JUS- ONLINE 1/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

INDICE N. 1/2020

RENATO BALDUZZI 1 La posizione costituzionale del Csm tra argomenti di ieri ed effettività dell’organo

GIUSEPPE SCIACCA 21 Il Tribunale Ecclesiastico a servizio del matrimonio e della famiglia

GERALDINA BONI 31 Sigillo sacramentale, segreto ministeriale e obblighi di denuncia- segnalazione: la ragioni della tutela della riservatezza tra diritto canonico e diritto secolare, in particolare italiano

TOMMASO GAZZOLO 223 Minority Report e il crimine senza crimine

GIANPIERO MANCINETTI 251 La tutela in rem e il iudicium in factum contro il venditore

VINCENZO FERRANTE 289 Potere di controllo e tutela dei lavoratori: riflessioni sparse sulle disposizioni dello “Statuto”, alla luce delle più recenti modifiche

VP VITA E PENSIERO

JUS- ONLINE 1/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

RENATO BALDUZZI Professore ordinario di diritto costituzionale, Università Cattolica del Sacro cuore

La posizione costituzionale del Csm tra argomenti di ieri ed effettività dell’organo*

English title: The constitutional position of Italian High Council of the Judiciary, between traditional doctrinal opinions and effectiveness DOI: 10.26350/18277942_000001

Sommario: Premessa. 1. Sessant’anni di ricostruzioni del modello italiano di Consiglio superiore (e di magistratura). 2. L’effettività del Consiglio superiore come inveramento del modello costituzionale (e alcuni suggerimenti per migliorarla). Conclusioni.

Premessa

Da molti mesi, a seguito dello “scandalo romano”1 che ha visto interessati ex-componenti di estrazione togata del Consiglio superiore della magistratura e che ha indotto alle dimissioni alcuni suoi componenti in carica nella consiliatura attuale (anch’essi magistrati), il Csm è oggetto di attenzione costante da parte dei mezzi di informazione. Il fatto sarebbe da valutare con qualche interesse, come segno di una maggiore attenzione

* Lo scritto, sottoposto a double blind peer review, riproduce, con qualche variazione e integrazione, un testo destinato alla pubblicazione nel Codice dell’ordinamento giudiziario, a cura di G. Grasso, A. Iacoboni e M. Converso, La Tribuna - Il Foro italiano, Piacenza, 2020. 1 Per usare l’espressione di N. ROSSI, Lo scandalo romano: un bubbone maligno scoppiato in un organismo già infiacchito da mali risalenti, in Questione giustizia, 2/2019, 4 ss. Con qualche amara ironia, viene alla mente la proposta, formulata da Piero Calamandrei in seno alla Commissione Forti, secondo cui il nuovo Csm avrebbe dovuto avere sede in una città diversa da Roma “per garantire anche di fatto da inframmettenze politiche gli organi supremi della magistratura”: G. D’Alessio (a cura di), Alle origini della Costituzione italiana. I lavori preparatori della “Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello stato” (1945-1946), Bologna, 1979, 629; sui lavori della Commissione Forti, per la precisione la seconda, v. da ultimo A. MENICONI, Verso l’indipendenza della magistratura (1944-1948), in Riv. trim. dir. pubbl., 2018, 418 ss.

VP VITA E PENSIERO

JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 verso un organo statale tanto importante quanto poco conosciuto, se non fosse che tale attenzione pare dipendere, più che dalla volontà di segmenti consistenti della pubblica opinione di comprenderne le caratteristiche e il funzionamento, dalla ben diversa circostanza che, nella vicenda che ha scosso il Consiglio2, gran parte della pubblica opinione vede la conferma di convincimenti radicati circa la caparbia attitudine di settori della magistratura e della politica a confondere i ruoli, a influenzare impropriamente procedimenti delicati e a privilegiare lo spirito di corporazione rispetto alla sempre faticosa ricerca dell’interesse generale. Dunque, piuttosto che un aumento della conoscenza obiettiva dei caratteri del Csm e del suo ruolo, l’esito di tale sovraesposizione mediatica rischia di andare nella direzione di un aumento della sfiducia nei confronti dell’organo e, mediatamente, nei confronti dell’intera magistratura: non soltanto a causa dello status soggettivo di magistrati rivestito dai protagonisti della vicenda, ma, più in generale, in forza della necessaria interdipendenza tra la reputazione del Consiglio e quella della magistratura, tra la fiducia nei confronti del primo e le ricadute nei confronti della seconda. Tale situazione è resa ancora più preoccupante, sotto il profilo della tenuta del modello costituzionale di magistratura e di Csm, dalla circostanza che, “in un contesto di populismo montante, noi ci confrontiamo con la triste realtà di crescenti segmenti della popolazione che ripudiano i principi della democrazia costituzionale, inclusa la separazione dei poteri e l’indipendenza della magistratura”3 e non è casuale che i leader populisti “si assicurino il potere attraverso il controllo della magistratura e dei media”4.

2 Una vicenda che “ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile” per via del “coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di potere manovrare il Csm, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato” (così il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nell’intervento del 21 giugno 2019 all’Assemblea plenaria straordinaria del Consiglio superiore della magistratura). 3 C. LANDFRIED, Introduction, in C. Landfried (ed.), Judicial Power. How Constitutional Courts Affect Political Transformation, Cambridge, 2019, 3. 4 J.-W. MÜLLER, Homo Orbánicus, in The New York Review of Books, 5 aprile 2018, recensione a P. LENDVAI, Orbán: Hungary’s Strongman, Oxford, 2018 (cit. da C. LANDFRIED, loc. ult. cit.).

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In tale contesto, un buon Consiglio superiore della magistratura è un potente fattore di integrazione e coesione sociale, proprio perché chiamato a “governare” la magistratura o meglio, come vedremo, a garantire l’autonomia e l’indipendenza di un corpo vocato a svolgere, con modalità, metodi e “stili” differenti rispetto al potere politico, un ruolo di integrazione sociale5. Diventa allora assai importante tentare (§ 1) di delineare un modello interpretativo di Csm su cui possa raccogliersi un consenso sufficiente per meglio collocare l’organo nella temperie politico-istituzionale attuale e per sconsigliarne o ridimensionarne ipotesi di mutamento del ruolo e delle caratteristiche. Un tale modello interpretativo dovrà fare i conti con l’effettività del Consiglio (§ 2) e rispondere alla domanda se l’esperienza di questi sessant’anni abbia portato a un travisamento del modello o al suo inveramento secondo Costituzione e, in questo secondo caso, quali cambiamenti a livello legislativo e di normazione secondaria di produzione consiliare siano raccomandabili al fine di meglio affrontare gli scenari che si presentano oggi, così da rispondere alla domanda: quali prospettive per il modello italiano di Consiglio superiore (e di magistratura)?

1. Sessant’anni di ricostruzioni del modello italiano di Consiglio superiore (e di magistratura)

“Nessun progresso verso la determinazione della posizione costituzionale del potere giudiziario può conseguire a dibattiti a carattere puramente classificatorio, come ad esempio quello relativo alla qualificazione del Consiglio superiore, o degli organi giudiziari individualmente presi, o nel loro complesso, come organi costituzionali o meno, oppure quello relativo alla qualificazione del potere giudiziario come sovrano o non ed altri di questo genere”6.

5 Ancora C. LANDFRIED, Introduction, cit., 4, 12, 17. 6 A. PIZZORUSSO, Introduzione, in L’ordinamento giudiziario. Testi a cura di Alessandro Pizzorusso (1974), ora in ID., L’ordinamento giudiziario, Napoli, 2019, vol. II, 299 e ss., che così proseguiva: “Si deve invece guardare senza infingimenti al rapporto reale in cui, secondo il nostro ordinamento costituzionale, gli organi che compongono il potere giudiziario si trovano con gli altri poteri e soprattutto si deve

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Così, già quarantacinque anni fa, Alessandro Pizzorusso commentava i limiti della pur imponente attenzione che dottrina e giurisprudenza avevano riservato al nuovo assetto costituzionale della magistratura nel primo quarto di secolo successivo all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Pochi anni più tardi, il medesimo autore avrebbe delineato la pars construens, descrivendo il Consiglio come titolare esclusivo della funzione di amministrazione della giurisdizione7 e sottolineandone il carattere “rappresentativo” del potere giudiziario, nel senso almeno della rappresentanza processuale, nonché l’assenza di reale valore definitorio della qualifica di organo costituzionale e la scarsa utilità della qualifica, ancorché dotata di portata tecnicamente precisa, di organo di rilevanza costituzionale8. Vale la pena di chiedersi, retrospettivamente, quali possano essere le ragioni per cui una tale ricostruzione, ancorché fine e compiuta9, della posizione costituzionale e della natura giuridica del Csm, non sia stata largamente accolta. Ne ipotizzo due, tra le tante possibili. La prima è la connotazione prevalentemente riduttiva con cui la dottrina giuridica tende a impiegare il termine amministrazione e i suoi derivati, con l’effetto, nel caso di specie, di non incontrare l’adesione di quelle ricostruzioni volte a valorizzare e consolidare il modello costituzionale di Csm10; a conferma di ciò, è agevole constatare la ben diversa fortuna delle

ricercare in qual modo l’esercizio di tali funzioni risulti compatibile col principio di sovranità popolare”. 7 A. PIZZORUSSO, L’organizzazione della giustizia in Italia, Torino, 1982, 83 ss. (e, con sviluppi argomentativi, ID., Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., in Quad. cost., 1989, 471 ss., ora in ID., L’ordinamento giudiziario, cit., vol. II, 1063 ss.). 8 Discussione che già nel 1974 era stata considerata di scarso valore pratico (così R. MORETTI, Indicazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti, in L’ordinamento giudiziario. Testi, cit., 551). Si v. comunque Corte cost., sentt. nn. 44 del 1968, 12 del 1971, 142 e 148 del 1983. 9 Si v. sul punto G. SILVESTRI, Pizzorusso e l’ordinamento giudiziario, in A. PIZZORUSSO, L’ordinamento giudiziario, cit., vol. I, pp. XI-XXVII. 10 Per un esempio di quanto argomentato nel testo si v. N. ZANON-F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2014, 43-44 (dove si richiama quella giurisprudenza amministrativa che, per negare la possibilità di funzioni implicite del Csm, motiva con la circostanza che esso “è investito solo di competenze amministrative”). Si aggiunga che la scelta, contenuta originariamente nella legge n. 195/1958, di condizionare la generalità dei provvedimenti del Consiglio alla previa richiesta del Ministro della giustizia, non poteva non suscitare una forte reazione in quanti, anche constatando la perdurante inerzia legislativa nell’attuazione della VII

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 qualificazioni del Consiglio come organo di “autogoverno” o di “governo autonomo”. La seconda ragione sta nel timore, proprio delle ricostruzioni in chiave riduttiva del ruolo e delle funzioni del Csm, che predicarne il carattere rappresentativo implichi un rafforzamento dell’organo e/o della magistratura nel suo insieme; tanto più che un tale timore può essere compatibile anche con ricostruzioni di segno diverso, ma preoccupate che il riferimento alla rappresentatività possa significare una sorta di responsabilità del componente togato del Csm nei confronti della propria “corrente” (o dello spezzone della medesima che l’ha sostenuto nel periodo pre-elettorale) e dunque che ne venga rafforzato il ruolo e il peso all’interno del Consiglio, e che questa circostanza possa costituire un pericolo per l’indipendenza dei singoli magistrati. A quest’ultima preoccupazione lo stesso Pizzorusso trent’anni fa rispondeva che la struttura pluralistica del Consiglio “costituisce anzi ormai la principale garanzia dell’indipendenza «interna» dei magistrati”11. Oggi, tuttavia, è proprio questa ottimistica affermazione che appare messa in discussione, alla luce anche di avvenimenti recenti che hanno confermato la sussistenza di tendenze degenerative delle articolazioni dell’Associazione nazionale magistrati12, e sembra comunque grande la difficoltà, per le “correnti” e per molti magistrati in esse impegnati, di privilegiare con nettezza il proprio profilo culturale o politico-culturale rispetto a tentazioni e comportamenti corporativi e di “cordata”. Tra le qualificazioni di ieri che ancora vengono utilizzate, sia in dottrina, sia nella giurisprudenza e (talvolta) dallo stesso legislatore, oltre che naturalmente nella discussione politica, sin dai tempi della Assemblea costituente, vi è quella del Csm come organo di autogoverno della magistratura13.

D.T.F., vi leggevano la volontà di ostacolare l’attuazione costituzionale e pertanto erano preoccupati che letture “amministrativistiche” del ruolo del Csm potessero rafforzarla. 11 Nel menzionato scritto Problemi definitori, cit. (ora in A. PIZZORUSSO, L’ordinamento giudiziario, cit., vol. II, 1069, nt. 12). 12 Retro, nt. 1 (si v. comunque infra, al § 2, per un tentativo di distinguere tra la ricostruzione giuridica di un istituto e talune sue applicazioni pratiche e comportamentali). 13 Si fa normalmente risalire l’impiego dell’espressione al notissimo intervento di P. CALAMANDREI, Governo e Magistratura (1920), in Opere giuridiche, vol. II, Napoli, 1966, 218.

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L’improprietà della locuzione venne rilevata già a partire dalle prime compiute analisi dottrinali del titolo IV della parte seconda della Costituzione14 e appare manifesta, con riferimento sia al termine “governo”, sia al prefisso “auto15 (come confermato anche dalla giurisprudenza costituzionale)16. Se la peculiarità dell’equilibrio costituzionale tra componente togata e componente non togata sconsiglia che si parli di autogoverno17, anche la meno problematica qualificazione del Consiglio come organo di governo autonomo della magistratura non lascia del tutto soddisfatti: non solo e non tanto perché il termine governo viene tradizionalmente riferito al potere esecutivo18, quanto piuttosto perché non di “governo” si tratta, ma di “garanzia” attraverso un’azione amministrativa caratterizzata dalla circostanza di essere svolta da un organo collegiale che riesce a “evitare tanto la dipendenza dei giudici dal potere politico, quanto la chiusura degli stessi in caste autoreferenziali”19,

14 Cfr. S. BARTOLE, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, Padova, 1964, 3 ss. 15 Sul punto v. ancora A. PIZZORUSSO, Problemi definitori, cit., 1065-1066. 16 Che l’ha qualificata, dapprima, come espressione da accogliersi in senso figurato piuttosto che in una rigorosa accezione giuridica (sent. n. 142 del 1973) e, più di recente, come impropria (sent. n. 16 del 2011). 17 La formula è frequentemente usata, soprattutto nel dibattito interno alla magistratura: per un esempio particolarmente significativo, in quanto riferito a una delle articolazioni dell’Associazione nazionale magistrati che maggiormente afferma di volere prendere le distanze da approcci corporativi, si vedano gli scritti pubblicati nel numero speciale di Questione giustizia, 4/2017, intitolato emblematicamente L’orgoglio dell’autogoverno: una sfida possibile per i 60 anni del Csm. Sotto il profilo sia soggettivo (quasi che soggetti non appartenenti all’ordine giudiziario non siamo legittimati a concorrere all’amministrazione della giurisdizione), sia oggettivo (quasi che gli interessi la cui cura sia conferita al Csm esulino dall’ordinamento giuridico generale), la formula si presenta come irrimediabilmente ambigua. E allora sorge spontanea la domanda: magistrati sensibili all’attuazione del modello costituzionale pensano davvero che continuare a qualificare il Csm con una formula impropria e ambigua sia un servizio alla causa dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura? 18 E non sarebbe sufficiente la pur giusta obiezione secondo cui il Consiglio superiore nasce per prendere il posto del Ministro e del Governo onde assicurare l’indipendenza esterna della magistratura, poiché il senso della scelta del costituente stette proprio nell’evitare ingerenze improprie, interferenze, condizionamenti attraverso la preposizione alle decisioni concernenti i magistrati e i relativi uffici giudiziari di un organo che, per l’equilibrio della sua composizione, potesse appunto garantire quell’indipendenza. 19 Così Corte cost., sent. n. 16 del 2011 (red. Silvestri). In senso analogo rispetto al testo sembra andare la relazione di M. LUCIANI su Il Consiglio superiore della magistratura

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 e ciò grazie ai criteri della sua composizione e in particolare all’equilibrio20 tra il riconoscimento maggioritario alla componente di estrazione togata, la presidenza dell’organo affidata al Capo dello Stato e la vicepresidenza a un soggetto scelto dall’intero Consiglio tra i componenti non togati21. Una scelta, quella fatta dall’Assemblea costituente, non soltanto legata alla volontà politica di non concepire la magistratura come corpo-ordine separato (e giustamente sono stati da tempo evocati gli echi della discussione svoltasi in sede di Assemblea costituente francese nel 1946)22, ma altresì da ricollegare a un preciso

nel sistema costituzionale al recente Convegno Le garanzie istituzionali di indipendenza della magistratura in Italia, promosso a Roma dalla Scuola superiore della magistratura nei giorni 5-7 novembre 2019. Considera “più consono” parlare di organo di garanzia, ma preferisce impiegare quello di autogoverno G. SILVESTRI, Il Vicepresidente del Csm nella Costituzione e nella legge, in Consiglio superiore della magistratura-Associazione Vittorio Bachelet, Ruolo e funzione del Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura a 35 anni dalla scomparsa di Vittorio Bachelet, Roma, 2017, 6, nt. 3 (anche in Liber amicorum di Piero Alberto Capotosti, Bari, 2016, II, 707 ss.), “per dare il senso della considerazione unitaria dell’Ordine giudiziario nel confronto con gli altri poteri dello Stato, senza però attribuire allo stesso il significato di organo che decide un indirizzo politico giudiziario inammissibile nel nostro sistema costituzionale” (sul punto v., in senso parzialmente diverso, ID., Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia, 4/2017, 24). Sulla preferibilità della qualificazione del Csm come organo di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura rispetto a quella di organo di autogoverno v. P.A. CAPOTOSTI, Il ruolo del giudice nella Costituzione, alla luce del pensiero di Vittorio Bachelet, in Nomos, 2008, 112 (si v. R. BALDUZZI, Piero Alberto Capotosti e l’equilibrio della Costituzione, in Osservatorio costituzionale AIC, 3/2018, 84-85). Possibilista sul punto è M. VOLPI, Il Consiglio superiore della magistratura tra modello costituzionale e ipotesi di riforma, in Scritti in onore di Gaetano Silvestri, Torino, 2016, III, § 2. 20 Storicamente riconosciuto anche da osservatori normalmente molto esigenti e affezionati alle proprie tradizioni costituzionali: si v. J.-P. ROYER, La justice en Europe, in Pouvoirs, (74) 1995, 148 ss. 21 E che potremmo assimilare alle altre forme dell’equilibrio istituzionale come ripercorse, anche in chiave comparata, da R. TONIATTI, Le forme e la cultura costituzionale dell’equilibrio costituzionale, in R. Toniatti-M. Magrassi (a cura di), Magistratura, giurisdizione ed equilibri istituzionali. Dinamiche e confronti europei e comparati, Milano, 2011, 573 ss. Sulla nozione di “equilibrio della Costituzione” rinvio a R. BALDUZZI, Piero Alberto Capotosti, cit., 81 ss. 22 C. PINELLI, Le proposte di riforma del Consiglio superiore della magistratura, in B. Caravita (a cura di), Magistratura, Csm e principi costituzionali, Roma-Bari, 1994, 166: echi palesi, come appare evidente nel notissimo intervento di Giovanni Leone nella seduta del 25 novembre 1947 (“un organo il quale nella sua composizione mista identifichi le due opposte necessità, quella di tutelare l’indipendenza della magistratura e quella di fare sentire un soffio esterno all’ordine giudiziario per quanto attiene al

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 intendimento di sistema, essendo la magistratura chiamata ad amministrare la giustizia in nome del popolo (formula di apertura del titolo dedicatole, da non intendersi soltanto come controcanto rispetto all’art. 68 dello Statuto) e pertanto istituzionalmente aperta e rivolta al servizio dei cittadini23. Organo di garanzia, dunque, ma di che cosa? La risposta, consueta e costituzionalmente imposta ai sensi dell’art. 104, è: dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, secondo la formula così spesso ripetuta da risultare quasi scontata. Eppure non si tratta di un’endiadi, ma di due distinti valori costituzionali, strettamente interrelati, ma non per questo sovrapponibili. Al pari delle pubbliche amministrazioni in generale, anche alla magistratura si applica il principio di imparzialità, sia in forza della clausola generale dell’art. 97, sia (per il giudice) con la specifica norma del primo comma dell’art. 111.

governo della carriera del magistrato”). Può essere di qualche utilità, per ricostruire i precedenti culturali della scelta dei costituenti, richiamare un passaggio della discussione, tenutasi in Senato il 24 giugno 1908, sul disegno di legge Guarentigie e disciplina della magistratura, presentato dal Ministro della giustizia Vittorio Emanuele Orlando, nel corso della quale si sviluppò un interessante dialogo, una sorta di concurring opinion, tra il Ministro stesso e il senatore prof. Giorgio Arcoleo. All’idea di Orlando secondo cui “nell’odierna evoluzione della scienza e della vita sociale debba l’ordine giudiziario smettere l’antica veste di potere autonomo e indipendente, per assumere quella più modesta di pubblico servizio, come ogni altro ramo di amministrazione”, Arcoleo contrappone una visione esattamente antitetica: “Vorrei al giudiziario sostituire la formula di potere giurisdizionale, per indicare quella suprema autorità che decide dei più umili rapporti tra il mio e il tuo ed assorge, come in Inghilterra, a contrapporre il common law agli Statuti parlamentari, o a dichiarare, con la Corte suprema in America, incostituzionali anco le leggi”, e subito sotto chiarisce, a proposito della composizione mista, di magistrati e senatori, della Suprema Corte disciplinare prevista dal disegno di legge Orlando, che essa va attribuita al “presupposto che, nel giudizio sulle colpe dei propri colleghi, il magistrato resti perplesso fra la responsabilità dell’individuo e il decoro di tutta una classe, così che l’intervento di elementi estranei significa non sfiducia, ma concorso dell’altrui giudizio che tolga il pericolo di soverchia indulgenza o severità, per motivi facili nelle gerarchie chiuse e onnipotenti, meno per volontà di persone, che per forza stessa di cose. Né regge del tutto il raffronto con gli altri corpi costituiti, nei quali l’esclusiva potestà interna disciplinare, con organi propri, si connette alla gerarchia, mentre l’inamovibilità forma usbergo e difesa al magistrato contro l’abuso dei superiori” (ripreso da T.E. Frosini, Giorgio Arcoleo, un costituzionalista in Parlamento, in G. Arcoleo, Discorsi parlamentari, Bologna, 2005). 23 Sul punto v. soprattutto M. LUCIANI, Le proposte di riforma del Consiglio superiore della magistratura in Italia, in A.A. Cervati-M. Volpi (a cura di), Magistratura e Consiglio superiore in Francia e in Italia, Torino, 2010, 114.

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Ora, la premessa, la condizione essenziale per l’imparzialità-terzietà del giudice è proprio la sua indipendenza, esterna ed interna, funzionale e istituzionale24. A sua volta, la misura e il grado dell’indipendenza esterna del magistrato è data dall’autonomia dell’ordine-potere25 in cui è inserito26. E questa autonomia è garantita dall’esistenza e dalle attribuzioni del Consiglio superiore, la cui peculiare composizione, mista ed equilibrata, risulta coerente con il modello costituzionale di magistratura27 e costituisce la ragione di fondo per cui a tale organo spetta, in ordine alle competenze costituzionalmente conferite, l’ultima parola28. L’osservazione comparata permette di avere conferma della rilevanza della connotazione di autonomia in capo alla magistratura: si pensi alla ben diversa formulazione dell’art. 64 della Costituzione francese della V Repubblica, secondo cui “Le Président de la République est garant de l’indépendance de l’autorité judiciaire. Il est assisté par le

24 Per usare la sistematica di N. ZANON-F. BIONDI, Il sistema costituzionale, cit., 81 ss. Sul rapporto tra indipendenza e imparzialità si vedano, per tutti, le considerazioni di S. SICARDI, Percorsi e vicende del Terzo Potere dallo Stato liberale allo Stato costituzionale: da uno sguardo d’insieme alla Costituzione italiana, in Id. (a cura di), Magistratura e democrazia italiana: problemi e prospettive, Napoli, 2010, 27 ss. 25 Contra, nel senso di considerare la magistratura non un potere, ma un ordine, per tutti N. ZANON-F. BIONDI, Il sistema costituzionale, cit., 23: ma la circostanza che, sia il d.d.l. cost. A.C. n. 4275 della XVI leg., sia la più recente p.d.l. cost. d’iniziativa popolare A.C. n. 14 della XVIII leg., espressamente abbiano voluto espungere l’aggettivo “altro” dal testo del vigente art. 104 Cost., induce a privilegiare la prevalente lettura che vede nella magistratura un potere-ordine (o un ordine-potere). Considera l’autonomia dell’ordine giudiziario come “un’autonomia reale, fondata sul riconoscimento che i magistrati si distinguono fra di loro soltanto per diversità di funzioni”, S. MERLINI, Magistratura e politica: una introduzione, in Centro studi politici e costituzionali “Piero Calamandrei-Paolo Barile”, Magistratura e politica, a cura di S. Merlini, Bagno a Ripoli, 2016, 36. 26 Così, v. già F. BONIFACIO-G. GIACOBBE, sub art. 104, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1986, p. 26. 27 Nel senso invece di considerare la composizione del Csm “un compromesso fra le tesi divergenti”, che “probabilmente ne cumula i difetti”, fu il noto giudizio di C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, 9.a ed., vol. II, Padova 1976, 1282, su cui v. il commento di C. PINELLI, Le proposte di riforma del Consiglio superiore della magistratura, in B. Caravita (a cura di), Magistratura, Csm e principi costituzionali, Roma-Bari, 1994, 161 ss. 28 Che le garanzie di indipendenza dei magistrati non siano sufficienti a realizzare un assetto appropriato se non assistite anche da adeguate forme di autonomia era stato già intuito da Lodovico Mortara nel 1885 (v. sul punto A. PIZZORUSSO, Mortara e i problemi dell’ordinamento giudiziario (1988), ora in ID., L’ordinamento giudiziario, Napoli, 2019, vol. II, 464 ss.).

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Conseil supérieur de la magistrature” e ai commenti che su di esso ritroviamo nella dottrina d’Oltralpe29. Si tratta, naturalmente, di un’autonomia che non soltanto incontra i propri limiti nella Costituzione e nelle leggi, ma che ha natura, per dir così, funzionale rispetto al terreno nel quale il Consiglio esplica le proprie funzioni, quello cioè dell’organizzazione della giurisdizione o, se si vuole, dell’amministrazione-organizzazione della medesima (che, come si vedrà nel § 2, è poi il terreno sul quale l’effettività della vita del Csm ha potuto esercitarsi): se il Consiglio è stato costruito per sottrarre l’amministrazione-organizzazione dei magistrati alla competenza ministeriale, è proprio su quella che esso può fondare lo svolgimento delle proprie attribuzioni30. Su tali basi, si comprende allora meglio come alcuni temi controversi del dibattito dottrinale sul Consiglio superiore possano trovare un più agevole inquadramento, condivisibile anche all’interno di ricostruzioni diverse del modello costituzionale. Così, non è necessario – e, anzi, può persino essere controproducente ai fini della legittimazione condivisa dell’organo – ipotizzare funzioni “ulteriori” accanto a quelle di amministrazione della giurisdizione per spiegare l’attività collaborativa del Consiglio superiore della magistratura rispetto al circuito Ministro-Parlamento31, ove quest’ultima venga ricondotta alla prospettiva dell’organizzazione della stessa. Né, allo scopo di legittimare e valorizzare siffatte attività, è

29 Sorvolando sul primo comma, a proposito del quale rinvio all’ironico commento di G. CARCASSONNE (“Autant proclamer que le loup est garant de la sécurité de la bergerie”, in La Constitution introduite et commentée par Guy Carcassonne et Marc Guillaume, 12.a ed., Paris, 2014, 315; si v. la parziale presa di distanza del prefatore Georges Vedel, ivi, p. 14), è interessante l’analisi che del secondo comma fa B. MATHIEU, Justice et politique: la déchirure, Paris, 2015, p. 13: “(…) la séparation des pouvoirs ne peut se comprendre come conduisant à l’autonomie du pouvoir judiciaire, qui en serait par ailleurs le seul bénéficiaire, au risque d’une déstabilisation de l’État e de l’intérêt général dont il est porteur”, anche in considerazione della circostanza che l’autore – e, per un francese, non è cosa da poco – non esita a parlare di “pouvoir judiciaire” e considera la discussione sull’organizzazione e sulle competenze del Consiglio superiore della magistratura e degli organi similari come indicatori del grado di accettazione dell’esistenza di un potere giudiziario (ivi, 13-14, 42 ss.). 30 Non va dunque considerato casuale il favor nei confronti della costruzione del Consiglio come “vertice organizzativo della magistratura ordinaria” che espresse la c.d. Commissione Paladin (v. la Relazione della Commissione presidenziale per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura, in Giur. cost., 1991, 986 ss., spec. pp. 1001-1002). 31 Si v., ad es., S. MERLINI, Magistratura e politica, cit., 38 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 necessario postulare il carattere “rappresentativo” del Consiglio stesso32, o tantomeno argomentare attorno alla supposta partecipazione del medesimo alla funzione di indirizzo politico nel settore giudiziario33: su tutte le questioni che hanno diretta ripercussione sull’organizzazione della giurisdizione il Consiglio può e deve portare la propria attenzione, nelle forme che l’ordinamento vigente riconosce34. Parimenti, alla vexata quaestio circa l’esistenza di funzioni implicite in capo al Consiglio, in aggiunta a quelle previste nella Costituzione e nella legislazione, la risposta sembra essere quella di ammetterle se e nella misura in cui siano direttamente riconducibili alla funzione di vertice organizzativo della magistratura35.

32 Sul punto rinvio alle considerazioni di C. PINELLI, Le proposte di riforma, cit., 166 ss. 33 Già avanzata, all’inizio degli anni Settanta, da S. MERLINI, Il Consiglio superiore della magistratura, la Costituzione e la democrazia, in Quale giustizia, 9-10/1971, 405, e ripresa oggi, sembra, da G. SILVESTRI, Consiglio superiore della magistratura, cit., 24 (ma v. retro, nt. 19). Drastico nella negazione che il Consiglio possa divenire organo di indirizzo della politica giudiziaria fu, com’è noto, C. MORTATI, Istituzioni, cit., 1285. 34 E questo non significa sganciare le attribuzioni del Csm da ogni appiglio normativo testuale e aprire la strada a possibili arbitri (così invece N. ZANON-F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., 44, che fanno derivare tale conseguenza dalla criticata tesi per cui l’autonomia sarebbe funzionale alla tutela dell’indipendenza e consentirebbe l’esercizio di tutti i poteri allo scopo necessari; ma, come si è cercato di argomentare nel testo, non è questo il senso del rapporto inestricabile tra autonomia e indipendenza). 35 Tra le attribuzioni svolte dal Consiglio superiore ha fatto discutere quella concernente le cosiddette “pratiche a tutela”, cioè gli interventi a tutela dell’indipendenza e del prestigio dei magistrati e della funzione giudiziaria, la cui procedura è attualmente prevista dall’art. 36 del Regolamento interno: ove tali interventi siano originati da situazioni in cui “l’esistenza di comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria” abbia ricadute significative sull’organizzazione dell’ufficio giudiziario, l’intervento del Consiglio sembra rientrare nella “figura” costituzionale quale sopra delineata; negli altri casi, la circostanza che, eventualmente, il Consiglio svolga una discussione sulla proposta formulata dalla Prima Commissione non sembra costituire motivo di illegittimità dell’istituto (anche volendo ammettere – ma sul punto, v. infra, nt. 47 – che il Regolamento interno non possa validamente regolare i rapporti tra il Csm e soggetti “esterni”, una deliberazione di sostegno a questo o a quel giudice o ufficio giudiziario non appare estranea alla funzione di garanzia del Consiglio e comunque non implica attivazione di rapporti con soggetti esterni e tantomeno obblighi od oneri in capo ad essi; contra, N. ZANON-F. BIONDI, Il sistema costituzionale, cit., 43-44). Sulle pratiche a tutela v. ora G. MAMMONE, Il Csm prima e dopo il «nuovo» ordinamento giudiziario, in Foro it., 2019, V, 14 ss.; S. PANIZZA, Le pratiche a tutela, ivi, 73 ss.

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A un siffatto organo di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, di cui costituisce il vertice organizzativo, viene pacificamente riconosciuto il carattere dell’indefettibilità36, anche da parte delle ricostruzioni dottrinali maggiormente preoccupate di circoscrivere l’“attivismo” del Consiglio37. Più problematico è il quesito se tale indefettibilità attenga alla mera esistenza di un organo con le funzioni costituzionali del Csm o anche al modello costituzionale di Consiglio superiore, e se sì entro quali limiti e in quale misura, con particolare riferimento alla proporzione tra componente togata e componente “laica”. Il principio costituzionale sembra potersi sintetizzare nell’esclusione della sottoposizione dell’ordine-potere giudiziario alle decisioni del potere politico, in particolare del Governo, per tutto ciò che attiene al percorso professionale del magistrato. La Costituzione svolge tale principio attraverso la configurazione di un Consiglio superiore della magistratura con le caratteristiche predette: vi è un “nucleo essenziale” del principio tale da renderlo “supremo”, e pertanto non suscettibile di essere scalfito neanche dal legislatore di revisione? In assenza di indicazioni precise nella giurisprudenza costituzionale (il precedente invocabile, la sent. n. 16 del 2011, oltre a riguardare un organo di garanzia che non gode di espressa garanzia costituzionale, appalesa una qualche incertezza proprio sui rapporti numerici)38, sembra possibile individuare il nucleo del principio nella necessità di una composizione togata maggioritaria, con temperamenti, che possono avere una qualche variabilità, volti a impedire che il “governo” dell’organo sia consegnato alle sole dinamiche interne alla magistratura e alle sue articolazioni lato sensu politico-culturali.

36 Per tutti F. SORRENTINO, L’organizzazione costituzionale della Repubblica italiana, Genova, 1980, 141. Nella giurisprudenza costituzionale v. già la sent. n. 266 del 1988. 37 V., ad es., N. ZANON-F. BIONDI, Il sistema costituzionale, cit., p. 24. 38 Così, in una sorta di interpretazione “autentica” da parte del redattore della pronuncia, G. SILVESTRI, Consiglio superiore della magistratura, cit., 22 nt. 10. Sulla sent. n. 16 del 2011 v. i commenti critici di R. PINARDI, Sulla composizione degli organi di garanzia delle magistrature speciali (riflessioni a margine della sent. n. 16 del 2011 della Corte costituzionale), in Consulta online, 2011; V. Onida, Quando la Corte non vuole decidere, in Rivista AIC, 2/2011; G Ferri, L’indipendenza delle magistrature speciali e la composizione del Consiglio di presidenza della Corte dei conti, ora in Id., La magistratura in Italia. Raccolta di scritti, Torino, 2018, 309 ss.

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2. L’effettività del Consiglio superiore come inveramento del modello costituzionale (e alcuni suggerimenti per migliorarla)

Già all’inizio degli anni Settanta era stato documentato con cura l’allargamento progressivo del ruolo e dei compiti del Consiglio superiore rispetto alle intenzioni della legge istitutiva, individuando il fenomeno di maggiore interesse nella funzione “paranormativa” che il Consiglio era venuto assumendo, non solo, si scriveva, “per soddisfare le proprie esigenze organizzative, ma per la necessità di adattare le vecchie norme dell’ordinamento giudiziario ai nuovi istituti, e soprattutto per integrare le ampie lacune dovute ai frammentari interventi del legislatore”39. Come sarà successivamente sintetizzato, “non è dubbio che l’enorme accrescimento dei poteri normativi del Csm sia strettamente correlato alla lacunosità dell’attuale disciplina legislativa e che possa essere giustificato dalla necessità, avvertita dal Consiglio, di una predeterminazione normativa di regole certe e stabili della propria azione”40. Più di recente, si è concluso nel senso che appare oggi ben difficile negare che al Csm spetti, quanto meno a livello secondario, il potere di dettare le “norme” sul funzionamento e sull’organizzazione dell’ordine giudiziario e sui rapporti tra Csm e le altre strutture della magistratura nonché sulla carriera dei magistrati (assegnazioni di posti, tramutamenti, trasferimenti, incarichi extragiudiziari, applicazioni, supplenze, e così via)41. Nel corso del tempo si sono poi registrati numerosi interventi legislativi volti ad assegnare al Consiglio competenze normative nel campo

39 M. DEVOTO, Il ruolo del Consiglio superiore della magistratura nell’ordinamento costituzionale dello Stato, in L’ordinamento giudiziario. Testi, cit., 285. 40 F. SORRENTINO, I poteri normativi del Csm, in Magistratura, Csm e principi costituzionali, cit., 47. Può essere utile riportare un passaggio della Relazione della Commissione Paladin (Relazione, cit., p. 1002), a proposito della disciplina legislativa in materia di organizzazione degli uffici giudiziari: “(…) riesce difficile immaginare che la nuova disciplina divenga così dettagliata e stringente, da annichilire il ruolo che per una serie di aspetti compete al Consiglio quale vertice organizzativo della magistratura ordinaria. Ed in qualche modo ne offre conferma – nella prassi – la mole dei quesiti rivolti al Csm dai più vari organi del giudiziario, ora concernenti l’interpretazione da dare alle circolari consiliari, ora riguardanti il senso da attribuire a determinate norme di legge: quesiti ai quali lo stesso Consiglio risponde in maniera sistematica, anche se tale da lasciare adito ai più seri dubbi circa il valore di risposte siffatte”. 41 A. PACE, I poteri normativi del. Csm, in Rass. parl., 2/2010, soprattutto al § 5.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dell’organizzazione (in materia c.d. tabellare, di ripartizione degli uffici giudiziari e di individuazione e composizione delle sezioni, oltre a quella, poi sottratta con le riforme degli anni 2005-2007, di determinare i criteri generali per l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero e per l’eventuale ripartizione di essi in gruppi di lavoro)42. Da ultimo, è stata attribuita al Csm la competenza a provvedere all’organizzazione delle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, “anche in deroga alle norme vigenti relative al numero dei giudici da assegnare alle sezioni e fermo restando i limiti del ruolo organico della magistratura ordinaria”43. Particolarmente interessante, nell’ottica di una ricostruzione di sintesi dei poteri consiliari, è la vicenda della c.d. circolare sulle procure. A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106 (modificato dalla l. 24 ottobre 2006, n. 269 e dalla l. 30 luglio 2007, n. 111) in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, il Consiglio aveva adottato due “risoluzioni” (12 luglio 2007 e 21 luglio 2009) allo scopo di offrire ai procuratori della Repubblica riferimenti per una omogenea organizzazione dell’ufficio atta a garantire il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale, a fronte di un intervento legislativo che attribuiva loro pieni poteri organizzativi, sottraendo gli uffici requirenti alle regole tabellari proprie degli uffici giudicanti. In data 16 novembre 2017, il Consiglio ha approvato la “Circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura”, dando attuazione, sotto il profilo procedurale, a una delle parti più innovative contenute nel nuovo Regolamento interno del Consiglio (approvato con deliberazione del 26 settembre 2016), che prevede le circolari come fonte con rilevanza esterna, e dettando, sotto il profilo sostanziale, norme volte ad assicurare il massimo di indipendenza funzionale interna dei singoli magistrati assegnati all’ufficio, compatibile con l’esercizio del potere di organizzazione che la legge pone in capo al procuratore della Repubblica al fine dell’efficacia e dell’efficienza dell’ufficio stesso44.

42 Se ne veda un elenco in A. PACE, I poteri normativi, cit., § 5, nt. 27-30. 43 Così l’art. 2, c. 2, d.-l. 17 febbraio 2017, n. 13, conv. in l. 13 aprile 2017, n. 48. 44 V. in materia A. ARDITURO, La circolare del Csm in materia di organizzazione degli uffici del pubblico ministero, in questionegiustizia.it (16 novembre 2017). Sulle

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Proprio l’esempio della circolare sulle procure permette di configurare in capo al Csm un potere normativo generale in materia organizzativa, rispetto al quale singole abilitazioni legislative assumono valore confermativo e conformativo, venendo per questa via a confortare quanto sostenuto nel § 1 a proposito della “figura” costituzionale complessiva del Consiglio. Là dove specifiche norme costituzionali impongano un determinato assetto (ad es., in tema di giudice naturale ai sensi dell’art. 25, comma 1), la competenza del Consiglio si eserciterà con maggiore ampiezza; là dove specifiche norme legislative disciplinino porzioni di materia organizzativa, l’ampiezza di intervento del Consiglio sarà conseguentemente ridotta, senza tuttavia potere essere del tutto annullata, quale conseguenza del rapporto tra gli uffici giudiziari e l’organo di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Sembra poi assolutamente sensata l’affermazione secondo cui “dipende dalla concreta capacità «politica» dei diversi consessi consiliari se l’esercizio delle competenze si risolva in interventi episodici e contingenti oppure risulti espressione coerente e sistemica di una politica dell’organizzazione e del funzionamento della magistratura”45 Quest’ultima affermazione vale anche a proposito del nuovo Regolamento interno del Csm, oggetto di un’incessante attività di integrazione e di riscrittura, e sotto questo profilo davvero emblematico dell’effettività della vita consiliare e della distanza di questa rispetto alle intenzioni e talvolta anche alla lettera della legge del 1958 (che qualifica come facoltativa l’emanazione di tale regolamento “interno”). Il nuovo Regolamento

precedenti linee-guida consiliari v. G. SALVI, Organizzazione del pubblico ministero e procura generale presso la Corte di cassazione, in Questione giustizia, 5/2011, 187 ss. 45 G. VOLPE, Consiglio superiore della magistratura, in Enc. dir., Agg., Milano, 2000, 391. Nella consiliatura 2014-2018 il profilo delle competenze consiliari in materia organizzativa ha avuto ulteriore sviluppo, essendosi pervenuti alla redazione di un vero e proprio “Codice dell’organizzazione degli uffici giudiziari”, deliberato il 25 luglio 2018 e consistente in una raccolta organica e selezionata della normativa secondaria e delle deliberazioni del Csm in materia di organizzazione degli uffici giudiziari. Il codice è integrato con le deliberazioni in tema di buone prassi (compreso un “manuale” di carattere generale) e linee guida in diversi ambiti: comunicazione istituzionale, intercettazioni, esame preliminare delle impugnazioni, modalità stilistiche di redazione dei provvedimenti, esecuzioni immobiliari, responsabilità sanitaria e albi di periti e consulenti, ausiliari del giudice, violenza di genere, rapporti con il Consiglio nazionale forense.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 interno, approvato il 26 settembre 2016 con decreto del Presidente del Consiglio superiore della magistratura46, si caratterizza come fonte dell’ordinamento generale attributiva di competenze normative e dunque come fonte sulla produzione, che fonda la legittimazione del Csm ad adottare atti normativi ulteriori di rango secondario (art. 25, comma 1, Reg. int.)47 e in particolare riconosce natura normativa alle circolari, venendo a confermare, anche per questa via, la tesi che vede nella riserva di legge dell’art. 108, comma 1, Cost. una riserva assoluta per quanto attiene al potere esecutivo, relativa per quanto riguarda il Csm48. Si comprende bene, alla luce di queste pur rapide notazioni sulla effettività della vita consiliare in questi sessant’anni, quanto sia inadeguata l’opinione di rimediare a, vere o presunte, invasioni di campo da parte del Csm attraverso modifiche dell’impianto costituzionale: se l’allargamento delle funzioni dell’organo corrisponde ad esigenze realmente avvertite, prima fra tutte quella di assicurare al Consiglio gli strumenti e le condizioni per fare fronte alla propria natura di vertice organizzativo dell’ordine giudiziario, la soluzione non sta nel modificare il modello, ma nel perfezionarne gli strumenti49. Tra questi, senza pretesa di completezza e con l’obiettivo di individuare quelli che paiono più coerenti con l’effettività di attuazione costituzionale sin qui indicata, mi parrebbero interventi utili e urgenti, da introdurre in via legislativa o attraverso norme secondarie approvate dallo stesso Csm, volti a: a)

46 G.U., serie generale, n. 235 del 7 ottobre 2016. 47 Sottolinea l’inadeguatezza della qualificazione come “interno” del Regolamento in oggetto U. DE SIERVO, Il regolamento interno del CSM nel sistema delle fonti, in Osservatorio sulle fonti, 1/2018. 48 Così F. DAL CANTO, I poteri normativi del Csm, in Foro it., 2019, V, 69. Per la posizione del tema v. già R. BALDUZZI-F. SORRENTINO, voce Riserva di legge, in Enc. dir., 1989, 1213 ss. 49 Anche perché poco meditate “riforme” potrebbero avere esiti inversi rispetto a quanto auspicato dai promotori. Si pensi, ad es., alla proposta (contenuto nell’Atto Camera n. 14 citato retro, nt. 25) di modificare l’attuale art. 105 Cost. specificando che altre competenze possano essere attribuite al Consiglio solo con legge costituzionale. A parte la circostanza che tale formulazione nulla direbbe con riferimento alla questione delle cosiddette funzioni implicite del Csm, da essa si trarrebbe un formidabile argomento a favore della natura di organo costituzionale à part entière del Consiglio (è per gli organi costituzionali che esiste una riserva di legge costituzionale in ordine alle loro attribuzioni), con la conseguenza che, proprio da tale natura, potrebbero trarsi in via interpretativa o di auto-attribuzione funzioni e competenze connesse a quelle enumerate… Già oggi, peraltro, la Corte costituzionale trae dall’art. 104 il “fondamento implicito” dell’autonomia costituzionale del Csm (ord. n. 166 del 2016).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 precisare la normativa sugli incarichi extragiudiziari, inclusi quelli di magistrato segretario presso il Csm, assecondando un indirizzo già avviato dal Consiglio nella scorsa consiliatura50 e prevedendo un obbligatorio periodo di rientro in ruolo dopo ogni collocamento o conferma; b) ripensare alla legge elettorale per la componente togata e in particolare all’introduzione per esse del c.d. voto singolo trasferibile, nel quale l’elettore abbia la facoltà di mettere in ordine le sue preferenze per un numero di candidati pari a quello del numero dei seggi disponibili51.

Conclusioni

L’allargamento delle funzioni consiliari non pare destinato a venire meno, in quanto le ragioni di esso corrispondono a tendenze generali degli

50 Sul punto v. G.M. FLICK, Magistratura, incarichi extragiudiziari e politica, in Magistratura e politica, cit., pp. 169 ss. Recuperare, almeno in parte, la mai espressamente abrogata legge Smuraglia (l. 12 aprile 1990, n. 74; sulle tortuose interpretazioni dell’art. 7-bis di tale legge v. da ultimo G. GUGLIELMI, La segreteria e l’ufficio studi e documentazione, in Foro it., 2019, V, 52 ss.) potrebbe sul punto risultare utile, come pure lo sarebbe rimeditare la saggia indicazione di V. Onida, La posizione costituzionale del Csm e i rapporti con gli altri poteri, in B. Caravita (a cura di), Magistratura, Csm e principi costituzionali, cit., 29, secondo il quale “appare un elemento di anomalia, che non giova alla chiarezza dei rapporti, la tradizionale prassi, consacrata anche in leggi, di chiamare dei magistrati a coprire gli uffici del ministero, così dando vita ad una sorta di apparato di governo, costituito da magistrati, parallelo a quello che fa capo al Csm” (e, aggiungo io, se proprio si reputa di lasciare magistrati a capo di taluni uffici, almeno sarebbe opportuno ridurne il numero, anche evitando interpretazioni un po’ capziose della normativa vigente in tema di “tetti” al numero di magistrati collocabili fuori ruolo…). 51 Nulla di nuovo sotto il sole, in quanto, già vent'anni fa, una commissione ministeriale, presieduta dal prof. Enzo Balboni dell’Università Cattolica, aveva proposto un siffatto modello: un sistema che presenta caratteri tipici del voto maggioritario, ma con effetti di tipo proporzionale, nella misura in cui tutti gli elettori o una grande maggioranza di essi esprimano le preferenze e si attengano alle indicazioni di lista (come ragionevolmente accadrebbe, in presenza di un corpo elettorale coeso e responsabilizzato): v. il testo della Relazione finale della Commissione di studio in Quad. cost., 3/1997, 541 ss. La proposta è ora contenuta nella risoluzione approvata dal Csm il 7 settembre 2016, recante il parere sulla relazione finale della Commissione ministeriale presieduta da Luigi Scotti (su cui v. F. Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, Torino, 2018, 50 ss.). In tal modo, i gruppi dell'Anm potrebbero mantenere o rafforzare la caratteristica di componenti culturali e non di cordate di potere o di influenza: pertanto, recepire il suggerimento del Csm potrebbe essere opportuno. Si v. sul punto R. BALDUZZI, Elezioni Csm. Correnti e non cordate, è sempre possibile fare meglio, in Avvenire, 15 settembre 2016; N. ZANON-F. BIONDI, Il sistema costituzionale, cit., 36.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ordinamenti contemporanei, rispetto alle quali sarà possibile e in taluni casi doveroso adottare cautele e miglioramenti, non vanificarle del tutto. In particolare, sembra difficile pervenire a una legge sull’ordinamento giudiziario organica, come presuppone la Costituzione52, anche se un intervento di pulizia si impone (le “riforme” degli anni 2005-2007 non avendo abrogato interamente le norme previgenti e non essendo stato emanato il testo unico previsto dalla l. n. 150/2005)53. Del pari, alcune tra le ragioni dell’interpretazione estensiva delle funzioni del Csm stanno nella trasformazione della giurisdizione e nella percezione diffusa che essa costituisce un limite al potere politico54, oltre che nella (connessa) tendenza a costruire un modello comune europeo di organi di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza, al cui interno quello italiano svolge un ruolo eminente55. In questo contesto, accanto agli interventi di modifica legislativa o regolamentare sopra segnalati, si potrebbe lavorare seriamente nella direzione preconizzata dall’art. 25, comma 2 del Regolamento interno del Csm: “confessando” in qualche misura l’inadeguatezza della situazione esistente, esso dispone che “ogni atto approvato dal Consiglio risponde ai requisiti di omogeneità, semplicità e chiarezza della sua formulazione; si ispira ai criteri di semplificazione e riordino in testi unici di tutta la disciplina relativa alle materie di competenza del Consiglio”. Un utile suggerimento in tal senso potrebbe essere quello di prevedere (generalizzando quanto si è fatto in singole occasioni, e segnatamente in occasione dell’approvazione dell’ultima circolare sulle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti) che ogni nuova circolare divenga,

52 Sul necessario carattere di organicità delle norme sull’ordinamento giudiziario v. da ultimo le considerazioni di S. ERBANI, Il ruolo costituzionale del Csm, in Foro it., 2019, V, 22 s., e di F. DAL CANTO, Lezioni, cit., 55 ss. 53 Sulle riforme degli anni 2005-2007 v. l’equilibrata illustrazione di E. BRUTI LIBERATI, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Bari-Roma, 2018, pp. 317 ss. Sottolinea con forza l’incompiutezza della riforma dell’ordinamento giudiziario G. GRASSO, La riforma (incompiuta) dell’ordinamento giudiziario (in questo volume, § 1.3). 54 Si vedano sul punto le considerazioni di A. DI GIOVINE, Potere giudiziario e democrazia costituzionale, in Magistratura e democrazia italiana, cit., 31 ss.; L. GENINATTI SATÈ, Il ruolo costituzionale del C.S.M. e i limiti al sindacato giurisdizionale dei suoi atti, Torino, 2012, spec. 164 ss. 55 Si vedano i documenti approvati all’interno della Rete europea dei Consigli di giustizia (ENCJ).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 previamente alla sua entrata in vigore o all’operatività delle sue disposizioni, oggetto di un approfondimento tra Consiglio superiore e Consigli giudiziari. Sembra inopportuno, nella situazione italiana, pensare a soluzioni di “normalizzazione” del Consiglio superiore o di questa o quella parte della magistratura: la vera normalizzazione sta nella convinta attuazione del modello costituzionale, nelle sue opportunità e nei limiti che esso impone a ciascun organo, compreso il Csm. L’effettività consiliare ha confermato, in questi sessant’anni, il “tono” costituzionale del Consiglio, che molti costituenti avevano intuito e auspicato, cioè la sua attitudine, per la delicatezza dei compiti affidatigli e per la sua composizione, a muoversi al livello costituzionale. È un livello, occorre esserne sempre consapevoli, nel quale si impone ancora di più il dovere, per quanti partecipano alla sua vita, di svolgere le relative funzioni con quella disciplina e onore che, riferiti all’organo di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, non possono non significare rispetto scrupoloso dell’articolazione dei poteri statuali e delle attribuzioni di ciascuno, oltre che massimo disinteresse individuale nell’esercizio della funzione (e ciò vale naturalmente anche per i componenti non togati)56. Molti anni fa, si scrisse che “il faut que, par la disposition des choses, le pouvoir arrête le pouvoir”57. Lungi dal rappresentare un invito all’inazione e alla stasi, oggi, in tempi di dromocrazia, la massima va rimeditata: par la disposition des choses, sembra un buon motto per praticare al meglio l’equilibrio costituzionale tra giurisdizione e potere politico.

Abstract: The Italian High Council of the Judiciary (Consiglio Superiore della Magistratura, CSM) is the constitutional body which is called to guarantee the independence of the judiciary (more precisely, of that part of judiciary which have competence in ordinary jurisdiction).

56 Sul punto v. M. VOLPI, I membri laici del Csm: ruolo politico o di garanzia?, in Federalismi, 6/2016. 57 MONTESQUIEU (Ch.-L. de Secondat, baron de la Brède et de), De l’esprit des lois, libro XI, cap. IV, in ID., Œuvres complètes, con prefazione di G. Vedel, Paris, 1964, 586 (sulla concezione meccanica della Costituzione, propria di una parte importante della cultura giuridica e politica settecentesca, v. M. TROPER, Pour une théorie juridique de l’État, Paris, 1994, 210 ss.).

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This paper analyses and discusses the role of CSM, from the point of view of constitutional law and in a historical perspective, by two steps. In the first part, the Author retraces the main doctrinal opinions about the constitutional position and functions of CSM, by reconstructing the debate around some key concepts or expressions like “self-government of judiciary”, “order” and “power” (referred to the judiciary as an institutional and professional body), “independence”, “guaranteeing functions” and “representative functions”. In the second part, the interpretative model of CSM’s role, which the Author has defined by the previous theorical analysis, is discussed in the light of effective experience of this constitutional body and, especially, of the evolution of its (gradually increasing) regulative functions. In the conclusion of the paper, the Author reflects on the relation between the expansion of CSM’s regulative functions and the spread of jurisdiction towards legislature, expressing also some suggestion to maintain a correct balance between judiciary and political power.

Key words: High Council of Judiciary; Self-government of judiciary; Balance between judiciary and legislature

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JUS- ONLINE 1/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

GIUSEPPE SCIACCA Segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica

Il Tribunale Ecclesiastico a servizio del matrimonio e della famiglia. I rischi del positivismo giuridico e i rimedi 

English title: The Ecclesiastical Tribunal at the service of marriage and family. Risks of legal positivism and remedies DOI: 10.26350/18277942_000002

Sommario: Premessa. 1. Tribunale ecclesiastico al servizio del matrimonio; tribunale ecclesiastico e famiglia. 2. Il processo tra positivismo giuridico ed aequitas. Conclusioni

Premessa

Il titolo del presente intervento, a tutta prima, potrebbe suonare financo pleonastico o ultroneo, oltre che di generalissimo impianto, ove solo si consideri che la stragrande maggioranza, per non dire la quasi totalità, delle cause che vengono deferite al Foro Canonico è costituita da cause di nullità del matrimonio, se si eccettua quell’ambito di relativamente recente istituzione (conta poco più di cinquanta anni, essendo stato voluto nel 1967 dal Pontefice S. Paolo VI con la cost. Regimini Ecclesiae universae sulla sana spinta personalista impressa dal Vaticano II per la tutela dei diritti soggettivi dei christifideles, laici, chierici e religiosi), che riguarda la giustizia amministrativa presso la Segnatura Apostolica, dove da sei anni presto il mio servizio. La stragrande maggioranza dei processi canonici, si diceva, è costituita dalle cause matrimoniali al punto che, non inepte, si è parlato – e pure lamentato – di una “matrimonializzazione” del processo canonico, con il conseguente illanguidimento di altre figure ed istituti giuridici, processuali e sostanziali, con il reale, inevitabile impoverimento del sistema canonico. Si pensi alle cause iurium ed alla ricchezza di spunti che esse offrono, non solo dal punto di vista comparativistico, ma anche, e direi soprattutto, per una più approfondita ed esatta conoscenza storica degli Istituti, senza la quale – come ammoniva Sabino Cassese – una cultura, un pensiero e una prassi giuridica son monchi e difettosi, soprattutto nel nostro ambito canonistico.

 Il testo, sottoposto a double blind peer review, riproduce la relazione svolta a Napoli, al convegno dell’Associazione Canonistica Italiana, lo scorso 3 settembre 2019.

VP VITA E PENSIERO

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1. Tribunale ecclesiastico al servizio del matrimonio; tribunale ecclesiastico e famiglia

Innanzitutto è d’uopo rivendicare ancora una volta se mai ce ne fosse bisogno – e come si vedrà, tale bisogno c’è – la natura squisitamente ed irrinunciabilmente pastorale del processo canonico e dell’organo giudiziario in cui il processo viene celebrato, che è, appunto, il tribunale. I sommi pontefici – nelle loro annuali allocuzioni alla Romana Rota, e non solo in quelle – lo hanno ribadito in maniera inequivocabile a partire da Pio XII – che anche per anamnesi e formazione personale e familiare era dotato di esemplare sensibilità giuridica – fino a Papa Francesco, la cui attenzione al vissuto umano, personale e familiare, alle ferite dell’esistenza, da curare con attenzione e autentica prossimità, costituisce come la cifra del suo magistero e del suo apostolico ministero. «Perché nel vostro foro predominano le cause matrimoniali – così Pio XII nel 1940 alla S. R. Rota – il Vostro ha la gloria di essere il tribunale della famiglia cristiana umile o alta, ricca o povera»1, cui fa eco fedele Papa Francesco nella allocuzione del 2016, allorquando afferma: «Accanto alla definizione della Rota Romana quale Tribunale della famiglia, vorrei porre in risalto l’altra prerogativa, cioè che essa è il Tribunale della verità del vincolo sacro»2. Mi piace qui osservare che in questa sobria indicazione di Papa Francesco è scolpita indelebilmente quella duplice tensione che deve animare ed essere sottesa alla attività giudiziaria di ogni tribunale ecclesiastico esistente ubique terrarum, segnatamente nelle cause matrimoniali: la concreta attenzione nei confronti delle famiglie, la premura a favore di chi postula il ministero della giustizia ecclesiale, che si traduce in ascolto, capacità di farsi prossimo, solerzia nell’intervenire, ecc. – il che è ben diverso da frettolosità e facile accondiscendenza…– , e parimenti il Papa ha chiarissimamente richiamato il dovere veritativo nei confronti del vincolo sacro che è indisponibile alle parti, perché ha Dio stesso come garante supremo. Ancora in questo senso, magistralmente Papa Francesco nel discorso del 2015 alla Rota: «La funzione del diritto è orientata alla salus animarum a condizione che, evitando sofismi lontani dalla carne viva delle persone in difficoltà, aiuti a stabilire la verità nel momento consensuale: se cioè fu fedele a Cristo o alla mendace mentalità mondana»3.

1 PIO XII, Allocuzione alla Rota Romana del 1° ottobre 1940, in L’Osservatore Romano, 2 ottobre 1940, p. 1. 2 FRANCESCO, Allocuzione alla Rota Romana del 22 gennaio 2016, in AAS 108 [2016], p. 137. 3 FRANCESCO, Allocuzione alla Rota Romana del 23 gennaio 2015, in AAS 107 [2015], p. 184.

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Quanto alla verità del sacramento, non va dimenticato che il can. 1057, nel mentre che recepisce il principio consensualista quale espressione della libera scelta dei nubendi, evoca, altresì, una dimensione di giustizia reciproca da parte degli sposi. Il Tribunale ecclesiastico, dunque, a servizio della verità del matrimonio, è chiamato ad accertare la validità giuridica di quell’atto. Compito, quindi, autenticamente pastorale, poiché a reale servizio del matrimonio e della famiglia. «In consideranda suorum munerum natura iuris canonici peritus hoc persuasum sibi habeat – così Pio XII nel 1953 –, quemadmodum omnia quae in ecclesia sunt ita ius canonicum omnino in animarum curationem contendere»4. Quanto al carattere pastorale del diritto canonico, sono memorabili le parole rivolte da San Giovanni Paolo II alla Romana Rota nel 1990, quando ammoniva, tra l’altro, che talora, in una improvvida e fuorviante contrapposizione fra diritto e pastoralità, «si dimentica […] che anche la giustizia e lo stretto diritto sono richiesti dalla Chiesa per il bene delle anime e sono pertanto realtà intrinsecamente pastorali»5. E con pari vigore si era espresso San Paolo VI allorquando, nel 1973, parlava, alla Rota, dell’«esercizio pastorale del potere giudiziario»6. «Questo ministero del giudice ecclesiastico – continuava Papa Montini – è pastorale perché viene in aiuto ai membri del popolo di Dio che si trovano in difficoltà. Il giudice per essi è il buon pastore che consola chi è stato colpito, guida chi ha errato, riconosce i diritti di chi è stato leso, calunniato o ingiustamente umiliato. L’autorità giudiziaria è così un’autorità di servizio, un servizio che consiste nell’esercizio del potere affidato da Cristo alla sua Chiesa per il bene delle anime»7. Ancora il Sinodo dei Vescovi del 2005, affrontando sin da allora la delicata questione dei divorziati e risposati e «auspicando che sia fatto il possibile sforzo» per venire loro incontro, – con quella delicatezza e quell’invito al discernimento che è come l’orizzonte tracciato dall’Amoris laetitia di Papa Francesco – alla propositio n. 40 insisteva per «assicurare il carattere pastorale […] dei tribunali ecclesiastici per le cause di nullità matrimoniale»8. Oppure Papa Bergoglio alla Plenaria della Segnatura Apostolica del 2013, allorquando raccomandava ad ogni operatore della giustizia ecclesiale di

4 PIO XII, Allocuzione nel IV centenario della fondazione dell’Università Gregoriana, in AAS 45 [1953], p. 688. 5 S. GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla Rota Romana del 18 gennaio 1990, in AAS 82 [1990], p. 873, n. 3. 6 S. PAOLO VI, Allocuzione alla Rota Romana dell’8 febbraio 1973, in AAS 65 [1973], p. 101. 7 Ibid. 8 XI COETUS GENERALIS ORDINARIUS SYNODI EPISCOPORUM, Elenco finale delle Proposizioni, in Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, 22 ottobre 2005.

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piegarsi verso le pecorelle smarrite e ferite, così facendosi evangelizzatore…9. E le citazioni potrebbero continuare. Obiter osserviamo che duole, e reca sorpresa, che da parte degli enti civili o statali competenti che si contraffacciano con la CEI, si neghi o si metta in discussione il contributo finanziario proveniente dall’8 per mille dell’IRPEF per i tribunali ecclesiastici poiché – incredibilmente si sostiene – estranei alla cura delle anime e al ministero pastorale!

2. Il processo tra positivismo giuridico ed aequitas

Ma poniamoci una domanda parimenti semplice e radicale o fondamentale: come deve agire il tribunale ecclesiastico – che è come dire il giudice ecclesiastico – per essere al servizio del matrimonio e della famiglia? Vale a dire per esprimere la natura e il fine pastorale del proprio agire? La risposta è molto semplice: fermo restando quel che la deontologia gli impone, e ricordiamo di passaggio esser la deontologia giudiziaria la theologia moralis accommodata agli uffici e alle figure che entrano, quasi dramatis personae, nel dramma o in quel che Salvatore Satta definiva «il mistero del processo»10, il giudice ecclesiastico deve applicare – con molta diligenza e altrettanta intelligenza e lealtà istituzionale – quelle che sono le regole e le possibilità offerte dalla nuova legislazione che disciplina il processo di nullità matrimoniale, vale a dire il motu proprio Mitis Iudex di Papa Francesco. E mi piace qui – in questo contesto variegato e autorevole di operatori e cultori del diritto canonico – affermare che l’Organo nel quale ho l’onore di svolgere il mio compito, non solo ha aderito (come era naturale e doveroso) alla riforma voluta dal Santo Padre, ma ha offerto ed offre la propria collaborazione – in ragione delle competenze che l’ordinamento gli assegna – per la sua piena e fedele attuazione. E nel Mitis Iudex sono offerti efficaci strumenti processuali nuovi, finalizzati anch’essi all’accertamento della verità sostanziale: non per ultimo, vien valorizzata figura e funzione giudiziaria propria del Vescovo diocesano, soprattutto nel processo breviore; l’introduzione del foro dell’attore quale foro di prossimità; il sensibile mutamento del can. 1678 § 1 circa le dichiarazioni delle parti; il temperamento del contraddittorio processuale in presenza di evidente nullità. E se andrà evitato un appello manifestamente dilatorio, il diritto di appellare, purtuttavia, non dovrà essere conculcato od ostracizzato. Epperò, oggi più che mai, e nello spirito della riforma di Papa Francesco, c’è un rischio dal quale il tribunale ecclesiastico che voglia essere

9 Cf. FRANCESCO, Allocuzione alla Plenaria del S. T. della Segnatura Apostolica dell’8 novembre 2013, in AAS 105 [2013], pp. 1152-1153. 10 Cf. S. SATTA, Il mistero del processo, Milano 19943.

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davvero a servizio di matrimonio e famiglia deve guardarsi, e si tratta del positivismo giuridico e delle sue secche, così come – specularmente – vi è una risorsa propria, anzi tipica dell’ordinamento canonico da valorizzare: l’aequitas. Ciò che non autorizza ad una applicazione arbitraria, pressappochista, falsificante o dilettantesca della legge, e ciò anche in consapevole sintonia col principio di legalità, un’insopprimibile esigenza o postulato del quale richiede, appunto, l’obbedienza alla legge, cioè la c. d. «soggezione del giudice alla legge». Ebbene, già nel lontano 1949 rivolgendosi alla Rota con autentico spirito profetico, Papa Pacelli avvertiva i pericoli del positivismo giuridico e il rischio che esso potesse – sensim sine sensu – insinuarsi anche nell’ordinamento canonico, quindi nella mentalità e nell’attività dei tribunali ecclesiastici, con conseguenza nefaste. È vero che il Pontefice direttamente parlava del positivismo giuridico connesso – quasi per un rapporto osmotico – con l’assolutismo di stato, la cui memoria e i cui tristissimi effetti erano attuali ed ancora sanguinanti in quegli anni, tuttavia già il semplice fatto che egli rivolgesse tale accuratissima disamina ai Giudici del suo Tribunale ordinario, qual è la Rota Romana, dimostra inequivocabilmente che egli tale pericolo avvertisse, anche se indicava nel diritto divino l’argine invalicabile e l’antidoto più efficace. Diceva il Papa: «Il semplice fatto di essere dichiarato dal potere legislativo norma obbligatoria nello Stato, preso solo e per sé, non basta a creare un vero diritto. Il “criterio del semplice fatto” vale soltanto per Colui che è l’Autore e la regola sovrana di ogni diritto, Iddio. Applicarlo al legislatore umano indistintamente e definitivamente, come se la sua legge fosse la norma suprema del diritto, è l’errore del positivismo giuridico del senso proprio e tecnico della parola; errore che è alla base dell’assolutismo di stato e che equivale ad una deificazione dello stato medesimo»11. Nel 1947, parlando alla Rota, lo stesso Pontefice aveva ammonito: «la potestà giudiziaria non cadrà mai nella rigidezza e nella immobilità, a cui istituti puramente terreni, per il timore della responsabilità, o per indolenza, o anche per una male intesa cura di tutelare il bene, certamente alto, della sicurezza del diritto, vanno facilmente soggetti»12. Nel 1998, rivolgendosi alla Rota, Giovanni Paolo II insisteva «sulla necessità che nessuna norma processuale, meramente formale, debba rappresentare un ostacolo alla soluzione in carità ed equità», riprovando nel giudice «uno stato di inerzia intellettuale, per cui della persona oggetto dei giudicati si abbia una concezione avulsa dalla realtà storica ed antropologica»13. In altri termini, non

11 PIO XII, Allocuzione alla Rota Romana del 13 novembre 1949, in AAS 41 [1949], p. 606. 12 ID., Allocuzione alla Rota Romana del 29 ottobre 1947, in AAS 39 [1947], p. 495. 13 S. GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla Rota Romana del 17 gennaio 1998, AAS 90 [1998], pp. 784-785, nn. 5-6.

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si può far del diritto una rete di procedure seppur preziose, o una pura forma separata dai suoi contenuti sostanziali. Un grande, credo insuperato, autore della scienza giuridica dello scorso secolo, quale Francesco Carnelutti, aveva avvertito il rischio che diritto e legge finissero per il confondersi e quest’ultima prevalesse sul diritto e fosse considerata siccome avulsa dagli atti degli uomini, che la violano, l’applicano, l’hanno formulata, e quindi che le persone finiscano con lo scomparire dal campo visivo del giurista – peggio se del giudice – tutto occupato dalla legge in sé, che si identifica e si esaurisce nel documento, nella norma scritta ossia nelle formule nelle parole che la esprimono, e niente altro14. In altri termini: positivismo, che vuol dire formalismo, cioè normativismo, nominalismo quindi per cui la legge coincide e si esaurisce nella norma scritta, cioè nella formula e nelle parole che la esprimono: quei «cancelli delle parole»15, o «il salvagente della forma»16 secondo le fulminanti definizioni di Natalino Irti. Se tutto si riduce alle parole (questo infatti è il significato del nominalismo) basta cambiare o sostituire queste, che l’esito, anzi la deriva verso il nichilismo risulta inevitabile: Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus17; e da siffatto rischio non è esente – anzi! – neanche l’esercizio del sindacato di legittimità proprio della giustizia amministrativa. Donde la pretesa, parossistica, che le leggi non dovessero essere interpretate, ma che bastasse lo ius imperii, l’imperativo categorico dell’ordine formulato, di kantiana e poi kelseniana memoria. Ma l’interpretazione – come ogni cultore del diritto sa – è necessaria, costitutiva, strutturale: ecco lo ius rationis, che si affianca allo ius imperii e nel mentre che lo tempera, lo completa. Ne completa cioè le fatali, inevitabili lacune: poiché «la legge – scrive Carnelutti – è assomigliata ad una rete che ha delle maglie troppo larghe, attraverso le quali sfuggono i casi, i quali per evitare la guerra, debbono pur essere regolati»18. Ma non tutto il diritto è nelle leggi, e le leggi positive devono trovare la loro fondazione nel diritto naturale e finanche quest’ultimo non gode di un primato astratto e quasi autoreferenziale, ma riporta pur sempre alla verità della persona umana, in grazia della quale ogni diritto è stato stabilito: «la centralità della persona umana nel diritto – ha rammentato infatti S. Giovanni Paolo II – è espressa efficacemente dall’aforisma classico: Hominum

14 Cf. F. CARNELUTTI, Il positivismo giuridico, in Eresie del secolo XX, Assisi 1954. 15 N. IRTI, I cancelli delle parole. Intorno a regole, principi, norme, Napoli. 16 ID., Il salvagente della forma, Bari 2007. 17 U. ECO, Il nome della rosa, Milano 1980. 18 F. CARNELUTTI, op. cit., p. 255.

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causa omne ius constitutum est. Ciò equivale a dire che il diritto è tale se e nella misura in cui pone a suo fondamento l’uomo nella sua verità»19. A ragione Francesco D’Agostino evidenzia che questo principio guida è solidamente presente anche nella colossale opera legislativa del Pontefice polacco, in cui «la centralità dell’uomo è palese e ben percepibile, perché è proprio del diritto in generale – del diritto canonico come di quello civile – il riferimento all’uomo. Un riferimento che, se volessimo giocare sul paradosso, si manifesterebbe perfino in eventuali leggi ingiuste, dato che solo utilizzando l’esperienza umana come esperienza paradigmatica del diritto, è possibile valutare, qualificare, tutelare, promuovere le norme giuridiche, così come, se questo fosse il caso, combatterle e cancellarle»20. È, peraltro, un antropocentrismo certamente non di marca immanentistica, ma che trapassa del tutto naturalmente in una visione cristocentrica del diritto, come di ogni altra branca del sapere e dell’operare della Chiesa. Osserva al riguardo Libero Gerosa che Giovanni Paolo II ebbe chiaro che l’aggiornamento di ispirazione conciliare fosse «qualche cosa che proviene dal profondo della Chiesa e non da un superficiale adattamento ai gusti della società contemporanea», e che egli si prefisse, trovando una sintesi nella fase più matura del suo pontificato, di «porre le basi solide per un nuovo linguaggio, pastorale e giuridico, grazie al quale ricentrare tutto in Cristo, persino la riforma della struttura giuridica della Chiesa»21, imponente opera da lui portata avanti efficacemente nei lunghi anni di pontificato. Per riprendere il filo dell’argomentazione: non si può, detto in altri termini – e lo postula appunto la dignità della persona umana al servizio della quale il diritto, ogni diritto, esiste –, subordinare la giustizia alla legge. Il giudice ecclesiastico non può e non deve dimenticare che il diritto va oltre la legge, anche se questo diritto che oltrepassa la legge è un diritto che non sempre si coglie in maniera immediata e diretta, perché al giudice che deve giudicare – e non produrre un geometrico astratto sillogismo, pur con tutte le cautele e garanzie che l’esigenza della certezza giuridica postula – al giudice parla la sua coscienza, anzi è da essa orientato.

19 S. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Simposio su «Evangelium vitae e diritto», 24 maggio 1996, in AAS 88 [1996], p. 941, n. 4. Il Pontefice ribadì questi concetti nella Lectio magistralis tenuta in occasione del conferimento della laurea honoris causa in giurisprudenza da parte dell’Università di Roma «La Sapienza» (17 maggio 2003): cf. AAS 95 [2003], pp. 767- 772. 20 F. D’Agostino, I fondamenti antropologici ed ecclesiologici dell’attività di Giovanni Paolo II, in L. Gerosa (a cura di), Giovanni Paolo II: Legislatore della Chiesa. Fondamenti, innovazioni e aperture, Atti del Convegno di studio (Lugano 22-23 marzo 2012), LEV 2013, p. 52. 21 L. Gerosa, La nuova ermeneutica canonistica di Giovanni Paolo II, in Id. (a cura di), Giovanni Paolo II: Legislatore della Chiesa. Fondamenti, innovazioni e aperture, cit., p. 44.

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Ecco, allora, giungere al giudice il sussidio della equità, che, come è stato scritto icasticamente, è la giustizia del caso singolo, del caso concreto, dopo accuratissimo discernimento, senza che ciò significhi adesione alla cosiddetta etica della situazione, come taluno forse troppo allarmisticamente paventa. «Equidem justa causa non abstracte et doctrinaliter aestimanda est sed practice in adjunctis peculiaribus facti et personarum, in certo casu...» aveva già scritto magistralmente il cardinale Michele Lega, primo Decano della Rota ricostituita da San Pio X e collaboratore del Gasparri nella codificazione del 1917, nel commento al decreto Catholica doctrina del 7 maggio 1923 sulla procedura di dispensa super rato, facendo leva sul concetto di proporzione e così implicitamente (o forse involontariamente, ma certo a proposito) riecheggiando la bella definizione dantesca di diritto come «realis ac personalis hominis ad hominem proportio»22. Invero «il giudice è un uomo che applica ad un uomo determinato una legge fatta per gli uomini»23, ebbe ad affermare, ancora negli anni cinquanta dello scorso secolo, Monsignor André Jullien, all’epoca Decano della Rota e poi cardinale, riecheggiando la celebre Decretale Ex parte di Onorio III che impone al giudice di integrare lo jus conditum, se del caso, «aequitate servata, semper in humaniorem partem declinando, secundum quod personas et causas, loca et tempora videris postulare» (Liber Extra 1, 36, 11). «Equità – afferma Paolo Grossi – è lettura obiettiva delle cose, cioè della situazione concreta in cui una singola persona umana, il singolo homo viator, con il suo carico di fragilità si dibatte e combatte la propria vicenda terrena, situazione al di sopra e al di fuori della quale non ci sarebbe giustizia»24. «Non vi è – e non vi può essere – all’interno della Chiesa Romana il culto positivistico di ogni norma – è ancora Grossi che così ragiona – che è ancor oggi opprimente almeno nei Paesi di “Civil Law” […]. La norma canonica dello “jus humanum” non può che essere plastica, assecondandosi alle circostanze specifiche e particolari in cui un atto viene compiuto e che lo qualificano intensamente sia sul piano etico che su quello giuridico»25. In altre parole, la situazione giuridica che l’ordinamento intende tutelare – anche e, ripeto, direi soprattutto nell’ambito della giustizia amministrativa – non può esclusivamente esser determinata in astratto entro rigide pareti normative, ma va di volta in volta accertata tenendo conto delle circostanze che delineano la fattispecie

22 Cf. De monarchia, II, V, 1. 23 A. JULLIEN, Cultura cristiana nella luce di Roma, Roma 1958, p. 11. 24 P. GROSSI, Aequitas canonica tra codice e storia, in AA.VV., Famiglia e matrimonio di fronte al Sinodo. Il punto di vista dei giuristi, Milano 2015, p. 286. 25 Id., art. cit., p. 285.

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concreta26. E sull’aequitas canonica quale anima del tribunale e del giudice ecclesiastico, parole indimenticabili ebbe a pronunciare San Paolo VI nel 1973 in un discorso – già sopra citato – ai Prelati Uditori, un discorso che – al di là di un prezioso commento in elegante latino, pubblicato su Periodica da Monsignor Innocenzo Parisella27 e di un successivo saggio del Cardinale M. F. Pompedda28 – non credo che abbia ricevuto tutta l’attenzione che meritava da parte degli studiosi e degli operatori del diritto canonico. Sentiamone qualche passaggio più significativo: «L’equità rappresenta una delle più alte aspirazioni dell’uomo. Se la vita sociale impone le determinazioni della legge umana, tuttavia le sue norme, inevitabilmente generali ed astratte, non possono prevedere le circostanze concrete nelle quali le leggi verranno applicate. Di fronte a questo problema, il diritto ha cercato di emendare, di rettificare e di correggere il rigor iuris; e ciò avviene per opera dell’equità, la quale in tal modo incarna le aspirazioni umane verso una migliore giustizia. Nel diritto canonico l’aequitas, che la tradizione cristiana ricevette dalla giurisprudenza romana costituisce la qualità delle sue leggi, la norma della loro applicazione, un’attitudine di spirito ed animo che tempera il rigore del diritto. La presenza dell’aequitas, come elemento umano correttivo e fattore di equilibrio nel processo mentale che deve condurre il giudice a pronunciare la sentenza […] addolcisce il rigore del diritto e talvolta aggrava anche certe pene; in ogni caso si distingue dal puro diritto positivo, allorché questo non può tener conto delle circostanze»29.

Conclusioni

Sinteticamente – insegna l’Ostiense – l’aequitas canonica è «iustitia dulcore misercordiae temperata». L’aequitas non è un istituto riconducibile ad un nucleo normativo preciso, ma è piuttosto uno spirito, uno principio animatore che pervade e informa di sé l’ordinamento nel suo insieme; recentemente ho avuto occasione, confezionando qualche voto su scottante materia, di far riferimento e rievocare con nostalgia il can. 2214 del Codice del 1917, che ripropone il celeberrimo e nobilissimo commonitorium del Concilio Tridentino, laddove ai vescovi si raccomanda di essere, nei confronti dei loro preti e fedeli che errano «pastores, non percussores […] si quid per humanam fragilitatem peccare contigerit […] saepe plus erga corrigendos agat benevolentia quam

26 Cf. G. VILLANACCI, Al tempo del neoformalismo giuridico, Torino 2016, p. 23 27 Cf. I. PARISELLA, Quid docuerit Paulus VI de iustitiae ministerio in Ecclesia hac nostra aetate exercendo, in Periodica de re canonica 65 [1976], pp. 123-140. 28 M. F. POMPEDDA, Studi di diritto processuale canonico, Milano 1995, pp. 243 ss. 29 S. PAOLO VI, Allocuzione alla Rota Romana dell’8 febbraio 1973, cit., pp. 99-100.

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austeritas, plus exhortatio quam comminatio, plus caritas quam potestas». E non è senza significato – è stato finemente notato – che nell’ultimo canone del codice vigente, come a guisa di norma di chiusura, seppur nell’ambito di specifica questione amministrativa, vale a dire la procedura di trasferimento dei parroci, dopo aver richiamato all’osservanza della legislazione vigente, si ribadisce, con l’utilizzo di perentorio e solenne ablativo assoluto, l’osservanza dell’equità canonica, «servata aequitate canonica» per il conseguimento del telos, che è la «salus animarum». «Resta immutata – prosegue il più volte citato Grossi – la diffidenza canonica di sempre per leggi e princìpi che non tengano in debito conto le circostanze particolari del caso, le quali sole possono far luce sul comportamento e sulla sua effettiva peccaminosità. Anche qui la sensibilità del giudice dovrà lasciarsi permeare dall’equità canonica, bussola orientatrice sicura»30. E, per concludere, il giudice canonico che affronta le cause matrimoniali, che riguardano il vissuto umano e dolente di persone e famiglie, si sforzerà di essere colui che animato dalla caritas cristiana, per usare le parole di Ivo di Chartres, «saluti proximorum consulens ad finem sacris insititutionibus debitum intervenire intendat»31, cercherà di essere cioè colui che, come insegnava San Paolo VI, «si lascia penetrare da quel senso umano, al tempo umile e sapiente, che fa del giudice un maestro, una guida, un padre ed un amico»32.

Abstract: Starting from the allocutions of the Popes, the paper shows how the marriage nullity process is a pastoral tool for pursuing the salus animarum. For this reason, in order to reach the truth, the judge is called to go away from the legal positivism which prevents the complete understanding of the affair of the parties and to make use of aequitas, an instrument to be understood as ius rationis for the correct application of the rule to the single case.

Keywords: canon law, aequitas, salus animarum, allocution, marriage nullity, process

30 P. GROSSI, art. cit., p. 291. 31 P. L. 161, Paris 1889, 47 s. 32 S. PAOLO VI, Allocuzione alla Rota Romana del 25 gennaio 1966, in AAS 58 [1966], p. 153.

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JUS- ONLINE 1/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

GERALDINA BONI Professore Ordinario di Diritto Canonico e Diritto Ecclesiastico, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna

Sigillo sacramentale, segreto ministeriale e obblighi di denuncia-segnalazione: la ragioni della tutela della riservatezza tra diritto canonico e diritto secolare, in particolare italiano

English title: Sacramental seal, priest-penitent privilege and obligations to report: the reasons behind the safeguard of the secrecy between Canon law and State law, namely in DOI: 10.26350/18277942_000003

Sommario: PARTE PRIMA: 1. Sigillum confessionis, secretum, intimitas, segreto, riservatezza, privacy: definire e delimitare ma non tracciare invalicabili confini in una prospettiva interordinamentale. - 2. Un tema ‘classico’ sul quale oggi urge una rinnovata riflessione giuridica alla luce di recenti sviluppi sullo scenario nazionale e mondiale. - 3. La disciplina del ‘segreto ministeriale’ in Italia nella normativa unilaterale e in quella bilaterale: status quaestionis… - 4. Segue: …con particolare riferimento agli interessi tutelati, tra ordinamento canonico e ordinamento italiano. - 5. Orientamenti giurisprudenziali ‘eversivi’: loro infondatezza e impellenza di interventi correttivi. - 6. Una digressione minima: il chierico del Terzo Millennio. PARTE SECONDA: - 7. La lotta alla ‘piaga della pedofilia’ nel panorama internazionale: possibili derive. - 8. Le risposte del diritto canonico universale, in particolare l’obbligo di segnalazione-denuncia: criticità. - 9. Una parentesi: le Linee guida della Conferenza Episcopale Italiana. - 10. I rischi di debilitazione della salvaguardia del segreto ministeriale. La Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale del 29 giugno 2019. - 11. Le ragioni e le strategie della tutela: dalla specificità del bene canonisticamente presidiato all’invocazione del regime generalmente riconosciuto, dalla rivendicazione (massima e desiderabile) della differenza alla pretesa (minima ma irrinunciabile) all’uguaglianza. L’‘ultima trincea’. - 12. Exitus.

PARTE PRIMA

 Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

VP VITA E PENSIERO

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1. Sigillum confessionis, secretum, intimitas, segreto, riservatezza, privacy: definire e delimitare ma non tracciare invalicabili confini in una prospettiva interordinamentale

La Chiesa cattolica è sovente dipinta come ammantata di una segretezza torbida e torva; e se a volte queste accuse di esorbitante eccesso nel precludere irremovibilmente ad esterni la conoscenza di quanto avviene entro la ‘cinta’ della sua giurisdizione1 non erano del tutto prive di ogni fondamento, soprattutto nel passato, la nomea sinistra delle ‘segrete inquisitoriali’ è davvero invincibilmente resistente all’usura. L’evocazione proprio dell’Inquisizione non è casuale: certamente una ‘pagina nera’ della storia ecclesiale, ma la cui truce ‘leggenda’ è stata oltremodo nutrita e resa più oscura e terribile proprio dall’insensata e inestinguibile riluttanza ecclesiastica a divulgare atti processuali che potevano tranquillamente essere resi noti: tra l’altro non raramente permeati da un garantismo per l’accusato del tutto inesistente nei coevi tribunali secolari. Del pari la segretezza di cui talora sono avvolti principalmente e ancora i processi penali canonici rischia di alimentare una cattiva fama che, invece, risulta in gran parte ingiustificata: segretezza a volte essenziale, specie laddove sia volta ad assicurarne il corretto andamento e prioritariamente a non ledere la buona fama dell’indiziato o dell’imputato2, ma, per contro, non di rado, specie a processo concluso con sentenza definitiva, soverchiante e superflua perché non sostenuta da idonee ragioni. La segretezza non va solo attentamente dosata, circoscrivendola esclusivamente allorquando si dimostri assolutamente imprescindibile a preservazione di interessi non sacrificabili: a pena altrimenti di un effetto boomerang devastante. Lo avvertiva già, nel (davvero) remoto 1971,

1 Usiamo il termine nell’accezione generica canonistica. 2 Cfr., per tutti, M. Mosconi, I principali doveri del vescovo davanti alla notizia di un delitto “più” grave commesso contro la morale o nella celebrazione dei sacramenti, in Quaderni di diritto ecclesiale, XXV (2012), p. 307: il segreto nella procedura canonica, tra l’altro, «non ha in alcun modo lo scopo di proibire il ricorso delle vittime all’autorità civile o di limitare in qualsiasi modo l’esercizio dell’autorità dello Stato». Si vedano in generale le considerazioni del tutto condivisibili di E. Baura, L’attività sanzionatoria della Chiesa: note sull’operatività della finalità della pena, in Ephemerides Iuris Canonici, LIX (2019), p. 616 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 l’Istruzione pastorale Communio et progressio3, con una premonizione stupefacente in un’‘era’ in cui ancora non era neppure baluginata la propagazione dei mass media e l’avvento di internet. Ma, allorquando adottata, di essa vanno anche chiaramente esplicate e fatte comprendere le motivazioni. Spesso, infatti, siamo fermamente convinti che al fondo dell’infittirsi e dell’avvilupparsi delle problematiche relativamente a questa materia si situi un ‘cortocircuito’ di incomprensione che rende il dialogo della Chiesa con il ‘mondo circostante’, già talora in sé venato di inimicizia e di astiosità, arduo e non di rado assai estenuante oltre che doloroso per chi ne risulta implicato. E anzitutto, proprio nell’ottica della chiarificazione, occorre intendersi sulla terminologia. Un vocabolo, quello di ‘segretezza’ che, come esordivamo, se non rimanda a narrazioni inquietanti e lugubri, certo è nimbato e in qualche modo inquinato da una cortina di negatività che è complicato, se non quasi impossibile, dissolvere. Mentre, invece, sempre per quelle ‘giunture’ imponderabili di cui la storia è ricca - e per la cui non semplice decifrazione rinviamo a chi professionalmente si occupa dell’evoluzione dei fenomeni sociali - la parola ‘riservatezza’, ma anche il lemma inglese privacy (o anche confidentiality) sono maggiormente rassicuranti, ispirano quasi affidamento, attirando universale adesione. Non paiono, inoltre, confliggenti e diametralmente incompatibili con quella ‘trasparenza’, ormai idolatrato mito della post-modernità4, che

3 Cfr. Pontificia Commissione per le comunicazioni sociali, Istruzione Pastorale Communio et progressio per la retta applicazione del Decreto del Concilio ecumenico Vaticano II sugli strumenti della comunicazione sociale, 23 marzo 1971, in Acta Apostolicae Sedis, LXIII (1971), p. 636, n. 121: «Ogni volta che i casi trattati nell’ambito ecclesiale richiedono il segreto, dovranno essere osservate le norme generali che regolano questa materia nell’ambito delle istituzioni civili. D’altra parte per le ricchezze spirituali della Chiesa nell’ampiezza della sua missione, si esige che ogni informazione circa i suoi programmi e il suo molteplice apostolato risplenda per esattezza, per verità, per sincerità. Infatti quando le autorità ecclesiastiche non vogliono o non riescono a trasmettere informazioni, che rispondano alle esigenze sopra richieste, favoriscono piuttosto la circolazione di voci dannose che non la presentazione della verità. Il segreto quindi deve essere conservato soltanto nella stretta misura necessaria per salvaguardare la fama e la reputazione di qualcuno o rispettare diritti di singoli e di gruppi». 4 Cfr. quanto osserva esattamente E. Baura, Note attorno all’operatività della finalità della pena nell’attività sanzionatoria della Chiesa, cit., passim, dopo avere precisato: «Potrebbe comportare conseguenze ancora più devastanti lo slogan sulla “trasparenza”. Questa proprietà fisica di alcuni corpi non appare adeguata ad integrare una categoria giuridica, neanche ex analogia, giacché la metafora indica troppo e in modo

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 tutto dovrebbe impregnare e verso cui dovrebbe convergere l’impegno di ognuno: anche della Chiesa5. Già nel sentire comune, poi, la persona riservata riscuote simpatia, coltiva una virtù da apprezzare e valorizzare: per converso chi conserva il segreto ha qualcosa di losco, disonesto e indegno da nascondere. Non sono, le riflessioni di quest’incipit, un divertissement ozioso o solo suggestivo. Al contrario reputiamo che disquisire di tutela della riservatezza, piuttosto che di tutela del segreto6, rappresenterebbe già un

indiscriminato. Nell’ambito del diritto sembra, infatti, preferibile riferirsi al diritto di informazione e al diritto di partecipazione nei processi da parte di chi ha un interesse legittimo. Tali diritti sono, come del resto tutti i diritti, delimitati. Spetta proprio all’arte giuridica indicare il diritto (iuris-dictio), determinando quali siano i suoi limiti precisi e segnalandone i titolari, tenendo in mente che il dovere giuridico corrisponderà esattamente, con uguaglianza, al diritto dell’altro. L’arte giuridica è un lavoro di sottigliezza in cui è determinante la segnalazione precisa dei limiti dei diritti, onde non incorrere in ingiustizie» (ivi, p. 616). 5 Il 9 novembre 2017 la Facoltà di Diritto Canonico e l’Istituto di Psicologia della Pontificia Università Gregoriana hanno organizzato una giornata di studio con il titolo «La Chiesa tra l’impegno per la trasparenza e la tutela del segreto». Gli atti sono stati pubblicati in Periodica, CVII (2018), p. 443 ss., e nell’Introduzione (di H. Zollner) si scrive: «Da alcuni anni l’impegno della Chiesa cattolica per la trasparenza sta crescendo; questo sviluppo si osserva, per esempio, nel campo delle finanze della Chiesa. D’altra parte esiste una maggiore sensibilità per la tutela del segreto, in modo particolare per quanto riguarda la privacy e lo svolgimento dei processi penali. Com’è possibile promuovere contemporaneamente la trasparenza delle attività ecclesiali e la necessaria riservatezza? C’è bisogno di una normativa aggiornata, oppure piuttosto di una maggiore responsabilità nella sua implementazione?». Come peraltro nota U. Rhode, Trasparenza e segreto nel diritto canonico, ivi, p. 481 ss., il termine trasparenza non è tradizionalmente usato nel diritto canonico, pur essendovi diverse norme che richiedono un comportamento che potrebbe definirsi trasparente in senso ampio; invero «Nel magistero dei papi il termine trasparenza appare dagli anni ’80» (ivi, p. 483: ove anche una rassegna di documenti) e successivamente «cresce il numero di documenti giuridici emanati dalla Sede Apostolica, di cui una versione latina non esiste e di cui la versione ufficiale è quella italiana. Fra essi ci sono almeno dieci documenti che usano il termine trasparenza o trasparente» (ivi, p. 486: anche qui una rassegna); inoltre «Il concetto di trasparenza si usa non solo nei documenti pubblicati dalla Sede Apostolica […] ma anche in altri documenti canonici, come nel diritto particolare» (ivi, p. 489). 6 Più in generale G.P. Montini, La Chiesa tra l’impegno per la trasparenza e la tutela del segreto. Alcune conclusioni al termine della giornata di studio, in Periodica, CVII (2018), p. 538, segnala la «cattiva fama» del termine o concetto di segreto e, invece, la «simpatia» che attirano quelli di trasparenza, riservatezza, privacy; per questo sostiene un ripensamento del linguaggio canonistico: «Il dialogo tra esigenze diverse, scienze diverse e ordinamenti diversi si avvantaggerebbe senz’altro di questa concordanza, secondo la quale si fronteggiano da armonizzare non già il valore della trasparenza e il limite del segreto, ma trasparenza e riservatezza, entrambi scaturenti dalla medesima

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 primo passo per una delucidazione piena della ratio che impronta l’istituto di cui intendiamo occuparci in questa esposizione. D’altronde, proprio per far cessare ‘malintesi semantici’, Papa Francesco, nell’ottobre del 2019, ha cambiato la sola denominazione del pluricentenario Archivio Segreto Vaticano in Archivio Apostolico Vaticano, motivando con la cupa colorazione e il pregiudizio che attornia il termine secretum7. Anche quanto al nostro ambito di interesse accantonarlo agevolerebbe nell’eliminazione di posizioni intrise di prevenuta avversione e, al fondo, di ignoranza circa la natura del medesimo ed i valori alla cui salvaguardia è indirizzato: appropinquandoli invece opportunamente ad altri valori sui quali confluisce un corale consenso. Senza con ciò, beninteso, volerci in

fonte: la dignità della persona o presa in se stessa o in quanto considerata nella comunità». 7 Cfr. Francesco, Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio «L’esperienza storica» per il cambiamento della denominazione da Archivio Segreto Vaticano ad Archivio Apostolico Vaticano, 22 ottobre 2019, in L’Osservatore romano, 28-29 ottobre 2019, p. 11, ove spiega: «Il termine Secretum, entrato a formare la denominazione propria dell’istituzione, prevalsa negli ultimi secoli, era giustificato, perché indicava che il nuovo Archivio, voluto dal mio predecessore Paolo V verso il 1610-1612, altro non era che l’archivio privato, separato, riservato del Papa. Così intesero sempre definirlo tutti i Pontefici e così lo definiscono ancora oggi gli studiosi, senza alcuna difficoltà. Questa definizione, del resto, era diffusa, con analogo significato, presso le corti dei sovrani e dei principi, i cui archivi si definirono propriamente secreti. /Finché perdurò la coscienza dello stretto legame fra la lingua latina e le lingue che da essa discendono, non vi era bisogno di spiegare o addirittura di giustificare tale titolo di Archivum Secretum. Con i progressivi mutamenti semantici che si sono però verificati nelle lingue moderne e nelle culture e sensibilità sociali di diverse nazioni, in misura più o meno marcata, il termine Secretum accostato all’Archivio Vaticano cominciò a essere frainteso, a essere colorato di sfumature ambigue, persino negative. Avendo smarrito il vero significato del termine secretum e associandone istintivamente la valenza al concetto espresso dalla moderna parola “segreto”, in alcuni ambiti e ambienti, anche di un certo rilievo culturale, tale locuzione ha assunto l’accezione pregiudizievole di nascosto, da non rivelare e da riservare per pochi. Tutto il contrario di quanto è sempre stato e intende essere l’Archivio Segreto Vaticano, che - come disse il mio santo predecessore Paolo VI - conserva “echi e vestigia” del passaggio del Signore nella storia (Insegnamenti di Paolo VI, I, 1963, p. 614). E la Chiesa “non ha paura della storia, anzi la ama, e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio!” (Discorso agli Officiali dell’Archivio Segreto Vaticano, 4 marzo 2019: L’Osservatore Romano, 4-5 marzo 2019, p. 6)». Si veda il commento di J. Tolentino De Medonça, Un atto di fedeltà al Vangelo e alla storia, ivi, 30 ottobre 2019, p. 4, che tra l’altro afferma: «Il connotato fosco e opaco che ormai accompagna nella sensibilità e nell’immaginario il termine “segreto” rendevano necessario questo passo, dal momento che si è smarrito il valore originario di “segreto”, cioè semplicemente di “privato” (“secretum” da “secernere”, quindi “riservato”, cioè a disposizione del sovrano e del suo governo)».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 alcun modo avventurare nelle eterogenee e mutevoli ‘sembianze’, anche normative, che la stessa riservatezza ha assunto negli ultimi decenni anche solo in Italia8. È del resto vero, si potrebbe obiettare per quanto propriamente concerne la disciplina giuridica degli ordinamenti secolari, che altra cosa è il ‘segreto’ - declinato poi a sua volta in un’ampia congerie di segreti distinti, anche se a volte complementari -, altra la ‘riservatezza’, altra la privacy. Così come, sullo speculare versante canonistico, a parte il peculiarissimo sigillum confessionis, altro è il secretum - anche qui articolato in quello correlato al foro interno extra-sacramentale ovvero alla direzione spirituale, nel secretum pontificium e in altri obblighi di segreto variamente configurati a seconda dell’ambito di riferimento, dal processo al matrimonio alla conservazione e gestione di registri e archivi - , altro il riserbo e la difesa dell’intimitas. E tuttavia, pur potendosi e dovendosi accuratamente sceverare le differenti specificità e il conseguente modularsi dei registri giuridici (e a ciò anche noi ci accingeremo, sia pur in estrema sintesi), paventiamo che certe distinzioni troppo sottili rischino non solo di offuscare i legami esistenti, neppure troppo reconditi, ma di ottenebrare la chiarezza del quadro giuridico: apparendo tra l’altro, non di rado, in assenza di ancoraggi normativi precisi che fungano da ponte tra gli ordinamenti più disparati, costruite schematicamente e ‘a tavolino’ dalla dottrina, la quale perciò si mostra largamente discorde nelle premesse e nei risultati. Tra l’altro ormai la

8 Pregevole il tentativo di D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, Lugano 2008, p. 16 ss., di distinguere gli elementi costitutivi del quadrinomio segretezza/segreto/riservatezza/privacy. Secondo la sintesi di A. Licastro, Recensione a Daniela Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, Lugano, Eupress FTL, 2008, pp. 236, in Il diritto ecclesiastico, CXIX (2008), p. 609, «Il concetto di “segretezza” viene usato per descrivere una qualità della relazione comunicativa: l’ordinamento tutela l’interesse a che determinate comunicazioni interpersonali, a prescindere del tutto dai contenuti, si svolgano in maniera riservata, ossia senza che i terzi possano venirne legittimamente a conoscenza. Per converso, sia la nozione di “segreto”, sia il diritto alla “riservatezza”, sia il diritto alla privacy, condividono “la vocazione ad impedire l’acquisizione, comunicazione e diffusione del contenuto delle confidenze” (p. 195, mio il corsivo): nel primo caso, in funzione della protezione di un bene distinto e ulteriore, di rilevo apicale, capace di limitare persino i poteri giudiziali di accertamento, e quindi la stessa attuazione coattiva dell’ordinamento; nel secondo, a tutela dell’interesse a che siano sottratti alla conoscenza di terzi gli aspetti più intimi della vita privata; nell’ultimo, dando la possibilità all’autore della comunicazione di controllare e verificare l’uso e il trattamento dei cc.dd. dati personali».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 disputa su questi temi non è più segregata nella cerchia delle dotte e sofisticate elucubrazioni dei giuristi, ma è divenuta una rumorosa bagarre coram populo ove spesso anche proprio le inflessioni linguistiche esercitano un loro peso. Una ferrea rigidità di confini tra istituti giuridici pare, infine, aprioristicamente da escludersi in ragione proprio di quell’ottica interordinamentale che si impone necessariamente in ragione della connessione ineludibile tra il diritto e le esigenze della Chiesa cattolica e dei christifideles da una sponda, e, dall’altra, i diritti degli Stati entro i quali essi operano, cui devono ottemperare e coi quali si devono rapportare9. Il bene da difendere, infatti, trae origine saldamente in un ordinamento, quello canonico, e qui viene provveduto di garanzie, le quali, però, devono rinvenire poi un puntello ed un’adeguata rispondenza in norme secolari; a pena, altrimenti, che quelle garanzie, su alcune delle quali invece non si può patteggiare o, peggio, capitolare, vengano inghiottite nell’empireo delle aspirazioni - quanto si vuole legittime - deluse, e dei reclami - quanto si vuole sdegnati - inascoltati: a scapito dei cittadini al contempo fedeli. Ma soprattutto - e qui, sia pur parzialmente, preannunciamo una delle conclusioni cui approderemo - siamo persuasi che, nel contesto odierno, le ragioni della tutela degli interessi plurimi sottesi al mantenimento, in certi casi, di un’intransigente riservatezza debbano rinvenire, anzi ritrovare un essenziale fondamento unitario nell’incrocio tra ordinamento ecclesiale e ordinamenti civili, il solo in grado di conservare robustezza e solidità: senza, con questo, sminuire le ragioni ecclesiali, al fondo di diritto divino, naturale o rivelato, ma in modo che le strategie da adottare dinanzi agli attentati ed alle cedevolezze che attualmente minano tale tutela fino a comprometterla possano davvero essere efficaci nella temperie dell’hic et nunc. Efficaci perché ben radicate, efficaci perché condivise: efficaci, infine, perché pienamente conformi a giustizia.

9 J. Salinas Mengual, La tutela del secreto de confesión en el contexto del derecho comparado y de la nota de la Penitenciaría Apostólica sobre el fuero interno y la inviolabilidad del sigilo sacramental, nella rivista telematica Revista General de Derecho Canónico y Derecho Eclesiástico del Estado, 51 (2019), p. 7, intitola un paragrafo del suo articolo «El secreto religioso y la necesaria cooperación entre el derecho del la Iglesia y el orden jurídico civil».

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2. Un tema ‘classico’ sul quale oggi urge una rinnovata riflessione giuridica alla luce di recenti sviluppi sullo scenario nazionale e mondiale

Come premesso, l’ambito tematico implicato dalla sfaccettata normativa sul segreto con riferimento specifico alla condizione della Chiesa cattolica10 nonché, più in generale e laddove sia opportuno un riferimento, delle altre confessioni religiose è alquanto multiforme: innestandosi poi nelle poliedriche coordinate giuridiche del segreto11, «tipico concetto di relazione»12. Attesa quindi l’impossibilità di un esaustivo «viaggio attraverso le vaste province del segreto»13, e dunque in una rassegna che desidera unicamente schizzarne i contorni, e solo in relazione alla porzione prescelta - invero minima se commisurata all’immensità del tema, trasversale a tutti i rami del diritto -, possiamo rammentare che, ex parte Status, segnatamente italiano, è oggetto di attenzione specialmente, quanto al ‘fatto religioso’, il segreto nelle comunicazioni e nella corrispondenza, nonché quello in relazione al trattamento dei dati personali: comparti entrambi - in special modo

10 Per un’illustrazione concisa ma esauriente dei diversi tipi di segreto (naturale, promesso, commesso, ecc.) v. R. Coronelli, Il significato ecclesiale del segreto, in Quaderni di diritto ecclesiale, XXVI (2013), p. 10 ss., sulle orme delle trattazioni della teologia morale: v., per tutti, P. Palazzini, Segreto (rivelare un), in F. Roberti (diretto da) - P. Palazzini (con la collaborazione di), Dizionario di teologia morale, 4ª ed. riveduta alla luce del Concilio ecumenico Vaticano II, Roma 1968, p. 1502 ss. 11 R. Palomino, Secreto, in J. Otaduy - A. Viana - J. Sedano (ed.), Diccionario general de derecho canónico, vol. VII, Navarra 2012, p. 181, peraltro rileva che «Gran parte de las elaboraciones jurídicas acerca del secreto como categoría jurídica, se han elaborado a partir del secreto profesional», e che «Dos elementos configuran la fisonomía jurídica del secreto. El primero es la voluntad; el ordenamiento jurídico, o una persona, quiere que la verdad permanezca oculta. No surge el secreto por simple omisión o negligencia. El segundo elemento es la construcción relativa del secreto, es decir, se establece una distinción entre los que conocen y los que no conocen esa verdad, pero con independencia del número de personas que, además, se encuentran en esa peculiar situación con la voluntad al menos implícita de que permanezca el secreto». L’Autore sintetizza anche efficacemente le varie teorie che sono state avanzate circa il fondamento della protezione del segreto nel diritto. 12 A. Crespi, La tutela penale del segreto, Palermo 1952, p. 6. 13 G. Pitruzzella, Segreto I) Profili costituzionali, in Enciclopedia Giuridica, vol. XXVIII, Roma 1992, p. 9. Cfr. anche U. Ruffolo, Segreto (diritto privato), in Enciclopedia del diritto, vol. XLI, Milano 1989, p. 1015, che esordisce: «Il ‘segreto’, tema affascinante quanto complesso, rappresenta per il civilista non una figura ma un problema. Problema che trova soluzioni talora eterogenee, implicanti il ricorso a figure ed istituti disparati, e per il quale non è sempre agevole tracciare confini certi rispetto ai campi ad esso contigui».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 l’ultimo, per le inarrestabili innovazioni normative, anche quelle incisive dello scorso anno nell’Unione Europea14 - postulanti un prisma di profili problematici diversificati dal punto di vista giuridico, sui quali ha indugiato un’abbondante letteratura. Ex parte Ecclesiae, poi, le norme sul segreto spaziano dal diritto del fedele alla propria buona fama e intimità (can. 22015), a quei numerosi precetti che, appunto al fine di non pregiudicarlo, lo declinano nel dispiego delle attività di tipo informativo e processuale (ad esempio i cann. 26916, 645, 699; i cann. 1339, 1546, 1602, 171917), fino alla normativa relativa alla

14 In materia di trattamento dei dati personali, a partire dal 25 maggio 2018 è direttamente applicabile negli Stati membri dell’Unione Europea il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la Direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati). Alla luce dell’art. 91 par. 1 del Regolamento, che consente a chiese e associazioni o comunità religiose di continuare ad applicare i rispettivi corpora completi di norme a tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento purché siano resi conformi al Regolamento stesso, la LXXI Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana ha approvato il decreto generale recante Disposizioni per la tutela del diritto alla buona fama: tale decreto, entrato in vigore il 25 maggio 2018, costituisce un aggiornamento di quello promulgato per la Chiesa cattolica in Italia dal presidente della Conferenza Episcopale Italiana il 30 ottobre 1999. V. M. Ganarin, Specificità canonistiche e implicazioni ecclesiasticistiche del nuovo decreto generale della Conferenza Episcopale Italiana sulla tutela del diritto alla buona fama e alla riservatezza, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XXXV (2018), 2, pp. 581-618; V. Marano, Impatto del Regolamento Europeo di protezione dei dati personali per la Chiesa. Prime soluzioni nei decreti generali delle Conferenze Episcopali: l’esperienza italiana, in J. Pujol (a cura di), Chiesa e protezione dei dati personali. Sfide giuridiche e comunicative alla luce del Regolamento Europeo per la protezione dei dati, Roma 2019, pp. 19-34. 15 I riferimenti saranno sempre al vigente Codex Iuris Canonici per la Chiesa latina del 1983; i canoni del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium del 1990 sulla materia non si discostano peraltro incisivamente. 16 Cfr. G. Mori, Segreto, IX) Diritto canonico, in Enciclopedia Giuridica, vol. XXVIII, Roma 1992, p. 1, che ricordava: «Anche le informazioni necessarie per l’indagine in sede diocesana tesa a comprovare quanto dichiarato dal sacerdote che abbia richiesto la riduzione allo stato laicale devono essere raccolte nella massima riservatezza, e su di esse, così come sull’eventuale dispensa in ordine al matrimonio, grava l’obbligo del segreto (v. lett. circ. De reductione ad statum laicalem, 13.1.1971, I, 5, e II, 3, in E.V., IV, Bologna, 1978, 54 ss.)». 17 In merito alla normativa processuale extracodiciale cfr., per tutti, D. Cito, Trasparenza e segreto nel diritto penale canonico, in Periodica, CVII (2018), pp. 513- 522, che si occupa soprattutto della repressione del delitto di abuso sessuale su minori compiuto da chierici e, tra l’altro, osserva: «se da un lato, proprio per la sua fisionomia di comunità religiosa, il mantenimento del segreto a protezione di un’intimità di

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 destinazione di certi atti all’archivio segreto (regolato dai cann. 489- 49018: cfr., ad esempio, can. 413 § 219). Ancora, si trascorre dall’indiretta e fugace recezione positiva del segreto professionale (laddove, al can. 1548 § 2 n. 1, si esimono dall’obbligo della testimonianza in giudizio - oltreché i chierici per quanto conosciuto in ragione del proprio ministero - magistrati, medici, ostetriche, avvocati, notai), all’assai ingente normativa sui rapporti tra la funzione ricoperta e le varie fattispecie di segreto ad essa riferibili: e qui, ulteriormente, si va dal segreto d’ufficio vero e proprio (degli addetti alla curia diocesana: can. 471; dei giudici, uditori e, in casi particolari, di testimoni, parti e avvocati nei processi: cann. 1455, 1457, 1609), alle disposizioni poste, sempre al riguardo, per le modalità di accesso a certi incarichi (oltre alla segretezza del voto nel suffragio elettivo: can. 172), come per le nomine episcopali (ad esempio il can. 377), per giungere alla designazione del successore di Pietro, ove il segreto è minuziosamente imposto nella normativa extracodiciale sul conclave20.

contenuti non solo puramente giuridici ma spesso spirituali e confidenziali deve caratterizzare questi tipi di processi, ciò non deve mai impedire la tutela e la protezione di potenziali vittime. E su questo si gioca anche a volte il non facile equilibrio tra intervento tempestivo (ex can. 1722 applicabile anche durante l’indagine previa) e tutela della buona fama dell’accusato» (ivi, pp. 520-521). Al riguardo si veda anche quanto argomenta D.G. Astigueta, Trasparenza e segreto. Aspetti della prassi penalistica, ivi, pp. 523-535, il quale conclude il suo studio asserendo che i concetti di trasparenza e di segreto sono «certamente “relativi” in un doppio senso: /a) perché non possono essere considerati assoluti. Sia la trasparenza sia il segreto conoscono limiti precisi per non degenerare […] nella lesione dei diritti soggettivi; /b) perché devono essere sempre considerati in relazione ad altri diritti che non vengono mai cancellati e che esigono dal superiore una applicazione equilibrata. /Non essere assoluti e dover applicarli sempre in equilibrio permette all’autorità ecclesiastica di avere uno strumento prezioso per proteggere i diritti tanto della comunità quanto del singolo fedele» (ivi, pp. 534-535). 18 Sul quale v. G. Boni, Archivo secreto, in J. Otaduy - A. Viana - J. Sedano (ed.), Diccionario general de derecho canónico, vol. I, Navarra 2012, pp. 456-460. 19 Per un’enumerazione di quali documenti siano da conservare sotto segreto v. R. Coronelli, Il significato ecclesiale del segreto, cit., pp. 24-25. 20 V. San Giovanni Paolo II, Costituzione Apostolica Universi dominici gregis, 22 febbraio 1996, in Acta Apostolicae Sedis, LXXXVIII (1996), pp. 305-343; Benedetto XVI, Litterae Apostolicae Motu Proprio datae Constitutione Apostolica De aliquibus mutationibus in normis de electione Romani Pontificis, 11 giugno 2007, ivi, XCIX (2007), pp. 776-777; Id., Litterae Motu Proprio datae Normas nonnullas De nonnullis mutationibus in normis ad electionem Romani Pontificis attinentibus, 22 febbraio 2013, ivi, CV (2013), pp. 253-257. V., per tutti, G. Trevisan, Osservare il segreto secondo la Costituzione Universi dominici gregis, in Quaderni di diritto ecclesiale, XXII (2009), pp. 283-291; P. Majer, Secreto en la elección del romano Pontífice, in J.

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Da non dimenticare, in questa veloce carrellata, il segreto afferente all’attività della Curia romana, ovvero quel secretum pontificium21 la cui disciplina, anch’essa extra Codicem22, da tempo e da più parti si vorrebbe

Otaduy - A. Viana - J. Sedano (ed.), Diccionario general de derecho canónico, vol. VII, cit., pp. 183-186; G. Boni, Sopra una rinuncia. La decisione di Papa Benedetto XVI e il diritto, Bologna 2015, p. 72 ss. (con indicazione di ulteriore letteratura). 21 Sul segreto pontificio si sofferma recentemente, in estrema sintesi, la Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, in L’Osservatore romano, 1-2 luglio 2019, punto 3, p. 8: «Un caso particolare di segreto è quello del “segreto pontificio”, che vincola in forza del giuramento connesso all’esercizio di determinati uffici al servizio della Sede Apostolica. Se il giuramento di segreto vincola sempre coram Deo chi lo ha emesso, il giuramento connesso al “segreto pontificio” ha quale ratio ultima il bene pubblico della Chiesa e la salus animarum. Esso presuppone che tale bene e le esigenze stesse della salus animarum, compreso perciò l’uso delle informazioni che non cadono sotto il sigillo, possano e debbano essere correttamente interpretate dalla sola Sede Apostolica, nella persona del Romano Pontefice, che Cristo Signore ha costituito e posto quale visibile principio e fondamento dell’unità della fede e della comunione di tutta la Chiesa». In dottrina rinviamo, per tutti, a J.M. Laucirica, Secreto pontificio, in J. Otaduy - A. Viana - J. Sedano (ed.), Diccionario general de derecho canónico, vol. VII, cit., pp. 186-189 (con indicazione di ulteriore letteratura); e a A. Perlasca, Il segreto pontificio, in Quaderni di diritto ecclesiale, XXVI (2013), pp. 91-104, ove anche una sintetica ricostruzione dell’evoluzione storica della disciplina al proposito. 22 Come ricorda R. Coronelli, Il significato ecclesiale del segreto, cit., p. 26, «Non è stata più ripresa […] nel Codice vigente la norma del can. 243 § 2 del Codice del 1917 circa l’osservanza del segreto a cui sono tenuti i membri delle congregazioni, dei tribunali e degli uffici della curia romana, entro i limiti e secondo il modo determinato dalla disciplina propria a ciascuna di esse. […] chi presta servizio presso i vari dicasteri della curia romana è sottoposto alla disciplina del regolamento proprio di ogni dicastero (cf PB art. 37) e al regolamento generale della curia romana del 1999 che stabilisce all’art. 36 § 2 che tutti coloro che vi prestano la propria opera sono obbligati ad osservare rigorosamente il segreto d’ufficio e non possono, pertanto, dare, a chi non ne abbia diritto, informazioni relative ad atti o a notizie di cui siano venuti a conoscenza a causa del proprio lavoro. La violazione del segreto d’ufficio è sanzionata disciplinarmente dal medesimo regolamento con la sospensione dall’ufficio (cf art. 72/5) fino ad una durata massima di 15 giorni, con eventuale perdita della retribuzione (cf art. 73 §§ 1-2). L’art. 36 § 2 stabilisce che nelle materie che lo riguardano deve essere osservato anche con particolare cura il segreto pontificio a norma dell’istruzione Secreta continere del 1974. La violazione del segreto pontificio comporta disciplinarmente il licenziamento dall’ufficio». K. Martens, Le secret dans la religion catholique, in Revue de droit canonique, LII/2 (2002), p. 262, rileva: «L’instruction ne définit pas vraiment comment il faut comprendre ce secret pontifical. En revanche, elle contient des règles concernant la matière couverte par le segret, les personnes y étant tenues, les sanctions éventuelles ainsi qu’un serment», soffermandosi poi partitamente al riguardo.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sottoporre ad una qualche rettifica23, almeno allo scopo di renderne più limpida la strumentalità alla libertà non abdicabile del munus petrinum24. E invero Papa Francesco ha già apportato alcune modifiche: una nel 2016 passata pressoché inosservata25, e quella del dicembre 2019 a proposito dell’‘abolizione’ del segreto pontificio per «le denunce, i processi e le decisioni» relativi a delitti concernenti prevalentemente gli abusi sessuali

23 Varie sono le problematiche giuridiche aperte, a partire dal dubbio se la stessa Istruzione Secreta continere (v. Segreteria di Stato, Rescriptum ex audientia, Istruzione Secreta continere, de secreto pontificio, 4 febbraio 1974, in Acta Apostolicae Sedis, LXVI [1974], pp. 88-92) sia ancora in vigore. Per questo A. Perlasca, Il segreto pontificio, cit., p. 104, così concludeva il suo saggio: «L’auspicio che si può formulare è dunque quello di una ripresa dell’intera materia mediante una nuova e più adeguata legislazione». 24 Nonché per evitare incomprensioni e polemiche, come proprio quelle insorte in relazione al dramma degli abusi sessuali commessi da chierici, come anche osserveremo in seguito. Commentava in generale A. Perlasca, Il segreto pontificio, cit., p. 100: «Deve […] essere sciolto l’equivoco, purtroppo assai diffuso nell’immaginario collettivo, secondo cui l’espressione “sotto segreto pontificio” sia sinonimo di occultamento o di nascondimento di vicende poco trasparenti. Tanto meno, è corretto parlare di lesione di un presunto diritto di informazione nei confronti dei fedeli o di qualunque altro soggetto. Il segreto pontificio deve piuttosto essere visto nella prospettiva del diritto da parte della Chiesa a poter gestire i propri affari interni, soprattutto quelli più delicati e maggiormente correlati con l’esercizio del munus petrinum, godendo della necessaria libertà, senza subire pressioni o interferenze da parte di chicchessia, ma, al contempo, potendo usufruire di consulenze e suggerimenti da parte di persone qualificate o, comunque, aventi un legittimo interesse in una determinata questione, affinché le scelte che vengono operate possano rispondere al suo vero bene e si iscrivano, quanto più possibile, in un’ottica di obbedienza e docilità alla legge evangelica e alle esigenze che da essa promanano. In definitiva, si tratta di un irrinunciabile strumento messo al servizio della verità e di una tutela - altrettanto irrinunciabile - del diritto di libertà di religione». 25 Come ricorda U. Rhode, Trasparenza e segreto nel diritto canonico, cit., pp. 475- 476, «Nell’elenco delle materie sottoposte al segreto pontificio secondo l’istruzione Secreta continere del 1974, papa Francesco nel 2016 aggiunse un ulteriore elemento; questa aggiunta conferma che la Santa Sede continua a presupporre che l’istruzione del 1974 è rimasta in vigore». Si riferisce al Rescriptum ex Audientia SS.mi della Segreteria di Stato del 5 dicembre 2016, in Acta Apostolicae Sedis, CIX (2017), p. 72: «In riferimento alle Norme sul Segreto Pontificio, contenute nell’Istruzione “Secreta continere” del 4 febbraio 1974, a firma dell’allora Segretario di Stato, Jean Card. Villot, il Sommo Pontefice Francesco, nell’Udienza concessa il 5 dicembre 2016 al sottoscritto Cardinale Segretario di Stato, ha approvato la seguente decisione, integrando l’art. 1: /11) Notitiae et acta quae ad quasque res iuridicas, oeconomicas vel nummarias attinent easdemque ad Summmum Pontificem vel Secretariam Status spectantes»; un ambito certamente non irrilevante ed anzi molto delicato.

