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Confini, Identità, Appartenenze Alpe Adria E Dintorni, Itinerari Mediterranei

Confini, identità, appartenenze Alpe Adria e dintorni, itinerari mediterranei

Letteratura e cinema di confine

Collana diretta da Angela Fabris e Ilvano Caliaro

Comitato scientifico Nedjeljka Balić-Nižić (Università di Zara), Cristina Benussi (Università di ), Ilvano Caliaro (Università di Udine), Ilaria Crotti (Università Ca’ Foscari Venezia), Elis Deghenghi Olujić (Università di Pola), Angela Fabris (Università di Klagenfurt), Franco Finco (Ateneo Pedagogico della Carinzia), Corinna Gerbaz Giuliano (Università di Fiume), Srećko Jurišić (Università di Spalato), Cornelia Klettke (Università di Potsdam), Tiziana Lippiello (Università Ca’ Foscari Venezia), Giuseppe Lupo (Università Cattolica del Sacro Cuore Milano), Antonela Marić (Università di Spalato), Gianna Mazzieri-Sanković (Università di Fiume), Mirza Mejdanija (Università di Sarajevo), Snežana Milinković (Università di Belgrado), Gilberto Pizzamiglio (Istituto di Scienze, Lettere ed Arti), Irena Prosenc (Università di Lubiana), Ricciarda Ricorda (Università Ca’ Foscari Venezia), Sanja Roić (Università di Zagabria), Nives Zudič Antonič (Università di Capodistria)

Vol. 1 Confini, identità, appartenenze

Scenari letterari e filmici dell’Alpe Adria

A cura di Angela Fabris e Ilvano Caliaro Volume pubblicato con il contributo di: Forschungsrat – Universität Klagenfurt (Austria) Fakultät für Kulturwissenschaften – Universität Klagenfurt (Austria) Dipartimento di Lingue e Letterature, Comunicazione, Formazione e Società – Università degli Studi di Udine (Italia)

ISBN 978-3-11-064005-2 ISBN (PDF) 978-3-11-064006-9 ISBN (EPUB) 978-3-11-064015-1 DOI https://doi.org/10.1515/9783110640069

This work is licensed under the Creative Commons Attribution-Non-Commercial-NoDerivs 4.0 International License. For details go to http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0.

Library of Congress Control Number: 2020950026

Bibliographic information published by the Deutsche Nationalbibliothek The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available on the internet at http://dnb.dnb.de.

© 2020 Angela Fabris and Ilvano Caliaro, published by Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston This book is published with open access at www.degruyter.com Printing and binding: CPI books GmbH, Leck Cover image: EasternLightcraft / iStock / Getty Images Plus www.degruyter.com www.degruyter.com

Indice

Angela Fabris, Ilvano Caliaro Introduzione | 1

Luoghi e voci di confine

Cristina Benussi Identità e confini | 9

Miran Košuta Tra Ponente e Levante | 23

Roberto Norbedo, Lorenzo Tommasini tra sloveni e croati | 39

Franco Finco Le lettere dalla prigionia di Stanko Vuk | 55

Sanja Roić Personaggi e destino di frontiera in | 85

Nives Zudič Antonič, Andrej Antonič Frontiera e convivenza nell’opera di Fulvio Tomizza | 95

Gianna Mazzieri-Sanković, Corinna Gerbaz Giuliano Storie di confine | 109

Nedjeljka Balić-Nižić Scrittori zaratini in lingua italiana nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento | 123

Snežana Milinković Autori di confine e i paradigmi culturali nazionali | 137

VI | Indice

Circolazione di libri, temi e motivi

Irena Prosenc Alberto Fortis e la Carniola settecentesca | 147

Mirza Mejdanija La finis Austriae e gli ultimi racconti sveviani | 163

Renzo Rabboni Frontiere di culture, frontiere dell’aldilà | 177

Altre identità: plurime, ricostruite, diverse

Ilvano Caliaro Una diversa identità: Carlo Michelstaedter | 191

Elis Deghenghi Olujić Il superamento dei confini linguistici e culturali | 201

Ricciarda Ricorda Ana Cecilia Prenz Kopušar, «un’argentina italiana nata a Belgrado» | 221

Commistioni e sconfinamenti di genere

Angela Fabris Voci, generi e spazi ibridi: La frontiera rovesciata di Francesco Burdin | 235

Antonela Marić Il giallo con il gusto del gioco | 251

Jörg Helbig Sconfinamenti | 261

Srećko Jurisić Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki | 267

Indice dei nomi | 293

Angela Fabris, Ilvano Caliaro Introduzione

Il presente volume raccoglie gli Atti del Convegno internazionale di studi Alpe Adria. Letterature e immagini di confine, tenutosi presso l’Università di Klagenfurt dal 16 al 18 maggio 2018, ed apre la Collana Alpe Adria e dintorni, itinerari medi- terranei, dedicata a narrazioni letterarie e filmiche legate a questi territori fisici ed acquatici. In questo primo volume, in particolare, il confine acquista una fi- sionomia mutevole e complessa, all’interno di territori che, in seguito alla disso- luzione dell’Impero asburgico e alla seconda guerra mondiale, sono distribuiti tra Italia, Austria, , Croazia e le regioni o gli stati limitrofi. I saggi affron- tano il complesso e dinamico rapporto tra l’identità – stratificata, composita, fluida – e i confini mobili di questi territori, privilegiando la necessità del dialogo e la vocazione alla pluralità. In questo quadro l’attenzione degli studiosi ha riser- vato una particolare attenzione alla circolazione di uomini e libri, alle identità plurime, diverse, ricostruite e stratificate assieme a forme di sconfinamenti e commistioni. Il Convegno ha riscosso anche l’adesione ufficiale della MOD (Società ita- liana per lo studio della modernità letteraria), che per la prima volta ha sostenuto un convegno che si è svolto al di fuori dei confini nazionali. Sul complesso e dinamico rapporto tra identità e confini riflette in apertura Cristina Benussi, che prende specificamente in considerazione gli scrittori della Venezia Giulia (comprensiva di Trieste, l’ e la costa dalmata), una regione etnicamente e culturalmente mista per la compresenza italiana, slovena e croata, e nella quale, solo per parlare del secolo XX, il confine si è spostato diverse volte e ragioni ideologiche e politiche hanno impedito o resa dolorosa quella convi- venza che, se pur problematica, il dominio asburgico aveva comunque assicu- rato. Sui confini e sui conflitti, ma anche sui contatti e sugli scambi che hanno caratterizzato la Trieste del primo Novecento e del secondo dopoguerra, plasman- done tra Ponente e Levante l’odierna identità multiculturale, ha scritto pagine significative il triestino (Trieste 1903–Lubiana 1967), uno dei maggiori scrittori sloveni contemporanei. Ne parla Miran Košuta, che si sofferma particolarmente su alcune sue opere, poco note e studiate, che restituiscono l’im- magine della Trieste della finis Austriae e del periodo del governo militare alleato. Roberto Norbedo e Lorenzo Tommasini mostrano l’interesse di Scipio Slata- per per il mondo sloveno e il suo sincero tentativo di comprensione a fronte

Open Access. © 2020 Angela Fabris, Ilvano Caliaro, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-001

2 | Angela Fabris, Ilvano Caliaro dell’indifferenza della coeva cultura triestina italiana, prima che lo scoppio della guerra in Europa e quanto ne conseguì lo portassero su posizioni di difesa degli interessi nazionali italiani. E toccano anche la ricezione di Slataper nel mondo culturale sloveno, soffermandosi sull’autore che meglio lo intese, il triestino , in particolare sul suo romanzo incompiuto Iz tržaškega življenja (‘Dalla vita di Trieste’). A Stanko Vuk, scrittore nato da famiglia slovena nei pressi di , nelle lettere scritte dal carcere alla moglie Dana durante i quattro anni di detenzione per attività antifascista fu imposto di scrivere in italiano, per cui egli dovette affi- dare l’espressione dei propri sentimenti a uno strumento linguistico che, pur ben padroneggiato, non era la lingua materna, né la voce delle sue liriche e delle sue prose: ne offre un’analisi soprattutto linguistica Franco Finco. La tragica vicenda dei coniugi Vuk, assassinati da ignoti nel 1944 pochi mesi dopo la scarcerazione di Stanko, e più in generale della minoranza slovena sotto il regime fascista e l’occupazione nazista, è narrata da Fulvio Tomizza nel ro- manzo Gli sposi di via Rossetti (1986). Ed è appunto su Tomizza, lo scrittore di ‘frontiera’ per antonomasia, che si soffermano Sanja Roić e Nives Zudič Antonič con Andrej Antonič, mostrando come quel crocevia di etnie e di culture che è l’Istria divenga in lui metafora di una consapevole identità molteplice di scrittore (istriano di nascita, triestino per scelta), il quale ha saputo comprendere le ra- gioni dell’‘altro’ in un territorio nel quale tragiche vicende storiche hanno fatto prevalere il conflitto e la recriminazione, donde la sua ferma convinzione della necessità di ricostruire una convivenza che si propone altresì come l’ideale di un mondo a venire anche oltre i confini regionali. Gianna Mazzieri-Sanković e Corinna Gerbaz Giuliano presentano la figura di colui che a Fiume ha incarnato la continuità della tradizione letteraria italiana: Osvaldo Ramous (1905–1981). Nel suo romanzo Il cavallo di cartapesta (concluso nel 1967 e pubblicato nel 2007), materiato di autobiografia e di conoscenza sto- rica, egli narra la travagliata vicenda della città (i cui abitanti nel corso di un cin- quantennio hanno mutato per ben cinque volte cittadinanza) e con l’esodo della maggior parte di quelli di lingua italiana la progressiva scomparsa di una lingua e di una cultura che ha trasformato profondamente l’identità del luogo natio. Della vivace letteratura zaratina in lingua italiana della seconda metà dell’Ot- tocento e della prima metà del Novecento, fortemente condizionata dalle vicende storico-politiche, delinea un fitto panorama Nedjeljka Balić-Nižić, dove spicca la figura di Giuseppe Marussig (1893–1938), nella cui opera si riflette una complessa esperienza individuale e collettiva in un ambiente multietnico e multiculturale, all’incontro-scontro tra Occidente e Oriente com’egli stesso lo definì, e di cui è

Introduzione | 3 emblematico il titolo dell’opera maggiore, Uomini di confine (1927), per certi aspetti il romanzo della patria perduta. Snežana Milinković mostra la difficoltà in Serbia, soprattutto in tempi di fer- vore nazionalistico, di accettare ciò che non rientra nel paradigma della tradi- zione letteraria nazionale, di ciò che non sia ‘autenticamente’ popolare, frutto di un ‘autore collettivo’: sono i casi, nella seconda metà dell’Ottocento, di un racco- glitore di racconti popolari serbi, Vuk Vrčević, e di due narratori di valore, Stefan Mitrov Ljubiša e Simo Matavulj. Della circolazione di uomini e libri nella Carniola tra Settecento e Ottocento tratta Irena Prosenc, in particolare delle opere dell’illuminista padovano Alberto Fortis, che tra il 1770 e il 1773 compì tre viaggi in Dalmazia, le cui esperienze e conoscenze confluirono nell’opera sua più celebre, il Viaggio in Dalmazia (1774), tradotta nelle principali lingue europee, che diede un impulso decisivo alla risco- perta delle culture periferiche dell’Europa balcanica. Nella grande stagione novellistica sveviana successiva alla Coscienza di Zeno Mirza Mejdanija coglie la connessione tra la finis Austriae, con cui coincide la fine di un mondo e di una civiltà, e l’acquisizione della consapevolezza che non è pos- sibile riconoscere un ordine non solo nel mondo ma anche nel vissuto personale, che la molteplicità del reale sfugge a qualsiasi sforzo ermeneutico e che la stessa memoria è anche interpretazione e quindi offre una verità solo relativa. Renzo Rabboni affronta il tema della letteratura di frontiera nella particolare accezione di scambio di nuclei narrativi tra culture e generi diversi, concentrando la sua attenzione su un particolare motivo presente in alcuni racconti e poemetti popolari medievali visti in relazione con la Commedia dantesca, e per cui si av- vale degli studi del grande folclorista russo Aleksandr N. Veselovskij (1838– 1906), che a Dante si dedicò secondo una prospettiva metodologicamente inno- vativa. Ilvano Caliaro parla di una diversa identità, intesa non come appartenenza ad un gruppo nazionale bensì come conquista di una propria individualità, cioè di un’esistenza sottratta alla necessità e alla determinazione, e come proposi- zione di nuovi valori, alternativi a quelli imposti dalla società in cui si vive: è quella perseguita, al tramonto dell’Impero, da un giovane ebreo assimilato che vive nella periferica e tranquilla provincia asburgica di Gorizia, Carlo Michel- staedter (1895–1910). Elis Deghenghi Olujić approfondisce la figura di Koraljka (Kenka) Lekovich, fiumana, dal 1990 a Trieste. Cresciuta in una famiglia etnicamente ‘impura’ ma formata culturalmente in seno alla comunità italiana della città natale, ha scelto di scrivere prevalentemente in italiano ma si definisce cittadina del mondo, per

4 | Angela Fabris, Ilvano Caliaro cui preferisce usare il termine ‘soglia’ al posto di ‘confine’, nell’accezione meta- forica di luogo in cui ci si sofferma ad osservare l’‘altro’, per definizione il diverso da sé, e per lei è appunto la scrittura il modo di superare questa soglia e di aprirsi all’‘altro’. Può accadere che una persona debba accettare di riconoscersi un’identità plurima, dotata di più connotazioni: argentina, serba e italiana nel caso di Ana Cecilia Prenz (Belgrado, 1964), che ha dovuto ricostruire e ridefinire la propria identità attraverso una storia personale che l’ha condotta a vivere momenti cru- ciali del Novecento, come la dittatura argentina, il periodo di Tito, le tensioni po- litiche della storia italiana degli anni Settanta: è quanto si legge in Attraversando il fiume in bicicletta (2016), diario scritto in spagnolo e poi tradotto dall’autrice stessa in italiano, di cui appunto si occupa Ricciarda Ricorda. Angela Fabris prende in esame La frontiera rovesciata (1997) del triestino Francesco Burdin (1916–2003), testo-collage di materiali eterogenei (saggio intro- duttivo, quattro canzoni e una cantata, tre racconti e un aforisma), in cui la pre- dominante riflessione-narrazione sulla frontiera pare riecheggiare pagine di Italo Svevo e Karl Kraus sul primo conflitto mondiale. Nei racconti, in cui cadono i con- fini tra generi e forme, tra prese di parola individuali e collettive, la frontiera, in- tesa in termini concreti e metaforici, e la guerra sembrano farsi paradigma della condizione dell’uomo. Antonela Marić mostra come Trieste, la città di ‘frontiera’ per antonomasia, con la sua complessa realtà, possa essere indagata e rappresentata anche attra- verso il genere noir, quello ‘mediterraneo’ cui appartengono i romanzi di Veit Heinichen, tedesco di nascita (Villingen-Schwenningen, 1957) e triestino d’ado- zione, che offrono una Trieste realistica, riconoscibile, ma nel contempo gravida di segreti relativi ad un passato che non cessa di gravare sul presente. Della novella Senso (1883) di Camillo Boito, incentrata sulla storia d’amore adultera tra una giovane contessa italiana e un tenente austriaco nell’imminenza della terza guerra d’indipendenza italiana, hanno dato trasposizione cinemato- grafica due registi italiani, nel 1954 Luchino Visconti in chiave romantica, nel 2002 Tinto Brass in chiave erotica. Ne parla Jörg Helbig, il quale mostra come en- trambi i registi utilizzino efficacemente una moltitudine di riferimenti interme- diali a sostegno delle rispettive interpretazioni della novella. Srećko Jurišić studia la dimensione eterotopica del Mediterraneo attraverso l’analisi del lungometraggio d’animazione Porco rosso (1992) del mangaka giap- ponese Hayao Miyazaki, ricco appunto di riferimenti alla storia, alla cultura e all’immaginario del Mediterraneo, e nel quale si avverte la forte influenza della

Introduzione | 5 guerra nell’ex-Jugoslavia con le sue devastazioni e atrocità, da cui il monito pa- cifista dell’autore, capace d’immagini di grande suggestione, come il paesaggio adriatico croato, tutto cielo e mare con scorci di terraferma. Come si può vedere da questa sintetica rassegna dei contenuti del volume, gli interventi trattano figure, temi e problematiche molteplici, anche secondo prospettive diverse. Ne esce confermata, e questo vorremmo sottolineare in con- clusione, la funzione civile che può adempiere la letteratura, che ha voluto e sa- puto trovare valori condivisi e condivisibili, quello che può unire piuttosto che quello che può dividere, guardando ad un orizzonte più ampio: si tratta insieme di un auspicio e di un monito nei confronti, per quanto ci riguarda più da vicino, di una identità europea come vocazione alla pluralità.

Settembre 2020

| Luoghi e voci di confine

Cristina Benussi Identità e confini

La Venezia Giulia e I suoi scrittori

Riassunto: Nel saggio si analizza la dimensione antropologica dell’identità di una regione, qual è la Venezia Giulia, nella quale il confine politico si è spostato, a parlare solo del Novecento, più volte, all’interno di un territorio etnicamente misto, e in cui la convivenza, se pur a volte problematica, tra le diverse com- ponenti era stata assicurata dal governo asburgico. Si cede spazio alle voci più consapevoli, maggiori e minori, in ambito letterario novecentesco e del nuovo millennio di quest’area di confine, in lingua italiana e slovena. Ne esce un fitto e significativo panorama letterario dal quale si evince che se la convivenza nella regione è stata dolorosa la responsabilità è da attribuirsi non a questioni identitarie ma alle ragioni della politica, che si è dimostrata capace di manipolare e comunque di piegare ai propri fini la memoria collettiva, in cui si radica e di cui si alimenta quella individuale.

Identity and boundaries: Venezia Giulia and its writers

Abstract: The essay analyses the anthropological dimension of the identity of a region, such as Venezia Giulia, in which the political border has moved several times in the twentieth century alone, within an ethnically mixed territory, and in which cohabitation, although sometimes problematic, of the different groups had been ensured by the Habsburg government. Space is given to the most conscious voices, major or minor, in the literature of the twentieth centu-ry and the new millennium of this border area, in Italian and Slovenian; outlin-ing a dense and significant literary panorama which clearly demonstrates that if coexistence in the region was painful, the responsibility is to be attributed not to questions of identity but to the actions of politics, which has proved capable of manipulating and in any case of bending the collective memory, in which the individual memory is rooted and fed.

Open Access. © 2020 Cristina Benussi, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-002

10 | Cristina Benussi

Il rapporto tra identità e confini è complesso e dinamico, dal momento che questi ultimi possono variare anche repentinamente nel corso della storia, mentre assai più sedimentato è l’autoriconoscimento del gruppo etnico coinvolto in una nuova mappatura territoriale. In questo caso la natura politica del confine rende il termine immediatamente convenzionale, in modo qualitativamente ben diverso dalla dimensione antropologica dell’identità, la cui ricerca di senso è dunque molto più complessa. L’autoidentificazione nasce infatti da proiezioni scaturite innanzitutto da una memoria collettiva, in cui trova posto quella personale, che in tal modo si rafforza. L’assunto vale soprattutto nel caso di minoranze etniche e di gruppi che hanno subito traumi collettivi, come diaspore e persecuzioni di ogni genere. O nell’eventualità di un popolo in cerca di unità, come è stato per gli italiani del periodo risorgimentale: in questo caso la memoria comune, vera o indotta che fosse, ha cementato una costruzione di sé1 che guarda al passato in funzione del presente e di un progetto nel futuro, tanto da essere stata spesso politicamente manipolata. Sembra essere vero, tuttavia, che la narrazione letteraria, laddove il rapporto tra scrittore e potere non sia subordinato ma diventi problematico, riesca per sua natura a mostrare le eventuali aporie di un progetto identitario. In questo caso rimozioni e recuperi di eventi sono, nella scrittura più consapevole, utili anche a rimettere in gioco la compattezza di un’idea di sé in rapporto al gruppo, riuscendo a modificare così i termini della questione. La narrazione letteraria, infatti, è particolarmente incline a considerare il problema da diversi punti di vista, per cui l’analisi delle componenti antropologiche, etniche e culturali di chi scrive quasi mai è rigida e monocentrica, ma piuttosto aperta ad esiti plurali e flessibili. Vorrei verificare come funziona questo dispositivo negli scrittori che vivono nella zona confinaria della Venezia Giulia. Solo per parlare del secolo scorso, il confine si è spostato infatti varie volte: chi fosse nato a Pola nel 1914 sarebbe stato austriaco, ma dal 1918 al 1945 italiano; successivamente, fino al 1947, cittadino sottoposto alla giurisdizione del Governo militare alleato anglo-

|| 1 Jan Assmann in Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, München, Beck, 1997; trad. it. di F. De Angelis, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino, Einaudi, 1997. A questo proposito Paul Ricœur (Das Rätsel der Vergangenheit. Erinnern-Vergessen-Verzeihen, trad. ted. di Andris Breitling und Henrik Richard Lesaar, prefazione di Burkhard Liebsch, Göttingen, Wallstein, 1998; trad. it. Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, , il Mulino, 2004) ha ampiamente indagato le tematiche del tempo e dell’identità, nonché le relazioni tra storia, memoria e oblio, analizzando l’irriducibile tensione tra memoria individuale e memoria collettiva in riferimento ad alcuni punti nodali quali le memorie ferite o il dolore ricordato dai sopravvissuti alla Shoah.

Identità e confini | 11 americano, per ritrovarsi in seguito jugoslavo e dal 1991 croato; ora, infine, europeo. Difficile che uno cambi spontaneamente lingua, cultura e tradizioni, ovvero identità. Ma che dicono gli scrittori a questo proposito? Vediamo cosa è accaduto a Trieste, città divenuta la più importante della Venezia Giulia nel 1719, quando era stata dichiarata franco da Carlo VI d’Asburgo; vi arrivavano genti d’ogni origine dal centro Europa e dal Mediterraneo, grazie ai vantaggi offerti dalle patenti imperiali per la libertà di culto, dai privilegi commerciali e anche dalle immunità concesse a chi voleva venire a lavorare, artigiano, commerciante, professionista, navigante o altro che fosse. La lingua maggioritaria parlata, grazie anche al lungo predominio della Repubblica di Venezia sulle zone adriatiche costiere, era un veneto friulano con inclusioni lessicali di altre parlate, insomma quello che si diceva l’italiano; quella minoritaria era lo sloveno, quella amministrativa la tedesca; le rispettive culture, che pur potevano usufruire di strutture culturali e politiche autonome, riuscivano a convivere adeguatamente, a volte a integrarsi pacificamente. Molte sono le testimonianze di uno scambio proficuo, anche se non mancarono episodi di contrapposizioni ideologiche e politiche, in particolare riferibili alla fedeltà o meno all’entità statuale comune, l’Impero asburgico.2 Il 1848 infatti cominciò a mettere a dura prova la coesistenza, che divenne davvero problematica nei pressi della Grande Guerra. Ma al di là delle posizioni di singoli gruppi, o sottogruppi, non pochi furono gli intellettuali sloveni che nel tempo ebbero contatti con la cultura italiana, da Primož Trubar a Matija Čop, da Prešeren a Sigismondo Žiga Zois, da Fran Levstik a , per non citare che alcuni. Se in numero assai minore furono i letterati autoctoni che scrivevano in tedesco, come Theodor Däubler, originario della Svevia per parte paterna e della Slesia per quella materna, o , di padre carinziano, bisogna riconoscere che ad essere dominante fu una cultura assolutamente trasversale dal punto di vista dell’origine nazionale, e mi riferisco a quella ebraica. Quando Scipio Slataper nelle Lettere triestine apparse sulla «Voce» affermava che Trieste non ha tradizioni di coltura,3 voleva dire che la sua classe dirigente era piuttosto dedita al commercio e all’industria che al rafforzamento di una tradizione italiana. E insisteva, successivamente, nell’indicare il suo punto debole nella contrapposizione tra la necessità economico-politica di permanere dentro un impero multinazionale e la sua innegabile condizione di città legata alla lingua parlata nel vicino Regno sabaudo. Slataper scriveva quando si stava preparando in Italia la guerra coloniale di Libia e dunque si stava surriscaldando

|| 2 Mi permetto di rimandare al mio Confini. L’altra Italia, Brescia, Scholé, 2019, pp. 49–67. 3 Scipio Slataper, Trieste non ha tradizioni di coltura, «La Voce», I, 9, 11 febbraio 1909, p. 35.

12 | Cristina Benussi un clima nazionalista che troverà largo consenso negli anni immediatamente precedenti al primo conflitto mondiale. In questa circostanza tutto l’armamentario retorico costruito ed usato dalla cultura per sostenere il Risorgimento verrà rispolverato ed implementato dai nuovi mezzi di comunicazione di massa, quali cinema, stampa di partito, opuscoli e opere divulgative, iniziative di società culturali e sportive e così via. Anche in questa provincia dell’Impero asburgico, entrato in guerra fin dal 1914, non mancarono campagne nazionaliste che prepararono il terreno, dopo l’intervento dell’Italia, alla risposta degli irredentisti giuliani. Ma è interessante vedere la posizione degli scrittori triestini, come dicevo, in maniera preponderante di origine ebraica. Eredi di una condizione biblica che li condannava alla diaspora, questi israeliti indagarono più degli altri la dinamica conflittuale tra ciò che erano e ciò che avrebbero voluto essere. Proprio per il loro virtuale internazionalismo, non si erano lasciati coinvolgere, neppure durante il periodo risorgimentale, in disquisizioni sulle nazioni di appartenenza. Giuseppe Revere ad esempio, nato a Trieste ma figlio di un commerciante mantovano, frequentò i salotti milanesi del Romanticismo, rivendicando poi l’italianità culturale della sua città. Conosceva il tedesco, la cui letteratura veniva divulgata dalla rivista italofona più importante dell’Ottocento triestino, «La Favilla», che nel suo progetto editoriale contemplava la necessità di far conoscere le culture straniere, tra cui un posto privilegiato avevano quella austriaca e quella germanica. Nel caso specifico Revere, forse su segnalazione di qualche collaboratore della rivista, come Pasquale Besenghi, lesse in originale gli scritti di Heine4 e ne rimase impressionato: quasi un ‘italo svevo’ ante litteram che meditava sul buio della coscienza, l’irrequieto patriota mentre pensava all’indipendenza d’Italia faceva suoi i temi romantici della letteratura tedesca. È stato giustamente scritto su di lui che «forse la natura sua d’israelita concorse a quel maggior grado d’universalità della sua arte, allo staccarsi da quanto fosse labilmente legato alle sorti e alla storia e alle istituzioni d’una patria ristretta».5 Dunque la letteratura, in particolare quella transnazionale ebraica, trovava un motivo specifico per avviare la frantumazione di un fronte nazionalistico compatto. Di non poco conto è anche la particolarità delle professioni praticate nel porto franco, legate al mondo della marineria, del commercio e dell’impresa,

|| 4 Heine è uno degli autori tedeschi romantici più imitati in Italia, da Nievo a Zanella. Per cogliere la sua straordinaria diffusione in Italia cfr. Carlo Bonardi, Enrico Heine nella letteratura italiana, Livorno, Editore Giusti, 1907. 5 Carlo Curto, Giuseppe Revere, in La letteratura romantica della Venezia Giulia (1815–1848), Parenzo, Stab. Tip. G. Coana, 1931, p. 286.

Identità e confini | 13 cioè ad attività che presuppongono lo scambio e la necessità vitale di entrare nei mercati d’ogni nazione per stabilire rapporti proficui con gli altri. Lo possiamo verificare subito con i grandi della letteratura triestina, a partire da , nato a Trieste da Ugo Edoardo Poli, agente di commercio, veneziano, e da Felicita Rachele Cohen, ebrea che aveva una rivendita nel ghetto. Lui stesso aveva lavorato in un negozio di articoli elettrici prima di aprire la sua libreria antiquaria. Allevato da una balia slovena, auspicava dunque la conciliazione de «l’italo e lo slavo», seduti insieme al Caffè Tergeste.6 Aveva frequentato l’Accademia di commercio, come Italo Svevo, ovvero Aron Hector Schmitz, nato a Trieste da padre di origine ungherese, commerciante in vetrami, che lo spedì nel collegio bavarese di Segnitz ad imparare il mestiere e la lingua. A parte il nom de plume, che suggerisce proprio la doppia identità, Svevo nei suoi testi non ha mai preso parte alcuna alla diatriba nazionalista, e solo nella Coscienza di Zeno ha accennato alla presunta superiorità sociale degli italofoni. Né ha mai pensato di non vendere la sua vernice antivegetativa alle marine militari inglese e tedesca. Entrambi gli scrittori facevano poi entrare in gioco la memoria per comprendere il loro rapporto con i valori di una città dall’identità plurima. Saba doveva fare i conti anche con l’assenza del padre, che lo aveva abbandonato prima ancora della sua nascita e che gli aveva lasciato in eredità la cittadinanza italiana: Ugo Poli era stato accusato di atti sovversivi contro l’Austria, e per questo era da alcuni considerato un «assassino» irredentista, come ricorda il poeta nell’Autobiografia.7 Svevo invece, cittadino austriaco, ancora il 23 maggio 1915 non attribuiva al suo personaggio, Zeno Cosini, alcuna particolare disposizione patriottica, neppure quando riportava la notizia degli incendi appiccati dai triestini alle istituzioni irredentiste: probabilmente, quando scrisse il romanzo, iniziato nel 1919 e pubblicato nel 1923, lo scrittore condivideva già il clima di delusione per l’annessione di Trieste, dell’Istria e del litorale della Dalmazia all’Italia. La memoria, a sentire l’opinione del suo personaggio, non serve infatti a correggere il presente. Diversa era la generazione successiva, quella in cui l’assimilazione aveva allentato la memoria della propria appartenenza ebraica, come accadde a Giani e Carlo Stuparich, di famiglia dalmata di Lussino legata alla navigazione per parte paterna, e di origine ebraica per parte di madre, Gisella Gentili, figlia di commercianti. Mazziniani, i due fratelli tenevano un atteggiamento di sostegno

|| 6 Umberto Saba, La serena disperazione [1913–1915], Caffè Tergeste, in Id., Tutte le poesie, a cura di Arrigo Stara, Introduzione di Mario Lavagetto, Milano, Arnoldo Mondadori Editore («I Meridiani»), 1988, p. 163. 7 Umberto Saba, Autobiografia, 3 [1924], in Id., Tutte le poesie, cit., p. 257.

14 | Cristina Benussi verso tutte le culture nate sul territorio, e in particolare quella slovena, volgendo i propri attacchi all’Austria non in quanto nazione nemica, ma in quanto impero irrispettoso delle autonomie dei tanti popoli che lo componevano. Per Stuparich, che prima aveva studiato a Praga, era proprio il ceco Tomáš Masaryk il modello di intellettuale capace di trasformare un popolo in nazione per rivendicare la propria autonomia. Erano amici fraterni di Scipio Slataper, che ebreo non era e che, di origine slovena per parte di padre, pure sosteneva l’italianità della cultura triestina; spronava così i discendenti dei suoi avi carsolini a farsi competitivi su questo terreno, al fine di stimolare la nascita di una nuova letteratura maggioritaria, più vigorosa. Più che ad una guerra imperialista, pensava alla creazione, a ridosso di Trieste, di una Slavia forte, baluardo contro un possibile pangermanesimo negatore dei diritti dei popoli. Dal suo osservatorio di Amburgo, dove insegnava l’italiano al Kolonial Institut, solo dopo aver constatato la volontà espansiva dello stato tedesco pensò che la sua città avrebbe dovuto far parte anche territorialmente dell’Italia. Suddito austriaco, nel 1915 scelse di disertare e di passare il confine per arruolarsi volontario nell’esercito italiano, insieme a Carlo e Giani Stuparich. Mai comunque avrebbe pensato che una nazione vincitrice potesse sopraffare l’altra. Dal canto suo Angelo Vivante, appartenente alla buona borghesia ebraica, nel suo Irredentismo adriatico: contributo alla discussione sui rapporti austro-italiani (1912), considerava controproducente recidere i legami con l’hinterland danubiano e per il futuro di Trieste auspicava la vittoria di un internazionalismo socialista. Sapeva che una guerra per l’annessione della città all’Italia avrebbe significato il declino dell’economia cittadina. Anche Silvio Benco, triestino di fede liberal-nazionale, giornalista e scrittore, dannunziano relativamente ai suoi temi letterari d’anteguerra (La fiamma fredda, 1903, e Il castello dei desideri, 1906), irredentista ma non per questo fanatico sostenitore della guerra, temeva che con questa sarebbero crollati i valori da lui condivisi dell’epoca in cui il destino lo aveva fatto vivere. Attento più alle implicazioni culturali che politiche, faceva tuttavia dell’italianità il blocco destinato ad inglobare progressivamente le diverse civiltà del territorio, auspicando pertanto che gli sloveni avrebbero lasciato le terre irredente per spostarsi verso territori di lingua slava. Ruggero Timeus (Fauro) era invece un robusto fautore di un espansionismo latino verso i Balcani. Pubblicista e politico, non nutrendo dubbio alcuno sulla superiorità della civiltà latina, e in particolare italiana, era non solo antiaustriaco, ma anche antislavo. La sua tesi propagandistica usciva compatta anche nell’unico romanzo da lui scritto, Goliardi (1908), ambientato nella teatro degli scontri studenteschi per l’università italiana a Trieste.

Identità e confini | 15

Dopo la prima guerra mondiale, in cui Slataper, Carlo Stuparich e Timeus lasciarono la loro inquieta gioventù, l’annessione di Trieste, dell’Istria e della costa dalmata al Regno d’Italia mutò radicalmente i rapporti tra culture di confine. La città cosmopolita era scomparsa, la sua potenzialità economico- finanziaria fortemente ridimensionata, mentre il fascismo stava avviando la sua politica di italianizzazione forzata ancor prima di diventare partito unico. Negli scontri violenti che accompagnarono il difficile cambio di gestione economica, legislativa e statutaria di queste terre e che lasciarono sul terreno martiri di entrambi gli schieramenti, le camicie nere bruciarono nel 1920 il Narodni dom, sede culturale polivalente slovena a Trieste; vennero chiuse le scuole di quella lingua, di cui fu vietato l’uso in pubblico, e vennero licenziati impiegati e funzionari di quella etnia, sostituiti con altri fatti venire dalla penisola per italianizzare il territorio. Il confine era evidentemente di natura culturale non potendo, in una regione etnicamente mista, essere tracciata una linea di demarcazione netta. Ma era solido: lo slavo acquisiva così una valenza negativa, mentre veniva costruito il mito di una città da sempre italiana, anzi ‘italianissima’. Le parti si invertirono quando su queste zone, a seguito della sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale, venne fissata una nuova frontiera, comunque confusa dal punto di vista dell’identità. All’interno delle diverse formazioni slave che combatterono anche tra loro, come cetnici, ustascia, drusi, domobranci, belogardisti e altri, i vincitori furono i partigiani comunisti del maresciallo Tito, che con tutti i mezzi a loro disposizione obbligarono centinaia di migliaia di italiani ad abbandonare quelle terre, dove molti vivevano da generazioni, dando vita a un esodo che durò anni: torture, esecuzioni sommarie, confische patrimoniali, perdita del posto di lavoro questa volta toccarono agli italiani che conobbero anche l’orrore delle foibe. Cambiarono così idea molti di coloro che pur avevano sostenuto il diritto degli sloveni a mantenere le proprie istituzioni culturali. Il rischio, oltre all’instaurazione di un regime comunista, era la vittoria del nazionalismo titino, che avrebbe voluto annettere alla Jugoslavia Trieste e le terre giuliane: tra questi Giani Stuparich e Biagio Marin. Poi ci fu la firma del trattato di pace di Parigi, nel 1947, con cui venne istituito il Territorio Libero di Trieste che vedeva la costa dal Timavo a Muggia, la zona A, governata dagli angloamericani; la parte dell’Istria da Muggia alla foce del Quieto a Cittanova, la zona B, amministrata dagli jugoslavi. Il confine passava all’interno di un territorio etnicamente misto, dove non poteva più esserci quella convivenza, seppur a volte problematica, che aveva caratterizzato il vivere nelle provincie asburgiche. Pier Antonio Quarantotti Gambini, triestino d’Istria che aveva perduto i possedimenti aviti, scriveva racconti in cui voleva ricostruire la biografia sua e di una generazione che si

16 | Cristina Benussi sentiva tradita nei suoi ideali irredentisti: raccontava di come in estate, da piccolo, andava a trascorrere le vacanze dai nonni, in Istria. Sapeva che lo zio, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, aveva passato il confine per arruolarsi nell’esercito del regno e che l’intera sua famiglia sosteneva questa posizione. Ma poi, cresciuto, non era riuscito a riconoscere in quei militi vittoriosi, autori di azioni anche ignobili, quegli italiani tanto attesi e mitizzati. I diversi racconti della sua formazione, esistenziale e politica, molti dei quali pubblicati singolarmente, furono raccolti postumi a cura del fratello Alvise con il titolo complessivo Gli anni ciechi. «Un italiano sbagliato» si definiva Pier Antonio che nel dopoguerra subì un processo d’epurazione per sue presunte collaborazioni con il regime mussoliniano, lui che, pur nemico di Tito, non era stato certo fascista. Già in un suo romanzo del 1947, L’onda dell’incrociatore, ambientato nel Ventennio, mostrava tutta l’ambiguità di un vitalismo esibito da un gruppo di ragazzi educati a una sensualità edonistica e torbida, che sfociava spesso in una condotta arrogante. In un suo pamphlet del 1951, Primavera a Trieste, raccontava del timore che aveva suscitato nella città giuliana l’occupazione titina del maggio 1945, mentre arrivavano ondate di profughi e si consumava il dramma delle foibe. In queste circostanze, e di fronte alla distruzione anche dei segni della cultura italiana nelle zone ora jugoslave, trovava sfogo il rimpianto per una terra perduta che ormai poteva esistere solo nella memoria. Giani Stuparich mostrava sgomento per la trasformazione irreversibile subita dai luoghi dove anche lui aveva passato l’infanzia. Nei suoi Ricordi istriani (1964) il mare e la campagna del ricordo diventavano simboli di un’innocenza perduta. Quando nel 1954 gli angloamericani lasciarono Trieste, il cui territorio venne assegnato amministrativamente all’Italia, la diffidenza verso il mondo slavo era ancora viva. Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, due giornalisti del quotidiano «Il Piccolo», nell’inserto «La cittadella» interpretarono il sentimento diffuso in una buona parte della popolazione triestina, ovvero della superiorità italiana nei confronti degli slavi, che oltre il confine erano oppressi dal regime comunista: venivano considerati economicamente disagiati, costretti come erano a varcare la frontiera per acquistare generi di prima necessità, tra l’altro con grande giovamento per la rete commerciale triestina. Nacquero dei personaggi stralunati come Druse Mirko, carsolino sloveno che commentava in un linguaggio misto di italiano, sloveno, dialetto triestino, e dal punto di vista di uno stuporoso buonsenso, ciò che accadeva nel cosiddetto paradiso comunista e anche nell’invidiabile, per molti, mondo occidentale. O come il marinaio Bortolo, dalmata che raccontava episodi dei tempi andati. Titoli come Le Maldobrie (1965), Prima della Prima Guerra (1968), L’Austria era un paese ordinato (1969), in una saga popolare che lambì gli anni Ottanta, instillavano un giocoso rimpianto per

Identità e confini | 17 la vecchia Austria, la «Defonta».8 Grazie anche alla penna di e al suo Mito asburgico nella letteratura austriaca moderna (1963), si era venuto formando quel racconto utopico della Mitteleuropa che è durato molto a lungo nel tempo. Il termine, nato in chiave nazionalistica nel 1915, divenne simbolo di un’atmosfera che si respirava in un territorio segnato da diverse lingue e nazioni, dai confini imprecisi, caratterizzata da una vicendevole tolleranza religiosa che nella cattolica Austria, in cui la dinastia asburgica era tendenzialmente antisemita, permetteva la coesistenza di ebrei, cattolici, ortodossi, musulmani e altro. Il mito divenne uno strumento importante e significativo di un’ideale resistenza anticomunista, e a Trieste, dove passava la cortina di ferro, trovava un humus particolarmente fertile, perché mostrava come anche nei luoghi ora sottomessi al rigido controllo del socialismo reale ci fu un tempo in cui si poteva discutere, confrontarsi, scegliere. Venivano riletti scrittori austriaci, cechi, ungheresi, rendendo così evanescenti i confini tra le varie nazioni. A sua volta Bobi Bazlen aveva fatto conoscere in Italia Jung e il pensiero orientale, Franz Kafka e Robert Musil, che tuttavia aveva interpretato in termini critici quei valori su cui poggiava il capitalismo trionfante dell’Occidente. Perseguitato in quanto semita, egli non scelse l’esilio, a differenza di Giorgio Voghera, che nel 1939 decise di andare in Palestina, in un kibbutz a Giaffa, prima di scrivere, come Anonimo triestino, Il segreto (1961), romanzo della dolente memoria ebraica. Trieste si poneva dunque al centro di un nuovo continente letterario, la Mitteleuropa appunto. Anche grazie ai contributi successivi di altri scrittori ebrei, come , nato a Budapest e da lì fuggito dopo l’invasione russa del 1956, Ferruccio Fölkel, di origine ungherese, e Moni Ovadia, bulgaro, ebrei quindi di diversa origine, non solo sono stati effettivamente resi palpabili i legami della città adriatica con il centro Europa, ma sono stati anche fissati i caratteri letterari dell’ebreo tipico, che già Svevo descriveva come autoanalitico, e in quanto tale portatore di nevrosi, seppur dagli esiti più diversi. Charlie Chaplin e Woody Allen ne hanno interpretato alcune caratteristiche diventate poi universalmente riconoscibili. Ma altri personaggi venivano plasmati da questioni di confine: mostravano il volto dolente di chi non solo aveva perso la guerra, ma la propria identità. Se il neorealismo, infatti, interpretava in chiave possibilista la rinascita economica e politica del paese, essendo stato almeno liquidato il fascismo, le scritture degli esuli mostravano come fosse definitivamente preclusa loro l’eventualità di poter veder rifiorire le loro terre. Il punto di vista era quello di chi ha perduto il diritto di vivere là dove si era nati. L’altra faccia del mito della Mitteleuropa è infatti,

|| 8 In dialetto triestino significa ‘defunta’, cioè l’Impero austro-ungarico dissoltosi.

18 | Cristina Benussi negli stessi anni, il racconto di ciò che il comunismo e un nazionalismo anti italiano avevano obbligato a scegliere: l’esilio. Dunque se da una parte il cosmopolitismo tornava ad essere un humus fertile per la cultura triestina, dall’altra il sentimento di una punizione biblica per quanto altri avevano fatto caratterizzava la produzione letteraria a partire dagli anni Sessanta, quando copiosi iniziarono ad essere i romanzi sull’esodo. Il primo era stato nel 1953 Marino Varini, con Terra rossa, poi nel 1959 Paolo Santarcangeli aveva proseguito con Il porto dell’aquila decapitata; ma è stato Fulvio Tomizza a reimpostare il problema innescato dalla fine della seconda guerra mondiale, dove non solo Italia e Jugoslavia si trovarono su barricate opposte, ma dove un altro fronte veniva aperto tra fascisti e antifascisti, divisi da diverse fedi ideologiche. Tomizza, di madre slovena e padre italiano, con Materada (1960) ebbe il merito di iniziare una riflessione sul tema dell’identità nazionale, difficilmente definibile, visto che la mixité era una situazione di fatto. Importava di più, ai fini della ricerca di una verità storica, quale che sia, la differenza di ideologia politica, quando questa diveniva causa di persecuzione e di morte. E il comunismo jugoslavo non era assolutamente immune da atti di coercizione violenta. In quella fase gli episodi di brutalità vendicativa che centinaia di narratori raccontavano venivano proiettati in una prospettiva storica attenta allo scontro ideologico e alle ragioni di un equilibrio internazionale ovviamente ostile all’Italia. Le scrittrici, viceversa, erano decise a scagliarsi comunque contro la guerra e chiunque attentasse alla vita di persone che non avevano avuto responsabilità politiche dirette: per le donne il valore supremo è infatti la conservazione della vita e l’armoniosa crescita della comunità familiare, e dunque da esse venivano condannati tutti coloro che avevano colpito i loro cari e obbligato i sopravvissuti alla diaspora, gli slavi appunto. Per questo molto meno articolato è il loro racconto. Di fronte a scrittrici come Marisa Madieri, fiumana di origine ungherese, che nel suo Verde acqua (1987) ha cercato di comprendere anche le ragioni dei croati che avevano occupato la sua città, la maggior parte delle altre, come Annamaria Gaspàri Muiesan, Giuliana Zelco, Vilma Pauletti Zappador e Regina Cimmino, ha decisamente respinto ogni possibilità di giustificazione per gli orrori subiti. E ciò vale non solo per chi ha scelto l’esilio: Anna Maria Mori e Nelida Milani hanno raccontato in Bora (1998) la loro esperienza di comune spaesamento, l’una per essere arrivata in Italia in un ambiente che in quanto profuga la considerava fascista, e che per anni l’ha portata a negare la sua origine istriana; l’altra per il suo rimanere in luoghi familiari, a Pola, dove però erano cambiati i vicini di casa, i nomi delle vie, la lingua della comunicazione quotidiana. C’era da aspettarselo che sarebbero state due donne ad affrontare il tema di questo doppio rapporto con un’origine negata

Identità e confini | 19 dalla storia, l’offesa per eccellenza in una prospettiva femminile, che rivendica al proprio genere «il coraggio di analizzare, per cambiarlo, un principio di ‘virilità’ che continua a fondarsi, da sempre, sul vino e sul sangue, sull’inevitabilità ‘positiva’ della guerra e della prova di forza fisica».9 Le conseguenze di uno sradicamento violento sono durate a lungo, influendo su una scrittura che diveniva surreale, data l’impossibilità di trovare una spiegazione accettabile di ciò che era accaduto. In una progressione disastrosa rispetto alla prima guerra mondiale, che già aveva riempito i manicomi dei cosiddetti scemi di guerra, ora venivano smembrate intere famiglie e comunità, colpite nei loro rapporti più stretti: la salvezza significava la rinuncia a una vita normale e vivere implicava ammassarsi in campi profughi disastrati. Enrico Morovich proietta i suoi Racconti di Fiume e altre cose (1985) nell’atmosfera da incubo che è stata la sua vita e quella di altri profughi prima di ottenere il visto per la partenza; con Il baratro (1964) ha fatto comprendere la precarietà di un’esistenza che da un momento all’altro poteva essere annientata. Stelio Mattioni con la raccolta di racconti Il sosia (1972) dava conto di una vita allucinata, priva di punti di riferimento, preda di instabilità e malessere. Forse anche per questo Franco Basaglia in una città così provata come Trieste ha potuto sperimentare una psichiatria che, invece di reprimere, fosse innanzitutto veicolo di una comunicazione empatica. Bisognò aspettare la caduta del muro di Berlino perché in una prospettiva europea si cominciasse a condannare il culturicidio sistematicamente perpetrato dai vincitori: intollerabile diveniva la distruzione della memoria di una civiltà che aveva la sola colpa di appartenere a un popolo di altra stirpe rispetto a quello che aveva vinto. Roma e il suo impero, Venezia e la sua repubblica, poi l’Italia e il suo duce venivano allineati in un’unica sequenza che vedeva nella presenza latina, veneta e italiana il segno dell’oppressore finalmente sconfitto. Esemplare è il romanzo di Enzo Bettiza, Esilio (1998) che, mentre esalta il complesso cosmopolitismo della sua famiglia e la feconda produttività di tanti incroci culturali, si affianca a Ivo Andrić, cristiano di Bosnia, nello stigmatizzare la distruzione sistematica delle memorie culturali depositate da secoli di storia e da tanti popoli. Questo cantore mesto dell’Impero ottomano condivideva più o meno gli stessi motivi per cui Joseph Roth, ebreo di Galizia, provava nostalgia per l’antica koinè di quello asburgico. In forme metaforiche, più che documentarie, continua il racconto del fuggitivo: Diego Zandel, nato nel campo profughi di Roma, andato sulle terre avite, vedeva ripetersi le peripezie vissuta dai genitori e dalla nonna che, pur essendo «s’ciava», non voleva continuare a vivere «sotto i

|| 9 Anna Maria Mori-Nelida Milani, Bora, Piacenza, Frassinelli, 1998, p. 27.

20 | Cristina Benussi s’ciavi». Ora a patire le conseguenze di una folle campagna di pulizia etnica erano gli esuli che fuggivano dalla guerra che negli anni Novanta ha insanguinato quella che ormai tutti chiamano la ex Jugoslavia (I confini dell’odio, 2002). Anche Mauro Covacich, portatore di un nome dalla sospetta origine slovena, pur non profugo, nelle sue Anomalie (1998) mostrava l’assurdità dello scontro etnico, che non solo faceva vittime dal sangue misto, ma che trasformava il cecchino in una sorta di divinità, le cui scelte assolutamente casuali potevano decidere della vita e della morte. Altre storie raccontavano gli scrittori sloveni di Trieste che preferivano tuttavia ricordare la durezza della loro vita e le loro sofferenze di prigionieri sotto il regime fascista; certo, non tacevano sulle difficoltà politiche incontrate nel secondo dopoguerra, divisi, come erano, tra filocomunisti e cattolici, tra fautori dell’esigenza prioritaria di unificazione nazionale del loro popolo ed assertori di un possibile, spontaneo, processo di progressiva assimilazione. , forse il più noto, narrava le sue vicissitudini nei campi di sterminio, e poi le disillusioni per una vittoria che paradossalmente ha condannato gli sloveni ad essere divisi da un confine (Nekropola, 1967, trad. it. di Ezio Martin, Necropoli, 1997). E ha avuto anche il merito di denunciare illegalità e soprusi del governo jugoslavo. Alois Rebula ha cercato di trovare punti di contatto tra la cultura di matrice greco-latina e quella di origine slava (V Sibilinem vetru, 1968, trad. it. di Diomira Fabjan Bajc, Nel vento della Sibilla, 1992), giungendo alla condanna di entrambe, dal momento che non avevano saputo evitare i campi di sterminio. Anche Miroslav Košuta (1936), poeta e drammaturgo nato sul Carso triestino, non ha mai smesso di ripercorrere le tappe dolorose della vita sua e della sua gente, che la collocazione geografica ha esposto a tragedie altrove inimmaginabili. La letteratura aveva ragione: non è colpa dell’identità, ma della politica se la convivenza è stata resa dolorosa. Ora, infatti, la frontiera è pressoché sparita, perché la Slovenia, come l’Italia, fa parte dell’Unione Europea. Permane una separazione meramente politico-amministrativa. Se le due lingue confinanti sono diverse, i dialetti invece trattengono termini che nascono da uno scambio osmotico di varie generazioni. Interessante ai fini del nostro discorso diventa allora il paesaggio linguistico, dal momento che in questa zona di confine il bilinguismo dovuto alla presenza delle due minoranze è normato per la cartellonistica pubblica, opzionale per le insegne private. Osservarle permette di capire lo status e la vitalità delle due lingue, che in questo caso non hanno funzione solo comunicativa, ma anche simbolica. Al di là dei dati sulle percentuali delle scritture pubbliche e private italiane e slovene rispettivamente in Slovenia e Italia, in entrambi i casi piuttosto limitate, ci sono alcune considerazioni da fare. Se guardiamo alle insegne dei negozi, o dei luoghi

Identità e confini | 21 frequentati dai turisti, sono piuttosto il tedesco o l’inglese a prevalere nelle zone escursionistiche slovene e croate. E questo a prescindere dai confini o dalle ideologie. L’italiano compare sulle insegne di strutture ricettive, come i ristoranti, probabilmente a garanzia di una buona cucina. Altrimenti, oltre all’uso della lingua locale, spiegazioni nei musei o in strutture di diporto sono nella maggior parte dei casi in inglese, considerato ormai un non-foreign language.10 Ciò dimostrerebbe come a imporsi sia la lingua che ha alle spalle uno stato capace di produrre innovazione tecnologica e informatica, quindi ricchezza. Una piccola nota personale: fino a qualche decennio fa, passando il confine, mi rivolgevo agli sloveni in italiano, che lo parlavano piuttosto bene, in quanto lingua a lungo imposta e divenuta poi quella del commercio frontaliero. Ora ai giovani devo rivolgermi in inglese, idioma che marca gli scambi finanziari e produttivi di un mercato globale, in questo senso senza confine. Siamo in una fase storica in cui l’Europa per certi aspetti è consapevole di una propria identità comune, per altri appare scissa e pronta a rimettere in discussione la sua unità. Ma quale cultura caratterizza l’Europa? Naturalmente quella che, dopo influssi di culture assai diverse, ha finito per produrre i princìpi che oggi riconosciamo come fondamentali: l’eredità giudaico-cristiana; il diritto romano e le idee di libertà, uguaglianza, fraternità nate dalla Rivoluzione francese; la scienza moderna di Copernico, Galileo, Keplero, Cartesio; la forma di produzione capitalistica, un’idea di giustizia che si è realizzata anche attraverso la lotta di classe. Evidentemente, pur non potendo eliminare delle diversità, ci sentiamo accomunati da qualcosa che è la nostra eredità culturale. Per esempio, abbiamo tutti, o quasi, subìto delle dittature, abbiamo conquistato un certo benessere attraverso lotte politico-sindacali; siamo succubi dell’etica individualistica del successo; abbiamo fatto l’esperienza del fallimento del colonialismo; abbiamo conosciuto la guerra in casa, un’esperienza che, per esempio, gli Stati Uniti non hanno fatto. Questi infatti, anche dopo il secondo conflitto mondiale, hanno portato le loro guerre fuori del loro territorio, prima oltre il muro di Berlino e poi verso il mondo musulmano, convinti che il male si annidi fuori dalle mura domestiche, cosa che un europeo, allenato da secoli di lotte interne, non penserebbe mai. Credo che la carta vincente stia proprio nel pensare ad una identità europea come vocazione alla pluralità, presupposto indispensabile perché il vecchio continente possa superare sovranismi e nazionalismi, che la letteratura ha

|| 10 Durk Gorter, Linguistic Landscape: a New Approach to Multilingualism, Clevedon, Multilingual Matters, 2006, p. 81.

22 | Cristina Benussi sempre cercato di decostruire per trovare invece valori condivisi da quelle identità a maglie assai larghe che si chiamano «persone».

Miran Košuta Tra Ponente e Levante

Confini, conflitti e contatti nella Trieste letteraria di Vladimir Bartol

Riassunto: Lo scrittore triestino Vladimir Bartol (Trieste 1903– 1967) è oggi uno degli autori sloveni più tradotti e affermati nel mondo, grazie soprattutto al suo orientalistico e profetico romanzo Alamut (1938). Poco note, tradotte e indagate sono invece le sue opere che hanno per protagonista tematica, motivica e ambientativa la natia Trieste del finis Austriae (Mladost pri Svetem Ivanu – Giovinezza a San Giovanni, 1955–1956) e del governo militare alleato (Tržaške humoreske – Umoresche triestine, 1957). Il contributo si propone di colmare tale lacuna, approfondendo la narrativa bartoliana sui confini e sui conflitti, ma anche sui contatti e sugli scambi che hanno caratterizzato la Trieste del primo Novecento e del secondo dopoguerra, plasmandone tra Ponente e Levante l’odierna identità multiculturale.

Between East and West: Borders, conflicts and contacts in Vladimir Bartol’s literary Trieste

Abstract: Trieste-born Vladimir Bartol (1903–1967) is today one of the most translated and successful Slovenian writers in the world, predominantly thanks to his orientalist and prophetic novel Alamut (1938). Far less known, translated and studied, however, are his other works, mainly set in and inspired by his native town Trieste against the backdrop of finis Austriae (Mladost pri Svetem Ivanu, 1955–1956) and of the allied military government (Tržaške humoreske, 1957). This paper aims to fill this gap, shedding light on Bartoli’s narrative on borders and conflicts, but also on the contacts and exchanges that characterized Trieste in the early twentieth century and after World War II, shaping its multicultural identity between East and West.

Open Access. © 2020 Miran Košuta, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-003

24 | Miran Košuta

1 Per iniziare

Quando il pomeriggio del 4 maggio 1946, accettando di buon grado a Divača un passaggio in automobile da alcuni conoscenti, Vladimir Bartol tornava nella natia Trieste dopo ventisette anni di forzato esilio familiare da scrittore ormai maturo, da riconosciuto autore del dramma Lopez (1932), della raccolta di componimenti letterari Al Araf (1935) e del romanzo Alamut (1938), gli parve di scendere lungo tornanti danteschi dall’altipiano ad un approdo profondamente diverso da quello conosciuto alla vigilia del finis Austriae: una città spaccata in due dalla cortina di ferro calata dal Baltico all’Adriatico all’indomani della liberazione dal nazifascismo, un porto dilaniato, conteso tra due blocchi, sistemi, emisferi, un luogo dai mille confini, conflitti e contatti, un territorio libero pericoloso e dal futuro incerto, in cui – scriverà di lì a breve in una novella che ambirà ritrarlo con amara ironia ‒ si capitava

tra borsaneristi e alleati, fascisti e comunisti, neri, italiani e sloveni, tra profughi di ogni sorta, tra ustascia e cetnici, tra esperti colonizzatori anglo-americani, tra partigiani e orfani di guerra, tra ebrei, esuli e annamiti, tra prostitute e democristiane dalle lunghe gonne, tra un’armata di disoccupati ‒ in breve in questa nostra vecchia bellissima Trieste adriatica che gli acuti colonizzatori hanno diviso con audacia senza scrupoli e indugi tra Piazza Unità, dove sono permessi raduni di fascisti, borsaneristi e democristiani, e Piazza Perugino, dove possono, circondati da numerose jeep alleate e auto della polizia, manifestare i lavoratori, le «venderigole» di Ponterosso, i «mandrieri» del circondario e il restante popolo lavoratore; ovvero, in breve, tra Ponente e Levante.1

Tornava insomma a casa da straniero, lui, nato nel 1903 nel sobborgo di San Giovanni, emigrato nel 1919 con la famiglia nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, formatosi come intellettuale e scrittore tra Lubiana, Belgrado e Parigi, e affermatosi appena dopo la morte nel 1967 perlopiù come ininquadrabile autore

|| 1 Vladimir Bartol, Tržaške humoreske, Ljubljana, Cankarjeva založba, 1957, p. 21. Nell’originale: «Zateče se ti s proizvodom svojega vzvišenega duha med črnoborzijance in aleate, med fašiste in komuniste, med črnce, Italijane in Slovence, med begunce vseh odtenkov, med ustaše in četnike, med izkušene angloameriške kolonizatorje, med partizane in vojne sirote, med žide, ezule in Anamite, med prostitutke in dolgokrile demokristjanke, med armado brezposelnih; — skratka v naš stari prelepi Trst ob Jadranu, ki so ga umni kolonizatorji brez skrupulov in pomislekov smelo razplatili na Piazza Unità, kjer je dovoljeno zbirati se fašistom, črnoborzijancem in demokristjanom, in na Piazza Perugino, kjer smejo, obdani od številnih policijskih emergenc in zavezniških jeepov, manifestirati delavci, branjevke s Ponterossa, okoliški mandrijarji in ostalo delovno ljudstvo; ali na kratko, med Zahod in Vzhod» (tutte le traduzioni in italiano sono di Miran Košuta se non diversamente indicato).

Tra Ponente e Levante | 25 esotico, anazionale, globale, associabile agli occhi dei critici e storiografi letterari non tanto alla sua piccola Heimat emporiale quanto, semmai, al Parnaso centrale sloveno o europeo. Eppure, che la triestinità rappresenti un ineludibile tratto distintivo della sua narrativa e che Bartol rientri a pieno titolo anche nell’Olimpo autoriale della letteratura triestina di lingua slovena, lo comprovano senz’ombra di dubbio almeno due motivazioni specifiche e gemellari: la sua biografia e la sua opera, la sua vita e la sua scrittura, il legame fisico, anagrafico, esterno, e l’empatia spirituale, artistica, intima con Trieste.

2 La triestinità biografica di Bartol

Questa trova matematica conferma già da una semplice sottrazione biografica. Bartol visse sessantaquattro anni, perlopiù a Lubiana, per brevi periodi anche a Parigi, Kamnik e Belgrado, ma trascorse più di un terzo della sua esistenza, ben ventisei anni in tutto, nella natia Trieste. Qui, nel rione allora in prevalenza sloveno di San Giovanni, emise il suo primo vagito martedì 24 febbraio 1903, mentre fuori «imperversava la tempesta e le maschere di carnevale strepitavano e urlavano per le strade»;2 qui è cresciuto tra le variopinte farfalle del Monte Spacà e i grigi banchi della scuola cirillometodiana sull’Aquedotto fino al forzato esilio cui fu costretto suo padre all’arrivo dell’Italia dopo la prima guerra mondiale; qui prese a suggere il nettare del sapere al ginnasio trilingue di piazza Lipsia proprio negli anni in cui non lontano da lì il pioniere della psicoanalisi italiana Edoardo Weiss testava le teorie freudiane su pazienti e amici, e James Joyce dispensava lezioni d’inglese tanto all’ebreo Ettore Schmitz quanto allo sloveno Boris Furlan; qui «il richiamo del cuore verso la città natale e gli amici di gioventù» lo ricondusse per una visita alla famiglia dello zio insegnante Anton Grmek «a Natale del 1919 e per le vacanze estive del 1923»,3 una breve sosta nell’autunno del 1926 del viaggio che lo condusse a Parigi per il perfezionamento postuniversitario alla Sorbona; qui ritornò all’indomani della liberazione il 4 maggio 1946 «perché nei venticinque anni di dittatura il fascismo aveva epurato quasi del tutto la vita culturale un tempo fiorente degli sloveni triestini e litoranei», talché grande e urgente si rese a guerra conclusa «la necessità di

|| 2 Vladimir Bartol, Mladost pri Svetem Ivanu, Trst, Založništvo tržaškega tiska, 2001, p. 19. Nell’originale: «Vreme je bilo nevihtno, po ulicah so vriskale in rjovele maškore...». 3 Ivi, p. 7. Nell’originale: «klic srca po rojstnem kraju in po mladostnih prijateljih me je neposredno po mojem izgnanstvu že dvakrat pripeljal k Svetemu Ivanu na obisk k družini mojega strica Antona Grmeka: za božič 1919 in za poletne počitnice 1923».

26 | Miran Košuta attivisti culturali»4 tra gli sloveni autoctoni; qui seguitò perciò a rianimare con sacrificio l’attività delle locali associazioni culturali slovene, circoli, gruppi, cori e complessi, soprattutto da presidente della Slovensko-hrvaška prosvetna zveza (ʻUnione culturale sloveno-croataʼ), e a collaborare per un decennio da giornalista, critico e recensore di libri, spettacoli teatrali e mostre pittoriche o figurative con il locale quotidiano sloveno «Primorski dnevnik» (ʻIl quotidiano del Litoraleʼ); qui, in un periodo di stasi solo apparente, non smise di pubblicare letteratura sulla rivista «Razgledi» (ʻPanoramiʼ) e in vari almanacchi locali («Koledar Osvobodilne fronte za tržaško ozemlje», ʻAlmanacco del Fronte di liberazione per il territorio di Triesteʼ, e «Jadranski koledar», ʻAlmanacco adriaticoʼ), a concertare inutilmente con la casa editrice Gregorčičeva založba la riedizione dell’ampliata raccolta di prose Al Araf sotto il nuovo titolo di Dve dobi (ʻDue epocheʼ) e a rinfrancare la propria vena creativa, stendendo umoresche e memorie; e qui, da cittadino formalmente jugoslavo, battagliava di anno in anno con la burocrazia della questura cittadina per il rinnovo del suo permesso di soggiorno, finché nel 1956, acuitasi la tensione al confine tra l’Italia e la Jugoslavia dopo il Memorandum di Londra, le autorità gli negarono l’ospitalità e fu dunque costretto ‒ lui, triestino autoctono ‒ a riparare nuovamente nell’esilio lubianese. Ma anche nei lunghi decenni passati – come avrebbe titolato Predrag Matvejević «tra asilo ed esilio»5 – lontano dalla città natale, Bartol rimase legato a Trieste da un invisibile, carsico, ma indissolubile cordone ombelicale. Lì continuavano infatti a risiedere i suoi parenti, amici, conoscenti, ex compagni di scuola; lì prese avvio nel 1920 col pogrom del Narodni dom (ʻCasa nazionale’) il genocidio fascista ai danni degli sloveni e, per reazione, la clandestina ribellione armata di TIGR e Borba;6 lì caddero falciati dal piombo fascista gli eroi di Bazovica/Basovizza e di Opčine/Opicina; da lì seguitava a fargli visita a Lubiana anche dopo il 1956 l’apprensione per il precario destino dei connazionali rimasti, fino a fargli esclamare con i versi di Oton Župančič: «Di voi che ne sarà, o quattro cippi, Gorizia, Maribor, Trieste, Klagenfurt?»;7 e da lì, infine, l’oboe della

|| 4 Ibid. Nell’originale: «Potreba po prosvetnih delavcih je bila v Trstu, kjer je bil fašizem v petindvajsetih letih svoje strahovlade domala iztrebil nekoč tako cvetoče kulturno življenje tržaških in primorskih Slovencev, velika». 5 Cfr. Predrag Matvejević, Tra asilo ed esilio, Roma, Meltemi editore, 1997. 6 TIGR (acronimo di Trst, Istra, Gorica, Reka) e Borba (‘La lotta’) erano organizzazioni clandestine antifasciste attive nella Venezia Giulia tra il 1927 e il 1941. 7 Oton Župančič, Zemljevid (‘Carta geografica’), in Zbrano delo, a cura di Id., III, Ljubljana, Državna založba Slovenije, 1959 («Zbrana dela slovenskih pesnikov in pisateljev»), p. 37. Nell’originale: «O, kaj bo z vami, vi mejniki štirje, / Celovec, Maribor, Gorica, Trst?...».

Tra Ponente e Levante | 27 tipografia Graphis intonò nel 1958 con la ristampa del suo capolavoro Alamut, implementata con la prefazione Opombe k drugi izdaji (ʻNote alla seconda edizione’), quel sonoro «la» editoriale che ne avviò il riscatto critico, la rinascenza artistica e la rivalutazione letteraria nel secondo dopoguerra. Non sarebbe perciò credibile che un così intimo, saldo e duraturo ormeggio personale al molo della città natale mancasse di incidere il proprio marchio anche sulla creazione letteraria dell’autore. Lapalissiano riverbero di quella biografica, risulta di conseguenza la triestinità letteraria di Bartol, che emerge come il contiguo Timavo dai suoi testi narrativi o drammaturgici: a volte con ipogea intermittenza, appena percettibile sotto la superficie a prima vista esotica, allogena, internazionale delle sue opere, altre volte invece con torrentizio impeto, quando erutta schiumeggiante sulla pagina in tutta la sua evidenza tematica o ambientale.

3 La triestinità letteraria di Bartol

Nell’arco evolutivo dell’opera bartoliana entrambe le triestinità appaiono direttamente proporzionali: quanto più tangibile, vissuta in loco era quella biografica, tanto più florida verdeggiava quella letteraria; quanto più lunghe erano le permanenze di Bartol a Trieste, tanto più spesso e profusamente la città diventava scenario della sua prosa. Nei primi lavori infatti, concepiti perlopiù tra Lubiana, Hosta, Kamnik e Parigi, il golfo natale ancora stentava a ispirare la penna dell’autore. Nell’inedito racconto Don Lorenzo del 1927, ad esempio, ne sostanziano una lontana, appena percettibile eco solo l’ambientazione rinascimentale italiana della vicenda e il fenotipico ritratto del protagonista con le demoniache sembianze dittatoriali di Mussolini o dei detestati compagni triestini di giochi Giorgetto e Menotti, benché lo stesso autore abbia evidenziato in seguito lo stretto legame tra il suo «primo grande autentico testo» e «le esperienze giovanili vissute a San Giovanni e a Trieste».8 Anche il dramma Lopez, ambientato nel 1932 tra i baschi in Spagna ma dedito a fustigare chiaramente il marcio, rissoso ambiente letterario della coeva Lubiana, appare immune dall’influenza geoletteraria della città natale.

|| 8 V. Bartol, Mladost pri Svetem Ivanu, cit., p. 269. Nell’originale: «Med takimi osebnejšimi odkritji je bilo zame odkritje podtalnih, meni dotlej neznanih zvez med mojim prvim večjim avtentičnim tekstom Don Lorenzom in med mojimi mladostnimi izkušnjami in doživetji pri Svetem Ivanu in v Trstu».

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Qualche più copiosa, ma forse inconsapevole goccia di triestinità letteraria Bartol l’ha però stillata nella silloge di componimenti letterari Al Araf del 1935. Il cosmopolitismo bohémienne dei suoi «demoni claudicanti» e la creola multiculturalità della sua Parigi non sono infatti del tutto estranei all’internazionalità emporiale del natale porto franco, né l’autore ha mai nascosto di aver tratto spunti fisici, onomastici o caratteriali per i protagonisti di Al Araf proprio da conoscenti, tipi o modelli triestini:

Gran parte degli eroi delle mie novelle e dei miei scritti porta il nome di conoscenti, amici o compagni di scuola della mia giovinezza. Tutti questi nomi mi si sono imposti di per sé, di alcuni ho individuato la remota origine […] appena mentre scrivevo. Sono nomi quali Forcesin (la signora Forcesin, triestina, è stata un’amica della mamma), Robert Nigris (il dott. Nigris era il nostro medico di famiglia), il dott. Krassowitz (il marito della maestra Ivanka Sabadin era il maestro Ivan Krašovic), […] Zvonko Karara ne «La cantata del nodo inesplicabile» (Karara si chiamava appunto un mio compagno di classe vissuto per alcuni anni a San Giovanni), Janez Boštjančič ne «Il demone nero» e nel bozzetto «Solo un breve conto» (la stirpe dei Boštjančič ci era nota), France Fonda (un nome conosciuto a San Giovanni), il dott. Grom (è superfluo ricordare Maša Grom) ecc. ecc.9

Sebbene gran parte dei lettori, critici e storiografi letterari la ritengano il prototipo dell’esotismo narrativo di Bartol, la sua opera tematicamente più universale, «esportabile» e meno «nazionale», negli ultimi tempi persino il romanzo Alamut, pubblicato nel 1938 a Lubiana dalla casa editrice Modra ptica, risulta vieppiù interpretato in chiave territorialmente triestina, adriatica, quale metafora «della lotta di liberazione degli sloveni litoranei» dall’oppressivo tallone «del potere fascista italiano cui sono stati ingiustamente assegnati dopo la prima guerra mondiale» ovvero, meglio, quale allegorica raffigurazione «degli appartenenti all’organizzazione terroristica TIGR» di cui Bartol sembra fosse «simpatizzante».10

|| 9 Ivi, pp. 267−268. Nell’originale: «Večji del junakov v mojih novelah in spisih ima imena znancev, prijateljev ali sošolcev iz moje mladosti. Vsa ta imena so se mi vsilila sama po sebi, za nekatere sem šele med pisanjem [...] ugotovil njihov davni izvor. Tu so imena kakor Forcesin (Tržačanka gospa Forcesinova je bila mamina prijateljica), Robert Nigris (dr. Nigris je bil naš domači zdravnik), dr. Krassowitz (mož učiteljice Ivanke Sabadinove je bil učitelj Ivan Krašovic), [...] Zvonko Karara v »Kantati o zagonetnem vozlu« (Karara se je pisal neki moj sošolec, ki je bival nekaj let pri Svetem Ivanu), Janez Boštjančič v »Črnem vragu« in črtici »Samo kratek račun« (rodbina Boštjančičevih nam je bila znana), France Fonda (znano ime pri Svetem Ivanu), dr. Grom (ni mi treba spominjati na Mašo Gromovo) itd. itd.». 10 Miran Hladnik, Razmerje med Bartolovo kratko in dolgo prozo (Al Araf in Alamut), in Slovenska kratka pripovedna proza, a cura di Irena Novak Popov, Ljubljana, Center za slovenščino kot drugi/tuji jezik pri Oddelku za slovenistiko Filozofske fakultete Univerze v

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Definita «nazionalistica» dal traduttore inglese di Alamut Michael Biggins,11 quest’esegesi critica che, nello spirito della distinzione kosoveliana tra nazionalità e nazionalismo, andrebbe invece interpretata piuttosto come «nazionale», trova le sue ineludibili conferme fattuali nella fascinazione bartoliana per Nietzsche e la «Wille zur Macht» etnica di Klement Jug, nell’amicizia dell’autore con l’attivista triestino del TIGR Zorko Jelinčič e nell’inequivocabile annotazione dopo la condanna dell’amico al primo processo del tribunale speciale: «Anche per te, Zorko, verrà il momento della vendetta»;12 ma trova fondamento soprattutto nella confinaria autoctonia adriatica di Bartol che ha instillato anche nella narrazione alamutiana un evidente assillo per i destini della slovenità, un innegabile attivismo nazionale. «Già per il solo fatto di essere triestino, di casa dunque ai (minacciati) margini del territorio nazionale sloveno, Bartol non può essere decontestualizzato da quel senso attribuito alla letteratura dall’engagement e dalla volontà di emancipazione nazionale»:13 così ha affermato in proposito Miran Hladnik, che ha aderito in sede ermeneutica con ancora maggior convinzione del predecessore Lino Legiša alla lettura locale, triestina del romanzo quando ha affermato con esplicita franchezza nel saggio intitolato Alamut e l’interesse nazionale sloveno:

Caldeggio l’esogena lettura metaforica del romanzo cosmopolita Alamut, una lettura che sappia intravedere nelle sue esotiche vicende una storia slovena. A incanalarci verso una tale lettura sono l’origine litoranea dell’autore, che nel periodo tra le due guerre esigeva per così dire un testo sloveno nazionalmente impegnato, l’appartenenza dell’opera al genere del romanzo storico, che immancabilmente destava nei lettori l’aspettativa di un testo che

|| Ljubljani, 2006 («Obdobja», 23), p. 137. Nell’originale: «Bartolova kratka proza, posebno Al Araf (1935), ima podobno sporočilo, kot je tisto v njegovem zgodovinskem romanu Alamut (1938). To je ključni argument za t.i. nacionalistično interpretacijo romana, po kateri perzijski branilci utrdbe Alamut iz 11. stoletja ustrezajo pripadnikom slovenske teroristične organizacije TIGR, ki se je borila za osvoboditev primorskih Slovencev izpod fašistične oblasti, ki so ji bili krivično dodeljeni po prvi svetovni vojni. Bartol je bil simpatizer tega narodnoosvobodilnega gibanja». 11 Cfr. Michael Biggins, Against Ideologies: Vladimir Bartol and Alamut, in Vladimir Bartol, Alamut, Seattle, Scala House Press, p. 387. 12 Vladimir Bartol, Zbrano delo, I, Ljubljana, Založba ZRC‒ZRC SAZU, 2012 («Zbrana dela slovenskih pesnikov in pisateljev», 252), p. 728. Nell’originale: «Tudi zate, Zorko, pride maščevanje in za vse tvoje prijatelje in naše rojake tam doli». 13 Miran Hladnik, Alamut in slovenski nacionalni interes, Ljubljana, 2002, , (consultato il 25.1.2019). Nell’originale: «Bartola si že zato, ker je doma iz Trsta, z (ogroženega) nacionalnega roba, ni mogoče zamišljati zunaj tiste osmislitve, ki jo literaturi podeljujeta slovenski nacionalni angažma in želja po nacionalni emancipaciji».

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difendesse gli interessi nazionali sloveni, e la considerazione dei restanti lavori autoriali che offrono la chiave per la descritta interpretazione del romanzo.14

Benché la narrazione di Alamut offra poi in verità pochi appigli concreti a questa lettura metaforica, l’interpretazione del «Genieakkord» bartoliano in chiave nazionale e resistenziale non è legittimata soltanto dall’enciclopedica plurisemia del romanzo ma anche dalle esplicite asserzioni autoriali sulla sua dimensione mitica, metaforica, echianamente aperta e universale, che suonano come una nuova, stavolta diretta conferma della triestinità letteraria di Bartol. Qualche suo rivolo è confluito nel 1939 anche nel successivo, inedito romanzo Čudež na vasi (‘Miracolo al villaggio’) che ha sì per proprio poligono ambientativo la tipica periferia slovena di Blatni vrh, ma per miccia concettuale quella stessa psicoanalisi freudiana già assorbita anche dal milieu culturale triestino, dove destava ormai da qualche decennio le attenzioni scientifiche di medici quali Edoardo Weiss e Vittorio Benussi, quelle artistiche di pennelli quali Arturo Nathan e Vito Timmel, o quelle letterarie di penne (ben note anche a Bartol) quali Italo Svevo, Umberto Saba e Giorgio Voghera. Benché il primo approccio dell’autore alla psicoanalisi sia documentato già nel suo periodo universitario lubianese, il suo mentore filosofico Klement Jug certo non gli negò informazioni sugli studi di psicologia sperimentale compiuti a Padova con il triestino Vittorio Benussi (1878-1927), che divenne così, con ogni probabilità, il trait d’union bartoliano con gli ambienti psicoanalitici triestini e, secondo la suggestiva ipotesi prospettata dalla psicoanalista Vlasta Polojaz nel saggio Vladimir Bartol. Un fantasma di Trieste, il perno intellettuale «nella rete di contatti che attraverso Graz» univa «Ljubljana a Padova e che indirettamente collega i due triestini»:

Bartol scopre infatti la psicoanalisi non attraverso Trieste, dove nel contempo sta suscitando tra gli intellettuali un grande fermento […], ma leggendo Freud a Ljubljana, dove è stato costretto ad andarsene a sedici anni per l’esplodere di un conflitto, che comunque preesisteva alla grande guerra. Infatti, il muro di pregiudizi che divideva nettamente le due etnie, quella italiana e quella slovena, causando una totale e reciproca chiusura culturale […], si è esacerbato dopo la prima guerra con l’avvento del fascismo, provocando nel

|| 14 Ibid. Nell’originale: «Nagovarjam k metaforičnemu branju navzven svetovljanskega romana Alamut, k takemu branju, ki zna v eksotičnem dogajanju zagledati slovensko zgodbo. K takemu branju usmerjajo avtorjevo primorsko poreklo, ki je v času med prvo in drugo svetovno vojno tako rekoč zahtevalo slovensko nacionalno angažirano besedilo, razločna pripadnost žanru zgodovinskega romana, kar je skorajda brez izjeme pri bralcih vzbujalo pričakovanje, da se bo roman zavzel za slovenske nacionalne interese, in upoštevanje drugih avtorjevih del, v katerih se ponuja ključ za opisano interpretacijo romana».

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contempo delle pesanti eredità sia per quanto riguarda i conflitti intrapsichici che interpsichici.15

Tuttavia, molto più che dal romanzo Il miracolo al villaggio o dai lavori fin qui citati, la triestinità letteraria di Bartol risulta sgorgare limpida da due opere scritte per così dire in situ durante la decennale permanenza dell’autore a Trieste tra il 1946 e il 1956, opere che proclamano con orgoglio sin dal titolo la propria appartenenza geoletteraria: la silloge novellistica Tržaške humoreske (‘Umoresche triestine’) e le memorie Mladost pri Svetem Ivanu (‘Giovinezza a San Giovanni’). Nonostante siano state soppesate sulla talvolta ingiusta bilancia assiologica della storiografia letteraria quali opere minori, esse possono essere invece ritenute centrali e dirimenti sotto lo specifico aspetto della triestinità letteraria di Bartol.

4 Le Umoresche triestine

Concepite tra l’ottobre 1948 e il gennaio 1949, pubblicate dapprima singolarmente nella rivista triestina «Razgledi» e raccolte poi in volume nel 1957 a Lubiana dalla casa editrice Cankarjeva založba, le Umoresche triestine sostanziano una cronaca satirica sui generis dell’occupazione angloamericana di Trieste e delle traversie ideologiche, politiche, sociali, nazionali e culturali vissute dalla città dopo il ritiro del IX Korpus partigiano nel giugno 1945 e l’istituzione del Territorio libero di Trieste. Sotto il profilo formale, stilistico e di genere, Bartol trasse ispirazione per la loro stesura dal diario personale tenuto ai tempi dell’occupazione napoleonica delle Province illiriche dal suo illustre conterraneo triestino, l’illuminato mecenate e barone Žiga Zois. Secondo il progetto iniziale la raccolta avrebbe dovuto comprendere dieci novelle ma le forti critiche suscitate dalle singole pubblicazioni in rivista e la conseguente attenuazione dell’impeto creativo indussero l’autore a interromperne la scrittura al quarto episodio. La raccolta Umoresche triestine è oggi così composta dai testi Tržaška novela 1948 (‘Novella triestina 1948’), Zgodba o gentlemanu, ki je iskal začudenje (‘Storia di un gentleman alla ricerca dello stupore’), Mangialupi in umetniki (‘Mangialupi e gli artisti’) e Mangialupi in ženske (‘Mangialupi e le donne’).

|| 15 Vlasta Polojaz, Vladimir Bartol– Un fantasma di Trieste, in Rita Corsa, Edoardo Weiss a Trieste con Freud. Alle origini della psicoanalisi italiana. Le vicende di Nathan, Bartol e Veneziani, Roma, Alpes, 2013 («I territori della psiche»), p. 177.

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Il primo pamphlet pone al centro del suo acre mirino satirico il poeta, narratore e drammaturgo stiriano Anton Novačan, viscerale anticomunista e diplomatico della monarchia jugoslava riparato dopo la liberazione a Trieste per sfuggire al potere ‘rosso’ del maresciallo Tito. Nella finzione novellistica, Novačan è impersonato dal dottor Julius Grad, un tronfio ed egotico retore che entra in contatto a Trieste con il giornalista Jakomin Pertot – lapalissiano alter ego autoriale anche nelle successive prose della silloge – per poter raggiungere, grazie alla mediazione di quest’ultimo, un accordo politico con le nuove autorità e garantirsi così salva la vita nel caso di un’eventuale ritorno in Slovenia. Ma la risposta di Pertot è perentoria:

Il vecchio idillio liberal-clericale è finito. Tu hai dormito per l’intera lotta di liberazione. Tra noi e loro si stende oggi un mare di sangue. Solo in patria puoi lavare le tue colpe. Torna lì e compirai il tuo dovere.16

Ovviamente, né il letterario dottor Grad né il vero Novačan seguirono tale consiglio: l’epilogo della novella vede infatti il primo rincasare semplicemente nella sua abitazione triestina per «immergersi in un sonno alquanto agitato»,17 mentre il secondo seguì la rotta di molti collaborazionisti sloveni emigrando nel 1949 in Argentina e risiedendo poi a Posadas fino alla morte nel 1951. Un anticomunista non meno acerrimo è ritratto anche nella successiva novella Storia di un gentleman alla ricerca dello stupore, che mette però in berlina un aristocratico lord e uomo d’affari inglese, tale sir Oliver Burke, sodale dell’amministrazione alleata triestina, che impietrisce di stupore per la prima volta nella sua agiata vita borghese vedendo alcuni volontari comunisti armati di pala e piccone riedificare gratuitamente (e perciò con sovversiva minaccia per il sistema capitalista...) i paesi del Carso triestino incendiati e distrutti dai nazifascisti durante la guerra. Comune protagonista degli ultimi due racconti che compongono la silloge è invece l’italiano Ettore Mangialupi, prototipo letterario di un simpatico, spiritoso e mafioso faccendiere meridionale approdato a Trieste e qui dedito in primo luogo alla borsa nera e alla conquista di cuori femminili. La prosa Mangialupi e gli artisti, intenzionalmente strutturata in forma perlopiù dialogica, contrappone questo antieroe italiano al citato giornalista e amico sloveno Jakomin Pertot,

|| 16 V. Bartol, Tržaške humoreske, cit., p. 41. Nell’originale: «Stare liberalno-klerikalne idile je konec. Ti si narodnoosvobodilno borbo prespal. Med nami in onimi leži danes morje krvi. Če sodeluješ tam, ne moreš pri nas. Opereš se lahko samo v domovini. Vrni se tja in s tem boš storil svojo dolžnost». 17 Ivi, p. 42. Nell’originale: «In slavni mož se je potopil v malce nemirno spanje».

Tra Ponente e Levante | 33 dipingendo non solo una caterva di differenze caratteriali e concettuali tra i due, ma anche una miriade di più generali antinomie estetiche e filosofiche tra, ad esempio, arte intellettuale e arte emozionale, astrattisti e realisti, concettualisti e sentimentalisti. In Mangialupi e le donne, invece, indagando con divertita ironia il legame del protagonista con la bellissima modella Amoretta Sempreverde, l’autore scandaglia fino agli intimi recessi psicologici il rapporto tra uomo e donna, razionalità ed emozionalità, cervello e cuore, ponendo su un piatto della bilancia etica il vacuo dongiovannismo erotico di Mangialupi e sull’altro il profondo, sincero, fedele ma al tempo stesso anche sofferente e sacrificale sentimento amoroso del proprio raisonneur Pertot. Il poker novellistico mostra notevoli assonanze con i precedenti racconti bartoliani, in particolare con i componimenti di Al Araf: anche queste prose sono infatti concepite come exempla, testi parenetici tesi a veicolare un messaggio morale o filosofico; anch’esse sono strutturate perlopiù in forma di dialogo tra un protagonista (Mangialupi, Grad) e un antagonista (Pertot); anch’esse danno infine voce alla cosiddetta «tipična bartolovščina»,18 l’ampio ventaglio di caratteristici temi bartoliani, quali l’amore, la donna, il potere, la psicologia di personaggi eccentrici e dominanti, il dilemma tra apparenza e realtà, ragione e sentimento, fedeltà e tradimento. Nuove appaiono però le problematiche etniche e politico-ideologiche filigranate nella raccolta, soprattutto il lombrosiano confronto nazionale tra sloveni e italiani o la cankariana antitesi di socialismo e capitalismo, solidarietà e sfruttamento, così come inedita risulta l’intonazione ironica, satirica, a volte persino sarcastica del volume, che non attinge né all’immediato, pantagruelico umorismo alla Rabelais né all’intellettualistica comicità alla Pirandello, ma scaturisce invece tutta dal cortocircuito tra due mondi, tipi, caratteri o idiomi diametralmente opposti: il latino e lo slavo, l’italiano e lo sloveno, il meridionale e il settentrionale, l’estroverso e l’introverso. Nel contrapporre entrambi i poli con ossimorico parossismo l’autore sfoggia anche un’invidiabile padronanza del genere comico adoperando pressoché ogni suo strumento stilistico, formale o strutturale: dalla semplice ironia linguistica (l’insegna Al cieco denomina ad esempio una galleria d’arte; a critici o artisti l’autore affibbia cognomi allusivi quali Furbarelli, Truffaldini ecc.) alla più complessa iperbole o all’impegnativa comicità situazionale della gag e dello sketch. A livello linguistico, inoltre, il confronto tra due mondi, realtà, culture e mentalità diverse è sottolineato anche dall’interpolazione di numerosi dialoghi, frasi o espressioni italiane nell’originale sloveno, le quali, se da un lato evidenziano la lacunosa conoscenza

|| 18 Cfr. Vladimir Bartol, Mladost pri Svetem Ivanu, III, Ljubljana, Sanje, 2006, p. 248.

34 | Miran Košuta autoriale della lingua di Dante a vantaggio del locale vernacolo triestino, dall’altro confermano la ricercata coloritura municipale e litoranea del narrato anche nel registro linguistico. Nonostante tale sua originalità tematica, strutturale e stilistica la critica non ha accolto l’opera con soverchio entusiasmo. A Bartol ha rinfacciato soprattutto di aver sfruttato la letteratura per polemici fini personali e politici, imputandogli in qualche caso anche punte di vacua trivialità. La raccolta rimane comunque un’interessante testimonianza tanto della poliedricità creativa dello scrittore quanto dei burrascosi anni in cui Trieste si è ritrovata al centro della drammatica contesa ideologica che ha diviso a lungo con un’impenetrabile cortina di ferro l’Europa e il mondo. Sub specie tergestinitatis le Umoresche potrebbero così considerarsi uno tra i libri più paradigmatici della cosiddetta ‘letteratura di frontiera’.

5 Giovinezza a San Giovanni

Esaurito l’afflato umoristico, Bartol diede poi stura alla sua ritrovata vena creativa attendendo nel 1954–55 a un’opera nuova e più marcatamente autobiografica: le memorie di Giovinezza a San Giovanni. Dopo aver stigmatizzato in forma satirica le ingiustizie del mondo, della società, del tempo, dopo aver affrontato a viso aperto i propri antagonisti ideologici, politici, letterari o etnici, all’autore non rimaneva infatti che sperimentare anche la più difficile e complessa delle esperienze: narrare in prima persona di sé stesso e della propria interiorità, calarsi nell’intimo della propria anima, affrontare il proprio passato ‘sommerso’ e soppesare senza sconti o indulgenze la propria vita. Il compito gli apparve da subito improbo, insostenibile tanto che i primi tempi dopo il ritorno a Trieste scansò di proposito il natio rione di San Giovanni per non rinfocolare in sé vecchi ricordi, ferite, nostalgie:

Confesso apertamente: ho tergiversato perché avevo paura di incontrare faccia a faccia la mia gioventù sommersa. Avevo paura di imbattermi faccia a faccia in luoghi e persone che pensavo e speravo sarebbero rimasti sepolti per sempre nei cassetti più nascosti, nei recessi più reconditi della mia interiorità.19

|| 19 V. Bartol, Mladost pri Svetem Ivanu, Trst, Založništvo tržaškega tiska, 2001, p. 7. Nell’originale: «Odkrito povem: okleval sem, ker me je bilo strah, srečati se iz obraza v obraz z lastno potopljeno mladostjo. Strah me je bilo, srečati se iz obraza v obraz s kraji in z ljudmi, o

Tra Ponente e Levante | 35

Ma il desiderio di rivivere, riscoprire e raccontare le proprie radici triestine fu più forte della paura. Così, sin dal maggio 1946, Bartol iniziò ad annotare nei propri notes e diari impressioni, ricordi, narrazioni, episodi e aneddoti riguardanti la sua piccola Heimat sangiovannina distillando gli sconvolgimenti e le emozioni allora provate in una plastica e calzante metafora musicale:

Lampi di ricordi e sogni inseguono l’un l’altro con rapidità vertiginosa, come se una mano fuggente scivolasse lungo la tastiera del pianoforte. I suoni si susseguono con tale velocità che non possono più scalzarsi a vicenda dimodoché tutti riecheggiano infine allo stesso tempo in un unico, maestoso corale.20

Il rimpatrio mnemonico nel passato ha dato dunque voce al maestoso corale di Giovinezza a San Giovanni, che risuona al contempo come una testimonianza biografica sull’origine, l’infanzia, la giovinezza, l’istruzione e la crescita dell’autore a Trieste fino al trasferimento familiare a Lubiana nel 1919, ma anche come una preziosa confessione riguardo alle croci e delizie della creazione letteraria, soprattutto sulla stesura del romanzo Alamut, cui è dedicato l’intero capitolo conclusivo dell’autobiografia. Sollecitata dal coevo direttore del «Primorski dnevnik» (‘Quotidiano del Litorale’) Stanislav Renko, Giovinezza a San Giovanni fu pubblicata a puntate sul locale quotidiano sloveno dal 12 gennaio al 17 ottobre 1955 e dal 12 febbraio al 22 giugno 1956. Benché concepite come un resoconto estremamente ampio e minuzioso della sua vita e della sua opera, le oltre mille pagine di queste memorie furono ritenute da Bartol l’impegno narrativo più lieto e soddisfacente che mai avesse assunto. Dopo gli iniziali tentennamenti emotivi la penna prese a vergare da sé la carta, dando fluido conto in tre libri – intitolati rispettivamente Svet pravljic in čarovnije (‘Il mondo delle fiabe e della magia’), Težka je pot do učenosti (‘Irta è la via al sapere’) e Romantika in platonika sredi vojne (‘Romanticismo e platonismo durante la guerra’) ‒ della parabola biografica di Bartol, dalla nascita nel 1903 a San Giovanni fino all’esilio familiare oltreconfine e alla successiva genesi del romanzo Alamut. Sabato 11 febbraio 1956 il «Primorski dnevnik» preannunciò ai suoi lettori un ulteriore quarto libro di memorie che avrebbe narrato «il crollo della monarchia austro-ungarica, gli echi della rivoluzione

|| katerih sem mislil in upal, da bodo ostali za vedno pokopani v zadnjih predalih in najbolj skritih prekatih moje notranjosti». 20 Ivi, p. 12. Nell’originale: «Prebliski spominov in sanj se z blazno naglico podijo drug za drugim, kot da bi begotna roka drsela preko tipk klavirja. S tako naglico se vrstijo zvoki, da ne morejo več drug drugega izbrisati in donijo na koncu vsi hkrati kakor mogočen koral».

36 | Miran Košuta d’ottobre, la dichiarazione di maggio, l’occupazione di Trieste e del Litorale nonché l’emigrazione dell’autore»,21 ma il volume non fu mai scritto. Così ai lettori e ai posteri non rimase che la comunque ampia trilogia bartoliana a perpetuare l’autoctona tradizione memorialistica slovena, inaugurata già nell’Ottocento da Josip Godina Verdelski con l’omonima autobiografia Živenje Josipa Godine Verdeljskega (‘Vita di Josip Godina Verdeljski’, 1879) e implementata nel Novecento soprattutto dalle memorie Iz mojega življenja (‘Dalla mia vita’) che la madre di Bartol, Marica Nadlišek, stilò dal 1927 al 1938 e la rivista triestina «Razgledi» pubblicò poi postume a un decennio di distanza. A differenza di entrambi gli antesignani, Bartol non concepì la propria opera come un mero resoconto autobiografico o artistico, bensì come un più ampio specchio narrativo in cui riflettere anche l’epoca, i personaggi, la vita sociale, culturale, economica, politica, gli usi e i costumi della comunità slovena triestina al tramonto del XIX e agli albori del XX secolo. Anche per questo fu solito attribuire alla sua Giovinezza a San Giovanni un alto valore letterario reputandola tra le sue opere più valide e importanti. Le opinioni della critica e dei lettori furono invece di tutt’altro tono. Il locale foglio cattolico sloveno «Katoliški glas» (‘La voce cattolica’) ebbe a sindacare ad esempio su «una scrittura estremamente prolissa di cui nessuno intravede la fine. Non si tratta in definitiva né di letteratura né di memorialistica storica; fantasia e realtà si confondono e non sai se Bartol pensi davvero tutto ciò o se è invece soltanto frutto della sua immaginazione».22 Nonostante tali riserve, non si possono però sottacere alcune innegabili qualità dell’opera: essa è infatti prima di tutto un eccezionale documento etnografico e storico sul rione di San Giovanni e su Trieste in generale; testimonia poi, con dovizia di particolari, la vita culturale, economica e politica della città e degli sloveni triestini dall’inizio del XX secolo al termine della prima guerra mondiale; ed è, non ultimo, una preziosa fonte d’informazioni sulla letteratura, la poetica, la mentalità e il pensiero di Vladimir Bartol stesso, soprattutto laddove egli sviscera i motivi profondi della sua arte e i segreti della propria scrittura. Per questo, più che autobiografia, Mladost pri Svetem Ivanu appare un intenso,

|| 21 Autore anonimo, Jutri nadaljevanje spominov »Mladost pri Svetem Ivanu«, «Primorski dnevnik», XII, 11.2.1956, n. 36 (3274), p. 4. Nell’originale: «zlom avstro-ogrske monarhije, odjek oktobrske revolucije, majniško deklaracijo, okupacijo Trsta in Primorske in avtorjevo pot v izgnanstvo». 22 Autore anonimo, Beseda o literaturi pisatelja Vladimira Bartola, «Katoliški glas», VII, 1.9.1955, n. 35, p. 3. Nell’originale: «je to pisanje neskončno razvlečeno in mu nihče ne vidi konca. To končno ni niti literatura niti niso zgodovinski spomini, fantazija in realnost se mešata in ne veš, ali misli Bartol zares, ali se mu le dozdeva».

Tra Ponente e Levante | 37 imprevedibile romanzo su Bartol, sulla sua narrativa e su Trieste, la prova principe della triestinità letteraria dell’autore ma anche un nodale capitolo della locale storia politica, culturale e artistica.

6 Per concludere...

Che l’empatia biografico-letteraria di Bartol con la città natale abbia profondamente segnato la sua arte, ispirandogli con le memorie Giovinezza a San Giovanni e la silloge Umoresche triestine due opere ritenute ormai capisaldi canonici della letteratura slovena triestina, non è soltanto un’ipotesi critica più o meno plausibile e documentata ma innanzitutto un’intima convinzione personale di Bartol stesso. Più volte nei suoi diari l’autore ha lamentato infatti di sentirsi – al pari del suo concittadino Umberto Saba tra i ‘vociani’ a Firenze – un pesce letterario fuor d’acqua in mezzo all’imperante realismo sociale della Slovenia centrale, un uomo di mare tra i continentali, uno straniero fatto d’altra pasta e altro spirito. Illuminante in proposito questo passo delle sue memorie:

A Lubiana, piú di qualche contemporaneo mi rinfacciò il fatto di non attenermi con gli altri miei colleghi di penna a una comune corrente, la quale consisterebbe nel descrivere soprattutto personaggi contadini e i loro problemi, le loro tribolazioni. Alcuni giudici inclementi mi hanno attribuito persino una sorta di meschina inclinazione per tematiche ‘esotiche’, con le quali avrei inteso inquinare il pio e umile lettore sloveno, ghiotto soprattutto di pane d’avena e di crauti, peraltro alquanto salutari. Questa persecuzione fu abbastanza ampia e duratura, ma nessuno si chiese se l’autore di simili tematiche avesse qualche giustificazione per esse e forse persino il dovere, da autore sincero, di scrivere così e non altrimenti, essendo nato e cresciuto, a differenza di gran parte dei suoi illustri colleghi e compagni di sventura letteraria, in un altro ambiente, radicalmente diverso. [...] Chi da bambino guardava ogni giorno le navi provenienti da tutti i continenti del mondo e vedeva quotidianamente nella sua città natale i rappresentanti delle piú disparate nazioni, popoli e razze passeggiare per le vie, chi ha ascoltato linguaggi e melodie ignote, ha immagazzinato nella sua memoria altre impressioni, si è abbandonato nell’infanzia ad altri desideri e fantasie rispetto a chi è nato e cresciuto in mezzo alla quiete patriarcale [...] di qualche villaggio sloveno isolato dal mondo e dal suo più o meno poetico idillio.23

|| 23 Vladimir Bartol, Pot do učenosti. Mladost pri Svetem Ivanu, II, Ljubljana, Sanje, 2006, pp. 293–294. Nell’originale: «Marsikateri moji sorodniki [sic! Recte: sodobniki, ndt.] so mi v Ljubljani očitali, češ, zakaj se ne držim z ostalimi svojimi pisateljskimi tovariši nekake skupne smeri, ki naj bi bila predvsem v popisovanju kmečkega človeka in njegovih nadlog in težav. Nekateri nedobrohotni sodniki so mi podtikali celo nekakšno podlo veselje do »eksotičnih« snovi, s katerimi da nameravam okužiti skromnega in ponižnega slovenskega bralca, ki naj bi mu teknila

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Bartol, che vedeva attraccare giorno per giorno da bambino le navi provenienti da ogni continente, che incontrava per le vie della sua città gente di ogni etnia, nazione, razza, religione, che prestava continuo ascolto a lingue e melodie ignote e che ha intriso di conseguenza la sua parola d’arte di triestina multiculturalità, cosmopolitismo e ‘frontieritudine’, può essere ritenuto dunque a ragione autore tanto universale quanto locale, sloveno, cittadino, voce del mondo e della propria casa, scrittore insomma ‘glocale’. Per questo, quando un giorno di luglio del 1956, sottostando con la morte nel cuore all’ennesimo esilio in Jugoslavia impostogli dalle autorità italiane, tornava dopo dieci anni di proficua permanenza litoranea dalla famiglia a Lubiana portando con sé soltanto – come dichiarò al confine ‒ «le valigie verde, piccola, grigia e marrone» traboccanti di effetti personali, «uno zaino» di biancheria intima, «una scatola» con vasetti colmi di bruchi, «un rotolo di coperte lise, due cappotti usati e una vecchia macchina da scrivere»,24 lasciava in realtà Trieste, i suoi confini, conflitti e contatti tra Ponente e Levante, un profugo sbagliato, uno straniero in patria e, al contempo, una delle voci più indigene e universali dell’autoctona letteratura slovena.

|| predvsem ovsen kruh in sicer kaj zdravo kislo zelje. Ta gonja je šla še kar precej daleč in na široko, nihče pa se ni pri tem vprašal, če morda nima avtor takih in takih snovi vendarle nekje opravičila zanje in morda celo dolžnosti, da piše kot iskreno izpovedujoč se pisatelj tako in ne drugače, ker se je pač rodil in ker je vzrastel v nekem drugačnem in bistveno različnem okolišu, kakor večina njegovih vrlih kolegov in pisateljskih sotrpinov. [...] Človek, ki je kot otrok sleherni dan lahko gledal ladje, ki so prihajale z vseh kontinentov sveta, in ki je videl v svojem rojstnem mestu dan za dnem zastopnike najrazličnejših narodov, ljudstev in ras, ki so se sprehajali po njegovih ulicah, poslušal neznane govorice in neznane melodije, je pač nujno nakopičil v svojem spominu drugačne vtise, se je kot otrok nujno predajal drugačnim željam in fantazijam kot nekdo, ki se je rodil in ki je vzrastel sredi patriarhalnega miru […] od sveta odrezane slovenske vasi in njene bolj ali manj poetične idilike». 24 Vladimir Bartol, Izjava. Documento inedito reperibile nel fondo Bartol presso la Narodna in univerzitetna knjižnica di Lubiana, Ms 2005. Nell’originale: «Izjava. Podpisani Bartol dr. Vladimir se vrača po desetletnem bivanju v Trstu nazaj v FLRJ k svoji družini, ki biva v Ljubljani, Miklošičeva 17. S seboj imam sledeče predmete: 1. Zeleni kovčeg: rokopisi, revije, osebna korespondenca itd. 2. Mali kovčeg: posteljno in osebno perilo, rabljeno 3. Sivi kovčeg: odrezek blaga za letno obleko za ženo, nekaj ženskega perila, toaletne in kuhinjske potrebščine in druge drobnarije, nekaj osebnega rabljenega perila, ena slika, dve osebni rabljeni obleki, nekaj rabljenih kravat in nekaj rabljenega posodja. 4. Rujavi kovčeg (usnjeni): časopisni odrezki, knjige, rokopisi, podloga za plašč, nekaj osebnega rabljenega perila, otroška odeja. 5. Nahrbtnik: osebno rabljeno perilo, copate in razne drobnarije. 6. Škatla: kozarci z gosenicami in nekaj drobnarij. 7. Zavoj: z rabljenimi odejami in tri odrezke blaga za plašče zase in za oba sina. 8. Dva osebna plašča (rabljena) in 9. Rabljen pisalni stroj. Trst, 3.7.1956 (Bartol dr. Vladimir)»

Roberto Norbedo, Lorenzo Tommasini Scipio Slataper tra sloveni e croati

Riassunto: Il contributo passa in rassegna vari aspetti del rapporto di Scipio Sla- taper col mondo slavo. Sono esaminate le testimonianze dei suoi soggiorni nel Carso sloveno (nell’adolescenza e a Ocisla nel 1911) e i riflessi nel Mio Carso, nei cui abbozzi si rintracciano segni di empatia per i contadini carsolini. Le relazioni si costruiscono anche attorno a due scritti inediti di Stjepko Ilijć, trovati nell’Ar- chivio di Stato di Trieste: riguardanti i nessi tra la letteratura croata e quella ita- liana, sono stati inviati a Slataper dal croato, di cui si pubblica l’inedita lettera di accompagnamento. Infine, si stringe l’obiettivo su Srečanje s Pennadorom (‘In- contro con Pennadoro’) di Alojz Rebula (1949): lo scrittore sloveno triestino nel suo abbozzo di romanzo si ispirò al Mio Carso e al personaggio di Pennadoro, alter ego di Slataper, mostrando, anche in seguito, di aver ben meditato la figura e l’opera del concittadino italiano.

