Addio ad Anna Maria Ferrero dimenticata, dolce e tenera attrice dell’Italia del Boom economico

Scoprii Anna Maria Ferrero per strada, in via Aurora a Roma, mentre camminava al fianco di una signora. Cercavo la ragazzina per il film e vidi questo scricciolo che aveva una tale intensità negli occhi. Fece un provino meraviglioso, era nata attrice.

(Claudio Gora, regista)

Era il 1949, quando appena quindicenne, ma già bellissima, la giovane Anna Maria Ferrero, venne notata dal regista Claudio Gora e scritturata per una parte nel film Il cielo rosso. Fu l’inizio di una sfolgorante, ma breve carriera artistica, che si districò nell’arco di un quindicennio o poco più, per scelta personale infatti, dopo aver sposato l’attore francese Jean Sorel, Anna Maria Ferrero decise di abbandonare il mondo dello spettacolo. Soltanto brevi altre apparizioni pubbliche, dopo il mediometraggio Cocaina di domenica parentesi del film ad episodi Controsesso, simpatico film interpretato al fianco di , la Ferrero decide per il ritiro dalle scene, sulla falsariga di ciò che aveva fatto qualche anno prima, un’altra diva dell’epoca, ovvero Marisa Allasio. Utilizzata in parti più “impegnate” della Allasio, Anna Maria Ferrero si contraddistinse per una bellezza elegante, fuori dal comune e per una classe di interprete raffinata e fuori dagli schemi.

I l f a s c i n o e l e g a n t e d i Anna Maria Ferrero, “stella” del cinema italiano del boom economico. Bella come poche, elegante come poche, affascinò tutti i più grandi cineasti dell’epoca. Fidanzata per molto tempo con , sposò nel 1962 l’attore francese Jean Sorel e nel 1965 si ritirò dalle scene.

Fu “musa” ispiratrice per i più grandi cineasti dell’epoca, da Monicelli a Lizzani, e fu anche abbastanza utilizzata sulle copertine delle maggiori riviste mondane dell’epoca. Si chiamava Anna Maria Guerra, ma utilizzò il cognome d’arte “Ferrero”, in omaggio al suo padrino, il musicista statunitense Willy Ferrero, diventando Anna Maria Ferrero, anche per il fatto che egli stesso sarà l’unico a incoraggiarla ad intraprendere la carriera d’attrice, al contrario dei suoi genitori, specie suo padre, che si dimostreranno in un primo momento contrari alla scelta della figlia. Nel 1952 è impegnata nella lavorazione del suo primo film da protagonista, Le due verità di Antonio Leonviola. Nonostante la giovane età, Anna Maria offre un’ottima interpretazione, e finalmente la critica incomincia ad accorgersi di lei, così come registi e produttori. L’anno successivo si rivelerà il più prolifico della sua carriera, interpreta addirittura otto film, tra cui spicca la sua commovente e realistica interpretazione nel film Le infedeli di Mario Monicelli; o ancora Siamo tutti inquilini, al fianco di attori del calibro di Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo. Nel settembre del 1953 partecipa alla 14ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nella rassegna viene proiettato il film Napoletani a Milano dove Anna Maria recita accanto ad Eduardo de Filippo e, grazie alla sua sempre ottima interpretazione, l’attrice sarà ammirata come una delle più interessanti giovani promesse del cinema italiano dell’epoca. U n ’ i m m a g i n e a c o l o r i d i A n n a M a r i a F e r r e r o , d a t a 1958, all’apice del suo successo.

Anche il 1954 si rivelerà un grande anno per Anna Maria, darà sfoggio della sua bravura nel film Cronache di poveri amanti di , ancora una volta nella parte di una servetta, e soprattutto in Totò e Carolina, dove con la sua passionale recitazione, riesce a stare sullo stesso piano recitativo di Totò stesso. Tuttavia i ruoli che le vengono proposti sono tutti un po’ simili, ricalcano tutti il personaggio della ragazza debole ed ingenua, insicura nelle sue scelte, lasciata a se stessa.

A n n a M a r i a F e r r e r o i n c o p p i a c o n T o t ò, nel discusso “Totò e Carolina”(1953).