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- ai quali in seguito faremo riferimento -, che è invece rimbalzata largamente (e acclamata) sui media internazionali26. Sempre in questo giro d’orizzonte si perviene quindi - e ci avviciniamo al nucleo del nostro ragionare - al segreto connesso ad alcuni sacramenti quali anzitutto la confessione ma anche al foro interno extra-sacramentale (sui quali qui momentaneamente soprassediamo essendo oggetto preminente di questa trattazione27), e al matrimonio (cann. 1130-1133; 1159). Davanti a tale architettura imponente di norme che dall’amministrazione trascorre al processo fino appunto al munus sanctificandi28, la canonistica si è cimentata largamente, investendosi

26 Si tratta del Rescriptum ex audientia SS.mi, firmato dal Segretario di Stato Pietro Parolin e datato 6 dicembre 2019, in L’Osservatore romano, 18 dicembre 2019, p. 5, il quale prevede nel «testo in lingua originale» in italiano: «Il Santo Padre Francesco, nell’Udienza concessa a Sua Eccellenza Mons. Edgar Peña Parra, Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, il giorno 4 dicembre 2019, ha stabilito di emanare l’Istruzione Sulla riservatezza delle cause, allegata al presente Rescriptum e che ne forma parte integrante». Così recita l’Istruzione: «1. Non sono coperti dal segreto pontificio le denunce, i processi e le decisioni riguardanti i delitti di cui: /a) all’articolo 1 del Motu proprio “Vos estis lux mundi”, del 7 maggio 2019; /b) all’articolo 6 delle Normae de gravioribus delictis riservati al giudizio della Congregazione per la Dottrina della Fede, di cui al Motu proprio “Sacramentorum Sanctitatis Tutela”, di San Giovanni Paolo II, del 30 aprile 2001, e successive modifiche. /2. L’esclusione del segreto pontificio sussiste anche quando tali delitti siano stati commessi in concorso con altri delitti. /3. Nelle cause di cui al punto 1, le informazioni sono trattate in modo da garantirne la sicurezza, l’integrità e la riservatezza ai sensi dei canoni 471, 2° CIC e 244 §2, 2° CCEO, al fine di tutelare la buona fama, l’immagine e la sfera privata di tutte le persone coinvolte. /4. Il segreto d’ufficio non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, nonché all’esecuzione delle richieste esecutive delle autorità giudiziarie civili. /5. A chi effettua la segnalazione, alla persona che afferma di essere stata offesa e ai testimoni non può essere imposto alcun vincolo di silenzio riguardo ai fatti di causa». Notava, a nostro avviso assennatamente, R.F. Freije, La reforma legislativa de Benedicto XVI en relación con los abusos sexuales y algunas propuestas para la reflexión, in Estudios eclesiásticos, XCIV (2019), p. 71, prima del Rescriptum ex audientia SS.mi appena citato: «ha faltado una política de comunicación eficaz y transparente. Aspectos muy positivos de la normativa no han sido bien presentados a la opinión pública que los ha recibido con un cierto rechazo. El secreto pontificio que afecta a algunos aspectos de la normativa sobre abusos, por ejemplo, no ha sido entendido como protección de la víctima sino como “reliquia” de antiguos procedimientos de silencio u ocultación. Todos estos aspectos merecen, a nuestro entender, un estudio más pormenorizado». Sul Motu Proprio Vos estis lux mundi ci soffermeremo nella seconda parte di questo lavoro. 27 Menzioneremo più oltre la normativa canonica. 28 Per un’illustrazione sintetica dei vari canoni codiciali in materia, delucidati altresì quanto alle sottese rationes relativamente alla tutela della riservatezza, al titolo in base

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 d’altronde ambiti dai quali non raramente filtra con nitore l’afferenza teleologica alla suprema lex ordinamentale della salvezza oltremondana29: soprattutto proprio nell’ultimo che abbiamo enumerato, che tocca immediatamente i bona Ecclesiae e la cura animarum. La normativa confessionale e quella statuale, tuttavia, non restano tra loro appartate come monadi disinteressate l’una all’altra, ma si sovrappongono, si influenzano reciprocamente, si ibridano: e anzitutto si uniscono in qualche modo nelle disposizioni concordatarie. Una disamina

al quale si è tenuti all’obbligo del segreto ed eventualmente anche alle cause che possono giustificare un rilassamento di quest’ultimo, v. R. Coronelli, Il significato ecclesiale del segreto, cit., p. 16 ss., che descrive il segreto in ambito amministrativo (Libri I e II), il segreto in ambito sacramentale (Libro IV), il segreto in ambito processuale (Libro VII); anche R. Palomino, Secreto, cit., pp. 182-183, enumera i canoni distinguendo il segreto rispettivamente nei sacramenti, nell’amministrazione e nel processo; K. Martens, Le secret dans la religion catholique, cit., p. 258 ss., aggiunge a questi comparti «la relation entre le secret, le droit à la vie privée et le bien commun» (ivi, p. 260; Martens indica anche la disciplina del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium). Invece U. Rhode, Trasparenza e segreto nel diritto canonico, cit., pp. 475-476, propone questa classificazione: «Nel diritto vigente esiste una grande varietà di norme che riguardano la tutela del segreto. Si tratta di norme del diritto universale, particolare, proprio e concordatario. Secondo il contenuto si possono distinguere sei tipi di norme: /(1) norme che impongono l’obbligo di custodire il segreto; /(2) norme che richiedono un giuramento di custodire il segreto; /(3) norme che stabiliscono delle pene o altre sanzioni per chi commette una violazione del segreto; /(4) norme circa la conservazione segreta di documenti e di altro materiale conservato negli archivi, e norme sulla distruzione o cancellazione di tale materiale; /(5) norme che concedono il diritto di tacere, in modo particolare riguardo a materie coperte dal cosiddetto segreto professionale; /(6) norme concordate con gli Stati sulla protezione del segreto professionale e degli archivi della Chiesa nel diritto civile». Distingue per converso tra «segreto sacramentale» (afferente al sacramento della penitenza e al matrimonio) e «segreto parasacramentale» (includendo i segreti di natura organizzativo- amministrativa e di tipo processuale) D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, cit., p. 150 ss. 29 Osserva G. Mori, Segreto IX) Diritto canonico, cit., p. 1: «Si ha qui una sorta di capovolgimento rispetto agli ordinamenti statuali, essendo in questo caso il segreto non tanto un semplice istituto giuridico quanto un elemento costitutivo della stessa organizzazione societaria ecclesiastica: talmente connesso alla […] istanza ultima e fondativa dell’ordinamento - la salus animarum - che la relativa necessaria intersubbiettività tra la coscienza del singolo e Dio diventa oggetto di giurisdizione, sacramentale e non, in un vero e proprio foro, quello appunto interno, segreto, di coscienza. Il fatto che nell’ordinamento canonico si dia un tale tipo di giurisdizione costituisce un criterio interpretativo anche di quanto disposto in merito al segreto vero e proprio. Le relative norme infatti godono, diversamente che negli altri ordinamenti e al di là del singolo canone, di una ratio complessiva connessa con le esigenze di una società religiosa finalizzata alla salvezza».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che non ne tenesse conto risulterebbe certamente avvincente - forse anche assai erudita nell’approfondimento - ma, per la maggior parte dei problemi concreti che si agitano in materia, mutila e incapace di prospettare soluzioni: e questo senza ingenuità o presunzione, ma con la consapevolezza umile che si tratti di proposito oltremodo ambizioso e temerario nella complessità giuridica odierna. Naturalmente la disamina va in qualche modo perimetrata: così, pur talora istituendo i dovuti collegamenti tra settori contigui, allorquando proficui, noi ci concentreremo sul tema, in questo momento più che mai nevralgico e rovente, delle deroghe all’obbligo della testimonianza a favore dei ministri di culto, in specie della Chiesa cattolica, nel diritto italiano in congiunzione con quello canonico. Anche questa una materia ‘classica’ e diffusamente esplorata, ma che merita una rinnovata considerazione specificamente nel contesto italiano, sia pur rapportato con le ‘epifanie’ di tale scottante problematica a livello planetario, oggi non più sottovalutabili anche proprio nelle loro multiple rifrazioni: se nel 1999 Rafael Palomino poteva - nella sua monografia incentrata sul tema - designare la protezione giuridica di questo segreto come una problematica del diritto «en pie de guerra»30, attualmente davvero la conflagrazione è intercontinentale. Nel panorama internazionale, infatti, la cronaca dà giornalmente conto di attacchi sempre più serrati al segreto ministeriale e della confessione, laddove - in particolare, di recente, in Irlanda, Stati Uniti, Australia, Belgio, India, Cile31 -, sovente cavalcando il disagio suscitato dallo scandalo della ‘pedofilia’32 all’interno della compagine ecclesiastica e dalle

30 R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, Granada 1999, p. 10. Così esordiva in un articolo del 2002, O. Échappé, L’officialité de Lyon, le secret et la Cour de Cassation, in L’année canonique, XLIV (2002), p. 251: «Le secret professionnel des ministres du culte a le vent en poupe: l’auteur de ces lignes était bien loin de penser, lorsqu’il publiait il y a près de vingt ans dans cette revue un premier article, issu de son mémoire de licence en droit canonique, et consacré à cette question, que le champ d’étude très théorique qu’il abordait alors deviendrait l’objet d’intérêt qu’il est devenu, non seulement chez les juristes et les canonistes, mais encore chez les plus hautes personnalités du monde ecclésiastique français, voir romain». 31 Amplissimi riferimenti alla situazione normativa di tali Paesi sul problema specifico sono reperibili su internet o anche sulla rivista Il Regno. Attualità e documenti. 32 Il termine, come noto, viene comunemente utilizzato per ricomprendere ben differenti condotte.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 negligenze e ‘coperture’ che avrebbero permesso, oltre a recidive ancor più deleterie, una vergognosa impunità, si sono avanzati progetti di legge (alcuni invero giunti o in procinto di arrivare implacabilmente in porto nonostante le diffuse opposizioni33) per coartare i sacerdoti a rompere e profanare persino il sigillo sacramentale. D’altronde non da oggi vari Paesi, per lo più rientranti nell’area del common law, sono refrattari - almeno in qualche caso34 - a non pregiudicare il ‘segreto religioso’35, che

33 Ne ha informato largamente la stampa: si vedano in particolare i numerosi articoli pubblicati online su Vatican News o sui siti Vatican Insider News e Acistampa. Il 7 giugno 2018 la segretezza della confessione è venuta meno in Australia, in particolare nel territorio della capitale Camberra: è stata infatti approvata una legge, entrata poi in vigore il 31 marzo 2019, che impone ai ministri di culto di violare il sigillo sacramentale qualora vengano a conoscenza di abusi sessuali su minori. Come sintetizza A. Bettetini, Abusi sessuali e segreto confessionale, in Vita e pensiero, CVI (2019), 4, p. 36, «lo scopo della legge, qualificata come Ombudsman Amendment Act 2018, è quello di ampliare il reportable behavior scheme che disciplina le accuse di abuso e condotta scorretta nei confronti di minori, includendovi le organizzazioni religiose. Estende così l’obbligo di denunciare abusi sessuali su minori a tutte le Chiese, imponendo, se del caso, la violazione del sigillo sacramentale della confessione»; v. anche M. Carnì, Segreto confessionale e derive giurisdizionaliste nel rapporto della Royal Commission australiana, in Diritto e religioni, XIV (2019), 1, p. 54 ss., pure su altri provvedimenti normativi. Per ulteriori casi più recenti v. quanto riferisce M. Faverzani, In Australia approvate le leggi “anti-confessionale”, pubblicato online il 18 settembre 2019 in Corrispondenza romana. Una trattazione ampia e precisa sulla situazione in Australia in R. Palomino Lozano, Sigilo de confesión y abuso de menores, in Ius canonicum, LIX (2019), p. 784 ss. 34 Diversamente da come l’avevano presentata i mass media la pronuncia della Cour Suprême du Canada, Adèle Rosemary Gruenke versus Sa Majesté la Reine, 24 ottobre 1991, in Ius Ecclesiae, V (1993), pp. 423-428, non ha negato il segreto ministeriale. Infatti, come spiega J. St.-Michel, La Cour Suprême du Canada a-t-elle aboli le secret de la confession?, ivi, p. 428 ss., non lo ha ritenuto applicabile nel caso di specie, ma solo per le circostanze del medesimo, «compte tenu des faits de la cause et non en raison d’une position de principe»; e tale Autore conclude: «Tenant compte de ce jugement, les prêtres, les diacres et les agents laïques de pastorale ne devraient pas hésiter à demander à tout tribunal de reconnaître leur droit de ne pas divulger devant la Cour les informations confidentielles, reçues des fidèles, dans l’exercice de leur responsabilité pastorale, même en dehors de la confession sacramentelle. […] /Même si ce jugement de la Cour suprême du Canada peut sembler embêtant à première vue, j’ai la conviction qu’il accorde en pratique une protection importante aux ministres du culte devant les tribunaux canadiens» (ivi, p. 431). Si veda anche l’illustrazione e il commento dell’interessante sentenza da parte di R. Palomino, El secreto religioso en una sentencia del Tribunal Supremo Canadiense, in J. Martínez Torrón (a cura di), La libertas religiosa y de conciencia ante la justicia constitucional, Granada 1998, p. 735 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 viene senza remore sacrificato sull’altare del maggior bene sociale e dell’ordine pubblico, così come peraltro autoreferenzialmente concepiti dai magistrati statuali. E se è vero che negli ultimi mesi si sono ‘sventate alcune aggressioni’36, inducendo al ritiro di proposte di legge che avevano sollevato forti contestazioni, lo scontro sta divenendo oltremodo virulento, non risparmiando nessuna ‘piazza’. Comunque sia, anche sul nostro suolo nazionale ci sono indizi inquietanti che non vanno minimizzati: alludiamo ad una recente sentenza della Corte di Cassazione che ha segnato una drastica svolta negli orientamenti sinora consolidati e tutto sommato soddisfacenti. Di essa, pure accolta criticamente da dottrina avvertita, non si sono, a nostro avviso, afferrati appieno i corollari che non esiteremmo a definire eversivi: i quali si inseriscono in maniera eclatante in questo allarmante trend globale. Ma prima di inoltrarsi entro tali ultime ‘derive’ può essere conveniente sintetizzare concisamente lo status quaestionis relativamente alla ‘situazione giuridica’ italiana.

3. La disciplina del ‘segreto ministeriale’ in Italia nella normativa unilaterale e in quella bilaterale: status quaestionis…

35 V., per converso, P. Lopez Gallo, Are confidential communications protected by common law privilege? The seal of sacramental confession in the , in Monitor ecclesiasticus, CXXI (1996), pp. 305-324. 36 Riporta ad esempio S. Magister, Attacco globale contro il segreto della confessione. O carcere o scomunica, consultabile online nel blog L’Espresso - Settimo Cielo, 19 luglio 2019, «L’ultimo attacco è stato sventato pochi giorni fa in California. Il 13 luglio il comitato statale per la sicurezza pubblica ha fatto ritirare la proposta di legge SB 360 presentata dal senatore Jerry Hill - e già approvata dal senato - per abolire la segretezza del sacramento della confessione. /Nel dare la notizia, “Vatican News” ha sottolineato che “ci sono volute 140 mila lettere, 17 mila e-mail e centinaia di telefonate” per ottenere il ritiro di quella “minaccia per la coscienza di ogni americano”, come l’aveva definita l’arcivescovo di Los Angeles, José Horacio Gomez, che ha guidato la mobilitazione. /Già nel 2000 la corte penale internazionale aveva respinto, nel dibattito sulle “Rules of Procedure and Evidence” la richiesta di Canada e Francia che non fosse più riconosciuto ai ministri religiosi il diritto di astenersi dal testimoniare su questioni conosciute attraverso il segreto della confessione. /E ancora nel 2016 la corte suprema dello Stato della Louisiana aveva ribadito che “un sacerdote, un rabbino o un ministro debitamente ordinato” non poteva essere qualificato come “mandatory reporter”, cioè obbligato a denunciare quanto “conosciuto durante una confessione o altra comunicazione sacra”». Sul caso della California torneremo nel prosieguo. Cfr. peraltro, ancora su questa vertenza ma non solo, l’analitica trattazione di R. Palomino Lozano, Sigilo de confesión y abuso de menores, cit., p. 781 ss.

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Come noto, l’espressione ‘segreto professionale del ministro di culto’ o ‘di confessione religiosa’37 è stata disapprovata sotto diversi profili, ma è a tutt’oggi quella invalsa e comunque preferibile, allorquando ben contestualizzata, come vedremo, rispetto ad altre, pur talora utilizzate, quali ‘segreto d’ufficio’, ‘segreto confessionale’, ‘segreto religioso o religiosamente motivato’: il range delle opinioni dottrinali è comunque assai screziato. A nostro parere forse l’espressione più adeguata, consentanea al lessico legislativo e che dovrebbe altresì consolidarsi nell’uso, è quella di ‘segreto ministeriale’ che fa richiamo alla qualifica del soggetto che lo eccepisce38: anzi, come abbiamo in precedenza spiegato (ma sul punto torneremo), si dovrebbe parlare, proprio per dipanare ambiguità e preconcetti, di ‘riservatezza ministeriale’.

37 L’art. 200 del vigente Codice di Procedura Penale italiano, sul quale in seguito ci soffermeremo, usa la dizione ‘ministri di confessioni religiose’ e non la più risalente ‘ministri del culto’. Secondo M. Deganello - B. Lavarini, Il segreto del ministro di culto come limite alla testimonianza penale, in AA.VV., Aequitas sive Deus. Studi in onore di Rinaldo Bertolino, vol. II, Torino 2011, p. 1332, «La ratio della modifica appare self evident: il ripudio della visuale paternalistica del ‘culto ammesso’ (recte, ‘sopportato’), a cui è venuta sostituendosi la visuale ‘democratica’ della pari dignità di ogni confessione innanzi alla legge. A noi, però, nel contesto de quo deve interessare il significato dell’enunciato, non l’intenzione del parlante (id est del legislatore). Con ‘culto’, allora, è dato riferirsi alle attività con cui si manifestano, ad pompam, gli onori tributati, nell’ipotesi di specie, ad una, o più, divinità; con ‘confessione’ all’intima professione di una fede, nonché, estensivamente, alla fede medesima. Forma esteriore vs. sensibilità interiore, quindi; recto e verso di un’identica medaglia, altrimenti detto. Ebbene: proprio l’impostata ‘equivalenza’ conduce e ritenere intercambiabili i due vocaboli, reputandosi di conseguenza autorizzati, per consuetudine tralaticia, a persistere, ‘in corso d’opera’, nell’uso della locuzione ‘ministri di culto’, anche se, ormai, normativamente desueta». 38 Tra l’altro, sempre con riferimento all’art. 200 di cui ci occuperemo appresso, A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, Padova 2012, p. 14, sottolinea: la norma «se si eccettua la rubrica ed un riferimento contenuto nella lett. d) del comma 1, non qualifica mai come “segreti” i fatti rispetto ai quali i soggetti qualificati hanno l’obbligo di astensione. /Mentre nell’ipotesi di notizie apprese in ambito professionale per accertare l’esistenza del segreto risulta fondamentale anzitutto verificare la qualifica del soggetto che lo eccepisce e, dunque, ricostruire la natura della relazione in ragione della quale il soggetto qualificato ha appreso la notizia, nei casi di segreto d’ufficio e di segreto di Stato, è la natura del “fatto” a generare l’insorgenza della situazione giuridica soggettiva».

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Per quanto afferisce al quadro normativo in Italia39, esso è disegnato dall’art. 200 del Codice di Procedura Penale (C.P.P.)40 primo comma lett. a), secondo il quale «Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria: /a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano […]»41. Questi ultimi, dunque, hanno la facoltà di astenersi dal dovere di testimoniare; la norma, che acclude quello ministeriale tra i segreti professionali di cui alla rubrica

39 Ricordiamo che il segreto confessionale è tutelato dal diritto internazionale mediante l’art. 73.3 delle Rules of Procedure and Evidence (2002), che danno applicazione al Trattato di Roma («In making a decision under sub-rule 2, the Court shall give particular regard to recognizing as privileged those communications made in the context of the professional relationship between a person and his or her medical doctor, psychiatrist, psychologist or counsellor, in particular those related to or involving victims, or between a person and a member of a religious clergy; and in the latter case, the Court shall recognize as privileged those communications made in the context of a sacred confession where it is an integral part of the practice of that religion»: v. il sito ufficiale della Corte penale internazionale, www.icc-cpi.int). 40 V. anche gli artt. 271, 351 e 362 del Codice di Procedura Penale e l’art. 249 del Codice di Procedura Civile: su quest’ultimo v. quanto rileva A. Perlasca, La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero» come applicazione del principio della libertà religiosa, in Quaderni di diritto ecclesiale, XI (1998), pp. 304-305 (lo stesso saggio, con il titolo Segreto professionale e notizie apprese in occasione del ministero, è pubblicato altresì anche in E. Miragoli [a cura di], Il sacramento della penitenza. Il ministero del confessore: indicazioni canoniche e pastorali, Presentazione di S.E. mons. C. Redaelli, 2ª ed. aggiornata e ampliata, Milano 2015, pp. 193-221). 41 Questo il testo per esteso dell’art. 200 C.P.P., rubricato Segreto professionale: «1. Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria: /a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano; /b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai; /c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria; /d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale. /2. Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga. /3. Le disposizioni previste dai commi 1 e 2 si applicano ai giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dell’articolo medesimo, è ubicata infatti nell’ambito della disciplina della testimonianza, accanto ad altre ‘tipologie’ di segreti (familiare, d’ufficio, di Stato, di polizia), posti quali limiti alla piena operatività del suddetto mezzo di prova42. Inoltre, quale ulteriore tassello, l’art. 256 del medesimo Codice disciplina l’esibizione e il sequestro degli atti e documenti inerenti al segreto professionale e prevede che i ministri di culto possano declinare la consegna intimata dall’autorità giudiziaria, dichiarando per iscritto che si tratta appunto di segreto inerente al loro ufficio o professione43: il segreto, quindi, da semplicemente ‘orale’ diviene ‘documentale’44. La tutela processuale del segreto trova peraltro un rafforzamento o comunque un ‘contrappunto’ nel diritto sostanziale45, laddove, ai sensi

42 Come ricorda L. Leoncini, Aspetti di rilievo processuale penalistico nelle recenti intese tra lo Stato italiano e alcune confessioni religiose, in Legislazione penale, XXXIII (2013), pp. 977-978, l’elencazione dei destinatari della disciplina sul segreto professionale è, «per opinione unanime, tassativa poiché in nome di diritti di rilievo costituzionale, sottesi alla rivelazione di informazioni riservate […], ammette il sacrificio del bene della verità processuale, che pure è prioritario in ciascun ordinamento giuridico e come tale non può essere compresso, se non per tutelare interessi superiori o di pari rango e nei soli casi puntualmente indicati dal legislatore (anche l’art. 200 co. 1 lett. d, che di per sé è norma di apertura nella misura in cui consente di estendere il segreto ad ipotesi “nuove” non ricomprese a chiare lettere nell’articolo in esame, esige però la presenza di un’espressa disposizione normativa in tal senso)»; invero, per converso, le disposizioni normative si sono moltiplicate, come anche in seguito annoteremo. 43 Così recitano i primi due commi dell’art. 256 del C.P.P., rubricato Dovere di esibizione e segreti: «1. Le persone indicate negli articoli 200 e 201 devono consegnare immediatamente all’autorità giudiziaria, che ne faccia richiesta, gli atti e i documenti, anche in originale se così ordinato, nonché i dati, le informazioni e i programmi informatici, anche mediante copia di essi su adeguato supporto, e ogni altra cosa esistente presso di esse per ragioni del loro ufficio, incarico, ministero, professione o arte, salvo che dichiarino per iscritto che si tratti di segreto di Stato ovvero di segreto inerente al loro ufficio o professione. /2. Quando la dichiarazione concerne un segreto di ufficio o professionale, l’autorità giudiziaria, se ha motivo di dubitare della fondatezza di essa e ritiene di non poter procedere senza acquisire gli atti, i documenti o le cose indicate nel comma 1, provvede agli accertamenti necessari. Se la dichiarazione risulta infondata, l’autorità giudiziaria dispone il sequestro […]». 44 V. R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 24. 45 Ancora nel 1989 A. Licastro, Indagini giudiziarie e ministero pastorale, in Il diritto ecclesiastico, C (1989), I, p. 521, asseriva: «La dottrina che si è occupata del problema del tipo di rapporto intercorrente tra l’art. 622 c.p. e l’art. 351 (cui corrisponde oggi […] l’art. 200) c.p.p. non è […] giunta sul punto a conclusioni univoche»: l’Autore peraltro non condivide la posizione di chi sostiene la piena autonomia dei due articoli, salvo poi, al fine di rendere, come si vedrà, irrilevante ai fini processuali, ma solo per i ministri di culto diversamente dagli altri professionisti, l’autorizzazione del confidente o la

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dell’art. 622 del Codice Penale (C.P.)46, si fa divieto di rivelazione a chiunque abbia avuto notizia di un segreto per ragione del suo stato,

ricorrenza di una giusta causa, concludere che, per contro, «La norma del Concordato […] non si può porre in alcun modo in correlazione con l’art. 622 c.p.» (ivi, p. 539). Invece A. Perlasca, La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero» come applicazione del principio della libertà religiosa, cit., p. 293, pur muovendo dalla connessione dell’art. 622 C.P. con l’art. 200 C.P.P., afferma in generale: «La circostanza che l’avente diritto abbia dato il proprio consenso alla rivelazione del segreto, potrà fornire un elemento in più per indurre il professionista a deporre volontariamente, ma non è mai decisiva per se stessa, perché si è in presenza di un rapporto bilaterale, nel quale non si possono attribuire facoltà dispositive alla volontà di uno solo dei soggetti. Il professionista, come abbiamo già visto, deve osservare anche norme deontologiche, alle quali la volontà del cliente non può far derogare, cosi come può avere interessi suoi personali che possono legittimamente indurlo a non seguire la volontà del cliente» (a conferma riporta i lavori preparatori del Codice di Procedura Penale del 1913). Rinviamo peraltro al seguito della trattazione a proposito della necessità, recentemente argomentata con convincenti motivazioni, di distinguere opportunamente le prospettive delle due normative, quella processuale e quella sostanziale, e così inquadrare coerentemente la facoltà di astensione legislativamente prevista per tutelare i segreti professionali. 46 L’art. 622 del Codice Penale italiano, rubricato Rivelazione di segreto professionale, stabilisce: «1. Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516. /2. La pena è aggravata se il fatto è commesso da amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci o liquidatori o se è commesso da chi svolge la revisione contabile della società. /3. Il delitto è punibile a querela della persona offesa». Per una trattazione sintetica ma efficace in relazione al tema ora investigato si veda A. Perlasca, La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero» come applicazione del principio della libertà religiosa, cit., p. 287 ss. La dottrina unanimemente osserva che «Sono tenuti al segreto in ragione del loro stato: i sacerdoti della religione cattolica e i ministri di qualsiasi culto ammesso, anche per ciò che sia stato ad essi confidato o sia stato da essi appreso, al di fuori della confessione, purché in ragione del loro stato sacerdotale o ministeriale» (A. Lago, Dei delitti contro la persona, 622. Rivelazione di segreto professionale, in E. Dolcini - G.L. Gatta [diretto da], Codice Penale commentato, vol. III, Artt. 593-734 bis Leggi complementari, Milano 2015, p. 701). Va rimarcato poi che tra la professione, l’arte, lo stato o l’ufficio e la conoscenza del segreto deve esistere un rapporto di causalità necessaria: cfr. R. Gargiulo, Sub art. 622, in G. Ariolli et al. (a cura di), Codice Penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, vol. XI, tomo II, I delitti contro la persona. I delitti contro la libertà individuale, Libro II, Artt. 600-623-bis, Milano 2010, pp. 1590-1591, il quale anche precisa: «Non è necessario che il segreto abbia un contenuto lecito; è sufficiente che sia lecito il motivo per cui esso viene confidato al professionista […]. Si è anzi osservato che è connaturale a certe categorie (avvocati, sacerdoti, consulenti fiscali) venire a conoscenza di fatti costituenti illeciti, anche penalmente rilevanti, ma in tanto opera il segreto, in quanto il contenuto illecito venga confidato per uno scopo lecito (es. dall’autore di un furto per una efficace difesa

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ufficio o della propria professione o arte47, e la rivelazione del medesimo è punita quando sia avvenuta senza giusta causa48, se dal fatto può derivare nocumento49. Ma, per quanto concerne la Chiesa cattolica cui particolarmente facciamo riferimento, al diritto statale unilaterale deve abbinarsi l’art. 4 n. 4 dell’Accordo di Villa Madama50 - reso esecutivo con la legge n. 121 del 25 marzo 198551 - per il quale gli «ecclesiastici non sono tenuti a dare a

processuale), poiché altrimenti il contenuto medesimo sarebbe appreso non per “ragione professionale”». 47 Da segnalare che pure i singoli ordinamenti professionali sanzionano in via disciplinare la violazione del segreto. 48 Ricordiamo che l’art. 622 C.P. punisce alternativamente la rivelazione senza giusta causa del segreto professionale e l’impiego di quest’ultimo a proprio o altrui profitto: le condotte tipizzate sono cioè due, «nonostante l’insufficienza della rubrica legislativa»: R. Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte speciale, Tomo II (artt. 453-623-bis), 4ª ed., Roma 2017, p. 782. 49 Commenta A. Bettetini, Abusi sessuali e segreto confessionale, cit., p. 40: «Il ministro di culto […] ha la facoltà di astenersi dal testimoniare su ciò che, senza costituire un segreto, abbia appreso a motivo del suo ufficio. Ma se è chiamato a riferire su fatti da lui conosciuti in via riservata, o addirittura a titolo di segreto, il ministro di culto ha l’obbligo di astenersi. Come peraltro è stato rilevato in dottrina, l’ecclesiastico se ha facoltà di astenersi dal rivelare all’autorità civile notizie apprese a motivo del suo ufficio, e ha l’obbligo di astenersi se tali notizie siano segrete o riservate, incorre nel reato di cui all’art. 622 cod. pen. ove riveli, senza giusta causa, un segreto, appreso per ragione del suo “stato o ufficio”, a profitto proprio o altrui, se da tale violazione possa derivare nocumento, ed è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516». Quanto alla possibilità del verificarsi di un nocumento ricordiamo che quest’ultimo va «inteso in senso lato come qualsiasi pregiudizio anche di natura non patrimoniale»: A. Ciancio, I delitti contro la inviolabilità dei segreti, in M. Riverditi (a cura di), Manuale di diritto penale. Parte generale e speciale, Milano 2017, p. 1231. 50 Per un esame - conciso ma con utili richiami - delle norme sul punto contenute negli accordi stipulati dalla Santa Sede con altri Paesi si vedano D. Cito, La protezione giuridica del sacramento della penitenza, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (a cura di), Il sacramento della penitenza, Milano 2010, p. 282 ss.; e A. Perlasca, La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero» come applicazione del principio della libertà religiosa, cit., pp. 295-296, segnatamente nelle note. 51 Una garanzia similare era contenuta nell’art. 7 del Concordato lateranense del 1929 che così recitava: «Gli ecclesiastici non possono essere richiesti da magistrati o da altra autorità a dare informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragioni del sacro ministero». Peraltro, come nota M. Chiavario, Confessioni religiose e processo penale: ulteriori appunti per un raffronto tra il Codice Rocco e il Codice vigente, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, LIV (2011), pp. 886-888, «sulla codificazione del 1930 [non] ebbe ad incidere in modo significativo l’esigenza di fare i conti con la sopravvenienza dei Patti lateranensi, e in particolare con quanto disposto dall’art. 7 del Concordato: sebbene questo sembrasse configurare una vera e

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero»52. Emerge immediatamente che l’ambito applicativo della previsione bilaterale si estende ben oltre la testimonianza, coprendo qualsivoglia contesto in cui si ponga un problema di richiesta-rivelazione di dati conoscitivi: si tratta invero di una norma che incastona un principio generale idoneo a

propria incompatibilità a testimoniare - o, se si vuole, un divieto di testimonianza correlato al divieto di porre domande - su quanto appreso nell’esercizio della funzione sacerdotale […], nell’art. 351 c.p.p. 1930 continuava infatti a leggersi […] un mero divieto di obbligare a testimoniare al riguardo (dunque legittimandosi, sì, il rifiuto del teste di fornire determinate notizie ma senza colpire con la nullità dell’atto o con altra sanzione l’eventuale scelta del teste stesso, di deporre anche su quanto potenzialmente coperto dal segreto). /Prima che, nell’Italia repubblicana, si completasse l’opera di una nuova codificazione processuale penale, interveniva, in questa materia, l’Accordo del 1984, nel quale risultava sì mantenuto, all’art. 4, il vincolo dello Stato italiano a una tutela del segreto, con riferimento alle “informazioni su persone o materie” delle quali “gli ecclesiastici…siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero”, ma veniva meno la parziale antinomia che anteriormente si poteva scorgere con la legislazione statale, giacché la fonte bilaterale si allineava alla previsione, anche per gli ecclesiastici, di un semplice esonero dall’obbligo di rendere informazioni del genere (“non sono tenuti…”), venendo meno, così, il precedente divieto di fornirle. /Anche la Santa Sede veniva dunque a non opporsi a che le autorità italiane - e in particolare quelle giudiziarie - potessero ricevere da ministri della religione cattolica testimonianze riguardanti notizie apprese nell’esercizio del loro ministero, purché rimanesse vietato, a quelle autorità, di limitare o condizionare la facoltà del teste di non rivelare notizie del genere». Per un confronto tra le due disposizioni concordatarie si veda anche M. Pisani, Il processo penale nelle modificazioni del Concordato tra Italia e Santa Sede, in AA.VV., Studi in memoria di Pietro Nuvolone, vol. II, Problemi penalistici di varia attualità. Studi di diritto fallimentare. Altri studi di diritto penale dell’economia, Milano 1991, p. 152 ss. Per un’illustrazione accurata delle origini e degli sviluppi della protezione assicurata dal diritto comune al segreto dei ministri di culto in Italia v. D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, cit., p. 100 ss. 52 Va ricordato che nelle Intese che lo Stato italiano ha concluso con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (legge 8 marzo 1989, n. 101), con la Chiesa Evangelica Luterana (legge 29 novembre 1995, n. 520), con la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa Meridionale (legge 30 luglio 2012, n. 126), con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (legge 30 luglio 2012, n. 127), con la Chiesa Apostolica in Italia (legge 30 luglio 2012, n. 128), con l’Unione Buddista Italiana (legge 31 dicembre 2012, n. 245), con l’Unione Induista Italiana Sanatana Dharma Samgha (legge 31 dicembre 2012, n. 246) e con l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai (legge 28 giugno 2016, n. 130) è prevista un’analoga garanzia per i ministri di culto delle menzionate confessioni religiose. Per un’analisi di tali norme (che presentano peraltro una differente redazione testuale) v. L. Leoncini, Aspetti di rilievo processuale penalistico nelle recenti intese tra lo Stato italiano e alcune confessioni religiose, cit., p. 975 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ricomprendere la generalità dei mezzi di prova ad oggi sussistenti, non meno di strumenti investigativi futuri resi disponibili dal progresso tecnologico53. Non volendo qui vergare un trattato scientifico su questo istituto al quale già altri hanno egregiamente provveduto54, ci limitiamo in questa sede ad alcune osservazioni propedeutiche alle considerazioni che intendiamo svolgere. Così, notiamo che tra le due prescrizioni, l’art. 200 C.P.P. e l’art. 4 n. 4 del Concordato del 1984 appena riportato55, si registrano varie consonanze: anzitutto «nel configurare il segreto del ministro di culto alla stregua di facoltà di astensione dal deporre anziché di divieto di deporre o di essere sottoposto ad esame - il che sgombra il campo da ogni dubbio sulla legittima utilizzabilità a fini di prova delle dichiarazioni che i titolari del predetto segreto […] rendano spontaneamente»56, mentre, viceversa l’abrogato art. 7 del Concordato del 1929 «si prestava ad una lettura più rigida, tale da configurare un radicale divieto di testimonianza»57. Ma, già prima facie, si notano divaricazioni testuali incisive sulle quali dottrina e giurisprudenza si sono sperimentate a lungo: ad esempio per raffrontare, quanto a ‘volume’ soggettivo, la qualifica di ‘ministri di confessioni religiose’, la quale compare nell’art. 200 del Codice di rito, e ‘ecclesiastici’ che è invece usata nell’art. 4 dell’Accordo di Villa Madama. Senza qui diffonderci sul diverbio per nulla accademico al fine di sincronizzare i contenuti dei due lemmi e sul quale altrove abbiamo indugiato58,

53 V. A. Licastro, I ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano, Milano 2005, p. 561 ss.; L. Leoncini, Aspetti di rilievo processuale penalistico nelle recenti intese tra lo Stato italiano e alcune confessioni religiose, cit., p. 986. 54 La principale letteratura sul tema è citata nel corso di questo lavoro. 55 Vale la pena ricordare, come del resto noto, che le norme di derivazione pattizia, data la loro collocazione nella gerarchia delle fonti e la loro efficacia formale che le rendono legittimamente modificabili solo con leggi precedute da accordi con le confessioni religiose, svolgono una funzione di garanzia contro ogni modifica che il legislatore volesse unilateralmente operare della disciplina contenuta nei Codici di Procedura Penale e Civile, modifica che rendesse quella disciplina eventualmente incompatibile con le norme appunto di derivazione pattizia. Si veda al proposito quanto rileveremo in seguito. 56 M. Deganello - B. Lavarini, Il segreto del ministro di culto come limite alla testimonianza penale, cit., pp. 1331-1332. 57 M. Deganello - B. Lavarini, Il segreto del ministro di culto come limite alla testimonianza penale, cit., p. 1331, nota 7. 58 V. G. Boni, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica e poteri autoritativi della magistratura italiana, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica (statoechiese.it), settembre 2007, p. 14 ss., ove un’illustrazione delle varie tesi

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 segnaliamo solo che resta tuttora conteso se, quanto alla Chiesa cattolica, godano dello ius tacendi, per così dire, esclusivamente i sacerdoti, ovvero anche tutti i chierici o i consacrati non ordinati in sacris, ed altresì alcuni laici, laddove investiti di certe ‘funzioni ministeriali’. Si conviene invece, non diversamente dagli altri segreti professionali, sul nesso di causalità che deve sussistere tra l’apprendimento della notizia su cui è chiamato a deporre l’ecclesiastico e l’esercizio del suo ministero: non sono, quindi, coperte da segreto le informazioni conosciute come comune cittadino o rivelate a puro titolo di amicizia, o percepite in modo del tutto occasionale e fortuito, oppure anche fornite al ministro al solo scopo di abusare fraudolentemente della garanzia del segreto. Sono poi significativi - soprattutto per ciò che osserveremo in seguito - ulteriori allineamenti alle altre ipotesi enumerate dall’art. 200 C.P.P. Si è infatti concluso che «già su un piano generale - a prescindere, quindi, dalla posizione specifica del ministro di culto - nessun limite al segreto professionale possa ravvisarsi nell’obbligo di denuncia posto dall’ordinamento a carico dei privati. In caso contrario, almeno fino all’introduzione dell’apposita esenzione di cui all’art. 334 bis c.p.c., risalente solo alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, perfino il difensore dell’imputato di un reato a ‘denuncia obbligatoria’ sarebbe stato paradossalmente costretto alla delazione del suo assistito, in totale dispregio del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Ne segue che il limite ex art. 200, comma 1, c.p.p. va circoscritto alle situazioni in cui il professionista, in quanto tale o in quanto qualificabile come pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, non in quanto quivis de populo, sia tenuto a riferire all’autorità giudiziaria»59: omnibus perpensis non

sostenute. Si veda anche ampiamente A. Licastro, I ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 512 ss. Comunque si può affermare che secondo una non irrisoria parte della dottrina entro il termine ‘ecclesiastici’ si possano ricomprendere anche i diaconi e i religiosi. 59 B. Lavarini, in M. Deganello - B. Lavarini, Il segreto del ministro di culto come limite alla testimonianza penale, cit., p. 1354; inoltre, come sempre sunteggia l’Autrice, «deve infine escludersi, sulla base dell’inequivoca lettera della legge, che il segreto riconosciuto al ministro di culto dall’art. 200 c.p.p. venga meno nei casi ex art. 204 c.p.p. Come è noto, secondo tale disposizione non possono essere oggetto “del segreto previsto dagli articoli 201, 202 e 203” - vale a dire del segreto d’ufficio, di stato o di polizia - “fatti, notizie o documenti previsti dagli articoli 285, 416 bis, 416 ter e 422 del codice penale”. La mancata estensione del limite de quo al segreto professionale - ivi compreso quello ‘religioso’ - deve dirsi frutto non di una svista del legislatore, ma del

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sembra pertanto che il segreto del ministro di culto possa trovare limiti in obblighi concernenti la notizia di reati60. Così come si può continuare ad opporre qualunque di questi segreti anche allorquando l’informazione sia divenuta di pubblico dominio61.

diverso bilanciamento che questi ha operato fra l’interesse dello Stato all’accertamento di taluni gravissimi reati e gli interessi tutelati dalla disciplina dei segreti: in questa prospettiva, ben si comprende come l’assoluta preminenza dei valori di rango costituzionale alla cui salvaguardia il segreto professionale è preposto - la libertà religiosa, il diritto di difesa, il diritto alla salute - ne abbia impedito la postergazione all’esigenza di perseguire qualsivoglia reato» (ivi, p. 1356). 60 Cfr. al riguardo A. Perlasca, La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero» come applicazione del principio della libertà religiosa, cit., pp. 301-302: «La questione si è complicata giacché l’attuale art. 200 c.p.p. esclude la facoltà di astensione dal testimoniare per “tutti i soggetti elencati nella disposizione”, in tutti i casi in cui essi hanno l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria. Ora, il solo obbligo “di riferire all’autorità giudiziaria” che in teoria dovrebbe gravare sul ministro di culto è quello della denuncia obbligatoria di reato (art. 364 c.p.). La dottrina tuttavia ritiene giustamente che il segreto professionale possa giustificare il fatto contemplato nell’art. 364 (omessa denuncia di reato da parte dei cittadini), perché se esso autorizza l’astensione dalla testimonianza a fortiori legittima la mancata denuncia. Attualmente si ritiene che la qualità di ministri di culto non importa, in riferimento all’esercizio delle funzioni religiose e spirituali, né l’esercizio di “pubblica funzione” (cf art. 357 c.p.p.) né l’esercizio di “pubblico servizio” (cf art. 358 c.p.p.), anche se, per esempio, nella celebrazione del matrimonio concordatario, c’è l’esercizio di una pubblica funzione ai sensi dell’art. 357, 2° comma c.p. D’altro canto, egli non è tenuto a fare rapporto all’autorità giudiziaria neppure di eventuali “reati” di cui sia venuto a conoscenza in tale occasione, poiché la funzione di pubblico ufficiale da parte del ministro di culto appare in ogni caso collegata al compimento di attività che, pur avendo qualche rilevanza per l’ordinamento statuale, sono accessorie rispetto all’insieme delle attività ministeriali delle quali solo il ministro di culto è investito in modo diretto e immediato». Si veda pure A. Licastro, Indagini giudiziarie e ministero pastorale, cit., pp. 528-530, che conclude: «Pertanto, la riserva “salvi i casi ecc…” dell’art. 200, primo co., c.p.p., in quanto riferita ai ministri delle confessioni religiose, non sembra possa avere pratica rilevanza». Per ulteriori approfondimenti circa le questioni accennate rinviamo a G. Boni, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica e poteri autoritativi della magistratura italiana, cit., p. 23 ss., anche nelle note. 61 Sintetizza B. Lavarini, in M. Deganello - B. Lavarini, Il segreto del ministro di culto come limite alla testimonianza penale, cit., p. 1355: «Premesso che né l’art. 200 c.p.p., né le disposizioni pattizie in tema di segreto ‘ministeriale’ condizionano espressamente la facoltà di non deporre alla ‘non notorietà’ della notizia, la soluzione contraria alla sussistenza di siffatto limite trova, a nostro parere, un preciso riscontro nell’art. 195, comma 6 c.p.p. Tale disposizione, ad evitare che la disciplina del segreto professionale possa venire elusa, vieta la testimonianza indiretta sui fatti che un terzo abbia appreso dalle persone elencate nell’art. 200 c.p.p., con la sola eccezione del caso in cui queste ultime “abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati”. Se ne ricava che, quando i fatti de quibus siano divenuti noti per vie diverse dalla divulgazione ad opera del titolare del segreto, il divieto di testimonianza indiretta

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Rimarchevole - e, nella prospettiva qui perlustrata, cruciale - la divergenza insorgente, per contro, dal tenore del secondo comma dell’art. 200 C.P.P. secondo cui «Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga»62: previsione assente nella revisione del Concordato lateranense firmata al termine di prolungate e laboriose trattative (e così anche in varie intese concluse, ex art. 8 terzo comma della Costituzione, con altre confessioni religiose63). Non ci si diffonderà ora sulla diatriba che ha visto il discostarsi ed anzi il moltiplicarsi delle opinioni dottrinali. Nonostante personalmente siamo dell’avviso che il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit ricopra un calibro interpretativo assai accentuato in specie nelle stipulazioni bilaterali quali quelle concordatarie64, e senza voler accedere seccamente alla tesi - invero non affatto peregrina ed

persiste: ciò non potrebbe spiegarsi se non sul presupposto che nella medesima situazione persista anche la facoltà del teste diretto - nel nostro caso del ministro di culto - di opporre il segreto». 62 Segnaliamo qui che, a differenza del secondo comma dell’art. 200 C.P.P., il secondo comma dell’art. 256 dello stesso Codice autorizza, in caso di dubbio, l’autorità giudiziaria ad effettuare il controllo sulla fondatezza della dichiarazione del testimone, solo se «ritiene di non potere procedere senza acquisire gli atti, i documenti o le cose» che sarebbero coperti dal segreto professionale. 63 V. D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, cit., p. 178 ss.; L. Leoncini, Aspetti di rilievo processuale penalistico nelle recenti intese tra lo Stato italiano e alcune confessioni religiose, cit., p. 984. 64 Questo almeno teoricamente. Ed infatti tale principio è stato adoperato, ad esempio, per sostenere la fine della riserva di giurisdizione ecclesiastica sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari, invocando il n. 1 dell’art. 13 dell’Accordo di Villa Madama secondo cui «[…] le disposizioni del Concordato stesso non riprodotte nel presente testo sono abrogate» (v. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 13 febbraio 1993, n. 1824, in Il diritto ecclesiastico, CIII [1992], II, p. 315 ss.). Ovviamente ciò non toglie che talora il linguaggio possa essere (anche volutamente) ambiguo. A. Licastro, Indagini giudiziarie e ministero pastorale, cit., pp. 534-535, proprio confutando interpretazioni dell’art. 4 n. 4 dell’Accordo di Villa Madama basate sulla sua lettera, addirittura opina: «Non sembra per la verità prudente fondare interpretazioni così rigorose su testi che, come quelli dei concordati e dei trattati internazionali in genere, sono notoriamente caratterizzati da una notevole imprecisione e da uno scarso scrupolo linguistico». Per contro A. Perlasca, La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero» come applicazione del principio della libertà religiosa, cit., p. 298, sostiene: «proprio l’aspetto della “bilateralità” dovrebbe conferire, su punti così specifici, quella precisione e quel rigore terminologico che non si può ragionevolmente richiedere a un legislatore “laico”, qual è quello statale».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 avventata - per la quale la normativa di derivazione pattizia come legislazione ‘rinforzata’65, oltre che lex in qualche modo specialis66 contenente precetti ad hoc67, faccia aggio su quella unilaterale ordinaria attribuendo all’ecclesiastico una facoltà ‘assoluta’ dispensata da ogni supervisione, riteniamo peraltro che almeno si possa dar credito alla posizione più ‘moderata’, patrocinata da cospicua parte della dottrina ecclesiasticistica. Si obietta infatti che «La prevalenza legittimamente riconosciuta al diritto pattizio nei rapporti tra fonti di produzione unilaterale e bilaterale non sembra […] tale da impedire all’atto dell’applicazione della norma nell’ordinamento dello Stato l’esercizio da parte dell’autorità competente di quel minimo di controlli necessari a stabilire se ricorrano effettivamente i presupposti su cui si fonda la fattispecie invocata. Esame da limitarsi ovviamente a circostanze esteriori senza incorrere in valutazioni di merito inevitabilmente lesive dell’indipendenza e dell’autonomia confessionale»68. In questa visuale i

65 V., per tutti, G. Dalla Torre, Lezioni di diritto ecclesiastico, 6ª ed., Torino 2019, p. 126. 66 Si vedano peraltro alcune obiezioni di A. Licastro, Indagini giudiziarie e ministero pastorale, cit., p. 532. 67 Cfr. G. Casuscelli, Il caso del «calciatore pentito» ed il segreto confessionale, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XVIII (2001), 3, p. 1013, che distingue tra il diritto ‘comune’ del Codice di rito e «le norme “speciali”, sia antecedenti sia successive», e prosegue: «La norma pattizia […] riconosce e garantisce agli ecclesiastici la facoltà “assoluta” di astenersi dal dare informazioni. Infatti non è prevista alcuna possibilità di sindacato (da parte di “magistrati” o di “altra autorità”) della relativa dichiarazione, in deroga alla normativa “comune” in vigore. /L’interprete non può trascurare, al riguardo, che la norma pattizia (a differenza di quanto, in materie diverse, fanno altre disposizioni dello stesso Accordo o del Protocollo addizionale) non contiene alcun riferimento, diretto o indiretto, al diritto comune ed in ispecie alla disciplina della testimonianza dell’allora vigente codice di procedura penale del 1930, e del codice di procedura civile del 1940, risultandone così accentuato il carattere di specialità della disciplina. […] /Di conseguenza, sembra corretto e coerente dedurre che le disposizioni di cui al secondo comma dell’art. 200 e dell’art. 256 C.P.P., in ordine al potere del giudice di accertare la non infondatezza della dichiarazione del ministro di culto che intende avvalersi del segreto, costituiscono diritto comune applicabile ai ministri appartenenti a confessioni che (i) non abbiano disciplinato i loro rapporti con lo Stato attraverso strumenti pattizi, ovvero che (ii) pur avendo concluso accordi secondo la procedura di cui al secondo comma dell’art. 7 Cost. o al terzo comma dell’art. 8 Cost., non abbiano espressamente convenuto una disciplina speciale al riguardo, ma non applicabile agli ecclesiastici appartenenti alla Chiesa cattolica (ed ai ministri di culto delle Comunità ebraiche e della Chiesa evangelica luterana)». 68 D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, cit., p. 186.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 poteri di sindacato esplicabili da parte del magistrato statuale dovrebbero eminentemente vertere - assodato il possesso della qualifica de qua - sul «semplice accertamento del nesso causale tra apprendimento della notizia ed esercizio della professione»69: e sempre con cautela e prudenza per non debordare in immistioni nell’organizzazione interna, segnatamente della Chiesa cattolica, le quali, tra l’altro, sarebbero in flagrante contraddizione con quanto suggellato dalla Costituzione70. Una voce certo non imputabile di accondiscendenza nei confronti delle autorità ecclesiastiche ha puntualizzato che le «differenze […] tra esercizio delle professioni ed esercizio del ministero sacerdotale inducono a ritenere quanto meno doveroso (sul piano del diritto) un self restraint dei poteri del giudice chiamato a quell’apprezzamento, di modo che la norma sia interpretata ed applicata in modo quanto più conforme possibile alla ratio ed alla disposizione della norma pattizia»71. Ma anche altra dottrina, sul presupposto che la norma imponente il controllo di fondatezza da parte del giudice, «dovendo coinvolgere i requisiti fondanti la tutela del segreto onde poterne valutare la concreta sussistenza, va a toccare aspetti prettamente interni alla confessione

69 A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XXXIII (2016), 3, p. 910, nota 13. 70 Cfr. M. Chiavario, Confessioni religiose e processo penale: ulteriori appunti per un raffronto tra il Codice Rocco e il Codice vigente, cit., pp. 894-896: «È vero infatti che - tanto più per non essere la garanzia limitata al solo segreto “sacramentale”, in quanto esso si estende palesemente anche ad altre notizie “riservate” di cui tali soggetti possono essere depositari - non possono escludersi abusi, nell’opporre l’eccezione di segretezza, neppure da parte di costoro, ove la invochino al di fuori di quel “preciso nesso di causalità” che dovrebbe sempre sussistere “tra l’informazione pervenuta e l’esercizio del ministero”; tuttavia - e fermo restando che una fin de non recevoir debba colpire l’eccezione eventualmente opposta da ecclesiastici “per quanto…abbiano appreso non in tale veste, ma quali comuni cittadini o come amici” - è altrettanto innegabile che in certe situazioni l’accertamento, da parte del giudice statale, dell’“infondatezza” dell’opposizione di segretezza può trasformarsi in un penetrante sindacato sull’organizzazione interna della Chiesa cattolica; e ci si può domandare se ciò sia in linea con quanto risulta dall’art. 7 Cost., che indica la Chiesa stessa come un Ente che lo Stato italiano […] riconosce “nel proprio ordine, indipendente e sovrano”. Qualche recente applicazione della norma dimostra d’altronde che il problema non è meramente teorico, senza che sia facile, pure sotto questo profilo, trovare una soluzione equilibrata, al di là dei forse ovvi (ma non dirimenti) consigli di self restraint che il buon senso parrebbe suggerire, per un verso a chi è legittimato ad opporre tale tipo di segreto, per altro verso a chi deve verificarne la pertinenza». 71 G. Casuscelli, Il caso del «calciatore pentito» ed il segreto confessionale, cit., p. 1026.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 religiosa»72, osserva come anche a prescindere dalle disposizioni pattizie, «- e quindi, per ipotesi, anche qualora non fosse stata approvata alcuna intesa e non vigesse un Concordato con la Chiesa cattolica - [sia] evidente che essa si pone in termini di difficile conciliabilità con il principio di autonomia confessionale sancito dall’art. 7 co. 1 e dall’art. 8 co. 2 Cost. nella misura in cui consente ad autorità statali di sindacare profili intrinsecamente connessi alle regole proprie dei diversi gruppi religiosi. Nel tentativo di risolvere la quaestio, si tende diffusamente a sostenere che il controllo giudiziale debba limitarsi a dati estrinseci e minimali, circoscritti alle circostanze di fatto in cui è stata appresa la notizia»73. D’altro canto, gli stessi processualpenalisti, e significativamente in rapporto a tutti i segreti professionali senza distinzioni, sono propensi - come ancora vedremo - a porre insormontabili barriere al suddetto potere di sindacato dei giudici, il quale dovrebbe concretarsi, oltre al controllo che il soggetto rientri nelle categorie previste, nella sola valutazione della causalità ovvero della connessione funzionale della conoscenza con lo svolgimento di una professione o di un ministero74: «Le esigenze di tutela dei diritti di libertà che sono richiesti nello svolgimento delle professioni contemplate dall’art. 200 c.p.p., infatti, conducono a ritenere che la decisione di cui si tratta sia lasciata alla discrezionalità - eventualmente vincolata dalle norme dell’ordinamento alle quali il soggetto appartiene - del testimone il quale dovrà interrogare la sua coscienza per stabilire quale sia, nel caso concreto, il comportamento più adeguato da serbare»75. Ciò che vale per tutti non può perciò non valere, in riferimento

72 L. Leoncini, Aspetti di rilievo processuale penalistico nelle recenti intese tra lo Stato italiano e alcune confessioni religiose, cit., p. 980. 73 L. Leoncini, Aspetti di rilievo processuale penalistico nelle recenti intese tra lo Stato italiano e alcune confessioni religiose, cit., p. 980. L’Autrice si sofferma altresì sull’ambito in cui può legittimamente esplicarsi la facoltà di astensione (che identifica «in tutte le fasi dell’iter processuale, a partire dalle attività di indagine»: ivi, p. 981), nonché sul dibattito se la verifica di fondatezza «possa essere adempiuta da soggetti diversi dall’organo giudicante. In generale si dà risposta affermativa per la pubblica accusa, essendo pure essa un’autorità giudiziaria […]. Più controverse le opinioni riguardo alla polizia giudiziaria». 74 Rinviamo, per tutti, alla trattazione di A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., specialmente p. 116 ss., p. 171 ss., con indicazione di ulteriore letteratura. 75 A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., pp. 185-188, che prosegue: «Costui […] potrebbe decidere di deporre qualora l’interesse rivestito dalla sua dichiarazione gli apparisse soverchiante; lo scioglimento del vincolo di segretezza

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 a ciò che abbia appreso ‘per ragione del proprio ministero’, per il ministro del culto: e forse a maggior ragione stante, oltre ai principi costituzionali, il disposto concordatario, il quale non può comunque eclissarsi tamquam non esset. A questo riguardo è inoltre del tutto pacifico - e non da oggi76 - che non potrà operarsi, nel contesto del processo statale, distinzione alcuna tra notizie apprese in occasione della confessione sacramentale e altre pure

fattogli da parte dell’autore della confidenza ovvero la notorietà nel frattempo assunta dalla notizia potrebbero sembrargli buone ragioni per deporre; ma in nessun caso tali eventi potrebbero rappresentare cause idonee a far cessare l’esenzione dall’obbligo testimoniale e dunque per giustificare una testimonianza coatta. /Inoltre il professionista o il ministro del culto che decida di avvalersi dello ius tacendi, non devono nemmeno giustificare o spiegare le ragioni della loro scelta, dovendosi limitare a richiamare l’esistenza di una delle relazioni protette dall’art. 200 c.p.p. ed il giudice, in forza di quanto osservato, non potrà sostituirsi al soggetto qualificato in ordine alla convenienza o meno della decisione assunta. Certamente, la decisione del titolare del segreto, in taluni casi, potrà apparire non conforme ai principi etici e deontologici da rispettare, unitamente al segreto, nello svolgimento della sua professione. Le decisioni del soggetto qualificato potrebbero risultare motivate da ragioni non commendevoli e tutto ciò non è privo di rilievo. La scelta se deporre o meno, infatti, implica una responsabilità, sia quando il testimone avrebbe dovuto astenersi, ma anche qualora non ricorrano ragioni per non deporre e ciò non impedisce al giudice di segnalare ai competenti organi disciplinari il comportamento censurabile del teste. In ogni caso, tutto questo non potrà costituire motivo per imporre una testimonianza che dipende solo dalla scelta del depositario del segreto. /Il giudice, inoltre, non potrà nemmeno svolgere apprezzamenti in merito alle conseguenze processuali derivanti dall’eccepito segreto anche nell’ipotesi in cui non sussistessero altri strumenti probatori per veicolare nel processo un determinato fatto. Gli unici veri spazi di accertamento che sono demandati al giudice […] sono quelli che riguardano la titolarità da parte del testimone di uno status giuridico che gli consente di potersi avvalere della speciale causa di esenzione dall’obbligo di deposizione nonché la causalità dell’apprensione della notizia con lo svolgimento della professione o del ministero. […] /Al di fuori di tali ambiti […] l’eccezione del segreto professionale sarà insindacabile ed al giudice non resterà che prenderne atto». 76 Come ricorda M. Pisani, Il processo penale nelle modificazioni del Concordato tra Italia e Santa Sede, cit., p. 149, il concetto era pacifico anche durante la vigenza del Codice di Procedura Penale del 1913 «- che, tra l’altro, per la prima volta nella nostra storia unitaria aveva previsto, in tema di testimonianza, una disciplina specifica inerente ai ministri di culto -, il cui art. 248 parificava tutti i ministri medesimi, sempre che si trattasse di “culto ammesso nello Stato”. E va da sé che, in quella norma, l’oggetto tutelato dell’apprendimento da parte del ministro di culto non poteva sicuramente essere (soltanto) quello del segreto sacramentale, per la buona ragione che il sacramento della confessione era ed è ignoto alle religioni - pur correlative a “culti ammessi nello Stato” - diverse dalla religione cattolica». V. G. Dalla Torre, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., p. 142.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ascrivibili al ministero77, essendo la norma del Codice di Procedura Penale rivolta ai ministri di tutte le confessioni religiose e non unicamente della Chiesa cattolica, alla quale, pressoché esclusivamente, pertiene il sigillum confessionis. Ad essa non potrebbe quindi essere riservato un trattamento deteriore, concedendo garanzie da invasioni indebite solo ad un ‘tipo’ di segreto alquanto più ‘angusto’ rispetto a quello salvaguardato per le altre confessioni: un rilievo, questo, dirimente e che, come suole dirsi, ‘taglia la testa al toro’, benché, come constateremo partitamente in seguito, riemergano - sia pur surrettiziamente - tentativi di porlo nel nulla. Infine, l’‘ecclesiastico’, come già emerso, tenuto a comparire se regolarmente citato, è, come del resto gli altri professionisti, facultato ma non obbligato78, sul piano del contegno processuale, a tacere sempre le

77 Certo quanto appreso durante la confessione sacramentale dovrebbe essere incontestabilmente ricompreso nel ‘ministero’. A. Perlasca, La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero» come applicazione del principio della libertà religiosa, cit., pp. 297-298, pur asserendo che «Di fatto, nulla lascia supporre che la legge statale voglia limitare la propria tutela solo alle notizie ricevute durante la confessione sacramentale. Anzi vi sono precisi argomenti in contrario», tuttavia distingue: «Mentre nel caso del sacerdote, per quanto riguarda la materia che ricade sotto il sigillo sacramentale, in forza dell’art. 4 n. 4 dell’Accordo, il giudice non può esercitare nessun tipo di sindacato, ma deve semplicemente prendere atto della decisione del sacerdote di non riferire su quegli argomenti, negli altri casi, primo fra tutti quello del religioso (non sacerdote) il giudice deve verificare che l’attività svolta dal religioso sia una delle attività istituzionali dell’Ordine, nonché l’esistenza del nesso di causalità tra l’attività svolta e la notizia ricevuta. Cosa, quest’ultima, che dovrà essere fatta anche nel caso del sacerdote, qualora si tratti di materia non coperta dal sigillo sacramentale, ma di notizie confidenziali ricevute, tuttavia, nell’esercizio del ministero. Al di fuori dell’ambito della confessione sacramentale, riteniamo che tanto il sacerdote quanto il religioso si trovino, di fronte alla legge dello Stato, almeno nella stessa condizione di qualsiasi altro professionista». 78 Come tra l’altro ricorda A. Licastro, Indagini giudiziarie e ministero pastorale, cit., p. 526, «L’affermazione secondo cui il ministro di culto “quando sia chiamato a riferire su fatti da lui conosciuti in via riservata o addirittura a titolo di segreto…ha l’obbligo di astenersi” e non già una semplice facoltà lascia notevolmente perplessi qualora sia riferita - come parrebbe che si supponga - ad una valutazione di inammissibilità della prova. Al contrario, l’inutilizzabilità della prova che sanziona l’inosservanza dell’art. 200 cit. (come la nullità prevista dal vecchio art. 351 cit.), presuppone che il testimone abbia dichiarato di volersi astenere e, ciò nonostante, l’autorità procedente lo abbia obbligato a deporre senza avere compiuto preventivamente gli accertamenti sulla fondatezza della dichiarazione: fuori da questa ipotesi non vi è spazio per eccezioni di invalidità della prova»; inoltre, qualora il ministro di culto, «pur avendo invocato la facoltà di astensione, sia costretto a deporre e la sua deposizione sia falsa o reticente, non è punibile per il reato di cui all’art. 372 c.p., trovando applicazione la scriminante speciale prevista dal sec. co. dell’art. 384 c.p. che, in riferimento agli artt. 372 e 373,

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 informazioni apprese: potrebbe appunto decidere, e sempre secondo la propria coscienza, di non allegare il segreto e di non astenersi dal deporre, prestando volontariamente testimonianza. Questo nonostante l’obbligo del segreto da cui è astretto ex art. 622 del Codice Penale di cui il loquens sua sponte, per così dire, dovrà eventualmente rispondere79 (come del resto della veridicità di quanto afferma)80 ma «con una sfera di

esclude la punibilità “se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe potuto essere assunto come testimone”» (ivi, p. 518). 79 Sintetizza A. Lago, Dei delitti contro la persona, 622. Rivelazione di segreto professionale, cit., p. 708: «Dubbio è se sia scriminata da giusta causa la rivelazione del segreto da parte del professionista nel corso di una deposizione testimoniale resa ai sensi dell’art. 200 c.p.p.: un primo orientamento afferma che la testimonianza nel processo penale integra sempre una “giusta causa” di rivelazione non potendo l’ordinamento contraddirsi, come invece accadrebbe se da un lato autorizzasse il soggetto a rinunciare alla facoltà (art. 200) e dall’altro lo sanzionasse […]; un diverso orientamento ammette la configurabilità del reato tutte le volte in cui il professionista, scegliendo di deporre, abbia finito per ledere l’altrui diritto alla salvaguardia del segreto [ (…) a favore di questa soluzione milita il Codice deontologico forense, secondo cui l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto]. Non manca infine chi limita la configurabilità del reato alle ipotesi in cui il teste, nel rendere la testimonianza, abbia aggiunto particolari non richiesti dal giudice». Inoltre «Si è osservato che la giusta causa della rivelazione può consistere nel consenso o nella ratifica da parte del titolare del segreto (essendo l’interesse tutelato con la disposizione disponibile da parte di quest’ultimo)», tuttavia «L’impostazione restrittiva o estensiva riguardo alla nozione di giusta causa ha rilievo in ordine ai limiti dell’operatività del consenso. I fautori della tesi estensiva infatti attribuiscono in ogni caso, trattandosi di segreti privati, rilievo scriminante al consenso alla rivelazione prestato dal titolare (o da tutti i titolari del segreto) o alla sua ratifica successiva […]. Altra dottrina, nell’ottica dell’operatività delle scriminanti codificate, ha, invece, precisato che in nessun caso il consenso può valere a scriminare una rivelazione idonea a vulnerare diritti finali indisponibili, quali la vita, l’incolumità o la libertà personale […] Tale conclusione appare avvalorata dalla norma processuale dell’art. 200 c.p.p. che facoltizza determinate categorie di professionisti o di persone che versano in certe situazioni personali […] a non rendere testimonianza nel processo penale su quanto abbiano appreso in ragione della loro professione o status: poiché nella valutazione legislativa degli interessi in conflitto il dovere di non rivelare il segreto professionale prevale rispetto all’interesse processuale pubblico sotteso alle regole di acquisizione probatoria, trattasi evidentemente di ipotesi generale in cui nemmeno l’autorizzazione dell’interessato può valere come giusta causa rispetto all’eventuale rivelazione da parte del professionista in sede testimoniale»: R. Gargiulo, Sub art. 622, cit., pp. 1604-1605. 80 Spiega A. Perlasca, La tutela civile e penale delle «notizie» apprese «per ragione del proprio ministero» come applicazione del principio della libertà religiosa, cit., p. 293: «Se il professionista si inducesse a deporre ledendo i segreti altrui, in quanto non assistito da una giusta causa di rivelazione, ciò non ha importanza per quanto attiene al processo nel quale egli è entrato a far parte in qualità di teste, nel senso che il giudice

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 applicazione […] destinata, secondo l’opinione preferibile, a non incidere direttamente sulla validità dell’atto processuale compiuto in sua violazione»81: e nonostante, nel caso particolare, i doveri di silenzio e riservatezza imposti dal diritto dell’ordinamento confessionale, quindi dallo ius canonicum, la cui rilevanza resta peraltro confinata entro il medesimo82.

4. Segue: …con particolare riferimento agli interessi tutelati, tra ordinamento canonico e ordinamento italiano

Ma, al di là degli incisivi parallelismi pur tra disparità redazionali con correlate dissonanze disciplinari, l’affiancarsi della prescrizione concordataria al diritto processuale italiano ci pare debba precipuamente riflettersi sulla focalizzazione dell’interesse sul quale il segreto ministeriale può e deve vigilare e che deve incentivare. Anzi, questa è

può servirsi di tale deposizione per fondare la propria decisione e motivarla. L’art. 200 nuovo c.p.p., di fatto, ha lasciato cadere l’inciso “a pena di nullità” contenuto nell’art. 351 c.p.p. del 1930. Tuttavia, il professionista, pur avendo agito in conformità con l’ordinamento processuale, non ha però agito in modo conforme al diritto materiale e contro di lui può ben essere posta querela ai sensi dell’art. 622 c.p. /Sul piano del diritto sostantivo consegue pertanto che il professionista che svela un segreto come testimone non può, a sua giustificazione, addurre senz’altro che si tratta di deposizione innanzi all’autorità giudiziaria, perché il dovere testimoniale del professionista cede, sia pure in modo diverso nel processo penale o civile, di fronte al dovere del segreto sanzionato nel diritto sostanziale. E poiché la norma posta dal diritto processuale lascia ogni decisione allo stesso professionista, toccherà sempre a costui decidere se intende o non deporre, tenuto conto dei suoi obblighi extra-processuali attinenti al segreto». Sempre sull’efficacia scriminante del consenso di chi ha affidato il segreto si veda quanto annotava E. Battaglini, Il «sigillum confessionis» nel processo penale, in La giustizia penale, LIX (1954), segnatamente c. 300 ss., il quale peraltro illustrava tesi risalenti ora abbandonate. V. altresì F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, 11ª ed., aggiornamento a cura di A. Bettetini - G. Lo Castro, Bologna 2012, p. 413. Per una ricostruzione generale dei rapporti tra tutela penale e tutela processuale del segreto professionale e poi con particolare riferimento al segreto del ministro di culto si veda D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, cit., rispettivamente p. 109 ss., p. 122 ss.; v. anche le interessanti considerazioni svolte specialmente a p. 132 ss., a proposito di una possibile esimente del ministro di culto che rivela il segreto. 81 A. Licastro, Ancora in tema di segreto professionale del «giudice» ecclesiastico (osservazioni a Cass. pen., Sez. V, sent. 12 marzo 2004, n. 22827), in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XXI (2004), 3, p. 795. 82 V. peraltro quanto annotavamo in G. Boni, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica e poteri autoritativi della magistratura italiana, cit., p. 66 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 probabilmente la ragione prima che ne ha determinato l’ascrizione - certo non superflua e ad pompam - nel corpus delle pattuizioni tra Italia e Santa Sede. Generalmente infatti, almeno finora83 - ed anche qui ci esoneriamo da un più esauriente esame, rinviando alla letteratura citata nelle note -, e salvo quanto più oltre rileveremo, la ratio che sorregge le forme di tutela del segreto professionale incluse nel Codice di rito viene fatta riposare sul beneficio del singolo individuo, in virtù altresì di una colleganza col diritto sostanziale di cui al ricordato art. 622 C.P.84: questi sarebbe ‘costretto’ a confidarsi per fruire di servizi professionali specializzati contrassegnati (oltre che da una certa ‘tecnicalità’) da un rapporto schiettamente e strettamente fiduciario e insurrogabili per la realizzazione di sue libertà e di suoi diritti corredati dell’intangibile guarentigia predisposta direttamente dalla Costituzione85. Tuttavia tale angolatura, pur dilatata, risulta parziale, ristretta e, in definitiva, incoerente se si trapassa al piano dei contatti interordinamentali. Qui la disposizione concordataria richiama la duplice afferenza e la duplice portata dell’operato del ministro di culto: nell’ordinamento italiano e in quello della Chiesa cattolica, i cui tratti di ‘indipendenza’ e ‘sovranità’ riconosciuti dal primo comma dell’art. 7 della Costituzione, sono confermati, tra l’altro, dalla firma di un trattato internazionale; abbiamo altrove abbondantemente setacciato e soppesato gli equilibri di

83 Sulle ragioni che invece stanno alle origini della tutela del segreto professionale del medico e dell’esercitante la professione forense, segnatamente con riguardo agli interessi protetti che ne sono alla base, v. la sintesi di R. Gerardi, Una questione di etica non di “etichetta”, in Etica per le professioni, VI (2004), p. 27 ss. 84 Cfr. A. Lago, Dei delitti contro la persona, 622. Rivelazione di segreto professionale, cit., p. 700: «L’art. 622 tutela il segreto professionale inteso quale interesse del singolo alla “libertà e sicurezza dei rapporti intimi professionali, determinati da necessità o quasi necessità di ricorrere alle prestazioni di categorie di soggetti, qualificati per la cura di una molteplicità di suoi interessi”. […] Nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza, sottolineando come la ratio incriminatrice consiste nella tutela della libertà e della sicurezza del singolo». 85 Cfr. A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., p. 912, che aggiunge: «La facoltà prevista dalla disposizione, in definitiva, si può dire concessa a favore del depositario del segreto solo nel senso che serve a consentirgli il mantenimento del segreto stesso, esentandolo dal dovere generale di collaborare con l’autorità giudiziaria attraverso la deposizione testimoniale».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 tale ‘coesistenza’ e qui sorvoliamo86. Va ora ribadito come la facoltà concessa dal suddetto art. 4 n. 4, acconciamente inquadrata in questo contesto, «miri a salvaguardare in primo luogo e direttamente il ministro di culto, affinché egli sia messo in condizione di rispettare quei precetti confessionali che circondano di garanzie di assoluta riservatezza il compimento di determinati atti di culto (confessione sacramentale) e di compiere liberamente atti che implicano, per loro natura, margini piuttosto ampi di autonomia e non ingerenza da parte dei poteri statali»87. Pertanto, all’interesse di colui che si è confidato si aggiunge e si integra quello del soggetto ‘esponenziale’ che all’ordinamento confessionale ‘pertiene’ ed a cui, per così dire, ‘risponde’. Non solo però. Riteniamo infatti che valga la pena in qualche modo avviare, più che un superamento, un’integrazione di tale lettura cui è giunta la riflessione dottrinale e che è ormai acquisita88, al fine di porre in luce come l’oggetto della tutela possa e debba eccedere ed oltrepassare anche questo aspetto, pure non secondario ma sempre individuale, per sfociare nella considerazione di un interesse che involge la Chiesa tutta, e non soltanto (anzi non tanto) nel suo aspetto gerarchico, al contrario altresì proprio della Chiesa come populus Dei: un interesse, cioè, di ogni fedele (e non unicamente89) ma, senza alcuna antinomia, insieme condiviso da tutti gli

86 V. G. Boni, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica e poteri autoritativi della magistratura italiana, cit., già dalla p. 1 ss. 87 A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., pp. 912-913. V. anche le considerazioni del tutto condivisibili di O. Fumagalli Carulli, Società civile e società religiosa di fronte al Concordato, Milano 1980, p. 266 ss. 88 Sull’interesse anche del ministro di culto nonché della confessione religiosa v. l’ampia trattazione di D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, cit., specialmente p. 124 ss. 89 Riassume riguardo al sigillo sacramentale L. Gerosa, Segreto confessionale e diritto- dovere dei ministri del culto di astenersi dal deporre in processi penali. Brevi annotazioni canonistiche, in Rivista teologica di Lugano, X (2005), p. 266: «è dunque un segreto assoluto, vincolante anche quando l’assoluzione fosse rinviata o non impartita, oppure la confessione risultasse invalida perché ad esempio il penitente non è battezzato. Come tale questo segreto non riguarda solo i credenti e non tutela un interesse esclusivamente privato, bensì pubblico ed è perciò assolutamente inviolabile». Inoltre, come vedremo, è tutelata dal diritto canonico la riservatezza delle confidenze fatte a un ecclesiastico e «a tale ufficio può accedere qualsiasi persona […], cattolico o di altra confessione cristiana, non cristiano o ateo che sia» (ivi, p. 270).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 appartenenti alla compagine ecclesiale, in quella comunionalità che disegna la fisionomia indelebile della societas baptizatorum. Ci pare sia proprio su questo sfondo che debba appropriatamente incastonarsi la protezione, rigorosamente intrasgredibile nell’ordinamento canonico, del sacramentale sigillum; e, ad un livello certamente diverso rispetto ad esso intra Ecclesiam ma tutt’altro che irrisoriamente intra Statum, la protezione di altre esigenze di riservatezza afferenti ai rapporti personalissimi e irripetibili tra i membri della Chiesa e i loro pastori. Esigenze che l’ordinamento ecclesiale circonda con una serie di norme: a partire proprio dal sigillo sacramentale che è inviolabile, come recita il can. 983 § 1, pertanto non è assolutamente lecito - «nefas est»90 - al confessore rendere noto anche solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo e per qualsiasi causa; quanto poi al contenuto del sigillo, esso ricomprende «tutti i peccati sia del penitente

90 Cfr. P. Ferrari Da Passano, Il segreto confessionale, in La civiltà cattolica, CXLIV (1993), IV, pp. 362-363, che riepiloga una dottrina consolidata: «il termine nefas […] indica relazione con Dio. La spiegazione è comprensibile: l’accusa dei propri peccati si fa materialmente davanti al sacerdote confessore, ma chi riceve la confessione e dà il perdono è Dio stesso. Tutto ciò che accade durante il sacramento avviene al cospetto di Dio, sia pure attraverso la mediazione della Chiesa rappresentata dal confessore, e la Chiesa non ritiene di avere il potere di aprire questo “foro divino” e quindi di dispensare dal divieto. Il segreto al quale invece sono tenuti l’interprete e gli altri soggetti, per qualunque via informati di materia proveniente dalla confessione, secondo la dottrina troverebbe il suo fondamento nel diritto naturale e sarebbe rafforzato da una legge ecclesiastica». Per una trattazione del sigillo sacramentale dal punto di vista teologico e dogmatico v. K. Nykiel, Il sigillo confessionale in prospettiva canonica, in K. Nykiel - P. Carlotti - A. Saraco (a cura di), Il sigillo confessionale e la privacy pastorale, Città del Vaticano 2015, p. 41 ss.; lo stesso Autore in Il sigillo confessionale e il segreto nella normativa canonica, in Diritto e religioni, XIV (2019), 1, p. 16 ss., si sofferma sulla «portata semantica e teologico-spirituale del concetto di sigillo e di segreto nel sentire biblico». Sintetizza efficacemente la riflessione nell’ambito teologico-morale R. Coronelli, Il significato ecclesiale del segreto, cit., p. 10 ss. La Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., punto 1, p. 7, ha recentemente ribadito: «Il sacerdote […] viene a conoscenza dei peccati del penitente “non ut homo, sed ut Deus - non come uomo, ma come Dio”, a tal punto che egli semplicemente “non sa” ciò che gli è stato detto in sede di confessione, perché non l’ha ascoltato in quanto uomo ma, appunto, in nome di Dio. Il confessore potrebbe, perciò, anche “giurare”, senza alcun pregiudizio per la propria coscienza, di “non sapere” quel che sa soltanto in quanto ministro di Dio. Per la sua peculiare natura, il sigillo sacramentale arriva a vincolare il confessore anche “interiormente”, al punto che gli è proibito ricordare volontariamente la confessione ed egli è tenuto a sopprimere ogni involontario ricordo di essa».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che di altri conosciuti dalla confessione del penitente, sia mortali che veniali, sia occulti sia pubblici, in quanto manifestati in ordine all’assoluzione e quindi conosciuti dal confessore in forza della scienza sacramentale. Inoltre ricadono nell’ambito del sigillo le circostanze dei peccati, il nome e il peccato di eventuali complici»91. All’obbligo di osservare il segreto sono tenuti invece l’interprete, se vi fosse, e tutti gli altri ai quali in qualunque modo sia giunta notizia dei peccati della confessione (can. 983 § 2)92: la diversificazione anche terminologica operata dal Codice giovanneo paolino - rettificando quello del 191793 - rispetto al sigillo che tocca unicamente il confessore, peraltro, non «debilita la seriedad y rigor de la obligación de secreto, que vincula a todos receptores de materia informativa vertida en la confesión»94. Le pene poi per le infrazioni sono severissime: i superlativi non sono oziosi anche perché, commenta la canonistica, non si dà mai, in questo campo,

91 V. De Paolis - D. Cito, Le sanzioni nella Chiesa. Commento al Codice di Diritto Canonico. Libro VI, Città del Vaticano 2000, p. 345. V. anche, per un’illustrazione della materia oggetto del sigillo, G.P. Montini, La tutela penale del sacramento della penitenza. I delitti nella celebrazione del sacramento (cann. 1378; 1387; 1388), in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (a cura di), Le sanzioni nella Chiesa, Milano 1997, p. 226. 92 Questo il testo del can. 983: «§ 1. Sacramentale sigillum inviolabile est; quare nefas est confessario verbis vel alio quovis modo et quavis de causa aliquatenus prodere paenitentem. /§ 2. Obligatione secretum servandi tenentur quoque interpres, si detur, necnon omnes alii ad quos ex confessione notitia peccatorum quoquo modo pervenerit». Come puntualizza B.F. Pighin, Diritto penale canonico, Nuova ed. riveduta e ampliata, Venezia 2014, p. 452, «Per legge canonica non è obbligato a mantenere il segreto il titolare della comunicazione effettuata in confessione, purché […] non proceda alla sua registrazione con mezzi tecnici e alla sua divulgazione mediante gli strumenti della comunicazione sociale»; v. anche V. De Paolis, De delictis contra sanctitatem sacramenti paenitentiae, in Periodica, LXXIX (1990), p. 191. 93 Su questa modifica rinviamo, per tutti, alle osservazioni di G. Incitti, Sigillo, segreto, riservatezza…ambiti di responsabilità e soggetti coinvolti, relazione al XXIX Corso sul foro interno, 5-9 marzo 2018, Roma - Palazzo della Cancelleria, consultabile sul sito ufficiale della Penitenzieria Apostolica, p. 5 ss. 94 R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 34. B.F. Pighin, Diritto penale canonico, cit., p. 450, parla di «due barriere moralmente e giuridicamente invalicabili, denominate rispettivamente “sigillo sacramentale” e “segreto della confessione”», e poi elenca le differenze e le analogie tra i due istituti. Come pure rileva K. Nykiel, Il sigillo confessionale in prospettiva canonica, cit., p. 53, «Ovviamente anche questo segreto è, in un certo senso, profondamente e radicalmente sacramentale per quanto non sia denominato sigillo. /Pertanto la tutela della santità del sacramento della Penitenza è compito primario per tutti e non può essere lasciata e relegata solamente ai ministri ordinati».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 parvità di materia95. Si infligge infatti la scomunica latae sententiae riservata alla Santa Sede nel caso della violazione diretta del sigillo sacramentale (la rivelazione sia del peccato sia di chi l’ha commesso)96, cioè la pena più grave, che non è stata mitigata in alcun modo dalla codificazione postconciliare; mentre la violazione indiretta è punita con una pena ferendae sententiae indeterminata e obbligatoria, proporzionalmente alla gravità del delitto (can. 1388 § 1)97. Ab immemorabili98, d’altronde, si inculca con veemenza specialmente nei

95 V. B.F. Pighin, Diritto penale canonico, cit., p. 399. 96 Sintetizza P. Ferrari Da Passano, Il segreto confessionale, cit., pp. 361-362: «Qual è la materia del segreto? La dottrina di solito distingue tra un oggetto “essenziale” - ciò che per sua natura rientra sotto il segreto confessionale - e uno “accidentale”. Il primo viene ulteriormente distinto in diretto e indiretto. Costituiscono oggetto essenziale diretto tutti i peccati espressi dal penitente per ottenerne l’assoluzione; oggetto essenziale indiretto ciò che viene detto per manifestare i peccati, sia che siano cose necessarie a questo fine sia che siano solo utili ancorché superflue, a meno che non si tratti di fatti notori. Possono costituire oggetto accidentale i difetti e i peccati del penitente commessi nella stessa confessione. Il segreto si può violare in modo diretto quando si rivela sia il peccato sia il peccatore. Violazione indiretta invece si ha in tutti i casi in cui l’uno o l’altro non sono esplicitati ma c’è il rischio che la persona sia identificata o si possano ingenerare sospetti sulla persona o sul peccato». Si vedano le precisazioni di K. Nykiel, Il sigillo confessionale e il segreto nella normativa canonica, cit., p. 19 ss., in particolare sulla distinzione tra violazione del sigillo ovvero del segreto da parte del confessore, nonché sulla configurazione della fattispecie penale. Concisa ma esaustiva la trattazione di D. Cito, Sigilo sacramental, in J. Otaduy - A. Viana - J. Sedano (ed.), Diccionario general de derecho canónico, vol. VII, cit., pp. 307-310. V. peraltro la più ampia illustrazione di E. Miragoli, Il sigillo sacramentale, in Id., (a cura di), Il sacramento della penitenza. Il ministero del confessore: indicazioni canoniche e pastorali, cit., p. 159 ss. 97 Secondo il can. 1456 del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, il confessore che ha violato direttamente il sigillo sacramentale, è punito con la scomunica maggiore, fermo restando il can. 728 § 1 n. 1; se invece ha rotto il sigillo in altro modo, è punito con una pena adeguata; colui che in qualsiasi modo ha cercato di avere notizie dalla confessione, oppure che ha trasmesso ad altri le notizie già avute, è punito con la scomunica minore oppure con la sospensione. 98 Secondo la riassuntiva ricostruzione di R. Gerardi, Una questione di etica non di “etichetta”, cit., pp. 30-31, «È al Concilio Lateranense IV del 1215 che si trova la prima prescrizione universale, che impone al confessore il rispetto assoluto del segreto della confessione. Più propriamente si inizia a parlare di “sigillo sacramentale”, il che sta a indicare che le labbra del sacerdote sono sigillate in maniera infrangibile, e la cui violazione costituisce un sacrilegio. Per i teologi e i canonisti medioevali, il sigillo sacramentale copre tutto ciò che è stato detto in confessione, perché colui che apre la propria coscienza, lo fa davanti a Dio (in foro interno). E solo l’estensione universale del segreto assicura la stima verso questo sacramento. /Alla fine del XVII secolo i trattati di teologia morale affermano che questo segreto è di diritto divino, o almeno di diritto naturale; il suo tradimento è un peccato mortale, e il sigillo obbliga sempre e

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copre tutto ciò che è stato detto al sacerdote nell’ambito della confessione. /Quanto a sapere se il penitente possa sollevare il proprio confessore dal segreto, la maggior parte degli autori risponde positivamente, ma papa Benedetto XIV nega questo diritto al penitente. E infatti la Chiesa, nel suo ordinamento canonico, impone al confessore il divieto assoluto di tradire il penitente». Si veda anche K. Nykiel, Il sigillo confessionale e il segreto nella normativa canonica, cit., p. 15: «La storia di questo istituto risale già ai tempi della Chiesa antica: ne parlano Ambrogio, Agostino, Afraate il Saggio ed Origene; in pieno Medioevo, Incmaro di Reims e Lanfranco, Arcivescovo di Canterbury, che scrive un’opera dal titolo “De celanda confessione”. Ma è con il Concilio Lateranense IV (1215) che troviamo un canone che sancisce per la prima volta il suo obbligo morale e giuridico come legge universale della Chiesa, prevedendo gravi sanzioni per i sacerdoti che lo infrangono». Interessante ricordare il testo della costituzione 21 del Concilio lateranense, Omnis utriusque sexus, che al riguardo disponeva: «De confessione facienda et non revelanda a sacerdote, et saltem in Pascha communicando. […] De obligationibus confessarii - […] Caveat autem omnino, ne verbo aut signo aut alio quovis modo aliquatenus prodat peccatorem: sed si prudentiore consilio indiguerit, illud absque ulla expressione personae caute requirat, quoniam qui peccatum in paenitentiali iudicio sibi detectum praesumpserit revelare, non solum a sacerdotali officio deponendum decernimus, verum etiam ad agendam perpetuam paenitentiam in arctum monasterium detruendum»; al riguardo rinviamo alla recente sintesi, prevalentemente concentrata sui profili giuridici, delineata da D. Tarantino, Nota intorno al sigillo sacramentale. Legislazione e dottrina dal Concilio Lateranense IV alla codificazione del diritto canonico, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica (statoechiese.it), n. 32/2016, 17 ottobre 2016, pp. 1-17, con riferimenti a ulteriore letteratura (che sulla materia, invero, è sterminata); l’Autrice ripercorre le fonti di tale costituzione e le «prime tracce del sigillum confessionis», la recezione della disciplina conciliare, la dottrina dei decretalisti e quella di Tommaso d’Aquino e dei teologi per arrivare, sia pur molto succintamente, alla trattazione del tema da parte del Concilio di Trento ed alle interferenze tra confessione e inquisizione (in relazione alla repressione dell’eresia, infatti, si iniziò a reputare che «l’obbligo della segretezza della confessione poteva essere sottoposto a dei limiti»: ivi, p. 13), fino a rapidi cenni alla disciplina dei due Codici per la Chiesa latina, ove ancora si riscontrano echi dell’antico canone conciliare. Cfr., per ulteriori riferimenti all’evoluzione della tutela giuridica del segreto della confessione, E. Miragoli, Il sigillo sacramentale, cit., p. 154 ss., che si sofferma poi su un parallelo sempre tra le due codificazioni per la Chiesa latina (concludendo: «Dal confronto tra i due testi si può notare come le affermazioni rimangano sostanzialmente identiche, se si fa eccezione per alcune varianti stilistiche che non hanno incidenza sul senso della legge» - ivi, p. 156 -). Si veda infine R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 27 ss. Fondamentale la monografia di B. Kurtscheid, A history of the seal of confession, St. Louis - London 1927. Per una ricostruzione complessiva non strettamente giuridica si vedano, per tutti, P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal dualismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna 2000; R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo ed età moderna, Bologna 2002; J. Chiffoleau, La Chiesa, il segreto e l’obbedienza. La costruzione del soggetto politico nel medioevo, Bologna 2010.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sacerdoti99 l’assoluta non violabilità del sigillo né per il bene personale ma neppure per il bene comune. L’interprete, infine, e le altre persone di cui al can. 983 § 2 che infrangono il segreto sono puniti con una giusta pena, non esclusa la scomunica (can. 1388 § 2)100.

99 Emblematico quanto si scriveva in un manuale destinato prevalentemente ai sacerdoti del XVI secolo: «Se la salvezza o la liberazione del mondo intero dovesse dipendere dalla rivelazione di un solo peccato, non lo si deve rivelare, anche se il mondo dovesse perire o essere distrutto; e persino nel caso in cui ciò dovesse servire per la liberazione di tutte le anime che sono nell’inferno dall’inizio del mondo, non lo si deve rivelare; inoltre […] se il confessore sapesse che tutti gli altri sacramenti per un certo tempo andassero smarriti, a motivo del “segreto”, egli è tenuto a celare il peccato e a conservare inviolato il sacramento della penitenza» (M.A. Vivaldo, Candelabrum Aureum, Brescia 1593, p. 163). Ma nella Chiesa da tempo si insisteva su questo ammaestramento: come, ad esempio, ricorda D. Tarantino, Nota intorno al sigillo sacramentale. Legislazione e dottrina dal Concilio Lateranense IV alla codificazione del diritto canonico, cit., p. 8, sul punto si soffermava con particolare veemenza Sant’Antonio da Padova, che, nei suoi Sermones dominicales, «nel trattare il tema della confessione nel sermone recitato nella prima domenica di Quaresima, tende a sottolineare come il suo contenuto, riposto sub sigillo inviolabili, sia da custodire solius confessoris memoriae thesauro, arrivando a ritenere il mancato rispetto del sigillo da parte del confessore un gesto quod peius est omni homicidio, in quanto la sua gravità supera quella del tradimento compiuto da Giuda nei confronti di Cristo (gravius peccat proditore Iuda, qui Dei filium Iudeis vendidit)». 100 Questo il testo del can. 1388: «§ 1. Confessarius, qui sacramentale sigillum directe violat, in excommunicationem latae sententiae Sedi Apostolicae reservatam incurrit; qui vero indirecte tantum, pro delicti gravitate puniatur. /§ 2. Interpres aliique, de quibus in can. 983, § 2, qui secretum violant, iusta poena puniantur, non exclusa excommunicatione». Come rilevato, la codificazione del 1983 ha mitigato quasi tutte le sanzioni per i delitti contemplati nel Libro VI: qui, invece, ha mantenuto pene severe (v. anche il già ricordato can. 1456 del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium che tiene conto dei diversi criteri sanzionatori ivi previsti). E. Miragoli, Il sigillo sacramentale, cit., p. 162, illustra: «Le due fattispecie di violazione del sigillo sacramentale, in foro esterno, sono di competenza della Congregazione per la dottrina della fede, e sono censite nell’elenco dei delicta graviora. Il motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela (30 aprile 2001) originariamente si limitava a considerare la violazione diretta del sigillo; ma già a partire dal febbraio 2003 Giovanni Paolo II aveva deciso di includere anche la violazione indiretta, scelta ratificata dalle Normae de gravioribus delicitis (15 luglio 2010). Così commenta a tal proposito C.J. Scicluna: “Questa decisione pontificia certamente rende più facile il discernimento dell’Ordinario che deve decidere quale fattispecie riferire alla Congregazione per la Dottrina della Fede per competenza. Si sa quanto delle volte riesce difficile distinguere bene tra le due fattispecie di violazione del sigillo”». Il testo citato è C.J. Scicluna, Congregazione per la Dottrina della Fede. Competenze dottrinali e disciplinari, in M. Sodi - J. Ickx (a cura di), La Penitenzieria Apostolica e il sacramento della penitenza. Percorsi storici- giuridici-teologici e prospettive pastorali, Città del Vaticano 2009, p. 261. Per una ricostruzione esauriente dell’evoluzione normativa v. D. Cito, La protezione giuridica del sacramento della penitenza, cit., pp. 269-285. A quanto stabilito dal Codice va

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I canonisti (ed anche i teologi) si sono poi profusi nell’esplicazione per lumeggiare minutamente questa normativa non certo ridondante ma corposa e soprattutto gravida di storia, e ad essi rinviamo, bastandoci alcune annotazioni ora pertinenti. Così, si è sottolineato come l’obbligo di tacere sia al contempo determinato ex motivo iustitiae ed ex motivo religionis: «Il primo configura il sigillo nell’ottica del segreto commesso, quasi un contratto sebbene implicito tra penitente e confessore. Un’ottica contrattualistica dove è prevalente il diritto del penitente che affiderebbe per contratto il sigillo al confessore. /Ma insieme a questo aspetto, ne è sempre stato considerato un altro, evidenziato come la caratteristica propria della inviolabilità del sigillo che procede “ex religione”, trattandosi, nella celebrazione del sacramento della penitenza, di un atto di culto. Sia sufficiente uno dei tanti passaggi dove San Tommaso individua il principio secondo cui il confessore tiene il posto di Dio per cui “illud autem quod sub confessione scitur, est quasi nescitum, cum non sciat ut homo, sed ut Deus”. A tale affermazione dell’Aquinate si è rifatta la dottrina nel corso dei secoli. Così, anche qualora cessi ogni obbligo secretum servandi dovuto, per giustizia, allo stesso penitente, rimane sempre, ed è ben più che sufficiente, la motivazione che longe praevalet, che è il bonum sacramenti, e cioè il rispetto dovuto al sacramento, all’atto di culto divino che è la celebrazione del sacramento della penitenza»101.

aggiunta una figura delittuosa configurata dalla normativa della Congregazione per la dottrina della fede e poi dalle Normae appena ricordate del 2010 consistente - come già incidentalmente emerso - nella captazione con strumenti tecnici e diffusione tramite i mezzi di comunicazione di contenuti della confessione a scopo di malizia: v., per tutti, Id., Delicta graviora contro la fede e i sacramenti, in AA.VV., Questioni attuali di diritto penale canonico, Città del Vaticano 2012, pp. 31-53; C. Papale, Registrazione e divulgazione della confessione sacramentale, in Id. (a cura di), I delitti contro il sacramento della penitenza riservati alla Congregazione per la dottrina della fede, Città del Vaticano 2016, pp. 85-102. A chiusura va ricordato, con D. Cito, Sigilo sacramental, cit., p. 310, che «Si penalmente el ordinamiento canónico castiga de modo explícito la violación del sigilo sacramental, su protección queda aún más reforzada en la vía administrativa y procesal, protegiendo todo lo que se haya conocido en confesión» (si tratta degli altri canoni citati e che citeremo in questa trattazione, come il can. 984). 101 G. Incitti, Il Confessore e il Sacramento della Riconciliazione. Doveri e diritti dei penitenti, relazione al XXX Corso sul foro interno, 25-29 marzo 2019, Roma - Palazzo della Cancelleria, consultabile sul sito ufficiale della Penitenzieria Apostolica, p. 20. Cfr. San Giovanni Paolo II, Discorso ai membri della Penitenzieria Apostolica e ai padri penitenzieri delle Basiliche romane, 12 marzo 1994, in Acta Apostolicae Sedis, LXXXVII (1995), p. 76, consultabile anche online all’indirizzo www.vatican.va:

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Inoltre, e non secondariamente, «la violazione del segreto (o anche la sola possibilità che ciò possa essere ammesso) renderebbe odioso il sacramento della penitenza agli occhi dei fedeli. In particolare, considerato che la confessione individuale e segreta costituisce l’unico modo con cui il fedele è riconciliato con Dio e con la Chiesa (cf can. 960), è necessario garantire in modo assoluto al fedele questa possibilità, rimuovendo ogni ostacolo (quale sarebbe, per esempio, ammettere clausole o possibilità, sia pure estreme, di infrazione di questo segreto) nel suo cammino verso la salvezza eterna. Diversamente sarebbe compromessa la salus animarum»102. Proprio per questa duplicità non

«Avendo Nostro Signore Gesù Cristo stabilito che il fedele accusi i suoi peccati al ministro della Chiesa, con ciò stesso ha sancito l’incomunicabilità assoluta dei contenuti della confessione rispetto a qualunque altro uomo, a qualunque altra autorità terrena, in qualunque situazione». 102 Riportiamo per esteso le considerazioni di E. Miragoli, Il sigillo sacramentale, cit., pp. 156-157: «Si intuisce facilmente, infatti, come ciò che il confessore viene a conoscere nell’atto sacramentale dipende unicamente dalla fiducia che il fedele ripone in lui, in quanto ministro di Dio. Il rivelarlo ad altri costituirebbe “tradimento” del penitente e lesione illegittima della sua buona fama. A questo si potrebbe aggiungere un ulteriore aspetto che il nuovo Codice ha esplicitato nel can. 220, cioè il diritto di ogni persona alla propria intimità […] tanto più che qui si tratta di intimità nel rapporto con Dio! /Per quanto riguarda invece il versante del sacramento (il bonum sacramenti, o il motivum religionis) due sono le considerazioni che possiamo fare. La prima è quella tradizionale: la violazione del segreto (o anche la sola possibilità che ciò possa essere ammesso) renderebbe odioso il sacramento della penitenza agli occhi dei fedeli. In particolare, considerato che la confessione individuale e segreta costituisce l’unico modo con cui il fedele è riconciliato con Dio e con la Chiesa (cf can. 960), è necessario garantire in modo assoluto al fedele questa possibilità, rimuovendo ogni ostacolo (quale sarebbe, per esempio, ammettere clausole o possibilità, sia pure estreme, di violabilità di questo segreto) nel suo cammino verso la salvezza eterna. Diversamente sarebbe compromessa la salus animarum. /Ma vi è anche un’altra considerazione, più profonda, che possiamo fare, sempre nella linea del “rispetto” dovuto al sacramento e quindi sul senso della “mancanza di rispetto” verso di esso, nel caso di violazione del segreto. Nell’ascoltare l’accusa e nel prestare il perdono divino, il sacerdote confessore agisce in persona Christi: “il suo ministero è quello stesso di Cristo” (Ordo paenitentiae, n. 10). In quest’ottica, il confessore che svelasse i peccati del penitente, verrebbe meno a un impegno di fedeltà con Dio e con Cristo. La violazione del segreto di confessione è rottura di un rapporto di fiducia con Cristo; viene cioè violato un patto di fedeltà: quello che esiste tra Gesù Cristo e il suo ministro. Inoltre viene snaturato il senso dell’accusa, che è unicamente orientata al pentimento e alla richiesta di assoluzione, e non alla diffusione dei suoi contenuti. /In tal senso, la violazione del segreto di confessione non solo è qualcosa che tradisce il penitente, colpisce la sua buona fama, lede il diritto alla propria intimità, scredita il sacramento dall’esterno: è invece, un qualcosa di più, in quanto snatura la funzione del ministro e il senso dell’accusa. Per questo essa colpisce il cuore del sacramento della penitenza».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 scindibile e assai ricca di implicanze che trascende l’interesse puramente personale attraendolo nel rilievo del bonum publicum vel commune, la dottrina, pressoché unanimemente, sia pur dopo qualche querelle ora quasi del tutto sopita103, reputa che non si diano exceptiones seu derogationes104, e in particolare che neppure il penitente possa sciogliere il confessore: «Il sigillo sacramentale non tutela solamente il penitente interessato, così che, in base al brocardo “scienti et consentienti non fit

103 Ne riferisce G. Incitti, Il Confessore e il Sacramento della Riconciliazione. Doveri e diritti dei penitenti, consultabile sul sito ufficiale della Penitenzieria Apostolica (è un’altra versione lievemente diversa dell’articolo con lo stesso titolo e reperibile nella stessa sede che abbiamo già citato; si tratta della relazione tenuta da Incitti al XVIII Corso sul foro interno, 14-17 marzo 2017, Roma- Palazzo della Cancelleria: le nostre prossime citazioni si riferiscono a questa seconda versione), p. 19: «Alcuni autori, partendo dal presupposto che il sigillo sia posto a tutela del penitente, hanno sostenuto che lo stesso penitente avrebbe titolo a liberare il confessore dal vincolo del sigillo, anche se mediante forme inequivocabili di autorizzazione». Tra i sostenitori di tale assunto (rifacendosi per lo più all’insegnamento di San Tommaso) v., per tutti, E. Jombart, Confesseur, in Dictionnaire de droit canonique, vol. IV, Paris 1949, c. 41 (con indicazione di ulteriore letteratura), e F.M. Cappello, Tractatus canonico-moralis, De sacramentis iuxta Codicem Iuris Canonici, II-1, De poenitentia, Taurinorum Augustae 1926, n. 924, p. 771, il quale, inizialmente favorevole, assunse poi, nelle edizioni successive del suo volume, posizioni assai più restrittive: e infatti la tesi è stata in seguito ampiamente criticata e quindi pressoché abbandonata. 104 F. Centenera Sánchez-Seco, El peso del silencio en el sacerdote. Un estudio sobre la posibilidad de evitar males graves conocidos bajo el secreto religioso, in Anuario de derecho eclesiástico del Estado, XXVI (2010), pp. 757-783, si interroga sui casi limite nei quali il sacerdote potrebbe violare il segreto o anche il sigillo per evitare un male attuale o prevenirne uno futuro, argomentando soprattutto in base alla normativa processuale e penale e alla giurisprudenza specialmente spagnola, nonché con cenni alla morale e al diritto canonico, e assume posizioni possibiliste (generalmente non accettate dalla canonistica segnatamente quanto al sigillo). V. per converso vari saggi sul tema di R. Navarro-Valls, Del poder y de la gloria, Madrid 2004; Id., El secreto ministerial en los ordenamientos confesionales y en el derecho estatal, in Anales de la Real Academia de jurisprudencia y legislación, Madrid 2011, pp. 403-416. Senza inoltrarci al riguardo ci sembrano da condividere le argomentazioni su queste problematiche (cui rinviamo) di D.-M.A. Jaeger, Situazioni particolari e questioni specifiche del ministero penitenziale, in K. Nykiel - P. Carlotti - A. Saraco (a cura di), Il sigillo confessionale e la privacy pastorale, cit., p. 98-99, che tra l’altro si domanda: «non ci sarebbe proprio alcun modo per il Sacerdote confessore di prevenire imminenti gravi danni alle persone e alla collettività, di cui abbia ora appreso dal penitente in confessione? […] Lo lascio ai moralisti e agli autori di fiction, eccetto ipotizzare “da profano” che: sì, il confessore possa e debba adoperarsi per prevenire il male, ma sempre “quadrando il cerchio”, e cioè senza che da tale attività sorga il pericolo “reale” di far conoscere che una determinata persona sia stata da lui a confessarsi e che cosa questo penitente gli abbia confessato. In caso di dubbio, comunque, prevale il principio tutiorista».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 iniuria”, quest’ultimo potrebbe liberare il confessore dal vincolo di segreto originato dalla confessione sacramentale. Il sigillo sacramentale è deputato a tutelare (anche) il sacramento stesso e pertanto lo scioglimento del confessore dal sigillo non è nella disponibilità del penitente»105. E la Penitenzieria Apostolica ha, di recente, autorevolmente accreditato la tesi dell’assoluta non disponibilità del sigillo106.

