TRA IL CAMPIONISSIMO E L’UMILISSIMO

LA RAPPRESENTAZIONE DEL CARATTERE EPICO-EROICO DEL CICLISMO IN QUATTRO RACCOLTE DI RACCONTI DI BICICLETTA

Aantal woorden: 24.700

Benjamin Leirens 01502939

Promotor: Prof. dr. Mara Santi

Masterproef voorgelegd voor het behalen van de graad master in de Taal-en Letterkunde Italiaans-Frans

Academiejaar: 2018 – 2019

INDICE

Ringraziamenti p. 4

Ordine di partenza – Domanda di ricerca p. 6

1. Prima tappa: la figura dell’Eroe (mediatico)

1.1 L’eroe (< ήρως): etimologia e rappresentazione letteraria p. 8 1.2 Il campo giornalistico (sportivo) come terreno fertile per l’eroismo p. 15 1.3 Il carattere epico del ciclismo p. 18

2. Seconda tappa: i Racconti di Bicicletta

2.1 Metodologia e contesto storico p. 25

3. Terza tappa: Achille Campanile - Battista al Giro d’Italia. Intermezzo giornalistico (1932)

3.1 Una presa in Giro (d’Italia): l’umorismo come chiave di lettura della raccolta p. 29 3.2 Un Don Chisciotte su due ruote: il fedele servitore Battista p. 32 3.3 I Sempre in Coda: una smitizzazione p. 36 3.4 I veri eroi del Giro: una critica socio-culturale? p. 40

4. Quarta tappa: Vasco Pratolini - Cronache dal Giro d’Italia (maggio-giugno 1947)

4.1 Uno spettatore appassionato e attento nel gran Barnum p. 42 4.2 Smitizzazione e delusione: una noia fastidiosa p. 45 4.3 Gli umili gregari e la Brigata Toscana p. 47 4.4 Coppi e Bartali: una sconfitta serena e umana p. 49 4.5 Un letterato contro I Docenti del ciclismo p. 52

5. Quinta tappa: Dino Buzzati al Giro d’Italia (1949)

5.1 Un vincitore sovrumano p. 54 5.2 Ettore e Achille su due ruote p. 59 5.3 La memoria bellica p. 64

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6. Sesta tappa: - Giro d’Italia (1955) in La lente scura

6.1 L’intrusa p. 67 6.2 Disillusione: il Carrozzone commerciale non si fermerà più p. 69 6.3 Trascendere la soglia sociale p. 71 6.4 Un torero ammazza un puledro p. 72

Traguardo p. 76

BIBLIOGRAFIA

Bibliografia primaria p. 79

Bibliografia secondaria p. 79

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Ringraziamenti

Prima di dare l’ordine di partenza di questa tesi, vorrei capovolgere il solito protocollo assegnando non alla fine ma già all’inizio le Maglie e i fiori alle persone che mi hanno dato l’opportunità, il sostegno e soprattutto il piacere di realizzare quest’ultimo progetto.

In primo luogo mi piacerebbe consegnare la Maglia Rosa alla promotrice di questa memoria, ossia la professoressa Mara Santi, per la sua disponibilità, i suoi consigli e la libertà che mi ha dato nella scelta della tematica. Inoltre vorrei aggiungere che è stato un onore seguire i suoi corsi nei quali la mia predilezione per la lingua, la letteratura e la cultura italiana è stata alimentata sempre di più.

In secondo luogo vorrei ringraziare la Dr. Sarah Bonciarelli con l’attribuzione della Maglia Ciclamino, poiché è sempre stata disposta a leggere e a mandarmi le sue correzioni alla velocità di un ammirevole sprinter.

La Maglia Azzurra, che premia il migliore scalatore, viene attribuita a mio zio, perché mi ha regalato una passione torreggiante e insuperabile per la bici e per il ciclismo. Per di più va segnalato (con vergogna) che nelle nostre numerose gite in mountain-bike, io spesso non sono capace di seguirlo in salita.

Infine i miei amici, mia sorella gemella e soprattutto i miei genitori vengono premiati con la Maglia Iridata. Essi sono sempre stati al mio fianco con la loro energia e il loro affetto, soprattutto nei momenti più difficili (come studente). Mi hanno offerto tutte le possibilità per diventare la persona che sono ora. Perciò meritano di essere proclamati a vita i Miei Campioni del Mondo.

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I ciclisti non muoiono…

I ciclisti non muoiono, essi scompaiono soltanto dalla vista una volta che hanno attraversato il loro ultimo traguardo, una volta che la velocità della vita li abbandona coi muscoli rigidi.

Non cessano mai di correre anche se il loro cuore e le loro ruote decidono ostinatamente di tacere, essi continuano a scendere in campo nella mente di migliaia di persone essi non si arrendono mai, al contrario, il loro sudore conferisce lucentezza perenne all’asfalto.

Ricorda che dal momento in cui la terra, anche se a malincuore, li copre, il loro nome risuonerà per sempre, come un eco tra le cime delle montagne.

(Ó Willie Verhegge, Renners sterven niet. Traduzione italiana: Benjamin Leirens)

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Ordine di partenza

“I dizionari che hanno la reputazione di avere ragione su tutto si sbagliano su un punto: la bicicletta non è un mezzo di locomozione, è un racconto di fate.” Questa citazione di Jean-Noël Blanc, scrittore francese contemporaneo, richiama in mente le parole di Alfredo Oriani che nel 1902 dichiara che “il ciclismo è il massimo di possibilità poetica consentita al corpo umano”.1 Con la sua raccolta La bicicletta quest’ultimo si inserisce significativamente nel plotone dei primi scrittori a trattare il ciclismo come tema letterario.

Le qualità e le possibilità poetico-letterarie, emanate dal ciclismo ed evidenziate dai due autori citati qui sopra, costituiscono essenzialmente il punto di partenza di questa tesi di Master. Mi concentrerò particolarmente sul carattere epico attribuito allo sport su due ruote. Allo scopo di avviare l’analisi di alcune opere (letterarie) che prendono ispirazione dal Giro d’Italia, questo lavoro partirà da un quadro teorico riguardante la nozione e la figura dell’eroe, vale a dire il termine tradizionalmente legato al genere epico. Siccome apparirà che il giornalismo (sportivo) svolge un ruolo preponderante nella definizione e diffusione del ciclismo e dei suoi attori in chiave epica, questo settore sarà ugualmente sottoposto a una breve analisi.

La seconda parte di questo progetto seguirà un approccio più analitico, in quanto le osservazioni teoriche della prima parte verranno applicate a quattro opere di tema ciclistico. Per quanto riguarda i libri esaminati, che nel corso (o meglio nella corsa) di questa tesi saranno battezzati Racconti di Bicicletta, conviene segnalare che saranno trattati in ordine cronologico. Inoltre, va notato che risalgono tutti (con l’eccezione dell’opera pionieristica Battista al Giro d’Italia di Achille Campanile pubblicata nel 1932) alla cosiddetta epoca d’oro del ciclismo italiano, ossia il primo decennio dopo la Seconda guerra mondiale. Sono gli anni nei quali il Belpaese non soltanto sportivamente ma forse anche politicamente è diviso dal mitico duello tra Fausto Coppi, il Campionissimo, e Gino “il Pio” Bartali. La loro eredità rimane fino ad oggi visibile sulla scena

1 Oriani,A., La bicicletta. Bologna: Zanichelli, 1902.

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italiana e internazionale. Quest’anno, in occasione del centenario della nascita di Coppi, il paese di Castellania, dove egli nacque nel 1919, ha preso ufficialmente il nome di Castellania Coppi in onore dell’indimenticabile campione di ciclismo.2 È interessante che nello stesso anno la figura del suo eterno rivale sportivo (ma tuttavia amico del cuore), Bartali, costituisce, per il ruolo sociale che ebbe, una delle tracce per l’esame di maturità in Italia.3

Analizzerò nei quattro libri scelti, elencati qui in ordine cronologico: Battista al Giro d’Italia di Achille Campanile (1932), Cronache dal Giro d’Italia di Vasco Pratolini (1947), Dino Buzzati al Giro d’Italia di Dino Buzzati (1949), e Giro d’Italia di Anna Maria Ortese, il modo in cui gli autori, inviati da un giornale o settimanale alla Corsa Rosa, riproducono i corridori partecipanti e i loro duelli. Partirò sempre da una visione generale sugli scrittori in questione, poiché come si vedrà in seguito, i resoconti esaminati si trovano spesso sulla stessa linea delle altre opere prodotte dalla loro penna. Inoltre, va già notato che le descrizioni del Giro analizzate spesso differiscono considerevolmente non solo tra di loro ma anche dalle linee teoriche tracciate nella prima parte di questa tesi. Sembra in effetti che gli scrittori in questione desiderino talvolta effettuare un processo di demitizzazione o umanizzazione contrario all’eroicizzazione dello sportivo di cui tratterò a breve. Di conseguenza gli autori si oppongono (in)volontariamente ai resoconti e al metodo di lavoro più diffuso nella cronaca sportiva. Tuttavia questo approccio “diverso” non attacca mai il ciclismo di per sé. Al contrario ribadisce, come vedremo, la premessa di questa tesi, ossia mettere in risalto la versatile possibilità letteraria insita nello sport a due ruote.

Benvenuti, quindi, a questo Giro nella letteratura ciclistica italiana del Novecento.

2 https://torino.corriere.it/cronaca/19_marzo_25/nasce-castellania-coppi-comune-prende-nome- concittadino-piu-illustre-8001eeb4-4f14-11e9-ad2b-d4651f1d6fda.shtml 3 https://www.corriere.it/scuola/maturita/notizie/maturita-2019-prima-prova-sono-arrivati-temi-esame- via-6bfa859c-9259-11e9-8993-6f11b6da1695.shtml

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1. Prima tappa: la figura dell’Eroe (mediatico) 1.1 L’eroe (< ήρως): etimologia e rappresentazione (letteraria)

1 Μῆνιν ἄειδε θεὰ Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος οὐλομένην, ἣ μυρί᾿ Ἀχαιοῖς ἄλγε᾿ ἔθηκε, πολλὰς δ᾿ ἰφθίμους ψυχὰς Ἄϊδι προΐαψεν ἡρώων, αὐτοὺς δὲ ἑλώρια τεῦχε κύνεσσιν 5 οἰωνοῖσί τε πᾶσι· Διὸς δ᾿ ἐτελείετο βουλή,

ἐξ οὗ δὴ τὰ πρῶτα διαστήτην ἐρίσαντε Ἀτρεΐδης τε ἄναξ ἀνδρῶν καὶ δῖος Ἀχιλλεύς (Omero, Iliade, I, 1-7).

Cantami, o Diva, del Pelíde Achille L’ira funesta che infiniti addusse Lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco Generose travolse alme d’eroi, E di cani e d’augelli orrido pasto Lor salme abbandonò (così di Giove L’alto consiglio s’adempía), da quando Primamente disgiunse aspra contesa Il re de’ prodi Atride e il divo Achille (Monti, 1825, 1-2).

Come osserva John Dean nel suo saggio U.S and european heroism compared, in cui esamina il concetto di eroismo da un punto di vista storico e comparatistico, il termine eroe nasce “at the root-cap of the ancient Greeks” (Dean, 2008: 68). Dean sottolinea che quella dell’ήρως, ossia dell’eroe, è innanzitutto una nozione omerica. Nell’Iliade, il poema epico (databile intorno all’850 a.C.) che costituisce il caposaldo della cultura e della letteratura occidentali, Omero la utilizza nel designare i guerrieri “liberi e coraggiosi” (Dean, 2008: 68). Va sottolineato che nel periodo precedente alla guerra di Troia il termine ήρως viene utilizzato come titolo d’onore. Già nel

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proemio dell’Iliade, riportato parzialmente qui sopra, Omero, fa esplicitamente riferimento ai soldati le cui “forti anime vengono spedite in gran numero all’Ade a causa dell’Ira funesta di Achille” e i cui “corpi servivano come orrido pasto per cani e uccelli”.

Etimologicamente la nozione greca di ήρως è legata al sanscrito वीर (vīrá), che significa forte

(Pianigiani, 1907: 477). La parola latina vir con il significato di “uomo vigoroso” che ha dato origine a virile in italiano, proviene dallo stesso termine. Consultando alcuni dizionari italiani è chiaro che l’etimologia della parola ήρως si riflette nella definizione e nella concettualizzazione che i lessicografi ci forniscono oggi del termine in questione. Nel Battaglia troviamo come seconda entrata del lemma eroe “chi in un’azione guerresca dimostra valore, coraggio, ardimento” (Battaglia, 1995: 253-254). Sulla stessa linea il Treccani afferma che “Nel linguaggio comune [eroe è] chi, in imprese guerresche o di altro genere, dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie4. In entrambi i casi si sottolinea quindi il carattere valoroso e coraggioso dell’eroe. Tuttavia conviene segnalare che nei due dizionari consultati la prima definizione che viene fornita del termine analizzato collega la figura dell’eroe al suo statuto (semi-)divino. Il Treccani indica che: “Nella mitologia di vari popoli primitivi, essere semidivino al quale si attribuiscono gesta prodigiose e meriti eccezionali; presso gli antichi, gli eroi erano in genere o dei decaduti alla condizione umana per il prevalere di altre divinità, o uomini ascesi a divinità in virtù di particolarissimi meriti”. Nel Battaglia è presente una definizione più generica: “Essere sovrumano, semidivino, dotato di particolari prerogative e virtù, a cui si attribuiscono gesta prodigiose”. Anche il dizionario etimologico di Pianigiani pone l’eroe nelle sfere (semi-)divine: “così chiamavansi presso gli antichi coloro che creduti nascere di una divinità e di un uomo, per forza prodigiosa o per gran numero d’illustri imprese divenivano celebri, ed ai quali dopo morti prestavansi onori divini, quali semidei” (Pianigiani, 1907: 477). È chiaro che l’interpretazione e la definizione odierna dell’eroe in quanto semi-divinità, collegata ovviamente al suo ruolo svolto nella cultura, letteratura e soprattutto mitologia classica (Dean, 2008: 69) - pensiamo per esempio alla figura di Ercole- è molto diffusa nella società occidentale. Forse anche

4 "http://www.treccani.it/vocabolario/eroe/"

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l’etimologia fornita da Platone nel Cratilo, comunque comica e sicuramente di fantasia, ha rafforzato la connessione tra l’eroe e la sua natura semidivina.

Ermogene: Anch'io penso questo, o Socrate, di essere del tutto d'accordo con te riguardo a questo. Ma l'ἥρως [eroe], che cosa sarebbe? Socrate: Non è affatto difficile intendere questo, dato che il nome è stato modificato di poco, e mostra chiaramente la sua origine dall'amore [ἔρως]. Ermogene: Come dici? Socrate: Non sai che gli eroi [ἥρωες] sono semidei? Ermogene: E allora? Socrate: Tutti certamente sono nati o da un dio innamorato di una mortale, o da un mortale innamorato di una dea (Platone in Gatti, 2008: 147)

Tuttavia, basandoci di nuovo sul saggio di Dean, in particolare per quanto riguarda la genesi omerica del concetto, l’eroe non può essere considerato una persona “immaculately protected by the armor of divinity” (Dean, 2008: 69). La nozione non equivale quindi del tutto al termine “demigod”. Secondo Dean l’eroe è al contrario “immensely human”. Inoltre egli sottolinea che “heroes as originally understood in Western civilization [nello specifico nell’Iliade] were glorious by virtue of the risks that are known and taken by human flesh and blood.” Per questo motivo Dean indica l’associazione dell’eroe con il mondo dei semi-dei come un equivoco comune, “easily available in […] most dictionaries. (Dean, 2008: 69).

Le osservazioni di Dean mettono in risalto come è difficile, persino impossibile, fissare il concetto di eroe in un unico significato o in una definizione ben delineata. C’è un continuum di elementi e contenuti collegati al concetto di eroe e sembra che ogni società ne dia un’interpretazione e rappresentazione proprie. A questo proposito conviene sottolineare che Dean stesso, soffermandosi in particolare sul ruolo dei media moderni nell’hero-making process, afferma che questi:

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have stretched hero to lengths undreamed of by sane Cervantes or mad Don Quixote. […]: the brave person, the risk-taker, the dignitary, the champion, the winner, the victor, the defeater, the example, the celebrity, the big name (Dean, 2008: 76-77).

Vi è dunque una grande varietà di definizioni, dovute al fatto che il contesto in cui nasce una qualsiasi forma di eroismo è innanzitutto il risultato di una costruzione sociale, poiché “people build their heroes” (Dean, 2008: 77). Anche Thomas Carlyle afferma in On heroes and hero-worship che il significato conferito al concetto di eroe è essenzialmente sociale e che “a hero can be poet, prophet, king, priest or what you will, according to the kind of world he finds himself born into” (Carlyle, 1908: 321). Ugualmente Wright, quasi 100 anni dopo, ribadisce questo concetto, sostenendo che la figura dell’eroe è parte integrante della cultura di una società, cioè delle credenze, dei valori e degli obbiettivi di una collettività (Wright, 2005: 146). A proposito di queste qualità sociali dell’eroe, Susan Drucker, curatrice della raccolta Heroes in a global world, dice che ogni società ha bisogno di eroi, poiché si modella intorno a essi. (Drucker, 1994: 84) e, come Dean, che quello che viene considerato eroico in una società dipende da priorità e valori culturali strettamente contestuali (Drucker, 1994: 82). Di conseguenza l’interpretazione e la rappresentazione dei concetti eroe e eroismo assumono caratteristiche diverse a seconda del tempo e della società in cui vengono adoperate. Ogni comunità e ogni epoca (ri)conosce i propri eroi. Ciò porta Lance Strate ad affermare che “cultures are hero-systems” e che “heroes are a universal component of human culture (Strate, 2008: 19). Inoltre egli sostiene che le modalità in cui gli eroi si manifestano riflette in essenza “our ideal selves, the selves that inspire us, the selves that we aspire to, the selves that we desire (Strate, 2008: 19- 20)

Il suo carattere indubbiamente sociale implica, come sostengono Hoebeke, Deprez e Raeymaeckers, che l’eroe può semplicemente essere inteso come “portatore di valori sociali” (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 89). Citando Orrin Klapp i tre studiosi affermano che gli eroi suggeriscono atteggiamenti e comportamenti appropriati” (Klapp, 1948: 135) e si rivelano

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esempi “perfetti di valori sociali come virtù, sacrificio, coraggio, disciplina e perseveranza” (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 89). Di conseguenza costituiscono esempi morali che possono e devono essere seguiti sia dall’individuo che dalla comunità.

Hoebeke, Deprez e Raeymaeckers mettono inoltre in risalto che l’identificazione, in una data società, di un eroe è il risultato di una certa strategia di comunicazione e che the “real persons only provide us with the rough material for heroism”. È soltanto durante i processi di narrativizzazione che la figura dell’eroe può emergere (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 88), in letteratura, ma anche, in epoca moderna, in altre forme di comunicazione, come il giornalismo, che svolge un ruolo preponderante nella creazione, diffusione e popolarizzazione dell’eroe. Dean sottolinea a questo proposito che “there must be a story” per consentire la costruzione sociale dell’eroe (Dean, 2008: 87), come già Joseph Campbell, nel suo pioneristico The hero with a thousand faces (1949). Come afferma Ong “the dominant medium of the communication of culture affects the notion hero (Ong, 1967: 204), se ne deduce che anche i mass media contemporanei influenzano la definizione del concetto di eroe nella nostra società. Hoebeke, Deprez e Raeymaeckers sostengono a tal proposito che i mezzi di comunicazione servono oggi come uno dei principali strumenti per propagare l’eroismo (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 88). Vande Berg condivide quest’opinione sottolineando che sono “the primary vehicles through which we learn of the extraordinary accomplishments, courage, and deeds of cultural heroes and the faults and ignominious deeds of villains and fools” (Vande Berg, 1998: 152). Tuttavia altri studiosi, come ad esempio Susan Drucker e Gary Gumpert, si mostrano più cauti a proposito dei mass media e della loro elaborazione del concetto di eroe, per esempio Drucker sostiene che, a causa degli attuali processi di comunicazione, il confine tra eroe da una parte e celebrità dall’altra parte continua a confondersi.

Secondo Drucker l’eroe tradizionale richiede distanza e prospettiva (Drucker & Gumpert, 2008: 4), ma siccome queste due concetti non appartengono al sistema di comunicazione contemporanea, le celebrità di oggi dovrebbero essere intese come ersatz heroes, ossia eroi degradati, di serie B. (Drucker & Gumpert, 2008: 2-4). Negli studi dedicati all’eroismo il mescolarsi tra eroe e celebrità

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è definito Boorstin’s dilemma. Daniel Boorstin è stato infatti il primo ad affermare che i mass media hanno sostituito i veri eroi con “human pseudo-heroes”, ossia le celebrità (Strate, 2008: 24). Lo storico americano definisce la celebrità “a person known for his well-knowness” e ritiene che:

The hero was distinguished by his achievement, the celebrity by his image or trademark. The hero created himself; the celebrity is created by the media. The hero was a big man, the celebrity is a big name (Boorstin, 1967: 61).

