Pep Marchegiani
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PEP MARCHEGIANI NEW-PEP “Il quadro non è che un prodotto” 1 NEW-PEP “Il quadro non è che un prodotto” a cura di / curated by Giovanna Lacedra e Grace Zanotto 2 IL QUADRO NON è CHE UN PRODOTTO. Giovanna Lacedra / Grace Zanotto C’era una volta la Pop Art. Un’arte fatta per le masse. Nata per la gente. Prodotta per il popolo. Popular, appunto. Da ingurgitare e consumare, esattamente come qualsiasi altro prodotto. Erano gli anni ’50-’60. Andy Wharol, con la sua produzione seriale di ritratti serigrafati, dava inizio ad una sorta di catena di montaggio dell’arte. Trasponeva nella sua Factory la versione post- moderna della rinascimentale bottega d’artista, avvallando la teoria riguardante l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica già esposta da Walter Banjamin nel 1935, e secondo la quale un’immagine più volte vista – dunque riconoscibile perché entrata a far parte del bagaglio iconico collettivo –, avrebbe in sé il potenziale per diventare un eccezionale veicolo comunicativo. Un veicolo dall’idioma chiaro e fruibile e dall’impatto immediato, capace di propagare messaggi valicanti lo status decorativo dell’immagine. Negli anni del Pop artisti come Warhol, Oldenburg e Dine recuperavano i loro soggetti direttamente dagli scaffali di un supermercato o nei fast food, operando, in termini di scelta iconografica, una autentica decontestualizzazione duchampiana, capace di convertire un prodotto riconoscibile in opera d’arte. Quel prodotto, però, veniva ri-prodotto in chiave artistica, mediante tecniche grafiche, pittoriche o scultoree. Era, dunque, l’arte che imitava il prodotto da scaffale o l’icona holliwoodiana, per rendersi istantaneamente fruibile. Warhol riproduceva la stessa immagine su un supporto tradizionale: la tela. Le sue serigrafie moltiplicavano all’infinito lattine di Coca Cola o ritratti di Marilyn, alterandone i colori. Con questa tecnica, l’artista entrava in quello che Argan ha definito “circolo della pura aleatorietà”, un ambito in cui pare non esservi più distinzione tra quello che potrebbe dirsi “fenomeno estetico” e quello che invece non lo è. L’altra straordinaria trovata di Warhol fu quella di citare la cronaca a lui contemporanea prelevando l’immagine fotografica e documentativa, direttamente dalle testate giornalistiche o dalla TV – insomma, dai circuiti d’informazione di massa del suo tempo –, per poi restituirla allo spettatore quasi logora. L’effetto cui mirava era proprio quello di un’immagine corrosa. “È un’immagine che, in gergo giornalistico, ha fatto notizia: l’incidente d’automobile, la sedia elettrica su cui è morto il famoso assassino, il o la protagonista del fatto del giorno ( Marilyn Monroe, Jaqueline Kennedy, Che Guevara). Sono immagini divulgate dalla stampa quotidiana: la medesima immagine viene veduta molte volte (…) Siamo tutti testimoni, ma dove tutti sono testimoni, nessuno è giudice…”. In definitiva, Andy Warhol usò il medium artistico per verificare gli effetti della ripetizione di una data notizia, sulla massa. La Pop Art fu ufficializzata in Italia con la Biennale d’Arte di Venezia del 1964. E subito venne identificata da Adorno, come pura e semplice operazione di ‘raddoppio’. In realtà, nell’indagine artistica di Wharol, Oldenburg, Dine o Rosenquist la scelta di raddoppiare, moltiplicare – dunque riprodurre –, immagini appartenenti alla memoria iconica di massa, aveva una funzione più precisa: quella di muovere una polemica alla stessa società dei consumi. Quel riporto o raddoppio doveva provocare, nel riconoscimento immediato, una più profonda presa di coscienza, una più affilata riflessione. 3 La risposta italiana a questo tema, era già arrivata con la ricerca pittorica di Renato Guttuso e con le sue affermazioni circa l’arte intesa innanzitutto come “problema morale” e circa la pittura vissuta come mezzo specifico per avvicinarsi al mondo. Ma facendo un passo indietro, agli anni venti del Novecento, è nel Muralismo Messicano di Orozco, Rivera e Siqueiros che risulta riscontrabile un concreto impegno sociale da parte dell’arte. Affreschi enormi avevano il compito di educare la gente ai principi marxisti. Si trattava di una pittura rivoluzionaria e parimenti educativa. Didattica e didascalica. Una super-pittura donata al pubblico, pensata per la collettività, capace di parlare al popolo. I muralisti messicani privilegiano sempre la storicità del fatto, e non è dunque un caso che Del Guercio li annoverasse tra coloro che avevano cambiato il volto dell’arte, restituendole una nuova responsabilità storica di fronte agli uomini. La nostalgia per questo momento storico-artistico prendeva volume anche in considerazione del fatto che questi affreschi, realizzati all’esterno di edifici e dai chiari contenuti divulgativi, una volta