105 Così G.P. Montini, La tutela penale del sacramento della penitenza. I delitti nella celebrazione del sacramento (cann. 1378; 1387; 1388), cit., pp. 226-227, anche in nota 42: «Non c’è violazione del sigillo sacramentale se l’interlocutore del confessore è lo stesso penitente che si è confessato. Si dà invece violazione del sigillo sacramentale quand’anche il penitente abbia (preteso di aver) esonerato il confessore dall’obbligo del medesimo sigillo. [Il sigillo sacramentale non tutela solamente il penitente interessato, così che, in base al brocardo “scienti et consentienti non fit iniuria”, quest’ultimo potrebbe liberare il confessore dal vincolo di segreto originato dalla confessione sacramentale. Il sigillo sacramentale è deputato a tutelare (anche) il sacramento stesso e pertanto lo scioglimento del confessore dal sigillo non è nella disponibilità del penitente. A nessuno infatti sfugge che se il sigillo fosse nella disponibilità del penitente, quest’ultimo potrebbe essere soggetto indirettamente a pressioni tali (morali, sociali ecc.) perché liberi il confessore dal vincolo del segreto, che in realtà equivarrebbe alla cancellazione della tutela reale del sigillo sacramentale. Se, al contrario, il confessore permane in tutta la sua obbligazione di tacere anche se il penitente pretendesse di liberarlo, il sigillo viene rafforzato in maniera definitiva]». Aggiunge K. Nykiel, Il sigillo confessionale e il segreto nella normativa canonica, cit., p. 24, che «Neppure la morte del penitente potrà sciogliere il confessore da questo vincolo». San Giovanni Paolo II, Discorso ai membri della Penitenzieria Apostolica e ai padri penitenzieri delle Basiliche romane, 12 marzo 1994, cit., p. 77, ha affermato: «Tale assoluto segreto riguardo ai peccati e la doverosa rigida cautela per gli altri fattori qui ricordati legano il Sacerdote non solo vietando una ipotetica rivelazione a terze persone, ma anche l’accenno dei contenuti della confessione allo stesso penitente fuori del sacramento, salvo esplicito, e tanto meglio se non richiesto, consenso da parte di lui». Come sintetizza D. Cito, Sigilo sacramental, cit., p. 308, la dottrina del pari rileva che: «ni siquiera el penitente podría liberar al confesor de la obligación del sigilo consintiéndole revelar a terceros el contenido de los pecados manifestados en la confesión, pero por supuesto esto no quita para que el penitente, por iniciativa propia y nunca por coacción o sugerencia del confesor, que en tal caso cometería un grave abuso, no pueda contar, fuera de la confesión, asuntos objeto del sacramento». Dopo aver ricostruito esaurientemente il dibattito dottrinale su queste problematiche, R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 38, esprime al proposito la seguente opinione: «Sea como fuere, incluso si se considerara lícita la posibilidad de que el sacerdote testifique en juicio civil a petición expresa del penitente, sin embargo, esa esfera de licitud deja - en mi opinión - intacta la facultad moral del ministro religioso de abstenerse de testificar, en caso de que considere en conciencia que no puede proceder a testificar por seguirse un daño para la institución del sacramento, o por estimar que se siguie un perjuicio para terceros. Cesaría, por tanto, en caso de autorización del penitente, la obligación jurídica

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Il segreto non astringe solo quanti siano venuti a conoscenza di peccati accusati in confessione, ma pure il confessore per quegli elementi che non sono propriamente oggetto di quest’ultima ma siano stati appresi nell’occasione107: infatti «Omnino confessario prohibetur scientiae ex confessione acquisitae usus cum paenitentis gravamine, etiam quovis revelationis periculo excluso», secondo quanto dispone il can. 984 § 1108. E neppure, come all’unisono oggi si conviene, si potrà «far ricorso alle conoscenze acquisite dalla confessione sacramentale, quand’anche altre

estricta establecida por el Derecho, pero podría subsistir la obligación moral de conciencia». 106 Cfr. Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., punto 1, p. 7: «Il divieto assoluto imposto dal sigillo sacramentale è tale da impedire al sacerdote di fare parola del contenuto della confessione con lo stesso penitente, fuori del sacramento, “salvo esplicito, e tanto meglio se non richiesto, consenso da parte del penitente”. Il sigillo esula, perciò, anche dalla disponibilità del penitente, il quale, una volta celebrato il sacramento, non ha il potere di sollevare il confessore dall’obbligo della segretezza, perché questo dovere viene direttamente da Dio». La posizione tuziorista è d’altronde confermata, come vedremo, dal tenore del can. 1550 § 2 n. 2 che considera il sacerdote incapace a deporre su ciò che ha costituito oggetto di confessione sacramentale e dal cambiamento intervenuto durante i lavori per la revisione del Codex piano-benedettino in cui si è passati dalla formula «etsi a vinculo sigilli soluti sint» utilizzata dal can. 1757 § 3 n. 2 della codificazione del 1917 a quella del vigente can. 1550 § 2 n. 2 «etsi poenitens eorum manifestationem petierit», secondo la proposta di un consultore che aveva fatto notare: «neminem, de communi sententia theologorum, solvi posse a vinculo sigilli sacramentalis confessionis» (Communicationes, XI [1970], p. 110). 107 Così M. Rivella, Il confessore educatore e l’uso delle conoscenze acquisite dalla confessione, in E. Miragoli (a cura di), Il sacramento della penitenza. Il ministero del confessore: indicazioni canoniche e pastorali, cit., pp. 169-170. Si veda peraltro la distinzione nettamente delineata da B.F. Pighin, Diritto penale canonico, cit., p. 451 ss. 108 Inoltre, colui che è costituito in autorità ed ha avuto notizia dei peccati in una confessione ricevuta in qualunque momento, non può avvalersene in nessun modo per il governo esterno (can. 984 § 2). Precisa G.P. Montini, La tutela penale del sacramento della penitenza. I delitti nella celebrazione del sacramento (cann. 1378; 1387; 1388), cit., p. 230, contro l’opinione di altri illustri canonisti: «Non conosce sanzione penale la violazione dell’obbligo di non usare delle conoscenze acquisite in confessione (can. 984 §§ 1-2). Tale mancanza di sanzione penale non può essere fatta risalire ad una estrema difficoltà di punire chi viola tale obbligo. Per altre fattispecie penali esistono difficoltà anche maggiori, per le quali appunto la Chiesa conosce e commina le pene latae sententiae. La ragione va ricercata piuttosto nella diversa gravità tra violazione del sigillo o del segreto sacramentale e uso delle conoscenze acquisite in confessione; nella considerazione discrezionale del Legislatore penale, nonché nella possibilità lasciata al diritto particolare di intervenire, qualora peculiari circostanze lo richiedano». V. anche i cann. 630 § 4 e 985 a salvaguardia della libertà della confessione.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ragioni, come il bene del penitente, del confessore stesso o della comunità potrebbero indurre ad agire diversamente»109, e pure laddove «non ci sia pericolo di rivelazione o aggravio del penitente, non è mai lecito servirsi delle conoscenze acquisite in occasione della confessione se ciò può suscitare scandalo o offesa dei fedeli o far nascere il sospetto che sia stato violato il sigillo sacramentale»110. Insomma, tale uso, fatto sempre salvo il

109 M. Rivella, Il confessore educatore e l’uso delle conoscenze acquisite dalla confessione, cit., p. 171. V. quanto riferisce A. D’Auria, I doveri e i diritti del fedele rispetto alla confessione, in Periodica, C (2011), p. 35, sui lavori preparatori del Codice vigente. 110 Riportiamo anche qui l’intero discorso di M. Rivella, Il confessore educatore e l’uso delle conoscenze acquisite dalla confessione, cit., pp. 170-172: «Poiché la norma vigente riprende quasi alla lettera il testo del can. 890 § 1 del precedente Codice (le poche mutazioni sono dettate da scelte stilistiche), è possibile e opportuno rifarsi ai commentari del CIC 1917 - primo fra tutti il trattato del Cappello -, per precisarne il senso e l’estensione. /Il disposto codiciale non fa che ripetere sintetizzandolo un pronunciamento della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio del 18 novembre 1682: esso vieta l’uso delle informazioni acquisite in confessione, se c’è il pericolo generale di rivelazione o anche, escluso tale pericolo, se ne deriva un aggravio per il penitente o si rende in qualsiasi maniera odiosa la confessione, per quanto dal non uso di ciò che si è appreso possa sorgere un danno molto più grande per il penitente. /Tale posizione, unanimemente condivisa dagli autori moderni, costituisce il punto di arrivo di un cammino di chiarificazione nel corso del quale si è venuto precisando che è proprio la nozione di aggravio del penitente quella che impedisce in maniera assoluta di far ricorso alle conoscenze acquisite dalla confessione sacramentale, quand’anche altre ragioni, come il bene del penitente, del confessore stesso o della comunità, potrebbero indurre ad agire diversamente. Infatti sino al secolo XVII parecchi dottori ammettevano che il confessore, fatto salvo il sigillo sacramentale, potesse servirsi di tali conoscenze sia a vantaggio del penitente, per esempio con l’allontanarlo dalle occasioni di peccato, sia per il bene della comunità, per esempio denunciando come eretico chi potesse nuocerle. In altre parole, “si riteneva lecito l’uso delle conoscenze acquisite dalla confessione, dove non ci fosse pericolo alcuno di manifestazione del peccato”. Si noti tuttavia come la posizione più severa fosse sostenuta già da san Tommaso: “Anche ciò che non è materia di confessione sacramentale appartiene indirettamente al sigillo della confessione, quando si tratta di cose da cui si potrebbe scoprire il peccato o il peccatore. Non di meno tuttavia vanno celate anche le altre notizie: sia per evitare scandalo; sia per la propensione a parlare che potrebbe provocare questo modo di agire”. /Gli autori antichi e i commentatori del CIC 1917 indugiavano nel proporre casi estremi in cui il confessore si troverebbe di fronte al dilemma fra il tradire il segreto della confessione e il salvare la propria o altrui vita (se per esempio il penitente gli rivelasse che il vino che sta per utilizzare per la messa è avvelenato): con l’equilibrio che lo contraddistingue, il Cappello osserva che siffatti casi ipotetici offrono sempre nella realtà una via d’uscita diversa dal tradimento del sigillo o del segreto. È indifferente che il penitente sia consapevole o meno dell’uso di quanto ha rivelato: sarebbe infatti sufficiente che si insinuasse tale sospetto tra i fedeli per rendere odioso il sacramento. /Quand’anche non ci sia pericolo di rivelazione o aggravio del penitente, non è mai

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sigillo, sarà lecito in quei davvero risicatissimi casi nei quali non sussista sicuramente alcun pericolo di rivelazione e gravamen del penitente, invero di tutti i possibili e potenziali penitenti111; e non ne derivi virtualmente alcuno scandalo112 nei fedeli113. Alla protezione ‘oggettiva’ del sacramento si appaia pertanto, nell’ordinamento canonico, la protezione ‘soggettiva’ non solo del penitente, ma di ogni penitente, rectius di ogni appartenente alla Chiesa non essendo nessuno affrancato dal peccato. Significativo quanto si osserva in relazione all’appena ricordato can. 984: «- si badi - quando gli autori interpretano la clausola cum paenitentis gravamine affermano che si deve tener conto non solo del danno che si farebbe a quel determinato penitente che si è confidato con il confessore, ma di ogni altro eventuale penitente che, ormai non più così sicuro della

lecito servirsi delle conoscenze acquisite in occasione della confessione se ciò può suscitare scandalo o offesa dei fedeli o far nascere il sospetto che sia stato violato il sigillo sacramentale». 111 Cfr. R. Coronelli, Il significato ecclesiale del segreto, cit., p. 35: «Anche in questo caso occorre ribadire come l’espressione “aggravio del penitente” debba intendersi riferita non solo a un singolo e determinato penitente, ma a tutti i possibili e potenziali penitenti, che sarebbero trattenuti dal confessare i propri peccati, qualora sapessero che il confessore potrebbe usare, a loro danno, la scienza sacramentale»; A. D’Auria, I doveri e i diritti del fedele rispetto alla confessione, cit. pp. 33-35: «Lo scopo del can. 984 è proprio quello di tutelare il diritto alla piena libertà e riservatezza del fedele ed anche la sua fiducia nel sacramento. […] Il danno di cui parla il can. 984 deve intendersi, secondo la dottrina, nel senso di un pregiudizio morale o materiale, sia soggettivo che oggettivo. Ricordiamo che vi è anche un danno indiretto e remoto ed è quello dello scandalo per i fedeli e del pericolo di rottura del sigillo sacramentale». 112 Sul concetto di scandalo nel diritto canonico v., per tutti, le recenti considerazioni di M. Miele, Ancora sul promotore di giustizia, nella rivista telematica JusOnline, n. 2/2018, p. 68 ss. 113 Aggiunge M. Rivella, Il confessore educatore e l’uso delle conoscenze acquisite dalla confessione, cit., pp. 172-173: «È parimenti lecito quando il penitente sa che il confessore si sta servendo di tali conoscenze, purché il fatto non gli sia fastidioso, ma anzi lo gradisca. Infatti il confessore, in base a quanto appreso dalla confessione, può pregare per il penitente, trattarlo meglio, migliorarsi, fare tutto quanto gli compete in forza dell’ufficio e che avrebbe fatto anche se non avesse ascoltato la confessione. Ciò è lecito anche qualora si sia reso conto di un proprio dovere (per esempio, la custodia accurata della chiave del tabernacolo) proprio in seguito a una confessione, e forse senza tale stimolo non l’avrebbe compiuto con la dovuta diligenza». Esclude ogni uso estrinseco A. D’Auria, I doveri e i diritti del fedele rispetto alla confessione, cit., pp. 36- 37, che fornisce alcuni esempi. Si veda per converso la posizione di T. Mbadiwe Osuala, Sigilo sacramental y denuncia obligatoria del abuso de menores. Una mirada global, in Revista Española de Derecho Canónico, LXXVI (2019), p. 219 ss., che distingue a seconda delle situazioni.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 riservatezza prevista dalla confessione, sarebbe scoraggiato dal confessarsi a sua volta o al quale risulterebbe più gravoso»114. Ancora, come già emerso, per lo ius canonicum il sacerdote è incapace a rendere testimonianza su tutto ciò che gli è stato rivelato nella confessione sacramentale, anche se il penitente ne richieda la rivelazione (can. 1550 § 2 n. 2115), mentre i chierici sono liberati dal dovere di rispondere per quanto fu loro manifestato ratione sacri ministerii (can. 1548 § 2 n. 1116). Le due situazioni, incapacità ed esenzione (la cui fruizione è rimessa alla discrezione del sacerdote), come risalta evidente dalla formulazione

114 P. Ferrari Da Passano, Il segreto confessionale, cit., p. 362, il quale anche in seguito insiste: «le disposizioni poste dalla Chiesa a tutela del segreto confessionale mirano non solo a proteggere il singolo penitente nell’atto della confessione, ma a garantire a tutti, specie quelli che al momento non trovano in sé la forza di fare il passo verso la conversione, un luogo in cui fare l’esperienza della misericordia e da dove poter ripartire a testa alta, consapevoli della riacquistata stima di sé» (ivi, p. 368). 115 Inoltre, prosegue il medesimo canone, tutto ciò che da chiunque ed in qualunque modo fu udito in occasione della confessione non può essere recepito neppure come indizio di verità. V. anche l’art. 196 § 2 n. 2 dell’Istruzione Dignitas connubii del 2005 del Pontificio Consiglio per i testi legislativi (Instructio Dignitas connubii servanda a tribunalibus dioecesanis et interdioecesanis in pertractandis causis nullitatis matrimonii, 25 gennaio 2005, in Communicationes, XXXVII [2005], p. 11 ss.). 116 V. art. 194 § 2 n. 1 della citata Istruzione Dignitas connubii del 25 gennaio 2005 del Pontificio Consiglio per i testi legislativi. Per una ricostruzione dell’evoluzione della disciplina canonica al riguardo con un’interessante comparazione tra le due codificazioni per la Chiesa latina cfr. D. Salvatori, Il dovere di rispondere al giudice e il dovere del segreto come causa esimente: la ratio dei cann. 1531 § 2 e 1548 § 2 nel rapporto deontologico tra giudice e interrogato, in Quaderni di diritto ecclesiale, XVI (2013), pp. 55-76, il quale annota anche: «L’espressione “parroci e altri sacerdoti” del Codice del 1917 viene sostituita con “chierici”, intendendo, nella nuova disciplina, non solo il sacerdozio ministeriale dei presbiteri e vescovi, ma anche il ministero diaconale, giacché il vigente Codice ha mutato la categoria di chierico (cf can. 266 § 1); viene inoltre cancellata la precisazione “al di fuori della confessione sacramentale”, probabilmente perché ridondante (cf can. 1550 § 2, 2°)» (ivi, p. 70); l’Autore inoltre sottolinea: «Per quanto attiene al can. 1548 § 2, 1° si deve osservare che il Codice pone distinzione, per i chierici, tra segreto d’ufficio e segreto ratione ministerii e riguardo a ciò si può dire che la maggioranza dei commentatori sia concorde. Tale posizione può essere accolta sulla scorta del fatto che l’espressione ratione ministerii risulti più ampia di quella ratione officii, dal momento che la prima può comprendere anche la seconda. Si noti poi che per configurare la fattispecie in oggetto le confidenze debbono essere ricevute in ragione del ministero non in occasione del ministero. La distinzione, se da una parte circoscrive nettamente la fattispecie, dall’altra permette di discernere i casi specifici come rientranti o meno nella clausola esimente» (ivi, p. 72), riportando altresì dottrina conforme.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 letterale del testo codiciale117, sono giuridicamente assai differenti, la seconda potendo qualificarsi più latamente come - ed essere attratta nel ‘concetto civilistico’ di - ‘segreto ministeriale’118: il quale, sebbene non nello stesso grado del sigillo, trova pieno riconoscimento nello ius canonicum. Infatti, al sacerdote il fedele non si indirizza solo per il perdono dei peccati: nonostante l’indubbio rilievo ricoperto dall’assoluzione sacramentale, il sacrum ministerium, menzionato appunto nel can. 1548 § 2 n. 1, presenta uno spettro ben più articolato, coincidendo peraltro i destinatari che sono quei christifideles al cui bene sempre occorre avere riguardo. Così, come è stato di recente molto opportunamente esplicitato dalla Penitenzieria Apostolica119, di grande importanza è anche il «cosiddetto “foro interno extra-sacramentale”, sempre occulto, ma esterno al sacramento della Penitenza», appartenente anch’esso «All’ambito giuridico-morale del foro interno»120 per quanto

117 Osserva J. Salinas Mengual, La tutela del secreto de confesión en el contexto del derecho comparado y de la nota de la Penitenciaría Apostólica sobre el fuero interno y la inviolabilidad del sigilo sacramental, cit., p. 21: «No pide la Iglesia para el proceso civil algo que ella misma no cumpla en el proceso canónico, de manera que las declaraciones que pusieran prestarse por el ministro religioso violando estos preceptos se considerarán pruebas ilícitas, y por ello inadmisibles para el proceso». 118 Cfr. R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 44: «De estas dos graduaciones (exención/incapacidad) se deduce que en el orden procesal canónico parece distinguirse un secreto profesional (ratione sacri ministerii) y un sigilo sacramental (ex confessione sacramentali innotuerunt, etsi poenitens eorum manifestationem petierit), y que el proprio Derecho canónico en su vertiente procesal excluye la prueba testifical del sacerdote-confesor, aun cuando la misma quedara impune canónicamente en caso de deposición del sacerdote en juicio civil, a solicitud del penitente» (l’ultima affermazione si comprende alla luce dell’opinione di Palomino riportata sopra). 119 Ma se si consulta il Profilo della Penitenzieria Apostolica che si trova nella sua pagina web ufficiale in esso già si trova scritto: «Secondo una definizione classica, il foro interno è il complesso dei rapporti tra il fedele e Dio, nei quali interviene la mediazione della Chiesa, non per regolare direttamente le conseguenze sociali di tali rapporti, ma per provvedere al bene soprannaturale del fedele, in ordine alla sua amicizia con Dio, cioè allo stato di grazia e, quindi, in ordine alla vita eterna. Oltre al foro interno sacramentale esiste anche un foro interno non sacramentale, che è dato dalla manifestazione della coscienza del fedele alla Chiesa al di fuori della Confessione ma, non di meno, nel segreto; l’esempio classico è quello della direzione spirituale posta in essere con atti distinti e separati dalla Confessione sacramentale; oppure della manifestazione di coscienza fatta dai religiosi ai loro Superiori». 120 Punto 2 della Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., p. 7. La Nota, firmata dal penitenziere maggiore, il cardinale M. Piacenza, e dal reggente, monsignor K. Nykiel, è

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 nell’assai lata nozione121 che ne fornisce lo stesso dicastero: «Anche in esso la Chiesa esercita la propria missione e potestà salvifica: non

stata approvata da Papa Francesco in data 21 giugno 2019, che ne ha ordinato la pubblicazione. 121 Propriamente il foro interno non va identificato, come noto, con il foro della coscienza: v., per tutti, con riferimento al tema specifico R. Coronelli, Il significato ecclesiale del segreto, cit., p. 16 ss. Nel suo saggio sull’argomento J.I. Arrieta, Il foro interno: natura e regime giuridico, in J. Kowal - J. Llobell (a cura di), «Iustitia et iudicium». Studi di diritto matrimoniale e processuale canonico in onore di Antoni Stankiewicz, vol. III, Città del Vaticano 2010, pp. 1249-1250, esordisce: «Si è ormai radicato nel linguaggio parlato - e a volte anche in quello più tecnico - un uso del concetto di “foro interno” lontano da quello cui fa riferimento il Diritto canonico. La nozione di foro interno è usata spesso nel contesto logico dell’idea di “privacy” o per designare materie che riguardano esclusivamente la coscienza morale o la libera scelta delle persone. /Nessuna di queste accezioni corrisponde però al significato che ha il predetto concetto nell’attuale ordinamento giuridico della Chiesa. In Diritto canonico il “foro interno” è semplicemente un “modo” di agire della potestà ecclesiastica di giurisdizione (potestas regiminis, c. 129 CIC); una “via” cioè, per mezzo della quale tale potestà è messa efficacemente in atto attraverso regole giuridiche proprie e originali della Chiesa quando le circostanze pastorali impongono detto trattamento. […] Pur ammettendo la legittimità dell’uso analogico di questo termine, occorre tener ben presente che si tratta di un concetto il cui senso più preciso è strettamente legato all’esercizio della giurisdizione». Arrieta precisa: «L’esercizio della giurisdizione ecclesiastica in foro interno […] appare giustificato dalle esigenze della salus animarum, alle quali, in ultima analisi, vanno anche ricondotti gli altri criteri che guidano l’esercizio della giurisdizione ecclesiastica in tale foro: la protezione del diritto fondamentale alla buona fama di ogni fedele (c. 220 CIC); l’esigenza di promuovere il pentimento del soggetto senza rendere gravoso il ricorso all’autorità; la necessità, in alcuni casi, di facilitare e garantire ovunque l’assistenza pastorale ai fedeli. D’altra parte, la giurisdizione in foro interno risponde anche alla singolarità dell’ordine giuridico ecclesiale e al modo in cui esso delimita la realtà dell’esperienza giuridica della Chiesa, al di là dei soli parametri di pubblicità degli atti. L’esercizio della giurisdizione ecclesiastica non è circoscritto soltanto a quanto risulta apparente, ma all’intera realtà delle cose che sono rilevanti nella società ecclesiale (spirituale), nel rispetto di regole particolari quando tale potestà non si muove nel foro esterno. […] /Caratteristica del foro interno è […] la natura occulta del provvedimento giurisdizionale che viene adottato; esso è un atto di giurisdizione occulto, derivante tanto dalla natura ugualmente occulta dei fatti su cui poggia, quanto dal modo riservato con cui è stata attivata la giurisdizione da parte dell’interessato» (ivi, pp. 1256-1257). Inoltre distingue: «Si chiama di foro interno sacramentale […] l’attuazione giurisdizionale che inizia nell’ambito della Confessione, quando nel quadro del sigillo sacramentale vengono rivelati atti o situazioni per i quali il penitente chiede l’attuazione giurisdizionale. A meno che il penitente non opti liberamente per porre in seguito la situazione fuori dal Sacramento […] l’iniziale contesto sacramentale scelto dal soggetto incide sulla procedura successiva, aggiungendo ostacoli ad una eventuale prova futura nel foro esterno, non essendo possibile in questo caso precostituire tracce che possano accertare l’esercizio della giurisdizione. /Sono, invece, attuazioni di foro esterno extra-sacramentale quelle dispense, remissioni, convalide, ecc. realizzate

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 rimettendo i peccati, bensì concedendo grazie, rompendo vincoli giuridici (come ad esempio le censure) e occupandosi di tutto ciò che riguarda la santificazione delle anime e, perciò, la sfera propria, intima e personale di ciascun fedele. /Al foro interno extra-sacramentale appartiene in modo particolare la direzione spirituale, nella quale il singolo fedele affida il proprio cammino di conversione e di santificazione a un determinato sacerdote, consacrato/a o laico/a. […] /Nella direzione spirituale, il fedele apre liberamente il segreto della propria coscienza al direttore/accompagnatore spirituale, per essere orientato e sostenuto nell’ascolto e nel compimento della volontà di Dio. /Anche questo particolare ambito, perciò, domanda una certa qual segretezza ad extra, connaturata al contenuto dei colloqui spirituali e derivante dal diritto di ogni persona al rispetto della propria intimità (cf. can. 220 CIC). Per quanto in modo soltanto “analogo” a ciò che accade nel sacramento della confessione, il direttore spirituale viene messo a parte della coscienza del singolo fedele in forza del suo “speciale” rapporto con Cristo, che gli deriva dalla santità di vita e - se chierico - dallo stesso Ordine sacro ricevuto»122. Con il codicillo non affatto frustraneo che ci sentiamo di

dall’autorità in forma occulta, a margine del Sacramento della Confessione» (ivi, pp. 1262-1263). Per un’esaustiva trattazione circa i criteri di distinzione tra foro esterno e foro interno e le correlazioni nonché le possibili tensioni tra i due v. P. Erdö, Foro interno e foro esterno nel diritto canonico. Questioni fondamentali, in Periodica, XCV (2006), pp. 3-35 (e con riferimento al sacramento della penitenza v. ivi, p. 27 ss.). Sulla definizione di foro interno, sull’evoluzione intervenuta al riguardo, sulle diversificate opinioni dottrinali, sull’affermazione della giuridicità del foro interno e dell’unicità della potestà di governo della Chiesa, nonché, infine, sulla «non sempre peraltro univoca» distinzione tra foro interno sacramentale ed extra-sacramentale rinviamo poi, per tutti, ai contributi di C.-M. Fabris, Il foro interno nell’ordinamento giuridico ecclesiale, in Prawo Kanoniczne, LVIII (2015), pp. 29-64; Id., Sulla nozione di foro interno nel diritto della Chiesa, in Archivio giuridico, CCXXXVI (2016), pp. 187-217, ove ulteriori riferimenti dottrinali. 122 Punto 2 della Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., pp. 7-8. Si afferma inoltre in essa (anche a conferma dell’accezione lata di foro interno): «Il sacerdote esercita tale ministero in virtù della missione che ha di rappresentare Cristo, conferitagli dal sacramento dell’Ordine e da esercitarsi nella comunione gerarchica della Chiesa, per mezzo dei cosiddetti tria munera: il compito di insegnare, di santificare e di governare. I laici in forza del sacerdozio battesimale e del dono dello Spirito Santo»; e ancora: «A testimonianza della speciale riservatezza riconosciuta alla direzione spirituale, si consideri la proibizione, sancita dal diritto, di chiedere non solo il parere del confessore, ma anche quello del direttore spirituale, in occasione dell’ammissione agli Ordini sacri o, viceversa, per la dimissione dal seminario dei candidati al sacerdozio (cf.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 aggiungere - ma ne risulta conscio lo stesso Tribunale123 - secondo il quale la circonlocuzione ‘direzione spirituale’ appare oggi un poco démodé e obsoleta, instillando quasi diffidenza: tanto che è stata rimpiazzata, specialmente nel magistero di Papa Francesco, dall’espressione, con contenuto pressoché uguale, di ‘accompagnamento spirituale’124. Perciò, pure queste estrinsecazioni tipiche del ministero, e con similari e non accessorie afferenze ecclesiali, pretendono, sia pur non con il rigore da cui è circonfuso il sigillo della confessione, di essere rivestite del diaframma protettivo della riservatezza - si parla ‘tecnicamente’ di ‘segreto naturale’ ovvero di ‘segreto commesso’125, appressandosi, con i dovuti distinguo, al

can. 240, § 2 CIC; can. 339, § 2 CCEO). Allo stesso modo, l’istruzione Sanctorum Mater del 2007, relativa allo svolgimento delle inchieste diocesane o eparchiali nelle Cause dei Santi, vieta di ammettere a testimoniare non soltanto i confessori, a tutela del sigillo sacramentale, ma anche gli stessi direttori spirituali del Servo di Dio, anche per tutto ciò che abbiano appreso nel foro di coscienza, fuori della confessione sacramentale. /Tale necessaria riservatezza sarà tanto più “naturale” per il direttore spirituale, quanto più egli imparerà a riconoscere e a “commuoversi” davanti al mistero della libertà del fedele che, per mezzo suo, si rivolge a Cristo; il direttore spirituale dovrà concepire la propria missione e la propria stessa vita esclusivamente davanti a Dio, al servizio della sua gloria, per il bene della persona, della Chiesa e per la salvezza del mondo intero». 123 La Penitenzieria Apostolica è un Tribunale in senso atipico: v., per tutti, Z. Grocholewski, I tribunali, in P.A. Bonnet - C. Gullo (a cura di), La Curia romana nella Cost. Ap. “Pastor bonus”, Città del Vaticano 1990, pp. 395-428. Si vedano peraltro le precisazioni di P. Erdö, Foro interno e foro esterno nel diritto canonico. Questioni fondamentali, cit., pp. 25 s. 124 Cfr. K. Nykiel, Sintesi della Nota sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, consultabile online sulla pagina web della Penitenzieria Apostolica: «Oggi non è tanto frequente sentire parlare di direzione spirituale, espressione che sembra aver fatto il suo corso e che dice poco o nulla al contemporaneo. Forse perché secondo l’attuale sensibilità culturale la parola direzione potrebbe evocare l’idea di un potere esercitato sulla coscienza e quindi sulle scelte personali. Così si preferisce parlare più di accompagnamento spirituale, in quanto facilitare l’azione dello Spirito presente e operante nella persona, ben si concilia con un maggiore riconoscimento dell’esercizio della libertà altrui. Lo stesso papa Francesco esorta la Chiesa a iniziare i suoi membri (sacerdoti, religiosi e laici) all’arte dell’accompagnamento, non come una specie di terapia che rafforza la chiusura delle persone nella loro immanenza, bensì come pellegrinaggio con Cristo verso il Padre, per realizzare l’anelito di libertà e raggiungere la meta della nostra speranza (EG 169)». 125 Cfr. R. Coronelli, Il significato ecclesiale del segreto, cit., p. 29: «Fuori dalla confessione, per esempio in ambito di direzione spirituale, si ritiene che il sacerdote sia tenuto solo al segreto naturale e al segreto commesso e qualora il fedele rivelasse qualcosa al sacerdote fuori dalla confessione dicendogli di considerarlo come detto in confessione, si ritiene che il confessore non sia tenuto propriamente al sigillo».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 segreto professionale126 -: riservatezza che sola può rendere appetibile e fruttuoso per i fedeli il ricorso ad esse. Peraltro, a parte la citata norma che esonera il chierico dal deporre su quanto gli è stato manifestato ratione sacri ministerii, non parrebbero esserci canoni specifici sull’obbligo del segreto, rimettendosi alla coscienza del sacerdote medesimo che gli indicherà il comportamento da tenere. E ciò è sufficiente, se si ha ben presente poi quel dovere di mai illegitime laedere la buona fama e segnatamente di non violare l’intimità delle persone di cui al can. 220 evocato dalla stessa Penitenzieria: diritto umano e insieme cristiano di basilare importanza in cui l’interesse individuale e il bene comune sono tra loro peculiarmente congiunti127. L’intervento chiarificatore del dicastero è stato, anche al proposito, provvidenziale in questi tempi che vedono lo sgretolamento di nozioni, e delle collegate esigenze di protezione, un tempo da tutti comprese e assecondate con docilità, anzitutto all’interno del coetus fidelium. Essi, come affiorato da questo condensato ma essenziale excursus sullo ius canonicum – condotto sul solco di autorevoli scolii dottrinali –, sono il referente ultimo di ogni prescrizione giuridica: anche se mai individualisticamente ed atomisticamente concepiti, bensì unitariamente inseriti nel populus Dei vocato alla salvezza. Certo non tutto ciò che ha appreso va taciuto dal sacerdote: ma dal solo interesse dei fedeli (non di quel solo che a lui si è rivolto) la coscienza di quest’ultimo - restando intatto il sigillo sacramentale di cui egli non dispone - deve farsi guidare nel discernimento, invero non semplice, di cosa non può divulgare in forza appunto del segreto naturale e del segreto commesso, e cosa invece può, ha cioè il diritto, anche di fronte agli ordinamenti secolari, semmai il dovere morale128, non però l’obbligo giuridico di comunicare129.

126 V. K. Martens, Le secret dans la religion catholique, cit., p. 272 ss. 127 Si sofferma su questo aspetto con particolare riferimento al tema ora trattato K. Martens, Le secret dans la religion catholique, cit., p. 270 ss., che illustra il «fondement théologique de ce canon […] dans la constitution pastorale Gaudium et Spes, n° 26 § 2». 128 J.A. Fuentes, Sobre la importancia del fuero interno y la inviolabilidad del sigilo sacramental. Acerca de la Nota de la Penitenciaría Apostólica de 29-VI-2019, in Ius canonicum, LIX (2019), pp. 905-906, osserva: «Resulta muy interesante que el documento de la Penitenciaría no considera la posibilidad de que este tipo de secreto pueda cesar. Simplemente defiende el derecho a la intimidad y el hecho de que nadie pueda violar la confianza que supone su apertura. También se debe observar que la Penitenciaría lo sitúa por encima de los llamados secretos profesionales. Teniendo en

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Riposizionandoci ora di nuovo sul crinale dell’intreccio normativo in Italia, la tutela del segreto dunque nasce contestualmente all’interesse ‘privato’ di chi si confida, e a questo il diritto secolare potrebbe ipoteticamente accontentarsi di fornire usbergo giuridico, a guisa di una certa interpretazione dello stesso art. 200 C.P.P.: ma poi, senza soluzione

cuanta esto, y que estamos en un género de secretos que se debe defender, cabe preguntarse si en este ámbito habría situaciones excepcionales que permitieran la divulgación de secretos. /La Penitenciaría no considera las posibles excepciones a la observancia de este tipo de secretos porque, en principio, se rigen por la regla general del total y absoluto respeto a la confidencialidad. Las posibles excepciones las podremos considerar en dependencia de lo que enseña el Catecismo, y lo que han señalado los moralistas: puede haber situaciones excepcionales que justifiquen su revelación porque medie una causa proporcionada. Sería el caso de la defensa del bien común, y también los bienes personales, junto con el deber de evitar graves males. Se trataría de evitar el daño que el confidente pudiera hacerse a sí mismo o a otros. /En estas situaciones, y no solo en el ámbito judicial sino también ante otras relaciones, no sucede lo que ocurre con la confesión, en la que no cabe la divulgación por consentimiento del penitente. Aquí si cabe solicitar permiso a quien confía su interioridad para comunicar lícitamente a otros el secreto de conciencia recibido por un laico o sacerdote. Debe tratarse de un consentimiento voluntario y libre. El consentimiento libre supone que el dirigido posee información suficiente sobre hasta dónde se extiende el círculo de personas a quienes se podrán comunicar los datos confiados. /La decisión de revelar un secreto de conciencia exige ejercer la virtud de la prudencia en orden a determinar si existe o no verdadera causa proporcionada de divulgación. Para estas situaciones reiteramos que siempre habría que hacer todo lo posible por lograr el consentimiento de quien abrió su intimidad». 129 Spiega, nel comunicato divulgato il 18 dicembre 2018 e intitolato Segreto professionale e segreto della confessione, la Conferenza Episcopale del Belgio, Violenze e segreto della confessione, in Il Regno. Documenti, LXIV (2019), p. 231: «I presbiteri che agiscono in quanto persona di fiducia o guide spirituali devono […] operare accuratamente la distinzione o la transizione fra un colloquio in quanto guida (coperto dal segreto professionale ordinario e in cui esiste il diritto di comunicare) e la confessione […] (coperta dal segreto della confessione)»; e ricorda a tutti gli assistenti spirituali: «Chi viola il segreto professionale commette una colpa professionale. Ciò compromette la credibilità della funzione pastorale, fa torto alla persona che si è confidata e danneggia l’ordine pubblico. La violazione dell’obbligo di rispettare il segreto professionale prevede sanzioni civili e canoniche. Gli assistenti spirituali hanno dunque tutte le motivazioni per rispettare il proprio segreto professionale con la più grande cura. […] Esistono eccezioni alla regola generale del segreto professionale? Esistono situazioni nelle quali un assistente spirituale può o deve comunicare le confidenze ricevute? Non è una domanda semplice. Si opera abitualmente una distinzione fra l’obbligo e il diritto di comunicare. In Belgio, in ragione del segreto professionale, gli assistenti spirituali non sono tenuti a comunicare. Tuttavia in circostanze eccezionali possono esercitare il diritto di comunicare, come previsto dal Codice penale» (ivi, p. 230).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 di continuità, essa si trasmette a quello del ministro di culto130. Tuttavia, nell’‘emisfero’ canonistico, assunto compiutamente nel disposto concordatario e quindi divenuto rilevante pure per l’ordinamento italiano, tale tutela finisce per accorparli e ricomprenderli entrambi, inglobando l’interesse di ogni christifidelis che potesse versare nelle medesime contingenze, un interesse cioè indivisibile e coeso, indissolubilmente innervato nel bonum commune Ecclesiae in virtù primariamente (ma non solo, come visto) dell’intrinseca sua natura di communio sacramentorum. Solamente con riguardo a questo aggregarsi e compenetrarsi di più oggetti di tutela si può parlare cumulativamente di interesse ‘istituzionale’ di cui si è fatta latrice la Chiesa cattolica nelle negoziazioni per addivenire alla norma bilaterale. Ma occorre intendersi bene: è istituzionale non nel senso che appartiene all’istituzione in quanto tale, a scudo di franchigie e privative a profitto di chissà quale apparato di potere. Perché al fondo ci sono, per converso, esigenze inalienabili della persona civis ma al contempo, e insopprimibilmente, fidelis che l’ordinamento canonico custodisce ma di cui anche l’ordinamento dello Stato non può non farsi carico: c’è, perciò, l’implementazione della libertà religiosa dell’intero popolo di Dio, sacerdoti compresi, la quale non può essere pesantemente calpestata e compressa, come già Francesco Carnelutti, oltre cinquant’anni or sono, con grande acume, prefigurava131. Perciò l’inadempienza o l’applicazione a senso unico di questa congerie di precetti imposta dal diritto dello Stato a presidio della riservatezza di certi rapporti personali, oltre a vessare colui che si è confidato e ad esacerbare

130 Cfr. anche A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., p. 913, secondo cui, quanto alla previsione di cui all’art. 4 n. 4 dell’Accordo di Villa Madama, «Nulla comunque autorizza a definire i limiti oggettivi della norma in esame alla luce della ratio che si è visto essere sottesa alla sopra richiamata disposizione unilaterale statale. Ed è anche significativo che la Suprema Corte, in uno dei rari casi in cui ha affrontato la questione del segreto confessionale in senso stretto (il c.d. “sacramentale sigillum”), abbia seguito un percorso interpretativo diverso (basato sulla piena corrispondenza tra la norma di fonte interna statale e quelle di origine confessionale), ma pur sempre sensibile alle esigenze di libertà del ministro di culto e di autonomia della Chiesa». La sentenza cui l’Autore si riferisce è Cassazione Penale, Sezione I, 17 dicembre 1953, in Giustizia penale, X (1954), II, pp. 254-262, che ancora ricorderemo. 131 V. F. Carnelutti, Principi del processo penale, Napoli 1960, p. 199. Si vedano anche le considerazioni di V. Gianturco, Brevi note sul sacramentale sigillum, in Rivista di polizia. Rassegna di dottrina tecnica e legislazione, XXVI (1973), pp. 334-341, che pur si limita a considerare il segreto della confessione.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 il conflitto di lealtà gravante sul ministro del culto, turberebbero e destabilizzerebbero l’intero corretto rapporto fra i due ‘ordini’, riflettendosi negativamente su tutti i cives-fideles: i quali sono cerniera tra essi e ragione ultima del loro fecondo interrelazionarsi. Tra l’altro, la prospettiva approcciata tende ad incontrarsi con letture avanzate dello stesso ‘diritto comune’ italiano, ove rinveniamo singolari omogeneità ed assonanze, sia pur da apprendere cum grano salis, con quanto appena verificato partendo dal piano canonistico per pervenire a quello concordatario. Così si assevera come la conservazione del segreto non sia posta solo a beneficio del confidente ovvero del professionista per sgravarlo delle responsabilità penali in cui potrebbe incorrere ex art. 622 C.P.: «la ratio dell’art. 200 c.p.p. non può essere ridotta all’esigenza di tutelare il professionista dal rischio di un’incriminazione, o il confidente da una rivelazione che gli arrecherebbe nocumento, ma, come chiarito anche dalla Corte costituzionale132, risiede

132 Cfr. Corte costituzionale, (25 marzo) 8 aprile 1997, n. 87 (giudice relatore Cesare Mirabelli), in Giurisprudenza costituzionale, XLII (1997), pp. 883-889: «L’esenzione dal dovere di testimoniare non è […] diretta ad assicurare una condizione di privilegio personale a chi esercita una determinata professione. Essa è, invece, destinata a garantire la piena esplicazione del diritto di difesa, consentendo che ad un difensore tecnico possano, senza alcuna remora, essere resi noti fatti e circostanze la cui conoscenza è necessaria o utile per l’esercizio di un efficace ministero difensivo. /Da questo punto di vista la facoltà di astensione dell’avvocato non costituisce un’eccezione alla regola generale dell’obbligo di rendere testimonianza, ma è essa stessa espressione del diverso principio di tutela del segreto professionale. Il legislatore, disciplinando la facoltà di astensione degli avvocati, ha operato, nel processo, un bilanciamento tra il dovere di rendere testimonianza ed il dovere di mantenere il segreto su quanto appreso in ragione del compimento di attività proprie della professione. L’ampiezza della facoltà di astensione dei testimoni deve essere interpretata nell’ambito delle finalità proprie di tale bilanciamento. /La protezione del segreto professionale, riferita a quanto conosciuto in ragione dell’attività forense svolta da chi sia legittimato a compiere atti propri di tale professione, assume carattere oggettivo, essendo destinata a tutelare le attività inerenti alla difesa e non l’interesse soggettivo del professionista. /Essa, dunque, non può che estendersi anche a chi, essendo iscritto nei registri dei praticanti a seguito di delibera del Consiglio dell’ordine degli avvocati, adempie agli obblighi della pratica forense presso lo studio del professionista con il quale collabora. […] /Questa interpretazione delle disposizioni denunciate, coerente con le finalità che caratterizzano l’esclusione dell’obbligo di deporre, corrisponde ai criteri del bilanciamento, operato dal legislatore, tra dovere di testimoniare in giudizio e dovere di rispetto del segreto professionale da parte di chi adempie al ministero forense. /È, dunque, possibile dare alle disposizioni denunciate un’interpretazione che ne individui il contenuto normativo senza determinare il contrasto con la disposizione costituzionale denunciata; sicché, secondo un principio più volte enunciato dalla Corte, dovrà essere preferita

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 nell’esigenza, di natura pubblicistica, di garantire il libero esercizio di attività professionali volte alla salvaguardia di diritti costituzionalmente protetti, ed il cui rilievo, quindi, giustifica, comunque, nell’ottica del bilanciamento di valori costituzionalmente rilevanti, il sacrificio dell’interesse dell’ordinamento ad accertare i fatti-reato e le relative responsabilità, al quale è funzionale l’obbligo testimoniale»133. D’altronde, in una recente monografia (a quanto ci risulta, la più recente) sui segreti professionali in genere, non già di un ecclesiasticista ma di un processualpenalista, la tesi pervicacemente sposata sul tema si discosta dall’impostazione forse più diffusa nell’ultimo scorcio del Secondo Millennio: ‘riesumando’ invece enunciazioni giurisprudenziali134 e opinioni già in passato sostenute135, le rinnova con considerazioni condivisibili, evinte specie dall’intensa evoluzione sociale nel frattempo intervenuta e che ha condotto ad una «rivalutazione del bilanciamento di

l’interpretazione compatibile con la Costituzione (da ultimo, sentenza n. 421 del 1996)». 133 B. Lavarini, in M. Deganello - B. Lavarini, Il segreto del ministro di culto come limite alla testimonianza penale, cit., p. 1347, che riporta la dottrina orientata verso questa posizione. 134 Interessantissima proprio in questo senso la sentenza della Cassazione Penale, Sezione I, 17 dicembre 1953, cit., pp. 259-260: «L’inviolabilità dei segreti indicati nell’art. 351 C.P.P. costituisce un interesse sociale di così rilevante importanza da sovrastare al dovere civico della testimonianza, derogato per evidenti motivi di politica. […] /Trattasi in sostanza di una facoltà di astenersi dal deporre, riconosciuta a determinate categorie di persone, il cui esercizio è rimesso alla coscienza del teste ed è insindacabile, una volta accertata la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge (art. 351, ult. parte C.P.P.). /Tale facoltà di astensione ha carattere strettamente personale, né viene meno per effetto di eventuale dispensa dall’obbligo del segreto, da parte dell’affidante. /Nessun limite o condizione è posta dalla legge alla facoltà di astenersi dal deporre e sarebbe illegittimo introdurre nell’economia della norma elementi non contemplati espressamente che contrasterebbero col suo evidente carattere eccezionale, la cui interpretazione va strettamente contenuta nei confini della previsione e della ratio che la giustifica. /La volontà del depositario del segreto deve essere rispettata, se questi ritiene di dover tacere e deve prevalere anche su quella contraria dello affidante. /Solo il depositario ha la possibilità di valutare incensurabilmente, in riflesso alla correttezza, la convenienza di mantenere o violare il segreto di fronte alla giustizia. […] /La volontà del depositario è, perciò, preminente sull’interesse individuale e su di essa non può influire quella dell’affidante. /Invero il professionista, solo dal foro interno della sua coscienza, può trarre indici di orientamento determinatori della propria condotta positiva o negativa […]». V., tra i molti, il commento adesivo di L.M. Renzoni, Il diritto del ministro del culto cattolico di astenersi dal deporre in giudizio, in Archivio penale, XI (1955), I-II, pp. 95-98. 135 V., per tutti, V. Perchinunno, Limiti soggettivi della testimonianza nel processo penale, Milano 1972.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 quei valori che sono ritenuti meritevoli di essere contrapposti alla esigenza dell’accertamento penale»136. Secondo questa tesi, lo sbarramento ai poteri istruttori dell’autorità giudiziaria e all’intrusione degli inquirenti per preservare appunto il segreto professionale su tutto ‘quanto conosciuto’137 è imperniato su esigenze di salvaguardia che, pur contemplandone gli interessi, finiscono per prescindere, per così dire ad postremum, dalle parti direttamente coinvolte138. Si scollano anzitutto le due previsioni, quella del Codice Penale - tutelante essenzialmente un interesse privato - e quella del Codice di rito - tutelante essenzialmente un interesse pubblico -, separando ed epurando quest’ultima da ogni ‘contaminazione sostanzialistica’: poiché trarre dal diritto sostanziale ragioni, superficie e modalità della copertura del segreto comporterebbe un annullamento della vis garantista dell’art. 200 sia associandola necessariamente al detrimento del confidente139, sia soprattutto

136 A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., pp. 9-10: e va notato come «il bilanciamento dei valori non sia, per così dire, scolpito nella pietra, ma come esso debba riflettere l’evoluzione alla quale, in una moderna società, è sottoposta la scala dei valori» (ivi, p. 225). 137 Significativamente, senza fare alcuna distinzione tra i vari segreti professionali, commenta A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 107: «L’ambito di “quanto conosciuto”, peraltro, non è limitato solo a quanto l’interessato confida al soggetto qualificato, ma a qualunque circostanza di fatto (una malattia, per il caso del medico; il luogo in cui si è rifugiato il ricercato, per l’avvocato o il sacerdote che hanno contatti con il latitante) appresa in ragione della professione o del ministero ancorché l’interessato non intendesse nemmeno farne oggetto di condivisione con chicchessia». 138 Interesse pubblicistico che, tra l’altro, «prescinde completamente dalla regolazione negoziale che le parti hanno inteso dare al loro rapporto»: A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 129. 139 Cfr. L. Leoncini, Aspetti di rilievo processuale penalistico nelle recenti intese tra lo Stato italiano e alcune confessioni religiose, cit., p. 979, con riferimento proprio al segreto ministeriale: «Emerge, in definitiva, uno scollamento tra norma sostanziale e norma processuale, che si spiega proprio considerando i diversi destinatari della tutela: il singolo fedele, primo latore delle informazioni nell’un caso; l’autorità confessionale e il libero espletamento della sua funzione, scevra da ogni tipo di “ingerenza” statale, nell’altro. Da ciò una serie di corollari […] privo di alcun rilievo è un ipotetico consenso del confitente alla deposizione testimoniale del ministro di culto, in quanto siffatto consenso è, per un verso, non necessario, potendo il ministro di culto determinarsi autonomamente nella scelta della condotta processuale da seguire (proprio perché l’interesse da proteggere attiene a se stesso e alla propria funzione, e non già alla persona del fedele), per altro verso - e per gli stessi motivi - neppure sufficiente, non avendo forza costrittiva su decisioni lasciate alla piena discrezionalità dell’ecclesiastico interpellato». A nostro avviso, invero, come spiegato nel testo, i vari interessi da proteggere vanno integrati.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 legittimando il giudice a sindacati sull’opportunità dello ius opponendi e quindi sul mantenimento del segreto medesimo140, risoluzione da riservarsi invece al discernimento del depositario141. E si individuano poi tali esigenze superindividuali, ‘pubbliche’ e ‘sociali’, tutte gravitanti nell’orbita della Costituzione, che possono così riepilogarsi: «In primo luogo, quella di garantire il perseguimento di determinati interessi ritenuti meritevoli di una considerazione mercé la quale si giustifica la compressione della tutela predisposta per l’amministrazione della giustizia penale. In secondo luogo, quella di proteggere la discrezione e la riservatezza di quei rapporti fondati sull’intuitus personae ed ai quali si è talvolta costretti a ricorrere per poter soddisfare altri bisogni. In ultimo, anche nella esigenza di tutelare l’autonomia ordinamentale che viene riconosciuta a certi organismi per la regolamentazione di determinate attività»142. Per questo il segreto professionale si prospetta quale «figura eminentemente di relazione intersoggettiva qualificata: il contenuto e l’estensione della stessa possono essere delineati solo avendo riguardo al tipo di rapporto che ha generato la conoscenza ed a prescindere da qualunque particolare richiesta, espressa o tacita, da parte del confidente di sottrarre alla curiosità di terzi talune informazioni riferite al soggetto qualificato. […] la nozione de qua prescinde dalla circostanza che la notizia di cui si acquisisce conoscenza sia oggettivamente segreta essendo richiesto esclusivamente che chi la conosce rivesta un particolare status.

140 Cfr. A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., sin dalle prime pagine del volume, e poi a p. 104 ss. Questo vale per tutti i segreti professionali. Quanto poi al segreto ministeriale, replicando alle posizioni divergenti, si osserva: «Accedere ad impostazioni del genere di quelle appena evidenziate […] significherebbe non poter giustificare casi estremi che in questa materia potrebbero manifestarsi come, ad esempio, quello del sacerdote che vede condannato a morte il proprio fratello, innocente, mentre sa, attraverso la confessione ricevuta, chi è il colpevole. Ragionando in termini di giusta causa il sigillum sacramentale potrebbe risultare in tantissimi casi privo di giustificazione soprattutto per chi professi una fede che non prevede il sacramento della confessione o sia semplicemente non credente. Anzi, poiché il dogma basato sulla parola dei Vangeli e la concezione che la salvezza di ogni anima abbia un valore infinito sono concetti che coinvolgono ampi spazi di irragionevolezza, sul piano del diritto e della giustizia terrena, continuamente alla ricerca di delicati punti di equilibrio, difficilmente potrebbe trovare giustificazione il rispetto del segreto religioso» (ivi, pp. 8-9). 141 V. ancora A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 25 ss. 142 A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., pp. 26-27, che cita ulteriore dottrina a conferma.

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[…] Ancora, poiché il presupposto di operatività del limite dell’obbligo della testimonianza è normativamente individuato nella circostanza che il soggetto qualificato abbia appreso la notizia “per ragioni del proprio ministero, ufficio o professione”, è fatale come, una volta che sia accertato che l’origine della conoscenza sia stata determinata da tali rapporti, la caducazione o meno del segreto possa dipendere da valutazioni discrezionali affidate al professionista destinatario della norma»143: solo a quest’ultimo, quindi, come già anche sopra si è rilevato, a nulla rilevando, tra l’altro, il consenso del titolare del segreto ovvero - anche questo è stato in precedenza appuntato - la notorietà della notizia144 o di quanto comunque è stato comunicato145. Non può sfuggire una certa singolare corrispondenza con quelle esigenze - diversamente radicate, come ovvio - di cui anche il diritto canonico, per vie del tutto autonome, si fa portatore per quanto concerne il segreto della confessione e la riservatezza del foro interno extrasacramentale largamente inteso. Insomma, i due ordinamenti, pur muovendo da presupposti non coincidenti, paiono immettersi, se non sullo stesso, su un binario procedente nella medesima direzione. E significativamente - per quanto in seguito si argomenterà - ex parte Status le considerazioni appena ricapitolate vedono unitariamente assemblati e consorziati il segreto ministeriale, complessivamente riguardato, e quelli collegati alle

143 A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., pp. 110-111; inoltre «una volta precisato che rientra nell’ambito del segreto tutto quanto conosciuto in ragione del rapporto professionale o ministeriale, è fatale che la protezione accordata dall’art. 200 c.p.p. riguardi non solo le notizie che concernono direttamente il cliente del professionista ma anche quelle riferibili a persone terze, siano esse fisiche o giuridiche; […] coerentemente alla ratio della disciplina del segreto che si viene a delineare, la disposizione processuale deve essere interpretata nel senso che il vincolo, una volta insorto, permanga anche quando sopravvenga la morte di colui che eseguì la confidenza al professionista o al ministro del culto» (ivi). 144 Su questi punti v., ancora, A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 126 ss., con citazioni di dottrina conforme. 145 Infatti «è ovvio che il divieto per il testimone di riferire quanto conosciuto in ragione della professione o ministero debba riguardare, oltre che le notizie apprese de auditu dal soggetto interessato, anche il contenuto di quegli atti e documenti nei quali, appunto, può essere rappresentata una traccia del pensiero o un segno suscettibile di elaborazione critica. Ove, tuttavia, non fossero previste cautele particolari nell’apprensione dell’atto o del documento, la disciplina del segreto potrebbe essere agevolmente elusa»: A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 146. Non ci occupiamo in particolare in questa sede dell’esibizione documentale e del sequestro e neppure delle intercettazioni delle comunicazioni.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 altre professioni, fortificandone le garanzie giuridiche in chiave appunto organica e compatta per non svilire ed incrinare l’interesse ‘pubblicistico’ ed insieme ‘personalistico’ alla credibilità e affidabilità della funzione volta a volta esercitata, soffocando i principi costituzionali che ne sono il motore. Ciò depone a conforto del fatto che non si tratta di pretendere in Italia la concessione di un regime abnorme o monopolistico di favore al solo segreto religioso, intento al quale al fondo possono finire per essere fatte orbitare - magari anche forzatamente ma non meno efficacemente - tutte le ricostruzioni che ritagliano una posizione ‘atipica’ del ministro di culto cattolico: un regime privilegiario che sarebbe alquanto difficilmente giustificabile, oggi a fortiori, e nonostante le pattuizioni concordatarie, le quali, si sa (e lo vedremo anche a breve), non rappresentano più un argine o un deterrente per certi magistrati. Invece si immette il segreto religioso, pur senza alterarne o adulterarne in alcun modo la specificità a guarentigia della libertà di fede, entro coordinate di protezione generali, che si dimostrano quelle a più coriacea resistenza nelle relazioni interordinamentali. Siamo cioè dell’avviso che ricondurre il più possibile la posizione del ministro di culto entro la circonferenza del diritto comune sia assai più efficace, soprattutto nella prospettiva della tenuta futura, che affidarsi completamente alla normativa speciale contenuta nelle fonti pattizie146: malgrado, si badi, la loro - teoricamente - indiscutibile valenza.

5. Orientamenti giurisprudenziali ‘eversivi’: loro infondatezza e impellenza di interventi correttivi

Se questo è, pertanto, lo status quaestionis in Italia, a rendere burrascose le acque tutto sommato chete della dottrina e della giurisprudenza nazionali ha provveduto la Corte di Cassazione. Essa, in un recente pronunciamento, sovverte infatti le acquisizioni sinora maturate con un’interpretazione che, se confermata, temiamo scandirà il definitivo tramonto della tutela della riservatezza dei colloqui con ministri di culto cattolici, con ripercussioni - se non si voglia riservare un privilegium odiosum solo alla Chiesa - sulla parallela disciplina involvente le altre

146 V. la prospettiva generale seguita da A. Licastro, I ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano, cit.., p. 440 ss., p. 556 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 confessioni religiose: perché giocoforza non si può circoscrivere l’accezione restrittiva di una norma giuridica ad una sola delle confessioni religiose, infirmando quella eguale libertà solennemente consacrata nella Carta costituzionale al primo comma dell’art. 8. Il caso riguardava una giovane che aveva subito reiterate violenze sessuali di gruppo a partire dall’età di tredici anni: ella, prima di sporgere denuncia alle forze dell’ordine, si era rivolta ad un sacerdote per chiedergli aiuto ed era stata da lui affidata ad una religiosa affinché le porgesse conforto e sussidio. Entrambi, nel corso del processo, si erano in qualche modo avvalsi della facoltà di non rispondere147, eludendo o replicando evasivamente e non sinceramente - «edulcorate e reticenti»148 erano state ritenute le deposizioni - alle domande dei magistrati. La Cassazione, confermando la condanna dei due per il reato di falsa

147 Quanto alla religiosa ci sembrano condivisibili le argomentate considerazioni di A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., p. 914: «Va, per completezza, aggiunto che, ove il ministro di culto si ritenesse pienamente legittimato a rivendicare la tutela del segreto, bisognerebbe riconsiderare anche la posizione della religiosa, la cui partecipazione al colloquio tra la ragazza e il sacerdote non valse, di per sé, a privare il medesimo del carattere di segretezza. Peraltro, si reputa in genere in dottrina che i religiosi non abbiano alcuna possibilità di invocare l’astensione dal dovere di deporre, in quanto il relativo “stato” non può farsi rientrare nel concetto di “ministri delle confessioni religiose” di cui all’art. 200 c.p.p., né in quello di “ecclesiastici” di cui all’art. 4, n. 4, del nuovo concordato […]. E, come si ricorderà, la religiosa non aveva invocato alcuna facoltà di astensione, neppure nella fase delle indagini preliminari. /Ciò non toglie, tuttavia, che, ove si ritenesse inapplicabile il particolare divieto di esame testimoniale previsto dall’art. 195, sesto comma, c.p.p. nei confronti dei soggetti che hanno “comunque” conosciuto i fatti “dalle persone indicate negli articoli 200 e 201 in relazione alle circostanze previste nei medesimi articoli” (e “salvo che le predette persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati”), non possa ipotizzarsi, in relazione a vicende analoghe a quella in esame, l’esistenza di una regola tacita di esclusione del particolare mezzo probatorio, alla luce dell’ovvia esigenza di impedire facili aggiramenti delle garanzie espressamente codificate dal legislatore […]». Riguardo alla questione specifica relativa a chi possa essere qualificato come ecclesiastico, cui abbiamo accennato in precedenza, A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 47, invece scrive: «Nel vigore del codice del 1930, la dottrina era dell’opinione che non avrebbero potuto avvalersi della disposizione sul segreto professionale le monache; oggi, sulla base di quanto statuito dall’art. 4, n. 4 della legge 25 marzo 1985, n. 121 […] si ritiene, invece, che anche tali soggetti e, più in generale, i non ordinati, possano avvalersi della disposizione di cui all’art. 200 c.p.p. sebbene, sul piano strettamente letterale, la conclusione non possa dirsi così scontata». 148 Corte di Appello di Reggio Calabria, Sezione Penale, 8 marzo 2016 (depositata il 21 marzo 2016), in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XXXIII (2016), 3, p. 922.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 testimonianza (art. 372 C.P.) decisa dal Tribunale di Palmi e confermata dalla Corte di Appello di Reggio Calabria149, suffraga la ricostruzione secondo la quale la fattispecie non rientra nelle situazioni tutelate dalle norme sul segreto ministeriale, non trattandosi «di confidenze e comportamenti che avessero significato nell’ambito della fede religiosa»150. Dopo avere ribadito come indiscutibilmente il diritto al segreto non possa essere limitato alla sola amministrazione del sacramento della confessione, ciò che sarebbe discriminatorio visto che tangerebbe pressoché esclusivamente la religione cattolica151, e quindi sembrando avviarsi verso i lidi consueti, il giudice di legittimità vira poi bruscamente verso una ‘lettura’ assolutamente innovativa e ‘rivoluzionaria’, di rottura rispetto a precedenti decisioni, soprattutto laddove asserisce: «Ciò, ovviamente, non significa che il segreto possa investire qualsiasi conoscenza dell’ecclesiastico bensì riguarda solo quella acquisita nell’ambito di attività connesse all’esercizio del ministero religioso. Correttamente, quindi, la Corte di Appello ha ritenuto che si tratti tutelare comportamenti od atti conosciuti dall’ecclesiastico con riferimento all’esercizio di “fede religiosa” e non anche, fra l’altro, nell’ambito di attività “sociale”, anch’essa tipicamente svolta dagli

149 V. Tribunale di Palmi, Sezione Gip-Gup, 10 dicembre 2012 (depositata il 7 giugno 2013), n. 242, inedita; Corte di Appello di Reggio Calabria, Sezione Penale, 8 marzo 2016 (depositata il 21 marzo 2016), n. 250, cit., p. 921 ss. 150 Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, 15 dicembre 2016 - 14 febbraio 2017, n. 6912, in Il diritto ecclesiastico, CXXVIII (2017), p. 374. Tralasciamo in questa sede di occuparci di altre questioni affrontate dalla sentenza, come quella relativa all’essere o non essere stati i testimoni avvisati della facoltà di avvalersi dell’esercizio del diritto al segreto. Sui vari profili procedurali della tematica esaminata in queste pagine rinviamo, per tutti, alla più recente trattazione di A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 172 ss. 151 Cfr. Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, 15 dicembre 2016 - 14 febbraio 2017, n. 6912, cit., p. 376: «L’art. 4 della citata Legge prevede che l’ambito di segretezza riconosciuto agli ecclesiastici riguardi quanto abbiano conosciuto “per ragioni del loro ministero”. Può ritenersi indubbio che si vada ben oltre il concetto di “segreto confessionale”, sia perché una specificazione di un tale maggiore limite sarebbe stata ovvia in una legge che disciplina i rapporti con la Chiesa cattolica romana - utilizzando quindi espressioni chiare e riferibili alle regole di tale confessione religiosa - e sia perché vi corrisponde la dizione dell’art. 200 c.p.p. Quest’ultimo prevede l’ambito di segreto del “ministero” in generale per tutti i ministri di confessioni religiose, anche quelle che non hanno il “segreto confessionale”; quindi sarebbe ingiustificata una lettura nel senso che per le altre religioni valga il più ampio segreto a protezione dell’esercizio del più ampio ministero e, per la religione cattolica, quella del più limitato ambito della confessione».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ecclesiastici. Ad esempio, l’attività di assistenza a soggetti deboli, pur rientrante nella generica “missione” dell’ecclesiastico (tanto da esistere specifici enti a ciò deputati nell’ambito della religione di appartenenza dei ricorrenti) non rientra certamente nell’esercizio diretto di “fede religiosa”»152. Mentre alla maggioranza di quanti riportavano la notizia sul web ma anche ai curatori degli aggiornamenti di rinomati commentari al Codice di rito153 (sui quali si formano e che guidano gli operatori del diritto), tale drastica inversione di rotta è stranamente sfuggita - tranne a qualcuno che ha bollato almeno come «un po’ sibillina» la biforcazione operata dalla Suprema Corte tra funzione sociale e funzione religiosa154 -, repertoriando la massima senza segnalarne la carica dirompente, alcuni commenti di dottrina ecclesiasticistica più sagace avevano, prudentemente, ‘subodorato’ un revirement non lieve quanto all’estensione oggettiva del segreto opponibile già alle avvisaglie delle

152 Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, 15 dicembre 2016 - 14 febbraio 2017, n. 6912, cit., p. 376. 153 Riferiscono della sentenza senza commenti, ad esempio, M. Panzavolta, Sub art. 200, in L. Giuliani (coordinamento di), Commentario breve al Codice di Procedura Penale. Complemento giurisprudenziale, 10ª ed., Milano 2017, p. 793; A. Balsamo, Sub art. 200, in G. Canzio - R. Bricchetti (a cura di), Le fonti del diritto italiano. I testi fondamentali commentati con la dottrina e annotati con la giurisprudenza, Codice di Procedura Penale, Tomo I (Artt. 1-378), Milano 2017, p. 1463, il quale scrive: «La giurisprudenza ha altresì precisato che il “segreto ministeriale”, previsto dall’art. 200 per tutti i ministri delle confessioni religiose, non comprende solo le notizie apprese nel sacramento della confessione, ma tutte quelle acquisite nell’ambito delle attività connesse all’esercizio del ministero religioso con esclusione delle informazioni di cui si è avuta conoscenza nell’ambito dell’attività “sociale” svolta dagli ecclesiastici». 154 Così M. Galasso, In primo piano - Falsa testimonianza. Non ogni confidenza ricevuta da religiosi è tutelata dal segreto ministeriale, pubblicato online il 21 febbraio 2017 in Leggi d’Italia Legale. Cfr. P. Dell’Anno, La rilevanza del segreto ministeriale ed i limiti della sua opponibilità (nota a cass. pen., sez. pen. IV, 14 febbraio 2017, n. 6912), in Diritto e religioni, XII (2017), 1, p. 686, il quale, dopo avere sintetizzato la sentenza, rileva: «È per contro possibile dubitare dell’assunto in base al quale sarebbe “tout court” esclusa dall’ambito del segreto ministeriale l’attività di assistenza a soggetti deboli, la quale, pur rientrante nella generica missione dell’ecclesiastico non rientra certamente nell’esercizio diretto di “fede religiosa”. Si fa infatti un generico riferimento alla funzione sociale e non a quella prettamente religiosa, anche la distinzione appare eccessivamente sfumata. Peraltro, in casi del genere, pur non essendoci un collegamento diretto alle attività di fede religiosa, potrebbe in ogni caso sussistere una attinenza con l’esercizio del ministero ecclesiastico, tale da condurre al riconoscimento del diritto al segreto del ministero».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 prime decisioni di merito155. Eppure, questa pronuncia non solo traligna, scostandosi rispetto al sentiero che la Cassazione, nei suoi pur non numerosi interventi156, ha sinora segnato, ma è gravemente

155 Cfr. A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., p. 902 ss., il quale si sofferma anche su altre criticità segnatamente della sentenza della Corte di Appello di Reggio Calabria. Censura decisamente la sentenza della Cassazione (oltre che la legge australiana che abbiamo sopra ricordato) A. Bettetini, Abusi sessuali e segreto confessionale, cit., p. 41, il quale così conclude: «possiamo affermare che i due esempi citati in apertura del nostro articolo sono paradigmatici di un neo- giurisdizionalismo di esito dubbio che si sta insinuando in vari ordinamenti politici a opera di una legislazione e di una interpretazione legislativa che, con poco clamore, ma con grandi effetti, sta in fatto modificando l’assetto degli equilibri (e delle relative competenze) fra ordine temporale e ordine spirituale. Intendendo con quest’ultimo non solo l’ambito di autonomia della Chiesa cattolica; ma altresì quello di azione delle confessioni religiose diverse dalla cattolica e, più in generale, quello della religione». 156 Importante e molto nota la sentenza della Corte di Cassazione Penale, Sezione V, 9 luglio 2001, n. 815, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XVIII (2001), 3, p. 1029 ss. La Cassazione ha stabilito che l’ecclesiastico il quale fornisca informazioni incomplete su persona coinvolta nella protezione di un latitante, sempre che le abbia apprese per ragioni attinenti al suo ministero, può avvalersi del diritto di cui al n. 4 dell’art. 4 dell’Accordo di Villa Madama: non è quindi punibile per il reato di falsa testimonianza o di favoreggiamento il sacerdote cattolico che si sia recato nel nascondiglio di un latitante a celebrare messa e che avendo appreso nell’esercizio del suo ministero notizie su persona che abbia svolto un ruolo nella protezione di un latitante, fornisca all’autorità giudiziaria informazioni incomplete. A riguardo, afferma la Corte, una tale condotta deve ritenersi rientrante nell’esercizio del ministero spirituale poiché adoperarsi per la conversione del peccatore è obbiettivo primario di ogni battezzato e a maggior ragione di un sacerdote. La Cassazione conferma poi che non sussiste un’incapacità o un divieto assoluto degli ecclesiastici di testimoniare, ma è conferito agli stessi il diritto di astenersi: ne consegue che il giudice non può automaticamente escludere dalla lista dei testimoni qualsiasi ecclesiastico. Sulla vicenda v., per tutti, A. Licastro, Ministri di culto: l’esperienza giurisprudenziale degli ultimi due lustri all’inizio del nuovo millennio, ivi, p. 979 ss.; S. Bordonali, Somministrazione di sacramenti ed eventuale responsabilità penale del sacerdote, in Il diritto ecclesiastico, CX (1999), I, p. 865 ss.; Id., Memoria difensiva (profili ecclesiasticistici) nella causa penale per favoreggiamento personale aggravato contro un sacerdote, ivi, CXII (2001), II, p. 244 ss. Del tutto diverso il caso deciso dalla Corte di Cassazione Penale, Sezione V, 12 marzo 2004, n. 22827, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XXI (2004), 2, p. 810 ss.: a giudizio della Corte l’opposizione del segreto professionale non può essere sollevata dall’ecclesiastico che ha svolto funzioni di giudice delegato all’istruzione in una causa per la dichiarazione di nullità del matrimonio poiché la funzione di giudice ecclesiastico non è riservata ai sacerdoti e non rientra, pertanto, nell’ambito del ministero sacerdotale stricto sensu, ma nell’ambito delle attività ‘laiche’, che vengono esercitate da persone che abbiano conoscenza tecnica del diritto canonico e capacità di applicazione in concreto delle norme processuali. Può dirsi, sempre secondo la

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 insoddisfacente, e sotto molteplici profili: finendo per inficiare alle fondamenta il nocciolo duro della disciplina normativa del segreto ministeriale in Italia. Dal punto di vista formale - non formalistico, si badi bene - va anzitutto ricordata la natura giuridica e il rango normativo dell’art. 4 n. 4 della legge n. 121 del 1985, esecutiva di un trattato internazionale: riprova eloquente se ne ha nell’art. 14 della medesima, secondo il cui tenore «Se in avvenire sorgessero difficoltà di interpretazione o di applicazione delle disposizioni precedenti, la Santa Sede e la Repubblica italiana affideranno la ricerca di un’amichevole soluzione ad una Commissione paritetica da loro nominata». La Cassazione, per contro, ignorando la matrice concordataria della norma che, simultaneamente all’art. 200 del Codice di Procedura Penale, è da applicarsi alla fattispecie ed il regime della medesima, non solo tralascia di ricorrere ad un esperto, ecclesiasticista o canonista, che potesse illuminarla (come anche si è talora suggerito da parte di processualpenalisti157), ma si arroga la capacità di dettare

Cassazione, che lo svolgimento del processo rientra nelle attività strumentali dell’ordinamento giuridico canonico tendenti verso l’affermazione di principi religiosi, ma non integra esercizio di quella attività che distingue e caratterizza in modo esclusivo ed inconfondibile il ministro del culto; l’eventuale segreto professionale va dunque eccepito dal sacerdote chiamato a testimoniare in un processo penale solo allorché la deposizione che gli viene richiesta incida, per aspetti particolari, su fatti, comportamenti o notizie acquisiti attraverso l’intreccio dell’attività di giudice delegato all’istruzione e quella di ministro del culto. Abbiamo peraltro già sottoposto a critica tale sentenza sotto diversi profili: v. G. Boni, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica e poteri autoritativi della magistratura italiana, cit., p. 4 ss. Per una sintesi della giurisprudenza della Suprema Corte su questi temi v. L. Lacroce, I ministri di culto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Il diritto ecclesiastico, CXXIII (2012), p. 738 ss. 157 Si veda, ad esempio, come argomenta B. Lavarini, in M. Deganello - B. Lavarini, Il segreto del ministro di culto come limite alla testimonianza penale, cit., p. 1352, la quale, osservando che al riguardo «Dalla citata casistica emerge un’eccessiva discrezionalità nell’individuazione dei confini del ‘ministero’, ascrivibile in parte alla genericità dei criteri ricavabili dalla normativa pattizia - ove esistenti -, in parte alla difficoltà del giudice di ‘fare proprie’ categorie tipiche degli ordinamenti confessionali», suggerisce: «Se sotto il primo profilo non può che auspicarsi una maggiore attenzione definitoria da parte del legislatore, per risolvere il secondo problema suggeriamo che in presenza di situazioni dubbie, richiedenti un’approfondita conoscenza dei singoli ordinamenti religiosi, il giudice, nell’ambito degli accertamenti sulla fondatezza dell’opposizione del segreto (art. 200, comma 2, c.p.p.), si rivolga ad un esperto: invero il divieto della c.d. ‘perizia giuridica’ implicitamente ricavabile dall’art. 200 c.p.p. non riguarda, fra l’altro, il diritto ‘straniero’, al quale la normativa delle varie confessioni religiose può essere accostata. Un indice dell’ammissibilità della ‘perizia giuridica’ in

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 un’interpretazione del tutto unilaterale: in violazione dell’impegno assunto con la Chiesa cattolica e dell’art. 7 secondo comma della Carta fondamentale del 1948158, e dunque del principio della bilateralità «costituzionalmente garantito, sia con riferimento alla fase della produzione normativa sia a quella dell’interpretazione volta ad individuare l’esatta portata della norma bilateralmente convenuta»159. Così il supremo giudice di legittimità aderisce alla ricostruzione di quelli di merito160 secondo cui «poiché […] si trattava di fatti che dovevano essere riferiti a tutela della Z vittima di reato e dunque nel suo interesse, non sarebbe stato comunque opponibile il segreto professionale ex art. 200 c.p.p. atteso che la Z aveva su quei fatti già reso dichiarazioni pubbliche nel corso del processo»161. Tale interpretazione misconosce come - l’abbiamo in precedenza rilevato - accanto all’interesse da imputarsi eventualmente all’affidante il segreto e che potrebbe essersi esaurito per la denuncia o la stessa propalazione dei fatti de quibus,

simili situazioni si può rinvenire nell’art. 14, comma 1, legge 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, che espressamente include il ricorso all’esperto fra i mezzi a disposizione del giudice per accertare il diritto straniero applicabile nel caso concreto». 158 Cfr. G. Casuscelli, Il caso del «calciatore pentito» ed il segreto confessionale, cit., pp. 1015-1016: in forza della copertura costituzionale delle norme cosiddette di derivazione concordataria «(oltre che del principio “Pacta sunt servanda”, posto dal diritto internazionale generalmente riconosciuto, e quindi richiamato dall’art. 10 Cost.), il Parlamento non può unilateralmente legiferare contra legem, perché così facendo violerebbe il dovere costituzionale di rispetto degli accordi, né secundum o praeter legem, perché così violerebbe l’obbligo pattizio (a sua volta costituzionalmente protetto) di definire ed integrare consensualmente la portata normativa dell’Accordo. Risulta così circoscritto in certa misura il compito del giudice di interprete “naturale” delle leggi, chiamato a risolvere antinomie ed a colmare (apparenti) lacune dell’ordinamento con il semplice ricorso ai criteri individuati dalle disposizioni preliminari al codice civile in tema di interpretazione». 159 G. Casuscelli, Il caso del «calciatore pentito» ed il segreto confessionale, cit., p. 1024, che prosegue: «Ove così non fosse, la norma pattizia manifesterebbe una palese disomogeneità della disciplina, poiché il controllo sulla non infondatezza della dichiarazione dell’ecclesiastico sarebbe consentito (dal combinato disposto con gli artt. 200 C.P.P. e 249 c.p.c.) alla magistratura ordinaria, penale e civile, e non lo sarebbe alle altre autorità dello Stato nei confronti delle quali l’ecclesiastico eserciti la facoltà di avvalersi del segreto, senza alcuna ragionevole comparazione (in astratto o in concreto) degli interessi in gioco». 160 V. Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, 15 dicembre 2016 - 14 febbraio 2017, n. 6912, cit., p. 376. 161 Corte di Appello di Reggio Calabria, Sezione Penale, 8 marzo 2016 (depositata il 21 marzo 2016), n. 250, cit., p. 921.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 permangano e sopravvivano quegli interessi, principalmente trasfusi nella norma dell’Accordo di Villa Madama ma, come notato, niente affatto alieni alla norma del Codice di rito, avvinti alla libertà dei ministri di culto (come agli avvocati o ai medici, ecc.) - e (qui anche) all’autonomia della Chiesa -, cui è rimesso il potere insindacabile di valutare la convenienza di violare il segreto di fronte alla magistratura statuale o, invece, inflessibilmente, di tacere: anche in concomitanza della dispensa o della sollecitazione del soggetto che è ricorso al ministero presbiterale e che non è l’unico titolare del trattamento garantistico, come si è appena visto. Senza contare quegli ‘interessi di natura pubblicistica’ maturati sia dall’ordinamento canonico sia da quello italiano veicolandoli nella stessa normativa codiciale, i quali sono invece totalmente ignorati dalla Cassazione. Ancor prima che venisse emessa la sentenza che ora postilliamo, brillante dottrina aveva vaticinato che se si fosse pervenuti a tali esiti «trascurando le peculiarità e tipicità dell’istituto, che affonda le sue radici in una tradizione assai risalente, non solo si rischierebbe di fargli perdere il suo più autentico significato, con ripercussioni immediate sulla tutela della libertà religiosa individuale come anche sulle garanzie di autonomia e di indipendenza della Chiesa, ma si profilerebbe anche il dubbio, più che fondato, di una violazione degli impegni concordatari sottoscritti dall’Italia con la Santa Sede»162. E non ci sarebbe da meravigliarsene troppo: un’ulteriore ferita a quel già abbondantemente martoriato e gradatamente smantellato Accordo di Villa Madama cui la Santa Sede pare assistere passivamente inerte163.

162 A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., p. 918. 163 Ci riferiamo in particolare al riconoscimento dell’efficacia civile delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale, cui l’Italia si è impegnata con l’art. 8 dell’Accordo di Villa Madama e che la giurisprudenza italiana ha ormai circoscritto a ipotesi limitatissime. V. quanto abbiamo osservato in G. Boni, Exequatur delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale e decreto di esecutività della Segnatura Apostolica: alla ricerca di una coerenza perduta. Qualche riflessione generale scaturente dalla lettura di una recente monografia, in Il diritto ecclesiastico, CXXIII (2012), II, pp. 296-309; Ead., L’efficacia civile in Italia delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale dopo il Motu Proprio Mitis iudex (parte prima), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica (statoechiese.it), n. 2/2017, 6 febbraio 2017, pp. 1-112; Ead., L’efficacia civile in Italia delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale dopo il Motu Proprio Mitis iudex (parte seconda), ivi, n. 5/2017, 13 febbraio 2017, pp. 1-68; si veda anche A. Sammassimo, Il nuovo ordine pubblico concordatario, ivi, n. 31/2015, 19 ottobre 2015, pp. 1-20. Come sempre puntuali le

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Trascorrendo peraltro ai contenuti più allarmanti, già preannunciati, della decisione, le perentorie asserzioni e conclusioni cui in essa si addiviene suscitano un ginepraio di problemi davvero intricato. La Cassazione, pur negando che il segreto sia solo quello riconducibile al sigillo sacramentale - che, lo ripetiamo, non sussiste generalmente164 nelle altre confessioni165 - e nonostante paia allargare la visuale, in realtà a questo solo arbitrariamente lo circoscrive166, seguendo sostanzialmente le orme dei

riflessioni sulle ‘tentazioni stataliste’ e sulle ‘tendenze neo-giurisdizionaliste’ nell’interpretazione ed applicazione delle disposizioni in materia di matrimonio di O. Fumagalli Carulli, Matrimonio ed enti tra libertà religiosa e intervento dello Stato. Con un saggio di Alessandro Perego, Milano 2012, specialmente p. 145 ss.; della stessa Autrice v. anche il saggio Il matrimonio in Italia tra dimensione religiosa e secolarizzazione, in O. Fumagalli Carulli - A. Sammassimo (a cura di), Famiglia e matrimonio di fronte al Sinodo. Il punto di vista dei giuristi, Milano 2015, pp. 3-23. 164 Cfr. D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, cit., p. 147: «È risaputo del resto che l’accezione sacramentale, condivisa - ad esempio - dalla Chiesa ortodossa, non si trova normalmente riprodotta all’interno delle altre confessioni». Riferimenti a sigillo e segreto in altre confessioni in J. Precht Pizarro, Ministros de culto, secreto religioso y libertad religiosa, in Rivista Chilena de Derecho, XXXI (2004), p. 340. 165 Per un tentativo di illustrazione della disciplina del segreto e della penitenza in alcune confessioni religiose, tentativo che si contrassegna peraltro per la singolare improprietà di linguaggio e imprecisione della trattazione v. S. Feroleto, Il segreto ministeriale delle Confessioni religiose diverse dalla Cattolica, in Rivista di scienze della comunicazione e di argomentazione giuridica, VIII (2016), n. 1, p. 95 ss. V., per contro, le sintetiche ma efficaci annotazioni di R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 46 ss.; nonché vari articoli di diversi Autori in Revue de droit canonique, LII/2 (2002). 166 E infatti nella breve nota che accompagna la pubblicazione della sentenza, in Il diritto ecclesiastico, CXXVIII (2017), p. 373, si sintetizza: «Con la sentenza in questione, la S.C. ha ribadito il principio di diritto per il quale, ferma restando la tutela prestata dall’ordinamento alla segretezza di quanto appreso da determinate categorie di soggetti in contesti particolari, tale tutela deve essere contestualizzata nell’ambito di quanto appreso dai soggetti in questione nello svolgimento delle attività cui la loro categoria è funzionale. La disciplina inerente il segreto che il ministro di culto deve e può tenere è contenuta nella legge di ratifica degli Accordi di Villa Madama, l. 121/1985 art. 4 co. 4, e nell’art. 200 c.p.p. che prevede che i ministri di culto, tra gli altri, non possano essere obbligati a deporre su quanto appreso in ragione del loro ministero; appare dirimente soffermarsi sulle attività ricomprese nel ministero e individuare, pertanto, quelle che ne rimangono escluse. Nel caso di specie, la Corte afferma che la richiesta di aiuto mossa dalla giovane al sacerdote non poteva essere ricompresa tra le attività strettamente legate al suo ministero, non trattandosi della ricerca del perdono divino, ma della più immediata richiesta di aiuto a fronte dell’essere vittima di un grave delitto, e che, quindi, lo stesso sacerdote non si sarebbe potuto astenere dal deporre» (corsivo nostro). A. Bettetini, Abusi sessuali e segreto confessionale, cit., rispettivamente p. 36, p. 38, riassume così il contenuto della decisione: «Una non

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 giudici calabresi che l’avevano preceduta167. A riprova che questa sia l’ottica preminente riguardata, si riproduce e ratifica l’asseverazione della Corte di Appello secondo cui la giovane era la vittima e, pertanto, «non aveva peccati da confessare»168: d’altronde il punto era stato, nei

troppo lontana nel tempo sentenza di Cassazione (n. 6912) ha stabilito che per il sacerdote chiamato a testimoniare in un processo penale per abuso sessuale sussiste il reato di falsa testimonianza quando gli siano richieste notizie che non rientrano nel segreto confessionale, avendo la vittima detto di aver ricevuto degli abusi, e che quindi non si trattava di peccati da confessare. […] E, si noti bene, a differenza di quanto reputato dalla Cassazione nella sentenza sopra riportata, il segreto a cui è tenuto il confessore non concerne solo i peccati del penitente ascoltati in confessione, ma è fatta proibizione al sacerdote di far uso delle conoscenze acquisite in confessione con aggravio del penitente, “etiam quovis revelationis periculo excluso” (can. 984, § 1)». Ricordiamo che nel caso specifico era stato escluso (anzitutto per bocca della stessa vittima dell’abuso sessuale, non smentita dal sacerdote) che si versasse in un’ipotesi di confessione. 167 E infatti A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., p. 906, critica: «Sorprende, quindi, la cura meticolosa con la quale i giudici (compreso il Gup) ribadiscono l’assenza, nel caso di specie, di una confessione, per inferirne l’inesistenza di un qualsiasi tipo di segreto opponibile. Sarebbe stato a mio avviso indispensabile - una volta correttamente scartata l’ipotesi del segreto legato al sacramento della penitenza - compiere una più rigorosa verifica sulla possibilità di qualificare come attività propriamente ministeriale quella prestata, nel caso concreto, dal sacerdote, valutando a tal fine se la conoscenza dei fatti fosse avvenuta (fuori della confessione, ma pur sempre) per ragione del ministero pastorale oppure in maniera del tutto indipendente dall’esercizio del medesimo, alla luce anche dell’accezione ampia in cui è normalmente assunto il relativo concetto». 168 Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, 15 dicembre 2016 - 14 febbraio 2017, n. 6912, cit., p. 377. Cfr. Corte di Appello di Reggio Calabria, Sezione Penale, 8 marzo 2016 (depositata il 21 marzo 2016), cit., p. 924: «giova ribadire ancora una volta che qui nessuno dei religiosi, né la suora, che non esercita la confessione, né don X che nel caso di specie non ha recepito alcuna confessione, potevano opporre alcun segreto confessionale riferibile al loro ministero, posto che la Z non aveva alcun peccato da confessare, né aveva inteso rendere confessione, ma solo chiedere l’aiuto e il sostegno di cui aveva necessità […]. Del resto sotto il profilo logico è del tutto coerente che la Z vittima di violenze sessuali, come giudizialmente accertato, non avesse necessità di confessarsi, ma piuttosto di confidarsi e di chiedere aiuto al parroco. Dunque in modo del tutto coerente alla udienza del 1.7.2009 il tribunale di Palmi, al momento di escutere X, precisava al testimone convocato che era già emerso in dibattimento che la Z aveva fatto delle confidenze al parroco al di fuori della confessione, che non vi era nessun interesse da tutelare e che, pertanto, in questi casi esiste l’obbligo di testimoniare; quindi lo X chiamato a deporre ha affermativamente risposto alla domanda “spero che intenda rispondere” fattagli dal Presidente del Collegio. Resta così definitivamente chiarito che rientrava nel potere del Giudice disporre la deposizione del parroco don X e di suor Y come da richiesta del P.M. e vagliare la fondatezza nel merito delle ragioni addotte per astenersi dal deporre (come è stato fatto alla luce delle

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 precedenti pronunciamenti, il focus di ogni dissertazione. A fronte di quanto pacificamente si fa rientrare all’interno del ministero, il quale - come si eccepisce anche nel ricorso proposto dai due imputati - comunemente si reputa «non sia soltanto il compimento di atti sacramentali ma riguardi tutte le informazioni riservate conosciute in occasione dell’esercizio delle funzioni riconducibili all’attività religiosa»169 e che, secondo il memento recente della stessa Penitenzieria Apostolica, non può non ricomprendere la direzione spirituale170, la Cassazione lo perimetra invece alla sola confessione oppure alla sola somministrazione di sacramenti ovvero anche, forse, di ammaestramenti squisitamente dogmatici. Infatti, al di fuori del sacramento della penitenza, con tutta la fantasia non riusciamo proprio a scorgere quando, per parafrasare la Corte, ‘le confidenze rientrano nell’esercizio della religione’: forse quando il fedele si reca dal ministro di culto per esporgli i suoi dubbi sul primato petrino o sulla transustanziazione, oppure quando, a proposito del dogma dell’Immacolata Concezione della Vergine, nutra qualche perplessità sull’alternativa, dibattuta tra i teologi medievali, tra redenzione anticipata o redenzione preventiva? E comunque ancor prima occorre chiedersi se il giudice dello Stato davvero possa andare a sviscerare fino a tal punto la relazione ministro- fedele, avventurandosi nei meandri delle intenzioni di chi si confida - ricevere un aiuto concreto, in virtù della carità cristiana171, ovvero un sostegno spirituale e lumi su come comportarsi - e della ‘consistenza della prestazione’ resa dal ministro di culto; pretendendo di scindere l’eventuale apporto materiale dall’ammaestramento etico, tanto più in

pregresse risultanze dibattimentali acquisite), sicché quanto disposto dal Tribunale appare ordinaria e funzionale espressione di un potere concesso dalla legge» (i corsivi sono nostri). 169 Lo riferisce la Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, 15 dicembre 2016 - 14 febbraio 2017, n. 6912, cit., p. 375. 170 V. Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., punto 2, pp. 7-8. 171 Tra l’altro, come annota L. Lacroce, I ministri di culto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, cit., p. 744, in altra sentenza dalla Suprema Corte «è stata confermata l’applicazione dell’aggravante [di cui all’art. 61 comma 1 n. 10 del Codice Penale: N.d.A.] de qua nei confronti di un imputato per truffa pluriaggravata nei confronti di un sacerdote, al quale sono stati sottratti i soldi provenienti dalle elemosine dei fedeli, poiché per la Cassazione le opere della carità rappresentano un “servizio” tipico del ministero cattolico, sicché modeste elargizioni a persone povere o bisognose sono di fatto una costante dell’attività del ministro di culto (Cass. pen. 3339/2013)».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 una religione che non contrappone mai la giustizia alla misericordia, anzi le coniuga in un ‘amalgama’ insolubile dal quale anche il colpevole non può essere escluso. Non si slitta, invece, in tal modo, verso un inammissibile straripamento negli interna corporis ecclesiali172? Tra l’altro va anche rimarcato come il dilemma su cosa sia «esercizio di “fede religiosa”», secondo la perifrasi della Cassazione, possa diventare amletico e inintelligibile se l’interfaccia è effettuata - non con una confessione da secoli nota e in rapporti con l’ordinamento italiano ma - con il ‘ventaglio’ di confessioni religiose e culti distanti dal ceppo giudaico-cristiano ‘stanziatisi’ negli ultimi decenni sul suolo nazionale173; diviene allora impervio per i giudici italiani inoltrarsi nel terreno accidentato della definizione di cosa rientri «nell’ambito della fede religiosa» e cosa sia ad esso lapalissianamente estraneo: forse, più radicalmente, ad essi del tutto precluso, data la professione di neutralità e incompetenza sul dato fideistico dello Stato laico. Tornando alla vicenda, la ragazza si era indirizzata al sacerdote, in stato di prostrazione, con lui si era sfogata aprendogli il cuore e raccontando la sua triste esperienza per riceverne supporto. La stessa ammette, e la Corte recepisce, che lo aveva prescelto quale «autorità morale», ciò che, secondo i giudici della Cassazione, «è il riconoscimento proprio di quella funzione sociale che, nel caso di specie, aveva svolto il ricorrente»174: il

172 Rinviamo qui alla dottrina conforme che abbiamo citato in G. Boni, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica e poteri autoritativi della magistratura italiana, cit., specialmente p. 31 ss. Osserva in generale A. Licastro, I ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 371, che può «risultare, in qualche caso, particolarmente difficile operare nette distinzioni e separazioni di “ruoli”, proprio nei confronti di chi caratterizza il proprio complessivo stile di vita in funzione dell’esercizio di una attività, confessionalmente qualificata, di ministero pastorale. Ancora una volta nella figura del “ministro di culto” è dato cogliere il riflesso di ciò che vale a caratterizzare, per tratti tipici, le Confessioni religiose, e precisamente, in questo caso, della tendenza di tali gruppi a regolare diversissimi aspetti della vita e dell’agire dell’uomo, certamente non facili da confinare o costringere in una sfera “religiosa” o “spirituale”, a priori ed astrattamente individuabile e scindibile dalla complessiva unità dell’essere umano». 173 Sulla difficoltà di enucleare nozioni comuni «nell’attuale contesto multireligioso, ove la ricerca di paradigmi condivisi sembra cedere di fronte alle peculiarità dei molteplici universi confessionali e, sempre più spesso, alle diversità di mansioni esercitate dai “ministri” dei vari culti» v. L. Leoncini, Aspetti di rilievo processuale penalistico nelle recenti intese tra lo Stato italiano e alcune confessioni religiose, cit., p. 973 ss. 174 Cfr. Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, 15 dicembre 2016 - 14 febbraio 2017, n. 6912, cit., p. 377: «Che, poi, sia corretta la valutazione della Corte di Appello, risulta

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 binomio autorità morale-funzione sociale diviene il grimaldello che la Suprema Corte, con qualche funambolismo, utilizza per scardinare e recidere ogni nesso con quell’«esercizio spirituale», quell’«esercizio di attività religiosa», che solo giustificherebbe la facoltà di astensione dalla testimonianza. Davvero si compie una doppia capriola acrobatica, e senza alcun appiglio nell’ordinamento italiano: si avoca al giudice statuale, al magistrato di una Repubblica informata al principio supremo della laicità dello Stato la pretesa di discernere non solo donde derivi al sacerdote la sua autorità morale ma quale sia la funzione del medesimo, il suo compito spirituale, oseremmo dire il suo carisma e il suo officium, ministerium e munus175 in ordine all’‘opera di evangelizzazione e santificazione’. La Cassazione scarta poi come completamente insignificante il luogo in cui si è svolto il colloquio, cioè la sagrestia; eppure ciò attesta come la ragazza non abbia incontrato casualmente il chierico Tizio o Caio, ma si sia spontaneamente recata in stanze adiacenti all’edificio di culto, ove tra l’altro abitualmente non si svolgono attività conviviali, ricreative o ‘sociali’, per echeggiare le parole della Cassazione: e non per cercare il presbitero Tizio o Caio, suo amico e conoscente, ma un sacerdote quale autorità morale, ministro della Chiesa cattolica e suo rappresentante, voce del magistero di tale confessione religiosa; e se anche vi fosse stato un rapporto affettivo col medesimo, era per l’‘abito’, per così dire, per la sua assistenza specificamente ‘pastorale’ che l’aveva prescelto al fine di

implicitamente dallo stesso ricorso laddove conferma che la ricostruzione sia nel senso che la ragazza si sia rivolta al prete quale “autorità morale”, che è il riconoscimento proprio di quella funzione “sociale” che, nel caso di specie, aveva svolto il ricorrente. E risulta ancor di più laddove nel ricorso si valorizzano circostanze di assoluta inconsistenza quali aver parlato al prete in sagrestia (come se fosse diverso parlargli delle stesse cose in una strada pubblica) o averlo fatto nel periodo pasquale dando, evidentemente, per scontato e per significativo che la ragazza avesse evitato di parlarne durante la Quaresima». 175 Termini, invero, canonisticamente distinguibili con una certa difficoltà: v. quanto abbiamo osservato, citando la letteratura sul punto, in G. Boni, Sopra una rinuncia. La decisione di Papa Benedetto XVI e il diritto, cit., p. 172 ss., anche in nota. Quanto al segreto e alla disciplina processualpenalistica italiana, comunque, vale la pena ricordare una dottrina risalente che senza esitazioni commentava in generale con riferimento a normativa similare: «il ministero si articola in officî ecclesiastici stricto sensu; però la norma esaminata si estende anche a quei casi nei quali non vi è propriamente esercizio di un munus in officio, purché il rapporto sia qualificato dalla qualità ministeriale di uno dei soggetti; e in questi casi l’attività viene a coincidere con lo stato»: P.O. Marazzato, Il «sigillum sacramentale» e la giurisdizione penale, in Archivio penale, XI (1955), I-II, pp. 82-83.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 farne il depositario - anche se non in via rigorosamente confidenziale176 - di notizie non ancora pubblicizzate177. D’altro canto, nel clima odierno è disagevole sostenere che ci si rivolge al sacerdote solo per la sua posizione di onorabilità e reputazione, e non anche, invece, a causa di quell’aura di accoglienza intima per cui da esso appunto ci si attende, diremmo fisiologicamente, un’assistenza di carattere spirituale, quell’‘aiuto della religione’ che solo lui, cinto da una riservatezza rasserenante, è in grado di offrire178. È anzi proprio questo insieme di attitudini che sostanziano l’‘autorevolezza’ della qualità sacerdotale a porsi alla base - a svantaggio questa volta del ministro di culto - della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 9 del Codice Penale179, così come la intende la Suprema Corte stessa, anche precisando che «non è necessario che il reato sia commesso nella sfera tipica e ristretta delle funzioni e dei servizi propri del ministero

176 D’altronde, come nota A. Licastro, I ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano, cit., pp. 371-372, «Merita […] di essere precisato come la specificità del ruolo di norma svolto dal ministro di culto non richieda assolutamente che la notizia destinata a rimanere segreta sia stata conosciuta a seguito di una comunicazione avvenuta in via confidenziale. Al contrario, la cosiddetta “causa professionale” di apprendimento della notizia può ricorrere anche in tutti quei casi in cui se ne venga a conoscenza nell’adempimento di una attività, sempre propriamente ministeriale, ma che non si realizzi in maniera contestuale allo svolgimento di un diretto e specifico rapporto personale e riservato con chi è interessato alla conservazione del segreto». 177 Rileva A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., pp. 908- 909, che riporta anche giurisprudenza a conforto: «Su un piano oggettivo, inoltre, così come non può essere scisso il ruolo professionale dal rapporto affettivo nel caso di un medico a cui un amico si rivolga (non per una semplice narrazione di fatti, ma) per chiedere un consiglio su un problema di salute, allo stesso modo non può separarsi nell’ecclesiastico cui il fedele si affidi per ottenere aiuto, conforto o consigli, il suo ruolo di guida spirituale dal suo essere “comune” persona e individuo». 178 Cfr. A. Licastro, Indagini giudiziarie e ministero pastorale, cit., p. 525: «Non vi è chi non veda […] la differenza che corre tra la confidenza provocata dal ministero sacerdotale e quella che l’individuo liberamente decide di fare a un amico o anche a persona rivestita di autorità pubblica o morale: solo nel primo caso, infatti, è individuabile quel rapporto caratterizzato da necessità o quasi necessità che la dottrina ha giustamente posto alla base della tutela del segreto “professionale”, essendo la confidenza determinata dalla fede nella religione e dalla fiducia che il credente ripone nei ministro di quella, sicché egli è costretto, se non vuole rinunciare all’aiuto della religione in cui spera, a ricorrere a un membro del ceto ecclesiastico». 179 Secondo l’art. 61 (rubricato Circostanze aggravanti comuni) n. 9 del Codice Penale, «Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti: l'avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sacerdotale bastando che a facilitarlo siano serviti l’autorità e il prestigio che la qualità sacerdotale, di per sé, conferisce»180: lo strabismo che quindi contrassegna la sentenza ora in esame non ci pare in alcun modo giustificabile. Infine la Cassazione lascia cadere senza replica181 la «generica» obiezione della difesa secondo cui non ci sarebbe stato alcun dialogo ove l’interpellato «non avesse rivestito la funzione sacerdotale e di guida spirituale»: una qualsiasi controdeduzione del giudice italiano avrebbe del resto svelato una patente invasione in re aliena, con la proterva rivendicazione, da parte del giudice statuale, di poter prefissare con acribia quale tipologia di ‘prestazione professionale’ il ministro sia in grado di offrire ovvero il fedele aspiri ad ottenere. Dunque, la massima sagomata dalla Suprema Corte nel 2017, laddove venisse pedissequamente seguita capovolgendo le precedenti acquisizioni, decreterà il declino se non la scomparsa della tutela del segreto

180 Cassazione Penale, Sezione II, 26 febbraio - 21 settembre 1988, n. 9334, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, VI (1989), 1, p. 650 ss. Cfr. L. Lacroce, I ministri di culto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, cit., p. 743: «Ai fini della individuazione della circostanza in tema di aggravante dell’abuso dei poteri o della violazione dei doveri inerenti alla qualità di ministro di un culto, a giudizio della Suprema Corte, non è necessario che il reato sia commesso nella sfera tipica e ristretta delle funzioni e dei servizi propri del ministero sacerdotale, ma è sufficiente che a facilitarlo siano serviti l’autorità e il prestigio che la qualità sacerdotale, di per sé, conferisce e che vi sta stata violazione dei doveri anche generici nascenti da tale qualità. Nella specie i giudici di merito hanno rilevato lo stretto collegamento tra la qualità di ministro di culto confessore e padre spirituale e le truffe realizzate approfittando dell’autorità e del prestigio che tale qualità gli conferiva e della profonda fede religiosa per carpirne la più completa fiducia (Cass. pen. 9334/1988)». Per un commento alla stessa sentenza v. A. Licastro, Ministri di culto: l’esperienza giurisprudenziale degli ultimi due lustri all’inizio del nuovo millennio, cit., p. 979 ss. Tale orientamento giurisprudenziale è stato confermato anche con riguardo alla posizione di un cappellano che, abusando della sua qualità e strumentalizzando la sua posizione di preminenza fino a garantire non consentiti contatti con il mondo esterno e i detenuti, aveva richiesto e ottenuto prestazioni sessuali da soggetti ridotti in uno stato di soggezione, nella prospettiva, per gli stessi soggetti passivi, di mitigare gli effetti della segregazione: v. Cassazione Penale, Sezione VI, 2 gennaio 2009, n. 12, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XXVI (2009), p. 907 ss. Sempre L. Lacroce, I ministri di culto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, cit., pp. 744 s., riferisce di altre pronunce in materia di violenza sessuale, ove si è tenuto conto dell’«insidiosità dell’azione delittuosa posta in essere dal ministro di culto autore del reato nei confronti del quale le vittime riponevano la propria fiducia in ragione del ministero esercitato». 181 Non può considerarsi tale la seguente affermazione della Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, 15 dicembre 2016 - 14 febbraio 2017, n. 6912, cit., p. 377: «Anche in questo caso, si fraintende fra segreto ministeriale ed immunità dalla testimonianza dell’ecclesiastico, che non è prevista né dall’art. 200 c.p.p. né dai patti Stato-Chiesa».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ministeriale. Perché se essa è, nonostante le altisonanti ma del tutto sterili dichiarazioni, effettivamente ridotta al segreto della confessione (auricolare182), sarebbe prerogativa della sola Chiesa cattolica con esclusione delle comunità religiose che tale remissione sacramentale delle colpe non ammettono: ciò che, se non altro, non è in alcun modo congruente con la Costituzione. Ma soprattutto si disconoscerebbero in tal modo gli ulteriori e assai rilevanti interessi che si addensano nella sanzione normativa del segreto del ministro di culto o ecclesiastico che dir si voglia e che si radicano appunto nella Carta fondamentale: siamo del resto convinti che ciò sarebbe ferale preludio di annientamento assai prossimo di ogni tutela, anche di quella, ora ‘graziata’ - ma fino a quando? -, del sacramento della penitenza, in balia delle ‘capricciose’ volizioni dei giudici statuali. Eppure, pochi mesi prima che la Corte di Appello di Reggio Calabria comminasse al sacerdote e alla suora un anno di reclusione ciascuno, compresa la diminuente per il rito, oltre al pagamento delle spese processuali, il Tribunale di Teramo183 si schierava in maniera nettamente difforme in una vicenda che concerneva un ‘anziano’ della Congregazione dei Testimoni di Geova184, il quale, in un giudizio per maltrattamenti in

182 Recentemente si sofferma sul sigillo confessionale nella Chiesa cattolica quale «capitolo qualificante del sacramento della Penitenza, perché dà conto del carattere divino del sacramento e del perché sia ‘auricolare’ e non pubblico» K. Nykiel, Il sigillo confessionale e il segreto nella normativa canonica, cit., p. 18 ss. 183 In generale la giurisprudenza italiana non è mai stata restrittiva nel riconoscere il segreto ministeriale. È assai significativo che il Tribunale di Torino, nel dicembre del 2000, abbia ritenuto legittimamente opposto il segreto professionale ai sensi dell’art. 200 comma 1 lett. a) C.P.P. da parte di due giornalisti e ministri del culto cattolico del settimanale Famiglia cristiana rifiutatisi di fornire il nominativo di un calciatore che, nello scrivere alla rubrica Colloqui col padre, affermava di ‘essersi venduto in una partita importantissima’: circostanza che, se accertata, avrebbe configurato il reato di frode in competizioni sportive. Secondo il Tribunale, l’imputazione per il reato di false informazioni al pubblico ministero di cui all’art. 317 bis C.P. andava archiviata, poiché non vi era dubbio che la notizia era stata acquisita nell’ambito di un rapporto di confidenza religioso-spirituale, quindi in ragione del ministero; sempre ad avviso del giudicante, in tale contesto il concomitante status di giornalista con quello di sacerdote incideva esclusivamente sulle modalità di comunicazione della notizia, senza toccare la natura ed il contenuto riservato del rapporto tra confidente e ministro del culto. Il decreto del 5 dicembre 2000 del Tribunale di Torino (insieme all’ordinanza del 28 agosto del Tribunale di Alba) è massimato in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XVIII (2001), 2, pp. 1027-1028. 184 Per una diversa e più risalente vicenda incardinata sull’applicabilità degli artt. 200 e 256 del Codice di Procedura Penale in relazione ad un caso che aveva visto la

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 famiglia, si era astenuto dal deporre su quanto aveva ‘visivamente’ appreso durante una ‘visita pastorale’ avvenuta su invito di una coppia di sposi. In tale sentenza, oltre ad una lucida esposizione sul ‘mobile’ e ‘artefatto’185 lemma ‘ministro di culto’186, da rimettere, senza inframmettenze statuali, alle «certificazioni rilasciate (secondo le norme di organizzazione interna) dai competenti organi delle varie confessioni religiose»187, si enuncia che la garanzia del segreto è condizionata, come

convocazione da parte del magistrato inquirente per un interrogatorio di tre anziani della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova e il sequestro di documenti presso le loro abitazioni e la Sala del Regno di Seveso v. le considerazioni critiche di A. Licastro, Tutela del segreto professionale e ministri di culto: il caso dei Testimoni di Geova, in Il diritto di famiglia e delle persone, XXVI (1997), pp. 256-270. 185 Così N. Amore, La tutela penale del segreto ministeriale delle confessioni religiose prive di intesa, nella rivista telematica Diritto penale contemporaneo, 19 dicembre 2016, p. 1: «questo concetto è di origine statale e non confessionale. Nasce, cioè, da un’esigenza dell’ordinamento giuridico nazionale, il quale attraverso questa categoria “artefatta” mira a garantire a tutti i diversi esponenti della c.d. leadership religiosa “l’eguale libertà […] davanti alla legge”». Come noto la riflessione dottrinale sulla nozione di ministro di culto è sterminata: ricordiamo qui, per tutti, la già ricordata monografia di A. Licastro, I ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano. 186 Recentemente si sofferma sulla nozione di ministro di culto con riferimento alla tematica presa in considerazione in queste pagine e con riguardo anche alle previsioni contemplate in recenti intese con confessioni religiose diverse dalla cattolica L. Leoncini, Aspetti di rilievo processuale penalistico nelle recenti intese tra lo Stato italiano e alcune confessioni religiose, cit., p. 969 ss. 187 Tribunale di Teramo, 7 marzo 2016, n. 2436/2015, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XXXIII (2016), 3, p. 928. Commentano G. Cavallo - V. Borghesani, I ministri di culto non possono essere puniti per avere rifiutato di rivelare informazioni di natura privata apprese durante lo svolgimento dei propri doveri spirituali, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica (statoechiese.it), n. 33/2016, 24 ottobre 2016, pp. 2-3: «L’imprescindibile passo preliminare ai fini di una corretta riferibilità, in via generale ed astratta, dell’art. 200 lettera a) c.p.p. ad esponenti di una confessione religiosa, deve muovere da una coscienza e consapevolezza giuridica dell’assoluta mancanza di una figura tipica del ministro di culto. Da ciò discende che lo Stato, soggetto che per natura giuridica costituzionale deve promuovere ed esprimere valori improntati alla massima laicità, non può assumere, sia de iure condito sia de iure condendo, rigidi e schematici criteri per definire unilateralmente e astrattamente gli elementi peculiari che identifichino a priori il ministro di culto. /Per contro sussiste un numeroso insieme di confessioni religiose, differenti per origine, ordine, struttura e soprattutto per il modo in cui interpretano il culto, le quali giocoforza esprimono fasi di aggregazione spirituale e di cura pastorale talmente difformi tra loro da non lasciar alcuno spazio per la ricerca di un denominatore giuridico comune che possa garantire un minimo grado di uniformità. /Sulla base di tale inconfutabile realtà è pienamente condivisibile l’orientamento del giudicante secondo cui “la concreta identificazione della categoria dei ministri di culto debba essere attestata - in piena autonomia, con carattere costitutivo e giuridicamente

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 appunto dovrebbe, all’«unico limite del concreto riscontro della reale esistenza di un nesso causale tra l’esercizio delle funzioni ministeriali religiose e l’avvenuta conoscenza di fatti ed informazioni da parte dei ministri di culto/potenziali testimoni»188. E «in ordine alla sussistenza del nesso causale, non è possibile definire astrattamente una serie predefinita di circostanze che qualifichino o meno l’attività del ministro di culto come svolta nell’esercizio del proprio ministero confessionale. Tale accertamento dovrà invece richiedere un’indagine distinta e specifica che si rapporti soprattutto, nel caso concreto, alla peculiarità ordinamentale e strutturale della confessione religiosa cui l’attività ministeriale si riferisce»189. Inoltre, tutt’al contrario della Cassazione, nella sentenza del giudice abruzzese expressis verbis si dichiara propriamente ministeriale l’attività di assistenza e di conforto spirituale che il soggetto in questione aveva prestato presso il domicilio familiare190. Invero ci sembra del tutto incontrovertibile come, mutatis quanto è (davvero in misura scarsa) mutandis, in entrambe le situazioni, quella dell’adolescente stuprata e quella dei coniugi litigiosi, il ministro di culto era stato convocato non per sgravarli dal fardello del peccato, ma neppure per dispensare loro un sermone teologico o una lezione sul patrimonio fideistico: semmai per sostenere moralmente persone bisognose di sollievo, anche, se del caso, impartendo consigli incardinati sulla Bibbia, assolvendo quindi con ciò alla propria incombenza, del tutto ‘usuale’ e

vincolante - attraverso le certificazioni rilasciate (secondo le norme di organizzazione interna) dai competenti organi delle varie confessioni religiose”. […] Di massima, infatti, nell’espressione e nella cura della spiritualità, che caratterizza il loro ordine distinto da quello statuale, le confessioni sono al tempo stesso anche la fonte normativa, alla pari di ordinamenti giuridici originari, ognuna con la tipicità e l’autonomia che gli provengono dalla rispettiva vocazione. /Ne deriva, quindi, che è la stessa Confessione religiosa ad avere autorità esclusiva nel qualificare o identificare le attività o le funzioni proprie dei ministri di culto». 188 Tribunale di Teramo, 7 marzo 2016, n. 2436/2015, cit., p. 932. 189 G. Cavallo - V. Borghesani, I ministri di culto non possono essere puniti per avere rifiutato di rivelare informazioni di natura privata apprese durante lo svolgimento dei propri doveri spirituali, cit., p. 5. 190 Aggiunge A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., p. 911, che il Tribunale di Teramo, «interpreta in maniera particolarmente lata il nesso che deve intercorrere tra la conoscenza dei fatti e l’attività ministeriale. Nel caso in questione, infatti, la conoscenza dei primi era avvenuta al di fuori di quanto strettamente necessario al realizzarsi del rapporto confidenziale tra fedele e ministro di culto, sebbene in connessione (occasionale) con il predetto rapporto».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 quasi ‘archetipica’191, di ‘cura delle anime’. Glossando la pronuncia e ben immettendola nella intelaiatura costituzionale si è riaffermato: «ogni Confessione religiosa ha autorità esclusiva nel qualificare o identificare le attività o le funzioni proprie dei ministri di culto. Tale assunto, peraltro, si pone in perfetta sintonia con l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui le comunità religiose tradizionalmente e universalmente esistono sotto forma di strutture organizzate e quando l’organizzazione di una tale comunità è in discussione, l’art. 9 deve essere interpretato alla luce dell’art. 11 della Convenzione, che tutela la vita associativa contro l’ingerenza dello Stato ingiustificata. Infatti, l’autonomia, indispensabile per il pluralismo in una società democratica, è al centro della tutela offerta dall’art. 9»192. Pletorica, al riguardo, l’allegazione di dottrina e giurisprudenza, che sono entrambe, sul punto, totalmente conformi. Eloquente infine rimarcare come il giudice teramano si spinga ad affermare che lo stesso art. 200 del Codice di rito «non sembra essere post[o] a garanzia di interessi soltanto privati ma risulta estes[o] anche alla tutela degli interessi propri delle confessioni religiose»193: non solo la

191 Il Tribunale di Teramo, 7 marzo 2016, n. 2436/2015, cit., p. 928, trattando delle «diversità esistenti tra le varie categorie di operatori confessionali […] destinate […] ad accentuarsi se si allarga l’orizzonte alle altre confessioni di origine cristiana o ai nuovi movimenti religiosi», rileva opportunamente in nota 4: «Nel primo caso, si può rintracciare la presenza di soggetti abilitati a compiti ministeriali che non si sostanziano né in funzioni propriamente pastorali, né di tipo giurisdizionale. È il caso, ad esempio, delle Chiese Avventiste o delle Chiese Valdesi, in cui si rintraccia la presenza di operatori, impiegati a tempo pieno nello svolgimento di servizi confessionali, che, però, non si configurano come attività pastorali o di governo. Nel secondo caso, nel variegato e magmatico fiorire di nuovi movimenti religiosi, alcuni dei quali si propongono come fine non la vita ultraterrena ma il benessere temporale per i propri adepti, si rileva la presenza di soggetti, le cui competenze, che non comprendono il compimento di atti di culto in senso tecnico, spaziano tra la psicologia, l’esoterismo, l’occultismo e l’astrologia». 192 A. Zampaglione, Segreto ministeriale e confessioni religiose prive di intesa (nota redazionale a trib. Teramo, sez. pen. I, 7 marzo 2016, n. 2436), in Diritto e religioni, XI (2016), 2, p. 622. 193 Tribunale di Teramo, 7 marzo 2016, n. 2436/2015, cit., p. 931. Spiegano G. Cavallo - V. Borghesani, I ministri di culto non possono essere puniti per avere rifiutato di rivelare informazioni di natura privata apprese durante lo svolgimento dei propri doveri spirituali, cit., pp. 4-5: «Lo strumento giuridico per la concreta attuazione di tali principi e garanzie, come evidenziato nella sentenza, è rappresentato dalla normativa di derivazione pattizia, la quale, dovendo essere espressione necessaria di una precedente intesa (artt. 7 e 8 Cost.), assume giuridicamente la natura di legislazione rinforzata

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sua applicazione non deve cioè limitarsi ai ministri di culto di quelle sole riconosciute o che hanno un’intesa giuridicamente vincolante, come dottrina autorevole da tempo del resto propugna194, ma viene alla ribalta la stessa autonomia confessionale senza il necessario tramite dell’attuazione del terzo comma dell’art. 8 della Costituzione. Quella valenza che abbiamo definito ‘istituzionale’ e che, se non solum certo principaliter, si aggancia e viene rinsaldata per la Chiesa cattolica - come visto - dalla disposizione concordataria, cristallizzandola, è invece fatta

rispetto a quella ordinaria. /Tale strumento, tuttavia, non deve necessariamente inquadrarsi nell’ambito di una formale normativa specifica, di fonte pattizia bilaterale, vincolante per lo Stato italiano, ma può realizzarsi più semplicemente anche mediante il riconoscimento statuale di una organizzazione religiosa quale ente morale ai sensi dell’art. 2 Legge n. 1159/1929, come è avvenuto per la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova nel caso di specie. Ciò costituisce quel minimum necessario per soddisfare le esigenze e le garanzie dettate dall’art. 8 comma 2 Cost. affinché una confessione religiosa possa dirsi riconosciuta come realtà giuridica e come ordine autonomo dotato del potere di esprimere determinazioni (nella specie qualifiche di ministri di culto) opponibili allo Stato». Nota peraltro N. Amore, La tutela penale del segreto ministeriale delle confessioni religiose prive di intesa, cit., p. 2: «sulla scorta di un’interpretazione consapevolmente armonica con l’afflato espansivo ed egualitario delle norme costituzionali in materia di libertà religiosa, il giudice teramano afferma con ragione che l’inciso non possa essere interpretato nel senso di limitare l’applicazione dell’art. 200 c.p.p. alle sole confessioni che abbiano stipulato un’intesa con lo Stato. Invero, si potrebbe sostenere l’esatto contrario: le confessioni che hanno visto recepire con legge il proprio accordo, infatti, dispongono sovente di forme di tutela ad hoc e rafforzate, costituenti lex specialis rispetto alla disposizione processualpenalistica». 194 Cfr. per converso C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea e legislazione italiana, 5ª ed., Torino 2019, pp. 196-197, riguardo all’incidenza o no del riconoscimento della confessione religiosa: «È questione discussa se il ministro di culto (non riconosciuto) di una confessione di fatto possa fruire del segreto d’ufficio previsto dall’articolo 200, lett. a) del codice di procedura penale (e richiamato dall’art. 256 dello stesso codice), o incorra nelle pene previste dall’articolo 326 del codice penale per violazione dello stesso segreto. Bisognerebbe propendere per la soluzione positiva ogniqualvolta si possa dimostrare che vi era consapevolezza (da parte del ministro, o della persona che con esso si è confidato) della natura riservata dell’informazione data o ricevuta»; la tutela giuridica predisposta dall’art. 200 C.P.P. «è di carattere generale, e riguarda i ministri di tutte le confessioni i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Ciò farebbe presumere che non sia tutelato il ministro di culto di una confessione non riconosciuta, dal momento che solo con il riconoscimento si effettua la verifica della compatibilità tra Statuti e ordinamento. Potrebbero, però, sollevarsi delle perplessità su questa soluzione, per il fatto che il cittadino può vivere il proprio rapporto fiduciario con il ministro del culto, prescindendo del tutto (e forse anche ignorandola) dalla condizione giuridica della confessione» (ivi, p. 284).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 valere di per sé: si trascura infatti volutamente il rinvio alla pattuizione bilaterale, qui ininfluente essendo risaputo che le intese sottoscritte dalla confessione de qua non sono state seguite dalla legge di approvazione e quindi giacciono in un limbo di irrilevanza195. Nonostante questo, il giudice di Teramo non esita ad attrarre gli interessi tutelati dal segreto nel ganglio di quelli cui ambiscono accedere le confessioni religiose: i quali comunque, va sempre ribadito, hanno una pregnanza ancipite, essendo altresì strumentali al sentimento religioso individuale e comunitario di tutte le persone che si riconoscono in una fede e in un’appartenenza confessionale, qualsiasi sia il loro status personale. L’ottimo risultato esegetico raggiunto dal Tribunale di Teramo, elogiato per le sue «solide basi ermeneutiche» allignate nella Carta costituzionale e unanimemente decantato in dottrina quale adamantino «precedente per la risoluzione di altre situazioni analoghe»196, è stato, invece, immantinente ribaltato dalla Cassazione con una sterzata, anzi con battuta d’arresto per nulla promettente: motivata non solo laconicamente ma assai censurabilmente, come abbiamo avuto modo di appurare e come ancora ci ripromettiamo di dimostrare.

