Raymond Lambert

L’HOTEL DELLA MORTE LENTA

Le Parusciole

Raymond Lambert, l’uomo che guardava in alto

di Alberto Paleari

Una decina d’anni fa, o forse più, in uno di quei pomeriggi temporaleschi che capitano spesso in estate sul Bianco, ciondolavo da una finestra all’altra della sala da pranzo del rifugio del Réquin, spiando l’arrivo di una schiarita tra gli scrosci di pioggia che batteva- no di traverso sui vetri. Gilbert, il custode, mi rassicurava: “demain c’est le grand beau”. In quel periodo andavo spesso al Réquin, e con Gilbert, che oltre a fare il custode era anche guida di , ero abbastanza in confidenza: l’avevo anche incontrato un paio di volte in montagna, sulle Aiguilles, sempre con un suo cliente di Argéntière che faceva il pittore. Io non ero tanto tranquillo: più in alto quella piog- gia era neve e grandine e temevo che le fessure della via Rénaudie, che dovevo salire il giorno dopo, si in- crostassero di verglas. Ma Gilbert continuava a rassi- curarmi e, credo per farmi star fermo (gli dava fastidio quel continuo mio andare avanti e indietro, o forse più che a lui dava fastidio alla moglie, una maniaca dei pavimenti lucidati a cera, la quale per entrare nel ri- fugio voleva che si mettessero le pattine) prese un libro 5 da una vetrinetta chiusa a chiave che fungeva da bi- blioteca e mi disse di leggerlo, io che ero uno scrittore: quello sì che era un bel libro di montagna! Come facesse a sapere che ero uno scrittore non lo so, però ci rimasi anche un po’ male, la sua ultima affermazione sembrava mancante della conclusione: mica i tuoi. Che però avesse letto i miei libri era da escludere, non sono mai stati tradotti in francese, per cui presi il libro di buon grado e, finalmente, con gran sollievo della gardienne, mi sedetti e cominciai a leg- gere. Il libro era intitolato “A l’assaut des quatre mille” e l’autore un certo Raymond Lambert. Mi accorsi subito che era una raccolta di racconti alpinistici, quelli che in Francia sono chiamati récit d’ascension, un genere letterario che normalmente non amo e che quasi sempre mi annoia, ma quel po- meriggio passato in compagnia di Lambert volò via in un attimo; quando chiusi l’ultima pagina il temporale era finito, dalle finestre entrava la luce azzurra del cielo sereno, la cena era pronta e la moglie di Gilbert mi stava spingendo fuori dal rifugio a guardare il tra- monto, perché non voleva nessuno tra i piedi mentre apparecchiava. Il racconto più avvincente era intitolato “L’Hotel de la mort lente” e si svolgeva proprio da quelle parti, sull’Arète du Diable al Tacul, di cui l’autore aveva fat- to nel 1938 la rocambolesca prima invernale, proprio partendo dal rifugio del Réquin. Per anni cercai poi inutilmente quel libro nelle li- brerie di Chamonix, e solo l’anno scorso Livia riuscì a trovarlo, tramite internet, in una libreria antiquaria

6 di Lorient, in Bretagna. Pubblicato a Ginevra nel 1953 dall’editore Jehe- ber, il volume, di carta porosa giallina, le pagine an- cora da tagliare, con all’interno fotografie in bianco e nero, e in copertina una foto a colori sbiaditi del versante Brenva del Bianco, arrivò poco dopo l’or- dinazione, e fu subito letto (e prediletto tra quelli di montagna) da Livia, che decise, con mia gran gioia, di tradurlo e pubblicarlo. Rintracciammo il figlio di Ray- mond Lambert, Yves, tramite una catena di amicizie alpinistiche che dimostra la validità delle teoria dei sei gradi di separazione, anzi di solo cinque: Alberto Paleari – Erminio Ferrari – Marco Volken – Claude Remy – Yves Lambert. Yves fu molto disponibile e gentile e si dichiarò fiero ed entusiasta che il libro di suo padre fosse fatto conoscere agli alpinisti italiani.

Prendo spunto dalle parole di Yves per comincia- re questa mia breve presentazione, non del libro, che non ha bisogno di presentazioni e come tutti i libri va solo letto, ma di Raymond Lambert (1914-1997) del- la guida e dell’alpinista Raymond Lambert, pressoché sconosciuto in Italia, che viene da noi nominato solo nella Guida del CAI-TCI di Chabod, Grivel, Saglio, Buscaini, “Monte Bianco, volume secondo”, nel libro di Giusto Gervasutti “Scalate nelle Alpi”, in alcuni articoli di Renato Chabod e nel volume di Mario Fan- tin “I quattordici 8000”, mentre “Everest”, di Walt Unsworth, (Allen Lane – Penguin Books 1981) gli dedica molte pagine. Merita invece di essere conosciuto, questo fortis- simo alpinista ginevrino, che rispetto a noi guarda-