terminati divenivano di proprietà comune. Erano un bene del popolo messicano, appartenevano alla società e non più all’artista che li aveva realizzati. Affrancandosi totalmente dal vincolo proprietario, si slacciavano dal “feticismo della merce”. Ad ogni modo, l’arte socialmente impegnata – che diventa strumento di denuncia, di polemica e riprovazione, e che rende l’artista portavoce di una determinata fetta della popolazione – era nata molto tempo prima, intorno agli anni ’40-’50 dell’ Ottocento, con il Realismo Francese di Courbet, Daumier e Millet. Lo scopo dei pittori Realisti era stato quello di rappresentare la vera condizione di vita delle classi lavoratrici, senza nessuna trasfigurazione che mascherasse i reali problemi sociali. L’arte era allora un prodotto pensato per il popolo, poiché erano le verità più scomode ad essere messe in luce mediante la pittura. Pensiamo a brani indimenticabili del Realismo, come Gli Spaccapietre di Gustave Courbet, o ancora Il vagone di terza classe di Honoré Daumier. Negli ultimi decenni, invece, la situazione pare essere mutata. Questo rovesciamento è stato chiaramente espresso in un saggio di Vasquez, intitolato ‘Arte e Società’, in cui l’autore afferma: “l’artista è soggetto ai gusti, alle preferenze, alle idee e alle concezioni estetiche di coloro che influenzano il mercato. Dal momento che egli produce opere d’arte destinate ad un mercato che le assorbe, non può non tener conto delle esigenze di questo mercato: queste modificano sia il contenuto che la forma dell’opera d’arte, ponendo in tal modo dei limiti all’artista, soffocando il suo potenziale creativo e la sua individualità”. L’arte è davvero così fortemente impigliata nella rete capitalistica? Siamo sicuri che un’opera sia ormai soltanto merce dagli esili contenuti? Esistono ancora artisti che, pur muovendosi in un tale sistema, riescono a muovere una critica urgente e intelligente, alla società contemporanea? Herbert Simon, psicologo cognitivista ed economista americano, sul n.23 di ‘Across the board’ (1986) scriveva: “le azioni sono considerate creative quando producono qualcosa che sia originale, interessante o abbia valore sociale. Un elemento originale, che sia interessante e che abbia valore sociale rappresenta il fondamento della creatività”. Se uniamo il principio di riproducibilità tecnica dell’opera – teorizzata da Banjamin e applicata da Warhol –, con l’impegno sociale dimostrato dai muralisti messicani, e con la teoria sulla creatività formulata da Hebert Simon, otteniamo un prodotto artistico in grado estendere l’azione di denuncia ad una porzione di popolazione sempre più abbondante. È il prodotto artistico di Pep Marchegiani. 4 A distanza di più di mezzo secolo, un artista come Marchegiani ha deciso di ribaltare i principi di base della Pop Art, nonché le regole di mercato. Ha capito che, per essere comunicativamente incisiva, l’immagine riconoscibile – il marchio, il logo, il ritratto o la caricatura del personaggio noto - deve essere riprodotta su supporti accessibili al grande pubblico, ovvero a quella fetta piuttosto farcita di gente che nelle gallerie e nei musei non entra quasi mai. Come afferma l’artista: “Il messaggio è indubbiamente lo stesso, quello che cambia è la scelta del supporto sul quale produrlo. La differenza è nella tecnica”. È il prodotto stesso, dunque, a farsi arte. Non più il dipinto, la serigrafia o la scultura, già capaci di ritrarlo e riprodurlo quale totem per la memoria iconica di massa. Il prodotto è già messaggio. Ma nella produzione di Pep Marchegiani si fa opera d’arte riproducibile, facilmente acquistabile, e altamente comunicativa. E lo stile adottato per perseguire un tale obiettivo non poteva che essere palesemente popular: essenziale, illustrativo e pubblicitario. Contorni netti e campiture. Talvolta piatte, talaltra strutturate a costruire volumi per livelli di gradazioni tonali. È naturale captare che, se l’immagine viene riprodotta su felpe, t-shirt, borse, cover per iPhone o ruote di mountain bikes, la parte di pubblico predisposta a riconoscerla e fagocitarla sarà sicuramente più variegata. Lo stesso Pep trova che “... l’opera debba comunicare sui più disparati supporti e essere alla portata di tutti dal collezionista al collezionista”. Le sue opere-prodotto divulgano messaggi visivi audaci e impertinenti. Più precisamente agiscono una denuncia sociale, sfrontata e mai esiziale. Sono critiche formulate in chiave ironica e polemica. Accuse sottili (ma non troppo), edulcorate dalla nettezza del segno e del colore. Se con la Pop Art si assiste al semi-svuotamento dell’oggetto artistico, dell’opera d’arte, con la scelta Neo Pop di Marchegiani l’oggetto artistico diventa un prodotto di consumo che acquista valore, riempiendosi del messaggio di cui si fa portatore. Nella produzione artistica