6. Una digressione minima: il chierico del Terzo Millennio

Dalla sentenza teramana, invero, si desume senza opacità quale sia la bussola per orientarsi, identificata nelle peculiarità ordinamentali e strutturali della confessione religiosa cui l’attività ministeriale si riferisce197. Un ‘parametro’ che la Cassazione nel 2017 ha del tutto e volutamente disatteso, ‘impadronendosi’ di una valutazione ad essa non spettante, e che al contrario ci pare meriti qualche cenno. Infatti, riguardo all’identikit e alle funzioni del sacerdote cattolico, punto di riferimento eminente non può che essere l’ordinamento canonico e il magistero cattolico, specialmente quello pontificio: e non quello del passato, o più venerando ovvero teologicamente più raffinato o elegante, ma quello che i

195 V. C. Maioni, Intese: il caso dei Testimoni di Geova, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica (statoechiese.it), n. 30 del 2017, pp. 1-18. 196 A. Zampaglione, Segreto ministeriale e confessioni religiose prive di intesa (nota redazionale a trib. Teramo, sez. pen. I, 7 marzo 2016, n. 2436), cit., p. 625. 197 V. G. Cavallo - V. Borghesani, I ministri di culto non possono essere puniti per avere rifiutato di rivelare informazioni di natura privata apprese durante lo svolgimento dei propri doveri spirituali, cit., pp. 5-6.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 fedeli oggi assiduamente e quasi quotidianamente possono recepire e che quindi li ‘pilota’ al momento di rivolgersi ad un ministro di culto cattolico per confidarsi, esplicando la propria libertà religiosa. Secondo la Suprema Corte, l’‘attività sociale’ non ha comunanze o concatenazioni con l’‘attività religiosa’ e, perciò, essa è del tutto esulante dall’‘esercizio del ministero’ del chierico cattolico: eppure, anche di primo acchito, a chiunque abbia udito una sola volta un’omelia o un’allocuzione di Papa Francesco tale affermazione non può non suonare stridentemente stonata. Tra l’altro Jorge Mario Bergoglio, sin dai primordi della sua elezione alla cattedra petrina, avvenuta come noto agli inizi del 2013 - e in attuazione del mandato che più volte ha dichiarato di avere ricevuto dai cardinali nelle congregazioni antecedenti al conclave -, non disdegna ed anzi ama soffermarsi a tratteggiare il modello di sacerdote da perseguire: e ad adeguarsi a tale ideale caldamente invita - a volte, anzi, duramente sprona - il clero in tutte le occasioni di incontro. Quasi una summula di quanto il Pontefice già aveva in varie occasioni predicato e che ancora predica instancabilmente sul compito del presbitero cattolico la si ritrova in un discorso ai parroci di Roma, ai suoi parroci cioè, del 6 marzo 2014. Francesco detesta i pastori rinserrati nell’ovile, «asettici» e «di laboratorio», ma li incalza «sulla strada» e li incita, metaforicamente ma plasticamente, all’«abbraccio»: «I preti si commuovono davanti alle pecore, come Gesù, quando vedeva la gente stanca e sfinita come pecore senza pastore. Gesù ha le “viscere” di Dio, Isaia ne parla tanto: è pieno di tenerezza verso la gente, specialmente verso le persone escluse, cioè verso i peccatori, verso i malati di cui nessuno si prende cura… Così a immagine del Buon Pastore, il prete è uomo di misericordia e di compassione, vicino alla sua gente e servitore di tutti. Questo è un criterio pastorale che vorrei sottolineare tanto: la vicinanza. […] Chiunque si trovi ferito nella propria vita, in qualsiasi modo, può trovare in lui attenzione e ascolto… In particolare, il prete dimostra viscere di misericordia nell’amministrare il sacramento della Riconciliazione; lo dimostra in tutto il suo atteggiamento, nel modo di accogliere, di ascoltare, di consigliare, di assolvere…»198. L’impartizione dell’assoluzione sacramentale, certo, ma anche una riconciliazione di più

198 Francesco, Discorso ai parroci di Roma, 6 marzo 2014, consultabile online all’indirizzo www.vatican.va.

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‘larga gittata’: quella direzione spirituale di cui qualunque fedele può avvertire l’improcrastinabile necessità, anche senza essere un incallito peccatore ma una vittima oppressa e demoralizzata. I sacerdoti devono, secondo Francesco, sempre per ricalcare il suo idioma ormai familiare, essere paternamente «vicini alla gente ferita»199, «prossimi alla carne del fratello» e «pronti alla carezza», piuttosto che algidi applicatori di una legge fredda e inerte: stella polare deve essere, per loro, il «Buon Samaritano» che «apre il suo cuore, si lascia commuovere nelle viscere, e questo movimento interiore si traduce in azione pratica, in un intervento concreto ed efficace per aiutare quella persona»200. I fronti sui quali deve operare il chierico, quindi, si cumulano, «dalla catechesi alla liturgia, alla carità, agli impegni pastorali e anche amministrativi», eppure «In mezzo a tante attività permane la domanda: dove è fisso il mio cuore? […] il cuore del pastore di Cristo conosce solo due direzioni: il Signore e la gente»: il pastore «non è un ragioniere dello spirito» ma «cerca le sue pecore […] fuori dei luoghi del pascolo e fuori degli orari di lavoro […] con pazienza ascolta i problemi e accompagna i passi delle persone»201. E il resoconto dell’insegnamento pontificio al proposito potrebbe essere

199 Cfr. Francesco, Discorso ai parroci di Roma, 6 marzo 2014, cit.: «Il prete è chiamato a imparare questo, ad avere un cuore che si commuove. I preti - mi permetto la parola - “asettici” quelli “di laboratorio”, tutto pulito, tutto bello, non aiutano la Chiesa. La Chiesa oggi possiamo pensarla come un “ospedale da campo”. Questo scusatemi lo ripeto, perché lo vedo così, lo sento così: un “ospedale da campo”. C’è bisogno di curare le ferite, tante ferite! Tante ferite! C’è tanta gente ferita, dai problemi materiali, dagli scandali, anche nella Chiesa... Gente ferita dalle illusioni del mondo… Noi preti dobbiamo essere lì, vicino a questa gente. Misericordia significa prima di tutto curare le ferite. Quando uno è ferito, ha bisogno subito di questo, non delle analisi, come i valori del colesterolo, della glicemia… Ma c’è la ferita, cura la ferita, e poi vediamo le analisi. Poi si faranno le cure specialistiche, ma prima si devono curare le ferite aperte. Per me questo, in questo momento, è più importante. E ci sono anche ferite nascoste, perché c’è gente che si allontana per non far vedere le ferite… Mi viene in mente l’abitudine, per la legge mosaica, dei lebbrosi al tempo di Gesù, che sempre erano allontanati, per non contagiare… C’è gente che si allontana per la vergogna, per quella vergogna di non far vedere le ferite… E si allontanano forse un po’ con la faccia storta, contro la Chiesa, ma nel fondo, dentro c’è la ferita… Vogliono una carezza! E voi, cari confratelli - vi domando - conoscete le ferite dei vostri parrocchiani? Le intuite? Siete vicini a loro? È la sola domanda…». 200 Francesco, Discorso ai parroci di Roma, 6 marzo 2014, cit. Tutte le espressioni tra virgolette sono tratte dal discorso del Papa. 201 Francesco, Omelia di venerdì 3 giugno 2016 Sacratissimo Cuore di Gesù, in Acta Apostolicae Sedis, CVIII (2016), pp. 616-618, consultabile anche online all’indirizzo www.vatican.va.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sovrabbondante se non prolisso: poiché sulla predilezione dei ‘preti di strada’ che, nella bellezza della gratuità, hanno una parola per tutti, cercano di alleviare i patimenti e di soccorrere nelle difficoltà, il Papa argentino persevera ostinatamente: l’intero suo magistero, dall’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium del 2013202 alla Christus vivit del 2019203, è attraversato da tali accenti appassionati. Da ultimo204, dedicando l’intenzione di preghiera del giugno 2019 ai sacerdoti, così l’ha formulata: «Preghiamo per i sacerdoti perché, con la sobrietà e l’umiltà della loro vita, si impegnino in un’attiva solidarietà, soprattutto, verso i più poveri»205; e i poveri non sono solo i bisognosi di denaro ma coloro che, dolenti, smarriti, spaventati, disillusi, disperati, cercano consolazione nella fede religiosa. Quanto precede non può non costituire la piattaforma non solo ideale ma anche propriamente tecnico-giuridica che può essere opposta alla risoluzione cui addiviene la Cassazione. Secondo le indicazioni paideutiche del romano Pontefice, nulla è più distante da un sacerdote nella Chiesa cattolica schola caritatis di un austero confessore206 che,

202 V. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, 24 novembre 2013, in Acta Apostolicae Sedis, CV (2013), p. 1019 ss. 203 V. Francesco, Esortazione Apostolica postsinodale Christus vivit, 25 marzo 2019, consultabile online all’indirizzo www.vatican.va. 204 Invero il più recente rilevante intervento in materia di Papa Francesco è stata la Lettera ai sacerdoti in occasione del 160° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars del 4 agosto 2019, in L’Osservatore romano, 5-6 agosto 2019, p. 7, reperibile anche online all’indirizzo www.vatican.va; in essa tra l’altro si legge: «Grazie per tutte le volte in cui, lasciandovi commuovere nelle viscere, avete accolto quanti erano caduti, curato le loro ferite, offrendo calore ai loro cuori, mostrando tenerezza e compassione come il Samaritano della parabola (cfr Lc 10,25-37). Niente è così urgente come queste cose: prossimità, vicinanza, essere vicini alla carne del fratello sofferente. Quanto bene fa l’esempio di un sacerdote che si avvicina e non si allontana dalle ferite dei suoi fratelli! Riflesso del cuore del pastore che ha imparato il gusto spirituale di sentirsi uno con il suo popolo; che non dimentica di essere uscito da esso e che solo servendolo troverà e potrà spiegare la sua più pura e piena identità, che gli consente di sviluppare uno stile di vita austero e semplice, senza accettare privilegi che non hanno il sapore del Vangelo; perché “eterna è la sua misericordia”». 205 Francesco, Intenzione di preghiera per il mese di giugno. Lo stile del sacerdote, in L’Osservatore romano, 8 giugno 2019, p. 8. 206 Il quale peraltro è, nella tradizione della Chiesa, iudex peccatorum ma anche medicus animarum: ripercorre recentemente lo sviluppo di questo binomio con ampi riferimenti D. Tarantino, Dalla riconciliazione alla guarigione. Alcune riflessioni sulla confessione come cura animarum nella teologia morale e nel diritto canonico, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica (statoechiese.it), n. 9/2017, 13

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dall’alto della sua lontananza di «unto del Signore»207, «funzionario del sacro»208 o anche «impiegato di Dio», accorda il perdono ai peccatori pentiti209. Solo, invece, se è disponibile all’«ospitalità» per tutti, senza distinzioni, con tenerezza e umanità, «con capacità sociale, di socievolezza», cioè quella «capacità umana di inserirsi educativamente e armonicamente nel contesto sociale»210, tuona il Papa, «Gesù sarà reso presente nella vita dell’umanità» e non «rimarrà sul piano delle idee, chiuso in caratteri a stampatello, incarnato tutt’al più in qualche buona abitudine che poco alla volta diventa routine»211. Oggi è forse ancora più vero quanto si notava in un’opera, proprio in subiecta materia, edita nel 1910, dunque in un’epoca ancora costellata nella nostra penisola da

marzo 2017, pp. 1-18 (la quale pure si sofferma su quegli Autori che consideravano la confessione «anche come luogo privilegiato in cui svolgere la direzione spirituale dei fedeli ad opera del confessore» [ivi, p. 8]). Di grande interesse il saggio di O. Condorelli, Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, tra Occidente latino e Oriente bizantino: percorsi e concezioni a confronto, in AA.VV., Lex Iustitia Veritas. Per Gaetano Lo Castro. Omaggio degli allievi, Napoli 2012, pp. 115-195. Tale tradizione echeggia del resto nel can. 978 § 1 del vigente Codex Iuris Canonici. 207 Altre sono le espressioni predilette dal regnante sommo Pontefice, il quale anche recentemente ha ribadito: «Il pastore in mezzo al popolo. Il pastore che sa ascoltare il linguaggio del popolo. Il pastore unto dal popolo, a cui serve, di cui è servitore. […] Oggi è alla moda, non so qui, ma in altre parti è alla moda, trovare persone rigide. Sacerdoti giovani, rigidi, che vogliono salvare con la rigidità, forse, non so, ma prendono un atteggiamento di rigidità e alle volte - scusatemi - da museo. Hanno paura di tutto, sono rigidi. State attenti, e sappiate che sotto ogni rigidità ci sono dei gravi problemi» (Francesco, Incontro coi i vescovi del Madagascar, 7 settembre 2019, consultabile online all’indirizzo www.vatican.va). 208 Così monsignor K. Nykiel, Non tecnici del sacro ma ministri della misericordia, in L’Osservatore romano, 2 marzo 2018, p. 8, presentava il Corso sul foro interno promosso dalla Penitenzieria Apostolica a Roma dal 5 al 9 marzo 2018: «Mi preme sottolineare […] che lo scopo del Corso non è quello di formare “tecnici del sacro”, sacerdoti ripiegati su se stessi nel loro formalismo giuridico e teologico, ma ministri di Dio attraverso i quali quanti si accostano al confessionale possano toccare veramente con mano la grandezza della misericordia divina e uscirne sereni e ancora più fiduciosi nella misericordia di Dio». 209 V. Francesco, Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae, 11 gennaio 2014, in L’osservatore romano, 12 gennaio 2019, p. 5. 210 Tutte le espressioni tra virgolette sono tratte dai colloqui tra il Papa e gli studenti dei Collegi ecclesiastici romani del 16 marzo 2018, di cui si riferisce in Padri e fratelli, non funzionari del sacro, in L’Osservatore romano, 6 giugno 2018, p. 5. 211 Francesco, Omelia della Santa Messa del Crisma, 29 marzo 2018, in Acta Apostolicae Sedis, CX (2018), p. 495, consultabile anche online all’indirizzo www.vatican.va. Per una sintesi dell’insegnamento dell’attuale sommo Pontefice v. D. Fares, Dieci cose che Papa Francesco propone ai sacerdoti, Milano 2018.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 pungenti attriti tra Stato e Chiesa, da parte di un insigne giurista, magistrato e politico italiano: Alberici asseriva che al sacerdote «non è demandato soltanto di celebrare gli atti veri e propri del culto sibbene la sua missione abbraccia tutto quell’insieme di opere per cui il sentimento religioso viene ravvivato, conservata la fede, guidati i fedeli nel cammino della virtù, ricondotti i traviati all’osservanza dei precetti della Chiesa»212. In questo, d’altro canto, consiste quella cura animarum che è il primo dovere del sacerdote e che è attività di religione o di culto per eccellenza. Infatti, se facciamo ancora riferimento alla normativa di derivazione concordataria, è noto come l’art. 16 lett. a) della legge n. 222 del 20 maggio 1985 - “Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi”213 - prescriva che «Agli effetti delle leggi civili si considerano comunque: /a) attività di religione o di culto quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana»214 (con dicitura ed accezione relativa, tra l’altro, più restrittiva di quella presente in intese con confessioni diverse dalla cattolica215). La cura delle anime assurge, quasi paradigmaticamente, ad attività di religione e di culto, per principio emancipata da intromissioni statuali216. Eppure, la Corte di Cassazione pretende che debba essere il giudice dello Stato a fissare in cosa essa si sostanzi e quindi come si attinga il fine supremo dell’ordinamento canonico, la salus animae appunto, e cosa invece da questo ‘ministero’ sia avulso. Con ciò anche scalfendo quella «libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero

212 P. Alberici, Eccezioni del dovere della testimonianza, Torino 1910, p. 91. 213 La normativa è stata infatti formulata dalla commissione paritetica istituita dall’art. 7 n. 6 dell’Accordo di Villa Madama del 1984. 214 E la lettera b) dello stesso articolo prosegue affermando che si considerano «attività diverse da quelle di religione o di culto quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro». 215 V. alcune osservazioni di C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea e legislazione italiana, cit., pp. 341-342. 216 G. Casuscelli, Il caso del «calciatore pentito» ed il segreto confessionale, cit., p. 1017, con riferimento al dettato dell’art. 16 lett. a) appena citato asserisce: «Ognuna di queste attività […] in quanto svolta da un ecclesiastico, costituisce esercizio proprio del di lui ministero, ed integra l’ambito di operatività del “segreto confessionale”».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica» assicurate solennemente alla Chiesa dall’art. 2 n. 1 dell’Accordo di Villa Madama217. Così pure cercare di limitare il ‘recinto’ della tutela del segreto ministeriale assumendo che i paletti vadano segnati con riguardo a quella «particolare componente dell’“attività professionale” (ministero) […] nell’ambito della quale la tutela garantita all’affidamento del fedele è prettamente funzionale alla necessità di quest’ultimo di usufruire di “prestazioni spirituali” tanto essenziali per l’esercizio della libertà religiosa del singolo individuo, quanto inscindibilmente connesse con un tipo di ausilio che […] può fornire soltanto il ministro di culto»218, ci pare

217 Una norma nella quale, «indicandosi minuziosamente le libertates Ecclesiae, viene sostanzialmente definito di comune accordo qual è, per l’Italia, l’ordine proprio della Chiesa. L’accordo ha effettuato, nell’art. 2, un riconoscimento giuridico preciso e puntuale della legittimità della Chiesa nell’ordine profano»: G. Dalla Torre, La «filosofia» di un Concordato, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XXI (2004), 1, pp. 81-82. 218 D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, cit., p. 168. A tale argomentazione A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., p. 908, obietta: «È evidente, però, come in questo modo si finisca, se non col modificare, quanto meno con l’integrare l’enunciato della disposizione, che parla genericamente di “ministero”, senza operare distinzione alcuna tra le sue varie “componenti”. Inoltre, l’impossibilità di appiattire ed esaurire l’ambito di rilevanza del segreto “ministeriale” nei termini risultanti dalla ratio sottesa alle più tipiche forme di tutela del segreto “professionale” (in senso stretto) è parsa tanto evidente da indurre autorevole dottrina processualpenalistica a scinderlo persino dal contesto (a mio avviso necessariamente unitario) della norma processuale […]: non si vede allora perché, di fronte a un enunciato normativo di portata ampia e generica, anziché sacrificarne la rilevanza alla luce di una ratio incapace di riassumere tutte le multiformi e complesse dimensioni del ruolo propriamente ministeriale del soggetto, non si possa ipotizzare una peculiare connotazione della tutela facendo leva, fuori dal contesto della norma processuale, su ulteriori dati normativi specifici con cui quella disposizione deve necessariamente armonizzarsi»; conformemente Id., Ancora in tema di segreto professionale del «giudice» ecclesiastico (osservazioni a Cass. pen., Sez. V, sent. 12 marzo 2004, n. 22827), cit., p. 805, ove afferma: «il ministro di culto, che sia impegnato in una attività (religiosa) diretta al perseguimento della finalità istituzionale della propria Confessione, sta esercitando il “proprio” ministero anche se quella attività, secondo l’ordinamento canonico, non rientra fra le sue competenze esclusive. D’altro canto non è possibile filtrare, in nessuna attività religiosa svolta dal ministro di culto, quanto rappresenti proiezione o effetto riflesso della sua autorità spirituale, per escludere, sulla base di una improbabile separazione del preteso ruolo non ministeriale rispetto al resto, l’operatività delle garanzie (o delle cautele) inerenti all’esercizio del ministero pastorale, allestite dall’ordinamento statale a protezione di interessi civilmente rilevanti».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 anch’essa - se condotta estrinsecamente - oltre che operazione di discernimento di enorme discrezionalità e connotata da una ‘fluidità’ inquietante nel voler sceverare, frammentare e isolare le varie ‘componenti’ del ministero che invece è e resta unitario219, anche virtualmente viziata da una certa dose di larvato giurisdizionalismo nella pretesa di discriminare ciò che è ‘spiritualmente essenziale’ e ciò che non lo è, sia quanto alla libertà religiosa del fedele sia del ministro. A meno che non ci si rimetta, quanto alla delimitazione, alla specificità confessionale220, così come del resto esigito dall’armonizzazione della normativa unilaterale con quella pattizia entro l’ordito costituzionale.

219 Cfr. G. Casuscelli, Il caso del «calciatore pentito» ed il segreto confessionale, cit., pp. 1017-1018: «l’attività ministeriale degli ecclesiastici non può essere oggetto di un’analisi per così dire personalistica ed atomistica, come se contenuto e confini fossero determinati da una scelta e da una prassi riconducibili ad atti di autonomia dei privati. Essa altro non è che la proiezione delle attività della Chiesa e della sua libertà di organizzazione (anche) mediante la nomina dei propri ministri, nei limiti del munus da essa loro conferito singolarmente e del vincolo gerarchico che ad essa li lega. […] /La tutela del segreto si manifesta, così, mirata per un verso alla garanzia del libero esercizio del ministero dell’ecclesiastico, che costituisce un profilo necessario e sostanziale della libertà della Chiesa, ed al contempo alla garanzia del diritto alla riservatezza (rispetto dell’inviolabile diritto alla libertà di coscienza) di quanti a lui si rivolgano in ragione del suo status, del suo carisma e del suo munus, indipendentemente dal luogo e dagli strumenti attraverso i quali opera. /Per quest’aspetto, l’esercizio concomitante di un’altra attività da parte dell’ecclesiastico non sembra avere rilevanza al fine di consentire limitazioni alla tutela del segreto confessionale. Basti pensare al caso dell’ecclesiastico che svolga anche occupazioni “altre” (insegnamento, ricerca, assistenza medico-sanitaria, ecc., in strutture pubbliche o private) che non si esauriscono di necessità nella prestazione lavorativa (in vista della retribuzione), ma che possono costituire una peculiare proiezione ed una occasione di esercizio del ministero nei confronti dei particolari “utenti” dell’attività “altra”. /La tutela del segreto è dunque mirata, e per un aspetto non meno importante, alla garanzia anche del diritto della Chiesa di svolgere (in primis, per il tramite dei suoi ministri) la sua missione, di esercitare il magistero ed il ministero spirituale in “piena libertà” (art. 2.1 dell’Accordo del 1984)». 220 Invero D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, cit., pp. 170-171, afferma anche: «Un’altra questione strettamente connessa con l’autonomia confessionale è quella dei poteri esercitabili dal giudice allo scopo di accertare i presupposti di operatività della tutela assicurata al segreto in sede penale e processuale. […] l’obiettivo di siffatto controllo è, per un verso, verificare la reale sussistenza del rapporto che funge da presupposto alla tutela, per l’altro, appurare che l’oggetto della testimonianza/rivelazione esiga effettivamente il ricorso alla protezione offerta dal segreto professionale. In ambo i casi non v’è dubbio che il controllo di competenza del giudice debba limitarsi a dati estrinseci, pena la violazione dell’indipendenza e dell’autonomia delle confessioni. Nel rispetto di queste condizioni esso dovrà, dunque,

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Crediamo infine che per una visione a tutto tondo della questione che ha sollecitato queste discettazioni occorra anche porsi nell’ottica dell’‘uomo comune’, del quivis de populo: di quella persona che deve essere costantemente il fulcro delle preoccupazioni del legislatore e del giudice della Chiesa non meno che del legislatore e del giudice dello Stato. Anche il profano, dinanzi ad ardui casi di coscienza, si interroga sulle motivazioni animatrici dei comportamenti del singolo: la teoria, per quanto ineccepibile, non può prescindere dal radicamento sull’evidenza della realtà. E la realtà del caso giunto al vaglio della Cassazione è oltremodo icastica, impermeabile a ogni manipolazione. Attese le circostanze, ineludibile anzitutto il quesito sul perché la ragazza si sia rivolta proprio ad un sacerdote; la risposta, agli atti: «per chiedergli aiuto […] quale “autorità morale”»221. Del pari trasparente l’impulso che ha indotto il chierico e la consacrata ad affrontare la comminazione della pena, nonostante non fossero irretiti nelle maglie canonistiche del sigillo sacramentale o del segreto della confessione e quindi non temessero di incorrere in sanzioni penali e neppure disciplinari da parte dei propri superiori: e non c’erano neppure interessi ecclesiastici da proteggere, non il decoro o il buon nome della Chiesa o l’immunità della ‘casta sacerdotale’ rea di abietti comportamenti. Solo, com’è nella ratio dell’istituto del segreto ministeriale, lo scopo perseguito, più o meno consapevolmente, ma certo tenacemente - con la tenacia eroica di chi accetta una pena senza colpa -, era assicurare e convalidare quell’interesse sovraindividuale a che nel futuro chiunque avesse avuto bisogno di accedere ad un ‘ecclesiastico’ per riceverne sostegno e consiglio - anche se non strettamente afferente al foro interno, sacramentale ed extrasacramentale - non sarebbe stato tradito nella sua aspettativa di assoluta confidenzialità, sia ovviamente per impetrare l’assoluzione sacramentale, ma anche per essere corroborato nel suo itinerario spirituale: qui la cifra della concretezza

stabilire se le circostanze di fatto nelle quali il ministro di culto ha acquisito la notizia siano tali da indurre a ritenere non solo che l’informazione sia stata appresa nell’esercizio o a causa del ministero, ma anche che l’intento perseguito dal fedele nel rivolgersi a tale soggetto confessionalmente qualificato fosse verosimilmente quello di conseguire un particolare ausilio di natura spirituale. Un tale accertamento, sebbene si possa presentare complesso, non sembra totalmente impossibile anche quando esige il ricorso ad un giudizio di prevalenza fra le diverse componenti che sono implicate». 221 Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, 15 dicembre 2016 - 14 febbraio 2017, n. 6912, cit., rispettivamente p. 374, p. 377.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 della vita si sovrappone e immedesima con quella che nel diritto canonico si denomina rationabilitas della legge, e che potremmo laicamente tradurre come coerenza ultima alle istanze superiori, costituzionalmente poggiate, che si intendono custodire e valorizzare. L’aggravio che qui si voleva fugare da parte dei due ingiustamente condannati era solo ed esclusivamente a carico del popolo di Dio: cagionando la perdita irrimediabile di quella stima per la quale, nelle asperità esistenziali, si è spinti a interpellare un sacerdote, un parroco, piuttosto che chiunque altro, non dubitando della sua riservatezza222. Gli avvertimenti di Papa Francesco - ma anche, e senza cedimenti, dei suoi predecessori - non sono caduti nel vuoto: con una semina instancabile si è mietuto un promettente raccolto.

PARTE SECONDA 7. La lotta alla ‘piaga della pedofilia’ nel panorama internazionale: possibili derive

Non possiamo però a questo punto, come abbiamo premesso, non volgere lo sguardo oltre il ‘paesaggio’ italiano: anche perché esso non è, né gli è consentito essere, indifferente rispetto a quanto accade alle altre latitudini. È così universalmente noto lo sconquasso generato dalla scoperta dell’atrocità e della pervasività della ‘piaga della pedofilia’ che ha macchiato la Chiesa cattolica in tutto il pianeta - sia pur, va detto e certo

222 Cfr. F. Marini, L’ufficio del parroco tra segreto e riservatezza, in Quaderni di diritto ecclesiale, XXVI (2013), pp. 77-78: «Il compito proprio di un parroco e, a partire da esso di coloro che collaborano con lui o anche lo sostituiscono, è quello di corrispondere al meglio non solo alle sue funzioni d’ufficio ma prima ancora a quelle di pastore, cioè di padre e maestro delle anime a lui affidate. /Per questo sarà suo compito specifico anche quello di porre attenzione a tutti i diversi gradi di segreto che gli competono. /Il contatto con tanti fedeli, la vicinanza ai loro problemi e alle loro sofferenze e soprattutto l’aiuto spirituale e materiale che può loro offrire, dovranno passare attraverso la delicatezza ma pure la riservatezza del suo ministero. […] /Il parroco sarà […] tenuto, proprio per la sua relazione diretta con i fedeli e in conseguenza delle esigenze del segreto naturale, ad un rispetto particolare riguardo a quanto appreso nella relazione confidenziale; segreto è infatti, nel sentire comune, un’informazione che si deve tenere per se stessi». L’Autore inoltre distingue il segreto dal riserbo, soffermandosi in particolare proprio sulla direzione spirituale, e propone un’utile esemplificazione delle attività del parroco nelle quali si prospettano esigenze di riservatezza, anche in correlazione con la legislazione civile al riguardo (v. ivi, p. 85 ss.).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 non in excusatio, in compagnia purtroppo assai affollata223 -. La reazione, giusta e sacrosanta, è parsa tuttavia sovente superare gli argini e raggiungere livelli che non possono essere più tollerati, e non per indulgenza verso gli autori di tali atti raccapriccianti, ma perché si pongono a repentaglio diritti fondamentalissimi sui quali, invece, non si può transigere: un esempio oltremodo lampante lo si rinviene proprio nel tema, da noi trattato, del segreto ministeriale. Infatti, sul presupposto - invero talora apoditticamente assunto - che la maggior parte di questi abominevoli abusi siano stati occultati e siano rimasti impuniti mediante l’esenzione dalla testimonianza elargita a chierici e religiosi, creando un reticolo di silenzio e reticenza delinquenziale ed il tal modo intralciando il corso della giustizia statuale, si è preso come bersaglio appunto il segreto ministeriale, ed anzi ci si è accaniti in peculiare modo contro il sacramentale sigillum della Chiesa cattolica224: da sempre, va chiosato, guardato con una certa circospezione e disistima, segnatamente nel mondo anglosassone, come già abbiamo appuntato225. L’obiettivo perseguito è stato ridurre sempre più la deroga ai poteri coercitivi dei magistrati o della polizia giudiziaria in modo che il segreto opponibile dagli ecclesiastici genericamente intesi non potesse rappresentare un ostacolo all’accertamento ed alla repressione di tali misfatti. La custodia dell’incolumità dei minori, cui nessuno oserebbe mai opporsi, è stata quindi accampata come vessillo per contrarre intensamente la tutela del segreto fino a farla svaporare. E se le vicissitudini che hanno fomentato questa indignazione collettiva si sono quasi esclusivamente dipanate all’interno della stessa struttura gerarchica

223 Recentemente, ad esempio, sono stati denunciati oltre 12.000 casi di abusi su minori all’interno della Boy Scouts of America, come hanno ampiamente riferito i giornali. 224 E. Miragoli, Il sigillo sacramentale, cit., p. 164, trattando del sigillo sacramentale con riferimento ai casi di abuso di minori, esordisce: «L’attualità del tema, la gravità dei fatti e l’allarme sociale in rapporto a tali casi, sembrano portare, a volte, a considerazioni affrettate e scomposte, che arrivano a forzare il netto confine tra foro esterno e foro interno, fino a creare, in alcuni, incertezze sui doveri del confessore, in primis circa il sigillo sacramentale». Tale Autore ribadisce la «salvaguardia più assoluta del sigillo sacramentale, anche nel caso di una confessione non conclusasi con l’assoluzione. […] il sigillo sacramentale non ammette eccezione alcuna. Sarebbe assurdo, del resto, che per sanzionare severamente un delictum gravius, se ne commettesse uno altrettanto grave» (ivi, p. 166). 225 Sulle origini di questo orientamento v. quanto rileva R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 61 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 o più latamente organizzativa della confessione religiosa in una ragnatela di sovrapposizioni tra vittime e carnefici, tra investigatori e investigati, tra soggetti incaricati di mansioni di sorveglianza e sorvegliati, l’intento di snidare e impedire insabbiamenti in avvenire ha portato però a proposte di revisione generale che investiranno e penalizzeranno tutta la vita (e la missione) della comunità: ovvero di tutti i christifideles, e con loro dell’intera Chiesa, i quali rischiano di rimanere sguarniti di una tutela davvero importante e non deponibile. Pertanto, come abbiamo sopra accennato, i legislatori statuali si sono attivati in gran numero, sospinti dall’onda emozionale del disgusto: principiando col varare obblighi di denuncia - laddove non già sussistenti a carico di tutti i cittadini (come di rado accade) - da parte dei chierici di sospetti casi di abusi sessuali su minori, coazioni che necessariamente si proiettano in una corrispondente erosione se non abolizione del diritto al mantenimento della riservatezza. L’obbligo di denuncia, in particolare, immancabilmente sopprime l’esonero dalla testimonianza invocando il segreto. Quest’ultimo quindi - invischiato in una gora di sospetto ormai invincibile -, con la motivazione ma talora col pretesto di combattere gli abusi, è stato indiscriminatamente criminalizzato, divenendo una sorta di ‘capro espiatorio’ da immolare senza irresolutezze226. Fermenti di questo tipo hanno iniziato ad agitarsi già agli albori degli anni Duemila227, e

226 In generale sulla tendenza a cercare «capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali» cfr. quanto rilevava Papa Francesco, Discorso alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, 23 ottobre 2014, in Acta Apostolicae Sedis, CVI (2014), p. 840. 227 Cfr. L. Gerosa, Segreto confessionale e diritto-dovere dei ministri del culto di astenersi dal deporre in processi penali. Brevi annotazioni canonistiche, cit., pp. 265- 272, il quale era stato interpellato dalla Commissione della legislazione del Gran Consiglio del Cantone Ticino per esprimere la sua opinione quale canonista in merito all’iniziativa per un cambiamento in particolare del Codice di Procedura Penale ticinese mirante ad eliminare solo ed esclusivamente il diritto degli ecclesiastici di non essere obbligati a deporre. Gerosa così concludeva il suo contributo: «i punti deboli delle normative procedurali in vigore messi recentemente in luce dalla reazione dell’opinione pubblica ad alcuni gravi delitti, non toccano tanto gli attuali profili giuridici del segreto confessionale/professionale e della sua tutela, bensì il sistema e gli istituti che regolano la trasmissione di atti e informazioni tra organi giudiziari, nonché tra questi ultimi e altre autorità, politiche o ecclesiastiche che siano. È probabilmente a quest’ultimo livello che l’accresciuta sensibilità della coscienza moderna verso le ipotesi delittuose più gravi richiede ulteriori sforzi di perfezionamento delle normative vigenti. Sarebbe invece una pericolosa involuzione dello stato di diritto, nonché della tutela costituzionale dei principi “laici” su cui esso di fonda, mettere in dubbio o intaccare

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 percorrendo strade giuridicamente divergenti228. Prima in sordina, in seguito elemento scatenante - ad esempio in Irlanda229, negli Stati Uniti

l’inviolabilità del segreto confessionale riducendola a semplice difesa di un interesse meramente privato, sia perché tale non è, sia perché proprio da essa dipende la credibilità ed applicabilità di tutte le norme giuridiche a difesa degli altri segreti professionali, compresi quelli di più recente formulazione come il segreto professionale degli operatori sociali» (ivi, pp. 271-272). Lo stesso contributo (in una traduzione dal tedesco in italiano lievemente diversa) è stato ripubblicato con il titolo Segreto confessionale e giurisdizione laica, in Veritas et Jus, IV (2012), pp. 28-36, introdotto da una nota in cui si informava: «Il 7 marzo 2012 il Consiglio Nazionale ha respinto con 121 voti contro 47, un’iniziativa parlamentare di Carlo Sommaruga (PS) diretta a modificare il vigente art. 321 del Codice penale svizzero (iniziativa n. 10.540 del 17.12.2010): tale modifica - avente ad oggetto l’abrogazione del reato di violazione del segreto professionale per gli ecclesiastici che si fossero trovati ad apprendere, nell’esercizio del loro ministero, notizie su reati sessuali diretti contro minori - si sarebbe ripercossa sull’art. 171 del Codice di procedura penale, ed avrebbe così imposto all’ecclesiastico una notevole limitazione della sua libertà religiosa. Quest’ultimo, qualora avesse ricevuto - nell’esercizio del suo ministero - notizie su reati sessuali contro i minori, avrebbe infatti dovuto scegliere se violare l’obbligo di riservatezza impostogli dalla sua religione ovvero essere assoggettato alle sanzioni previste dall’art. 176 del Codice di procedura penale. /L’iniziativa presentava inoltre diversi profili discutibili alla luce del disposto dell’art. 8 Cost. Fed., dal momento che essa era diretta ad eliminare il segreto professionale solo in materia di reati sessuali su minori e solo per una delle categorie di soggetti individuate dall’art. 321 C.p. L’accoglimento dell’iniziativa avrebbe comportato non solo una irragionevole disparità di trattamento tra ecclesiastici, avvocati e medici, ma anche una irragionevole disparità di tutela tra i minori vittime di abusi sessuali e gli individui vittime di altri crimini di particolare gravità (ad es. violenza sessuale)». 228 Cfr. quanto si riferiva in La legge sui servizi segreti nel Venezuela. A rischio il segreto confessionale, in L’Osservatore romano, 13 giugno 2008, p. 6: «I vescovi nel Venezuela si dicono preoccupati per la legge di riforma del servizio di intelligence nazionale in quanto il testo proposto lede i diritti fondamentali e addirittura intaccherebbe il segreto della confessione. /Diversi vescovi venezuelani si sono pronunciati a proposito della normativa promulgata lo scorso 28 maggio, perché “attenta allo stato di diritto ed obbligherebbe tutti i venezuelani ad agire come delatori”. /Secondo la legge di riforma, chi si rifiuta di collaborare alle operazioni di intelligence potrà essere processato dalla Procura. /Secondo l’arcivescovo di Caracas, il cardinale Jorge Urosa Savino, questa legge “sembra che vada contro diritti fondamentali consacrati nella Costituzione”, ed “intaccherebbe, tra l’altro, anche il segreto della confessione”. /Il porporato ha spiegato che il segreto della confessione è qualcosa di sacro ed è stato rispettato da sempre da parte di tutti i sacerdoti. “È un obbligo fondamentale che abbiamo noi di conservare il segreto di quanto viene comunicato al confessore nel sacro atto della confessione, ed ovviamente quello non può essere leso da nessuna legge”. /Ha poi aggiunto: “Non possiamo transigere sul diritto all’intimità dei fedeli e sul segreto rispetto a ciò che rivelano al confessore; c’è un obbligo anche da parte dello stesso confessore. Non possiamo trasformare il confessore in delatore. Per cui questo è un problema che bisogna precisare bene”». Sulla normativa portoghese, nell’intreccio con il diritto canonico, v. J.J. Almeida Lopes, O delito canónico e civil de

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 d’America230 o in Cile231 - è stato il notevole scalpore destato da indagini giornalistiche e poi governative dalle quali era affiorata una pandemia di aberranti molestie su bambini e adolescenti232, ad opera di sacerdoti e

violação do sigilo sacramental, in Revista española de derecho canónico, LXIII (2006), pp. 47-123; un’illustrazione invece della normativa argentina sempre con riferimenti al diritto canonico (nonché ai diritti di altri Stati, in particolare Spagna, Italia, Francia) in M. Bibiana Nieto, La protección jurídica del secreto religioso del ministro de culto católico en el ordenamiento argentino, in Prudentia iuris, LXI (2006), pp. 175-200. 229 Sulla normativa irlandese v. in particolare T. Mbadiwe Osuala, Sigilo sacramental y denuncia obligatoria del abuso de menores. Una mirada global, cit., p. 216 ss., p. 223 ss., p. 230 ss., che si sofferma anche su Inghilterra, Galles, Scozia, Canada, Nuova Zelanda, Francia, Italia, Germania, Austria, Messico, Stati Uniti, Australia, disegnando un rapido «resumen del derecho civil global», con indicazione di letteratura soprattutto attinente all’area anglosassone. 230 Sul complesso tema nel quadro delle fonti normative negli Stati Uniti d’America v. quanto argomentava N. Abrams nel saggio Addressing the tension between the clergy- communicant privilege and the duty to report child abuse in State Statutes, in Boston College Law Review, XLIV (2003), 4, pp. 1127-1166, http://lawdigitalcommons.bc.edu/bclr/vol44/iss4/8. 231 Sulla situazione in Cile - il 18 maggio 2018 i vescovi di quello Stato hanno ‘rimesso il proprio mandato’ nelle mani del papa, a seguito dell’incontro a Roma convocato dallo stesso Francesco - v. quanto riferisce M.E. Gandolfi, L’onda d’urto, in Il Regno. Attualità, LXIII (2018), p. 336. Per un’illustrazione della tutela del ‘segreto religioso’ in Cile nel passato (con riferimento a casi concreti nel succedersi dei regimi politici) v. J. Precht Pizarro, Ministros de culto, secreto religioso y libertad religiosa, cit., pp. 337- 349. Invece sugli ultimi sviluppi normativi si vedano più ampiamente J. Salinas Mengual, La tutela del secreto de confesión en el contexto del derecho comparado y de la nota de la Penitenciaría Apostólica sobre el fuero interno y la inviolabilidad del sigilo sacramental, cit., p. 10 ss.; R. Palomino Lozano, Sigilo de confesión y abuso de menores, cit., p. 787 ss., che anche osserva: «Aún resulta demasiado pronto para predecir un “movimiento en cadena” dirigido a la modificación de leyes penales y procesales acerca del sigilo de confesión o del secreto religioso en Latinoamérica. Sobre todo, porque no parece ser un movimiento “por contagio”, hacia países donde no se ha producido antes alarmantes hechos de abusos por parte de ministros de culto. La prueba de esta afirmación la constituye Costa Rica donde, después de hacerse públicos lamentables sucesos de pederastia, se ha presentado un proyecto de ley en el que, por un lado, se incluye a los ministros de culto entre los denunciantes obligatorios y, por otro, y a imitación de los secretos profesionales, se suprime el derecho de abstención de testificar de los sacerdotes respecto de los hechos conocidos en confesión, cuando el interesado (entiéndase, el penitente) les libere del deber de guardar silencio o secreto, quedando la valoración final a juicio del tribunal que conozca de la causa» (ivi, pp. 788- 789). 232 Ancora sui casi sollevati in Irlanda, negli Stati Uniti, in Cile, ma anche in Germania, Argentina, Perù v. recentemente la ricostruzione, con riferimenti bibliografici, di D. Milani, Gli abusi del clero. Il processo di riforma di una Chiesa ancora in affanno,

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 religiosi, non solo non colpite con sanzioni adatte, ma addirittura per anni smentite e dissimulate; ovvero la rabbia è stata accesa dal coinvolgimento di prelati di alto grado, pure cardinali, nel tentativo di mimetizzare e mascherare tali angherie e di offrire escamotages o rifugio ai colpevoli, senza alcuna cura per le persone offese, come i casi celebri dell’Australia233, del Belgio234 e della Francia235. A volte, anzi non raramente, va puntualizzato - per non essere anche noi correi nella campagna denigratoria e diffamatoria che si è abbattuta sulla Chiesa cattolica, una gogna massmediale scaltramente orchestrata -, anche travolgendo innocenti, dati in pasto a processi condotti sotto la pressione di un’opinione pubblica artificiosamente sobillata, oltre che ingigantendo parossisticamente la mole quantitativa e la riprovevolezza dei casi. Perché è vero che anche un solo episodio è tragedia inammissibile, anzitutto in Ecclesia: tuttavia, se si intende affrontare il problema, occorre

nella rivista telematica Revista General de Derecho Canónico y Derecho Eclesiástico del Estado, 50 (2019), p. 4 ss. 233 V. i riferimenti di D. Milani, Gli abusi del clero. Il processo di riforma di una Chiesa ancora in affanno, cit., p. 5, nota 12,; di M. Carnì, Segreto confessionale e derive giurisdizionaliste nel rapporto della Royal Commission australiana, cit., pp. 46-63; e di J. Salinas Mengual, La tutela del secreto de confesión en el contexto del derecho comparado y de la nota de la Penitenciaría Apostólica sobre el fuero interno y la inviolabilidad del sigilo sacramental, cit., pp. 9-10. 234 Riassume alcune modifiche normative approvate in Belgio nel 2011 A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., pp. 915-916. Ha destato molto clamore la condanna nel 2018 di padre A. Stroobandt - il quale aveva invocato il rispetto del segreto confessionale - da parte del Tribunale di Bruges per non avere avvisato i servizi sociali del fatto che un anziano gli aveva manifestato l’intenzione di togliersi la vita: v. P. Vites, Prete arrestato per non aver violato segreto della confessione. Non aveva rivelato il piano suicida di un uomo, pubblicato online in ilSussidiario.net il 19 dicembre 2018. In seguito a questa condanna la Conferenza Episcopale del Belgio ha divulgato il comunicato intitolato Segreto professionale e segreto della confessione che abbiamo già ricordato. 235 Illustra alcune evoluzioni della giurisprudenza francese A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., pp. 916-917. E sul punto si veda, per tutti, O. Échappé, Le secret en droit canonique et en droit français, in L’année canonique, XXIX (1985-1986), pp. 229-256; Id., Le secret «professionnel» des clercs devant les juridictions françaises, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XVIII (2001), 3, pp. 993-1006; Id., L’officialité de Lyon, le secret et la Cour de Cassation, cit., pp. 251- 260; tale ultimo Autore ha scritto invero sulla materia numerosi saggi che abbiamo citato, insieme ad ulteriore letteratura, in G. Boni, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica e poteri autoritativi della magistratura italiana, cit., p. 5 ss., nelle note.

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‘vivisezionarlo’ e ‘anatomizzarlo’ per poter giungere ad una diagnosi quanto possibile esatta che consenta una terapia efficace; e così devono scandagliarsi cause, remote e prossime, sintomi, latenti o palesi, fattori aggravanti e di favoreggiamento, congiunture e situazioni personali e sociali, ma anche - e senza ipocriti moralismi - numeri effettivi e percentuali statistiche236, specie in riferimento a quelle accertate (ma non di rado, a tutt’oggi, non conteggiate o non pubblicizzate237) in ambienti frequentati da minori, come quelli scolastici, sportivi, ricreativi, assistenziali, ecc. Comunque sia, su impulso dello shock e allo scopo di scardinare definitivamente quella che sembrava una ‘coltre fumogena’ atta a non perseguire le malefatte del ‘ceto clericale’, le mozioni per norme che coartino alla denuncia i chierici e loro interdicano in ogni circostanza di addurre esigenze di riserbo sono andate gradualmente aumentando. In questa parabola viepiù ascendente, risalgono in misura preponderante all’ultimo lustro le notizie di attentati sempre più agguerriti al segreto della confessione. Annunciati da sentenze che hanno ricondotto la tutela del medesimo all’interesse puramente privato del penitente, cioè di chi

236 In una intervista a C.J. Scicluna di G. Cardinale pubblicata online su Avvenire.it il 13 marzo 2010, l’allora promotore di giustizia presso la Congregazione per la dottrina della fede dichiarava: «Complessivamente in questi ultimi nove anni (2001-2010) abbiamo valutato le accuse riguardanti circa tremila casi di sacerdoti diocesani e religiosi che si riferiscono a delitti commessi negli ultimi cinquanta anni. Quindi tremila casi di preti pedofili? Non è corretto dire così. Possiamo dire che grosso modo nel 60% di questi casi si tratta più che altro di atti di efebofilia, cioè dovuti ad attrazione sessuale per adolescenti dello stesso sesso, in un altro 30% di rapporti eterosessuali e nel 10% di atti di vera e propria pedofilia, cioè determinati da una attrazione sessuale per bambini impuberi. I casi di preti accusati di pedofilia vera e propria sono quindi circa trecento in nove anni. Si tratta sempre di troppi casi - per carità! - ma bisogna riconoscere che il fenomeno non è così esteso come si vorrebbe far credere». Si veda anche quanto recentemente riferisce F.J. Campos Martínez, Presunción de inocencia e investigación previa canónica. Pautas para un procedimiento justo en denuncia por abuso sexual, in Periodica, CVIII (2019), p. 484 ss. 237 Ad esempio, come segnala, pure in un articolo molto critico nei confronti dei comportamenti della Chiesa cattolica in questo ambito, H. Legrand, Perché non abbiamo agito? Ragioni storiche e canonistiche di una Chiesa non ancora sinodale, in Il Regno. Attualità, LXVI (2019), p. 3, se i media «sembrano prendere di mira prevalentemente i sacerdoti cattolici, è perché per loro è impossibile mettere a confronto il clero cattolico con quello delle altre Chiese. Solo la Chiesa cattolica possiede statistiche complete riguardanti oltre mezzo secolo».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 aveva affidato la notizia238, e sconfessato l’insistenza di altri valori da preservare - opinione cui paiono aderire, sia pur incidentalmente, anche altre sentenze recenti della nostra Cassazione239, oltre a quella sulla quale ci siamo soffermati -: e poi proseguiti con progetti di legge volti all’abrasione incondizionata della riservatezza dei ministri di culto. D’altro canto, come abbiamo altrove relazionato240, vari Comitati ONU (ad esempio per i diritti del fanciullo o contro la tortura), generalmente assai poco benevoli nei confronti della Santa Sede241, da tempo premono affinché non solo gli Stati depennino dalla loro normativa ogni dispensa dei chierici dalla testimonianza, in qualunque modo essa sia giuridicamente congegnata, anche attraverso pattuizioni concordatarie,

238 Illustra tali orientamenti A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., pp. 917-918, soffermandosi specialmente su una controversa sentenza della Suprema Corte della Louisiana. Cfr. più recentemente J. Salinas Mengual, La tutela del secreto de confesión en el contexto del derecho comparado y de la nota de la Penitenciaría Apostólica sobre el fuero interno y la inviolabilidad del sigilo sacramental, cit., p. 14 ss. 239 Facciamo riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione Penale, Sezione III, 28 luglio 2016, n. 33049, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XXXIII (2016), 3, pp. 886-893. Riguardo alla medesima, criticandola, A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., p. 918, riferisce: secondo la Cassazione «la norma sul divieto di utilizzazione delle intercettazioni relative a conversazioni dei ministri di culto (quando hanno ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero) (art. 271, secondo comma, c.p.p.), “è posta a presidio di valori di assoluto rilievo costituzionale in capo a colui che si ‘confessa’”: “è rispetto al fedele che si confessa” - sostiene ora la Cassazione - “che il sistema processuale accorda la massima garanzia prevedendo l’inutilizzabilità delle conversazioni rese, nel corso della confessione, con il ministro di culto e accorda a quest’ultimo il segreto professionale”. Asserto - a mio parere e, soprattutto, stando al più sopra richiamato “storico” precedente in materia di sacramentale sigillum - almeno parzialmente inesatto, oltre che per nulla necessario ad escludere l’inutilizzabilità delle conversazioni nel caso, come quello in questione, in cui, secondo le risultanze cui pervengono i giudici, “è il ministro di culto a porre in essere, attraverso la comunicazione gestuale e/o verbale, condotte di rilievo penale”». 240 V. G. Boni, I rapporti tra ordinamento giuridico vaticano e ordinamento canonico: tra corretta configurazione ab intra e possibili travisamenti ab extra, in Jus. Rivista di scienze giuridiche, LXVI (2019), 2, pp. 45-89. 241 Rinviamo ancora a quanto abbiamo argomentato in G. Boni, I rapporti tra ordinamento giuridico vaticano e ordinamento canonico: tra corretta configurazione ab intra e possibili travisamenti ab extra, cit., passim, con indicazione di ulteriore letteratura. V. in particolare L. Marabese, Recenti sviluppi nella relazione tra la Santa Sede e i “Treaty bodies” dell’ONU, in Ius Ecclesiae, XXVIII (2016), p. 575 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che certo non sono reputate intoccabili dai membri di tali organismi242. Ma anche caldeggiano - e con i toni imperiosi caratteristici di questi risorgenti e inattesi «rigurgiti giurisdizionalistici»243 - che pure nel diritto canonico (spesso ingannevolmente confuso con il diritto vaticano) sia finalmente azzerato quel ‘codice del silenzio vaticano’ che inibirebbe ‘pena scomunica’ ai membri del clero la denuncia244. Quanto alle legislazioni secolari, è impossibile scendere in una descrizione analitica delle normative alquanto parcellizzate e delle proposte promosse nei differenti Stati, neppure di quelle forse più esemplari, che sia attendibile dal punto di vista giuridico: sia per la magmatica e continua modificazione delle medesime, sia soprattutto perché esse vanno calate - anche tenendo conto della complessiva considerazione del fenomeno religioso individuale e collettivo - negli assetti normativi penalistici, civilistici e processualistici (e non solo relativi al segreto245) dei Paesi volta

242 V. Committee against Torture, Concluding observations on the initial report of the Holy See, CAT/C/VAT/CO/1, consultabile online all’indirizzo https://tbinternet.ohchr.org/_layouts/treatybodyexternal/Download.aspx?symboln o=CAT/C/VAT/CO/1&Lang=En), specialmente n. 17. 243 In generale sull’«inatteso (e inimmaginabile) manifestarsi di rigurgiti di giurisdizionalismo» v. le belle e incisive pagine di G. Dalla Torre, Il diritto canonico nell’età secolare, Relazione al 69° Congresso Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani su Diritto e diritti nell’età secolare, in corso di pubblicazione sulla rivista online Iustitia, il quale propone proprio l’esempio dell’obbligo di denuncia da parte degli ecclesiastici di abusi sessuali e della «istanza di un rafforzamento delle norme interne canoniche per contrastare certe condotte, avanzata da parte di Stati e di organismi internazionali». 244 V. Committee on the Rights of the Child, Concluding observations on the second periodic report of the Holy See, consultabile online all’indirizzo https://www.refworld.org/docid/52f8a1544.html, specialmente nn. 43-44. Ci siamo occupati di questi temi in generale in G. Boni, I rapporti tra ordinamento giuridico vaticano e ordinamento canonico: tra corretta configurazione ab intra e possibili travisamenti ab extra, cit. 245 V. R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 50 ss. Solo riguardo al segreto R. Navarro-Valls, Los límites del secreto de confesión, in El Mundo, 28 agosto 1999 (consultabile anche online), schematizza: «por tres vías suele protegerse la privilegiada relación confidencial entre ministro de culto y penitente. /La primera, extendiendo al secreto de confesión la protección que suele otorgarse al secreto profesional (abogados, médicos, notarios, etcétera). Este es el caso de Francia, cuya jurisprudencia ha establecido que “para los sacerdotes católicos no cabe distinguir entre la vía de la confesión y confidencias fuera de ella: en ambos casos son secretos profesionales que han de ser protegidos”. /El segundo camino de protección es la tutela de la libertad religiosa a través de la objeción de conciencia, es decir, del establecimiento de una zona de penumbra en la cual la ley

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 a volta sotto esame, nella loro consistenza giuridica e nelle loro mutue interferenze, oltreché nelle attuazioni giurisprudenziali. Le rassegne comparatistiche246 proliferano247, ma sovente si contraddistinguono, proprio a causa della stratificazione dei piani normativi, per la superficialità e la sommarietà: dunque per l’imprecisione. È tracimato un turbamento che pare far vacillare certezze prima granitiche: tanto che pure autorevole dottrina italiana, acuta e moderata, congetturando che un sacerdote sia venuto a conoscenza in confessionale del colpevole di un delitto di cui è stato accusato ingiustamente un altro (ciò che non può non rammemorare il famosissimo film cult dei primi anni Cinquanta Io confesso con la regia di Alfred Hitchcock), ovvero sappia di pratiche delittuose efferate e reiterate da parte di un abusatore seriale, ha potuto ipotizzare un’elisione ovvero un rilassamento del

civil no puede obligar a pronunciarse a los ministros de culto, precisamente porque supondría una grave lesión de su conciencia. Esta suele ser la vía de protección del ordenamiento inglés. /En fin, el tercer procedimiento es la conceptuación del secreto de confesión como expreso objeto de tutela civil. Tal es el caso de Italia, cuya ley procesal específicamente excluye de la obligación de deponer como testigos a los ministros de las confesiones religiosas». 246 Considerazioni sul «método comparativo» in riferimento proprio al tema ora trattato in R. Palomino, El secreto religioso en una sentencia del Tribunal Supremo Canadiense, cit., p. 733 ss. 247 Di buon livello il volume, ormai non più recente, J. Flauss-Diem (sous la direction de), Secret, religion, normes étatiques, Strasbourg 2005, la cui prima parte è su «Secret et religion en droit français» e la seconda su «Secret et religion dans d’autres systèmes juridiques», segnatamente in Belgio (R. Torfs, Secret et religion en Belgique, ivi, pp. 93-102), in Italia (S. Ferrari - D. Milani, Le secret des ministres du culte dans l’ordre juridique italien, ivi, pp. 103-117), nel Regno Unito (N. Doe - R. Ruston, Secrets, religion et droit au Royaume-Uni, ivi, pp. 119-143), nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (G. Gonzalez, Secret, religion et CEDH, ivi, pp. 145-157), con in appendice citazione di disposizioni nazionali e di opere dottrinali sul tema, oltre a qualche riferimento giurisprudenziale. Abbiamo ripetutamente citato la monografia - anch’essa non recente - di R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., che, come spiega l’Autore, «se limita a reflejar el secreto religioso en algunos ordenamientos jurídicos, bien porque en ellos el secreto religioso ha adquirido cierta relevancia (por acontecimientos judiciales o legislativos) o bien por cercanía a nuestro propio ordenamiento» (ivi, p. 2). Recentemente lo stesso Autore è ritornato sul tema, sintetizzando le evoluzioni normative in questa materia in corso in alcuni Paesi, segnatamente a proposito dell’obbligo di denuncia del confessore in caso di abusi su minori: cfr. Id., Sigilo de confesión y abuso de menores, cit., p. 778 ss.; vengono dettagliatamente analizzati in particolare norme e progetti presentati (nonché casi giurisprudenziali verificatisi in passato) negli Stati Uniti d’America e in Australia (con indicazione di ulteriore letteratura).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 segreto; e ne evince: «È difficile immaginare, di fronte alla cresciuta sensibilità della coscienza moderna verso le ipotesi delittuose più gravi, l’accettazione di un comportamento che in qualche modo agevoli, o non impedisca, delitti degradanti»248. Eppure, come si è ribattuto pacatamente ma fermamente, non sarebbe in alcun modo ragionevole imporre solo ai ministri di culto obblighi di denuncia o di impedimento dei reati non previsti - come non lo sono, almeno in Italia - per la generalità dei cittadini249: inoltre comprimere e conculcare la difesa del segreto faticosamente conquistata grazie a battaglie non indolori, facendo leva, anche emotivamente, su evenienze del tutto eccezionali, non può che produrre a cascata effetti deflagranti, dagli ordinamenti secolari a quello canonico, ove in particolare finirebbe per intaccare principi cardinali. I giuristi, in questo turbolento momento storico che si vorrebbe sempre contraddistinto da un’emergenza incessante a legittimare interventi straordinari ma destinati a cronicizzarsi, sono chiamati in maniera più che mai impellente alla loro missione di discernere prudenzialmente la res iusta a beneficio di leggi da essa informate: qui a non far precipitare nell’oblio i valori e le istanze che sostanziano, appunto sub specie iustitiae, le norme sulla protezione della riservatezza.

8. Le risposte del diritto canonico universale, in particolare l’obbligo di segnalazione-denuncia: criticità

Per converso, a tale più che discutibile - ma demagogicamente accattivante - linea di tendenza lungo la quale si sono instradati alcuni

248 C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea legislazione italiana, cit., p. 285. 249 Così A. Licastro, Facoltà di astensione dalla testimonianza e «sacramentale sigillum»: verso una ridefinizione dei confini del segreto ministeriale?, cit., p. 915, che prosegue: «un bilanciamento di quel tipo tra l’interesse alla rivelazione dei fatti e quello alla conservazione del segreto sui medesimi sembra realizzabile esclusivamente per via di una opportuna valorizzazione dell’elemento della “giusta causa” di cui all’art. 622 c.p., ove si reputi che esso possa incidere sulla stessa possibilità di invocare la facoltà di astensione di cui all’art. 200 c.p.p. In tal modo, però, si rimarrebbe ancorati, ancora una volta, alla logica sottesa alla tutela codicistica del segreto professionale (sminuendosi, quanto a portata ed effetti, la specifica garanzia di carattere bilaterale)». Una logica, l’ultima accennata, che in queste pagine abbiamo superato sulla scorta della dottrina processualpenalistica che tende (e convincentemente, a nostro avviso) a scollare la norma processuale da quella sostanziale.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ordinamenti secolari sembra non essersi sottratta neppure la Chiesa cattolica. Il regnante Pontefice ha infatti emanato, nel corso del primo semestre del 2019 e a coronamento di una stagione di fitte consultazioni250, una consistente ‘collezione’ di disposizioni per sconfiggere e finalmente estirpare la calamità degli abusi sessuali: disposizioni sulle quali erano puntati gli occhi del mondo intero251. E se numerose sono le previsioni pregevoli ed encomiabili, dal lato della protezione e premura per le vittime ma anche dal lato delle garanzie difensive degli accusati - e dunque senza cedere ad una mentalità

250 Ne riferisce D. Milani, Gli abusi del clero. Il processo di riforma di una Chiesa ancora in affanno, cit., p. 14, che si sofferma in particolare sull’incontro - ‘dei presidenti delle Conferenze Episcopali della Chiesa cattolica, dei capi delle Chiese orientali cattoliche, dei rappresentanti dell’Unione dei superiori generali e dell’Unione Internazionale delle superiore generali, dei membri della Curia romana e del Consiglio di cardinali’, secondo le fonti ufficiali - convocato a Roma dal 21 al 24 febbraio 2019 su La protezione dei minori nella Chiesa. I documenti del summit sono raccolti nel volume Consapevolezza e purificazione. Atti dell’incontro per la tutela dei minori nella Chiesa (Città del Vaticano, 21-24 febbraio 2019), Città del Vaticano 2019. Ricordiamo solo che nei ventuno punti di riflessione formulati dalle diverse Commissioni e Conferenze Episcopali come aiuto alla riflessione nel corso dei lavori dell’incontro il n. 5 prevedeva: «Informare le autorità civili e le autorità ecclesiastiche superiori nel rispetto delle norme civili e canoniche» (consultabile anche online all’indirizzo www.vatican.va). Papa Francesco ha distribuito ai partecipanti una scheda con questi ventuno punti: v. il sintetico resoconto di F. Lombardi, Dopo l’incontro su «La protezione dei minori nella Chiesa», in La civiltà cattolica, CLXX (2019), II, pp. 60-73. Dei provvedimenti normativi di cui ci occuperemo in seguito la stampa ha proposto una visione unitaria, parlando di «quattro provvedimenti legislativi promulgati dalla Santa Sede dopo il vertice di febbraio - di un quinto, il vademecum per i vescovi, oltre che della pubblicazione delle cifre dei casi trattati dalla Congregazione per la dottrina della fede, si è parlato al vertice ma essi non vedranno la luce in tempi brevi -. /I primi tre sono un motu proprio che accompagna la Legge n. 297 sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili e le linee guida sullo stesso tema che entrano in vigore nello Stato della Città del Vaticano in data 26 marzo 2019 […]. /Il quarto è il motu proprio Vos estis lux mundi […] che è il provvedimento riepilogativo di tutta questa lenta ma inesorabile evoluzione su come affrontare correttamente abusi e violenze sessuali nella Chiesa cattolica» (M.E. Gandolfi, Chiesa e violenze sessuali, le norme evolvono, in Il Regno. Documenti, LXIV [2019], p. 337). Sul vademecum cfr. quanto riferisce R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, in Ius canonicum, LIX (2019), pp. 829 s. 251 La legislazione canonica e vaticana cui faremo riferimento è stata preparata dall’impegno e dagli interventi della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, istituita con Chirografo di Papa Francesco del 22 marzo 2014 (in Acta Apostolicae Sedis, CVII [2015], pp. 562-563), nonché da quanto emerso dal già ricordato incontro dei presidenti delle Conferenze Episcopali sulla protezione dei minori nella Chiesa convocato a Roma nel febbraio 2018.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 stoltamente giustizialista252 -, tuttavia tale normativa, per alcuni quadranti, pare sospinta verso determinazioni di cui forse non si sono ponderate appieno tutte le appendici. Sono provvedimenti che vanno ad incidere, ancora una volta, in maniera predominante - anche se non esclusiva - sul diritto penale253: il quale davvero nella Chiesa, dopo che certo antigiuridismo254 postconciliare255 lo ‘aveva ridotto’ miopemente ai minimi termini oltreché sistematicamente e incautamente disapplicato256, pare all’opposto rasentare oggi un’iperplasia spropositata. Mentre forse era da incentivare - e non pochi lo hanno auspicato - un approccio a più largo raggio, ‘culturale’ si direbbe se non si temesse di essere travisati, della questione, rivedendo le trame dei rapporti ecclesiali personali e dei modelli etici e comportamentali con l’assiologia ad essi sottostante, oggi in crisi innegabile: ciò che non è

252 Commenta G. Núñez, Nueva regulación para la protección de menores y personas vulnerables en el Estado de la Ciudad del Vaticano, in Ius canonicum, LIX (2019), p. 337, sia pure solo relativamente ai provvedimenti del 26 marzo 2019 di cui tratteremo in seguito: «parece interesante destacar la insistencia en la observancia de una recta actuación jurídica, con referencias explícitas al principio de legalidad, al derecho de defensa, a la proporcionalidad entre el delito y la sentencia, a la presunción de inocencia, etc.: no nos parece algo superfluo, habida cuenta de la sensibilidad existente en la actualidad, tanto en la sociedad como en el Pueblo de Dios, que podría llevar a decisiones precipitadas o incluso injustas». 253 Esprime autorevolmente questa opinione D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, in Periodica, CVIII (2019), p. 93. 254 V. le precisazioni - anche terminologiche - sulle posizioni di questo tipo (di animus adversus ius o adversus legem) e sulla «crisis del derecho canónico después del Concilio Vaticano II» di C.J. Errázuriz M., Antijuridicismo, in J. Otaduy - A. Viana - J. Sedano (ed.), Diccionario general de derecho canónico, vol. I, cit., pp. 364-369. 255 Al riguardo con riferimento alla normativa penale della Chiesa v., per tutti, le osservazioni di J.I. Arrieta, L’influsso del Cardinal Ratzinger nella revisione del sistema penale canonico, in La civiltà cattolica, CLXI (2010), IV, p. 430 ss., consultabile anche online all’indirizzo www.vatican.va. Si veda anche più in generale la ricostruzione di J. Herranz, Il diritto canonico, perché?, in O. Fumagalli Carulli, Il governo universale della Chiesa e i diritti della persona. Con cinque Lezioni magistrali di Giovanni Battista Re, Crescenzio Sepe, , Jean-Louis Tauran, Julián Herranz, Milano 2003, p. 377 ss, il quale ricorda che, oltre all’ostilità, si diffuse anche un’indifferenza e una disaffezione «dovute non a cattiva volontà, ma piuttosto a scarsa conoscenza delle leggi ecclesiastiche» (ivi, p. 390); Herranz riportava come esempio eclatante proprio quello del diritto penale. 256 Si vedano le considerazioni molto equilibrate di B.F. Pighin, Diritto penale canonico, cit., sia nell’Introduzione, sia nel prosieguo della trattazione, specialmente p. 46 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 svincolato, da una parte, dal «collasso della teologia morale cattolica»257 su cui di recente ha vergato vibranti parole Joseph Ratzinger, il ‘Papa emerito’ Benedetto XVI, e dall’altra, da quella perversione del ‘clericalismo’ che quasi quotidianamente viene fustigata dal Pontefice regnante258. Si tratta di una faglia epocale nella quale la Chiesa - la fede di cui essa è depositaria nonché il diritto al suo servizio - si contorce alla ricerca di vie di uscita. Certo, però - e limitando la nostra attenzione all’ambito, circoscritto quanto si vuole ma non obliterabile, dello ius -, sarebbe stato un passo importante consentire, per esempio, al laicato, in questa fase di evidente ‘affanno’ e ‘sovraesposizione’ della gerarchia ecclesiale, di arrecare il proprio insostituibile contributo nella ‘purificazione’ ed altresì più in generale nel ‘buon governo’ della Chiesa: laicato cui le vie d’accesso per tale collaborazione sono a tutt’oggi, nello ius canonicum, assai irte e tortuose. Anzitutto col ‘codificare’, munendolo di adatti meccanismi procedurali, il loro diritto-dovere - piuttosto che uno stringente obbligo259 - canonico di denunciare alle autorità

257 V. Papa Ratzinger: la Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali, diffuso online nell’aprile 2019 (Corriere della Sera, 11 aprile 2019). Si sofferma su questo intervento del Papa emerito e sulla breve nota di risposta ad alcune critiche ricevute R.F. Freije, La reforma legislativa de Benedicto XVI en relación con los abusos sexuales y algunas propuestas para la reflexión, cit., p. 728. Tra l’altro, secondo E. Miragoli, Il sigillo sacramentale, cit., p. 152, anche proprio la ‘crisi’ del segreto e dell’impegno di conservarlo trova radice in queste circostanze: «Ciò potrebbe essere facilmente messo in relazione con la scarsa attenzione che ha caratterizzato ultimamente la teologia morale nei confronti di questo capitolo del segreto, con riflessi anche sull’insegnamento della deontologia». 258 V., per tutti, Francesco, Lettera al cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontificia Commissione per l’America latina, 19 marzo 2016, leggibile online all’indirizzo www.vatican.va. 259 Come vedremo nel prosieguo, è stato introdotto nell’ordinamento canonico, con un Motu Proprio del 2019, un obbligo giuridico di segnalazione: questo il vocabolo usato nella versione italiana, atteso che ancora non è disponibile il testo latino del provvedimento pontificio (di cui almeno disporremo se e quando tali innovazioni entreranno nel nuovo Libro VI del Codex Iuris Canonici, il quale, come noto, è in via di redazione). Generalmente in questa trattazione impieghiamo il termine denuncia, il quale è peraltro stato ampiamente usato nelle presentazioni ufficiose della riforma del Papa, come emergerà anche in seguito: cfr. ad esempio, per tutti, F. Lombardi, Introduzione, in Non fate male a uno solo di questi piccoli. La voce di Pietro contro la pedofilia, Siena, 2019, pp. 28-30, il quale, riassumendo i contenuti dell’«atto legislativo di maggiore portata finora emesso dal Papa Francesco in questo campo», parla sempre di obbligo e dovere di ‘denuncia’. Il recente Rescriptum ex audientia SS.mi, firmato dal Segretario di Stato Pietro Parolin e datato 6 dicembre 2019, cit., p. 5, stabilisce (nel «testo in lingua originale» in italiano), al punto 1 dell’emanata Istruzione, che non

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ecclesiastiche, laddove ne siano a conoscenza, la non idoneità di certi soggetti a ricoprire uffici in Ecclesia, ponendo al servizio del bene comune le loro multiformi e capillari competenze ed esperienze260, anche cooptandoli a ruoli di sempre maggiore responsabilità in un’ottica di genuina sussidiarietà e ‘sinodalità’261: secondo quelle indicazioni che lo stesso Papa Francesco ha recentemente impartito in maniera assai energica nella Lettera al popolo di Dio del 20 agosto 2018262. E invece - spiace prenderne atto - i laici sono ancora una volta banditi nella penombra. Anche per tali ragioni, ma non solo, come a breve vedremo, si deve osservare che alcune delle ultime modifiche normative introdotte

siano «coperti dal segreto pontificio le denunce, i processi e le decisioni riguardanti i delitti di cui: /a) all’articolo 1 del Motu proprio “Vos estis lux mundi”, del 7 maggio 2019 […]». 260 Abbiamo sostenuto con varie argomentazioni questa proposta nel nostro ultimo lavoro monografico: G. Boni, Il buon governo nella Chiesa. Inidoneità agli uffici e denuncia dei fedeli, Modena 2019, pp. 1-223. A tale volume rinviamo per ulteriori considerazioni sul tema. V. anche Ead., Il diritto di denunciare la mancanza di idoneità dei titolari degli uffici ecclesiastici, in Ius canonicum, XLIX (2019), pp. 9-49. 261 Secondo le ampie accezioni del termine nel linguaggio ecclesiale recente. 262 Infatti il sommo Pontefice, dopo aver ricordato, nella Lettera al cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontificia Commissione per l’America latina, che «Il Santo Popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo, e perciò, al momento di riflettere, pensare, valutare, discernere, dobbiamo essere molto attenti a questa unzione», ammonito a non spegnere «il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli», incitato a confidare «nel nostro Popolo, nella sua memoria e nel suo “olfatto”, […] che lo Spirito Santo agisce in e con esso, e che questo Spirito non è solo “proprietà” della gerarchia ecclesiale», dopo aver dunque caldeggiato un discernimento largamente condiviso (v. Francesco, Lettera al cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontificia Commissione per l’America latina, 19 marzo 2016, cit.), è giunto, nella Lettera al popolo di Dio del 20 agosto 2018, ad implorare: «è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno», «Tale solidarietà ci chiede […] di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. […] È impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita» (Id., Lettera al popolo di Dio, 20 agosto 2018, in L’Osservatore romano, 20-21 agosto 2018, p. 7, consultabile anche online all’indirizzo www.vatican.va; si vedano pure le affermazioni sul dovere di denunciare e di rendere conto delle responsabilità nell’intervista riportata in Papa Francesco in dialogo con i gesuiti in Irlanda, in La civiltà cattolica, CLXIX [2018], III, pp. 447-451).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 nell’ordinamento canonico da Papa Francesco con la ‘Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» “Vos estis lux mundi”’ del 7 maggio 2019 destano serie perplessità: in primis proprio la scelta di coartare legislativamente a veri e propri obblighi di segnalazione solo certi membri della Chiesa con un’opzione di ‘politica criminale’, potrebbe dirsi, forse più ‘vistosa’ e ‘suggestiva’ per il corrente modus pensandi che sembrava reclamarla a gran voce, ma forse meno efficace e certamente meno aderente all’attuazione di quella cooperatio ad aedificationem Corporis Christi dell’intero populus Dei che il Concilio Vaticano II ha esortato e la codificazione enunciato (can. 208). Senza contare le proiezioni sulla problematica ora analizzata e sulle quali ci intratterremo nel prosieguo. In tale provvedimento pontificio, infatti, si stabilisce per i chierici e i membri di un Istituto di vita consacrata o di una Società di vita apostolica263 l’obbligo di segnalazione (art. 3)264 di alcuni «delitti contro il

263 Quanto all’ambito soggettivo delle previsioni del Vos estis lux mundi si vedano le puntualizzazioni di R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, cit., p. 840 ss., cui rinviamo. Nel corso di questa trattazione, prevalentemente per ragioni di brevità e per non complicare troppo l’esposizione, abbiamo parlato e parleremo di chierici e ‘religiosi’ o ‘consacrati’, terminologia non precisa che tuttavia non incide sul nostro ragionamento. Grave, invece, che un linguaggio impreciso sia stato usato non solo nei commenti ufficiosi al Motu Proprio ma nel Motu Proprio medesimo: «es preciso decir que el uso del término religioso tanto en VELM como en los comentarios oficiosos se presta a confusión. […] Estas imprecisiones, por el contrario, no son propias de una norma jurídica» (ivi, p. 842). Comunque «Supuesto lo anterior, la obligación de informar recae no sobre clérigos y religiosos, como dicen la nota de prensa del Vaticano, sino sobre clérigos y miembros de institutos de vida consagrada o sociedades de vida apostólica sean religiosos o no» (ivi, p. 853). 264 Nel testo normativo non si parla mai di denuncia, nonostante questo sia il termine tecnico che suppone certe garanzie; così la denuncia tradizionalmente nel diritto canonico non deve essere anonima. Commenta per converso D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, cit., pp. 532-533: «Secondo l’Art. 3 §4 la segnalazione, come comunicazione di una notitia criminis, deve contenere, d’una parte gli elementi essenziali, vale a dire, il soggetto che ha commesso il crimine, la condotta messa in atto; dall’altra, le circostanze proprie della condotta: tempo, luogo, vittima, testimoni ed altre. In qualche maniera segue il contenuto del can. 1717 che introduce la investigatio praevia. /Si deve sottolineare che si tratta di segnalazione e non di denuncia, per evitare, come nel caso dell’investigazione previa prevista dal CIC, le formalità che possono rallentare l’andamento della giustizia. In questo senso ritengo che si tratti semplicemente dell’apprendere gli elementi basici della realizzazione d’un delitto previsto dalle presenti norme. /Evidentemente l’informazione dev’essere almeno credibile, non sulla base di una semplice diceria, altrimenti si potrebbe cadere nella falsa denuncia». E R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, cit., pp.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sesto comandamento del Decalogo», nella medesima Lettera Apostolica indicati ed attinenti ad atti sessuali ottenuti con violenza o minaccia

851-852: «El CIC (c. 1717 § 1) y el CCEO (c. 1468 § 1) prefieren utilizar el término “noticia”. El informe, pensamos, es solo una de las posibles variedades de “noticia” o conocimiento. Informe, noticia, son locuciones que suponen la llegada de una comunicación a la autoridad eclesiástica de unas acciones que pueden ser constitutivas de delito. Tampoco debe rechazarse la voz “denuncia”, que la legislación codicial contempla en su vertiente negativa (falsa denuncia, c. 1390 CIC y cc. 1452 y 1454 CCEO) y VELM cita en el art. 4 § 2». Nel diritto italiano il termine ‘segnalazione’ non è tecnico. Sintetizzano D. Siracusano et al., Le indagini preliminari, in D. Siracusano et al., Diritto processuale penale, ed. a cura di G. Di Chiara et al., Milano 2018, pp. 414-415: «Due […] sono le modalità attraverso le quali, secondo la previsione contenuta nel […] art. 330 c.p.p., prendono consistenza le notizie di reato: una a cui danno vita determinate “segnalazioni” relative a fatti ipoteticamente configurabili come reato, che pervengono ai soggetti titolari del potere di investigazione; l’altra che si realizza con la diretta “apprensione” da parte di quegli stessi soggetti, anche in conseguenza di una loro autonoma attività euristica. /Questa duplicità di itinerari che permettono l’acquisizione di notitiae criminis pone capo alla distinzione, elaborata in dottrina sotto il codice abrogato ma utilizzabile ancor oggi, tra “notizie di reato qualificate” (“tipiche”) e “notizie di reato non qualificate” (o “atipiche”). La prima delle due formule individua le informazioni pervenute al pubblico ministero, o alla polizia giudiziaria, per mezzo di taluni atti normativamente previsti: si tratta, in particolare, di quelle notizie “presentate o trasmesse a norma degli articoli seguenti”, alle quali si riferisce l’art. 330 c.p.p. La seconda designa, invece, tutte le altre informazioni, cui si accenna nello stesso articolo, che gli organi investigativi abbiano percepito “di propria iniziativa”»; quanto alle «diverse notizie di reato qualificate […] il quadro delineato dalla normativa codicistica […] ricomprende la denuncia presentata da pubblici ufficiali e da incaricati di pubblico servizio, la denuncia presentata da privati, il referto, nonché la querela, la richiesta di procedimento e l’istanza di procedimento. Queste ultime tre, però, diversamente dalle altre notitiae criminis che si concretano in dichiarazioni di scienza puramente descrittive dello svolgersi di un determinato fatto che giustifichi un sospetto di criminosità, si caratterizzano essenzialmente come dichiarazioni di volontà, poiché alla mera rappresentazione, o narrazione del fatto aggiungono la manifestazione di una volontà diretta a ottenere l’instaurazione di un procedimento finalizzato all’accertamento giudiziario sull’eventuale rilevanza penale di quel fatto e alla conseguente punizione del colpevole. Ed è una volontà in mancanza della quale diventa impossibile pervenire a quell’accertamento e a quella punizione, tant’è che gli atti attraverso i quali essa si manifesta si sogliono definire “condizioni di procedibilità”, con un’espressione che è d’uso contrapporre a quella di “procedibilità, o perseguibilità, d’ufficio” alla quale si fa ricorso per i casi in cui a dar vita all’accertamento giudiziale basta uno degli atti contenenti la semplice dichiarazione di scienza». Ci occuperemo in seguito in particolare della querela: quanto alle altre ‘condizioni di procedibilità’ (in particolare la richiesta e segnatamente l’istanza di procedimento) rinviamo, per tutti, al succitato manuale (ivi, p. 431 ss.).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ovvero con minori o persone vulnerabili e a pedopornografia265, nonché delle condotte poste in essere da autorità ecclesiastiche266 «consistenti in azioni od omissioni dirette a interferire o ad eludere le indagini civili o le indagini canoniche, amministrative o penali267, nei confronti di un chierico o di un religioso»268 in merito ai delitti suddetti269 di cui abbiano

265 Cfr. Francesco, Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» “Vos estis lux mundi”, 7 maggio 2019, in L’Osservatore romano, 10 maggio 2019, p. 10: «delitti contro il sesto comandamento del Decalogo consistenti: /i. nel costringere qualcuno, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, a compiere o subire atti sessuali; /ii. nel compiere atti sessuali con un minore o con una persona vulnerabile; /iii. nella produzione, nell’esibizione, nella detenzione o nella distribuzione, anche per via telematica, di materiale pedopornografico, nonché nel reclutamento o nell’induzione di un minore o di una persona vulnerabile a partecipare ad esibizioni pornografiche». Come anche osserva G.P. Montini, La tutela penale del sacramento della penitenza. I delitti nella celebrazione del sacramento (cann. 1378; 1387; 1388), cit., pp. 214-215, nota 3, il riferimento al sesto comandamento è dizione impropria: «La scienza biblica è infatti unanime nell’identificare l’oggetto del sesto comandamento (cf Ef 20.14 e Dt 5.18) nel divieto di commettere adulterio». Tuttavia, come recita il n. 2336 del Catechismo della Chiesa cattolica, Città del Vaticano, 1992, ed. tipica latina promulgata nel 1997, consultabile anche online sul sito ufficiale della Santa Sede: «La Tradizione della Chiesa ha considerato il sesto comandamento come inglobante l’insieme della sessualità umana». 266 Enumerate nell’art. 6 della citata Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» “Vos estis lux mundi”, 7 maggio 2019, p. 10. Cfr. le precisazioni e le spiegazioni su alcuni profili incerti di J.L. Sánchez-Girón Renedo, El «motu proprio» «Vos estis lux mundi»: contenidos y relación con otras normas del derecho canónico vigente, in Estudios eclesiásticos, XCIV (2019), p. 673 ss., anche in nota. 267 V. la spiegazione di D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, cit., p. 528 ss., che tra l’altro distingue tra ‘insabbiamento’ e ‘copertura’. 268 Questa previsione può affiancarsi ad un recente provvedimento normativo di Papa Francesco, la Lettera Apostolica Motu Proprio Come una madre amorevole, 4 giugno 2016, in L’Osservatore romano, 5 giugno 2016, p. 8 (e in Acta Apostolicae Sedis, CVIII [2016], pp. 715-717). Da tale provvedimento - al di là di alcune problematiche giuridiche che solleva e di cui abbiamo riferito in G. Boni, Il buon governo nella Chiesa. Inidoneità agli uffici e denuncia dei fedeli, cit., p. 197 ss., segnatamente nelle note - traluce chiaramente la recisa volontà del successore di Pietro di rendere oggettivamente efficace l’esercizio del governo, e proprio quello di chi è alla testa della Chiesa particolare: e non si vacilla nel comminare la rimozione allorquando il governo dei vescovi diocesani e di coloro che ad essi sono equiparati abbia causato un grave danno ad altri anche proprio con la provvista di uffici ecclesiastici a soggetti non idonei che poi hanno minato pressoché irreparabilmente la comunione ecclesiale, pure senza che si richieda la commissione di un crimen. Segnatamente l’art. 1 del suddetto Motu Proprio sancisce: «§ 1. Il Vescovo diocesano o l’Eparca, o colui che, anche se a titolo temporaneo, ha la responsabilità di una Chiesa particolare, o di un’altra comunità di fedeli ad essa equiparata ai sensi del can. 368 CIC e del can. 313 CCEO, può essere legittimamente rimosso dal suo incarico, se abbia, per negligenza, posto od omesso atti che abbiano provocato un danno grave ad altri, sia che si tratti di persone fisiche, sia

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che si tratti di una comunità nel suo insieme. Il danno può essere fisico, morale, spirituale o patrimoniale. /§ 2. Il Vescovo diocesano o l’Eparca può essere rimosso solamente se egli abbia oggettivamente mancato in maniera molto grave alla diligenza che gli è richiesta dal suo ufficio pastorale, anche senza grave colpa morale da parte sua. /§ 3. Nel caso si tratti di abusi su minori o su adulti vulnerabili è sufficiente che la mancanza di diligenza sia grave. /§ 4. Al Vescovo diocesano e all’Eparca sono equiparati i Superiori Maggiori degli Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica di diritto pontificio». Come annuncia il prologo del provvedimento, quindi, tra le ‘cause gravi’ che permettono la rimozione dall’ufficio ecclesiastico (can. 193) c’è anche l’incuria nell’esercizio dell’ufficio e quindi anche l’inadempimento delle disposizioni vigenti (di diritto universale e di diritto particolare) in materia di abusi del clero. Su tale provvedimento pontificio v. R.W. Oliver, Commento alla Lettera apostolica in forma di motu proprio Come una madre amorevole del Papa Francesco, in Monitor ecclesiasticus, CXXXI (2016), p. 175 ss.; F. Puig, “La responsabilità giuridica dell’amministrazione ecclesiastica per negligenza in un deciso orientamento normativo”, in Ius Ecclesiae, XXVIII (2016), p. 718 ss.; M. Del Pozzo, Rilievi costituzionalistici a proposito della nuova disciplina per la rimozione del Vescovo, in Ius missionale, XI (2017), p. 257 ss.; P. Lo Iacono, Repressione della pedofilia, centralità del vescovo diocesano e legittimità della rimozione dall’ufficio (da Benedetto XVI a Francesco), in Il diritto di famiglia e delle persone, XLVI (2017), p. 530 ss. Sulle connessioni tra il Motu Proprio Come una madre amorevole e il Motu Proprio Vos estis lux mundi v. F. Lombardi, Ora niente scuse. Sulla concretezza del motu proprio Voi siete la luce del mondo, in Il Regno. Attualità, LXIV (2019), p. 272. 269 Commenta J.I. Arrieta, Nota esplicativa «Vos estis lux mundi», consultabile sulla pagina web del Pontificio Consiglio per i testi legislativi (www.vatican.va), testo da cui citiamo (pubblicato col titolo Presentatio apud Sala Stampa Sanctae Sedis Litterarum Apostolicarum Motu Proprio «Vos estis lux mundi», ab Exc.mo Domino Ioanne Ignatio Arrieta conscripta, in Communicationes, LI/1 [2019], pp. 134-139), p. 1: il Titolo I del documento «segnala quattro condotte che motivano in concreto il provvedimento (abuso sessuale con violenza o minaccia, abuso di minori, pedopornografia e interferenze in indagini connesse a questo argomento). […] /Due delle condotte indicate in questo motu proprio (abuso di minori e pedopornografia) sono tipificate come delicta graviora se commesse da chierici; l’abuso sessuale con violenza o minaccia è anche tipificato nel can. 1395 §2 del Codice, se commesso anche da un chierico; e la copertura o depistaggio riguardanti queste materie in indagini ufficiali concernenti chierici o religiosi è condotta delineata ex novo, e solo genericamente tipificata dal can. 1389 §1 del Codice»; tale Autore comunque asserisce: «È un testo di natura procedurale, che non tipifica nuovi reati». Aderisce a questa ricostruzione R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, cit., p. 833 ss., il quale anche rileva: «No coincide exactamente el texto del VELM con los delitos que se tipifican en el CIC (cfr. cc. 1395 § 2 y 1389 § 1) y en las NGD (cfr. art. 6), hay algunas diferencias en la descripción del supuesto de hecho. Pero conviene recordar que no se están tipificando nuevos delitos, sino que se señala el ámbito material de los informes, una vez recibidos, en orden a cómo debe procederse teniendo en cuenta las nuevas normas. /La literalidad de este artículo del VELM puede dar lugar a algunas dificultades de interpretación» (ivi, p. 834); nel corso della trattazione interpreta tutte le disposizioni del Motu Proprio Vos estis lux mundi (e altresì la sua retroattività) alla

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luce del suo essere meramente «una norma procedimental que regula la investigación previa en algunos supuestos» (ivi, pp. 848-849). Non reputa si siano introdotti nuovi delitti pure J.L. Sánchez-Girón Renedo, El «motu proprio» «Vos estis lux mundi»: contenidos y relación con otras normas del derecho canónico vigente, cit., p. 687, anche in nota 74, il quale argomenta altresì sulla base del fatto che non si sia usato il termine ‘denuncia’: «también puede ser relevante observar que el texto habla de presentar informes-información y no de “denunciar”, término que tiene una mayor y más clara connotación de referirse a la condición delictiva de aquello que se denuncia. Lo mismo se podría decir, por ejemplo, de “acusar” o “presentar acusaciones”, términos que tampoco aparecen. Cabe añadir que el art. 1 §1b, refiriéndose a las investigaciones que interfieren o eluden las personas del art. 6, habla de “investigaciones…administrativas o penales” sobre casos del art. 1 §1a; lo cual invita a pensar que asume la condición no delictiva de al menos algunos de ellos. [La versión española del CIC emplea el término “denuncia” u otro de la misma raíz en cánones donde las versiones en otras lenguas emplean denounced, denunziare, denuncia, dénoncé, acusse, denunciado o denunciar (cc. 982, 1390, 1619). Estos términos no aparecen en la versión de VELM en ninguno de esos idiomas (inglés, italiano, francés, portugués), las cuales emplean términos como reports, information, segnalazioni, informazioni, signalements, informations, assinalações e informações allí donde la versión española habla de “informar” y de “informes” (art. 2-4, 8-12). Significativo puede ser también que el art. 5 hable de atender a “quienes afirman haber sido afectados” por casos recogidos en el m. p., pues cuando se trata de un delito lo más común es emplear el término “víctima”. Esto encaja con la interpretación de que el propio VELM parta de la base de que no todos esos casos son delito]». Infine per G. Comotti, I delitti contra sextum e l’obbligo di segnalazione nel motu proprio “Vos estis lux mundi”, in corso di pubblicazione in Ius Ecclesiae, pp. 5-6 (citeremo sempre le pagine del dattiloscritto): «Nel motu proprio, che contiene prevalentemente disposizioni di carattere procedurale, sembrano prevalere intenti pragmatici su preoccupazioni teoretiche o logico-sistematiche, lasciando spazio ad alcuni profili di criticità nella considerazione delle fattispecie criminose oggetto di segnalazione obbligatoria, e si rende necessario per l’interprete uno sforzo di coordinamento con altre fonti, quali, in particolare, il can. 1395, §2 e l’art. 6 delle Normae, in quanto, pur facendo riferimento ai delicta contra sextum, esso considera fattispecie non completamente coincidenti con quelle disciplinate dalle fonti testé citate»; l’Autore si sofferma quindi sulla questione se il Motu Proprio contenga o non la previsione di nuove fattispecie delittuose canoniche, domandandosi altresì: «si tratta - come sembrano indicare le Linee guida della CEI (n. 5.2) - di una sorta di “interpretazione autentica” del can. 1395, §2 (peraltro neppure citato), che ne espliciterebbe il contenuto dispositivo, precisando l’elemento materiale dei delitti contra sextum cui esso fa riferimento? Se così fosse, siffatta interpretazione, in forza del can. 16, §2, avrebbe effetti retroattivi e sarebbe applicabile a condotte poste in essere anche antecedentemente all’entrata in vigore del VELM, in quanto l’interpretazione autentica dichiarativa “consta di una norma positiva immessa nel sistema delle fonti al fine di ribadire come la legge interpretata doveva essere intesa già dall’epoca della sua promulgazione”» (ivi, p. 14); l’opinione di Comotti è che vada escluso il valore di interpretazione autentica delle precedenti norme canoniche e conclude: «Il fatto che questi - come si è evidenziato - non coincidano con la medesima tipologia di delitti considerati dal CIC o dalle Normae, lungi dal modificare i disposti contenuti in questi

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ultimi, non rileva se non ai fini che si prefigge qui il legislatore, che è quello di configurare l’obbligo di segnalare tali condotte all’autorità gerarchica, in modo che questa possa, se ve ne sono i presupposti, sia procedere canonicamente, sia valutare l’opportunità di segnalarle a propria volta all’autorità civile» (ivi, p. 17). Per converso, secondo F. Lombardi, Ora niente scuse. Sulla concretezza del motu proprio Voi siete la luce del mondo, cit., p. 270, «La grande novità è che ora Francesco promulga una legge universale, valida per tutta la Chiesa, che impone sia obblighi giuridici che finora non erano così chiaramente formulati sia obblighi nuovi». Rileva poi per converso D. Milani, Gli abusi del clero. Il processo di riforma di una Chiesa ancora in affanno, cit., pp. 20-21: «Sono condotte, quelle oggetto di segnalazione, che presentano diverse novità rispetto a quelle sanzionate dalle norme del 2010. Tali novità agiscono su due versanti: da un lato, ampliano ulteriormente la sfera delle fattispecie ascrivibili ai delitti contro il sesto precetto del Decalogo (art. 1 § 1, lett. a); dall’altro, includono nell’obbligo di denuncia anche le azioni e le omissioni poste in essere dalla gerarchia allo scopo di interferire con le indagini condotte nell’ordinamento canonico e in quello civile (nel senso di statuale) su chierici e religiosi sospettati di aver commesso un abuso (art. 1 § 1 lett. b). Azioni e omissioni di cui possono macchiarsi, più in particolare, cardinali, patriarchi, vescovi e legati del romano pontefice. E ancora, per i fatti commessi durante munere, i chierici preposti alla guida di chiese particolari, di entità a esse assimilate, di ordinariati e prelature personali. Infine, sempre per i fatti commessi durante munere, i moderatori supremi degli istituti di vita consacrata, delle società di vita apostolica e dei monasteri sui iuris (art. 6). /Non sembra trattarsi di semplici negligenze della gerarchia - quelle negligenze di cui Francesco si è già occupato con la lettera apostolica Come una madre amorevole - bensì di azioni e omissioni che, essendo deliberatamente volte a interferire con le indagini (canoniche e civili) sugli abusi, vengono assimilate agli abusi stessi. E, come tali, sono per la prima volta giuridicamente sanzionate al fine di arginare le complicità e le connivenze di un insano clericalismo. /Ma novità - dicevamo - si registrano, anche sul fronte delle fattispecie ascrivibili ai delitti contro il sesto precetto del Decalogo. Prima fra tutte, la decisione di configurare come tale anche il fatto di costringere qualcuno - non necessariamente un minore o chi ha un uso imperfetto della ragione - a compiere o subire atti sessuali con violenza, minaccia o abuso di autorità [art. 1 § 1, lett. a), i.]. Una scelta che pare andare nella direzione di sanzionare anche gli ‘abusi di potere’ su religiose, seminaristi o novizi recentemente denunciati in alcuni Paesi. /All’abuso su minore viene poi equiparato quello perpetrato sulle persone vulnerabili [art. 1 § 1, lett. a), ii.]. Ovverossia, come già precisato nella legge n. CCXCVII per lo Stato Città del Vaticano, su chi versa “in (uno) stato d’infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che di fatto, anche occasionalmente, ne limit(a) la capacità di intendere o di volere o comunque di resistere all’offesa” (art. 1 § 2, lett. b). Infine, si interviene sulla fattispecie di pedopornografia rimuovendo il limite dei quattordici anni e descrivendo in modo più articolato le condotte rilevanti a tale scopo [art. 1 § 1, lett. a), iii.]. Condotte più in dettaglio consistenti nella produzione, esibizione, detenzione, o distribuzione, anche per via telematica, di materiale pedopornografico, nonché nel reclutamento o nell’induzione di un minore - cui viene nuovamente equiparata la persona vulnerabile - a partecipare a esibizioni pornografiche». Rinviamo a D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, cit., p. 521 ss., che parla ripetutamente di ‘nuove fattispecie’ e ‘nuovi reati’, per un’analisi dettagliata e assai apprezzabile. Segnaliamo anche come il recente Rescriptum ex audientia SS.mi, firmato dal Segretario di Stato Pietro Parolin e datato 6

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 notizia o fondati motivi270 per ritenere che siano stati commessi. Diviene, perciò, tra le altre - lo accenniamo per inciso salvo ritornarci - in qualche modo una fattispecie rilevante sul piano disciplinare, e comunque un contegno che deve essere segnalato per ricevere una punizione271, l’aver ‘eluso’ le «indagini civili»272: una condotta non precisamente determinata

dicembre 2019, cit., p. 5, reciti al punto 1 dell’emanata Istruzione: «Non sono coperti dal segreto pontificio le denunce, i processi e le decisioni riguardanti i delitti di cui: /a) all’articolo 1 del Motu proprio “Vos estis lux mundi”, del 7 maggio 2019 […]». 270 Osserva autorevolmente D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, cit., p. 536: «Causa non poco stupore la dicitura “motivi fondati”, perché sembra scostarsi dai fatti concreti alle supposizioni che la situazione sia pericolosa. Sembra che i sospetti fondati possano essere sufficienti per la segnalazione, con tutto il danno che si potrebbe produrre alla persona denunciata». Sorgono poi alcune domande: «- Esiste o si può determinare un tempo entro il quale persiste l’obbligo della segnalazione? Supponiamo che si scopra un delitto accaduto cento oppure quaranta anni prima. Nella logica penalistica riaprire questa ferita sociale provoca molto più scandalo che determinare (come si dovrebbe) la prescrizione della azione criminale. /- Che succede quando la stessa segnalazione viene fatta prima da un altro fedele? Si è ancora obbligati? Non sembra logico che persista l’obbligo. /- Cosa succede quando la persona lesa non vuole che sia presentata la segnalazione? Non sembra giusto che si vada oltre il bene della persona interessata in prima istanza». In generale sul Motu Proprio Vos estis lux mundi Astigueta afferma che «causa stupore sia la tecnica legislativa sia le novità di alcuni termini utilizzati non provenienti dall’ambito canonistico. /Riguardo alla tecnica legislativa, si può osservare che non si tratta di un documento facile da leggere e nemmeno da interpretare. Per questa ragione sembra difficile e macchinosa la sua messa in pratica, il che è grave in materia legislativa. Abbiamo rilevato non poche incongruenze, passaggi oscuri e vuoti legali» (ivi, p. 548). 271 Parla di nuova fattispecie penale D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, cit., p. 530 e p. 549, ove anche aggiunge: «Per i casi in cui non sia prevista una pena specifica, si dovrebbe seguire il dettato del can. 1399 che prevede una giusta pena». Invece per R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, cit., p. 839, «VELM no crea un nuevo delito de encubrimiento, sino que ordena investigar las conductas descritas en el art. 1 § 1, b) por si son subsumibles en algunos de los tipos delictivos ya existentes en el CIC (por ejemplo, cfr. c. 1389 § 1 CIC), o en supuestos de hecho de otras disposiciones, como el Motu proprio Come una madre amorevole». Sulla previsione di cui all’art. 1 § 1 lett. b) che contempla le azioni od omissioni dirette a interferire o ad eludere le indagini civili o le indagini canoniche, amministrative o penali, nei confronti di un chierico o di un religioso si veda la ricostruzione di G. Comotti, I delitti contra sextum e l’obbligo di segnalazione nel motu proprio “Vos estis lux mundi”, cit., p. 20 ss., in relazione al can. 1389 e alle previsioni del Motu Proprio Come una madre amorevole. 272 Riguardo alla norma in questione F. Iannone, Nota esplicativa «Vos estis lux mundi», consultabile sulla pagina web del Pontificio Consiglio per i testi legislativi (www.vatican.va), testo da cui citiamo (pubblicato col titolo Nota explanans, Litteras Apostolicas Motu Proprio datas «Vos estis lux mundi», ab Exc.mo Philippo Iannone conscripta, in Communicationes, LI/1 [2019], pp. 130- 133), p. 2, annota: «È una

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 e nella quale parrebbe potere rientrare (secondo invero un’interpretazione distorta) anche il non avere collaborato con i magistrati o altre autorità secolari mantenendo il silenzio per non contravvenire al segreto. Non solo e non tanto un diritto di denunciare - altamente educativo perché implicante un’attuosa compartecipazione273 -, il quale pure è contemplato quale dovere morale per tutti, in conformità al desiderio del Papa «che questo impegno si attui in modo pienamente ecclesiale, e dunque sia espressione della comunione che ci tiene uniti, nell’ascolto reciproco e aperto ai contributi di quanti hanno a cuore questo processo di conversione»274: ma un vero obbligo giuridico ricadente unicamente su certi soggetti, ordinati in sacris e religiosi275, un «mandato che se non venisse osservato potrebbe generare almeno sanzioni disciplinari per queste persone»276. Ed è segnatamente su quest’innovazione che si sono

norma chiara, e da più parti richiesta, con la quale si vuole evitare che nel futuro si possano ancora verificare coperture di abusi». 273 Ci permettiamo di rinviare ancora a G. Boni, Il buon governo nella Chiesa. Inidoneità agli uffici e denuncia dei fedeli, passim. 274 Cfr. Francesco, Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» “Vos estis lux mundi”, 7 maggio 2019, cit., p. 10, nella premessa. E infatti il paragrafo 2 dell’art. 3 sancisce che «Chiunque può presentare una segnalazione concernente le condotte di cui all’art. 1, avvalendosi della modalità di cui all’articolo precedente o in qualsiasi altro modo adeguato» (l’art. 2 tratta della predisposizione di sistemi stabili e facilmente accessibili al pubblico per presentare segnalazioni anche attraverso l’istituzione di un apposito ufficio ecclesiastico): per F. Lombardi, Ora niente scuse. Sulla concretezza del motu proprio Voi siete la luce del mondo, cit., p. 272, «non è una pia esortazione, ma un chiaro dovere». L’art. 3 n. 3 della legge vaticana firmata da Papa Francesco n. CCXCVII Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, 26 marzo 2019, in L’Osservatore romano, 30 marzo 2019, p. 7, analogamente prevede: «Fatto salvo il sigillo sacramentale, può presentare denuncia ogni altra persona, anche totalmente estranea ai fatti, che sia a conoscenza di comportamenti in danno di un minore». 275 Come ricorda J.I. Arrieta, Nota esplicativa «Vos estis lux mundi», cit., p. 1: «La norma, dunque, riguarda tutti i chierici e i religiosi della Chiesa cattolica, sia che appartengano a istituti di diritto pontificio che di diritto diocesano. È, dunque, una norma che va ben oltre i soggetti vincolati in questa materia dai delicta graviora delineati dal motu proprio Sanctitatis sacramentorum tutela, che sono solo i chierici». V. anche sul punto D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, cit., p. 519 ss. 276 J.I. Arrieta, Nota esplicativa «Vos estis lux mundi», cit., p. 1. Secondo G. Comotti, I delitti contra sextum e l’obbligo di segnalazione nel motu proprio “Vos estis lux mundi”, cit., p. 22: «Lo spazio lasciato a questo vaglio è invero abbastanza ampio, solo che si consideri, ad esempio, che l’obbligo di segnalazione ha ad oggetto anche condotte poste in essere con le “persone vulnerabili”, per le quali non è di certo agevole valutare la sussistenza o meno della condizione di “vulnerabilità”, così come tratteggiata nel VELM. È quindi comprensibile che l’omessa segnalazione non venga - per ora -

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 voluti accendere i riflettori; così nell’articolo, a firma del preposto alla direzione editoriale del dicastero per la comunicazione, collocato nella prima pagina de L’Osservatore romano e che presenta la pubblicazione del Motu Proprio, si pone in risalto: «Se fino ad oggi quest’obbligo riguardava, in un certo senso, soltanto la coscienza individuale, d’ora in poi diviene un precetto legale stabilito universalmente»277. Per ben misurare la portata del cambiamento introdotto nell’ordinamento canonico, può essere utile segnalare che di consueto nei diritti penali secolari, come in quello italiano, la denuncia, quale mera dichiarazione di scienza (o di sospetto)278 da parte di qualsiasi soggetto279, è strutturata «come atto tipicamente facoltativo, e costituisce l’espressione non di un diritto soggettivo o di un potere, bensì di una mera facoltà»280, e la sua

configurata come fattispecie delittuosa, ma sia suscettibile, eventualmente, di una sanzione di carattere disciplinare, salvo ricorrere anche qui, qualora se ne ritengano sussistenti gli stringenti presupposti, alla previsione del can. 1399». 277 A. Tornielli, Nuove norme per tutta la Chiesa contro chi abusa o copre, in L’Osservatore romano, 10 maggio 2019, p. 1. Al § 5 dell’art. 3 del citato Motu Proprio Vos estis lux mundi, 7 maggio 2019, p. 10, si prevede inoltre che «Le notizie possono essere acquisite anche ex officio». 278 Cfr. R. Di Matteo, Denuncia penale, in Enciclopedia Giuridica, vol. X, Roma 1988, p. 1: «Dogmaticamente, la denuncia si profila come un atto giuridico volontario, ma non negoziale. A differenza della querela, che implica una dichiarazione di volontà […], la denuncia ha per suo contenuto essenziale una mera dichiarazione di scienza (o, più specificamente, “di sospetto”), cui la legge ricollega la produzione di determinati effetti indipendentemente dalla direzione della volontà dell’agente. […] Con più specifico riguardo alla teoria del processo, sembra da escludere che la denuncia possa annoverarsi tra gli atti processuali penali: essa è un atto che, pur avendo rilevanza ai fini del processo, non si realizza in sede processuale ad opera dei soggetti del rapporto, né ha per immediata conseguenza la costituzione del rapporto processuale, la quale dipende da una manifestazione di volontà dell’organo […] cui la legge demanda il promovimento dell’azione penale. Neppure è possibile considerare la denuncia come un presupposto processuale (in senso tecnico) o come una condizione di procedibilità, in quanto il processo può bene essere iniziato sulla base di qualsiasi altra fonte, nominata o innominata, di notitia criminis […]. Trattasi, invece, di un atto preprocessuale, che del processo costituisce un presupposto di mero fatto». 279 Cfr. D. Siracusano et al., Le indagini preliminari, cit., p. 418: «A qualsiasi soggetto, prescindendo da qualificazioni o requisiti di cittadinanza, capacità, interesse o altro, è consentito […] sporgere denuncia […], sia in forma orale, e viene documentata dall’autorità che la riceve in un processo verbale […], sia in forma scritta; in questo caso deve essere sottoscritta dal denunciante o dal suo procuratore […]. /La necessaria sottoscrizione della denuncia presentata dal privato è richiesta in quanto “delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso” (art. 333 comma 3 c.p.p.)». 280 G. Viglione, Denunce obbligatorie, in Digesto delle Discipline Penalistiche, vol. III, Torino 1989, p. 388.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 omissione non è punibile281: mentre l’imposizione di un obbligo di denuncia è alquanto rara e riguarda ipotesi assai particolari. In questo senso la situazione italiana è in qualche modo emblematica: al di là dell’obbligo di denuncia del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che ha avuto notizia di un reato nell’esercizio o a causa delle sue funzioni o di altri per doveri funzionali e professionali282, i casi in cui esso grava su tutti i cittadini non eccedono la decina e si giustificano in ragione di superiori interessi pubblici ineludibili che sono intuitivamente ricollegabili alle diverse fattispecie (delitti contro la personalità dello Stato, rinvenimento di esplosivi o di armi, sequestro di persona per estorsione, ecc.)283. E, se si sfoglia un qualsiasi manuale di diritto o

281 Cfr. L. Bresciani, Denuncia e rapporto, in Digesto delle Discipline Penalistiche, vol. III, Torino 1989, p. 392: «Anzi, il problema si pone all’inverso, cioè con riguardo alla necessità di reprimere gli eventuali abusi di questa facoltà e di garantire la genuinità della notizia di reato: infatti la presentazione di una denuncia calunniosa ovvero consapevolmente diretta a portare a conoscenza dell’autorità competente fatti che non sono stati mai commessi o ad incolpare il denunciante stesso di un fatto di reato non avvenuto o comunque commesso da altri, importa - sussistendone gli altri requisiti - l’integrazione di un comportamento penalmente rilevante e sanzionato». 282 Tale denuncia può altresì assumere «le diverse denominazioni tecniche di rapporto e di referto: il rapporto, infatti, è la denuncia obbligatoria (atto funzionale dovuto) di qualsiasi reato, da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio, che ne sia venuto a conoscenza nell’esercizio o a causa delle sue funzioni o del servizio; il referto è quella speciale informazione cui sono tenuti gli esercenti di una professione sanitaria, che, nell’espletamento della loro opera professionale, abbiano avuto notizia di fatti di carattere delittuoso»: V. Gianturco, Denuncia, IV) Denuncia penale, in Enciclopedia del diritto, vol. XII, Milano 1964, p. 189, alle cui considerazioni generali, ancora pienamente valide, rinviamo. A proposito del referto lo stesso Autore significativamente ricorda: «L’obbligo viene meno, per la necessaria tutela di quel rapporto di stretta fiducia che si instaura tra cliente e sanitario e che vincola quest’ultimo al segreto professionale (art. 622 c.p.), nel caso che il referto possa esporre la persona assistita a procedimento penale: e l’eccezione si spiega, considerando che, a parte l’accennato canone di deontologia professionale, sarebbe stato quanto mai inumano porre una persona bisognevole di cure e di assistenza sanitaria di fronte al tragico dilemma di rinunciarvi o di esporsi a pericolo di un processo penale» (ivi, p. 196). 283 La denuncia è obbligatoria, e la sua omissione comporta l’applicazione di sanzioni penali, ad esempio nei seguenti casi: per il cittadino italiano che abbia avuto notizia di un delitto contro la personalità dello Stato per il quale la legge prevede la pena dell’ergastolo (art. 364 C.P.); per chiunque abbia ricevuto in buona fede monete contraffatte o alterate e si accorga poi della loro contraffazione (art. 694 C.P. ora sanzionato in via amministrativa); per chiunque abbia ricevuto denaro o acquistato o comunque ricevuto cose provenienti da delitto senza conoscerne o sospettarne la provenienza (art. 709 C.P.); per chi abbia notizia che nel luogo da lui abitato si trovano materie esplodenti (art. 679 C.P.) o rinvenga esplosivi di qualunque natura o venga a

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 procedura penale, ab initio si insegna che il legislatore è parco di imposizioni al riguardo poiché ciò cagionerebbe l’instaurarsi di uno Stato autoritario se non totalitario che istiga l’ostilità di tutti contro tutti, sia pur a fini di controllo sociale del crimine: d’altronde «la disciplina della notizia di reato, quale primo anello della sequenza procedimentale, è espressione della logica ispiratrice dell’intero sistema processuale penale, a sua volta specchio della cultura del tempo [la migliore spia del grado di civiltà di un popolo è rappresentata proprio dalla legge del processo penale e dal modo di applicarla]»284; si denuncia e si dovrebbe denunciare non per paura della pena ma per senso civico di giustizia285.

conoscenza di depositi o di rinvenimenti di esplosivi (art. 20 comma 6 legge 18 aprile 1975, n. 110); per chi abbia subito il furto o sia incorso nello smarrimento di armi, parti di esse o esplosivi di qualunque natura (art. 20 comma 3 legge 18 aprile 1975, n. 110); si aggiunga infine che chiunque rinvenga un’arma o parte di essa è tenuto ad effettuarne immediatamente il deposito presso l’Autorità locale di Pubblica Sicurezza o, in mancanza, al più vicino comando dei Carabinieri (art. 20 comma 5 legge 18 aprile 1975, n. 110); per i rappresentanti di enti sportivi (affiliati o riconosciuti dal CONI e dall’UNIRE) che nell’esercizio o a causa delle loro funzioni hanno avuto notizia di frodi in competizioni sportive (per maggiori dettagli v. artt. 1 e 3 legge 13 dicembre 1989, n. 401). In particolare, poi, la denuncia è obbligatoria per chiunque, essendone a conoscenza, omette o ritarda di riferire fatti e circostanze concernenti un sequestro (anche solo tentato) di persona a scopo di estorsione (art. 630 C.P.) (tra i fatti e le circostanze rientrano, ad esempio, la notizia del sequestro, le informazioni sulla richiesta e il pagamento del ‘riscatto’, le circostanze utili per la individuazione e la cattura dei colpevoli ovvero la liberazione del sequestrato) (art. 3 decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modifiche nella legge 15 marzo 1991, n. 82); non è punibile però chi ha omesso o ritardato di riferire «in favore del prossimo congiunto» (art. 3 comma 2 decreto legge citato). Come riassume R. Di Matteo, Denuncia penale, cit., p. 2, «Leggi speciali impongono particolari obblighi di denuncia a soggetti che svolgono determinate attività o mestieri». Per trattazioni recenti v. P. Molino, Sub art. 333, in G. Canzio - R. Bricchetti (a cura di), Le fonti del diritto italiano. I testi fondamentali commentati con la dottrina e annotati con la giurisprudenza, Codice di Procedura Penale, cit., p. 2264 ss.; L. Giuliani, Indagini preliminari e udienza preliminare, in G. Conso - V. Grevi - M. Bargis, Compendio di procedura penale, 9ª ed., Milano 2018, p. 498 ss. 284 I. Di Lalla, Notizia di reato, in Digesto delle Discipline Penalistiche, vol. VII, Torino 1994, p. 259. 285 Svolge considerazioni in questo senso A. Esposito, Gli abusi sessuali su minori commessi da soggetti qualificati della Chiesa cattolica: note minime sul rapporto tra peccato e reato nella prospettiva della funzione rieducativa della pena, in Diritto e religioni, VI (2011), 1, pp. 142-159, specialmente p. 152 ss., il quale peraltro arriva alla conclusione che «non sarebbe azzardato prevedere per il futuro la formalizzazione generalizzata dell’obbligo per le autorità ecclesiastiche - venute a conoscenza di episodi di abusi sessuali commessi da soggetti qualificati appartenenti alla Chiesa - d’informare quelle giudiziarie dello Stato competente» (ivi, p. 157), reputando che la scelta di

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Azzardando quindi un paragone, nel provvedimento pontificio del 2019 si sono quasi equiparati tutti i chierici e religiosi a ‘pubblici ufficiali’ diuturnamente ‘in servizio’, tenuti, tra l’altro, a sporgere denuncia nei confronti solo di alcune ‘classi’ di delitti, non troppo tassativamente delimitati, e unicamente se commessi da altri, come loro, ‘pubblici ufficiali’: al di là delle riserve su una simile omologazione di tali soggetti - una qualifica marcatamente ‘pubblicistica’ che, inoltre, sembra suscettibile di tramandare, nell’ordinamento canonico, antiquate ecclesiologie -, ed anche al di là della rappresentazione asfittica di Chiesa quale consociazione di chierici e consacrati perennemente ‘l’un contro l’altro armati’, non occorrono doti vaticinanti di preveggenza o anche di fine penetrazione psicologica per pronosticare l’insediarsi di un’atmosfera plumbea di sospettosità, delazioni286 e calunnie287 reciproche. Ribadiamo

incoraggiare invece le vittime ad effettuare le denunce presenterebbe «l’inconveniente, tutt’altro che secondario, di far gravare sulle persone offese anche l’onere, oltremodo ingrato, di esporre la Chiesa a nuovi (pur se giustificati) attacchi. Inoltre, così opinando emergerebbe un duplice rischio, quello effettivo di veder rimproverata all’istituzione ecclesiastica un’inadeguata sensibilità sociale, nonché quello eventuale che si integri, a carico dei superiori “indulgenti” fuori dall’ambito della confessione sacramentale, il reato di favoreggiamento». La nostra posizione, come ancora illustreremo, è diversa. 286 E infatti era di questo tenore una domanda rivolta al prefetto della Congregazione per i vescovi, il cardinale M. Ouellet, A colloquio con il prefetto della Congregazione per i vescovi. Efficaci misure contro la piaga degli abusi, in L’Osservatore romano, 10 maggio 2019, p. 11: «L’obbligo di segnalazione per i chierici può rischiare di incrementare delazioni e calunnie contro persone innocenti? /Quando si crea un sistema di norme e procedure - studiate per fare bene e per migliorare le cose - c’è sempre il rischio che qualcuno lo possa strumentalizzare per motivi scorretti. Ma non possiamo rifiutare di fare la cosa giusta semplicemente perché potrebbe essere occasionalmente strumentalizzata. Poi, non credo che il sistema messo in piedi inviti questo, comunque dobbiamo vigilare affinché ciò non accada. Bisogna anche ricordare che il Motu proprio stabilisce le procedure per le segnalazioni e le verifiche stabilendo tempi stretti e certi, con risultati attendibili, anche con l’assistenza di esperti laici, proprio nell’interesse non soltanto delle vittime ma anche della persona segnalata per la quale vale la presunzione di innocenza. Viene tutelato chi fa la segnalazione in buona fede, mentre chi eventualmente inventasse accuse false ne dovrà rispondere». 287 Cfr. peraltro anche quanto osserva, nelle conclusioni del suo articolo, F.J. Campos Martínez, Presunción de inocencia e investigación previa canónica. Pautas para un procedimiento justo en denuncia por abuso sexual, cit., pp. 514-415: «Es necesario que los fieles, y también la opinión pública, entiendan que las falsas denuncias existen; que éstas pueden ser fruto de intereses espurios, de trastornos psicológicos o de otras causas desconocidas y que, por lo tanto, no pueden ser descartadas a la hora de investigar la supuesta comisión de un delito. El trágico efecto de las acusaciones falsas sobre la reputación y la vida de los acusados obliga a ello, y debería ser objeto de reflexión y concienciación dentro y fuera de la Iglesia. Dejarse llevar por los prejuicios,

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che la denuncia andrebbe virtuosamente incoraggiata - anche predisponendo, come pure si è opportunamente fatto, misure protettive per chi segnala288 - quale espressione davvero primaria della corresponsabilità dell’intero popolo di Dio, non imposta come obbligo. Invero l’obbligo di denuncia era stato anticipato di qualche mese da una legge dello Stato della Città del Vaticano289 a firma del Papa290, la n. CCXCVII Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili del 26 marzo 2019291, la quale lo ha imposto al pubblico ufficiale292 che

o actuar con precipitación, ligereza o falta de rigor, no puede más que conducir a una injusticia mayor, que haga mala la atinada y conocida fórmula Blakstone de derecho penal: “es mejor que diez personas culpables escapen a que una persona inocente sufra». 288 Cfr. l’esauriente trattazione di A. Licastro, Il whistleblowing e la denuncia degli abusi sessuali a danno dei minori nella Chiesa, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica (statoechiese.it), n. 34 del 2019, specialmente p. 132 ss., che analizza le «garanzie tipiche del whistleblowing» nel Motu proprio Vos estis lux mundi e nelle recenti Linee guida della Conferenza Episcopale Italiana di cui ci occuperemo in seguito, nonché se si possono cogliere «analogie con i meccanismi che caratterizzano il funzionamento del whistleblowing» nell’ordinamento statale italiano. 289 Commenta anche J.I. Arrieta, Nota esplicativa «Vos estis lux mundi», cit., p. 1: «Per certi versi, il documento si pone anche in logica coerenza con i tre provvedimenti adottati dal Santo Padre lo scorso 26 marzo per lo Stato della Città del Vaticano e per il personale dipendente dalla Santa Sede riguardanti la Protezione dei minori e delle persone vulnerabili». 290 Scrive A. Zappulla, Un’autentica “rivoluzione copernicana”: la nuova normativa sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili nello Stato della Città del Vaticano, in R. Granata - F.S. Rea (a cura di), Diritto vaticano e diritto secolare. Autonomia e rinvii tra ordinamenti giuridici, Città del Vaticano 2020, p. 160: «Per ciò che concerne la Legge n. CCXCVII e le Linee guida, bisogna rilevare la scelta compiuta dal Pontefice di volerle firmare di proprio pugno, sottolineando e marcando con forza l’intrinseco valore e la profonda importanza che queste norme ricoprono all’interno dell’ordinamento statuale vaticano; questi testi, infatti, di per sé avrebbero potuto essere promulgati rispettivamente dalla Commissione per lo Stato e dal Vicario della Città del Vaticano. In riferimento all’ambito di applicazione, invece, la prima si applica come legge penale, mentre la seconda, essendo un documento di carattere eminentemente pastorale, si applica all’interno del Vicariato dello Stato vaticano ed in particolare alla piccola entità pastorale rappresentata dal Preseminario San Pio X e dalle due parrocchie: quella di Sant’Anna e quella di San Pietro». 291 V. Francesco, legge n. CCXCVII, Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, 26 marzo 2019, cit., p. 7. 292 Secondo A. Licastro, Il whistleblowing e la denuncia degli abusi sessuali a danno dei minori nella Chiesa, cit., pp. 131-132: «l’obbligo di denuncia di recente introdotto dalla normativa vaticana è, invece, solo apparentemente ispirato a criteri di massimo rigore e intransigenza nel trattamento dei casi di abuso, in quanto, a prescindere dal suo rilievo pratico pressoché simbolico, si applica ai soli pubblici ufficiali (ed equiparati), cui il nostro ordinamento, com’è noto, ha sempre collegato l’obbligo di

