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1. Dallo sfratto del San Benedetto al trattato di Campoformido (1787-1798) Nell’ultimo scorcio del XVIII secolo gli spettatori veneziani hanno a disposizione la bellezza di sette antichi teatri, denominati dal quartiere in cui si trovano o dalla famiglia dei nobili proprietari: il Giustinian, poi Zane, attivo dal 1620 a San Moisè; il Vendramin, oggi intitolato a Goldoni e allora chiamato indifferentemente San Salvador o San Luca perché eretto al confine fra le due parrocchie nel 1622; il Tron di San Cassiano, famoso per aver rappresentato Andromeda nel 1637, la prima opera allestita a pagamento; il Grimani di San Samuele, fondato nel 1655; il Sant’Angelo, aperto dall’ardito impresario Francesco Santurini nel 1677; il prestigioso San Giovanni Crisostomo, voluto sempre dai Grimani nel 1678 dove ora sorge il Malibran; e infine il lussuoso San Benedetto, promosso nel 1755 da un’associazione di palchettisti nell’area attualmente occupata dal cinema Rossini.1 Fra queste sale non c’è che l’imbarazzo della scelta, visto che quattro sono destinate al dramma parlato, mentre le altre si dividono quello per musica. Nel giugno 1787 i patrizi che gestiscono il San Benedetto, dopo aver perso una causa coi Venier, padroni del fondo su cui insiste l’edificio, devono cederlo ai proprietari contro un indennizzo di 31.000 ducati. La potente consorteria estromessa, che vanta i membri delle maggiori famiglie cittadine, giura vendetta sostenendo il San Samuele in attesa di costruire un nuovo teatro capace di eclissare il vecchio. Siccome bisognava superare un grave ostacolo, ovvero il decreto del 1756 che limitava il numero delle sale cittadine, l’8 agosto 1787 i nobili soci ottengono in un sol giorno la deroga e il permesso dal Consiglio dei Dieci. Detto fatto, scelto e acquisito un lotto nel cuore dell’abitato a Santa Maria Zobenigo del Giglio, il primo novembre 1789 s’indice un concorso per architetti veneziani e forestieri, pubblicando un rilievo dell’area eseguito da Giannantonio Selva e richiedendo espressamente planimetrie, plastico, preventivo e relazione tecnica. Fra le esigenze esposte chiaramente dai committenti nel bando, figurano cinque ordini di almeno trentacinque palchi ciascuno, un salone per le feste e per i veglioni di carnevale, numerosi appartamenti e botteghe da affittare, un affaccio ben visibile sul campo San Fantin e un canale da scavare ex novo dietro il teatro per raggiungerlo in barca. Si raccomandano inoltre il rispetto delle distanze di legge dai fabbricati limitrofi, l’apertura di luci e vedute in osservanza della normativa in vigore e una particolare attenzione ai sistemi di sicurezza da usare in caso d’incendio.2 1 Nicola Mangini, I teatri di Venezia, Milano, Mursia, 1974; salvo diversa indicazione, le notizie s'intendono ricavate da questo saggio o da repertori correnti fra cui Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960 sgg.; Il teatro la Fenice. Cronologia degli spettacoli, a cura di Michele Girardi e Franco Rossi, Venezia, Albrizzi, 1989; The new Grove dictionary of opera, a cura di Stanley Sadie, London, Macmillan, 1992; per le citazioni testuali si riporta sempre il riferimento, a meno che non provengano dai frontespizi dei libretti. 2 Maria Ida Biggi, Il concorso per la Fenice (1789-1790), Venezia, Marsilio, 1997. 2 In sei mesi vengono presentati ventinove progetti con undici modelli, esposti al pubblico nella “casa di certo avvocato Antonio Lorenzoni”3 ed esaminati entro il 12 maggio 1790 da una commissione di tre soli esperti: Simone Stratico, docente di fisica e matematica nell’università di Padova, particolarmente ferrato in acustica; Benedetto Buratti, somasco, studioso di Vitruvio, collezionista e storico dell’architettura; l’emiliano Francesco Fontanesi, allievo dell’Accademia Clementina di Bologna, decoratore e scenografo del San Benedetto. Com’è noto vince Selva, partecipe dell’ideale neoclassico di Andrea Memmo, per aver ottemperato a tutte le richieste del bando e per aver escogitato una curva dei palchi “soddisfacente all’occhio ed all’orecchio degli spettatori”,4 mentre un illustre perdente, Pietro Bianchi legato alla corrente avversa capeggiata da Giorgio Massari e da Bernardino Maccaruzzi, il primo giugno 1790 intenta una furiosa lite presentando un ricorso che si conclude con una transazione ma blocca il cantiere per due mesi. Dopo la demolizione degli stabili che occupano l’area, quando cominciano gli scavi per le fondazioni, si scopre con un certo orgoglio che il sottosuolo è impregnato da “grandi masse di mercurio [probabilmente solfuro (HgS), un colorante pregiato detto cinabro, in latino minium] da ignota epoca colà perduto, novella prova [...] della floridezzza in cui erano in Venezia le manifatture, le arti e il commercio”.5 Ma a parte l’inquinamento ambientale e lo strapotere dell’associazione, un piccolo neo offusca questa limpida storia che altrimenti sprizzerebbe efficienza, senso civico e chiarezza di posizioni pubbliche: il prescelto nel concorso è lo