MILANO & LOMBARDIA

2017/2018 segue lezione 3

E' una delle porte storiche della città di Milano. Sino al 1860 era chiamata Porta Orientale ovvero Porta Renza o Argentea. Fu la prima a essere restaurata da , che progettò dal 1782 la trasformazione della porta in stile neoclassico e la sistemazione del terrapieno dei Bastioni.

(bastione deriva da un termine utilizzato per indicare una fortificazione campale, di terra o in muratura che poteva essere a carattere provvisorio o permanente: bastia (con l’accento tonico sulla “i”, come la città corsa).

Quella che oggi è un’importante arteria cittadina, una tempo era parte della cinta muraria eretta a difesa della città tra il 1549 e il 1561, dal governatore spagnolo Ferrante Gonzaga. Nel 1789 le mura vennero trasformate in elegante viale alberato per il passaggio delle carrozze. I Bastioni di Porta Venezia fiancheggiati dai Giardini Pubblici, congiungono pza della Repubblica e pza Oberdan. La prima fu creata nel 1931 con la demolizione della vecchia stazione ferroviaria ottocentesca, riedificata 800 metri più indietro e ingrandita per rispondere all’aumento del traffico ferroviario dovuto all’apertura delle gallerie del Gottardo. La piazza Oberdan è dominata dalla Porta Venezia, già Orientale, ricostruita nel 1828 sul luogo dell’omonima porta spagnola, e adibita a casello daziario. I due edifici sono ornati da statue e rilievi relativi alla storia di Milano. La porta separa cso Venezia da cso Buenos Ayres.

Alcune immagini di corso Venezia e piazza Oberdan nel corso degli anni

La sistemazione della porta e dei bastioni

Già all'epoca della peste Manzoniana la porta aveva perso la sua originaria funzione difensiva e veniva usata in gran parte per controlli daziari, per poi passare in epoca Napoleonica ad elemento estetico dello spazio urbano che fosse adeguato allo status della capitale del Regno d'Italia. Per questo motivo il governo del Melzi d'Eril pianificò un generale rifacimento delle porte di ingresso in Milano, previa demolizione delle porta spagnole ed alberazione dei bastioni.

Già in epoca austriaca, il governo aveva provveduto a trasformare il tratto dei bastioni compreso fra Porta Venezia e : venne spianato il terrapieno e trasformato in viale alberato. Tra il 1783 ed il 1786 il sistemò i "Giardini pubblici" che conducevano a Porta Orientale.

Della sistemazione urbanistica del terrapieno dei Bastioni, si occupò il grande architetto Piermarini, che monopolizzava i grandi appalti milanesi sino alla morte nel 1808, ben oltre l’inizio del governo napoleonico (Teatro alla Scala, , la facciata della , parte del Palazzo Reale e Palazzo Greppi, Palazzo Mariani e il Palazzo del Monte di Pietà).

Nel 1782 lo stesso Piermarini stese un primo progetto della nuova Porta Orientale in stile neoclassico. Nel 1806 il progetto venne ripreso da un allievo l' architetto Luigi Cagnola, che realizzò un arco trionfale "effimero", ovvero provvisorio, per celebrare l'ingresso del viceré Eugenio di Beauharnais. E proseguì nella realizzazione del progetto definitivo, che prevedeva un arco trionfale aperto su tre lati da un ordine dorico-rinascimentale e circondato da due caselli daziari. Il progetto non era tuttavia ancora completo nel 1825, quando da Porta Orientale fece il proprio ingresso trionfale in città l’imperatore Francesco II, accompagnato dalla moglie Carolina Augusta di Baviera. Nel 1860 venne ribattezzata Porta Venezia, in omaggio alla città ancora irredenta. Eugenio Beauharnais (1781-1824) figlio di Alexandre di B. e Giuseppina di B (poi sposa di Napoleone). Vicerè d'Italia 1805-1814. la moglie era Augusta di Baviera-. Francesco II° Asburgo-Lorena (1768-1835) figlio di Leopoldo II° Asuburgo-Lorena e di Maria Luisa di Borbone. Quando venne a Milano nel 1825 era con la 4° moglie Carolina Augusta di Baviera. Fu imperatore del Sacro Romano Impero 1792-1806. L'arco non fu più aggiunto e la cosa piacque subito ai “sciori” che abitavano sul corso Venezia, perché l’assenza del solito arco a coronamento della porta, consentiva loro la libera visione dei monti a est della città. Era questa la cosiddetta “servitù del Resegone” che vietava in quella zona di Milano di alzare le case più alte dei Bastioni, per lasciare libera la vista delle Prealpi. il primo palazzo che infranse questo vincolo fu Palazzo Luraschi, così chiamato dal nome del suo costruttore. Era un imponente palazzo di 8 piani, costruito nel 1887 sull’area dell’ex Lazzaretto, tuttora presente in e per la cui costruzione, novità quasi assoluta per l’Italia, fu utilizzato il cemento armato. Ma bisogna anche ricordare che l’ingegner Luraschi, quasi a scusarsi con i milanesi di aver nascosto il Resegone, una montagna molto cara ai suoi concittadini perché legata indissolubilmente alle celeberrime vicende letterarie manzoniane, nel cortile interno sopra le colonne recuperate dal vecchio Lazzaretto fece mettere 12 busti che ricordano i più famosi personaggi de I Promessi Sposi. Arricciarono il naso invece per la scarsa imponenza degli edifici, così l’anno dopo venne aggiunto ai caselli di base un secondo cubo più piccolo, a mò di torretta belvedere.

