Incognita Libia

Cronache di un Paese sospeso

Prefazione di Sergio Romano

Capitolo1. Le fratture del passato che ritorna Tra Tripoli e Bengasi. Frammenti dell’Impero ottomano La tribù. Attore fondante della Libia L’occupazione coloniale italiana e la mai raggiunta unità La riconquista fascista La Libia di re Idris, il “monarca suo malgrado”

Capitolo 2. La Libia di Gheddafi La rivoluzione del rais La Jamahiriya. Terza via universale del nulla istituzionale La società divisa La religione e lo “strano rapporto” con l’islam L’economia di un rentier State

Capitolo 3. La primavera araba libica e le sue anomalie Le cause Gli attori protagonisti La natura del conflitto Il contesto Le prime conseguenze

Capitolo 4. Sarraj, Haftar e gli altri. Chi comanda davvero in Libia? La spaccatura tra Tripoli e Tobruk Il progetto unitario a marchio Onu Un governo che non governa Haftar. L’uomo in divisa che vorrebbe prendersi la Libia Chi sta con chi. Il sistema di alleanze regionali

Capitolo 5. Il grande risiko internazionale La Francia a caccia di petrolio Obama e il fallimento del “leading from behind”

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Putin e il tassello mancante della politica egemonica Europa, la grande assente

Capitolo 6. I rapporti italo-libici. Una storia complicata Da Moro a Berlusconi. Quello che sappiamo e quello che non sapremo mai Il petrolio e altri “affari di famiglia” La guerra del 2011. L’Italia nella “coalizione dei coscritti” L’accordo sui migranti. Un piano per evitare le morti in mare che fa acqua da tutte le parti

Capitolo 7. Da al-Qaeda allo Stato islamico. La riemersione del jihadismo libico La repressione del rais e l’opposizione islamista Le sollevazioni del 2011 e la deriva securitaria Jihad andata e ritorno. Il radicalismo libico Lo Stato islamico Le possibili evoluzioni del fenomeno jihadista

Conclusioni Oltre lo Stato islamico. Ci siamo davvero liberati del terrorismo? Il petrolio e la crisi economica. Rinascerà l’ex rentier State? La Russia. Il nuovo paciere del Mediterraneo? L’Italia è dalla parte sbagliata? Che ne sarà della Libia?

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Prefazione

Se questo libro fosse stato pubblicato nel 2010, quando Gheddafi, reduce da un trionfale viaggio a Roma nell’agosto dell’anno precedente, era l’indisturbato gestore di una delle maggiori rendite petrolifere del pianeta, molti errori sarebbero stati evitati. Il lettore avrebbe appreso che la Libia non è mai stata una Nazione. Né l’Impero ottomano, né l’amministrazione coloniale italiana, né il regno voluto dagli inglesi nel 1951 e neppure la stravagante “terza via” di Gheddafi sono riusciti a unificare una costellazione di tribù che non hanno mai rinunciato alla loro identità e alle loro prerogative.

La storia, la geografia e una grande congregazione religiosa, molto attiva nelle zone orientali del Paese, hanno creato due grandi regioni, la Tripolitania e la Cirenaica, che sono diventate, dopo la morte di Gheddafi, due pseudo Stati. Ma la lealtà tribale ha sempre prevalso su qualsiasi lealtà collettiva. Il petrolio ha permesso a Gheddafi di comperare il consenso delle tribù maggiori, ma il contagio delle rivolte arabe, nel 2011, ha distrutto l’edificio nazionale che il colonello aveva cercato di edificare negli anni precedenti e ha trasformato il Paese in un grande campo di battaglia occupato da milizie tribali o jihadiste.

Le grandi potenze hanno contribuito a peggiorare la situazione. L’intervento militare anglo-francese, con il sostegno degli Stati Uniti e quello riluttante dell’Italia, ha reso la Libia ancora più ingovernabile. Il vuoto di potere, creato dal crollo del regime e dai conflitti tribali, ha risvegliato gli interessi di altre potenze, dall’Egitto del maresciallo al-Sisi alla Russia di Vladimir Putin. Il caos ha avuto altri effetti: ha offerto alle organizzazioni del fanatismo islamico un terreno ricco di petrolio in cui reclutare nuovi fedeli. Ha reso inutili le intese che i governi italiani, da Aldo Moro a Silvio Berlusconi, erano riusciti a stringere con la Libia di Gheddafi.

Michela Mercuri appartiene al gruppo degli storici italiani che meglio conoscono la storia libica dalla guerra italo-turca del 1911 alle sue fasi più recenti. Ma è probabilmente la studiosa che più attentamente ha seguito le vicende libiche e italo-libiche dalla guerra civile del 2011 ai nostri giorni. I risultati delle sue analisi sono spesso sorprendenti.

Dopo essere stata fortemente danneggiata dalla perdita di un interlocutore che era diventato, con il trattato di Bengasi dell’agosto 2008, un partner promettente, l’Italia è riuscita a riconquistare alcune delle posizioni perdute. E’ il solo Paese occidentale che è riuscito a riaprire la propria ambasciata a Tripoli. E’ quello che ancora estrae ogni giorno dai pozzi petroliferi, nonostante la continuazione delle ostilità, la maggiore quantità di petrolio. Credo che le ragioni

3 siano almeno due. In primo luogo la creazione di una agricoltura libica, fra le due grandi guerre del secolo scorso, resta anche nelle memoria locale una delle maggiori realizzazioni di un regime coloniale. In secondo luogo le industrie italiane, fra cui in particolare l’Eni, hanno creato con i libici un rapporto che sopravvive alla fine del regime e alle tragiche condizioni del paese.

Di tutto questo Michela Mercuri scrive con la precisione dello storico, ma anche con la partecipazione di un testimone appassionato e impegnato.

Sergio Romano

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Capitolo 1

LE FRATTURE DEL PASSATO CHE RITORNA

Nel febbraio del 2011 l’onda lunga delle cosiddette rivolte arabe, partite come manifestazioni giovanili e di piazza in molti Paesi della regione mediterranea, si è infranta anche sulle coste della Libia, che come molti dei suoi vicini nordafricani e mediorientali si stava apprestando a vivere uno dei più grandi cambiamenti delle sua storia recente. A ben guardare, però, qui le proteste hanno assunto fin dall’inizio una connotazione peculiare che poco aveva a che vedere con quelle di piazza Tahrir in Egitto o di Avenue Bourguiba in Tunisia. In Libia si trattava, per lo più, di rivolte di imprinting tribale e localistico che avevano il loro epicentro a Bengasi, la “capitale” della Cirenaica, regione storicamente avversa a Gheddafi. Ben presto le sollevazioni hanno dato vita alla formazione di milizie e gruppi combattenti che, dopo la morte del rais, hanno frammentato il Paese in una mappa di centri di potere, spesso in lotta tra loro. Da questo punto di vista sarebbe un errore interpretare l’insurrezione libica come una mera contingenze di quanto stava accadendo negli Stati confinanti: la rivolta del 2011 è stata annunciata da alcuni segnali premonitori che affondano le radici nel passato e negli eventi che hanno interessato il Paese per lo meno negli ultimi due secoli. Risulta, pertanto, importante ripercorrere la storia recente della Libia. Lo faremo nelle prossime pagine, partendo dalla fase finale dell’Impero ottomano per arrivare all’epoca monarchica, che precede il colpo di Stato di Gheddafi, utilizzando come elemento esegetico le fratture regionali e tribali che sono riemerse, con rinnovato vigore, dopo la morte del rais, tanto da divenire uno dei temi centrali del dibattito sui possibili assetti futuri del Paese.

Tra Tripoli e Bengasi. Frammenti dell’Impero ottomano La storia della Libia precoloniale non può che essere letta attraverso la lente dell’Impero ottomano che governò su Tripoli e Bengasi fino alla conquista italiana. La Sublime porta conquistò Tripoli nel 1551, mentre Bengasi venne integrata nell’Impero nel 1639. Il dominio su questi territori divenne più intenso dopo la riconquista ottomana del 1835 che depose l’ultimo dei Qaramanli. Dal 1711 al 1835, infatti, l’area passò sotto il controllo di questa dinastia, anche se ciò non implicò l’interruzione dei legami con l’Impero. Si potrebbe, anzi, parlare di una “modalità alternativa” di appartenenza; Tripoli, infatti, non smise mai di pagare il tributo ai turchi ottomani.

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La riconquista del 1835 impose l’amministrazione diretta di Istanbul e un controllo più capillare su tutto il territorio. Nel 1863 la regione orientale venne posta sotto il controllo di un mutassarif 1 residente a Bengasi, che rispondeva della sua gestione direttamente a Istanbul. Nel 1865 anche nell’area di Tripoli, costituita in governatorato (vilayet), fu adottata una nuova struttura amministrativa e il territorio diviso in quattro sangiaccati. Le due “province” erano profondamente diverse. Tripoli, nell’ovest del Paese, era una terra di mercanti, il porto mediterraneo più vicino al deserto, rivolta verso il Maghreb (il tramonto) e guardava verso Tunisi, soprattutto per gli scambi commerciali. Bengasi, a est, si affacciava sul Mashrek (l’alba) e guardava verso l’oriente. Le peculiarità di queste due realtà emergono anche dai resoconti dei molti geografi e antropologi che tra la seconda metà dell’ottocento e la prima metà del novecento, con i loro viaggi in terre lontane, «hanno tenuto nell’immaginario collettivo il posto che un secolo dopo occuparono gli astronauti con le loro navicelle spaziali»2. Molti si sono concentrati sugli aspetti caratteristici del territorio da cui scaturiscono, inevitabilmente, modelli di sviluppo e stili di vita differenti, altri, invece, su fattori di ordine sociale, religioso e culturale, evidenziando come l’influsso delle senussia abbia via via conferito alla regione della Cirenaica una maggiore unità, rispetto alla conformazione più tribalistica e frammentata della Tripolitania. Senza dilungarci troppo nell’analisi dei resoconti storici è, però, interessante ripercorrere le peculiarità delle due “regioni” libiche attraverso la lettura delle testimonianze dei primi esploratori occidentali che, d’altra parte, offrono alcuni dei pochi documenti che possono raccontarci cosa ci fosse, allora, in quei territori. Il primo viaggiatore europeo a recarsi nell’attuale Libia, la cui opera ebbe un certo merito nell’esplorazione moderna della costa, è stato Paolo della Cella, medico genovese che, nel 1817, prese parte a una spedizione delle truppe del pascià di Tripoli in Cirenaica. Appassionato di geologia, meteorologia, antropologia e soprattutto di botanica, raccolse una serie di testimonianze per lo più sulle peculiarità del territorio. Così, in un resoconto risalente ai primi dell’ottocento, intitolato «Viaggio in Libia da Tripoli di Barberia alle frontiere occidentali dell’Egitto»3, descriveva il suo primo sguardo su Tripoli: «Giace in una spiaggia ove il mineranologo non trova che sabbie a esaminare e ove le piante o vegetano a stento per lo asciuttore o sono scacciate dalla coltivazione»4. Avvicinandosi a Bengasi, invece, non mancò di notare come: «Misti agli olivi crescono alberi di fichi e

1 Nell’Impero ottomano il mutasarrif era l’autorità amministrativa di ogni sangiaccato, nominata direttamente dal sultano ottomano. 2 A. Del Boca, La nostra Africa, Neri Pozza Editore, Milano, 2003, p.8. 3P. Della Cella, Viaggio in Libia da Tripoli di Barberia alle frontiere occidentali dell’Egitto, Tipografia di A. Pontrenier, Genova, 1817. 4 Ivi, p. 9.

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carrubi e pistacchi e peri salvatici e tutto insieme il Paese presenta l’idea di fertilità che non presentano da noi i suoli più industriosamente coltivati»5. Tra Tripoli e il golfo di Bomba, nell’est della Cirenaica, narrò, poi, di quella barriera naturale di 900 miglia di litorale «in cui non albergano che 25.000 anime»6. La stessa percezione è confermata, qualche anno più tardi, dall’esploratore francese Henri Méhier de Mathuisieulx che raccontando delle sue spedizioni in Cirenaica notò la distanza tra le due province. Durante il viaggio sull’Etruria, l’imbarcazione che lo portò da Tripoli a Bengasi, annotò nel suo diario: «Solo i ladri e i contrabbandieri affrontano questo lungo tratto di mare»7. Bengasi, con le sue abitazioni bianche, apparve all’orizzonte solo dopo 38 lunghe ore di navigazione. Dalle molte successive spedizioni è possibile anche rinvenire i tratti caratteristici delle genti che abitavano le due zone dell’Impero. Il geografo italiano Federico Minutilli notò, ad esempio, come in Cirenaica prevalesse l’elemento più puro, specie tra i beduini, rispetto alla Tripolitania e, parlando degli abitanti di Bengasi, disse: «Dappertutto il linguaggio è l’arabo parlato quasi come in Egitto […] e i costumi sono quasi uguali a quelli degli arabo egiziani»8. Qualche anno più tardi anche lo storico Claudio Segrè non poté fare a meno di rimarcare: «La metà occidentale della Libia, la Tripolitania, fa parte dell’Africa, quella orientale, la Cirenaica, è più simile a un’isola greca circondata dal Sahara e dal Mediterraneo»9. Altro importante elemento connotativo dell’est e di parte dell’entroterra libico, come già menzionato, era quello della forte influenza della confraternita della senussia, fondata dallo studioso algerino Muhammad Bel Ali al-Senussi al-Kattabi al-Hasani al-Idris nel 1837. Quando il Gran senusso, come verrà chiamato popolarmente, decise di fermarsi in Cirenaica, nel 1853, trovò una terra che, seppure formalmente sotto il dominio dell’Impero ottomano, ne vedeva un controllo piuttosto labile e in cui i notabili turchi mantenevano buone relazioni con i beduini che abitavano queste zone. «Era un ambiente tutto sommato “modesto”, ideale per la fondazione di un movimento politico e religioso»10. Così, nell’oasi di Giarabub, in pieno deserto libico e lontano da ogni contatto con gli ottomani europeizzati, il senusso decise di fondare il centro culturale e spirituale dell’ordine. Qui le zauie sorsero numerose e divennero le fondamenta di un sistema che era al tempo stesso religioso e secolare. «Erano luoghi di preghiera, alberghi per i viaggiatori, magazzini per le merci,

5 Ivi, pp. 94 e 95. 6 Ibidem. 7M. De Mathuisieulx, La Tripolitaine d’hier et de demain, Hachette & Cie, Paris,1912, p. 111. 8 F. Minutilli, La Tripolitania, Fratelli Bocca Editore, Torino, 1912, p. 83 e ss. 9 C. G. Segrè, L’Italia in Libia dall’età giolittiana a Gheddafi, Feltrinelli, Milano, 1978. 10 S. Romano. La quarta sponda. Dalla guerra di Libia alle rivolte arabe, Longanesi, Milano, 2015, p. 61.

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tribunali e centri di piccole zone agricole strappate al deserto. Pur senza aver fondato uno Stato, il Senusso divenne capo di una vasta comunità territoriale che comprendeva l’intero retroterra cirenaico e una parte di quello tripolino»11. I principi della confraternita univano una stretta ortodossia di scuola malichita a un moderato approccio mistico, con l’osservanza delle preghiere canoniche. La dottrina faceva riferimento alla purezza del primo islamismo ma, a differenza di altri movimenti che predicavano una sorta di “ritorno alle origini” (come il wahhabismo), accettava il culto dei santi, tanto che lo stesso Gran senusso divenne una sorta di santo nazionale per i beduini della Cirenaica12. Con questo sistema la senussia riuscì a influenzare tutto il retroterra della Marmarica, della Cirenaica, della Sirtica e di parte della Tripolitania. Qui gli abitanti obbedivano alla confraternita e gli pagavano un tributo. Gli ottomani furono, tutto sommato, piuttosto lungimiranti: seppure la senussia non avesse molta simpatia per l’Impero, giudicato troppo laico e non rispettoso dei principi della sharia, in alcune zone della Cirenaica si era stabilito un equilibrio tra i due. I turchi controllavano la zona costiera, mentre in quelle interne la confraternita esercitava una sovranità limitata (mantenimento dell’ordine, organizzazione della giustizi, educazione etc.). D’altra parte una gestione diretta sarebbe stata troppo costosa per gli ottomani in una zona, sì scarsamente popolata, ma abitata da tribù bellicose che avrebbero richiesto, per la loro gestione, uno sforzo bellico che, conti alla mano, non era conveniente per i turchi. Il condominio turco-ottomano, dunque, finì per riconoscere il ruolo importante della senussia nell’entroterra libico, capace di limitare la frammentazione tribale del Paese. Si tratta di un aspetto di non secondaria rilevanza, compreso anche dagli italiani, tanto che Manfredo Camperio13, nel 1881, mentre guidava una spedizione commerciale che doveva spingersi da Bengasi fino a Tobruk e poi nell’interno fino all’oasi di Giarabub, non nascose l’obiettivo politico prioritario di incontrare il capo della senussia che ammetterà essere il vero padrone della Cirenaica, a dispetto delle presenza turca.. Nonostante tutto Muhamad al-Mahdi, figlio primogenito del capo della confraternita, e a lui succeduto nel 1859, fedele alla tradizione paterna, fu molto intransigente e respinse ogni tentativo di avvicinamento. Più avanti, come ricorda Sergio Romano, il ministro degli esteri Pinetti incaricò Giuseppe Salvago Raggi, agente diplomatico al Cairo, di stabilire un collegamento con il capo dei senussi. Quando chiese agli italiani di esser aiutato a montare una fabbrica di fucili nell’oasi di Cufra, in cui nel frattempo si era trasferito per evitare ogni possibile contatto con i turchi

11 Ivi, p.62. 12 F. Cresti, M. Cricco, Storia della Libia contemporanea, Carocci, Roma, 2012, p. 38 e ss. 13 Manfredo Camperio è stato un politico e studioso italiano che, tra le altre cose, diede vita a un proprio periodico, uscito a Milano nel luglio 1877 col titolo «L'Esploratore. Giornale di viaggi e geografia commerciale» (poi, dal 1887, «L'Esploratore»). Fondò anche la Società per l'esplorazione commerciale dell'’Africa e fu tra i primi italiani a studiare la Libia, che visitò a lungo.

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della costa, giudicati infedeli, il governo italiano inviò un solo fucile, un moschetto e una rivoltella, a mo’ di campionario, potremmo dire14. Gli italiani non capirono fino in fondo il valore che i senussi avevano in Libia e non riuscirono mai ad avvicinarli in maniera concreta. La confraternita era circondata da un alone di mistero. Il capo dell’ordine veniva addirittura chiamato “il papa nero”. D’altra parte i senussi, ad ogni tentativo di approccio, mostravano un atteggiamento chiuso e sospettoso. Allo scoppio della guerra nessuno in Italia era davvero in grado di prevederne l’orientamento, con tutte le nefaste conseguenze che ciò comportò durante gli anni della conquista. Al di là del ruolo che la confraternita giocò durante il lungo dominio coloniale italiano, e che vedremo tra poco, quello che giova ricordare è che la sua influenza è destinata a durare nel tempo. Sarà proprio Ahmed Zoubair al-Senussi, pronipote dell’ultimo re di Libia, a rivendicare nel 2012, a nome delle tribù dell’est libico, l’autonomia dalla Tripolitania. Il progetto “secessionista” non ha avuto seguito ma resta evidente la persistenza della spaccatura regionale nel quadro politico e sociale della Libia.

La tribù. Attore fondante della Libia Se le fratture regionali costituiscono un elemento distintivo della realtà libica contemporanea, anche quelle tribali rivestono un’importanza per nulla secondaria. Oltre alle divisioni tra l’est e l’ovest del Paese, infatti, vi erano anche le profonde divisioni tra clan, che permearono il tessuto sociale libico sia durante la dominazione ottomana sia negli anni a venire. L’ambizione dei turchi di limitare il potere dei capi tribali divenne più evidente durante la seconda metà dell’ottocento, quando le autorità ottomane cercarono di sostituire l’autonomia delle tribù libiche con un’amministrazione centralizzata, basata su un consiglio degli sceicchi tribali, che consentì l’avvio di una certa trasformazione socio-economica della società locale. Questo spirito si fece evidente soprattutto nell’area della Tripolitania in cui, come ricorda Angelo Del Boca in un libro dedicato alle memorie del “patriota” Mohamed Fekini - capo della tribù dei Rogeban e uno dei più irriducibili oppositori alla dominazione italiana15- si era assistito a un’inversione di tendenza, almeno per ciò che riguardava alcuni servizi e l’applicazione di certe riforme. I governatori ottomani avevano favorito la sedentarizzazione dei beduini, lo sviluppo dell’agricoltura e del commercio transahariano, ma avevano soprattutto incoraggiato l’istruzione e la formazione di un’intellighenzia che si rifacesse ai modelli della vita politica e culturale di Istanbul. A

14 S. Romano. La quarta sponda, cit., p. 62 e ss. 15A. Del Boca, A un passo dalla forca, Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano, 2007.

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partire dal 1908, quando il movimento nazionalista dei giovani turchi aveva costretto il sultano Abdul Hamid II a ripristinare la costituzione del 1876, gli abitanti dei vilayet avevano potuto godere di alcuni diritti fondamentali. Tale ventata rivoluzionaria stimolò, soprattutto a Tripoli, la nascita di una piccola classe di commercianti “urbanizzati”, capace di integrarsi nell’enorme apparato burocratico ottomano sempre più centralizzato, partecipando al contempo alla frenetica atmosfera capitalistica introdotta dagli affaristi europei e i capi tribali furono cooptati nel tessuto sociale e amministrativo dell’Impero. Nella Cirenaica, invece, la situazione era un po’ diversa. Qui c’era la senussia. Ancora una volta dobbiamo fare riferimento alle parole di coloro che si recarono in quelle zone, come, ad esempio, l’esploratore tedesco Gerard Rohlfs che nella sua opera «Tripolitania. Viaggio da Tripoli all’oasi di Kufra», raccontò: «Nella Cirenaica, la confraternita ha salde radici e quasi può dirsi che i veri padroni morali sono i senussi i quali soccorrendo i poveri e gli infermi, dando ospitalità ai viandanti, predicando la concordia tra i corregionali hanno saputo acquistare grande potere sulle tribù che abitano quella fertile regione»16. In ogni caso, come testimonieranno gli eventi degli anni successivi, la ventata modernizzatrice dei turchi e il ruolo seppur coesivo della senussia non riuscirono a scalfire il potere delle tribù che si consolidò ulteriormente durante la conquista italiana. A dominare la società erano ancora i gruppi con i loro leader, come ad esempio degli Orfella, il cui capo Abd en-Nebi Belcher collaborò con gli italiani nella conquista del per poi “tradirli” nel 1915 partecipando attivamente alla grande rivolta araba, i Coobar presenti a Tripoli, i gruppi guidati da Sef en Nasser nell’oasi Giofra. Saranno questi i nomi, che assieme ad altri oggi più “noti” - come i Warfalla, la principale tribù della Libia alla quale appartengono un milione di persone; gli Zintan, principali oppositori del governo unitario di Sarraj voluto dall’Onu; gli Zuwayya; i Tuareg; i Meqarha di , cognato del rais e per molto tempo suo spietato braccio destro - riemergeranno nel panorama libico dal 2011, a dimostrazione della mai sopita persistenza del sistema tribale nella conformazione socio-politica del Paese17. Le tribù, come vedremo parzialmente “sedate” durante il quarantennio gheddafiano, sono state sovente aghi della bilancia degli equilibri interni. Solo per fare un esempio, per certi versi sorprendente, la tribù Qaddhafa, cui apparteneva il rais, evidentemente sconfitta e marginalizzata nella Libia post rivolte, si è alleata in maniera strumentale con le forze radicali. Seppure l’adesione al radicalismo sia di per sé estranea alla mentalità tribale, dominata da abitudini e norme consuetudinarie, i vecchi fedeli di Gheddafi hanno trovato nel jihadismo un modo per “restare in vita”.

16 G. Rohlfs, Tripolitania. Viaggio da Tripoli all’oasi di Kufra, seconda edizione con prefazione di Guido Cora, Casa Editrice Francesco Vallardi, Milano, 1913, p.128. 17 Sulla storia delle principali tribù libiche si rinvia a: A.A. Ahmida, The Making of Modern State Formation, Colonization, and Resistance, 1830-1932, State University of New York Press, New York, 1994.

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Viceversa a Bengasi il network tribale ha impedito la radicalizzazione di molti giovani. La tribù, in questo caso, ha rappresentato un argine alle spinte più estremiste. Sovente, poi, le tribù sono state alleate “funzionali” alle forze politiche del Paese, al fine di tutelare i propri interessi e finendo per ricoprire un ruolo rilevante nel gioco delle alleanze. Tanto per citare alcuni dei nomi oggi più noti, specie nel sud libico, i Tebu si sono stati a lungo alleati del governo di Tobruk18, mentre i Tuareg con i gruppi di Misurata, per il controllo delle zone interne, soprattutto di quelle al confine tra Algeria e Niger: un’area in cui vi sono traffici particolarmente redditizi di merci e persone e pozzi petroliferi di grande importanza. Gli esempi potrebbero continuare. Per ora fermiamoci qui e torniamo al resoconto storico.

L’occupazione coloniale italiana e la mai raggiunta unità Era il 1881 quando il governo della Terza Repubblica francese, con un’azione di forza, stabilì il protettorato sulla Tunisia, già obiettivo dei propositi coloniali del Regno d'Italia. Fu un attacco durissimo per gli italiani tanto che l’allora primo ministro Benedetto Cairoli fu costretto a dimettersi. La stampa parlò di «schiaffo di Tunisi», per sottolineare l’umiliazione subita dall’Italia dinanzi all’atto d’oltralpe. Non è certo se fu questo episodio a far volgere lo sguardo italiano verso le coste libiche ma la conquista della Tripolitania e della Cirenaica fu «un progetto accarezzato per trent’anni»19. Così, quando la trionfante sinfonia della marcia della propaganda per l’avventura tripolina riuscì a fare intendere all’opinione pubblica che «mentre dietro la Tunisia e l’Algeria non c’è che il deserto, dietro Tripoli ci sono molte oasi e tutte le grandi carovane delle strade che vanno all’Africa centrale»20, la conquista dell’eldorado libico divenne un progetto inevitabile. Solo più tardi gli italiani scoprirono che dietro Tripoli c’erano anche gli arabi che avrebbero combattuto strenuamente fino a rendere la passeggiata militare una guerra lunga e sanguinosa. Verrebbe da dire, come ricordato da Gaetano Salvemini: «Avevamo paura di essere creduti astemii e comprammo una botte piena di aceto»21. D’altra parte, da anni, tutti gli esploratori in terra libica continuavano a rimarcare che in quei luoghi fertili gli arabi ci attendevano a braccia aperte. Enrico Bresciani, direttore del Banco di Roma, convinto dai suoi informatori, evidentemente smentiti dai fatti, presentò la passeggiata libica degli italiani quasi come un

18 Per lo meno fino al luglio del 2015 quando, con la mediazione del Qatar, le due tribù avrebbero trovato un compromesso e siglato una tregua. Tuttavia va rimarcato che i contrasti tra tribù Tebu e tribù Tuareg non sarebbero esclusivamente legati al posizionamento dei primi con il governo di Tobruk e i secondi con quello di Tripoli, ma si baserebbero su una più ampia dinamica di controllo del potere e del territorio nel quale i due gruppi convivono: un’area ai confini con Algeria e Niger in cui vi sono traffici particolarmente redditizi 19 A. Del Boca, La nostra Africa, cit., pag. 10. 20 Gazzetta Piemontese, 11 aprile 1881. In A. Del Boca, Gli italiani in Libia. Vol I, Mondadori, Milano, 1997, p. 11. 21 Riportato anche in: S. Romano, La quarta sponda, cit., p.58.

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pro-forma. Enrico Insabato, il medico italiano talmente innamorato dell’islam da credere di essere divenuto esperto di mondo islamico solo per aver trascorso alcuni anni al Cairo, era così certo che sarebbe bastato arrivare lì con qualche proclama in arabo per avere la fiducia degli autoctoni che convinse il ministero della guerra a intraprendere l’avventura coloniale. Il sonno della ragione genera mostri, lo sappiamo. E così è stato. Al di là delle motivazioni che spinsero il governo italiano a dare il via al progetto coloniale, ciò che qui interessa sottolineare è che le divisioni regionali e tribali permasero durante tutta la fase della colonizzazione e della dominazione e ne condizionarono la traiettoria. La separazione tra le realtà libiche, e in particolare tra la costa tripolina e la Cirenaica, si mostrò alle truppe italiane fin dagli albori della campagna di Libia. L’organizzazione della resistenza fu diversa tra le due province. Nella Tripolitania, priva di un riferimento politico unico, i volontari costituivano delle unità combattenti sotto la guida dei capi tribù e degli ufficiali turchi. In Cirenaica, invece, il panorama era diverso: qui c’era un unico centro propulsivo connotato dal potere politico e religioso della senussia. Per questo, La traiettoria della solo agognata passeggiata militare italiana in Libia fu molto diversa nelle due “regioni”. Mentre la Tripolitania soccombeva in breve tempo, la Cirenaica sembrava davvero in grado di poter resistere più a lungo. Nonostante ciò la Sublime porta affrettò i negoziati con l’Italia e il 18 ottobre del 1912 venne firmato il trattato di Ouchy, con cui si concluse la prima fase della resistenza all’occupazione italiana e il territorio fu diviso nelle due regioni della Tripolitania e della Cirenaica, guidato da due governatori alle dipendenze del ministro delle colonie. La guerra mise sicuramente a dura prova le popolazioni locali ma non le unì. L’alleanza anti-italiana, che avrebbe potuto cementare i rapporti tra Tripoli e Bengasi, non si realizzò attraverso un comando e una strategia unificati, bensì con due comandi, due strategie e due esiti differenti tanto che, di fatto, la guerra assunse la connotazione di un conflitto italo- senusso piuttosto che italo-turco.. Queste “spaccature” portarono la senussia a intraprendere un percorso sempre più autonomo, soprattutto quando, dopo la sconfitta del 1916 con l’Egitto22, il “comando” della Cirenaica venne affidato a Muhammad Idris al-Senussi, uno dei figli di Muhammad al- Mahdi e dunque un nipote del padre fondatore della senussia. Il futuro re di Libia, a differenza dei suoi predecessori e soprattutto del cugino Ahmed al-Sharif, capo della confraternita fino al 1916, era introverso e chiuso, riflessivo e incerto: una personalità che sarebbe stato difficile immaginare a guida del movimento in un momento difficile come

22Le forze della senussia si concentrarono sui confini orientali per appoggiare l’attacco dei turchi contro l’Egitto, impegnando le guarnigioni britanniche. L’azione prevedeva che la manovra principale si sarebbe svolta sul fronte orientale, dal Sinai verso il canale di Suez, mentre i senussi avrebbero impiegato le guarnigioni britanniche ad ovest, dirigendosi, attraverso il deserto libico, verso il Nilo. F. Cresti, M. Cricco, Storia della Libia contemporanea, cit.

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quello che il Paese stava attraversando. Nonostante ciò egli ne divenne il capo, anche a causa dell’atteggiamento fin troppo aggressivo del cugino che finì per indispettire molti personaggi di rilievo della confraternita. Idris, fedele alla sua personalità e alla linea politica che adotterà negli anni a venire, decise di trattare con gli occupanti. Fu lui a stipulare la tregua con il patto di Acroma, l’accordo con cui il senusso riconobbe la sovranità italiana sulla Cirenaica e l’Italia gli conferì, in cambio, l’amministrazione delle zone interne e il diritto al mantenimento delle forze armate. L’accordo non sancì solo la fine dell’alleanza senussita con i turco-tedeschi, ma anche una sorta di isolamento della confraternita, stretta nella morsa delle frammentazioni interne e decisa, dunque, a ritagliarsi una propria egemonia nel Paese. Tale atteggiamento emerse anche durante il “new deal” della politica italiana nell’ultimo anno del conflitto mondiale quando, sulla spinta delle idee propugnate dal nuovo presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, furono attuate alcune aperture progressiste nella gestione del dominio coloniale. Il governo italiano stabilì che i rappresentanti libici si sarebbero dovuti associare alla gestione del potere, nel rispetto delle tradizioni locali. L’intenzione era quella di favorire il progresso delle popolazioni ma mal celava, nella realtà dei fatti, una certa stanchezza nella gestione della colonia col pugno di ferro. Questo nuovo corso breve della politica italiana venne definitivamente sancito con la politica degli statuti che, seppure in un contesto di perdurante sottomissione alla potenza coloniale, favorirono un sistema maggiormente “aperto” in cui si affermarono le libertà politiche, di associazione e di stampa, l’uguaglianza della lingua araba e di quella italiana nell’amministrazione etc23. Queste “concessioni”, tuttavia, non limitarono gli scontri interni tra le singole province e gli statuti non trovarono concreta applicazione nella Tripolitania, anche a causa delle lotte intertribali e degli antichi rancori tra i vari attori sul terreno. Nella Cirenaica funzionarono per breve tempo, ma senza risultati pratici. Da questa prospettiva non risulta difficile comprendere perché per l’Italia finita una guerra ne iniziò subito un’altra; insieme alle terre, infatti, ereditò dagli ottomani i problemi con i senussi. Furono proprio i loro leader, negli anni a venire, a mobilitare le regioni libiche, instillando i semi di una rivolta covata già da molto tempo e che stava assumendo le preoccupanti sembianze della grande rivolta araba che avrebbe fatto versare ancora molto sangue agli italiani e alle popolazioni autoctone.

23 Gli statuti furono concessi nel 1919 e creavano, di fatto, una forma speciale di cittadinanza libico-italiana, garantendo ai cittadini libici il diritto di voto nei parlamenti locali. Nonostante i principi previsti fossero piuttosto liberali, non riuscirono a evitare l’insorgere di scontri interni alle varie province. R. B. St. John, Libya: From Colony to Independence, Paperback, Oneworld publication, Oxford, 1 luglio 2008.

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Il sentimento anticoloniale trovò nuova linfa nel “maggio radioso”, quando l’Italia ritirò gran parte delle truppe dalla Libia per impegnarle sul fronte europeo. Fu allora che ripresero con rinnovato vigore le rivolte, a iniziare dalla sirtica e dal Fezzan, in cui gruppi legati alla senussia attaccarono le guarnigioni italiane. Un episodio resta emblematico. Nell’aprile del 1915 un’enorme colonna comandata dal colonnello Miani fu attaccata e quasi totalmente distrutta a Qasr Bu Hadi24, nei pressi di Sirte, nella battaglia di «al-Qardabiyya». Fu una disfatta per l’Italia e una grande vittoria per le truppe libiche, ma fu soprattutto una delle rare battaglie che videro l’unione della forze della Cirenaica, della Tripolitania e del Fezzan. Suona quasi un paradosso che, molti anni dopo, nel 2016, l’offensiva del generale contro lo Stato islamico in Cirenaica, che lo ha visto contrapposto anche alle milizie di Misurata fedeli al Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Sarraj, sia stata chiamata, dallo stesso generale, «al-Qardabiyya 2». Quella battaglia, che allora rappresentò l’unione delle forze libiche, oggi è l’emblema della contrapposizione tra il Consiglio presidenziale di Tripoli e la Camera dei rappresentanti di Tobruk25.. In ogni caso, seppure non sia possibile asserire che sia stata questa inaspettata unione a portare a una così efficace e rapida vittoria, va amaramente constatato come questa durò poco anche a causa dello sfaldarsi delle forze della resistenza in Tripolitania, conseguente ai contrasti tra le varie tribù della regione che avevano dato vita a veri e propri gruppi combattenti per il controllo delle risorse, la supremazia territoriale o semplicemente per antichi rancori e a dispute tra gruppi. In Libia, dunque, non funzionò - allora come oggi verrebbe da dire - l’assunto secondo il quale il nemico del mio nemico è mio amico, che ha creato le più strabilianti alleanze nella storia delle guerre degli ultimi 1.500 anni: dagli ebrei che si allearono con i persiani sasanidi contro il giogo del romano cristiano impero nel 600 circa, alla “ambigua simpatia” tra il Gran Muftì di Gerusalemme e Adolf Hitler, fino ad arrivare alle alleanze a geometria variabile del periodo bipolare. Il nemico comune, lungi dal compattare i diversi fronti, ha ulteriormente incancrenito le parti in causa, in un gioco che, nella migliore delle ipotesi, potremmo definire a somma zero. Gli eventi della prima guerra mondiale e il coinvolgimento dei senussi nel gioco di alleanze avevano condotto a un’amara presa di coscienza: era pressoché impossibile un’azione comune di resistenza contro l’occupazione italiana. In Tripolitania, infatti, non era emerso nessun potere in grado di unificare e di guidare la lotta armata ma, anzi, erano esplose tensioni e lotte tra i vari gruppi che avevano indebolito ogni forma di opposizione. Viceversa la senussia aveva confermato il suo ruolo chiave, ma solo nella Cirenaica, anche se, in taluni

24 La battaglia del 28-29 aprile del 1915, nota con il nome di «al-Qardabiyya», è celebrata come una delle più gloriose risposte della resistenza all’occupazione coloniale. La storia è narrata nel dettaglio da A. Bel Boca, La disfatta di Gasr Bu Hàdi. 1915: Il Colonnello Miani e il più grande disastro coloniale, Mondadori, Milano, 2004. 25 Per una spiegazione dettagliata degli eventi cui si fa riferimento si rinvia al capitolo 3 di questo libro.

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casi, pur rappresentando solo una parte della società libica, era riuscita ad assurgere al ruolo di interlocutore unico, affermando una momentanea supremazia. Detta in altre parole, mentre in Cirenaica l’accordo con i senussi garantì per qualche tempo un certo ordine, in Tripolitania le lotte tra i capi locali e il contrasto tra arabi e berberi crearono una situazione di incertezza che stimolò la riconquista italiana. Ancora oggi, in una storia che sembra ripetersi in maniera quasi pedissequa, le divisioni interne costituiscono la cifra della debolezza della società libica, finendo per tracciare quei solchi profondi in cui si insinuano gli attori regionali e internazionali che da queste divisioni possono trarre vantaggio.

La riconquista fascista Gli eventi successivi vanno letti con la lente della riconquista e dell’imperialismo come “legge eterna ed immutabile” capace di rimediare a quella “vittoria mutilata” tanto rimembrata dal duce e capace di far breccia nelle ambizioni nazionaliste del bel Paese. Con la vittoria mutilata l’Italia aveva mantenuto alcuni territori costieri della Tripolitania e della Cirenaica, ora si trattava di conquistare l’intero Paese, grosso modo il 90 % della Libia. Il governo italiano, infatti, aveva firmato l’accordo di Acroma, con Idris al-Senussi, che garantiva alla confraternita l’amministrazione della Cirenaica, mentre la Tripolitania restava divisa da lotte tra i clan tribali. Tale frammentarietà fu funzionale alla riconquista italiana della regione, che sarà praticamente completa all’inizio del 1924. Le operazioni nella Cirenaica, invece, procedevano in maniera molto più lenta e sanguinosa per merito della resistenza guidata Omar al-Mukhtar, il Leone del deserto, come titola un film a lui dedicato. Nel 1923, quando assunse la guida della resistenza anti-italiana in Cirenaica, aveva già 63 anni e un’intera esistenza spesa a insegnare il corano nella moschea di un villaggio agricolo tra Barce e Maraua. Tuttavia si rivelò un abile stratega. Lo stesso Graziani che finirà per batterlo ricorrendo a ogni mezzo, nonostante lo considerasse un “bubbone da estirpare”, non potè che ammettere: «Omar al-Mukhtar era dotato di intelligenza pronta e vivace; era colto in materia religiosa, palesava carattere energico e irruente, disinteressato e intransigente; infine, era rimasto molto religioso e povero, sebbene fosse stato uno dei personaggi più rilevanti della senussia»26. Egli è ancora oggi una sorta di mito per i libici. Emblematica una delle ultime visite ufficiali a Roma di Gheddafi, il 10 giugno 2009, quando il colonnello, non appena sbarcato all’aeroporto di Ciampino, mostrò sull’alta uniforme militare una foto in bianco e nero che ritraeva la cattura del resistente libico da parte degli italiani. E’ stata certamente una delle ennesime provocazioni del rais, ma anche una testimonianza della considerazione di cui “il condottiero” gode ancora nel Paese.