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 nell’esercizio delle sue funzioni abbia notizia o fondati motivi per ritenere che un minore sia vittima di alcuni reati indicati nella legge medesima293 laddove questi siano, anche alternativamente, commessi nel territorio vaticano, in pregiudizio di residenti o cittadini dello Stato, ovvero in occasione dell’esercizio delle loro funzioni dai pubblici ufficiali dello Stato della Città del Vaticano o dai soggetti canonici di cui al punto 3 del Motu Proprio Ai nostri tempi dell’11 luglio 2013294 (art. 3). Il collegamento dell’ordinamento vaticano con l’ordinamento canonico che tale norma, in quest’ultima sua parte, istituisce - sempre più frequente nel decennio appena trascorso295 - è completato da un Motu Proprio, sempre del 26

denunciare i fatti di reato perseguibili d’ufficio conosciuti nell’esercizio o a causa delle funzioni; mentre sono le caratteristiche peculiari che determinano l’acquisto della cittadinanza nello Stato d’Oltretevere, le quali comportano quasi sempre l’attribuzione dello status penalistico di “pubblico ufficiale”, ad estendere, in sostanza, di fatto, l’obbligo in questione alla quasi totalità della popolazione del minuscolo Stato». 293 Cfr. art. 1 della legge n. CCXCVII, Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, 26 marzo 2019, cit., p. 7: «1. La presente legge si applica ai reati di cui al Titolo II della Legge N. VIII, recante norme complementari in materia penale, dell’11 luglio 2013, nonché ai reati di cui agli articoli 372, 386, 389, 390 e 391 del codice penale, qualora commessi in danno di un minore o di un soggetto ad esso equiparato. /2. Ai fini della presente legge al “minore” è equiparata la “persona vulnerabile”. /3. È vulnerabile ogni persona in stato d’infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere o di volere o comunque di resistere all’offesa». 294 Riguardo l’indicazione delle prescrizioni normative contenute nelle leggi vaticane e nei provvedimenti canonici la terminologia e la prassi impiegata, anche ‘ufficialmente’, è diversa, senza che sia dato comprendere quando propriamente si debba parlare di ‘articoli’, ‘numeri’, ovvero, come in questo caso, ‘punti’ (anche per ciò che riguarda l’articolazione interna delle prescrizioni medesime): noi ci atteniamo, volta per volta, all’uso più diffuso. Comunque, secondo tale punto 3 della Lettera Apostolica in forma di “Motu Proprio” Ai nostri tempi sulla giurisdizione degli organi giudiziari dello Stato della Città del Vaticano in materia penale, 11 luglio 2013, in L’Osservatore romano, 12 luglio 2013, p. 7, e in Acta Apostolicae Sedis, CV (2013), pp. 651-653, «Ai fini della legge penale vaticana sono equiparati ai “pubblici ufficiali”: /a) i membri, gli officiali e i dipendenti dei vari organismi della Curia Romana e delle Istituzioni ad essa collegate; /b) i legati pontifici ed il personale di ruolo diplomatico della Santa Sede; /c) le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione, nonché coloro che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo, degli enti direttamente dipendenti dalla Santa Sede ed iscritti nel registro delle persone giuridiche canoniche tenuto presso il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano; /d) ogni altra persona titolare di un mandato amministrativo o giudiziario nella Santa Sede, a titolo permanente o temporaneo, remunerato o gratuito, qualunque sia il suo livello gerarchico». 295 Ce ne siamo occupati in nostri precedenti lavori: v. G. Boni, Il diritto penale vaticano: teoria e prassi, in Il diritto ecclesiastico, CXXIII (2012), I, pp. 107-156; Ead.,

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 marzo 2019, concernente ancora principalmente coloro che operano negli organismi della Curia romana e nelle istituzioni collegate con la Santa Sede; ad essi, assoggettati alla giurisdizione statuale, viene imposto del pari l’obbligo di denuncia al promotore di giustizia presso il tribunale della Città del Vaticano per le medesime fattispecie di reato296: quindi ad un’autorità - va sottolineato - non canonica ma statuale297. Tra l’altro

Il diritto penale della Città del Vaticano. Evoluzioni giurisprudenziali, in G. Dalla Torre - G. Boni, Il diritto penale della Città del Vaticano. Evoluzioni giurisprudenziali, Torino 2014, pp. 11-152; Ead., Sulle recenti leggi penali vaticane e sulla loro «canonizzazione», in N. Marchei - D. Milani - J. Pasquali Cerioli (a cura di), Davanti a Dio e davanti agli uomini. La responsabilità fra diritto della Chiesa e diritto dello Stato, Bologna 2014, pp. 223-253; e da ultimo Ead., I rapporti tra ordinamento giuridico vaticano e ordinamento canonico: tra corretta configurazione ab intra e possibili travisamenti ab extra, cit. Sull’ampliamento della competenza degli organi giudiziari vaticani si veda da ultimo G.P. Milano, Relatio Promotoris iustitiae tribunalis Status Civitatis Vaticanae anno iudiciali inaugurando die 6 mensis Februarii 2019, in Communicationes, LI/1 (2019), specialmente p. 167 ss. 296 Cfr. Francesco, Lettera Apostolica in forma di “Motu Proprio” Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, 26 marzo 2019, in L’Osservatore romano, 30 marzo 2019, p. 6. Secondo i punti 1 e 2, rispettivamente: «I competenti organi giudiziari dello Stato della Città del Vaticano esercitano la giurisdizione penale anche in ordine ai reati di cui agli articoli 1 e 3 della Legge N. CCXCVII, sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, del 26 marzo 2019, commessi, in occasione dell’esercizio delle loro funzioni, dai soggetti di cui al punto 3 del Motu Proprio “Ai nostri tempi”, dell’11 luglio 2013», «Fatto salvo il sigillo sacramentale, i soggetti di cui al punto 3 del Motu Proprio “Ai nostri tempi”, dell’11 luglio 2013, sono obbligati a presentare, senza ritardo, denuncia al promotore di giustizia presso il tribunale dello Stato della Città del Vaticano ogniqualvolta, nell’esercizio delle loro funzioni, abbiano notizia o fondati motivi per ritenere che un minore o una persona vulnerabile sia vittima di uno dei reati di cui all’articolo 1 della Legge N. CCXCVII, qualora commessi anche alternativamente: /i. nel territorio dello Stato; /ii. in pregiudizio di cittadini o di residenti nello Stato; /iii. in occasione dell’esercizio delle loro funzioni, dai pubblici ufficiali dello Stato o dai soggetti di cui al punto 3 del Motu Proprio “Ai nostri tempi”, dell’11 luglio 2013». Anche qui peraltro il romano Pontefice afferma nella premessa: «Desidero […] rafforzare ulteriormente l’assetto istituzionale e normativo per prevenire e contrastare gli abusi contro i minori e le persone vulnerabili affinché nella Curia Romana e nello Stato della Città del Vaticano: […] /- maturi in tutti la consapevolezza del dovere di segnalare gli abusi alle Autorità competenti e di cooperare con esse nelle attività di prevenzione e contrasto». 297 Rinviamo ancora, per considerazioni di carattere generale su queste sovrapposizioni tra ordinamento canonico e ordinamento vaticano ai nostri saggi già citati. Per converso, con riferimento specificamente alla normativa ora recensita, cfr. la posizione D. Milani, Gli abusi del clero. Il processo di riforma di una Chiesa ancora in affanno, cit., p. 18: «Si conferma così l’impegno a una collaborazione tra l’ordinamento civile, in questo caso rappresentato dallo Stato Città del Vaticano, e quello canonico. Tuttavia si registra anche una sostanziale commistione di piani che risulta probabilmente

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 l’omissione o l’indebito ritardo della denuncia da parte dei pubblici ufficiali vaticani (e di coloro che sono equiparati) è sanzionato, dalla normativa vaticana, con una pena che può essere anche detentiva298. Un’obbligazione morale di informare l’autorità ecclesiastica è infine ingiunta nelle Linee guida per la protezione dei minori e delle persone vulnerabili per il Vicariato della Città del Vaticano, documento emanato lo stesso giorno e sottoscritto dal Papa299, ove appunto si impartiscono indicazioni dettagliate sulle segnalazioni effettuate, in particolare300, da operatori pastorali, collaboratori e volontari301.

agevolata dalla circostanza di pensare all’interazione tra questi due ordinamenti dentro le dinamiche proprie di uno Stato, come quello del papa, in cui il diritto della Chiesa cattolica svolge un ruolo e assume una rilevanza, come noto, del tutto peculiari. /Ciò nonostante emerge chiaramente l’intento di assicurare alla giustizia - civile e canonica - gli autori di tali reati introducendo per la prima volta nello Stato Città del Vaticano apposite misure in tal senso. Una scelta che, al di là del merito, assume evidentemente un particolare valore simbolico sia sul piano dei rapporti con la comunità internazionale, sia su quello interno alla Chiesa stessa». La stessa Autrice, più oltre, lamenta, quanto all’ordinamento canonico, che, anche dopo il Motu Proprio Vos estis lux mundi rimane «la questione sempre aperta della collaborazione tra l’ordinamento della Chiesa e quello degli Stati. […] /La questione della collaborazione tra l’ordinamento della Chiesa e quello degli Stati viene confinata alla necessità di non pregiudicare l’osservanza dei diritti e degli obblighi sanciti a livello statuale, incluso il dovere di fare denuncia, laddove prescritto (art. 19). […] /Più in particolare, ci si chiede se non convenga insistere sull’opportunità di introdurre un doppio binario per la sanzione delle condotte in esame. La diversa natura delle punizioni inflitte dall’ordinamento canonico e da quelli civili è tale infatti da non escludere l’utilità di una proposta del genere. E questo non tanto per dar seguito a istintive pulsioni di vendetta, bensì per ricomporre la duplice dimensione - canonica e civile - della responsabilità che sorge per effetto della commissione di tali delitti, proprio in omaggio a quella rivoluzione culturale e sociale di cui Francesco si fa promotore, anche fuori dalla Chiesa» (ivi, pp. 21-22). 298 Il n. 2 dell’art. 3 della legge n. CCXCVII, Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, 26 marzo 2019, cit., p. 7, sancisce: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale che omette o indebitamente ritarda la denuncia di cui al comma precedente è punito con la multa da euro mille a euro cinquemila. Se il fatto è commesso da un agente o ufficiale di polizia giudiziaria, la pena è la reclusione fino a sei mesi». 299 Si veda Francesco, Linee guida per la protezione dei minori e delle persone vulnerabili per il Vicariato della Città del Vaticano, 26 marzo 2019, in L’Osservatore romano, 30 marzo 2019, p. 7. Ricordiamo che al Vicariato della Città del Vaticano è affidata la cura pastorale dei fedeli residenti nello Stato, nonché nelle Ville Pontificie di Castel Gandolfo (v. anche la Premessa alle Linee guida medesime). 300 A proposito della denuncia da parte della vittima dell’abuso scrive G. Núñez, Nueva regulación para la protección de menores y personas vulnerables en el Estado de la Ciudad del Vaticano, cit., p. 341: «El mp sobre la protección de menores indica que

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“todos sean conscientes del deber de denunciar los abusos a las autoridades competentes y de cooperar con ellos en la actividad de prevención y persecución”, por lo que pone en primer lugar a la víctima en la señalización de un posible abuso ante el Vicario general o el Supervisor, en esta primera fase de acogida, escucha y acompañamiento y que posteriormente deberá formalizarse por escrito, con el propósito de comunicarlo al Promotor de justicia del Tribunal del Estado de la Ciudad del Vaticano (cfr. Vademécum, F, n. 1). Para ello, el Vicario o el Supervisor alentará al autor de la información a que presente la denuncia directamente al Promotor de justicia en el Tribunal de la Ciudad del Vaticano (cfr. Vademécum, F, n. 4). Cuando las noticias de un crimen no son manifiestamente infundadas, el Vicario general también puede informar al Promotor de justicia (cfr. Vademécum, F, n. 6). /Sin embargo, no existe una indicación explícita de la obligación de denunciar. Encontramos algo de modo indirecto en el Vademécum, donde se recoge la labor del Vicario general o el Supervisor: la expresión que utiliza es “se alentará” a que denuncie. Como respuesta a esta invitación, puede suceder que la persona lesionada o sus representantes legales se opongan de forma escrita y justificada a que se investigue el suceso o que se nieguen a formalizar la denuncia por escrito: en estos casos, el Vicario general no la transmitirá al Promotor de justicia a menos que, después de haber oído al Supervisor para la protección de los menores, considere que dicha señalización sea necesaria para proteger a la persona lesionada o a otros menores en peligro (cfr. Vademécum, F, n. 7). Se puede decir, concluyendo, que existe una obligación moral de denunciar, si bien se admiten motivos para no hacerlo, como ya indicaba la doctrina para el caso de solicitación en confesión». 301 Cfr. Francesco, Linee guida per la protezione dei minori e delle persone vulnerabili per il Vicariato della Città del Vaticano, 26 marzo 2019, cit., p. 7, in particolare punto F Trattamento delle segnalazioni dei presunti casi di sfruttamento, di abuso sessuale o di maltrattamento, specialmente nn. 3, 4, 6, rispettivamente: «Fatto salvo il sigillo sacramentale, gli operatori pastorali, i collaboratori e i volontari che abbiano notizia di un minore vittima di sfruttamento, di abuso sessuale o di maltrattamento, ne informano il Vicario Generale, direttamente o tramite il Referente per la tutela dei minori», «Il Vicario Generale o il Referente chiede all’autore della segnalazione di formalizzarla per iscritto, anche al fine di comunicarla al promotore di giustizia presso il tribunale dello Stato della Città del Vaticano. L’autore della segnalazione sarà incoraggiato a presentare denuncia direttamente al promotore di giustizia presso il tribunale dello Stato della Città del Vaticano», «Ogniqualvolta la notizia di reato non sia manifestamente infondata, il Vicario Generale la segnala al promotore di giustizia presso il tribunale dello Stato della Città del Vaticano e allontana il presunto autore dei fatti dalle attività pastorali del Vicariato». Distingue l’obbligazione giuridica da quella morale G. Núñez, Nueva regulación para la protección de menores y personas vulnerables en el Estado de la Ciudad del Vaticano, cit., p. 337: «La regulación se mueve en una doble dirección: /a) En cuanto a los funcionarios de la Curia Romana y del Estado de la Ciudad del Vaticano, y su responsabilidad jurídica en el ejercicio de sus cargos oficiales en relación al bien común: se castiga con sanciones administrativas y penales la omisión o el retraso infundado de la denuncia. /b) A los agentes pastorales (en los que también estarían las personas incluidas en el apartado anterior en su labor pastoral): se recalca la obligación moral de defender el bien común eclesial»; in seguito si sofferma su tale obbligazione morale (ivi, p. 343 ss.). Da segnalare peraltro che, definendo in apertura al punto A

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Inoltre, sempre nella legge per lo Stato del Papa n. CCXCVII, si prescrive che i reati elencati siano perseguibili d’ufficio (art. 2 n. 1): e ugualmente questa disposizione sulla procedibilità, che rappresenta una novità assai ragguardevole, è ‘entrata’, per quanto indirettamente, nell’ordinamento canonico, sia pure con mediato riferimento ad alcuni soggetti, in virtù di quei nessi normativi cui abbiamo accennato pocanzi. D’altro canto, in maniera in qualche modo analoga, con le differenze dovute alla disciplina e modalità dell’azione criminale secondo lo ius Ecclesiae302, l’indagine di cui pure al Motu Proprio Vos estis lux mundi303 si avvia (potrebbe avviarsi304), per tutte le condotte previste (e le fattispecie sono estremamente vaste, tenendo anche conto dell’assai lata definizione enucleata di ‘persona vulnerabile’305), senza che sia imposto per lo meno

l’Ambito di applicazione, nelle Linee guida si dichiara: «La normativa canonica e la legislazione dello Stato della Città del Vaticano in materia di protezione dei minori e delle persone vulnerabili devono essere scrupolosamente rispettate». 302 Ovviamente non possiamo soffermarci al riguardo. Richiamiamo unicamente le due voci riassuntive di H.G. Alwan, Acción criminal e Acción penal, in J. Otaduy - A. Viana - J. Sedano (ed.), Diccionario general de derecho canónico, vol. I, cit., rispettivamente pp. 112-116, pp. 121-123. 303 Spiega J.I. Arrieta, Nota esplicativa «Vos estis lux mundi», cit., p. 1: «Si tratta di una legge pontificia di ambito universale, valida per la Chiesa latina e per le Chiese orientali sui iuris, che impone obblighi a determinati soggetti e ad altri conferisce facoltà giurisdizionali in ordine alla raccolta, trasmissione e prima valutazione di notizie potenzialmente criminose. È un testo di natura procedurale, che non tipifica nuovi reati, e apre vie sicure per segnalare tali notizie e poterle verificare con prontezza e adeguato confronto, al fine di avviare eventualmente le procedure sanzionatorie previste dalla legge canonica». Cfr. R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, cit., rispettivamente p. 833, p. 875: «Estamos, por tanto, ante una ley papal que establece un procedimiento cuyo ámbito de aplicación - es decir, el marco material - viene determinado por el art. 1 VELM. Ese procedimiento incluye desde la obligación de la denuncia (art. 3 VELM) hasta la finalización de la investigación previa. Concluida esta, cada caso será tratado atendiendo a las normas penales previstas en el CIC (cc. 1395 § 2 y 1389 § 1) o en las Normae de gravioribus delictis», «La investigación no es todavía un proceso o procedimiento penal, ya que la decisión de iniciar alguno de ellos, con la acusación formal del investigado, dependerá precisamente del resultado de esa actividad previa». 304 Sulla cautela nell’avviare una investigatio praevia cfr. le recenti annotazioni di F.J. Campos Martínez, Presunción de inocencia e investigación previa canónica. Pautas para un procedimiento justo en denuncia por abuso sexual, cit., p. 490 ss. 305 Abbiamo già riportato il comma 3 della legge vaticana n. CCXCVII, Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, 26 marzo 2019, p. 7: «È vulnerabile ogni persona in stato d’infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere o di volere o comunque di resistere all’offesa»; definizione ripresa anche dal citato Motu

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 di confrontarsi o comunque di sondare in qualche modo sul punto specifico la parte offesa o i suoi rappresentanti legali (benché si preveda che possa essere sentito il minore o la persona vulnerabile306): i quali potrebbero, per converso, essere contrari proprio circa questo aspetto incoativo, dandosi loro almeno la possibilità di palesare la propria motivata protesta. Anche a tale proposito, e sempre a scopo illustrativo della portata della novella, ci pare vada aperta una parentesi, sia pur stringata, sulla disciplina della procedibilità nei diritti penali secolari: si deve osservare infatti che allorquando in questi si subordina alla querela307 o comunque

Proprio Vos estis lux mundi, 7 maggio 2019, p. 10, all’art. 1 § 2 b). Sull’assai lata definizione di ‘persona vulnerabile’ si vedano le annotazioni critiche di C.-M. Fabris, Le recenti riforme del diritto penale vaticano varate da Papa Francesco in tema di protezione dei minori e delle persone vulnerabili. Analisi normativa e profili critici, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XXXVI (2019), 2, p. 398 ss. Sulla «novità giuridica» dell’introduzione della figura della persona vulnerabile cfr. la trattazione di D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, cit., p. 523 ss. Invece per R. Rodríguez- Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, cit., pp. 836-837, «La descripción de persona vulnerable es generosa, es decir, abarca tal amplitud de situaciones que supondrá un auténtico reto no calificar de vulnerable a alguien. En efecto, el condicionamiento puede darse por tantos factores, algunos de ellos bastantes comunes en la vida de las personas, que difícilmente alguien puede sustraerse a esos límites. […] /De nuevo conviene aclarar que esta noción de persona vulnerable es a los efectos de aplicación del VELM, es decir, en orden a la noticia, denuncia o informe que debe proporcionarse a la autoridad eclesiástica y a la investigación que esta, si esos hechos son verosímiles (c. 1717 § 1 CIC), debe ordenar. Se pone de manifiesto así la extensión con que el Romano Pontífice quiere que se examinen los casos de abuso en la Iglesia, no limitándose solo a los mínimos penales que establecen el CIC y las NGD, mínimos que permanecen, por lo demás, invariados. De esas investigaciones podrán deducirse hechos delictivos y su imputabilidad o, por el contrario, hechos que sin ser punibles sean susceptibles de otras medidas previstas por el legislador como son: amonestaciones o reprensiones formales (c. 1339 CIC) y si estas son ineficaces, la posibilidad de dar un precepto penal (cc. 1319 § 1; 49 CIC); decretar la remoción del oficio (c. 193 § 1 CIC), etc.». 306 V. l’art. 12 § 2 del citato Motu Proprio Vos estis lux mundi, 7 maggio 2019, p. 10. Si veda il commento di D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, cit., p. 543 ss. 307 Ovviamente non possiamo indugiare qui sulla natura giuridica della querela, in particolare nell’ordinamento italiano. Rinviamo, per tutti, a A. Gaito, Querela, richiesta, istanza, in Enciclopedia Giuridica, vol. XXV, Roma 1991; Gian P. Volpe, Querela, in Digesto delle Discipline Penalistiche, vol. X, Torino 1995, p. 553 ss., il quale anche illustra i problemi di costituzionalità che si sono posti in relazione alla perseguibilità a querela, e conclude: «Secondo diverse, autorevoli, prospettazioni, l’incostituzionalità della querela “può essere evitata quando a fondamento di ciascun caso in cui essa è prevista vi siano ragioni costituzionalmente rilevanti e cioè di eguale, se non di maggior valore, di quelle che stanno alla base del principio di obbligatorietà

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 alla volontà della parte la perseguibilità di certi reati attinenti in special modo alle molestie sessuali (nella loro proteiforme varietà e gravità), indubbiamente si sono presi in considerazione, tra le rationes ispiratrici del divieto di procedibilità d’ufficio, anche i desideri del tutto legittimi delle vittime le quali potrebbero non gradire, o anche aborrire che le vicende traumatizzanti che le hanno colpite siano investigate da estranei e, a maggior ragione, rese di pubblico dominio. Addentrandoci pure qui, per la sua spiccata esemplarità, in una rapida ma utile ricognizione della normativa italiana sul regime al proposito in materia di violenze (o comunque atti) sessuali - ove sempre è passibile di essere deturpata l’intimità della persona -, di fronte alle due alternative della procedibilità d’ufficio ovvero a querela di parte, poggiate su priorità non coincidenti308, il nostro legislatore ha optato, in via compromissoria e dopo protratti

dell’azione penale”. /La perseguibilità a querela sarebbe costituzionalmente legittima o per la tenuità dell’interesse offeso, o per evitare che l’offesa contenuta nel reato sia aggravata dalla pubblicità del processo o comunque per delitti che comportano offese a interessi di cui il titolare può validamente disporre. /Quanto all’ultimo punto si è peraltro recentemente rilevata la “profonda differenza che intercorre fra gli istituti del consenso e della querela. Mentre il primo toglie al fatto il carattere di offesa penalmente rilevante, il secondo si limita ad incidere sulle conseguenze del reato rimuovendo un ostacolo all’inizio della azione penale; la querela non è d’altronde necessariamente ancorata alla ‘disponibilità’ dell’interesse protetto dalla norma penale, ma risponde ad esigenze di politica criminale tali da indurre a subordinare l’inizio del processo penale all’assenso del soggetto passivo”» (ivi, p. 561), soffermandosi poi sulle varie ragioni per le quali si è ritenuto di condizionare il promovimento dell’azione penale ad una manifestazione di volontà della persona offesa. Più recentemente si veda P. Silvestri, Sub art. 120, in E. Aprile et al. (a cura di), Codice Penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, vol. III, Il reo e la persona offesa dal reato, la non punibilità per particolare tenuità del fatto, la modificazione, applicazione ed esecuzione della pena, l’estinzione del reato e della pena, le sanzioni civili e le misure amministrative di sicurezza, Libro I, Artt. 85-240, Milano 2015, p. 255 ss.; M. Nofri, Sub art. 336, in L. Giuliani (a cura di), Commentario breve al Codice di Procedura Penale. Complemento giurisprudenziale, 9ª ed., Milano 2015, p. 1603 ss.; A. Marandola, La notizia di reato, in F. Cerqua - A. Diddi - A. Marandola - G. Spangher, Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, Milano 2018, p. 24 ss. 308 Per la procedibilità d’ufficio in coerenza con «la creazione di un impianto sanzionatorio così severo» quale quello della legge n. 66 del 15 febbraio 1996 si veda, per tutti, V. Musacchio, Le nuove norme contro la violenza sessuale: un’opinione sull’argomento, in Giustizia penale, LVI (1996), II, p. 122 ss.; per la procedibilità a querela «più rispondente all’ideologia personalistica che pervade tutta la legge» v., anche qui per tutti, M. Bertolino, La riforma dei reati di violenza sessuale, in Studium iuris, III (1996), p. 410 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dibattiti309, per la regola della querela (peraltro con termine di dodici mesi e irrevocabile) della persona offesa (per i delitti di violenza sessuale anche aggravata), enunciando una serie di eccezioni in cui si procede d’ufficio, tra cui, insieme ad altre, il delitto di violenza sessuale commessa ai danni di minore degli anni 18 (prima della legge n. 38 del 6 febbraio 2006 l’età era 14 anni) ed anche quello commesso da persone cui la vittima310 sia affidata per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza o custodia, ovvero in caso di atti sessuali con minorenni di cui all’art. 609-quater C.P.311 (art. 609-septies C.P.)312. Tuttavia, nonostante l’ago della bilancia

309 Cfr. G. Balbi, Violenza e abuso sessuale, in D. Pulitanò (a cura di), Diritto penale. Parte speciale, I, Tutela penale della persona, Torino 2011, p. 282: «Nei lavori preparatori della riforma del 1996, la questione relativa alla procedibilità è stata oggetto di discussioni fortemente ideologizzate, di molteplici proposte e modifiche apportate in aula e in commissione, di una confusa sovrapposizione di istanze politiche». 310 Si veda G. Riondato, I delitti contro la libertà personale, in M. Riverditi (a cura di), Manuale di diritto penale. Parte generale e speciale, cit., pp. 1157-1159. 311 Prima dell’ultima riforma di cui riferiremo tra breve (e che ha modificato anche l’art. 609-quater) gli atti sessuali dovevano riguardare un minore di anni dieci. Al riguardo V. Mereu, Reati contro la libertà personale. Disposizioni comuni (609 septies, 609 nonies, 609 decies, 734 bis), in G. Cocco - E.M. Ambrosetti (a cura di), Trattato breve di diritto penale. Parte speciale, vol. I, I reati contro le persone. Vita, incolumità personale e pubblica, libertà, onore, moralità pubblica e buon costume, famiglia, sentimento religioso, per i defunti e per gli animali, Padova 2014, p. 412, osservava: «evidente la ratio della procedibilità d’ufficio per l’ipotesi dell’art. 609 quater co.u., la gravità della condotta di chi compie atti sessuali con minore di anni 10 comporta la necessità di punirlo ‘sempre e comunque’, prescindendo dalla scelta operata dai soggetti a cui è riconosciuta la facoltà di sporgere querela in vece del minore». Si era rilevato che «nella legge contro la pedofilia il procedimento penale non è mai “frequentato” dalla presenza di casi di procedibilità a querela»: B. Romano, Delitti contro la sfera sessuale della persona, 6ª ed. rinnovata ed ampliata, Milano 2016, p. 375. 312 Questo il testo dell’art. 609-septies del Codice Penale introdotto dall’art. 8 della legge n. 66 del 15 febbraio 1996 e modificato dall’art. 7 della legge n. 38 del 6 febbraio 2006: «I delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609-ter e 609-quater sono punibili a querela della persona offesa. /Salvo quanto previsto dall’articolo 597, terzo comma, il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. /La querela proposta è irrevocabile. /Si procede tuttavia d’ufficio: /1) se il fatto di cui all’articolo 609-bis è commesso nei confronti di persona che al momento del fatto non ha compiuto gli anni diciotto; 2) se il fatto è commesso dall’ascendente, dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore, ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia o che abbia con esso una relazione di convivenza; 3) se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni; 4) se il fatto è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio; 5) se il fatto è commesso nell’ipotesi di cui all’articolo 609-quater, ultimo comma». Per

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 si sia spostato, più accentuatamente con le ultime modifiche (specie appunto del 2006313), verso la procedibilità d’ufficio, ciò non è avvenuto senza titubanze: e critiche consistenti sono state avanzate proprio al riguardo314. Si è ad esempio stigmatizzato che «non sono così evidenti le ragioni sottese alla scelta di far automaticamente prevalere […] l’esercizio dell’azione punitiva su quel rispetto del mondo interiore, ma anche sul rischio di danni esistenziali conseguenti al processo, che fondano altrimenti la regola generale della procedibilità a querela, tanto più ponendo attenzione al fatto che si tratta di rischi tanto maggiori quanto maggiore è la fragilità della vittima. L’equazione miglior tutela = esercizio dell’azione penale […] appare - quantomeno - un po’ affrettata»315. Taluno, ancora, ha rimarcato come possa soccombere, di fronte all’istanza punitiva superiore, l’autodeterminazione del soggetto o dei suoi familiari, potendo essere denunciati da chiunque fatti strazianti che essi potrebbero

un’illustrazione recente v. R. Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte speciale, Tomo II (artt. 453-623-bis), cit., p. 671 ss., non aggiornata peraltro alla recente modifica intervenuta con la legge 19 luglio 2019 n. 69 (entrata in vigore il 9 agosto 2019), che all’art. 13 comma 4, prevede: «All’articolo 609-septies del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo comma, le parole: “articoli 609-bis, 609-ter e 609-quater” sono sostituite dalle seguenti: “articoli 609-bis e 609-ter”; b) al secondo comma, la parola: “sei” è sostituita dalla seguente: “dodici”; c) al quarto comma, il numero 5) è abrogato». Quindi si è prevista la procedibilità d’ufficio del delitto di cui all’art. 609-quater C.P. di atti sessuali con minorenne e l’aumento del termine per la proposizione della querela per i delitti di cui all’art. 609-bis e 609-ter C.P. da sei a dodici mesi. Le nuove disposizioni quanto al regime di procedibilità si applicano per i soli fatti commessi dal 9 agosto 2019. 313 Ed anche le ultime modifiche citate introdotte dalla legge n. 69 del 2019. 314 In via generale osserva V. Mereu, Reati contro la libertà personale. Disposizioni comuni (609 septies, 609 nonies, 609 decies, 734 bis), cit., p. 410: «Nell’originario impianto del cod. Rocco, la scelta di rimettere alla facoltà della vittima la punibilità dei delitti contro la libertà sessuale era giustificata con l’opportunità di evitare l’eventuale danno derivante alla p.o. dalla pubblicità, attraverso il processo, di episodi della sua vita intima, rimasti ignoti o comunque ignorati. Con la conferma della regola generale della procedibilità a querela, il legislatore della riforma mostra di non volersi discostare da questa logica di rispetto della sfera di riservatezza della p.o., con ciò suscitando numerose perplessità e non pochi problemi ermeneutici. Invero, la norma introdotta nel ’96 prevede tali e tante ipotesi procedibili d’ufficio da non consentire più di comprendere quale sia la regola e quale l’eccezione, né tanto meno consente di rintracciare una spiegazione logica alla scelta di perseguire d’ufficio condotte meno gravi di quelle per le quali è prevista la procedibilità a querela di parte». Comunque, vari sono i profili della vigente disciplina italiana che sono stati bersaglio di censure da parte della dottrina. 315 G. Balbi, Violenza e abuso sessuale, cit., p. 284.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 non voler esporre allo strepitus fori oppure - oltre al nocumento per la diffusione della notizia316 - che si vorrebbe evitare di ‘rivivere in aula’ con costi psichici troppo elevati. Solo per evocare la delicatezza dei valori esistenziali in gioco, i quali non devono mai essere obliati. D’altronde, esimi giuristi da tempo ammaestrano come non di rado possa avvenire che «L’esercizio dell’azione penale […] può recare più danno che vantaggio alle vittime»317; e mettono in guardia verso sempre risorgenti ostracismi nei confronti di un istituto, la procedibilità a querela, che vanta addentellati e ormeggi non precari in un plesso di valori impreteribili318. A riprova di come la procedibilità di ufficio ineluttabile in ogni ipotesi, senza alcuna elasticità, sia preferenza da non selezionare alla leggera, ma che vada scrupolosamente monitorata per i suoi contraccolpi ed effetti collaterali: perciò debba essere calibrata e delimitata con circospezione. Non si vanifica affatto per tale via lo ius puniendi o il principio di giustizia, ma, attraverso un bilanciamento delle diverse esigenze effettuato a monte, in alcune evenienze «è saggio oltre che utile “non punire tutto il punibile”, tenuto conto dell’atteggiarsi di certe condotte,

316 Criticando la legge italiana laddove stabilisce la procedibilità di ufficio di reati attinenti alla sfera sessuale quando ci sia connessione con un altro delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, G. Balbi, Violenza e abuso sessuale, cit., p. 285, rileva: «La procedibilità di ufficio, in tali ipotesi, ritroverebbe la sua base razionale nel venir meno di quella esigenza di riservatezza individuata - anche dalla Corte costituzionale - quale fondamento della perseguibilità a querela dei reati sessuali, “in quanto l’indagine investigativa sul delitto comporta necessariamente l’accertamento degli altri e, quindi, la diffusione della notizia”. /Il discorso funziona a condizione di convenire con l’idea che il fondamento della procedibilità a querela sia esclusivamente la riservatezza, e che dunque, a notizia diffusa, “l’onore sia ormai perduto” e tanto valga procedere. Ma se dietro c’è di più, ad esempio il diritto della vittima a scegliere di non esporsi al trauma del processo, o - più ampiamente - il suo diritto a fare la scelta che sente più giusta per sé, quella che può aiutarla a ritrovare un equilibrio esistenziale compromesso, ecco allora che questo disinvolto approccio della prassi, volto a ritenere tipica ogni “connessione” anche occasionale, se non del tutto casuale, del reato sessuale con un qualsiasi delitto procedibile di ufficio, meriterebbe un significativo ripensamento». 317 F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, 14ª ed. integrata e aggiornata a cura di L. Conti, Milano 2002, p. 189. 318 Scriveva, ad esempio, G. Bettiol, Diritto penale. Parte generale, 8ª ed. riveduta e aggiornata, Padova 1973, p. 654: «si tratta però pur sempre di dare rilievo ad una volontà individuale, ed è per questa ragione che si vuole da alcuni dare l’ostracismo all’istituto della querela, affinché il diritto e il processo penale non vengano “contaminati” e “fuorviati” da interessi e considerazioni individualistiche, le quali verrebbero a danneggiare in sostanza tanto lo Stato quanto l’individuo stesso. Tale tesi è però esagerata […]».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che, pur offendendo interessi generali, non attentano alla scala delle priorità, alla cui tutela costantemente si rivolgono gli irrinunciabili obiettivi del magistero penale»319. Tali principi sono, prima ancora che di ‘civiltà giuridica’, di sano buon senso e, in questo peculiarissimo ambito, non possono essere obnubilati nemmeno in un sistema penale, come quello canonico, in cui pure la procedibilità a querela è stata cancellata del tutto dalla codificazione del 1983320. Tale figura processuale non era invece assente nel Codice piano- benedettino, nel quale peraltro si annoverava un solo caso in cui la querela doveva intervenire «ut actio criminalis instituatur»321:

319 U. Dinacci, Querela, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXVIII, Milano 1987, p. 43. Rinviamo a tale Autore anche per le interessanti riflessioni circa la natura giuridica della querela e sul suo carattere processuale. 320 Cfr. J. Sanchis, Acusación penal, in J. Otaduy - A. Viana - J. Sedano (ed.), Diccionario general de derecho canónico, vol. I, cit., p. 191: «La querella […] solo podría presentarla la persona lesionada por el delito y solo en aquellos delitos para cuya persecución se requiriese precisamente la intervención de la persona directamente ofendida, come podrían ser los delitos que atentan contra la buena fama. El derecho canónico actual no contempla esta figura procesal, aunque sí permite al particolar ejercitar, en el mismo proceso penal, la acción contenciosa para el resarcimiento de los daños causados por el delicto (cf cc. 1729-1731 y 1483-1485 CCEO). Por otro lado, queda también excluida del derecho canónico la posibilidad de la acusación penal privada o popular pues, constituyendo el delito, siempre y en todo caso, la lesión de un bien o interés público […] sólo el promotor de justicia, en cuanto ministerio público, está capacitado y habilitado para ejercitar la acción criminal, siempre por mandato del ordinario». 321 Il can. 1938 recitava: «§ 1. In causa iniuriarum aut diffamationis, ut actio criminalis instituatur, requiritur praevia denuntiatio aut querela partis lesae. /§ 2. Sed si agatur de iniuria aut diffamatione gravi, clerico vel religioso, praesertim in dignitate constituto, illata, aut quam clericus vel religiosus alii intulerit, actio criminalis institui potest etiam ex officio». Dunque, nell’ipotesi di cui al paragrafo 1, il processo eventualmente instaurato nonostante il difetto della querela sarebbe stato invalido: v. C. Papale, Il processo penale canonico. Commento al Codice di Diritto Canonico. Libro VII, Parte IV, 2ª ed. aggiornata con le modifiche alle Normae de gravioribus delictis, Città del Vaticano 2012, p. 45, nota 9, che riporta dottrina coeva al Codice del 1917 a proposito della disciplina della querela. Si veda, sempre quanto al Codex Iuris Canonici del 1917, G. Stocchiero, Diritto penale della Chiesa e dello Stato italiano, Codex Iuris Canonici - Lib. V, Codice Penale italiano - 1930, Manuale teorico-pratico di diritto comparato, Vicenza 1932, rispettivamente p. 288, pp. 291-292: «La regola (quasi assoluta nel c.i.c.) è che il reato sia perseguito d’ufficio; il diritto di querela è la eccezione; e perciò la legge dovrà esprimere, di volta in volta, i casi in cui la punizione del colpevole è sottoposta alla condizione che la parte lesa presenti querela. Concedendo questa facoltà alla persona offesa dal delitto, l’autorità sociale riconosce praticamente prevalente sul danno pubblico il danno privato e, senza spogliarsi del diritto di amministrare direttamente la giustizia penale per mezzo del suo organo speciale (il promotore di

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 nell’ipotesi, marginale ma assai significativa, dell’ingiuria e della diffamazione, la legge infatti lasciava «à l’intéressé le soin de décider souverainement s’il y a lieu ou non d’assurer une réparation judiciaire du dommage subi par lui»322. Simmetricamente abbiamo sopra riscontrato come nel Motu Proprio Vos estis lux mundi, nonché nella legge vaticana del marzo 2019, sia stato reintrodotto un obbligo esplicito di segnalazione-denuncia: denuntiatio neppure menzionata nel Codex Iuris Canonici del 1983 quale canale della notitia criminis, mentre lo era in quello del 1917 quale facoltà dei fedeli323, salvo tramutarsi in obligatio denuntiationis quando ricorressero «alcune eccezioni espressamente previste e disciplinate»324. È indiscutibile che si tratta di due istituti

giustizia = il pubblico ministero), condiziona […] l’esercizio della giustizia alla presentazione della querela da parte dell’offeso. /La regola generale del c.i.c. è che si deva procedere d’ufficio per tutti i delitti, come per i negozi che “publicum ecclesiae bonum aut animarum salutem respiciunt” (can. 1618). /Una sola eccezione è prevista: nel caso d’ingiuria o di diffamazione è necessaria la querela della parte lesa. Ma, anche in questo caso, è ammessa la procedura d’ufficio, qualora si tratti di grave ingiuria o diffamazione contro un chierico o un religioso “praesertim in dignitate constitutus”, ovvero imputabile ad un chierico o ad un religioso contro un terzo (can. 1938)». 322 R. Naz, Dénonciation, in Dictionnaire de droit canonique, vol. IV, Paris 1949, c. 1123. 323 Questo il testo dell’abrogato can. 1935: «§ 1. Quilibet tamen fidelium semper potest delictum alterius denuntiare ad satisfactionem petendam vel damnum sibi resarciendum, vel etiam studio iustitiae ad alicuius scandali vel mali reparationem. /§ 2. Imo obligatio denuntiationis urget quotiescumque ad id quis adigitur sive lege vel peculiari legitimo praecepto, sive ex ipsa naturali lege ob fidei vel religionis periculum vel aliud imminens publicum malum». 324 C. Papale, Il processo penale canonico. Commento al Codice di Diritto Canonico. Libro VII, Parte IV, cit., p. 44, che illustra tali eccezioni: «La prima di esse è quella regolata nel can. 1395, § 2, secondo cui sussiste l’obbligo di denuncia ogniqualvolta lo imponga la legge o un precetto particolare, nonché qualora la denuncia sia necessaria al fine di prevenire un pericolo o un imminente male pubblico per la fede o la religione; la seconda ipotesi è quella prevista nel can. 2336, § 2, ove è ingiunto di denunciare alla Sacra Congregazione del Santo Officio i chierici e i religiosi facenti parte di una setta massonica o di altra simile associazione; la terza e ultima ipotesi è quella disciplinata dal combinato disposto di cui ai cann. 904 e 2368, § 2, in base ai quali il penitente ha il dovere di denunciare il sacerdote che, in occasione della confessione, si è macchiato del crimine di sollicitatio ad turpia, prevedendo, a carico del penitente che contravvenga a tale obbligo, entro il termine di un mese dal giorno in cui è venuto a conoscenza dell’obbligo stesso, la scomunica latae sententiae nemini reservatam, da cui potrà essere assolto, una volta incorsovi, solo a condizione di aver adempiuto il predetto obbligo o di promettere seriamente di adempierlo». Papale ricorda anche in relazione sempre alla disciplina contenuta nella codificazione del 1917: «La denuncia, redatta per iscritto e sottoscritta dal denunciante, va fatta all’Ordinario del luogo o al cancelliere della curia diocesana o al vicario foraneo o al parroco, i quali ultimi, peraltro, debbono

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 diversi, ma la loro connessione pare chiara, se non altro a livello del tasso di innalzamento o abbassamento dell’afflittività e del rigore penale. E allora, se il legislatore, vaticano e canonico, non ha recentemente esitato a innovare recuperando in qualche modo l’obbligo di denuncia che era stato caducato con la revisione codiciale postconciliare, del pari negli stessi provvedimenti normativi - almeno quelli indirizzati allo ‘Stato del Papa’, senza stravolgimenti, del resto, ma in continuità con quanto sanciva saviamente il liberale Codice Zanardelli325 -, in alcune ben individuate fattispecie, di più tenue gravità e lesività ovvero in cui non siano implicati fanciulli o soggetti abitualmente privi della capacità di intendere e volere326, si sarebbe potuto esigere, se non proprio la querela, l’audizione e il consenso della vittima, o una qualche iniziativa della parte lesa327:

successivamente trasmetterla all’Ordinario. Non tutte le denunce debbono essere prese in considerazione, non dovendosi dar peso a quelle presentate da un nemico manifesto del denunciato, da una persona vile e indegna, nonché quelle anonime prive degli elementi sufficienti a far ritenere probabile l’accusa». Rinviamo altresì a G. Boni, Il buon governo nella Chiesa. Inidoneità agli uffici e denuncia dei fedeli, cit., p. 175 ss. 325 Il Codice Zanardelli, peraltro, nel Titolo VIII del Libro II, Dei delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie, prevedeva, all’art. 336, che «Per i delitti preveduti nei precedenti articoli» (tra cui il reato di corruzione mediante atti di libidine di persona minore di anni sedici: art. 335) «non si procede che a querela di parte; ma la querela non è più ammessa trascorso un anno dal giorno in cui il fatto sia commesso o ne ebbe notizia chi abbia diritto di presentare la querela stessa in vece dell’offeso. /La remissione non produce effetto se fatta dopo che fu aperto il dibattimento. /Si procede d’ufficio quando il fatto: /1° abbia cagionato la morte della persona offesa, o sia accompagnato da altro delitto per cui sia stabilita una pena restrittiva della libertà personale per un tempo non inferiore ai trenta mesi e si debba procedere d’ufficio; /2° sia commesso in luogo pubblico o esposto al pubblico; /3° sia commesso con abuso della patria podestà o dell’autorità tutoria». Analoga previsione di procedibilità a querela di parte è quella sancita dall’art. 344 in riferimento al reato di chi sottrae o ritiene, con violenza, minaccia o inganno, per fine di libidine o di matrimonio una persona di età minore e alle altre fattispecie previste negli artt. 341, 342 e 343. 326 Ricordiamo qui che ai minori sono equiparati nella normativa canonica de qua le persone vulnerabili di cui viene data peraltro l’assai lata definizione che abbiamo già riportato. 327 Con riferimento alla legge vaticana n. CCXCVII, C.-M. Fabris, Le recenti riforme del diritto penale vaticano varate da Papa Francesco in tema di protezione dei minori e delle persone vulnerabili. Analisi normativa e profili critici, cit., pp. 399-400, commenta: «in modo invero discutibile, si è estesa la perseguibilità d’ufficio per le fattispecie criminose previste dalla normativa, laddove sarebbe forse stato preferibile lasciare che fosse la parte lesa, mediante querela, a dare impulso all’azione penale. D’altro canto, se è pur vero che la gravità dei reati commessi in danno di minori o persone vulnerabili richiede una particolare solerzia quanto all’attività di indagine e alla successiva perseguibilità da parte degli organi giudiziari, sarebbe stato tuttavia

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 prevedendosi, ad esempio, come si era prospettato anche in Italia328, di permettere alla persona offesa, tempestivamente e previamente avvertita, di opporsi ad intrusioni ‘bloccando’ la segnalazione-denuncia (che, peraltro, di per sé non dà inizio al processo penale canonico) e paralizzando il corso del procedimento329; e assoggettando semmai - specie nell’ordinamento ecclesiale - il ‘segnalato’ a provvedimenti (assunti

prudente stabilire precisi limiti alla procedibilità di ufficio di reati che coinvolgono in modo così profondo l’intimità delle vittime, adottando ad esempio restrizioni del tipo di quelle sancite dall’art. 609 septies c.p. italiano. La legittima volontà del legislatore di voler contrastare duramente ed in modo efficace certe condotte criminose non può far dimenticare la particolare attenzione che si deve avere nei confronti delle vittime le quali per varie ragioni, non ultime quelle di natura psichica e psicologica, potrebbero non trarre beneficio dallo svolgimento di un procedimento penale e dalle inevitabili esigenze istruttorie che esso comporta. Anche l’ordinamento italiano, nel caso di reati riguardanti la sfera sessuale della persona prevede, ai sensi dell’art. 609 septies c.p., che in linea generale la procedibilità sia a querela di parte la quale, una volta presentata, diviene irrevocabile […]. È vero che pure l’ordinamento italiano prevede, nel caso in cui vittima di abuso sia un minore, che si proceda d’ufficio, ma sul punto si è dibattuto proprio in riferimento alla necessità di tutela del soggetto debole il quale potrebbe addirittura subire dei danni da un procedimento instaurato dalla pubblica autorità». 328 Ne riferisce B. Romano, Delitti contro la sfera sessuale della persona, cit., p. 369. V. anche la trattazione di M. Virgilio, Violenza sessuale e norma. Legislazioni penali a confronto, Ancona 1996, p. 102. In generale «Tra i commentatori […] il mantenimento della punibilità a querela trova sostanziali consensi con qualche riserva. La regola opposta […] avrebbe, infatti, assunto un significativo ruolo “promozionale” nell’accertamento e nella persecuzione di reati tanto odiosi; peraltro, in un’ottica di equilibrato contemperamento, si sarebbe potuto prevedere la possibilità, per la vittima, di esprimere, entro un certo termine, una volontà contraria alla prosecuzione delle indagini»: G. Mulliri, Sub art. 609-septies, in G. Ariolli et al. (a cura di), Codice Penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, vol. XI, tomo II, I delitti contro la persona. I delitti contro la libertà individuale, Libro II, Artt. 600-623-bis, cit., p. 1201. 329 Come ricorda G. Núñez, Nueva regulación para la protección de menores y personas vulnerables en el Estado de la Ciudad del Vaticano, cit., p. 338, nell’ordinamento canonico, «Cualquier persona puede poner en conocimiento de la autoridad eclesiástica unos hechos constitutivos de delito, indicando o no a su autor, pero de suyo no puede dar inicio a un proceso penal, que solo se procederá después de haberse realizado la oportuna investigación previa (cfr. cc. 1717- 1719 CIC) y una vez que el ordinario competente haya decretado el inicio de un proceso penal (cfr. c. 1718 § 1, 1º). En este supuesto, entregará las actas de la investigación al promotor de justicia para que presente al juez el escrito acusatorio (cfr. c. 1721 § 1 y c. 1472 § 1), que comporta la formal apertura de un proceso penal, y sostenga la acusación a lo largo del desarrollo del proceso».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 però senza menomazioni dello ius defensionis) atti a renderlo innocuo330. Questo almeno in alcuni casi, dovendosi comunque evitare di sottoporre ad una identica regola situazioni che potrebbero essere, invece, alquanto diversificate tra loro. Il faro, del resto, sarebbe sempre, come è rubricato l’art. 5 del Motu Proprio Vos estis lux mundi, la ‘Cura delle persone’331, in particolare se minori o vulnerabili: «parte integrante della missione della Chiesa»332 da adattarsi a ogni frangente, oltre che regula interpretationis di ogni norma. Proprio in quest’ottica si sono poste nella traiettoria migliore e più tuziorista le Linee guida per la protezione dei minori e delle persone vulnerabili per il Vicariato della Città del Vaticano, le quali, pur senza

330 Si vedano alcune utili indicazioni di J.L. Sánchez-Girón Renedo, El «motu proprio» «Vos estis lux mundi»: contenidos y relación con otras normas del derecho canónico vigente, cit., p. 689 ss. 331 Tale art. 5 della citata Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» “Vos estis lux mundi”, 7 maggio 2019, p. 10, è così redatto: «§ 1. Le Autorità ecclesiastiche si impegnano affinché coloro che affermano di essere stati offesi, insieme con le loro famiglie, siano trattati con dignità e rispetto, e offrono loro, in particolare: /a) accoglienza, ascolto e accompagnamento, anche tramite specifici servizi; /b) assistenza spirituale; /c) assistenza medica, terapeutica e psicologica, a seconda del caso specifico. /§ 2. Sono tutelate l’immagine e la sfera privata delle persone coinvolte, nonché la riservatezza dei dati personali». 332 Francesco, Linee guida per la protezione dei minori e delle persone vulnerabili per il Vicariato della Città del Vaticano, 26 marzo 2019, cit., p. 7, Premessa. Cfr. Id., Lettera Apostolica in forma di “Motu Proprio” Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, 26 marzo 2019, cit., p. 6, sempre nella parte introduttiva: «La tutela dei minori e delle persone vulnerabili fa parte integrante del messaggio evangelico che la Chiesa e tutti i suoi membri sono chiamati a diffondere nel mondo. Cristo stesso infatti ci ha affidato la cura e la protezione dei più piccoli e indifesi: “chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me” (Mt 18,5). Abbiamo tutti, pertanto, il dovere di accogliere con generosità i minori e le persone vulnerabili e di creare per loro un ambiente sicuro, avendo riguardo in modo prioritario ai loro interessi. Ciò richiede una conversione continua e profonda, in cui la santità personale e l’impegno morale possano concorrere a promuovere la credibilità dell’annuncio evangelico e a rinnovare la missione educativa della Chiesa. /Desidero, quindi, rafforzare ulteriormente l’assetto istituzionale e normativo per prevenire e contrastare gli abusi contro i minori e le persone vulnerabili affinché nella Curia Romana e nello Stato della Città del Vaticano: /- sia mantenuta una comunità rispettosa e consapevole dei diritti e dei bisogni dei minori e delle persone vulnerabili, nonché attenta a prevenire ogni forma di violenza o abuso fisico o psichico, di abbandono, di negligenza, di maltrattamento o di sfruttamento che possano avvenire sia nelle relazioni interpersonali che in strutture o luoghi di condivisione». Da ricordare poi segnatamente quanto si afferma nel già citato Chirografo dello stesso Sommo Pontefice di istituzione della Pontificia Commissione per la tutela dei minori del 22 marzo 2014.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 commendare alla persona offesa un potere di veto dirimente, tuttavia tengono conto della sua legittima avversione all’innescarsi di una procedura: «In caso di opposizione scritta e giustificata della persona offesa o dei suoi rappresentanti legali, o di declino a formalizzare la segnalazione per iscritto, il Vicario Generale non la trasmetterà al promotore di giustizia a meno che, sentito il Referente per la tutela dei minori, ritenga che la segnalazione sia necessaria per proteggere la persona offesa o altri minori dal pericolo»333. Nonostante, in effetti, permanga una certa discrezionalità nelle mani dell’autorità ecclesiastica334, si tratta di una disposizione precauzionale da giudicare positivamente.

9. Una parentesi: le Linee guida della Conferenza Episcopale Italiana

Per quanto concerne il nostro Paese, nel corso dei lavori dell’ultima Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (20-23 maggio 2019) sono state approvate le Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili della C.E.I. medesima e della Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori335. In esse sono state ‘mutuate’ disposizioni affini a quelle pontificie che abbiamo appena illustrato, come era del resto trapelato. Siamo stati infatti resi edotti già dai primi del mese di maggio336

333 Francesco, Linee guida per la protezione dei minori e delle persone vulnerabili per il Vicariato della Città del Vaticano, 26 marzo 2019, cit., p. 7, punto F, n. 7. 334 Critico C.-M. Fabris, Le recenti riforme del diritto penale vaticano varate da Papa Francesco in tema di protezione dei minori e delle persone vulnerabili. Analisi normativa e profili critici, cit., pp. 411-412, che scrive: «Prevedere che sia demandata all’iniziativa del Referente per la tutela dei minori la scelta se trasmettere o meno la notitia criminis al promotore di giustizia, anche nel caso in cui la parte offesa si opponga a tale iniziativa in maniera motivata, appare una determinazione eccessiva, specie se ci si pone nell’ottica di offrire la massima tutela al soggetto debole. Sarebbe stato preferibile, a parere di chi scrive, lasciare maggiore spazio alla procedibilità su querela della persona offesa». 335 Le Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili della Conferenza Episcopale Italiana, 24 giugno 2019, sono consultabili nella pagina web ufficiale della Chiesa cattolica italiana. 336 Cfr. F. Colagrande, Motu Proprio, Cei: forte spinta contro abusi, pubblicato nel sito Vatican News il 10 maggio 2019; alla domanda su come la Conferenza Episcopale Italiana avesse accolto il Motu Proprio Vos estis lux mundi l’arcivescovo L. Ghizzoni, presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili della Chiesa italiana, rispondeva: «In buona parte, avevamo già individuato queste linee nella stesura delle nuove linee guida della Conferenza episcopale italiana, che saranno -

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che le Linee guida previamente preparate e discusse nella LXXIII Assemblea Generale erano state ultimamente riviste anche in qualche modo in obbedienza e recepimento delle direttive additate da Roma: esse sono state infine diramate con la data del 24 giugno 2019. Il documento, che rappresenta una tappa importante nella lotta contro gli abusi e che è in generale del tutto suasivo, segnatamente nell’enunciazione dei ‘principi guida’ dell’opera della Chiesa in Italia, contiene non esigue novità per quanto direttamente pertiene ai profili prescrittivi337: profili che non assurgono peraltro, nonostante il tono imperativo, a normativa propriamente vincolante, non risultando il testo un decreto generale votato dai presuli con la maggioranza fissata ex can. 455 § 2 né corredato dalla recognitio della Sede Apostolica338, come del resto ordinariamente

speriamo - approvate proprio tra pochi giorni dall’Assemblea generale della Cei. Le nuove linee guida hanno in parte già recepito e in parte recepiranno le indicazioni che il Papa ha dato attraverso il Motu proprio “Vos estis lux mundi” a tutti i vescovi del mondo - quindi, anche a noi. Non sono quindi per noi particolarmente nuove perché già avevamo discusso queste indicazioni e già anche individuato alcune soluzioni che abbiamo messo nelle nostre nuove linee guida». Come osserva R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, cit., p. 832, «Aunque las preguntas a los entrevistados son propias del periodista en busca de la novedad informativa, las respuestas a veces ofrecen, desde el punto de vista del jurista, pistas y orientaciones que son una ayuda sobre todo en aquellos aspectos que podrían presentar cierta dificultad de interpretación o de aplicación». 337 Le Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, 24 giugno 2019, al punto 1, enunciano: «Le presenti Linee guida si applicano a tutti coloro che operano, a qualsiasi titolo, individuale o associato, all’interno delle comunità ecclesiali in Italia. Esse si applicano anche, compatibilmente al diritto proprio e alla normativa canonica, a tutti gli Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita apostolica, nella misura in cui questi non dispongano di proprie Linee guida». E nel punto 13, rubricato Operatività, aggiornamento e revisione delle Linee guida, si prevede: «Le presenti Linee guida diverranno operative dal giorno della pubblicazione sul sito della CEI. /Al SNTM [Servizio Nazionale per la Tutela dei Minori: N.d.A.] compete di curare la stesura e la pubblicazione degli strumenti applicativi delle presenti Linee guida. /Gli eventuali strumenti applicativi delle Linee guida vengono approvati dal Consiglio Permanente della CEI. /La revisione delle Linee guida è di competenza dell’Assemblea Generale dei Vescovi». 338 Secondo il can. 455, la Conferenza Episcopale può emanare decreti generali solamente nelle materie in cui lo abbia disposto il diritto universale, oppure lo stabilisce un mandato speciale della Sede Apostolica, sia motu proprio, sia su richiesta della Conferenza stessa; perché i decreti di cui al § 1 siano emanati validamente, devono essere espressi nella riunione plenaria almeno mediante i due terzi dei voti dei presuli che appartengono alla Conferenza con voto deliberativo, e non ottengono forza obbligante se non vengono legittimamente promulgati, dopo essere stati autorizzati dalla Sede Apostolica; il modo di promulgazione e il tempo in cui i decreti acquistano

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 le linee guida339. Nei punti 5.5 e 5.6 si enuncia: «Non può essere tollerato nessun clima di complice e omertoso silenzio in tema di abuso sessuale nei confronti di minori o persone vulnerabili: chiunque abbia notizia della presunta commissione in ambito ecclesiale di abusi sessuali nei confronti di minori o persone vulnerabili è chiamato a segnalare tempestivamente i fatti di sua conoscenza alla competente autorità ecclesiastica, a tutela dei minori e delle persone vulnerabili, della ricerca della verità e del ristabilimento della giustizia, se lesa. […] La segnalazione non solo non esclude, ma neppure intende ostacolare la presentazione di denuncia alla competente autorità dello Stato, che anzi viene incoraggiata»; mentre nel punto 5.7 si prosegue: «Salvo nel caso previsto dai cann. 1548 § 2 CIC e 1229 § 2 CCEO, ogni qualvolta un chierico o un membro di un Istituto di vita consacrata o di una Società di vita apostolica abbia notizia o fondati motivi per ritenere che sia stato commesso abuso sessuale su minori o persona vulnerabile da parte di un chierico o di un membro di un Istituto di vita consacrata o di una Società di vita apostolica, ha l’obbligo di segnalare tempestivamente il fatto all’Ordinario del luogo dove sarebbero

forza obbligante vengono determinati dalla stessa Conferenza Episcopale; nei casi in cui né il diritto universale né uno speciale mandato della Sede Apostolica abbiano concesso alla Conferenza Episcopale la potestà di cui al § 1, rimane intatta la competenza di ogni singolo vescovo diocesano e la Conferenza Episcopale o il suo presidente non hanno la capacità di agire in nome di tutti i vescovi, a meno che tutti e singoli i vescovi non abbiano dato il loro consenso. Nella Lettera circolare per aiutare le Conferenze Episcopali nel preparare Linee guida per il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede il 3 maggio 2011, in Acta Apostolicae Sedis, CIII (2011), pp. 406-412, d’altronde si stabiliva: «Nel caso in cui la Conferenza decidesse di stabilire norme vincolanti sarà necessario richiedere la recognitio ai competenti Dicasteri della Curia Romana». 339 Come ricorda F. Lombardi, Ora niente scuse. Sulla concretezza del motu proprio Voi siete la luce del mondo, cit., p. 270, Papa Francesco, nel discorso finale del summit del febbraio 2019 già menzionato, «parlando del “rafforzamento e della verifica” delle linee guida delle conferenze episcopali, insisteva sul fatto che bisognava “applicare parametri che abbiano valore di norme e non solo di orientamenti. Norme, non solo orientamenti”»; del resto «le linee guida (tranne il caso della Charter for Protection of Children and Young People promulgata dai vescovi degli USA) non avevano valore di legge, cioè non obbligano giuridicamente i vescovi delle diverse diocesi ad attuare le misure previste». Per questo, secondo Lombardi, «Papa Francesco, in un colpo solo, ha superato tutti i ritardi, i dubbi e le resistenze e con la sua autorità come pastore della Chiesa universale ha obbligato tutti i vescovi, di tutte le regioni del mondo, a provvedere in un tempo assai breve - un anno! - a predisporre un sistema pubblico, affidabile e accessibile, per la segnalazione delle violenze, per assicurare che le vittime siano accolte e che chi segnala sia protetto da eventuali ritorsioni».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 accaduti i fatti o ad un altro Ordinario tra quelli di cui ai cann. 134 CIC340 e 984 CCEO. Questa segnalazione non costituisce una violazione del segreto d’ufficio né può dar luogo a pregiudizi, ritorsioni o discriminazioni (cfr. Vos estis lux mundi, artt. 3, § 1; 4, § 1)», specificando altresì che «A chi effettua una segnalazione non può essere imposto alcun vincolo di silenzio riguardo al contenuto di essa (cfr. Vos estis lux mundi, art. 4, § 3)». Dunque, compendiando e riducendo all’osso, mentre chiunque ‘è chiamato a segnalare’, sui chierici e i consacrati ricade, anche qui, un ‘obbligo di segnalare tempestivamente’, appunto sulla falsariga della - del resto ‘coattiva’ - legislazione papale. Del tutto innovativo, per converso, anche rispetto a quanto sancito dal legislatore canonico supremo, quanto previsto al punto 8.2: «L’autorità ecclesiastica, benché non abbia l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria le notizie ricevute di presunti abusi su minori (in quanto non riveste la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio), ogniqualvolta riceva una segnalazione di un presunto abuso sessuale commesso da un chierico, in ambito ecclesiale, nei confronti di un minore di età, informi l’autore della segnalazione e il genitore o il tutore legale della presunta vittima che quanto appreso potrà essere trasmesso, in forma di esposto, alla competente autorità giudiziaria dello Stato. /A tal fine l’autorità ecclesiastica richieda all’autore della segnalazione di formalizzare per iscritto la notitia criminis portata alla sua attenzione, perché detta comunicazione, in presenza di reato perseguibile per la legge dello Stato, possa costituire la base dell’esposto all’autorità giudiziaria. /L’autorità ecclesiastica ha l’obbligo morale di procedere all’inoltro dell’esposto all’autorità civile qualora, dopo il sollecito espletamento dell’indagine previa, sia accertata la sussistenza del fumus delicti. /L’autorità ecclesiastica non procederà a presentare l’esposto nel caso di espressa opposizione, debitamente documentata e ragionevolmente giustificata, da parte della vittima (se nel frattempo divenuta maggiorenne), dei suoi genitori o dei tutori legali, fatto salvo sempre il prioritario interesse del minorenne»341.

340 Per alcuni problemi interpretativi insorgenti v. D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, cit., p. 539 ss. 341 Ricordiamo qui che se la denuncia è l’atto con il quale chiunque abbia notizia di un reato ne informa il pubblico ministero, l’esposto è l’esposizione appunto all’autorità di pubblica sicurezza di fatti che non costituiscono ancora un reato ma che sono al limite

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Si tratta di un disposto assai ‘denso’, non scevro di criticità. Da valutare positivamente anzitutto il dovere di consultare e compulsare la vittima, i genitori o i tutori legali in merito proprio alla presentazione dell’esposto e, contestualmente, di tener conto della loro volontà contraria, salvo possibilità di discostarsene, si postula in casi straordinari: cautela, questa, non contemplata nella legislazione pontificia e che era stata giustamente posta in risalto già nelle anticipazioni ai giornalisti, additando il modus operandi cui ci si sarebbe dovuti attenere nel ricorrere di queste circostanze342. Qualche rimostranza invece eleviamo sommessamente sull’obbligo ‘morale’ (‘aggettivazione’ quanto meno anomala in determinazioni di tal tipo) di inoltrare l’esposto all’autorità civile343,

del lecito o di fatti che potrebbero essere oggetto di querela, ovvero con cui si richiede l’intervento dell’autorità di pubblica sicurezza in caso di dissidi tra privati da parte di una o di entrambe le parti coinvolte. L’esposto tecnicamente non è indirizzato all’autorità giudiziaria (poiché la segnalazione di un fatto costituente reato procedibile d’ufficio si chiama appunto denuncia): se peraltro dai fatti si configura un reato perseguibile d’ufficio, l'ufficiale di pubblica sicurezza, in quanto pubblico ufficiale, deve informare l’autorità giudiziaria (se invece si tratta di delitto perseguibile a querela può, a richiesta, esperire un preventivo componimento della vertenza, senza che ciò pregiudichi il successivo esercizio del diritto di querela, salvo espressa rinuncia). Cfr. art. 1 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R.D. n. 773 del 1931 e relativo regolamento per l’esecuzione approvato con R.D. n. 635 del 1940, artt. 5-6. 342 Cfr. I. Scaramuzzi, Abusi, la Cei introduce l’obbligo di denuncia alle autorità civili, pubblicato il 23 maggio 2019 sul sito Vatican Insider News, che riporta le seguenti precisazioni di L. Ghizzoni: «una volta fatta l’indagine previa […] non comunichiamo la vicenda solo alla Congregazione per la Dottrina della fede, ma siamo chiamati a fare esposto all’autorità civile. Diverso se la persona dicesse “io non voglio”: a quel punto vogliamo incoraggiare la vittima stessa, o se minorenne la vittima con i suoi genitori o tutori, a fare la denuncia. Se comunque si opponesse, sia la vittima sia i genitori sia i tutori, noi chiediamo che questa opposizione alla denuncia sia scritta, e debitamente documentata, perché la teniamo come documento che, quando in secondo tempo ritornasse la vicenda, possiamo sempre esibire. Non solo: chiediamo che l’opposizione sia ragionevolmente giustificata, perché ci possono essere casi in cui il minorenne è disponibile alla denuncia, ma i genitori non vogliono: perché si vergognano? Perché non vogliono finire in tribunale? O perché hanno interessi non corretti su vicende? Sappiamo che ci sono casi in cui (gli abusi, ndr) sono fonti di guadagno anche da parte dei genitori. Ecco, in caso in cui l’opposizione non fosse giustificata, facciamo l’esposto lo stesso. Abbiamo deciso di mettere al primo posto l’interesse del minore. Questo richiede un bell’impegno». 343 L’«obbligo morale per i vescovi di denunciare alle autorità civili clerici e religiosi per i quali, dopo un’indagine previa, le accuse di pedofilia appaiono verosimili» è stato diffusamente presentato come «punto fondamentale» delle Linee guida: così, ad esempio, l’articolo - da cui è tratta la citazione - pubblicato sul sito Vatican News il 23 maggio 2019 di A. Guarasci, Assemblea Cei: obbligo morale di denunciare gli abusi sui

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 rovesciandosi quasi - almeno a livello di primo e frontale impatto - i disposti delle precedenti Linee guida del 2014, i quali, alla luce dell’appena sopra sunteggiata normativa italiana, evidenziavano invece l’insussistenza di obblighi di denuncia per i vescovi - o ‘obblighi di riferire all’autorità giudiziaria’, secondo il dettato dell’art. 200 del Codice di Procedura Penale344 -, alla stregua degli altri cittadini, «salvo il dovere

minori. Si veda anche I. Scaramuzzi, Abusi, la Cei introduce l’obbligo di denuncia alle autorità civili, cit. Nell’intervista pubblicata il 30 maggio su Agensir.it, monsignor L. Ghizzoni ha affermato: «La vera svolta è l’introduzione dell’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria da parte dell’ordinario del luogo (il vescovo, ndr) nel quale avviene un possibile abuso da parte di un chierico. Ovviamente dopo averne vagliato la verosimiglianza. Il vescovo aveva già l’obbligo di avviare un’indagine cosiddetta “previa”, cioè raccogliere elementi da inviare alla Congregazione per la Dottrina della fede e, nel caso, avviare un procedimento canonico. Ma nelle linee guida introduciamo anche l’obbligo morale (perché dal punto di vista giuridico in Italia non lo avremmo), di informare anche l’autorità giudiziaria, che ha mezzi molto più efficaci di indagine, questo è il punto. O meglio, dopo aver fatto l’indagine “previa” sulla segnalazione, noi incoraggiamo anzitutto la denuncia da parte di chi l’ha presentata o dei genitori o tutori, se minorenne. Se non la vogliono fare, prepariamo noi un esposto, informando di questo chi segnala. Se si opporranno, chiederemo che questa opposizione alla denuncia sia scritta, debitamente documentata e ragionevolmente giustificata. […] /Di fatto, incoraggiamo ad andare a denunciare chiunque, compresi sacerdoti o religiosi». 344 Come già sopra abbiamo riscontrato, anche l’art. 200 C.P.P. fa salve le ipotesi in cui i soggetti qualificati abbiano l’obbligo di riferire quanto da loro conosciuto all’autorità giudiziaria, nel qual caso la possibilità di avvalersi del segreto professionale viene meno del tutto e il soggetto qualificato ha l’obbligo di rispondere su qualunque tema di prova (nei limiti della pertinenza e della rilevanza). Ma, come pure si è già avuto modo di rilevare, la disposizione va coordinata anche con quanto prevedono «gli artt. 331 e 334 c.p.p., rispettivamente in tema di denunzia e di referto e poiché tale obbligo spetta precipuamente ai pubblici ufficiali ed agli incaricati di pubblico servizio, da un lato, ed agli esercenti le professioni sanitarie, dall’altro, tra i soggetti previsti nel catalogo di cui all’art. 200 c.p.p. gli unici destinatari della previsione sono i notai (in quanto pubblici ufficiali) ed i medici»: A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 136. Tale Autore prende in esame anche gli obblighi di denuncia che abbiamo sopra ricordato previsti dall’art. 364 C.P. e dall’art. 3 decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modifiche nella legge 15 marzo 1991, n. 82 per affermare: «è ovvio come alcune categorie di soggetti, in ragione della maggiore protezione costituzionale che i beni affidati alla loro cura ricevono, devono ritenersi escluse dalla prevista obbligatorietà della testimonianza. /Anzitutto i ministri di culto i quali […] devono poter essere in grado, anche rispetto a fatti più gravi, di poter esercitare la loro attività di assistenza spirituale nei confronti di coloro che ad essi si rivolgono. Non deve essere, poi, trascurato il fatto che la libertà delle confessioni religiose che l’ordinamento ha inteso assicurare e, con essa, la libertà di organizzazione delle stesse (art. 8 Cost.), da un lato, e la libertà di professare liberamente la propria fede (art. 19 Cost.), dall’altro, non possono subire limitazioni di sorta una volta che le regole che le confessioni si sono

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 morale di contribuire al bene comune»345: constatazione, questa, del tutto legittima (anche etimologicamente, cioè conforme a legge)346 e che per

date non si pongano in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano» (ivi, pp. 137- 138). 345 Le Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici della Conferenza Episcopale Italiana del gennaio 2014 (consultabili sulla pagina web della Chiesa cattolica, ove anche un resoconto dei lavori preparatori: esse, approvate inizialmente nel 2012, erano state riviste alla luce delle osservazioni e dei suggerimenti della Congregazione per la dottrina della fede), dirette «a facilitare la corretta applicazione della normativa canonica vigente in materia nonché a favorire un corretto inquadramento della problematica in relazione all’ordinamento dello Stato» (Premessa), prevedevano - nel punto 5 Cooperazione con l’autorità civile -: «Nel caso in cui per gli illeciti in oggetto siano in atto indagini o sia aperto un procedimento penale secondo il diritto dello Stato, risulterà importante la cooperazione del Vescovo con le autorità civili, nell’ambito delle rispettive competenze e nel rispetto della normativa concordataria e civile. /I Vescovi sono esonerati dall’obbligo di deporre o di esibire documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragione del proprio ministero (cfr. artt. 200 e 256 del codice di procedura penale; artt. 2, comma 1, e 4, comma 4, dell’Accordo del 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede [L. 25 marzo 1985, n. 121]). /Eventuali informazioni o atti concernenti un procedimento giudiziario canonico possono essere richiesti dall’autorità giudiziaria dello Stato, ma non possono costituire oggetto di un ordine di esibizione o di sequestro. /Nell’ordinamento italiano il Vescovo, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico - salvo il dovere morale di contribuire al bene comune - di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti oggetto delle presenti Linee guida. L’affermazione presente nella Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo alle accuse di abusi sessuali e poi ripresa nella Lettera circolare della stessa Congregazione del 3 maggio 2011, secondo la quale “va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte, senza pregiudicare il foro interno sacramentale”, deve essere intesa in linea con quanto previsto dal diritto italiano. /La presentazione della denuncia in ambito canonico non comporta né implica in alcun modo la privazione o la limitazione del diritto di sporgerla innanzi alla competente Autorità giudiziaria civile. Qualora il denunciante dovesse decidere di sporgere denuncia in sede civile, la competente Autorità ecclesiastica, nel rispetto della vigente normativa canonica e civile, provvederà a fornirgli tutto l’aiuto spirituale e psicologico necessario, con ogni premura verso le vittime». Tra l’altro, sempre nella citata Lettera circolare per aiutare le Conferenze Episcopali nel preparare Linee guida per il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici del 2011 della Congregazione per la dottrina della fede al punto III Indicazioni agli ordinari sul modo di procedere, alla lett. g) si dettava: «le Linee guida devono tener conto della legislazione del Paese della Conferenza, in particolare per quanto attiene all’eventuale obbligo di avvisare le autorità civili». 346 V. la precisa e del tutto condivisibile ricostruzione di P. Lo Iacono, La Conferenza Episcopale Italiana ed il delictum gravius contra mores: salvaguardia dell’indipendenza della comunità ecclesiale e leale collaborazione con la comunità

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 contro era stata oggetto di sferzanti strali e di strumentali polemiche347. Proprio per questo comprendiamo le motivazioni - di ‘controffensiva’, al fondo - della novata previsione, probabilmente anche sostenute dall’assegnamento sul fatto che le autorità ecclesiastiche locali sappiano agire con maturità: ma rimaniamo nondimeno dell’avviso che la precedente stesura fosse preferibile e più accorta. Va poi anche ammesso che, secondo le Linee guida del 2019, l’esposto da inoltrare non è la comunicazione di una qualsiasi e di ogni segnalazione indiscriminatamente ricevuta, ma solo di quella appositamente e meticolosamente ‘formalizzata’, secondo quanto partitamente precisato, e dopo che, espletata sollecitamente l’indagine previa, sia stato puntualmente accertato il fumus delicti348. Tuttavia i nostri dubbi non si

politica, in Diritto e religioni, IX (2014), 1, specialmente p. 30 ss., p. 36 ss., anche con opportuni riferimenti alla normativa canonica, oltre che sul sigillo sacramentale, sul segreto e la riservatezza che legittimano pienamente l’anteriore previsione della Conferenza Episcopale Italiana sul punto: l’Autore si sofferma pure sul diritto a fruire del segreto ministeriale, dinanzi al giudice italiano, in capo ai «chierici, che, con qualunque ruolo, abbiano partecipato ad un procedimento canonico volto a punire un delictum gravius, in specie quello di pedofilia» (ivi, p. 55). 347 Esprimeva invece delle critiche alla ‘timidezza’ e alla prevalente ‘linea difensiva’ dei vescovi italiani P. Consorti, La reazione del diritto canonico agli abusi sessuali sui minori. Dal silenzio assordante alle «Linee guida», in Daimon, XII (2012), p. 165 ss. Critico anche M. Ventura, Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede, Torino 2014, p. 225. 348 È invece recentissima la notizia di un protocollo di accordo (ad experimentum per un anno) firmato il 5 settembre 2019 dall’arcivescovo di Parigi e dal procuratore della Repubblica della stessa città relativo alla trasmissione di segnalazioni di abusi ricevute dall’autorità diocesana: tutte le segnalazioni di reati sessuali che sembrano verosimili saranno trasmesse alla procura di Parigi senza che sia necessario che la vittima presenti una denuncia. Si legge nel comunicato diffuso online dalla diocesi di Parigi sul suo sito ufficiale: il testo «prévoit que toutes les dénonciations d’infractions sexuelles paraissant vraisemblables, soient transmises au parquet de Paris par la voie d’un signalement, sans qu’il soit nécessaire que la victime ait au préalable déposé plainte. Les agissements sexuels dénoncés peuvent être de nature délictuelle ou criminelle, commis sur des mineurs ou des majeurs par un membre du clergé ou par un personnel laïc travaillant pour un établissement ou un organisme relevant de l’Église catholique. /Ces signalements plus rapides et plus systématiques par les autorités diocésaines permettront au parquet de caractériser, s’il y a lieu, les infractions qui auraient pu être commises, ou à l’inverse, de lever les doutes subsistants». In un’intervista pubblicata sempre nella pagina web della diocesi Thibault Verny, vescovo ausiliare della medesima, spiega: «En particulier, lorsqu’une dénonciation parvenait au diocèse sans que le plaignant ait porté plainte, les autorités diocésaines effectuaient une enquête préliminaire succincte avant de faire un signalement au procureur et d’appliquer les mesures conservatoires nécessaires. /Nous avons confiance dans la justice de notre

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 diradano349, nonostante le rassicurazioni del presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili della Chiesa

pays. Nous avons constaté qu’il est plus efficace de s’appuyer sur les compétences professionnelles et les moyens du Parquet pour toute enquête préliminaire. […] /Ce recours plus rapide et plus systématique aux moyens des autorités judiciaires pourra éclairer une éventuelle suite canonique. Il permettra de préciser les infractions qui auraient pu être commises ou de lever les doutes subsistants. Ainsi, la recherche de la vérité sera effectuée plus efficacement. Les mesures conservatoires ne seront pas appliquées sur la seule base d’une enquête interne mais après retour des premières investigations par des professionnels disposant de pouvoirs et de moyens qui manquent aux autorités diocésaines». Alla domanda del tutto legittima dell’intervistatore: «Quid alors de la justice canonique? Cette mesure pourrait être vue, par certains, comme une manière pour l’Église de se laver les mains…», Verny risponde: «Loin de s’en laver les mains, l’autorité diocésaine cherche à améliorer toujours plus le traitement de ces situations difficiles et douloureuses pour tous, au premier rang pour les victimes. L’Église, dans son droit canon, demande d’attendre le verdict de la justice civile avant d’enclencher la procédure canonique, et ce, afin de ne pas interférer avec la justice civile. Par ailleurs, ce n’est pas parce que la justice civile classera sans suite une affaire qu’il n’y aura pas, à l’issue, de procédure canonique. Des faits non répréhensibles pour la justice civile peuvent en effet l’être pour la justice canonique». Nonostante si debba ovviamente tenere conto del diritto francese nonché delle determinazioni della Conferenza Episcopale Francese, confermiamo le nostre perplessità. Scriveva il cardinale J. Herranz, Il diritto canonico, perché?, cit., p. 397: «La Chiesa riconosce certamente la competenza della autorità giudiziaria civile nei casi che costituiscono delitti nel proprio ambito civile. Ma la Chiesa non può rinunziare ai suoi propri strumenti processuali e sanzionatori, che sono consoni con le specifiche esigenze della giustizia intraecclesiale. I fedeli hanno il diritto, specie nel caso dei sacerdoti, di essere giudicati ed eventualmente puniti secondo le disposizioni canoniche. Inoltre, la stessa posizione della Chiesa in quanto istituzione dinanzi ai tribunali civili deve essere adeguatamente precisata. Sull’onda emotiva del clamore pubblico, alcuni prospettano l’obbligo dell’Autorità ecclesiastica di denunciare al giudice civile tutti i casi che vengano alla sua conoscenza, nonché l’obbligo di comunicare allo stesso giudice civile tutta la relativa documentazione degli archivi ecclesiastici. […] A mio avviso, la giustizia esige di rifuggire da queste semplificazioni indebite. /Bisogna infatti tener conto, da una parte, che quando le autorità ecclesiastiche trattano questi delicati problemi, non solo hanno il dovere di rispettare accuratamente il fondamentale principio della presunzione d’innocenza, ma devono altresì adeguarsi alle esigenze del rapporto di fiducia, e del conseguente segreto d’ufficio, che è inerente alle relazioni tra il Vescovo e i sacerdoti suoi collaboratori, e tra i sacerdoti e i fedeli: non ottemperare a queste esigenze comporterebbe molti danni, e di grande gravità, per la Chiesa». Sensato quanto di recente asserisce R.F. Freije, La reforma legislativa de Benedicto XVI en relación con los abusos sexuales y algunas propuestas para la reflexión, cit., p. 735: «hay que evitar dos tendencias contrapuestas pero frecuentes: la de resolver ad intra este tipo de situaciones al margen de la colaboración civil y la de “entregarse” o “sujetarse” únicamente a la autoridad civil como si la Iglesia no tuviera nada que decir y hacer en esa materia». 349 Nelle Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, 24 giugno 2019, poi, si esortano ripetutamente vescovi e superiori a collaborare con le autorità

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 italiana, l’arcivescovo Lorenzo Ghizzoni, rese ancor prima della pubblicazione del testo: Ghizzoni ha infatti ripetutamente sottolineato - facendo invero trasparire l’ansia di fraintendimenti - che si tratta appunto di un obbligo morale350, ciò che non è equivalente a stabilire un obbligo giuridico, magari munito di sanzioni (eventualmente irrogate, semmai, in un decreto generale dotato di tutti i ‘crismi’). Certamente le autorità ecclesiastiche in alcuni (e probabilmente quasi tutti i) casi non solo possono ma devono presentare esposti e denunce a quelle secolari, anche memori delle deplorevoli inadempienze del passato e ben consapevoli delle proprie responsabilità. Ma deve essere il loro libero discernimento - tenuto conto di tutte le circostanze concrete - a determinarli: è proprio questa libertà che ora pare a repentaglio. Recuperando discorsi sui quali ci siamo già intrattenuti e con lo sguardo fisso al tema principale di queste riflessioni, all’assicurazione che si enuncia un mero obbligo morale si potrebbe controbattere come sia assai diverso l’effetto indotto da un documento ufficiale se si soprassiede su un obbligo, evocando anzi la normativa secolare che non lo contempla, oppure, invece, se ne si intima pareneticamente l’obbedienza, per quanto esso non sia, sul piano canonistico-ecclesiale, prettamente giuridico bensì morale. I soggetti che ne vengono onerati sono astretti da un’obbligazione non insignificante, stante, se non altro, la flebile o comunque non insormontabile barriera tra i due piani, specialmente nell’ordinamento della Chiesa; angosciosi se non insolubili dubbi di coscienza affliggeranno i presuli su cui aleggia quest’obbligo morale, quasi ‘deontologico’, di denunciare all’autorità secolare. Non va poi dimenticato che su chierici e

civili, ma sempre «nel rigoroso rispetto della normativa canonica, concordataria e civile» (v., ad esempio, i punti 8.4 e 8.5). 350 Cfr. G. Cardinale, Cei. Abusi su minori, i vescovi hanno l’obbligo morale di denunciare, pubblicato online il 23 maggio in Avvenire.it, che riporta la seguente frase di L. Ghizzoni, pronunciata in conferenza stampa: «Nel momento in cui arriva una denuncia, benché l’autorità ecclesiastica non abbia l’obbligo giuridico di denunciare, noi abbiamo deciso di vincolarci a un obbligo morale [...] attraverso la preparazione di un esposto da trasmettere all’autorità competente. Nel caso in cui la persona che ha fatto la segnalazione non voglia fare la denuncia […] chiediamo che l’opposizione alla denuncia sia scritta e debitamente documentata, oltre che ragionevolmente giustificata». Le Linee guida sono frutto di due anni e mezzo di lavoro e sono sperimentali, cioè suscettibili di modifiche dopo una verifica delle modalità di attuazione da parte delle diocesi, secondo quanto ha precisato il medesimo arcivescovo nella stessa conferenza stampa.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 consacrati incombe l’obbligo di segnalare, non definito come morale dalle Linee guida e da qualificarsi come giuridico, sia pur sempre canonico, trascrivendo d’altronde quello già superiormente imposto dal diritto universale: sebbene la segnalazione vada in questo caso effettuata all’autorità ecclesiastica e non all’autorità giudiziaria dello Stato italiano. Insomma, l’intersezione tra obblighi variamente cogenti di segnalazioni, denunce ed esposti alle autorità ecclesiastiche ovvero a quelle statali risulta nitida e ben definita se si accede ad una certosina analisi del tenore dei testi ‘canonici’ (cui si sommano quelli ‘vaticani’). Ma temiamo si possa plausibilmente dubitare che tali soglie tra obblighi-doveri morali e obblighi-doveri giuridici351, tra segnalazioni intraecclesiali e inoltro di esposti al potere secolare - e pure, purtroppo, con uno ‘scivolamento’ non evitabile tra ‘vincolatività canonica’ e ‘vincolatività civile’ - siano perfettamente colte dall’esterno: e non soltanto dall’opinione pubblica (sovente dipendente da una stampa approssimativa e grossolana su queste nozioni), ma anche dai magistrati secolari, i quali potrebbero approfittare di tali ambivalenze. Inoltre - e ciò sarebbe non meno nocivo - tali soglie potrebbero divenire sempre più sottili e tormentose nel sentire di quei sacerdoti che devono talora difendere la riservatezza delle persone con loro confidatesi e che, in questo rilevantissimo ufficio, sono sorrette - o almeno lo sono state sinora - dalle norme sul segreto ministeriale, canoniche e secolari: punctum dolens sul quale, pertanto, vale la pena ancora ritornare.

10. I rischi di debilitazione della salvaguardia del segreto ministeriale. La Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale del 29 giugno 2019

Infatti, per quanto in questa trattazione più importa, nel Motu Proprio Vos estis lux mundi si statuisce che «Il fatto di effettuare una segnalazione a norma dell’articolo 3 non costituisce una violazione del segreto

351 Cfr. le considerazioni di carattere generale di E. Baura, Parte generale del diritto canonico. Diritto e sistema normativo, Roma 2013, p. 36 ss., segnatamente sulla «grande difficoltà nel tracciare il confine tra il dovere meramente morale e quello giuridico» (ivi, p. 38), affermando altresì: «va chiarito che la qualifica di dovere morale non giuridico non riguarda la gravità del dovere; semplicemente si afferma che non è relativo alla virtù della giustizia, ma può costituire un dovere morale grave rispetto ad un’altra virtù, benché irrilevante sul piano giuridico» (ivi, p. 39).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 d’ufficio», e ancora che «A chi effettua la segnalazione non può essere imposto alcun vincolo di silenzio riguardo al contenuto di essa» (art. 4 rispettivamente §§ 1 e 3): prescrizioni ‘imitate’352, come già affiorato, dalle

352 Nel recente e già ricordato Rescriptum ex audientia SS.mi, firmato dal Segretario di Stato Pietro Parolin e datato 6 dicembre 2019, cit., p. 5, il quale ha abolito il segreto pontificio per le denunce, i processi e le decisioni riguardanti delitti relativi ad abusi sessuali si riproduce al punto 5 dell’emanata Istruzione: «A chi effettua la segnalazione, alla persona che afferma di essere stata offesa e ai testimoni non può essere imposto alcun vincolo di silenzio riguardo ai fatti di causa». Si veda il commento di J.I. Arrieta, Riservatezza e dovere di denuncia, in L’Osservatore romano, 18 dicembre 2019, pp. 4- 5, il quale afferma in generale su questa nuova Istruzione che «Il documento vuole dare certezza sul modo di comportarsi in queste situazioni che, in alcuni casi, particolarmente per i ministri sacri, possono sfiorare irrinunciabili doveri morali di segretezza. […] /L’Istruzione non ha collisione alcuna col dovere assoluto di osservare il sigillo sacramentale, che è un obbligo imposto al sacerdote in ragione della posizione che occupa nell’amministrazione del Sacramento della confessione, e dal quale neanche il penitente stesso potrebbe liberare. Nemmeno tocca l’Istruzione il dovere di stretta riserva acquisito eventualmente fuori della confessione, nell’ambito del foro intero detto “extra-sacramentale”. Infine, l’Istruzione non riguarda altri eventuali doveri morali di riservatezza in ragione di circostanze affidate al sacerdote nel senso descritto dal n. 2 della citata Nota della Penitenzieria Apostolica»; e ancora: «il fatto che la conoscenza di queste azioni delittuose non sia più vincolata al “segreto pontificio” non vuole dire che venga sdoganata la libera pubblicità da parte di chi ne è in possesso, il che oltre ad essere immorale, lederebbe il diritto alla buona fama delle persone protetto dal can. 220 CIC. A questo riguardo, il n. 3 dell’Istruzione richiama quanti, in qualunque modo, sono chiamate a gestire ufficialmente tali situazioni al normale segreto o riservatezza d’ufficio indicato nei cannoni 471, 2° CIC e 244 §2, 2° CCEO, come già faceva l’art. 2 §2 del motu proprio Vos estis lux mundi. Ciò significa che le persone informate della situazione o in qualche modo coinvolte nelle inchieste o istruzione della causa sono tenute a “garantire la sicurezza, l’integrità e la riservatezza”, e a non condividere informazioni di alcun genere con soggetti terzi, estranei alla causa. Tra i soggetti implicati nel processo, una volta avviato formalmente, c’è ovviamente l’imputato, per cui il nuovo provvedimento favorisce anche l’adeguato diritto alla difesa. /Nei successivi due numeri dell’Istruzione ritroviamo comunque altre due importanti precisazioni al dovere della riservatezza. Una è contenuta nel n. 5, il quale, seguendo anche quanto indicato dall’art. 4 §3 del motu proprio Vos estis lux mundi, vieta di imporre alcun genere di “vincolo di silenzio riguardo ai fatti della causa” sia al soggetto che abbia fatto la segnalazione o la denuncia all’autorità, sia a coloro che affermino di essere stati offesi, sia anche ai testimoni che intervengono nella causa. La sola eccezione a questo divieto riguarda l’imputato stesso che, in questo genere di provvedimenti, è regolarmente sottoposto sin dall’inizio a vario genere di proibizioni e misure cautelari, a seconda di quali siano le circostanze concrete. Il segreto d’ufficio, dunque, concerne tutti coloro che in ragione del proprio ruolo devono intervenire nella trattazione della causa». Le nostre preoccupazioni, palesate in queste pagine, rimangono intatte. Osserva accortamente G. Dalla Torre nel suo commento Un atto che facilita la collaborazione con l’autorità civile, ivi, p. 5: «S’è detto che l’Istruzione è un atto interno alla Chiesa, ma con ricadute all’esterno dell’ordinamento canonico. È ovvio

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Linee guida della Conferenza Episcopale Italiana e che probabilmente entreranno nelle linee guida di tutte o quasi le Conferenze Episcopali del mondo, rappresentando programmaticamente, le norme pontificie, un prototipo da emulare (pur senza diminuire la responsabilità dei vescovi353). Eppure, la pericope ‘alcun vincolo di silenzio’ e il divieto di porre precauzioni (a prescindere poi dalla loro efficacia) - se da un lato se ne capiscono le motivazioni, dall’altro - lasciano in qualche modo perplessi, parendo ignorare ancora una volta almeno quelle esigenze di protezione delle vittime su cui i nostri precedenti ragionamenti si sono imbastiti: inoltre - non operandosi improvvidamente, almeno nel testo normativo, alcun discrimine o cernita354 - il silenzio parrebbe non dover essere mantenuto neppure con la stampa, la quale, come risaputo, è sempre avida di notizie ‘pruriginose’ e proclive a condannare con clamore - sovente anche mendacemente, e comunque senza processo - omertà e complicità ecclesiastiche. Quanto poi alla locuzione ‘segreto d’ufficio’, essa, di senso univoco per il canonista, può risultare fumosa all’esterno, potendosene sfruttare l’ambiguità facendola collimare col segreto ministeriale, come ancora constateremo. È vero, poi, come nel già menzionato art. 3 che suggella l’obbligo della segnalazione si eccettuino i casi previsti nel can. 1548 § 2, nel quale - lo ricordiamo - i chierici, quali testimoni, sono liberati dal dovere di rispondere per quanto fu loro manifestato in ragione del sacro ministero: canone che a sua volta salva il disposto del can. 1550 § 2 n. 2. Ma ci chiediamo perché il supremo legislatore canonico non abbia menzionato

però precisare che, per quanto riguarda l’esercizio della giustizia secolare nella materia in questione, occorrerà stare a quelle che sono le disposizioni interne di ogni Stato. Per esempio, per gli ordinamenti che prevedono il perseguimento dei reati di abuso solo su querela di parte, la caduta del segreto pontificio e, nel senso accennato, del segreto d’ufficio, potranno operare solo una volta che la parte lesa abbia attivato il procedimento penale con la dovuta richiesta all’autorità giudiziaria di procedere nei confronti dell’autore del reato. Ancora: negli Stati a regime concordatario le nuove disposizioni pontificie troveranno attuazione in armonia con le peculiari norme eventualmente vigenti a tutela del sacro ministero». 353 Annotazioni interessanti in ordine a questo profilo dei rapporti tra vescovo di Roma, vescovi diocesani e Conferenze Episcopali proprio in relazione alla materia delle azioni contro gli abusi sessuali in L. Marabese, Le potenziali sfide all’immunità del Romano Pontefice: una riflessione a partire dai delitti di abuso sessuale di minori da parte di chierici, in Ius Ecclesiae, XXXI (2019), p. 99 ss. 354 Anche se è vero che ci sono norme a tutela della riservatezza: cfr. l’esposizione di R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, cit., specialmente p. 864 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 inequivocamente nella novella la salvaguardia del ‘segreto ministeriale’ e soprattutto l’inviolabilità del sigillo sacramentale. Il rinvio, con doppio passaggio, alle norme sullo svolgimento del processo - rinvio non immediatamente decifrabile dai non cultori dello ius Ecclesiae - può smorzare e affievolire quella sacertà intrasgredibile del sacramento della confessione in ogni circostanza che la Chiesa nei secoli ha difeso anche con il sangue di numerosi martiri355: martiri per i quali era palmare - e forse purtroppo non lo è più per molti cattolici, adusi alla mentalità corrente - come il sacramento ‘conti più’ della morale e vada in ogni modo preservato356. Le leggi, e segnatamente le leggi della Chiesa non devono mancare di essere, oltre (ed anzi più) che impositive, anche istruttive e pedagogiche, anzitutto ad intra: ma pure ad extra e, specialmente oggi, questa sarebbe stata un’occasione fausta per porsi frontalmente in evangelico ‘segno di contraddizione’ rispetto ad alcune legislazioni secolari357. Al riguardo, per contro, del tutto lodevolmente la legge dello Stato della Città del Vaticano n. CCXCVII Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili per ben due volte riproduce - almeno - la dizione «fatto salvo il sigillo sacramentale» (art. 3 nn. 1 e 2), e parimenti i due provvedimenti emessi nella stessa data, tra cui il Motu Proprio pontificio, lo menzionano358: esso, nelle commistioni sempre possibili dei procedimenti con il foro sacramentale, risulta giammai oltraggiabile.

355 Il più famoso è San Giovanni Nepomuceno. Si sofferma recentemente su questo ed altri martiri R. De Mattei, Martiri e violatori del sigillo della confessione, pubblicato online in Corrispondenza romana il 28 dicembre 2018. 356 Cfr. alcune considerazioni in Papa Ratzinger: la Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali, cit. 357 T. Mbadiwe Osuala, Sigilo sacramental y denuncia obligatoria del abuso de menores. Una mirada global, cit., pp. 233-234, nota: «Aun más sorprendente es que el nuevo modelo de líneas guía de la Comisión Pontificia para la Protección de Menores (CPPM) no contiene una cláusula de protección del sigilo sacramental, donde habla de la colaboración con las autoridades civiles, especialmente en cuanto a la denuncia obligatoria del abuso infantil. /La cooperación con la autoridad civil de 3 de mayo 2011, la carta circular original, fue interpelada con afirmaciones claras referentes al fuero interno […]. /Pero el Modelo de Líneas Guía versión 2016.12 habla más de la cooperación sin hacer referencia al fuero interno». 358 Riporta la dizione «fatto salvo il sigillo sacramentale» la Lettera Apostolica in forma di “Motu Proprio” Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, 26 marzo 2019, di Papa Francesco, cit., p. 6, al punto 2, nonché, sempre a firma di Papa Francesco, le Linee guida per la protezione dei minori e delle persone vulnerabili per il Vicariato della Città del Vaticano, 26 marzo 2019, cit., p. 7, punto F, n. 3; al n. 10 dello stesso punto F, inoltre, significativamente si dispone che nei procedimenti si debba

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Sempre su questa lunghezza d’onda ci chiediamo (retoricamente) se non sarebbe stato lungimirante, nell’articolo finale del Motu Proprio Vos estis lux mundi, a tenore del quale «Le presenti norme si applicano senza pregiudizio dei diritti e degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, particolarmente quelli riguardanti eventuali obblighi di segnalazione alle autorità civili competenti» (art. 19)359, ribadire con toni risoluti l’impenetrabilità del segreto della confessione sacramentale e la salvaguardia della riservatezza assolutamente indispensabile per alcuni aspetti del servizio ministeriale-accompagnamento spirituale delle persone360. Rievocare imperativamente tali esigenze di tutela - più che della Chiesa, dei cittadini-fedeli - nella disposizione di chiusura, la quale pure è stata plaudita quale simbolo del rinvigorito spirito di cooperazione con le autorità secolari, sarebbe stato non vanamente didascalico per i cattolici, chierici e laici, ma significativamente si sarebbe levato a monito per quei legislatori statuali che si sono arrogati il potere di demolirle. Che questa, d’altronde, sia la crux sulla quale negli anni a venire si infittiranno le controversie è dimostrato dall’attenzione al tema mostrata da parte dei primi attenti commentatori di tali ultimi orientamenti normativi, intersecanti il diritto vaticano e quello canonico361. Sia pure con riguardo preferenzialmente alle già menzionate Linee guida per il Vicariato della Città del Vaticano - le quali (al di là del loro valore non parificabile ai disposti sin qui presi principalmente in esame) si porgono

accertare, oltre alla condotta delittuosa, alle generalità e all’età delle persone offese e al danno arrecato, l’eventuale commistione con il foro sacramentale. 359 Esprime serie perplessità, del tutto condivisibili, su questa previsione nonché sulla citata Istruzione Sulla riservatezza delle cause G. Comotti, I delitti contra sextum e l’obbligo di segnalazione nel motu proprio “Vos estis lux mundi”, cit., p. 26 ss. 360 Già nella Lettera circolare per aiutare le Conferenze Episcopali nel preparare Linee guida per il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede il 3 maggio 2011 era contenuta la seguente indicazione: «L’abuso sessuale di minori non è solo un delitto canonico, ma anche un crimine perseguito dall’autorità civile. Sebbene i rapporti con le autorità civili differiscano nei diversi paesi, tuttavia è importante cooperare con esse nell’ambito delle rispettive competenze. In particolare, va sempre dato seguito alle prescrizioni delle leggi civili per quanto riguarda il deferimento dei crimini alle autorità preposte, senza pregiudicare il foro interno sacramentale»: il corsivo è nostro. 361 Ed anche il diritto italiano: A. Licastro, Il whistleblowing e la denuncia degli abusi sessuali a danno dei minori nella Chiesa, cit., p. 137, rileva come problematica emergente «il potenziale conflitto tra la scelta del sacerdote di informare l’autorità giudiziaria e il contrario dovere di conservare il segreto sul medesimo fatto di cui egli sia venuto a conoscenza “per ragione” del proprio “stato”».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 invero, quasi come best practices, all’imitazione delle Chiese particolari del mondo -, disponenti un’obbligazione morale di segnalazione per chi abbia notizia di abusi, si è infatti tematizzato proprio questo snodo. Premesso anche quanto ammonisce in via generale, nel contesto dell’ottavo comandamento, il n. 2491 del Catechismo della Chiesa cattolica - e dopo aver rammentato la sacertà e l’inviolabilità del segreto della confessione ribadito nel numero anteriore362 -, secondo il quale «I segreti professionali - di cui sono in possesso, per esempio, uomini politici, militari, medici e giuristi - o le confidenze fatte sotto il sigillo del segreto, devono essere serbati, tranne i casi eccezionali in cui la custodia del segreto dovesse causare a chi li confida, a chi ne viene messo a parte, o a terzi danni molto gravi ed evitabili soltanto mediante la divulgazione della verità. Le informazioni private dannose per altri, anche se non sono state confidate sotto il sigillo del segreto, non devono essere divulgate senza un motivo grave e proporzionato», viene perorata l’assunzione di un atteggiamento assai guardingo nella segnalazione, proprio per rispetto al segreto. Si distingue dunque la fattispecie che «directamente la víctima lo revele a un tercero (sacerdote, abogado, psicólogo, educadores, familiar cercano) con ocasión de solicitar un consejo o ayuda estrictamente profesional. Nos parece que a estas personas se les debe respetar su secreto profesional y no deberían denunciar estos delitos, a no ser que urja un daño gravísimo al bien público»363; ma anche laddove la notizia

362 Il n. 2490 del Catechismo della Chiesa cattolica, cit., recita: «Il segreto del sacramento della Riconciliazione è sacro, e non può essere violato per nessun motivo. “Il sigillo sacramentale è inviolabile; pertanto non è assolutamente lecito al confessore tradire anche solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo e per qualsiasi causa”». Il richiamo è al can. 983 § 1 del Codex Iuris Canonici. Cfr. anche il n. 1467: «Data la delicatezza e la grandezza di questo ministero e il rispetto dovuto alle persone, la Chiesa dichiara che ogni sacerdote che ascolta le confessioni è obbligato, sotto pene molto severe, a mantenere un segreto assoluto riguardo ai peccati che i suoi penitenti gli hanno confessato. Non gli è lecito parlare neppure di quanto viene a conoscere, attraverso la confessione, della vita dei penitenti. Questo segreto, che non ammette eccezioni, si chiama il “sigillo sacramentale”, poiché ciò che il penitente ha manifestato al sacerdote rimane “sigillato” dal sacramento». 363 G. Núñez, Nueva regulación para la protección de menores y personas vulnerables en el Estado de la Ciudad del Vaticano, cit., p. 344, che prosegue: «Estas personas, además de escucharle, acompañarle, etc., deberían valorar las circunstancias que conocen (gravedad de los hechos, reiteración, etc.) y la personalidad de la víctima y, si lo ve oportuno: /- si todavía es menor de edad, informar a sus padres o tutores de la información que ha recibido, con el fin de que sean ellos quienes afronten la situación; /- si es mayor de edad, aconsejar o no a la víctima que directamente informe y denuncie

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sia appresa non dalla vittima ma da terzi o indirettamente si raccomanda con oculatezza: «Si se tratara de un sacerdote en el ejercicio del acompañamiento espiritual (o en ejercicio de la abogacía o medicina), opinamos que no sería oportuno que denuncie directamente, y que lo mejor sería, en su caso, recomendar a la persona informante que lo haga. Sugerimos esta solución por dos motivos: estas personas (sacerdote, abogado, etc.) serían testigos muy alejados de las circunstancias de los hechos; y por la importancia de respetar al máximo la confidencialidad de estas personas en el ejercicio de su profesión»364. È chiaro lo sforzo prodigato affinché il segreto, segnatamente quello ministeriale, sia salvato; e senza che questo pregiudichi la tensione, senza cedimenti, verso la ricerca della verità e la punizione dei colpevoli nella giustizia: non affatto nell’‘incomunicabilità’ ma nella ‘permeabilità’ tra ordinamento canonico e ordinamenti statuali365. Ritornando, pertanto, ancora una volta, all’esenzione dal dovere della testimonianza accordata dalle leges civiles ed invocabile dall’‘ecclesiastico’, per stare alla nomenclatura dell’Accordo di Villa Madama, è inconfutabile - come sopra accennato - che la coscienza di quest’ultimo, dinanzi alle evoluzioni della normativa che possiamo onnicomprensivamente definire ecclesiale, potrebbe restare frastornata e spiazzata da questo coacervo di obbligazioni canoniche, giuridiche o anche solo morali, non sempre conciliabili tra loro. Un autorevole esperto di diritto penale canonico ha commentato con riferimento al Vos estis lux mundi: «Mi sembra altamente pericoloso che in una materia tanto importante come è l’ambito della coscienza della persona, venga lasciato alla discrezionalità del direttore spirituale il presentare o meno la denuncia. Risulta evidente che si renda necessario un intervento

el caso ante la autoridad competente eclesiástica. Puede suceder que la víctima no se vea capaz y prefiera que sea el sacerdote, abogado o familiar quien realice la denuncia, para lo que no habría inconveniente, habida cuenta que en su momento las leyes procesales sobre la solicitación en confesión preveían esta posibilidad». 364 G. Núñez, Nueva regulación para la protección de menores y personas vulnerables en el Estado de la Ciudad del Vaticano, cit., p. 345. 365 Cfr. le considerazioni di C. Cardia, Prefazione, in M. Carnì, La responsabilità civile della diocesi per i delitti commessi dai presbiteri. Profili canonistici e di diritto ecclesiastico, Torino 2019, pp. XIV-XV.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dell’autorità per chiarire una questione tanto importante»366. È invero apparsa sulla pagina web del Pontificio Consiglio de legum textibus una risposta che però esclude recisamente (e troppo telegraficamente) dubbi interpretativi367: ma non attenua, a nostro avviso, l’impasse. La situazione

366 Analizzando in particolare l’art. 3 del Motu Proprio Vos estis lux mundi D.G. Astigueta, Lettura di Vos estis lux mundi, cit., p. 534 ss., segnala infatti un’incoerenza normativa; questo il suo discorso per esteso: «Il problema si pone quando si parla di sacro ministero, perché questo include anche la direzione spirituale. Inoltre il segreto della direzione spirituale è un segreto d’ufficio. La domanda allora è se anche ciò che si conosce in quest’ambito viene protetto dall’esonero della denuncia. Sembra prodursi qui una contraddizione all’interno della stessa norma giacché il direttore spirituale d’una parte viene esonerato e dall’altra gli si dà la possibilità di presentare la segnalazione. […] /Dal testo della norma non sembra che si possa ricavare una soluzione chiara. Da una parte il segreto di direzione spirituale sembra essere incluso nel sacro ministero, dall’altra sembra che sia doveroso informare del fatto l’autorità. Mi sembra altamente pericoloso che in una materia tanto importante come è l’ambito della coscienza della persona, venga lasciato alla discrezionalità del direttore spirituale il presentare o meno la denuncia. Risulta evidente che si renda necessario un intervento dell’autorità per chiarire una questione tanto importante»; e più oltre ribadisce: «rileviamo l’imprecisione terminologica riguardante la possibilità o meno che il direttore spirituale debba o possa segnalare ciò che ha ricevuto nella direzione spirituale. Crediamo, dato il pericolo di danno in questa materia, che sia urgente un chiarimento da parte del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi» (ivi, p. 549). Addita difficoltà anche J.L. Sánchez-Girón Renedo, El «motu proprio» «Vos estis lux mundi»: contenidos y relación con otras normas del derecho canónico vigente, cit., p. 695 ss., p. 699. 367 Questo il testo della risposta «Questioni Circa l’art. 3 § 1 del mp. Vos estis lux mundi» - datata 3 settembre 2019, Prot. N. 16689/2019 - recentemente comparsa all’indirizzo www.delegumtextibus.va in una nuova sezione intitolata «Questioni varie di Diritto»: «Reverendo Professore /riscontro la Sua lettera nella quale sottopone a questo Pontificio Consiglio di valutare l’eventualità di un intervento di chiarimento in merito ad una difficoltà di interpretazione del recente M.p. Vos estis lux mundi. / A suo giudizio, la difficoltà nascerebbe dal combinato disposto tra quanto affermato nell’art. 3 § 1 del testo citato […], e quanto sancito nel successivo art. 4 § 1 […]. /In effetti, come Ella stessa osserva, vi è una differenza tra il segreto cui sono tenuti i chierici per quanto fu loro manifestato in ragione del sacro ministero e il segreto d’ufficio cui sono tenuti tra l’altro i pubblici magistrati, i medici, le ostetriche, gli avvocati, i notai. Le motivazioni sono di carattere teologico e giuridiche. /E tale differenza è chiaramente affermata dal Legislatore nel citato canone 1548 al comma 1 del secondo paragrafo, non solo nella formulazione del testo ma anche nella forma redazionale, distinguendo le due fattispecie per mezzo di un punto e virgola. /Il canone non ha dato né dà luogo a dubbi interpretativi e il Motu proprio non modifica né costituisce interpretazione autentica del testo codiciale, pertanto le disposizioni di Vos estis lux mundi saranno interpretate e applicate alla luce del Codice. /Quanto sopra esposto trova autorevole conferma nella recente Nota della Penitenzieria Apostolica “Sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale” del 29 giugno 2019». La firma è del Presidente Filippo Iannone.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 d’altro canto si aggrava368 se il chierico deve fronteggiare la percezione sfocata e distorta di chi - talora gli stessi magistrati statuali - non comprende le dinamiche interne dello ius Ecclesiae o addirittura le contesta. I chierici e i religiosi, i vescovi e i superiori rischiano quindi di rimanere imprigionati nelle gabbie strette di precetti tra loro apparentemente in discrasia che, da una parte, impongono o esortano al segreto e, dall’altra, costringono o spingono alla denuncia: sottraendo solo loro, si badi bene, alla regola ordinaria. A riprova, se nella fattispecie giunta al vaglio della Corte di Cassazione italiana sopra recensita fosse ipoteticamente stato implicato quale

368 A. Licastro, Il whistleblowing e la denuncia degli abusi sessuali a danno dei minori nella Chiesa, cit., pp. 137-138, considera invece la problematica dal punto di vista dell’obbligo di segretezza che grava sul sacerdote ai sensi dell’art. 622 C.P., in una comparazione con la normativa italiana sul whistleblowing (legge n. 179 del 30 novembre 2017): «È risaputo che, con l’elemento della “giusta causa” di rivelazione, si introduce la necessità di un giudizio di valore destinato a dare prevalenza, nei singoli casi, sull’interesse alla conservazione del segreto (ossia sul bene che la rivelazione rischierebbe di compromettere) ad un contrario e superiore interesse, il cui soddisfacimento non può prescindere dalla comunicazione ad altri della notizia, legittimandosi così il venir meno dell’impegno a tenerla sottratta alla conoscenza da parte di terzi. /Il legislatore del 2017 ha ora “tipizzato” una particolare ipotesi di “giusta causa” di rivelazione destinata ad operare non per qualsiasi ipotesi di denuncia di un fatto di reato, da chiunque presentata, ma solo in presenza di fatti lesivi dell’interesse all’“integrità” delle amministrazioni, segnalati dai soggetti tutelati quali whistleblower; questi fatti sono considerati particolarmente gravi e rispetto ad essi deve, quindi, cedere l’interesse alla conservazione del segreto. /Non può negarsi che, sebbene ovviamente resti fuori dalla sfera applicativa della nuova previsione legale e debba, quindi, ritenersi, pur sempre, questione rimessa all’apprezzamento del giudice, condotto caso per caso, la riconducibilità alla peculiare scriminante della “giusta causa”, della denuncia, da parte di un sacerdote, di un episodio di abuso su minori, commesso in ambiente ecclesiale, trova ora un certo (e per quanto indiretto) sostegno normativo nella disposizione richiamata. Conclusione cui si deve giungere a maggior ragione ove si consideri l’obbligo “morale” di rivelazione che si è detto gravare sull’ecclesiastico a norma del diritto canonico». E comunque più oltre conclude: stante l’inesistenza nell’ordinamento italiano di obblighi di denuncia di sospetti casi di abusi sessuali ai danni di minori, «qualora il sacerdote (fuori dai casi in cui per le norme confessionali il segreto resta assolutamente intangibile e, piuttosto, agendo magari in adempimento dell’obbligo “morale” cui si è prima accennato) denunci il fatto all’autorità giudiziaria statale (e si è visto che la sopra richiamata tipizzazione di “giusta causa” può costituire un argomento indiretto per ritenere escluso l’obbligo di segretezza, incentivando, di fatto, la denuncia, anche nel caso in cui la notizia sia stata acquisita in via confidenziale), potrebbe poi incontrare serie difficoltà ad invocare le speciali norme di esenzione dai poteri istruttori del giudice che trovano pur sempre fondamento nella tutela del segreto professionale (ad es. artt. 200 e 256 c.p.p.)» (ivi, pp. 140-141).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sospetto reo un chierico o un religioso - categorie evidentemente oggi ‘presunte colpevoli’ piuttosto che innocenti369 e considerate ‘a rischio’ (quasi con l’avallo del diritto canonico), dunque deprivate di protezione, o comunque con una protezione dimidiata -, il sacerdote e la suora avrebbero avuto, secondo il diritto canonico in vigore dal 1° giugno 2019, l’obbligo di ‘segnalare’ quanto appreso ad una delle autorità ecclesiastiche identificate: sempre salvo i casi previsti dal can. 1548 § 2, ma sarebbe stato ostico rinvenirli. E se si fosse trattato di un vescovo o un superiore si sarebbe eventualmente configurato l’obbligo (morale) di trasmettere un esposto all’autorità giudiziaria dello Stato. Nonostante questa disciplina e l’obbligo di segnalazione siano confinati all’alveo puramente canonistico, per quelle interconnessioni non stornabili e sulle quali già ci siamo dilungati, essi non possono che depotenziare e logorare, anzi possono finire per svuotare di contenuto quell’apparato, invero sempre più esile e traballante, di garanzie apprestate dai diritti secolari al segreto ministeriale; tra l’altro - sia detto per incidens - nelle norme scolpite per la Città del Vaticano la frontiera tra ordine ‘statuale’ e ordine ‘religioso’ si assottiglia sempre più insidiosamente. Certo il sigillo sacramentale deve essere sempre preservato: ma siamo sicuri che i poteri secolari sappiano e vogliano preservarlo? Quanto abbiamo riportato in precedenza fa crollare ogni illusione, facendo presagire che pure quest’ultimo non resisterà alfine all’‘assedio’.

369 E nonostante le proclamazioni: cfr. l’art. 12 § 7 del Motu Proprio Vos estis lux mundi, 7 maggio 2019, p. 10. Sull’indebolimento del principio della presunzione di innocenza nell’ambito ecclesiale, specie proprio nei procedimenti per abuso sessuale, v., per tutti e recentemente (peraltro con indicazione di ulteriore letteratura), F.J. Campos Martínez, Presunción de inocencia e investigación previa canónica. Pautas para un procedimiento justo en denuncia por abuso sexual, cit., pp. 471-516, il quale scrive: «La protección del menor requiere una actuación contundente y decidida por parte de la autoridad eclesial, siempre será poco lo que se haga en este sentido, pero tampoco podemos hacerle el juego a quien no valora ni reconoce el esfuerzo realizado, y mucho menos, cercenar o violentar derechos fundamentales de los miembros de la Iglesia, como este de la presunción de inocencia»; e rileva anche: «Hoy en día, en los casos de denuncias a clérigos por supuestos abusos a menores, hay que reconocer que más que un derecho a la presunción de inocencia, se ha instalado en nuestra sociedad una desproporcionada e injusta presunción de culpabilidad. […] Este clima de sospecha generalizada, que considera al clérigo como un potencial pederasta y la institución eclesial como una encubridora negligente, es tan injusto como dañino» (ivi, pp. 483- 485).