Le cronache mondane dell’epoca si interessarono di Anna Maria Ferrero anche per una lunga e spesso burrascosa relazione con Vittorio Gassman, durata dal 1954 al 1960, e interrotta, per il rifiuto di Gassman a sposarsi. Inoltre lo stesso Vittorio, spesso la rimproverava del fatto di doversi dedicare più assiduamente alla carriera cinematografica che a quella teatrale. Proprio nel 1960, l’anno della loro separazione ufficiale, la carriera di Anna Maria Ferrero ottiene un’improvvisa impennata. Accantonato per il momento il teatro, e senza le imposizioni di Gassman, l’attrice accetta di partecipare alle numerose pellicole che le vengono proposte dai produttori. Fra quelli interpretati in questo periodo, va ricordato, quella dell’intraprendente camerierina innamorata di Walter Chiari, imbranato professore in Le sorprese dell’amore(1959); e soprattutto quello della tenace ebrea Giulia ne L’oro di Roma(1961), il capolavoro di Carlo Lizzani, ambientato nella Roma occupata dalle truppe nazi-fasciste nell’ottobre del 1943. A detta della stessa attrice, sarà la sua migliore interpretazione di sempre.

L a l o c a n d i n a o r i g i n a l e d el film “L’oro di Roma”(1961), di Carlo Lizzani, da molti ritenuta l’interpretazione della vita di Anna Maria Ferrero, in un ruolo drammatico di grande intensità emotiva.

Il 1960 segnerà per Anna Maria un incontro che cambierà non poco la sua vita. In aprile ad una festa a casa dell’attore Pierre Brice incontra l’attore francese Jean Sorel, all’epoca pressoché sconosciuto. I due si fidanzeranno e di lì a poco si sposeranno. L’anno successivo Anna Maria protagonista del film L’oro di Roma suggerirà al regista che proprio al suo nuovo compagno venga affidato un ruolo nel film. Anna Maria preferisce recitare insieme all’attore francese, evitando così quelle distanze fatali che avevano contribuito a far fallire la sua precedente relazione con Vittorio Gassman. Non sarà la prima volta che l’attrice aiuterà la carriera del marito con le sue conoscenze.

I due si sposeranno nel 1962, continuando, almeno per un paio di anni, la loro carriera artistica parallelamente, non disdegnano qualche apparizione insieme, come in Un marito in condominio. Nel 1964, dopo Controsesso, recitato al fianco di Nino Manfredi, Anna Maria decide improvvisamente di lasciare tutto. L’attrice romana non spiegherà mai il vero motivo di tale rinuncia, forse perché in 15 anni di carriera cinematografica e 10 di quella teatrale, le occasioni per dimostrare appieno tutto il suo talento sono state molto poche, o forse perché spinta dal desiderio di dedicarsi alla famiglia. A n n a M a r i a F e r r e r o , i n s ieme a Nino Manfredi e Carlo Ponti sul set del film “Cocaina di domenica” episodio del lungometraggio “Controsesso”(1964).

La sua vita proseguirà lontano dai set cinematografici, da tempo trasferitasi a vivere nella periferia di Parigi, tornando raramente in Italia. Non riuscirà a diventare madre, e questo fatto si ripercuoterà negativamente sul suo matrimonio con l’attore francese. Nel decennio successivo le notizie sulla sua vita saranno pochissime, l’attrice concederà solo alcune interviste ai vari quotidiani dell’epoca, mentre le sue apparizioni pubbliche saranno praticamente nulle. Tuttavia Anna Maria dichiarerà di essersi pentita non poco di aver abbandonato la carriera d’attrice, e già dopo pochi anni dal suo ritiro avrebbe volentieri accettato una parte in un film. Un suo ritorno sui set cinematografici era previsto per il 1985, in un piccolo ruolo nel film Maccheroni di , ma alla fine l’attrice romana ci ripensò e quello fu il suo ultimo contatto con il mondo del cinema. L’ultima apparizione in pubblico di Anna Maria Ferrero avviene nell’aprile del 2008, quando fa parte della giuria del Busto Arsizio Film Festival, accanto al marito Jean Sorel. In quell’occasione è stata proiettata la versione restaurata del film L’oro di Roma. A n n a M a r i a F e r r e r o e il marito Jean Sorel, in una foto dei primi anni ’60.

