ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

SCUOLA DI SCIENZE- CAMPUS DI RAVENNA

Corso di Laurea Magistrale in Biologia Marina

Mappatura degli habitat bentonici delle aree di e , con particolare attenzione alla componente macroalgale

Tesi di laurea in Pianificazione e gestione dell’ambiente costiero

Relatore Presentata da

Dott.ssa Federica Foglini Alessandra Rossi

Correlatori

Dott.ssa Simona Armeli Minicante

Dott.ssa Valentina Grande

Dott.ssa Fantina Madricardo

III Sessione

Anno Accademico 2015/2016

SOMMARIO

Obiettivi dello studio ...... 1

1.INTRODUZIONE ...... 2 1.1 INQUADRAMENTO TERRITORIALE ...... 4 1.1.1 LE LAGUNE COSTIERE...... 4 1.1.2 LA LAGUNA DI VENEZIA ...... 8 1.1.3 AREA DI STUDIO: CANALI CIRCOSTANTI LE ISOLE DI BURANO E TORCELLO .. 14 1.2 COMUNITÀ BENTONICHE DELLA LAGUNA DI VENEZIA ...... 16 1.2.1 COMPONENTE ZOOBENTONICA ...... 16 1.2.2 LE ALGHE DELLA LAGUNA DI VENEZIA ...... 17 a.Vegetazione marina della Laguna di Venezia: dagli anni ’30 ad oggi...... 17 b.Specie macroalgali alloctone nella Laguna di Venezia ...... 23 1.2.3 I GRUPPI MORFO-FUNZIONALI ...... 27 1.3 HABITAT MAPPING ...... 30

2. MATERIALI E METODI ...... 32 2.1 MULTIBEAM ECHOSOUNDER ...... 32 2.1.1 MULTIBEAM DATASET ...... 34 2.2 CLASSIFICAZIONE E SEGMENTAZIONE DEI DATI DI BACKSCATTER ...... 37 2.3 GROUND-TRUTH ...... 39 2.4 SURVEY PRELIMINARE PER L’UTILIZZO DEI GRUPPI MORFO-FUNZIONALI PER LA DESCRIZIONE DELL’HABITAT ...... 43 2.5 IL GEODATABASE: DESCRIZIONE ED ORGANIZZAZIONE DATI ...... 47

3. RISULTATI ...... 50 3.1 ANALISI DEI CAMPIONI ...... 50 3.2 BIODIVERSITÀ MACROALGALE E ALGARIUM VENETICUM ...... 54 3.3 MAPPA DELLE UNITÀ FISIOGRAFICHE ...... 59 3.4 MAPPA DELLE UNITÀ MORFOLOGICHE ...... 61 3.5 MAPPA DEGLI OGGETTI ANTROPICI ...... 65 3.6 MAPPA DEL SUBSTRATO ...... 67 3.7 MAPPA DELLA COMPONENTE BIOLOGICA ...... 73 3.8 MAPPA DEGLI HABITAT ...... 77

4. DISCUSSIONE ...... 81

5. CONCLUSIONI ...... 85

6. BIBLIOGRAFIA ...... 86

SITOGRAFIA ...... 94 Allegato 1 Allegato 2 Allegato 3 Allegato 4 Allegato 5 Allegato 6

Obiettivi dello studio Questo studio di tesi è finalizzato a mappare gli habitat bentonici di alcuni canali della Laguna di Venezia, nelle aree di Burano e Torcello, integrando gli elementi fisiografici, morfologici, sedimentologici e biologici. In questo modo si vogliono ampliare le attuali conoscenze riguardanti questo ambiente di transizione, già soggetto a normative che ne favoriscano la conservazione, come la “Direttiva Habitat”.

Gli obiettivi di questa tesi sono quindi:

 Mappare e classificare gli elementi morfologici e fisiografici dei canali studiati sulla base dei dati batimetrici;  Mappare e classificare i tipi di substrato presenti nell’area di studio interpretando il dato di riflettività del fondo acquisito tramite ecoscandaglio multifascio MBES (MultiBeam Echosounder);  Mappare gli oggetti antropici presenti nell’area;  Attraverso l’analisi di campioni fotografici effettuati al fondo tramite dropframe, verificare la corrispondenza tra l’immagine del fondale e la tipologia di substrato mappato sulla base del dato di riflettività; individuare, inoltre, eventuali taxa di organismi bentonici;  Produrre una mappa degli habitat bentonici dei canali presi in esame, integrando gli elementi morfologici, fisiografici, di substrato e biologici;  Classificare le macroalghe presenti nell’ambiente studiato in base ai gruppi morfo-funzionali.

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1. INTRODUZIONE

Il processo di mappatura degli habitat bentonici (Benthic Habitat Mapping- BHM) passa attraverso numerose discipline, come la biologia marina, l’ecologia, la geologia, l’idrografia, l’oceanografia e la geofisica, pertanto necessita di dataset integrati, per produrre delle rappresentazioni spaziali semplificate del fondale in relazione alla distribuzione delle caratteristiche biologiche (Brown et al., 2011). Le mappe degli habitat sono utili strumenti per la gestione e la tutela degli ecosistemi (Montereale Gavazzi et al., 2016). A questo scopo la Comunità Europea ha emesso, negli ultimi decenni, delle normative (Convenzione di Ramsar, 1971, Dir. 1992/43/CE, Dir. 2000/60/CE) che sollecitassero gli Stati a proteggere ecosistemi quali zone umide ed acque di transizione, come le lagune costiere. La protezione di questi ambienti è importante perché sono sistemi altamente produttivi (Kjerfve, 1994) ma, a causa delle pressioni antropiche (Facca et al., 2011) e del cambiamento climatico in atto (Chapman, 2012), si stanno attivamente ritirando (Barausse et al., 2015).

Gli strumenti utilizzati più ampiamente sono il Sidescan Sonar System (SSS) ed il MultiBeam EchoSounder (MBES). Questi metodi acustici restituiscono informazioni relative alla batimetria del fondale e alla tipologia di substrato, quest’ultima data dall’intensità della riflettività del fondo. Da questi dataset primari si ricava un certo numero di altri dati secondari, come inclinazione, ruvidità o durezza del fondale (Brown et al., 2011). Tra questi, in particolare, i MBES sono gli strumenti favoriti nelle campagne di habitat mapping, in quanto restituiscono una copertura acustica continua di larghe fasce di fondale e acquisiscono simultaneamente i dati di batimetria e di backscatter (Roberts et al., 2005; Brown e Blondel, 2009; Brown et al., 2011).

I MBES ad alta risoluzione hanno quindi permesso una migliore investigazione degli habitat bentonici, attraverso una continua mappatura a piccola scala della loro distribuzione. La loro applicazione in acque poco profonde e in ambiente lagunare (< 10 m) è molto recente (Madricardo et al., 2011; Foglini et al., 2014; Montereale

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Gavazzi et al., 2016), mentre invece sono già stati utilizzati per investigare reef coralligeni (Roberts et al., 2005), praterie di Posidonia oceanica (Micallef et al., 2012) o altri habitat macroalgali (Van Rein et al., 2011). All’acquisizione di dati acustici si accompagnano metodi di campionamento in situ. Questo processo di ground-truthing campiona solo una piccolissima parte del fondale, e la copertura totale degli habitat è quindi dedotta dall’associazione tra i dati ambientali di remote sensing ed i dati di campionamento in situ. In questo modo, la mappa finale è una predizione della distribuzione degli habitat del fondale (Brown et al., 2011). I fattori fisici dell’habitat agiscono quindi come un proxy per i dati biologici dell’habitat stesso (MESH, 2008).

Il termine “habitat” era originariamente definito come il luogo dove vivono organismi animali e vegetali (MESH, 2008; Brown e Blondel, 2009), ma può essere ampliato rappresentando le condizioni sia fisiche che ambientali che supportano una particolare comunità biologica (componenti abiotiche) assieme alla comunità stessa (componente biotica) (MESH, 2008; Shumchenia e King, 2010; Brown et al., 2011; Montereale Gavazzi et al., 2016).

Gli habitat possono essere definiti sull’assunzione che gli organismi si distribuiscono lungo gradienti ambientali e che i loro raggruppamenti definiscono serie distinte di fattori ambientali. Possiamo mappare gli habitat come aree spaziali definibili dove le condizioni fisiche, chimiche e biologiche sono distintamente differenti dalle aree circostanti. La mappatura di habitat è perciò definita come la descrizione fisica e completa di un particolare ambiente, sia nello spazio che nel tempo (Brown e Blondel, 2009). È importante ricordare, però, che nella maggior parte dei casi la mappatura di habitat è, e dovrebbe essere interpretata come, un’istantanea nel tempo (Brown e Blondel, 2009) o, più precisamente, una rappresentazione di una stima della distribuzione degli habitat in un punto in quel tempo utilizzando al meglio le conoscenze che si hanno a disposizione (MESH, 2008).

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1.1 INQUADRAMENTO TERRITORIALE

1.1.1 LE LAGUNE COSTIERE

Tra le definizioni di laguna costiera la più utilizzata in letteratura è quella di Kjerfve del 1994 (Duck e Silva, 2012): “Le lagune costiere sono corpi d’acqua solitamente orientati parallelamente alla costa, separati dall’oceano da una barriera e connessi ad esso da una o più bocche di porto. Presentano una profondità dell’acqua che raramente supera alcuni metri: di solito è di 1-3 m, e quasi sempre è inferiore a 5 m, con l’eccezione dei canali delle bocche e isolati canali o cavità relitte” (Kjerfve, 1994). Una successiva modifica è stata apportata da Bird nel 2008: “Le lagune costiere sono aree di acqua relativamente poco profonda che sono state sigillate parzialmente o interamente dal mare attraverso la deposizione di cordoni o barriere, solitamente di sabbia o ciottoli, costruiti sopra al livello di alta marea dall’azione delle onde” (Duck e Silva, 2012). Le lagune si sono formate come il risultato della risalita del livello del mare durante l’Olocene o il Pleistocene e la costruzione delle barriere è avvenuta grazie a processi marini. La loro vita, su scala geologica, è breve e la loro esistenza è intrinsecamente legata alla loro efficienza di filtraggio ed al tasso di cambiamento del livello del mare relativo in risposta ai cambiamenti climatici globali, alle attività tettoniche locali ed alle attività antropogeniche, come la costruzione di dighe (Kjerfve, 1994). Kjerfve nel 1986 suddivise le lagune costiere in tre tipologie geomorfologiche (figura 1) in base allo scambio d’acqua con il mare aperto. - choked lagoons : consistono solitamente in una serie di celle ellittiche, connesse da un singolo canale d’entrata lungo e stretto, lungo coste con alta energia ondosa e significativa deriva lungocosta; - restricted lagoons : consistono in un vasto corpo d’acqua, solitamente orientato parallelamente alla costa, che presenta due o più canali d’entrata o bocche di porto; - leaky lagoons: sono corpi d’acqua allungati paralleli alla costa con molti canali d’entrata lungo le coste (Kjerfve, 1994).

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Fig. 1. Le tre tipologie geomorfologiche di lagune costiere (Kjerfve, 1994).

Le lagune costiere presentano un ridotto afflusso di acqua dolce comparato all’afflusso di acqua salata, e per questo si differenziano dagli estuari. All’interno di un singolo sistema di laguna possono esserci tre zone di salinità la cui estensione spaziale può variare in base alle condizioni stagionali: la zona che comprende acque relativamente dolci si trova vicino alle bocche dei fiumi affluenti, le acque salmastre si trovano nella parte centrale della laguna, e si riscontrano salinità completamente marine all’entrata delle bocche di porto (Duck e Silva, 2012). Negli ultimi decenni, proprio sulla base di questa transizione tra le acque interamente dolci e quelle interamente salate, all’interno dell’Unione Europea è venuto in essere il termine “acque di transizione” come una conseguenza della Water Framework Directive (WFD), che ha stabilito una tipologia di corpi d’acqua sulla base di criteri fisici, idromorfologici e biologici (Chapman, 2012). La WFD è la direttiva 2000/60/CE, attraverso la quale la Comunità Europea (art. 1) intende istituire un quadro per la protezione delle acque superficiali interne, delle acque di transizione, delle acque costiere e sotterranee che:

5 a) impedisca un ulteriore deterioramento, protegga e migliori lo stato degli ecosistemi acquatici e degli ecosistemi terrestri e delle zone umide direttamente dipendenti dagli ecosistemi acquatici sotto il profilo del fabbisogno idrico; b) agevoli un utilizzo idrico sostenibile fondato sulla protezione a lungo termine delle risorse idriche disponibili; c) miri alla protezione rafforzata e al miglioramento dell'ambiente acquatico, anche attraverso misure specifiche per la graduale riduzione degli scarichi, delle emissioni e delle perdite di sostanze prioritarie e l'arresto o la graduale eliminazione degli scarichi, delle emissioni e delle perdite di sostanze pericolose prioritarie; d) assicuri la graduale riduzione dell'inquinamento delle acque sotterranee e ne impedisca l'aumento; e) contribuisca a mitigare gli effetti delle inondazioni e della siccità. All’interno di questa direttiva le acque di transizione sono indicate come “corpi idrici superficiali in prossimità della foce di un fiume, che sono parzialmente di natura salina a causa della loro vicinanza alle acque costiere, ma sostanzialmente influenzati dai flussi di acqua dolce” (Dir. 2000/60/CE, art. 2, comma 6). Precedentemente altre normative si sono dimostrate utili alla salvaguardia di questi ambienti. Una di queste è la Convenzione di Ramsar del 1971, nella quale (art. 1, comma 1) vengono definite come zone umide “aree di marsh, palude, torbiere o acqua, siano esse naturali o artificiali, permanenti o temporanee, dove l’acqua è ferma o corrente, dolce, salmastra o salata, comprese le aree di acqua marina la cui profondità durante la bassa marea non supera i sei metri”. Le zone umide d’importanza internazionale riconosciute ed inserite nell’elenco della Convenzione di Ramsar per l’Italia sono ad oggi 52; tra queste, quella di Valle Averto nel comune di Campagna Lupia (Venezia) è stata istituita nel 1989 (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare). Alla Convenzione di Ramsar seguono la “Direttiva Uccelli” (1979/409/CE, riscritta poi e diventata la dir. 2009/147/CE), mirante alla “protezione, gestione e regolazione degli uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico” (art. 1, comma 1), e la “Direttiva Habitat” (1992/43/CE), relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche.

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Per il raggiungimento dello scopo previsto dalla dir. 2009/147/CE gli Stati membri possono adottare numerose misure, tra le quali l’istituzione di zone di protezione speciale (ZPS) le quali, insieme ai siti di importanza comunitaria (SIC) istituiti in seguito alla dir. 1992/43/CE, andranno a costituire la cosiddetta Rete Natura 2000.

La protezione di questi ambienti, in particolare le lagune, è importante perché sono sistemi altamente produttivi (Kjerfve, 1994), tipicamente 10-15 volte più delle piattaforme continentali (Duck e Silva, 2012). Esse forniscono, infatti, più servizi ecosistemici e vantaggi per la società di qualunque altro sistema acquatico; ad esempio, le lagune forniscono cibo, rappresentano un punto di interesse culturale e ricreativo per l’uomo ed un insostituibile habitat per alcuni organismi (Chapman, 2012; Barausse et al., 2015). Le lagune costiere dei paesi sviluppati, però, oltre ad essere caratterizzate da alta produttività, presentano anche bassa qualità dell’acqua; queste caratteristiche sono dovute alla sinergia di molti fattori, come l’alta densità di popolazione nelle aree costiere, i ridotti scambi con il mare, lo sfruttamento da parte dell’uomo delle risorse naturali della laguna e l’accumulo di nutrienti dai bacini di drenaggio (Facca et al., 2011). Negli ultimi quattro decenni, infatti, le attività umane hanno aumentato i flussi di azoto in molte aree costiere intaccando l’equilibrio ecosistemico (Facca et al., 2011). Tale eutrofizzazione è uno dei problemi più importanti che affliggono le lagune costiere, ed uno dei suoi effetti più evidenti è il cambiamento, nel lungo tempo, delle specie vegetali, con una riduzione della diversità ed una prevalenza delle specie infestanti; questo cambiamento è anche accompagnato da un incremento di fenomeni anossici in acqua durante la stagione estiva i quali rendono la laguna vulnerabile e provocano morie di pesci ed organismi bentonici (Cioffi, 2008). Oltre all’eutrofizzazione, le lagune devono affrontare il problema del cambiamento climatico, per opporsi al quale il livello di gestione delle lagune deve essere ampliato, altrimenti danneggerà i servizi ecosistemici, ed in tal modo influenzerà negativamente il benessere umano (Chapman, 2012).