26 R. Graziani, Cireniaca pacificata, Mondadori, Milano, 1932, p. 265.

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La storia ci ricorda le conseguenze della resistenza e della repressione. Furono 60.000 le persone che morirono di fame, di stenti e di malattie durante la deportazione, circa 20.000 quelle che fuggirono nel vicino Egitto. La popolazione della Cirenaica, valutata in 225.000 abitanti circa nel 1920, si ridusse a 142.000 nel 193127. Solo nel gennaio del 1932 il generale Badoglio potè annunciare che la ribellione in Cirenaica era finita e la Libia tutta occupata. Ma il prezzo fu altissimo. Quello che qui conta sottolineare è il fatto che la forza identificativa della senussia abbia creato, di nuovo, una sostanziale differenza tra le due regioni libiche. Se in Tripolitania la conquista avvenne a macchia d’olio e risultò a grandi linee stabile, nella Cirenaica fu molto più lenta e provvisoria, poiché avversata da movimenti di resistenza organizzati e capaci di fomentare la popolazione con la retorica del jihad contro l’occupazione italiana28. Ce lo racconta bene, ancora, Sergio Romano che riferendosi alle operazioni in Tripolitania riferisce: «Nell’ottobre del 1922, quando Mussolini prese il potere, l’operazione era a buon punto; nel luglio del 1925, quando Volpi ritornò a Roma, era praticamente terminata […] Del tutto diversa era la situazione della Cirenaica, dove la senussia - per la tenacia con cui si era battuta, per la profondità del sentimento religioso, per la trama dei legami familiari al vertice dell’ordine - era una tribù-Stato»29. Solo con l’avvento di Rodolfo Graziani, nominato nel gennaio del 1930 da Mussolini vice- governatore della Cirenaica, la rivolta fu estirpata e il “bubbone” fu catturato l’11 settembre del 193130. Iniziarono da qui gli anni della vera e propria colonizzazione e dell’unità, almeno formale, del Paese, sotto la guida di Italo Balbo nominato alla fine del 1933 nuovo governatore generale della Libia. Venne, allora, completata l’unione delle tre regioni della Cirenaica, Tripolitania e Fezzan che due anni prima, con la morte dell’ultimo oppositore, erano state occupate per intero. L’unità proclamata sulla carta non bastò a creare quella della Nazione e delle sue genti e non bastò neppure l’ambiziosa costruzione della via Balbia, la litoranea che univa la Tripolitania alla Cirenaica31. I due territori erano stati uniti amministrativamente e poi anche

27 J. L. Miege, L'imperialisme colonial italien de 1870 a nos jours, D.E.D.E.S, Paris, 1968, p. 182. 28 G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna. Vol. IX. Il fascismo e le sue guerre 1922-1939, Feltrinelli, Milano, 1986, p. 178 e ss. 29 S. Romano, La quarta sponda, cit., p. 280 e ss. 30 E. Santarelli, Omar Al-Mukhtar: Italian Reconquest of Libya, Darf Publishers, London, 1986. 31 Fino al 1934, infatti, le due regioni avevano, ognuna, la propria rete stradale. Solo con la riunificazione si pose il problema di creare un’arteria unica di collegamento sulla costa, per ragioni funzionali ma soprattutto politiche. Il 14 marzo del 1935 un decreto legge fissava le modalità dell’opera, divisa in 16 tronchi per iniziali 813 chilometri. Vi lavorarono 1.000 operai italiani e 12.000 maestranze locali. Nel gennaio del 1937, dopo neppure un anno e mezzo, fu inaugurata. Prese il nome dal governatore Italo Balbo, abbattuto sui cieli di Tobruk dalla contraerei italiana il 29 giugno del 1940. Da allora, per tutti, italiani e libici, rimarrà sempre la via Balbia.

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fisicamente, ma questo non fu sufficiente per cementare un’identità nazionale unitaria mai esistita.

La Libia di re Idris, il “monarca suo malgrado” Se qualche passo avanti verso l’unità del Paese era stato fatto con il governatorato di Italo Balbo, le divisioni interne videro un rinnovato revanscismo negli anni successivi quando, in seguito alla sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale, la Libia passò sotto il controllo della Gran Bretagna e della Francia. Durante il codominio straniero, che non faceva presagire nulla di buono per l’unità del Paese e per la sua possibile indipendenza, nacque un nuovo fermento nella società libica che portò alla creazione di alcuni partiti e gruppi indipendenti con una forte componente di esiliati. La maggior parte dei partiti e dei movimenti prese vita in Tripolitania, mentre, di nuovo, nella Cirenaica l’unica forza era quella di Idris al-Senussi, che nel 1946 formò il Fronte nazionale della Cirenaica poi divenuto Partito del congresso nazionale. Rispetto a quello della regione dell’est, il panorama politico dell’ovest appariva, invece, maggiormente variegato e segnato da una serie di contrasti importanti su alcune questioni di fondo come ad esempio l’alternativa istituzionale tra Repubblica unitaria democratico-costituzionale, l’opzione mandataria e quella monarchico-unitaria. Una nota positiva va rinvenuta nei tentativi da parte di coloni tripolini, che si erano trasferiti in Egitto, di trovare con i cirenaici un accordo congiunto sul futuro della Libia. Nell’ottobre del 1943 il comitato della Tripolitania, che si era formato al Cairo tre anni prima, stabilì un programma che invocava l’unità territoriale della Libia senza alcuna divisione, opponendosi alla politica dell’occupazione, rivendicando l’indipendenza incondizionata e lanciando un accorato appello ai cittadini libici affinché sostenessero l’unificazione del proprio Paese. Vi furono, poi, alcuni movimenti che tentarono di porsi come collanti tra le due regioni. Va menzionato, in particolare, il Comitato per la liberazione della Libia guidato da Bashir al- Saadawi, che ebbe l’ambizione di riunire i diversi gruppi nazionalisti delle due regioni tanto che, potremmo dire, più che un partito era una sorta di “intermediario” tra le varie fazioni. Il suo programma, oltre che al raggiungimento dell’indipendenza, mirava alla collaborazione con la Lega araba e alla lotta per l’unità del Paese32. Nonostante tutto, tale

32 Interessante notare come nel primo memorandum che il movimento indirizzò alla commissione di investigazione (nata nel marzo 1948 per stilare un rapporto sulle condizioni dei territori e sulle aspirazioni politiche della popolazione) si chiedeva l’indipendenza e l’unità della Libia e si ribadiva come la Libia unita dovesse essere caratterizzata da un’identità araba, plasmata attraverso la lingua araba, che aveva permesso l’interazione e la comunicazione tra arabi e berberi. Nel documento non vi era alcun riferimento alla religione islamica, a riprova del fatto che i partiti in quel momento non avessero pensato ad alcun legame con la

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proposta, che in un primo tempo aveva fatto balenare l’idea di una possibile coesione tra le varie anime della Libia, non raccolse il consenso dei gruppi della Cirenaica poiché mancava di ogni riferimento alla leadership di Idris al-Senussi. A ben guardare, infatti, nella regione la prospettiva di un’unione con Tripoli suscitava ben poco interesse e tutti gli sforzi erano per lo più diretti a ottenere l’autonomia della sola Cirenaica. Il Partito del congresso nazionale, infatti, negoziò con la Gran Bretagna l’indipendenza della regione senza menzionare in alcun modo l’unità fino a quando, poi, il primo giugno del 1949 il futuro re di Libia, con il sostegno degli inglesi, ne proclamò l’indipendenza nella forma di emirato.. Non si può però addossare la colpa alle “priorità” di Idris. La necessità di acquisire potere e indipendenza nella “sua” regione aveva fatto dimenticare al senusso qualunque spinta unitaria. E’ plausibile ipotizzare che il suo sguardo, per certi versi, non andasse oltre la Cirenaica. Era questa forse la sua idea di Libia? Difficile rispondere, ma si narra che qualche anno dopo, quando fu quasi costretto dagli inglesi a diventare il monarca di tutta la Libia, Idris disse: «A Tripoli non conosco nessuno, potrei fare solo il re della Cirenaica?». Probabilmente si tratta solo di una leggenda ma è pur vero che il re preferiva di gran lunga trascorrere il suo tempo a Bengasi e dintorni piuttosto che a Tripoli. Forse sarebbe più realistico dire che la Libia perse questo importante appuntamento con la storia perché nelle due regioni mancavano obiettivi comuni. In Tripolitania i partiti, al di là del leitmotif dell’indipendenza, non avevano realmente dei progetti coerenti con una possibile visione unitaria. Il discorso ideologico era praticamente assente e i leader, seppure si appellassero spesso all’unità del Paese, restavano l’espressione di gruppi ristretti che raramente riuscivano a mobilitare il consenso popolare. A sbloccare questa impasse, ma solo in maniera formale, fu l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che il 21 novembre del 1949, con l’adozione della risoluzione n. 289 sulle ex colonie italiane, decise il futuro del Paese, deliberando che la Libia, sorta dall’unificazione tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, sarebbe divenuta uno Stato sovrano che avrebbe raggiunto la piena indipendenza entro il primo gennaio del 195233. Nonostante le critiche di alcuni gruppi di opposizione, l’Assemblea costituente libica, formata da 60 membri in rappresentanza delle tre regioni, con la costituzione promulgata il 7 ottobre 1951, stabilì la nascita del Regno unito di Libia, con una Monarchia ereditaria e un sistema federale rappresentativo. Potremmo dire, con po’ di amaro sarcasmo, che le potenze internazionali unirono ciò che molti anni dopo, con l’intervento del 2011, avrebbero nuovamente diviso.

componente religiosa. Si veda in proposito A. Baldinetti, La formazione dello Stato e la costruzione dell’identità nazionale, in (a cura di) K. Mezran, A. Varvelli, «Libia fine e rinascita di una nazione», Donzelli, Roma, 2012, pp.3-20, p. 12 e ss. 33 Il testo può essere consultato in M. Khaddur, Modern Libya: A Study in Political Development Hardcover, Johns Hopkins Press, Baltimore, 1963, p. 341 e ss.

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In ogni caso, gli eventi successivi dimostrarono come la creazione di un’unità nazionale non fosse sufficiente per cementare l’idea di un Paese unito. La Libia che nel 1951 passò sotto il comando di Idris era una nazione unita quasi con la forza dalle ex potenze coloniali, in cui la famiglia dei senussi era l’unica in grado di offrire un fondamento identitario in Cirenaica ma non aveva alcun legame con la Tripolitania e con il Fezzan. Nel Regno unito di Libia l’unità non fu mai davvero raggiunta e il Paese divenne uno Stato indipendente senza aver conquistato una propria identità nazionale. Si trattava, invero, di una sorta di “indipendenza dipendente” in cui le ex potenze coloniali potevano occupare indisturbate quei territori, soprattutto per basi militari.. Era questa la contropartita che il re doveva offrire in cambio di aiuti per la ricostruzione e per il pareggio di bilancio, in grave e cronico deficit. Il monarca, infatti, non poté evitare di adottare un sistema in cui le province godevano di un alto grado di autonomia e in cui la coesistenza di due “capitali”, Tripoli e Bengasi, tradiva il connaturato bicefalismo di un Paese in cui i persistenti dualismi storico-antropologici e regionali erano oramai assurti al rango di veri e propri dualismi politici. Inoltre, il debole assetto statale era ancora incentrato sul sistema tribale in cui alcune “famiglie”, prima tra tutti quella dei senussi, godevano di un grande potere, mentre la Monarchia, priva di qualunque supporto ideologico, limitava la sua azione alla ripartizione delle entrate. E così, nella “nuova” Libia unitaria, fatta eccezione per sparuti gruppi nazionalistici, i cittadini libici si identificavano perlopiù con la famiglia, la tribù, la regione e, in senso ancor più generale, si consideravano parte della comunità islamica dei credenti ma non della nazione libica. La frammentazione libica fu anche aggravata dalla disastrosa condizione economica. L’assenza di scambi commerciali, l’alto tasso di disoccupazione, un reddito pro capite di 25 dollari l’anno, un tasso di mortalità infantile del 40% e un tasso di analfabetismo del 95%34 non contribuirono certo allo sviluppo di una coscienza statale ma, anzi, ne perpetuarono la dipendenza dalle potenze straniere. Da questo punto di vista, l’evoluzione della Libia post coloniale non differisce da quella di altri Paesi della regione. Come ricorda John Esposito: «Oggi, quando vediamo problemi di unità, stabilità, autoritarismo e mancanza di democrazia, dobbiamo ricordarci che questa è l’eredità di secoli di imperialismo europeo durante i quali le potenze coloniali si preoccupavano di perpetuare il loro dominio e la loro influenza piuttosto che costruire forti società democratiche. Questa già pesante autorità è stata aggravata dall’emergere di governi autoritari, i cui governanti ed élites si preoccupavano di prolungare la loro potenza e i loro privilegi, non la separazione dei poteri, la libertà di riunione, di parola e di stampa»35. Le

34 D. Vandewalle, A History of Modern Libya, Cambridge University Press, Cambridge, 2006, p. 53-55. 35 J. Esposito, L’Islam e la sfida della democrazia in Medio Oriente, in (a cura di) E. Brighi, F. Petito, «Il Mediterraneo nelle relazioni internazionali», Vita e Pensiero, Milano, 2009, pp. 57-69, p. 58.

19 divisioni etniche, tribali e religiose devono essere comprese nell’ambito del contesto di fragilità di quelle che sono forme relativamente nuove di moderno nazionalismo che combattono per soppiantare secoli di fedeltà etnica, religiosa, tribale e familiare. Guardando la situazione da questa prospettiva è facile capire come neppure il “monarca suo malgrado” riuscì a unire la Libia. L’inevitabilità del dover concedere grande spazio ai poteri provinciali e locali, rafforzando il ruolo delle varie tribù insediate nel territorio, unita alla persistente crisi economica, contribuì al perdurare di un sistema basato sulle disuguaglianze. Il Paese, che sulla carta ambiva a essere una Monarchia federale, nella realtà perpetuò e rafforzò un clientelismo su basi locali, forgiato sul ruolo dominante delle tribù. Era questa la Libia di re Idris che si stava avviando verso uno degli appuntamenti più importanti della sua storia, capace di mutarne inesorabilmente le sorti fino agli anni recenti: l’avvento di Gheddafi, il leader indiscusso che resterà alla guida del Paese per i 42 anni a venire, con tutte le conseguenze che avremo modo di vedere nelle prossime pagine.

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Capitolo 2

LA LIBIA DI GHEDDAFI

Era il 5 maggio del 1971, il tempo della cacciata degli italiani dalla Libia, quando Aldo Moro incontrò Gheddafi per la prima volta. Doveva discutere di forniture militari in cambio della liberazione di alcuni italiani imprigionati nel Paese e della possibilità per tutti di rientrare in patria. Il ministro degli esteri italiano fu costretto, durante tutto l’incontro, a guardare in alto perché il rais non scese mai da cavallo. Si tratta di un episodio poco noto e oramai consegnato al passato, ma che ben sintetizza la personalità dell’uomo che ha governato la Libia per una buona parte della sua storia contemporanea. Per quanto possa sembrare scontato ai più, infatti, è bene ricordare come la traiettoria politica, sociale ed economica della Libia sia inscindibilmente legata alla figura di Muammar Gheddafi, il leader maximo che ha retto le sorti del Paese per più di un quarantennio, attraversando numerose sfide che mai sono riuscite a scalzarlo dalle redini del potere. Il colonnello ha superato indenne le più importanti tappe della storia recente: le lunghe guerre intestine che hanno insanguinato il Medio Oriente negli anni della guerra fredda, il crollo del muro di Berlino e delle torri gemelle, le numerose crisi interne e internazionali, dalla guerra col Ciad agli attentati terroristici di Lockerbie, dal braccio di ferro con gli Stati Uniti di Ronald Reagan che il 15 aprile del 1986, in risposta alle sue frequenti “intemperanze”, lo punì bombardando Tripoli36, fino alla conversione post 11 settembre, culminata nella riapertura delle relazioni diplomatiche con Washington e nel trattato di amicizia con l’Italia37.

36 Il 14 aprile 1986 gli Stati Uniti sferrarono tre attacchi aerei sulla Libia, 24 aerei americani attaccarono la capitale libica e altri sei obiettivi, distruggendo la residenza di Muammar Gheddafi. Fu un’operazione decisa dall’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, in risposta all’attentato alla discoteca «La Belle» di Berlino del 5 aprile del 1986, frequentata da soldati americani, con un bilancio di tre morti e 250 feriti. In realtà si trattava, per gli Stati Uniti, dell’ennesima “goccia che aveva fatto traboccare il vaso”. I rapporti tra il mad dog di Tripoli e il presidente americano erano tesi già da molto tempo, tanto che questo attacco può essere considerato una più generale punizione per le frequenti sregolatezze di Gheddafi, accusato di finanziare e sostenere vari gruppi terroristici. 37 Il Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione è stato firmato a Bengasi il 30 agosto del 2008 dal leader libico Muammar Gheddafi e dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Il testo, assieme a una sua esaustiva spiegazione, può essere consultato in: (a cura di) N. Ronzitti Il Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione, in «Contributi di istituti di ricerca specializzati del Servizio affari internazionali», Senato della Repubblica, n. 108, gennaio 2009.

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Come profeticamente scriveva Mirella Bianco nel 1974: «Gheddafi è spinto da forze che potrebbero portarlo molto lontano […] finché ne avrà la possibilità fisica – in altri termini finché resterà in vita – non abbandonerà»38. E così è stato. Chi era davvero Gheddafi, l’uomo che ha messo in crisi le principali cancellerie internazionali e ha costretto gli uomini più importanti del mondo a estenuanti attese davanti all’oramai nota tenda berbera? Si tratta indubbiamente una figura ambigua e poliedrica: un militare e rivoluzionario per alcuni, un visionario e saggio d’Africa per altri, il cane pazzo del Medio Oriente, secondo un celebre appellativo di Ronald Reagan. Comunque lo si voglia considerare una cosa è certa: Gheddafi è stato alla guida di un Paese che dal dopoguerra a oggi ha visto mutare la propria storia interna e internazionale più di molti altri Stati della regione. Troppo spesso la politica libica è letta solo in termini di petrolio o attraverso le ridondanti 39 e folcloristiche apparizioni di un «satrapo autoproclamatosi re dei re dell’Africa» , ma questo non basta per capirne la storia e soprattutto i più recenti eventi della primavera araba. Le prossime pagine, pertanto, intendono esaminare alcune delle caratteristiche della Libia di Gheddafi per capire le trasformazioni che egli ha impresso al Paese e che hanno contribuito a renderlo una delle sfide più complesse per la stabilità dello scacchiere mediterraneo. Una necessaria premessa. Sarebbe impossibile, in questa sede, raccontare di tutti gli eventi del quarantennio gheddafiano, dai controversi rapporti con l’Italia (di cui si dirà più avanti) con gli Usa e con molti altri attori internazionali e regionali, ai legami con il terrorismo internazionale. Qui ci limiteremo a descrivere l’impalcatura che il rais volle dare alla Libia, soprattutto da un punto di vista interno, per spiegare come questo assetto ne abbia forgiato il presente con tutti i suoi problemi di instabilità.

La rivoluzione del rais «Salvo che in Cirenaica dove la sua influenza è più antica e radicata, nel resto del Paese re Idris è riuscito a guadagnarsi il rispetto ma non la popolarità. La sua figura ieratica ha un rigore aristocratico e lontano. I libici lo rispettano ma quando Nasser parla alla radio è da quella voce e soltanto da quella che traggono speranze emozioni e fierezza di appartenere alla nazione araba». Secondo le parole di Carlo Casalegno, riportate su «La Stampa» il 6 marzo del 1963, era questa la Libia che sul finire degli anni sessanta si apprestava a vivere uno dei più grandi cambiamenti della sua storia. Vista da questa prospettiva non stupisce la facilità con cui nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre del 1969, con l’«Operazione

38 M. Bianco, Gheddafi. Messaggero del deserto, Mursia editore, Milano, 1974, p. 212. 39 S. Romano, Nascita, vita e morte di un satrapo autoproclamatosi ‘re dei re dell’Africa’, in «Corriere della sera», 21 ottobre 2011.

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Gerusalemme» (nome in codice con cui viene indicato il colpo di Stato), un manipolo di giovani ufficiali, guidati dall’allora ventisettenne Muammar Gheddafi, riuscì in poche ore a impossessarsi dei centri nevralgici del potere e a rovesciare la monarchia di re Idris. Si tratta di un successo che può essere considerato prevedibile alla luce dell’evoluzione politica ed economica che la Libia, come l’intero sistema mediorientale, stava attraversando nel corso degli anni cinquanta e sessanta. La nascita dello Stato di Israele e l’acuirsi della questione palestinese, la rivoluzione egiziana del 1952, l’inizio della guerra degli algerini per l’indipendenza dalla Francia, la conquista del potere da parte dei baathisti in Siria nel 1963 e in Iraq nel 1968, sono solo alcuni degli eventi che infiammavano il mondo arabo, compresa naturalmente la Libia, ancora sotto il dominio del debole senusso che non riusciva più a reggere il peso delle pressioni provenienti dagli sconvolgimenti nei Paesi vicini. In questo Mediterraneo in fermento, Gheddafi iniziò a tessere la sua “rete cospirativa”. Il giovane fu molto attento a cogliere i diversi segnali del malessere che la società libica nutriva nei confronti del proprio sovrano, il più clamoroso dei quali si manifestò nel 1967, in occasione della «Guerra dei sei giorni»40, durante la quale re Idris cercò di restare defilato e silenzioso, proprio nel momento in cui alcuni importanti Paesi arabi “fratelli” (Egitto, Giordania e Siria) venivano pesantemente umiliati da Israele. Il cauto atteggiamento del sovrano venne sconfessato dagli studenti, dagli ulema e, più in generale, da una parte della popolazione di Tripoli che tra il 2 e il 9 giugno del 1967 assalì la hara, il quartiere ebraico della città, e altre zone della capitale in cui vivevano gli ebrei e gli italiani. Fu un vero e proprio pogrom in cui furono saccheggiati i negozi e uccise almeno 17 persone. Così, nel modo peggiore che si possa immaginare, l’onda del panarabismo si infranse anche sulle coste libiche. Gheddafi, in una dichiarazione del 14 ottobre 1969, non mancò di ricordare: «Le cause della rivoluzione sono state molteplici: sociali non meno che politiche, economiche non meno che storiche […] Sta di fatto, comunque, che i moventi essenziali della rivoluzione sono da ricercarsi nel sottosviluppo in cui si trova il mondo arabo»41. La rivoluzione del 1969 va collocata nel più ampio contesto di fermenti politici che il Nord Africa e il Medio Oriente hanno attraversato negli anni della distensione, in cui da un lato le due superpotenze videro rafforzata la propria egemonia nell’area e dall’altro il panarabismo socialista di stampo nasseriano, dopo il fallimento dell’alleanza araba nella «Guerra dei sei giorni», iniziò la sua fase discendente. Nasser, forse stanco e deluso, volle quasi passare il testimone a Gheddafi, per cui provava una evidente simpatia. Forse gli

40 In sintesi, si tratta della terza guerra combattuta tra Paesi arabi (tra cui Egitto, Siria e Transgiordania) e israeliani dopo la proclamazione dello Stato di Israele nel novembre del 1947. Tra i vari testi scritti sul tema si veda: J. L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent'anni di guerra, Einaudi, Milano, 2007 41 M. Bianco, Gheddafi. Messaggero del deserto, cit., p. 91.

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ricordava la sua “età eroica” quando, con l’annuncio della nazionalizzazione del canale di Suez, aveva di fatto dato il via a quel sogno panarabo che aveva emozionato le masse egiziane e di tutti i Paesi che cercavano una sorta di rivincita morale dal passato coloniale. Nel suo ultimo viaggio in Libia il leader del Cairo tenne un discorso che può essere quasi interpretato come una sorta di testamento spirituale. «Domani partirò. Sento in me una nuova forza, un sangue nuovo. Sento che la Nazione araba si identifica in voi e che grazie a voi ha ritrovato l’antica fermezza. Perciò nel momento di distacco vi dico: il nazionalismo arabo, la rivoluzione araba e l’unità araba sono affidate al fratello Muammar»42. La rivoluzione libica può, dunque, essere considerata figlia del risorgimento arabo di Nasser ma sviluppa numerose peculiarità legate alle specificità storico-culturali, socio-politiche ed economiche del contesto locale e, per certi versi, anche una visione più concreta. Gheddafi aveva sempre considerato Nasser il suo maestro, o comunque il suo ispiratore, tuttavia, in un discorso pronunciato nel 1970 al suo funerale, dopo accorate ed empatiche parole di commiato, disse: «Egli avrebbe potuto fare ciò che abbiamo fatto noi in Libia, instaurare lo Stato delle masse […] Nasser era un pragmatico, non si curava di teorizzare la sua azione e pensava anche che è l’azione che crea la teoria. E’ questa a mio avviso una delle principali cause della scomparsa del nasserismo»43. Con queste parole il rais libico sembrò preannunciare il proprio progetto per il futuro del Paese: essere l’erede del presidente egiziano e riuscire là dove egli aveva fallito. Gheddafi sapeva bene che la Libia - che allora contava si e no 2 milioni di abitanti- non era certo il gigante da più di 70 milioni di abitanti di Nasser. Nonostante tutto non si lasciò prendere dallo sconforto ma, anzi, fece un passo in avanti. L’8 aprile del 1972, in un discorso all’Unione socialista araba (il partito unico che aveva creato per la mobilitazione delle masse) dichiarò di concepire il ruolo del suo Paese similmente a quello della Prussia nell’unità tedesca o del Piemonte nell’unità italiana. A venire in aiuto al novello Bismarck fu il petrolio che iniziò in quegli anni a zampillare da alcune zone della Libia. Questa insperata ricchezza ebbe l’immediato effetto di rendere più attraenti le iniziative di Gheddafi con i Paesi vicini, come l’idea dell’unione delle Repubbliche arabe con Siria ed Egitto. Le cose, però, non presero mai la piega sperata e il rais dovette accantonare i suoi “progetti matrimoniali”, digerendo a fatica la delusione più cocente: il fallimento dell’unione con l’Egitto del suo mentore Nasser, sostituito dopo

42 M. Vignolo, Gheddafi, Rizzoli, Milano, 1982, p. 46. 43 H. Barrada, M.Kravetz, M. Whitaker, Kadhafi. Je suis un opposant à l'échelon mondial, Favre, Lausanne, 1984, pp. 86-87.

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la morte da Anwar Sadat, molto più vicino a Israele - con cui firmò lo storico accordo di Camp David del 197844 - che al sogno nazionalista di Gheddafi. Al di là del ruolo ispiratore del presidente egiziano, quel che qui conta sottolineare è che su queste basi verrà forgiata la Libia del quarantennio a venire. Un Paese fortemente connotato dalla potente figura del rais, capace di forgiarne il tessuto politico, sociale, religioso ed economico con caratteri che ancora oggi ne permeano le fondamenta e che possono aiutarci a comprendere le principali difficoltà di un Paese che stenta a intraprendere un proprio cammino.

La Jamahiriya. Terza via universale del nulla istituzionale Come ben ricorda Angelo del Boca in un libro dedicato alla controversa figura del rais: «E’ dal contatto quotidiano con una società informe, per certi versi ancora arcaica, per altri appena alle soglie del mondo moderno, che Gheddafi scopre l’immenso vuoto che ha ricevuto in eredità da re Idris e che avverte la tentazione irresistibile di colmarlo con istituzioni del tutto nuove, audaci e ancora tutte da definire»45. Non appena salì al potere, come davanti a un foglio bianco, il colonnello iniziò a disegnare la “sua” Libia, una personalissima idea di Stato esposta nel «Libro verde», che potremmo definire il vangelo di Gheddafi46, prodotto in 53 lingue e stampato in milioni di copie, in cui il rais intense elaborare un progetto politico e sociale radicalmente alternativo a quelli occidentali. In questo testo, diviso in tre parti rese pubbliche tra il 1973 e il 1979, il colonnello sintetizzò quella che ambiziosamente chiamerà “terza via universale” dopo comunismo e capitalismo, incarnata nella Jamahiriya, il governo delle masse. Le critiche del colonnello al comunismo e al capitalismo emergono anche in un’interessante intervista rilasciata al giornalista della Bbc Adam Curtis negli anni settanta. «Il comunismo», disse Gheddafi, «segue una filosofia atea e noi la rifiutiamo perché siamo credenti […] Rifiutiamo invece il capitalismo perché significherebbe il controllo dell’economia da parte di monopolisti privati» 47 . Parole piuttosto semplici e per nulla originali, si potrebbe obiettare. Eppure il libro ha fatto scrivere pagine e pagine agli studiosi. Per alcuni Gheddafi si sarebbe addirittura ispirato alla teoria rousseauiane 48 . Lo stesso rais non mancò di affermare, in un’intervista del 1970 al

44 Si tratta degli accordi conclusi al termine dei negoziati segreti svoltisi a Camp David e sottoscritti poi alla Casa Bianca dal presidente egiziano Anwar Sadat e dal primo ministro israeliano Menachem Begin il 17 settembre del 1978, sotto l’auspicio dell’allora presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter che condussero al trattato di pace israelo-egiziano del 1979 e al ritiro delle truppe israeliane dal Sinai. 45 A. Del Boca, Gheddafi. Una sfida dal deserto, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 65. 46 Sui concetti cardine del «Libro verde» si rinvia, tra gli altri, a M.M. Ayoub, Islam and the Third Universal Theory: The Religious Thought of Mu’ammar Al-Qadhdhafi , Kegan Paul International, London, 1991. 47 Il video dell’intervista è disponibile anche al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=0NAwSrcdAkA. 48 Si veda ad esempio: S. Hajjar, The Jamahiriya Experiment in Libya: Qadhafi and Rousseau, in «The Journal of Modern African Studies», n. 18, 1980, pp. 181-200.

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quotidiano francese «Le Monde», di aver letto con grande passione gli autori considerati i padri della rivoluzione francese e in particolare il «Contratto sociale» di Jean Jacques Rousseau che gli era parso sin da subito di grande attualità per la Libia. In altre successive interviste, però, ammise candidamente di non averlo mai letto. Per i più, invece, il «Libro verde» altro non è che un amalgama di teorie di cui neppure il rais aveva appreso in pieno il contenuto teorico. John Cooley commenta così le tesi del rais: «Sembra che molte di queste idee, Gheddafi le abbia tratte da letture vaste ma certamente scelte a caso, da traduzioni arabe concernenti un guazzabuglio di filosofia, sociologia, storia e pseudo-storia, Locke, Montesquieu, un pizzico di Houston, Chamberlain, una ventata di teoria fascista applicata negli Stati corporativi di Mussolini e nel Portogallo di Salazar»49. Si potrebbe anche ipotizzare che molte delle “invenzioni” del rais siano nate dal contatto con la gente. Angelo Del Boca racconta che, soprattutto nei primi anni del suo “regno”, egli amasse mescolarsi alla gente battendo il Paese in lungo e in largo, visitando i cantieri, i locali di ritrovo, gli ospedali50. Con un controllo quasi orwelliano aveva fatto togliere comode poltrone dai pubblici uffici, lasciando ai funzionari una spartana sedia. Dopo le sue ispezioni, evidentemente, il libico non gli era parso abbastanza solerte nel suo lavoro. Al di là degli aneddoti, va rimarcato come quella di Gheddafi voleva essere una rivoluzione veramente totale, capace di investire non solo l’ambito politico ed economico, ma perfino quello ideologico. A suo tempo questo aspetto non fu compreso né sufficientemente valorizzato, anzi, fu quasi ovunque disprezzato e deriso. Del resto lui stesso parlava della sua ideologia in termini talmente enfatici ed esagerati da rasentare il grottesco, basti pensare, come già sopra ricordato, che autodefiniva il suo progetto “la terza via universale”, sostenendo che sarebbe stata la “soluzione definitiva” di tutti i problemi politici, economici e sociali dell’umanità intera. Insomma, un modo per buttare via in un solo colpo secoli di lotte che hanno portato alla democrazia liberale o al socialismo fondato sulla lotta di classe. Qualunque sia il giudizio sui fondamenti dottrinali e sulla reale fonte di ispirazione della “soluzione” del rais, qui conta comprendere come Gheddafi non si sia limitato a criticare, seppure pure in modo confuso e contraddittorio, i sistemi politici esistenti, ma abbia elaborato uno suo personale modello di governo ritenuto universalmente applicabile. Il rais non credeva né nello Stato né nella democrazia come concepita dalle potenze colonizzatrici. Il parlamento nel «Libro verde» era definito come una rappresentanza ingannatrice del popolo, mentre i sistemi parlamentari come una falsa soluzione del “problema della democrazia”. I partiti erano considerati la dittatura contemporanea e il referendum una frode

49 J. Cooley, Gheddafi e la rivoluzione libica, Corno editori, Milano, 1983, p. 195. 50 A. Del Boca, Gheddafi una sfida nel deserto, cit., p. 25.

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della democrazia51. L’unica autorità, a suo dire, era del popolo e per questo costruì un complesso sistema di democrazia diretta, basato su congressi popolari di base, comitati popolari e sindacati di categoria. Tutti i cittadini erano automaticamente membri del Congresso popolare. I 600 congressi popolari di base, i comitati popolari da essi espressi e i sindacati dovevano scegliere assieme i rappresentanti del congresso generale del popolo che delegava, a sua volta, un comitato popolare incaricato di attuare le linee politiche decise dai congressi popolari di base. Nel 1977 Gheddafi introdusse i comitati rivoluzionari, che avrebbero dovuto definire le ulteriori tappe della rivoluzione, ma nella realtà finirono per controllare e condizionare tutta l’architettura istituzionale precedente, diventando architravi del potere e attuando le politiche indicate dal solo leader in qualsiasi campo. Nel 1979 rinunciò a ogni carica e si fece chiamare semplicemente “la guida della rivoluzione”. Nonostante ciò restò l’unico uomo al potere. Insomma, la Jamahiriya era, ed è restata fino alla fine, un’utopia che voleva mascherare un inasprimento della dittatura che presto si stava trasformando in tirannia personale di Gheddafi sulla Libia e sui libici. A riprova di ciò il rais riuscì a indebolire, se non ad annientare, l’esercito (uno degli attori di maggior peso in molti altri Paesi della regione) tanto che, nel 1988, venne addirittura sciolto. Già nel 1975 un’opposizione interna al consiglio di comando della rivoluzione, capeggiata da alcuni dei 12 ufficiali che avevano organizzato la rivolta del 1969, ordì un colpo di Stato contro il colonnello. Fu per lui un motivo di grande delusione, visti i legami con gli “amici della grande avventura” i cui “superstiti ha continuato a frequentare fino a tempi recenti; soprattutto l’amico Mustafa al-Kharroubi. Da lì in poi partirono una serie di epurazioni, giustificate sia dai tentativi di golpe ai suoi danni (nel 1975, nel 1993 e nel 1995, solo per ricordarne alcuni) sia dalla presunta collusione di alcuni Giovani ufficiali con la guerriglia islamista. Tutto ciò contribuì a fiaccare le forze armate libiche che furono prontamente sostituite da nuovi corpi militari e paramilitari, come la guardia rivoluzionaria, a cui furono affiancati i servizi segreti, natu- ralmente alle sole dipendenze del leader. Il rais, poi, “ristrutturò” l’organizzazione della sicurezza della Jamahiriya, con le sue sezioni per l’interno e l’estero e l’intelligence militare. Anche l’esercito, insomma, venne deliberatamente indebolito e le forze armate poste sotto il controllo del rais. Da questi brevi cenni è facile comprendere come, in questo vuoto istituzionale, privo di una coscienza statale, e prima ancora di una coscienza nazionale unitaria, la morte del leader libico che da solo aveva

51 Il Libro verde di Gheddafi, da cui sono tratte queste citazioni, è anche disponibile on line nella sua versione integrale e tradotta in italiano al seguente link: https://gruppo-zero.noblogs.org/files/2011/03/gheddafi-il-libro- verde.pdf.

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retto tutta l’architrave dello Stato, ha inevitabilmente prodotto il caos nel Paese e un rinnovato revanscismo su base localistica che ha frammentato la mappa del potere in una miriade di attori (tribù, milizie, città Stato) in lotta tra loro. E’ anche questa l’eredità che Gheddafi ha lasciato al suo popolo.

La società divisa Nella Libia che Gheddafi ereditò da re Idris trovò un assetto statale ancora incentrato sul sistema tribalistico. Se si fa eccezione per sparuti gruppi nazionalistici presenti nel Paese, i cittadini libici si identificavano perlopiù con la famiglia, la tribù, la regione e, in senso ancor più generale, si consideravano parte della comunità islamica dei credenti ma non della Nazione libica. A Gheddafi di certo non sfuggì il ruolo identificativo tribale nell’impalcatura statale. Per questo durante il suo “regno” manipolò abilmente a proprio vantaggio la natura tribale della società, senza però sovvertirla. Smantellare “un’istituzione” tanto radicata nel contesto politico e sociale sarebbe stato non solo difficoltoso ma anche pericoloso per il mantenimento del proprio potere. Avere contro il sistema tribale avrebbe significato non avere l’appoggio delle più influenti personalità libiche, che a loro volta eser- citavano il proprio potere sui membri delle rispettive qabile. Per questo motivo, se da un lato abolì le suddivisioni amministrative su base tribale che aveva creato re Idris, dall’altro trasformò in ideologia ufficiale dello Stato la rappresentazione non statale del potere propria della cultura delle tribù. Emblematiche, in questo senso, le parole che Gheddafi dedicò loro nel «Libro verde»: «La tribù (qabila) è la famiglia che si è ingrandita a seguito della riproduzione. Dunque la tribù è una grande famiglia. La Nazione è la tribù che si è accresciuta a seguito della riproduzione. Dunque la Nazione è una grande tribù»52. Al di là della retorica necessaria per coagulare intorno a sé il potere tribale, nell’atto concreto le qabile divennero parte fondante dell’impalcatura identitaria libica teorizzata da Gheddafi, un’identità costruita in chiave anti-colonialista e anti-imperialistica e con il costante bilanciamento dell’appartenenza locale, attraverso un “power sharing” reso possibile dalla redistribuzione dei proventi petroliferi del “suo” rentier State. Il rais cercò, poi, di ridurre la rilevanza sociopolitica dei capi clan con un non troppo difficile sistema di pesi e contrappesi, di cooptazione nel regime o di marginalizzazione, giocando anche sulle storiche rivalità interne per meglio controllare tutte le fazioni. Il bastone e la carota, potremmo dire. A ciò faceva da contraltare un sistema statale debolmente istituzionalizzato in cui i rapporti personali erano assurti a ruolo politico, in una struttura in cui lo Stato, “gheddafianamente” concepito, e le qabile più fedeli vissero, per lo meno per un certo periodo, in una simbiosi quasi perfetta. Lo Stato aveva bisogno della tribù a livello

52 Ibidem.

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simbolico e culturale, le tribù avevano bisogno dello Stato per procurarsi le risorse e continuare a esistere. Il colonnello, molto pragmaticamente, nominò esponenti delle tribù più importanti (i Magarha53 e i Jawari54, solo per fare alcuni nomi) a capo di ministeri, ambasciate e forze armate, distribuendo denaro, terre e posti di lavoro e favorendo i legami di sangue attraverso matrimoni tra i diversi gruppi. Viceversa escluse le tribù avverse o considerate troppo pericolose per il mantenimento della sua leadership, in particolare quelle della Cirenaica, potenzialmente più ostili al regime perché legate storicamente alla confraternita della senussia e alla precedente monarchia. Giova fare un esempio. Il fallito colpo di Stato del 1993 fu orchestrato da alcuni giovani capitani dell’esercito appartenenti alla tribù dei Warfalla, una delle più “blasonate” e numerose nel panorama clanico della Libia, che era stata in prima linea nella rivolta dei Giovani ufficiali. Fino al 1993 i Warfalla costituivano, tra l’altro, la maggioranza nell’esercito. Nonostante ciò, nel tempo crebbe il risentimento per il sistema redistributivo del rais, collegato in via precipua a quello delle ricchezze petrolifere. I Warfalla avevano capito in anticipo che Gheddafi e “i suoi” si avviavano a monopolizzare tutto il potere politico ed economico, come è poi regolarmente avvenuto. Saranno proprio loro a insorgere per primi nelle rivolta libica del 2011, insieme alla tribù degli Zuwwaya, che vive sull’asse petrolifero dell’est libico. Da questo punto di vista non è difficile immaginare come le rivolte del 2011, e la conseguente dissoluzione dello Stato, abbiano rinvigorito la componente tribale nell’identità libica, favorendo la riemersione di quei gruppi che negli anni erano stati sempre più marginalizzati dal regime.

La religione e lo “strano rapporto” con l’islam I liberi ufficiali che conquistarono il potere nel 1969 non ereditarono uno Stato forte né una moderna concezione di democrazia né tantomeno una società integrata, quanto piuttosto un sistema, per certi versi, privo di basi storiche, ideale per costruire ex novo un regime. Gheddafi, nell’intento di dare un fondamento universalistico alla costruzione del nuovo Stato, puntò su un orientamento panarabo ma anche islamico. In pochi Stati musulmani è possibile trovare una così netta distinzione tra potere temporale e autorità religiosa, tra sfera politica e spirituale. Eppure, e qui sta il grande paradosso, proprio Gheddafi è stato il primo tra i leader arabi a consolidare la componente islamica delle sue argomentazioni e a reintrodurre nel linguaggio politico molte categorie dell’islam.

53 Una delle più numerose del Paese (che raggruppa circa il 10% della popolazione) a cui appartenevano Abdel Jalloud (ex numero due del regime) e Abdallah Senussi (marito della sorella della seconda moglie di Gheddafi). 54 Tribù della Tripolitania da cui provenivano due altri membri del consiglio rivoluzionario: Kweldi al-Humaidi e Mustafa al-Kharroubi.