Conviene segnalare che tale dibattito sull’opposizione eroe/celebrità ci interessa particolarmente poiché la figura dell’eroe sportivo, in quanto celebrità, vi è coinvolta. In effetti, Hoebeke, Deprez e Raeymaeckers si interrogano sull’impatto sempre crescente del professionismo degli atleti e dei media sul concetto di eroe.

Infatti, diventando lo sport sempre più “business and entertainment” i mass media, inclini a focalizzarsi ormai sugli stipendi sproporzionati, sulla commerciabilità e sulla vita privata degli atleti, facilitano e promuovono il cosiddetto “celebrification process”. La Drucker stessa afferma che:

On the surface professional sports seem to offer a natural source for heroes, but on closer examination they offer celebrated sports figures shaped, fashioned, and marketed as heroic (Drucker, 1994: 90-93).

La nozione di “modern sports heroe” è dunque un termine errato che indica in realtà una celebrità sportiva (Drucker, 1994: 93). Secondo Drucker, i mass media modellano e commercializzano figure sportive come figure eroiche (Drucker, 1994: 93) e la causa di questa contaminazione dell’eroe, in passato caratterizzato dalla sua natura quasi inavvicinabile, consisterebbe nell’aumento delle notizie che riguardano la vita personale degli atleti, vale a dire “the up close and personal view” sull’individuo (Drucker, 1994: 90). In effetti sono le vicende di doping, di adulterio o di abuso alcolico e sessuale ampiamente diffuse e commentate dalla stampa che minacciano l’antica immagine dell’eroe sovrumano e inavvicinabile. Drucker sostiene che a causa di questo close up emerge la meschina umanità del campione sportivo e ciò sarebbe nefasto per il suo statuto eroico.

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Nel saggio The sports hero meets mediated celebrityhood, anche Van De Berg esamina la biforcazione eroe/celebrità nel campo sportivo. Tuttavia l’autrice si mostra più moderata nel dibattito sostenendo che, a causa dei mezzi di comunicazione, è inevitabile che gli eroi di oggi siano allo stesso tempo delle celebrità (Vande Berg, 1998: 139). Perciò la presunta degradazione dell’eroe sportivo verso gli abissi della celebrità, potrebbe essere definita una semplice conseguenza dell’evoluzione tecnologica. In altra direzione si orienta invece la riflessione di Daniele Marchesini, il quale ritiene che il processo di globalizzazione e la cultura di massa modifichino il modo in cui si percepisce, si crea e si diffonde l’immagine dell’eroe sportivo. Trattando in particolare il caso del ciclismo, lo storico italiano afferma che gli sport “meno in sintonia” con i tempi nuovi, come ad esempio le gare su due ruote, falliscono nel fornire delle figure nelle quali il pubblico, vale a dire gli appassionati, possono identificarsi. Inoltre sostiene che gli spettatori sono sempre meno disposti a sognare dinnanzi alle imprese di atleti straordinari e a riconoscersi in loro. Al contrario essi preferiscono riconoscere la figura dell’eroe contemporaneo nei personaggi “normali” (i volontari, i pompieri…) e meglio ancora costruire l’immagine di se stessi come eroi. Di conseguenza i campioni sportivi professionisti non costituiscono che i supporti della nostra definizione di un modello eroico. Questo comportamento rappresenta secondo Marchesini “l’estensione dello sport fuori dello sport”, ovvero l’uso non sportivo dello sport (Marchesini 2009: 263). Va segnalato che lo storico italiano sta comparando l’influenza e la popolarità del ciclismo (italiano) contemporaneo a quelle della cosiddetta epoca d’oro in cui la forza epica dello sport ciclistico, raggiunge i suoi picchi più alti.

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1.2 Il campo giornalistico (sportivo) come terreno fertile per l’eroismo

La prima parte di questa tesi ha fatto il punto sugli studi che dimostrano come la figura dell’eroe e la sua creazione e diffusione in una data società siano il risultato di un processo di comunicazione, ovvero di narrativizzazione. Di conseguenza, come osservano Hoebeke, Deprez e Raeymaeckers anche negli studi sul giornalismo come mezzo tramite il quale si riesce a cogliere e a raccontare la realtà che ci circonda, i concetti di narrazione e mito (eroico) vengono non di rado impiegati (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 87). Ciò implica che ogni giornalista può essere etichettato come narratore. In questo modo si potrebbe ipotizzare che, da un punto di vista storico e pragmatico, i giornalisti di oggi sono gli eredi dei narratori delle antiche tradizioni orali, come dice Hartley secondo il quale la funzione dei troubadours e degli storytellers si trasferisce, attraverso l’invenzione della stampa, nei moderni quotidiani di vasta distribuzione (Hartley, 1983: 102-106). Sulla stessa linea Schudson, che sostiene che i giornalisti contemporanei si comportano come moderni cantastorie destinati alla costruzione attiva della realtà, siccome “we turn nature to culture as we talk and write and narrate it” (Schudson, 1995: 52). Hoebeke, Deprez e Raeymaeckers evidenziano che durante questo processo i giornalisti tendono spesso ad adoperare espressioni formulari appartenenti in precedenza ai racconti mitologici (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers: 87). Il rapporto intrinsecamente stretto tra “Myth and News” viene anche ribadito da Berkowitz, la quale sostiene che “news and myth are so closely intertwined because they both narrate resonant dramas which the storytellers know how to tell and audiences know how to decode” (Berkowitz, 2010: 645).

Analizzando nello specifico l’influenza del campo giornalistico sportivo sull’emergenza e sulla diffusione di eroi sportivi, va sottolineato, come fa Whannel, che in essenza ogni evento sportivo può essere narrativizzato a causa delle sue qualità intrinseche (Whannel, 2002: 54). È questa forza narrativa che sollecita l’interpretazione e la rappresentazione della vita, della carriera e delle imprese di un atleta di successo in chiave epica. Per quanto riguarda il ciclismo va ricordato che sin dall’inizio del XIX secolo, epoca in cui le prime vere corse ciclistiche prendono forma, la stampa riporta tali eventi. Queste cronache, a causa della

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popolarità del nuovo sport e anche a causa dei grandi duelli che vi si ingaggiano (pensiamo innanzitutto a quello tra Luigi Ganna, primo vincitore della Corsa Rosa nel 1909 e il francese Lucien Petit-Breton), servono a creare un’epopea in cui i ciclisti sono percepiti veri eroi. Va sottolineato che per le giovani generazioni di quell’epoca le imprese di questi atleti, impegnati a gareggiare non soltanto tra di loro ma anche con la Natura (strade ripide e sterrate spesso in combinazione con condizioni meteorologiche avverse), sono spesso una tematica più affascinante, attuale e identificabile di quella fornita dall’epica letteraria. A questo proposito Curzio Malaparte, scrittore e giornalista italiano del novecentesco, ricorda significativamente: “Quando ero un ragazzo, gli exploit di Gerbi, di Petit-Breton, di Ganna non mi lasciavano dormire. La prima epopea della bicicletta fu la mia Iliade” (Malaparte, 1967: 186).

Anche Orio Vergani, ritenuto il maestro del giornalismo sportivo italiano, ricorda che:

Per i nostri padri, o per i fratelli maggiori […] lo sport era una cosa da matti […] il caro popolo romano che passava le giornate aspettando la “quarta” dei giornali per leggere le ultime della crisi ministeriale, aveva preso l’uso di chiamare i podisti col nome odoroso di puzzapiedi (Vergani, 1929: XII).

Vergani afferma che per la generazione nata nell’ultimo decennio dell’Ottocento, il ciclismo (e la cronaca che lo riguarda) consente sin dal suo inizio di accostare alle vicende e alle azioni compiute dagli eroi nelle opere di Jules Verne o Emilio Salgari quelle di protagonisti reali, di autentici campioni, ossia degli eroi dello sport. Ritroviamo quest’osservazione sulla sostituzione dell’eroe di origine letteraria con quello sportivo (intorno al primo decennio del XX secolo) anche nel libro Sapere di Sport di Stefano Jacomuzzi, il quale afferma che:

Il bisogno del mito, della costruzione, degli eroi, che la letteratura di fine secolo ha deluso o sconvolto, proprio con la morte dell’eroe, [viene] invece accolto e accontentato dalla mitologia sportiva, che sforna nuovi tipi di eroi e all’uomo inetto, all’uomo senza qualità oppone un tipo schietto e patetico di eroe, semplice e bello (Jacomuzzi, 1983: 156).

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Infine, esaminando l’ideazione e la diffusione socio-politica del mito di Bartali, che poco dopo la Seconda guerra mondiale coinvolge tutto il Belpaese, Stefano Pivato ritiene ugualmente che a partire dall’inizio del XX secolo le figure dei campioni sportivi e nello specifico i ciclisti cominciano a sostituire il logoro mito letterario dell’eroe (Pivato, 2018: 9).

Concludendo questo capitolo sul ruolo svolto dal giornalismo sportivo nella creazione degli eroi ciclisti, va sottolineato, come sostiene Vigarello, che sin dalle primissime corse uno dei compiti principali della cronaca consiste nel magnificare le sfide agonistiche (Vigarello, 1996: 271). In questo modo l’entusiasmo diviene subito il tono normale degli articoli-resoconti, che cercano non soltanto di informare i lettori, ma anche di persuaderli e di imporgli un punto di vista sugli eventi (Vigarello, 1996: 271). Di conseguenza si potrebbero concepire il ciclismo e le sue gare a tappe, pensiamo innanzitutto al Tour e al Giro d’Italia, come una competizione nella quale vicende eroiche e prodezza epica vengono sollecitate, inventate e diffuse dalla stampa allo scopo di comunicare e vendere storie semplici (Dauncey & Hare, 2003: 19). Conviene segnalare che le due corse appena menzionate, che costituiscono forse le gare ciclistiche più emblematiche, vengono originariamente organizzate e finanziate da periodici, rispettivamente L’auto per La Grande Boucle e La Tripletta e Ciclista (successivamente fuse nella Gazzetta dello Sport) per quanto riguarda la Corsa Rosa. Sin dai primi anni il legame, ossia l’interazione tra il ciclismo professionistico e il campo giornalistico è molto stretto. Ciò può spiegare l’enorme influenza esercitata dalla cronaca sulla popolarità dello sport su due ruote e quindi anche sulla preservazione dei suoi eroi. Dauncey osserva a proposito del Tour de France:

Sporting popularity is a phenomenon determined by a variety of factors, but more than in other sports, mediatization is the key to the creation of the Tour’s heroes, especially as cycling events are such a fleeting experience for the roadside spectator. In the early days coverage by the written press was what created heroes in the eyes of fans (Dauncey, 2003: 176).

Il giornalismo ciclistico, in sintesi, fornisce un terreno fertile per la creazione e la celebrazione dell’immagine dell’eroe e citando le parole di Holt, Mangan e Lanfranchi nel libro European heroes:

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myth, identity, sport, si può affermare che il ciclismo e i suoi aspri duelli sono arrivati a definire il concetto stesso dell’eroe nella cultura europea. (Holt, Mangan & Lanfranchi, 1996: 6).

1.3 Il carattere epico del ciclismo

Dopo aver cercato in primo luogo di illustrare la nozione di eroe e dopo aver analizzato il legame tra il concetto in questione e il campo giornalistico sportivo, conviene focalizzarsi in questo capitolo sulle caratteristiche intrinseche del ciclismo che ne sollecitano una lettura in chiave epica.

In generale, Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers ritengono che lo sport e la sua scrittura si prestino particolarmente bene all’ “hero narrative”, poiché “the life and career of athletes evoke heroic stories comparable to archetypal hero myths” (Hoebeke, Deprez & Raeymaeckers, 2014: 93). A tal proposito è necessario introdurre il concetto di “mito archetipo dell’eroe”, definito da Joseph Campbell il quale, pur riconoscendo l’ampia varietà di forme e definizioni attribuite all’eroe, distingue il cosiddetto mono-mito, ossia un pattern narrativo standard che ricorre nelle “hero’s stories”:

A standard path […] which is a magnification of the formula represented in the rite of passage: separation-initiation-return: which might be named the nuclear unit of the monomyth. A hero ventures forth from the world of common day into a region of supernatural wonder: fabulous forces are there encountered and a decisive victory is won. (Campbell, 1949: 30).

Applicando il concetto del monomito al mondo sportivo, Drucker sottolinea che “the marriage of organized professional sports and the conception of hero is natural as the traditional requisite ingredients for hero creation appear to be present (Drucker, 1994: 84). L’interazione tra eroe e atleta si rivela essere solida, poiché anche l’ultimo fa in un certo modo un viaggio archetipico che passa “from the sandlots, to the little leagues, school sports, amateur leagues, professional competition and finally retirement.” (Drucker, 1994: 84-85).

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Parlando dell’itinerario standard dell’eroe, un’altra nozione che spesso ritorna è quella delle umili origini. Come osserva Marchesini è significativo che i grandi ciclisti provengono molte volte da piccoli paesi o da sperdute frazioni con nomi che “fanno impazzire i portalettere”. In effetti essi sembrano uscire in massima parte da un “piccolo mondo antico” (Marchesini, 2009: 213). Ritroviamo una concezione analoga nel saggio Bicicletta: il mito e la poesia di Susanna Barsella, la quale spiega la connotazione di sport umile, che il ciclismo ha avuto e continua a mantenere (Barsella, 1999: 70). Analizzando il motivo per cui la prospettiva eroica ben si sposa con il ciclismo, afferma che ancora oggi “si mantiene la pregiudiziale che non si diventa veri campioni, vale a dire eroi sportivi, senza un’abitudine storica alla fatica, alla sofferenza e alla privazione” (Barsella, 1999: 71). Va sottolineato che i più grandi ciclisti provengono in maggior parte da professioni del lavoro manuale: Ganna era muratore, Binda stuccatore e Bartali e Coppi in primo luogo contadini e poi garzoni. Gianni Brera, uno dei più famosi giornalisti sportivi italiani, definisce la storia del ciclismo come un “epos dei poveri” (Brera in Vergani, 1987: 109) e dedica a questo epos una sorta di epillio in endecasillabi “la bicicletta come anti-cavallo da Leonardo a Bartali e Coppi” (vale a dire Leonardo Da Vinci, il presunto inventore della bici) (Barsella, 1999: 93). La denominazione di “anti-cavallo”, che funge anche da titolo di un libro in cui Brera racconta il suo itinerario compiuto nel mondo ciclistico, oppone in modo unico la bicicletta al cavallo, considerato il trasporto per eccellenza e il simbolo dell’aristocrazia (Barsella, 1999: 91).

Il carattere popolare e umile del ciclismo ritorna anche negli epiteti con i quali ci si riferisce agli atleti: come i lavoratori delle due ruote (Marchesini, 2009: 213) o les forçats de la route “i forzati della strada” (Dauncey & Hare, 2003: 6). L’origine popolare dei ciclisti facilita l’immedesimazione da parte del grande pubblico e, come sottolinea Barsella, questo senso di vicinanza, vale a dire di un’esperienza condivisa e soprattutto condivisibile, fa dell’eroe su due ruote la proiezione di desideri e aspettative di milioni di persone (Barsella, 1999: 71). Per questo motivo Barthes considera il ciclismo il miglior esempio di mito totale poiché “it is at once a myth of expression and a myth of projection, realistic and utopian at the same time” (Barthes, 1979: 87).

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L’ampia portata sociale potrebbe quindi spiegare perché sin dall’inizio la politica salti sul carro dei vincitori-ciclisti. John Foot parla ad esempio di cosa Ivanoe Bonomi, deputato socialista, scrive nel quotidiano Avanti! del 29 settembre 1910: “Galetti, Ganna, Gebri, Verri, ecco i nomi che corrono su quelle bocche accese e sorridenti. Gli eroi del pedale sono popolari come lo erano gli eroi del circo nella antica Grecia” (Foot, 2011: 28-29;363). Il senso di vicinanza e familiarità che il pubblico prova nei confronti dei corridori è sicuramente motivato dalle circostanze in cui una gara ciclistica si svolge. Come osserva Julian Barnes:

In other sports, fans go to a stadium, where there are entrance fees, tacky souvenirs, overpriced food and a professional exploitation of the fans’ emotions. In cycling, the heroes come to you, to your village, your town, or arrange a rendez-vous on the slopes of some spectacular mountain (Barnes, 2002: 91-92).

Questo rendez-vous gratuito con gli idoli su due ruote viene anche sottolineato da Foot come uno dei principali fattori per l’immensa popolarità e di conseguenza della creazione, diffusione e conservazione dell’epopea ciclistica. Foot osserva giustamente che il giro arriva vicino alla gente, nelle loro strade o nei loro campi e offre alla gente la possibilità di guardare i propri eroi soltanto mettendo un piede fuori dalla loro porta di casa (Foot, 2011: 338). La familiarità tra i corridori e il pubblico si rispecchia indubbiamente nell’onomastica che gli ultimi (sia la folla entusiasta che la cronaca professionista) utilizzano per fare riferimento ai ciclisti e alle loro imprese. Nel saggio Le Tour de France comme épopée, Barthes applica l’analisi letteraria semiologica all’organizzazione della Grande Boucle e si focalizza nello specifico sulla rappresentazione (mediatica) della gara. Uno dei suoi punti di partenza è l’affermazione che “there is an onomastics of the Tour de France, which in itself tells us that these races are a great epic (Barthes, 1979: 79). Analizzando il saggio di Barthes, Dauncey e Geoff osservano che è soprattutto il modo in cui i corridori vengono rappresentati che consente di creare un sistema di associazioni mentali e riferimenti che riecheggiano quello dell’epica letteraria (Dauncey & Geoff, 2003: 18). Sono

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soprattutto le immagini caratterizzate da stereotipi regionali e i nomi, sia diminutivi che soprannomi, attribuiti ai ciclisti che vanno presi in considerazione. Come sottolinea Barsella, quest’insieme di relazioni cognitive crea una mappa semantica delle qualità degli uomini e luoghi che non richiede ulteriori descrizioni (Barsella, 1999: 73). Il gergo ciclistico caratterizzato dalle nozioni di lotta, dolore e passione, prende di conseguenza la forma di ciò che nella terminologia barthesiana viene denominata mitologia, ossia un tipo di discorso che esprime il complesso dei valori che nell’immaginario collettivo sono associati a una data realtà, in questo caso particolare alla bicicletta (Barsella, 1999: 73). Ritroviamo un’osservazione analoga in Migliorini che analizza la trasformazione dei nomi propri dei ciclisti in nomi comuni:

Quei nomignoli appartengono a un immaginario fantastico che ha fissato nella memoria degli italiani azioni, stili, vittorie, fughe, imprese solitarie e che, secondo i linguisti testimonia una modalità affettiva attraverso la quale il tifoso dimostra la sua venerazione per il campione (Migliorini, 1927: 22).

Questo affetto di fronte ai corridori si esprime, secondo Barthes, nello specifico attraverso la diminuzione del nome che consente ai ciclisti di entrare “into the epic order” (Barthes, 1979: 79). Non è necessario utilizzare l’appellativo completo per riferirsi all’atleta in questione, basta servirsi soltanto del soprannome, del cognome e in alcuni casi persino del semplice nome. I nomignoli rappresentano sia un valore soprannaturale che un’intimità nettamente umana (Barthes, 1979: 80). A tal proposito Barthes dichiara:

In the cyclist’s diminutive there is that mixture of servility, admiration, and prerogative which posits the people as a voyeur of its gods. […] Diminished, the Name becomes truly public; it permits placing the racer’s intimacy on the heroes’ proscenium (Barthes, 1979: 80).

Alla fine del suo saggio Barthes fornisce un lexique des coureurs nel quale cerca di raggruppare intorno al cognome di alcuni grandi ciclisti tutte le associazioni mentali e emotive che vi sono correlate. Un nome, che ritornerà di sicuro in questa tesi, salta particolarmente all’occhio, vale a

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dire quello di Coppi, significativamente definito “héro parfait, sur le vélo, il a toutes les vertus, un fantôme redoutable” (Barthes, 1957: 120).

Un altro aspetto eroico su cui Barthes si focalizza è anche il paesaggio che deve essere dominato dai corridori durante le gare ciclistiche. Egli afferma che la geografia è interamente sottomessa alla necessità epica dell’evento (Barthes, 1979: 81). Per questo motivo non sono soltanto le sfide tra i corridori che meritano di essere chiamate eroiche, ma anche la lotta tra i ciclisti e un altro nemico comune, ossia la natura. Barthes ritiene che “the stake of the combat is not to know who will defeat the other, who will destroy the other, but who will best subjugate that third common enemy” (Barthes, 2007: 41). Il calvario più severo che la natura può imporre ai corridori è la montagna. Di conseguenza le tappe che arrivano in salita sono quelle più importanti. Secondo Barthes, il duro terreno e il percorso, due grandi avversari da superare, vengono personificati perché “it is against them that man measures himself, and as in every epic it is important that the struggle should match equal measures” (Barthes, 1979: 81).