Di lei comunque, rimangono soprattutto le immagini degli oltre 40 film interpretati, rimane l’immagine di una donna forte, bella, bellissima; rimane l’immagine di una grande e giovane attrice. Anna Maria Ferrero fu la diversa bellezza che piace, non tutta curve tipo Sophia Loren, Marisa Allasio, piuttosto come una “nostrana” Audrey Hepburn in miniatura: elegante, raffinata, minuta, ma bella, dotata di un sorriso ipnotizzante. Nonostante spesso in questo Paese, così superficiale, si rischi di cadere nel dimenticatoio facilmente, Anna Maria Ferrero conserva comunque il suo spazio indelebile nella storia del cinema italiano. Film che sono rimasti nei cuori della gente, forse perché rimangono legate all’epoca più bella della storia italiana: quella del boom economico, quella di Cinecittà soprannominata la “Hollywood sul Tevere”. Tempi d’oro, malinconici, inarrivabili, di cui la Ferrero era una delle stelle indiscusse.

Il Cinema e le implicazioni socio- economiche negli anni del Boom

Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia è un paese profondamente ferito dai bombardamenti anglo-americani e dalle distruzioni lasciate dai nazisti, stanco, sfiduciato, senza prospettive precise, incerto addirittura sulla sua stessa unità. L’economia è prostrata; la società è sostanzialmente la stessa di inizio secolo: agricola, arretrata e provinciale; la presenza di un fortissimo partito comunista rende incerta la posizione dell’Italia sullo scacchiere internazionale. Siamo nel 1946. Quarant’anni più tardi, con due “miracoli economici” alle spalle, lo stesso paese è uno dei sette più industrializzati del mondo, saldamente integrato nel sistema occidentale di mercato, il tenore di vita dei suoi cittadini si può a buon diritto definire tra i più elevati del mondo. Il volto dell’Italia è dunque decisamente cambiato da allora, e per certi aspetti è addirittura irriconoscibile, trasformato da un processo di accumulazione, di urbanizzazione e di secolarizzazione così rapido e profondo da avere pochi altri riscontri nella storia europea del dopoguerra. In questo clima culturale di ammodernamento, fondamentale risulta essere il ruolo svolto dal Cinema, che mai come in Italia, ha rappresentato e rappresenta lo specchio della società.

Il Cinema infatti, ha accompagnato i profondi mutamenti socio-economici del nostro Paese con tempismo e precisione sociologica di straordinaria efficacia.

Primi scampoli di benessere economico si registrano già a partire dai primi anni ’50 in due capisaldi della commedia all’italiana: “La famiglia Passaguai” di e con Aldo Fabrizi; e “Pane, amore e fantasia” con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida, due film leggendari che ironizzano splendidamente sui comportamenti di una piccola borghesia che si confronta a fatica con i primi segni del benessere, ma che guarda con rinnovata fiducia verso il futuro. E poi venne la fine degli anni ’50 e pellicole leggendarie come “Poveri ma belli”, con e Renato Salvatori; “I soliti ignoti” con Vittorio Gassman, e ancora Renato Salvatori; e “La dolce vita”, che contribuirono a lanciare nel mondo il mito della “dolce vita” italiana, sinonimo di spensieratezza e di benessere economico. In particolare quel 1960 de “La dolce vita” di Fellini e Mastroianni e de “La ciociara” di De Sica e della Loren, è il nostro anno mirabilis: ciliegina sulla torta le Olimpiadi di Roma ’60, il punto più alto dell’Italia del secolo scorso.

E poi, in pieno clima di benessere economico, venne la commedia all’italiana, vera e propria rappresentazione dei nostri vizi e delle nostre virtù, supportata da attori di eccezionale livello artistico: , Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Walter Chiari…

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Venti anni dopo sopraggiunse il secondo boom economico, quello degli anni ’80, un decennio che ha portato con se una inimitabile ventata di ottimismo, modernità e spensieratezza. Un decennio che arriva dopo i cupi anni ’70, dopo le stragi delle Brigate Rosse, dopo un’epoca di tumulti nella società e nella politica italiana. Solo pochi anni prima erano accadute alcune gravi tragedie che avevano scosso l’opinione pubblica: la strage di Piazza Fontana a Milano, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978, il suicidio “sospetto” di un grande e popolare artista come Alighiero Noschese.