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Già prima della stesura del «Libro verde» il leader libico operò una scelta radicale, attribuendo all’islam la funzione di unità e identità necessaria all’evoluzione del Paese. Il primo segno di questa svolta è contenuto nell’articolo 2 della costituzione provvisoria dell’11 dicembre del 1969 che recitava: «l’islam è la religione di Stato». Superando le posizioni dei riformisti e anticipando di un decennio quelle degli integralisti islamici, Gheddafi si propose di reinterpretare il corano per dimostrare come esso contenesse tutti i precetti necessari per realizzare una società moderna e funzionale. Per rafforzare la sua teoria, durante la prima conferenza missionaria islamica, convocata a Tripoli nel dicembre del 1970, non esitò a dire che l’islam ha una vocazione universale ed è la più progressista di qualunque ideologia rivoluzionaria. Questa rilettura, se da un lato voleva innalzare la fede islamica quale corpus identificativo del nuovo Stato, dall’altro intendeva depauperare il clero di ogni potere sui testi sacri. Il colonnello, infatti, sintetizzò una totale divisione tra il corano e la sharia (il sistema giuridico musulmano) e tra il corano e gli hadit (l’insieme delle tradizioni relative agli atti e alle parole del profeta) considerati appannaggio degli ulema (depositari e tutori della legge religiosa) e dunque un’opera umana e non di fede. Per questo il rais venne additato dai religiosi alla stregua di un apostata. Il percorso del leader libico verso questa “consapevolezza” è stato graduale. In origine la sua visione ricalcava le idee nasseriane e del partito Baath55 poichè enfatizzava l’unità araba e l’opposizione al colonialismo. Per questo motivo, operando un parallelismo tra Nasser e Gheddafi, François Burgat sottolinea che quest’ultimo, «più arabista di Nasser ma anche più musulmano di lui, ha contribuito a reintrodurre i riferimenti religiosi nel discorso unitario. Rinnegato oggi dalla maggioranza dei movimenti islamici, il figlio spirituale del rais [Nasser nrd] appare, tuttavia, come quello che tra i leader arabi ha più rafforzato la componente islamica del proprio discorso, spostando il centro di gravità ideologica dell’arabismo nasseriano»56. A partire dalla fine degli anni settanta, però, il colonnello arricchì la sua dottrina di una nuova dimensione, propugnando una forma estrema di scritturalismo islamico in cui il corano, e non la sunna57, era l’autorità su cui fondare la ricostruzione della società. Lo scritturalismo islamico, sommato al populismo, distrusse l’autorità degli ulema e fece di Gheddafi la figura centrale di questa nuova variante del modernismo islamico che si palesò

55E’ il Partito socialista della rinascita araba che nasce in Siria nel 1953 dalla fusione tra il Partito della rinascita araba e il Partito socialista arabo. Il carattere panarabo ne ha poi favorito la diffusione negli Stati arabi vicini, e in particolare in Iraq. 56 F. Burgat, Il fondamentalismo islamico. Algeria, Tunisia, Marocco, Libia, Sei, Trapani, 1995, p. 31. 57 Si intende, in estrema sintesi, la tradizione. In particolare, la consuetudine di Maometto nelle varie circostanze della vita, che, salvo casi eccezionali, ha valore di norma per i credenti ed è proposta loro come esempio da imitare

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nella dissociazione tra la dottrina musulmana e la morale coranica. Si trattava di una nuova interpretazione delle letture sacre basata sul presupposto che nessuno deteneva il monopolio della verità del testo religioso. Era pertanto necessario elaborare nuove interpretazioni del testo coranico compatibili con le evoluzioni del mondo. Così il rais adottò una posizione tendente a una sorta di “secolarizzazione”, intesa non come «separazione completa tra Stato e islam, ma come una separazione tra dottrina musulmana e messaggio coranico» 58 . Emblematico, in tal senso, l’appassionato discorso che il 3 luglio del 1978 Gheddafi fece a un gruppo di ulema libici e iracheni, raccolti nel recinto della moschea Mulay Muhammad di Tripoli. Il colonnello operò una netta distinzione fra il corano - parola rivelata ed eterna- e la sharia, che considerava una legislazione elaborata dagli ulema attraverso i secoli, dicendo: «Considero la sharia come un diritto positivo esattamente come il diritto romano, il codice napoleonico e tutte le altre leggi elaborate da giuristi francesi, italiani, inglesi e musulmani […] Ritengo che gli studiosi dell’islam abbiano elaborato un diritto positivo che regge bene il confronto con il diritto romano. Ma io non dirò mai che si tratta di religione: è un diritto positivo ammirevole, elaborato da musulmani, da uomini di cultura musulmana, di orientazione musulmana, che sono il prodotto della terra dell’islam»59. Con queste parole, rivelando, peraltro, una notevole conoscenza del corano e della storia dell’islam e dimostrando di possedere tutti i requisiti per tener testa a un consesso di ulema agguerriti e ostili, Gheddafi contestò energicamente il monopolio dell’interpretazione del testo sacro detenuto dai religiosi. A pensar male si commette peccato, ma è facile sospettare che con questo complesso ragionamento Gheddafi abbia voluto soltanto fare della religione un ulteriore strumento nelle mani del regime per la conservazione del potere, nonché un’arma eccellente per limitare qualunque opposizione islamista. Come si avrà modo di vedere più avanti questa impostazione complessa del rapporto tra Stato e religione non impedì la formazione di movimenti di opposizione di matrice islamista, come ad esempio il Gruppo combattente islamico libico (Gcil), attivo soprattutto nell’est del Paese, che seppure per un breve periodo fece tremare il regime. Alcuni di questi gruppi, durante le rivolte del 2011, hanno combattuto sotto “l’ombrello” delle forze Nato per liberare la Libia dal dittatore e oggi costituiscono una delle principali minacce alla stabilità del Paese.

58 M. Djaziri, La Libye: construction de l’Etat, transformation sociale et adaptation internationale, in (a cura di) P. Gandolfi «Libia Oggi», I quaderni di Merifor, Venezia, 2005, pp. 25-39. 59 Testimonianza riportata in A. Del Boca, Gheddafi. Una sfida dal deserto, cit., pp. 85-86.

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L’economia di un rentier State Economicamente sottosviluppata, demograficamente povera e priva di una chiara identità nazionale, la Libia post-idrissina, che Gheddafi sul finire degli anni sessanta si apprestava a governare, era un Paese potenzialmente ricco e tale sarebbe diventato a mano a mano che le grandi compagnie petrolifere avrebbero scoperto le immense ricchezze del sottosuolo. A differenza di altri leader dei Paesi emergenti il rais ebbe sempre a disposizione i mezzi finanziari necessari al perseguimento dei suoi obiettivi e forse tanta abbondanza lo ha spinto a concepire sogni smisurati e finanche stravaganti. La scoperta della nuova e insperata fortuna su cui poggiava la Libia coincise, infatti, con l’inizio della rivoluzione di Gheddafi e per questo la rivoluzione del rais ha al suo attivo risultati non comuni tra i Paesi in via di sviluppo dell’area mediterranea e africana, basti pensare che le entrate dello Stato crebbero da 3 milioni di dollari nel 1961 a più di un miliardo nel 196860. Non stupisce come “lo scatolone di sabbia” si sia presto trasformato in una miniera d’oro, uno degli Stati più ricchi della regione nordafricana. La Libia, fino al 2011, ha avuto un reddito pro capite di quasi 13.000 dollari; un valore ben diverso da quello dei vicini tunisini (poco più di 4.000 dollari nel 2011) ed egiziani (6.000 dollari circa nello stesso anno) ma anche da quello della Libia odierna (4.500 dollari circa)61. Con un’economia basata per circa il 95% sulle esportazioni di greggio la Jamahiriya può essere considerata a tutti gli effetti un rentier State62 e come tutti i rentier mediorientali si è trovata a disporre di una ricchezza sterminata la cui redistribuzione è stata fondamentale per garantire la stabilità del regime. L’equazione è semplice: il controllo delle risorse che generano la rendita è concentrato nelle mani dell’autorità che può utilizzarlo per reprimere o cooptare la popolazione. Nel rentier State a produrre la rendita è un’esigua minoranza (il 2 o 3% della popolazione) e ancor più ristretta è l’élite di governo che ne risulta la principale (o unica) usufruttuaria e la gestisce. In un contesto così strutturato governa solo la minoranza della popolazione che beneficia della rendita petrolifera, mentre la maggioranza è coinvolta nella sua redistribuzione. Il rapporto tra lo Stato e il cittadino non è, dunque, frutto di un patto garantito da precise regole costituzionali, quanto piuttosto una relazione economica a diversi gradi di privilegio, una sorta di rent allocation del governante che garantisce incentivi statali a seconda delle possibilità di accesso alla sua “benevolenza”. In molti Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, a causa della gestione tribale o “familiaristica” del potere, questo sistema diventa ancor più marcato fino a escludere interi

60 M. Iozzolino, La Libia. Geopolitica e geoeconomia tra mondo arabo, Africa e Mediterraneo, Giappichelli, Milano, 2003, p. 88. 61 Dati in World Bank. Anni vari. 62 Tra i più completi contributi sulla definizione e strutturazione di un rentier State si veda: H. Beblawi, The Rentier State in the Arab World, in (a cura di) G. Luciani «The Rentier State. Nation, State and Integration in the Arab World», Routledge, New York, 1987, pp. 85-98.

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settori della popolazione. Tanto per fare un esempio, in Iraq, fino alla caduta del regime nel 2003, erano favoriti dalle prebende del regime i cosiddetti Tikriti, i fedeli di Saddam Hussein originari del suo stesso villaggio, Tikrit, o i federati alla sua tribù d’origine. Dopo l’invasione americana, gli equilibri sono cambiati a vantaggio delle milizie sciite e di alcune tribù locali. Viceversa in Arabia Saudita a essere discriminati, se non direttamente perseguitati, sono stati gli sciiti della regione dell’al-Hasa, la più vasta oasi del mondo che contiene numerosi pozzi di petrolio del Paese e in cui risiede una delle più consistenti minoranze sciite. Il colonnello non si è mai sottratto a questo modus operandi e, nel corso degli anni, ha usato l’arma della redistribuzione delle rendite in maniera tutta politica. In particolare, se in un primo momento mise le ricchezze petrolifere al servizio della rivoluzione, servendosene per costruire tutte le istituzioni della Jamahiriya, ma anche per spese militari utili alle sue avventure di vario segno in Africa e Medio Oriente, nel corso degli anni non fece nulla per migliorare la redistribuzione delle risorse, confluite nelle tasche della tribù in maniera proporzionale alla fedeltà dimostrata. Il regime libico ha goduto degli introiti petroliferi e degli investimenti stranieri, ma ha mantenuto uno strettissimo controllo su queste risorse, impedendo alla società libica di beneficiarne. La ricchezza è rimasta concentrata nelle mani di pochissimi, essenzialmente i familiari del rais, i membri del suo clan e le persone più strettamente legate a essi. E così le tribù della Cirenaica, pur appartenendo a un’area situata nel cuore dell’industria petrolifera, ricevevano poco o nulla da Tripoli, in quanto ritenute particolarmente ostili o sospette. Nel corso del tempo questo stato delle cose è divenuto sempre più evidente. Emblematiche le parole di Franco Rizzi: «Gheddafi non è amato dalla sua gente, a parte da coloro che vivono delle sue prebende come, ad esempio, le alte gerarchie delle forze armate, gli esponenti dell’intelligence, i capi dei comitati rivoluzionari e gli uomini della sua tribù. I libici della Cirenaica lo odiano perché il colonnello non ha fatto nulla per questa regione (divenuta libica grazie all’invenzione del colonialismo italiano, che l’unì alla Tripolitania e al Fezzan)»63. Negli ultimi anni la situazione di Bengasi e delle regioni orientali, storicamente più avverse al regime, è andata via via peggiorando rispetto a quella dell’area tripolitana e questa prolungata sperequazione ha finito per indebolire quella sorta di contratto sociale tra il regime e i cittadini, fondato sulla distribuzione della rendita e in base al quale la mancanza di libertà e di reale rappresentanza sono bilanciate da standard di vita dignitosi. In altre parole, se da un lato il regime libico ha consentito a una parte della popolazione di accedere a un livello di vita migliore di quello in vigore ai tempi della monarchia, dall’altro ciò non

63 F. Rizzi, Mediterraneo in rivolta, Castelvecchi, Roma, 2011, pp. 80 e ss.

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ha implicato un’automatica democratizzazione della vita politica interna così come, invece, vorrebbero le teorie della modernizzazione. L’esistenza di ingenti riserve di petrolio ha favorito la stabilizzazione di un regime caratterizzato dal dominio della minoranza e dall’uso arbitrario della violenza, tipico di un redistributive rentier State. Oltre a ciò va ricordato come natura di “rentier” abbia profondamente connotato il mercato del lavoro libico. Per quanto affidata a dinamiche esterne e aleatorie, la rendita petrolifera nel tempo si è dimostrata fonte di una tale ricchezza da diventare il perno dell’economia, fino a deprimere qualsiasi altro settore produttivo interno. Gheddafi avrebbe potuto facilmente migliorare le condizioni di vita della sua (relativamente scarsa) popolazione, anche soltanto redistribuendo una parte degli introiti petroliferi o, ancora meglio, creando le basi per il decollo di un’economia non petrolifera. Tuttavia si limitò a utilizzare parte della ricchezza nazionalizzata per sostenere programmi di welfare, assistenza sanitaria, istruzione ed energia elettrica gratuite e prestiti senza interessi. Si potrebbe dire che in questo non c’è nulla da criticare. Certo, ma a lungo andare, con una burocrazia elefantiaca ed inefficace, in cui era impegnato quasi l’80% della popolazione libica, questo sistema ha iniziato a traballare, soprattutto a causa delle sanzioni internazionali. Inoltre, la nuova politica economica aveva causato anche l’abbandono del Paese da parte della popolazione più qualificata che si era vista interdire qualunque attività di tipo privato o professionalizzante, tanto che nel 1981 si calcolavano tra i 50.000 e i 100.000 espatriati, mentre la Libia dipendeva sempre più da manodopera qualificata e tecnici stranieri. In sintesi, la presenza di grandi giacimenti di idrocarburi ha permesso di operare un take- off impensabile negli anni precedenti, con un impetuoso sviluppo dell’economia, divenuta esportatrice di capitale e importatrice di manodopera e da qui un reddito pro capite di gran lunga più elevato di quello dei vicini del nord Africa. Questo, però, non ha comportato benefici per tutta la popolazione, creando nel tempo crescenti sacche di malcontento. Il patto con la “gente libica” ha iniziato a vacillare perché il processo di State building e il flusso delle entrate petrolifere non sono stati capaci di procedere di pari passo, impedendo la costituzione di una vera classe borghese emergente e limitando, di conseguenza, le richieste di rappresentanza della società civile. Detta in altre parole, se è vero che, come ricorda amaramente Sergio Romano, «la libertà nasce quando è necessaria agli obiettivi di un ceto emergente»64, non vi fu mai nel Paese nessun attore interessato alla libertà del “suo” popolo. Nel regime di Gheddafi la libertà in tutti i suoi aspetti è stata completamente soffocata e il tenore di vita medio dei libici è notevolmente aumentato, grazie alla redistribuzione dei proventi del petrolio sotto forma di servizi sociali, tanto che nei primi anni furono costruiti più di 200.000 alloggi e scolarizzato circa il 99% dei bambini, ma i benefici per la

64 S. Romano, Con gli occhi dell’islam, Longanesi, Milano, 2007.

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popolazione avrebbero potuto essere maggiori se il colonnello non avesse speso una quantità enorme di denaro in armi e in guerre condotte dall’esercito libico o contributi per alimentare la lotta contro l’imperialismo a livello mondiale. D’altra parte il “banchiere del terrorismo”, come verrà appellato in occidente, non si preoccupò mai di far intendere il contrario. In una lunga intervista riportata anche dalla televisione italiana 65 , a precisa domanda sul sostegno all’Ira, all’Eta, alle Brigate Rosse, alla banda Bader Meinhof e al terrorista palestinese Abu Nidal rispose candidamente: «Noi appoggiamo le giuste rivendicazioni dei giusti popoli come quello palestinese. Sosteniamo l’Ira […] Condanniamo il terrorismo. Per noi, però, il terrorismo è anche fabbricare bombe atomiche, installare basi straniere in altri Paesi»66. Sarebbe certo interessante soffermarci più a lungo su questo argomento, ancora in parte racchiuso nei segreti delle intelligence mondiali ma un’ ulteriore digressione ci porterebbe ben oltre gli obiettivi di questa trattazione e pertanto ci fermeremo qui concludendo, però, con una consapevolezza: nella Jamahiriya, a differenza di altri Stati della primavera araba, non si soffriva la fame, nonostante ciò, l’impoverimento progressivo della popolazione, unito all’involuzione repressiva del regime e al palese e smisurato arricchimento delle tribù legate al rais, ha costituito uno dei detonatori della ribellione del 2011.

65 Intervista a Gheddafi, riportata nella trasmissione «Spazio 7» il 7 marzo del 1981 e disponibile, in parte, al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=xoUJoknraRA. 66 Ibidem.

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Capitolo 3

LA PRIMAVERA ARABA LIBICA E LE SUE ANOMALIE

Sovente si tende a collocare la rivoluzione libica nel più ampio spettro prospettico delle cosiddette primavere arabe, i movimenti di protesta che, tra il 2010 e il 2011, hanno interessato molti Stati del Nord Africa e del Vicino Oriente. Tuttavia, abbiamo già ricordato che non è possibile assimilare tout court i rivolgimenti del 2011 a un unico grande movimento. I Paesi della primavera araba hanno sperimentato simultaneamente delle rivolte popolari guidate per lo più da giovani e causate da un comune senso di insoddisfazione e frustrazione, ma questo non deve farci dimenticare che ci sono differenze sostanziali da Stato a Stato. Non esiste un’unica rivolta araba ma una serie di movimenti popolari collocati in altrettanto diversi contesti sociali, economici e politici. In Egitto e Tunisia, soprattutto nei primi giorni delle manifestazioni, le piazze erano colme di giovani senza un colore politico né una connotazione religiosa che in un contesto moderno e secolarizzato chiedevano lavoro, dignità e riforme e si scagliavano contro quei governanti e quei despoti riconosciuti come la fonte primaria di quell’infelicità araba tanto amaramente e magistralmente descritta dal compianto Samir Kassir67. A più di cinque anni di distanza forse ce lo siamo dimenticati ma, per lo meno all’inizio, quella grande massa di persone che affollava le piazze e le strade delle capitali nordafricane portava avanti una protesta morale ed etica. «Un rifiuto assoluto e senza mezzi termini dell’autoritarismo, della corruzione, del furto dei beni del Paese, del nepotismo, del favoritismo, rifiuto dell’umiliazione e della illegittimità […] Una rivoluzione di tipo nuovo. Una pagina della storia scritta giorno per giorno»68. Si è trattato di manifestazioni spontanee, senza un leader né un capo, innescate dal malcontento dinanzi alla dilagante corruzione, alle continue violazioni dei diritti umani e, soprattutto, al peggioramento delle condizioni di vita che in molti casi rasentavano la povertà estrema. Quelle egiziane e tunisine erano rivolte contro quelle dittature che, lette con la quiescente lente occidentale, parevano finanche “dolci” perché, fino a quel momento, capaci di nascondere sotto la cenere le fiamme che via via si accendevano negli animi dei loro popoli. Le richieste di cambiamento hanno avuto una forte

67 S. Kassir, L’infelicità araba, Einaudi, Milano, 2004. 68 T. Ben Jellun, La rivoluzione dei gelsomini. Il risveglio della dignità araba, Bompiani, Milano, 2011, p. 15.

36 risonanza e le manifestazioni si sono rapidamente trasformate in proteste di massa, troppo vaste per essere controllate dalle autorità e troppo repentine per poter essere gestite e guidate, per lo meno nella fase iniziale, dai gruppi politici. Ci sono state, poi, alcune rivoluzioni a metà come, ad esempio, quella algerina, sedata in tempi brevi e senza grossi spargimenti di sangue grazie alle elargizioni rese possibili dagli ingenti proventi petroliferi del rentier State e dal ricordo delle ferite inferte nella popolazione dal terribile conflitto degli anni novanta che ha generato un terrore diffuso per una possibile “deriva islamista”. In Siria, invece, quella che inizialmente era partita come una sollevazione popolare, con migliaia di manifestanti in tutto il Paese che chiedevano le dimissioni di Bashar al-Assad, ha avuto l’epilogo peggiore che si potesse immaginare: una guerra civile che ha fin qui mietuto più di 500.000 vittime. Ogni rivolta ha avuto le sue cause, i suoi sconvolgimenti e i suoi esiti e per questo, oggi, i Paesi che, all’inizio avevamo indistintamente chiamato “della primavera araba” appaiono come un prisma mutevole e in costante evoluzione. Si diceva, allora, che da quel momento nulla sarebbe più stato come prima, con la beata incoscienza di chi crede che la democrazia e la pace possano nascere dalla semplice volontà popolare. Gli eventi ci hanno dimostrato che non è così, per lo meno per alcuni Paesi. Da questo punto di vista sarebbe un errore interpretare gli eventi libici del 2011 come mere contingenze di quanto stava accadendo negli Stati confinanti. Nell’ex Jamahiriya le proteste hanno assunto una connotazione peculiare rispetto a quelle degli altri Paesi interessati dal fenomeno e per questo la Libia rappresenta una sorta di “eccezione regionale” sia per il modo in cui le rivolte hanno avuto inizio sia per come si sono evolute sia, infine, per le loro conseguenze. Sarà proprio l’analisi di queste “anomalie” a guidare il nostro viaggio nella primavera araba libica.

Le cause Il 15 febbraio del 2011 fu arrestato in Libia Fathi Turbil, un giovane avvocato difensore delle vittime di Abu Selim, il carcere tristemente noto per il massacro di oltre 1.200 detenuti – per lo più politici, attivisti e giornalisti – avvenuto il 26 giugno del 1996 in seguito a una protesta sulle condizioni della struttura. Subito dopo a Bengasi si verificarono scontri fra manifestanti e forze di polizia, sostenute da militanti del governo. I morti furono numerosi. Testimoni riferivano di vere e proprie esecuzioni da parte delle forze di polizia e delle milizie giunte da Tripoli e Beida. E’ la “giornata della collera”. Il 20 febbraio il bilancio delle vittime salì a 300 morti e molti denunciarono l’uso di armi pesanti contro i civili. In poco tempo la rivolta si allargò anche alla capitale, Tripoli, dove i contestatori diedero alle fiamme edifici pubblici. Iniziò da qui una rapida escalation di violenze che porterà il Paese in una guerra capace di mutarne per sempre le sorti. Molti parlavano, allora, di primavera

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araba libica. Tuttavia, se non per la tempistica, le rivolte libiche avevano davvero poco a che vedere con quelle dei vicini regionali. Sono state per lo più le tribù a essersi sollevate. Molto più esigua la presenza di giovani, intellettuali e delle masse operaie, composte in prevalenza da lavoratori stranieri. Non si intende dire che in Libia mancasse totalmente quello spirito “spontaneo” che è stato il seme delle rivoluzioni dei Paesi vicini. Tra tutti gli Stati che abbiamo ricordato la Libia era, per lo meno dal punto di vista delle libertà interne, uno dei fanalini di coda. Dietro all’apparente benessere – un reddito pro-capite decisamente più elevato di quello dei vicini, progetti di sviluppo faraonici tanto amati dai partner occidentali e un livello di scolarizzazione tutto sommato elevato - si nascondevano numerosi lati oscuri. La libertà di stampa non esisteva: i quattro quotidiani del Paese erano di proprietà del regime; tutte le notizie provenienti dall’estero erano filtrate dall’agenzia di stampa governativa «Jana»; le manifestazioni pubbliche non autorizzate venivano severamente punite. Inoltre, come ricorda Giovanna Ortù, italiana di Tripoli oggi presidente dell’«Associazione italiani rimpatriati dalla Libia», negli anni a Bengasi si era sviluppata una certa intellighenzia, docenti universitari e intellettuali particolarmente temuti e controllati dal rais a cui veniva impedito di insegnare, specie le lingue straniere69. C’erano, dunque, tutti i requisiti per una rivolta popolare. Tuttavia il movimento di protesta ha assunto pressoché dall’inizio una dimensione regionale e tribale per poi evolvere rapidamente ben oltre le manifestazioni di piazza e assumere i caratteri di una sanguinosa guerra civile, ma pur sempre di imprinting tribale e localistico. Non è un caso che le prime manifestazioni di dissenso siano partite da Bengasi, la capitale della Cirenaica, dove le proteste sono divenute quasi immediatamente violente. “La vecchia strega”, come Gheddafi chiamava la città, non si era mai piegata completamente al suo dominio ed era sempre stata un focolaio di ribellione, non solo in quanto abitata da tribù ostili rispetto a quella da cui proveniva il colonnello – la tribù dei Qaddhafa – ma perché qui le condizioni di vita erano peggiorate inesorabilmente. Il tasso di disoccupazione era salito di molti punti percentuali negli ultimi tempi. Nonostante le enormi rendite del petrolio e la fine delle sanzioni internazionali, il regime non era riuscito a garantire il benessere della popolazione, mentre l’economia nazionale (al di là dei proventi del greggio) aveva ben poco da offrire. In Cirenaica decine di migliaia di case vuote e mai terminate erano lì a dimostrare il fallimento dell’ultimo tentativo del regime di comprare il consenso di una popolazione sempre più ostile. Mentre si registrava da tempo una preoccupante e cronica carenza di abitazioni popolari, almeno il 30 % delle donne e dei giovani (oggi, in Libia, una persona su tre ha meno di 15 anni) nel 2010 era disoccupato. Seppure la revoca delle sanzioni abbia costituito senza dubbio un’importante boccata d’ossigeno per la società libica, sul piano politico ha

69 Giovanna Ortu è stata intervistata dall’autore nel marzo del 2017.

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generato una situazione estremamente pericolosa per il regime: i problemi della popolazione non potevano più essere addossati alle potenze occidentali e all’embargo imposto alla Libia, ma solo a Gheddafi e al suo governo. Perché siamo arrivati a questo punto? Le cause vanno ricercate in parte nella storia. Il colpo di Stato di Gheddafi può essere interpretato anche come la rivolta di alcune tribù, prime tra tutte quella del rais, contro il potere dei clan della Cirenaica e della monarchia senussita. Abbattuto il vecchio sistema, il leader libico impose il suo divide et impera tra tribù, capovolgendo, per certi versi, il sistema precedente. Le cariche pubbliche erano lottizzate sulla base dell’appartenenza ai clan e le assunzioni nella pubblica amministrazione avvenivano su base tribale. Su tutto dominava la redistribuzione dei proventi dell’oro nero, premio o punizione in base alla fedeltà mostrata al rais dai capi tribali. Un sistema che Gheddafi ha gestito per più di quarant’anni con un equilibrismo degno del miglior funambolo, ma che nel tempo ha iniziato a vacillare. Il motivo è semplice: il meccanismo si era inceppato. Nel sistema redistributivo troppo era stato preso dai fedeli del colonnello; la sua tribù, assieme ad altre come quella dei Maqariha del compagno di rivoluzione Abdessalam Jallud, poi “allontanato” dal rais, avevano monopolizzato pressoché tutti i settori dell’economia al prezzo di sanguinose repressioni. Per tutti questi anni i poteri della Cirenaica, marginalizzati e repressi nel risiko tribale, hanno covato la voglia di prendersi una storica rivincita sul colpo di Stato, considerato dai fieri senussi un golpe dei libici occidentali. Detta in altri termini, Gheddafi era da tempo un «cadavere politico»70. La rapidità dell’avanzata finale su Tripoli, in cui non è peraltro difficile scorgere la mano professionale dell’intelligence e di forze speciali occidentali, conferma che il regime era marcio e le sue architravi erano usurate. Da questa prospettiva, i lunghi mesi di guerra - non i pochi giorni pronosticati in occidente - sono non tanto il prodotto della resistenza del colonnello quanto delle divisioni tra chi ambiva ad abbatterlo per prenderne il posto. Il leader libico capì solo tardivamente il problema. Nei vani tentativi di ristabilirsi al comando del Paese, dopo la rivolta del 2011, offrì più volte un negoziato per ricomporre la frattura creatasi con i maggiori clan stanziati nell’est. Nel celebre e per certi versi delirante discorso alla tv libica del febbraio 2011, esperì l’ultimo tentativo di rinsaldare la coesione tribale con una oramai obsoleta dialettica anti-coloniale. «Le tribù libiche sono tribù d’onore, tutte con lo stesso grido. Abbiamo sfidato gli Stati Uniti e le grandi nazioni nucleari e abbiamo vinto. L’Italia si è trovata sconfitta dalla Libia»71. Sono state queste le parole usate da Gheddafi. Farà forse sorridere, oggi, questo discorso, eppure dovrebbe farci

70 L. Caracciolo, Le due guerre in Libia, in «La Repubblica», 28 agosto 2011. 71 Il discorso è disponibile, nella sua versione integrale, anche al seguente link: http://video.repubblica.it/dossier/libia-rivolta-gheddafi/gheddafi-alla-nazione-il-discorso- integrale/62652/61355.

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riflettere. C’è un tratto comune nella fine di ogni dittatore: la perdita del senso della realtà. Come altri autocrati accecati dal potere, anche il leader libico si era costruito un mondo irreale, si immaginava eterno e invincibile. Un’araba fenice capace di rinascere dalle sue ceneri, come dopo il bombardamento americano su Tripoli del 1986, quando scomparve dalla scena per alcuni mesi e si rifugiò nel deserto per poi tornare, forse un po’ cambiato, ma sempre ben determinato a tenere in piedi il personaggio. L’eco di tale “paranoia da dittatore” risuona anche negli appelli lanciati durante la battaglia di Tripoli del 2011 quando il rais invocava brigate fantasma, tribù ormai convertite alla causa della vittoria, milizie popolari di questo o quel quartiere, che nella sua obnubilata concezione del popolo sarebbero ancora scattate in massa in sua difesa. Anche per questo i suoi tentativi di ristabilirsi al potere sono stati, evidentemente, vani. Eppure qualcosa si era mosso negli ultimi anni. E’ stato Saif al-Islam, figlio maggiore di Muammar da parte della seconda moglie, a capire che così non si sarebbe potuto andare avanti. Laureato in ingegneria e con un dottorato alla London school of economics, il “ragazzo” sapeva bene che la Jamahiriya era oramai cosa obsoleta. Per questo, già dal 2005, caldeggiò il passaggio della Libia verso un’economia di mercato, proponendo addirittura l’istituzione di un governo democratico (o presunto tale, almeno nella facciata). Si diede da fare per costruire una rete di media semi indipendenti, una campagna contro i funzionari corrotti e soprattutto per riaprire il caso del massacro di Abu Selim, per processare i responsabili delle palesi violazioni dei diritti umani e risarcire le famiglie delle vittime. Nell’ottobre 2009 divenne “general coordinator” del comitato sociale e popolare, un incarico paragonabile a quello di un capo di Stato. La notizia fu accolta positivamente dai partner europei poiché il figlio del rais era conosciuto per le aperture verso il mondo occidentale e, in particolare, per la rete estesa di interlocutori che aveva maturato durante i suoi studi a Londra. Saif, poi, dirigeva una fondazione caritatevole, la «Gheddafi international charity and development foundation», con cui cercava di condurre una battaglia per riformare il Paese. Guidava campagne per la riconciliazione nazionale con gli oppositori del passato e con i gruppi islamici e si era fatto portavoce di modifiche al codice penale e della necessità del rispetto di alcuni diritti fondamentali. Nel frattempo, la fondazione da lui guidata aveva pubblicato la prima relazione sulle violazioni dei diritti umani in Libia e aveva avuto un ruolo importante nell’organizzazione, della prima conferenza stampa di Human Rights Watch in Libia, nel dicembre del 2009. Tutto ciò lo aveva reso piuttosto amato in patria, ma anche nelle cancellerie occidentali, tanto da farlo divenire il principale referente del “riformismo” libico72.

72 A. Varvelli, Libia: vere riforme oltre la retorica, in «Ispi Analysis», 10 luglio 2010.

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Tuttavia il suo slancio innovatore piano piano iniziò a essere bypassato dai vizi di famiglia e cominciò a interessarsi sempre più agli affari e sempre meno alla Libia. La sua popolarità tra i libici calò. D’altra parte il padre, che pure lo aveva sostenuto, aveva continuato a portare avanti la sua cara vecchia teoria. In un discorso nell’aprile 2009, davanti agli studenti libici aveva proclamato con orgoglio che un giorno il mondo avrebbe dato attuazione alla terza teoria universale che era ancora l’unica via possibile. Insomma, come accade troppo spesso, i padri tendono a non dare troppa fiducia ai figli, anche quando sono già piuttosto grandicelli. Forse è il caso di dire che in questo caso avrebbe dovuto.

Gli attori protagonisti Come già ricordato in Egitto e in Tunisia, per lo meno inizialmente, le rivolte erano del tutto spontanee e con una forte componente giovanile. Nelle piazze i giovani chiedevano a gran voce libertà e democrazia: tutti quei diritti per troppo tempo negati. In Libia la storia è ben diversa. A sollevarsi per prima è stata la tribù degli Zuwayya, il cui leader Shaykh Faraj al- Zuway, affiliato alla confraternita della senussia, vantava il controllo di importanti pozzi petroliferi e guidava uomini armati fin dai tempi in cui Gheddafi li aveva utilizzati per combattere in Ciad. Poi la tribù dei Warfalla, una delle più blasonate e numerose della Libia - che raggruppa un sesto della popolazione in sei grandi clan – aveva voltato le spalle al rais. Il Consiglio degli anziani, guidato dallo sceicco Akram al-Warfalli, si era schierato contro di lui e la sua famiglia, ingiungendogli di lasciare il Paese. Anche l’ex numero due del regime, Abdel Salam Jallud, dall’Italia in cui era stato scortato dagli agenti dell’Aise, aveva detto a Gheddafi di mollare tutto e fermarsi. Nulla di più distante, dunque, dalla «cyber- rivoluzione»73 dei ragazzi di piazza Tahrir. In breve tempo, grazie anche all’intervento occidentale, la disgregazione delle forze militari del regime ha via via favorito l’occupazione del territorio libico e delle città liberate da parte di milizie di ribelli (tuwar). I gruppi combattenti si sono costituiti come micro realtà locali, con un controllo territoriale circoscritto. Quelli che, per comodità, erano stati definiti “ribelli anti-Gheddafi” da parte della coalizione, in realtà si riveleranno come un magma piuttosto indefinibile di gruppi di interesse, spesso spinti a combattere da motivazioni personali: controllo delle risorse del territorio, vecchi rancori intertribali, ecc. Prova ne sia che la gestione del conflitto, nonostante il sostegno della Nato, si è dimostrata più difficile del previsto, anche a causa delle divisioni interne ai combattenti, della mancanza di una chiara guida comune e di una linea di azione coerente. Né il Consiglio nazionale di

73 B. Hounshell, The Revolution Will Be Tweeted, in «Foreign Policy», 20 giugno 2011.

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transizione (Cnt), l’organo formato per gestire la transizione e appoggiato dall’occidente74, né i deboli governi succedutisi al potere dopo la morte del rais, sono stati in grado di controllare i numerosi gruppi armati che spesso hanno agito in maniera arbitraria e violenta. E così alla caduta di Gheddafi si contavano circa 200/250.000 uomini affiliati ai vari gruppi combattenti (circa 800 secondo le stime di allora)75. I gruppi politici e le comunità locali si sono intrecciati con queste o quelle “bande”, credendo di avere a disposizione un braccio armato ma finendo, sovente, per essere alla loro mercé. Emblematica, in tal senso, la testimonianza del regista libico Khalifa Abo Khraisse che racconta: «Tra la fine del 2011 e il 2013 mettere insieme una milizia era un affare redditizio ed era molto più semplice che avviare una nuova attività. Non si doveva fare altro che raccogliere armi, riunire amici e parenti, fare irruzione in un edificio e piazzarsi dentro, andare al locale consiglio militare, firmare i documenti necessari per registrare la propria brigata e fornire una lista dei componenti al capo di stato maggiore. E in men che non si dica, si finiva sul libro paga»76. Sarebbe un esercizio certamente utile quello di elencare le principali milizie libiche. Tuttavia, per la necessaria brevità imposta dalla trattazione, ci limiteremo solo a ricordarne alcune per lasciare spazio alla spiegazione delle dinamiche interne, che più possono aiutarci a comprendere cosa accade in Libia. Tra le brigate più forti e numerose che si sono via via formate già durante i primi mesi delle rivolte e che ancora oggi rappresentano attori importanti nel panorama locale, vanno annoverate le cosiddette milizie di Misurata, note ai più perché protagoniste della guerra ai miliziani dello Stato islamico a Sirte nel 2016. Racchiuse sotto la sigla di «Misurata sadoom swayhil legion», contavano, allora, su più di 20.000 uomini e su un centinaio di gruppi e facevano riferimento al Misurata military council, l’organo politico e amministrativo dell’omonima città. Oggi i numeri sono notevolmente aumentati e, secondo alcune fonti, le milizie raccolte sotto l’ombrello dei misuratini sarebbero arrivate a quasi 40.000 uomini77. Altro gruppo assai noto nell’area di Tripoli è quello delle milizie di Zintan, dal nome della città dell’ovest libico da cui provengono. Sarebbero composte da 23 gruppi armati che si trovano, in prevalenza, sulle montagne di Nafusa, nel nord-est della Libia e, dal 2014, sono

74 Si tratta dell’autorità politica nata in seguito alle sommosse popolari, come guida della coalizione della rivoluzione del 17 febbraio. Inizialmente l’organo si componeva di 31 membri guidati dal segretario generale . Il 5 marzo 2011, è stato affiancato al consiglio anche un governo di transizione: l’organo esecutivo guidato inizialmente da , primo ministro ad interim (sostituito il 23 ottobre del 2011 da Ali Tarhuni, a sua volta rimpiazzato il 31 ottobre del 2011 da Abdul Raheem al-Keeb). 75 J. Pack, K. Mezran, M. Eljarh, Libya’s Faustian Bargains: Breaking the Appeasement Cycle, Atlantic Council, maggio 2014. Oggi si calcolano almeno 1.500 gruppi armati e più di 100.000 uomini affiliati alle milizie. 76 K. Abo Khraisse, In Libia la nostra vita ormai è in mano alle milizie, in «Internazionale», 5 aprile 2017. 77 Nel dettaglio, si stima che siano composte da oltre 200 milizie, per un numero complessivo di effettivi che varia dai 36.000 ai 40.000 uomini. J. Mitchell, War in Libya and its Futures: State of Play – Islamist & forces , The red (Team) analysis, 5 gennaio 2015.

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schierate con il parlamento di Tobruk. Entrambe sono state protagoniste della stagione di caos che ha investito la capitale dopo la morte del rais. Nei mesi successivi, infatti, nella periferia di Tripoli si sono verificati numerosi scontri tra le due milizie per il controllo della capitale e dei suoi luoghi nevralgici, come ad esempio l’aeroporto, in mano per molto tempo agli Zintan. Il governo provvisorio, per evitare l’esacerbarsi della situazione, aveva riconosciuto a entrambi i gruppi i meriti della “liberazione della Libia”, assegnando a figure di rilievo delle due città un ruolo all’interno della compagine governativa. Tuttavia i miliziani di Zintan non avevano riconosciuto Youssef al-Mangoush, nominato responsabile delle forze armate, perché ritenuto troppo vicino al vecchio regime. Gli scontri si sono così esacerbati. E’ solo esempio che, però, può aiutarci a capire lo stato delle cose. D’altra parte, come già ricordato, l’impegno del Cnt per il disarmo delle milizie è stato piuttosto debole. Lo stesso Mustafa Abdul Jalil, leader del Consiglio nazionale di transizione, ha ammesso più volte di non avere avuto i mezzi e il supporto necessario, nonostante l’avvio di un ambizioso programma di Disarmament, demobilization and reintegration (Ddr), per cui, tra l’altro, erano stati stanziati otto miliardi di dollari. E così lo strapotere delle milizie ha minato fin dall’inizio la stabilità della nuova Libia. Nella capitale non era difficile - allora come oggi - imbattersi in miliziani che dicevano fieramente di non obbedire al Governo nazionale ma al Consiglio rivoluzionario di Tripoli e che non avevano intenzione di consegnare le armi. «Noi siamo qui per proteggere la gente e le armi ci servono per proteggere questa piazza o questa banca. La gente è contenta di questo, si sente protetta» dicevano i leader dei vari gruppi. In un’intervista rilasciata a una televisione italiana, il capo degli Zintan sosteneva: «Noi Zintan siamo stati la prima linea della rivoluzione, senza di noi Gheddafi non sarebbe mai stato sconfitto e ora proteggiamo questo aeroporto […] non possiamo abbandonare perché non c’è nessun altro in grado di farlo […] Se vogliono che consegniamo le armi ci diano dei soldi»78. Più chiaro di così. E così, non avendo la forza, ma per certi versi neppure la volontà politica, per disarmare le milizie, prima il Cnt e poi i vari governi succedutisi alla guida del Paese hanno preferito puntare ad una semi-assimilazione dei miliziani all’interno di corpi regolari. Il termine «assimilazione parziale»79 non è usato causalmente: le istituzioni libiche, sorte durante la rivolta, invece di integrare le milizie rivoluzionarie nelle forze armate nazionali, hanno sovente preferito affiancarle a esse, consentendo ai tuwar di mantenere i propri capi, i propri organici e i propri fini politici e ideologici. I miliziani sono stati messi sul libro paga del

78 L’intervista è disponibile anche al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=0t5nvVjHGMo. 79 R. Aliboni, M. Toaldo, N. Ronzitti, La crisi libica. Situazione attuale e prospettive di soluzione, in «Osservatorio di Politica Internazionale», n. 120, 15 giugno 2016.