7 va le Alpi, e soprattutto il gruppo del Monte Bianco, dall’altro lato, e non intendo dire solo da nord invece che da sud, ma anche con un’altra mentalità. Quest’altra mentalità si esprimeva per esempio riguardo alle donne: anche in Italia negli anni ’30 c’erano donne alpiniste, e anche fortissime, ma Lam- bert compie sistematicamente le sue salite con donne, sue abituali compagne di cordata con le quali spesso arrampica alla pari (sul tiro chiave dello sperone Croz alle Jorasses Lambert manda davanti Mademoiselle : “… Vu le poids minime de ma com- pagne, je la fais passer en tète, préférant l’assurer de dessous…”). Negli anni ‘30 si instaurò infatti un bel sodalizio con Loulou Boulaz (1908-1991) una delle più forti alpiniste di tutti i tempi, la prima donna a scalare la Nord delle Jorasses dagli speroni Croz e Walker. Nel 1937, l’anno prima della prima salita, Loulou ave- vava fatto un tentativo alla Nord dell’Eiger, ricevendo “dalla stampa svizzera una reazione incredibilmente negativa: le dissero di lasciare la valle al più presto e di dimenticarsi dell’Eiger, che la montagna è più for- te di lei” (da Rainer Rettner, Le grandi Pareti Nord, Corbaccio). Lambert arrampicò molto con la ginevrina Erika Stagni, e le francesi Sylvie D’Albertas e Claude Kogan con cui fece un tentativo al nel 1954. La Kogan tornò poi al Cho Oyu nel ‘59 a capo di una spedizione femminile, di cui facevano parte anche la Boulaz e Jeanne Franco, trovandovi la morte sotto una valanga presso la vetta, insieme all’alpinista bel- ga Claudine Van den Sratten e a due scherpa.

8 Ma l’altra mentalità rispetto a quella degli alpini- sti cisalpini contemporanei si espresse anche riguardo all’arrampicata in falesia: Lambert e tutti i forti gi- nevrini della sua epoca e dell’epoca subito successiva alla sua, le citate Loulou Boulaz ed Erika Stagni, An- dré Roch, Robert Gréloz, Claude Asper, Marcel Bron, Michel Vaucher, Italo Gamboni, Robert Wolsclag, pro- vengono dalla frequentazione assidua della falesia del Salève, vicinissima a Ginevra anche se si trova in Francia. Poi per le invernali: Lambert fu un amante delle salite invernali molti anni prima che da noi diven- tassero di moda, ma soprattutto amò la montagna invernale “dove noi soli lasciamo le nostre tracce nel grande e impressionante silenzio delle altezze addor- mentate sotto il loro manto bianco”. Poi per l’understatement (con una sola eccezione, ma che eccezione!) un understatement non puramen- te linguistico ma sostanziale, cioè nella ricerca delle mete: Lambert aveva sicuramente classe, tecnica, for- za e coraggio per affrontare i grandi problemi delle Alpi, eppure sulle Alpi si limitò quasi sempre a fare ripetizioni e prime invernali. Il fascino di Lambert de- riva anche dal fatto di essere sempre arrivato secondo, come l’altro Raymond, certamente più famoso di lui e amatissimo dai francesi per essere stato un coraggioso perdente, il ciclista Raymond Poulidor, il cui palmares sarebbe stato certamente più ricco se non avesse in- contrato sulla sua strada i giganti Anquetil e Merckx. Questo understatement si esprime anche nel non voler mai apparire come guida ma sempre come semplice alpinista, anche se nel libro c’è un breve capitolo in

9 10 cui l’autore descrive come divenne guida, che non è stato tradotto per mancanza di spazio ma anche per- ché sembra fatto con meno cura degli altri capitoli, quasi fosse poco importante. Al contrario di quanto si fa sempre oggi: vantare la propria professionalità, Lambert sembra tener di più al proprio dilettantismo, alla propria passione alpinistica.

Infine c’è l’eccezione: l’Everest. In “A l’assaut des quatre mille” un solo capitolo è stato dedicato a quella che fu certamente la maggio- re impresa di Lambert e una delle più grandi dell’al- pinismo svizzero del dopoguerra: il raggiungimento da parte di Lambert della quota di 8600 metri sulla Cresta Sud-Est dell’Everest nel 1952, in compagnia di . In questo capitolo Lambert racconta solo gli ultimi due giorni della spedizione svizzera del ’52, l’arrivo al campo VII a 8400 metri e la successiva salita fino a 8600 metri, ma per capire la reale im- portanza di questa impresa bisogna ricorrere al libro ufficiale della spedizione “Avant-premières à l’Eve- rest” di G. Chevalley, R. Dittert, R. Lambert (Artaud, Paris-Grenoble, 1953) e ai libri di storia alpinistica di Fantin e Unsworth . E’ appunto quest’ultimo che nel suo “Everest” di- chiara: “nel dopoguerra gli svizzeri furono i veri pio- nieri dell’Everest, e subirono la sorte di molti pionieri: il fallimento”. Fino al 1951 tutti i tentativi di salita erano avve- nuti per la via del Colle Nord, cioè dal . Nel 1947 l’oroscopo del Dalai Lama predisse per lui una pros- sima minaccia da parte di stranieri, per cui vennero