stesso professionista incaricato di eseguire il rilievo del terreno su cui doveva sorgere il teatro, rilievo che fa parte integrante del bando. Infatti le malelingue accusano Stratico e Fontanesi, autore delle scene per l’inaugurazione con Pietro Gonzaga, di aver favorito l’amico Giannantonio cui viene affidata la direzione dei lavori che durano circa un paio d’anni. Nell’aspettativa generale, la splendida sala a ferro di cavallo s’inaugura il 16 maggio1792 per la fiera dell’ascensione. Il libretto stampato per l’evento, oltre ai ritratti degli interpreti e del musicista, ostenta l’immagine della “facciata anteriore”6 che dà sul campo, ornata dalle statue delle muse addette ai lavori, Melpomene e Tersicore. Nel frontespizio campeggia la figura che un tempo si diceva impresa e che oggi si chiama il logo del gran teatro: una fenice che rinasce dal fuoco sovrastando il motto semper eadem, mentre il sole splende in Arabia dove nidifica e vive per cinquecento anni un solo esemplare alla volta. Fra i soci si conta un ragguardevole numero di massoni, la cui mentalità influirebbe sulla programmazione, sulla struttura dell’edificio e perfino sul simbolo legato al culto di Osiride.7 Ma siccome per Plauto nomen 3 [Giovanni Casoni], Memoria storica del teatro la Fenice, in Teatro della Fenice. Almanacco galante dedicato alle dame, Venezia, Orlandelli, 1838, p. 13. 4 Bando di concorso (Venezia, Palese, 1789), in Biggi, Il concorso cit., p. 33. 5 Casoni, Memoria cit., p. 29. 6 I giuochi d'Agrigento, Venezia, Curti, 1792, antiporta. 7 Beate Hannemann, Canti rivoluzionari e culto del sole. L'opera rivoluzionaria e massonica al teatro la Fenice (1797-1815), in “L'aere è fosco, il ciel s'imbruna”. Arti e musica a Venezia 3 est omen, ovvero nel nome è scritto un presagio, la società veneziana battezza la fabbrica nuova scegliendo il “favoloso augello”, venerato dagli egizi come raccontano Erodoto e Ovidio fra gli altri, per alludere all’“unicità” della sala e agli “avvenimenti del [...] San Benedetto”,8 bruciato nel 1774 e pianto dall’unanime cordoglio cittadino ma rifatto in pochi mesi. Dato che i teatri ardevano in continuazione, s’intende per ragioni accidentali e non dolose, l’idea del mitico pennuto non sembra esoterica né tanto meno originale. Per esempio l’Arsenale di Ancona, devastato da un incendio nel 1709, era stato sostituito da una Fenice nel 1711. Più tardi nell’Ottocento, altre Fenici risorgeranno e voleranno per i cieli d’Italia, a Orvieto nel 1814, a Napoli nel 1817, a Senigallia nel 1839 e a Trieste nel 1842. Immediatamente scoppiano accese polemiche sui difetti dell’edificio appena costruito. Alcuni osservano che l’entrata della platea è fuori asse rispetto all’ingresso principale, dimenticando che questo dipende dalla forma dell’area. Altri lamentano la facciata disadorna, la scomodità delle rampe, dei corridoi e dei palchi di proscenio dai quali non si vede niente. C’è poi chi accusa Selva di plagio per aver copiato la curva del Balbi costruito a Mestre da Maccaruzzi.9 Ma c’è pure chi descrive l’impresa con malcelato orgoglio cittadino:10 [Il] nuovissimo teatro detto la Fenice [è] incominciato nel 1791 ed in mesi dieciotto condotto al suo termine. Una nobile società di persone a proprie spese lo fece fabbricare dietro il disegno ed assistenza del giovine architetto Antonio Selva veneziano, allievo dell’erudito Tommaso Temanza. La fronte sul campo, che dapprima vuol essere considerata, corrisponde alla principale entrata di terra colla loggia corinzia inferiormente ed alle sale di comune adunanza al piano superiore. Entrando nella detta loggia e di là rettamente progredendo alcun poco, si ritrova una capace porta che dà ingresso all’atrio interno del teatro. Facile ed ampia scalea in tre rami divisa in una fronte si esibisce alla dolce salita, due dei quali mettono all’androne dei palchetti del così detto pepiano ed il ramo di mezzo conduce alla cavea ossia platea del teatro. Questa cavea è conformata di un semicircolo prolungato alcun poco curvamente. Degno di osservazione si è il fornice che coperchia il teatro che con equabile curvatura piacevolmente si distende, il che dovrebbe non poco giovare allo spandimento e raccoglimento del suono. Ampio e capace si è il palcoscenico e grossa muraglia sostenuta sopra l’apertura del palco da un arco che prende le mosse sui muri esterni del teatro separa la scena dalla platea, per rendere così meno gravosi i danni che da fatale incendio, cui per propria costituzione purtroppo vanno soggetti gli edifizi di questa natura, potessero dalla fine della repubblica al congresso di Vienna, a cura di Francesco Passadore e Franco Rossi, Venezia, Fondazione Levi, 2000, pp. 299-314. 8 Francesco Caffi, Storia della musica teatrale in Venezia, ms., Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, codici italiani, IV 747 (10462), c. 55 [$ I-Vnm]. 9 Mario Nani Mocenigo, Il teatro la Fenice. Note storiche e artistiche, Venezia, Industrie Poligrafiche Venete, 1926, pp. 11-12. 10 Il forastiero illuminato, Venezia, Storti, 1792, I, p.