Scipio Slataper between and Croats

Abstract: This essay discusses various aspects of Scipio Slataper’s relationship with the Slavic world. It sheds light on his visits to Carso near Trieste (in his youth, as well as his stay in Ocisla in 1911), reflected in his masterpiece Il mio Carso, whose draft versions reveal his empathy with the farmers of Carso. More- over, two unpublished articles by Stjepko Ilijć are examined: dealing with the re- lationship between Croatian and , they were sent to Slataper by Ilijć (whose accompanying letter is published in the Appendix). Finally we focus our attention on the 1949 Srečanje s Pennadorom by the Slovenian-Triestine writer Alojz Rebula, who, in draft versions of his novel, clearly drew his inspira- tion from Il mio Carso and the character of Pennadoro, Slataper’s alter ego.

Open Access. © 2020 Roberto Norbedo, Lorenzo Tommasini, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-004

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Si è molto discusso, anche in tempi recenti, sul rapporto tra Scipio Slataper e il mondo slavo.1 C’è chi ha rilevato una sostanziale apertura e vicinanza, e chi in- vece, pur riconoscendo un interesse in questo senso in gioventù, ha poi inteso leggere l’intera parabola esistenziale slataperiana alla luce degli ultimi esiti poli- tici e del suo impegno interventista, in genere descritti come improntati ad un sostanziale anti-slavismo e ad un ripiegamento su posizioni nazionaliste.2 Si deve riconoscere, in effetti, che le circostanze belliche e il precipitare degli eventi nel biennio 1914–1915 orientarono la pubblicistica e la produzione saggistica del trie- stino in una prospettiva conflittuale, a difesa degli interessi nazionali italiani.3

|| * Il contributo, fatta salva la responsabilità condivisa da entrambi gli autori, è a due mani: le pp. 40–47 e 53 sono di Lorenzo Tommasini; le pp. 47–52 si devono a Roberto Norbedo. 1 Qui e in tutto l’intervento si conserva l’uso slataperiano di indicare con il termine ‘slavo’ ciò che riguarda genericamente e indistintamente gli slavi del sud, in particolare gli sloveni e – in subordine – i croati, popolazioni che con i cittadini italiani di Trieste erano più a contatto. Le citazioni dal Mio Carso sono tratte dall'edizione della Libreria della «Voce» del 1912, nella riproduzione fotomeccanica a cura del Comitato per le celebrazioni del centenario della nascita di Scipio Slataper, Trieste, 1989. 2 Per limitarsi solo ad alcuni esempi di interventi recenti che hanno affrontato da diverse ango- lature l’argomento si ricordano: Fabio Todero, La guerra di Scipio, in Scipio Slataper, il suo tempo, la sua città, a cura di Fulvio Senardi, Trieste-Gorizia, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Docu- mentazione, 2013, pp. 159–180; Roberto Norbedo, Per l’edizione critica, il commento e l’interpret- azione del Mio Carso, e Pericle Camuffo, Gino Brazzoduro: Il mio Carso riletto, entrambi in Per Il mio Carso di Scipio Slataper, a cura di Ilvano Caliaro e Roberto Norbedo, , ETS, 2013, pp. 79– 97 e 99–109; Lorenzo Tommasini, Scipio Slataper alla guerra. Dall’irredentismo culturale all’in- terventismo militante, in La via della guerra. Il mondo adriatico-danubiano alla vigilia della Grande Guerra, a cura di Gizella Nemeth e Adriano Papo, San Dorligo della Valle (Trieste), Luglio, 2013, pp. 219–242; , Slovenci ob Mojem Krasu-Gli sloveni di fronte al Mio Carso, in Scipio Slataper, Moj Kras-Il mio Carso, Trieste, Beit, 2015, pp. 226–243; Luca G. Manenti, Fenomenologia dell’irredentismo. Scipio Slataper pensatore politico e Fulvio Senardi, Slataper, dall’irredentismo culturale all’imperialismo adriatico, entrambi in Voglio morire alla sommità della mia vita. Cento anni dalla morte di Scipio Slataper, a cura di Lorenzo Tommasini e Luca Zorzenon, Trieste, Centro Studi Scipio Slataper, 2016, pp. 62–82 e 97–112; Neva Zaghet, Il rap- porto col mondo slavo in alcuni testi inediti del Fondo Slataper, in Scrittori italiani e cultura slovena, a cura di Elvio Guagnini e Fabio Venturin, Trieste, Lint, 2018, pp. 35–44. 3 Cfr. Scipio Slataper, Scritti politici, 1914–1915, a cura di Giorgio Baroni, con un saggio intro- duttivo di Roberto Damiani, Trieste, Italo Svevo, 1977; Id., Confini orientali, prefazione di Elvio Guagnini, Trieste, Dedolibri, 1986.

Scipio Slataper tra sloveni e croati | 41

Per provare a porre dei punti fermi a cui ancorare in maniera più sicura il discorso è bene concentrarsi sui momenti in cui Slataper fu effettivamente e in- tensamente a contatto con gli ‘slavi’, che sono in particolare due. Il primo in gio- ventù, quando la famiglia per farlo guarire da una ‘anemia cerebrale’ lo mandò per un anno in Carso. Questa esperienza fu fondamentale per le successive rifles- sioni condotte dal nostro autore sugli sloveni e per la rappresentazione letteraria che ci lascerà di questa zona geografica nel Mio Carso. Il secondo nell’estate del 1911, quando Scipio si ritirò a Ocisla per completare la stesura dell’opera mag- giore. Tale episodio traspare meno negli scritti letterari, ma è abbastanza atte- stato nell’epistolario ed è lecito immaginare che non fu ininfluente nella compo- sizione del capolavoro e nella successiva evoluzione del pensiero politico slataperiano. La posizione di Scipio nei confronti dei ‘gruppi nazionali’ slavi im- mediatamente vicini a Trieste presenta infatti dei tratti di originalità rispetto agli altri intellettuali giuliani coevi proprio perché egli cerca di avere dei rapporti di- retti con essi, dimostrando un acceso interesse e un sincero tentativo di compren- sione. Come si ricava da un diario in cui racconta delle difficoltà che ha trovato per convincere i sospettosi abitanti del paese ad affittargli una camera,4 il soggiorno ad Ocisla comincia l’11 agosto 1911 e, stando ad alcuni riferimenti epistolari, dura un mese, fino all’11 settembre.5 Il diario appena citato è molto interessante perché propone alcune considerazioni sugli abitanti del luogo e sul loro rapporto con il nostro autore. Vi si parla della curiosità suscitata in paese dal nuovo arrivato, ma anche dell’iniziale soggezione ad accostarlo, vi si descrivono i costumi e le abitu- dini locali, la vita quotidiana – dal lavoro nei campi al ritrovo serale in osteria – e ci si sofferma su alcune figure particolari, come il capo-villaggio o la serva che un giorno sì e uno no a mezzanotte parte a piedi per portare il latte a vendere fin quasi alle porte di Trieste. Si trovano diverse notazioni sul carattere degli autoc- toni e sulle sensazioni slataperiane che con ogni evidenza poi troveranno un cor- rispettivo nelle descrizioni epistolari alle amiche e, dopo un processo di rielabo- razione, anche nel Mio Carso.6 Gli abitanti del luogo vengono descritti come i

|| 4 I diari, solo parzialmente pubblicati a cura di Giani Stuparich in Scipio Slataper, Appunti e note di diario, Milano, Mondadori, 1953 (il passo a cui ci si riferisce si trova alle pp. 153–154) all’interno delle sezioni Trieste, il Carso (estate 1911) e Carso (agosto 1911), sono conservati presso il Fondo Slataper dell’Archivio di Stato di Trieste, busta 8, cartella 19. Tutte le citazioni dai diari sono state controllate sugli autografi. 5 Scipio Slataper, Alle tre amiche. Lettere, a cura di Giani Stuparich, Milano, Mondadori, 1958, p. 375. 6 Cfr. Ilvano Caliaro, Tra vita e scrittura. Capitoli slataperiani, Firenze, Olschki, 2011, pp. 141– 142.

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«coloni della terra che nessuno poteva abitare»,7 ma che senza una vera ambi- zione non si allontanano dalle loro necessarie fatiche quotidiane al punto da ri- sultare talvolta «pigri». Interessante risulta un appunto di diario estremamente sintetico che recita: «Senso imbarbarimento. Ritrovarsi. Dispiacere».8 Questa breve annotazione trova un maggiore e più significativo svolgimento in una lettera a Elody del 23 agosto: «Sento che se stessi qui un anno diventerei barbaro sul serio. Forse t’è strano: ma ogni giorno più mi ritrovo. E ho un senso di stupore, a volte di dispia- cere quasi».9 È importante rilevare qui l’ambivalenza e la complessità del senti- mento che complica, con un senso di «stupore» e «dispiacere» nato dalla rifles- sione, la vitalistica ed immediata adesione alla vita ‘barbara’. Sembra che Scipio si ritrovi nella vita dura e scandita dalla necessità degli abitanti di Ocisla, ma an- che che sorga una nota dissonante che gli ricorda che tra lui e gli sloveni del luogo si frappone sempre una distanza, che la sua identità è un’altra. Il loro è un modo di vivere che non potrà mai essere interamente il suo, in cui ci si potrà immergere solo fino ad un certo punto. Ecco che la vicinanza che Scipio cercava con le genti del Carso si rovescia in una lontananza incolmabile; come lontana gli appare la vita ‘italiana’ che egli aveva sperimentato a Firenze, in ragione delle proprie ori- gini, degli studi e delle esperienze di vita. Per reagire a tale situazione non resta che un ripiegamento sulla propria persona, come infatti, non a caso, avviene nei lavori di questo periodo.10 Quanto detto finora acquisisce maggior pregnanza se lo si rapporta con al- cuni passi del Mio Carso: in particolare l’inizio, dove troviamo una emblematica rappresentazione di questa dialettica tra appartenenza e inappartenenza, che se- condo Arduino Agnelli11 è una caratteristica peculiare dello scrittore di frontiera

|| 7 S. Slataper, Appunti, cit., p. 152. 8 Ivi, p. 164. 9 S. Slataper, Alle tre amiche, cit., p. 201. 10 R. Norbedo, Per l’edizione critica, il commento e l’interpretazione del Mio Carso, in Per Il mio Carso di Scipio Slataper, cit., pp. 82–86. 11 Cfr. Arduino Agnelli, «La Frontiera» di Franco Vegliani quale appartenenza-inappartenenza, in «Clio. Rivista trimestrale di studi storici», a. XLIV, n. 1, gennaio-marzo 2008, pp. 117–129. A proposito di Slataper si vedano in particolare le pp. 117–118. Cfr. anche Roberto Norbedo, «Sci- pio finisce dove comincia Fulvio». Intorno al concetto critico di ‘letteratura triestina’, in Vele d’au- tore nell’Adriatico orientale. La navigazione a vela fra Grado e Dulcigno nella letteratura italiana, a cura di Giorgio Baroni e Cristina Benussi, Pisa-Roma, Serra, 2018, pp. 111–117 (in particolare le pp. 115–116).

Scipio Slataper tra sloveni e croati | 43 e tende a risolversi in una più radicata «appartenenza specifica».12 Ma ovvia- mente non è possibile non pensare anche al famoso passo della Calata alla fine della prima parte, il più ideologicamente complesso e connotato, frutto di una lunga serie di ripensamenti e rielaborazioni.13 Non è un caso che tale brano si concluda con un superamento della barbaricità («Io sono più che Alboino»)14 e con l’affermazione della propria identità italiana e della propria missione ‘citta- dina’, ma è altrettanto notevole che per prenderne coscienza e per poterne porre le basi sia necessario un duro confronto con l’alterità che probabilmente ha più di qualche debito verso il soggiorno carsico di cui stiamo parlando. All’interno di questo quadro presentano un certo interesse anche due articoli inediti sul rapporto tra letteratura croata e letteratura italiana che sono conser- vati presso il Fondo Slataper dell’Archivio di Stato di Trieste15 indirizzati a Scipio da Stjepko Ilijić, un insegnante e scrittore nato a Cittavecchia/Stari Grad sull’isola di Lesina/Hvar nel 1864 e morto nel 1933,16 il quale durante la sua vita si prodigò per far conoscere la cultura italiana in Croazia e quella croata in Italia attraverso letture, traduzioni e articoli.17 Da altre lettere inedite conservate si capisce che Ilijić aveva in mente di pubblicare alcuni articoli di taglio divulgativo sulla «Voce» e per questo nell’estate del 1911 aveva scritto a Prezzolini. Nel citato Fondo Slataper è conservata una cartolina indirizzata al direttore della «Voce» e datata 29 luglio certamente interessante ai fini del nostro discorso:18

Egregio Signore, voglia farmi il favore di rispondermi, se accetterebbe pella «Voce» un mio articolo di indole politico letteraria: La letteratura serbo croata in nesso colla letteratura italiana. Il mio gio- vane amico sign. P. Mitrović, mi rese av[v]ertito che il suo giornale si occupa volentieri di

|| 12 A. Agnelli, «La Frontiera» di Franco Vegliani quale appartenenza-inappartenenza, cit., p. 126. 13 Si veda I. Caliaro, La Calata, in Id., Tra vita e scrittura, cit., pp. 125–151, e R. Norbedo, Per l’edizione critica, cit., pp. 92–96. 14 Scipio Slataper, Il mio Carso, Firenze, Libreria della Voce, 1912, p. 41. 15 Archivio di Stato di Trieste, Fondo Scipio Slataper, Busta 0. I passi che seguono sono tratti dagli autografi. Ci si è mantenuti fedeli all’originale limitandosi a modificare gli accenti secondo l’uso odierno, a sciogliere alcune abbreviazioni, a rendere in corsivo le parti sottolineate e a cor- reggere gli errori evidenti. 16 Österreichisches Biographisches Lexicon. 1815–1950, vol. 3, Österreichische Akademie der Wissenschaften, Vienna 1993, p. 28. 17 Umberto Urbani, La morte di un pioniere dei rapporti culturali italo-jugoslavi, «L’Europa ori- entale. Rivista storica e politica», a. XIII, 1933, pp. 185-186. 18 Trieste, Archivio di Stato, Fondo Slataper, Busta 10, cartella 21.

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cose nostre, avendo pubblicato anche un suo articolo. In altri tempi io fui il collaboratore della ex Nuova Rassegna di Firenze. […] Stefano Ilijić

Il riferimento è all’articolo Gli slavi meridionali d’oggi uscito sulla «Voce» del 13 aprile 1911 e firmato da Pietro Mitrovich. In tale scritto viene proposta un’analisi della situazione dell’epoca con la quale, nel ripercorrere la storia dell’assogget- tamento degli slavi del Sud all’Austria, si mette in evidenza il comune spirito mazziniano che aveva animato le più illuminate avanguardie italiane e sud-slave negli ultimi decenni e si sottolineano le vicinanze culturali tra i due popoli nel tentativo di proporre un fronte comune contro l’Austria e l’idea pangermanista. In quest’ottica viene sminuita l’importanza delle differenze – storiche, linguisti- che e religiose – esistenti tra i vari popoli slavi dei Balcani, considerate uno stru- mento promosso coscientemente dal governo di Vienna nell’ottica della politica del divide et impera. Tutto ciò può aiutarci ad interpretare quell’«indole politico letteraria» che Ili- jić attribuisce ai suoi scritti fin da questa lettera. Inoltre i riferimenti all’«amico» Mitrovich e al precedente coinvolgimento nella «Nuova Rassegna» ci permettono di intuire una rete di rapporti tra gli intellettuali croati dell’epoca e un aggancio con i più avanzati ambienti culturali italiani che fanno sembrare meno peregrina di quanto potrebbe apparire ad una prima considerazione la proposta di collabo- razione alla «Voce» avanzata da Stjepko. Da quanto è possibile ipotizzare sulla base delle carte rimasteci, Prezzolini – probabilmente preso dai molti impegni e all’inizio di una grave crisi che raggiun- gerà il culmine nell’autunno dello stesso anno – non risponde in prima persona e delega l’incombenza a Slataper, il quale scrive ad Ilijić invitandolo a spedire a lui gli articoli. Il 15 agosto 1911 Stjepko manda i due scritti con una lettera accom- pagnatoria,19 ed è perciò probabile che Scipio li riceva qualche giorno dopo, du- rante il soggiorno ad Ocisla. Il primo testo è quello proposto al direttore della «Voce», ora intitolato Uno sguardo alla letteratura croata in nesso colla letteratura italiana, e si compone di tre fogli, piegati in forma di quaderno e manoscritti sulle prime undici facciate, parzialmente numerate. È una rassegna di carattere compilativo dei maggiori au- tori croati dalle origini fino alla contemporaneità. Il dato interessante è che l’au- tore, pur sottolineando l’autonomia della rielaborazione, si prodiga per dimo- strare le radici classiche della cultura croata («il primo raggio della cultura croata dunque sorse dal fulcro del gran sole latino») e gli influssi italiani sugli autori

|| 19 Se ne veda sotto il testo.

Scipio Slataper tra sloveni e croati | 45 presi in considerazione, e che su questa base egli neghi le tensioni nazionali che allora percorrevano Trieste, l’Istria e la Dalmazia, e che opponevano gli italiani agli ‘slavi del sud’, in nome di una più alta unione intellettuale basata sui valori eterni della cultura e sull’affratellamento portato dalla letteratura, auspicando una nuova era di collaborazione e unione tra questi due popoli: «I raggi delle idee innovatrici dal proprio centro si allargano nel mondo. All’Italia il più vicino è il litorale croato, fra queste due terre sta l’Adriatico ed il mare non divide, ma uni- sce le nazioni». Il legame tra la cultura croata e quella italiana è sostenuto anche sulla base della comune appartenenza alla religione cristiana e si sottolinea come nel corso del tempo i croati si siano formati come nazione proprio nelle lotte contro i mu- sulmani e come questo ritorni con forza nelle prove letterarie prodotte in Dalma- zia. Dunque Ilijić sostiene una forte vicinanza con le genti dell’altra sponda dell’Adriatico, mentre si contrappone alle più vicine popolazioni di altra reli- gione. Tale idea dell’affinità tra croati e italiani ritorna nella conclusione:

Terminando questo breve studio sulla letteratura croata in nesso colla letteratura italiana, spero di aver sparso un po’ di luce su questo argomento del tutto nuovo agli italiani, augu- randomi di proseguire sulla via tracciata onde convincere gli intellettuali d’Italia; egual- mente il popolo croato, anche essendo stato fatalmente diviso da varie vicende storiche e pregiudizi di razza dall’Italia, ha saputo ispirarsi alle fonti inesauribili della coltura latina.

Il secondo articolo è intitolato Dante nella letteratura croata e tratta di alcune tra- duzioni in lingua croata della Commedia20 all’interno di un inquadramento gene- rale sulla fortuna del fiorentino nella cultura croata. Il testo è più breve e si limita ad occupare un foglio manoscritto piegato a forma di quaderno. Anche in questo caso ritornano gli elementi principali visti nello scritto precedente, cioè il ricono- scimento del debito che la cultura degli slavi meridionali ha nei confronti di quella italiana, in particolare quella più antica fino al Rinascimento e al Cinque- cento, e la vicinanza tra questi due popoli data – si sostiene nuovamente – dalla comune appartenenza religiosa: «Quasi tutti i nostri maggiori poeti di quel tempo hanno temprato il loro genio artistico alla fonte della letteratura classica italiana, fondendo così il cuore slavo coll’animo latino in unità forte ed originale, che diede alla letteratura nostra una caratteristica speciale». E si conclude con lo stesso auspicio di prima: «Questo fenomeno è degno di nota perché ci dimostra

|| 20 Ilijić si concentra in particolare sui lavori di Petar Preradović e Francesco Uccellini. Sulle traduzioni croate della Commedia dantesca si rimanda a Ljiliana Avirović, Le traduzioni della Divina Commedia in croato, in Mirko Tomasović e Ljiliana Avirović, La divina traduzione. Tra- durre in croato dall’italiano, Trieste, EUT, 2012.

46 | Roberto Norbedo, Lorenzo Tommasini che siamo all’albeggiare di una nuova era, quando le diverse nazioni, smesse le miserrime lotte personali e di parte, si affratelleranno tutte nel medesimo nome sacro dell’arte». La posizione che emerge e che viene asserita con forza in questi scritti è controcorrente e coraggiosa per gli anni in cui viene espressa e per la provenienza dell’autore. È immaginabile che gli argomenti del confronto tra culture interessassero molto Slataper vista la sua produzione precedente al ritiro carsico, tuttavia questi articoli non comparvero mai sulla «Voce», né, a quanto ci risulta, furono pubbli- cati altrove. A ciò va aggiunto che nell’epistolario, e in particolare nel carteggio con Prezzolini che più di altri luoghi dovrebbe conservarne traccia, non risulta il benché minimo accenno a Stjepko o ai suoi lavori. E si tratta di un periodo – l’estate del 1911 – in cui Prezzolini, all’inizio, come s’è accennato, di una grave crisi, chiede ripetutamente a Slataper di aiutarlo a fare la «Voce» con l’invio di articoli o recensioni, a cui però Scipio risponde tergiversando perché occupato con la composizione del Mio Carso.21 Non è chiaro perché Slataper non inoltri i testi di Ilijić e non ne faccia nem- meno cenno a Prezzolini. Ci si può limitare ad avanzare alcune ipotesi: forse il tono complessivo gli appariva poco energico rispetto alla propria concezione del confronto competitivo tra le culture nazionali – sviluppata a partire dalle Lettere triestine –, sì aperta al riconoscimento e alla comprensione delle altre compo- nenti presenti nei territori ‘irredenti’, ma comunque giocata sempre in chiave agonistica; o forse egli non era d’accordo con i contenuti dei testi, infastidito dal costante trascendere la realtà etnica concreta della regione in nome di valori let- terari che potevano apparirgli astratti; o forse ancora – ma pare meno probabile – poteva sentire insidiata la sua posizione di ‘esperto’ delle cose giuliane-istriane- dalmate all’interno della rivista da una persona esterna alla sua cerchia triestina. Tuttavia, come si vede, si rimane sul piano delle illazioni che, per quanto affasci- nanti, non possono essere dimostrate. Resta il fatto che questi articoli rimasero nelle mani di Slataper e non vennero pubblicati. Episodio questo che, incasto-

|| 21 Si vedano le lettere dell’agosto e del settembre 1911 pubblicate in Giuseppe Prezzolini e Scipio Slataper, Carteggio. 1909–1915, a cura di Anna Storti, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2011, e in particolare quella del 22 settembre (p. 222) in cui Prezzolini lamenta l’abbandono degli amici che lo ha messo in difficoltà: «Il tono salveminiano sono io che, se mai, debbo non perdonarlo a voi che nella stanchezza in cui mi avete lasciato, non mi deste né articoli né note. Né tu, né Papini e Soffici poco. È chiaro? Te l’ho anche scritto. Stando in compagnia sarebbe stato facile scriver q.[ualche] cosa di poco salveminiano e mandarmelo. Intanto senza quelle note di Salvemini la Voce non esciva» (corsivi nel testo).

Scipio Slataper tra sloveni e croati | 47 nandosi all’interno del soggiorno a Ocisla, acquisisce comunque un rilievo parti- colare nell’indagare l’immagine che il nostro autore si costruisce e vuole trasmet- tere del mondo slavo. Come si vede, l’esperienza fatta da Scipio in Carso nell’estate del 1911 si viene a configurare come un episodio ancora in parte problematico e aperto a diverse interpretazioni, ma rimane un momento di svolta nella breve vita del nostro au- tore e di conseguenza nella sua opera. Il tentativo sempre frustrato di costruzione di una diversa identità infine si rivela impossibile da condurre fino in fondo, ma porta comunque ad un diretto confronto con un’alterità sentita vicinissima e pro- prio per questo affascinante ma anche impossibile da fare interamente propria.

2

I diari dell’estate del 1911 a Ocisla, che testimoniano – come notava Lorenzo Tom- masini – l’«interesse» e il «sincero tentativo di comprensione» da parte di Slata- per nei confronti degli sloveni del Carso, sono significativi anche sotto altri aspetti. Infatti, vi si ritrovano annotazioni che rimandano a termini in lingua slo- vena (come kam ‘dove’, avv. di moto a luogo; nasa per nasaj ‘indietro’; oppure z’este per cesta ‘strada’),22 a dimostrare, se non profonda conoscenza di tale lin- gua o interesse per la relativa cultura letteraria, almeno viva voglia di comunicare e di porsi in relazione con la gente e il territorio del Carso sloveno. Sulla stessa linea si colloca una testimonianza redazionale del Mio Carso. Si tratta di un testo nato proprio a Ocisla, dove Slataper trovò una sintonia più im- mediata con la natura carsica e l’isolamento necessari a scrivere. Qui il protago- nista, nel pieno dell’attività creativa, con i fogli già scritti che «si ammucchiano lentamente sul tavolino ingombro», si confessa «lieto […] del silenzio carsolino che mi circonda, della piova che finalmente promette di venir giù per tutta la notte sull’uva che aggrinza e sulle patate arse di questi nostri poveri contadini sloveni».23 Nonostante cada nel corso della revisione redazionale,24 il passo sem- bra dar conto di un’istintiva empatia dell’autore Slataper verso gli sloveni del Carso.

|| 22 Scipio Slataper, Appunti e note di diario, a cura di Giani Stuparich, Milano, Mondadori, 1953, pp. 153–171: 163, 166. 23 Cfr. Scipio Slataper, Il mio Carso, edizione critica a cura di Roberto Norbedo, Bologna, Com- missione per i testi di lingua, 2019, pp. 102–103. 24 Ivi, p. XXIX e n.

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Appartenente alla redazione α del Mio Carso inviata in lettura agli amici fio- rentini nell’autunno del 1911, collocato nella parte centrale dell’opera, il testo fu rielaborato nel periodo che va dal dicembre 1911 alla primavera successiva, prima della stampa del maggio 1912 nella Libreria della «Voce». La sua eliminazione è inserita in una più ampia «opera di riduzione e di impoverimento dei dati auto- biografici e realistici»,25 realizzata nella fase estrema del processo redazionale, per elevare i valori artistici e nascondere gli elementi che aderivano più scoper- tamente alla cronaca e alla biografia personale. L’iniziativa di Slataper va vista anche come reazione alle critiche che forse gli vennero da Prezzolini, direttore della «Voce», sulla pubblicazione di contenuti troppo intimi («[Prezzolini] batte molto sulla nudità in cui mi troverei dopo pubblicato il libro», scriveva a Elody Oblath il 4 novembre 1911).26 Inoltre, la scelta dell’autore appare in linea con la propria decisione di depu- rare l’opera da contenuti legati a fatti contingenti. Nei suoi diari di fine novembre 1911 scriveva: «Togliere cose dell’attimo …», cambiando linea rispetto all’aprile dello stesso anno, quando aveva professato la sua «fede nell’attimo», nella ne- cessità cioè di una scrittura che restituisse in modo immediato la realtà, vicina allo stile diaristico («il nostro genere sarà probabilmente il diario»).27 Eliminando dal testo definitivo del Mio Carso il passo in questione, con tutta probabilità Sla- taper non intese sconfessare quei sentimenti suscitati da reali esperienze auto- biografiche, ma piuttosto serbarli a un ambito più personale e privato, a conferma che genuina era, in quel momento, la sua partecipazione emotiva alle sofferenze degli indigenti ed emarginati ‘contadini sloveni’. I dati fin qui esposti, a nostro parere, penetrano la psicologia slataperiana meglio di passi connotati letterariamente e perciò sfuggenti, difficili da interpre- tare, come quello dell’incontro con il contadino sloveno alla fine della prima parte del Mio Carso,28 che spesso è stato considerato un elemento utile a valutare i sentimenti e il giudizio di Slataper nei confronti degli sloveni e degli ‘slavi del

|| 25 Ivi, p. XL. 26 Cfr. Scipio Slataper, Alle tre amiche. Lettere, a cura di Giani Stuparich, Milano, Mondadori, 1958, p. 213 (corsivo nel testo). 27 S. Slataper, Appunti e note di diario, cit., p. 198, e Id., Epistolario, a cura di Giani Stuparich, Milano, Mondadori, 1950, p. 269 (corsivo nel testo). 28 Cfr. S. Slataper, Il mio Carso, Firenze, Libreria della Voce, 1912, pp. 39–41. Per l’uso nella costruzione dell’episodio della fonte dei Canti illirici del Tommaseo cfr. R. Norbedo, Per l’edizione critica, il commento e l’interpretazione de Il mio Carso, in Per Il mio Carso di Scipio Slataper, cit., pp. 91–96.

Scipio Slataper tra sloveni e croati | 49 sud’, per esempio, da chi sostenne che gli «sloveni triestini» sono «demonizzati» da Slataper, a sua volta considerato, nel contempo, «ambivalente» e ambiguo.29 Tuttavia, la fortuna critica che Il mio Carso ha avuto in ambito sloveno è stata di altro tenore, come mostra un breve profilo a corredo di una recente nuova tra- duzione in lingua slovena dell’opera.30 Il saggio, passando in rassegna i giudizi di diversi intellettuali sloveni su Slataper e Il mio Carso, ne sottolinea quella che definisce la «lettura anti-irredentistica» dell’opera, contrapposta alla «lettura ita- liana», la quale invece, si afferma, «si è voluta basare […] su vari tendenziosi scritti politici di Slataper […] che testimonierebbero l’adesione personale al pa- thos e agli obiettivi espansionistici della patria italiana».31 Nel panorama della ricezione di Slataper in scrittori di lingua slovena spicca la figura del triestino Alojz Rebula: l’«apice di […] comprensione ed empatia slo- vena nei confronti di Scipio Slataper si manifesta […] nei due capitoli di un ro- manzo (mai portato a termine) di Aloiz Rebula, Iz tržaškega življenja (‘Dalla vita di Trieste’) e intitolati Srečanje s Pennadorom (‘Incontro con Pennadoro’)».32 In effetti, si tratta di un testo, denso e articolato, che offre largo credito alla figura di Slataper, favore che Rebula forse mai smise di accordare al proprio concitta- dino.33 L’ambientazione riporta alla Trieste del primo decennio del ’900 (a qua- rant’anni dalla data di composizione/pubblicazione),34 dove si incontrano lo stu-

|| 29 Cfr. Arnaldo Bressan, Le avventure della parola. Saggi sloveni e triestini, Milano, il Saggiatore, 1985, pp. 50–51 e n.; ma si vedano anche le critiche di Gino Brazzoduro (cfr. Pericle Camuffo, Il mio Carso riletto, in Per Il mio Carso di Scipio Slataper, cit., pp. 102–109) e Marija Pirjevec, Questa Trieste … Pahor, Rebula, Košuta e altri saggi sulla letteratura slovena, Trieste, Mladika, 2016, pp. 37–38, 194–195. 30 Cfr. Marko Kravos, Slovenci ob Mojen Krasu-Gli sloveni di fronte al Mio Carso, in Scipio Slata- per, Moj Kras-Il mio Carso, Testo originale con la traduzione di Marko Kravos, [Postfazioni di] Roberto Dedenaro (Sulle orme di Scipio Slataper) e M. Kravos, Trieste, Beit, 2018 (2015), pp. 226– 243. 31 Ivi, p. 233. Ci si limita qui a riportare la valutazione, riservandoci di approfondire in sede più idonea il quadro interpretativo proposto. 32 Ivi, p. 239. Un’introduzione al pensiero di Rebula in Miran Košuta, Lemmi rebuliani. 10 parole- chiave dal vocabolario artistico e ontologico di Alojz Rebula, scrittore sloveno triestino, «Metodi e Ricerche», n.s., XIV, 1995, 1, pp. 85–100; cfr. anche Marija Pirjevec, «Essere uomo, uomo il più possibile …». Itinerario spirituale e artistico di Alojz Rebula, in Questa Trieste …, cit., pp. 83-98. 33 Nel dicembre del 2014, durante la cerimonia di conferimento del Sigillo trecentesco del Co- mune di Trieste, Rebula ricordò il suo scritto dedicato a Slataper, cfr. http://www.retecivica.tri- este.it. 34 Precisamente il testo s’intitola Srečanje s Pennadorom. Dve poglavji iz romana ‘Iz tržaškega življenja pred stiridesetimi leti [‘Incontro con Pennadoro. Due capitoli del romanzo Dalla vita di

50 | Roberto Norbedo, Lorenzo Tommasini dente triestino sloveno Miran e il giornalista Scipio Slataper. La narrazione in lin- gua slovena accoglie più inserti dialogati, anche in italiano e dialetto triestino, adottando a tratti un taglio saggistico. La rappresentazione si svolge all’insegna del contrappunto stilistico e dell’ampio uso di strumenti retorici, alimentati dal materiale narrativo del Mio Carso e dalla biografia intellettuale slataperiana, nota a Rebula probabilmente attraverso la monografia stupariciana del 1922.35 Ciò a partire dal titolo, ispirato al soprannome Pennadoro del protagonista del Mio Carso, e dall’epigrafe, traduzione in sloveno di un passo dell’opera con- siderato emblematico.36 L’abboccamento tra i due giovani al «caffè concerto Pri mačkah na Akvedotu» [‘caffè concerto Alle Gatte in Acquedotto’] (Srečanje s Pen- nadorom, p. 285) rinvia agli inizi della seconda parte del Mio Carso,37 mentre la richiesta degli avventori del caffè di avere altro vino («Putela [‘ragazza’], ancora un litro», ivi, p. 289) richiama l’episodio della Taverna di Città Vecchia, dove l’or- dine è rivolto a un cameriere («– Camarier! ’ncora mezo quarto!» (‘Cameriere, an- cora mezzo quarto!’).38 Ma i riferimenti sono disseminati lungo tutto il testo di Rebula, come nel caso del frammento del Mio Carso che ritrae la contadinella Vila insieme all’adolescente protagonista:

I bei grappoli pieni che avevamo colti ieri si pigiavano nel tino. Spilluccammo i grani più grossi, stufi d’uva. Mi dette un grano tondo, grosso come una noce, limpido. Disse: – La guardi che man che go! – Piccole, ma di pelle callosa, tagliuzzata alla punta delle dita, nera di pentole, le unghie rosicchiate. Disse poi: – Lei la ga bele man.39

Da qui Rebula attinge il particolare delle mani: ‘belle’ e curate le mani dell’ita- liano, specchio dell’intellettuale civiltà cittadina, mentre quelle della ragazzina Vila portano i segni dal lavoro manuale in casa e nei campi. Le mani, in sloveno roke, sono una sorta di contrassegno del personaggio di Slataper, a distinguere

|| Trieste quarant'anni fa’], «Novi Svet», IV, 1949, 3, pp. 285–302 (d’ora in avanti Srečanje s Pen- nadorom). 35 Giani Stuparich, Scipio Slataper, Firenze, «La Voce», 1922. 36 «Moj Kras je trd in dober. / Vsaka bilka njegove / trave je morala razklati skalo, da je vzklila, vsak / njegov cvet je moral piti sušo, da se je odprl. Zato / je njegovo mleko zdravo in njegov med vonjiv», Srečanje s Pennadorom, p. 285 («Il mio Carso è duro e buono. Ogni suo filo d’erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l’arsura per aprirsi. Per questo il suo latte è sano e il suo miele odoroso», S. Slataper, Il mio Carso, cit., p. 121). 37 «Su per l’Acquedotto ho incontrato un condiscepolo, Nando Baul, che m’ha fatto entrare alle Gatte. Era la prima volta che entravo in un caffè concerto …» (S. Slataper, Il mio Carso, cit., p. 65). 38 Ivi, p. 47. 39 Ivi, p. 21.

Scipio Slataper tra sloveni e croati | 51 la sua cittadina italianità tra personaggi sloveni: ‘Due mani bianche, giovani, sensibili’ («Dvoje belih, mladih, občutljivih rok»), ‘mani italiane’ («Italijanske roke»), ‘bianche, delicate, abili’ («roke, bele nežne ročice»), ecc.40 E i prelievi di Rebula, appunto, si estendono anche alla pubblicistica vociana. Come l’articolo Ai giovani intelligenti d’Italia dell’agosto 1909,41 citato più volte,42 al quale Miran allude criticando velatamente i giovani del tempo che riducono la letteratura a moda («Oggi, sono rari i giovani che o per passatempo o per bisogno o per partito preso non si provino a scrivere», p. 291). I due protagonisti triestini di Srečanje s Pennadorom, lo sloveno e l’italiano, giovani entrambi non a caso, impersonano un nodo della riflessione di Rebula. Incontrandosi i due si guardano più volte negli occhi, confrontandosi e valutan- dosi reciprocamente, e alla fine si stringono la mano.43 Il significato del gesto si precisa, a distanza di tempo, nella denuncia di Rebula del disinteresse manife- stato dalla cultura triestina italiana per la componente cittadina slovena, che vede però in Slataper un’eccezione:

una cultura [la cultura triestina italiana] di salotti, di complessi e di narcisismi, rimasta cieca nei confronti di una presenza, a Trieste, quella slovena, non meno fisica dei moli e delle nubi della città adriatica […] non è stata captata nemmeno dalla sensibilità dei più grandi, né da quella di Svevo né da quella di Saba […]. L’unico, tra gli hommes de lettres triestini, che abbia avuto il coraggio di guardare in faccia allo sloveno e di rivolgergli una parola, forse prefascisticamente brutale, è stato Scipio Slataper. Per tutti gli altri, lo sloveno non è esistito.44

Ma a volte empatia e considerazione in Rebula cedono il passo a ironia e critica. Come quando il personaggio di Slataper si rivolge a Miran affastellando una se- quenza di antinomie che richiamano con enfasi il tema tutto slataperiano della contraddittorietà («Io sono impersuaso e contraddittorio»):45 «Qualche vostro poeta potrebbe cavare dal Carso un magnifico romanzo storico, senza persone e

|| 40 A. Rebula, Srečanje s Pennadorom, cit., pp. 289, 295. 41 Cfr. Ai giovani intelligenti d'Italia, in Scipio Slataper, Scritti letterari e critici, a cura di Giani Stuparich, Roma, «La Voce», 1920, pp. 132–133. 42 Cfr. Srečanje s Pennadorom, pp. 294, 299. 43 «Italijan in Slovenec sta se gledala iz oči v oči» [‘L’italiano e lo sloveno si sono guardati negli occhi’], Srečanje s Pennadorom, p. 291; «Merila sta se iz oči v oči» [‘Si sono misurati guardandosi negli occhi’], ibid.; ecc. 44 Alojz Rebula, Da Nicea a Trieste. Saggi, riflessioni, commenti, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2012 (Trieste, città ammalata?, 1983), p. 72; e cfr. anche le parole di Rebula nell’Intervista Rebula-Cecovini del 1996, pubblicata in Manlio Cecovini, Carteggio scazonte con Alojz Rebula, Trieste, Provincia di Trieste, 2001, pp. 45–46. 45 S. Slataper, Il mio Carso, cit., p. 71.

52 | Roberto Norbedo, Lorenzo Tommasini anche senza piante: il romanzo dei suoi campi di sasso, muti sotto il sole» (p. 293). La successione di ossimori – che raffigurano un «poeta» in veste di autore di prosa narrativa («romanzo»), un «romanzo storico» in cui è escluso il divenire umano («senza persone»), una natura priva di ogni forma di vita («senza piante») e ridotta al solo regno minerale («campi di sasso») – sembra la parodia, appunto, di una persona incapace di parlare senza cadere in contraddizione. Parallelamente, il passo interpreta la diffusa critica di incompiutezza e man- canza di oggettività rivolta al Mio Carso: il Carso, spogliato di attributi vitali e di testimonianze della sostanza etica della sua gente, verrebbe eletto da Slataper a simbolo di aridità e dolore facendosi pura «proiezione esterna dell’io autoriale».46 Si tratta della stessa valutazione riduttiva del Mio Carso messa in bocca ad Amos Borsi, il protagonista del romanzo Kačja Roža (‘La peonia del Carso’, 1994), in- torno all’assenza nell’opera degli abitanti del Carso, gli sloveni, oscurati dalla componente naturalistica, che assume peso esclusivo: «Sto leggendo Il mio Carso di Slataper. Peccato che il Carso sia per lui soltanto pietra e arbusti. E l’uomo, lo sloveno del Carso? Non c’è».47 Le apparenti discrepanze forse si giustificano quando si consideri una delle peculiarità della forma romanzesca, in cui rientrano Srečanje s Pennadorom e Kačja Roža. Spesso i romanzi, infatti, sono costruiti in modo che i personaggi siano latori di opinioni non necessariamente in sintonia con quelle dell’autore, ma che esprimono piuttosto una pluralità di tesi, a rappresentazione della molte- plicità anche contraddittoria della realtà. Il vero punto di vista di Rebula, allora, non si dovrebbe cercare nelle sue opere letterarie, ma nel giudizio espresso nelle più lineari riflessioni di taglio saggistico-analitico citate sopra, che ricompon- gono così le contrapposizioni esaltate in sede di finzione letteraria.48

|| 46 Miran Košuta, Il loro Carso ... Assonanze e dissonanze geoletterarie tra Slataper e Kosovel, in Scipio Slataper, il suo tempo, la sua città, a cura di Fulvio Senardi, Gorizia-Trieste, Istituto Giuli- ano di Storia, Cultura e Documentazione, 2013, pp. 113–123: 123; cfr. anche Alfredo Luzi, L’io e la scrittura del Mio Carso di Scipio Slataper, in ivi, pp. 125–130. 47 Id., La peonia del Carso, traduzione di Alessandra Foraus, postfazione di Tatjana Rojć, Mi- lano, La nave di Teseo, 2017 (Kačja Roža 1994), p. 77. 48 Considerazioni in parte simili, sull’utilità degli scritti saggistici di Da Nicea a Trieste per ‘ca- pire’ i romanzi di Rebula, in Elvio Guagnini, Orizzonti etici ed estetici della narrativa e della sag- gistica di Alojz Rebula. Un progetto e tre libri, «Metodi e Ricerche», n. s., XXXII, 2013, pp. 35–41: 38.

Scipio Slataper tra sloveni e croati | 53

Appendice

Lettera accompagnatoria di Stjepko (Stefano) Ilijić a Scipio Slataper (Sarajevo, 15 agosto 1911) conservata presso il Fondo Slataper dell’Archivio di Stato di Trieste, busta 0.49

Distinto signore, mi sorprese un po’ la sua cartolina datata da Trieste in risposta a quella mia indirizzata al sign. Prezzolini a Firenze, ma comprendendo che Ella è certamente uno dei redattori della Voce, Le spedisco gli acclusi articoli. Il primo Uno sguardo alla letteratura croata ecc. è quasi un’introdu- zione ai miei futuri lavori che ho in mente, onde orientare un po’ il pubblico italiano nella nostra letteratura. Come vedrà i nostri vecchi poeti non sono stati semplici imitatori della letteratura italiana, essi hanno naturalmente attinto l’ispirazione dalla letteratura classica infondendo però lo spirito slavo alle proprie opere, così che in gran parte uscirono originali. In corso dell’articolo si parla anche dell’influenza che ha oggi la letteratura italiana sulle lettere croate ecc. Il secondo articolo che le spedisco: Dante nella letteratura croata, credo che interessi il pubblico italiano, affatto ignaro di cose nostre. Mi sono ben note le poesie jugoslave tradotte dal mio amico Kušar, di queste Le spedirò tra breve un piccolo studio illustrativo. Tengo in manoscritto alcune traduzioni in italiano del nostro pur pur grande poeta Kranjčević, ed una stupenda poesia, stile nuovo, del Vojnović sulla morte di Tolstoj, non so se potrebbero uscire nella «Voce». Ringraziandola cordialmente dell’interesse che mostra pelle cose nostre, augurandomi una era novella, che almeno nell’arte affratellerà queste due nazioni, che pur hanno tanto di comune, divise disgraziatamente dalla crassa ignoranza dei faziosi, resto Con profonda stima, il vostro

Stefano Ilijić lett.[erato] croato50

Sarajevo, 15/8.911

PS: Quando usciranno i miei articoli voglia compiacersi di farmi spedire alquanti esemplari della Voce, onde possa spedirli a qualche amico.

|| 49 La trascrizione è realizzata seguendo criteri conservativi, usando le parentesi quadre dove si giudichi opportuno sciogliere le abbreviazioni. 50 Si legge come una -o l’ultima lettera della parola «croato» – anche se parrebbe assomigliare ad altra lettera (-a o -e) – in quanto vergata in modo calligrafico sul modello dei caratteri gotici, e si scioglie di conseguenza l’abbreviazione che precede (devo a Roberto Norbedo, che ringrazio, questo suggerimento interpretativo).

Franco Finco Le lettere dalla prigionia di Stanko Vuk

Per un’analisi linguistica e testuale

Riassunto: Stanko Vuk, letterato antifascista di fede cattolica e ideali liberali, nacque nel 1912 da famiglia slovena a Merna/Miren presso Gorizia. Studiò a Gorizia, Lubiana e Venezia. Durante il regime fascista fu con Boris Pahor ideatore e collaboratore di alcune riviste clandestine slovene (Tihe besede 1935, Gmajna 1936, Pisanice 1936, Brinjevke 1938, Malajda 1939), con le quali ebbe inizio anche la sua attività letteraria. Vuk scrisse poesie e brevi racconti, pubblicati solo parzialmente in vita. La raccolta delle sue prose Zemlja na zahodu (Terra a Occidente) uscì postuma nel 1959. Militò nel movimento cristiano sociale, ma nel 1940 fu arrestato dalle autorità fasciste e condannato a 15 anni per attività antinazionali, pochi mesi dopo aver sposato Danica Tomažič/Tomasi. Durante la prigionia scrisse quasi 400 lettere alla moglie, che per disposizione dell’autorità carceraria dovette redigere in lingua italiana. Il tema centrale di questa corrispondenza è l’espressione dell’amore per Danica, ma vi compaiono anche immagini della vita carceraria e la fiducia in tempi migliori. Nel febbraio del 1944 fu scarcerato e potè ritornare a Trieste dove, assieme alla moglie, aderì alla resistenza. Fu assassinato da ignoti assieme alla moglie il 10 marzo dello stesso anno. Nel 1986 Fulvio Tomizza pubblicò un’ampia scelta delle lettere di Vuk dal carcere (Scritture d’amore), accompagnandola da una sua prefazione. Nello stesso anno Tomizza pubblicò il suo romanzo Gli sposi di Via Rossetti in cui è narrata la tragica vicenda dei coniugi Vuk e più in generale della minoranza slovena sotto il regime fascista e l’occupazione nazista. In questo contributo viene presentata una prima analisi linguistica e testuale della corrispondenza di Vuk dal carcere, nella quale l’autore deve affidare l’espressione dei propri sentimenti a uno strumento linguistico – l’italiano – che, pur ben padroneggiato, non è la propria lingua materna, né la voce delle sue liriche e delle sue prose.

Stanko Vuk’s letters from prison: a linguistic and textual analysis

Abstract: An anti-fascist scholar of Catholic faith and liberal ideals, Stanko Vuk was born in 1912 into a Slovenian family in Merna/Miren near Gorizia. He studied

Open Access. © 2020 Franco Finco, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-005

56 | Franco Finco in Gorizia, Ljubljana and . During the Fascist regime, together with Boris Pahor he was the founder and contributor of several Slovenian underground magazines (Tihe besede 1935, Gmajna 1936, Pisanice 1936, Brinjevke 1938, Malajda 1939), where he began his literary career. Vuk wrote poems and short stories, published only partially during his lifetime. His prose collection Zemlja na zahodu (‘Land in the West’) came out posthumously in 1959. He served in the Christian social movement, but in 1940, a few months after marrying Danica Tomažič/Tomasi, he was arrested by the fascist authorities and sentenced to 15 years for anti-national activities. While in prison he wrote almost 400 letters to his wife, all of them in Italian by order of the prison authorities. The central theme of this correspondence is the expression of love for Danica, but there are also descriptions of prison life and expression of hope for better days. In February 1944 he was released from prison and returned to Trieste where, together with his wife, he joined the resistance movement. He and his wife were murdered by unknown persons on 10 March 1944. In 1986 Fulvio Tomizza published a large selection of Vuk’s letters from prison (Scritture d’amore) introduced by a preface. In that same year Tomizza published his novel Gli sposi di via Rossetti in which the tragic story of the Vuks and more generally of the Slovenian minority under the fascist regime and the Nazi occupation is narrated. This contribution presents an initial linguistic and textual analysis of Vuk’s correspondence from prison, in which the author must express his feelings in Italian, a linguistic instrument which, although well mastered, is not his mother tongue, nor the voice of his lyrics and prose.

Il nome di Stanko Vuk è noto ai lettori di Fulvio Tomizza in quanto è quello del tragico protagonista, assieme alla moglie Danica, del romanzo-cronaca Gli sposi di Via Rossetti. Tragedia in una minoranza, pubblicato nel 1986 e basato su una vicenda realmente accaduta. Sulla scorta di un epistolario e di altre testimonianze e informazioni raccolte, Tomizza ha ricostruito la storia dei due coniugi, appartenenti alla comunità slovena giuliana, e il contesto storico e sociale di Trieste e della Venezia Giulia tra il 1920 e il 1944. Sono soprattutto le lettere scritte alla moglie dal carcere la fonte in cui si rivela l’universo sentimentale, psicologico e ideologico di Vuk.1 Una scelta di 84 lettere, delle 372

|| * Si ringraziano il prof. Miran Košuta per le gentili informazioni e la dott.ssa Bernarda Volavšek Kurasch per la consulenza linguistica. 1 Le lettere scritte da Danica sono state distrutte su richiesta della consorte (Fulvio Tomizza, Gli sposi di via Rossetti. Tragedia in una minoranza, Milano, Mondadori, 1986, pp. 178, 187; Gabriella Cartago, Per una lettura linguistica degli Sposi di via Rossetti, in Ead., Letture interlinguistiche, Firenze, Franco Cesati, 2017, pp. 185–196 [già pubblicato in Tomizza i mi, susreti uz granicu.

Le lettere dalla prigionia di Stanko Vuk | 57 che compongono l’epistolario, è stata pubblicata nel 1986 a cura di Vida e Milko Matičetov con la prefazione di Tomizza,2 mentre una scelta più ampia di 131 lettere in traduzione slovena è apparsa nello stesso anno, accompagnata da un saggio di Miran Košuta.3 Stanko Vuk4 era nato nel 1912 nel villaggio di Merna/Miren presso Gorizia,5 figlio di Anton, direttore di un calzaturificio, e come il padre aderì presto al movimento cristiano-sociale del sacerdote Virgil Šček e di Engelbert Besednjak, rappresentanti sloveni al Parlamento di Roma (rispettivamente negli anni 1921– 1924 e 1924–1929).6 Vuk studiò a Gorizia, dove fece amicizia con il giovane Ciril

|| Zbornik. 3 / Tomizza e noi, incontri di frontiera. Atti. 3 / Tomizza in mi, obmejna srečanja. Zbornik. 3, uredili Marcello Marinucci, Ljiljana Avirović, Irena Urbič, Neda Fanuko, Umag/Umago, Pučko otvoreno učilište/Università popolare aperta ‘Ante Babić’, 2002, pp. 49–57], pp. 189–190). Conservate e pubblicate in traduzione slovena sono invece le lettere di Danica al fratello Pino, a sua volta incarcerato (Danica Tomažič, Pisma bratu v zapor in drugi dopisi, Trst, Mladika, 2010). 2 Stanko Vuk, Scritture d’amore, a cura di Vida e Milko Matičetov, prefazione di Fulvio Tomizza, Trieste, Editoriale Stampa Triestina, 1986. 3 Stanko Vuk, Ljubezenska pisma, izbor in opombe Milko Matičetov, spremni esej Miran Košuta, Trst-Ljubljana, Založništvo tržaškega tiska/ADIT, 1986. Oltre al romanzo di Tomizza, la vicenda ha ispirato il romanzo autobiografico Zatemnitev, ‘Oscuramento’ (1975, 19872) di Boris Pahor, in cui lo scrittore triestino racconta in terza persona e con nomi inventati il suo legame con Danica (Boris Pahor-Tatjana Rojc, Così ho vissuto. Biografia di un secolo, Milano, Bompiani, 2013, pp. 174–183 [traduzione in italiano di Tatjana Rojc, Tako sem živel. Stoletje Borisa Pahorja, Ljubljana, Mladinska knjiga Založba, 2013]). 4 Per la biografia di Stanko Vuk cfr. Lino Legiša, Tragična zgodba Stanka Vuka, in Stanko Vuk, Pomlad pod Krasom. Izbrane pesmi, proza in pisma, urednik Andrej Brvar, Maribor, 1998, pp. 249–303 (già pubblicato in Stanko Vuk, Zemlja na zahodu, Koper, Lipa, 1959, pp. 5–56); Miran Košuta, Vstajenje srca. Esej o Stanku Vuku in njegovih pismih, in Stanko Vuk, Ljubezenska pisma, Trst- Ljubljana, Založništvo tržaškega tiska/ADIT, 1986, pp. 257–298 (ripubblicato in Miran Košuta, Krpanova sol. Književni liki in stiki na slovenskem zahodu. Študije in eseji, spremna beseda Ciril Zlobec, Ljubljana, Cankarjeva založba, 1996, pp. 25–69); F. Tomizza, Gli sposi di via Rossetti, cit.; la prefazione di F. Tomizza in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., pp. 5–22; B. Pahor-T. Rojc, Così ho vissuto, cit., pp. 151–183. 5 All’epoca il villaggio era parte dell’Impero austro-ungarico, oggi fa parte della Repubblica di Slovenia (comune di Miren-Kostanjevica) ed è situato a ridosso del confine con l’Italia. 6 Branko Marušič, Politično in kulturno življenje goriških Slovencev med obema vojnama, in Chiesa e società nel Goriziano fra guerra e movimenti di Liberazione/Cerkev in družba na Goriškem ter njih odnos do vojne in osvobodilnih gibanj, a cura di France M. Dolinar e Sergio Tavano, Gorizia, Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, 1997, pp. 169–176 (tradotto in italiano ma con qualche lacuna: La vita politica e culturale degli Sloveni del Goriziano tra le due guerre, ivi, pp. 177–185).

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Kosmač, destinato a diventare uno dei massimi narratori sloveni, che incoraggiò il nostro a scrivere e pubblicare le sue prime poesie.7 Dopo l’annessione della Venezia Giulia al Regno d’Italia il clima politico si fece sempre più pesante per le minoranze slovena e croata nei territori conquistati. Le squadre fasciste entrarono in azione fin dal 19208 con atti di brutale sopraffazione verso i cosiddetti ‘allogeni’, colpendo associazioni e istituzioni slovene e croate, anche religiose. Alla violenza intimidatoria anti-slava si accompagnarono poi i provvedimenti vessatori del governo fascista.9 La Riforma Gentile (1923) portò alla chiusura delle scuole delle minoranze linguistiche, mentre altri decreti e disposizioni condussero al progressivo soffocamento dell’editoria slovena nella Venezia Giulia.10 Stanko (nome italianizzato in Stanislao) dovette frequentare la scuola commerciale statale in lingua italiana, nella quale si distinse proprio nell’apprendimento di questa lingua non sua, vincendo tra l’altro un concorso provinciale per il miglior tema in italiano. Ma Stanko desiderava proseguire gli studi nella propria lingua, così espatriò clandestinamente e frequentò per un anno l’accademia di commercio di Lubiana (1929). Qui conobbe il poeta e frequentò gli scrittori che

|| 7 Sulla letteratura slovena della Venezia Giulia cfr. Lojzka Bratuž, Il Novecento, in La cultura slovena nel Litorale, Gorizia, Istituto di storia sociale e religiosa, 1988, pp. 31–52; M. Košuta, Krpanova sol, cit.; Lojzka Bratuž, Gorica v slovenski književnosti, Gorica, Goriška Mohorjeva družba, 1996; Miran Košuta, Scritture parallele. Dialoghi di frontiera tra letteratura slovena e italiana. Studi e saggi, prefazione di Elvio Guagnini, Trieste, LINT, 1997; Lojzka Bratuž, Panorama letterario, in Cultura slovena nel Goriziano, a cura dell’Istituto di storia sociale e religiosa di Gorizia, Udine, Forum, 2005, pp. 77–107; Tatjana Rojc, Kreuzungspunkt Kultur: Überlegungen zur Triestiner Literatur in slowenischer Sprache, in Sprachlandschaften. Regionale Literatur- wissenschaft im europäischen Kontext, a cura di Reinhard Kacianka e Johann Strutz, Mohorjeva/Hermagoras, Celovec-Klagenfurt, 2010, pp. 68–79; Martin Jevnikar, Autori sloveni in Italia, a cura di Neva Zaghet, Trieste, Jezik-Lingua, 2014. 8 Il 13 luglio 1920 gli squadristi incendiarono il Narodni dom di Trieste, il più importante centro culturale e politico delle organizzazioni slovene in città (vedi Annamaria Vinci, Sentinelle della Patria. Il fascismo al confine orientale 1918–1941, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 78–80; B. Pahor- T. Rojc, Così ho vissuto, cit., pp. 73–81). 9 Cfr. Milica Kacin Wohinz-Jože Pirjevec, Storia degli Sloveni in Italia: 1866–1998, Venezia, Marsilio, 1998, pp. 36–66; Enzo Collotti, Sul razzismo antislavo, in Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870–1945, a cura di Alberto Burgio, il Mulino, Bologna, 1999, pp. 33–61; A. Vinci, Sentinelle della Patria, cit.; Stefano Bartolini, L’immagine dello slavo nell’Italia fascista. Dalla costruzione di un’identità nemica alle pratiche persecutorie e snazionalizzatrici, in Italiani in Jugoslavia. Occupazione dei Balcani e razzismo «antislavo». Atti del seminario (Brescia, 26 febbraio 2011), a cura di Silvia Boffelli, Brescia, ATí editore, 2013, pp. 15–50. 10 B. Marušič, Politično in kulturno življenje, cit., pp. 174–175; M. Kacin Wohinz-J. Pirjevec, Storia degli Sloveni, cit., pp. 52–54; M. Košuta, Scritture parallele, cit., pp. 65–101.

Le lettere dalla prigionia di Stanko Vuk | 59 facevano capo alla rivista «Ogenj», tra cui Miško Kranjec. In quell’anno pubblicò sei poesie sul mensile «Družina». La lirica del giovane Vuk appare tesa tra un dolente e malinconico intimismo giovanile e la propria condizione sociale, vissuta concretamente. Alla base della sua creazione poetica, anche successiva, stanno l’espressione di una giovinezza inquieta e smaniosa, lo spleen baudelairiano e l’anelito mistico, sul modello degli espressionisti cristiani sloveni alla Anton Vodnik. Le atmosfere orientaleggianti e pervase di questa inquietudine portano Vuk verso timide implicazioni erotiche. Ma tale sentimento è presentato attraverso il filtro del ritratto paesaggistico, con una descrizione quasi pittorica delle forre carsiche, dei pini ricurvi e delle gelide stelle d’argento, preludio dei successivi testi in prosa. Ma nella produzione poetica di Vuk, accanto all’elemento paesaggistico-sentimentale, appare talvolta anche l’attivismo sociale o la sinfonia mistico-religiosa,11 sul modello delle ballate di François Villon e di Miroslav Krleža. Dello stesso tenore è anche la produzione in prosa, fatta di narrazioni in forma di leggende, ballate e novelle liriche ispirate da quella ‘terra a occidente’ (del territorio slovenofono), situata tra Alpi Giulie, Collio, Carso e mare Adriatico.12 Il percorso letterario di Vuk proseguì con la collaborazione alle riviste clandestine in lingua slovena «Tihe besede» (1935), «Gmajna» (1936), «Pisanice» (1936), «Brinjevke» (1938) e «Malajda» (1939), cui partecipavano anche autori che sarebbero divenuti personalità letterarie nel dopoguerra: Bogomil Fatur, France Bevk, Milko Matičetov e Boris Pahor.13 A Lubiana iniziò una relazione con Darinka Zorec che proseguì, in forma di scambio epistolare, anche dopo il rientro in Italia, avvenuto nel 1930 grazie a

|| 11 In particolare nel frammentario poema ciclico Križev pot (‘Via Crucis’) del 1936, quasi un’identificazione del poeta con il Cristo della Passione; cfr. Katarina Šalamun-Biedrzycka, Mraz je srebrn in ozek in brsti so dobri za piščali..., in S. Vuk, Pomlad pod Krasom, cit., pp. 305–342 (in particolare le pp. 331–333); Vita Žerjal Pavlin, Križev pot Stanka Vuka, «Slavistična revija», LX, 2012, n. 2, pp. 223–231. A questa composizione Vuk farà riferimento nella lettera del 16 febbraio 1942: «A me è cara e mi sembra buona» (S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 61). 12 Sullo stile letterario di Vuk si vedano: Lino Legiša, Zgodovina slovenskega slovstva, VI, V ekspresionizem in novi realizem, Ljubljana, Slovenska matica, 1969, pp. 422–423; M. Košuta, Vstajenje srca, cit., pp. 277–282; K. Šalamun-Biedrzycka, Mraz je srebrn, cit., pp. 323–342. La raccolta postuma dei testi letterari è pubblicata in Stanko Vuk, Zemlja na zahodu [‘Terra a occidente’], a cura di Milko Matičetov e Lino Legiša, Koper, Lipa, 1959, e in S. Vuk, Pomlad pod Krasom [‘Primavera sotto il Carso’], cit. L’espressione «La terra ad occidente» compare nella lettera del 16 febbraio 1942 come titolo di un’opera che Vuk intendeva scrivere (S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 61) ed è stata utilizzata in sloveno come titolo della sopracitata raccolta pubblicata postuma nel 1959. 13 L. Legiša, Zgodovina slovenskega slovstva, cit., p. 319.

60 | Franco Finco un’amnistia.14 Completate le scuole a Gorizia, svolse il servizio militare in Abruzzo, Umbria, Piemonte e Lombardia, durante il quale fraternizzò particolarmente con i soldati dell’Italia meridionale, aiutando quelli analfabeti a scrivere alle loro fidanzate. Da militare ebbe anche modo di conoscere , del quale tradusse in sloveno un breve componimento.15 Nel 1934 Vuk s’iscrisse al corso di laurea in scienze diplomatiche dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ottenendo brillanti risultati e laureandosi nel 1938 con una tesi sulle minoranze nazionali in Jugoslavia. Dal 1934 al 1939 ebbe un’intensa relazione amorosa con la maestra friulana Carmen Perco di Lucinico (frazione di Gorizia), che produsse una fitta corrispondenza in lingua italiana. Tomizza, che poté prenderne visione, afferma che le caratteristiche testuali delle lettere a Carmen sono molto simili a quelle successive indirizzate dal carcere a Danica, tanto che «molte di queste lettere potrebbero figurare tali e quali nel carteggio con la moglie Dani».16 Nel 1939 Stanko si trasferì a Trieste su incarico dell’editoriale slovena Goriška Mohorjeva družba, che nel capoluogo giuliano possedeva un negozio di arredi sacri e libri religiosi, e diresse la piccola casa editrice Sigma.17 Ma l’obiettivo era anche quello di raccogliere i cattolici sloveni dell’area triestina in un partito cristiano-sociale, contrastando la crescente adesione al comunismo tra i connazionali. Egli contava sull’appoggio di alcuni studenti del Carso e sull’amicizia dello scrittore Boris Pahor, conosciuto quando questi era seminarista a Gorizia; Pahor lo introdusse tra i giovani liberali che organizzavano corsi clandestini di lingua e cultura slovena. Fu in quell’anno che egli conobbe Danica/Dani Tomažič,18 figlia di un benestante ristoratore sloveno di Trieste, ma anche sorella di Pino ‘Pinko’ Tomažič, fondatore del comitato locale del partito comunista, acceso

|| 14 Le lettere a Darinka, inviate fino al 1934, sono state pubblicate a cura di Milena Lavrenčič Lapajne in Stanko Vuk, Pisma Darinki, Trst, Mladika, 2005. 15 S. Vuk, Pisma Darinki, cit., p. 89. 16 F. Tomizza, Gli sposi di via Rossetti, cit., pp. 56–57. 17 Su questa casa editrice di libri in sloveno cfr. M. Košuta, Scritture parallele, cit., pp. 86–87, 94. 18 L’italianizzazione forzata attuata dal regime fascista riguardò anche il cognome Tomazic/Tomasich/Tomažič che fu mutato ufficialmente in Tomasi; cfr. Paolo Parovel, L’identità cancellata. L’italianizzazione forzata dei cognomi, nomi e toponimi nella Venezia Giulia dal 1919 al 1945, con gli elenchi delle province di Trieste, Gorizia, Istria ed i dati dei primi 5.300 decreti, Trieste, Eugenio Parovel Editore, 1985, pp. 24–29, 56, 89; Stefano Pivato, Il nome e la storia. Onomastica e religioni politiche nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 1999, p. 227; Miro Tasso, Un onomasticidio di Stato, introduzione di Boris Pahor, Trieste, Mladika, 2010, pp. 86–87.

Le lettere dalla prigionia di Stanko Vuk | 61 internazionalista e fautore della lotta armata. Tra Stanko e Danica fu amore a prima vista, mentre con Pino il rapporto fu contrastato, non solo a causa del diverso temperamento e degli opposti orientamenti ideologici, ma anche per la rivalità nell’esercitare il proprio ascendente sulla ragazza. Danica e Stanko si sposarono il 10 giugno 1940, due settimane dopo l’arresto di Pino da parte delle autorità fasciste. Tuttavia essi poterono vivere assieme nel loro appartamento di via Rossetti soltanto quattro mesi, perché il 20 ottobre Stanko fu arrestato per attività antinazionale e rinchiuso nel carcere triestino del Coroneo. Qualche giorno dopo anche Danica fu incarcerata ai Gesuiti, poi confinata a Castelli vicino a Teramo, infine internata a Pollenza nelle Marche. Venne rilasciata solo nel giugno dell’anno successivo per tornare a vivere da sola nell’appartamento di via Rossetti. Il marito e il fratello, assieme ad altri sessanta imputati per lo più sloveni, furono giudicati dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato in quello che è stato chiamato il ‘processo Tomažič’, in quanto Pino fu il maggiore accusato.19 Il 14 dicembre 1941 il Tribunale speciale condannò a morte Pino e altri otto imputati (a quattro di loro fu però commutata la pena capitale in ergastolo), la sentenza fu eseguita il giorno dopo. A Stanko Vuk furono inflitti quindici anni di reclusione e venne subito trasferito al penitenziario di Fossano in Piemonte, dove restò fino al gennaio del 1944. Durante la detenzione egli si dedicò alla lettura, allo studio, alla composizione letteraria, ma soprattutto scrisse costantemente a Danica, affidando alle lettere l’espressione dei propri sentimenti, dando luogo a un intenso dialogo epistolare con la moglie. La stesura delle missive diventò quindi la primaria ragione di vita per il detenuto Stanko.20 Nel frattempo Trieste e la Venezia Giulia erano state occupate dalle truppe tedesche (ottobre 1943), che costituirono la Zona d’operazioni del Litorale Adriatico (Operationszone Adriatisches Küstenland) e dove i nazi-fascisti attuarono una dura repressione, commettendo numerosi crimini nei confronti della popolazione civile.21 Dopo una breve permanenza nel carcere di Alessandria Stanko fu rilasciato il 12 febbraio 1944, dati i mutamenti politici avvenuti in Italia nei mesi precedenti. Finalmente libero, egli poté riabbracciare Danica e riprendere la vita coniugale,

|| 19 Sul ‘processo Tomažič’ o ‘Secondo processo di Trieste’ cfr. Marco Puppini-- Ariella Verocchio, Dal processo Zaniboni al processo Tomažič. Il tribunale di Mussolini e il confine orientale (1927–1941), Udine, Gaspari, 2003, pp. 103–142. 20 F. Tomizza in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 17; G. Cartago, Per una lettura, cit., p. 187. 21 Cfr. Giorgio Liuzzi, Violenza e repressione nazista nel Litorale Adriatico 1943–1945, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel , 2014.

62 | Franco Finco ma dopo nemmeno un mese, il 10 marzo 1944, fu brutalmente assassinato insieme alla moglie e a un visitatore, il dott. Drago Zajc di Lubiana, nello stesso appartamento di via Rossetti in cui i due erano stati sposi felici solamente per quattro mesi. La matrice del triplice omicidio, commesso da tre sicari, non è ancora stata chiarita,22 ma trae certamente origine dall’odio politico che contrapponeva le diverse fazioni in cui era allora divisa la comunità slovena.23 Restano le lettere di Stanko alla moglie a testimoniare la loro vicenda sentimentale e coniugale, componendo e documentando l’intenso dialogo intercorso in quasi tre anni e mezzo di separazione. «Il loro matrimonio più vero si svolse dunque attraverso queste lettere, le quali, prima ancora di testimoniarlo, ne formarono le varie fasi, divenendo spesso premio e lievito, causa di raffreddamento e ragione di ripresa».24 Nel carcere di Trieste e in quello di Fossano Stanko poteva scrivere lettere solo due volte alla settimana (dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 tutti i giorni); durante la breve detenzione ad Alessandria solo una volta a settimana, a causa delle più dure condizioni di prigionia. I destinatari potevano essere solo i familiari più stretti. Nel penitenziario di Fossano la scrittura doveva avvenire in un’apposita stanza, entro un tempo limitato. Aveva a disposizione un foglio, la penna e una boccetta d’inchiostro. Tali restrizioni, dovute al suo status di detenuto politico, lo obbligavano a trascurare il rapporto coi familiari di Merna/Miren per poterlo mantenere costante con la moglie, cui era delegato il compito di tenere i contatti con parenti e amici.25

|| 22 Diverse sono le ipotesi formulate che attribuiscono la responsabilità del feroce assassinio ora ai belogardisti (i collaborazionisti sloveni dei nazi-fascisti, che potevano aver agito su incarico della Gestapo), ora ai plavogardisti (cetnici sloveni al servizio del governo monarchico jugoslavo in esilio), ora ai partigiani comunisti. Sui possibili moventi del delitto cfr. M. Košuta, Vstajenje srca, cit., pp. 259–271; F. Tomizza, Gli sposi di via Rossetti, cit., pp. 203–214; Miran Košuta, Pisatelj meje, pisatelj na meji, in Fulvio Tomizza, Mladoporočenca z ulice Rossetti. Tragedija neke manjšine, prevedla Majda Capuder, Celje, Celjska Mohorjeva družba, 20132, pp. 173–181; Martin Brecelj, Anatomija političnega zločina. Trojni umor v Rossettijevi ulici med ugibanji in dejstvi, Trst, Mladika, 2016. 23 Dopo la liberazione, Vuk, considerato il capo morale dei cattolici sloveni di Trieste e del Carso, si era messo in contatto con esponenti del Fronte di Liberazione per unirsi a loro. La notizia era però trapelata e per questo egli aveva ricevuto minacce (M. Košuta, Vstajenje srca, cit., pp. 267–268; F. Tomizza in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., pp. 20–22; F. Tomizza, Gli sposi di via Rossetti, cit., pp. 29–30, 195–199). 24 F. Tomizza in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 5. 25 Ivi, p. 15; M. Košuta, Vstajenje srca, cit., pp. 287–288; Livio Berardo, Le loro prigioni. Antifascisti nel carcere di Fossano, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1994, pp. 156–159.

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Ai reclusi antifascisti si ingiungeva di limitarsi a scrivere di «argomenti strettamente famigliari», ed essi dovevano tener conto anche del destinatario- ombra, cioè del censore, che poteva essere un funzionario del carcere o la direzione centrale dell’Ovra. I prigionieri operavano dunque l’autocensura, non solo su temi politici, ma anche su argomenti personali o di famiglia, per vari motivi, ma nello stesso tempo la volontà di comunicare con l’esterno spingeva al «non dire e far capire».26 C’era poi l’obbligo di usare la lingua italiana, imposta dal regime, che certo Stanko padroneggiava egregiamente, ma che non era la sua e soprattutto non era il codice usato abitualmente tra i due sposi.27 Egli riuscì però a far pervenire alla moglie almeno tre lettere scritte in sloveno: due nascoste nel bucato, una terza la spedì durante la breve fuga avvenuta l’8 settembre 1943.28 A prescindere però dall’uso forzoso di una lingua ‘altra’, dal punto di vista contenutistico ed espressivo l’epistolario di Vuk è strettamente connesso alla sua produzione letteraria in sloveno. Nelle missive è infatti possibile trovare esattamente gli stessi temi e tòpoi presenti nelle sue precedenti opere poetiche e

|| 26 Cfr. Giancarlo Pajetta, Prefazione, in Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, Roma, Editori Riuniti, 19752, vol. I, pp. XV–XIX; Vittorio Foa, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935– 1943, a cura di Francesca Montevecchi, Torino, Einaudi, 1998, pp. XIII, XXI; Claudio Pavone, Introduzione, in Massimo Mila, Argomenti strettamente famigliari. Lettere dal carcere 1935–1940, a cura di Paolo Soddu, Torino, Einaudi, 1999, pp. V–XLV (in particolare le pp. XXXI–XXXIII); Claudio Pavone, Lettere dal carcere, in Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, vol. II, Torino, Einaudi, 2003, pp. 28–30. 27 La corrispondenza doveva avvenire in italiano, che non era solo un provvedimento censorio, ma anche un ulteriore tentativo di snazionalizzazione; se scritte in altra lingua le lettere venivano mandate a Roma per essere tradotte, lette ed eventualmente autorizzate: i tempi del recapito, già molto lunghi, si dilatavano a dismisura (L. Berardo, Le loro prigioni, cit., p. 158). Nel luglio 1933 l’insegnante sloveno Anton Rutar di Tolmino, detenuto a Fossano, scrive: «Se scrivo nello sloveno, trattengono le lettere un’eternità [...] di voi a casa nessuno sa l’italiano, perciò io sono costretto a scrivere sloveno, come se ogni parola slovena rappresentasse un pericolo per lo Stato» (ivi, pp. 158, 590–591). La difficoltà linguistica diventa una vera e propria tortura per chi conosce solo lo sloveno o il serbo-croato. Scrive lo spalatino Ante Dumanić alla madre il 18 agosto 1942: «Dieci giorni fa ti ho scritto una lettera in lingua croata. Credo che questa lettera in lingua croata tu la ricevi quando io vado al nostro Spalato o dopo la mia morte. Ti ho scritto queste parole perché per questa lettera bisogna passare per la censura a Roma e poi va a Spalato, ma credo che non passa o viene a Spalato tutta cancellata» (ivi, p. 159). «Il medesimo divieto grava in forme ancora più strazianti sui colloqui. Dušan Demšar può riabbracciare la moglie, ma “la lingua da usarsi durante i colloqui dovrà essere conosciuta dal funzionario o agente che dovrà assistere ai colloqui”. Ora a Fossano nessun agente conosce lo sloveno. Ne consegue che l’incontro dovrà essere silenzioso?» (ivi, pp. 158–159; dalla lettera di Demšar del 4 luglio 1942). 28 M. Košuta, Vstajenje srca, cit., p. 288; F. Tomizza, Gli sposi di via Rossetti, cit., pp. 166–168; G. Cartago, Per una lettura, cit., p. 190. Su questo tentativo di evasione cfr. L. Berardo, Le loro prigioni, cit., pp. 223–227.

64 | Franco Finco in prosa:29 i motivi amorosi, religiosi, paesaggistici, letterari e altri ancora, che s’intrecciano e coesistono, dimostrano che la materia dell’epistolario è sorta da un mondo spirituale ed emozionale affine, con motivazioni e ragioni creative del tutto simili.30 Il tema principale di queste lettere è indubbiamente l’espressione dei sentimenti per la moglie e il fitto dialogo intrattenuto con lei, attraverso il quale Stanko cerca costantemente di approfondire e indagare il loro rapporto, di scandagliare la psiche e gli stati d’animo di Danica, coinvolgendola nel suo progetto di perfezionamento personale e di maturazione spirituale, che origina dalla fede religiosa dell’autore e dalla loro forzata separazione.31 Così come nella sua produzione poetica precedente, anche nell’epistolario di Vuk sono fortemente presenti immagini e temi religiosi, talora espressi in toni misticheggianti. Ma, potendo essere causa di attriti e incomprensioni tra i coniugi, nelle lettere essi vengono più spesso rielaborati in forma di amorosa devozione verso la moglie.32 Anche la letteratura è un motivo ricorrente nell’epistolario, con annotazioni sulla propria attività creativa e la propria produzione (quella precedente alla detenzione o quella in progetto),33 ma anche sulle moltissime letture fatte in carcere, delle quali Stanko dà spesso ragguaglio e talvolta giudizi. Dati i limiti delle biblioteche dei penitenziari (delle quali lesse romanzi di Salgari, Harriet Beecher Stowe, Delly, Elinor Glyn, Katherine Mayo, ecc.), egli organizzò meglio i suoi studi letterari chiedendo a casa l’invio di libri o procurandoseli da solo coi pochi soldi a disposizione.34 Così lesse o rilesse Aristotele, Euripide, Sofocle, Orazio, Erasmo da Rotterdam, Deledda, Slataper, Zavattini, Michael Arlen,

|| 29 Poche sono invece le annotazioni riguardanti la vita in carcere (più frequenti nelle rare lettere da Alessandria), episodi e compagni di prigionia, gli avvenimenti politici e i loro effetti locali, ecc. Molte informazioni sull’organizzazione e le dure condizioni del carcere di Fossano si possono trovare in L. Berardo, Le loro prigioni, cit., pp. 124–177 (a pag. 126 è citato un passo della lettera di Stanko Vuk del 4 febbraio 1942). Il sacerdote e partigiano savoiardo Camille Folliet, prigioniero a Fossano e ad Alessandria dall’agosto del 1943 al marzo 1944, descrive quell’esperienza nel suo Croquis, che dedica «à Stanko Vuk et tous Dalmates et Slovènes et Croates et Serbes des prisons d’Alessandrie et de Padoue» (Camille Folliet, Croquis de prison et Chemin de croix inachevé, Annecy, Gardet et Garin, 19852, p. 3). 30 M. Košuta, Vstajenje srca, cit., p. 289. 31 Ivi, pp. 283–287, 289–292. 32 Ivi, pp. 292–294. 33 Ad esempio in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., pp. 29, 61, 67–68, 71, 79, 80, 138, 156, 171–172, 187–188 ecc. 34 Sulla biblioteca del carcere di Fossano e la lunga e macchinosa procedura per ottenere libri da parte dei carcerati si veda L. Berardo, Le loro prigioni, cit., pp. 150–156, 590–591.

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Chesterton, Jørgensen, Joyce, Paula von Preradović, Rolland, Timmermans; i medievali Francesco d’Assisi, Jacopone da Todi, i Fioretti di san Francesco, François Villon; i russi Dostoevskij, Gončarov, Gor’kij, Pil’njak, Šolokov; i nordamericani Dos Passos, Faulkner, Saroyan, Thornton Wilder; i poeti italiani contemporanei Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, Papini, Cardarelli, Gatto, Antonia Pozzi, ecc.35 Vere e proprie citazioni o reminiscenze letterarie compaiono qua e là nell’epistolario.36 Sugli scrittori sloveni si sofferma in particolare in una lettera del 4 aprile 1943, in cui cita Simon Gregorčič e la sua poesia più famosa Soči (‘all’Isonzo’); confronta poi Oton Župančič con Alojz Gradnik, considerando quest’ultimo il più grande poeta sloveno dopo France Prešeren.37 Questi è evocato indirettamente, citando l’espressione neiztrohnjeno srce (‘cuore incorrotto’),38 titolo di una sua ballata. Nella lettera dell’8 novembre 1942 compare una citazione ad sensum di tratta dall’introduzione alla raccolta Pobode iz sanj (‘Immagini dai sogni’), dove si parla della tormentosa condizione dell’essere uno scrittore.39 Nelle lettere Vuk talvolta inserisce anche i propri componimenti poetici («poesiole» o «poesioline» le definisce)40 oppure brani e abbozzi di testi in prosa, composti in carcere in lingua italiana. Questi sono per lo più collocati in chiusura di lettera: brevi narrazioni o descrizioni fatte in terza persona, come, ad esempio, il rientro di Dani dopo la visita al marito in carcere a Trieste o il batticuore provato da Stanko quando si recava a casa Tomažič:

Nevvero che ritornerai ogni domenica a farmi visita? Specialmente ora d’inverno, che verso sera fa un po’ di nebbia, si sta tanto bene da me. Ti riscalderò le manine col mio fiato caldo. [...] «Se ne andò. La fissarono, forse in attesa di qualche cosa. La figurina di bambina saggia, rapida, passava sul marciapiede sfiorando la gente. Aveva qualche cosa di indicibilmente coraggioso, altero e solitario. L’arcigna notte di Trieste la toccava con rispetto. Donne e uomini, mentre passava, la guardavano. Ave, Ninek mia! Vale, Ninek mia!» Tvoj Stanko.41

|| 35 Sulle letture di Vuk in carcere cfr. M. Košuta, Vstajenje srca, cit., pp. 294–295; F. Tomizza in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 17. 36 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., pp. 29, 41, 47, 58, 210; S. Vuk, Ljubezenska pisma, cit., pp. 22, 30, 160 ecc. 37 Ivi, p. 165. In S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 210, sono ricordate le traduzioni di Gradnik di poesie cinesi in sloveno. 38 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 199. 39 Ivi, p. 138. 40 Ad esempio in ivi, pp. 25, 26–27, 35. 41 Ivi, p. 170.

66 | Franco Finco

[...] seduta vicino alla stufa nella cucina e mentre intorno a te regnerà il più perfetto silenzio e si sentirà solamente il tic-tac della piccola sveglia e ad intervalli il rumore del tram Nº 11 quando gira alla curva. Quante volte con quel tram sono salito fino a casa vostra con il cuore impaziente che mi batteva come la piccola sveglia sulla credenza. E quando riscendevo da casa vostra per prenderlo all’angolo e tornare in città, la tua ombra si disegnava sulla finestra e quasi si allungava per toccarmi, per baciarmi un’ultima volta. «Si aperse la camicia ed ascoltò. I lunghi battiti del cuore, quasi aritmici, s’erano composti in una segreta melodia della quale dapprima non capì il contenuto, ma poi distinse chiaramente che battevano più rapidi, più densi: tic-tac, Ni-nek, tic-tac, Ni-nek. Era il ritmo di una nebulosa, di un universo in formazione.» Tvoj Stanko.42

A causa delle condizioni detentive il tema del paesaggio compare meno frequentemente nell’epistolario, ma di tanto in tanto esso brilla, estetizzato in forma un po’ impressionistica, in qualche passo, che possiamo confrontare con alcune delle migliori pagine della prosa in sloveno di Vuk:43

Ci fecero partire la notte subito dopo il processo. Partimmo ancora un po’ assonnati, storditi – senza comprendere chiaramente ciò che avveniva. In treno – alla poca luce delle lampade oscurate – ebbi l’impressione che eravamo un gruppo di uomini che fuggiva disperatamente da un luogo, lasciando dietro alle spalle qualche cosa di antico e di tragico, di insolvibile – come in fondo sono insolvibili le tragedie greche. Avevo il loro sapore in bocca e io non so cosa lessero sui nostri visi i viaggiatori quando a Mestre – mentre albeggiava – scendemmo per prendere la coincidenza. Dopo Mestre gli occhi bevettero avidamente la luce, la terra che evaporava, l’acqua che risaliva le risaie, i pioppi, le nubi, i cipressi neri e amari. Quanto tempo non li avevo visti e quanto tempo ancora non li rivedrò! Al calar della sera eravamo a Torino e vi bevemmo un vino acidulo. Poi – più tardi – a Fossano. Intravidi facciate di case coperte col muschio dell’antichità, sottoportici interminabili, oscuri, poi sentii il freddo: eravamo nel cortile della prigione. Lassù, in alto, brillavano fredde le stelle e noi eravamo così piccoli, omìni d’argilla. [...] Qui ho cortili dietro cortili, ma senza erba, battuti da zoccoli come da un continuo vento arido. Sopra: un cielo da primavera carsica. Vi navigano piccole nubi verso sud che io osservo riflettersi in un po’ d’acqua e giocare «come piccole divinità». Al vuoto dei cortili fa riscontro il silenzio del formicaio umano nelle sezioni, nei cameroni, nelle celle. Reparto politici: reparto comuni. Qui però «il tragico quotidiano» è equivalente: sveglia : ferri : conta : gavette : ferri : conta : silenzio. Alla sera, dalla caserma vicina, una tromba

|| 42 Ivi, pp. 172–173. 43 M. Košuta, Vstajenje srca, cit., p. 295.

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melanconica suona la «libera uscita». Dopopranzo, in cortile, beviamo il sole da riviera e la notte, da un campanile vicino, gocciolano lente le ore col suono dolce da «carillon».44

Oltre all’amore, alla religione, alla letteratura e al paesaggio, compaiono molti altri temi collaterali che si intrecciano e si riversano nelle lettere. In esse si mostrano molti altri segni che, al di là della comunanza di motivi e tòpoi, testimoniano l’intento letterario della scrittura epistolare di Vuk in italiano. Il più evidente di questi segni è lo stile, lo stesso utilizzato nelle sue opere letterarie composte nella lingua madre,45 passando «senza vie di mezzo da una lingua nazionale all’altra».46 La prosa epistolare di Vuk è ricca di metafore e similitudini, di allegorie e di immagini simboliche, talvolta nuove e talvolta riprese dalle precedenti prove letterarie in sloveno: ad esempio la quasi ossimorica «colomba selvaggia» riferita a Danica riprende la «divja golobica» della poesia Golobica (‘Colombella’), pubblicata sulla rivista «Dejanje» nel 1940.47 Va detto inoltre che, nonostante l’uso dell’italiano fosse imposto dal regime carcerario, vale anche per il letterato Vuk la considerazione di Furio Brugnolo, secondo il quale «l’uso letterario dell’italiano da parte di stranieri comporti, e abbia comportato sempre, una ricerca stilistica – quali che fossero poi gli effettivi risultati – che sarebbe ben difficile riscontrare in altri ambiti dell’eteroglossia europea [...]. Il problema del rapporto tra contenuto e forma, che comunque nell’uso della lingua ‘altra’ a fini letterari acquista particolare rilevanza, diventa, nel caso degli usi alloglotti dell’italiano, assolutamente centrale».48 L’italiano di Vuk è naturalmente quanto mai lontano da quello usato dal regime fascista e dall’oratoria mussoliniana, enfatico e declamatorio, sentenzioso e intriso di dannunzianesimo; egli inclina invece fortemente al linguaggio della poesia intimistica italiana. La scelta dei mezzi linguistici è oltremodo coerente con la definizione del proprio io letterario che Stanko fornì agli inquirenti fascisti durante le indagini preliminari: «Come poeta appartengo alla scuola di Ungaretti».49 L’inclinazione a una raffinatezza al limite

|| 44 Lettera dal carcere di Fossano del 4 febbraio 1942 (S. Vuk, Scritture d’amore, cit., pp. 57–58). Si noti il riferimento al titolo della raccolta di novelle ‘metafisiche’ di Giovanni Papini Il tragico quotidiano (1906), tra le quali particolarmente suggestiva appare La profezia del prigioniero. La citazione di Leibniz come piccole divinità rinvia alla concezione delle monadi, e proviene dalla lettera a Isaac Jacquelot del 9 febbraio 1704. 45 M. Košuta, Vstajenje srca, cit., p. 296. 46 F. Tomizza, Gli sposi di via Rossetti, cit., p. 112. 47 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., pp. 79, 82, 152; S. Vuk, Pomlad pod Krasom, cit., p. 65. 48 Furio Brugnolo, La lingua di cui si vanta Amore. Scrittori stranieri in lingua italiana dal Medioevo al Novecento, Roma, Carocci, 2009, pp. 28–29. 49 M. Košuta, Vstajenje srca, cit., p. 296.

68 | Franco Finco dell’estetismo e la stessa solennità di certi suoi sentimenti lo facevano talvolta inclinare a un italiano letterario forbito, accademico, addirittura aulico.50 Nel vocabolario di Vuk compaiono lessemi stilisticamente marcati in tal senso: diaccio è preferito a ghiacciato;51 apportare, arcano, assidersi, destarsi, infiorire, obliare, portarsi, sperdersi, splendidità compaiono accanto ai corrispondenti portare, misterioso, sedersi, svegliarsi, infiorare, dimenticare, comportarsi, perdersi, splendore ecc.:

Tu forse non puoi comprendere quanta felicità mi apporta questo tuo gesto, perché non sai quali pensieri desta in me.52 Io non so che ripeterti la mia promessa che vicino a me, alto come un pioppo, ci sarà sempre quell’ombra nella quale potrai assiderti e riposare.53 Io sento che non avresti potuto portarti in modo più splendido, più bello di quello che ti sei portata in questo periodo.54 Ho da ringraziarti per un dono magnifico, per il libro delle sacre rappresentazioni. Ma più che per il libro ho da ringraziarti per una splendidità: per aver letto nel mio cuore che lo desideravo.55 Quando ricevi una mia, rispondimi la sera stessa, non attendere due tre giorni perché se no il soffio del mio amore che ti investe quando la apri, si sperde e poi mi rispondi come se non l’avessi letta.56

Oltre al lessico, anche i costrutti grammaticali e le strutture sintattiche rispecchiano spesso modelli letterari, soprattutto nei passi a cui Vuk voleva conferire maggior espressività o solennità:

Io con la mia sregolatezza entro nella tua regolarità come il vento entra in una betulla, le smuove tutte le sue foglie, le fa vibrare e le fa cantare come nessun altro riuscirebbe, spreme da esse la loro più dolce e più arcana melodia, ciò che esse da sole mai potrebbero, ciò che non potrei nemmeno io se crescessi vicino a te, quanto caldamente vuoi, ma placidamente, senza scosse.57 Ho pensato che se allora, irrequieto a somiglianza del ragazzo che ha rubato un pomo e non si sente sicuro nel possesso di un sì dolce frutto, sempre timoroso che qualcuno glielo riprenda, ho potuto renderti ugualmente felice [...].58

|| 50 F. Tomizza in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 15; M. Košuta, Vstajenje srca, cit., p. 296; G. Cartago, Per una lettura, cit., p. 188. 51 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., pp. 90, 130. 52 Ivi, p. 48. 53 Ivi, p. 97. 54 Ivi, p. 133. 55 Ivi, p. 107. 56 Ivi, p. 95. 57 Ivi, p. 216. 58 Ivi, pp. 65–66.

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Abbimi dunque per scusato se proprio quando avevi molto bisogno di una mia, essa non ti è pervenuta.59 Che un giorno cessassi d’amarti io, non ho mai pensato.60

In quest’ultimo esempio si può notare l’uso di un particolare costrutto marcato: la dislocazione a sinistra della proposizione oggettiva, che concentra su questa il centro dell’interesse comunicativo dello scrittore (topicalizzazione). Si osservi tuttavia che la reggente è priva del pronome clitico di ripresa, obbligatorio in italiano;61 si tratta di un riflesso della sintassi slovena, lingua materna di Vuk. Altri transfer dal sostrato sloveno dell’autore emergono qua e là nell’epistolario, ma in verità essi risultano abbastanza rari: l’italiano di Vuk è generalmente molto sorvegliato. Segnaliamo qui alcuni casi che riguardano il livello morfo-sintattico. Qui mi trovo meglio come a Trieste,62 dove troviamo come (al posto di che) influenzato dalla soggiacente congiunzione slovena kot, che corrisponde all’avverbio e congiunzione come in altre proposizioni comparative italiane (uguaglianza, identità, somiglianza), ma, a differenza dello sloveno kot, il come non può introdurre il secondo termine di paragone nella comparazione di maggioranza. L’uso transitivo di verbi intransitivi: [...] so che ciò ti arrabbiava tanto e ora non so più fare alcuna cosa per arrabbiarti,63 su influenza del verbo sloveno razjeziti (‘fare arrabbiare’) che è transitivo. L’errata selezione dell’ausiliare rappresenta un ipercorrettismo, dato che in sloveno vi è il solo ausiliare biti (‘essere’) a formare i tempi composti: e tante volte mi domando perché queste cose non ce le abbiamo dette prima.64 Anche la limitata occorrenza di forme passive può riflettere la soggiacente morfo-sintassi slovena. La lingua materna di Stanko compare però anche in modo scoperto, con l’inserimento di alcuni elementi sloveni nei testi delle lettere.65 Dapprima tali innesti sono prudentemente limitati all’onomastica (soprattutto nell’uso di ipocoristici e alteronimi Ninek, Citka, Gipka, Fidek, Lolek ecc.) o a elementi tipici

|| 59 Ivi, p. 91. 60 Ivi, p. 105. 61 Grande grammatica italiana di consultazione, a cura di Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi e Anna Cardinaletti, vol. I, La frase. I sintagmi nominale e preposizionale, Bologna, il Mulino, 20012, p. 203. 62 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 59. 63 Ivi, p. 149. 64 Ivi, p. 38. 65 M. Košuta, Vstajenje srca, cit., p. 297.

70 | Franco Finco del paesaggio carsico (gmajna,66 jame globočnice, ‘grotte profonde’); essi diventano poi sempre più frequenti, soprattutto nella corrispondenza dal carcere di Fossano, dove la censura appare meno rigida o meno prevenuta. A mogliettina subentra sempre più spesso il corrispondente sloveno ženička (doppio diminutivo di žena, ‘donna’ e ‘moglie’) nelle molte varianti del saluto iniziale: da Carissima (mia) mogliettina a Carissima ženička, poi Predraga ženička (‘carissima mogliettina’), Ženička moja ljubljena (‘mogliettina mia amata’), Prelepa moja ženička (‘mia bellissima mogliettina’); così come nella chiusa dalla formula tuo Stanko si passa sistematicamente al possessivo sloveno tvoj Stanko a partire dal luglio 1942. A volte questi elementi sloveni paiono inseriti per superare l’incertezza riguardo il registro linguistico utilizzato,67 ma soprattutto per «precisare uno stato d’animo o per eludere la sorveglianza quando il prigioniero si abbandona alle confidenze e persino alle trame erotiche, o allorché tenta di trasmettere un messaggio politico».68 Tale esigenza si fa talora irrinunciabile:

Alle volte, nel mio cuore ti chiamo con parole che non so tradurre. Ti dico «moj beli kruhek» [‘mio piccolo pane bianco’]. Il «kruhek» che si incorporava nella «Zibka» [‘culla’, titolo di una poesia di Vuk], che ora s’incorpora nelle tue lettere odorose nutrendomi della propria anima e dissetandomi col sangue del proprio cuore.69 Mi hai chiamato «moj mili» [‘mio amato’], una parola che non ho sentita, né letta, né pensata da più di due anni. M’è sembrato che tutto il mio sangue si fondesse in una campana rossa e vibrasse al suono di questa parola. Moj mili ...70 E quando puoi implora ancora: daj, dajmi tvoje ljubezni [‘dai, dammi il tuo amore’], perché quando le leggo una sconosciuta dolcezza entra nel mio cuore e mi beatifica.71

Tra gli elementi sloveni che affiorano nell’epistolario sono frequentissime le forme diminutive e vezzeggiative, spesso usate metaforicamente, che fanno parte di quel linguaggio sentimentale – dai tratti anche infantili – che è il codice comunicativo confidenziale tra i due innamorati: devičica e devička (‘verginella’), golobica e golobička (‘colombella’), ježek (‘riccetto’), koščice (‘ossicini’), kraljička (‘reginetta’), kruhek (‘piccolo pane’), lepotička (‘piccola bellezza’), ptička

|| 66 Gmajna è parola del dialetto sloveno del Carso che significa «terreno carsico incolto, sfruttato come pascolo (di proprietà comunale, donde il nome – dal ted. “gemein”)» (M. Matičetov in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 245). 67 Cfr. G. Cartago, Per una lettura, cit., p. 186. 68 F. Tomizza in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 16. 69 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 71. 70 Ivi, p. 89. 71 Ivi, p. 90.

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(‘uccellino’), skrinjica (‘piccolo scrigno’), srček (‘cuoricino’), stolček (‘seggiolina’), ženička (‘mogliettina’), ecc. A questi va aggiunto il ripetuto appellativo mitkena (‘piccolina’), tipico della parlata infantile.72 Tale uso è rispecchiato dall’alta frequenza di diminutivi e vezzeggiativi anche nell’italiano di Vuk: ad es. bacini, berrettino, biscottini, campanellina, canzoncine, cuoricino, gonnellina, manine, fiorellini, foglioline, letterine, margheritine, nastrini, occhietti, padroncina, piedini, reginella e reginetta, scarpette, stanzetta, stelline, tortorelle, ecc. A volte gli slovenismi sono glossati,73 per poter superar meglio il vaglio dei censori, altre volte sono le espressioni italiane o dialettali a venir glossate in sloveno:

È questa una morbidezza (– mehkoba –) quasi fisica, una morbidezza quasi da polpa di pesca che ho trovato in te accarezzandoti [...].74 Qualche volta desidero che tu fossi un po’ meno coccola, in sloveno si dice «ljubka», perché così io potrei essere un po’ meno innamorato di te [...].75

Quest’ultimo esempio ci permette di parlare dei regionalismi (come nappa, ‘cappa del camino’, e bacchetta, ‘frusta’)76 e dialettismi del veneto-giuliano (triestino e goriziano) che Vuk usa volentieri nelle sue lettere, a partire dal prediletto e frequente aggettivo còcola (scritto coccola), ‘graziosa, carina’:

Sei così coccola! Coccola nel tuo piccolo camminare raccolto e pensoso, coccola nel pettinare i tuoi capelli d’oro, coccola nel tuo vestirti, coccola, coccola, coccola.77

Nel carteggio compaiono vere e proprie immissioni di dialetto triestino, «locuzioni che sembrano familiarmente rivendicare ciò che più si contrasta a loro sloveni, il pieno diritto alla cittadinanza giuliana, che dovrebbe invece fungere da punto di raccordo»:78

|| 72 M. Matičetov in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 246. 73 Ad es. «La «lutka» (il pupo) [...] il «lutkar» (pupazzaro)» (S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 188). 74 Ivi, p. 76. 75 Ivi, p. 103. 76 Ivi, pp. 118, 121. 77 Ivi, p. 82. 78 F. Tomizza in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 16. «Dani e Stanko incarnano la “giulianità” più autentica ricorrendo talora a sfumature rare di quella parlata per loro neutra che è il dialetto veneto di Trieste e di Gorizia» (Fulvio Tomizza, Riflessioni sui miei “Sposi”, in Id., Alle spalle di Trieste, Milano, Bompiani, 1995, pp. 105–109 [citazione a p. 106]; l’articolo era già apparso sul quotidiano «Il Gazzettino» del 31 agosto 1986).