Nascita del corso di Porta Venezia a seguito di trasformazione urbanistica Qualche nota di costume (nobili in cso Venezia) Verso la fine del XVIII secolo, il conte Ludovico Barbiano di Belgioioso, col suo palazzo ai Boschetti, mise in atto la trasformazione e rivalutazione del . Lo imitarono presto i Saporiti, i Bovara, i Carcano, con i loro palazzi neoclassici lungo il nuovo corso di Porta Orientale, ricavati dagli orti di conventi soppressi. Anche i Bastioni vennero sistemati a nuovo, con la loro bella vinta di alberi frondosi; e al posto della casupola del gabelliere sorsero due edifici classicheggianti, che oggi si conoscono come Porta Venezia. Fra l’uno e l’altro edificio una cancellata di ferro sbarrava il passo alle mercanzie provenienti da Sesto e da , per il tributo d’obbligo. Piacque immensamente all’aristocrazia ambrosiana il nuovo assetto di Porta Orientale, e piacque l’eleganza nuova del Corso, ogni giorno arricchito di nuovi palazzi e giardini: così la Milano signorile finì con lo scegliere il Corso, la Porta e i Bastioni orientali come luogo di convegno per le sue mondanissime scarrozzate. Arrivavano le carrozze, si fermavano e subito cominciavano conversazioni animatissime alle portiere. Infatti una varietà incredibili di legni ed equipaggi si davano il cambio a piccolo trotto, per poi fermarsi appaiati; le signore sfoggiavano cappelli, vestiti, ninnoli, le novità della moda londinese e parigina , scambiavano pettegolezzi, porgevano la mano ai cicisbei. L’abitudine continuò per tutto l’ ‘800; riferisce Cesare Cantù che le carrozze erano 2500 a metà ‘800, ammirate anche dai parigini e dai viennesi per i legni particolari. Un testimone dell’epoca, Carlo Lainati, scrisse “ Tutto il bastione spumeggiava come una coppa di Moèt Chandon, si tramutava in una specie di garden party frusciante di chiacchere e di sussurri, d’occhiate e di appuntamenti, dopo un breve caracollare per quel chilometro di bastione, gli equipaggi venivano a disporsi s’una sola fila al lato sinistro, dove già gli ippocastani allungavano le loro ombre odoranti. E lì cominciava, come in un immenso salotto all’aperto, il grande chiacchiericcio e le visite di rito da carrozza e carrozza.. era una parata di ricchezza, d’eleganza, d’attacchi fulgidi, d’idilli, di saluti,d’amori”.

segue lezione 3 La creazione di un degno coronamento al corso di Porta Orientale rimase lungo tempo insoluto. Era infatti sconsigliabile creare un arco, come era avvenuto nel caso della altre porte di Milano, per non privare il corso del suo sfondo naturale rappresentato dalla catena alpina. Solo nel 1828 si decise finalmente di costruire due caselli monumentali e si affidò il lavoro a Rodolfo Vantini, un architetto di Brescia che aveva vinto il concorso bandito a questo scopo. Più che l’architettura, è interessante qui il complesso di statue e rilievi che ornano il monumento, sia per la fattura delle opere che per il programma iconografico, che è il seguente: Il 22 agosto 1838 l’imperatore Ferdinando d’Asburgo veniva incoronato re del Lombardo-Veneto nel Duomo di Milano. Il corteo imperiale entrò in Lombardia attraverso la nuova strada dello Stelvio, e passando dal lago di Como e da Monza, dove si conserva la Corona dei re longobardi, fece il suo ingresso in Milano il primo di settembre.

Ferdinando I° d'Asburgo (1793-1875). Imperatore d' Austria 1835-1848 lezione 4 Reliquia del sacro chiodo e il rito della nivola

Nel Duomo di Milano è conservata una delle reliquie più importanti della cristianità: uno dei chiodi della Croce di Cristo. Il Santo Chiodo, prima di essere trasportato in Duomo nel 1461, era conservato presso la Basilica di Santa Tecla e oggi è custodito in un reliquiario posto nel semicatino absidale, in corrispondenza dell’Altare Maggiore. Per celebrare la presenza della preziosa reliquia all’interno del Duomo, in memoria della processione fatta da san Carlo Borromeo durante la peste del 1577, si svolge il rito della Nivola. La struttura, a forma di nuvola, ideata nel XVII secolo e decorata in cartapesta con angeli e nuvole, viene sollevata da una argano fino a 40 metri d’altezza per permettere all’Arcivescovo di portare a terra, accessibile allo sguardo dei fedeli il Santo Chiodo. La reliquia rimane a terra per 40 ore, al termine delle quali il Chiodo viene riportato nella sua sede, sempre segnalato ai visitatori del Duomo grazia ad una luce rossa, accesa ad indicare la posizione del tabernacolo. Un rito di enorme fascino che, a distanza di quasi cinque secoli, non cessa di stupire, incantando fedeli e visitatori che da ogni parte del mondo giungono per assistere a questa antica tradizione che si rinnova. Originariamente, il rito veniva celebrato a maggio per la festa dell’Invenzione della Croce e prevedeva anche una processione che dal Duomo conduceva alla chiesa del Santo Sepolcro, situata nell’omonima piazza. La tradizione subì diverse modifiche in seguito alle restrizioni asburgiche e napoleoniche e quando nel XX secolo il rito fu ripristinato a seguito del complesso e lungo lavoro di consolidamento del tiburio, fu scelta per la celebrazione il giorno dell’Esaltazione della Croce, ricordata in Duomo il sabato che precede il 14 di settembre.

