La Scienza Che Ha Dimostrato L'aldila'
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FRANCESCA SCARRICA LA SCIENZA CHE HA DIMOSTRATO L’ALDILA’ 87 fra scienziati e brillanti ricercatori che hanno dimostrato la realtà della sopravvivenza dell’anima alla morte fisica 2008 © 2008 Francesca Scarrica E' vietata la riproduzione totale o parziale dei testi senza il consenso scritto dell'autore. ISBN 978-1-4092-0493-0 2 A tutti quegli scienziati coraggiosi e ai ricercatori appassionati che hanno dato il loro prezioso contributo alla ricerca delle prove dell’esistenza dell’aldilà 3 4 Introduzione Questo libro nasce da un apparente paradosso che, “nel mezzo del cammin di nostra vita”, mi sono ritrovata a dover affrontare e risolvere per poter continuare a vivere un’esistenza nella quale ci fosse ancora spazio per concetti fondamentali quali la speranza e la gioia. Sono consapevole che questo tipo di percorso sia comune a tutti gli esseri umani che, prima o poi, si trovano a doversi porre le eterne questioni che riguardano la morte ed il modo di inquadrarla in una prospettiva che la possa rendere in qualche modo accettabile nella nostra concezione della vita e del mondo. Difatti quando perdiamo una persona cara tutti noi siamo costretti, volenti o nolenti, ad intraprendere quella fase incerta e dolorosa che gli psicologi chiamano “elaborazione del lutto”, un percorso difficile che la maggioranza di noi compie nella solitudine del proprio intimo, spesso senza riuscire a trovare il giusto supporto per alleviare il doloroso senso di perdita e affidandosi per lo più al tempo che passa considerandolo, come recita un vecchio detto, “un gran dottore”. Ma il rischio reale è che, col tempo, oltre al dolore, passi anche la voglia di vivere e di riamare. Come afferma lo psicologo John Brantner : “Solo coloro che si tengono lontani dall’amore possono evitare la tristezza del lutto. L’importante è crescere, tramite il lutto, e rimanere vulnerabile all’amore”. E per riuscire ad attraversare illesi quegli oscuri territori dell’anima, abbiamo bisogno che ci sorregga soprattutto il sentimento che più rischiamo di perdere: la speranza. Già, ma dove trovarla? Davanti a questo problema io ho davvero avuto le vertigini. Da sempre agnostica ed avulsa da qualsivoglia credo religioso, ho vissuto gran parte della mia vita alla luce di quella onnipotente Ragione illuminista che mi faceva attribuire solo ai miei sensi e a ciò che avevo imparato dalla mia personale esperienza il valore di strumenti di conoscenza. Ovviamente, alla luce di questa visione, nel momento in cui questi strumenti si sarebbero, per così dire, spenti con la mia morte, io avrei semplicemente cessato di esistere. E così, per me, sarebbero cessati i battiti del mondo e dell’universo intero. E nulla, di me, oltre al temporaneo ricordo rimasto nei neuroni di coloro che hanno condiviso la mia avventura terrena, sarebbe rimasto in questo universo. Nulla, né energia, né materia. Qualche anno fa scrissi e pubblicai una poesia dal titolo Vitamortevita, imperniata su questo concetto materialistico della morte, e proprio quella poesia riscosse un certo successo in un importante premio nazionale, a significare che molte persone, nel loro intimo, si riconoscono in una simile prospettiva riguardo al pensiero della morte. Con questo tipo di realtà ho convissuto, però, sempre con un grande disagio di sottofondo. C’era una parte di me che rimaneva semplicemente basita pensando all’enormità degli sforzi che ogni essere vivente fa per arrivare a nascere, 5 crescere, imparare, fare esperienze, amare, crearsi legami e conoscenza solo per arrivare alla sempiterna meta dove tutto questo lavorìo, questo sforzo immane, si trasforma semplicemente in polvere. Polvere perfino il nostro nome, le nostre sofferenze e le nostre conquiste. Nella migliore delle ipotesi, per uomini di particolare valore, si sarebbe potuta assicurare l’immortalità della memoria attraverso libri ed opere, ma null’altro c’era da sperare. Sebbene una parte di me avvertisse in sottofondo lo squilibrio insito in una realtà in tal modo concepita, ho comunque accettato per gran parte della mia esistenza tale visione cercando di conviverci alla meglio e di non porre a me stessa troppe domande che sarebbero state di ben difficile soluzione. Il senso di smarrimento e il nichilismo mi avevano portato ad adottare, come scudo di difesa, una sorta di cinismo verso il dolore e la morte, per cui ero giunta al compromesso, fatto con me stessa, di non pensarci più di tanto, di vivere alla giornata con la segreta (e vana) speranza di non dover mai affrontare la morte o la sofferenza di nessuna delle persone che amavo e che amo. Una sorta di limbo dal quale avevo scacciato l’essenza della vita stessa e nel quale tendevo a moltiplicare i miei giorni come se fossero uno il riflesso dell’altro, in un caleidoscopio nel quale, però, non era la vita vera a governare