72 | Franco Finco

E ora ti insegnerò un’altra cosa e cioè quando ritornerai dal medico che ti ha curato sin da piccola e ti dirà di nuovo: «Cossa, il marito ti ga già? E dove te lo ga ciolto?», tu rispondigli: «La me domandi piutosto dove che lo go lascià, ara ti!»79 Sei molto cara in queste tue, quasi ne esci fuori dai fogli come qualche cosa di soffice e di vaporoso, insomma – ocio de soto che no perdemo la testa.80

Stanko Vuk era molto interessato alle varietà linguistiche, e nella sua corrispondenza impiega volentieri le espressioni dialettali (di dialetti italiani, sloveni e croati). Da compagni di detenzione o commilitoni meridionali avrà imparato le espressioni Embè, pacenza! (‘ebbene, pazienza’), a ’ccà intru (‘qua dentro’), riportate in due lettere del 1940.81 E si vedano le frasi dello scopino piemontese in servizio al penitenziario di Fossano, che hanno le caratteristiche dell’aneddoto:

Non so se ti ho scritto che abbiamo un vecchio scopino, ma duro e forte ancora come un acero, che lavora da mattina a sera e non vuole mai riposarsi. Quando vado all’aria mi lava ogni giorno il pavimento della cella e benché abbia cercato di dissuaderlo mi ha risposto brevemente che «ün l’è per lavorà e ün per stüdià». Tempo fa, ritornando dall’aria, l’ho trovato davanti alla tua fotografia, quella nell’antico costume, in religiosa ammirazione. «Che Madonna l’è?» mi ha domandato e quando gli ho spiegato che è la mia mogliettina mi ha risposto serio serio: «E mi che volevi farmi el segno de la cros!» cioè voleva farsi il segno della croce pensando che sei una santa.82

L’etnologo Milko Matičetov, amico e collaboratore di Stanko Vuk, ci dà testimonianza del grande interesse di quest’ultimo per i dialetti e le varietà linguistiche. Egli ricorda l’entusiasmo con il quale Vuk recitava le Balade Petrice Kerempuha (‘Le ballate di Petrica Kerempuh’), scritte da Miroslav Krleža nel dialetto croato kajkavo dello Zagorje. E cita anche un altro episodio: quando lo slavista France Bezlaj, di passaggio a Gorizia, lesse a Vuk alcuni testi del poeta autodidatta Pietro Negro (Uiǧo Škurjan), scritti nel dialetto sloveno tersko, il nostro fece subito tesoro dei passi più salienti che ripeté poi a Matičetov.83 Un passo della lettera del 20 dicembre 1942 ci fornisce un’ulteriore attestazione di tale interesse, con l’impiego da parte di Vuk di elementi dialettali e anche gergali:

|| 79 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 52. 80 Ivi, p. 214. 81 Ivi, p. 27; S. Vuk, Ljubezenska pisma, cit., p 9. 82 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 129. 83 M. Matičetov in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 244; M. Matičetov in S. Vuk, Ljubezenska pisma, cit., p. 308.

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«Benedetta quella putella» dicono i goriziani quando vedono una ragazza carina e questo è proprio il mio sospiro quando penso a te oppure guardo il tuo «grintino» che poi nel gergo della malavita vuol dire «ritratto» perché «la grintina» è la faccia della ragazza che si ama.84

Accanto alla battuta nel dialetto veneto-giuliano di Gorizia, compare qui anche il linguaggio furbesco, con quel grintino che è documentato con il significato di ‘volto’, ‘testa’,85 ma in forma femminile ha assunto nel gergo carcerario la particolare accezione di ‘ritratto’, ‘foto del volto della donna amata’, di cui ci dà testimonianza Vuk nella sua lettera. Da segnalare nell’epistolario anche i riferimenti o le citazioni di canti popolari, come la canzone croata spalatina imparata in carcere a Fossano,86 la ballata amorosa della sposa carsica87 oppure l’antico canto popolare croato Popuhnul je tihi vjetar, di cui esistono in Istria e Dalmazia molte varianti, che Stanko menziona in due lettere:

Conosci una canzoncina che dice «Popihnul je tihi vjetar i odnesal Mari krunicu» (‘soffiò il vento silenzioso e a Mara portò via la corona’)?88 Ma lo sai, ma ti accorgi che ti voglio tanto bene? Un bene settembrino, quello che spira dalla canzoncina «Soffiò il vento silenzioso, soffiò – e alla Mara via la corona portò – via portò» quella canzoncina che cantano i nativi delle isole istriane. La conosci? È così bella.89

Il canto popolare abruzzese, citato nella lettera del 20 ottobre 1940, è inteso come accompagnamento canoro all’immagine della cerimonia di vestizione della reginella Dani, la cui solennità è scandita a livello testuale anche dall’anadiplosi di in ogni seconda riga e di così delicatamente. Il dialettale reggenelle si ric ollega e rinvia anche alle varie reginetta, reginella e kraljička, ripetute più volte nelle lettere. La ghirlandetta è certamente un riferimento dantesco:

Quanto sono innamorato di te! Te lo scriverei in ogni seconda riga e in ogni seconda riga ti vestirei di nuovo come una reginella. Le mie mani sono mani da uomo ma ti vestirebbero così delicatamente e così delicatamente ti porrebbero la ghirlandetta in testa. E tu giuocheresti con me questo giuoco? «Nannè, Nannè, quanto si belle!

|| 84 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 169. 85 Gian Domenico Zucca u Stuk, Spulci gergali al «Panzini» 1950, «Lares», LXVI, 2000, n. 1, pp. 37–153 (grintino a p. 93). 86 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 68. 87 Ivi, p. 80. 88 Ivi, p. 47; in S. Vuk, Ljubezenska pisma, cit., p. 80 è citato diversamente: «Popuhhnul je tihi vjetar i odnesal Mari krunu». 89 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 129.

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Nannè, Nannè, quante si ’bone! Tu si ’na sempaticone, Tu si ’na reggenelle!» La conosci? La ricordi ancora? È da Castelli dove eri confinata e ogni tanto riecheggia nel mio cuore: «Nannè, Nannè, quanto si belle... Nannè, Nannè, tu si na reggenelle!»90

Nell’epistolario compare, infine, anche un canto di naia, appreso anni prima durante il servizio militare e riportato alla mente dalla sofferenza prodotta dalla forzata separazione dall’amata:

La notte mi sembra che tutto questo amore mi si coaguli intorno al cuore come una nebbia argentea e lo stringa con un dolore acuto, costante e non mi lascia finché non riesco ad appoggiarmi sull’orlo della notte e a intravedere l’alba e allora mi butto dell’acqua fredda sul viso e divento un prigioniero qualsiasi, un numero... che dal profondo del carcere ti canta quella melanconica canzonetta di soldati: O voi compagni miei che state in libertà scrivete a ’la mia bella: «Mi trovo carcerà» e i muri ripetono l’eco: «Mi trovo carcerà»91

La nebbia argentea potrebbe essere una suggestione dal Carducci di Autunno romantico, oppure essere ripresa dall’opera Prevaljška legenda (‘La leggenda di Prevalje’) di Franc Sušnik, pubblicata nel 1933 su «Slovenec» (nn. 43–52), giornale del cattolicesimo politico sloveno, dove la srebrna megla (‘nebbia argentea’) compare nel quadro 20 (Na veliko Gospojnico).92 Meriterebbe condurre un confronto tra l’opera di Sušnik e quella di Vuk, in particolare con il poema ciclico Križev pot (‘Via Crucis’) del 1936.93 Grande appassionato d’arte, soprattutto sacra, Stanko Vuk aveva visitato più volte la Toscana e l’ancor più congeniale Umbria. A questa regione lo legava la

|| 90 Ivi, p. 177. 91 Ivi, p. 29. In precedenza Vuk aveva inserito una versione in sloveno di questa kasarniška pesem (‘canto di caserma’) nella sua novella Človek (‘Uomo’), pubblicata con lo pseudonimo di Sergej Mantuani nel volume di Cirillo Drekonja, Beg iz življenja in drugi spisi (‘Fuga dalla vita e altri scritti’), Gorizia, Unione Editoriale Goriziana, 1936, pp. 45–52: O, kamerad moj zvestia / ki na svobodi si, / sporoči moji dragi: / Ti v ječi fant sedi. / Ti v ječi fant sedi... (S. Vuk, Pomlad pod Krasom, cit., pp. 141, 170). 92 Franc Sušnik, Prevaljška legenda, Celovec, Mohorjeva družba, 2001, p. 36. 93 Per la datazione del poema vedi L. Legiša, Tragična zgodba, cit. p. 288. Sulla Križev pot cfr. K. Šalamun-Biedrzycka, Mraz je srebrn, cit., pp. 331–333, e V. Žerjal Pavlin, Križev pot Stanka Vuka, cit.

Le lettere dalla prigionia di Stanko Vuk | 75 grande devozione per San Francesco d’Assisi, il che spiega la sua attrazione per il linguaggio poetico medievale d’ambito francescano: il Cantico delle creature, Jacopone da Todi, I fioretti di san Francesco:94

cammineremo contro vento cantando la nostra felicità all’acqua, alla «sirocchia acqua», alle stelle «belle e clarite», a «messer frate lo cielo», ché tutto è stato creato per fare da cornice ai nostri due cuori che si vogliono tanto bene...95 Sul muro della cella ho scritto «Scrivi frate Leone, quivi sta la perfetta letizia».96

Si tratta di citazioni a memoria, approssimative: nel Cantico l’acqua è semplicemente sor’aqua (sirocchia proviene dai Fioretti), non compare messer frate lo cielo (ma messor lo frate sole) e gli attributi delle stelle belle e clarite fanno parte in realtà di una triade: Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: / in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.97 Il passo dei Fioretti, scritto sul muro della cella, in realtà suona o frate Leone scrivi che qui è perfetta letizia.98 Ma più che la citazione precisa di quei passi a Stanko saranno importate maggiormente le suggestioni di tale linguaggio poetico religioso e le immagini da esso veicolate, congeniali all’espressione della sua devozione amorosa. Anche l’organizzazione testuale e il piano sintattico palesano l’intento letterario di Vuk. Esso si rivela, ad esempio, nell’uso di strutture polisindetiche, dove il carico emotivo del messaggio è spesso retto dalla congiunzione e (negli esempi seguenti anche dall’anafora), così come pure in alcuni asindeti, nei quali il poeta esprime retoricamente l’accrescersi del suo amore devoto:99

E sappi che amo la tua selvatichezza. Sono io che ti ho chiamato per primo “colomba selvaggia” e so che vuoi mantenerti tale per essere più completamente mia, perché nessuno abbia la minima parte del tuo pensiero e del tuo affetto. E sappi che amo vederti debole e esitante perciò così posso vedere che hai bisogno di me, che ti sono necessario per il tuo sacrificio quotidiano. E sappi che non credo alla tua mente fredda ma al tuo cuore di donna giovane che ama.100 Oh, come invidio quei guantini bianchi che imprigionano le tue manine dolcissime,

|| 94 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., pp. 59, 120–121; S. Vuk, Ljubezenska pisma, cit., p. 28; F. Tomizza, Gli sposi di via Rossetti, cit., p. 132. 95 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 41. 96 Ivi, p. 47. 97 Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, vol. I/1, Testi arcaici, scuola siciliana, poesia cortese, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1960, p. 33. 98 I Fioretti di san Francesco, a cura di Guido Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1964, p. 27. 99 M. Košuta, Vstajenje srca, cit., p. 297. 100 S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 79.

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quelle scarpette che stringono i tuoi piedini, che io bacerò per ringraziarti di tante sofferenze invidio ogni pezzettino del tuo vestito invidio il vento che accarezza i tuoi capelli d’oro invidio la pioggia che ti bagna il viso e invidio le infinite stelline della sera estiva che possono pellegrinare su quel pezzettino di cielo azzurro che si vede dalla tua finestra... Perché ti voglio bene, immensamente bene.101

Nell’epistolario Vuk fa ampio ricorso alle figure dell’iterazione, alle quali è affidata la coesione testuale e l’intensificazione stilistica. La ripetizione degli elementi in parallelo conferisce un carattere poetico al testo epistolare, poiché caratteristica del testo poetico sono i parallelismi su tutti i livelli della sua organizzazione.102 L’iterazione si manifesta dunque su tutti i livelli: sul piano lessicale con ripetizioni di parole; sul piano morfo-sintattico con il ricorrere agli stessi costrutti, alle stesse strutture sintattiche; sul piano tematico con il ripresentarsi nello stesso testo di temi e tópoi:

[1] Ho passato questa settimana sentendomi un poco in paradiso. E questo paradiso l’hai creato tu. Le tue lettere così belle, così innamorate, erano le ali argentee degli angeli e i piccoli santi passeggiavano silenziosi intorno al mio cuore, ed erano le tue ultime fotografie, e guardavo un libro pieno di primavera ed era il libro che mi hai spedito tu. Ninek,103 se mi sorridi col tuo cuore innamorato, io sono così così felice! [2] Ecco le fotografie, ecco il Ninek che mi prende con la sua mano e mi porta con sé. Come è carina! Mai mi sazio di ammirarla. Si siede sulle scale e le pieghe della gonnella sono dolci e i riflessi delle calze sono di un argento cupo. E nelle sopracciglia c’è l’amore e si intuiscono le piccole orchidee selvagge col loro pulsare eterno di dolcissima colomba selvaggia. E la gonnella è un piccolo agnello che bela l’amore. Ninek, perché sei così carina? [...] [3] Lo eri anche quando ti ho conosciuto – salendo dal Bar Littorio a casa vostra osservavo il dolce ondeggiare della tua gonna fiorita che suonava, come una piccola campana, a

|| 101 Ivi, pp. 41–42. 102 In base al ben noto ‘principio del parallelismo’ formulato da Jakobson (Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, a cura di Luigi Heilmann, Milano, Feltrinelli, 2002 (1966), pp. 41, 45, 205–206). 103 Ipocoristico vezzeggiativo di Danica, di genere maschile, usato come nome privato ed esclusivo: «Ogni tanto ricevo una tua sulla quale ti firmi “Ninek”. Tu forse non puoi comprendere quanta felicità mi apporta questo tuo gesto, perché non sai quali pensieri desta in me. Perché, vedi, tu non sei più Dani. Da quando ci siamo conosciuti, la Dani ha cominciato a sparire e in quest’anno di separazione è morta. La Dani non c’è più, è nato il Ninek. Ha ereditato dalla Dani tutto ciò che essa aveva di buono e ha lasciato che il resto si disperda come si disperdeva il freddo da quelle scarpette marron poste sotto il termosifone. Ora non c’è che il Ninek. Ed esso mi è caro perché è mio, tutto mio, solamente mio dal giorno che è nato» (lettera del 12 novembre 1941, in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 48).

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nozze – ma non proprio così. Eri come un bocciolo di rosa chiuso. E quando sei fiorita? Chi ti mette quella cipria dorata sulle guance, chi ti guida la mano nello scegliere le calze nere con riflessi d’argento cupo che io amo? Chi ti fa, dalla parte del cuore, una dolce piega sulla camicetta che mi innamora di te? Chi? Chi? Dimmelo, che io lo ringrazi. [...] [4] Una grande luce – bianca come la luce polare – fiorisce continuamente intorno al mio cuore e sono i pensieri che tu incarichi ogni sera l’angelo custode di portarmi. E una notte ho visto il piatto d’oro che portava in cielo e sopra erano posati tre bacini per me e una violetta. La mattina ho pensato che fosse stato un sogno, ma non lo era, era la realtà, nevvero Ninek? E una notte tutta l’oscurità era fiorita di peschi e delle loro foglioline e anche questo non era sogno ma era realtà perché io so che tu me li mandi ogni sera sulle bianche ali dell’angelo custode perché possa baciarli e ringraziarli perché fioriscono sempre intorno a te e ti custodiscono. [5] Una grande luce azzurra – simile all’acqua dei laghi alpini – scorre continuamente nella mia anima ed è l’amore che porto per la tua anima. Da quando ho sentito che sei mia, mia, questa luce azzurra non cessa di bagnarti. E intorno ti sta l’aureola dorata di piccole orchidee selvagge che un giorno bagnerai col tuo amore bianco e latteo. Ma un po’ di quell’amore latteo darai anche a me per spegnere questa sete d’innamoramento che porto per te da tre anni. [6] E ho sentito un batter d’ali e ho sentito che mi vuoi bene appassionatamente. E ho rivisto le piccole labbra un po’ pallide, ma sante come un’ostia consacrata e la luce delle nevi di Sappada mi ha inondato. E ho sentito il frusciar delle piccole foglie dorate autunnali sull’orlo della gmajna in un autunno lontano e la nebbia che ci circondava e una sera d’agosto è venuta ad accarezzarmi le mani. E in una pallida convalescenza si è aperta la tenda di pizzi e di margheritine e mi ha nutrito della sua salute. E ho colto un fiorellino azzurro come il cielo carsico e tu sei una piccola monaca nei suoi veli candidi che mi attende. [7] E ora ecco il lento roteare cosmico delle stelle nel mio paradiso e sono i tuoi sorrisi. Ed ecco un batter d’ali di angeli e sono le tue lettere. Ed ecco il camminare silenzioso e raccolto di piccoli santi e il belare di agnelli che implorano l’amore. Ecco la pioggia trasparente e le nebbie che fioriscono come pizzi. Ecco le tortorelle dalla bianca gola che risalgono appassionatamente verso i cieli azzurri e profondi, ecco che ti pieghi dalla parte del cuore e mi ascolti.104

Si noti in questo brano il ricorso alle figure della repetitio, in particolare le frequenti anafore (spesso in polisindeti): Una grande luce... / Una grande luce... (§§ 4, 5) – E una notte... / E una notte... (§ 4) – Da quando ho sentito... / E ho sentito... e ho sentito... / E ho rivisto... / E ho sentito... (§§ 5, 6) – E ora ecco... / Ed ecco... / Ed ecco... / Ecco... / Ecco... (§ 7); come pure il ricorrere di temi e immagini che si collegano e rinviano, a livello macrotestuale, ad altri passi dell’epistolario: la luce colorata, l’angelo e le sue ali, i pizzi, il fiorire e i fiori di vario tipo, la nebbia,

|| 104 Ivi, pp. 82–83.

78 | Franco Finco le stelle, ecc.105 Motivi e immagini ricorrono anche con variazione sinonimica (es. bianco/latteo/candido, colomba/tortorella) o iponimica (es. fiori e fiorellini accanto a orchidee, violetta, rosa, fiori di pesco, margheritine). La co-occorrenza di elementi appartenenti allo stesso àmbito semantico-concettuale: ad es. i colori: bianco/latteo/candido, oro/dorato, argenteo/d’argento, azzurro; oppure gli elementi della sfera mistico-religiosa metaforizzati in immagini della devozione amorosa di Stanko per la moglie: paradiso, angelo custode, santi, aureola, agnello, campana, colomba, ostia consacrata, monaca. Frequenti sono poi i sintagmi diadici composti dall’aggettivo piccolo attribuito a un sostantivo, laddove la semantica della minutezza e dell’affettività è più frequentemente espressa per mezzo degli alterati diminutivi e vezzeggiativi (vedi supra): i piccoli santi, le piccole orchidee, un piccolo agnello, una piccola campana, le piccole labbra, le piccole foglie, una piccola monaca. Si leggano ancora i seguenti brani in cui l’insistito uso dell’anafora (che può anche essere il proseguimento di un’anadiplosi, come nel primo esempio), inserita in strutture asindetiche, produce un fraseggio legato, con un effetto di fluidità e scorrevolezza. L’anafora è la figura retorica tipica delle preghiere e delle invocazioni.

No – ora io ti conosco, conosco le tue strade, la tua fedeltà, conosco il tuo amore, ma conosco soprattutto la tua viva fedeltà che non ha limiti.106 Vorrei vederti piccola, infinitamente piccola, brulla come l’erba del Carso, senza sapore e titubante, vorrei schiacciarti, appiattirti, vorrei scioglierti come il vento caldo del sud scioglie la neve primaverile, vorrei ridurti al nulla – per poter amarti un po’ di meno, per non soffrire tanto.107

Secondo Miran Košuta, «nonostante sia espressa forzatamente in una lingua straniera, la parola di Vuk [...] è fluida, scorrevole e letterariamente versata. Di modo che è possibile considerare le Scritture d’amore come un documento unico ed eccezionale della letteratura epistolare slovena – in una lingua straniera! [...] Così è da sperare che – accanto alle prove poetiche e in prosa di Stanko Vuk, meno rifinite o solo abbozzate, – le Scritture d’amore avranno un destino, quale si è compiuto – ad esempio – per l’epistolario di Byron e George Sand: acquistare

|| 105 Ad esempio l’immagine dell’angelo con le ali bianche, latore di messaggi, compare anche nelle lettere del 25 giugno e 2 luglio 1942 (Ivi, pp. 90, 92). 106 Ivi, p. 158. 107 Ivi, p. 78.

Le lettere dalla prigionia di Stanko Vuk | 79 pari valore, secondo il giudizio critico, se non diventare addirittura la creazione più importante dell’intera opera letteraria dell’artista».108 Nel mondo culturale sloveno, soprattutto del Litorale, il carteggio e la vicenda dei coniugi Vuk hanno ispirato varie opere, tra cui il dramma di Tone Partljič Kakor pečat na srce (‘Come un sigillo sul cuore’) del 1991, il Vukov večer (‘La serata di Vuk’) creato nel 1991 da Milko Matičetov e Tone Kuntner, e l’adattamento drammatico di Tamara Matevc Zaljubljeni v smrt (‘Innamorati della morte’) del 2009. Ma oltre ad appartenere alla storia sociale e culturale degli sloveni giuliani (primorci) e più in generale alla letteratura slovena, l’epistolario di Stanko Vuk può rivendicare un suo spazio anche nell’àmbito delle lettere italiane, non solo come fonte ispiratrice del romanzo tomizziano, ma anche come fenomeno letterario in sé: appassionata e sofferta testimonianza umana e al contempo espressione di quel territorio plurilingue, culturalmente e paesaggisticamente variato, che dalle Alpi Giulie, attraverso il Collio e il Carso, si estende fino all’Adriatico.109 Secondo Tomizza «le lettere dal carcere di Stanko Vuk in lingua italiana costituiscono un capitolo di storia e una prova letteraria non certo circoscritte al suo mondo sloveno. Per noi italiani sono un prestito forzato che arricchisce la nostra letteratura di accenti propri di questa terra e che non può non tradursi in un largo credito aperto a quanti ritengono necessaria la convivenza fraterna tra le due etnie».110 Nel panorama culturale e letterario italiano il confronto che sorge più spontaneo è, naturalmente, quello con le Lettere dal carcere di , accostabili sotto diversi aspetti a quelle di Stanko Vuk, ma andrebbero considerate anche le lettere scritte in prigione da altri intellettuali antifascisti come Vittorio Foa, Massimo Mila, Augusto Monti, Ernesto Rossi, tra i quali anche scrittori e artisti come , , ecc.111

|| 108 M. Košuta, Vstajenje srca, cit., p. 288 (traduzione dello scrivente). 109 Sulle travagliate vicende storiche e la ricchezza culturale, linguistica e letteraria di questo territorio (variamente denominato Küstenland/Litorale/Primorje/Venezia Giulia) cfr. M. Košuta, Scritture parallele, cit., pp. 105–144; Miran Košuta, Slovenica. Peripli letterari italo-sloveni, introduzione di Claudio Magris, Reggio Emilia, Diabasis, 2005; Angelo Ara-Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982; Cristina Benussi, Triest(e): Kultur, aber welche?, in Kacianka-Strutz, Sprachlandschaften, cit., pp. 52–67; Cristina Benussi, Letterature e lingue sul confine orientale, «Lingue Culture Mediazioni/Languages Culture Mediation», III, 2016, n. 1, pp. 31–45. 110 F. Tomizza in S. Vuk, Scritture d’amore, cit., p. 22. 111 Le lettere sono pubblicate in: V. Foa, Lettere, cit.; M. Mila, Argomenti strettamente famigliari, cit.; Augusto Monti, Lettere a Luisotta, Torino, Einaudi, 1977; Ernesto Rossi, Nove anni

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Da un punto di vista tipologico e ‘italiano’ le Scritture d’amore di Vuk rientrano a pieno titolo nell’ambito della letteratura epistolare carceraria, in particolare di quella prodotta da detenuti politici, delineata da Charles Klopp.112 Ma nel caso dello scrittore sloveno è più importante rimarcare la posizione eccezionale della sua produzione epistolare in italiano, date le condizioni di coercizione linguistica in cui essa è stata realizzata. In questa sede, perciò, interessa maggiormente porre la seguente questione: come considerare e dove collocare l’opera epistolare del nostro autore, scritta giocoforza in italiano, all’interno di quel composito fenomeno costituito dagli ‘scrittori stranieri in lingua italiana’? Tale àmbito di studi fu avviato negli anni Sessanta da Gianfranco Folena analizzando proprio alcuni epistolari di autori stranieri (Voltaire e Mozart); seguirono, da parte di altri studiosi, l’analisi e la pubblicazione delle lettere in italiano di Byron, Gogol’, Joyce, Rubens ecc.113 L’interesse si è progressivamente allargato anche alle produzioni propriamente letterarie in lingua italiana di scrittori stranieri come Louise Labé, Montaigne, Quevedo, Milton, Ménage, Régnier-Desmarais, Byron, Shelley, Platen, Joyce, Pound, ecc. L’adozione dell’italiano, sistematica o episodica, da parte di scrittori, artisti e intellettuali stranieri ha avuto sostanzialmente inizio nel Rinascimento, con qualche sporadico precedente medievale, per giungere attraverso i secoli fino a oggi; un fenomeno che appare in espansione, arricchito negli ultimi decenni dai flussi migratòri che interessano l’Italia.114 Folena definisce tale fenomeno

|| sono molti? Lettere dal carcere 1930–1939, a cura di Mimmo Franzinelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; Giorgio Bassani, Di là dal cuore, Milano, Mondadori, 1984; Carlo Levi, È questo il «carcer tetro»? Lettere dal carcere 1934–35, Genova, Il Melangolo, 1991. 112 Charles Klopp, La zebrata veste. Lettere e memorie di detenuti politici italiani, introduzione di Mauro Stampacchia, Pisa, Felici Editore, 2011. Sulla letteratura carceraria in generale si leggano le considerazioni di Maria Luisa Meneghetti e Zeno Verlato in «Le loro prigioni»: scritture dal carcere. Atti del Colloquio internazionale (Verona, 25–28 maggio 2005), a cura di Anna Maria Babbi e Tobia Zanon, Verona, Fiorini, 2007, pp. 19–34, 499–530. 113 F. Brugnolo, La lingua di cui si vanta Amore, cit., pp. 9–10, 13–15. 114 Cfr. Cristina Benussi-Gabriella Cartago, Scritture multietniche, in Scrittori stranieri in lingua italiana dal Cinquecento ad oggi. Convegno internazionale di studi (Padova, 20–21 marzo 2009), a cura di Furio Brugnolo, Padova, Unipress, 2009, pp. 395–420; Daniele Comberiati, Scrivere nella lingua dell’altro. La letteratura degli immigrati in Italia (1989–2007), Peter Lang, Bruxelles, 2010; Gabriella Cartago, Libri scritti in italiano, in L’italiano degli altri. Atti del convegno (Firenze, 27–31 maggio 2010), a cura di Nicoletta Maraschio, Domenico De Martino e Giulia Stanchina, Firenze, Accademia della Crusca, 2011, pp. 335–343 (ripubblicato in Ead., Letture interlinguistiche, cit., pp. 249–256); la banca dati BASILI&LIMM di Armando Nisci (25.1.2019).

Le lettere dalla prigionia di Stanko Vuk | 81 eteroglossia (letteraria), «cioè l’uso di una lingua alternativa, di una lingua che è l’‘altra’ lingua dell’‘altra’ cultura, come sono l’italiano di Voltaire e di Mozart e il francese di Goldoni»,115 rilevando peraltro come anche in quest’ambito sia essenziale e inscindibile il rapporto tra lingua e cultura. Furio Brugnolo precisa però che si può parlare di eteroglossia solo quando si abbia un uso organico dell’italiano come lingua seconda che si sostituisce del tutto alla lingua prima (in un’opera o in una consistente sezione di essa) e non in quei casi in cui, invece, vi sia un uso disorganico dell’italiano, collocando semplici inserti in italiano, sporadici ed estemporanei, all’interno di testi scritti in altre lingue.116 Un’altra importante distinzione operata da Brugnolo è quella fra l’eteroglossia in senso stretto – cioè l’uso dell’italiano in quanto lingua ‘alternativa’,117 comprendente scrittori che non entrano a far parte integrante dello sviluppo storico della letteratura italiana – e quella che egli chiama la bi- glossia letteraria. Quest’ultima annovera scrittori «o che appartengono a pieno titolo a due lingue e a due letterature» (ad es. Gilles Ménage/Egidio Menagio, francese e italiano; Juan Rodolfo Wilcock, spagnolo e italiano), «oppure che operano in contesti letterari e culturali istituzionalmente e anzi, per così dire, costituzionalmente poliglotti, dove la scelta della lingua diversa non è insomma dettata da ragioni e occasioni personali, ma semmai [...] dalla scelta del genere e dei procedimenti stilistici o del pubblico di destinazione».118 Come esempi di questo secondo gruppo Brugnolo cita gli scrittori dalmati e ragusei del Cinque e Seicento, parimenti attivi in croato, italiano e latino: Savino de Bobali/Sabo Bobaljević, Domenico Ràgnina/Dinko Ranjina, Ignazio Giorgi/Ignjat Đurđević, ecc. L’opera del letterato bilingue Stanko Vuk si può considerare – d’accordo con Tomizza – come appartenente «a pieno titolo a due lingue e a due letterature» (riprendendo la formulazione di Brugnolo), e dunque andrebbe inquadrata nella bi-glossia letteraria, secondo la ripartizione proposta appunto da Brugnolo. Tuttavia nel caso delle lettere dal carcere resta la questione della lingua

|| 115 Gianfranco Folena, L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi, 1983, p. X. 116 Furio Brugnolo, “Questa è lingua di cui si vanta Amore”. Per una storia degli usi letterari eteroglotti dell’italiano, in Italiano: lingua di cultura europea. Atti del Simposio internazionale in memoria di Gianfranco Folena (Weimar 11–13 aprile 1996), a cura di Harro Stammerjohann, Tübingen, Gunter Narr, 1997, pp. 313–336 (p. 314); F. Brugnolo, La lingua di cui si vanta Amore, cit., pp. 19–20. 117 Secondo quanto indicato da G. Folena, L’italiano in Europa, cit., p. X. 118 F. Brugnolo, “Questa è lingua di cui si vanta Amore”, cit., pp. 315–316; F. Brugnolo, La lingua di cui si vanta Amore, cit., pp. 22–23.

82 | Franco Finco utilizzata, che per Vuk non è opzionale ma coatta: egli è costretto dalle circostanze all’impiego dell’altra lingua e dunque opera una forzata autotraduzione. Il che pone il nostro autore in una posizione particolare all’interno del fenomeno degli ‘scrittori stranieri in lingua italiana’, costituendo un caso di quella che – riprendendo un’espressione di Gabriella Cartago – potremmo chiamare italianità forzata.119 Ma un tale ambito di ricerca, per il suo carattere di eccezionalità, non è stato ancora oggetto di attenzione o di analisi specifica nel mondo delle lettere italiane.120 Riguardo agli usi letterari eteroglotti e al plurilinguismo in letteratura, Georg Kremnitz, muovendo dalla sociologia della comunicazione, ha proposto una classificazione dei possibili criteri e motivazioni in base ai quali autori che «padroneggiano diverse lingue in modo sufficiente» hanno scelto di scrivere in una Literatursprache diversa dalla propria lingua materna, distinguendo tra criteri oggettivi (riguardanti lo status delle lingue e la composizione linguistica delle società) e criteri soggettivi (biografici e motivazionali).121 Sebbene anche Kremnitz parli in generale di scelta della lingua (Sprachwahl, Wahl der Literatursprache), egli contempla – tra i criteri oggettivi riguardanti lo status delle varietà linguistiche e nello specifico la loro situazione politico-legale 122 – anche il caso della persecuzione di minoranze linguistiche, il divieto d’uso della loro lingua e l’imposizione della lingua nazionale, usata forzosamente come codice di espressione letteraria da autori eteroglotti. Si tratta del livello più duro di attuazione di una politica linguistica repressiva (asimmetrica) in un territorio bi- o plurilingue: esso prevede misure restrittive, proibizioni e alle volte anche minacce fisiche.123 È in tale categoria che va inserita la scrittura epistolare di Vuk in carcere: necessità stringente di esprimere pensieri e sentimenti in forma letterariamente elaborata (accanto e in opposizione alle comunicazioni pratiche

|| 119 Libertà traduttiva/italianità forzata è il titolo della seconda parte di G. Cartago, Letture interlinguistiche, cit., p. 157. 120 La sociolinguistica e la linguistica acquisizionale studiano principalmente le caratteristiche linguistiche dei testi in italiano di scriventi non madrelingua. 121 Georg Kremnitz, Mehrsprachigkeit in der Literatur. Ein kommunikationssoziologischer Überblick, Wien, Edition Praesens, 20152, pp. 117–235. 122 G. Kremnitz, Mehrsprachigkeit, cit., § 4.1.1.1. 123 «Die unterste Stufe asymmetrischer Sprachenpolitik ist mit der Verfolgung von Sprachgruppen erreicht. Sie kann sich auf administrative Maßnahmen beschränken, etwa das Verbot der Verwendung einer Sprache in der Öffentlichkeit, sie kann aber auch bis zur physischen Bedrohung reichen. Eine institutionell abgesicherte Verfolgung ist immer Anzeichen einer kritischen Situation, die entweder mit der massiven Flucht oder gar der Vernichtung der verfolgten Gruppe endet oder einen Widerstand ins Leben ruft» (G. Kremnitz, Mehrsprachigkeit in der Literatur, cit., p. 125).

Le lettere dalla prigionia di Stanko Vuk | 83 e contingenti), ma – nell’atto di dar loro forma scritta – l’obbligo di usare l’altro idioma. Ciò costringe l’autore a una continua autotraduzione nell’altra lingua che – pur padroneggiata in modo eccellente – lo pone continuamente di fronte al problema del rapporto tra contenuto e forma, in particolare essendo l’italiano di Vuk una lingua eminentemente letteraria, frutto della sua vasta conoscenza della letteratura italiana e comunque condizionata dalla continua lettura di libri in italiano (originali o traduzioni) in carcere. Le lettere in italiano di Stanko Vuk costituiscono un caso eccezionale, ma certamente non unico, nel panorama degli usi alloglotti dell’italiano a fini letterari. Ma per poter indagare adeguatamente il fenomeno di questa ‘italianità letteraria forzata’ è necessario impiegare strumenti d’analisi specifici e plurimi, che coinvolgano vari àmbiti disciplinari: l’analisi del plurilinguismo letterario, la sociologia della comunicazione, la traduttologia, la linguistica testuale, contrastiva e acquisizionale.

Sanja Roić Personaggi e destino di frontiera in Fulvio Tomizza

Riassunto: Prendendo spunto dal fondamentale saggio di Giacomo Debenedetti Personaggi e destino (1959) e dal dialogo di Fulvio Tomizza con Riccardo Ferrante Destino di frontiera (1992), si intende analizzare e mettere a confronto i modi uti- lizzati per costruire un rapporto tra i personaggi e i confini. Le frontiere di inte- resse sono quelle tra il mondo ‘tedesco’ e quello italiano e slavo nel XVI secolo, quella italo-jugoslavo dopo il 1945 e i nuovi confini sloveni e croati ad est di Trie- ste dopo il 1991. Questi confini sono un aspetto essenziale per i personaggi dei romanzi di Tomizza, dove i motivi autobiografici si intrecciano con quelli finzio- nali. L’autore ha lasciato inoltre un prezioso volume di saggi, Alle spalle di Trie- ste, dove ha espresso la propria poetica e la concezione di geostoria come fun- zione costruttiva («Ricomponevo la frontiera smembrata») nello spazio multiculturale di confine. Oggi, a quasi due decenni dalla scomparsa di Tomizza, l’eredità dell’autore istriano-triestino è preziosa nel contesto culturale e – soprat- tutto – nel contesto multiculturale europeo.

Characters and fate of the border in Fulvio Tomizza

Abstract: Taking a cue from Giacomo Debenedetti’s fundamental essay Perso- naggi e destino (1959) and from a dialogue between Fulvio Tomizza and Riccardo Ferrante Destino di frontiera (1992), my intention is to investigate and compare the methods used in order to construct a relationship between the characters and the borders. The borders of interest are the ones between the ‘German’ world and an Italian and Slavic border in the sixteenth century, the Italian–Yugoslav border after 1945 and new Slovenian and Croatian borders on the East of Trieste after 1991. These borders are an essential aspect for characters in Tomizza’s novels where autobiographical motives are interweaved with fictional ones. Moreover, the author has left a precious volume of essays Alle spalle di Trieste where he ex- pressed his poetics and the geo-historical concept as a constructive function («I was recomposing the dismembered border») in a multicultural space defined by the border. Today, almost two decades after Tomizza’s disap-pearance, the le- gacy of an author from Istria and Trieste is precious in the cul-tural and – above all – in the European multicultural context.

Open Access. © 2020 Sanja Roić, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-006

86 | Sanja Roić

Personaggi e confine

Già ai tempi del liceo a Capodistria a Fulvio Tomizza, discendente di migranti dalmati insediatisi nel corso del Cinquecento in Istria, nato nella parrocchia di Materada ai confini orientali dell’Italia nel 1935, sembrava che i poeti latini aves- sero cantato la sua terra. Definita dalla critica ‘letteratura di confine’, la Trilogia istriana che nel 1967 raccoglieva i suoi primi tre romanzi sembrava aver determi- nato la sorte dello scrittore. Che cosa invece rappresentavano i confini per i suoi personaggi, che tipo di confini essi avevano attraversato e quali di quei confini erano rimasti invalicabili? Personaggio e persona, qual è il loro rapporto nella teoria letteraria? In in- glese il concetto di character combacia con quello di personaggio. I teorici italiani considerano il personaggio una categoria letteraria. In croato invece il sostantivo lik, personaggio, spesso nella lingua parlata sostituisce la persona, ricevendo an- che la caratteristica grammaticale dell’animato (nelle lingue slave la distinzione inanimato/animato è una delle categorie morfologiche). La teoria letteraria mon- diale ha considerato a lungo i personaggi di un’opera prevalentemente attraverso le sfere di azione o le funzioni dell’intreccio (Propp, Bremond, Todorov, Greimas). Roland Barthes ha rimarcato che il problema del personaggio non è di facile so- luzione: il personaggio possiede proprietà narrative che ne determinano il codice semico. I personaggi sono costrutti aperti1 e possono essere classificati rispetto alla loro importanza per l’intreccio. I personaggi che noi lettori incontriamo, scrive Giacomo Debenedetti, ci sono a un tempo familiari ed estranei, conosciuti e assenti:

La loro circolazione sanguigna e umorale non deve essere dissimile dalla nostra; eppure quel sangue ci sembra d’altro colore, quegli umori d’altra crasi. Camminano sul pianeta Terra; eppure la forza di gravità che li tiene attaccati sembra emanare dal suolo di un altro pianeta. Strana compagnia: fratelli complici e, quando occorre, impudichi: ma non ci danno confidenza.2

|| 1 Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nella finzione e nel film, Parma, Pratiche, 1981, p. 123. 2 Giacomo Debenedetti, Personaggi e destino. La metamorfosi del romanzo contemporaneo, a cura di Franco Brioschi, Milano, Il Saggiatore, 1977, p. 111.

Personaggi e destino di frontiera in Fulvio Tomizza | 87

Il confine linguistico

Il mondo della campagna istriana è plurilingue, ma il romanzo d’esordio di Ful- vio Tomizza Materada è stato scritto in un italiano neostandard come l’avrebbe usato il narratore, un personaggio senza volto dei suoi luoghi. È stata una scelta consapevole del giovane autore a cui teneva tanto per dimostrare che la parlata dei personaggi della letteratura neorealista non era per niente realistica. La mag- gior parte dei parlanti nella campagna istriana era (ed è) dialettofona e usava la varietà locale del veneto e il dialetto istriano čakavo croato. Anche lo sloveno si trova a una decina di chilometri di distanza dalla parrocchia di Materada, per cui anche i prestiti sloveni non sono rari, ma i personaggi slavi tomizziani in quei luoghi istriani sono di regola croatofoni e non slovenofoni. I personaggi di Mate- rada usano spontaneamente le voci croate di cui alcune seguono la grafia auten- tica slava, mentre altre sono scritte all’italiana e vi si trovano anche alcune che oscillano fra le due soluzioni. I prestiti alloglotti non sorprendono, il loro numero supera una quarantina, ed essi, ovviamente, arricchiscono l’espressione lingui- stica del romanzo. La scelta del nome del protagonista, Francesco Kozlovic’ (sic! la grafia corretta è Kozlović), testimonia la sua doppia appartenenza e la situa- zione di confine: il nome proprio italiano (ma talvolta i compaesani lo chiamano ‘Franz’, reminiscenza dei tempi dell’Austria) e il cognome slavo. Ovviamente, nel 1960 le stamperie italiane non potevano riprodurre correttamente la consonante ć del cognome con il segno diacritico. Il cognome denota l’appartenenza all’Istria: koza significa ‘capra’ in croato e la capra sta nello stemma dell’Istria. La conclusione del romanzo rimarca la sua coralità: al momento di lasciare la chiesa le donne intonano il canto alla Madonna: «Siam peccatori ma figli tuoi», e passando accanto al cimitero si sente una voce singola: «“Addio ai nostri morti” – disse forte una donna».3 Anche in seguito, il superamento dei confini linguistici continua ad essere abituale per i personaggi tomizziani. Giustina, la Ragazza di Petrovia che muore sul nuovo confine, sentirà le ultime parole di una guardia in croato: «Stoj! Stoj!» (‘Fermo là! Fermo là!’). Ne La quinta stagione, il ragazzino protagonista Stefano Marcovich cresce in un ambiente plurilingue, per cui il romanzo contiene in ap- pendice un glossario di parole e di termini dialettali italiani (istriani e triestini), slavi (croati, serbi e sloveni) e tedeschi. Interessantissimi intercalari croati e dialettali sono riscontrabili nel capola- voro tomizzano, La miglior vita. Nel villaggio finzionale Radovani si susseguono

|| 3 Fulvio Tomizza, Materada, Milano, Rizzoli, 1983 (1960), pp. 183–184.

88 | Sanja Roić i regimi, le lingue ufficiali e i parroci; la microstoria è specchio della grande Storia annotata dal sagrestano Martin Crusich, anche lui dal nome e cognome slavo. Nel 1995 l’autore ha spiegato così la propria scelta linguistica che voleva es- sere aderente ai luoghi e alle persone che sarebbero diventate personaggi:

Per me, autore allora ventitreenne, quel po našu (alla nostra) era stato come un avverti- mento col quale dichiaravo che fino a quel momento la narrazione di quei luoghi e di quei personaggi era stata resa attraverso una lingua il più possibile aderente alla nostra parlata, ma che restava ad ogni modo un’espressione esterna, voluta dal fuori.4

La versione completa del suo intervento è stata pubblicata nel volume collettaneo che raccoglie i contributi del convegno tenutosi a Klagenfurt nel 1994.5 In quell’occasione i romanzi, i racconti e le pagine saggistiche di Tomizza sono stati definiti interculturali dagli organizzatori del convegno, ed egli è stato presentato come uno degli autori più significativi dell’area mitteleuropea, insieme a , Peter Handke, György Konrad e Danilo Kiš. Nel contributo intitolato Uno scrittore tra due dialetti di matrice linguistica diversa che tratta della sua espe- rienza personale, Tomizza dice di aver compiuto una prima ricerca sulla doppia parlata in uso tra gli abitanti del suo luogo natale istriano, auspicando di poter essere prossimamente in grado di offrire un quadro organico di questo idioma popolare che attinge liberamente all’italiano (attraverso il familiare dialetto ve- neto) e, in misura pressoché uguale, al croato e allo sloveno. Purtroppo Tomizza non ha potuto attuare il suo proposito, ma ha lasciato indicazioni su come avrebbe svolto il lavoro. Secondo l’autore, la «disadorna realtà linguistica» si estendeva in un’area che egli circoscriveva fondandosi su precisi dati linguistici, poi omessi nella versione italiana.6 Queste pagine hanno un valore straordinario di testimonianza di cultura e di civiltà. Dopo il massimo riconoscimento letterario nazionale, il Premio Strega nel 1977, Tomizza inizia le ricerche per il grandioso romanzo del vescovo Vergerio, Il

|| 4 Fulvio Tomizza, Uno scrittore tra due dialetti di matrice linguistica diversa, in Alle spalle di Trieste, Milano, Bompiani, 2000 (1995), pp. 190–191. 5 Johann Strutz e Peter Zima, Literarische Polyphonie: Übersetzung und Mehrsprachigkeit in der Literatur. Beiträge zum Symposion anläßlich des zehnjährigen Bestehens des Instituts für Allge- meine und Vergleichende Literaturwissenschaft der Universität Klagenfurt, Tübingen, Narr, 1996. 6 F. Tomizza, Uno scrittore tra due dialetti di matrice linguistica diversa, in Literarische Polypho- nie. Übersetzung und Mehrsprachigkeit in der Literatur, a cura di Johann Strutz und Peter Zima, cit., p. 229. Il contributo di Tomizza si trova alle pp. 229–240. Nella versione del testo pubblicato in Alle spalle di Trieste, pp. 183–194, sono state omesse le pp. 229–231 della versione pubblicata a Tübingen. Presumo che si sia trattato di una scelta dell’editore italiano.

Personaggi e destino di frontiera in Fulvio Tomizza | 89 male viene dal nord (1984).7 Decisivo per la scelta del personaggio è che Pietro Paolo Vergerio il Giovane sia stato il primo intellettuale che mostra una chiara coscienza della propria identità di uomo di frontiera, della città di Capodistria e dei villaggi nei suoi dintorni situati su «quel confine tedesco», ossia sul confine con il vasto Impero austriaco. Gli anni di ricerca e di scrittura del romanzo tro- vano il proprio contrappunto nel periodo della scolarizzazione che il narratore autodiegetico nella prima parte del romanzo aveva trascorso a Gorizia e a Capo- distria, città dalla quale provengono personaggi noti di epoche diverse (il pittore Carpaccio, Vergerio il Vecchio, il poeta Muzio citato da Manzoni, l’economista e poligrafo Gian Rinaldo Carli, il medico Santorio, inventore del termometro, il conte di Capodistria e, infine, l’eroe italiano della Grande Guerra Nazario Sauro). Sulla cartina che accompagna il romanzo si possono vedere le coordinate geogra- fiche degli spostamenti di Vergerio nel corso della sua vita. Alla Miglior vita se- guiranno altri romanzi storici basati su ulteriori ricerche negli archivi: i loro pro- tagonisti (Maria, Mandolino, Leandro, Paulina Rubbi e altri) rivivono attraverso le loro parole autentiche poiché trascritte dai documenti d’archivio dei secoli pas- sati.

I confini politici, storici e religiosi, reali e fantastici, privati e pubblici

Indimenticabile il passaggio del confine del giovane Stefano in autoambulanza con il padre morente che ritorna a Materada per morirvi (L’albero dei sogni). Se- guirà il rifiuto del confine, la sua negazione con la partenza di Stefano in dire- zione opposta, a Belgrado, e poi nella più vicina Lubiana. Il giovane supera così il confine tra il rurale e il cittadino, vivendo dopo Giurizzani, Gorizia e Capodistria nelle due capitali, mentre Trieste gli rimane sempre familiare. Dagli anni ’70 il passaggio del confine è frequente, le visite alla nonna, la ristrutturazione della casa a Momichia (Dove tornare e poi I rapporti colpevoli). Se il confine storico era

|| 7 Il 1° giugno 1984 l’Università di Trieste conferì a Tomizza la laurea honoris causa in Lettere con la seguente motivazione: «Per l’alto livello artistico della sua intensa attività narrativa, nella quale si è reso acuto originale interprete di una cultura basata sui valori della pacifica convi- venza tra le genti» (cfr. Fulvio Tomizza. Destino di frontiera, a cura di Elvio Guagnini, Gianni Ci- mador e Marta Angela Agostina Moretto, Trieste, Comune di Trieste-Civici Musei di Storia ed Arte, 2009, p. 74). Il 27 febbraio 1980 Tomizza ricevette il Premio austriaco per la letteratura eu- ropea 1979 (cfr. ibid).

90 | Sanja Roić già stato varcato con il dramma Vera Verk, le epoche storiche fuse con i perso- naggi diventano parte costituente del testo letterario ne La miglior vita, dove la cronaca del villaggio istriano Radovani viene maestosamente raccontata attra- verso le vicende dei sette parroci serviti dal sagrestano Martin Crusich, che è an- che la voce narrante. Fra questi personaggi, quello che rimane più impresso nella memoria e nella fantasia del lettore è sicuramente don Stipe. Per la scrittrice La miglior vita è un romanzo forte ed essen- ziale, in cui «il senso del fantastico e una potente capacità di concretezza si fon- dono in un continuo atto creativo».8 Già ne La torre capovolta (1971), poi Nel chiaro della notte (1999) e nei libri per bambini Il gatto Martino, Anche le pulci hanno la tosse ed altri, Tomizza aveva creato un fantastico peculiare, il fantastico istriano. Il confine tra pubblico e privato non era facile da varcare per il giovane To- mizza. La famiglia non aveva appoggiato la sua vocazione di scrittore, ed è un suo coetaneo, vicino di casa a Trieste, il suo primo critico, con cui discute di let- teratura, di classici, di moderni. L’amicizia, con i protagonisti Marco, profugo istriano, e il triestino Alessandro, tocca anche il tema dei rapporti tra generazioni, della vicinanza e insieme lontananza tra la città nel golfo e il Carso, il mondo italiano e quello sloveno. Quest’ultimo diventerà centrale ne Gli sposi di via Ros- setti e in Franziska, con le sorti degli sloveni a Trieste durante l’epoca fascista e l’occupazione nazista della città. Il confine tra il rurale e l’urbano torna in una nuova forma nel confronto co- sta-entroterra istriano. Tale confronto si nota meglio nel caso della cittadina co- stiera di Umago (La piazza di Umago), che si trova a dieci chilometri da Materada e dove la fusione dei due elementi avviene in maniera naturale e peculiare. Quando, ormai scrittore affermato, interviene al convegno di Klagenfurt, Tomizza mette le due provenienze, Trieste e Momichia, accanto al proprio nome. A Momi- chia, frazione di Materada, si trova la sua casa, in campagna.9 Già nel settembre 1990 egli aveva spiegato i motivi del suo ritorno in Istria:

Alla mia parrocchia sono tornato, per trascorrervi almeno due stagioni di piena luce, la- sciarmi condurre e accarezzare dal suo paesaggio che ne ha viste tante e probabilmente ne

|| 8 Cfr. la quarta di copertina di Fulvio Tomizza, La miglior vita, Mondadori, Milano 2008 (1977). 9 F. Tomizza, Uno scrittore tra due dialetti di matrice linguistica diversa, in Literarische Polypho- nie. Übersetzung und Mehrsprachigkeit in der Literatur, cit., p. 229.

Personaggi e destino di frontiera in Fulvio Tomizza | 91

vedrà di altre e tuttavia continuerà, impassibile, a riproporre la sua eterna mutabilità, la sua mutabile eternità.10

Era un paesaggio concreto, reale, affine al concetto di ‘geostoria’, coniato da Fer- nand Braudel, che teneva conto del rapporto esistente tra società e ambiente, so- stenendo la necessità di indagare i fatti storici senza trascurare i luoghi dove essi si svolgono. La geostoria prende in considerazione cinque elementi importanti: storia profonda, conoscenze rilevanti, importanza della descrizione, importanza dei fattori geografici nella spiegazione, connessione fra geografia e storia. Nei racconti e nei romanzi di Tomizza il paesaggio locale e concreto diventa lo scena- rio delle emozioni per i personaggi. Tale paesaggio potrebbe essere suddiviso, grosso modo, in quello istriano e in quello triestino, ma di esso, osservandolo più a fondo, si scoprono diverse sfumature e aperture, sempre in funzione di un deli- cato collegamento, quasi ponte tra geografia e storia, che offrono al lettore anche l’immagine mentale di quelle terre. I personaggi che le abitano e vivono fanno parte di questo mondo letterario, un mondo ibrido e ricco di provenienze etniche e linguistiche diverse. Essere migranti ed esuli è stata una condizione presente e continua durante i secoli: gli avi dello scrittore erano giunti in Istria nel Cinque- cento fuggendo la peste e le invasioni turche nella Dalmazia centromeridionale. Alcuni si erano avventurati persino oltre l’Adriatico, e Tomizza aveva incontrato i loro discendenti nel Molise durante un viaggio con il fratello Nerio, negli anni Ottanta;11 altri sono rimasti in Istria, molti poi esuli prima nei campi sul confine, poi a Trieste, nel Friuli e anche più lontano, nell’Italia occidentale e meridionale. La prosa tomizziana possiede una prospettiva imagologica dapprima dello spazio istriano, percepito nelle peculiarità di quello marittimo e di quello rurale, che s’intreccia poi con il carsolino istriano, friulano, triestino marittimo, carso- lino sloveno, e così via: tante sono le sfumature che condizionano i dialoghi, i monologhi e i flussi di coscienza dei suoi personaggi.12 Come sono visti, rappre- sentati e in quali strutture narrative sono inseriti gli ‘altri’, ossia l’altro, questo è il problema di cui si occupa l’imagologia, e spesso il rapporto con gli ‘altri’, con l’altro, è il dramma che vivono i suoi personaggi. Ecco come il giovane dramma- turgo (nel 1963) sente e formula la dualità dell’istriano campagnolo e dell’istriano

|| 10 F. Tomizza, Alle spalle di Trieste, cit., p. 143. 11 Ivi, pp. 121–124. 12 Cfr. La dimensione straniera in Daniel-Henri Pageaux, Le scritture di Hermes. Introduzione alla letteratura comparata, a cura di Paolo Proietti, traduzione di Anna Bissanti, Palermo, Selle- rio, 2010, pp. 52–76, e Imagology today. Achievements, Challenges, Perspectives, edited by Davor Dukić, Bonn, Bouvier Verlag, 2012, pp. 25–36.

92 | Sanja Roić carsolino nel testo I ʻluoghiʼ di Vera Verk, che aveva preparato per gli spettatori del dramma:

Ci sono paesi e strade in Istria che suscitano in me sentimenti diversi da quelli che provo di fronte ai miei luoghi strettamente originari. Non struggente tenerezza né violento rim- pianto, ma come una pacata nostalgia antica compenetrata da una serena consapevolezza del dolore del mondo. Anche la terra del resto è diversa: anziché campagna scomposta nel suo ansito di continua produttività, distesa avara e solenne di boschi e petraie, nella quale i campi ricavati da secoli offrono eternamente nella stagione buona le stesse colture. Questa seconda terra, questo altro ‘paesaggio dell’anima’ derivato a me per via materna, balza im- provviso alla vista di chi, spintosi da Trieste in viaggio verso Pola, ha appena lasciato alle spalle le saline di Sicciole. È un promontorio roccioso, solcato da stradette rosse con sparsi greggi di pecore confuse con le pietre, che va scemando via via fino a morire negli scogli di Salvore. […] È insomma l’anticipazione di un paesaggio che diverrà poi costante in un viag- gio lungo la Dalmazia e la Grecia.13

Già in questa prima fase della scrittura tomizziana si possono notare geostorie diverse: in Materada sono gli anni Cinquanta, ne La ragazza di Petrovia gli anni successivi al 1947, nel dramma Vera Verk gli anni Trenta e ne La quinta stagione il periodo tra il 1942 e il 1945. Ognuna di queste opere contribuisce a mettere in luce un diverso momento storico e un paesaggio peculiare quale cornice delle vicende drammatiche e tragiche dei personaggi: mentre nella Trilogia istriana ciò che muove, conduce e determina l’azione è il confine che spezza i percorsi natu- rali ed esistenziali dei personaggi, in Vera Verk e ne La quinta stagione esso è, ovviamente, del tutto assente. Le linee di separazione sono di altra natura nelle ultime due opere: l’età (adulti-bambini), i legami di sangue (parentela minacciata da incesto), pace–guerra (con tutti i cambiamenti tragici e drastici della realtà agli occhi di un bambino). La migrazione degli esuli istriani, quarnerini e dalmati cambierà il quadro etnico della Venezia Giulia, facendo considerare diversa- mente e mettendo talora in discussione la posizione degli sloveni e di quegli in- tellettuali ebrei che erano stati il vanto della società multiculturale di Trieste (Um- berto Saba, Italo Svevo, Vito Levi, Giorgio Voghera, Carolus Cergoly e Ferruccio Fölkel). Perfino i confini interreligiosi sono stati varcati nei romanzi di Tomizza: Ver- gerio, da nunzio papale diventa protestante, nelle Fughe incrociate un ebreo di- venta cattolico, un cattolico invece sceglie la religione ebraica e dal Friuli fugge

|| 13 I luoghi di Vera Verk, nel Programma di sala di Vera Verk, Teatro Stabile Città di Trieste, Trie- ste, 1963, in F. Tomizza, Vera Verk. Dramma, a cura di Paolo Quazzolo, Empoli, Ibiskos editrice, 2006, pp. 7–8.

Personaggi e destino di frontiera in Fulvio Tomizza | 93 a Salonicco. In Quando Dio uscì di chiesa i credenti di Dignano lasciano l’istitu- zione corrotta e creano da soli un nuovo rito leggendo la Bibbia nel vigneto, men- tre ne La finzione di Maria è tematizzata la vana ricerca di ascendere coll’inganno alla sacralità. È stato proprio Tomizza a prevedere la costruzione di una nuova identità della sua terra, erede e testimone di molti cambiamenti politici, sociali e ideolo- gici, che durante l’ultimo conflitto nell’ex Jugoslavia lo scrittore seguiva con preoccupazione ed empatia14 dimostrando che era possibile rompere la tragica ‘catena dell’odio’, a differenza del resto dei Balcani occidentali. La sua produ- zione letteraria ha messo in atto anche una sorta di decolonizzazione della lette- ratura italiana nei confronti della sua millenaria tradizione identitaria, caratte- rizzata talvolta dalla presunzione di superiorità nei confronti dell’altro. La decolonizzazione s’identificava per Tomizza con la prassi in atto nel suo mondo finzionale: essa rendeva possibile ancora un nuovo incontro di mondi diversi, come nel caso de La città di Miriam, dove è possibile lo scambio, l’amicizia e l’amore fra un giovane istriano appena inurbato e un’autentica cittadina trie- stina, Miriam. Infine non bisogna scordare che il primo lavoro di Tomizza presentato pub- blicamente era la sceneggiatura intitolata Terra rossa, inviata al Triglav film di Lubiana. Il giovane autore doveva varcare in quel caso i confini tra i generi d’arte, il cinema e la letteratura. In uno dei suoi ultimi interventi pubblici, agli Incontri interculturali mitteleuropei di Gorizia, Tomizza si è ricordato dei semi che in trent’anni aveva sparso e gelosamente custodito, riferendosi direttamente alla terra come luogo d’origine della parola letteraria, parola che nasce da un humus concreto e che contribuisce alla costruzione del macrotesto collegando i testi fra di loro secondo il ritmo delle stagioni. In quell’occasione Tomizza, identifican- dosi con il personaggio dell’istriano Marco protagonista de L’amicizia, aveva af- fermato:

Se ho qualcosa di cui andar fiero, l’ho espressa in un passo del romanzo L’amicizia, là dove riferendomi a Trieste e al suo Carso, dicevo testualmente: «Ero l’ultimo che si affacciava a questo mondo di asprezze, ma forse uno dei primi ad accettarlo nella sua integrità e con una sola misura di giudizio».15

Se la frontiera è stata il destino dello scrittore Tomizza – come aveva notato la migliore scrittrice in lingua italiana rimasta in Istria, Nelida Milani – essa non era

|| 14 Cfr. F. Tomizza, Destino di frontiera. Dialogo con Riccardo Ferrante, Genova, Marietti, 1992. 15 Fulvio Tomizza, Le mie estati letterarie. Lungo le tracce della memoria, Venezia, Marsilio, 2009, p. 158.

94 | Sanja Roić diventata gabbia oppure limite, ma proprio al contrario aveva stimolato la voca- zione e la creazione letteraria dell’autore. Lo scrittore spiegava così il significato del confine per il contadino di Materada: «Per lui quella sbarra sollevata, che chiude su un territorio e ne spalanca un altro, è un limite estremo che soltanto un’imposizione, sia pure interiore, può rendere valicabile».16 L’uomo di Materada era tutto nel luogo della sua stabilità, nel suo villaggio e nella sua parrocchia, la partenza invece era snaturante. Un’identità doveva aprirsi, confrontarsi e misu- rarsi con l’alterità, e da allora in poi nulla sarebbe stato come prima. Da una parte il paesaggio come storia e memoria, dall’altra una ‘terra incognita’, nella quale all’inizio cercare qualche elemento familiare come quel bosco di acacie, e poi in- contrarsi con l’ʻaltro’, l’amico, la sposa, la sua famiglia, e arricchire la nuova terra con la preziosa polvere portata dalle proprie scarpe. Non tutti vi sono riusciti: il personaggio omonimo dellʼautore ne I rapporti colpevoli, nonostante la riconqui- sta del locus forzatamente abbandonato e il ritrovamento dei suoi segni piziaci, esce sconfitto dal «lungo ma intermittente confronto con la morte»,17 ultimo con- fine.

|| 16 F. Tomizza, M’identifico con la frontiera, in Alle spalle di Trieste, cit., pp. 134–135. 17 Fulvio Tomizza, I rapporti colpevoli, Milano, Bompiani, 2000 (1992), p. 7.

Nives Zudič Antonič, Andrej Antonič Frontiera e convivenza nell’opera di Fulvio Tomizza

Riassunto: In questo intervento si cercherà di affrontare il tema dell’identità di frontiera in Fulvio Tomizza, prendendo in considerazione in particolare alcuni romanzi e scritti dell’autore. Nell’analisi si cercherà di analizzare in particolar modo il rapporto dello scrittore con la sua terra natale quale simbolo di identità. Si tratta di un’identità complessa, in quanto il territorio in cui Tomizza vive, istriano prima e triestino poi, è composto da più culture ed etnie, che da sempre si intrecciano e convivono: un territorio metafora dell’identità dello scrittore stesso. Ed è proprio nell’unione, nell’intreccio, che lo scrittore vede l’unica soluzione possibile per giungere ad una costruttiva convivenza in questa regione, quasi un’allegoria del mondo a venire. Il grande merito dello scrittore, infatti, è stato quello di aver saputo comprendere le ragioni dell’‘altro’ in questo territorio, in cui spesso prevalevano conflitti e recriminazioni.

Borders and cohabitation in the work of Fulvio Tomizza

Abstract: This paper will analyse the theme of border identity in Fulvio Tomizza, taking into account some of the author’s novels and writings and focusing in particular on his relationship with his native land as a symbol of identity. That is in fact a complex identity, since the territory in which Tomizza lived, first Istria and then Trieste, is made up of several cultures and ethnic groups, which have always intertwined and coexisted: a territory that is a metaphor for the writer’s identity. It is precisely in the blend, in the interweaving, that the writer sees the only possible solution to achieve a constructive coexistence in this region, almost an allegory of the world to come. The great merit of the writer, in fact, was to understand the point of view of the ‘other’ in this territory, where conflicts and recriminations often prevailed.

Open Access. © 2020 Nives Zudič Antonič, Andrej Antonič, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-007

96 | Nives Zudič Antonič, Andrej Antonič

Introduzione

Quando si affronta il discorso dell’Istria emerge sempre il problema dell’appartenenza etnica, tema che Tomizza affronta in più opere e di cui si occupò durante tutto il suo percorso di scrittore. L’Istria delle opere di Tomizza è una terra di contadini, immersa in una condizione dialettale, etnicamente e culturalmente mista, una terra che ha visto passare diverse dominazioni, tra le quali, in tempi recenti, austriaci, italiani, tedeschi e infine il comunismo di Tito. In tutte le opere dello scrittore emerge lo spirito della terra istriana, con le sue luci e le sue ombre, la vicenda travagliata di una terra di confine, una terra di incontro e scontro nella storia di stati, popoli, culture, lingue e tradizioni diverse. In questo ambiente si colloca il concetto di identità di frontiera che, in molti casi, può rivelarsi di estrema complessità come riferirà lo stesso scrittore nei suoi romanzi. Fulvio Tomizza infatti crea personaggi con caratteristiche di individui aventi un’identità legata a più connotazioni culturali ed etniche. Una condizione che impedisce al singolo di esprimere la propria identità in modo definito e distinto, anche se a volte egli viene posto in una condizione di scelta che potrebbe portarlo alla negazione dei suoi tratti essenziali, etnici e/o culturali. Tuttavia è proprio questo individuo che si rivela pronto al confronto e all’assimilazione delle diversità per poter infine comprendere ed accettare consapevolmente la propria natura multiculturale. Per la stesura di questo articolo sono stati presi in esame alcuni romanzi di Tomizza che descrivono luoghi in cui lo scrittore ha vissuto, ma soprattutto danno lo spunto per comprendere l’idea di identità plurima, a lui tanto cara, come unica idea di sopravvivenza pacifica per queste terre di confine. Inoltre sono state analizzate altre sue opere significative, nelle quali è l’autore stesso a spiegare le ragioni delle sue scelte, come Alle spalle di Trieste e Destino di frontiera. L’indagine si propone pertanto di puntualizzare ed esporre il modo in cui il concetto di ‘identità di frontiera’ viene espresso in questi testi e quali effetti esso produce nell’ambito della convivenza tra culture ed etnie compresenti

Frontiera e convivenza nell’opera di Fulvio Tomizza | 97

La terra natale come simbolo di identità

In una terra come l’Istria che nei secoli è stata governata da diversi ‘padroni’,1 prima i Romani poi la Repubblica veneta, poi l’Impero austro-ungarico, poi l’Italia, l’Italia fascista, e poi la Jugoslavia e il regime di Tito, e che vede intersecarsi sul suo territorio popolazioni diverse, miste, non vi è soltanto il problema della definizione dei confini, ma anche, molto forte, quello dell’appartenenza etnica. In questa terra, ma anche in tutte le altre zone di confine, in cui negli individui sono presenti più etnie e si parlano più lingue, molto spesso gli abitanti non si possono identificare con una sola patria ben definita. Di solito in queste persone, per non essere costrette a dover scegliere tra due culture o due etnie, affiora l’idea di appartenere a un mondo più vasto che comprenda più culture e più etnie, o addirittura, per non far torto a nessuno e rimanere imparziali, si arriva ad un sentimento di inappartenenza.2 Questo è quanto è successo anche a Tomizza, che sceglierà di appartenere ad entrambe le culture, quella italiana e quella slava,3 nella speranza, un po’ utopica e un po’ sentimentale (come dirà lui stesso), che un giorno esse possano convivere non soltanto in lui, ma in tutta la popolazione istriana.4 Lo scrittore fa questa scelta, che è tra l’altro una scelta del tutto legittima, visto che suo padre, Ferdinando Tomizza, era di sentimenti italiani, mentre la madre, Margherita Frank Trento, era invece di origine slovena. Inoltre, egli trascorse la sua infanzia nel paesino natale di Materada, un borgo che si trova tra Umago e Buie, in cui da sempre convivevano in armonia popolazioni di diversa origine etnica. Da questa sua coscienza multietnica, che diventerà una questione di cultura, ma anche e soprattutto di tradizione storica alla ricerca delle proprie origini, in cui identificarsi e riconoscersi per determinare un punto di riferimento per la propria esistenza, prendono il via i temi portanti di tutte le opere di Tomizza, quelli della frontiera, a partire dal primo romanzo Materada (1960), fino all’ultimo, postumo, Sogno dalmata (2001). Si tratta però di una frontiera che non coincide con i confini di stato, ma, come si vede in Materada, sarà più un conflitto tra mondi

|| 1 Fulvio Tomizza, Alle spalle di Trieste, Milano, Bompiani, 2009, p. 124. La gente dell’Istria ha sempre considerato come ‘padrone’ colui che è al potere. 2 Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 2007, p. 192. 3 Il termine «slava» è stato qui usato per definire le due culture slave che lo scrittore considera come sue, quella slovena e quella croata, e non ha quella caratteristica peggiorativa che di solito gli italiani della zona limitrofa attribuiscono agli sloveni (o ai croati) per definirli di cultura inferiore. 4 F. Tomizza, Alle spalle di Trieste, cit., p. 194.

98 | Nives Zudič Antonič, Andrej Antonič etnici differenti, che farà nascere ostilità generate da ideologie diverse, che porteranno poi all’esodo di coloro che non si metteranno dalla parte ‘giusta’. La successione storica dei regimi, prima fascista e poi comunista, alimentarono la frattura dell’Istria a più livelli: culturale, etnico e geografico. La lingua divenne punto focale di rivalità tra gruppi etnici, e separò in due fazioni contrapposte la popolazione, inducendo la gente a scegliere un’etnia, una nazione, un linguaggio, sviluppando così il processo di annientamento del modello multietnico omogeneo che nei secoli era stato proprio dell’Istria. Questo mondo così unito, come lo ricorda lo scrittore,5 aveva subito una prima pressione verso la fine dell’Ottocento, quando improvvisamente nacque il sentimento nazionale, portato dai parroci e dai maestri che venivano nel suo paese da fuori. Questi, a seconda dell’appartenenza all’etnia croata o a quella italiana, cercavano di influenzare le persone a schierarsi da una parte o dall’altra. Secondo Tomizza non si tratta di «conformismo banale», ma di «legittima difesa» da parte di un popolo che sente che, per ragioni di sopravvivenza, ci si debba schierare con chi detiene il potere.6 È sicuramente una risposta rassegnata che esprime sfiducia nelle istituzioni, nei regimi, nelle ideologie e anche in quelli che agitano tali ideologie. In Tomizza, invece, si farà viva l’idea di identità di istriano durante i gravi rivolgimenti del terribile decennio che va dal ’45 al ’55, quando la gente del suo paese fu forzata a dover scegliere un’identità. Durante il governo jugoslavo si voleva che tutti fossero slavi e comunisti, e soprattutto poveri e contrari ad ogni istituzione precedente, perfino alla Chiesa.7 E in quel momento il mondo cominciò a dividersi per appoggiare il regime, e chiunque aveva il diritto di fare quello che voleva, persino di denunciare il vicino di casa solo perché italiano. Questi fatti vengono illustrati in maniera lucida in Materada, quando il protagonista, Francesco Coslovich, si reca dal vecchio zio barba Nin per

|| 5 «Le popolazioni dell’interno amavano il proprio dialetto, con ingredienti volgarizzati veneti e croati, nella cui singolare parlata viveva, con valori trasmessi di generazione in generazione, l’antica onestà di un piccolo mondo rurale. Gli uni e gli altri si scambiavano gli attrezzi agricoli, si aiutavano, nel clima di solidarietà tipico della gente semplice dei campi, persone che amavano i fatti concreti e la parola data. Costoro comunicavano usando due dialetti, e si capivano superando qualsiasi barriera. Anche i giovani che si sposavano lo facevano senza distinzione di etnia, fosse essa italiana o croata» (ivi, p. 140). 6 Ivi, p. 124. 7 La chiesa, per i poveri contadini di Materada, era una delle istituzioni più importanti del paese, «il loro primo punto di riferimento», come dirà Tomizza. Ad essa erano legate tutte le loro festività, le ricorrenze (battesimi, matrimoni, morte), ma anche le loro preghiere, i loro valori tradizionali. F. Tomizza, Alle spalle di Trieste, cit., p. 140.

Frontiera e convivenza nell’opera di Fulvio Tomizza | 99 chiedergli consiglio su cosa fare, se partire o meno per Trieste; i due parlano dei fatti accaduti in quei giorni e il vecchio, riferendosi a ciò che stava accadendo, dice: «Qui non c’è legge, non c’è ordine: il primo che si alza la mattina ha il comando nelle mani. Devi fare quello che vogliono loro; e come colono non ti resta altro da fare».8 Le parole di barba Nin sono molto dure verso coloro che detengono il potere, ch’egli definirà addirittura ʻlupiʼ, contro i quali solo i più forti sapranno difendersi, e specificherà che durante il periodo austriaco erano comunque tempi diversi, quando la giustizia era garantita dalla legge e alla domanda che gli pone Francesco se anche al tempo dell’Austria ci fossero queste discordie etniche, barba Nin risponde che anche allora ci si schierava da una e dall’altra parte per motivi etnici, ma secondo lui non lo si faceva per interesse, e comunque su tutto vigilava la legge:

«Chiedilo a tuo zio; chiedilo a quel disonesto. Io da una parte, lui dall’altra. Io italiano, lui croato. Io con la mia bandiera e i miei della Lega, lui con la sua e i suoi del Društvo. L’Austria permetteva. Ma quei bastardi ci accusarono di aver dato fuoco alla loro scuola. No, gli dico, signor giudice: questo no. Tutto si può dire (che li abbiamo presi a sassate, che mio fratello Zorzi ha fatto i suoi bisogni sulla bandiera, che quando tornavano da Babici erano in troppi e allora non mi restò altro da fare che ordinare la ritirata e, prima di darmela a gambe anch’io, calare le brache e mostrargli una cosa, signor giudice) ma non che noi abbiamo dato fuoco alla loro scuola! Non siamo mica venuti dalla Serbia, noi. Chiedete, informatevi: la scuola l’hanno bruciata le loro donne, che facevano il forno per cuocere il pane, non io, non i miei, signor giudice. E mi credette sulla parola». «Dunque anche quella volta c’era la solita storia di italiani e slavi, slavi e italiani?» Allora tuonò. «Ma quella volta si poteva! Il mondo andava così, e in fondo era anche un divertimento: mai un gioco di interessi. Quella volta si ballava anche la mazurca, ma va a vedere al Dom a quanti dei nostri giovani piace ballarla!» 9

Dalle parole del vecchio si intravede che egli apprezzava il governo austriaco in quanto rispettava le diversità consentendo la convivenza, ma nel periodo in cui si svolgono i fatti narrati in Materada (quello dell’avvento del governo jugoslavo) la situazione era molta diversa, densa di un odio che porta alla dolorosa vicenda dell’esodo. Anche in questo ambito si può intravedere il problema della nazionalità nelle popolazioni di frontiera, che spesso è vissuta come un dramma, specialmente quando si tratta di dover odiare o (peggio) combattere chi si è sempre visto come amico, anche se di altra nazionalità. Un importante dramma che nasce nelle popolazioni istriane, legate alla realtà contadina quasi come unico simbolo di riconoscimento, consiste nel fatto

|| 8 Fulvio Tomizza, Materada, Milano, Bompiani, 2000, p. 123. 9 Ivi, p. 127.

100 | Nives Zudič Antonič, Andrej Antonič di dover lasciare la propria terra, considerata come il luogo sacro del lavoro. Il protagonista di Materada, infatti, non voleva abbandonarla perché vi era legato da un vincolo molto forte, affettivo, e non riusciva nemmeno a immaginare come sarebbe stata la vita in città, lontano dai suoi campi, dal suo lavoro. E il giorno in cui decise di farlo, di optare per l’Italia e pertanto lasciare la propria terra, fu un momento difficile, tragico. All’inizio non gli sembrava una cosa molto grave, avrebbe firmato dei documenti e tutto sarebbe finito lì, ma in verità, quando si recò a Umago per andare a firmare i documenti, mentre saliva le scale che lo avrebbero portato all’ufficio per la firma, si sentì mancare, poi si ricordò che a Trieste nel campo profughi gli avrebbero dato «una baracca, due pasti, il sussidio» e allora i suoi pensieri ritornarono alla sua terra, al lavoro che non avrebbe più avuto, alle festività e alle ricorrenze della sua gente e a cosa avrebbe potuto comprarsi con i guadagni del sudore del suo lavoro.10 Nel momento della decisione, quando Francesco si reca a Umago per firmare la richiesta di partire, i ricordi vanno alla terra, a quel mondo che deve lasciare e al fatto che non riusciva a immaginarsi una nuova vita in cui non ci fosse questa sua realtà. Il contadino di Materada nell’atto di varcare il confine che lo esclude per sempre dai suoi campi e dalle sue stalle, si volta indietro e prova «un certo scherzo: era come se l’amico, dentro, avesse per un momento cessato di battere. Davanti a me vedevo un mare aperto, nel quale si doveva entrare; e non sapevo come, né da che parte incominciare».11 La terra esprime la vera natura dell’identità di frontiera perché rimane il punto di riferimento, una certezza, in un certo senso eterna e irremovibile, per l’individuo; attraverso di essa, anche se plasmata dai vari eventi storici, si mantiene la stabilità, permettendo all’individuo di relazionarsi ad essa in quanto immutabile nella sua essenza. Per il protagonista tomizziano l’unica appartenenza certa è quella alla terra natale, che permette di identificarsi e riconoscersi in essa. È per questo motivo che probabilmente Tomizza fa concludere Materada con la riconciliazione in chiesa prima di partire. È un atto di coraggio, quello che s’impongono i paesani, di dire la messa da soli senza il parroco (che, per i tempi che corrono, in paese non hanno più) per poter lasciare la loro terra in pace. E così il romanzo si conclude con le parole del protagonista, Francesco, che pensa alla propria terra, fonte di vita, e alla moltitudine dei morti nati e cresciuti e rimasti lì, una terra che avrebbe potuto bastare per loro e per i loro figli.12

|| 10 Ivi, p. 142. 11 Ivi, p. 145. 12 Ivi, p. 173.

Frontiera e convivenza nell’opera di Fulvio Tomizza | 101

Questi sono i valori di un mondo contadino: la terra, la chiesa, i morti, il cimitero con il confine che va forzatamente varcato e porterà così a una lacerazione profonda tra ambiente umano e naturale dovuta al distacco dell’esilio.13

Identità di frontiera

La definizione di identità è strettamente legata alle componenti presenti e passate di una specifica cultura, caratteristiche che sono l’effetto di un processo precario, in cui le circostanze storiche cambiano nel tempo, aggiungendo o togliendo specificità culturali ed etniche. L’Istria è una regione di natura multietnica con un forte spirito di convivenza con la diversità in cui le definizioni identitarie imposte dai vari regimi hanno creato invece ostilità. Le varie vicissitudini storiche del territorio hanno portato a spostare nel tempo le diverse linee di confine, e questo, di fatto, ha contribuito alla creazione di un territorio multietnico e multilingue:

Chi nasce in quel territorio è ricco di tante differenze e di tante culture, è se stesso con un’identità netta o predominante, ma è anche l’altro, ha in sé anche un po’ dell’altra identità. Ogni tanto, la Storia impone alla gente di frontiera di avere una sola identità. E questo è sempre doloroso, talvolta tragico. Talvolta si arriva alla soluzione barbara e parossistica del trasferimento di popolazioni (inutile fare scempi) nella ricerca demente di una sola identità.14

Il vincolo causato da una scelta politica significa l’esigenza di nominare, assieme all’ideologia, una delle due identità etniche e culturali presenti negli individui, ponendo la necessità di scegliere tra una e l’altra, dilemma questo al quale è

|| 13 Con Materada lo scrittore ha voluto fare quasi un tributo alla sua terra, alla sua gente che è stata sballottata dalla storia, dagli eventi bellici, dalle epidemie. Sentiva di dover lasciare una testimonianza e l’ha fatto con i suoi romanzi, iniziando proprio da questo che molti critici considerano ancora il suo romanzo più bello. Molte delle sue opere sono ambientate nel periodo tra il 1945 e il 1955 che è stato il periodo storico più sconvolgente dell’Istria. Da ragazzo lo scrittore ne è stato testimone e l’ha vissuto in prima persona, per cui nei primi libri ha cercato di testimoniare e specialmente di portare una parola di pace, una parola di solidarietà, una parola nuova in un mondo che era secolarmente sempre pieno di conflitti, di rancori e di lacerazioni. 14 La citazione riporta le parole del regista triestino Franco Giraldi che parla della sua concezione della frontiera. Il passo è tratto dall’articolo di Laura Strano, Giraldi: la frontiera, il mio tormento di bambino, uscito su «Il Piccolo» del 31 luglio 2006 in cui viene presentato il film del regista La frontiera tratto dal romanzo omonimo di Franco Vegliani.

102 | Nives Zudič Antonič, Andrej Antonič impossibile dare una soluzione, o per lo meno una soluzione che non porti sofferenza. La prospettiva che propone di adottare Tomizza è quella di vedere il rapporto con il diverso come un arricchimento ed un’apertura; un tema, questo, che si trova in molti dei suoi romanzi. Riprendendo le parole del sociologo Ulderigo Bernardi potremmo affermare che Tomizza sia riuscito a descrivere quelli che sono i tratti essenziali dell’identità dell’Istria (o se vogliamo di un’identità di frontiera), per cui questa terra è

intesa come un abecedario spalancato sulle culture. Uno scenario estroso, scabro e armonico, dove le asprezze carsiche sfumano nella dolcezza delle doline, e l’eleganza di umili architetture rurali rispecchia l’urbanità dei centri costieri […] Chi visita l’Istria compie un pellegrinaggio di memoria, per i molti segni di patrie perdute che questa terra conserva. Ma al tempo stesso avverte la percezione di camminare lungo la fresca via del mattino d’una umanità che avrà in orrore le prigioni, etniche o d’altro genere, mentre vive sommessamente ogni giorno, nella quotidianità etica del lavoro e nella solidarietà comunitaria, la speranza tenace di aria nuova per le sue culture. Fulvio Tomizza muovendo dall’appartenenza locale guidava a riflettere sull’universalità perenne della mescolanza: la terra d’origine come tutta la Terra, e la cultura universale come universo di culture. Ciascuna degna di rispetto.15

La concezione della frontiera delineata da Tomizza si trova, oltre che nei romanzi, anche in altre sue opere, quali conferenze, articoli e discorsi apparsi in varie circostanze e raccolti in Alle spalle di Trieste (con scritti che vanno dal 1969 al 1994)16 e in Destino di frontiera (1992), una lunga intervista di Riccardo Ferrante, scrittore triestino di origine istriana, a Tomizza. In questi volumi vengono ripresi e spiegati direttamente dall’autore i temi principali di molti suoi romanzi, tra i quali emerge quello dell’identità di frontiera. Tomizza è stato considerato da diversi critici lo scrittore di frontiera per eccellenza;17 egli ha vissuto un doppio esilio, istriano e triestino, ed è stato sempre particolarmente sensibile alle sofferenze e ai problemi del vivere quotidiano, di chi, come lui, è uomo di due patrie. È proprio negli interventi che possiamo leggere nei due libri analizzati che lo scrittore si rivela anche storico della propria esperienza e fa luce su una fase della sua vita: quel periodo travagliato della storia che è rimasto impresso nella sua memoria.18 Lo scrittore

|| 15 Ulderico Bernardi, Istria d’amore. L’Istria, magico frammento d’Europa, Treviso, Santi Quaranta, 2012, p. 137. 16 In molti degli articoli del libro lo scrittore affronta i problemi della frontiera. 17 Antonino Grillo, Tomizza e la critica più recente: a proposito di Carmelo Aliberti. Fulvio Tomizza e la frontiera dell’anima, Foggia, Bastogi, 2003. 18 In un’intervista lo stesso scrittore affermerà: «Si vede che la mia penna non scrive bene, non si muove se non consola qualche ferita ingiusta, se non asciuga qualche lacrima, se non porta

Frontiera e convivenza nell’opera di Fulvio Tomizza | 103 tratta questi temi per non far dimenticare quel periodo atroce, ma soprattutto perché vorrebbe che queste terre (e qui pensa anche a Trieste) vivessero quella che lui considerava la riconciliazione tra etnie. Lo scrittore avrebbe voluto fermare il «contrasto irriducibile» che c’era tra la gente di questa regione, per attuare «l’impossibile riconciliazione», in modo che non si dovesse più fare una scelta tra culture e etnie diverse, «ma tentando piuttosto di accordarle, riconoscendole proprie di un uomo di frontiera, sentendole stimolanti anziché gravose».19

Tra utopia e disillusione

Tomizza arrivò a Trieste dall’Istria nel 1955, trovando una città in un certo senso ostile, avversa, anche perché in essa si concentravano i conflitti e le lacerazioni che lui in parte aveva già superato.20 Da una parte si sentiva attratto verso il mondo cittadino urbano, borghese, verso la cultura supponente che aveva dei riferimenti tanto precisi in Saba, Svevo, Slataper; dall’altra parte questa stessa città gli provocava come un senso di soffocamento ed è per questo che sente il bisogno di uscire e di respirare l’aria dell’Istria, ed è in questo frangente che, come alternativa all’Istria, si pone un nuovo paesaggio campestre, molto singolare: il Carso triestino. Tomizza descrive il suo arrivo e la sua vita a Trieste nel romanzo L’amicizia, in cui racconta la storia di due uomini e di due situazioni ambientali: Trieste e il Carso. I protagonisti del romanzo sono un giovane di campagna arrivato in città, Marco (l’alter ego dello scrittore), e Alessandro, un ragazzo di città. Tra i due si sviluppa un rapporto di amicizia che si trasforma via via in un confronto continuo di caratteri e spesso sfocia in un provocatorio scambio di ruoli.

|| sollievo, calore, compagnia a persone che non ne hanno avuta. Io ho sofferto di solitudine e so quanto fa bene una parola di consolazione e affetto» (Robert Apollonio, Tomizza e i suoi romanzi. TRV Koper-Capodistria, 28.4.2009). 19 F. Tomizza, Alle spalle di Trieste, cit., p. 143. 20 Fulvio Tomizza era arrivato a Trieste in seguito all’esodo e negli anni ’60 aveva già pubblicato i suoi primi libri su questo argomento. Il richiamo alla lacerazione superata si riferisce al fatto che lo scrittore aveva capito già precedentemente che per poter vivere in armonia in terre di confine, bisognava accettare la presenza di tutte le etnie e le culture presenti nel territorio, cosa che invece non trova a Trieste, perché è molto forte ancora il sentimento di disprezzo nei confronti degli sloveni presenti sul territorio.

104 | Nives Zudič Antonič, Andrej Antonič

Marco, come lo scrittore, per sfuggire alla sua sofferenza in città andava proprio sul Carso, al fine di trovarsi in uno spazio più aperto, più respirabile, più congeniale. Nel Carso egli trova qualcosa di veramente interessante, ossia delle similitudini con l’Istria, ma rispetto al suo paese istriano, questo ambiente era più aspro, più chiuso, con una popolazione totalmente slovena che però gli ricordava il mondo arcaico in cui aveva trascorso l’infanzia. E pertanto era naturale che «quel luogo, quelle stradine, quei muri, quei roveri»21 gli parlassero più che a un triestino che da Trieste arrivava sul Carso per una passeggiata:

Ai tratti di bosco succedevano sempre più frequenti ed estesi i campetti di terra rossa tenuti a viti alte, sorrette da grossi pali di acacia, mentre alla mia destra il sottobosco biancastro per le rocce affioranti si spingeva a vestire i poggi in corsa ondulata con noi. Il cuore mi diede un sobbalzo. Mi sbirciasti per azzardare: «Qui mi pare di ritrovare il tuo paesaggio». «Infatti» risposi in piena emozione. «È il punto che maggiormente assomiglia ai miei luoghi. Mi basterebbe chiudere gli occhi e sentire le erte improvvise della strada».22

A contatto con la gente del Carso, si sentiva come una specie di fratello, parlava con loro in sloveno e quindi veniva considerato uno della famiglia. Al contrario Alessandro, il personaggio che lo accompagna, è il suo opposto, è l’amico cittadino che va sul Carso con una specie di pregiudizio, di distacco, nonostante sia un personaggio molto aperto, decisamente cosciente delle sue scelte. Egli guarda alla gente del Carso con un certo distacco e, proprio per questo motivo, il suo amore con Irena, la ragazza slovena, non si realizza. Rispetto ai libri precedenti, in questo romanzo Tomizza esprime tutta la sua amarezza nei confronti di fatti non avvenuti.23 Prima l’amicizia che non si realizza completamente tra il ragazzo di campagna istriano, con i suoi orizzonti aperti, e il ragazzo di città, aperto al colloquio e al dialogo, però segretamente condizionato dalla chiusura triestina, cittadina. Così come non si realizza neppure il rapporto amoroso tra Alessandro e Irena, la fidanzata slovena. Con questo romanzo Tomizza ha voluto esprimere la disillusione rispetto alla sua utopia, all’illusione di aver creduto che ci fosse un processo di osmosi tra i popoli al di qua e al di là del confine, il conseguente superamento di ogni sospetto, di ogni intolleranza. Al contrario, con L’amicizia, Tomizza ha voluto

|| 21 Fulvio Tomizza, L’amicizia, Milano, Rizzoli, 1980, p. 143. 22 Ivi, p. 139. 23 Lo scrittore era dilaniato da un conflitto interiore, perché nel clima della guerra fredda si rendeva conto che era impossibile la realizzazione del suo sogno di superare i contrasti tra la cultura italiana e la cultura slava, che egli sentiva entrambe presenti nella sua identità di uomo di frontiera.

Frontiera e convivenza nell’opera di Fulvio Tomizza | 105 esprimere il suo rammarico per essere stato «un cattivo profeta»,24 lui stesso vivrà una sconfitta morale e personale, realizzando che la barriera che aveva creduto superata, non solo persisteva ma era ancora molto forte, molto sentita, sia da una parte che dall’altra. Nel momento in cui Tomizza scrive il romanzo forse non c’è inimicizia, non c’è odio, ma c’è freddezza: in un mondo di confine come questo, nel quale ognuno ha bisogno dell’altro, non ci dovrebbe essere freddezza. Lo scrittore ci vuol dire che in un territorio come il Friuli Venezia Giulia e l’Istria ci deve essere quell’apertura e quella disposizione dell’anima libera da pregiudizi per cui si può lavorare insieme per fare qualcosa di nuovo. Secondo Tomizza è mancata la volontà di collaborazione, e questo viene reso palese nel titolo L’amicizia, un rapporto bello, umano, forse il più umano dei rapporti che si può costituire libero senza alcuna scelta tra due persone. Altrettanto bello sarebbe il rapporto schietto, di incontro tra due popolazioni, che in certi momenti sembra avvenire, per poi invece cessare improvvisamente per il prevalere del pregiudizio in entrambe le etnie, quella italiana e quella slava.25

Conclusioni

Tomizza, attraverso le sue opere, cerca di trasmettere un processo di armonizzazione tra le due componenti etniche e culturali presenti in Istria. Per presentare al meglio i suoi concetti, lo scrittore usa uno stile introspettivo e autobiografico, che rafforza l’argomentazione della sua tesi di convivenza e armonia delle diverse culture. Argomento questo che ci riporta a Materada in cui lo scrittore ricorda l’armoniosa vita che viveva la comunità prima dei terribili fatti storici. Le popolazioni dell’interno amavano il proprio dialetto, con ingredienti volgarizzati veneti e croati, nella cui singolare parlata viveva, con valori trasmessi di generazione in generazione, l’antica onestà di un piccolo mondo rurale. Gli uni e gli altri si scambiavano gli attrezzi agricoli, si aiutavano, nel clima di solidarietà tipico della gente semplice dei campi, persone che amavano i fatti concreti e la parola data. Costoro comunicavano usando due dialetti, e si capivano superando qualsiasi barriera. Anche i giovani che si sposavano lo facevano senza distinzione di etnia, fosse essa italiana o croata; ricordiamo che la stessa madre dello scrittore Fulvio Tomizza era di origine slovena, ed era

|| 24 Robert Apollonio, Tomizza e i suoi romanzi, cit. 25 Ibid.

106 | Nives Zudič Antonič, Andrej Antonič sposata con un italiano.26 Tomizza riconosce la propria appartenenza ad entrambi i mondi, quello italiano e quello slavo,27 e la racconta nelle sue opere, presentando un resoconto realistico di esperienze vissute. Secondo Tomizza l’unica soluzione per giungere alla riconciliazione di queste due realtà è il risorgimento di quella specifica caratteristica che lui ascrive al suo territorio natale: il riconoscimento e l’assimilazione delle diversità. Per questo motivo lui stesso è posto davanti a una scelta che limiterebbe il suo essere: non poteva accettare una sola realtà culturale e etnica, ma l’unica cosa che poteva fare era quella di considerarle insieme come un’unica identità.28 Anche il sociologo Darko Bratina, amico e collaboratore di Tomizza, con cui lo scrittore ha condiviso l’amore per il cinema, facendo riferimento alla questione dell’identità di frontiera si esprime in questi termini:

Personalmente pure essendo sloveno di lingua e di cultura, mi sentirei privato di molto se non potessi muovermi normalmente nella lingua e nella cultura italiana e tra italiani, non solo perché mi ritengo cittadino italiano a tutti gli effetti, ma perché senza questa non presenza capirei ben poco del luogo in cui vivo e della gente con cui convivo e incontro quotidianamente. Per quel che mi riguarda essa mi permette di vivere nella sua pienezza, e non da straniero il luogo fisico e antropologico che la storia in un certo senso ha imposto quasi come un dato di natura. Non solo ma, oltre a trovarmi a casa qui sulla frontiera, mi trovo perfettamente a casa sia a Milano che a Lubiana, nel senso che la gente ed il contesto complessivamente non mi sono né lontani né stranieri ed interagisco con entrambi. Pertanto essere insieme sloveno e italiano non è difficile semmai è solo affascinante.29

Secondo Tomizza l’Istria rimane una regione multietnica nella quale si incrociano e convivono, spontaneamente, un vasto numero di culture. La popolazione originaria della regione è custode di un’identità plurima, un miscuglio etnico e culturale che si è sedimentato con l’andare del tempo e che ha generato una dimensione umana tollerante e aperta.

|| 26 F. Tomizza, Alle spalle di Trieste, cit., p. 190. 27 «La duplicità che mi porto addosso non credo si chiamasse doppiezza. Era un instabile e sofferto coesistere di due modi di essere e di sentire contrapposti, due appartenenze che non riuscivano a conciliarsi e s’incolpavano a vicenda…» (Fulvio Tomizza, Il sogno dalmata, Milano, Mondadori, 2002, p. 44). 28 «Nessuna delle due fazioni mi aveva interamente. Esse esistevano nella mia immaginazione soltanto se a vicenda si completassero o si scambiassero qualcosa: la lingua innanzitutto, e poi l’istruzione e l’urbanità da un lato, l’insicurezza, l’umiltà, la voglia di fare e di cambiare il mondo dall’altro» (ivi, p. 45). 29 Palčič, Boris, Et(h)nos. Anche noi. Tudu mi, film documentario, Kinoatelje, Gorizia, 2004.

Frontiera e convivenza nell’opera di Fulvio Tomizza | 107

Lo scrittore si augura, come descrive nelle sue opere, che l’Istria diventi «da un luogo di continui attriti, la frontiera che può rovesciarsi in oasi di pace».30 È questo il messaggio dell’autore che, anche se può sembrare troppo ottimista e quasi utopico, propone l’unica soluzione auspicabile per il futuro non solo dell’Istria, ma anche dell’Europa stessa.31 Negli ultimi anni della sua vita, quando capì che la sua utopia sembrava condivisa dalla maggioranza dei suoi conterranei, stanchi di odiarsi l’un l’altro, lo scrittore ha addirittura azzardato l’idea di una regione autonoma istriana che rispettasse la sovranità territoriale dei tre Stati governanti (Italia, Slovenia e Croazia)32 e che sarebbe potuta diventare un luogo di cooperazione e di convivenza, di approccio inventivo, di scambio di esperienze, di mutuo ricorso ad altre culture, di scoperte e rivisitazioni.

|| 30 F. Tomizza, Alle spalle di Trieste, cit., p. 194. 31 Fulvio Tomizza, Le mie estati letterarie. Lungo le tracce della memoria, Venezia, Marsilio, 2009, p. 57–59. 32 Ivi, p. 214–215.

Gianna Mazzieri-Sanković, Corinna Gerbaz Giuliano Storie di confine

Un racconto inedito del Novecento letterario fiumano

Riassunto: Il saggio si focalizza sul romanzo Il cavallo di cartapesta (concluso nel 1967 e pubblicato nel 2007) del fiumano Osvaldo Ramous (1905–1981), l’autore che rappresenta in assoluto la continuità della tradizione letteraria italiana in queste terre. Poligrafo (narratore e poeta, drammaturgo e saggista), Ramous cre- sce nel fervore letterario di una Fiume mitteleuropea che nella prima metà del Novecento si mostra aperta a culture, lingue e tradizioni diverse, mentre nel se- condo dopoguerra vive le drammatiche vicende di una città di confine i cui abi- tanti nel corso di cinque decenni mutano per ben cinque volte cittadinanza e che, con l’esodo della maggior parte dei cittadini di madrelingua italiana, vede pro- fondamente alterata la propria identità. Tutto ciò è affidato alle pagine del Cavallo di cartapesta, affresco storico e sofferta testimonianza personale, di cui le autrici indagano l’elaborazione servendosi anche di inediti materiali prepara- tori.

Border stories: an unpublished story of the twentieth century literary Fiumano

Abstract: The essay focuses on the novel Il cavallo di cartapesta (ʻThe papier- mâché Horseʼ, finished in 1967 and published in 2007) by Osvaldo Ramous (1905– 1981), the author who represents the continuity of the Italian literary tradition in these lands. A polygraph (narrator and poet, playwright and essayist), Ramous grew up in the literary fervour of a Central European Rijeka that in the first half of the twentieth century was open to different cultures, languages and traditions, while after the Second World War he experienced the dramatic events of a border town whose inhabitants changed citizenship five times over the course of five de- cades and which, with the exodus of the majority of native Italian speakers, saw its identity profoundly altered. All this is entrusted to the pages of his novel, a historical fresco and suffered personal testimony, whose elaboration the authors investigate basing themselves, among other things, on unpublished preparatory materials.

Open Access. © 2020 Gianna Mazzieri-Sanković, Corinna Gerbaz Giuliano, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial- NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-008

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La tradizione letteraria di frontiera trae spunto da un’area geografica che Angelo Ara e Claudio Magris definiscono «una striscia che divide e collega, un taglio aspro come una ferita che stenta a rimarginarsi, una zona di nessuno, un territo- rio misto»,1 che al di là della valenza antitetica del dividere e dell’unire delinea una storia culturale ricchissima. La letteratura di confine si inserisce di fatto nella koinè mitteleuropea intrisa di realtà diverse, culture a contatto e storie divise, che danno vita ad uno spazio culturale plurimo. L’area di Fiume, città di mare e di confine, non è da meno e rappresenta un punto fermo di quell’eredità culturale fondata sul principio della memoria.2 La parola scritta è dotata di una forza straordinaria in quanto ha sa- puto superare tutte le avversità e le divisioni politiche ed è stata in grado di man- tenere saldo il patrimonio identitario di cui si fa portavoce. L’esperienza culturale e letteraria di Ramous si snoda all’interno di quest’area confinaria e rappresenta un esempio tangibile di quanto il mondo composito della frontiera funga da col- lante e vada inteso come elemento di crescita culturale. Osvaldo Ramous (1905–1981)3 è uno dei maggiori scrittori della Fiume nove- centesca, definito da Bruno Maier l’autore che in assoluto rappresenta meglio la continuità della tradizione letteraria italiana in queste terre.4 Poligrafo che ha spaziato in ogni genere, egli ci ha lasciato in eredità undici libri di poesia, nove drammi dei quali cinque inediti, due raccolte di racconti, due romanzi, numerosi radiodrammi, quarantasei regie e circa quattrocento saggi.5 Cresciuto e maturato nel fervore cosmopolita di una Fiume mitteleuropea che nella prima metà del No- vecento si mostra aperta a culture, a lingue, a popolazioni nuove con i rispettivi usi, costumi e valori, Ramous vive nel secondo dopoguerra i profondi mutamenti di una città di confine. La città natale, Fiume, che nel corso di cinque decenni fa mutare per ben cinque volte ai propri abitanti cittadinanza, a conclusione del conflitto vede l’esodo della maggior parte dei cittadini di madrelingua italiana.

|| 1 Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 2007, pp. 192– 193. 2 Vedi Aleida Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, il Mulino, 2002. 3 Poeta, narratore, drammaturgo, giornalista, critico letterario e teatrale, traduttore, regista e direttore del Dramma Italiano di Fiume. 4 Bruno Maier, Il gioco dell’alfabeto. Altri saggi triestini, Gorizia, Istituto Giuliano di Storia, Cul- tura e Documentazione, 1990, p. 166. 5 Per una bibliografia dell’opera di Osvaldo Ramous si rimanda a Corinna Gerbaz Giuliano, Gianna Mazzieri-Sanković, Non parto, non resto... I percorsi narrativi di Osvaldo Ramous e Marisa Madieri, Fonti e studi per la storia della Venezia Giulia, serie terza: Memorie, V, Trieste, Deputa- zione di Storia Patria per la Venezia Giulia, 2013.