Guglielmina boema eretica post mortem

Guglielma giunse a Milano nel 1260, accompagnata da un figlio, dove fu un'oblata (cioè una laica che alloggiava in un luogo di chiesa) nell'Abbazia di Chiaravalle; la sua fama di guaritrice crebbe fino a dar vita ad un movimento religioso, chiamato dei Guglielmiti, a cui presero parte molte donne e qualche membro dell'aristocrazia milanese.

Tra i suoi seguaci di spicco Maifreda da Pirovano, una suora Umiliata di Biassono e il teologo Andrea Saramita

Morì il 24 agosto del 1281 (o 1282) e venne sepolta nel cimitero dell'abbazia; dopo la sua morte i monaci e le suore di Santa Caterina la proposero per la canonizzazione. La cappella che ne ospitava le spoglie divenne luogo di culto, frequentato da seguaci e devoti. I monaci le avevano addirittura dedicato un altare.

Due anni dopo, l'Inquisizione venne a conoscenza del culto che si stava formando attorno alla "santa" Guglielma. Fu così che nel 1300 i due inquisitori Guido da Cocconato e Rainerio da Pirovano istruirono il processo contro gli eretici. Nelle undici "imbreviature" del notaio Beltramo Salvagno, relative al processo alle devote e ai devoti di "santa" Guglielma, vengono verbalizzati gli interrogatori dei testimoni e degli accusati di eresia. Il compito dell'inquisizione, in aderenza alle decretali di papa Bonifacio VIII, era quello di estirpare l'eresia, riportando, ove possibile, gli eretici all'ortodossia, ricorrendo spesso a torture e minacce di morte.

La prima azione dei due inquisitori, giunti a Milano nei primi mesi del 1300, fu quella di rimuovere l'oggetto del culto, cioè le spoglie di Guglielma. A partire dal 9 settembre 1300, cambia la formula nelle imbreviature e relativo tempo del verbo: da tale giorno Guglielma non più "sepulta est" in Chiaravalle, bensì "sepulta erat apud monasterium Claravalis". Molto probabilmente i resti della donna furono cremati, come pure furono fatte bruciare le immagini della donna ed ogni cosa sua.

Quanto ai suoi seguaci, è sicura la condanna al rogo di "suor" Giacoma, il cui atto di condanna si evince dal "consilium", approvato all'unanimità dagli inquisitori presenti. L'atto prevedeva che la donna, giudicata eretica, relapsa e recidiva dovesse essere affidata al "seculare iuditium" per l'esecuzione della pena capitale. Incerta la sorte di Andrea Saramita, anch'egli giudicato eretico relapso. Di lui si perdono le tracce nelle imbreviature. Probabilmente perché viene consegnato al braccio secolare della legge, per essere condotto al rogo.

Nella tomba in cui erano state sepolte le spoglie della donna, si fece seppellire il banchiere Raffaele Mattioli, presidente della Banca Commerciale Italiana. (??!!??) a Milano fu installato il primo orologio pubblico Galvano Fiamma, frate domenicano, è stato un noto storico milanese. In una sua cronaca, racconta il momento nel quale i milanesi seppero con precisione l'ora. Nel 1335 i milanesi sentirono infatti per la prima volta il suono di un "meccanismo" che segnava le ore. Dal campanile della chiesa di S.Gottardo in Corte ogni ora, come stabilito da Azzone Visconti, un suono segnalava il passare del tempo. Questo orologio non era visibile, si faceva solo sentire. Divenne talmente tanto famoso che la strada lì vicino prese il nome di Contrada delle Ore (oggi via delle Ore), dietro l'Arcivescovado e Palazzo Reale. Come detto questo orologio non era visibile; è per questo motivo che molti ritengono che il primo orologio pubblico sia quello che apparve (questo sì visibile a tutti) sul campanile di S.Eustorgio. Quest'ultimo non batteva le ore: era talmente delicato che le vibrazioni del suono l'avrebbero danneggiato.

Chiesa della PASSIONE via Conservatorio 14 La cinquecentesca Basilica di Santa Maria della Passione è una tra le più belle e grandi chiese della città e per ampiezza il secondo edificio milanese dopo il Duomo, ed è uno dei più bei monumenti del tardo Rinascimento milanese. La Basilica, con l’annesso monastero (attuale Conservatorio “Giuseppe Verdi”), è il frutto della generosità di Daniele Birago che apparteneva ad un’antica e nobile famiglia milanese ed era arcivescovo di Mitilene, un’isola dell’Egeo. Per i meriti riconosciuti alle sue opere e per la stima che godeva la sua famiglia, fu nominato(2 febbraio 1482) senatore e consigliere personale del duca, da Gian Galeazzo Maria Sforza. Nel 1485, l’alto prelato impegnava i Canonici Regolari Lateranensi ad edificare la Chiesa ed il monastero, sotto il titolo di S.Maria della Passione.

