Roberto Grenna

DONATO BILANCIA Storia di un serial killer che ha terrorizzato il Nord-Ovest italiano Sommario

Prefazione Un serial killer atipico La vita Gli omicidi per vendetta connessi al gioco d’azzardo Gli omicidi per rapina Gli omicidi delle prostitute Gli omicidi sui treni L’arresto e le confessioni Bibliografia e sitografia Prefazione

Dopo il primo volume, incentrato su dieci – brevi – storie di avvelenatrici, si inaugura una serie di monografici, volumi essenziali incentrati sulla vita e sulle azioni di un singolo assassino seriale. Lo stile vuole essere documentativo e, in certo qual modo, giornalistico, a mo’ di cronaca degli eventi. La scelta è caduta su Donato Bilancia, uno dei serial killer italiani più prolifici e conosciuti anche all’estero, che imperversò tra e Piemonte tra il 1997 e il 1998 e sul quale già sono stati scritti volumi importanti e interessanti, citati anche nella presente opera. A differenza da quanto già presente sul mercato, qui si riportano stralci delle carte processuali che potranno lasciare a ciascuna lettrice e a ciascun lettore la possibilità di farsi la propria idea sui diciassette omicidi compiuti da questo uomo che, a detta di coloro che l’hanno conosciuto, appariva insignificante e la cui storia criminale mai avrebbe lasciato presagire una tale evoluzione. Nella speranza che possiate accogliere con favore questa scelta, non mi resta che augurare buona lettura! Un serial killer atipico

Sul sito “Polizia e Democrazia”1 apparve, nel 2007, una intervista all’Avvocato Nino Marazzita, a cura di Ettore Gerardi, che cercò di inquadrare Donato Bilancia all’interno delle classificazioni sui serial killer. Il legale, che rinunciò al mandato prima del processo, fece alcune considerazioni dettate dalla sua conoscenza della persona e del caso, passando dall’aspetto criminologico a quello più finemente psicologico e personale, partendo da un presupposto: i primi omicidi di Bilancia ebbero sicuramente un movente, sebbene partorito da una mente malata, e lo condussero a provare il piacere di uccidere. Le motivazioni della carriera omicida, per Marazzita, sarebbero da ricercare nelle sue molteplici frustrazioni e nel suo desiderio di rivalsa. La convinzione, a un certo punto delle indagini, che la sua vita grigia potesse avere una svolta, che lui potesse, finalmente, essere protagonista – quantomeno della cronaca nera – al punto da richiedere al suo legale di poter gestire in prima persona i rapporti con e i media, fu un primo punto di rottura. Un delirio di onnipotenza che portò l’avvocato a rimettere il mandato, soprattutto quando le parti si trovarono in disaccordo in merito alla richiesta di effettuare una perizia psichiatrica. La sua sete di popolarità fu, in parte, placata dal libro scritto da Ilaria Cavo e pubblicato nel 2006 da Mondadori2, nel quale si analizzano nel dettaglio e nell’intimo le motivazioni dell’uomo che sta dietro l’assassino, al punto da portare chi scrive a intitolare l’opera “Diciassette omicidi per caso”, quasi a voler sottolineare l’assoluta mancanza di linearità nella carriera omicida, in un canovaccio di storia che prende il via, probabilmente, da accadimenti personali che hanno agito da innesco per una mente fragile. Donato Bilancia è stato, insieme al Mostro di Firenze, Gianfranco Stevanin, Luigi Chiatti, Marco Bergamo, le Bestie di Satana – solo per citarne alcuni – uno dei Mostri che hanno popolato le cronache degli ultimi decenni in Italia. In questa breve e non esaustiva trattazione si vuole mettere in evidenza, oltre alla storia, il disagio di una persona che ai più pareva insignificante, ma che fu in grado di uccidere diciassette persone senza alcun tipo di rimorso. A tentare di fare chiarezza sulle varie tipologie di delitti fu la sentenza di primo grado (circa seicento pagine), che riorganizzò il percorso criminale di Bilancia secondo quattro tipologie di omicidi:

omicidi connessi al gioco d’azzardo; omicidi a scopo di rapina; omicidi delle prostitute; omicidi sui treni.

E dire che, a leggere l’intervista all’avvocato Marazzita, Donato Bilancia non sopportava la vista del sangue3!

Note

1 http://www.poliziaedemocrazia.it/live/index.php?domain=rubriche&action=articolo&idArticolo=1392 2 I. Cavo, Diciassette omicidi per caso – Storia vera di Donato Bilancia, il serial killer dei treni, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 2006 3 http://www.poliziaedemocrazia.it/live/index.php?domain=rubriche&action=articolo&idArticolo=1392 La vita

“‘Che ne so. Prendiamo ad esempio Canu, il metronotte. Avrebbe potuto essere un prete, o chissà chi. E invece, quel giorno mi sono svegliato, mi sono messo sul divano così, con il cappello in testa’ mentre parla Bilancia si getta un po’ all’indietro e fa il gesto di calzarsi il berretto, socchiudendo gli occhi come ad avere la visiera davanti, con l’atteggiamento del perditempo, come se facesse la caricatura di se stesso. ‘Sono rimasto lì un po’ e poi ho pensato che volevo uccidere un metronotte. Uno a caso. Ma sia chiaro, per Centanaro è stato proprio diverso. Volevo uccidere proprio lui perché era un avvoltoio, di quelli che stanno ad aspettarti e quando passi ti si avventano. Se me lo ritrovassi davanti rifarei esattamente quello che ho fatto.’”4 16 ottobre 1997 – 6 maggio 1998: inizio e fine del periodo di terrore imputabile a Donato Bilancia, che fu ribattezzato “il serial killer dei treni”. In meno di sette mesi, ben diciassette persone perirono a causa della follia omicida di quest’uomo, a cavallo tra Liguria e Piemonte. Bilancia nacque a il 10 luglio del 1951, per poi trasferirsi con la famiglia in provincia di Asti quando non aveva ancora quattro anni. Successivamente, i Bilancia si stabilirono a Capaccio, in provincia di Salerno e, dal 1956, a Genova5. Durante l’infanzia ricevette parecchie umiliazioni da parte del padre Rocco – che gli faceva mostrare alle cugine il suo piccolo pene – e della madre, Anna Mazzaturo, che mostrava a tutti le lenzuola bagnate durante la notte. Soffrì, infatti, di enuresi fino all’adolescenza6. Anche con il fratello i rapporti non erano idilliaci. Gli psicologi che lo visitarono dopo il suo arresto ebbero modo di dichiarare come il suo rancore sia nato durante l’infanzia, rafforzato da continue prove e mai smorzato da occasioni di riscatto7. Noto negli ambienti della malavita e delle bische clandestine con il soprannome “Walter”, alimentò la sua fedina penale con diverse imputazioni, a partire da quando era ancora minorenne, per detenzione abusiva di armi, reati contro la persona e contro il patrimonio, furto, rapina, evasione. Dal suo fascicolo penale risultano, infatti, condanne a tre mesi per furto, avvenuto a Cuneo il 20 giugno 1971, a un anno per furto aggravato di un furgone, a Genova, il 23 novembre dello stesso anno, a un anno e sette mesi per rapina aggravata nell’ottobre del 1975, a tre anni e otto mesi per una rapina impropria e altri reati nel dicembre 1981, a un anno e quattro mesi per furto nel 1983. Tutte queste condanne furono scontate a partire dal 1988 e, nel complesso, sembravano non indicare una propensione dell’uomo all’uso delle armi da fuoco8. Il profilo risultante dalle testimonianze di chi lo conosceva, poi, pur mettendo in evidenza un atteggiamento profondamente sprezzante nei confronti delle donne, era quello di una persona disponibile e simpatica, in grado però di usare la manipolazione e la seduzione per ottenere dagli altri ciò che desiderava, manifestandola spesso con un’attitudine collaborativa e un atteggiamento compiacente nei confronti dell’interlocutore9. Altra caratteristica riconosciuta da tutti era la sua capacità di mantenersi fedele ad alcuni principi etici, pagando sempre i suoi debiti e non venendo mai meno in tal senso alla sua parola, per quella che nelle carte del processo si legge essere “una sensibilità esasperata rispetto al tema del ‘credito’ che pretendeva di riscuotere – per la sua puntualità nei pagamenti – anche presso gli sconosciuti, e dunque, correlativamente, un’avversione estrema per l’altrui sfiducia”10 Ebbe parecchi incidenti, nella sua vita, uno dei quali avvenne nel 1982 e per il quale rimase in coma per tre giorni, lasciandogli un’invalidità del quarantaquattro per cento, che salì di altri diciotto punti dopo un successivo incidente, nel 1991. Altra situazione drammatica e traumatica fu, nel 1987, il suicidio del fratello Michele, che si gettò sotto l’Espresso Ventimiglia-Genova con in braccio il figlio Davide, di quattro anni, proprio nel giorno in cui si era separato legalmente dalla moglie11. Bilancia era a giocare a dadi in una bisca quando apprese dai giornali del folle gesto, rimanendo pressoché insensibile per la morte di Michele, ma sconvolto dalla fine prematura di quel bambino al quale voleva molto bene e nel quale si rivedeva, abbandonato, maltrattato, figlio di genitori non degni di quel nome12. Vi fu un’ennesima sconfitta, una ulteriore “botta” al suo orgoglio perennemente ferito: l’unica ragazza che aveva significato qualcosa, a livello affettivo, nella sua vita – Valeria – lo aveva abbandonato mentre l’uomo era in carcere a scontare una delle sue pene detentive, probabilmente “istigata” da quella cognata da lui tanto detestata13. Serial killer atipico anche per l’età alla quale iniziò a uccidere, dopo i quarant’anni, all’epoca degli omicidi viveva in un modesto appartamento nella zona di Marassi, a Genova, pur maneggiando da sempre, a causa della sua passione per il gioco d’azzardo, grosse cifre di denaro.