11 chiuse le frontiere. L’oroscopo non aveva sbagliato, in- fatti nell’ottobre del 1950 il Tibet fu invaso dalle trup- pe cinesi e fu definitivamente chiuso alle spedizioni. Nel frattempo il regno del , di fronte all’avanza- ta cinese, sentì il bisogno di aprirsi verso l’occidente. Fu così che nel 1951 gli inglesi ottennero il permesso di compiere una spedizione esplorativa all’Everest da sud. La spedizione, guidata da , si trovò in un paese sconosciuto e il 22 settembre raggiunse con grandi difficoltà Namche Bazar e da qui il ghiacciaio del Khumbu. Di fronte alla seraccata caotica e perico- losa dell’Icefall Shipton era molto scettico sulle possi- bilità di un suo superamento, malgrado ciò con Riddi- ford, Bourdillon, il neozelandese Hillary e tre sherpa riuscì a vincere il tratto più pericoloso e raggiungere la quota di 6280 m, da cui si intuiva la possibilità di accedere al ¹, una conca nevosa alla base dei ripidi pendii che portano al Colle Sud. Invece di proseguire gli inglesi si dedicarono all’esplorazione di approcci meno pericolosi, senza ri- sultati apprezzabili, e prima dell’arrivo dell’inverno himalayano fecero ritorno in Gran Bretagna. Nel 1952 il governo nepalese accordò il permesso per l’Everest agli svizzeri, fu organizzata una prima spedizione a cui parteciparono nove alpinisti, tutti gi- nevrini e appartenenti al famoso gruppo alpinistico dell’Androsace. Fu nominato capo spedizione il dot- tor Edouard Wyss-Dunant, di 55 anni, gli altri com- ponenti erano: André Roch, René Dittert, Raymond Lambert, Gabriel Chevalley, Jean Jacques Asper, René Aubert, Leon Flory, Ernest Hofstetter, a cui si aggiun-

12 sero tre scienziati dell’università di Ginevra: Augustin Lombard, geologo, Mme Marguerite Lobsiger, etnolo- ga, Albert Zimmermann, botanico. Sirdar degli sherpa fu nominato Tenzing Norgay, di 38 anni, originario di Thame, presso Namche Bazar, che era già stato all’Everest con gli inglesi e si rivelò un fortissimo, ap- passionato e valido alpinista e un generoso compagno di cordata. Nelle vicinanze del campo base, a circa 5500 metri furono trovate nella neve orme misterio- se lunghe 29 centimetri e larghe 12, che procedevano con passi lunghi 55 centimetri su una linea unica e furono attribuite allo yeti. Il 26 aprile Dittert, Chevalley, Lambert e Aubert attaccarono l’Icefall. Come già Shipton la giudicaro- no pericolosissima e si persero molte volte nel labirin- to di seracchi, insistettero, dandosi il cambio con gli altri componenti per alcuni giorni, finché, il 30, tro- varono un passaggio sotto la cresta ovest dell’Everest esposto alla caduta di valanghe e seracchi che Roch battezzò “Passaggio dei Suicidi”. Il giorno seguente Roch fu costretto a fermarsi da- vanti a un enorme crepaccio che tagliava tutto il pen- dio e proibiva l’accesso al Western Cwm. Dopo molti tentativi Asper riuscì a passare, scendendo per venti metri nel crepaccio e attraversandolo su un esile pon- te di neve per poi risalire dall’altro lato la parete di ghiaccio strapiombante e fissare una corda. Fu co- struito un ponte con quattro corde sul quale vennero fatti passare gli altri alpinisti e gli sherpa con i loro carichi. La strada per il Western Cwm, e quindi per il Colle Sud e la vetta, era aperta. Il 6 maggio fu montato il campo III, all’inizio della

13 conca del Western Cwm,e successivamente il IV e il V, quest’ultimo a 6900 metri, ai piedi del Colle Sud. Raggiungere questo colle fu un’impresa diffici- le perché era difeso da un canalone di ghiaccio alto quasi 1000 metri, con una pendenza media tra i 45º e i 50º, cioè più o meno come una parete di ghiaccio di media difficoltà su un 4000 delle Alpi. Solo il 19 maggio Chevalley, Asper e lo sherpa Da Namgyal rag- giunsero il Colle Sud (7906 m) passando prima a de- stra, sul versante sud del Lhotse, per poi attraversare verso sinistra e raggiungere il colle per quello che fu chiamato “Sperone dei Ginevrini”. Qui installarono il campo VI a poco meno di 8000 metri. Il 25 maggio Lambert, Flory, Aubert e Tenzing rag- giunsero di nuovo il Colle Sud dopo una drammatica salita nella tormenta e con un campo supplementare di fortuna posto sullo Sperone dei Ginevrini. Gli ultimi due giorni della spedizione, in cui Tenzing e Lambert raggiunsero la quota di 8600 m prima di desistere a causa del maltempo e dello sfinimento, sono narrati nell’ultimo racconto di questo libro. Poiché il permesso per l’Everest durava per tutto il 1952 gli svizzeri organizzarono una seconda spedizio- ne, postmonsonica diretta da Chevalley. Dei parteci- panti alla prima spedizione oltre a lui solo Lambert tornò all’Everest. Anche questa spedizione non ebbe fortuna, vi fu un grave incidente in cui trovò la morte lo sherpa Mingma Dorje, e solo il 19 novembre Lam- bert, Reiss, Tenzing e sette sherpa raggiunsero il Colle Sud. La notte fu durissima, con una temperatura sot- to i -30 e vento a 100 km all’ora. Il giorno seguente salirono faticosamente un po’ oltre il Colle Sud ma

