Tesi Dottorato Distilo Massimo.Pdf

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Tesi Dottorato Distilo Massimo.Pdf 1 I. Lo stato della ricerca Spulciando i libri che si occupano di canzone napoletana, una cosa che colpisce immediatamente è la scarsità generalizzata, tranne che in rari casi, di riferimenti veri e propri ai testi musicali. Per gran parte degli studiosi la canzone napoletana è rappresentata soprattutto dal testo verbale, dalle parole; la musica viene vista come un fatto di secondo ordine, quasi un orpello, la cui presenza o meno non sembra essenziale all’illustrazione del fenomeno che, bene o male, resta però di carattere eminentemente musicale. Provando ad individuare i motivi di una tale vistosa lacuna, ci si potrebbe indirizzare verso il carattere di “intrattenimento” con cui questa forma musicale è stata per lungo tempo marchiata, cosa che le ha impedito di assurgere in tempi brevi al rango di vera e propria espressione artistica riconosciuta. Aggiungendo l’ambiguo confine fra musicologia ed etnomusicologia entro il quale essa viene solitamente collocata e la relativamente recente affermazione in Italia di queste branche di studi, si può comprendere come, a distanza di quasi due secoli dal suo nascere, la canzone napoletana non abbia ancora rappresentato, se non in pochi casi, un allettante campo per una ricerca davvero approfondita che avesse il fine di sviscerare le modalità della sua nascita, della sua clamorosa affermazione internazionale e dell’eco che suscita tuttora, sia pure con modalità ed in misura diversa rispetto al passato. Gli studi anteriori alla seconda guerra mondiale Il vezzo di considerare di non particolare pregnanza l’aspetto squisitamente musicale è da ascrivere sia alla bibliografia recente e relativamente recente che a quella più antica. In una delle prime opere sull’argomento, curata da Gaetano Amalfi,1 si afferma: «[Guglielmo Cottrau] credo debba intendersi essere piuttosto autore della musica che delle parole, evidentemente di origine popolare, quantunque anche la musica molto abbia attinto alla vena del popolo». L’aspetto musicale sembra essere considerato non proprio primario per gli studiosi dell’epoca: in genere autore della canzone è considerato colui che ne ha scritto le parole. In questa occasione, con una visione di 1 G. Amalfi, La canzone napoletana, Priore, Napoli, 1909, p. 45 2 derivazione forse romantica, autore viene considerato il popolo in generale. Più avanti G. Amalfi2 scrive: «La storia della canzone napoletana […] dovrebbe farsi da chi, al tempo stesso, fosse un esteta, un letterato, per le parole, e un musicista. Quindi esaminare: prima la poesia (il manichino), poi la musica (il vestito che lo copre, le pieghe del panneggiamento, la veste, etc.), indi l’esito, per fama, per giornali coscienziosi, non interessati, […]». Dunque, secondo questa visione delle cose, sarebbe il caso di prendere in considerazione in primo luogo la poesia che rappresenterebbe il nocciolo della canzone, il corpo, e solo dopo la musica che sarebbe così un qualcosa di sovrapposto e sostituibile come i vestiti su un manichino. Anche nei lavori di Maria Ballanti3 ed Aniello Costagliola4 non ci si discosta molto da questa linea e l’attenzione è sempre prevalentemente direzionata sugli aspetti poetici, con frequenti citazioni di versi. Dei contenuti specificamente musicali quasi nessuna traccia. Il lavoro della Ballanti si segnala però per una certa attenzione verso le figure di Guglielmo Cottrau e di suo figlio Teodoro che vengono riconosciuti di fondamentale importanza, nella loro qualità di compositori, arrangiatori ed editori, per il primo affermarsi della canzone. Come vedremo, la cosa non è invece del tutto scontata per buona parte del resto della bibliografia. Specie agli albori dell’affermazione di questa forma musicale, capitò che gli stessi compositori involontariamente favorissero con il loro comportamento un atteggiamento improntato alla magnificazione del testo piuttosto che della musica. Memorabile il caso di Guillaume Cottrau e Francesco Florimo che sulle parole di A core a core cu Raziella mia elaborarono melodie lontanissime l’una dall’altra, incentivando così la propensione a concepire il testo verbale, piuttosto che la musica, come l’elemento distintivo della canzone. Si sono però verificati anche casi, sia pure in diverso contesto, di uguale musica su diverse parole. Accadde con le canzoni di risposta a Te voglio bene assaje, la quale ebbe un successo straordinario ed era cantata notte e giorno in tutti gli angoli più riposti della città e dei dintorni. Sul motivo di questa canzone furono successivamente confezionati un notevole numero di brani con testi diversi che esprimevano il fastidio per il dover sentire e risentire continuamente in giro per Napoli sempre lo stesso ritornello canoro. Nel corpus bibliografico della canzone napoletana non molto semplice è individuare quali siano le notizie effettivamente di prima mano e che abbiano una base documentale solida. Frequente è la riproposizione di luoghi comuni basati su affermazioni non documentate, o false, o interpretate 2 G. Amalfi, op. cit., p. 73 3 M. Ballanti, La canzone napoletana, Melfi & Gioele, Napoli, 1907 4 A. Costagliola, Napoli e la sua canzone, Nuova Antologia, Roma, 1909 3 a proprio uso e consumo, apparse in pubblicazioni anteriori. Questo tipo di errori può essere dovuto al fatto che non ci si è curati di consultare i testi originali ma ci si è limitati a riportare un qualcosa di seconda mano già erroneo, oppure perché si è voluto leggere nel testo originale ciò che magari si desiderava vedere scritto. Ha fatto scuola e storia in tal senso la famosa manipolazione perpetrata da Salvatore Di Giacomo sulla “copiella” del testo della canzone Michelemmà. Di Giacomo, convinto, magari in buona fede, che la canzone fosse del pittore napoletano Salvator Rosa, vissuto nel ‘600, per accreditare tale tesi creò e fece circolare un vero e proprio falso di una presunta antica copiella di tale canzone nella quale, oltre al testo verbale e a un disegno illustrativo, era riportato il nome del presunto autore. La canzone è inserita in una pubblicazione di Di Giacomo5 e solo alcuni anni dopo, nel 1911, Benedetto Croce, nei suoi Saggi sulla letteratura italiana del ‘600,6 ufficializzava la falsificazione affermando «che la canzonetta Michelemmà è attribuita al Rosa senza fondamento alcuno, e che il facsimile di vecchia stampa, nel quale è presentata, è una scherzosa invenzione dello stesso Di Giacomo.» L’equivoco risale con ogni probabilità al 1770, quando l’inglese Charles Burney, compositore e storico della musica, acquistò a Roma un album di brani musicali che aveva, come introduzione ad uno di essi, l’indicazione: “Le seguenti arie sono di Salvator Rosa, parole e musica”. Qualche tempo dopo Burney, tratto in inganno da questa scritta, in una sua opera avallò questa inconsistente leggenda. In seguito altri musicologi si accorsero che, all’interno dell’album, gran parte delle composizioni erano di epoca successiva e solo pochissime composizioni, solo per la parte poetica, erano attribuibili a Salvator Rosa.7 A Di Giacomo va ricondotta anche l’arbitraria attribuzione a Donizetti, senza adeguata base documentale, della musica di Te voglio bene assaje, così come l’affermazione che la stessa canzone fosse apparsa per la prima volta al concorso di Piedigrotta del 1835. Diversi studiosi di epoca successiva, a cominciare da Ettore De Mura,8 si incaricarono di smentire tali tesi. La cosa che colpisce è la disinvoltura con la quale Di Giacomo, prestigioso autore di testi di canzoni napoletane di successo, confeziona la falsa copiella, la pubblica pure tranquillamente in una sua opera in cui sostiene la propria tesi palesemente infondata, il tutto buttandosi dietro le spalle 5 S. Di Giacomo, Piedigrotta for ever, Melfi e Gioele, Napoli, 1901 6 B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del ‘600, Laterza, Bari, 1911, p. 340 7 Cfr. in proposito: V. Paliotti, Storia della canzone napoletana, Newton Compton, Roma, 1992, pp. 27-28, ed. orig. 1958; R. De Simone, Disordinata storia della canzone napoletana, Valentino, Ischia, 1994, p. 34. 8 E. De Mura, Enciclopedia della canzone napoletana, Il Torchio, Napoli, 1969 4 un’onestà intellettuale di base che dovrebbe contraddistinguere chi si occupa di ricerche culturali. Se un personaggio come Di Giacomo che, nell’ambito della canzone napoletana ha goduto, anche giustamente, di una fama e di un prestigio riconosciuti, si è tranquillamente imbarcato in un’operazione di falsificazione storica, quante saranno le notizie non accreditate e superficiali che sono circolate e circolano ancora nell’ambito della bibliografia sulla canzone napoletana? Per quanto concerne l’utilizzo dei testi musicali, nel limitato numero di casi in cui nelle opere c’è una presa in considerazione degli stessi, in genere, anche per i brani più antichi, ci si rifà ad edizioni sempre molto successive che costituiscono di fatto una rielaborazione, anche melodica, di quelle che erano le versioni originarie. Accade così nella Storia della Canzone Napoletana di A. Fierro e AA.VV. (1994)9, la quale riporta integralmente un elevato numero di spartiti anche di canzoni antiche. Il riferimento principe sono i tre volumi de l’Eco di Napoli,10 apparsi fra il 1877 ed 1883 ad opera di Vincenzo De Meglio per le edizioni Ricordi. Lo stesso succede per gran parte degli stralci di brani riportati nella Storia della Canzone Napoletana di Vittorio Paliotti,11 riveduta e ristampata varie volte, anche di recente, nel corso degli anni, ma la cui edizione originaria data 1958. Le trascrizioni di De Meglio di un numero elevato di brani, ben 150, hanno costituito a lungo, e continuano a costituire ancora adesso, il punto di riferimento principale anche per i brani più antichi, pur se non di rado la loro linea melodica è stata sensibilmente modificata rispetto alle versioni originali che sono in genere anteriori di un tempo compreso fra i quaranta e i sessanta anni. Le canzoni di De Meglio, tranne che in un numero contenuto di casi non riguardanti quelle più antiche, non riportano né l’autore del testo né quello della musica o, alcune volte, solo uno dei due.
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