Eppure quando arrivano gli anni ’80, cambia tutto. Un rinnovato clima di spensieratezza riavvolge l’Italia, come se ci fossimo ricatapultati venti anni addietro, ovvero negli anni ’60. E il Cinema ancora una volta si ripropone di raccontare quegli anni, così come aveva fatto fino ad allora. Infatti, negli anni ’70, in sintonia con i tempi, la commedia all’italiana si era fatta cupa, triste, sconsolata (“Una storia triste è meglio per l’Inverno”, dice il piccolo Mamilio in The Winter’s Tale, di William Shakespeare); e quella più popolare era diventata irrimediabilmente volgare, trita e ritrita di seni al vento e di parolacce sconce, in linea con l’involgarimento culturale della società italiana. La ripresa del decennio successivo, nasceva da una buona situazione dell’economia mondiale, favorita soprattutto dal ribasso dei prezzi del petrolio, e da una nuova disponibilità interna degli imprenditori ad investire. L’”urbanizzazione” e la “nuclearizzazione” nonché una maggiore ricchezza delle famiglie italiane comportò la nascita di un “terziario” come non era mai avvenuto prima, il quale da una parte offriva servizi ad una famiglia non più in grado di essere autosufficiente e dall’altra offriva servizi alla persona in ragione delle nuove esigenze e bisogni.

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E nel cinema riprende dunque, a marciare la “nuova” commedia all’italiana, finalmente epurata da quegli elementi tristi che l’avevano caratterizzata nel decennio precedente. Arrivano anche le cosiddette “nuove leve”: Paolo Villaggio, Enrico Montesano, Massimo Troisi, Carlo Verdone, Lino Banfi, Jerry Calà, Adriano Celentano, Diego Abatantuono, Christian De Sica…tutti attori brillanti, in sintonia con il determinato periodo storico. Vale la pena qui, citare alcuni titoli, destinati a rimanere nella storia degli anni ’80: “Vieni avanti cretino”(1982), con Lino Banfi; “”Ricomincio da tre”(1982), con Massimo Troisi; “Sapore di mare”(1983), con Jerry Calà e Christian De Sica; “Bianco, rosso e Verdone”(1982), con Carlo Verdone; “Aragosta a colazione”(1980), con Enrico Montesano.

In conclusione, un saggio come questo, ha l’obiettivo di far capire come il Cinema sia parte integrante del processo socio-economico del nostro Paese, e come quest’ultimo addirittura sia influenzato dal Cinema stesso, subendone mutamenti al passo con i tempi. Per il rapporto tra Cinema, società e storia, vale ancora quella famosa citazione, che semplifica in maniera esaustiva la valenza che il Cinema ha nelle nostre vite: “Il Cinema è la maniera migliore per rivivere una fetta importante della storia del nostro paese, meglio di qualsiasi trattato sociologico”. Addio a Paolo Villaggio: il re del paradosso all’italiana

Paolo Villaggio era uno di quei personaggi familiari, eterni, che conoscono anche le pietre.

Paolo Villaggio era l’italiano del ‘900, era l’ultima grande Maschera del nostro cinema, era il re del paradosso. Paolo Villaggio ha rappresentato le mille anime dell’Italia post-boom economico, quella che si affacciava agli anni ’80, con convinzione, con coraggio, con determinazione. Fantozzi, Fracchia, il professor Kranz, erano tutte facce della stessa medaglia, tutte sfaccettature di un attore intelligente, che sapeva i gusti del pubblico e ne coglieva alla perfezione i mille tic, così come aveva fatto qualche anno prima il Sordi nazionale. Villaggio lo fa però, esagerando i caratteri grotteschi dell’italiano medio, raccontando l’Italia, in maniera ancora attualissima: è con queste caratteristiche che si afferma e arriva immediatamente nel cuore della gente, la figura del ragionier Ugo Fantozzi, innegabilmente il capolavoro di Paolo Villaggio.

Quella di Fantozzi è una maschera che rimarrà indelebilmente appiccicata addosso al Villaggio attore. Così come il principe De Curtis non poteva fare a meno di Totò, cosi Villaggio dal 1975 in poi, non potrà fare a meno di Fantozzi. E’ la sua fortuna, il suo trionfo. Si registrano in 25 anni, dieci film della serie dedicata a Fantozzi, due invece sono quelli incentrati sulla figura del timido Giandomenico Fracchia. Ad un certo punto Villaggio, si divide tra Fantozzi e Fracchia, l’artista (e chi lo mette sotto contratto) comincia a sfruttare sistematicamente la sua comicità in una serie ininterrotta di “pellicole cloni”, dove l’attore ha modo di ribadire mimica e gag dei suoi personaggi. Così come Totò era sempre Totò in ogni personaggio rappresentato, così Villaggio, in tutte le parti indossate, oscilla costantemente, tra Fracchia e Fantozzi: è l’apoteosi della sua Maschera. E da questa serie di film, possiamo dire anche “ripetitivi”, che fuoriesce la sagacia e l’intelligenza di un attore, che a differenza di altri non diventa schiavo della sua maschera, ma la utilizza, ad un certo punto, per diventare attore a tutto tondo. P a o l o V i l l a g g i o i n t e rpreta Fantozzi