14 furono costretti dalla fatica, dal freddo e dal vento a ritirarsi. Il terribile inverno himalayano era arrivato e con questo le speranze degli svizzeri di salire l’Everest svanirono. Lambert e Tenzing avevano in un solo anno battu- to due record, quello di uomini saliti più in alto sulle montagne del mondo e quello di aver raggiunto nello stesso anno, in due spedizioni diverse, gli 8000 metri. L’anno dopo Tenzig e Hillary arriveranno in cima all’Everest lungo la stessa via degli svizzeri.

E qui la storia di Raymond Lambert con L’Everest è finita, ma non è finita la sua storia di alpinista hi- malayano: nel 1954 tentò l’ascensione del Gaurisan- kar e del Cho Oyu, nel ’55 vinse il Ganesh Himal (m 7429) e nel ’59 raggiunse la cima del Distaghil Sar (m 7885) in . Bisogna sempre ricordare, an- che se nel suo libro non vi insiste più di tanto, che dal 1938, Lambert è privo di tutte le dita dei piedi e di alcune falangi delle mani, in seguito ai congelamenti riportati durante la traversata invernale delle Aiguil- les du Diable, e che con questa grave menomazione ha continuato a fare la guida, a salire vie difficili sulle Alpi ed è andato sull’Everest. Ma contemporaneamente all’alpinismo alla fine degli anni ’50 lo cattura una nuova passione: quella per il volo. Il suo primo volo avviene nel 1958, conosce Hermann Geiger, il pilota dei ghiacciai, e nel 1964 ottiene il brevetto di volo in montagna. A Ginevra fon- da una piccola compagnia di volo in montagna, porta turisti facendoli atterrare sui ghiacciai, la compagnia si ingrandisce, arriva ad avere un Caravelle e 3 DC3 a

15 reazione con cui fa voli charter in tutto il mondo. Alla fine degli anni ’70 questa compagnia sarà ingloba- ta nella Swissair ma Lambert continua a pilotare per l’Air fino a 71 anni.

E qui, di nuovo si potrebbe chiudere la storia, il suo protagonista è salito, salito, salito, salito ancora più in alto dell’Everest, ma la storia non è finita, ha un epilogo commovente e poetico. Pochi anni dopo la morte di Raymond, avvenuta nel 1997, ricorse nel 2002 il cinquantesimo anniver- sario della spedizione svizzera all’Everest. Il figlio di Raymond, Yves, anch’egli alpinista, vuole festeggiare il giubileo con una nuova salita al tetto del mondo. Viene organizzata una spedizione a cui partecipa il nipote di Tenzing, Tashi Tenzig, e il 16 maggio 2002 Yves Lambert e Tashi Tenzing possono abbracciarsi in cima all’Everest. Questo il telegramma inviato da Yves dal Nepal a Ginevra: “ Sommet Everest atteint en compagnie petit fils Tenzing 16/05/02 09 h 40 STOP Papa surement content là - haut STOP Sacré bel itinéraire et foule nombreuse STOP Préparez champagne”.

Alberto Paleari

¹ “Cwm” è una parola gallese che significa “valle a forma di ciotola”

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Iniziazione montanara Ricordi di infanzia e adolescenza