Note 4 I. Cavo, op. cit. 5 https://it.wikipedia.org/wiki/Donato_Bilancia 6 M. Newton, Dizionario dei serial killer, Newton Compton Editori, Milano 2004. 7 I. Cavo, op. cit. 8 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 9 R. De Luca, Anatomia del Serial Killer 2000, Giuffrè, Milano 2001. 10 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 11 A. Accorsi, M. Centini, La sanguinosa storia dei serial killer, Newton Compton Editori, 2008. 12 I. Cavo, op. cit. 13 I. Cavo, op. cit. Gli omicidi per vendetta connessi al gioco d’azzardo

Il primo omicidio del quale si abbia certezza fu quello di Giorgio Centanaro, un altro frequentatore e gestore di bische clandestine di 52 anni, che fu soffocato nella sua abitazione del quartiere Molassana di Genova il 16 ottobre del 1997. In un primo momento, nessuno sospettò che l’uomo fosse stato ucciso, ma a gennaio del 1998 lo stesso Bilancia telefonò alla Dottoressa Canepa, titolare delle indagini sulle connessioni tra mafia e Genova, suggerendo con accento siciliano di riesumare il corpo, in quanto la morte dell’uomo non era da imputare a cause naturali14. Ma perché Bilancia cominciò proprio da Centanaro? Perché quel delitto lo avrebbe commesso nuovamente, se avesse potuto tornare indietro? Il motivo è da cercarsi nella sua compulsiva mania del gioco d’azzardo e nel “tradimento” che la vittima, insieme al suo socio Maurizio Parenti, aveva perpetrato nei suoi confronti, identificandolo come “il pollo” da spennare. E, infatti, la sua vendetta si completò il 24 ottobre dello stesso anno, quando nella notte uccise proprio il Parenti e la moglie Carla Scotto, questa volta a colpi di calibro 38, portando via dalla cassaforte aperta dai coniugi banconote per una quindicina di milioni, che trattenne, e alcuni orologi, anche questi di valore, che raccontò successivamente di aver buttato via. Bilancia, nella sua lucida follia, confessò che l’origine di tutto fu il rapporto con Centenaro e Parenti: “Se vogliamo risalire alla fonte, sono quei due nominativi lì. Perché questo sacco di merda qua, che sarebbe il Parenti, che si professava mio amico e addirittura m’ha fatto andare a casa sua a cena con mio padre e mia madre, un giorno in una bisca stava parlando con questo Centanaro Giorgio mentre io stavo transitando per andare in bagno. I due dicevano in genovese: ‘hai visto Walter, l’aggangiöu a ti gra dì e cossè ghe feu a sto chi...’ e difatti così è successo. Perché in quattro sedute devo aver perso intorno ai quattro o cinquecento milioni, qualcosa del genere. Allora a questo punto qua, ho detto, allora non ci siamo più qua. Le dico, è successo un... un... macello, nella mia testa è successo un macello. Se non sentivo il mio nome, andavo in bagno facevo quello che dovevo fare, tornavo indietro, non succedeva magari niente, vai a vedere. Invece sentendo il mio nome, mi sono fermato un attimo. Il senso era: ‘hai visto, in qualche modo sono riuscito ad agganciarlo, a portarlo qua da noi anziché di là’, perché io se ci fossero state cento bische andavo in tutte e cento. Così è successo un patatrac nel mio cervello, ed ho detto: questi qui bisogna che li uccido.”15 La ricostruzione dell’omicidio di Centanaro fatta agli inquirenti mise in evidenza la premeditazione e la lucidità con la quale Bilancia agì: “Allora, parlando di Centanaro, sapevo benissimo a che ora questo tornava dalla bisca. È stato sufficiente rilevare il numero della targa della sua macchina per condurmi alla sua abitazione. Avevo rilevato il numero di targa della sua ‘Punto’ blu scura, la macchina che usava in quel momento, ed avevo visto dove abitava, in quella strada che va dietro alle piscine della Sciorba. Una sera poi l’ho aspettato e, quando è sceso dalla macchina dopo averla parcheggiata un po’ in fretta, l’ho accompagnato su a casa; era l’ottobre del 1997. Gli ho detto: ‘vieni, che adesso giochiamo un po’ io e te, testa a testa’. Avevo la pistola, però ho pensato che se lo uccidevo con un’arma sarebbe successo un casino, perché abitava in una mansardina all’ultimo piano, ed allora l’ho soffocato con del nastro adesivo che avevo portato con me, e che dopo ho tolto dal corpo. Erano circa le tre di notte. Entrando, ho visto 500.000 lire sul tavolino e degli orologi d’oro. Non gli ho preso niente perché non me ne fregava niente dei suoi soldi.”16 Anche l’omicidio di Parenti e della moglie, per la quale Bilancia ebbe modo di dichiarare “La consorte di Parenti, io sono profondamente addolorato per lei, però era lì il momento della…”, fu programmato nei minimi dettagli: “Io, naturalmente, era più di qualche sera che l’aspettavo sotto casa; non ricordo se andava nella bisca lunedì, mercoledì e venerdì, oppure martedì, giovedì e sabato, però in uno di questi tre giorni qua, questo arrivava alle 4.30, 4.00, 3.30, a seconda, e io lì ad aspettare. Ero parcheggiato qui con la mia Mercedes blu - è il punto a) sullo schizzo allegato al verbale del 24 maggio - e guardavo cosa stava succedendo. Mi mettevo appostato lì per capire cosa succedeva. Normalmente Parenti non arrivava mai da solo, ma con una o più persone che se ne andavano dopo che lui era entrato nel garage. Lui aveva un BMW credo 318, grigio metallizzato: le sere che l’ho visto è sempre tornato in macchina. Per capire l’ora in cui arrivava, io andavo qua magari che era l’una di notte e aspettavo fino alle cinque. Questo, una volta lasciata la macchina, tornava e faceva questo percorso qua a piedi. Si fermava dall’edicola, poi arrivava da un semaforo che ho contrassegnato, attraversava, andava a prendere la focaccia e se ne ritornava a casa. Io avevo pensato, per far sembrare che arrivavo in quel momento, che lo incontravo per una purissima combinazione, allora nel momento in cui usciva dal garage avevo questi tempi qua per organizzarmi e fare il giro obbligato che c’è da fare con le autovetture per arrivare in questo punto, dove si gira per tornare indietro, e quindi lui mi ha visto arrivare mentre era nel portone; al che gli ho suonato il clacson. Allora, arrivato qua, l’ho chiamato: ‘ciao, oh eh ciao, come mai qua a quest’ora del...’, ‘Niente. Ah senti, ho delle... delle cose da farti vedere, degli orologi, se ti possono interessare?’; ‘Va bene, vieni, vieni’. Allora gli ho detto: ‘aspetta un attimo che parcheggio.’ Sono andato ed ho parcheggiato qui, dove s’intersecano la strada per andare sotto al cavalcavia e quella che viene in direzione di San Lorenzo. Sono sceso, sono tornato indietro a piedi e lui mi aspettava dentro il portone.”17 Salito in ascensore con l’uomo, dopo averlo ammanettato e minacciato con la pistola, entrò nell’appartamento dove la moglie stava dormendo e si fece consegnare denaro contante (“La somma sottratta è esattamente di 13 milioni e 500 mila lire, tutto quello che si dice in più sono bugie.”18) e orologi, prima di uccidere i coniugi. Lucidamente, si sbarazzò anche degli orologi: “Gli orologi li ho buttati perché non avrei potuto darli a nessuno, tanto era grave la storia: erano frutto di una rapina con due morti. Se li avessi venduti avrei lasciato una scia, una traccia. Insieme con la roba presa in casa ho buttato anche le chiavi delle manette, mentre le manette, come ho detto, gliel’ho lasciate addosso.”19