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governo. Non è un caso che la spesa per gli stipendi sia salita di circa il 40% su quella pubblica totale tra il 2012 e il 2013. Per questo la Banca centrale libica ha dovuto prelevare denaro dalle sue riserve, con conseguenze drammatiche per la popolazione80 che avremo modo di esaminare nelle prossime pagine. Nel corso di questi ultimi cinque anni le fazioni armate hanno svolto, e ancora svolgono, il ruolo di mantenimento dell’ordine nelle aree da loro controllate, finendo per acquisire una sorta di preminenza sulla stessa classe politica. Torneremo più avanti sul ruolo delle milizie libiche nel panorama locale, limitandoci, per ora, a ricordare come le rivolte del 2011 abbiano liberato tutte le tensioni che il regime di Gheddafi aveva represso con la forza, ma non sono state in grado di governarle, favorendo la riemersione degli attori locali coesi, determinati e soprattutto ben armati. L’unicità degli accadimenti libici, però, non sta soltanto negli attori che hanno dato vita alle rivolte ma anche in quelli che sono stati i protagonisti della transizione. Volendo ancora una volta interpretare la realtà libica alla luce delle differenze con gli altri Stati della regione, è necessario in primo luogo sottolineare che qui è sembrato mancare, almeno all’inizio, un attore fondamentale in molti altri Paesi dell’area: l’islam politico. Seppure le insurrezioni libiche, come la rivolta di piazza Tahrir in Egitto e quella dei gelsomini in Tunisia, siano state caratterizzate dall’iniziale marginalità dei gruppi islamici, il ruolo che questi hanno poi rivestito nella fase di transizione è stato molto diverso. Il motivo va ricercato nelle differenti forme e modalità con cui l’islam si è affermato nella regione. In molti Stati della sponda sud del Mediterraneo il suo radicamento affonda le proprie radici nel disagio sociale che si è acuito nel corso dei decenni, a cominciare già dalla fine degli anni settanta, quando la politica di sviluppo predisposta dai vari governi al potere ha cominciato a mostrare i propri fallimenti. Le disuguaglianze, in termini economici e sociali hanno causato l’emersione della classe degli esclusi, soprattutto giovani delle periferie, espressione della crescita demografica e dell’incapacità di un’integrazione dignitosa nel tessuto economico e sociale. Il revival islamico che ha caratterizzato la storia politica di molti Stati musulmani, soprattutto nel corso degli anni settanta e ottanta, è la risposta in cui si è manifestato e incanalato il malcontento della popolazione e l’islam è stato legittimato pubblicamente e assurto a vera e propria ideologia, ponendosi come alternativa ai fallimenti delle forme di modernizzazione, capitalismo e socialismo. I leader religiosi sono, così, emersi come le principali forze di opposizione in Algeria, Tunisia, Egitto e altri Paesi dell’area81. In Libia, lo sappiamo, la storia è stata ben diversa. Gheddafi, pur ispirandosi ai principi dell’islam, ne ha fatto uno strumento per ottenere il controllo sulla popolazione. La caduta del rais, seppure abbia riaperto il dibattito religioso nel Paese, non è stata il motore

80Tutti i dati sono disponibili al seguente link: http://www.worldbank.org/en/country/libya/overview. 81B. Lewis, La rinascita Islamica, Il Mulino, Bologna, 1991.

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propulsivo per una sua rinascita sulla scena politica. Prova ne sia che i partiti islamisti sono stati sconfitti nelle prime elezioni nel 2012 in favore delle forze laiche. Nonostante tutto, però, va rilevato come la fine di Gheddafi abbia funto da apripista per un maggiore proselitismo, favorito dal rientro di molti leader islamisti, riaprendo, così, il dibattito sul ruolo della religione nel Paese. Più che di riemersione dell’islam in ambito politico, però, sarebbe corretto parlare del tentativo di un suo possibile utilizzo come strumento di definizione della nuova identità nazionale che, in quel momento, la Libia stava ricercando. Jalil, nel corso di una cerimonia in onore della liberazione, aveva parlato di sharia quale principale fonte di legge nella costituzione che i libici si apprestavano a scrivere per la prima volta. Allora si credeva che l’islam potesse assurgere a punto di riferimento per la rinascita del Paese, bussola per un processo di State building di cui molti parlavano ma che pochi si sono impegnati a realizzare. Nel tempo, però, il jihadismo sembra aver avuto la meglio sulla componente moderata. Lo vedremo, nel dettaglio, nel capitolo 7 di questo libro.

La natura del conflitto Se per l’Egitto e la Tunisia si può parlare di rivolte civili, nel caso della Libia si deve innanzitutto parlare di guerra. Ed è una differenza non di poco conto. Quella libica è stata senza dubbio una guerra civile, secondo una delle più accreditate definizioni di Singer e Melvin, un conflitto condotto tra uno Stato e un gruppo all’interno dei suoi confini82, ma ha superato questo concetto, travalicandone i limiti semantici sia da un punto di vista interno che esterno. Accanto ad aspetti da guerra civile, infatti, presenta altri tratti caratteristici. In primo luogo, come già ricordato, da un punto di vista interno ha avuto come fine ultimo l’instaurazione di nuovi equilibri fra clan, tribù, gruppi etnici e religiosi di varia natura. Al contempo, però, è stata anche caratterizzata da un intervento militare esterno. Il 24 febbraio del 2011, pochi giorni dopo i primi sollevamenti a Bengasi, il governo francese aveva chiesto una riunione urgente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per prendere adeguate misure nei confronti della repressione delle insurrezioni contro il regime di Muammar Gheddafi. Ci soffermeremo nei prossimi capitoli sulle motivazioni dell’interventismo d’oltralpe. Qui, per ora, ripercorreremo solo i fatti. Il Consiglio europeo, riunitosi l’11 marzo, diede sostanzialmente il via alla possibilità di una no fly zone sui cieli libici. Il 17 marzo il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvò la risoluzione n. 1973, che consentiva di prendere “tutte le misure necessarie”, tranne l’occupazione militare, in difesa della popolazione civile libica. Il testo, ratificato con dieci voti a favore e cinque astenuti

82 S. Melvin, D. Singer, Resort to Arms: International and Civil War,1816–1980, Sage, Beverly Hills-London, 1982, p. 205 e ss.

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(tra cui Russia, Cina e Germania) autorizzava l’uso di tutte le misure necessarie per proteggere i civili e le aree sotto minaccia di attacco, compresa Bengasi, citata esplicitamente nella risoluzione per permettere un intervento prima dell’arrivo delle forze di Muammar Gheddafi. Nei giorni successivi quella che con troppo ottimismo era stata chiamata «Coalition of the willings» diede il via alle operazioni di no fly zone - a cui presero parte anche alcuni Paesi arabi, come Qatar ed Emirati Arabi Uniti - assieme al bombardamento di obiettivi militari e strategici da parte di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. A poche ore dalla risoluzione Sarkozy ordinò alla sua aviazione di abbattere le postazioni militari di Gheddafi per distruggere i caccia con cui veniva accusato di colpire il suo popolo. Nel volgere di pochi giorni anche la Gran Bretagna diede il via alle operazioni. L’Italia, altamente esposta per gli interessi politici, economici ed energetici in gioco, si trovò nella difficile posizione di dover valutare una partecipazione alle operazioni militari. A far propendere il governo per il sì giocò la dura repressione del regime verso gli insorti, in particolare in Cirenaica, e l’aumento dell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica mondiale, ma anche, e forse soprattutto, le pressioni internazionali e l’esigenza di dimostrare fedeltà al campo atlantico. Non va poi dimenticato che, davanti al fatto compiuto, il governo italiano potrebbe aver temuto che un nuovo asse franco-britannico avrebbe eroso posizioni importanti nei confronti di potenziali referenti libici. Il governo di Silvio Berlusconi optò, così, per un difficile rovesciamento della storica politica pro-Gheddafi. Il 25 aprile, a seguito di consultazioni tra il presidente del consiglio italiano e il presidente statunitense Barak Obama, si stabilì la piena partecipazione delle forze aeree italiane al pattugliamento e al bombardamento di alcuni obiettivi strategici del regime. Il 18 luglio l’attacco da parte dei ribelli alla città di Marsa el-Brega, punto strategico dell’avanzata verso Tripoli, segnò la svolta della guerra civile. Tra il 20 e il 22 agosto gli anti-gheddafiani entravano, così, nella capitale. Si avrà modo di tornare più avanti sull’azione della coalizione in Libia per capire meglio le intenzioni degli attori protagonisti e i gravi errori commessi. Quello che qui conta sottolineare è che i Paesi della Nato hanno scelto di entrare nella guerra di Libia accanto ai ribelli e ciò ha segnato inevitabilmente le sorti del conflitto facendo pendere l’ago della bilancia dalla parte degli insorti. Per molti versi si è trattato di una scelta “a scatola chiusa” da parte delle forze alleate. In primo luogo perché sono entrate in guerra accanto a un organo, il già ricordato Consiglio nazionale di transizione, appena istituito e guidato da personalità, in un primo tempo, poco “note”, individuandolo formalmente come unico rappresentante della Libia e riconoscendone l’autorità forse ancor prima dei libici stessi. In secondo luogo, cosa ben più importante, perché oltre al Cnt è stato legittimato e sostenuto il suo braccio armato, costituito in via preminente da gruppi di ribelli non ben identificati che, se in un primo momento sono stati importanti per il rovesciamento del regime, hanno

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finito per costituire la principale minaccia per la stabilità del Paese con tutte le nefaste conseguenze degli anni a venire. Non possiamo, quindi, sottrarci dal sottolineare le colpe dell’occidente. Scesi in campo per un’improbabile guerra umanitaria, ma di fatto per cambiare il regime, i membri della coalizione hanno cantato vittoria troppo presto, si sono spartiti le spoglie energetiche e sono tornati ad occuparsi dei fatti propri. La sconfitta, neanche a dirlo, era assicurata. Sconfitta dei libici che speravano in un futuro di pace, benessere e libertà, ma anche degli europei e di noi italiani. La legge del contrappasso è stata di nuovo infallibile maestra e ora paghiamo in termini di instabilità le nostre colpe libiche.

Il contesto «Nessuno avrebbe immaginato che anche Muammar Gheddafi avrebbe dovuto fare i conti con una rivolta». Tuttavia a fatti avvenuti, «tutti i governi, amici o nemici, hanno subito intuito che nel caso della Libia lo scontro sarebbe stato più cruento per il fatto che il colonnello considerava il Paese un suo possedimento, leggeva ciò che volevano gli insorti come una specie di attacco alla sua proprietà»83. Proprietà, mai parola fu più azzeccata per definire il rapporto di Gheddafi con la Libia. Il Paese è stato per più di un quarantennio la “sua” Jamahiriya, una sorta di struttura senza partiti politici d’opposizione, né sindacati indipendenti e neppure una società civile degna di questo nome. Questo l’ha reso molto diverso dagli altri protagonisti della primavera araba. Gli ex regimi di Tunisia ed Egitto, pur essendo caratterizzati da una forte centralizzazione del potere, si erano dotati di una costituzione che stabiliva l’esistenza di un apparato istituzionale e di un sistema elettorale. In particolare, la costituzione egiziana, promulgata in seguito all'adozione della politica dell'infitah dal presidente Anwar Sadat nel 1971, seppur emendata ad uso e consumo del partito al potere e fiaccata dallo stato di emergenza, garantiva, per lo meno sulla carta, uno Stato unitario84. Anche in Tunisia la costituzione emanata nel 1959, pur attribuendo molti poteri al presidente della Repubblica, ha contribuito al rafforzamento dell’idea di uno Stato- Nazione con radici solide. Questo non ha certo evitato l’utilizzo arbitrario del potere da parte degli ex dittatori tanto che, puntualmente, durante le elezioni si sono levate accuse di violenze contro gli oppositori e di brogli a favore del partito di governo. Nonostante ciò, però, gruppi e partiti hanno continuato a esistere, sebbene indeboliti dalla repressione dei regimi, e a radicarsi tra la popolazione. Detta in altri termini, i cittadini egiziani e tunisini hanno il collante dell’identità nazionale che li tiene uniti, la Libia no. Il Paese, come si è avuto modo di vedere, fino a oggi non è stato tenuto insieme dalle istituzioni e neppure

83 F. Rizzi, Mediterraneo in rivolta, cit. p. 80. 84 M. Mercuri, La primavera araba e l’eccezione libica, in «Equilibri.net», 18 aprile 2011.

47 dall’esercito ma dal potere personale di Gheddafi. A ciò va aggiunto che proprio questa assenza di istituzioni ha contribuito al mancato radicamento di una coscienza nazionale. A differenza di altri Paesi dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente, dunque, l’idea di Nazione è un concetto che fatica ad affermarsi. Come già ricordato, la stessa definizione di Libia nasce dall’aggregazione di tre realtà territoriali molto diverse tra loro: la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan, a loro volta suddivise in zone d’influenza di oltre 140 tribù locali. Nella struttura disarticolata di una società in gran parte tribale i diversi gruppi a cui gli abitanti appartengono limitano necessariamente i loro legami a un orizzonte territoriale molto ristretto, che ha ben poco a che vedere con i confini di uno Stato. Difficile rinvenire nella ex Jamahiriya una qualche identità unitaria. Se in altri Stati è stato possibile liberarsi del dittatore ma tenere in piedi una sorta di apparato statale, nel caso della Libia la caduta del colonnello ha implicato il collasso del sistema, con la rinascita di tutti quei fermenti localistici e di quelle rivendicazioni tribali soltanto sopite durante il lungo dominio di Gheddafi. La sfida del post rivolte libiche era chiara: non ci si sarebbe dovuti limitare a creare da zero delle istituzioni e dunque uno Stato, ma prima ancora creare una Nazione con uno spirito unitario. Gli interventisti della prima ora non sono stati in grado di aiutare i libici in nessuno dei due processi. Se ne sono semplicemente andati, guardando colpevolmente la Libia virare verso il suo fallimento. A voler essere buonisti ci si potrebbe limitare a dire che sono state sottovalutate le insidie della transizione considerando la democrazia una cosa fatta e sovrastimando la capacità dei libici di dotarsi di nuove istituzioni in un processo autonomo di State building. Eppure, a ben guardare, anche un osservatore poco attento avrebbe compreso che sarebbe stato davvero arduo vincere fin da subito la partita con la democrazia. Il rais per più di quarant’anni aveva fatto deliberatamente dello “scatolone di sabbia” una vuota Jamahiriya in cui al sistematico annichilimento di ogni forma di libertà e di dissenso politico si univa la totale assenza di un apparato politico e istituzionale e la popolazione ha, dunque, ricevuto in eredità dall’orwelliano regime una scatola vuota, una Libia priva di una chiara coscienza nazionale, divisa da un rinnovato revanscismo localistico, tribale e regionale, gestito dal dittatore libico in maniera personalistica con un sistema di power sharing, reso possibile dalla spartizione dei proventi petroliferi del “suo” rentier State. All’inizio i libici sembravano intenzionati ad accettare la sfida con un certo entusiasmo. Dopo 42 anni di privazioni delle libertà, nonostante il raggiungimento di un buon tenore di vita, era vivo il desiderio di affrancarsi dall’ingombrante presenza del rais. «Alzate in alto le teste. Siete libici liberi dal giogo di Gheddafi» disse due giorni dopo la morte del colonnello il vicepresidente del Consiglio nazionale di transizione, Abdul Hafiz Ghoga, a migliaia di persone radunate in piazza a Bengasi.

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Era questo, allora, il minimo comune denominatore del popolo libico da cui molti volevano partire per edificare un nuovo Stato. La sfida fin qui, però, sembra persa.

Le prime conseguenze Il 20 ottobre del 2011 rimbalzavano sui media le crude immagini della cattura e della morte del rais, rubate da qualche cellulare degli spettatori in delirio. Erano trascorsi solo due anni dalla pittoresca visita a Roma del colonnello. Allora, ricorda Rampoldi sul quotidiano «La Repubblica», nulla gli era stato negato. «Ha preteso che Berlusconi dimenticasse il torcicollo e corresse ad aspettarlo in aeroporto: è stato esaudito. Ha voluto attendarsi a villa Pamphili: gli è stato permesso. Avesse chiesto di entrare a palazzo Chigi in testa a una carovana di cammelli, gli avremmo risposto: si accomodi, faccia come fosse nel suo caravanserraglio»85. Il corpo dell’uomo che pochi anni prima era atterrato a Ciampino con il solito carosello di 30 cavalli berberi, coccolato e assecondato in ogni suo capriccio, giaceva inerme, dileggiato da un gruppo di “giovani ribelli”. Le cose sarebbero andate così. La colonna di veicoli che faceva da scorta a Gheddafi e a suo figlio sarebbe stata intercettata da alcuni jet francesi della Nato e da un drone americano. Il rais, colpito alle gambe, si sarebbe rifugiato in un tunnel per sfuggire ai ribelli che seguivano la sua jeep, da qui sarebbe stato estratto da alcuni miliziani e giustiziato. Il resto lo abbiamo visto in televisione. Come in un copione già noto che ha scritto la morte dei dittatori, da Mussolini a Ceausescu a Saddam Hussein, il cadavere viene vilipeso e umiliato mentre tutt’attorno si sparano colpi di kalashnikov in aria per festeggiare. Chissà se allora qualcuno aveva pensato che quella sarebbe divenuta l’immagine della Libia post rivolte: un Paese dilaniato e diviso, dove comanda chi ha il fucile con più munizioni a disposizione. Eppure in quei momenti nessuno sembrava davvero preoccuparsi di chi fra loro avrebbe avuto la meglio, su quali territori e risorse e con quali regole o equilibri. Le immagini di quei giorni ci regalano folle ferventi di una felicità cruenta e insieme giocosa. Ragazzini in festa che, senza capire il perché, stringevano in mano poster di cui non conoscevano, probabilmente, il senso e simulavano il gesto di vittoria con le mani fuori dai finestrini della auto, mostrando giovani volti in cui era dipinto il tricolore libico. Uomini che brandivano armi più o meno funzionanti inneggiando alla democrazia. Giovani con il telefonino indecisi tra selfie e riprese video di quello che sapevano essere un momento che, nel bene e nel male, sarebbe passato alla storia, la loro storia. Via tutto il verde, tanto caro a Gheddafi, via la Jamahiriya, cancellata con le bombolette spray anche dalle targhe della auto. Sembravano, allora, cartoline di libertà. «Forse saranno liberi soltanto per un giorno»

85 G. Rampoldi, Gheddafi a Roma con l'eroe anti-coloniale, in «La Repubblica», 10 giugno 2009.

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scriveva Vittorio Zucconi, «e quella felicità che la luce dipinge sui volti dei libici oggi potrà essere cancellata da nuove ombre di buio, perché la storia che ricomincia non è mai una garanzia di nulla e la guerra, neppure se vittoriosa, non è necessariamente una levatrice prodiga»86. Per alcuni, però, era difficile non provare un senso di partecipazione perché quelle “cartoline”, al di là di tutti i tragici eventi degli anni a venire, rappresentavano frammenti di felicità, effimera forse, ma pur sempre felicità: dopo quarant’anni, la generazione dei giovani e dei vecchi che si erano rassegnati aveva ritrovato, anche solo per poco, un bene chiamato “speranza”. Speranza. Inizia da qui la difficile e mai compiuta transizione. In un primo tempo la Libia, seppure tra mille difficoltà, sembrava voler seguire il percorso dei Paesi vicini. L’Egitto, dopo la caduta di Mubarak, si era incamminato verso le prime elezioni libere. Il partito Libertà e giustizia – fondato nel 2011 ed espressione dei Fratelli musulmani egiziani – aveva vinto sia le elezioni parlamentari sia quelle presidenziali tra il 2011 e il 2012. In Tunisia il 23 ottobre del 2011, circa dieci mesi dopo lo scoppio delle rivolte che avevano defenestrato Ben Alì, la popolazione si era recata in massa a votare. Il partito islamico al- Nahda 87 , grazie alla capillare diffusione e al fatto di essere la forza maggiormente organizzata nel Paese, come la fratellanza musulmana in Egitto, aveva vinto la prima tornata elettorale. Anche in Libia elezioni regolari avevano sancito il tentativo di normalizzazione della scena politica. Le consultazioni per il Congresso nazionale libico si erano tenute il 7 luglio del 2012. Gli islamisti del Partito giustizia e costruzione (Jcp) vicino alla fratellanza musulmana, a differenza di ciò che accadeva nei vicini regionali, risultavano sconfitti, ottenendo solo 17 degli 80 seggi, mentre 39 seggi andavano a una coalizione più laica, l’Alleanza delle forze nazionali (Nfa) dell’ex primo ministro Mahmoud Jibril, il partito su cui, peraltro, avevano puntato gli Stati Uniti e molte altre cancellerie occidentali, tanto che alcuni hanno ipotizzato che la campagna elettorale fosse stata finanziata americani e francesi. I restanti 120 seggi del congresso venivano assegnati sulla base di collegi uninominali a candidati non affiliati ai maggiori partiti. I partiti più radicali, guidati dai leader delle milizie islamiste che dopo le rivolte del 2011 avevano fatto ritorno nel Paese, andavano ancora peggio. Il Gruppo combattente islamico libico si è era diviso in due partiti: al-Watan (la Nazione), guidato dal suo ex comandante Abd al-Hakim Belhadj -figura tanto importante quanto controversa del panorama libico su cui torneremo più avanti- e al-Umma

86 V. Zucconi, E per bandiera uno smartphone, in «La Repubblica», 23 Agosto 2011. 87 Al Nahda – dalle ceneri del Mouvement de tendence islamique (Mti) - vince le prime elezioni libere tunisine. Il suo leader Rashid Ghannouchi, dopo le rivolte del 2011, è rientrato nella scena politica tunisina, dopo un esilio politico imposto dal vecchio regime e durato 20 anni.

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al-Wasat (la Nazione centrale)88 guidata da Abd al-Wahad Qaid. Le elezioni, dunque, hanno visto gli islamisti frammentati ed elettoralmente perdenti. Le motivazioni del successo di Jibril e della sconfitta dei partiti islamisti sono tanto complesse quanto importanti da spiegare e meritano una digressione. L’ex primo ministro libico deve il suo successo, almeno in parte, al fatto di appartenere alla tribù dei Warfalla, la più forte e numerosa della Libia. Non solo, è un uomo molto ricco e potente, senza alcuna particolare affiliazione politica alle spalle, che nonostante gli innegabili legami con Gheddafi e la sua famiglia ha saputo tenersi su posizioni piuttosto moderate89. Secondo molti, tra l’altro, è stato la longa manus degli americani in Libia, per lo meno a quell’epoca. La vittoria delle forze laiche, però, ha spinto alcune componenti dell’islam politico verso la violenza. La doccia fredda, specie per gli alleati occidentali che dopo la caduta di Tripoli e l’uccisione di Gheddafi avevano liquidato la questione libica con un ottimistico «mission accomplished», ha la data dell’11 settembre del 2012. L’ambasciatore americano Christopher Stevens e altri tre diplomatici statunitensi vengono uccisi presso il consolato di Bengasi. L’attentato condotto da elementi salafiti libici ha messo in luce tutti i problemi di sicurezza, a partire dalla mancata integrazione delle milizie nelle strutture statali e dalla presenza di organizzazioni jihadiste. Eppure un campanello d’allarme c’era già stato fin dal dopo elezioni, quando alcune delle principali città erano state gettate nel caos da una serie di attacchi di gruppi salafiti contro gli “eretici” sufi e da altri attentati. Emblematico il fatto che il ministro dell’interno libico, Fawzi Abdelali, neppure due mesi dopo le elezioni avesse presentato le dimissioni per protestare contro le critiche all’inefficacia delle misure di sicurezza messe in atto nel Paese. D’altra parte, l’assenza di una forte autorità centrale e il conseguente rafforzamento delle milizie, cui abbiamo accennato poco sopra, ha fatto di queste ultime dei veri e propri organi politici e di giustizia operanti al di fuori del sistema legale formale. La diretta conseguenza è stata la perdurante assenza di un sistema di legalità condivisa in favore di attività di giustizia sommaria perpetrate dai vari gruppi di potere. Detta in altri termini, ognuno ha pensato bene di sfruttare il caos per chiudere vecchi conti, soprattutto verso coloro che, più o meno correttamente, venivano considerati amici del rais. Dopo la guerra non c’è stata pace per i 65.000 sfollati della tribù Mashashya delle montagne di Nafusa, per molti abitanti di Sirte e Bani Walid, per i tuareg di Ghadames, accusati di aver protetto Gheddafi e soprattutto per i tawargha. Se ne è parlato davvero poco e per questo si ritiene doveroso aprire una piccola parentesi. Nella seconda metà del 2011 l’intera popolazione della città di Tawargha (circa 40.000 persone) a pochi chilometri a sud di Misurata, è stata espulsa da gruppi armati con l’accusa di aver sostenuto il governo del

88 Per un’analisi della sconfitta islamista nelle elezioni libiche del 7 luglio del 2012 si veda anche: O. Ashour, Libya’s defeated Islamists, Project syndacate, 17 luglio 2012. 89 A.Varvelli, G.Pelosi, Democrazia e petrolio nella nuova Libia, Fazi editore, Milano, 2012.

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colonnello. Nei mesi successivi alla fine del conflitto la “caccia al tawargha” è proseguita così come gli arresti arbitrari, le torture e le uccisioni. «Vengono di notte, entrano in casa, tirano via le coperte, tirano calci, violentano le nostre donne e le portano via dopo aver rubato tutte le nostre cose […] Vorrei dirglielo in faccia a Sarkozy: dopo la rivoluzione francese si massacravano gli stranieri?»90, racconta un uomo della città di Tawargha. Ancora oggi questo popolo subisce discriminazioni, rapimenti, minacce e azioni di rappresaglie da parte di varie milizie. Oltre 1.300 persone, tra il 2011 e il 2013, risultavano disperse, detenute o vittime di sparizioni forzate, soprattutto a Misurata. Molti di quelli che venivano portati nei centri di detenzione, gestiti dalle milizie, erano sottoposti a maltrattamenti e torture e di loro non sappiamo più nulla. La popolazione si trova in prevalenza in campi profughi. E’ solo un esempio, che però ci aiuta a capire come andavano e in parte vanno ancora le cose in Libia. Nonostante i proclami del momento e i moniti per un maggiore impegno nel teatro libico, insomma, qualcosa è andato storto, tanto che oggi molti rimpiangono la feroce dittatura del rais. Non abbiamo la sfera di cristallo per dire cosa sarebbe accaduto se non ci fosse stato l’intervento internazionale. La Libia nel 2011 non era l’Iraq del 2003, un Paese nelle mani di un dittatore sanguinario, ma ancora stabile. Nel 2011 il regime libico era già marcito all’interno, divorato dalla corruzione e dalle stranezze del suo dittatore. Una rivolta di popolo era già in corso e, anche fosse stata repressa, difficilmente il regime avrebbe potuto restare immune dagli sconvolgimenti che hanno colpito il resto del mondo arabo negli anni successivi. Come già ricordato, qualche speranza era riposta in Saif al-Islam Gheddafi, che però aveva trovato numerose opposizioni nell’ala più conservatrice. Non sappiamo, dunque, cosa sarebbe potuto accadere con una sua possibile, per quanto parziale, successione al padre. Quello che è certo, però, è che negli ultimi cinque anni il Paese ha virato sempre più verso la deriva di un failed State, apprestandosi a divenire un buco nero nella mappa degli Stati del Nord Africa. In tutto questo periodo gli stessi attori internazionali e regionali che avevano inizialmente sostenuto il cambiamento plaudendo al coraggio del popolo libico e armando le fazioni dei ribelli, sono stati colpevolmente a guardare. Hanno osservato inermi le tensioni locali acuirsi, il Paese frammentarsi in una serie di centri di potere su base localistica, l’economia andare in frantumi, le istituzioni “sdoppiarsi” nei due governi di Tripoli e Tobruk, il sistema di sicurezza e legalità sgretolarsi. Vedremo nelle prossime pagine cosa è accaduto e di chi è la colpa.

90 Testimonianza raccolta dall’autore.

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Capitolo 4

SARRAJ, HAFTAR E GLI ALTRI. CHI COMANDA DAVVERO IN LIBIA?

«Dalle macerie della dittatura fiorirà uno Stato unitario, più o meno assimilabile a una democrazia, con un leader eletto e riconosciuto da tutti i cittadini? Oppure sarà guerra civile permanente? O il pendolo della storia si fermerà in qualche punto intermedio fra i due estremi?»91. Erano questi i dubbi che circolavano tra quelli che, dopo la morte di Gheddafi, guardavano un po’ oltre i festeggiamenti nelle piazze e l’effimera gioia collettiva. Cos’è accaduto da allora? Abbiamo lasciato la Libia dopo la caduta del rais in un momento molto delicato della sua storia. Le prime vere elezioni del Paese avevano sancito la vittoria dell’Alleanza delle forze nazionali di Mahmoud Jibril su quelle islamiste. Tuttavia, lungi dall’essere il preludio per un new deal di pace e stabilità, la morte di Gheddafi ha segnato l’inizio del caos nel Paese. La fine del regime nel 2011, a conclusione della prima guerra civile, ha innescato il riemergere di tribalismi e divisioni regionali e della violenza settaria di numerose milizie armate rivali, affiliate a regioni, città e tribù, mai contrastate dal debole governo centrale, fino all’esplosione di una seconda guerra civile nel 2014 che ha avuto il suo triste epilogo nella frammentazione politica del Paese. Oggi quando si parla di Libia si distingue spesso tra Tripoli e Tobruk. Non serve averne studiato troppo la storia per capire che la Libia, così come l’abbiamo conosciuta fino a qualche anno fa, non esiste più. Esistono due realtà diverse, con due centri di potere distinti. Con un po’ di approssimazione potremmo dire che la Cirenaica è controllata dal generale Khalifa Haftar, sostenuto dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk (chiamata anche House of Representatives, Hor) un organo, come vedremo, prima legittimato e oggi invece, in parte disconosciuto dalle istituzioni internazionali. Nella Tripolitania, invece, c’è tutt’altro assetto. Qui, nel marzo del 2015, si è insediato il Governo di accordo nazionale (Gna) guidato da Fayez al-Sarraj. Il premier, però, al momento, non risiede nella capitale ma in una base navale considerata più sicura, vista la persistente instabilità che c’è a Tripoli. La

91 L. Caracciolo, Le due guerre in Libia, cit.

54 situazione è di estremo caos perché, oltre al Governo di accordo nazionale, vi sono molti altri centri di potere: milizie, tribù e città-Stato, che non si riconoscono in quest’organo. In mezzo, nella città di Sirte, fino a poco tempo fa c’era la roccaforte dello Stato islamico, cacciato dalle milizie islamiste fedeli al governo unitario ma non scomparso dal Paese. Sembra, insomma, che le divisioni regionali e tribali, retaggio di un passato coloniale forse solo apparentemente sopito durante la lunga dittatura gheddafiana, siano oggi riemerse come chiave di lettura della realtà libica. A fare da cassa di risonanza a questa frammentazione ci sono poi le proxi war delle potenze regionali e internazionali che hanno visto nel risiko libico l’occasione ideale per realizzare i propri interessi. Nonostante l’apparente unità di intenti molti player non hanno effettivamente perseguito, e continuano a non perseguire, gli stessi obiettivi, schierandosi con l’una o con l’altra fazione a tutto detrimento della stabilità in Libia. Verrebbe da chiedersi come si è arrivati a questo punto. Sarebbe impossibile ripercorrere nel dettaglio tutti gli eventi che dal 2011 hanno interessato il Paese. Qui cercheremo di fare chiarezza almeno su alcuni punti. Come si è giunti alla spaccatura tra Tripoli e Tobruk che persiste a tutt’oggi nonostante l’insediamento del Governo di accordo nazionale? Quali sono i veri protagonisti della mappa del potere in Libia? Cosa fanno davvero le potenze internazionali e regionali e da quali interessi sono spinte? Detta in altri termini, chi sta con chi e perché?

La spaccatura tra Tripoli e Tobruk Si è detto poco sopra che oggi, quando parliamo della Libia, per essere davvero corretti, dovremmo specificare di quale delle due Libie stiamo parlando. In altri termini se, per utilizzare un linguaggio comune, ci riferiamo a Tripoli o a Tobruk. Per comprendere l’attuale divisione del Paese è necessario fare un passo indietro fino al 2011. Già da allora emerse la spaccatura tra due delle principali correnti del Consiglio nazionale di transizione. Tra le tante anime che componevano il frammentato mosaico libico c’erano in particolare due gruppi: coloro che volevano una rottura netta con il passato regime e i sostenitori di un certo grado di continuità. La frattura era evidente soprattutto nella gestione del settore della sicurezza. I primi volevano integrare le milizie anti-gheddafiane nel nuovo assetto statale, mentre i secondi puntavano a ricostruire l’esercito che Gheddafi aveva sempre mantenuto in una situazione di debolezza e frammentazione per paura di colpi di Stato. La situazione si è aggravata nel 2013, a seguito della legge sull’isolamento politico che ha vietato la partecipazione alla vita pubblica a tutti coloro che avevano servito il vecchio regime ed è diventata irreversibile nel 2014, quando il generale Khalifa Haftar ha deciso di lanciare una campagna militare contro il Congresso nazionale generale libico, formatosi, giova ricordarlo, nelle elezioni del luglio del 2012. Avremo modo di raccontare più avanti del

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generale, una delle figure più controverse dell’attuale panorama locale mentre qui ci limiteremo ad analizzare gli eventi che hanno portato alla spaccatura tra Tripoli e Tobruk e che hanno visto in lui uno dei maggiori protagonisti. Nel maggio del 2014, dopo aver dato il via alla sua campagna anti-islamista, Haftar ha mostrato la propria forza militare con un attacco di terra, appoggiato da caccia bombardieri, nella città di Bengasi, controllata da milizie jihadiste e islamiste. Congiuntamente gruppi della città di Zintan, alleati di Haftar, hanno risposto con un violento attacco all’edificio del parlamento islamista di Tripoli. E’ l’inizio dell’«Operazione dignità», nata contro le milizie salafite di Ansar al-Sharia a Bengasi, e giustificata dalla necessità di un’azione contro le forze terroristiche, ma che si è poi allargata contro i salafiti a Derna e contro gli islamisti a Tripoli che hanno portato avanti l’«Operazione alba libica», condotta da una coalizione tra milizie islamiste, “rivoluzionari”, città-Stato della Tripolitania, tra cui la potente Misurata, e centri a forte presenza berbera. La situazione si è complicata ulteriormente nel giugno del 2014, quando si sono svolte le elezioni per rinnovare il Congresso nazionale generale. In un clima di violenza che aveva poco a che vedere con quello della prima tornata elettorale del 2012, poco più di 500.000 elettori si sono recati alle urne, decretando la vittoria delle forze liberali sugli altri gruppi e in particolare sulla fratellanza musulmana92. Il dopo elezioni è stato drammatico per la Libia. Le forze islamiste non hanno riconosciuto il risultato del voto né la legittimità della nuova Camera dei rappresentanti, questo il nome che si era dato il nuovo parlamento eletto. Nella capitale sono iniziati scontri feroci che hanno coinvolto milizie armate fino ai denti e alleate con le due fazioni. A fine luglio del 2014, secondo quanto riportato da «Al Jazeera»93, erano più di 150 le vittime causate da due settimane di combattimenti a Tripoli e Bengasi. Altri scontri si sono registrati nell’aeroporto internazionale della capitale tra le milizie islamiste e i rivali di Zintan, che controllavano lo scalo dal 2011. Non è una novità che la Libia, e in particolare la capitale, sia ostaggio di milizie e gruppi armati, sono loro, spesso, a controllare alcune zone circoscritte del territorio. Non è neppure una novità che queste stesse milizie siano state finanziate, in maniera più o meno diretta, dai vari deboli governi che si sono succeduti alla guida del Paese allo scopo di garantire la sicurezza, vista l’incapacità di tenere sotto controllo l’intera regione. D’altra parte le milizie sono difficili da gestire e in molti casi fanno ciò che vogliono nei territori controllati, capita spesso che occupino sedi istituzionali o che si combattano per conquistare pozzi petroliferi da usare poi come contropartita con il governo per ottenere altri benefici. Riempire il portafoglio è l’obiettivo della più parte dei gruppi libici, siano essi jihadisti o semplicemente

92 Nel 2012 votarono circa un milione e 700.000 persone. Oltretutto diversi seggi non furono assegnati perché parte delle minoranze, tra le quali quelle berbere e tuareg, boicottarono il voto. 93 Al Jazeera, Foreigners urged to flee Libya fighting, 28 luglio 2014.

56 gruppi di potere più o meno legittimati dai due governi. Eppure mai come in quei terribili mesi questo stato delle cose apparve in tutta la sua drammaticità. Non è un caso se proprio allora l’Italia, la Francia e la Germania chiesero ai cittadini di lasciare la Libia, mentre gli Stati Uniti decisero di far evacuare l’ambasciata a Tripoli. Le compagnie internazionali chiusero i battenti o fermarono le loro attività. Anche l’Eni, una delle poche compagnie ancora operative nel Paese, decise di trasferire i suoi tecnici dal giacimento nord occidentale di Mellitah alla piattaforma offshore di Bouri, a 120 chilometri dalle coste libiche. Nel clima di perdurante instabilità, la Camera dei rappresentanti, sentendosi minacciata dalle milizie che avevano occupato la capitale, si spostò dalla sede di Tripoli nella città di Tobruk. Prende così vita quella che è comunemente chiamata “l’ala di Tobruk”. Osservarne, seppur brevemente, la composizione ci aiuterà a conoscere meglio alcuni degli attori protagonisti della scena politica del Paese. La Camera è presieduta da Aguila Saleh Issa, un giurista che aveva ricoperto diversi incarichi anche sotto il regime di Gheddafi. Altra figura importante è quella Abdullah al-Thani, primo ministro dal settembre del 2014, che nell’estate dello stesso anno ha stabilito il suo governo a Beida. La sicurezza è garantita dalla protezione delle milizie legate ad Haftar, il cosiddetto Esercito nazionale libico (Libyan national army, Lna) - composto da circa 6.000 paramilitari a lui fedeli - capace di metter da parte un consistente bottino di armi e munizioni inviate da vari sponsor regionali e internazionali: Francia, Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e, con tutta probabilità, anche Arabia Saudita e Algeria. Nel novembre 2014, una contestata sentenza della Corte suprema definì “illegittimo” il parlamento di Tobruk mentre le milizie islamiste riportarono in vita il Congresso generale nazionale, creando anche il Governo di salvezza nazionale guidato da Omar al-Hassi, esponente dei Fratelli musulmani. Da quel momento in poi la Libia ha cominciato ad avere due “governi” contrapposti che, con un po’ di approssimazione, sono stati spesso determinati dalla dicotomia islamisti versus laici. Pur con differenze e sfumature all’interno di entrambi gli schieramenti, il governo di Tripoli viene normalmente associato a componenti più o meno moderate dell’islamismo locale, mentre quello con sede nella parte orientale del Paese ha fatto della lotta contro l’islamismo – di qualsiasi natura e sotto qualsiasi incarnazione – il proprio obiettivo e la propria ragion d’essere. Ognuno di questi due organismi gode di una rete di alleanze locali e regionali, che potremmo definire a geometria variabile in base alla diversa “intensità” del supporto. La compagine di Tobruk, oltre che sull’Esercito nazionale libico, può contare su diversi gruppi armati. Nell’ovest, in Tripolitania, zona prevalentemente controllata dagli islamisti, il fronte laico ha l’appoggio di milizie legate alla tribù Warfalla, sostenitrice, seppure tra alti e bassi, del passato regime del colonnello. C’è, poi, la coalizione delle milizie di Zintan, città a 150 chilometri a sud-ovest di Tripoli, importante sia per la sua numerosità sia perché

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collocata nell’area sotto il dominio delle forze islamiste. Inizialmente poteva contare anche sulle milizie di Ibrahim Jadhran, che hanno controllato i porti petroliferi della Cirenaica fino al 2016, ma sono poi passate nelle fila del Governo di accordo nazionale. E’ stato questo, fino al dicembre 2015, il governo riconosciuto dalla comunità internazionale sulla base del risultato delle elezioni94. L’ala di Tripoli, invece, ha dalla sua le brigate di Misurata (o Unione dei rivoluzionari di Misurata). Si tratta del più forte gruppo armato della Libia e le sue milizie hanno avuto un ruolo rilevante nella lotta ai terroristi dello Stato islamico a Sirte. Si stima che siano composte da oltre 200 milizie, per un numero complessivo di effettivi che varia dai 36.000 ai 40.000 uomini95. Nel complesso puzzle libico molti altri gruppi combattenti hanno parteggiato per l’una o l’altra fazione. Tra queste, la Libyan Shield (Scudo libico), milizia istituita nel 2012, affiliata ai gruppi di Misurata e molto vicina alla fratellanza musulmana96. Questa spaccatura permarrà in Libia fino al dicembre del 2015, quando la nomina da parte dell’Onu di un governo unitario muterà gli equilibri di questa partizione, per lo meno sulla carta.

Il progetto unitario a marchio Onu «In Libia il vuoto è stato riempito dagli estremisti, che portano il Paese nel caos». Con queste parole, il 13 dicembre del 2015, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha aperto la conferenza internazionale di Roma sulla crisi in Libia, promossa assieme al ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni. Iniziò così, con una considerazione forse un po’ troppo tardiva, il percorso ufficiale per i negoziati che di lì a poco avrebbero portato alla nomina del governo unitario. L’obiettivo dell’incontro era quello di stabilire le linee guida per il raggiungimento di un accordo politico intra-libico. Un’iniziativa fortemente sostenuta dal governo italiano, che da un lato mirava a evitare un voto diretto di approvazione del progetto di mediazione Onu da parte dei due governi rivali di Tripoli e Tobruk e dall’altro,

94 Per dovere di precisione, va ricordato che la camera è sempre stata boicottata da circa un terzo dei suoi membri, che non la hanno ritenuta “sede neutrale”. Questa, infatti, doveva essere istituita a Bengasi, ma i combattimenti in corso in quella città avevano portato alla decisione di spostare la sede a Tobruk, nel mezzo del feudo del generale Haftar. Per questo motivo alcuni dei suoi componenti non hanno riconosciuto le decisioni prese in quel contesto, cioè tutta la legislazione e le nomine dall’estate del 2014 in poi. R. Aliboni, M. Toaldo, N. Ronzitti, La crisi libica Situazione attuale e prospettive di soluzione, in «Osservatorio di Politica Internazionale», cit. 95 J. Mitchell, War in Libya and its futures: State of Play – Islamist & Misrata forces, cit. 96 Sarebbe composta da un numero di uomini che oscilla tra le 6.000 e le 12.000 unità. Una dettagliata analisi degli schieramenti libici in: W. Lacher, Fault Lines of the Revolution. Political Actors, Camps and Conflicts in the New Libya, in «German Institute for International and Security Affairs», maggio 2013.