Prima di tutto, una piccola confessione: sono sem- pre stato un bambino temerario, non sognando che fe- rite e lividi, e spesso, per le mie pazze scappatelle, sono stato la disperazione della mia famiglia. Ma quando il destino chiama, credetemi: tutto è inutile. Malgrado le sgridate e le punizioni paterne, ampiamente me- ritate peraltro, lo riconosco, mi piacevano solo i gio- chi pericolosi o almeno imprudenti. Nel 1929 feci la conoscenza di quello che doveva essere il mio cattivo o il mio buon maestro, scegliete voi. Per quanto mi riguarda io sono incline piuttosto alla seconda inter- pretazione, perché è grazie a questo compagno che ho imparato a conoscere la montagna. E vi assicuro che non me ne sono mai pentito. Avevo dunque circa quindici anni quando mi pro- posero per la prima volta un’arrampicata in Salève. Il seme fu piantato in un terreno particolarmente fertile dato che al tempo ero strettamente sorvegliato a causa delle mie nuove scappatelle. Ora nessuno ignora che più il frutto è proibito più lo si vuole cogliere. All’ini- zio feci qualche timido tentativo, senza grande convin- zione a dir il vero, per coinvolgere i miei in questo gio- co. Parlavo di roccia, ghiacciai, aria pura senza troppo 18 insistere su termini quali corde, arrampicata, crepacci, nel tentativo di piegare la censura paterna. Invano! Fu solamente allora che mi rassegnai ad adoperare i “grandi mezzi”. Feci dunque uso di un sotterfugio che all’epoca giudicai machiavellico. Al contrario della moglie di , la celebre guida di Coolidge, che ri- fiutava di lascarlo partire “con il suo signore” per l’Hi- malaya perché non voleva che viaggiasse per mare, i miei genitori, degni abitanti delle sponde del Lemano, non vedevano alcuna controindicazione a che mi ba- gnassi nel lago. Un giovedì dunque, prendendo il mio costume da bagno, saltai sulla bicicletta pedalando lentamente fino all’angolo della strada. Una volta fuo- ri dalla visuale, mi diressi a tutta velocità verso l’ap- puntamento con il mio nuovo compagno, di nome V… Ero piuttosto in ritardo ma il mio maestro mi aveva gentilmente aspettato. Comunque non mi serbò ran- core. Non era solo, ma accompagnato da un ragazzo alto, biondo e magro. “Mio cugino…un amico” ci pre- sentò brevemente. Poi mi domandò: “allora ci siamo, sei della partita? ”. Io alzai le spalle con aria complice. “Bene, allora si va” fece lui. Si passò a tracolla una corda arrotolata che teneva sul braccio. Inforcammo tutti e tre le nostre biciclette e filammo a tutta veloci- tà verso il confine franco-svizzero. Là depositammo i nostri mezzi e sotto lo sguardo benevolo dei doganieri, passammo sull’altra riva del piccolo fiume. La “Gran- de Avventura “ era cominciata. Anche se il cantone di Ginevra non ha rilievi, l’appassionato di montagna ha il grande vantaggio di avere nelle immediate vicinanze, la più meravigliosa

19 scuola di arrampicata che possa desiderare. Il Salève, le cui pareti verticali si elevano a qualche passo dalla frontiera sud-orientale, cela sulla parete ovest alcuni passaggi da non sottovalutare. Così mentre accompagno V... e suo cugino, quan- do lascio la strada che costeggia la base della monta- gna un po’ sopra il casale di Coin, per penetrare nella macchia fino a un piccolo sentiero che conduce ai piedi della grande parete calcarea, provo una certa emozio- ne. Non oso fare domande, e invece avrei tante cose da chiedere! Rispettoso del silenzio dei miei due compa- gni, silenzio che mi impressiona e che aggiunge solen- nità al momento, seguo con deferenza il loro minimo movimento e li ammiro. Imito il comportamento del cugino che mi intimidisce meno di V…, perché viene da Parigi e immagino che neanche lui conosca la mon- tagna. D’altronde ha l’aria perfettamente felice per la nostra scappata. Ma un piccolo sentimento di colpa mi tormenta. Se i miei genitori venissero a sapere che sono andato a scalare. Penso già con apprensione al ritorno a casa. Poi, temerario come sono, guardo ansiosamente V.., che comincia ad arrampicarsi come un gatto sulle rocce alla base della parete. Il cugino lo segue, e sicco- me sale senza difficoltà, ne sono incoraggiato. Il cielo è blu, le rocce non troppo arcigne, ed ecco che il desi- derio di arrampicare avvince anche me. Tutte le mie paure, tutte le mie esitazioni sono spazzate via. Di- mentico tutto e mi lancio sulle tracce delle mie guide. Quando li raggiungo mi accorgo che V… ha ancora la corda arrotolata. Sono deluso e mi dico che il mio piccolo exploit, di cui mi sentivo già fiero, non è che un

20 assaggio della vera scalata. V…mi mostra la roccia su cui ci troviamo e mi dice che si chiama “Le Réposoir”. Ci riposiamo un attimo, in effetti, poi raggiungiamo il “Pas du Smolitz”. “Il tuo primo passo di arrampicata” mi dice V… Bene, allora ci siamo, penso rasserenato. Ma sempre senza srotolare la corda i miei due ami- ci salgono lentamente. Devo riconoscere dentro di me che il parigino sembra avere già una certa esperienza. Mi sentirei molto più a mio agio se fossi assicurato con quella dannata corda. Comunque, prendo il coraggio a due mani e seguo gli amici che mi precedono. Prendo- no una traccia che ci porta in un luogo dove comincio a sentire il senso di vuoto. Ho la gola secca e anche se mi sforzo di non guardare in basso, non posso impe- dirmi di gettare un’occhiata verso la base della pare- te. V…mi mostra la placca che dobbiamo passare e mi fa notare alcuni buoni appigli. La chiama “Le Pas d’Aral” e si lancia, seguito dal cugino. Li seguo. Passo. Sono passato! Nuova sosta. Questa volta il grande momento è ar- rivato. La corda viene srotololata. V… se la annoda intorno alla vita, poi assicura il cugino e infine me. Provo quasi un sentimento di fierezza. La faccenda diventa seria. Poi in cordata mi sento molto più tran- quillo. Come uno scoiattolo, V… si lancia lungo una pic- cola lama, passa poi sotto uno strapiombo, raggiunge sulla sinistra un camino e scompare sopra le nostre teste. Seguo attentamente i suoi movimenti per vedere bene quali appigli utilizza. V… ci grida di raggiunger- lo e come un cicerone scrupoloso, ci annuncia che ci stiamo per misurare con il “Pas du Catacliso”. Scom-