Sala capitolare Ambiente privilegiato dell’antico convento dove si tenevano le periodiche riunioni dei canonici, edificato mentre ancora era in costruzione la chiesa. Si presume che la sala fosse destinata anche alle “letture”. Ambiente quattrocentesco, rettangolare, con bassa volta su vele. I monaci scelsero per la decorazione Ambrogio di Stefano da Fossano detto il Bergognone (1481-1522) un artista all’altezza dell’ambiente. Allievo di Vincenzo Foppa prima della decorazione di questa sala aveva già lavorato alla Certosa di Pavia, a S. Satiro a Milano e nella chiesa dell’Incoronata a Lodi. La figura di Cristo domina il centro della parete di fronte all’ingresso su cui convergono tutti i raggi prospettici anche dei pannelli che lo affiancano. Tutte le linee della costruzione prospettica corrono al punto di fuga che l’artista ha situato dietro alla figura del Salvatore, mettendo così la geometria della composizione al servizio di un evidente configurazione simbolica. È lo stesso criterio che regola la rappresentazione dell’architettura dipinta delle lunette, sovrastanti le figure degli Apostoli e che ospitano le figure dei papi, lì collocate perché ritenuti i loro successori. La convergenza prospettica è presente in ogni parete della sala con un’attenzione alla sua costruzione che tiene conto dell’altezza del punto di vista del visitatore, ottenendo così l’illusionistico effetto di partecipare di persona ad un vero e proprio sacro simposio di apostoli, papi, santi e dottori della chiesa.

IL LAZZARETTO

Il Lazzaretto confinava ad est con via Spallanzani ad ovest con via Lazzaretto a nord con via S.Gregorio a sud viale Vittorio veneto ed era un grande recinto di forma quadrangolare con lati di 370 metri; era stato voluto da Ludovico il Moro e realizzato da Lazzaro Palazzi tra il 1488 e il 1518.

Un edificio di ricovero girava tutto attorno al recinto aperto su tre lati verso l’interno da un porticato affacciato su un cortile con al centro una chiesetta:S.Carlo al Lazzaretto, detto S.Carlino. Fu tramutato da Napoleone in caserma e successivamente in scuola. Fu poi la ferrovia a decretare la fine della struttura: il cavalcavia lo attraversava in tutta la sua lunghezza rompendone l’equilibrio e spianando così la strada alla sua totale demolizione tra il 1880 e il 1886, per una lottizzazione che diede vita all’attuale quartiere. A ricordarlo resta solo un tratto di fabbricato, in via S.Gregorio 5, (ora sede di una chiesa di rito greco- ortodosso) Esisteva già una cappella di pianta quadrata, aperta sui 4 lati che permetteva agli appestati di assistere alle messe dalle loro celle. S. Carlo fece iniziare i nuovi lavori nel 1580. Voleva una chiesa costituita da 8 lati che simboleggiasse il doppio dei lati del Lazzaretto e soprattutto l’ottavo giorno, il giorno del cambiamento dopo la domenica a seguito della resurrezione di Cristo. La chiese che prese il nome di S.Carlo al Lazzaretto, venne ultimata diversi anni dopo la morte del Santo ed adibita a tempio pagano quando Napoleone fece il suo ingresso in città nel 1796. La chiesa fu riconsacrata alla fine del XiX secolo.

CASA FONTANA-SILVESTRI corso Venezia, 10 La casa sorse nel XIII sec. come abitazione privata del guardiano di Porta Renza (Orientale), in stile gotico-lombardo, e venne via via ritoccato nei secoli successivi sotto la proprietà dei Fontana. Il più illustre rappresentante della famiglia, Francesco, cavaliere, senatore, medico membro del Consiglio segreto, chiamò probabilmente il Bramante a rivestire il palazzo di nuova grazia rinascimentale; di lui si riconoscono le eleganti finestre a pieno sesto, contornate di cotto (primo piano) e quelle sottostanti quadrate. Del XV secolo il portale (attribuito a Tommaso da Cazzaniga), in pietra di Angera, fiancheggiato da due colonne “a candelabra”. Il balcone in ferro battuto è opera dell’artigianato del ‘500. Circa gli affreschi che decoravano il resto della fronte, oggi se ne intuiscono a malapena i profili tra i sei oculi del sottogronda, ma pare fossero notevoli stando alle testimonianze iconografiche e descrittive tramandate fino ai giorni nostri. Avanzi degli affreschi, già all’interno del palazzo, sono oggi al Museo del castello.

Curiosità - corso Venezia 13 1848, aria di Risorgimento impastata di polvere da sparo; scontri duri e colpi da tutte le parti. Uno di questi ha colpito lo stipite di un portone: Poca cosa, ma il graffio della rivolta è rimasto lì, al civico n° 13 di Porta Venezia, a ridosso dei telamoni ricurvi che reggono il portale dell’ ex Seminario Arivescovile.

PALAZZO CASTIGLIONI Corso Venezia 47/49 (1901-1904 G.Sommaruga)

Ferri battuti (A.Mazzucotelli Bassorilievi (A:Pirovano) Marmi Porroni-Canzo

Costituisce un po' il "manifesto" artistico dell'Art Nouveau a Milano. L'edificio fu realizzato a tre piani, con due facciate, una principale sulla strada e una secondaria sul giardino, più gli annessi staccati dal corpo principale e costituenti le scuderie e la rimessa. Questo palazzo ha un basamento con bugnato grezzo che riprende le forme naturali della roccia; le altre decorazioni presenti sono una ripresa dello stucco in stile settecentesco. Attualmente è sede dell'Unione Commercianti di Milano. Nel 1900 l'imprenditore Ermengildo Castiglioni decise di farsi costruire un palazzo in corso Venezia: nelle sue intenzioni l'edificio doveva differenziarsi da tutti gli altri, ed è per questo che incaricò del compito l'architetto Giuseppe Sommaruga, noto per diverse interessanti soluzioni. Questo atteggiamento del committente, quasi da nobile del seicento volenteroso di manifestare la propria grandezza, si ritrova nel palazzo (particolarmente imponente se paragonato al restante liberty italiano) e nella volontà di realizzare un edificio di uno stile piuttosto nuovo per l'Italia (il liberty, appunto) in un contesto tra i più "nobili" della città, quasi in un atteggiamento di sfida ai benpensanti e conservatori concittadini.