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L’area costiera al giorno d’oggi copre un ruolo centrale negli studi sui cambiamenti climatici, con lo scopo di fornire informazioni sugli impatti ed i rischi e proporre procedure per il futuro. Molti lavori si sono focalizzati sullo studio dell’evoluzione delle salt marshes in una prospettiva di cambiamento climatico, in differenti ambienti costieri in tutto il mondo. Da questi è emerso il ruolo dell’ampiezza di marea e della forza con cui soffiano i venti sull’evoluzione delle salt marshes, ed è stato affermato che negli ambienti microtidali, come la laguna di Venezia, l’erosione è più influenzata dalle onde generate dai venti che non dalle maree. In un’ottica di cambiamento climatico si prospetta che il sistema laguna tenderà entro un secolo ad avere caratteristiche fisiche più marine, e che l’ipotetico aumento del livello del mare causerà un’importante riduzione di habitat preziosi, come le salt marshes (Bellafiore et al., 2014). Per impedire questi cambiamenti devono essere prese delle decisioni che portino ad una gestione adattabile definita come “un processo iterativo di decision-making progettato per incorporare nuove informazioni ed in tal modo migliorare le decisioni future”. Una gestione adattabile deve essere basata sul mantenimento e l’ottimizzazione dei servizi ecosistemici e sulla minimizzazione di risultati inaccettabili che riducono il livello e/o la qualità dei servizi ecosistemici forniti (Chapman, 2012).

1.1.2 LA LAGUNA DI VENEZIA

Le lagune costiere occupano complessivamente il 13% delle aree costiere. Sono presenti più di 50 lagune costiere nel Mediterraneo, e di queste più di 26 sono lungo le coste italiane esclusa la Sardegna (Chapman, 2012). Tra queste, la Laguna di Venezia (figura 2), situata nel nord del Mar Adriatico, è la più grande d’Italia (Sfriso et al., 1994; Sfriso et al., 2009; Brambati et al., 2012) e la più importante sopravvissuta del sistema di lagune che in tempi Romani caratterizzava le coste dell’Adriatico settentrionale, da Ravenna a Trieste (Brambati et al.,2003).

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Fig. 2. Laguna di Venezia e bocche di porto comunicanti con il Mare Adriatico (https://www.mosevenezia.eu/ecosistema/).

Delimitata dal fiume Sile a nord e dal fiume Brenta a sud, la Laguna di Venezia presenta una forma allungata ed arcuata. Copre un’area di circa 550 km2, di cui 418 (inclusi i 47 di barene) aperti alle escursioni di marea, mentre 40 di terre emerse (isole, litorali e ”casse di colmata”) e 92 di valli da pesca sono esclusi alle espansioni di marea (Brighenti et al., 2003). Nella Laguna di Venezia il 67% della superficie è occupata da acqua, il 25% da salt marshes sommerse durante l’alta marea (Curiel et al., 2004), e l’8% da isole minori (se ne contano circa 60) (Wahsha et al., 2015). È lunga 50 km e larga 8-14 km, con una larghezza media di 12 km (Brambati et al.,2003). La laguna è connessa al mare attraverso tre bocche di porto, Lido, Malamocco e Chioggia, larghe (400-900 m) e profonde (15-50 m) che dividono la laguna stessa in tre bacini idrologici: nord, centrale e sud (Curiel et al., 1998; Sfriso e Facca, 2007). Pertanto, la Laguna di Venezia viene classificata, secondo lo schema di Kjerfve del 1986, una restricted lagoon. Le tidal marshes di Burano e Torcello segnano la separazione tra il bacino nord e quello centrale, mentre il profondo canale artificiale Malamocco-Marghera separa il bacino centrale da quello sud (Sfriso e Facca, 2007). I bacini nord e sud tipicamente

9 comprendono zone di allevamento di acquacoltura, salt marshes e praterie di alghe. Il bacino centrale, quello ospitante la città di Venezia, è soggetto ad un più alto impatto ambientale, dovuto ad un forte arricchimento di nutrienti ed allo scarico di rifiuti dalle zone industriali vicine (Curiel et al., 2004).

In termini di analisi chimico-fisiche, il bacino centrale mostra i più bassi valori di temperatura, salinità e pH ed il più alto valore di torbidità. In questo bacino si registrano anche i valori più alti di concentrazione dei nutrienti; in particolare, l’ammonio ha un valore doppio rispetto a quello riscontrato negli altri bacini, mentre i nitrati hanno valori quadrupli o quintupli. La torbidità è alta anche di fronte all’area industriale di Porto Marghera e nella zona nord di Venezia, vicino alle foci dei fiumi Marzenego, Dese e Siloncello. La laguna meridionale, invece, mostra principalmente acque trasparenti (Facca et al., 2011).

La laguna presenta una profondità media di 1.2 m (Wahsha et al., 2015), ma nei canali principali e nelle bocche di porto la profondità varia tra 10 e 20 m, con un’eccezione per la bocca di Malamocco che è il sito più profondo del nord del Mar Adriatico (circa 50 m) (Sfriso et al., 2009). Ha un ricambio d’acqua di 1.5 x 108/m3 ogni 12 ore (Magistrato delle Acque, 1989) e l’escursione media di marea è di circa ± 31 cm ma, sotto particolari eventi di marea e/o condizioni meteorologiche dovute anche alla conformazione dell’Adriatico in un bacino di forma stretta ed allungata (Mizzan, 1998; Facca et al., 2014), sono stati osservati valori superiori a 170 cm sopra al livello medio mare (Curiel et al., 1998; Facca et al., 2011), il fenomeno dell’acqua alta. La temperatura media annua è di 14.5°C ed il range di precipitazione va da 650 mm a 850 mm (Wahsha et al., 2015). La temperatura dell’acqua è di norma 4-5°C in inverno e nelle aree interne, dove la salinità è ridotta, l’acqua occasionalmente congela, come è successo nel 1991. Le temperature dell’acqua possono raggiungere i 27-29°C in luglio ed agosto, ed alcune volte superano i 30°C in aree con basso ricambio d’acqua e presenza di macroalghe (Curiel et al., 2004).

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La salinità varia tra 18 e 30‰, seguendo variazioni stagionali lungo un gradiente che va dal centro della laguna verso la parte esterna, in prossimità delle bocche di porto (Wahsha et al., 2015).

Nelle coste occidentali della Laguna di Venezia sboccano numerosi grandi fiumi, alcuni di origine alpina, determinando valori termo-alini più vicini ad ambienti nord-europei che mediterranei. A ciò si aggiungono anche l’influenza termica e pluviometrica delle Alpi orientali ed i periodici venti freddi da Nord-Est (Bora). Queste condizioni rendono la Laguna di Venezia un ambiente con affinità più marcatamente nord-europee piuttosto che tipicamente mediterranee, definite spesso anche come “sub- atlantiche”(Mizzan, 1998).

Nel bacino lagunare si distingue una fitta rete di canali che si sviluppa per una lunghezza di oltre 700 km. All‘interno di questa rete è individuabile un’ossatura formata dai canali principali e secondari. Da questa si dirama un numero elevatissimo di canali minori e meandriformi, detti ghebi, che si addentrano nelle barene, e terminano nei chiari, specchi d‘acqua piovani o salmastri racchiusi dalle barene. Ai lati dei canali si estendono le velme, che in particolari condizioni di bassa marea sono emerse. Per descrivere la rete dei canali lagunari se ne è proposta una classificazione secondo le seguenti caratterizzazioni: - canale principale: canale navigabile, con profondità in mezzeria sempre maggiore di 3 m. Facilmente identificabile per la presenza continua di bricole (almeno su un lato). Mai chiuso, è collegato da entrambe le parti con canali principali o secondari; - canale portuale: canale navigabile, con profondità in mezzeria sempre maggiore di 7 m, e larghezza maggiore di 70 m. Sempre cieco e terminante in una zona adibita a porto; - canale secondario: canale navigabile, con profondità in mezzeria maggiore di 1.5 m; - canale minore: canale non sempre navigabile, di difficile individuazione, con profondità intorno al metro;

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- canale cieco e ghebo: canale stretto e poco profondo, con variazioni improvvise di profondità, di larghezza o di direzione; - canale urbano principale: canale navigabile, di profondità maggiore di 3 m, di larghezza maggiore di 20 m, con fondamenta edificate da ambo i lati. Le altezze dei ponti sono maggiori di 4 m; - canale urbano secondario: canale navigabile, stretto e di profondità intorno ai 2 m, con fondamenta edificate da ambo i lati. Possibili difficoltà di passaggio sotto i ponti (Brighenti et al., 2003).

La laguna di Venezia rappresenta un importante caso studio per il suo ruolo economico, storico ed ecologico (Sfriso et al., 2009), quindi non sorprende che la sua salvaguardia sia tra gli obiettivi più importanti sia a scala nazionale che internazionale (Facca et al., 2011). Nell’area della laguna, infatti, sono stati istituiti tre SIC: IT3250023 “: biotopi litoranei”, IT3250030 “Laguna medio-inferiore di Venezia”, IT3250031 “Laguna superiore di Venezia”, ed una ZPS: IT3250046 “Laguna di Venezia”.

Le sue condizioni ambientali sono frequentemente monitorate e profondamente studiate al fine di prevenire fenomeni di crisi distrofiche, che potrebbero danneggiare l’attività ittica e minacciare la salute dell’uomo (Facca et al., 2011).

Dagli anni ’20, quando l’area industriale di Porto Marghera ha iniziato a svilupparsi, lo scarico di inquinanti, sostanze trofiche (composti di fosforo ed azoto) ed acque calde hanno profondamente intaccato la qualità dell’acqua della laguna. Inoltre, liquami ricchi di nutrienti venivano scaricati nei canali del centro storico di Venezia e dispersi nella laguna dalle correnti di marea e dai venti (Sfriso et al., 2009), rendendola un ambiente altamente inquinato (Quero et al., 2015). Dopo la seconda guerra mondiale la Laguna di Venezia ha subito numerose pressioni antropiche che frequentemente hanno causato il cambiamento delle condizioni ambientali (Sfriso et al., 2009). Durante l’ultimo secolo, ad esempio, la laguna ha subito una generale degradazione che comprende il progressivo approfondimento delle piane intertidali e la riduzione delle aree di salt marsh (Duck e Silva, 2012). La subsidenza relativa della città è associata

12 all’aumento del livello del mare. Durante lo scorso secolo è avvenuta una perdita di elevazione di 23 cm, consistenti di circa 12 cm della subsidenza del suolo, sia naturale (3 cm) che antropogenica (9 cm), e di 11 cm di risalita del livello del mare. Escludendo la subsidenza, è stato calcolato un tasso di risalita di 1.13 mm/anno (Brambati et al.,2003). L’estensione delle salt marsh si è ridotta (Barausse et al., 2015) da 68 a 32 km2 tra il 1927 ed il 2002, mentre le aree subtidali tra 0.75 e 2 m di profondità sono cresciute da 88 a 206 km2 durante lo stesso periodo. Inoltre, è stata dimostrata una netta perdita di sedimenti dalla laguna al mare, che ha trasformato la laguna da un sistema microtidale ben sviluppato negli anni ’30 ad un corpo d’acqua dominato dalla subsidenza e bisognoso di sedimento negli anni ’70 (Duck e Silva, 2012). Ancora oggi ripetute campagne batimetriche indicano che la profondità dell’acqua all’interno della Laguna di Venezia sta apparentemente aumentando nel tempo ed in tal modo si possono sviluppare onde sempre più grandi che erodono il fondale (Carniello et al., 2009), semplificandone la morfologia (Duck e Silva, 2012) e la topografia (Barausse et al., 2015).

Circa 15000 sono i chilometri di coste europee che si stanno attivamente ritirando e l’area persa o seriamente impattata dall’erosione è stimata essere 15 km2 per anno. Le coste mediterranee mostrano il tratto di costa più lungo colpito dall’erosione (30%). L’erosione di questi sistemi è causata da processi sia naturali che antropici. Fra le cause naturali ci sono le correnti di marea e le onde, i quali effetti combinati sono la risospensione ed il trasporto dei sedimenti fuori dalla laguna, verso il mare. Le cause antropogeniche sono numerose, come la quasi assenza di sedimenti fluviali ed apporti di acqua dolce in laguna, dovuta alla deviazione dei maggiori fiumi dalla laguna da parte dei Veneziani durante i secoli passati per prevenire che la laguna venisse riempita dai sedimenti. Altre cause chiave sono la costruzione di lunghi moli in corrispondenza delle bocche di porto e l’escavazione di profondi canali lagunari, per permettere il passaggio di grandi navi, che hanno modificato il sistema delle correnti (Barausse et al., 2015).

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1.1.3 AREA DI STUDIO: CANALI CIRCOSTANTI LE ISOLE DI BURANO E TORCELLO

L’area di studio è la zona che circonda l’isola di Burano e l’isola di Torcello, al limite tra il bacino centrale ed il bacino settentrionale (figura 3). La zona studiata ha una superficie di 1.56 km2 ed è costituita dai seguenti canali: Canale di Burano, Canale Scanello, Canale S. Antonio, Canale della Dolce, Canale di Torcello, Canale Borgognoni, Canale Silone e Canale Dese. La profondità di questi corsi d’acqua varia tra 20.85 m e 0.31 m, con una media di 3.89 m.

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1.2 COMUNITÀ BENTONICHE DELLA LAGUNA DI VENEZIA

1.2.1 COMPONENTE ZOOBENTONICA

La Laguna di Venezia è caratterizzata da un mosaico di habitat e morfologie a differente scala, risultante dall’interazione tra fattori biotici ed abiotici (Marchini e Marchini, 2006; Sigovini et al., 2016). Questa eterogeneità si osserva soprattutto nel bacino nord, a causa degli importanti input fluviali e marini che riceve, della vicinanza al centro urbano della città, e della forma che favorisce l’eutrofizzazione (Corriero et al., 2007). La conoscenza ridotta delle caratteristiche geomorfologiche e delle comunità bentoniche dei fondali dei canali è dovuta a numerosi fattori, quali torbidità, forti correnti e traffico navale (Sigovini et al., 2016). In particolare, le uniche campagne estensive sulle biocenosi dei canali sono state condotte negli anni 1930-32 (Vatova, 1940) e 1948-1968 (Giordani Soika e Perin, 1974), mentre studi successivi si sono focalizzati su spazi limitati (Sigovini et al., 2014). Da questi emerge che i tipi di substrato riconosciuti includono sedimenti che spaziano tra il silt grossolano e la sabbia molto fine, e complesse strutture biogeniche come reef di ostriche morte. Questi ultimi sono fortemente incrostati da biocostruttori e colonizzati da altri organismi come spugne, tunicati e briozoi (Sigovini et al., 2014). Spugne e briozoi, infatti, si presentano come due tra i phyla più rappresentativi in termini di numero di specie e percentuale di copertura dei fondi duri, assieme a cnidari, policheti serpulidi ed ascidie (Corriero et al., 2007). Molluschi [Ostrea edulis (Mollusca, Bivalvia, Ostreidae), Tapes decussatus (Mollusca, Bivalvia, Veneridae), Mytilus edulis e M. galloprovincialis (Mollusca, Bivalvia, Mytilidae)] e policheti, invece, sono i maggiori colonizzatori di substrati molli (Maggiore e Keppel, 2007). In termini di vegetazione acquatica sommersa, invece, quest’ultima include macroalghe e turf algali (Sigovini et al., 2016), ma questo argomento sarà trattato più approfonditamente nel capitolo successivo.