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con il senno di poi diremo troppo ottimisticamente, intendeva impegnare la maggioranza dei rappresentanti delle due assemblee alla firma diretta di un’intesa. Qualche giorno dopo, il 17 dicembre, a Skhirat in Marocco, veniva firmato l’accordo politico libico con la sigla di 90 membri della Camera dei rappresentanti di Tobruk e di 69 deputati del Congresso nazionale di Tripoli. L’intesa prevedeva la formazione di un Governo di accordo nazionale, a sua volta articolato in un Consiglio di presidenza e in un Gabinetto, nonché di una Camera dei rappresentanti e di un Consiglio di Stato. La Camera dei rappresentanti di Tobruk avrebbe poi dovuto votare la fiducia a questo governo e approvare l’emendamento costituzionale che avrebbe reso operativo l’accordo. Alla guida del Consiglio di presidenza venne chiamato Fayez al-Sarraj. Alla sua nomina davvero poco si sapeva di lui. Secondo molti sarebbe stato indicato dall’Egitto e dai suoi alleati libici durante i negoziati per la formazione del governo. Ipotesi plausibile visto che ha continuato a mantenere un rapporto importante con il Cairo che, a detta di molti, ha visitato molto più spesso di quanto non abbia fatto con la stessa Libia. In ogni caso a lui fu attribuito il compito di formare la lista dei ministri di un Governo di unità nazionale da insediare a Tripoli entro breve tempo. Il giorno successivo il Consiglio di sicurezza dell’Onu adottò all’unanimità la risoluzione n. 2254 sulla Libia, nella quale si invitava il Consiglio di presidenza, formato in base all’accordo, a lavorare con sollecitudine per la formazione del Governo di unità nazionale richiedendo, al contempo, agli Stati membri delle Nazioni Unite di rispondere alle richieste di assistenza del governo per l’attuazione dell’accordo politico libico e per far fronte alle minacce alla sicurezza provenienti dai gruppi terroristici presenti nel territorio, con particolare riferimento allo Stato islamico. Tale impostazione era anche il frutto del nuovo approccio del mediatore tedesco delle Nazioni Unite Martin Kobler, succeduto al discusso Bernardino Leon che secondo alcuni aveva spesso fuso i suoi sforzi di mediazione tra le parti libiche con una “eccessiva confidenza” con esponenti e sostenitori dell’ala di Tobruk. Giova aprire una piccola parentesi. Il 4 novembre del 2015 il quotidiano britannico «The Guardian» parlava di una strana fuga di mail tra Leon e alcuni rappresentanti del governo degli Emirati Arabi Uniti per un suo incarico di presidente dell’Accademia per gli studi diplomatici (Eda). Da qui si iniziò a discutere degli ambigui rapporti tra il mediatore dell’Onu e il ministro degli esteri emiratino, il principe Abdullah bin Zayed al-Nahyan, e Mahmoud Jibril, secondo molti l’eminenza grigia di Tobruk capace addirittura di governare Haftar97. Della vicenda non si è più parlato ma tanto è bastato per screditare, a torto o a ragione difficile dirlo, il lavoro dell’ex inviato per la Libia. Se sia stata o meno la parzialità di Leon a rendere ancora più ardui i già complessi tentativi di accordo tra le parti non è dato saperlo. Va comunque riconosciuta a Kobler una lungimiranza ben

97 Questo emerge anche in: The Telegraph, Libya: profile of Mahmoud Jibril, head of the NTC, 24 agosto 2012.

59 maggiore del suo predecessore. Il nuovo mediatore, infatti, comprese la necessità di coinvolgere i rappresentanti delle municipalità libiche, capi tribali e membri della società civile nell’accordo. L’idea, buona ma difficilmente praticabile nei fatti, era quella di interrompere il potere di ricatto delle milizie sui parlamentari di riferimento. Al di là dei tecnicismi dell’accordo o dei retroscena da spy story, risulta importante ripercorrere i tratti salienti di ciò che da allora a oggi è accaduto nel Paese, e delle alterne fortune di Sarraj, per capire quale ruolo potrà giocare nel futuro della Libia. Arriviamo così al 30 marzo del 2016. Fayez al-Sarraj e altri sei componenti del Consiglio presidenziale arrivarono a Tripoli, presso la base navale di Abu Seta, a bordo di una motovedetta libica partita da Sfax, in Tunisia. Contro ogni previsione lo sbarco avvenne pacificamente. Qualche giorno prima, infatti, Khalifa Ghwell, premier del Governo di salvezza nazionale, aveva proclamato lo Stato di emergenza e occupato l’aeroporto della capitale per impedire al nuovo esecutivo di arrivare in aereo. L’ormai ex premier di Tripoli non tardò a dire, senza tanti giri di parole, che Sarraj aveva due opzioni: consegnarsi alle autorità libiche o tornare in Tunisia, Paese considerato responsabile del suo ingresso illegale in Libia. Vedremo più avanti come il redivivo Ghwell non sia nuovo a colpi di coda o prove di forza che spesso restano solo sulla carta ma, allora, tale atteggiamento non poteva certo essere interpretato come un segnale di benvenuto. Se da un lato il premier di Tripoli poteva contare sul sostegno dell’Onu e, sul terreno, di quello di alcune importanti milizie, tra cui quella di Misurata 98 e quella di Abdel Hakim Belhadj, dall’altro, il vero e proprio boicottaggio messo in piedi da Ghwell aveva fatto correre almeno un brivido lungo la schiena a tutti gli sponsor interni e internazionali del nuovo governo unitario. Strano ma vero, però, neppure 48 ore dopo lo scenario appariva notevolmente mutato. I membri più rappresentativi dell’ormai ex governo di Tripoli, il primo ministro e il presidente del parlamento Nouri Abu Sahmain, avevano lasciato, seppure momentaneamente, la capitale. Nel frattempo il Governo di accordo nazionale aveva incassato anche la fiducia di uno degli attori più forti e utili del panorama libico, le Petroleum facilities guards guidate da Ibrahim Jadhran, che controllavano i principali insediamenti petroliferi, poi conquistati dalle forze di Haftar. Intanto il neo-premier continuava le frenetiche trattative - o se si preferisce contrattazioni e oboli - con vari notabili tripolini, accaparrandosi il consenso di una decina di città libiche, tra cui Sabratha e Zuara e di 13 municipalità che avevano deciso di salire su quello che, al momento, pareva essere il carro del vincitore. L’effetto bandwagon sembrava oramai ineluttabile tanto che il premier aveva incontrato anche Saddek Elkaber, il governatore della Banca centrale, la più ambita cassaforte del Paese assieme al fondo

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sovrano Libyan Investment Authority (Lia)99. Un passo avanti importante che avrebbe potuto consentire al nuovo governo di accaparrarsi a breve anche il tesoretto di circa 70 miliardi di dollari della Lia, questione ancora pendente sul tavolo dell’Alta corte di Londra. A blindare ancora di più l’apparente posizione di forza del premier di Tripoli era stata anche la dichiarazione apparsa sul sito della Lybia national oil corporation (Noc) che per bocca del suo presidente Mustafa Sanalla si era detta pronta a contribuire al processo di pace, stabilità e sicurezza e soprattutto a lavorare con il Governo di unità nazionale per coordinare le future vendite di petrolio, plaudendo alla risoluzione Onu n. 2278, che vietava strutture parallele nell’esportazione del greggio libico. Allora tutto sembrava andare per il meglio. Ma la Libia ci insegna che le cose possono mutare con una rapidità a noi spesso sconosciuta.

Un governo che non governa Se il buongiorno si vedesse davvero dal mattino, oggi immagineremo Sarraj alla guida di un Paese stabile e unito. Invece non è così. Il premier, quando non è in Egitto, per lo meno nel momento in cui si scrive, è ancora nella base navale di Abu Seta, distante 10 km di lungomare dal centro della città. Non ha mai incassato la fiducia di Tobruk, passo fondamentale previsto a Skhirat per avere legittimità nel territorio, a causa dell’ostracismo della Camera dei rappresentanti. Non solo, il suo “concorrente sul terreno”, il generale Haftar pare seriamente intenzionato ad allargarsi su tutto il Paese. Un punto a favore di quello che oramai è appellato da molti come il “debole premier di un governo che non governa” è stata la vittoria sui miliziani dello Stato islamico nell’ultima roccaforte di Sirte nel dicembre 2016. Una battaglia vinta grazie alle milizie di Misurata, a lui fedeli, e al supporto degli americani e del governo italiano che, come vedremo, ha inviato a Misurata un ospedale da campo e più di 300 uomini tra personale medico e paramedico. Eppure la vittoria sull’Isis appare quanto mai una vittoria di Pirro. Ad ascoltare la gente libica Sarraj è una brava persona, ma è impotente. Non ha risolto la crisi economica e fa gli interessi della Nato e dei governi stranieri. Spesso saltano l’elettricità e i collegamenti internet, non ci sono soldi per stipendiare le milizie, ancora a libro paga del governo, le code ai bancomat sono interminabili, i prezzi dei beni alimentari aumentano e la gente è scontenta di come vanno le cose. Per di più le banche sono controllate dalle milizie che hanno la “primacy sui prelievi”. A ogni chiaro di luna qualche gruppo armato decide di far sentire la

99 Si tratta di un fondo sovrano libico stimato in almeno 67 miliardi di dollari, per lo più congelati dopo la rivoluzione del 2011, anche per evitare che diventasse strumento di arricchimento per l’una o l’altra parte. Il fondo è composto dai guadagni realizzati dal rais con la vendita di gas e petrolio. In Italia la Lia possiede quote variabili, tra gli altri, di Unicredit, Eni, Enel, Fiat-Chrysler e Finmeccanica.

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propria voce ingaggiando scontri sul terreno o occupando qualche ministero. Così è stato, ad esempio, nell’ottobre del 2016 quando miliziani fedeli a Khalifa Ghwell hanno fatto irruzione nella sede del Consiglio di Stato di Tripoli, aprendo così la strada al redivivo ex primo ministro, che ha colto la palla al balzo per tentare di reinsediarsi nella capitale. Neppure tre mesi più tardi altri gruppi, sempre riconducibili a Ghwell, hanno occupato le sedi, in parte deserte, dei ministeri della difesa, dell’economia e della giustizia. In quei concitati momenti si parlava addirittura di un golpe, tanto che il neo insediato ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Perrone, è stato costretto a smentire dicendo chiaramente: «Non mi risulta nessun colpo di Stato». Per capire come vanno davvero le cose a Tripoli è utile fare riferimento alle parole del già citato Khalifa Abo Khraisse che racconta: «Milizie diverse garantiscono la sicurezza in tutte le banche di Tripoli, e quando dico garantiscono la sicurezza intendo gestiscono l’attività. Poiché le milizie garantiscono la sicurezza per entrambi i governi a Tripoli, i funzionari non esercitano su di loro un vero potere né una vera autorità. Piuttosto, continuano a tollerare queste entità armate vagamente organizzate, sostenendo che operano seguendo le direttive dei ministeri come forze governative ufficiali. Le milizie sono leali ai loro comandanti, animati dalle più diverse motivazioni tribali, politiche e finanziarie»100. Tanto basta a spiegare il caos nella capitale e la difficoltà che Sarraj ha nel controllo del territorio. Inoltre, il premier di Tripoli deve smarcarsi con sempre maggior difficoltà da Haftar, il generalissimo delle Cirenaica che è sempre più forte e gode dell’appoggio di importanti attori regionali e internazionali. Nel febbraio del 2016 il premier tripolino, conscio del fatto compiuto, ha cercato di salvare il salvabile offrendo ad Haftar un ruolo militare di rilievo nel suo governo. I due si sarebbero incontrati al Cairo o, per meglio dire, qui avrebbero incontrato delegazioni egiziane pronte a mediare la proposta del premier tripolino. Non sappiamo cosa sia realmente accaduto, pare che abbiano parlato in stanze diverse su espressa richiesta del generale, che ha dato un bel due di picche a Sarraj rifiutando qualsiasi accordo. Per riassumere, il quadro è quanto mai complesso e mutevole. L’attuale governo unitario avrebbe dovuto godere, in teoria, di notevoli chance per affermare la propria autorità nell’intero Paese: l’appoggio dei gruppi di Misurata avrebbe garantito forza militare all’ovest, mentre la presenza all’interno del governo di rappresentanti della città di Zintan e delle istituzioni della Cirenaica avrebbe dovuto assicurare il consenso politico a est. Tuttavia, sia Zintan che i cirenaici hanno assunto una linea di contrasto con il nuovo governo che resta l’espressione di una sola parte del Paese. In tutto questo c’è anche lo zampino di Haftar che attraverso il potere di veto esercitato dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk, di fatto sotto il suo controllo attraverso lo speaker Aguila Saleh, ha boicottato ogni trattativa.

100 K. Abo Khraisse, In Libia la nostra vita ormai è in mano alle milizie, in «Internazionale», 5 aprile 2017.

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Ci sono, poi, le interferenze, i contrasti e le contraddizioni, e più in generale il balance of power, fra le principali potenze regionali e internazionali a vario titolo invischiate nel teatro libico, ciascuna delle quali punta alla sistemazione che percepisce come più favorevole. Nonostante l’insediamento del “premier unitario” permane il bicefalismo delle istituzioni libiche. Potremmo addirittura dire che ci sono due governi e mezzo, ognuno coi suoi sponsor e alleati: il Governo di accordo nazionale a Tripoli; ciò che rimane del Governo di salvezza nazionale, sempre a Tripoli, con ancora una certa capacità di disturbo e una qualche presenza nelle istituzioni e, infine, il governo di Abdullah al-Thinni a Beida, legato al generale Haftar e alla Camera dei rappresentanti di Tobruk. E’ quest’ultimo, al momento, l’attore che appare più forte.

Haftar. L’uomo in divisa che vorrebbe prendersi la Libia Odiato dai Fratelli musulmani di Tripoli; tenuto sotto controllo anche dai lealisti di Tobruk e dalle milizie di Zintan che sospettano della sua ambizione; “coccolato” dal Cairo, dagli Emirati, dalla Francia e dalla Russia, che lo foraggiano di armi. Secondo molti è l’uomo chiave del futuro della Libia, secondo altri la principale minaccia. Chi è e cosa vuole davvero Haftar? Lasceremo all’ultimo capitolo di questo libro un cenno finale sul ruolo a cui potrebbe aspirare nel futuro del Paese. Qui ricorderemo come è riuscito a raggiungere il prestigio di cui gode e il sistema di alleanze su cui può fare perno. Abbiamo conosciuto il “vecchio uomo nuovo” della rivoluzione libica nel 2014 quando, con la già menzionata «Operazione dignità», la sua biografia è diventata oggetto di studi e analisi, ma la sua storia è di ben più vecchia data. Per conoscere l’uomo forte della Libia di oggi è necessario fare un salto nel passato, fino agli albori della rivolta dei Giovani ufficiali. Haftar, infatti, aveva fatto parte dei quadri militari che nel 1969 parteciparono al golpe con cui il rais libico destituì re Idris. Nel primo ventennio dell’era di Gheddafi è stato capo di Stato maggiore delle forze armate libiche e ha condotto la guerra contro il Ciad dal 1983 al 1987. Il conflitto delle Toyota101 si risolse con una sonora sconfitta per la Libia e con Haftar catturato dai ciadiani. Poiché il regime di Tripoli negava la presenza dei suoi soldati nel Ciad, Gheddafi disconobbe il generale, un tradimento che lo portò a diventare uno dei principali oppositori al regime. Da qui ha inizio la sua permanenza negli Stati Uniti, in Virginia, a pochi passi dal quartier generale della Cia di Langley, dove ha trascorso più

101 Così appellato perché i furgoni pick-up Toyota erano utilizzati per gli spostamenti delle truppe ciadiane durante i combattimenti contro i libici. La guerra si rivelò una pesante sconfitta per la Libia, che secondo fonti statunitensi perse un decimo del proprio esercito, con la morte di 7.500 soldati e la distruzione di attrezzature militari per un valore di un miliardo e mezzo di dollari. Le perdite del Ciad ammontarono a 1.000 caduti.

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di dieci anni. Tale circostanza ha alimentato voci di suoi possibili legami con l’intelligence americana, che avrebbe avuto un ruolo anche nella sua liberazione102. Con la rivoluzione è tornato in Libia, combattendo con i ribelli, ma il passato di gheddafiano e la reputazione di filo americano ne hanno oscurato inizialmente il prestigio. Non era, infatti, ben visto dai miliziani del neonato esercito libico dopo la rivoluzione del 2011. Si dice che, durante una visita dall’ospedale in cui si trovavano i feriti di Bengasi, fu allontanato in malo modo da alcune fazioni libiche. Inoltre, la sua nomina a capo di Stato maggiore dell’esercito libico, nel novembre 2011, dopo l’assassinio del generale , di cui si dirà più avanti, non fu accolta con favore dei ribelli, mentre fu sostenuta dai militari del “vecchio” esercito di Gheddafi, convertitisi al nuovo ordine nazionale103. Nonostante tutto il generale ha saputo attendere il suo momento restando nell’ombra delle vicissitudini libiche fino al 2014, quando ha messo in piedi un gruppo di miliziani ambiziosamente chiamato Esercito nazionale libico - costituito in maniera preponderante da civili in armi più che da militari professionisti e da ufficiali del vecchio esercito libico che aveva comandato in Ciad - e lo ha guidato nell’azione militare contro gli islamisti che gli è valsa la fama di baluardo anti islamista della regione, con tutto il suo corollario di alleati e sponsor. Detta in altre parole, ha saputo sfruttare l’emersione di gruppi radicali, come lo Stato islamico, ponendosi come baluardo della lotta al terrorismo, autolegittimandosi in chiave anti-jihadista. E’ stato così capace di coalizzare attorno a sé tutti coloro che erano preoccupati per una possibile preponderanza dei radicali nel quadro politico del Paese. Tuttavia la narrativa di Haftar fa leva su una lotta che spesso non fa discrimine nel campo degli “islamisti”, accomunando la fratellanza musulmana a gruppi dichiaratamente radicali e a formazioni terroristiche come Ansar al-sharia (Asl) 104 . Il mantra che non manca di ripetere in ogni occasione è, semplificando: «Io sono il baluardo anti terrorismo nella regione, per questo dovete fidarvi di me e darmi le armi». Lo ha detto nel novembre del 2014 in un’intervista rilasciata a Francesco Battistini e riportata ne «Il Corriere della Sera», affermando senza mezzi termini: «Combatto il terrorismo nell’interesse del mondo intero. La prima linea passa per la Siria, per l’Iraq e per la Libia. Gli europei non capiscono la catastrofe che si rischia da questa parte di Mediterraneo. Attraverso l’immigrazione illegale ci arrivano jihadisti turchi, egiziani, algerini, sudanesi. Tutti fedeli ad Ansar al-sharia o all’Isis: quanti italiani sanno che davanti a casa loro, a Derna, è stato proclamato il califfato e si tagliano le teste?

102 BBC, Profile: Libyan ex General Khalifa Haftar, 16 ottobre 2014. 103 B. E. Selwan El Khoury, Haftar, l’amico di Cia e Gheddafi contro Fratelli e jihadisti in Libia, in «Limes», 29 maggio, 2014. 104 A. Varvelli (a cura di), Crisi libica: tra tentativi di mediazione e conflitto aperto, in «Osservatorio di Politica Internazionale», n. 51, gennaio 2015.

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L’Europa deve svegliarsi»105. Lo ha ripetuto a Lorenzo Cremonesi, in un’altra intervista: «Occorre combattere per salvare il Paese dagli estremisti islamici, voi europei non sapete con quanta rapidità l’Isis e i movimenti islamici locali come Ansar al -sharia abbiano cominciato a minacciare, sequestrare, assassinare tutti coloro che consideravano nemici»106. Un vero e proprio “terrorismo psicologico”, verrebbe da dire. Al di là delle parole, però, contano i fatti. E a fatti il generale sembra avere la ragione dalla sua. E’ sostenuto da alleati strategici, Putin su tutti, che gli forniscono armi grazie alle quali avanza nel territorio. Solo per raccontare uno degli episodi più emblematici, nel settembre 2016 Haftar si è impossessato dei terminal di Es Sider, Ras Lanuf, Zuetina e Brega, sottraendoli al controllo delle Guardie petrolifere di Ibrahim Jadhran e sfidando, dunque, il governo riconosciuto dall’Onu di Fayez al-Sarraj. Le tribù della zona hanno appoggiato l’operazione militare stanche delle tasse imposte dagli uomini di Jadhran, che non avevano più introiti a causa del blocco dell’export petrolifero. I quattro scali della Cirenaica rappresentano i centri nevralgici del petrolio libico, basti pensare che i primi due sommano insieme la metà del totale dell’output petrolifero del Paese. Inutile dire che per uno Stato come la Libia, che si regge sulla rendita petrolifera, il greggio è la chiave di volta della ripresa economica e, di conseguenza, il principale oggetto del contendere delle forze in campo: chi controlla i pozzi controlla il Paese. Con una mossa a sorpresa, però, anziché gestire direttamente i terminal, Haftar li ha consegnati alla Compagnia petrolifera nazionale libica, mantenendone però il presidio ai fini della sicurezza. La ripresa della produzione di greggio dai 290.000 barili al giorno a 900.000 barili al giorno entro la fine del 2016, garantita dalla Noc, ha ulteriormente esaltato il ruolo del generale. Anche se al momento siamo ben lontani dalla ripresa promessa, se davvero la produzione continuerà ad aumentare, le condizioni economiche potrebbero certo migliorare. Allora il generale potrebbe non essere più solo l’uomo di fiducia dei partner stranieri ma, cosa forse più importante, l’uomo della provvidenza per i libici, o almeno per alcuni.

Chi sta con chi. Il sistema di alleanze regionali La lotta di Haftar contro il “nemico islamista” ha contribuito ad alimentare la polarizzazione delle alleanze regionali. Se gli schieramenti internazionali rispecchiano, a grandi linee, gli interessi economici ed energetici e, in più ampia prospettiva, le politiche egemoniche dei

105F. Battistini, Combatto il terrorismo anche per voi: se vince in Libia arriva in Italia, in «Corriere della Sera», 28 novembre 2014. 106 L. Cremonesi. Il generale Haftar: ‘L’Italia in Libia si è schierata dalla parte sbagliata’, in «Corriere della Sera», 2 gennaio 2017.

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vari attori coinvolti, le alleanze regionali sono prioritariamente la proiezione di uno scontro tra musulmani all’interno del mondo sunnita per l’egemonia ideologica e religiosa. Tale tensione può essere semplificata anche dalla dialettica tra i Paesi arabi conservatori, a cominciare dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti e quelli riformisti107, che dopo le rivolte arabe hanno visto l’affermazione dei partiti riconducibili ai Fratelli musulmani e all’islamismo riformista più in generale, a loro volta sostenuti da Paesi come Turchia e Qatar. L’ago della bilancia dei due schieramenti, per lo meno in Libia, è stato l’Egitto, prima esponente di peso della fratellanza, con la vittoria del partito Libertà e giustizia di Mohamed Morsi, e poi dopo l’avvento al potere nel 2013 di Abd al-Fattah al-Sisi, baluardo del laicismo. Seppure si stia parlando di Libia, è importante aprire una digressione sugli eventi egiziani che possono aiutarci a far luce su questo importante passaggio che ha inevitabilmente influenzato la traiettoria politica libica. Al Cairo la riemersione delle forze della fratellanza, dopo la caduta di Mubarak nel 2011, ha rappresentato, almeno per qualche tempo, un potenziale laboratorio politico che avrebbe potuto consentire al movimento di occupare da protagonista la scena politica egiziana. Se nelle prime fasi delle manifestazioni questo si era mantenuto in disparte, in un secondo momento ha cercato di cavalcare l’onda del successo dei moti di piazza per incidere direttamente nella transizione, rivendicando la guida delle proteste e cercando di “islamizzare” il processo rivoluzionario 108 . Inizialmente il movimento sembrava avere ragione, tanto che il partito Libertà e giustizia – fondato nel 2011 ed espressione dei Fratelli musulmani egiziani – ha vinto sia le elezioni parlamentari sia quelle presidenziali tra il 2011 e il 2012. Il movimento ha avuto una chance irripetibile per mettere alla prova la sua ideologia e per dimostrare di saper trasformare il proprio carattere, fino ad allora contro- egemonico e contestatore, in egemonico e dirigente109. Questo esperimento è stato, però, nel complesso fallimentare. Nonostante la vittoria il presidente Morsi ha commesso diversi errori. In primo luogo non ha saputo affrontare i gravi problemi economici e sociali in cui l’Egitto si trovava e che erano stati i detonatori delle rivolte, lasciando inevase le pressanti richieste popolari di riforma e miglioramento economico. In secondo luogo ha preteso, in maniera decisamente miope, di portare avanti un processo di islamizzazione dello Stato e di una società che,

107 Il termine “riformista” è impiegato qui in senso politico e si riferisce a quei movimenti e governi che avversano, anche su base teologica, assetti autoritari del potere in ambito islamico; in questo senso si contrappongono agli Stati qui chiamati conservatori. Vedi su questo punto anche: R. Aliboni, M. Toaldo, N. Ronzitti, La crisi libica. Situazione attuale e prospettive di soluzione, cit., p. 12 e ss. 108 M. Campanini, G. Dentice, A. Plebani, Le correnti dell’Islam in Egitto, in «Osservatorio di Politica Internazionale», n. 119, aprile 2016. 109 Ibidem.

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invece, anche alla luce delle richieste emerse durante le rivolte di piazza, sembrava chiedere altro. Tutto ciò aveva condotto all’approvazione di una costituzione non condivisa con le forze di opposizione e le minoranze religiose e incapace di dare voce a tutte le istanze sociali. Il rischio di deriva autoritaria, manifestato dalla fratellanza in diverse scelte politiche cruciali assunte durante l’anno al potere, ha causato il riaccendersi delle tensioni sociali nelle maggiori città del Paese, il tutto fomentato dall’acuirsi della forte crisi economica nella quale è sprofondato l’Egitto negli ultimi anni. In questo contesto già di per sé destabilizzato, l’emergenza finanziaria ha spinto in modo decisivo le forze armate, i cui preminenti interessi economici nei principali settori produttivi erano rimasti intatti anche dopo la rivoluzione del 2011, a fermare la spirale recessiva causata dall’incapacità del governo di gettare le basi per una pur timida ripresa economica. Le successive sollevazioni di piazza contro coloro che pur legittimamente avevano vinto le elezioni hanno, poi, rappresentato il pretesto per l’intervento repressivo dell’esercito e per “l’avanzata dei generali”. Il 3 luglio del 2013 Morsi è stato esautorato dalla presa di potere del generale al-Sisi, mentre la fratellanza musulmana è stata messa fuorilegge e il partito Libertà e giustizia sciolto. Forte del fallimento della proposta islamista, il presidente egiziano ha portato avanti senza mezzi termini il discorso della laicità delle istituzioni statali, mettendo alla gogna i partiti di ispirazione teocratica. Cosa c’entra tutto questo con la Libia? Semplice, la proposta del generale egiziano ha trovato in Haftar, altro “bastione” del laicismo e fiero oppositore di ogni forma di islamismo, una sponda ideale per proiettare la propria influenza nel Paese. Da questa prospettiva è facile leggere il sostegno incondizionato dell’Egitto alla compagine laica di Tobruk e alle forze di Haftar, a discapito della linea unitaria proposta dall’Onu. L’Egitto, inoltre, spalleggia il generale anche per tessere le proprie mire in Libia. E’ un segreto ormai svelato dalla storia la volontà del Cairo di allargare la propria influenza in Cirenaica che al-Sisi considera una storica provincia egiziana, alla stregua di re Faruk, che la reclamava già nel 1943 a Churchill. «Non mi risulta», fu allora la secca risposta del premier britannico110. Oggi magari Haftar alla stessa domanda potrebbe rispondere diversamente. Vale la pena ricordare che Tobruk è a 130 km circa dal confine egiziano ma a 1.300 km da Tripoli. La partnership tra i due generali, anche per questo, è quasi naturale. La sponda con Haftar, inoltre, è valsa all’Egitto anche il rafforzamento dell’asse con Putin. I russi, estromessi dalla partita libica nel 2011 perché contrari ai bombardamenti, vogliono dire la loro e lo fanno vendendo armi in Cirenaica con sofisticate triangolazioni commerciali, con la collaborazione dell’Egitto e dell’Algeria. Tra i tanti episodi che possono corroborare questa tesi, e che analizzeremo anche più avanti, ricordiamo, per ora, solo uno

110 A. Negri, La grande spartizione della Libia: un bottino da almeno 130 miliardi, cit.

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dei più recenti. Nel gennaio del 2016, dopo varie sortite a Mosca, il generale libico ha visitato la portaerei russa Admiral Kuznetsov, in rotta di rientro dalla acque siriane, dove i suoi jet hanno contribuito alla vittoria su Aleppo dei lealisti di Assad. Proprio in questa occasione, secondo quanto riportato da agenzie libiche, sarebbe stato riattivato un accordo, siglato nel 2008 ai tempi del regime di Muammar Gheddafi, per la fornitura a Tobruk di armamenti e sistemi di sorveglianza sofisticati russi per un valore di 2 miliardi di dollari. A fare da sponda in questo caso sarebbe l’Algeria, ma l’Egitto non è mai stato da meno, flirtando sia con la Russia che con la Francia, altro sponsor della Cirenaica. Basta ricordare che, alla fine del 2015, Parigi ha venduto al Cairo 24 caccia Rafale per un valore stimato superiore ai 5 miliardi di euro e avrebbe sbloccato anche le trattative per la vendita di due corvette e di alcuni pattugliatori prodotti dal grande gruppo navale Dcns nei cantieri di Pirou e Lorient. Se poi vi fossero dei dubbi su pagamenti e garanzie, vista l’economia piuttosto traballante dell’Egitto, basta fare il nome di Riad. La potenza saudita non si è limitata a elargire fondi ad al-Sisi per l’acquisto di armamenti, ma ha funto anche da garante sui prestiti stranieri. I sauditi, però, da qualche tempo sono in rotta con Il Cairo. Giova comprenderne, seppure rapidamente, i motivi. La crisi saudita-egiziana, culminata con il taglio da parte di Riad delle forniture di gas all’Egitto, ha inizio nell’aprile del 2016, quando il presidente egiziano decide di cedere ai patroni sauditi le due isolette strategiche di Tiran e Sanafir, nel Mar Rosso111. E’ il caos. Migliaia di egiziani scendono in piazza per protestare e l’enorme reazione popolare spinge il presidente a prendere le distanze dai Saud. Nel frattempo, forse prevedendo le rabbiose reazioni dei sauditi che dall’Egitto si aspettano sempre e comunque appoggio incondizionato in cambio dei già ricordati lauti finanziamenti, il leader egiziano decide di far convergere il Cairo verso Mosca, l’attore al momento più forte nell’area. A inizio ottobre l’Egitto ha votato a favore di una risoluzione delle Nazioni Unite, sponsorizzata dalla Russia, sul cessate il fuoco in Siria112. I sauditi hanno reagito bloccando le forniture di petrolio dirette al Cairo per un periodo indeterminato. Al-Sisi persiste, però, nella politica di avvicinamento al Cremlino e a metà ottobre Russia ed Egitto conducono per la prima volta esercitazioni militari congiunte in suolo egiziano. Nasce il sodalizio tra Mosca e il Cairo, mentre la Russia si impegna a investire miliardi nelle infrastrutture del gigante nordafricano, garantendogli anche le armi che una volta arrivavano

111 Nel gennaio 2017, l’alta corte amministrativa egiziana ha però emesso una sentenza irrevocabile che annulla tale decisione, ribadendo che le isole erano e saranno del popolo egiziano e nessuno ha il diritto di trasferirne, completamente o parzialmente, la sovranità. 112 La rottura tra l’Egitto e Riad nasce dopo il voto espresso dal Cairo all’Onu, a metà ottobre 2016, su due risoluzioni sulla Siria in aperto conflitto: una presentata da Francia e Spagna, che chiedeva la dichiarazione di una “no fly zone” su Aleppo, bloccata dal veto russo; l’altra proposta dalla Russia, che chiedeva il ritiro dei miliziani di al-Nusra da Aleppo est con le mediazione dell’Onu, bloccata dal veto di Regno Unito, Usa e Francia.

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da Riad. Putin approfitta della crisi tra il leader egiziano e l’ex amico saudita per segnare l’ennesimo colpo da metà campo nella sua partita per l’egemonia nel Mediterraneo. A conferma del fatto che la realpolitik tende a produrre strange bedfellows, tra i supporter di Haftar vanno anche annoverati gli Emirati Arabi Uniti. Questi hanno giocato fin dall’inizio a carte scoperte, sovvenzionando e armando le milizie agli ordini del generale. Solo per fare un esempio, dagli Emirati lo scorso anno è arrivata una fornitura di armi, munizioni e più di 1.000 nuovi veicoli per le forze di Tobruk. Sempre da una società emiratina, poi, il 23 aprile del 2016 è giunta una importante commissione per un carico di greggio estratto illegalmente dal governo parallelo della Cirenaica e diretto a Malta. Se è pur vero che le autorità maltesi hanno impedito alla nave di attraccare, resta chiaro il tentativo di avallare la commercializzazione autonoma del petrolio estratto dai giacimenti presenti nelle aree sotto il controllo delle milizie del generale, supportandolo nell’ottenimento dell’indipendenza finanziaria Nel mosaico libico, poi, ci sono anche attori che hanno, per lo meno fin qui, parteggiato per l’ala islamista. Tripoli ha potuto contare soprattutto sulla Turchia e sul Qatar. Iniziamo da Ankara. Tralasciando qualunque considerazione sulla traiettoria involutiva che Erdogan ha deciso di intraprendere, per lo meno negli ultimi tre anni, sia da un punto di vista interno che, in più ampia prospettiva, nello scenario regionale, ci limiteremo ad analizzare soltanto il quadrante libico della politica turca. Dobbiamo fare un passo indietro, per lo meno fino al 2011, agli inizi delle rivolte arabe. Allora la Turchia, indecisa tra l’opzione europea e quella di player egemonico mediorientale, si è trovata in un primo momento colta di sorpresa. In breve tempo, però, l’evolversi degli eventi aveva fatto riconcorrere ad Ankara il sogno di poter ampliare il disegno della profondità strategica 113 oltre i confini economici, con l’ambizione di esportare il modello turco agli Stati orfani dei vecchi regimi e la Libia era la sfida più difficile per Erdogan, combattuto tra interessi commerciali e vocazione unilaterale da una parte e i suoi vincoli con l’alleanza dall’altra. Da qui l’iniziale opposizione all’approvazione della risoluzione Onu n.1973, nulla osta per l’intervento militare. Alla fine, però, decide di unirsi ai suoi alleati, seppure rifiutando l’ipotesi di un coinvolgimento delle

113 Teorizzata dall’allora ministro degli esteri Ahmet Davutoglu, la dottrina della profondità strategica si fonda sulla considerazione del passaggio della Turchia da nazione periferica delle relazioni internazionali nel sistema bipolare a nazione centrale nel sistema post-guerra fredda. La Turchia sarebbe stata spinta a riscoprire e valorizzare il fondamento geografico, culturale e storico della politica estera nazionale attraverso un’azione proattiva e diversificata, finalizzata a intessere una fitta rete di relazioni regionali in grado, da un lato, di bilanciare i rapporti con i tradizionali alleati euro-atlantici e, dall’altro, di porre il Paese al riparo dai rischi di instabilità provenienti dai Paesi vicini. Pietra angolare della dottrina di Davutoglu era il perseguimento di una politica di “azzeramento dei problemi” e di approfondimento del dialogo e della cooperazione con i propri vicini, a partire da quei Paesi con i quali le relazioni bilaterali erano state tradizionalmente tese, se non conflittuali, dalla Grecia alla Russia, dalla Siria all’Iran e all’Iraq. Le tesi di Davutoglu sono riportate nella monografia: Stratejik Derinlik: Turkiye’nin Uluslararası Konumu, Kure Yayinlari, Istanbul 2001. Dello stesso autore, Turkey’s Foreign Policy Vision: An Assessment of 2007, in «Insight Turkey», n. 10, 2008, pp. 77-96.

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truppe di terra. Evidentemente, l’obiettivo di riattivare gli strumenti del soft power per riaccreditarsi come partner privilegiato ha avuto la meglio. La potenza turca, d’altra parte, aveva tutto l’interesse nel sostenere l’affermazione di un governo islamista nella Libia post rivolte. Per questo, anche se le prime elezioni del 2012 hanno visto la sconfitta del partito Liberta e giustizia del Fratelli musulmani in favore delle forze laiche di Jibril, la Turchia ha continuato a tenere più di un piede nel Paese, nella speranza di prendere parte, come del resto molte potenze europee, alla partita per la concessione di nuovi contratti e commesse. L’occasione è arrivata con la guerra civile del 2014, quando Ankara, pur avendo abbandonato la grand strategy post primavere arabe, si è schierata apertamente con la fratellanza musulmana tripolina, riaprendo la porta alle aspirazioni di influenza attraverso una scelta di campo ideologica centrata sul sostegno agli islamisti e raffreddando ulteriormente i rapporti con l’Egitto di al-Sisi. L’atteggiamento di Erdogan è rimasto pressoché immutato anche dopo la definizione dell’accordo di Skhirat, preludio per l’insediamento del Gna. Anzi, secondo molti la Turchia (assieme al Qatar) avrebbe fatto un passo indietro nel sostegno ad alcune milizie, costringendole a trattare per favorire l’insediamento del nuovo premier. Ankara è parsa fermamente intenzionata a rafforzare il supporto al governo tripolino, nuovo nella leadership e nella legittimazione, ma con importanti elementi del passato islamista. Forte dei legami con molte delle fazioni vicine al nuovo esecutivo, Erdogan ha cercato di assurgere al ruolo di attore indispensabile per non perdere le posizioni guadagnate negli ultimi anni nell’area della Tripolitania e ha offerto il suo sostegno a Sarraj, svolgendo un importante ruolo di mediazione tra il Consiglio di presidenza libico e alcuni attori del panorama locale per ampliarne il consenso114. Strategia per certi diversi diversa è quella dell’altro amico di Tripoli, il Qatar, prima sponsor del Governo di salvezza nazionale degli islamisti e poi di quello accordo nazionale. Già dal 2014, il primo ministro libico Abdullah al-Thinni aveva accusato Doha di aver inviato tre aerei militari pieni di armi per rifornire le milizie islamiste che avevano conquistato l’aeroporto di Tripoli e la capitale, costringendo il governo a riparare a Tobruk. Gli esempi potrebbero continuare ma qui è importante evidenziare la crescente divergenza di idee tra le potenze del Golfo. In Libia il Qatar e gli oramai ex alleati del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) - Emirati, Arabia Saudita e Bahrain - da tempo si trovano uno contro l’altro. Soprattutto i primi, schierati con Haftar, criticano da tempo il giovane nuovo emiro qatariota, chiedendogli di interrompere il sostegno ai Fratelli musulmani e agli altri gruppi islamisti in giro per il mondo. Il Qatar ha supportato politicamente e finanziariamente l’Egitto di Mohammed Morsi con oltre due miliardi e mezzo di dollari. Per tutta risposta gli altri Stati

114 M. Mercuri, Libia e Turchia. Storia di un rapporto sospeso tra passato, presente e future, in «Irradiazioni», Il Nodo di Gordio, anno V, n. 11, pp.55-65.

70 del Ccg, sauditi in primis, hanno finanziato con altrettanti miliardi di dollari il governo egiziano di al-Sisi, che ha deposto il presidente dei Fratelli musulmani nel luglio del 2013. Varrebbe la pena capire cosa stia accadendo e per questo è necessario spostare, solo per un attimo, la nostra analisi dentro al piccolo ma potente Stato del Golfo. Dal 2013, alla guida del Qatar c’è Tamim bin Hamad al-Thani, che ha costretto il padre Hamad bin Khalifa al- Thani ad abdicare. Il giovane ha mostrato un atteggiamento assai più azzardato in politica estera rispetto al genitore. Se prima il Qatar sognava un ruolo di federatore dell’islam moderato, oggi il nuovo emiro, forse stanco di avere tutto, si è convinto di agire in nome di qualcosa che va oltre il profitto economico. Quello che vuole, detta in altre parole, è “un posto al sole” nel panorama internazionale, inversamente proporzionale alle piccole dimensioni del suo Stato ma direttamente proporzionale alla sua crescente forza economica. Se con Hamad l’attenzione è caduta sui Fratelli musulmani, con Tamin si è spostata spesso sulle milizie dello Stato islamico e di altri gruppi jihadisti. La questione è assai complessa ed è utile una breve sintesi. La Turchia e il Qatar sostengono Tripoli. Gli Emirati e l’Egitto Tobruk. L’Arabia Saudita, in chiave anti Fratelli musulmani, ha fatto sponda con al-Sisi e Haftar. Ora, però, la rottura con l’Egitto parrebbe mettere in crisi questa liason, con possibili ricadute nel contesto libico. Riad, svicolata dall’asse con il Cairo, e dunque anche con Haftar, sta provando a salire su un gradino più alto, tentando di assurgere al ruolo di “negoziatore”. Rispolverando la memoria dello storico accordo di Taif del 1989, che pose fine ai quindici anni di guerra civile libanese, i sauditi sembrano voler indossare di nuovo le vesti diplomatiche, forse oggi un po’ più strette di allora, e mediare nella crisi libica. Il 2 giugno del 2016 re Salman ha incontrato Paolo Gentiloni promettendo di operare ogni sforzo per mediare un accordo tra le parti, facendo perno soprattutto sui due maggiori sponsor del Golfo delle fazioni libiche: Qatar con Tripoli ed Emirati con Tobruk. Questi ultimi potrebbero avere un ruolo importante su Haftar, visto che sono tra i suoi maggiori finanziatori regionali. Pochi sono i risultati pervenuti, a oggi, ma i tempi della diplomazia, si sa, sono lunghi.