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Proprio per questi esiti che non ci peritiamo di ritenere funesti, ci auguriamo che nel triennio di approvazione ad experimentum delle norme370 - presentanti per il resto anche precetti eccellenti - questi nodi vengano al pettine, inducendo il legislatore supremo ad alcune modifiche ed aggiustamenti del tiro, bastando, invero, anche uno spostamento di accenti. E crediamo siano state proprio queste stesse apprensioni a stimolare la divulgazione, e non a caso il 1° luglio 2019, da parte della Penitenzieria Apostolica, di una Nota sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale. Ciò è infatti avvenuto a ridosso della promulgazione della legislazione su cui ci siamo intrattenuti, colmando una lacuna che poteva divenire esiziale: nonché al sopraggiungere di ulteriori affondi al segreto confessionale viepiù bellicosi in vari continenti371, oltre che di ‘incidenti’ incresciosi nella nostra stessa

370 Così prevede in chiusura il citato Motu Proprio Vos estis lux mundi, 7 maggio 2019, p. 10. Condividiamo peraltro le considerazioni sulla «influencia negativa que tiene este modo de proceder en la certeza del derecho» di R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, cit., p. 850: «Por eso es importante que el legislador no dicte leyes presionado por la opinión del momento, en especial en materia sensible, porque puede faltar la maduración necesaria para dar una solución justa a los problemas que se plantean, pero la necesidad de una respuesta pronta casi no tiene más remedio que recurrir al uso del ad experimentum, consciente de que la precipitación impide una mayor ponderación de la situación» (ivi, p. 851). 371 Riferisce S. Cernuzio, Il Vaticano: no a leggi che violano il segreto confessionale, pubblicato online il 1° luglio 2019 sul sito Vatican Insider News: «La nota vaticana arriva dopo che, nei giorni scorsi, è stato approvato in Cile un disegno di legge che vuole imporre a tutte le autorità ecclesiastiche di denunciare alla giustizia civile qualsiasi reato contro minori o adulti vulnerabili. La legge obbligherebbe quindi i sacerdoti a denunciare anche i casi di cui sono venuti a conoscenza in confessione, violando così il sigillo sacramentale. Una proposta presentata sull’onda degli scandali degli abusi sessuali che hanno travolto il Paese sudamericano negli anni e che hanno messo in ginocchio intere diocesi. /Già lo scorso anno in Australia si era posto lo stesso “problema”: vescovi e religiosi australiani avevano infatti alzato la voce contro la proposta di abolire il sigillo sacramentale della Confessione avanzata dalla Royal Commission, la commissione d’inchiesta sui casi di abusi, che aveva pubblicato un documento in 122 punti per riformare il sistema penale al fine di tutelare meglio le vittime di abusi, specie minori. La Chiesa del nuovo continente aveva dato l’ok a tutte le raccomandazioni della Commissione, tranne a quella riguardante appunto la violazione del segreto confessionale che ha creato un acceso dibattito e che rimane un nodo ancora da sciogliere nel Paese». Sulle ragioni alla base della pubblicazione della Nota della Penitenzieria v. J. Salinas Mengual, La tutela del secreto de confesión en el contexto del derecho comparado y de la nota de la Penitenciaría Apostólica sobre el fuero interno y la inviolabilidad del sigilo sacramental, cit., p. 19.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 penisola372. Poche pagine che, con fermezza, richiamano, ai fedeli ed anche ai non fedeli, alcuni pilastri della dottrina cattolica, dissipando le incertezze373. Il dicastero, nel preambolo, dipinge un ritratto del mondo contemporaneo per nulla edulcorato. In esso, marchiato da un’impressionante «“involuzione” culturale e morale», imperversa una «ipertrofia comunicativa [che] pare volgersi contro la verità e, conseguentemente, contro Dio e contro l’uomo», e a questa «“bramosia” d’informazioni, quasi prescindendo dalla loro reale attendibilità e opportunità […], che può assumere i tratti inquietanti della morbosità, non è immune, purtroppo, la stessa compagine ecclesiale»: così «Invocando di fatto, quale ultimo tribunale, il giudizio dell’opinione pubblica, troppo spesso sono rese note informazioni di ogni genere, attinenti anche alle sfere più private e riservate, che inevitabilmente toccano la vita ecclesiale». Ma, lamenta amaramente e senza addolcimenti la Penitenzieria, c’è di più: «In tale contesto, sembra affermarsi un certo preoccupante “pregiudizio negativo” nei confronti della Chiesa Cattolica, la cui esistenza è culturalmente presentata e socialmente ri-compresa, da un lato, alla luce delle tensioni

372 Ha destato un certo scalpore in Italia, nel 2019, la vicenda del vescovo di Carpi indagato per una vicenda di ‘voto di scambio’ con un politico locale e per la cui posizione è stata immediatamente disposta l’archiviazione (richiesta dallo stesso organo inquirente e avallata senza riserva dal giudice per le indagini preliminari per l’infondatezza delle accuse): tuttavia le sue conversazioni private sono state a lungo intercettate per ordine dell’autorità giudiziaria e poi divulgate e usate in una campagna mediatica per delegittimarlo, fino ad indurlo alle dimissioni. Si sono in specie pubblicati su giornali - per quanto indirettamente - i contenuti di telefonate legate al ministero sacerdotale ed episcopale del vescovo. 373 Riferisce M. Faggioli, Un nuovo giurisdizionalismo? Reso noto il Rapporto finale della Royal Commission, in Il Regno. Attualità, LXII (2018), p. 13, che il Rapporto finale della Royal Commission australiana sulle risposte istituzionali alle violenze sessuali su minori faceva «leva sulla mancanza di chiarezza, evidente durante le indagini della Commissione, all’interno della Chiesa stessa circa il rapporto tra confessione sacramentale e l’ottenimento di informazioni che portino alla denuncia delle violenze: esso ricorda che “durante le nostre audizioni pubbliche sulla Chiesa cattolica, è emerso che tra gli stessi vescovi e canonisti non era chiaro se le informazioni ricevute da un bambino vittima di violenze sessuali durante il sacramento della riconciliazione sarebbero state coperte dal sigillo della confessione, e sul fatto che l’assoluzione potesse e dovesse essere negata a una persona che ha confessato di aver commesso violenze sessuali su minori, fino a quando non si presenti alle autorità civili”. Il Rapporto raccomanda ai vescovi australiani di chiedere chiarimenti su queste questioni alla Santa Sede e di rendere pubbliche le istruzioni ricevute (Raccomandazione 16.26)».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che possono verificarsi all’interno della stessa gerarchia e, dall’altro, partendo dai recenti scandali di abusi, esecrabilmente perpetrati da taluni membri del clero. Questo pregiudizio, dimentico della vera natura della Chiesa, della sua autentica storia e della reale, benefica incidenza che essa ha sempre avuto ed ha nella vita degli uomini, si traduce talvolta nell’ingiustificabile “pretesa” che la Chiesa stessa, in talune materie, giunga a conformare il proprio ordinamento giuridico agli ordinamenti civili degli Stati nei quali si trova a vivere, quale unica possibile “garanzia di correttezza e rettitudine”»374. Per questo l’antichissimo ‘tribunale della coscienza’375 ha ritenuto improrogabile «ribadire l’importanza e favorire una migliore comprensione di quei concetti, propri della comunicazione ecclesiale e sociale, che oggi sembrano diventati più estranei all’opinione pubblica e talvolta agli stessi ordinamenti giuridici civili»376. Si ripercorrono quindi, sia pur riassuntivamente, fondamenti, natura e disciplina del sigillo sacramentale e della riservatezza ingenita al foro interno extra- sacramentale, distinguendoli da altri segreti professionali o dai limiti propri di altre comunicazioni. Il dicastero soprattutto, come ovvio, si polarizza sul sacramento della riconciliazione, rimarcando che «L’inviolabile segretezza della Confessione proviene direttamente dal diritto divino rivelato e affonda le radici nella natura stessa del sacramento, al punto da non ammettere eccezione alcuna nell’ambito ecclesiale, né, tantomeno, in quello civile», e che «Ogni azione politica o iniziativa legislativa tesa a “forzare” l’inviolabilità del sigillo sacramentale costituirebbe un’inaccettabile offesa verso la libertas Ecclesiae, che non riceve la propria legittimazione dai singoli Stati, ma da Dio; costituirebbe altresì una violazione della libertà religiosa, giuridicamente fondante ogni altra libertà, compresa la libertà di coscienza dei singoli cittadini, sia penitenti sia confessori. Violare il sigillo equivarrebbe a violare il povero

374 Premessa della Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., p. 7. 375 V. J. Ickx, “Ipsa vero officii maioris Poenitentiarii institutio non reperitur”? La nascita di un tribunale della coscienza, in M. Sodi - J. Ickx (a cura di), La Penitenzieria Apostolica e il sacramento della penitenza. Percorsi storici-giuridici-teologici e prospettive pastorali, cit., p. 19 ss. 376 Premessa della Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., p. 7.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che è nel peccatore»377; sulla scia, del resto, di quanto il romano Pontefice regnante - non meno delle catechesi di quelli che l’hanno preceduto - ha costantemente insegnato378. Ma non si lesinano indicazioni chiare, come già riportato, su altri aspetti della vita ecclesiale che esigono riservatezza per essere svolti a giovamento dei fedeli. Si tratta ora di vedere se tale monito rimarrà vox clamantis in deserto o se verrà in qualche misura recepito.

11. Le ragioni e le strategie della tutela: dalla specificità del bene canonisticamente presidiato all’invocazione del regime generalmente riconosciuto, dalla rivendicazione (massima e desiderabile) della differenza alla pretesa (minima ma irrinunciabile) all’uguaglianza. L’‘ultima trincea’

Abbiamo riscontrato che due istanze - come due facce di una stessa medaglia - si intrecciano inscindibilmente nel cementarsi a scudo del segreto ministeriale: quella ‘privata’, soggettiva, individuale e personale e quella invece che potremmo appellare ‘pubblica’, istituzionale379, collettiva e comunitaria380, le quali si pongono in una persistente

377 Punto 1 della Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., p. 7. 378 Cfr., ad esempio, il brano citato dallo stesso dicastero: «La Riconciliazione stessa è un bene che la sapienza della Chiesa ha sempre salvaguardato con tutta la propria forza morale e giuridica con il sigillo sacramentale. Esso, anche se non sempre compreso dalla mentalità moderna, è indispensabile per la santità del sacramento e per la libertà di coscienza del penitente; il quale deve essere certo, in qualunque momento, che il colloquio sacramentale resterà nel segreto della confessione, tra la propria coscienza che si apre alla grazia di Dio, e la mediazione necessaria del sacerdote. Il sigillo sacramentale è indispensabile e nessun potere umano ha giurisdizione, né può rivendicarla, su di esso» (Francesco, Discorso ai partecipanti al XXX Corso sul foro interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, 29 marzo 2019, in Communicationes, LI/1 [2019], p. 74, ma consultabile anche online all’indirizzo www.vatican.va). 379 Cfr. P.O. Marazzato, Il «sigillum sacramentale» e la giurisdizione penale, cit., pp. 34-87, che rifletteva ampiamente sulla compresenza e sull’intreccio tra interessi personali e interesse istituzionale nella normativa sia canonica sia secolare in materia (anche se con considerazioni - segnatamente quelle canonistiche - non sempre condivisibili). 380 Su questo intrecciarsi di ‘riflessi privatistici’ e di ‘riflessi pubblicistici’ v. anche quanto notavamo in G. Boni, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica e poteri autoritativi della magistratura italiana, cit., p. 37 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 relazione di bidirezionalità tra loro. E questo sia nell’ordinamento canonico sia negli (in non pochi) ordinamenti secolari, i quali vi pervengono attraverso tragitti non identici ma in qualche modo convergenti: consolidati, nella nostra normativa nazionale, dalla previsione concordataria. L’istanza che abbiamo appellato ‘pubblica’ - con tutte le precisazioni anticipate381 - forse un tempo, almeno in Italia, era concepita in senso prettamente ‘verticistico’, per così dire, in prevalente omaggio alla Chiesa cattolica quale complessione gerarchica: ad essa poi pressoché esclusivamente riservata con sperequazione nei riguardi delle altre confessioni religiose. Una visione tuttavia, quella assorbita dalla reverenza mutuamente dovuta nei rapporti apicali tra ‘apparati di governo’, che si è andata sempre più appannando fino a svanire per essere sostituita da altra antistante e che potrebbe definirsi ‘ascensionale’: scaturente cioè dal basso della ‘piramide’, dai cives-fideles, e al contempo intesa a soddisfare primariamente ciò che questa ‘base’ rivendica e su cui vanta legittime aspettative, sia pure con riferimento alla sua appartenenza societaria. D’altronde anche ecclesialmente si sono afferrati meglio i contenuti della tutela medesima, sulla scia, qui come altrove, del Concilio Vaticano II. Tale assise ha pungolato con impeto a farsi carico prima di tutto delle esigenze dei christifideles, elevati a protagonisti del diritto canonico, anche e proprio quanto ai sacramenti382: i quali sono per

381 Si aggiungano le interessanti considerazioni che già svolgeva R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 57 ss., in particolare sull’intimità come interesse privato e come interesse pubblico. 382 Cfr. A. D’Auria, I doveri e i diritti del fedele rispetto alla confessione, cit., pp. 62-63: «esiste un diritto a ricevere i sacramenti? Di certo non possiamo affermare che esista il diritto a ricevere la Grazia di Dio, altrimenti verrebbe vanificato ogni aspetto di gratuità della salvezza e il darsi a noi di Cristo sarebbe qualcosa di esigito e doveroso per il fedele, facendo ciò svanire il carattere di puro dono dell’evento salvifico. /Al contempo va affermato però che esiste il dovere per la Chiesa di esercitare la sua funzione ministeriale ovvero di elargire ai fedeli quei beni spirituali che ha ricevuto dal suo divin Fondatore per il raggiungimento dei suoi scopi; beni che sono sinteticamente sussumibili nella realtà della Sacra Potestas. La Chiesa tradirebbe se stessa e non eserciterebbe la sua ministerialità se non mettesse continuamente a disposizione dei fedeli tali beni che ha ricevuto dal Signore. /Quindi se non possiamo affermare che esiste un diritto a ricevere la Grazia del Signore ci sentiamo però di sostenere che esiste un vero e proprio diritto a ricevere, attraverso la mediazione ecclesiale, i sacramenti e i beni salvifici a favore di colui che di tale grazia è già stato investito nell’incontro con Cristo, ovvero il fedele battezzato. /Ebbene riteniamo che tutta questa strutturazione di diritti e doveri abbia come chiave di lettura la suprema esigenza che la Chiesa elargisca

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 antonomasia bonum publicum, ma allo stesso tempo e senza alcuno iato o aporia diritto dei fedeli (can. 213)383, e pure in rapporto a tutto ciò che involve la loro proiezione escatologica alla salvezza eterna. Diritti che mai possono, peraltro, essere intesi, nella Chiesa, come noto, solipsisticamente ed egocentricamente, ma solo sussistono nella communio, in coerenza allo stesso fine ultimo e in solidarietà con tutti i membri del popolo di Dio. Contemporaneamente negli ordinamenti statali, e per moto proprio, si è rinforzata l’esaltazione della salvaguardia delle prerogative della persona: qui semmai il pericolo è quello di una sproporzionata, e dunque censurabile, esaltazione dell’esigenza meramente del singolo, che può divenire puro individualismo e soggettivismo privati di qualsiasi consistenza comunitaria (lo abbiamo intravisto anche nella pronuncia della Cassazione sopra illustrata). Pericolo che, invece, non dovrebbe insorgere nel diritto canonico rettamente impostato: a questo proposito si tratta di veicolare, in un fertile scambio tra ordinamenti, la convinzione, ben acquisita e cesellata nella Chiesa, che, segnatamente quando si toccano diritti fondamentali, il bene di uno non può dissociarsi da quello di tutti, e che il cedimento per rinuncia di uno non può ripercuotersi nella compromissione dell’interesse potenziale di altri. E tuttavia abbiamo comunque riscontrato come, per vie proprie, anche i diritti secolari approdino a soluzioni certo non identiche ma approssimabili: ci siamo infatti soffermati in particolare sulla dottrina italiana che, illustrando la ratio della tutela del segreto

questi beni e che il fedele li possa ottenere. In particolar modo la Chiesa è interessata a che l’accesso alla confessione a favore del fedele sia il più possibile facilitato. In tal senso vanno interpretate tutte le strutture giuridiche predisposte dall’ordinamento, tese a tutelare il diritto alla riservatezza e la buona fama del penitente; sarebbe infatti una grave deterrenza e scoraggiamento per il fedele a ricorrere al sacramento della penitenza il sapere che le notizie comunicate in confessione possano essere a vario titolo divulgate» (l’Autore, tra l’altro, espone il caso dell’eventuale impossibilità morale di confessarsi quando vi sia il grave pericolo della violazione del sigillo sacramentale: v. ivi, p. 4 ss.). 383 Ancora sul diritto ai sacramenti, con particolare riguardo a quello principalmente in questione, v., per tutti, G. Incitti, Il Confessore e il sacramento della Riconciliazione. Doveri e diritti dei penitenti, cit., p. 1 ss., il quale si sofferma anche sul «diritto del fedele ad essere ascoltato in confessione». Altrove lo stesso Autore afferma: «Certamente la recuperata difesa della dignità della persona umana ha aiutato a rivalutare nella confessione il bene della persona che forse nella storia veniva sacrificato a volte a beneficio di altri fini» (Id., Sigillo, segreto, riservatezza…ambiti di responsabilità e soggetti coinvolti, cit., p. 11).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 professionale ex art. 200 del Codice di Procedura Penale, la svincola dalle mere spettanze del confidente volta a volta implicato così come del depositario dell’informazione riservata, riportandola ad una dimensione più ampia e generale, appunto ‘pubblicistica’384. Così lo scongiurare il tradimento della fiducia riposta in alcuni soggetti sì che in futuro nessuno possa dubitarne diviene perno e filo conduttore conducente al nerbo comune a tutte le prescrizioni sul segreto assemblate nello stesso articolo del Codice di rito italiano. Una fiducia che è indispensabile in vista dell’attuazione del diritto inviolabile consacrato nella Carta costituzionale volta a volta rispettivamente in gioco: che sia il diritto di difesa (art. 24 Cost.), o il diritto alla salute fisica o psichica (art. 32 Cost.), ovvero il diritto alla professione religiosa (artt. 19 e 8 Cost.) - ma anche, ad esempio per i giornalisti e gli editori, il diritto alla manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.)385 -, certamente di quel soggetto che, nella contingenza specifica, ricorre all’avvocato, al medico, al ministro di culto…, ma anche di tutti coloro i quali dovranno o vorranno ricorrervi; bene di uno e bene comune. Pertanto, il legislatore italiano «ha disciplinato la materia cercando di individuare un punto di equilibrio tra i due interessi: da una parte, è necessario perseguire lo scopo del processo, quello di porre in essere un completo accertamento della verità e, dall’altra, occorre evitare che la divulgazione di fatti e notizie connessi a rapporti di tipo personale, professionale o istituzionale, finisca per trasformarsi in una indebita lesione dei diritti e degli interessi che l’ordinamento riconosce proprio a quei rapporti. /Se così non fosse, alcune professioni o attività, al cui esercizio sono sottesi rilevanti valori di rango costituzionale, non potrebbero essere utilmente svolte nell’interesse sociale»386.

384 Ci riferiamo alla più volte citata monografia di A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, ed agli altri Autori cui si rimanda. 385 Note sono le tendenze, in Europa, ad estendere (pure, ad esempio, agli atti preparatori alla pubblicazione, come le attività di ricerca e di indagine) e rafforzare incisivamente il segreto dei giornalisti. V., per tutti, i riferimenti di A. Balsamo, Sub art. 200, in Id. et al. (a cura di), Codice di Procedura Penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, III, Le prove, Libro III, Artt. 187-271, Nuova ed., Milano 2013, p. 287 ss. (peraltro per un caso più recente che riguardava i risultati delle indagini svolte da un giornalista il quale aveva realizzato un reportage sulla pedofilia v. Id., Sub art. 200 [2017], cit., p. 1466). 386 A. Zampaglione, Segreto ministeriale e confessioni religiose prive di intesa (nota redazionale a trib. Teramo, sez. pen. I, 7 marzo 2016, n. 2436), cit., p. 620.

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E la libertà religiosa (e l’autonomia confessionale387) non può certo essere da meno degli altri valori costituzionalmente presidiati388: forse non c’è bisogno di scomodare Francesco Ruffini389 per rimembrare la sua fondamentalità al servizio della dignità della persona, oltre che quale ‘termometro’ infallibile per misurare la democraticità di un ordinamento. Irrefutabilmente, poi, nel mettere a fuoco la disciplina dei segreti cosiddetti de iure occorre un ‘processo’ - ora atecnicamente inteso - al fine di stabilire an, quando, quantum e quomodo la libertà e il dovere di informazione possano essere ‘contenuti’ per far posto ad altro interesse costituzionalmente protetto390. Un processo secundum Constitutionem non semplice, sul quale dottrina e giurisprudenza si sono vivacemente

387 Cfr. A. Zampaglione, Segreto ministeriale e confessioni religiose prive di intesa (nota redazionale a trib. Teramo, sez. pen. I, 7 marzo 2016, n. 2436), cit., p. 624, che ribadisce: «A ben vedere, quindi, la tutela del segreto di cui il ministro è portatore si pone in stretta connessione con il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa che trova garanzia negli artt. 8 e 19 della Costituzione, dalla quale discende la vera ratio dell’istituto del segreto. È innegabile che anche l’interesse al buon andamento della amministrazione della giustizia abbia natura costituzionale, ma all’esito di un corretto bilanciamento degli interessi la tutela del segreto ministeriale è destinata a prevalere al punto da vedere scriminata ex art. 384, comma 2, c.p., la condotta reticente del teste legittimamente titolare di tale qualifica su fatti appresi ratione ministerii». Aggiungono G. Cavallo - V. Borghesani, I ministri di culto non possono essere puniti per avere rifiutato di rivelare informazioni di natura privata apprese durante lo svolgimento dei propri doveri spirituali, cit., pp. 8-9: «Giova evidenziare che la norma di cui all’art. 384 c.p. contempla un esimente, ovvero un elemento negativo del fatto reato e, al fine di assolvere tale onere probatorio, non è sufficiente limitarsi alla mera allegazione della sua esistenza, ma occorre anche l’indicazione di elementi specifici che pongano il giudice in condizione di rilevarne l’applicabilità. Di conseguenza il ministro di culto potrà efficacemente invocare la scriminante in parola solo nel momento in cui attesta la sua qualifica soggettiva e dimostra che le circostanze oggettive su cui è chiamato a deporre sono in diretta ed immediata connessione con le proprie funzioni da ministro di culto». Entrambi i saggi sono commenti alla sopra ricordata sentenza del Tribunale di Teramo n. 2436 del 2015. 388 Sui valori costituzionali coinvolti rinviamo ancora all’ampia esposizione di A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 28 ss. 389 V. F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea, Torino 1901, ripubblicato da Feltrinelli, Milano 1991. 390 Cfr., sul punto specifico, alcune considerazioni di A. Scalfati, Testimonianza e segreti nel processo penale (un’indagine su interessi in conflitto), in Rivista di diritto processuale, LIX (2004), pp. 1233- 1256, specialmente p. 1239 ss., il quale afferma nei rilievi finali: «In una società democratica, il continuo affinarsi delle libertà richiede di tener conto dei profili nuovi germogliati nella sfera giuridica della persona; non solo nel senso di valorizzare i diritti primari del contesto giudiziario, ma anche nell’ottica di non trascurare le posizioni individuali che si estrinsecano fuori dal processo e che, tuttavia, con le logiche del processo fanno i conti» (ivi, p. 1255).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sperimentate impiegando altresì il criterio - anch’esso tutt’altro che elementare o assiomatico - della ‘ragionevolezza’ nel contemperamento. Sia pur non potendo entrare ora in questo mare magnum391, crediamo si possa però convenire che sui capisaldi appena additati, e quindi sul rispetto del diritto dei fedeli di provvedere alla propria anima392- «in via diretta ed immediata» nel caso della fattispecie ora in esame393 -, il consenso sia ormai irreversibilmente coagulato. Ritorni indietro e ripensamenti su questi principi cardinali ormai consolidati sono impensabili, a costo di una regressione davvero sconcertante. Se il nostro riferimento è andato sinora precipuamente al diritto italiano, ci sembra però che siamo dinanzi a considerazioni di più vasto e globale spessore. Per questo, ponendosi idealmente al crocevia di queste linee orientative, diviene agevole preconizzare quali saranno i bastioni più compatti e solidi sui quali edificare la tutela delle esigenze di riservatezza che la libertà religiosa postula: la libertà religiosa non solo della Chiesa cattolica e dei suoi appartenenti, ma di tutti. A nostro modesto parere, infatti, non è savio arroccarsi fieramente nella rivendicazione di un segreto esclusivo della Chiesa cattolica, radicato nel suo patrimonio dogmatico ma del tutto assente, con tali inconfondibili caratteristiche, in quello delle altre confessioni religiose: a stento ‘dal di fuori’ compreso nella sua sostanza sacra ed anzi, a volte proprio per questo, ricusato. Certo, nello ius Ecclesiae, per quanto concerne specialmente il sigillum confessionis, i bona che il diritto canonico mira a guarnire di baluardi ed a promuovere sono ancorati al «grande mistero dell’Incarnazione e [al]l’essenza sacramentale della Chiesa e del sacerdozio ministeriale, per

391 V., per tutti, la sintesi di G. Pitruzzella, Segreto I) Profili costituzionali, cit., p. 3 ss., il quale tra l’altro rimanda all’abbondante dottrina in materia. 392 Sui principi costituzionali presidiati nel caso del segreto del ministro di culto v. ancora, ampiamente, A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 33 ss. 393 Così G. Casuscelli, Il caso del «calciatore pentito» ed il segreto confessionale, cit., pp. 1019-1020: «Chi si confida all’ecclesiastico non gli richiede il compimento di attività professionali per il soddisfacimento di un diritto a prestazioni a carattere religioso (come tale inesistente nell’ordinamento dello Stato), ma esercita il proprio diritto di libertà religiosa; e lo esercita non in via indiretta ed eventuale (come nel caso in cui sia portata a conoscenza del professionista una notizia riservata perché ritenuta necessaria od utile al fine di ottenere una migliore prestazione), ma in via diretta ed immediata. Non si tratta dunque di “diritti connessi”, ma di diritti che costituiscono l’oggetto primo, tipico dell’esercizio di una delle facoltà nelle quali consiste il diritto di libertà religiosa garantito dall’art. 19 della Costituzione».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 mezzo del quale Cristo Risorto viene incontro agli uomini, tocca sacramentalmente - cioè realmente - la loro vita e li salva»394. Del tutto confacentemente, quindi, la Penitenzieria Apostolica ‘rispolvera’ e quasi sillaba con vigore tali basamenti che potrebbero essersi annebbiati nella stessa percezione dei cattolici. Ma crediamo si debba con disincanto ammettere che i poteri civili saranno del tutto sordi a questi appelli: l’aderenza al diritto divino rivelato che il dicastero adduce stimiamo non possa che cadere nel vuoto al cospetto di ordinamenti secolari che ormai sobbalzano corrucciati alla sola menzione del diritto (divino) naturale. Del pari certamente si dovranno forse ‘addestrare’ i sacerdoti ad una resistenza fiera e strenua395, ma crediamo che le autorità giudiziarie ‘temporali’ non batteranno ciglio dinanzi ad un confessore che affronti irremovibilmente il carcere pur di non violare il sigillo e incorrere così nella pena, alquanto più temuta, della scomunica: sperare che si muti, per questo, atteggiamento ‘in foro Civitatis’ ci pare inseguire una vana chimera396. E anche in relazione alle altre istanze di riservatezza, occorre forse, mutare ‘tattica’, sfrondando il termine da ogni nuance negativa. Essa è infatti volta ad ottenere risultati appaganti e duraturi nell’attingimento

394 Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., punto 1, p. 7. 395 E. Frank, Il sigillo sacramentale sotto accusa, in Ius missionale, XII (2018), p. 7, consiglia: «In un contesto in cui le autorità civili cercano di sabotare il sacramento della penitenza, l’uso della griglia divisoria può in qualche misura essere d’aiuto, in quanto il confessore non conoscerà l’identità del penitente. […] Da parte sua il confessore non dovrebbe mai chiedere l’identità del complice, vittima o malfattore (can. 979), e neanche del penitente. Può fare domande esclusivamente allo scopo di conoscere la disposizione del penitente, vale a dire pentimento e determinazione a cambiare vita: e se su questi ultimi non ci sono dubbi, e il penitente chiede l’assoluzione, il confessore non la negherà o differirà (can. 980)». 396 Le espressioni sono del prelato uditore del Tribunale della Rota Romana D.-M.A. Jaeger, Situazioni particolari e questioni specifiche del ministero penitenziale, cit., pp. 92-93, che scrive: la corretta presentazione di alcuni punti essenziali «nel foro Civitatis, quoties casus ferat, può certamente influire sulle decisioni in materia - o no, secondo i casi - ma questo è fuori il controllo nostro, che dobbiamo certamente essere sempre pronti a tutte le forme del sacrificio e del martirio pur di non violare il nostro sacro ufficio. Quello che è, sì, in nostro potere, è assicurare che le Autorità giudiziarie temporali siano sempre consapevoli di che l’eventuale ordine giudiziario contrario al “sigillo” non potrà che risultare del tutto inefficace. Senza dubbio, tale consapevolezza - anzi, preventiva certezza - influirà molto più delle teorizzazioni costituzionali e legali sulla decisione del Tribunale se cercare di costringere il confessore all’impossibile». Come indicato nel testo, temiamo che questa sia una pia illusione.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 del traguardo di un diritto conforme a giustizia nell’ordinamento canonico e negli ordinamenti statuali, come sopra si è detto: una ‘tattica’ che, pur senza sminuire i dati sostanziali ed anzi da questi modellata, tiene conto degli interlocutori e della realtà nell’intera sua complessità. E questo non per avvolgere ogni informazione in una fosca caligine; ribadiamo che il chierico, laddove non sia vulnerato il sigillo, può e talora deve rivelare quanto sa397: ma, parimenti agli altri professionisti, come affermava ancora nel 1953 la Cassazione italiana, «solo dal foro interno della sua coscienza, può trarre indici di orientamento determinatori della propria condotta positiva o negativa»398, senza patire coercizioni esterne. Riteniamo così - riorientando in qualche misura le nostre precedenti posizioni più spostate sul versante della considerazione della tipicità della situazione giuridica della Chiesa cattolica in Italia399 - che si debba abbandonare la pretesa, massima e desiderabile ma attualmente del tutto irrealistica, della salvaguardia della differenza e della specificità puntando sull’«indole sacrale del “sigillo”, che lo toglie dal reame degli intrinsecamente “restringibili” segreti “professionale” e “ministeriale”»400: a volte conseguita in accordi concordatari stipulati

397 Per questo R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 195, nelle conclusioni della sua monografia suggeriva in generale: «La configuración de la protección jurídica del secreto religioso como una exención aconseja, en mi opinión, non forzar a la exclusión (incapacidad, inhabilidad, etc.) del testimonio del ministro religioso, cuando éste entienda que puede y/o debe testificar». Cfr. sul punto le spiegazioni e le esemplificazioni che prospetta J.I. Arrieta nell’Entrevista di R. Die Alcolea, El Motu Proprio ‘Vos estis lux mundi’ es “un paso de la Iglesia para la claridad y la transparencia”, pubblicato online sul sito Zenit il 15 maggio 2019. 398 Cassazione Penale, Sezione I, 17 dicembre 1953, cit., p. 260. 399 V. G. Boni, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica e poteri autoritativi della magistratura italiana, cit., specialmente p. 40 ss., p. 109 ss., sia pure con riferimento ad un caso particolare. 400 Così D.-M.A. Jaeger, Situazioni particolari e questioni specifiche del ministero penitenziale, cit., p. 96: «La tutela del “sigillo” in sede civile non potrà che ripartire dalla specificità, tutta singolare e concreta, della religione cattolica, che richiede il rispetto di questo atto di culto che non solo le è proprio, ma che ne costituisce una “componente” essenziale (essendo uno dei Sette Sacramenti). Se tale difesa prevalga nei confronti di un determinato ordinamento civile dipenderà, in parte, da fattori “politici”, e cioè dal peso effettivo della comunità cattolica per rapporto alla rispettiva nazione o regione - non necessariamente numericamente ma, ancor più, in termini della stima di cui gode ivi la Chiesa Cattolica - e in parte certo non minore dalla misura in cui si riesca a spiegare ai cattolici stessi, innanzitutto, e poi al pubblico in generale e soprattutto ai giudici della res publica, l’indole sacrale del “sigillo”, che lo toglie dal

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 però in circostanze propizie, non sempre o non più riproducibili401. Per questa pretesa oggi (sono trascorsi pochi anni ma paiono secoli) ci sembra

reame degli intrinsecamente “restringibili” segreti “professionale” e “ministeriale” e lo colloca su un altro piano». Ribadiamo come non si possano sostenere, con argomentazioni giuridiche forti, simili tesi davanti al quadro sociale e politico contemporaneo, ben chiaro anche alla Penitenzieria Apostolica. 401 Ne riferisce D. Cito, La protezione giuridica del sacramento della penitenza, cit., p. 282 ss., che osserva: «un caso un po’ speciale è offerto dall’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Slovacca in quanto separa nettamente il sigillo della confessione da altre comunicazioni religiose private. Per il sigillo della confessione, l’Accordo stabilisce il suo carattere inviolabile anche nel suo aspetto di rifiuto di testimoniare davanti agli organi statali. Per la seconda categoria, l’Accordo garantisce la segretezza delle comunicazioni orali e scritte alle persone incaricate della cura pastorale. Quest’ultima clausola non proibisce la libera testimonianza del chierico di fronte alle autorità statali. In questo senso l’Accordo con la Repubblica Slovacca riflette chiaramente due tipi di segreto: il primo di stringente obbligo concernente il sigillo della confessione; il secondo, di natura diversa, analogo ad un segreto professionale. Questa differenza, basata sulla differenza tra i due tipi di segreto, potrebbe risultare importante in vista di futuri problemi con il diritto statale dal momento che permetterebbe di salvaguardare in modo assoluto il sigillo della confessione, lasciando invece in una sfera differente altri tipi di relazioni confidenziali tra fedele e ministro, evitando che una modifica normativa su queste ultime possa travolgere anche il sacramento della penitenza». Ovviamente, laddove vi siano pattuizioni concordatarie favorevoli occorre conservarle e difenderle. R. Palomino, La protección jurídica del secreto ministerial a través de los Concordatos, in M. Blanco - B. Castillo - J.A. Fuentes - M. Sánchez-Lasheras (ed.), Ius et iura. Escritos de Derecho Eclesiástico y de Derecho Canónico en honor del Profesor Juan Fornés, Granada 2010, pp. 893-908, si sofferma sulla convenienza di prevedere negli accordi tra Stati e Santa Sede la protezione del sigillum confessionis e del segreto ministeriale, illustrandone le ragioni, e menziona quindi le norme al riguardo presenti in diversi concordati, definendo «algunos modelos básicos en la materia» (ivi, p. 905): «Un primer modelo de transposición al ámbito civil de las exigencias jurídico- religiosas; un segundo modelo de protección genérica del secreto ministerial, que confía a la legislación secular el alcance subjetivo y objetivo de la protección; y un tercer modelo, en el que sin producirse una transposición al ámbito civil del derecho religioso en la materia, sin embargo se atiende a las peculiaridades específicas de ese derecho religioso; más en concreto, a las peculiaridades del sigillum confessionis. Este tercer modelo viene representado entre la Santa Sede y la República Eslovaca del emblemático año 2000» (ivi, p. 908). Tra l’altro lo stesso Autore, Sigilo de confesión y abuso de menores, cit., p. 792, rileva: «tras un intenso proceso de diversificación religiosa, la consolidada protección del secreto religioso existente en muchos ordenamientos jurídicos occidentales se ha demostrado ambivalente. Porque si en algunos casos tal protección siguen respondiendo a las expectativas de algunas confesiones religiosas tanto en lo que respecta a el ejercicio del derecho fundamental de libertad religiosa como del derecho a la intimidad, en otras se ha convertido en un obstáculo para dar cumplimiento a sus exigencias morales: así sucede con judíos y musulmanes. De ahí que más que en otros sectores del ejercicio de la libertad religiosa, la normativa bilateral es especialmente necesaria para adecuar el derecho a las peculiaridades de cada confesión religiosa».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 difettino ragioni giuridiche forti, a maggior ragione se si presta attenzione all’orizzonte sovranazionale. Devesi perseguire, per converso, la garanzia, questa sì da conservarsi piena e non restringibile né contingentabile indebitamente, della libertà religiosa e, al contempo, della non discriminazione dei culti; ciò, d’altro canto, senza venir meno in alcun modo o annacquare oppure, peggio, snaturare principi che, sempre superiormente fondati, reggono e irrorano lo ius Ecclesiae. Ci pare sia questa la carta da giocare con maggiori chances di successo dinanzi ad ordinamenti secolari nei quali, come ha querimoniato la stessa Penitenzieria Apostolica, non raramente serpeggia un pregiudizio anticattolico e comunque immersi in una secolarizzazione prepotente e frenetica che mira ad esiliare la fede, e insieme le confessioni religiose e le loro pretese ‘istituzionali’, in un privato impercettibile: ma che nondimeno non possono contraddirsi discriminando schizofrenicamente e del tutto irragionevolmente tra diritti fondamentali. Si tratta di reclamare per i segreti correlati all’esplicazione della libertà religiosa - senza con ciò rinnegarne la singolarità ma, per converso, allo scopo di serbarla incorrotta - una tutela almeno pari a quella dei segreti volti a presidiare altri valori costituzionali o universalmente riconosciuti come indispensabili per lo svolgimento della personalità dei singoli402. Si badi bene, infatti, che questi ultimi, difformemente dal segreto ministeriale, non solo non vengono in alcun modo neppure lambiti da intenti abrogazionisti, ma la lista delle ‘categorie’ che possono vantare esigenze di riservatezza, invece che scemare o essere falcidiata, pare ogni giorno incrementarsi: i segreti professionali, inoltre, appaiono, piuttosto che esposti a consentire eccezioni, sempre più ‘corazzati’ e recalcitranti a subire imbrigliamenti e restrizioni. Occorre, insomma, come in altri casi avvenuto, almeno in Italia, tornare al diritto comune (nel senso che abbiamo profilato): e, di fronte ai tentativi di minarlo, sul medesimo asserragliarsi senza abbassare la guardia. Conferma eloquente della gracilità della difesa ad oltranza del solo sigillo sacramentale403 si rinviene nella constatazione che può sempre insorgere

402 V. A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 234 ss. 403 Volto prevalentemente alla salvaguardia del sigillo sacramentale il saggio di J. Salinas Mengual, La tutela del secreto de confesión en el contexto del derecho comparado y de la nota de la Penitenciaría Apostólica sobre el fuero interno y la inviolabilidad del sigilo sacramental, cit., segnatamente nelle conclusioni, p. 28 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 un’incertezza (anche nel sacerdote medesimo)404 se la notizia sia stata riferita in sede di confessione sacramentale oppure no. Nell’ipotesi, tutt’altro che infrequente, sovente ci si rimette a quanto asserito dal soggetto che si è rivolto al ministro di culto, il quale, ad esempio, potrebbe dichiarare che non aveva alcuna intenzione di confessare dei peccati (e significativa in questo senso, ancora una volta, la sentenza che ha ‘dato il la’ a queste riflessioni). Ma se la demarcazione tra segreto confessionale e ‘normale’ confidenza, il primo salvaguardato e la seconda no, è rimessa al volubile arbitrio dell’individuo che è ricorso al sacerdote ovvero addirittura alla discrezione dello stesso magistrato statuale si rende evidente la crepa che farà rovinare ogni pretesa di assicurare la conservazione dell’uno e dell’altra. Il Codice Penale napoleonico del 1810 - in un’età in cui certo non si era longanimi e condiscendenti verso il favor religionis -, all’art. 378, proteggeva solennemente i segreti professionali, oltre che dei medici, chirurghi, officiali di sanità, farmacisti, levatrici, di «toutes autres personnes dépositaires, par état ou profession, des secrets qu’on leur confie»405: fra cui - raccogliendo senza esitazioni l’eredità del diritto anteriore406 - erano inoppugnabilmente ricompresi dalla giurisprudenza, oltre agli avvocati ed altri professionisti, segnatamente, per quanto qui

404 Lo ammette lo stesso D.-M.A. Jaeger, Situazioni particolari e questioni specifiche del ministero penitenziale, cit., p. 99: «Quanto al dovere morale dello stesso Sacerdote, se egli stesso dubita se abbia sentito cose del genere fuori dalla confessione, prevale il principio tutiorista (applicabile anche generalmente in ambito sacramentale) per cui non debba parlarne. Se invece sia vero l’addebito: ad normam iuris se gerat. In ogni caso, la possibilità di dubbi del genere sottolineerebbe forse maggiormente la consigliabilità generale di non instaurare il rapporto sacramentale confessore-penitente tra persone che si incontrano e si parlano spesso anche fuori dal confessionale, e ciò anche oltre le fattispecie di cui ai cann. 984-985. Evidentemente questo non è facile, e spesso è anche del tutto impossibile dove non vi sia copia confessariorum tra i quali il penitente possa scegliere». Considerazioni sul modo di comportarsi del sacerdote che nulla tolgono alle conclusioni sul piano giuridico cui invece perveniamo. 405 Questo era il testo: «Les médecins, chirurgiens et autres officiers de santé, ainsi que les pharmaciens, les sages-femmes, et toutes autres personnes dépositaires, par état ou profession, des secrets qu’on leur confie, qui, hors le cas où la loi les oblige à se porter dénonciateurs, auront révélé ces secrets, seront punis d’un emprisonnement d’un mois à six mois, et d’une amende de cent francs à cinq cents francs». 406 Sull’antico diritto francese v. O. Échappé, Le secret en droit canonique et en droit français, cit., p. 233, che afferma: «Bel exemple du lien, trop souvent méconnu qui unit, par delà l’intermède révolutionnaire, le deux étapes de notre pensée juridique française».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 preme, i ministri di culto, dunque i sacerdoti cattolici, e non solo con riferimento al sigillum confessionis407. E da queste orme non si è a lungo allontanata la pur laicissima Francia408, costituendo altresì uno specimen per molti altri ordinamenti409. Come è stato perspicacemente ricordato, ad avviso del forse più grande commentatore del citato Codice, Émile Garçon, «lo scopo di questo articolo non è semplicemente la difesa delle confidenze di un soggetto particolare, bensì quello di garantire un dovere indispensabile a tutti e quindi assolutamente vitale per l’ordine pubblico. Il buon funzionamento della società non potrebbe essere garantito se il medico, l’avvocato, il prete non fossero obbligati a tutelare con un segreto senza riserve le confidenze ricevute. Gli fa eco un altro penalista che nel commentare le questioni tuttora pendenti a tal riguardo presso la Camera d’Istruzione della Corte d’Appello di Parigi, afferma come di fatto la trasparenza di una società aperta a tutte le polizie e le inchieste vada

407 V. quanto riferisce O. Échappé, Le secret en droit canonique et en droit français, cit., p. 234 ss., anche sui successivi interventi del legislatore francese che ha esteso la normativa ad altre professioni, nonché su questo «mécanisme essentiellement pénal»: tuttavia l’Autore registra che «la pratique pénale du secret en droit français était quasiment inexistante. […] le secret professionnel français n’est pas, ou est très peu, vécu concrètement comme une institution répressive. Ainsi il prend bien vite la valeur d’une dispense de témoigner qui, on l’a vu, est l’essentiel du mécanisme canonique. […] /En effet il apparaît que l’évolution du droit français sur ce point tend à le placer sur le même niveau que le droit canonique. Au terme de l’évolution que nous avons retracé se dessine nettement l’image d’un secret professionel comportant un modeste domaine pénal, et un rôle essentiel en matière probatoire» (ivi, pp. 253-254). Tra l’altro, in relazione alle considerazioni che abbiamo svolto in queste pagine, Échappé, analizzando in parallelo la normativa canonica e quella francese e interrogandosi sui fondamenti del segreto («Deux idée peuvent sembler fonder le secret: l’idée selon laquelle le secret résulte du contrat entre celui qui parle et celui qui doit se taire, et l’idée selon laquelle le secret résulte d’un intérêt public»: ivi, p. 241), giunge alla seguente significativa conclusione: «les canonistes aient pu, mieux que les juristes français, percevoir que le secret procédait, dans des proportions certes différentes, mais cumulatives, des soucis du bien public et de biens privés. /C’est a cette conception que semble s’être rallié la doctrine française qui a compris que le secret professionnel, institution d’ordre public, ne s’oppose pas a l’idée de protection d’un intérêt privé qu’il comporte égalment. Ainsi c’est un double fondement, particulièrement riche, qui peut être assigné au secret. A cet égard les pratiques canoniques et françaises du secret, loin de diverger, s’enrichissent et s’éclairent mutuellement» (ivi, p. 243); si veda anche Id., L’officialité de Lyon, le secret et la Cour de Cassation, cit., p. 254. 408 Si sofferma sulla disciplina del Codice Penale francese del 1994 O. Échappé, Le secret «professionnel» des clercs devant les juridictions françaises, cit., p. 998 ss. 409 V. R. Palomino, Derecho a la intimidad y religión. La protección jurídica del secreto religioso, cit., p. 60 ss., che non a caso ne riferisce trattando dell’intimità come interesse pubblico.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 contro all’irriducibilità della coscienza, perché il segreto professionale è connaturale alla coscienza»410. Per questo, solitamente, neppure i regimi maggiormente nemici della religione, in virtù della consapevolezza in ordine alla coesistenza di interessi ‘istituzionali’ - che pure oggi, l’abbiamo visto, sono riempiti di contenuti parzialmente diversi -, si sono mai spinti ad abladere il segreto dei ministri di culto. Sembrerebbero, questi, discorsi lontani dalle logiche che animano il diritto ecclesiale: eppure la prospettiva, sempre con tutti i distinguo, non solo non è antitetica ma potrebbe combaciare con quella canonistica nel momento in cui, accanto alla considerazione dell’interesse della persona che si confida e della persona che esercita una certa professione o attività s’affaccia quello ‘pubblicistico’ a che queste stesse professioni e attività possano essere assolte non solo nelle condizioni che le rendano proficuamente fruibili alla generalità, ma anche in quelle che unicamente le rendano strumenti di concretizzazione di principi costituzionali. Il segreto ‘professionale’, in questo senso, «fa parte integrante dell’equilibrio della società. Dà al professionista un certo ruolo di “garante” della democrazia. […] /Senza dubbio la violazione del segreto può creare un pregiudizio ai singoli interessati. Ma la legge la punisce perché lo esige l’interesse generale. Il buon funzionamento della società vuole che il malato trovi un medico e il contendente un difensore, ma né il medico né l’avvocato potrebbero svolgere la loro missione se le confidenze fatte loro non fossero assicurate con un segreto»411. Lo stesso statuto corrispondentemente deve valere, e forse a maggior ragione, per il ministro di culto per ciò che apprende proprio in vista e a causa della sua qualità. E queste ragioni, insieme alle altre invece intrinseche all’ordinamento canonico, sono accluse ed avallate dalla stipulazione concordataria tra Santa Sede e Stato italiano, ove l’enzima catalizzatore è proprio il principio capitale della libertà religiosa e l’impegno alla

410 L. Gerosa, Segreto confessionale e diritto-dovere dei ministri del culto di astenersi dal deporre in processi penali. Brevi annotazioni canonistiche, cit., p. 269. Le citazioni si riferiscono a É. Garçon, Code pénal annoté, nouvelle édition refondue et mise à jour par M. Rousselet - M. Patin - M. Ancel. Mise à jour au 1er février 1959 des tomes I-II et III et Contraventions de police, Paris 1959, sub art. 378, nr. 7; A. Damien, Secret professionnel et secret de la confession. À propos d’un arrêt recent de la Cour de Cassation, in Esprit & Vie. Revue catholique de formation permanente, CXII (2003), pp. 10-14. 411 R. Gerardi, Una questione di etica non di “etichetta”, cit., pp. 31-32.

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«reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese» (art. 1 dell’Accordo di Villa Madama). Allorquando dunque la Penitenzieria Apostolica scevera nettamente, anzitutto in base alla loro differente natura, l’ambito del foro interno, sacramentale ed extra-sacramentale da una parte, e, dall’altra, le confidenze fatte sotto segreto nonché i cosiddetti segreti professionali di cui sono in possesso alcune persone, tanto nella società civile quanto nella compagine ecclesiale, in virtù di uno speciale ufficio da queste svolto per i singoli o per la collettività, citando il n. 2491 del Catechismo della Chiesa cattolica, lo fa in maniera del tutto pertinente dal punto di vista teologico e canonistico412. Ma occorre intendersi bene, segnatamente in riferimento al segreto ministeriale di cui abbiamo discorso in questa esposizione. È infatti evidente, dal punto di vista dello ius Ecclesiae, che quanto il chierico apprende proprio in quanto sacerdote e nella sua funzione eminente di guida spirituale e morale non è certo rientrante in quello che il dicastero qualifica, attribuendogli una portata assai ristretta, come segreto professionale o, meglio, d’ufficio: il quale può subire compressioni che invece non sarebbero possibili per il segreto ministeriale propriamente detto (almeno secondo il linguaggio giuridico consueto, adoperato del resto in queste pagine), sia confessionale sia correlato al foro interno extra-sacramentale nella lata accezione usata dallo stesso dicastero413. Il cardinale insiste poi «sull’incomparabilità del sigillo confessionale con il segreto professionale cui sono tenute alcune categorie (medici, farmacisti, avvocati, etc.) per evitare che le legislazioni secolari applichino al sigillo - inviolabile - le deroghe

412 Cfr. punto 3 della Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., p. 8, ove anche si aggiunge: «Per quanto concerne gli altri ambiti della comunicazione, sia pubblici sia privati, in tutte le sue forme ed espressioni, la sapienza della Chiesa ha sempre indicato quale criterio fondamentale la “regola aurea” pronunciata dal Signore e riportata nel Vangelo di Luca: “Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Lc 6,31). In tal modo, nella comunicazione della verità come nel silenzio riguardo ad essa, quando chi la domanda non avesse il diritto di conoscerla, occorre conformare sempre la propria vita al precetto dell’amore fraterno, avendo davanti agli occhi il bene e la sicurezza altrui, il rispetto della vita privata e il bene comune». 413 Per una delimitazione del segreto d’ufficio rispetto al segreto professionale o su notizie apprese ratione sacri ministerii cfr. G. Comotti, I delitti contra sextum e l’obbligo di segnalazione nel motu proprio “Vos estis lux mundi”, cit., specialmente p. 22 ss., in piena coerenza d’altronde con quanto abbiamo sostenuto in queste pagine.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 legittimamente previste per il segreto professionale»414. Eppure, a quest’asserzione teologicamente e canonisticamente corretta415, se non altro, come si è osservato, per essere l’inviolabilità del sigillo procedente ex religione, trattandosi della celebrazione del sacramento della penitenza, cioè di un atto di culto416, ci pare debbano essere apposte due

414 M. Piacenza, Garanzia indispensabile, in L’Osservatore romano, 1-2 luglio 2019, p. 7. In questo senso cfr. le considerazioni di D.-M.A. Jaeger, Situazioni particolari e questioni specifiche del ministero penitenziale, cit., p. 93 ss., il quale chiarifica i concetti canonistici: «Una lettura superficiale da parte di un non-esperto della legge sostanziale (can. 933) potrebbe indurre il lettore non-esperto, quindi il magistrato civile, in errore al riguardo; dal momento che, così come scritta, essa farebbe sembrare che il “sigillo” fosse proprio questo (una specie di “segreto professionale”), concentrandosi all’apparenza la seconda clausola - “qua re” - sull’evitare di tradire il penitente, quindi sull’obbligo “ex iustitia”, in relazione al (i) “secretum commissum” (affidato come se fosse “per contratto” dal penitente al confessore) e al (ii) “secretum naturale” (l’obbligo di non rivelare comunque pubblicamente l’altrui peccato occulto, il che costituirebbe il peccato e il delitto canonico della diffamazione, di cui tale detrectatio è una delle fattispecie). Una lettura ravvicinata del canone richiede, però, di riconoscere che la clausola “qua re” non è la motivazione del sigillo - così che dalla presenza o assenza, nel caso, di tale motivazione, possa conseguire l’obbligo o meno del segreto, nel caso. Piuttosto, la clausola “qua re” riguarda una conseguenza - un obbligo / proibizione che consegue - della legge sul sigillo, la quale, nella prima clausola (“Sacramentale sigillum inviolabile est”), viene promulgata in modo assoluto senza che sia fatta dipendere da alcuna circostanza o considerazione, proclamando quello che “est”, una qualità intrinseca, essenziale, non un obbligo ab extrinseco aggiunto. Questa “qualità propria” di inviolabilità del “sigillo” procede “ex religione”, trattandosi, nella celebrazione del sacramento della penitenza, di un atto di culto» (ivi, pp. 93-94). Ma reputiamo che queste esatte e indiscutibili precisazioni canonistiche - del tutto giustamente ribadite - non possano che lasciare del tutto indifferenti i legislatori e i magistrati statuali, i quali ultimi non sono comunque tenuti a tenerne conto nell’applicazione del diritto secolare. 415 Si fa invece solitamente rientrare nel segreto professionale quello dei ‘direttori di coscienza’. Così scriveva P. Palazzini, Segreto professionale, in F. Roberti (diretto da) - P. Palazzini (con la collaborazione di), Dizionario di teologia morale, cit., p. 1503: «Obbligo del s. professionale. Tale segreto obbliga gli avvocati, i medici, i farmacisti e gli altri professionisti, a cui si ricorre per consiglio o per rimedio, come pure i teologi ed i direttori di coscienza, che sono consultati (fuori confessione) circa i casi di coscienza. Tutti questi sono tenuti, per ufficio, a conservare il segreto e tacitamente lo promettono con l’assunzione del loro ufficio. Questo segreto prende il nome di segreto ufficioso o professionale». Non faceva invece distinzioni R. Naz, Secret, in Dictionnaire de droit canonique, vol. VI, Paris 1965, cc. 898-899, che tra l’altro affermava: «Dispense du secret professionnel. Elle ne peut jamais intervenir pour le secret de la confession, en aucun cas». 416 Così G. Incitti, Il Confessore e il Sacramento della Riconciliazione. Diritti e doveri dei penitenti, cit., p. 24: «Sembra opportuno ribadire […] che il segreto della confessione NON è rapportabile al “segreto professionale”. La “qualità propria” di

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 postille laddove ci si sposti sul piano dei rapporti con gli ordinamenti statuali. In primo luogo, occorre di nuovo prestare attenzione, come appena notato, a che la non perfetta corrispondenza tra ‘linguaggio ecclesiale’ e ‘linguaggio civile’ faccia velo alla sostanza, anche giuridica, della realtà (quale segreto, quale riservatezza) da tutelare417. In secondo luogo, ci permettiamo di ritornare sulla nostra convinzione che invocare, come fa, del tutto convenientemente ex parte Ecclesiae, il penitenziere maggiore, lo ius divinum, il pericolo di sacrilegio o i danni irreparabili alla salus animarum418 introduca però argomenti purtroppo privi di ogni appeal per i poteri secolari, se non direttamente avversati419: constatarlo non è disfattismo scettico, ma aderenza senza vane utopie e vagheggiamenti al contesto odierno, come lo stesso dicastero ha mostrato

inviolabilità del “sigillo” procede “ex religione”, trattandosi, nella celebrazione del sacramento della penitenza, di un atto di culto». 417 E infatti, essendo prevalentemente rivolto ai rapporti di collaborazione con le autorità secolari, nel comunicato divulgato il 18 dicembre 2018 e intitolato Segreto professionale e segreto della confessione, la Conferenza Episcopale del Belgio, Violenze e segreto della confessione, cit., p. 231, trattando del segreto della confessione, esordisce: «Il segreto della confessione è una forma particolare di segreto professionale». Anche K. Nykiel, Il sigillo confessionale e il segreto nella normativa canonica, cit., p. 22, ricorda che «La […] legislazione civile riconosce il sigillo sacramentale come parte del segreto professionale». 418 Cfr. M. Piacenza, Garanzia indispensabile, cit., p. 7: «la Penitenzieria apostolica ha ritenuto urgente ricordare in primo luogo l’assoluta inviolabilità del sigillo sacramentale, che è fondata sul diritto divino e non ammette alcuna eccezione. Il sacerdote confessore, agendo in persona Christi capitis, viene a conoscenza dei peccati del penitente “non come uomo, ma come Dio”, secondo una nota espressione di san Tommaso d’Aquino. Per tale ragione, egli è chiamato a difendere la segretezza del contenuto della Confessione non solo per “lealtà” nei confronti del penitente, ma, ancor più, per rispetto alla santità del sacramento. […] /Il segreto della confessione non è un obbligo imposto dall’esterno, ma un’esigenza intrinseca del sacramento e come tale non può essere sciolto neppure dallo stesso penitente. Il penitente non parla al confessore- uomo, ma a Dio, per cui impossessarsi di quello che è di Dio risulterebbe sacrilego. Vi attiene la tutela dello stesso sacramento, istituito da Cristo per essere porto sicuro di salvezza per i peccatori. Qualora venisse meno la fiducia nel sigillo, i fedeli verrebbero scoraggiati dall’accedere al sacramento della Riconciliazione, e ciò, ovviamente, con grave danno per le anime. D’altra parte, è proprio questa preoccupazione per la salus animarum che muove la Chiesa nello stabilire le pene più severe per chi viola il sigillo (cfr. can. 1388 cic; can. 728, § 1, n. 1 e can. 1456 cceo)». 419 Lo riconosce lo stesso cardinale, affermando: «Nell’elaborare la Nota che ora si presenta, essa ha inteso porsi al servizio di Pietro, della Chiesa e di ogni uomo di buona volontà, ribadendo l’importanza e favorendo una migliore comprensione di tali concetti che attualmente appaiono largamente incompresi o addirittura, in taluni casi, avversati» (M. Piacenza, Garanzia indispensabile, cit., p. 7).

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 di aver compreso attraverso le sue riflessioni per nulla idilliache ed anzi assai disilluse. È indubbio che uguagliare il sigillum sacramentale ai segreti professionali è un assurdo teologico prima ancora che giuridico420; ça va san dire, come già Arturo Carlo Jemolo argutamente annotava, poiché «Qui siamo fuori del diritto umano, siamo al rapporto con Dio»421, scrutator cordium. Così, è del pari indubbio che i precetti canonistici si possono comprendere appieno unicamente se si introietta e assimila «la dimensione misterica della Chiesa, la quale ancor prima di essere un’assemblea di uomini e donne che condividono un cammino o si riconoscono in un ideale, è mistero, una realtà visibile ma nel contempo spirituale, una comunità di fede, speranza e carità, una comunità terrestre ma arricchita di beni celesti; in sostanza una realtà unica, particolare, unita e certamente soprannaturale»422: ma sono, questi, richiami che non possono se non lasciare impassibili le autorità civili ‘moderne’, le quali, ormai congedate dalla trascendenza e dalla metafisica, non possono che accedere a ‘visioni semplicemente orizzontali e mondane’423.

420 Ammonisce E. Frank, Il sigillo sacramentale sotto accusa, cit., pp. 5-6, «Dal canone risulta con evidenza che il sacramento della penitenza riguarda il peccato e il perdono, non il counselling, la direzione spirituale o il lamentarsi degli altri. […] Gli stessi confessori si sono sempre più trasformati in direttori spirituali o psicologi, e le persone si avvicinano al confessionale quando cercano consigli. /Il Sacramento della penitenza, in quanto atto liturgico, è una celebrazione della Chiesa (can. 837 § 1), e deve pertanto essere distinto da ogni forma di guida spirituale»; il confessore «deve giudicare il ravvedimento del penitente, la sua volontà di cambiare vita, applicando al tempo stesso la divina giustizia e misericordia; il suo dovere è di operare la guarigione del penitente; riportare il penitente alla gloria che aveva al tempo del battesimo. Tutto ciò naturalmente richiede qualche forma di dialogo. Tuttavia il sacramento della penitenza non può essere confuso con il counselling, la direzione spirituale o la psicoterapia». 421 A.C. Jemolo, Il segreto confessionale, in AA.VV., Il segreto nella realtà giuridica italiana. Atti del Convegno Nazionale. Roma, 26-28 ottobre 1981, Padova 1983, p. 164. Commentando peraltro la normativa processuale italiana e quella concordataria lo stesso Autore non aveva dubbi: «È pur chiaro che qui non è previsto il solo segreto della confessione, bensì qualsiasi elemento sia stato appreso dall’ecclesiastico per ragioni del suo ministero: dovendo egli stesso valutare se ciò che gli fu detto fu detto all’amico o al confidente laico, oppure al sacerdote» (Id., Lezioni di diritto ecclesiastico, 3ª ed., Milano 1962, p. 183). 422 K. Nykiel, Sintesi della Nota sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, cit. 423 Cfr. K. Nykiel, Sintesi della Nota sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, cit.: «Mi sembra opportuna questa puntualizzazione al fine di indicare l’orizzonte dal quale e dentro il quale, la Nota sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale della Penitenzieria Apostolica trova collocazione e rilevanza ermeneutica. In questo senso solo una visione soprannaturale e

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Insomma, tornando a quanto sopra si prospettava, va ben esplicitato come il segreto ministeriale non sia - né debba essere presentato o, tanto meno, contrabbandato per - una concessione graziosa, addirittura il retaggio di decaduti confessionismi, e neppure il riconoscimento di, pur vitali, esigenze della libertas Ecclesiae424: esigenze certamente giuste, ma assai friabili e caduche oggi perché facilmente tacciabili di tradurre la pretesa a illegittimi privilegi accordati ad una sola confessione religiosa425

di fede della Chiesa, consente non solo un autentico e vero approccio a essa, ma anche ai “misteri” che essa amministra e ai beni che dispensa nel nome, con l’autorità e la carità di Cristo stesso. Infatti, alla base di tante incomprensioni, pregiudizi, letture miopi e sommarie, come anche pretese che la Chiesa conformi, in alcune materie, il proprio ordinamento giuridico agli ordinamenti civili degli Stati, in sostanza sta proprio la totale mancanza di visione di fede della natura e dell’identità della Chiesa, di ciò che essa è, è stata e sarà nel corso della storia. Tali accentuazioni non sono universalmente accettate, soprattutto da chi non riconosce la natura misterica della Chiesa, poiché la classifica solo come una società ben organizzata, gerarchicamente strutturata, con una visione semplicemente orizzontale e mondana; possiamo dire alla stregua di ogni altro Stato civile esistente sulla terra. Tuttavia la sua storia bimillenaria smentisce tale visione; e se non sono mai mancate, nel lontano e recente passato, come nel presente, note dolorose legate alla cattiva testimonianza, in parole e opere, di tanti suoi figli, la Chiesa, in quanto mistero, ha origine ed è perennemente radicata nella comunione divina del Dio Uno e Trino». 424 Non della libertà religiosa. Le due libertà infatti, libertà religiosa e libertas Ecclesiae, «quae, memorandum semper est, non idem sunt» (D.-M.A. Jaeger, Situazioni particolari e questioni specifiche del ministero penitenziale, cit., p. 98), esprimono concetti ben diversi. 425 Proprio con riferimento alle tematiche trattate in queste pagine O. Échappé, L’officialité de Lyon, le secret et la Cour de Cassation, cit., p. 257, asserisce: «C’est aussi l’occasion de rappeler que l’Église ne peut être que soumise au droit du pays dans lequel elle vit. Si elle a le droit de demander le respect de la liberté religieuse, elle ne peut demander de privilèges particuliers; et sauf à tirer du sommeil où elle semblait tomber la vieille théorie de la “société parfaite”, elle ne peut espérer que son droit, même s’il mérite considération, s’impose au droit de l’État. Dire cela n’est pas faire preuve d’un quelconce gallicanisme: c’est simplement appliquer des principes méthodologiques que connaissent bien les spécialistes du droit international, tant public que privé, amenés à appliquer deux droits sur un territoire donneé». E nelle conclusioni del suo saggio l’Autore assimila il segreto dei ministri di culto agli altri segreti professionali («Cela doit amener è réflechir aux raisons qui ont conduit à reconnaître l’obligation ou le droit au secret professionnel à certaines professions. Ce n’est pas pour un intérêt privé, mais toujours en raison d’un intérêt public supérieur qui, en dernière analyse, apparaît être une liberté publique, souvent de nature constitutionnelle. Il en est assurément ainsi pour les avocats, dont le secret professionnel est une traduction directe du principe des droits de la défense. Il en est certainement ainsi des entreprises de presse, dont le secret professionnel relève de la liberté d’expression et de communication, comme du secret médical qui traduit les principes de liberté individuelle et de respect de la vie privée. Si l’on prolonge ce

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 in virtù della sua specificità - addirittura alla corporazione clericale -. Come è stato esattamente osservato, «la perspectiva laicista del Derecho y de la vida pública ha reclamado que los ciudadanos creyentes realicen una operación de “traducción” de sus creencias y prácticas religiosas a un lenguaje que puedan entender los ciudadanos no creyentes»426, concludendo che: «La valencia del sigilo de confesión ante el ordenamiento jurídico estatal pasa por el derecho fundamental de libertad religiosa»427. D’altro canto, i successi che recentemente si sono

raisonnement, il devient clair que le secret professionnel des ministres du culte n’est que la traduction des principes de la liberté de conscience et de la liberté de culte. Et sans doute fait-on trop vite litière du secret professionnel ainsi compris devant d’autres principes, certes liés à l’efficacité de la répression, mais sans doute moins enracinés constitutionnellement»: ivi, p. 258), rivendicando analoghe garanzie. 426 R. Palomino Lozano, Sigilo de confesión y abuso de menores, cit., p. 792: «Las razones de conveniencia, la deferencia hacia el multisecular Derecho canónico, la tolerancia como principio político sobre la que escribe Bentham, etc., poca o ninguna fuerza tendrían en un contexto secularizado, una vez que la importancia de terminar con los abusos sobre los menores de edad se presenta como objetivo primordial e irrenunciable. No obstante, sí que parece permanecer como valor secular atendible la libertad religiosa» (ivi, p. 794). 427 R. Palomino Lozano, Sigilo de confesión y abuso de menores, cit., p. 794. Questo l’itinerario giuridico che compie l’Autore, il quale peraltro si riferisce specificamente alla possibile tutela del sigillo della confessione avverso l’imposizione a sacerdoti e membri della gerarchia cattolica di obblighi di denuncia da parte delle legislazioni secolari: «En el caso que examinamos, el conflicto se produce entre el ejercicio del derecho fundamental de libertad religiosa y el mecanismo normativo articulado por el Estado, entre otros posibles, para proteger a los menores y perseguir los abusos sexuales, tomando en consideración que dichos abusos se han producido de forma significativa en el área de la religiosidad institucional, que en varios países ese área ha sido protagonizada por sacerdotes de la Iglesia católica y que los lamentables sucesos pasados o futuros podrían quedar encubiertos por el siglo de confesión. Estamos por tanto ante una normativa o una actuación del Estado que limita o restringe un derecho fundamental. Y dado el valor superior de los derechos fundamentales, la licitud o la constitucionalidad de dicha restricción necesariamente es objeto de examen por los tribunales (o en abstracto por los legisladores o por el ejecutivo con motivo del desarrollo de las políticas públicas) a través de la prueba del interés estatal imperativo (Estados Unidos y otros países de la tradición jurídica angloamericana) o del test de proporcionalidad (tradición jurídica continental). ¿Cuál sería el resultado de someter esa restricción a estos filtros o pruebas?» (ivi, p. 796). E conclude, al termine di un’approfondita indagine condotta su diversi versanti, considerando le differenti argomentazioni adducibili (e con un’analisi di ampia dottrina relativa a vari Paesi), che «es a través del derecho fundamental de libertad religiosa como se puede otorgar un fundamento y también un argumento de peso cara a una eventual valoración, jurisprudencial o de política legislativa, frente a las restricciones estatales que se cifran en el delito de omisión del deber de denuncia de los abusos. En nuestro entorno jurídico, esa valoración se verifica en la práctica a través de la prueba o test del interés

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 attinti hanno visto, non a caso, alleate della Chiesa cattolica le altre confessioni religiose: la proposta di legge che in California imponeva al sacerdote la denuncia alle autorità giudiziarie statali della segnalazione di un abuso durante la confessione sacramentale è stata ritirata grazie ad una mobilitazione massiccia nella quale si sono industriati solidalmente i leaders religiosi ortodossi, luterani, anglicani, battisti, musulmani, rappresentanti dei riti orientali e delle Chiese storiche afro-americane. Essi hanno elaborato un documento comune in appoggio (più che della Chiesa cattolica) del segreto ministeriale che a tutti sta a cuore, agitando pertanto la bandiera della non intromissione dello Stato nella coscienza dei credenti428 quale pietra angolare della democrazia. In esso, tra l’altro, si leggeva: «Siamo tutti uniti con i cattolici americani nel condannare l’attacco alla libertà religiosa che rappresenta l’attuale versione della proposta di legge SB 360»429.

estatal imperativo, así como a través del juicio de proporcionalidad. En este trabajo se ha ensayado la aplicación de ambos mecanismos. Respecto del compelling state interest test, la investigación desplegada no resulta concluyente a tenor del estudio que ha llevado a cabo la doctrina académica en los Estados Unidos de América. Respecto del juicio de proporcionalidad, esta investigación muestra que hay argumentos de peso para afirmar la existencia de medidas menos restrictivas aplicables y que hay razones que manifiestan la potencial ineficacia práctica de la compulsión penalmente asegurada del deber de denuncia, frente a la extendida e históricamente demostrada fidelidad del clero católico al sigilo de confesión» (ivi, p. 804). 428 Proprio in questo senso il famoso caso People v. Phillips del 1813: si veda quanto riferisce T. Mbadiwe Osuala, Sigilo sacramental y denuncia obligatoria del abuso de menores. Una mirada global, cit., p. 227 ss. 429 Cfr., per tutti, quanto riporta I. Piro, Usa: resta la segretezza della confessione. Soddisfazione della Chiesa, pubblicato il 14 luglio 2019 online in Vatican News. La proposta di legge, come anche sopra abbiamo riportato, recava la firma del senatore democratico Jerry Hill ed è stata ritirata dal Comitato per la sicurezza pubblica dell’Assemblea statale della California: «La norma, denominata SB 360, era stata approvata dal Senato della California e intendeva modificare la definizione di comunicazione penitenziale, in modo da permettere che la segnalazione di un abuso durante la confessione venisse automaticamente denunciata alle autorità giudiziarie, soprattutto se la dichiarazione veniva da un altro sacerdote o da persone impiegate e impegnate nella Chiesa» (ivi). Commentava R. Barron, California, Vescovo Barron sul pericoloso disegno di legge sulla Confessione: cattolici svegliatevi, pubblicato online il 18 maggio 2019 su Aleteia: «Quello che spero sia chiaro - non solo ai cattolici, ma a qualsiasi americano che si attenga al Primo Emendamento - è che siamo di fronte a una palese violazione del principio della libertà religiosa. Nella sua formulazione per cui il Congresso non approverà alcuna legge relativa alla religione, il Primo Emendamento impedisce, se si vuole, l’aggressione di qualsiasi religione nei confronti dello Stato civile. La sua ulteriore formulazione per cui il Congresso non legifererà mai in modo

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La tutela del segreto dei ministri di culto deve quindi iscriversi del tutto euritmicamente nella cornice costituzionale - in Italia ma anche altrove, al di là delle differenti contingenze - se non altro a pari titolo rispetto alla tutela degli ulteriori segreti; si tratta anzi della salvaguardia non tanto del segreto - termine di cui nelle premesse abbiamo appuntato l’equivocità nell’alone di grevità che lo cinge, e che, etimologicamente, esprime piuttosto la separazione e l’incomunicabilità (cerno: distinguere, dividere) che la relazionalità positiva430 - ma della riservatezza di tali rapporti: rapporti, quanto mai intuitu personae, vitali nella dinamica comunitaria e per il ‘buon andamento’ sociale. Porre in discussione il primo non può non comportare la messa in discussione non solo dei due che quasi sempre ad esso si accostano, afferenti all’ambito in senso lato ‘legale’ (notoriamente inattaccabile) ovvero ‘medico’ (oggi forse ancor più delicato e sensibile431, oltre che, in alcuni settori, in ascesa inarrestabile432), ma anche degli altri che in legislazioni di numerosi Paesi

tale da aggirare il libero esercizio della religione blocca l’aggressione dello Stato nei confronti della religione. I legislatori del Bill of Rights erano legittimamente preoccupati all’idea che il Governo si intromettesse nelle questioni relative a una comunità religiosa, monitorandone le convinzioni e controllandone il comportamento, ma questa ingerenza e questo monitoraggio è proprio quello che implica l’SB 360». Inoltre, abbiamo già ricordato come, qualche anno fa, nel dibattito sulle Rules of Procedure and Evidence della Corte Penale internazionale, sia stata rigettata la proposta di Canada e Francia di non riconoscere ai ministri religiosi il diritto di astenersi dal testimoniare su questioni note attraverso il segreto della confessione o grazie a un rapporto di confidenza. 430 Cfr. G. Pitruzzella, Segreto I) Profili costituzionali, cit., p. 1: «è noto che il secretus viene dal verbo secernere, composto di se e di cernere, dove cerno esprime la separazione e se svolge funzione iterativa. L’opposizione semantica tra se-cerno ed ex- cerno, dove il prefisso ex pone l’accento sul rifiuto di qualcosa che si allontana da sé, evidenzia come il primo verbo esprimeva l’operazione con cui si separava qualcosa ritenuta di valore […], che poi veniva occultata […]. /Di queste vicende semantiche risente l’uso attuale del vocabolo, che esprime sempre la separazione e l’occultamento di un bene prezioso, ma mentre originariamente il bene era costituito dalla sementa precedentemente setacciata adesso esso è rappresentato da un determinato sapere. Il segreto da un lato separa e seleziona le informazioni, dall’altro opera anche una scelta tra i soggetti ammessi alla conoscenza e quelli che ne sono invece esclusi. /Di conseguenza gli elementi costitutivi del segreto sono il sapere, la sua dissimulazione ed il rapporto con gli altri basato sul rifiuto di comunicarlo». 431 Per alcune questioni canonistiche in altro ambito v. B. De Lanversin, Enquête canonique et dossier médical: «le secret d’office», in L’année canonique, XLIV (2002), pp. 189-202. 432 Si pensi al campo della procreazione medicalmente assistita. Tra l’altro si è anche osservato con riferimento alla norma del Codice di Procedura Penale italiano: «È stata

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 recentemente si sono addizionati: come il segreto dei giornalisti, dei dottori commercialisti, ovvero degli psicoanalisti e degli psicologi433, di taluni operatori sociali o di altri professionisti434. È del resto quanto avvenuto in Italia, segnatamente attraverso la ‘porta’ della previsione contenuta nella lettera d) del comma 1 dell’art. 200 C.P.P. - secondo cui, lo ricordiamo, «Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione» anche «gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà

comunque segnalata la difficoltà di comprendere quanto sia esteso l’ambito operativo al quale allude il legislatore riferendosi agli altri esercenti una professione sanitaria, tenuto conto del recente proliferare di attività a scopi terapeutici, anche di carattere non tradizionale» (A. Balsamo, Sub art. 200 [2013], cit., p. 286). 433 Cfr. recentemente le riflessioni di S. Guarinelli, La centralità dei confini psichici e della loro vulnerabilità nella diagnosi e nella terapia, in Periodica, CVII (2018), pp. 445-464, proprio in rapporto al segreto e alle sue deroghe: «Il segreto è parte essenziale della professione dello psicologo. Ogni deroga deve pertanto considerarsi straordinaria» (ivi, p. 449); tale Autore tra l’altro asserisce: «Di per sé dal punto di vista giuridico il segreto vale là dove il paziente stesso non abbia rivelato autonomamente quelle stesse informazioni. Dal punto di vista psicologico, però […], sarei comunque un po’ più rigido nella liberatoria in tal senso. E mi sento di affermare che - fatte salve quelle circostanze particolari che sia il CDP [Codice deontologico degli psicologi italiani: N.d.A.], sia il Codice penale evidenziano - dal punto di vista psicologico il problema non si pone (o si pone in modo meno rilevante) non già a informazioni rivelate dal paziente, ma a rapporto terapeutico concluso (e, ovviamente, a informazioni rivelate dal paziente)» (ivi, pp. 462-463). 434 Sulle varie categorie incluse in Italia, con una disciplina peraltro non identica, v. l’esposizione di A. Diddi, Testimonianza e segreti professionali, cit., p. 75 ss.: tra essi, i consulenti del lavoro, i dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze e i soggetti a questi ultimi equiparati, cioè gli operatori presso enti, centri, associazioni e gruppi che hanno stipulato convenzioni con le aziende sanitarie locali, gli assistenti sociali, i consulenti in proprietà industriale, i dottori commercialisti e gli esperti contabili, i mediatori in materia civile; l’Autore peraltro conclude: «Sebbene, in molti casi, la giustificazione dell’applicazione dell’art. 200 c.p.p. è evidente, in molti altri (si pensi ai consulenti in proprietà industriale) essa è meno scontata e, sotto tale profilo, la disposizione potrebbe esporsi a censure di costituzionalità» (ivi, p. 77). Sulla tendenza ad ampliare il segreto professionale si vedano anche le riflessioni generali di L. Gerosa, Segreto confessionale e diritto-dovere dei ministri del culto di astenersi dal deporre in processi penali. Brevi annotazioni canonistiche, cit., p. 270, e di R. Gerardi, Una questione di etica non di “etichetta”, cit., p. 26 ss. Tra l’altro, come noto, in Italia vi sono già alcune «disposizioni speciali» per la riservatezza di alcune categorie professionali di cui però non fruiscono i ministri di culto, ledendo l’interesse al segreto sull’oggetto della comunicazione: v. ad esempio quanto riferisce D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, cit., p. 79 ss., e le proposte che l’Autrice avanza a tal proposito.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale» - in cui la dottrina ha ravvisato una ‘delega in bianco’ a favore della normazione extra Codicem435, la quale invero ha moltiplicato la ‘platea’ dei soggetti. Sono segreti professionali diversi e diversamente regolati dalla legge, ma tutti protetti in maniera via via più vigorosa e in espansione, «non essendo difficile trovare, soprattutto in relazione alle più recenti prospettive di sviluppo dei diritti fondamentali, ulteriori bisogni da proteggere mediante una tendenziale impenetrabilità della relazione professionale»436. Sarebbe indice di una deprecabile prevaricazione dilatare da una parte considerevolmente il range, per così dire, delle persone che possono addure il segreto professionale appigliandosi, magari indirettamente o mediatamente, a valori costituzionali; e dall’altra porre sotto mira il segreto dei ministri di culto, il cui radicamento nella libertà religiosa è fortissimo e non risolubile: costituendo anche una sua parziale soppressione, come più volte emerso, una lesione della libertà di credo e di coscienza davvero grave. E se è vero che la crescente ripugnanza verso delitti su bambini inermi può condurre a ridimensionamenti della normativa sulla riservatezza, tuttavia «il apparaît evident que toute restriction du secret professionnel, même justifié en apparence par l’horreur de l’infraction, ne doit être envisagée qu’en ayant à l’esprit les principes fondamentaux qu’il entendait protéger»437. Ridimensionare, infatti, non può equivalere ad annichilire ogni tutela: e soprattutto tale relativizzazione del segreto, cedevole dinanzi a interessi superiori, non

435 Così A. Balsamo, Sub art. 200 [2013], cit., p. 286, al quale rinviamo per i casi e l’indicazione di letteratura specifica. 436 A. Balsamo, Sub art. 200 [2013], cit., p. 286. Con una considerazione riguardante il panorama mondiale T. Mbadiwe Osuala, Sigilo sacramental y denuncia obligatoria del abuso de menores. Una mirada global, cit., p. 229, afferma che «Aunque moderada por la discreción de los jueces, la tendencia es […] hacia la abolición del secreto profesional»: ma l’esempio fornito è solo quello australiano. 437 O. Échappé, Le secret «professionnel» des clercs devant les juridictions françaises, cit., p. 995. Si veda T. Mbadiwe Osuala, Sigilo sacramental y denuncia obligatoria del abuso de menores. Una mirada global, cit., p. 236 ss., il quale anche afferma: «no hay evidencia empírica de que obligar a los confesores a divulgar el conocimiento por la confesión de un caso de abuso de menores vaya a mejorar la protección de los menores», adducendo argomentazioni al proposito.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 può avvenire a scapito di una sola tipologia di segreto438, quasi per esorcizzare colpe diffuse. Se dinanzi alla Corte di Cassazione che, nel 2017, ha così draconianamente mortificato il segreto ministeriale si fossero addotte con forza tali argomentazioni - del tutto consone a quell’interpretazione dell’art. 200 C.P.P. che la dottrina recente propone per tutti i segreti senza differenziazioni - essa non avrebbe potuto abiurarle poiché ciò avrebbe rappresentato un vulnus macroscopico non solo a principi costituzionali ma a principi universalmente riconosciuti. Rappresenterebbe infine un’eterogenesi dei fini davvero bizzarramente iniqua, altresì, il fatto che la normativa secolare sul segreto, se non originata sicuramente abbeveratasi generosamente alla plurisecolare tradizione canonistica - sempre costante, pur nel trasformarsi delle modalità della penitenza, nel frapporre uno schermo inaccessibile tra l’intimità del peccatore e occhi o orecchi indiscreti439 - di salvaguardia del sacrario più riposto della persona umana e della sua dignità incomparabile, stralci e ripudi proprio ed esclusivamente quel segreto

438 V. ancora O. Échappé, Le secret «professionnel» des clercs devant les juridictions françaises, cit., p. 1000 ss.; l’Autore commenta una pronuncia del Tribunal de Grand Instance de Caen del 4 settembre 2001 (in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, XVIII [2001], 3, pp. 1007-1009) che concerneva il problema se accordare o no a un vescovo il diritto di opporre il segreto professionale per non aver denunciato atti di abuso su minori compiuti da un sacerdote di cui era però venuto a conoscenza non come confidente del medesimo ma a seguito di un’indagine. Échappé acutamente rilevava come si prospettasse per il Tribunale una «choix délicat, dans la mesure où l’éventuelle restriction du secret des ministres du culte ne pouvait manquer de rejaillir sur les secrets revendiqueés, parfois avec force, par d’autres professions» (ivi, p. 1003); proprio per le circostanze dell’apprensione della notizia il Tribunale ha negato, nel caso specifico, l’opponibilità del segreto, peraltro «tout en confirmant que les ministres du culte rentrent au nombre de ces “professionnels”, et en estimant que le confidences reçues à l’occasion du ministère, que ce soit sacramentellement ou non, sont couvertes par ce secret, il précise qu’il doit agir de véritables confidences, faites spontanément et en dehors de toute pression» (ivi, p. 1005). 439 Sintetizza P. Ferrari Da Passano, Il segreto confessionale, cit., p. 361: «I mutamenti nel modo di celebrare la penitenza intervenuti nel corso della storia sono stati grandi, ma se c’è un elemento che si è conservato nel tempo sembra proprio potersi identificare in quella particolare forma di rispetto della coscienza del peccatore per cui sempre ci si è premurati di consentirgli di manifestarla al ministro senza l’ingerenza di occhi e orecchi indiscreti, anche se per lo più si trattava di reati notori e, almeno nei primi secoli, l’adempimento della penitenza era pubblico. Il segreto confessionale è dunque sempre stato un valore da proteggere».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 confessionale e ministeriale che è stato calco di tutti gli altri440. Insomma, simul stabunt simul cadent, potremmo asserire con un noto aforisma a diverso contesto riferito: e, in effetti, i titolari di altri segreti professionali si sono talora sentiti minacciati da certi provvedimenti contro vescovi e sacerdoti, elevando vibrate proteste441. È, questa, potremmo dire, l’ultima trincea, che dovrebbe essere davvero inespugnabile.

12. Exitus

440 Cfr. G. Incitti, Sigillo, segreto, riservatezza…ambiti di responsabilità e soggetti coinvolti, cit., p. 10: «Lungo i secoli l’ordinamento canonico è andato sviluppando con alterne vicende una normativa sull’ambito della inviolabilità della confessione che ha fatto da supporto anche alla materia del segreto professionale diversamente disciplinata negli ordinamenti civili». Precisa peraltro O. Échappé, Le secret en droit canonique et en droit français, cit., p. 231, a riguardo del segreto del medico ovvero del confessore: «Il est bien difficile de dire laquelle de ces deux obligations au secret apparaît la plus ancienne; la nécessité du secret du médecin a été indiscutablement affirmée la première, mais n’est devenue effective que bien après l’affirmation (et l’effectivité) du secret du confesseur». Rileva significativamente R. Coronelli, Il significato ecclesiale del segreto, cit., p. 27, come la normativa che la Chiesa ha nei secoli elaborato sul sigillo e segreto sacramentale stia «alla base del più ampio segreto ministeriale dei sacerdoti e ha fortemente orientato la normativa stessa degli ordinamenti civili in tema di segreto professionale tanto che difficilmente se ne potrebbe prescindere in un discorso più generale riguardante questa forma di segreto volta a proteggere il ricorso, oltre che ai ministri di culto, ad avvocati, medici e altri professionisti, per un aiuto o un consiglio qualificato, su questioni che riguardano gli aspetti più intimi dell’essere e della vita delle persone. Il fatto che pressoché tutti gli ordinamenti democratici assicurino una certa forma di tutela al segreto professionale, anche attraverso l’esonero di alcune categorie di persone dall’obbligo di deporre in sede giudiziaria o accordando loro la facoltà di astenersene, dice l’interesse non meramente privato ma pubblico, ovvero di bene comune, soggiacente a questa materia». 441 Come noto, in occasione dei fatti avvenuti nel giugno del 2010 in Belgio, allorquando l’intera Conferenza Episcopale riunita in assemblea fu sottoposta ad una perquisizione, procedendosi a sequestro di documenti e impedendo ai vescovi di uscire (altri sequestri avvennero in contemporanea presso sedi di enti della Chiesa e abitazioni private di ecclesiastici), sono state numerose «le firme in calce a un documento di protesta dei medici di base che riconoscono nell’azione del magistrato un pericolo immediato anche per il proprio segreto professionale: “Se accettiamo questa pratica come possiamo garantire la confidenzialità ai nostri pazienti? Le persone che si sono rivolte alla Commissione Adriaenssens l’hanno fatto perché sapevano di poter beneficiare di un trattamento confidenziale. Dobbiamo riconoscere che se non ci opponiamo questa pratica della giustizia può arrivare fino ai nostri archivi”»: L. Prezzi, L’ombra delle vittime. La giustizia, le violenze, le tensioni, in Il Regno. Attualità, LV (2010), p. 438, il quale tra l’altro - a conferma di quanto sopra abbiamo argomentato - riferisce anche: «J. Hertogen, vittima di violenza sessuale da parte di un prete, ha denunciato il magistrato per il danno derivatogli dall’aver violato la sua volontà di discrezione».

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La scelta del vocabolo exitus non è casuale per indicare le conclusioni, attesa la sfumatura non troppo ottimistica che in esso s’annida. Non si tratta di indulgere a catastrofismi o a frustranti vittimismi. Certo, però, siamo persuasi che la Chiesa cattolica, nonostante la popolarità di Papa Francesco presso l’opinione pubblica mondiale442 - la quale peraltro non intimidisce certo alcuni magistrati443 -, sperimenti attualmente in Occidente (senza qui dimenticare le brutali persecuzioni in Oriente) una condizione di penoso travaglio, causata, ancor più che dall’animosità e dall’astio di un settore forse minimo eppure molto influente dell’élite dei maîtres à penser odierni, da un’incomprensione davvero drammatica, come abbiamo esordito. Oltre a quanto si è annotato circa le dimensioni giuridicamente apprezzabili di ciò che può essere ricollegato alla nozione di ‘segreto’ nei nessi che si allacciano tra ordinamenti diversi, è purtroppo, più radicalmente, la missione della Chiesa a non essere più percepita nella sua sostanza: anzi essa viene travisata, come bene (e

442 Lo nota, proprio in questi termini e proprio in relazione al tema qui trattato, S. Magister, Chiesa sotto attacco. Fuori legge il sacramento della confessione, consultabile online in L’Espresso - Settimo Cielo, 19 agosto 2018: «Papa Francesco continua a godere di grande popolarità presso l’opinione pubblica mondiale. Ma verso la Chiesa cattolica il clima è molto più ostile. Vanno crescendo gli attacchi condotti da governi e istituzioni pubbliche contro ciò che più la distingue e la identifica sul terreno suo proprio, come tra l’altro il sacramento della confessione». 443 Infatti, come informa lo stesso S. Magister, Chiesa sotto attacco. Fuori legge il sacramento della confessione, cit., «In Cile magistrati che stanno investigando sugli abusi sessuali compiuti da vescovi e sacerdoti, e che hanno già chiamato a testimoniare, tra gli altri, l’arcivescovo di Santiago cardinale Ricardo Ezzati Andrello, stanno valutando se interrogare anche papa Francesco in persona, sulla base dei reati - come la distruzione di archivi compromettenti - da lui denunciati nella lettera ai vescovi cileni dello scorso mese di maggio. /L’idea di chiamare il papa alla sbarra non è nuova. Nel 2010 anche due organizzazioni americane che si occupano di vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti avevano inoltrato al tribunale internazionale dell’Aia la richiesta di chiamare a testimoniare il papa, che allora era Benedetto XVI. /La richiesta non ebbe seguito, anche per il semplice fatto che il papa è un capo di Stato. Ma ebbe un notevole impatto pubblico, come ora lo può avere in Cile». Su alcuni profili giuridici legati al ricorso depositato contro Benedetto XVI presso la Corte Penale internazionale ed altri casi di azioni legali contro il romano Pontefice e la Santa Sede v. recentemente L. Marabese, Le potenziali sfide all’immunità del Romano Pontefice: una riflessione a partire dai delitti di abuso sessuale di minori da parte di chierici, cit., p. 105 ss.; M. Carnì, La responsabilità civile della diocesi per i delitti commessi dai presbiteri. Profili canonistici e di diritto ecclesiastico, cit., p. 290 ss., con ulteriori riferimenti. Si tratta di scenari molto meno fantascientifici di quanto si possa pensare.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 mestamente) ha colto la più volte menzionata Nota della Penitenzieria Apostolica. Abbiamo indugiato sull’insistenza accorata del sommo Pontefice argentino su chierici e religiosi che personalmente e con tenacia si conformino ad una Chiesa ‘in uscita’, protesa verso le ‘periferie’ non solo e non tanto geografiche ma delle odierne povertà materiali e di solitudini esistenziali, su pastori che abbiano l’‘odore’ delle pecore, che non esitino a ‘sporcarsi con il fango della strada’: uomini che si chinano sulle debolezze, sulle manchevolezze, sulle sofferenze, sulle tribolazioni, con la misericordia che la carità evangelica può infondere. È questo il tesoro preziosissimo della Chiesa: un tesoro affidato ai fragili ‘vasi di creta’ (cfr. 2 Cor. 4, 7) di uomini a loro volta fallibili e peccatori. Eppure, la vulgata corrente, rispecchiata nelle aule dei tribunali ed altresì negli assai più bellicosi ‘processi’ mediatici mondiali, amplificati dalla potente ‘cassa di risonanza digitale’, vorrebbe respingere tutti i sacerdoti in letti di Procuste da una parte irreali e fittizi, e dall’altra esagerati e imbevuti di faziosità: così il simulacro sclerotizzatosi del confessore cattolico che, quotidianamente relegato (e cautelativamente ‘blindato’) oltre la grata del confessionale444, cela arcana impronunciabili sotto l’ombrello del sigillo sacramentale ci sembra francamente quasi caricaturale. Esso comunque sbiadisce se non altro dinanzi alla disaffezione e recessione della confessione individuale, sempre più rara oltre che meno avvertita nella sua santità445, almeno nell’Occidente scristianizzato446: dubitiamo infatti

444 Quanto lontana quest’immagine da quella proposta da Benedetto XVI, Allocuzione ai partecipanti al XXI Corso sul foro interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010, citato in Congregazione del Clero, Il sacerdote ministro della misericordia divina. Sussidio per i confessori e direttori spirituali, Città del Vaticano 2011, p. 3: «È necessario tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il sacramento della riconciliazione, ma anche come luogo in cui “abitare” più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sentirsi amato e compreso da Dio e sperimentare la presenza della misericordia divina, accanto alla presenza reale nell’eucaristia» (consultabile anche online all’indirizzo www.vatican.va). 445 Peraltro G.P. Montini, La tutela penale del sacramento della penitenza. I delitti nella celebrazione del sacramento (cann. 1378; 1387; 1388), cit., p. 213, segnala il «fatto che se pure oggi la confessione individuale è più rara, non è detto che i delitti nella sua celebrazione siano ancora più rari di un tempo, in cui la confessione individuale era prassi quotidiana per il ministro sacro. Con la rarità della celebrazione può essersi pure insinuata una minore coscienza della santità dello stesso sacramento e della sacralità della sua celebrazione. In tal modo non è da escludere che la “frequenza”

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che, nella secolarizzazione ormai fagocitante, tutti i cattolici che si qualificano come praticanti abbiano contezza del significato e della vincolatività anche solo del plurisecolare obbligo della confessione annuale447. Confusa è anche la stessa essentia del sacramento che non è né può essere mai connivenza col male448, e neppure - come sovente viene schernita - è ipocrita ‘rimozione psicologica autorizzata dalla Chiesa’449

di tali delitti sia rimasta indipendente dalla flessione del numero delle confessioni celebrate, ma certamente dipendente dalla fede con cui viene affrontato tale sacramento sia da parte del penitente sia da parte del ministro sacro». 446 Anche se non sempre e ovunque è così, ed anzi talora sono affiorate sorprendenti ‘rinascite’; scriveva nel 1984 San Giovanni Paolo II, Discorso ai membri della Penitenzieria Apostolica e ai padri penitenzieri delle Basiliche romane, 12 marzo 1994, cit., p. 78: «[…] vorrei aggiungere le cose positive che si vedono, soprattutto la grande affluenza dei penitenti che si confessano a Roma e altrove, specialmente nei Santuari. C’è una rinascita del Sacramento, soprattutto tra i giovani, come si è notato nelle Giornate Mondiali della Gioventù, specialmente a Denver. /Se non mancano i penitenti, non mancano nemmeno i confessori. Se una volta si poteva temere che il Sacramento della Riconciliazione stesse per essere dimenticato, oggi si assiste ad una sua rinascita». Ma Papa Wojtyla più volte ha registrato la crisi di questo sacramento: v. la Lettera Apostolica Novo Millennio ineunte, 6 gennaio 2001, in Acta Apostolicae Sedis, XCIII (2001), p. 266 ss., soprattutto n. 37. Su questa crisi v. le recenti riflessioni di L. Ferrari, La pastorale del sacramento della riconciliazione oggi: tra disagi, rischi e risorse, in Il sigillo confessionale e la privacy pastorale, cit., p. 121 ss., il quale avanza «una proposta che non costringe il cammino di Riconciliazione sacramentale nel recinto esclusivo del foro interno, ma restituisce una dimensione pienamente umana e relazionale - comunitaria con Dio e con i fratelli» (ivi, p. 124). 447 V. il can. 989 del Codex Iuris Canonici, sul quale, per tutti, si veda G. Incitti, Il Confessore e il sacramento della riconciliazione. Doveri e diritti dei penitenti, cit., p. 2 ss. 448 Né è connivenza col male la tutela del sigillum confessionis; si scrive nella Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., al punto 1, p. 7: «La difesa del sigillo sacramentale e la santità della confessione non potranno mai costituire una qualche forma di connivenza col male, al contrario rappresentano l’unico vero antidoto al male che minaccia l’uomo e il mondo intero; sono la reale possibilità di abbandonarsi all’amore di Dio, di lasciarsi convertire e trasformare da questo amore, imparando a corrispondervi concretamente nella propria vita». 449 L’espressione è di P. Ferrari Da Passano, Il segreto confessionale, cit., p. 369, che prosegue: «Ma il perdono che si ottiene nel sacramento della penitenza è tutt’altra cosa. Non si intende rimuovere alcunché né si tratta di valutare positivamente ciò che prima si condannava. Questo, caso mai, capita quando a perdonare sono gli uomini. Ma quando perdona i nostri peccati, Dio non ci mette una pietra sopra, non intende far finta di niente, né ha mutato giudizio sul male che resta tale e le cui, a volte drammatiche, conseguenze non cancella dalla nostra storia. La bellezza del perdono di Cristo sta nel fatto che, “nonostante” il nostro male, egli ci vuole ancora bene e non ha perduto la fiducia in noi, per cui ci invita ancora a collaborare con lui al bene. Questo

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 delle proprie colpe, banalizzandole, ovvero proscioglimento da ogni delitto perpetrato per non pagarne le conseguenze e non riparare i danni dei propri comportamenti: per converso, «la pace interiore riconquistata non esime, in linea di massima, dall’assunzione delle responsabilità sociali dei propri comportamenti e dal rispetto delle regole dello Stato. Il sacerdote, valutato il caso concreto, deve consigliare e confortare anche in tale direzione»450. Se si riflette serenamente e senza prevenzione, l’ulteriore diserzione dalla confessione - ma anche, al di fuori del sacramento, la ritrosia nell’accedere ad un ‘ecclesiastico’ per riceverne accompagnamento spirituale - cagionata dall’allentamento delle garanzie di riservatezza comporterà, tra l’altro, che i sacerdoti non potranno più adoperarsi in alcun caso per indurre i penitenti stessi a emendarsi e rimediare il male fatto, anche facendo dipendere in qualche modo da ciò la concessione dell’assoluzione451: ad esempio differendola per indurli ad un ‘rimorso fattivo’452. È vero, come ha ribadito la Penitenzieria Apostolica - forse

solo Dio lo sa fare. E nel sacramento della penitenza è di tale perdono che si tratta. L’occhio indagatore esterno e l’orecchio che proditoriamente carpisce il dialogo, se sono viziati da precomprensione fondata su erronee convinzioni, per quanto colgano gesti e parole, mai penetreranno nel mistero e comprenderanno la grandezza del dono fatto da Dio agli uomini. Sarebbe bene dunque che i non credenti si astenessero dal calpestare questo luogo di misterioso incontro tra l’uomo e la misericordia di Dio e i credenti, aiutati da un clero meglio preparato a questo ministero, vivessero tale incontro con maggiore consapevolezza». 450 P. Ferrari Da Passano, Il segreto confessionale, cit., p. 369. 451 Così peraltro si esprime R. Coronelli, Il significato ecclesiale del segreto, cit., p. 34: «In casi estremi, il confessore ha sempre la possibilità di fare pressione sul penitente per spingerlo a porre fine a qualcosa di male di cui il medesimo si sia accusato in confessione di cui sia causa, anche con la minaccia di negargli l’assoluzione, non ritenendolo sufficientemente pentito, qualora non fosse disponibile a farlo». 452 V. il can. 980 del Codex Iuris Canonici. Sul rinvio dell’assoluzione v., per tutti, G. Incitti, Il Confessore e il Sacramento della Riconciliazione. Doveri e diritti dei penitenti, cit., p. 15. Interessante quanto illustra A. D’Auria, I doveri e i diritti del fedele rispetto alla confessione, cit., pp. 39-40: «L’assoluzione può essere […] negata se il confessore raggiunge la certezza morale a riguardo del mancato pentimento del fedele, non essendo sufficiente il semplice dubbio sulla disposizione del penitente […]. /Analogicamente occorrerà differire l’assoluzione se ci sono seri e fondati dubbi sulla disposizione del penitente; in questo caso viene meno il diritto a ricevere l’assoluzione […]. Occorre però che tali dubbi siano fondati, non essendo sufficiente da parte del confessore un semplice sospetto. A tal proposito sarà altresì opportuno che il confessore faccia tutto il possibile affinché il penitente possa maturare nel tempo un sufficiente pentimento in ordine alla possibilità di impartire l’assoluzione. /Non intendiamo qui effettuare digressioni di teologia morale o pastorale pur interessanti,

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 anche al fine riprendere certi episcopati nazionali453 -, che «In presenza di peccati che integrano fattispecie di reato, non è mai consentito porre al penitente, come condizione per l’assoluzione, l’obbligo di costituirsi alla giustizia civile, in forza del principio naturale, recepito in ogni ordinamento, secondo il quale “nemo tenetur se detegere”»454 e che

ma che esorbiterebbero il nostro ambito di trattazione; vogliamo però affermare che lo stato di non pentimento si documenta altresì attraverso il fatto che la persona non si propone di non commettere più quel peccato o non fa almeno il proposito di emanciparsi dalla situazione peccaminosa in cui colpevolmente si trova. /Occorre da ultimo ricordare che gli Autori rinvengono anche la possibilità di differire l’assoluzione a riguardo di soggetti che siano sì pentiti, ma che trovandosi in condizione di peccatori recidivi o abituali abbisognino di una maggiore riflessione sul loro stato di vita. Afferma V. De Paolis: /[…] si potrebbe infatti prevedere la possibilità, da valutare del resto con molta ponderazione, che il penitente sia disposto per ricevere l’assoluzione, ma un suo differimento, d’accordo con lo stesso penitente, potrebbe essere, in certi casi, un maggior incentivo a impegnarsi per uscire da certe situazioni peccaminose o a riprendere con maggior impegno e slancio un cammino verso la conversione» (la citazione è tratta da V. De Paolis, Il sacramento della penitenza, in I sacramenti della Chiesa, Bologna 1989, p. 218). D’Auria, a p. 50 ss., si sofferma altresì su cosa implichi la buona disposizione del penitente necessaria per l’assoluzione, sottolineando tra l’altro: «un vero pentimento esige sempre il proposito di fare quanto è possibile per ristabilire la giustizia, riparare lo scandalo e l’offesa arrecata» (ivi, p. 51). 453 Nel comunicato divulgato il 18 dicembre 2018 e intitolato Segreto professionale e segreto della confessione, che abbiamo già menzionato e per molti aspetti pregevole, la Conferenza Episcopale del Belgio, Violenze e segreto della confessione, cit., p. 231, tuttavia conclude con qualche passaggio non privo di ambiguità: «il presbitero farà uso di tutte le possibilità del colloquio durante la confessione per persuadere il penitente a modificare il proprio comportamento e assumere le proprie responsabilità. /Tuttavia, in caso di urgenza, il segreto della confessione non può servire da pretesto per non prendere misure precauzionali. Ciò è particolarmente valido in caso di violenze sessuali su minori o persone vulnerabili […]. Un presbitero può esortare un autore di violenze sessuali su minori a presentarsi davanti al tribunale o alla propria autorità superiore. Può anche fare di questa esortazione una tappa intermedia, una condizione per amministrare il perdono sacramentale. Può interrompere il quadro formale della confessione e rinviare l’assoluzione fino a che tali condizioni non siano state soddisfatte. Infatti la confessione non è soltanto una questione di perdono, ma anche di pentimento, di penitenza e di ravvedimento. /Specialmente in caso di violenza sessuale, il presbitero deve tener conto di tutti questi aspetti del sacramento della riconciliazione. Se il penitente è vittima di violenza sessuale, il presbitero deve ricorrere a tutti i mezzi a sua disposizione per condurre la vittima a beneficiare di un’assistenza professionale o - se necessario - accompagnarla nei primi passi». 454 Punto 1 della Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, cit., p. 7, che prosegue tuttavia: «Al contempo, però, appartiene alla “struttura” stessa del sacramento della Riconciliazione, quale condizione per la sua validità, il sincero pentimento, insieme al fermo proposito di emendarsi e di non reiterare il male commesso». Si interroga sulla domanda «Può / deve il confessore premere sul penitente / esigere dal penitente di

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«condizionare l’assoluzione all’autodenuncia presso l’autorità civile o ecclesiastica non è assolutamente lecito»455. Tuttavia, pur non essendo la confessione uno strumento di ingegneria sociale o di giustizia vendicativa456, «È invece possibile, come per ogni altra situazione peccaminosa, rinviare l’assoluzione secondo il criterio generale: se il confessore non è certo del dolore dei peccati (che comprende anche la riparazione del danno o la seria volontà di riparare). In questo caso, il confessore potrà aiutare il penitente a rileggere la sua vicenda, magari suggerendo un percorso psicologico. Questo potrà essere richiesto come espressione di reale ravvedimento, tanto più nel caso in cui il penitente fosse un chierico. Ancora: è certamente possibile urgere di porre in atto le scelte più opportune per evitare la reiterazione del delitto, sempre come espressione concreta della volontà di intraprendere un cammino di ravvedimento. Non va omessa, infine, la richiesta di riparazione del danno, nelle forme possibili, per dovere di giustizia»457. Inoltre, aggiunge ancora il dicastero, «Qualora si presenti un penitente che sia stato vittima del male altrui, sarà premura del confessore istruirlo riguardo ai suoi diritti, nonché circa i concreti strumenti giuridici cui ricorrere per denunciare il fatto in foro civile e/o ecclesiastico e invocarne la

auto-denunciarsi?» e illustra vari casus D.-M.A. Jaeger, Situazioni particolari e questioni specifiche del ministero penitenziale, cit., p. 99 ss. Seguendo la dottrina dominante ribadita dal dicastero romano A. D’Auria, I doveri e i diritti del fedele rispetto alla confessione, cit., pp. 52-53, asserisce: «è sempre, a nostro avviso, da considerarsi ultra vires, l’imporre al penitente di costituirsi presso l’autorità giudiziaria, in quanto ciò si presenta evidentemente come una condizione troppo onerosa. Tale obbligo di costituirsi non ricorre neanche nel caso in cui, ad esempio, a seguito di un omicidio commesso dal penitente un altro soggetto si trovi ingiustamente in prigione, per un errore dell’autorità giudiziaria. Ciò si dimostra anche per il fatto che il penitente non è tenuto a riparare i danni di cui egli non sia causa diretta o determinante, ma solo occasionale o concomitante, salvo sempre il caso che il vero omicida si sia adoperato affinché un altro venisse punito al suo posto. /Ciò si motiva anche per il fatto che se il fedele che ha commesso un delitto che abbia rilevanza in foro civile sapesse che il sacerdote gli chiederà tale forma di riparazione sarebbe scoraggiato dal ricorrere al sacramento della confessione. Ora il bene connesso con la possibilità della ricezione del perdono del Signore è maggiore che non quello del ristabilimento della giustizia in foro civile». 455 E. Miragoli, Il sigillo sacramentale, cit., p. 166. 456 Così D.-M.A. Jaeger, Situazioni particolari e questioni specifiche del ministero penitenziale, cit., pp. 101 s., che si sofferma peraltro sul pericolo (assurdo ma non troppo attualmente) che i confessori vengano accusati di avere facilitato i delitti dei delinquenti per non avere loro negato l’assoluzione. 457 E. Miragoli, Il sigillo sacramentale, cit., pp. 166-167.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 giustizia»458. Eppure, se non si sarà più sicuri della riservatezza di quanto si confida al ministro di culto, non solo nessun peccatore si confesserà più, ma nessuno neppure, colpevole o anche vittima innocente, si rivolgerà ad un sacerdote per ricevere aiuto spirituale e morale. È poi incontestabile che il legame tra il sacramento della riconciliazione e le ‘deviazioni della sessualità’, se così le possiamo sintetizzare, è in qualche modo tradizionale nello stesso diritto della Chiesa, sin dalle sue norme penali, anche quelle vigenti459: esse sono rimaste ‘abbondanti’460,

458 Punto 1 della citata Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019, p. 7. 459 Cfr. G.P. Montini, La tutela penale del sacramento della penitenza. I delitti nella celebrazione del sacramento (cann. 1378; 1387; 1388), cit., pp. 214-215, che constata: «i delitti nella celebrazione della penitenza si soffermano direttamente per la maggior parte, e indirettamente per la totalità, sul sesso. /L’invalidità e la scomunica sono comminate a chi assolva il complice “in peccato contra sextum Decalogi praeceptum” (can. 977; cf pure can. 1378 § 1). /Pene gravissime sono comminate al sacerdote che “in actu vel occasione vel praetextu confessionis paenitentem ad peccatum contra sextum Decalogi praeceptum sollicitat” (can. 1387). /La stessa Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici Recognoscendo aveva dovuto resistere durante l’iter di revisione a richieste di estendere oltre il sesto comandamento la materia di questi delitti. /Gli autori si sforzano di trovare le ragioni per giustificare la scelta del Legislatore. /È però anzitutto indubitabile il peso della tradizione. Lo si ritrova nella stessa dizione obsoleta che fa riferimento “al sesto comandamento”. /È indubitabile inoltre la discrezionalità del Legislatore penale, nel colpire con la propria normativa i delitti che maggiormente ritiene che incidano sulla situazione contingente e concreta della Chiesa. Nelle previsioni penali vi è sempre una decisione “politica” del Legislatore. /Ci sono pure altre ragioni cui porre attenzione: la principale incidenza che mantiene nei confronti della persona la materia sessuale; alcune peculiarità dei peccati contro la castità; la particolare contraddittorietà e odiosità della concomitanza fra confessione, luogo della riconciliazione, e l’incentivo al peccato; la grande rilevanza che il sacramento della penitenza ha nella Chiesa; la peculiarità del rapporto tra penitente e confessore». 460 Scrive B.F. Pighin, Diritto penale canonico, cit., p. 397: «All’ordinata amministrazione del sacramento del perdono è riservata particolare preoccupazione dal Legislatore, che ha previsto, in caso contrario, misure sanzionatorie pesantissime. L’abbondante protezione penale fornita è dovuta alla delicatezza dell’esercizio della confessione, che fa scaturire per il ministro obblighi del tutto speciali a garanzia dell’altissima responsabilità del suo ministero. Solo a lui è permesso entrare nelle pieghe più profonde della coscienza del penitente e creare con esso un intimo rapporto di valenza soprannaturale, che va rigorosamente improntato al rispetto dell’evento salvifico e dell’integrità morale delle due persone implicate»; tra l’altro lo stesso Autore, commentando la fattispecie della sollecitazione ad turpia nella confessione, osserva: «Il sacramento della confessione, istituito da Cristo per la remissione dei peccati commessi dopo il battesimo, non può essere utilizzato in nessun modo per condotte malvage, perché ciò comporterebbe un suo totale stravolgimento e una sua nefasta perversione. Ne rimarrebbe deturpata la santità del divino mistero, in netta contraddizione con la sua natura di segno e strumento che comunica da Dio ex opere operato la grazia del

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 essendo ‘scampate’ ai consistenti ‘tagli’ della revisione codiciale. Ma l’esasperata enfatizzazione su immoralità e depravazione sessuale - pure purtroppo in qualche misura riproposta nella più recente produzione legislativa canonica461 -, la quale indubbiamente è oggi anch’essa frutto dell’egemonia di un imperante pansessualismo, contiene però un pericolo grave che è forse già una condanna comminata: quello di rinserrare ancora una volta la Chiesa, come nel passato, nell’infamante e trito cliché di una societas di sedicenti celibi e casti che, proprio per la presunta ‘innaturalità’ ovvero ‘patologicità’ dell’opzione volontaria per la verginità e la continenza, è ossessionata dal sesso e transita dalla fobia al voyerismo fino alla depredazione di innocenti. Non si può però non reagire dinanzi alla mistificazione della verità: e devono essere i laici a far risuonare alta la loro voce, quei laici i quali, senza che possa loro essere addebitata qualsiasi collusione o smania di autoconservazione, fanno parte a pieno titolo dell’Ecclesia e sono convocati ad una responsabilità prioritaria. Per un versante, proclamando, con coraggio e senza sudditanze psicologiche, che l’intera Chiesa cattolica non può essere ridotta a squallido covo di pervertiti e di loro fiancheggiatori: che la santità abita e sempre abiterà in essa462, nella

perdono di tutti i peccati. Ne risulterebbe falsificato il ruolo del ministro che, nascondendosi dietro una subdola maschera di padre, maestro e medico delle anime (cfr. can. 978), approfitta della confessione per condurre alla perdizione i penitenti affidatigli in cura. Ne deriverebbe uno scandalo con effetti gravissimi alla funzione santificante della Chiesa, in riferimento a singoli fedeli vittime di tale condotta esecrabile e, tramite essi, a possibili aree anche vaste della comunità cristiana e non solo» (ivi, pp. 444-445). 461 E nonostante quello che afferma Papa Francesco, il quale in un recentissimo intervento ha dichiarato: «Una delle dimensioni del clericalismo è la fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento. Una volta un gesuita, un grande gesuita, mi disse di stare attento nel dare l’assoluzione, perché i peccati più gravi sono quelli che hanno una maggiore “angelicità”: orgoglio, arroganza, dominio… E i meno gravi sono quelli che hanno minore angelicità, quali la gola e la lussuria. Ci si concentra sul sesso e poi non si dà peso all’ingiustizia sociale, alla calunnia, ai pettegolezzi, alle menzogne. La Chiesa oggi ha bisogno di una profonda conversione su questo punto» (A. Spadaro, «La sovranità del popolo di Dio». I dialoghi di Papa Francesco con i gesuiti di Mozambico e Madagascar, pubblicato online il 26 settembre 2019 nel sito della rivista La civiltà cattolica). 462 Cfr. Papa Ratzinger: la Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali, cit.: «sì, il peccato e il male nella Chiesa ci sono. Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è indistruttibile. Anche oggi ci sono molto uomini che umilmente credono, soffrono e amano e nei quali si mostra a noi il vero Dio, il Dio che ama. Anche oggi Dio ha i suoi testimoni (“martyres”) nel mondo».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sua componente laicale ma anche in quella clericale, che tutti (anche i santi463) sono peccatori sulla via della metanoia, bisognosi non solo di perdono (tanto meno di quello ‘a buon mercato’), ma di ‘affidarsi’ per essere soccorsi, guidati, anche rimproverati e redarguiti. E, per l’altro, continuando a presidiare orgogliosamente quel fondamentale, irrinunciabile perché redentivo e salvifico, «diritto particolare dell’anima umana […] a un più personale incontro dell’uomo con Cristo crocifisso che perdona»464 nella confessione: un sacramento il cui rilievo eminente prescinde da ogni sua eventuale flessione nella pratica. D’altronde anche le proposte per ‘reidratarlo’465, comprese quelle volte a valorizzarne la dimensione comunitaria, non possono adombrare il dono interiore della grazia appunto nell’incontro individuale e personalissimo con Cristo. Un incontro guarificatore che avviene pure nell’‘ospedale da campo’ che la Chiesa vuole rappresentare per tutti coloro che a lei e ai suoi ministri con fiducia si rivolgono: da essi si esige ed insieme vantano il diritto di non esternare ciò che si è rivelato in foro Dei, secondo una terminologia antica, ma anche di non deludere chi a loro si indirizza per un’assistenza pastorale con una infedeltà rispetto a quanto confidenzialmente cognito in foro hominum. Un paradosso e una provocazione, quelli del sacerdote cattolico e del segreto da esso gelosamente serbato, e una controtestimonianza formidabile nell’odierna temperie del Grande Fratello elevato quasi a paradigma di una vita, cioè, costantemente squadernata e spettacolarizzata sotto il controllo totale delle telecamere e con l’obbligo, compiaciuto e quasi narcisistico, di una finta e contraffatta ‘confessione’

463 Scrive C. Redaelli, nella Presentazione al volume di E. Miragoli (a cura di), Il sacramento della penitenza. Il ministero del confessore: indicazioni canoniche e pastorali, cit., p. 5: «Ricordo molti anni fa una domanda che mi fece all’improvviso il mio confessore, un santo padre gesuita: “Chi c’è in paradiso, secondo te?”. Risposi subito meravigliato dell’interrogativo: “I santi”. “No - fu la controrisposta - il paradiso è pieno di peccatori perdonati”. […] Nessuno nella Chiesa può considerarsi non bisognoso di perdono: anche il Santo Padre - e papa Francesco ce lo ricorda continuamente e ce lo ha mostrato anche visivamente - ha necessità di perdono, ha bisogno di accostarsi al sacramento della penitenza». 464 V. San Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptor hominis, 4 marzo 1979, in Acta Apostolicae Sedis, LXXI (1979), n. 20, p. 287. 465 Adottiamo un’espressione di L. Orsy, Immaginare un futuro. Nello specchio del Vangelo, in Il Regno. Attualità, LXIV (2019), p. 387, il quale ripercorre anche sinteticamente la storia della prassi della penitenza.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 online esibita coram omnibus466. Proprio per l’anticonformismo insito in comportamenti che non si piegano a diktat superiori in ossequio all’indisponibile libertà di coscienza, essi sono mal tollerati ed osteggiati dal mainstream dominante. E, invece, è solo confidandosi nel riserbo del ministero sacro che il fedele può consegnare la sua interiorità al sacerdote quale alter Christus467 e anelare ad una redenzione non effimera e vacua:

466 V. per alcune considerazioni al riguardo F. Borghini, La comunicazione interpersonale oggi tra sfide e tutele, in Il sigillo confessionale e la privacy pastorale, cit., pp. 9-17. 467 Come poi recita il can. 695, «Minister sacramenti paenitentiae est solus sacerdos». Vanno bene intese le asserzioni, che sono state riportate sulla stampa, di suore missionarie in America Latina convenute a Roma in occasione del Sinodo dei Vescovi per l’Amazzonia svoltosi nell’ottobre 2019; così ha dichiarato una suora «Siamo presenti in ogni luogo e facciamo quello che può fare una donna in virtù del Battesimo: accompagniamo gli indigeni e quando i sacerdoti non possono essere presenti e c’è necessità di un battesimo, noi battezziamo. Se qualcuno desidera sposarsi, noi siamo presenti e siamo testimoni di questo amore e di questa coppia. E molte volte ci è toccato ascoltare confessioni, ma non abbiamo dato l’assoluzione: ma nel profondo del nostro cuore abbiamo detto che con l’umiltà con cui questo uomo o questa donna si sono avvicinati a noi per situazioni di malattia, già prossimi alla morte, crediamo che Dio Padre agisca lì» (A. Tornielli, Amazzonia, quelle suore che “ascoltano le confessioni”, pubblicato online sul sito Vatican News il 7 ottobre 2019); tuttavia tra i sacramenti del battesimo e del matrimonio e quello della penitenza corrono fondamentali differenze quanto proprio al ministro, e dunque la religiosa parla di ‘ascoltare confessioni’ non con riferimento al sacramento della riconciliazione. Certo, come spiegava V. Mauro rispondendo ad una domanda, «la Chiesa, nel suo ministero di riconciliazione, offre il perdono e la pace anche per vie non sacramentali, nelle quali agisce sempre lo Spirito di Cristo. Ogni cristiano può compiere gesti di riconciliazione. Per esempio, l’ascolto del fratello con cuore aperto, accogliendo il racconto della sua vita, non è solo una consolazione psicologica ma nella fede è un’apertura reale all’azione dello Spirito, che spesso aiuta il fratello a chiedere la riconciliazione sacramentale con maggiore fiducia. In questi gesti, sempre ecclesiali perché condivisi nella comune grazia battesimale, l’indole più specifica della donna può esprimersi in modi propri e fecondi. […] La Chiesa ha bisogno dei doni di tutti, nella consapevolezza che lo Spirito di Dio soffia dove vuole e da dove non sappiamo, ma siamo sempre chiamati ad ascoltarne la voce (cf Gv 3,8)», ma «la grande tradizione della Chiesa ha legato la riconciliazione dei peccatori pentiti al ministero sacerdotale» (Risponde il teologo. Perché non dare anche alle donne la possibilità di confessare?, pubblicato online sul sito Toscanaoggi.it il 2 aprile 2014). Invece recentemente fonti giornalistiche, sempre nel quadro del dibattito intorno al Sinodo dei Vescovi per l’Amazzonia, hanno riportato la richiesta, avanzata da una superiora di un monastero benedettino, di incaricare «donne di chiesa comprovate per la distribuzione dei sacramenti», in particolare del «sacramento dell’unzione degli infermi e della riconciliazione», chiedendosi però in questo modo, anche se non esplicitamente, di porre in discussione l’esclusione delle donne dall’ordine sacro (v. L. Scrosati, Donne “prete”, s’apre il fronte rosa del Sinodo, pubblicato online il 10 ottobre 2019 sul sito La nuova Bussola Quotidiana).