E lo fa in grande, con il Maestro dei Maestri, ovvero con Federico Fellini, che disegna magistralmente su di lui, un film folle, uno strepitoso elogio alla follia, che è anche una satira della volgarità dilagante di fine secolo. La voce della luna (1990) dà l’occasione a Villaggio di ricevere il primo David di Donatello, come migliore attore, e gli apre le porte del cinema d’autore. La partecipazione al film di Fellini segna per il comico genovese l’inizio di una parallela attività nel cinema d’autore, lavorando con altri importanti registi.

Sublime risulta in tal senso, Io speriamo che me la cavo (1992), pellicola diretta dalla cineasta romana Lina Wertmüller. Il film è un affresco sul disagio economico del Sud ed è tratto dall’omonimo bestseller di Marcello D’Orta che raccoglie temi scolastici di una terza elementare di Arzano (Napoli). La figura del maestro, assente nel libro, diviene, sullo schermo, il filtro attraverso il quale i piccoli esprimono la loro visione del mondo, e la realtà di degrado in cui vivono. Il Maestro è ovviamente Paolo Villaggio, che dona al professore tratti di incredibile e straziante comicità amara, sguardi, gestualità e tonalità di voce estremamente diversi dai film a cui eravamo abituati. E’ la rivincita dell’Attore sulla Maschera. L o c a n d i n a “ I o s p e r i a m o c he me la cavo”

E questa carriera parallela di attore a tutto tondo, continua con Il segreto del bosco vecchio (1993), di Ermanno Olmi, (tratto dal libro di Dino Buzzati), con cui vince il Nastro d’argento, come migliore attore e Cari fottutissimi amici (1994), di Mario Monicelli, presentato al Festival di Berlino nel 1994 e vincitore di un Orso d’argento, nella sezione menzione speciale.

In questi anni anche la critica specializzata si accorge di lui. E’ del 1992 infatti, il premio più prestigioso della sua carriera e avviene per merito del regista Gillo Pontecorvo, allora direttore della Mostra del cinema di Venezia che decide, nel 1992, di premiare l’attore con il prestigioso Leone d’oro alla carriera. Anni dopo, ai microfoni del Corriere della Sera, l’artista dichiarerà: «In seguito lo vinsero anche Alberto Sordi e Vittorio Gassman. Ma io fui una rottura assoluta. Era la prima volta che si premiava un comico». Infine, degli oltre 70 film interpretati da Paolo Villaggio, va ricordata la serie ispirata alle comiche di Stan Laurel e Oliver Hardy, interpretata insieme a Renato Pozzetto: “Le comiche, Le comiche 2, Le nuove comiche(1992- 94). I tre film, ottennero un grande successo di pubblico, ma piacquero molto anche alla critica, che lodò, di entrambi gli attori, la primordiale carica comica, avulsa da qualsiasi logica, quasi fumettistica, un po’ slapstick e un po’ paradosso. R e n a t o P o z z e t t o e P a o lo Villaggio in “Le Comiche”

E di Villaggio rimane l’amor di popolo, il grande affetto di una nazione intera che si riconosce nei suoi personaggi, nelle sue maschere e nella sua gestualità. Indubbiamente con la morte di Paolo Villaggio se ne va un pezzo di storia del nostro Paese, uno degli artisti italiani più influenti del ‘900, al livello di un Totò, di un Mastroianni o di un De Sica, per la capacità di descrivere l’Italia e gli italiani meglio di qualunque trattato sociologico. Per Paolo Villaggio andrà esattamente come per Totò, i suoi film saranno rivalutati e il suo nome rimarrà per sempre, sfidando lo scorrere impetuoso del tempo e degli anni.