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Negli ultimi anni, in generale, si è osservato un trend di omogeneizzazione a livello di struttura delle comunità, con una conseguente perdita di peculiari associazioni di specie (Corriero et al., 2007) e comparsa di specie alloctone, come: - Cassostrea gigas (Mollusca, Bivalvia, Ostreidae) , di origine giapponese, introdotta a Grado nel 1975; - Tapes philippinarum (Mollusca, Bivalvia, Veneridae), introdotta volontariamente in Laguna di Venezia per fini commerciali nel 1983; - Rapana venosa (Mollusca, Gastropoda, Muricidae), rinvenuta per la prima volta nell'estate del 1975 (Mizzan, 1998).

1.2.2 LE ALGHE DELLA LAGUNA DI VENEZIA

a. Vegetazione marina della Laguna di Venezia: dagli anni ’30 ad oggi.

I primi studi sulle macroalghe della Laguna di Venezia sono stati condotti da Olivi (1794) in un saggio sulle nuove specie di Ulva registrate nella laguna. Tra il 1930 ed il 1932, importanti studi sono stati condotti da Vatova e Schiffner, le cui collezioni si trovano presso il Museo di Storia Narurale di Venezia, assieme all’Algarium Zanardini. Successivamente, Sighel studiò, nel 1938, le specie trovate lungo un transetto dal centro storico di Venezia alla bocca di Lido per la prima volta, mentre Vatova, due anni più tardi, fornì una descrizione di tutte le specie registrate nell’intera laguna (Vatova, 1940). Seguirono vari autori, tra cui Pignatti (1962) e La Rocca (1976). La maggior parte della letteratura, però, è stata prodotta negli anni ’80. La prima check-list di quel periodo venne compilata da Sfriso, nel 1987 (Sfriso, 1987). Molti sono i lavori successivi condotti da Bellemo (1999, 2001), Marzocchi (2001, 2003, 2005), Sfriso e Curiel , che riportano, nel 2007, 277 taxa (Sfriso et al., 2009).

La vegetazione degli ambienti lagunari può essere costituita da forme fisse al substrato oppure da forme libere trasportate passivamente dalle correnti e addensate in aree più o meno grandi dove permangono adagiate sul fondo (Cormaci et al., 2003).

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Le modificazioni avvenute nella laguna di Venezia, come antropizzazione, industrializzazione e banchinamenti delle rive, hanno determinato variazioni nei popolamenti fitobentonici dei substrati mobili e duri. In quelli mobili si è verificata una progressiva crescita di macroalghe nitrofile (Ulva rigida C. Agardh, Enteromorpha sp., Cladophora sp., Chaetomorpha linum (O.F. Müller) Kützing) ed una riduzione di fanerogame marine (Zostera marina Linnaeus, Zostera noltii Hornemann e Cymodocea nodosa (Ucria) Ascherson). Nei substrati duri delle aree portuali si è verificata, a partire dagli anni ’60, una riduzione della diversità specifica algale soprattutto in profondità ed una graduale riduzione di importanti specie indicatrici, come Cystoseira barbata (Stackhouse) C.Agardh (Curiel et al., 2001).

Tra gli anni ’70 e gli anni ’80 letti di Ulva rigida ed altre ulvacee hanno sostituito le praterie di fanerogame, specialmente nel bacino centrale (Sfriso et al., 1994; Sfriso e Facca, 2007). Ulva rigida è una macroalga verde capace di assorbire i nutrienti anche in forma organica. Durante il bloom di questa specie, la crescita di specie appartenenti al genere Gracilaria Greville è stata confinata alle aree esterne rispetto a quelle coperte da Ulva, dominando solo vicino ai bordi dei canali, dove l’influenza delle correnti e la risospensione e deposizione del materiale particolato sono alte. Grazie ai suoi particolari pigmenti, infatti, Gracilaria può sopravvivere in acque torbide e/o profonde meglio di Ulva (Sfriso et al., 1994), tanto che predilige i fondi fangosi (Zolezzi, 1947). Inoltre, le analisi fisico-chimiche del tallo di Gracilaria mostrano come la specie abbia un alto contenuto di carboidrati ed una capacità di assimilare fosforo e azoto di origine antropica efficacemente maggiore rispetto ad altre specie. Al contrario, gli inquinanti ed i metalli pesanti vengono accumulati con un pattern simile alle altre macroalghe (Sfriso et al., 1994). Nel 1980 le macroalghe ricoprivano circa 202 km2 di laguna. Il bacino centrale era principalmente colonizzato da Ulva rigida, mentre la macroalga dominante del bacino sud era Chaetomorpha linum, una specie filamentosa che in presenza di elevata biomassa non ostacola la circolazione dell’acqua (Sfriso e Facca, 2007). In generale, assieme a Ulva rigida e Chaetomorpha linum, Gracilariopsis longissima (S.G.Gmelin)

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Steentoft, L.M.Irvine & Farnham e Valonia aegagropila C.Agardh erano le specie algali più diffuse (Curiel et al., 2004), ma si rinveniva anche Gracilaria armata (C.Agardh) Greville (Curiel et al., 2004). La dominanza macroalgale ha persistito fino ai primi anni ’90 (Sfriso e Facca, 2007). Tra i lavori degli anni ‘40 (Schiffner e Vatova, 1937; Vatova, 1940) e quelli degli anni ’80, quindi, le informazioni indicano una graduale riduzione di fanerogame come Zostera marina, Z.noltii e Cymodocea nodosa, ed una crescita di macroalghe, specialmente nella parte centrale della laguna (Curiel et al., 2004).

Dagli anni ’90 U. rigida è stata parzialmente sostituita da Gayralia oxysperma (Kützing) K.L.Vinogradova (Curiel et al., 2004). La ricerca portata avanti in maggio e giugno 1991 da Curiel et al. (2004) ha mostrato una grande riduzione delle composizioni floristiche. Nelle cinque aree sommerse studiate (Lido, Sacca, Sessola, Campalto, Tessera e S.Erasmo) le Chlorophyta variavano tra il 50 e l’80%, le Rhodophyta tra il 14 ed il 38% e le Phaeophyta tra lo 0 ed il 14%; il numero di specie algali variava tra 6 e 17 e veniva riportata una fanerogama (Zostera noltii). U. rigida era la specie prevalente (70-90% delle stazioni). Altre specie come Gracilariopsis longissima, Gayralia oxysperma, Enteromorpha spp. e Cladophora spp. alcune volte raggiungevano alti livelli di presenza (Curiel et al., 2004). Al contrario, nell’area di controllo sommersa di Malamocco, dove il ricambio idrico è maggiore, la composizione floristica era più bilanciata, con il 44% di Chlorophyta, il 32% di Rhodophyta ed il 9% di Phaeophyta, per un totale di 20 taxa più le due fanerogame Zostera marina e Zostera noltii (Curiel et al., 2004), le quali ricoprivano il 13% della superficie lagunare aperta all’espansione di marea (Caniglia et al., 1992). Z. marina sembrava collocarsi in un intervallo di sedimenti estremamente ampio, potendo insediarsi su sedimenti sempre a ridotto contenuto d’argilla (usualmente meno del 4%), ma con percentuali variabili dalle altre due frazioni granulometriche. Z.noltii poteva sopportare condizioni estreme quali prolungate emersioni e forti variazioni della salinità; in generale cresceva prevalentemente su substrati limosi (Caniglia et al., 1992).

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G. longissima era dominante per frequenza (90% delle stazioni) e biomassa media, mentre G. oxysperma per copertura media. In quest’area sommersa U. rigida non era più la specie dominante. L’indice di diversità di Shannon, calcolato per percentuale di copertura, era più alto nell’area di Malamocco che nelle altre aree. Negli anni ’90 il genere Gracilaria è rappresentato da almeno cinque specie con densità di biomassa decrescente: G. verrucosa (Hudson) Papenfuss, G. longa Gargiulo, De Masi & Tripodi, G. dura (C.Agardh) J.Agardh, G. armata e G. bursa-pastoris (S.G.Gmelin) P.C.Silva (Sfriso et al., 1994). Lo studio di Curiel (2004) mostrava che una più alta biomassa macroalgale era relazionata ad una più bassa diversità specifica. I dati mostravano che se i venti freddi e le basse temperature persistevano nel periodo di aprile e maggio, quando la crescita macroalgale e l’attività fotosintetica erano ai loro massimi, poi i livelli di biomassa rimanevano bassi per il resto della stagione. La graduale riduzione della copertura algale ha portato ad un incremento dell’ossigenazione dei sedimenti, e gli stessi sedimenti sono cambiati dall’essere morbidi e neri all’essere più consolidati e pallidi (Curiel et al., 2004).

In uno studio di Curiel del 2001, svoltosi nel bacino di S.Marco e nel Canale della , sono stati determinati 105 taxa algali, ripartiti in 52 Rhodophyceae (49.5%), 25 Fucophyceae (23.8%) e 28 Chlorophyceae (26.6%). Dalla comparazione con i dati di Sighel (1938) si osservava un netto incremento del numero di taxa (da 64 a 105) con incrementi maggiori soprattutto per Rhodophyceae (da 36 a 52) e Fucophyceae (da 7 a 25). Dal confronto tra le due flore risultava che solo 27 taxa erano comuni, mentre ben 78 erano quelli nuovi per l’area di studio; viceversa, le specie rinvenute solamente nella flora di Sighel erano 37. Il maggior numero di specie è stato rinvenuto in primavera (95) ed il minimo in estate (60). In autunno, ma soprattutto in estate, le Rhodophyceae e le Chlorophyceae erano nettamente predominanti sulle Fucophyceae, che presentavano i loro massimi in inverno e primavera. Dal mare verso la terraferma si osservava una graduale riduzione delle Rhodophyceae e delle Fucophyceae e una uniformità nelle Chlorophyceae.

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La distribuzione dei taxa nei vari livelli di profondità mostrava che Ulva rigida, Blidingia minima (Nägeli ex Kützing) Kylin, Gelidium pusillum (Stackhouse) Le Jolis ed Enteromorpha intestinalis (Linnaeus) Nees caratterizzavano i livelli più superficiali, mentre Rhodymenia ardissonei (Kuntze) Feldmann quelli più profondi. La presenza di Undaria pinnatifida (Harvey) Suringar, soprattutto al di sotto del medio mare, determinava un impoverimento della comunità algale sia per numero di specie sia per ricoprimento. Già nei primi anni 2000, quindi, si osservavano profonde modificazioni rispetto ai dati riportati da Sighel alla fine degli anni ’30 (Curiel et al., 2001).

Nel 2003 la biomassa macroalgale è apparsa fortemente ridotta comparata ai risultati del 1980, specialmente nei bacini nord e centrale. La laguna nord mostrava una biomassa molto più bassa rispetto agli altri bacini, e quando la biomassa è alta la specie dominante è Vaucheria submarina (Lyngbye) Berkeley. Questa specie filamentosa colonizza le aree molto torbide, dove le altre specie sono ostacolate, e contrasta l’erosione del sedimento formando densi letti fortemente ancorati alla superficie dei sedimenti. I filamenti penetrano nei fondali fangosi favorendo la sedimentazione. Cymodocea risultava essere la macrofita marina più abbondante; C. nodosa, in particolare, è stata principalmente registrata nel bacino sud, di fronte all’isola di ed in aree con sedimenti grossolani e ben ossigenati (Sfriso e Facca, 2007): questa specie, infatti, si rinviene quasi esclusivamente su fondali sabbiosi (Caniglia et al., 1992). Zostera marina, invece, registrata anch’essa principalmente nel bacino sud ed assente nel bacino nord, si trova in aree interne con sedimenti più fini e ricchi di nutrienti. Nanozostera noltii nel 2003 ha mostrato una profonda regressione ed è sparita quasi completamente nei bacini nord e centrale. La sua massima distribuzione è stata registrata vicino ad alcune salt marshes e nei pressi dell’isola di Pellestrina. In presenza di alti tassi di sedimentazione le specie che hanno più bisogno di luce o caratterizzate da talli laminari sono sparite o diminuite, mentre le specie filamentose caratterizzate sia da filamenti eretti che reptanti e sottili, sono cresciute sulla superficie dei sedimenti evitando di essere sepolte (Sfriso e Facca, 2007).

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In un successivo lavoro di Curiel del 2004, durante il quale i campionamenti sono stati fatti anche nell’isola di Burano, è stato confermato l’andamento stagionale già osservato, con il maggior numero di taxa in primavera (65), che poi scende a causa della riduzione delle Phaeophyta. La componente algale delle Phaeophyta, che predilige i mesi invernali-primaverili, è quella che presentava la maggiore variazione rispetto alle Chlorophyta ed alle Rhodophyta che erano più o meno stabili (Curiel et al., 2004). In questo studio, inoltre, veniva segnalato il rinvenimento di Lomentaria hakodatensis Yendo, una specie algale nuova per la laguna di Venezia e recente anche per il Mediterraneo (Curiel et al., 2004).

Negli ultimi 50 anni, quindi, arricchimenti massivi di nutrienti hanno colpito le coste e gli ambienti di transizione innescando la crescita anormale ed estensiva di alcune macroalghe. Alcuni generi di Chlorophyceae come Ulva, Cladophora, Chaetomorpha e di Rodophyceae come Gracilaria, caratterizzate da alti tassi di crescita e dalla capacità di crescere in ambienti distrofici-ipertrofici, hanno rapidamente preso il posto delle naturali popolazioni di macroalghe e piante marine, portando a forti alterazioni ambientali. Nel 1993 la biomassa è apparsa fortemente ridotta e nel 1998 i dati erano simili a quelli più recenti del 2003. Ad ogni modo, recenti studi condotti sui frangiflutti posizionati al di fuori dalle bocche della laguna hanno dimostrato un’intensa ricolonizzazione da parte di alcune specie, come Cystoseira compressa e C. barbata, che erano scomparse durante l’abbondante crescita di Ulvaceae tra gli anni ’70 e gli anni ’90, confermando che è in corso un recupero nella laguna (Sfriso et al., 2009).

È importante ricordare che negli ultimi anni i lavori di biodiversità vegetale marina sono limitati a piccole aree della laguna e solo su specifici taxa (Sfriso et al., 2012; Sfriso e Facca, 2013); l’ultima check-list è risalente al 2009 (Sfriso et al., 2009).

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b. Specie macroalgali alloctone nella Laguna di Venezia

Negli ultimi due decenni il Mar Mediterraneo è stato colonizzato da molte macroalghe non indigene (Sfriso e Facca, 2013). Le specie non indigene (NIS) introdotte dalle attività umane, secondo il descrittore D2 riportato nella Marine Strategy Framework Directive (MSFD, dir. 2008/56/CE), devono essere “a livelli tali da non alterare negativamente l’ecosistema”, per il raggiungimento del Buono Stato Ambientale (GES). La suddetta normativa suddivide il Mar Mediterraneo in quattro sottoregioni; tra queste, la sottoregione del Mar Adriatico (ADRIA) che va dal Golfo di Trieste allo Stretto di Otranto (Zenetos et al., 2012). Nel 2012 si riportava un totale di 986 specie marine non indigene, delle quali 128 erano macrofite. In particolare, queste raggiungevano il 26-30% del totale delle specie aliene nella sottoregione ADRIA (figura 4).

