Storia Della Letteratura Italiana
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STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA VOL.II Francesco De Sanctis XII IL CINQUECENTO Di questo ideale, di cui adombra i lineamenti Giovanni Boccaccio, non hai finora che segni, indizi, frammenti. Il suo lato positivo è una sensualità nobilitata dalla coltura e trasformata nel culto della forma come forma, il regno solitario dell'arte nell'anima tranquilla e idillica: di che trovi l'espressione filosofica nell'Accademia platonica, massime nel Ficino e nel Pico, e l'espressione letteraria nell'Alberti e nel Poliziano, a cui con pari tendenza, ma con minore abilità tecnica e artistica, si avvicina il Boiardo. Il protagonista di questo mondo nuovo è Orfeo, e il suo modello più puro e perfetto sono le Stanze. Accanto al Poliziano, pittore della natura, sta Battista Alberti, pittore dell'uomo. Attorno a questi due spuntano egloghe, elegie, poemetti bucolici, rappresentazioni pastorali e mitologiche: la beata Italia in quegli anni di pace e di prosperità s'interessava alle sorti di Cefalo e agli amori di Ergasto e di Corimbo. Le accademie, le feste, le colte brigate erano un'Arcadia letteraria, alla quale in quel vuoto ozio degli spiriti il pubblico prendeva una viva partecipazione. A Napoli, a Firenze, a Ferrara si vivea tra novelle, romanzi ed egloghe. Gli uomini, già cospiratori, oratori, partigiani, patrioti, ora vittime, ora carnefici, sospiravano tra ninfe e pastori. E mi spiego l'infinito successo che ebbe l'Arcadia del Sannazzaro, la quale parve a' contemporanei l'immagine più pura e compiuta di quell'ideale idillico. Ma di questo Virgilio napolitano non è rimasta viva che qualche sentenza felicemente espressa, come: L'invidia, figliuol mio, se stessa macera... Peggiora il mondo e peggiorando invetera. Nè della sua Arcadia è oggi la lettura cosa tollerabile, e per la rigidità e artificio della prosa monotona nella sua eleganza, e per un cotal vuoto e rilassatezza di azione e di sentimento, che esprime a maraviglia quell'ozio interno, che oggi chiameremmo noia, e allora era quella placidità e tranquillità della vita, dove ponevano l'ideale della felicità. Il lato negativo di questo ideale era il comico, una sensualità licenziosa e allegra e beffarda, che in nome della terra metteva in caricatura il cielo, e rappresentava col piglio ironico di una coltura superiore le superstizioni, le malizie, le dabbenaggini, i costumi e il linguaggio delle classi meno colte. Da questa coltura sensuale, cinica e spiritosa uscì quell'epiteto, i “piagnoni”, che fu a Savonarola più mortale della scomunica papale. I canti carnascialeschi sono il tipo del genere: il suo poeta è il Boccaccio, il suo storico è il Sacchetti, il suo istrione è il Pulci, il suo centro è Firenze. A questo lato negativo si congiunge il Pomponazzi, che spezza ogni legame tra cielo e terra, negando l'immortalità dell'anima. Era il vero motto, il segreto del secolo, la coscienza filosofica di una società indifferente e materialista, che si battezzava platonica, predicava contro i turchi e gli ebrei, voleva il suo papa, il suo Alessandro sesto, che così bene la rappresentava, e non poteva perdonare al Pomponazzi di dire ad alta voce i suoi segreti, quando ella medesima non si aveva fatta ancora la domanda: - Cosa sono? E dove vado? Questa società tra balli e feste e canti e idilli e romanzi fu un bel giorno sorpresa dallo straniero e costretta a svegliarsi. Era verso la fine del secolo. Il Pontano bamboleggiava in versi latini e il Sannazzaro sonava la sampogna, e la monarchia disparve, come per intrinseca rovina, al primo urto dello straniero. Carlo ottavo correva e conquistava Italia col gesso. Trovava un popolo che chiamava lui un barbaro, nel pieno vigore delle sue forze intellettive e nel fiore della coltura, ma vuota l'anima e fiacca la tempra. Francesi, spagnuoli, svizzeri, lanzichenecchi insanguinarono l'Italia, insino a che, caduta con fine eroica Firenze, cesse tutta in mano dello straniero. La lotta durò un mezzo secolo, e fu in questi cinquant'anni di lotta che l'Italia sviluppò tutte le sue forze e attinse quell'ideale che il Quattrocento le aveva lasciato in eredità. All'ingresso del secolo incontriamo Machiavelli e l'Ariosto, come all'ingresso del Trecento trovammo Dante. Machiavelli aveva già trentun anno, e ventisei ne aveva l'Ariosto. E sono i due grandi ne' quali quel movimento letterario si concentra e si riassume, attingendo l'ultima perfezione. Gittando un'occhiata sull'insieme, è patente il progresso della coltura in tutta Italia. Il latino e il greco è generalmente noto, e non ci è uomo colto che non iscriva corretto ed anche elegante in lingua volgare, che oramai si comincia a dire senz'altro lingua italiana. Ma fuori di Toscana il tipo della lingua si discosta dagli elementi locali e nativi, e si avvicina al latino, producendo così quella forma comune di