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In poco tempo lo scrittore registra la scomparsa di una lingua, di una cultura, di persone e cose, e decide di narrare i cambiamenti profondi dell’identità del pro- prio luogo natio scrivendo un romanzo, Il cavallo di cartapesta, che rimarrà ine- dito per quarant’anni. Il romanzo, diviso in quattro parti, si compone di venticinque capitoli relativi a eventi storici che hanno interessato Fiume a partire dagli inizi del XX secolo fino al 1948. Questi si intersecano alla vicenda personale del personaggio princi- pale, Roberto Badin, un italiano che vive a Fiume e sin da bambino nota il conti- nuo afflusso di gente dall’interno: individui di usi e costumi diversi, che ben pre- sto si amalgamano nello spirito cittadino. Attraverso gli occhi del protagonista il lettore affronta la storia della città di confine: l’episodio di Zanella, la fame del 1917, la caduta dell’Impero austro-ungarico e l’impresa dannunziana. In piena seconda guerra mondiale, Badin, insegnante di musica, vive una relazione con la pittrice ebrea Clara, che, giunta da Zagabria, trascorre le giornate segregata nella casa di lui per poi sparire nel nulla. Badin si avvicina alla lotta antifascista da una posizione comunque distaccata e si impegna a cercare Clara, ma invano. La guerra si conclude e le truppe partigiane entrano in città. Il protagonista rimane a vivere a Fiume, in quella che è la sua città, ma assiste incredulo a un rovescia- mento di usi, costumi e lingua. Allo stesso tempo assiste ad un ulteriore evento che mette a repentaglio il tessuto urbano, allo svuotamento della città dalla po- polazione italiana, all’arrivo di gente proveniente dall’entroterra dei Balcani, per cui nella sua città comincia a sentirsi sempre più straniero. Dal punto di vista della narrazione, il romanzo risulta diviso in due parti: nella prima troviamo il protagonista Roberto Badin, un adolescente plasmato dagli eventi che investono la città, nella seconda assistiamo alla sua partecipazione diretta agli eventi. Tale divisione è giustificata dallo stesso Ramous in risposta all’allora capo- redattore della rivista romana «La Fiera letteraria» Eraldo Miscia, il quale aveva criticato proprio la discordanza tra le due parti del romanzo. L’autore chiarisce e motiva così le proprie scelte:

Io volevo cogliere due momenti della sua storia: quello in cui l’italianità venne sancita po- liticamente, e l’altro in cui l’italianità bruscamente venne cancellata. Questi due momenti storici sono rappresentati dalla prima e dalla seconda guerra mondiale. Le persone che hanno assistito a tutti i due momenti storici erano, necessariamente, gio- vanissimi al tempo della prima guerra, e non potevano quindi ‘vivere’ in pieno gli avven- imenti, ma ne furono inconsciamente plasmati. Ecco perché la prima parte del romanzo (hai ragione: meglio chiamarla ‘prologo’), cioè i capitoli che si riferiscono alla Grande guerra, esaurisce il primo momento storico della narrazione, la quale, più che altro, è una pittura d’ambiente, e viene troncata nel punto in cui l’italianità politica di Fiume è virtualmente conseguita. L’impresa dannunziana è un episodio a sé (del quale intendo parlare un giorno, particolarmente e a lungo), episodio che si svolge già nella piena italianità di Fiume, anche

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se la città non era ancora formalmente annessa all’Italia. Ecco perché io l’ho staccata dal prologo e la faccio rivivere nella memoria di Roberto, il personaggio principale del romanzo. Il quale Roberto viene portato subito in piena seconda guerra mondiale.6

Infatti le due parti del romanzo, che coprono un arco temporale di ventitré anni, coincidono con un periodo denso di radicali trasformazioni in tutti i campi, da quello politico a quello culturale, linguistico, sociale, e sono espressione di due climi diversi. L’autore offre quindi un contributo alla conoscenza delle vicissitu- dini di Fiume con pagine drammatiche su queste terre segnate da una storia ‘più grande’ che ne governa le sorti. I riferimenti storici tracciano la parabola esistenziale del protagonista Ro- berto Badin, dando così risalto alla storia complessa del confine orientale, che lega le vicende di Fiume alla sua posizione geostrategica. Ramous vuole testimo- niare, come dice lui stesso, due momenti importanti della storia della sua città natale, «quello in cui l'italianità venne sancita politicamente, e l'altro in cui l'ita- lianità bruscamente venne cancellata»,7 il tutto tenuto insieme da una rigorosa ricostruzione storica, facendo leva proprio sull’identità culturale italiana preva- lente in città da secoli. Nel romanzo i riferimenti storici sono numerosi e puntuali, e trovano conferma in quanto narrato da Giovanni Stelli nella Storia di Fiume dalle origini ai giorni nostri.8 Il cavallo di cartapesta si apre con l’attentato a Sara- jevo del 1914 che provoca lo scoppio della prima guerra mondiale e riporta la per- cezione della guerra che ne ebbero i fiumani. Scrive l’autore: «Poi la guerra, la grande guerra, si levò improvvisamente a turbinare sulle terre d’Europa e sui mari. La mobilitazione generale colse la gente alla sprovvista».9 Numerosi fiu- mani furono richiamati alle armi, furono concesse loro quarantotto ore per rag- giungere le destinazioni di combattimento, ma ciò che sicuramente non si poteva immaginare era la durata del conflitto. Ramous registra episodi rilevanti seguiti all’entrata in guerra dell’Italia, come il bombardamento avvenuto nel 1915 allorché il silurificio e il cantiere na- vale, cuori pulsanti dell’industria cittadina, vennero colpiti dal dirigibile Città di Ferrara. Fa riferimento al razionamento dei viveri e alla fame del 1917, alla caduta dell'Impero austro-ungarico, alla formazione del Regno dei Serbi, Croati e Slo-

|| 6 Da una lettera di Ramous a Eraldo Miscia del 22 giugno 1969 tratta dall’Archivio di famiglia. 7 Ibid. 8 Giovanni Stelli, Storia di Fiume dalle origini ai giorni nostri, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2017. 9 Osvaldo Ramous, Il cavallo di cartapesta, a cura di Gianna Mazzieri-Sanković, Fiume, Edizione della Comunità degli Italiani di Fiume, 2007, p. 24.

Storie di confine | 113 veni, nato dopo la Conferenza di pace di Parigi del 1919, all’impresa dannun- ziana,10 e con il cosiddetto Natale di sangue del 1920, i giorni dal 24 al 29 dicem- bre, quando l’esercito italiano costringe D’Annunzio e i suoi legionari a lasciare la città, conclude la prima parte del romanzo: «Nei tre giorni seguenti, la piccola guerra tra la Fiume dei Legionari e l’Italia del re e di Giolitti, si tramutò in assedio. Non più assalti e sparatorie di fucili e mitragliatrici, ma colpi di cannone diretti sulla città [...] erano cannonate piuttosto caute».11 Ramous prosegue passando in rassegna il periodo dell’annessione all’Italia fino ad arrivare alla seconda guerra mondiale, che fa da sfondo all’ultima parte del romanzo, con lo sgomento della popolazione provocato dalla capitolazione dell’Italia nel 1943, l’occupazione tedesca, le misure repressive attuate dalla Ge- stapo e dalle SS, e infine il grande esodo a guerra conclusa, lo svuotarsi della città (di quella che, come dice il protagonista, «era italiana, come il nostro dialetto, già prima che giungesse qui l’Italia»)12 da gran parte della popolazione italiana, con cui si conclude il romanzo. Nella definizione della propria arte spesso Ramous sottolinea il modo istin- tivo, naturale, spontaneo con cui nascono le sue poesie.13 Ciò che invece contrad- distingue la sua produzione in prosa non è un fermarsi alla prima ‘spontanea’ versione dettata dall’ispirazione, quanto piuttosto un lavoro di revisione testuale e stilistica, di perfezionamento, di ogni minimo dettaglio del testo prodotto. Lo conferma il confronto tra il materiale autografo e la versione data alle stampe, soggetta a non pochi ritocchi, rifacimenti e ripensamenti, volti soprattutto all’af- finamento stilistico. Nell’analisi delle tecniche narrative elaborata da Sante Treré e Graziella Gal- legati si rileva che la scelta delle stesse non va mai intesa come puro artifizio let-

|| 10 «Nella borgata di Ronchi, presso l’Isonzo, si erano raccolti i legionari di D’Annunzio, in procinto di marciare su Fiume. Interi reparti della truppa allontanata dalla città si unirono a loro scegliendo l’incognita, avventurosa ribellione. Quell’impresa segnò in realtà il distacco della città dai territori già asburgici, anche se l’annessione all’Italia fu preceduta dalla nascita di due staterelli: la dannunziana Reggenza Italiana del Carnaro e la ancor più effimera Repubblica di Fiume presieduta da Riccardo Zanella. L’età non permise a Roberto di prender parte ai tumulti di quel periodo, ma, come ogni fiumano di allora, ebbe le sue brave carte personali che attesta- vano il susseguirsi delle sue varie cittadinanze» (ivi, p. 53). 11 Ivi, p. 81. 12 Ivi, pp. 89–90. 13 Per una conoscenza più ampia dell’attività letteraria di Ramous si veda Gianna Mazzieri- Sanković, Una voce fuori dal coro, in Le parole rimaste. Storia della letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero nel secondo Novecento, a cura di Nelida Milani Kruljac e Roberto Dobran, Fiume, EDIT, 2010, vol. I, pp. 241–288.

114 | Gianna Mazzieri-Sanković, Corinna Gerbaz Giuliano terario ma è sempre in rapporto a certe situazioni storiche e morali, ad una parti- colare concezione dell’esistenza che rispecchia la particolare visione del mondo dell’autore.14 La considerazione è utile a spiegare la genesi del Cavallo di cartape- sta. Le problematiche trattate da Ramous riguardano non solo lui e i suoi concit- tadini ma anche i cittadini del mondo intero. Questi devono capire quanto gli eventi della storia possano influenzare non solo la vita di un individuo ma pure quella di un luogo, quanto spesso le scelte fatte, l’impossibilità di modificare il corso degli eventi, abbiano un ruolo determinante per l’uomo. Lo spiega sin dalle prime pagine del capitolo Guerre di uomini e di formiche,15 in cui Roberto, bam- bino, si diverte con un bastoncino a spostare le file di formiche creando scompi- glio nella vita di due formicai. È ignaro del fatto che qualche invisibile bacchetta sta, in quel medesimo istante, tessendo le fila di una tela molto più complessa che coinvolgerà la vita sua, quella della sua famiglia e della sua città. Sin dall’esordio il romanzo attesta la volontà dello scrittore di riportare il particolare all’universale, mostrandone le relazioni ed i condizionamenti reciproci. Nel suo diario Ramous parla a più riprese dell’arte in quanto ‘liberazione’ e, ricordando un capitolo di storia legato all’8 settembre 1943, comprende che rie- vocarne la memoria sarà doloroso; nonostante ciò ne sente la necessità, facendo propria la lezione di un autore che gli sta particolarmente a cuore:

Dice Goethe (e nessuno meglio di lui potrà saperlo) che quando una cosa ci pesa sull’animo, la miglior cosa è gettarla su carta per liberarsene. Ottimo consiglio, ch’io penso di applicare. In nessun altro modo potrei, diremo così, sfruttare i molti pesi che il passato mi ha lasciato nel cuore. Quanti e quanti pesi! Vorrei, con la narrazione, vedermi più leggero.16

Il peso di cui lo scrittore fiumano parla è un’identità storica e culturale, e un vis- suto che al momento in cui scrive vengono negati e cancellati. Appartenendo ad una città di frontiera, che nell’arco di cinque decenni vede per ben cinque volte mutare padrone e regime, e di conseguenza ricostruzioni storiografiche, Ramous

|| 14 Cfr. Sante Treré e Graziella Gallegati, Nuovi itinerari nella comunicazione letteraria, Firenze, Bulgarini, 1985, p. 242. 15 Se il romanzo Il cavallo di cartapesta rimane per ben quarant’anni inedito e viene pubblicato postumo solo nel 2007, alcuni capitoli, tra cui Guerre di uomini e di formiche, Il mostro, La pallot- tola sulla tettoia e Il giardino di un tempo (che nella versione definitiva non verrà incluso nel romanzo), escono dapprima su rivista come racconti autonomi (Uomini e formiche, «La Fiera let- teraria», 19 gennaio 1977; Il mostro, Fiume, «La Tore», aprile 1972; La pallottola sulla tettoia, «Quaderni del Vittoriale», maggio-giugno 1980) oppure, come Il giardino di un tempo, sono in- clusi in raccolte di racconti (Osvaldo Ramous, Lotta con l’ombra e altri racconti, Fiume, EDIT, 2006). 16 Osvaldo Ramous, Diario, 28 marzo 1957, p. 108 (Archivio di famiglia).

Storie di confine | 115 di fronte alla volontà degli ambienti ufficiali di rimuovere la storia scomoda, de- cide invece di registrarla. Da una parte dunque la volontà di fare un bilancio della propria vita, dall’altra la necessità di fissare dati che potrebbero venir cancellati dal tempo. La responsabilità che Ramous sente è grande, ed è questo uno dei mo- tivi della lenta e travagliata stesura del Cavallo di cartapesta, il suo capolavoro narrativo. L’analisi dell’elaborazione del testo attesta la volontà quasi ossessiva di dar corpo organico ad un vissuto ritenuto importante per l’autore e la sua città natale, ma che sia anche d’insegnamento per l’umanità intera. Ciò comunque nella fedeltà alla verità storica, volendo alterare il meno possibile il dato reale per onestà intellettuale e per una ricerca di risposte che egli si pone. In età matura, nelle pagine introduttive del suo Diario, in data 26 febbraio 1955, Ramous annota le proprie riflessioni ed intenzioni:

Da lungo tempo covo il desiderio di scrivere un vasto romanzo che si svolga nella mia terra. Terra di confine con molti cambiamenti, con conflitti di popoli, di culture, di razze. Sarebbe forse interessante descrivere con partecipazione umana episodi significativi di questi con- flitti. Essi forse acquisterebbero valore di simboli per quanto accadde, in proporzioni più vaste, in tutto il mondo. Il romanzo dovrebbe essere impersonale, ma fondato su ambienti e figure reali. Avrei, penso, materiale sufficiente per farlo. [...] Io potrei, se mai, essere un personaggio secondario.17

È proprio nell’ipotesi di lavoro iniziale che si riscontrano i germi della prima stesura. Il bilancio di una vita, in un’età tempestata di ricordi, ha come obiettivo la ricerca di conclusioni sull’esistenza e vuole essere un modo per affrontare la propria esperienza e liberarsi dal senso di tristezza e responsabilità che l’accom- pagna. All’affermazione di Paolo Jedlowski secondo cui «il terreno della memoria è dinamico, conflittuale, un luogo in cui i ricordi non giacciono statici in succes- sione, […] ma sono legati ad affetti, appartenenze, giudizi, valori, interessi»,18 sembra corrispondere il modo di procedere dell’autore. La finalità oggettiva si riscontra nella prima riflessione sul ruolo da assegnare a sé stesso, al testimone. In questa fase embrionale del progetto Ramous si affiderebbe una parte mar- ginale, secondaria. Un approccio mirato che, secondo una definizione di Battis- tini, sarebbe volto all’«estensione della terza persona [...] impiegata tutte le volte che l’io scrivente intende prendere le distanze dall’io passato»,19 per non

|| 17 O. Ramous, Diario, cit. 18 In Il senso del passato: per una sociologia della memoria, a cura di Paolo Jedlowski e Marita Rampazi, Milano, Franco Angeli, 1991, p. 9. 19 Andrea Battistini, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, il Mulino, 1990, p. 145.

116 | Gianna Mazzieri-Sanković, Corinna Gerbaz Giuliano compromettere l’oggettività comunque perseguita nel racconto, fatto di dati, fatti e figure realmente esistite. Consapevole del fatto che ogni testo narrativo deve necessariamente co- struire un proprio ‘sistema’ tenendo conto dei ruoli che vengono affidati al pro- tagonista e agli altri personaggi, via via Ramous procede nella presentazione del singolo personaggio con la rispettiva psicologia e visione del mondo. Dalle note del suo Brogliaccio intitolato Dove sostò la casa di Maria,20 in cui l’autore appunta lo schema relativo ai personaggi previsti: «1) Un personaggio che non sono io, ma che ha qualche punto di contatto con me 2) Uno che assomiglia ad Erio 3) Uno che assomiglia a Dino 4) Uno che assomiglia a Peppe [...] Personaggio principale: fusione tra me e Widmar»,21 si evince un’elaborazione attenta allo sguardo d’in- sieme. A figure umane realmente esistite Ramous attribuisce funzioni e ruoli che Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo, nell’analisi delle modalità narrative, de- finiscono «archetipici del racconto» in quanto poi prendono forma concreta nel testo attraverso le parole che pronunciano e che li descrivono.22 Nella stesura del romanzo una delle funzioni del racconto è assegnata alla dimensione storica. Date importanti, anniversari relativi alla storia di Fiume, ri- cordi di momenti vissuti diventano una traccia su cui costruire capitoli del libro. Così il 12 settembre 1956 Ramous registra i trentasette anni da quando i Legionari sono entrati in città: i ricordi di quel «meriggio» a Fiume, dell’impresa dannun- ziana, sono «una serie di quadri incancellabili».23 Nel Diario l’autore riporta pure la data del 24 maggio 1915, cioè il momento in cui l’Italia entra in guerra, come un evento di cui all’epoca non comprende bene la portata. La corrispondenza tra storia e racconto si riflette nel capitolo introduttivo del romanzo dove l’annuncio dell’inizio della prima guerra mondiale viene commentato con tranquillità dai clienti di una trattoria, come se fosse una semplice notizia di cronaca, senza la minima percezione dei momenti difficili che sarebbero arrivati. Ramous calca molto sull’impossibilità dell’uomo comune di capire i grandi eventi e di incidervi, diventandone vittima. Annota nel Diario il 14 settembre 1962:

(Ore 10) Penso d’incominciare presto il mio romanzo su Fiume. Potrebbe essere un libro non tanto grosso, dalle tre alle quattrocento pagine. Forse la forma migliore sarebbe quella del diario, ma, naturalmente, non dovrebbe essere autobiografico. Dovrei prima studiare bene

|| 20 Questo il titolo provvisorio dato al romanzo, evocativo di un simbolo importante legato alla storia cittadina, quello del Santuario di Tersatto. 21 Brogliaccio intitolato Dove sostò la casa di Maria, pp. 20–21 (Archivio di famiglia). 22 Cfr. Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria, Milano, Principato, 1994, p. 18. 23 O. Ramous, Diario, cit., 12 settembre 1956.

Storie di confine | 117

la figura del protagonista, il suo carattere morale e quello fisico, la sua storia privata e quella della sua famiglia. La storia potrebbe cominciare così: «Sono X.Y.Z., sono nato a Fiume e, senza interrompere mai la residenza nella mia città, ho avuto, in meno di cinque decenni della mia vita, cinque diverse cittadinanze». [...] Fiume, cuore e simbolo dell’Eu- ropa del Secolo Ventesimo.24

Tutt’altro che di getto, il romanzo studiato e ponderato avrà proprio un esordio analogo a quello pianificato: «Nel corso della sua vita non ancor proprio lunghissima, Roberto ha avuto cinque cittadinanze, senza chiederne alcuna. È la sorte della città dov’è nato e dove ha trascorso quasi tutti i suoi anni».25 La stesura procede a rilento, appena dopo due anni Ramous conclude il secondo capitolo ed inizia il terzo.26 Nomina per la prima volta il titolo originario dell’opera, Dove sostò la casa di Maria, il 2 gennaio 1967. Si sente in piena attività ed ha già scritto un centinaio di pagine, e si ripromette di concludere entro l’anno tutto il ro- manzo, almeno nella sua prima stesura.27 L’attività è intensa e non mancano mo- menti di seria crisi, come quello di alcuni mesi dopo, quando dichiara:

Oggi ho preso un’importante decisione, cioè quella di abbandonare l’idea di un romanzo su Fiume e di svolgere, invece, il soggetto con una serie di racconti, qualcuno dei quali po- trebbe anche assumere l’ampiezza di un romanzo breve. I racconti dovrebbero tutti portare un chiaro riferimento all’epoca in cui si svolsero.28

Il Diario registra un’interruzione di ben due anni. Quando Ramous lo riprende vuole annotare tutti i propositi, le idee, nella necessità di porre ordine nella pro- pria attività letteraria. È il 19 luglio 1969 e, riallacciandosi subito alla data in cui sosteneva di aver abbandonato l’idea del romanzo, dichiara che l’opera è con- clusa. Il romanzo Il cavallo di cartapesta, questo il titolo della versione definitiva, è completato, ma, anche in seguito ad osservazioni di amici lettori, tra cui Eraldo Miscia, Antonio Widmar ed Enrico Morovich, Ramous, mostrando una notevole capacità autocritica, lo ritiene frammentario e annuncia possibili modifiche in futuro.29 Ritiene importante conoscere i giudizi di coloro ai quali ha inviato l’opera, tra questi e le case editrici Mursia, Rusconi e Rizzoli. A dis- tanza di anni, e in assenza di un editore interessato, egli non desiste comunque

|| 24 Gianna Mazzieri-Sanković, Premessa in Osvaldo Ramous, Il cavallo di cartapesta, a cura di Ead., Fiume, Edizione Comunità degli Italiani di Fiume, 2007, pp. 14–15. 25 Ivi, p. 17. 26 O. Ramous, Diario, cit., 28 novembre 1965. 27 Ivi, 2 gennaio 1967. 28 Ivi, 31 maggio 1967. 29 Ivi, 19 luglio 1969.

118 | Gianna Mazzieri-Sanković, Corinna Gerbaz Giuliano dal far circolare e conoscere l’opera e si propone di proseguire il romanzo pro- ducendo altri capitoli,30 nonché eventualmente di intervenire sulla sua struttura:

rimane sempre valido il progetto di dividerlo non solo in due parti ma in due diversi volumi. Il primo rievocherebbe l'impresa dannunziana, mentre il secondo avrebbe inizio durante la seconda guerra mondiale. Una storia fiumana del dopoguerra potrebbe essere contenuta nell'ultima parte della trilogia. L'importante è che il lavoro già fatto non finisca con l'ammuffirci nel cassetto.31

La preoccupazione di aver svolto un lavoro di tale portata senza riscontro lo fa ripensare a un’eventuale ripartizione dell’opera nella forma di una trilogia per segmenti storici: la storia più lontana, la prima guerra mondiale, la seconda guerra mondiale e il secondo dopoguerra con il massiccio esodo. Per farlo com- prende che deve produrre altri capitoli che riescano a materiare la nuova forma offrendo un equilibrio strutturale all’insieme. Tra le numerose osservazioni significativa è quella di Widmar, che ritiene in- giustificata l’assenza dell’impresa dannunziana, un argomento che tutti si atten- dono nel sentir nominare Fiume.32 Nel 1973 Ramous lavora ancora al testo: «Ho ricopiato e corretto, in questi giorni, il quinto capitolo del romanzo Il cavallo di cartapesta. Narra le vicende della giornata del 12 settembre 1919».33 Il capitolo, però, non trova spazio in nessuna successiva edizione del romanzo, e rimane af- fidato al manoscritto autografo del 25 luglio 1968, che Ramous chiama Grande Brogliaccio. È, questo, un quaderno di quattrocento pagine di appunti, riflessioni, poesie, capitoli tuttora inediti del romanzo su Fiume. Grande Brogliaccio, in quanto successivo al Brogliaccio autografo del 1965, un quaderno di trecentot- tanta pagine intitolato Il cavallo. Quest’ultimo contiene appunti ed abbozzi rela- tivi ai vari capitoli del romanzo, e a questi intercala saggi su scrittori, poesie che compone sul momento, riflessioni continue sulla configurazione del romanzo e sulla sua stesura, che nel 1965 sembra concretizzarsi. A pag. 9 compare il titolo Romanzo con il sottotitolo L’eterna responsabilità. Nella successiva revisione del testo, mirando a un’opera che susciti l’inte- resse della critica, Ramous ipotizza altri passi da includere come pure una diversa

|| 30 Ivi, 5 gennaio 1971. 31 Ivi, 18 gennaio 1973. 32 A distanza di decenni, pure Stelli nell’introdurre la sua Storia di Fiume, sostiene che il nome della città viene spesso associato al nome di D’Annunzio e alla sua impresa, sebbene questo sia solamente un capitolo della complessa storia di Fiume. In seconda di copertina si legge: «La storia secolare nel corso della quale la città di San Vito difende tenacemente la sua identità lin- guistica e culturale di carattere italiano». 33 O. Ramous, Diario, cit., 28 gennaio 1973.

Storie di confine | 119 conclusione. La versione definitiva del 1969 prevedeva un finale aperto in cui il protagonista Roberto, dopo aver trovato il modo di lasciare definitivamente Fiume e raggiungere l’Italia, all’ultimo momento indietreggia e ritorna a casa. Riattraversando il confine affronta le guardie che non gli consentono di portare con sé le cinque saponette e, sdegnato, lascia tutto alla polizia di frontiera. Sim- bolicamente con questo atto, e con una conclusione aperta, Ramous affronta le rinunce e i compromessi cui sono andati incontro coloro che hanno deciso di ri- manere in città, accettando, nel bene e nel male, la nuova realtà storica e, ovvia- mente, anche la nuova cittadinanza. Nel tempo, con le continue ipotesi di rifacimento del testo, l’autore abbozza un’altra possibile conclusione e la introduce in forma dattiloscritta ma ancor in- completa. Pianifica, senza includere peraltro la nuova possibile conclusione nella versione definitiva, un finale chiuso, spostandolo temporalmente a dieci anni dalla fine del secondo dopoguerra. La forma che sceglie è quella della lettera. In quegli anni la lettera è uno dei pochi e rari momenti grazie ai quali Ramous riesce a rimanere vicino all’Italia.34 Sono cospicui gli scambi epistolari con numerosi intellettuali, tra cui Antonio Widmar ed Enrico Morovich, lettere che attestano il forte attaccamento alla cul- tura e alla lingua italiana, l’interesse per le novità letterarie, e affrontano pure il ricordo di un passato condiviso e di una città di confine ora diversa. Dopo aver affrontato il massiccio esodo della popolazione, in questo possi- bile nuovo finale affidato al dattiloscritto, lo scrittore decide di raccontare anche la storia dei ‘rimasti’, gli italiani che non hanno lasciato Fiume. La lettera di Ba- din all’amico esule Angelo che viaggia dall’Italia all’, dalla Francia all’Au- stralia, allontanandosi sempre più da Fiume, assume l’aspetto di una confessione ma nello stesso tempo di un discorso sulla sorte non solo di Ramous/Roberto ma di tutti i ‘rimasti’:

Ho poche occasioni di confidarmi con un amico. Non so perché, ma quasi nessuno si inter- essa di noi, rimasti qua. E dire che i maggiori cambiamenti sono avvenuti proprio in questa nostra terra, la quale, come tutte le terre di confine, ha subito sempre, con particolare vio- lenza i contraccolpi della storia. Sono passati dieci anni dalla fine della guerra e quasi al- trettanto tempo dalla tua partenza da Fiume. [...] Poi, dall’inizio del tuo ‘pellegrinaggio’ [...] del desiderio di ‘tuffarti nel mondo’, Fiume si allontanò da te fino a farsi perdere dalla tua vista. Ora vorrei dirti una cosa, che forse ti sembrerà strana. Vorrei dirti che, in tutto questo

|| 34 Sul valore delle lettere di Ramous e sul ricco epistolario si leggano i saggi di Gianna Mazzieri- Sanković, Lettere fiumane. Morovich e Ramous: due scelte, in «Archeografo Triestino», LXVIII, 2008, pp. 227–239, e Gianna Mazzieri-Sanković-Maja Đurđulov, Intorno agli scambi epistolari di Osvaldo Ramous, in «Quaderni giuliani di storia», n. 1, gennaio-giugno 2015, pp. 101–120.

120 | Gianna Mazzieri-Sanković, Corinna Gerbaz Giuliano

tempo, anch’io ho viaggiato. Sono rimasto nel medesimo posto; ma questo posto io lo definirei un veicolo che si è trasportato addirittura da un mondo a un altro. Un balzo da far girare la testa. Ripensa un po’ alla nostra infanzia. In quale mondo vivevamo allora. Oggi sembra una favola. C’era l’Austria-Ungheria. Un Impero che univa entro un solo confine genti di varie razze, lingue, religioni, culture. Una specie di magma umano al centro dell’Europa. C’è chi è ancora convinto che quell’Impero era e sarà insostituibile, perché attenuava gli urti dei popoli che vi confluivano. La nostra Fiume era proprio un prodotto di quell’Impero. Il suo fiorire era legato al suo porto e il suo porto all’Ungheria. La stessa popolazione della città era un prodotto di quell’intruglio di razze che era la Monarchia asburgica. Di quell’intruglio, caro Angelo, facevamo parte anche noi.35

Il viaggio, uno dei miti del moderno secondo Rella, quel mondo intermedio e complementare dell’esplorazione infinita,36 che nel capitolo inedito Ramous in- troduce con la figura dell’esule Angelo (medico che ha modo di saziarsi del de- siderio di «tuffarsi nel mondo»), nel protagonista Roberto si realizzerà senza muoversi dalla città, sarà un viaggio nel tempo e nella storia:

Io che sono rimasto sento, nella mia stabilità, che qualche cosa fluttua sotto i miei piedi. È la nostra terra, la nostra città. Fiume si è spostata in questi ultimi dieci anni da una parte del mondo a un’altra. La sensazione che si prova è questa. La realtà è che è cambiata quasi totalmente la popolazione della città. [...] È vero che quasi tutti i miei amici e la grandissima parte dei fiumani ch’io conoscevo, magari solo di vista, se ne sono andati. È vero che sentir parlare l’italiano per la strada, in un caffè, in un negozio, è oggi quasi motivo di sorpresa, e che quasi tutte le facce che incontro mi riescono nuove, e spesso, nell’attraversare la mia città, mi sento quasi smarrito.37

È questo il messaggio innovativo che porterebbe il nuovo finale. Attraverso la forma epistolare metterebbe a confronto gli spostamenti di città in città, come scoperta e crescita dell’individuo, operati da Angelo, con il viaggio di un mondo (Fiume) che cambia nel tempo mentre il protagonista (Roberto) sta fermo in quel mondo. In entrambi i casi l’esito è la crescita. La maturazione del soggetto che affronta nuove realtà storiche e sociali riflette sempre più l’impossibilità, in sin- tonia con gli autori novecenteschi, di ritrovare la certezza, (anche) nei territori del noto, in quello che è molto lontano dal bontempelliano «piccolo borgo uni- forme».38 Al dimorare come metafora di un atteggiamento finalizzato a tracciare

|| 35 Così nel nuovo possibile finale affidato al manoscritto (Archivio di famiglia). 36 Franco Rella, Miti e figure del moderno, Parma, Pratiche Editrice, 1983, p. 47. 37 Così nel nuovo possibile finale affidato al manoscritto (Archivio di famiglia). 38 , Il purosangue, Milano, Facchi, 1919, p. 99.

Storie di confine | 121 confini stabili, oggettivi e universali, che il De Villi vede sostituito, nella moder- nità, dal piacere di viaggiare e sperimentare,39 Ramous contrappone una deterri- torializzazione continua del protagonista paradossalmente senza operare un suo spostamento dal territorio in quanto è lo spazio che muta. Fiume si deterritorial- izza. Nella nuova possibile conclusione, che non verrà inclusa nella versione defi- nitiva, Ramous ritorna alla parte iniziale del romanzo e affida alla scrittura un ruolo di «archivio di dati antropologici»40 condividendo l’idea di Fernando Poya- tos secondo la quale «la scrittura letteraria esprime a pieno la cultura d’origine dell’autore».41 Il modo di procedere di Ramous è sempre attento e ponderato, e anche quando non dice direttamente le cose cerca comunque di esprimerle in modo in- diretto. Una tecnica usata anche nei racconti. In Ilonka, ad esempio, narrando la storia della giovane ungherese che vede per la prima volta il mare, lo scrittore esprime per inciso una considerazione: «Fiume, dove da secoli si parlava l’ita- liano, era un porto che…».42 Passi così, che potrebbero sembrare poco significa- tivi, lo divengono se accostati ad altri relativi a Il cavallo di cartapesta in cui lo scrittore lamenta la scomparsa a Fiume, nel secondo dopoguerra, dell’uso della lingua italiana. Da una parte, nel romanzo Ramous mostra un indiscutibile rigore storico te- nendo conto della lezione manzoniana; dall’altra, sottolineando appunto la tol- leranza e il rispetto che vigevano nella Fiume asburgica, agisce tecnicamente come Manzoni, non nominando direttamente le conseguenze culturali subite dai fiumani ‘rimasti’ nel secondo dopoguerra, ma valorizzando il periodo dell’‘idillio ungherese’. Indirettamente lancia un monito alle autorità del presente sulla pos- sibile perdita di un elemento imprescindibile dell’identità secolare dei fiumani. Ma la verità storica non coincide con una ricostruzione definitiva, la voce di Ramous non può essere depositaria di valori oggettivi e indubitabili. La realtà è in continuo divenire, contradditoria ed inafferrabile. L’unico termine di confronto univoco e incontrovertibile è scomparso per sempre: l’Impero austro-ungarico, un mondo a posteriori visto come idilliaco, ri- masto impresso nel ricordo del protagonista e che serve da termine di paragone

|| 39 Agata Irene De Villi, Allegorie del moderno, Le passeggiate urbane di Bontempelli, in «Sinestesie online», n.22, VII, gennaio 2018, p. 62. 40 Renata Gambino, Antropologia culturale, in Michele Cometa, Dizionario degli studi culturali, a cura di Roberta Coglitore, Federica Mazzara, Roma, Meltemi, 2004, p. 73. 41 Ibid. 42 Osvaldo Ramous, Ilonka, in Lotta con l’ombra ed altri racconti, a cura di Gianna Mazzieri- Sanković, Fiume, EDIT, 2006, p. 105.

122 | Gianna Mazzieri-Sanković, Corinna Gerbaz Giuliano per tutti gli eventi che hanno coinvolto successivamente la città. Nella descri- zione della fine di un’era e di una cultura che si è venuta esaurendo di fronte all’affermarsi di nuove forze sociali e politiche si fa strada un nuovo periodo e viene messa in dubbio ogni certezza. Ramous si unisce al coro dei narratori novecenteschi manifestando la disso- luzione delle certezze e dei valori, la perdita dei parametri obiettivi, logici e ra- zionali, che rendono misurabile e conoscibile il mondo. Il soggetto diventa così un luogo di scissione, di comprensione, depositario di verità opposte, che nell’autore fiumano non riguardano tanto svevianamente o pirandellianamente il personaggio in quanto tale poiché entra in gioco un nuovo fattore superiore a quello sociale e ancor meno controllabile, la storia, una mano invisibile che muove le sorti degli individui e che difficilmente viene compresa da chi la sta vivendo. Chiedere a Ramous, come hanno fatto Miscia e Widmar, di produrre un ro- manzo organico, unitario, significava chiedergli di rinunciare a produrre un testo innovativo, poliedrico, dalla struttura aperta, prospettico, capace di esprimere verità diverse.

Nedjeljka Balić-Nižić Scrittori zaratini in lingua italiana nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento

Riassunto: Nell’articolo si concede un breve sguardo agli scrittori zaratini in lin- gua italiana della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, con particolare riguardo all’immagine dell’altro creatasi in una città di confine e in un ambiente multiculturale. Trattandosi di un periodo di grandi svolte politi- che che coinvolsero tre generazioni di scrittori, risulta logico l’influsso delle vi- cende storiche e dello spostamento dei confini sul loro destino e sulla loro attività letteraria. Nella seconda parte si presenta più dettagliatamente uno degli scrittori zaratini, Giuseppe Marussig, nelle cui opere si riflette la complessa esperienza individuale e collettiva della vita al confine, in un ambiente al crocevia tra vari popoli e culture.

Authors from Zadar writing in Italian (second half of the 19th and first half of the 20th century)

Abstract: This essay will take a look at late nineteenth-century and early twen- tieth-century authors based in Zadar who wrote their works in Italian, with parti- cular focus on the image of the other created in a border town and in a multicul- tural environment. Since this was a period of great political turmoil involving three generations of writers, the influence of historical events and the shifting of borders on their personal situation and literary activity comes as no surprise. The second part presents in more detail one of the writers from Zadar, Giuseppe Ma- russig, whose works reflect the complex individual and collective experience of life on the border, in an environment situated at the crossroads between various peoples and cultures.

Open Access. © 2020 Nedjeljka Balić-Nižić, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-009

124 | Nedjeljka Balić-Nižić

L’attività letteraria a Zara in lingua italiana nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento è fortemente condizionata dalle vicende storico- politiche. La fine della seconda guerra mondiale segna anche la fine della pre- senza italiana in genere, soprattutto in senso demografico e linguistico,1 per cui la produzione letteraria degli zaratini italiani assume un’altra dimensione, quella della letteratura d’esilio. Trovandosi Zara, la centenaria capitale della Dalmazia, per posizione e conformazione geografica nella zona di confine, all’incrocio di varie civiltà, appare inevitabile il riflesso di tale realtà complessa sull’attività let- teraria sia in italiano che in croato.2 Le vicende storico-politiche condizionavano le relazioni tra i popoli che convivevano in quell’ambiente multiculturale e l’im- magine che un popolo aveva dell’altro. La visione dell’altro, trasmessa in varie forme dalla letteratura, cambiava secondo le relazioni e la comunicazione esi- stenti tra gli intellettuali delle diverse componenti etniche in Dalmazia in varie fasi del periodo in esame, in questo caso tra le due componenti più numerose, la croata e l’italiana. Negli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento, per impulso del romanticismo e del movimento risorgimentale in Italia, nonché del risveglio nazionale croato e del movimento illirico sulla costa orientale dell’Adriatico, si sviluppò una vivace attività culturale e uno spirito di collaborazione tra gli ita- liani e i croati della Dalmazia, uniti nello sforzo di promuovere la produzione let- teraria e la vita culturale croata della provincia, in cui il croato era la lingua par- lata dalla maggior parte degli abitanti. Un grande contributo allo sviluppo culturale della provincia lo diedero gli intellettuali dalmati che, formatisi per lo più in Italia, scrivevano in lingua italiana, impegnandosi allo stesso tempo per

|| 1 L’intervento riassume le ricerche dell’autrice sugli scrittori zaratini in lingua italiana, i cui ri- sultati sono stati di volta in volta presentati in diversi convegni e pubblicati in vari saggi e arti- coli. I dati per la prima parte dell’intervento sono stati tratti da Nedjeljka Balić-Nižić, Scrittori italiani a Zara negli anni precedenti la prima guerra mondiale (1900–1915), trad. it. di Zdravka Krpina, Roma, il Calamo, 2008, mentre la seconda parte è basata sulla ricerca dei contributi let- terari nella stampa zaratina tra le due guerre mondiali. 2 Varie sono le fonti per la storia di Zara e della costa orientale dell’Adriatico nel XIX e nella prima metà del XX secolo. Accenniamo ad alcuni titoli degli studiosi italiani e croati: Giuseppe Praga, Storia di Dalmazia, Padova, Cedam, 1954; Ante Artić, Prilike u Zadru od 1918. do 1941., in Zbornik Zadar, Zadar, Matica hrvatska, 1964, pp. 300–321; Grga Novak, Prošlost Dalmacije, Za- greb, Golden marketing, 2001; Boris Jurić st. e Boris Jurić ml., Gospodarstvo Zadra i sjeverne Dal- macije između I. i II. svjetskog rata, Zadar, 2000; Ante Bralić, Zadar u doba Prvog svjetskog rata, tesi di dottorato, Zadar, Sveučilište u Zadru, 2005; Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla grande guerra, Firenze, Le Lettere, 2004; Luciano Monzali, Gli italiani di Dal- mazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, Venezia, Marsilio, 2015.

Scrittori zaratini in lingua italiana | 125 accrescere l’utilizzo della lingua croata nella vita pubblica.3 In questo periodo fe- lice per i rapporti tra le due culture, tra gli italiani prevaleva un’immagine posi- tiva dell’altro (croati e slavi in generale), seppur guardato con un sentimento di superiorità da parte di una cultura e di una tradizione più antica. A causa delle vicende storico-politiche (l’Unità d’Italia, la formazione della Dieta dalmata, la fondazione di partiti politici italiani e croati, le lotte per il go- verno delle città dalmate), dopo gli anni Sessanta e soprattutto nel periodo com- preso tra il 1900 e il 1915, si assiste ad un processo di polarizzazione e all’ina- sprirsi dei rapporti tra la popolazione italiana e quella croata. Tutto ciò influenzò l’attività letteraria in ambedue le lingue. La letteratura in lingua italiana in quel periodo era caratterizzata dalla chiusura nei confronti di quella in lingua croata, che si sviluppò comunque molto velocemente durante e dopo il risveglio nazio- nale croato. Nonostante la frattura tra le due componenti etniche, avvenuta dopo una convivenza plurisecolare, la vita culturale di Zara, l’unica città dalmata in cui la maggioranza della popolazione era ancora formata da italiani, fu in quel periodo molto vivace. Prova ne sono, tra l’altro, un’intensa attività giornalistica, con ventisei periodici, tra cui parecchi letterari, che uscivano in quel periodo in città, e la vivace vita teatrale, con numerose opere dei più rinomati autori italiani ed europei recitate dalle compagnie italiane che regolarmente visitavano Zara come tappa obbligatoria delle loro tournée. I protagonisti della cultura zaratina che si formavano nelle rinomate università europee, per lo più in Italia e in Au- stria, erano mediatori delle nuove correnti culturali europee, dal tardo romanti- cismo e classicismo moderno al realismo e al decadentismo. L’influenza mag- giore veniva ancora esercitata dalla vicina Italia, a cui si rivolgevano gli intellettuali e i letterati che sostenevano le posizioni italiane, chiudendosi quasi del tutto alle vicende della locale produzione letteraria in croato.4 Della trentina di scrittori in lingua italiana attivi a Zara nella seconda metà dell’Ottocento e all’inizio del Novecento menzioniamo alcuni nomi, rimandando

|| 3 Cfr. Mate Zorić, Romantički pisci u Dalmaciji na talijanskom jeziku, Zagreb, JAZU, 1971, ripub- blicato con il titolo Sjenovita dionica hrvatske književnosti. Romantički pisci u Dalmaciji na tali- janskom jeziku, a cura di Sanja Roić e Nedjelika Balić-Nižić, Zagreb, Hrvatska sveučilišna naklada, 2014. Un elenco orientativo di scrittori dalmati in lingua italiana si trova in Dalmazia nazione. Dizionario degli uomini illustri della componente culturale illirico-romana latina veneta e italiana, a cura di Daria Garbin e Renzo de’ Vidovich, Trieste, Fondazione Rustia Traine, 2012. 4 Cfr. N. Balić-Nižić, Scrittori italiani a Zara negli anni precedenti la prima guerra mondiale (1900–1915), cit., p. 160.

126 | Nedjeljka Balić-Nižić per uno sguardo più dettagliato agli studi specifici.5 Uno dei rappresentanti più importanti e fecondi fu Giuseppe Sabalich, storico e letterato, autore di drammi, commedie e monologhi in lingua e in dialetto veneto-zaratino (I monologhi della Zanon, Monologhi e scene, I monologhi, Teatro). Sabalich diede prova della sua creatività anche nella narrativa, soprattutto nei racconti e nelle novelle (Profili, Leggenda eterna). La sua poesia, in dialetto veneto-zaratino (Bufonade, Soneti za- ratini, Canzonette zaratine, Le campane zaratine), pur essendo ispirata alle opere di autori italiani, abbonda di elementi originali dell’ambiente zaratino e dalmata. Quello che distingue Sabalich da altri scrittori dialettali è la sua vena scientifica che s’intreccia con quella poetica, per cui le sue poesie sono accompagnate da annotazioni storiche e interpretative riguardanti l’etimologia e il significato delle espressioni utilizzate. Il suo interesse per la ricerca si manifestò anche in vari vo- lumi, di storia, storia dell’arte e archeologia, e attraverso la fondazione di riviste letterarie e collaborazioni a periodici di carattere scientifico-letterario.6 Girolamo Italo Boxich, medico di professione, si distinse come poeta (Iuveni- lia) e scrittore di drammi in italiano (Nella notte del male, Alle porte del male, Anima selvaggia, Focolari spenti, Condanna) e, dopo la prima guerra mondiale, in croato (Svadba, Sin).7 Giorgio Wondrich, poeta e studioso della poesia dialettale e delle tradizioni popolari, si cimentò anche come scrittore teatrale, con la trilogia sociale La rovina e il dramma Senza perdono. Riccardo Forster, poeta (La fiorita) e anche lui studioso di tradizioni popolari e dialetti, dopo il trasferimento in Italia svolse un’intensa attività di giornalista, critico letterario e drammaturgo (Il libro, Lo specchio rotto e Rivelazione). Un altro scrittore drammatico che ha ottenuto notevole successo nel periodo in esame è Girolamo Enrico Nani, autore di drammi originali recitati con successo in Europa e in America (Urla urla. Scene marinare- sche, Tempesta nell’ombra, Sogno d’amore, Malocchio, Milizia. Scene serbe, ecc.),

|| 5 Nedjeljka Balić-Nižić, Zara allo specchio della propria stampa all’inizio del Novecento, in Città adriatiche tra memoria e transizione, a cura di Maria Rita Leto e Persida Lazarević Di Giacomo, Lanciano, Carabba, 2011, pp. 61–81. 6 Per la biografia dettagliata di Sabalich cfr. Marco Perlini, Giuseppe Sabalich, letterato e storio- grafo zaratino, «Rivista dalmatica», XX, 1939, nn. 1–2; Giuseppe Sabalich, Le campane zaratine, Trieste, Libero Comune di Zara in esilio, 1979 (1931). 7 Per un approfondimento delle vicende biografiche di Boxich, che vanno da un’attiva parteci- pazione alla vita politica dalmata come rappresentante del partito italiano, attraverso l’espe- rienza di guerra dopo la quale fu accusato di spionaggio, fino al cambiamento di opinione poli- tica e al trasferimento a Zagabria e a Belgrado, si rinvia a Ante Bralić-Mirko Đinđić, Metamorfoze: život Girolama Itala Boxicha-Jerka Božića, «Časopis za suvremenu povijest», XLVIII, 2016, n. 2, pp. 459–494.

Scrittori zaratini in lingua italiana | 127 di adattamenti teatrali e traduzioni in italiano delle opere di grandi scrittori tede- schi e austriaci, quali per esempio Hermann Sudermann e Johann Lehmann. Gae- tano Feoli, giornalista e poeta, scrisse anche alcuni drammi a sfondo storico, ispi- rati dalla tradizione letteraria italiana, tra cui alcuni pubblicati (La novella del gelo e del foco, Le ilari vendette, Gli occhi del cuore) e altri rimasti inediti (La no- vella del buon eremita, La novella dell’amoroso Arlecchino, La novella dei merca- tanti e della donna invilita). Ci sono parecchi giornalisti, critici o studiosi di storia e cultura, che occasionalmente si cimentarono anche con il teatro, scrivendo commedie o drammi, come ad esempio Vitaliano Brunelli, Antonio de’ Bersa, Ma- rio Russo e Guido Negri. Dai titoli delle loro opere teatrali si evince che seguono la moda e gli esempi dei più famosi autori italiani ed europei del tempo, trattando maggiormente i temi sociali già ampiamente utilizzati, evidenziando il vuoto mo- rale della società contemporanea.8 In merito alla produzione poetica degli scrittori zaratini nel periodo in esame si può dire che essa seguiva i modelli letterari italiani, dai classici Dante e Pe- trarca fino agli autori contemporanei, come Pascoli, D’Annunzio e Carducci. Oltre ai motivi universali come l’esaltazione dell’uomo, del lavoro e della natura, ricor- rono quelli dell’amore per la patria e per la propria lingua come più adatti ai fini di ‘difesa’ della propria identità. Seguendo l’esempio di Sabalich, parecchi poeti zaratini si ispirarono alla tradizione della poesia dialettale, creando numerosi componimenti d’occasione, umoristico-satirici, elegiaci e di tono sentimentale- nostalgico, quasi tutti tematicamente legati all’ambiente locale. I più riusciti poeti in vernacolo zaratino furono Giorgio Wondrich, Natale Piasevoli, Giuseppe De Bersa e Luigi Bauch. Assai ricca fu anche la produzione letteraria in prosa, e le forme utilizzate più di frequente furono il bozzetto e la novella, maggiormente di stampo veristico e con qualche elemento fantastico. Anche in questo genere si distinse Giuseppe Sa- balich, a cui si associarono Vincenzo ed Antonio Battara, Gaetano Feoli, Antonio Cippico, Mario Russo e Giuseppe Fabbrovich. Il più noto narratore è senz’altro Arturo Colautti, scrittore poliedrico, che lasciò la Dalmazia per motivi politici svolgendo in Italia una fortunata carriera di giornalista, critico musicale, roman- ziere, librettista e drammaturgo. Alcuni scrittori che vissero ed operarono a Zara cercarono di superare il dis- sidio tra la componente culturale italiana e quella croata, sottraendosi ai condi- zionamenti della politica e concentrandosi esclusivamente sul lavoro culturale. Così il giornalista e storico letterario Petar Kasandrić nella sua rivista «Smotra

|| 8 N. Balić-Nižić, Scrittori italiani a Zara negli anni precedenti la prima guerra mondiale (1900– 1915), cit., p. 161.

128 | Nedjeljka Balić-Nižić dalmatinska» (‘La Rassegna dalmata’) pubblicò le traduzioni di rinomati autori mondiali in lingua croata e italiana, e tradusse le poesie popolari croate in ita- liano; Vitaliano Brunelli stabilì una collaborazione con l’allora appena fondata Accademia di Scienze ed Arti di Zagabria, mentre Giuseppe De Bersa e Girolamo Italo Boxich scrissero in entrambe le lingue. Nel periodo tra le due guerre, con le mutate condizioni politiche, l’attività letteraria a Zara, ridotta solo alle edizioni italiane, s’impoverisce rispetto al pe- riodo precedente, perché la produzione in croato, quale contrappunto a quella in italiano e come una specie di punto di riferimento per la componente croata quasi più non esiste. La città rimane isolata dal resto della Dalmazia da una parte, e in una posizione extraterritoriale nei confronti dell’Italia (e della sua letteratura, ‘matrice’ della propria) dall’altra. In tali condizioni gli intellettuali italiani cer- cano di avvicinare Zara all’Italia e di liberarsi del complesso d’inferiorità di una città di provincia e di periferia. La produzione letteraria è maggiormente radicata nella matrice ideologica e nel patriottismo locale. I temi più frequenti sono l’esal- tazione dell’italianità e della Dalmazia come una terra ideale nata dalla tradi- zione romana e veneta. La maggior parte delle opere viene pubblicata nei perio- dici locali, tra cui i più importanti sono il «Littorio dalmatico» (1923–1933), poi intitolato «San Marco» (1933–1941), e il «Giornale di Dalmazia» (1941–1943). Tra i poeti si distinguono Virgilio Paganello, Giuseppe Ballarin, Salvatore Umberto Urbanaz, Odoardo Segarelli, Renato Seveglievich, Leonardo Martinelli, Luigi Bauch, Andreina de Borelli e Maria Artale Toglia. Anche in questo periodo un po- sto particolare lo occupa la poesia dialettale, quale espressione del patriottismo locale e come una specie di rivolta contro la forzata standardizzazione della lin- gua. Il più fecondo poeta dialettale in questo periodo è Luigi Bauch, seguito da Renato Seveglievich, Andreina de Borelli, Mario Russo ed altri. Quanto alla prosa, i rappresentanti più significativi sono Renato Seveglievich, Leonardo Martinelli e Marco Perlini, che scrivono soprattutto racconti, bozzetti, prosa memorialistica, diari di viaggio o reportage di guerra, seguendo le tendenze della prosa italiana contemporanea. Tra gli autori che vissero ed operarono a Zara nel periodo in esame, o che provengono da questa città di confine, accenniamo più dettagliatamente alla fi- gura di uno che abbraccia, per così dire, la mentalità e l’indole di tutti gli altri. Si tratta di Giuseppe Marussig, scrittore, critico e giornalista, autore caduto in oblio, la cui vita e opera letteraria rispecchiano gli elementi del complesso fenomeno di uomini e di letteratura di confine: la contraddittorietà, la dualità, la sindrome della patria perduta, il disagio esistenziale, i rapporti difficili, insomma un indi- viduo lacerato dall’inquietudine interiore e segnato dalla malinconia, a causa dell’appartenenza ad una terra situata all’incrocio del mondo occidentale e di

Scrittori zaratini in lingua italiana | 129 quello orientale. Nel suo romanzo Uomini di confine si evidenziano questi ele- menti, riconosciuti dai critici come tipici del temperamento e del carattere dal- mata, ma in un certo senso riconducibili anche alla condizione generale dell’uomo contemporaneo preda di dubbi, insicurezze e inquietudine. «Inquietu- dine veramente dalmatica», scriverà lo studioso Ildebrando Tacconi cercando di delineare il profilo psicologico di Giuseppe Marussig, «fatta di dirittura morale soprattutto, d’impulsi discordi, di facili accensioni e di subite eclissi, inquietu- dine di uomo di confine».9 Giuseppe Marussig (1893–1938) nacque a Fort Opus in Dalmazia, dove il pa- dre Niccolò Marusich, zaratino di Borgo Erizzo, era insegnante alla scuola ele- mentare.10 La madre Maria Franičević-Cippico, probabilmente anche lei inse- gnante di professione, proveniva da una delle sette località situate tra Spalato e Traù denominate Castella.11 Di lei, però, sono rimasti pochi dati, dato che molto presto fu costretta a lasciare la famiglia non potendo sopportare le accuse di in- fedeltà con cui la tormentava il marito. La mancanza dell’amore materno segnò il giovane Giuseppe, che diede tutta la colpa al padre e conseguentemente fece tutto contro la sua volontà. Nelle lotte politiche tra i partiti italiano e croato che segnarono il periodo del primo anteguerra in Dalmazia egli si oppose al padre che si dichiarò croato, e si schierò con il partito italiano, cambiando persino il co- gnome paterno Marusich in Marussig. Si dedicò abbastanza giovane alla lettera- tura, pubblicando nel giornale zaratino «Il Dalmata» le novelle Troppo tardi12 e

|| 9 Ildebrando Tacconi, Il perché di questa commemorazione, «Rivista dalmatica», XXI, 1940, n. 2, pp. 3–4. 10 I dati biografici sono stati ricavati da Oscar Randi, Un po’ di biografia, «Rivista dalmatica», XXI (1940), fasc. II, pp. 5–13. 11 Una delle località, Castel Vitturi, era già conosciuta nel mondo letterario dalmata in lingua italiana sin dalla prima metà dell’Ottocento, come ambiente della trama del primo romanzo sto- rico dalmata, Milienco e Dobrilla (1833) di Marco Casotti, uno dei maggiori rappresentanti del romanticismo dalmata, chiamato anche ‘Walter Scott o Manzoni di Traù’. Cfr. Mate Zorić, Marko Kažotić (1804–1842), Zagreb, JAZU, 1965; M. Zorić, Marco Casotti e il Romanticismo in Dalmazia, in Istria e Dalmazia nel periodo asburgico dal 1815 al 1848, a cura di Giorgio Padoan, Ravenna, Longo, 1993, pp. 153–177. 12 «Il Dalmata», 6 maggio 1914 e 9 maggio 1914.

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Offerta13 e articoli di attualità14 o su autori italiani contemporanei, e tenendo con- ferenze su vari argomenti di letteratura, arte e cultura.15 Essendo malato, tra- scorse gli anni della prima guerra mondiale per lo più in ospedale. Cercando di cambiare l’immagine di bohémien o vagabondo che di lui si era creata in Dalma- zia, dopo la guerra si trasferì a Roma, dove svolse la carriera di giornalista, critico letterario e scrittore. Pur vivendo lontano, rimase in contatto con la Dalmazia pubblicando articoli di critica letteraria e di cultura su periodici zaratini16 e recan- dosi a Zara per tenere conferenze su vari argomenti.17 A Roma assai presto si fece strada nel vivace ambiente culturale della capi- tale. Dopo due anni di lavoro al «Popolo romano», fu invitato a collaborare alla «Nuova Antologia», sulla quale pubblicò il suo romanzo Uomini di confine, la prima parte del romanzo incompiuto Risveglio e articoli in cui trattava vari argo- menti letterari e culturali, e occasionalmente riportava dai giornali croati notizie su interessanti eventi culturali o conferenze riguardanti i rapporti tra l’Occidente

|| 13 Ivi, 24 ottobre 1914 e 28 ottobre 1914. 14 Ad esempio l’articolo La moglie di Caillaux, uscito su «Il Dalmata» del 28 marzo 1914 intorno a un caso politico e giudiziario in Francia che attirò l’attenzione dell’intera Europa. Marussig espone le giustificazioni della signora Caillaux, assassina del direttore del giornale parigino «Le Figaro», il quale, volendo screditare suo marito, alto funzionario del governo di Francia, aveva pubblicato documenti della loro vita privata. 15 Una delle sue conferenze, intitolata Noi, ebbe luogo il 6 marzo 1914 nella Sala del Casino di Zara. Una breve relazione sulla conferenza intorno alla letteratura italiana del tempo fu pubbli- cata ne «Il Dalmata» del 7 marzo 1914. Inoltre «Il Dalmata» riporta in numeri successivi (25 no- vembre 1914, 28 novembre 1914, 5 dicembre 1914, 9 dicembre 1914, 12 dicembre 1914, 19 dicembre 1914) un’altra conferenza di Marussig intitolata Creature dolorose, tenuta al Teatro Giuseppe Verdi il 6 novembre 1914 e dedicata alle famiglie che avevano un caro in guerra. 16 Tra l’altro pubblica un articolo sulla critica letteraria contemporanea polemizzando con al- cuni critici italiani che nella valutazione estetica di un’opera prendono in considerazione anche l’epoca in cui l’opera fu scritta, e in questo modo tradiscono i principi dell’estetica nata in Italia con Giambattista Vico. Non è d’accordo con l’opinione generale che lo scopo primario dello scrit- tore è quello di essere letto. In questo contesto menziona il poeta croato Antun Gustav Matoš, «un bizzarro e argutissimo scrittore», citandolo: «il Matos diceva: “Scrivere è annoiare se stessi perché altri non si annoi”» (G. Marussig, Le battaglie di don Chisciotte, «Corriere di Zara», 10 giugno 1921). Marussig inoltre era tra i collaboratori della rivista politico-letteraria «Dalmazia», che uscì dal 15 settembre al 15 ottobre 1919 a Trieste e a Zara coi tipi Priora di Capodistria, sotto la direzione di Giorgio Ravasini, Nino Alga Perovi e Mario Piazza. 17 Nel 1919, mentre era direttore del giornale «Il Lavoratore» di Trieste, tenne a Zara una confe- renza sul teatro italiano contemporaneo, dandone una visione assai pessimistica. Secondo lui la maggior parte degli scrittori del tempo vedeva la creazione letteraria come fonte di guadagno; un altro tratto negativo gli pareva l’eccessiva imitazione del teatro francese, per cui gli autori italiani affrontavano temi non conformi allo spirito della cultura italiana, come ad esempio l’adulterio (Il nostro Teatro, «La voce dalmatica», 27 maggio 1919).

Scrittori zaratini in lingua italiana | 131 e l’Oriente.18 Lavorò anche all’Ufficio Storico della Marina (dal gennaio 1927 al settembre 1931), poi nel Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda, trasfor- mato poi nel Ministero per la Cultura Popolare. Verso la fine della sua esistenza, già minato dalla malattia che lo condusse a una morte prematura, lavorò come speaker alla Radio dell’E.I.A.R. Frequentò circoli di letterati e critici e fece amici- zia con noti rappresentanti della vita culturale romana, tra cui Lucio D’Ambra e Cesare Giulio Viola,19 dimostrandosi «un eccellente amico, prodigo nei consigli, amore e attenzione».20 Però anche in questo ambiente visse amare esperienze non sapendo essere un giornalista militante. Descrivendo il suo carattere, la malattia e le ragioni per cui non poteva essere diverso, il giornalista Oscar Randi, come in precedenza Ildebrando Tacconi, accenna al suo temperamento, alla sua origine albanese e alla crescita nell’ambiente dalmata.21 Menziona inoltre la continua tra- gedia famigliare, morale, fisica e politica, che, insieme a una serie di delusioni amorose nell’adolescenza, fu causa di alcuni tentativi di suicidio.22 Marussig

|| 18 Giuseppe Marussig, Occidente e Oriente secondo uno scrittore slavo, «Nuova Antologia», LXII, 1927, n. 266, fasc. 1336, pp. 209–220. Marussig riporta la conferenza di Vladimir Dvorniković dell’Università di Zagabria, tenuta a Spalato, discutendone l’opinione dell’imminente fine della civiltà occidentale. 19 Amicizia confermata tra l’altro dagli articoli commemorativi che Lucio D’Ambra e Cesare Giu- lio Viola hanno scritto per il volume speciale della «Rivista dalmatica» dedicato a Marussig: Lu- cio D’Ambra, Addio ad un poeta (Giuseppe Marussig), «Rivista dalmatica», XXI, 1940, n. 2, pp. 16–17; Cesare Giulio Viola, Parole d’un amico agli amici di Marussig, ivi, pp. 18–21. Oltre ai già menzionati dalmati Oscar Randi e Ildebrando Tacconi, al detto volume hanno collaborato lo za- ratino Umberto Nani con l’articolo intitolato Postilla biografica G. Marussig, ivi, p. 15, nonché due amici italiani, Daisi Di Carpenetto, Giuseppe Marussig, amico, ivi, pp. 22–23, e Quinto Normann, Morte di Giuseppe Marussig, ivi, pp. 24–28. 20 C. G. Viola, Parole d’un amico agli amici di Marussig, cit., p. 19. Va a Viola il merito della pubblicazione del romanzo di Marussig nella «Nuova Antologia». 21 «Oltre che per un tesoro di belle qualità d’animo e di mente, come la rettitudine, la genero- sità, l’amor di patria, l’altruismo, Giuseppe Marussig si faceva notare per il suo temperamento angoloso, scontroso, suscettibile, ma poi pronto sempre alla riconciliazione e all’indulgenza. […] Albanese di razza, dalmata di educazione, malato di mal sottile, Marussig non poteva avere i nervi sempre a posto. Doveva scattare. Ma la bontà dell’animo suo finiva poi coll’avere il soprav- vento» (O. Randi, Un po’ di biografia, cit., p. 11). 22 Il primo tentativo di suicidio fu all’età di quindici anni; poi seguì il cosiddetto ‘suicidio ci- vile’, la chiusura in un monastero per alcuni mesi. Durante la prima guerra mondiale soggiornò a Mostar dove prese il veleno; poi a Roma tentò di suicidarsi con alcuni colpi di rivoltella nel quartiere Lungotevere Mellini, però fu trovato e salvato da due colleghi giornalisti (Il terzo ten- tato suicidio di un nostro concittadino, «Corriere di Zara», 10 settembre 1921; Tentato suicidio di un collega, «L’Adriatico», 10 settembre 1921).

132 | Nedjeljka Balić-Nižić stesso si autodefiniva esule e nel descrivere il suo sacrificio per l’Italia usava pa- role che assomigliavano a quelle di Niccolò Tommaseo:

Io sono esule di Dalmazia. E se la mia vita di esule ha potuto aver qualche volta le apparenze del vagabondaggio, le mie origini e la mia natura non sono di vagabondo. Per l’Italia ho patito il carcere. Per l’Italia ho lasciato con dolore la mia terra e la mia famiglia. Per l’Italia ho subito molte umiliazioni. Se non ho dato alla patria la vita, le ho dato forse la salute. Non me ne glorio. Ho fatto solo una parte del mio dovere. Ma insomma, ho fatto il mio dovere. 23

L’attività del Marussig letterato è contrassegnata dal libro di novelle I due spec- chi24 e dal romanzo autobiografico Uomini di confine.25 Si è distinto anche come critico letterario, pubblicando numerosi articoli su riviste e giornali del tempo. Una parte dei suoi contributi è stata raccolta nel volume Scrittori di oggi, che con- tiene giudizi critici su alcune significative voci letterarie del tempo come Federigo Tozzi, Guido Gozzano, Luigi Pirandello, Arturo Colautti ed altri.26 Tra le novelle raccolte nel libro I due specchi, per lo più a sfondo sentimentale e filosofico, spicca La verità,27 di stampo autobiografico, nella quale Marussig «espande il suo cruccio segreto per la fatale incomprensione, che gli dilaniò la famiglia ed amareggiò la sua fanciullezza».28 La novella, che ha lo stesso prota- gonista del romanzo Uomini di confine, è scritta in forma dialogata. Il giovane Giulio fa una profonda analisi della propria vita, in particolare del rapporto con il padre, cercando di rintracciare le radici e le cause della sua inquietudine e dell’implicita accusa nei confronti del padre per l’allontanamento della madre dalla famiglia. Nel protagonista si riconosce l’autore stesso, che nella finzione narrativa traspone l’incomprensione e l’accusa nei confronti del padre, il quale cerca di spiegare le ragioni del proprio comportamento, cui segue quella conci- liazione tra padre e figlio che nella vita reale non si realizzerà mai.29

|| 23 Sono le parole di Marussig rivolte all’amico Viola e riportate da Lucio D’Ambra, Addio ad un poeta (Giuseppe Marussig), cit., p. 16. 24 Giuseppe Marussig, I due specchi ed altre novelle, con prefazione di Fausto Maria Martini, Roma, Alberto Stock, 1924, La prefazione è stata pubblicata anche nel volume menzionato della «Rivista dalmatica», a pp. 29–30. 25 G. Marussig, Uomini di confine, Milano, Treves, 1927. Il romanzo è stato pubblicato dapprima a puntate nella «Nuova Antologia», LXI, n. 249, 1926, fasc. 1307, pp. 29–48; fasc. 1308, pp. 151– 174; 1309, pp. 283–297; 1310, pp. 415–436. Due capitoli (La patria, Il male) sono usciti nel già citato numero speciale della «Rivista dalmatica», pp. 45–53. 26 Giuseppe Marussig, Scrittori d’oggi, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1926. 27 Anche ivi, pp. 32–44. 28 I. Tacconi nell’introduzione alla novella, ivi, p. 32. 29 Secondo i dati forniti dal biografo e amico Randi, Marussig non aveva comunicato con il pa- dre per molti anni, sebbene gli avesse dedicato il volume Scrittori d’oggi. Apprese la morte del

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Uomini di confine da un lato rappresenta significativamente la produzione letteraria zaratina della fine Ottocento e della prima metà del Novecento, geogra- ficamente ma anche psicologicamente una letteratura di confine; dall’altro ri- flette le tendenze della letteratura europea contemporanea e l’atmosfera generale del decadentismo. Ciò si vede non solo nel titolo del romanzo, ma, come è stato detto, anche nel complesso tema dell’uomo segnato da rapporti difficili sul piano individuale e sociale, alla ricerca delle proprie radici e del tempo perduto. Il pro- tagonista Giulio Negri è in cerca della patria perduta (Fort Opus in Dalmazia, sul fiume Narenta) e indaga le radici della sua ‘malattia’, soprattutto il rapporto dif- ficile con il padre a causa del quale era stato costretto ad abbandonare il luogo nativo. A differenza della novella La verità, dove l’indagine si fa attraverso il dia- logo con il padre, in questo romanzo l’autore sceglie un altro interlocutore. Dopo molti anni di vita lontano da Fort Opus, il protagonista visita lo zio materno Giu- seppe ormai vecchio e malato, con cui discute della sua famiglia e della vita in genere, arrivando attraverso il colloquio a fare in un certo senso luce sulla sua esistenza tormentata. È un groviglio interiore che la fuga dal luogo nativo non riesce a sciogliere, perché l’uomo è segnato per sempre dall’ambiente di prove- nienza, al quale bisogna tornare per ritrovare la pace:

Si parte un giorno dal proprio paese; ci si butta nella vita con uno sforzo di volontà che somiglia a un lancio; si dimentica il luogo della propria origine; e si va, si va. Dove? Così si va; spinti da un’inquietudine che non può avere un nome certo, come non ha un valore chiaro. […] Si va; e il nostro cammino è una continua menzogna: oblio del nostro luogo natale; vergo- gna della semplicità dalla quale siam pur venuti alla nuova vita non semplice né sincera; negazione dei nostri veri bisogni e tentativi di creare, per forza di volontà, altri bisogni, solo apparentemente meno vili, più difficili, più nobili. Menzogna, menzogna. Si sogna una vita falsamente eroica; si insegue il falso ideale di un eroismo sovrumano; e, poiché non si può cancellare il proprio nome, ecco si cancella il nome del proprio luogo e si prende un pugno di quella terra benedetta dalla quale si è sorti e dove sono seppelliti i propri avi, dove riposa tutta la gente del proprio sangue, e la si butta al vento, con la speranza che quella nuvoletta di polvere diventi il principio della nube mi- steriosa della gloria. No, no, bisognava tornare, tornare anche con la mente, anche con lo spirito, alla propria terra; bisognava, lì, nella propria terra, in mezzo alla propria gente, fare un onesto esame di coscienza; bisognava purificarsi: riconoscere di avere operato male, pentirsene, fare il proponimento di vivere un’altra vita; un’altra vita, seppur minore, certo più onesta.30

|| padre dai giornali, non essendone stato avvertito né dalla sorella né dalla matrigna (O. Randi, Un po’ di biografia, cit., p. 7). 30 G. Marussig, Uomini di confine, «Nuova Antologia», LXI, 1926, n. 249, fasc. 1307, pp. 38–39.

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Tutto il romanzo è permeato di nostalgia, inquietudine e del pessimismo relativo alla patria perduta, e al faticoso processo di abbandono e oblio, e particolarmente al ritorno alle radici, che sembra quasi impossibile: «Spesso, assai spesso, tor- nare al luogo da dove si è partiti, è compiere il viaggio più difficile, perché la ve- rità non è sempre davanti a noi».31 Attraverso l’autoanalisi Giulio riesce a scoprire un’altra causa del suo disagio esistenziale: oltre alla sindrome della patria perduta, è pervaso anche da un’in- quietudine interiore, ereditaria, determinata dall’appartenenza a quella terra di confine, quell’ambiente in cui per secoli s’intrecciano gli influssi dell’Oriente e dell’Occidente:

Destino di una famiglia, soltanto? No. Più vasto di una casa era quel dramma: vasto quanto tutta quella loro terra, quanto tutta quell’ultima Dalmazia, sperduta, lì, al confine di due civiltà contrarie, campo di battaglia di tutte le guerre cruente e incruente di due stirpi di- verse e avverse. Non si può senza danno vivere secoli e secoli su un lembo di terra dove sempre si sono scontrati l’Occidente e l’Oriente; dove sempre hanno conteso genti di sangue nemico. […] Popolo senza pace, il loro; povero piccolo dimenticato popolo che senza pace nasceva e senza pace moriva, condannato a consumarsi in quella sua inquietudine perenne. […] Tristi frutti di cento incroci, frutti avvelenati di quella terra, vissuti sempre in quella zona dove stirpi nemiche avevan lasciato per secoli e secoli e tuttora lasciavan i propri detriti come il mare lascia i suoi su certe spiagge disperate, quegli uomini dovevano spendere la maggiore e la miglior parte della propria forza solo per camminare. Non era naturale, poi, che a ogni impresa giungessero già stanchi?32

Un momento decisivo del viaggio introspettivo del protagonista verso la solu- zione della sua crisi è il viaggio reale che fa con lo zio a Mostar, «questo lembo d’Oriente, che abbiamo qui, a due passi».33 La città con il suo ponte di origine ottomana è rappresentata come un luogo di incontro e influssi reciproci della ci- viltà occidentale e da quella orientale, dove il confine fisico (il fiume Narenta) viene superato dal legame spirituale tra i popoli che vi convivono:

Per noi, qui, è un’altra cosa. Questo popolo ci è tanto vicino, vive su la nostra stessa terra. Che siamo andati noi verso di lui o che sia venuto lui verso di noi o contro di noi, poco importa. Il confine, questa sottile ma profonda linea che spartisce rigidamente i diritti, non sempre separa nettamente anche le anime. Noi siamo legati ormai da una parentela ideale

|| 31 Ivi, p. 39. 32 Ivi, fasc. 1308, pp. 151–153. 33 Ivi, fasc. 1310, p. 423.

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a questa gente. Secoli e secoli abbiamo respirato vicino a loro e un certo influsso nella no- stra vita lo devono avere avuto.34

Trovando, attraverso il colloquio con lo zio e l’introspezione, una parte delle ri- sposte ai suoi tormenti e la causa del suo male oscuro, il protagonista riesce ad acquistare un relativo equilibrio, riconoscendo la propria sensibilità affine a quella di un artista decadente, consapevole della ‘malattia’ dell’uomo moderno:

Egli sapeva finalmente la causa della sua inquietudine; sapeva l’origine e la qualità della forza che l’aveva mosso e poi l’aveva aiutato ad andare; sapeva quale sentimento non gli aveva permesso di riposare, di aspettare, di raccogliersi. […] Egli aveva avuto la fortuna che pochi uomini hanno: di conoscersi, di capirsi, di vedere la propria vita come si vede quella di una perfetta creatura poetica.35

Alla complessità del tema trattato corrisponde la struttura e il tono del romanzo. Lucio D’Ambra lo descrive «scontroso nei modi, patetico nel fondo, sensibil- mente umano, con questa caratteristica: che, pauroso della retorica, raggiungeva in ogni pagina la poesia quanto più tentava, pudico e schivo, di sfuggirla».36 Ce- sare Giulio Viola, invece, parlando dell’importanza del romanzo nella produ- zione letteraria italiana ed europea e nel clima culturale del tempo, lo vede come il riflesso della crisi generale causata dalle vicende storico-politiche del tempo, che, come sempre, colpisce in particolare le zone di confine:

È il libro della crisi spirituale che nella smembrata Europa colpì tutti gli uomini che si tro- varono con un piede da una parte e uno dall’altra in quel riassetto che la guerra credé di portare nel mondo, a prezzo di tanto sangue, e in nome di tante pretese equiparazioni. Nac- que, allora, più vivo il problema degli uomini di confine: uomini senza unità che avevano aspirato a un’unità; nei quali si perpetuava il conflitto di sentimenti e di pensieri contrari, in cui parlarono le parole diverse di una stessa passione, le ore o le stagioni diverse di una stessa vita. Confusioni di sangue, di razza, di tradizioni, che cercarono un ubi consistam spirituale, una tregua all’affanno di secoli. Uomini spaesati, non paghi del proprio paese, e non accolti nella cerchia d’una agognata patria ideale.37

Di Marussig e del suo romanzo si sono occupati anche i critici zaratini. Marco Per- lini, in un suo saggio sugli scrittori dalmati,38 trova analogie nel temperamento e

|| 34 Ivi, p. 424. 35 Ivi, p. 420. 36 L. D’Ambra, Addio ad un poeta (Giuseppe Marussig), cit., p. 17. 37 C. Giulio Viola, Parole d’un amico agli amici di Marussig, cit., p. 20. 38 Marco Perlini, Appunti per uno studio sulle affinità di carattere nei dalmati maggiori e mi- nori, «Rivista dalmatica», XXII, 1941, n. 1, pp. 45–57.

136 | Nedjeljka Balić-Nižić nel modo di scrivere tra vari rappresentanti della vita letteraria e culturale pas- sata e contemporanea, menzionando appunto Marussig, che, come molti altri dalmati (san Girolamo, Tommaseo, Colautti), errava lontano dalla patria.39 Nel romanzo Uomini di confine, secondo Perlini, sono raccolte tutte le insicurezze, i dubbi, le nostalgie, le aspirazioni, le amarezze, le contraddizioni e gli entusiasmi della gente nata al confine tra due culture. Ildebrando Tacconi in uno dei suoi studi sulla letteratura dalmata in lingua italiana40 annovera Marussig tra i più si- gnificativi scrittori dalmati e definisce la sua opera «inquieta e tormentata», la quale, oltre ad essere di valore artistico, è anche «documento umano, legato alla crisi politica d’Europa»,41 che Marussig sentiva profondamente e il tormento che in lui essa suscitava lo esprimeva anche nei suoi articoli politici, nelle novelle e negli scritti critici. In conclusione si potrebbe dire che la letteratura zaratina in lingua italiana della fine dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, di cui in questo con- tributo si è fatta una breve rassegna accennando più dettagliatamente al caso di Giuseppe Marussig in cui si sublima il carattere complesso di questa produzione, è un tipico esempio della letteratura di confine, in tutte le sue varie manifesta- zioni e i suoi specifici connotati. Legata tematicamente a vari aspetti del com- plesso fenomeno della secolare convivenza tra diversi popoli e culture e legata alle tendenze della letteratura italiana coeva, la letteratura zaratina diede un grande contributo alla letteratura dalmata in lingua italiana, che, assieme alla coesistente letteratura in lingua croata, costituisce una parte importante della storia di lingue, letterature e culture che si intrecciarono e si intrecciano ancora in questa parte d’Europa.

|| 39 Ivi, p. 54. 40 Ildebrando Tacconi, Contributi della Dalmazia alla cultura e alla vita italiana, «Rivista dal- matica», XXII, 1941, nn. 2–3, pp. 5–38. 41 Ivi, p. 19.

Snežana Milinković Autori di confine e i paradigmi culturali nazionali

Il caso serbo

Riassunto: Il presente saggio si propone il compito di analizzare la difficile accet- tazione in Serbia, in tempi di fervore nazionalistico, di quello che non apparte- neva o rientrava nel paradigma della tradizione letteraria nazionale, alla luce di una contrapposizione strumentale tra ‘natura’ e ‘cultura’, e di una tendenza a privilegiare l’ortodossia e le formule poetiche a scapito della prosa. Accanto alla rimozione di ciò che non era ‘autenticamente’ popolare o frutto di un ‘autore col- lettivo’, nella seconda metà dell’Ottocento troviamo tuttavia alcuni autori di ‘con- fine’, ossia Vuk Vrčević (il cui esordio si svolge sotto le insegne della letteratura italiana secondo le consuetudini slavo-dalmate dell’epoca e che si dimostra un abile raccoglitore di racconti popolari serbi), e di due narratori di pregio, Stefan Mitrov Ljubiša (intelligente nell’individuare una voce narrante in grado di rivol- gersi al popolo) e Simo Matavulj che finirà, suo malgrado, per essere relegato in periferia dai custodi della tradizione letteraria serba.

Border authors and national cultural paradigms. The example of Serbia

Abstract: The present essay aims to analyze the difficult acceptance in Serbia, in times of nationalistic fervor, of what did not belong to or fell within the paradigm of the national literary tradition, in the light of an instrumental opposition between ‘nature’ and ‘culture’, and a tendency to privilege orthodoxy and poetic formulas at the expense of prose. In the second half of the nineteenth century, however, alongside the removal of what was not ‘authentically’ popular or the fruit of a ‘collective author’, we do find some ‘borderline’ authors, namely Vuk Vrčević (whose debut took place under the banner of Italian literature according to the Slavic-Dalmatian customs of the time and who proved to be a skilled coll- ector of Serbian folk tales) and two outstanding storytellers, Stefan Mitrov Ljubiša (very good at finding a narrative voice capable of addressing the people) and Simo Matavulj who will end up, despite himself, being relegated to the suburbs by the guardians of the Serbian literary tradition.

Open Access. © 2020 Snežana Milinković, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-010

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Il presente contributo deve essere inteso anche alla stregua di un invito a riflet- tere – per quanto possibile, spassionatamente – sul prolungato (e perdurante) impatto che talune parole d’ordine che sino a pochi anni addietro si reputavano largamente superate hanno saputo (e sanno, soprattutto in quei segmenti meno disposti ad assecondare le spinte dirompenti della modernizzazione e del pro- gresso) esercitare. Il momento genetico delle problematiche che fanno da cornice alle considerazioni qui di seguito proposte è infatti da rinvenire nel quadro di quel processo, di confezione romantico-risorgimentale, che ha portato all’affer- mazione e poi al consolidamento degli stati-nazione nella configurazione che co- nosciamo; un processo che, non di rado – e in particolare nell’area balcanica – si è retto su di una assai fortunata – e al contempo deleteriamente fatale – contrap- posizione tra ‘natura’ e ‘cultura’, tra ciò che era (è) da reputare originario, auten- tico, imperituro, e ciò che era (è), invece, suscettibile di assumere i connotati della mera superficialità, esteriore, caduca, persino ingannevole qualora non fosse (sia) germogliata, herderianamente, dal seme di competenza. Che si tratti, com’è ovvio, di una contrapposizione di comodo, che sottace quanto c’è di culturale in ogni definizione del ‘naturale’, emerge chiaramente dall’accoglienza che gli ambienti di punta dell’intellighenzia belgradese – ad oggi largamente incapaci di affrancarsi dalle maglie della contrapposizione in que- stione – hanno voluto riservare agli autori sui quali ci soffermeremo, il cui tra- gitto, collocandosi ai margini di quella che era reputata l’intima essenza del corpo nazionale, è inevitabilmente incorso nelle facili accuse di deviazionismo dalle linee prestabilite dell’ortodossia. Per i custodi di quest’ultima, che identifi- cavano il ‘naturale’ con l’ambientazione rurale e che di essa celebravano la talen- tuosa predisposizione all’espressività poetica, secondo degli schemi fin che si vuole rigidi e ripetitivi, ma di ‘genuino’ confezionamento orale (come conviene all’immagine del contadino ignorante e semi-analfabeta), la circostanza stessa della provenienza da un paesaggio urbano, così esposto ad impulsi ed influenze di matrice aliena, affiancata ad una sospetta propensione per la prosa (di per sé ostica ad ogni monocorde trattazione), era già in odore di eresia. Se c’è un merito che va riconosciuto a Vuk Vrčević, a Stefan Mitrov Ljubiša e a Simo Matavulj, oltre alle doti intrinseche del loro lavoro, è quello di essere riusciti, malgrado le resi- stenze, a ritagliarsi uno spazio di riguardo nel Pantheon delle lettere serbe, fa- cendo buon viso a cattivo gioco, adeguandosi, cioè, all’uniformità delle ricette

Autori di confine e i paradigmi culturali nazionali | 139 prescritte dal verbo ‘naturale’ del popolo, ma provvedendo, al contempo, a mi- narne la consistenza – per così dire – dal di dentro, fin quasi a volgerlo in paro- dia.1 I passi d’esordio del Vrčević, negli anni Trenta dell’Ottocento, si erano svolti sotto le insegne della letteratura italiana, com’era, d’altronde, di prammatica per ogni slavo-dalmata dell’epoca.2 Tra le letture predilette c’erano il Metastasio e il Vittorelli, e il Vrčević si era messo alla prova con traduzioni che avevano incon- trato l’apprezzamento della redazione dello «Srpsko-dalmatinski glasnik». Risuc- chiato ben presto anch’egli nel vortice delle correnti di ispirazione romantica, aveva aderito con entusiasmo agli appelli di Vuk Karadžić, sostenendone gli sforzi per completare la documentazione che costui stava raccogliendo. È a que- sto punto che era arrivata la prima doccia fredda: i racconti popolari che con pa- zienza trascriveva ed inviava all’illustre interlocutore, lungi dall’ottenere l’ago- gnata approvazione, venivano regolarmente respinti o semplicemente cestinati. Le sole a sfuggire alla feroce selezione del protetto di Jernej Kopitar, in chiusura di conteggio, in vista della consegna del materiale alla stampa, nel 1853, sareb- bero state, complessivamente, quindici fiabe, che al Vrčević, peraltro, non erano apparse degne di maggiore attenzione rispetto agli altri contributi, di tutt’altro genere e, come tali, di gran lunga più vicini agli interessi che lo animavano. Il Vrčević non si era comunque arreso di fronte all’irrigidimento del maestro, e si era anzi intestardito, con rinnovato vigore, nella ricerca di ulteriore materiale, immergendosi altresì in un febbrile lavorio di ripulitura dei testi già reperiti, non senza smettere, però, di interrogarsi intorno alle ragioni delle reiterate stronca- ture che aveva rimediato. A fornirgli delle spiegazioni sarebbe stata, anni dopo, l’autorevole voce di un grande studioso, Stojan Novaković, il quale, in un ponde- rato intervento del 1868, posto a prefazione della raccolta di Vrčević Srpske na- rodne pripovijetke, ponajviše kratke i šaljive (‘Racconti popolari serbi, per lo più brevi e divertenti’), licenziato dall’Accademia Reale di Belgrado, avrebbe segna- lato:

con le raccolte apparse fino ad ora si è reso possibile l’accesso all’imponente patrimonio di canti, di massime e di sentenze, di cronache e di leggende di cui si erano smarrite le tracce [...]. Sono state invece del tutto trascurate le esposizioni di tono minore, le illustrazioni che

|| 1 Sulla questione vedi Snežana Milinković, Preobražaji novele. Novela od V. Vrčevića do S. Ma- tavulja i italijanska novelistička tradicija, Beograd, Društvo za srpski jezik i književnost, 2008. 2 Cfr. Milena Piletić, Vremenska distanca u prevođenju književnog teksta, Beograd, Filološki fakultet, 1997.

140 | Snežana Milinković

si intrattengono sulla quotidianità, sulle faccende che scandiscono il pacifico e sereno tra- scorrere della vita di ogni giorno.3

Secondo il Novaković, i cui rilievi sono una valida testimonianza delle maggiori aperture che caratterizzavano l’incalzante stagione del positivismo, per nulla di- sposta ad accontentarsi di quell’immagine monolitica del popolo, lasciata in ere- dità dal romanticismo, che impediva di coglierlo nelle sue molteplici sfaccetta- ture, la novità più significativa che emergeva dai racconti raccolti dal Vrčević era da individuare nell'attitudine – novellistica, per definizione – alla brevità e alla concisione, da cui traeva efficacia il discorso umoristico. A marcare la differenza tra il Karadžić e il Vrčević, e a giustificare le loro di- vergenze, erano, in altre parole, gli intendimenti di fondo da cui muovevano: per il primo si trattava di andare a rovistare nel bagaglio dei miti e delle leggende che glorificavano gli epici trascorsi di un popolo (o, meglio, dell’immagine di popolo che ne fuoriusciva), e le formule da utilizzare per raggiungere lo scopo dovevano essere, per pacifica deduzione, anch’esse quelle che si ricavavano dalla tradi- zione, le sole adeguate alla levatura dell’argomento; il secondo aveva invece po- sato lo sguardo sulla realtà circostante, su motivi e vicende di impronta quoti- diana, e le modalità e gli accorgimenti linguistici da impiegare per racchiuderle in una narrazione erano l’armamentario cui metteva mano la più o meno sapiente regia di un autore, previo esame della materia e delle molte e nient’affatto presta- bilite opzioni di cui poteva avvalersi. Da un lato c’era, insomma, la convinzione che il popolo sia un’entità tangibile e senza tempo, e che la voce che ne narra le gesta sia anch’essa autenticamente la sua, propria di quel popolo, che non sa e nemmeno potrebbe esprimersi in altro modo, pena la contraffazione (tanto del popolo che della voce che lo esprime e per mezzo della quale si esprime), mentre dall’altro c’erano gli assunti di chi, forte delle letture che ha digerito e degli ap- prendimenti che ha maturato, sa che l’universo della narrazione è un universo di possibilità, di insopprimibile varietà, che si presta ad un gioco incessante di so- vrapposizione di ruoli e di funzioni, ad un dialogo a più voci – ivi compresa quella narrante – dal quale non è affatto esclusa la finzione e al quale l’autore imprime un personalissimo marchio di fabbricazione.

|| 3 Stojan Novaković, O ovoj knjizi, in Vuk Vrčević, Srpske narodne pripovijetke ponajviše kratke i šaljive, Beograd, Srpsko učeno društvo, 1868 (la numerazione è assente, ma si veda nella seconda pagina).

Autori di confine e i paradigmi culturali nazionali | 141

I racconti raccolti dal Vrčević celavano tracce di un profondo indebitamento con il Novellino, il Decameron, il Novelliere di Sercambi, il Liber facetiarum di Pog- gio Bracciolini, le Piacevoli notti di Straparola;4 e che recassero un marchio di fab- brica che faceva risalire ad un autore, fossero cioè pregevole letteratura, sia pure di tono ‘minore’, l’avrebbero ribadito, sulle orme del Novaković, i critici Jeremija Živanović e Vladimir Ćorović, in due importanti interventi apparsi, ad inizio No- vecento, sul prestigioso «Srpski književni glasnik». Živanović non avrebbe però omesso di precisare che, anche se di letteratura si trattava, non poteva essere si- stemata entro i confini della tradizione culturale serba, essendo pesante l’ipoteca risultante dal ricorso a risorse altrui;5 mentre Ćorović, da parte sua, non avrebbe esitato a sentenziare che il ‘problema Vrčević’ andava affrontato prendendo il toro per le corna, ovverosia riconducendolo alla plateale incapacità del dalmata di distinguere tra ciò che è popolare e ciò che non lo è, posto che «un racconto, se è letterario, non è popolare».6 Occorre dire che le valutazioni di Živanović e di Ćorović si collocano nella cornice di un periodo di crescenti tensioni geopolitiche e di un rinnovato fervore nazionalistico, al quale l’ideologia dell’‘autenticamente popolare’ era di fecondo aiuto. È indubbio, tuttavia, che lo squarcio prodotto dal Vrčević nel muro di gomma eretto a protezione dell’autore ‘collettivo’ chiamato in causa dall’autoce- lebrativo malvezzo di non discostarsi dalla precettistica del Karadžić incomin- ciava a dare dei frutti, come si arguisce dall’opera di un altro slavo-dalmata, Ste- fan Mitrov Ljubiša. Abbeveratosi anch’egli alle fonti di sorgente appenninica, Ljubiša si era ini- zialmente cimentato con adattamenti/traduzioni di brani danteschi e delle Satire di Ludovico Ariosto, con l’esplicito obiettivo di saggiare le potenzialità espressive della lingua concepita, sin da questo momento, al pari di un impasto che l’estro di un artigiano dovrà modellare, trasformare e arricchire secondo le esigenze del traguardo letterario che si è proposto di raggiungere. E per Ljubiša il traguardo da raggiungere, per sua stessa ammissione, era rappresentato, tanto sul piano

|| 4 Cfr. Snežana Milinković, Primeri transkodifikacije i intertekstualnosti u Vrčevićevim zbirkama narodnih priča, «Filološki pregled», XXX, 2, 2003, pp. 123–137. 5 Jeremija Živanović, Književni pregled, «Srpski književni glasnik», jul, avgust, septembar, oktobar, novembar, decembar, 3, 1905, pp. 220–227. Cfr. anche Tihomir R. Đorđević, Književni pregled- Liber facetiarum, «Srpski književni glasnik», jul, avgust, septembar, oktobar, novembar, decembar, 1906, pp. 226–227. 6 Vladimir Ćorović, O Vrčevićevoj podeli srpskih narodnih šaljivih pripovijedaka, «Srpski književni glasnik», jul, avgust, septembar, oktobar, novembar, decembar, 1905, 15, pp. 378–384 (p. 381).

142 | Snežana Milinković formale-stilistico quanto su quello più propriamente narrativo, da «un Decame- ron delle lettere serbe».7 Nelle Storie di Vuk Dojčević veniva replicata la gran parte dei motivi portanti e delle procedure che hanno costellato il plurisecolare percorso della novella ita- liana; senza rifuggire nemmeno dal riprenderne, talora, gli intrecci e le trame, come pure il messaggio, desunto dal Boccaccio, che il vero e il dilettevole – per tacere delle eventuali indicazioni di segno morale – fossero da mettere in rela- zione con gli accorgimenti linguistici da adottare. Ma del Decameron, in partico- lare, si imitava l’impianto e l’architettura scenografica, con l’avvicendarsi dei sin- goli racconti intorno ad un nucleo centrale, che fungeva da cornice e da filo conduttore. Il perno attorno al quale ruotava il tutto era costituito da una figura dai contorni leggendari, una via di mezzo tra realtà storica e fantasia, Vuk Dojčević: ad essa era affidato il compito di intrattenere l’aristocratico uditorio con dei racconti, tratti dalla propria esperienza di vita e di cui recava testimonianza, ed in essa pertanto riposava la richiesta legittimità della narrazione. Un testimone, dunque: era stata questa la grande trovata del Ljubiša. Un per- sonaggio/voce narrante individuato tra le schiere del ‘popolo’ e che al ‘popolo’ si rivolgeva, che del ‘popolo’ adoperava lingua e maniere, a garanzia di apparte- nenza e identificazione, quasi ne fosse la semplice incarnazione; e che tuttavia, lungi dal ridursi a semplice cassa di risonanza del collettivo popolare, era un pro- dotto della penna creativa dell’autore, del suo singolarissimo e irripetibile ap- proccio al mondo delle lettere e della scrittura. Con le preclusioni vigenti e con la necessità di escogitare il modo di aggirarle, evitando di essere espulso dal corpo nazionale e, al tempo, stesso, di diventarne un ostaggio, ha dovuto fare i conti anche un altro prosatore di frontiera, di eleva- tissimo valore, Simo Matavulj. Ma è bene subito avvertire che qui ci troviamo di- nanzi ad un radicale cambiamento di registro, ad un vero e proprio rovescia- mento di prospettiva: se per Ljubiša si trattava di ottenere un riconoscimento dello status di letterato in virtù del suo adeguamento alla tradizione, nel caso di Matavulj, scrittore affermato, il problema, per critici e lettori, è stato quello di ri- tagliargli uno spazio nel quadro della tradizione nonostante l’indubbio spessore letterario. Cresciuto anch’egli a Sebenico, sulle pagine del Dizionario di Vuk Karadžić (non senza fare tesoro, però, della lezione del Ljubiša, ricordato nell’autobiogra- fia), a Matavulj era apparso subito chiaro che lingua e cultura hanno poco a che

|| 7 S. Milinković, Preobražaji novele. Novela od V. Vrčevića do S. Matavulja i italijanska novelistička tradicija, cit., p. 166.

Autori di confine e i paradigmi culturali nazionali | 143 fare con la ‘natura’ (come, del resto, appare chiaro a chiunque viva a stretto con- tatto con genti di diversa favella), e che tra scritto e parlato c’è sempre uno scarto, in seno al quale viene ad inserirsi la mano di un autore, con i suoi trascorsi, il suo bagaglio di letture, di conoscenze, di immaginazione. Che il ruolo da questi rive- stito non sia affatto quello di un passivo burattino, succube di un regime di con- dotta precostituito e ripetitivo, ma sia semmai avvicinabile a quello, attivo, del burattinaio che governa i fili del fantoccio e ne gestisce i movimenti (come ab- bandonarsi, altrimenti, a qualsiasi tentativo di interpretazione di un’opera lette- raria?), l’aveva, oltretutto, certificato, sin dagli anni giovanili, mandando a me- moria passi interi dell’Orlando furioso, e l’aveva poi collaudato traducendo la Guerra dei santi di Giovanni Verga (tratto dalla raccolta Vita dei campi), il suo scrittore prediletto. È meditando sul Verga che Matavulj ha imparato che il ‘vero’ non coincide con il ‘reale’ e che l’oggetto della narrazione, di conseguenza, non è un dato in- sindacabile, inerte, impassibile, stabilito una volta per sempre, bensì una mèta (una costruzione, un artifizio) cui si accede per mezzo di un dispositivo – la lin- gua – dinamico, versatile, in continuo movimento, atto a plasmare e ad essere plasmato. Farne uso, con maggiore o minore maestria, con più o meno accen- tuata acquiescenza rispetto ai modelli di comune accettazione, comporta di rico- noscerne le potenzialità, anche trasgressive, che vi sono riposte. L’intima consapevolezza che la lingua sia la sola vera e propria certezza con cui uno scrittore deve cimentarsi è il tratto distintivo dell’opera di Matavulj nel suo complesso. E se bisognava estinguere un debito con le consegne dell’‘auten- ticamente popolare’, non restava che affidarsi ad un sottile gioco delle parti. Si spiegano così, nel romanzo Bakonja fra Brne – il lavoro più importante –8 l’in- gresso in campo del proverbiale ‘uomo del popolo’ (il ‘quasi’ intellettuale, che tale è considerato perché capace, anche se a malapena, di leggere e di scrivere), l’insistenza sui motivi della monotonia del paesaggio e dell’immutabilità delle abitudini e delle istituzioni (che vi si rispecchiano), l’accortezza di indugiare sulle ramificazioni di stirpe e di famiglia, gli unici agenti di ogni interazione sociale (con degli evidenti richiami alla mitologia di ascendenza medievale). Il tutto ar- rangiato attraverso gli occhi di un ‘cronista’ che, controllato a vista dallo sguardo sornione dell’autore, pretende di limitarsi ad accompagnare quanto è già iscritto nell’ordine ‘naturale’ delle cose.

|| 8 Cfr. Snežana Milinković, Nekolike napomene o stilskim i retoričkim postupcima u dve objavljene verzije Matavuljevog romana “Bakonja fra Brne”, in Simo Matavulj-delo u vremenu, Atti del Convegno Internazionale, Beograd, Filološki fakultet, 2011, pp. 31–46.

144 | Snežana Milinković

L’estrema raffinatezza dell’arsenale dispiegato dal Matavulj non l’ha sot- tratto alle obiezioni e alle censure dei custodi della più autentica tradizione lette- raria serba. Non potendo contestargli la grande perizia con cui era riuscito a ra- dunare e a mescolare insieme gli ingredienti previsti dal loro ricettario, la soluzione adottata è stata quella di relegarlo in periferia, ai margini – geografici e culturali – dell’epicentro in cui tale tradizione era fiorita: allorché sarebbero apparsi i suoi Racconti belgradesi, l’avrebbero invitato a ritornarsene a casa, in Dalmazia, ad occuparsi delle faccende di respiro regionale per cui era tagliato: con buona pace di Ivo Andrić, che l’aveva invece eletto a «maestro della narra- zione e del racconto». Ma, a ben vedere, anche il bosniaco era pur sempre un ospite, un intruso, un parvenu, che della sacra e altisonante tradizione si era fatto un baffo.

| Circolazione di libri, temi e motivi

Irena Prosenc Alberto Fortis e la Carniola settecentesca

Riassunto: La Biblioteca Nazionale e Universitaria di Lubiana custodisce un certo numero di libri di viaggio scritti da autori italiani del Settecento: Giovanni Fran- cesco Gemelli Careri, Antonio Zucchelli, Giovanni Targioni-Tozzetti e Alberto For- tis. Il più famoso tra questi autori è senz’altro Fortis, un promotore della cultura illuminista che fece diversi viaggi in Dalmazia alla scoperta del mondo slavo. Le biblioteche slovene custodiscono alcune copie dei suoi testi (Viaggio in Dalmazia, Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Ossero) ed alcuni dei suoi trattati geografici che riguardano le varie aree dell’Italia. Molti di questi volumi proven- gono dalla biblioteca del barone Sigmund/Žiga Zois che, nella seconda metà del Settecento e nei primi due decenni dell’Ottocento, era considerata una delle mag- giori biblioteche in Carniola. Il contributo esplorerà la presenza delle opere di Fortis nella Carniola settecentesca nel più ampio contesto della cultura illumini- sta e degli scambi culturali fra i paesi vicini. Si cercherà di delineare, da una parte, l’interesse del pubblico carniolino per la letteratura odeporica in lingua italiana e, dall’altra, l’interesse di Fortis per il mondo slavo.

Alberto Fortis and eighteenth-century Carniola

Abstract: The National and University Library of Ljubljana holds a number of tra- vel books written by Italian authors of the eighteenth century: Giovanni France- sco Gemelli Careri, Antonio Zucchelli, Giovanni Tragioni-Tozzetti and Alberto Fortis. The most famous among these authors is undoubtedly Fortis, a promoter of the Enlightenment who made several trips to Dalmatia to discover the Slavic world. Slovenian libraries keep some copies of his texts devoted to Dalmatia and the island of Cres and Ossero (Viaggio in Dalmazia, Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Ossero) and some of his geographical treatises concerning va- rious areas of . Many of these volumes come from the private library of Baron Sigmund/Žiga Zois which, in the second half of the eighteenth century and the first two decades of the nineteenth century, was considered one of the largest li- braries in Carniola. This contribution will explore the presence of Fortis’ works in eighteenth-century Carniola in the wider context of Enlightenment culture and cultural exchanges between neighbouring countries. It will discuss on the one hand the public interest in odeporic literature written in Italian and on the other Fortis’ interest in the Slavic world.