Fig. 4. Numero di specie aliene marine per i principali gruppi nelle sottoregioni della MSFD del Mar Mediterraneo (Zenetos et al., 2012).

I tre principali fattori che hanno contribuito all’introduzione delle specie e alla loro diffusione sono: il forte turismo ed il traffico navale commerciale con i Paesi al di fuori del Mediterraneo, l’importazione di molluschi e l’acquacoltura (Mizzan, 1998; Zenetos et al., 2012; Sfriso e Facca, 2013). La Laguna di Venezia, in particolare, ospita un alto numero di turisti ed intense attività navali commerciali. Dal 2005 al 2011, circa 5000

23 navi hanno raggiunto il porto di Venezia ogni anno, e altre 500 navi quello di Chioggia. Nella Laguna di Venezia sono presenti 33 macrofite aliene; di queste, 6 specie sono considerate invasive o potenzialmente invasive: Codium fragile (Suringar) Hariot, Gracilaria vermiculophylla (Ohmi) Papenfuss, Grateloupia turuturu Yamada, Heterosiphonia japonica Yendo, Sargassum muticum (Yendo) Fensholt e Undaria pinnatifida (Sfriso e Facca, 2013). Modificazioni dell'idrodinamica del bacino, l'aumento dell'erosione dei fondali ed i fenomeni di inquinamento delle acque unite ad una generale banalizzazione dei sistemi diminuiscono infatti la competitività delle specie indigene nei confronti di quelle alloctone (Mizzan, 1998). Senza dubbio le due specie più studiate sono Sargassum muticum e Undaria pinnatifida, le quali sono comparse in Europa inizialmente lungo le coste dell’Atlantico e del Mediterraneo. Sargassum muticum è stato osservato per la prima volta nel bacino sud della Laguna di Venezia nel 1992, lungo i canali di Chioggia e lungo le rive interne di Pellestrina. Undaria pinnatifida è stata trovata per la prima volta nell’aprile del 1992 lungo le rive dei canali di Chioggia e nel maggio del 1993 lungo le rive dell’isola della Giudecca. La rapida diffusione di Undaria pinnatifida e Sargassum muticum è dovuta a differenti fattori: la capacità di adattamento ad acque eutrofiche e torbide, la presenza di un’effettiva strategia riproduttiva, la mancanza sia di competitori come Laminaria, sia di potenziali pascolatori come Paracentrotus (Sfriso et al., 2009) e la loro considerevole capacità di colonizzare vari substrati (Curiel et al., 1998), ai quali si trovano saldamente attaccate, per mezzo di dischi fibrosi nel caso di Sargassum, e attraverso spessi rizoidi nel caso di Undaria (Sfriso e Facca, 2013). Questi fattori rendono le due alghe importanti competitori delle specie indigene (Curiel et al., 1998). Entrambe le specie presentano gli stadi macroscopici da ottobre-novembre a maggio- giugno, completano il loro ciclo a basse temperature e richiedono una disponibilità di nutrienti relativamente alta. La presenza di Undaria, però, è associata in maniera più definita ad ambienti eutrofici, ipo-anossici e ricchi di nitriti e fosforo reattivo (RP), ed è più sensibile alle alte temperature. Al contrario, Sargassum richiede ambienti più ossigenati dove i nitrati e l’azoto inorganico disciolto (DIN) nella colonna d’acqua e nell’acqua interstiziale sono la principale fonte di azoto. Questa specie, inoltre, non è

24 influenzata dalla trasparenza dell’acqua come Undaria, poiché per la presenza di pneumatocisti viene favorita la crescita orizzontale quando gli assi raggiungono la superficie dell’acqua. Gli stadi macroscopici di entrambe le specie mostrano una crescita rapida e cospicua nel periodo che va da marzo a giugno, correlata principalmente con la temperatura dell’acqua ed in misura minore con la disponibilità di luce, sebbene alcuni autori abbiano riportato che la disponibilità di luce ed il fotoperiodo siano ugualmente importanti per la crescita di Sargassum. Le due specie iniziano ad accrescersi a novembre, quando la temperatura scende sotto ai 15°C, raggiungono il loro massimo in aprile e spariscono (Undaria) o rimangono quiescenti (Sargassum) da giugno-luglio con temperature superiori ai 22-25°C. L’optimum di crescita si osserva con temperature comprese tra i 15 ed i 18°C, con un massimo di 20°C; sotto questo intervallo i tassi di crescita diventano negativi a causa della decomposizione delle regioni apicali in Undaria e della perdita delle parti laterali in Sargassum. Successivamente, Undaria mostra un rapido declino con la completa disintegrazione del tallo, mentre Sargassum supera l’estate attraverso piccoli assi perenni. Sargassum e Undaria presentano una crescita comparabile alle altre grandi alghe brune del Mediterraneo, come Cystoseira barbata, una specie nativa molto comune e abbondante nella Laguna di Venezia. Sargassum presenta una distribuzione più ampia di Undaria perché colonizza anche le insenature della laguna, i litorali di Pellestrina e dell’isola di Lido, e forma dense popolazioni sui banchi di ostriche, sulle rocce e su substrati duri presenti intorno ai fondi poco profondi del centro storico di Venezia, il lato nord del ponte che connette Venezia alla terraferma ed alcune isole intorno al centro storico (Sfriso e Facca, 2013). A queste due specie native del Giappone temperato si aggiungono Antithamnion pectinatum (Montagne) Brauner, ritrovata per la prima volta nel 1994 (Sfriso e Facca, 2013), e Gracilaria vermiculophylla, nativa del Giappone e della Corea, riportata nelle coste settentrionali dell’Atlantico nel 2002 e all’interno della Laguna di Venezia nel marzo 2009. I talli di questa macroalga sono da nerastri a rosso scuro e per questo motivo sono ben riconoscibili. A Venezia questa specie è chiamata “la Gracilaria nera”. Spesso è

25 associata con delle Ulvaceae, come Ulva rigida, o con altre Gracilariaceae, specialmente Gracilaria gracilis e Gracilariopsis longissima, e due altre specie alloctone, Agardhiella subulata (C.Agardh) Kraft & M.J.Wynne e Solieria filiformis (Kützing) P.W.Gabrielson, arrivate recentemente nella nostra laguna. Gracilaria vermiculophylla forma dense popolazioni aggrovigliate in aree poco profonde associate con conchiglie di molluschi, tunicati e vermi tubicoli calcarei, e non è mai stata trovata con angiosperme acquatiche. La sua diffusione è dovuta principalmente alla frammentazione vegetativa. Presenta una predilezione per gli ambienti poco profondi caratterizzati da sedimenti fangosi solitamente ricchi di nutrienti, ma può trovarsi anche su sedimenti sabbiosi con alta disponibilità di nutrienti. Non è mai stata trovata vicino alle bocche di porto della laguna per la bassa disponibilità di nutrienti e l’elevato idrodinamismo. I parametri più importanti per la stabilizzazione e la diffusione di questa specie nei nostri sistemi di transizione sembrano essere alte concentrazioni di nutrienti ed una moderata salinità, mentre gli altri parametri risultano poco significativi (Sfriso et al., 2012). Al momento un nuovo taxon introdotto, identificato con la specie Grateloupia yinggehaiensis H.W.Wang et R.X.Luan, appare naturalizzato in alcuni siti della laguna di Venezia di fronte all’area industriale di Porto Marghera, sebbene le fronde possano scomparire quando la temperatura dell’acqua scende al di sotto dei 6°C (Wolf et al., 2014). Le ultime segnalazioni riguardano la presenza di Ulva australis Areschoug, Pyropia yezoensis (Ueda) M.S. Hwang et H.G. Choi e Spermothamnion cymosum (Harvey) De Toni (Armeli Minicante, 2011, 2013a, 2013b). Ad ogni modo, le condizioni ambientali della laguna non sono sempre ottimali per l’insediamento e la diffusione delle specie non indigene. Infatti, alcune sono state trovate solo saltuariamente e solamente nella prima area di ritrovamento. Inoltre, alcune NIS come Codium fragile e Grateloupia filicina (J.V.Lamouroux) C.Agardh sono ora considerate come parte integrale delle comunità locali di macrofite (Sfriso et al., 2009).

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1.2.3 I GRUPPI MORFO-FUNZIONALI

Le macroalghe marine bentoniche sono considerate utili descrittori delle caratteristiche ambientali degli habitat costieri e sono ampiamente utilizzate in campagne di monitoraggio e in studi di valutazione di impatti. Le macroalghe sono state indicate come uno degli elementi biologici chiave considerate per la determinazione dello stato di qualità ecologica dei corpi d’acqua costieri all’interno della Water Framework Directive (dir. 2000/60/CE). L’analisi della composizione delle specie e dell’abbondanza di popolamenti di macroalghe è riconosciuta come l’approccio più adatto per descrivere la struttura dei popolamenti e come un metodo insostituibile per gli studi sulla biodiversità. Ad ogni modo, la corretta identificazione delle macroalghe è un compito che richiede grande esperienza e che include importanti aspetti problematici. Lo sviluppo della sistematica molecolare che ha preso piede negli ultimi 20 anni ha sostanzialmente riformato i concetti di specie in tutti i gruppi algali, mostrando numerosi casi in cui le caratteristiche morfologiche non sono sufficienti per identificare la specie, portando così ad una errata identificazione per molto tempo. Allo stesso tempo, è risaputo che molte macroalghe marine presentano una forte plasticità fenotipica e può variare in relazione a fattori ambientali come la temperatura, la salinità, l’intensità delle onde e l’interazione con altri organismi bentonici. Il numero degli esperti capaci di identificare correttamente le alghe sta diminuendo; inoltre, l’identificazione di alcune specie richiede analisi più approfondite, come analisi del DNA, che spesso si concludono dopo un lungo periodo, rendendo l’identificazione dispendiosa. L’impiego dei gruppi morfo-funzionali rappresenta un approccio che permetterebbe di superare i problemi relativi all’identificazione a livello di specie, fornendo comunque informazioni sull’ambiente. I gruppi morfo-funzionali raggruppano le specie in base alle caratteristiche anatomiche e morfologiche (Steneck e Dethier, 1994), ad esempio forma, taglia, capacità fotosintetica, crescita e resistenza al pascolo (Diaz-Pulido, 2009). La morfologia e l’anatomia algali corrispondono alle proprietà intrinseche come la produttività massa-specifica, la longevità del tallo e l’altezza della canopy. Quest’ultima

27 aumenta con la complessità del tallo che è sua volta correlata con la biomassa della pianta. In generale, i talli di grandi alghe erette sono più longevi e crescono più lentamente dei talli delle forme filamentose o delle microalghe. Il progressivo allargamento della cortex con cellule della parete dense e la calcificazione sembrano rendere le macroalghe più resistenti a disturbi fisici e biologici. Come risultato della dimensione, della crescita e della longevità le forme più grandi monopolizzano meglio le risorse luminose rispetto alle forme più piccole (Steneck e Dethier, 1994) (figura 5).

Fig. 5. Rappresentazione diagrammatica dei gruppi algali funzionali (Steneck e Dethier, 1994).

Nel sistema oceanico, i gruppi morfo-funzionali sono ampiamente utilizzati per descrivere i popolamenti macroalgali e per esaminare gli impatti di gravi tipi di disturbo sulle comunità bentoniche (Balata et al., 2011), definito da Grime come “il

28 meccanismo che limita la biomassa vegetale causando la sua totale o parziale distruzione”. Il disturbo ha due componenti: frequenza ed intensità (Steneck e Dethier, 1994). I gruppi morfo-funzionali, ad esempio, sono stati utilizzati da Gomez e Huovinen (2011) nel Cile meridionale, per individuare un pattern definito di zonazione: presenza di forme filamentose e fogliose-membranose nella frangia sopralitorale, una zona infralitorale dominata da corticate-ramificate e spesse leathery forms, una frangia infralitorale battuta dalle onde dominata da grandi kelp (leathery forms) come anche forme articolate e crostose, ed una zona sublitorale (fino a 7 m di profondità) caratterizzata da un gruppo eterogeneo di alghe con una relativa dominanza di sottili leathery forms e alghe rosse fogliose-membranose (Gomez e Huovinen, 2011).

Comunque, il raggruppamento di organismi in categorie non riflette le relazioni filogenetiche ed è influenzato da un certo grado di soggettività; in base agli scopi dello studio può avere ripercussioni considerevoli sulle conclusioni tratte (Gomez e Huovinen, 2011).

Nel 2011, Balata et al. propongono una nuova classificazione dei gruppi morfo- funzionali nella quale i tradizionali gruppi morfologici proposti da Steneck e Dethier (1994) sono ulteriormente suddivisi in base alla struttura del tallo, alla forma di crescita, ai pattern di ramificazione ed alle affinità tassonomiche. Dagli esperimenti condotti nel Mar Mediterraneo (Balata et al., 2011) è risultato che l’uso dei nuovi gruppi morfologici ha permesso di individuare dei pattern evidenziati attraverso l’analisi delle specie generalmente migliori rispetto ai tradizionali gruppi morfo- funzionali. I risultati dimostrano, quindi, che i nuovi gruppi morfologici potrebbero rappresentare un valido strumento nei programmi di monitoraggio e nelle valutazioni di impatti ambientali, nei quali è importante definire i primi stadi di cambiamenti ambientali utilizzando metodi che permettano di esaminare un gran numero di campioni in un tempo limitato. I 35 gruppi nuovamente definiti sono facilmente riconoscibili anche da scienziati che non siano tassonomi professionisti (Balata et al., 2011). Tra questi gruppi compaiono:

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- filamentous, come Chaetomorpha e Cladophora: alghe con filamenti uniseriati, possono essere ramificate o meno; - blade-like, come Ulva e Rhodophyllis: talli a forma di lamina, con uno o più strati di cellule; - siphonous, come Acetabularia e Valonia: unicellulari; - tubular, come Blidingia: talli macroscopici con uno o più strati di tubi cavi; - compressed, come Dictyiota: alghe corticate con talli ramificati piatti; - corticated, come Grateloupia e Gracilaria: alghe corticate ramificate con portamento eretto ed assi sottili; - leathery, come Sargassum e Undaria: alghe con portamento fucoidale (Balata et al., 2011).

1.3 HABITAT MAPPING

Una definizione recente di “habitat mapping” compare all’interno del MESH Project (2008) come “il tracciato della distribuzione e dell’estensione degli habitat per creare una mappa con copertura completa del fondale che mostri confini distinti che separano habitat adiacenti” (MESH, 2008). La messa in carta dei fondali è stata rivoluzionata negli anni ‘40 quando, per la prima volta, echosounders relativamente ad alta frequenza sono stati posizionati in modo da insonificare una fascia di fondale. Negli anni ‘70 ed ‘80 si è poi assistito a rapidi sviluppi nell’elettronica acustica che hanno portato ad immagini ad alta risoluzione dei fondali (Kenny et al., 2003). Al momento solo il 5-10% dei fondali marini è stato mappato con una risoluzione simile agli studi in ambiente terrestre, la maggior parte dei quali è più profonda di 10 m (Brown et al., 2011; Montereale Gavazzi et al., 2016), ma, a causa dell’incremento delle pressioni antropiche sugli ambienti marini e del nostro dovere di gestirli responsabilmente (Van Rein et al., 2011), si assiste ad una continua richiesta di mappatura degli ambienti costieri e di piattaforma con lo scopo di sostenere una

30 gestione basata sugli ecosistemi e gli sforzi di pianificazione marina (Brown e Blondel, 2009; Shumchenia e King, 2010; Montereale Gavazzi et al., 2016). Parte importante di questi sforzi di mappatura è la creazione di mappe degli habitat bentonici (Shumchenia e King, 2010), che vengono utilizzate in molti campi e che infatti sono necessarie per: - fornire una base di informazioni fondamentali per una pianificazione spaziale e strategica; - supportare l’uso sostenibile delle risorse dei fondali marini; - contribuire all’attuazione di un approccio basato sugli ecosistemi per la gestione delle attività umane con lo scopo di proteggere l’ambiente marino; - migliorare lo stato di valutazione ambientale; - aiutare a focalizzare gli sforzi sul monitoraggio; - supportare l’identificazione di aree marine protette; - aumentare la nostra conoscenza sul funzionamento degli ecosistemi marini (MESH, 2008); - comprendere la distribuzione delle risorse viventi e non viventi sul fondale marino (Shumchenia e King, 2010). Le mappe di habitat sono diventate, quindi, lo strumento maggiore nella valutazione e nel monitoraggio dei sistemi marini costieri (Kruss et al., 2012; Micallef et al., 2012).

