IL PARCO DI STUPINIGI (informazioni tratte dal sito istituzionale della Regione Piemonte e dal Piano d’Area del Parco naturale di Stupinigi)

Il Parco A solo dieci chilometri da Torino il Parco naturale di Stupinigi con i suoi boschi ed i suoi ampi spazi di paesaggio agrario costituisce una delle più pregevoli tessere, di quel mosaico circolare di aree verdi e di aree non urbanizzate, che racchiude il polo metropolitano. La Palazzina ed il paesaggio del Parco rappresentano uno dei punti di maggiore interesse storico-architettonico dell'area torinese, in via di valorizzazione nel quadro delle iniziative per il recupero delle Regge Sabaude e dello sviluppo del progetto di Corona Verde attorno alla città. Il Parco, istituito con legge regionale nel 1991 si estende su 1.732 ettari (circa 17 kmq, la metà dell’estensione del Parco della Mandria) si sviluppa attorno alla Palazzina di Caccia di Stupinigi, eretta nella prima metà del XVIII secolo dall'architetto Juvarra, su volere di Casa Savoia per le reali villeggiature e la pratica venatoria. L'area naturale è di tipo planiziale, con boschi misti di latifoglie a struttura irregolare, in gran parte con impianti di pioppi ibridi. Per l'interesse di tipo faunistico è anche stata interamente individuata quale Sito di Importanza Comunitaria (S.I.C.), per l'interesse specifico dato da importanti relitti di entomofauna planiziale, che rendono meritevoli ripristini ambientali. I rischi per la conservazione derivano dalla vicinanza delle aree urbane, e soprattutto da strade ed autostrade a grande traffico, che tra l'altro innescano fenomeni di degrado. Circa 1.000 ettari (pari alla superficie di 1.400 campi da calcio regolamentari, per avere un termine di paragone) sono coltivati.

Storia Il territorio medioevale di "Stoponito", ricco d'acque sorgive, deve il suo popolamento alle Abbazie di Staffarda e di Rivalta, che vi possedevano grange e chiese. Il territorio definito in età medioevale presentava già un piccolo castello, tuttora visibile a levante della palazzina (via di Stupinigi), che anticamente difendeva il paese di Moncalieri: esso era possesso dei Savoia-Acaia, ramo cadetto della dinastia, ma passò sotto la proprietà di Amedeo VIII di Savoia quando l'ultimo degli Acaia morì nel 1418. Per volontà del duca Emanuele Filiberto, il castello e le terre adiacenti vennero lasciate all'Ordine Mauriziano. Grazie alle continue bonifiche i suoli acquisirono fertilità e l'incremento dei boschi attirò la fauna selvatica. L'interesse venatorio dei Savoia si rivelò già nel corso del XVI secolo quando tutto il territorio, divenuto una Commenda dell'Ordine Mauriziano, venne riservato alle cacce ducali. Si tracciarono le rotte Palmera e Pracavallo che dai castelli del Drosso e di Mirafiori sul Sangone portavano quasi fino al torrente Chisola. In epoca barocca i territori si rivelarono adatti alla pratica della chasse à courre (caccia praticata a cavallo con mute di cani, senza l'uso di armi da fuoco). Tutto il territorio venne dunque rimodellato dalla costruzione della Palazzina con le sue rotte di caccia e rondò. Era l'aprile 1729, e venne affidato il progetto a . Ma fu sotto il regno di Carlo Emanuele III che la palazzina vide la nascita: nel 1731 già veniva inaugurata con la prima battuta di caccia. La costruzione si ampliò durante i regni di Carlo Emanuele III e Vittorio Amedeo III con il contributo di altri architetti, tra i quali Prunotto, Bo e Alfieri. Nel 1740 furono aggiunte altre due ali, ospitanti le scuderie e le rimesse agricole. Anche Napoleone Bonaparte vi soggiornò, dal 5 maggio al 16 maggio 1805, prima di recarsi a Milano per cingere la Corona Ferrea. Qui egli discusse con le principali cariche politiche di Torino, accogliendo il sindaco, la magistratura e il clero, con a capo il cardinale Buronzo. Sembra che il cardinale, severamente redarguito dall'imperatore per le sue presunte corrispondenze con Carlo Emanuele IV di Savoia, sia stato oggetto di una discussione che ebbe come risultato la sua sostituzione con il vescovo di Acqui Terme, monsignor Della Torre. Nel 1832 la palazzina divenne di nuovo proprietà della famiglia reale e il 12 aprile 1842 vi fu celebrato il matrimonio tra Vittorio Emanuele II, futuro primo re d'Italia, e l'austriaca Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena. Fu poi ceduta al demanio statale nel 1919 e nel 1925 fu restituita, con le proprietà circostanti, all'Ordine Mauriziano. Nell'Ottocento ospitò per diversi anni un elefante indiano maschio, che era stato regalato a Carlo Felice. L'elefante Fritz divenne famoso, ma dopo qualche anno l'elefante impazzì e incominciò a distruggere ciò che lo circondava; venne abbattuto e donato al museo zoologico dell'università di Torino. Attualmente l'animale imbalsamato è in mostra presso il Museo regionale di scienze naturali di Torino. In analogia a quanto avvenuto nel 1976 per La Mandria, nel 2009 la Regione ha acquisito gli immobili appartenenti al contesto urbano e rurale del comparto di Stupinigi appartenenti precedentemente all'Ordine Mauriziano. Dal 1997 il Parco rientra nella tra i beni classificati dall'UNESCO Patrimonio dell'Umanità, in relazione all'importanza storico-architettonica dei luoghi e alla presenza della Palazzina di Caccia di Stupinigi, rientrante nel sito seriale delle Residenze Reali del Piemonte.