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148 | Irena Prosenc

Il presente contributo prende in esame i contatti intercorsi tra il padovano Alberto Fortis (1741–1803) e gli ambienti culturali carniolini negli ultimi decenni del Set- tecento.1 Autorevole esponente della cultura dei Lumi, Fortis era un viaggiatore instancabile e i suoi vasti interessi comprendevano la geologia, la mineralogia, la vulcanologia, la paleontologia, l’etnologia, l’agricoltura, l’economia, la poli- tica, la storia, la letteratura popolare e il collezionismo di reperti archeologici. Nell’ambito delle sue molteplici attività egli strinse una fitta trama di relazioni intellettuali con i protagonisti della cultura scientifica in Italia e all’estero, fu membro della Royal Society e di altre associazioni accademiche.2 Gli scambi tra Fortis e gli intellettuali attivi in Carniola si inseriscono nel più ampio contesto dei suoi interessi per le aree geografiche e le popolazioni della sponda orientale dell’Adriatico. La sua conoscenza del mondo slavo ebbe origine da una serie di viaggi compiuti tra il 1765 e il 1791 per una durata complessiva di oltre trenta mesi e compresero almeno undici spedizioni esplorative in Dalmazia come pure una in Carniola.3 Nel 1770 Fortis visitò le isole quarnerine di Cherso e Lussino e ne scrisse un resoconto nel Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Osero (1771).4 Tra il 1771 e il 1791 fece numerose spedizioni in Dalmazia, volte a esplorare i luoghi visitati con occhio scientifico. Nella più nota delle sue opere, il Viaggio in Dalmazia (1774),5 compendiò i risultati di due viaggi effettuati nel 1771 e nel 1773. Dal Saggio e dal Viaggio in Dalmazia emerge una viva curiosità per le culture slave delle aree vicine all’Adriatico. Se è vero che gli interessi di Fortis si incentrarono sulla Dalmazia e sul Quarnero, egli dedicò tuttavia la sua attenzione

|| 1 L’autrice ringrazia l’Agenzia Slovena per la Ricerca per il sostegno finanziario (Finanziamento delle Attività Base di Ricerca n. P6-0239). 2 Luca Ciancio, Alberto Fortis, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 1997, http://www.treccani.it/enciclopedia/alberto-fortis_ %28Dizionario-Biografico%29/ (pagina consultata il 10 aprile 2019). 3 Cfr. Žarko Muljačić, Putovanja Alberta Fortisa po Hrvatskoj i Sloveniji (1765–1791) [‘I viaggi di Alberto Fortis in Croazia e Slovenia (1765–1791)’], Spalato, Književni krug, 1996. Mentre Muljačić lascia aperta la possibilità di un dodicesimo viaggio di Fortis alla volta della Dalmazia, ne è con- vinto invece Josip Bratulić, il curatore dell’edizione croata del Viaggio in Dalmazia (Josip Bratu- lić, Alberto Fortis i njegov Put po Dalmaciji [‘Alberto Fortis e il suo Viaggio in Dalmazia’], in Al- berto Fortis, Put po Dalmaciji, a cura di Josip Bratulić, trad. di Mate Maras, Zagabria, Globus, 1984, pp. V–XXIV, p. XIII). Ai titoli sloveni e croati sono state aggiunte traduzioni in italiano ad opera dell’autrice, tranne nei casi in cui gli stessi testi forniscono una versione italiana, inglese o tedesca del titolo. 4 Alberto Fortis, Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Osero d’Alberto Fortis della So- cietà Imperiale, e Reale di , ec., Venezia, presso Gaspare Storti, 1771. 5 Viaggio in Dalmazia dell’abate Alberto Fortis, 2 tomi, Venezia, presso Alvise Milocco, 1774.

Alberto Fortis e la Carniola settecentesca | 149 anche alla Carniola, incuriosito soprattutto dai fenomeni carsici presenti in quel territorio. La regione storica della Carniola, popolata da sloveni, fu governata dagli Asburgo dal 1335 al 1809, quando entrò a far parte delle Province Illiriche dell’im- pero napoleonico, e fu riconsegnata all’Austria dopo il Congresso di Vienna.6 Alla fine del Settecento nell’intero territorio popolato dagli sloveni vivevano quasi 900.000 abitanti, di cui circa il 93% in zone rurali. L’analfabetismo tra la popo- lazione contadina fu quasi assoluto fino all’entrata in vigore dell’obbligo scola- stico nel 1774, e alla fine del Settecento più del 90% della popolazione totale ri- maneva comunque analfabeta. La situazione linguistica era caratterizzata dalla convivenza di più lingue, dal momento che i ceti elevati usavano il tedesco e l’ita- liano come segno di appartenenza sociale. Negli ultimi decenni del secolo si in- tensificarono iniziative volte alla promozione sociale e culturale della lingua slo- vena tramite la pubblicazione di grammatiche, dizionari, raccolte di poesie e manuali scolastici. Crebbe, inoltre, l’interesse per le scienze naturali, che portò alla fondazione di biblioteche pubbliche.7 Uno dei più eminenti promotori del rinnovamento culturale carniolino fu il barone Sigmund/Žiga Zois (1747–1819), imprenditore, naturalista e mecenate, il quale svolse un ruolo di primo piano nell’illuminismo sloveno. Dalla parte pa- terna, Zois proveniva da una benestante famiglia mercantile bergamasca, mentre sua madre era slovena. Risiedeva a Lubiana ed era proprietario di miniere, fer- riere, una manifattura di ceramica e un podere agricolo. Era istruito in mineralo- gia (possedeva una delle più ricche collezioni di minerali nell’Europa dell’epoca), geologia, chimica, metallurgia, industria mineraria, botanica e zoologia; parlava varie lingue tra cui l’italiano, il tedesco, lo sloveno e il francese. Zois raccolse in- torno a sé una cerchia di sostenitori delle idee illuministiche, i cui massimi espo- nenti erano il poeta Valentin Vodnik, il commediografo Anton Tomaž Linhart, il linguista Jernej Kopitar, e i filologi Blaž Kumerdej e Jurij Japelj, che egli sosteneva nelle loro ricerche e incoraggiava a pubblicarne i risultati. Possedeva una ricca biblioteca che fu fondamentale per la ricezione di testi provenienti dall’estero8 e

|| 6 Otto Brunner, Carniola, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 1931, http://www.treccani.it/enciclopedia/carniola_%28Enciclopedia-Italiana%29/ (pagina consultata il 10 aprile 2019). 7 Peter Vodopivec, Od Pohlinove slovnice do samostojne države. Slovenska zgodovina od konca 18. stoletja do konca 20. stoletja [‘Dalla grammatica di Pohlin allo stato indipendente. La storia slovena dalla fine del XVIII alla fine del XX secolo’], Lubiana, Modrijan, 2006, pp. 10-17. 8 Vlado Valenčič, Ernest Faninger e Nada Gspan-Prašelj, Zois plemeniti Edelstein, Žiga (1747- 1819) [‘Zois von Edelstein, Žiga (1747-1819)’], in Slovenska biografija, Lubiana, Slovenska akade- mija znanosti in umetnosti – Znanstvenoraziskovalni center SAZU, 2013, apparsa dapprima in

150 | Irena Prosenc diventò il «fulcro dell’illuminismo e del nazionalismo culturale sloveno».9 La bi- blioteca zoisiana raccoglieva volumi di scienze naturali, storia, linguistica e sla- vistica, tra cui figurava «la migliore collezione carniolina di testi geografici divul- gativi e specialistici che comprendeva libri di viaggio».10 La cerchia di Zois mise in atto un programma incentrato sul «rinnovamento letterario e sulla diffusione della cultura nonché sull’educazione e sull’istruzione del popolo, il che avrebbe portato ad un risveglio della coscienza nazionale».11 Alla fine del Settecento a Lubiana fu fondata la Kaiserlich-königliche Lyceal Bibliothek, dalla quale trae origine l’odierna Biblioteca Nazionale e Universitaria slovena. Dopo la morte di Zois la Kaiserlich-königliche Lyceal Bibliothek acquistò buona parte dei volumi della sua biblioteca.12 Per la loro vendita fu stilato, nel 1821, un catalogo che registra oltre quattromila volumi con i rispettivi prezzi, oggi consultabile nella Biblioteca Nazionale.13 Un altro catalogo,14 presumibilmente

|| Slovenski biografski leksikon: 15. zv. Zdolšek – Žvanut, a cura di Jože Munda et al., Lubiana, Slo- venska akademija znanosti in umetnosti, Znanstvenoraziskovalni center SAZU, 1991, http://www.slovenska-biografija.si/oseba/sbi872726/#slovenski-biografski-leksikon (pagina consultata il 10 aprile 2019). 9 Testo originale: «žarišče slovenskega razsvetljenstva in kulturnega nacionalizma» (Luka Vid- mar, Knjižnica Žige Zoisa kot žarišče slovenskega kulturnega nacionalizma [‘La biblioteca di Žiga Zois come focolaio del nazionalismo culturale sloveno’], «Knjižnica», LIX, 2015, n. 3, pp. 33–46: p. 41). 10 Testo originale: «najboljšo tedanjo kranjsko zbirko poljudnih in strokovnih geografskih del s potopisi vred» (Stanislav Južnič, Zoisove geografske knjige [‘I libri geografici di Zois’], «Geo- grafski vestnik», LXXXI, 2009, n. 1, pp. 65–76: p. 66). 11 Marija Kacin, Žiga Zois in italijanska kultura [Žiga Zois e la cultura italiana], Lubiana, ZRC SAZU – Založba ZRC, 2001, p. 110. 12 V. Valenčič, E. Faninger e N. Gspan-Prašelj, Zois plemeniti Edelstein, Žiga (1747–1819), cit.; Konrad Stefan, Zgodovina C. kr. Študijske knjižnice v Ljubljani, trad. di Stanislav Bahor, Lubiana, Zveza bibliotekarskih društev Slovenije – Narodna in univerzitetna knjižnica, 2009 [titolo origi- nale: Geschichte der Entstehung und Verwaltung der k. k. Studien-Bibliothek in Laibach, in Mittei- lungen des Musealvereines für Krain, 20, 1907], p. 38. 13 Bibliothecae Sigismundi Liberi Baronis de Zois Catalogus, 1821, NUK (Biblioteca Nazionale e Universitaria slovena), Sezione manoscritti, Ms. 667. 14 Katalog der Bücher die sich in der Bibliothek des Herrn Baron Sigmund Zois Freyherrn von Edel- stein befinden, fondo Zois pl. Edelstein, rodbina, 1606–1901, fascicolo 19, «Posebno udejstvovanje Michelangela, Avguština, Žige, Karla in Alfonza Zoisa», SI AS 1052. Supponiamo si tratti del cata- logo menzionato da Francé Kidrič nella sua Storia della letteratura slovena. Kidrič segnala che la maggior parte dei volumi repertoriati nel catalogo appartiene all’ambito delle scienze naturali, in particolar modo alla mineralogia e alla botanica (Francè Kidrič, Zgodovina slovenskega slo- vstva. Od začetkov do Zoisove smrti. Razvoj, obseg in cena pismenstva, književnosti in literature [La storia della letteratura slovena. Dagli inizi alla morte di Zois. Lo sviluppo, le proporzioni e il

Alberto Fortis e la Carniola settecentesca | 151 redatto subito dopo il 1780,15 è conservato nell’Archivio della Repubblica di Slo- venia. Dai cataloghi emerge che Zois possedeva alcune opere di Fortis, e ciò non sorprende visto l’interesse che egli nutriva per le scienze naturali e la letteratura odeporica. Il catalogo del 1821 annovera il Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Osero e la traduzione francese del Viaggio in Dalmazia (entrambi a p. 109),16 il trattato geografico Della valle vulcanico-marina di Roncà (p. 14)17 e la tra- duzione tedesca delle Lettere geografico-fisiche sopra la Calabria e la Puglia (p. 68).18 Per quanto riguarda l’edizione italiana del Viaggio in Dalmazia, è interes- sante notare come essa sia presente nel catalogo risalente a subito dopo il 1780 (p. 107), ma non nel catalogo del 1821. Come si è detto, quest’ultimo era funzio- nale alla vendita del fondo librario zoisiano, per cui non includeva doppioni di volumi custoditi nella Biblioteca Liceale.19 Se questa era già in possesso di un esemplare italiano del Viaggio, è ipotizzabile che il volume appartenuto a Zois fosse stato escluso dalla catalogazione in quanto non interessante per la vendita, benché l’irreperibilità di eventuali altri cataloghi della biblioteca del barone vieti un’ultima parola su questo argomento. Oggi le cinque opere fortisiane qui menzionate sono custodite nella Biblio- teca Nazionale erede della Liceale. In merito all’edizione italiana del Viaggio in Dalmazia, sembra probabile che essa sia pervenuta alla Liceale nel 1787 con i fondi della biblioteca della Kaiserlich-königliche Landwirthschafts-Gesellschaft in Krain, l’imperial-regia Società agricola carniolina. Questa, che si occupava del

|| prezzo della produzione manoscritta, dell’editoria e della letteratura], Lubiana, Slovenska ma- tica, 1929–1938, pp. 212–213. 15 Cfr. Francè Kidrič, Zoisova korespondenca 1808–1809 [I carteggi di Zois dal 1808 al 1809], Lubiana, Akademija znanosti in umetnosti, 1939, p. 23; Sonja Svoljšak, English Editions and Works by English-Speaking Authors in Sigismund Zois’s Library, «The Library», vol. 20, n. 3, settembre 2019, pp. 371–394, https://doi.org/10.1093/library/20.3.371. 16 Voyage en Dalmatie par M. l’abbé Fortis, traduit de l’italien, avec figures, tome premier, tome second, Berne, chez la Société Typographique, 1778. 17 Della valle vulcanico-marina di Roncà nel territorio Veronese. Memoria orittografica del sig. Abate Fortis socio de’ Curiosi della natura di Berlino, e dell’Academie delle Scienze di Bologna, di Bordeaux, di Lunden, di Siena ec., Venezia, nella stamperia di Carlo Palese, 1778. 18 Mineralogische Reisen durch Calabrien und Apulien von Albert Fortis. In Briefen an den Grafen Thomas von Bassegli in Ragusa. Aus dem Italienischen, Weimar, in der Hoffmannischen Buch- handlung, 1788. Si tratta della traduzione di Lettere geografico-fisiche sopra la Calabria, e la Pu- glia al conte Tommaso de Bassegli patrizio raguseo dell’ab. Alberto Fortis, Napoli, presso Giu- seppe-Maria Porcelli, 1784. 19 K. Stefan, Zgodovina C. kr. Študijske knjižnice v Ljubljani, cit., p. 38.

152 | Irena Prosenc miglioramento della produzione agricola in Carniola, fu fondata nel 1767, sop- pressa nel 1787 e rifondata nel 1821.20 La Società originaria possedeva una biblio- teca i cui volumi, dopo il suo scioglimento nel 1787, furono incorporati nella Li- ceale:21 un esemplare del Viaggio in Dalmazia figura infatti nel catalogo della Società redatto nel 1781.22 Un importante cultore delle scienze naturali, legato a Zois, fu il francese Bal- thasar Hacquet (1739/40–1815),23 che visse in Carniola dal 1766 al 1787. In un primo tempo Hacquet lavorò come chirurgo alla miniera di mercurio di Idria (1766–1773), dove subentrò al naturalista Giovanni Antonio Scopoli, autore dei trattati Flora Carniolica e Entomologia Carniolica. In seguito venne assunto come professore di anatomia, fisiologia, chirurgia e ostetricia al Liceo di Lubiana (1773–1787), dove creò un gabinetto di scienze naturali e un teatro anatomico. Fu anche uno studioso di botanica, mineralogia e geologia e autore di numerosi trat- tati. Preparò un erbario con esemplari di flora carniolina tuttora conservato al Museo sloveno di storia naturale. In Plantae alpinae Carniolicae descrisse varie specie che riteneva di aver scoperto in Carniola e in Istria; un genere e una specie botanica portano oggi il suo nome.24 Dopo il ventennio trascorso in Carniola, di- ventò professore di scienze naturali all’università di Leopoli e, in seguito, decano della facoltà di medicina dell’università di Cracovia. Al pari di Fortis, Hacquet fu tra i viaggiatori più attivi dell’epoca e, in un arco di tempo di trent’anni, trascorse in viaggio vari mesi all’anno. Nel periodo in cui visse in Carniola visitò l’Istria, la Dalmazia, la Carinzia, la Stiria, il Tirolo, i vul- cani in Italia, la Bosnia, la Turchia, l’Ungheria, la Svizzera, la Baviera e la Boemia. Fu tra i primi esploratori delle Alpi slovene e partecipò, nel 1777, al primo tenta- tivo documentato di ascesa al Monte Tricorno (Triglav), la montagna più alta della Slovenia (m. 2.864), la cui vetta fu raggiunta per la prima volta da quattro uomini di Bohinj nel 1778, mentre Hacquet vi riuscì al secondo tentativo, nel

|| 20 Ema Umek, Kranjska kmetijska družba 1767–1787 [ʻLa Società agricola carniolina 1767–1787ʼ], «Arhivi», XXIX, 2006, n. 1, pp. 1–34. 21 Ivi, p. 34; K. Stefan, Zgodovina C. kr. Študijske knjižnice v Ljubljani, cit., p. 13. 22 Catalogus Librorum, Sumptibus Cæsareo-Regiæ Societatis agrariæ Labacensis comparatorum, qui in ejusdem Societatis Bibliotheca asservantur, NUK, Sezione manoscritti. 23 Benché Hacquet stesso si definisse bretone (Précis de la vie de Belsazar Hacquet écrit par lui- même, Bayerische Staatsbibliothek München, Abteilung für Handschriften und seltene Drucke, Cgm 6153), pare più probabile che fosse di origini lorenesi (Janez Šumrada, Sur les origines de Balthasar Hacquet, «Hacquetia», II, 2003, n. 2, pp. 11–23). 24 Nada Praprotnik, Balthasar Hacquet in njegovo botanično delovanje na Kranjskem [Balthasar Hacquet and his botanical work in Carniola], «Hacquetia», II, 2003, n. 2, pp. 85–92.

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1782.25 Come naturalista, fu insignito di numerosi riconoscimenti da parte della comunità scientifica europea e diventò membro di diverse accademie, analoga- mente a Fortis. A Lubiana gli fecero visita personaggi importanti, tra cui l’impe- ratore Giuseppe II. Fu segretario della Società agricola carniolina che annoverava tra i suoi membri anche Zois.26 Hacquet pubblicò i risultati delle sue esplorazioni geologiche, mineralogiche e morfologiche del territorio carniolino nell’Oryctographia Carniolica (1778– 1789),27 in cui prende in esame la composizione delle montagne, i laghi, le mi- niere, la presenza dei fossili e vari fenomeni carsici. In merito a questi ultimi, si sofferma sul lago intermittente di Cerknica e su varie grotte fra cui quella di Vile- nica (Corgnale/Lokev), che egli definisce la più bella grotta carniolina.28 Sul lago di Cerknica e sulla grotta di Vilenica scrive anche Fortis in un resoconto del suo viaggio in Carniola steso nel 1777, come si dirà in seguito. Pare significativo che l’opera di Hacquet, scritta in tedesco, sia preceduta da un’epigrafe in lingua slo- vena firmata «Pelops Secundus» (il suo soprannome accademico in quanto mem- bro dell’Academia Caesarea Leopoldino-Carolina Naturae Curiosorum), da cui emerge una visione della ricerca scientifica caratteristica della cultura dei Lumi: «Senza ogni desiderio di guadagno e senza menzogna bensì solo con l’intenzione di dire ciò che si è visto e sperimentato, per l’amore per il paese in cui vive il più

|| 25 Peter Mikša, Exploring the Mountains – Triglav at the End of the 18th Century, in Man, Nature and Environment Between the Northern Adriatic and the Eastern Alps in Premodern Times, a cura di Peter Štih e Žiga Zwitter, Lubiana, Znanstvena založba Filozofske fakultete Univerze v Ljubl- jani, 2014, pp. 202–215. 26 Informazioni sulla vita di Hacquet tratte da: Précis de la vie de Belsazar Hacquet écrit par lui- même, cit.; Marijan Brecelj, Hacquet, Baltazar (med 1739 in 1740–1815) [Hacquet, Balthasar (1739/1740–1815)], in Slovenska biografija, cit., apparsa dapprima in Primorski slovenski biogra- fski leksikon: 6. snopič Gracar – Hafner, 1, Gorizia, Goriška Mohorjeva družba, 1979, http://www. slovenska-biografija.si/oseba/sbi221985/#primorski-slovenski-biografski-leksikon; Ivan Pintar, Hacquet, Baltazar (med 1739 in 1740–1815), in Slovenska biografija, cit., prima pubblicazione in Slovenski biografski leksikon: 2. zv. Erberg – Hinterlechner, a cura di Izidor Cankar et al., Lubiana, Zadružna gospodarska banka, 1926, http://www.slovenska-biografija.si/oseba/sbi221985/ #slovenski-biografski-leksikon; Helmut Dolezal, Hacquet, Balthasar, in Neue Deutsche Bio- graphie 7 (1966), pp. 414 f., https://www.deutsche-biographie.de/pnd118699970.html# ndbcontent (pagine consultate il 10 aprile 2019). 27 Balthasar Hacquet, Oryctographia Carniolica, oder Physikalische Erdbeschreibung des Her- zogthums Krain, Istrien und zum Theil der benachbarten Länder, I–IV, Leipzig, bey Johann Gott- lob Immanuel Breitkopf, 1778, 1781, 1784 e 1789. 28 La grotta di Vilenica è menzionata nel volume I: «Die schönste und sehenswürdigste unter allen, die ich im Lande durchlaufen bin, ist unstreitig diejenige, welche hinter dem Dorfe Cor- neal, eine Meile davon auf dem Karst liegt» (p. 67), e descritta nel volume IV (pp. 40–41).

154 | Irena Prosenc possente ed esteso popolo del Vecchio Mondo».29 Nell’opera Hacquet menziona il Viaggio in Dalmazia, che egli conosceva e che citerà anche nella sua Lettera odeporica, come si vedrà in seguito. Hacquet è importante anche per il suo ruolo nello studio della cultura popo- lare dei carniolini e di altre popolazioni slave, su cui scrive il saggio Abbildung und Beschreibung der südwest- und östlichen Wenden, Illyrer und Slaven (1801– 1808).30 Nel 1815 esce la traduzione del saggio in francese, L’Illyrie et la Dalmatie, ou Mœurs, usages et costumes de leurs habitans et de ceux des contrées voisines,31 ad opera di Jean-Baptiste Joseph Breton de la Martinière che adatta il testo di Hac- quet integrandolo con nozioni tratte da altre due opere di simile tematica, come precisa nella parte introduttiva:

Nous ne dissimulerons pas les obligations que nous avons à l’ouvrage allemand du docteur Hacquet; mais nous nous sommes afforcés d’accommoder au goût des lecteurs français un texte un peu aride, et qui pèche par un plan méthodique à l’excès. Nous y avons ajouté diverses particularités curieuses, extraites de l’excellent ouvrage de M. Fortis, et du Voyage pittoresque de Cassas, où malheureusement un style emphatique gâte trop souvent d’ex- cellentes observations.32

È interessante notare come Breton accosti il testo di Hacquet al contemporaneo Voyage pittoresque et historique de l’Istrie et de la Dalmatie di Louis-François Cas- sas e Joseph Lavallée33 e, in particolar modo, al Viaggio in Dalmazia, che aveva assunto autorevolezza a livello europeo ed era considerato un riferimento impre- scindibile per lo studio delle popolazioni dell’Adriatico orientale. Hacquet e Fortis si conoscevano personalmente, e di tale rapporto rimangono tracce in alcuni scritti. Fortis viaggiò da Trieste a Lubiana nel periodo tra il 20

|| 29 Testo originale: «Brez vse želje dobička in brez neresnice, ampak zgolj iz nagnjenja to povedati, kar se je videlo in izkusilo, iz ljubezni do dežele tega najmogočnejšega in najbolj razšir- jenega naroda tega starega sveta» (Ivi, I, p. II). 30 Baltasar Hacquet, Abbildung und Beschreibung der südwest- und östlichen Wenden, Illyrer und Slaven, deren geographische Ausbreitung von dem adriatischen Meere bis an den Ponto, deren Sit- ten, Gebräuche, Handthierung, Gewerbe, Religion u. s. w. nach einer zehnjährigen Reise und vier- zigjährigem Aufenthalte in jenen Gegenden, I–V, Leipzig, im Industrie-Comptoir, 1801–1808. 31 L’Illyrie et la Dalmatie, ou Mœurs, usages et costumes de leurs habitans et de ceux des contrées voisines, traduit de l’allemand, de M. le docteur Hacquet, par M. Breton, augmenté d’un Mémoire sur la Croatie militaire; orné de trente-deux planches, dont vingt-quatre d’après les gravures de l’ouvrage allemand, et huit d’après des dessins originaux inédits, I, II, Paris, Nepveu, 1815. 32 Ivi, p. IV. 33 Voyage pittoresque et historique de l’Istrie et de la Dalmatie, rédigé d’après l’itinéraire de L. F. Cassas, par Joseph Lavallée, Paris, Pierre Didot l’aîné, 1802.

Alberto Fortis e la Carniola settecentesca | 155 febbraio e il 22 marzo del 1777:34 visitò il Carso e soggiornò a Lubiana. Ne stese un resoconto nella Lettera orittografica destinata a Giovan Girolamo Carli, il segreta- rio della Regia Accademia di scienze, lettere e belle arti di Mantova. La Lettera, pubblicata negli Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti (1778)35 curati dall’erudito Carlo Amoretti, era destinata alla diffusione del sapere scientifico. Nella prima metà della Lettera Fortis prende in esame la struttura petrologica e la presenza di fossili nell’entroterra triestino e nel Carso, per poi concentrarsi sulla grotta di Vi- lenica. Fortis visitò la grotta in compagnia di František Dembsher (il cui cognome compare nel testo nella forma ‘Dembscher’), esperto di mineralogia e direttore delle miniere di pirite di Agordo, nell’odierna provincia di Belluno. Dembsher era giunto nella Serenissima nel 1777, come afferma il geologo Marco Antonio Cor- niani degli Algarotti in un suo trattato sulle miniere di Agordo.36 Nello stesso anno Dembsher aveva pubblicato il saggio epistolare Della legittima distribuzione de’ corpi minerali,37 presente anche nella biblioteca di Zois e repertoriato nel catalogo del 1821 (p. 13). Il saggio è indirizzato a John Strange (1732–1799), studioso di mi- neralogia e diplomatico britannico a Venezia, destinatario di una delle lettere del secondo volume del Viaggio in Dalmazia di Fortis. La Lettera orittografica contiene la prima descrizione pubblicata della grotta di Vilenica, come afferma Trevor Shaw, uno studioso delle regioni carsiche

|| 34 Žarko Muljačić, Putovanja Alberta Fortisa po Hrvatskoj i Sloveniji (1765–1791), cit., p. 114, nota 28; Id., Putovanje Alberta Fortisa u Ljubljanu [‘Sul viaggio di Alberto Fortis a Lubiana’], «Lingui- stica», XV, 1975, n. 1, pp. 101–108; Id., Putovanje Alberta Fortisa u Ljubljanu (Dopuna ka Lingui- stica XV) [‘Sul viaggio di Alberto Fortis a Lubiana (Supplemento a Linguistica XV)’], «Lingui- stica», XVIII, 1978, n. 1, pp. 259–260. 35 Lettera orittografica del signor abate Alberto Fortis socio dell’Istituto delle Scienze di Bologna, membro delle Accademie Reali di Bordeaux, di Siena, di Lunden nella Scania, della Società de’ Curiosi della natura di Berlino, e delle Agronomiche d’Udine, di Spalato, di Rovigo, ec. al signor abate D. Girolamo Carli Segretario della Reale e Imp. Accademia di Mantova, e membro di molte altre Società dotte, in «Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti. Tratti dagli atti delle accademie, e dalle altre collezioni filosofiche, e letterarie, dalle opere più recenti inglesi, tedesche, francesi, latine, e italiane, e da manoscritti originali, e inediti», I, Milano, Giuseppe Marelli, 1778, pp. 254– 264. 36 Dello stabilimento delle miniere e relative fabbriche nel distretto di Agordo. Trattato storico, mineralogico, disciplinare di M. A. Corniani degli Algarotti, Venezia, Francesco Andreola, 1823, p. 50. 37 Della legittima distribuzione de’ corpi minerali, saggio epistolare del sig. Francesco Dembsher, a sua eccellenza il signor Giovanni Strange, ministro residente per S.M. britannica presso la Sere- niss. Repubblica di Venezia, membro della Società Reale delle Scienze ec., Venezia, nella Stampe- ria Palese, 1777.

156 | Irena Prosenc dell’Europa centrale.38 All’inizio Fortis mette in rilievo la bellezza della grotta: «Io non mi lusingo di descriverla in modo che mi contenti, e so di certo poi che la mia descrizione sbozzata, e mutila sarà mille volte inferiore alla magnificenza dello spettacolo sotterraneo di cui ho goduto in compagnia del mio ottimo, e dotto Amico sig. DEMBSCHER».39 Dopo aver apprezzato la facilità di accesso alla grotta e la sua vicinanza alla strada maestra (fino al 1780 Vilenica distava solo 1,5 km dalla strada che collegava Trieste a Vienna40), egli la descrive così:

L’ingresso è comodissimo, vastamente aperto il vestibolo, e chiaro abbastanza per distin- guervi senza l’aiuto di fiaccole le due prime gran colonne, che sostengono l’arditissima volta del sotterraneo [...]. A misura che c’inoltrammo calando verso la più interna parte del vasto sotterraneo, lo spettacolo divenne più interessante. [...] Gli oggetti medesimi, che va- riano nella configurazione e disposizione ad ogni passo, ci occuparono per buon tratto di cammino discendente sino a tanto che giunsimo ad un luogo, dove si risalisce per sormon- tare una spezie d’argine che divide la gran caverna in due parti; gli uomini di Cornial, av- vezzi a condurre i curiosi per que’ luoghi bui, v’hanno fatto una bastevolmente comoda scala di rottami. Dal capo di quella scala voltandoci addietro godemmo del più bel punto di prospettiva sotterranea che avessimo mai veduto [...].41

Fortis racconta come lui e Dembsher incidessero i loro nomi su una colonna sta- lagmitica, e ciò è visibile ancora oggi:42

L’argine summenzionato serve di base a una colonna non molto grossa, ma che avrà però un piede e mezzo di diametro la quale va a congiungersi colla volta; su di questa a punta di martello scrivemmo i nomi nostri, che serviranno forse a segnare gl’incrementi della stalat- tite di qui a qualche secolo, essendo profondamente incisi.43

Shaw commenta che il comportamento di Fortis non faceva eccezione tra i visita- tori delle grotte suoi contemporanei, i quali scrivevano i loro nomi sulle pareti, rompevano pezzi di stalattiti e portavano a casa esemplari di proteo: secondo le usanze dell’epoca, tali azioni non erano considerate riprovevoli.44 Lo stesso Zois,

|| 38 Trevor Shaw, Foreign Travellers in the Slovene Karst (1486–1900), Lubiana, Založba ZRC, 2008, pp. 50 e 81. 39 A. Fortis, Lettera orittografica, cit., p. 259. 40 T. Shaw, Foreign Travellers in the Slovene Karst (1486–1900), cit., p. 50. 41 A. Fortis, Lettera orittografica, cit., pp. 259–260. 42 T. Shaw, Foreign Travellers in the Slovene Karst (1486–1900), cit., p. 81. 43 A. Fortis, Lettera orittografica, cit., p. 260. 44 «As so many of the places that travellers stopped to see in the Karst were caves, the special kind of behaviour that these attracted deserves consideration. It was, in short, what would now be called vandalism – the writing of names on the cave walls, breaking of stalactites and taking

Alberto Fortis e la Carniola settecentesca | 157 che studiò con molto entusiasmo il proteo e ne scrisse in un articolo pubblicato nel 1807 sul «Laibacher Wochenblatt», il supplemento del «Laibacher Zeitung», teneva sempre nel suo studio qualche esemplare vivo a scopo di osservazione, e mandava esemplari a naturalisti interessati al loro studio.45 Fortis partì dalla grotta di Vilenica «con intenzione di ritornarvi»,46 osser- vando: «Dell’altre ch’io ho veduto nessuna è paragonabile. Un bravo pittore po- trebbe cavarne due o tre vedute sorprendenti; ed io mi morsi le dita per non avervi condotto il mio».47 I due viaggiatori si diressero in seguito verso Razdrto o Re- sderta (Prewald) e Postumia (Adelsberg/Postojna), dove non poterono visitare la grotta, come spiega l’autore: «Noi ci proponevamo di visitarla, ma le acque sot- terranee esorbitantemente ingrossate nol ci permissero».48 Si fermarono, invece, a Planina, «picciolo paese situato appiè di colline che fanno corona tutto d’in- torno ad una pianuretta; questa era allora inondata, e dalle informazioni prese sopra luogo rilevai che possiede precisamente i medesimi privilegi che il lago di Cxirknix».49 L’autore si sofferma, in seguito, sulle caratteristiche del lago inter- mittente di Cerknica e sull’«immensità de’ vani che si diramano sotto le radici de’ monti della Carniola».50 Dopo una riflessione sulla possibilità reale di un viaggio fluviale simile al mitico viaggio degli Argonauti dalle foci del Danubio alle sponde dell’Adriatico, conclude:

Comunque sia della verità di questo fatto, ravvolto nelle tenebre densissime d’un’antichità troppo rimota, i Carniolini più colti credono che gli Argonauti siano venuti [...] dal Danubio nel Savo, indi nel fiume di Lubiana [...] sino alle di lui sorgenti, che trovansi appunto fra essa città e le montagne, non lunge da Uber-Laybach [Vrhnika]. Dopo d’aver attraversato quel tratto di paese, veduto il fiume, ripensato anche un poco allo stato antico di que’ luo- ghi, io le confesso, che non mi trovo più tanto disposto a credere favoloso quel viaggio dagli antichi sì concordemente raccontatoci.51

|| home specimens of Proteus. By the custom of the time, though, these actions were not consi- dered so reprehensible. Writing names at certain points in the caves was normal and there is no mention of the guides objecting» (T. Shaw, Foreign Travellers in the Slovene Karst (1486–1900), cit., p. 28). 45 V. Valenčič, E. Faninger e N. Gspan-Prašelj, Zois plemeniti Edelstein, Žiga (1747–1819), cit. 46 A. Fortis, Lettera orittografica, cit., p. 260. 47 Ivi, p. 261. 48 Ivi, p. 262. 49 Ibid. 50 Ibid. 51 Ivi, pp. 259–260.

158 | Irena Prosenc

A Lubiana Fortis incontrò Hacquet, presso il quale avrebbe anche soggiornato, come suggerisce Žarko Muljačić.52 L’incontro viene riferito nella parte finale della Lettera orittografica, in cui Fortis menziona la Società agricola carniolina e am- mette di non aver affatto visitato la città perché troppo occupato in scambi intel- lettuali con l’amico naturalista:

A Lubiana io ebbi la consolazione di abbracciare il valoroso sig. Hacquet membro di molte celebri accademie, professore d’anatomia, e segretario di quell’operosa Società. Della città non ho portato meco nessuna idea, perché contento dell’istruttiva conversazione di lui, della compagnia de’ libri, e della collezione di miniere, ch’egli possiede, io non uscii quasi punto di casa prima del momento di rimontare nel calesse che colà mi aveva condotto.53

Pare significativo che lo stesso volume dei citati Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti contenga anche La lettera odeporica di Hacquet tradotta in italiano dallo stesso Fortis.54 Hacquet vi narra la sua navigazione sul fiume Sava da Lubiana fino a Zemun, alla confluenza della Sava con il Danubio, compiuta assieme a Ga- briel Gruber, ingegnere idraulico e, come lui, membro della Società agricola car- niolina. Il resoconto, che come precisa Hacquet, «contiene quanto io ho veduto e osservato nel mio ultimo viaggio delle vacanze»,55 è destinato a Ignaz von Born, esperto in mineralogia attivo a Praga e a Vienna, che della Lettera odeporica aveva pubblicato la versione tedesca (1776).56 Il testo è accompagnato dalla nota: «Questa lettera ci è stata comunicata dal sig. ab. Fortis tradotta sotto agli occhi dell’autore, che vi ha fatto di molte aggiunte».57 Secondo Muljačić, Fortis avrebbe

|| 52 Ž. Muljačić, Putovanja Alberta Fortisa po Hrvatskoj i Sloveniji, cit., p. 114, nota 28. 53 A. Fortis, Lettera orittografica, cit., p. 264. 54 Balthasar Hacquet, Lettera odeporica del Sig. Professore Hacquet al Sig. Cavaliere di Born, contenente i dettagli d’un viaggio fluviatile, fatto pell’Illirio Ungarese e Turchesco da Lubiana in Carniola fino a Semlin nel Sirmio, in «Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti». Tratti dagli atti delle accademie, e dalle altre collezioni filosofiche, e letterarie, dalle opere più recenti inglesi, tedesche, francesi, latine, e italiane, e da manoscritti originali e inediti, vol. 1, Milano, Giuseppe Marelli, 1778, pp. 5–27. 55 Ivi, p. 5. 56 Balthasar Hacquet, Schreiben an H. Ignaz v. Born über verschiedene auf einer Reise nach Sem- lin gesammelte Beobachtungen, in «Abhandlungen einer Privatgesellschaft in Böhmen, zur Auf- nahme der Mathematik, der vaterländischen Geschichte, und der Naturgeschichte», II, zum Druck befördert von Ignaz Edler von Born, Im Verlage der Gerlischen Buchhandlung, Prag, 1776, pp. 230–257. 57 B. Hacquet, Lettera odeporica, cit., p. 27.

Alberto Fortis e la Carniola settecentesca | 159 tradotto il testo proprio durante il suo soggiorno a Lubiana.58 Nella Lettera ode- porica Hacquet fa, inoltre, riferimento al Viaggio in Dalmazia.59 È documentato un altro incontro tra Fortis e Hacquet, avvenuto sulle Alpi svizzere nel settembre del 1781.60 Fortis stava accompagnando Tommaso Basse- gli, figlio di suoi amici ragusei, al quale qualche anno più tardi avrebbe destinato le Lettere geografico-fisiche sopra la Calabria e la Puglia, a Berna, dove il giovane avrebbe intrapreso gli studi. Nel tratto di strada fra il villaggio di Poschiavo e Coira, nel cantone dei Grigioni, i due attraversarono il passo di Crap Alv, dove incontrarono Hacquet, come racconta lo stesso Fortis in una lettera indirizzata alla sorella di Tommaso, Teresa Bassegli Gozze, il 18 settembre del 1781 da Coira:

Il più inaspettato incontro lo abbiamo fatto ieri, precisamente su la cima della montagna Crapalf. Noi ci trattenevamo fra le rovine di quell’angusto vallone, che la divide, facendovi sopra le opportune riflessioni, quando vidimo comparire un uomo che andava col martello alla mano rompendo scheggie dai massi di granito che ingombrano quel luogo. Egli era a piedi, con un cavalluccio dietro, е un villano. Ecco certamente un naturalista! io dissi al signor Tomo. Ed egli: Lo conoscete? ed io: dovrei conoscerlo probabilmente. Intanto era- vamo giunti a lui, cosicchè udì le mie parole, е rispose quasi senza guardarci in faccia: Cela n’est pas possible. Je suis un Français, qui habite en Carniole. – Tant mieux! esclamai io, scendendo da cavallo, е abbracciandolo strettamente... Egli era il professore Hacquet, di Lubiana, osservatore infaticabile, е mio grandissimo amico. Persuaso ch’io mi trovassi a Ragusa, egli durò fatica a riconoscermi ed io, credendolo a Lubiana, non l’avea ravvisato di lontano. I naturalisti, com’Ella vede, sono i cavalieri erranti dell’età nostra. Fattoci un po’ di festa reciprocamente in quel deserto luogo, come conveniva dopo cinque anni, che non c’eravamo veduti, proseguimmo la nostra via, egli verso il Tirolo, io verso gli Svizzeri; chi sa in qual grotta, in qual selva, in qual dirupo c’incontreremo un’altra volta!61

L’incontro è narrato anche da Hacquet nella sua Physikalisch-Politische Reise (1785):62

Als ich mich eben mit Machung frischer Brüche an den Felsen beschäftigte, kamen zwey Reisende mit Pferden, welche gleichfalls im Begriff waren, über dieses Gebirge zu setzen, um nach Zürich zu gehen; sie hielten einige Augenblicke an, mit Unterredung unter sich.

|| 58 Ž. Muljačić, Putovanje Alberta Fortisa u Ljubljanu, cit., p. 104. 59 B. Hacquet, Lettera odeporica, cit., pp. 13 e 25. 60 Ž. Muljačić, Putovanje Alberta Fortisa u Ljubljanu, cit., pp. 101–102. 61 La lettera è riprodotta in: Žarko Muljačić, Iz korespondencije Alberta Fortisa [‘Dal carteggio di Alberto Fortis’], in «Građa za povijest književnosti Hrvatske», XXIII (1952), pp. 69–140, pp. 105–107. 62 Physikalisch-Politische Reise aus den Dinarischen durch die Julischen, Carnischen, Rhätischen in die Norischen Alpen, im Jahre 1781. und 1783 unternommen von Hacquet, Zweyter Theil, Leipzig, verlegts Adam Friedrich Böhme, 1785, pp. 74–77.

160 | Irena Prosenc

Da ich hier in dieser Einöde mit meinem Führer allein war, so konnte ich nicht wissen, was sie für Absichten hatten. Endlich gieng einer auf mich los mit der Anrede: Ihr müsset ein Steinkenner seyn, und fragte mich, aus wessen Lande ich sey; als ich ihm nun solches nannte, so versicherte er mich, daß er mich kenne, und um dieses Geständniß zu bekräfti- gen, nannte er mich beym Namen, umarmte mich, und machte mir zugleich den Vorwurf, daß ich ihn, da er doch mir vor einigen Jahren in meiner Behausung zu Lublana einen Be- such abgestattet habe, und schon so lang mit ihm Briefe wechsle, nicht mehr kenne. Darauf besann ich mich einen Augenblick, und errieth, daß es Herr Abaté [sic] Fortis sey, den ich zwar nie hier erwartet hätte. Man kann sich leicht vorstellen, wie überraschend dieser Au- genblick für uns beyde war, da wir uns so von ungefehr begegneten; aber noch größer war das Vergnügen, daß wir eben an diesem Orte zusammentrafen, der unsere verschiedene Meynungen, in Betref des Kalkgebirges, worüber wir lange Zeit in Briefen stritten, entschei- den konnte.63

Come si desume dal brano, per Hacquet l’incontro è importante soprattutto in quanto occasione di chiarimenti intorno a questioni geologiche su cui i due stu- diosi avevano dissentito ed è a queste che lo studioso francese dedica il resto del suo resoconto. L’episodio è rievocato anche nell’Elogio letterario di Amoretti sti- lato in memoria di Fortis (1809). Amoretti data, erroneamente, l’incontro tra Hac- quet e Fortis come antecedente al viaggio di quest’ultimo in Carniola. In merito al soggiorno carniolino Amoretti si basa evidentemente sulle osservazioni espo- ste dallo studioso padovano nella Lettera orittografica:

Incontratosi sul monte Adula col ch. minerologo Hacquet, seco una parte di quella gran catena percorse; e rividdelo poi ne’ monti dell’Illirio, nel qual viaggio non solo osservò l’in- dole delle terre e de’ sassi e i corpi marini che ne fanno parte; ma, erudito geologo, dallo stato attuale de’ fiumi, de’ laghi, delle valli, e delle caverne, e sopra tutto delle acque in gran copia sottocorrenti, argomentò la possibilità del viaggio degli Argonauti dall’Eusino all’Adriatico.64

Gli interessi scientifici, i viaggi esplorativi, le collezioni naturalistiche, le biblio- teche personali e la fitta rete di scambi instaurata da Fortis e dagli intellettuali attivi nella Carniola settecentesca sono caratteristici dell’età dei Lumi. I docu- menti che comprovano l’esistenza di incontri personali tra Hacquet e Fortis di- mostrano che i contatti fra i due ‘cavalieri erranti’ della curiosità e della cono- scenza scientifica erano strettamente legati alle loro esplorazioni e ai loro interessi naturalistici. Espressione di questi è anche la presenza di libri odeporici,

|| 63 Ivi, pp. 74–75. 64 Carlo Amoretti, Elogio letterario del sig. Alberto Fortis, in Memorie di matematica e di fisica della Società italiana delle scienze, tomo XIV, parte I, Verona, Gambaretti e Compagno, 1809, pp. XVII–XXXVI, p. XXVI.

Alberto Fortis e la Carniola settecentesca | 161 naturalistici e mineralogici di Fortis in due biblioteche carnioline: la ricca biblio- teca del barone Zois, il promotore dello sviluppo culturale, letterario, linguistico e scientifico del suo tempo in Slovenia, e la biblioteca della Società agricola car- niolina, della quale sia Zois che Hacquet furono membri. I contatti personali, i resoconti scritti e la presenza, in Carniola, di libri di Fortis che si sono conservati fino ad oggi, sono indizi della circolazione delle idee tra la Carniola settecentesca e la contemporanea cultura illuministica italiana.

Mirza Mejdanija La finis Austriae e gli ultimi racconti sveviani

Riassunto: Il 1914 è il mitico anno della finis Austriae ed è la data dell’inizio della catastrofe con cui si arriva all’ultima fase della decomposizione dell’Impero, so- lida base di un certo assetto borghese che comincia a vivere la situazione della crisi generale. Questa crisi è evidentemente anche il prodotto dei grandi processi di trasformazione della società borghese. Nel primo dopoguerra Svevo scrive il suo terzo romanzo che esce nel 1923 presso l’editore Cappelli. La coscienza di Zeno è ormai uno dei romanzi più importanti della letteratura italiana, anzi euro- pea. Ma, proprio perché teso a denunciare l’indecifrabilità del reale, non può ri- spondere ai quesiti che solleva. Saranno invece i racconti successivi, redatti tra il 1923 e il 1928, a prendere le mosse proprio dai problemi irrisolti del terzo romanzo e a costruire il successivo passo in avanti della ricerca letteraria di Svevo. Ovvia- mente, questi dieci racconti rappresentano una fase intermedia tra il terzo e il ‘quarto’ romanzo, proponendo una diversa soluzione della crisi individuale. Quello che collega i 10 racconti sono l’impossibilità della pura teoria, l’inelutta- bilità degli eventi, la metafora del vedere e quella della memoria.

Finis Austriae and Svevo’s last short stories

Abstract: 1914 is the iconic year of finis Austriae and the beginning of the cata- strophe, leading to the last phase of the disintegration of the Habsburg Empire which had provided a solid basis for a certain bourgeois order but was doomed to be hit by the general, widespread crisis. Needless to say, this crisis was also the result of major processes of transformation of the bourgeois society. In the first post-war period Svevo wrote his third novel La coscienza di Zeno. Published in 1923 with Cappelli publishers, it is now considered one of the most important no- vels in Italian, even European, literary history. However, precisely because it aims to denounce the indecipherability of reality, it cannot answer the questions it raises. Instead, Svevo’s later short stories, written between 1923 and 1928, de- part from the unresolved problems of the third novel and allow Svevo to make a step forward in his literary research. These ten short stories represent an interme- diate phase between the third and ‘fourth’ novel, proposing a different solution

Open Access. © 2020 Mirza Mejdanija, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-012

164 | Mirza Mejdanija to the individual crisis. Common themes in the ten short stories are the impossi- bility of pure theory, the ineluctability of events, the metaphor of seeing and that of memory.

Introduzione

Svevo è l’interprete del periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, epoca di passaggio in cui l’uomo e l’identità maschile entrano in crisi in seguito ai grandi processi di trasformazione della società borghese, fondata non più sul liberismo economico ma sul monopolio e caratterizzata dai problemi tipici di una società ormai di massa. Il declassamento dei ceti medi tradizionali, il ruolo dell’intellet- tuale che cambia per rispondere alle esigenze di una società molto più complessa e l’impossibilità di controllare una dinamica che investe in maniera occulta tutti i settori della vita pubblica e privata, fanno sì che l’individuo si senta insignifi- cante all’interno di un nuovo ceto medio ridotto a massa anonima e amorfa. Alla fine dell’Ottocento l’Impero asburgico è travolto da una crisi che interessa diversi aspetti dell’assetto borghese, mentre l’inizio della Grande guerra sconvolge l’equilibrio politico europeo anche da un punto di vista di classe. Il 1914 è il mitico anno della finis Austriae e segna l’inizio della catastrofe che porta alla dissolu- zione dell’Impero. Nel primo dopoguerra Svevo scrive il suo terzo romanzo, pubblicato dall’edi- tore Cappelli nel 1923, La coscienza di Zeno, uno dei più importanti della lettera- tura italiana, anzi europea, che, proprio perché intento a denunciare l’indecifra- bilità del reale, non può rispondere ai quesiti che solleva. Saranno invece i racconti successivi, redatti tra il 1923 e il 1928, a prendere vita proprio dai pro- blemi irrisolti del terzo romanzo e a far avanzare la ricerca letteraria di Svevo. Questi dieci racconti rappresentano una fase intermedia tra il terzo e il cosiddetto quarto romanzo, e propongono una diversa soluzione della crisi dell’individuo.

La stagione dei racconti

Tra il 1923 e 1928 Svevo è impegnato in quella che Tortora chiama «la grande sta- gione novellistica»,1 componendo, per esempio, Corto viaggio sentimentale, Una

|| 1 Massimiliano Tortora, Svevo novelliere, Pisa, Giardini, 2003, p. 76.

La finis Austriae e gli ultimi racconti sveviani | 165 burla riuscita e La novella del buon vecchio e della bella fanciulla. Dopo la pubbli- cazione del suo terzo romanzo, Svevo scrive dieci racconti in cinque anni, una produttività di gran lunga superiore rispetto a quella dei precedenti trentacinque anni di attività letteraria; e sono inoltre racconti molto più lunghi dei precedenti. Numerosi critici hanno applicato la categoria del ‘non finito’ all’ultima produ- zione sveviana, diversamente da Tortora, secondo il quale

lo stato filologico dei racconti dunque non autorizza a indicare il ‘non finito’ come tratto preponderante della narrativa sveviana dal ’23 in poi; le ragioni per cui tale interpretazione si è attestata vanno piuttosto cercate in quell’erroneo atteggiamento critico, troppo a lungo perpetrato, teso ad accorpare tutta la produzione narrativa susseguente La coscienza, de- bole nel differenziare la stagione dei racconti da quella del quarto romanzo, restio a ricono- scere autonomia poetica alla novellistica sveviana. L’aver ritrovato tra le carte di Svevo un elevato numero di brani riconducibili a Il vegliardo, collocabili solo con estrema difficoltà in un discorso unitario, ha indotto molti studiosi a ritenere frammentario quasi tutto il ma- teriale narrativo degli anni Venti. Ma nel momento in cui le pagine dei racconti vengono separate con la giusta fermezza da quelle del quarto romanzo, cessando di essere o schegge di un’enigmatica ‘costellazione Zeno’, o transitorie tappe di avvicinamento ad un progetto letterario successivo, non si può non constatare che i lavori novellistici compiuti sono di- versi e senz’altro più numerosi da quelli ultimati dal più giovane Italo Svevo.2

In questo periodo, dunque, l’impegno di Svevo non è rivolto solo al teatro ma anche al racconto. Riesce a completare Proditoriamente, Una burla riuscita, Vino generoso, La madre, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, Argo e il suo padrone, La morte, Orazio Cima e L’avvenire dei ricordi, mentre lascia incom- piuto, nonostante due revisioni, Corto viaggio sentimentale. Oltre a dedicarsi a questo ciclo di racconti si immerge in un’intensa attività editoriale, cui accompa- gna la promozione della Coscienza presso gli amici francesi (Larbaud, Crémieux e sua moglie Marie Anne Comnène) e italiani (Somarè, Montale e i solariani). In quest’ultima produzione ritornano immagini della precedente, come pure commenti del narratore o di un personaggio:

Così ad esempio si nota che l’episodio biblico di Re David, a cui fu offerta in dono una gio- vane sunammita per aver salva la vita, è sfruttato per la prima volta in Corto viaggio senti- mentale (1925–26), e poi ripreso ne La rigenerazione (1927) e ne La novella del buon vecchio (1927); la predilezione del signor Aghios per le mance contenute, consistenti in piccole somme, prelude a quell’abitudine degli anziani di concedere i soldi a rate, denunciata ne La novella; e si potrebbe citare ancora l’operazione di ringiovanimento, menzionata in Corto viaggio, ne Il vegliardo, e nucleo tematico e strutturale ne La rigenerazione; il complicato rapporto cane-catena, esemplificativa metafora della libertà umana, presente, limitandosi

|| 2 Ivi, p. 15.

166 | Mirza Mejdanija

alle opere di sicura datazione, in Vino generoso (1926–27) e in Corto viaggio sentimentale; e infine, per ricordare una delle pagine più celebri della narrativa sveviana, la sorpresa pro- vata dal protagonista della Novella nel sentirsi dare del ‘vecchio’ dalla giovane amante non è dissimile da quella di Zeno di fronte alle parole di Felicita.3

Dal 1923 in poi Svevo è solito infatti utilizzare gli stessi frammenti narrativi, cam- biati solo in minima parte, in testi cronologicamente vicini. Dopo aver verificato la successione delle stesure dattiloscritte, Tortora mo- stra che i racconti sveviani, di ciascuno dei quali bisogna analizzare i temi trat- tati, possono essere datati solo in parte. Si può attribuire una data precisa a Pro- ditoriamente (1923), La madre (1923–1924 e poi 1926), L’avvenire dei ricordi (1925), Una burla riuscita (1925–1926), Corto viaggio sentimentale (1925–1926), Argo e il suo padrone (1909–1915 e poi 1926), Vino generoso (1926–1927) e La novella del buon vecchio e della bella fanciulla (1927–1928). Sebbene non sia possibile indi- carne l’esatto anno di composizione, risalgono al quinquennio 1923–1928 Orazio Cima e La morte. Il primo sembra risalire al 1927, mentre l’altro dovrebbe essere stato steso tra il 1925 e il 1928. Il filo rosso che lega i dieci racconti è costituito da alcuni temi ricorrenti, quali l’impossibilità della ‘pura teoria’ e l’ineluttabilità de- gli eventi, nonché dalla metafora del vedere e da quella della memoria.

L’impossibilità della ‘pura teoria’

I racconti di questo quinquennio proseguono l’indagine epistemologica iniziata con La coscienza di Zeno e rivelano in modo sempre più esplicito l’impossibilità della ‘pura teoria’, cioè di teorizzare leggi universali e di presentare un sistema di comprensione definitivo. La molteplicità del reale spinge Svevo ad accentuare lo sforzo interpretativo richiesto ai suoi personaggi, ritenendo che se non è possibile definire l’ordine del mondo bisogna almeno provarci. L’unico approccio teorico possibile è indagare la realtà a posteriori, tentare di comprenderla; ogni tentativo di interpretare il mondo è accompagnato dalla consapevolezza che esso è preca- rio e provvisorio. L’impossibilità della ‘pura teoria’ diviene più concreta nel rac- conto La madre, dove Curra, il pulcino protagonista, alla ricerca della madre ine- sistente, sogna l’amore, l’armonia e la completezza, ma riceve soltanto batoste. È un fallimento dal risvolto amaro: la nemica, cioè la presunta madre, si rivela es-

|| 3 Ivi, pp. 43–44.

La finis Austriae e gli ultimi racconti sveviani | 167 sere solo la chioccia del vicino pollaio. Curra è triste perché non riesce a compren- dere il reale e non per la consapevolezza di non poter ritrovare la madre immagi- naria. L’abisso che divide la teoria dalla realtà caratterizza anche La morte, in cui la medicina viene considerata incapace di capire fino in fondo il corpo umano:

Che cosa sapevano i medici? La malattia? Forse. Non l’organismo però, l’organismo di ogni singolo. E ricordò certi insegnamenti di Roberto. Gli uomini avevano tutti gli stessi organi e con quegli stessi organi componevano ognuno di essi un organismo originalissimo che mai prima era esistito.4

L’impossibilità della pura teoria è presente anche nel racconto Argo e il suo pa- drone. Un giorno un padrone legge sul giornale di quanto è accaduto in Germa- nia, di un cane che ha cominciato a parlare la lingua umana, e così decide di in- segnare l’italiano al suo cane Argo. All’inizio il cane è del tutto confuso e sconcertato, non capisce cosa voglia da lui il padrone. Ma poi è proprio Argo che inizia a raccontare tutto e a introdurre il lettore nel mondo dei cani. La visione del reale che propone l’eccentrico cane, nel contempo protagonista e narratore del racconto, è incentrata sull’io, è un punto di vista individuale e non ha come obiet- tivo la descrizione del mondo, che avrebbe invece un valore universale. Argo preferisce dare delle chiavi di lettura dell’ambiente in cui si muove. Il fatto che le sue argomentazioni non valgano per qualsiasi situazione non gli im- porta. Le sue teorie sono limitate e precarie. Tutte le tesi di Argo partono dalla sua visione del mondo, in base alla quale è spinto a ricercare il piacere e a vivere se- renamente, e a non preoccuparsi di comprendere tutti i fenomeni del mondo ma soltanto quelli che lo riguardano. Argo non sente il bisogno di rimediare all’abisso tra teoria e realtà, non lo percepisce come una malattia da cui guarire. Anzi, grazie proprio ai limiti e ai divieti posti dalla natura e dal padrone, riesce a orientarsi in un mondo troppo vasto. La vita di Argo è veramente ‘originale’ e la sua logica non arriva a spiegare buona parte degli eventi; quello del cane è perciò un approccio singolare e funzionale al magma e al caos del reale. In Corto viaggio sentimentale Aghios, mentre cerca uno zolfanello, trova in tasca la busta con dentro le trentamila lire destinate a un pagamento da effettuare una volta giunto a destinazione. Il signore seduto di fronte a lui, vedendolo im- pegnato in una ricerca che sembra vana, racconta che sa sempre tutto quello che ha nelle tasche. Anche Aghios vorrebbe sapere sempre tutto quello che ha nelle tasche, le descrive come un armadio ambulante e dice di volerci mettere un regi- stro che ne riporti la pianta e il contenuto. Il registro contenente la pianta delle

|| 4 Italo Svevo, I racconti, Milano, Garzanti, 1985, p. 283.

168 | Mirza Mejdanija tasche è una delle tante metafore della ‘pura teoria’ e la prova di come il tentativo di dare ordine al reale sia destinato a fallire, poiché anche la pianta pensata per ritrovare facilmente gli oggetti si trova essa stessa nelle tasche. Non c’è via di scampo, l’onniscienza è fallace, la pretesa di conoscere tutto è illusoria. Ogni de- scrizione del reale non può che essere precaria e parziale. Il vecchio capisce che non è possibile definire l’ordine del mondo, prova quindi a dare un ordine al pro- prio vissuto, nonostante non venga fornita alcuna gerarchia definitiva degli og- getti e dei concetti. Non esistono regole rassicuranti, gli individui sono sempre costretti a ricorrere alle proprie interpretazioni per costruire un’unità che vor- rebbe avere una legittimità universale ma che è invece condannata al livello del particolare:

Lo sforzo di catalogare è davvero inutile, se il pensiero che si sforza di risolvere in unità le contraddizioni del reale è destinato ad arrendersi e a constatare la sua avvenuta frantuma- zione. […] È l’elogio del pensiero che sguscia, al punto di vanificare la ricerca sistematica del buon vecchio: l’ordine del logos appare inadeguato, la vita è nuda, un processo infiam- matorio che a un dato momento ha fatto suppurare la materia morta, per poi tornare a cri- stallizzarsi, ridiventando frammento inorganico, inanimato e, per questo, puro, come la scrittura. […] Non ci può essere allora gerarchia nella vita.5

Anche l’aneddoto del piccolo Pucci tremante per la paura di essere preso per un ladro rende chiara l’inattuabilità della pura teoria e mostra come un evento im- prevedibile smentisca anche le certezze più fondate e rimetta in discussione ogni sistema faticosamente elaborato:

Poi raccontò che pochi giorni prima era con Pucci a passeggio e videro due carabinieri col loro mantello un po’ minaccioso sotto a quel cappello napoleonico. E il bimbo spaventato domandò se quei carabinieri sapevano ch’essi non erano dei ladri. – Si può essere più scioc- chi di così? – esclamò il Borlini.

Subito l’Aghios prese interesse al chiacchierio vuoto del suo compagno. Come si sentiva amico del piccolo Pucci dal cuore palpitante di paura d’essere preso per un ladro o forse di esserlo! Il ladro poteva essere preso in flagrante, ma non c’era una prova così risolutiva per il non ladro. Era come la prova Wassermann. La ne- gativa non era mai sicura. Il microbo del furto poteva esserci nel sangue, ma aspettare una buona occasione per dar segno di vita.6 Anche nel racconto La novella del buon vecchio e della bella fanciulla la ‘teo- ria’ del vecchio non trova sviluppo. All’inizio il vecchio appare pieno di idee e

|| 5 Cristina Benussi, La forma delle forme, Trieste, EUT, 2007, p. 209. 6 I. Svevo, I racconti, cit., p. 358.

La finis Austriae e gli ultimi racconti sveviani | 169 risoluto a scrivere il saggio, ma a un certo punto si blocca poiché incapace di ri- solvere un problema che si era posto. Scrive prefazione e primo capitolo veloce- mente, senza incontrare ostacoli e terminandoli in poco tempo. Nel capitolo de- cimo affiora la polemica sveviana nei confronti della pura teoria poiché il vecchio si rende conto dell’impossibilità di salvare il mondo dalla sua contingenza. Dun- que la ‘teoria’ del vecchio non trova sviluppo, non per incapacità dell’autore ma per l’implicito fallimento che la stessa teoria comporta, poiché non si può descri- vere scientificamente il mondo essendo questo un caos irrazionale. Il racconto termina con la morte del vecchio e il messaggio sotteso è che niente può essere detto a priori e in modo definitivo.

L’ineluttabilità degli eventi

In questi racconti è presente la riflessione sull’ineluttabilità degli eventi, che il più delle volte accadono indipendentemente dal volere dei personaggi. La vita è vittima della casualità che sfugge al controllo dell’individuo. Proprio questo è il motivo per cui non è possibile elaborare teorie atte a spiegare il caos del mondo, ‘teoria’ e ‘realtà’ non coincidono mai e l’individuo non riesce a costituirsi nella sua interezza una volta per tutte. L’ineluttabilità degli eventi è il tema centrale di Proditoriamente: Maier fallisce a causa dell’imprudente accordo commerciale stretto con il pericoloso imbroglione Barabich, per cui Maier decide di chiedere un aiuto economico all’amico Reveni, un prestito con cui riavviare la sua attività e rimediare all’errore commesso:

Tanti anni di onesta attività fortunata venivano annullati da un istante di spensieratezza! Non era ammissibile questo. Per allargare il proprio campo d’attività, il vecchio commer- ciante s’era lasciato indurre di firmare un contratto che lo metteva nelle mani di altre per- sone e queste persone dopo di aver sfruttato tutto il credito che da quella firma derivava loro erano addirittura scappate da Trieste non lasciando dietro di loro che pochi mobili di nessun valore. Il Maier aveva deciso di far fronte a tutti quegli impegni come il suo onore esigeva. Ma adesso gli pareva ingiusto di dover sottostare a quegl’impegni non suoi. Se il Reveni, notoriamente un buon uomo, accettava di addossarsene almeno temporaneamente una parte il suo destino si mitigava. Il Maier non ricordava di aver rifiutate delle proposte simili. Ricordava (e con grande chiarezza) di aver firmato quel contratto anche quello (così gli sembrava) una prova di fiducia nell’umanità, non ricordando che la prima idea di con- trarlo era venuta dal desiderio di aumentare i suoi benefici.7

|| 7 Ivi, pp. 291–292.

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Il fallimento finanziario divide la vita di Maier in due fasi distinte: quello che è successo prima dell’accordo con Barabich e quello che ne è conseguito. Un aiuto finanziario da parte di Reveni avrebbe potuto riportare Maier alla situazione an- tecedente al fallimento, tuttavia il disastro è avvenuto ancor prima dell’inizio del racconto e i due amici discutono su quanto è accaduto. Maier è quello che ha su- bito ‘l’originalità della vita’ ed è consapevole della sua precarietà, mentre Reveni è convinto del contrario. Reveni fa capire all’amico di essere a conoscenza del raggiro di cui è stato vittima, e in qualche modo lo rimprovera per essere stato così imprudente. Allora si finge malato, la moglie gli sta accanto tutto il tempo e lo aiuta a declinare la richiesta giunta dall’amico, mentre Maier cerca di convin- cerlo che la vita è imprevedibile e che quello che è successo a lui sarebbe potuto capitare a chiunque. La vita è cinica e imprevedibile, tanto che mentre parlano Reveni è colpito da un improvviso e inatteso attacco cardiaco che gli spezza la vita spazzando via ogni certezza; Reveni muore e Maier vede svanire l’unica speranza di ricevere il necessario aiuto economico:

Egli uscì a passo di corsa. Non per far presto perché il Reveni non poteva oramai essere aiutato da nessuno ma per poter allontanarsi da quel cadavere. E sulla via si ripeté la domanda: – Sta meglio lui od io? – Come era pacifico steso su quel sofà! Strano! Non si vantava più del proprio successo ingrandito dagli errori del Maier. Era rientrato nella generalità e da lì guardava inerte con quel bulbo protundente privo di gioia o di dolore. Il mondo continuava ma quell’avventura ne dimostrava l’intera nullità. L’av- ventura toccata al Reveni toglieva ogni importanza a quella toccata a lui.8

L’irreversibilità di quanto accaduto e i mutamenti di prospettiva che avvengono in determinati momenti testimoniano che la vita è imprevedibile, anzi, «“origi- nale” se, come era accaduto per Zeno e Guido, l’inetto e il vincitore si scambiano i ruoli».9 Anche Una burla riuscita offre una singolare rappresentazione narrativa dell’imprevedibilità degli eventi che vanifica ogni teorizzazione a priori. Il prota- gonista subisce un inganno che non gli permetterà più di ritornare allo stato in cui viveva prima. Ancora più dell’orribile burla, il guadagno incassato inaspetta- tamente mostra l’immediato primo dopoguerra come una significativa allegoria dell’ineluttabilità degli eventi, conseguenza dell’incertezza sociale ed economica di quel periodo:

|| 8 Ivi, p. 301. 9 C. Benussi, La forma delle forme, cit., p. 176.

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Strana vita quella dell’uomo, e misteriosa: con l’affare fatto da Mario quasi inconsapevol- mente, s’iniziavano le sorprese del periodo postbellico. I valori si spostavano senza norma e tanti altri innocenti come Mario ebbero il premio della loro innocenza, o per tanta inno- cenza, furono distrutti; cose che s’erano viste sempre, ma parevano nuove perché si avve- ravano in tali proporzioni da apparire quasi la regola della vita.10

La metafora del vedere e la metafora della memoria

In questi racconti l’uomo vuole interpretare il mondo, caotico, magmatico e im- penetrabile, e, per dirla con Tortora, si serve di due metafore: quella del vedere e quella della memoria. L’occhio e la capacità di osservazione sono i tratti che qua- lificano i personaggi di Malocchio e de La coscienza di Zeno, e nelle novelle suc- cessive al romanzo sono uno dei temi centrali della narrazione. La capacità di vedere e percepire la realtà diventa determinante poiché consente di conoscere, comprendere e interpretare meglio il reale, garantisce una visione più ampia del mondo, un punto di vista strategico e un’attenta osservazione. È appunto nelle novelle che si presenta maggiormente l’opposizione vedere/non vedere o vi- sione/cecità tesa a caratterizzare il personaggio e a preparare il fallimento cui va incontro il ‘cieco’ protagonista. Ricordare è un modo per vedere il passato e la ricostruzione degli eventi pas- sati è sempre incompleta e transitoria, dato che dipende da come chi indaga è collocato nel tempo e nello spazio. Il passato ha un aspetto mutevole perché la persona che lo indaga non trova un’evoluzione lineare degli eventi ma solo sparsi frammenti che deve comporre in unità. La prospettiva del passato è condizionata in questo modo dal punto di vista soggettivo. La memoria si avvale della cono- scenza e dell’interpretazione, è uno sguardo rivolto al passato che diviene una verità sottoposta a modifiche e aggiunte, ed è quindi una verità relativa:

Quello della modalità attraverso cui si fissa la memoria è uno dei temi più indagati negli anni che accompagnano la Coscienza, dove le immagini del passato, che Zeno sa di avere inventate, ma che non per questo sono false, ritornano, seppur non ad illuminare il pre- sente.11

|| 10 I. Svevo, I racconti, cit., pp. 269–270. 11 C. Benussi, La forma delle forme, cit., p. 177.

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Dopo aver raccontato le paure e i dubbi di Maier relativi alla possibilità di ricevere un prestito da Reveni, il narratore commenta:

Vedeva appena allora, sembrava, ma non vedeva tutto, perché se tutto avesse visto avrebbe pur dovuto dire che lei o suo marito erano pronti a soccorrere o non volevano saperne. Intervenne Reveni. Parve avesse inteso che la storia dovesse essere considerata proprio da un solo punto di vista, quello del povero suo amico. Stendendosi con un certo disagio sulla sua poltrona guardò in alto e brontolò: - Un brutto affare, un gran brutto affare! Sospirò e soggiunse guardando finalmente in faccia il Maier: - T’è toccata un’avventura ben brutta! – Questo poi significava veramente che l’avventura era tanto brutta che nessuno ci pensava ad intervenire per renderla più sopportabile. Dunque niente soccorso e il Maier poteva eso- nerarsi dall’umiliarsi per domandarlo.12

Anche in Argo e il suo padrone è presente la metafora del vedere, solo che in que- sto caso la capacità di vedere è relativa a un cane:

Il mio cane di caccia, Argo, mi guardava con curiosità e un po’ d’ansietà temendo che la mia irrequietezza non prendesse un’altra direzione. Anche lui sapeva riposare. Era acco- vacciato sul soffice tappeto sul quale poggiava anche il mento piatto, e l’unica parte irre- quieta del suo corpo era l’occhio.13

In Una burla riuscita Mario è vittima della burla rozzamente congegnata da Gaia e ciò accade solo perché continua a ‘non vedere’ per quasi tutto lo svolgimento del racconto. La sua ‘cecità’ consiste nell’incapacità di collegare concretamente tutti gli elementi percepiti:

Si può dire che Mario non era un cattivo osservatore, ma che era, purtroppo, un osservatore letterario, di quelli che possono essere truffati col minimo sforzo, perché sanno fare l’osser- vazione esatta per deformarla subito a forza di concetti. Ora i concetti non mancano mai a chi ha un po’ di esperienza di questa vita, dove le stesse linee e gli stessi colori si adattano alle più varie cose, che solo il letterato ricorda tutte.14

Nei racconti sveviani l’osservazione non è mai una mera percezione ma è sempre accompagnata dall’atto interpretativo. La verità non è lo svelamento dell’ignoto, ma piuttosto la costruzione di un senso, è il risultato che si ottiene passando at- traverso la conoscenza e l’interpretazione. Solo grazie al mix equilibrato di questi due ingredienti si arriva alla vera percezione, altrimenti questa rimane inevita- bilmente preclusa.

|| 12 I. Svevo, I racconti, cit., p. 295. 13 Ivi, p. 122. 14 Ivi, pp. 239–240.

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Questo è proprio il dramma che si svolge nel racconto Una burla riuscita, dove il protagonista sogna continuamente il successo letterario e questo finisce per ‘accecarlo’ e indurlo a vedere gli eventi in modo deformato. Il povero Samigli ha visto ogni elemento della burla ma in ognuno di questi vuole trovare la conferma della vera esistenza del contratto editoriale. Solo quando il fratello lo mette in guardia comincia ad osservare gli eventi da una prospettiva diversa e i reali pro- positi di Gaia appaiono in tutta la loro evidenza. Il suo ritorno alla ‘vista’ non si concretizza nella percezione di elementi prima ignorati ma solo in un diverso or- dinamento dei fatti:

I due fratelli stavano cenando insieme e fu sorprendente come dopo i primi bocconi presi con tutta calma, Mario ad un tratto, da solo, senza che nessuno gli avesse detto un’altra parola, si sentisse addirittura mancare scoprendo intera la burla. La scopriva con enorme sorpresa, e nello stesso tempo si sorprendeva di aver dovuto attendere una vaga parola d’avvertimento per saperla tutta. Aveva chiuso gli occhi apposta per non vedere e non in- tendere? Da bel principio egli aveva indovinato l’intima natura dei due messeri coi quali aveva avuto da fare e li avrebbe potuti smascherare subito quando in sua presenza i due svergognati s’erano abbandonati al riso. Perché non aveva pensato, perché non guardato? Ricordò ancora: sul naso affilato del tedesco gli occhiali avevano tremato per il riso tratte- nuto; un’oscillazione simile a quella di un motore su una vettura. Mario ebbe allora il pen- siero tanto pronto e acuto che scoperse qualche cosa che dai suoi occhi era stato chiara- mente percepito ma non ancora comunicato al suo cervello: quel pezzettino di carta tratto dal portafogli del tedesco, e che doveva scusare il riso cui i due compari s’erano abbando- nati, era coperto di uno stampatello gotico. Gotico, tutto rette ed angoli. Ne era sicuro, come se lo vedesse allora. Perciò non poteva provenire da un postribolo di Trieste. Mentitori! E mentitori che gli avevano denotato il loro disprezzo non curandosi neppure d’essere ac- corti.15

Dunque Samigli aveva visto tutto ma viene a conoscenza della verità solo dopo aver messo da parte il sogno letterario e assunto un punto di vista più distaccato. L’ultimo dubbio si risolve quando Gaia, pestato a dovere da Samigli, confessa tutto:

Così, quando Mario incontra Gaia, lo prende a schiaffi e a calci, sicuro che le «vittorie dello spirito non v’ha dubbio, sono molto importanti, ma una vittoria dei muscoli è salutare as- sai». […] La memoria va a quel suo primo racconto Una lotta, in cui lo sportman vinceva sul poeta, incapace di cogliere i segnali della sconfitta, tronfio com’era della presunta superio- rità della poesia su ogni cosa.16

|| 15 Ivi, pp. 259–260. 16 C. Benussi, La forma delle forme, cit., p. 223.

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La metafora del vedere, presente in numerose novelle, è il fulcro della riflessione sveviana sulla capacità del soggetto di conoscere, interpretare e dunque com- prendere la realtà. È appunto l’immagine narrativa che illustra nel modo migliore come ogni teorizzazione, benché basata su dati oggettivi, sia relativa e parziale. L’osservazione presuppone infatti un punto di vista che è quello del soggetto ca- lato nella stessa realtà contingente di cui intende offrire la spiegazione ultima e definitiva. Qualsiasi desiderio di superiorità, di guardare il mondo intero oggetti- vamente dal difuori, di vedere tutto chiaramente separato, non può che rivelarsi un’illusione, ingannevole e dannosa. Guardare soggettivamente la realtà diventa l’unica via percorribile dall’io sveviano nell’opera Corto viaggio sentimentale e la bambina che comincia a pian- gere perché dal finestrino non riesce a vedere il treno né se stessa mentre viaggia è la prova che bisogna guardare il mondo dal di dentro. Non è possibile cogliere il reale nella sua interezza e il soggetto nell’atto stesso di guardare. Per questo la verità derivante da ogni teoria è una verità parziale, limitata e lacunosa. Il modo in cui Orazio in Orazio Cima vede il reale dipende soprattutto dall’io, unico punto di riferimento: egli non cerca di descrivere il mondo né di determi- nare un valore universale, preferisce invece elaborare i valori dell’ambiente in cui si muove. Certo, le sue tesi non corrispondono al mondo che lo circonda, ma non se ne cura. Le sue teorie sono il frutto della sua visione del mondo. Orazio si im- pegna a vivere serenamente senza preoccuparsi di comprendere tutti i fenomeni del mondo che lo circonda perché gli basta tentare di capire quelli che lo riguar- dano. L’avvenire dei ricordi è la storia di un vecchio che viaggia in Baviera e ricorda un analogo viaggio di tanti anni prima. Svevo vuole mostrare come il passato muti costantemente d’aspetto perché in certi momenti appaiono dettagli che dap- prima non erano stati colti o erano stati dimenticati ma che fanno parte della no- stra conoscenza. L’io che guarda indietro per ritrovare il proprio passato non se- gue uno sviluppo lineare delle vicende ma solo schegge e frammenti dispersi e instabili che deve comporre in un’unità. Improvvisamente il vecchio ricorda la bella moglie del direttore ma non riesce a capire se è l’immagine del primo giorno in cui l’ha vista oppure l’immagine rielaborata in seguito. La concezione del tempo trascorso è legata al punto di vista del soggetto, a sua volta condizionato dalla situazione contingente in cui si trova. È il presente che guida a costruire il passato, un passato che si presenta tutt’altro che statico, anzi fluido e dai confini incerti.

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Conclusione

Nei racconti dell’ultimo quinquennio la figura dell’autore non si pone mai come garante della verità ma rappresenta una voce tra le voci e in questo modo mostra l’impossibilità della ‘pura teoria’ e la necessaria compresenza di più teorie a po- steriori. Qualsiasi tentativo di catalogare e interpretare il mondo in modo univoco è vano, tanto che i racconti indagano solo particolari aspetti del reale e offrono interpretazioni parziali. Questi racconti continuano la riflessione nata nell’ultimo capitolo della Co- scienza di Zeno, in cui il rifiuto della psicoanalisi mostra la sconfitta della ‘pura teoria’ e rende illusorio qualsiasi tentativo di mettere a punto una definizione del mondo. I personaggi di questi racconti confermano l’insuccesso di ogni tentativo di redenzione da parte dell’individuo. Svevo incentra la sua attenzione sulle due cause che impediscono un sistema di comprensione universale: la ‘pura teoria’ è assolutamente fallimentare, vista l’impossibilità di assumere un punto di vista superiore, e gli eventi sono ineluttabili e imprevedibili. I racconti si differenziano dal terzo romanzo perché insieme alla rassegnazione per la frattura tra realtà e teoria c’è la fiducia di poter comunque esprimere certe idee e opinioni sul mondo. I dieci racconti presentano una particolare fase dell’indagine letteraria sve- viana, che inizia con l’ultimo capitolo della Coscienza di Zeno e offre gli strumenti necessari per la stesura de Il vegliardo. Questi non sono né il proseguimento del terzo romanzo né i materiali preparatori al quarto, poiché rappresentano una fase dell’indagine letteraria nettamente distinta dal terzo e quarto romanzo.

Renzo Rabboni Frontiere di culture, frontiere dell’aldilà

Aleksandr N. Veselovskij, la Commedia e la letteratura folclorica

Riassunto: L’intervento interpreta il tema della letteratura di frontiera considerandolo nell’accezione di scambio di nuclei narrativi tra culture, generi, registri diversi (dalla letteratura popolare a quella alta, dalle forme dell’oralità a quelle della scrittura), e restringendo l’attenzione, in particolare, al motivo delle ‘dogane’ o sfere celesti in racconti e poemetti popolari medievali (la bizantina Vita di Basilio il Giovane, fiabe, fabliaux, leggende del folclore francese, tedesco, slavo), visti in relazione con la distribuzione delle anime nella Commedia dantesca.

Borders of cultures, borders of the afterlife. Aleksandr N. Veselovsky, the Comedy and Folkloric Literature

Abstract: This paper deals with the topic of border literature viewing it as an exchange of ‘narrative cores’ between cultures, genres, different registers (from popular to high literature, from forms of orality to writing). Special attention will be paid, in particular, to the ‘dogane’ or heavenly spheres in medieval folk tales and poems (the Byzantine Life of Basil the Younger, fairy tales, fabliaux, legends of French, German, Slavic folklore), seen in connection with the distribution of souls in Dante’s Divine Comedy.

Vorrei sviluppare il tema della letteratura di frontiera considerandolo nell’accezione di scambio di nuclei narrativi tra culture e generi diversi, e restringendo l’attenzione, in particolare, al motivo delle «dogane aeree» o sfere celesti e del loro superamento in alcuni racconti e poemetti popolari medievali, visti in relazione con la distribuzione delle anime nella Commedia, vera summa del sapere letterario e filosofico dell’età di mezzo. Allo scopo mi varrò degli studi del grande folclorista russo Aleksandr N. Veselovskij, che a Dante e al suo poema

Open Access. © 2020 Renzo Rabboni, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-013

178 | Renzo Rabboni sacro si dedicò con una passione continuata nel tempo1 e, soprattutto, metodologicamente innovativa: in una prospettiva – si dirà – già formalista, nella quale la Commedia era posta in relazione organica con le visioni e i generi della letteratura folclorica (fabliaux, fiabe, leggende, povesti, ecc.), sondati con una larghezza impressionante per l’epoca – dall’Europa occidentale, nordica e mediterranea, a quella slava e bizantina, all’Oriente indiano –, in saggi fondamentali, ora finalmente tradotti anche in italiano.2 Dunque, in quello che è forse lo studio dantesco di maggior rilievo, Nereščennye, nerešitel’nye i bezrazličnye Dantovskogo ada (‘Sospesi, irresoluti e ignavi nell’inferno dantesco’, 1888),3 davvero magistrale per la ricchezza e l’originalità degli spunti, lo studioso si appuntava su una questione di grande rilevanza nel sistema morale dantesco e medievale. Il saggio è dedicato, infatti, all’interpretazione degli episodi della Commedia che riguardano la tipologia dei peccatori ambivalenti, quelli che in vita non furono del tutto colpevoli, ma nemmeno innocenti, perché oscillarono tra il richiamo del bene e quello del male, sì che alla morte non furono, di conseguenza, accolti né dall’inferno né dal cielo. Con riferimento al poema dantesco, si tratta, più esattamente, dei sospesi del Limbo e degli ignavi del terzo cerchio dell’Inferno. Lo scritto è emblematico del Veselovskij, si diceva, preformalista, che indagava i motivy della Commedia sullo sfondo delle visioni e delle leggende medievali, e con la precisa consapevolezza della personalità inarrivabile del suo autore e dell’originalità con cui egli ha saputo rielaborare gli spunti ricevuti dalla tradizione.4 Non meno significativo è che l’indagine si staccava decisamente dai

|| 1 A partire dalla sua prima recensione del 1859 (al libro di Hartwig Floto, Dante Alighieri, sein Leben und seine Werke) fino agli studi della piena maturità (e della voce Dante Alighieri redatta per il Dizionario enciclopedico Brockhaus-Efron, 1893). Ricordo anche che Dante, in questa continuità di interessi, divenne uno dei caposaldi dell’indagine più caratteristica di Veselovskij, quella sul passaggio dall’età medievale alla moderna, illustrato, in prima istanza, nell’introduzione alla sua edizione del Paradiso degli Alberti (Il Paradiso degli Alberti. Ritrovi e ragionamenti del 1389. Romanzo di Giovanni da Prato dal Codice autografo e anonimo della Riccardiana a cura di Alessandro Wesselofsky, Bologna, Romagnoli, 1867 [ma 1868–1869], 3 voll.). 2 Aleksandr N. Veselovskij, Studi danteschi, a cura di Roberta De Giorgi e Renzo Rabboni, «La parola del testo», XXI, 1–2, 2017 (da cui si citerà). 3 Cfr. ivi, pp. 117–140. 4 Peraltro, il tema degli ambivalenti era analizzato con una larghezza di riferimenti alla letteratura delle visioni e dei viaggi medievali sconosciuta alle indagini coeve, quelle del mondo tedesco e francese, e viene a movimentare non poco il quadro ‘canonico’ del genere visionario, più volte ripetuto, per cui cfr. Jacques Le Goff, Aspetti eruditi e popolari dei viaggi nell’aldilà nel Medioevo, in Id., L’immaginario medievale, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 75–98; e Alison

Frontiere di culture, frontiere dell’aldilà | 179 censimenti contemporanei sui viaggi nell’aldilà (segnatamente, di Ozanam, Aroux, Villari e D’Ancona), interessati solo ai tratti contenutistici condivisi dalle visioni con la Commedia (collocazione del peccatore, qualità della pena, architettura infernale, ecc.), mentre Veselovskij ragionava in termini di strutture, di ricorrenza dei motivi e loro tessitura, delle variazioni in considerazione delle condizioni storico-sociali e delle doti individuali del rielaboratore di turno.5 In relazione, dunque, alla sorte delle anime dei ‘semi-peccatori’ danteschi, Veselovskij si volgeva naturalmente nella sua analisi al tema per noi d’interesse, dei confini delle regioni celesti e del loro superamento, individuato entro tradizioni di aree geografiche lontane tra di loro eppure comunicanti. Si tratta, come detto, in primo luogo delle anime del Limbo, la cui collocazione oltremondana, anteriormente a Dante, appare varia quanto alla distribuzione, mentre nella Commedia è ricondotta ad unità e, anche, risolta con un rigore sconosciuto agli autori precedenti. Più esattamente, in relazione ai Limbicoli, Dante viene a trovarsi al culmine di un processo che portò gradualmente a ripopolare la zona ‘intermedia’ tra dannazione e salvezza, il «sinus Abrahae» o «limbus patrum» delle testimonianze dei primi secoli cristiani, deputato ad ospitare i padri del Vecchio Testamento e rimasto vuoto dopo la discesa di Cristo agli Inferi. Il processo interessò, dapprima, le anime dei neonati. È quanto, sempre sulla scorta di Veselovskij, si osserva in leggende e visioni bizantine e slave, in particolare nella versione greca della Vita di Basilio il Giovane (Žitie Vasilija Novogo), del X sec., pressoché sconosciuta al tempo in Occidente, ed edita, peraltro, integralmente per la prima volta proprio dallo studioso moscovita.6 In essa i bambini morti prima del battesimo si trovano relegati in un

|| Morgan, Dante and the Medieval Other World, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, trad. it. di Luca Marcozzi, Dante e l’aldilà medievale, Roma, Salerno Editrice, 2012, pp. 27–33. 5 Siamo in anticipo, insomma, sui principî della semiotica applicata alla narrativa (il récit) o, soprattutto, sul censimento dei tipi del racconto folclorico. Cfr. Stith Thompson, Motif-index of folk-literature: a classification of narrative elements in folktales, ballads, myths, fables, medieval romances, exempla, fabliaux, jest-books and local legends, revised and enlarged edition, Bloomington, Indiana University Press, 1955–1958, in cui possiamo trovare il motivo degli ambivalenti e quelli connessi entro gli Otherworld Journeys, che coprono i primi duecento numeri del capitolo Marvels (F 0–199); oppure, ancora, Religious tales (i numeri T 750–850). 6 La Vita di Basilio è un monumento della letteratura agiografica bizantina, della seconda metà del X sec.; il presunto autore, Gregorio, probabilmente un monaco, fu discepolo di Basilio (un anacoreta del X sec.). Scritta in slavo ecclesiastico, fu pubblicata a brani e con scorciamenti dai Padri Bollandisti negli Acta Sanctorum, marzo, t. III, Appendice (Ad acta graeca tomi tertii, pp. 24–39 [...] Ex Codice Ms. Iulij Cardinalis Mazarini). Veselovskij provvide invece ad integrare gli episodi eliminati dai Bollandisti, segnatamente il viaggio nell’aldilà di Teodora, che era stata al

180 | Renzo Rabboni luogo tranquillo a mezzogiorno, una zona di penombra, dove provano alcuni dei piaceri della vita eterna, ma non possono vedere il volto di Dio. Dopo gli infanti, fu la volta dei pagani virtuosi: le loro anime stavano ancora all’inferno nella Visio Pauli, mentre nelle leggende posteriori vige nei loro confronti un atteggiamento più misericordioso. Infatti, ancora nella Vita di Basilio, in mezzo ai giusti entrati nella «gioia del Signore», accanto ad Abramo, Abele e agli altri patriarchi, compare una nuova schiera:

Questi erano coloro che appartenevano a genti pagane esistite prima della venuta di Cristo, che non cercavano la legge eppure la mettevano in pratica con i fatti, e che non avevano adorato gli idoli, ma erano puri di animo e misericordiosi e veneravano Dio; questi [il Signore] aveva stabilito che entrassero e che pertanto fossero degni di quella gioia indicibile.7

In rapporto con l’indebolirsi del dogma, anche qualcuno dei pagani virtuosi, a cominciare dall’imperatore Traiano, si trovò ad essere salvato. È quanto avviene, per fare un altro esempio, nella leggenda irlandese di san Kadok, del V sec.,8 che Veselovskij richiamava perché la figura riscattata dalla dannazione è quella di Virgilio. Anche se l’interpretazione della leggenda non ha poi nulla a che fare col Virgilio dantesco, che – è bene sottolineare – resta all’inferno, pur essendo l’ispirato cantore della quarta egloga e il sapiente della tradizione medievale. Se pure Virgilio, e con lui gli altri magnanimi del Limbo, appaiono in una luce di umana simpatia, in Dante tutto questo interviene a correggere «senza però abrogare, la severa sentenza del dogma».9 Il secondo episodio infernale che attira l’attenzione dello studioso chiama in causa gli ignavi. Questa volta non si tratta di anime di virtuosi all’oscuro della Rivelazione, ma di veri peccatori, la cui colpa non è data dall’ignoranza, ma dall’indecisione morale, dalla fluttuazione tra il richiamo della colpa e quello del bene. Veselovskij va in traccia di questa tipologia nei racconti popolari, prestando attenzione alle variazioni di volta in volta intervenute, dovute alla contaminazione con altri motivi. Le ricorrenze individuate riguardano, soprattutto, le leggende: occidentali, come la Visio Tungdali, o, di nuovo, bizantine e slave, per le quali egli poteva valersi di veri monumenti del folclore,

|| servizio del santo, in forma di visioni avute per sua intercessione, oltre che i miracoli di San Basilio, sul fondamento del ms. 249 conservato nella Biblioteca del Sinodo di Mosca (XVI sec.). 7 A. N. Veselovskij, Studi danteschi, cit., p. 121. 8 Da lui letta nella raccolta di Théodore Hersart de La Villemarque, La légende celtique et la poésie des cloîtres en Irlande, en Cambrie et en Bretagne, suivie des textes originaux irlandais, gallois et bretons, rares ou inédites, nouvelle édition, Paris, Didier et C.ie, 1864. 9 A. N. Veselovskij, Studi danteschi, cit., p. 121.

Frontiere di culture, frontiere dell’aldilà | 181 in particolare delle raccolte allestite da Fëdor Buslaev, che di Veselovskij era stato il maestro (Istoričeskie očerki russkoj narodnoj slovesnosti i iskusstva, 1861), e da Nikolaj S. Tichonravov (Pamjatniki otrečënnyj russkoj literatury, 1862). Le anime degli ‘ambivalenti’ sono riconosciute sulla base dell’oscillazione della loro collocazione dopo la morte, che è un qualche luogo ‘nel mezzo’, dove scontano la loro pena, e che nelle raffigurazioni popolari del folclore slavo oscilla tra un paese indefinito posto a settentrione e, ancor più rivelatore, una generica zona intermedia tra inferno e paradiso. Un altro elemento su cui Veselovskij richiama l’attenzione, perché interviene a variare la caratterizzazione di queste anime, è la durata della condanna: che nei racconti più antichi tende ad essere stabile ed eterna, mentre in quelli più recenti appare invece transitoria; esattamente come per le anime purgatoriali della tradizione cristiana. In questo caso, nel determinare situazione e durata della pena, gioca, come vedremo, un ruolo essenziale la categoria della misericordia. Ma usciamo dall’astrattezza e consideriamo qualche esempio concreto, a partire dal fabliau antico-francese Du vilain qui conquist paradis par plait, il cui protagonista, un mugnaio, in vita è stato un peccatore, ma anche ha compiuto qualche atto di carità. Questo gli ha guadagnato, prima dell’assegnazione all’inferno, il privilegio di poter vedere le dimore del paradiso, vale a dire le beatitudini di cui sarà privato in eterno. Grazie alla sua astuzia, però, e per contro alla dabbenaggine del vecchio demonio a cui è stato affidato, riesce ad entrare in paradiso e, soprattutto, a rimanervi:

Un vecchio stupido demonio porta là il mugnaio, lo porta secondo gli accordi sempre più in alto, finché il mugnaio non riesce a saltare giù direttamente in paradiso. Il diavolo inizia a reclamare la propria vittima, ma il mugnaio si mette a contendere coi santi, entra in conversazione con la Madre di Dio e con Cristo, al quale dice che anch’egli una volta nella vita, in suo nome, aveva donato un vecchio sacco. Il Signore ordina di portarlo immediatamente e di consegnarlo al benefattore; e questi lo distese alle porte del paradiso e ci si accomodò sopra. «Io siedo sul mio – dice –, e sto sul mio diritto». E fu così che egli rimase in paradiso.10

Veselovskij richiama, ancora, l’esordio di una povest’ russa, il cui protagonista, un beone (Povest’ o bražnike), sembra riprendere i tratti fondamentali del mugnaio del fabliau francese: «C’era un ubriacone, e non c’era giorno della sua vita che non bevesse moltissima acquavite, e ad ogni boccata rendeva grazie al Signore Dio, e spesso di notte pregava Dio. E il Signore ordinò di prendere l’anima del beone e metterla alle porte del santo paradiso» (ibid.).

|| 10 A. N. Veselovskij, Studi danteschi, cit., p. 127.

182 | Renzo Rabboni

La leggenda del contadino-mugnaio-ubriacone ritorna, in aggiunta, in tutta una serie di rifacimenti popolari slavi (e non solo), intrecciata peraltro ad un motivo secondario, quello dei tre desideri, con cui si entra nel dominio delle fiabe. Lo studioso si sofferma, in proposito, sulla fiaba francese di Misère (Le bonhomme Misère et son chien Pauvreté) e le sue varianti, che leggeva nella raccolta di Émile-Henry Carnoy, Littérature orale de la Picardie (1883). Qui il povero protagonista, dopo che a causa della fame si è venduto l’anima al diavolo, riesce a vedersi esauditi tre desideri da san Pietro (o da Cristo), come ricompensa per un atto di carità compiuto in vita. Ottiene, più precisamente, dei doni (una poltrona, una tracolla, delle carte, ecc.) coi quali può vincere il diavolo, che si vede costretto a rinunciare al patto. Quando muore, però, non lo vogliono né in paradiso né all’inferno. Tuttavia, giunto alle porte del cielo, egli coglie l’attimo in cui si spalancano davanti alle anime che vi hanno diritto di accesso infilandovisi anche lui: facendo, ad esempio, rotolare davanti a sé il suo staio, su cui poi si siede, dicendo: «Sono seduto sul mio bene». In altre varianti, il vento gli ha fatto volar via il cappello fino al paradiso, oppure lui stesso ve l’ha gettato e, una volta entrato per riprenderselo, ci si è seduto sopra. Talora, al posto del cappello compare un mazzo di carte, o una tracolla, un grembiule; oppure ancora, il defunto chiede a san Pietro il permesso di posare oltre la soglia del paradiso almeno le sue scarpe, e poi, quando l’apostolo cede il posto ad un altro guardiano, entra anche lui con la scusa di essere ritornato da una commissione che aveva ricevuto prima dal santo, dicendo, a garanzia: «Ecco, là ci sono le mie scarpe». Oppure, sostiene che una monetina gli è rotolata fino alla soglia e che è entrato a riprendersela, salvo riuscire a non andarsene più. A questo punto, sebbene sia notorio che in vita egli ha peccato, risulta anche che ha pregato ogni giorno san Bernardo o la Madre di Dio, oppure che è stato un buon uomo; o ancora: è vero che ha nascosto un omicidio commesso dal vicino in un momento di rabbia, ma ha fatto anche l’elemosina, e in paradiso ecco che si mette seduto sulla cappa che un giorno aveva dato ad un povero. All’antica leggenda del contadino-mugnaio-ubriacone si avvicina anche la novella tedesca di Schwanke, in cui compare come protagonista il cocchiere Hans Pfriem, lo stesso che, attraverso una serie di rielaborazioni, giungerà fino alla raccolta dei fratelli Grimm. Nel racconto si osserva l’ennesima variazione del modello dell’ambiguità morale: al suo posto appare ora un uomo non cattivo, ma cavilloso, che si intrufola ovunque dando consigli a sproposito quando le cose non gli garbano. Per questo in paradiso hanno dato disposizione in anticipo di non farlo entrare, e tuttavia egli vi riesce:

[…] promette di starsene tranquillo e di non intromettersi in affari non suoi. Intanto, quello che vede in paradiso comincia immediatamente ad agitarlo, risvegliando in lui lo spirito di

Frontiere di culture, frontiere dell’aldilà | 183

contraddizione: egli vede delle donne che versano l’acqua in una botte forata, dalla quale il liquido cola via; vede persone che per un passaggio stretto portano sulle spalle una trave di traverso, quando invece sarebbe più comodo trasportarla per il lungo; e infine vede, impantanato in una pozzanghera, un carro, e il cocchiere che per trascinarlo fuori ha attaccato dei cavalli: una coppia davanti e un’altra dietro. Questa volta Pfriem non si trattiene: «Che si tira fuori così un carro?», salta su. E così rompe il voto di non impicciarsi, e il Signore gli invia l’apostolo Pietro per condurlo fuori dal paradiso.11

Veselovskij nota in proposito che le visioni di Pfriem s’intrecciano, di nuovo, con un motivo fiabesco, quello degli ‘incarichi difficili e non realizzabili’ affidati all’eroe. Nei racconti da lui considerati questi incontri avvengono, propriamente, lungo il cammino che conduce al paradiso o all’inferno, ma non appartengono né all’una né all’altra regione oltremondana. Essi riguardano, dunque, figure di ambivalenti, che sono condannati alla privazione o ad essere spogliati di tutto il necessario: versano, ad esempio, l’acqua in contenitori senza fondo; oppure non riescono ad avere da cento filari ciò che dovrebbe fruttare uno solo, o hanno una coperta larga, ma non sufficiente per due, e via dicendo. Uno sviluppo dello stesso motivo si osserva anche nella fiaba-leggenda russa Christov bratec (Il fratello di Cristo),12 dove le persone che languono in vario modo sul cammino si rivolgono al passante che sta andando da Cristo e lo pregano di chiedere per conto loro se dovranno soffrire ancora a lungo e perché è stata loro riservata proprio quella sorte. Il viandante riporta poi ad ognuno la risposta, da cui si evince che sono persone che hanno compiuto gesti di misericordia, ma anche si sono macchiate in vita di una qualche colpa e devono per questo scontare una pena. Lo stesso avviene nelle varianti di una favola bretone (Sans-Souci) raccolta nelle Légendes chrétiennes de la Basse-Bretagne da François-Marie Luzel.13 Qui l’eroe è diretto a Dio; lungo la strada avvengono gli incontri: con due alberi che si scontrano tra loro e lo lasciano passare solo a condizione che egli domandi a Dio perché sono condannati a cozzare così già da seicento anni (in vita erano stati fratelli, oppure coniugi che non facevano che litigare); una vecchietta sta seduta e fila, sbarrando il cammino, e anch’ella, che si trova in questa situazione sempre da seicento anni, lascia passare il protagonista solo se chiederà della sua sorte (aveva profanato il riposo domenicale col lavoro); più avanti incontra un

|| 11 A. N. Veselovskij, Studi danteschi, cit., p. 130. 12 Cfr. Aleksandr N. Afanas’ev, Narodnye russkie legendy, London, s. e., 1859, pp. 30–32; Moskva, N. Ščepkin i K. Soldatenkov, 1859, pp. 81–82. 13 François-Marie Luzel, Légendes chrétiennes de la Basse-Bretagne, Paris, Maisonneuve et C., 1881, vol. I, pp. 249–253.

184 | Renzo Rabboni nocchiero, che da novecento anni traghetta viandanti sul Mare di Giunco, e avanza una richiesta simile. Gli alberi-fratelli si libereranno della pena quando schiacceranno qualcuno scontrandosi tra di loro; la vecchietta quando ucciderà qualcuno col fuso o con l’ago; il nocchiere quando qualcuno prenderà il suo posto. L’ultimo incontro – si potrà notare – è quello con un gregge di agnelli che saltellano, ma che belano tristemente: sono i bambini morti prima del battesimo, per i quali non c’è alcuna possibilità di mutamento. Quella che invece è concessa alle altre figure, per le quali si è trovato dunque il modo di farle uscire dalla loro condizione senza via d’uscita, sospesa tra il castigo e la ricompensa. In sostanza, Veselovskij ragiona del processo letterario come di una nuova combinazione delle vecchie immagini, di motivy e sjužety preesistenti, che ogni epoca riempie di una nuova concezione, la quale, di fatto, costituisce il suo progresso rispetto al passato. È la direzione stessa della poetica storica, il progetto a cui lo studioso si dedicherà una volta rientrato in Russia,14 a cui si accompagna anche la mira a definire, in termini oggettivi, il processo della rielaborazione d’autore, e di Dante nel caso particolar: vale a dire, ciò che di nuovo e di individuale egli ha introdotto in una tradizione vetusta e consolidata come quella delle visioni medievali, e che dipende dalla sua peculiare tempra morale e ideologica. L’originalità di Dante è cioè indubbia, e si può misurare proprio dopo aver osservato lo svolgimento tradizionale del motivo della responsabilità morale; ma non solo, perché lo stesso motivo dimostra anche la fallacia di quanti (specie padre Lombardi e Blanc)15 miravano a leggere in senso preumanistico la pena riservata da Dante alle anime del Limbo, vedendo nel termine «sospesi» un’allusione ad una condizione solo temporanea, che attenderebbe la sanzione definitiva del giudizio universale. In realtà, in Dante, come già nella più antica tradizione del motivo degli ambivalenti, la condizione

|| 14 In proposito, si veda Viktor Žirmunskij, Istoričeskaja poetika A.N. Veselovskogo, in Aleksandr N. Veselovskij, Istoričeskaja poetika, a cura di Viktor M. Žirmunskij, Leningrad, Gosudarstvennoe izdatel’stvo «Chudožestvennaja literatura», 1940, pp. 3–37 (rist. anast. The Hague-Paris, Mouton, 1970; trad. it. in Aleksandr N. Veselovskij, Poetica storica, a cura di Claudia Giustini, Roma, Edizioni e/o, 1981, pp. 9–51); Ivan K. Gorskij, Ob istoričeskoj poetike Aleksandra Veselovskogo, in Aleksandr N. Veselovskij, Istoričeskaja poetika, a cura di Viktoria V. Močalova, Moskva, Vysšaja škola, 1989, pp. 11–31; D’Arco Silvio Avalle, Il problema della cultura nella filologia e linguistica russe del XIX e XX secolo, a cura di Id., Torino, Einaudi, 1980, pp. 22– 35 e 385–390; Valentina Rossi, La Poetica storica di A. N. Veselovskij dal 1940 al 1959. La storia delle edizioni di un libro mai scritto, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», s. 3a, XX, 1990, 1, pp. 319–363. 15 Baldassarre Lombardi, Divina Commedia di Dante Alighieri nuovamente corretta, spiegata e difesa, Roma, Fulgoni, 1791; e l’ed. della Commedia a cura di Ludwig Gottfried Blanc, Halle, Buchhandlung des Waisenhauses, 1864.