Palazzo Saporiti cso Venezia 40

E' un edificio storico in stile neoclassico .Il palazzo venne commissionato nel 1800 da Gaetano Belloni: un biscazziere arricchitosi grazie all'appalto per la gestione del gioco d'azzardo all'interno del ridotto del Teatro alla Scala. Egli tuttavia, sommerso di debiti a causa della proibizione del gioco d'azzardo una volta terminata la dominazione napoleonica, fu costretto a vendere la dimora ai marchesi Rocca-Saporiti di Genova.

Il palazzo venne edificato all'interno di un progetto di riqualificazione della zona attorno a Porta Orientale, su terreni appartenenti all'ordine dei frati cappuccini, prima della soppressione degli ordini monastici effettuata dall'amministrazione austriaca. Come ricorda una targa di fronte al palazzo, su questi terreni era presente un convento, descritto in un passaggio de I Promessi Sposi. Il progetto, ultimato nel 1812, porta la firma di Innocenzo Giusti: in realtà furono realizzati da Giovanni Perego, famoso scenografo della Scala, che non essendo architetto di professione non poté apporre la propria firma. Attualmente il palazzo ospita la sede di una banca svizzera.

CASA di Corso Venezia 61 (1934 Giò Ponti- Emilio Lancia)

Edificio a torre per abitazioni, ultima che i due hanno progettato assieme. Si tratta di due case distinte, affiancate che godono di una situazione ambientale data la prossimità ai Giardini. L’una cui ha lavorato soprattutto Ponti è rivestita in lastre di marmo bianco. L’altra, cui partecipò maggiormente Lancia, si eleva a torre di dodici piani, sviluppando un andamento mosso che comprende appartamenti prestigiosi, dotati di terrazze a verde e giardini pensili. Gli edifici sono rappresentativi dell’opera dei due architetti, del loro atteggiamento nel proporre soluzioni planimetriche e infrastutture studiate per offrire all’alta classe cittadina abitazioni confacenti.

Nascita e sviluppo di cso Buenos Ayres

Il 1906 è stato per Milano un anno importante. E’ stato l’anno della famosa Esposizione Internazionale di Milano e fu anche l’anno dell’inaugurazione del Traforo del Sempione, nome che deriva dal piccolo paese svizzero vicino al passo, Simplon.

Fu anche l’anno in cui corso Loreto modificò il suo toponimo in corso Buenos Aires, una scelta difficile, ma quasi obbligata e certamente malvista dai cittadini. Ma il sindaco Ettore Ponti doveva promuovere Milano come città internazionale, capitale economica e industriale di un’Italia pronta ad affrontare le sfide del secolo appena iniziato.

Ma perché intitolare alla capitale argentina un corso così importante per Milano e la sua gente, sopprimendo un toponimo così caro a tutti? Non solo il corso, ma anche piazzale Lima e piazzale Argentina, insomma quasi un monopolio sudamericano…

Fu una scelta molto diplomatica. All’esposizione internazionale aderirono ovviamente sia il Perù che l’Argentina (anzi, furono tra le prime), molto legate all’Italia sicuramente a seguito della massiccia emigrazione che nei 25 anni precedenti aveva “spostato” oltre cinque milioni di italiani nei paesi sudamericani.

Quale era invece l’origine del nome “Loreto”? Perché quel corso di un chilometro e mezzo si chiamava così?

Porta Venezia, che in precedenza aveva il nome di Porta Orientale, ha rappresentato per parecchio tempo il limite cittadino, tanto è vero che il Lazzaretto fu costruito fuori dalle mura per evidenti motivi igienici e di decoro.

Proseguendo verso l’estrema periferia (via Vallazze…) sullo stradone per Venezia, si incontrava una chiesetta con annesso un monastero; era intitolata a Santa Maria di Loreto, protettrice degli aviatori, e fu eretta nella prima metà del XVI secolo al posto di una più antica cappella dedicata a Sant’Ambrogino.

Le ridotte dimensioni ne richiesero l’ampliamento che fu commissionato al già conosciuto Francesco Maria Richini (la colonna del Verziere…) da parte dell’allora cardinale Federico Borromeo. Anche il monastero fu ampliato due volte nel XVII secolo. Purtroppo, come spesso accade, chiesa e monastero furono soppressi e trasformati in abitazioni civili (alla fine del XVIII secolo) per poi sparire completamente a seguito di demolizioni, che all’inizio del secolo scorso cancellarono anche le ultime tracce della chiesa (1914).

Un celebre dipinto di Giuseppe Canella raffigura lo stradone di Loreto nel 1835, dove si notano chiaramente elementi che ne permettono la corretta collocazione, e cioè proprio all’inizio del corso, nell’attuale piazzale Guglielmo Oberdan.

Si identifica infatti chiaramente il Lazzaretto sulla sinistra e la via Lazzaro Spallanzani con abbastanza visibile la chiesa di Santa Francesca Romana, tuttora presente. Certo che poter ammirare corso Buenos Aires (pardon, corso Loreto) con quegli alberi dal fusto così alto rappresenta veramente uno spettacolo unico.

Il viale che si apre oltre è viale Monza, per chi non l’avesse riconosciuto… Subito dopo la fucilazione dei quindici ostaggi da parte dei nazisti in piazzale Loreto, il toponimo fu cambiato – ma ebbe vita breve – in piazzale Quindici Martiri ma il volere popolare fece ripristinare il nome originale.