Principali edifici, oltre alla Palazzina

Castelvecchio Il Castello, chiamato Castelvecchio, è un complesso fortificato basso medievale abitato in origine dai Savoia- Acaia cje nel 1439 lo vendettero al marchese Rolando Pallavicino. Nel 1563 la proprità fu ceduta a §emanuele Filiberto, quando questi trasferì la capitale del Ducato di Savoia da Chambèry a Torino. In seguito emanuele Filiberto donò Stupinigi all'Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro, noto oggi come ordine Mauriziano. A differenza del Castello di Rivoli, Juvarra non tentò di inglobare la preesistenza, anzi nel 1735 ne furono demolite delle parti e fu adibito a magazzini e ad abitazioni per affittuari fino al 1776 quando fu rammodernato e restaurato. Il concentrico La costruzione della Palazzina di Caccia aveva comportato la demolizione di quattro cascine, rendendo insufficienti per le attività agricole quelle rimanenti, che già versavano in pessime condizioni di manutenzione. Si decise pertanto la demolizione di altre otto cascine e la costruzione di dodici nuovi poderi. Tutto il complesso, compresi gli edifici correlati alla cascine quali la ghiacciaia, l'osteria, i granai, i canili e lescuderie, era stato concepito in maniera unitaria, funzionalmente alla Palazzina di Caccia. L'idea di costruire le dodici cascine lungo lo stradone, rispondeva anche all'esigenza di consentire una migliore e più equa redistribuzione degli appezzamenti: tute le cascine erano uguali sia per quantità di beni assegnati che per la qualità e collocazione delle costruzioni. La denominazione attuale dei poderi, ciascuno con il nome di un santo, risale alla fine dell'Ottocento. Castello di Parpaglia Di origine presumibilmente trecentesca, si ipotizza che il castello sia sorto come avamposto dei Cavalieri Gerosolimitani, oggi noti come Ordine di Malta. I primi proprietari della cscian e del Castello furono i Revigliasco e successivamente subentrarono i Parpaglia. All'Ing. Carlo Mosca sono attribuibili alcune modifiche apportate all'impianto originario nel 1825.

Le Cascine All'interno del Parco sono presenti 6 cascine, quasi tutte a corte chiusa caratterizzate dalla produzione cerealicola e zootecnica (mucche frisone da latte). Le Cascine più antiche sono quelle di Parpaglia (la cui torre circolare del castello data dal XIV secolo), Cascina Gorgia, risalente alla fine del 1400 e le Cascine Piniere del XVI secolo che fanno parte dei primi possedimenti donati all'Ordine del Mauriziano. Le più recenti sono la Cascina del Beccaio (o del Becchiere) Bozzalla e Vicomanino (o Vermanino) già rilevata nel 1827 e citata dal Casalis per avere un gran serraglio di animali: cinghiali, cervi e fagiani (di cui è presente ancora una ben conservata fagianaia) e alcuni animali esotici tra cui leoni, elefanti, canguri e gazzelle. Nel complesso i terreni del Parco sono utilizzati da una dozzina di aziende agricole, che danno lavoro a circa 40 addetti. Un paio di queste sono anche fattorie didattiche. Le attività tradizionali sono la coltivazione dei cereali (mais, grano) e l’allevamento bovino da latte e da carne (circa 1.330 capi) Negli anni recenti, alcune aziende agricole del Parco stanno introducendo nuove coltivazioni (es. camomilla, grano saraceno) e recuperando l’utilizzo di antiche varietà di frumento, costruendo un’interessante filiera corta.