La mappatura degli habitat deriva dall’interpretazione e dalla classificazione del dato multibeam e di riflettività seguendo due approcci: 1. determinazione delle classi di habitat da dati di ground-truth: analizzando i dati si trovano associazioni significative tra i parametri biologici e fisici (classificazione di tipo “bottom-up”) (MESH, 2008); 2. applicazione diretta di un sistema di classificazione esistente (sistema di classificazione “top-down”) tramite osservazioni in situ (MESH, 2008): i dati acustici vengono prima classificati in aree di pattern simile e poi sottoposti a ground-truthing usando una combinazione di video subacquei e/o raccolte di sedimento (Rooper e Zimmermann, 2007). Questa è la strategia di produzione

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di mappe più comunemente rappresentata in letteratura (Shumchenia e King, 2010; Brown et al., 2011).

2. MATERIALI E METODI

Per soddisfare gli obiettivi di questo lavoro e ottenere la mappa finale degli habitat bentonici e degli elementi antropici dei canali studiati sono stati eseguiti i seguenti passi descritti in dettaglio nei paragrafi che seguono. 1. Analisi dei dati batimetrici MBES con risoluzione di 0.2 m e mappatura manuale degli elementi fisiografici e morfologici dei canali seguendo la classificazione ideata da CNR-ISMAR nell’ambito del progetto RITMARE. 2. Analisi dei dati di riflettività del fondo e classificazione del dato attraverso il metodo di segmentazione automatica Jenks. 3. Campionamento del fondale tramite dropframe su 29 stazioni, scelte in base alle diverse risposte di backscatter. 4. Analisi delle immagini fotografiche attraverso materiale bibliografico e pareri di esperti. 5. Integrazione di tutti i prodotti cartografici e realizzazione della mappa finale degli habitat attraverso la funzione “union” di ArcGIS.

Il software GIS utilizzato per tutte le mappature e l’interpretazione dei dati è ArcGIS 10.2.1, il sistema di riferimento adottato per tutte le carte è la proiezione universale trasversa di Mercatore (UTM, Zone 33N), con Datum World Geodetic System (WGS) 1984.

2.1 MULTIBEAM ECHOSOUNDER

Recentemente, in particolare negli ultimi due decenni, l’abilità di mappare il fondo marino anche a bassissime profondità è migliorata notevolmente grazie allo sviluppo

32 dei recenti modelli di MultiBeam EchoSounders (MBES) ad alte frequenze (per esempio tra i 200 e 400 KhZ) (Roberts et al., 2005; Micallef et al., 2012). I MBES sono strumenti acustici montati su un’imbarcazione (a chiglia o su un palo laterale) (Kenny et al., 2003; MESH, 2008) che trasmettono impulsi sonori, coprendo una fascia di fondale su ogni lato della nave proporzionale alla profondità dell’acqua in quel punto(da 4 fino a 10 volte la profondità) (figura 6).

Fig. 6. Rilevazione dati tramite MBES (http://www.deepreef.org/technology/7-multibeam.html).

I MBES permettono di rilevare contemporaneamente sia la riflettività del fondale che la batimetria: lo strumento, infatti, rileva le distanze (ovvero misura il tempo di ritorno dell’onda acustica in base alla velocità del suono in acqua) tra la sorgente e il fondale o qualsiasi altro bersaglio presente sopra il fondale stesso. In questo modo si ottiene un modello morfologico del fondale di grande dettaglio con una risoluzione che in acque basse può raggiungere anche i 5 cm. Le onde acustiche che si propagano nell’acqua possono incontrare una serie di ostacoli sia nella colonna d’acqua (bolle d’aria ed organismi), che sul fondo. Dopo queste interazioni una parte dell’energia trasmessa torna indietro allo strumento. Il MBES oltre a registrare la profondità del fondo acquisisce anche un segnale di intensità dell’onda acustica riflessa chiamato backscatter.

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Fig. 7. Riflessione (parte coerente) e scattering di un’onda acustica incidente una superficie ruvida (Masetti et al., 2011).

Il segnale di backscatter è quindi in funzione della riflettività del fondale, del grado di dispersione e dell’intensità del segnale riflesso che torna al trasduttore (Lurton, 2002). Tale riflettività dipende dal substrato e dalle irregolarità topografiche del fondale, ovvero dalle caratteristiche fisiche del fondale marino (Roberts et al., 2005). Ad esempio, i sedimenti fini generalmente mostrano bassa intensità di backscatter dovuta a basse densità e velocità del suono. I sedimenti grossolani mostrano intensità di backscatter più elevate a causa di minore porosità, e maggiori densità e velocità del suono. Inoltre, all’interno del campo dei sedimenti sabbiosi l’intensità di backscatter diminuisce con la taglia media delle particelle (De Falco et al., 2010).

2.1.1 MULTIBEAM DATASET

Nel 2013, nell’ambito del progetto nazionale bandiera RITMARE (http://www.ritmare.it/), è stata condotta un’estensiva campagna con MBES ad alta risoluzione (fino a 5 cm) per esplorare tutti i canali della Laguna di Venezia, coprendo una superficie totale di 50 km2. Durante questa campagna, da aprile a dicembre 2013, è stato acquisito un ampio dataset di MBES, inclusi dati batimetrici (figura 8) e dati di backscatter (figura 9) del fondale e della colonna d’acqua (Foglini et al., 2014).

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Fig. 8 e 9. Dati batimetrici e di backscatter dell’area di studio.

I dati acustici sono stati acquisiti utilizzando il MBES Kongsberg EM2040 Dual-Compact, che è stato montato su un palo a prua di un’imbarcazione lunga 10 m, la Litus, con una chiglia di 1.5 m (figura 10).

Fig. 10. Imbarcazione Litus del CNR-ISMAR con MBES installato.

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Le due teste di MBES emettono 800 beam (400 per trasduttore) ad una frequenza che può variare tra 200 e 400 kHz. Durante la campagna la frequenza è stata settata a 360 kHz e i dati sono stati acquisiti in modalità equidistante (equidistant mode), assicurando più del 30% di sovrapposizione tra le linee adiacenti per garantire il 100% di copertura. Per la localizzazione dei punti di misura è stato utilizzato il sistema di posizionamento Kongsberg Seapath 300 con la correzione differenziale data dal GPS Fugro (± 10 cm). La correzione del rollio (roll), del beccheggio (pitch) e dell'heading (angolo formato tra l'asse longitudinale dell'imbarcazione e la traiettoria seguita) è stata effettuata automaticamente durante la fase di acquisizione grazie ad un sistema inerziale MRU5 associato al Seapath 300 installato vicino ai trasduttori. Per misurare in continuo la velocità del suono è stato utilizzato il sensore Valeport mini SVS. Un altro fattore da tenere in considerazione per l’acquisizione di questo tipo di dati è la variazione delle maree per cui è stato applicato il modello idrodinamico SHYFEM (Shallow water HYdrodynamic Finite Element Model), sviluppato al CNR-ISMAR di Venezia (Umgiesser, 2000), che è in grado di calcolare il livello dell'acqua nell'intera laguna, combinando la velocità del vento ed i dati di marea raccolti dai mareografi posizionati nei pressi delle bocche tidali, con un errore di simulazione di circa 2 cm. Tutte le correzioni sono riferite al Datum locale di Punta della Salute 1897. I dati così acquisiti sono stati processati tramite il software CARIS Hydrographic information processing system (Hips) & Sips 7.0, attraverso cui è possibile applicare le correzioni di marea e velocità del suono e migliorare la qualità dei dati grezzi di batimetria e backscatter. Una volta processati in CARIS, i dati vengono esportati come file di testo (.txt) e successivamente convertiti, tramite il software Global Mapper, in ESRI Grid, formato compatibile con il software ArcGIS. Si sono ottenuti così dati raster a diverse risoluzioni e per questo lavoro di tesi è stata utilizzata una batimetria a 0.2 m e un backscatter a 1 m. Con i dati di batimetria si sono ricavate informazioni sulla fisiografia e sulla morfologia; in particolare, sono stati creati un layer hillshade sulle batimetrie, in cui l’asse z viene incrementato con esagerazione verticale 4, e un layer contour, cioè con le isolinee di profondità, che danno un’idea della pendenza in base alla distanza tra una contour e

36 l’altra. Questi due layer facilitano la rappresentazione virtuale delle forme morfologiche e il riconoscimento delle forme di fondo.

2.2 CLASSIFICAZIONE E SEGMENTAZIONE DEI DATI DI BACKSCATTER

Le immagini di backscatter ottenute sono in scala di grigi e l’unità di misura per tali dati è il decibel (dB). In questo studio le aree più chiare corrispondono ad un ritorno acustico più forte (alta intensità di segnale), ovvero aree con substrato più duro che riflette di più le onde acustiche, mentre le aree più scure corrispondono ad un ritorno acustico debole (bassa intensità di segnale) che in genere si osserva con fondali più molli che assorbono il segnale acustico.

I dati di backscatter sono stati analizzati per individuare differenze nell’intensità del segnale, ed identificare potenziali punti di campionamento da effettuare per la validazione del dato di riflettività. Esistono diverse tecniche per segmentare il backscatter: alcune sono manuali, altre adottano la statistica multivariata, ma tutte possono essere catalogate in due famiglie principali: unsupervised, ovvero senza l'utilizzo preliminare di informazioni provenienti dai campioni di ground-truth, e supervised, in cui viene utilizzato un sottoinsieme di campioni per istruire l'algoritmo di classificazione (training samples) (Brown et al., 2011).

Nelle classificazioni unsupervised, che di solito è il tipo di classificazione più utilizzato, i dati acustici vengono segmentati prima dell'osservazione e dell'identificazione delle proprietà fisiche fornite dal ground-truth, che consiste in fotografie o raccolta di campioni fisici (Calvert et al., 2014). La classificazione in questo caso consiste nel “cercare” delle regole per classificare i dati sulla base delle proprietà spettrali di gruppi di pixel (Stephens e Diesing, 2014). In generale, i metodi unsupervised sono quelli che ricadono nella clusterizzazione dei dati e nel riconoscimento di pattern, e i diversi tipi

37 di habitat sono assegnati sulla base di una co-occorrenza spaziale di pixel classificati e campioni reali dati dal ground-truth (Calvert et al., 2014). Un problema comune associato a questo tipo di classificazione è la determinazione di un numero di cluster “corretto” o “ottimale”. Un altro potenziale svantaggio è che la classificazione risultante raramente mostra una relazione univoca tra le classi create ed i dati di ground-truth.

Le strategie supervised, inizialmente nate per l'analisi di dati ottici in ambito terrestre, sono ora utilizzate regolarmente nelle mappature dei fondali che utilizzano dati acustici (Stephens e Diesing, 2014). Nella classificazione supervised i dati di ground- truth vengono inizialmente utilizzati per formare delle classi specifiche nei dataset acustici che serviranno poi ad identificare regioni simili che non sono state campionate, per produrre così una mappa di habitat con copertura totale (Calvert et al., 2015). Grazie a delle tecniche di predizione statistiche che il software utilizza per collegare informazioni passate e future, gli algoritmi supervised sono infatti in grado di “imparare e riconoscere” dei pattern decisi preventivamente (Calvert et al., 2014). Per le mappe prodotte con metodo unsupervised si sono osservati piccoli effetti inerenti la capacità dell’operatore , mentre l’utilizzazione del metodo supervised ha portato a maggiori differenze tra le mappe prodotte (Calvert et al., 2015).

In questo lavoro di tesi si è deciso di adottare una tecnica unsupervised per ottenere una classificazione automatica dei dati di backscatter, poiché la sola interpretazione manuale può essere ritenuta intrinsecamente soggettiva, lenta e potenzialmente inaccurata (Micallef et al., 2012). Il metodo unsupervised utilizzato è la classificazione di Jenks, anche chiamata Jenks natural breaks, un algoritmo del Toolbox di ArcGIS che serve a classificare un raster. I dati raster sono quelli che permettono di dare una rappresentazione continua dell’ambiente, mentre i dati vettoriali, come ad esempio i poligoni o i punti creati durante la mappatura, rappresentano fenomeni geografici in maniera discreta. L'algoritmo, sviluppato da Jenks nel 1958, è un riadattamento dell’ottimizzazione esatta di Fischer per l'analisi di dati geografici. Dato un certo numero di classi, il

38 metodo cerca di ridurre la varianza all’interno delle classi e massimizza la varianza tra le classi (Montereale Gavazzi et al., 2016). In seguito si è potuto verificare la classificazione grazie al prelievo di campioni fotografici e quindi ottenere una classificazione finale di tipo supervised.

2.3 GROUND-TRUTH

Il ground-truth dovrebbe accompagnare tutte le campagne acustiche per verificare adeguatamente i dati acustici e determinare shift temporali nelle caratteristiche biologiche (Brown et al., 2011; Van Rein et al., 2011). Tra i metodi di campionamento in situ, come bennate, draghe e video (Brown et al., 2011), l’uso di dropframe è altamente raccomandato per il monitoraggio dei biotopi, perché non invasiva, economica ed efficiente. Lo svantaggio, però, è che questi metodi di campionamento, che permettono di analizzare solo una piccola porzione di fondale (Edwards et al., 2003), generalmente non sono a densità sufficientemente grande per determinare accuratamente l’eterogeneità degli habitat (Van Rein et al., 2011) e le caratteristiche biofisiche circostanti (Brown et al., 2011). In più, la variabilità misurata usando tecniche di monitoraggio in situ non sempre riflette la variabilità dei processi su larga scala (Van Rein et al., 2011).

Per validare i dati di riflettività si è deciso di effettuare dei campionamenti in situ tramite l’uso di dropframe (figura 11a). La dropframe è uno strumento provvisto di pesi alla base (per rimanere stabile mentre è appoggiato sul fondo); con sulla sommità apicale un alloggiamento stagno per la fotocamera (Action Sport Camera QMOX SJ4000 1080p, 12 MegaPixel; figura 11b) che è orientata verso la base dello strumento stesso, permettendo l’inquadramento del fondale e rimanendo a 18 cm di distanza da esso. Sulla base, inoltre, è presente un metro che fornisce una misura di riferimento all’interno delle immagini raccolte.

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(b)

Fig. 11. Dropframe (a) e fotocamera (b) utilizzate per il campionamento.

I siti in cui effettuare il ground-truthing sono stati scelti in base alla risposta di backscatter e sono rappresentati in figura 12.

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Fig. 12. Siti di campionamento all’interno dell’area di studio.

Il campionamento è avvenuto a Venezia il 25/05/2016. Con un’imbarcazione (Boston Whaler 17) ci si è recati nelle coordinate dei punti, inserite nel programma Global Mapper 15 il quale, collegato ad un’antenna GPS (figura 13), permetteva di visualizzare contemporaneamente la nostra posizione nello spazio e la mappa di backscatter dei canali.