Successivamente, e si tratta di pochissimi anni fa, si tentò nuovamente di modificare il toponimo questa volta in piazza Concordia (mi pare che fosse una proposta di Stefano Zecchi, assessore alla cultura durante il mandato di Gabriele Albertini) ma anche questa volta il nome “Loreto” rimane a memoria dei due brutali episodi legati alla guerra: quello appena ricordato delle quindici vittime del nazisti e quello, non meno barbaro, dell’esposizione dei corpi – già senza vita da oltre un giorno – di , Claretta Petacci e altri gerarchi fascisti, appesi per i piedi presso l’ormai famoso distributore.

Con Barbapedana si indica una figura tipica della tradizione popolare milanese. Tra la seconda metà del XIX secolo e gli inizi del XX, il Barbapedana era un musicista di strada che girava per le osterie e intratteneva i commensali con canzoni popolari e filastrocche.

Il termine Barbapedana ha origine incerta, ma sembra fosse in uso già nel XVII secolo. Compare infatti ne Il Barone di Birbanza, un'opera di Carlo Maria Maggi, e stava a indicare dei giovani spavaldi, che seguendo la moda dell'epoca portavano la cappa a far bandiera sulla spada. Il più famoso tra questo genere di artisti e primo ad adottare il nome d'arte di Barbapedana fu Enrico Molaschi, la cui maestrìa nel suonare la chitarra gli valse la citazione in uno scritto di Arrigo Boito e un'esibizione di fronte alla Regina Margherita di Savoia alla Villa Reale di Monza. L'abbigliamento diventato iconografico, con cui si presentava nelle sue esibizioni, comprendeva una lunga zimarra e un cappello a cilindro di feltro, nel cui nastro era infilata una penna di gallo o una coda di scoiattolo. La sua chitarra (numero 54 del catalogo) è conservata nel Museo degli Strumenti Musicali del di Milano.

Nascita del panettone Ci sono diverse leggende milanesi che narrano della nascita del Panettone. La più classica narra la storia di Ugo, giovane falconiere di Ludovico il Moro che viveva nello splendido palazzo che suo padre aveva ricevuto in dono dal Duca di Milano. Siamo quindi sul finire del '400. Ogni notte il ragazzo scavalcava le mura del palazzo per recarsi nella via delle botteghe e dei bottegai che lì vicino si trovava: Corso Magenta. La ragione, come da tradizione, è l'amore per una fanciulla dalle umili origini, la figlia del panettiere Toni.

Vedersi di notte e di nascosto nella bottega in cui Adalgisa impastava assieme al padre Toni era l'unico modo per passare del tempo assieme, dal momento che la famiglia di Ugo osteggiava la loro relazione. Adalgisa aveva però poco tempo da dedicare a Ugo: c'era molto da lavorare da quando il garzone di bottega si era ammalato. Per amore, il falconiere del duca di Milano si fece assumere di nascosto dalla panetteria, in questo modo avrebbe potuto vedere ogni notte Adalgisa senza essere di disturbo.

Ma nella zona di Corso Magenta la concorrenza si era fatta sempre più feroce, e così a ben poco servirono gli sforzi di Ugo per aiutare la sua bella e il padre di lei. Gli affari andavano sempre peggio. Ma Ugo non aveva nessuna intenzione di darsi per vinto, e decise di rubare una coppia di falchi a Ludovico il Moro e di venderli per comprare del burro. La notte dopo aggiunse tutto il burro acquistato all'impasto del pane. La mattina Milano stava impazzendo per il pane della bottega di Toni.

Il Natale si avvicinava mentre Ugo rubava altri falchi per procurare burro e zucchero per il pane del padre di Adalgisa, tanto che in città non si faceva altro che parlare del Pane di Toni (da cui deriva il termine panettone) e la coda fuori dal negozio si era ormai fatta lunghissima. Gli affari andavano quindi alla grande, quando Ugo decise di aggiungere un ultimo tocco a quella che di fatto era la sua creazione: aggiunse uova, uva sultanina e pezzetti di cedro candito. Divenne il dolce perfetto per il Natale, Toni si arricchi, la famiglia di Ugo non ebbe più niente da dire per ostacolare la sua relazione con Adalgisa e i due poterono sposarsi felicemente.

Perchè il quartiere dell' si chiama così

Ortica era una frazione del comune di un tempo denominata Cavriano.Il nome deriva da "orto", "ortaglia", luogo adatto alle coltivazioni in quanto irrigabile dal fiume Lambro. Il nome "Ortica" comparve per la prima volta in un documento del 1696 conservato all'Archivio di Stato tra le carte relative al monastero di Santa Radegonda e indica non un terreno ma una celebre osteria sita sulle proprietà dell'abate Cesare Gorani.

L'osteria sopravvisse ai secoli e ai cambiamenti di proprietà, divenendo l'antica trattoria del Gatto Nero, esistente ancora oggi in via Ortica 15. Cavriano è oggi il nome di un complesso di antiche cascine al di là della ferrovia.

Cuore dell'Ortica è la piccola chiesa dedicata ai santi Faustino e Giovita, martiri della prima età cristiana divenuti patroni di Brescia. Davanti si apre il piazzale della prima stazione di Lambrate all’Ortica (dismessa nel 1931), di cui rimane oggi soltanto il vecchio fabbricato viaggiatori, utilizzato come centro ricreativo per i ferrovieri.