Editoriale Settembre 2015 – Raffaello Castellano

Raffaello Castellano (325)

Settembre, si sa, è il mese delle ripartenze: ricomincia la scuola, riprendono i vari campionati sportivi, si torna piano-piano alla normalità dopo il periodo, più o meno lungo, di ferie di cui si è goduto. Molti di noi fanno buoni propositi per i tre mesi che ci separano dal Natale e dal Capodanno, c’è chi si iscrive in palestra, chi ad un corso di lingue, chi si fa l’abbonamento per lo stadio o per il teatro. Insomma, settembre è il mese delle ripartenze.

Ma, se spostiamo la nostra analisi dai singoli individui al Paese, vediamo che la “ripartenza” non è mai una cosa facile. Esattamente un anno fa il nostro giornale pubblicò un numero che si chiamava appunto #Ripartitalia, dove i nostri collaboratori proposero ciascuno un’idea per far ripartire, per far tornare a crescere il nostro Paese. Il successo di quel numero ci ha spinto a riproporre altre idee e suggerimenti per il sistema Italia, che, nonostante il Job Act e le altre semi-riforme del Governo Renzi, si trova in un periodo di stasi che è precedente alla crisi stessa. È di pochi giorni fa infatti la notizia che Moody’s ha alzato le stime sul Pil dell’Italia, ora visto in crescita dello 0,7% nel 2015 (+0,5% secondo le previsioni precedenti) e dell’1,2% nel 2016 (+1% in precedenza); tassi di crescita come si vede assai modesti, per non dire irrisori.

Ma poniamoci una domanda: qual è il vero freno alla crescita del cosiddetto PIL nel nostro Paese? Molti di voi lettori staranno pensando alla pressione fiscale, altri alla disoccupazione, altri al divario fra ricchi e poveri, altri ancora all’euro forte che frena le esportazioni del Made in Italy.

Beh, io voglio proporvi un’altra “possibile” spiegazione: e se il vero freno alla crescita di un paese industrializzato come il nostro fosse il “Benessere”? Se a frenare la crescita fosse il reddito di partenza alto del nostro Paese?

A sostenere questa, all’apparenza controversa e fantasiosa, tesi è un noto sociologo italiano esperto di statistiche ed economia, Luca Ricolfi, che nel suo libro “L’enigma della crescita” (Mondadori, 2014) smonta, dati alla mano, molte nostre erronee convinzioni sui fattori che stimolano o frenano la crescita.

L u c a R i c o l f i è professore ordinario di Psicometria presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino, responsabile scientifico dell'”Osservatorio del Nord Ovest”, è inoltre editorialista di La Stampa e tiene una rubrica su Panorama.

“Mi sono reso conto che a dispetto di tutte le medicine con cui ci illudiamo di poter stimolare la crescita, quella del reddito di partenza (y al tempo 0) è di gran lunga la forza dominante che governa le traiettorie delle nostre economie. E tale forza gioca nettamente e pesantemente contro la crescita, e in questo senso è una controforza: un reddito di partenza elevato è un formidabile freno alla crescita, un freno che si può neutralizzare solo con enormi sforzi di trasformazione strutturale del sistema economico-sociale, ossia cercando di modificare le altre variabili che influenzano la crescita”.

La chiave del famoso boom economico italiano degli anni ’50 e ‘60, passato alla storia come il Miracolo Economico Italiano, ebbe la sua molla principale proprio nella voglia di ricostruire, di ricominciare, di tornare a produrre di un Paese, l’Italia, che usciva dalla seconda guerra mondiale devastato e dilaniato nel corpo, nella geografia e anche nell’animo. Furono proprio l’estrema indigenza, la “fame” del popolo italiano a produrre un recupero ed una ripresa economica che, appunto, fu miracolosa.

Quindi, la nostra storia recente ci insegna che non tutto il male viene per nuocere e che lì dove alcuni vedono solo macerie, altri vedono opportunità.

Opportunità, è questo il leitmotiv di questo nuovo numero di #ripartItalia: i nostri collaboratori si sono ingegnati per proporci ciascuno una propria idea di ripartenza. E, a proposito di collaboratori, questo mese abbiamo due new entry. La prima è una donna, si chiama Anna Rita Leone (classe 1984), in possesso di una Laurea Magistrale in Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo, che in questo suo primo articolo ci propone l’idea della “lentezza” quale controcorrente strategia per “ripartire” in un mondo che ha fatto della fretta il suo modus vivendi. La seconda new entry è Domenico Palattella (classe 1988), laureando in giurisprudenza, con una passione sfrenata per il cinema, soprattutto italiano, tanto da aver scritto una biografia sul grande attore Renato Rascel, “Arrivederci Rascel, vita e miracoli di un vero artista” (Photocity Edition, 2014), oltre ad aver fondato un’associazione ed un blog, “La Dolce Vita”, che propone da tre anni una interessantissima rassegna di cinema, “Il Grande Cinema Italiano”, nel centro storico della sua Massafra. L a C o p e r t i n a d ’Artista di settembre di Smart Marketing realizzata dall’artista Ezia Mitolo.

Domenico Palattella coadiuverà il sottoscritto nella rubrica di cinema, affrontando soprattutto i film della cinematografia italiana, estrapolando, di volta in volta, gli insegnamenti ed i suggerimenti che ogni film ha da proporre. Il suo primo articolo ci parla proprio del Miracolo Italiano e di come il cinema italiano lo ha saputo raccontare con grande perspicacia e profondità.

Infine, permettetemi di ringraziare l’artista di questa Copertina d’Artista, Ezia Mitolo amica di vecchia data, che ha proposto la suggestiva opera “Voglio fare un sacco di cose”, che rappresenta un grande cuore che si schiude ad un nuovo inizio, quello che personalmente auguro a tutti i nostri lettori.

Raffaello Castellano

Il Cinema del Boom Economico nell'Italia degli anni '50 e '60 L’Italia che usciva dagli scempi e dalle rovine della seconda guerra mondiale aveva voglia soprattutto di distrarsi, e se respingeva i tentativi di riproporre l’abulico cinema dei “telefoni bianchi”, non per questo voleva sentirsi ricordare lo sfacelo che aveva travolto il paese. E dopo la sfolgorante, ma breve stagione neorealista, al cinema italiano si chiese dunque intrattenimento, ma un intrattenimento che raccontasse storie vere, plausibili, autentiche, storie che avessero a che fare più da vicino con gli italiani stessi, con la loro voglia di riscatto e con la voglia di rinascita di un’intera nazione.

Nel decennio compreso tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60 l’Italia infatti, visse una stagione di crescita economica e di cambiamenti sociali veloci e intensi, e divenne una delle maggiori potenze industriali. Lo sviluppo economico superò addirittura quello demografico (pure evidente) e ciò ebbe come conseguenza un miglioramento diffuso del tenore di vita (i primi apparecchi televisivi, la storica 500). Molti dei film girati in quegli anni testimoniano sia questi cambiamenti, sia le tante contraddizioni ad essi collegate. E se è vero che il cinema è stato ed è lo specchio della società, allora non è azzardato dire che la storia del cinema italiano è andata di pari passo con il mondo reale, e che il cinema dunque è la maniera migliore per rivivere una fetta importante della storia del nostro paese, meglio di qualsiasi trattato sociologico.

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E poi venne la fine degli anni ’50 e pellicole leggendarie come “Poveri ma belli”, con Maurizio Arena e Renato Salvatori; “I soliti ignoti” con Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni e ancora Renato Salvatori; e “La dolce vita”, che contribuirono a lanciare nel mondo il mito della “dolce vita” italiana, sinonimo di spensieratezza e di benessere economico. In particolare quel 1960 de “La dolce vita” di Fellini e Mastroianni e de “La ciociara” di De Sica e della Loren, è il nostro anno mirabilis: ciliegina sulla torta le Olimpiadi di Roma ’60, il punto più alto dell’Italia del secolo scorso.

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■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema Negli anni ’60 poi, in clima di benessere economico, la commedia all’italiana è quasi dispoticamente dominati dai volti dei quattro grandi protagonisti brillanti del periodo: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Nino Manfredi, più l’apporto di Marcello Mastroianni spesso impegnato in produzioni internazionali; e quello di Walter Chiari, a metà strada tra cinema più spiccatamente popolare e commedia all’italiana, con la perla, però de “Il giovedi”, delizioso film che per primo pone l’attenzione sulla difficile situazione dei padri separati in epoca pre-divorzio. Allo stesso modo epocali sono altre pellicole del periodo, tra le quali spiccano “Il sorpasso” con Vittorio Gassman; “I mostri” con Tognazzi e ancora Gassman; e “Una vita difficile” con Alberto Sordi, così per citarne alcuni, fra una miriade di ottimi film e non pochi capolavori.