Architetti del ‘700

Per tutto il Settecento fu un unico grande cantiere, nel quale furono impegnati alcuni dei maggiori architetti del secolo: nella chiesa di Sant’Andrea (nel 1730 oggi scomparsa) e nel progetto di quella di Sant’Antonio Abate, poi realizzata da Giuseppe Bays; Bernardo Vittone che nel 1741 progettò la cupola di San Bernardino, quindi l’Orfanotrofio Femminile (1744), la villa “Il Cipresso” (1750), la facciata di San Giorgio (1752), la cappella della Madonna delle Grazie nella Collegiata (1757) e, nel 1762, la chiesetta di Santa Lucia; il chierese Mario Ludovico Quarini progettò la cappella dell’Ospizio di Carità (1772), lo scomparso palazzo Biscaretti (1773), le facciate di San Bernardino (1792), dell’antico Municipio (1771) e, forse, quella di San Filippo Neri (1758).

Dal Rinascimento al Barocco Veduta di Chieri, dal Theatrum Statuum Sabaudiae Ducis – Incisione anonima su disegno di Giovanni Tommaso Borgonio (1666). L’opera fu stampata ad Amsterdam nel 1682 – Collez. privata

Nella seconda metà del secolo XVII Chieri conosce una sorprendente vitalità artistica sostenuta dalla Corte sabauda (le chiese e i conventi della Pace e di Sant’Antonio, la chiesa dell’Annunziata) e in misura minore dagli Ordini religiosi (le chiese di Santa Margherita e di San Filippo, il convento di Santa Chiara) o dalle Confraternite San( Bernardino).

Importanti lavori di rifacimento avvengono per molte cappelle della Collegiata e nelle chiese deiFrancescani e dei Domenicani. La maggior parte delle famiglie aristocratiche si limita ad aggiornare le proprie case, trasformandone in chiave barocca le facciate, gli ingressi, gli scaloni. Poche sono quelle che costruiscono nuovi palazzi (palazzi Robbio e Robbio di San Raffaele).

1. Gli architetti, le chiese e i conventi nel Seicento

Testi tratti da MIGNOZZETTI A., Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016 torna all'inizio

1.1. Antonio Bettino

“Le migrazioni degli antichi comacini, che prima del Mille alimentarono, con flusso ininterrotto, il romanico nascente, si protrassero poi nei secoli, quasi comacinità prolungata e feconda. Discesero da questo vasto filone non solo i campionesi, ma dinastie di muratori, di pittori, di scultori, di stuccatori, di scalpellini, di falegnami, che, dalle alte valli lombarde, specialmente luganesi, riversarono numerosi mastri e falangi di uomini del mestiere…”

Così Nino Carboneri sintetizza il fenomeno dei maestri luganesi (alcuni diventati famosi, altri rimasti sconosciuti o quasi) che per secoli affollarono i cantieri di mezza Italia, Piemonte compreso, fino al punto che nel Sei-Settecento costituivano il sessanta-settanta per cento delle maestranze impiegate nei cantieri sabaudi. Avevano anche fondato una loro Corporazione con sede in una cappella della chiesa torinese di San Francesco. L’architetto Antonio Bettino era uno di essi. Nato a Vezia, nei pressi del lago di Lugano, è difficile farne un profilo artistico attendibile poiché non conosciamo né la data di nascita né le tappe della formazione e sono scarse anche le opere note.

Dal settembre 1657 risulta impegnato nella cappella della Sindone a Torino come “serviente” alle dipendenze dell’architetto Amedeo di Castellamonte. Gliene derivò una notorietà che convinse i Filippini di Chieri ad affidargli la costruzione della loro chiesa (1664-1681). Opera, questa, che è la più importante fra quelle pervenuteci.

Probabilmente fu essa che, a sua volta, gli procurò l’incarico per la progettazione e la costruzione della chiesa omonima di Torino, con gli annessi oratorio e convento, opere nelle quali risulta impegnato a partire dal 1675. Nel 1679, però, il suo progetto venne abbandonato e sostituito da uno di . “Evidentemente… i religiosi, ancorati in primo tempo a moduli tradizionali, furono conquistati dalle idee del teatino (specie dalla cupola di San Lorenzo che si profilava vibrante nel cielo torinese) ricorrendo ad esso per un più grandioso e audace progetto”.

Questo per quanto riguarda la chiesa. Sembra, invece, che l’oratorio e il convento siano stati realizzati sulla base dei suoi disegni. I lavori erano in fase molto avanzata quando, il 26 ottobre 1714, l’arditissima cupola crollò compromettendo anche larghi settori dell’edificio. L’opera fu conclusa qualche tempo dopo da Filippo Juvarra.

Nel 1678 risulta all’opera a Lugano dove progetta il coro e l’altar maggiore di Santa Maria dell’Ospedale e nel 1682 esegue il disegno della chiesa di San Salvatore. Nella stessa città gli viene attribuita la chiesa di Santa Maria Incoronata.

Tra il 1679 e il 1699 a Torino, in via Milano, quasi all’angolo con l’odierna piazza della Repubblica, sul sito di una precedente chiesa dedicata a San Paolo, realizzò per la confraternita della Santa Croce la chiesa che dopo il 1728, ceduta per iniziativa di Vittorio Amedeo II all’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, prese il nome di Basilica Mauriziana. Gli è attribuito anche l’altare della Natività nella chiesa guariniana di San Lorenzo (1677-78).

La Chiesa di San Filippo

La chiesa di San Filippo in Chieri e la basilica Mauriziana a Torino sono le uniche due chiese certamente progettate ex novo dal Bettino giunte fino a noi. Luciano Tamburini si avventura in un confronto fra le due, nel tentativo di evidenziare qualche tratto caratteristico dell’arte del Bettino:

“La personalità che se ne desume (dalla chiesa mauriziana, n.d.r.) è piuttosto eclettica, e più orientata su moduli tradizionali (sia pure riformati, come il Lanfranchi) che non sulle audacie guariniane. E in San Filippo a Chieri… la sua fisionomia è ancora diversa per la pianta a nave unica con volta a botte, quattro cappelle laterali e vasto presbiterio a parete piana. Semicolonne lisce su alti stilobati animano col loro fluire le pareti cui s’appoggiano. Capitelli e trabeazione sono assai simili a quelli della basilica (Mauriziana, ndr)”. Il presbiterio della chiesa di San Filippo, con pala d’altare di Daniele Seyter

A Chieri, oltre alla chiesa di San Filippo, il nome di Antonio Bettino è legato ad una seconda opera: nel 1675 la Confraternita del SS. Nome di Gesù, desiderosa di lasciare la cappella del convento di San Francesco, dove era stata provvisoriamente ospitata, gli affidò la costruzione di una cappella in fondo alla piazza del Piano (l’odierna piazza Cavour). Cappella che esiste tuttora, inglobata, con la funzione di coro, nella chiesa di San Bernardino che circa dieci anni dopo fu costruita da Bernardino Quadri e da Bernardo Vittone.

L’ultima notizia che ci è pervenuta di Antonio Bettino lo dice ancora attivo a Torino nel 1699.

Per saperne di più sulla chiesa di San Filippo

BASSIGNANA E., La chiesa di San Filippo, un gioiello barocco, Chieri, 2002 BOSIO A., Memorie storico-religiose e di belle arti del Duomo e delle altre chiese di Chieri, Torino, 1878, p. 273 CANAVESIO W., Documenti per gli altari della chiesa di San Filippo a Chieri, in Studi Piemontesi, dic. 2005, vol. XXXIV fasc. 2, pp. 355-365 MIGNOZZETTI A., Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016, pp. 111-184 TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento, in Aspetti della pittura del Seicento a Chieri, a cura di a. cottino, s.d. ma 1999 VALIMBERTI B., Spunti storico-religiosi sopra la città di Chieri. Chiesa di San Filippo Neri, in La Beata Vergine delle Grazie (bollettino della parrocchia del Duomo di Chieri), gennaio-maggio 1920 VANETTI G., Chieri. Dieci itinerari tra Romanico e Liberty, Chieri, 1994, pp. 69-72 torna all'inizio

1.2. Andrea Costaguta

Nato a Chiavari, in Liguria, si vantava di appartenere alla nobile famiglia dei marchesi Costaguti, che in quel tempo annoverava fra i suoi esponenti un Vincenzo, cardinale, da papa Urbano VIII nominato prima segretario della Camera Apostolica poi suo ambasciatore ad Urbino. La sua data di nascita è ignota. Apparteneva all’Ordine dei Carmelitani Scalzi, ma non sappiamo nulla né della sua formazione, né dei suoi studi, né del suo ingresso in quell’Ordine, dove aveva assunto il nome di Andrea di San Gregorio. Sue notizie certe iniziano soltanto a partire del 1641, quando fu a Torino per la costruzione della chiesa di Santa Teresa, e vi rimase fino al 1652, ospite del convento omonimo.

Ebbe l’incarico di teologo di corte e fu ripetutamente attivo nel ruolo di architetto di fiducia di Madama Reale Cristina di Francia, sebbene non si conosca l’iter attraverso il quale abbia maturato le sue competenze in quel campo. Era stata la stessa Madama Cristina a chiamarlo a Torino, scrivendo anche lettere al cardinale di Lione e al legato di Avignone perché sollecitassero il permesso dei superiori dei Carmelitani Scalzi. Probabilmente la Reggente era in cerca di forze nuove, da affiancare (o forse in alternativa) ad Amedeo di Castellamonte, per dare nuovo slancio all’attività edilizia dopo la stasi dovuta agli anni di guerra civile.

Il Santuario dell’Annunziata

Alcune opere gli vengono attribuite tradizionalmente, anche se non sono supportate da adeguata documentazione, come ad esempio la chiesa di San Francesco da Paola di Torino, iniziata per volere di Madama Cristina del 1633. È certamente suo, invece, il progetto della chiesa e del convento di Santa Teresa dell’Ordine Carmelitano, al quale apparteneva. Infatti nelle patenti del 3 aprile 1642, con le quali Madama Cristina concedeva l’autorizzazione alla costruzione della chiesa e del convento, egli ne è espressamente indicato come l’artefice. La costruzione andò per le lunghe, e il Costaguta non poté portarla a termine in prima persona. Ma sembra che il suo progetto sia stato rispettato fedelmente.

Dal 1645 al 1650, per incarico della reggente, seguì lavori al castello di Moncalieri (dove proseguì l’opera di Carlo di Castellamonte, lasciando a sua volta il posto ad Amedeo di Castellamonte) e al Valentino: è lui stesso a parlarne in una lettera del 1647.

Ma l’opera alla quale è maggiormente legata la sua fama, e alla quale attese dal 1648 al 1653, è la Villa della Vigna di Madama Cristina (l’odierna Villa Abegg), sulla collina torinese, per lungo tempo residenza preferita di Madama Reale.

Certo è anche suo il ruolo diprogettista del Santuario dell’Annunziata di Chieri, ed è strano che nessun libro di storia dell’arte, Alessandro Baudi di Vesme compreso, la inserisca fra le sue opere sicure, essendo ciò attestato in modo inequivocabile da vari documenti, come l’Ordinato del Consiglio comunale del 24 gennaio 1652, laddove i consiglieri dichiarano di accettare la proposta del Capitolo dei Canonici di cedere al Comune alcune case attigue alla Collegiata a condizione che vengano demolite e i materiali recuperati vengano utilizzati “… nella construtione della fabbrica dessignata dal M. Rev. Padre Costaguti…”

Santuario dell’Annunziata - Fu costruito nel 1651 su progetto del carmelitano scalzo Andrea Costaguta, architetto di fiducia di Madama Reale Cristina di Francia. Lo stile della facciata evidenzia ancora legami con la tradizione rinascimentale

Per saperne di più sulla chiesa dell’Annunziata

MIGNOZZETTI A., Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016, pp. 73-110 con ampia bibliografia TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento, in Aspetti della pittura del Seicento a Chieri, a cura di a. cottino, s.d. ma 1999 VALIMBERTI B., Spunti storico-religiosi sopra la città di Chieri. Santuario della SS. Annunziata, in: La Beata Vergine delle Grazie, Luglio 1913-Settembre 1013 VANETTI G., Chieri. Dieci itinerari tra Romanico e Liberty, Chieri, 1994, p. 79 https://www.100torri.it/newsite/?page_id=24615

Il Santuario dell’Annunziata a inizio Novecento – Cartolina della Collez. Piovano Santuario dell’Annunziata - Disegno acquerellato di Modesto Paroletti (1825)

Altre opere: la Chiesa della Pace

Qualcuno (C. Brayda) attribuisce al Costaguta anche la chiesa di San Carlo a Torino, la villa Lovera a San Vito e il progetto della chiesa dell’Annunziata e di Sant’Andrea Corsini a Pino Torinese.

A Chieri c’è un’altra chiesa la cui origine e il cui aspetto sono molto simili a quelle del santuario dell’Annunziata, ed è la chiesa di Santa Maria della Pace, essa pure voluta da Madama Cristina. Non se ne conosce l’autore, ma non ci sarebbe da meravigliarsi se da qualche archivio sbucasse fuori un documento che lo indichi nel carmelitano scalzo Andrea Costaguta. Quanto allo stile, con il Carboneri si può affermare che, pur operando in piena epoca barocca, il Costaguta rappresenti “un aspetto singolare del Seicento, ancorato per lo più a temi di derivazione rinascimentale”, come si vede chiaramente, ad esempio, anche nella facciata della chiesa di San Francesco da Paola. Ma come emerge anche nella chiesa dell’Annunziata di Chieri, la cui facciata tripartita da lesene, sormontata da un semplice timpano, l’ingresso incorniciato da due colonne con austero frontone, sembra indifferente agli schemi dell’imperante barocco. Semplicità che si riscontra anche nel lineare interno ad unica navata e due sole cappelle laterali, e che nel presbiterio viene meno a causa di una fastosa struttura neobarocca ottocentesca che incornicia il dipinto dell’Annunciazione.

Nel progettare le chiese, il Costaguta preferisce le piante allungate (come nel Santuario dell’Annunziata di Chieri), a differenza di Francesco Lanfranchi suo contemporaneo (1600-1669) che preferisce la pianta centrale (preferenza che si riscontra anche nella chiesa di Santa Margherita dell’ex convento delle Domenicane di Chieri).

Il Convento della Pace

Chiesa di Santa Maria della Pace - Con il contributo di Madama Cristina di Francia, la costruzione della chiesa e del convento dei Frati Minori Riformati Francescani iniziò nel 1642 e terminò nel 1664. Il convento fu ampliato nei primi anni del ‘700 Per saperne di più su chiesa e convento di Santa Maria della Pace

BOSIO A., Memorie storico-religiose e di belle arti del Duomo e delle altre chiese di Chieri…, Torino, 1878, pp. 328-334 MIGNOZZETTI A., Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016. Pp. 299-325 con bibliografia TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento, in Aspetti della pittura del Seicento a Chieri, a cura di A. COTTINO, s.d. ma 1999 VALIMBERTI B., Convento e Chiesa di Santa Maria della Pace, Bollettino La Vergine delle Grazie, gennaio – dicembre 1917 VANETTI G., Chieri. Dieci itinerari tra Romanico e Liberty, Chieri, 1994

Padre Costaguta: l’uomo

Padre Andrea Costaguta: un personaggio pittoresco e alquanto “chiacchierato”, che suscita interesse e curiosità per i suoi meriti artistici ma anche per una vita alquanto movimentata, tant’è vero che Alessandro Baudi di Vesme lo definisce “Architetto e specialmente intrigante”. Carattere molto difficile, negli anni passati a Torino visse in rapporti per lo più burrascosi con i suoi confratelli Carmelitani.

