11). L’intervento pubblico nell’economica è giustificato solo se è all’origine di una “utilità maggiore di quella che i mezzi che l’alimentano avrebbero determinato se lasciati nelle mani dei singoli” (art. 88) [20]. Per quanto riguarda le finalità dell’economia pubblica, queste sono elencate dettagliatamente nel lungo e centrale art. 86, opera congiunta di Paronetto, Saraceno e Vanoni [21]. Tra i punti più significativi dell’economia pubblica: la creazione di condizioni di occupazione (86.2), un sistema di “prestazioni integrative” ossia un sistema previdenziale che tuteli i lavoratori in caso di disoccupazione, infortunio o malattia e un adeguato sistema pensionistico (86.5), il controllo sulla dislocazione territoriale delle industrie (86.7), la correzione delle eccessive disparità economiche attraverso il controllo sull’uso, la trasmissione o la distribuzione dei beni di consumo (86.11-13) e la regolamentazione dell’attività produttiva in situazione di non concorrenza (86.14); infine, la tutela dei risparmi (86.15) [22].

Vero punto di arrivo dell’intera dottrina economica del Codice di Camaldoli è la teoria, elaborata da Vanoni, dell’attività finanziaria: questa si giustifica, per prima cosa, con la necessità di sostenere i costi della Pubblica amministrazione. Poiché essa incide sulla vita della società sia attraverso la raccolta delle risorse che attraverso il loro impiego, la finanza pubblica deve seguire il criterio della giustizia sociale, deve cioè conformarsi ai principi della uguaglianza e alla generalità nella ripartizione di oneri e benefici del prelievo fiscale. Ciascuno contribuisce al prelievo fiscale e ne è beneficiario proporzionalmente alla propria situazione economica, cioè in rapporto alle rispettive capacità e bisogni (art. 91). Oltre alla funzione classica dei tributi, Vanoni prevede, nell’art. 93, una sua seconda funzione, chiamata extra-fiscale, e che rappresenta lo strumento principale di attuazione della giustizia sociale. Infatti, il prelievo fiscale non alimenta solo il funzionamento della macchina amministrativa ma svolge altresì “una redistribuzione di beni disponibili tra i vari impieghi e consumi” e quindi “concorre a modificare secondo i principi della giustizia sociale la distribuzione della ricchezza e l’organizzazione della vita economica e sociale”[23]. Da ultimo, importante è il riferimento al problema della scelta di quelle che debbono essere le “utilità sociali”, scelta che deve essere appannaggio della “legittima rappresentanza politica” [24].

Dopo questa rapida rassegna dei principi fondamentali del Codice e della concezione dell’economia pubblica in esso teorizzata, resta da valutare la collocazione del documento nell’ambito del cattolicesimo sociale e, più in generale, delle dottrine economiche e politiche del XX secolo. E’ stato notato come nel Codice di Camaldoli “con una ‘svolta’, che, rispetto alla sociologia cattolica di fine Ottocento e primi Novecento, ben può definirsi storica, vengono esplicitate le linee dell’intervento dello Stato nell’economia come ‘terza via’ per sfuggire al dilemma economia liberista – economia collettivista” [25]. Bisogna a tal proposito notare come però la paternità di una ‘terza via’ economico-politica spetti, fin dal primo dopoguerra, a tutti quei modelli ordinamentali d’impronta corporativista, che pretendono di essere un superamento, ad un tempo, sia del laissez faire del vecchio liberalismo che del collettivismo comunista: è il caso, ad esempio della dottrina dello Ständestaat teorizzata dal cattolico austriaco Othmar Spann fin dalla sua opera Der Wahre Staat (1921). Il Codice di Camaldoli rappresenta certamente un distacco dal modello del primo cattolicesimo sociale centrato sui temi del