Come nelle fiabe o nelle tradizionali storie di eroi, le montagne si presentano ai corridori come mostri, draghi o dei del male che devono essere sconfitti. Di conseguenza è necessario che il corridore riesca a “possedere l’intero universo fisico” (Barthes, 2007: 41). È forse per questo motivo che le tappe in salita sono così importanti, siccome non solo determinano il vincitore, ma manifestano allo stesso tempo apertamente la natura della sfida, ovvero il significato della battaglia con gli elementi e le virtù dei combattenti (Barthes, 2007: 42). È significativo che Barthes qualifichi il paesaggio che i corridori attraversano, come una geografia omerica, poiché:

As in the Odyssey, the race is here both a periplus of ordeals and a total exploration of the earth’s limits. Ulysses reached the ends of the earth several times. The Tour [and other cycling events] too, frequently graze an inhuman world. […] We are told, the racers have already left the planet Earth, encountering here unknown stars (Barthes, 1979: 82).

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Secondo Barthes i muscoli, considerati “raw human material” non creano l’epopea del ciclismo. Ciò che importa e vince è, come nel caso di Ulisse, una certa idea dell’uomo e del mondo e forse ancora meglio dell’uomo nel mondo. È la convinzione che l’essere umano, in questo caso il corridore, venga completamente definito dalle sue proprie azioni che non sono necessariamente concentrate sulla dominazione degli altri, ma piuttosto sul controllo delle cose, ossia della Natura (Barthes, 2007: 43).

Il dominio, sia letteralmente che figurativamente, del paesaggio e particolarmente delle montagne nella rappresentazione eroica della gara ciclistica e dei suoi attori, viene ribadito anche da Foot. Egli afferma che non sono soltanto i corridori a conquistare le vette, ma che esse tendono a impadronirsi a loro volta dei ciclisti perché non di rado le caratteristiche geografiche e le condizioni atmosferiche sono troppo avverse per permettere la continuazione della corsa (Foot,2011: 346). Come osserva Marchesini, inoltre, è anche la solitudine degli atleti, nel mezzo di questa natura travolgente, che consente di trasfigurare in senso epico certe tappe. Marchesini ritiene ad esempio che certe imprese non sarebbero ugualmente “memorabili, benché atleticamente rilevanti, se realizzate attraverso centri abitati e lungo itinerari pianeggianti” (Marchesini, 2009: 212). Per di più l’ardua condizione delle strade sassose, ruvide e polverose nel Belpaese dopo la Seconda guerra mondiale contribuiscono al carattere epico delle gare. Ciò che serve è un paesaggio ostile, ossia non addomesticato, che spetta ai ciclisti sottomettere con le loro virtù e le loro forze.

È evidente che il nucleo centrale dell’evento e della competizione è costituito dalla nozione di sacrificio. Per poter ottenere il successo personale i corridori devono sacrificare se stessi fino all’ultima goccia di sudore. Tuttavia il ciclista fa parte di una squadra e a volte deve mettersi completamente al servizio del successo comune. Per questo motivo il ciclismo agonistico conosce un’etica duplice: si può distinguere sia una morale individuale che una morale collettiva. Come afferma Barthes, è chiaro che “certain knightly imperatives constantly mingle with the brutal demands of the pure spirit of success” (Barthes, 1979: 85). L’atto di sacrificare se stessi nell’interesse comune viene di solito lodato, testimoniando l’essenza di un comportamento nobile che attesta “la piena dimensione morale” nell’esercizio di uno sport di squadra. Tuttavia questo

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gesto contraddice allo stesso tempo un altro valore della leggenda ciclistica, ossia la lotta “of the individual, of solitary combat for life” (Barthes, 1979: 85) dove “there is no place for sentiment”. È questa lotta individuale e solitaria che rende epiche le gare ciclistiche. Distinguendo la form, ossia la forma fisica e jump, cioè l’impulso Barthes afferma che:

Jump is an electric influx which erratically possesses certain racers beloved of the gods and then causes them to accomplish superhuman feats, it implies a supernatural order in which man succeeds insofar as a god assists him (Barthes, 1979: 83).

Sono questi corridori prediletti in modo irregolare “dagli dei”, che più colpiscono l’immaginazione del pubblico. Tuttavia, già nel 1957, anno in cui scrive il saggio analizzato, Barthes si registrano i primi scandali di doping. Siccome negli anni successivi le vicende di doping invadono il mondo del ciclismo, Martin Hardie sostiene che l’onomastica di natura eroica o mitica dell’epoca di Barthes decada dalle altezze e dallo statuto degli dei greci all’onomastica della criminalità (Hardie, 2009: 1). Ritroviamo un’osservazione analoga nel saggio di Weiting, che significativamente porta il titolo The twilight of the hero. Weiting esamina le conseguenze della crisi di fiducia causata dalle storie di doping nel ciclismo (Weiting, 2000: 348-363). In effetti, qui entra in gioco il dibattito, accennato nel primo capitolo di questa tesi, sulla natura dell’eroe sportivo moderno. Come sostiene Drucker, si può discutere se gli atleti (di oggi) vadano considerati eroi sportivi o se siano soltanto degli pseudo-eroi (Drucker, 1992: 93). Anche Marchesini osserva che il ciclismo, a causa delle vicende legate al doping, si trova di fronte alla minaccia di un indebolimento della sua forza di attrazione. (Marchesini, 2009: 260) e l’epoca d’oro, che va dal 1946 alla fine del decennio successivo e nella quale il mito dei Giganti della Strada trionfa, sembra finita. Tuttavia il glorioso passato degli eroi su due ruote e i libri dedicati alle loro imprese continuano ad attrare (questa tesi ne è indiscutibilmente la prova). Le principali caratteristiche di questi Racconti di Bicicletta saranno esaminate nel prossimo capitolo.

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2. Seconda tappa: i Racconti di Bicicletta 2.1 Metodologia e contesto storico

Per gli spettatori lungo le strade la gara ciclistica comporta intrinsecamente un paradosso. Come osserva Marchesini, contrariamente a quasi tutti gli altri sport, il ciclismo non conosce un’unità di luogo, né di tempo. Manca, di conseguenza, una visione “completa” della corsa. (Marchesini, 2009: 249-250). Ancora di più se si tratta di una gara a tappe, come la Corsa Rosa. Soprattutto nell’era pre-televisiva le grandi sfide tra i corridori, così come la corsa nel suo insieme, non si possono vedere nella loro totalità, anche se il pubblico si riversa in gran numero sulle strade. Persino per chi segue la gara dalle ammiraglie, cioè i giornalisti e i letterati inviati dai quotidiani i cui resoconti analizzeremo più approfonditamente qui di seguito, non è possibile controllare ogni momento:

Sono lì per vedere, per scrivere quello che vedono, per raccontare quello che hanno scritto. Girano attorno al gruppo, lo aspettano nei punti cruciali, si infilano dietro alle fughe, in questo modo raccolgono nei loro quadernetti frammenti di corsa, comprenderla tutta con uno sguardo è impossibile. Si scambiano poi i frammenti in baratti e commerci ed entro sera rimettono insieme un mosaico che pare completo (Gorrino, 2005: 43).

L’impossibilità di una visione completa e l’atteggiamento di immobilità provato da parte degli spettatori (sia i giornalisti-letterati che i tifosi-lettori) insieme alla velocità con cui i corridori passano davanti ad essi, sono ben espressi dalla metafora adoperata da Brambilla, che compara la carovana colorata dei ciclisti alla coda di “un drago cinese che vedi ma è già sparita e anche se vuoi afferrarla non riesci mai a farlo nemmeno dopo lunghi esercizi” (Brambilla, 2007: 10). Tuttavia, egli afferma, fortunatamente ci sono gli scrittori e i giornalisti i quali, benché ugualmente condannati a una visione limitata, aiutano gli appassionati a sentire, vedere e dare completezza agli eventi. L’importanza della parola in questo senso viene sottolineata anche da Barthes che afferma:

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Language’s role is enormous here, it is language which gives the event – ineffable because ceaselessly dissolved into duration – the epic promotion which allows it to be solidified (Barthes, 1979: 85).

In effetti, attraverso la mediazione della scrittura si riesce (in parte) a sciogliere il paradosso tra l’immobilità del pubblico e la velocità dei corridori. Marchesini sostiene che l’esperienza della gente che si raccoglie sulle strade mira in primo luogo a verificarne l’esistenza e le prestazioni dei ciclisti, che “conoscono” attraverso il racconto dei commentatori. L’immagine che gli spettatori hanno dei ciclisti si è formata con i resoconti dei giornalisti e dei letterati, più che con la diretta e fuggevole esperienza empirica (Marchesini, 2009: 250).

L’iterazione e la necessità reciproca tra le gare e la scrittura quindi, come osserva Piccione, determina un altro paradosso che vuole il ciclismo un evento quasi “più narrato che vissuto” (Piccione, 2017: 11). Nello specifico l’abitudine di inviare, nell’epoca pre-televisiva, dei veri e propri scrittori, ossia dei professionisti disposti a “prestare le proprie virtù letterarie alla descrizione della gesta del Giro”, non ha equivalenti in altri sport (Marchesini, 2009: 249).

Va notato che è proprio attraverso la scrittura che il ciclismo si salda al Mito (Brambilla, 2007: 40) perché lì gli eroi su due ruote prendono sia figurativamente che letteralmente forma. In effetti, come afferma Brambilla, sono gli scrittori e i giornalisti che seguono la corsa ad avere “la bacchetta magica” o meglio la penna per descrivere le curiosità e le piccole avventure ma soprattutto per raccontare e lodare le imprese eroiche dei campioni e dei modesti gregari (Brambilla, 2007: 17). Particolarmente in un’epoca senza trasmissione televisiva, gli scritti sulla Corsa Rosa che appaiano quotidianamente nel giornale, riescono ad eccitare l’immaginario collettivo consolidando in questo modo anche l’epopea ciclistica. Come osserva Dimitrijevic, la TV dissolverà l’intensità del racconto orale-scritto cancellando la fantasia e la possibilità di ri-creazione da parte del pubblico e generando una pseudo-partecipazione a causa della simultaneità assoluta tra esecuzione e ricezione degli eventi (Dimitrijevic, 2000: 91). Ciò toglie di conseguenza la necessità e la possibilità immaginativa da parte degli scrittori e del loro pubblico.

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L’assenza di uno sguardo complessivo, come si è detto, determina una mancanza di informazioni che va colmato ragione per cui, secondo Brambilla, quasi da subito i giornali ingaggiano scrittori famosi - pensiamo ad esempio ad Achille Campanile, Dino Buzzati, Vasco Pratolini - allo scopo di narrare il Giro d’Italia, saziando in questo modo la curiosità del pubblico (Brambilla, 2007: 40). A tal proposito è significativo che sia Marchesini che Brambilla si servano della stessa metafora per fare riferimento al compito degli scrittori che seguono la corsa. Entrambi gli studiosi comparano il Giro d’Italia a un romanzo i cui singoli capitoli sono costituiti dalle diverse tappe e nel quale dei narratori (sia i giornalisti che i letterati inviati) cercano di esaminare, decomporre, commentare e inventare casi interessanti (Marchesini, 2009: 252; Brambilla, 2000: 98). Tuttavia, in una gara a tappe ci sono anche momenti di noia, di riposo o di tregua agonistica perciò i giornali ricorrono alle intuizioni e alla creatività dei letterati che riescono a dare colore a ogni fase della gara, magari con affascinanti divagazioni letterarie di natura paesaggistica, storica, gastronomica o socio-politica

(Brambilla, 2000: 98).

Se questi scritti siano propriamente giornalistici o nettamente letterari è difficile a dirsi. Di sicuro è una peculiarità della stampa italiana, più che di altri paesi, quella di invitare degli scrittori come inviati sportivi di giornali e settimanali (Cirillo, 2009: 12). Non è questa la sede per tentare una definizione di genere dei Racconti di bicicletta va però detto che spesso questi racconti deviano dallo svolgimento reale della corsa e si distinguono di conseguenza per le loro qualità extra- sportive. Gli scritti di natura più canonicamente giornalistica provano in primis a fornire al lettore- tifoso un resoconto puntuale dei dati fattuali e tecnici, pensiamo ad esempio alle classifiche (Brambila, 2007:17). Mentre, come osserva Foot, gli scrittori inviati alla Corsa Rosa, non limitandosi a seguire lo sport, contribuiscono alla popolarità del ciclismo perché per loro il Giro d’Italia si rivela in essenza uno specchio sociologico e culturale, vale a dire un mezzo efficace per capire, vivere, osservare e spiegare il Belpaese (Foot, 2011: 345). In effetti come nota Luca Clerici i Racconti di Bicicletta offrono agli scrittori ingaggiati non soltanto la possibilità di misurare la propria vocazione artistica, ma allo stesso tempo di riscoprire la realtà del paese dopo la guerra e per questa ragione

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Clerici ritiene che i racconti analizzati qui in seguito vadano inscritti nel fenomeno del Neorealismo (Clerici, 2008: 272).

Questa attenzione alla componente sociale e umana costituisce secondo Pessini il dato più emblematico dei Racconti di Bicicletta. Nelle conclusioni del suo libro egli mette in risalto una delle presunte differenze tra la letteratura di tema ciclistico e il campo giornalistico (odierno) che tratta lo stesso argomento e afferma che, contrariamente agli eccessi che caratterizzano il giornalismo, “nel quale si tende a perdersi spesso in elogi troppo esagerati o critiche incomprensibili dirette magari contro gli stessi atleti esaltati fino al giorno prima”, i Racconti di Bicicletta si caratterizzano invece per un profondo equilibrio nei confronti dell’argomento trattato (Pessini, 2015: 196). Le opere degli scrittori inviati alla Corsa Rosa si distinguono quindi, come vedremo tra poco, per la loro profonda umanità, sensibilità e empatia, mentre il giornalismo sportivo si rivela, secondo Pessini, una vera galleria dell’ipocrisia in cui è consueto, consentito e persino necessario emettere giudizi affrettati di qualsiasi tipo (Pessini, 2015: 97).

Nei Racconti di Bicicletta, accanto a diverse altre divagazioni extra-sportive di tipo artistico, paesaggistico e gastronomico, prevale soprattutto la componente umana e sociale. Ciò contribuisce, come sostiene Foot, alla creazione, diffusione e rielaborazione del Giro d’Italia come narrazione storica, nazionale e regionale che prende in seguito la forma di un mito carico di orgoglio e di commemorazione (Foot, 2011: 340). Esaminiamo allora nei capitoli successivi il loro modo di scrivere e le principali caratteristiche delle loro opere, cercando innanzitutto di vedere come e perché rappresentino (o magari rifiutino fondamentalmente di farlo) i ciclisti come veri e propri eroi su due ruote.

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3. Terza tappa: Achille Campanile - Battista al Giro d’Italia. Intermezzo giornalistico. (1932)

3.1 Una presa in Giro (d’Italia): l’umorismo come chiave di lettura della raccolta

Ore 16 – Genova. Chiamo Battista per farmi dire l’ordine degli arrivi e se i ciclisti sono giunti in gruppo od isolati. “Battista” gli chiedo “come sono arrivati i corridori in pista?” E lui, vecchio e fedele come sempre: “In bicicletta” (Campanile; 152).

Apriamo la parte pratica di questa tesi con il Racconto di bicicletta più comico, più macchiettistico e talvolta più paradossale. In effetti il piccolo brano riportato qui sopra mette in risalto la principale caratteristica della raccolta Battista al Giro d’Italia scritta da Achille Campanile: l’umorismo. Nel 1932 Campanile, pseudonimo di Gino Cornabò, segue la ventesima edizione della Corsa Rosa per conto del quotidiano torinese La Gazzetta del Popolo. Nato a Roma nel 1900, Campanile inizia la sua carriera da giornalista all’età di 18 anni. In primo luogo si impegna come correttore di bozze, ma collabora quasi subito in quanto redattore con altri quotidiani, occupandosi dei temi più diversi che vanno dalla cronaca mondana a quella nera. Effettua persino servizi di viaggi. Come afferma Pessini, da questo elenco di collaborazioni e di impegni emergono la versatilità creativa di Campanile, ossia la sua capacità di affrontare argomenti assai svariati, a seconda dell’esigenza del momento (Pessini, 2015: 48). Sulla stessa linea Franchi ritiene che Campanile faccia tesoro dell’apprendistato giornalistico come “fonte inesauribile di stilemi, moduli retorici e stereotipi da travasare nella sua produzione creativa”. Il giornalismo costituisce quindi una straordinaria “occasione di collaudo per le prime impertinenze semantiche e stilistiche” (Franchi, 1988: 219). Durante tutta la carriera di Campanile l’attività giornalistica viene affiancata da una vivissima produzione letteraria e teatrale. A tal proposito occorre segnalare che Campanile sceglie Intermezzo Giornalistico come sottotitolo della raccolta analizzata. Inoltre nella prefazione dell’opera, costituita da una finta lettera a Ermanno Amicucci, vale a dire il direttore del quotidiano per il quale l’autore romano segue il Giro d’Italia, Campanile esprime lo stupore con cui ha ricevuto la notizia di dover raccogliere i suoi articoli sulla Corsa Rosa per farne un'unica raccolta. Afferma che “questo è un libro che non è un libro e non vuole entrare nel quadro della mia opera. È soltanto

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un servizio giornalistico” (Campanile, 2010: 11). Tuttavia questa dichiarazione va immediatamente ridimensionata. Come nota Pessini, queste considerazioni, innegabilmente frutto del tipico umorismo campaniliano, servono in primo luogo a difendere preventivamente la raccolta da possibili critiche stilistiche o contenutistiche (Pessini, 2015: 50). Per di più conviene sottolineare che perfino l’analisi superficiale delle tecniche narrative di intento comico utilizzate in Battista al Giro d’Italia, vale a dire la frequenza di qui pro quo, capovolgimenti, scambi di persona e fraintendimenti, dimostra come Campanile abbia sfruttato gli stessi procedimenti presenti nella sua produzione narrativa precedente e successiva (Pessini, 2015: 51, 64). È chiaro che anche nella raccolta sul Giro d’Italia, la vis comica, la cifra caratterizzante in tutta la sua produzione, si pone al centro dei racconti giornalistici. Perciò, tenendo in mente che “Campanile giudica ininfluente stabilire a tavolino a quale categoria letteraria debba appartenere ciò che scrive” (Pessini, 2015: 64), risulta forse vano voler pedissequamente stabilire rigide distinzioni di genere, e accettiamo quindi la raccolta, ripetendo la battuta dell’autore, come un “mero” “servizio giornalistico”. In effetti, come sostiene Brambilla, Campanile è un “autore fecondissimo, ma comunque difficilmente catalogabile nelle troppo rigide storie letterarie” (Brambilla, 2007: 52). La chiave interpretativa che si offre più chiaramente è, come detto, quella dell’umorismo. È significativo che già nel 1938, Bergin, dopo aver precisato in generale che “critics of modern have consistently overlooked one group, [namely] the large and versatile school of humorists” ribadisce che “the mad, apparently pointless, antics” di Campanile sono ancora più difficili da classificare (Bergin,1938: 179). L’umorismo è dunque una componente imprescindibile nell’opera di Campanile tanto che ha sostenuto che l’autore romano non è un grande scrittore nonostante il suo umorismo ma lo è proprio in quanto umorista (Eco, 1975: 5-13). Questa prospettiva tuttavia rischia di fornire un quadro troppo ridotto e soprattutto monocorde di Campanile. Vedremo tra poco che l’umorismo serve infatti come strumento prodigioso per effettuare un’analisi della realtà socio- culturale circostante e con cui Campanile riesce ad attirare l’attenzione proprio sull’esaltazione esagerata (secondo l’autore) dei ciclisti come eroi su due ruote.

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Il brano con cui Campanile inizia il proprio racconto del Giro è il seguente:

Ore 6,30 – Quando il mio vecchio servitore Battista è venuto a picchiare alla porta della mia camera all’albergo di Milano e a dirmi: “Signore, la bicicletta è pronta”, sono saltato dal letto. […] Gli altri giornalisti dormono ancora. Vergogna! Essi seguiranno in automobile il Giro. Dovrebbero prendere esempio da me (Campanile, 2010: 17).

Sin dall’inizio, proiettando il suo lettore in medias res e creando un io narrante che dichiara di partecipare in prima persona alla gara ciclistica, Campanile ci pone di fronte a un’interpretazione abbastanza personale dell’evento sportivo. Come segnala Brambilla, quest’impostazione insolita fa sì che la raccolta in questione si distacchi notevolmente dagli scritti che trattano il medesimo argomento (Brambilla, 2007: 52). In effetti, sembra che Campanile si disinteressi alla realtà della cronaca della corsa e in particolare all’aspetto agonistico dello sport. Non a caso l’autore intitola uno dei suoi articoli “Mi stavo dimenticando della tappa” (Campanile, 2010: 109). Il vero resoconto dello svolgimento del secondo giorno della Corsa Rosa consiste ad esempio soltanto nella dichiarazione seguente:

Buse è arrivato primo a Udine, con un vantaggio di dodici minuti sugli altri. Non è molto ma qui pare che diano un’importanza straordinaria anche ai minuti. Che gente. […] Vo a trasmettere l’ordine degli arrivi al traguardo. Per non far torto a nessuno, darò gli arrivi per ordine alfabetico (Campanile, 2010: 23).

È chiaro che da un punto di vista informativo e agonistico non ha nessun senso elencare i ciclisti arrivati al traguardo sulla base della prima lettera del loro nome. Allontanandosi in questo modo dalla stretta attualità e liberandosi inoltre dell’assillo cronachistico Campanile riesce, come indica Brambilla, ad abbandonarsi alle divagazioni più curiose, “condite da giochi di parole e dalle solite battute folgoranti” (Brambilla, 1999: 100). Va segnalato che soltanto in apparenza viene mantenuta la tradizionale ripartizione cronologica con la puntuale scansione (letteralmente minuto per minuto) dei momenti basilari della gara. Di conseguenza la rappresentazione che l’autore ci fornisce della Corsa Rosa si rivela essere una continua girandola di trovate, aneddoti e

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bozzetti (Brambilla, 2007:60). Sono questi aspetti nettamente comici che portano Pessini ad affermare che per Campanile la gara a tappe diviene un semplice giocattolo da “smontare e rimodellare secondo il suo proprio libero arbitrio”. Attraverso la deformazione, ossia la destrutturazione della realtà, egli riesce a far emergere le particolarità umoristiche e discutibili del Giro e dei suoi protagonisti (Pessini, 2015:48). Secondo Pessini Campanile non intende realizzare un servizio sportivo in senso proprio. La Corsa Rosa descritta dall’autore romano è invece una gara immaginaria, mai esistita e dunque mai affrontata. Con Brambilla va notato che a differenza della cronaca, gli scritti campaniliani si innalzano grazie al loro stile personalissimo e alla loro irrefrenabile vena comico-surreale, a un valore letterario diverso. Questa atemporalità e potenza peculiare della comicità presente nella raccolta Battista al Giro d’Italia vengono sottolineate anche da Cifferi, il quale nella premessa dell’opera in questione ritiene che “nonostante i molti anni passati, le “cronache” di Campanile per la loro capacità di divertire, di prender(si) in giro e di confondere il lettore, si rivelano proprio uniche” (Ciferri, 2010: 5). Tuttavia non possiamo lasciarci ingannare troppo facilmente dal carattere umoristico della raccolta, poiché come sostiene Bergin; l’impulso umoristico è in essenza lirico e implica una valutazione soggettiva del mondo (Bergin, 1938: 179). Come vedremo nei prossimi capitoli Campanile, nel prendersi gioco della Corsa, dei ciclisti e dei lettori-tifosi rivela una critica della società a lui contemporanea.

3.2 Un Don Chisciotte su due ruote: il fedele servitore Battista

Abbiamo appena notato che, nella sua raccolta, Campanile si serve delle sue consuete tecniche narrative. Una di queste peculiarità consiste nel fatto che l’autore, come nota Franchi, sceglie per i suoi racconti di solito un io narrante auto-diegetico. L’esordio di Battista al Giro d’Italia mette in risalto anche un’altra caratteristica della scrittura di Campanile, vale a dire il dialogismo. Infatti, durante il lungo percorso attraverso l’Italia l’io narrante viene assistito dal “fido, vecchio servitore” Battista, con cui dialoga lungo tutta l’avventura. Insieme a Battista, il quale di tappa in tappa acquista una fisionomia più definita (Ciferri, 2010: 5), l’io narrante riesce a modellare e soprattutto a “colorare” i racconti ciclistici, richiamando in un

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certo modo il duo letterario più emblematico di sempre, vale a dire el ingenioso hidalgo don Chisciotte e il suo compagno di viaggio Sancho Panza. Come nel capolavoro di Cervantes è l’interazione tra i due personaggi e particolarmente le conversazioni e le battute tra di loro che costituiscono il fulcro della narrazione. Contrariamente alla famosissima coppia comica della letteratura spagnola, l’io narrante e il suo servitore Battista, attraversano il Belpaese ovviamente non a cavallo, ma su due ruote inseguendo il plotone di corridori. Tuttavia, analogamente a quanto accade nel Don Chisciotte, la dualità del protagonismo consente una doppia visione sugli eventi. In effetti, come osserva Brambilla, Campanile cerca di leggere e di capovolgere la corsa dal suo interno, assegnando all’io narrante il ruolo di osservatore e a Battista quello di “guastatore” che mira al “rovesciamento delle regole della corsa” (Brambilla, 1998: 100). Di conseguenza, così come don Chisciotte della Mancia non potrebbe esistere senza il suo servitore Sancho Panza (e viceversa), nella raccolta ciclistica in questione l’appoggio del partner Battista risulta indispensabile. Citando Pessini, possiamo dire che Battista traduce in atti “le intuizioni dell’autore [cioè Campanile] destinate a rimanere lettera morta se fossero state estrinsecate solo da un punto di vista esterno” (Pessini, 2015:50). Alla coppia di commentatori, vale a dire l’io narrante e il suo compagno Battista, vengono conferiti quindi diversi valori, funzioni e compiti e, come ipotizza Ciferri, vengono caratterizzati da un diverso tipo di umorismo. L’io narrante si distingue essenzialmente per una comicità più colta, fatta di battute argute che si costruiscono sia sui nonsense che sulla cultura classica (Ciferri, 2010: 6). I due brani riportati qui sotto sono un esempio del primo tipo, e mettono in evidenza il tono assurdo di alcune osservazioni dell’io narrante:

Ho trovato un chiodo. Mi porterà fortuna. L’ho trovato in un sito stranissimo: nella gomma anteriore della mia bicicletta (Campanile, 2010: 39).

Domando ai paesani assiepati se per caso hanno visto passare qualcuno in bicicletta. Pare che ne abbiano visti passare parecchi. - “C’è qualcuno in testa?” domando. - “C’è Di Paco.” - “Bene. Se c’è lui è inutile che vada io” (Campanile, 2010: 59).

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Accanto alla leggerezza di questo tipo di commenti si ha la cultura letteraria. Per esempio: il corridore belga Demuysere, soprannominato dai giornali “lo Studioso” a causa del suo modo ragionato e ponderato di gareggiare, diventa uno dei principali oggetti di scherno e allo scopo di descrivere le azioni del belga “che pedala con alcuni libri sotto il sellino (Campanile, 2010: 162), l’io narrante si riferisce ironicamente ad alcuni capolavori dell’antichità. Allude ad esempio al modo in cui Demuysere legge il De Bello Gallico di Giulio Cesare per poter “scatenare la battaglia” (Campanile, 2010: 175) e l’Anabasi di Senofonte al fine di superare le salite più velocemente (Campanile, 2010: 176) o le Memorie di Napoleone che gli servono per “piombare di sorpresa” su Milano (Campanile, 2010: 170), città di arrivo del Giro di quell’anno.

La comicità del servitore Battista, al contrario, è più macchiettistica. Ciferri la definisce lo strumento di una ironia e una curiosità “un po’ provinciale e caciarona” (Ciferri, 2010: 6). In effetti a Battista sembra essere attribuito un umorismo più involontario, vale a dire meno costruito o cercato. Nel momento in cui le salite diventano troppo dure, egli dichiara ad esempio che ha rotto la bici e che desidera cambiarla con una motocicletta (Campanile, 2010: 179). Inoltre, critica a modo suo il percorso che i corridori devono seguire, ridicolizzando così una delle principali caratteristiche del ciclismo professionista:

Battista protesta. Per andare da Teramo a Lanciano c’è una strada diretta comoda e breve, e invece gli organizzatori della corsa obbligano i ciclisti a fare un giro di cento chilometri più lungo. Ma non conoscono le strade, questi signori? (Campanile, 2010: 70)

Il suo sguardo comico si concentra ugualmente sulle azioni, sulle sfortune e soprattutto sui fallimenti dei grandi campioni, ribadendo la loro natura inevitabilmente umana e oscurando in questo modo l’aura eroica che li circonda. A proposito di una caduta di Learco Guerra, campione del mondo di quell’anno e soprannominato “la Locomotiva Umana” per la sua capacità di pedalare ad alta velocità per lunghi periodi di tempo, Battista osserva acutamente:

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Ore 10 – La Locomotiva Umana cade. [..] Battista è scandalizzato per la caduta della locomotiva. “Un ciclista così bravo,” esclama “cadere! Che campione del mondo è se non sa nemmeno tenersi in equilibrio sulla bicicletta?” (Campanile, 2010: 71)

Infine va segnalato che di giorno in giorno Battista cerca di vincere la tappa infrangendo le regole della corsa e lasciandosi tirare da motociclette, da automobili, da furgoni (Campanile, 2010: 53-59) e persino da asini (Campanile, 2010: 73). Con la speranza di suscitare compassione negli altri ciclisti e nell’intento di assicurarsi in questo modo il posto di testa, si spaccia (senza risultato) per un nativo dei luoghi di arrivo, adoperando l’accento e i costumi regionali. Durante tutto il Giro, tenta di persuadere gli altri ciclisti a ritirarsi allo scopo di essere l’unico a raggiungere il traguardo finale. Nondimeno il servitore Battista conosce un favoloso momento di gloria quando indossa l’agognata maglia rosa dopo aver vinto simbolicamente una corsa surreale all’unico bagno disponibile della città di riposo (Campanile, 2010: 62-67).

Come già sottolineato, l’io narrante e il suo compagno di viaggio, Battista, costituiscono un duo inseparabile, a dispetto delle differenze nelle loro funzioni, responsabilità e comicità. Come moderni Don Chisciotte e Sancho Panza, la strana coppia narra comicamente lo svolgimento della gara giorno dopo giorno, minuto per minuto e, come sostiene lo stesso Pessini, attraverso la coppia, Campanile riesce a spingere il lettore a immedesimarsi e a fare il tifo per questi due personaggi (Pessini, 2015: 57). In effetti lo scrittore mira così a contrapporli paradossalmente ai grandi campioni ciclistici che dagli altri giornalisti vengono rappresentati come mirabili esempi di bravura e forza fisica. Nel capitolo seguente analizzeremo in dettaglio come Campanile, appoggiandosi sul duo eccentrico e sulla loro squadra immaginaria, cerca di prendere di mira, di criticare e di parodiare la smisurata esaltazione degli eventi sportivi e degli atleti che vi prendono parte.

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3.3 I Sempre in Coda: una smitizzazione

Clerici osserva argutamente che la raccolta di Campanile rappresenta in modo unico la tensione tra “i paladini di un ciclismo tradizionale e amatoriale”, vale a dire quello incarnato dall’io narrante e Battista, e uno sport professionistico di “moderni eroi delle due ruote, ossia superuomini proiettati di record in record verso il futuro (Clerici, 2008: 232). Forse questo conflitto costituisce la caratteristica più interessante e accattivante dell’opera, di certo per quanto riguarda il tema di questa tesi. Campanile in tutta la sua “parabola letteraria non cessa mai di prendere di mira gli aspetti esaltati o addirittura mitizzati dalla società” (Pessini, 2015: 54), di conseguenza è comprensibile che nei suoi racconti ciclistici, la prestanza, ovvero l’eccellenza fisica e il culto della forza rappresentino i principali e naturali bersagli. Accostando alle prestazioni dei veri corridori quelle del servitore Battista, un uomo vecchio con i lunghi favoriti bianchi, Campanile ironizza sin dalla prima tappa su come viene valutato il concetto di età in ambito sportivo:

Battista è indignato […] ha sentito dire che alla corsa partecipano dei “vecchi’ e cioè, Girardengo, Belloni e Gerbi. I primi due hanno una quarantina d’anni soltanto. […] Anche Binda, che ha poco più di trent’anni, è vecchio. […] “Ma dove siamo?” esclama. […] Con questi criteri, la maturità finisce a vent’anni e i campioni passano la giovinezza in fasce (Campanile, 2010: 17).

Campanile critica quindi il modo con il quale il mondo sportivo consuma troppo presto i propri atleti. Dopo che hanno compiuto una certa età, gli campioni acclamati il giorno prima vengono gettati troppo facilmente nel dimenticatoio perché ritenuti non più idonei a garantire prestazioni di alto livello. Come sottolinea Pessini, l’attualità di questa critica dimostra come Campanile con le sue intuizioni, si rivela essere spesso una specie di “profeta ante litteram” (Pessini, 2015:55).

Come strumento di esaltazione dei campioni ciclistici (come ribadito nei primi capitoli di questa tesina) e di conseguenza anche del loro accelerato declino, il mondo giornalistico rappresenta un altro importante bersaglio polemico di Campanile. Già nella prima pagina l’io narrante prende di

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mira gli altri cronisti che vengono giudicati troppo pigri per seguire in bicicletta la carovana del Giro:

Gli altri giornalisti dormono ancora. Vergogna! Essi seguiranno in automobile il Giro. Dovrebbero prendere esempio da me. Invece, vogliono viaggiare con tutti i comodi (Campanile, 2010: 15).

Anche lo sguardo critico-comico di Battista si concentra sul mondo giornalistico. Durante la XI tappa egli viene impiegato “a far colore”, vale a dire a fare dei commenti giornalistici alla corsa. Allo scopo di fare concorrenza agli altri cronisti sviluppa comunque un suo proprio metodo, ossia non inventa i fatti (sarebbe troppo grossolano), ma apporta semplicemente delle modifiche ai fatti realmente accaduti, sopprimendo, come dichiara egli stesso, “qualche parola del resoconto” (Campanile, 2010: 145). In questo modo ironizza sull’esagerato sensazionalismo di certi giornalisti che “febbrilmente annotano” ogni minuziosità e “si protendono trepidanti, per tema che altri possa fare un servizio più completo del loro” (Campanile, 2010: 31). Troviamo ad esempio:

Ora sopprime le parole “un foruncolo a” e verga la notizia: “La freccia biancoceleste, con stoica fermezza, s’è fatto tagliare una gamba ed ora salta in bicicletta.” “La notizia” mormora soddisfatto “fa molto più effetto e nessun giornale ce l’ha” (Campanile, 2010: 146).

Gli articoli di Campanile sono divertentissimi proprio perché l’autore dimostra di conoscere bene “le regole e le tecniche giornalistiche sino ad allora adottate in ambito sportivo” ma questi strumenti “si diverte a incrinarli, se non a rovesciarli o rivoltarli” (Brambilla, 2007: 56) e così facendo offre un “prontuario di quel che non si deve fare, non si deve scrivere, se non si vuole cadere nel ridicolo” (Brambilla, 2007: 74).

Il procedimento con il quale Campanile riesce a mettere ancora di più in discussione le riletture eroiche proposte dalla cronaca è la creazione della squadra de “i Sempre in coda”. Questa compagnia (finta) è composta unicamente dai cosiddetti corridori isolati, ossia ciclisti che corrono individualmente senza appartenere a una squadra e senza essere finanziati da nessuno. Come suggerisce il loro nome questi corridori occupano generalmente le ultime posizioni nella classifica.

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Di conseguenza la loro battaglia non è solo di natura agonistica, ma anche in un certo modo di natura economica poiché corrono proprio per le quindici lire di stipendio che ricevono dal Comitato. L’io narrante si mette comicamente a capo di questa squadra e a partire dalla quinta tappa ci trasmette ogni giorno la loro classifica. Va detto che non è una classifica tradizionale, ma capovolta, in cui il primo posto viene occupato dal corridore che nella classifica normale detiene l’ultima posizione. In questo modo l’io narrante riesce a dare vita a una vera e propria gara all’interno del Giro ufficiale. Propone le proprie regole e crea i propri segni distintivi, pensiamo ad esempio alla maglia screziata con il quale viene premiato il primo corridore della classifica alternativa (cioè l’ultimo della competizione ufficiale) (Campanile, 2010: 110). Svolgendo il ruolo di direttore sportivo della sua équipe, l’io narrante dà direttive ai suoi “tigrotti”, laddove “tigrotti” costituisce un nomignolo preso dai romanzi d’avventura di Emilio Salgari con il quale si prova a sottolineare (comicamente) la prontezza e l’audacia dei Sempre in Coda.

A poco a poco l’attenzione si sposta completamente sulla squadra dei corridori isolati. Pessini ci vede di nuovo un meccanismo narrativo tipicamente campaniliano, vale a dire “il costante rovesciamento di situazioni e avvenimenti, teso a scardinare le certezze del lettore e a presentargli una prospettiva altra, che non corrisponde a logiche di senso uniformemente accettate” (Pessini, 2015: 64). In effetti, Campanile si concentra quasi interamente sugli atleti che normalmente non saranno mai celebrati sulle prime pagine dei giornali. Il loro intento, come sostiene lo stesso Pesssini, non è davvero di vincere o di ottenere una posizione migliore, poiché nella realtà di Campanile si può anche gareggiare avendo come unico obiettivo quello di arrivare in fondo a tutti gli altri (Pessini, 2015: 59).

In questo modo, come afferma Barsella, l’autore compie un processo di demitizzazione e biasima il carattere epico dell’eroismo e del ciclismo. Sottolineando gli aspetti “tanto crudi da divenire paradossali”, Campanile introduce la figura che poi entrerà nella storia e nella poesia come maglia nera (Barsella, 1999: 74). Anche Gregori ritiene che attraverso le “strepitose gesta dei Sempre in Coda” Campanile cerca di umanizzare e demitizzare la figura del campionissimo (Gregori, 2015: 8) e si capisce che a parere di Campanile i veri eroi sono gli ultimi, ossia i ciclisti che senza alcuna

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prospettiva della vittoria e “solo per orgoglio personale vogliono portare a termine la fatica di percorrere l’Italia su due ruote” (Pessini, 2015: 57).

Ciò che colpisce maggiormente lo scrittore romano è l’uso di soprannomi, di cui è ricca la cronaca. Campanile non solo ironizza sui nomignoli già esistenti di certi assi del ciclismo, come si evince dall’esempio seguente:

“Viva Guerra la vera locomotiva del mondo”. E dire chi io ho visto spesso delle locomotive nelle stazioni e ho sempre creduto che fossero delle vere locomotive. Invece, a questo mondo, c’è sempre qualcosa da imparare: la vera locomotiva è Guerra e nessun altro che Guerra (Campanile, 2010: 113).

Ma la parodia, o forse meglio la critica, si esercita ugualmente attraverso i soprannomi assegnati ai Sempre in Coda: Improta: il Leopardo di San Giovanni a Teduccio; Liguori: il Giaguaro di Barra; Perna il Puma di Cercola. Come osserva Pessini, la comicità e l’efficacia di questi nomignoli risiedono nel fatto che i Sempre in Coda vengono paragonati ad animali le cui principali caratteristiche sono la forza e l’agilità, ossia qualità contrarie a quelle degli atleti in questione. Inoltre, accanto al loro nome, viene segnalata la località di nascita, talmente sconosciuta da esigere tra parentesi la denominazione del capoluogo di provincia (Napoli, in tutti gli esempi riportati) (Pessini, 2015: 61).

Sono questi procedimenti che mettono in risalto la dimensione umana dei corridori. Pessini osserva giustamente che Campanile, sin dall’inizio, preferisce anteporre alla descrizione di prepotenti fughe sulle montagne e vittorie ottenute dopo centinaia di chilometri di corsa solitaria ai limiti dell’umana resistenza, gli aspetti del vivere comuni a tutti gli uomini. Abbandonando il carattere agonistico della competizione, l’aura di sacralità che, secondo Campanile, circonda troppo spesso i grandi campioni viene smitizzata per avvicinare gli atleti alla gente comune e ai tifosi (Pessini, 2015: 55-56). La scena di apertura e l’epilogo della raccolta sono a tal proposito esemplari. In effetti la prima cosa che l’io narrante descrive è il cosiddetto Pasto delle belve: con stupore Campanile esamina i corridori che, riuniti alle sette del mattino in una trattoria locale,

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sono intenti a mangiare “grossissime bistecche e cotolette di proporzioni impressionanti” (Campanile, 2010: 16). Per bocca dell’io narrante, Campanile, neofita nel mondo del ciclismo, dichiara in seguito che “non ha mai visto campioni tanto valenti nel distrugger derrate” (Campanile, 2010: 19). Si mette quindi l’accento sull’umanità degli atleti. Va chiarito che prima di essere giudicati in quanto sportivi o eroi, i ciclisti vengono valutati da Campanile in quanto uomini. Questo è ancora più evidente nell’epilogo dell’opera che Campanile dedica integralmente ai membri della “sua” squadra, vale a dire i veri eroi del Giro e, come osserva Pessini, il tono intriso di profonda malinconia che per una volta prende il posto della comicità, mette in risalto come Campanile si sente spiritualmente vicino a tutti questi corridori (Pessini, 2015: 69):

In un mese circa di vita comune, abbiamo riso insieme sull’ingrato destino che ci volle sempre in coda nella classifica generale. Ma ora debbo dirvi che i veri vincitori del Giro non sono gli assi, che hanno guadagnato quattrini e onori, che erano scortati dai furgoni delle loro Case, con biciclette di ricambio e rifornimenti, e che potevano contare sulla sicura organizzazione predisposta da allenatori e impresari. Voi, invece, modesti isolati, avete compiuto l’enorme fatica con le sole quindici lire al giorno del Comitato, senza un appoggio, senza una menzione nei resoconti tecnici, senza soddisfazioni morali, senza un applauso ai traguardi; e, magari, ricevendo qualche volta delle uova sulla testa. Ma siete sempre arrivati. E io, che vi ho visto arrancare eroicamente sulla scarpata di Verrucchio, sulle montagne d’Abruzzo, sulla salita di Radicofani, sorretti nella massacrante fatica soltanto dalla passione senza speranza, vi dico che i veri vincitori, i veri eroi del Giro siete voi (Campanile, 2010: 189).

3.4 I veri eroi del Giro: una critica socio-culturale?

Richiamando Bergin che ritiene che “it is certainly no paradox to speak of serious attention to the work of a humorist” (Bergin, 1938: 179) e analizzando il modo in cui Campanile prende a bersaglio la cronaca ciclistica e la sua esaltazione dell’eroismo, si può considerare Battista al Giro d’Italia come una critica socio-culturale. Tuttavia, secondo Pessini, sarebbe allo stesso tempo errato voler valutare e esaminare l’opera in chiave politica o ideologica. Ciò risulterebbe in un grave

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fraintendimento e va di conseguenza evitato (Pessini, 2015: 53). La principale obiezione risiede nel fatto che non si deve sovrastimare il ruolo del fascismo nell’organizzazione pratica del Giro d’Italia e del ciclismo in generale. È chiaro che durante il Ventennio l’interazione tra il dominio dello sport da una parte e il sistema politico dall’altra è strettissima e come affermano Foot e Pessini la politica fascista è consapevole dell’importanza di conquistare il cuore e la mente di milioni di appassionati sportivi, poiché lo sport funge da perfetto amplificatore per gli ideali del regime e per esaltare la prestanza fisica e la superiorità del popolo italiano (Foot, 2011: 78; Pessini, 2015: 53). Anche se, come sostiene Marchesini, questo fenomeno rientra nei più generali processi di trasformazione del mondo occidentale novecentesco nel senso della società di massa, va tenuto conto che, per l’enorme importanza attribuita dal regime sia allo sport come strumento di governo, sia ai temi della mitologia nazionalistica, è inevitabile che il Giro d’Italia incroci la propria storia con quella del fascismo. Il mondo sportivo e il ciclismo nello specifico approfittano indubbiamente di quest’interazione con il dominio politico per crescere sia quantitativamente che qualitativamente (Marchesini, 2009: 98). Tuttavia, va notato che l’interesse personale del Duce per il ciclismo è limitato. È interessante sottolineare, ad esempio, che in più di diciotto giri sotto il suo reggimento, Mussolini non ha mai dato il via a una tappa e non si è mai presentato al giorno finale a Milano. Foot sostiene che il fascismo promuove il ciclismo malgrado Mussolini, non grazie a lui (Foot, 2011: 78). Perciò lo sport a due ruote gode di un’autonomia maggiore sotto il regime di quella che si è solitamente portati a credere (Pessini, 2015: 53). Dato l’interesse minore del regime fascista nei confronti del ciclismo è forse eccessivo cercare una valutazione di tipo politico-ideologico nell’opera di Campanile anche se è chiaro che l’autore, con il suo tipico umorismo, mette in discussione le tendenze mitizzanti della società in cui vive. Campanile oppone alla figura del campione-eroe, elogiato ampiamente dalla cronaca, la sorte miserabile dei Sempre in Coda.

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4. Quarta tappa: Vasco Pratolini - Cronache dal Giro d’Italia (maggio- giugno 1947) 4.1 Uno spettatore appassionato e attento nel gran Barnum

Nel 1947 Vasco Pratolini, segue la Corsa Rosa per conto del quotidiano comunista fiorentino Il Nuovo Corriere. Rispetto ai Racconti di Bicicletta analizzati nel capitolo precedente, i suoi articoli rimangano più legati al reale andamento della corsa. Ciò però non impedisce a Pratolini di approfondire altre tematiche non strettamente connesse alla gara. Come nel caso di Campanile, il trentesimo Giro d’Italia costituisce per lo scrittore fiorentino, la prima esperienza nell’ambito del mondo giornalistico sportivo. Pessini afferma che in quell’epoca lo scrittore fiorentino era già noto e affermato come cantore della vita dei poveri, “del popolo minuto” (Pessini, 2015: 71). Quest’aspetto e questo interesse per tematiche di carattere sociale si manifesta, come vedremo, anche nelle sue Cronache dal Giro d’Italia.

Pratolini è un grande appassionato e conoscitore del ciclismo ancor prima di esser inviato al Giro. A tal proposito è significativo che nel suo primo articolo egli dichiari, dopo un incontro con l’ex- ciclista belga e vincitore di due Giri di Francia Sylver Maes:

Ma che gioia è stata per me dar la mano al vecchio Sylver Maes! […] Molto più grande di quella che provai il giorno che ebbi in mano il mio primo libro (Pratolini, 2008: 17).

Pessini sostiene che questa carica umana, già presente nei primissimi articoli, permette a Pratolini di stabilire una forte empatia con i suoi lettori (Pessini, 2015: 75) e questo si evince ancora più chiaramente nell’ultimo articolo che porta il titolo Le care ombre. Qui Pratolini esprime il piacere di aver potuto conoscere e aver interagito per tre settimane direttamente sia con i campioni- corridori che con i suoi idoli del passato (chiamati Le care ombre) che ormai, come lui, seguono la Corsa Rosa in macchina:

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Un adolescente tutto può inventarsi e desiderare: di diventare Sandokan e Montecristo […] di visitare il polo nord, […] di possedere l’universo. […] Io ero un ragazzo povero, povero forse anche di fantasia: sognavo di possedere un orologio e di seguire il Giro. Vi dico queste cose perché penso che molti di voi mi capiranno. […] Passano venti anni e su mille ragazzi che avevano lo stesso desiderio, uno c’è che lo vede realizzarsi. Questa volta il fortunato sono stato io (Pratolini, 2008: 87).

Analizzando questo brano Brambilla osserva giustamente che Pratolini si rivolge (e dedica il suo lavoro in generale) indubbiamente ai suoi lettori. Tuttavia il suo pubblico non è costituito da persone lontane o distanti, ma piuttosto da “amici del bar sotto casa coi quali si discute animatamente di calcio e di ciclismo” (Brambilla, 2007: 88). Sulla stessa linea Fofi, che definisce Pratolini, nell’introduzione della raccolta esaminata, “uno sportivo da caffè” (Fofi, 2008: 6). Seguire il giro “come uno di voi che mi leggete, come uno di voi, patito di sport dalle scarpe al cappello” (Pratolini, 2008: 16), mette in risalto come Pratolini concepisca il suo resoconto come una sorta di servizio reso al pubblico (Brambilla, 2007: 91), col sentimento di voler guidare i suoi amici-lettori a “un’interpretazione della corsa per molti versi passionale, ma comunque non ingenua anche a costo di sfatare l’aura leggendaria (o meglio epica) del Giro” (Brambilla, 2007: 91). Pratolini svolge questo compito idealmente per gli “amici del Bar San Pietro a Firenze” (Pratolini, 2008:57), ossia in generale per tutti gli appassionati del ciclismo.

Parlando del suo ruolo di spettatore appassionato e attento della realtà circostante, vanno presi in considerazione due aspetti. In primo luogo il giornale per il quale Pratolini si prende cura delle “spalle di colore”, ovvero Il Nuovo Corriere, che rappresenta in quegli anni “una delle voci più originali e intelligenti, aperta a un dialogo di alto livello culturale e civile” (Pessini, 2008: 77). Secondariamente si deve prendere atto del contesto storico nel quale le cronache si inseriscono. Marchesini ritiene che i Giri che si svolgono dopo la conclusione della guerra simboleggiano al meglio e globalmente “la ricucitura degli strappi e delle ferite inferte al Paese” (Marchesini, 2009: 13). La gente ai bordi della strada sente di poter recuperare la normalità della vita, interrotta durante il conflitto, poiché, come dice Piccione a proposito della Corsa Rosa del 1947, “Su strade

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in attesa di ricostruzione, l’Italia pedala e il Giro è la canzone popolare che l’accompagna (Piccione, 2017: 73). Pratolini rileva questo desiderio di ripresa e di concordia e lo presenta ai suoi lettori-amici attraverso la messa a fuoco di episodi tratti dalla quotidianità della corsa. Non a caso egli afferma all’inizio della sua avventura “scoprirò l’Italia seguendo i Gino, i Fausto, i Vito!” (Pratolini, 2008: 22) ossia in senso corale per usare la corsa come “specchio o laboratorio sociologico e culturale” (Foot, 2011: 345).

A partire dal terzo giorno, Pratolini ci fornisce la chiave di interpretazione che reggerà le descrizioni e l’analisi del resto dei suoi testi. L’autore compara la Corsa Rosa a “un baraccone che passa e va” o a un gran Circo. Si riferisce nello specifico al Circo Barnum, ossia un misto di circo equestre e baraccone da fiera creato dall’impresario Phineas Taylor Barnum e definito all’epoca il “più grande museo del mondo” (Pessini, 2015: 76):

Intanto il gran Barnum che è il Giro d’Italia, dà rappresentazioni di gala una di seguito all’altra. I giornalisti sono gli imbonitori. Fanno le capriole ai margini dello spettacolo: una gara automobilistica torno l’arena, mentre vecchi elefanti, gazzelle zoppe e leoni reali, in bicicletta, si esibiscono. […] È il circo di Buffalo Bill (Pratolini, 2008: 22).

Nel corso della narrazione questa chiave circense ritornerà parecchie volte creando un discorso continuo. L’articolo del giorno successivo, ad esempio, costituisce una specie di dizionarietto o vademecum per la metafora scelta, assegnando ai principali corridori un ruolo nel gran Circo:

Bartali-Buffalo Bill, Reno Zanazzi, il ragazzo prodigio che fa le piroette sul cavallo sfrenato, […] Coppi il lanciatore di coltelli (Pratolini, 2008: 22).

Pratolini riesce in questo modo a guidare i suoi amici-lettori nei mari profondi del Giro, con termini e immagini semplici e comprensibili a tutti e senza pericolo che essi si allontanino o si perdano (Brambilla, 2007: 102-103).

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4.2 Smitizzazione e delusione: una noia fastidiosa

La metafora del circo evidenzia la volontà di Pratolini di non profilarsi come semplice cassa di risonanza delle tensioni epiche della gara, come fanno gli altri giornalisti sportivi, al contrario, secondo Brambilla, Pratolini cerca di avviare un processo conoscitivo e persino pedagogico (Brambilla, 2007: 92). L’autore fiorentino dichiara di voler mostrare una verità al proprio pubblico perché “aprirgli gli occhi significa una buona azione, la nostra passione ne uscirà più accesa, poiché sapremo a chi attribuire la responsabilità delle nostre delusioni” (Pratolini, 2008: 57). Il senso di delusione cui allude viene originato, come sostiene Pesssini, dal fatto che seguendo il Giro da vicino, Pratolini scopre “l’effettiva realtà di un mondo che credeva onesto, ma che soggiace spesso a macchinazioni e compromessi” (Pessini, 2015: 79).

Pratolini si rende conto che la corsa non ha a che vedere solo con gli atleti, ma, come sostiene anche Foot, comporta un insieme di elementi economici legati allo spettacolo (Foot, 2011: 341). La metafora del circo serve allora a Pratolini per spiegare il rapporto tra sport e sponsorizzazione. Fofi osserva che benché Pratolini sia favorevole all’investimento di denaro nel ciclismo (“i quattrini spesi per lo sport Dio li benedica” (Pratolini, 2008:31)), nel corso degli articoli subentra un po’ di delusione e il suo tono diventa allora più serio:

Il Giro, ve l’ho detto per scherzo, ora ve lo ripeto seriamente, è un gran circo equestre con i suoi numeri di attrazione. […] È un’azienda che ha un borderò e degli interessi (Pratolini, 2008: 57).

Pratolini non attribuisce colpe ai corridori, che dovrebbero essere i protagonisti dell’evento, ma in realtà si rivelano essere soltanto una piccola parte del tutto:

L’industria è il mecenate del ciclismo. Si deve in gran parte ai denari delle case se lo sport della bicicletta esiste e resiste. Ma è negli interessi delle case il gioco di squadra, e il giuoco di squadra è la palla al piede della libertà sportiva (Pratolini, 2008: 58).

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In effetti sono i motivi finanziari ed economici, insieme ai compromessi che legano i corridori tra di loro e il bisogno di risparmiare e dosare al meglio le forze, che producono “la situazione di stallo” delle prime tappe (Pessini, 2015: 79). Nei primi giorni di una gara a tappe la noia è spesso la vera protagonista della competizione. Del resto, non succede qualcosa di memorabile ogni giorno e gli aspri duelli o i momenti eccezionali sono limitati nel complesso dei 3000 chilometri che vanno percorsi. Attraverso la descrizione della delusione e della noia, Pratolini smitizza però “garbatamente” (Pessini, 2015: 80) l’evento e di conseguenza nega, anche se con prudenza, il carattere (sempre) epico del ciclismo. Parecchie volte infatti osserva come le star ciclistiche, ossia i campioni Bartali e Coppi, rimangono “come fissati o convenuti nel camerino” (Pratolini, 2008: 60; 62;63).

Il fatto che il Giro, così come il Circo, è uno spettacolo organizzato in base a una precisa struttura gerarchica, colpisce l’autore. Sembra che, per funzionare, la Corsa Rosa e i suoi corridori debbano seguire meccanismi a priori concordati e imposti dall’alto. Il disgusto che Pratolini esprime nei confronti del Comitato Organizzatore è emblematico. Accanto ai “padroni del Giro” che decidono grosso modo le sorti della “guerra sportiva” (Fofi, 2008: 8), anche i corridori sono “divisi in classi sociali, in sfruttati e sfruttatori, […] una società dove gli schiavi persuasi e contenti di tali sono pochi, e i servi della gleba la grande massa” (Pratolini, 2008: 58). Per sottolineare la guerra sociale all’interno del Giro, Pratolini fa ricorso a metafore provenienti dal mondo animale. I campioni sono rappresentati come “vecchi elefanti, leoni reali, giaguari e serpenti”. I gregari, vale a dire gli umili aiutanti di cui parleremo tra poco, sono presentati come “scimmiette e conigli” (Pratolini, 2008:45).

La sensazione di sfruttamento provata dai “lavoratori della bicicletta” (Pratolini, 2008:58), termine che richiama quello di forçats de la route menzionato precedentemente, e la negazione del diritto di replica contro le decisioni dell’organizzazione, trova il suo culmine nello sciopero dei corridori che si verifica durante il nono giorno. È un evento raro nella storia del Giro che sorprende lo stesso Pratolini:

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Oggi, i lavoratori del Circo, numeri d’attrazione, bestie feroci e pavide gazzelle, hanno messo in atto lo sciopero generale. Generale e totalitario. […] Giaguari e coniglietti si sono dati la mano. In segno di protesta hanno deciso di astenersi dal lavoro (Pratolini, 2008: 41).

Lo sciopero finisce rapidamente, senza che l’organizzazione ascolti davvero le richieste dei corridori, tuttavia l’episodio mette in risalto come Pratolini non sia deluso dall’atteggiamento e dalle iniziative dei ciclisti. Egli attribuisce delle colpe soprattutto all’organizzazione e al suo portafoglio, personificato da Cougnet, capo del Comitato Organizzatore la cui sfrenata smania di denaro distrugge il carattere epico del ciclismo.

4.3 Gli umili gregari e la Brigata Toscana

Come menzionato prima Pratolini segue il Giro per conto di un quotidiano fiorentino comunista la cui diffusione è circoscritta alla regione Toscana. I suoi articoli si adattano quindi agli interessi del pubblico del giornale perciò, come Campanile con i suoi corridori isolati della Sempre in Coda, Pratolini concentra la sua attenzione in particolare sui ciclisti più umili della carovana, chiamati nel gergo ciclistico i gregari. Vanysacker osserva a proposito di questi ciclisti -il cui nome deriva dagli antichi gregari romani, soldati senza grado nell’esercito- che sono i domestici delle squadre ciclistiche (Vanysacker, 2009: 120) poiché si sforzano di servire il loro caposquadra, sacrificando così le proprie opportunità. Paccagnini osserva giustamente che è “l’umanistica misura” di Pratolini a dettare il suo sguardo attento e orientato verso la sorte di questi “operai del giro” (Paccagnini, 2001: 24-25). Brambilla sottolinea anche come Pratolini talvolta ricrei l’ambiente contadino attraverso le sue descrizioni, siccome i gregari provengono soprattutto dalla campagna e sono partecipi dei vizi e delle virtù del mondo rurale (Brambilla, 2007: 98):

Non ci sono soltanto i quattro grandi dentro la cesta dei favoriti. La grossa chioccia del Giro coverà più di un pulcino che ha già beccato il guscio (Pratolini, 2008: 16).

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Il ritratto forse più riuscito è quello “dell’operaio dei pedali” Corrieri, che “si guadagna il pane correndo in bicicletta come milioni di uomini simili a lui se lo guadagnano lavorando nelle officine e nei cantieri” (Pratolini, 2008: 61). L’attenzione naturale e la simpatia sincera verso il mondo dei semplici, cioè verso gli atleti minori, poco conosciuti e non celebrati da nessuno, sono costanti. Di conseguenza si potrebbe affermare che questi umili gregari costituiscono i veri protagonisti e quindi anche i veri eroi delle cronache di Pratolini. In uno dei suoi ultimi articoli, lo scrittore li loda e ringrazia in modo unico:

Non dovete portare sugli scudi Coppi, Bartali, […] Dovete gridare evviva ai diversi cacciavite, […] onesti lavoratori. […] Il tutto per uno stipendio inferiore a mille lire giornaliere, poiché tanto li pagano le Case (Pratolini, 2008: 81).

Il fatto di scrivere per un quotidiano fiorentino e di essere nato a Firenze, implica per Pratolini una scelta quasi obbligata per la toscanità, ossia un’attenzione particolare per i suoi conterranei e nello specifico per i gregari toscani. Lo scrittore non ha verso di loro un atteggiamento distaccato, ma parteggia chiaramente per loro. Quella che lui definisce la Brigata Toscana è un ampio drappello, come si evince da quest’osservazione comica all’inizio della raccolta la quale si riferisce al modo di parlare dei toscani:

Siamo in tanti toscani qui. Un quarto dei corridori che domattina si metteranno in cammino faranno spanciate di C [aspirazione del fonema [k] in sillaba accentata: la cosiddetta gorgia toscana] dalla mattina alla sera (Pratolini, 2008: 16).

Tuttavia, Brambilla osserva giustamente che questa toscanità non comporta un ridimensionamento, bensì un ampliamento “del consueto quadro di osservazione” (Brambilla, 2007: 89). In effetti, concentrandosi in primo luogo sui gregari più umili insieme ai ciclisti toscani meno noti, Pratolini ci fornisce una cronaca non esclusivamente focalizzata sui quattro grandi (Coppi, Bartali, Ortelli e Ronconi) favoriti per la vittoria finale.

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4.4 Coppi e Bartali: una sconfitta serena e umana

Abbiamo sottolineato come Pratolini concentri la sua attenzione primariamente sull’influsso del denaro nel ciclismo e sui corridori più umili e toscani del circo, operando in questo modo una smitizzazione dell’aura epica della Corsa Rosa. Tuttavia, come sottolinea Pessini, Pratolini ritrova la sua passione per i campioni nel momento in cui sente che la competizione entra letteralmente e figurativamente nella sua fase culminante (Pessini, 2015:85). Barthes ritiene che le montagne da scalare, come già menzionato, simboleggino la natura stessa della sfida e le virtù dei combattenti (Barthes, 2007:42). Il passaggio dei corridori attraverso le Dolomiti, protagoniste delle grandi imprese ciclistiche, viene quindi descritto da Pratolini con tono appassionato ed epico pur se rimanendo fedele alla metafora circense:

Le montagne ci chiudevano da ogni lato, non c’era più via d’uscita per gli indolenti. Chiusi in gabbia, gli animali avrebbero dovuto saltare dentro il cerchio infuocato (Pratolini,2008: 70).

Da questo momento la passione e la speranza si manifestano chiaramente nelle Cronache quando anche il paesaggio sembra seguire la corsa:

Stasera è qui con noi anche il Piave. Appassionato di ciclismo pure lui, che ieri ci ha seguito passando per un’altra strada (Pratolini, 2008: 75).

L’attenzione di Pratolini viene attratta dall’aspro duello tra i due primi tenori di quell’edizione del Giro, ossia Coppi e Bartali. Come sostiene Pessini, è chiaro che dal punto di vista sportivo, il suo attaccamento per Bartali, vale a dire il suo conterraneo, è puro e tangibile:

Gino Buffalo Bill figura nelle commedie del Gran Barnum invidiabilmente come re. È un re pieno di giudizio, progressivo, come può esserlo un re amato dal suo popolo (Pratolini, 2008: 28).

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Le descrizioni dedicate a Bartali, focalizzate sulla sua grinta e sul suo stacanovismo, dimostrano la stima di Pratolini per il suo concittadino “incarnazione del ciclista ideale” (Brambilla, 2007: 104). Nonostante il supporto di Pratolini e di migliaia di altri tifosi, Bartali non riesca a finire il Giro nella maglia rosa. È Coppi che, dopo una fuga di 150 chilometri e dopo una battaglia strenua che durerà fino alle ultime giornate, trionfa a Milano. Tuttavia, come segnalato da Pessini, è significativo che la figura del vincitore, Coppi, venga lasciata essenzialmente sullo sfondo (Pessini, 2015: 87). Il vero trionfatore nelle Cronache è Bartali. Paccagnini osserva a tal proposito che a Pratolini di solito non interessa tanto il vincente, quanto il perdente “purché non rassegnato” (Paccagnini, 2001: 26). Le pagine dedicate alla sconfitta di Bartali vanno perciò intese come “le più impegnate e sofferte dell’intera raccolta” (Brambilla, 2007: 104). Pratolini apre l’articolo nel momento cruciale della gara, indirizzandosi direttamente ai tifosi di Bartali:

Vogliate bene a Gino Bartali, oggi più che mai voi che andate pazzi per lui, vogliategli bene soprattutto oggi che ha perduto, che è stato sconfitto in campo aperto. […] Amatelo, il vostro campione, così come io l’ho amato (Pratolini, 2008: 76).

Il ritratto che Pratolini ci fornisce del corridore toscano è quello di un atleta umano. Pessini lo descrive come quello di uno sconfitto che pure non cerca giustificazioni e offre la parte migliore di sé, proprio nel momento di estrema difficoltà (Pessini, 2015: 87):

Nel momento in cui il suo abituale corruccio sarebbe apparso legittimo e giustificato, egli offriva una misura squisitamente umana di sé. Era un combattente leale e ansioso (Pratolini, 2008: 76).

Pratolini trova degli elementi positivi nella sconfitta, poiché l’insuccesso di Bartali sembra avere un esito psicologicamente positivo e rivelare la sua dimensione umana (Brambilla, 2007: 105). La sconfitta non fa di Bartali un eroe decaduto, al contrario la serenità e l’umanità con le quali sopporta il fallimento, dovuto secondo i suoi tifosi a problemi intestinali, ribadiscono secondo Pratolini il suo carattere e statuto di eroe:

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Gino è un eroe, e un eroe non può addurre come alibi degli scompensi viscerali. […] Ha ammesso lealmente che ieri Fausto era il più forte (Pratolini, 2008: 79).

Insomma, come sostiene Brambilla, sembra che il duello non si attui soltanto tra due uomini. Così come avviene nelle antiche tragedie, Bartali appare vinto dal suo stesso destino, “dall’inesorabile scorrere del tempo” (Brambilla, 2007: 106). È la giovinezza, incarnata da Coppi, che batte l’esperienza del Vecchio delle Montagne (soprannome emblematico attribuito a Bartali). Pratolini rifiuta comunque di scrivere un epitaffio del vecchio eroe:

Non era un campione arreso. Nessun pensiero patetico ispirava la sua figura. Era un atleta che si raccoglieva sulla bicicletta con intatte le sue forze. Ma se da un lato c’era la sua esperienza, dall’altro v’era il peso della sua lunga carriera, i suoi trentatré anni, le migliaia e migliaia di chilometri percorsi (Pratolini, 2008: 77).

Anche se sente affermarsi l’egemonia di Coppi, che dominerà gli anni successivi e diventerà Il Campionissimo, Pratolini non esalta il vincitore. Al contrario si dedica all’elogio del perdente, Bartali, parlando della sua immensa statura, non solo come atleta, ma soprattutto come uomo (Pessini, 2008: 88).

Concludendo questo capitolo, conviene soffermarsi brevemente sul suo titolo: Coppi e Bartali. Parecchi studiosi affermano che il duello tra questi grandi corridori abbia assunto nel corso degli anni inevitabilmente valori prettamente extra-sportivi. Foot ad esempio sostiene che una delle modalità attraverso le quali si interpreta comunemente la rivalità è l’idea che i due atleti rivestano qualità complementari del carattere nazionale italiano (Foot, 2011:183). Pessini osserva che l’ambito nel quale si è cercato più prepotentemente di trasferire il duello è stato quello politico che all’epoca, dopo il referendum costituzionale del 1946, è polarizzato tra lo schieramento governativo guidato dalla Democrazia Cristiana e dall’opposizione, guidata dal Partito Comunista Italiano. Coppi viene etichettato come comunista, mentre Bartali diventa emblema dei democristiani. In questo modo i due rivali, “uniti nella loro disunione” e presi insieme Coppi e

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Bartali, sembrano rappresentare l’intero Belpaese (Foot, 2011:187). Pratolini registra questo fenomeno:

Il circo, con il suo passaggio, consente un censimento inconfutabile delle opinioni politiche degli italiani, molto più valido di quello espresso con il referendum e le elezioni, perché spontaneo e senza remore di voto (Pratolini,2008: 64).

Tuttavia, come sostiene anche Pessini, è chiaro che Pratolini stesso mantiene una certa distanza nei confronti delle presunte differenze di tipo ideologico tra i due e cerca piuttosto di “evidenziare i sentimenti e il sentore popolare diffusi al tempo” (Pessini, 2015: 87).

4.5 Un letterato contro I Docenti del ciclismo

Per concludere l’analisi della raccolta di Pratolini, segnaliamo che anche qui, come nell’opera di Campanile, lo scrittore prende a bersaglio gli altri cronisti. Durante le tre settimane del Giro Pratolini è costretto a sopportare il costante atteggiamento di superiorità dei giornalisti sportivi professionisti, battezzati scherzosamente i Docenti di ciclismo:

I Docenti di ciclismo mi guardavano dall’alto in basso e per un eccesso di generosità, non mi ordinarono di mettermi faccia al muro con il cartello d’asino dietro la schiena (Pratolini, 2008: 43).

Pratolini si rende conto della sua propria estraneità:

Io nel baraccone dei giornalisti imbonitori, sono appena un sopportato. […] Appartengo a un altro genere di Circo, a quello della letteratura, tra loro sono un intruso da trattare con riservatezza (Pratolini, 2008: 82)

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Così come sottolinea l’estraneità dei giornalisti rispetto al mondo della letteratura, come evidenzia una citazione tratta da Al Giro d’Italia. Vasco Pratolini al 38° Giro d’Italia. (14 maggio-5 giugno 1955):

Io non so quale sia la vostra opinione ma per mio conto, salto gli articoli dei giornali sportivi, quando coteste valentissime persone si mettano a fare della poesia. E invece di raccontarci e argomentare su come sono andate le cose […] ti fanno dei raffronti coi moschettieri di Dumas. […] Sbaglia chi crede che noi appassionati, noi tifosi amiamo i nostri campioni come Padreterni. Li amiamo, in realtà, perché sappiamo che sono uomini, come noi (Pratolini, 2001: 38).

Nel momento però in cui sottolinea gli artifici retorici dei giornalisti di professione e mette l’accento sull’umanità dei ciclisti, Pratolini critica anche, come già Campanile, l’esaltazione sproporzionata da parte del giornalismo sportivo. Durante il giro del 1947 lo scrittore riesce comunque a prendersi una rivincita nei confronti dei Docenti. Dopo un arrivo in volata, Pratolini è uno degli unici a indicare Conte come il vero vincitore. Gli altri cronisti, ossia gli ufficiali e i Docenti, attribuiscono la vittoria a un altro corridore. La foto scattata al momento dell’arrivo conferma la convinzione di Pratolini. È in quel momento che l’autore dichiara pomposamente, ma anche giustamente: “la fotografia sanziona, insieme a quello di Conte, il mio trionfo” (Pratolini, 2008: 44).

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5. Quinta tappa: Dino Buzzati al Giro d’Italia (1949) 5.1 Un vincitore sovrumano

Due anni dopo Pratolini, Dino Buzzati, all’epoca scrittore già affermato, viene assunto dal per commentare il Giro d’Italia del 1949. L’autore bellunese, anche nel momento di massimo successo letterario non abbandonerà mai l’ambito giornalistico, per lui importante “banco di prova per rimettersi costantemente in gioco” (Spadoloni, 1976: 171). Già da studente le collaborazioni di Buzzati con il giornale milanese per cui segue la Corsa Rosa sono numerose. Inizialmente lavora con il Corriere della sera come redattore e più tardi come inviato speciale. Silvana Cirillo ritiene che è difficile stabilire se venga prima il Buzzati giornalista o il Buzzati scrittore, poiché “le due attività, in lui sono complementari e interagiscono costantemente” (Cirillo, 2010: 264). Sulla stessa linea Mezzena Lona sostiene che non è possibile né opportuno voler inserire Buzzati in un’unica categoria. La capacità e l’abitudine di portare avanti un “giornalismo fantastico”, ossia di trasformare la realtà raccontandola ogni volta come se fosse una favola, rende l’idea di un Buzzati in cui le anime di scrittore e di giornalista sono in costante interazione (Mezzena Lona, 2000: 185). Buzzati stesso sembra confermare questa interpretazione quando afferma che:

Io raccontando una cosa di carattere fantastico, devo cercare al massimo di renderla plausibile ed evidente [...] per questo secondo me la cosa fantastica deve essere resa più vicina che sia possibile, proprio alla cronaca (Buzzati in Cirillo, 2010: 264).

Analizzando i suoi Racconti di Bicicletta, si nota come l’autore parte sempre dalla cronaca della realtà, per poi sviluppare in un ulteriore momento tematiche più letterarie, vale a dire fantastiche ed esistenziali. Come vedremo, la fantasia e il corrispondente potere del fato, topos letterario per antonomasia di Buzzati, caratterizzano fortemente la prima parte della raccolta. Claudio Marabini sostiene nella premessa di Dino Buzzati al Giro d’Italia, che la gara a tappe costituisce per l’autore bellunese un semplice pretesto, un punto di partenza per poter penetrare in seguito nei temi a lui più cari. Marabini inoltre considera questo continuo adattamento dell’evento alle proprie esigenze

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e preferenze personali, e nello specifico il gioco letterario con le entità spaziali e temporali, come il modus operandi dell’attività giornalistica di Buzzati. La raccolta analizzata qui di seguito costituisce allora un caso esemplificativo del modo di lavorare dell’autore in cui la fantasia “scavalca la cronaca, l’ingoia e la fa sua” (Marabini, 1991: 7-12). Tuttavia Pessini osserva giustamente che sarebbe erroneo considerare i fatti raccontati come puri avvenimenti fantastici scaturiti dall’ immaginazione di Buzzati. In effetti è chiaro che nei suoi Racconti di Bicicletta, l’autore parte sempre da dati e situazioni reali, legati strettamente alla corsa (Pessini, 2015: 103). Per di più l’osservazione da parte di Marabini minaccia di sminuire la passione e la conoscenza di Buzzati per il mondo del ciclismo. Come nel caso di Pratolini, Buzzati manifesta sin dalla sua giovinezza, un’ammirevole inclinazione per lo sport su due ruote. Riferendosi alle lettere scritte all’amico di infanzia Arturo Brambilla, compagno di molte biciclettate, Alberto Brambilla dimostra che non c’è dubbio che Buzzati sia un provetto ciclista. Nella corrispondenza in questione, l’autore si confessa grande amante e praticante di ciclismo (Brambilla, 2007: 119-120). Anche Franco Zangrilli osserva che fin da ragazzo Buzzati ama seguire questo sport citando le medesime lettere all’amico Arturo, Zangrilli sostiene che, per Buzzati, stilare classifiche e medie (finte) delle sue gite costituisce un inizio di “cronaca ciclistica” (Zangrilli, 2003: 280). Nella raccolta Buzzati al Giro d’Italia, l’autore stesso ricorda la sua passione giovanile, confessando: “Ho corso anch’io da ragazzo a cavallo di una bicicletta a cui avevo tolto i parafanghi perché assomigliasse un poco a quelle dei campioni” (Buzzati, 1981: 28).

Siccome la sua passione per il ciclismo è nota anche nell’ambito della redazione del Corriere della Sera, non c’è da stupirsi che, quando il quotidiano programma di offrire al proprio pubblico la novità del Giro “visto da uno scrittore”, affida questo compito a Buzzati. Va detto che egli non delude i lettori, realizzando un’interpretazione soggettiva, ma non per questo meno interessante, della gara. Come sostiene Brambilla, Buzzati decide fin dall’inizio di non collocarsi fuori dalla realtà che si appresta a descrivere, ma di entrare a diretto contatto con essa, ovvero di “mettersi in gioco in prima persona” (Brambilla, 2007: 125).

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Già il primo articolo della raccolta, che costituisce l’esordio di Buzzati in qualità di “cronista sportivo”, ne è un esempio emblematico. Il punto di partenza è il viaggio della maggior parte dei corridori, di giornalisti, direttori sportivi e tecnici, via mare, da Genova a Palermo, dove prende avvio la Corsa Rosa nel 1949. Buzzati segue la carovana del Giro sin dal primo giorno e deve realizzare un paio di servizi durante le fasi di trasferimento. L’autore si trova a bordo del transatlantico Saturnia e osserva acutamente la realtà che lo circonda. Fornisce ad esempio un elenco fedele di tutti i corridori presenti: “Qui ci sono Buysse, Missine, Van der Helst, Cerami,…” (Buzzati, 1981: 17). Tuttavia la notte trascorsa a bordo della nave e i corridori rinchiusi nelle loro camere stimolano la fantasia dell’autore. Egli si sofferma nello specifico sui sogni dei ciclisti “che stanotte devono essere facili sulla grande nave illuminata” (Buzzati, 1981: 17). Partendo della realtà dei ciclisti presenti a bordo, Buzzati si muove quasi immediatamente tra luoghi e simboli a lui vicini, come la “notte”, la “porta”, la “cabina”, il “sogno”. Secondo Brambilla questa scelta permette all’autore in un certo modo di attutire l’impatto con un mondo fino a quel momento sconosciuto (Brambilla, 2007: 125). Buzzati, inoltre, descrivendo i sogni dei corridori sospende (in parte) l’aggancio con la realtà per lasciare spazio a riflessioni più ampie (Pessini, 2015: 104) e i sogni gli consentono di “giocare” fin dall’inizio dei suoi resoconti con i due cardini della competizione ciclistica, ossia lo spazio e il tempo. Silvia Zangradi dimostra che l’adattamento intenzionale di questi due concetti, che sono le nozioni chiave della poetica buzzatiana, si riflettono sulle scelte linguistiche e stilistiche dell’autore (Zangradi, 2000: 77):

Domani si incontrerà la Strada, la grande nemica, lunga e diritta a perdifiato […] Ma stanotte c’è solo il vialone immenso del mare, che non ha buche né salite, un soffice tappeto. Domani ci sarà il sudore, i crampi […] Ma stanotte nella cuccetta morbida, i muscoli si distendono placati. Domani ci saranno gli ordini spietati di scuderia […] Ma stanotte non ci sono ordini di scuderia, né disciplina di squadra (Buzzati, 1981: 19).

Il passaggio degli avverbi temporali “domani” e “stanotte”, che si alternano tre volte, seguiti rispettivamente da un verbo al futuro e al presente, evidenzia l’opposizione tra sogno e realtà, vale a dire tra fantasia e concretezza. Buzzati immagina di entrare nella camera e nella testa dell’infimo

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dei poulains (Buzzati, 1981: 19) di cui non specifica il nome, e si potrebbe dunque considerare la descrizione del suo sogno come un elogio dedicato a tutti gli umilissimi gregari al fine di nobilitarne il ruolo e il coraggio:

Sogna il piccolo fantaccino della strada che mai ha udito le folle urlare il proprio nome e mai è stato sollevato sulle spalle da una turba frenetica per il trionfo. […] Il “suo” Giro d’Italia sogna, la formidabile rivincita (Buzzati, 1981: 20).

Le fantasie notturne del gregario, il cui compito consiste essenzialmente nel sudare e patire senza alcuna gratificazione, non conoscono freni né limiti: ad esempio si immagina di vincere una tappa con un vantaggio eccezionale rispetto agli inseguitori. Buzzati costruisce il sogno come un vero e proprio resoconto giornalistico del trionfo, aggiungendo termini specifici e elementi spazio-temporali che cercano di creare un effetto di realtà. Zangrilli definisce lo stile della descrizione nel sogno ciclistico come una forma di “realismo magico” (Zangrilli, 2003: 284):

A 106 chilometri di Palermo, là dove la strada comincia a inerpicarsi. […] Lui vola. Portato da un impeto soprannaturale, macina tourniquets su tourniquets […] La gente ai lati grida. […] Lui, lo sconosciuto, l’ultimo degli ultimi, ha messo le ali. Venti minuti di vantaggio. […] Ecco Catania, finalmente. […] La folla li sta a guardare muta (Buzzati, 1981: 20-21).

Nel suo esordio come cronista Buzzati quindi si diverte a simulare la descrizione di una tappa del Giro, “dilatando però oltremisura i due cardini della competizione, vale a dire lo spazio e il tempo” (Brambilla, 2007: 133). Inoltre egli rovescia la logica della gara, esaltando la sorte del gregario, “lo schiavo fedele, l’umilissimo” (Buzzati, 1981: 21). La fine dell’articolo, in cui l’autore e il sogno del corridore sconosciuto tornano alla dura realtà, dà la sensazione che Buzzati parteggi sin dall’inizio per ciclisti più umili:

Ma può darsi che no. Può darsi che anche queste fantasie gli siano proibite; e anche nel sonno resti povero gregario; che egli semplicemente dorma. […] Perché egli sa di non avere speranze (Buzzati, 1981: 21).

Questa sensazione è confermata dai testi successivi, ad esempio dall’articolo del 30 maggio, intitolato I derelitti del “tempo massimo”, in cui tre umili corridori sono protagonisti della

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narrazione. Il racconto è costruito sul concetto del tempo massimo, vale a dire il tetto di massimo ritardo rispetto al vincitore di tappa consentito agli altri ciclisti per arrivare al traguardo. L’articolo in questione apre con la descrizione di una situazione reale, quella di tre corridori attardati rispetto agli altri e che rischiano di arrivare oltre il tempo massimo. Nel testo che li riguarda è presente l’anafora della locuzione avverbiale di tempo “dopo che”, ripetuta ben undici volte, il che evidenzia che la corsa è già terminata da tempo. Lo sguardo di Buzzati si concentra su questo anonimo terzetto di corridori, insistendo sulle loro condizioni fisiche (Brambilla, 2007: 169).

Essi sono:

[…] sporchi, sudati, stravolti dallo sforzo. […] Sono gli ultimi, i diseredati, gli afflitti, gli sconosciuti sempre al pericoloso limite del tempo massimo. (Buzzati, 1981: 84).

Arrivando in ritardo, i tre corridori devono farsi largo tra la folla che si è già raggruppata sulla strada pubblica: “Permesso, permesso!” gridano. “Largo! Pista, pista! (Buzzati, 1981: 83). Ma mentre due dei tre nonostante il ritardo e la minaccia della squalifica per superamento del tempo massimo, se la prendono comoda perché sono “i gregari di ultimo rango” e devono di conseguenza “risparmiarsi e conservare energie per il giorno successivo” (Buzzati, 1981: 84), la sorte del terzo è diversa. Egli non ha dovuto faticare quel giorno “per inseguire il caposquadra con la bottiglia d’acqua, non gli ha sacrificato proprio niente. Non ha soffocato le ambizioni, è propriamente un vinto” (Buzzati, 1981: 85). A Buzzati interessa proprio la sorte tragica degli sconfitti, di questo ultimo uomo che non sembra essere stato vinto da avversari umani, ma in un certo senso anche dal suo stesso destino, dal suo non essere più in grado di seguire il ritmo degli altri, “dall’inesorabile scorrere del tempo” (Brambilla, 2007: 106). Tuttavia non si lamenta, ma porta dignitosamente il peso della sua sorte e della vita. E Buzzati conclude la cronaca del giorno narrando del ciclista “fuori tempo” che resta l’unico personaggio ancora presente in scena, ma viene assorbito, come spesso accade nelle opere buzzatiane, dall’atmosfera che perde gradualmente i contorni della realtà:

Quante ore sono passate dall’arrivo dei primi? Quanti giorni? O mesi? […] “Dove è lo stadio del Giro d’Italia?” domanda, “Stadio?” rispondono, “Giro d’Italia? Che significa?” (Buzzati,1981: 85-86)

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Dilatando i due concetti di spazio e tempo, Buzzati riesce ad attribuire alla nozione “tempo massimo”, ossia a un termine tecnico sportivo, un significato esistenziale e metafisico. La scrittura di Buzzati si muove sempre lungo “un filo sottile in cui l’adesione al reale è mediata dal filtro della soggettività e dell’estro letterario (Pessini, 2015: 119). Sono questi tipi di procedimenti che permettono, secondo Brambilla, una lettura “attualizzante e perciò atemporale” della raccolta. Il tempo e lo spazio assumono qualità trascendentali e si rivelano i vincitori sovrumani della raccolta. Sono essenzialmente le immagini e la sorte dei corridori sconfitti e più umili che alimentano l’immaginazione di Buzzati.

5.2 Ettore e Achille su due ruote

Barsella osserva giustamente che Buzzati, come Campanile e Pratolini, è affascinato in primo luogo dalla lotta degli ultimi per la sopravvivenza (Barsella, 1999: 75). Tuttavia, via via che la corsa attraversa le Alpi, il giro e i resoconti si riducono di nuovo a un duello tra Coppi e Bartali. Prima di analizzare la descrizione della sfida tra i due rivali, che vivifica la corsa, va detto che anche Buzzati è afflitto dalla noia che caratterizza le prime tappe della competizione. Contrariamente a Pratolini, che cerca di individuare i responsabili della mancanza di azione, Buzzati si indirizza con una lettera aperta direttamente ai due grandi favoriti alla vittoria finale, dopo la quarta tappa, una lunga tappa che si sarebbe potuta rivelare estenuante e quindi importante, ma durante la quale non succede nulla di rilevante. Il tono della lettera è ironico sin dall’inizio, “Caro Coppi e egregio signor Bartali”, scrive infatti l’autore, “chi vi parla in fatto di ciclismo è una completa bestia; non sa niente di cambi e di moltipliche, non ha nessuna chiara idea circa la strategia” (Buzzati, 1981: 54). Ma, come sostiene Zangrilli, la lettera si traduce poi in un scaltro richiamo ai campioni, a una richiesta di una maggiore attenzione per la gente che viene ad attenderli e vederli a bordo delle strade nelle contrade più sperdute (Zangrilli, 2003: 291). Buzzati quindi sembra attribuire le ragioni della noia nella tregua agonistica dei primi giorni, vale a dire la strategia di risparmiare energie e evitare sforzi inutili in vista della vittoria finale, perché, come lui stesso dice: “Sarebbe idiota, lo ammetto,

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compromettere la classifica finale di una gara lunga e pesante come il Giro per cedere alla tentazione di un beau geste” (Buzzati, 1981: 54). Tuttavia ritiene anche che talvolta i grandi debbano mettere da parte il proprio “egoismo” allo scopo di soddisfare i desideri della folla lungo il percorso:

L’avete vista bene, la gente che vi aspettava? Vi ricordate quelle migliaia di migliaia di facce tese spasmodicamente verso voi, senza discriminazione di età o mestiere, contadini, pastori, mamme, muratori, ragazzette, frati, ... (Buzzzati, 1981: 55).

Dopo gli orrori della guerra, il Giro costituisce un evento quasi magico per il pubblico e i suoi protagonisti sembrano rappresentare il mondo della favola, delle fantasie e della felicità della vita. (Zangrilli, 2003: 291):

Non era più semplice sport il vostro e voi non soltanto campioni. Senza ombra di retorica voi eravate l’incarnazione del mondo ricco e felice che finalmente veniva a salutare – pochi secondi, è vero – quelle vecchie e dimenticate case. Avete portato lassù la luce di una specie di America. […] Credevano ciecamente in voi, vi tenevano per degli eroi, degli idoli, degli esseri invincibili. […] Siete i più bravi, non è vero? Perché non correvate avanti? (Buzzati, 1981: 56-55).

Ovviamente la lettera non raggiunge l’obiettivo desiderato, e negli articoli successivi ritornano descrizioni che denotano la mancanza di azione da parte dei campioni:

Oggi, i giganti della strada, i divoratori di chilometri, le locomotive umane assomigliavano piuttosto a neghittosi lumaconi (Buzzati, 1981: 70).

“Eh, dormeli sti corridori”? ci chiedevano i ragazzi che aspettavano già da alcune ore (Buzzati, 1981: 112)

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È di nuovo il passaggio nelle montagne che ravviva l’agonismo e produce un duello epico, ma anche tragico tra Coppi e Bartali. Buzzati presagisce il cambiamento di tensione, e il giorno prima della tappa nelle Dolomiti scrive:

Finora si è duellato con esili fioretti. Solo domani i guerrieri impugneranno lo spadone a due mani e giù fendenti a tutta forza. Che conta se nei primi assaggi al cavaliere qualcuno ha tagliuzzato qua e là la pelle? Con un solo colpo il cavaliere domani squarterà questi ridicoli avversari (Buzzati, 1981: 94).

Si alternano gli avverbi temporali “domani” e “oggi” seguiti da un verbo al futuro o al presente. Come osserva Zangradi, anche la costruzione chiastica nei due ultimi periodi, vale a dire la parola cavaliere posta nella prima frase come oggetto indiretto e nella seconda come soggetto, fornisce al brano riportato sopra e al discorso di Buzzati in generale un tono epico (Zangradi, 2000: 78). È nello scenario mitico delle montagne che si verifica il tragico crollo di uno dei più grandi corridori italiani. La sconfitta di Bartali, nel 1949 già trentacinquenne, viene ipotizzata fin dai primi articoli. Il passare del tempo è impietoso anche nei confronti dei campioni più forti. La domanda centrale che ritorna nella competizione di quell’anno è allora quanto potrà resistere Bartali. Brambilla osserva che perfino prima della tappa della sconfitta, Buzzati sa ricreare un clima tragico in senso classico, e spiega l’inevitabile decadenza fisica dell’atleta come una lotta contro il fato. In questo modo l’autore sembra prevedere quello che poi accadrà. Già nella quinta tappa, quella nella quale Bartali si trova momentaneamente indietro rispetto ai suoi avversari, Buzzati scrive:

Forse qui si sta consumando un dramma. Può darsi che in mezzo a questi campi così felici si decida il Giro. […] Bartali, vecchio leone, è questo il giorno che presto o tardi deve venire, è questa l’ora tua suprema dopo comincia l’ultimo crollo della giovinezza? […] Parve compiersi un grande evento nella storia del nostro ciclismo; il tramonto di un’epoca e il definitivo trapasso della corona da una testa all’altra (Buzzati, 1981: 64-65).

Alla fine della tappa Bartali riesce a raggiungere gli altri, ma il “tramonto” di Bartali è solo rimandato e si verifica nella prima tappa dolomitica, che nella raccolta prende il titolo In un serrato

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duello fra la tempesta Coppi sconfigge il grande avversario. Due anni prima (nel giro seguito da Pratolini), la vittoria viene conquistata duramente giorno per giorno fino all’ultimo. Questa volta la supremazia di Coppi è impressionante. Tuttavia è notevole che l’attenzione di Buzzati, analogamente ai Racconti di Bicicletta, si concentri soprattutto sul perdente. Buzzati loda il coraggio e la dignità che Bartali sa preservare persino nel momento più difficile della sua carriera. Il resoconto del giorno dopo la prima sconfitta, dal titolo Non fa per lui la parte del vinto si rivela un elogio alla compostezza di Bartali. Come osserva Zangrilli, Buzzati si commuove per il suo comportamento di uomo orgoglioso e di alta correttezza sportiva (Zangrilli, 2003: 299):

[…] quel che è stato, è stato, il limite ultimo oltre il quale le speranze sono proibite […] è vicino, ben visibile, fin troppo convincente. […] Ma non è un vinto della vita il campione di cui si parla. Ci troviamo di fronte a uno strano essere, duro, testardo, in certo senso poco umano, scarsamente simile a noi, che non conosce gli abbattimenti d’animo, né il deprimente influsso delle circostanze avverse (Buzzati, 1981: 104-106).

In questo caso Bartali non è eroico perché raggiunge un “emblematic succes” identificato per tale dalla società, ma perché, come dice Dauncey, certi eroi sono tali perché anche da perdenti, continuano a combattere per affermare “the validity of normative expectations” (Dauncey, 2003: 177). Mentre Dauncey considera eroica la fermezza di Bartali, Zangrilli compara invece il corridore al tragico personaggio di Edipo, che “non si rassegna di fronte al tempo maleficio” (Zangrilli, 2003: 293).

Nonostante la sua tenacia, il coraggioso Bartali crolla una seconda volta nella tappa “divoratrice di uomini” (Buzzati, 1981: 137) che si svolge tra Cuneo a Pinerolo lungo un percorso di 254 chilometri con cinque vette alpine da scalare: Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere. Quel giorno la supremazia di Coppi è maestosa: in condizioni meteorologiche invernali (o meglio infernali) il corridore intraprende una fuga solitaria di 192 chilometri, sfidando “ogni regola di buonsenso, ogni legge di gravità” (Doris & Stagi, 2017: 80). Bartali arriva secondo a 11’52”, un’eternità in termini ciclistici. Il “volo” di Coppi entra nella storia come l’impresa più leggendaria e celebre della Corsa

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Rosa e, come affermano Doris e Stagi, questa “tappa delle tappe” è espressione pura di narrazione, visto che non esiste nessuna immagine di quel momento (Doris & Stagi, 2017: 78).

Buzzati contribuisce in modo unico alla creazione e alla conservazione dell’aura leggendaria che circonda questa famosa tappa. All’inizio del resoconto Buzzati ci fornisce la (sua) chiave di lettura del duello:

Quando oggi […] su per le terribili strade, vedemmo Bartali […] rinacque in noi, dopo trent’anni un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille. È troppo solenne il paragone? Ma a che cosa servirebbero i cosiddetti studi classici se i loro frammenti […] non entrassero a far parte della nostra piccola vita (Buzzati, 1981: 136).

Con questo esordio Buzzati riesce a spiegare ai suoi lettori le ragioni del confronto tra i corridori e gli eroi omerici, confutando aprioristicamente eventuali obiezioni. Bartali, così come avviene con Ettore nell’Iliade, viene sopraffatto dal suo avversario più giovane. Pessini osserva giustamente che è soprattutto la grandezza delle due personalità ciclistiche, così differenti tra loro, che fa sì che il riferimento al contesto epico, più che una scelta dell’autore, appaia come una soluzione obbligata (Pessini, 2015: 120). Nel resoconto Buzzati approfondisce il paragone:

In Bartali c’è il dramma come in Ettore, dell’uomo vinto dagli dei. Contro Minerva stessa si trova a combattere l’eroe troiano: ed era fatale che soccombesse […] contro una potenza sovrumana ha lottato: la potenza malefica degli anni (Buzzati, 1981: 136).

Siamo di nuovo di fronte al topos letterario per antonomasia di Buzzati, ossia il tempo che divora gli esseri umani. Come l’Ettore omerico, il corridore è combattuto da una potenza che trascende le capacità umane, vale a dire dagli Dei del tempo: “Ma come resistere a chi [Coppi] ha il favore degli dei? […] Il tempo null’altro che il tempo irreparabile gli correva dietro” (Buzzati, 1981: 140).

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Allo scopo di comparare la sofferenza patita da Bartali a quella dell’eroe omerico, Buzzati cita brani dall’Iliade, trasformando i versi in una specie di monologo interiore pronunciato da Bartali:

“… fu cara un tempo – a Giove la mia vita – […] ed esso mi campâr corteso – ne’ guerrieri perigli. Or mi raggiunse – la negra Parca. Ma non fia per questo – che da codardo io cada: periremo, - ma gloriosi, e alle future genti – qualche bel fatto porterà il mio nome. (Omero, XXII, 379-386).

Il confronto con Ettore mette in risalto che lo scrittore, come avveniva nei Racconti di Bicicletta di Pratolini, presta maggiore attenzione al corridore sconfitto. La sconfitta conferisce (paradossalmente) a Bartali un’eroicità e una tragicità maggiori rispetto all’avversario trionfante (Pessini, 2015: 119). Coppi, che alla fine vince il Giro con un vantaggio impressionante di ventiquattro minuti, rimane in secondo piano. La dignità con cui Bartali sopporta la sconfitta si consuma come nel caso di Ettore, in sintonia con la grandezza del suo personaggio. Bartali si rivela un personaggio cosciente della propria condizione umana e non cerca né pretesti né giustificazioni. Durante la famosa tappa nelle Alpi, distaccato ormai di parecchi minuti da Coppi, Bartali sorride “per la prima volta” (Buzzati, 1981 141) a uno spettatore. Il sempre riservato e mistico Bartali mostra la sua natura umana.

5.3 La memoria bellica

Concludendo questo capitolo, è importante fare ancora il punto sulle immagini di ispirazione militare che Buzzati adopera nelle sue descrizioni della corsa. Barthes considera la carovana del Tour di Francia “an army that has its generals […] its light cavalry, its thinkers, […] its historians and its press correspondents (Barthes, 2007: 29). Durante un intero mese questo esercito si impegna in “successive campaigns as each day has its battle, each night its victor” (Barthes, 2007: 33). Anche Marks osserva che non di rado si raffigura il plotone ciclistico come “a friendly travelling army, consuming all that lies in its path and briefly imposing its own rhythms and customs on the territory it passes through” (Marks, 2003: 209).

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Come afferma Marabini, anche Buzzati dai primi articoli imposta il suo servizio su una metafora militare a cui poi resta fedele (Marabini, 1981: 8). Il trasferimento dei ciclisti da Genova verso Palermo, ad esempio, evoca il viaggio intrapreso da Garibaldi e dai Mille:

Dovremmo rinunciare al paragone così istintivo coi Mille di Quarto? Troppo banale forse? Nemmeno per idea. […] In chi ha inventato questo start senza precedenti è impossibile che non abbia giocato il ricordo del Leone di Caprera (Buzzati, 1981: 18).

I ciclisti vengono paragonati agli eroi garibaldini che partono alla conquista dell’Italia e questo paragone con la storia nazionale ritorna quando la gara inizia davvero: “Chi terrà duro, o garibaldini senza baionette? Chi diventerà il vostro Garibaldi (Buzzati,1981: 35)?

Il linguaggio sportivo è un ambito in cui sono frequenti le immagini e i termini di origini militare. Luca Serianni ritiene che è soprattutto il desiderio di rafforzare l’espressività e favorire il coinvolgimento da parte del lettore che incoraggia il ricorso a immagini belliche (Serianni, 2017: 128-129). Anche Zangrilli dimostra che sin dall’antichità, ovvero sin da Omero, la rappresentazione della gara atletica utilizza metafore belliche (Zangrilli, 2003: 296). Anche Buzzati si pone in questa linea e presenta i duelli tra i corridori e le loro scelte tattiche come se fossero strategie di guerra:

Il terreno del combattimento è nuovo. […] Dal generale al colonnello, giù giù fino all’ultimo soldato è passata, con la massima circospezione, la parola d’ordine. […] Ciascuno ha pronte le sue piccole armi segrete che gli altri non dovranno sapere (Buzzati, 1981: 33).

Oltre a ricorrere al poema omerico, Buzzati descrive la sfida tra Bartali e Coppi con vocaboli inerenti al mondo della battaglia sia antica che moderna:

Venne dato il segnale del combattimento, Coppi aprì il fuoco di mitraglia su tutto il fronte e a uno a uno cademmo […] Roteando il suo sciabolone però si vide Gino Bartali rialzarsi tremendo a difendere la sua antica corona (Buzzati, 1981: 129).

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Il “colpo fatale” che Bartali deve subire viene introdotto come segue: “Assistemmo alla scena decisiva, al fatto d’arme più importante della guerra” (Buzzati, 1981: 137). I combattimenti della guerra ciclistica non si svolgono solo tra i corridori, poiché anche il percorso deve essere conquistato. La corsa nella sua interezza è concepita da Buzzati come l’azione di un grande esercito che combatte un nemico che gli “lancerà addosso i suoi reggimenti che hanno sinistri nomi: chilometri si chiamano, nuvole e tuoni, polvere, salite, scirocco, buche, imbastiture (Buzzati, 1981: 35). Le montagne subiscono un processo di personificazione. Sembrano giganti mostruosi e avversi che “non si lasciano ingannare, […] stanno solenni e impenetrabili, tenendo chiuso in sé il destino […] e tenendo sospesi gli animi come nell’ultima guerra l’aspettazione dello sbarco angloamericano” (Buzzati, 1981: 92). E anche il modo in cui l’autore personifica la Strada come una dea crudele, ossia “la grande nemica, lunga e diritta, […] tortuosa ed erta” (Buzzati, 1981: 19), fa pensare alle osservazioni di Barthes, che ritiene che il paesaggio debba assumere fisionomie umane per consentire una lotta pari tra uomo e natura. È chiaro che agli occhi di Buzzati la Corsa Rosa è una battaglia in cui le montagne fanno sì che i corridori ‘sputino sangue’, vivendo “una specie di Waterloo” (Buzzati, 1981: 133). Come afferma Zangradi, nei racconti di Buzzati la metafora e la memoria bellica scompaiono e riappaiono come un filo immaginario lungo tutte le tappe (Zangradi, 2000: 74) che contribuisce a costruire l’immagine epica del ciclismo.

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6. Sesta tappa: Anna Maria Ortese: Giro d’Italia (1955) in La lente scura 6.1 L’intrusa

L’ultima raccolta analizzata in questa tesi è opera dall’autrice romana Anna Maria Ortese e racconta il Giro d’Italia del 1955. La sua presenza alla Corsa Rosa è abbastanza eccezionale perché, come afferma Cirillo, ancor oggi è insolito che una scrittrice si occupi di imprese sportive, e lo era ancora più negli anni Cinquanta, quando il calcio e il ciclismo venivano considerati sport tipicamente maschili (Cirillo, 2009: 53). Perciò Zavoli definisce Ortese “la prima donna clandestina della repubblica delle lettere ciclistiche” (Zavoli in Pessini, 2015: 170). L’ estraneità dell’autrice al mondo del ciclismo si evince chiaramente dai suoi resoconti come avremo modo di vedere nelle pagine successive. È proprio Vasco Pratolini, anche lui presente al Giro del 1955, a evidenziare l’intrusione anomala di Ortese nella Corsa Rosa. Nonostante i due seguano la gara (per caso) dalla stessa macchina, Pratolini non ricorda in nessuno dei suoi articoli la presenza della scrittrice (Paccagnini, 2001: 21). Ortese dà invece notizia del contatto con l’autore fiorentino, ma il dialogo riportato in uno dei resoconti mette in risalto l’atteggiamento fortemente maschilista di Pratolini di fronte “all’intrusa Ortese”. In effetti, sembra che egli non riesca a capire e nemmeno ad accettare che una donna si introduca nel mondo segreto e maschile del ciclismo:

Riconoscevamo lo scrittore Pratolini: “Ma lei cosa fa, qui?” “Il Giro”. “Cosa, il Giro? “Vorrei partire col Giro?” […] “E scrivere anche?” ”Guardi che non si vede niente”. “Lo so”. (Ma l’Italia l’avremmo veduta, e tutti quei cieli, quelle folle, e la gioia o l’ira.) (Ortese, 2004: 161).

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Tuttavia Brambilla sostiene che la consapevolezza di Ortese di assistere dall’esterno, quasi non vista, al “magico gioco” del Giro, le cui regole le sono (ancora) sconosciute, costituisce forse l’emozione più intensa e dà un significato più profondo agli articoli della scrittrice (Brambilla, 2007: 197). Contrariamente agli autori analizzati in precedenza, Ortese non dichiara una pregressa passione per lo sport della bicicletta. Forse già solo per questo motivo la sua raccolta si rivela altrettanto interessante. Inoltre va segnalato che la scrittrice segue la gara per conto del settimanale Epoca, che pubblica gli articoli in tre puntate, mentre le altre opere esaminate vengono pubblicate quotidianamente. Brambilla osserva giustamente che l’opposizione tra la pubblicazione in un giornale e in un settimanale, implica una differenza prospettica della narrazione. L’uscita quotidiana impone agli scrittori di commentare la competizione di tappa in tappa, seguendo un ordine cronologico prestabilito (partenza-gara-arrivo) in cui possono comunque trovare una propria libertà, mentre la pubblicazione a cadenza settimanale richiede altre modalità. Infatti, poiché si scrive post eventum (Brambilla, 2007: 193-194), si deve fornire qualcosa di diverso dalla mera cronaca già nota e del tutto superata. Ortese non si impegna quindi mai in un dettagliato resoconto, ma propone una specie di bilancio generale nel quale trasmette le proprie osservazioni attraverso “una scrittura ricca di immagini” (Brambilla, 2007: 194) e, come sostiene Gregori, Ortese guarda i corridori da lontano (Gregori, 2015: 12).

Nel 1991 gli articoli vengono pubblicati insieme ad altri scritti della Ortese originariamente usciti su varie testate fra il 1939 e il 1964 (periodo di più intensa attività giornalistica della scrittrice) nella raccolta La lente scura. Scritti di viaggio, a cura di Luca Clerici. Quest’antologia dà conto della intensa attività della scrittrice, che soprattutto tra la fine della guerra e gli ultimi anni Cinquanta viaggia moltissimo non solo per necessità, ma anche per un innato nomadismo. Anche nei suoi racconti sul Giro Ortese assume lo sguardo del viaggiatore-osservatore, inoltre il paesaggio, la folla lungo le strade e i corridori vengono filtrati attraverso la “lente scura” della scrittrice, ossia, come si legge sulla quarta di copertina del volume, quel “fosco cristallo di malinconia e protesta che carpisce alle cose la loro faccia buia”. In modo unico Ortese riesce quindi a rivelare del giro ciò che forse non avremmo saputo o voluto vedere.

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6.2 Disillusione: il Carrozzone commerciale non si fermerà più

Sin dall’inizio la scrittrice sembra essere colpita dal gran numero di appassionati e tifosi che seguono la corsa ai bordi del percorso e che descrive come un colorato muro umano:

Un muro umano, sottile, interminabile, incantato, faceva udire nel gran silenzio l’eco di certi suoi gridi o canti o sospiri di amore. […] L’Italia davanti a noi […] un muro sottile e variamente colorato che saliva come un serpe per quei monti verdi […] e diventa folla acclamante nei paesi. […] Muro di donne, di ragazzi, contadini e borghesi, artigiani, e signori, marinai, preti, maestri e maestre […] uomini di ogni classe guardare ai corridori, come a fortunati e cari fratelli (Ortese, 2004: 157-162)

Colpisce il modo in cui Ortese sa leggere i diversi sentimenti sui volti degli spettatori. Come afferma Cirillo, la scrittrice riesce così a raccontare lo sport nella sua dimensione essenziale, vale a dire “di fatto sociale aggregante che supera ogni distinzione di classi sociali e di ruoli” (Cirillo, 2009: 53). Le descrizioni del sentimento di entusiasmo manifestato dal pubblico lungo il percorso e in misura minore anche dalla scrittrice, sembrano voler evidenziare il potere meraviglioso e quindi le versatili potenzialità del ciclismo. Nel 1978 Ortese dichiara a proposito della sua partecipazione al Giro che:

Quel maggio fu il più straordinario, il più affascinante, a anche il primo e l’ultimo maggio d’infanzia. Perché chiunque parta col Giro diventa, per un mese, bambino (Ortese, 1978: 141).

Come afferma Paccagnini, è anche la festa di colori della carovana pubblicitaria del Giro, “vero spettacolo nello spettacolo”, a ispirare uno sguardo di infantile eccitazione (Paccagnini, 2001: 9). Tuttavia il carrozzone commerciale, composto da una cinquantina di annunci che precedono i corridori, costituisce allo stesso tempo anche una fonte di disillusione. Parlando della raccolta di Pratolini abbiamo già accennato alla crescita nel corso degli anni degli interessi e delle motivazioni economiche legate alla Corsa Rosa. Foot osserva giustamente che il ciclismo, essendo all’epoca uno degli sport più popolari, crea “una miriade di opportunità in termini di sponsorizzazione e visibilità dei prodotti” (Foot, 2011: 343). A partire del 1954 anche aziende ordinarie che non avevano stretti legami con l’industria della bicicletta iniziano a finanziare il plotone ciclistico. Il

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ciclismo inizia ad avere bisogno di sostengo finanziario. Secondo Vanysacker soprattutto in Italia si assiste a partire del secondo dopoguerra ad un vero “matrimonio” tra il ciclismo e l’industria. In tal senso si potrebbe affermare che negli anni Cinquanta e Sessanta il ciclismo diventa il “cartellone pubblicitario in movimento” del cosiddetto miracolo economico italiano. Per le ditte dei prodotti popolari che riflettono la nuova prosperità e il nuovo modo di vivere degli italiani, il Giro, attraversando in un mese quasi tutto il paese, diventa l’evento pubblicitario per eccellenza (Vanysacker, 2009: 162-163). I capitani delle squadre sono “merce come un’altra, acquistati dalle aziende nella speranza che le loro imprese sportive portino lustro alla ditta che li sponsorizza” (Pessini, 2015: 178). Basandoci sull’osservazione di Drucker, la quale ritiene che “the commercialization of the sports figure “deheroizes” as it enhances the fame and celebrity status of the athlete” (Drucker, 1992: 93), è chiaro che la commercializzazione del ciclismo minaccia in un certo modo la sua attrattività e quindi anche il suo carattere epico. Ritroviamo questo sentimento di disillusione chiaramente nei resoconti di Ortese:

La Carovana era partita alle 12.30. Personalmente, ricordiamo tutto ciò con un misto di ammirazione e di smarrimento. […] Si movevano in mezzo alla processione delle macchine, […] ai carri e alle insegne pubblicitarie di tutte le ditte note e meno note. […] Gran parte della produzione italiana, e il meglio della fantasia degli uffici pubblicitari, era là. Chi sosteneva una squadra, chi un’altra. Questa ditta aveva acquistato il tale capitano, quella il tal altro (Ortese, 2004:158-159).

Ortese scopre che il giro e il ciclismo in generale sono dominati da interessi economici, ovvero dall’industria che li sfrutta come mezzo pubblicitario allo scopo di “raggiungere con i loro slogan un’ampia fetta della popolazione” (Pessini, 2015:178).

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6.3 Trascendere la soglia sociale

La delusione da parte della scrittrice è dovuta anche all’inavvicinabilità dei corridori, sia i campioni che i gregari. Come osserva Brambilla, questa distanza non è soltanto causata dal fatto che si tratta di un mondo rigidamente maschile, ma anche dal fatto che Ortese li considera quasi come “sacerdoti di un rito collettivo a cui non è ancora stata ammessa” (Brambilla, 2007: 199). In effetti, i ciclisti non si vedono mai, si rivelano solo “ai devoti, ai fedeli” e ai tifosi che “rappresentano le pareti del tempio” (Brambilla, 2007: 197). Essendo una profana nel mondo del ciclismo, la scrittrice deve essere istruita, per poter essere ammessa al di là del “muro”. La metafora del muro o muraglia da superare ritorna dopo la descrizione della folla lungo il percorso. Sin dai primi articoli Ortese indica la presenza di un muro immaginario tra i corridori e il mondo non-ciclistico:

Ci avevano avvertiti che gli organizzatori e i protagonisti del Giro, in condizioni normali ottime persone, si trasformavano, una volta iniziato il gioco in individui […] inaccessibili, chiusi (Ortese, 2004: 160).

La scrittrice si impegna allora nel cercare le cause dell’inavvicinabilità, che riconduce a ragioni prevalentemente di natura sociologica:

Quegli uomini che correvano, […] quasi tutti figli del popolo, usciti molto spesso da case povere e tristi […] avevano improvvisamente scoperto la forza delle proprie gambe, e con quell’unica forza si buttavano sulla nave della vita […] alla conquista di un bene continuamente negato alle loro generazioni, decisi a conquistarlo a costo […] di ogni pericolo (Ortese, 2004: 162).

Queste osservazioni riprendono chiaramente quelle di Barzella e Marchesini menzionate nel capitolo 1.3 di questa tesi. In effetti, i corridori sembrano provenire e appartenere a un altro “universo”, vale a dire un piccolo mondo “antico” e umilissimo. Come ritiene Ortese stessa sarebbe questo “muro stregato che la diversità di classe alza in Italia tra gli uomini” (Ortese, 2004: 170) a complicare il contatto o il dialogo con i corridori partecipanti. La consapevolezza di appartenere a

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due mondi differenti impedisce inevitabilmente di penetrare all’interno dell’universo dell’altro. I ciclisti, coscienti della differenza che intercorre tra le loro condizioni, ossia quella di dover quotidianamente scontrarsi contro avversari e pericoli per poter elevare la propria condizione e la condizione di chi ha già conquistato privilegi e onori, crea una chiusura che ostacola la capacità di simbiosi dei due mondi.

Tuttavia, il distacco non implica uno sguardo altezzoso o sprezzante da parte della scrittrice. Al contrario Ortese loda il desiderio dei corridori e nello specifico degli umilissimi gregari che vogliono trascendere la soglia sociale, vale a dire “lascarsi indietro, come un carcere, la loro classe, le pianure della povertà, dell’anonimato” (Ortese, 2004: 171). Nonostante i pericoli della loro professione, i corridoi che consacrano la loro esistenza alla realizzazione di imprese epiche, eroiche e leggendarie, sono disposti a superare letteralmente, ma soprattutto figurativamente “mille traguardi orribili” per poter “arrivare finalmente a una classe diversa, che costituisce il loro sogno” (Ortese, 2004: 171).

6.4 Un torero ammazza un puledro

Bartali non partecipa al Giro del 1955, poiché si ritira proprio in quell’anno, tuttavia è presente in veste di giornalista. Coppi appartiene ancora al gruppo dei favoriti, ma, come vedremo tra poco, è chiaro che ormai il tempo ha lavorato anche su di lui. Tra gli altri contendenti alla vittoria finale c’è Fiorenzo Magni, soprannominato il Leone delle Fiandre a seguito della sua triplice vittoria nel Giro delle Fiandre, Gastone Nencini e il francese Raphaël Geminiani. Sin dall’inizio Ortese registra la loro irraggiungibilità:

Per uno sguardo, un saluto, un sorriso […] di Coppi o Bartali o Magni o Gemiani o Nencini, molti avrebbero dato un po’ della loro vita, ma né Coppi né Bartali o Magni o Gemiani o Nencini si volgevano o sorridevano mai (Ortese, 2004: 164).

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Quest’impossibilità di dialogo o di incontro, costringe Ortese a osservare e descrivere i corridori da lontano e tuttavia questo sguardo distante si traduce in uno dei ritratti più belli mai scritti di Coppi:

Una mattina, era una mattina calda e velata vedemmo finalmente Coppi. […] Veniva avanti in un modo incredibile, anche per un profano: senza sforzo con una leggerezza e una violenza che non gli costavano nulla. […] Le sue ruote, non comprendiamo come, ci sembravano più alte e lievi delle altre. Così, come un dio stordito dalla sua forza, [...] l’idolo degli italiani passò (Ortese, 2004: 168- 169).

Come osserva Brambilla, la descrizione del modo di correre di Coppi si sposta quasi verso un’atmosfera fiabesca. Il Campionissimo, personaggio inavvicinabile “per destino e natura” si trasforma in una specie di legame ideale tra la terra, il mare e il cielo (Brambilla, 2007: 200-201). Nella sua Storia del ciclismo anche Ormezzano ritiene significativamente che “Sceso dalla bici, Fausto Coppi sembra uno scorfano. Sulla bici, è semplicemente divino” (Ormezzano, 1977: 94). Come afferma Dauncey, lo “stile” di un corridore è non di rado uno dei principali elementi che contribuisce alla sua popolarità (Dauncey, 2003: 181). È chiaro che la sua fisionomia di pédaleur de charme, conferisce a Coppi uno statuto supremo, eroico, che lo avvicina una divinità inaccessibile. Oltre alle sue straordinarie prestazioni fisiche, è il suo atteggiamento e il suo modo di pedalare sulla bicicletta che incantano facilmente il pubblico. Il giudizio che Ortese ci fornisce nei confronti di Coppi non è comunque sempre positivo. Il Giro del 1955 viene caratterizzato da uno scontro generazionale tra la vecchia guardia, rappresentata da Coppi (36) e Magni (35) e le nuove promesse del ciclismo italiano, ossia Nencini e Moser. Doris e Stagi parlano di un Giro intergenerazionale e citano Guido Giardini, giornalista della Gazzetta dello Sport, che già nel 1955 profetizza che quell’edizione della Corsa Rosa sarebbe stata “in grado di stimolare la fantasia degli scrittori di cose sportive ed alimentare gli archivi degli studiosi. […]. Se ne parlerà per molto tempo, soprattutto per le alterne vicende della lotta tra gli anziani campioni ed i giovani delle ultime leve (Giardini in Doris & Stagi, 2017: 97). È significativo che Paccagnini consideri i due scrittori presenti al Giro di quell’anno, vale a dire Ortese e Pratolini, i compositori del de profundis di una generazione alle sue ultime battute,

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“temperato dall’attesa di una nuova generazione in grado di sostituire degnamente la precedente” (Paccagnini, 2001: 14).

L’epoca d’ora del ciclismo italiano sembra concludersi nel 1955, con Bartali che si è ritirato e con la parabola discendente di Coppi che sta ormai iniziando (Doris & Stagi, 2017: 92). Il 1955 è anche l’anno in cui lo scandalo dell’adulterio di Coppi e della “Dama Bianca” raggiunge il suo punto culminante. Il processo e la nascita del figlio illegittimo in Argentina hanno senza dubbio un impatto sulla sportiva del corridore.

Nei resoconti di Ortese emerge lo scontro generazionale con tre protagonisti, ovvero Nencini, che assume il ruolo dell’agnello sacrificale, e i due vecchi lupi Magni e Coppi. Fino dalla penultima tappa, che porta la carovana da Trento a San Pellegrino, Nencini ha “saldamente in mano le redini della gara” (Pessini, 2015: 179): è maglia rosa con un vantaggio che sembra sufficiente per la vittoria finale, tuttavia dopo una foratura e il successivo accordo tra i due “vecchi campioni” per attaccarlo insieme, il sogno di Nencini e dei suoi tifosi viene distrutto. Alla fine è Magni a vincere il Giro, con Coppi secondo a soli 13 secondi di distanza. Nonostante Ortese ammetta che le forature fanno parte del “gioco, legittimo e indispensabile” (Ortese, 2004: 173) si percepisce allo stesso tempo un suo atteggiamento di condanna nei confronti dei due vecchi campioni, vale a dire Coppi e Magni, la scrittrice prende le parti di Nencini, “Perché se il torero fa fuori un toro si può parlare di corrida, ma se al posto del toro c’è un puledro, la cosa è diversa” (Ortese, 2004: 173).

La fine degli articoli, che coincide ovviamente con la fine della corsa, è dedicata quasi interamente al giovane perdente, il quale:

Non è più campione [ma] corridore qualunque. Il sorriso acuto […] quel viso trafelato che stentava a contenere lo sbalordimento, la gioia, a cui tutti acclamavano, solo dodici ore prima, quel viso ora piegato, duro, infelice, coperto di lacrime (Ortese, 2004: 173).

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Lo sguardo malinconico, o meglio la lente scura di Ortese si concentra sulla sconfitta e sul dolore di Nencini che, come rappresentante emblematico delle nuove promesse, fallisce nel tentativo di sovrastare la vecchia guardia. Il giro e la raccolta si concludono con “il trionfo dei vecchi idoli e il pianto di Gastone Nencini che aveva vinto inutilmente le orrende Dolomiti” (Ortese, 2004: 175).

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Traguardo

Potremmo considerare la fine dell’ultima raccolta analizzata, quella scritta da Ortese, come caso esemplificativo di tutte le opere analizzate in questa tesi. Concentrando il loro sguardo in primo luogo sui perdenti e sui corridori più modesti, gli autori dei Racconti di Bicicletta sembrano demitizzare o meglio umanizzare la Corsa Rosa e i suoi partecipanti. Alla fine della gara letteraria percorsa in questa tesi è chiaro che in generale a vincere è la visione sociale e umana degli scrittori Qual è allora il ruolo svolto dal giornalismo sportivo nella rappresentazione del ciclismo in chiave eroica? Come ribadito nei primi capitoli di questa tesi in cui abbiamo cercato in primo luogo di definire il concetto di eroe e il carattere epico del ciclismo, l’ambito della cronaca sportiva si rivela, sin dalle primissime gare ciclistiche, la principale fonte dell’esaltazione eroica dei corridori e ciclisti. È notevole che nei Racconti di Bicicletta pionieristici di Campanile (1932), analizzati significativamente come primi, l’autore derida e critichi le usanze del giornalismo ciclistico. Attraverso la glorificazione dei ciclisti isolati, ossia i Sempre in Coda e attraverso la parodia di quello che Barthes definisce l’onomastica del ciclismo, Campanile si discosta dai soliti resoconti. Forse già solo per questo motivo Brambilla ritiene l’opera di Campanile imprescindibile per quanto riguarda l’elaborazione degli altri racconti trattati in questa tesi (Brambilla, 2007: 174).

Partendo sempre da un quadro generale, abbiamo cercato di sottolineare come gli scrittori inviati al Giro d’Italia, rimangano fedeli alle proprie preferenze narrative. Saltano all’occhio l’umorismo di Campanile, lo sguardo critico-sociale di Pratolini, gli adattamenti spazio-temporali di Buzzati e infine la lente scura “dell’intrusa” Ortese. Questa libertà tematica corrobora l’osservazione di Brambilla, il quale osserva che la corsa e nello specifico una gara a tappe fornisce “uno schema narrativo ben definito nella struttura di base, ma dotato di grande elasticità, le cui mosse possono sfruttare combinazioni infinite” (Brambilla, 2000: 98). Nonostante queste differenze personali, l’attenzione dei quattro autori analizzati si concentra molto spesso sui corridori più umili. Soltanto quando la competizione raggiunge letteralmente e figurativamente il suo punto culminante (come nel caso delle Dolomiti), gli autori si dedicano necessariamente alle descrizioni dei duelli aspri e epici tra i campioni del ciclismo di quel tempo,

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nello specifico Gino Bartali e Fausto Coppi. La loro chiara predilezione per i gregari, vale a dire i corridori più modesti, diventa ancora più spiccata se prendiamo in considerazione che tre delle quattro opere esaminate si collocano nella cosiddetta epoca d’oro del ciclismo italiano, ritenuta da Marchesini “la miglior stagione per lo sport delle due ruote” (Marchesini, 2009: 260).

Oltre all’esaltazione delle eccezionali prestazioni e imprese fisiche dei vincitori, fornita in modo puntuale e forse talvolta esagerata dai giornali, i Racconti di Bicicletta seguono un altro corso o corsa. Sono i ciclisti che senza alcuna speranza di trionfo o vittoria percorrono l’Italia, a costituire, come affermato da Campanile nell’epilogo della sua raccolta, “i veri eroi” del Giro. A tal proposito si può citare Strate, che ritiene giustamente che l’eroe è in primo luogo “a narrative element within a story and a symbol whose meaning needs to be interpreted” (Strate, 2008: 21). Agli occhi degli scrittori dei Racconti di Bicicletta, la gara (letteraria) tra il campionissimo e l’umilissimo viene indubbiamente vinta da quest’ultimo. Non si loda davvero la prestanza fisica dei campioni, bensì il coraggio, la tenacità e la forza mentale dei perdenti e dei gregari che faticano duramente, come fanno migliaia di operai, allo scopo di mantenere le loro famiglie. Il discorso potrebbe essere ulteriormente ampliato prendendo in considerazione altri scrittori e altre opere di tema ciclistico, per vedere se anche questi seguono lo stesso leitmotiv.

In conclusione va notato che i Racconti di Bicicletta, almeno per il loro sguardo più umano, riescono in modo unico a evidenziare la versatile possibilità letteraria insita nello sport a due ruote. In effetti fanno sì che i ciclisti, dal vincitore al perdente, dal capo di squadra al gregario, ovvero dal campionissimo all’umilissimo….

non muoiono, essi scompaiono soltanto dalla vista una volta che hanno attraversato il loro ultimo traguardo, una volta che la velocità della vita li abbandona coi muscoli rigidi.

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Non cessano mai di correre anche se il loro cuore e le loro ruote decidono ostinatamente di tacere, essi continuano a scendere in campo nella mente di miglia di persone [attraverso i racconti di parecchi scrittori appassionati], essi non si arrendono mai, al contrario, il loro sudore conferisce lucentezza perenne all’asfalto.

Ricorda che dal momento in cui la terra, anche se a malincuore, li copre, il loro nome risuonerà per sempre, come un eco tra le cime delle montagne.

(Ó Willie Verhegge, Renners sterven niet. Traduzione italiana: Benjamin Leirens)

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