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Capitolo 5

IL GRANDE RISIKO INTERNAZIONALE

La crisi libica ha avuto sin dal suo nascere una dimensione internazionale. Come già ricordato, il 17 marzo del 2011, a neppure un mese dall’inizio delle rivolte, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione n.1973 che sanciva, di fatto, l’intervento delle potenze straniere nel teatro libico. A detta di molti l’azione in Libia è stata un fallimento annunciato sia per le modalità con cui è stata intrapresa sia per come è proseguita. Gli errori sono stati molteplici e dovuti, soprattutto, al fatto che le potenze straniere, pur avendo deciso di sostenere i “ribelli di Bengasi”, prima hanno abbandonato il Paese, dopo la morte del rais, e poi hanno deciso di proseguire in ordine sparso, supportando le varie fazioni in campo, in barba a qualunque strategia comune. Da questo punto di vista non sarebbe azzardato dire che l’ex Jamahiriya stia pagando le guerre per procura, o quantomeno le strategie divergenti, che gli attori internazionali e regionali hanno giocato e continuano a giocare nel Paese. Detta in altre parole, la crisi libica è la cartina al tornasole delle incoerenze delle politiche estere occidentali. Il termine al plurale non è usato casualmente. In Libia, come in Siria e in molti altri Stati del quadrante mediterraneo, l’assenza di una coraggiosa ma indispensabile linea comune nelle politiche internazionali non solo ha condotto al caos odierno ma rischia di far sprofondare molti Paesi nel baratro. L’occidente sembra ciecamente non voler fare tesoro dei propri errori o, forse, ne è perfettamente cosciente ma è accecato dalla realpolitik dell’interesse nazionale che, inevitabilmente, lo porta ad anteporre il proprio tornaconto alla ricerca della stabilità. E così mentre Sarraj ha potuto fin qui contare sull’appoggio americano e italiano nonchè di alcuni attori regionali come Qatar e Turchia, Haftar è forte del sostegno della Russia, della Francia e, a livello regionale, per lo meno dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti. D’altra parte, non giriamoci troppo intorno: la Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari che può triplicare nel caso si tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi. È evidente che stia a cuore a molti115.

115A. Negri, La grande spartizione della Libia: un bottino da almeno 130 miliardi, in «Il Sole 24 ore», 6 marzo 2016. Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della Banca centrale e del Fondo sovrano libico Lia, Libyan investment authority.

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Abbiamo esaminato nelle pagine precedenti gli obiettivi di alcune delle potenze regionali a vario titolo coinvolte nella partita libica e dedicheremo, più avanti, una particolare trattazione al ruolo dell’Italia. Qui si ripercorreranno le strategie di alcuni degli attori internazionali che più hanno contribuito a frammentare il quadro delle alleanze libiche, cercando di coglierne i reali interessi, gli errori e le possibili strategie future.

La Francia a caccia di petrolio La missione della Nato in Libia, non è certo una novità, è stata voluta dal governo francese dell’allora presidente Nicolas Sarkozy che, pochi giorni dopo lo scoppio delle rivolte, chiese una riunione urgente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per prendere adeguate misure nei confronti della repressione delle insurrezioni da parte del regime di Muammar Gheddafi. Una solerzia, per molti, riconducibile a motivazioni dettate da meri calcoli interni piuttosto che da reale volontà di porre fine alla sanguinaria azione messa in atto dal rais. Le elezioni imminenti e la popolarità in drastico calo del presidente, la necessità di allargare la fetta petrolifera d’oltralpe e la volontà di porre fine al “fastidioso” trattato di amicizia e cooperazione italo-libico del 2008116 sono solo alcune delle mire che hanno spinto la Francia ad agire in Libia. Giova fare un passo indietro. Le tensioni tra il colonnello e Parigi sono di lunga data, basti ricordare i contrasti nella lunga guerra del Ciad, proseguiti per tutti gli anni ottanta e culminati nell’attentato del 1989 contro il Dc 10 della compagnia francese Uta, esploso nei cieli del Niger uccidendo 170 persone117. L’arrivo di Sarkozy all’Eliseo sembrava preludere a una fase di nuove aperture con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e anche con la Libia. Emblematico il ruolo svolto dal presidente francese, e dall’allora moglie Cecilia, per il rilascio delle cinque infermiere bulgare condannate prima a morte e poi all’ergastolo con l’accusa di avere infettato 400 bambini con il virus dell’Hiv all’ospedale El-Fathi di Bengasi. Le infermiere, dopo otto anni di prigionia, furono rilasciate nel luglio 2007 anche grazie alla mediazione della coppia dell’Eliseo, che si era più volte recata in Libia per parlare con Gheddafi e con la sua adorata figlia Aisha. La partita fu vinta dalla Francia contro Romano Prodi, che si era speso per

116 N. Ronzitti (a cura di), Il Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione, cit. 117 Il 19 settembre del 1989 il volo di linea 772 della società aerea francese Union de transports aériens (Uta) partì da Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, diretto all’aeroporto parigino di Roissy. Mentre sorvolava il deserto nigerino, esplose una bomba all’interno del vano bagagli anteriore. Morirono tutte le 170 persone a bordo. Vennero svolte diverse indagini, tra cui quelle di una commissione di inchiesta del governo francese. Alla fine degli anni novanta venne aperto un processo contro sei cittadini libici, condannati, poi, in contumacia, dato che la Libia aveva rifiutato di estradarli in Francia. Tra essi c’era anche un uomo di nome Abdullah Senussi: capo dei servizi segreti esterni della Libia e uno dei cognati dell’allora dittatore Muammar Gheddafi, toccato dall’indagine ma protetto dall’immunità diplomatica. Il rapporto della commissione francese può essere consultato al seguente link: https://www.bea.aero/docspa/1989/n-29890919/pdf/n-29890919.pdf.

73 cercare una soluzione diplomatica “all’incidente”. Qualche mese dopo Gheddafi aveva piantato, fra mille polemiche, la sua tenda berbera davanti all’Eliseo, firmando contratti per oltre dieci miliardi di dollari che avrebbero permesso alla Francia di vendergli un’intera flotta aerea da combattimento, confezionata dal colosso dell’aeronautica francese Dassault e un mega investimento per costruire centrali nucleari a Tripoli e dintorni. Sulla scia dei ricuciti rapporti tra la Francia e Gheddafi, Paribas aveva acquisito, alla fine del 2010, il 19% della Sahara Bank libica, con un aumento del capitale della filiale francese Bnp Paribas in Libia, pari al 146% dei precedenti fondi a disposizione e a garanzia delle operazioni118. D’altra parte, c’è poco di cui stupirsi. La Francia vende armi a Gheddafi fin dagli anni settanta, come peraltro molti altri Paesi, tra cui l’Italia. Nel gennaio del 1970 Parigi stipulò un contratto con il governo di Tripoli per la fornitura di un jet mirage. Fu l’inizio di un proficuo rapporto che, tra alti e bassi, è andato avanti per molti anni. Tuttavia le frizioni permanevano. La Libia non rinunciava a intervenire nelle dispute africane, spesso in chiave anti-francese, dal conflitto in Sierra Leone fino agli interventi di conciliazione in Darfour, Kenya, Niger e Mali. Nonostante gli sforzi diplomatici, il rais si era rifiutato di entrare nel grande progetto francese dell’Unione per il Mediterraneo119, ritenuto una forma di nuovo colonialismo. Non solo, il leader libico non aveva mai onorato gli accordi del 2007 preferendo rispettare il Trattato italo-libico, grazie al quale intascava assegni annuali per 250 milioni di dollari da spendere in opere infrastrutturali, a tutto beneficio delle imprese italiane. Eppure Sarkozy le aveva provate tutte, coinvolgendo finanche gli Emirati, disposti ad addestrare piloti libici per gli aerei francesi Rafale e a cofinanziare l’operazione rinnovando la propria flotta con la già ricordata Dassault. Ci sarebbe, poi, la questione della moneta panafricana. In una delle mail inviate a Hillary Clinton, e pubblicate dal dipartimento di Stato americano il 31 dicembre del 2015, il funzionario Sidney Blumenthal rivelò, tra le altre cose, che Gheddafi voleva sostituire il franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana120, un’iniziativa che avrebbe rischiato di creare l’indipendenza economica del Nord Africa con la nuova valuta.

118 G. Pelosi, L’Italia e il grande gioco libico, in «Ispi Commentary», 20 gennaio 2012. 119 Si trattava di un organismo internazionale, ispirato al modello dell’Unione europea, che intendeva avvicinare i rapporti fra le nazioni che si affacciano sul mar Mediterraneo. Il progetto è stato presentato a Parigi il 13 luglio del 2008 dal presidente Nicolas Sarkozy, in carica anche come presidente del consiglio europeo. L’Unione era vista come una conseguenza “naturale” del processo di Barcellona, per avvicinare i Paesi europei alle nazioni mediorientali e africane. 120Si tratta di una delle mail spedite quando Hillary Clinton era segretario di Stato, utilizzando un server privato di posta elettronica. La “missiva”, datata 2 aprile 2011, spiegava i motivi che avrebbero spinto Parigi ad attaccare la Libia. Si diceva, tra le altre cose, che Gheddafi volesse creare una valuta panafricana in grado di soppiantare il Fcfa (Franco delle colonie francesi d’Africa). Il Fcfa fu creato in piena epopea coloniale (il 26 dicembre del 1945) in coerenza con gli accordi di Bretton Woods ed è ancora oggi la moneta imposta a 14 Stati africani ex colonie francesi, le stesse che hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi. Il progetto dell’ex

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Infine, un altro possibile motivo dell’interventismo francese emerge anni dopo la morte del rais. Il 6 marzo del 2015 l’ex ministro dell’interno, Claude Gueant, uno dei più stretti collaboratori di Nicolas Sarkozy, è stato posto in stato di fermo nel quadro delle indagini sui presunti finanziamenti di Gheddafi alla campagna presidenziale che portò “Sarkò” all’Eliseo nel 2007. Forse anche per questo il colonnello, sentitosi pugnalato alle spalle, in un’intervista rilasciata a Fausto Biloslavo ne «Il Giornale» qualche mese prima di essere ucciso, dichiarò: «Penso che Sarkozy ha un problema di disordine mentale. Ha detto delle cose che possono saltar fuori solo da un pazzo»121. Infine, ad aver dato ulteriore stimolo all’intervento francese in Libia è stata probabilmente anche la volontà della Francia di rinsaldare la propria influenza politica nelle regione, promuovendo l’immagine di un Paese non più colluso con i vecchi autocrati, ma pronto a investire sulle richieste di libertà e democrazia delle popolazioni “della sponda sud”. D’altra parte Parigi aveva perso in poco tempo Egitto e Tunisia, le architravi della propria strategia diplomatica. Quale migliore occasione della Libia per recuperare credito in quel Mediterraneo in ebollizione? Forse è bene non avventurarsi troppo in altre congetture ma, in ogni caso, gli esempi potrebbero continuare. Tanto basta, però, per capire le motivazioni francesi. Prova ne sia che già il 13 aprile del 2011 ( dunque prima della morte di Gheddafi) Sarkozy aveva ricevuto in gran segreto il generale del Cnt, Fatah Younis - ucciso a Bengasi in circostanze ancora poco chiare nel luglio 2011- probabilmente per discutere di garanzie per le future commesse energetiche. Conti alla mano risulta tutto più semplice: prima dell’inizio delle ostilità la produzione di petrolio della Libia ammontava a quasi a un milione e 600.000 barili al giorno, circa il 2% della produzione mondiale. Di questi circa il 52% era in mano a 35 aziende internazionali, capeggiate dall’italiana Eni, che nel 2010 aveva primeggiato, con i suoi 267.000 barili al giorno, sulla tedesca Wintershall e sulla francese Total, ferme, rispettivamente, a 79.000 e a 55.000 barili al giorno. Non stupisce che Nicolas Sarkozy, dopo avere sostenuto strenuamente il Cnt nella guerra di “liberazione” libica, si sia ben presto presentato a chiedere il conto sotto l’occhio vigile dell’amministratore delegato del gruppo Total, Christophe de Margerie. Allora il quotidiano francese «Libération» parlò addirittura di un accordo siglato dal portavoce del Cnt, Mahmoud Shammam, pronto a concedere alla Francia il 35% dei nuovi contratti petroliferi libici. Notizia poi smentita dalle parti, ma che per lo meno insinuò un dubbio. Il resto è storia recente. Dopo anni di colpevole attesa, anche la Francia di Hollande decide di aderire al piano Onu per il Governo di accordo nazionale guidato da Fayez al-Sarraj. Anche

dittatore libico era garantire la nuova valuta con ingenti riserve d’oro e argento (stimate in 143 tonnellate), che sarebbero state trasferite dai caveau della Banca centrale di Tripoli a Sabha, nel sud-ovest del Paese, città ritenuta più sicura. 121 L’intervista del 15 marzo del 2011 è disponibile per intero al seguente link: http://www.ilgiornale.it/news/politica/quando-gheddafi-ci-disse-senza-me-vi-invaderanno-1094968.html.

75 in questo caso, però, è difficile rinvenire nell’intervento dell’Eliseo una qualche coerenza, a meno che non lo si voglia interpretare in una mera ottica di interesse nazionale. La Francia, con il solito, innato equilibrismo, in sede Onu si era detta pronta a sostenere il Gna, ma nel frattempo ha continuato a supportare Haftar e i suoi sponsor regionali. E’ il quotidiano «Le Monde» a svelare l’arcano nel febbraio del 2015, rivelando l’esistenza di forze speciali francesi di stanza nella base di Benina, nei pressi di Bengasi, a supporto del generale della Cirenaica in azioni contro lo Stato islamico e altre milizie islamiste fedeli a Tripoli. D’altra parte la rapida avanzata dell’esercito di Haftar verso Bengasi non avrebbe avuto luogo se non con ingenti aiuti esterni dei francesi (e degli inglesi), ma anche dell’Egitto di al-Sisi e per lo meno dei sauditi e degli emiratini, che, oltre a fornire armi, hanno funto da garanti sui pagamenti egiziani. Si delineava così sempre più chiaramente il ruolo francese nell’asse est del conflitto libico: le armi d’oltralpe, il pivot egiziano, le milizie di Haftar e le garanzie del Golfo. Potremmo dire “chapeau” se questi fiorenti affari non fossero nati sulle ceneri degli accordi unitari dell’Onu che la Francia aveva avallato. Resta ora da chiedersi i motivi di tanta solerzia. Ancora una volta basta seguire la rotta del petrolio. L’obiettivo dei francesi è quello di accedere alle riserve petrolifere della Cirenaica, riprendendo le attività estrattive, allargando il raggio di quelle esplorative avviate nel 2011 dopo la caduta del rais, magari guardando anche un po’ più in là verso il bacino della Sirte che abbonda di risorse. E’ qui che, nel silenzio del deserto e lontano da occhi indiscreti, compagnie francesi, nonché americane, inglesi, tedesche e spagnole stanno investendo somme notevoli in attività esplorative nelle aree di Brega, nel Golfo della Sirte, dove sarebbero presenti molte compagnie inglesi, di Zillah, che vede una forte attività francese, così come a Beida e Kufra nella Cirenaica, solo per fare alcuni esempi. A volte le cose sono molto più semplici di quanto non si pensi.

Barak Obama e il fallimento del “leading from behind” «Il mio più grande errore è stato non aver avuto un piano per cosa fare in Libia». In questa affermazione di Barak Obama, riportata in un articolo del «The Atlantic» nel marzo del 2016122, è racchiusa tutta la politica americana in Libia negli ultimi sei anni. Ma andiamo per gradi. Quando nel febbraio del 2011 la Francia premeva sull’acceleratore per l’intervento, con il pretesto di impedire al dittatore libico di sterminare i ribelli di Bengasi, Obama non voleva attaccare. Il vicepresidente Joe Biden e il segretario alla difesa Robert Gates gli consigliarono

122Il presidente degli Stati Uniti ha parlato a lungo e in varie occasioni con il giornalista del «The Atlantic» Jeffrey Goldberg che ha riportato parte di queste conversazioni nell’articolo The Obama doctrine, disponibile anche al seguente link: http://www.theatlantic.com/magazine/archive/2016/04/the-obama-doctrine/471525/.

76 di evitare di cacciarsi in un tale ginepraio. Tuttavia un’altra parte del team della sicurezza nazionale, con il segretario di Stato Hillary Clinton in testa, fecero pressioni. Un incontro in particolare risultò decisivo per convincere Obama e fu quello che si tenne a Parigi il 14 marzo del 2011 tra Hillary Clinton e Mahmoud Jibril, allora leader dell’opposizione libica. Un assistente della Clinton, riferendosi alle convincenti risposte di Jibril, ammise: «Ci dissero tutto quello che volevamo sentire. E tutto quello a cui uno vuole credere. Obama era convinto al 51-49»123 e la “nuova convinzione” del segretario di Stato gli fece superare ogni dubbio e decidere per l’intervento. E’ plausibile ipotizzare che tale scelta a scatola chiusa sia stata dettata anche dal ruolo defilato che era stato garantito agli Stati Uniti. Obama fu eletto presidente dopo una campagna elettorale in cui aveva promesso di finire le due lunghissime guerre iniziate dall’amministrazione precedente di George W. Bush, in Iraq e Afghanistan. In nome della politica del disimpegno americano del “leading from behind”, letteralmente “guidare da dietro”, per il presidente non sarebbe stato possibile giustificare un intervento a guida americana in Libia, un Paese che, come lui stesso aveva detto, non era di interesse prioritario per gli americani. D’altra parte, c’erano altri Stati disposti a intervenire – Francia e Regno Unito tra i più insistenti – e per Obama era una buona notizia. Gli Stati Uniti hanno, dunque, sostenuto le richieste anglo-francesi e hanno dato il via alle operazioni militari su Bengasi. Il presidente americano, pur manifestando qualche perplessità, pare aver assecondato l’intervento più per pigrizia che per reale convinzione. Partiva così l’operazione di quella che, con un po’ di sarcasmo, potremmo definire “coalizione dei coscritti”. I presupposti non erano certo dei migliori e forse anche per questo si è rivelata un fallimento. Nella fretta di intervenire è possibile che gli attori internazionali abbiano dimenticato le più elementari regole di un’azione militare, che in primo luogo dovrebbe avere una chiara strategia politica, capace di definire gli obiettivi finali della missione. Nel caso libico la missione, iniziata con lo scopo di proteggere la popolazione civile tramite la creazione di una no fly zone, ha decisamente cambiato rotta e, sotto la pressione francese e inglese, si è presto tramutata in un’azione finalizzata a un vero e proprio regime change per abbattere il regime. Si è trattato di un intervento armato senza un chiaro progetto politico. Non c’è stato, potremmo dire, nessun day after, ovvero nessuna pianificazione dei futuri assetti politici, sociali ed economici a beneficio del Paese nel quale è stato effettuato l’intervento militare. Eppure in un primo momento, dopo la morte del rais, i toni dei funzionari americani erano trionfanti e quello libico venne salutato come “un modello di intervento”. Obama sentenziò:

123 J. Becker, S. Shane, Hillary Clinton, ‘Smart Power’ and a Dictator’s Fall, in «The New York Times», 27 febbraio 2016.

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«Senza un solo uomo americano sul terreno abbiamo raggiunto i nostri obiettivi». Washington credeva di aver raggiunto tre risultati in un sol colpo: dare linfa alla primavera araba, evitare un genocidio e fare in modo che la Libia non divenisse una potenziale fonte di terrorismo. Queste valutazioni si sono rivelate evidentemente errate. Obama, a più di cinque anni di distanza, farà il suo mea culpa. Nella già citata intervista al «The Atlantic», in riferimento alla scellerata azione di quelli che lui stesso descrive come opportunisti europei, dirà: «Mi posso criticare per avere avuto troppa fiducia nel fatto che gli europei, vista la vicinanza con la Libia, si sarebbero impegnati di più con il follow-up»124. Follow up, un termine diplomatico per dire che quei Paesi che avevano caldeggiato l’intervento militare hanno poi colpevolmente lasciato la Libia al proprio destino, con tutte le amare conseguenze che abbiamo già avuto modo di vedere. E così, utilizzando ancora le parole di Obama, la Libia è diventata «un gran casino»125. Dovranno passare almeno quattro anni prima che gli Stati Uniti tornino ufficialmente a occuparsi dello spinoso dossier Libia. Siamo alla fine del 2015. Le cose sono molto cambiate dai tempi dell’intervento militare. Obama è sempre più in difficoltà nel mondo arabo. Annaspa in Iraq, fronte su cui è accusato da più parti di essersi ritirato in maniera troppo repentina e di aver così compromesso i buoni risultati raggiunti, consentendo alle forze più estremiste di riorganizzarsi nell’Isis. Annaspa in Siria, dove l’intervento militare russo accanto ad Assad, dal 30 settembre del 2015, inizia a segnare una chiara svolta nel conflitto, mentre gli Stati Uniti infilano un autogol dietro l’altro. Prima Obama sostiene i ribelli anti- Assad e arma i curdi126, poi fa un passo indietro davanti alla rabbiosa reazione di Erdogan che, si sa, vede l’autonomia curda come fumo negli occhi. Si dichiara apertamente contro il terrorismo, ma attacca solo lo Stato islamico e non gli altri gruppi jihadisti presenti fra le opposizioni. Infine, mal concilia il disimpegno nella guerra siriana, lasciando mano libera agli alleati regionali, col tentativo di mantenere un rapporto costruttivo con la Russia. La lista potrebbe continuare ma tanto basta per capire la necessità di Obama di garantirsi almeno una vittoria di Pirro prima della fine del suo mandato. Torna così alla ribalta la Libia dove, tutto sommato, le cose sembravano meno complicate del pantano levantino. Qui, magari, avrebbe anche potuto portare a casa un successo utile a sostenere Hillary Clinton, in lizza e allora favorita per la poltrona presidenziale. L’ex inquilino della casa bianca decide così di appoggiare in maniera incisiva l’iniziativa di mediazione dell’Onu per il sostegno al progetto unitario. Spedisce Kerry a Roma a negoziare l’accordo che avrebbe condotto a Skhirat e, dunque, alla nomina del “premier unitario”. In seguito, nello schieramento tra il Governo di

124 The Obama doctrine, cit. 125 Ibidem. 126 Finanziando un’operazione di terra di circa 5.000 combattenti della Syrian arab coalition e di 25.000 combattenti curdi.

78 accordo nazionale di Tripoli e la Camera dei rappresentanti di Tobruk, gli Stati Uniti, assieme all’Italia e a vari attori regionali, appoggiano Sarraj. Un sostegno che si è concretizzato il primo agosto del 2016, con l’avvio dei raid americani su Sirte: Washington avrebbe effettuato più di 500 incursioni contro le postazioni dell’Isis, prima della capitolazione dei suoi miliziani per mano delle milizie di Misurata, fedeli al Governo unitario. Questa, però, era l’America di Obama. Accenneremo nel capitolo conclusivo le possibili “variazioni libiche” della politica del nuovo presidente Trump. Fermiamoci qui, solo per il momento.

Putin e il tassello mancante della politica egemonica Il 22 settembre del 2016, in modo piuttosto discreto, Abdel Basset Badri, rappresentante speciale di Khalifa Haftar, è volato verso Mosca per incontrare il vice ministro degli esteri russo Mikhail Bogdanov. Non si trattava, certo, di un viaggio di piacere. Badri, infatti, aveva avuto direttamente da Haftar l’incarico di far pressioni su Mosca affinché perorasse, in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la possibilità di scongelare l’embargo sugli armamenti diretti in Libia. Qualche mese prima, il 28 giugno del 2016, Haftar si era recato in visita a Mosca, appuntamento che non ha mancato di ripetere nel novembre dello stesso anno. In quel periodo, poi, Mosca aveva versato nelle casse della Banca centrale di Beida 200 milioni di dinari, distribuiti nell’est del Paese per fare fronte alla crisi di liquidità, o più semplicemente per stipendiare le milizie del generale. Tra la Russia e Haftar, espressione dell’ala di Tobruk, sembra ormai esserci un legame consolidato. Perché la Russia sostiene il generale e cosa vuole dalla Libia? Per rispondere a questa domanda dobbiamo allargare lo sguardo per lo meno a tutta l’area del Nord Africa e del Medio Oriente. Qui la Russia, oltre a voler assurgere nel breve medio periodo al ruolo di attore indispensabile per le dispute geopolitiche, ha assoluto bisogno di mantenere vivi i suoi introiti commerciali con i partner regionali che soddisfano il suo mercato. Vista da questa prospettiva possiamo interpretare la strategia russa muovendoci per lo meno su tre direttrici. La prima è quella economica. A partire dal ritiro delle truppe americane dall’Iraq, la Russia ha avviato un approccio volto a instaurare rapporti commerciali con i Paesi della regione mediorientale, seguendo due strumenti: quello ben noto delle commesse militari e quello della cooperazione energetica, nuovo asset su cui sembra voler puntare Mosca. A solo titolo esemplificativo, nel 2011, subito dopo il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, la Russia ha iniziato a intessere accordi per la fornitura di armi con il governo del primo ministro Nuri al-Maliki, con cui, nell’ottobre del 2012, ha siglato contratti per la vendita di armamenti per oltre 4 miliardi di dollari. Non solo, nel 2014, subito dopo la condanna americana del golpe di al-Sisi e la

79 conseguente minaccia di interruzione degli aiuti militari - un miliardo e mezzo di dollari annui - l’Egitto avrebbe firmato un accordo con la Russia per la fornitura di armi per un valore superiore ai tre miliardi di dollari. Oltre al sempre fiorente mercato delle armi, però, la nuova frontiere della politica economica del Cremlino sembra essere la cosiddetta “diplomazia dell’atomo”, così come viene chiamata da più parti. Un caso emblematico è rappresentato dalla Giordania. Amman, dopo lo scoppio della crisi siriana, ha dovuto affrontare un massiccio afflusso di profughi con conseguenze drammatiche sulle risorse alimentari, idriche e soprattutto energetiche. Per ovviare a tale problema ha deciso la costruzione di due centrali nucleari e ha individuato nell’agenzia russa Rosatom il partner ideale. Nel marzo del 2016 la Commissione per l’energia atomica della Giordania ha siglato un accordo da 10 miliardi di dollari per il primo impianto del Paese e, con l’aiuto dell’agenzia di Stato russa, dovrebbe anche costruire una centrale con due reattori che entreranno in funzione a partire dal 2024. Anche l’Egitto sembra interessato al know how russo. Nel 2015, nel corso di una visita di Stato al Cairo, Putin, accolto con i massimi onori da al-Sisi, dopo aver donato al presidente egiziano un kalashnikov, ha affermato di voler aiutare l’Egitto a costruire una centrale nucleare, fornendo tecnologia e formazione per il personale. Sarebbe però riduttivo ricondurre tutto a meri interessi economici. C’è una seconda importante “direttrice” dell’azione russa nella ex Jamahiriya. Se allarghiamo un po’ lo sguardo nel quadrante mediterraneo, notiamo che la Libia è solo un tassello, forse neppure troppo importante, della partita russa in Medio Oriente e Nord Africa. Qui Putin ha sempre avuto una chiara strategia, a differenza dell’allora presidente Obama. In Siria combatte tanto l’Isis quanto tutti gli altri gruppi jihadisti, sostiene apertamente Assad ed è alleato dell’Iran. In Nord Africa ha favorito la controrivoluzione del presidente egiziano, “foraggiandolo” con forniture di armi. Ha rapporti eccellenti con gli israeliani: Putin e Netanyahu si sentono quasi ogni settimana. Una strategia chiara che, tra l’altro, ha giovato delle indecisioni americane e più in generale dell’occidente, lacerato dai disaccordi su migrazioni e terrorismo, indebolito economicamente nonché carente di leadership. Infine, c’è un motivo di ordine geostrategico. Una delle linee guida della politica estera russa è stata la ricerca di un accesso ai mari caldi per aggirare il problema del congelamento dei porti russi durante i freddi mesi invernali. Facciamo un passo indietro. Fin dal XIX secolo la Russia ha tentato di ottenere un accesso al Mediterraneo. Allora, però, gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, che collegano il Mar Nero al Mar Egeo, erano controllati dall’Impero ottomano. La pace di Santo Stefano, firmata il 3 marzo del 1878 fra la Russia e la Sublime porta al termine della guerra turco-russa del 1877-1878, sembrò aprire un nuovo capitolo per il controllo della Russia su queste aree strategiche. Nella prima stesura del trattato, la Bulgaria, alleata di San Pietroburgo, ottenne, tra l’altro, anche sbocchi sul Mar Nero e

80 sull’Egeo127, utili per far valere la propria influenza geostrategica e per accaparrarsi una concessione lungo la costa bulgara. Tuttavia, il trattato di Santo Stefano scontentò diverse potenze, in primis l’Austria-Ungheria, che attraverso il ruolo di negoziatrice ricoperto dalla Germania spinse per l’organizzazione del congresso di Berlino del 1878 che ridimensionò e divise la nascente Bulgaria, impedendo, di fatto, alla Russia di realizzare il suo disegno. Lo sbocco venne però trovato, circa un secolo dopo, nel 1971, quando l’Urss ottenne dal presidente siriano Hafez al-Assad la concessione a poter stabilire una base militare (tutt’ora in suo possesso) nel porto di Tartus. Cosa c’entra tutto questo con la Libia? Semplice, è il tassello mancante di tutte e tre le direttrici russe. Da un punto di vista economico, Putin non ha certo bisogno del gas e del petrolio della Libia, ma non disdegna di vendere know-how e tecnologie ai tanti impianti da saggiare nell’est ricchissimo di petrolio. Inoltre, Haftar ha bisogno di armi per proseguire la sua guerra sia contro gli islamisti e le truppe di Misurata sia contro il governo a marchio Onu. La Russia ha tutto l’interesse a fornirgliele. In termini di proiezione mediterranea, poi, Haftar, baluardo del laicismo, è il complemento ideale all’asse con l’Egitto di al-Sisi e, forzando un po’ la mano, anche con Damasco. Infine, la questione dello sbocco sul mare. Mosca, intervenendo militarmente nel conflitto siriano accanto ad Assad, si è assicurata, per lo meno, il mantenimento del porto di Tartus, come già ricordato, vitale per l’egemonia marittima. Perché non approfittare di Haftar per ricavarsi un altro “porto sicuro” nella Cirenaica? Insomma, il matrimonio di interessi è fatto. La Russia ha bisogno di Haftar e Haftar della Russia. Il generale libico, nell’attesa dell’interruzione dell’embargo di armi, lancia note di apprezzamento al Cremlino. Nell’intervista rilasciata a Lorenzo Cremonesi e riportata il 2 gennaio del 2017 ne «Il Corriere della Sera», il generale tesse le lodi dell’amico Vladimir dicendo: «Ho molto apprezzato la politica di Putin e i suoi sforzi nella lotta contro il terrorismo in Medio Oriente». E a precisa domanda su eventuali aiuti ricevuti dal Cremlino risponde: «Mosca fa parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu che ha votato l’embargo militare nei nostri confronti. Si muove in modo serio, rispettando le convenzioni internazionali. Ci è stato detto che le armi possono arrivare solo dopo la fine dell’embargo e Putin si impegna per cancellarlo»128. Che Putin su Haftar abbia più o meno ragione potrà dircelo soltanto il tempo. Fino ad ora non possiamo, però, negare che la spregiudicatezza e la chiarezza di idee del Cremlino, unite a una certa dose di aggressiva realpolitk, abbia pagato. Tuttavia, negli ultimi tempi, qualcosa

127 All’Impero ottomano rimasero l’Albania e la Tracia in Europa, mentre la Serbia, il Montenegro e la Romania divennero indipendenti; la Russia acquisì la Bessarabia e venne creata la grande Bulgaria, che si estendeva dal mar Nero al mare Egeo. 128 L. Cremonesi, Il generale Haftar. ‘L’Italia in Libia si è schierata dalla parte sbagliata’, in «Corriere della Sera», 2 gennaio 2017.

81 sembra muoversi sul versante russo: Mosca sembra voler cambiare, anche se di poco, la propria strategia nel Mediterraneo, tentando la carta diplomatica, per essere promossa dal ruolo di “parte in causa” a quello di “stabilizzatore geopolitico”. Per ora ci fermeremo qui, per riprendere il discorso nella parte conclusiva di questo libro.

Europa, la grande assente Uno dei grandi assenti in Libia, così come in molti scenari incandescenti del Medio Oriente, è l’Europa. Senza avventurarci in disquisizioni sul ruolo dell’Unione europea nelle relazioni internazionali e sull’assenza di una politica estera e di una leadership comune, qui si vuole solo capire cosa è stato fatto e cosa si potrebbe fare nel vicino quadrante libico. Partiamo da una considerazione, forse in parte già emersa da quanto detto fino a ora: l’Ue non ha mai avuto una visione comune sulla crisi libica. Già dal 2011 è stata piuttosto evidente la mancanza di consenso politico, relativamente alla “fattibilità” dell’intervento militare. Francia e Regno Unito hanno assunto un ruolo di leadership diplomatica nel Consiglio di sicurezza e sono stati in prima linea nella campagna militare. L’Italia è intervenuta in seconda battuta. La Germania si è astenuta dal voto sulla risoluzione n. 1973 che dava il via alla no fly zone. E’ evidente che considerazioni di politica interna ed estera molto differenti abbiano dominato i calcoli degli Stati europei sulla questione libica, così come su molti altri temi internazionali. Abbiamo approfondito poco sopra le motivazioni di ordine interno e internazionale che hanno spinto all’interventismo francese. Nel Regno Unito i calcoli di politica estera sono stati influenzati dal ruolo nell’alleanza transatlantica. In Germania hanno prevalso le ragioni di politica interna, visto che un intervento armato avrebbe esposto le forze di governo in occasione delle elezioni regionali del 2011. L’Italia, vedremo, è stata tirata per il bavero della giacca, stretta nella morsa di dover difendere i propri interessi nel Paese. Insomma, vale ancora il detto, attribuito forse erroneamente a Henry Kissinger: «Chi devo chiamare se voglio chiamare l’Europa?» o, per dirla con Josef Joffe, direttore del settimanale tedesco «Die Zeit»: «I veri poteri sono dispersi nelle capitali europee piuttosto che essere concentrati nel centro [a Bruxelles ndr]»129. In seguito, dopo la fine del conflitto armato e con il ritiro delle forze internazionali dal teatro libico, gli interessi degli Stati europei sono sembrati meno in contrasto, non tanto perché l’Europa, nella necessaria ma mai realizzata fase di State building libico, sia stata capace di parlare con una solo voce, ma semplicemente perché ha smesso di parlare. Dopo la caduta del rais i leader europei, in ordine sparso, si sono affrettati a stringere accordi bilaterali con i deboli governi che si sono succeduti alla guida del Paese. Come non ricordare la corsa di Nicolas Sarkozy e David Cameron, accompagnati dai rispettivi ministri degli esteri, Alain

129 J. Joffe, The Folly of Abandoning Europe, in «Foreign Affairs», 12 dicembre 2016.

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Juppé e William Hague, a stringere la mano ai leader del Cnt subito dopo la vittoria sul rais. D’altra parte anche l’allora presidente del consiglio italiano Mario Monti aveva spinto per la firma della «Tripoli Declaration»130, in cui si ribadiva l’importanza del rafforzamento dei rapporti bilaterali tra Italia e Libia. Nulla di cui stupirci visto che, allora, l’ex Jamahiriya sembrava un Eldorado e sul piatto non c’era solo il petrolio ma anche appalti per indotto e infrastrutture, stimati in quasi 5 miliardi di dollari. Gli eventi, di cui si è ampiamente parlato, hanno spento gli entusiasmi e reso necessaria una qualche revisione delle politiche europee. Tuttavia, lungi dall’adottare un approccio sinergico capace di risolvere la crisi politico- istituzionale del Paese, l’Europa ha prediletto, con alterne fortune, una politica di risposta alle crisi di volta in volta emergenti. Si è così concentrata sulla gestione dei problemi legati ai flussi migratori o al terrorismo di matrice islamista. Minacce cogenti per i Paesi della sponda nord, ma per affrontare i quali l’Ue ha dimostrato di non disporre di adeguati strumenti né di una chiara volontà politica. Inevitabilmente, stretti da un lato da minacce comuni e dall’altro dalla necessità di portare avanti i propri interessi nazionali, gli Stati europei hanno optato per la politica del minimo comune denominatore, che tradotto vuole dire: collaborare fin tanto che la comunione di intenti non va a ledere gli interessi dei singoli. La risposta alle sfide libiche è stata quella di concentrarsi sul controllo delle frontiere e su misure di sicurezza circoscritte. Così può essere declinata la missione «Eubam Libya», partita nel maggio del 2013 con due obiettivi: nel breve termine sostenere le autorità libiche nello sviluppo di maggiori capacità per la gestione e la sicurezza delle frontiere terrestri, marittime e aeree del Paese; nel medio-lungo periodo favorire una più efficace strategia di gestione integrata delle frontiere. Al di là dell’approccio parziale, visto che la sicurezza delle frontiere è prima di tutto un problema politico e non tecnico, va rammentato come ciò sia avvenuto troppo tardi, quando ormai l’intensità dei combattimenti in Libia aveva reso impossibile il lavoro di messa in sicurezza delle frontiere131. Considerazioni parzialmente simili vanno fatte per le politiche migratorie predisposte dall’Ue per rispondere a un problema che, va detto, riguarda principalmente l’Italia, Paese di approdo della quasi totalità dei migranti che giungono dalle coste libiche. Vedremo nel prossimo capitolo l’azione politica italiana per il contenimento dei flussi migratori, limitandoci, ora, a ricordare che l’Unione europea ha dato

130 Il 21 gennaio del 2012, in occasione della visita del governo italiano a Tripoli, l’allora presidente del consiglio Mario Monti e il premier libico al-Keeb avevano firmato un patto di amicizia, la «Tripoli Declaration», che rifletteva una nuova visione dei rapporti bilaterali e multilaterali. Allora Monti ammise: «bisogna tenere conto dei cambiamenti avvenuti assecondare il nuovo corso del Paese». 131 Per questo motivo la missione, dal 2014 è stata trasferita a Tunisi e oggi impiega un numero molto ridotto di persone (circa 16). Inoltre, Eubam è stata fin dall’inizio mal concepita perché troppo focalizzata su un tipo di assistenza unicamente tecnica, attraverso programmi di capacity-building, aventi lo scopo di trasferire best practices e competenze sulla sicurezza delle frontiere alla popolazione locale. S. Colombo, La crisi libica e il ruolo dell’Europa, in «Documenti Iai», 16 luglio 2015.

83 il via, nel giugno 2015, alla missione navale a guida italiana «EuNavFor Med - Operazione Sophia» - finalizzata al contrasto al traffico di esseri umani nel Mediterraneo 132 . L’operazione, oltre al monitoraggio delle coste, punta a individuare, fermare e distruggere le imbarcazioni adibite al traffico, non solo in alto mare, ma anche nelle acque territoriali degli Stati interessati nonché sulle loro coste. Nell’ottobre del 2016 è stato imbarcato il primo gruppo di circa 80 militari della guardia costiera libica per l’addestramento in mare. Un risultato importante, seppure ancora parziale, soprattutto se interpretato alla luce del fatto che ancora oggi gli Stati europei non hanno una strategia politica per la Libia. Francia, Germania, Italia e Regno Unito – con l’appoggio dell’Ue - sono stati gli attori che più si sono esposti per la soluzione unitaria dell’Onu ma, come abbiamo amaramente constatato, per ora solo l’Italia si è mostrata coerente con questa linea, mentre, con intensità diverse, gli altri Paesi, Francia in primis, una volta con i piedi sul terreno, hanno disatteso gli impegni di Skhirat. L’Europa, insomma, preferisce attuare una politica di risposta alle singole minacce piuttosto che andare al cuore del problema con un’azione condivisa. Purtroppo, però, nella politica come nella vita, circumnavigare il problema è il modo migliore per non risolverlo mai. Come se non bastasse, le nubi all’orizzonte sembrano ancora più minacciose con la presidenza Trump che ha prospettato un maggiore disimpegno americano nelle faccende internazionali. Non sappiamo se quanto detto dall’imprevedibile “Tycoon” sarà davvero rispettato ma, allo stato attuale, non possiamo esimerci dal constatare come ciò potrebbe richiedere all’Europa uno sforzo decisamente maggiore per mantenere gli impegni, in denaro o in impiego di truppe, nel Mediterraneo e negli altri quadranti di crisi. In altre parole gli Stati europei dovranno stanziare maggiori investimenti anche nella Nato, che oggi è coperta quasi per l’80% del suo mantenimento da Washington. Le opzioni sono due: o l’Europa coglierà l’occasione per costruire una maggiore autonomia nel tradizionale asse atlantico oppure il suo ruolo verrà ulteriormente marginalizzato. Allo stato attuale è difficile immaginare, però, che le capitali europee decidano di investire miliardi di euro in spese militari. Inoltre, per assumere un ruolo di “guida”, l’Ue avrebbe bisogno di una volontà comune e di una chiara leadership. Al momento manca di entrambe. E’ probabile che, per lo meno nei prossimi anni, continueremo a chiederci: dov’è l’Europa?

132 Per maggiori informazioni si rivia alla pagina dedicata alla missione: http://www. eeas.europa.eu/csdp/missions-and-operations/eunavfor-med.