21 pare anche il parigino e io, rassicurato dalla corda che mi cinge le reni, mi lancio dietro a lui. Imito le posizio- ni dei miei insegnanti, mi affido alle medesime prese, mi alzo lungo la parete senza troppe difficoltà. Sento aumentare in me la gioia della lotta con la roccia, della vittoria sul terrore del vuoto, e comprendo allora tutta la bellezza di quei momenti in cui si è tutt’uno con le rocce, mentre la pianura, sotto di noi, si allontana sempre di più. E saliamo ancora. Lontano, vedo brillare sotto il sole, il lago. Ginevra si staglia sotto un cielo immu- tabilmente blu, punteggiata qua e là da tetti rossi e campanili delle chiese. In fondo si profila il Jura, un lungo rettile di cui la Vuache sembra la testa, tagliata a Fort de l’Ecluse dall’accetta di un gigantesco bur- rone. All’inizio del lago, Ginevra sembra assopita per il caldo. Distinguo quasi nettamente lo stabilimento balneare e questo mi fa ricordare che le ore sono pas- sate davvero veloci. Bisogna pensare seriamente alla discesa, la bandiera dei bagni sta per essere ammai- nata, l’ora della chiusura si avvicina. Con apprensione immagino le spiegazioni che dovrò dare ai miei genito- ri, perché ho poche speranze che la mia scappatella sia passata inosservata. Velocemente ritorniamo sui nostri passi, lungo le cenge e le placche, raggiungiamo ben presto la strada, passiamo la dogana e riprendiamo le biciclette. Pedaliamo a rotta di collo fino a Gine- vra. Prima di rientrare a casa immergo il mio costu- me, senza molta convinzione, nella fontana. Ahimè, l’accoglienza è piuttosto movimentata. Non vedendo- mi ritornare, inquieta, e temendo un incidente, mia mamma aveva già telefonato ai bagni. Vedendo i miei

22 vestiti pieni di strappi, erano stati piuttosto maltrat- tati durante le nostre acrobazie, mia madre comprese tutto. Non potei far altro che confessare. Quello fu ciò che mi piace ancora chiamare il mio primo exploit. Dal punto di vista della montagna, una riuscita, una rivelazione per me. Le ore esaltanti che avevo appena trascorso mi facevano desiderare di co- noscerne delle altre. Le rimostranze che mi furono fat- te non cambiarono nulla della mia decisione interiore. Il dado era tratto: sarei diventato guida alpina!

“Dato che questo ragazzino terribile ama tanto la montagna, ce lo manderemo”. Questa fu la frase che un mattino mi fece drizzare le orecchie. Assun- si un’aria indifferente e feci finta di non aver sentito nulla. Ma fui un po’ deluso quando scoprii che si trat- tava di andare a un campo estivo nel Jura. Ma quale montagna, mi dicevo! Non è certo là che potrò ritro- vare le sensazioni che avevo provato in occasione della mia prima scalata nel Salève. Montagna, era monta- gna, ma sapevo quale. Boschi, pascoli, piacevoli certo, ma da lì alle pareti a picco, ai ghiacciai che sognavo, c’era una bella differenza! Pazienza, ci sarebbe stata comunque l’aria delle vette, il levarsi glorioso del sole, l’evasione dalla pianura. In mancanza di cavalli trot- tano gli asini… In definitiva il campo non mi dispiacque troppo. Fu là che feci la conoscenza di un nuovo compagno, di nome Gérard Bilger. Aveva già compiuto un certo numero di scalate nel Salève, e l’aver già avuto persino un incidente, gli era valsa subito la mia considerazio- ne. Si era fratturato la mascella al “Balcon”. Questa

23 spiacevole circostanza non lo aveva allontanato dalla montagna, anzi bruciava dalla voglia di rifarsi. Attira- ti l’uno verso l’altro dalle nostre comuni inclinazioni, elaboravamo progetti di salite, perdendoci in chiac- chiere senza fine, nelle quali le espressioni, Cengia della Morte, Passo della Scimmia, Passo del Tricuni, risuonavano più spesso del necessario. Morendo dalla voglia di soddisfare la nostra passio- ne, nelle nostre escursioni nei boschi cercammo delle piccole placche dove poter allenarci, e non tardammo a scoprire ciò che faceva al caso nostro. Trovammo una parete con un passaggio che assomigliava incredi- bilmente al Passo della Scimmia. Quest’ultimo peral- tro non mi riuscì mai. Si trattava di arrampicarsi su un albero, appendersi e raggiungere una roccia su cui ristabilirsi. Un giorno, il ramo a cui mi ero affidato, cedette sotto il mio peso e dopo una discesa vertiginosa mi slogai la caviglia. Fu necessario bendarla e raccon- tare l’accaduto al capo del campo che ci proibì asso- lutamente tali acrobazie, minacciandoci di…privarci della marmellata! Questa minaccia forse ostacolò le nostre imprese, così come la slogatura, ma la passione rimaneva e i progetti ripresero. A quel punto le vacan- ze al campo terminarono. Rientrammo a Ginevra sen- za troppi rimpianti, pieni di entusiasmo per le nostre future conquiste. Di ritorno in città, feci capire ai miei genitori, che cercavano un nuovo pretesto per sviarmi da ciò che ritenevano fosse nefasto per me, che la mia decisione era presa e ferrea! Conquista dopo conquista lottai per il mio ideale. Dopo infinite discussioni, ammisero che meglio equipaggiato avrei corso meno rischi. E fu così