Ambiziosissimo, coltivò per tutta la vita il sogno di diventare vescovo, senza mai riuscirci sebbene fosse ricorso più volte ai buoni uffici di Madama Cristina di Francia presso il Vaticano.

Era un gran millantatore. Si vantava platealmente di possedere chissà quali entrature presso la corte e di chissà quali meriti nei suoi confronti. Lo riferisce a Madama Reale il marchese Giannettino Giustiniani, ministro di Savoia a Genova: “Egli si vanta … di possedere un gran capitale nella buona grazia di V. A. R. la quale gli ha promesso di farlo fare vescovo di Genova, per lo che li converrà facilmente di andare a Roma; poi dice che per qualche gravissimo negozio potrà essere che vada a Milano; poi, che deve ritornare in Piemonte, essendovi troppo necessaria la sua persona… e per ultimo, che sarà costretto di fare un viaggio per queste Riviere e far compra di muli per inviar a Torino…”. “Alcuni dei suoi Padri poi mi dicono che habbi pensiero d’andare a Milano, vantandosi d’esser cercato da’ Spagnoli; ad altri ha detto che il servitio della repubblica di Venetia non li può mancare…”. “Mi stomacò in guisa quelli due giorni che stette meco, et appresi essere un huomo sì leggiero, sì vano e presontuoso, che non poteva dare se non in qualche sinistro. Sarà fortunato, se terminerà nella carcere il suo fallo…”. Il 26 gennaio 1653 il Giustiniani scriveva alla duchessa: “Sarei del parere che non lo lasciasse per molt’anni uscire dal Piemonte, havendolo conosciuto. A confessargli, era schiettamente molto vano e, quel che più importa, troppo lubrico nel parlare, anche con qualche imprudenza, e troppo informato di codesta Corte”. Mons. Alessandro Crescenzi, nunzio pontificio presso la corte di Savoia, lo accusò di essere “…scandaloso contro tutti i voti essenziali della religione, cioè di proprietà continua, di disonestà e si tiene che abbia anche figli ecc., di disobbedienza, di falsificazione di lettere e sottoscrizioni di Madama Reale in quantità, e d’altre furfanterie”.

In una lettera scritta il 14 ottobre 1657 egli si vanta di aver avuto accesso alla corte fin dal 1638, ma il primo documento conosciuto che parla di lui, datato 22 novembre 1641, è la patente di nomina a teologo e consigliere di Madama Cristina. Il titolo di teologo era puramente onorifico: gli consentiva di frequentare la corte e di ricevere uno stipendio. In realtà egli di Madama Reale fu uomo di fiducia e, sebbene non avesse mai ricevuto nomine né incarichi ufficiali in tal senso, anche architetto. Si conoscono diverse missioni segrete in Francia ed altrove da lei affidategli, la prima il 9 dicembre 1641, le altre negli anni 1642, 1643, 1644, 1645. Su di loro giravano molti pettegolezzi. Lui stesso si vantava dell’amicizia e confidenza che aveva con lei. Anche lo storico Gaudenzio Claretta sottolinea la grande familiarità che traspare da molte delle lettere da lui inviate alla Madama Reale e lo stesso marchese Giannettino Giustiniani racconta che nel marzo del 1653 il Costaguta, trattenuto in prigione a Genova, tempestava di lettere la Duchessa la quale, viste la situazione e le chiacchiere che circolavano, cercava di tenerlo a distanza senza tuttavia privarlo di qualche consolazione. “Pianse di tenerezza – attesta il marchese Giannettini – quando gli fu recapitata una lettera di Madama Cristina”.

Nel dicembre del 1652, mentre si trovava per un periodo di riposo a Chiavari, fu investito da una inaspettata tempesta. In seguito alla denuncia di certi suoi comportamenti scandalosi da parte di mons. Alessandro Crescenzi, nunzio pontificio presso la corte di Savoia, fu imprigionato nelle carceri dell’Inquisizione di Genova. Cercò disperatamente di mantenere i contatti con Madama Reale, la quale, però, da questo momento in poi lo tenne a distanza. Per evitare che riuscisse a farsi liberare, mons. Crescenzi lo fece tradurre a Roma, dove fu condannato e spedito nella prigione di Sassoferrato, restandovi rinchiuso fino al 1655. Liberato, continuò a scrivere alla Duchessa e dopo la di lei morte, avvenuta nel 1663, a Carlo Emanuele II. Ma non poté più tornare in Piemonte. In una lettera dell’11 febbraio 1669 informava il Duca che per le false accuse dei suoi nemici era finito in carcere una seconda volta per sei anni. Finì confinato nel convento dei Carmelitani Scalzi di Concesa, vicino a Milano, dove morì nel 1670. torna all'inizio 1.3. I Garove

Garove, Garui, Garuo, Garulli sono le diverse grafie, che si riscontrano nei documenti di archivio, del cognome di questa famiglia di artisti originari di Campione d’Italia, presso Lugano.

Francesco Garove: il Bastione della Mina e il Collegio dei Gesuiti

Francesco nacque a Campione d’Italia il 29 novembre 1615 da mastro Giovanni Giacomo Garove e da Benedetta. Era una famiglia legata all’attività edilizia, come molte altre in quella zona che per secoli fornì una folla di artigiani ed artisti ai cantieri del nord Italia e del sud dell’Europa. Cresciuto professionalmente alla scuola del padre, attorno al 1645 Francesco si trasferì nel ducato sabaudo, stabilendosi a Chieri dove sembra abbia abitato in una casa non di sua proprietà situata nei pressi della Collegiata di Santa Maria della Scala.

Negli anni Cinquanta e Sessanta lo troviamo attivo contemporaneamente in più cantieri sia di Chieri sia dei dintorni. Nel 1650 ebbe una parte nella costruzione nella condotta dell’acqua dal pozzo del Bastione della Mina all’orto dei Gesuiti.

Al centro del bastione: il pozzo della Mina (partic. del Theatrum Sabaudiae) Dal 1651 al 1661 risulta impegnato nella cappella del Corpus Domini della Collegiata in collaborazione con Tommaso Carlone e con Luca Corbellini. Nello stesso periodo sistemò il portale del santuario dell’Annunziata e diresse il cantiere per la costruzione del Collegio dei Gesuiti. Ma l’incarico più prestigioso come capomastro fu la costruzione, a Villanova d’Asti, della chiesa di Sant’Elena progettata da Amedeo di Castellamonte.

È possibile che verso la fine della vita, grazie all’esperienza accumulata e a studi da autodidatta, abbia voluto anche progettare degli edifici. In un documento del 3 aprile 1680, infatti, il figlio Michelangelo attesta di aver ricevuto dal padre “una libraria di numero cento trenta e più libri…” consistente in trattati di architettura civile e militare, fortificazioni, matematica, geometria, prospettiva, astronomia: una biblioteca non usuale in casa di un semplice capomastro.

Morì a Torino il primo settembre 1683. Fu sepolto nella chiesa di Sant’Eusebio, l’attuale chiesa di San Filippo Neri. Dalla moglie Margherita aveva avuto tre figli: Giacomo Vittorio, Michelangelo e Giovanni Battista, anche loro dediti all’attività edilizia.

Chiostro del Noviziato dei Gesuiti - Il Chiostro del Noviziato dei Gesuiti - noviziato, attiguo alla chiesa di Particolare Sant’Antonio Abate, fu costruito in più fasi dal 1627 al 1700 per volontà del cardinale Maurizio di Savoia, titolare della commenda di Sant’Antonio

Per saperne di più sul Noviziato-Collegio dei Gesuiti (Sant’Antonio)

CAVALLARI MURAT A., Antologia monumentale di Chieri, Torino 1969, pp. 159 sgg. MIGNOZZETTI A., Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016, pp. 11-72 POMMER R., Appendice X. Sant’Antonio a Chieri, in: pommer richard, L’architettura del Settecento in Piemonte, Torino, 2003, pp. 174-178 SANTILLO F., Il Noviziato di Chieri e la chiesa di Sant’Antonio: lo sviluppo architettonico, in BRUNO SIGNORELLI – PIETRO USCELLO (a cura di) La Compagnia di Gesù nella Provincia di Torino, dagli anni di Emanuele Filiberto a quelli di Carlo Alberto. Società piemontese di Archeologia e Belle Arti, Torino, 1998 TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento, in Aspetti della pittura del Seicento a Chieri, a cura di A. COTTINO, s.d. ma 1999 VALIMBERTI B., Spunti storico-religiosi sopra la Città di Chieri, Casa e Chiesa di Sant’Antonio, in La Beata Vergine delle Grazie, Chieri, 1918 VANETTI G., Chieri. Dieci itinerari tra Romanico e Liberty, Chieri, 1994, pp. 65-68

Michelangelo Garove: il Noviziato dei Gesuiti, la chiesa di San Guglielmo e la sacrestia dell’Annunziata

Michelangelo fu il più famoso dei tre Garove. Nato a Chieri il 29 settembre 1648 da Francesco e da Caterina Porra, risulta battezzato presso la Collegiata della Madonna della Scala il 13 giugno 1653. Crebbe professionalmente alla scuola del padre per poi diventare ingegnere militare, idraulico e civile e lavorare alle dirette dipendenze del Duca di Savoia. Nel 1688 fu nominato priore della Compagnia di S. Luca. Fu architetto e ingegnere militare e civile.

Come ingegnere militare i documenti lo descrivono attivo tra il 1682 e il 1683 nelle fortificazioni di Villanova, Carmagnola, , Fossano, Cherasco; fra il 1684 4 il 1694 in quelle di Carrù, Mondovì, Cuneo, Saluzzo, Moncalieri, , Villafranca, Pancalieri, Cherasco, Pinerolo. Nel 1694 fu ferito durante l’assedio di quest’ultima piazzaforte. Il 20 aprile 1702 firmò l’istruzione per gli impresari che dovevano costruire le fortificazioni del nuovo ampliamento occidentale di Torino, attorno a “Porta Susina”. Ampliamento poi definito “juvarriano”. Nel 1702 lavorò anche alle fortificazioni di Cuneo e Demonte, e negli anni 1703 e 1704 a quelle di Vercelli e Ivrea. In quest’ultima città collaborò con Antonio Bertola per approntare le difese contro l’imminente assedio dei Francesi.

Come ingegnere e architetto civile nel 1684 progettò a Torino il palazzo Asinari di San Marzano. Nel 1683 iniziò la progettazione della cappella del beato Amedeo di Savoia nel duomo di Vercelli, per la quale operò sino al 1700; nel 1684 fu la volta della chiesa parrocchiale di S. Martino a La Morra (Casalis), nel 1685 del santuario della Madonna di S. Giovanni a Sommariva del Bosco (Colombero), nel 1693 del Collegio dei Gesuiti di Mondovì. A Cuneo, nel 1697, progettò la cappella del Beato Angelo nella chiesa della Madonna degli Angeli. In quello stesso anno a Torino eseguì l’altar altare maggiore della chiesa di S. Filippo Neri e il 19 dicembre venne nominato ingegnere di Emanuele Filiberto, principe di Carignano.

Negli ultimi mesi di attività Michelangelo Garove firmò i progetti per l’ampliamento del convento di S. Antonio Abate in via Po a Torino e quelli per il nuovo edificio dell’Università. Operò inoltre a Venaria, dove aveva una camera a sua disposizione, e al castello di Rivoli.

A Chieri gli devono essere attribuite almeno tre opere: oltre alla costruzione dell’ala ovest del Noviziato dei Gesuiti, la trasformazione della chiesa di San Guglielmo (1691) e la progettazione del settore del Santuario dell’Annunziata situato alle spalle dell’altare, comprendente la sacrestia, il sovrastante coro e il piccolo, grazioso campanile triangolare (1698).

Morì a Torino il 22 settembre 1713.

Il campanile dell’Annunziata

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1.4. Bernardino Quadro (Quadri) Le origini e l’esperienza romana

“Scultore di marmi, plasticatore ed architetto. Era di Balerna, piccola terra presso Mendrisio, nella Svizzera Italiana”: così Alessandro Baudi di Vesme presenta Bernardino Quadri nelle sue schede, sottolineandone soprattutto le molteplici capacità, che vanno dall’architettura alla scultura passando per l’arte dello stucco.

Poco si conosce delle sue origini e della sua vita giovanile. I primi documenti che parlano di lui sono degli anni quaranta del Seicento, e lo indicano attivo a Roma, prima come stuccatore nella basilica di San Pietro alle dipendenze del Bernini e del Borromini poi, a partire dal 1646, in San Giovanni in Laterano dove è impegnato nei lavori di trasformazione della chiesa in vista del Giubileo del 1650. In disaccordo con il Borromini, abbandonò la città eterna e si trasferì a Torino, dove nel 1649 Carlo Emanuele II, che era alla ricerca di valenti artisti per i suoi numerosi cantieri in Torino e dintorni, lo nominò scultore ducale riconoscendogli una pensione annua di lire 2000 d’argento.

Le opere da ingegnere

Dal 1653 al 1656 è impegnato nella chiesa di San Carlo dove, in collaborazione con Gregorio Gioannini, costruisce l’altar maggiore su disegno di Amedeo di Castellamonte, ed esegue gli stucchi del presbiterio, lavoro che gli viene pagato 5.250 lire.

Molto stimato presso gli ambienti di corte, riceve numerosi incarichi per macchine ed apparati effimeri in occasione di importanti feste e ricorrenze. Ma nel 1658 è l’“inginiero” al quale il duca Carlo Emanuele II affida la costruzione della cappella della Sindone. Il suo progetto di un edificio a pianta circolare fu preferito a quello di Carlo di Castellamonte che aveva optato per una cappella a sviluppo longitudinale che si inoltrava nel cortile del Palazzo Reale. Ma, iniziati i lavori, allorché la costruzione giunse al livello del cornicione dell’ordine principale, il Quadro dovette passare la mano a Guarino Guarini, il quale aveva presentato un nuovo progetto che evidentemente aveva entusiasmato il Duca. Tuttavia, l’architetto teatino non poté non tener conto del progetto del Quadro, in base al quale l’opera era stata impostata.

La chiesa di San Bernardino

A Chieri gli vengono attribuite due opere. Nel 1694, in piazza del Piano (l’odierna piazza Cavour), progettò la chiesa di San Bernardino per la Confraternita del SS. Nome di Gesù: una costruzione a croce greca, sormontata da cupola e dotata di un profondo coro (ottenuto utilizzando la preesistente cappella costruita non molti anni prima da Antonio Bettino). La morte gli impedì di concludere l’opera, che venne portata a termine qualche anno dopo. Essa, tuttavia, non è giunta a noi come lui l’aveva progettata. La cupola fu realizzata dal mastro da muro Bernardino Leone solo nel 1740. Crollata appena terminata, fu ricostruita verso il 1744 su disegno di Bernardo Antonio Vittone. La facciata fu rifatta nel 1791-92 da Mario Ludovico Quarini.