Note

14 I. Cavo, op. cit. 15 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 16 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 17 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 18 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 19 http://www.penale.it/document/bilancia.htm Gli omicidi per rapina

Nella catalogazione fatta dalla Corte d’Assise di Genova appartengono a questa categoria quattro omicidi singoli e un duplice omicidio, che fu il primo in ordine di tempo. Il 27 ottobre, nel tentativo di compiere una rapina, infatti, Bilancia uccise a colpi di pistola il gioielliere Bruno Armando Solari e la moglie Maria Luigia Pitto, sempre a Genova. L’uomo, durante le sue confessioni agli inquirenti, così ricostruì l’episodio: “Sono arrivato sul posto con la Mercedes. L’ho parcheggiata dietro, in direzione dei monti. C’è uno spazio sulla sinistra che deve essere, credo, il posteggio di una banca che c’è li, che affaccia su un’altra strada. Da lì ho raggiunto il palazzo a piedi. Si tratta di via Tortosa, Tortona, qualcosa del genere, è la strada dove fanno il mercato. Per arrivare nel portone sono comunque passato davanti alla banca, distante circa dieci metri da dove ho lasciato la macchina. Era un po’ prima di mezzogiorno, e la signora mi ha detto ‘chi è?’, io ho detto: ‘sono un postino, ho un’assicurata, una raccomandata per suo marito… non c’è?’. Lei ha risposto: ‘no, no, è qui’, e io ho detto: ‘però c’è da firmare’. Allora m’ha detto: ‘sì, va bene, viene giù e gliela dà’, ed io: ‘no, va bene, lasci stare, vengo su io non c’è nessun problema’. Allora sono andato su con l’ascensore, mi pare al terzo piano, e c’era la porta aperta. Indossavo un ‘K-way’ blu della Timberland, una specie di giacca da barca. Poi avevo con me una borsa nera con i manici, quella che era ancora nella Mercedes con la racchetta dentro, e per l’occasione avevo comperato un’agenda, per far vedere che avevo qualcosa in mano: però l’avevo messa nella borsa. C’era solo la signora davanti alla porta, e mi ha detto ‘Si accomodi’; io sono entrato, e come ho visto arrivare il marito ho preso la porta e l’ho chiusa. Come li ho avuti e tutti e due lì vicino gli ho detto: ‘Abbiate pazienza, qui è una rapina’. Io mi sono rivolto a lui e gli ho detto: ‘Bisogna che mi apre la cassaforte... perché so che c’è’. La signora mi ha detto: ‘No, qui no... non le diamo niente, se ne vada!’. La domestica non c’era lì, però la signora la chiamava facendone il nome, che ora non ricordo. Io allora le dicevo: ‘Signora... signora stia zitta, no eh..., signora stia zitta’, e il primo colpo è stato per lei.”20 Dopo aver ucciso la donna, freddò con due colpi anche il marito, senza avere la possibilità di portare via nulla. Ormai, l’omicidio faceva parte dei suoi “vizi”, delle sue dipendenze. A proposito di eventuali connessioni con gli episodi precedenti, il killer ebbe modo di dichiarare, durante le sue confessioni: “Devo precisare che mentre per gli omicidi Parenti e Centanaro c’è una certa ‘relatività’ tra i due episodi, i coniugi Solari prescindono da tutto, da qualsiasi altro episodio. È una cosa maturata in conseguenza di un fenomeno che mi è venuto..., che mi ha... trasformato. Il guardiano, le prostitute, i cambiavalute, il benzinaio, tutto quanto non ha nessuna relazione con un fatto precedente. Non ci sono legami fra le vittime, non ci sono rapporti precedenti fra me e le vittime. E se questa ci fosse io ne sono all’oscuro. Le uniche persone da me ammazzate che conoscevo erano Parenti, Scotto e Centanaro, a parte una prostituta che avevo frequentato come cliente.”21 La volontà dell’assassino di ricondurre la sua intera storia criminale ai primi due omicidi – lui considerò, come visto in precedenza, la morte della Scotto come un danno collaterale inevitabile – quasi volendo giustificare le azioni successive, contribuì a far classificare come estremamente complessa la personalità di Bilancia. In fondo, è come se il vaso di pandora delle sue frustrazioni attendesse solo un impulso per sfociare in una vendetta senza senso e senza il minimo rimorso. Per rifarsi dalla mancata rapina, la sera del 13 novembre, a Ventimiglia, attese che il cambiavalute Luciano Marro – per parecchi giorni tenuto sott’occhio durante le sue attività – uscisse per buttare la spazzatura per avvicinarlo, obbligarlo a rientrare e a consegnargli più di quaranta milioni di lire, per poi farlo inginocchiare ed ucciderlo con tre colpi di pistola. Sei vittime in meno di un mese. A proposito del delitto Marro, Bilancia ebbe a dichiarare: “Poi c’è l’altro episodio, l’uccisione di un cambiavalute a Ventimiglia città. La pistola che ho usato finora è sempre la stessa. Allora, qui chiaramente avevo bisogno di soldi perché se no non sarebbe successa la storia. Allò, questo qui è posizionato in un modo che di fianco c’è un... giardinetto... tipo mezza luna. Io mi sono messo lì più di qualche sera a guardarlo, per vedere cosa faceva, come si comportava; alcune sere era in compagnia di un uomo con un cagnolino, poi c’è da dire che queste persone qua vivono dietro un blindato chiuso dall’interno, non è che sono aggredibili facilmente. Però questa persona qui la sera andava a svuotare la spazzatura lasciando il blindato aperto, chiaramente. Una sera, quando ha vuotato la spazzatura, io sono entrato nel blindato insieme con lui e l’ho portato di là, gli ho fatto aprire la cassaforte, mi sono preso il denaro e poi, per evitare che potesse dire: ‘sì, è stato questo qua’ l’ho ucciso. Mi sembra di aver preso sui 45 milioni di lire, qualcosa del genere. Il Mercedes l’avevo parcheggiato nella strada sottostante, perché ci sono due possibilità per raggiungere l’autostrada. La prima è questa via che poi arriva al passaggio al livello, e l’altra è una superstrada che porta proprio all’autostrada, però avevo fatto caso che spesso c’erano dei blocchi stradali, ed allora ho preferito quella di sotto. Sui colpi che ho sparato lì, mi scappa da ridere quando dicono di me ‘un esperto di armi’; lì mi sembra che ho sparato tutto il caricatore, perché mi sono spaventato a morte, non so, mi sembrava che accennasse a una