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Capitolo 6

I RAPPORTI ITALO-LIBICI. UNA STORIA COMPLICATA

Cercare di affrontare in poche pagine la storia dei rapporti italo-libici è un’impresa assai ardua. Numerosi testi di grande valenza storiografica sono stati scritti da eminenti studiosi sull’evoluzione delle relazioni tra i due Paesi e a questi si suggerisce di attingere a tutti coloro che vogliono conoscere nel dettaglio le molteplici sfumature di una storia complessa che parte dai primi del novecento e arriva ai giorni nostri, tra momenti di difficoltà, battute d’arresto e speranze, spesso disattese133. Qui ci limiteremo a ripercorrere alcuni momenti salienti di una “relazione complicata”, senza avere la pretesa di esaurire tutti i possibili temi di analisi, ma cercando di far luce sugli aspetti che più possono essere utili alla comprensione delle dinamiche attuali. Una cosa però va detta fin da ora: la Libia può essere il nostro peggior incubo o il nostro più prezioso alleato nel continente africano. A differenza di molti “colleghi” europei e di oltreoceano, non abbiamo la possibilità di scegliere le nostre priorità estere in base alle contingenze del momento. La priorità estera italiana è, senza se e senza ma, la Libia. Non possiamo, dunque, permetterci di voltare lo sguardo dall’altra parte davanti al caos che regna nel Paese, anche se affrontarlo richiede un notevole sforzo che, come vedremo nelle prossime pagine, siamo probabilmente destinati a compiere da soli.

Da Moro a Berlusconi. Quello che sappiamo e quello che non sapremo mai Quando le Nazioni Unite decisero in favore dell’indipendenza libica, nel 1947, lasciarono in sospeso la questione della minoranza italiana. Fu il presidente della commissione Onu per la Libia, Adrian Pelt, a sottolineare l’importanza del patrimonio agricolo italiano che, soprattutto in Tripolitania, era la risorsa economica più rilevante del territorio. Era evidente che da quella drammatica colonizzazione qualcosa di buono era rimasto nel Paese: «le

133 Tra i molti testi utili per conoscere in maniera dettagliata la storia dei rapporti italo-libici si ricordano i già citati S. Romano, La quarta sponda, cit.; A. Del Boca, Gli italiani in Libia. Vol I e Vol II, cit. F. Cresti, M. Cricco, Storia della Libia contemporanea, cit, e anche N. Labanca, La guerra italiana per la Libia. 1911-1931, Il Mulino, Bologna, 2012; A. Varvelli, La Libia e l'Italia. Dalla guerra di conquista del 1911 a oggi, Edizioni Corno, Milano, 2016.

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fattorie italiane, sia le concessioni private che gli insediamenti parastatali […] una straordinaria impresa di valorizzazione e di bonifica della terra»134. Da questi presupposti, il 15 dicembre del 1950, vennero tracciate le direttrici degli insediamenti italiani lasciando, però, i dettagli a un accordo bilaterale tra le parti, che raggiunsero un compromesso nel 1956. In estrema sintesi, gli italiani avrebbero offerto una somma di denaro come risarcimento per i danni coloniali a condizione che questa venisse utilizzata per la ricostruzione del Paese. All’inizio degli anni sessanta i coloni furono posti di fronte alla drammatica alternativa: o diventare cittadini libici o vendere i loro poderi prima del 1962. Lo storico Claudio Segrè ricorda come tra gli italiani circolasse già la voce che le loro terre sarebbero state nazionalizzate135. Da qui un graduale esodo dagli insediamenti demografici tanto che, verso la fine del 1961, il 70% circa dei poderi italiani fu venduto ai libici. Nel 1964 restavano ancora in Libia soltanto 120 famiglie. Per quelle e, dunque, per tutti i circa 20.000 italiani ancora residenti nel Paese, la fine venne decretata dal colpo di Stato del primo settembre del 1969 che portò al potere Gheddafi. Nell’estate del 1970 il colonnello annunciò la confisca di tutte le proprietà ebraiche e italiane, queste ultime sequestrate a titolo di compenso per i danni che la Libia aveva subito sotto il dominio coloniale. Era il 23 luglio, gli italiani avrebbero dovuto abbandonare il Paese entro il 7 ottobre, quello che da lì in poi sarà festeggiato dal rais come il “giorno della vendetta”. E’ stata una delle pagine più dolorose della storia italiana e le poche testimonianze stanno via via scomparendo assieme a coloro che vissero quel dramma. Giovanna Ortu, espulsa dalla Libia proprio in quel periodo, ricorda: «Ho perso 15 chili in un mese […] Gheddafi ci teneva in ostaggio finchè non avessimo consegnato tutto e noi abbiamo reagito con dignità e con il sostegno della popolazione. Vivevamo mescolati con i libici. Loro ci hanno aiutati in ogni modo»136. Colette Ricard A. Arcangeli, fuggita dal Paese il 10 agosto del 1970, racconta: «Avevo 27 anni, mio marito 33. Noi ci siamo ricostruiti una vita, ma quelli più anziani hanno patito molto prima di ritrovare una propria identità e ritornare a condurre un’esistenza degna di questo nome. Avevano perduto tutto»137. Il fatto poteva in qualche modo essere evitato? Difficile dirlo. Secondo Salvatore Bono, dopo i primi proclami anti-italiani, Gheddafi continuava a insistere nel chiedere un riconoscimento ufficiale per i danni coloniali, “il grande gesto”, diceva lui. «Se il governo

134 United Nations, Treaty Serie. Treaty of peace whit Italy, signed on Paris on 10 February 1947, vol. 49, 1950, pp. 126-235, pp. 163 e ss. 135 C. G. Segrè, L’Italia in Libia dall’età giolittiana a Gheddafi, cit., p. 209. 136 Intervista dell’autore del marzo 2017. 137 Intervista dell’autore del marzo 2017.

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italiano avesse capito che il rais faceva sul serio e avesse avuto il coraggio di riconoscere simbolicamente quanto chiesto, senza sottovalutarne la portata, ciò [la cacciata degli italiani ndr] non sarebbe forse accaduto»138. Secondo Angelo del Boca, poi, Aldo Moro avrebbe dovuto recarsi a Tripoli da Gheddafi per decidere del destino di questi uomini, ma non lo fece. Ancora la Arcangeli ricorda in proposito: «Noi sapevamo che Gheddafi aveva invitato Moro. Tutti si aspettavano che arrivasse […] Le percezioni tra i libici erano molto diverse, molti non capivano bene il senso di ciò che stava accadendo. Alcuni addirittura guardavano il mare perché pensavano che, come in epoca coloniale, da lì sarebbero arrivati gli italiani a riconquistare la Libia» 139 . Seppure secondo l’allora presidente del consiglio Emilio Colombo quest’invito non ci sarebbe mai stato140, la teoria più condivisa dagli storici è che se l’Italia non avesse ulteriormente infastidito Gheddafi col suo “silenzio” forse quegli italiani sarebbero rimasti in Libia. Al di là delle congetture, e dati alla mano, furono espropriati circa 37.000 ettari di terre coltivate, confiscate circa 1.700 abitazioni e 500 proprietà immobiliari per uso lavorativo141 e beni che ammontavano, secondo una stima del consigliere commerciale dell’ambasciata italiana a Tripoli, Luigi Morrone, a circa 100 milioni di dollari. E’ questa una pagina tanto dolorosa quanto importante delle storia italiana in Libia e che meriterebbe un maggiore approfondimento. Tuttavia, questo resoconto ha altri obiettivi e per questo, non senza un certo dispiacere, ci fermeremo qui, concentrandoci, invece, sui rapporti politici ed economici che da allora si svilupparono tra i due Paesi. In estrema sintesi potremmo dire che, per anni, i rapporti tra Libia e Italia sono stati contrassegnati dalle “bizze” del rais per il mancato riconoscimento dei danni causati dagli italiani nel corso della colonizzazione, ma gli interessi economici ed energetici e la minaccia di Gheddafi di influenzare i flussi migratori diretti verso l’Italia hanno impedito ai vari governi che si sono succeduti alla guida del Paese di rifiutare molte delle sue richieste. Nonostante le proficue relazioni economiche, e anzi propri per mantenerle in piedi, i nostri rapporti con Tripoli sono stati caratterizzati da tutta una serie di rospi da ingoiare per preservare gli interessi nazionali nella Jamahiriya. D’altra parte, come diceva bene Giulio Andreotti, uno i vicini non se li può scegliere, tanto valeva fare buon viso a cattivo gioco. Sarebbero necessarie pagine e pagine per poter raccontare tutti gli eventi accaduti, in particolare, tra gli anni settanta e ottanta e di cui forse mai sapremo la verità. A quel ventennio si legano alcune delle pagine più oscure della nostra storia. Sono gli anni della

138 Intervista riportata in un documentario della trasmissione La storia siamo noi, dal titolo «Gli italiani in Libia», disponibile anche al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=ywG7FLauWaY. 139 Intervista dell’autore del marzo 2017. 140 Tratto dall’intervista «Gli italiani in Libia», cit. 141 A. Del Boca, Gli italiani in Libia Dal fascismo a Gheddafi, cit., p.475 e ss.

88 strage di Fiumicino del 17 dicembre del 1973 in cui un commando palestinese uccise 32 persone: sul possibile finanziamento libico agli attentatori non è mai stata fatta luce. Sono gli anni di Ustica. Sul coinvolgimento dei libici e, soprattutto, dei francesi nell’abbattimento del Dc9 Itavia, in quella calda serata del 27 giugno del 1980, è oramai calato l’oblio della storia. Una storia che si è chiusa, in via definitiva, già nel 1988 con la morte di Ivo Nutarelli e Mario Naldini che “la notte di Ustica” erano in volo proprio nell’area attraversata dal velivolo. I due piloti sono deceduti in Germania mentre si esibivano a bordo delle frecce tricolori nella strage passata agli annali come la sciagura di Ramstein, con dinamiche ancora tutte da chiarire. Sono gli anni di «El Dorado Canyon», nome dell’operazione con cui gli Stati Uniti di Ronald Reagan decisero di punire Gheddafi per l’attentato alla discoteca «La Belle» di Berlino del 5 aprile del 1986, in cui morirono tre soldati americani e altre 250 persone restarono ferite. Il presidente libico sfuggì alle bombe, ma perse una figlia, mentre una delle sue residenze a Tripoli, la caserma di Bab el Azizia, venne pesantemente danneggiata. Almeno su questa vicenda è definitivamente calato il sipario nel 2008, quando il ministro degli esteri libico Mohammed Abdel Rahman Shalgam, in visita in Italia, fece outing davanti a un neppure troppo sorpreso Franco Frattini, all’ex ministro Beppe Pisanu e al gotha dell’imprenditoria italiana, tra cui gli allora amministratori delegati di Eni, Telecom, Unicredit etc. Shalgam disse candidamente che l’Italia avvertì la Libia dell’attacco che gli americani avevano deciso di lanciare contro Tripoli. Una decisione presa in prima persona da Bettino Craxi. D’altra parte chi non lo avrebbe fatto? Anche se sei a casa con tua moglie se sai che la tua amante è in pericolo quantomeno le telefoni per avvertirla. E in quel momento la moglie era la Nato, di cui l’Italia faceva parte e a cui doveva, almeno sulla carta, spirito di fedeltà, e la Libia era l’amante. Volendo continuare a giocare sui doppi sensi, potremmo dire che il rapporto andò avanti in maniera clandestina per lo meno fino al 1998 quando, dopo anni di apparente freddezza diplomatica, il ministro degli esteri Lamberto Dini si recò a Tripoli per chiudere il contenzioso coloniale. Il memorandum congiunto, firmato da Dini e dal suo omologo libico al-Muntassar, riconosceva i disagi e le ingiustizie causate ai cittadini libici durante il periodo coloniale (nel testo non c’era la parola “scuse”) e prevedeva una serie di atti di riparazione. Il gesto più importante era la costruzione di un reparto ospedaliero a Bengasi, assieme ai visti d’ingresso per cure in Italia ai malati libici e la restituzione di opere d’arte libiche di certa provenienza. Perché tutto questo? Gheddafi era davvero cambiato? E’ stato lo stesso Dini a dircelo: «Vi spiego da dove arriva questa dichiarazione comune: da mesi, seguendo la politica libica, ci siamo convinti che Gheddafi ha consolidato un atteggiamento più responsabile nella sua politica, scelte diverse rispetto a quelle del

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passato» 142 . In effetti, la condanna dell’invasione irachena del Kuwait nel 1990 e il sostegno alle trattative di pace tra Etiopia ed Eritrea avevano segnato l’inizio di una parziale ricostruzione della percezione internazionale verso il regime libico e questo sembrava bastare agli italiani 143 , ma non a Gheddafi. Lui voleva il “grande gesto”, quello, per intenderci, che andava chiedendo già dagli anni settanta e che era oramai la sua ossessione. L’occasione si presentò nel 2001. Il ministro degli esteri italiano era Renato Ruggiero che ricevette dall’allora premier Berlusconi l’indicazione di offrire a Gheddafi un intervento di cooperazione per un massimo di 70 miliardi di lire. Ruggiero venne ricevuto dal rais il 2 settembre dentro all’immancabile tenda berbera allestita nella caserma di Bab el Azizia. C’erano 40 gradi in quel grande forno che, uniti alle snervanti attese cui il colonnello sottoponeva gli “avventori”, non facilitarono certo la mediazione del ministro italiano. Come andarono le cose nel dettaglio non è dato saperlo, ma alla fine Ruggiero cedette. Il bambino capriccioso aveva avuto quello che voleva: un grande gesto da più di 80 miliardi di vecchie lire che nella mente dell’ingegnoso leader libico era la sua tanto agognata autostrada, una litoranea di circa 1.800 chilometri tra il confine con l’Egitto e quello con la Tunisia. L’ambasciatore Francesco Trupiano commenta così i fatti: «Il ministro Renato Ruggiero chiuse la conversazione dicendo ‘e va bene, ve la costruiamo’. Fu poco più di una battuta. Un lapsus da stanchezza»144. Gheddafi fu, però, abilissimo a prendere la cosa molto sul serio. Come fa ben notare Gerardo Pelosi, i tecnici italiani si misero al lavoro per preparare uno studio di fattibilità per la litoranea a quattro corsie. Si trattava di un progetto da 45 miliardi di lire ma calò il gelo sulle trattative quando si capì che i libici non chiedevano solo il progetto ma la sua realizzazione completa. Un’opera da ultimare in 20 anni, sulla quale il colonnello si prese anche la briga di fare qualche battuta: «Se farete l’autostradale regalerò una bella villa e uno svincolo ad hoc tutto per lei» disse a Berlusconi durante una conferenza stampa all’aeroporto di Tripoli. «Grazie ma mi bastano le ville che ho»145, rispose infastidito il cavaliere. Era l’ottobre del 2003 e Berlusconi, in una malpreparata visita nella capitale libica, venne messo alla gogna e ridicolizzato, fotografato accanto a Gheddafi con alle spalle le immagini dei libici impiccati dagli occupanti italiani negli anni venti. Fu qui che il leader libico ripropose la storia dell’autostrada. Ci fu, poi, un ulteriore passo avanti nel 2007, durante il governo di Romano Prodi e del ministro degli esteri Massimo D’Alema che, giova ricordarlo, è stato uno dei leader italiani

142 A. Flores D’arcais, V. Nigro, Dini: Di Gheddafi ora possiamo fidarci, in «La Repubblica», 9 luglio 1998. 143 Il percorso proseguì con l’ammissione della responsabilità oggettiva nella strage di Lockerbie, il risarcimento alle famiglie delle vittime e l’annullamento delle sanzioni internazionali nel 2003, con la ripresa delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, la rimozione del Paese dalla lista degli “Stati canaglia” e la sua collaborazione nella «Global war on terrorism» nel 2004. 144 F. Trupiano, Un ambasciatore nella Libia di Gheddafi, Greco e Greco, Milano, 2016. 145 G. Pelosi, La maledizione della via Balbia, in «Il sole 24 ore», 24 agosto 2011.

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ad aver più volte incontrato Gheddafi, per lo meno dal 1999. Fu allora che vennero gettate le basi per il trattato di partenariato e cooperazione italo-libico che fu stilato articolo per articolo. Restava, però, il problema di come finanziare “il grande gesto”. D’Alema si era impegnato molto da questo punto di vista. In un incontro con Gheddafi, nella primavera del 2007, aveva affrontato il tema del superamento del contenzioso bilaterale. L’agenzia libica «Jana», in riferimento ai colloqui, aveva inserito, tra i punti non ancora applicati della dichiarazione congiunta italo-libica del 1998, la questione della “grande iniziativa”: la costruzione di una strada da Ras Jdir ad Assalum, offerta dall’Italia al popolo libico nell’ambito dei risarcimenti necessari per chiudere con il periodo coloniale. Sulla questione la Farnesina aveva precisato che i dettagli, anche quelli di ordine finanziario, sarebbero stati valutati in sede tecnica. Il problema era: dove prendere i soldi? Il ministro italiano aveva addirittura pensato di utilizzare parte dell’extra-gettito (il cosiddetto tesoretto) per finanziare l’opera. Nulla di fatto, però, visto che nella finanziaria si specificava che l’eccedenza del gettito doveva essere utilizzata per riduzioni della pressione fiscale e per misure a favore delle famiglie. Non c’erano, però, solo le faccende “ufficiali”. D’Alema si era impegnato con Gheddafi anche in via del tutto privata. E’ ancora l’ambasciatore Trupiano a raccontarci quando venne investito di un ruolo tanto inedito quanto paradossale: quello di “mediatore sentimentale”. Il figlio del rais, Saadi Gheddafi, che all’epoca militava nella Sampdoria pur non essendo certo una promessa del campionato italiano, si era invaghito di una ragazza e non voleva più tornare in Libia da moglie e figli. «L’ Italia gli ha lavato il cervello», diceva il rais. Verrebbe da sorridere se la cosa non fosse estremamente seria, visto che Gheddafi era pronto anche a rompere le relazioni diplomatiche con l’Italia. «La ragion di Stato vinse su quelle del cuore e D’Alema fece pervenire al colonnello una seria dichiarazione di impegno. Sulla base dei personali rapporti di amicizia col colonnello, il ministro si ripromette di intervenire personalmente come un padre sul giovane, per indurlo a rientrare in Libia»146. Insomma, il ministro italiano le aveva tentate davvero tutte. Tuttavia, la vera svolta nelle relazioni italo-libiche si ebbe solo nel 2008 quando venne siglato il «Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione» in cui vennero riconosciute le responsabilità coloniali dell’Italia che si impegnò a versare, a titolo di risarcimento, 5 miliardi di dollari e a finanziare infrastrutture, realizzate da imprese italiane, per altri 5 miliardi di dollari. La Libia, dal canto suo, ribadì la volontà di impegnarsi a combattere l’immigrazione clandestina, problema che ancora oggi, come si avrà modo di vedere più avanti, sta ancora molto a cuore all’Italia. L’accordo tra i due Paesi fu idealmente

146 F. Trupiano, Un ambasciatore nella Libia di Gheddafi, cit.

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suggellato dall’istituzione della «giornata dell’amicizia», che sostituì la «giornata della vendetta». Un anno dopo, nell’agosto del 2009, a Shabit Jfrai, a poco più di 15 chilometri da Tripoli, Gheddafi e Berlusconi presero parte alla cerimonia per la posa della prima pietra del collegamento tra Ras Adjir ed Emsaad, mentre un consorzio guidato da Saipem si aggiudicava il primo lotto dei lavori: un progetto che prevedeva anche la costruzione di 12 ponti, otto aree di servizio e sei aree di parcheggio, per un valore totale di quasi 950 milioni di euro. Così poco prima Gheddafi, durante la conferenza stampa congiunta con Berlusconi in occasione della pittoresca visita a Roma del 2009, elogiò l’oramai buon amico: «Oggi si è voltato pagina grazie al coraggio di un uomo di ferro. Negli ultimi anni abbiamo provato a raggiungere questo trattato, ma non ce l’abbiamo fatta. Ci siamo riusciti nell’era di Berlusconi. Altri prima di lui hanno fallito»147. Eppure solo due anni dopo, durante le rivolte, mentre Gheddafi perdeva pezzo per pezzo la “sua” Libia, un poco credibile Berlusconi disse di non aver chiamato il rais perché non voleva disturbarlo. Bell’ingrato, verrebbe da dire.

Il petrolio e altri “affari di famiglia” Come abbiamo avuto modo di accennare poco sopra, se con una mano il rais aveva spinto gli italiani fuori dal Paese con l’altra firmava accordi commerciali con l’Italia. Non è certo un segreto che per espressa volontà del leader libico si sono salvate dalla confisca tutte le proprietà dell’Eni e della Fiat in Libia. Il 5 maggio del 1971 l’allora ministro degli esteri italiano Aldo Moro si recò a Tripoli dal colonnello. Non sappiamo con certezza se quella fosse la prima volta che i due si incontravano, fatto sta che, secondo le fonti ufficiali, quell’incontro ebbe come oggetto la modernizzazione della Libia a cui l’Italia avrebbe contribuito con manodopera qualificata nel settore petrolchimico, con tecnologia per impianti industriali e con la realizzazione di opere infrastrutturali di notevoli dimensioni. In cambio gli italiani avrebbero avuto vantaggi nell’approvvigionamento petrolifero e anche nella fornitura di armi ed equipaggiamenti militari. D’altra parte era questa la nuova fase mediterranea della politica estera di Roma e Moro ne era ben consapevole148. Il nuovo corso

147 G. Malgeri, Le relazioni fra Italia e Libia, in (a cura di) M. Pizzingallo, «Il Ponte sul Mediterraneo. Le relazioni fra l’Italia e i Paesi arabi rivieraschi (1989-2009)», Aspes, Milano, 2011, pp.135 - 219, cit. p. 203. 148 E’ quanto emerge da un telegramma - classificato come “segreto”- del 26 settembre 1969, firmato da Aldo Moro e spedito da Tunisi, per il presidente del consiglio Emilio Colombo e quello della Repubblica Giuseppe Saragat e intitolato «Posizione Tunisia». Con estrema chiarezza, da quel documento inedito redatto durante la sua visita a Bourghiba, si evince la svolta rispetto all’azione di Amintore Fanfani, agli esteri durante gli anni

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della strategia italiana verso i Paesi arabi, specie quelli produttori di petrolio, era segnato anche dall’Eni, che con Enrico Mattei cominciò ad attuare una propria politica. La compagnia italiana non era ben accetta al tavolo delle grandi compagnie internazionali, in modo particolare di quelle britanniche; era ammessa a sedersi, tutt’al più, su uno strapuntino. Tuttavia l’Italia – e soprattutto Mattei- non voleva assolutamente dipendere dal punto di vista energetico dalla Gran Bretagna e iniziò a cercare autonomamente le fonti di approvvigionamento, offrendo ai Paesi produttori di petrolio, che erano quasi tutti controllati dalle compagnie britanniche, condizioni più favorevoli. C’era la famosa regola del fifty-fifty imposta dalle sette sorelle: 50% ai produttori e 50% alle compagnie petrolifere straniere. Il fondatore dell’Eni cambiò le regole dello scambio, proponendo il 25% alle compagnie e il 75% ai produttori149. Inutile dire che i Paesi esportatori trovarono più conveniente fare affari con l’Italia che non con la Gran Bretagna. Gli effetti non tardarono a farsi sentire. Fra gli anni sessanta e settanta l’interscambio commerciale italo-libico crebbe di 17 volte. La Snam progetti costruì la prima grande raffineria a Tripoli seguita, da un’altra raffineria e dall’accordo per la fornitura di un impianto di produzione di amianto del valore di 150 milioni di dollari. Nel febbraio del 1974 il presidente del consiglio Mariano Rumor e il primo ministro libico Abdel Jallud siglarono un accordo sulla cooperazione economica che permetteva all’Italia di ottenere 7 milioni di tonnellate di petrolio libico in più all’anno, da pagare con costruzioni, infrastrutture e fabbriche 150 . Roma ottenne concessioni petrolifere, costruì impianti, come a Ras Lanuf e a Brega – oggi teatro di scontri tra milizie - edifici, fognature, industrie e infrastrutture. L’Italia divenne il primo partner commerciale della Libia, grazie anche al fatto che le compagnie petrolifere americane e britanniche erano state penalizzate dal governo libico. Il rais, infatti, aveva nominato una commissione per la determinazione dei nuovi prezzi del greggio per negoziare con le singole compagnie che, in linea generale, si trovarono ad accettare aumenti del prezzo del petrolio da 2 a più di 3 dollari al barile. Non solo, il “governo” di Tripoli diede il via a una durissima politica di nazionalizzazione, iniziando dalla Bp Exploration company Libya. Così facendo il colonnello non colpiva solo gli interessi della consociata British petroleum, ma anche quelli del governo di Londra, che possedeva il 50% della operante nel Paese. Da allora vi fu una massiccia privatizzazione delle compagnie straniere, tra cui Esso, Mobil, Texaco e Shell. Contemporaneamente venne creata la compagnia nazionale libica, la Libyan national oil

del centro-sinistra, dal 1965 al 1968. Moro, da poco insediato alla Farnesina, tracciava le linee fondamentali della sua politica estera che seguirà fino al 1974. Il documento è stato reso disponibile anche dal quotidiano italiano «La Repubblica» e può essere consultato al seguente link: http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/politica/archivi-segreti-moro/1.html. 149 Il tema è approfondito in maniera inedita e con numerose prove documentali da fonti archivistiche inglesi in J. Cereghino, G. Fasanella, Il golpe inglese. Da Matteotti a Moro: le prove della guerra segreta per il controllo del petrolio e dell'Italia, Chiarelettere, Milano, 2014. 150 A. Del Boca, Gheddafi. Una sfida nel deserto, cit. p.44.

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corporation (Noc), a cui Gheddafi affidò il controllo del livello della produzione e distribuzione del 70 % del petrolio prodotto in loco. Il rais, però, non era attivo solo in campo petrolifero. Nel 1976 la Lybian Arab Foreign Bank - controllata dal governo di Tripoli - comprò per 415 milioni di dollari il 10% delle azioni della Fiat, all’epoca in grave crisi e bisognosa di capitale. Fu un bel guadagno per la Jamahiriya: nel 1986, quando i soci libici uscirono dall’affare, la società automobilistica italiana era rinata e loro avevano “intascato” parecchi soldi. Eppure il rais, per lo meno all’apparenza, non fu mai riconoscente a Gianni Agnelli, tanto che in un’intervista rilasciata a Oriana Fallaci il 2 dicembre del 1979, a precisa domanda sulla sua conoscenza con il capo della Fiat, disse: «Gianni chi?». «Gianni Agnelli, il presidente della Fiat», rispose la Fallaci e il colonnello obiettò: «La Fiat? La mia azienda, my company […] No, non è affar mio conoscerlo. È una faccenda che riguarda i miei funzionari, gli impiegati della mia banca. La Libyan Foreign Bank»151. Fu uno dei tanti rospi da ingoiare per tenere a bada la cassaforte libica. I rapporti tra il “mat dog” di Tripoli e l’Italia erano spiacevoli (per usare un eufemismo) nella forma ma ottimi nella sostanza. Nonostante l’appoggio dei governi e dei servizi segreti italiani al colonnello, e nonostante i miliardi versati dall’Eni nelle casse di Tripoli, Gheddafi non perdeva occasione per stuzzicare l’ex potenza coloniale, spesso costretta a fare spallucce. D’altra parte la Libia è stata la pompa di benzina dell’Italia per mezzo secolo e ha contribuito al suo sviluppo economico: è comprensibile che Roma abbia anteposto la realpolitik dell’interesse nazionale all’orgoglio personale e anche per questo il Cane a sei zampe è divenuto il principale partner della Libia. Nonostante le difficoltà e le intemperanze del leader libico i rapporti tra il gigante petrolifero italiano e gli uomini della società Noc erano, secondo le parole di Guglielmo Moscato presidente dell’Agip prima e dell’Eni tre anni dopo, «di reciproco rispetto […] maturato nella vita in comune nei campi e nei training per i tecnici locali»152. Su queste basi, un ulteriore passo in avanti nel rafforzamento della partnership energetica fu fatto nel 1993, quando l’allora ministro del petrolio libico, Abdallah El Badri, firmò con Moscato un accordo quadro che consentiva lo sviluppo di campi di gas offshore e di quello onshore di Wafa, al confine con l’Algeria. Tuttavia, il vero “salto di qualità” si ebbe nel luglio del 1998, quando il ministro degli esteri italiano, Lamberto Dini, e il suo collega libico al-Muntassar firmarono il già menzionato comunicato congiunto. Nel memorandum vennero stabiliti importanti incentivi economici per la Libia, che se da un lato placarono per

151 In realtà quanto dichiarato da Gheddafi è facilmente confutabile per il fatto che persino l’avvocato Agnelli ha confermato di aver incontrato il rais nel dicembre del 1976. 152 G. Pelosi, La diplomazia dell’Eni dietro l’intesa con la Libia, in «Il Sole 24 Ore», 4 marzo 2009.

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un po’ il rais, dall’altro non lo accontentarono totalmente: mancava ancora il grande gesto. In ogni caso, con una certa dose di pragmatismo e con la certezza che prima o poi l’Italia avrebbe ceduto, dopo quell’accordo Gheddafi fece sparire d’incanto ogni ostruzionismo e aprì la strada alla costruzione del Greenstream, che dal 2005 trasporta in Italia 8 miliardi di metri cubi di gas l’anno, e al mega accordo dell’ottobre del 2007 con la Noc per il prolungamento, fino al 2042, dei contratti per la produzione di petrolio e al 2047 per il gas, con un investimento di 28 miliardi di dollari. Verrebbe ora da chiedersi cosa ne è stato di tanto certosino lavoro dopo la morte del rais. I fatti parlano più delle congetture. Oggi l’Eni è l’unica società internazionale ancora in grado di produrre e distribuire petrolio e gas in Libia. Altre aziende, come la francese Total (che tanto aveva ambito a un regime change per rivedere i suoi contratti petroliferi), la spagnola Repsol e l’americana Marathon Oil, hanno via via annunciato la sospensione delle loro attività a causa del peggioramento della situazione di sicurezza nel Paese. La compagnia petrolifera italiana ha prodotto 240.000 barili di petrolio al giorno nel 2014 e ben 365.0000 nel 2015. Se pensiamo che nel 2010 la produzione totale libica di greggio si aggirava intorno al milione e mezzo di barili al giorno e nel 2015 a poco più di 400.000153, è facile intuire il ruolo pressoché esclusivo della compagnia italiana nel settore petrolifero del Paese. Se è vero che subito dopo lo scoppio delle ostilità, e la conseguente incertezza nel Paese, anche l’Eni è dovuta correre ai ripari, è altrettanto vero che è stata poi in grado di mantenere un ruolo predominante nella produzione libica. Nella relazione finanziaria semestrale del luglio 2011 si leggeva: «Tutte le attività di produzione e le esportazioni attraverso il gasdotto Greenstream sono state sospese a eccezione del campo di Wafa […] La produzione di idrocarburi si è ridotta dal livello atteso di circa 280.000 barili al giorno al livello attuale di circa 50.000»154. Paolo Scaroni, allora amministratore delegato della compagnia, disse: «Entro un anno saremo più forti di prima». Così è stato. I motivi sono in parte spiegati dalla storia: la compagnia italiana è in Libia dal 1959, da molto più tempo rispetto ad altre società petrolifere europee, ed è facile immaginare che si sia creata quei contatti che ora rendono possibile la coesistenza con alcune delle milizie libiche. Non è certo una condizione ideale poiché, come si è già avuto modo di sottolineare, i gruppi armati nel Paese cambiano casacca con molta facilità e non sono nuovi ad atti di forza che vedono nella conquista dei pozzi petroliferi l’obiettivo più gettonato. Le poche infrastrutture funzionanti come Mellitah e Wafa, a causa della loro visibilità, sono divenute luoghi simbolo della prepotenza dei gruppi armati. Una evidenza confermata anche dal Dis, il Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, che nella «Relazione 2016 sulla politica dell’informazione per la

153 Eni, Relazione finanziaria annuale 2015. 154Eni, Relazione finanziaria semestrale consolidata al 30 giugno 2011.

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sicurezza», fa notare come: «Nell’ottica del possibile incremento dell’output complessivo di greggio del Paese, si segnala la decisione assunta il 14 dicembre [del 2016 ndr] dalle brigate di Rayayina, villaggio sito a 30 km da Zintan, di riavviare dopo circa tre anni di blocco la produzione petrolifera dei giacimenti di Sharara (operato dalla spagnola Repsol) ed Elephant (operato dall’Eni)» 155. Sono invece molto preoccupanti, si legge sempre nella relazione, «le frizioni dovute alla conflittualità registrata in corso d’anno tra le Petroleum facilities guard di Ibrahim Jadran e le forze fedeli al generale Haftar per il controllo dei principali terminal petroliferi per l’esportazione del greggio libico (Es Sider, Ras Lanuf, Zueitina)»156. Infine, da un punto di vista strategico, va notato come le attività del gigante petrolifero italiano, comprese quelle offshore, siano concentrate prevalentemente nell’area occidentale. Qui si trovano, ad esempio, i giacimenti di Bahr Essalam (che attraverso la piattaforma di Sabratha fornisce gas al centro di trattamento di Mellitah, dove viene convogliato nel gasdotto Greenstream per l’esportazione verso l’Italia), di Bouri157, di Wafa e di Elephant. Non stupiamoci che, come da più parti ribadito, l’Italia abbia deciso di stare a (e con) Tripoli. I suoi interessi sono qui, dove altro andare? Tuttavia è bene non fossilizzarci troppo su questo mantra. Nella diplomazia del petrolio, quella che oggi funziona meglio, c’è molto di più. Lo vedremo più avanti nel capitolo conclusivo.

La guerra del 2011. L’Italia nella “coalizione dei coscritti” Nelle pagine precedenti abbiamo raccontato delle modalità con cui ha avuto luogo l’azione internazionale in Libia del 2011, dei motivi dell’interventismo francese e degli errori macroscopici commessi dagli attori internazionali nel dopo Gheddafi. Ora ripercorreremo le fasi salienti della politica italiana prima, durante e dopo la rivolta libica. Si è già detto come l’Italia sia stata tirata per il bavero della giacca nell’azione militare in Libia, che già allora appariva a molti senza né capo né coda. Come andarono davvero le cose e perché l’Italia accettò di condurre una guerra contro i propri interessi? Raccontiamo i fatti. Il 17 marzo del 2011, mentre il Consiglio di scurezza dell’Onu approvava la risoluzione n. 1973 che dava il nulla osta per l’intervento internazionale, Berlusconi si trovava al Teatro dell’opera di Roma per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità

155 Presidenza del consiglio dei ministri- Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, Relazione 2016 sulla politica dell’informazione per la sicurezza, p. 60. 156 Ibidem. 157 Qui, nel maggio del 2015, l’Eni ha effettuato una nuova scoperta. Si tratta della seconda scoperta esplorativa effettuata da nella cosiddetta “area D” dell’offshore libico dall’inizio del 2015.

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d’Italia. Con lui c’erano anche molti ministri italiani e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Alcuni dei presenti hanno poi raccontato che, durante l’intervallo, vi fu un’accesa discussione tra Berlusconi e Napolitano. Quest’ultimo, infatti, voleva appoggiare l’attacco in Libia, tanto che nei giorni precedenti si era impegnato in riunioni con il ministro della difesa e aveva insistito perché in parlamento la Commissione difesa si riunisse per l’approvazione di una mozione a sostegno della missione militare. Napolitano arrivò addirittura a dire, visto che ricorreva l’anniversario dell’unità: «L’Italia non può rimanere indifferente davanti alla repressione della libertà in Libia, non può lasciar calpestare il risorgimento arabo»158. Con un paragone a dir poco azzardato tra il movimento risorgimentale italiano e i rivolgimenti allora in corso nel Nord Africa e nel Medio Oriente, il capo dello Stato, nei fatti, avallò l’intervento internazionale e il coinvolgimento italiano. Due giorni dopo Berlusconi, probabilmente prendendo atto del fatto compiuto, si recò a Parigi con l’obiettivo di ridurre al minimo la partecipazioni all’azione. Tuttavia, arrivato all’Eliseo, scoprì che ormai il dado era tratto e che i Rafale e i Mirage francesi avevano già i motori accessi, così come le navi britanniche che si appropinquavano al Golfo della Sirte. Tempo 24 ore e tutto ebbe inizio. L’Italia venne così “coscritta” nella «Coalition of the willings» ed entrò nelle operazioni militari per il rovesciamento di Gheddafi. Più volte Berlusconi in quei concitati giorni cercò, forse a ragione, di giustificarsi dicendo che c’erano evidenti interessi commerciali francesi e “Sarkò”, geloso dei suoi rapporti con Gheddafi, si era reso conto che non avrebbe mai potuto competere con l’Italia in materia di contratti petroliferi e sul gas. D’altra parte nemmeno noi potevamo rischiare che i francesi spazzassero via con qualche raid 50 anni di lavoro certosino e di rospi mandati giù a fatica. L’Italia si adeguò fornendo inizialmente soltanto basi e ricognitori, ma finendo per essere coinvolta sempre più direttamente. Come sono andate davvero le cose non è dato saperlo e l’adesione italiana è un punto ancora poco chiaro. Certo è che all’epoca c’era una grande distanza tra l’esecutivo e il Quirinale, che rimaneva comunque il comandante delle forze armate. D’altra parte in quei mesi la figura del premier italiano era indebolita dalle inchieste giudiziarie e dalla perdita di credibilità internazionale dovuta allo scandalo Ruby e questo, probabilmente, impedì di tentare l’ asse con la Germania che, pure, non era favorevole all‘azione. Ciò che accadde il 20 ottobre del 2011 è cosa oramai nota. Quando il rais venne tirato fuori da un tombino come un ratto e fatto fuori, Sarkozy esultò. Hillary Clinton,

158 La dichiarazione di Napolitano è stata riportata in vari quotidiani nazionali tra cui N. Cotone, Napolitano a Torino: no a indifferenza per la repressione in Libia, in «La Repubblica», 18 marzo 2011.

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raggiunta dalla notizia durante un’intervista per «Cbs news» a Kabul, con gli occhi strabuzzati e con un sorriso quasi isterico, da novella Giulio Cesare che attraversa il Rubicone esclamò: «We came, we saw, he died». Berlusconi, dal canto suo, si limitò a commentare amaramente: «Sic transit gloria mundi». Da qui inizia la nuova fase della politica dell’Italia per la Libia. Tutto da rifare. Abbiamo già ricordato come le potenze europee, Francia in testa, non fecero neppure in tempo a seppellire Gheddafi che già “sbracciavano” per andare in Libia a stringere la mano alle nuove leadership politiche – o presunte tali – e per rivedere gli accordi petroliferi. Anche Mario Monti, divenuto presidente del consiglio, non fece eccezione. D’altra parte cosa avremmo potuto fare se non buon viso a cattivo gioco? C’erano da tutelare interessi e investimenti importanti e una posizione di primacy che nell’ultimo cinquantennio aveva reso il governo italiano l’interlocutore privilegiato della Libia. Troppo avevamo sopportato per mollare tutto. Già durante i mesi dello scontro tra i ribelli del Cnt e i fedeli di Gheddafi, Paolo Scaroni, allora amministratore delegato dell’Eni, era più volte volato in Libia per stringere accordi con la nuova leadership, viaggi che implementò notevolmente dopo la morte del rais. Era vitale far ripartire quanto prima le attività, schivando l’attivismo francese per evitare un altro “schiaffo di Tunisi”. Abbiamo visto nel capitolo precedente, dati alla mano, come la compagnia italiana sia riuscita a restare in piedi nonostante il caos oramai endemico nel Paese. Un discorso un po’ diverso, invece, va fatto per i rapporti politici. Andiamo per gradi. Negli ultimi anni, mentre le potenze europee, Francia in testa, contravvenendo al sostegno al Governo di accordo nazionale, hanno “foraggiato” Tobruk, il governo di Roma ha mantenuto una politica estera tutto sommato ponderata, che gli ha permesso di essere in prima linea nella mediazione per l’insediamento del governo unitario e, in un secondo momento, su richiesta di Tripoli e dunque su esplicita richiesta del primo ministro Sarraj, con azioni di supporto. Nel settembre del 2016 l’Italia ha dato il via alla missione Ippocrate con l’invio di 300 uomini in Libia - tra cui personale medico e paramedico159- per un intervento “umanitario” a supporto delle milizie di Misurata. Il premier Gentiloni, infatti, ha spesso precisato che non si tratta di «boots on the ground», ma piuttosto di «meds on the ground». L’Italia, poi, è anche in prima linea nella missione «Eunavfor Med - Sophia» per l’addestramento della guardia costiera che vede impegnati 90

159 Il contingente è composto da 65 medici e infermieri, 135 uomini per il supporto logistico, 100 paracadutisti. L’obiettivo è fornire cure ai combattenti schierati con il governo di Sarraj, impegnati su più fronti con diverse milizie. Le forze italiane hanno predisposto un ospedale da campo che fornisce, tra i vari servizi, triage e visite ambulatoriali, ma anche pronto soccorso e la possibilità di ricoverare oltre quaranta pazienti. Il personale sanitario, proveniente dal policlinico militare Celio di Roma, è protetto dagli uomini della Folgore, mentre all’aeroporto di Misurata un C-27J è disponibile per un’eventuale evacuazione strategica.

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libici che andranno a formare il primo gruppo dei guarda coste. Tuttavia, umanitario o meno, l’intervento italiano non è proprio andato giù ad Haftar che prima ha rifiutato l’offerta del governo di Roma di aiuti umanitari, per lo meno finché l’esercito italiano non avesse lasciato Tripoli e Misurata, e poi ha paragonato la nostra presenza civile (l’ambasciata italiana da poco riaperta a Tripoli) e militare (il contingente medico/militare schierato a Misurata) al passato colonialista fascista”. Gli esempi potrebbero continuare ma tanto basta per dire che, al momento, nel complesso sistema di alleanze internazionali, l’Italia è il solo attore ad appoggiare palesemente Tripoli. Attenzione, però, essere coerenti non vuole dire aver vinto la partita. Ci soffermeremo nelle conclusioni del libro sull’opportunità di questa posizione e su cosa potrà fare il governo italiano per rendere la sua posizione a Tripoli maggiormente incisiva.