24 che vinsi la causa, non senza che mia madre sospirasse “ questo ragazzo farà sempre di testa sua…” Ben presto riuscii a procurarmi un paio di scarponi chiodati Tricouni. Ero molto fiero del mio acquisto, ma il mio orgoglio giunse al culmine quando mi pro- curai una corda. Così equipaggiato e pieno di sicurez- za ottenni finalmente l’autorizzazione ad arrampicar- mi nel mio caro Salève la domenica e gli altri giorni di vacanza. Bilger conosceva bene le pareti, avendovi già fatto parecchie scalate. Fece di me meglio e più di un secon- do di cordata. Possedeva un dono pedagogico innato e dopo qualche esercizio, mi faceva andare da primo, lasciandomi cercare i miei appigli e indicandomeli solo in caso di bisogno, se constatava che ero in difficoltà. Mi dotò così di quel “senso della roccia” che mi permi- se più tardi di fare le ascensioni su terreni sconosciu- ti e senza il quale non avrei potuto fare neanche una “prima”. Le lezioni furono interessanti e fruttuose. Passammo dalle vie facili a quelle più impegnative, poi estremamente difficili, il piacere aumentava con la difficoltà, piacere mescolato all’apprensione, ma tanto più inebriante! Bilger, reso prudente dalla sua avventura, riusciva a ben temperare la mia ritrovata temerarietà, accre- sciuta dall’esperienza. Ma il mio secondo non mi face- va passare la minima leggerezza. Mi assicurava, dava il via, verificava la mia posizione e solo dopo essersi convinto della sicurezza della medesima, superava anche lui il passaggio scabroso. Alla fine dell’autunno del 1929, scendere arrampicando, preparare una dop- pia e la discesa in corda doppia non avevano più se-

25 greti per me. L’inverno arrivò dolcemente e con i pri- mi fiocchi di neve continuammo il nostro allenamento. Poi Bilger, cominciò a immusonirsi. La neve ricoprì le montagne e Bilger dichiarò di non essere affatto attira- to dallo sci. Per me invece fu un’altra rivelazione. La montagna d’inverno, mi attirava quanto in estate. Nel gennaio 1930 debuttai “sui legni”.

Nel giugno del 1930 conobbi nuovi compagni di montagna, quasi tutti membri del Club Alpino Sviz- zero. Per la prima volta, in loro compagnia, visitai le Alpi savoiarde, effettuando nelle Aiguilles de Chamo- nix, la traversata dei Petits Charmoz. Potei ammirare da vicino il re delle Alpi, il Monte Bianco, circondato da tutta la sua corte, i principi di sangue reale: Dome, Mont de , Tacul; il civettuolo corteo delle Aiguilles, severe damigelle d’onore, i cui piedi calpe- stano ghiacciai che sembrano tappeti mille e mille vol- te strappati e ricuciti. Visione indimenticabile. Impe- rituro ricordo del primo contatto con l’alta montagna. Nell’agosto dello stesso anno partecipai a una salita organizzata dal Club Alpino Svizzero al , un quasi quattromila (3838 m, secondo la Vallot). L’as- salto cominciava! Un mese più tardi. Avendo molto sentito parlare delle imprese realizzate da Purtscheller, Zsigmondy e Winkler, volli anch’io tentare d’iscrivermi alla scuola degli alpinisti senza guida e senza compagno. Per il mio tentativo scelsi L’Aiguille des Pélerins. Devo ri- conoscere che la salita non fu delle più piacevoli, la paura mi assillò dall’inizio alla fine. Salivo facilmente, ma come mi sentivo minuscolo, in mezzo alle pareti