Pala della Mercanzia (V. Foppa) Pinacoteca Tosio Martinengo - Brescia Martirio S.Giulia - Brescia

Faustino e Giovita erano due nobili bresciani vissuti nel II secolo , che intrapresero la carriera militare e divennero cavalieri, in seguito furono convertiti al Cristianesimo dal vescovo Apollonio e furono subito molto impegnati nell'evangelizzazione, in quanto efficaci predicatori; subirono il martirio tra il 120 e il 134 , per non aver voluto sacrificare agli dei. Sono venerati dalla Chiesa cattolica come santi, si festeggiano il 15 febbraio e sono patroni della città e della Diocesi di Brescia .

Il successo della loro predicazione li rese invisi ai maggiorenti di Brescia che temevano la diffusione del cristianesimo. Era il periodo della persecuzione voluta da Traiano ed alcuni personaggi potenti della città invitarono Italico, governatore della Rezia, ad eliminarli con il pretesto del mantenimento dell'ordine pubblico. Sopravvenne la morte di Traiano e il governatore ritardò la cattura in attesa del nuovo imperatore.

L'imperatore Adriano ordinò a Italico di procedere nella persecuzione , Faustino e Giovita si rifiutarono di sacrificare agli dei e furono incarcerati. Intanto l'imperatore di ritorno dalla campagna di Gallia si fermò a Brescia, viene coinvolto nella faccenda ed egli stesso chiede ai due giovani di adorare il dio sole ma essi si rifiutarono ed anzi colpirono la statua del dio pagano. L'imperatore ordinò che fossero dati in pasto alle belve del circo e furono rinchiusi in una gabbia con delle tigri. Le fiere rimasero mansuete e si accovacciarono ai loro piedi; il miracolo ebbe come effetto la conversione di molti spettatori tra cui anche la moglie del governatore Italico, Afra che diverrà un giorno anche lei martire e sarà proclamata santa. Venne ordinato che i giovani fossero scorticati vivi e messi al rogo. Il martirologio racconta come il fuoco non toccò nemmeno le vesti dei due condannati e le conversioni in città ebbero ancora più larga diffusione. Furono tenuti prigionieri nelle carceri di Milano dove subirono molte torture, quindi furono trasferiti a Roma dove furono di nuovo dati in pasto alle fiere nel Colosseo, ma anche stavolta ne uscirono indenni. Furono imbarcati e mandati a Napoli, e pare che grazie ad una loro intercessione una tempesta durante il viaggio si placò. Le torture continuarono, infine si decise di spingerli nel mare su una barchetta che però tornò a riva (secondo la leggenda fu riportata in salvo dagli angeli). Furono quindi condannati a morte, riportati a Brescia e il 15 febbraio furono decapitati.

La chiesa presenta un'unica navata e, lateralmente, le cappelle di San Giuseppe a destra e della Madonna delle Grazie con sacrestia a sinistra. La navata è stata riaffrescata nel 1898 secondo il gusto neobarocco e sulla volta a botte dominano le effigi dei santi titolari. Sempre sulla navata centrale si può vedere un frammento di affresco risalente al primo Cinquecento e raffigurante Cristo nell'iconografia dell'Ecce homo.

Nella cappella dedicata alla Madonna delle Grazie si trova un affresco di grande importanza storica, che ha permesso di fare chiarezza sulle origini della chiesa e sulla nascita stessa del borgo. Si tratta di una ieratica Madonna con bambino, di gusto bizantineggiante, non posteriore al XIII secolo. Nel 1979 si staccò tale affresco e si poté osservare un'importante iscrizione firmata e datata.La firma permette di leggere il nome di Silanus, committente o artefice dell'opera. Il testo è l'espressione di un voto fatto alla Vergine per ottenere la clemenza di Dio in data 12 aprile 1182. Accanto all'iscrizione ci sono dei semplici disegni che riproducono un volto, il corso di un fiume (il Lambro?), degli animali e una porta urbica, secondo gli storici la Porta Orientale di Milano. Questa scoperta testimonia l'esilio extra moenia dei cittadini di Milano a seguito della calata di Federico Barbarossa nel 1162. Tra i luoghi di esilio una piccola comunità dovette rifugiarsi a Cavriano e lì vivere fino alla pace di Costanza del 1183.

IL LIBERTY A MILANO (da "Milano Liberty" di Oscar Melano e Rosanna Veronesi - editore Mursia)

Al di là delle condizioni locali, in un territorio appena unificato, dopo il 1860 la classe politica italiana deve necessariamente creare un mercato più omogeneo, il linea con lo sviluppo industriale internazionale. Tralasciando altri campi, non oggetto della lezione, parliamo dello sviluppo urbano che a Milano si mostra incontrollato e la cui nuova architettura, non ben definita, viene denominata eclettica. Il boom tecnologico risolve in ogni caso gravi problemi di carattere pratico legati a fognature, illuminazione, acqua potabile, trasporti urbani e ferroviari; le industrie, decentrate in periferia con innovativi sistemi di produzione, sono prese ad esempio da numerose città.

L'amministrazione civica si propone di regolare l'inarrestabile espansione edilizia tramite un nuovo piano regolatore e, tra il 1884 e il 1889, l'incarico è affidato all'ingegner Cesare Beruto. Lo sviluppo edilizio coincide con l'emergente movimento artistico europeo denominato, a seconda della nazione in cui si sviluppa, Art Nouveau, Jugendstil, Sezession, Liberty, Floreale, Modern Style, Modernismo.