Frontiere di culture, frontiere dell’aldilà | 185 di queste anime è ferma ed eterna. Allo stesso modo avviene per gli ignavi, nei confronti dei quali Dante, ancora una volta, appare più rigido rispetto alle visioni e ai viaggi allegorici dei secoli precedenti. Se però nel primo caso il rigore è dovuto a ragioni di ordine teologico, nel secondo dipende dalla passione politica del poeta fiorentino, dalle idee che hanno educato in lui «il primo cittadino d’Italia» (p. 120), che sulla soglia dell’inferno punisce l’ignavia sociale, così come nelle sue viscere bollava il tradimento politico nelle persone di Bruto e Cassio. La coscienza civile giustifica, cioè, il trattamento a cui l’autore ha sottoposto il tipo dell’ambivalente morale ereditato dalla tradizione, condannando non solo l’indifferenza di fronte ai grandi principî del bene e del male, ma anche la pusillanimità e la pavidità davanti all’azione. Quello di Dante si poteva definire, per Veselovskij, un umanesimo solo germinale, ancora non compiuto: se consideriamo che per il moscovita lo iato epocale che segna l’avvio dell’età moderna andava posto alla fine del Trecento, quando si manifestano i tratti peculiari del rinnovamento («l’individualità», «lo sviluppo del particolare», p. 111). Ma si diceva anche di dogane aeree, e non solo di passaggi da una regione all’altra dell’oltremondo. Se consideriamo un altro saggio dantesco, Lichva v lestvice grechov u Dante (‘L’usura nella scala dei peccati di Dante’, 1889),16 che peraltro è una sorta di appendice del precedente, Veselovskij ha modo di tornare sulla Vita di Basilio il giovane, e lo fa per esaminare il ruolo centrale che la misericordia – come si diceva – riveste nella graduatoria delle beatitudini. Il saggio è dedicato, propriamente, all’episodio dell’incontro di Dante con gli usurai, e in particolare alla loro posizione in rapporto alla struttura generale dell’inferno. Il sistema delle pene della Commedia è all’uopo raffrontato con quello della visione di Teodora della Vita di Basilio il Giovane: la donna era stata al servizio del santo, e grazie alla sua intercessione ha potuto ascendere al cielo attraverso le cosiddette «dogane aeree» (duševnye mytarstva). Più esattamente, Teodora, apparsa in sogno a Gregorio, gli narra il suo viaggio ultraterreno: gli angeli sono giunti a condurre via l’anima e ha così avuto inizio il passaggio attraverso le dogane aeree, a cui ha fatto seguito la visione del paradiso e dell’inferno. Ognuna delle dogane, delle sfere celesti, corrisponde ad un determinato peccato ed è guardata da demoni che chiedono di rendere conto dei peccati commessi e mettono l’anima alla prova. Vale la pena di osservare l’ordine delle dogane attraversate: 1) maldicenza, 2) oltraggio, 3) invidia, 4) menzogna, 5) ira e rabbia, 6) orgoglio e alterigia, 7) vaniloquio e ingiuria, 8) usura e frode, 9)

|| 16 A. N. Veselovskij, Studi danteschi, cit., pp. 141–145.

186 | Renzo Rabboni ingiustizia e vanità, 10) avidità, 11) ubriachezza, 12) rancore, 13) incantesimo, 14) gola, 15) idolatria, 16) andromania e pedofilia, 17) adulterio, 18) omicidio, 19) furto, 20) lussuria, 21) mancanza di misericordia e di pietà. Veseloskij si sofferma sul criterio col quale sono distribuiti i peccati, riconoscendo che la Vita non segue un sistema logico interno, a differenza della Commedia, che poggia consapevolmente sullo schema aristotelico e ciceroniano dei vizi. E tuttavia egli ritiene che nelle immagini delle dogane di Teodora vi siano affinità non trascurabili con l’aldilà dantesco: nella distribuzione delle colpe (dalle più lievi alle più gravi), nella posizione ‘liminare’ dei lussuriosi, nella definizione della natura dell’usura, ‘bivalente’ in Dante, che in tal modo tentava di conciliare la concezione dell’usura come violenza con la sua condanna come frode, similmente nella Vita, in cui l’ottava pena riunisce in sé i peccati d’usura e di frode (τοκός, δόλος). Spostando allora i suoi usurai al limite del burrone in cui si punisce la frode, Dante propone un’interpretazione della frode simile a questa, che lo portò anche a modificare la logica a cui di solito si attiene nella propria ‘scala’ dei peccati puniti nell’inferno, dai più lievi ai più gravi.17 Ma qui interessa, si diceva, il ruolo della carità. In Dante, com’è noto, il cerchio più popolato dell’inferno è il primo: in esso si punisce il desiderio della carne, cioè la lussuria; nel purgatorio, al contrario, ai lussuriosi è assegnata l’ultima terrazza alla sommità della montagna, prima di entrare nel paradiso terrestre. Così è sostanzialmente anche nel racconto del monaco Gregorio: la sua ventesima pena è separata dalle «porte celesti» solo dalla «mancanza di pietà». La discrepanza con Dante si spiega col significato particolare che viene dato nella Vita alla carità e all’elemosina, che della visione bizantina costituisce il nerbo, se è vero che il devoto panegirista più volte si lascia andare all’elogio della forza salvifica della carità. Ma non solo: tutto questo prepara, nell’ultima parte della Vita, alla personificazione della Pietà, che appare a Gregorio nella visione del giudizio universale come colei che tutto salva e a tutto rimedia, posta più in alto anche del digiuno e dell’autoflagellazione. Veselovskij osserva che questa concezione salvifica della carità si era sviluppata nelle prediche e nei racconti edificanti, ad esempio nella leggenda sull’arcivescovo alessandrino Giovanni Milostivyj, era

|| 17 Detto in modo forse più esplicito: nei canti XVI–XVII la peccaminosità segue la linea ascendente, dal momento che si passa dai violenti contro il prossimo (omicidi) e sé stessi (suicidi) ai violenti contro Dio (sacrileghi e bestemmiatori); poi però la linea s’interrompe, e dai violenti contro Dio si passa ai violenti contro la natura e l’arte (sodomiti ed usurai). Ma non solo: perché dalla violenza contro Dio si è passati (all’inizio del c. XVII) alla descrizione della frode, a proposito di Gerione, e si è poi tornati alla violenza (con gli usurai). Insomma, ci si è alzati, quindi si è scesi nella scala della peccaminosità.

Frontiere di culture, frontiere dell’aldilà | 187 passata nel folclore russo nella figura di Ivan Kalità, e aveva ispirato la predicazione sulla pietà anche nel poema spirituale su Lazzaro e in un altro componimento che così definiva la via della salvezza: «per salvare l’anima – digiuno e preghiera, / per entrare in paradiso – la santa pietà».18 Ancora, nella visione del giudizio universale, che conclude la seconda parte della Vita bizantina, i peccatori uno dopo l’altro compaiono davanti alla figura del Giudice, prima di allontanarsi nella zona dei tormenti loro assegnata. Da ultimi giungono i rinnegati e gli oppressori, e gli angeli li scagliano nel Tartaro; in mezzo alle loro urla e ai lamenti si ode una voce, che ora geme, ora grida, ora si rivolge al Salvatore e invoca invano la morte:

«Questi è Diocleziano», spiega un angelo a Gregorio. In un affresco di un monastero di Salamina, che raffigura il giudizio universale, anch’egli è posto nel novero dei peccatori, mentre in Gregorio egli è distinto in modo particolare e chiaro; il suo lamento è l’ultimo gemito umano che echeggia sulla terra dopo che gli angeli hanno rinchiuso «i terribili supplizi nel regno delle tenebre».19

Secondo Veselovskij, questo è certo il Diocleziano storico, il persecutore e l’oppressore del cristianesimo, l’emblema della mancanza di misericordia, che proprio per questa ‘qualità’, al di là della consapevolezza del trascrittore, aveva assunto, nella credenza popolare, le stimmate dell’Anticristo, del Lucifero dell’Inferno di Dante.

|| 18 I versi erano tratti esplicitamente da Pyotr A. Bessonov, Kaliki perechožie. Sbornik stichov i issledovanie, Moskva, Semen, voll. 6, 1861–1864: 5, p. 301 (n. 504). 19 A. N. Veselovskij, Studi danteschi, cit., p. 145.

| Altre identità: plurime, ricostruite, diverse

Ilvano Caliaro Una diversa identità: Carlo Michelstaedter

Riassunto: Nella periferica e tranquilla provincia asburgica di Gorizia, lontana dai luoghi di elaborazione e circolazione della raffinata cultura mitteleuropea, un giovane ebreo assimilato, Carlo Michelstaedter, è alla ricerca della sua identità, non sotto l’aspetto dell’appartenenza ad un gruppo nazionale bensì come conquista di una propria individualità, cioè di un’esistenza sottratta alla necessità e alla determinazione, come proposizione di nuovi valori, alternativi a quelli imposti dalla società in cui si trova a vivere.

A different identity: Carlo Michelstaedter

Abstract: In the peripheral and quiet Habsburg province of Gorizia, far from the places of refined Central European culture, a young assimilated Jew, Carlo Michelstaedter, is in search of his identity, not in the sense of wanting to belong to a nation or specific group, but in the sense of searching his own individuality, an existence beyond necessity and determination, as a proposition of new values, as an alternative to those imposed by the society in which he finds himself living.

Carlo Michelstaedter fu un giovane straordinario: una vita molto breve, la sua (vi pose fine egli stesso con un colpo di rivoltella il 10 ottobre 1910, all’età di 23 anni), ma i cui pochi anni, soprattutto gli estremi, furono fecondissimi di pensiero. Egli è noto soprattutto per La persuasione e la rettorica, un libriccino pubblicato postumo, che è, per quanto atipica nel suo sviluppo e nei suoi esiti, una tesi di laurea (sui concetti di persuasione e di retorica in Platone e in Aristotele), che la morte gli impedì di discutere. È stato definito «filosofo»: giustamente, ma, va precisato, secondo il suo concetto di filosofia, che è quello originario e autentico, di filosofia come arte della vita, di arte di vivere da uomo vero, libero da vincoli, che persegue una vita autonoma fondata su basi razionali, che ha individuato e che cerca di realizzare il vero ‘bene’. Michelstaedter esprime una critica radicale dell’identità intesa come identificazione o nazionale o religiosa o sociale, e ricerca una diversa identità, precisamente l’individualità, concepita come unicità della singola persona. E questa unicità, questa singolarità irripetibile, coincide con quello che egli chiama

Open Access. © 2020 Ilvano Caliaro, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-014

192 | Ilvano Caliaro il «persuaso», approdo della sua riflessione, in sostanza la sua risposta ad una domanda che egli si è posto precocemente e perentoriamente, e che è poi quella che da sempre assilla l’uomo che pensa: è possibile riconoscere e conferire un significato assoluto, cioè sottratto alla necessità e alla determinazione, alla propria esistenza? Vediamo. Michelstaedter è un ebreo di lingua e di cultura italiana, che nasce e vive l’intera sua vita a Gorizia,1 ad eccezione dei mesi di studio trascorsi a Firenze, dove tra l’ottobre del 1905 e il giugno del 1909 frequenta l’Istituto di Studi Superiori. Gli abitanti della contea principesca di Gorizia e Gradisca, parte del Küstenland, il Litorale, uno dei quindici Länder dell’Impero austro-ungarico, e di questo estrema propaggine occidentale, erano per due terzi di lingua slovena, ad eccezione del capoluogo, dove la maggioranza era di lingua italiana, con una minoranza slovena ed una, esigua, di lingua tedesca, composta prevalentemente di pensionati della burocrazia imperiale e di personale amministrativo. A Gorizia si parlava inoltre un dialetto veneto, simile al triestino, di cui vi sono tracce nelle lettere di Carlo e anche nella Persuasione. Fra i ceti popolari del capoluogo e nella parte occidentale del contado era diffuso come lingua parlata il dialetto friulano (nella variante goriziana), che in quelli còlti era vezzo farne lingua della poesia: amava verseggiarvi anche il padre di Carlo, Alberto Michelstaedter. A Gorizia un’ottima conoscenza del tedesco era necessaria per accedere allo Staatsgymnasium, uno degli istituti superiori più prestigiosi dell’Impero, in quanto il tedesco vi fungeva da lingua d’insegnamento. Frequentato da ragazzi di tutto il Litorale, questa rigorosa scuola esclusivamente maschile dal 1850 aveva assunto carattere pluriculturale, poiché agli alunni di nazionalità italiana e slovena era consentito l’apprendimento della madrelingua (per quattro ore settimanali) come lingua straniera, mentre era obbligatorio lo studio delle lingue classiche. Ervinio Pocar, nativo di Pirano in Istria, uno dei maggiori mediatori e traduttori di letteratura tedesca in Italia, di cinque anni più giovane di Michelstaedter, così ricordava i suoi anni allo Staatsgymnasium goriziano: «Nelle classi eravamo metà italiani, metà sloveni, con un’esigua minoranza di tedeschi, in genere figli di pensionati che dalle città del nord scendevano a stabilirsi a Gorizia per godersi il clima mediterraneo. Noi ragazzi si viveva in un vero caos

|| 1 Prime fonti delle seguenti notizie biografiche e sull’ambiente goriziano sono i profili di Carlo Michelstaedter (anche collettori di quanto emerso dagli studi in merito), anzitutto Un’eterna giovinezza di Sergio Campailla (Venezia, Marsilio, 2019) e Una disperata speranza di Gian Andrea Franchi (Milano-Udine, Mimesis, 2014); si ricorda pure Carlo Michelstaedter di Alessandro Arbo (Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1996).

Una diversa identità: Carlo Michelstaedter | 193 linguistico».2 Di questo, che peraltro sottende una feconda pluriculturalità, sono prova le poche lettere a Michelstaedter del suo compagno di classe e grande amico Enrico Mreule, originario della provincia di Gorizia, scritte in un italiano singolarissimo e anche scorretto, mescidato di espressioni tedesche e dialettali (ma pure greche e latine).3 Gorizia era quindi un crocevia di lingue e di culture diverse, come Trieste, e come Trieste viveva, se pur con intensità indubbiamente minore, crescenti tensioni e contrasti tra la nazionalità italiana e quella slovena (e di entrambe con l’apparato statale austriaco), che si avvertivano latenti anche all’interno dello stesso Staatsgymnasium, come testimonia Biagio Marin, nativo di Grado (allora in territorio austriaco a pochi chilometri dal confine con l’Italia), di tre anni più giovane di Michelstaedter, e anch’egli per alcuni anni alunno dell’istituto goriziano: «Ci rispettavamo. E umano era solitamente il nostro parlare. Ma fuori di là eravamo avversari, e ognuno di noi sapeva che in un prossimo domani ci saremmo trovati di fronte».4 Queste tensioni e contrasti nazionali coinvolgevano l’ambiente della famiglia Michelstaedter: il padre Alberto era fieramente irredentista, soprattutto per l’influenza della cognata Carolina Luzzatto, scrittrice, animatrice culturale, fondatrice e direttrice del giornale «Il Corriere Friulano», che dava voce alle istanze della borghesia italiana nazional-liberale. Secondo il censimento dell’anno 1900, in Gorizia, su una popolazione di poco più di 25.000 abitanti, 248 erano classificati come israeliti, i quali vivevano in buona parte fuori del ghetto, abolito durante l’occupazione francese, e ormai pienamente integrati nella società di maggioranza. L’italiano era la lingua interna della comunità ebraica e quella italiana era la cultura di riferimento, specie della sua borghesia, còlta e culturalmente vivace, e nei suoi membri più noti, come Carolina Luzzato ed Alberto Michelstaedter, di sentimenti irredentistici. Anche Alberto Michelstaedter si sentiva pienamente integrato e appagato nel contesto sociale, politico e culturale dominante, nella circostante società cattolica. Era uno di quegli ebrei nei quali la definitiva emancipazione e il processo di assimilazione avevano prodotto l’allontanamento dalla stretta osservanza religiosa (quindi il cosiddetto indifferentismo religioso). Scrive la figlia Paula, nei suoi ricordi del fratello Carlo e della famiglia: «Papà era conservativo per le usanze tradizionali ebraiche, ma non era osservante dei riti

|| 2 Citato in G. A. Franchi, Una disperata speranza, cit., p. 21. 3 Riprodotte da Campailla in Dialoghi intorno a Michelstaedter, a cura di id., Gorizia, Biblioteca Statale Isontina, 1987, pp. 24–28. 4 Citato in G. A. Franchi, Una disperata speranza, cit., p. 22.

194 | Ilvano Caliaro né possedeva uno spirito religioso. Anzi era il tipico rappresentante della mentalità materialistica dell’Ottocento».5 Di cultura vasta ma non profonda, da autodidatta, Alberto fu un protagonista della cultura locale di lingua italiana, come si evince dalle numerose cariche rivestite a Gorizia (tra cui quella di vicepresidente del Gabinetto di lettura e del Teatro di società); era poi membro attivissimo della Società filologica friulana nonché della Società Dante Alighieri. Si distingueva inoltre come facondo oratore, esperto in discorsi celebrativi e commemorazioni, soprattutto in occasione di anniversari patriottici o letterari italiani (tenne lui nel 1907 l’orazione per la morte di Graziadio Isaia Ascoli).6 Alberto si riconosceva in quel piccolo mondo di cultura italiana, i cui modelli letterari erano i due, pur diversi, vati, Carducci e D’Annunzio, anzi i loro versi civili. Questo un passo di un discorso in onore di Carducci da lui tenuto al Gabinetto di lettura di Gorizia la sera del 31 maggio 1901: «Giosuè Carducci, vate d’Italia, come aquila vola su tutti i poeti viventi. Egli che non ha guari sentenziò esser falsa la credenza che la razza latina sia decaduta o moribonda – è una delle più luminose prove della vitalità di questa stirpe».7 Come dice giustamente Gian Andrea Franchi, «colpisce la forza dell’identificazione nazionalistica in questo ebreo che parla di “razza latina”».8 Dicevamo di tensioni e contrasti tra le diverse nazionalità sempre più evidenti nella Gorizia del tempo. Se coinvolgevano alquanto l’ambiente della famiglia Michelstaedter, Carlo sembra esserne dapprima toccato solo superficialmente. Ci riferiamo ad un episodio accaduto allo Staatsgymnasium goriziano, lo sciopero studentesco dell’ottobre 1904: due classi, di cui quella di Michelstaedter, disertarono le lezioni come forma di protesta contro gli atteggiamenti nazionalistici tedeschi e i metodi didattici autoritari del supplente di storia e geografia, il professor Rudolf Durst. Allo sciopero Carlo partecipò attivamente (di cui risentì la votazione in condotta, senza peraltro incidere sulla sua presentazione alla maturità), lasciandone testimonianza in una caricatura e in due poesie burlesche, dalle quali tuttavia non traspaiono le cause sostanziali dello sciopero. Avvenimento certamente insolito in una scuola asburgica, questo

|| 5 Paula Michelstaedter Winteler, Appunti per una biografia di Carlo Michelstaedter, in appendice a Sergio Campailla, Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter, Bologna, Patron, 1973, p. 147. 6 Fu Ascoli, il celebre glottologo, ebreo goriziano, presto emigrato, nel 1862, nel Regno d’Italia e divenuto infine Senatore del Regno, a dare espressione col termine «Venezia Giulia» all’appartenenza culturale del Litorale all’Italia. 7 G. A. Franchi, Una disperata speranza, cit., p. 32. 8 Ivi, p. 33.

Una diversa identità: Carlo Michelstaedter | 195 sciopero rimanda, a modo suo, ad un clima culturale e politico che andava rapidamente deteriorandosi e preannunciava l’ormai vicina esplosione del conflitto tra le diverse nazionalità. Se i suoi scritti non ne recano tracce significative, Michelstaedter non doveva comunque ignorare questa delicatissima situazione ai confini sud-occidentali dell’Impero. Lo deduciamo da una lettera ch’egli ricevette nel novembre del 1904 da Innsbruck, il cui mittente, rimasto anonimo per la perdita della parte conclusiva della missiva, vi descrive dettagliatamente gravi episodi di intolleranza avvenuti in città: la devastazione dell’inauguranda facoltà italiana di legge dell’Università e di negozi italiani.9 Potrebbero trarre in inganno due cartoline postali inviate nel marzo del 1907 da Carlo a Jolanda De Blasi, sua compagna di studi all’Istituto fiorentino e di cui in quei mesi egli si era innamorato. Su di una, che rappresenta il castello di Gorizia, chiosa: «Questo è il castello degli antichi conti di Gorizia. Ora […] è in mani barbare».10 Nell’altra, che raffigura Piazza Grande, e sulla quale indica con una freccia la sua casa, cancella il nome stampato Görz sostituendolo a penna con Gorizia.11 Ma qui è un giovane suddito italiano dell’Impero che si rivolge ad una ragazza del Regno, calabrese, e un pizzico d’ingenua e innocua retorica patriottica ci può anche stare, anzi parrebbe inevitabile. A dissipare ogni dubbio in merito, a mostrare Carlo alieno da ogni sorta di nazionalismo e di irredentismo provvede il poscritto di una lettera scritta alla famiglia il 6 febbraio 1906 da Firenze (quindi anteriore alle cartoline a Jolanda), a proposito di una raccolta di testi patriottici curata dalla zia Carolina, la più risoluta esponente dell’irredentismo isontino:

O Dio dio quasi mi dimenticavo di dirvi l’ineffabile gioia artistica che mi diede quella mer(d)avigliosa raccolta delle perle della stupidità irredenta accompagnate dai paterni commenti. Ma pare che si sia fatto apposta da parte dell’esile raccoglitrice e dei collaboratori di mettere insieme le più grandi stronzaggini. […] Il sonetto della zia non potrebbe essere più ziocarolinesco […] però mi dà pensiero per lo stato della sua mente, è davvero da manicomio, non mi fa più ridere, mi fa piangere, dio che colmo.12

A far comunque e definitivamente testo sono alcuni versi vergati nel 1910 (e qui sta il paradosso, «su richiesta di alcune signore filoitaliane, per un numero unico

|| 9 Lettera riprodotta da Campailla in Dialoghi intorno a Michelstaedter, cit., pp. 8–13. 10 Carlo Michelstaedter, Epistolario, a cura di Sergio Campailla, Milano, Adelphi, 1983, p. 195, nota 2. 11 Ibid. 12 Ivi, p. 100.

196 | Ilvano Caliaro patriottico, dove poi non furono pubblicati», come informa Campailla):13 «Non è la patria / il comodo giaciglio / per la cura e la noia e la stanchezza; / ma nel suo petto, ma pel suo periglio / chi ne voglia parlar / deve crearla»,14 nei quali si coglie una concezione ormai chiara e salda dell’individuo, non come identità data (nazionale o religiosa o sociale) ma come singolarità irripetibile che ciascuno deve crearsi da sé. La famiglia di Alberto Michelstaedter, come si è detto, era ormai laicizzata e pienamente integrata nella società locale, e della religione ebraica conservava aspetti prevalentemente formali. Carlo mostra estraneità se non insofferenza e anche repulsione nei confronti dell’ambiente ebraico osservante, cui appartiene il giovane con cui la sorella Paula vive una sofferta vicenda amorosa tra il 1905 e il 1906. Così a Paula da Firenze a fine gennaio 1906:

non si può farsi illusioni contro un ideale così forte così vivo come la fede, che ha in lui le radici più profonde congenite (perché egli non è un’eccezione. Ma in quell’ambiente ho conosciuto 5 sei giovani, tutti gli ebrei che vengono all’istituto cioè meno uno o due che hanno le stesse idee, lo stesso fervore, che studiano tutti al collegio rabbinico) […]. Mi fa l’impressione di una aberrazione generale. Sono gente che non vivono nel nostro mondo, che non possono partecipare che materialmente alla nostra vita;15 e nella primavera del 1906: «Io l’ambiente l’ho conosciuto […] e ti so dire che è stato un bene per te non entrarci. Sono buona gente ma di una bontà passiva e sul punto di religione intransigente a costo di qualunque cosa. Mi fa l’impressione come di vederti liberata da un incubo, di vederti uscire da una camera chiusa oscura al sole chiaro allegro».16 La famiglia era comunque inserita in una rete parentale e amicale estesa oltre Gorizia, a Trieste, Venezia, Vicenza, Padova, Ferrara, Firenze, e che raggiungeva anche Vienna e New York. Carlo frequenta senza entusiasmo alcune di queste famiglie ebree, ad esempio i fiorentini Della Pergola. Così ancora a Paula da Firenze sempre a fine gennaio 1906: «Ieri c’era un ballo per Purim, io sono stato invitato da un giovane del comitato che è mio amico. Veramente non volevo andarvi per non trovarmi in un ambiente sionistico, poi per le istanze che m’hanno fatto e specialmente in casa dai Pergola, e perché anche il sig. Cesare era del comitato dovetti andarci».17

|| 13 Carlo Michelstaedter, Poesie, a cura di Sergio Campailla, Milano, Adelphi, 1987, p. 108. 14 Ivi, p. 76. 15 C. Michelstaedter, Epistolario, cit., p. 91. 16 Ivi, p. 119. 17 Ivi, p. 111.

Una diversa identità: Carlo Michelstaedter | 197

Vi è in queste righe un accenno al sionismo, allora nel suo slancio iniziale (Herzl aveva pubblicato nel 1896 Lo stato degli ebrei, in cui vedeva l’identità nazionale ebraica doversi necessariamente tradurre nella costruzione di uno stato degli ebrei, ed era morto soltanto da due anni), nei cui confronti l’avversione più violenta veniva, oltreché dagli ambienti più rigorosamente religiosi, dalla borghesia ebraica assimilata, cui l’Impero aveva garantito emancipazione economica e sicurezza sociale. Il rifiuto del sionismo da parte di Michelstaedter conferma il suo rifiuto di ogni forma di identificazione, in questo caso nazional-religiosa. Torniamo al padre Alberto. Dalle testimonianze, di lui e su di lui, emerge come profondamente radicato nell’ordine borghese e pienamente conforme alle regole sociali. Scrive, ad esempio, nella lettera a Carlo nota come ‘sermone paterno’, sorta di viatico etico-sociale per il figlio in procinto di affrontare da solo nell’ottobre del 1905 l’esperienza fiorentina: «tuo padre […] ha fatto base della propria esistenza l’onore, sua legge suprema l’onesto lavoro, sua religione il dovere».18 Potremmo dire, richiamando proprio il milieu culturale ebraico, che Alberto di fatto ispirava la sua condotta nei confronti dell’autorità costituita a quanto insegnano a più riprese i maestri del Talmud («la legge del luogo in cui risiedi è legge»), e che questa rappresentava invece il bersaglio principale della radicale critica filosofica e sociale di Carlo, il quale, al pensiero e al costume vigente («Essi [«gli uomini»] dicono: “Non siamo né i primi né gli ultimi a questo mondo, e, poiché bisogna vivere, conviene adattarsi a quello che si trova, che d’altronde non potremmo cambiare”)19 oppone «la via della persuasione», che «non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t’è dato».20

|| 18 In Dialoghi intorno a Michelstaedter, cit., p. 13. Aveva scritto precedentemente: «Stai per lasciarci e te ne vai giovialmente nella radiosa Firenze a fare un bagno d’arte e di lettere, ad ornarti lo spirito delle nozioni più attraenti e poetiche. […] spero che la tua coscienza t’avvertirà sempre che non vai a godere soltanto, che hai doveri da compiere […] ogni nostra azione dev’essere retta dal criterio che prima d’ogni altra cosa dobbiamo compiere il nostro dovere. – Il dovere è il faro, la guida che “mena dritto altrui per ogni calle”, il culto più degno dell’uomo superiore […]. Stai per lasciarci, per essere privato della tua guida naturale, sarà un grande avvenimento per te il sentirti da un momento all’altro appoggiato a te solo, i miei consigli dunque derivati dall’affetto intenso e dall’esperienza sono il tuo viatico necessario ed io ho abbastanza fiducia in te per calcolare che nell’educazione ricevuta, nei radicati principi di rettitudine, nell’istintivo senso del bene attingerai i freni che sostituiranno nella tua nuova esistenza la direzione nostra» (ivi, p. 10). 19 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Milano, Adelphi, 1982, p. 73. 20 Ivi, p. 104.

198 | Ilvano Caliaro

Alberto non avrebbe quindi potuto comprendere il figlio, per il quale man mano che maturava in lui il ‘filosofo’ egli diventava una figura non solo estranea ma paradigmaticamente antitetica: il «grosso signore», appunto, il borghese, l’uomo che «si adatta ragionevolmente», a ragion veduta, protagonista del dialogo che apre il terzo capitolo della seconda parte della Persuasione, intitolato La rettorica nella vita,21 dialogo che si conclude con un emblematico riferimento alla professione del padre, il quale, dapprima cambiavalute, si dedicò poi anche, e quindi esclusivamente, all’attività assicurativa, divenendo il Direttore dell’Agenzia delle Assicurazioni Generali di Trieste a Gorizia.22 Con la sua esperienza familiare si confronta, e certo se ne alimenta, anche la maturazione filosofica di Carlo, l’elaborazione del suo pensiero. Ed è la divergenza, sempre più netta, incomponibile e consapevole, sulla concezione della vita a causare la sua progressiva estraneazione dall’ambiente familiare, sempre più patito, anche se ricco di affettività («sai […] come siamo noi in famiglia uniti quasi in un unico punto caldo»,23 scrive Carlo all’amico Gaetano Chiavacci, il 26 febbraio 1909, annunciandogli la morte del fratello maggiore Gino). Come sappiamo, le matrici di pensiero sono spesso sotterranee, agiscono sotto la soglia della coscienza. Nella radicalità con cui Carlo contesta i valori, le mete e i modelli di condotta dominanti opponendovi valori nuovi e alternativi, potremmo vedere una peculiarità intellettuale ebraica, la propensione a rompere gli schemi dati, a disgregare certezze consolidate. Egli rifiuta infatti ogni identità data, «costituita», sia essa nazionale o religiosa o sociale, affermando la necessità vitale di una diversa identità, che ciascuno deve crearsi da sé: «L’unica cosa che vale è il “valore individuale”. […] questo deve ognuno aver il coraggio di far diventare “realtà”»;24 «Chi vuole fortemente la sua vita […] deve crear sé stesso per avere il valore individuale».25 «Individuo», quindi, non come numero della specie, segmento infinitesimale e anonimo di quell’unica «corda tesa» nel tempo – per usare un’espressione nietzscheana – che è l’umanità, in cui si afferma la «φιλοψυχία», il «puro amore della vita»,26 la cieca brama di vita, ma come singolarità irrepetibile che coincide

|| 21 Ivi, p. 137. 22 Dice ad un certo punto il «grosso signore»: «bisogna aver coscienza d’aver fatto il proprio dovere. Oh questo sì, sul dovere non si transige» (ivi, p. 138). Vedi (sopra e alla nota 18) quanto Alberto Michelstaedter aveva detto sul dovere nel ‘sermone paterno’ a Carlo. 23 C. Michelstaedter, Epistolario, cit., p. 352. 24 C. Michelstaedter, Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Firenze, Sansoni, 1958, p. 700. 25 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 72. 26 C. Michelstaedter, Opere, cit., p. 715.

Una diversa identità: Carlo Michelstaedter | 199 con ciò che la ragione indica come l’«ἀγαθόν», il bene, quello assoluto, sicuro. Che per Michelstaedter, e per il suo «persuaso», consiste nel possedere pienamente la propria vita, in quanto emancipata da ogni necessità e determinazione, spezzando le catene con cui la «φιλοψυχία» tiene asservito l’uomo, e nella quale ha origine la costituzione del sapere dato, costituto, la «rettorica» appunto. E insieme il bene consiste nel «far beneficio», cioè nell’agire secondo giustizia, che è un’idea-limite, una mèta, alla quale, pur consapevole della sua inattingibilità, vuole tendere chi ha imboccato la via della «persuasione»: certo l’individuo così inteso è qualcosa di impensato e intollerabile per la società, nella quale «non vive l’individuo, ma vive in tanti individui la società stessa».27 In questo consiste l’identità vera, da perseguire, per Carlo Michelstaedter, al quale tuttavia la morte prematura impedì di verificarne la possibilità.

|| 27 Ivi, pp. 100–101.

Elis Deghenghi Olujić Il superamento dei confini linguistici e culturali

L’identità plurima di Koraljka (Kenka) Lekovich

Riassunto: Ci si sofferma qui sulla figura e l’identità plurima della scrittrice Koraljka (Kenka) Lekovich, cresciuta in seno a una famiglia etnicamente mista dell’area istro-quarnerina. Pur essendosi formata culturalmente all’interno della comunità italiana della città natale, Fiume, ella ha sempre fatto proprie diverse realtà linguistiche e culturali, che si riflettono anche nelle sue liriche bilingui, in cui all’italiano affianca lo sloveno e il tedesco. Nel saggio si illustrano le tappe essenziali del suo percorso letterario (con l’alternanza di poesia e di prosa d’impronta lirica), il trasferimento a Trieste (anche alla luce del romanzo-diario autobiografico La strage degli anatroccoli del 1995), il suo rapporto con le culture e le lingue europee (nonostante privilegi l’italiano sul piano della scrittura). Significativa è la sua concezione di ‘confine’, che la porta a privilegiare il termine ‘soglia’ da intendersi metaforicamente come luogo in cui ci si sofferma ad osservare l’‘altro’, per definizione il diverso da sé, ed è appunto alla scrittura, nelle sue molteplici declinazioni, sfumature e lingue, che ella affida il compito di superare la ‘soglia‘ e di aprirsi all’‘altro’.

Overcoming linguistic and cultural boundaries: the multiple identity of Koraljka (Kenka) Lekovich

Abstract: This essay will focus on the writer Koraljka (Kenka) Lekovich and her multiple identity. Lekovich grew up in an ethnically mixed family in the Istrian- Kvarner area. Although she was culturally educated within the Italian community of her native city Rijeka, she also appropriated other linguistic and cultural realities, reflected in her bilingual poetry, where Italian is flanked by Slovenian and German. The essay illustrates the essential stages of her literary career (with the alternation of poetry and lyrical prose), her move to Trieste (also in view of the autobiographical novel-diary La strage degli anatroccoli of 1995), her relationship with European cultures and languages (although she preferred Italian for her writing). Her conception of ‘border’ is significant and leads her to

Open Access. © 2020 Elis Deghenghi Olujić, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-015

202 | Elis Deghenghi Olujić privilege the term ‘threshold’ to be understood metaphorically as a place where one lingers to observe the ‘other’, by definition the ‘different from oneself’. In Lekovich’s view, writing, with its multiple facets and registers, can help crossing the ‘threshold’ and opening up to the ‘other’.

La gente di confine a volte è strana. Più il confine è vicino, più traccia confini. (Veit Heinichen, I morti del Carso)

L’indagine condotta da un gruppo di ricercatori nei primi anni del Duemila sulla creatività culturale e artistica femminile nell’area istro-quarnerina ha posto in evidenza la presenza di una folta rappresentanza femminile nella letteratura italiana dell’Istria e di Fiume.1 Una pluralità di voci soliste, tra le quali è inconfondibile quella di Kenka Lekovich. All’anagrafe Koraljka Lekovich, l’autrice preferisce che parlando di lei si usi il nomignolo Kenka, quello in cui si riconosce e che per tanto noi useremo di seguito. Nata a Fiume nel 1962, fin dalla più tenera età Lekovich è stata educata al senso del valore assoluto di una cultura ad ampio spettro, libera da ogni pregiudizio e preclusione. Cresciuta in una famiglia mista nella quale i legami e gli intrecci sono particolarmente complessi,2 la scrittrice fiumana è, infatti, uno «splendido e invidiabile esempio di meticciato»,3 il frutto cioè di complicate ramificazioni genealogiche che hanno condizionato finanche la sua produzione

|| 1 I risultati della ricerca sono stati pubblicati in La forza della fragilità. La scrittura femminile dell’area istro-quarnerina: aspetti, sviluppi critici e prospettive, a cura di Elis Deghenghi Olujić, Pola-Fiume, Pietas Iulia-EDIT, 2004. Si tratta di una pubblicazione collettanea che in due volumi raccoglie i contributi di diciotto studiosi. I saggi ricostruiscono i percorsi letterari e di vita di donne che hanno gradualmente e faticosamente conquistato spazi e attenzione. La ricerca ha posto in rilievo il fatto che alle scrittrici istroquarnerine, esuli e ‘rimaste’, va il merito di aver contribuito alla crescita collettiva delle donne e alla loro evoluzione. La loro produzione letteraria, oltre ad essere strumento di accrescimento personale, di presa di coscienza di sé e della propria centralità, rappresenta al contempo un’ineludibile testimonianza socio- antropologica della realtà regionale. 2 Le vicende familiari di Kenka Lekovich e la confusione di sangue e di destini che connotano la sua storia personale e familiare sono state riassunte da Giacomo Scotti in Scrittura di frontiera: Kenka Lekovich, in La forza della fragilità. La scrittura femminile nell’area istro-quarnerina: aspetti, sviluppi e prospettive, a cura di Elis Deghenghi Olujić, Pola-Fiume, Pietas Iulia-EDIT, 2004, vol. II, pp. 230–243. 3 Christian Eccher, La letteratura degli italiani d’Istria e di Fiume dal 1945 ad oggi, Fiume, EDIT, 2012, p. 265.

Il superamento dei confini linguistici e culturali | 203 letteraria. Educata alla pluralità in una famiglia etnicamente ‘impura’, ha avuto la fortuna di affinare sin da bambina la preziosa esperienza di testimone e di frequentatrice delle diversità linguistiche e culturali. Tra i molteplici influssi che hanno nutrito la sua formazione è stato fondamentale quello del padre adottivo, il medico Alessandro, figlio di madre italiana (napoletana) e padre montenegrino. Cresciuto nel culto della madre, si è nutrito della lingua e della cultura italiana che ha trasmesso ai figli, compresa Kenka. Pertanto, pur nella «complessità dell’albero genealogico del quale è un rametto […] la Lekovich è scrittrice interamente italiana»,4 anche perché è cresciuta e si è formata culturalmente in seno alla comunità nazionale italiana della città natale. Infatti nel capoluogo quarnerino ha frequentato le scuole elementari e medie superiori in lingua italiana e ha lavorato in veste di giornalista nella redazione del quotidiano della comunità nazionale italiana «La Voce del Popolo», diretto all’epoca da Ezio Mestrovich, curandovi per quasi cinque anni le pagine dedicate agli eventi culturali. Per questo ama dichiarare d’essere cresciuta a Fiume tra gli italiani di Croazia e per questo, tra le molte lingue che conosce e pratica (il croato, il serbo, il tedesco, l’inglese, il francese), ha scelto di scrivere prevalentemente in lingua italiana, una lingua di cui ha perfetta padronanza e pertanto può «farne un uso insolito, in costrutti che mettono in discussione le regole grammaticali, costrette a venire a patti con espressioni peculiari della cultura mitteleuropea, creando veri e propri maremoti linguistici».5 A Fiume Lekovich è vissuta fino al 1990, anno in cui, «quasi colomba solitaria ha preso il volo per altri lidi»,6 trasferendosi a Trieste per motivi personali, ma anche perché delusa dai cambiamenti socio-politici ed economici che nei primi anni Novanta del secolo scorso hanno investito l’area istro-quarnerina, e perché indignata di fronte all’inasprirsi del conflitto nell’ex Jugoslavia. In una situazione ben diversa e più difficile rispetto a quella attuale, l’inserimento a Trieste, città multiculturale e crogiuolo di importanti esperienze artistiche novecentesche, è stato difficile e travagliato. Considerata extra-comunitaria, nel capoluogo giuliano è vissuta per alcuni mesi in clandestinità, prima di ottenere i permessi di soggiorno richiesti dalla legge italiana. Nel capitolo Verde sorgente del

|| 4 Giacomo Scotti, Scrittura di frontiera: Kenka Lekovich, in La forza della fragilità. La scrittura femminile nell’area istro-quarnerina: aspetti, sviluppi e prospettive, cit., p. 233. 5 Eliana Moscarda Mirković in Le parole rimaste. Storia della letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero nel secondo Novecento, a cura di Nelida Milani e Roberto Dobran, Pola-Fiume, Pietas Iulia-EDIT, 2010, vol II, p. 465. 6 Alessandro Damiani, Letterati fiumani, in La cultura degli italiani dell’Istria e di Fiume. Saggi e interventi, ETNIA VII, Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, Trieste-Rovigno, Unione Italiana- Università Popolare di Trieste, 1997, p. 361.

204 | Elis Deghenghi Olujić romanzo-diario autobiografico La strage degli anatroccoli, pubblicato nel 1995, ricorda con affetto e riconoscenza Marisa Madieri, fiumana esule a Trieste. Scrittrice e moglie di Claudio Magris, Madieri le ha offerto un generoso aiuto nel difficile periodo del suo tormentato adattamento a Trieste, ed è stata la prima lettrice dell’opera qui citata, con la quale Lekovich si è meritata l’attenzione di eminenti critici7 in modo particolare per la scrittura immediata e felicemente contaminata da innesti dialettali, impreziosita da neologismi e da inserti presi in prestito da tutte quelle lingue che fanno parte del suo ricco e variegato bagaglio culturale. Ricordando quel periodo difficile della sua vita ne La strage degli anatroccoli Lekovich scrive: «Ma un giorno, pensavo, ce l’avrei fatta. Un giorno sarei diventata italiana. Italiana per non dovermi più vergognare del mio passaporto rosso che, malgrado tutta la mia buona educazione e il mio buon accento, sembrava precludermi l’accesso alla Cattedrale della Civiltà».8 L’agognato traguardo la scrittrice fiumana l’ha raggiunto: oggi lavora a Trieste come giornalista professionista freelance ed è cittadina italiana, sebbene il messaggio che trasmette con le sue opere indichi piuttosto il desiderio di essere cittadina del mondo, abitante di tutti quei luoghi, in Istria e a Fiume, in Italia, in Austria, in Inghilterra, in Olanda, nei quali è vissuta e che ha fatto propri con intelligenza, con inusitata apertura mentale e con la disponibilità ad accogliere l’altro. Un altro con il quale condividere l’urgenza di realizzare una fraterna comunione tra gli uomini e avviare un processo di ‘pluralizzazione culturale’. Perché l’accettazione dell’altro, insegna Lekovich, influisce sulla modificazione della nostra identità, che, non essendo compatta e immutabile, stabile e definitiva, non rimane sempre uguale a se stessa, ma si trasforma e si ridefinisce nel tempo in virtù degli incontri con gli altri e delle relazioni che da questi incontri scaturiscono. La nostra identità è il risultato di un costante processo di contrattazione con l’altro, un processo che si sviluppa di continuo senza giungere mai al termine. In questo modo l’identità resta dinamica e vitale, si ridefinisce continuamente, evitando di fossilizzarsi in forme rigide destinate a scomparire.9

|| 7 Dell’opera hanno scritto, tra gli altri, Renato Barilli, Cristina Buongiorno, Anna Maria Crispino, Alessandro Damiani, Paola Gallo, Elvio Guagnini, Primus Heinz Kucher, Francesco Leonetti, Marisa Madieri, Laura Mautone, Nelida Milani, Massimo Onofri, Francesco Roat, Pietro Spirito, Antonio Vellani. 8 Kenka Leković, La strage degli anatroccoli, Venezia, Marsilio, 1995, p. 26. Il passaporto rosso cui l’autrice accenna è quello jugoslavo. 9 L’identità, nella sua incompiutezza e nella sua imperfezione, è un tendere verso qualcosa, un processo in continuo divenire, in quanto essa viene costruita progressivamente tramite confronti, relazioni, mutamenti. Per questo Zygmunt Bauman in Intervista sull’identità, a cura di Benedetto Vecchi (Roma-Bari, Laterza, 2005), afferma che l’identità «ci si rivela unicamente

Il superamento dei confini linguistici e culturali | 205

Per Lekovich non esiste identità se non dentro lo specchio dell’alterità: ha capito presto che costruire l’identità non comporta soltanto ridurre, tagliar via la molteplicità, emarginare l’alterità. Costruire l’identità comporta, invece, l’accettazione di accostamenti, di connessioni, di assimilazioni, di fusioni: significa, in definitiva, «un far ricorso, un utilizzare, un introdurre, un incorporare […] l’alterità nei processi formativi e metabolici dell’identità».10 Lekovich non ha paura del contatto con la diversità e con la mescolanza culturale, alle quali è da sempre stata abituata. Il confronto con la diversità per lei è una parte complementare ed essenziale del processo di definizione di sé. Non soffre dell’incapacità di vivere il contatto e lo scambio, perché consapevole del fatto che il rifiuto di vedere l’altro innesca un processo di chiusura anche nei confronti di se stessi: ha fatto propria l’idea che ci si può realizzare pienamente solo «nel rapporto con l’altro, […] nell’effervescenza dei contatti e degli scambi, non in precetti che vengono inalberati a priori».11 Va ricordato che Lekovich nasce poetessa e che l’incontro con la prosa arriva più tardi, favorito dalle letture e dalla scrittura di diari che hanno nutrito la sua adolescenza nonché dal lavoro giornalistico. Ma anche nelle opere in prosa l’autrice palesa il suo essere fondamentalmente ‘poeta’, come evidenziato spesso dalla critica.12 Lekovich è «sbocciata letterariamente in seno alla comunità nazionale italiana della regione istro-quarnerina, ed alla letteratura di quella comunità in gran parte appartiene»:13 ha esordito infatti giovanissima nel 1984 con la raccolta Poesie pubblicata nella rivista fiumana di cultura «La Battana», a tutt’oggi l’unico periodico di cultura degli appartenenti alla comunità nazionale

|| come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un “obiettivo”, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare fra le offerte alternative» (p. 13). 10 Francesco Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 63. 11 Patrick Chamoiseau-Édouard Glissant, Quando cadono i muri, Roma, Nottetempo, 2008, p. 16. A p. 6 vi si dichiara: «Il fatto che l’identità è prima di tutto un essere-al mondo, come dicono i filosofi, un rischio che bisogna correre e di cui si alimenta il rapporto con l’altro e con il mondo; ed è allo stesso tempo, un risultato di questo rapporto». 12 Pietro Spirito, scrittore, critico letterario e giornalista di origine campana e triestino d’adozione, ha rilevato ne La strage degli anatroccoli la liricità della prosa dell’autrice fiumana, evidente non tanto nell’uso della lingua quanto nel modo di affrontare determinati argomenti. Ad esempio, spiegando la complessità della propria natura e della coesistenza in lei di più anime, l’autrice scrive che esse «si contendono l’istante, che cercano l’equilibrio e trovano il compromesso. Che mentre una dorme, l’altra vorrebbe volare e mentre l’altra sogna, la prima vorrebbe strafare. Integra proprio come te, in ogni slancio e riposo. Come il mare che è onda e bonaccia, nuvola e fondale» (p. 34). 13 G. Scotti, Scrittura di frontiera: Kenka Lekovich, cit., p. 234.

206 | Elis Deghenghi Olujić italiana di Croazia e Slovenia, fondato a Fiume nel 1964.14 Nel 1985, nella medesima rivista, ha pubblicato la silloge Il pane del distacco. Nello stesso anno ha vinto il primo premio al diciottesimo Concorso d’arte e di cultura Istria Nobilissima nella sezione Opera prima per la poesia con la raccolta Erosione.15 Nel 1986, alla diciannovesima edizione del Concorso, ha ottenuto il secondo premio per il florilegio Dormi la terracotta. Ha scritto in versi anche Metalsushi, il libretto in inglese per l’opera musicale An index of metals del compositore Fausto Romitelli, che ha debuttato nell’ottobre 2003 al Festival de Royaumont di Parigi, e pubblicato nel Catalogo I percorsi 2004 di Milano Musica (Milano Musica-Teatro alla Scala 2004). Nel 2004 ha pubblicato nell’antologia bilingue italo-slovena Di sale, sole e di altre parole16 alcune liriche della silloge Ma prima dovevano nascermi altri occhi. Sempre nel 2004, per il Sound Book del compositore Christof Neugebauer (Kulturvermittlung Steiermark, Graz), ha scritto una raccolta di poesie bilingui (italiano-tedesco), Suoni a Graz. Allarmi luminosi-Klänge in Graz. Leuchtende Warnrufe. Oltre ad aver ricevuto molti riconoscimenti, tra i quali nel 2002 il Premio degli editori del centro Europa per l’opera letteraria, nel 2004 è stata insignita del titolo di Scrittrice della città di Graz. Ma prima dovevano nascermi altri occhi, sottotitolata Esercizi di vista nuova, è una raccolta densa e incisiva che segna una svolta nella visione esistenziale e poetica di Lekovich. Va precisato che la silloge non è nata all’improvviso, ma dopo anni di lunga gestazione e di intenso lavoro di affinamento della lingua e della poetica. Per libera scelta dell’autrice molte raccolte scritte in oltre un ventennio non hanno trovato sbocchi editoriali. Si capisce allora perché tra la silloge Dormi la terracotta (1986) e Ma prima dovevano nascermi altri occhi (2004)

|| 14 Alla rivista, sin dal suo avvio, è stato affidato un compito impegnativo ma al contempo gratificante: essere il ponte tra l’Italia e la comunità italiana dei ‘rimasti’ nell’area istro- quarnerina, allo scopo di approfondire la reciproca conoscenza e diffondere, inoltre, la «cultura italiana tra i popoli jugoslavi e quella jugoslava tra il popolo italiano». La rivista doveva essere, dunque, un «punto d’incontro e un ponte per la diffusione nei due sensi delle creazioni artistiche delle due nazioni, alle quali si uniranno le opere valide dei giovani poeti e letterati del gruppo etnico». Le parole qui riportate sono di Antonio Borme e sono tratte dal volume La minoranza italiana in Istria e a Fiume. Scritti e interventi dal 1964 al 1990 in difesa della sua identità e della sua dignità civile, ETNIA III, Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, Trieste-Rovigno, Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume-Università Popolare di Trieste, 1972. 15 Il Concorso, avviato nel 1967 dall’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e dall’Università Popolare di Trieste, rappresenta la manifestazione culturale più significativa degli italiani di Croazia e Slovenia. Per molti autori e artisti istro-quarnerini la partecipazione al Concorso è stata determinante. 16 Di sale di sole e di altre parole. La nuova generazione in poesia a Trieste, a cura di Roberto Dedenaro, Trieste, ZTT EST, 2004.

Il superamento dei confini linguistici e culturali | 207 ci sia un vuoto (apparente) di quasi un ventennio, durante il quale Lekovich ha continuato a scrivere poesia. La plaquette è composta di undici componimenti anepigrafi, sofferti ma al contempo epifanici. Scritti in tono colloquiale e antilirico, sono ispirati al Sutra del Loto, come suggerisce l’autrice, convinta che il testo buddhista con la sua limpidezza filosofica e la sua bellezza letteraria insegni la via per raggiungere lo stesso stato di perfetta illuminazione destinato a tutte le creature sensibili. È una silloge che con versi leggibili e leggeri introduce in una dimensione distesa e serena. Esemplificativa, per l’argomento affrontato in questo saggio, la lirica che apre la silloge mostra una parola concepita nella sua pienezza, carne e spirito, pensiero e fisicità, scrittura e oralità. In questo modo la lirica genera un’energia verbale, oltre che spirituale. La tensione linguistica stempera, infatti, la sua robusta impalcatura stilistica nella leggerezza del tessuto ludico, nel felice incastro sonoro. Al riguardo, valgano come esempio i versi iniziali: «era cinese / era berlinese / era un vanto / era di pianto / era di cinta / era di pietra / di filo spinato / era cemento armato / era privato / era mondiale».17 Il soggetto di questi versi, nominato in seguito nella lirica, è il muro o meglio i muri, uno dei tanti guasti umani. Nella lirica il gioco ludico è inarrestabile: le parole s’accavallano, s’inanellano, si accumulano in un ritmo crescente, mozzafiato, sono come un fiume in piena che si placa alla foce, nella chiusa: «Era la frontiera / era, / e ora / è una linea spoglia, / una soglia, / un Allora / un ancóra e ancóra».18 I muri ed i confini hanno un unico compito principale, quello di separare. I confini, in particolare, segnano linee di demarcazione, comprendono territori che si vogliono definiti e provvisti di un’identità propria. Una «delle conseguenze naturali connesse alla costruzione di un confine è il buttar fuori, l’espellere dall’ambito che si è creato ciò che viene considerato intruso».19 I confini sono talora inesorabili come muri che escludono finanche la vista, la percezione, la stessa consapevolezza della realtà oltre o dietro di essi. Tuttavia i confini spesso cadono, forse esistono per essere violati e abbattuti, offrono luogo per il transito e consentono passaggi da un territorio ad un altro che si suppone diverso, e aprono alla comunicazione con l’altro. In Trieste. Un’identità di frontiera, un’opera scritta nel 1982 da Claudio Magris e Angelo Ara, che rimane ancor oggi un testo fondamentale sulla storia letteraria del capoluogo giuliano, gli autori

|| 17 Dalla silloge Ma prima dovevano nascermi altri occhi, per concessione dell’autrice. 18 Ibid. 19 Piero Zanini, Significati del confine: i limiti naturali, storici, mentali, Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 55.

208 | Elis Deghenghi Olujić definiscono una vera e propria psicologia del ‘cittadino di confine’, e offrono una delle definizioni più chiare del concetto di frontiera:

La frontiera è una striscia che divide e collega, un taglio aspro come una ferita che stenta a rimarginarsi, una zona di nessuno, un territorio misto, i cui abitanti sentono spesso di non appartenere veramente ad alcuna patria ben definita o almeno di non appartenerle con quella ovvia certezza con la quale ci si identifica, di solito, col proprio paese. Il figlio di una terra di confine sente talora incerta la propria nazionalità oppure la vive con una passione che i suoi connazionali stentano a capire […] Ma la frontiera, la quale separa e spesso rende nemiche le genti che si mescolano e si scontrano sulla sua linea invisibile, anche unisce quelle stesse genti, che si riconoscono talora affini e vicine proprio in quel loro comune destino – che le grandi madrepatrie non riescono a capire – in quel loro sentimento segreto d’inappartenenza, in quell’incertezza e in quell’indefinibilità della loro identità.20

È d’obbligo, a questo punto, puntualizzare che esiste una distinzione tra confine e frontiera. Anche se spesso i due termini vengono usati come sinonimi, essi presentano delle sottili differenze. Il confine è un limite condiviso, posto tra due spazi vicini, confinanti. La frontiera, invece, può essere «rappresentata come una fascia, una zona sfrangiata, più o meno larga in funzione dei rapporti che corrono tra una parte e l’altra della frontiera».21 Definire un confine significa fondare uno spazio, stabilire una linea certa e stabile, almeno fino a quando non si modificano profondamente le condizioni che l’hanno determinata. La frontiera è invece instabile, «con le sue frange grandi e piccole, crea un terzo spazio che il confine, quasi ne avesse timore, tende invece a ridurre al minimo»,22 e questa incertezza non si percepisce solo a livello politico e spaziale, ma anche nella lingua, nelle abitudini e nei costumi di una comunità. Diversamente dal confine che è un limite nitido e preciso, che separa in maniera netta, la frontiera corrisponde a una linea meno definita, a uno spazio incerto, vasto e indeterminato. La possiamo immaginare come una striscia di territorio dai confini indefiniti e imprecisi, dove non esistono distinzioni o limiti così rigidi che non possano essere superati o infranti. L’inconsistenza e l’instabilità dei contorni, che circoscrivono la zona della frontiera, lasciano filtrare le differenze e permettono la mescolanza delle diversità, consentono relazioni, aiutano a stringere rapporti. Attraverso il confronto con la diversità si rafforza la percezione dell’altro e di conseguenza anche la percezione della nostra persona. Con la sua instabilità la frontiera è un luogo meticcio, il topos della pluriculturalità, è una realtà che «dà contorni e

|| 20 Angelo Ara-Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 2007, pp. 192– 193. 21 P. Zanini, Significati del confine: i limiti naturali, storici, mentali, cit., p. 12. 22 Ivi, p. 14.

Il superamento dei confini linguistici e culturali | 209 lineamenti, costruisce l’individualità, personale e collettiva, esistenziale e culturale».23 I confini instaurano e dimostrano un profondo legame con lo spazio. Con il loro delimitare danno forma a territori e paesaggi, ritagliano e segmentano spazi e ambiti di competenza differenti. Non sono però in relazione solo con lo spazio fisico, quello geografico: essi sono strettamente legati anche agli spazi della nostra cultura e della nostra identità. Non solo di confini nazionali, statali e politici dunque si tratta, ma soprattutto di quelli psicologici e culturali, ossia di quei ‘confini invisibili’ che albergano nelle menti degli individui, che non lasciano tracce materiali nella realtà concreta, ma che sono spesso più difficili da abbattere. Spesso i confini, infatti, quand’anche non fossero marcatamente segnati sul territorio con segni che evidenziano una dimensione circoscritta, uno spazio chiuso, influiscono in maniera profonda con i luoghi e gli spazi che segnano e danno forma ai nostri orizzonti mentali, alle nostre identità, più o meno autentiche, passano attraverso le coscienze degli individui, sono «linee che attraversano e tagliano un corpo, lo segnano come cicatrici o come rughe, dividono qualcuno non solo dal suo vicino ma anche da se stesso».24 Chi nasce, cresce e vive da sempre a ridosso d’un confine, come nel caso di Lekovich, queste cose le sa e le vive sulla propria pelle: ha la consapevolezza della difficoltà di accettare il confine e sente al contempo la necessità e l’urgenza di superarlo. Il proposito è dissolvere confini rigidi e coatti e costruire, invece, confini più flessibili fondati su proficui rapporti umani. Parlando di confini, Lekovich ha più volte ribadito che piuttosto del termine ‘confine’ preferisce usare il termine ‘soglia’: metaforicamente, la soglia rappresenta il luogo in cui ci si ferma ad osservare l’altro, per definizione il ‘diverso da sé’. Per Lekovich la scrittura è il suo modo per varcare la ‘soglia’ e andare verso gli altri, è il modo con il quale sconfinare e abbattere le barriere e superare i confini. Ancora, la scrittura le offre l’opportunità di riprodurre sulla carta l’eterogeneità linguistica e culturale cui per storia personale e collettiva appartiene, le permette di sommare tutte le varie componenti della sua composita identità per conferire loro pari dignità e medesima valenza. Il compito non è facile: la meta è ricomporre l’io con la pluralità dei suoi frammenti, e raggiungere e mantenere una propria originalità creativa e comunicativa. Nelle opere in prosa, in particolare, Lekovich lo ha significativamente realizzato. Il variegato bagaglio linguistico e culturale che ella porta con sé

|| 23 Claudio Magris, Dall’altra parte. Considerazioni di frontiera, in Utopia e disincanto. Storie speranze illusioni del moderno, Milano, Garzanti, 1999, p. 58. 24 Ivi, p. 52.

210 | Elis Deghenghi Olujić esplode in tutta la sua forza ed esuberanza in questa parte della sua produzione letteraria: crea infatti una lingua «abitabile per sé», una singolare ‘miscela’ che rispecchia compiutamente la sua plurima identità. Il risultato è una prosa nella quale essa trascende i confini linguistici e culturali utilizzando agilmente e abilmente tutte le lingue e i dialetti di matrice mitteleuropea che le appartengono. Le lingue e i dialetti non rappresentano nel suo caso ambiti circoscritti e limitativi, bensì la proliferante materia prima della sua arte, l’attestazione di quel felice intreccio di lingue e di culture che per lei sono la norma quotidiana e un dato di fatto, la cartina di tornasole di una peculiare storia personale e la testimonianza dell’anima plurietnica e multiculturale della città natia e della regione d’appartenenza. Pertanto, «trasportare nella scrittura un mosaico di parole appartenenti a diverse lingue, e ancor prima, un insieme composito di suoni e atmosfere, è stato un processo per lei quasi naturale e necessario»,25 l’espressione di un «modus essendi prima ancora che vivendi».26 Di conseguenza, il singolare miscuglio linguistico che l’autrice ha nella testa e che traduce nella scrittura «non è una posa, non è finalizzato all’effetto»,27 «non è dettato da un criterio preciso, studiato a tavolino»,28 bensì nasce spontaneo ed è il risultato del fecondo incontro di lingue e culture diverse che ha assorbito in famiglia sin dalla più tenera età, e che ha praticato e pratica nella realtà. Una condizione, questa, familiare a molti abitanti dell’area istro-quarnerina e messa a buon frutto da molti scrittori, da Fulvio Tomizza e Nelida Milani, per esempio, che con le loro opere hanno raccontato e chiarito una realtà complessa sconosciuta ai più, ma proprio per questo corroborante e stimolante sul piano umano, culturale e intellettuale. Per il pastiche linguistico che entrambe praticano, specchio della realtà plurietnica e multiculturale dell’Istria e di Fiume, molti critici hanno accostato Lekovich a Nelida Milani, pluripremiata scrittrice polesana, autrice di molti

|| 25 E. Moscarda Mirković, in Le parole rimaste. Storia della letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero nel secondo Novecento, cit., p. 464. In una intervista rilasciata a Moscarda Mirković per corrispondenza, riportata a p. 471 del saggio qui citato, Lekovich ha dichiarato: «Ci sono situazioni, dicevo, dove saltellare da una lingua all’altra, da un dialetto all’altro, è la norma. La norma quotidiana, a casa mia, era star seduti a tavola e passarsi il sale in cinque lingue e cinque dialetti. Quando le cose stanno così, cioè nel corso di un banale pranzo quotidiano ci si trova a passarsi il sale in dodici idiomi diversi, […] essere multilingui non è una questione di onore bensì un dato di fatto. La normalità, oserei dire. L’anomalia e, in certi casi la pazzia, era ed è, l’essere costretti a scegliere, schierarsi dalla parte di una sola lingua, di un solo dialetto e, in fin dei conti, di una sola cultura». I corsivi qui indicati appaiono nel testo dell’intervista. 26 Ibid. 27 G. Scotti, Scrittura di frontiera: Kenka Lekovich, cit., p. 235. 28 E. Moscarda Mirković, in Le parole rimaste. Storia della letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero nel secondo Novecento, cit., p. 465.

Il superamento dei confini linguistici e culturali | 211 racconti e del romanzo epistolare Bora scritto con Anna Maria Mori, incentrato sul trauma delle lacerazioni familiari e dello sradicamento dovuto all’esodo istriano del secondo dopoguerra. A tale proposito Christian Eccher puntualizza: «Dalla Milani, Kenka trae numerosi elementi, a cominciare dalla prosa musicale e spedita, che assorbe totalmente l’attenzione del lettore, e che riesce a enunciare concetti complessi in maniera semplice e immediata; un turbinio di immagini, storie, impressioni su cui l’autrice non si sofferma, ma che si susseguono come macchie di acquarelli, nitide nella loro fugacità».29 La strage degli anatroccoli è la prima opera in prosa di Lekovich, finalista del Premio e del Premio Montblanc nella categoria del Romanzo giovane. È difficile stabilire a quale genere appartenga questa sincera e liberatoria opera prima: è un «romanzo-diario autobiografico»,30 «un diario ironico, tragico e sferzante che […] racconta l’Istria e la Croazia contemporanea»,31 una «successione di schizzi e bozzetti sulla vita comunitaria e familiare, inserita nel più ampio quadro dell’area altoadriatica e oltre»,32 dove «oltre» significa che nell’opera non c’è solo Fiume, l’Istria, alla quale l’autrice dedica un capitolo intitolato Aurora istriana, e l’ambiente istro-quarnerino, ma anche Londra, Lubiana, Belgrado. E ancora l’Austria, la Vojvodina, la regione autonoma della Serbia e la sua gente tollerante, Milano, Trieste, Napoli, Zagabria, Venezia, Sarajevo. Ci sono i fiumi: il Danubio, l’Isonzo, l’Eneo, e ci sono tanti riferimenti letterari, che testimoniano il corposo bagaglio culturale dell’autrice. Ed è proprio per il tramite della letteratura che Lekovich annulla i confini, condanna inutili odi e nazionalismi sterili ed esasperati, si prende gioco delle divisioni e le supera vivendo contemporaneamente con genti diverse. Sullo sfondo degli avvenimenti tragici degli anni Novanta del secolo scorso, che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia e generato smarrimento e timore per il futuro, Goethe, Schiller, Hesse, Zweig incontrano lungo il Danubio di Magris Dostojevski e Cvetaeva, Krleža da Agram (è l’antico nome di Zagabria) e Crnjanski (il più grande romanziere serbo), e ancora Dino Campana e Nelida Milani. È un incontro di anime, un abbraccio tra scrittori che hanno avuto un ruolo determinante nella formazione culturale dell’autrice, che si è nutrita del loro pensiero e delle loro parole.

|| 29 C. Eccher, La letteratura degli italiani d’Istria e di Fiume dal 1945 ad oggi, cit., p. 266. 30 E. Moscarda Mirković, in Le parole rimaste. Storia della letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero nel secondo Novecento, cit., p. 466. 31 C. Eccher, La letteratura degli italiani d’Istria e di Fiume dal 1945 ad oggi, cit., p. 265. 32 A. Damiani, Letterati fiumani, cit., p. 361.

212 | Elis Deghenghi Olujić

Convinta che il dialogo con l’altro sia sempre possibile anche quando tutto sembra renderlo impossibile, la giovane scrittrice svela con forza e audacia lo stato d’animo di fronte all’incrudelirsi del conflitto in Bosnia, lancia severe accuse ed esprime amare considerazioni sull’«homo balcanicus», che, «anarchico» per natura, «non ha mai sopportato regole e imposizioni dell’ordine civile, piegandosi soltanto alle oscure forze del destino».33 La strage degli anatroccoli è uno sfogo giovanile, un’opera scritta di getto nella quale l’autrice esprime il malessere di tutta una generazione: quella nata e cresciuta nella Jugoslavia comunista che sogna una vita senza guerre e senza confini, delusa dalla spaventosa e traumatica guerra scatenatasi nei primi anni Novanta del secolo scorso nel cuore dell’Europa. Lekovich si proclama apolide per rimarcare il voluto distacco da una parte del proprio passato e confessa: «Non c’è stata gioventù più apolitica e apatica di quella jugoslava e non c’è stata, nella storia moderna, repressione più ambigua di quella subita dalla mia generazione».34 L’opera è ricca di innumerevoli ricordi familiari, come l’episodio che dà il titolo al romanzo, ossia la strage compiuta involontariamente dalla madre che, durante una vacanza in Serbia, all’età di due anni, abbracciò con troppo trasporto una nidiata di anatroccoli tanto da soffocarne una dozzina. Ma è specialmente un libro di denuncia dei nazionalismi che sono cresciuti con la nascita dei nuovi Stati dopo lo scioglimento della Jugoslavia, di condanna «degli stereotipi, dei pregiudizi, della disinformazione, delle barriere, delle etichettature che soffocano la società e che minano la libertà di ogni essere vivente».35 È un grido di accusa contro ogni forma di pulizia etnica che deriva dall’esaltazione della ‘purezza’. La strage degli anatroccoli è un testo importante anche perché Lekovich definisce la propria scrittura, il proprio stile: «Se dovessi scegliere uno stile architettonico per il mio scrivere», dichiara, «lo vorrei eclettico e grottesco come l’hotel Excelsior al Lido di Venezia, o la sua versione danubiana, la Gradska Kuća del ‘903 a Subotica. Mi incantò quel luogo di maioliche e ussari, di turchese e di Costantinopoli e giallo pannonico».36 Con il caleidoscopio di immagini e di giochi verbali, con «l’arditezza e la “novità” dell’inquinamento linguistico»,37 il primo romanzo di Lekovich non è passato inosservato. Molti critici hanno sottolineato

|| 33 K. Leković, La strage degli anatroccoli, cit., pp. 142–143. 34 Ibid. 35 E. Moscarda Mirković, in Le parole rimaste. Storia della letteratura italiana dell’Istria e del Quarnero nel secondo Novecento, cit., p. 470. 36 K. Leković, La strage degli anatroccoli, cit., p. 52. 37 G. Scotti, Scrittura di frontiera: Kenka Lekovich, cit., p. 236.

Il superamento dei confini linguistici e culturali | 213 come elemento positivo e originale della sua prosa proprio quella felice contaminazione linguistica con la quale l’autrice riporta nella scrittura il mappamondo di parole, di suoni e di atmosfere che le appartengono e che ha assorbito nella famiglia multiculturale e plurietnica nella quale è cresciuta in una condizione privilegiata, stimolante e corroborante sul piano umano, culturale e intellettuale.38 È impossibile ricordare in questa sede tutti i saggi, gli articoli, le opere pubblicate in seguito da Lekovich. Nondimeno, corre l’obbligo di evidenziare che, per quanto concerne la produzione narrativa, dopo il successo del primo romanzo l’autrice fiumana si è «concentrata su narrazioni allegoriche e metaletterarie, in cui non esita a prendere in giro sé stessa e il suo essere “di frontiera”»39 con pacata ironia, che, come insegna Claudio Magris, è una grande forma di libertà, è «la libertà dagli idoli, dall’assolutizzazione, dall’ideologia».40 L’ironia, difatti, «dissolve i confini rigidi e coatti, […] costruisce confini umani, flessibili e tenaci, […] si oppone a ogni misticismo indistinto e a ogni totalitaria assemblea pulsionale, perché distingue, articola, ridimensiona e autoridimensiona».41 Nel caso di Lekovich l’ironia è salutare, è il frutto di una profonda consapevolezza di sé e dei propri umani limiti, è un meditato distacco dalle opinioni proprie e altrui, è la capacità di relativizzare tutto ciò che è, appunto, relativo, e spesso pretende di essere, invece, assoluto. Il particolare linguaggio usato dall’autrice anche nelle opere scritte dopo La strage degli anatroccoli le consente di realizzare un discorso che restituisce il bisogno di

|| 38 A p. 86 di Se improvvisamente il treno si fermasse a Maglern, nell’ultimo racconto intitolato Maria, per bocca della «romanziera» che spiega alla protagonista il suo modo di esprimersi, Lekovich dichiara: «ogni tanto parlo come mangio, I speak Gulasch. E il Gulasch, dice, è il lato interessante della sua attività di romanziera, che consiste nell’impastare insieme lingue e pseudolingue, zuppa e pan bagnato. Il lato più interessante, così dice». I speak Gulasch è un saggio radiofonico che è stato anche il contributo dell’autrice al progetto Die Poetik der Grenze (‘La poetica del confine’), per Graz Capitale europea della cultura 2003 (UNESCO), ideato e condotto dallo scrittore e editore austriaco Markus Jaroschka assieme al poeta di Sarajevo Dževad Karahasan. Nel saggio l’autrice ipotizza la creazione di una ‘Babele mitteleuropea’, di una ‘Schengen filologica’. Auspica cioè che la caduta dei confini si attui anche attraverso lo sconfinamento di lingue e di linguaggi. 39 C. Eccher, La letteratura degli italiani d’Istria e di Fiume dal 1945 ad oggi, cit., p. 267. 40 Claudio Magris, Claudio Magris: scrittura e frontiere in Scrittori a confronto. Incontri con Aldo Busi, Maria Corti, Claudio Magris, , Roberto Pazzi, Edoardo Sanguineti, , , a cura di Anna Dolfi e Maria Carla Papini, Roma, Bulzoni, 1998, p. 68. 41 Claudio Magris, Dall’altra parte. Considerazioni di frontiera, in Utopia e disincanto. Storie speranze illusioni del moderno, cit., p. 59.

214 | Elis Deghenghi Olujić trovare un proprio baricentro fisico e verbale, mentre la scrittura resta anche in seguito il modo più idoneo con cui considerare il presente e riguardare il passato con lo scopo di fare i conti con se stessi e con i rapporti di odio-amore di cui è intrisa l’identità, risuscitando anche fantasmi rimossi. Con il suo sferragliare sulle rotaie, gli scompartimenti dove sconosciuti siedono gli uni accanto agli altri, il fischio che lancia quando si avvicina alla stazione, il treno è una terra di nessuno, lo sfondo ideale per ambientare storie di incontri, di viaggio e di attraversamento di confini. Il treno è un mondo a parte perché agisce sull’immaginazione in maniera straordinaria, tanto che molti autori si sono confrontati con questo mezzo dal quale hanno colto ottimi spunti letterari. Anche Lekovich ha subito il fascino delle rotaie. Il treno e i suoi passeggeri sono infatti i protagonisti della serie di racconti intitolata Se improvvisamente il treno si fermasse a Maglern (2010),42 un libro di fascinosa affabilità, metafora di un’Europa che l’autrice auspica senza confini, ma che ancora fatica a essere veramente tale. Il pretesto narrativo è l’assidua frequentazione di un treno, precisamente dell’Eurocity Roma-Vienna, nel tratto che da Udine conduce a Bruck an der Mur, dell’alter ego della scrittrice, «tale Barbara Batos di professione romanziera di frontiera» con «sospette origini uraloaltaiche».43 Quel treno, che non si sa neppure se esista veramente, «si dilettava a sbigottire i passeggeri», perché «si fermava di brusco in una stazione qualunque, non prevista dalla tabella di marcia».44 Un giorno si fermò a Maglern, ossia in una «sperduta e umida stazione di confine, e per un pezzo non ci fu verso di farlo ripartire».45 Si spiega così il titolo di questa raccolta di 12 racconti di confine più uno, come indica il sottotitolo, storie brevi che hanno per titolo il nome del passeggero-personaggio che si racconta e così illumina il proprio lato più segreto, quello che ha determinato il suo destino personale e familiare. I passeggeri-personaggi di diversa nazionalità, che scendono nelle varie stazioni nelle quali il treno si ferma sono, brano dopo brano, le voci narranti dei racconti:

|| 42 I «dodici racconti di confine più uno» sono stati scritti nell’ambito del Progetto Die Poetik der Grenze, al quale l’autrice fiumana ha partecipato in qualità di ‘scrittrice di frontiera’. Nel 2003 i racconti hanno vinto il Premio per la narrativa inedita al trentaseiesimo Concorso d’arte e di cultura Istria Nobilissima, mentre nell’agosto dello stesso anno sono stati sceneggiati dalla RAI Regionale Friuli Venezia Giulia e mandati in onda per venti puntate. Sepp Mall, scrittore meranese, ha curato la traduzione in lingua tedesca del testo, intitolandolo Der Zug hält nicht in Ugovizza. 43 Kenka Lekovich nella Premessa a Se improvvisamente il treno si fermasse a Maglern, Merano, Edizioni alpha beta Verlag, 2010, p. 7. 44 Ivi, p. 8. 45 Ibid.

Il superamento dei confini linguistici e culturali | 215 il primo è Hannes, cui seguono Marilena, Istvan, Bettina, e poi Felix, Ina e ancora Andreas, Miran, Mur, Bura, Òblak, quel Senza Nome del penultimo racconto e, infine, Maria. Il treno pare un treno fantasma, e gli stessi passeggeri-personaggi sono come fantasmi, tanto che l’autrice, per il tramite di Barbara Batos, puntualizza:

Più di due mesi ho viaggiato in balia degli umori, lo si può ben dire, dell’Eurocity Roma- Vienna, ogni volta arrivando a destinazione con il dubbio se avevo viaggiato oppure se avevo soltanto immaginato di viaggiare. I biglietti che ho conservato, usandoli come segnalibri, confermano che ho viaggiato, che su quel treno, in quel dato giorno, a quelle date ore, io definitivamente ero stata. Io. Ma Bettina? Òblak? Hannes? Ina? Marilena? Erano davvero su quel treno? Ho davvero visto Marilena scendere a Pontebba e dileguarsi come un vapore sull’acqua? Non ho mai trovato il biglietto di Marilena o il biglietto di Bettina, né sono riuscita a trovare quello di Hannes, di Ina e di Òblak. Non vedo perché avrei dovuto: ognuno di loro, com’è logico, è sceso dal treno portando con sé il proprio biglietto. Non ho pertanto nessuna prova dell’esistenza di Òblak e di Bettina, di Marilena, di Hannes e di Ina, non ho modo di dimostrare di averli visti veramente su quel treno. Eppure, le loro voci posso sentirle come fosse oggi, e i loro volti li ho davanti, nitidi come vetri appena lavati, e posso ricordare con matematica certezza il nome della stazione dove ognuno di essi è sceso per scomparire nel paesaggio dell’ultimo novembre di un Millennio.46

Il terzo dei dodici racconti è narrato da Istvan. Nella sua storia rievoca il momento del crollo del Muro di Berlino nel novembre del 1989. Istvan è un artista. In occasione dello storico avvenimento ha deciso di mettere in scena il suo primo cabaret politico che, per ovvi motivi, ha intitolato 1989. Come protagonista del lavoro ha scelto Elias Canetti, che, con Rilke, Roth, con «l’ebreo errante» Stefan Zweig, è uno degli autori che in queste microstorie vengono evocati o citati, tutti scrittori mitteleuropei, i quali, prima del 1918, viaggiavano in un’Europa senza confini perché l’Impero austro-ungarico era un territorio vastissimo, aperto agli apporti multietnici e alle contaminazioni culturali. «Ho sempre invidiato Canetti per aver vissuto negli anni d’oro del Danubio e, in fin dei conti, gli anni d’oro dell’Europa che, come sappiamo, ai tempi di Canetti aveva ancora il buon gusto di gloriarsi per il fatto di parlare e per giunta perfettamente tante lingue quante sono le dita di due mani»:47 così Istvan argomenta la scelta del protagonista del suo cabaret che in seguito, in una scena che ha del surreale, distribuisce alla folla che festeggia la riunificazione della Germania salsicce speciali, «le salcicce della riunificazione», appunto, che al loro interno contengono, «come un biscotto del

|| 46 Ivi, pp. 8–9. 47 K. Lekovich, Se improvvisamente il treno si fermasse a Maglern, cit., p. 26.

216 | Elis Deghenghi Olujić saggio cinese», un biglietto con un pensiero di Canetti. La folla, però, «avida di salsicce e di riunificazione», ingoia le salsicce intere, biglietto compreso. Il resto del cabaret, spiega Istvan, «si gioca sui disperati e dunque comici tentativi della massa […] di recuperare i biglietti ingoiati, per vedere che cosa di tanto importante vi era scritto».48 Il racconto narrato da Òblak, nome che vuol dire ‘nuvola’, è autobiografico. Per il tramite di questo passeggero-personaggio, «un bibliofilo, o un bibliomane, o entrambe le cose in uno»,49 che per tutta la vita non ha fatto altro che annegare nei libri, l’autrice informa il lettore delle sue preferenze in ambito letterario, elenca autori e opere che hanno avuto un ruolo fondamentale nella sua educazione culturale e sentimentale. Thomas Bernhard, autore di Estinzione, dal profondo pessimismo, è lo scrittore privilegiato di Lekovich, senza il quale, confessa il protagonista del racconto e alter ego dell’autrice, «io non sarei più io».50 Rasenta il maniacale il fascino che Estinzione e il suo autore esercitano sul protagonista, il quale confessa:

Neppure La Divina Commedia ha un simile effetto su di me, nemmeno quel passo del Purgatorio dove la bora che quasi quanto Estinzione si è da sempre succhiata il mio cervello e quello della gente di qui, viene descritta in maniera così magistrale; nemmeno il canto XXX del Purgatorio si spinge a tanto. E io, in effetti, non ho mai avuto sulla parete un ritratto di Dante, ho sempre avuto ritratti di Thomas Bernhard […]. Non so perché ho sempre avuto sulla parete un ritratto e successivamente svariati ritratti compreso un poster, di Thomas Bernhard, e mai un ritratto di Dante Alighieri. Ma i legami nella vita sono insondabili.51

Alcuni racconti sono tra loro collegati e assumono un senso se letti in successione. È il caso del racconto intitolato Mur, al quale si ricollega quello intitolato Bura. Mur è il nome di un ragazzo che, dopo aver lavorato in un’industria casearia fallita a causa delle normative imposte dall’Unione Europea sulle quote del latte e dopo aver assistito al suicidio del suo datore di lavoro, comprende d’essere figlio del fiume. Difatti, il suo nome è quello del fiume Mur che attraversa Leoben, la città dove è nato. In quel fiume la madre, ancora incinta, era caduta (se fosse nato in Slovenia, sarebbe dovuto per forza essere femmina, in quanto lo stesso fiume là si chiama Mura, con un nome di genere femminile): «Memore del miracolo del fiume, la gente del nostro paese che mette in moto la fantasia soltanto di fronte a eventi estremi e miracolosi, non esitò ad

|| 48 Ivi, p. 27. 49 Ivi, p. 71. 50 Ivi, p. 72. 51 Ivi, p. 75.

Il superamento dei confini linguistici e culturali | 217 affibbiarmi il soprannome di “figlio del fiume”».52 Ammalato della «malattia dei fiumi», a vent’anni Mur comincia a girare l’Europa e a visitare le città europee attraversate da un corso d’acqua. Frequenta «l’Università delle città fluviali» e impara:

Da Agram sulla Sava per esempio, ho imparato che la giustizia è uguale per pochi, e l’ingiustizia per tutti. Da Budapest sul Danubio ho imparato che ogni cosa ha un tempo. Da Belgrado, che di fiumi ne ha due, ho imparato che tutto nel cuore umano è doppio e per ogni città bianca ce n’è una nera. Da Praga sulla Vltava ho imparato che una biblioteca può stare sott’acqua e che si può annegare in un libro. Da Laibach su un fiume che non so mai pronunciare, ho imparato che di nostalgia non si muore, da Firenze sull’Arno ho imparato che la bellezza è un porto franco. Da Gorizia sull’Isonzo ho imparato che l’acqua non si può tagliare in due, da Cividale sul Natisone ho imparato che la pacatezza può essere vertiginosa, da Innsbruck sull’Inn ho imparato a chinarmi su un bucaneve, dall’Istria sul Quieto ho imparato che un abbraccio ti guarisce più di mille parole, da Salzburg sulla Salzach ho imparato dei suoni meravigliosi che dire non so. Da Fiume sull’Eneo, loro hanno sempre detto Eneo, ho imparato che esistono casi senza precedenti.53

La protagonista del racconto Bura (che significa ‘bora’) è nata, come la bora, a «Segna degli Uscocchi». Il racconto è un ironico e spiritoso monologo di Bura, abbandonata da un marito che non comprende la sua ipersensibilità e la passione per Rilke e la terza delle sue Elegie duinesi. «Voi donne» le aveva detto prima di fuggire a Chernobyl perché voleva vedere dove sta di casa l’inferno e sperimentarne gli effetti,

è come se foste tutte nate sulla Dragogna dopo la guerra, quella del ’91, vi commuove persino il radicchio se all’improvviso qualcuno si è sognato di dividere due ciuffi di radicchio: le foglie croate di qua, le slovene di là. E chisseciava54 del radicchio! […] Lui non la regge, non la può reggere, tutta questa sensibilità esagerata. Questo esser nati in barca, ha detto, questo lasciar sempre tutto spalancato, lui non lo può capire. Lui, tutta ’sta roba, non la può gestire. È troppa roba per lui.55

Uscendo dall’ufficio postale dove si era recata per spedirsi un telegramma di autocordoglio, Bura si imbatte in Mur, ossia in «uno con la faccia da pesce fuor d’acqua».56 Insieme salgono la collina, ammirano il panorama e decidono di sposarsi subito l’indomani nella «prima città sul fiume disponibile».57 Siccome

|| 52 Ivi, p. 62. 53 Ivi, p. 64. 54 In dialetto triestino significa ‘chi se ne frega’. 55 Ivi, pp. 66–67. 56 Ivi, p. 69. 57 Ibid.

218 | Elis Deghenghi Olujić lui desidera la presenza di un fiume e Bura, invece, ama il mare, decidono di comune accordo di sposarsi a Fiume, una città che «è appunto sul mare e sul fiume allo stesso tempo».58 Esilarante e ironico, il racconto Senza nome è scritto in parte in lingua italiana e in parte in dialetto triestino. La scrittura è graffiante, limpida e corrosiva e, nella parte scritta in dialetto, s’intride dei sapori e degli umori più autentici della parlata dialettale. A differenza degli altri passeggeri-personaggi, la viaggiatrice protagonista di questo racconto non può dichiarare il suo nome, perché da due anni viaggia in incognito e scende dal treno in una stazione ignota. La causa di questa singolare situazione è un nonno dalla mente alterata che, mentre lei si prepara per partire per le vacanze estive, dalla foiba di Basovizza, dove vive rintanato come in trincea, le comunica telefonicamente che da Radio Londra ha appreso che «i gà serà tuti i confini», perché è iniziata la quarta e forse anche la quinta guerra mondiale. Inutile il tentativo della nipote di convincere il vegliardo del contrario. Minaccia di sequestrargli finanche la cocacola, di cui è grande consumatore, che sembra avergli dato alla testa: «Eh no, la cocacola no. Te me pol sequestrar tuto, la casa, l’orto, la barca, te dago anca un rene se te ocori, ma no tocarme la cocacola, che se no iera per la cocacola, l’Istria iera ancora nostra»,59 si impunta il vecchio. Ma tutto succede per colpa di Milošević che, offeso per non esser stato invitato a una festa organizzata in onore della fine della terza guerra mondiale da «quei del Palazo de Vetro a Nuiorc», ha ingoiato un piatto di fragole. Non sapendo d’essere allergico «a le fragole fin de picio, col zogava a far čevapčići coi soldatini de piombo»,60 è morto sul colpo. Rimasto senza «l’ultimo dei paroni», il mondo ha perso la bussola, ed è iniziata una guerra di tutti contro tutti. Lekovich ha più volte sottolineato con una punta di rammarico come quasi tutti i suoi lavori trovino molta difficoltà ad essere pubblicati in Italia rispetto alla facilità, invece, con cui escono in Austria e in Germania.61 La Breve postfazione inserita in appendice a Se improvvisamente il treno si fermasse a Maglern la

|| 58 Ibid. 59 Ivi, p. 79. 60 Ivi, p. 81. 61 Nel racconto Sulla soglia, tradotto in lingua tedesca da Primus Heinz Kucher, inserito nell’antologia Halbwegs zum Rimmel (Graz, 2007), Lekovich rende omaggio in chiave allegorica all’Austria e alla città di Graz, personificate entrambe nella figura della Padrona di Casa. L’immagine dell’Austria che l’autrice presenta è quella di un Paese aperto all’accoglienza di artisti di ogni provenienza, che investe nell’arte e promuove scrittori, aprendo loro il mercato editoriale. Secondo l’autrice, per molti altri paesi, compresa l’Italia, l’Austria potrebbe essere un modello da seguire.

Il superamento dei confini linguistici e culturali | 219 leggiamo come uno sfogo dell’autrice per la mancata attenzione degli editori italiani nei confronti di giovani scrittori promettenti:

Sono dieci anni tondi che questi 12 racconti di confine più uno sono in viaggio. Su binari tutti loro, proprio come il treno che li ospita, lungo tragitti arzigogolanti e arzigogolati che il balordo capostazione che per un istante li ha fermati (e firmati) non ha potuto in alcun modo dirigere o controllare. […] Mai si sarebbe sognato [il capostazione, ovvero l’autrice] che il birbante [il treno, ossia i racconti] per arrivare ci avrebbe messo non uno o due anni, ma dieci. Tondi come palle da biliardo su un tavolo verde prato. […] Niente, il capostazione non potrà sapere niente. Non restandogli che sventolare un fazzoletto bianco, a mo’ di arrendevole benvenuto. E un po’ facendo spallucce da vecchio smaliziato, un po’ briccone divertito, concludere: meglio tardi che mai.62

Lekovich è donna e scrittrice singolare, libera come il vento che soffia dove vuole e liberata da qualsiasi strettoia e risentimento. Il suo essere è plurietnico, come lei vorrebbe fosse l’Europa unita. Una realtà senza più confini (senza più granice, meje, border…) e senza patrie, una casa libera per tutti i suoi abitanti. In Se improvvisamente il treno si fermasse a Maglern, a conclusione del racconto intitolato Miran, scrive:

Oggi tutti dicono: Repubblica. Repubblica di Moldavia, Repubblica di Slovenia, Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, Repubblica di Ucraina, Repubblica di Cecenia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Repubblica del Senegal, Repubblica d’Italia. Ma io, come il mio amico l’ebreo errante Stefan Zweig, rimango cittadino dell’utopica Repubblica del Mondo, con l’aggiunta di un colore: il verde. Io dico: questa Verde Repubblica del Mondo è necessaria. La mia fede in essa è come l’acqua.63

|| 62 K. Lekovich, Se improvvisamente il treno si fermasse a Maglern, cit., pp. 89–90. 63 Ivi, pp. 56–57.

Ricciarda Ricorda Ana Cecilia Prenz Kopušar, «un’argentina italiana nata a Belgrado»

Riassunto: Ana Cecilia Prenz (1964), nel volume del 2016, Attraversando il fiume in bicicletta, si misura con tre identità, argentina, serba e italiana, e con le rispettive culture e lingue, in una storia personale che attraversa momenti cruciali del Novecento, come la dittatura argentina, il periodo di Tito, le tensioni politiche della storia italiana degli anni Settanta. Il diario, scritto prima in spagnolo e poi tradotto dall’autrice stessa in italiano, presenta pertanto un’inedita commistione di luoghi, situazioni, condizioni, con il racconto delle vicende e della formazione straordinaria di una giovane che ha dovuto di volta in volta ricominciare la propria vita, accettando di riconoscersi un’identità dotata di più connotazioni. L’analisi del testo punterà sul tema del confronto e dell’incontro tra le diverse dimensioni, con la ricostruzione di un’identità che deve ridefinirsi dopo strappi e vicende laceranti.

Ana Cecilia Prenz Kopušar, «an Argentinean from Italy born in Belgrade»

Abstract: Ana Cecilia Prenz (1964), in the volume of 2016, Attraversando il fiume in bicicletta, is measured by three identities, Argentinean, Serbian and Italian, and their respective cultures and languages, in a personal history that crosses crucial moments of the twentieth century, such as the Argentine dictatorship, the period of Tito, the political tensions of Italian history in the seventies. The diary, written first in Spanish and then translated into Italian by the author herself, therefore presents an unusual mixture of places, situations, conditions, with the story of the events and the extraordinary formation of a young woman who had to start her life over again, accepting to recognize her identity with more connotations. The analysis of the text will focus on the theme of comparison and encounter between the different dimensions, with the reconstruction of an identity that must redefine itself after tears and lacerating events.

Open Access. © 2020 Ricciarda Ricorda, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-016

222 | Ricciarda Ricorda

«In tutto quello che faccio ho sempre cercato di unire i miei tre mondi, Jugoslavia, Argentina e Italia. Li vorrei vivere contemporaneamente. Di recente ho detto a mio figlio: “esiste la parola terbiqua?” Ecco, io sono così».1 Nel caso di Ana Cecilia Prenz Kopušar la coesistenza di nazionalità diverse non si realizza in un luogo, in una dimensione fisica, ma all’interno della sua stessa persona che, come ha precisato lei medesima, con un neologismo che bene sintetizza la sua condizione, «terbiqua», appartiene a tre dimensioni, che vorrebbe vivere contemporaneamente, perché, se lo spostamento è sofferenza, è il dolore di lasciare una parte di sé altrove, l’unica possibilità di non continuare a percepire tale parte come mancanza, come nostalgia, è di portarla dentro di sé e continuare così a farla vivere. Tale condizione «terbiqua» è al centro del suo libro Attraversando il fiume in bicicletta, pubblicato prima in Argentina, dove si sono succedute due edizioni, nel 2013 e nel 2015, con il titolo Cruzando el río en bicicleta, e quindi, nel 2016, tradotto da lei stessa in italiano, con alcuni cambiamenti: sono diverse infatti le pagine finali, che presentano alcune omissioni e aggiungono una conclusione di tipo riflessivo, e sono introdotte alcune immagini, fotografie di oggetti dotati di una valenza simbolica in relazione al contesto e dell’autrice da piccola con il padre.2 Il testo racconta le vicende e le esperienze di Ana Cecilia, che l’hanno vista muoversi tra tre diverse appartenenze: è proprio il senso dell’appartenenza ad accamparsi centralmente nell’opera, già nel titolo del primo capitolo, appunto Appartenenza. Sembra significativo che la scrittrice preferisca in genere questa parola a identità, «parola avvelenata», per usare l’attributo conferitole da Francesco Remotti, «perché promette ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione».3

|| 1 Arianna Boria, Ana Cecilia Prenz, «I miei tre mondi dentro un diario», «Il Piccolo», 21 aprile 2015. 2 Queste le edizioni: Ana Cecilia Prenz Kopušar, Cruzando el río en bicicleta, Mediterránea, Centro di Studi Interculturali, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Trieste, 2013; Buenos Aires, De la Tablita Dorada, City Bell, 2015; Attraversando il fiume in bicicletta, Trieste, Vita Activa, 2016. Sulle differenze tra l’edizione in spagnolo e quella in italiano cfr. Adriana Cristina Crolla, Migración, autoficción y autotraducción en Cruzando el río en bicicleta de Ana Cecilia Prenz Kopušar, «Oltreoceano», 13, 2017, pp. 197–206, e Susanna Regazzoni, Entre Argentina e Italia pasando por : Cruzando el río en bicicleta de Ana Cecilia Prenz Kopušar, «Ars & Humanitas», 2017, vol. 11, pp. 220–231. 3 Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Bari, Laterza, 2017 (2010), p. 7.

Ana Cecilia Prenz Kopušar, «un’argentina italiana nata a Belgrado» | 223

Del resto, Octavio Prenz, padre di Ana Cecilia, «curioso esempio di scrittore sudamericano-mitteleuropeo», come lo ha definito Claudio Magris, è autore del romanzo Solo gli alberi hanno radici (2013), ambientato a Ensenada de Barragán, paese argentino del quale scrive anche Ana Cecilia e in cui, per usare ancora le parole di Magris, «arrivano, partono, ritornano emigranti di diverse generazioni, provenienti soprattutto dall’Istria italo-croata. Ma non si tratta di sradicati, perché – come Prenz ha detto più volte anche di se stesso – non si sentono alberi strappati alla loro terra, ma piuttosto animali randagi che amano vagabondare per il mondo e amano ogni luogo in cui sostano, per breve tempo o a lungo o per sempre, aperti a nuovi incontri, mescolanze, congedi».4 Come già il titolo suggerisce, il romanzo propone dunque una visione del mondo alternativa alla fissazione identitaria denunciata da Remotti, vicina invece a quella sottostante alle pagine della figlia. Qualche dato sulla scrittrice: docente presso l’Università degli Studi di Trieste, si occupa di letteratura teatrale in lingua spagnola, in particolare della drammaturgia e del teatro argentino contemporaneo, di autori teatrali spagnoli del Rinascimento e della letteratura teatrale ‘judeoespañola’ nei Balcani. Il suo interesse per il tema dell’interculturalità è costante e si articola in diverse attività: nel campo del teatro e della letteratura è attestato dalla pubblicazione di articoli e saggi sulla scrittrice sefardita della Bosnia Laura Papo Bohoreta e dalle traduzioni di autori argentini, italiani, sloveni e bosniaci, tra cui il poeta argentino José María Pallaoro, il drammaturgo argentino Eduardo Pavlovski e l’attrice, poetessa e drammaturga slovena Saša Pavček. Cura inoltre in Slovenia il centro culturale La Casa de Kamna, luogo di incontro e riflessione sull’America Latina; coordina anche gli accordi di cooperazione scientifica, didattica e culturale dell’Università di Trieste con quelle di Sarajevo e del Paraguay.

|| 4 Claudio Magris, Prefazione. Un mitteleuropeo sudamericano, in Juan Octavio Prenz, Solo gli alberi hanno radici, traduzione di Betina Lilián Prenz, Milano, La nave di Teseo, 2017, ebook posizione 9-21. Juan Octavio Prenz, nato in Argentina, vissuto in Jugoslavia, approdato infine a Trieste, con la famiglia, docente universitario, è scrittore, saggista, poeta e traduttore: tra i suoi romanzi, con quello citato, si ricordano La favola di Innocenzo Onesto, il decapitato (2001) e Il signor Krek (2014); tra i libri di poesia, La Santa Pinta de la Niña Maria (1992), con cui ha ottenuto il Premio Internazionale «Casa de las Américas». Betina Prenz, traduttrice di Solo gli alberi hanno radici e del Signor Krek, studiosa di filosofia del linguaggio, è sorella di Ana Cecilia e personaggio del suo testo.

224 | Ricciarda Ricorda

L’approdo di Ana Cecilia Prenz a Trieste risale al 1979: nata a Belgrado (Serbia) nel 1964, da padre argentino ma di famiglia croato-istriana e madre pure argentina, di ascendenza franco-spagnola, dopo pochi anni ritorna con i suoi a La Plata, in Argentina, dove trascorre l’infanzia e la prima adolescenza; nel 1975, quando la situazione inizia a farsi confusa e a manifestarsi l’attività dell’Alianza Anticomunista Argentina, con minacce di morte al padre, il cui nome viene inserito in una ‘lista nigra’, la famiglia lascia il paese e si stabilisce a Belgrado, dove Ana Cecilia frequenta la scuola media. Anche in Serbia, dopo qualche anno, i Prenz capiscono che «qualcosa non andava nel migliore dei modi» e decidono di spostarsi in Italia, scegliendo Trieste in quanto vicina alla Jugoslavia e, dichiara la scrittrice, perché ritenevano che «la mentalità italiana era vicina a quella argentina».5 Dopo il liceo, decide di proseguire gli studi a Roma, alla Sapienza, dove si laurea in Discipline dello Spettacolo, mentre consegue il dottorato di ricerca all’Università de La Plata in Argentina, ritrovando un altro modo, altre vie, il teatro, la letteratura, per entrare nella storia del paese, per un lento recupero di quella dimensione.6 Nella storia della famiglia Prenz si verifica dunque un incrocio di appartenenze e di destini, che Ana Cecilia racconta nel loro dispiegarsi: una sicura vena autobiografica – gli eventi raccontati appartengono tutti alla storia della sua famiglia, i personaggi messi in scena pure, dai nonni materni e paterni, ciascuno seguito nelle sue vicende e fatto oggetto di un ritratto tanto puntuale quanto suggestivo, soprattutto le due nonne, agli zii e ai parenti tutti, agli amici, nominati con precisione – lascia però anche spazio a una dimensione creativa, soprattutto nella particolare articolazione del discorso, che non segue la cronologia dei fatti, ma li disarticola, mescolando tempi ed episodi. Non vi è dubbio pertanto che si tratti di un testo di difficile collocazione, per una simile commistione di autobiografia e di finzione, ma anche per la volontà dell’autrice di raccontare, attraverso la propria vicenda esistenziale, una storia più ampia, di paesi e persone che hanno vissuto la guerra, la dittatura, la lotta per la democrazia. Mi pare però che il testo non si risolva del tutto nella dimensione dell’auto-finzione, almeno nell’accezione italiana, genere ibrido di cui attualmente molto si discute e a cui alcune studiose di area ibero-americana lo ascrivono, perché non mi sembra che l’autrice giochi con i piani dell’identità e

|| 5 A. Boria, Ana Cecilia Prenz, «I miei tre mondi dentro un diario», cit. 6 «È stato lento il recupero del paese. I ritorni diluiti. Ogni volta cercavo di apprezzare qualcosa di nuovo. Lo studio mi ha permesso di entrare attraverso altri canali nella storia argentina e scoprire la terra di coloro che parlano poco, o forse, parlano molto, però li si ascolta poco» (A. C. Prenz Kopušar, Attraversando il fiume in bicicletta, cit., p. 96).

Ana Cecilia Prenz Kopušar, «un’argentina italiana nata a Belgrado» | 225 non intenda rendere consapevolmente difficile per il lettore distinguere la realtà dalla finzione, il suo io reale da quello fittizio: si tratta semmai della tendenza ineludibile dell’autore dell’autobiografia a costruirsi come personaggio.7 Il racconto si allontana comunque dai tempi della fabula fin dall’inizio: l’avvio si colloca infatti negli anni dell’adolescenza a Belgrado, ma solo in un secondo tempo si apprenderà che si tratta, per la giovane Ana Cecilia, di un ritorno alla terra in cui è nata, anche se solo per un temporaneo spostamento della sua famiglia; nel capitolo subito successivo, invece, una sorta di flash back riporta il lettore alla precedente fase della vita della narratrice in Argentina, negli anni della scuola elementare, un istituto un po’ hippie e molto antiautoritario. Il movimento pendolare da un tempo più recente a una dimensione anteriore continua, con un passaggio di nuovo a Belgrado, seguito da un ulteriore spezzone argentino, con il racconto della vita della nonna paterna, María, emigrata dal suo paese in Istria al Rio della Plata, e il riferimento alla famiglia materna. Anche l’approdo a Trieste lascia aperto il via-vai con la Jugoslavia, con una serie di ritorni a Belgrado che evocano anche nel presente una serie di immagini e ricordi del passato. Questo gioco complesso all’interno della dimensione cronologica è poi determinante ai fini della costruzione di una personalità, quella dell’io narrante, che si forma proprio nell’intreccio di diverse appartenenze, in una dialettica tra dimensioni differenti, tutte ugualmente importanti e necessarie. Migrazione, esilio, appartenenza sono dunque al centro del racconto e vengono declinati secondo ottiche diverse: la lingua, i suoni, gli spazi, i documenti ufficiali. La lingua non è per caso al primo posto, perché la scrittrice la indica in più occasioni come fattore fondante del senso di appartenenza:

È stata bella la mia adolescenza in Jugoslavia. […] Mai, come allora, ho percepito in modo così forte il senso di appartenenza. E pensare che ero piccola; non piccola, giovincella. Quanto basta per capire che ero una persona. Ho preso coscienza di me. I miei compagni di classe mi insegnavano delle parole […]. Ma quel Cecilia, che loro pronunciavano Zezilia e che scrivevano Cecilija, risultava complicato. Allora Dragana ha

|| 7 Cfr. Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, trad. it. Bologna, il Mulino, 1986. Ascrivono il testo all’ambito dell’autofinzione S. Regazzoni, Entre Argentina e Italia pasando por Yugoslavia: Cruzando el río en bicicleta de Ana Cecilia Prenz Kopušar, cit., pp. 221–223, e A. C. Crolla, Migración, autoficción y autotraducción en Cruzando el río en bicicleta de Ana Cecilia Prenz Kopušar, cit., pp. 198–199. La stessa Prenz, per altro, in un’intervista a Crolla, citata dalla medesima, ivi, p. 199, acconsentirebbe a tale collocazione: «Sí, creo que estamos ante un texto auto-ficcional».