corporativismo, del cooperativismo o dell’azionariato operaio[26] (ad es. La Tour du Pin, Toniolo), ancora dominanti nel Codice di Malines; più complesso è invece il rapporto con le teorie corporativiste cattoliche elaborate durante il ventennio fascista e con lo stesso corporativismo fascista. Come osserva Antonio Magliulo, il Codice è opera degli economisti cattolici non corporativisti, e manca la collaborazione di corporativisti quali Francesco Vito, Amintore Fanfani o Jacopo Mazzei [27]. Questo, però, non ci legittima a pensare ad una totale inconciliabilità tra il corporativismo cattolico di ultima generazione e la dottrina sociale ed economica del Codice. Oltre al fatto che negli Enunciati del ’43 il tema del corporativismo è ancora presente[28] - mentre poi scompare nel testo del ’45, un autore, ad esempio, come Francesco Vito, della “Cattolica”, sulla “Rivista Internazionale di Scienze Sociali” già dagli anni trenta si rivolge alla recezione degli autori della “nuova economia” (ad es. Marshall, Pigou, Veblen, Sombart ecc.), contrari al riduzionismo marginalista e neoclassico e favorevoli ad un intervento pubblico nell’economia. Inoltre, sempre Vito, anche se corporativista, è vicino alla filosofia sociale filoliberale dei “solidaristi” tedeschi (von Nell-Breuning, Gundlach, von Hildebrand), a loro volta legati all’austrofascismo di Dollfuss e poi di Schuischnigg. Ma ancora più complesso è il rapporto del Codice con il corporativismo fascista italiano: ovviamente gli autori del Codice di Camaldoli – e Vanoni tra essi – non possono aderire ad un modello corporativista non solo economico ma anche “istituzionale”, come, ad esempio, quello attualista Ugo Spirito e di Arnaldo Volpicelli, dove è forte la polemica anticapitalista e lo stato tende a inglobare completamente in sé la sfera privata della società. Ma certo, oltre ad un tale modello – per la verità mai attuato né veramente voluto dal fascismo – c’è la prassi economico-politica che il regime, attraverso proprio una forma di economia mista, cioè partecipativa, svolge, fin dal 1933, con l’IRI [29], l’ente da cui provengono proprio due tra i massimi ideatori del Codice, Sergio Paronetto e Pasquale Saraceno [30]. Il Codice di Camaldoli non sembra essere quindi una semplice “terza via” tra liberismo e collettivismo: “terza via” è già il cattolicesimo sociale, ad esempio, della Quadragesimo anno (1931),“terza via” è già anche il corporativismo fascista e la sua politica economica interventista e di concertazione. Il Codice rappresenta allora una “nuova” terza via, quella che fonde insieme queste due tradizioni e apre le porte ad una politica economica centrata sull’idea di giustizia sociale e di partecipazione pubblica nell’economia di mercato che segnerà in modo profondo la futura storia della Repubblica Italiana.

Giovanni Franchi (Titolare di un Assegno di ricerca in Filosofia della politica presso l’Università di Teramo)

[1] Per una ricostruzione storica e ideale del Codice di Camaldoli cfr. P. GIUNTELLA, Il Codice di Camaldoli, “Appunti”, 1/1976, pag. 21 e ss.; M. L. PARONETTO VALIER, Il Codice di Camaldoli fra storia e utopia, “Studium”, 1/1978, pag. 61 e ss.; ID., La redazione del Codice di Camaldoli, “Civitas”, 4/1984, pag. 9 e ss. [2] P. E. TAVIANI, La svolta di Camaldoli, “Civitas”, op.cit., pag. 3. [3] Il Convegno del 1942 era stato dedicato al tema della “coscienza sociale”, mentre quello del 1943 al problema della proprietà. Cfr. L. PARONETTO VALIER, La redazione del Codice di Camaldoli, ivi, pag. 10. [4] Ibidem. [5] Il testo di questi primi enunciati del Codice è conservato presso l’Archivio Paronetto ed è stato pubblicato per la prima volta dalla Rivista “Civitas”, ivi, pag. 31 e segg. [6] Tra coloro che “Hanno variamente collaborato o sono stati consultati su specifici argomenti di loro competenza” spiccano i nomi di futuri illustri dirigenti della Democrazia Cristiana come , Mario Ferrari Aggradi, Guido Gonella, Giorgio La Pira, , Paolo Emilio Taviani ecc. Cfr. Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli, Roma, 1945, ora in “Civitas”, op. cit., pag. 58. [7] Ivi, pag. 59. [8] In particolare, sul contributo di Ezio Vanoni al Codice di Camaldoli cfr. A. MAGLIULO, Ezio Vanoini – La giustizia sociale nell’economia di mercato, Roma, 1991, pag. 43 e ss. [9] Cfr. Per la comunità cristiana, cit., pagg. 66-67 , nota 2 (a cura di Marco Ivaldo). [10] Ivi, pag. 62. [11] Ivi, pag. 63. [12] Ivi, pag. 66. Antonio Magliulo (op. cit., pag. 54) nota come il Codice rifiuti il modello dualista liberale (divisione stato-società), per aderire ad una concezione dello stato come “autogoverno” della società. In effetti, il rifiuto del vecchio dualismo liberale non significa il ritorno ad un ordinamento premoderno (aristotelico), ma ad un ampliamento delle finzioni strumentali dell’apparato statale. [13] Ivi, pag. 63. [14] Ivi, pag. 122 (art. 71). [15] Ivi, pag. 70. Questo articolo del Codice, inserito nel Capitolo I sullo Stato, rimanda al Capitolo VI sull’Attività economica pubblica ed è la testimonianza dello stretto raccordo tra i lavori di Capograssi e di Vanoni. [16] Ivi, pag. 121. [17] Su questo punto fuoriesce la visione ottimistica del Codice in merito al principio della libera concorrenza. All’art. 75 è scritto: “Quando i proprietari di beni strumentali concorrenti tra loro per l’ottenimento di un dato prodotto sono numerosi e indipendenti e la produzione possa adeguarsi rapidamente alla domanda, si può, sulla base della osservazione storica e della deduzione logica, fondamentalmente presumere che detti proprietari siano dal loro stesso interesse spontaneamente portati all’adempimento della funzione sociale che loro compete” (ivi, pag. 124), ossia produrre a costi minimi. Magliulo nota come, su questo punto, la dottrina economica del Codice si avvicini alle dottrine neoliberiste nelle quali lo stato è il garante della perfetta concorrenza tra soggetti del mercato. Cfr. A. MAGLIULO, op. cit., pag. 53. [18] Ivi, pag. 125. [19] Ivi, pag. 133. [20] Ivi, pag. 136. [21] Cfr. ivi, pag. 135, nota 2 (a cura di Piero Roggi). [22] Ivi, pagg. 134-135. [23] Ivi, pag. 139. [24] Ibidem. [25] M. FALCIATORE, La ‘terza via’, in “Civitas”, op. cit., pag. 21. [26] Secondo Magliulo (op. cit., pagg. 55-56) il “partecipazionismo”- attraverso la formula dell’azionariato operaio – non è del tutto superato dal Codice, anche se il baricentro del modello si è spostato nettamente sull’intervento statale nell’economia di mercato. [27] A. MAGLIULO, op. cit., pagg. 49-50. Sul rapporto tra i corporativisti della “Cattolica” e quelli non corporativisti legati all’Azione Cattolica cfr. G. MAGGI, Una proposta di cattolici per l’Italia dopo il fascismo: il «Codice di Camaldoli», “Humanitas”, 4/1982, pag. 672. [28] Tra gli Enunciati, nel capitolo sulla Vita economica si sostiene infatti che per “rendere più efficiente il sistema economico della collettività, secondo un indirizzo organico che stimoli, controlli, coordini senza violentarla la libera iniziativa dei singoli” non è idonea una “dittatura economica” ma serve “L’autoregolazione di un bene ordinato sistema corporativo”. Cfr. “Civitas”, op. cit., pag. 49. [29] Cfr. M. CATALANO, Storia dell’industria italiana, Roma, 1996, pag. 40 e ss. [30] L’importanza dell’esperienza dell’IRI per l’elaborazione teoretica del Codice di Camaldoli è messa in evidenza in F. MALGERI (a cura di), Storia della Democrazia Cristiana, I. Dalla Resistenza alla Repubblica 1943-1948, Roma 1987, pag. 27.