reazione o qualcosa del genere. All’uscita c’era una donna che ho incrociato: non l’ho manco vista perché ho attraversato la strada; mi sono andato a prendere la macchina e me ne sono andato; c’era la caserma della Polizia lì proprio a due passi. Credo che fossero all’incirca le sette e mezza di sera.”22 Il nuovo anno si macchiò subito di sangue. Il 25 gennaio, infatti, la calibro 38 fece nuovamente fuoco. A pagarne le conseguenze il sessantatreenne Giangiorgio Canu, un metronotte che lavorava a Genova e che fu letteralmente giustiziato in un ascensore di un palazzo di corso Armellini: un colpo alla nuca, il giubbotto dell’uomo a coprirgli la testa. Mentre le perizie balistiche stavano creando un filo conduttore tra gli omicidi, i primi momenti dell’indagine si svilupparono principalmente nell’ambiente di lavoro dell’uomo, come riportato da alcuni organi della carta stampata, per i quali il metronotte era “rigoroso e scomodo”23. Dalla sentenza di primo grado sull’omicidio Canu, poi, si può comprendere come questo omicidio appaia per lo meno diverso dagli altri: “Va anticipato fin d’ora che questo è forse il più atipico tra gli episodi delittuosi affrontati nel corso del processo, nel senso che non si è ben compreso – né Bilancia ha fatto qualcosa per chiarirlo – quale ne sia stato il movente. Il fatto viene comunque trattato in questa parte della motivazione – relativa agli omicidi commessi a fini di lucro – perché il pubblico ministero ha configurato la relativa imputazione di omicidio come avvinta dal nesso teleologico al contestuale delitto di rapina, ma la Corte – come si dirà – non ha condiviso tale impostazione.”24 Bilancia, per altro, ha sempre negato di conoscere Canu, non aiutando, quindi, a far luce sul delitto. Sempre dalla sentenza, si legge nella confessione – sono parole dello stesso Bilancia – “C’è stato poi l’episodio successivo, il metronotte. Niente, quello lì ho guardato due o tre sere che a una certa ora si introduceva in questo portone qui, dove io poi sono andato e l’ho preceduto, perché insomma, fare una chiave di un portone non è un problema. Mi sono fatto la chiave del portone e l’ho preceduto, ho aspettato che andasse su a fare il servizio di guardianaggio, poi, quando è sceso giù con l’ascensore ha aperto ed io gli ho detto: ‘stai fermo’, e anche lì gli ho preso il portafoglio; però poi il portafoglio, così com’era, l’ho buttato via, non ho manco guardato se c’era del denaro, niente... Gli ho messo il giubbotto sulla testa e gli ho sparato. Lato destro dell’ascensore. Perché il metronotte? Questo... glielo facciamo poi dire ai medici, il perché. Non lo conoscevo, non l’avevo mai visto prima. L’ho scelto come obiettivo perché è stato il più facile di tutti gli altri suoi colleghi che avevo visto. Ma, c’è stato un episodio della mia vita che un metronotte mi ha ferito. Nel corso di una fuga che avevo fatto da un appartamento, non mi ricordo quanti anni ormai saranno trascorsi, mi ha sparato e m’ha preso in una gamba, però poi sono fuggito ugualmente perché probabilmente doveva essere una scheggia. Per me fare la chiave di un portone è come bere un caffè, è la stessa cosa... insomma, mi dedico alle porte blindate, un portone non può certo costituire un problema…”25 A più riprese fu ipotizzato che l’omicidio di Canu si dovesse a una precedente conoscenza o frequentazione tra i due, probabilmente riferita da una persona sentita durante le indagini. Bilancia fu sempre categorico nel negare tale circostanza, come da sue parole: “Se ci sono persone che dicono che conoscevo il metronotte sono tutte bugie, niente, niente. Ripeto per l’ultima volta: la verità sola è questa, quel metronotte è stato oggetto della mia attenzione in funzione di un particolare giro che lui faceva. Non è vero che sono mai andato in una trattoria a mangiare con Canu: è falso!! Io questo Canu qui non l’ho mai visto in vita mia, ma proprio mai visto. Ricordo di una trattoria a Sturla, che mi fu consigliata da un’amica, Sofia, che mi fu presentata da un’infermiera che conoscevo. Me la consigliò perché avevo dei problemi con il colesterolo, ci sarò andato tre volte in tutto: una con un amico che si fa chiamare Giorgio ma in realtà è Lucio Grasselli, le altre con un altro di nome Sergio Quarati. È possibile che questa signora abbia confuso Sergio Quarati, che ha i capelli bianchi, con la fisionomia di Canu.”26 Il 20 marzo, Bilancia prese di mira un altro cambiavalute, sempre a Ventimiglia: Enzo Gorni, quarantaseienne padre di due bambine, ucciso per un bottino che Bilancia ha dichiarato essere di una decina di milioni di lire e di una decina di migliaia di franchi. Nella sua confessione-fiume ebbe modo, come sempre, di raccontare la sua verità: “Torniamo a Ventimiglia. Eh, lì è la stessa tipologia del cambista precedente, che poi tra le altre cose lì ha corso un grosso pericolo la moglie, perché io non l’avevo vista quando sono entrato la prima volta, anche perché io facevo soltanto attenzione affinché avessero il blindato aperto. Viceversa non mi sembrava che ci fossero possibilità di poter entrare in azione con quelle modalità. E la prima volta è successo nel pomeriggio, verso le cinque, mi pare, e lui era sulla porta; ho detto, questo qui per essere sulla porta deve entrare, e se deve entrare deve aprirgli uno che ha già aperto. Mi son presentato, sono arrivato vicino e in quel momento, guardando dentro, mi sono accorto che dietro al vetro là, proprio di fronte all’entrata, dove c’è il banco sul quale versano gli avventori, c’era una signora bionda, mi pare, con i capelli abbastanza lunghi. E allora io gli ho detto una cosa che non ricordo nemmeno: ‘quanto sta il cambio col franco?’, qualcosa del genere; lui ha risposto e me ne sono andato. Poi sono tornato alla sera, verso le sette e un quarto, sette e venti; sono ritornato su e ho visto che era da solo. Lui è uscito dal blindato per pulire il negozio dentro, magari dava una scopata, qualcosa lì, però aveva la porta esterna chiusa; io mi sono presentato, ho bussato e questo m’ha aperto. M’ha aperto e gli ho detto: ‘vai dentro che...’