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«Alter Christus, il sacerdote è profondamente unito al Verbo del Padre, che incarnandosi ha preso la forma di servo, è divenuto servo (cfr Fil 2,5- 11). Il sacerdote è servo di Cristo, nel senso che la sua esistenza, configurata a Cristo ontologicamente, assume un carattere essenzialmente relazionale: egli è in Cristo, per Cristo e con Cristo al servizio degli uomini. Proprio perché appartiene a Cristo, il presbitero è radicalmente al servizio degli uomini: è ministro della loro salvezza, della loro felicità, della loro autentica liberazione, maturando, in questa progressiva assunzione della volontà del Cristo, nella preghiera, nello “stare cuore a cuore” con Lui»468. Come ha senza tentennamenti rimembrato San Giovanni Paolo II, tutti devono essere consci che «chiamando in causa il sacerdote confessore, attaccano un uomo senza difesa: la divina istituzione e la legge della Chiesa lo obbligano al totale silenzio “usque ad sanguinis effusionem”»469: nulla più del perdono misericordioso del peccato raffigura la divinità della Chiesa470. Se ciò non è pregnante segnacolo e manifestazione autentica della libertà religiosa, v’è da chiedersi cosa lo sia: libertà religiosa della persona come riverbero della sua intangibile dignità che è legato di valore inestimabile della tradizione giuridica occidentale471, il quale non può essere negletto o posposto ad altri a costo di un regresso davvero letale.

468 Benedetto XVI, Udienza generale, mercoledì 24 giugno 2009, consultabile online all’indirizzo www.vatican.va. 469 San Giovanni Paolo II, Discorso ai membri della Penitenzieria Apostolica e ai padri penitenzieri delle Basiliche romane, 12 marzo 1994, cit., p. 78. 470 V. L. Orsy, Immaginare un futuro. Nello specchio del Vangelo, cit., p. 389. 471 Scrive condivisibilmente A. Bettetini, Abusi sessuali e segreto confessionale, cit., p. 42: «nel bilanciamento tra due valori capitali del nostro ordinamento, quali la libertà di coscienza e di religione da un lato; l’esercizio dell’azione penale per punire un reato inumano dall’altro; nella tradizione giuridica occidentale prevale il primo, sia perché costituisce il nucleo più profondo della libertà e della responsabilità dell’uomo: tutelando questo bene si tutela l’umanità nella sua totalità e fondamentalità, in quanto l’assoluto, il generale, l’oggettivo sono presenti nell’uomo grazie alla coscienza; sia perché è la realtà che, dopo il bene della vita, in modo più originario e irremovibile appartiene alla persona umana, ed è a essa dovuta in giustizia. /E questo altro non è che il riflesso di quello che è il più prezioso contributo del mondo occidentale all’ordinamento giuridico della civiltà globale: il concetto di persona e della sua dignità, nella tutela dei suoi diritti inalienabili, primo dei quali è proprio quello di libertà religiosa. Altrimenti agendo, e fermo restando che deve essere fatto il massimo sforzo per punire e prevenire il crimine di abuso sessuale sui minori e le persone maggiormente vulnerabili, si avrebbe una retrocessione di civiltà giuridica, e quindi

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Abstract: The essay examines two classical themes of both Canon law and Ecclesiastical law, which are, respectively, the sacramental seal and the priest-penitent privilege. After recalling and summarizing canonical and secular legislations - and their encounters - as well as the pertaining Italian jurisprudence, some considerations are developed about the current weakening of defense of secrecy in relations between faithful and clergy which seems to take place in Italy and in many countries in the world. Pushed by increasing repression and prevention of child sexual abuse committed by clerics and religious, obligations to report have been introduced both in Canon law and in State laws, but such rules may lead to a serious compression of safeguard of secrecy of sacred ministers: namely, what is being more and more incisively restricted is clergymen’s right to abstain from testifying at trials. In this context, the risk is to forget that we are faced with an important expression of the faithful’s freedom of religion and of conscience.

Key words: priest-penitent privilege; sacramental seal; testimony; trial; obligation to report; sexual abuse; complaint of the aggrieved party.

umana […]». V. anche R. Navarro-Valls, Con el secreto de confesión, la pasión no debe oscurecer el sentido común, pubblicato online il 10 luglio 2019 in Religión Digital.

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JUS- ONLINE 1/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

TOMMASO GAZZOLO Ricercatore in Filosofia del Diritto, Università degli Studi di Sassari

Minority Report e il crimine senza crimine*

English title: Minority Report: a crime without crime DOI: 10.26350/18277942_000004

SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. I futuri multipli; 3. L’infallibilità della previsione; 4. Conoscenza necessaria e necessità del crimine; 5. Futuri contingenti; 6. Dal futuro al passato; 7. Il tempo del crimine.

1. Introduzione. Che cosa sarebbe un crimine – un’azione, cioè, considerata in quanto delittuosa – senza crimine, senza cioè che l’azione stessa sia stata compiuta? Minority Report1 consente di articolare questa domanda, nei problemi che essa mette in gioco, ed in ciò che permette di pensarla. Dick fa del tempo, della riflessione sul carattere intrinsecamente temporale del crimine, il punto che consente questo passaggio: dal crimine che è tale in quanto accaduto, al crimine che è tale in quanto accadrà. Per questo, nel racconto, si tratterà di pensare anzitutto ciò che va sotto il nome di precrimine, di un crimine prima del crimine. Si potrebbe obiettare, è vero, che in realtà non saremmo di fronte ad un “crimine”, propriamente parlando: si tratterebbe, piuttosto, di impedire che lo si commetta, di intervenire prima che un crimine possa essere compiuto – secondo una profilassi, una logica della prevenzione, della sorveglianza capillare sui cittadini. Il racconto stesso lo suggerisce, per certi versi: il precrimine è ciò che consente la «pre-detenzione profilattica

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. 1 P.K. Dick, The Minority Report, in Fantastic Universe, 4 (1956), pp. 4-36; trad. it. Rapporto di minoranza, in Rapporto di minoranza e altri racconti, trad. it. di P. Prezzavento, Roma 2002. Per una introduzione ai temi filosofici presenti nella narrativa di Philip K. Dick, cfr. F. Rispoli, Universi che cadono a pezzi. La fantascienza di Philip K. Dick, Milano 2001; D.E. Wittkower (a cura di), Philip K. Dick and Philosophy. Do Androids Have Kindred Spirits?, Chicago 2011; S.J. Umland (a cura di), Philip K. Dick. Contemporary Critical Interpretations, Westport-London 1995.

VP VITA E PENSIERO

JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dei criminali»2. Ma, se le cose ci appaiono in questo modo, è solo perché stiamo già assumendo che l’idea di un crimine ante factum, di un crimine prima del crimine, sia una contraddizione in termini, e che potremmo, pertanto, parlare soltanto di un crimine che è stato prevenuto, che non c’è stato e che, quindi, come tale, non è un “crimine”3. Il punto, però, è che proprio tale assunzione è quanto dev’essere abbandonato, perché il testo di Dick possa essere seguito in quel che tenta di pensare. Il testo ha in fin dei conti poco interesse, finché lo si legge secondo il registro della denuncia di una certa società del controllo, poliziesca, della sorveglianza – che è poi la nostra, e non certo un’altra4 –,

2 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 47. 3 Come sottolinea, tra gli altri, T. Elsaesser, Philip K. Dick, Hollywood e le causalità retroattive: il caso di Minority Report, in Imago. Studi di cinema e media, 10, 2 (2014), p. 91: «la stessa efficacia del programma Precrimine rappresenti in verità un eccesso di perfezione. Anticipare un reato evitando che il crimine venga commesso ha infatti come conseguenza (involontaria ma inevitabile) il fatto che la società crei (e incarceri) criminali che sono innocenti, agendo perciò essa stessa in modo immorale se non direttamente criminale. Il loop, basato sulla prevenzione e sulla deterrenza, rappresenta qui uno stallo morale, con la parte viziosa che cancella quella virtuosa». 4 Del resto, la forma di conoscenza, e quindi la concezione di verità ed i meccanismi della sua enunciazione che il pre-crimine implica, ci apparirà estranea al funzionamento della nostra pratica giudiziaria soltanto se la assumiamo come storicamente determinata a partire dall’indagine, fondata sulla testimonianza di ciò che è stato. Ma – Foucault vi ha dedicato analisi essenziali – l’indagine, come pratica dell’accertamento della verità nel diritto, non solo non si è affermata che da determinate condizioni politiche e sociali, ma, soprattutto, a partire dal XIX secolo è stata affiancata da pratiche – come ciò che Foucault chiama l’examen, l’esame – che determinano nuove “forme” di verità, nuovi modi mediante i quali si forma un sapere sul crimine. Per quanto qui interessa, dobbiamo sottolineare due aspetti. Il primo è che solo nel momento in cui l’indagine si afferma quale metodo di accertamento della responsabilità, si passa da un modo di enunciazione della verità di tipo profetico – e che dunque si ha nella forma del futuro (il crimine che verrà compiuto) – ad uno di tipo retrospettivo, che appartiene all’ordine della testimonianza, del sapere ciò che è stato. La scoperta giudiziaria della verità, dunque, soltanto a partire da un certo periodo storico – e certamente nell’ambito del pensiero greco – si è definita a partire dal riferimento al passato, dal primato del passato (e ciò dovrebbe, pertanto, ricordare come non vi sia nulla di naturale in tale concezione). Il secondo aspetto, invece, è legato al fatto che la nascita di discipline quali la criminologia, e le stesse trasformazioni della penalità alla fine del XIX secolo, determinano un nuovo spostamento: nel momento, infatti, in cui la pericolosità sociale ha fatto il suo ingresso nel diritto penale (almeno con riferimento alle misure di sicurezza), nel momento, cioè, in cui l’individuo viene in considerazione per la probabilità che possa commettere nuovi reati, il sapere che si lega ad essa non ha più nulla a che vedere con il problema di accertare se qualcosa sia accaduto o meno nel passato, ma con quello di esaminare le potenzialità dell’individuo, il suo modo d’essere, il pericolo che egli possa commettere

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 e ciò per quanto queste possano essere state le stesse “intenzioni” dell’autore. L’idea che il crimine venga eliminato prevenendolo, è certamente presente, ma è anche in fondo smentita dallo stesso testo: la pre-visione del crimine, infatti, non comporta che esso non esista più, ma che esso continui ad esistere senza tuttavia essere mai presente, senza realizzarsi. Ciò che il pre-crimine implica, infatti, è che «la perpetrazione del crimine stesso» divenga «un qualcosa di assolutamente metafisico» (So the commission of the crime itself is absolute metaphysics)5. Il che significa: non si tratta tanto dell’assenza di un crimine, quanto del fatto che la sua presenza non coincide con il factum, con il suo verificarsi nella realtà. Il crimine in un certo modo accade, si realizza, l’azione si compie: ma non in un tempo che sia mai stato o sarà mai presente. Non ci sarà infatti mai un momento del tempo in cui si potrà dire che io sia colpevole: non ora, in quanto non ho commesso alcun crimine; non in un futuro destinato a divenire presente, in quanto – grazie al fatto di essere arrestato – non lo commetterò più. Se c’è crimine, se c’è «colpevole», questa esistenza non sta sul piano di ciò che, prima o poi, sarà presente in un qualche momento del tempo. Ed è proprio questo “crimine senza crimine” che costituisce il concetto che viene progressivamente delineato nel testo di Dick, secondo una serie di operazioni che dovremo, ora, analizzare.

2. I futuri multipli. Il tema del pre-crimine viene articolato, nel racconto, attraverso il ricorso ad una temporalità che è definita dalla logica dei futuri multipli. Sappiamo che Anderton scopre, leggendo il “rapporto di maggioranza”, che ciò che i pre-cog hanno previsto è che egli ucciderà Leopold Kaplan. Poiché non sa neppure chi sia la futura vittima, e sa di non poter avere alcuna “intenzione” di ucciderlo, egli sospetta immediatamente che la relazione sia falsa, che sia stata manomessa dal suo nuovo assistente per prendere il suo posto. Mentre si sta preparando a fuggire per sottrarsi

crimini in futuro. Sul punto, il riferimento è soprattutto a M. Foucault, La verità e le forme giuridiche (1973), trad. it. in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault 2. Interventi, colloqui, interviste. 1971-1977, a cura di A. Dal Lago, Milano 2017, pp. 83- 165. 5 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 29.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 all’inevitabile arresto, Anderton viene sequestrato dagli agenti di Kaplan e portato davanti a quest’ultimo. Kaplan – capo di una organizzazione di veterani molto influente – gli rivela di essere a conoscenza del rapporto, e che per questo – secondo quello che è il funzionamento normale della Precrimine – lo farà subito consegnare alla polizia, affinché lo prenda in custodia. Durante il trasporto, Anderton viene aiutato a fuggire e a nascondersi da un certo Fleming, il quale dice di far parte di una specie di polizia che ha il compito di sorvegliare la polizia, e che lo informa che il rapporto è stato falsificato e che si tratta, come egli aveva sempre sospettato, di una manovra per incastrarlo. E’ a questo punto che Anderton riesce ad accedere a quello elaborato dal pre-cog che egli sa essere il rapporto di “minoranza”, quello di Jerry, e legge per la prima volta ciò che questi ha visto. Di esso sappiamo per ora solo questo: la sequenza temporale che Jerry ha visto è relativa a ciò che è accaduto dopo che Anderton ha saputo che avrebbe ucciso Kaplan. Il solo fatto di sapere che avrebbe commesso l’omicidio, avrebbe infatti indotto Anderton a rinunciare: egli «avrebbe cambiato idea e non l’avrebbe compiuto. La previsione dell’omicidio lo avrebbe cancellato: la profilassi si sarebbe verificata semplicemente informando il futuro omicida»6. Anderton si convince, pertanto, che il rapporto di Jerry, invalidato dagli altri due, sia quello corretto, in quanto, venendo dopo gli altri, ha potuto tener conto delle conseguenze che la conoscenza, da parte di Anderton, del rapporto di maggioranza avrebbe determinato. Il “rapporto di minoranza” sarebbe, in questo senso, quel futuro che sarà a partire dall’assunzione come dato del rapporto di maggioranza. Non occorre, qui, ripercorrere nei dettagli l’intreccio – la discussione con la moglie Lisa, lo scontro con Fleming, che si rivela essere un agente di Kaplan. Giungiamo al momento in cui Anderton capisce che Kaplan, che è in possesso del rapporto di minoranza, intende sfruttarlo per screditare il sistema pre-crimine: egli potrà dimostrare, infatti, che, poiché l’analisi predittiva dei pre-cog non tiene conto di ciò che la sua stessa esistenza determina, essa giunge sempre a conclusioni sbagliate. Il solo fatto di sapere che commetterò un crimine per ciò stesso mi determinerebbe a non commetterlo. Come dirà Kaplan:

6 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 53.

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[…] Non può esistere alcuna valida conoscenza del futuro. Non appena si ottiene un’informazione precognitiva, questa si cancella da sé (as soon as precognitive information is obtained, it cancels itself out). L’affermazione che quest’uomo commetterà un omicidio è paradossale (paradoxical). Il solo fatto di possedere in anticipo questo dato la rende spuria. In ogni caso, e senza eccezione, il rapporto dei tre precog della Polizia ha invalidato i loro stessi dati di partenza. Anche se non ci fosse stato alcun arresto, non sarebbe stato comunque commesso alcun crimine (If no arrests had been made, there would still have been no crimes committed)7.

Un futuro che sia conosciuto in anticipo si revoca da sé, si cancella da sé come futuro. Questa è la tesi di Kaplan, e la tesi che anche Anderton pensa di poter ricavare dopo aver letto quello che crede essere il rapporto di “minoranza” di Jerry. Ciò che tuttavia la lettura degli altri due rapporti mostra, è che tutte e tre le sequenze temporali sono differenti. Il primo rapporto, Donna, è quello che Jerry ha assunto come dato. Donna pre-vede un futuro che non è quello che si è verificato. In esso Kaplan rivela a Anderton il complotto ai suoi danni, ed egli lo uccide. Jerry, come sappiamo, utilizza il materiale di Donna, invalidandolo. Ma Mike, il terzo pre-cog, viene a sua volta dopo Jerry. Egli vede come Anderton, una volta che sia venuto in possesso del rapporto di Jerry – come accade nella storia – capisca che non uccidere Kaplan significherebbe mettere fine alla polizia, al sistema pre-crimine, e scelga pertanto di sparargli:

“Mike” è stato l’ultimo dei tre, certo. Avendo saputo dell’esistenza del primo rapporto, avevo deciso di non uccidere Kaplan. Ciò ha prodotto il secondo rapporto. Ma di fronte a quel rapporto, ho cambiato idea un’altra volta. Il rapporto due, la situazione due, era quella che Kaplan voleva creare. Era vantaggioso per la Polizia ricreare la posizione uno. E, arrivato a quel punto, io avrei pensato alla Polizia. Avrei capito ciò che Kaplan stava facendo. Il terzo rapporto invalidava il secondo proprio come il secondo invalidava il primo. Questo ci ha riportati alla situazione di partenza8.

7 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., pp. 69-70. 8 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 73.

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Non c’è dunque mai stato un rapporto di maggioranza. I tre rapporti, diversamente, sono consecutivi: il futuro del primo è assunto come dato dal secondo rapporto, che lo invalida, e a sua volta il futuro del secondo è invalidato dal terzo. Ma se Anderton, infine, ucciderà Kaplan, proprio come avevano previsto i pre-cog, ciò non vale a confermare l’esattezza della loro previsione? In fondo, il racconto di Dick – ma torneremo su questo punto – non sembra mai smentire in alcun punto ciò che il lettore tende sempre a sospettare: che le previsioni dei pre-cog siano realmente infallibili, che esse non siano affatto smentite9.

3. L’infallibilità della previsione. Nel pre-crimine, la pre-visione che consente di conoscere anticipatamente il delitto prima che sia commesso, si esprime normalmente – a differenza di quanto accade nel caso di Anderton – attraverso la formazione di un rapporto di maggioranza. E’ quanto Anderton ribadisce: «l’unanimità tra tutti e tre i pre-cog è un fenomeno auspicabile ma che si verifica di rado»10. Se seguiamo ancora il suo discorso, la necessità di tre previsioni dipenderebbe dall’esigenza di verificare, di controllare l’esattezza del risultato della prima. La seconda previsione può infatti coincidere con la prima, validandola. Ma, laddove si crei un contrasto tra le due, la terza previsione interviene risolvendo il contrasto: «si può presumere con buona approssimazione che la concordanza di due computer su tre indichi quale dei due risultati alternativi sia più accurato»11. Si tratterebbe dunque di una logica che ha a che vedere con il calcolo, con la probabilità, con ciò che dovrebbe, in ultima istanza, unicamente verificare la correttezza di una previsione? E’ evidente che non si tratti di questo, se lo stesso Anderton, come ricordato, fa notare

9 Certamente, nel caso di Anderton – che è pero un caso “eccezionale”, l’unico caso in cui il soggetto che commetterà il crimine viene a conoscenza della previsione – i rapporti dei pre-cog funzionano secondo un «loop di causalità che si autoannulla», nel senso che «i rapporti di minoranza successivi sono la conseguenza di un feedback positivo, in cui è il prodotto del sistema stesso (i rapporti di minoranza) ad essere costantemente ridato in pasto al sistema come input, creando perciò una destabilizzazione permanente sia dell’identità dell’eroe che delle relazioni di potere del sistema stesso» (T. Elsaesser, Philip K. Dick, Hollywood e le causalità retroattive: il caso di Minority Report, cit., p. 94). 10 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 48. 11 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 48.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 come sia necessario che esistano sempre diversi percorsi temporali, che non vi sia un unico sentiero, perché altrimenti non esisterebbe neppure la possibilità di arrestare il futuro colpevole, di «alterare il futuro». Affinché il sistema funzioni – affinché cioè sia possibile anticipare il crimine che i precog hanno pre-visto – occorre, cioè, che l’informazione fornita circa ciò che accadrà possa essere smentita dall’intervento tempestivo della polizia. Ma le profezie dei pre-cog sono corrette? Il delitto che prevedono, si compirebbe davvero se la polizia non intervenisse per tempo? Kaplan ha davvero ragione, quanto sostiene che la polizia in realtà non conosce affatto il futuro o, quantomeno, non può avere la certezza di conoscerlo? Il fatto stesso di possedere l’informazione precognitiva “x ucciderà y”, e di agire preventivamente impedendo che ciò si verifichi, non rende impossibile sapere se x avrebbe davvero ucciso y, laddove la polizia non fosse intervenuta? Certamente, se non disponesse di questa informazione, la polizia non potrebbe intervenire – ma ciò non assicura che sia vera. L’obiezione di Kaplan, in fondo, è ancor più radicale: come sarebbe possibile commettere un crimine laddove sia certo che esso verrà commesso – con la conseguenza che mi sarà reso impossibile commetterlo? Per cosa vengo arrestato, se per il fatto stesso dell’arresto viene smentito quel futuro in cui commetto il crimine e che è stato la ragione del mio arresto? Come rispondere a queste domande? Bisogna cominciare a distinguere, per prima cosa, tra l’informazione finale che è elaborata dal computer – la “scheda” che annuncia il delitto che si compirà – e i tre rapporti dei pre-cog, le loro visioni. Per farlo, dobbiamo provare a ipotizzare il modo in cui i diversi rapporti si articolano tra loro per tutti i casi ordinari, in cui il sistema funziona normalmente. E che funzioni, che le visioni dei pre-cog siano, nel futuro che delineano, infallibili, è ciò che risulta dal racconto stesso: anche di fronte al caso che dovrebbe ritenersi eccezionale, in realtà i pre-cog dimostrano di aver previsto correttamente il futuro. Cominciamo a chiederci, allora, che cosa renda possibile l’elaborazione della scheda definitiva, che la Precrimine riceve dai computer, in cui viene indicato il nome dell’autore, il delitto che verrà commesso e la vittima12, in

12 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 32.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 cui, cioè, il “rapporto di maggioranza” dei pre-cog giunge alla previsione che un crimine verrà commesso. Ipotizziamo che l’informazione, la scheda finale, sia del tipo “X ucciderà Y”. Sappiamo che questa previsione non accadrà: la polizia, sulla base di essa, arresterà infatti X. Era allora falsa? Ma cosa significa? Siamo di fronte al problema della verità o falsità delle proposizioni concernenti eventi futuri – a quello dell’applicabilità o meno del principio di bivalenza a tali enunciati. Che cosa implica, dobbiamo chiederci, che una proposizione del tipo “domani ci sarà un omicidio” sia vera o falsa fin dal momento della sua formulazione? Certamente, per sapere se essa sia vera o falsa dovrò attendere domani. Ma ciò implicherebbe comunque negare il carattere contingente del futuro. Proviamo a fare due ipotesi. Se l’omicidio si verificherà, allora posso dire era vero fin da ieri che si sarebbe verificato. Ma se ciò era già vero prima che esso fosse commesso, allora devo concludere che era necessario che si verificasse, che era impossibile che non accadesse. Viceversa, se l’omicidio non avviene, posso dire che era già falso ieri sostenere che esso sarebbe stato commesso: il che equivale a dimostrare che era impossibile che avesse luogo. In altri termini, se le proposizioni riguardanti eventi futuri fossero già vere o false nel momento in cui vengono formulate, ne conseguirebbe il venir meno di ogni contingenza. E’ l’aporia già individuata da Aristotele:

[…] se qualcosa è bianco ora, era vero dire prima che sarà bianco, cosicché sempre era vero dire in precedenza, di qualsiasi cosa di quelle che sono venute ad essere, che sarebbe stata; e se sempre era vero dire in precedenza che qualcosa è ora o sarà, ciò non è in grado di non essere ora o nel futuro. E ciò che non è in grado di non venire ad essere, è impossibile che non venga ad essere; e ciò che è impossibile che non venga ad essere, è di necessità che venga ad essere; e quindi tutto ciò che sarà nel futuro è necessario che venga ad essere13.

Per evitarla, dovremmo allora limitare la validità del principio di bivalenza agli eventi passati o presenti? Non possiamo qui discutere la ripresa e la riformulazione del problema che è avvenuta almeno a partire dai lavori di Łukasiewicz – nonché soffermarci sullo stato del dibattito

13 Aristotele, De Interpretatione, 18b 10-15, trad. it. A cura di A. Zadro, Napoli 1999, p. 144.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 contemporaneo sul tema, soprattutto in ambito analitico. Ciò che, tuttavia, possiamo osservare è come una delle soluzioni proposte sia quella di considerare tali proposizioni sottratte al principio di bivalenza: non si tratterebbe, cioè, di proposizioni vere o false, ma indeterminate14. Esse non sarebbero, in altri termini, vere o false al momento della loro enunciazione. Se ciò che enunciano sia vero o falso, non è deciso in questo momento. Potremmo dire, piuttosto, che è dotato di un certo grado di probabilità – come Anderton sembra suggerire spiegando il funzionamento dei computer alla base del sistema Pre-crimine. Eppure non è questa la strategia che segue Dick: non si tratta, infatti, di affermare la probabilità, di prevedere il futuro delitto con un certo grado di probabilità. Il pre-crimine è a rigore infallibile – questa ipotesi, a leggere attentamente il testo, non è mai messa in dubbio, non è mai smentita, come si è già ricordato. Per capire come Dick risolva l’aporia – che è quella che denuncia Kaplan – dobbiamo invece tener sempre distinti due livelli: quello della visione, di ciò che vedono i pre-cog, e quello dell’informazione, di ciò che in base alla visione risulta dal rapporto. Ciò che vedono i pre-cog, va sempre ricordato, non è mai da loro compreso: essi sono immersi nel «caos senza senso dell’idiozia»15, non capiscono nulla delle immagini che scorgono, avvolti nell’ombra della loro demenza. Se essi forniscono informazioni, certamente non le comprendono. Ma cosa significa, questo, se non che tra ciò che accade e ciò che si predica di esso, tra l’evento e la sua previsione si introduce sempre una distanza, uno iato, uno scarto? E’ questo che occorre spiegare, facendo un passo avanti. Dobbiamo tener presente che quello che si scopre, nel racconto, è che i futuri che vedono i pre-cog non sono, come Anderton ha sempre creduto,

14 J. Łukasiewicz, On Determinism, in Id., Selected Works, a cura di L. Borrowski, Amsterdam-London 1970, p. 126: «I maintain that there are propositions which are neither true nor false but indeterminate. All sentences about future facts which are not yet decided belong to this category. Such sentences are neither true at the present moment, for they have no real correlate, nor are they false, for their denials too have no real correlate. If we make use of philosophical terminology which is not particularly clear, we could say that ontologically there corresponds to these sentences neither being nor non-being but possibility. Indeterminate sentences, which ontologically have possibility as their correlate, take the third truth-value». 15 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 52.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 alternativi. Non vi è affatto la necessità che vi sia sempre più di un sentiero temporale, affinché la polizia possa intervenire per tempo. Il sentiero è sempre uno solo, ma si modifica nel suo stesso farsi16. Se i rapporti sono consecutivi, come Anderton si accorge, è perché ciascun pre-cog utilizza il rapporto del pre-cog precedente come «dato di partenza»17. Spieghiamo il punto. L’informazione finale, la proposizione predittiva “x ucciderà y” rimanda alle tre visioni che i pre-cog hanno avuto. Il primo pre-cog, certamente, vede l’omicidio: vede, cioè, in un futuro, che per lui è il presente, che x uccide y. L’informazione che trasmette, pertanto, nel tempo presente, è “x ucciderà y”. Il secondo pre-cog vede il futuro che ora l’informazione del primo pre-cog ha modificato: vede, cioè, che il primo ha fornito la previsione – infallibile – della futura uccisione, e che in forza di questa informazione la polizia arresterà il colpevole. Il risultato, per lui, è dunque che x non ucciderà y. Dal punto di vista della predicazione, dell’ “informazione” che il computer potrebbe ricavare, al momento avremo perciò le due schede alternative: P1 (“x ucciderà y”) e P2 (“x non ucciderà y”). Sappiamo dalla scheda finale che la terza previsione avrà come risultato quello di far sì che l’informazione sarà del tipo “x ucciderà y”. Dobbiamo allora chiederci come ciò sia possibile. Infatti, il futuro che si verificherà è un altro: x, alla fine, non ucciderà y, poiché sarà arrestato prima di poter commettere il fatto. Cosa vede il terzo pre-cog, allora? Anche la previsione del pre-cog dev’essere consecutiva rispetto alle prime due: egli vede, cioè, a partire da esse. Vede, dunque, il futuro – che è

16 Come osserva D. Velo Dalbrenta, Criminalità come destino? Philip K. Dick e lo straniante mondo di Minority Report, in Teoria e Critica della Regolazione Sociale, 1, 18 (2019), p. 167, secondo la teoria dei futuri multipli ciascuna delle previsioni dei pre- cog «ha seguito una linea di sviluppo diversa, derivante dall’annullamento della linea precedente. Difatti, sembra suggerire Dick, il modificarsi delle circostanze, nel tempo, modifica la coscienza, e, forse, lo stesso senso dell’identità di Anderton». Dobbiamo, credo, distinguere, allora: il futuro che il singolo pre-cog vede, non è mai “errato”, in quanto è l’unico futuro possibile, in quel momento. Esso, però, si modificherà. 17 Questo assunto, lo ricaviamo da come il racconto spiega si siano definiti i tre rapporti nell’unico caso che conosciamo, che è quello che vede come protagonista Anderton. Se l’eccezione, qui, è costituita dal fatto che Anderton, per la sua particolare posizione, viene a conoscenza del rapporto che lo riguarda, essa non dovrebbe intaccare il fatto che il secondo pre-cog, come viene spiegato, abbia utilizzato il rapporto del primo «come dato di partenza» (p. 73). Il primo sentiero temporale viene dunque «superato» (p. 63), nel senso di modificato attraverso il suo essere ripreso.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 quello che si verificherà – in cui x non uccide y perché è stato arrestato dalla polizia che ha ricevuto l’informazione P1, e non quella P2. Il terzo pre-cog, in altri termini, vede il futuro in cui la polizia non ha ricevuto il rapporto del secondo pre-cog (ossia l’informazione: x non ucciderà y). Un futuro in cui egli stesso ha convalidato – cosa che infatti farà – il primo rapporto, che è la condizione indispensabile affinché esso si verifichi. Perché la polizia possa arrestare x, occorre infatti che il rapporto finale la informi che x ucciderà y18. Nel futuro che il terzo pre-cog vede, egli stesso ha necessariamente convalidato la proposizione P1: “x ucciderà y”. In questo terzo futuro, dunque, si verifica l’evento che ha visto il secondo pre-cog, ma ad essere stata convalidata è la proposizione che ha fornito il primo rapporto.

4. Conoscenza necessaria e necessità del crimine. Quanto all’evento, la maggioranza dei pre-cog, due su tre, vede che esso non si verificherà. Ed è esattamente così, infatti, che andranno le cose. Quanto, invece, alla proposizione sull’evento, alla proposizione che ne dice la necessità, anche qui la maggioranza dei pre-cog, sempre due su tre, vede un futuro nel quale, tra le due, quella vera è la proposizione p “x ucciderà y”. Ci sarebbe in altri termini uno scarto, una discrasia, una mancata corrispondenza tra l’evento e la proposizione che dice la necessità dell’evento.

18 E’ su questo punto, dobbiamo qui precisare, che la nostra analisi procede necessariamente senza tener conto del modo in cui il testo di Dick è stato ri-attivato nel film di Spielberg, Minority Report, 2002. Su quest’ultimo, e sulle relazioni con lo stesso racconto di Dick, si rimanda a D. Velo Dalbrenta, Crimini predicibili? L’eclissi del diritto penale moderno in Minority Report di Steven Spielberg, in L’Ircocervo (2017), pp. 40-69; J. Früchtl, For here there is no place that does not see you:”'Minority Report” and Art as de/legitimisation, in Necsus, 5, 2 (2016), pp. 73-88; J.P. Vest, Future Crime: Minority Report, in Id., Future Imperfect. Philip K. Dick at the Movies, Lincoln – London 2009, pp. 115-142; M. Huemer, Free Will and Determinism in the World of Minority Report, in S. Schneider (a cura di), Science Fiction and Philosophy. From Time Travel to Superintelligence, West Sussex 2009, pp. 104-115; D.A. Kowalski, Minority Report, Molinism, and the Viability of Precrime, in D.A. Kowalski (a cura di), Steven Spielberg and Philosophy. We’re Gonna Need a Bigger Book, Kentucky 2008, pp. 227-247;M.G. Cooper, The Contradictions of Minority Report, in Film Criticism, 28, 2 (2004), pp. 24-41; A. Soncini, La fine dello sguardo: Minority Report di Steven Spielberg, in Cineforum (2002), pp. 8-11.

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Si tratta, del resto, di due necessità differenti. La scolastica medievale aveva già distinto due diversi sensi della modalità. Nell’opuscolo De propositionibus modalibus, attribuito dalla tradizione a Tommaso, viene indicato come la modale possa, anzitutto, essere de dicto, se il dictum funge da soggetto e il modo è ciò che è predicato di quanto viene detto: Socratem currere est possibile, che Socrate corra è cioè detto possibile. Diversamente, la modale è de re, se il modo interponitur al detto, se cioè la modalità si riferisce a come il predicato inerisce al soggetto: Socratem possibile est currere, dove viene detto che è propria di Socrate la possibilità di correre19. La modalità de dicto, cioè, si riferisce all’intera asserzione, è una modalità “proposizionale”, mentre il senso de re è relativo all’evento o al soggetto della proposizione. La prima necessità – come è stato osservato - è di tipo semantico, è riferita alla proposizione (ha carattere pertanto metalinguistico). La seconda, invece, è ontologica, è relativa all’evento20. L’una si riferisce alla necessità di ciò che è detto, l’altra alla necessità della cosa che è detta. Distinguere tra questi due livelli è ciò che consente di capire in che senso sia necessaria la previsione dei pre-cog del tipo “x ucciderà y”. Essa può infatti significare:

19 De propositionibus modalibus, a cura di H.-F. Dondaine, in Sancti Thomae de Aquino, Opera Omnia XLIII, Roma 1976, p. 421: «Propositionum utem modalium quedam est de dicto, quedam de re. Modalis de dicto est in qua totum dictum subicitur et modus predicatur, ut cum dicitur ‘Socratem currere est possibile’. Modalis autem de re est quando modus interponitur dicto, ut cum dicitur ‘Socratem possibile est currere’». Non è possibile, in tale sede, affrontare la questione neppure nelle sue linee generali – specie se si tiene conto degli sviluppi e del dibattito nella filosofia analitica contemporanea. Per ciò che qui interessa, si rimanda a G. Corà, “De re” e “de dicto”. Riferimento modale e possibilità in Aristotele, in Verifiche, 17 (1988), pp. 3-60; M. Astroh, Petrus Abelardus on Modalities de re and de dicto, in T. Bucheim (a cura di), Potentialität und Possibilität. Modalaussagen in der Geschichte der Metaphysik, Stuttgart 2001, pp. 79-95; W. Kneale, William of Auvergne on De re and De dicto Necessity, in Modern Schoolman, 69 (1992), pp. 111-121; C. Normore, Ockham and the Foundations of Modality in the Fourteenth Century, in M. Cresswell - E. Mares - A. Rini (a cura di), Logical Modalities from Aristotle to Carnap: The Story of Necessity, Cambridge 2016, pp. 133–153. Si veda infine anche M. Mugnai, Possibile/necessario, Bologna 2013; S. Knuuttila, Modalities in Medieval Philosophy, London-New York 1993. 20 Per tale corrispondenza tra de dicto-semantico e de re-ontologico, cfr. E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Macerata 2011, pp. 387-388.

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(1) De dicto - è necessariamente vero che x ucciderà y, che significa anche, nella nostra rilettura: “x ucciderà y” è necessariamente vera, ove la necessità è predicata della proposizione che afferma l’evento. Si tratta, diremmo, di una necessità semantica, necessità dell’enunciato. E’ il dictum, cioè che viene detto, ad essere affermato come necessario;

(2) De re - x ucciderà necessariamente y: dove la necessità si riferisce invece all’evento stesso. All’evento è cioè attribuita la proprietà di verificarsi necessariamente. Qui la necessità è cioè dell’evento o dello stato di cose sul quale verte la proposizione.

La conoscenza dei pre-cog è infallibile, ma essa non implica in alcun modo la necessità de re che l’evento si verifichi. L’argomentazione era già presente in Tommaso: il fatto che Dio conosca i futuri contingenti, non significa che essi accadano per una loro propria necessità. Dio, infatti, conosce i futuri come presenti, dal momento che la sua conoscenza è «presente a tutte le cose». In tal senso, ogni cosa è conosciuta da Dio come ciò che si vede di presenza: per questo tutto ciò che Dio conosce è necessario, «come è necessario che Socrate sieda quando si vede che siede»21. La proposizione “chi si vede sedere è necessario che sieda” – la quale si ricava dalla condizionale “Se è veduto sedere, siede” – , allora, potrà essere intesa in due sensi: (a) in senso composito, ossia come enunciato, essa è vera, in quanto afferma che sedere è una conseguenza necessaria dell’essere veduto sedere (necessità della conseguenza); (b) in senso diviso, ossia come «dato oggettivo»¸ essa è invece falsa, in quanto affermerebbe la necessità del conseguente, ossia la necessità dell’oggetto o dello stato di cose conseguente. La distinzione richiama quella, che abbiamo visto, tra modalità de dicto e de re. Così ancora Tommaso precisa:

[…] quando si dice che Tutto ciò che Dio conosce è necessario, questa proposizione ha un duplice significato, in quanto può riguardare o l’enunciato o la cosa. Se riguarda l’enunciato, in tal caso la proposizione è composta ed è vera e il [suo] senso è il seguente: l’enunciato [nel quale si

21 Tommaso, Summa contra Gentiles, I, LXVII; trad. it. Somma contro i gentili, a cura di T.S. Centi, Torino 1975, p. 199.

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dice che] Ogni cosa che Dio conosce esiste è necessario, poiché è impossibile che Dio conosca che qualcosa esiste e che esso non esista. Se riguarda la cosa, allora [la proposizione] è divisa e falsa e il [suo] senso è il seguente: ciò che è conosciuto da Dio è necessario che esista. Infatti, le cose conosciute da Dio non per questo accadono necessariamente22.

Possiamo pertanto affermare, in prima battuta, che ciò che i pre- cog vedono è necessario che si verifichi, ma ciò non significa che si verifichi necessariamente. O, in altri termini, dalla verità di (a) “è necessariamente vero che x ucciderà y”, non segue che (b) “se x uccide y, allora era necessario che lo facesse”. La strategia di Dick – che è ciò che rende pensabile, che consente di pensare il concetto di pre-crimine senza che l’obiezione di Kaplan possa fare davvero presa – è quella tuttavia di non limitarsi alla discrasia, lo scarto, tra questi due registri, tra il semantico e l’ontologico, tra la necessità della proposizione e la necessità dell’evento che essa ha ad oggetto. Egli si spinge più avanti, e in un’altra direzione. Infatti:

(a) da una parte, abbiamo la necessità de dicto, la verità della proposizione che dice che “x commetterà un delitto”. E’ questa necessità che giustifica l’arresto di «individui che non hanno infranto alcuna legge» (We’re taking in individuals who have broken no law) e che garantisce la verità del commento di Witwer: «ma che sicuramente la violeranno» (But they surely will) 23;

(b) dall’altra, il non verificarsi dell’evento: «Per fortuna non lo faranno» (Happily they don’t), come aggiunge ancora Anderton nel corso del dialogo sopra ricordato con Witwer. L’evento non accadrà mai, non sarà

22 Tommaso, De Veritate, 2, 12; trad. it. Sulla verità, a cura di F. Fiorentino, Milano 2005, p. 285. Cfr. anche Tommaso, Logica dell’enunciazione. Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias, XIV, 196, a cura di G. Bertuzzi e S. Parenti, Bologna 1997, p. 220: «Ora, per il fatto che un uomo vede che Socrate è seduto non si toglie la contingenza di ciò, perché essa riguarda l’ordine della causa all’effetto; tuttavia l’occhio dell’uomo vede in modo certissimo e infallibile che Socrate sta seduto, fintanto che sta seduto, perché ogni cosa, in quanto è in se stessa, è determinata. Così dunque resta chiaro che Dio conosce tutte le cose che accadono nel tempo in modo certissimo e infallibile, e tuttavia quelle cose che accadono nel tempo non sono o divengono per necessità, ma in modo contingente». 23 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 29.

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mai commesso quel crimine di cui sappiamo che è vero che sarà necessariamente commesso.

Dick giunge fino al punto di pensare come la necessità che il crimine accada sia esattamente ciò che fa sì che esso non accadrà mai. Il pre- crimine sarebbe dunque quel crimine che necessariamente sarà compiuto, ma che proprio per questo non verrà mai compiuto.

5. Futuri contingenti.

“Se stiamo parlando di Philip, essenzialmente direi che è vero – solo che non è accaduto” (Kleo Mini, febbraio 198624).

Questa scissione tra semantico e ontologico viene portata da Dick fino al suo punto estremo – ed è solo da qui che il tema paranoico si inserisce, propriamente, nel racconto. Per ora, però, chiediamoci: perché, alla fine, non dovremmo dare ragione a Lisa, non dovremmo difendere la Precrimine? Anderton stesso, nel finale, non sembra aver perso la convinzione che il sistema non vada in alcun modo screditato, come vorrebbe Kaplan. Se fosse possibile realizzarlo, per quale ragione non dovremmo? Sappiamo che i pre-cog sono realmente infallibili. Che cosa non va, allora? Il punto da cui ricominciare è il seguente: cosa consente di credere che, dalla verità necessaria della proposizione “x ucciderà y”, segua che, se non si procederà all’arresto, x necessariamente ucciderà y? E’ questo l’assunto, infatti, su cui si fonda il sistema della Pre-crimine, la sua giustificazione, la sua accettabilità. E’ vero, infatti, che i pre-cog a rigore non “sbagliano”. Ma non potremmo accettarne comunque le previsioni, se non avessimo la certezza che, non intervenendo, il crimine che essi vedono verrebbe necessariamente commesso. Come si è detto, è proprio la separazione tra necessità de dicto e necessità de re che consente di dar conto dell’ “infallibilità” dei pre-cog e, insieme,

24 L. Sutin, Divine invasioni. La vita di Philip K. Dick, trad. it. di A. Marti, Roma 2001, p. 112.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 del carattere ingiustificato dell’assunto alla base del funzionamento del sistema pre-crimine. La possibilità di fondare la necessità della proposizione sul futuro, non dice nulla circa la diversa necessità, de re, che l’evento si compirà. Se gli arresti “preventivi” possono apparire, allora, come arbitrari, illegittimi, non è perché – come solitamente si sottolinea – la conoscenza del futuro falsificherebbe lo stesso futuro che conosce, secondo la logica della profezia che si autoannulla (self-defeating prophecy). Piuttosto, è perché se anche potessimo prevedere con certezza che un crimine si verificherà, se cioè potessimo giungere a stabilire la necessità della proposizione sul futuro p “domani x ucciderà y”, ciò non implicherebbe in alcun modo che domani, necessariamente, x ucciderà y. Ma, se seguiamo il modo in cui Dick separa le due necessità – de dicto e de re – fino al loro punto estremo, vediamo che egli ripensa questa distinzione portandola ad un nuovo livello. Nella logica del racconto, infatti, il fatto che il crimine non accadrà necessariamente, non significa semplicemente che sarebbe sempre possibile che non accada – non è affatto questo ciò che è in gioco, ossia la semplice esistenza di “futuri contingenti”, tali per cui le previsioni dei pre- cog non definirebbero sempre e niente altro che mere possibilità. Se l’evento non necessariamente accadrà, lo ricordiamo, è perché il futuro si modifica in quanto futuro, ossia: il futuro può sempre cessare di essere il futuro che sarà. Questo è il senso dello “spostamento”, nel racconto, dalla concezione dei futuri alternativi (f1 o f2 o f3) a quella dei futuri consecutivi (f1→f2→f3). I pre-cog, a rigore, non “sbagliano”, non vedono un futuro solo possibile: ciascuno di loro vede l’unico futuro che esisterà. Ma questo stesso futuro non cessa di trasformarsi, ogni volta che un nuovo pre-cog lo vede. Questa è la ragione, diremo, per cui alla necessità de dicto dell’evento non può mai corrispondere la sua necessità de re. Dobbiamo spiegare, allora, cosa vi è, qui, in questione. Come si spiega la contingenza, infatti, dell’evento? Come, in altri termini, la discrasia tra necessità de dicto e necessità de re si definisce in Dick? Abbiamo già accennato ad una delle soluzioni “classiche” rispetto al problema dei futuri contingenti. Poniamo la previsione p “x ucciderà y nel tempo futuro f”. Se, in f, x avrà ucciso y, ciò significa, forse, che la previsione era vera – ed era vera già al tempo in cui è stata formulata. Ma questo vorrebbe dire che x non avrebbe potuto non uccidere y. Una delle

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 strategie per fare salva la contingenza del futuro, allora, è quella di introdurre l’idea che, per quel momento del tempo t in cui la previsione è stata enunciata, rispetto alla proposizione p esistano due futuri alternativamente possibili – quello in cui x ucciderà y (f1), e quello in cui non lo farà (f2). In tal senso, nel contesto in cui la proposizione è enunciata, nulla consente di dire quale dei due futuri si realizzerà, con la conseguenza che l’evento resta meramente “possibile”. Al di là delle diverse conseguenze che da tale posizione dipendono – e che costituiscono oggi oggetto del dibattito soprattutto in ambito analitico25 – , quel che interessa, per noi, evidenziare, è che tutte presuppongono una certa concezione del tempo, che è quella che, talora, si tende a ravvisare anche nel racconto di Dick, del tipo: f1 t

f2

Dick, come abbiamo cercato di mostrare, non segue però tale strategia. Il futuro che i pre-cog vedono non è un futuro possibile, nel senso di un futuro tra altri. Ciascuno di loro vede lo stesso futuro, che è l’unico futuro che si realizzerà. E lo vede senza errore: nella visione del primo pre-cog, il futuro che è visto è l’unico futuro in quel momento, è il futuro che necessariamente si realizzerà. Ma questo futuro si modifica, attraverso le successive e consecutive pre-visioni dei pre-cog. Dobbiamo però ancora chiederci: perché accade tutto ciò? Che cos’è che, propriamente, cambia, se la visione dei pre-cog è, a rigore, infallibile? Quello che cambia, in realtà, è il passato. Il futuro che il primo pre-cog vede, infatti, è il futuro di un determinato passato p1 (es: x ha litigato con y). Ora, il secondo pre-cog non vede un altro futuro, nel senso di un futuro alternativo rispetto al primo. Vede lo stesso futuro, il quale però,

25 Cfr., tra le posizioni più significative, A. Malpass – J. Waver, A Future for the Thin Red Line, in Synthese, 188 (2012), pp. 117-142; J. McFarlane, Future Contigents and Relative Truth, in The Philosophical Quarterly, 53 (2003), pp. 321-336; R.H. Thomason, Combinations of Tense and Modality, in D. Gabbay – F. Guenthner (a cura di), Handbook of Philosophical Logic, Dordrecht 1984, pp. 135-165; A.N. Prior, Past, Present and Future, Oxford 1967. Cfr. anche, per una introduzione sul punto, S.M. Schieppati, Determinismo, indeterminismo e il problema del futuro vero, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 1-2 (2018), pp. 171-184.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 adesso, è il futuro di un diverso passato rispetto a p1: è, infatti, il futuro di quel passato in cui x ha litigato con y, il primo pre-cog ha visto tutto ciò ed ha, poi, informato la polizia del fatto che x ucciderà, per questo, y. Se allora l’evento resta contingente, se x non ucciderà necessariamente y, è perché, a potersi sempre modificare, è il passato26. A rigore, del resto, i pre-cog non vedono mai un “futuro”, almeno dal loro punto di vista. Se l’evento si svolge sotto i loro occhi, essi vedono sempre un presente sulla base di un certo passato, vedono qualcosa che accade ora, per loro. Pertanto, si dovrebbe dire, propriamente, che se ciò che vede il primo pre-cog è un evento diverso da quello che vede il secondo, è perché è il passato del presente a modificarsi, tra una visione e l’altra. Il primo pre-cog vede l’omicidio: o meglio lo ha visto, esso è per lui passato. Il secondo pre-cog non vede dopo il primo pre-cog, ma vede a partire da esso: vede, cioè, che il pre-cog ha visto l’omicidio e che, sulla base di quel che ha visto, ha informato la polizia del fatto che esso accadrà. Dal punto di vista dei pre-cog, possiamo allora ricostruire come segue la vicenda. L’omicidio è accaduto in un tempo, che chiamiamo t, che si colloca sempre nel passato rispetto alla visione del primo pre-cog. E’ sulla base di esso che egli informerà, in un tempo t1, che per lui è futuro – poiché è successivo a ciò che vede – la polizia. Il secondo pre-cog vede a partire da qui. Per lui t1 è passato: la polizia è stata informata del crimine che sarà compiuto. Ma t1 presuppone t; presuppone, per poter essere stato, che anche t – che ne è la condizione - sia stato. Eppure, come sappiamo, il pre-cog vede, nel suo presente t2, che l’omicidio non è stato

26 E’ in questo senso che possiamo seguire, qui, quanto osserva M. Salazar, Letteratura e diritto in Philip K. Dick. Note sparse su Rapporto di minoranza, in M. Salazar – M. Salazar, Scritti sfaccendati su diritto e letteratura, Milano 2011, pp. 143 e ss. Se si ammettono, tuttavia, futuri multipli in quanto alternativi o paralleli, allora si conclude, necessariamente, che la visione dei pre-cog è «necessariamente parziale, essendo limitata ad uno tra i possibili aspetti del futuro delineabili in quel particolare momento» (p. 144). Ora, ciò, a nostro avviso, è quanto il racconto non ammette: il sistema del pre-crimine non è “criticabile” in quanto la pre-visione dei pre-cog sarebbe sempre e soltanto parziale o darebbe luogo ad una mera probabilità che il delitto si compirebbe se la polizia non intervenisse. Al contrario, la critica del sistema presuppone proprio che si assuma l’infallibilità della pre-visione, ossia la conoscenza certa e necessaria del futuro. Ma, al contempo, che tale certezza non renda necessario l’evento che prevede.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 commesso: la polizia, infatti, è intervenuta prima che esso sia stato commesso, in un tempo t3 che, ora, viene ad esistere, revocando t. Per il secondo pre-cog, pertanto, t è al contempo ciò che è stato (perché, senza di esso, non potrebbe esservi stato t1) e che, in forza di t3, ha cessato di essere stato.

t3 t t1 t2

La linea continua indica il percorso temporale che vede il secondo pre- cog: t1 (l’informazione passata alla polizia) è il passato a partire da cui, in t2, in ciò che vede ora il pre-cog, ad essere stato è t3, anziché t. Ma t, come indica la linea tratteggiata, ha dovuto essere stato, in un passato che non è più quello che vede il secondo pre-cog, se anche per il secondo pre-cog t1 è stato (esso è la condizione affinché, infatti, l’informazione sia stata passata alla polizia – a meno di non voler ipotizzare che il primo pre-cog abbia “errato” in ciò che ha visto, il che è quanto il racconto esclude). Se il racconto di Dick non fa vedere tutto questo apertamente, è perché in esso l’elemento di fiction consente di spostare sulla narrazione relativa al futuro questo meccanismo. Dal momento in cui, infatti, ciò che i pre-cog hanno visto è qualcosa che dovrà accadere, è cioè un tempo che per il tempo del racconto è il futuro, questo consente di essere letto seguendo una logica che ci è più familiare: quella “classica”, diremo dei futuri contingenti. Ma, se vogliamo seguire fino in fondo il testo di Dick, esso – consapevolmente o no – in realtà apre ad una logica del tutto diversa, e più difficile: quella della revocabilità del passato.

6. Dal futuro al passato. Stiamo giungendo, finalmente, ad uno dei punti di svolta cui occorre pervenire, se si intende leggere il pre-crimine come qualcosa che ci riguarda, che ha a che vedere con il modo in cui noi giudichiamo il crimine. In quanto accadimento, in quanto “fatto”, il crimine resta, infatti, sempre contingente. Ma questa contingenza è definita, da Dick, non tanto dall’esistenza di futuri possibili rispetto ad un determinato presente e ad un passato che resterebbe, come tale, irrevocabile. Diversamente, essa è

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 resa disponibile da una concezione della temporalità tale per cui, nel suo farsi, il futuro modifica se stesso. Ma, in ultima istanza, Dick sembra dire che ciò che realmente cambia, ciò che può sempre cessare di essere ciò che era, è il passato. Dobbiamo intenderci su questo punto. Non si tratta di limitarsi a dire che il passato avrebbe potuto essere diverso da ciò che è stato (questa è ancora la logica dei futuri contingenti tradizionale). Si tratta, piuttosto, di capire come il passato possa sempre cessare, dopo che è stato, di essere ciò che è stato. Questo è ciò che vi è più difficile da pensare: se, infatti, la contingenza del futuro ci appare sempre qualcosa da “salvare” rispetto a quanto conseguirebbe dall’accettazione di un “determinismo” radicale, essa è stata assicurata a partire dall’assunzione dell’irrevocabilità del passato, dell’impossibilità che ciò che è stato possa cessare di essere stato. E’ proprio, tuttavia, questo assunto che la logica del testo di Dick tende a far venire meno, ed è su questo piano che esso si rende leggibile nella sua radicalità. E’ a partire da qui che il racconto consente di porre ad un nuovo livello le domande che esso presenta. In questo senso, non si tratterà di leggere Minority Report come se in esso fosse in questione il problema di come “prevedere” i crimini, di un mondo in cui i crimini vengono puniti prima che siano commessi. Al contrario, nel testo si articola il tema di ciò che separa la conoscenza del crimine dal suo essere o meno accaduto, della separazione tra il crimine come oggetto di un enunciato che lo dice e il crimine come evento. La domanda, pertanto, non è più: “quali conseguenze, dal fatto di poter prevedere con certezza che un crimine sarà commesso?”, bensì “quali conseguenze, se potessimo giungere a conoscere con assoluta certezza che un crimine è stato sicuramente commesso?” Non si tratterà più di chiedersi, per noi, che cosa segua dalla possibilità di prevedere il futuro, ma, diversamente, che cosa implicherebbe una conoscenza vera del passato. Che cosa significherebbe, che cosa verrebbe in gioco se potessimo un giorno giungere a conoscere necessariamente il passato? Se, in altri termini, i nostri metodi di indagine, se la verità a cui il processo giunge, potesse essere una verità necessaria, con riferimento al crimine che accerta? E’ l’ipotesi di un giudice infallibile, per la quale ciò che egli conosce, lo conosce necessariamente. Ma cosa vorrebbe dire? Di che cosa si predicherebbe la necessità?

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Essa sarebbe, lo abbiamo già ricordato, la necessità della proposizione che accerta il fatto. La necessità, cioè, caratterizzerebbe la conoscenza che il giudice avrebbe: saremmo cioè di fronte ad un giudice per cui vale che, necessariamente, se qualcosa è da lui conosciuto, è vero. Diversamente, essa non potrebbe mai significare: se qualcosa è conosciuto dal giudice, allora è necessariamente accaduto, non avrebbe potuto non accadere. Il delitto si sarebbe sempre potuto anche non compiere. Forse non siamo giunti a prendere realmente sul serio tale considerazione, sul piano del diritto. Che cos’è questo poter non essere accaduto di un crimine, di cui pure potremmo sempre accertare, al limite, il suo essere certamente accaduto? Esso non mette, in fondo, in crisi la pretesa – che sempre il diritto ha – di poter, almeno idealmente, raggiungere una conoscenza certa, definitiva, in modo tale da separare una volta per tutte la colpevolezza dall’innocenza? Per il passato, noi tendiamo a interpretare il “poter non essere accaduto” di un crimine che si è verificato come una mera possibilità logica: diciamo, cioè, che non era logicamente impossibile che il crimine non accadesse, che non sarebbe stato contraddittorio che non fosse commesso. In questo modo, ci limitiamo a intendere il possibile come non-impossibile. Certamente, dunque, ciò che necessariamente è accaduto non per questo era necessario che accadesse. Ma, come si è visto, la posizione di Dick porta ad un nuovo livello la discrasia tra proposizione ed evento: il fatto che sia vero che il crimine è stato commesso, diremo ora, non esclude il fatto che esso possa sempre non essere stato commesso. La prima, infatti, è sempre e soltanto una verità della proposizione che enuncia, accerta, il passato. La seconda, diversamente, è una possibilità che il passato conserverebbe sempre in quanto tale, sul piano ontologico, e non semantico. Indica, cioè, che il passato può sempre essere non stato. Dobbiamo, allora, fare i conti non tanto con il fatto – in fondo banale – che il crimine, anche se accaduto, avrebbe pur sempre potuto non accadere, quanto con l’idea che il passato, nel suo stesso essere accaduto, potrebbe sempre cessare di essere tale. Si tratta di quanto tendiamo sempre ad escludere: nessuno può scegliere di avere saccheggiato Troia, per dirla con Aristotele. Neppure Dio potrebbe far sì che ciò che è accaduto non sia stato, e viceversa:

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Egli può certamente distruggere tutte le cose che sono state fatte, in modo che esse non siano più, ma non si riesce a vedere in che modo potrebbe fare che le cose che sono accadute non siano accadute. Ossia egli può far sì ora e in avvenire Roma non esista più, giacché può essere distrutta; ma in nessun modo si riesce a capire come possa darsi che non sia stata fondata anticamente27.

Dick, diversamente, suggerisce questa ipotesi: noi potremmo, da un momento all’altro, trovarci in un mondo in cui Roma non è mai stata fondata. E’ qui che si inserisce l’effetto propriamente paranoico della sua scrittura, che presuppone che sia revocata ogni credenza preliminare nella realtà della realtà, in ciò che la garantisce come tale. Se “paranoica”, lo sottolineiamo, è la condizione della scrittura dickiana, è perché quest’ultima non comincia, non si fa, se non a partire da questa revoca, da questa messa in questione del reale. E, con esso, del tempo stesso, della realtà del tempo: «Ho la straordinaria frase rivelata su cui basarmi: “fa apparire le cose differenti così da far sembrare che il tempo è passato”. Ho studiato con impegno questa frase, con risultati stupefacenti. Per ricapitolare: c’è solo una differenza apparente. Dunque non c’è nessuna vera differenza»28. Ipotesi, dunque, che il passato non esista: che il tempo non passi. Ma ipotesi, appunto, perché la scrittura di Dick non procede che per continui ripensamenti, ri-articolazioni della domanda su che cosa sia reale – e, qui, che cosa sia reale del tempo. Le ipotesi, le tesi, le soluzioni possibili si sposteranno, allora, con i suoi racconti, e con essa la funzione del passato29. In Minority Report il tema è sempre quello del tempo: che cosa c’è di futuro e di passato? Che cosa li separa? Se ciò che i pre-cog vedono è, per loro, passato, come fissare la differenza reale rispetto al futuro? Se questo

27 Pier Damiani, De divina omnipotentia, in De divina omnipotentia e altri opuscoli, a cura di P. Brezzi, trad. di B. Nardi, Firenze 1983, pp. 71-73. 28 Su di esso, si veda a A. Lucci, Umano Post Umano, Roma 2016, pp. 115-144. 29 Cfr., sul tema, S. Cooper, The potency of the past in comic science fiction: Aristophanes and Philip K. Dick, in Classical Receptions Journal, 10, 1 (2018), pp. 86– 107. Per una lettura in chiave “biopolitica” del problema del tempo in Dick, cfr. Y. Lanci, Remember Tomorrow: Biopolitics of Time in the Early Works of Philip K. Dick, in A. Dunst – S. Schlensag (a cura di), The World According to Philip K. Dick, London 2015, pp. 100-113.

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è il motivo che attraversa il racconto30, noi lo potremo fare funzionare anche come momento che mette in questione l’idea che il passato sia “reale”, che esso sia certo, a differenza del futuro, in quanto e nella misura in cui non può cessare di essere ciò che è stato.

7. Il tempo del crimine. “Some men a forward motion love / But I by backward steps would move” (H. Vaughan)

Torniamo, finalmente, al concetto di pre-crimine, di un crimine che sarebbe necessariamente compiuto, senza mai essere stato compiuto. Non arriveremo a vederne le implicazioni, le questioni che sono poste, finché non capiremo l’operazione che Dick pone in atto con esso. Il pre- crimine non è altro, da questo punto di vista, che il nostro stesso concetto di crimine pensato, sviluppato secondo una strategia paranoica, tipica della scrittura dickiana31. Varrebbe la pena, allora, utilizzare quanto possiamo isolare nella logica di questo racconto per tornare al problema del crimine, del giudizio su di esso, della condanna. Quale certezza avrete mai – sembra chiederci Dick – nel condannare? Ma lo fa spingendo la domanda in una direzione nuova. Qui essa non riguarda infatti i limiti, sempre possibili, di ogni atto di conoscenza del passato (come a sottolineare che sarebbe sempre possibile l’ “errore”). Essa chiede altro, e mette in gioco un diverso problema. Ed è questo problema che, attraverso Dick ma al di là del suo testo, riguarda il nostro modo di pensare, di affrontare la punizione dei crimini. Se anche, infatti, fosse possibile giungere ad una conoscenza vera del passato, davvero essa ci assicurerebbe del fatto che esso non possa

30 In tal senso, diremo che è questo tratto che costituisce l’originalità propria della lettura di Dick, e ciò senza negare le influenze possibili e le corrispondenze con altre posizioni – quella di Bergson, ad esempio, che hanno indagato P. Atkinson, I Know What You Did Next Summer, in D.E. Wittkower (a cura di), Philip K. Dick and Philosophy, cit., pp. 261-270, e J. Burton, The Philosophy of Science Fiction: Henri Bergson and the Fabulations of Philip K. Dick, London 2015. 31 Sulla paranoia in Dick, si rinvia a C. Freedman, Towards a Theory of Paranoia: The Science Fiction of Philip K. Dick, in Science Fiction Studies, 11, 1 (1984), pp. 15-24; N. Brémaud, Le délire paraphrénique de Philip K. Dick, l’homme reprogrammé, in L’en-je lacanien, 16, 1 (2011), pp. 143-171.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 cambiare? Il passato non conserva sempre la possibilità – ontologica, de re – di revocarsi, di non essere stato ciò che è stato? Se diciamo che il colpevole avrebbe potuto essere innocente, non intendiamo più, allora, soltanto che potremmo sempre aver commesso un errore, al livello della nostra conoscenza dei fatti. Intendiamo dire, diversamente: ciò che egli ha fatto, conserva sempre, in se stesso, la possibilità, la potenza di non essere stato 32. Anche la “realtà” del passato, cioè, può sempre cedere. Il problema è spostato, finalmente. Non si tratta più di “denunciare” la sempre possibile incertezza del giudizio, la sempre possibile divergenza tra la “verità” processuale e la realtà dei fatti. Fino a qui, infatti, non c’è nulla di diverso rispetto a quanto i giuristi non hanno mai smesso di sottolineare. Se, infatti, essi ormai ammettono che la giustificazione che il processo produce è sempre e soltanto quella dell’enunciato sui fatti33, l’ideale di una “verità” come corrispondenza alla realtà viene, in realtà, mantenuto se, come osserva MacCormick «ogni lite giudiziaria implica la supposizione che si possano stabilire delle verità nel tempo presente intorno a fatti passati»34. Per questo si continua a parlare dell’enunciato fattuale come di una proposizione di natura descrittiva, nel senso che essa si riferirebbe ad determinato fatto come una «realtà esterna al processo»35. Il riferimento alla possibilità di verificare se la proposizione corrisponda o meno alla realtà dovrebbe perciò essere sempre mantenuto, se non altro per consentire la valutazione critica della sentenza da parte di chi, ad

32 E’ un tema, questo, su cui hanno insistito – se pur da diverse prospettive - sia Agamben, nello sviluppo del concetto aristotelico di non-potere (cfr. G. Agamben, Bartleby o della contingenza, in G. Deleuze – G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Macerata 1993) che Vitiello, attraverso l’elaborazione del concetto di possibilità del possibile (riferita anche al passato, cfr. V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Roma 2002). 33 Come osserva correttamente R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, trad. it. a cura di M. La Torre, Milano 1998, p. 86, la “giustificazione” dell’enunciato fattuale “x ha ucciso y” è sempre una giustificazione che non verte sulla corrispondenza dell’enunciato ai fatti, all’evento per come esso è accaduto. Un fatto è «ciò che viene espresso da una proposizione che può essere giustificata discorsivamente». 34 N. Maccormick, Ragionamento giuridico e teoria del diritto, ed. it. a cura di V. Villa, trad. it. di A. Schiavello, Torino 1994, p. 108. 35 J. Ferrer Beltrán, Prova e verità nel diritto, Bologna 2004, p. 27.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 esempio, sia in grado di provare «in base a successive scoperte, che la ricostruzione dei fatti operata dal giudice “non era vera”»36. Per questo si mantiene sempre, in ultima istanza, una certa concezione dell’ “errore” giudiziario, come se un enunciato relativo ai fatti potesse essere dimostrato “falso” in quanto non corrispondente ai fatti, per come essi sono accaduti. Se tutto ciò può continuare a funzionare, è solo sul presupposto che il fatto, per come accaduto, sia in ultima istanza irrevocabile. Certamente, cioè, x può essere falsamente ritenuto di aver commesso un crimine: ma, se lo ha commesso, è impossibile far sì che non lo abbia commesso (factum infectum fieri nequit). La possibilità stessa – come generalmente si ammette – che l’enunciato relativo ai fatti possa essere “falso”, possa non corrispondere alla realtà, implica che quest’ultima resti indifferente a ciò che nella proposizione si dice di essa. Ma questo significa che, se potessimo mai giungere alla certezza della verità dell’enunciato che accerta il delitto, ciò non potrebbe che significare la certezza che il delitto sia stato commesso. La verità, la forma di sapere che le pratiche giuridiche, il modo di giudicare gli uomini in relazione ai crimini, si sono imposte nella modernità, non ha mai smesso di essere pensata, in fondo, a partire dall’ideale - per quanto non raggiungibile - corrispondenza tra la conoscenza del fatto e il suo essere accaduto. Dick fornisce, nel racconto, questo ideale compiuto: potrebbe sempre darsi, non può escludersi, che sia possibile giungere ad una conoscenza necessaria del passato, ad una conoscenza infallibile di ciò che è stato. Se giungessimo mai ad essa, avremmo realizzato l’ideale del processo per come pensato dalla modernità giuridica: ci sentiremmo, cioè, finalmente garantiti nel nostro condannare, nel fatto che non vi sarebbe, qui, errore possibile. E’ a questo punto che Dick giunge a porre la domanda, nel momento e nel modo in cui essa va pensata: tutto ciò ci assicurerebbe davvero, in fondo, di condannare soltanto crimini che siano stati commessi? Di non condannare mai, dunque, degli “innocenti”? Se vi è risposta affermativa, la si ottiene solo assumendo che un fatto, se si è compiuto, non può non essersi compiuto. Che ciò che è stato non può mai, non può più non essere stato. Ma questa credenza da che cosa è

36 P. Comanducci, Assaggi di metaetica, Torino 1992, p. 238.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 assicurata? Che cosa le consente di essere mantenuta, se non ciò che essa stessa assicura? Essa è la condizione affinché, per il processo, vi possa essere una “verità”, affinché cioè esso possa presentarsi come atto di conoscenza – per quanto imperfetto – di ciò che è stato. Ma, dall’altra parte, è solo in quanto assumiamo che questo atto di conoscenza tenda in ultima istanza a corrispondere alla realtà che facciamo di quest’ultima qualcosa di “irrevocabile”, perché funziona come criterio ultimo di valutazione della correttezza di quell’atto. E’ dunque il condizionato che è condizione della sua condizione: è, cioè, il nostro modo di pensare che la conoscenza tenda verso l’accertamento dei “fatti”, a far sì che questi ultimi non possano che essere pensati come irrevocabili. La credenza nell’irrevocabilità del passato è ciò che costituisce quell’illusione di realtà che rende possibile il processo, la produzione della sua “verità”. La paranoia, va ricordato, in Dick è ciò che consente di articolare la domanda: che cos’è reale? In altri termini: soltanto ad un livello “paranoico” è possibile che la realtà si riveli per ciò che essa è, è possibile giungere a ciò che costituisce il reale di ciò che è reale. Che cos’è dunque reale? Il crimine, nel modo in cui lo pensiamo, in quanto fatto accaduto? Non più di quanto lo sia il pre-crimine – è questa la risposta implicata nel racconto. Perché la conoscenza del passato non è meno “illusoria” della pre-visione del futuro. Anche se, a rigore, non si dovrebbe parlare di illusorietà. Se infatti la realtà stessa è una illusione, e se non vi è un’altra realtà cui contrapporla, allora non c’è più la possibilità di dire che cosa il crimine sia “in realtà”. Esso è reale come, in quanto illusione37. Il processo diventa il luogo, allora, in cui ri-assicuriamo, ogni volta, la credenza nell’irrevocabilità del passato, in cui anzitutto condanniamo ciò che è stato ad essere stato. “Accertare” un fatto, ciò che è accaduto, non significa, per il diritto, escludere che esso possa non essere accaduto, quanto escludere che, se è accaduto, non possa cessare di essere accaduto (e, analogamente, se non è accaduto). Il problema, cioè, non è di condannare un innocente, non è la condanna di qualcuno per un crimine che non ha commesso. Il problema, piuttosto, è che la condanna per un

37 Cfr., sul punto, J. Baudrillard, Simulacres et science-fiction, in Id., Simulacres et Simulation, Paris 1981, pp. 177-186.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 crimine che si è commesso è sempre, anzitutto, condanna all’irrevocabilità di quel passato, è ciò che impedisce al crimine che è stato commesso di poter giungere, un giorno, a non essere stato commesso38. Questa possibilità, il testo dickiano giunge a pensarla sul piano ontologico – e non, dunque, limitandosi a fare di essa una possibilità che riguarderebbe il nostro modo di modificare il passato attraverso la narrazione che facciamo di esso. L’idea che sia al livello della costruzione narrativa della realtà che il passato viene reso “modificabile”, infatti, non fa che fondarsi sull’assunto per cui, nel suo essere accaduto come tale, esso sarebbe invece irrevocabile. Ma la scrittura di Dick non va in questa direzione, poiché la questione che essa sviluppa è sempre quella della realtà (ontologica) del passato. Ed è qui che l’incubo di un futuro che può sempre essere diverso da ciò che necessariamente e infallibilmente sarà, può anche rivelarsi come l’incubo di un passato a cui viene impedito di poter non essere stato. Potremmo distinguere, allora, tra l’aver-avuto-luogo dell’evento e il suo essere-stato. Certamente esso ha avuto luogo, e come tale è irrevocabile. Ma può sempre cessare di essere stato, di essere il passato che è stato. E’ questa la domanda che, allora, andrebbe finalmente sviluppata: che cosa ne sarebbe di un diritto, in tutto ciò che riguarda il suo modo di considerare, di pensare il passato, se quest’ultimo ci apparisse, ora, come revocabile? Che ne sarebbe della pena, del giudizio, ma anche della riparazione, del crimine estinto, amnistiato, “perdonato”? Non cambieremo nulla dei nostri modi di giudicare, di condannare, di punire, finché non giungeremo ad essere all’altezza di ciò che realmente è ancora da pensare: che un crimine che è stato, possa sempre cessare di essere stato.

Abstract: The paper analyses the topic of “pre-crime” included in Philip K. Dick’s novel, “Minority Report”. The purpose of the analysis is to identify the concept and implications of a “crime without a crime”, namely a crime which has been prevented from occurring thanks to the fact that it was forecasted. The idea of “pre-crime” questions the typical meaning given by the

38 Anche la stessa “estinzione” del reato, nella dottrina penalistica, è spesso definita come “impropria” proprio «perché è evidente che il reato nella sua materialità di fatto storico non si può estinguere (factum infectum fieri nequit)» (F. Ramacci, Corso di diritto penale, a cura di R. Guerrini, Torino 2013, p. 579). Così, analogamente, Antolisei osservava che «il reato, come fatto storico, una volta sorto, non può essere posto nel nulla» (F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano 1980, p. 631).

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modern society to delict, guilt and punishment opening to a reinterpretation of our juridical categories.

Keywords: Philip Dick – Minority Report – Pre-Crime – Multiple Futures – Future Contigents

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JUS- ONLINE 1/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

GIANPIERO MANCINETTI

Ricercatore di diritto romano e diritti dell’antichità, Università degli Studi di Roma Tor Vergata

La tutela in rem e il iudicium in factum contro il venditore*

English title: The protection in rem and the iudicium in factum against the seller DOI: 10.26350/18277942_000005

SOMMARIO: 1. La dottrina sulla proprietà provinciale: Gai.2.7 e la posizione della letterarura sull’operis novi nuntiatio — 2. La testimonianza di Cicerone, Verr. 2.2.12.31 — 3. L’argomentazione gaiana dell’ad edictum provinciale: D.4.7.3.3 — 4. La responsabilità dell’acquirente nell’operis novi nuntiatio in Giavoleno e Paolo — 5. Conclusioni

1. LA DOTTRINA SULLA PROPRIETÀ PROVINCIALE: GAI.2.7 E LA POSIZIONE DELLA LETTERATURA SULL’OPERIS NOVI NUNTIATIO

È noto che la dottrina concernente la struttura della proprietà provinciale abbia discusso tradizionalmente una duplice polarizzazione concettuale. Da un lato quella che aveva impegnato la dottrina più risalente incentrata sulla contrapposizione tra stipendium e tributum1; dall’altro invece quella ulteriore tra possessio e ususfructus2.

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. 1 Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.2, Leipzig, 1887, p. 1093 s.; R. Cagnat, Étude historique sur les impôts indirectes chez les Romains. Jusqu’aux invasions des Barbares, d’après les documents littéraires et épigraphiques [Paris, 1882], in V. Pareto (dir.), Biblioteca di storia economica, V, Milano, 1921, p. 477 ss.; F. Grelle, ‘Stipendium’ vel ‘tributum’. L’imposizione fondiaria nelle dottrine giuridiche del II e III secolo, Napoli, 1963; e già F. Bozza, Gai. 2.7 e la proprietà provinciale, in Athenaeum 30 (1942), p. 66 ss., sop. p. 79 ss. Altresì, qui rilevante, E. Lo Cascio, La struttura fiscale dell’impero romano, in Il ‘princeps’ e il suo impero. Studi di storia amministrativa e finanziaria romana, Bari, 2000, 180 ss. 2 E. Carrelli, ‘Possessio vel ususfructus’ in Gai.2.7, in SDHI 1 (1935), p. 379 ss., sop. p. 381 s.; L. Capogrossi Colognesi, s.v. Proprietà (dir. rom.), in ED XXXVII, Milano, 1988, p. 204 ss.; anche e in senso più ampio Id., ‘Dominium’ e ‘possessio’ nell’Italia romana, in E. Cortese (a cura di), La proprietà e le proprietà. Pontignano 1985, Milano, 1988,

VP VITA E PENSIERO

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Rispetto alla prima dicotomia si era affermato che le Istituzioni farebbero discendere la duplicità di imposte, quali rendita fondiaria, dalla duplicità delle sfere patrimoniali riconducibili al popolo e al principe3. Relativamente alla seconda invece si è sostenuto che le espressioni gaiane le quali riecheggerebbero formule risalenti farebbero riferimento a schemi peculiari. Questi esprimerebbero la spettanza di una dominazione della cosa che coesiste con la proprietà altrui e che però nel riferimento contenutistico andrebbero intesi con molta elasticità4.

p. 141 ss., sop. p. 173 s., il quale a proposito della dialettica con l’affermazione del dominium populi vel Caesaris evidenzia che “la contraddizione ora rilevata ci serve per comprendere la crescente astrattezza della formale condizione giuridica ab antiquo imposta alle terre in questione”; Id., Considerazioni conclusive. Il periodo romano, in Diritto generale e diritti particolari nell’esperienza storica. Atti Congr. Int. Soc. It. St. dir. (Torino, 1998), Roma, 2001, p. 461 ss.; F. Gallo, Le consuetudini locali nell’esperienza romana prima e dopo la concessione della ‘civitas romana’ ai peregrini, in Diritto generale e diritti particolari nell’esperienza storica, cit., 303 ss.; M. Talamanca, Particolarismo normativo ed unità della cultura giuridica nell’esperienza romana, in ead., p. 9 ss. 3 Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, cit., II.2, p. 1094. Altresì S. Schlossmann, Tributum, tribuere, tribus, in Archiv. f. lat. Lexic. 14 (1905), p. 25; F. Bozza, Gai. 2.7 e la proprietà provinciale, cit., p. 79, la quale evidenzia come “lo stesso Gaio in II, 21 pone la differenza fra praedia stipendiaria e tributaria, di cui i primi sono quelli che si trovano nelle provincie del popolo romano, i secondi quelli che si trovano nelle provincie dell’imperatore”. 4 E. Carrelli, ‘Possessio vel ususfructus’ in Gai.2.7, cit., p. 379 ss., sop. p. 381 s., il quale enucleando la diversità tra le due entità giuridiche nonché la loro valenza tecnica non potendosi ammettere sui fondi provinciali alcun istituto di diritto civile afferma che “non è sufficiente a spiegare la frase in questione neanche l’ipotesi di una manifestazione di diritto provinciale, inquantoché questa ipotesi potrebbe spiegare sì un arcaismo, ma non una novità, quale sarebbe quella di riconoscere un ius utendi ac fruendi a favore di privati su terre del popolo romano o dell’imperatore” ( p. 382); M. Kaser, Die Typen der römischen Bodenrechte in der späteren Republik, in ZSS 62 (1942), p. 1 ss., sop. p. 74 ss.; F. Bozza, Gai. 2.7 e la proprietà provinciale, cit., p. 79 ss.; P. Ciapessoni, Studi su Gaio, I, Pavia, 1943, p. 2 ss.; S. Solazzi, Usus proprius, in SDHI 7 (1945), p. 373 ss.; Id., Saggi di critica romanistica, in BIDR 49-50 (1947), p. 393 ss.; M. Marrone, La posizione possessoria del nudo proprietario nel diritto romano, in AUPA 28 (1961), p. 29 ss.; R. Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, Torino, 1968, p. 288 s. e n. 268; F. De Martino, Storia della costituzione romana, IV², Napoli, 1973, p. 787 ss.; G. Grosso, La condizione del suolo provinciale negli schemi della giurisprudenza del principato, in Accademia nazionale dei Lincei 194, I diritti locali nelle province romane con particolare riguardo alle condizioni giuridiche del suolo. Atti conv. int. Roma 1971, Roma, 1974, p. 68 ss.; L. Capogrossi Colognesi, s.v. Proprietà (dir. rom.), cit., p. 205. Altresì E. Volterra, I diritti locali, in Accademia nazionale dei Lincei 194, cit., 55 ss.; J. Bleicken, «In provinciali solo dominium Populi romani est vel Caesaris». Zur Kolonisationspolitik der ausgehenden Republik und frühen Kaiserzeit, in Chiron 4 (1974), p. 359 ss.; L.

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Sebbene tali interpretazioni delle due coppie concettuali siano state messe in discussione con argomenti del tutto stringenti, osservando per la prima la rilevanza degli agri divisi et adsignati e per la seconda la sua natura descrittiva piuttosto che tecnica5, rimane tuttavia la riconosciuta

Solidoro Maruotti, ‘Abstraktes Eigentum’ e forme di appartenenza fondiaria nell’impero romano, in SDHI 67 (2001), p. 135 ss.; O. Behrends, Il «fines regere» tra possessori e usufruttuari in Italia e nelle province, in Index 32 (2004), p. 13 ss.; R. Basile, ‘Pactiones et stipulationibus id efficere’. Un’ipotesi in tema di modi costitutivi di servitù (e usufrutto), in ‘Fides Humanitas Ius’. Studi L. Labruna, I, Napoli, 2007, p. 335 ss.; L. Vacca, Dominium, in bonis, proprietà provinciale(i), in F. Milazzo (a cura di), Città territorio e diritto privato nei primi secoli dell’Impero, Soveria Mannelli, 2010, p. 58 ss., che propende per l’identità della relazione già qualificata da Gaio come dominium e che il giurista amplierebbe “dal solum alla provincia nella sua totalità” (p. 68); G. Rossetti, Il regime di appartenenza del suolo provinciale fra ‘dominium’ pubblico e ‘possessiones’ private, in L. Garofalo (a cura di), I beni di interesse pubblico nell’esperienza giuridica romana, I, Napoli, 2016, p. 465 ss.; infine su aspetti limitrofi anche A. Maffi, ‘Nomoi spartarei’ e diritto greco. (Riflessioni sul diritto di proprietà a Sparta), in Quaderni del Diapartimento di filologia, linguistica e tradizione classica ‘Augusto Rostagni’, Torino, 2001, p. 57 ss.; B. BISCOTTI, Ancora sulle proprietà in diritto romano. Spunti esegetici, in Index 36 (2008), p. 185 ss.; S. Longo, ‘Locare «in perpetuum»’. Le concessioni in godimento di ‘ager municipalis’, Torino, 2012. 5 Al di là dell’autonomia tributaria delle civitates, da un lato, sulla base dei gromatici, infatti vi sarebbe una imponibilità diretta dei soli agri divisi et adsignati, mentre per i municipia e le civitates peregrinae sarebbe imponibile come stipendiarius vel tributarius l’ager assegnato alle comunità, senza dare alcun rilievo ai rapporti fondiari facenti capo ai privati possessores; dall’altro l’affermazione gaiana dominium populi romani est vel Caesaris andrebbe intesa sotto il profilo della sovranità, mentre sarebbe irriducibile entro gli schemi della proprietà, sia privata sia pubblica: F. Grelle, ‘Stipendium’ vel ‘tributum’, cit., sop. p. 23 ss.; Id., ‘Adsignatio’ e ‘publica persona nella terminologia dei gromatici, in Synteleia V. Arangio-Ruiz, II, Napoli, 1964, p. 1136 ss.; Id., La signoria sul suolo provinciale nella Parafrasi di Teofilo, in Labeo 12 (1966), p. 209 ss.; ma vd. G. I. Luzzatto, La riscossione tributaria in Roma e l’ipotesi della proprietà sovranità, in Atti Congr. int. dir. romano, IV, Verona 1948, p. 76 ss.; G. Branca, s.v. Ager, in NNDI I, Torino, 1957, p. 410 ss.; A. Piganiol, Signification juridique des documents cadastraux conservés par l’epigraphe et l’archéologie, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche, Firenze, 1966, p. 155 ss.; D. Nörr, ‘Imperium’ und ‘Polis’ in der Hohen Prinzipatszeit, München, 1966, sop. p. 41 ss.; G. I. Luzzatto, Sul regime del suolo nelle province romane. Spunti critici e problematica, in Accademia nazionale dei Lincei 194, cit., p. 22 ss. In ordine alla seconda argomentazione enucleata invece L. Capogrossi Colognesi, s.v. Proprietà (dir. rom.), cit., p. 205, rileva che “in verità la contraddizione gaiana evidenzia la crescente astrattezza di quella pur plausibile operazione effettuata dai Romani di attribuire la proprietà dell’intero suolo provinciale al potere sovrano di Roma”, e pertanto “sin da quando la sistemazione concettuale che abbiamo ricordata (l’attribuzione della proprietà allo stato e della possessio ai privati) venne imponendosi, sul finire della Repubblica, il godimento riconosciuto ai privati di tale ager era pienamente assimilato alla proprietà in italico solo. Al dominium si opponeva così la già menzionata possessio

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 autenticità delle qualificazioni gaiane. Anzitutto quella fondamentale contenuta in Gai.2.76 che riferisce della possessio vel ususfructus

vel ususfructus, una formula più capace di descrivere che di qualificare tecnicamente questo rapporto”; altresì G. Tibiletti, ‘Ager publicus’ e suolo provinciale, in Accademia nazionale dei Lincei 194, cit., p. 89 ss., il quale, anche nel quadro della stratificazione di diritti diversi riscontrabile nelle provincie, ha evidenziato le differenze tra habere possidere e utifrui. 6 Gai.2.7: sed in provinciali solo placet plerisque solum religiosum non fieri, quia in eo solo dominium populi Romani est vel Caesaris, nos autem possessionem tantum vel usumfructum habere videmur; utique tamen etiamsi non sit religiosum, pro religioso habetur. Sul passo vd. soprattutto S. Solazzi, Usus proprius, in SDHI 7 (1941), p. 373 ss. (= Scritti di diritto romano, IV, Napoli, 1963, p. 205 ss.); Id., Dall’‘usufructus’ della ‘sponsalicia largitas’ all’usufructus di Gai.2.7, in SDHI 17 (1951), p. 252 ss.; F. De Zulueta, The Institutes of Gaius. Part II Commentary, Oxford, 1953, p. 16 ss.; S. Solazzi, in Iura 4 (1953), p. 288; S. Solazzi, La comunione domestica nei rescritti di Diocleziano, in Iura 5 (1954), p. 156 n. 21; Id., Noterelle critiche, in Studi E. Albertario, I, Milano, 1953, p. 6 ss.; Id., D.7.1.52 e i carichi di godimento nell’usufrutto, in SDHI 23 (1957), p. 306 ss.; K. Visky, Tracce del diritto ereditario romano nelle iscrizioni della Pannonia, in Iura 13 (1962), p. 132 n. 80; F. Grelle, ‘Stipendium’ vel ‘tributum’, cit., p. 3 ss.; J. Gaudemet, in Iura 15 (1964), p. 415; J. Modrzejewski, in Iura 16 (1965), p. 265 n. 9; F. De Martino, Storia della costituzione romana, IV.2, Napoli, 1965, p. 787 ss.; U. Coli, in Iura 17 (1966), p. 335 ss.; F. Grelle, Le signorie sul suolo provinciale nella parafrasi di Teofilo, in Labeo 12 (1966), p. 209 ss.; R. Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, Torino, 1968, p. 288 ss.; G. Grosso, Schemi giuridici e società nella storia del diritto privato romano. Dall’epoca arcaica alla giurisprudenza classica: diritti reali e obbligazioni, Torino, 1970, p. 171 ss.; A. Popescu, Neue Betrachtungen über den Gaius – Stil, in Iura 24 (1973), p. 197; G. Grosso, La condizione del suolo provinciale, cit., p. 65 ss.; J. Bleicken, «In provinciali solo dominium Populi romani est vel Caesaris». Zur Kolonisationspolitik der ausgehenden Republik und frühen Kaiserzeit, in Chiron 4 (1974), p. 359 ss.; G. Vitucci, Le condizioni giuridiche del suolo nelle province romane d’Asia e di Bitinia Ponto, in Accademia nazionale dei Lincei 194, cit., p. 219 s.; P. VOCI, Il diritto ereditario romano nell’età del tardo impero, in Iura 29 (1978), p. 77 ss.; F. Gallo, I ‘subsellia’ in Vat. Fr.35: seggiole o porzioni di terreno?, in Iura 33 (1982), p. 113 s., n. 32; P. Cerami, Il rapporto giuridico d’imposta nell’esperienza tributaria romana: obbligazione e condono, in Iura 37 (1986), p. 46; F. Grelle, L’appartenenza del suolo provinciale nell’analisi di Gaio 2.7 e 2.21, in Index 18 (1990), p. 167 ss.; M. Genovese, Condizioni delle ‘civitates’ della Sicilia ed assetti amministrativi-contributivi delle altre provincie nella prospettazione ciceroniana delle verrine, in Iura 44 (1993), p. 204 n. 60; p. 209 n. 72; G. Giliberti, «Dominium Caesaris», in Index 24 (1996), p. 199 ss.; A. Castro Sáenz, Conceptiones jurisprudenciales sobre el acto posesorio: un ensayo sobre la evolución del «animus» en derecho romano, in Iura 52 (2001), p. 112 n. 183; O. Behrends, Il ‘fines regere’ tra possessori e usufruttuari in Italia e nelle provincie, in Index 32 (2004), p. 13 ss.; V. Giuffré, Il diritto tra mondo globalizzato e realtà locali. L’esperienza del principato adrianeo, in A. Palma (a cura di), Scritti G. Melillo, I, Napoli, 2009, p. 486; A. Fernández de Buján, ‘Ius Fiscale’: instrumentos de política financiera y principios informadores del sistema tributario romano, in Iura 58 (2010), p. 17; A. Torrent, ‘Cognitores’ en ‘lex Irnitana’ cap. 63-65, in Iura 59 (2011), p.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 correlata al dominium populi Romani vel Caesaris, oltreché la contrapposizione tra tributum e stipendium rilevata da ulteriori fonti7. Rispetto allo stato attuale del dibattito8 e ferme le qualificazioni gaiane, un contributo fondamentale al chiarimento dei profili di autonomia della proprietà provinciale parrebbe poter essere fornito non soltanto dallo stesso Gaio delle Istituzioni. Esso sembrerebbe determinato al contrario proprio dalla prospettiva della tutela in ordine alla medesima proprietà modellata su quella quiritaria quale testimoniata da altre fonti. Infatti le qualificazioni e la disciplina introdotta a proposito della tutela quiritaria in factum di denuncia di nuova opera nell’ad edictum provinciale non solo sembrano coinvolgere le parti rinvenibili nella stessa proprietà provinciale. Viceversa risultano implicare anche un peculiare obiettivo di tutela perseguito dal giudizio petitorio predisposto dal

29 n. 65; C. A. Cannata, in Iura 61 (2013), p. 337 n. 53; C. Smith – E. Tassi Scandone, Gai.2.8 e la classificazione delle ‘res sanctae’. Un’ipotesi interpretativa, in BIDR 107 (2013), p. 255 s.; L. Martínez de Morentin Llamos, El cuidado y administraciόn de las aguas previsto en dos leyes municipales de la Hispania Romana, in Iura 64 (2016), p. 171 n. 97; p. 174 n. 105; W. Kaiser, ‘Res sacrae’ und ‘res religiosae’. Zur Textconstitution von D.18.1pr. (Gaius 2 inst.), in Index 44 (2016), p. 9 ss. 7 Gai.2.15: item stipendiaria praedia et tributaria nec mancipi sunt… Nerva vero et Proculus et ceteri diversae scholae auctores non aliter ea mancipi esse putant, quam si dimita sunt; et si propter nimiam feritatem domari non possunt, tunc videri mancipi esse incipere, cum ad eam aetatem pervenerint, qua domari solent; Ulp. 16 ad ed. D.50.16.27: ‘ager’ est locus, qui sine villa est. ‘Stipendium’ a stipe appellatum est, quod per stipes, id est modica aera, colligatur. idem hoc etiam ‘tributum’ appellari Pomponius ait. et sane appellatur ab intributione tributum vel ex eo quod militibus tribuatur. 8 Sulla disciplina rinvenibile nei differenti territori provinciali altresì J. Harmatta, The problem of the juristic conditions of land in Pannonia, in Accademia nazionale dei Lincei 194, cit., p. 77 ss.; G. C. Picard, Une survivance du droit public punique en Afrique romaine: les cités sufétales, in ead., p. 125 ss.; P. Romanelli, Le condizioni giuridiche del suolo in Africa, in ead., p. 171 ss.; G. Vitucci, Le condizioni giuridiche del suolo nelle province romane d’Asia e di Bitinia Ponto, in ead., p. 217 ss.; F. Sartori, Le condizioni giuridiche del suolo in Sicilia, in ead., p. 225 ss.; A. d’Ors, La condiciόn jurídica del suelo en las provincias de Hispania, in ead., p. 253 ss; G. A. Mansuelli, Città e campagna nella provincia cisalpina, in ead., p. 269 ss.; R. Chevallier, Problèmes de l’occupation du sol dans la Gaule romaine, in ead., p. 287 ss.; A. Mόcsy, Il problema delle condizioni del suolo attribuito alle unità militari nelle province danubiane, in ead., p. 345 ss.; A. Dimopoulou-Piliouni, Droits réels et ‘immunitas’ des provinces romaines de l’est, à l’époque républicaine: le cas du ‘senatus consultum de agris Mytilenaeorum’, in E. Chevreau – D. Kremer – A. Laquerrière-Lacroix (ed.), ‘Carmina Iuris’. Mélanges M. Humbert, Paris, 2012, p. 259 ss.; L. Rossi, Romans and Land Property Rights in Ptolemaic Egypt: the identification of ‘Lucius Septimius’, in Ancient Society 44 (2014), p. 127 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 governatore nonché la divergenza medesima dal giudizio civile. In tal modo la contrapposizione gaiana lascia emergere la specificità di una regolamentazione che risalta rispetto a quella civilistica incentrata sul principio della tutela del ius domini aut servitutis9. Questa, com’è noto, si estrinsecherebbe nell’intimazione rivolta al vicino di non compiere una data opera lesiva del diritto del proprietario10, fino alla configurazione delle sole immissioni dannose11 ed attraverso la predispozione di reciproci mezzi di tutela a fronte dell’interdictum demolitorium.

9 Cfr. Ulp. 71 ad ed. D.43.25.1.3. 10 C. Cosentini, Appunti sull’«operis novi nuntiatio», in AUCA 4 (1950), p. 297 ss., [estr.], p. 11 s., che definisce la nuntiatio quale “mezzo preventivo, consistente nell’intimazione fatta al vicino di non compiere una data opera ― costruzione o demolizione ― che si reputava lesiva del nostro diritto”. 11 G. Branca, La ‘prohibitio’ e la denuncia di nuova opera come forme di autotutela cautelare, in SDHI 7 (1941), p. 348, il quale evidenzia come inoltre la prohibitio concernerebbe non soltanto l’opera che si vorrebbe condurre sul fondo limitrofo, ma anche quella che pur cominciando a sorgere nel fondo di chi vuol costruirla, provochi immissioni dannose in alienum. Infine sarebbe incentrata sulla possibilità per il destinatario della nuntiatio di chiedere al pretore la remissio ovvero una satisdatio, oppure subire le conseguenze dell’interdictum demolitorium chiesto dal nuntians; C. Cosentini, Appunti sull’«operis novi nuntiatio», cit. [estr.], p. 11 s. Altresì sull’istituto soprattutto J. C. Naber, Observanticulae de iure romano, XI, ad interdictum «ne vis fiat aedificanti»: XII, quid sit remittere: XIII, quando remittatur, in Mnemosyne, Lugduni-Batavorum, 1891, p. 114 ss.; e 1922, p. 343 ss.; O. Martin, Quelques observations sur l’‘operis novi nuntiatio’, in Études d’histoire juridique P. F. Girard, I, Paris, 1912, p. 123 ss.; A. Berger, L’«operis novi nuntiatio» ed il concetto di «ius publicum» di Ulpiano, in Iura 1 (1950), p. 102 ss.; G. Lombardi, «Novi operis nuntiatio iuris publici tuendi gratia», in Studi Scienze giuridiche e sociali Fac. Giur. Univ. Pavia 33 (1951), p. 150 ss.; C. Cosentini, In tema di ‘operis novi nuntiatio’ (problemi di origine), in Miscellanea Romanistica, Catania, 1956, p. 117 ss.; A. Mozzillo, s.v. «Denuncia di nuova opera e di danno temuto» (dir. rom.), in NNDI V, Torino, 1960, p. 457 ss.; A. Biscardi, s.v. «Interdictum ne vis fiat aedificandi», in NNDI VIII, Torino, 1962, p. 807 ss.; A. Masi, s.v. «Denuncia di nuova opera e di danno temuto (Premessa storica)», in ED XII, Milano, 1964, p. 155 ss.; G. Melillo, ‘Interdicta’ e ‘operis novi nuntiatio iuris publici tuendi gratia’, in Labeo 12 (1966), p. 178 ss.; J. Paricio, La denuncia de obra nueva en el derecho romano clásico, Barcellona, 1982; J. Paricio, Algunas notas sobre la ‘cautio damni infecti’, in Studi C. Sanfilippo, II, Milano, 1982, p. 469 ss.; J. Paricio, La denuncia de obra nueva en el derecho justinianeo, in ‘Sodalitas’. Scritti A. Guarino, V, Napoli, 1984, p. 2087 ss.; F. Fasolino, Interessi della collettività e dei vicini nell’«operis novi nuntiatio», in Labeo 45 (1999), p. 38 ss.; F. Arcaria, Il bronzo di Italica (EE 1875, 149): una testimonianza sulle competenze dei magistrati municipali in materia di ‘operis novi nuntiatio’, in MEP 3 (2000), p. 155 ss.; G. Santucci, Operis novi nuntiatio iuris publici tuendi gratia, Padova, 2001; L. Pellecchi, Contributi palingenetici allo studio dell’‘operis novi nuntiatio’, in SDHI 68 (2002), p. 95 ss.; P. Santini, ‘Operis novi nuntiatio’ e interesse pubblico, in Index 30 (2002), p. 431 ss.; I. Fargnoli, ‘Operis novi nuntiatio’ e ‘inanes denuntiationes’ tra V e

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Pertanto le caratteristiche della tutela evocata da Gaio appaiono dischiudere una prospettiva ulteriore. Ed essa risulta determinante per la giusta valutazione di una fattispecie osservata spesso solo in ragione dei suoi profili sostanziali e non invece dal punto di vista delle peculiarità della tutela predisposta fin dalle origini dallo stesso governatore. Così proprio da quest’ultima appare più opportuno iniziare.

2. LA TESTIMONIANZA DI CICERONE, VERR. 2.2.12.31

Nel frammento delle verrine dell’actio secunda, all’interno del secondo libro, Cicerone riporta il testo della formula di un giudizio petitorio. Questo risulta del tutto peculiare ed ha fatto ampiamente discutere la dottrina romanistica. Tuttavia tale particolarità appare configurare la costruzione del tipo di iudicium concesso dal governatore al momento della promulgazione del suo editto all’inizio dell’assunzione della propria carica per il governo della provincia

Cicerone, Verr. 2.2.12.31: dubium nemini est quin omnes omnium pecuniae positae sint in eorum potestate qui iudicia dant, et eorum qui iudicant, quin nemo vestrum possit aedis suas, nemo fundum, nemo bona patria obtinere, si, cum haec a quopiam [vestrum] petita sint, praetor improbus, cui nemo intercedere possit, det quem velit iudicem, iudex nequam et levis quod praetor iusserit iudicet. [31] Si vero illud quoque accedit, ut praetor in ea verba iudicium det ut vel L. Octavius Balbus iudex, homo et iuris et offici peritissimus, non possit aliter iudicare, — si iudicium sit eius modi: L. Octavius iudex esto. Si paret fundum Capenatem, quo de agitur, ex iure Quiritium P. Servili esse, neque is fundus Q. Catulo restituetur, non necesse erit L. Octavio iudici cogere P. Servilium Q. Catulo fundum restituere, aut condemnare eum quem non oporteat? Eius modi totum ius praetorium, omnis res iudiciaria fuit in Sicilia per triennium Verre praetore. Decreta eius modi, si non accipit quod te debere dicis, accuses; si petit, ducas: C. Fuficium duci iussit petitorem, L. Suettium, L. Racilium. Iudicia eius modi: qui cives Romani erant, si Siculi essent, cum Siculos eorum legibus dari

VI sec. d.C., in SDHI 69 (2003), p. 587 ss.; J. M. Rainer, in TIJR 71 (2003), p. 429 ss.; L. C. Winkel, in ZSS 123 (2006), p. 509 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 oporteret, qui Siculi, si cives Romani essent. [32] Verum ut totum genus amplectamini iudiciorum, prius iura Siculorum, deinde istius instituta cognoscite.

