Steve Jobs – Stay Hungry, Stay Foolish
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La mela morsicata ha cambiato il mondo. Ma chi era Steve Jobs? Quali delle sue idee, oltre agli oggetti che sono entrati nelle nostre case, resteranno nel tempo? E quale sarà il destino della Apple dopo la scomparsa dell’uomo che l’ha guidata fin qui? Le firme del Corriere della Sera vi raccontano un genio e la sua modernità. Nei passaggi fondamentali della biografia dell’“ingegnere dei sogni” come negli aspetti meno noti della vita privata di Mr Jobs. Con una scelta dei suoi discorsi più significativi. Testi di Massimo Gaggi, Paolo Mereghetti, Matteo Persivale, Alessio Ribaudo, Edoardo Segantini e Massimo Sideri STEVE JOBS stay hungry, stay foolish La vita di un genio che ha cambiato le nostre vite INSTANT BOOK CORRIERE DELLA SERA STEVE JOBS – STAY HUNGRY, STAY FOOLISH A cura di Alessio Ribaudo Autori: Massimo Gaggi, Paolo Mereghetti, Matteo Persivale, Alessio Ribaudo, Edoardo Segantini e Massimo Sideri © 2011 RCS Quotidiani S.p.A. Tutti i diritti di copyright sono riservati Instant Book Corriere della Sera Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 439 del 18/06/1999 Direttore responsabile: Ferruccio de Bortoli Immagine di copertina: Jonathan Mak, studente di design di Hong Kong RCS Quotidiani S.p.A. Via Solferino, 28 – 20121 Milano Sede Legale: Via Rizzoli, 8 – 20131 Milano Marketing: Davide Ponchia, Marco Quattrone Progetto grafico e impaginazione: Luca Giannini Progetto digitale: Netphilo s.r.l. Edizione digitale ottobre 2011 «MEGLIO PIRATA CHE ARRUOLARSI IN MARINA» PERCHÉ QUESTO LIBRO di Massimo Gaggi «Troppo presto. Avevi ancora un pezzo di mondo da inventare». «Nella nostra brutta vita hai trasformato la tecnologia in bellezza». «Hai messo la luce nelle mie mani. Oggi una Grande Luce se n’è andata. Lunga vita alla luce». «Hai racchiuso in una scatola magica il mondo e il nostro amore. Grazie e addio». Tra mazzi di fiori, mele morsicate e con la buccia coperta di messaggi struggenti, lumini veri e candele digitali con la fiamma che ondeggia nello schermo nero di un iPad, poche ore dopo la scomparsa di Steve Jobs il marciapiede della Fifth Avenue si trasforma in un santuario di immagini votive sovrastato da un’immensa nuvola di post it appiccicati al muro. A New York, davanti all’Apple Store, a due passi dal mio ufficio di corrispondenza del Corriere, come in mille altri luoghi del mondo, milioni di seguaci sentono il bisogno di lasciare un segno d’affetto per l’“ingegnere dei sogni”. E di testimoniare lo smarrimento per la scomparsa dell’uomo che per 35 anni li ha condotti per mano alla scoperta delle meraviglie della rivoluzione tecnologica dell’era dei computer. Ma il culto di Jobs – il fenomeno di una setta di “eletti” nell’era del Macintosh, divenuto poi movimento di massa con gli iPod, gli iPhone, l’iPad, la musica di iTunes, le animazioni della Pixar – non ha toccato solo i ragazzi “nati digitali”: giovani affascinati dalla sua tecnologia semplice, dal design pulito, e anche dal modo di essere di un uomo che ha attraversato una vita tormentata andando sempre controcorrente. Il cinquantenne Jobs è divenuto un mito anche per i “baby boomers” con i capelli grigi, affascinati dalla sua avventura umana straordinaria e dolorosa, fatta di trionfi a cadute. Per non parlare della schiera degli amministratori delegati delle grandi “corporation” – gente detestata da Jobs – che ha cercato di seguire le sue orme. Destino bizzarro quello di Jobs: una vita da battitore libero, da “outsider” antisistema. Eppure quando è spirato, la sua Apple era la prima della classe: in Borsa valeva più di qualunque altra società americana. Anche un soffio più della Exxon, gigante mondiale del petrolio. Ma non sono i numeri del suo successo ad aver trasformato in totem dei manager di mezzo mondo l’imprenditore ribelle del beffardo slogan “meglio pirata che arruolato in Marina”. Il CEO che parlava dell’LSD consumato nella sua giovinezza come di una fonte di ispirazione, un modo di aprire la mente. Perché il “pifferaio magico” che ha incantato tutti con le invenzioni e la sua umanissima storia – l’abbandono dell’università, la fuga in India, il periodo “hippy”, la parentesi della droga, la scoperta del buddhismo, la “love story” con Joan Baez – è stato anche un imprenditore di grandi visione strategica, con un’immensa capacità di leadership: maniacale nell’attenzione per i dettagli, con uno stile manageriale da dittatore e, nonostante ciò, seguito e amato dal suo team. Tutte caratteristiche invidiate da quasi tutti i dirigenti d’azienda. Genio, mago capace di rendere vivi oggetti impersonali, confezionatore di sogni. E poi il nuovo Thomas Edison, un Leonardo da Vinci del Terzo millennio. Le espressioni scelte per raccontare Steve Jobs sono un’infinita. Tutte calzanti, ma al tempo stesso sfuggenti perché il personaggio – febbrile, visionario, romantico e spietato – non si è fatto mai ingabbiare in una definizione. Non ingegnere, né matematico. Neanche inventore