linguaggio che Dante chiamava aulica e illustre. I letterati, sdegnando i dialetti e vagheggiando un tipo comune, e riconoscendo nel latino la perfezione e il modello, secondo l'esempio già dato dal Boccaccio e da Battista Alberti, atteggiarono la lingua alla latina. E non pur la lingua, ma lo stile, mirando alla gravità, al decoro, all'eleganza, con grave scapito della vivacità e della naturalezza. Questo concetto della lingua e dello stile, creazione artificiosa e puramente letteraria, ebbe seguito anche in Toscana, come si vede ne' mediocri, quale il Varchi o il Nardi, e anche ne' sommi, come nel Guicciardini e fino talora nel Machiavelli. La quale forma latina di scrivere, sposata nel Boccaccio e nell'Alberti alla grazia e al brio del dialetto, così nuda e astratta ha la sua espressione pedantesca negli Asolani del Bembo, e giunge a tutto quel grado di perfezione di cui è capace nel Galateo del Casa e nel Cortigiano del Castiglione. Ma in Toscana quella forma artificiale di lingua e di stile incontrò dapprima viva resistenza, e senti negli scrittori il sapore del dialetto, quella non so quale atticità, che nasce dall'uso vivo, e che ti fa non solo parlare ma sentire e concepire a quella maniera, come si vede nelle Novelle del Lasca, ne' Capricci del bottaio e nella Circe del Gelli, nell'Asino d'oro e ne' Discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola. Ma anche in questi hai qua e là un sentore della nuova maniera ciceroniana e boccaccevole, come non mancano fra gli altri italiani uomini d'ingegno vivace, che si avvicinano alla spigliatezza e alla grazia toscana, quale si mostra Annibal Caro negli Straccioni, nelle Lettere, nel Dafni e Cloe. La lotta durò un bel pezzo tra la fiorentinità e quella forma comune e illustre, che battezzavano lingua italiana, cioè a dire tra la forma popolare o viva ed una forma convenzionale e letteraria. Anche in Toscana gli uomini colti non si contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona, come faceva il Lasca e Benvenuto Cellini, ma avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma nobile e decorosa. La borghesia voleva il suo linguaggio, e lo stacco si fece sempre più profondo tra essa e il popolo. Fioccavano i rimatori. Da ogni angolo d'Italia spuntavano sonetti e canzoni. Le ballate, i rispetti, gli stornelli, le forme spigliate della poesia popolare, andarono a poco a poco in disuso. Il petrarchismo invase uomini e donne. La posterità ha dimenticati i petrarchisti, e appena è se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da Pietro Bembo, boccaccevole e petrarchista, tenuto allora principe della prosa e del verso. Certo, prose e versi erano nel loro meccanismo di una buona fattura, e l'ultimo prosatore o rimatore scrivea più corretto e più regolato che parecchi pregiati scrittori de' secoli scorsi. E perchè tutti scrivevano bene e tutti sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo ben sonante, moltiplicarono gli scrittori, e furono tentati tutt'i generi. Comparvero commedie, tragedie, poemi, satire, orazioni, storie, epistole, tutto a modo degli antichi. Il Trissino scrivea l'Italia liberata e la Sofonisba, Luigi Alamanni faceva il Giovenale e monsignor della Casa contraffaceva Cicerone. A' misteri successero commedie e tragedie, con magnifica rappresentazione. E non solo le forme del dire latine, ma anche la mitologia s'incorporava nella lingua: e si giurò per gl'“iddii immortali”, e Apollo, le muse, Elicona, il Parnaso, Diana, Nettuno, Plutone, Cerbero, le ninfe, i satiri divennero luoghi comuni in prosa ed in verso. Sapere il latino non era più un merito: tutti lo sapevano, come oggi il francese, e mescolavano il parlare di parole latine, per vezzo o per maggiore efficacia. Ci erano gl'improvvisatori, che nelle corti lì su due piedi fabbricavano epigrammi e facezie, come oggi si fa i brindisi, e ne avevano in merito qualche scudo o qualche bicchiere di buon vino, che Leone decimo dava annacquato al suo “archipoeta”, un improvvisatore di distici, quando il distico mal riusciva. E c'erano anche non pochi, che conoscevano ottimamente il latino e lo scrivevano con rara perfezione, come il Sannazzaro, il Fracastoro e il Vida, i cui poemi latini sono ciò che di più elegante siesi scritto in quella lingua ne' tempi moderni. Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio. Latinisti e rimatori erano le due più grosse schiere de' letterati. Nelle loro opere l'importante è la frase, un certo artificio di espressione, che riveli nell'autore coltura e conoscenza de' classici. I lettori non meno colti ed eruditi rimanevano ammirati, trovando nel loro libro le orme del Boccaccio o del Petrarca, di Virgilio o di Cicerone. Pareva questa imitazione il capolavoro dell'ingegno. E mi spiego come uomini assai mediocri furono potuti tenere in così gran pregio, quali Pietro Bembo, il caposcuola, e monsignor Guidiccioni e Bernardo Tasso e simili, noiosissimi.