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Fig. 13. Antenna GPS utilizzata per il rilevamento del sito di interesse.

Grazie al limitato pescaggio della barca (10-15 cm) si è potuto campionare in canali che presentavano bassa profondità. Arrivati al punto, è stata calata la dropframe e, una volta raggiunto il fondo, è stata appuntata la coordinata esatta del punto di campionamento. La camera veniva lasciata sul fondo qualche minuto per dare il tempo all’eventuale sedimento sollevatosi di ridepositarsi e quindi di non inficiare sulla qualità dell’immagine. Al termine del campionamento i dati ottenuti consistevano in filmati video ciascuno associato ad una coordinata. Dai video sono state estrapolate immagini rappresentative del punto di’indagine, per esempio eventuali alghe fluttuanti non possono essere intese come “rappresentative”, poiché provengono da un altro luogo d’origine. Le immagini sono state poi inserite all’interno di un geodatabase ESRI con il software ArcGIS (versione 10.2.1).

Per l’analisi dei canali presi in esame sono state analizzate anche immagini pregresse raccolte in campagne precedenti (giugno e luglio 2015).

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2.4 SURVEY PRELIMINARE PER L’UTILIZZO DEI GRUPPI MORFO-FUNZIONALI PER LA DESCRIZIONE DELL’HABITAT

Per il prelievo delle macroalghe è stato effettuato un campionamento mediante transetto da parte del Nucleo Sommozzatori della Polizia di Stato di Venezia, il giorno 17/05/2016. Il transetto è stato rilevato nei pressi della Passerella, parallelamente al canale ad una profondità pressoché costante (figura 14).

Fig. 14. Localizzazione del sito dove è stato effettuato il transetto.

Precedentemente è stata allestita una cima zavorrata lunga 30 m, che ogni 2 m presentava un nodo ed una targhetta con su scritto il numero del metro. È stata fatta calare la cima, prestando attenzione affinché fosse dritta rispetto alla direzione e ben tesa. Per ogni punto di campionamento stabilito (ogni 6 m) è stato appoggiato sul substrato un quadrato di dimensioni 50x50 cm, diviso ulteriormente in 4 sottoquadrati, che è servito come riquadratore per il rilevamento fotografico (Bianchi et al., 2003): sono state scattate delle foto sia dall’alto che di profilo. Inoltre, è stato prelevato un campione grattando il substrato contenuto nel sottoquadrato in basso a

43 sinistra, per avere il riferimento fotografico dei campioni prelevati in ambiente (figura 15).

Fig. 15. Sommozzatori della Polizia di Stato di Venezia con strumenti per il campionamento.

Tipicamente, per eseguire un grattaggio è necessaria la collaborazione di due sommozzatori, uno dei quali tiene il retino, guidando la caduta di materiale al suo interno, mentre l’altro provvede al grattaggio (Bianchi et al., 2003). Questa tecnica è stata scelta poiché fornisce ottimi risultati per la flora e la fauna sessile, mentre risulta difficilmente applicabile per la fauna vagile che può facilmente sfuggire (Abbiati, 1991). Sono quindi stati applicati due metodi di campionamento: uno diretto distruttivo, ovvero il prelievo, ed uno indiretto non distruttivo, il rilevamento fotografico, l’interazione dei quali permette il raggiungimento di risultati completi (Zabala et al., 1982; Ros e Gili, 1984). Il materiale raccolto è stato poi portato in laboratorio, dove è stato inizialmente sottoposto ad una cernita preliminare che permettesse di separare i diversi taxa ed i singoli individui (Cormaci et al., 2003). I campioni sono stati adagiati in una vaschetta contenente acqua di mare ed agitati lentamente per poter separare le singole ramificazioni (figura 16).

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Fig. 16. Esempio di attività in laboratorio, con cernita e risciacquo degli individui.

Con l’aiuto di una pinzetta a punte sottili , sono stati asportati eventuali epifiti vegetali ed animali. Ciascun esemplare è stato poi asciugato con della carta assorbente, pesato e misuratone il volume algale immergendo il tallo in un cilindro graduato e determinando la variazione del volume dell’acqua. Infine, gli esemplari raccolti sono stati conservati sotto forma di exsiccata posizionando i campioni su un foglio di carta nella posizione più naturale possibile; ogni foglio è stato ricoperto da carta da forno e da fogli di giornale, i quali sono stati cambiati nei giorni successivi, fino alla completa essiccazione dell’esemplare (figura 17). Su ogni foglio sono stati riportati il codice del campione, il nome della specie, la stazione e la data di campionamento.

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Fig. 17. Fase finale per la realizzazione di un foglio d’algario.

Per alcuni campioni è stata prelevata una piccola parte dell’individuo stesso e messa in busta sigillata contenente silica gel per eventuali analisi molecolari.

I campioni raccolti durante questo lavoro di tesi sono stati depositati presso l’Algarium Veneticum (ISMAR), l’erbario istituzionale dell’Istituto delle Scienze Marine (CNR- ISMAR) di Venezia (www.archiviostudiadriatici.it).

Per ogni campione del transetto e per ogni macroalga campionata tramite dropframe è stato individuato il gruppo morfo-funzionale di appartenenza. I gruppi morfo-funzionali utilizzati in questo progetto di tesi derivano da quelli individuati dagli autori Balata et al. (2011), ma la tabella da loro proposta è stata modificata: anziché essere suddivisa per taxa è divisa per gruppo morfo-funzionale; inoltre, vengono riportate solamente le specie più frequenti nella laguna di Venezia (tabella 1).

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Tab. 1. Gruppi morfo-funzionali utilizzati (Balata et al., 2011 modificato).

2.5 IL GEODATABASE: DESCRIZIONE ED ORGANIZZAZIONE DATI

Tutti i dati raccolti in questo progetto di tesi sono stati omogenizzati ed organizzati in un File geodatabase ESRI di tipo relazionale nato per gestire tutti i dati raccolti nell’ambito della campagna RITMARE 2013 nella Laguna di Venezia. Il geodatabase è un database usato principalmente per raccogliere, investigare e gestire i dati spaziali. All’interno di un geodatabase possono essere raccolti vari tipi di dataset geografici, comprese feature class, tabelle degli attributi, raster dataset e topologie (http://support.esri.com/other-resources/gis-dictionary/term/geodatabase). Nel caso specifico (Figura 18) sono stati utilizzati i seguenti elementi:  dati di tipo testuale, ovvero informazioni non spaziali organizzate in tabelle (object class);  dati di tipo geografico, comprendenti dati raster (raster dataset e raster catalog) e dati vettoriali (features class che possono essere raggruppate in features dataset);

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 relazioni (relationship class), che collegano tra loro i vari elementi all’interno del geodatabase;  regole topologiche (strumento Topology), con le quali si riescono a stabilire dei vincoli su come gli elementi (in questo caso i poligoni) interagiscono tra loro. Le regole utilizzate per validare le mappe sono: "Must Not Gaps" e "Must Not Overlap", ovvero nelle mappe non devono esserci buchi nè sovrapposizioni.

Legend

Fig. 18. Parte della struttura del geodatabase utilizzato per riunire i dati.

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L’interpretazione dei dati segue lo schema di classicazione degli habitat bentonici sviluppato ad hoc per gli ambienti poco profondi durante il progetto europeo CoCoNET (Towards Coast to Coast NETworks of marine protected areas - http://www.coconet- fp7.eu/) ed adattato a scala lagunare. Sono state implementate 5 feature classes con una tabella di attributi gerarchica (basata sullo chema di classificazione CoCoNET) che permette una descrizione a scala variabile di ogni elemento. Questo rende la struttura flessibile e adattabile al tipo di dati a disposizione: 1) feature class Physiography 2) feature class Morphology 3) feature class Substrate 4) feature class Biology 5) feature class di tipo puntuale Anthropogenic Object. Ogni feature class è stata sviluppata, quindi, in modo gerarchico così da avere: un solo livello per la feature class fisiografia (PL: PL1); due sottolivelli per la feature class morfologia (ML: ML1-ML2); quattro sottolivelli per la feature class substrato (SL: SL1- SL2-SL3-SL4) così come per la feature class biologia (BL: BL1-BL2-BL3-BL4) (vedi allegati

2, 3, 4, 5). Infine, l’unione dei vari layer ha permesso di ottenere la feature class Habitat (PL1, ML1, ML2, SL1, SL2, SL3, SL4, BL1, BL2, BL3, BL4) (vedi allegato 6).

L’uso di questa tabulazione, sviluppata appositamente per questa tipologia di ambienti, ha avuto lo scopo di testare se una classificazione standard, creata sulla base di descrittori sia geologici che biologici, sia in grado di essere utilizzata in situazioni simili, permettendo così di ottenere dati omogenei nel tempo. In questo modo risulterebbe anche più semplice la comprensione di eventuali problemi ambientali e quindi le misure di tutela da mettere in atto.

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3. RISULTATI

Le immagini fotografiche ottenute dal campionamento in situ sono state analizzate e contestualizzate con i dati di backscatter e di batimetria precedentemente acquisiti. Questo ha permesso di ottenere i seguenti prodotti cartografici: - mappa delle unità fisiografiche - mappa delle unità morfologiche - mappa del substrato - mappa della biologia - mappa degli habitat.

È stata realizzata, inoltre, una mappa rappresentante gli oggetti antropici presenti all’interno dell’area di studio.

Le immagini fotografiche ricavate all’interno dell’area di studio ed i campioni raccolti mediante transetto di fronte alla stazione della Passerella hanno permesso di classificare gli organismi vegetali in base al gruppo morfo-funzionale; inoltre, gli esemplari campionati nella stazione della Passerella sono stati utilizzati per ampliare l’Algarium Veneticum.

3.1 ANALISI DEI CAMPIONI

Per questo lavoro sono state analizzate 29 immagini raccolte a maggio 2016 e 90 immagini raccolte nell’ambito di studi presedenti (Stellino, 2015; Fogarin, 2015; Montereale Gavazzi et al., 2016).

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Fig. 19. Mappa delle stazioni di campionamento. In giallo le stazioni di campionamento effettuate in questo lavoro di tesi; in rosso le stazioni di campionamento relative a studi precedenti.

Da ogni video campionato è stato estratto un frame, ottenendo quindi 29 immagini, tre delle quali (HM2016BUR01, HM2016BUR02, HM2016BUR03) inutilizzabili poiché totalmente nere, probabilmente per l’alta torbidità della zona. Le immagini analizzate sono le seguenti:

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HM2016BUR04 HM2016BUR05 HM2016BUR06

HM2016BUR07 HM2016BUR08 HM2016BUR09

HM2016BUR10 HM2016BUR11 HM2016BUR12

HM2016BUR13 HM2016BUR14 HM2016BUR15

HM2016BUR16 HM2016BUR17 HM2016BUR18

HM2016BUR19 HM2016BUR20 HM2016BUR21

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HM2016BUR22 HM2016BUR23 HM2016BUR24

HM2016BUR25 HM2016BUR26 HM2016BUR27

HM2016BUR28 HM2016BUR29 Fig. 20. Immagini subacquee acquisite nelle diverse stazioni di campionamento.

Da queste immagini è stato possibile ricavare informazioni riguardanti il tipo di substrato e l’eventuale presenza di organismi, come riportato in tabella 2.

Caratteristiche del substrato inferte Sample Taxa riconosciuti dall’immagine HM2016BUR04 - Ulva sp. (Chlorophyta) HM2016BUR05 Fondo sabbioso omogeneo - Substrato misto: fondo sabbioso con HM2016BUR06 - blocchi più duri popolati da organismi HM2016BUR07 Sabbia con detrito conchigliare - Substrato misto: fondo sabbioso con HM2016BUR08 - blocchi più duri popolati da organismi HM2016BUR09 Fondo di tipo mobile omogeneo - HM2016BUR10 Sabbia con detrito conchigliare - Substrato misto: fondo sabbioso con HM2016BUR11 Rhodophyta indet. blocchi più duri popolati da organismi HM2016BUR12 Fondo di tipo mobile bioturbato Polychaeta indet. Substrato misto: fondo sabbioso con HM2016BUR13 Porifera indet. blocchi più duri popolati da organismi

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Substrato misto: fondo sabbioso con HM2016BUR14 detrito conchigliare e blocchi più duri Rhodophyta indet. popolati da organismi HM2016BUR15 Fondo di tipo mobile bioturbato Polychaeta indet. HM2016BUR16 Fango omogeneo - HM2016BUR17 Sabbia con detrito conchigliare - HM2016BUR18 Fondo di tipo mobile omogeneo - HM2016BUR19 Fondo di tipo mobile omogeneo Polychaeta indet. HM2016BUR20 Fondo di tipo mobile - Blocchi duri popolati da organismi Gracilaria sp. o Agardhiella HM2016BUR21 vegetali subulata HM2016BUR22 Fango bioturbato Polychaeta indet. Sabbia bioturbata con detrito Polychaeta indet., Bivalvia HM2016BUR23 conchigliare indet. HM2016BUR24 Fondo di tipo mobile omogeneo - HM2016BUR25 Sabbia con detrito conchigliare - HM2016BUR26 Sabbia con detrito conchigliare - Gracilariaceae (Rhodophyta), Ostrea sp. HM2016BUR27 Sabbia con detrito conchigliare (Mollusca), Veneridae indet. (Mollusca) HM2016BUR28 Fondo di tipo mobile omogeneo - Sabbia bioturbata con detrito HM2016BUR29 Polychaeta indet. conchigliare Tab. 2. Informazioni tratte dal visual census.

3.2 BIODIVERSITÀ MACROALGALE E ALGARIUM VENETICUM

Le alghe osservate nelle immagini campionate sono state classificate in base al gruppo morfo-funzionale, e rappresentate nella figura seguente (figura 21).

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Fig. 21. Mappa della distribuzione dei gruppi morfo-funzionali trovati in ciascun campione.

I gruppi morfo-funzionali trovati all’interno dell’area di studio sono: - Blade-like: genere Ulva (figura 22a); - Corticated: generi Agardhiella, Gracilaria,Gracilariopsis (figure 22a, b, c, d); - Filamentous, soprattutto in forma di turf (figure 22d, f).

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(a) (b)

HM2015CSA110c. Associazione di Ulva e HM2015CSA114c. Gracilaria Gracilariopsis

HM2016BUR21. Esemplari di Gracilaria o HM2016BUR27. Probabilmente Agardhiella. Gracilariopsis longissima.

(e) (f)

HM2016BUR11. Pulvino filamentoso di HM2015BUR0104b. Turf filamentoso. alghe rosse. Fig. 22. Esempi di gruppi morfo-funzionali in campioni fotografici.

Nella stazione di campionamento “Passerella” sono state ritrovate le seguenti specie: Sargassum muticum, Gracilaria sp., Rhodophyllis sp., Undaria pinnatifida, Punctaria sp.. I grafici in figura 23 mostrano la biomassa, espressa in percentuale, dei gruppi morfo- funzionali ritrovati nei retini.

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Fig. 23. Percentuali di biomassa per i diversi gruppi morfo-funzionali all’interno dei retini campionati.

Si osserva una grande variabilità tra i diversi retini, posti a distanza di 6 m l’uno dall’altro; queste patches rispecchiano la forte eterogeneità di habitat che presenta la Laguna di Venezia. In generale, comunque, in termini di biomassa il transetto ha presentato una maggiore quantità di alghe appartenenti al gruppo morfo-funzionale corticated, seguito dalle leathery-forms ed, in ultimo, dalle forme blade-like, come mostra il grafico seguente:

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Transetto 4%

Leathery 19% 18% Corticated Frammenti misti

Blade-like

59%

Fig. 24. Percentuali di biomassa dei diversi gruppi morfo-funzionali campionati nel transetto. Si fa presente che i grafici mostrati non hanno valenza statistica, ma rappresentano solo uno strumento visivo.

