“Catasto Provvisorio Terreni” Inventario

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“Catasto Provvisorio Terreni” Inventario A R C H I V I O D I S T A T O D I C A S E R T A “CATASTO PROVVISORIO TERRENI” INVENTARIO È il caso di precisare subito allo studioso e all’utente che il presente Catasto, a dispetto della sua denominazione storica, non è né “provvisorio” quanto all’effettiva durata, né di soli “terreni”: è invece un catasto immobiliare onnicomprensivo, rimasto in uso per più d’un secolo (per i fabbricati “soltanto” sessant’anni) sotto tre diversi regimi. Il CATASTO PROVVISORIO TERRENI (cosiddetto catasto “murattiano”), la cui attuazione venne disposta e via via meglio disciplinata con leggi del 4 aprile, 12 agosto e 9 ottobre 1809, nasce come un complemento ed un necessario strumento di attuazione della nuova disciplina fiscale, inauguratasi già quasi all’indomani dell’occupazione francese con l’abolizione di tutte le preesistenti forme di contribuzione diretta (legge 8 agosto 1806) per sostituirle, a partire dal 1° gennaio successivo, con la sola imposta fondiaria, regolata dalla legge dell’8 novembre dello stesso anno e per la prima volta applicata anche ai beni di provenienza feudale (oltre che a quelli ecclesiastici, che sotto l’antico regime ne erano ancora parzialmente esenti). L’allestimento di questo nuovo Catasto, ancorché dichiaratamente “provvisorio”, si inserisce quindi come momento essenziale in quella globale modernizzazione e razionalizzazione dell’apparato amministrativo statale che rappresenterà, anche sotto le monarchie restaurate, l’acquisizione più duratura e l’eredità più importante del “decennio francese”. La portata veramente “rivoluzionaria” di una legge di poche righe, qual è quella dell’8 agosto 1806, emerge sia da considerazioni “di principio” (di equità fiscale, certezza del diritto, aderenza ai profondi mutamenti in atto nella società), sia da considerazioni di mera funzionalità ed efficienza. Delle une e delle altre emerge una chiara consapevolezza nel preambolo alla legge dell’8 novembre sull’imposta fondiaria, che qui val la pena di citare quasi per intero: “Colla legge degli 8 Agosto prossimo passato abbiamo soppresse ventitre tasse diverse, che si percepivano a titolo di contribuzioni dirette, una parte delle quali, coll’esentare i beni feudali, gravitava maggiormente sopra del popolo. La quota della imposta, che ricadeva sopra di esso, era inegualmente ripartita fra le diverse provincie, ed in ogni provincia inegualmente divisa tra i contribuenti. Il modo di percezione era altrettanto vario ed ineguale quanto l’imposizione stessa. In alcuni luoghi si percepiva per via diretta sulla norma de’ catasti esistenti; in altri per contribuzione indiretta sopra i generi di consumo; in altri sopra il prodotto de’ beni comunali (.....). Una gran parte di queste tasse gravitava sopra l’industria più necessaria alla società, ed altra sopra il popolo, come un segno di servitù personale. I beni feudali esenti da alcuni pesi ordinarj e comuni, senza esserlo da altre imposizioni particolari, erano altronde soggetti a diverse eventualità contrarie al diritto di proprietà (.....). Noi abbiamo distrutte tutte queste istituzioni colla legge, che ha abolita la feudalità; abbiamo data al popolo l’eguaglianza de’ dritti, agli ex-feudatari la pienezza delle loro proprietà, ed abbiamo stabilite in tal modo le vere basi della pubblica felicità”. Quanto alle questioni di principio, la citata premessa è di per sé eloquente e null’altro occorre aggiungere in questa sede. Quanto all’efficacia dello strumento - che certo, nelle risultanze pratiche, venne condizionata da inesattezze e incompletezze, connesse alla necessità di apprestarlo in tempi brevi - basterà osservare che in un settore assai carente dell’amministrazione borbonica, qual era quello del debito pubblico, fu possibile già nel 1813 sotto Gioacchino Murat, e malgrado la nota rapacità della Francia, raggiungere il pareggio in bilancio. La nuova imposta fondiaria doveva ripartire la contribuzione diretta, fissata anno per anno a seconda delle necessità di bilancio, unicamente in base alla consistenza patrimoniale dei soggetti, senza alcun riguardo al ceto e alla condizione e - come già enunciato dalla legge dell’8 agosto - “senz’altre eccezioni, che quelle che saran determinate dall’interesse dell’agricoltura”. Vi erano soggette (Titolo I art. 3 legge 8 nov.) “le terre di qualsivoglia natura, anche le inculte; le case di città e di campagna, che servono di abitazione o per l’industria rurale, le officine, fabbriche e manifatture; i laghi e canali di navigazione, le miniere, le cave di pietre; le rendite de’ creditori dello Stato sotto qualsivoglia titolo; la rendita degli officj venduti; la rendita al di sopra di ducati cento de’ capitali impiegati sul commercio, ed animali d’industria” (esclusi quelli necessari per la coltivazione