. E poi chiaramente, quando siamo arrivati lì in fondo, questo qui aveva la pistola lì appoggiata, che io tra le altre cose non l’avevo neanche visto. Siamo entrati da una porticina che dà su un piccolo corridoio che poi va a finire dietro al banco. E sotto al banco, in uno scaffale da qualche parte, c’aveva una pistola che non ho visto. Poi qui sotto aveva una cassafortina. Aperta. Gli ho detto: ‘ma scusa, ma gli altri soldi dove sono?’, perché c’aveva tutta roba da mille lire. Mi dice: ‘sono dietro al banco’. Una volta che siamo arrivati qua dietro, è successa quella storia lì, che poi lì, di nuovo ‘l’esperto tiratore’, ho svuotato tutto il caricatore perché il cambiavalute ha cercato di prendere la pistola. Ho messo il denaro che c’era nella cassaforte in un sacchetto, che era pochissima roba, e mi sembrava strano che un cambista potesse avere così poco denaro. Allora mi ha detto che gli altri erano dietro al banco. Siamo andati là e mentre io prendevo il denaro dal cassetto, questo qui si è abbassato e ha preso la pistola. Poi alla fine sono uscito. Come soldi ho preso, credo, neanche una ventina di milioni, o dieci, non mi ricordo. Sì, una decina di milioni. Lire italiane, a mazzette da mille lire e da diecimila, e poi c’erano sui diecimila franchi francesi.”27 Come in altri casi, la ricostruzione fatta dall’uomo presenta dei punti di discontinuità, nei quali l’assassino procede con la descrizione, per poi tornare indietro e specificare nuovamente qualcosa in merito a una dichiarazione già fatta. Si prenda ad esempio quanto dichiarato in merito alla pistola del cambiavalute. Il delitto Gorni ebbe un testimone nel cognato della vittima – Mario Toto – che, per abitudine, raggiungeva tutti i giorni l’uomo verso le 18.00, per poi attendere con lui fino all’orario di chiusura, verificando che nelle immediatezze dell’ufficio non vi fossero strani movimenti. Quel giorno, l’uomo arrivò un po’ più tardi – verso le 18.30, avendo dovuto portare la propria auto da un meccanico. Andò a piedi fino all’ufficio di Gorni, con il quale scambiò qualche parola, chiedendogli anche di accompagnarlo a casa in macchina. Il cognato gli rispose che avrebbe chiuso qualche minuto prima, per via di un appuntamento che aveva a Sanremo, consegnandogli le chiavi della sua macchina, così che potesse andare a recuperarla. Toto si allontanò per tre o quattro minuti, sopraggiungendo con il mezzo e parcheggiandolo proprio davanti all’ufficio, scendendo dall’auto e recandosi in un vicino negozio di alimentari, impiegando qualche altro minuto. Avvicinatosi alla porta, aveva scorto il cognato in piedi che gli faceva un cenno con gli occhi, come a dirgli di non entrare. Risalito in macchina, si mise ad attendere lì. Dall’abitacolo assistette all’aggressione ai danni del cambiavalute, cercando in qualche modo di intervenire e chiedendo ad alcuni ragazzi di avvertire i Carabinieri e un’ambulanza. Mantenendosi riparato – aveva sentito gli spari – vide Bilancia uscire dalla porta, notando parecchi particolari (com’era vestito, ben curato, brizzolato) e, vedendo che non era armato, gli si era fatto incontro, urlando: «Bastardo, t’ho visto, cosa hai fatto!»28. Vedendo che l’uomo sembrava armeggiare per cercare un’arma, Toto si rifugiò nel negozio nel quale aveva fatto acquisti pochi minuti prima, lasciandogli, di fatto, via libera. Anche l’assassino, nelle sue confessioni, ricordò l’episodio: “Allora, appena ho sparato al cambista sono uscito di corsa. C’era una persona là, davanti al cambio, che mi ha visto uscire ed ha gridato: ‘è armato, è armato!’ e se n’è andato nel supermercato trascinandosi dietro una donna. Io sono salito in macchina e me ne sono andato di corsa. Non mi posso ricordare se ho incrociato una macchina: stavo scappando da una rapina con un morto…”29 L’ultimo omicidio a scopo di rapina fu anche l’atto conclusivo del semestre di terrore imputabile a Donato Bilancia. Il 20 aprile, in un’area di servizio dell’autostrada Genova-Ventimiglia, Conioli Sud, nei pressi di Arma di Taggia, una rapina da due milioni di lire si concluse, infatti, con l’omicidio di Giuseppe Mileto, cinquantenne benzinaio, che avrebbe “fatto arrabbiare tantissimo” Bilancia con il suo comportamento, come dallo stesso riferito: “Però è successo un episodio, nel frattempo; è arrivata una macchina bianca, come ho detto, un’utilitaria di cui non so dire la marca. Quando io ho intimato al benzinaio di darmi i soldi e gli ho detto che era una rapina, è arrivata una macchina e a bordo c’era credo un ragazzo, mi sembra un ragazzo, però mi sembrava un ragazzo di sesso maschile. Allora gli ho detto: ‘Servi la macchina tranquillamente e... poi ritorna; stai tranquillo se no qua fai succedere un... disastro’. Difatti questo ragazzo o ragazza, che ora non mi ricordo, ha pagato con la carta di credito. Poi mentre lo faceva firmare, il benzinaio gli deve aver detto qualcosa. Preciso che io gli stavo dietro a breve distanza, ma non sotto la minaccia della pistola; gliel’avevo già fatta vedere prima. Allora, mi sono accorto che il benzinaio aveva fatto qualche cenno a quel cliente, e la cosa m’ha fatto arrabbiare tantissimo. E quando è andato via questo... personaggio qua gli ho detto: ‘vai dentro’. E gli ho sparato.”30 Tornando sull’argomento in un momento successivo, Bilancia fornì altre informazioni in merito a quanto accaduto in quell’occasione: “Non lo so cosa mi aveva detto che mi ha fatto arrabbiare, non mi ricordo più ma mi aveva fatto arrabbiare tantissimo… Ah, ecco che cosa: credo di avergli detto che non potevo pagarlo perché non avevo soldi, però, al contrario della disponibilità che mi aveva testimoniato un altro distributore - all’uscita di Finale Feglino - in uno dei giorni precedenti, ‘ma non si preoccupi le faccio il pieno poi passerà, verrà’ ed io difatti sono passato e gli ho dato quello che gli veniva, viceversa questo qua mi ha detto: ‘ma no, qui tutti fanno così’; io gli dicevo di prendere la targa che sarei tornato l’indomani, e lui niente; allora mi ha fatto arrabbiare come un belva. È stato lì fuori che ho estratto la pistola e gli ho detto: ‘Allora dammi tutti i soldi’.”31 Da lì a quindici giorni, Bilancia sarebbe stato arrestato.