Per saperne di più sulla chiesa di San Bernardino

AA.VV., La chiesa dei SS. Bernardino e Rocco di Chieri, Chieri, 2001 CAVALLARI MURAT A.¸ Antologia monumentale di Chieri, Torino, 1969, p. 162 sgg. e passim CASELLE S., La Confraternita del SS. Nome di Gesù, Chieri, 1991 TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento, in Aspetti della pittura del Seicento a Chieri, a cura di A. COTTINO, s.d. ma 1999, p. 50 VANETTI G., Chieri. Dieci itinerari tra Romanico e Liberty, Chieri, 1994, p. 75 Il convento dei Filippini

La seconda opera chierese che gli viene attribuita è la costruzione, realizzata fra il 1715 e il 1726, delprimo nucleo del convento dei Filippini, ma abbiamo già esposto le ragioni di carattere cronologico che rendono molto dubbia una tale attribuzione. Bernardino Quadro, infatti, è morto nel 1695, venti anni prima che venisse costruito il convento. Se l’“ingegner Quadro” del quale parla il capitolato degli impresari fosse lui, vorrebbe dire che quel progetto egli lo eseguì prima di morire ma per qualche motivo fu realizzato solo venti anni dopo. Sembra più verosimile che si tratti di un’altra persona, magari di suo figlio Carlo Giulio, anche lui ingegnere.

Convento dei Filippini – Prospetto su via San Filippo (inizio Settecento)

Lo scultore

Come scultore, tra il 1664 e il 1666 progettava, e in collaborazione con il fonditore e scultore Bernardo Falconi e con l’intagliatore Quirico Castelli dava inizio, ad un grandioso monumento funebre voluto da Carlo Emanuele II per la duchessa Francesca d’Orléans. “E’ possibile farsi un’idea dello straordinario monumento, che non avrebbe avuto pari nella Torino del Seicento, ma del quale si è persa ogni traccia, attraverso la lettura dei conti presentati dal Quadri per la fattura del modello e del Falconi per la fusione delle figure. Lo componevano tre grandi statue, della Madonna, del duca e della sua sposa, con undici putti e un serafino grande, tutte di bronzo, disposte su di un piedistallo assieme alle due urne di marmo nero di Frabosa e sormontate da un ricco padiglione … Il fastoso monumento scompare nel nulla… senza che restino tracce di una sua collocazione nella cappella della Sindone, che in quell’anno passava di mano da Bernardino Quadri a Guarino Guarini…”.

Lo stuccatore: la cappella del Crocifisso

In questi stessi anni risultano pagamenti a suo favore per busti e statue in stucco e in marmo per il Palazzo Reale (interni e rondò del Bastion Verde), per la facciata del Castello del Valentino e per la Venaria Reale (interni e giardini). In questa reggia sono suoi gli stucchi del salone di Diana.

Giuseppe Dardanello gli attribuisce un ruolo di primaria importanza nella decorazione plastica dellacappella del Crocifisso del Duomo di Chieri: “Nella cappella del Crocifisso di Santa Maria della Scala a Chieri, che ospita la monumentale macchina d’altare in legno intagliato, con la Crocifissione dipinta nel 1662 da Charles Dauphin per la committenza Giovanni Battista Balbo Bertone di Sambuy, nel 1669-1671 Quadri fu chiamato a modellare il teatro di santi che sulle mensole a sporto delle pareti fanno da guardia ai quattro grandi teleri sui temi della Passione; e insieme a ornare l’intera volta di angeli, in atto di mostrare i simboli del martirio…” . Secondo il medesimo Dardanello potrebbe aver dipinto anche le scene dell’Antico Testamento affrescate nelle cornici in stucco della volta.

Nel 1662 il poliedrico artista era priore della compagnia di San Luca. Morì nel 1695 a Candiolo (o, secondo alcuni, a Candelo), in provincia di Torino. Cappella del Crocifisso, della famiglia Bertone. Fu costruita fra il 1668 e il 1670 da maestranze luganesi (fra cui Bernardino Quadri) su commissione di Giovanni Battista Bertone, già Grande Ammiraglio della flotta del Cavalieri di Malta

Per saperne di più sulla cappella del Crocifisso

MIGNOZZETTI A., Il Duomo di Chieri (2012), p. 145 sgg. TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento, in Aspetti della pittura del Seicento a Chieri, a cura di A. COTTINO, s.d. ma 1999. torna all'inizio

1.5. Altre chiese e altre cappelle Santa Margherita

Chiesa domenicana di Santa Margherita

L’edificio ha pianta a croce greca. La facciata, a forma concava, delimita un piccolo sagrato. Terminata nel 1671, è attribuita all’architetto torinese, di origini chieresi, Francesco Lanfranchi.

Per saperne di più sulla chiesa di Santa Margherita

BERRUTO A. C., La chiesa di Santa Margherita a Chieri, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 2007-2008, Relatore prof. Giuseppe Dardanello, Torino, 2007-2008. BRAYDA C., La seicentesca chiesa di Santa Margherita in Chieri, in Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 1947 MIGNOZZETTI A., Il monastero e la chiesa di Santa Margherita, Chieri, 2016 TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento, in Aspetti della pittura del Seicento a Chieri, a cura di A. COTTINO, s.d. ma 1999, p. 46 VALIMBERTI B., La chiesa di Santa Margherita, in “Madonna delle Grazie”, Bollettino mensile della parrocchia del Duomo di Chieri”, gennaio 1923-dicembre 1923 VANETTI G., Chieri. Dieci itinerari tra Romanico e Liberty, Chieri, 1994, p. 73 https://www.100torri.it/newsite/?page_id=25462 sulla chiesa, la decorazione, i quadri

Cappella della Beata Vergine del Suffragio

Cappella della Beata Vergine del Suffragio (Duomo)

Gioiello d’arte barocca, la cappella fu commissionata nel 1652 a maestranze luganesi da Giorgio Turinetti, banchiere di corte e Presidente delle Finanze. La pala è attribuita ai milanesi Carlo Francesco e Giuseppe Nuvolone.

Per saperne di più sulla cappella del Suffragio

MIGNOZZETTI A., Il Duomo di Chieri. Note storico- religiose, Chieri, 2012, p. 173 sgg. TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento, in Aspetti della pittura del Seicento a Chieri, a cura di A. COTTINO, s.d. ma 1999, p. 48

Cappella della Madonna del Carmine

Cappella della Madonna del Carmine (Duomo)

È una delle poche cappelle del Duomo che hanno mantenuto la decorazione barocca. L’ancona lignea con scene della vita dei santi Giuliano e Basilissa, è attribuita a Michele Enaten (artista astigiano di origine fiamminga, 1643 circa). La pala d’altare (1644) è di scuola genovese. La cappella fu fatta costruire attorno al 1632 da Flaminio Balbiano.

Per saperne di più sulla cappella della Madonna del Carmine

MIGNOZZETTI A., Il Duomo di Chieri. Note storico- religiose, Chieri, 2012, p. 177 sgg. TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento (1999), p. 48 torna all'inizio

2. I palazzi e le ville

Da TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento (1999), p. 41 sgg.

Parte delle fortune delle famiglie abbienti furono impiegate in lavori di adeguamento delle loro residenze chieresi alle nuove condizioni di vita, perseguendo obbiettivi funzionali ed estetici insieme. Anzitutto l’apertura di androni carrozzabili determinò la creazione di portali su strada, rappresentativi e talvolta segnati dallo stemma del casato, orgogliosa affermazione di un ambito traguardo sociale. Probabilmente queste trasformazioni causarono la perdita dei pochi tratti porticati della via Maestra. In città, le dimore signorili si abbellirono soprattutto negli arredi fissi dei saloni, con fasce dipinte nella parte superiore delle pareti, come nel palazzo Tana o a Palazzo Bruni. Inoltre, si realizzarono solenni porte intagliate, spesso completate da sovraporte dipinte, di cui restano numerosi esempi, ad onta degli interventi successivi (…).

L’autore segnala due preziosi documenti d’archivio che riguardano i palazzi dei conti Vittorio Quarini e Carlo Luigi Biscaretti; gli edifici ai numeri 38, 42, 52. 67 della via Maestra (ora Vittorio Emanuele II) e la casa al numero 3 di via Palazzo di Città.

Sui dipinti di Palazzo Bruni si veda, nel medesimo volume, l’articolo di Cecilia Ghibaudi, a pag.55

Sulle pitture, le decorazioni in terracotta e sulle le vicende costruttive di Palazzo Tana si veda Il palazzo dei Tana a Chieri, Riva presso Chieri, 2002.

Palazzo Robbio di San Raffaele Si affaccia su via Vittorio Emanuele II, n. 8. Palazzo Robbio - via Vittorio Emanuele II, Appartenne ad un ramo collaterale della n. 39 famiglia Robbio Cartolina di inizio Novecento, collez. Giuseppe Piovano

Ex Monastero di Santa Chiara, ora sede del Museo del Tessile

Per saperne di più sul monastero di Santa Chiara

BOSIO A., Monastero e chiesa di S. Catterina dell’Ordine Francescano detto di Santa Clara o delle Clarisse, in: Memorie storico-religiose e di belle arti del Duomo e delle altre chiese di Chieri, Torino, 188778, pp. 238-242 DE GROSSI F., FALCONE I., FEROGGIO M., Il progetto di conservazione e riuso dell’ex monastero di Santa Clara in Chieri, Torino. Tesi di specializzazione, Politecnico di Milano, Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti, Anno Accadem. 2008-2009, vol. I. GHIRARDI F., MERCURI P, Il monastero di Santa Chiara nella città di Chieri, Chieri, 1995.

Villa Moglia

Villa Moglia

Per saperne di più su Villa Moglia

NAVIRE M., La villa Moglia in Chieri, in Chieri e il Tessile. Vicende storiche e di lavoro dal XIII al XX secolo, Chieri, 2007, pp. 153-165. torna all'inizio 3. Bibliografia

BASSIGNANA E. (a cura di), La chiesa di San Filippo, un gioiello barocco, Chieri, 2002 BERRUTO A. C., La chiesa di Santa Margherita a Chieri, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 2007-2008, Relatore prof. Giuseppe Dardanello, Torino, 2007-2008 BOSIO A., Memorie storico-religiose e di belle arti del Duomo e delle altre chiese di Chieri…, Torino, 1878, pp. 328-334 BOSIO A., Monastero e chiesa di S. Catterina dell’Ordine Francescano detto di Santa Clara o delle Clarisse, in Memorie storico-religiose e di belle arti del Duomo e delle altre chiese di Chieri, Torino, 1878, pp. 238-242 BRAYDA C., La seicentesca chiesa di Santa Margherita in Chieri, in Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 1947 CANAVESIO W., Documenti per gli altari della chiesa di San Filippo a Chieri, in Studi Piemontesi, dic. 2005, vol. XXXIV fasc. 2, pp. 355-365 CAVALLARI MURAT A., Antologia monumentale di Chieri, Torino 1969, pp. 159 sgg. DE GROSSI F., FALCONE I., FEROGGIO M., Il progetto di conservazione e riuso dell’ex monastero di Santa Clara in Chieri, Torino. Tesi di specializzazione, Politecnico di Milano, Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti, Anno Accadem. 2008-2009, vol. I GHIRARDI F., MERCURI P, Il monastero di Santa Chiara nella città di Chieri, Chieri, 1995 MERLASSIMO C., voce Lanfranchi Francesco, in: Dizionario biografico dei Chieresi Illustri, Andezeno, 2010, pp. 130-131 MIGNOZZETTI A., Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016 MIGNOZZETTI A., Il Duomo di Chieri. Note storico- religiose, Chieri, 2012 MONETTI F., CIFANI A., Un altare di Francesco Lanfranchi al Corpus Domini e un’aggiunta per il palazzo civico di Torino, in Bollettino della Società piemontese di archeologia e belle arti, n. s., xxxv-xxxvii (1981-83), pp. 63-68 POMMER R., Appendice X. Sant’Antonio a Chieri, in pommer richard, L’architettura del Settecento in Piemonte, Torino, 2003, pp. 174-178 SANTILLO F., Il Noviziato di Chieri e la chiesa di Sant’Antonio: lo sviluppo architettonico, in: BRUNO SIGNORELLI – PIETRO USCELLO (a cura di) La Compagnia di Gesù nella Provincia di Torino, dagli anni di Emanuele Filiberto a quelli di Carlo Alberto. Società piemontese di Archeologia e Belle Arti, Torino, 1998 SIGNORELLI B., voce Lanfranchi, Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, vol.63, pp. 549-551, Roma, 2004 TEDESCO V., L’architettura a Chieri nel Seicento, in Aspetti della pittura del Seicento a Chieri, a cura di a. cottino, s.d. ma 1999 VALIMBERTI B., Spunti storico-religiosi sopra la città di Chieri. Chiesa di San Filippo Neri, in La Beata Vergine delle Grazie (bollettino della parrocchia del Duomo di Chieri), gennaio-maggio 1920 VALIMBERTI B., La chiesa di Santa Margherita, in: “Madonna delle Grazie”, Bollettino mensile della parrocchia del Duomo di Chieri”, gennaio 1923-dicembre 1923 VALIMBERTI B., Spunti storico-religiosi sopra la città di Chieri. Santuario della SS. Annunziata, in La Beata Vergine delle Grazie, Luglio 1913-Settembre 1013 VALIMBERTI B., Spunti storico-religiosi sopra la Città di Chieri, Casa e Chiesa di Sant’Antonio, in La Beata Vergine delle Grazie, Chieri, 191 VALIMBERTI B., e Chiesa di Santa Maria della Pace, Bollettino La Vergine delle Grazie, gennaio – dicembre 1917 VANETTI G., Cronologia degli interventi eseguiti in San Domenico tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo, in Una chiesa, la sua storia. Momenti storici e sviluppo artistico di San Domenico a Chieri, Chieri, 1990, pp. 51-54 VANETTI G., Chieri. Dieci itinerari tra Romanico e Liberty, Chieri, 1994 torna all'inizio

La peste del 1630 e la cappella della Madonna delle Grazie La peste comparve a Chieri alla fine di giugno, e raggiunse la massima virulenza fra luglio e settembre del 1630, mietendo migliaia di vittime. Impotenti, i Conservatori della Sanità e il Consiglio Comunale invocarono l’aiuto del Cielo.

In segno di riconoscenza, nel 1634 eressero all’interno del Duomo una cappella in onore della Madonna delle Grazie. Nel 1757 la cappella sarebbe stata ampliata e trasformata da Bernardo Antonio Vittone.

1. La peste in Piemonte

Da https://it.wikipedia.org/wiki/Peste_del_1630

La peste del 1630 fu un’epidemia diffusasi nel periodo tra il 1629 e il 1633 che colpì, fra le altre, diverse zone dell’Italia settentrionale, raggiungendo anche il Granducato di Toscana e la Svizzera, con la massima diffusione nell’anno 1630. Il Ducato di Milano, e quindi la sua capitale, fu uno degli Stati più gravemente colpiti. L’epidemia è nota anche come peste manzoniana perché venne ampiamente descritta da Alessandro Manzoni nel romanzo I promessi sposi e nel saggio storico Storia della colonna infame.