La Farina della Filiera di Stupinigi All'interno del Parco sono stati identificati (da Coldiretti, Camera di Commercio e Parco Naturale di Stupinigi) i terreni più adatti alla coltivazione del grano per garantire la semina di alcune varietà tradizionali di frumento tenero a basso contenuto di glutine che da tempo non erano più coltivate in zona e a queste si sono unite varietà di grani antichi recuperate grazie alla collaborazione con l'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Il grano, seminato da cinque aziende agricole del Parco, viene macinato a pietra dal Molino Roccati di Candia Canavese e la farina così prodotta, oltre ad essere venduta al dettaglio sul territorio, viene usata dal panificio Panacea di Torino per produrre pane lievitato con sola pasta madre. Valorizzando l'agricoltura di prossimità e l'antica vocazione agricola del parco si è venuto a creare un filo diretto che porta dalla terra coltivata di Stupinigi alla tavola, un pane buono e sano come quello di una volta, dando vita alla prima filiera della farina del Piemonte. Lavorare in una filiera corta senza intermediari permette inoltre di garantire l'eliminazione totale di additivi chimici e offrire ai consumatori un prodotto di cui conoscere a pieno qualità e provenienza. Le aziende agricole del Parco che coltivano il grano della Filiera sono:

 Azienda Agricola F.lli Bertola di  Azienda Agricola Barale Bertola di Candiolo  Azienda Agricola Michele Piovano di  Azienda Agricola San Martino di  Azienda Agricola Maria Maddalena Siccardi di Nichelino

La trebbiatura del grano alla cascina Parpaglia – Az. Agricola Bertola

Altri edifici che si incontrano sul percorso verso None

Santuario di San Ponzio L’edificio risale al XIV secolo ma la sua struttura è stata più volte rimaneggiata e ampliata; gli ultimi interventi sono stati realizzati nel 1926 e 1947. Il piccolo complesso è formato da una chiesa con campanile, una casa per abitazione e attività pastorali, un terreno circostante. Il santuario era ricco di ex-voto, oggi non più visibili perché rubati. Durante la Resistenza, nel santuario sotto la protezione dei partigiani furono ospitati dieci soldati inglesi, il cui aereo colpito dalla contraerea aveva fatto atterraggio di fortuna ad Airasca. Nel dopoguerra, il santuario è stato per un periodo da un’anziana signora che, portando il saio come i romiti che l’avevano preceduta, era soprannominata La Frata.

Cappella di San Giovanni La cappella risale al Seicento ma svolge un ruolo rilevante soprattutto nell’Ottocento, quando venne destinata all’uso di lazzaretto in occasione dell’epidemia di colera che nel 1835 aveva investito Torino e larga parte del Piemonte meridionale. Nel 1817 iniziarono le grandi pandemie di colera nell'Asia orientale e occidentale, in Europa, Africa e America. Quando il colera-asiatico fece la sua apparizione in Europa per la prima volta nel 1830 circa, propagandosi lungo l'asse Mosca, Vienna, Londra,Parigi, era sconosciuto alla maggior parte dei medici. La prima comparsa del colera-asiatico in Italia risale al 1832, a Torino al 1835. Scrive Guido Gozzini nel Saggio "Sviluppo demografico e classi sociali ": a Torino il morbo infuriò meno che altrove - 349 casi contro i 4.051 di Genova - pur provocando 220 morti..." In realtà, in base alla Statistica del Segretario della Commissione Sanitaria, i morti furono soltanto 161. Nel Novecento la cappella di San Giovanni, così come il Santuario di San Ponzio, era un punto di riferimento per le Processioni della brina. Si tratta di lunghe processioni pubbliche durante le quali vengono recitate litanie dei santi per propiziare il raccolto. La cappella è stata recentemente restaurata ad opera del gruppo alpini di None.

Qualche nota sulla caccia a cavallo (informazioni tratte dai siti della Società Torinese per la Caccia a Cavallo e Cavalli.it)

La tradizione della caccia a cavallo nella pianura torinese risale al XVII secolo. Allora Torino, fuori dalle mura, era circondata da liberi terreni e fitte boscaglie. Qui vivevano in libertà, in un habitat naturale, animali di grossa taglia: cervi, caprioli e daini. E qui, a poche miglia dalla capitale, si trovavano le prestigiose residenze reali di Venaria Reale, Rivoli, Mirafiori, Stupinigi, luoghi di delizie per la Corte sovrana che particolarmente prediligeva la caccia, attività consona alla tradizione guerriera della Dinastia sabauda. Il massimo di magnificenza per queste partite di caccia si ebbe sotto il regno di Carlo Emanuele II, fondatore del castello della Venaria Reale (1675), nei cui dintorni si cacciava il cervo, la volpe, il cinghiale e persino l’orso. Attualmente, a causa delle regole di protezione delle specie selvatiche, della necessità di rispettare le proprietà rurali e per motivi etici, la caccia a cavallo è simulata è prende il nome di “paper hunt/chase” . La “caccia” non prevede quindi l’abbattimento di prede e si svolge lungo un percorso di campagna preordinato – per non arrecare danno alle coltivazioni e disturbo alle proprietà private – ove un cavaliere fa la parte della volpe, lasciando una “pista” di odore artificiale di selvaggina – scent layer – sparso preventivamente per attrarre le mute dei cani, oppure altri segnali nel caso in cui la caccia non preveda l’utilizzo di mute. In Italia la prima società di caccia a cavallo fu fondata a Roma nel 1836. La Società Torinese dei Paper Hunts venne fondata nel 1890 su iniziativa di un gruppo di ippofili torinesi, civili e militari. Attualmente è attiva la Società Torinese per la Caccia a Cavallo.