In figura 25 sono riportati i fogli di erbario realizzati con i campioni del transetto e depositati presso l’Algarium Veneticum (ISMAR).

AR001. Gracilaria sp. AR002. Gracilaria sp. LS004. Rhodophyllis sp. (Corticated) (Corticated) (Blade-like)

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Fig. 25. Esempi di fogli di erbario realizzati e depositati LS003. Punctaria sp. LS001. Punctaria sp. presso l’Algarium Veneticum (Blade-like) (Blade-like) (ISMAR).

3.3 MAPPA DELLE UNITÀ FISIOGRAFICHE

I dati di batimetria sono stati analizzati per individuare le forme fisiografiche visualizzate in figura 26, che consistono in: - Point bar e bar: sono forme deposizionali costituite da sabbia o altro materiale non consolidato, depositato dal flusso d’acqua. A differenza delle bar, le point bar sono localizzate lungo la sponda interna del canale dove viene accumulato il materiale eroso. - Pool: sono depressioni di origine naturale, spesso localizzati nel lato concavo dei meandri, proprio a causa della forte azione erosiva dell’acqua.

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Fig. 28b

Fig. 28a

Fig. 26. Mappa delle unità fisiografiche dell’area di studio. I riquadri neri indicano i due zoom riportati nella figura (28a, 28b).

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Fig. 27. Rappresentazione in percentuale delle forme individuate.

Come possiamo vedere dal grafico in figura 27, le forme fisiografiche più estese sono rappresentate dai pool (vedi immagine 28b), seguite da bar e point bar (vedi figura 28a).

Fig. 28. Esempi di due unità fisiografiche mappate nell’area di studio.

3.4 MAPPA DELLE UNITÀ MORFOLOGICHE

Per la mappatura delle forme morfologiche sono stati analizzati i dati di batimetria associati ai relativi hillshade e alle isobate, ottenendo la mappa che segue:

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Fig.30c

Fig.30f

Fig.30e

Fig.30d Fig.30a

Fig.30b

Fig. 29. Mappa delle unità morfologiche dell’area di studio.

Tra le unità morfologiche trovate analizzando i dati batimetrici e rappresentate in figura 30 ci sono:

- Dunes: forme di fondo che si sviluppano successivamente ai ripples, con l’incremento della forza di flusso. Sono simili ai ripples nella forma, ma sono più

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larghe e le lunghezze variano da 75 cm a 100 cm, mentre le altezze tra 75 mm e 5 m. Le dune tendono ad essere le più comuni nei fondi sabbiosi con dimensione media più grande di 0.15 mm. Diversamente dai ripples la dimensione delle dune sembra non essere correlata alla dimensione delle particelle del materiale di fondo, bensì alla profondità. Le dune possono essere suddivise, in base alla forma, in 2-dimensional (2d dunes) ed in 3-dimensional (3d dunes): le prime presentano creste dritte, e sono quindi allineate (figura 30a); le seconde presentano creste sinuose e brevi e profonde depressioni tra una cresta e l’altra (figura 30b); - Furrow: forme di fondo rettilinee e longitudinali, allineate con la direzione del flusso (figura 30c); - Obstacle mark: forme di fondo di erosione ed accrezione dovute alla presenza di un oggetto sul sedimento. Questi oggetti provocano dei vortici locali che muovono il sedimento formando delle piccole depressioni (figura 30d); - Scour e scour hole: queste forme morfologiche sono entrambe dovute ad un’azione erosiva causata da onde e correnti, che rimuovono il materiale di fondo lasciando delle depressioni, ma possono anche avere origine antropica: si possono rinvenire, ad esempio, in corrispondenza delle fermate dei vaporetti. Gli scour hole si rinvengono in aree dove si incrociano due o più canali (figura 30f), mentre gli scour (figura 30e) si possono trovare localizzati in varie zone, ad esempio in corrispondenza di bricole.

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(c)(a) (d)(c)

(f)(d)

Fig 30. Esempi di unità morfologiche rinvenute nell’area di studio.

Il grafico in figura 31 mostra la percentuale di estensione delle diverse forme morfologiche. Si osserva un’equa distribuzione tra campi di dune 2d, campi di dune 3d, scour hole e furrow. Questi ultimi si rinvengono in canali stretti e poco profondi, poiché sono causati dal passaggio di imbarcazioni. È stato mappato un unico campo di obstacle mark.

Fig. 31. Rappresentazione in percentuale delle forme individuate.

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3.5 MAPPA DEGLI OGGETTI ANTROPICI

In figura 32 vengono riportati gli oggetti antropici trovati nell’area di studio, intendendo come oggetto antropico qualsiasi oggetto o forma legato alla presenza dell’uomo. I diversi oggetti antropici potenzialmente presenti in ambiente lagunare sono riportati nell'allegato 1.

Fig. 32. Mappa degli oggetti antropici riscontrati nell’area di studio.

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Tra le forme antropogeniche sono stati mappati i seguenti oggetti: - Bricola: oggetti costituiti da uno o più pali, in genere di legno, utilizzati per segnalare le vie navigabili della laguna (figura 33a). Sono gli oggetti antropici più frequenti, e si trovano in particolar modo ai margini dei canali; - Cable: strutture che servono come condotti per l'elettricità o come linee di supporto per altro, possono essere sommerse o galleggianti (figura 33b); - Pole: pali di vari materiali che si possono trovare sia orizzontalmente rispetto al fondale che verticalmente (figura 33c); - Wreck: strutture artificiali presenti sul fondo, come ad esempio imbarcazioni affondate (figura 33d), che possono essere completamente o parzialmente sommerse.

Fig. 33. Esempi di oggetti antropici rinvenuti nell’area di studio.

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3.6 MAPPA DEL SUBSTRATO

La mappatura del substrato è stata condotta mediante l’integrazione dell’analisi dei campioni fotografici con il segnale di backscatter classificato mediante un metodo di classificazione automatico denominato Jenks con 5 classi (figura 34).

Fig. 34. Mappa del backscatter classificato con 5 classi.

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Le 5 classi ottenute con il Jenks sono così interpretabili: - classe color giallo: substrato di tipo hard o mobile, gravel; - classe color rosso: substrato di tipo mobile, mud; - classi intermedie: substrato di tipo mobile (SL1), sand, muddy sand (SL2) o mixed, biogenic. I diversi tipi di substrato presenti nell’area di studio sono rappresentati in figura 35.

Fig. 35. Mappa del substrato all’interno dell’area di studio.

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Dalla mappa si evince che il Canale di Burano, il Canale Borgognoni ed il Canale Dese sono caratterizzati da un substrato prevalentemente di tipo mobile, sand; nel Canale di Burano, in particolare, la presenza di detrito conchigliare in alcuni campioni fotografici ha permesso di classificare le aree interessate come mobile, sand, bioclastic. Il substrato dei canali Sant’Antonio, della Dolce e di Torcello è risultato essere in prevalenza di tipo mixed, biogenic, poiché i campioni fotografici rilevano un fondo molle con blocchi rocciosi, incrostati da organismi come alghe e spugne. Canale Scanello presenta un’ampia variabilità di fondi: il substrato è soprattutto di tipo sabbioso, ma in alcune aree la presenza di spugne e macroalghe permettono di classificarlo come mixed,biogenic, mentre alcune zone risultano caratterizzate da un letto conchigliare che riflette intensamente il segnale acustico dando un’immagine chiara di backscatter; tali zone vengono classificate come mobile, gravel, bioclastic. In tutta l’area di studio si rilevano aree circoscritte caratterizzate da un substrato di tipo hard o, soprattutto nei canali più stretti, di tipo mobile, mud o muddy sand.

Il grafico riportato in figura 36 mostra che la componente sedimentologica predominante per il primo livello (SL1) è di tipo mobile (49%), che risulta essere la componente principale anche nelle feature classificate mixed, come può essere un fondo sabbioso con dei blocchi rocciosi.

In figura 36a sono riportate le percentuali di estensione di hard, mobile e mixed (SL1). In figura 36b sono riportati i sottolivelli identificati nella categoria mobile.

La mappa del fondale, in figura 35, deriva dall’interpretazione del segnale di backscatter (campionamento indiretto omogeneo su tutta la superficie) supportata dai

69 campioni fotografici (campionamento puntuale diretto). Tali informazioni sono state estese alle aree caratterizzate dalla stessa intensità di segnale e soprattutto con lo stesso pattern di distribuzione del segnale.

Fig. 37. Esempio di substrato di tipo hard, rocky, block. (a): dato di backscatter con posizionamento del campione (HM2015BUR21). (b): backscatter classificato tramite natural breaks (jenks). (c): mappatura del substrato. (d): immagine del campione.

Nell’esempio riportato in figura 37 è stato mappato un substrato di tipo roccioso, come mostrato nell’immagine 37d (HM2016BUR21). L’estensione dell’area da mappare (figura 37c) è stata definita seguendo i valori di backscatter (figura 37a), confermati anche dalla classificazione di tipo Jenks (figura 37b).

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Fig. 38. Esempio di substrato di tipo mobile, mud. (a): dato di backscatter con posizionamento del campione (HM2015BUR16). (b): backscatter classificato tramite natural breaks (jenks). (c): mappatura del substrato. (c): immagine del campione.

In figura 38 si osserva un substrato di tipo fangoso, classificato mobile, mud (figura 38c), come confermano l’immagine del campione HM2016BUR16 (figura 38d) ed il dato di backscatter (figure 38a e 38b).

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Fig. 39. Esempio di substrato di tipo mobile, sand, bioclastic. (a): dato di backscatter con posizionamento del campione (HM2016BUR17). (b): backscatter classificato tramite natural breaks (jenks). (c): mappatura del substrato. (d): immagine del campione.

Nell’esempio riportato in figura 39 si osserva un substrato descritto nei livelli (SL1, SL2, SL3) come mobile, sand, bioclastic (figura 39c). I bioclasti, costituiti da frammenti conchigliari, sono osservabili nell’immagine del campione HM2016BUR17 (figura 39d). Le aree caratterizzate da questo tipo di substrato corrispondono a valori relativamente alti di backscatter (figure 39a e 39b), poiché i frammenti organogeni riflettono le onde acustiche maggiormente rispetto al substrato sabbioso circostante.

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Fig. 40. Esempio di substrato di tipo mixed, biogenic. (a): dato di backscatter con posizionamento del campione (HM2016BUR13). (b): backscatter classificato tramite natural breaks (jenks). (c): mappatura del substrato. (d): immagine del campione.

Nell’esempio riportato in figura 40 si vuole evidenziare un substrato di tipo mixed, biogenic. Questo tipo di fondale è caratterizzato da una componente sabbiosa con blocchi duri popolati da organismi vegetali o animali, come si osserva in figura 40d. L’immagine di backscatter (figure 40a e 40b) mostra un pattern particolare nel quale si riconoscono valori di intensità differenti (zone più chiare e zone più scure).

3.7 MAPPA DELLA COMPONENTE BIOLOGICA

Per caratterizzare i poligoni contenenti le informazioni di tipo biotico (presenza di animali, vegetali o tracce della loro presenza, come tane e gallerie) ci si è avvalsi in primo luogo delle immagini fotografiche ricavate dai campioni durante l’attività di ground-truthing. Mentre per estrapolare l’estensione della mappatura è stato interpretato il dato batimetrico e/o di backscatter, ottenendo il prodotto cartografico riportato in figura 41.

73

Fig. 43

Fig. 42

Fig. 44

Fig. 41. Mappa delle componenti biologiche trovate all’interno dell’area di studio.

La componente biologica è stata segnalata quando si presentava viva escludendo per esempio le conchiglie di esemplari morti risultate invece utili nella definizione del substrato. Nella maggior parte delle immagini si osservano buchi attribuibili a policheti;

74 alcuni, invece, appartengono a crostacei e molluschi. I molluschi, in alcuni casi, sono stati anche osservati in vita.

È stato segnato Infauna-0 quando la foto non dava la possibilità di identificare il tipo di infauna presente e non mostrava evidenze epibentoniche, mentre il segnale di backscatter risultava omogeneo in un’area ben definita, e quindi si potevano tracciare dei poligoni indicativi. È stato segnato Unknown nel caso in cui i campioni mostravano una componente biologica variabile e un backscatter complesso, non facilmente delineabile. Nell’area di studio in cui i pochi video eseguiti non sono risultati utilizzabili in quanto totalmente neri, si è deciso di non classificare la componente biologica.

Fig. 42. Esempio di componente biologica identificata come sessile epibenthos,macroalgae assemblages. (a): dati di batimetria con evidenziazione del poligono mappato. (b): dati di backscatter con evidenziazione del poligono mappato. (c): immagine fotografica del campione HM2016BUR21.

Nell’esempio riportato in figura 42 è evidenziata un’area caratterizzata da sessile epibenthos, macroalgae assemblages, come dimostra il campione fotografico (figura 42c). Il poligono è stato disegnato seguendo i dati di backscatter (figura 42b), con maggiore riflettività. I dati di batimetria (figura 42a) mostrano che tale popolamento è posizionato al margine del canale, caratterizzato da ridotta profondità.

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Fig. 43. Esempio di componente biologica identificata come sessile epibenthos,mixed aggregation of macroalgae and sponges. (a): dati di batimetria con evidenziazione del poligono in questione. (b): dati di backscatter con evidenziazione del poligono mappato. (c): immagine fotografica del campione HM2016BUR13. (d): immagine fotografica del campione HM2016BUR14. (e): immagine fotografica del campione HM2015CSA0112a.

Nell’esempio riportato in figura 43 si vuole evidenziare un poligono mappato come sessile epibenthos, mixed aggregation of macroalgae and sponges. I dati di backscatter (figura 43b) mostrano piccole forme circolari molto scure, che quindi assorbono fortemente le onde trasmesse. È stato dimostrato in uno studio precedente (Montereale Gavazzi et al., 2016) che queste forme sono riconducibili ad organismi animali appartenenti al phylum Porifera. Le immagini fotografiche a disposizione (figure 43c, 43d, 43e) hanno confermato la presenza di tali organismi, in associazione a macroalghe, permettendo così la mappatura della componente biologica.

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(a) (b)

(c) (d)

Fig. 44. Esempio di componente biologica identificata come infauna, molluscs, polychaetes, crustaceans. (a): dati di batimetria. (b): immagine fotografica del campione HM2015BUR108b. (c): immagine fotografica del campione HM2015BUR109a. (d): immagine fotografica del campione HM2015CSA0110c.

La presenza di infauna viene identificata in fondali sabbiosi o fangosi, dove gli animali possono infossarsi, come nel caso dei molluschi, o scavare tane e gallerie, come nel caso di policheti e crostacei (figure 44b, 44c, 44d). I dati di batimetria (figura 44a) non mostrano forme morfologiche particolari, in quanto i campioni si rinvengono sia in aree omogenee che in presenza di campi di dune, che confermano ulteriormente un tipo di substrato mobile, compatibile con la presenza di questi organismi.

3.8 MAPPA DEGLI HABITAT

Per creare la mappa degli habitat (figura 45) sono state sommate tutte le informazioni ottenute dall’analisi delle unità morfologiche, fisiografiche, del substrato e della componente biologica, in modo tale da descrivere l’habitat sia sotto un profilo biotico che abiotico.

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78

Fig. 45. Mappa degli habitat con relativa legenda (vedi allegato 6 per ingrandimento).