e nemmeno manager. Potendo scegliere, lui preferiva l’etichetta di artista. Per sottolineare la sua capacità di creare oggetti dalle linee pulite, visivamente attraenti. «Il design» amava dire «è la vera anima di ogni creazione che esce dalle mani dell’uomo. Le innovazioni che durano sono quelle che nascono da una combinazione di tecnologia e design». Anche per questo il Corriere gli dedica un libro: per raccontare la sua straordinaria avventura professionale e umana, le sue realizzazioni e gli eccessi, i trionfi, le cadute, le resurrezioni. Fino a diventare l’icona, il simbolo di una modernità incarnata da Jobs con i sui messaggi potenti (se sei determinato, lavori duro e hai una visione, puoi arrivare ovunque) e anche con le contraddizioni di un temperamento ruvido, segnato dalle idiosincrasie, dall’ossessione per il controllo, dal perfezionismo portato fino alla paranoia. Ma la sua modernità Jobs l’ha interpretata soprattutto ancorando l’interesse della gente a degli oggetti fisici, seducenti, nell’era delle tecnologie digitali e del disorientamento prodotto della realtà virtuale. E poi l’ha declinata con la sua capacità di fare innovazione senza essere ingegnere, puntando su novità che «per durare devono essere all’intersezione tra arte e tecnologia». Senza dimenticare le sue doti di rabdomante capace di intuire i desideri dei consumatori, di anticiparli, a volte anche di crearli perché «spesso la gente non sa cosa vuole finché non glielo mostri». Innovatore, designer, visionario, forse anche artista, ma soprattutto imprenditore con un talento straordinario per la “leadership”: capace di prendere un’idea (anche altrui) realizzata a metà – il riproduttore di musica di digitale, il tablet – e di trasformarla in un successo planetario, dopo averci infilato dentro la linfa di una tecnologia più raffinata e del suo senso estetico. Ma anche l’abilità e il magnetismo necessari per costruire team affiatati nonostante il suo stile manageriale ruvido, a volte fino alla brutalità. Brusco e seducente, come le parole con le quali nel 1983 convinse John Sculley, allora “numero due” della Pepsi, a seguirlo accettando di fare l’amministratore delegato di Apple: «Vuoi passare il resto della vita a vendere acqua zuccherata o vuoi venire a cambiare il mondo?» Sculley andò a cambiare il mondo e, già che ci stava, dopo un paio d’anni decise di cambiare anche l’azienda, cacciando il suo stesso fondatore. Steve sprofondò nella povere. Un altro shock per un uomo segnato fin dalla nascita da un destino difficile: abbandonato dai genitori naturali – due studenti universitari di cui ha sempre conosciuto l’identità, poi diventati intellettuali di rango – e adottato da una coppia proletaria di origine armena. Jobs iniziò una nuova ricerca di sé stesso, stavolta senza fughe in India. Quando nel 2005, togliendosi per una volta la corazza, raccontò agli studenti universitari di Stanford la sua avventura umana in un discorso che rimane il suo vero testamento spirituale, Jobs spiegò che anche quella vicenda dolorosa si trasformò in un’occasione di crescita e di riscatto: creò una nuova impresa informatica, la NeXT, e si reinventò come imprenditore dell’animazione digitale coi film della Pixar. Fino al ritorno da trionfatore alla Apple. Un riscatto spiegato dal principe della modernità anche con un richiamo dal sapore antico a “sorella morte”: «Ricordare che presto non ci sarò più è sempre stato, per me, lo strumento più efficace per fare con lucidità le grandi scelte della vita. Segui il cuore, evitando la trappola delle paure di perdere qualcosa. Il nostro tempo è limitato, non possiamo sprecarlo vivendo le vite di qualcun altro». [email protected] ESSERE (E AVERE) 2.0 I SEGRETI DELL’INGEGNERE DEI SOGNI di Massimo Sideri L’uomo che voleva essere Steve Jobs alla fine lo è stato al passo con i tempi moderni: icona, artista, innovatore e padre spirituale di una folla di consumatori molto hungry e pochissimo foolish. Nei grandi personaggi i fallimenti sono spesso la scorciatoia per la riuscita, un cambio di destino unilaterale. Così Jobs ha saputo trasformare le sue nevrosi in un maniacalismo di successo, la sua esperienza hippy con l’LSD nel “pensa differente” (leggi soprattutto da Ibm e Microsoft) e un corso di calligrafia che sanciva la presa di coscienza del suo flop universitario in una nuova cultura fusion di arte e tecnologia buona, elegante e costosa, proprio come un sushi. È difficile credere che il percorso di una persona così influente sia stato casuale, legato a quei fattori incidentali che governano le vite di tutti noi. Jobs ha unito dei puntini, come ha raccontato nel suo manifesto sull’innovazione letto alla Stanford University nel 2005. Connecting the dots. Che sia fascino magnetico o sapiente oratoria ha poca importanza: se fosse nato condottiero probabilmente avrebbe avuto eserciti pronti ad immolarsi per lui parlando così. Anche disintermediati da YouTube, ascoltando il discorso di Stanford ci si sente infinitamente grandi o infinitamente piccoli e soli.