Il 2 gennaio 1630 venne segnalato il primo caso di peste a Torino: si trattava di un calzolaio. Non è un caso che sovente le prime vittime erano coloro che lavoravano a diretto contatto con calzature o con oggetti quotidiani in contiguità con il suolo che, troppo spesso, mancava delle più elementari condizioni igieniche. Torino, come le maggiori città piemontesi, vide aumentare la diaspora dalle campagne e dai territori limitrofi, fino a vietare l’ingresso agli stranieri e chiudere le porte della città. L’epidemia si diffuse rapidamente, coinvolgendo anche altri centri della provincia come Pinerolo ed estendendosi poi ai territori del cuneese quali: Alba, Saluzzo e Savigliano. A Torino la situazione raggiunse il culmine della gravità con il sopraggiungere del caldo estivo che favorì la trasmissione del morbo.

Di fondamentale rilevanza furono la figura dell’archiatra e protomedico di Casa Savoia Giovanni Francesco Fiochetto e dell’allora neosindaco Gianfrancesco Bellezia. Il primo è il più famoso tra i vari medici che rimasero in città durante la pestilenza ed è per questo conosciuto come il medico della peste per essere intervenuto, tra il 1630 ed il 1631, instaurando una rigorosa disciplina sanitaria tra la popolazione torinese e che avrebbe fatto scuola negli anni a venire. Il secondo rimase in maniera pressoché continuativa in città, che fu invece abbandonata dalle maggiori figure istituzionali. Gli stessi Savoia si rifugiarono a Cherasco. Eletto Decurione nel 1628 e poi primo sindaco della città proprio nel funesto anno 1630, Bellezia affrontò coraggiosamente il suo mandato diventando il fulcro dell’organizzazione sanitaria attivatasi per affrontare l’emergenza. Inoltre dovette anche contenere l’isteria del popolo nei confronti di episodi di sciacallaggio.

L’epidemia, seppur gestita con coscienzioso scrupolo, fu debellata solo verso novembre del 1630, con il favore del freddo. Su una popolazione di circa 25 000 abitanti, Torino contò la perdita di ben 8 000 persone. Nell’anno seguente e in quello successivo fu registrato un numero enorme di matrimoni. Il 7 aprile dello stesso anno la Pace di Cherasco decretò la fine della guerra per la successione del Ducato di Mantova e si andò quindi ristabilendo un relativo equilibrio; dal mese di settembre i registri di Torino tornarono a riempirsi di nuove nascite. Tuttavia ci vollero quasi due secoli prima di raggiungere nuovamente il numero di abitanti precedente al 1630. torna all'inizio

2. La peste del 1630 a Chieri

Sull’argomento è fondamentale l’articolo di TERRANOVA C., La peste a Chieri nel 1630, in O di Chieri gran regina! La Madonna e la città tra Medioevo e Novecento, Chieri, 2010, pp. 49-64 da cui traiamo i passi che seguono.

È il 28 settembre 1630, Sono passati tre mesi dalla denuncia dei primi casi di peste a Chieri. Sindaci, consiglieri, vicario ducale non hanno perso tempo e all’inizio di luglio sono già in azione dodici Conservatori della sanità: bisogna arginare la diffusione del contagio, rafforzando i controlli alle porte; ma l’esperienza del passato insegna che è meglio prepararsi al peggio, così nella seduta del 13 i consiglieri avviano la procedura per l’apertura di due lazzaretti, uno per i “sospetti e uno per gli “infetti”.

Oltre che con il ricovero nell’apposito lazzaretto, i “sospetti” erano separati dai sani mediante sequestro in casa (…). Giò Biagio Montuto, lo stesso che avrebbe istituito nel 1638 la Casa delle Orfanelle, trovandosi nella necessità di aggiornare un precedente testamento per la morte dell’erede universale designato allora, dettò il 12 luglio le sue volontà da una finestra “della sua camera di casa”, nella quale si trovava “serrato per qualche sospetto di contagione.

Delle migliaia di chieresi colpiti dalla peste, la maggior parte è rimasta anonima. Quelli di cui conosciamo il nome sono in prevalenza religiosi, laici di un certo rilievo sociale, figure minori comunque legate agli ambienti ecclesiastici o rimaste “impigliate” per un capriccio del caso nella documentazione raccolta da Gioachino Montù.

Il 20 agosto, ritenendo di far cosa saggia, Giulio Cesare Robbio, si trasferisce dalla città “alla cascina della vigna”, in regione Busdaniello “nella valle dei Ceppi”, dove già vivono le figlie, il genero, i cognati, due servi: ma il 27 di agosto si ammalano di peste il cognato Filiberto Mayna e la figlia Laura. Giulio Cesare non manca “sino all’ultimo di praticarla, visitarla, medicarla, toccar le sue piaghe”, ma Laura muore il 29 “con carbone, cotisella febbre ardente, dolori eccessivi”, dopo aver dato alla luce una bambina, “alla quale per il dubbio della contagione della madre non si trovava chi la potesse soccorrere del latte”. Consapevole che la convivenza con il cognato e l’assistenza prestata alla figlia lo hanno senz’altro esposto al rischio del contagio, Giulio Cesare prega e fa voti perché la misericordia di Dio lo risparmi. Il “buon vecchio” sarà esaudito, giacché il 12 gennaio 1653 risulta ancora vivo per essere aggregato, con i suoi figli, nel corso di una solenne cerimonia, “al corpo della nobiltà di Chieri. Giuseppe Sariga, Cappella della Madonna delle Grazie, Duomo. Il contagio è visto come castigo di Dio che si avvale dell’angelo con la spada fiammeggiante. Di peste bubbonica morirono 4.500 chieresi, un terzo della popolazione - Foto Gaidano e Matta

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3. La cappella della Madonna delle Grazie

Scrive A. MIGNOZZETTI in https://www.100torri.it/newsite/?page_id=33034

Il 26 luglio 1630, nel pieno della peste, i Conservatori della Sanità di Chieri, riconoscendosi ormai incapaci di far fronte all’emergenza, formularono il solenne voto di erigere, all’interno della Collegiata, una cappella in onore della Madonna delle Grazie, se per sua intercessione il contagio fosse cessato. Il giorno successivo il Consiglio Comunale ratificò il voto.

Ma non essendoci nella chiesa uno spazio libero, nel mese di agosto i Consiglieri incaricati presero contatto con Aurelio Valimberti, nobile chierese, per ottenerne la cessione di metà (una delle due campate delle quali era composta) della sua cappella dedicata a San Giuliano, situata nella navata sinistra, poco oltre l’ingresso.

Ottenutala, fra il 1630 e il 1631 incaricò i fratelli Rusca, impresari luganesi, di trasformarla in cappella votiva municipale; da Pietro Botto di Savigliano fece scolpire la statua della Madonna da collocare sull’altare; aifratelli Cerutti, nipoti di Francesco Fea, affidò la decorazione pittorica.

Nel febbraio del 1636 avvenne l’inaugurazione della cappella, che da allora in poi è stata (ed è) al centro della devozione dei chieresi. Il voto della Città – ASCC, Ordinati. Ordinato del Consiglio comunale, 27 luglio 1630 – “I Conservatori della sanità, conoscendo non esservi per placar l’ira di Dio giustamente irritata per i nostri peccati più opportuno rimedio che di ricorrere all’Intercessione di Maria Vergine sua madre, fanno voto solenne di far fabbricare a spese della Comunità nelle Chiesa Collegiata (Duomo) una cappella con suo altare dedicandola sotto il titolo della Madonna delle Grazie…”

Clero, confraternite e popolo invocano la protezione della Vergine - Giuseppe Sariga, Cappella della Madonna delle Grazie, Duomo

Ha scritto A. MIGNOZZETTI, in Artisti nel Duomo di Chieri, Chieri, 2007 (ulteriori approfondimenti in “Architetti del ‘700”.

Nel 1756 il Comune di Chieri decise di ristrutturare ed ampliare la cappella votiva che nel 1631 aveva eretto nella Collegiata di Santa Maria della Scala come ringraziamento alla Madonna delle Grazie per aver allontanato la peste dalla città.

Fu quasi scontato che ne conferisse l’incarico a Bernardo Vittone, l’architetto che a Chieri aveva collaborato con Filippo Juvarra alla costruzione della chiesa di S. Andrea e in prima persona aveva progettato la cupola di S. Bernardino (1744) e la facciata della chiesa di S. Giorgio (1752) ed era stato appena incaricato di redigere il progetto per la costruzione di un orfanotrofio femminile, e aveva anche eseguito i disegni per la parrocchiale di Pecetto (1730) e per il palazzo dei conti Grosso di Bruzolo a Riva presso Chieri.

Nel 1757 Vittone eseguì i disegni riguardanti la struttura della cappella. Il lavoro di muratura fu eseguito dal capomastro Carlo Isabella e le opere in marmo da Amedeo Rizzi, scalpellino di Viggiù con laboratorio a Torino.

L’architetto venne più volte a Chieri: il 6 luglio 1757 per un sopralluogo; il 31 agosto 1758 per il collaudo dell’altare; il 31 luglio 1759, in compagnia del pittore Sariga, per assistere alla collocazione dei due quadri laterali.

Il 22 aprile 1759 presentò i disegni del rivestimento in marmo del piccolo presbiterio, che fu eseguito entro l’agosto del 1759, in tempo per la festa della Madonna delle Grazie.

Solo sei anni dopo, il 20 luglio 1765, presentò il terzo preventivo, concernente “la costruzione dell’impellicciamento dei due laterali della cappella”, cioè del rivestimento marmoreo delle pareti dell’aula: lavoro la cui esecuzione, forse per difficoltà finanziarie, andò molto a rilento e fu terminato dopo la sua morte, avvenuta nell’ottobre del 1770. Il collaudo dell’opera fu affettuato l’11 settembre 1771 dal suo allievo chierese Mario Ludovico Quarini.

All’opera collaborarono lo scultore Ignazio Perucca al quale si deve “il gruppo d’angioletti che forma sostegno al simulacro della Vergine, come pure quelli soprastanti al cornicione, e le tre testine alate sotto la stella terminale”; il pittore Giuseppe Sariga, che eseguì a fresco i dipinti del “cupolino” e ad olio le due tele ai lati dell’altare; l’intagliatore Giuseppe Antonio Riva per lavori vari, fra cui la porticina in legno del tabernacolo.

Con le linee rette dell’aula interamente rivestita di preziosi marmi policromi, che lateralmente si apre sulle cappelle adiacenti, creano un gradevole contrasto quelle curve del presbiterio che culmina in una semicupola affrescata con angeli da Giuseppe Sariga e in una luminosa lanterna. Formati di marmi policromi sono anche l’altare ad urna e la maestosa ancona marmorea che rispettivamente sostengono e racchiudono la statua lignea seicentesca della Vergine delle Grazie, opera di Pietro Botto di Savigliano.

Nell’ancona, in particolare, si sbizzarrisce la fantasia dell’architetto, che crea un’elegante edicola formata da sei colonne corinzie con una elaborata trabeazione curvilinea dalla quale emerge una corona marmorea a larghe volute che culmina con una stella dorata. Due bianche statue lignee di angeli, scolpite da Ignazio Perucca, sono collocate alle estremità della trabeazione. Opera dello stesso scultore sono le testine alate fra nubi ai piedi della Vergine.

Riscoprendo un espediente di origine romana già usato nelle chiese del Vallinotto presso Carignano, di San Bernardino a Chieri e di Santa Chiara a Bra ma da tempo accantonato, Vittone crea un’illuminazione “alla bernina”, cioè che scende dall’alto provenendo da una fonte nascosta. Come nella cupola della chiesa di San Bernardino, a sottolineare il flusso della luce un fascio di raggi dorati scende dalla finestra nascosta alle spalle della statua della Vergine.

Nella scelta dei marmi, sia nuovi che di recupero (questi ultimi provenienti dalla precedente cappella seicentesca), Bernardo Vittone conferma la sua conoscenza dei materiali e la grande sensibilità per l’armonia di forma e colore. Il rossiccio macchia vecchia delle colonne dell’ancona crea un gradevole contrasto con il bardiglio di Valdieri della mensa dell’altare; il verde di Susa si alterna al persichino di Roccarossa; la pietra di Gassino all’alabastro di Busca; il bianco di Carrara al giallo di Verona; il diaspro tenero di Sicilia al seravezza di Firenze e al rosso di Francia.

La cappella del Duomo conserva oggi le forme e le linee del progetto settecentesco di Bernardo Vittone che intervenne su un sacro sacello realizzato tra il 1632 e il 1636. Le due grandi tele del Sariga sono del 1759.

La cappella municipale della Madonna delle Grazie

3.1. Per saperne di più…

AA.VV. Nuova luce alla Madonna delle Grazie, Chieri, 2010. BOSIO A., Memorie storico-religiose e di belle arti del Duomo e delle altre chiese di Chieri, Torino 1878. BASSIGNANA E. (a cura di), Duomo di Chieri. 15 secoli di storia e di fede, Pinerolo 1986. CAVALLARI MURAT A., Antologia monumentale di Chieri, Torino 1969. MIGNOZZETTI A., Artisti nel Duomo di Chieri, orinoT 2007. MIGNOZZETTI A., Il Duomo di Chieri, note storico- religiose, Torino 2012. OLIVERO E., Sopra alcune architetture di Bernardo Vittone. La cappella della B. V. delle Grazie nel duomo di Chieri. Torino, 1924. VALIMBERTI B., Spunti Storico-religiosi sopra la città di Chieri, vol. I, Il Duomo, Chieri, 1928. torna all'inizio

4. Le due statue della Madonna

Da TOFFANELLO R., Madonna delle Grazie salvaci tu, in O di Chieri gran regina! La Madonna e la città tra Medioevo e Novecento, Chieri, 2010, pp. 69-86.

Ciò che da subito si pensò di collocare in Duomo era un’immagine della Vergine, anche se in una situazione provvisoria nel lento corso degli anni in cui si costruiva la cappella. Di un’effigie si parla da subito, da quando cioè, emesso il voto, si decreta di fare una processione di penitenza, portando un’immagine di Maria nella piazza delle Erbe, accanto all’Arco, e davanti a quell’immagine il capo del clero avrebbe letto, a nome di tutti, la formula del voto. Quell’immagine non è quella attuale che venne scolpita, pagata dal Comune e consegnata in Duomo solo dodici anni più tardi, nel 1642, opera di Pietro Botto di Savigliano (con influenze collaborative di Michele Enaten di Asti) ma una statua della Madonna già presente in una chiesa di Chieri e portata in Duomo dopo il voto.

È ora [2010] in restauro una statua della Madonna con Bambino Gesù in braccio, dal 1603 collocata nella sacrestia del Duomo; il particolare del coronato monogramma mariano “MG” dipinto sulla veste, riaffiorato durante le fasi del restauro, e la nota scritta da un puntiglioso canonico del Duomo in un libro capitolare, rende sempre più fondata l’ipotesi che sia questa la prima Madonna delle Grazie.

Madonna delle Grazie: la prima statua

La statua lignea di Pietro Botto di Savigliano (1642) ora collocata nella Cappella della Madonna delle Grazie, Duomo di Chieri

torna all'inizio 5. Le feste per i Centenari del 1830 e del 1930

Da F. FERRUA, Il bicentenario della Madonna delle Grazie, in Momenti di storia chierese nell’Ottocento, a cura Ferrua F., Vanetti G., Chieri, 2011.

“Solennissime, grandiose, magnifiche, maestose”. Le feste organizzate nel 1830 per celebrare i duecento anni dalla liberazione dalla terribile pestilenza che a Chieri aveva fatto oltre quattromila morti – quasi la metà della popolazione – furono l’evento religioso e mondano più notevole di tutto l’Ottocento. I cronisti raccontano che arrivarono in città, provenienti da Torino e dai paesi vicini, non meno di 25.000 persone per ringraziare la Regina dei Cieli, la Possente Vergine Liberatrice, la Beata Vergine delle Grazie la cui statua è venerata in duomo. Messe, canti, benedizioni e prediche si susseguirono ininterrottamente nei primi tre giorni di settembre; la città intera si riversò nelle strade e nelle piazze per un’inedita corsa dei cavalli nella via Maestra (oggi Vittorio Emanuele II) e per vedere nella più fitta tenebra della notte le chiese, i monumenti e i palazzi decorati con migliaia di lumi. Stupefacenti e scoppiettanti fuochi d’artificio illuminarono a giorno la grande piazza del Piano (poi Cavour) mentre un pubblico scelto assisteva in teatro all’esecuzione della Cenerentola.

Un articolo della Gazzetta Piemontese, autorevole bisettimanale di Torino che aveva a Chieri circa quaranta abbonati, elogiò – a festeggiamenti conclusi –la Civica Amministrazione e gli abitanti di questa inclita Città e il Signor Conte Masino di Mombello, nostro provvido Sindaco, le pubbliche podestà, le più distinte personeper l’organizzazione; il giornale nomina i valenti professori di musica fatti arrivare da Torino e fa complimenti ammirati ai tre predicatori che si alternarono sul pulpito per la maschia eloquenza … per la bella facondia … per parlari chiarissimi. Lo stesso giornale, qualche giorno prima, aveva dato notizia degli imminenti festeggiamenti e dei preparativi: “Nei primi tre giorni del prossimo 7mbre si celebra la solennità ad onor di Maria SS.ma delle Grazie per la liberazione dal gran contagio nel 1630. La vasta chiesa della Collegiata si addobba con tappezzerie fatte venire con gli apparecchiatori da Genova. Oltre alla musica della R. cappella vi sarà la corsa dei cavalli e, dopo i fuochi artificiali, la illuminazione generale. Per questa occasione un cittadino di Chieri produce per le stampe di Giacomo Marietti un libro intitolato Memorie storiche del gran contagio in Piemonte negli anni 1630 e 31, e specialmente del medesimo in Chieri e ne’ suoi contorni … prezzo fisso lire due”. Dell’autore del libretto, il chierese Giambattista Gioacchino Montù, professore di greco all’Università, possediamo anche una brillante e curiosa cronaca di quei memorabili giorni. Il manoscritto inedito – una relazione in brutta di 11 pagine che si conserva nel Fondo Bosio di Torino – era destinato ad essere pubblicato a Dio piacendo in un libro, ma dopo l’insuccesso delle Memorie del gran contagio ciò non avvenne. Un’altra cronaca dell’evento, anch’essa allo stato di manoscritto, fu redatta da Ottavio Gayotti nel Commentario di memorie patrie (21 pagine), testo che Bartolomeo Valimberti definì descrizione assai prolissa, ma che è apprezzabile per il contenuto molto analitico ed esauriente. E’ consultabile nella sezione di storia locale della Biblioteca Civica di Chieri.

Il Comune di Chieri organizzò la celebrazione della ricorrenza nel modo più sfarzoso possibile stanziando 2.000 lire e promuovendo una raccolta fondi. Comitati di quartiere, appositamente istituiti, chiesero ai proprietari di case e di terreni un’offerta in proporzione ai loro patrimoni (niuno la ricusò, anzi molti sorpassarono la propria quota sì in Chieri che in Torino). Professionisti, ortolani, osti, macellai, panettieri, mercanti, lavoranti da telaio e muratori versarono secondo il proprio volere e le proprie forze. Non mancò, ovviamente, qualche polemica. Il Montù riferisce quella tra gli osti e i macellai ed il Comune. I primi avrebbero voluto che il Comune si servisse obbligatoriamente da loro per organizzare i tavoli con i vassoi per i rinfreschi. Il sindaco non accettò e i negozianti, offesi, ritirarono le loro offerte e le convertirono in pane per i 450 poveri della parrocchia di San Giorgio e gli 800 del Duomo. I cabaretti per le autorità e per i loro ospiti furono pagati di tasca propria dal sindaco.

Come scintilla al fuoco, come il bombace ai lumi, l’ardore e l’entusiasmo di alcuni cittadini si trasmisero a molti altri che non esitarono a sostenere spese pur di ben figurare di fronte ai moltissimi forestieri che sarebbero giunti in città. Fu così che gli esterni dei palazzi ed i cortili furono restaurati ed “abbelliti” … coprendo con l’intonaco la fisionomia medievale di alcune facciate. In certi casi si lavorò pure di notte. I restauri riguardarono anche edifici pubblici: la facciata dell’ospedale e quelle della chiesa di Santa Lucia, attigua al Duomo. Su iniziativa della Confraternita della Santa Croce – riferisce il Montù – nella chiesa di Santa Lucia furono cancellate per incuria in quel torno le due pitture di san Luigi Gonzaga e di san Carlo nelle due colonne laterali dietro l’altare maggior in prospetto della strada pubblica.

Gli interventi maggiori riguardarono l’interno del duomo che, assecondando il gusto dell’epoca, fu come rivestito di tessuti. La progettazione fu affidata ad un abile disegnatore torinese che in pochi giorni consegnò un bozzetto risultato gradito ai più. Scartato il preventivo di un tappezziere torinese perché ritenuto troppo caro – prima pretese 8.000 lire, poi 5.000 e non meno… fatto complotto tra di loro tappezzieri torinesi – ci si rivolse a Giacomo Fantini, un chierese trapiantato a Genova il quale presentò unabile apparatore che chiese la modesta somma di lire 900 … e così – prosegue sornione il Montù – furono burlati i torinesi. Tre operai lavorarono senza sosta per un mese intero. Il risultato non si fece attendere. La Gazzetta Piemontese scrive che la chiesa venne addobbata con tanta ricchezza di apparati, e con sì moderna squisitezza di gusto, che non sarebbe stato possibile di crescerne maggiormente il decoro e la maestà. Scrive il Montù: “Ogni colonna era ornata di tappezzeria in velluto cremisi, ogni arco tra colonna e colonna coperto di tele bianche, rosse, verdi con molto talco in oro, ed un lustro (lampadario) magnifico ad ogni arco pendente, … tutti di rilucenti cristalli e ornati di candele. Sopra le otto colonne piccole stavano otto grandi immagini ben dipinte su cartone a Genova rappresentanti varie virtù. Il più bel colpo d’occhio fu il pulpito, ornata tutta la scala, il contorno, la corona superbamente, sì che niun Torinese avrebbe giunto ad eguagliarlo. Tanta fu la copia di arazzi che scrissero da Genova che credeano il Duomo di Milano … Sopra l’altar maggiore il frontone fu elegantemente ornato con varietà di arazzi pendenti in semicircolo, avea un padiglione magnifico, tutto di seta rossa in varie pieghe; in mezzo vi fu un trono dipinto su tela in mezzo a cui fu collocata la statua … Bella vista, magnifica, sorprendente, maravigliosa era il Duomo dalla porta grande, tanto più illuminato tutto, essendo tutte le cappelle ornate di candele, oltre i lustri nella nave di mezzo”.

La statua in legno della Madonna fu trasferita all’altare maggiore dalla cappella votiva in cui si trovava fin dal 1642, per essere riccamente addobbata e impreziosita: la marchesa Giuliers d’Alvernante e madama Masino, moglie del sindaco, l’avevano provvista a loro spese di un magnifico prezioso manto azzurro fatto ricamare a Torino a pagliette d’oro e cucito a Chieri da madama Buschetti e da sua figlia. Una collana superba e bei pendenti erano stati donati dal sindaco (il Gayotti specifica: “uno stupendo colliere d’Oro, guernito d’Amatista e Topazzi”). Il sindaco – racconta polemicamente il Montù – avrebbe voluto regalare anche una corona di pietre preziose, ma se ne astenne per timore che avvenisse lo stesso caso avvenuto al raggio di 6mila lire regalato dal Conte Baronis ai Canonici, e per loro negligenza lasciato rubare.

A garantire la sicurezza e a mantenere l’ordine pubblico furono poste 30 guardie del Reggimento di Piemonte e 6 carabinieri a cavallo, in aggiunta alle 20 guardie e ai carabinieri di stanza a Chieri, e a 16 veterani. Il Capitolo del Duomo vietò la vendita di ogni cosa presso la chiesa: confetti, candele e sin anche le immagini… mentre il Comune proibì i balli ed ogni specie di giocolieri pubblici,ma, purtroppo – afferma il Montù – venuti molti, ma fatti uscire, e così tanti poveracci, ciechi, storpi forestieri: dato ordine poi alle porte della città di tenerle aperte per le tre sere festive sino a mezzanotte. Gli fa eco la Gazzetta Piemontese: “Non si saprebbero abbastanza encomiare le previdenze, la saviezza e le sollecitudini d’ogni maniera con cui il prefato signor Conte (il sindaco) dispose, distribuì ed avviò i varii festeggiamenti, ed assicurò l’ordine pubblico, che in tutto il loro corso non venne in tanta folla menomamente turbato”. Il Gayotti scrive: “Certamente non potranno persuadersi li Posteri che il ragguaglio di quanto ho riferito … possa aver avuto luogo con tanta serenità e tranquillità d’animo…” attribuendone il merito all’amministrazione civica ma anche, e soprattutto, alla grazia di Dio ed assistenza della Santissima Vergine sicché tutto si concluse con la massima soddisfazione in mezzo all’allegrezza, fasto, buon ordine che risuonò per tutto il Piemonte.

Per la grande chiesa dell’insigne Collegiata di Santa Maria della Scala furono tre giorni davvero intensi, preceduti, la sera del 31 agosto, dalla cerimonia ufficiale: “Si radunò in chiesa il corpo di città coi soli consiglieri, mancanti due o tre, tra cui Gayotti per difetto di vestito e spada… disposto un banco peculiare con tappeto rosso al Comandante, ed un lungo banco in seguito coperto di superbo arazzo rosso con stelle d’oro, credo, affittato a Torino. Si cantarono le litanie in musica, con la Stella Coeli, e datasi la benedizione del SS.mo dall’arciprete col Capitolo, tutti accesi i lumi dell’altare, ai lustri, alle cappelle con maraviglia di tutti. Non vi fu né confusione né disordine, né bisbiglio forte, né altro inconveniente irreligioso ed indecente, in tutte le feste, come accadde nel 1780 con scandalo. Anche gli Ebrei in gran numero, uomini e donne, cittadini e forestieri concorsero curiosi e più volte in chiesa… tutti modesti e senza irriverenze, che purtroppo arrivano nei Cristiani medesimi. In generale vi fu rispetto e divozione”.

Una folla straripante di fedeli chieresi e forestieri passò davanti alla statua della Madonna, fece la comunione, assistette alle messe, ascoltò le prediche. Il Montù ricorda: “Furono celebrate al duomo nel primo giorno num. 48 messe, 79 il secondo, 58 il terzo, e num. 32 a San Filippo in un giorno solo, senza contare le altre chiese. Che affluenza di sacerdoti forestieri! Le sei Confraternite, due per giorno per anzianità, prima delle ore nove e mezzo andarono in visita, celebrata la messa dal loro cappellano, e con angioletti recanti il proprio dono… cuori d’argento con l’emblema della propira compagnia, ampolline…. Le Rosine andarono dopo pranzo del terzo giorno, con una Rosinella vestita bene in angioletta col proprio dono di una torcia e bel cuor d’argento… Le sole Orfane, benché possidenti, mancarono ma per incuria o per malignità contro il Capitolo, propria del loro Tesoriere, il Curato di San Giorgio”. La messa grande era cantata e vivacizzata dalle note di valenti musicisti. Ogni giorno un predicatore diverso fece il suo panegirico: il Montù apprezzò solo quello dell’arciprete Tosco, ma – si capisce! – aveva una settimana prima percorso [letto] il suo libro sulla peste… con tutto ciò potea esser migliore, essendo già in età d’anni 76 a 77. Nessun vescovo, tra i cinque invitati, poté partecipare alle funzioni. Le motivazioni addotte … non sembrano convincenti: esercizi spirituali ad Acqui, una prossima ordinazione ad Alessandria, una festa di preti, un impegno a fare i conti per il seminario, l’invito ad un ingresso vescovile.

Le occasioni di divertimento serale offerte ai cittadini (fuochi d’artificio, illuminazione cittadina, corsa dei cavalli) sono raccontate dal Gayotti e dal Montù con viva partecipazione. “Ebbe luogo dunque la prima sera la macchina dei fuochi artificiali sulla gran piazza del Piano, disposta tra la chiesa di San Bernardino e il muro di Sant’Antonio, in modo che fu visibile sin dalle Orfane…”. Davanti all’albergo del Muletto (oggi Caffè Nazionale) era stato costruito un palco per i consiglieri comunali ed un altro riservato al Sindaco, ai suoi amici e ai notabili del paese; un altro era stato piazzato contro il giardino di San Francesco (in via Palazzo di Città), un altro ancora presso i gelsi che occupavano lo slargo antistante il palazzo del barone di San Severino (Palazzo Bruni); persino le Orfane avevano un palco davanti al loro palazzo. “Il concorso di gente fu sommamente numeroso. Il fuochista, un pellicciaio di Asti storpio e linguacciuto, portò più e più macchine, ma non le piantò tutte scusandosi per l’inopportunità del luogo… contentò pochi”.

Prosegue il Montù: “Riuscì molto migliore la macchina stata illuminata sul fine tutta insieme con la immagine della Vergine ed una bella croce in cima che non ci fu nel Piano, eseguita dal nostro fuochista chierese Bertinetto e suo socio al Moreto, la domenica, con moltissimo concorso di gente, e sino tutti i Padri della Pace… [n.d.r. – si fa riferimento ad uno spettacolo pirotecnico che si faceva ogni anno alla prima domenica di settembre al pozzo del Moretto (via Avezzana ang. via Garibaldi), tradizione documentata a partire dal 1786]

… Dopo i fuochi cominciò la illuminazione generale, stupenda: tutti a gara qua e là per tutta la città. Non illuminate le sole facciate del Duomo e di San Giorgio per incuria o per altro difetto del Sindaco. Nemmeno il campanile di S. Giorgio che lo fu con la facciata nel 1780 … quarantamila lumi di latta affittò per Chieri il tolaio. Quattromila lumi all’Arco, 3.000 a San Filippo, il ghetto, 159 lumi a casa mia (in cima alla salita delle Rosine) compresi 5 fanali… Cosa bella a vedersi il gran mondo cittadino e forestiero, senza disordine però e senza disgrazia veruna, godendone lo spettacolo gli stessi Religiosi Domenicani e Riformati residenti e Cappuccini forestieri ed altri Religiosi, che passeggiavano per le contrade in mezzo al popolo, come di mezzogiorno, sino alle nove e dieci ecc. di notte… La moltitudine fu tale che al solo albergo del Muletto si asciugò il pozzo per i cavalli e la cucina nel primo giorno; ed i numeri d’ordine per le vetture fu sino a 280 disposte qui e là coi cavalli in varie corti e stalle da lui prese in affitto, cioè dal signor Balbiano che solo fece ottimo profitto di più mila lire… meno profittò l’oste Barbasino in fondo di piazza d’Erbe (oggi Umberto I). Bel vedersi la sera, a notte anche avanzata, partire tanti per casa loro vicina nei paesi prossimi, molti dormendo sdraiati sopra gli assi e sui palchi in piazza o contro i muri delle case, o anche nelle stalle in campagna, sotto gli alberi, come più di 400-500 sotto i mori dei soldati fuori la porta del Moreto. Era un caldo eccessivo in questi tre giorni, nella città, e massime in duomo: un tuffo afa irresistibile, non avendo piovuto alcun poco che la terza sera e l’indomane, sabbato, un gran temporale benefico alle persone ed alle campagne…

Particolarità notevole fu che, nella seconda sera, tra le ore 9 e 12 fu l’ecclissi della luna totale, come sta notato in almanacco, onde la illuminazione comparve più splendida della precedente”.“Le spese furono grandi alla città, ed ai cittadini; con molti incomodi, ma tutti contenti per le feste così ben riuscite e con somma soddisfazione ed applauso di tutti i forestieri, benché per mio [Montù] avviso io reputerei cosa meglio eseguita secondo la forma del Centenario fattosi in Andezeno poco prima del nostro, dove il popolo andò processionalmente alla parrocchia col clero alla cappella di San Rocco, senza musica e senza strepito, ivi detta la messa, e nel ritorno alla parrocchia, previo un fervorino del prevosto, si diede la benedizione del SS.mo. Dopo cantato il Te Deum a voce di popolo: così richiedendo lo spirito vero del Cristianesimo … Invece, conclude con amarezza il Montù, il Comune era più inclinato alla gioia secolaresca e profana, col teatro e colla corsa secondo l’uso depravato del mondo presente, che alla vera pietà religiosa”.

Da TOFFANELLO R., Madonna delle Grazie salvaci tu, in O di Chieri gran regina! La Madonna e la città tra Medioevo e Novecento, Chieri, 2010.

Nell’aprile 1930 si scelse il disegno di un nuovo ostensorio e si moltiplicarono le recite, le accademie, i teatrini, si progettò un grandioso banco di beneficenza per far fronte alle spese per i festeggiamenti; si istituì anche un apposito comitato. La statua venne collocata sull’altare maggiore tra candele e drappi e su una nuvola. Venne portata in processione il 1° settembre, collocata su un carro trionfale con il baldacchino antico (nel 1985 malamente adattato ad altare nella cappella). Venne a Chieri anche il principe Umberto II e si recò in Duomo dove depose ai piedi della Madonna delle Grazie una rosa bianca. torna all'inizio 6. Bibliografia Ragionata

TERRANOVA C., La peste del 1630 a Chieri, in O di Chieri Gran Regina. La Madonna e la città tra Medioevo e Novecento, Chieri, 2016, pp. 49-64. È lo studio più approfondito sull’origine dell’epidemia, la diffusione del contagio nel Chierese, l’assistenza agli infermi, i rimedi. TOFFANELLO R., Madonna delle Grazie salvaci tu, in O di Chieri gran regina! La Madonna e la città tra Medioevo e Novecento, Chieri, 2010, pp. 69-86 MONTÙ G. B., Memorie storiche del gran contagio in Piemonte negli anni 1630-31 e specialmente del medesimo in Chieri e ne’ suoi contorni, Torino, 1830. Il libro è consultabile anche sul sito web. Fu realizzato nella ricorrenza del bicentenario della peste. MIGNOZZETTI A., Cappella della Madonna delle Grazie (già di San Giuliano), in Il Duomo di Chieri. Note storico- religiose, Chieri, 2012, pp. 200-225. Studio esteso e ottimamente documentato sulla più nota cappella del Duomo. MIGNOZZETTI A., Il primo Seicento, in ID. Artisti nel Duomo di Chieri, Chieri, 2007, pp. 43-44. Notizie storiche introduttive alla presentazione degli artisti che lavorarono in Duomo. Memorie del secondo Centenario in Chieri 1830, s. d. (ma 30 ottobre 1830), ms. di Gioacchino Montù, in FONDO BOSIO, Biblioteca Civica Centrale, Torino, Sez. Manoscritti e Rari, mazzo 19, n. 353 sgg VALIMBERTI B., Spunti Storico-Religiosi sopra la Città di Chieri, Il Duomo, Chieri 1929, pp. 153-156 FERRUA F., Il bicentenario della Madonna delle Grazie, in Momenti di storia chierese nell’Ottocento, a cura Ferrua F., Vanetti G., Chieri, 2011 Gazzetta Piemontese, 9 settembre 1830, p. 622, 31 agosto 1830, e articolo 4 settembre 1830, in Biblioteca Civica Centrale, Torino. torna all'inizio

Arco di Piazza: dal 1580 a oggi

L’Arco di Piazza visto da Piazza Umberto I 1. L’Arco di piazza nel Cinquecento

Da MIGNOZZETTI A., Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016, pp. 233-260

1.1. Gli archi di trionfo in Piemonte

Nel panorama della vita pubblica piemontese la costruzione, nel 1586, dell’Arco di Piazza di Chieri non fu un episodio isolato ma si inquadrava in un costume affermatosi su vasta scala nel Cinquecento. In quel periodo, infatti, la riscoperta del mondo classico aveva suscitato un rinnovato interesse per gli archi trionfali dell’antichità, come quello di Tito a Roma, o quelli di Pola, Benevento ed Ancona e, nell’Italia del Nord-Ovest, quelli di Susa e di Aosta. Allo stesso tempo, si iniziò ad imitarli in determinate circostanze. Nel 1537 l’architetto Sebastiano Serlio scriveva: “Ancora che a nostri tempi non si faccian più archi trionfali di marmo, o d’altre pietre, nondimeno, quando alcun personaggio fa l’entrata in una città, o per passaggio o per tor il possesso di quella, se gli fanno ne’ più bei luoghi d’essa città alcuni archi trionfali di diverse maniere ornati di pittura…”. Di fatto, Francesca Filippi fa notare che nel giro di poco più d’un secolo, solo nel Piemonte centro-meridionale furono innalzati più di trenta archi di trionfo tra Mondovì, Cuneo, Fossano, Savigliano e Cherasco. Più vicino a noi, oltre a quello di Chieri, ne sorse uno anche a Moncalieri.

Nella seconda metà del Cinquecento furono in particolare due le occasioni che spinsero i municipi ad erigere archi trionfali in onore dei principi del momento. La prima, nel settembre del 1560, fu la visita di Emanuele Filiberto e della duchessa Margherita di Valois ai territori piemontesi appena riacquistati con la pace di Cateau-Cambrésis. Da Savona i duchi si diressero verso Ceva e Cuneo da dove, evitando Pinerolo, Chieri e Torino che, secondo le clausole del trattato di pace, erano ancora occupate da truppe francesi, puntarono verso Crescentino e Vercelli: in ognuna di queste località vennero eretti uno o più archi trionfali. La seconda occasione fu il viaggio, iniziato da Nizza il 18 giugno 1585, di Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria dopo le nozze celebrate a Saragozza l’11 marzo. L’itinerario fu sostanzialmente il medesimo fino a Moncalieri, da dove i due sposi raggiunsero Torino navigando sul Po fino al castello del Valentino: dovunque si ripeté il fenomeno dell’erezione di archi trionfali.

Ma tutte le visite dei Duchi nelle città di provincia venivano accolte con grandi festeggiamenti e spesso davano luogo all’erezione di archi. Che talvolta consistevano in strutture effimere, fatte di legno e tela, ricoperte di decorazioni vegetali, di dipinti, di bassorilievi e statue di stucco, di scritte che celebravano le gesta del Principe: strutture destinate a scomparire subito dopo la sua partenza. Ma altre volte si è trattato di costruzioni in muratura. In questo caso esse sono giunte fino a noi ed esistono ancora, sia pure con qualche modifica: è il caso degli archi trionfali di Savigliano, Cherasco, Moncalieri e Chieri. Savigliano. L’arco eretto nel 1585

1.2. L’arco di Chieri nel 1580

Come abbiamo appena detto, nel 1560 Chieri, ancora occupata dai francesi, rimase tagliata fuori dall’itinerario percorso da Emanuele Filiberto e da Margherita di Valois per recarsi a Torino, e nel 1585 lo fu da quello di Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria, perché a Moncalieri la coppia ducale si imbarcò e raggiunse Torino via fiume. Ma non mancarono altre occasioni per erigere archi di trionfo. Una di esse fu la visita solenne del duca Emanuele Filiberto che era stata programmata per l’autunno del 1580.

I rapporti di Chieri con il Duca non erano stati sempre dei migliori, fino al punto che qualche chierese rimpiangeva l’epoca in cui la città era occupata dai francesi. Nel nuovo assetto dello Stato, infatti, Chieri aveva perso ogni giurisdizione sul territorio circostante; il privilegio della città di gestirsi autonomamente le cause civili e penali era andato in fumo; la riforma fiscale aveva danneggiato il ceto mercantile ed imprenditoriale; le resistenze alle nuove misure fiscali avevano portato perfino allo scioglimento della Società di San Giorgio; la politica religiosa di Emanuele Filiberto aveva costretto all’espatrio i simpatizzanti per il Calvinismo e per la Riforma in genere. Poi, però, le cose erano cambiate. Emanuele Filiberto, sopprimendo pedaggi e inaugurando un rigido protezionismo, aveva ridato ossigeno alle produzioni locali, il fustagno chierese era tornato concorrenziale, Chieri ridiventò il principale centro cotoniero del ducato e il suo commercio riconquistò le piazze europee come in passato: tutte cose per le quali i chieresi furono riconoscenti al Duca il quale, da parte sua, non lesinò gesti di simpatia nei loro riguardi.

Fra il 1562 e il 1575 Emanuele Filiberto aveva visitato più volte la città. Nel 1580, in vista di una sua ulteriore visita, i chieresi lo vollero festeggiare costruendo un arco trionfale in suo onore. Racconta Antonio Bosio che “Si diede l’impresa al capomastro Bernardino Rostagno di costrurre un Arco quasi a metà della via Maestra sulla piazza d’Erbe in faccia alla casa di Matteo Montefamerio e di Valfredo Costa: esso venne compiuto in tre mesi, giugno, luglio e agosto, colla spesa di duemila scudi e mezzo d’oro a fiorini 9 e soldi 7 cadauno, il che rileva a L. 19.356”. La stessa cosa viene asserita da Ottavio Gayotti, dal Tessiore e dal Valimberti, gli ultimi due evidentemente sulla scia dei primi. Il duca Emanuele Filiberto, però, non poté vedere l’arco eretto per lui: la morte lo colse imprevedibilmente il 30 agosto di quello stesso anno.

Nei documenti di archivio non c’è traccia della costruzione di questo arco. Tuttavia, la descrizione che ne fa Antonio Bosio è così dettagliata che non è possibile metterla in dubbio. Semmai c’è da capire, non avendole egli citate, quali siano state le fonti alle quali potrebbe aver attinto, e come mai sui libri del Comune non se ne parli. Forse perché non fu pagata dall’Amministrazione pubblica ma da un gruppo di famiglie nobili e borghesi. Comunque, dovette trattarsi di una struttura effimera, costruita in legno ed altri materiali deperibili, presto scomparsi. Probabilmente, però, tale struttura era stata innalzata su un più durevole basamento in muratura.

1.3. L’arco nel 1586

Il tre aprile del 1586 in tutto il Ducato fu salutata con manifestazioni di giubilo la nascita di Filippo Emanuele, figlio primogenito di Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria. A Chieri si decise di festeggiare l’evento innalzando un nuovo arco di trionfo sullo stesso luogo in cui sei anni prima era stato eretto il primo[1]. Questa volta, però, si costruì un imponente struttura in muratura: quella tuttora esistente.

Si tratta di un manufatto di gusto e linguaggio rinascimentale, elemento moderno e di sapore trionfale in un contesto ancora caratterizzato dall’austera architettura medioevale. Un arco ad un unico fornice fiancheggiato da colonne corinzie a tutto tondo e a fusto liscio (quattro sul fronte ovest e due su quello est) poggianti su alti piedistalli. Tra le colonne della faccia ovest sono ricavate due nicchie nelle quali erano ospitare le statue di Carlo Emanuele e Caterina d’Austria. Nella trabeazione e nel piano attico, le coppie di colonne sono sostituite da coppie di lesene molto aggettanti che creano un senso di accentuato movimento. Originariamente sulla trabeazione, in corrispondenza delle sei colonne, erano collocate altrettante statue che, considerata la rapidità con la quale si deteriorarono, dovevano essere fatte di stucco. L’attico, recante una scritta su ognuna delle due facce, è sormontato da un’agile edicola, culminante con un timpano e fiancheggiata da obelischi triangolari, che conferisce grande slancio all’insieme. La scritta che si legge al centro della trabeazione dalla parte della piazza delle Erbe recita:

SABAUDOS PRINCIPES RELIGIONIS UBERTATISQUE CULTORES KAROL EMANUELEM ET CATHARINAM HISPAN REGIS F. CONIUGES OPTIMOS POSTQUAM MASCULA PROLE SUSCEPTA PUBLICAM SECURITATEM FELICITER AUXERANT CHERIENSIS CIVITAS LAETABUNDA EXCEPIT HOCQUE AETERNUM GRATULATIONIS MONUMENTUM POSUIT ANNO M.D.LXXXVI[2].

La città di Chieri ha lietamente accolto i principi di Savoia e ottimi sposi Carlo Emanuele e Caterina figlia del Re di Spagna, cultori della religione e della prosperità, e nell’anno 1586 ha innalzato questo eterno segno di congratulazione, dopo che con la nascita di un figlio maschio hanno felicemente accresciuto la sicurezza dei sudditi.

L’epigrafe (lato verso piazza Umberto) ricorda la visita a Chieri di Carlo Emanuele I e Caterina di Spagna

1.4. Ristrutturazione o costruzione ex novo?

Considerato che le testimonianze storiche parlano di due costruzioni dell’arco di Chieri avvenute a distanza di soli sei anni l’una dall’altra, è logico domandarsi se la seconda, quella del 1586 il cui risultato sopravvive tuttora, sia stata una costruzione ex novo o, come sostiene Antonio Bosio, un “perfezionamento”, cioè una ristrutturazione o un completamento di qualcosa che era rimasto di quello precedente.

La seconda ipotesi sembra la più probabile perché il Bosio si dimostra molto informato sulla vicenda. È lui, infatti, che ci ha tramandato anche i testi delle epigrafi che si sono succedute sulla sommità dell’arco. Probabilmente, pur non nominandole, ebbe modo di consultare fonti poi andate perdute. In secondo luogo, a suggerire che l’arco del 1586 sia stato un completamento di qualcosa di già esistente sembra essere il tenore degli ordinati del Consiglio comunale del 4 e del 7 maggio 1586. Essi attestano la volontà del Comune di portare a termine l’“heddificio del archo già principiato”: non, quindi, una costruzione ex novo ma il completamento di qualcosa che già esisteva. A tale scopo erano stati già chiesti i preventivi a capomastri ed artigiani. Ora bisognava esaminare “… li partiti della fattura dell’arco qual si fa nella piazza del borgo et delliberar la fattura d’esso conforme alli capitoli et ressolutioni pubblicati in piazza”. Alla fine fu scelto quello di tal Giacomo Colombero [3].

Purtroppo non è chiaro in che cosa sia consistito quel “perfezionamento” al quale allude Antonio Bosio e il significato dell’espressione archo“ già principiato” dell’Ordinato consiliare. Forse, ma è solo un’ipotesi, l’arco del 1580 era posticcio solo nella parte superiore, la più ricca di ornamenti e decorazioni plastiche, che poggiava su una più stabile base in muratura. Questa potrebbe essere “sopravvissuta” alla rapida scomparsa dell’altra, e su di essa potrebbe essere stato impostato l’arco del 1586[4]. 1.5. Il problema dell’autore

Ma questo monumento è al centro di un altro dibattito, questa volta riguardante l’identità dell’architetto che ne ha fornito il progetto.

Per molto tempo, e fino a non molti anni addietro, è stato attribuito all’architetto milanese, ma attivo anche a Torino, Pellegrino Tibaldi. Lo ha fatto Bartolomeo Valimberti nel suo libro Spunti storico-religiosi…. Lo ha fatto Augusto Cavallari Murat: nell’ Antologia monumentale di Chieri, trattando del rinnovamento architettonico introdotto in Chieri dai grandi manieristi, fra questi nomina anche il Tibaldi come autore dell’arco. E anche nella didascalia dell’illustrazione di pagina 113 scrive senza mezzi termini: “Pellegrino Tibaldi. L’arco trionfale di Chieri (1586) rilevato da M. Quarini”. Né lui, però, né il Valimberti citano le fonti dalle quali hanno attinto la notizia.

Probabilmente è sulla loro scia che altri in seguito anno sostenuto la stessa tesi. Guido Vanetti, ad esempio, scrive che l’arco, quale è giunto fino a noi, fu disegnato“ da Pellegrino Tibaldi (1527-1596) poco prima che il pittore e architetto si recasse in Spagna per restarvi sin quasi alla morte. Per comprenderne le caratteristiche e giustificare stilisticamente questo interessante esempio di un Manierismo che, pur guardando al passato, già preannuncia il Barocco, occorre confrontarlo con la facciata della Chiesa di San Fedele a Milano (1569), anch’essa del Tibaldi, che l’Arco di Chieri ricorda per la ricerca del verticalismo, evidenziato nell’impianto a due piani (ripreso poi dall’arte barocca), accentuato dalla presenza di paraste e colonne e completato dal frontone. Il superamento degli schemi proposti nel S. Fedele è evidente, invece, nella struttura piramidale del monumento chierese, ottenuta riducendo le dimensioni del secondo ordine e del frontone … Il momento di passaggio e nello stesso tempo il collegamento tra il San Fedele di Milano e l’Arco di Chieri è indubbiamente la Chiesa dei SS. Martiri, in via Garibaldi a Torino (1577), nella quale compare già la riduzione del secondo ordine e la sovrapposizione di riquadri in monocromo alle nicchie che avvolgono statue di ispirazione classicheggiante”.

Più recentemente Gianfranco Gritella ondeggia fra l’attribuzione al Tibaldi e quella ad un architetto fortemente dipendente da lui: “ La progettazione dell’arco trionfale di Chieri – scrive a pag. 39 del suo volume sul restauro dell’arco di Chieri – si collocò negli ultimi anni della densa attività architettonica tibaldiana, concentrata fra il 1563 e il 1587, quando l’artista lasciò Milano e la sua carica di architetto della fabbrica ambrosiana per trasferirsi a Madrid… Al di là delle conferme documentarie, peraltro ancora da comprovare con precisione, l’impianto compositivo della facciata dell’arco chierese rivela un’espressività d’insieme e una duttilità nel trattamento e nell’accostamento delle forme strutturali con quelle decorative, proprie dell’età ultima del soggiorno italiano dell’architetto… Al di là del comprendere con esattezza quale sia stato effettivamente il contributo sul piano progettuale e sul cantiere fornito dal Tibaldi, appare evidente… che a questi non fu affidata in esclusiva la soprintendenza ai lavori”.

Ma a pagina 47, parlando dei festeggiamenti organizzati a Chieri in occasione della visita di Carlo Emanuele I, Gritella, lascia da parte ogni incertezza e prudenza e si riferisce al Tibaldi come al sicuro autore dell’arco: “ L’intervento del Tibaldi (alla visita ducale a Chieri, ndr) apre tracce d’indagine ancora inesplorate… Stando alle informazioni che possediamo, il progetto dell’arco preparato dal Tibaldi si calava in un ambizioso programma di figurazione urbana… L’arco tibaldiano con la sua presenza incombente… si apriva sulla piazza del potere civico… “. Pellegrino Tibaldi (dal web)

1.6. L’architetto Giovanni Battista Ripa

Ma “L’improbabile attribuzione (del progetto al Tibaldi, n,d,r,) è smentita dai documenti che, incredibilmente, pare siano alquanto trascurati”. Lo sostiene, e lo dimostra, Vincenzo Tedesco in un volumetto del 2002 scritto in collaborazione con Michelangelo Navire e pubblicato dall’Associazione Carreum Potentia. E a sostegno della sua affermazione cita gli Ordinati del Consiglio comunale.

Il 7 maggio 1586 i Consiglieri devono rispondere alle proteste di Antonio Valfredo, la cui abitazione è adiacente all’arco in costruzione, il quale si lamenta “per li danni… che gli vien causato al hedificio di due sue botteghe et crotta qual ha nel presente luogo di Chieri nel bordo per la fabrica del heddificio del archo già principiato…”. Al contestatore il Consiglio risponde di non poter prendere in considerazione le sue rimostranze perché “…tal edifficio del Archo si è fabbricato et fondato de ordine delli Ingigneri mandati da sua Altezza”. Il Comune, cioè, dice di non poter intervenire perché la costruzione dell’arco era gestita da altri, cioè dagli Ingegneri mandati dal Duca. Notare che non si parla di un ingegnere, ma di ingegneri, al plurale, come se l’opera sia da attribuirsi ad unaéquipe di professionisti. Ma evidentemente quella frase va riferita alla realizzazione dell’opera. Poche righe più avanti, infatti, lo stesso Ordinato ne attribuisce il disegno ad un solo autore, del quale fa anche il nome: il 7 maggio “…è comparso maestro Hieronimo Sarone milanese abitante in Turino qual propone partito di far li stuchi necessari per l’archo secondo il dissegno fatto e secondo li ornamenti che si daranno da messer Battista Riva ingignero…”. Il progetto, quindi, è di un ingegnere di nome Battista Riva. Un nome sconosciuto. Almeno a Chieri. Ma certamente da identificarsi con Giovanni Battista Ripa, architetto milanese, in quel periodo residente e operante a Torino.

Il cui ruolo nella costruzione dell’arco di Chieri trova spiegazione in alcune vicende di quegli anni. Nel 1577, infatti, il duca Emanuele Filiberto, come segno di una riconciliazione fra il Vaticano e lo Stato, aveva deciso di costruire una chiesa dedicata ai Santi Martiri protettori di Torino Solutore, Avventore e Ottavio e di affidarne la cura alla Compagnia di Gesù, nata pochi decenni prima col compito di difendere la fede. I Gesuiti, forse dietro sollecitazione del Cardinale Carlo Borromeo, affidarono l’incarico di redigere il progetto a Pellegrino Tibaldi. Il quale sembra non si sia nemmeno spostato da Milano, ma abbia inviato a Torino il progetto, fortemente ispirato alla chiesa milanese di San Fedele, che fu realizzato dall’architetto Giovanni Battista Ripa, milanese ma residente ed operante a Torino. Probabilmente, partendo dal fatto che l’arco di Chieri fu eseguito dallo stesso architetto, si è pensato che anche questo fosse stato progettato dal Tibaldi, tanto più che vi si notano molte somiglianze con la struttura delle facciate delle chiese di San Fedele di Milano e dei Santi Martiri di Torino. Tale ipotesi divenne per qualcuno una certezza, e come tale è stata poi tramandata ed accettata passivamente. Invece, dai documenti di archivio sembra che a lui il Comune di Chieri abbia affidato l’incarico della progettazione dell’arco. Ma non si può escludere un’altra eventualità

Si ha tuttavia l’impressione che tutto ciò che è stato detto non elimini con assoluta certezza la possibilità di un qualche ruolo di Pellegrino Tibaldi nella costruzione dell’arco. Non si può escludere che, come nel caso della chiesa dei Santi Martiri di Torino, anche nel costruire l’arco di Chieri Giovanni Battista Ripa abbia realizzato un progetto non suo ma di Pellegrino Tibaldi. Tanto più che il significato della frase dell’Ordinato del 7 maggio 1586: “…è comparso maestro Hieronimo Sarone milanese abitante in Turino qual propone partito di far li stuchi necessari per l’archo secondo il dissegno fatto… da messer Battista Riva ingignero…”, frase che costituisce la prova regina a favore del Riva, non è poi così scontato: quella del maestro Girolamo Sarone, che cioè il Riva fosse l’autore del disegno, potrebbe essere stata una sua convinzione dovuta al fatto che era con lui che aveva a che fare, magari ignorando anche l’esistenza del Tibaldi.

Ma siamo nel campo delle ipotesi, anche se molto verosimili. In assenza di altre prove, il nome del Tibaldi lo si può evocare per riconoscere che la struttura dell’Arco di Piazza richiama quella di varie sue opere. Ma ciò si può spiegare con la dipendenza da lui del milanese Giovanni Battista Ripa, suo abituale collaboratore, al quale in realtà si dovrebbe assegnare il progetto. ASCC, Ordinati del Comune di Chieri, 4 maggio 1586 ASCC, Ordinati del Comune di Chieri, 4 maggio 1586

Incoronazione della Vergine, di Guglielmo Caccia (il Moncalvo), chiesa di San Bernardino, partic., 1601 ASCC, Ordinati del Comune di Chieri, 4 maggio 1586

L’Arco e (a destra) la Porta di San Domenico, dal Theatrum Sabaudiae. 1682

Cherium Civitas, fratelli Fea Cerruti, collez. privata, partic. della Piazza delle Erbe, 1662

Note

[1] Ottavio Gayotti: “In quest’anno viene perfezionato l’Arco di Trionfo nella Piazza d’Erbe, e questo per il giubilo, e consolante notizia della nascita del duca Vittorio Amedeo I, quale si solenizò con fuochi di gioia, illuminazioni, furon poste iscrizioni e stemma ducale e della Cittò, ornato di statue ed iscrizioni e dipinti allusiivi in occasione del loro ricevimento in questa città”. (p. 241).

[2] Questa epigrafe probabilmente è stata aggiunta all’arco l’anno successivo, dopo la visita dei Duchi, avvenuta nel 1577, altrimenti conterrebbe un errore cronologico, come ritenuto sia dal Bosio sia dal Valimberti.

[3] ascc, Ordinati del 1586, art. 58, par. 1, vol. 17, f. 5

[4] ascc, Ordinati del 1586, art. 58, par. 1, vol. 17, f. 6 v-8 v. Recentemente Gianfranco Gritella (2003) ha sostenuto una tesi più radicale: che “il cantiere per la costruzione del primo edificio non fosse mai stato avviato, o forse appena impostato e poi interrotto a causa dell’improvvisa morte di Emanuele Filiberto… L’occasione di riavviare i lavori , riprendendo le fila interrotte nel 1580, si presenta con la nascita di Filippo Emanuele, primogenito di Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria, e quindi della successiva, programmata visita a Chieri dei due sovrani per festeggiare l’evento, visita poi replicata il 23 agosto 1587, poco dopo la nascita del secondogenito, Vittorio Amedeo…”. Gritella basa la sua tesi sul fatto che nel 1587 la costruzione dell’arco costò 2000 scudi, tanto quanto era stato preventivato per il primo. Ma, anche non considerando il diverso valore attribuito allo scudo nelle due circostanze (9 fiorini e sette soldi nel 1580, 11 fiorini nel 1586), Gritella non tiene conto di quanto afferma il Bosio, che cioè nel 1580 l’arco era stato costruito in tre mesi, giugno, luglio e agosto, lasciando intendere che era stato portato a termine. torna all'inizio

2. L’arco fino ad oggi

Da MIGNOZZETTI A., Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016, pp. 233-260

2.1. I primi restauri

Nella storia di Chieri l’Arco di Piazza è tornato più volte alla ribalta per ricorrenti interventi di restauro. La prima volta nel 1593, quando una delle statue collocate sulla trabeazione cadde uccidendo la moglie di tale Baldassarre Ghignone. Il Comune, per precauzione, rimosse anche le altre[1], ad eccezione di quelle del Duca e della Duchessa, che erano collocate nelle nicchie.

Nel 1620 furono necessari non meglio precisati interventi di restauro, che arrecarono qualche danno all’abitazione confinante di Giacomo Montefamerio, il quale a tal motivo intentò una causa, vincendola, contro l’Amministrazione Comunale[2]. Altri abbellimenti, probabilmente sovrastrutture onorifiche provvisorie, risultano essere stati eseguiti nel 1629, in occasione di una visita di Madama Reale Cristina di Francia.

2.2. Il restauro di Bernardo Vittone

Durante la seduta del 21 aprile del 1761 il sindaco Angelo Baudo informava il Consiglio “… esser questa mane rovinata una parte dell’Arco di Piazza verso la chiesa dei RR. Padri di San Filippo, qual rovina ha causato la morte d’un uomo rimasto sul colpo e diverse altre persone ferite da materiali provenienti dalla rovina suddetta onde esser necessario che prontamente venghi l’Arco riparato in quella parte che come sovra è rovinato, come anche in tutte le altre sue parti visitato da persona perita affinché dalla medesima si riconosca se anche alle suddette parti resti pur anco o no il medesimo Arco bisognoso di riparazione affinché le medesime si facciano seguire quanto prima ad effetto d’evitare ogni ulterior rovina”[3]. L’uomo rimasto ucciso dal crollo era di Superga, e si chiamava Francesco Bertinetto.

Il Consiglio dette immediatamente incarico al medesimo sindaco “di far venire espressamente e prontamente dalla città di Torino un qualche Ingegnere da cui venghi l’Arco predetto visitato e ne prescriva le riparazioni necessarie ed anche il sentimento di detto Ingegnere”[4].

L’invito fu rivolto a Bernardo Antonio Vittone, in quel momento attivo in Chieri per la realizzazione della cappella della Madonna delle Grazie nella Collegiata e la ristrutturazione della chiesa di Santa Lucia e impegnato a Riva presso Chieri per il completamento della chiesa parrocchiale. Nella seduta del 9 dicembre 1761 il Consiglio decise di chiedere al Vittone “… di formare e transmettere alla Città il compito disegno o sii figura dell’Arco Trionfale sudetto nella forma che il medesimo di presente si trova coll’aggiunta però delle Statue sì e come gli è stato per parte della Città commesso, et avuta tal figura o sii dissegno il Consiglio si riserva di spedire gli opportuni mandati per la soddisfazione di tutto ciò e quanto le sarò al medesimo Sig. Ingegnere Vittone dovuto”[5]. I suoi disegni, per i quali venne compensato con L. 140[6], sono conservati presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino.

Le opere murarie, eseguite dal capomastro Giulio Cesare Lagna[7], costarono circa 3000 lire[8]. Dagli Ordinati del Comune si evince che nelle nicchie furono ricollocate le statue di Carlo Emanuele I e di Caterina di Spagna[9]. Da una lettera del Vittone indirizzata ad un non meglio precisato funzionario comunale, ma anche dai suoi disegni e dalla riproduzione a stampa fattane dal Quarini pochi anni dopo[10], si deduce che nel suo progetto era prevista anche la ricollocazione sulla trabeazione di sei statue in sostituzione di quelle eliminate nel 1593. In due riquadri sovrastanti le nicchie erano rappresentate due figure femminili allegoriche. Altre figure allegoriche comparivano in altri due riquadri alle estremità dell’attico.

A conclusione di quel restauro al centro della faccia est del piano attico fu posta la seguente iscrizione:

(LATO EST)

MONUMENTUM HOC SABAUDIS PRINCIPIBUS DICATUM TEMPORE INIURIA PENE COLLAPSUM CHERIENSES ANNO MDCCLXI RESTITUENTES CAROLO EMANUELI III SARDIN. REGI INVICTISSIMO AC VICTORIO AMEDEO SABAUDIAE DUCI OB RECREATUM NUPER EX LETHALI MORBO CAROLUM EMANUELEM PEDEMONTII PRINCIPEM NOVA OBSEQUII ET SPEI VOTA LAETANTI ANIMO PROFITENTU

Nel 1761 i Chieresi, restituendo a Carlo Emanuele III invittissimo Re di Sardegna e a Vittorio Amedeo Duca di Savoia questo monumento dedicato ai principi di Savoia, quasi distrutto dall’ingiuria del tempo, esprimono con animo lieto nuovi auguri per la guarigione da una grave malattia di Carlo Emanuele principe di Piemonte.

Mario Ludovico Quarini, Arco eretto dalla Città di Chieri, 1785 (da A. Cavallari Murat, 1969)

2.3. Gli interventi di Filippo Zalli…

Nel dicembre 1798, dopo l’occupazione del Piemonte da parte dell’esercito rivoluzionario francese, la Municipalità di Chieri attuò prontamente le disposizioni iconoclaste del Governo Provvisorio di Torino. Un manifesto affisso il giorno 11 stabiliva che: “1° Non si potrà da veruna persona tanto abitante in questa città che nel suo territorio ritenere… alcun titolo o distintivo. 2° Si dovrà indilatamente, e tosto pubblicato il presente, fare abbattere e cancellare ogni e qualunque siasi stemma gentilizio già inserviente di decorazione delle famiglie, tanto esistenti in pubblico che in privato…”. Coerenza e servilismo volle che i primi stemmi ad essere eliminati furono quelli reali dipinti sull’Arco di Piazza, e insieme ad essi le statue del duca Carlo Emanuele I e della moglie Caterina di Spagna[11] e quelle della trabeazione[12], e con esse le due epigrafi.

Il 31 agosto 1799, dopo che l’esercito austro-russo ebbe respinto e rimpiazzato quello francese, il Consiglio Comunale fu lesto a ripristinare gli stemmi reali [13]. Non si sa con certezza a chi sia stato affidato tale lavoro, ma si può supporre che si sia trattato di Filippo Zalli, visto che in quel momento era l’artista più quotato e che esiste un suo preventivo (non datato) per eseguire a fresco o ad olio anche gli stessi stemmi sulla facciata del Palazzo Municipale[14]. Nel dicembre del 1798 era stato lui a dipingere l’Albero della Libertà eretto dall’architetto Giuseppe Michele Vaj[15] e sarà lui il 7 maggio 1801 a ritoccarlo[16].

Stando alla testimonianza di Antonio Bosio[17], a conclusione di quell’operazione il Comune sulla faccia est fece dipingere dal pittore Marmori la seguente epigrafe:

REGIS ET URBIS INSIGNIA GALLORUM INVASIONE PROSCRIPTA PATRES BILIONE RECTORE RESTITUENDO CURAVERUNT ANNO MDCCLXXXXIX[18].

Epigrafe e stemmi scomparvero di nuovo allorché, dopo la vittoria di Napoleone a Marengo (14 giugno 1800), la situazione politica si ribaltò ulteriormente, il Piemonte tornò sotto l’ala francese e nel settembre del 1802 fu addirittura annesso alla Francia.

2.4. … quelli di Pietro Fea…

Anche dopo la fine di Napoleone e l’inizio della Restaurazione i solerti amministratori non persero tempo: nel giugno del 1814 sollecitarono vari artisti a presentare il loro preventivo per la ridipintura degli stemmi reali sull’Arco di Piazza. A tale proposito vi sono due lettere del pittore Pietro Fea, professore di disegno presso il Collegio Civico, una del 30 giugno e l’altra del 2 luglio 1814, nelle quali egli, “… essendo la mia intenzione di offrire la mia servitù alla Città a cui mi pregio di appartenere pel titolo del mio impiego”, si offre di eseguirli senza proporre un prezzo ma accettando il compenso che la Città gli avrebbe offerto e dichiara al cavalier Alessandro Buschetti che se gli verrà conferito l’incarico “… io ben volentieri accetto l’opera da eseguirsi, che sarà degna dell’epoca felice in cui siamo, corrispondente alla bella Architettura dell’Arco che si può considerare uno dei migliori documenti del Piemonte, ed onorevole al Corpo componente la Città; ed in questo caso, dopo che l’opera sarà compiuta e gradita, io accetterò quanto dai prefati Signori mi sarà offerto in titolo di regalo, mentre con la città di Chieri non intendo fare alcun prezzo, ma di consacrarle la mia poca abilità per renderla quanto da me dipende Chiara ed Illustre”[19]. Non sappiamo se la sua offerta sia stata accettata e se l’incarico sia stato affidato lui. 2.5. … e quelli di Felice Curtial e Francesco Ferazzino

Nel 1837, in occasione di un ulteriore restauro dell’arco[20] eseguito dall’architetto Felice Curtial[21], al pittore Francesco Ferazzino, figlio del “tolaio” e pittore Stefano Ferazzino, fu affidato il rifacimento completo della decorazione pittorica, come risulta dai documenti dell’archivio comunale: “Dichiaro io sottoscritto Marchese Vespasiano Ripa Buschetti di Meana, Consigliere Ordinario della Città di Chieri, particolarmente incaricato dalla Civica Amministrazione della direzione di tutti i lavori in corso d’aver accordato al Sig. Francesco Ferazzino l’opera di pittura ed ornati dell’arco Trionfale di Piazza mediante la somma di Lire Ottocento, da corrispondere finita la sua obbligazione, e ciò in vista che doveva eseguire come eseguì tutte le pitture a fresco, con somma mia soddisfazione, non che di quella di tutte le persone dell’arte, e per essere ciò la verità ho spedito il presente per quell’uso. In fede Chieri addì 16 Ottobre 1837”[22]. Negli ovali sovrastanti le nicchie, trasformati in ottagoni, Ferazzino ridipinse le due figure allegoriche; sopra di esse due medaglioni con i ritratti duchi Carlo Emanuele e Caterina, le cui statue erano state eliminate, e nei riquadri alle estremità dell’attico i loro stemmi.

Sulla facciata che dà verso la Piazza delle Erbe fu ripristinata l’epigrafe originale. Su quella opposta fu dipinta la seguente, il cui testo si deve al prof. Carlo Boucheron:

FORNICEM PUBLICAE GRATULATIONIS CAUSAM A SOLO EXCITATUM INSTAURATIS SUBSTRUCTIONIBUS SPLENDIDIORE CULTU RESTITUIT VICTORIUS BALBIANUS VIALIS C. RECTOR ET PROCURATOR URBIS. AN.M.DCCC.XXXVII KAROLO ALBERTO REGE

L’arco, innalzato per pubblico ringraziamento, ha restaurato nella struttura e restituito (alla città) con più splendido aspetto Vittorio Balbiano conte di Viale, rettore e procuratore della città, nell’anno 1837, regnante Carlo Alberto

L’arco, ormai dotato dell’orologio, fu ridipinto circa mezzo secolo dopo da un altrimenti sconosciuto pittore di nome Andrea Marchetti. L’inserimento dell’orologio aveva comportato l’eliminazione dall’edicola degli stemmi sabaudo e comunale. Il primo fu ridipinto fra le coppie di lesene del piano attico; il secondo fu replicato in proporzioni più ridotte sopra l’orologio.

Altri restauri vennero eseguiti nel 1980 e nel 2002, quest’ultimo sotto la direzione dell’architetto Gianfranco Gritella.

Clemente Rovere, Veduta dell’Arco da piazza delle Erbe, 1850 Clemente Rovere, l’Arco e la Chiesa di San Filippo nel 1850 Clemente Rovere, Veduta dell’Arco da piazza delle Erbe, 1850

Arco di Chieri, in “Il Secolo”, Le cento città d’Italia, 1895 2.6. La lapide ai “padri” della Patria

Il venti settembre 1911, essendo sindaco Francesco Fasano, nella parete nord dell’intradosso del fornice fu collocata una lapide-monumento “con medaglioni in bronzo raffiguranti i massimi Fattori dell’unità ed indipendenza d’Italia”. Fu disegnata dal consigliere comunale Giuseppe Mussino ed eseguita dal marmista Vincenzo Gastini. I quattro medaglioni di bronzo furono eseguiti dallo scultore torinese di origini valsesiane Casimiro Debiaggi. Il commendatore professor Agostino Bottero scrisse l’epigrafe, il cui tono retorico e la cui visione storica si devono al clima di quel momento storico:

LA STORIA DELLA GENTE LATINA RICORDERÀ NEI SECOLI IL VALORE E LA LEALTÀ DI VITTORIO EMANUELE II LA SAPIENZA POLITICA E LE SANTE AUDACIE DI CAMILLO BENSO DI CAVOUR L’EROISMO E LA GENEROSITÀ DI GIUSEPPE GARIBALDI IL PENSIERO E L’APOSTOLATO DI GIUSEPPE MAZZINI CLAMANDO ALLE FUTURE GENERAZIONI CHE PER L’OPERA DI QUEI GRANDI L’ASPETTATA FRA LE NAZIONI DOPO TANTI ANNI DI SERVITÙ SI LEVÒ E DISSE: IO SONO L’ITALIA Il fornice dell'Arco

Lapide dei Padri della Patria, 1911

[1] O. GAYOTTI, vol. 1, p. 247. Non sappiamo quante fossero le statue perché non abbiamo disegni antichi dell’arco. Quelli che abbiamo sono di Bernardo Vittone e di M. L. Quarini e rappresentano l’arco come appariva dopo l’intervento vittoniano del 1761.

[2] ASCC, art. 49, par. 10, n. 43, Atti civili del notaio Giacomo Montefamerio di Chieri conro l’Ill.ma Comunità del medesimo luogo.

[3] ASCC, Ordinati, art.58, par. 2, vol. 56, ff. 18 v-19.

[4] id

[5] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 56, f. 61 v.

[6] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 56, f. 69.

[7] ASCC, art. 157, vol. 18. Vedere anche: ascc, Ordinati, Art. 58, par. 2, vol. 56, ff. 19. 20. 21v. 26v. 27v. 49. 62.69.

[8] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 56, f. 20. [9] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 56, f. 49 v.

[10] In questa stampa il Quarini ha scritto: Arco“ eretto dalla città di Chieri nell’anno 1686 per la nascita di Vittorio Amedeo I”, ma doveva scrivere: Filippo Emanuele; Vittorio Amedeo nacque l’anno successivo, 1587.

[11] O. GAYOTTI, vol. I, p. 339.

[12] Non sappiamo quando furono eliminate le altre sei statue, che non verranno mai più ricollocate al loro posto: infatti sono assenti in tutte le riproduzioni dell’arco dall’Ottocento in qua e lo sono anche nella realtà attuale.

[13] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol, 70, f. 50.

[14] ASCC, cat. XIV, Miscellanea, Corrispondenza 1814-1815, 15-16.

[15] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 69, f. 114 v. Risulta che il Vay abbia eretto anche l’Albero della Libertà di Pino Torinese servendosi della collaborazione dello Zalli, del sarto Franco e del “tolaio” Giuseppe Ferazzino. Per quello di Chieri si servì di nuovo dello Zalli: si può supporre che sia ricorso anche agli altri due artigiani. Vedere in proposito: checchetto stefania-mantelli paola, 1989, p. 63.

[16] ASCC, Ordinati, art. 58, par. 2, vol. 70, f. 76 v.

[17] A. BOSIO, 1878, p. 340.

[18] “Nell’anno 1799, i responsabili della città, essendo sindaco Bigliani, fecero restaurare le insegne regie e cittadine che erano state proscritte in seguito all’invasione francese”.

[19] ASCC, Cat. XIV, Miscellanea, 15, Corrisp. 1814.

[20] Per tale restauro nell’agosto di quell’anno il Comune stanziò L. 5.700 per un primo acconto da versare ai vari artigiani e artisti coinvolti nell’opera (ASCC, Art. 157, Lettere, 31).

[21] G. GRITELLA, 2003, pp. 18-21.

[22] ASCC, verbale del Consiglio Comunale 16 ottobre 1837, allegati, p. 201.

3. Immagini dell’arco di Chieri

Si segnala la Galleria fotografica in: https://www.comune.chieri.to.it/cultura-turismo/arco-trionfale

DCIM100GOPROGOPR0844.JPG

DCIM100GOPROGOPR0795.JPG L’Arco di Chieri con l’illuminazione tricolore nel 150° dell’Unità d’Italia, 2011

DCIM100GOPROGOPR0847.JPG DCIM100GOPROGOPR0796.JPG torna all'inizio

4. Bibliografia ragionata

MIGNOZZETTI A., L’Arco di Piazza, in: Chieri. I monumenti, gli artisti, Chieri, 2016, pp. 233-260 CAVALLARI MURAT, Antologia monumentale di Chieri, Torino, 1969 Contiene un rilievo del Quarini a pag. 113 e due disegni del Vittone (1761) che riproduce il disegno di Pellegrino Tibaldi pag. 133. FILIPPI F., Archi trionfali nel Piemonte meridionale, 1560-1668, in Giovanni Romano – Gelsomina Spione (a cura di), Una gloriosa sfida. Opere d’arte a Fossano, Saluzzo, Savigliano. 1550-1750, Savigliano, 2000, pp. 155-18 GAYOTTI O., Commentario di memorie patrie con indice d’antichi ordinati del Consiglio della Città di Chieri, vol. I, passim, ms. in Biblioteca Civica Chieri, sez. Storia Locale GRITELLA G., La metafora e la magnificenza. Il restauro dell’arco di Chieri, Torino, 2003 TEDESCO V., L’Arco di Piazza di Chieri, in V. TEDESCO – M. NAVIRE, Il cinquecentesco Arco di Piazza nell’illustre città di Chieri, Chieri, 2002 VALIMBERTI B., Spunti storico-religiosi sopra la città di Chieri, vol. I, Il Duomo, Chieri, 1928, pp. 111-114. Nota n. 2 BOSIO A., Memorie storico-religiose e di belle arti del Duomo e delle altre chiese di Chieri, Torino, 1878

Collegamenti nella rete

http://www.carreumpotentia.it/larco-trionfale/ http://www.turismochieri.it/larco-di-trionfo/ torna all'inizio