Per semplicità di interpretazione, in questa legenda è stato escluso il livello delle forme fisiografiche, mentre sono riportati i codici seguenti sottolivelli:

- “MCL1.MCL2” indica il livello morfologico e si compone di 2 sottolivelli - “SCL1.SCL2.SCL3.SCL4.” indica il livello substrato e si compone di 4 sottolivelli - “BCL1.BCL2.BCL3.BCL4” indica il livello biologia composto da 4 sottolivelli

Laddove per mancanza di informazioni complete non è stato possibile definire tutti i sottolivelli, questi vengono indicati con il valore “0”.

Di seguito sono riportate due mappe degli habitat relative a due specifiche aree dell’area di studio.

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1) M4.S3.3.B1.17

Habitat bentonico costituito da associazioni di macroalghe e spugne su substrato misto organizzato in dune 3d.

Quest’area è caratterizzata da un substrato misto prevalentemente sabbioso con blocchi rocciosi (S3.3) popolati da organismi vegetali (macroalghe) ed animali (spugne) (B1.17). Tali associazioni si trovano su campi di dune 3d (M4).

Fig. 46. Zoom della mappa degli habitat.

2) M8.S2.5.B4.9

Habitat bentonico a policheti e molluschi di fondale sabbioso con presenza di obstacle mark.

L’area evidenziata è caratterizzata da un fondale sabbioso (S2.5) popolato da un’infauna costituita da molluschi e policheti (B4.9), dei quali si osservano spesso le tracce in forma di tane o gallerie. La zona presenta forme morfologiche chiamate comet mark e classificate nella categoria degli obstacle mark (M8).

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Fig. 47. Zoom della mappa degli habitat.

4. DISCUSSIONE

In questo lavoro di tesi l’analisi e l’interpretazione dei dati di batimetria e di backscatter, acquisiti mediante ecoscandaglio multifascio ad alta risoluzione, integrati con campionamenti in situ tramite dropframe, hanno permesso di ottenere una mappa delle caratteristiche fisiche e biologiche dei fondali dei canali circostanti le isole di Burano e Torcello, le quali segnano il confine tra il bacino nord ed il bacino centrale della Laguna di Venezia. Recentemente altri canali della Laguna, tra cui Canale Scanello, sono stati interessati da studi di questo tipo (Madricardo et al., 2011; Foglini et al., 2014; Sigovini et al., 2014; Stellino, 2015; Montereale Gavazzi et al., 2016; Sigovini et al., 2016), mentre in acque più profonde i MBES venivano già utilizzati per investigare praterie di Posidonia oceanica (De Falco et al., 2010), reef coralligeni (Roberts et al., 2005) o altro (Edwards et al., 2003).

81

In questa sede i video ottenuti tramite dropframe si sono rivelati utili strumenti nell’indagine delle componenti fisiche e biotiche del substrato ma, considerato che i dati di batimetria e backscatter sono stati acquisiti nel 2013 e che i campionamenti in situ di questo studio sono stati eseguiti nel 2016, alcuni risultati potrebbero essere influenzati della variabilità naturale di questi ambienti così dinamici. Ad esempio, alcune macroalghe possiedono un ciclo stagionale, come è già stato evidenziato in passato da Curiel e collaboratori, i quali hanno rilevato la presenza di alcuni taxa solamente in primavera o in autunno (Curiel et al., 2001). Considero utile, quindi, nel caso in cui si avessero personale e mezzi appropriati, effettuare i rilievi da confrontare sempre nella stesso periodo replicando i campioni almeno tre volte in ogni stazione o lungo transetti. Ai campioni fotografici si potrebbero associare campioni di sedimento per ottenere una stima più quantitativa della componente sedimentologica. Inoltre, la possibilità di effettuare un campionamento in situ su ogni pattern di backscatter o batimetria che si voglia investigare, permetterebbe di ottenere risultati certamente più attendibili. Bisogna ricordare, infatti, che questi sistemi visivi permettono di osservare solamente una piccola porzione di fondale (Edwards et al., 2003).

Per quanto riguarda l’analisi del dato di backscatter per l’interpretazione del tipo di substrato ci si è aiutati con una classificazione automatica di tipo Jenks; questo strumento di ArcGIS si è dimostrato utile per la mappatura della componente sedimentologica, ma ritengo sia da considerarsi come un supporto e non come una guida assoluta. L’immagine di backscatter analizzata si componeva di zone chiare e scure: le zone chiare (alta intensità di segnale, misurata in dB) corrispondono ad un ritorno acustico più elevato, ovvero ad aree di substrato duro che riflette il segnale trasmesso dallo strumento, mentre le zone scure (bassa intensità di segnale, in dB) corrispondono ad un ritorno acustico più debole, caratteristico di substrati molli e con sedimenti più fini, che assorbono il segnale incidente. Dall’analisi si evince (figura 36a) che i sedimenti che ricoprono i fondali dei canali studiati variano dalla sabbia, riscontrata prevalentemente nel Canale di Burano, il più vicino alla bocca di porto, al fango, che invece è peculiare di aree interne con correnti deboli, come già dimostrato in studi precedenti (Curiel et al., 2004). In generale,

82 comunque, i sedimenti sono prevalentemente siltosi e sabbiosi (Curiel et al., 1998), con qualche presenza di blocchi duri e sporadiche aree di substrato duro, probabilmente di origine antropicao sui bordi delle piane tidali e nelle acque poco profonde (Sfriso et al., 2009). È da ricordare che è stata effettuata una classificazione di tipo qualitativo: per una determinazione più precisa delle componenti sedimentologiche, infatti, bisognerebbe eseguire un prelievo del sedimento tramite benna.

Le forme fisiografiche e morfologiche rinvenute nell’area di studio sono risultate coerenti con il tipo di substrato identificato. Per quanto riguarda le forme fisiografiche, in particolare, i pool sono stati rinvenuti, come ci si aspettava, nella parte esterna dei meandri, caratterizzata dalla maggiore forza erosiva. Associati ad essi sono state trovate point bar e bar; le prime, in particolare, si trovano nel lato interno dei meandri, accanto ai pool, poiché in quel lato il flusso idrodinamico presenta una forza minore ed il sedimento in sospensione si deposita, mentre le barre si possono trovare dopo ai pool, in direzione del flusso, a testimoniare che il sedimento eroso e sollevato dal pool si rideposita quando la forza diminuisce. Tra le forme morfologiche, invece, le dune si potevano identificare non solo dal dato di batimetria, ma anche da quello di backscatter: le creste, infatti, si presentavano più chiare del truogolo, in quanto su questo si deposita il materiale più fine, che assorbe di più il segnale acustico. Gli scour hole sono stati mappati all’incrocio fra due o più canali, dove le differenti forze idrodinamiche scavano il fondale. Gli scour sono stati trovati soprattutto ai lati dei canali, in corrispondenza di bricole, poiché si creano dei vortici locali che erodono il sedimento intorno ai pali, creando delle depressioni. I furrow sono stati trovati in canali poco profondi. Anche la biologia è risultata coerente con l’analisi sedimentologica e con la letteratura più recente (Foglini et al., 2014; Montereale Gavazzi et al, 2016), che dimostra la presenza di letti di ostriche morte incrostate da biocostruttori come policheti tubicoli, e colonizzate da specie habitat-forming come spugne e briozoi. Le immagini dei canali presi in esame mostrano un fondale spesso bioturbato da organismi come molluschi,

83 crostacei e, in maniera prevalente, policheti. Sembrerebbe che nei canali meno trafficati siano presenti associazioni di macroalghe e spugne; queste ultime sono visualizzate anche nel segnale di backscatter, dove appaiono come dei puntini neri (figura 48).

Fig. 48. a: dati di backscatter con evidenziazione delle forme che identificano la presenza di spugne; b: campione HM2015CSA112b.

Per le macroalghe osservate nei campioni fotografici e raccolte durante il campionamento mediante transetto, è stata effettuata una classificazione tramite associazione al gruppo morfo-funzionale. Questo metodo, sebbene non ha permesso l’identificazione a livello di specie in quanto, per la maggior parte dei casi, questa prevede l’analisi al microscopio, ha comunque fornito informazioni sull’architettura algale e quindi sulla “complessità” dell’habitat. I gruppi morfo-funzionali identificati nei canali dell’area di studio sono risultati essere: blade-like, corticated e filamentous. Nella stazione della “Passerella”, invece, sono state rinvenute anche le leathery-forms mentre sono risultate assenti le filamentous. Tra questi campioni sono state rinvenute anche le specie alloctone Sargassum muticum ed Undaria pinnatifida, le quali non sembrano aver ancora colonizzato i canali rientranti nell’area di studio. L’utilizzo di strumenti acustici come MBES hanno già dimostrato (Kruss et al., 2012) che il volume e la densità delle alghe giocano un ruolo nel backscatter acustico e nell’assorbimento del segnale; inoltre, lo scattering non dipende solo dalla ruvidità della superficie e dall’impedimento delle fronde ma anche dallo spessore della fronda stessa.

84

In futuro sarebbe interessante eseguire degli esperimenti per vedere se esiste un riscontro tra un particolare pattern di backscatter ed uno specifico gruppo morfo- funzionale. In questo modo la sola indagine tramite MBES fornirebbe diverse informazioni con un notevole risparmio di risorse.

5. CONCLUSIONI

L’ utilizzo di un ecoscandaglio multifascio ad alta risoluzione ha permesso di ottenere simultaneamente sia dati di batimetria che di backscatter; l’integrazione di questi con campioni fotografici ottenuti mediante dropframe e l’analisi dei diversi dataset a disposizione hanno permesso di ottenere una mappa rappresentante gli habitat bentonici di alcuni canali della Laguna di Venezia non ancora esplorati. Il benthic habitat mapping di canali così poco profondi era possibile, fino a pochi anni fa, solo tramite foto aeree o satellitari e/o dispendiosi campionamenti mediante transetto o riprese da parte di operatori subacquei (Montereale Gavazzi et al., 2016), mentre con questo studio si dimostra che le tecniche di remote sensing associate a campionamenti in situ permettono di ottenere una mappa completa dei fondali con elevato dettaglio e tempi relativamente brevi. Il prodotto cartografico che risulta dal complesso processo di mappatura rappresenta un’istantanea nel tempo e l’attendibilità della rappresentazione di distribuzione degli habitat ad ogni istante successivo dipenderà dal grado di variabilità naturale presente nell’area mostrata sulla mappa. Risulta quindi importante creare uno schema di classificazione che sia completo ed utilizzabile da tutti (standard) nel tempo, per un determinato tipo di ambiente, come possono essere le lagune costiere.

Le informazioni ricavate per l’elaborazione di questa tesi rappresentano un importante ampliamento della conoscenza riguardante i canali della Laguna di Venezia e pongono la base per un futuro studio comparativo sugli habitat bentonici. Inoltre, evidenziano la possibilità, finora poco esplorata in ambienti lagunari, di utilizzare strumenti come i MBES.

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare tutte le persone che mi hanno seguito durante questo lavoro di tesi. Innanzitutto, la Dott.ssa Federica Foglini, che in poco tempo è riuscita a trasmettermi una grande passione per la materia e che mi ha avvicinata al complesso ambiente GIS, da cui spesso invece molti rifuggono; la Dott.ssa Simona Armeli Minicante per la sua grande disponibilità e le conoscenze trasmessemi; la dott.ssa Fantina Madricardo che mi ha permesso di collaborare con il CNR-ISMAR di Venezia e senza la quale non si sarebbero ottenuti i dati di partenza; ed infine, ma non ultima, la Dott.ssa Valentina Grande che mi è stata sempre vicina durante tutto questo percorso, con infinita pazienza e più di quanto non le fosse richiesto. Un sentito grazie va ad altri collaboratori del CNR-ISMAR: Aleksandra Kruss, Alessandro Ceregato, Lorenzo Angeletti ed Elisa Leidi, che mi hanno fornito preziose delucidazioni. Grazie a Loris Dametto, esperto navigante che ha reso possibile la campagna di campionamento mostrando un grande rispetto verso questo lavoro. Grazie al Nucleo Sommozzatori della Polizia di Stato di Venezia per il tempo e la disponibilità forniti. Desidero ringraziare, inoltre, tutti quelli che mi sono stati accanto lungo tutto questo percorso universitario. Un enorme grazie alla mia famiglia che non ha mai voluto influenzare le mie scelte e che mi ha invece sempre supportato, grazie alle mie fantastiche amiche Alessia, Anna, Mery, Giorgia, Giulia e Marta che mi fanno sempre sorridere, e grazie ad Elena, Giorgia e Michele che hanno reso da subito ospitale la “nuova” Ravenna. Grazie ad Emiliano per tutto l’amore che mi dimostra e che mi fa provare. Ed, infine, GRAZIE a quella bambina di prima elementare che non ha mai smesso di credere che questo giorno sarebbe arrivato.

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6. BIBLIOGRAFIA

Abbiati M. (1991). Metodi di campionamento biologico subacqueo. International School for Scientific Diving: 3-12.

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Allegato 1: ANTHROPOGENIC OBJECT 1 Acquaculture structure 2 Anchor weigth 3 Artificial bar 4 Artificial dike 5 Bricola 6 Breakwater 7 Cable 8 Construction reef 9 Construction rubbles 10 Crate 11 Fishing gear 12 Mooring post 13 Pole 14 Rubbles 15 Tire 16 Trash aggregation 17 Trash bit 18 Trash rubbles 19 Unknown 20 Wreck

Allegato 2: PHYSIOGRAPHY L1 P1 Bar P2 Channel P3 Point bar P4 Pool

Allegato 3: MORPHOLOGY L1 L2 M1 2D ripples

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark

7 Furrow 8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole

12 Scour 13 Slamp block M2 3D ripples

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow

8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M3 2D dunes

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow

8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M4 3D dunes

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow

8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M5 Cut bank

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow 8 Obstacle mark

9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M6 Dredging mark

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow

8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M7 Furrow

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow

8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M8 Obstacle mark

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow

8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M9 Relief

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes

4 3D dunes 5 Cut bank

6 Dredging mark 7 Furrow 8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M10 Tool mark

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow

8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M11 Scour hole

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow

8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M12 Scour

1 2D ripples 2 3D ripples 3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow

8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block M13 Slamp block

1 2D ripples 2 3D ripples

3 2D dunes 4 3D dunes 5 Cut bank 6 Dredging mark 7 Furrow 8 Obstacle mark 9 Relief 10 Tool mark 11 Scour hole 12 Scour 13 Slamp block

Allegato 4: SUBSTRATE L1 L2 L3 L4 S1 Hard

1 Rocky

1 Bedrock 2 Block

3 Lithified sediment 2 Firmground

1 Cohesive mud

3 Biogenic

1 Coral dead reef 2 Oyster dead reef 3 Oyster-Serpulid dead reef

4 Seagrass matte 5 Seagrass banquette S2 Mobile

1 Cobble and boulder

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

2 Gravel

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

3 Sandy gravel

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

4 Muddy gravel

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

5 Sand

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

6 Gravelly sand

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

7 Muddy sand

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

8 Mud

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

9 Sandy mud

1 Bioclastic

1 Skeletal hash

2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

10 Gravelly mud

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

S3 Mixed

1 Rocky

1 Bedrock

2 Block

3 Lithified sediment

2 Firmground

1 Cohesive mud

3 Biogenic

1 Coral dead reef

2 Oyster dead reef

3 Oyster-Serpulid dead reef

4 Seagrass matte

5 Seagrass banquette

4 Cobble and boulder

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

5 Gravel

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

6 Sandy gravel

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

7 Muddy gravel

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

8 Sand

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

9 Gravelly sand

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

10 Muddy sand

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

11 Mud

1 Bioclastic

1 Skeletal hash

2 Coral rubble 3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

12 Sandy mud

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

13 Gravelly mud

1 Bioclastic

1 Skeletal hash 2 Coral rubble

3 Algal rubble 2 Lithic

3 Mixed

Allegato 5:

Allegato 6: