Addio ad Anna Maria Ferrero dimenticata, dolce e tenera attrice dell’Italia del Boom economico

Scoprii Anna Maria Ferrero per strada, in via Aurora a Roma, mentre camminava al fianco di una signora. Cercavo la ragazzina per il film e vidi questo scricciolo che aveva una tale intensità negli occhi. Fece un provino meraviglioso, era nata attrice.

(Claudio Gora, regista)

Era il 1949, quando appena quindicenne, ma già bellissima, la giovane Anna Maria Ferrero, venne notata dal regista Claudio Gora e scritturata per una parte nel film Il cielo rosso. Fu l’inizio di una sfolgorante, ma breve carriera artistica, che si districò nell’arco di un quindicennio o poco più, per scelta personale infatti, dopo aver sposato l’attore francese Jean Sorel, Anna Maria Ferrero decise di abbandonare il mondo dello spettacolo. Soltanto brevi altre apparizioni pubbliche, dopo il mediometraggio Cocaina di domenica parentesi del film ad episodi Controsesso, simpatico film interpretato al fianco di , la Ferrero decide per il ritiro dalle scene, sulla falsariga di ciò che aveva fatto qualche anno prima, un’altra diva dell’epoca, ovvero Marisa Allasio. Utilizzata in parti più “impegnate” della Allasio, Anna Maria Ferrero si contraddistinse per una bellezza elegante, fuori dal comune e per una classe di interprete raffinata e fuori dagli schemi.

I l f a s c i n o e l e g a n t e d i Anna Maria Ferrero, “stella” del cinema italiano del boom economico. Bella come poche, elegante come poche, affascinò tutti i più grandi cineasti dell’epoca. Fidanzata per molto tempo con , sposò nel 1962 l’attore francese Jean Sorel e nel 1965 si ritirò dalle scene.

Fu “musa” ispiratrice per i più grandi cineasti dell’epoca, da Monicelli a Lizzani, e fu anche abbastanza utilizzata sulle copertine delle maggiori riviste mondane dell’epoca. Si chiamava Anna Maria Guerra, ma utilizzò il cognome d’arte “Ferrero”, in omaggio al suo padrino, il musicista statunitense Willy Ferrero, diventando Anna Maria Ferrero, anche per il fatto che egli stesso sarà l’unico a incoraggiarla ad intraprendere la carriera d’attrice, al contrario dei suoi genitori, specie suo padre, che si dimostreranno in un primo momento contrari alla scelta della figlia. Nel 1952 è impegnata nella lavorazione del suo primo film da protagonista, Le due verità di Antonio Leonviola. Nonostante la giovane età, Anna Maria offre un’ottima interpretazione, e finalmente la critica incomincia ad accorgersi di lei, così come registi e produttori. L’anno successivo si rivelerà il più prolifico della sua carriera, interpreta addirittura otto film, tra cui spicca la sua commovente e realistica interpretazione nel film Le infedeli di Mario Monicelli; o ancora Siamo tutti inquilini, al fianco di attori del calibro di Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo. Nel settembre del 1953 partecipa alla 14ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nella rassegna viene proiettato il film Napoletani a Milano dove Anna Maria recita accanto ad Eduardo de Filippo e, grazie alla sua sempre ottima interpretazione, l’attrice sarà ammirata come una delle più interessanti giovani promesse del cinema italiano dell’epoca. U n ’ i m m a g i n e a c o l o r i d i A n n a M a r i a F e r r e r o , d a t a 1958, all’apice del suo successo.

Anche il 1954 si rivelerà un grande anno per Anna Maria, darà sfoggio della sua bravura nel film Cronache di poveri amanti di , ancora una volta nella parte di una servetta, e soprattutto in Totò e Carolina, dove con la sua passionale recitazione, riesce a stare sullo stesso piano recitativo di Totò stesso. Tuttavia i ruoli che le vengono proposti sono tutti un po’ simili, ricalcano tutti il personaggio della ragazza debole ed ingenua, insicura nelle sue scelte, lasciata a se stessa.

A n n a M a r i a F e r r e r o i n c o p p i a c o n T o t ò, nel discusso “Totò e Carolina”(1953).

Le cronache mondane dell’epoca si interessarono di Anna Maria Ferrero anche per una lunga e spesso burrascosa relazione con Vittorio Gassman, durata dal 1954 al 1960, e interrotta, per il rifiuto di Gassman a sposarsi. Inoltre lo stesso Vittorio, spesso la rimproverava del fatto di doversi dedicare più assiduamente alla carriera cinematografica che a quella teatrale. Proprio nel 1960, l’anno della loro separazione ufficiale, la carriera di Anna Maria Ferrero ottiene un’improvvisa impennata. Accantonato per il momento il teatro, e senza le imposizioni di Gassman, l’attrice accetta di partecipare alle numerose pellicole che le vengono proposte dai produttori. Fra quelli interpretati in questo periodo, va ricordato, quella dell’intraprendente camerierina innamorata di Walter Chiari, imbranato professore in Le sorprese dell’amore(1959); e soprattutto quello della tenace ebrea Giulia ne L’oro di Roma(1961), il capolavoro di Carlo Lizzani, ambientato nella Roma occupata dalle truppe nazi-fasciste nell’ottobre del 1943. A detta della stessa attrice, sarà la sua migliore interpretazione di sempre.

L a l o c a n d i n a o r i g i n a l e d el film “L’oro di Roma”(1961), di Carlo Lizzani, da molti ritenuta l’interpretazione della vita di Anna Maria Ferrero, in un ruolo drammatico di grande intensità emotiva.

Il 1960 segnerà per Anna Maria un incontro che cambierà non poco la sua vita. In aprile ad una festa a casa dell’attore Pierre Brice incontra l’attore francese Jean Sorel, all’epoca pressoché sconosciuto. I due si fidanzeranno e di lì a poco si sposeranno. L’anno successivo Anna Maria protagonista del film L’oro di Roma suggerirà al regista che proprio al suo nuovo compagno venga affidato un ruolo nel film. Anna Maria preferisce recitare insieme all’attore francese, evitando così quelle distanze fatali che avevano contribuito a far fallire la sua precedente relazione con Vittorio Gassman. Non sarà la prima volta che l’attrice aiuterà la carriera del marito con le sue conoscenze.

I due si sposeranno nel 1962, continuando, almeno per un paio di anni, la loro carriera artistica parallelamente, non disdegnano qualche apparizione insieme, come in Un marito in condominio. Nel 1964, dopo Controsesso, recitato al fianco di Nino Manfredi, Anna Maria decide improvvisamente di lasciare tutto. L’attrice romana non spiegherà mai il vero motivo di tale rinuncia, forse perché in 15 anni di carriera cinematografica e 10 di quella teatrale, le occasioni per dimostrare appieno tutto il suo talento sono state molto poche, o forse perché spinta dal desiderio di dedicarsi alla famiglia. A n n a M a r i a F e r r e r o , i n s ieme a Nino Manfredi e Carlo Ponti sul set del film “Cocaina di domenica” episodio del lungometraggio “Controsesso”(1964).

La sua vita proseguirà lontano dai set cinematografici, da tempo trasferitasi a vivere nella periferia di Parigi, tornando raramente in Italia. Non riuscirà a diventare madre, e questo fatto si ripercuoterà negativamente sul suo matrimonio con l’attore francese. Nel decennio successivo le notizie sulla sua vita saranno pochissime, l’attrice concederà solo alcune interviste ai vari quotidiani dell’epoca, mentre le sue apparizioni pubbliche saranno praticamente nulle. Tuttavia Anna Maria dichiarerà di essersi pentita non poco di aver abbandonato la carriera d’attrice, e già dopo pochi anni dal suo ritiro avrebbe volentieri accettato una parte in un film. Un suo ritorno sui set cinematografici era previsto per il 1985, in un piccolo ruolo nel film Maccheroni di , ma alla fine l’attrice romana ci ripensò e quello fu il suo ultimo contatto con il mondo del cinema. L’ultima apparizione in pubblico di Anna Maria Ferrero avviene nell’aprile del 2008, quando fa parte della giuria del Busto Arsizio Film Festival, accanto al marito Jean Sorel. In quell’occasione è stata proiettata la versione restaurata del film L’oro di Roma. A n n a M a r i a F e r r e r o e il marito Jean Sorel, in una foto dei primi anni ’60.

Di lei comunque, rimangono soprattutto le immagini degli oltre 40 film interpretati, rimane l’immagine di una donna forte, bella, bellissima; rimane l’immagine di una grande e giovane attrice. Anna Maria Ferrero fu la diversa bellezza che piace, non tutta curve tipo Sophia Loren, Marisa Allasio, piuttosto come una “nostrana” Audrey Hepburn in miniatura: elegante, raffinata, minuta, ma bella, dotata di un sorriso ipnotizzante. Nonostante spesso in questo Paese, così superficiale, si rischi di cadere nel dimenticatoio facilmente, Anna Maria Ferrero conserva comunque il suo spazio indelebile nella storia del cinema italiano. Film che sono rimasti nei cuori della gente, forse perché rimangono legate all’epoca più bella della storia italiana: quella del boom economico, quella di Cinecittà soprannominata la “Hollywood sul Tevere”. Tempi d’oro, malinconici, inarrivabili, di cui la Ferrero era una delle stelle indiscusse.

La situazione attuale del cinema italiano: crisi, riforme, multisale e produzioni di qualità

Il cinema italiano, nella sua gloriosa storia, ha affrontato due momenti di profonda crisi, superate entrambe a fasi alterne. La prima coincise a fine anni ’80, con lo svuotamento delle sale cinematografiche, anche a causa della definitiva consacrazione del mezzo televisivo, con l’avvento delle televisioni private, che hanno in qualche modo monopolizzato lo spettacolo italiano. La seconda affonda le sue radici nello svuotamento culturale che il cinema umoristico italiano ha sofferto nel primo decennio degli anni 2000. Innanzitutto bisogna chiarire come il cinema italiano è stato quasi sempre orientato verso il brillante, l’umoristico a tratti venato da punte di malinconia o amarezza.

Il tutto nacque subito dopo la guerra e tale è rimasto fino ad oggi, saggiamente gli autori e i produttori dell’epoca si indirizzarono al solo campo nel quale le grosse produzioni internazionali non avrebbero potuto batterci, ossia a quello che aveva a che fare più da vicino con gli italiani stessi, con la nostra cronaca locale, con i nostri vizi e i nostri pregi, e in chiave prevalentemente umoristica. Così nacque la commedia all’italiana e così nacque la capacità dei nostri autori di parlare prettamente di noi stessi. Perché si scelse, e ancora oggi si sceglie la chiave umoristica? Perché il terreno dell’umorismo è quello dove l’identità nazionale è più salda, dove il rischio dell’invasione da parte di un prodotto straniero è più ridotto. D’altronde la situazione del nostro cinema è stata quasi sempre salvata dai film comici o comunque brillanti.

Ad inizio anni ’60, le sale cinemat ografich e si reggono con i film della commed ia all’italia na; tra la metà degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 la coppia composta da Franchi & Ingrassia tiene in vita il cinema italiano; così come la crisi degli anni ’80 è salvata dalla commedia sexy. Negli anni ’90 la comicità toscana di Leonardo Pieraccioni fa il tutto esaurito, così come i cinepanettoni di Boldi e De Sica. Oggi il successo di Checco Zalone, Ficarra & Picone, Alessandro Siani, confermano la propensione italica al cinema di intrattenimento. Insomma, sta di fatto che il genere comico apparve ben presto quello più richiesto dal pubblico italiano all’industria nazionale, né le cose sarebbero cambiate troppo in seguito.

Ritornando allo svuotamento delle sale cinematografiche, tutto nacque dalla diffusione del mezzo televisivo, ricordando come già dal 1955 al cinema si assistette ad un’inversione di tendenza, con una perdita di 29 milioni di biglietti venduti. Crollo verticale che non si è mai fermato, in oltre 60 anni di storia da allora ad oggi. Ciò coincideva con l’ingresso in campo del nuovo e formidabile avversario del cinema, ovvero la televisione, che però spesso si è servita e si serve del cinema, proiettando e riproiettando pellicole di tutti i tipi. Senza una vera e propria disciplina, tanto è vero che è del mese di ottobre, la nuova riforma sul cinema, voluta fortemente dai professionisti del settore. L’attuale riforma, diventata legge da pochissimi giorni, impone alle televisioni (Rai, Mediaset, La7, Sky in primis) di inserire nei loro palinsesti, in prima serata, il 30% della programmazione annuale, dedicata alle serie televisive italiane e alle pellicole nazionali, con particolare riferimento alle produzioni dell’ultimo ventennio. La situazione attuale delle produzioni italiane, in linea con la nostra storia, soffre i grossi prodotti internazionali, ma si rifà sfruttando la capacità prettamente italiana di parlare di noi stessi. Alla tecnologia, agli effetti speciali e ai film d’avventura americani, rispondiamo con l’antica arte della commedia, con la parodia e con l’umorismo. In questo, anche oggi, il cinema italiano è insuperabile e regge il confronto con i capitali enormi delle produzioni internazionali.

Lo svi lu pp o po i, de lle m ult isa le, ha pe rm esso di attrarre nei cinema, un po’ tutte le fasce d’età, offrendo una varietà di generi e di pellicole in contemporanea, che hanno senza dubbio risollevato le sorti delle sale cinematografiche. Facendo questo però, si è assistito ad una selezione, che ha portato alla chiusura delle sale di provincia, magari quelle storiche, e al monopolio delle “nuove” multisale, tecnologiche e super attrezzate. Arrivati a questo punto val la pena trattare, un argomento che ha ottenuto parecchia risonanza negli ultimi anni, ovvero la necessità di insegnare l’arte del cinema alle nuove generazioni. Bisogno tenuto per anni nel dimenticatoio e che ha portato ad una sorta di analfabetizzazione cinematografica del nostro paese, che non giova all’Italia, soprattutto in riferimento al nostro patrimonio cinematografico di inestimabile valore, secondo solo a quello americano e primo in Europa. Per questa ragione, negli ultimo quinquennio, il SNCCI (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani) si è battute in tutte le sedi opportune per ottenere l’insegnamento del cinema nelle scuole. La riforma è passata lo scorso anno, ma si attende ancora un nuovo disegno di legge che possa stabilire tempi e modi di insegnamento, ovvero come inserire l’arte cinematografica nei programmi ministeriali scolastici, riferite alle scuole medie superiori di tutte le tipologie.

Soffermandoci, in ultimo, sulla mera quantificazione dei nostri prodotti cinematografici, soltanto nell’ultimo anno tra cortometraggi, lungometraggi e documentari sono attualmente usciti oltre 540 lavori, la metà di quelli americani, ma il doppio dei prodotti inglesi, che ci confermano il secondo paese al mondo nel Cinema, in ossequio alla nostra grande storia. La situazione attuale del cinema italiano è in continua evoluzione, è come un calderone pronto ad esplodere, dopo anni o addirittura decenni di immobilismo, con la riconquistata consapevolezza che il Cinema, nell’ambito della cultura nazionale, deve necessariamente rivestire un ruolo di primissimo piano e che questo non deve essere assolutamente disperso.

I dieci film italiani di sempre sul cibo

L’Italia è il paese per eccellenza della buona tavola, del buon cibo. Questa nostra prerogativa, che ci contraddistingue in positivo dal resto del mondo è stata immortalata al cinema, a teatro e nella pubblicità, da divi e star del grande schermo. Il fatto poi, che, negli anni ’60, gli americani abbiano ribattezzato proprio “spaghetti western” i film italiani che, da Sergio Leone in poi, rileggevano con sguardo europeo il mito del Bel Paese, la dice lunga su come, nell’immaginario collettivo planetario, il cibo sia considerato uno tra i simboli più immediatamente riconoscibili dell’italianità. E, lungo la sua storia, proprio il cinema italiano ha fatto ricorso in innumerevoli occasioni al “made in Italy” culinario, per arricchire e tratteggiare in maniera rapida ed efficace personaggi e situazioni. Proviamo ora a selezionare dieci film italiani sul cibo, o comunque che hanno almeno una scena memorabile basata sul piacere italiano della buona cucina.

1. Miseria e nobiltà (1954), di Mario Mattoli

La prima immagine che torna alla mente quando si parla di cibo, è quella di Totò in piedi sul tavolo, impegnato in una danza quasi da baccanale in “Miseria e nobiltà” (1954), pronto a soddisfare una fame atavica arraffando spaghetti a più non posso, in bocca, nelle tasche del soprabito, ovunque, colto da un appetito insaziabile. La scena è uno strepitoso inno alla pasta con Totò e compagnia che ballano sul tavolo mangiando spaghetti e ficcandoseli in tasca, perchè nessuno li porti loro via: geniale! Una testimonianza della grande verve comica di questa scena, creata sul momento dall’immortale Totò, è data dall’attrice Valeria Moriconi, che nel film ha parecchie scene insieme al Principe De Curtis: “Mentre si stava girando, vidi con la coda dell’occhio il tecnico del suono che si tappava la bocca. Poi mi giro ancora meglio, vedo gente cianotica perchè non poteva ridere, alzo lo sguardo e vedo che Totò si era alzato, era salito sopra il tavolo e s’era inventato di mettersi gli spaghetti nelle tasche. Chissà la scena quanto sarebbe andata avanti, e invece il regista Mario Mattoli fu costretto a dare lo stop perchè mentre infilava questi spaghetti dentro le tasche, Totò aveva preso anche uno zampirone messo dentro la pasta per fare del fumo, e questo zampirone gli stava bruciando la tasca. Girammo un unico ciak, quello inserito nel film”.

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Mattatore di questa pazza pellicola, che si piazza fin da subito tra i più grandi successi comici degli anni ’50, è il mangiatore per eccellenza del cinema italiano, ovvero Aldo Fabrizi. Nello scatenato film, da lui diretto, prodotto e interpretato, è il capo-famiglia che prepara tutto l’occorrente a casa per una gita a Ostia il giorno di Ferragosto, non manca proprio nulla: frigge le cotolette, prepara gli spaghetti, e immancabile, ha cura di un bel cocomero freddo al punto giusto. La pellicola rimane uno strepitoso spaccato della piccola borghesia italiana degli anni ’50, che si confronta a fatica con i primi segni del benessere economico.

3. I soliti ignoti (1958), di Mario Monicelli

Nel capolavoro di Monicelli, la banda di rapinatori falliti si consola con la pasta e ceci trovata nella cucina che dovevano scassinare: non tutto è perduto, la pancia, almeno, è piena. Chi non ricorda infatti, la celebre scena del film, quando i ladri più iellati e simpatici del cinema italiano, scavando scavando, invece che arrivare al tesoro del Monte di Pietà, sbucano in una cucina qualunque dove, per il colpo mancato, si consolano con la pasta e ceci e gli involtini al sugo. Era il 1958 e, mentre quelli erano per tante famiglie i piatti di ogni giorno, la fame rimaneva la protagonista in un’Italia ancor alle prese con la sopravvivenza, ma che si preparava a ricevere i benefici dell’ormai imminente benessere economico. Una curiosità: il copione prevedeva pasta e fagioli, fu , uno dei ‘ladri’, a chiedere che fosse sostituita con la pasta e ceci, che, sul set, mangiò poi in piena naturalezza, insieme a Vittorio Gassman, a Tiberio Murgia e a Capannelle.

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La pellicola interpretata da Aldo Fabrizi e Renato Rascel si evidenzia soprattutto per la memorabile sequenza in cui Aldo Fabrizi, che interpreta un maresciallo dell’esercito, cerca inutilmente di resistere di fronte ad un piatto di pastasciutta, cedendo poi di schianto e mangiandosela tutta in un sol boccone. Davvero un inno alla pasta di eccezionale fattura comica. D’altronde Fabrizi aveva proprio un’autentica venerazione per la buona cucina, e si è sempre notato, ma soprattutto per la pasta, tanto da aver scritto addirittura un libro di poesie dedicate alla pastasciutta, e tutte addirittura in rima. Splendidi sonetti dove Roma e la pastasciutta la fanno da padroni. Ricette in versi dei piatti della tradizione romana, considerazioni sulle abitudini alimentari degli italiani, rimpianto per la vita semplice di un tempo, ironia sulle diete, ragionamenti sulla inattendibilità dell’informazione alimentare di giornali e televisione; questo e altro ancora sono gli argomenti di questi divertenti sonetti degni della più schietta tradizione della poesia romanesca.

5. La grande abbuffata (1974), di Marco Ferreri

Eccoci a quello che non solo è uno dei più grandi film della storia del cinema, ma anche uno di quelli interamente basati sul cibo. “La grande abbuffata” rimanda fin dal titolo ad una scorpacciata di cibo, unita al sesso e al senso della morte: una vera e propria abbuffata di vizi che fece gridare allo scandalo il mondo. E’ la storia di quattro amici annoiati che decidono di suicidarsi con un overdose di cibo e di sesso. Nel capolavoro di Ferreri, i quattro protagonisti sono Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret e Michél Piccoli. Quattro grandi attori, ma anche quattro notevoli mangiatori, Tognazzi fu sempre celebre per le sue ricette e la sua passione per la cucina, Mastroianni viene ricordato da tutti i suoi amici come un buon mangiatore di cibi semplici e genuini, il musicista Armando Trovajoli sostenne che “avrebbe venduto la primogenitura per un piatto di pasta e fagioli”. “L’esperienza cinematografica più fantastica e fuori dalle righe mai capitatami. Un film dove il cibo entrava nelle interpretazioni di noi attori, così come le nostre interpretazioni erano strettamente legate al cibo, se non addirittura determinate da esso”, disse Ugo Tognazzi a proposito del film. Sul set ci si abbuffava veramente, tra un piatto di pasta e altre prelibatezze cucinate da Fauchon, il re parigino della gastronomia.

Per approfondire:

■ Leggi la recensione completa de “La grande abbuffata”

6. C’eravamo tanto amati (1974), di Ettore Scola

Strepitoso affresco agrodolce della storia italiana dalla seconda guerra mondiale agli anni ’70, la pellicola possiede un’amarezza di fondo e una forza evocativa ancora oggi di grande effetto. La buona tavola non è elemento principale del film, però è presente nella sequenza memorabile del film, quella rimasta nella memoria collettiva. Nel film di Scola, lo spaghetto è consolatore, ma è anche il motore per ricostruire una vecchia amicizia: rimasta nella memoria collettiva è la scena in cui Gassman, Manfredi e Satta Flores brindano alla ritrovata amicizia di fronte a un bel piatto di spaghetti e a un buon bicchiere di vino dal “Re della mezza porzione”. C ’ e r a v a m o t a n to amati (1974), di Ettore Scola

7. Le vacanze intelligenti (1977), di

Nello strepitoso segmento di “Dove vai in vacanza?”, che per la verità è quasi un lungometraggio, data la sua lunghezza di quasi un’ora, il tema del cibo è presente, unito all’arte, in quasi tutto il film. Non si possono scordare le gesta di Alberto Sordi e della “moglie cinematografica” Anna Longhi, messi a dieta dai figli salutisti ed orientaleggianti, che ad un certo punto si sfogano con il peggio della cucina trucida ed ipercalorica, abbuffandosi fino all’inverosimile. Il loro ritorno a casa, dalle famigerate “vacanze intelligenti” li vede accolti dai figli progressisti, che per una volta si adeguano alle tradizioni e preparano per i genitori una vagonata di spaghetti al sugo.

L e v a c a n z e i n t e l l igenti (1977), di Alberto Sordi

8. Spaghetti a mezzanotte (1979), di Sergio Martino

Anche la commedia sexy degli anni ’70-‘80 ha un suo ottimo rappresentante riguardo il cibo, ed è il film di Sergio Martino “Spaghetti a mezzanotte”, interpretato da Lino Banfi e Barbara Bouchet, con tanto di abbuffata finale con fiamminghe piene di maccheroni, bucatini e pennette all’arrabbiata. Nel film anche una deliziosa satira sulle diete, imposte dalla “moglie” Bouchet al “marito” Banfi, ovviamente disattese da quest’ultimo.

S p a g h e t t i a m e z z a notte (1979), di Sergio Martino

9. Ricette d’amore (2001), di Sandra Nettelbeck

Di coproduzione italo-tedesca, il film narra della storia delle abitudini solitarie di una cuoca depressa (Martina Gedeck), che ritrova la gioia di vivere, dopo un grave lutto, grazie all’esuberante cuoco italiano Mario (Sergio Castellitto). Al di là di una trama semplice, lineare, romantica, a tinte drammatiche, il vero protagonista del film, come si evince anche dal titolo è il rapporto tra cibo e amore. Il cibo come metafora dei sentimenti dei personaggi: il cibo elaborato e tecnicamente perfetto della protagonista, ma privo di sapore perché freddo e non coinvolgente, ostinatamente rifiutato della nipote, che cerca amore e affetto, cose che trova nel cibo offertole dal cuoco italiano, un cibo semplice ma caldo e saporito. Il cibo come seduzione ed espressione reale di amore verso quello per cui lo si confeziona e al quale lo si offre. Il cibo con i suoi odori, sapori e colori coinvolge tutti i nostri sensi ed è inevitabile quindi che ispiri la nostra sessualità: così accade per la protagonista femminile conquistata dall’apparente rozzezza e semplicità dei cibi del cuoco italiano.

«Non c’è dubbio che i profumi, i sapori, gli assaggi nel piatto dell’altro, sono tutti movimenti di seduzione, infatti la prima cosa che si chiede a una donna è quella di andare a cena insieme» (Sergio Castellitto sul film).

PER APPROFONDIRE:

■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

10. Pranzo di ferragosto (2008), di Gianni Di Gregorio Il film narra la deliziosa storia di un figlio alle prese con la madre, una nobildonna decaduta leggermente caratteriale, cui vanno ad aggiungersi la mamma dell’amministratore e quella del medico. Il pover’uomo si trova allora a dover organizzare un pranzo di ferragosto per le simpatiche vecchiette, cercando di barcamenarsi tra battibecchi, manie, diete e quant’altro. Il menù : la pasta al forno che una di queste divora nonostante i divieti del figlio medico, e il pesce pescato nel Tevere. E allora il cibo diventa il mezzo per unire più generazioni e per abbattere le distanze.

Addio a Paolo Villaggio: il re del paradosso all’italiana

Paolo Villaggio era uno di quei personaggi familiari, eterni, che conoscono anche le pietre.

Paolo Villaggio era l’italiano del ‘900, era l’ultima grande Maschera del nostro cinema, era il re del paradosso. Paolo Villaggio ha rappresentato le mille anime dell’Italia post-boom economico, quella che si affacciava agli anni ’80, con convinzione, con coraggio, con determinazione. Fantozzi, Fracchia, il professor Kranz, erano tutte facce della stessa medaglia, tutte sfaccettature di un attore intelligente, che sapeva i gusti del pubblico e ne coglieva alla perfezione i mille tic, così come aveva fatto qualche anno prima il Sordi nazionale. Villaggio lo fa però, esagerando i caratteri grotteschi dell’italiano medio, raccontando l’Italia, in maniera ancora attualissima: è con queste caratteristiche che si afferma e arriva immediatamente nel cuore della gente, la figura del ragionier Ugo Fantozzi, innegabilmente il capolavoro di Paolo Villaggio.

Quella di Fantozzi è una maschera che rimarrà indelebilmente appiccicata addosso al Villaggio attore. Così come il principe De Curtis non poteva fare a meno di Totò, cosi Villaggio dal 1975 in poi, non potrà fare a meno di Fantozzi. E’ la sua fortuna, il suo trionfo. Si registrano in 25 anni, dieci film della serie dedicata a Fantozzi, due invece sono quelli incentrati sulla figura del timido Giandomenico Fracchia. Ad un certo punto Villaggio, si divide tra Fantozzi e Fracchia, l’artista (e chi lo mette sotto contratto) comincia a sfruttare sistematicamente la sua comicità in una serie ininterrotta di “pellicole cloni”, dove l’attore ha modo di ribadire mimica e gag dei suoi personaggi. Così come Totò era sempre Totò in ogni personaggio rappresentato, così Villaggio, in tutte le parti indossate, oscilla costantemente, tra Fracchia e Fantozzi: è l’apoteosi della sua Maschera. E da questa serie di film, possiamo dire anche “ripetitivi”, che fuoriesce la sagacia e l’intelligenza di un attore, che a differenza di altri non diventa schiavo della sua maschera, ma la utilizza, ad un certo punto, per diventare attore a tutto tondo. P a o l o V i l l a g g i o i n t e rpreta Fantozzi

E lo fa in grande, con il Maestro dei Maestri, ovvero con Federico Fellini, che disegna magistralmente su di lui, un film folle, uno strepitoso elogio alla follia, che è anche una satira della volgarità dilagante di fine secolo. La voce della luna (1990) dà l’occasione a Villaggio di ricevere il primo David di Donatello, come migliore attore, e gli apre le porte del cinema d’autore. La partecipazione al film di Fellini segna per il comico genovese l’inizio di una parallela attività nel cinema d’autore, lavorando con altri importanti registi.

Sublime risulta in tal senso, Io speriamo che me la cavo (1992), pellicola diretta dalla cineasta romana Lina Wertmüller. Il film è un affresco sul disagio economico del Sud ed è tratto dall’omonimo bestseller di Marcello D’Orta che raccoglie temi scolastici di una terza elementare di Arzano (Napoli). La figura del maestro, assente nel libro, diviene, sullo schermo, il filtro attraverso il quale i piccoli esprimono la loro visione del mondo, e la realtà di degrado in cui vivono. Il Maestro è ovviamente Paolo Villaggio, che dona al professore tratti di incredibile e straziante comicità amara, sguardi, gestualità e tonalità di voce estremamente diversi dai film a cui eravamo abituati. E’ la rivincita dell’Attore sulla Maschera. L o c a n d i n a “ I o s p e r i a m o c he me la cavo”

E questa carriera parallela di attore a tutto tondo, continua con Il segreto del bosco vecchio (1993), di Ermanno Olmi, (tratto dal libro di Dino Buzzati), con cui vince il Nastro d’argento, come migliore attore e Cari fottutissimi amici (1994), di Mario Monicelli, presentato al Festival di Berlino nel 1994 e vincitore di un Orso d’argento, nella sezione menzione speciale.

In questi anni anche la critica specializzata si accorge di lui. E’ del 1992 infatti, il premio più prestigioso della sua carriera e avviene per merito del regista Gillo Pontecorvo, allora direttore della Mostra del cinema di Venezia che decide, nel 1992, di premiare l’attore con il prestigioso Leone d’oro alla carriera. Anni dopo, ai microfoni del Corriere della Sera, l’artista dichiarerà: «In seguito lo vinsero anche Alberto Sordi e Vittorio Gassman. Ma io fui una rottura assoluta. Era la prima volta che si premiava un comico». Infine, degli oltre 70 film interpretati da Paolo Villaggio, va ricordata la serie ispirata alle comiche di Stan Laurel e Oliver Hardy, interpretata insieme a Renato Pozzetto: “Le comiche, Le comiche 2, Le nuove comiche(1992- 94). I tre film, ottennero un grande successo di pubblico, ma piacquero molto anche alla critica, che lodò, di entrambi gli attori, la primordiale carica comica, avulsa da qualsiasi logica, quasi fumettistica, un po’ slapstick e un po’ paradosso. R e n a t o P o z z e t t o e P a o lo Villaggio in “Le Comiche”

E di Villaggio rimane l’amor di popolo, il grande affetto di una nazione intera che si riconosce nei suoi personaggi, nelle sue maschere e nella sua gestualità. Indubbiamente con la morte di Paolo Villaggio se ne va un pezzo di storia del nostro Paese, uno degli artisti italiani più influenti del ‘900, al livello di un Totò, di un Mastroianni o di un De Sica, per la capacità di descrivere l’Italia e gli italiani meglio di qualunque trattato sociologico. Per Paolo Villaggio andrà esattamente come per Totò, i suoi film saranno rivalutati e il suo nome rimarrà per sempre, sfidando lo scorrere impetuoso del tempo e degli anni.