26 che mi circondavano, ai ghiacciai sospesi e ai seracchi che scricchiolavano. La discesa fu invece laboriosa. La neve scivolava sotto i miei passi, le pietre scalzate dai loro alveoli di ghiaccio dal calore del sole, cannoneg- giavano e passavano fischiando proprio vicino alla mia testa. Lo scenario in movimento, i rumori inquietanti creavano un’atmosfera terrificante. Si sarebbe detto che i demoni della montagna si erano alleati contro questo audace che veniva a turbare il loro riposo, per farlo rinunciare per sempre alle ascensioni solitarie. Quella volta, ascoltai l’avvertimento. Di anno in anno, di salita in salita, feci la cono- scenza di altri appassionati della montagna, di quelli che non le danno un attimo di tregua, scalando tutta l’estate, elaborando progetti grandiosi nelle stagioni intermedie, sugli sci tutto l’inverno e utilizzandoli an- cora in primavera per l’avvicinamento. Il mio vecchio compagno Bilger ci accompagnava, ma essendo lo sci privo di attrattiva per lui, ci seguiva con grande pena. Nelle scalate, tuttavia, si rifaceva delle sue fatiche, im- precando al pensiero che al ritorno avremmo dovuto rimettere quei maledetti strumenti di legno che tanto aborriva. Ci supplicava di aspettarlo, e noi frenevamo il nostro ardore per non distanziarlo, ma ben presto, vinti dall’ebbrezza della discesa non resistevamo più all’appello del pendio che ci invitava a lasciarci tra- sportare dalla sua vertigine. Quale di voi lettori ose- rebbe condannarci? Povero Bilger! Era furioso, ci mostrava i pugni, lottava disperatamente per raggiungere il rifugio con il minor ritardo possibile. Conosceva evidentemente il nostro appetito, e spesso, rimaneva a bocca asciutta.

27 “Porca miseria” grugniva vedendo i nostri “legni” alli- neati davanti al rifugio, arrivando penosamente sfinito dopo esser affondato nella neve sotto il sole d’aprile, mentre noi sciatori, leggeri, felici, contemplavamo la sua collera soffocando le risate. Poco tempo dopo ri- nunciò alle salite in montagna. Il suo disgusto incom- prensibile per lo sci ne fu la causa? Lo ignoro, ma il mio amico Bilger, faceva degli studi impegnativi che lo affaticavano molto. Inoltre, un’avventura assai spia- cevole che ci capitò durante la discesa dall’Aiguille du Peigne, completò l’opera dello sci. Il fatto merita di essere raccontato, perché capita assai raramente nei rifugi di montagna. Quando sfiniti, arrivammo al Plan des Aiguilles, felici di poterci cambiare e ristora- re, bagnati, affamati e stanchi, avemmo la sgradevo- le sorpresa di scoprire che eravamo stati derubati di tutto. Avventura poco frequente in montagna, dove si perderà più facilmente uno zaino scendendo in corda doppia o una piccozza in un crepaccio! Fummo quindi obbligati a scendere fino a Chamonix, dove prendem- mo in prestito un po’ di soldi per rientrare a Ginevra, essendo spariti anche i biglietti del treno. Quest’ultimo sfortunato episodio fece decidere Bilger ad abbando- nare ciò che aveva adorato. Quanto a me, il mio desiderio delle difficoltà au- mentava a ogni salita. Mi legai allora a una compagnia di arrampicatori, giovani e pieni di foga, che mangia- vano quattromila per colazione e decisi a vincere tutte le vette. Fu così che feci qualche salita con le signorine Loulou Boulaz e Durand, con i signori Goth e Mussard e qualcun’ altro. La compagnia aveva davvero molta grinta, ma per quello che avevo in mente cordate così

28 numerose non potevano essere prese in considerazione. Desiderando imitare i favolosi exploit dei primi conquistatori delle nostre cime, non sognavo che pa- reti nord, passaggi sconosciuti, traversate inedite. Vo- levo la mia “prima” e mi allenavo soprattutto in vista delle salite invernali, il cui fascino incontestabile e il pericolo reale mi attraevano quanto una primizia. Fu così che il 7 febbraio 1932, accompagnato da Ed. Po- get, attaccai la traversata invernale del Grépon. Che dovevo rifare due anni più tardi con Loulou Boulaz e R. Moussard. Con le stesse condizioni feci l’ascensione del Chardonnet e del Triolet. Queste salite invernali in alta montagna, che alcuni ritengono irragionevoli, hanno un sapore assolutamen- te particolare. Rifugi, montagne, rocce, nevi immaco- late sono tutte per noi dove noi soli lasciamo le nostre tracce, nel grande e impressionante silenzio delle al- tezze addormentate sotto il loro manto bianco. L’av- vicinamento, normalmente la parte meno interessante della salita, diventa incantevole grazie agli sci che la facilitano e l’abbelliscono. E poi c’è anche l’asprezza della lotta che aumenta. Alcune volte gli elementi si risvegliano, svelando la loro violenza. Il freddo si in- tensifica, la tormenta scatena la sua rabbia e i soccorsi diventano molto aleatori. Che cosa può desiderare di più l’avventuriero in montagna? Egli accetta di pagare il tributo alla sua terribile amica, che gioca con i suoi adoratori come un serpente ipnotizza la preda. Mal- grado tutto non ci si può impedire di ritornarvi, anche se qualche volta la si maledice. Si gioca d’astuzia e si oppone alle sue trappole la propria volontà di vittoria, arricchita ogni volta da nuove esperienze e dalla pru-

29 denza che all’inizio difetta. Ma è sempre lei a vincere sia che vi prenda la vita o il cuore.

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