dei campi); mentre ne erano esenti le strade, le piazze pubbliche e i fiumi. L’ammontare dell’imposta doveva commisurarsi non al capitale in sé, ma al reddito, e precisamente alla rendita netta dei beni ai quali si riferiva, calcolata in base ad una media decennale; intendendosi per rendita netta il prodotto dei terreni o il valore d’affitto dei fabbricati (case d’abitazione, mulini e manifatture), detratte rispettivamente le spese di coltivazione e quelle di manutenzione/ammodernamento. La contribuzione non doveva di regola eccedere un quinto della rendita netta così determinata, ma più volte, per fronteggiare l’emergenza finanziaria, vennero stabilite misure di tassazione straordinaria (“grani addizionali”), ripartita secondo criteri di progressività che ai grandi proprietari terrieri apparvero “punitivi” ed iniqui. Il Regno borbonico, come è noto, aveva avuto un nuovo Catasto appena 65 anni prima ( ) : trattasi del famoso “Onciario”, ossia del Catasto istituito da Carlo III (*) Dico “appena” perché, chiaramente, l’impianto di un nuovo Catasto è opera di estrema complessità già per difficoltà intrinseche (tecniche e burocratiche), cui si aggiungevano in quell’epoca le inevitabili resistenze o pressioni dei proprietari, e poi le dichiarazioni false e i relativi accertamenti, la valanga dei ricorsi e i tempi lunghi delle conseguenti verifiche. Basti pensare che nell’Italia unita era stata disposta fin dal 1886 la formazione di un catasto uniforme, che sostituisse i vari catasti degli Stati preunitari, e che al 1929 esso risultava completato soltanto per il 40% del territorio nazionale, mentre il suo compimento si è avuto soltanto nel 1956; o al Catasto francese “napoleonico”, cui si nel 1741 che aveva la singolare particolarità di computare la quota imponibile in once, unità di misura puramente convenzionale e fittizia cui già da secoli aveva cessato di corrispondere un’effettiva unità monetaria. Questo “Catasto onciario” rispetto ai precedenti, che ancora si rifacevano a prammatiche dell’epoca aragonese, per la prima volta determinava la capacità contributiva non più in base al valore del patrimonio, ma in base al suo reddito (non era dunque questo, in assoluto, un aspetto innovativo della legislazione “francese”), e per la prima volta includeva tra i soggetti tassabili anche il clero - con eccezioni e restrizioni derivanti dal Concordato del 1741 - , lasciando però la nobiltà del tutto esente dal peso delle contribuzioni “ordinarie”. All’atto pratico, comunque, esso finiva col dettare una norma puramente “teorica”, rispetto alla quale le eccezioni erano la regola: privilegi ed immunità di vario genere, unitamente al sopravvivere di forme “aggiuntive” d’imposizione fiscale - spesso diverse da luogo a luogo, spesso espressamente previste per singole Università, per singole categorie o per singoli soggetti - che perpetuavano antiche prestazioni ed antichi balzelli, vanificavano quasi interamente lo spirito di proporzionalità (fra ammontare dei tributi e reale capacità contributiva) che già lo informava in linea di principio. Ma dove l’Onciario si rivela anche strutturalmente inadeguato e antiquato è nel fatto che esso nasceva come strumento di imposizioni sia personali che reali, tanto che dalla legislazione dell’epoca non sembra nemmeno emergere un chiaro concetto di “tassa” e di “imposta”, né una precisa distinzione fra contribuzioni “dirette” e “indirette”. Non a caso, mentre tutti i catasti successivi (compreso appunto quello “murattiano”), e buona parte anche di quelli settecenteschi, nascono da una rassegna capillare del territorio, l’Onciario si fonda invece su un vero e proprio censimento della popolazione: la verifica stessa delle proprietà viene effettuata a partire dalle persone o meglio dai nuclei familiari (“fuochi”), e non da una ricognizione territoriale sistematica come è normale per qualsiasi catasto moderno. La conseguenza è che mentre nei registri dell’Onciario noi troviamo indicati per ciascun contribuente, dopo il nome e la paternità, la professione, il numero dei figli, lo stato civile e, da ultimo, la consistenza patrimoniale (cioè proprio tutti quegli elementi che oggi lo rendono storicamente di grande importanza, prestandosi ad una statistica socio-economica di enorme interesse), nel nuovo ordinamento queste rilevazioni vengono affidate a differenti amministrazioni - per la parte demografica al Ministero dell’Interno, Ripartimento di Agricoltura Industria e Commercio - , come non più influenti ai fini di una ripartizione del prelievo fiscale. L’autentica novità del Catasto “murattiano” è, invece, appunto quella di assumere come sua base il territorio e non la popolazione dello Stato; e ciò fin dalle premesse, dato che già le leggi del 1806 imponevano ai Comuni una precisa ispezione, ripartizione e classificazione del rispettivo
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