Note

20 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 21 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 22 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 23 Delitto Canu, aumentano le prove contro i colleghi, La Stampa, 31 gennaio 1998 24 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 25 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 26 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 27 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 28 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 29 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 30 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 31 http://www.penale.it/document/bilancia.htm Gli omicidi delle prostitute

Circa un mese dopo l’omicidio Canu, Bilancia “inaugurò” un nuovo filone delle sue perversioni criminali. A partire da quel momento, le motivazioni omicidiarie si persero nella mente dell’assassino, al punto che egli stesso dichiarò: «Non è che non voglio dire perché è successo: è che lo vorrei sapere anch’io. La scintilla è partita da quella quell’episodio là - quello di Centanaro e Parenti - che ho raccontato prima. Poi il prosieguo non so cos’è successo.»32 La prima vittima di questa che si potrebbe anche definire “ondata” – interrotta solamente dall’omicidio del cambiavalute Gorni – fu Almerina Bodejani, conosciuta anche come Stela Truya, prostituta albanese ventiquattrenne. Dopo averla prelevata davanti all’Automobile Club presente in zona Foce, l’uomo contrattò con lei una prestazione a casa sua, per una cifra di un milione di lire. In realtà, le cose andarono diversamente: “Però nel pomeriggio, che ero andato a trovare mio padre nella casa di Cogoleto in via Arrestra, mi sono andato un po’ a vedere le zone lì intorno, ho visto che c’era questa strada col passaggio a livello che andava a finire in un tunnel poi fino in fondo e sbucava, però era una strada chiusa quindi… La sera l’ho presa e le ho detto che le davo un milione, mi pare, se veniva a casa mia; poi me la son portata là, ho avuto un rapporto sessuale di tipo... penetrazione e poi l’ho uccisa. Finisce Cogoleto, c’è quella sbarra che chiude la strada, che però non è assicurata; si alza la sbarra e si entra, poi ad un certo punto, ora non so quanto, si passano delle case che sono qui sulla destra andando in direzione ponente. C’è una prima galleria, in cui mi sono accostato alla parete destra per impedire che uscisse, proprio all’inizio del tunnel, con il muso in direzione di Varazze. Alla fine della galleria c’è uno slargo sulla sinistra, e poi la stradina prosegue: consumato il rapporto sessuale sono venuto avanti con la macchina fino a questo slargo, poi ho fatto retromarcia e mi sono fermato in questo spiazzo. Avevo un asciugamano bianco in macchina e l’ho preso in mano. L’ho fatta scendere e l’ho fatta dirigere verso il mare, in corrispondenza di una piccola scarpata che va giù verso il mare. Le ho detto: ‘Scendi un attimo, guarda il mare, ti lascio qua e me ne vado...’, non le ho fatto capire che avrei fatto quello che ho fatto. Le ho detto che non le avrei fatto niente, perché non volevo che vedesse la targa, e allora a questo proposito le ho messo l’asciugamano in testa e poi le ho sparato un colpo alla nuca. La ragazza è caduta in avanti, ed è rimasta con i piedi qui, all’inizio della scarpata; ho preso l’asciugamano che era rimasto sotto, l’ho messo in un sacchetto di plastica e poi sono andato via. Il corpo non l’ho manco toccato, io; ho solamente tirato l’asciugamano di sotto, ora non so se però si è mosso il cadavere. Quando ho sparato la ragazza aveva l’asciugamano in testa, ed ho potuto vedere che era girata verso il mare: il proiettile è certamente entrato da dietro. È caduta con la faccia in avanti, con la testa in direzione della discesa e del mare. Non ho fatto caso se levandole l’asciugamano di sotto si sia girata la faccia verso l’alto. Quanto all’abbigliamento, aveva la gonna e credo un giaccone tre quarti scuro, però questo è un dettaglio che non ricordo. Si era denudata per avere il rapporto con me, ed i suoi vestiti, rimasti in macchina sul sedile posteriore, li ho messi tutti nel solito bidone della spazzatura, mi pare a Varazze. Credo avesse una borsa con quelle due cose che hanno loro, ma non ho toccato assolutamente niente con le mani per non lasciare impronte, e cose di questo genere. Tutto quello che era suo è stato racchiuso in più sacchi di plastica e poi distribuito nei cassonetti.”33 Era il 9 marzo 1998. Bilancia ammise che con la ragazza aveva già avuto rapporti professionali in altre situazioni, negando di conoscerne il nome e di essersi mai accompagnato in pubblico con lei. Il 18 dello stesso mese toccò analoga sorte a Lyudmyla Zubckova, ventiduenne ucraina, verso la quale il modus operandi è stato praticamente identico a quello utilizzato nel delitto precedente: “La prima prostituta di Albenga - l’altra cui si riferisce è la Valbona - l’ho prelevata su quel rettilineo che c’è lì, dove ci sono tutte le altre, del resto... però sono arrivato alle undici di sera, sono andato a vedere un posto dietro l’ospedale lì... cioè un posto abbastanza isolato, e tra tutti quelli che ho visto quello mi sembrava il migliore. Non la conoscevo né l’avevo mai vista prima. Poteva essere l’una, più o meno. L’ho portata lì, stessa tecnica, sempre con la Mercedes; però qui non abbiamo avuto rapporti se non una fellatio oris perché… Niente, le ho detto la solita storia: ‘vieni a casa mia che ti do un milione che ne...’. Ho parcheggiato attaccato al muro, in maniera che non potesse scendere, però non è che ci fosse molta distanza, a poca distanza c’è un albero eh... Allora, finita quella prestazione sono tornato indietro, perché c’era una piazzola dove si gira proprio a malapena. Mi sono posizionato col dietro della macchina attaccato quasi all’albero che c’è lì e le ho detto: ‘scendi un attimo che ti lascio qua io me ne vado eh...’, perciò l’ho fatta girare verso... la parte opposta della macchina e le ho sparato un solo colpo mentre era in piedi. Aveva un telefonino che ho preso, però questa qua non l’avevo fatta spogliare, era vestita, almeno parzialmente, e in macchina sono rimasti la borsetta e credo gli effetti personali, tra cui sicuramente il telefonino che poi io, sacchetto, ho buttato tutto dalla scogliera in mare, nel tratto fra Albenga e Genova.”34 Una costante che legò i delitti Canu, Bodejani e Zubckova è il fatto che le indagini si siano dirette, inizialmente, verso persone estranee ai fatti35. Sempre nel mese di marzo, il giorno 24 per la precisione, il killer agì per la prima volta fuori dal territorio ligure, facendo tappa in Piemonte, a Novi Ligure, in località Barbellotta, nota in quegli anni per essere frequentata da prostitute e viados. A fare le spese della follia dell’uomo furono il quarantaquattrenne Candido Randò e il trentunenne Massimo Gualillo, due metronotte. Il transessuale equadoregno con il quale si stava accompagnando, John Zambrano, alias Juli Castro, detto “Lorena”, ventisettenne, fu ferito e si finse morto, comunque difendendosi prima di arrendersi, con furore, come ricordato dallo stesso Bilancia: “Questo qui m’è saltato proprio addosso, abbiamo avuto una breve colluttazione, non che io sia tanto forte fisicamente, durante la quale l’ho colpito qui sulla testa, comunque, col calcio della pistola. Poi ho preso la macchina che era in mezzo alla strada, l’ho portata dietro l’altra Panda e me ne sono andato.”36 Non fu l’unico inconveniente di quella sera. I due vigilanti, infatti, prima di essere colpiti a morte avevano chiamato la centrale, di sede a Novi Ligure, dove il collega Fernando Antonio Costante dichiarò di aver ricevuto una prima comunicazione da Villa Minerva – la scena del crimine – alle 2.01, che segnalava l’assenza di problemi. Alle 2.02 ricevette una seconda chiamata durante la quale una voce maschile, parzialmente soffocata, chiedeva aiuto. L’uomo pensò a uno scherzo, ma qualche minuto dopo udì un’altra voce, questa volta femminile, che diceva «Aiutatemi, sto male!» Dopo aver sentito altri lamenti e verificato che i colleghi non rispondevano più, Costante chiamò i Carabinieri. John Zambrano, sopravvissuto all’aggressione, fu la prima persona a dare una descrizione precisa del serial killer, ripercorrendo per intero la disavventura occorsagli. Non fu da meno il particolare che portò all’identificazione della macchina utilizzata, una Mercedes nera, della quale “Lorena” aveva visto anche la prima cifra della targa. Bilancia fu certo di aver lasciato indizi, prova ne sia il fatto che l’uomo cercò, in qualche modo, di sbarazzarsi della Mercedes nera che aveva utilizzato fino ad allora, cercando di scambiarla con altra auto tramite un conoscente, tale Pino Monello. Monello avrebbe avuto, successivamente, anche un ruolo nell’identificazione e nella cattura del Bilancia. 29 marzo, Cogoleto. A cadere vittima dei suoi colpi, Evelin Esohe Edoghaye, alias Tessy Adodo, prostituta nigeriana ventisettenne, il cui cadavere venne ritrovato a qualche centinaio di metri dal luogo nel quale fu rinvenuto quello della Bodejani. La ragazza, che fu fatta salire su una Opel Kadett – precedentemente rubata dall’uomo – nella zona dell’Automobile Club alla Foce di Genova, subito prima di essere assassinata tentò la fuga, ma fu raggiunta da tre colpi di pistola. A proposito dell’automobile utilizzata, Bilancia ebbe modo di confessare: “La Mercedes, invece, la tenevo in un parcheggio lì a duecento metri da casa, dov’è stata trovata. Era sempre all’aperto, tanto è vero che lì tutti gli zingarelli avevano spaccato il vetro, tutto, rubato tutto quello che era possibile rubare. Però ogni tanto mi prendevo cura di spostarla, magari di qui a là, di là a qua, per non lasciarla ferma sempre nello stesso posto. Il buco all’altezza del deflettore era coperto con dello scotch, così da non far entrare dentro la pioggia. L’ho anche fatta lavare la Mercedes, a differenza della Kadett. La Mercedes non la usavo più perché avevo comunque sentore che la storia cominciasse a essere un po’ pesante, anche perché chi mi conosce non è che mi vuole molto bene... Poi dai giornali avevo letto che si cercava un’autovettura di un certo tipo, e apposta per questo ne avevo rubato un’altra, mi sembra evidente.”37 Anche in questo caso, Bilancia ricordò durante la confessione come la giovane avesse tentato di fuggire: “Siamo andati su quella piazzola lì a Cogoleto, che avevo visto in precedenza; ho avuto con lei un rapporto di penetrazione dopo di che l’ho fatta scendere dalla macchina e le ho sparato due o tre colpi alla testa, credo... Questa qui deve aver subodorato qualcosa, insomma si muoveva, non è che stava ferma… Ha fatto come per scappare. Io ero seduto dal lato guida, sono sceso, le ho detto: ‘Scendo che ti lascio qua perché non voglio che vieni con me, eccetera eccetera’ e poi i colpi, una cosa uguale per tutte no, monotonia assoluta. Eh... però quando è scesa, che ha visto che ho fatto per prendere qualcosa, si è chiaramente impaurita… L’ho fatta scendere di forza passando attraverso il lato guida, perché lei non poteva scendere dall’altra parte: la macchina era parcheggiata nel solito modo, attaccata al muro per impedire di scendere a chi si trovasse dall’altra parte. Quando è scesa lei mi ha detto: ‘Ma no, non mi lasciare!’... e poi, come è scesa che ha visto che ho fatto un gesto ha cercato di scappare, ed allora è partito il primo colpo. Poi questa qua si è accasciata per terra, e l’ho colpita ancora alla testa... L’ho presa per un braccio per tirarla giù dalla macchina, e lei mi ha dato una morsicata qui sulla mascella destra. Quanto ai suoi oggetti personali, c’era credo sempre la solita borsetta, perché era vestita quando è scesa dalla macchina, quindi credo che abbia lasciato la borsetta e forse una scarpa o entrambe; comunque, quello che ha lasciato ha fatto la solita fine nel sacchetto in un contenitore della spazzatura non ricordo se di Varazze o di Arenzano, senza toccare niente, assolutamente niente. Perché io quando faccio queste cose qua, proprio anche quando rubo, non uso mai le mani.”38 Proprio l’omicidio Edoghaye fu quello in relazione al quale fu emessa l’ordinanza di custodia cautelare eseguita il 6 maggio 1998. L’ammissione della propria responsabilità per questo episodio portò il killer a confessare di essere colpevole anche in relazione a tutti gli altri delitti, che gli furono formalmente contestati soltanto in un secondo tempo sulla scorta delle sue dichiarazioni e dei riscontri oggettivi. Nei primi giorni di aprile – probabilmente il 3 – avvenne un episodio che non portò a un omicidio per la prontezza della vittima. L’assassino ebbe modo di confessarlo in un paio di interrogatori, introducendo il discorso senza che nulla gli fosse stato imputato: “Per me le prostitute sono come le altre, non è che abbia dei rancori; per esempio, ecco voglio fare un esempio anche per far capire una cosa che non riesco a capire neanche io... Sanremo, io in casa di quella lì ci sono andato per ucciderla… In Sanremo c’era una prostituta nella cui abitazione sono andato... per ucciderla. Io questa non sapevo chi era, niente, una notizia raccolta sul giornale locale, di quelle che mettono sulla voce “massaggi”. Io sono andato lì per ucciderla. È nei verbali, ho fatto una ricognizione a Sanremo. Mi è stata contestata la rapina, ma non lo so, questa qui in un momento di demenza avrà detto che le ho preso dei soldi, almeno cosi ha detto no? Non ho preso una lira... forse nel momento di gloria di questa presenza sui network e compagnia, ha voluto accentuare una situazione che non si è prodotta... perché non è stato toccato niente... Ho letto l’inserzione sul giornale, ho telefonato, ‘Pronto, posso venire? Sì, venga; a che ora? Alle quattro; benissimo’. Io sono andato a casa sua per ucciderla. Questa qui, la sola fortuna che ha avuto è quella di potermi parlare... cioè, quando avevo spianato la pistola... perché da questa ero andato prima a vederla e poi in un secondo momento le avevo detto che ero senza soldi e sarei tornato in un secondo momento... invece il secondo momento sono ritornato per ucciderla, e, invece questa qui ha avuto la fortuna di potermi parlare un secondo, si è messa un attimo a piangere, mi ha detto: ‘ma no che cosa vuoi fare, c’ho un bambino...ho un bambino piccolino...’, e lì mi sono proprio... mi ha ucciso, ha ucciso lei a me... non ce l’ho fatta, non ce l’ho fatta, dopo non ce l’ho fatta, e me ne sono andato. Non ho preso assolutamente niente. Come dicevo, per me le prostitute sono persone come le altre, non ho dei rancori particolari. Questa persona qua è viva perché mi ha detto ‘sta storia qua, ha avuto un minuto per potermi parlare e mi ha fatto presente soltanto una storia che mi ha proprio smontato, mi ha fatto rientrare nella realtà probabilmente, parlandomi di questo bambino... dice: ‘...ma no, cosa vuoi fare, c’ho un bambino piccolo...come faccio...’. Il bambino m’ha proprio... insomma, non me ne fregava niente di dover... cioè non è che avevo fatto una valutazione di rischi, niente, l’ammazzavo sicuro e me ne andavo... come era visto dalla partenza... Come volevo fare!... Però in tutti gli episodi... prima di portarli a termine, ho avuto un attimo di lucidità, ho detto: ‘...ma che cazzo stai facendo!’, in mente però; poi non so cosa volta per volta cosa è successo, perché io ho sempre fatto una vita piuttosto da... mai violenza, ma niente, assolutamente niente... questa qui però, mi ha fulminato proprio quando mi ha parlato del bambino...”39 Il bambino, come ebbe a riferire l’interessata, Luisa Ciminiello, era in realtà il nipote della donna, la quale in sede di denuncia segnalò come il misterioso aggressore l’avesse rapinata di duecentomila lire. La notte successiva al primo omicidio su un treno compiuto dall’uomo – cioè quella tra il 13 e il 14 aprile – fu la volta di Mema Valbona, alias Kristina Walla, prostituta macedone ventunenne. Nella sua follia, Bilancia cercò di sviare le indagini con un accorgimento da lui stesso confessato: “La ragazza l’avevo presa a bordo sul rettilineo di Albenga, m’aveva detto che era slava o qualcosa del genere, polacca. Insomma dei paesi dell’Est. Comunque non apparteneva a nessuna delle nazionalità delle altre, sicuro. Perché se no non l’avrei fatta salire. Dovevano per forza essere di nazionalità differenti.”40 Per questo omicidio, Bilancia ebbe relativamente poco da riferire, facendo mettere a verbale che tutto si era verificato come nelle occasioni precedenti e specificando: “Nessuna si è inginocchiata, nessuna ha seguito ‘sti rituali del... soltanto che dicevo: ‘Siediti per terra che ti copro la testa così non vedi la targa’, cose di questo genere. E immediatamente dopo avergli messo il giubbotto, questa qui aveva un giubbotto nero, mi pare, qualcosa del genere… Non è che l’ho fatta scendere e le ho detto che le avrei sparato… Le ho detto: ‘Scendi perché non voglio portarti in giù, non voglio che vedi la targa, non voglio che... che succedono problemi…’”41 Quattro ragazze e due vigilanti uccisi, una persona ferita e un’altra scampata per miracolo alla morte: questo il bilancio – ci si perdoni il gioco di parole – di una pulsione omicida apparentemente senza alcuna motivazione.

Note

32 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 33 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 34 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 35 Stela e Ljudmjla, killer in cella?, La Stampa, 29 marzo 1998 36 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 37 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 38 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 39 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 40 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 41 http://www.penale.it/document/bilancia.htm Gli omicidi sui treni

I due episodi omicidiari verificatisi sui treni, ai danni di donne assolutamente comuni, costituirono a detta degli inquirenti due tentativi di depistaggio, di creare confusione sulla vittimologia e sull’attività dell’assassino, di rompere il filo di continuità che gli investigatori avevano già identificato tra vari delitti, in particolare quelli di Novi Ligure, Varazze, Cogoleto e Pietra Ligure. A parziale conferma di tale supposizione, esisterebbe una confidenza che lo stesso Bilancia avrebbe fatto a una cara amica, Maria Renata Carta, proprio nel periodo nel quale gli omicidi si verificarono, dicendole che “se fosse stato lui il serial killer avrebbe commesso i due omicidi per depistare le indagini”42: un elemento di una razionalità tale da sradicare alla base qualsiasi ipotesi fondata sull’impulso, ad esempio, di vendicare la morte del fratello, o qualsiasi altra in relazione a quella particolare situazione. Il primo episodio si verificò il 12 aprile 1998, la domenica di Pasqua: il serial killer colpì sull’Intercity Tigullio, da La Spezia a Venezia, uccidendo in una ritirata del treno l’infermiera trentaduenne Elisabetta Zoppetti, che si stava recando al lavoro all’Istituto Tumori di Milano. L’omicidio venne scoperto mentre il treno transitava tra Brescia e Verona. A detta di Bilancia, però, lui avrebbe agito molto prima: “Ok. Passiamo ai treni? Allora, ho preso il treno a Genova. Il pendolino che andava a Venezia, credo. In uno scompartimento di prima classe c’era una donna, che io chiaramente non ho mai visto e conosciuto, e... io ho aspettato che questa qui si recasse in bagno. Aveva la borsa con sé quando si è alzata. Io ho aperto la porta con una chiave falsa. È una normalissima chiave a quattro, una femmina a quattro ecco. L’ho buttata via dopo il secondo episodio, e preciso che l’avevo fatta io stesso, è... una sciocchezza. Questa qua s’è messa ad urlare e io le ho messo la giacca sulla testa e le ho sparato. L’ho fatto per non vedere cosa succedeva al momento dello sparo. Però ho ripreso la borsa, sempre con la pinza, e gliel’ho rimessa nello scompartimento dove stava lei. Ah no, l’unica cosa che ho preso è il biglietto, perché spuntava lì dalla borsa e io non avevo biglietto perché avevo preso il treno così, senza mete. Il fatto è successo tra Serravalle e Tortona, dove pensavo che quel treno fermasse; invece non ha fermato perché fermava a Voghera. Quindi sono rimasto una ventina di minuti lì, con la signora in bagno, anche meno, un quarto d’ora. Da questo periodo di tempo ho dedotto che il fatto fosse accaduto tra Serravalle e Tortona. A Voghera sono sceso e ho aspettato un altro treno che andava giù a Genova. Ho strappato il biglietto e l’ho buttato via, e ho preso un treno che tornava a Genova.”43 Lo stesso Bilancia, durante gli interrogatori, provò a introdurre il discorso relativo al suicidio del fratello: “Il motivo banale di una storia di questo genere potrebbe risalire a quella storia di mio fratello, però io non posso dire che l’ho fatto per questo, perché direi una bugia... Io so che mi sono alzato e sono andato in stazione col fermo proposito di fare quello che ho fatto... nel caso di quella povera crista, lì sul Tortona, non ho fatto niente; in quell’altro caso mi sono masturbato... per nessun caso io ho usato violenza sulle due donne...”44 Il 18 aprile si verificò il secondo episodio. Questa volta il convoglio era il diretto Genova-Ventimiglia, sul quale viaggiava, ignara del suo destino, l’impiegata trentaduenne Maria Angela Rubino. Il modus operandi fu lo stesso del delitto Zoppetti, con una macabra variante che fu lo stesso assassino a riferire, in sede di confessione: “L’altro episodio... uguale. Ho aspettato che questa signora si portasse in bagno; ho letto di una... una polemica sulla cosa del sedile del bagno alzato, cioè probabilmente questa signora stava facendo un bisogno, probabilmente. Questa è stata una cosa rapidissima perché io sono montato sul treno a Sanremo, e sono sceso a Bordighera; quindi è stata una cosa rapidissima. Il fatto è avvenuto tra Sanremo e Bordighera, che è uno sputo di tempo. Perché, allora, questo qua era il penultimo vagone, dove si trovava questa signora. Nell’ultimo scompartimento c’erano i controllori oppure personale del treno, non lo so. Io ero nel corridoio davanti alla toilette, e la signora è arrivata sempre con la borsa. Dalla mia posizione potevo vedere la porta della toilette. Ho visto arrivare la signora. È entrata nel bagno, ho aspettato qualche minuto e poi sono entrato con questa chiave, la solita. Ho aperto la porta all’improvviso e l’ho colpita subito alla testa, prima che si rendesse conto di quello che le stava accadendo. Solitamente, quando una donna va in bagno, se ha una giacca se la leva e la lascia lì appesa da qualche parte. Ho preso la giacca, gliel’ho messa in testa e le ho sparato. Qui mi sono trattenuto un po’ di più ho fatto un’operazione un po’ particolare, eh... mi sono masturbato. Ci ho messo un secondo, comunque. Poi eh... quando uhm... poi è colato nella mia mano, mi sono pulito sulla spalla di questa qui, su un maglioncino scuro o una cosa del genere che indossava. Non so come mai mi sia venuto di farlo, non era assolutamente nelle mie intenzioni prima... ho sentito in quel momento, non so, forse un... disprezzo per quella donna che non avevo mai visto prima...”45 Uno sfregio, insomma. Un gesto senza senso in un mare di omicidi senza senso.

Note 42 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 43 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 44 http://www.penale.it/document/bilancia.htm 45 http://www.penale.it/document/bilancia.htm L’arresto e le confessioni

Alle undici di mattina del 6 maggio 1998, davanti all’ospedale San Martino di Genova, Donato Bilancia veniva ammanettato, quasi senza stupirsi della cosa, dai Carabinieri che avevano svolto le indagini su di lui. Il 14 maggio, alle 17.40, nella caserma di Genova-Molassana, alla presenza del sostituto procuratore di Genova, Enrico Zucca, iniziava la confessione-fiume dell’uomo, che si concluse, in due tranche distinte, il giorno dopo. L’ipotesi di una non punibilità a causa di totale infermità mentale non fu presa in considerazione, anche in conseguenza della perizia psichiatrica condotta dai professori Romolo Rossi e Francesco De Fazio, dalla quale emersero interessanti dati. Durante l’esame psichico, il comportamento dell’uomo mirava a tenere sempre in pugno il controllo della situazione: non si sedeva mai durante i colloqui, restando sempre in piedi e camminando nella stanza, esprimendo sempre una serie di atteggiamenti in realtà timorosi, ma mantenendo un comportamento del tutto adeguato ed evidenziando una coscienza vigile e lucida e una memoria molto ben funzionante. I due luminari non riscontrarono disturbi della tensione o della percezione, potendo così escludere stati allucinatori o pseudoallucinatori. Non di meno, furono esclusi disturbi del gruppo schizofrenico o paranoide, così come una depressione maggiore, un disturbo del controllo, parafilia e sindrome da disturbo dissociativo. Nel prosieguo della perizia, i due Professori identificarono un disturbo narcisistico di personalità, caratterizzato dalla grandiosità, da un lato, e dalla tendenza all’isolamento dall’altro. Bilancia risultò essere una persona intensamente sofferente, che aveva subito delle offese narcisistiche molto intense nella piccola infanzia, con la costante percezione da parte sua che i genitori si fossero occupati di lui solo materialmente, ma non affettivamente. La perizia mise in evidenza che il passaggio dal “ladro professionista” – quale l’uomo si considerava – al killer fu dovuta alla sua incapacità di sopportare la frustrazione e il tradimento, la presa in giro. Questo, probabilmente, trovò in Centanaro e Parenti la goccia che fece traboccare il vaso e che portò a tutto ciò che seguì. Quella goccia che lo portò a vendicarsi, non solamente dei suoi due obiettivi, bensì di tutta una vita avara di soddisfazioni. Nessuna patologia. Nessun disturbo di origine organica. Solo un aspetto caratteriale, un disturbo del comportamento, che non incise, secondo i consulenti, sulla capacità di intendere la realtà che stava vivendo e i delitti che stava compiendo. Dopo il processo di primo grado, Bilancia venne condannato a tredici ergastoli per i diciassette omicidi e a sedici anni di reclusione per il tentato omicidio di John “Lorena” Zambrano, con sentenza del 12 aprile 2000 del tribunale di Genova, confermata poi in appello e in Cassazione. Scontò inizialmente la sua pena nel carcere di Marassi, poi in quello di Chiavari, infine in quello di Padova. Significativo resta, su questa storia, il titolo del libro di Ilaria Cavo, già citato, dal titolo “Diciassette omicidi per caso”. Bibliografia e sitografia

1. A. Accorsi, M. Centini, La sanguinosa storia dei serial killer, Newton Compton Editori, 2008. 2. I. Cavo, Diciassette omicidi per caso – Storia vera di Donato Bilancia, il serial killer dei treni, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 2006 3. R. De Luca, Anatomia del Serial Killer 2000, Giuffrè, Milano 2001. 4. M. Newton, Dizionario dei serial killer, Newton Compton Editori, Milano 2004. 5. Delitto Canu, aumentano le prove contro i colleghi, La Stampa, 31 gennaio 1998 6. Stela e Ljudmjla, killer in cella?, La Stampa, 29 marzo 1998 7. http://www.penale.it/document/bilancia.htm 8. http://www.poliziaedemocrazia.it/live/index.php? domain=rubriche&action=articolo&idArticolo=1392 9. https://it.wikipedia.org/wiki/Donato_Bilancia La presente opera è stata realizzata dall’Autore.

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Edizione free: Novembre 2020