bensì il pallido riflesso di una confortevole illusione. L’atteggiamento materialista, in fondo, è basato sulla stessa primitiva forma di conoscenza che hanno i bambini i quali scoprono il mondo solo tramite i messaggi dei loro cinque sensi, è la convalida immediata alle proprie esperienze senza la fatica di dover immaginare e relazionarsi con una ben più complessa realtà che è celata al cognitivismo materialista e che richiede uno sforzo “immaginativo” che presuppone sia profondità di pensiero che seria ricerca. In poche parole, immaginare un diverso tipo di realtà ci richiede l’impegno di quelle facoltà superiori che, istintivamente, definiamo “spirituali” e che, neurologicamente, non sono individuabili in una precisa funzione del cervello, essendo esse, piuttosto, il riflesso creativo di ciò che sta alla base della nostra stessa coscienza d’esistere. E’ facile capire come un atteggiamento che fondi il principio di realtà solo sul suo mero aspetto materiale porti il più delle volte ad essere impreparati alla vita e alle sue virate improvvise: esso ci chiude in una specie di fragile guscio d’uovo destinato a polverizzarsi al primo colpo di vento e così ci si ritrova frustrati all’eterno punto di partenza, senza una rotta di salvataggio da seguire, ma questo, fino al momento in cui ho dovuto affrontare la morte inattesa e tragica di una persona a me vicina, proprio non lo prendevo in considerazione. O meglio, non volevo pormi il problema. In quel momento quel fragile guscio d’uovo si è sbriciolato lasciandomi preda di tutte le angosciose questioni esistenziali che avevo lasciato irrisolte. Un inutile vuoto pareva ingoiare il senso profondo della mia esistenza che fino ad allora era rimasta abbastanza al riparo dai colpi bassi della vita. Per non lasciarmi sopraffare dalla depressione di dover fare i conti con il vuoto sterile e maleodorante della morte, non ho avuto scelta: ho dovuto affrontare il cammino che non avevo mai voluto fare e che mai avrei immaginato di poter compiere proprio così come poi ho fatto. Un cammino che, all’inizio, si è 6 presentato senza indicazioni né mappe idonee per capire se e dove ci può essere questa benedetta speranza, per noi mortali, di sopravvivere in qualche modo alla morte. Capire se qualcosa di quella persona era sopravvissuta ed in che modo, e cos’era questo qualcosa, se mai c’era. E poi, dove questo qualcosa, eventualmente sopravvissuto, si trovava, e se poteva ancora conservare il ricordo della sua vita ed i sentimenti che aveva provato, se conservava un legame con la realtà fisica che aveva appena lasciato. Mica cosa da poco. Sono pronta a scommettere che non esiste un solo essere cosciente che abbia respirato su questa terra, dalla notte dei tempi, che non si sia posto proprio questa precisa domanda, ed è proprio per riuscire a dare un qualche senso a questa domanda che opere immortali sono state scritte, scolpite o dipinte. E’ per il modo in cui poeti ed artisti hanno voluto cimentarsi con la tragedia e l’incertezza del cammino verso la risposta delle risposte che Dante ha scritto la Divina Commedia e Michelangelo ha dipinto la Cappella Sistina. E’ per quel vuoto risucchio che si sente dentro e che bisogna pur colmare se, come dicevo all’inizio, si vuole vivere un’esistenza che abbia un qualche significato al di là della polvere e della dimenticanza. E il fatto che la risposta non ci sia stata data già confezionata da Madre Natura fa parte del gioco. Capite? Cercarla, quella risposta, è una palestra per l’intelletto e per l’anima, una spinta senza uguali a cercare la conoscenza dentro di sé, a conoscersi, a mettersi alla prova, null’altro è così illuminante sulla qualità della propria essenza, null’altro può metterci di fonte a noi stessi con la stessa urgenza, perché quella è la “domanda” delle domande, ossia la domanda dalla cui risposta dipende il tipo di vita che si vive, la qualità della gioia che si può provare, la libertà incommensurabile di sentirsi sollevati dalla paura della morte. Capite l’enormità dell’argomento per una persona che era strutturata mentalmente proprio come me? Ho già detto che non sono mai stata religiosa e non lo sono di certo diventata. Non ce n’è stato bisogno. Sono allergica alle regole preconfezionate e le comode soluzioni pronte all’uso non mi interessano. Ho bisogno di concretezza, di prove, di esaminare la faccenda al di fuori di qualsivoglia credo, per cui ho sempre visto nelle religioni un sistema di dogmi irrazionali, spesso nati da interpretazioni sbagliate di scritture che vengono dalla notte dei tempi e che sono state più volte rimaneggiate nella storia, uno strumento di potere per tenere a bada i popoli con lo spauracchio della punizione divina e fin da piccola il mio animo si rifiutava di pregare un dio pronto a lanciare nelle fiamme dell’inferno quelli che avrebbero dovuto essere suoi figli, pieni di limiti, magari, ma pur sempre suoi figli.