Non c’è nessuno che abbia dei dubbi ― afferma l’oratore ― sul fatto per cui tutti gli averi siano nelle mani di coloro che accordano la facoltà di avviare un’azione giudiziaria e di coloro che sono chiamati a giudicare. E non vi sono dubbi che nessuno di voi, cioè, potrebbe conservare la proprietà della propria casa, di un fondo e dei beni avuti nel caso in cui qualcuno gli contestasse in giudizio la legittimità del possesso, un pretore disonesto gli assegnasse, senza possibilità di fare opposizione, il giudice desiderato e un giudice furfante e vile emettesse la sentenza conformemente alla volontà del pretore. Se poi si aggiunge anche il fatto che un pretore conceda l’azione giudiziaria con una formula tale che perfino L. Ottavio Balbo, chiamato a giudicare, non potrebbe ― lui che è pure giurista così esperto e un uomo così attaccato ai suoi doveri ― discostarsi nella sua sentenza dalla formula. Ciò accade qualora cioè la formula sia del seguente tenore: ‘sia giudice L. Ottavio. Se risulta evidente che il fondo di Capena, che è l’oggetto del giudizio, appartiene in base al diritto romano a P. Servilio, e non sarà restituito a Q. Catulo…’, non dovrà il giudice L. Ottavio costringere P. Servilio a restituire il fondo a Q. Catulo, oppure condannare chi non dovrebbe? Ecco come sono state tutte quante le norme emanate dal governatore, ecco come s’è svolta ogni azione giudiziaria in Sicilia durante il triennio della propretura di Verre, afferma Cicerone. Ecco un esempio dei suoi decreti: ‘se non accetta quanto tu affermi di dovergli, accusalo; se reclama, fallo incarcerare’: e fece incarcerare G. Fuficio, che reclamava in giudizio il suo, L. Suettio e L. Racilio. Ecco le sue giurie: formate da cittadini romani, se i contendenti erano Siculi ― le loro leggi le volevano invece formate da Siculi ―; da Siculi, se i contendenti erano cittadini romani. Ma perché possiate rendervi conto dell’amministrazione della giustizia nel suo complesso, continua l’oratore, voglio prima farvi conoscere le norme di diritto vigenti in Sicilia e poi le disposizioni emanate da Verre. In tal modo Cicerone

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 enuncia altresì la sussistenza di una sovrapposizione normativa che si sarebbe comunque determinata in tal caso12. Una consolidata tradizione interpretativa in letteratura ha per tempo evidenziato l’omogeneità della formula delle verrine proposta ai recuperatores. Essa si è contraddistinta però per aver sottolineato come da un lato questa avrebbe costituito il prototipo di quella adottata dal pretore urbano in epoca postebuzia13, dall’altro invece come il modello

12 Sul frammento soprattutto Ph. E. Huschke, Gaius. Beiträge zur Kritik und zum Verständniβ seiner Institutionen, Leipzig, 1855, p. 225 s.; M. Wlassak, Römische Prozeβgesetze, II, Leipzig, 1891, p. 149 n. 19; A. Holm, Storia della Sicilia nell’Antichità (tr. it.), III, Torino, 1901, p. 259 n. 18; O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, Milano, 1946, p. 151 ss.; G. I. Luzzatto, Procedura civile romana. III. La genesi del processo formulare, Bologna, 1950, p. 113; V. Arangio-Ruiz, Sul problema della doppia cittadinanza nella repubblica e nell’impero romano, in Scritti F. Carnelutti, IV, Padova, 1950, p. 64 n. 2; E. Schönbauer, in Iura 4 (1953), p. 378 n. 9; F. Serrao, La ‘iurisdictio’ del pretore peregrino, Milano, 1954, p. 47; F. De Visscher, Les fantaisies formulaires du préteur Verres (Verr. II, 2, 31), in REL 33 (1955), p. 138; G. Broggini, in ZSS 76 (1959), p. 599 s.; F. De Visscher, Il sistema romano della nossalità, in Iura 11 (1960), p. 61; Id., Les fantaisies formulaires du préteur Verrès, in Études de droit romain public et privé, Milano, 1966, p. 425 ss.; p. 425 ss.; G. Broggini, «Fictio civitatis» strumento dell’arbitrio giurisdizionale di Verre?, in Synteleia V. Arangio- Ruiz, Napoli, 1964, p. 934 ss.; A. Biscardi, Lezioni sul processo antico e classico, Torino, 1968, p. 186 s.; R. Martini, Ricerche in tema di editto provinciale, Milano, 1969, p. 28 n. 32; M. Bartošek, Meditazioni romanistiche sull’essenza del diritto, in Studi E. Volterra, IV, Milano, 1971, p. 450 s., n. 32; L. D. Mellano, Sui rapporti tra governatore provinciale e giudici locali alla luce delle Verrine, Milano, 1977, p. 47; L. Di Lella, ‘Formulae ficticiae’. Contributo allo studio della riforma giudiziaria di Augusto, Napoli [1979], 1984, p. 138 ss.; M. Marrone, s.v. Rivendicazione, in ED XLI, Milano, 1989, p. 3 ss.; W. Kunkel – R. Wittmann, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik. Die Magistratur, II, München, 1995, p. 324 n. 94; p. 356 n. 196; M. Kaser – K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, München, 1996, p. 160 n. 66; p. 287 n. 7; p. 333 n. 41; p. 337 n. 18; E. Bianchi, ‘Fictio iuris’. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova, 1997, p. 308 n. 310; p. 311; D. Mantovani, Le formule del processo privato romano, Padova, 1999, p. 37 ntt. 9, 10; M. Genovese, Gli interventi edittali di Verre in materia di decime sicule, Milano, 1999, p. 76 n. 6; F. Mercogliano, «Actiones ficticiae». Tipologie e datazione, Napoli, 2001, p. 43 e nt. 149; M. Miceli, in Iura 52 (2001), p. 304; A. Corbino, ‘Legis actiones’ ed eccezioni difensive, in RHDFE 80 (2002), p. 398 s.; M. Genovese, ‘Qui cives romani erant, si siculi essent … qui siculi, si cives romani essent (Cic. Verr. 2.2.12.31): nuovi spunti interpretativi e riflessi sulla valutazione dell’esercizio della ‘iurisdictio’ nel corso della ‘Praetura siciliensis’ di Verre, in Studi R. Martini, II, Milano, 2009, p. 225 ss.; P. Sciuto, Gai. 4.37: alcune riflessioni in tema di ‘fictio civitatis’, in Iura 65 (2017), p. 424 ss. 13 G. I. Luzzatto, Procedura civile romana, cit., III, p. 113, il quale afferma come “nulla di più naturale, quindi, che ravvisare nella formula la cui esistenza ci è testimoniata per il procedimento dinanzi ai recuperatores, il prototipo di quella che caratterizza il

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ciceroniano fosse proprio quello svolto davanti al iudex privatus14. E quest’ultima considerazione che giungeva a configurare nella formula descritta il caso di un iudicium legitimum basava la sua argomentazione sul rilievo per cui P. Servilius e Q. Catulus fossero nomi affatto romani, nonché sull’essere oggetto della supposta vindicatio il fondo Capenate15. Oltretutto pertanto, in assenza di una possibilità di intercessio contro il governatore il quale imponeva una litiscontestatio su siffatta formula, avrebbe integrato un esempio il quale sarebbe stato più prossimo e accessibile agli ascoltatori romani16. In questa prospettiva, fin da epoca piuttosto risalente, da un lato è stato evidenziato lo scetticismo sulla struttura della formula. Infatti si è ritenuto che poiché i giudizi esaminati da Cicerone erano tutti giudizi celebrati davanti ai recuperatores, in quanto, mancando l’accordo fra le parti sul nome del giudice, essi sarebbero stati scelti “sistematicamente entro quella cohors latronum” di Verre. Pertanto si è affermato come “ne vien di conseguenza che in questo procedimento mancava la formula, ma era il magistrato a trasmettere ai recuperatores una istruzione”17, ovvero “un ordine di servizio”18. In relazione a questo L. Ottavio comunque avrebbe dovuto costringere o a restituere fundum ovvero a condannare a pagare a Q. Catulo il quanti ea res est. E non è stata nemmeno omessa la considerazione in ragione della quale Cicerone avrebbe stigmatizzato la mancanza di un controllo sull’attività giurisdizionale del governatore e sui poteri che ne conseguono in ordine al patrimonio dei provinciali, alla nomina dei giudici, ai mezzi di tutela. Ciò è accaduto fino ad affermare

processo postebuzio dinanzi al praetor urbanus”; altresì L. Wenger, s.v. Reciperatio, in PWRE I.A1, Stuttgart, 1914, p. 415 s.; p. 421 s.; M. Wlassak, Der Judikationsbefehl der römischen Prozesse, Wien, 1921, p. 53 s.; p. 427 s.; p. 431. 14 O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, cit., p. 152, il quale infatti aveva già posto l’accento specificamente sulla circostanza per cui “il procedimento tenuto sott’occhio dall’oratore” dovesse essere quello svolto davanti ad un iudex privatus, anziché ai recuperatores. 15 O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, cit., p. 152 s., che argomenta la sua lettura poiché “per essere P. Servilius e Q. Catulus nomi affatto romani, per essere infine oggetto della supposta vindicatio il fondo Capenate, … siamo di fronte al più tipico caso di iudicium legitimum, quale cioè si svolgeva intra primum urbis Romae miliarium, inter omnes cives Romanos, sub uno iudice, anch’esso civis Romanus”. 16 O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, cit., p. 153, e costituirebbe l’ordinamento provinciale repubblicano. 17 O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, cit., p. 152. 18 M. Wlassak, Der Judikationsbefehl der römischen Prozesse, cit., p. 262 s.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che “… così ha amministrato la giustizia Verre, manipolando arbitrariamente decreta e iudicia”19. Connessa a tale critica d’altro lato, si prospetta la valutazione negativa circa il ricorso ciceroniano alla fictio civitatis cui la formula stessa avrebbe fatto riferimento. Infatti Cicerone avrebbe contestato al governatore non tanto il richiamo della fictio20, poiché egli avrebbe tenuto presenti fattispecie in cui le parti fossero di diversa nazionalità, quanto piuttosto la costituzione dei processi21. In sostanza la formula, pur non ricomprendendo una fictio, avrebbe portato a conclusioni processuali identiche a quelle conseguenti proprio alla fictio22 nel caso in cui, in violazione della lex Rupilia, il giudice prescelto fosse costretto ad applicare un diritto sostanziale diverso da quello del convenuto. A conclusioni viceversa più drastiche si è giunti allorché si è affermato che Cicerone sembrerebbe alludere a giudizi tra attori e convenuti romani ovvero entrambi siculi, allorché la fictio civitatis avrebbe riguardato controversie tra un romano e un peregrino23. Così la critica ciceroniana al

19 G. Broggini, «Fictio civitatis» strumento dell’arbitrio giurisdizionale di Verre?, cit., p. 937, che ha posto in evidenza come il cuore del problema enucleato da Cicerone sarebbe stato proprio “l’assenza di controllo dell’attività giurisdizionale del propretore” per cui ciò avrebbe significato “che il governatore della provincia ha un potere illimitato sui beni dei sudditi: egli può nominare liberamente il giudice e stabilire la formula d’azione”. 20 V. Arangio-Ruiz, Sul problema della doppia cittadinanza, cit., p. 64 n. 2, il quale afferma come “l’oratore ha detto che le azioni contro i romani sono state organizzate dal propretore come aggiungendovi una fictio ‘si Siculi essent’ e le azioni contro i siciliani come con una fictio ‘si Romani essent’; le quali frasi si riferiscono appunto alla prava volontà di applicare un diritto materiale che non era quello delle parti in causa”. 21 G. Broggini, «Fictio civitatis» strumento dell’arbitrio giurisdizionale di Verre?, cit., p. 940 ss., che svolge analiticamente la tesi di Arangio-Ruiz: i processi impiegando lo strumento della fictio civitatis avrebbero potuto perciò imporre identiche conseguenze processuali. 22 G. Broggini, «Fictio civitatis» strumento dell’arbitrio giurisdizionale di Verre?, cit., p. 941, il quale specifica come “la formula non conteneva la fictio, ma in effetti essa conduceva inevitabilmente a conclusioni processuali ottenibili solo per mezzo della fictio”. 23 L. Di Lella, ‘Formulae ficticiae’, cit., p. 142 s., che sostiene puntualmente come “Cicerone sembra alludere a giudizi tra attori e convenuti romani ovvero tra parti entrambe siciliane”; mentre “la fictio civitatis invece riguarda esclusivamente le liti tra un cittadino e uno straniero”. E a quest’ultimo si avrebbe solo un’estensione a suo favore o contro delle azioni romane. Oltretutto la lex Rupilia avrebbe contenuto in modo tassativo soltanto disposizioni di ordine processuale e non sostanziale, oltreché riguardanti controversie tra cittadini, tra Siculi non eiusdem civitatis, oppure tra un privato e il popolo.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 governatore avrebbe coinvolto la concessione di azioni fondate su leggi sicule, qualora le parti del processo fossero state romane ovvero al contrario il conferimento di azioni fondate sul diritto romano in presenza di parti sicule24. Ma non si sarebbe affatto trattato di qualsivoglia riferimento alla concessione di azioni contenenti la fictio civitatis25. E di recente è stato evidenziato come il discorso ciceroniano sarebbe solo allusivo a formule giudiziali, tuttavia manipolate al punto tale da parte del governatore, anche tramite adattamenti simili a quelli richiesti dalla fictio civitatis, “ma in assenza di condizioni giustificative”26. Pertanto il discorso dovrebbe riferirsi alla datio dei iudicia intesi quali ‘organi giudicanti’27. Così nella critica ai verba dovrebbe ravvedersi una contestazione del loro contenuto arbitrario28, fino allo stravolgimento di una formula petitoria29,

24 L. Di Lella, ‘Formulae ficticiae’, cit., p. 145, il quale ancora afferma esattamente che “Cicerone abbia semplicemente inteso rinfacciare a Verre di avere accordato, nei processi fra attori e convenuti romani, formule di azioni fondate su leggi sicule, eventualmente anche mediante la nomina di un giudice siciliano, e viceversa, nel caso di giudizi fra Siciliani”. 25 L. Di Lella, ‘Formulae ficticiae’, cit., p. 146, che nega in tal modo appunto “la possibilità di vedere nel passo di Cicerone … un’allusione, più o meno esplicita, alle formule d’azione contenenti la fictio civitatis”. 26 M. Genovese, ‘Qui cives romani erant, si siculi essent … qui siculi, si cives romani essent (Cic. Verr. 2.2.12.31), cit., p. 227, il quale afferma pertanto che il discorso ciceroniano sarebbe solo allusivo a ‘formule giudiziali’ viceversa “ulteriormente manipolate da Verre, sempre in modo capriccioso e vessatorio, tramite adattamenti simili a quelli richiesti dalla fictio civitatis”. 27 M. Genovese, ‘Qui cives romani erant, si siculi essent … qui siculi, si cives romani essent (Cic. Verr. 2.2.12.31), cit., p. 228 s., che sostiene come l’assimilazione non sarebbe affatto necessitata e come il discorso dovrebbe riferirsi alla datio dei iudicia quali ‘organi giudicanti’. Per tali organi Cicerone contesterebbe la nomina del giudice in maniera arbitraria, senza tener conto di regole e prassi vigenti, e poi l’‘eccesso di indirizzo’ attuato tramite prava manipolazione dei verba esprimenti la volontà del magistrato tanto nei iussa destinati ai giudici quanto nei decreti aventi altri destinatari. 28 M. Genovese, ‘Qui cives romani erant, si siculi essent … qui siculi, si cives romani essent (Cic. Verr. 2.2.12.31), cit., p. 262 s., per il quale in questo modo appunto l’utilizzo di iudicia, senza alcuna allusione alla fictio civitatis, evocherebbe solo i ‘collegi giudicanti’. Viceversa negli estratti delle formule riportate, i relativi verba si presterebbero a critiche, “non per le implicazioni attinenti al diritto sostanziale da applicare, quanto per il loro contenuto arbitrario, o perché non danno contezza di talune circostanze difensive addotte dal convenuto … o perché indicano in modo generico la violazione edittale contestata”. 29 M. Genovese, ‘Qui cives romani erant, si siculi essent … qui siculi, si cives romani essent (Cic. Verr. 2.2.12.31), cit., p. 263, per cui negli estratti delle formule pertanto sarebbe possibile scorgere una traccia della prevaricazione del titolare della iurisdictio

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ovvero fino a sancirne la scorrettezza con l’indicare nella clausola restitutoria persona diversa rispetto all’attore30. Dall’altro lato invece rileva la posizione di quella letteratura che accoglie come autentica l’attestazione ciceroniana. Questa si è caratterizzata per aver ritenuto come “dalle Verrine risulta che formule con finzione di cittadinanza venivano concesse dai governatori delle provincie in liti fra romani e provinciali”. Ciò sarebbe accaduto allo scopo di rispondere alla necessità di non sottrarre un cittadino all’ordinamento giuridico naturale quando si procedeva al regolamento di fattispecie al di fuori del ius gentium31. Delle differenti interpretazioni offerte dunque appare necessario acclarare quale fosse quella più conforme alla reale portata del discorso ciceroniano. E ciò è possibile già verificando l’effettiva efficacia euristica degli argomenti che sono stati addotti nella letteratura considerata. Anzitutto rispetto alla doppia e contrastante ipotesi che è stata avanzata circa l’opportunità di valutare il testo della formula riportato da Cicerone quale prototipo di quello che solo successivamente sarebbe stato assunto

sull’organo giudicante, fino all’esempio relativo a 2.2.12.31 di “una formula petitoria a quel modo stravolta”. 30 P. Sciuto, Gai. 4.37: alcune riflessioni in tema di ‘fictio civitatis’, cit., p. 430 s., per la quale la formula petitoria riportata non solo sarebbe scorretta, in quanto la clausola restitutoria indicherebbe persona diversa rispetto all’attore che rivendica il fondo, “ma inevitabilmente seguita dal giudice, che, per quanto giurista capace … dovrà necessariamente conformarsi, a prescindere dall’iniquità a cui essa conduce”. In tale prospettiva mentre i iudicia indicherebbero i verdetti, non distinguendosi fra attori e convenuti, Cicerone non alluderebbe affatto alla presenza di una fictio civitatis, bensì all’incontrollata attività giurisdizionale di Verre. 31 F. Serrao, La ‘iurisdictio’ del pretore peregrino, cit., p. 47. Già Ph. E. Huschke, Gaius. Beiträge zur Kritik und zum Verständniβ seiner Institutionen, Leipzig, 1855, p. 225 s.; M. Wlassak, Römische Prozeβgesetze, II, Leipzig, 1891, p. 149 n. 19; A. Holm, Storia della Sicilia nell’Antichità (tr. it.), cit., III, p. 259 n. 18; F. De Visscher, Les fantaisies formulaires du préteur Verres (Verr. II, 2, 31), cit., p. 138; Id., Il sistema romano della nossalità, cit., p. 61, dove afferma che l’obbligazione nasce dalla stessa struttura della formula e che il giudice romano è rigorosamente vincolato dalla formula, quale principio affermato proprio in Cicerone, Verr. 2.2.12.30-31. Nello stesso senso A. Corbino, ‘Legis actiones’ ed eccezioni difensive, cit., p. 398, sostiene, sempre quale deduzione ricavabile dal testo ciceroniano, che “il vincolo del giudice alla formula è assoluto”. Così, nel ritenere che la fictio civitatis anche sulla base della testimonianza ciceroniana potesse farsi risalire alla procedura formulare preebuzia, anche M. Bartošek, Meditazioni romanistiche sull’essenza del diritto, cit., p. 450 s., n. 32; M. Kaser, Ius gentium, Köln-Weimer-Wien, 1993, p. 127 ss.; F. Mercogliano, «Actiones ficticiae», cit., p. 17 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dal pretore urbano per la tutela del diritto assoluto32, ovvero all’inverso quale testo tratto proprio dalla formula già adottata dallo stesso pretore urbano33, appaiono elementi che ostacolano entrambe le illazioni. Da un lato infatti non si può non osservare che P. Servilius e Q. Catulus indicati nel testo della formula siano nomi senz’altro romani, così come il fondo Capenate oggetto della vindicatio34. Ma si tratta della configurazione idonea ad ottenere esecuzione e che sarebbe risultata tale una volta espletata positivamente l’attività demandata al giudice L. Ottavio. Dall’altro non può nemmeno essere sottovalutato come nel testo stesso della formula vengano espressamente riferiti soggetti diversi rispetto a colui che avanza la pretesa processuale e relativamente al soggetto poi proposto quale destinatario della restituzione del fondo ovvero del pagamento dell’aestimatio di questo35, aspetto invero non configurabile in ambito civilistico. Inoltre non sembra che il capriccio manipolatorio di Verre si spingesse fino al punto di voler soltanto designare giudici tratti dalla propria cohors, senza allegare alcuna formula a questi destinata, ovvero adducendo un mero ordine di servizio36. Infatti il discorso di Cicerone si svolge al contrario proprio indicando il testo di una formula redatta con tutti i criteri propri di quello tipico del ius civile: la nomina del giudice, la pronuntiatio de iure, il iussum de restituendo, la configurazione dell’aestimatio. Infine non risulta plausibile la ripetuta affermazione, di recente riformulata in modo sempre più accentuato, per cui Cicerone non avesse fatto alcuna allusione alla fictio civitatis37. Ovvero, secondo una impostazione più risalente, vi si sarebbe riferito soltanto in modo indiretto al fine di contestare l’effetto processuale ottenuto nella costituzione dei giudizi, nel rendere cioè applicabile una norma

32 L. Wenger, s.v. Reciperatio, cit., p. 415 s.; p. 421 s.; M. Wlassak, Der Judikationsbefehl der römischen Prozesse, cit., p. 53 s.; p. 427 s.; p. 431. G. I. Luzzatto, Procedura civile romana, cit., III, p. 113. 33 O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, cit., p. 152 s. 34 Così O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, cit., p. 152 s. 35 Anche P. Sciuto, Gai. 4.37: alcune riflessioni in tema di ‘fictio civitatis’, cit., p. 430. 36 M. Wlassak, Der Judikationsbefehl der römischen Prozesse, cit., p. 262 s.; O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, cit., p. 152. 37 L. Di Lella, ‘Formulae ficticiae’, cit., p. 142 ss.; M. Genovese, ‘Qui cives romani erant, si siculi essent … qui siculi, si cives romani essent (Cic. Verr. 2.2.12.31), cit., p. 227 ss.; P. Sciuto, Gai. 4.37: alcune riflessioni in tema di ‘fictio civitatis’, cit., p. 430 s.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sostanziale diversa da quella del convenuto38. L’oratore infatti afferma esplicitamente: iudicia eius modi: qui cives Romani erant, si Siculi essent, cum Siculos eorum legibus dari oporteret, qui Siculi, si cives Romani essent. Di fronte alla effettiva presenza di convenuti Siculi, attraverso l’uso tecnico e ripetuto del discorso condizionale proprio di tale struttura formulare, questi devono essere trattati alla stregua di cittadini romani. Il riferimento specifico relativo ai romani riguarda invero interamente la loro condizione di cives, la quale deve essere processualmente configurata rispetto a coloro che invece difettano di siffatta qualificazione giuridica. Così non sembra possa essere sottovalutato che il modello della formula riprodotto da Cicerone, nella sua struttura sostanziale, parrebbe dovesse essere in buona approssimazione quello relativo al iudicium tenuto davanti ad un iudex privatus, anziché direttamente innanzi ai recuperatores. Infatti P. Servilius e Q. Catulus sono nomi senz’altro romani, così come il fondo Capenate oggetto della vindicatio39. Ma perdipiù, a livello dell’oportere stabilito nella litiscontestatio, oggetto del dovere del convenuto era senz’altro la restitutio del fondo. In modo particolare ci troviamo in relazione alla descrizione di una formula che riguardava l’appartenenza ex iure Quiritium di un fondo, in cui però si configura la restituzione di questo a persona diversa dall’attore: il fondo appartiene esclusivamente in base ad una procedura del diritto romano a P. Servilio, ma sarà restituito a Q. Catulo. E il giudice L. Ottavio dovrà costringere P. Servilio a restituire il fondo proprio a Q. Catulo, oppure condannare eum quem non oporteat: quindi chi non dovrebbe in caso di mancata restituzione a pagare a Q. Catulo il quanti ea res est. Pertanto il tenore della formula riportata non appare integrare soltanto un mero esempio precostituito ad uso dei romani uditori, come invece ritenuto40. I soggetti infatti su cui grava l’obbligo processuale di restitutio ovvero di pagamento dell’aestimatio sono individualmente determinati, così come sono espressamente circoscritti coloro che sono indicati come i destinatari della restitutio o del pagamento. Si tratta di P. Servilio e Q. Catulo. Come

38 V. Arangio-Ruiz, Sul problema della doppia cittadinanza, cit., p. 64 n. 2; G. Broggini, «Fictio civitatis» strumento dell’arbitrio giurisdizionale di Verre?, cit., p. 940 ss.; E. Bianchi, ‘Fictio iuris’, cit., p. 308 n. 310. 39 Anche O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, cit., p. 152 s. 40 O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, cit., p. 152 s.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 si vedrà il delegante concedente abilitato alla gestione dello sfruttamento dei fondi (nonché alla riscossione) e cui viene perciò demandata l’iniziativa processuale ― oltretutto in origine di certo Siculo (civitas, publicanus, autorità locale) ― ed il delegatario titolare: il che presuppone la sussistenza di un delegato concessionario. Qualora si tenga presente la costruzione di schemi formulari analoghi a quello qui riprodotto, pertanto si evince con facile evidenza che la determinazione dei soggetti appare corrispondere, non tanto al capriccio inventivo di Verre quanto piuttosto ad una precisa scelta nella tecnica relativa alla costruzione della formula destinata ai giudici. Infatti sia nello schema del giudizio petitorio civile riprodotto da Lenel41, sia nelle formulazioni ove Gaio attesta la cessione delle azioni a chi non sia concreto titolare del diritto in base all’effetto della fictio42, ovvero in

41 O. Lenel, Das ‘Edictum Perpetuum’. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung³, Leipzig, 1927 [rist. Aalen 1985], p. 185 s.: de rei vindicatione. Die formula petitoria lautete folgendermaβen: Iudex esto. Si paret fundum quo de agitur ex iure Quiritium A. Agerii esse neque is fundus arbitrio iudicis A. Agerio restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam iudex N. Negidium A. Agerio condemnato; si non paret absolvunto. 42 Gai.4.34: habemus adhuc alterius generis fictiones in quibusdam formulis, veluti cum is, qui ex edicto bonorum possessionem petiit, ficto se herede agit. Cum enim praetorio iure, non legitimo succedat in locum defuncti, non habet directas actiones, et neque id quod defuncti fuit potest intendere ‘suum esse’, neque id quod ei debebatur potest intendere ‘dari sibi oportere’; itaque ficto se herede intendit velut hoc modo ‘iudex esto. Si A. Agerius (id est si ipse actor) L. Titio heres esset, tum si eum fundum de quo agitur ex iure Quiritium eius esse oporteret’; et si … praeposita simili fictione heredis ita subicitur ‘tum si pareret N. Negidium A. Agerio sestertium X milia dare oportere’. Sul testo soprattutto L. De Sarlo, La definizione dell’‘actio Publiciana’ nel diritto dei classici, in Studi S. Solazzi, Napoli, 1948, p. 203 ss.; A. Guarino, in Iura 1 (1950), p. 267; G. Scherillo, La ‘bonorum venditio’ come fugura di «successio», in Iura 4 (1953), p. 209; U. Coli, Il testamento nella legge delle XII Tavole, in Iura 7 (1956), p. 85; C. Gioffredi, Successio in ius, in SDHI 23 (1957), p. 1 ss.; M. Kaser, ‘Oportere’ und ‘ius civile’, in ZSS 83 (1966), p. 1 ss.; M. Lauria, in Iura 29 (1978), p. 144; A. Guzmán, Sobre el objecto de las ficciones pretorias, in Rev. de Est. Historico Juridicos 3 (1978), p. 51 s.; C. Gioffredi, Aspetti della sistematica Gaiana, in Nuovi Studi di diritto greco e romano, Romae, 1980, p. 259; K. Hackl, Sulla finzione nel diritto privato, in Studi A. Biscardi, I, Milano, 1982, p. 252; L. Di Lella, ‘Formulae ficticiae’, cit., p. 14 ss.; S. Longo, ‘Naturalis obligatio’ e ‘debitum servi’ in Gai. 3.119a, in Iura 46 (1995), p. 71 n. 66; A. Castro, Observaciones en torno a la acceptación hereditaria en derecho romano: Trebacio, Prόculo, Juliano, Gayo, Paulo y Ulpiano ante la ‘aditio’, in Iura 47 (1996), p. 69 n. 128; A. Castro Sáenz, Notas sobre un paralelismo en la creación pretoria del derecho: ‘bonorum possessio’ e ‘in bonis habere’, in RIDA 47 (2000), p. 197 n. 7; Id., Conceptiones jurisprudenciales sobre el acto posesorio, cit., p. 112 n. 183; F. Mercogliano, «Actiones ficticiae», cit., p. 4 ss.; M. Miceli, in Iura 52 (2001), p. 301 ss.; L. Maganzani, Pubblicani e debitori d’imposta. Ricerche sul titolo edittale ‘De

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 quelle in cui prevede la condanna ad una somma indeterminata, senza una limitazione43, si può riscontrare viceversa l’assenza di tale precisazione. Appare pertanto logico dedurre che l’indicazione espressa dei soggetti dovesse corrispondere ad una duplice operazione giuridica. Questa risulterebbe effettuata al fine di rendere operativa una disciplina sostanziale originariamente concepita in relazione a diritti vantati solo da romani ed ora invece estesi anche a coloro che non solo risultano privi della cittadinanza, bensì ai quali non è attribuito al contempo ugualmente l’esercizio del diritto. Anzitutto il romano P. Servilio si trova a dover chiedere la restitutio ovvero il pagamento dell’aestimatio non verso se stesso bensì verso Q. Catulo. Ma tale richiesta che fonda la sua legittimazione ad aprire il processo anzitutto avrebbe dovuto essere fondata su una titolarità. Questa sarebbe concessa in via d’azione ed estesa tramite l’attribuzione di una finzione di cittadinanza, analogamente agli esempi visti in ambito urbano. Infatti la fattispecie iniziale descritta da Cicerone non lascia adito a incertezze. Non c’è nessuno che abbia dei dubbi sul fatto per cui tutti gli averi siano nelle mani di coloro che accordano la facoltà di avviare un’azione giudiziaria e di coloro che sono chiamati a giudicare, aveva detto l’oratore all’inizio del frammento. E non vi sono dubbi che nessuno

publicanis’, Torino, 2002, p. 25; M. Genovese, in Iura 53 (2002), p. 359; P. Sciuto, Gai. 4.37: alcune riflessioni in tema di ‘fictio civitatis’, cit., p. 417; G. Finazzi, La delimitazione del concetto di ‘possessio’ alla luce di alcune ‘missiones in bona’ e ‘in possessionem’, in Iura 66 (2018), p. 214 n. 532. 43 Gai.4.51: incertae vero condemnatio pecuniae duplicem significationem habet. Est enim una cum aliqua praefinitione, quae vulgo dicitur cum taxatione, velut si incertum aliquid petamus; nam illic ima parte formulae ita est ‘iudex N. Negidium A. Agerio dumtaxat sestertium X milia condemna. Si non paret, absolve’. Vel incerta est et infinita, velut si rem aliquam a possidente nostram esse petamus, id est si in rem agamus vel ad exhibendum; nam illic ita est ‘quanti ea res erit, tantam pecuniam, iudex, N. Negidium A. Agerio condemna. Si non paret, absolvito’. Quid ergo est? Iudex si condemnet, certam pecuniam condemnare debet, etsi certa pecunia in condemnatione posita non sit. Sul frammento principalmente S. Solazzi, in Iura 3 (1952), p. 343; M. Marrone, Actio ad exibendum, in AUPA 26 (1958), p. 664 ss.; H. J. Polotosky, Three Greek Documents from the family Archive of Babatha, in Erez Israel 8 (1967), p. 46 s.; M. Lemosse, Ad exibendum, in Iura 33 (1982), p. 71 n. 15; A. Burdese, Sul riconoscimento civile dei c.d. contratti innominati, in Iura 36 (1985), p. 28; p. 35; p. 40; C. A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, in Iura 57 (2008-2009), p. 42 n. 72; G. Finazzi, La delimitazione del concetto di ‘possessio’ alla luce di alcune ‘missiones in bona’ e ‘in possessionem’, cit., p. 171 n. 325.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 di voi, cioè ― afferma ancora l’oratore ―, potrebbe conservare la proprietà della propria casa, di un fondo e dei beni avuti nel caso in cui qualcuno gli contestasse in giudizio la legittimità del possesso, un pretore disonesto gli assegnasse, senza possibilità di fare opposizione, il giudice desiderato e un giudice furfante e vile emettesse la sentenza conformemente alla volontà del pretore. Il diritto contestato al convenuto pertanto è un “diritto di proprietà avuto”; la contestazione dell’attore invece avrebbe potuto riguardare la legittimità viceversa del possesso esercitato; il giudice assegnato non avrebbe potuto essere controverso non solo ove non vi fosse stato accordo delle parti. Non soltanto per quest’ultimo aspetto invero l’intervento del governatore avrebbe potuto discostarsi dalle previsioni della lex Rupilia. Infatti anzitutto certamente le sue giurie sarebbero state formate da cittadini romani, se i contendenti fossero Siculi ― le loro leggi invece le volevano viceversa formate da Siculi ―; da Siculi, se i contendenti fossero cittadini romani. Ma a differenza di quanto osservato per cui la lex Rupilia avrebbe contenuto disposizioni di ordine processuale e non sostanziale44, essa avrebbe implicato anche l’applicazione di norme sostanziali45 e senz’altro riguardanti oltreché controversie tra cittadini, tra Siculi non eiusdem civitatis, oppure tra un privato e il popolo46.

44 L. Di Lella, ‘Formulae ficticiae’, cit., p. 145. 45 G. Broggini, «Fictio civitatis» strumento dell’arbitrio giurisdizionale di Verre?, cit., p. 941. 46 Cicerone, Verr. 2.2.13.32: Siculi hoc iure sunt ut, quod civis cum cive agat, domi certet suis legibus, quod Siculus cum Siculo non eiusdem civitatis, ut de eo praetor iudices ex P. Rupili decreto, quod is de decem legatorum sententia statuit, quam illi legem Rupiliam vocant, sortiatur. Quod privates a populo petit aut populus a privato, senatus ex aliqua civitate qui iudicet datur, cum alternae civitates reiectae sunt; quod civis Romanus a Siculo petit, Siculus iudex, quod Siculus a civi Romano, civis Romanus datur; ceterarum rerum selecti iudices ex conventu civium Romanorum proponi solent. Inter aratores et decumanos lege frumentaria, quam Hieronicam appellant, iudicia fiunt. Secondo le norme di diritto vigenti in Sicilia infatti: quando un siciliano ha una controversia con un concittadino, il dibattimento si svolge nella loro città in modo conforme alle loro leggi: domi certet suis legibus; quando però la controparte non è della stessa città, il propretore deve precedere al sorteggio dei giudici della controversia in base al decreto P. Rupilio, da lui redatto conformemente al parere dei dieci delegati del senato e chiamato dai Siculi ‘legge Rupilia’. Quando un privato intenta un’azione contro una comunità o una comunità contro un privato, si assegna come giudice il senato di un’altra città quando si siano ricusati quelli delle città cui appartengono le due parti; quando un cittadino romano intenta un’azione contro un siciliano, si assegna come giudice un siciliano; è invece chiamato a giudicare un

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Il principio generale affermato dalla lex Rupilia per cui avrebbe dovuto essere concesso il giudice della nazionalità propria del convenuto, avrebbe potuto essere derogato perdipiù ove la formula avesse contenuto una fictio civitatis, come affermato nella parte finale del frammento delle verrine 2.2.12.31 e come ritenuto da parte della dottrina47. I iudicia complessivamente considerati e non soltanto a livello dei collegi giudicanti sarebbero stati costituiti secondo il diritto dei romani considerando i Siculi sia eiusdem civitatis sia non alla stregua di cittadini romani, ovvero configurando giudici siculi qualora fossero in causa

Romano quando l’attore sia siciliano e il convenuto romano. Per tutte le altre controversie di solito i giudici vengono assegnati scegliendoli dalla comunità dei cittadini romani di quella circoscrizione. Le cause tra coltivatori ed esattori della decima vengono celebrate in base alla legge frumentaria, chiamata dai Siculi legge di Gerone. Sul testo soprattutto V. Arangio-Ruiz, Sul problema della doppia cittadinanza, cit., p. 64 n. 2; E. Schönbauer, in Iura 4 (1953), p. 378 n. 9; D. Arriat, Le préteur pérégrin, Paris, 1955, p. 93; F. Serrao, in Iura 8 (1957), p. 536; M. Jacata, Conflictele de legi in Imperial Roman, in Studii clasica 7 (1965), p. 83 ss.; L. D. Mellano, Sui rapporti tra governatore provinciale e giudici locali alla luce delle Verrine, cit., p. 9 ss.; R. Martini, in Iura 28 (1977), p. 262 ss.; L. Di Lella, ‘Formulae ficticiae’, cit., p. 143 n. 41; D. Nörr, Texte zur ‘lex Aquilia’, in H.-P. Benöhr – K. Hackl – R. Knütel – A. Wacke (Herausg.), ‘Iuris professio’. Festgabe M. Kaser, Wien-Köln-Graz, 1986, p. 213; P. Cerami, Il rapporto giuridico d’imposta nell’esperienza tributaria romana: obbligazione e condono, in Iura 37 (1986), p. 47 n. 37; C. Castello, D.50.16.203. Un passo di A. Varo in tema di esecuzione dal ‘portorium’, in Iura 37 (1986), p. 107; F. La Rosa, La ‘lex Irnitana’ e la nomina del giudice, in Iura 40 (1989), p. 67; M. Genovese, Condizioni delle ‘civitates’ della Sicilia ed assetti amminsitrativo-contributivi delle altre province nella prospettazione ciceroniana delle Verrine, in Iura 44 (1993), p. 185 n. 25; L. Maggio, Processo criminale e giudici locali nella Sicilia dell’età ciceroniana, in Labeo 39 (1993), p. 251 s.; R. Martini, Di alcuni aspetti della giurisdizione romana nelle provincie orientali, in Labeo 42 (1996), p. 398; E. Bianchi, ‘Fictio iuris’, cit., p. 309 n. 313; O. E. Tellegen-Couperus, La loi Rupilia e l’édit ‘si qui perperam iudicasset’ de Verrès, in Orbis Iuris Romani 4 (1998-1999), p. 85 ss.; W. Turpin, ‘Formula’, ‘cognitio’, and proceedings ‘extra ordinem’, in RIDA 46 (1999), p. 254 s.; L. Maganzani, Jurisdiction romaine et autonomie locale dans les provinces au dernier siècle de la République, in RHDFE 85 (2007), p. 353 ss.; M. Genovese, ‘Qui cives romani erant, si siculi essent … qui siculi, si cives romani essent (Cic. Verr. 2.2.12.31), cit., p. 230 ss.; I. Fargnoli, ‘Si eam rem in urbe Roma … iudicari iussisset’. Sulla ‘legittimità’ dei giudizi nella ‘Lex Irnitana’, in Iura 60 (2012), p. 253 n. 37; A. Torrent, La ‘exceptio’ del edicto de Bibulo para Siria del 51 a.C., in Iura 68 (2015), p. 182. 47 F. Serrao, La ‘iurisdictio’ del pretore peregrino, cit., p. 47. Già F. De Visscher, Les fantaisies formulaires du préteur Verres (Verr. II, 2, 31), cit., p. 138; Id., Il sistema romano della nossalità, cit., p. 61, M. Bartošek, Meditazioni romanistiche sull’essenza del diritto, cit., p. 450 s. n. 32; M. Kaser, Ius gentium, cit., p. 127 ss.; F. Mercogliano, «Actiones ficticiae», cit., p. 17 ss.; A. Corbino, ‘Legis actiones’ ed eccezioni difensive, cit., p. 398.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 cittadini romani: iudicia eius modi: qui cives Romani erant, si Siculi essent, cum Siculos eorum legibus dari oporteret, qui Siculi, si cives Romani essent. A favore del fatto che si tratti infatti di una deroga a quanto disposto in Verr. 2.2.13.32 sembrano deporre diversi elementi. Anzitutto emerge il rilievo testuale per cui soltanto per i Romani si fa riferimento nel caso espressamente allo status civitatis (qui cives Romani, … si cives Romani), mentre analoga indicazione è assente per quanto riguarda i Siculi. Pertanto nel caso parrebbe alludersi alla necessità di una estensione dell’ordinamento romano rispetto ai peregrini. Inoltre si evidenzia il fatto per cui le norme della lex Rupilia potevano essere derogate in vario modo allorché esplicitamente è affermato che riguardo tutte le altre controversie di solito i giudici venivano assegnati scegliendoli dalla comunità dei cittadini romani di quella circoscrizione. Viceversa le cause tra coltivatori ed esattori della decima vengono celebrate in base alla legge frumentaria, chiamata dai Siculi legge di Gerone. Infine rileva soprattutto la stessa configurazione della fattispecie sostanziale descritta in Verr. 2.2.12.31: … quin nemo vestrum possit aedis suas, nemo fundum, nemo bona patria obtinere …, per la quale il diritto contestato al convenuto sarebbe un “diritto di proprietà avuto”. E la contestazione dell’attore invece avrebbe potuto riguardare la legittimità del possesso esercitato. A fronte della determinazione esatta relativamente alle parti in causa, sia dell’attore, sia del destinatario effettivo della restituzione e sia del convenuto legittimato passivo alla restituzione, in definitiva soltanto la fictio civitatis avrebbe potuto intanto incardinare sull’attore la pretesa di un diritto analogo a quello che un qualsiasi altro cittadino romano avrebbe potuto vantare nei confronti dei terzi. Ma nella circostanza si tratta esclusivamente di un’analogia in quanto l’attore non risulta essere poi colui che ha esercitato effettivamente il diritto e quindi processualmente il destinatario della possibile restitutio del fondo o della sua aestimatio. In questo modo l’ulteriore conseguenza del riconoscimento del diritto assoluto analogo a quello configurato per i cittadini romani, assicurato ai Siculi mediante la fictio civitatis, risulta essere quella di garantire nei confronti del destinatario designato per la restitutio o per l’aestimatio gli effetti concreti della sentenza. Anche a tale esigenza in effetti appare corrispondere l’affermazione dell’oratore alla fine del frammento

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 relativamente alla costituzione dei iudicia, allorché il governatore aveva previsto che le giurie sarebbero state formate da cittadini romani, se i contendenti fossero stati Siculi, ovvero da Siculi, se i contendenti fossero stati cittadini romani. I collegi giudicanti composti da cittadini romani, scelti dallo stesso governatore, nel caso avrebbero avuto tutti i poteri idonei e sufficienti ad assicurare l’efficacia di una sentenza che imponeva ai convenuti l’applicazione di un diritto sostanziale diverso da quello che sarebbe spettato loro in base alla legge. In effetti, è ragionevole ritenere che la formula petitoria di Verr. 2.2.12.31 non solo non costituisca un mero esempio civilistico soltanto retoricamente formulato dall’oratore48. Né invero una completa invenzione inizialmente predisposta esclusivamente per il procedimento che doveva svolgersi davanti ai recuperatores49. E tantopiù nemmeno un esclusivo procedimento abusivo imposto dal capriccio di Verre che escludesse qualsiasi logica formulare e la stessa presenza di una fictio50. Ma è plausibile affermare che essa contenesse invece un preciso obiettivo di tutela. Quest’ultimo appare costituito proprio nella stessa formulazione edittale. Ciò accade allorché, attraverso il meccanismo della fictio civitatis, si riconosce al concedente il diritto civile di chiedere la restituzione ad un terzo preciso cui sia stata effettuata la concessione mediante l’affitto. Dacché il concedente potrebbe anche non considerarsi proprietario51. Pertanto il locatore siculo è integrato nella posizione di

48 O. Carrelli, La genesi del procedimento formulare, cit., p. 153. 49 L. Wenger, s.v. Reciperatio, cit., p. 415 s.; p. 421 s.; M. Wlassak, Der Judikationsbefehl der römischen Prozesse, cit., p. 53 s.; G. I. Luzzatto, Procedura civile romana, cit., III, p. 113. 50 Soprattutto L. Di Lella, ‘Formulae ficticiae’, cit., p. 142 ss.; M. Genovese, ‘Qui cives romani erant, si siculi essent … qui siculi, si cives romani essent (Cic. Verr. 2.2.12.31), cit., p. 227 ss.; P. Sciuto, Gai. 4.37: alcune riflessioni in tema di ‘fictio civitatis’, cit., p. 430 s. 51 Da Cicerone, Verr. 2.3.22.55, sappiamo espressamente che il concedente Xeno si considera non proprietario, mentre la titolarità del dominium populi parrebbe doversi ascrivere ai decumani, legittimati alla riscossione definitiva della decima parte dei prodotti del fondo quale munus pubblico (vd. anche Cicerone, Verr. 2.2.13.32, supra, nt. 46). Cfr. soprattutto H. Degenkolb, Die ‘Lex Hieronica’ und das Pfändungsrecht der Steuerpächter, Berlin, 1861 [rist. Amsterdam, 1968]; J. Carcopino, La loi de Hiéron et les Romains, Paris, 1919, p. 50 s.; A. Plachy, Contributo alla teoria delle ‘leges contractus’ nel diritto romano pubblico, in BIDR 42 (1940), p. 93 ss.; p. 104; R. T. Pritchard, Cicero and the ‘lex Hieronica’, in Historia 19 (1970), p. 352 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II², Napoli, 1973, p. 332 ss.; C. Nicolet, Dîmes de Sicilie d’Asie et d’ailleurs, in Le ravitaillement en blé de Rome et des centres

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dominus solo in conseguenza del riconoscimento processuale e fittizio della cittadinanza. Questo rende in un momento successivo l’atto della concessione, di per sé non idoneo al trasferimento della proprietà, invece l’atto stesso analogo in quanto a provenienza ad un atto di trasferimento iuris civilis emesso dal dominus: si paret fundum Capenatem, quo de agitur, ex iure Quiritium P. Servili esse, recita infatti la formula. E dopo tale riconoscimento, al momento della richiesta circa la restituzione, si impone ai giudici recuperatores l’onere di assicurare il risultato della restitutio o dell’aestiamatio al titolare sottostante ed effettivo oltreché pubblico del diritto già sussistente appunto prima della concessione. Invero da un lato la pretesa edittale appare validamente fondata sull’atto stesso ed operativo della concessione, configurando quest’ultima come atto però fittiziamente idoneo ad attribuire seppure retroattivamente il dominium al concedente in virtù dell’avvenuta considerazione di questo quale cittadino romano. D’altro lato viceversa il destinatario della restitutio del fondo o della sua aestimatio risulterebbe essere legittimamente il soggetto pubblico titolare originario del fondo medesimo e cui spettano i proventi definitivi dello sfruttamento. Oltretutto il dovere di restituzione o di pagamento dell’aestimatio così fatto valere dai recuperatores nei confronti dell’autorità, specificamente individuata nella figura di Q. Catulo e titolare originaria nel caso del dominium populi52, sembrerebbe configurato ad un preciso scopo concreto. Esso cioè è puntualizzato al fine di evitare anche un danno che altrimenti si sarebbe prodotto proprio a carico di quest’ultima autorità qualora invece esso non fosse stato assicurato secondo le procedure di volta in volta valutate dal governatore stesso. Così si spiega pertanto anche la già rilevata necessità di procedere all’esatta indicazione sia del soggetto gravato dell’onere della restituzione ovvero del pagamento dell’aestimatio, sia al contempo del soggetto incaricato specificamente ad ottenere la restituzione medesima o il pagamento. Aspetto codesto che pertanto esula completamente dall’attribuzione astratta della titolarità dell’appartenenza all’affittuario in base al riconoscimento del meccanismo

urbains des débuts de la république jusqu’au haut empire. Actes Coll. intern. Centre J. Bérard-URA 994, Naples-Rome, 1994, p. 217 ss.; M. Genovese, Gli interventi edittali di Verre in materia di decime sicule, Milano, 1999. 52 Cfr. Cicerone, Verr. 2.2.3.7: et quoniam quasi quaedam praedia populi Romani sunt vectigalia nostra atque provinciae …

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 processuale di una possibile fictio civitatis a quest’ultimo, bensì esclusivamente al concedente e che legittima solo l’iniziativa processuale del concedente medesimo. Cicerone dunque in Verr. 2.2.12.31 attesta anzitutto che i destinatari del diritto di proprietà di una casa, di un fondo o dei beni in ambito provinciale ottengono tale titolarità in base al presupposto di una intervenuta concessione. Sul fondamento di ciò essi sono tenuti a tal titolo comunque a restituire nel caso in cui qualcuno contestasse loro la legittimità del possesso: dubium nemini est quin omnes omnium pecuniae positae sint in eorum potestate qui iudicia dant, et eorum qui iudicant, quin nemo vestrum possit aedis suas, nemo fundum, nemo bona patria obtinere, si, cum haec a quopiam [vestrum] petita sint. Pertanto il soggetto concedente del fondo nei confronti dell’affittuario, potendo anche non essere titolare del diritto di appartenenza del fondo e comunque in ciascun caso disponendo di questo solo per mezzo dell’affitto per cui soltanto in base al negozio sarebbe abilitato ad agire in via processuale, non potrebbe costituire in capo al concessionario quella titolarità definitiva necessaria alla richiesta della restituzione nei confronti invece dell’autorità pubblica rimasta titolare del dominium populi. Questa però difettando nella situazione data del rapporto diretto con il concessionario deve avvalersi necessariamente della posizione del concedente che ha stipulato il contratto al fine di promuovere l’iniziativa giudiziale per la rivendica del fondo medesimo. Così in ogni circostanza l’intervento formulare della fictio civitatis, costitutivo ex iure Quiritium P. Servili esse, appare sempre necessario allo scopo di far ottenere all’autorità pubblica titolare del dominium populi la restituzione del fondo. Infatti solo il riconoscimento del dominium in testa al concedente appare giustificare in via fittizia la restituzione ai decumani titolari del potere di riscossione della decima, senza alcuna perdita del fondo o futura privazione di esso e in costanza invece della permanenza del possesso del fondo presso l’affittuario ma in presenza di un inadempimento circa il pagamento della decima medesima. E soltanto tale restituzione consente di sancire il dovere di controllo che al riguardo pare accollato al concedente, nella misura in cui gli si sottrae il corrispettivo del canone ordinariamente percepito e facendo valere in tal modo la sua responsabilità: aut condemnare eum quem non oporteat.

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3. L’ARGOMENTAZIONE GAIANA DELL’AD EDICTUM PROVINCIALE: D.4.7.3.3

La struttura del giudizio petitorio utilizzata in ambito provinciale, quale emersa da Cicerone, appare non soltanto confermata dagli impieghi classici, bensì anche estesa ad ulteriori funzioni. A queste il iussum de restituendo avrebbe potuto essere predisposto, secondo un’analoga configurazione rispetto a quanto accadeva in sede civile. E da questo punto di vista risulta del tutto rilevante la testimonianza di Gaio. Essa tradizionalmente è stata letta o in rapporto all’alienazione effettuata per mutare le condizioni in cui si svolge il giudizio ovvero in relazione alla difficoltà di applicazione della denuncia di nuova opera proprio in sede provinciale

Gai. ad ed. prov. fr. 112 Lenel = Gai. 4 ad ed. prov. D.4.7.3.3: opus quoque novum si tibi nuntiaverim tuque eum locum alienaveris et emptor opus fecerit, dicitur te hoc iudicio teneri, quasi neque tecum ex operis novi nuntiatione agere possim, quia nihil feceris, neque cum eo cui id alienaveris, quia ei nuntiatum non sit.

Il giurista asserisce infatti che pure se io ti abbia fatto la denuncia di nuova opera e tu abbia alienato il fondo, e il compratore abbia costruito l’opera, si afferma che tu sei tenuto con questa azione, in quanto io non posso agire contro di te in base alla denuncia di nuova opera, poiché nulla hai costruito, né posso agire contro colui al quale hai alienato, poiché non gli è stata fatta la denuncia53.

53 Sul testo soprattutto K. A. Vangerow, Lehrbuch der Pandekten, III7, Marburg und Leipzig, 1876, p. 535; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, II, Leipzig, 1901, p. 471 s.; F. Kniep, Der Rechtsgelehrte Gaius und die Ediktskommentare, Jena, 1910, p. 293; F. De Marini Avonzo, I limiti alla disponibilità della «res litigiosa» nel diritto romano, Milano, 1967, p. 139 s. e n. 65; R. Martini, Ricerche in tema di editto provinciale, cit., p. 86 s.; A. Guarino, Gaio e l’«edictum provinciale», in Iura 20 (1969), p. 167 e n. 63; F. Betancourt, Recursos supletorios de la «cautio damni infecti» en el derecho romano clasico, in AHDE 45 (1975), p. 94 e n. 16; J. J. de los Mozos Touya, Miscellanea, in BIDR 85 (1982), p. 215; M. Morabito, Esclavage et enseignement du droit: les Institutes de Gaius, in Index 15 (1987), p. 60 n. 48; Th. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, Tübingen, 2010, p. 262 s.; L. Parenti, Un caso di ‘ius controversum’ in tema di ‘operis novi nuntiatio’, in Quaderni Lupiensi di Storia e Diritto 7 (2017), p. 167 ss.

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Non soltanto la letteratura più risalente, ma anche quella più recente, ha evidenziato la collocazione del frammento gaiano nell’ambito della concessione dell’actio in factum entro il contesto dell’alienatio iudicii mutandi causa facta54. E non ha mancato di interpretare l’argomentazione gaiana ipotizzando la sussistenza di un dubbio giurisprudenziale alla base della soluzione offerta dal giurista. Ciò sarebbe avvenuto sul presupposto dell’impiego di dicitur nel testo quale implicito riferimento ad un’affermazione di altri giuristi55. Così come non ha omesso di ipotizzare che la denuncia nelle provincie non avrebbe avuto efficacia reale e, dato il suo carattere civile, non sarebbe stata applicata ai fondi provinciali. Tale risultato si sarebbe verificato in quanto Gaio concede solo contro l’alienante l’azione per l’alienatio iudicii mutandi causa facta56. Tuttavia quella più attenta ha sottolineato ulteriormente la specificità della soluzione gaiana in quanto proveniente dal commento all’editto provinciale57. Ciò avrebbe comportato una peculiare posizione del giurista, seppure descritta in termini abbastanza generici rispetto alla disciplina civilistica, proprio allorché si trovava a dover offrire argomenti circa la regolamentazione di una fattispecie nell’ambito della realtà provinciale. Rispetto a quest’ultima prospettiva la letteratura successiva invece ne aveva respinto la possibilità. Infatti aveva interpretato la mutatio iudicii, specificandone il significato nel senso di un cambiamento del iudicium, dipendente dal mutamento dell’avversario58. L’alienazione intervenuta

54 Anzitutto O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Leipzig, 1889 [rist. 2000], p. 197 nr. 112; F. De Marini Avonzo, I limiti alla disponibilità della «res litigiosa», cit., p. 139 s. e n. 65; R. Martini, Ricerche in tema di editto provinciale, cit., p. 86 s. 55 R. Martini, Ricerche in tema di editto provinciale, cit., p. 88; ma in senso contrario A. Guarino, Gaio e l’«edictum provinciale», in Iura 20 (1969), 167 s., n. 64, secondo il quale Gaio, come in D.4.7.1pr., si sarebbe limitato a commentare i verba edicti. 56 P. Bonfante, Corso di diritto romano, II.1, Roma, 1926, p. 386 n. 1. 57 Anzitutto O. Lenel, Das ‘edictum perpetuum’. Ein versuch zu Wiederherstellung², Leipzig, 1907, p. 4 s. e n. 1, che considera il frammento quale elemento sintomatico della diversità tra l’editto provinciale e invece l’editto urbano; altresì ancor prima O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, cit., II, 1901, p. 472; inoltre P. Bonfante, Corso di diritto romano, cit., II.1, p. 386 n. 1; A. Guarino, Gaio e l’«edictum provinciale», cit., p. 167 e n. 63; J. M. Rainer, Bau- und nachbarrechtliche Bestimmungen im klassischen römischen Recht, Graz, 1987, p. 194 n. 15; Th. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, cit., p. 262 s. 58 Pertanto nel fr. 3.1 si tratterebbe di un’ipotesi di manumissione dello schiavo di cui si teme la rivendica, e anziché questa, l’attore dovrà intentare la vindicatio in servitutem.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dopo la nuntiatio renderebbe impossibile l’azione successiva contro l’alienante che non avesse realizzato l’opus prima dell’atto, ma anche contro l’acquirente il quale pur costruendo non abbia ricevuto denuncia59. Inoltre si è sostenuto che il dicitur attesterebbe la possibilità di applicare l’editto circa la alienatio iudicii mutandi causa sostenuta da altri giuristi60. Esso pertanto rileverebbe anche in tal caso, ma poiché il nuncians non poteva agire contro il nunciatus e nemmeno contro l’acquirente, il giurista non avrebbe riconosciuto come fondato tale presupposto. E costui avrebbe fatto trasparire siffatta critica all’applicazione dell’editto attraverso la costruzione quasi neque … neque61. È da premettere come non appaiano emergere dal passo elementi sufficienti al fine di poter rintracciare un effettivo dubbio giurisprudenziale riportato in ordine alla tutela circa la denuncia di costruzione di nuova opera. Dicitur te hoc iudicio teneri potrebbe invero riferirsi a quanto espresso nello stesso testo edittale. Anzi tale provenienza consentirebbe proprio una tutela della proprietà data in concessione. E sarebbe opportuno considerare come invece dovrebbe essere specificata la giusta portata dell’argomentazione del giurista in

Il iudicium è stato interpretato quale formula, programma della lite in cui sono fissati i termini e le condizioni della sentenza, appunto dipendente dal mutamento dell’avversario. Entro tale quadro, non solo per il cambiamento delle condizioni obiettive del iudicium ma anche perché impossibile in ragione di diversi motivi e delle condizioni soggettive, su D.4.7.3.3 si è proceduto ad valutazione peculiare. 59 F. De Marini Avonzo, I limiti alla disponibilità della «res litigiosa», cit., p. 139 s. n. 65, la quale afferma precisamente che “l’alienazione fatta dopo l’opus novi nuntiatio rende impossibile l’azione successiva contro l’alienante, che non avesse ancora costruito prima di vendere, e contro l’acquirente, che effettivamente costruisca, senza aver subito la denunzia”. 60 R. Martini, Ricerche in tema di editto provinciale, cit., p. 88, che sostiene come “a ben vedere, D.4.7.3.3 non contiene neppure un’affermazione personale di Gaio che risolvesse il problema in senso contrario”. L’azione è concessa nei confronti di colui che avesse alienato il fondo per il quale era stata compiuta la denunzia di nuova opera, nel caso in cui il compratore abbia costruito. Il giurista la giustificherebbe col fatto che gli effetti della nuntiatio stessa non si estendono al compratore. 61 R. Martini, Ricerche in tema di editto provinciale, cit., p. 88, il quale argomenta che l’editto quindi per il giurista si sarebbe applicato “anche all’ipotesi in cui il nunciatus avesse alienato il fondo ed il compratore avesse costruito, sul presupposto che il nuncians non potesse agire né contro il nunciatus né contro il compratore, ma non si potrebbe dire che egli riconoscesse fondato tale presupposto, che esprimeva cautamente con la frase ‘quasi neque tecum agere possim … neque cum eo cui id alienaveris’”.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 commento all’editto. Da tale punto di vista le posizioni della dottrina in ultimo richiamata in realtà non appaiono persuasive. Infatti la prima risulta del tutto incentrata sul rilievo generale della mutatio iudicii, e valuta anche giustamente la centralità degli argomenti gaiani nel senso che l’alienante si trovi nella condizione di non avere ancora costruito prima di vendere ovvero che l’acquirente abbia effettivamente costruito però senza aver subito la denuncia. Tuttavia essa ritiene addirittura che Gaio avrebbe escluso l’azione sia contro l’alienante, sia contro l’acquirente, rimanendo di fatto entrambe le parti nel caso sfornite di qualsivoglia forma di tutela. La seconda invece al contrario riconosce la concessione dell’azione a favore dell’alienante, ma ne disconosce la paternità gaiana, in quanto il giurista si limiterebbe a riportare una possibilità affermata da altri. Questi ultimi avrebbero formulato i presupposti che il nunciatus avesse alienato il fondo ed il compratore avesse costruito e pertanto non si potesse agire né contro il nunciatus né contro il compratore, senza che Gaio stesso riconoscesse alcuna fondatezza ad essi. Tuttavia anche in tale prospettiva o le parti avrebbero dovuto restare a rigore senza nessuna tutela ovvero il giurista avrebbe dovuto prevedere un tipo di protezione alternativa a quella discendente dalla alienatio iudicii mutandi causa. Così entrambe le posizioni richiamate appaiono occultare quello che sembrerebbe lo scopo fondamentale dell’argomentazione gaiana. Esso invero concerne la giustificazione di una determinata disciplina della fattispecie che diveniva oggetto di una protezione in factum e di un connesso e specifico obiettivo di tutela. Anzitutto occorre evidenziare come la fattispecie valutata dal giurista e per la quale egli stesso perviene ad indicare la forma di tutela possibile riguardi l’effettuazione di una denuncia circa la costruzione di una nuova opera da parte di un vicino nei confronti del proprietario del fondo. Quest’ultimo però ha venduto il fondo stesso ad un acquirente che invece realizza la nuova opera denunciata. Sussistendo la fattispecie nei termini descritti, è vero che Gaio asserisce l’assenza dei presupposti affinchè potesse essere concessa la tutela civile derivante dalla denuncia di nuova opera e incentrata sulla rimozione di quanto fosse stato costruito illegittimamente sul fondo tramite l’emanazione dell’interdictum demolitorium.

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Tuttavia, affermando che il proprietario venditore il quale abbia ricevuto la denuncia nel caso non ha costruito nulla e che invece l’acquirente ha realizzato il manufatto ma senza essere stato egli stesso destinatario della denuncia effettuata, anzitutto non esclude la tutela. Questa infatti emerge in quanto viceversa dicitur te hoc iudicio teneri. Inoltre evidenziando la decadenza dei presupposti civili della tutela, non ne disconosce affatto la fondatezza. Al contrario ne rileva la mancata corrispondenza con i soggetti che in sede civile dovrebbero essere ritenuti effettivamente responsabili dell’opera compiuta. Ossia afferma la decadenza dei presupposti circa la realizzazione dell’opera e la destinazione della denuncia in quanto tali elementi nella fattispecie descritta nel testo edittale non pertengono più al medesimo soggetto considerato civilisticamente responsabile. La decadenza dei presupposti di conseguenza attiene esclusivamente ad una rilevata assenza ma soltanto per mutamento dei soggetti rispetto a quelli rilevanti per il ius civile. In questo senso essi mantengono tutta la propria validità ed anzi sembrano acquistare proprio maggiore forza allorché essi stessi sono posti a nuovo fondamento di una scissione soggettiva. In sostanza l’argomentazione gaiana mette al centro della peculiare tutela concessa una fattispecie nuova rispetto a quella rinvenibile in ambito civile. Tuttavia non si tratta affatto di una fattispecie diversa da quest’ultima. Nella realtà sono posti in essere proprio i medesimi requisiti di quelli civilmente richiesti ma soltanto da differenti soggetti. In questa prospettiva allora sembra possa essere interpretato dicitur te hoc iudicio teneri. Infatti il iudicium concesso appare fare riferimento all’actio in factum, come risulta dall’ulteriore testo gaiano cui facciamo ora solo breve richiamo

Gai. ad ed. prov. fr. 112 Lenel = Gai. 4 ad ed prov. D. D.4.7.1pr.: omnibus modis proconsul id agit, ne cuius deterior causa fiat ex alieno facto: et cum intellegeret iudiciorum exitum interdum duriorem nobis constitui opposito nobis alio adversario, in eam quoque rem prospexit, ut, si quis alienando rem alium nobis adversarium suo loco substituerit idque data opera in fraudem nostram fecerit, tanti nobis in factum actione teneatur, quanti nostra intersit alium adversarium nos non habuisse. 1. Itaque si alterius provinciae hominem aut potentiorem nobis opposuerit adversarium, tenebitur.

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Il frammento, non sospettato, conferma senza dubbio che in caso di alienazione fatta per rendere peggiore la condizione di uno per fatto di un altro, il proconsole avrebbe concesso l’azione in factum62. Ma nella fattispecie di D.4.7.3.3 la condizione peggiore che si sarebbe verificata per l’attore sarebbe stata esattamente quella concernente un difetto di legittimazione per assenza di uno dei requisiti richiesti: la costruzione del manufatto da parte del denunciato. E in effetti occorre riconoscere che in ogni circostanza, come già evidenziato, tutti i presupposti propri della denuncia di nuova opera si sono inverati sebbene non da parte del medesimo soggetto ritenuto civilisticamente responsabile. Tuttavia deve essere anche ammesso come il presupposto effettivo che rende peggiore la condizione dell’attore denunciante sia proprio l’avvenuta denuncia stessa nei confronti del proprietario originario. Infatti è esclusivamente in relazione alla denuncia inoltrata

62 Sul testo soprattutto J. Partsch, De l’édit sur l’‘alienatio iudicii mutandi causa facta’, Genève, 1909, p. 49; L. Mitteis, in ZSS 30 (1909), p. 454; F. Kniep, Der Rechtsgelehrte Gaius und die Ediktskommentare, cit., p. 154 ss.; B. Biondi, Studi sulle ‘actiones arbitrariae’ e l’‘arbitrium iudicis’, I, Palermo, 1913, p. 203, il quale critica l’ipotesi di fusione fra restitutio in integrum ed actio in factum cui rinvia l’asserita interpolazione di “omnibus modis”, “senza però avvertirne l’importanza”, di G. von Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, III, Tübingen, 1913, p. 98; inoltre L. Mitteis, Über den Ausdruck «Potentiores» in den Digesten, in Mélanges P. F. Girard, II, Paris, 1912, p. 228; P. Kretschmar, Zur ‘alienatio iudicii mutandi causa facta’, in ZSS 40 (1919), p. 148 n. 1; S. Riccobono, La formazione della teoria generale del ‘contractus’ nel periodo della giurisprudenza classica, in Studi P. Bonfante, I, Milano, 1930, p. 138 n. 18; F. Lanfranchi, Il diritto nei retori romani. Contributo alla storia dello sviluppo del diritto romano, Milano, 1938, p. 643; G. Cardascia, L’apparition dans le droit des classes d’«honestiores» et d’«huniliores», in RHDFE 28 (1950), p. 310 n. 1; G. Broggini, A propos de ‘mutatio iudicis et de transaltio iudicii’, in TIJR 27 (1959), p. 318; G. Jahr, ‘Litis contestatio’. Streitbezeugung und Prozeβbegründung im Legisaktionen- und im Formularverfahren, Köln-Graz, 1960, p. 18 n. 31; F. De Marini Avonzo, I limiti alla disponibilità della «res litigiosa», cit., p. 139 s. e n. 65; M. Kaser, in ZSS 84 (1967), p. 512 n. 11; A. Guarino, Gaio e l’«edictum provinciale», cit., p. 168 n. 64; B. Kupisch, ‘In integrum restitutio’ und ‘vindicatio utilis’ bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, Berlin - New York, 1974, p. 12 n. 52; p. 254 n. 56; G. Wesener, in TIJR 44 (1976), p. 172; M. Kaser, Zur ‘in integrum restitutio’, besonders wegen ‘metus’ und ‘dolus’, in ZSS 94 (1977), p. 171 n. 273; C. Zaccagnini, Miscellanea, in BIDR 84 (1981), p. 219; R. Backhaus, in ZSS 99 (1982), p. 446 n. 21; M. Kaser, ‘Ius honorarium’ und ‘ius civile’, in ZSS 101 (1984), p. 100 n. 457; G. Santucci, Sui capitoli 43 e 22 dell’editto di Teodorico, in SDHI 61 (1995), p. 859 n. 27; A. d’Ors, La enajenaciόn para cambiar el demandable y el llamado «edicto provincial», in Rev. de Estudios Histόrico-Jurídicos 23 (2001), p. 113 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 che egli nella circostanza si troverebbe a dover perdere nell’ambito di un procedimento richiedente tutti i requisiti civili. Soltanto da questo punto di vista l’azione concessa in D.4.7.3.3 appare poter rientrare nel iudicium descritto in D.4.7.1pr. Altrimenti invero non sarebbe possibile rintracciare alcun deterioramento nella condizione di un vicino il quale comunque abbia inoltrato la denuncia al proprietario e ciò nonostante attualmente si ritrova al cospetto della nuova costruzione realizzata benché inibita dalla denuncia medesima. Da questo punto di vista pertanto, a ben vedere, il reale fondamento della protezione concessa al vicino denunciante risulta essere proprio l’avvenuta nuntiatio, mentre l’obiettivo della tutela appare risultare esattamente l’attuale presenza dell’opus novum nuntiatum. Così l’intervenuta compravendita non rappresenta affatto il presupposto della tutela in factum, bensì soltanto della realizzazione relativa alla nuova costruzione: opus quoque novum si tibi nuntiaverim tuque eum locum alienaveris et emptor opus fecerit, dicitur te hoc iudicio teneri. Infatti essa avviene soltanto dopo che sia stata inoltrata la denuncia al proprietario da parte del vicino. Tenuto conto dell’insieme degli elementi fin qui rinvenuti, appare possibile affermare che il giudizio in factum concesso da Gaio in D.4.7.3.3 sia un giudizio petitorio in cui il iussum de restituendo ha ad oggetto la rimozione della nuova costruzione realizzata illegittimamente. L’effetto prodotto a carico dell’acquirente si fonda sul negozio di vendita concluso e che aveva instaurato una successione a titolo particolare sul fondo medesimo. Ma è il fondo stesso ad ottenere protezione nei confronti del vicino sulla base dell’originario esposto rivolto al precedente proprietario. Infatti è proprio quest’ultimo chiamato in causa dal iudicium in factum promosso dal medesimo soggetto che ha inoltrato la denuncia e che su tale base si trova a rispondere per aver compiuto un’attività in violazione della denuncia stessa e per la quale permane a suo carico un dovere di protezione nei confronti del vicino anche rispetto al fatto compiuto da parte di terzi. Come è possibile osservare l’obiettivo della tutela così predisposta risulta del tutto omogeneo a quello riscontrato nel giudizio petitorio descritto da Cicerone. Nell’ambito della denuncia di nuova opera il venditore è chiamato a rispondere sulla base della denuncia a lui effettuata da parte di un vicino e che è tenuto in ragione della nuova costruzione effettuata da

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 un terzo avente causa. A quest’ultimo sarà imposta la rimozione da parte del venditore medesimo allo scopo di tutelare il vicino in ragione dell’originaria denuncia. Nello stesso modo infatti il concedente del fondo era chiamato a rispondere nei confronti di chi avesse sollecitato la promozione dell’azione imponendo la restituzione del fondo proprio a quest’ultimo anziché a se stesso attore del procedimento petitorio.

4. LA RESPONSABILITÀ DELL’ACQUIRENTE NELL’OPERIS NOVI NUNTIATIO IN GIAVOLENO E PAOLO

A tal punto appare opportuno verificare se l’omogeneità della struttura del giudizio petitorio riscontrabile in Gaio e Cicerone avesse effettivo motivo di sussistere in ambito provinciale non soltanto in ragione di una peculiare disciplina bensì anche poiché in grado di contrapporsi a quella consolidata nel ius civile. Pertanto ugualmente codesta normazione dovrebbe essere verificata. E da questo punto di vista la testimonianza di Giavoleno costituisce il riscontro essenziale circa l’alternativa ipotizzata, in relazione ad una fattispecie del tutto identica rispetto a quella commentata da parte di Gaio

Iav. epist. fr. 105 Lenel = Iav. 7 epist. D.39.1.23: is, cui opus novum nuntiatum erat, vendidit praedium: emptor aedificavit: emptorem an venditorem teneri putas, quod adversus edictum factum sit? respondit: cum operis novi nuntiatio facta est, si quid aedificatum est, emptor, id est dominus praediorum tenetur, quia nuntiatio operis non personae fit et is demum obligatus est, qui eum locum possidet, in quem opus novum nuntiatum est.

Colui al quale fu rivolta la denuncia di nuova opera ― afferma Giavoleno ― vendette il fondo e l’emptor procedette all’edificazione. Si pone la questione pertanto se sia tenuto il venditore oppure il compratore per quanto fosse stato realizzato in violazione delle norme edittali. Giavoleno offre il responso che, allorché sia stata fatta la denuncia di nuova opera e allorché sia stato realizzato l’edificio, sarà tenuto l’emptor in quanto egli risulterebbe essere dominus praediorum. La motivazione di tale soluzione in siffatta prospettiva consisterebbe nel fatto per cui la denuncia di nuova opera non personae fit, ossia non obbliga il soggetto in quanto

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 tale, ma nella fattispecie descritta soltanto colui che possiede il fondo sul quale si trova l’opus novum nuntiatum sarà obbligato63. Anzitutto, su un piano più generale64, la dottrina ha evidenziato come Giavoleno risolva un dubbio e già tale circostanza di per sé dovrebbe indurre l’interprete a “pensare che l’editto pretorio non portasse in argomento una situazione precisa”65. Ma si era arrivati anche a configurare nel caso la sussistenza di un sottostante ed effettivo dubbio giurisprudenziale66. Dal punto di vista del contenuto invece il responso di Giavoleno attesterebbe l’efficacia reale della denuncia67. Sarebbero tenuti pertanto anche i successori a titolo singolare, qualora essi in persona contravvengano alla denuncia, compiendo o proseguendo l’opera, “poiché, si dice, la denuncia ha efficacia reale, operi, non personae fit”68. Dal lato passivo quindi essa vincolerebbe i successori a titolo singolare, benché sarebbe controversa la responsabilità degli acquirenti non autori,

63 Sul testo anzitutto F. Glück, Commentario alle Pandette (tr. it. F. Serafini – P. Cogliolo – C. Fadda), XXXIX.1, Milano, 1902, p. 170 n. d; P. Bonfante, Corso di diritto romano, cit., II.1, p. 386 e n. 1; R. Martini, Ricerche in tema di editto provinciale, cit., p. 88; A. Guarino, Gaio e l’«edictum provinciale», cit., p. 167 s. n. 64; F. Peters, Das ‘patientiam praestare’ im klassischen römischen Nachbarrecht, in SDHI 35 (1969), p. 211 n. 332; B. Eckardt, Iavoleni Epistulae, Berlin, 1978, p. 133 ss.; K. Misera, in ZSS 98 (1981), p. 459; A. Guarino, Le ragioni del giurista. Giurisprudenza e potere imperiale nell’età del Principato romano, Napoli, 1983, p. 463 n. 64; E. Ricart Martí, La tradición manuscrita del Digesto en el Occidente Medieval, a través del estudio de las variantes testuales, in AHDE 57 (1987), p.156 s.; F. Reinoso Barbero, ‘Definitio periculosa’: Javoleno o Labeon?, in BIDR 90 (1987), p. 330; M. Balzarini, in Labeo 33 (1987), p. 372; H. Ankum, in RIDA 35 (1988), p. 341; F. Fasolino, Interessi della collettività e dei vicini nell’«operis novi nuntiatio», in Labeo 45 (1999), p. 49 n. 27; Th. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, cit., p. 261 s.; L. Parenti, Un caso di ‘ius controversum’ in tema di ‘operis novi nuntiatio’, cit., p. 167 ss. 64 P. Bonfante, Corso di diritto romano, cit., II.1, p. 386 n. 1, al fine di spiegare l’antinomia con la posizione espressa da Gaio in D.4.7.3.3 arriva ad affermare che “potrebbe supporsi interpolato il testo di Giavoleno”. 65 A. Guarino, Gaio e l’«edictum provinciale», cit., p. 167 s. n. 64. 66 R. Martini, Ricerche in tema di editto provinciale, cit., p. 88. 67 P. Bonfante, Corso di diritto romano, cit., II.1, p. 386 e n. 1; Th. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, cit., p. 261 s. 68 P. Bonfante, Corso di diritto romano, cit., II.1, p. 386.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 ossia quando la successione a titolo particolare abbia luogo dopo la contravvenzione alla denuncia69. Non sembra che il responso emesso dal giurista possa essere considerato di per sé quale sintomo della persistenza di un dubbio od di una controversia giurisprudenziale al riguardo, in quanto la domanda proveniente dal privato potrebbe essere legittimata proprio dalla disciplina emersa in sede di commento all’editto provinciale. Ovvero più plausibilmente potrebbe essere determinata dalla circostanza per cui dopo la denuncia il fondo fu venduto e l’acquirente costruisce l’edificio. Inoltre non parrebbe nemmeno verosimile ritenere che l’editto del pretore non portasse in argomento una situazione precisa. Infatti in questo senso rileva soltanto il contenuto del responso che eventualmente integra la disposizione edittale e il quale prescrive la responsabilità esculsiva dell’acquirente, perdipù offrendone un chiaro inquadramento dogmatico. E quest’ultimo infatti appare il vero contributo del giurista che argomenta stando ad una concettualizzazione che risulta essere del tutto chiara oltreché fortemente consolidata: quia nuntiatio operis non personae fit et is demum obligatus est, qui eum locum possidet, in quem opus novum nuntiatum est. Da questo punto di vista pertanto sembrano affatto rispondenti le considerazioni avanzate circa l’efficacia reale della denuncia per cui risultano obbligati esclusivamente coloro che si appalesino proprietari del fondo, benché aventi causa rispetto a coloro che siano stati originariamente investiti della denuncia. Un principio che quindi appare del tutto omogeneo anche a quello riscontrabile in ambito provinciale, sebbene in quest’ultimo caso operante in senso inverso riguardo a quello qui descritto, e che consente di affermare nelle due differenti situazioni comunque l’identica portata dell’istituto tutelato.

69 Il successore sarebbe responsabile per la patientia destruendi e l’alienante per le spese; ovvero il successore a titolo partcolare non risponderebbe nemmeno per la patientia destruendi allorché egli non fosse colpevole della violazione, commessa invece dal denunciato prima dell’alienazione: A. Stölzel, Die Lehre von der ‘operis novi nunciatio’ und dem ‘interdictum quod vi aut clam’. Eine civilistische Abhandlung, Göttingen, 1865, p. 233 n. 13; J. Baron, Pandekten, Leipzig, 1882, p. 531 ss. (§ 324); B. Windscheid, Diritto delle Pandette (tr. it. C. Fadda – P. E. Bensa), II.1, Torino, 1904, p. 413 n. 12 (§ 466); Th. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, cit., p. 261 s.

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Pur permanendo siffatta omogeneità di fondo, invero non si può disconoscere la contrapposta disciplina: la responsabilità dell’acquirente in ambito civile al posto di quella dell’alienante nel contesto provinciale. Il dato di tale contrapposizione sembrerebbe facilmente spiegabile alla luce di quanto emerso finora. Infatti in ambito provinciale il venditore comunque rimane titolare del dominium populi vel Caesaris e quindi allo stesso resta ascritto, in quanto nel caso concedente del fondo medesimo ad un privato, quel dovere di protezione nei confronti dei vicini confinanti il quale può essere fatto valere attraverso il giudizio petitorio in factum sulla base dell’avvenuta denuncia. Nel contesto civile viceversa tale presupposto viene a mancare ed è chiamato in causa l’unico titolare del fondo, il quale a seguito della vendita pertanto sarà proprio il compratore. Così diventa anche meno essenziale il presupposto della denuncia, ma solo apparentemente. In tale prospettiva infatti assume rilevanza il presupposto, inverato successivamente alla denuncia, della realizzazione del nuovo opus che appunto sia stato però già in precedenza nuntiatum. E detta realizzazione può essere compiuta da un terzo cui sia stato venduto il fondo. Dall’attestazione di Paolo emerge un’ulteriore divergenza alla base della responsabilità accollata all’avente causa. Essa riguarda la necessità del ricorso ad uno schema negoziale, ossia una stipulazione, che intercorre tra il nuntiatus e il nuntians, con cui il primo si assume la responsabilità per fatto del terzo al posto della legittimazione passiva all’actio in factum

Paul. ad ed. fr. 619 Lenel = Paul. 48 ad ed. D.39.1.8.7: quod si is cui opus novum nuntiatum erat decesserit vel aedes alienaverit, non extinguitur operis novi nuntiatio: idque ex eo apparet, quod in stipulatione quae ex hac causa interponitur, etiam heredis mentio fit.

Se colui al quale l’opus novum era stato denunciato fosse morto o avesse alienato la casa, non si estingue la denuncia di nuova opera: e questo risulta dal fatto che nella causa per la quale è conclusa la stipulatio si fa menzione anche dell’erede70.

70 Sul frammento soprattutto A. Guarneri Citati, Contributi alla dottrina della mora, in AUPA 11 (1923), p. 30 s.; p. 199 n. 4; P. Bonfante, Corso di diritto romano, cit., II.1, p. 386 e n. 1; p. 388 e n. 1; P. Korošec, Die Erbenhaftung nach römischem Recht, I, Das Zivil- und Amtsrecht, Leipzig, 1927, p. 68 n. 4; G. von Beseler, Romanistische Studien,

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A parte l’interpolazione avanzata in relazione a vel aedes alienaveris71, la dottrina ha soprattutto evidenziato il profilo dell’efficacia della denuncia. Questa non cesserebbe pertanto né con la morte del denunciato, né per alienazione del fondo denunciato, perché essa appunto opererebbe in rem72. Inoltre ha posto in risalto il ruolo della cautio ex operis novi nuntiatione: la stipulazione considerata nel testo di Paolo, in ragione della sua ereditabilità, sarebbe una valida attestazione di quella stipulazione pretoria che produrrebbe i suoi effetti nei confronti dei terzi73. La parificazione della morte del nuntiatus alla vendita operata nei confronti dei terzi lascia residuare pochi dubbi in ordine alla sussistenza del richiamato sospetto di interpolazione. I due eventi infatti descrivono le differenti dinamiche possibili dell’ambito successorio presso gli aventi causa del fondo. Tuttavia, mentre nei due casi l’attuale proprietà del fondo è rilevante in quanto su di essa si sia verificata la realizzazione della nuova opera, l’interdictum demolitorium invece potrebbe indirizzarsi soltanto al nuntiatus. Pertanto la stipulazione intercorsa tra il denunciante e il denunciato risulta in grado di sostituire gli effetti dell’interdetto demolitorio, nel caso in cui fosse venuta meno la titolarità determinante la legittimazione passiva, facendo assumere agli aventi causa l’impegno risarcitorio nei confronti del vicino che avesse avanzato la denuncia. La conseguenza risarcitoria appena indicata viceversa risulta del tutto assorbita dalla configurazione del iussum de restituendo nell’ambito del giudizio petitorio concesso in sede provinciale.

in TIJR 10 (1930), p. 187; R. Martini, Ricerche in tema di editto provinciale, cit., p. 87 e n. 6; A. Guarino, Gaio e l’«edictum provinciale», cit., p. 167 n. 64; H. Honsell, in ZSS 92 (1975), p. 334 n. 37; A. Guarino, Le ragioni del giurista, cit., p. 463 n. 64; Th. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, cit., p. 237 n. 127; p. 258 ss.; p. 406; C. A. Cannata, in Iura 61 (2013), p. 328; L. Parenti, Un caso di ‘ius controversum’ in tema di ‘operis novi nuntiatio’, cit., p. 167 ss. 71 P. Bonfante, Corso di diritto romano, cit., II.1, p. 386 e n. 1, ove afferma che si potrebbe “ritenere opera dei compilatori il passaggio agli acquirenti a titolo particolare dal lato passivo e la conseguente efficacia reale della denuncia”; ead., p. 388 e n. 1; R. Martini, Ricerche in tema di editto provinciale, cit., p. 87 e n. 6; nonché A. Guarino, Gaio e l’«edictum provinciale», cit., p. 167 n. 64, il quale ritiene come sia plausibile il sospetto di inserzione relativa a vel aedes alienaveris. 72 P. Bonfante, Corso di diritto romano, cit., II.1, p. 388 e n. 1. 73 Th. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, cit., p. 237 n. 127; p. 258 ss.; p. 406.

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5. CONCLUSIONI

Secondo quanto emerso fin qui, pertanto la proprietà provinciale parrebbe potersi validamente ricostruire anche ripercorrendo le tracce della tutela predisposta all’interno dell’editto concesso dai governatori, al di là degli aspetti sostanziali, dalla qualificazione all’imposizione tributaria, finora in prevalenza considerati in letteratura. In questo senso è sembrata rilevante anzitutto la testimonianza ciceroniana che nel prevedere un giudizio petitorio sul modello di quello concesso in sede civile, tuttavia ne circoscrive la peculiarità attraverso la previsione come oggetto del iussum de restituendo di una restituzione a soggetto diverso dall’attore che ha instaurato il processo. Tale singolarità invece che addurla all’arbitrio manipolatorio di Verre, è sembrata rispondere viceversa ad una precisa logica giuridica e struttura formulare: la restituzione del fondo concesso a favore del privato al soggetto pubblico titolare del dominium populi, attraverso la configurazione processuale di una finzione di cittadinanza presso il concedente e facendo allo stesso tempo valere la responsabilità del concedente medesimo in ordine al suo dovere di controllo. E tale identica logica è apparsa alla base del giudizio petitorio commentato da Gaio e formulato in conseguenza di una denuncia di nuova opera da parte di un vicino nei confronti del proprietario. Questi infatti in quanto titolare del dominium populi è tenuto a trasferire gli effetti della domolizione anche nei confronti degli aventi causa al fine di salvaguardare l’interesse di colui che ha denunciato. Risultato che invece in ambito civile appare realizzato mediante stipulazione ove fosse stato non esperibile l’interdetto stesso e ove è fatta valere la responsabilità dell’unico proprietario. Le caratteristiche della tutela petitoria in factum in sede provinciale dunque aprono una utile prospettiva di valutazione circa la natura di una forma di appartenenza che mantiene la sua pienezza benché concessa dall’autorità pubblica.

Abstract: The provincial property, beyond the substantive aspects, in the Ciceronian attestation provides for a petitive judgment on the model of that granted in a civil court and limits its peculiarity through the provision as object of the iussum de restituendo a return to a subject other than the plaintiff which established the process. This singularity instead of referring to Verre’s manipulative arbitrariness, seemed to respond to a precise legal logic and to formulate: the restitution of the fund granted in favor of the private to the public subject holding

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the dominium populi, through the procedural configuration of a fiction of citizenship at the grantor and at the same time enforcing the responsibility of the grantor with regard to his duty of control. The same logic appeared at the base of the petition judgment commented by Gaius and formulated as a result of a complaint of a new work by a neighbor towards the owner, who is required to transfer the effects of the demolition also towards the assignees in order to safeguard the interest of the one who reported. The result is that in the civil sphere it appears to be realized by stipulation where the interdict it self was not available and where the responsibility of the sole owner is asserted.

Keywords: object of the iussum de restituendo, fiction of citizenship, the responsibility of the grantor, complaint of a new work, the effects of the demolition also towards the assignees in order, stipulation

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JUS- ONLINE 1/2020 ISSN 1827-7942 RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano

VINCENZO FERRANTE Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università Cattolica di Milano

Potere di controllo e tutela dei lavoratori: riflessioni sparse sulle disposizioni dello “Statuto”, alla luce delle più recenti modifiche normative

English title: Employers’ power of control and protection of employees: some reflections on the provisions of the Italian "Workers’ Statute", in the light of the most recent regulatory changes DOI: 10.26350/18277942_000006

Sommario: 1. Potere dell’imprenditore di controllare l’esecuzione della prestazione di lavoro e suo fondamento contrattuale. – 2. Le indagini sulle condizioni di salute in caso di certificazione INAIL e l’art. 5 St. lav. – 3. I controlli “difensivi” alla luce della modifica dell’art. 4 St. lav. – 4. La questione dei dati giudiziari e le previsioni dell’art. 8 St. lav.

1. Potere dell’imprenditore di controllare l’esecuzione della prestazione di lavoro e suo fondamento contrattuale. In una recente sentenza, portata all’attenzione della stampa e fatta oggetto di attento dibattito in ambito accademico fino a sfociare in norma di legge, il Tribunale di Torino, chiamato a pronunziarsi in ordine alla natura del rapporto di lavoro intercorrente fra una “piattaforma” di consegna di cibo a domicilio e i propri lavoratori (bikers o riders), ha affermato che «in assenza della prova di una assidua attività di vigilanza e controllo sulla fase di esecuzione della prestazione lavorativa, il rapporto instaurato con fattorini, dotati di mezzo proprio ed incaricati del recapito di singole consegne senza l’obbligo giuridico ad effettuare le singole prestazioni, deve considerarsi di natura autonoma» (1).

 Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. 1 T. Torino, 7 maggio 2018, in RIDL, 2018, 2, II, 283 con nota di ICHINO, ed altresì in DRI, 2018, 4, 1196 con nota di FERRANTE, Subordinazione ed autonomia: il gioco dell’oca. A riguardo, v. ora il d.l. 3 settembre 2019, n. 101, conv. con modd. nella l. 2 novembre 2019 n. 128.

VP VITA E PENSIERO

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L’affermazione, confermata in parte qua dalla sentenza d’appello (2), viene a cogliere il carattere della subordinazione non solo nel potere del creditore “di dare ordini” al lavoratore, ma anche di governare la fase esecutiva della prestazione, mediante un potere di controllo che, seppure in forma implicita, è riconosciuto dal codice civile come medio logico fra il potere di etero-direzione e quello di sanzionare le inadempienze del lavoratore (artt. 2094, 2014 e 2016 c.c.). Come altrove e con altro approfondimento, si è tentato di dimostrare (3), il potere del datore di lavoro di controllare l’esecuzione della prestazione ha dunque una radice negoziale e si colloca in un quadro nel quale le posizioni delle parti del rapporto di lavoro possono senz’altro essere ricondotte al contratto, salvi tuttavia i numerosi profili in relazione ai quali il legislatore, integrandone il disposto (art. 1374 c.c.), ha previsto norme che accedono automaticamente al suo contenuto, spesso in deroga alle ordinarie regole civilistiche (si pensi per es. al potere di disposizione dei propri diritti, di cui all’art. 2113 c.c.). E tanto a ragione sia del profondo coinvolgimento della persona umana nell’attività di esecuzione della prestazione, sia del ruolo che la retribuzione assolve quale fonte principale di sostentamento della maggior parte degli esseri umani (4). Accanto ai poteri, propriamente “gestionali” dell’imprenditore, il controllo dell’esecuzione della prestazione promessa, quale manifestazione di una prerogativa creditoria, accompagna dunque lo svolgimento del rapporto di lavoro in ogni suo aspetto, protendendosi anche sulla stessa vita privata del lavoratore, nella misura in cui anche condotte extra-lavorative di costui possono acquisire rilevanza in ordine, principalmente, alla sussistenza di una giusta causa (art. 2119 c.c.) o del rispetto dell’obbligo “di fedeltà”. Si realizza in questa fase tuttavia una tendenziale sfasatura, poiché, a fronte dell’ampiezza della clausola che legittima il recesso, le forme di vigilanza ammesse sono state regolate e tipizzate dal Titolo I dello Statuto

2 App. Torino, in RIDL, 2019, 2, II, 340 ora confermata da Cass. 24/1/2020, n. 1663. 3 Sul punto v. amplius il mio Direzione e gerarchia nell’impresa, in Comm. Schl., 2014. 4 Non stupisce vedere che il noto insegnamento di L. Mengoni, richiamato nel testo, costituisce oramai un caposaldo anche oltrefrontiera: a riguardo, v. H. VILLASMIL PRIETO, Informe mundial sobre trabajadores informales, relazione al XXII Congresso mondiale della ISLSSL, Torino 2018.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dei lavoratori, di modo che non può dirsi sussistente uno spazio di pura libertà in ordine al potere di controllo. Da quella scelta del legislatore è derivata una direttrice dottrinaria e giurisprudenziale che, attraverso il richiamo alla c. d. “spersonalizzazione” del rapporto, ha tendenzialmente escluso dall’area del vincolo giuridico tutto ciò che non attenga a «fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore», secondo la rigorosa formula dell’art. 8 St. lav. In questo modo il potere datoriale è stato spogliato di ogni caratterizzazione puramente individuale, orientandosi verso una valutazione oggettivizzata dell’elemento fiduciario, che è valsa a ridurre ancor più gli spazi di arbitrarietà e, dunque, di assoggettamento derivanti dal vincolo di subordinazione. Un simile impianto, già consolidatosi nel primo decennio di applicazione della legge 300 (5), è stato poi costretto a fare i conti con l’impostazione adottata nelle fonti internazionali ed europee, che realizzano la tutela della riservatezza attraverso la nozione dei dati personali, intesi, non solo come un bene suscettibile di autonoma valutazione patrimoniale, ma soprattutto quale proiezione della persona umana, che attraverso le sue “impronte” digitali finisce per fornire un identikit dettagliato delle sue preferenze ed inclinazioni, mostrando a chi abbia accesso ad esse un’immagine privata, che può anche rivelarsi diversa da quella pubblica che si è costruita attraverso le relazioni sociali. Da qui il fiorire di una ampia serie di fonti, di origine sovrannazionale, che tutelano il soggetto dal trattamento di dati, che altri effettui a sua insaputa, che hanno trovato emersione nell’ordinamento italiano a partire dalla più antica legge 675 del 1996 e poi attraverso il codice della “protezione dei dati personali” di cui al d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (6),

5 Per un veloce riepilogo rinvio a V. FERRANTE, Controllo sui lavoratori, difesa della loro dignità e potere disciplinare, a quarant’anni dallo Statuto, in RIDL, 2011, 1, 73 ss. 6 A riguardo, v. F. SANTONI, La privacy nel rapporto di lavoro: dal diritto alla riservatezza alla tutela dei dati personali, in P. TULLINI (cur.), Tecnologie della comunicazione e riservatezza nel rapporto di lavoro, Tratt. Galgano, Padova, 2010, 25 ss.; A. SITZIA, Il diritto alla “privatezza” nel rapporto di lavoro tra fonti comunitarie e nazionali, Padova, 2013; A. TROJSI, Il diritto del lavoratore alla protezione dei dati personali, Torino, 2013; A. LEVI, Il controllo informatico sull’attività del lavoratore, Torino, 2013.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 oramai per larga parte soppiantato dal reg. UE n. 679 del 27 aprile 2016 (7) ed ora, per la parte residua, integrato dal d. lgs. 10 agosto 2018 n. 101. Si tratta, tuttavia, di un sistema che disciplina compiutamente solo le procedure per regolare l’attività di vigilanza amministrativa, affidata all’Autorità garante nel rispetto del principio del contraddittorio (8), ma che, per il resto, appare privo di un contenuto normativo di dettaglio, lasciando a fonti di natura sostanzialmente regolamentare la concreta individuazione delle condotte lecite e di quelle vietate (9), per le quali tuttavia sono mantenute in vita le sanzioni penali già previste dall’art. 38 St. lav. (10). Infatti, mentre le norme dello Statuto, anche per rispetto del principio di tassatività che accompagna tutte le previsioni di un reato, limitano in maniera puntuale sul piano delle modalità il potere datoriale, la tutela dei dati si realizza attraverso la previsione di principi, o di clausole generali (11), che lasciano poi ampi margini di adattamento in relazione alle circostanze del caso e al contesto nel cui ambito l’attività di “trattamento” può essere svolta. Questo differente approccio alla limitazione del potere datoriale dà esiti non sempre prevedibili, di modo che negli sviluppi più recenti, la norma concretamente applicabile discende da un giudizio di proporzionalità, che mira a definire un bilanciamento fra opposti interessi. Ed invero, l’ibridazione del diritto del lavoro con la protezione costituzionale dell’individuo, che così si è realizzata (12), fa fatica a mantenersi entro gli ambiti tracciati dalla natura contrattuale del rapporto posto in essere, cosicché ne emerge il rischio di una dilatazione

7 Relativo “alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (c.d. GDPR: General Data Protection Regulation). 8 V. art. 141 ss. l. n. 196/2003 ed ora art. 77 GPDR. 9 Si intende alludere non solo alle autorizzazioni generali dell’Autorità garante, ma anche ai pareri sovrannazionali resi in passato dal cc.dd. “Gruppo di lavoro ex art. 29” sulla scorta della direttiva ora abrogata. 10 L’art. 113 cod. priv. ha fatto salvo il disposto degli artt. 4 e 8 St. lav., confermando, attraverso una complicata serie di rinvii all’art. 179, altresì la sanzione penale di cui già all’art. 38 s.l. 11 Quali il principio di liceità, correttezza e trasparenza; di congruità allo scopo, di pertinenza, adeguatezza e non eccedenza; di esattezza e di aggiornamento. 12 Per una rilettura del ruolo della dottrina costituzionalista nell’evoluzione del diritto del lavoro si v. U. ROMAGNOLI, La costituzione delegittimata, in RTDPC, 2003, 829 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 delle protezioni, che potrebbe derivare, invece, da una incontrollata moltiplicazione delle posizioni soggettive riconosciute per legge, in forza di una malintesa analogia con il diritto di difesa giudiziale, che trova fondamento specifico nella presunzione di innocenza (13). In questo senso, non si deve dimenticare che, a differenza dei casi in cui si tratta di tutelare il diritto individuale “ad essere lasciato solo” o di evitare profilazioni indebite da parte di chi si trova a gestire i cc.dd. big data, qui la cornice entro la quale il controllo si colloca rimane quella segnata dalla obbligazione contrattuale, dove il potere datoriale resta pur sempre frutto di una volizione individuale, conseguente all’assunzione alle dipendenze dell’impresa, secondo il modello di fattispecie tipizzato dal legislatore. Una volta che si sia accettata questa premessa, appare più semplice l’inquadramento concettuale di alcuni problemi che agitano la giurisprudenza, evitando che il diritto al controllo della propria sfera privata non assurga a diritto isolato e in certo modo contrapposto agli altri, nella consapevolezza che esso, in conformità alla felice intuizione del Costituente (art. 41/II), non può che agire innanzi tutto quale limite interno di un potere, per individuare le modalità attraverso le quali l’attività di controllo resta lecita. Ove tuttavia si sia correttamente collocata la tutela della persona entro il perimetro dell’obbligazione assunta per contratto di lavorare subordinatamente (14), non sembra comunque poter assume rilievo dirimente il fatto che l’attività di controllo sia nota al lavoratore o che sia stata da questi esplicitamente accettata, poiché la volontà del singolo dovrà valutarsi, secondo i parametri propri della disciplina del consenso individuale di cui all’art. 2113 c.c. Da qui il permanere della necessità di previsioni specifiche, che disciplinino le modalità di esercizio del potere di controllo, come nel novellato art. 4 St. lav. (a seguito dell’art. 23, d. lgs. 151/2015), che ammette l’utilizzo degli strumenti telematici necessari per

13 Sul rischio insito in ogni ragionamento analogico, v. L. MENGONI, La questione della subordinazione in due trattati recenti, in RIDL, 1986, I, 5 ss. 14 L’impostazione appare oramai condivisa: v. ad es. le recenti monografie di O. DESSÌ, Il controllo a distanza sui lavoratori. Il nuovo art. 4 St. lav., Napoli, 2017; V. NUZZO, La protezione dei lavoratori dai controlli impersonali, Napoli, 2018. Sull’odierno assetto, v. P. TULLINI (cur.) Controlli a distanza e tutela dei dati personali del lavoratore; Torino, 2017; A. INGRAO, Il controllo a distanza sui lavoratori e la nuova disciplina della privacy: una lettura integrata, Bari, 2018.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 rendere la prestazione lavorativa, senza più richiedere un preventivo accordo collettivo. Né peraltro la violazione della norma di condotta potrà limitarsi alla sola prospettiva dell’inibitoria futura o del risarcimento del danno prodotto, poiché in ultima analisi, il punto di caduta del divieto è costituito da quella che il legislatore chiama utilizzabilità del dato (art. 4, n. 4 GDPR), autorizzando oramai (così espressamente l’art. 4, co. 3, St. lav. nel testo vigente) il datore a fondare l’irrogazione di sanzioni disciplinari su tutte le circostanze di cui abbia avuto legittimamente conoscenza, o per sussistenza di un previo accordo collettivo, o perché raccolte attraverso gli strumenti informatici utili a rendere la prestazione di lavoro. E da qui, ovviamente, un andamento fortemente casistico della giurisprudenza che, di fronte a circostanze che dimostrano capacità anche delinquenziali del lavoratore, non sempre accetta di sterilizzare i risultati delle indagini condotte. E mentre in passato, nel giusto rispetto del principio dell’inutilizzabilità dei dati illegittimamente acquisiti, a tale risultato si giungeva attraverso una definizione in chiave teleologica degli elementi della fattispecie vietata, ora la più ampia formulazione del comma 3 dell’art. 4 St. lav. (15), sembra direttamente richiamare le premesse generali di cui sopra (almeno nei casi in cui l’acquisizione del dato sia sicuramente lecita) indicando agli interpreti la via da percorrere. In questa prospettiva, una volta definito il quadro concettuale di riferimento, sembra opportuno procedere per singole ipotesi, nella prospettiva di un progressivo consolidamento di soluzioni normative, così da enucleare elementi capaci di incamminarsi verso una più marcata tipizzazione, utilizzando in questa direzione il materiale che proviene dall’attività del Garante e dalla giurisprudenza come nucleo per la costruzione di un sistema di norme analitiche e certe, nel rispetto del principio di tipicità. Ci si limiterà quindi, nelle pagine che seguono, all’analisi (in relazione alle corrispondenti norme dello “Statuto”) di tre aspetti che richiedono una particolare attenzione, quanto alle indagini

15 Non convince la tesi, sostenuta ad es. da NUZZO, La protezione del lavoratore, cit., 96 che pure muove da una ricostruzione accurata del fondamento del potere di controllo, che l’enunziato di cui al terzo comma («Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro») possa trovare implicita limitazione nel primo o nei principi generali in tema di trattamento dei dati.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sulla salute del lavoratore, ai controlli difensivi in ambito tecnologico e ai dati “giudiziari”.

2. Le indagini sulle condizioni di salute in caso di certificazione INAIL e l’art. 5 St. lav. Le indagini sulla condizione di malattia rappresentano, per certi versi, l’archetipo dei controlli difensivi, posto che il datore agisce al di fuori della sfera lavorativa propriamente intesa, nella prospettiva di accertare che effettivamente sussista la patologia idonea a giustificare l’assenza a mente dell’art. 2110 c.c. L’art. 5 St. lav. stabilisce a riguardo che: «Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente». E subito dopo aggiunge al comma II che: «Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda». In altre parole, in presenza di enti pubblici istituzionalmente preposti all’accertamento dello stato di salute del lavoratore (16), al datore è inibita ogni iniziativa a riguardo, rimanendo la funzione di controllo suscettibile di esercizio «soltanto» attraverso il sistema sanitario nazionale. La contrattazione collettiva, in qualche occasione si è però spinta in avanti affermando implicitamente che al datore non sarebbe preclusa la verifica di condotte idonee a ritardare la ripresa del servizio (17), dando così luogo, nella prassi, a pedinamenti dei lavoratori assenti, mirati alla rilevazione di condotte incompatibili con lo stato di salute certificato dal medico, ma che fatalmente si rivolgono all’intera sfera personale del lavoratore. A riguardo, tuttavia, si deve senz’altro differenziare fra le certificazioni rilasciate dal medico curante, nelle quali in genere manca addirittura un accertamento vero e proprio dello stato patologico (“il paziente riferisce

16 Ma una simile previsione appare ora largamente derogata dall’art. art. 25, lett. c) d. lgs. n. 9 aprile 2008, n. 81 (e già dall’art. 17, d. lgs. n. 626/94), che dettando specifiche disposizioni in relazione alla figura del c.d. “medico competente”, legittima un controllo sulla persona del lavoratore anche da parte di personale direttamente dipendente dal datore stesso. 17 V. ad es. il codice disc. del comparto Aut. Locali, art. 3 c.c.n.l. 11 aprile 2008, al comma 5 lett. e), che punisce lo «svolgimento di attività che ritardino il recupero psico- fisico durante lo stato di malattia o di infortunio».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 dolore etc.”), da quelle invece rilasciate, in caso di infortunio, dai medici dell’INAIL che non possono per certo essere considerate alla stregua di un semplice parere di parte, ma che al contrario costituiscono prova documentale della sussistenza di uno stato di inabilità, assistita dalla presunzione di legittimità propria di ogni provvedimento amministrativo, atteso il diritto dell’Istituto «di controllare l’andamento delle cure in qualsiasi luogo esse siano praticate e di disporre il trasferimento dell’infortunato in luogo di cura designato dall’Istituto medesimo», a mente dell’art. 95, t.u. 1124/65 (18). Nello stesso senso, bisogna stare attenti a distinguere fra l’accertamento di condotte materiali palesemente contrarie all’affezione certificata (la partecipazione ad un programma televisivo o una performance atletica), dall’accertamento di condotte riconducibili alla normale vita ordinaria, ma di per sé non necessariamente incompatibili con lo stato di malattia, posto che si deve dubitare che basti a fare tabula rasa delle certificazioni mediche la semplice osservazione del lavoratore intento ad andare a spasso o a pesca: giurisprudenza ampia, seppur risalente, afferma infatti che attività normali non dimostrano l’insussistenza dello stato morboso, ma anzi in certi casi costituiscono una condotta fedele all’indicazione terapeutica ricevuta (si pensi a vari casi di stato post-traumatico da stress o alla necessità di riprendere gradualmente un’attività motoria etc.). Si tratta di conclusione non solamente rispettosa del diritto “all’intimità” (o alla privacy) del prestatore di lavoro, ma altresì di un’evidente garanzia della sua salute e della sua integrità psico-fisica, atteso che ove fosse consentita un’attività di controllo occulto ed “esteriore” da parte del datore, la guarigione del lavoratore sarebbe a tutta evidenza compromessa, negandosi il diritto alla convalescenza. Il vero è che non può affermarsi l’esistenza in capo al lavoratore di un dovere di mantenersi sano, se non al costo di dilatare oltremodo la nozione di obbligazione preparatoria (19), cosicché inadempimento può darsi solo quando il lavoratore «scientemente assuma un rischio elettivo

18 Di modo che anche alle visite di controllo dovrebbe applicarsi la stessa disciplina, secondo Cass. sez. lav., 27 ottobre 2017, n. 25650. 19 V. a riguardo la trattazione di R. DEL PUNTA, La sospensione de rapporto di lavoro, in Comm. Sch, Milano, 1992, 556 ss. nonché P. CHIECO, Privacy e lavoro. La disciplina del trattamento dei dati personali del lavoratore, Bari, 2000.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 particolarmente elevato che supera il livello della “mera eventualità” per raggiungere quello della “altissima probabilità”» (20). In questo senso, ove si rispetti l’ambito del divieto dello Statuto, non è facile individuare l’area in cui si possa legittimamente collocare un’attività di controllo datoriale, mentre la previsione normativa (art. 2110 c.c.) di un termine di comporto vale a definire, sul piano della funzionalità del sinallagma, il permanere dell’interesse creditorio alla prestazione. Il rischio di un abuso dei poteri “di controllo” è ancor di più reso evidente, nelle prassi più recenti, dal fatto che si è interpretato il novellato art. 18 St. lav., in tema di reintegra, come se esso garantisse il datore dal rimedio ripristinatorio, quando il licenziamento risulti fondato sulla contestazione di fatti inoppugnabili (21). La giurisprudenza di legittimità ha però oramai chiarito come il fatto che esclude la reintegra nei rapporti di più antica data sia non già un mero fatto materiale, ma propriamente un fatto giuridico, idoneo cioè a costituire quel grave (o gravissimo) inadempimento che, a mente della vigente legge n. 604/66, solo legittima il recesso datoriale (22). Evidente è il rischio che il consolidarsi di una lettura impropria delle norme di legge finisca per dare ingresso a pratiche di autodifesa di dubbia legittimità, mirate non già a provare situazioni oggettivamente incompatibili con lo stato morboso denunziato, ma solo a provare le circostanze contestate, anche al prezzo di mettere indebitamente in dubbio un accertamento, che deve invece rimanere di esclusiva competenza della struttura pubblica. Nel medesimo senso, una forma di controllo del datore può darsi in quei casi nei quali il lavoratore trasmetta non già una certificazione limitata al giudizio di prognosi, ma che riporta malattia e terapia. In qualche caso in giurisprudenza si è ammesso il licenziamento, quando fra la malattia denunziata e la terapia farmacologica prescritta sussista una tale distanza

20 Così Cass. lav., 25 gennaio 2011, n. 1699, nel caso di un dirigente bancario che si era recato ripetutamente in vacanza in Madagascar, dove era stato soggetto a reiterati attacchi acuti di malaria, con conseguente assenze dal posto di lavoro per lunghi periodi (nello stesso senso v. altresì App. Bologna cit. infra a nota 23). 21 A riguardo, per un efficace riepilogo della questione, da ultimo, v. R. VIANELLO, Dal “fatto” al “fatto materiale” nel licenziamento disciplinare, in TOPO e TREMOLADA (curr.); Le tutele del lavoro nelle trasformazioni dell’impresa, Liber Amicorum Carlo Cester, Bari, 2019, 1143. 22 Cass., sez. lav., 26 maggio 2017, n. 13383 ed ancora Cass. Lav. 5 dicembre 2017, n. 29062.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 da rendere probabile l’ipotesi di una certificazione di comodo (23): qui però si fa valere non una valutazione controfattuale, ma una contraddizione intrinseca, che deve far ritenere insussistente la certificazione stessa, in via di disapplicazione del provvedimento operata dal giudice civile. Con la conclusione che il rafforzamento dell’interesse datoriale dovrebbe passare, come già è avvenuto in qualche caso, piuttosto che dall’ampliamento dei poteri di controllo, da una ridefinizione in sede di negoziazione collettiva sia del trattamento retributivo integrativo a carico dei datori, sia della durata del comporto, così da evitare il rischio che il ricorso a investigatori privati finisca per estendersi a tutta una serie di attività che coinvolgono, senza alcuna valida ragione, la vita privata e i componenti della sfera familiare del lavoratore.

3. I controlli “difensivi” alla luce della modifica dell’art. 4 St. lav. Si tratta di una categoria messa in rilievo in sede pretoria e diffusasi nella prassi operativa con un certo ritardo, quando già la Corte di cassazione aveva provveduto a limitare le aperture mostrate in passato, seppure mantenendo sempre un andamento fortemente oscillante e legato a tutt’evidenza al caso concreto (24). Un esame della giurisprudenza di legittimità, invero, segnala almeno due lontane pronunzie che ammettevano i controlli effettuati sull’attività lavorativa, quando questa sia svolta in violazione dei doveri di collaborazione, che caratterizzano il rapporto. Nello stesso senso numerosi giudici di merito hanno inizialmente seguito le indicazioni della suprema Corte, escludendo dal campo di applicazione dell’art. 4 St. lav., i controlli cc. dd. “difensivi” (25).

23 V. ad es. App. Bologna sez. lav., 7 marzo 2017, n. 299. 24 F. SANTONI, Controlli difensivi e tutela della privacy dei lavoratori, in GI, 2016, I, 144 ss.; M. MISCIONE, I controlli intenzionali, preterintenzionali e difensivi sui lavoratori in contenzioso continuo, in LG, 2013, 8-9, 766 ss.; V. PINTO, I controlli “difensivi” del datore di lavoro sulle attività informatiche e telematiche del lavoratore, in TULLINI, Controlli a distanza, cit., 148 ss.; e già ID., La flessibilità funzionale e i poteri del datore di lavoro, in RGL, 2016, I, 348 ss. 25 La categoria appare in giurisprudenza per la prima volta in Cass., sez. pen., 28 maggio 1985, n. 8687 (in NGL, 1986, 155; nonché in MGL, 1986, 404 con nota di

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In senso contrario a tale orientamento, tuttavia, altre sentenze hanno circoscritto, pur senza smentirlo, l’ambito di vigenza del principio enunziato dalla Cassazione, ritenendo che le finalità difensive perseguite dal datore non escludessero la necessità di una preventiva autorizzazione collettiva a mente dell’art. 4 St. lav. La categoria dei controlli difensivi, secondo questa prospettazione, non avrebbe propria autonomia e si risolverebbe, semmai, in una specificazione del dettato legislativo della disposizione ora citata, in quella parte in cui, ammettendo il controllo preterintenzionale per “esigenze organizzative”, legittimerebbe i controlli con finalità di tutela del patrimonio aziendale (26). Così si è affermato che l’attività difensiva del datore sia consentita solo quando non sussista attività lavorativa alcuna, nemmeno eventuale (27), e, parimenti, si è ritenuta inapplicabile la scriminante dell’intento difensivo quando sia impossibile distinguere, per le concrete modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, fra un controllo (illecito) sulla attività lavorativa e quello (astrattamente lecito, ma in concreto non ammesso) sulle infedeltà del lavoratore (28). Ed invero, mentre ancora una non lontana pronunzia escludeva la legittimità di meccanismi di controllo generalizzato sull’attività lavorativa «predisposti prima ancora dell’emergere di qualsiasi sospetto e che riguardino la prestazione lavorativa in sé» (29), l’orientamento più recente sembra tornare indietro ammettendo «i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto più se disposti “ex post”, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla

Papaleoni, ed ancora in OGL, 1986, 318), che richiama in massima il fatto che «sul lavoratore addetto alla registrazione degli incassi si [erano] appuntati i sospetti di una mancata collaborazione con l’azienda da cui dipende». Tale orientamento trova conferma nella giurisprudenza di legittimità della sez. lavoro, con la nota Cass. 3 aprile 2002, n. 4746, in OGL, 2002, I, 221 (e in MGL, 2002, 644 con nota di Bertocchi); nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, v. T. Milano 29 settembre 1990, in OGL, 1990, 9010; Trib. Milano 8 giugno 2001, in D&L, 2001, 1067; T. Torino 9 gennaio 2004, in Giur, piem., 2004, 131. 26 In senso contrario v. T. Milano 31 marzo 2004, in OGL, 2004, 108 ss., con nota di L. Cairo, nonché T. Roma 4 giugno 2005 e T. Milano 11 aprile 2005 entrambe in RGL, 2005, II, 763 ss., con nota di A. BELLAVISTA, Controlli elettronici e art. 4 St. lav. 27 Così T. Milano 11 aprile 2005, cit. a nota prec., 771. 28 Così T. Milano 31 marzo 2004, cit. a nota prec. 29 Cass. sez. lav., 5 ottobre 2016, n. 19922.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa» (30). Nello stesso senso, si è ammessa la legittimità dei controlli difensivi quando questi siano richiesti dalla preventiva «acquisizione di indizi del compimento di condotte illecite a carico di singoli dipendenti, in danno del datore di lavoro o per le quali possa essere chiamato a rispondere il datore di lavoro» (31), mentre la giurisprudenza penale (32) sembra ammettere i controlli senza alcun limite, quando siano diretti a far emergere un reato. Ed ancora, alcune pronunzie della sezione lavoro della S.C. hanno riconosciuto la correttezza della condotta datoriale senza alcun accertamento di un preventivo sospetto (33), fino a giungere ad una recente sentenza di merito, che, in applicazione della disciplina oggi vigente, pare prendere una posizione mediana, in via di pura equità e senza reali agganci normativi, ammettendo la legittimità del controllo, ma negando che i dati comunque acquisiti possano «essere usati per altri fini, come per contestare al lavoratore la violazione di un obbligo di diligenza» (34). Già solo questo sommario panorama giurisprudenziale mostra come la questione sia, a tutt’evidenza, priva di una regolazione espressa nell’ordinamento positivo, malgrado la natura penale del precetto contenuto nell’art. 4 s.l. richiederebbe una interpretazione tassativa della fattispecie vietata, insuscettibile di essere estesa in via di analogia. In assenza di un più preciso intervento normativo, si è costretti quindi a ricercare la soluzione al problema attraverso una interpretazione della norma statutaria, dilatandone o restringendone la portata. Si è così sostenuto in passato, a sostegno della liceità dei controlli difensivi, che l’utilizzo dei computer non rientri nel novero dei

30 Così Cass. 28 maggio 2018, n. 13266 che riforma App. Roma, 26 maggio 2016. 31 T. Padova sez. lav., 22 gennaio 2018 in Juris data Giuffré. 32 Cass. penale sez. II, 30 novembre 2017, n. 4367 con la quale la S.C. ha confermato la condanna per appropriazione indebita inflitta all’imputato sulla base di un quadro probatorio costituito da dichiarazioni testimoniali e videoriprese, ritenute pienamente utilizzabili dal giudice di merito, effettuate da una telecamera installata all’interno del luogo di lavoro. 33 Cass. sez. lav., 10 novembre 2017, n. 26682 e Cass. 2 maggio 2017, n. 10636, che richiede però «modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti» ed il rispetto dei «canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale». 34 T. Torino, 18 settembre 2018, in RIDL, 2019, 1, II, 3 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 meccanismi di sorveglianza vietati, dal momento che in tali casi l’apparecchiatura non ha vere e proprie finalità di controllo, poiché la registrazione dei dati discende automaticamente dalle modalità del funzionamento della macchina ed è finalizzata ad una esecuzione più veloce delle prestazioni richieste (come tipicamente nella ipotesi di una attività d’ufficio) (35). Tale ultima tesi sembrerebbe trovare ora conforto nel comma 2 del novellato art. 4 St. lav. là dove si esclude l’esigenza di una preventiva autorizzazione nel caso di «strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa», se non fosse che il già ricordato comma 3, richiede ai fini dell’utilizzo delle informazioni raccolte «che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli» e che sia rispettata la disciplina legale di protezione dei dati personali. Appare chiaro, alla luce di queste sommarie annotazioni, come, sotto la comune etichetta di controllo difensivo, ricadano sia fattispecie che si collocano al di fuori della portata applicativa dell’art. 4 s.l., sia ipotesi nelle quali viene in rilievo più propriamente una questione attinente alla finalità perseguita e all’utilizzo dei dati, quando questi siano stati ottenuti attraverso «strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori» (art. 4, co. 1, St. lav.). Nella prima ipotesi, rientra ad es. il controllo disposto in aree ed in ore nelle quali non può ipotizzarsi alcuna attività attinente al contratto in essere: così per un caso nel quale il datore aveva predisposto delle telecamere per riprendere gli autori di alcuni furti che si manifestavano con regolarità, e ha sorpreso poi dei suoi lavoratori. Qui l’applicazione dello “Statuto” sarebbe del tutto illogica quando i luoghi sottoposti a controllo non vedano lo svolgimento di un’attività propriamente solutoria dei lavoratori (36). Nella seconda ipotesi, invece, la finalità “difensiva” appare lecita, in quanto ricompresa o nell’amplissima formula dell’art. 4 co. 1 («esigenze

35 Così E. GRAGNOLI, L’informazione nel rapporto di lavoro, Torino, 1996, 167; P. ICHINO, Il contratto di lavoro, Tratt. CMM, vol. III, Milano, 2003, 245, ove ulteriori ampi riff. alla dottrina; un controllo sulla navigazione è ammesso anche da M. AIMO, Privacy, libertà di espressione e rapporto di lavoro, Napoli, 2003, 128, ove questa sia limitata ai siti (e non si estenda alle pagine visitate), avvenga solo in caso di fondato sospetto e non sia altrimenti possibile effettuare la sorveglianza. 36 Sia consentito a riguardo il rinvio al mio, Competenze dell’Autorità garante e controlli difensivi, in ADL, 2006, 4-5, 1142 ss.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale»), ovvero nella logica stessa dello scambio contrattuale, che richiede l’esatto adempimento e che si rispecchia oramai nella previsione del comma 3 in ordine all’utilizzo dei dati raccolti. Questa finalità “difensiva”, implicita in ogni forma di controllo, appare peraltro conforme alla stessa legislazione posta a tutela della sfera personale del lavoratore, posto che l’idea di demandare ogni controllo sui luoghi di lavoro all’autorità di polizia fuoriesce dalla stessa idea dello Stato di diritto (37), ove realisticamente si consideri la necessità di tutelare l’interesse creditorio all’adempimento (o di prevenire il reiterarsi di un’attività criminosa), di modo che la questione non può che attenere alle concrete modalità con cui il controllo venga ad essere esercitato (38), onde evitare che la legittima istanza di autotutela del datore di lavoro non si tramuti in una indebita ingerenza nella sfera individuale del lavoratore. Deve essere chiaro, tuttavia, come una siffatta legittima finalità di difesa non consente all’impresa di mancare di rispetto alle previsioni dei primi due commi dell’art. 4 St. lav., di modo che, ove non si tratti di attrezzature necessarie per l’esecuzione della prestazione lavorativa (co. 2), ma ad es. di telecamere, sarà necessario o l’accordo collettivo o la preventiva autorizzazione amministrativa, con l’ulteriore precisazione che, in quest’ultima ipotesi, l’Ispettorato sarà chiamato a valutare con estrema speditezza (e con grande attenzione a tutti gli interessi coinvolti) la domanda che provenga dal datore di lavoro (39). Né si deve dimenticare che, in ogni caso, a tutela del lavoratore, restano sempre applicabili le regole giurisprudenziali che discendono dall’art. 7 St. lav., di modo che ogni eventuale contestazione di fatti rilevanti deve avvenire entro un ridotto lasso temporale dalla conoscenza degli eventi.

37 Per una ricostruzione del concetto e degli antecedenti storici dell’affermazione di cui al testo, rinvio al mio Potere ed autotutela nel contratto di lavoro subordinato, Torino, 2004, 181 ss. 38 Corte EDU, Grande chambre, 17 ottobre 2019, López Ribalda et aa. c/ Spagna, ric. n. 1874/2013 (par. 116), di riforma di una precedente pronunzia della stessa Corte. 39 Non sarebbe illogico, in questo senso, che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro si facesse carico di definire una sorta di atto generale (come già in passato era avvenuto presso la DPL di Modena), che individuasse modalità e tempi standard di controllo, regolando ex ante gli ambiti di tutela da riconoscere ai controinteressati.

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4. La questione dei dati giudiziari e le previsioni dell’art. 8 St. lav. La terza questione che qui si vuole esaminare a conferma dell’impostazione delineata in premessa, riguarda la legittimità della richiesta, rivolta dal datore al candidato all’assunzione, di attestare l’insussistenza di condanne, mediante la produzione di idonea certificazione rilasciata dall’autorità giudiziaria. E tanto, a fronte del sopravvenire dell’art. 2 octies del d. lgs. 196/2003, introdotto dall’art. 2, co. 1, lett. f), del d. lgs. 10 agosto 2018, n. 101, che stabilisce che il trattamento di dati personali relativi a condanne penali e a reati o a connesse misure di sicurezza è consentito «solo se autorizzato da una norma di legge». Una tale previsione, rubricata come “Principi relativi al trattamento di dati relativi a condanne penali e reati”, è sembrata infatti vietare quelle clausole dei contratti collettivi (per es. dei settori credito e poste), che richiedono invece al fine dell’assunzione la produzione del certificato generale del casellario giudiziale e, talora, dei “carichi pendenti”. Ed invero, seppure il cit. art. 2 octies, accanto alla regola generale ora enunziata, riconosce la particolarità del rapporto di lavoro, richiamandola expressis verbis alla lett. a) del co. 3, resta che tale specificazione, in assenza di deroghe espresse, non vale ad individuare la regola di condotta in concreto applicabile. Infatti, resta oscuro se il richiamo contenuto nella norma anzidetta ai «contratti collettivi, secondo quanto previsto dagli articoli 9, paragrafo 2, lettera b), e 88 del regolamento», possa valere a confermare la permanente vigenza della soluzione che era stata concordata con le organizzazioni sindacali prima dell’entrata in vigore del d. lgs. 101/2018. Anche se il GDPR ammette come fonti integrative dei suoi principi i contratti collettivi, infatti, né il legislatore dell’art. 8 St. lav., né quello del d. lgs. 10 agosto 2018, n. 101 si fanno carico di chiarire quali spazi siano affidati all’autonomia collettiva, di modo che le storiche incertezze che sul punto accompagnano la contrattazione collettiva c.d. di diritto comune (40) sembrano ora riflettersi sulla individuazione delle fonti chiamate a definire un’eccezione alla regola generale.

40 Anche se non sarebbe difficile riconoscere in questo caso ai contratti collettivi un’efficacia generale, non già in forza del ben noto principio del mandato, ma quale

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La questione merita perciò di essere esaminata in apicibus, alla luce, innanzi tutto, del disposto dell’art. 8 St. lav. che vieta, non già che il dato sia fatto oggetto di “trattamento” in senso proprio (41), ma la semplice acquisizione di esso, ed anzi, nella prospettiva del rilievo del reato tentato, anche la sola domanda rivolta ad acquisire informazioni in ordine a «fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore». Il contrasto non potrebbe essere più manifesto, dacché si tratta di richieste non solo direttamente previste della contrattazione collettiva di settore sopra richiamata, ma anche, in particolari frangenti, da espresse previsioni di legge, a fronte delle responsabilità che i lavoratori sono in questo modo chiamati ad assumere (42). Anche in questo caso giova ricondurre la norma al complessivo disegno contrattuale del rapporto, dacché i fatti, che lecitamente possono essere oggetto di indagine pre-assuntiva, devono individuarsi a mente dei presupposti che legittimano il licenziamento in base alle previsioni dell’art. 2119 c.c. e della legge n. 604/1966. In questo senso la giurisprudenza ha affermato (43) che, in assenza di una chiara previsione collettiva sul punto, non può chiedersi in sede di assunzione il certificato dei “carichi pendenti”, sia per il rispetto della presunzione di innocenza,

concretizzazione di una regola di diligenza (secondo del resto il modello di cui all’art. 4 St. lav.): a riguardo restano rilevanti le considerazioni della giurisprudenza costituzionale nelle sentt. 18 ottobre 1996 n. 344 (in tema di sciopero, a integrazione di un obbligo legale) e 30 giugno 1994, n. 268 (relativa agli accordi aziendali di definizione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare o da mettere in cassa integrazione, a mente della legge n. 223/91). 41 In questo senso v. Cass. civile sez. I, 19 settembre 2016, n. 18302, richiamata anche nel parere dell’Autorità Garante per la Protezione dei dati personali del 22 dicembre 2016, n. 5958296. 42 A mente del d. lgs. 4 marzo 2014 (art. 25 bis t.u. n. 313/2002), il datore deve richiedere il certificato del casellario giudiziale, a pena di una sanzione amministrativa pecuniaria fino ad 15.000,00 euro, quando «intenda impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori». 43 Cass. sez. lav., 17 luglio 2018, n. 19012 in relazione all’art. 19, comma 5, del c.c.n.l. per il personale non dirigente di Poste Italiane s.p.a. dell’11 novembre 2007; analog. v. App. Milano, 22 luglio 2015 (in FI, 2015, 10, I, 3312), che, chiamata a giudicare della legittimità di indagini commissionate da una società sportiva a un’agenzia investigativa, ha ritenuto illegittimi controlli eseguiti «ove non si dimostri in che modo le notizie apprese assumessero rilievo ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del dipendente».

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 sia perché «risulterebbe incongrua sul piano sistematico, atteso che il medesimo c.c.n.l. non contempla lo “status” di imputato quale giusta causa di licenziamento» (44). Si tratta dunque di verificare se, ferme rimanendo le conclusioni anzidette, sia legittima la norma che consente la richiesta di produrre al momento dell’assunzione una certificazione che viene ad abbracciare tutte le ipotesi suscettibili di sanzione penale, peraltro anche allo stadio di semplice ipotesi (come nel caso dei carichi pendenti, che registrano anche le imputazioni). Il rischio evidente è che, per questa via, si potrebbe consentire al datore di avere accesso anche a reati commessi in un lontano passato o che vengono a colpire beni differenti dagli interessi patrimoniali che più direttamente vengono in rilievo nell’esecuzione del rapporto di lavoro, senza che l’eventuale discriminazione che ne possa conseguire abbia ad assumere il rilievo (e la riconoscibilità) propria dell’atto di recesso. Per rispondere al quesito, non si deve sottovalutare il fatto che l’art. 23 del t.u. in materia di casellario giudiziale (45) riconosce all’interessato «il diritto di ottenere il certificato generale, il certificato penale, il certificalo civile … senza motivare la richiesta», implicitamente ammettendo in questo modo la liceità di richieste che vengano da soggetti privati. Anche l’art. 24 dello stesso t.u., nel disciplinare il diritto dell’interessato ad ottenere il certificato senza motivare la richiesta, specifica poi che nel certificato non sono riportate tutte le iscrizioni esistenti nel casellario giudiziale, poiché alcune ne rimangono escluse (come, ad es., quelle relative alle condanne delle quali è stato ordinato che non si faccia menzione o quelle per contravvenzioni punibili con la sola ammenda e per reati estinti). Si tratta, a tutta evidenza, di una norma pensata proprio in relazione alle previsioni dei contratti collettivi prima richiamate che, unitamente all’art. 8 St. lav. (e al correlato art. 10 del d. lgs. n. 276/2003), sembra integrare il

44 Si noti però che nel settore del credito, l’art 38, co. 9 del c.c.n.l. 19 gennaio 2012 legittima la richiesta anche del certificato dei carichi pendenti, in coerenza con l’art. 41, co. 1 dello stesso contratto coll. che impone un obbligo di comunicazione all’impresa in capo al lavoratore, nei cui confronti siano svolte indagini preliminari ovvero è stata esercitata l’azione penale per reato che comporti l’applicazione di pena detentiva. 45 Il casellario giudiziale, un tempo regolato dagli artt. 685 ss. c.p.p., è ora disciplinato dal d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313.

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JUS- ONLINE ISSN 1827-7942 rinvio di cui all’art. 2 octies cod. priv., legittimando quindi la richiesta datoriale. In altri termini, l’autorizzazione alla stregua di «una norma di legge» prevista dall’art. 2 octies del d. lgs. 196/2003, che sola legittima il trattamento di dati personali relativi a vicende giudiziarie non va cercata in qualche norma futura, poiché è già presente nell’ordinamento una regola precisa in ordine ai fatti che possono legittimamente costituire oggetto di indagine al momento dell’assunzione. In questa prospettiva, dunque, possono acquisire rilievo non solo le vicende penali passate, ma anche eventuali procedimenti penali pendenti (e fors’anche le tante sanzioni amministrative previste dall’ordinamento in materia di finanza), a fronte del fatto che, ai fini della valutazione del licenziamento nel settore del credito, la giurisprudenza ha fatto uso di condotte a rilevanza penale che attengono a tutta la sfera del soggetto (46), ritenendo implicitamente che la speciale diligenza richiesta agli impiegati “di sportello” imponga ad essi di astenersi da qualunque attività criminosa di rilievo, in quanto idonea, per i rischi cui espone il lavoratore anche a fronte dell’irrobustirsi della legislazione anti-riciclaggio, a minare alla base l’aspettativa a futuri esatti adempimenti (si pensi, per fare un es., anche solo al fatto che la frequentazione di spacciatori in caso di consumo non abituale di stupefacenti può costituire un canale perché la criminalità organizzata eserciti un ricatto nei confronti di chi ad es. è chiamato a scelte di merito creditizio).

Abstract: The essay, after having briefly traced the framework of the employers’ power of control on their employees in the Italian legal system, examines three different hypotheses of control, related to check on sickness absence by private investigators, employees’ monitoring by hidden cameras or by other electronic devices, and the validity of the contractual clause which allows an employer to ask a pending load certificate from a job candidate

Keywords: right to privacy – check on sickness absence – employee monitoring at the workplace – remote surveillance by hidden cameras or other electronic devices – investigation into employee’s private life – pending load certificate

46 Cass. sez. lav. 1° luglio 2016, n. 13512; Cass. sez. lav. 21 maggio 2018, n. 12431; Cass. sez. lav. 8 aprile 2016, n. 6901; Cass. sez. lav. 13 maggio 2015, n. 9802; Cass. sez. lav. 10 dicembre 2014, n. 26039 e da ultimo Cass. n. 12431/18.

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