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detto: previše teško, troppo difficile; od danas ti si Ceca, da oggi in poi tu sarai Zeza. E da allora per i miei amici a Belgrado sono diventata Ceca. Così mi hanno assimilato al loro mondo. Un atto semplice ma per me molto significativo. Ecco il senso di appartenenza. Dal primo giorno, anche se non parlavo la lingua, sono diventata una di loro.8

L’assimilazione al mondo degli altri, l’integrazione nella nuova dimensione passa dunque, prima di tutto, attraverso le parole, mentre fondamentale risulta l’atto magico della nominazione, l’invenzione del nome, nel linguaggio privato del gruppo di amici. Numerosi sono poi nel testo i riferimenti alla lingua, alle diverse lingue che convivono in Ana Cecilia, senza confliggere, anzi, concorrendo a organizzare diversi tipi di immaginario e salvaguardando diverse esperienze esistenziali: così a Belgrado rimane vivo in lei lo spagnolo, che parla con piacere con l’amica della madre Joaquina e con la famiglia di Rubén, con cui lei e i suoi cercano anche in quel luogo diverso i loro «momenti argentini» – soprattutto i genitori, che «avevano bisogno di comunicare nella loro lingua»:9 eppure, proprio i genitori avevano sempre pensato che fosse necessario vivere secondo le abitudini del paese in cui si abitava, immergendo quindi le figlie nel mondo jugoslavo e facendo loro condividere tutto di quel mondo, «la lingua, gli spazi, le abitudini, le allegrie e i dolori» – ma qualche cosa di «nostro» rimaneva in loro, probabilmente proprio la lingua, quella materna, delle prime parole, lo spagnolo – lingua sua, di sua sorella, di sua madre.10 Nonostante questa sorta di ‘prelazione’ dello spagnolo, che è l’unica lingua in cui la narratrice dice di riuscire a parlare quando la stanchezza la coglie, anche le altre che appartengono alla sua vita le sono altrettanto indispensabili, le danno il senso del rapporto necessario fra il tutto e le parti:

La precarietà della nostra esistenza. Non l’ho mai percepita con angoscia, al contrario, con estrema bellezza. E le lingue, ognuna a modo suo, con le proprie specificità, mi hanno condotto a tutto ciò, verso il tutto e verso il nulla, come un gioco. Adoro parlare in serbo, la lingua dei forti, decisa, chiara, rotonda, senza inflessioni. Il nostro argentino, allegro, spensierato, diretto, creativo. L’italiano, elegante, sì, molto elegante, tanto elegante che diventa contorto, quanto contorto!11

|| 8 A. C. Prenz Kopušar, Attraversando il fiume in bicicletta, cit., pp. 7–8. 9 Ivi, p. 36 10 Ivi, pp. 41–42. 11 Ivi, p. 43.

Ana Cecilia Prenz Kopušar, «un’argentina italiana nata a Belgrado» | 227

L’incrocio delle diverse lingue, dunque, lungi dal creare difficoltà, è vissuto come elemento di ricchezza, spazio privilegiato; ed è una situazione che non riguarda solo Ana Cecilia, ma anche la sua famiglia; così il figlio Felipe, in un dialogo con il suo maestro di violino argentino:

− Tuo papà è sloveno e tua mamma di dove è? − È argentina ma è nata a Belgrado. − Ah, è serba? − No, è argentina. − No, è serba, dice il professore. Se tu sei nato in Italia, sei italiano. Io sono nato in Argentina, sono argentino, quindi, tua mamma, se è nata in Serbia, è serba. − Felipe ammutolisce e pensa. Non capisce il ragionamento. Da quando è nato per lui sua madre è argentina. − E che lingua parla tuo papà? − Sloveno. − E tua mamma? − Spagnolo. Ma noi a casa parliamo molte lingue: io con mio fratello parlo sloveno, con mio papà italiano, con mia mamma spagnolo e mia mamma e mio papà tra loro parlano in serbo. E mio fratello con mia mamma parla in spagnolo e con mio papà sloveno.12

La lingua, per altro, è sì ‘dono’ materno, ma è anche lenta costruzione, a cui collabora altrettanto fortemente il contesto, la lingua che la narratrice definisce del «nostro intorno»; ed è un dramma se viene rifiutata, come le succede quando, durante la guerra, lavora come traduttrice e si trova a dover tradurre in italiano il discorso del ministro della neo Croazia: percepito il suo accento serbo, l’uomo rifiuta la sua traduzione e per lei, di sangue croato, anche se nata a Belgrado, è un primo schiaffo – dichiara – forte, molto forte; la lingua per la prima volta non è più un fattore di inclusione, ma diventa causa di divisione, di ostilità.13 Nel racconto, prevale però decisamente la prospettiva che vede nella lingua un elemento fondamentale di riconoscimento: lo conferma la storia della nonna paterna María, ripercorsa in due suggestivi capitoli; il primo, Buenos Aires 9, risale al tempo della migrazione, con il racconto del suo viaggio dal paese istriano-croato d’origine, Podmerišče, vicino a Pisino, all’Argentina, e con la riflessione, al Museo Hotel degli Immigrati a Buenos Aires, sull’esperienza di quella giovane partita da sola per una vita tutta da costruire. Un po’ casuale

|| 12 Ivi, p. 44. 13 Ivi, p. 109.

228 | Ricciarda Ricorda risulta il suo approdo alla piccola città di Ensenada, dove si stabilisce e dove trova lavoro, nella fiorente – a quel tempo – industria per la lavorazione della carne; qui si fa una famiglia, cresce due figli maschi, che avrebbero entrambi studiato e sarebbero diventati socialisti, impegnati, continuando a lavorare fuori e in casa. Anche per la nonna María la lingua è fattore di identificazione e di inclusione; con qualche effetto curioso: parla infatti in genere lo spagnolo, quello degli immigrati, ma, una volta che torna in Istria – con un viaggio premio offertole dall’associazione dei Giuliani nel mondo, in quanto una delle più anziane ensenadensi – insieme a una vicina di casa, pure istriana, con la quale ha sempre parlato spagnolo, passa a comunicare con lei solo e rigorosamente in dialetto istriano. Fin da subito, quando, giovane da poco immigrata, andava al lavoro a Berisso, al di là del fiume, un braccio del Rio della Plata, si era trovata immersa in una commistione singolare di lingue:

Colori intensi, alberi vicino al fiume e una moltitudine di gente che si dirigeva al lavoro. Le lingue, sempre le lingue, mormoravano nella memoria di mia nonna. Degli slavi: polacchi, russi, croati, sloveni; degli italiani, del nord e del sud. Tutte si compenetravano in quell’identità così argentina fatta dalle idiosincrasie d’ognuno. Ogni volta che María doveva scendere le scale per salire sull’imbarcazione, le dava fastidio che gli uomini le guardassero le mutande. Ci faceva ridere. Lei si arrabbiava. Quel breve tragitto creava in lei un’incomprensibile inquietudine interiore. Spesso sognava che attraversava il fiume in bicicletta galleggiando sull’acqua.14

L’ultima frase, per inciso, contiene il titolo del libro: il sogno raccontato dalla nonna, ha spiegato Ana Cecila Prenz, allude metaforicamente alla condizione in cui si riconosce lei stessa, è un’immagine del suo «andare e venire da uno spazio all’altro, anche con la testa»; e certo la narratrice compie continui spostamenti tra i diversi spazi del suo paesaggio dell’anima, a volte anche con qualche significativo corto-circuito. Lo si può verificare a partire proprio dai luoghi, descritti sempre con forti connotazioni emotive: la Belgrado dell’adolescenza della narratrice «non era bella, era sporca, grigia, contaminata», però camminare per le sue strade per lei era bello, i suoi odori, il fumo, le sue fragranze, le sue case piene di vita, la musica, tutto l’attraeva, «come un magnete» e l’affascinava, conducendola a «tempi lontani, a una forma primigenia dell’umanità in cui la tenerezza, l’ingenuità, i buoni sentimenti e la brutalità si confondevano».15 La città continua a esercitare il suo fascino anche dopo il trasferimento a Trieste, e almeno fino alla

|| 14 Ivi, p. 61. 15 Ivi, pp. 9-10.

Ana Cecilia Prenz Kopušar, «un’argentina italiana nata a Belgrado» | 229 guerra, quando Ana Cecilia smette di visitare quella che era diventata ex Jugoslavia: fino ad allora invece ci ritorna tutte le volte che le è possibile, a riassaporarne gli aromi, a ritrovare il gusto dei diversi tipi di salsicce, a sentirsi parte di un gruppo, a condividere, a ossigenarsi;16 in un immaginario dialogo con una Jugoslavia personificata, la scrittrice immagina di sentirle dire «che tutte le cose finiscono a un certo punto», ma ribadisce la forza dei ricordi: «ho goduto della tua allegria. La tua voglia di condividere. Ti concedevi senza riguardi e mi dicevi che ti appartenevo. E io godevo dei tuoi odori, delle tue certezze».17 Più articolati i riferimenti ai paesaggi dell’Argentina, come bipartiti: da un lato, le immagini dell’infanzia, schermate, ma conservate intatte nella memoria, la casa dei nonni, luogo di pace, in cui svanivano tutti i conflitti, il verde intorno, il cortile; dall’altro, quelle scure, tetre, brutali della dittatura militare: un’Argentina piatta, in cui, tornandoci da ragazza, non si ritrova.18 Eppure, con il passare del tempo, riesce a riappropriarsi di questa nazionalità, torna a sentirsi anche argentina: le tre dimensioni della sua esistenza sono emblematicamente fissate nei suoi documenti ufficiali; i funzionari che le rilasciano i documenti in Argentina le attribuiscono la nazionalità jugoslava – essendo lei nata a Belgrado –; invece all’ambasciata argentina di Belgrado, la registrano come figlia di argentini. Poi, per una legge emanata durante la dittatura, perde la nazionalità argentina e figura per un periodo apolide; in seguito, diventa italiana, grazie ai nonni istriani che non avevano mai cambiato i loro passaporti ed erano rimasti italiani; infine, può riappropriarsi della sua nazionalità argentina:

Io ero argentina. A casa avevo sempre parlato in spagnolo. Le mie abitudini erano argentine. Mi piaceva l’asado, la grigliata argentina, il dulce de leche, quella marmellata di latte che a Belgrado ci mancava tanto, le empanadas, una specie di fagottini pieni di carne, formaggio, verdure, il mate, il flan, che suona così male tradotto con la parola budino. Non è che il cibo definisca l’identità di una persona, ma… Mi piacevano anche gli spaghetti, la mozzarella con pomodoro e basilico, pure i crauti e i peperoni grigliati, però si trattava di gusti che avevo acquisito, fatti miei, attribuito significati dopo, li avevo elaborati con coscienza. Gli altri, gli argentini, erano lì, erano quello che ero io e accompagnavano i miei gesti quotidiani. Come la lingua, lo spagnolo.19

|| 16 «Negli anni continuai ad andare a Belgrado. Tutte le occasioni erano buone per vedere i miei amici. […] io cercavo di spiegarle [all’amica Monica] le sensazioni che sentivo quando calpestavo quel territorio. L’appartenenza. Fare parte di un gruppo. Condividere. Mi sentivo viva» (ivi, p. 81). 17 Ivi, p. 114. 18 Ivi, pp. 91–93. 19 Ivi, p. 91.

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Dove, per inciso, sarà da notare un’ulteriore sottolineatura dell’importanza della lingua, oltre ai riferimenti al cibo, che ritornano spesso, nel libro, e, analogamente alle scelte linguistiche, sono funzionali a rendere il senso di un’identificazione e di un’appartenenza. Poco più avanti, però, di fronte all’Argentina trasformata dalla dittatura, questo senso di appartenenza sembra sfumare; anche gli anni di Trieste influiscono sul modo di pensare dell’io narrante, «in molte cose, anche se non lo volevo, ero italiana», fino a farla concludere: «Sono tornata, molte volte, ma alla fine non sono mai tornata. Non appartengo all’Argentina».20 Per mettere un po’ d’ordine nel susseguirsi di appartenenze, di identificazioni, di sensazioni, che la scrittrice dichiara di volta in volta, può essere funzionale il ripensare alcune scelte dei genitori: nonostante la durezza delle loro vite, non hanno mai fatto avvertire alle figlie il peso dell’esilio, anzi, neppure loro l’hanno vissuto come tale; hanno sempre pensato, lo si è accennato, che bisognasse vivere secondo le abitudini dei paesi in cui si abitava; hanno cercato un altro mondo per essere se stessi, per non identificarsi con quello che lasciavano,21 per evitare di vivere, loro e le figlie, nel ricordo della dittatura militare:

Mio padre sentenziava: bisogna condividere il destino del paese in cui si vive! E io sempre immersa nella nostalgia. Non capivo. Che cosa voleva dire? L’ho capito dopo. Non voleva che le figlie vivessero nel ricordo tormentato di una dittatura militare. Meglio il presente del paese nuovo. Che curioso, mi ha sempre dato fastidio quella frase. Invece, era così semplice.22

Colpisce, a questo proposito, la pregnanza, ma anche, al tempo stesso, l’essenzialità con cui la scrittrice allude ai traumi della sua vita – l’esilio, la migrazione – e a quanto hanno significato per lei nel tempo: sembra che abbia alla fine accolto l’invito del padre a non vivere perennemente nella nostalgia, a fare come i personaggi del suo Solo gli alberi hanno radici, che «continuano a vivere in mondi o in Stati che non ci sono più – come quando si dichiarano ‘austriaci’ perché nati nel defunto impero asburgico, mettendo in imbarazzo poliziotti, uffici e passaporti di tanti paesi – e che continuano ad amare pur senza nostalgia e amando anche gli altri luoghi del loro andare».23

|| 20 Ivi, p. 91 e p. 96. 21 Ivi, p. 72. 22 Ivi, pp. 117–118. 23 C. Magris, Prefazione. Un mitteleuropeo sudamericano, cit., posizione 21.

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Ecco allora pochi accenni alla dittatura in Argentina, l’inquietante Ford Falcon senza targa sotto la casa dei Prenz, che segnala loro il pericolo che minaccia il padre, il silenzio sulle violenze e sulle uccisioni anche da parte degli amici, i funerali di un guerrigliero; non numerosi sono pure i riferimenti alle vicende della Jugoslavia, al percepibile malessere dei tardi anni Settanta, al suo progressivo ‘svanire’. Gli ultimi capitoli del libro, Tomás e Ex, costituiscono invece una sorta di affondo sui due traumi: il primo racconta di un ragazzo argentino i cui genitori avevano scelto la lotta armata ed erano morti molto giovani; a lui ci era voluto del tempo per accettare la loro scelta e l’abbandono dei figli: solo più di trent’anni dopo, davanti alle ossa della madre, scomparsa venticinquenne, incinta e con due figli piccoli, ritrovate in una fossa comune, la incontra davvero, sente la connessione con lei ed è come se riuscisse finalmente a sentirsi, insieme alla nonna e alla sorella, ‘intero’.24 Il capitolo successivo, Ex, registra una serie di stati d’animo della narratrice di fronte a quanto vede succedere in Jugoslavia, con le notizie drammatiche su croati e serbi, e la progressiva incomprensione delle reazioni di quelli che erano stati i suoi amici:

Io volevo continuare a essere jugoslava. Per un periodo andai a Belgrado. Nessuno poteva mettere in questione la mia lingua. Viaggiavo con una giornalista, traducevo per lei. Le cose fluivano. […]. Assistevo all’esaltazione della mia gente stupita e distanziata. Il loro nazionalismo. Non avevo mai smesso di tornare a Belgrado. I miei amici più cari mi portavano in piazza, alle manifestazioni. […] Non mi piaceva, non mi identificavo più.25

Assistere, poi, a uno scambio di prigionieri, serbi e croati, le dà l’impressione di rivedere scene del passato, vestiti come sono, i primi, con uniformi carcerarie uguali a quelle viste nei film sulla seconda Guerra Mondiale, nei campi di concentramento nazisti («nessun essere umano – commenta – deve soffrire tale umiliazione»).26 L’episodio, che viene filmato per essere dato in pasto alla «divulgazione mediatica», le consente anche di inserire una riflessione su una pretesa oggettività dell’informazione, che sottolinea essere invece tutt’altro che tale. Per la guerra di Bosnia, infine, «non ci son parole». Significativamente, però, il racconto di Ana Cecilia Prenz si chiude con una suggestiva immagine, ancora in uno spazio di convivenza, multilingue e

|| 24 A. C. Prenz Kopušar, Attraversando il fiume in bicicletta, cit., pp. 105-106. 25 Ivi, pp. 108–109. 26 Ivi, pp. 109–112.

232 | Ricciarda Ricorda pluriculturale,27 in cui il suo stesso riconoscersi latinoamericana le consente infine di assumere in sé e pacificare le sue diverse appartenenze:

Le cose cambiano, ma in fin dei conti neanche tanto. Sono in montagna. La signora zingara, con le gonne corte, non più lunghe e coprenti come un tempo, rallegra la mia mattinata. Ride. Lui invece fuma. Non fa altro accovacciato davanti al suo portale. Kako si, Ceco? Come stai, Ceca? È un serbo della Bosnia e mi chiama Ceca. Mai in un altro modo. La vicina a fianco mi dice Gospa, Signora, rispettosa, come sono gli sloveni, e mi porta ogni tanto del latte fresco. Un po’ più in là c’è la mamma della ragazza musulmana, anche lei d’estate viene dalla Bosnia e lavora l’orto. Mi piace chiacchierare con lei. Ha la dolcezza dell’accettazione. Rosi, invece, mi parla dei fiori dell’Istria e del mare. Anche Monica mi fa visita. Parliamo di Trieste. Mi ostino, o forse no. Sono fra le montagne e da questo luogo, forse ancora come un tempo, vivo il mio essere latinoamericana.28

|| 27 Cfr. A. C. Crolla, Migración, autoficción y autotraducción en cruzando el río en bicicleta de Ana Cecilia Prenz Kopušar, cit., p. 204. 28 Ivi, p. 118.

| Commistioni e sconfinamenti di genere

Angela Fabris Voci, generi e spazi ibridi: La frontiera rovesciata di Francesco Burdin

Riassunto: Ne La frontiera rovesciata (1997) di Francesco Burdin, testo-collage di materiali eterogenei (con un saggio introduttivo, quattro canzoni e una cantata, tre racconti e un aforisma), si indaga intorno al concetto mutevole di frontiera con una vocazione ai cambi di prospettiva. In alcuni di questi testi, infatti, il discorso sulla frontiera e la narrazione intorno ad essa assieme agli effetti prodotti dalla guerra diventano predominanti e sembrano accogliere gli echi di alcune pagine di Italo Svevo e Karl Kraus sul primo conflitto mondiale. Ciascuno di essi si caratterizza, a sua volta, per la tendenza ad annullare i confini tra generi e forme, tra prese di parola individuali e collettive (e dunque con punti di vista differenti) e alla presenza di spazi storicamente connotati o in cui la natura sembra prendere il sopravvento rispetto alla logica bellica. In questo senso, l’effetto ultimo di queste due coordinate, la frontiera, intesa in termini concreti e metaforici, e la guerra (nelle sue ripercussioni e in alcuni scenari narrativamente codificati) sembrano farsi paradigma della condizione dell’uomo.

Voices, genres, and hybrid spaces. Francesco Burdin’s La frontiera rovesciata

Abstract: In Francesco Burdin’s La frontiera rovesciata (1997), a collection of heterogeneous materials (including an introductory essay, four songs and a cantata, three short stories and an aphorism), the shifting concept of border is investigated with a vocation for changing perspectives. In some of these texts, in fact, the discourse about the border and the narration around it pointing at the effects produced by the war become predominant and seem to echo some writings by Italo Svevo and Karl Kraus on the First World War. Each of the texts, in turn, is characterized by a tendency to blur the boundaries between genres and forms, between individual and collective perspective (therefore offering different points of view) and describe spaces which can be historically connoted or else pervaded by nature which seems to prevail over the logic of war. In this sense, the ultimate effect of these two coordinates – namely, the border, in concrete and metaphorical terms, and the war (with its repercussions and in some narratively codified scenarios) – seems to become a paradigm of the human condition.

Open Access. © 2020 Angela Fabris, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-017

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In molte sue pagine Francesco Burdin, nato a Trieste nel 1916, indaga sul concetto mutevole di frontiera, con una vocazione al dubbio, all’interrogazione, ai cambi di prospettiva e all’esercizio dell’ironia.1 Ne è un esempio illuminante il testo- collage La frontiera rovesciata (1997), fondato sull’assemblaggio ben calibrato di materiali distinti: testi poetici, racconti, aforismi e un saggio introduttivo – Viaggio a ritroso nel cuore della frontiera rovesciata – in cui l’autore si sofferma sulla natura fluida del varco che separa i due lati del confine. E dove l’io narrante appare proteso a recuperare un’identità che lo riporti alle origini della sua stirpe, all’interno di un territorio attraversato da confini labili, di natura e sostanza diversificata. Così, accanto a Cormòns («il luogo di origine della mia famiglia, sia dal lato paterno, sia da quello materno»),2 Burdin ricorda le esperienze e i vagabondaggi del nonno e del padre, e riflette sul rapporto con Trieste che assume il duplice significato di mito e realtà: «Ho lasciato Trieste all’età di nove anni, la triestinità è sopravvissuta integra nei decenni e anzi esaltata dall’esilio».3 Gilbert Bosetti sostiene che «l’esser triestini significa da sempre dubitare della propria identità».4 Ampliando l’asserzione, si può affermare che anche l’essere di frontiera induce a dubitare di essa. È il riflesso di un atteggiamento che Burdin intende in ottica ipotetica e costruttiva, alla luce di approcci e forme di riconoscimento variegate a cui si affiancano alcune considerazioni in merito agli scontri bellici e agli effetti da essi prodotti. Lo si evince dal discorso introduttivo con cui si apre il volume, Viaggio a ritroso nel cuore della frontiera rovesciata, la cui prima destinazione è stata un Convegno tenutosi a Grenoble il 4 novembre del 1994 e dedicato alla frontiera in tempi di guerra. Il discorso si sviluppa a partire da una precisa circostanza:

quando a mia insaputa, cambiai dal mattino al pomeriggio bandiera, sovrano, inno nazionale, corpus di leggi eccetera; insomma saltai, debole come ero a quell’età, le sbarre

|| 1 Alcuni passaggi sono tratti da Angela Fabris, Un «de/scrittore» irriverente. Le strategie letterarie di Francesco Burdin, Pasian di Prato (UD), Campanotto, 2004. Diversi, tuttavia, sono l’oggetto dell’indagine e l’impostazione. 2 Francesco Burdin, Viaggio a ritroso nel cuore della frontiera rovesciata, in La frontiera rovesciata, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 1997, p. 21. 3 Ivi, p. 11. 4 Gilbert Bosetti, Permanenza di una triestinità letteraria, in “Metodi & Ricerche”, 19 (2002), n.1, pp. 109–134: 113.

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della frontiera. Anzi non ebbi nemmeno bisogno di saltare la frontiera: la frontiera si era rovesciata.5

Nel considerare la questione dei confini e l’improvviso ribaltamento dovuto alla prima guerra mondiale, un riferimento letterario che sorge spontaneo se si pensa al territorio goriziano e triestino del primo Novecento è l’immagine di Zeno in vacanza con la famiglia a Lucinico, sull’Isonzo, quando, senza rendersene conto, compie ripetuti sconfinamenti, ritrovandosi coinvolto – suo malgrado – nelle manovre preparatorie di quello che diverrà il fronte italo-asburgico; fino ad essere costretto a rinunciare non solo al caffellatte mattutino (privazione di cui si rammarica in più occasioni), ma anche a una prosecuzione della vacanza in quanto costretto a un frettoloso e solitario rientro a Trieste. Non a caso Brian Moloney – nel suo Italo Svevo narratore – considera la Coscienza nel suo insieme un romanzo di guerra, sottolineando come la reale cesura, dopo i sette capitoli in cui sono distribuite le memorie di Zeno, si produca allo scoppio del conflitto.6 È questo il momento in cui il narratore inizia ad assegnare una data esplicita alle sue memorie (a partire dal 3 maggio 1915), oltre a concedersi la sottile soddisfazione di inserire una fuorviante segnalazione temporale (il 23 maggio 1915) in cui Zeno respinge erroneamente, a più riprese, l’ipotesi di una dichiarazione di guerra da parte dell’Italia. A proposito del primo contatto di Zeno con la guerra scrive Cristina Benussi:

Svevo racconta con apparente distacco i momenti che precedettero l’aprirsi del fronte italo- austriaco, nella Coscienza di Zeno, anzi in quell’ultimo capitolo del romanzo, così diverso dagli altri. Qui il racconto infatti si trasforma in un diario che inizia il 3 maggio 1915, continua il 26 giugno 1915 e si conclude il 24 marzo 1916. È un capitolo fondamentale per dare un senso a quanto scritto in quelli precedenti, che raccontavano della cura intrapresa dallo psicanalista per guarire dal vizio del fumo. Dopo aver passato in rassegna tutti gli episodi fondamentali della sua vita […] confermava, questa volta senza suscitare dramma, che in tutti i casi la molla ad agire era dettata dall’egoismo e dalla volontà di prevaricazione sugli altri. Inutile fingere di essere mossi da valori altruistici e nobilitanti, o da ritualità perbeniste civili e istituzionali, che in realtà coprono l’ipocrisia di fondo del patto sociale. È nell’ultimo capitolo infatti che la sua capacità ad adattarvisi rivela la sua salute rispetto alla malattia degli altri, scoprendo la vera natura dell’essere umano, e sua.7

|| 5 F. Burdin, Viaggio a ritroso nel cuore della frontiera rovesciata, in La frontiera rovesciata, cit., p. 12. 6 Brian Moloney, La coscienza di Zeno come romanzo di guerra, in Italo Svevo narratore. Lezioni triestine, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 1998, pp. 95–97. 7 Cristina Benussi, Confini. L’altra Italia, Brescia, Scholé, 2019, pp. 93–94.

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È l’ultimo capitolo, dunque, a chiarire il significato di quelli che precedono. Per quanto infatti la guerra si faccia notare fino a quel momento per la sua assenza, essa innerva il romanzo, ne costituisce un tacito perno. Nelle note pagine in cui lo sguardo di Zeno si sofferma su un plotone di soldati in marcia, quella che si può cogliere è una prima immagine del conflitto e soprattutto di una «nuova ed insuperabile frontiera»8 che chiude il transito verso l’Italia. Un’atmosfera in parte simile caratterizza il discorso introduttivo ne La frontiera rovesciata, a partire dalla constatazione che il concetto di patria, «sempre enigmatico»9 nei territori di frontiera, lo era ancor più nella compagine asburgica. Non a caso Burdin, in questo Viaggio a ritroso, osserva:

In un’Europa da settant’anni quasi tutta repubblicana è venuta meno la percezione del valore simbolico della regalità e, in particolare, della funzione connettiva della monarchia asburgica. Ma senza di essa non si può capire l’essenza stessa, lo spirito, dell’impero […]. E la persona fisica di Francesco Giuseppe, che per sessantotto anni offre una quasi ottusa dedizione al suo ruolo, pareva pietrificata apposta per mantenere inalterabile la fedeltà e la fiducia nei suoi sudditi. Nessuno dei quali al principio del secolo poteva immaginare così prossima l’estinzione dell’impero millenario.10

In quest’ottica la ricostruzione della memoria biografico-familiare e il ripercorrere con spirito disincantato il mito delle origini passa attraverso l’inizio della prima guerra mondiale: «Per le strade di Trieste nemmeno un’oncia di quell’entusiasmo guerresco prossimo all’isteria che vediamo testimoniato dalle foto d’epoca».11 La guerra, fin da subito «feroce», diviene anche lo spunto per tessere un mosaico di richiami letterari, da Joseph Roth a Georg Trakl fino a Slataper e Stuparich, dei quali scrive che da Trieste, dopo aver passato le linee, «andarono a morire in uniforme grigioverde, sotto falso nome».12 Burdin viene poi a concludere il suo excursus su Trieste affermando: «Quanto a Trieste, oggi che la frontiera si è rovesciata, è davvero una città di frontiera: lo era meno nel 1914, quando le sbarre di confine erano distanti sessanta chilometri».13

|| 8 Italo Svevo, La coscienza di Zeno, a cura di Beatrice Stasi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura (Edizione Nazionale dell’Opera Omnia di Italo Svevo), 2008, p. 412. 9 F. Burdin, Viaggio a ritroso nel cuore della frontiera rovesciata, in La frontiera rovesciata, cit., p. 11. 10 Ivi, p. 16. 11 Ivi, p. 18. 12 Ivi, p. 20. 13 Ivi, p. 21.

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Anche Cormòns riveste un ruolo specifico sul piano familiare (lo si è detto), su quello letterario (nel 1582 vi nasce «Ludovico Lepòreo, poeta barocco di cui sono memorabili le bizzarrie inventive: dunque una specie di Arcimboldo della penna. Qualità dopo tutto anche a me imputate»)14 e in termini di confine: «Nel 1914 Cormòns era da quattrocento anni l’avamposto del confine orientale austriaco: cinque chilometri più a ovest il fiume Judrio era la frontiera. Dopo veniva la terra di San Marco, l’Italia».15

2

Concluso quello che definisce un «discorso sulle patrie in terra di confine»,16 Burdin cede spazio a materiali distinti, tra cui due racconti che affrontano situazioni narrativamente codificate della vita militare, quali il riconoscimento del nemico come fratello e il dopo battaglia. Nel primo di essi, L’ordine naturale, tenta di sondare lo spazio delle possibilità che si aprono all’uomo, combattuto tra il senso del dovere e il rispetto della natura umana, fra le logiche della guerra e l’istinto naturale, fra la vita e la morte. Lo si evince anche dall’epigrafe che riporta i versi di Carlo Michelstaedter tratti da Il canto delle crisalidi (1909): «Vita morte, / la vita nella morte; / morte vita, / la morte nella vita».17 Il protagonista è «un soldato in servizio notturno di sentinella a un osservatorio dell’artiglieria, in montagna».18 Al centro del percorso si situano le riflessioni di questo giovane non ancora ventenne, cresciuto in un orfanotrofio, che si ritrova improvvisamente in mezzo alla vita militare nel corso della prima guerra mondiale. Partendo dal presupposto che l’uomo è l’unico essere in grado di progredire, la recluta si convince che il destino dell’individuo sia quello di opporsi e non di assoggettarsi all’ordine naturale. Soprattutto in un universo – il nostro – nel quale l’orizzonte di attese dell’uomo si è drammaticamente ridotto: «Ma quanto al futuro, che cosa mi aspetta? I conti non sono difficili. Lavorerò

|| 14 Ivi, p. 22. Per uno sguardo d’insieme sull’opera di Francesco Burdin vedi Cristina Benussi, Francesco Burdin, in «Berlfagor», 45 (1990), n. 3, pp. 293–306 e Gilbert Bosetti, Les impertinences de Francesco Burdin entre humour et auto-ironie, « Italies, Revue d’études italiennes», Université de Provence, 4/2 (2000), pp. 633–646 (consultabile anche online: http://journals.openedition. org/italies/2357 ; DOI : https://doi.org/10.4000/italies.2357). 15 Ibid. 16 Ivi, p. 26. 17 F. Burdin, L’ordine naturale, in La frontiera rovesciata, cit., p. 71. 18 Ibid.

240 | Angela Fabris dieci ore sotto padrone, avrò, se mi tocca, moglie e figli da sfamare, aspetterò la domenica e le altre feste comandate per passarle davanti a una tavola di osteria».19 Un futuro già scritto cui decide di opporsi. Il quesito è quale debba o possa essere l’atto con cui sottrarsi ad esso; forse quello di tendere la mano al nemico che si arrampica verso di lui, sulla scia di un impulso che lo porta alla morte:

«Bella notte!» egli sussurra. Sente battere il cuore per il timore che l’‘altro’ venga tentato dal suo medesimo proposito. Il freddo della lama che lo penetra nel ventre gli fa intendere che non è così. Il nemico ha tenuto fede all’ordine naturale.20

La vicenda si focalizza sul confronto tra l’istinto di solidarietà e la logica negativa, alimentata dai doveri e dagli obblighi imposti dalla guerra, a cui deve sottostare il soldato. Non a caso la recluta sottolinea sarcasticamente l’assurdità della vita militare tramite verità scorciate o assunti di natura aforistica: «Il comico esiste nella vita di tutti i giorni, il servizio militare ne è un esempio».21 Ancora: «Nessuno ha mai preteso che la guerra sia confortevole».22 Altrove, nel racconto, a prevalere sono invece passaggi contraddistinti da un moto riflessivo:

Mai la volta stellata gli è apparsa tanto profonda, gli astri così enormi e luminosi. Li ha osservati molte notti nei servizi di guardia: forse i suoi pensieri andavano altrove, o più semplicemente non aveva pensieri. Del resto anche di giorno non vi è mai necessità né occasione di riflettere.23

Anche in questo passaggio è evidente una misura aforistica; infatti, se isolato dal contesto non subisce una riduzione di significato, nella collocazione originaria accentua invece il carattere paradigmatico della vicenda. È una tendenza visibile anche in alcuni quesiti di natura conoscitiva:

Dovere e potere che cosa sono? Non sono oggetti come il gong e il fucile. Direi, se devo trovare un loro titolo, che sono pure invenzioni della società civile, tanto quanto i Dieci comandamenti lo sono di quella religiosa.24

|| 19 Ivi, pp. 81–82. 20 Ivi, p. 88. 21 Ivi, p. 74. 22 Ivi, p. 73. 23 Ivi, p. 72. 24 Ivi, p. 85.

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In questo caso, ripristinando la frase nella sua interezza il narratore si affida a una sorta di lucido raziocinio. Il racconto si caratterizza così sia per il suo circoscrivere a livello tematico specifiche zone di confine (tra la logica bellica e l’ordine naturale), sia per la scrittura che accoglie al suo interno i confini, mutevoli e a volte sfuggenti, di una prosa che dalla descrizione si apre ad un sottile tenore riflessivo per poi cedere al cortocircuito dell’aforisma o ancora a un registro espressivo contratto. Il dopo battaglia è invece al centro del racconto Il generale nel bosco in cui – nell’esordio – si assiste alla descrizione del processo che dallo scontro tra «due uomini soli»25 conduce a un conflitto più ampio:

Delle battaglie di terra non è mai stato facile determinare, a cose fatte, l’attimo dell’inizio, quasi che anche qui confluissero – come per i momenti storici – più cause e svariate circostanze puramente occasionali. I primi contatti sono per lo più tra due uomini soli che si scontrano e si sparano a bruciapelo senza aver tempo di domandarsi i documenti […]. Sempre senza conoscersi – a che varrebbe fra uguali? – si sventrano, si fulminano e si intossicano con le armi meglio perfezionate che uomini più esperti e maturi hanno fornito […]. Finalmente si stendono placati, con l’ultimo terrore disegnato nell’angolo della bocca, e dentro gli occhi, se frughi anche senza particolare intenzione, una intensa sete di requie e di ritorno, conseguita a caro prezzo quella, irraggiungibile il secondo. Perché veramente dalla battaglia non ritorna nessuno. Tutti siamo rimasti lì.26

Il periodo finale segna il passaggio da una prospettiva esterna a una interna, corale e partecipativa, di carattere aforistico. È quanto accade anche nel progredire del racconto in cui si assiste all’irruzione di immagini metaforicamente in grado di esprimere le connotazioni psicologiche del dopo battaglia: «la terra esplodeva con le nostre anime contro il cielo»,27 «non vi era più alcuno delle migliaia e migliaia che il giorno prima erano là presenti con l’anima e la paura».28 Il bosco, superato l’orrore dei combattimenti e lavato dall’acqua del violento temporale che vi segue, pare acquisire una sua natura antropomorfa, con i tronchi che «si appoggiavano spalla contro spalla, riparando le ferite».29 Una natura che viene, in tal modo, ad annullare le fratture e le lacerazioni, assieme ai confini tracciati dagli scontri:

|| 25 F. Burdin, Il generale nel bosco, in La frontiera rovesciata, cit., p. 121. 26 Ivi, pp. 121–122. 27 Ivi, p. 122. 28 Ivi, p. 123. 29 Ibid.

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Sebbene provata dai disordini della battaglia, la foresta appariva al cielo compatta e integra. Il verde era colorito dall’acqua, i sentieri che avevano conosciuto la vigilia tanta animazione erano invisibili sotto le fronde eccitate e gli arbusti vivificati.30

Quello che era stato lo scenario della battaglia, uno «spazio striato» con sentieri e recinti, si trasforma nuovamente, sulla scia di Deleuze e Guattari, in uno spazio nomade «liscio, marcato soltanto da ‘tratti’ che si cancellano e si spostano lungo il tragitto»,31 fino a divenire un «bosco senza limite né fine».32 Non a caso, della dimensione bellica rimane traccia solo nella marcia del generale e dei due subalterni, colti nel loro disperato procedere di superstiti, «il passo e lo sguardo privi di intelligenza».33 Inframmezzate alle osservazioni sulla natura che riprende il sopravvento, trovano posto le pacate osservazioni del narratore nei confronti dei soldati e della loro angoscia:

uomini del nord, del sud, alti e denutriti delle fabbriche, piccoli e scuri cresciuti tra il granoturco e l’olivo, reclute o richiamati di mezzo secolo, con gli occhi dilatati dal caldo e dalla marcia, gente fatta per buttare il fucile non per attaccare. Migliaia e migliaia di esseri, carne e respiro, erano così assenti come non fossero mai esistiti.34

Di seguito si sviluppa – dapprima quasi inavvertitamente, poi in un crescendo di intensità – un implicito confronto tra una disciplina gerarchicamente intesa, con le disamine in un primo momento boriose e successivamente angosciate del generale, e il riapparire ad intermittenza di un coro a più voci, quello dei soldati periti nel massacro. Le considerazioni del generale sono caratterizzate e sostenute dal fitto ricorrere di punti esclamativi a siglare frasi colme di rabbia – «Nessuno può dire che io abbia sbagliato […]. Il congegno era perfetto, niente lacune, nessun punto debole, niente di imprevisto!»35 – o punti di domanda irati – «Dove sono finiti quei maledetti che ieri a quest’ora, nell’obbligo del silenzio, si preparavano

|| 30 Ivi, p. 125. 31 Gilles Deleuze e Félix Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di Giorgio Passarone, Roma, Castelvecchi, 1987, p. 557. 32 F. Burdin, Il generale nel bosco, in La frontiera rovesciata, cit., p. 127. 33 Ivi, pp. 123–124. 34 Ivi, pp. 124–125. 35 Ivi, p. 124.

Voci, generi e spazi ibridi: La frontiera rovesciata di Francesco Burdin | 243 divorando all’assalto?».36 Il tutto intervallato da quesiti densi di stupore – «Che fanno lassù?»37 – o dal ripercorrere mentalmente gli ordini impartiti:

il fronte non si spezza. Via questi imbecilli, feriti senza necessità, morti senza merito, spazzate il terreno. Dio come è lunga questa faccenda. Fra poco sarà il diluvio. Che cosa? Sparate sulla schiena, sparate senza misericordia anche sugli ufficiali. Non voglio nessuno indietro dalla linea del fuoco. I feriti se li tengano. Sparate. Se uno si ritira, tutti indietreggiano. La mia divisione non crolla. Io vi fucilo tutti.38

Alle disamine del generale si oppone il sogno-visione del tragico coro dei soldati, incapaci – a detta del superiore – di esprimere soddisfazione per una fine onorevole; al contrario, le loro voci atterrite sono colme di lamenti e quesiti sarcastici intrisi di amarezza:

− Noi facciamo ancora la nostra figura, generale? − Guarda come stiamo impettiti sull’attenti, le nostre uniformi sono candide più del vento. − E io, io troppo stupido per capire la guerra? − Ne sappiamo ormai di più sugli attacchi a massa, sugli aggiramenti e lo sfruttamento del successo.39

Sono le battute di un dialogo che si protrae per più pagine, e che sottopone a un rovesciamento di prospettiva il ruolo del nemico, fino a coglierne il comune e tragico destino («non è cattivo il nemico; è vero, è vero, è vero; geme e striscia con noi il nostro nemico, generale»).40 Non manca la descrizione dell’attesa carica di angoscia prima dell’attacco:

Io non volevo uscire da dietro il tronco. Mi pareva così accovacciato, la bocca tuffata contro il muschio, di trovarmi in un luogo chiuso, in un orribile agguato, nell’attesa di qualcuno mai visto, che sarebbe venuto per trucidarmi. E io lì, col cuore in gola, a tormentare il fucile, raffigurandomi lo spaventoso viso di questo ignoto omicida, e domandandomi perché.41 Io non volevo uscire da dietro al tronco. Mi hanno spinto con un calcio e sono andato a morire due metri più in là. Non ho fatto una gran strada.42

|| 36 Ibid. 37 Ivi, p. 125. 38 Ibid. 39 Ivi, p. 129. 40 Ivi, p. 130. 41 Ibid. 42 Ivi, p. 131.

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Vi si accompagna un senso di inutilità: «La gloria, generale, la gloria non è per i soldati. Chi poteva mai prendere quel colle?».43 Il tragico coro segue il generale passo dopo passo; le recriminazioni finiscono per acuirne la rabbia e la sensazione di colpevolezza che egli si sforza – inutilmente – di reprimere: «Orbene, eccellenze, l’esercito è scomparso, volatilizzato come un arrosto bruciato. Trentamila uomini perduti. Errore di calcolo, ostinazione? no, un generale non fa errori di calcolo e non è ostinato, se mai tenace. Tradimento!».44 Fino a denunciare tramite un cambio di registro – con il passaggio ad una serie di inserzioni di natura quasi teatrale nel loro andamento dialogico e a tratti monologante – il chiaro processo di auto- mistificazione posto in atto da chi, come lui, cerca di riproporre come necessari e onorevoli le scelte e gli atti compiuti. La tensione giunge al culmine e si stempera in amarezza nella pagina finale, dove si assiste ad un accentuarsi dell’aspetto paradigmatico della vicenda tramite l’immagine di un cane, «una bestia da battaglione, col pelo chiazzato e una gran fame negli occhi»,45 impaziente di leccare le ferite del generale in agonia. La logica della natura contrapposta ai meccanismi distorti della guerra, fondati su una dinamica distruttiva. E una zona di confine tra la disciplina, le disamine supponenti del generale e il sogno-visione di un tragico coro che rende ragione di quanto asserito da Holger Klein, secondo il quale le narrazioni di guerra devono essere intese non tanto o non solo come la descrizione ipotetica di uno specifico avvenimento od episodio, quanto in merito agli effetti prodotti e alle ricadute sull’esistenza degli individui.46 Lo attesta, nella sua drammaticità, questo racconto di Burdin, sulla scia di una dimensione corale che acquista i tratti di un tragico atto recriminatorio.

3

Il riaffiorare persistente di un molteplice e caotico insieme di voci intorno e sulla prima guerra mondiale è anche al centro della «tragedia in cinque atti» di Karl

|| 43 Ibid. 44 Ivi, p. 132. 45 Ibid. 46 Cfr. Holger Klein (a cura di), The Second World War in Fiction, London, MacMillan, 1984, p. 12. Nell’introduzione al volume, che è una raccolta di saggi sulla narrativa di finzione della seconda guerra mondiale, il curatore riflette intorno alla sostanza ed essenza di un romanzo di guerra.

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Kraus, Die letzten Tage der Menschheit, in italiano Gli ultimi giorni dell’umanità. Testo straripante, sorto in parallelo ai drammatici sviluppi della guerra, appare sulla scena letteraria, in una prima veste editoriale, nel 1919, per essere poi destinato alle stampe nella sua versione definitiva nel 1922 e successivamente nel 1926. Nonostante l’impianto teatrale, il testo non può essere rappresentato nella sua totalità a causa dell’alternarsi di circa cinquecento personaggi e dell’affastellarsi di un ammasso di voci, singole e plurime. È una serie di battute che si alternano a due, a tre o più, nel succedersi e ripetersi spesso volutamente monotono di oltre duecento scene. Non a caso il medesimo Kraus si limitò a darne alcune letture pubbliche dopo aver chiarito, nella Premessa, le ragioni di questa scelta:

Theatergänger dieser Welt vermöchten ihm nicht standzuhalten. Denn es ist Blut von ihrem Blute und der Inhalt ist von dem Inhalt der unwirklichen, undenkbaren, keinem wachen Sinn erreichbaren, keiner Erinnerung zugänglichen und nur in blutigem Traum verwahrten Jahre, da Operettenfiguren die Tragödie der Menschheit spielten.47

I frequentatori dei teatri di questo mondo non saprebbero reggervi. Perché è sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui i personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità.48

Il testo si dipana tra luoghi differenti in primis della realtà viennese: il viale del Ring, il Caffè Pucher, la stazione Sud, la cancelleria del Ministero della Real Casa fino agli angoli di strada, colti nel continuo formarsi di capannelli e nelle illogiche reazioni della folla. A queste ambientazioni cittadine si mescolano altri scenari, inclusi alcuni quadri di guerra; per esempio, il fronte della Bucovina, quello sud-occidentale o i campi di battaglia. Il testo, straripante nel delirio allucinatorio di un composito insieme di personaggi di cui è impossibile dar conto, si dispone in una struttura a stazioni, con ritorni ai medesimi luoghi e personaggi e al vuoto cicaleccio che li caratterizza.49

|| 47 Karl Kraus, Die letzten Tage der Menschheit, https://www.projekt-gutenberg.org/kraus/ letzttag/chap001.html (consultato il 20.8.2020). 48 Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità. Tragedia in cinque atti con preludio ed epilogo, edizione italiana a cura di Ernesto Braun e Mario Carpitella, con un saggio di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1980, p. 9. 49 Daniel Weidner, Weltkriegstheater. Botenbericht und Mauerschau in Karl Kraus’ Die letzten Tage der Menschheit, in Kriegstheater. Darstellungen von Krieg, Kampf und Schlacht in Drama und Theater seit der Antike, a cura di Michel Auer e Claude Haas, con la collaborazioe di Gwendolin Engels, Stuttgart, J. B. Metzler, 2018, pp. 247–260.

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In tale variegato concorrere di voci e figure allusive della scena viennese dell’epoca, quello a cui si assiste è una sorta di processo di disgregazione dell’uomo, dissolto in una miriade di frammenti verbali. Sono scambi privi di significato quelli che caratterizzano questi «personaggi da operetta» che si contraddistinguono, in alcuni casi, per il loro essere radicati nella dimensione storica, politica e sociale dell’epoca o per rappresentare la folla nelle sue non meditate reazioni. È evidente la capacità di racchiudere in una rete di parole vacue e destituite di senso gli scambi dialogici o gli interventi degli ufficiali bellimbusti, dell’abbonato, del giornalista, del politico, dello strillone, della massaia patriottica, dell’ubriaco, dei cerimonieri di Corte, dei commercianti e dei poeti fino ai due imperatori, Francesco Giuseppe e Guglielmo II, con le loro voci illustri, alternate ad altre che recano in sé i tratti dell’anonimato. Si assiste così ad un ininterrotto delirio allucinatorio che permette una complessa raffigurazione – principalmente in via indiretta – della guerra. Al riguardo acquista peso la figura della Schalek,50 reporter dalla moralità altalenante che visita le trincee in cui sono impiegati i soldati dell’Impero asburgico, e che, nel descrivere quanto vede, costruisce una serie inesauribile di verità distorte, sostenuta dall’esaltazione delle armi e dalla logica della guerra a cui aderisce con entusiasmo. Accanto, quali sporadiche apparizioni, sfilano non solo coloro che la guerra l’hanno voluta ma anche gli speculatori che, grazie a essa, si sono arricchiti, i patrioti, i fornitori militari, i corrispondenti di guerra o i pavidi piccolo-borghesi costretti alla cautela e all’obbedienza. E non mancano, nella scena cinquantacinquesima del quinto e ultimo atto, le voci dei soldati assiderati sui Carpazi:

Bei der vordersten Linie in den Karpathen. Es ist alles ruhig. In den Schützengräben stehende Leichname. Mann neben Mann, das Gewehr im Anschlag.

Die erfrorenen Soldaten: Kalt war die Nacht. Wer hat diesen Tod erdacht! Oh die ihr schlieft in Betten – daß euch das Herz nicht bricht! Die kalten Sterne retten uns nicht.

|| 50 Vedi Elisabeth Klaus, Rhetoriken über Krieg: Karl Kraus gegen Alice Schalek, «Feministische Studien», Vol. 26 (2008), n. 1, pp. 65–82 e Mira Miladinović Zalaznik, Die Reporterin Alice Schalek bei der Isonzoarmee, «Zagreber Germanistische Beiträge, 25 (2016), pp. 271–290.

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Und nichts wird euch erretten!51

In prima linea sui Carpazi. Tutto tace. Cadaveri in piedi nelle trincee, l’uno accanto all’altro, col fucile puntato.

I soldati assiderati La notte era gelata. Questa morte, chi l’ha inventata! Oh voi che a letto dormivate – Il cuor non vi si spezza? Le fredde stelle non ci dan salvezza, e anche voi, di salvarvi non sperate!52

L’insieme multiforme di voci che Kraus raccoglie non è solamente integrato nell’azione drammatica della tragedia – quasi una sorta di mormorio relegato sullo sfondo – ma è la tragedia stessa. Ed è dunque questo insieme di parole – nelle loro moltiplicazioni acustiche – che consente di approdare a una complessa rappresentazione della Grande Guerra a cui si affianca significativamente la presenza di due personaggi-guida – l’Ottimista e il Criticone – che, in veste dialogica, ottemperano alle funzioni di una sorta di coro, dando voce ad istanze divergenti. Sono battute e scambi dialogici che, oltre ad assolvere a una funzione ordinatrice, esprimono posizioni distinte in chiave esplicativa e dove il Criticone commenta quanto accade dentro e fuori dei campi di battaglia (tra sé o interloquendo) e si fa portavoce della caustica opinione di Kraus di cui il personaggio è proiezione letteraria. È a lui, al Criticone, che si deve ricondurre il manifesto di congedo con cui prende avvio la scena 54, dove egli appare per l’ultima volta, in un drammatico e struggente monologo:

Ich habe eine Tragödie geschrieben, deren untergehender Held die Menschheit ist; deren tragischer Konflikt als der der Welt mit der Natur tödlich endet.53

Ho scritto una tragedia il cui eroe soccombente è l’umanità; il cui conflitto tragico, essendo quello tra mondo e natura, finisce con la morte.54

|| 51 K. Kraus, Die letzten Tage der Menschheit, https://www.projekt-gutenberg.org/kraus/ letzttag/chap007.html (consultato il 20.8.2020). 52 K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, cit., pp. 652–653. 53 K. Kraus, Die letzten Tage der Menschheit, https://www.projekt-gutenberg.org/kraus/ letzttag/chap007.html (consultato il 20.8.2020). 54 K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, cit., Scena cinquantaquattresima. Il criticone alla scrivania. Legge, p. 608.

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Nel finale, lo straripante testo di Kraus si chiude sotto il segno di una serie di visioni che si succedono le une alle altre con vittime che prendono brevemente la parola (Scena cinquantacinquesima). L’epilogo, infine, risulta assemblato intorno a brevi strofe in rima in cui intervengono i carnefici (per esempio il generale55 o le iene con il loro valzer intorno ai cadaveri)56 e a cui si contrappone il soldato morente che grida assieme a una profusione di voci (la prima, la seconda, la terza, la quarta, queste e quelle, l’una e l’altra, tutt’e due)57 e a cui si affianca un oggetto simbolo, la maschera antigas, che pare alludere al destino che attende l’uomo travolto dalla tragicità del primo conflitto mondiale. Al di sopra di questo scenario apocalittico, dopo un «immane silenzio»,58 si ode una voce dall’alto – la voce di Dio – che riprende le famose parole di Guglielmo II, pronunciate nel 1915 durante la visita a un campo di battaglia sul fronte francese: «Io non l’ho voluto».59

4

Il coro di voci di Kraus si posiziona dunque agli antipodi rispetto a una concezione della guerra quale strumento di rigenerazione. Sul piano individuale è quanto accade nella Cantata del vecchio Franzil, dove il padre di Burdin, in versi sciolti e in prima persona, rievoca la dinastia familiare, la giovinezza, le varie peregrinazioni ed esperienze, inclusa la guerra:

a ventun anni per ordine del Kaiser andai a cavalcar con brache rosse a Graz el Zugfier comandava schnell in tedesco, a ventiquattro marciai sei dì col novanta sette di fanteria di linea alla frontiera e i paesani mi chiamavano in polacco la pallottola russa a Grodek, Galizia, mi bucò un braccio.60

|| 55 Ivi, p. 662. 56 Ivi, p. 679. 57 Ivi, pp. 682–685. 58 Ivi, Epilogo, p. 692. 59 Ibid. Nell’originale: «Ich habe es nicht gewollt», https://www.projekt-gutenberg.org/kraus/ letzttag/chap008.html (consultato il 20.8.2020). 60 F. Burdin, Cantata del vecchi Franzil, in La frontiera rovesciata, cit., 54.

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In questo universo mosso e accidentato i cambi di scena sono direttamente proporzionali alle lingue che vi riecheggiano (tra friulano, sloveno, croato, tedesco e dialetto triestino), in un testo articolato in sette strofe in cui il concetto di frontiera è sottoposto a continui rovesci e scossoni. E nel quale, nell’ultima strofa, dopo aver considerato quanto gli è stato concesso e poi sottratto dall’Impero, Franz ragiona con lucidità e osserva:

[…] A parer mio si cambian le bandiere ma il confine tra quel che va e quel che non va nel mondo non è poi così stabile, le differenze son piuttosto apparenze, la sorte di chi vien fuori da una pancia è quella, che l’ordine vi sia oppure no è trascurabile.61

Conclusione che rinvia ad una sorta di azzeramento delle frontiere geopolitiche al di là dei cambi di potere in una ballata dotata di una certa eleganza ritmica. La Cantata (al pari delle quattro canzoni raccolte in questa sezione de La frontiera rovesciata) è preceduta da un inserto intitolato Per la satira anche il narratore sceglie talvolta il verso, in cui Burdin spiega le ragioni del cambio di «attrezzeria»:

accade (è accaduto) al narratore, incline all’ironia, ma desideroso di impegnarsi più a fondo nella satira, di trovare necessari alcuni strumenti che mancano o sono limitati nel suo armamentario: per esempio una corda più alta e più secca, un linguaggio più penetrante e corrosivo, un taglio che non lasci spazio a intrugli retorici o sentimentali, e, pronti, a portata di mano, invenzioni, paradossi e capricci dell’immaginazione.62

In effetti, sia in questo testo che nel saggio introduttivo Viaggio a ritroso nel cuore della frontiera rovesciata e nei due racconti analizzati, assieme agli echi letterari di autori immersi nell’atmosfera primonovecentesca dell’Impero (Svevo, Kraus e Michelstaedter) si assiste, di continuo, al variare di generi, piani e registri assieme all’intrecciarsi delle implicazioni spazio-temporali della frontiera con le disamine negative intorno alla guerra. Nella ricostruzione delle coordinate biografiche e familiari, nei tracciati narrativi o nella Cantata si delinea, in forma più o meno implicita, una sorta di negazione nei confronti di un concetto univoco di appartenenza a vantaggio di una rete di commistioni identitarie, linguistiche, culturali e letterarie.

|| 61 Ivi, p. 63. 62 Ivi, p. 30.

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Anche lo spazio riveste un suo ruolo, tra Trieste e Cormòns dove si riattiva il mito delle origini e la memoria familiare, i territori dell’ex-Impero in cui si muove girovagando Franzil ed altri spazi oggettivamente connotati; è il caso della foresta che inghiotte e cancella la battaglia, cui si aggiunge il situarsi e riconoscersi della sentinella in un perimetro geografico – il fronte – sottratto nella sua percezione a interferenze politiche: «da diciotto mesi gli appartengono il respiro dell’aria libera, lo splendore diurno della grande vallata, la successione dei monti che si susseguono senza fine; il verde dei boschi lontani, il passaggio a ondate delle nuvole».63 Ciascuno di questi testi, al suo interno, riflette il coesistere di forme e generi differenti, tra la divagazione memoriale o saggistica, il verso o la narrazione, e tra la misura scorciata di una verità bruciante e le variazioni poetiche e irriverenti di una sorta di moderno picaro fino alla presenza di un coro di voci; forme ibride che si caratterizzano per l’alternarsi di generi differenti, di spazi (concreti e astratti, reali e immaginari, assieme al dato oggettivo e a quello ipotetico), con una scrittura umorale in cui piani e registri si intersecano senza sosta assieme all’alternarsi di prospettive individuali e collettive. Mentre Zeno personifica l’egoismo e la ritrovata salute di fronte a un conflitto europeo e il Criticone di Kraus si congeda drammaticamente, la sentinella di Burdin sceglie di morire per sfiducia nel futuro e il generale si spegne sopraffatto da una natura volta a farsi nuovamente «spazio liscio». La guerra – e con essa la frontiera – diviene paradigma della condizione dell’uomo.

|| 63 Ivi, p. 73.

Antonela Marić Il giallo con il gusto del gioco

Le lunghe ombre della morte di Veit Heinichen

Riassunto: In questo contributo si riflette inizialmente sulle trasformazioni e le varianti che contraddistinguono il giallo e i suoi protagonisti, sia quelli dalla parte della legge sia i loro antagonisti. Entrambi si caratterizzano sempre più di frequente per tratti positivi e negativi che li rendono testimoni di un processo di emancipazione rispetto alle formule classiche del genere. L’indagine prosegue focalizzandosi su Trieste, città di ʻfrontieraʼ per antonomasia, con la sua complessa realtà, ed evidenzia come essa possa essere indagata e rappresentata anche attraverso il genere noir; in particolare quella sua variante ʻmediterraneaʼ cui appartengono i romanzi di Veit Heinichen, tedesco di nascita e triestino dʼadozione, che offrono il ritratto variegato di una Trieste realistica, riconoscibile, ma nel contempo gravida di segreti relativi ad un passato che non cessa di condizionare il presente. A dimostrazione di come, rispetto alla classica triade tipica del genere, in questo caso vi sia da aggiungere un quarto ed essenziale elemento rappresentativo, lo spazio.

The crime novel and its taste for play: Veit Heinichen’s Le lunghe ombre della morte

Abstract: This essay first discusses the transformations and variants of the crime novel and its protagonists, be it the characters representing the law or their antagonists. Both are increasingly characterized by positive and negative traits which make them witnesses of a process of emancipation from classical formulas of the genre. The analysis then goes on to focus on Trieste, ‘border city’ par excellence, and its complex realities, illustrating how these can also be represented in the crime novel genre, particularly in its ‘Mediterranean’ variant. The crime novels by German-born and Trieste-based Veit Heinichen belong to this specific subgenre and draw a complex, realistic picture of Trieste, which remains recognisable while revealing, at the same time, numerous secrets stemming from a past that never ceases to condition the present. The author argues that in this specific case, the genre’s classical triad must be extended to include a fourth essential element: space.

Open Access. © 2020 Antonela Marić, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-018

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Introduzione

Leonardo Sciascia, in uno dei suoi numerosi scritti sul giallo,1 evidenzia (non senza ironia) l’esasperata frequenza del genere giallo con il costante lievitare delle pubblicazioni e dei volumi sul poliziesco, noir, thriller e simili. L’autore, lamentandosi delle tendenze attuali del giallo, opera una netta distinzione tra il «giallo con il gusto del gioco» (annoverandovi i gialli classici di tipo holmesiano e simili in grado di offrire divertimento ed evasione e di proporre al lettore la ricostruzione e nel contempo anche la risoluzione di un labirinto mentale «algebrico, parodiato e complicato») e quel giallo2 leggero e superficiale che si perde nella morbosità dei suoi effetti, nel sadismo delle sue rappresentazioni e nell’eccesso pornografico delle sue scene. È ben noto che il giallo con i suoi sottogeneri non solo si è infiltrato in tempi recenti nelle letterature europee, perlopiù in quella tedesca, francese e italiana, ma è diventato forse il genere più suscettibile di trasformazioni e slittamenti sui generis. Il lungo percorso partito con il primo detective poeiano che ha avuto inizio durante il romanticismo americano ora sembra più incisivo e gagliardo che mai. Oggi viene particolarmente valorizzato il percorso creativo di autori come Georges Simenon o Agatha Christie, che hanno contribuito alla popolarità del genere grazie a personaggi canonici come Poirot, Marple o Maigret. Tuttavia non sarebbe giusto non riconoscere l’enorme influsso che il giallo americano con i suoi delitti, poliziotti e investigatori privati ha esercitato sul pubblico. Alla diffusione del genere hanno indubbiamente contribuito le serie televisive che hanno raggiunto unʼenorme popolarità a livello globale come La signora in giallo, con la scrittrice-detective Jessica Fletcher (forse una delle serie più lunghe, andata in onda per ben dodici stagioni) o Il tenente Colombo, degli anni Sessanta sospesa nel 2003; Miami Vice (1984–1990) con Don Johnson che ha rivoluzionato il genere poliziesco; Magnum (1980–1988) con Tom Selleck, o Crime Story (1986– 1988) con lʼindimenticabile Dennis Farina nel ruolo di Mike Torello; The Sopranos (1999–2007) con James Gandolfini nella parte di Tony Soprano, boss della mafia italoamericana, per ricordarne solo alcuni. Il giallo cosidetto classico o ad enigma, definito a volte come giallo tradizionale, ha subito un’evoluzione importante, uscendo dallo spazio chiuso e

|| 1 Cfr. Leonardo Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Milano, Adelphi, 2018. 2 Dice al riguardo Sciascia: «L’autore non si concentra pertanto nel giuoco ingegnoso tutto teso allo scoglimento sorprendente: e il racconto resta poliziesco soltanto per il fatto che la polizia cʼentra in qualche modo, magari nascondendo il delinquente nelle sue file, e non perché alla polizia è demandato lo scoglimento, che vorremmo dire edificante, dellʼintrigo» (ivi, p. 16).

Il giallo con il gusto del gioco | 253 limitato (della camera dellʼalbergo o della villa privata) allʼaperto, modernizzando metodologie e argomenti. Lo scrittore diviene consapevole della necessità di introdurre i cosidetti «schiaffi emotivi»,3 per dirla con Highsmith, i cosiddetti ribaltamenti plurimi, nella costruzione della suspence. Con lo sviluppo della tecnologia, si creano nuovi metodi, si accelera il ritmo narrativo, si sviluppano nuove tecniche investigative, rendendo gli indizi minuziosamente raccolti dalle simpatiche zitelle-scrittrici-detective o interpretati dai poliziotti dallʼaspetto shabby e un po’ obsoleti, indipendentemente da quanto amabili fossero questi protagonisti. L’immaginazione del lettore si è arrichita delle nuove conoscenze e delle nuove aspettative che potevano essere soddisfatte solo uscendo dall’ambiente sigillato della camera d’albergo. Cambia anche il gioco di ambivalenze di cui il delinquente e il poliziotto fanno parte, perché in un secondo momento è come se i due si scambiassero i ruoli, e la formula si rovescia a tal punto che il poliziotto diventa quasi un delinquente, mentre il delinquente cambia il modo d’essere. Patricia Highsmith addirittura attribuisce ai suoi personaggi psicopatici e assassini anche qualità positive come la generosità o l’interesse per l’arte, «qualità che possono anche rappresentare un divertente contrasto con i suoi tratti criminali e omicidi».4 Banalizzando, si potrebbe confermare la loro emancipazione, in quanto diventano decisivi nell’identificazione del nuovo genere. A titolo di esempio menzioneremo qui soltanto Maurizio De Giovanni e I bastardi di Pizzofalcone con Alessandro Gassmann nei panni del commissario Giuseppe Lojacono, a nostro avviso emblematico perché rappresenta forse al meglio i personaggi «delinquenti dalla parte della legge» a cui accenna Sciascia nei suoi appunti sul genere giallo.5 La squadra di Pizzofalcone è composta da un gruppo di poliziotti violenti, con gravi problemi familiari, conosciuti per l’esagerato uso di armi. Il gruppo dei ‘vinti’ (si potrebbe tranquillamente usare il termine verghiano) vive una serie di tensioni anche nella vita professionale, si trova in costante attrito con il mondo circostante, e avverte anche forti conflitti interiori e personali, per cui questi protagonisti non hanno più niente da perdere e quindi agiscono senza remore né

|| 3 Riflettendo sulle tipologie di suspence Patricia Highsmith sottolinea la rilevanza dell’esperienza emotiva nel lettore (Id., Come si scrive un giallo. Teoria e pratica della suspence, Roma, Edizioni minimum fax, 2015, p. 34). 4 Patricia Highsmith, Come si scrive un giallo. Teoria e pratica della suspence, cit., p. 55. 5 «Tutta lʼemozione è nell’ambivalenza sentimentale che il giuoco tiene sospeso, drammaticamente, fino all’epilogo: che è sempre, nell’impressione del lettore, fiacco e delusivo – e da ciò, a lettura finita, il vuoto dell’insoddisfazione, e il bisogno delle nuove letture nello stesso senso, per rinnovare la stessa emozione» (L. Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, cit., pp. 24–25).

254 | Antonela Marić limitazioni. Questi nuovi eroi, rimasti incompiuti nella vita privata, sono immuni da ogni compromesso, perché guidati dalla rabbia e rispettosi solo delle regole della squadra. Ricordando i protagonisti cosidetti hard-boiled, come Mike Hammer di Mickey Spillane, non si potrebbe dire che i ‘bastardi’ per il loro modo di agire violento siano personaggi senza precedenti. Tuttavia è il loro modo di essere tutt’uno con la loro squadra, ormai diventata la loro famiglia, l’agire disinteressato e nonconformista nei confronti della violenza e della corruzione, l’inosservanza delle regole, il rifiuto delle consuetudini moralistiche, che li rende unici e rappresentativi del noir. E mentre gli antieroi come Dirty Harry o Mike Hammer hanno conservato lʼimmagine del poliziotto duro, con «la rivoltella sotto lʼascella e pronti a tirarla fuori in un lampo; nervosi, scazzottatori, un tantino loschi e perversi»,6 l’immagine di questi ragazzi fondamentalmente solitari, i legami che uniscono e accomunano il gruppo dei ‘bastardi’ (ancora una volta qui citati a titolo di esempio), sono molto più forti ed omertosi, quasi di tipo camorristico. Dobbiamo concordare ancora una volta con Sciascia e riconoscere l’abbandono della formula tradizionale7 del giallo che consisterebbe in tre elementi cardine: il delitto, il delinquente e il detective. Il nuovo giallo, quello noir,8 se si vuole il noir mediterraneo, è caratterizzato perlopiù dalla natura diabolica e sostanzialmente nera dei suoi temi e dei suoi eroi-antieroi, ponendosi l’obiettivo di raccontare e addirittura di smascherare la realtà carica di problemi sociali, di scoprire ogni singola verità e di denunciare i rapporti di corruzione nel contesto politico e sociale attuale, inserendoli nel mondo dell’alta finanza e delle organizzazioni clandestine. L’investigatore moderno ormai si muove e agisce ai margini della legge, spesso infrangendola senza troppa esitazione. D’altro lato, lʼautore noir intende fotografare la realtà ponendo l’eroe-antieroe nel contesto urbano in cui si muove e compie le sue attività più facilmente, nell’ambiente che conosce bene, magari nell’area geografica di provenienza, il che comporta l’inserzione di specificità geografiche e storiche, costumi e abitudini. Si pensi alla Sicilia del commissario Montalbano di Andrea Camilleri, alla Napoli di Maurizio De Giovanni, alla Milano di Dario Crapanzano, alla Roma di , alla Bologna di Carlo Lucarelli, e a tante altre città che fungono da sfondo e da campo di battaglia contro il malaffare organizzato. Infine, tornando al Nord

|| 6 L. Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, cit., p. 68. 7 Ivi, pp. 28–29. 8 Cfr. Massimo Carlotto, The Black Album. Il noir tra cronaca e romanzo. Conversazione con Marco Amici, Roma, Carocci, 2012.

Il giallo con il gusto del gioco | 255 troviamo lo sfondo perfetto, quello triestino, offerto dalla splendida e strabiliante serie di romanzi noir di Veit Heinichen.

1 Mein Raum ist Europa!

Trieste è una città ‘di frontiera’, città crocevia del continente europeo, che ha saputo accogliere varie etnie e culture, amalgama di tradizione e di modernità, ed è stata al centro di drammatiche vicende storiche. Trieste, vista dagli occhi di Veit Heinichen, è indubbiamente uno spazio tipicamente europeo; è il mondo in cui l’autore vive e che vuole raccontare, e che ha bisogno di conoscere e di capire. Lo afferma lui stesso in un’intervista del 2009,9 dichiarando che da autore si ispira a vari luoghi della città, inserendo i suoi protagonisti in ristoranti e in bar che conosce bene e che visita spesso, in un tentativo di raccontare la realtà e di trasmettere al lettore il mondo reale che condivide con i suoi protagonisti. Il giallo nella forma e nella struttura è per questo motivo la soluzione ragionevole, poiché, secondo Heinichen, il genere giallo è da considerarsi per molti aspetti uno specchio della realtà, di un’epoca e di uno spazio. I protagonisti del noir, di varia estrazione sociale, appaiono assolutamente reali. Alessandro Perissinotto,10 parlando del successo massificato del giallo, accenna alla crisi di credibilità e al profondo senso di insicurezza, addirittura al caos. E mentre l’autore si interessa soprattutto alla dimensione psicologica del protagonista, cercando di avvicinarlo al lettore, questi si identifica con il protagonista e si pone anche dalla parte degli esclusi, entro una realtà colma di deviazioni. Il nostro autore, inoltre, intende focalizzarsi sulle conseguenze del crimine, indagare gli spazi in cui questo viene compiuto, le sue manifestazioni, cercando di esaminarne le implicazioni sociali e la subcultura di cui è il prodotto. Questo è lo sfondo dei romanzi di Veit Heinichen che, da triestino adottivo di origini germaniche, conosce bene la storia socio-politica del Raum carsico, segnato profondamente dalle drammatiche vicende storiche dell’ultimo secolo. In questo senso l’autore si rende conto delle radicali trasformazioni subite da Trieste negli

|| 9 (consultato il 10 ottobre 2019). 10 «E poiché ogni desiderio nasce da una mancanza, bisogna ammettere che il successo massificato verso questo genere letterario nasce da una crisi di credibilità e da un profondo senso di insicurezza, e il giallo con il suo finale consolatorio riporta l’ordine lì dove il delitto ha creato il caos. Ciò che ci manca nella realtà e che ricerchiamo nella fiction poliziesca non è soltanto una società dove il crimine venga punito, ma è un mondo di verità» (Alessandro Perissinotto, La società dellʼindagine. Riflessioni sopra il successo del poliziesco, Milano, Bompiani, 2008, p. 4).

256 | Antonela Marić ultimi secoli che, come traspare dai suoi romanzi, non riguarderebbero solo la città e la sua periferia ma che avrebbero avuto ripercussioni in tutto il sud-est europeo. Il noir per Heinichen si trasforma in uno strumento utile per indagare i residui e le anomalie del passato, e cercare di capirne i nessi con il presente. In Le lunghe ombre della morte troviamo l’ambiente triestino, definito dall’autore la «rosa dei venti»,11 con dinamiche che, nel lasso di tempo intercorso dal secondo dopoguerra ad oggi, non appaiono mutate. La città con i suoi segreti rimane «l’ombelico del mondo», molto orientata verso sé stessa. La mentalità e le abitudini non sembrano molto diverse. Il presente è carico di segreti che pesano sull’attualità, come se, per un gioco cosmico, il tempo e con esso la città, si fossero bloccati in una sorta di vacuum temporale. Il protagonista del libro è Proteo Laurenti, commissario di polizia, che osserva la città con cinico realismo. Le sue indagini lo portano a incappare in due casi rimasti irrisolti negli anni Settanta: la morte di un collezionista, bruciato vivo in un magazzino di armi e sepolto in fretta senza l’autopsia, e l’omicidio di un professore omosessuale. Ambedue i casi vedono coinvolta una giovane australiana, figlia di emigrati triestini, che si reca a Trieste per sistemare le pratiche dell’eredità dopo la morte della zia. La situazione a Trieste nel 1954, quando i genitori vi sono emigrati, era difficile. Tuttavia, per la giovane protagonista, Trieste continua ad essere un ricordo avvolto nel mito, coltivato sin dall’infanzia con nostalgia. Heinichen costruisce una città di contrasti, la cui periferia con «piccole case in pietra, addossate le une alle altre per via della bora», un «piccolo torrente fiancheggiato da acacie, pioppi, salici e aceri», un «sentiero sassoso che conduce nella valle», sembra tranquilla e invitante. Le viene opposto l’ambiente molto meno idilliaco e molto più impersonale del centro, gli imponenti palazzi dell’epoca neoclassica che irradiano un calore enorme, come «accumulatori di energia solare». È piena estate, così che per le strade regna la calma, ma «negli sportelli dentro i palazzi le attività fervevano»12 e si lavora intensamente anche nella zona industriale, dove c’è la ferriera, il porto del carbone, con le gigantesche gru da carico. L’insensatezza e la crudeltà del consumismo sono presenti anche nei mestieri tradizionali, che dovrebbero escludere ogni traccia di corruzione o di violenza:

Veterinari si chiamavano quelli che praticavano iniezioni dopanti al bestiame incapace ormai di stare in piedi, tollerando impassibili che gli animali sfiniti venissero incatenati per una zampa o per le corna e issati a bordo dalla gru se non ce la facevano a salire da soli. Che i bovini muggissero per il dolore o la sete, a chi lavorava in quel posto sembrava una cosa

|| 11 Veit Heinichen, Le lunghe ombre della morte, Roma, Edizioni e/o, 2006. 12 Ivi, p. 88.

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normale, proprio come a chi ne traeva guadagno grazie al premio corrisposto dall’Unione europea per ogni capo che non lasciava morto l’Europa.13

Insieme operano i criminali e la polizia, i profittatori di guerra con le presunte, a volte false, vittime, la malavita e gli operai, ciascuno facendo finta di non sapere niente delle attività degli altri. O per il cinismo o per una specie di umorismo noir dell’autore, il paradosso si afferma come abituale, essendo percepito come frutto delle mutazioni moderne dello spazio urbano. Così, ad esempio, mentre il commissario indaga e cerca invano i colpevoli trascorrendo giorni e notti in giro per i quartieri della città, correndo il rischio di essere aggredito, ferito o licenziato, è all’oscuro del fatto che è proprio a casa sua, durante le cene da lui stesso organizzate, che si radunano quegli stessi colpevoli. Sono i protagonisti delle attività illegali che lui intende smascherare. Suo figlio, ad esempio, un animalista convinto, partecipa ad azioni segrete e incide graffiti scontrandosi con la polizia, mentre suo padre crede che lavori in un ristorante. La sua amica antiquaria, all’apparenza una tranquilla signora anziana, di notte si traveste da giovane barbona e va in giro a incidere graffiti. Lʼumorismo e il paradosso scaturiscono dal rovesciamento della realtà e della sua percezione e da alcuni momenti bizzarri, riconducibili soprattutto a una dettagliata rappresentazione dei personaggi e a una certa stravaganza nella descrizione del tempo e del luogo. L’ambiente triestino viene minuzionsamente analizzato da Heinichen che ne mette in evidenza i molti contrasti che perdurano nel tempo.

2 Il quarto elemento: la società e gli esponenti della malavita

In seguito alla scoperta di un deposito di armi, il commissario scopre alcuni segreti del passato che neanche immaginava potessero portarlo allo scontro con gli interessi dei Cavalieri di Malta e addirittura con il Vaticano, che, come tutti i poteri forti, lo bloccano ogni volta che si avvicina alla verità. La sua amica Graziella racconta dei criminali di guerra che furono fatti emigrare clandestinamente e che, per sfuggire alla giustizia, si nascondevano nei monasteri croati e italiani. Laurenti si rende conto che «la maggior parte delle cose in questa città sono intrecciate con il passato»,14 con una coincidenza quasi

|| 13 Ivi, p. 47. 14 Ivi, p. 74.

258 | Antonela Marić assurda tra le persone e i luoghi. Graziella riferisce, inoltre, di spie e di servizi segreti nel Territorio libero sotto l’amministrazione alleata, della guerra fredda e dei riflessi della cortina di ferro, del trasferimento di cittadini benestanti e dei flussi migratori, e dei destini di intere famiglie che si spostavano per il timore di un futuro incerto. L’ipoteca del passato pesa molto sul presente, per cui la città non si libera facilmente dallo stigma del figlio indesiderato e vi fiorisce la criminalità organizzata che non conosce ideali né confini ed è magari anche protetta dai servizi segreti. L’attualità non può ignorare quanto accaduto nei tempi passati. Non a caso il procuratore insiste che il presente ha quasi sempre a che fare con il passato. Anche Laurenti, esaminando i vecchi casi di polizia conservati in due fascicoli, si chiede il perché dei ricatti connessi a vicende di sessant’anni prima. Qualora dovessero morire i testimoni, la verità potrebbe continuare a vivere solo nei libri e, prima o poi, avrebbe assunto aspetti diversi, al punto da essere deformata. Alla fine, si sarebbe persa per sempre:

Ormai la società focalizzava il suo interesse sulla cattura dei nuovi criminali di guerra, anche se si interveniva sempre quando era ormai troppo tardi. Allora si dava la caccia a un paio di sgherri, mentre dietro le quinte restava tutto come prima. L’occidente era troppo satollo, pigro e impotente. Alla gente mancavano sia la fantasia sia la volontà di cambiare qualcosa. Si guardava di sottecchi ai profitti futuri, e si spartivano gli affari e si restava in attesa. 15

Nel finale, che si dirama in più direzioni, cresce la suspence. Tra l’altro Heinichen si sofferma sulla prospettiva della criminalità organizzata e, rovesciando il punto di vista, offre l’immagine del mondo visto dall’occhio di un criminale. Veniamo a conoscere infatti il ragionamento del boss della zona, Viktor Dragič, la cui malvagia reputazione precede le sue azioni criminose. Crudele con i membri della sua banda, con emarginati, sordomuti, ladri, assassini, egli mostra notevole astuzia quando vuole imporsi su un concorrente. Con il solo obiettivo di arricchirsi e completamente senza scrupoli, Dragič ricatta, traffica con i clandestini, pianifica lo spostamento delle rotte cinesi da Belgrado a Tirana, colpendo o eliminando coloro che si mettono sulla sua strada, o che egli semplicemente sospetta che vogliano farlo. Una crudeltà incredibile si manifesta, ad esempio, nei confronti di una ragazza sordomuta, da parte delle ‘teste rasate’, descritte da Branka, una ragazza che appartiene allo stesso milieu criminale, ma che ne è anch’essa particolarmente impressionata:

|| 15 Ivi, p. 320.

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Le avevano tagliato i capelli e poi rasato barbaramente la testa. L’avevano legata al letto con braccia e gambe aperte e poi passato una corda intorno alla gola annondandola stretta ai lacci delle gambe, tanto che non poteva muoversi di un millimero senza strangolarsi. Avevano appeso uno specchio sopra il letto. In un primo tempo Irina quasi non si riconobbe, poi si spaventò per le ferite che la lama del rasoio le aveva inferto sul viso e sulla pelle della testa. Le avevano comunicato che non le avrebbero dato né da mangiare né da bere finché non si rabboniva, e che non sarebbe mai riuscita a fuggire.16

Branka è descritta come una ragazza intelligente, una professionista dal fisico palestrato e d’aspetto gradevole. Chi la sottovalutava, pagava con la vita. Nel vedere la sordomuta Irina con la testa insanguinata e l’occhio tumefatto, Branka comincia a dubitare, e quindi assistiamo ad un suo mutamento, provocato dalla solidarietà femminile o da un’umanità ritrovata o dal semplice istinto di conservazione. In ogni caso Branka cambia aspetto e, attribuendole qualità più ‘umane’, l’autore la rende quasi simpatica e molto vicina al lettore. Le due donne sono all’opposto: Irina, estremamente debole, vittima della violenza o di ripetuti maltrattamenti; Branka, una ragazza clandestina forte, svelta e abile, capace di agire in modo rapido e duro nel momento giusto, la cui forza fisica e mentale è tremenda. Va ammirata, a questo riguardo, l’abilità dell’autore nel descrivere nei minimi dettagli l’ambiente clandestino, non solo quanto vi accade ma anche la psicologia di chi vi si muove. Veit Heinichen, che, come egli stesso confessa, con il suo protagonista Proteo Laurenti ha una sola cosa in comune, la realtà dei luoghi descritti nei suoi romanzi, è un autore consapevole del contesto politico, storico e sociale in cui vive e con uno sguardo allargato all’orizzonte europeo, e ai problemi che vi coglie, soprattutto quelli relativi all’alta finanza, alle speculazioni economico- finanziarie, al traffico di esseri umani e di sostanze stupefacenti. Sono problemi, questi, che egli affronta, sulla scorta di una notevole informazione, attraverso la forma del noir. Va quindi ammirata l’abilità dell’autore nel descrivere e mediare magistralmente tutte le sfumature dell’ambiente clandestino, a partire dalla descrizione dei conflitti alla psicologia dei personaggi e al modo di agire dei protagonisti. Il noir, in tal senso, si presenta – nella versione di Veit Heinichen – il veicolo perfetto per esplorare l’attualità nelle sue molteplici sfaccettature, aggiungendo al classico schema triangolare lo spazio quale ulteriore elemento di rappresentazione.

|| 16 Ivi, p. 342.

Jörg Helbig Sconfinamenti

Da Senso di Luchino Visconti a Senso ’45 di Tinto Brass

Riassunto: La novella Senso di Camillo Boito, composta intorno al 1882, è incentrata sulla storia dʼamore adultera tra la giovane contessa italiana Livia Serpieri e il tenente austriaco Remigio Ruz. La novella è stata adattata due volte da registi italiani, prima da Luchino Visconti nel 1954 e, nel 2002, da Tinto Brass. Nei loro film, i due registi offrono concezioni completamente diverse della vicenda amorosa. Mentre Visconti sottolinea gli aspetti romantici della vicenda, Brass ne sottolinea la natura sessuale. Il contributo mostra come entrambi i registi utilizzino efficacemente una moltitudine di riferimenti intermediali a sostegno delle rispettive interpretazioni.

Crossings: From Luchino Visconti’s Senso to Tinto Brass’s Senso ’45

Abstract: Camillo Boitoʼs novella Senso, written around 1882, centers around the adulterous love affair between the young Italian contessa Livia Serpieri and the Austrian lieutenant Remigio Ruz. The novella has twice been adapted by Italian movie directors, first by Luchino Visconti in 1954 and, in 2002, by Tinto Brass. In their films, both directors offer completely different conceptions of the central love affair. While Visconti stresses the romantic aspects of the affair, Brass emphasises its sexual nature. The article shows how both directors effectively use a multitude of intermedial references to support their respective interpretations.

I film Senso di Luchino Visconti e Senso ’45 di Tinto Brass si inseriscono in molti modi nel tema di questo libro. Da un lato, i film sono ambientati a Venezia e sono dunque ancorati nella regione Alpe Adria. Dall’altro, il concetto di confine svolge un ruolo importante in entrambi i film. I confini sono tematizzati in vari modi, sia in senso concretamente geografico che metaforico. In primo luogo, si tratta dello spostamento dei confini politico-militari: Senso si svolge durante il Risorgimento, quando italiani e prussiani combatterono contro il dominio austriaco in Veneto;

Open Access. © 2020 Jörg Helbig, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-019

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Senso ’45 è ambientato durante l’occupazione tedesca di Venezia alla fine della seconda guerra mondiale. In secondo luogo, entrambi i film narrano la storia di un adulterio e mettono in discussione in questo modo la trasgressione/violazione dei confini morali. In terzo luogo si oltrepassano i confini mediali, dato che entrambi i film sono adattamenti di un modello letterario e fanno a loro volta riferimento a numerosi altri media. Al centro del mio intervento si situano questi sconfinamenti mediali. Senso di Luchino Visconti appare nel 1954 e si basa sull’omonima novella di Camillo Boito (1882), mentre Senso ’45 di Tinto Brass si riferisce ad entrambi i testi precedenti. Anch’esso è un adattamento della novella di Boito ma al tempo stesso è un remake del film di Visconti. Sia la novella che i due film si connettono a numerosi altri testi di differenti media. La novella di Boito, ad esempio, presenta delle analogie con la novella Venere in pelliccia (1870) di Leopold von Sacher- Masoch. A questa si riferiscono a sua volta numerosi altri testi di media differenti, nel senso che vi sono tra gli altri adattamenti filmici una versione a fumetti, un adattamento teatrale, un’opera lirica e una canzone rock dei Velvet Underground. Nel mio saggio vorrei mostrare come i riferimenti intermediali siano utilizzati nei due film Senso e Senso ’45, al fine di caratterizzare la relazione tra i due protagonisti. A questo scopo, per prima cosa, darò una breve sintesi dei contenuti della novella di Boito. La contessa Livia Serpieri, di 22 anni, ha appena sposato un anziano aristocratico che potrebbe essere suo nonno. Disprezza il marito che ha sposato unicamente per il suo denaro. In luna di miele a Venezia, Livia inizia una relazione con Remigio Ruz, un giovane ed edonista tenente dell'esercito austriaco. Sebbene il suo amante la sfrutti senza alcun ritegno, la donna mantiene in vita la relazione perché è sessualmente dipendente da lui. Quando nel 1866 scoppia la guerra tra l’Italia e l’Austria, Remigio, che per natura è pavido, non vuole combattere. Livia gli consegna i suoi gioielli e il denaro che possiede affinché possa corrompere un medico che lo dichiari inabile al servizio militare. Poi, non avendo più ricevuto notizie di Remigio, Livia lo raggiunge a Verona. Nell’abitazione dell’uomo origlia un dialogo tra Remigio e una prostituta, e scopre così che i due si beffano di lei, dato che entrambi vivono del suo denaro. Profondamente umiliata, Livia denuncia il tradimento del suo amante e osserva, il mattino seguente, la sua esecuzione.

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Luchino Visconti

La relazione amorosa tra Livia e Remigio si situa al centro di entrambi i film. Visconti e Brass interpretano tuttavia questa relazione in modo totalmente differente, richiamando numerosi testi di altri media. Iniziamo con Senso. Mi limiterò a tre esempi, dato che sulle citazioni e sui rimandi mediali del film di Visconti molto è già stato scritto.1 La prima sequenza del film si svolge nel teatro veneziano La Fenice, dove viene rappresentato Il trovatore (1853) di Giuseppe Verdi. Questa sequenza di quindici minuti è totalmente assente nella novella di Boito. Tuttavia essa assume un grande significato nel film, dato che Il trovatore narra la storia di un amore tragico e riflette in questo senso l’azione amorosa tra Livia (Alida Valli) e Remigio (Farley Granger) che nel film porta il nome di Franz Mahler, compositore austriaco del tardo periodo romantico. Non è certamente un caso che Visconti scelga un’opera di Verdi, che è stato il compositore per eccellenza del romanticismo italiano. Perciò diventa subito chiaro che il romanticismo svolge un ruolo centrale in Senso. In Boito la relazione fra Livia e Remigio è essenzialmente un rapporto sadomasochista fortemente influenzato dal piacere sessuale. In Visconti, al contrario, Livia proietta su Franz Mahler il suo bisogno di un amore romantico e lo configura come se fosse un eroe romantico. Franz, all’inizio, la rassicura in questa sua convinzione essendo interessato al suo denaro. Egli si serve in tal senso di una referenza intermediale nella misura in cui declama una strofa della lirica Lyrisches Intermezzo XXXII (1823) del poeta romantico tedesco Heinrich Heine, che parla di un amore spirituale che dura oltre la morte2

|| * Il contributo è stato tradotto in italiano da Angela Fabris. 1 Per esempio Martin Baumeister, Nation und Passion: Luchino Viscontiʼs Film Senso, in Die Kunst der Geschichte: Historiographie, Ästhetik, Erzählung, a cura di Id., Moritz Föllmer, Philipp Müller, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2009, p. 154; Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, Milano, Editrice Il Castoro, 1999; Giovanna Faleschini Lerner, Viscontiʼs Senso: The Art of History, Forum Italicum: A Journal of Italian Studies, 41/2 (2007): pp. 342–348; Wolfram Schütte, Senso: Sehnsucht, in Luchino Visconti, Reihe Film 4, München, Wien, Carl Hanser, 1976, pp. 76–78; Mary Wood, Italian Cinema, Oxford, New York, Berg, 2005; Alberto Zambenedetti, s.a., Senso. A Palimpsest (http://www.luchinovisconti.net/visconti_al/Senso_a_palimpsest. htm), consultato il 20.8.2020. 2 «Sorgono i morti, il dì del giudizio / tutti richiama al premio o al castigo / ma ciò a noi non importa pe nulla / e restiamo ambedue abbracciati» (Heinrich Heine, Poesie d’amore: intermezzo lirico, XXXII, a cura di Salvatore Barbaglia, Roma, Newton Compton, 1898, p. 121). Nell’originale: «Die Toten stehn auf, der Tag des Gerichts / Ruft sie zu Qual und Vergnügen / Wir beide

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I riferimenti all’opera di Verdi e alla poesia di Heine sono posti chiaramente in evidenza nel film. Franz Mahler nomina esplicitamente l’autore della poesia che sta declamando. Meno evidente è, al contrario, il riferimento intermediale alla pittura: in un significativo momento di svolta della trama Visconti fa sì che i due protagonisti, Livia e Franz, siano la fedele riproduzione di un dipinto, Il bacio (1859) di Francesco Hayez. Francesco Hayez è stato il più importante pittore del romanticismo italiano. Anche questo riferimento intermediale conferma la percezione idealizzata che Livia ha di Franz quale eroe romantico. Anche altri rappresentanti del romanticismo quali i compositori Franz Schubert e Anton Bruckner vengono citati nel film di Visconti. Nella novella di Boito Livia ammette apertamente di essere mossa dal desiderio sessuale. Alla luce di numerosi esempi, diviene chiaro nel testo come il suo rapporto con Remigio sia di natura masochista. Tutto questo non è assolutamente presente nell’adattamento filmico di Visconti, ove la rappresentazione della tensione erotica tra Livia e Franz è molto discreta. La scena del bacio, nella quale Livia vive il suo sogno romantico, è il più alto livello di passione raggiunto nel film. Visconti distrugge brutalmente questo sogno: nel confronto finale tra Livia e Franz – anche questo non presente nella novella di Boito – l’uomo lascia cadere spietatamente la maschera e grida a Livia: «Io non sono il tuo romantico eroe!».3

Tinto Brass

In Visconti il motivo del romanticismo, costruito con cura, si rivela così, in definitiva, un’illusione, mentre nel remake di Tinto Brass, il romanticismo non ha alcun ruolo fin dall’inizio. Il regista sottolinea piuttosto, in misura maggiore rispetto a Boito, la dimensione sessuale della relazione di Livia. Come Visconti, Brass usa le citazioni dei media per caratterizzare questo rapporto; tuttavia nella selezione delle opere d’arte citate si discosta notevolmente da Visconti.

|| bekümmern uns um nichts / Und bleiben umschlungen liegen» (Lyrisches Intermezzo XXXII, 1823). 3 Nel film di David Lean Summer Madness, uscito un anno dopo Senso e anch’esso ambientato a Venezia, troviamo una costellazione simile. Lì è l’americana Jane Hudson (Katherine Hepburn) a desiderare l’amore romantico, e proietta questo desiderio sull’antiquario Renato de Rossi (Rossano Brazzi). L’italiano, pragmatico, non è contrario a una relazione, ma fa capire a Jane che non è affatto il principe delle favole dei suoi sogni.

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Un primo esempio è dato dalla pittura. Mentre Visconti con Il bacio sceglie un dipinto che discretamente parla dell’amore romantico, i quadri citati da Tinto Brass rinviano invece esplicitamente alla sessualità. Ciò risulta particolarmente evidente in una scena in cui Livia (Anna Galiena) e il suo amante (Gabriel Garko) visitano la bottega di un mercante d’arte veneziano. Lì Remigio – che in Brass è il tenente Helmut Schultz – vuole vendere una selezione di acquerelli del pittore tedesco George Grosz, che sono di soggetto pornografico e vengono mostrati in primo piano nella pellicola. Alla sessualità rinvia anche un noto dipinto appeso alla parete dietro il mercante d’arte, Pornocrates del pittore belga Fèlicien Rops (figura 2). Con Pornocrates e gli acquerelli di Grosz Brass rende evidente che la relazione di Livia con il suo amante non è un desiderio romantico, ma un’ossessione sessuale. Lo stesso vale per la musica. Visconti utilizza, tra le altre, un lied romantico, Am Brunnen vor dem Tore di Franz Schubert, mentre Brass sceglie un titolo molto più esplicito, Dalla testa ai piedi sono fatta per l’amore, una canzone composta nel 1930 da Friedrich Hollaender, che a sua volta rinvia ad un altro medium, nella fattispecie al cinema: Marlene Dietrich canta – come è noto – questa canzone avvolta in un abito lascivo nel film L’angelo azzurro di Joseph von Sternberg. Non è l’unica citazione filmica in Senso ’45. A differenza di Visconti, Brass utilizza ampiamente il medium filmico, al fine di descrivere la relazione tra Livia ed Helmut. Naturalmente Senso ’45 dialoga inevitabilmente con l’originale di Visconti, ma vengono citati film di altri registi. Brass, che ha lavorato a lungo con Roberto Rossellini ed è stato suo assistente, si definisce «un rosselliniano».4 In tal senso egli si richiama a Rossellini in molti punti. Cita ad esempio una scena famosa di Roma città aperta (1945), in cui la protagonista Pina, interpretata da Anna Magnani, viene uccisa dalle SS in strada. La macchina da presa la inquadra distesa supina, con la gonna sollevata in modo tale da lasciare intravvedere il reggicalze.5 Brass richiama questa immagine nel suo film: anche qui si vede il corpo di una donna uccisa in strada dai nazisti, ma la macchina da presa non inquadra la donna di lato ma con un approccio voyeuristico sotto la gonna in modo che l’immagine assuma una connotazione sessuale. Lupi la valuta come una deliberata provocazione: «Brass cita Rossellini per provocare, per accendere un dibattito sul cinema, inserisce la

|| 4 Lorenzo Codelli, Sibari sul Canal Grande, in Senso ’45: Un film di Tinto Brass, Roma, Gremese Editore, 2002, p. 11. 5 Mary Wood, Italian Cinema, Oxford, New York, Berg, 2005, p. 170.

266 | Jörg Helbig parte erotica per contrapporre eros a thanatos, come continua a fare per tutto il film».6 Il riferimento più interessante al medium filmico avviene in una scena che si svolge su più livelli gerarchici. La scena è ambientata apparentemente in una sala cinematografica. Non si riesce a vedere quale film venga proiettato. Dal suono in sottofondo, tuttavia, è chiaro che si tratta del film di debutto di Luchino Visconti, Ossessione (1943). Anche questo film, come Senso, tratta di una relazione adultera da parte di una donna attraente che è sposata con un uomo più anziano.7 Tra il pubblico presente al cinema vi sono un uomo e una donna che sono evidentemente una coppia di amanti. Poi entra nella sala un uomo più anziano che si scopre essere il marito della donna seduta tra il pubblico. Con un gesto melodrammatico l’uomo spara al rivale, a sua moglie e infine a se stesso. Il triangolo erotico tra una giovane donna, il marito più anziano e il giovane amante, che è alla base della novella di Boito Senso, si riflette in Senso ’45 in due modi: da una parte tramite il richiamo al film di Visconti Ossessione, dall’altra attraverso la scena del cinema. Come presto si scopre, tuttavia, questa scena è solo una parte di un film dentro a un film. Dopo le riprese, si sente il richiamo del regista «Cut!», si vede il set del film e gli attori escono dai loro ruoli. Sul ciak si legge il titolo del film, Tradimento, e il nome del regista, Flavio Calzavara. Questo mette in gioco un ulteriore riferimento intermediale: Calzavara è stato veramente un regista italiano che ha girato il suo film Peccatori a Venezia nel 1944. Lo stesso Brass ritrae Calzavara in Senso ’45, costruendo così una complessa mise en abyme: nel remake di un film di Visconti, il regista Brass appare nel ruolo del regista Calzavara che sta girando un film di finzione in una sala cinematografica dove viene proiettato un film di Visconti. Il titolo del film di finzione, Tradimento, rispecchia perfettamente il contenuto del vero film Senso ’45, ma Brass introduce un’alternativa, collegando melodrammaticamente i due temi principali della storia, l'amore e la violenza: il marito tradito commette un crimine passionale, risparmiando alla moglie il tradimento dell’amante.

|| 6 Giordano Lupi, Tinto Brass: Il poeta dell’erotismo, Roma, Profondo Rosso, 2010, p. 168. 7 È interessante notare che una delle figure di Ossessione si chiama Remigio, forse ispirato dalla novella di Boito.

Srećko Jurisić Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki

Riassunto: Postulando la dimensione eteretopica dello spazio culturale mediter- raneo, con riferimenti a Foucault, Deleuze e Guattari oltre a Braudel e Matvejević, questo articolo si propone come obiettivo la disamina dello spazio mediterraneo nellʼimmaginario attraverso lʼanalisi del lungometraggio d’animazione Porco rosso (1992) del mangaka giapponese Hayao Miyazaki.

The Mediterranean, heterotopy, and Hayao Miyazakiʼs Porco rosso

Abstract: Postulating the heterotopic dimension of the Mediterranean cultural sphere and referring to Foucault, Deleuze, Guattari as well as Braudel and Mat- vejević, this essay sets out to analyze the imagination of the Mediterranean space in the animated film Porco rosso (1992) of Japanese mangaka Hayao Miyazaki.

Film is organic Hayao Miyazaki

Take a walk on the wild side Lou Reed

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L’immaginario mediterraneo richiama inevitabilmente uno spazio culturale chia- mando in causa lo spatial turn che, grosso modo, dagli anni Ottanta in poi, ha pervaso le scienze umanistiche. La virata verso lo studio dello spazio, che è per certi versi di origini foucaultiane, presenta però un problema di fondo quando si tratta di un’area complessa come il Mediterraneo. Questo avviene per la semplice

Open Access. © 2020 Srećko Jurisić, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-020

268 | Srećko Jurisić ragione che lo spatial turn si presenta nella maggior parte dei casi come ‘land- locked’, arrivando ormai ad avere bisogno di «start thinking from the water».1 Si è, cioè, troppo spesso inclini a riflettere sul Mediterraneo visto dalla costa e a considerare il mare soltanto come «tanta parte del lontano orizzonte», per dirla con i celebri versi leopardiani. Tecnicamente non vi è nulla di strano in tutto questo perché dal punto di vista etimologico «mediterraneus» indicava, nell’an- tichità ma non solo, una regione lontana dal mare, tutta compresa entro la terra, da cui a Vico, nella Scienza nuova, l’idea che «Mesopotamia è la terra più medi- terranea del primo mondo abitabile»,2 anche se non vi si affaccia, geografica- mente parlando; e da cui anche, sempre geograficamente parlando, il Mediterra- neo americano (Il Mar dei Caraibi o delle Antille) e il Mediterraneo australasiatico (l’insieme dei mari interposti tra le grandi e le piccole Isole della Sonda). Dobbi- amo quindi concludere che è l’acqua la componente chiave, quella che fa sì che il Mediterraneo europeo lo sia per antonomasia, detto ellitticamente e usato per lo più come nome proprio. Chiaramente avere a che fare con «the fluid element of water and its intrinsic ungraspability»3 può creare più di un problema dal punto di vista teorico e si rischiano numerosi interrogativi come nella storiella dei pesci, ripresa qualche anno fa da David Foster Wallace.4 Per affrontare lo studio dello spazio mediterraneo in maniera più equilibrata non c’è bisogno di una rivoluzione copernicana o di un turn ulteriore, ma soltanto dell’accettazione della diversità di questo spazio e la sua effettiva considerazione come parte integrante del globo terracqueo. Corsivizzarre l’aggettivo della frase precedente significa accettare di vedere lo spazio mediterraneo come un conti- nuum spaziale, sebbene eterogeneo perché in parte acquatico. Significa altresì rendersi conto che ci misuriamo inevitabilmente anche con uno spazio ‘altro’ in relazione a noi. Non si tratta soltanto di una considerazione relativa alla posi- zione, di definire ‘altro’ nel senso di altrove ovvero dove noi non siamo; si tratta

|| * This article is part of the project supported by KSPS (Korean Studies Support Serivce). 1 Jon Anderson e Kimberley Peters (a cura di), Water Worlds: Human Geographies of the Ocean, Ashgate Publishing, Vermont, 2014, p. 4. 2 Giovambattista Vico, Scienza nuova in Id., Opere, a cura di Paolo Rossi, Milano, Rizzoli, 1959, p. 56. 3 Jörg Döring e Tristan Thielmann, Spatial Turn: Das Raumparadigma in den Kultur- und Sozi- alwissenschaften, Bielefeld, Transcript Verlag, 2008, p. 84. 4 «There are these two young fish swimming along, and they happen to meet an older fish swim- ming the other way, who nods at them and says, “Morning, boys, howʼs the water?” And the two young fish swim on for a bit, and then eventually one of them looks over at the other and goes, “What the hell is water?”» (David Foster Wallace, Commencement Speech, Kenyon College, 2005; testo reperibile in rete e non pubblicato in volume).

Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki | 269 di avere coscienza della diversità fisica dell'elemento acquatico e della sua con- seguente alterità. Ora, intendere il mare come uno spazio ‘altro’ non può che in- dirizzare il discorso verso gli spazi ‘altri’, ovvero le eterotopie teorizzate da Fou- cault, le quali, a nostro parere, sono particolarmente calzanti nel caso del Mediterraneo. Ci torneremo più avanti. La compentrazione tra l’acqua e la terra nel bacino mediterraneo fa sì che qualsiasi misurazione di confini risulti imprecisa. Basti considerare il cosiddetto paradosso della linea di costa, osservato per la prima volta nel 1950 dal matema- tico britannico Lewis Fry Richardson, secondo il quale la costa di una massa ter- ritoriale non ha una lunghezza ben definita in quanto una costa ha una dimen- sione tipicamente frattale che di fatto rende inapplicabile la nozione di lunghezza.5 La misura della lunghezza della costa dipende dal metodo utilizzato per mi- surare e dal grado di generalizzazione cartografica. Poiché una massa territoriale ha determinate caratteristiche a tutte le scale, da centinaia di chilometri a piccole frazioni di millimetro e oltre, non c’è una dimensione evidente della più piccola piega della costa che dovrebbe essere presa in considerazione quando la si mi- sura, e quindi non vi è un perimetro ben definito per la massa territoriale in que- stione. In poche parole, la dimensione frattale della costa fa sì che la sua com- plessità cambi, come i frattali,6 con la scala di misurazione. Siccome la lunghezza di una curva frattale diverge sempre all’infinito, se si dovesse misurare una costa con una risoluzione infinita o quasi infinita, la lunghezza dei pertugi minuscoli della costa si proietterebbe verso l’infinito. Vi si aggiungano poi le considerazioni secondo cui a) il mare è sempre in movimento per cui non vi è una costa fissa; b) il movimento del mare modifica inevitabilmente la costa che è quindi metamor- fica e cambierebbe durante la misurazione stessa; c) anche se arrestassimo il mo- vimento del mare durante la misurazione della costa, non ci sarebbe alcun modo (al di là del mero arbitrio) per definire la costa in termini di deflusso dei fiumi poiché non esiste alcuna tecnica consolidata per determinare una linea dove il

|| 5 Cfr. Benoit Mandelbrot, How Long Is the Coast of Britain, in The Fractal Geometry of Nature, New York, W. H. Freeman, 1983, pp. 25–33. 6 Basti qui, sui frattali, la definizione di Mandelbrot: «FRACTAL. adj. Sens intuitif. Se dit d’une figure géométrique ou d’un objet naturel qui combine les caractéristiques que voici. A) Ses par- ties ont la même forme ou structure que le tout, à ceci près qu’elles sont à une échelle différente et peuvent être légèrement déformées. B) Sa forme est, soit extrêmement irrégulière, soit extrê- mement interrompue ou fragmentée, quelle que soit l’échelle d'examen. C) Il contient des ‘éléments distinctifs’ dont les échelles sont très variées et couvrent une très large gamme.» (Benoit Mandelbrot, Les objets fractals. Forme, hasard et dimension, Paris, Flammarion, 1975, p. 154).

270 | Srećko Jurisić fiume diventa mare; d) anche se la questione dei fiumi venisse superata, sarebbe comunque impossibile determinare il confine tra la terra e l’acqua dal momento che la terra può essere anche solo bagnata, ma non necessariamente sommersa. La conclusione scientifica, dunque, è che il Mediterraneo, pur essendo un mare relativamente piccolo, è infinito. Una simile conclusione, per quanto frutto di scienze esatte, non può che fungere da catalizzatore all’immaginazione e alla mitopoiesi confermando il posto speciale che il Mediterraneo occupa nell’imma- ginario collettivo. In questo senso potrebbe essere letto quanto scritto da Hegel nella Filosofia della storia:

The sea gives us the idea of the indefinite, the unlimited, and the infinite; and in feeling his own infinite in that Infinite, man is stimulated and emboldened to stretch beyond the limi- ted: the sea invites man to conquest, and to piratical plunder, but also to honest gain and commerce. The land, the mere valley-plain attaches him to the soil; it involves him in an infinite multitude of dependencies, but the sea carries him out beyond these limited circles of thought and actions.7

Da ciò la voglia di spingersi oltre i limiti dell’umano, in tutti i sensi, oltre le logi- che sociali, economiche e della ratio. Leggiamo un passo del Breviario mediterra- neo di Predrag Matvejević:

Non sappiamo neppure fin dove si estenda: quanto ampi siano i tratti della costa che oc- cupa, fin dove si spinga nelle rientranze del territorio e dove in effetti cessi. Gli antichi Greci lo videro da Phasis sul Caucaso fino alle Colonne d’Ercole, andando da oriente verso occi- dente, sottintendendo i suoi naturali confini verso nord e trascurando qualche volta quelli a sud. La saggezza antica insegnava che il nostro mare arriva fin dove cresce l’ulivo. E tut- tavia non è ovunque così: ci sono posti che si trovano proprio sulla costa che non sono me- diterranei o lo sono in misura minore rispetto ad altri che ne sono più distanti. In certi punti la terraferma fatica ad adattarsi al mare e non riesce a inserirvisi. E altrove le peculiarità meridionali contraddistinguono parti del territorio continentale, penetrano in esso con molteplici effetti e conseguenze. Il Mediterraneo non è solo geografia. I suoi confini non sono definiti né nello spazio né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo: sono irriducibili alla sovranità o alla storia, non sono né statali né nazionali: somi- gliano al cerchio di gesso che continua a essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano o restringono. Lungo le coste di questo mare passava la via della seta, s’incrociavano le vie del sale e delle spezie, degli olii e dei profumi, dell’am- bra e degli ornamenti, degli attrezzi e delle armi, della sapienza e della conoscenza, dell’arte e della scienza. Gli empori ellenici erano a un tempo mercati e ambasciate. Lungo

|| 7 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Philosophy of History, Ontario, Batoche Books, 2001, p. 90.

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le strade romane si diffondevano il potere e la civiltà. Dal territorio asiatico sono giunti i profeti e le religioni. Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa.8

Alla stregua della sovrapposizione tra l’acqua e la terraferma ve ne sono altre che ricalcano ineludibilmente il modello naturale e concernono la cultura nell’acce- zione più vasta del termine. L’impossibilità di definire i confini fisici e geografici, interni ed esterni, del Mediterraneo fa sì che se ne debba constatare la pluralità tout court di modo che risulta accettabile anche la definizione braudeliana che una definizione, in fondo, non è:

Qu’est-ce que la Méditerranée? Mille choses à la fois. Non pas un paysage, mais d’inno- mbrables paysages. Non pas une mer, mais une succession de mers. Non pas une civilisa- tion, mais des civilisations entassées les unes sur les autres […] Tout cela parce que la Méditerranée est un très vieux carrefour. Depuis des millénaires tout a conflué vers elle, brouillant, enrichissant son histoire: hommes, bêtes de charge, voitures, marchandises, na- vires, idées, religions, arts de vivre.9

Persino la metafora del crocevia usata da Braudel appare usurata perché ri- chiama, in ultima analisi, le assi cartesiane e l’universo matematico, che, come si è visto in precedenza, una risposta soddisfacente dal punto di vista scientifico non l’offre limitandosi ad avanzarla. Il tentativo di delimitare scientificamente il mare, imbrigliandolo così per sempre, trova non casualmente posto nelle disqui- sizioni di Deleuze e Guattari sullo spazio contenute nel loro volume Mille pla- teaux, fonte inesauribile di stimoli, e in particolar modo nelle sezioni dedicate alla distinzione fra lo spazio liscio e lo spazio striato. La distinzione fra liscio (‘libero’, semplificando molto) e striato (‘occupato’, in modo altrettanto semplificato) e il diverso modo di occupare lo spazio o di svol- gersi nel tempo che questa distinzione comporta può essere compresa anche sulla base di un’altra differenziazione di tipo grafico, fra due tipi di sistema che secondo Deleuze e Guattari mettono in atto un diverso rapporto fra linee, diago- nali e punti. Il primo, detto puntiforme, è quello tipico di tutte le territorialità o presente ogni qual volta ci troviamo di fronte ad un orizzonte spazio-temporale di tipo striato. Il secondo, detto lineare, multilineare o diagonale, appartiene invece a tutti i processi di deterritorializzazione che determinano, come sappiamo, una dimensione spazio-temporale liscia e concernente in generale ogni atto creativo. Lo striato è sempre dato e, anzi, in molti casi, sostiene Deleuze, è anche imposto.

|| 8 Predrag Matvejević, Breviario mediterraneo, Milano, Garzanti, 1987, p. 17. 9 Ferdinand Braudel, La Mediterranée. Lʼespace et lʼhistoire, Paris, Flammarion, 1999, pp. 8–9.

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Il liscio, al contrario, deve essere letteralmente ‘strappato' dalla striatura e con- quistato mediante un atto espressivo. Uno degli esempi che i due pensatori francesi adducono per la loro distin- zione binaria è proprio il mare, il quale viene definito lo spazio liscio per eccel- lenza, ed è per questo che «s’est trouvé le plus tôt confronté aux exigences d’un striage de plus en plus strict».10 Dicono che la striatura dello spazio marittimo sia avvenuta sulla base di due metodi puntiformi, l’uno astronomico e l’altro carto- grafico. Con il primo è possibile determinare la posizione in un punto del mare secondo dei calcoli rigorosi derivati dall’osservazione degli astri e del sole; con il secondo è stata creata invece una carta che incrocia i meridiani e i paralleli, le longitudini e le latitudini, riuscendo ad inglobare in un quadrato sia i luoghi co- nosciuti che quelli sconosciuti. Questa organizzazione del mare, dicono Deleuze e Guattari, è avvenuta per gradi e fu preceduta sicuramente da una modalità più empirica di occupare la superficie acquatica prendendone le misure, che teneva conto di svariati fattori ambientali, una «navigation nomade empirique et com- plexe qui fait intervenir les vents, les bruits, les couleurs et les sons de la mer».11 Una delle ragioni dell’egemonia occidentale, dicono i due filosofi,

c’est la puissance qu’eurent ses appareils d’Etat de strier la mer, en conjuguant les techni- ques du Nord et celles de la Méditerranée, et en s’annexant l’Atlantique. Mais voilà que cette entreprise aboutit au résultat le plus inattendu: la multiplication des mouvements relatifs, l’intensification des vitesses relatives dans l’espace strié, finit par reconstituer un espace lisse ou un mouvement absolu.12

Nonostante l’impresa, quasi disperata, talvolta certamente fallace, di regolamen- tare la superficie marina, si è riscoperta una navigazione del mare come spazio liscio, ad esempio nel momento in cui in ambito bellico entrarono in scena i sot- tomarini. Mentre ogni tipo di imbarcazione è infatti obbligata a muoversi su una sorta di scacchiera, tracciata da meridiani e paralleli, il sottomarino può com- piere movimenti in diagonale o in verticale, verso il fondo o verso la superficie, fuoriuscendo da ogni quadrettatura. Le imbarcazioni, per lottare contro i sotto- marini, i quali possono attaccare improvvisamente da qualsiasi punto, hanno do- vuto cercare un metodo per prevederne i movimenti, in altre parole furono obbli- gate a striare lo spazio liscio tracciato dagli altri e rendere la loro percezione più raffinata tramite nuove tecnologie.

|| 10 Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille plateaux, Paris, Minuit, 1980, p. 209. 11 Ivi, p. 599. 12 Ivi, p. 481.

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Esula, chiaramente, dagli obiettivi del presente lavoro approfondire ulterior- mente le teorie di Deleuze e Guattari, ma appare chiaro come sia di vitale impor- tanza cercare o creare lo spazio liscio, fuori dai radar, liberare la diagonale con un atto creativo irregolare; la spazialità, specie quella marina, si presenta come uno spazio sempre in divenire e «le devenir est le mouvement par lequel la ligne se libère du point, et rend les points indiscernables: rhizome, l’opposé de l’arbo- rescence, se dégager de l’arborescence. Le devenir est une anti-mémoire […]. Le souvenir a toujours une fonction de reterritorialisation».13 Persino la memoria viene chiamata in causa, qualora usata come fattore limitante e come strumento di controllo, specie se la s’intende nello sfruttamento retorico-politico del mito e della macchinazione mitologica secondo il modello della «macchina mitologica [che] è una ricetta utile per render i materiali mitologici gradevolmente morti, ir- rorati del colore della vita, squisitamente commestibili».14 Le scienze umanistiche e le scienze esatte arrivano alle medesime conclu- sioni sulla difficoltà di definire il Mediterraneo, pur adottando metodologie di- verse. Tale difficoltà, da una parte, viene vista quasi come un fallimento; dall’al- tra, invece, secondo Deleuze e Guattari, come un (f)atto liberatorio dell’«espace infini, et infiniment ouvert», scoperto, secondo Foucault, da Galileo, e dell’«l’in- fini de la mer».15 Se per meglio capire ciò che capire non si può conviene staccarsi dalla terra- ferma e addottare una prospettiva diversa e complementare, forse converrebbe osare ancora di più imitando proprio i sottomarini e quindi azzardando una vera e propria immersione nel medium acquatico in prima persona per sondarne il mi- stero.16 Consideriamo per un attimo l’acqua proteiforme quale appare in questo passo camilleriano tratto dalla Forma dell’acqua:

Io avevo una decina d’anni. Un giorno vidi che il mio amico aveva messo sull’orlo di un pozzo una ciotola, una tazza, una teiera, una scatola di latta quadrata, tutte colme d’acqua,

|| 13 Ivi, p. 360. 14 Furio Jesi, Materiali mitologici, Torino, Einaudi, 1979, p. 177. 15 Michel Foucault, Des espaces autres, in Id., Dits et ecrits, vol. IV, Paris, Gallimard, 1994, pp. 752–762. 16 Un piccolo esempio in tale direzione potrebbe essere il cortometraggio di Mario Cirillo, Stiamo sbagliando tutti (We are all wrong), del 2014, che mette in scena, da un punto di vista immerso, una delle sequenze più note del cinema mondiale ovvero la scena della fontana della Dolce vita felliniana mostrandoci soltanto le gambe della coppia Ekberg / Mastroianni e facen- doci udire le loro voci distorte dalla presenza dell'acqua; l'effetto finale è inevitabilmente stra- niante.

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e le osservava attentamente. «Che fai?» gli domandai. E lui, a sua volta, mi fece una do- manda. «Qual è la forma dell’acqua?». «Ma l’acqua non ha forma!» dissi ridendo: «Piglia la forma che le viene data».17

L’acqua dunque assume per lo più la forma che l’uomo le dà, circondandola con delle limitazioni per ragioni pratiche ma che hanno certamente anche a vedere con la paura ancestrale che la presenza dell’acqua porta con sé. Basti pensare ad un altro strumento di striatura, la prosa di controllo per eccellenza, la Bibbia, ma anche, per esteso, alle antiche culture del vicino Oriente, che vedono il mare (jam in ebraico) come simbolo del caos primordiale, della morte, del nulla e del male, luogo popolato da mostri che soltanto Dio può dominare. Idem per i Greci.18 Ma cosa succederebbe se invece dovesse essere l’acqua a delimitare l’uomo, cioè cosa accadrebbe se l’uomo si dovesse trovare ad essere circondato dall’ac- qua? Parlando stricto sensu, la prima ovvia risposta sarebbe il banale affoga- mento, ma lato sensu, accettando l’acqua come parte del continuum spaziale me- diterraneo e la sua alterità, avremmo forse occasione di fare un passo verso il mistero mediterraneo. Non già verso la sua soluzione, soltanto verso il mistero in quanto tale. Comodissimo nella ricerca della risposta si presenta l’esempio di un’altra Forma dell’acqua, quella di celluloide diretta da Guillermo del Toro (2017), in cui ci viene narrato l’aspetto liquido della natura umana, l’essere umano formato dall’acqua, che ci viene raccontato con la voce di Giles, omosessuale di mezza età. L’eroina, Elisa Esposito, è sulla trentina ma nella sceneggiatura è descritta come «ageless»19 ed è ulteriormente definita dalla soluzione antroponomastica decisamente mediterranea e meridionale; muta e silente come un pesce, Elisa è, ci si consenta la consunta metafora marittima, l’ancora di salvezza dell’Uomo an- fibio, creato dal regista messicano, risultato dalla fusione della cultura mediter- ranea con altre stratificazioni culturali, come ad esempio il film The Monster of

|| 17 Andrea Camilleri, La forma dellʼacqua, Palermo, Sellerio, 1994, p. 189. 18 «What particularly frightened the Greeks, and therefore the European mind which inherited their philosophical tradition, was the idea of the void. The sea’s void, that infinitely dangerous blank beyond known land, was as worrying metaphysically as it was physically. [...] The sea was a positive insult to their metaphysics, a naked opposition to it. Not only was the ocean of unk- nown dimension but it was moving, unstable, in certain circumstances even breaking out of its natural confines. How then could this fluid void be mapped? How did one map an ocean when it was featureless? How did one represent an absence of topography?» (James Hamilton-Pater- son, Seven Tenths: The Sea and Its Thresholds, London, Faber and Faber, 2007, p. 68). 19 «STRICKLAND And you- (reads Elisa’s file) Elisa... Elisa Esposito. Doesn’t Esposito means “Orphan”? She nods. ZELDA They found her -by the river- in the water» (Guillermo Del Toro e Vanessa Taylor, The Shape of Water, Los Angeles, Fox Searchlight, 2017, pp. 4 e 27).

Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki | 275 the Black Lagoon (1954) o il romanzo breve di Rachel Ingalls Mrs. Caliban (1982), che racconta la storia d’amore weird di una casalinga con Larry o Acquarius the Monsterman. Il coito subacqueo seguito all’immersione nel finale del film di Del Toro, in cui le cicatrici sul collo di Elisa si tramutano in branchie, sancisce il ri- torno al grembo materno, non esattamente il Mediterraneo (siamo a Baltimora ma, si sa, tutti i mari sono interconnessi tra loro) e sfonda le barriere tra i due mondi separati da confini invisibili. Il sottotesto shakespeariano del romanzo breve della Ingalls, da cui almeno in parte prende le mosse la pellicola di Del Toro, evidente sin dal titolo, richiama, con tutta evidenza, Caliban, il mezzo mo- stro e mezzo uomo della Tempesta. A parte la possibile ambientazione mediter- ranea del play del Bardo, Caliban è una creatura mediterranea a prescindere e, probabilmente, un essere anfibio anch’egli. Sua madre, la strega Sycorax, de- scritta da Prospero come una mala creatura, è nativa di Algeri e viene mandata in esilio per aver praticato una magia «so strong / That [she] could control the Moon» (atto V, scena I), dunque una magia legata al mare considerando che le maree sono connesse all’attrazione gravitazionale esercitata dal Sole e dalla Luna sul nostro pianeta. La Luna in particolare, trovandosi più vicina alla Terra, ha un ruolo dominante nel determinare le maree; Sycorax, poi, è una rifugiata, altro topos mediterraneo, che venne portata sull’isola di Prospero dai marinai incinta del suo bestiale figlio, della cui natura anfibia Trinculo dice:

What have we here? a man or a fish? dead or alive? A fish: he smells like a fish; a very ancient and fish- like smell; a kind of not of the newest Poor- John. A strange fish! (Act II, Scene II)

L’immersione può essere considerata un gesto ‘postumano’ perché ci proietta in un universo diverso da quello in cui abbiamo i piedi ben piantati per terra; ma è anche un gesto ‘preumano’ se la si legge nell’ottica del ritorno al grembo ma- terno, nel liquido amniotico delle civiltà,20 è qualcosa di prossimo a un rito di

|| 20 «The salt which is in seawater is in our blood and tears and sweat. The lungs of an infant in utero can be seen rhythmically breathing as it inhales and expels amniotic fluid, even as its oxygen supply comes from the mother’s bloodstream via the umbilicus. Each of us has breathed warm saline for days on end and survived. The lungs themselves derive from fused pharyngeal pouches, and branchial clefts (‘gill slits’) still form temporarily in all chordate embryos, inclu- ding humans, reminding us that something which became Homo did crawl up a beach many millions of years ago. The satisfaction for certain people of walking back down a beach and into the sea is akin to that of a long-postponed homecoming. Too late, though. We have lost our place

276 | Srećko Jurisić passaggio, uno dei sei requisiti delle eteroropie che Foucault elenca. Immergen- dovisi risulta inevitabile che il ‘mare interno’ dia un’altra versione, un’altra forma di noi, anfibia per esempio, o quella di un mostro marino, perché il nostro sog- giorno nell’eterotopia ci cambia. In questa direzione, uno dei passi più interes- santi del testo sulle eterotopie di Foucault è quello dedicato allo specchio, de- scritto come «sorte d’expérience mixte, mitoyenne»,21 a metà strada tra l’utopia e l’eterotopia, e potrebbe essere usato come esempio per avvicinarci alla compren- sione della dimensione eterotopica del Mediterraneo visto che in fondo esso è an- che uno specchio d’acqua. Quando ci guardiamo allo specchio siamo in entrambi i luoghi simultanea- mente, nello specchio e di fronte ad esso, e rimirandoci ci sentiamo quasi altri, notando dettagli nella nostra fisionomia di cui quasi non sapevamo. L’immer- sione nell’acqua del mare ha un effetto simile sulla nostra persona. Prima di im- mergerci ci riflettiamo nella superficie dell’acqua come se si trattasse di uno spec- chio, ma una volta che vi entriamo la percezione del nostro corpo cambia a causa della spinta verso l’alto del semplicissimo principio di Archimede per cui ogni corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido (liquido o gas) riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto, uguale per intensità al peso del volume del fluido spostato; cambia così la nostra percezione della forza di gravità. Sott’acqua i nostri movimenti si fanno più lenti. Questo produce un effet de retour sulla nostra percezione del reale e sulle leggi comunemente accettate e inviolabili della fisica, analogamente agli spazi ‘altri’ di Foucault, che, come è noto, con- densano in sé una molteplicità di spazi22 rendendo così più illusorio persino lo spazio reale. L’acqua come grembo, poi, va considerata come il cimitero con le tombe, inserito e discusso da Foucault nel suo testo sugli spazi ‘altri’. In ambedue i casi si tratta di situazioni-limite, ai due estremi dell’esistenza umana. Nel bacino mediterraneo che contiene il mare e la terra chi vi abita o chi vi viene sovente ricerca la rottura eterocronica del tempo inseguendo le origini della

|| and no longer know how to return» (James Hamilton-Paterson, Seven Tenths: The Sea and Its Thresholds, cit., p. 29). 21 M. Foucault, Des espaces autres, cit., p. 3. 22 «Il y a également, et ceci probablement dans toute culture, dans toute civilisation, des lieux réels, des lieux effectifs, des lieux qui ont dessinés dans l’institution męme de la société, et qui sont des sortes de contre-emplacements, sortes d’utopies effectivement réalisées dans lesquelles les emplacements réels, tous les autres emplacements réels que l’on peut trouver à l’intérieur de la culture sont à la fois représentés, contestés et inversés, des sortes de lieux qui sont hors de tous les lieux, bien que pourtant ils soient effectivement localisables. Ces lieux, parce qu’ils sont absolument autres que tous les emplacements qu’ils reflectent et dont ils parlent, je les appel- lerai, par opposition aux utopies, les hétérotopies» (M. Foucault, Des espaces autres, cit., p. 4).

Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki | 277 cultura occidentale – per il mito delle origini, della aurea aetas, vale il discorso di Jesi sulla tecnicizzazione, sull’abuso della memoria – che agevolino l’autoas- soluzione di una vita assolutamente alienata da se stessa. Quella che, per inten- derci, vede deambulare gli esseri umani nei non-luoghi, ovvero «un espace qui ne peut se définir ni comme identitaire, ni comme relationnel, ni comme histori- que définira un non-lieu»,23 agli antipodi delle eterotopie. La reciprocità con lo spazio marittimo permette a un’immaginario altro e di- verso di influire sul nostro e tale interazione ci avvicina al mistero che avvolge lo spazio culturale mediterraneo. Si acuisce così il paradosso mediterraneo, che ri- siede nel fatto che proprio il gesto creativo, quello mitopoietico, che crea il mi- stero e lo spazio liscio, ha dato le opere d’arte, la filosofia greca, quella araba, il canone letterario occidentale, comunque lo si voglia intendere, continua a voler essere disperatamente decifrato, incasellato nei compartimenti stagni della ma- nualistica, ossessivamente riposto in cataloghi, tabelle, tassonomie, grafici e dia- grammi di varia natura.

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Accettando la condizione in(de)finita del Mediterraneo se ne accetta la pluralità. La pluralità senza confini chiaramente delimitati con inevitabili sovrapposizioni che ineludibilmente aprono a nuove dimensioni e spazi ‘altri’ richiamano il sag- gio di Foucault sulle eterotopie,24 che a Soja appare «rough and patchy» nonché corroborato da «frustratingly incomplete, inconsistent, incoherent examples».25 Ciò spiega in parte perché Foucault non fosse propenso a svilupparlo fondando in un certo senso una sorta di disciplina, la potenziale eterotopologia. Nono- stante ciò, o forse proprio a causa della sua vaghezza, esso resta uno dei testi più discussi dello studioso francese.

|| 23 Marc Augé, Non-Lieux: introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Seuil, 1992, p. 100. 24 Il testo di Foucault in questione è chiaramente Des espaces autres (M. Foucault, Des espaces autres, cit.); Foucault non autorizzò la pubblicazione di questo testo scritto in Tunisia nel 1967 che nella primavera del 1994. Il testo acquista maggiore chiarezza e completezza se considerato come parte di un’‘orbita’ di quattro testi assieme all’introduzione a Les mots et les choses (M. Foucault, Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966) e altri due testi, due conferenze per la radio (per il programma France Culture) tenute nel 1966 (ora raccolte in M. Foucault, Le Corps utopique, les hétérotopies, présentation de Daniel Defert, Paris, Éditions Lignes, 2009). Si farà riferimento, qui, alle edizioni francesi onde evitare sfalsamenti legati alle traduzioni. 25 Edward Soja, Thirdspace, Oxford, Blackwell, 1996, pp. 154 e 162.

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Nell’introdurre Les mots et les choses (1966) Foucault discute l’esempio, molto noto, tratto da un racconto di Borges, dell’enciclopedia cinese, ed è forse più chiaro in quella sede che altrove quando tratta di eterotopie, e ciò che vi dice può tornare utile anche per quanto riguarda la dimensione eterotopica del Medi- terraneo. La bizzarra enumerazione borgesiana che commenta sta tutta, a suo dire, ne «l’espace vide, dans tout le blanc interstitiel qui sépare les êtres les uns des autres»,26 nello spazio, cioè, tra le cose che Borges mette assieme nella sua peculiare tassonomia, e ne «l’étroite distance»27 che fa sì che l’«énumération qui les entrechoque possède a elle seule un pouvoir d’enchantement».28 Lo spazio dell’interstizio, liscio e libero, è lo spazio ‘altro’ in cui s’annida l’eterotopia. Per Braudel il Mediterraneo è plurimo e condensa al proprio interno elementi etero- genei legandoli insieme in modo pressoché indissolubile. Per celia potremmo in- serire delle sirene in una delle enumerazioni di Braudel o di Matvejević, forti dei loro «pouvoirs de contagion», senza minimamente alterare il senso delle loro enunciazioni o perlomeno senza provocare una clamorosa rottura per la sola ra- gione che lo spazio mediterraneo offre sempre un numero sorprendente di op- zioni combinatorie. L’eterotopia è lo spazio dell’«hétéroclite»; è «une espèce de contestation à la fois mythique et réelle de l’espace où nous vivons»,29 lo spazio perturbante che mina l’ordine prestabilito e l’irregolarità che appare sovversiva rispetto al sistema in quanto portatrice di un ordine proprio, o semplicemente dell’assenza di esso. Casarino definisce le eterotopie «as forms of representation that disturb and undermine representation: within such aphasic spaces, the fa- bular language of representation falters, flounders, encounters the unspeakable, faces the unrepresentable».30 Questo ci porta all’esempio su cui intendiamo lavorare per avvalorare la parte teorica appena esposta e che abbiamo individuato in Porco rosso (1992), lungometraggio d’animazione del cineasta nipponico Hayao Miyazaki, una pelli- cola per diverse ragioni atipica nella sua produzione. Alla didascalia iniziale at- tingiamo per il sunto della trama: «Questo film narra la storia di un maiale so- prannominato Porco rosso, che si batte contro i pirati del cielo a rischio del suo onore, della sua donna, dei suoi beni, ambientata nel Mar Mediterraneo all’epoca degli idrovolanti».31

|| 26 M. Foucault, Les mots et les choses, cit., p. 4. 27 Ibid. 28 Ibid. 29 Ivi, p. 5. 30 Cesare Casarino, Modernity at Sea: Melville, Marx, Conrad in Crisis, Minneapolis, Univ. of Minnesota Press, 2002, p. 15. 31 Hayao Miyazaki, Porco rosso, Giappone, Studio Ghibli, 1992.

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La didascalia richiama le ottave proemiali di un poema epico e presenta rife- rimenti a Ulisse, ricorrenti nell’opera di Miyazaki (vedi Nausicaa della valle del vento, 1984), ma dichiara altresì l’intento del regista di affondare nelle origini dell’immaginario mediterraneo che ne costituisce il nucleo. Analogamente al Me- diterraneo nel quale è ambientato, è un film ostile ad ogni disamina perchè estre- mamente stratificato e denso. Porco rosso è un lungometraggio quasi malgré lui perché l’idea Miyazaki la svolge prima come un breve fumetto (quindici tavole in acquerello divise in tre parti, nel 1990, su una rivista giapponese di modellismo, Model Graphix, su cui pubblica frequentemente i propri manga) che successivamente trasforma in un cortometraggio, 30–45 minuti, da proiettarsi ai viaggiatori sui voli della JAL (Ja- panese Airlines), che poi espande nell’attuale lungometraggio, per ragioni squi- sitamente personali e legate anche a quelle che potremmo definire le sue osses- sioni (il volo e gli aeroplani, ad esempio).32 La componente fantastica è nettamente ridotta rispetto agli altri lavori del cineasta nipponico e lo è probabilmente per la forte influenza della guerra nell’ex-Jugoslavia33 che con le sue devastazioni indirizza lo sforzo creativo di

|| 32 Sulla genesi del film: «Kurenai no Buta (Porco Rosso) is the project on which Mr. Miyazaki is [in June 1992] actually working on. He did the preproduction in March 1991 and the production really started in July 1991. The movie will be released next July, so the deadline is now very close. The production cost of such a movie is about ¥600 million (make the conversion by yourself). To this amount must be added another ¥600million for the distribution of the movie and the una- voidable publicity. This animation is financed by Tokuma Shoten, Japan Airlines, Nihon Televi- sion and Studio Ghibli. If you include the 80 people working full time at Studio Ghibli, the 60 people orchestra that will perform the music, the 40 people that will give their voices to the cha- racters and the various technicians and staff members, about 300 people are involved in this project». Intervista di Sylvain Rheault a Hayao Miyazaki (http://www.nausicaa.net/miyazaki/ interviews/m_pa_interview.html, consultata il 22 aprile 2019). 33 «Je n’aurai pas du commencer l’histoire dans la mer Adriatique. Beaucoup de personnes pen- sent que cela se passe en Italie mais Porco vit sur la côte croate. Elle est devenue le champ de bataille de la guerre civile. Je venais juste faire une histoire pour vous faire sourire mais cela est devenu compliqué. J’ai alors du lire l’histoire contemporaine de la Yougoslavie mais ce n’était pas un livre d’histoire consistant et cela a été très difficile à comprendre. Sapristi, je n’ai pas fait attention. J’ai toujours essayé de faire un film pas compliqué mais je ne sais pas pourquoi, il est devenu compliqué. C’était la même chose avec Laputa. Je pensais pouvoir le rendre moins ardu mais mes diverses pensées s’insinuent inévitablement et rendent les choses compliquées. Quand je finis une histoire, je ne sais pas comment, je trouve que je l'ai rendu complexe. J’ai certaine- ment fait Porco comme je le voulais. Je ne pourrai pas le faire d’une autre façon. Mais je me suis senti humilié, en quelque sorte, d’avoir du changer les plans en cours de route, en ne procédant pas comme c’était planifié au départ. Vous savez, j’allais faire un film de quarante cinq minutes et c’est devenu deux fois plus long -rires-. […] Mais c’est différent en Yougoslavie. Je pense que

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Miyazaki, pacifista e ambientalista,34 verso un complesso hommage all’immagi- nario mediterraneo a rischio d’estinzione. Inoltre è l’unico suo film non per bam- bini ma per un pubblico maturo, a detta di Miyazaki stesso. Sul quotidiano britannico «The Telegraph», in una delle rare interviste con- cesse, Miyazaki ebbe a dichiarare: «I’ve been very blessed to make animation for 50 years in peaceful times, while they lived in very volatile, violent times. But I think the peaceful time that we are living in is coming to an end».35 Queste parole sono significative per varie ragioni. Si potrebbe dire quasi che siano un mantra per Miyazaki, che ribadisce il concetto anche nelle interviste e nei documentari su di lui e sullo Studio Ghibli.36 Da una parte dimostra come persino un’artista dalle vibrisse ipersensibili accetti il conflitto come una sorta di rumore di fondo, come di inquinamento acustico, visto che l’intervista è del 2014 quando erano già

|| cela a été commencé par quelques groupes. Mais nous n’avons pas pu les arrêter. C’est comme la montée du nazisme en Allemagne, beaucoup de gens qui y étaient, ont dit que c’était juste une série de groupes mais ils ont grandi avec une force irrésistible. Par exemple, lorsque nous regar- dons les actualités à CNN, les Serbes paraissent mauvais de façon accablante. Mais si vous allez à la racine, c’est quelque peu différent. Il y a un conflit entre l’Europe de l’Ouest et l’Europe orthodoxe à l’intérieur de la chrétienté. Pas étonnant que les Serbes se méfient de l’OTAN. Ils préfèrent avoir les Russes. Alors, les Serbes ont-ils raison? Non. Les deux parties sont vraiment stupides et commettent des actes impardonnables. Même s’il y a une chose comme la justice, une fois que la guerre est enclenchée, tout est corrumpu. C’est la guerre». (Intervista a Hayao Miyazaki di Iwanami Shoten oggi reperibile su https://www.animint.com/encyclopedie/au- teurs/miya_interview94.html, consultata il 22 aprile 2019). 34 «J’ai été très triste de voir à quoi on réduit la côte Adriatique dans les livres que j’ai utilisés pour la documentation de Porco Rosso, et aussi de constater que dans les environs de , on ne trouve pas un seul arbre à part ceux qui sont cultivés à des fins alimentaires comme les oli- viers. L’éventuel message de nos oeuvres est davantage dans la représentation de la campagne que dans un dessein délibéré. Je fais partie d’un mouvement écologiste mais, comme je l’ai déjà dit, j’ai horreur des organisations et par conséquent, je ne participe à aucune activité. J’ai dessiné la mascotte du groupe et j’envoie de l’argent de temps en temps mais rien de plus» (Intervista di F. Copi a Miyazaki, oggi reperibile su https://www.animint.com/encyclopedie/auteurs/miya_ interview92.html, consultata il 22 aprile 2019). 35 Intervista a Miyazaki realizzata da Robbie Collin, reperibile in https://www.telegraph. co.uk/culture/film/10816014/Hayao-Miyazaki-interview-I-think-the-peaceful-time-that-we-are- living-in-is-coming-to-an-end.html, consultata il 22 aprile 2019). 36 Tra quelli più recenti vale la pena menzionare il suggestivo The Kingdom of Dreams and Mad- ness (Giappone, 2013) diretto da Mami Sunada in cui vediamo Miyazaki, nel periodo post-Fuku- shima, molto preoccupato per la situazione in Giappone e nel mondo. Nella fattispecie, Miyazaki teme il ritorno del discorso populista, mentre finisce il lavoro su Si alza il vento (2013), e teme anche la riduzione della libertà creativa e la virata verso destra della politica nipponica. Facile il paragone con la situazione mondiale d’oggi. Miyazaki appare egualmente preoccupato per il fu- turo nel documentario successivo, Never ending man (2016) di Kaku Arakawa.

Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki | 281 iniziati la ‘primavera araba’ (2011) e poi l’‘inverno arabo’ (2012) con la guerra in Siria che dura ancora oggi. Eppure Miyazaki parla di tempo di pace. È il rumore di fondo cui si fa l’abitudine dopo un po’ come alle notizie delle guerre lontane che, apparentemente, non ci riguardano e che in seguito alla saturazione media- tica che ne scaturisce smettono anche di interessare le masse. Questo ci porta all’altra ragione d’interesse, conseguente: Miyazaki, classe 1941, ricorda una guerra che lo ha riguardato da vicino, la seconda guerra mondiale, e uno dei suoi primi ricordi è legato ai bombardamenti degli alleati, a Utsunomiya in fiamme, e la fuga aggrappato al padre, Katsuji, da un’azienda che fabbricava le pinne di coda per gli aerei da guerra giapponesi.37 Il monito pacifista è sempre presente nei suoi film, sovente assieme al messaggio ambientalista. Le parole di Miyazaki riflettono la paura della guerra che è talmente radicata nel nostro quotidiano da non essere quasi più percepita, la paura che accetta-convive con le guerre lontane con la speranza che non ne deflagri una che colpisca tutti. Il film di Miyazaki non è il frutto della nostalgia o dell’uso paralizzante della memoria relativa al Medi- terraneo. L’operazione condotta dal regista condensa al proprio interno molti spazi e molti tempi rendendo così giustizia all’eterotopia mediterranea accre- scendone il mistero attraverso la creazione artistica: «I’ve told the people on my CGI staff not to be accurate, not to be true. We’re making a mystery here, so make it mysterious».38 È una frase emblematica perché quando finalmente si piega all’uso della scienza, di CGI (Computer Generated Imagery), Miyazaki, che per i

|| 37 «Their father, born in 1915, worked as the director of the family firm, Miyazaki Airplane. Ow- ned by Hayao’s uncle, the company constructed and manufactured parts, such as rudders, for Japanese Zero fighter planes deployed in World War II. His father’s background in aviation had a profound influence on Hayao. It became a source of his passion to draw airplanes in his youth and inspired his lifelong fascination with aviation, a penchant that later manifested as a recur- ring theme in his films. Later on his life, however, he admitted in interviews to feeling pangs of guilt over his father profiting from the war as a munitions engineer and for how comfortably they lived as a result. […] The war had a tremendous effect on the Miyazaki family and Hayao perso- nally. When he was three years old, Katsuji evacuated the family to safer ground. To escape the United States’s bombing of Tokyo and to be closer to the Miyazaki Airplane factory in Kanuma City, his father moved them to Utsunomiya City and Kanuma City in Tochigi Prefecture, where they resided from 1944 to 1946. It was clear to young Hayao at the time that he never wanted to pursue a career in mechanics like his father. As he recalled: «It was very useful during the war, but then the military aviation in Japan did not exist any more. And aluminum was used to make spoons and forks, [and] then my family worked in this industry. I hated the idea that the family of my father will earn money to make the war» (Jeff Lenburg, Legends of Animation: Hayao Miyazaki, New York, Chelsea House, 2012, pp. 11–12). 38 Intervista di Anthony Oliver Scott a Miyazaki apparsa su New York Times nel 2005, oggi reperibile qui https://www.nytimes.com/2005/06/12/movies/where-the-wild-things-are-the- miyazaki-menagerie.html, consultata il 22 aprile 2019).

282 | Srećko Jurisić suoi film esegue manualmente migliaia di disegni, ne limita i poteri. Anche il se- guente brano di un’intervista a Miyazaki andrebbe letto in tale ottica intenta a preservare il mistero mediterraneo:

20,000 Leagues under the Sea is still interesting today, don’t you think? Later, when sub- marines were actually built, the bottom of the sea was portrayed countless times, but none of those images were particularly interesting. What makes 20,000 Leagues under the Sea so interesting even today is that the sea depicted there isn’t just any sea – it’s a sea of the mind. At one time, flight, too, was something that just took place only in the world of imagination. It was potrayed with the sense that, «Wouldn’t it be wonderful to be set free and fly through the sky?» Now it’s strictly a matter of physics. I think it must have been different back then.39

Il personaggio principale, Porco rosso, risale a uno dei primissimi film di Miyazaki, Gli allegri pirati dell’isola del tesoro (1971). Il film è liberamente tratto dal romanzo eponimo di Robert Louis Stevenson, ed è stato prodotto in occasione del ventesimo anniversario della Toei Animation per la quale Miyazaki all’epoca lavorava. Semplice la trama: Jim è un ragazzino che si ritrova per caso tra le mani una mappa del tesoro e parte all’avventura accompagnato dal fedele topolino Grant, imbattendosi nel temibile Capitan Uncino e in Kathy, la nipote di un pirata onesto, con cui combatterà per la libertà. L’ambientazione è nel Mar dei Caraibi, passando ovviamente dalla famosa città di Tortuga. Eccezion fatta per Jim e Ka- thy, i personaggi sono animali antropomorfi (in inglese, infatti, il film venne di- stribuito sotto il titolo Animal Treasure Island), figure frequenti nella tradizione giapponese e che, essendo quasi invulnerabili, sono praticamente dei supereroi e permettono maggiore flessibilità nelle rocambolesce scene d’azione, marchio di fabbrica di Miyazaki, rimanendo allo stesso tempo buffi e accentuando così l’ef- fetto di fuga dalla realtà, molto importante per il pubblico nipponico. Uno dei personaggi di rilievo è Capitan uncino, un porco, proprio come Marco Pagot/Porco rosso,40 un animale che avrà grande importanza nella poetica del mangaka di Tokyo, al punto che nel complesso degli edifici che ospitano lo Studio Ghibli, la sua compagnia di produzione, l’ufficio personale del disegna- tore si trova in uno stabile detto buta-ya (la casa del porco). Nel riprendere il

|| 39 Intervista di Takashi Oshiguchi a Miyazaki, oggi reperibile su http://www.angelfire.com/ anime/NVOW/Interview1.html, consultata il 22 aprile 2019. 40 L’onomastica è raramente casuale in Miyazaki: Marco Pagot era il figlio di Nino Pagot e ni- pote di Toni Pagot, creatori di Calimero, che assieme alla sorella Gi(na) Pagot e alla casa di pro- duzione Studio Rever collaborò con Miyazaki alla realizzazione, nell’aprile 1981, dei primi quat- tro episodi della serie d’animazione Il fiuto di Sherlock Holmes, che poi Miyazaki abbandonò per divergenze creative rimanendo comunque in contatto con i Pagot; Marco lo aiutò a documentarsi per la realizzazione di Porco rosso.

Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki | 283 porco nel Porco rosso Miyazaki mette in scena l’intera storia culturale dell’ani- male per poi sovvertirla: al di là della stessa metamorfosi in animale antropo- morfo, procedimento molto ovidiano e mediterraneo in sé, dalla trasformazione in porci dei compagni di Ulisse (Odissea, X, vv. 210–260, 307–347, 375–399), pas- sando per La fattoria degli animali di Orwell e giungendo persino ai proverbi (quale l’adynaton anglosassone «When pigs fly»), Miyazaki sovverte lo stereotipo spregiativo del maiale. Le motivazioni della sua scelta Miyazaki le spiega in un’intervista:

Pigs are creatures which might be loved, but they are never respected. They’re synonymous with greed, obesity, debauchery. The word ‘pig’ itself is used as an insult. I’m not an agnos- tic or anything, but I don’t like a society that parades its righteousness. The righteousness of the U.S., the righteousness of Islam, the righteousness of China, the righteousness of this or that ethnic group, the righteousness of Greenpeace, the righteousness of the entrepre- neur.... They all claim to be righteous, but they all try to coerce others into complying with their own standards. They restrain others through huge military power, economic power, political power or public opinions. I myself have a number of things I believe are right. And some things make me angry. Actually, I’m a person who gets angry a lot more easily than most people, but I always try to start from thh assumption that human beings are foolish. I’m disgusted by the notion that man is the ultimate being, chosen by God. But I believe there are things in this world that are beautiful, that are important, that are worth striving for. I made the hero a pig because that was what best suited these feelings of mine.41

Aggiunge anche: «I think they fit very well with what I wanted to say. The beha- viour of pigs is very similar to human behaviour. I really like pigs at heart, for their strengths as well as theirweaknesses. We look like pigs, with our round bel- lies. They’re close to us»,42 esprimendosi in termini simili a più riprese:43 «In ori- gine non vi era nessuna grande distinzione tra gli umani e il resto delle creature.

|| 41 Dani Cavallaro, The anime art of Hayao Miyazaki, London, McFarland, 2006, p. 97. 42 Intervista di Tom Mes a Miyazaki, oggi reperibile in http://www.midnighteye.com/ interviews/hayao-miyazaki/, consultata il 18 maggio 2019. 43 Ancora sulla scelta del maiale come protagonista: «Pour les Japonais, le cochon est un ani- mal pour lequel on a de l’affection, mais qu’on ne respecte pas. Pour moi, c’est un animal avare, capricieux, et qui n’est pas sociable. C’est quelqu’un qui ne suit pas de régime, qui fume et qui n'en fait qu’à sa tête. En termes bouddhistes, il a tous les défauts de l’être humain: il est égoïste, fait tout ce qu’il ne faut pas faire, jouit de sa liberté. Il nous ressemble beaucoup! Quand on est jeune, on est plein d’espoir et l’on pense que l’on sera un héros. Avec l’âge, on se rend compte que l'on n’a pas accompli ce but à cause de l’orgueil, des caprices, des désirs, du goût de la possession. A l’âge mûr, la femme japonaise demande à l’homme si son travail est plus important qu’elle. Et le Japonais lui répond que, si on lui enlève son travail, il n’est plus rien. Le cochon qui ne vole pas devient un cochon ordinaire! Je dois ajouter que j’aime bien dessiner les cochons»

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Basta pensare che il pesce è il simbolo di Cristo. La vita, prima, era un’idea con- divisa».44 L’ex asso dell’aeronautica militare Marco Pagot vive nascosto in un’isola dell’Adriatico da dove esercita la sua professione di cacciatore di taglie ai danni dei cosiddetti pirati dell’aria, la banda chiamata Mamma Aiuto, mentre un regime totalitario (il riferimento è chiaramente al fascismo) diviene sempre più forte met- tendo a repentaglio l’esistenza del mondo di Porco rosso. All’origine del perso- naggio è il fascino che la figura di Antoine de Saint Éxupery esercita su Miyazaki (il Piccolo principe è il suo libro preferito),45 come del resto tutta la cultura fran- cese, dalla macchina che guida, una deux chevaux, alle citazioni di Valery nell’ul- timo film o persino al sottotesto baudelaireiano in alcuni casi. Un esempio: Miyazaki è ritenuto il regista degli episodi 145 (Albatros, le ali della morte) e 155 (I ladri amano la pace) della seconda serie di Lupin III, quando, nel 1980, dopo tre anni di successi, essa volgeva al termine. Per chiudere in bellezza i produttori pensarono di affidare due degli ultimi episodi a Miyazaki, che l’anno prima aveva diretto il bellissimo film su Lupin Il castello di Cagliostro, ma che aveva parteci- pato anche alla realizzazione della prima serie dedicata al celebre ladro, quella di Lupin dalla giacca verde (1971). Il tratto del grande regista nipponico è immediatamente riconoscibile, così come le tematiche a lui care. Il Lupin tratteggiato da Miyazaki, simpatica canaglia ma assolutamente positivo e leale, è diverso da quello originale ideato da Monkey Punch, più duro e spietato, che appare nei primi episodi della serie del ‘71. L’epi- sodio 145, Albatros, le ali della morte, è degno del miglior Miyazaki: il ritmo è molto sostenuto, gli inseguimenti e le gag sono riuscitissime. Lupin e i suoi amici sono impegnati contro il folle dottor Lonebach, un appassionato di vecchi aerei, come il regista, e nel corso dell’episodio possiamo ammirare diversi apparecchi storici mentre l’intera sequenza finale è costituita da un inseguimento aereo, in

|| (Intervista di Gilles e Michel Ciment a Miyazaki, oggi disponibile su http://gciment.free.fr/caen- tretienmiyazaki.htm, consultata il 18 aprile 2019). 44 Intervista di Emilio Marrese a Miyazaki, oggi reperibile in https://www.animeclick. it/news/21723-hayao-miyazaki-intervista-sul-venerdi-di-repubblica, consultata il 18 maggio 2019. 45 Nel 2006, la Gallimard nel pubblicare Antoine de Saint-Exupéry, Dessins, a cura di Delphine Lacroix e Alban Cerisier, chiede la prefazione proprio a Hayao Miyazaki che scrive che il creatore del Piccolo principe «ha tentato di prendere una stella dal cielo per noi, riuscendo, dopo molti fallimenti ed infortuni, nel Mediterraneo ad esaudire il proprio desiderio» (traduzione di S. J.) e la conclude, animando quasi a parole, la scena in cui a bordo del suo Breguet 14 vola sul Canal du Midi verso Alicante. Seguiamo il velivolo dalle ali di lego, tessuto e fil di ferro, mentre diventa sempre più piccolo prima di scomparire nel Mediterraneo.

Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki | 285 cui il cattivo fugge su un gigantesco velivolo, l’Albatros del titolo. Nel Porco rosso, similmente, l’omonimo personaggio dichiara che il suo idrovolante presenta dei problemi al decollo e all’atterraggio, nei momenti in cui, cioè, tocca terra, alla stregua dell’albatro di Baudelaire, «fiacco e sinistro viaggiatore alato! / E comico e brutto, lui prima così bello!».46

Il periodo entre deux guerres, il setting adriatico e i velivoli non possono che far pensare ad un sottotesto dannunziano, probabilmente il prodotto italiano d’esportazione di maggior successo all’epoca oltreché uno dei nomi, quello del suo autore, che maggior risonanza ha dato al volo sin dagli albori dell’aeronautica in Italia. Prima di diventare un eroe, almeno mediatico, della Grande guerra anche per merito di celebri incursioni aeree, D’Annunzio assistette a Brescia, per l’esattezza nella vicina Montichiari, al primo circuito aereo organiz- zato in Italia («settembre 1909, 100 000 lire di premi» recitava la locandina), al fine di ar- ricchire il romanzo ambientato «tra le più moderne vicende», Forse che sì forse che no (pub- blicato da Treves nel 1910) che stava scrivendo con dati presi dalla realtà, incapace, come si sentiva, di ritrarre ciò che non aveva visto con i suoi occhi. D’Annunzio conobbe Louis Blériot e altri assi dell’aviazione, e domenica 12 settembre volò per la prima volta con Glenn Curtiss, che era riuscito a convincere a fatica a farlo salire a bordo, e Mario Calderara, sor- volando appunto Montichiari e volando per più di un miglio. D’Annunzio si dichiarò poi entusiasta di quell’esperienza agli astanti e ai giornalisti, tra cui c’era anche Franz Kafka, in qualità di inviato del giornale «Bohemia», da Praga.

Si ha così l’impressione che Porco rosso sia una sorta di personaggio ucronico creato per farci vedere cosa sarebbe accaduto se D’Annunzio non avesse scelto di appoggiare ambiguamente il fascismo e di ritirarsi al Vittoriale, ma avesse se- guito, grosso modo, le orme del suo ultimo alter ego romanzesco Paolo Tarsis, il protoaviatore di Forse che sì forse che no, e si fosse rifugiato in una remota spiag- gia adriatica in aperta opposizione al nascente regime fascista, osteggiando an- che quelli che potrebbero essere stati i suoi uscocchi fiumani, cioè i Mamma aiuto,47 il cui capo presenta qualche somiglianza con il legionario fiumano Guido Keller oltre che con Bluto, l’antagonista dei fumetti su Popeye. Un’ucronia, que- sta, nient’affatto irrealizzabile se si tiene presente che persino Hemingway, dopo averlo deriso in alcuni epigrammi,48 riteneva D’Annunzio capace di opporsi al

|| 46 Charles Baudelaire, I fiori del male, Torino, Einaudi, 1999, pp. 12–13. 47 A conferma di questa tesi Miyazaki fa il verso ad alcuni famosi motti dannunziani (ad es. «Hic manebimus optime», «Per non dormire» ecc.) con i motti scritti sulle carlinghe degli idro- volanti dei Mamma Aiuto: «Facciamo soldi!» oppure «Morte ai porcelli!». I pirati in questione sono l'antitesi dell’idea del pirata indipendente in quanto indebitati con le banche. 48 L’epigramma in questione, intitolato D’Annunzio, recita così: «Half a million dead wops / And he got a kick out of it / The son of a bitch [Mezzo milione di mangiaspaghetti morti / E che

286 | Srećko Jurisić

Duce.49 Oltre a ciò, Miyazaki rovescia il mito dell’amatore seriale associato a D’Annunzio presentando Porco rosso imbarazzato dinanzi a una ragazzina di do- dici anni, Fio, e ce lo mostra intento a cullare un bebé mentre la mamma dello stesso con altre donne sta lavorando nella fabbrica che sta costruendo il suo idro- volante. Il sottotesto dannunziano è rafforzato dal nome della motonave dell’Al- bergo Adriano che si chiama Alcione, come il terzo libro delle dannunziane Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi. Curtiss, pioniere americano dell’aviazione, presta il proprio nome all’asso americano nel film di Miyazaki, soltanto che questi invece di Glenn si chiama Do- nald ed è vestito in modo da ricordare Donald Duck della Disney, per cui Miyazaki è stato criticato. Nonostante Porco rosso possa parere un hommage nostalgico a tanta cultura europea e occidentale ammirata ma anche criticata da Miyazaki, è la modalità di costruzione dei personaggi a non renderlo tale e ad attualizzare il suo Mediterraneo. Prendiamo ad esempio i personaggi finora menzionati, Porco rosso, il capobanda di Mamma aiuto e Donald Curtiss. Tutti e tre sono stati creati in maniera analoga: Porco rosso assomma materiale dannunziano e strizza l’oc- chio a Casablanca, uno dei film più noti della storia del cinema; il capobanda dei Mamma aiuto fonde un legionario fiumano con il cattivo di Popeye; Donald Cur- tiss contamina il pilota Glenn Curtiss con il disneyano Donald Duck. Nel caso di Porco rosso il sottotesto dannunziano sottolinea l’occasione persa dall’Italia e dall’Europa con un’ucronia incarnata in un personaggio mentre il ri- ferimento alla figura bogartiana di Rick Blaine può essere visto come una critica al cinema hollywoodiano che sovente elude i temi importanti cedendo alle ra- gioni dell’appeal commerciale: nella fattispecie la storia d’amore splendida- mente resa da Bogart/Bergman relega in secondo piano ciò che Casablanca real- mente è, ovvero l’immagine cupa di una città mediterranea che ospita storie drammatiche e disperate di profughi (lo stesso Rick Blaine è un emigrato) e ri- chiedenti asilo in fuga da regimi totalitari (nel film il nazifascismo e il governo collaborazionista di Vichy), storie simili a quelle che definiscono oggi l’immagi-

|| gusto ci ha provato / Quel figlio di puttana]. (Ernest Hemingway, Complete Poems, a cura di Ni- cholas Georgiannis, Lincoln, University of Nebraska Press, 1979, p. 28). 49 Inviato alla conferenza di Losanna, dopo aver svelato la natura da millantatore di Mussolini, Hemingway di D’Annunzio scrive così: «A new opposition will rise, it is forming already, and it will be led by that bold, bald-headed, perhaps a little insane but thoroughly sincere, divinely brave swashbuckler, Gabriele D’Annunzio». Sulla sincerità di D’Annunzio si potrebbe discutere, ma altre sue caratteristiche lo scrittore di Ketchum le coglie piuttosto bene. (Ernest Hemingway, Mussolini, Europe’s Prize Bluffer, in The Toronto Daily Star, 27 gennaio 1923).

Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki | 287 nario mediterraneo e lo integrano con quella parte oscura che è sempre stata pre- sente ma che i depliant turistici e le ragioni politiche hanno voluto espungere dall’immaginario collettivo. Il capobanda di Mamma aiuto attraverso i riferimenti a personaggi storici quali Guido Keller può essere letto come il simbolo della gioventù delusa dal primo dopoguerra che canalizza il vitalismo esasperato mettendolo al servizio di ideali dalla dubbia moralità fino al punto in cui il personaggio si fonde con il cat- tivo di Popeye, un personaggio caratterizzato dalla violenza più primitiva ed ot- tusa, propria, per intenderci, dello squadrismo fascista. Da ultimo, il personaggio di Donald Curtiss racchiude al proprio interno Glenn Curtiss, imprenditore statunitense, pioniere dell’aviazione, detentore della tessera numero uno dell’Aero Club of America, e Donald Duck, il personaggio più fanfarone e scriteriato della scuderia Disney. A conferma della filiazione da Pa- perino ci sono le tavole del manga che funge da punto di partenza e lì l’onoma- stica gioca addirittura sulla rima col papero disneyano perché il pilota si chiama Donald Chuck. Il risultato è l’asso dell’aviazione che si autodefinisce «bona fide celebrity», dalle idee conservatrici (devotissimo alla propria madre e a Dio), con ambizioni hollywoodiane, superficiale, inutilmente spettacolare, che vorrebbe, un giorno, diventare presidente degli Stati Uniti, con chiaro riferimento a Reagan, la cui presidenza era terminata poco prima che Miyazaki mettesse in cantiere l’idea di Porco rosso, e per estensione a simili derive politiche dello showbusiness americano (vedi Schwarzenegger come governatore della California e, da ultimo, Trump come quarantacinquesimo presidente degli USA). Ma Porco rosso è anche un film-monito, dato che, secondo Miyazaki, l’uomo non ha appreso nulla dalle due guerre mondiali se è capace di atrocità come quelle della ex-Jugoslavia. Per cui Miyazaki, nonostante l’ennesimo ritiro dopo l’uscita di Si alza il vento (2014), lasciò paventare addirittura l’idea di un sequel dal titolo Porco rosso: The Last Sortie, con un Porco rosso più anziano sullo sfondo della guerra civile spagnola, a voler quasi emulare il «folle volo» dell’Ulisse dan- tesco. Di conseguenza il fascismo gioca un ruolo importante nel film e il regista lo condanna esplicitamente (facendo dire a Marco/Porco: «Meglio essere un maiale che diventare un fascista»). Le divise, le parate militari, l’OVRA che inse- gue Porco rosso ne sono i segni più evidenti nella pellicola. Per l’aviazione italiana è sicuramente un’epoca d’oro. Cominciata agli inizi del Novecento con l’esaltazione del volo da parte dei futuristi, negli anni Venti e Trenta in Italia si registra un grande fervore aeronautico, e la grande industria, ma anche piccoli artigiani (come i Piccolo nel film), si gettano nella progettazione e costruzione di aerei. In ambito militare l’Aeronautica nel 1923 viene resa auto- noma dalle altre due forze armate, l’Esercito e la Marina, e il regime fascista se ne

288 | Srećko Jurisić fa forte promotore: in quanto espressione di arditismo e futurismo, la giovane Regia Aeronautica diverrà bandiera ed inno della propaganda fascista. L’ascesa del regime fascista chiude difatti l’era degli idrovolanti nel film, uccidendone lo spirito pionieristico e libertario («De plus, l’hydro-aviation italienne dans les an- nées vingt était vraiment belle. Ils avaient un génie pour cela. Mais lorsque Mus- solini a commencé à faire la guerre, ce génie a disparu»).50 In questo senso, una delle scene finali del film è emblematica: uno squadrone di aerei del regime sta sopraggiungendo sull’isoletta in cui si tiene il dogfight tra Curtiss e Porco, e dall’alto vediamo fuggire tutti, a raggiera, pirati, piloti, contrabbandieri. Scom- paiono tutti e scompare un certo Adriatico con loro, le scie delle loro imbarcazioni sono le striature di un mare posseduto; scompaiono un po’ come, sotto le canno- nate dell’Andrea Doria, era scomparsa la Città di Vita, del Comandante, l’anno precedente a quello della Marcia su Roma; per rifarci ancora a Deleuze e Guattari, scompare lo spazio liscio a favore dello striato. Il fascismo viene stigmatizzato anche nella scena dell’incontro al cinema tra Porco e Ferrarin, un suo ex-commilitone, ora aviatore fascista. Mentre i due par- lano, sul grande schermo vediamo le scene di un cartone animato in bianco e nero in stile fratelli Fleischer, Winsor McKay o primo Walt Disney (sono i film, come Betty Boop o Felix The Cat, per intenderci, da cui gli anime hanno mutuato i loro occhi sovradimensionati) che Ferrarin commenta positivamente mentre Porco mostra il proprio disappunto, e lo fa perché il cartone mostra il mondo così come realmente è in quel momento con un porco pilota poco di buono che ostenta il proprio machismo baciando una donna contro la sua volontà e fa mostra della propria aggressività, un po’ come D’Annunzio. Sono acuti assolutamente in linea con le posizioni politiche di Miyazaki, che, quando era giovane, al tempo de Il segreto della spada del sole (1968), erano vicine al marxismo e che lo hanno por- tato, negli anni Sessanta, a militare a lungo in un sindacato di sinistra. Nei de- cenni successivi, pur allontanandosi dalla militanza politica, il regista non ha mai smesso di esprimere le proprie idee sull’ecologia, il femminismo e il pacifi- smo. Si potrebbe obiettare che ambientalismo, femminismo e pacifismo sono istanze proprie anche dei partiti di orientamento marxista, ma, dopo gli anni Ses- santa, Miyazaki mostra la sua lontananza da quel mondo politico: i suoi film, in- fatti, evitano di rappresentare ideologie specifiche rendendo Porco rosso un uni- cum: «Sotto le vesti del divertissement, infatti, ecco spuntare il lato più politico e libertario del regista nipponico, incarnato nell’anarchico escapismo di Porco Rosso, eroe senza tetto né legge, solitario come un ronin errante, che rifiuta ogni

|| 50 Intervista di Gilles e Michel Cemin, cit.

Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki | 289 forma di omologazione»,51 confermando la dimensione legata alla contestazione assegnata da Foucault all’eterotopia. Porco rosso diventa un lungometraggio grazie alla guerra nella ex-Jugoslavia che aveva trasformato l’Adriatico in un campo di battaglia con devastazioni di città storiche come Zara e Dubrovnik. Miyazaki non è mai stato in Croazia, si è fatto inviare dei libri sull’argomento e ha ricostruito l’Adriatico partendo dalle immagini, attingendo persino ai paesaggi del Mar della Cina. Il suo non è un Adriatico realistico. In una delle scene di Porco rosso il protagonista tiene in mano la mappa dello spazio adriatico in cui è ambientato il film. È una geografia labile, un grumo dell’immaginario del cineasta che non per questo è riuscito meno convincente. È uno spazio ‘altro'. Lo spettatore non riesce a riconoscere un monumento o un edificio simbolo della costa croata, ma sa che la corografia è proprio quella. È un azzardo affermarlo, ma Miyazaki svolge la caratterizzazione del paesaggio adriatico croato attraverso soltanto due componenti, il mare e il cielo, con scorci di terraferma; persino nella parte di ambientazione milanese del film pure Milano è deformata dalla lente immaginativa del regista (vi è trapian- tata la Mole antonelliana), e l’acqua, attraverso le scene d’azione sui Navigli, è ancora protagonista. La chiave della resa così riuscita dello spazio mediterraneo in Miyazaki sta proprio nell’abbandono del punto di vista terrestre. Lo sguardo dell’animatore e dei suoi personaggi non è ancorato alla terraferma, ma vive il Mediterraneo come un insieme eterogeneo. Porco rosso è un film d’amore di Miyazaki nei confronti degli aeroplani e trat- tandosi degli idrovolanti l’acqua non può che giocarvi un ruolo importante. Le scene più riuscite nel film sono proprio quelle in cui il mare sconfina nel cielo e viceversa, con linee morbide che consentono sconfinamenti cromatici tra il mare e il cielo. La cala recondita della costa dalmata, ispirata alla baia di Stiniva, nell’isola di Vis in Croazia, che funge da nanscodiglio di Porco rosso ne è emble- matica. Il leggendario pilota vi si nasconde alla stregua della foca monaca, altro animale creduto antropomorfo (in croato è detta morski čovik/uomo di mare) ed estinto ma che si nasconde ancora nell’Adriatico nutrendo l’alone di leggenda sul suo conto. Nel rifugio di Porco rosso il suo idrovolante Savoia S21 sembra esservi sospeso a mezz’aria come un palloncino legato con una corda. L’acqua viene resa da Miyazaki talmente trasparente che le onde sulla battigia sono così traslucide che pare non esistere confine tra il mare e la terraferma.

|| 51 Emanuele Sacchi, Sotto le vesti del divertissement, un’opera che lascia emergere il lato più politico e libertario di Miyazaki, in https://www.mymovies.it/film/1992/porcorosso/, consultato il 18 aprile 2019.

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Il Mediterraneo, dunque, come un continuum, eterogeneo, spazio di conqui- sta geografico ma soprattutto culturale. In altre scene, come ad esempio nella scazzottata nel finale del film, l’acqua del mare viene disegnata pesante e densa, quasi a voler stancare i due pugili impegnati in un match senza senso e trascinarli al fondo. Le trasparenze sono quasi irreali. L’elemento equoreo porta simbolica- mente ai personaggi femminili, che come solitamente accade nei film di Miyazaki sono dei personaggi chiave, assieme ai bambini. Le donne sono le uniche che nuotano nel mare in tutto il film: prima con le bambine rapite dai Mamma Aiuto che si tuffano nel mare per farsi un bagno incuranti dei pirati, poi con Fio(re) Piccolo, la giovane nipote del signor Piccolo e abilissima ingegnera aeronautica che ripara l’idrovolante di Porco rosso, Fio che si toglie i vestiti nel rifugio di Porco, rivelando che forse non è più una ragazzina, e si tuffa per una nuotata. Gina, la proprietaria e la cantante dell’hotel Adriano, è una sorta di Penelope (e qui ritorna il mito ulissiaco) che attende invano sul proprio isolotto il ritorno dell’amato Porco partito per mare e per aria; dopo aver sepolto tre mariti, tre pi- loti, Gina non tiene a bada i proci ma la marina militare italiana i cui idrovolanti esibiscono il fascio littorio sulle fiancate, attraverso una radiotrasmittente nasco- sta, da brava Mata Hari cantando Les temps des cerises, una canzone comunarda.

3

Les temps des cerises è per Miyazaki la canzone del disinganno,52 sta per il falli- mento di un’idea liberatrice ed è esattamente questa la ragione per cui il cineasta la introduce nel film. Essa deve far parte di un atto creativo che per molti versi ne fa le veci, un’opera irregolare su uno spazio appena oltre la finitudine che si danna per rimanere tale; uno spazio eterotopico che Foucault definisce anche

|| 52 «Pourquoi chante-t-on Le Temps des cerises? Parce que le socialisme a échoué. Cela reflète mon amertume. Pour moi, la chute de la Commune a été à l’origine du bolchevisme. Elle a donné la leçon d’un grand sacrifice. Quand j’étais jeune, je voulais être communiste et j’aimais beau- coup cette chanson. Je n’ai pas pu sauter le pas car j’étais en désaccord avec les régimes soviéti- que et chinois. Leur conception du communisme me paraissait fausse. Je me suis rendu compte que l’être humain ne pouvait pas être assez intelligent pour accomplir les idées de Marx. Quand j’ai réalisé Porco Rosso, cela m’a fait beaucoup de peine, c’était très dur pour moi. Quand j’ai eu cette idée de film, je pensais qu’il n’y aurait plus de guerre sur l’Adriatique et j’ai prié pour que tous me spersonnages, Marco, Fio, Gina, vivent dans la paix. Or il y a eu, depuis, les conflits en Yougoslavie. Si Fio avait été dans la guerre civile espagnole, elle serait devenue royaliste, et je me demande ce que Marco en penserait. Je me demande aussi ce qu’il aurait pensé de l'éclate- ment de la Seconde Guerre mondiale» (Intervista di Gilles e Michel Ciment, cit.).

Il Mediterraneo, l’eterotopia e Porco rosso di Hayao Miyazaki | 291 come «un espace qui peut ętre courant comme l’eau vive»53 e in cui il naufragio può anche essere dolce, per richiamare L’infinito leopardiano. «Risulta che vi siano animali o mostri anfibi prima o senza che Dio avesse creato gli animali»,54 afferma Antonio Riccardi nel suo bizzarro volume quasi ad omaggiare l’ovvio fatto che l’evoluzione abbia avuto inizio dall’acqua, prescindendo dai dogmi, ter- minando con gli attuali rettili, uccelli e mammiferi, tutti nella medesima catego- ria dei tetrapodi, il gruppo dei vertebrati che ha abbandonato l’acqua per conqui- stare la terraferma arrivando letteralmente a negare l’umanità (attraverso la robotica e i sistemi cibernetici) e ad escludere il mare (il Mediterraneo è stato po- liticamente obliterato nel processo di creazione dell’UE). L’analisi di un cartone animato e il cartone animato stesso devono servire a porre l’accento su una tendenza chiara, se la si vuol cogliere, e costante. La cul- tura europea, e non solo, nelle ultime tre decadi ha generato opere d’arte in cui l’esigenza del ritorno anche parziale all’elemento primordiale acquatico in tempo di crisi perenne è palese; sono lavori che spingono attraverso i fenomeni culturali l’idea di un’evoluzione ulteriore o continuata, una reazione reversibile, per così dire, in cui si scivola dal transumanesimo dilagante verso la condizione pre o po- stumana legata all’acqua in film quali Le grand bleu (1988) di Besson o in romanzi come Branchie! (1994) di Ammaniti, Divorare il cielo (2018) di Giordano o Lost Children Archive (2019) di Valeria Luiselli per citarne soltanto alcuni in un novero manchevole.

|| 53 M. Foucault, Des espaces autres, cit., p. 3. 54 Antonio Riccardi, La genesi e la geologia. Cenni critici, Milano, Giacomo Agnelli, 1839, p. 56.

Indice dei nomi

Afanas’ev, Aleksandr N. 183 Baroni, Giorgio 40, 42 Agnelli, Arduino 42, 43 Barthes, Roland 86 Aliberti, Carmelo 102 Bartol, Vladimir 1, 23–38 Alighieri, Dante 178, 184, 194, 216 Bartolini, Stefano 58 Allen, Woody 17 Basaglia, Franco 19 Amici, Marco 254 Basilio il Giovane (san) 177, 179, 180, 185 Ammaniti, Nicolò 291 Bassani, Giorgio 79, 80 Amoretti, Carlo 155, 160 Bassegli Gozze, Teresa / Basiljević Goce- Anderson, Jon 268 tić, Terezija 159 Andreola, Francesco 155 Bassegli, Tommaso / Basiljević, Tomo Andrić, Ivo 19, 144 151, 159 Antonič, Andrej 2, 95 Battara, Antonio 127 Apollonio, Robert 103, 105 Battara, Vincenzo 127 Ara, Angelo 79, 97, 110, 207, 208 Battistini, Andrea 115, 116 Arakawa, Kaku 280 Bauch, Luigi 127, 128 Arbo, Alessandro 192 Baudelaire, Charles 285 Archimede 276 Bauman, Zygmunt 204 Arcimboldo, Giuseppe 239 Baumeister, Martin 263 Ariosto, Ludovico 141 Bazlen, Bobi 17 Aristotele 64, 191 Beecher Stowe, Harriet 64 Arlen, Michael 64 Bellonci, Maria 90 Aroux, Eugéne 179 Bencivenni, Alessandro 263 Artale Toglia, Maria 128 Benco, Silvio 14 Artić, Ante 124 Benussi, Cristina 1, 9, 42, 79, 80, 168, Ascoli, Graziadio Isaia 194 170, 171, 173, 237, 239 Assmann, Aleida 110 Benussi, Vittorio 30 Assmann, Jan 10 Berardo, Livio 62–64 Auer, Michel 245 Bergman, Ingrid 286 Augé, Marc 277 Bernardi, Ulderico 102 Avalle, D’Arco Silvio 184 Bernardo di Chiaravalle (san) 182 Avirović, Ljiljana 45, 57 Bernhard, Thomas 216 Besednjak, Engelbert 57 Babbi, Anna Maria 80 Besenghi, Pasquale 12 Bahor, Stanislav 150 Besson, Luc 291 Bajc, Diomira Fabjan 20 Bessonov, Pyotr A. 187 Balić-Nižić, Nedjeljka 123–127 Bettiza, Enzo 19 Ballarin, Giuseppe 128 Bevk, France 59 Barbaglia, Salvatore 263 Bezlaj, France 72 Barilli, Renato 204 Biggins, Michael 29

Open Access. © 2020 Angela Fabris, Ilvano Caliaro, published by De Gruyter. This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 License. https://doi.org/10.1515/9783110640069-021

294 | Indice dei nomi

Bissanti, Anna 91 Busi, Aldo 213 Blanc, Ludwig Gottfried 184 Buslaev, Fëdor 181 Blériot, Louis 285 Byron, George Gordon 78, 80 Bobali, Savino de 81 Bobaljević, Sabo 81 Caillaux, Henriette 130 Boccaccio, Giovanni 142 Calasso, Roberto 245 Boffelli, Silvia 58 Calderara, Mario 285 Bogart, Humphrey 286 Caliaro, Ilvano 1, 3, 40, 41, 43, 191 Böhme, Adam Friedrich 159 Calzavara, Flavio 266 Boito, Camillo 261–264, 266 Camilleri, Andrea 254, 274 Bonardi, Carlo 12 Campailla, Sergio 192–197 Bontempelli, Massimo 120, 121 Campana, Dino 211 Borges, Jorge Luis 278 Camuffo, Pericle 40, 49 Boria, Arianna 222, 224 Canetti, Elias 215, 216 Borme, Antonio 206 Cankar, Ivan 65 Born, Ignaz 158 Capodistria, Giovanni Antonio 89 Bosetti, Gilbert 236, 239 Capuder, Majda 62 Boxich, Girolamo Italo 126, 128 Cardarelli, Vincenzo 65 Bracciolini, Poggio 141 Cardinaletti, Anna 69 Bralić, Ante 124, 126 Carducci, Giosuè 74, 127, 194 Brass, Tinto 4, 261–266 Carli, Gian Rinaldo 89 Bratina, Darko 106 Carli, Giovan Girolamo 155 Bratulić, Josip 148 Carlo VI d'Asburgo 11 Bratuž, Lojzka 58 Carlotto, Massimo 254 Braudel, Ferdinand 91, 267, 271, 278 Carnoy, Émile-Henry 182 Braun, Ernesto 245 Carpaccio, Vittore 89 Brazzi, Rossano 264 Carpinteri, Lino 16 Brazzoduro, Gino 40, 49 Carpitella, Mario 245 Brecelj, Marijan 153 Cartago, Gabriella 56, 61, 63, 68, 70, 80, Brecelj, Martin 62 82 Breitkopf, Johann Gottlob Immanuel 153 Casarino, Cesare 278 Breitling, Andris 10 Casotti, Marco 129 Brémond, Henry 86 Cassas, Louis-François 154 Bressan, Arnaldo 49 Cassio Longino, Gaio 185 Breton de la Martinière, Jean-Baptiste Cavallaro, Dani 283 Joseph 154 Cecovini, Manlio 51 Brioschi, Franco 86, 116 Cemin, Gilles 288 Bruckner, Anton 264 Cemin, Michel 288 Brugnolo, Furio 67, 80, 81 Cergoly, Carolus 92 Brunelli, Vitaliano 127, 128 Cerisier, Alban 284 Brunner, Otto 149 Chamoiseau, Patrick 205 Bruto, Marco Giunio 185 Chaplin, Charlie 17 Brvar, Andrej 57 Chatman, Seymour 86 Buongiorno, Cristina 204 Chesterton, Gilbert Keith 65 Burdin, Francesco 4, 235–239, 241, 242, Chiavacci, Gaetano 198 244, 248, 249, 250 Christie, Agatha 252 Burgio, Alberto 58 Ciancio, Luca 148

Indice dei nomi | 295

Cimador, Gianni 89 Dedenaro, Roberto 49, 206 Cimmino, Regina 18 Defert, Daniel 277 Cippico, Antonio 127 Deghenghi Olujić, Elis 3, 201, 202 Cirillo, Mario 273 De Giorgi, Roberta 178 Codelli, Lorenzo 265 De Giovanni, Maurizio 253, 254 Coglitore, Roberta 121 De Grazia, Victoria 63 Cohen, Felicita Rachele 13 Deledda, Grazia 64 Colautti, Arturo 127, 132, 136 Deleuze, Gilles 242, 267, 271–273, 288 Collin, Robbie 280 Della Pergola, Cesare 196 Collotti, Enzo 58 Delly (Jeanne-Marie e Frederic Petitjean de Comberiati, Daniele 80 la Rosiere) 64 Cometa, Michele 121 Del Toro, Guillermo 274, 275 Comnène, Marie Anne 165 De Martino, Domenico 80 Contini, Gianfranco 75 Dembsher, Francesco / František 155, 156 Čop, Matija 11 Demšar, Dušan 63 Copernico, Niccolò 21 Descartes, Rene (Cartesio) 21 Copi, F. 280 de’ Vidovich, Renzo 125 Corniani degli Algarotti, Marco Antonio De Villi, Agata Irene 121 155 Di Carpenetto, Daisi 131 Ćorović, Vladimir 141 Di Girolamo, Costanzo 116 Corsa, Rita 31 Didot, Pierre 154 Corti, Maria 213 Dietrich, Marlene 265 Covacich, Mauro 20 Đinđić, Mirko 126 Crapanzano, Dario 254 Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio 187 Crémieux, Benjamin 165 Disney, Walt 288 Crispino, Anna Maria 204 Dobran, Roberto 113, 203 Crnjanski, Miloš 211 Dolezal, Helmut 153 Crolla, Adriana Cristina 222, 225, 232 Dolfi, Anna 213 Curtiss, Glenn 285–288 Dolinar, France M. 57 Curto, Carlo 12 Đordević, Tihomir R. 141 Cvetaeva, Marina Ivanovna 211 Döring, Jörg 268 Dos Passos, John 65 D’Ambra, Lucio 131, 132, 135 Dostoevskij, Fëdor 65 D’Ancona, Alessandro 179 Drekonja, Ciril 74 D’Annunzio, Gabriele 113, 118, 127, 194, Dukić, Davor 91 285, 286, 288 Dumanić, Ante 63 Damiani, Alessandro 203, 204, 211 Đurđević, Ignjat 81 Damiani, Roberto 40 Đurđulov, Maja 119 Da Prato, Giovanni Gherardi 178 Durst, Rudolf 194 Däubler, Theodor 11 Dvorniković, Vladimir 131 Davico Bonino, Guido 75 De Angelis, Francesco 10 Eccher, Christian 202, 211, 213 Debenedetti, Giacomo 85, 86 Ekberg, Anita 273 de Bersa Antonio 127 Engels, Gwendolin 245 De Bersa, Giuseppe 127, 128 Erasmo da Rotterdam 64 De Blasi, Jolanda 195 Euripide 64 de Borelli, Andreina 128

296 | Indice dei nomi

Fabbrovich, Giuseppe 127 Gatto, Alfonso 65 Fabris, Angela 1, 4, 235, 236, 263 Gemelli Careri, Giovanni Francesco 147 Faleschini Lerner, Giovanna 263 Gentili, Gisella 13 Faninger, Ernest 149, 150, 157 Georgiannis, Nicholas 286 Fanuko, Neda 57 Gerbaz Giuliano, Corinna 2, 109, 110 Faraguna, Mariano 16 Gesù Cristo 59, 179–183, 284 Farina, Dennis 252 Giordano, Paolo 291 Fatur, Bogomil 59 Giorgi, Ignazio 81 Faulkner, William 65 Giraldi, Franco 101 Feoli, Gaetano 127 Giuseppe II (imperatore d’Austria) 153 Ferrante, Riccardo 85, 93, 102 Giustini, Claudia 184 Finco, Franco 2, 55 Glissant, Édouard 205 Fleischer, Max 288 Glyn, Elinor 64 Floto, Hartwig 178 Goethe, Johann Wolfgang 114, 211 Foa, Vittorio 63, 79 Gogol’, Nikolaj 80 Folena, Gianfranco 80, 81 Goldoni, Carlo 81 Fölkel, Ferruccio 17, 92 Gončarov, Ivan 65 Folliet, Camille 64 Gor’kij, Maksim 65 Fonda, France 28 Gorskij, Ivan K. 184 Foraus, Alessandra 52 Gorter, Durk 21 Forster, Riccardo 126 Gozzano, Guido 132 Fortis, Alberto 3, 147, 148, 151–161 Gradnik, Alojz 65 Foster Wallace, David 268 Gramsci, Antonio 79 Foucault, Michel 267, 269, 273, 276–278, Granger, Farley 263 289, 290, 291 Gregorčič, Simon 65 Francesco d’Assisi 65, 75 Gregorio Magno (san) 179, 185–187 Francesco Giuseppe I (imperatore d’Au- Grillo, Antonino 102 stria) 238, 246 Grimm, Jacob Ludwig Karl 182 Franchi, Gian Andrea 192–194 Grimm, Wilhelm Karl 182 Franičević-Cippico, Maria 129 Grmek, Anton 25 Franzinelli, Mimmo 80 Grom, Maša 28 Freud, Sigmund 30, 31 Grosz, George 265 Fry Richardson, Louis 269 Gruber, Gabriel 158 Furlan, Boris 25 Gspan-Prašelj, Nada 149, 150, 157 Guagnini, Elvio 40, 52, 58, 89, 204 Gadda, Carlo Emilio 254 Guattari, Félix 242, 267, 271–273, 288 Galiena, Anna 265 Guglielmo II 246, 248 Galilei, Galileo 21, 273 Gallegati, Graziella 114 Haas, Claude 245 Gallo, Paola 204 Hacquet, Balthasar 152–154, 158–161 Gambaretti, Giovanni 160 Hamilton-Peterson, James 274, 276 Gambino, Renata 121 Handke, Peter 88 Gandolfini, James Joseph 252 Hayez, Francesco 264 Garbin, Daria 125 Hegel, Georg Friedrich Wilhelm 270 Garko, Gabriel 265 Heilmann, Luigi 76 Gaspàri Muiesan, Annamaria 18 Heine, Heinrich 12, 263, 264 Gassmann, Alessandro 253 Heinichen, Veit 4, 202, 251, 255–259

Indice dei nomi | 297

Helbig, Jörg 4, 261 Klopp, Charles 80 Hemingway, Ernest 285, 286 Kocbek, Edvard 58 Hepburn, Katherine 264 Konrad, György 88 Herzl, Theodor 197 Kopitar, Jernej 139, 149 Hesse, Hermann 211 Kosmač, Ciril 58 Highsmith, Patricia 253 Kosovel, Srečko 52 Hladnik, Miran 28, 29 Košuta, Miran 1, 23, 24, 49, 52, 56–60, Hollaender, Friedrich 265 62–69, 75, 78, 79 Košuta, Miroslav 20 Ilijić, Stjepko (Stefano) 43–46, 53 Kranjčević, Silvije 53 Ingalls, Rachel 275 Kranjec, Miško 59 Krašovic, Ivan 28 Jacopone da Todi 65, 75 Kraus, Karl 4, 235, 245–250 Jacquelot, Isaac 67 Kravos, Marko 40, 49 Jakobson, Roman 76 Kremnitz, Georg 82 Japelj, Jurij 149 Krleža, Miroslav 59, 72, 211 Jaroschka, Markus 213 Krpina, Zdravka 124 Jedlowski, Paolo 115 Kucher, Primus Heinz 204, 218 Jelinčič, Zorko 29 Kugy, Julius 11 Jesi, Furio 273, 277 Kumerdej, Blaž 149 Jevnikar, Martin 58 Kundera, Milan 88 Johnson, Don 252 Kuntner, Tone 79 Jørgensen, Johannes 65 Joyce, James 25, 65, 80 Labé, Louise 80 Jug, Klement 29, 30 Lacroix, Delphine 284 Jung, Carl Gustav 17 Larbaud, Valery 165 Jurić, Boris ml. 124 Lavagetto, Mario 13 Jurić, Boris st. 124 Lavallée, Joseph 154 Jurišić, Srećko 4, 267 La Villemarqué, Théodore-Claude-Henri Južnič, Stanislav 150 Hersart de 180 Lavrenčič Lapajne, Milena 60 Kacianka, Reinhard 58, 79 Lazarević Di Giacomo, Persida 126 Kacin, Marija 150 Lean, David 264 Kacin Wohinz, Milica 58 Legiša, Lino 29, 57, 59, 74 Kafka, Franz 17, 285 Le Goff, Jacques 178 Kalità, Ivan 187 Lehmann, Johann 127 Karadžić, Vuk 139, 140–142 Leibniz, Gottfried Wilhelm von 67 Karahasan, Dževad 213 Lejeune, Philippe 225 Kasandrić, Petar 127 Lekovich/Leković, Koraljka (Kenka) 3, Kažotić, Marko 129 201–207, 209–216, 218, 219 Keller, Guido 285, 287 Lenburg, Jeff 281 Keplero, Giovanni 21 Leonetti, Francesco 204 Kette, Dragotin 11 Lepòreo, Ludovico 239 Kidrič, Francè 150, 151 Lesaar, Henrik Richard 10 Kiš, Danilo 88 Leto, Maria Rita 126 Klaus, Elisabeth 246 Levi, Carlo 79, 80 Klein, Holger 244 Levi, Vito 92

298 | Indice dei nomi

Liebsch, Burkhard 10 Matoš, Antun Gustav 130 Linhart, Anton Tomaž 149 Mattioni, Stelio 19 Liuzzi, Giorgio 61 Matvejević, Predrag 26, 267, 270, 271, Ljubiša, Stefan Mitrov 3, 137, 138, 141, 278 142 Mautone, Laura 204 Lombardi, Baldassarre 184 Mayo, Katherine 64 Lucarelli, Carlo 254 Mazzara, Federica 121 Luiselli, Valeria 291 Mazzieri-Sanković, Gianna 2, 109, 110, Lupi, Giordano 265, 266 112, 113, 117, 119, 121 Luzel, François-Marie 183 McKay, Windsor 288 Luzi, Alfredo 52 Mejdanija, Mirza 3, 163 Luzzatto, Carolina 193 Ménage, Gilles 80, 81 Luzzatto, Sergio 63 Meneghetti, Maria Luisa 80 Mes, Tom 283 Madieri, Marisa 18, 110, 204 Mestrovich, Ezio 203 Magnani, Anna 265 Metastasio, Pietro 139 Magris, Claudio 17, 79, 97, 110, 204, 207– Michelstaedter, Alberto 192–194, 196, 209, 211, 213, 223, 230 198 Mahler, Franz 263, 264 Michelstaedter, Carlo 3, 191, 192, 194– Maier, Bruno 110 197, 199, 239 Mall, Sepp 214 Michelstaedter, Gino 194, 198 Mandelbrot, Benoit 269 Michelstaedter Winteler, Paula 194 Manenti, Luca Giuseppe 40 Mikša, Peter 153 Mantuani, Sergei 74 Mila, Massimo 63, 79 Manzoni, Alessandro 89, 121, 129 Milani Kruljac, Nelida 113 Maras, Mate 148 Milani, Nelida 18, 19, 93, 203–204, 210, Maraschio, Nicoletta 80 211 Marcozzi, Luca 179 Milinković, Snežana 3, 137, 139, 141–143 Marelli, Giuseppe 155, 158 Milocco, Alvise 148 Marić, Antonela 4, 251 Milošević, Slodoban 218 Marin, Biagio 15, 193 Milostivyj, Giovanni 186 Marinucci, Marcello 57 Milton, John 80 Marrese, Emilio 284 Mirko, Druse 16 Martin, Ezio 20 Miscia, Eraldo 111, 112, 117, 122 Martinelli, Leonardo 128 Mitrović, Pietro 43 Martini, Fausto Maria 132 Miyazaki, Hayao 4, 267, 278–290 Marušič, Branko 57, 58 Močalova, Viktoria V. 184 Marusich, Niccolò 129 Moloney, Brian 237 Marussig, Giuseppe 2, 123, 128–133, 135, Montaigne, Michel de 80 136 Montale, Eugenio 65, 165 Marx, Karl 278, 290 Montevecchi, Francesca 63 Masaryk, Tomáš 14 Monti, Augusto 79 Mastroianni, Marcello 273 Monzali, Luciano 124 Matavulj, Simo 3, 137–139, 142, 143 Morandini, Giuliana 213 Matevc, Tamara 79 Moretto, Marta Angela Agostina 89 Matičetov, Milko 57, 59, 70–72, 79 Morgan, Alison 178/179 Matičetov, Vida 57 Mori, Anna Maria 18, 19, 211

Indice dei nomi | 299

Morovich, Enrico 19, 117, 119 Pajetta, Giancarlo 63 Moscarda Mirković, Eliana 203, 210, 211, Palazzeschi, Aldo 60 212 Palčič, Boris 106 Mozart, Wolfgang Amadeus 80, 81 Palese, Carlo 151 Mreule, Enrico 193 Pallaoro, José María 223 Muljačić, Žarko 148, 155, 158, 159 Papini, Giovanni 65, 67 Müller, Philip 263 Papini, Maria Carla 213 Musil, Robert 17 Papo, Adriano 40 Mussolini, Benito 27, 61, 286, 288 Papo Bohoreta, Laura 223 Muzio, Girolamo 89 Parovel, Paolo 60 Partljič, Tone 79 Nadlišek Bartol, Marica 36 Pascoli, Giovanni 127 Nani, Girolamo Enrico 126 Passarone, Giorgio 242 Nathan, Arturo 30, 31 Pauletti Zappador, Vilma 18 Negri, Guido 127 Pavček, Saša 223 Negro, Pietro 72 Pavlovski, Eduardo 223 Nemeth, Gizella 40 Pavone, Claudio 63 Nepveu, Auguste-Nicolas 154 Pazzi, Roberto 213 Neugebauer, Christof 206 Perco, Carmen 60 Nietzsche, Friedrich 29 Perissinotto, Alessandro 255 Nievo, Ippolito 12 Perlini, Marco 126, 128, 135, 136 Nigris, Robert 28 Perovi, Nino Alga 130 Nisci, Armando 80 Peters, Kimberley 268 Norbedo, Roberto 1, 39, 40, 42, 43, 47, Petrarca, Francesco 127 48, 53 Pfriem, Hans 182, 183 Normann, Quinto 131 Piasevoli, Natale 127 Novačan, Anton 32 Piazza, Mario 130 Novak, Grga 124 Pietro (san) 182, 183 Novak Popov, Irena 28 Piletić, Milena 139 Novaković, Stojan 139–141 Pintar, Ivan 153 Pirandello, Luigi 33, 132 Oblath, Elody (Elodì) 48 Pirjevec, Jože 58 Onofri, Massimo 204 Pirjevec, Marija 49 Orazio Flacco, Quinto 64, 174 Pivato, Stefano 60 Orwell, George 283 Platen, August von 80 Oshiguchi, Takashi 282 Platone 191 Ovadia, Moni 17 Pocar, Ervinio 192 Ozanam, Antoine-Frédéric 179 Pohlin, Marko 149 Poli, Ugo Edoardo 13 Padoan, Giorgio 129 Polojaz, Vlasta 30, 31 Paganello, Virgilio 128 Porcelli, Giuseppe Maria 151 Pageaux, Daniel-Henri 91 Pound, Ezra 80 Pagot, Gina 282 Poyatos, Fernando 121 Pagot, Marco 282, 284 Pozzi, Antonia 65 Pagot, Nino 282 Praga, Giuseppe 124 Pagot, Toni 282 Praprotnik, Nada 152 Pahor, Boris 20, 49, 55–60 Prenz, Betina Lilián 223

300 | Indice dei nomi

Prenz, Juan Octavio 223 Rossellini, Roberto 265 Prenz Kopušar, Ana Cecilia 4, 221–226, Rossi, Ernesto 79 228, 231, 232 Rossi, Paolo 268 Preradović, Paula von 65 Rossi, Valentina 184 Preradović, Petar 45 Roth, Joseph 19, 215, 238 Prešeren, France 11, 65 Rubens, Pieter Paul 80 Pressburger, Giorgio 17 Russo, Mario 127, 128 Prezzolini, Giuseppe 43, 44, 46, 48, 53 Rutar, Anton 63 Proietti, Paolo 91 Propp, Vladimir 86 Saba, Umberto 13, 30, 37, 51, 65, 92, 103 Prosenc, Irena 3, 147 Sabadin, Ivanka 28 Punch, Monkey 284 Sabalich, Giuseppe 126, 127 Puppini, Marco 61 Sacchi, Emanuele 289 Sacher-Masoch, Leopold von 262 Quarantotti Gambini, Pier Antonio 15 Saint-Exupéry, Antoine de 284 Quasimodo, Salvatore 65 Šalamun-Biedrzycka, Katarina 59, 74 Quazzolo, Paolo 92 Salgari, Emilio 64 Quevedo, Francisco de 80 Salvemini, Gaetano 46 Salvi, Giampaolo 69 Rabboni, Renzo 3, 177, 178 San Girolamo 136 Rabelais, François 33 San Kadok 180 Ràgnina, Domenico 81 Sand, George 78 Ramous, Osvaldo 2, 109–122 Sanguineti, Edoardo 213 Randi, Oscar 129, 131–133 Santarcangeli, Paolo 18 Ranjina, Dinko 81 Santorio, Santorio 89 Ravasini, Giorgio 130 Sanvitale, Francesca 213 Reagan, Ronald 287 Saroyan, William 65 Rebula, Alojz 2, 20, 39, 49–52 Sauro, Nazario 89 Reed, Lou 267 Šček, Virgil 57 Regazzoni, Susanna Schalek, Alice 246 Régnier-Desmarais, François-Séraphin 80 Schiller, Friedrich 211 Rella, Franco 120 Schmitz, Aron Hector (vedi Svevo, Italo) Remotti, Francesco 205, 222, 223 13, 25 Renko, Stanislav 35 Schubert, Franz 264, 265 Renzi, Lorenzo 69 Schütte, Wolfram 263 Revere, Giuseppe 12 Schwarzenegger, Arnold 287 Rheault, Sylvain 279 Sciascia, Leonardo 252–254 Riccardi, Antonio 291 Scopoli, Giovanni Antonio 152 Ricoeur, Paul 10 Scott, Anthony Oliver 281 Ricorda, Ricciarda 4, 221 Scott, Walter 129 Rilke, Rainer Maria 215, 217 Scotti, Giacomo 202, 203, 205, 210, 212 Roat, Francesco 204 Segarelli, Odoardo 128 Roić, Sanja 2, 85, 125 Selleck, Tom 252 Rojc, Tatjana 52, 57, 58 Senardi, Fulvio 40, 52 Rolland, Romain 65 Sercambi, Giovanni 140 Romitelli, Fausto 206 Seveglievich, Renato 128 Rops, Fèliciens 265 Shaw, Trevor 155–157

Indice dei nomi | 301

Shelley, Percy Bysshe 80 Tavano, Sergio 57 Shoten, Iwanami 280 Taylor, Vanessa 274 Simenon, George 252 Teodora (Imperatrice di Bisanzio) 179, Slataper, Scipio 1, 2, 11, 14, 15, 39–44, 185, 186 46–53, 64, 103, 238 Thielmann, Tristan 268 Soddu, Paolo 63 Thompson, Stith 179 Soffici, Ardengo 46 Tichonravov, Nikolaj S. 181 Sofocle 64 Timeus, Ruggero (Fauro) 14, 15 Soja, Edward 277 Timmel, Vito 30 Soldati, Mario 118 Timmermans, Felix 65 Šolokov, Michail 65 Tito, Josip Broz 4, 15, 16, 32, 96, 97, 221 Somaré, Enrico 165 Todero, Fabio 40 Spillane, Mickey 254 Todorov, Tzvetan 86 Spirito, Pietro 204, 205 Tolstoj, Lev 53 Stammerjohann, Harro 81 Tomasović, Mirko 45 Stampacchia, Mauro 80 Tomažič, Danica 55–57, 60, 61, 65 Stanchina, Giulia 80 Tomažič, Pino 57,60, 61 Stara, Arrigo 13 Tomizza, Ferdinando 97 Stasi, Beatrice 238 Tomizza, Fulvio 2, 18, 55–57, 60–63, 65, Stefan, Konrad 150–152 67, 68, 70, 71, 75, 79, 81, 85–100, Stelli, Giovanni 112, 118 102–107, 210 Sternberg, Joseph von 265 Tommaseo, Niccolò 48, 132, 136 Stevenson, Robert Louis 282 Tommasini, Lorenzo 1, 39, 40, 47 Štih, Peter 153 Tortora, Massimiliano 164–166, 171 Stock, Alberto 132 Tozzi, Federigo 132 Storti, Anna 46 Traiano, Marco Ulpio 180 Storti, Gaspare 148 Trakl, Georg 238 Strange, John 155 Trento, Margherita Frank 97 Strano, Laura 101 Treré, Sante 114 Straparola, Giovanni Francesco 141 Trubar, Primož 11 Strutz, Johann 58, 79, 88 Trump, Donald 287 Stuparich, Carlo 13–15 Stuparich, Giani 13–16, 41, 47, 48, 50, 51, Uccellini, Francesco 45 238 Ulisse 279, 283 Sudermann, Hermann 127 Umek, Ema 152 Šumrada, Janez 152 Ungaretti, Giuseppe 65, 67 Sunada, Mami 280 Urbanaz, Salvatore Umberto 128 Sušnik, Franc 74 Urbani, Umberto 43 Svevo, Italo 4, 12, 13, 17, 30, 40, 51, 92, Urbič, Irena 57 103, 163–168, 171, 172, 174, 175, 235, 237, 238, 249 Svoljšak, Sonja 151 Valenčič, Vlado 149, 150, 157 Valery, Paul 284 Tabucchi, Antonio 213 Valli, Alida 263 Tacconi, Ildebrando 129, 131, 132, 136 Varini, Marino 18 Targioni-Tozzetti, Giovanni 147 Vecchi, Benedetto 204 Tasso, Miro 60 Vegliani, Franco 42, 43, 101

302 | Indice dei nomi

Vellani, Antonio 204 Weidner, Daniel 245 Velvet Underground 262 Weiss, Edoardo 25, 30, 31 Veneziani, Bruno 31 Widmar, Antonio 116–119, 122 Venturin, Fabio 40 Wilcock, Juan Rodolfo 81 Verdelski, Josip Godina 36 Wilder, Thornton 65 Verdi, Giuseppe 130, 263, 264 Wondrich, Giorgio 126, 127 Verga, Giovanni 143 Wood, Mary 263, 265 Vergerio, Pietro Paolo il Giovane 89, 92 Vergerio, Pietro Paolo il Vecchio 89 Zaghet, Neva 40, 58 Verginella, Marta 61 Zajc, Drago 62 Verlato, Zeno 80 Zalaznik, Mira Miladinović 246 Verocchio, Ariella 61 Zambenedetti, Alberto 263 Veselovskij, Aleksandr N. 3, 177–181, Zandel, Diego 19 183–187 Zanella, Giacomo 12 Vico, Giambattista 130, 268 Zanella, Riccardo 111, 113 Vidmar, Luka 150 Zanini, Piero 207, 208 Villari, Pasquale 179 Zanon, Tobia 80 Villon, François 59, 65 Zavattini, Cesare 64 Vinci, Annamaria 58 Zelco, Giuliana 18 Viola, Cesare Giulio 131, 132, 135 Žerjal Pavlin, Vita 59, 74 Virgilio Marone, Publio 180 Zima, Peter 88 Visconti, Luchino 4, 261–266 Žirmunskij, Viktor 184 Vittorelli, Jacopo 139 Živanović, Jeremija 141 Vivante, Angelo 14 Zlobec, Ciril 57 Vodnik, Anton 59 Zois, Žiga (Sigismondo) 11, 31, 147, 149– Vodnik, Valentin 149 153, 155–157, 161 Vodopivec, Peter 149 Zorec, Darinka 59 Voghera, Giorgio 17, 30, 92 Zorić, Mate 125, 129 Vojnović, Ivo 53 Zorzenon, Luca 40 Volavšek Kurasch, Bernarda 56 Zucca, Gian Domenico 73 Voltaire (François-Marie Arouet) 80, 81 Zucchelli, Antonio 147 Vrčević, Vuk 3, 137–141 Zudič Antonič, Nives 2, 95 Vuk, Stanko 2, 55–57, 59–61, 64, 72, 74, Župančič, Oton 26, 65 78, 79, 81, 83 Zweig, Stefan 211, 215, 219 Zwitter, Žiga 153