Una particolarità va tenuta presente. Il Liberty a Milano nasce influenzato dalla mentalità illuministica acquisita dalla cultura locale durante il lungo dominio austro-ungarico e anche per questo motivo può propriamente essere definito con il termine di eclettismo. eclettismo indica l'atteggiamento di chi sceglie in diverse dottrine ciò che gli è affine e cerca di armonizzarlo in una nuova sintesi. In architettura l'eclettismo definisce quelle architetture legate ad una concezione storicistica dell'architettura da un lato e che nel contempo tendono ad un'unità sincretica, con la mescolanza di elementi ripresi da diversi movimenti storici ma anche esotici e contemporanei.

L'esposizione di Milano del 1906 confermò l'attenzione verso le nuove tendenze europee sull'uso dei nuovi materiali uniti alle tecnologie d'avanguardia. Questa manifestazione tuttavia accentuò i dissensi locali, la critica ritenne le proposte dei partecipanti cariche di retorica, esteticamente manieristiche, decretando infine "la morte del Liberty all'italiana". Ne conseguì che tutti i padiglioni espositivi vennero abbattuti, ad eccezione dell'Acquario, che mostrava una ricerca formale timida e discreta.

Nel frattempo comunque si erano affermati sul territorio geniali personaggi come gli architetti Raimondo D'Aronco, Sebastiano Locati, Alfredo Campanini,Ulisse Stacchini, Giuseppe Sommaruga, Giulio Arata. Accanto a loro una schiera di artigiani, il cui gusto aderiva perfettamente ai tempi nuovi, metteva a confronto capacità artistiche irripetibili: la modernità del mobiliere Eugenio Quarti, la ceramica di Galileo Chini, i ferri battuti di Alessandro Mazzucotelli.

CASA GALIMBERTI via Malpighi 3 (1902-1905 Giov.Battista Bossi) Nel 1905 fu la protagonista di un vero e proprio scandalo architettonico, quando il Liberty non era ancora una moda: ai lati delle finestre del primo piano fanno capolino, sensuali e Carnose, delle figure femminili in abiti sgargianti, che esibiscono le linee morbide e delicate delle spalle nude. In alternanza, sull’altro lato delle finestre, fanno bella mostra di sé figure delle figure maschili decisamente meno provocanti, nella propria nudità bucolica. Questo mosaico in ceramica, il cui disegno si dipana verso l’alto in una fitta quanto variegata vegetazione, è tutt’uno con la trama floreale delle sequenze dei balconi, collegati in verticale da strutture in ferro battuto.

CASA GUAZZONI Via Malpighi, 12 (1903-1906 G.B.Bossi) Tutto un fiorire di putti, ghirlande e rose modellate nel cemento, in cui si riconosce l’impronta fantasiosa di Bossi. La ricchissima plasticità è marcata al primo piano nei balconi, con ferri battuti.Ancora una volta l’architetto tende ad alleggerire la struttura della facciata, sostituendo al cemento dei balconi del primo piano il ferro battuto dei balconi dei piani superiori, legandoli tra loro in verticale a creare una soluzione di continuità.

Casa CAMPANINI via Bellini 11 (1905 arch.Campanini ferri battuti A.Mazzucotelli)

Ingresso con due superbe cariatidi, è una fra le più fantasiose creazioni nella Milano dello stile floreale. E' un pregevole esempio, caratterizzato dal susseguirsi delle decorazioni: elementi floreali e figurativi si sovrappongono. Ascensore in ferro battuto; balaustre delle scale, stucchi policromi, arredo ligneo, portineria con ceramiche a colori vivaci e lampada in ferro. I ferri della cancellata, balconi, scala padronale sono di a. Mazzucotelli

Casa BERRI MEREGALLI via Mozart 21 (1911 arch. Ugo Arata)

Si crea un dialogo suggestivo con le mostruose teste di ariete, usate come scolatoi. Due affreschi decorano il balcone centrale contrastando con la facciata a mattonelle e con lo stile tutto ripreso da reminiscenze romaniche. La trattazione diversa di uno stesso materiale, per la sequenza delle finestre (bugnato rustico e pietra levigata) crea un ricco effetto chiaroscurale.

Casa BERRI MEREGALLI via Cappuccini 8 (1913 arch. Ugo Arata, sculture Adolfo Wildt, ferri A.Mazzucotelli) Una testa di Vittoria alata di Wildt dona un tocco di colore all'entrata di questo palkazzo che invece preferisce abbandonarsi ad un tocco più tenebroso. Altri mosaici in blu e oro con un pavone che fa una ruota completano l'insieme. L'esterno presenta una misteriosa complessità con i suoi recuperi e le sue reinterpretazioni gotiche, medievali, rinascimentali.

E' considerata l’ultimo esempio coerentemente liberty dell’architettura milanese. Nella decorazione il tema animale prevale su quello vegetale, che è accantonato senza esitazioni, e ci regala un bestiario sorprendentemente ricco che comprende arieti, pesci, rane, gufi, cani e leoni. Nella parte alta si impongono gli enormi putti a tutto tondo aggrappati ai pluviali, eseguiti con gusto verista e scapigliato, emblematici del Liberty milanese. Tutti gli elementi citati, per quanto siano mescolati senza gerarchia con risultato del tutto anti- classico, erano cari già al gusto storicista. E proprio il ritorno dello storicismo segna la fine della brevissima stagione liberty che a Milano coincide appunto, secondo la critica contemporanea, con questa creazione di Arata. È però curioso ricordare che i contemporanei dell’architetto vedevano in casa Berri Meregalli non un esempio di modernismo, ma il suo esatto contrario e che Arata stesso si dichiarasse acerrimo nemico del Liberty rivendicando di aver contribuito al suo superamento.