L’accordo sui migranti. Un piano per evitare le morti in mare che fa acqua da tutte le parti Nel 2016 sono arrivate via mare in Italia circa 180.000 persone. Più del 90% è partito dalle coste libiche. Non serve molto per capire che la questione migratoria è centrale per il nostro Paese e, al di là dei dibattiti interni sulla collocazione o ricollocazione dei migranti, il problema andrebbe risolto quantomeno in Libia, senza però dimenticare che fermare i flussi nei luoghi di partenza è solo una soluzione tampone che rischia, se mal gestita, di rivelarsi un boomerang per i Paesi di transito ma anche per quelli di destinazione. Vediamo perché. Il 2 febbraio del 2017 il premier italiano Paolo Gentiloni e Fayez al-Sarraj, in qualità di interlocutore del Governo di accordo nazionale, hanno siglato il «Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all'immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e l’Italia», comunemente chiamato accordo sui migranti. Si tratta di un’intesa che presenta molti punti oscuri per capire i quali è bene esaminarne nel dettaglio i contenuti. In primo luogo nel memorandum si dice: «L’Italia fornirà sostegno e finanziamento alle regioni colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale […] e supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, che sono rappresentati dalla guardia costiera […] e dagli organi e dipartimenti competenti presso il ministero dell’interno»160. In altri punti dell’accordo si specifica: «Il governo [italiano ndr] collaborerà all’adeguamento e al finanziamento dei centri di accoglienza già attivi, usufruendo di finanziamenti disponibili da parte italiana e di

160 Il testo è riportato anche dal quotidiano «La Repubblica» ed è disponibile anche al seguente link: http://www.repubblica.it/esteri/2017/02/02/news/migranti_accordo_italia- libia_ecco_cosa_contiene_in_memorandum-157464439/.

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finanziamenti dell’Unione europea […] La parte italiana contribuisce attraverso la fornitura di medicinali e attrezzature mediche per i centri sanitari di accoglienza»161. Si intende, poi, supportare la formazione del personale libico all’interno dei centri di accoglienza - che viste le condizioni denunciate dai pochi operatori internazionali che sono riusciti a visionarli sarebbe più corretto definire centri di detenzione - in modo che possano contribuire all’individuazione dei metodi più adeguati per affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani. Infine, una parte dell’accordo è dedicata allo spinoso problema dei Paesi di provenienza dei migranti, per cui si auspica una visione di cooperazione euro-africana più completa e ampia per eliminare le cause dell'immigrazione clandestina. Cerchiamo ora di interpretare quanto riportato e di semplificare un pò le cose. In sintesi l’Italia, con il sostegno europeo, si impegna a fornire supporto finanziario e tecnico agli organismi libici, e in particolare alla guardia costiera, per fare in modo che possa agire in via autonoma per limitare il traffico dei migranti e migliorare i centri di accoglienza. Teoricamente sembrerebbe un ottima cosa, ma la teoria spesso è cattiva consigliera perché tende a mal celare la realtà dei fatti e, a fatti, questo memorandum presenta non poche criticità in termini di applicabilità. Andiamo ancora una volta per punti e rispondiamo ad alcune domande. Prima questione: con chi abbiamo siglato l’intesa? Con un governo che non governa, verrebbe da rispondere. Il “buon” Sarraj, come abbiamo già avuto modo di vedere, non controlla neppure Tripoli. Quotidianamente varie milizie assaltano luoghi nevralgici della capitale per protestare contro la mancata erogazione degli stipendi, per chiedere soldi o per rivendicare porzioni di territorio. Come possiamo pensare che, nonostante la sua buona volontà, possa davvero implementare un accordo che richiede un controllo capillare del territorio e degli attori che qui operano? Detta in altre parole, in una situazione dove il premier è chiaramente ostaggio dei vari gruppi armati, chi garantirà che gli aiuti chiesti alla comunità internazionale arriveranno al governo di Tripoli e non nelle mani delle varie milizie o dei trafficanti? Sarraj, durante il vertice di Roma del 20 marzo del 2017, che ha fatto seguito alla firma del memorandum, ha presentato una lunga e costosa “lista della spesa”: navi per ricerca e soccorso marittimo, motovedette, mute, bombole, gommoni, ambulanze, jeep, automobili, telefoni satellitari e altri mezzi per un valore di circa 800 milioni di euro. Possiamo solo immaginare quali terribili scenari si potrebbero aprire se tutto questo “ben di dio” finisse nelle mani delle milizie. D’altra parte non è una storia nuova. Nel 2011 abbiamo fornito armi alle bande armate raccolte sotto l’ombrello del Consiglio nazionale di transizione che, però, finita la guerra, nell’incapacità di controllare il territorio non è riuscito a disarmare. E

161 Ibidem.

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così i gruppi libici “spadroneggiano” a tutt’oggi in varie porzioni del Paese anche con gli armamenti forniti dalla coalizione. Posto, dunque, che l’accordo è stato siglato con un governo al momento non rappresentativo, passiamo alla seconda questione: visto che tutte le azioni previste – dal controllo delle partenze dalle coste libiche a quello dei centri di detenzione - hanno come interlocutore la guardia costiera libica che ci siamo impegnati a finanziare e addestrare, da chi è composto quest’organo? La risposta non è edificante. La guardia costiera libica non è certo formata da “corpi scelti”, quanto piuttosto da un magma di soggetti, spesso ex miliziani, corrotti e collusi con i trafficanti. Da un interessante servizio della giornalista Nancy Porsia emergono dati molto preoccupanti162. Secondo quanto riportato nell’inchiesta sono proprio i guardia coste a regolare il traffico in molte zone del Paese. C’è di più: Abdurahman al-Milad Aka Bija, capo indiscusso del traffico dei migranti, è l’attuale comandante della guardia costiera a Zawiya, città distante pochi chilometri da Sabratha, località da cui parte la maggiori parte dei disperati che tentano l’arrivo in Italia. Bija, negli ultimi due anni, avrebbe estromesso tutti i “colleghi” e i sottoposti che non si piegavano al suo sistema. Dall’inizio del 2015 ha preso in mano il controllo del traffico dei migranti dettando le sue regole e molti degli uomini che controllano i flussi sono di fatto suoi “ostaggi”. Siamo proprio sicuri di aver scelto le persone giuste? D’altra parte le attività illecite svolte sulla pelle degli immigrati sono assai lucrose. Stando ai rapporti dell’ammiraglio italiano Enrico Credendino, comandante di Eunavfor Med, garantirebbero un giro di affari annuo di 300 milioni di euro. Oggi la Libia, un tempo piuttosto “benestante” per merito delle rendite del petrolio, è un Paese sull’orlo della bancarotta; la ripresa della produzione di greggio, necessaria a dare una boccata di ossigeno all’economia, è resa impossibile dall’endemica insicurezza in cui versano i principali giacimenti, specie quelli della mezzaluna petrolifera, oggetto privilegiato delle incursioni delle varie milizie che li utilizzano come merce di scambio per avere vari benefici o rivendicare il proprio potere. Basta ricordare cosa è accaduto negli ultimi due anni in queste aree da cui si estrae quasi il 70% del greggio libico. Prima i pozzi erano controllati dalle Guardie petrolifere, poi sono stati conquistati dai miliziani di Haftar, recentemente sono stati occupati dalle Brigate di difesa di Bengasi (gruppo in cui militano anche jihadisti di Ansar al-Sharia) e poi, di nuovo, ripresi dalle milizie del generale163. Non

162 N. Porsia, Stuck in Libya. Migrants and (Our) Political Responsibilities, in «Ispi Commentary», 2 febbraio 2017. 163 Dopo aver conquistato i giacimenti di El Sider e Ras Lanuf, il 3 marzo del 2017, le Brigate di difesa di Bengasi li avevano ceduti alle Guardie petrolifere vicine al Governo di accordo nazionale. Proprio in quei giorni, la Cnn aveva dato notizia che aerei da ricognizione americani avevano individuato un aereo da trasporto e un drone russo in una base aerea nell'Egitto occidentale, vicino al confine con la Libia. Questo ha dato adito a voci di un possibile coinvolgimento di Mosca nelle operazioni per la riconquista dei due giacimenti, nevralgici per Haftar e, presumibilmente, anche per i suoi sponsor internazionali.

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deve dunque stupirci che, nell’assenza di altre fonti di reddito, il traffico dei migranti sia oggi per molti - guarda coste compresi- una delle uniche possibilità di sostentamento. Da quanto fin qui detto non possiamo che porci una terza domanda: ha senso pensare che in un contesto così delineato fornire soldi e medicinali per migliorare le drammatiche condizioni dei centri di accoglienza abbia un senso? Facciamo una necessaria premessa. I migranti, in linea di massima, arrivano dal sud dell’Africa (o dal Mali, dal Niger, dal Ciad, etc.) passano attraverso il deserto meridionale libico, santuario di numerose organizzazioni criminali e terroristiche, neanche a dirlo non controllate da nessuno dei due “governi” del Paese, e arrivano sulle coste libiche. Qui vengono “smistati” in 34 centri di detenzione all’interno dei quali, al momento, sarebbero trattenute tra le 4.000 e le 7.000 persone; 24 di queste strutture sarebbero gestite dal Dipartimento del governo libico che si occupa dell’immigrazione illegale, le altre sono in mano a gruppi criminali. Posto che nell’anarchia in cui versa il Paese abbia un senso parlare di “Dipartimento del governo libico”, l’Unicef ha chiaramente dichiarato di avere avuto accesso a meno della metà dei centri gestiti dal governo e a nessuno di quelli controllati dalle milizie. Funzionari del ministero dell’interno libico (e anche in questo caso il termine pare un po’ pretenzioso) hanno dichiarato che spesso gli uomini della guardia costiera non si avvicinano nemmeno alle aree dove si trovano i centri controllati dalle milizie perché troppo pericoloso164. Il quadro appare abbastanza chiaro e la domanda sorge spontanea: siamo sicuri che i nostri aiuti verranno davvero utilizzati per migliorare i lager in cui vengono detenuti i migranti o finiranno, anche in questo caso, nelle mani di uomini senza scrupoli che li utilizzeranno per ben altri scopi? Ipotizzando con un po’ di ottimismo, dettato più da incoscienza che da reale convinzione, che i 90 uomini della nuova guardia costiera libica, addestrati dall’Italia con la missione Sophia, riusciranno davvero a espletare i loro compiti - ossia fermare i barconi alla partenza e salvare le persone in difficoltà riportandole indietro– i migranti dove verranno “alloggiati”? Nei centri di detenzione sopra descritti? Un’ipotesi di un cinismo quasi surreale che riporta alla memoria vecchi drammatici ricordi che, però, vale la pena accennare affinché la storia non sia un inutile esercizio retorico. Lo faremo attraverso le parole di Alain Gresh: «Nel luglio del 1947 una folla è ammassata al porto di Haifa. Osserva una vecchia bagnarola circondata da navi da guerra britanniche. Sotto gli occhi di tutti, 4.500 passeggeri, donne, vecchi, bambini, miserabili sopravvissuti ai campi di sterminio sono brutalmente fatti sbarcare e trasferiti in navi prigione […] L’odissea di questi rifugiati trasportati di porto in porto dura tutta l’estate. Finalmente a settembre vengono fatti sbarcare a forza in …Germania […] Fu una delle più ciniche decisioni mai prese»165. E’ la storia

164 Unicef, A Deadly Journey for Children The Central Mediterranean Migration Route, Report february 2017. 165 A. Gresh, Israele, Palestina. La verità su un conflitto, Einaudi, Torino, 2004, p. 57 e ss.

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della President Warfield, la nave, poi chiamata Exodus, carica di ebrei scampati ai campi di concentramento nazisti che tentarono di entrare illegalmente in terra santa e, dopo varie vicissitudini, furono rispediti ad Amburgo negli ex campi di sterminio. C’è poi un’ultima considerazione da fare: l’accordo sui migranti ricalca le linee del trattato italo-libico firmato a Bengasi nell’agosto del 2008 tra Berlusconi e Gheddafi che all’articolo 19 stabiliva il sostegno da parte del governo italiano dei costi necessarie all’attuazione delle misure della limitazione dei flussi. Semplificando: soldi in cambio di contenimento. Un binomio oramai noto, utilizzato anche nell’accordo per il rimpatrio dei migranti irregolari con la Turchia 166, siglato a Bruxelles il 18 marzo del 2016 e fortemente voluto dalla Germania. Il “metodo Merkel”, un “bell’affare” che ci è costato 3 miliardi di euro subito e altri 3 dilazionati nel tempo e ci ha esposti alle bizze del premier Erdogan che, ad ogni minima critica europea nei confronti del suo operato, minaccia di riaprire i rubinetti e inondarci degli immigrati che abbiamo deciso di spedire in territorio turco. Detta in termini forse un pò brutali, pagare un Paese per tenersi i migranti espone lo Stato erogatore a una situazione di “ricattabilità”. Chi ci garantisce che questo non accadrà anche con la Libia che, per di più, manca anche di una chiara leadership? Sperando di aver peccato di eccessivo pessimismo, e che i fatti smentiscano le considerazioni fin qui avanzate, non possiamo non rimarcare come l’intesa sui migranti nasca su basi piuttosto labili che rischiano di minarne l’applicazione. Nessun accordo in Libia sarà davvero realizzabile senza una preliminare stabilizzazione del Paese, una stabilizzazione che al momento appare tanto difficile quanto necessaria. Vedremo tra poco, nelle conclusioni di questo libro, a che punto siamo e quali sono le reali prospettive e incognite per il futuro.

166 I dettagli dell’accordo sono disponibili anche in: Servizio studi del senato, La dichiarazione Ue-Turchia del 18 marzo 2016, in «Note sugli atti dell’Unione europea», n. 47, 2016.

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Capitolo 7

DA AL-QAEDA ALLO STATO ISLAMICO. LA RIEMERSIONE DEL JIHADISMO LIBICO

Oggi la Libia viene considerata uno degli Stati in cui più alto è il rischio legato ai fenomeni del radicalismo islamico. Una delle principali conseguenze della rivolta libica è stata, infatti, la riemersione del jihadismo interno, apparentemente sopito nel quarantennio gheddafiano. La caduta del rais ha visto il revanscismo - o la nascita - di numerose organizzazioni estremiste, a partire da Ansar al-Sharia (Asl), movimento attivo nell’est del Paese fin dal 2012, i cui membri sono in parte confluiti nelle fila dello Stato islamico che, seppure defenestrato dalla sua capitale libica di Sirte nel dicembre 2016, continua a essere presente in alcune zone del Paese. A sud, invece, sembra essersi ben radicata la rete di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), rafforzata dall’arrivo, attraverso i porosi confini libici, di combattenti di ritorno da altri scenari operativi del Nord Africa e del Medio Oriente. Sarebbe, però, approssimativo ridurre il fenomeno agli anni più recenti. Il jihad in Libia non è certo ascrivibile agli ultimi tempi, ma rispecchia la traiettoria seguita da molti dei vicini regionali fin dagli anni ottanta, a iniziare dalla Tunisia e dall’Egitto: dal territorio di origine verso altri teatri, come quelli afghano e iracheno (e più di recente siriano) e da qui, di nuovo, verso i Paesi di partenza. Il radicalismo libico, da questo punto di vista, può dunque essere considerato come la risultanza delle politiche interne di buona parte del quarantennio gheddafiano e del complesso prisma di interrelazioni tra il regime e i movimenti islamisti nel Paese.

La repressione del rais e l’opposizione islamista Come si è avuto modo di vedere nelle pagine precedenti, dedicate al racconto della Jamahiriya di Gheddafi, fin dagli anni immediatamente successivi al colpo di Stato il rais riuscì deliberatamente a indebolire ogni possibile contraltare al suo potere. Nel perdurante annichilimento di ogni opposizione, il colonnello comprese che l’islam poteva costituire il più insidioso tra gli ostacoli. D’altra parte la monarchia che aveva abbattuto era figlia della

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senussia, ovvero della confraternita islamica della Cirenaica che si era opposta al colonialismo italiano e aveva dato al Paese il suo martire più famoso e onorato, Omar al Mukhtar. Per questo il leader libico decise di attuare tutto il possibile per depotenziare l’elemento religioso nella sfera pubblica. Nel corso degli anni si scontrò più volte con alcuni gruppi islamisti, la maggior parte dei quali, però, non era nata all’interno del Paese ma proveniva dall’esterno. In particolare, il regime dovette fare i conti con almeno tre correnti: i Fratelli musulmani, i gruppi salafiti e gli jihadisti del Gruppo combattente islamico libico (Gcil). L’arrivo dei Fratelli musulmani in Libia può essere fatto risalire al 1949, quando Idris al- Senussi accolse alcuni componenti del gruppo in fuga dalla repressione del leader egiziano Nasser. Nonostante la popolarità di cui il movimento godeva in Egitto, non riuscì ad attecchire nella Libia del senusso, uno Stato tradizionale e tribale e in linea di massima sospettoso di ogni ideologia importata dall’estero. La fratellanza riuscì, pertanto, ad attrarre solo un numero ristretto di élite167. Quando nel 1974 Gheddafi bandì il movimento dalla Libia, il gruppo era ancora in fase embrionale e, negli anni a seguire, l’ordine imposto dalla Jamahiriya e la repressione di ogni forma di opposizione fecero il resto. Un ammorbidimento si avrà soltanto nei primi anni duemila, quando la fratellanza libica iniziò a dialogare con il regime grazie alle aperture di Saif al-Islam, disponibile a tollerare la sua presenza in cambio del silenzio e della rinuncia alla resistenza armata. Allo scoppiare della rivoluzione del 2011 i Fratelli musulmani collaboravano con il regime e molti di loro, rientrati in Libia, lavoravano con la «Gheddafi international charity and development foundation» di Saif. Nonostante tutto, man mano che il regime cedeva sotto la spinta degli eventi, anche gli islamisti della fratellanza si unirono alla rivoluzione, per presentarsi, poi, alle elezioni del 2012 con il Partito libertà e giustizia, sconfitto dall’Alleanza delle forze nazionali di Mahmoud Jibril. Un discorso solo in parte diverso va fatto per i gruppi salafiti. Anche l’ideologia salafita, così come quella della fratellanza, venne importata in Libia, ma si dimostrò per certi versi più pericolosa per il regime. Il salafismo si affacciò nel Paese negli anni settanta sotto forma di wahabismo d’ispirazione saudita, con l’obiettivo di lanciare una sfida dottrinale al regime, condannando la Jamahiriya quale forma di organizzazione statale. Vi fu una certa fascinazione, soprattutto tra i giovani, durante gli anni settanta e ottanta, man mano che l’opera di proselitismo dei sauditi andò a fondersi con il revival islamico innescato dalla rivoluzione khomeinista che, va detto, seppure non abbia mai preteso di essere esportata, ha indubbiamente prodotto un certo appeal, soprattutto tra i giovani. Come ben raccontano Karim Mezran e Laurentina Cizza, allora «i ragazzi dei campus universitari libici iniziarono

167 A. Pargeter, Qadhafi and Political Islam in Libya, in (a cura di) D. Vandewalle «Libya since 1969: Qadhafi’s Revolution Revisited», Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2011, pp. 85-86.

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a indossare il thawb di stile saudita e si fecero crescere la barba. Le ragazze, invece, iniziarono a indossare hijab e niqab. Presto i campus universitari libici divennero lo spazio non solo di una passiva resistenza religiosa, ma di un dichiarato attivismo anti regime»168. E’ evidente che Gheddafi temesse la sfida del salafismo. Tuttavia, nonostante l’innegabile appeal, il movimento, per i motivi già menzionati per la fratellanza musulmana, non attecchì in Libia. Il rais, poi, dovette fronteggiare anche il fenomeno jihadista. Nonostante la gabbia di controllo imposta da Gheddafi, negli anni novanta anche in Libia riuscì a organizzarsi un’opposizione islamica, certamente influenzata dall’affermarsi del Fronte islamico di salvezza (Fis) in Algeria, ma con radici proprie nel Paese. Nel 1995 il Gruppo combattente islamico Libico (Gcil) lanciò il jihad contro Gheddafi, definito rapinatore delle ricchezze nazionali, nonché impuro, empio e apostata. L’organizzazione clandestina, di matrice islamica radicale creata dallo sceicco Abu Yahya puntava al rovesciamento del regime e alla sua sostituzione con uno Stato islamico; tra il 1995 e il 1998 vantava 2.500 effettivi, tra cui diversi miliziani formatisi nella guerra contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Nonostante gli indubbi legami con i combattenti afghani, però, il Gcil si distingueva da al- Qaeda per gli obiettivi della lotta armata: per il primo la caduta di Gheddafi e la battaglia all’interno della nazione libica, per il secondo il jihad globale. Nel corso degli anni il Gcil ha avuto sporadici ed altalenanti rapporti con il network di Osama bin Laden, dettati, potremmo dire, più da contingenze che da reale convinzione. Nel 1996 il Gcil arrivò addirittura a ordire un attentato contro il leader libico, scatenando l’ira del colonnello che trucidò più di un migliaio di combattenti nel carcere di Abu Selim e, l’anno dopo, lanciò una violenta controffensiva nella regione dello Jebel al-Akhdar, dove si trovavano i suoi principali campi di addestramento e dove, di recente, ne sono stati individuati altri. Gheddafi, allora, assoldò un migliaio di mercenari serbi reduci dai conflitti in Bosnia e Kosovo che sbaragliarono il Gcil con le stesse spietate tattiche utilizzate nel conflitto in ex Jugoslavia. Nonostante ciò, però, la tradizione terrorista restò radicata in Libia, tanto che l’intelligence americana scoprì, dopo un blitz in Iraq, che i libici rappresentavano il contingente più numeroso di combattenti presenti nel Paese e più della metà dei volontari del jihad iracheno arrivavano da Derna, città della Cirenaica, regione da sempre avversa allo strapotere del rais. Tuttavia, anche in questo caso, negli ultimi anni del regime si era assistito a un certo ammorbidimento per opera di Saif al-Islam che diede avvio a un processo di dialogo con alcuni membri del gruppo, arrestati nel 2007. Tale apertura culminò con la pubblicazione, nel 2010, di un documento, a firma del Gcil, in cui il movimento rinunciava all’insurrezione

168 L. Cizza, K. Mezran, Libia: la sfida dello Stato Islamico, in (a cura di) S.M Torelli, A Varvelli «L’Italia e la minaccia jihadista. Quale politica estera?», Edizioni Epoké, Milano, 2015, pp. 43-56, p. 48.

106 armata e faceva un appello alla tolleranza. Le rivolte del 2011 esplosero proprio mentre il regime stava rilasciando gli ultimi combattenti. In quel momento tutti gli ex miliziani, oramai fuori dal carcere, erano liberi di imbracciare le armi. Così la minaccia jihadista, prima repressa nel sangue, poi sedata con le aperture del figlio del rais, ricompare in tutta la sua violenza.

Le sollevazioni del 2011 e la deriva securitaria Abbiamo visto come la guerra civile libica abbia lasciato in eredità una variegata serie di milizie, inizialmente racchiuse sotto la generica sigla dei ribelli anti-regime, che una volta defenestrato il rais hanno rifiutato di integrarsi in un unico esercito nazionale o all’interno delle forze di polizia. A ciò si aggiunga che le varie potenze internazionali, intervenute nel teatro libico con l’azione della coalizione internazionale, hanno acuito il caos armando gruppi di miliziani che il Consiglio nazionale di transizione prima e i vari governi che si sono succeduti alla guida del Paese poi, non sono mai riusciti a disarmare. Detta in altre parole, ai player internazionali è sembrata sfuggire l’evidenza che armare gruppi locali per raggiungere un obiettivo a breve termine avrebbe rischiato di avere come diretto corollario il disordine interno, dato che formare combattenti non equivale a costruire un esercito. Le rivolte del 2011, quindi, hanno liberato tutte le tensioni interne, prima represse con la forza, ma non sono state in grado di governarle, favorendo la riemersione di attori locali coesi, determinati e soprattutto ben armati. Come già ricordato, il debole governo centrale ha preferito puntare a una semi-assimilazione dei miliziani all’interno di corpi regolari piuttosto che operare una vera e propria politica di disarmo e, così, i gruppi armati, pur mantenendo un ruolo autonomo, sono stati messi sul libro paga dello Stato. I gruppi politici e le comunità locali si sono intrecciati con queste o quelle milizie, credendo di avere a loro disposizione un braccio armato, ma finendo per essere alla loro mercé. In un contesto così delineato, seppure le forze islamiste non siano state ispiratrici della rivoluzione libica, sono state comunque pronte a prendervi parte, cercando di orientare a loro favore le sorti del conflitto, portando al rafforzamento dei gruppi combattenti già presenti nel territorio, anche se indeboliti dalla repressione del rais, e all’emersione di nuovi gruppi, in una galassia composita e fluida. Nel primo caso, ad esempio, va ricordato come alcuni ex membri del Gcil abbiano avuto un ruolo nevralgico durante il conflitto del 2011. Uno di questi è Abdel Hakim Belhadj, prima leader del gruppo, poi arrestato dalla Cia e quindi consegnato a Gheddafi nel 2004 e rimesso in libertà nel 2008, assieme ad altri 170 affiliati, nell’ambito della campagna reinserimento nella società degli ex islamisti lanciata da Saif al-Islam. Belhadj, che poteva contare su svariate migliaia di uomini ben organizzati,

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è stato determinante per la presa di Tripoli nell’agosto del 2011 divenendo, poi, capo del Consiglio militare della capitale e quindi, a vario titolo, uno dei principali attori del panorama politico dell’ovest del Paese. Dopo le rivolte del 2011 molti facevano la fila davanti al suo ufficio. Era trattato come un idolo da svariati combattenti e considerato alla stregua di un “reuccio di Tripoli”, seppure fosse solo il capo del Consiglio militare. A chi si recava da lui a chiedere prebende spiegava: «La nostra è stata una rivoluzione per il popolo. Ora sono i gruppi a garantire la sicurezza interna, più avanti ci sarà il passaggio di consegne […] Sono solo un cittadino che ha dato il suo modesto contributo alla rivoluzione del 17 febbraio. Si tranquillizzino gli occidentali, non ho ambizioni di comando»169 . Eppure il suo passato preoccupava gli occidentali, eccome. A fare da cassa di risonanza alla riemersione di gruppi e personaggi riconducibili alla galassia jihadista, però, non c’è è stato solo il vuoto di potere post-rivolte, ma anche il ruolo giocato da alcuni attori del complesso mosaico libico. Dopo la caduta del rais, il basso grado di conflittualità interna alla sfera dottrinale dei musulmani libici, dovuto all’assenza di divisioni settarie, ha favorito l’emersione dell’islam come elemento legittimante nella società e, per certi versi, anche nella politica. Il diretto corollario è stata la strumentalizzazione della possibile “minaccia islamista” da parte di alcuni esponenti politici del Paese. È il caso di Khalifa Haftar, capace di prendere in ostaggio la Camera dei rappresentanti di Tobruk, impedendogli, di fatto, di votare per il Governo di accordo nazionale e ottenendo anche il supporto dell’Egitto e degli Emirati in nome di una rilevante funzione anti-jihadista. La logica del generale, tuttavia, ha il limite di ridurre tutto l’islam a un monolite, sia esso rappresentato dalla fratellanza musulmana o da formazioni radicali e terroristiche come Ansar al-Sharia o lo stesso Stato islamico. Così facendo, però, tutti i movimenti islamisti si sono sentiti parimenti nel mirino del generale tanto che, potremmo dire, l’identificazione del nemico comune ha rafforzato e unito parte delle componenti radicali.

Jihad andata e ritorno. Il radicalismo libico Lo sfaldamento delle istituzioni libiche e la deriva securitaria del Paese hanno contribuito al riemergere di gruppi della galassia jihadista o all’ingresso di nuovi. Un excursus, seppure necessariamente rapido, tra i principali gruppi che si sono affermati fin dai mesi immediatamente successivi alle rivolte sfruttando la debolezza del failed State libico, può essere di certa utilità per comprendere la frammentazione e la fragilità del panorama locale.

169 Intervista riportata in un reportage della trasmissione La storia siamo noi e disponibile anche al seguente link: http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/i-fantasmi-della-nuova-libia/1113/default.aspx.

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Tra i gruppi riconducibili all’islam salafita va ricordata Ansar al-Sharia nella sua branca libica - responsabile dell’uccisione dell’ambasciatore americano Christopher Stevens - che fin dal settembre del 2012 ha costituito la forza militare più cospicua nell’est del Paese, in modo particolare a Dena e Bengasi, unendosi, talvolta, con alcune milizie locali, salafite e non. In particolare a Bengasi Asl si è alleata con tre gruppi armati islamisti ma non salafiti: il Libya Shield One, la Brigata dei martiri 17 febbraio e la Brigata Rafallah al-Sahati. La coalizione si è resa necessaria per contrastare l’offensiva lanciata da Khalifa Haftar e delle sue milizie. Il ramo di Derna, invece, oltre all’affiliazione ad al-Qaeda - e probabilmente anche allo Stato islamico - ha stretto accordi con il Consiglio della gioventù islamica (affiliato all’ Isis) e alla Brigata martiri di Abu Selim. Nonostante Asl è sembrata avere principalmente un obiettivo locale (conquistare il potere nel Paese) non ha disdegnato di rispondere alla chiamata a favore di un jihad violento e globale, orchestrando attacchi contro uffici internazionali, l’uccisione e i rapimenti di cittadini occidentali e attentati suicidi. Sebbene nel momento della sua massima espansione nel Paese potesse contare su più di 10.000 simpatizzanti, meno della metà erano i combattenti. Tuttavia molti erano ben addestrati e potevano vantare nel loro “curriculum” esperienze in Iraq e Afghanistan. Due dei più importanti leader di Bengasi, Mohammed Ali al-Zahawi (morto nel gennaio 2015) e Ahmed Abu Khattala (arrestato dagli americani) sono stati spesso sospettati di legami con al-Qaeda, seppure entrambi abbiano sempre negato un loro coinvolgimento con l’organizzazione. Uno dei leader del ramo Derna, Sufian Bin Qumu, prima di essere liberato nell’ambito della già menzionata campagna di pacificazione lanciata da Saif al-Islam, ha trascorso sei anni a Guantanamo Bay per aver lavorato direttamente con Osama bin Laden. Simile ad altri movimenti, Ansar al-Sharia ha dedicato gran parte del suo sforzo alla dawa (attività caritatevole), cercando di ottenere il sostegno dei locali attraverso la fornitura di servizi sociali, aiuti in ambito sanitario ed educativo etc. La vera agenda di Asl rimane, però, piuttosto vaga. Diversi elementi suggeriscono che insieme alla sua propensione sociale stile Hamas o Hezbollah - che la rendono per certi versi diversa dall’ideologia qaedista - sia stata anche coinvolta in attività finalizzate a supportare i combattenti regionali nell’utilizzo del territorio libico come area per la formazione e per il contrabbando di armi. Nella complessa galassia delle formazioni libiche va annoverata anche la presenza di elementi legati ad al-Qaeda nel Maghreb slamico. L’organizzazione, seppure con una debole presenza nel Paese (visto il fallimento della politica di “integrazione” del Gcil in al- Qaeda), aveva però alcuni collegamenti con la Libia anche durante l’epoca di Gheddafi. A tal proposito non va dimenticato che sono stati i libici, per anni, il secondo maggior gruppo dopo i sauditi a combattere sui fronti iracheno e afghano. Con il risveglio arabo nel Nord Africa l’organizzazione ha visto la possibilità di poter rispolverare i progetti di allargamento

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della jihad in quei territori per stabilire un emirato, parte integrante del progetto di un califfato islamico. Si spiega anche così l’attivismo in Libia di qaedisti o ex-qaedisti, tra cui lo stesso Ben Qumu, presenti fin dalle prime fasi della sollevazione armata in Cirenaica. Sarebbe da attribuire a loro, ad esempio, l’attacco suicida del 17 febbraio del 2011 che ha distrutto il quartier generale delle forze di sicurezza gheddafiane, dando il via alle rivolte dei giorni successivi. Alcuni combattenti, poi, sarebbero tornati in Libia con il compito di creare legami tra le milizie salafite locali e la leadership di al-Qaeda. In un Report della Cnn del dicembre del 2011 si segnalava il sollecito da parte dei vertici dell’organizzazione a inviare in Libia veterani operativi nei teatri afghano e iracheno per cooptare i gruppi locali e come possibili addestratori170. Secondo alcune fonti di intelligence, Ayman al-Zawahiri, a cavallo tra il 2011 e il 2012, avrebbe inviato in Libia circa 200 uomini scelti per organizzare le forze e addestrare un nuovo esercito. La strategia di reclutamento si basava sull’infiltrazione di combattenti all’interno delle milizie del posto nel tentativo di orientarle verso gli obiettivi del jihad globale. Visto da questa prospettiva il ruolo di al-Qaeda in Libia rispecchia in più ampia prospettiva la trasformazione di questa organizzazione da attore monopolista del terrorismo islamico- radicale ad aggregatore di formazioni radicali e gruppi salafiti in funzione tattica, per trasformare il Paese in una sorta di zona franca per i suoi miliziani. D’altra parte i fragili confini libici sono innegabilmente funzionali per al-Qaeda che può contare su uno Stato collocato al centro di numerosi traffici illegali, dal greggio, alle armi, al traffico di essere umani. Inoltre, la situazione di semi-anarchia in cui versa a tutt’oggi la Libia ha offerto al network un’occasione unica per entrare nel territorio anche con scopi di reclutamento e formazione di combattenti. Di nuovo la Cirenaica appare come il terreno più fertile per la creazione di campi di addestramento. Fonti giornalistiche e d’intelligence, ad esempio, hanno mostrato come diverse decine di combattenti islamici radicali (per lo più algerini, ma anche libici) catturati o uccisi in Siria negli ultimi mesi, siano stati inviati sul fronte siriano tramite la Libia e previo addestramento in Cirenaica. Qui si sarebbero addestrati anche numerosi combattenti confluiti nelle fila dello Stato islamico. Nel Fezzan, invece, pare essersi stabilito il nuovo comando logistico e organizzativo di Aqmi. Nella desertica regione del sud libico i servizi segreti algerini hanno localizzato campi e basi logistiche dei qaedisti attivi in Algeria e nel Sahel e fonti di stampa estera

170 Così è riportato da Federal research division library of congress, al-Qaeda in Libya: a profile, agosto 2012. Il documento è disponibile su: https://freebeacon.com/wp-content/uploads/2012/10/LOC-AQ-Libya.pdf . Il tema è affrontato anche in N. Robertson e P. Criuckshank, Al Qeada Sent Fighters to Libya, 30 dicembre 2011, in: http://security.blogs.cnn.com/2011/12/30/al-qaeda-sends-fighters-to-libya/.

110 hanno in più occasioni raccontato di incursioni condotte oltreconfine dalle forze speciali algerine per distruggerli.

Lo Stato islamico. Troppo rumore per nulla? Volendo trovare una data per l’ingresso dello Stato islamico in Libia, potremmo farla risalire all’estate del 2014, quando il generale Khalifa Haftar lanciò la sua offensiva contro l’estremismo e il terrorismo (per lo meno così diceva lui), sfidando le autorità di Tripoli e le forze islamiste nel Paese. Uno degli effetti è stato il rientro di alcuni miliziani libici impegnati nelle fila del califfato in Siria e in Iraq, che hanno portato con sé, come souvenir di viaggio, bandiere nere e contatti con alcuni capi dell’Isis nel Levante. Il 20 agosto del 2014 il gruppo Majlis Shura Shabab al-Islam (Consiglio della shura della gioventù islamica) di Derna mostrò la bandiera del califfato nel video dell’esecuzione di un cittadino egiziano. Da allora in poi lo Stato islamico ha esteso le proprie attività a Bengasi, Sirte, Tripoli e in altre aree della Libia meridionale. Il gruppo ha rivendicato, tra l’altro, l’attentato all’ambasciata algerina a Tripoli e l’attacco all’hotel Corinthia, entrambi del gennaio del 2015, in cui morirono nove persone. Nello stesso periodo miliziani affiliati al califfato hanno compiuto numerosi rapimenti e decapitazioni, compresa l’uccisione di due giornalisti tunisini e di 21 egiziani copti, la cui brutale decapitazione è stata ampiamente immortalata e diffusa dall’organizzazione. Iniziò così a circolare la fosca previsione di un possibile radicamento dello Stato islamico anche in Libia. Oggi sappiamo che la profezia non si è avverata. L’Isis è stato espunto dalla sua ultima roccaforte di Sirte nel dicembre del 2016 da parte delle milizie di Misurata fedeli al governo unitario e anche se, come vedremo, non possiamo certo cantare vittoria perché il radicalismo è ancora vivo e vegeto nel Paese, quantomeno l’ipotesi della Libia come possibile nuova provincia nordafricana del califfato sembra scongiurata. Per capire cosa è accaduto e quale è stato davvero l’impatto dello Stato islamico in Libia sono necessarie alcune considerazioni. In primo luogo molti libici hanno combattuto e combattono sul fronte siro-iracheno nelle fila del califfato o dell’allora fronte qaedista al- Nusra (oggi Jabhat fatah al-sham, Fronte per la conquista del Levante). Alcune stime del 2016 parlavano del coinvolgimento di un numero di combattenti circoscritto tra le 300 e le 800 unità. La Libia per percentuale di popolazione è stata uno dei Paesi che ha offerto il maggior numero di uomini allo Stato islamico e ciò ha favorito, dopo il loro ritorno in patria, i legami tra il mondo radicale libico e quello di Siria e Iraq. Tanto per fare un esempio, almeno un battaglione appartenente inizialmente ad Asl, la Brigata al-Battar, sarebbe stato composto unicamente da miliziani rientrati dalla campagna militare dell’Isis in Siria e Iraq (principalmente a Mosul).

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D’altra parte è da rilevare come la natura dell’Isis in Libia sia stata per certi versi diversa rispetto a quella più potente e radicata del Levante. Oltre ai combattenti di ritorno molti militanti libici, infatti, appartenevano a gruppi estremisti già presenti nel territorio come Asl o Aqmi, trasformatisi in Stato islamico per guadagnare credibilità e per inglobare un numero maggiore di adepti. Nell’aprile del 2014, l’anno d’oro della propaganda del califfato in Libia, ad esempio, il già ricordato Consiglio della shura dei giovani islamici si auto- proclamò primo territorio esterno annesso al califfato nella città di Derna, che venne poi riconosciuta da al-Baghdadi come provincia dello Stato islamico nell’ottobre dello stesso anno. Nel tempo altri gruppi sparsi per il territorio – tra cui Asl a Bengasi e diverse milizie jihadiste nei pressi di Tripoli e di Sirte - hanno giurato fedeltà ad al-Baghdadi. Vi sarebbero stati infine ex soldati del regime di Gheddafi “travestiti”, che indossando le casacche nere dello Stato islamico hanno tentato di portare avanti le loro vendette personali contro i miliziani che hanno contribuito alla fine del regime o semplicemente contro le tribù nemiche171. Da quanto fin qui detto si evince come il “fenomeno Isis” in Libia debba essere necessariamente inquadrato nelle peculiarità della realtà locale e degli eventi che si sono succeduti, soprattutto a partire dal 2014, quando ebbe inizio la guerra civile tra fazioni islamiste e miliziani al soldo di Haftar. Allora, molti cercarono di liquidare la questione come una guerra tra due fazioni: gli islamisti a Tripoli e i laici (o anti-islamisti) a Tobruk. La realtà, oramai lo sappiamo, è molto più complessa. Nel cuore della guerra libica ci sono interessi locali, tribali e regionali, e non solo un disaccordo sul ruolo dell’islam in politica. Se è vero, infatti, che Haftar ha utilizzato il mantra della lotta al terrorismo islamista per acquisire legittimità e sponsor, il tema ideologico è molto meno rilevante rispetto alla necessità di acquisire risorse e controllo territoriale. Non è un caso se l’azione anti-islamista di Haftar ha avuto come obiettivi porti e giacimenti di greggio e, ancora oggi, il generale sembra molto più attento a conquistare i pozzi della mezzaluna petrolifera che a combattere le sacche di resistenza jihadista. D’altra parte la Libia è molto diversa da Siria e Iraq. Nell’ex Jamahiriya l’Isis non ha potuto sfruttare le divisioni settarie, così come nel Levante, poiché il Paese è al 90 % musulmano sunnita e, dunque, «con la sua ideologia islamista e transnazionale lo Stato islamico è un attore esterno, uno spoiler, la cui ambizione all’egemonia del califfato è incompatibile con gli obiettivi e gli interessi delle fazioni libiche

171 Oltre alle organizzazioni già citate ne vanno rilevate altre che, per brevità di indagine, non verranno approfondite. Come descritto in un rapporto della Rand, oltre a Ansar al-sharia in Libia, molti altri gruppi salafiti-jihadisti godono, o hanno goduto, di un santuario in Libia: Jamal Network Muhammad (dall’Egitto), che ha stabilito una presenza in zone settentrionali come Bengasi e Derna; Mokhtar Belmokhtar al-Murabitun nel sud-ovest intorno Ghat e Ansar al-sharia Tunisia in settori quali Zuwarah, Derna e Ajdabiya. S.G. Jones, The Evolution of al Qaida and Other Salafi Jihadists, Rand Corporations, giugno 2014.

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in lotta»172. Inoltre, i libici, oltre ad essere religiosamente omogenei, sono storicamente riluttanti a seguire gli appelli e i gruppi del radicalismo islamico. Anche per questo motivo le varie adesioni di gruppi libici allo Stato islamico possono essere lette più da un punto di vista funzionale che non come “spirito di fratellanza” all’ideale di al-Baghdadi.

Le possibili evoluzioni del fenomeno jihadista L’islamismo radicale in Libia è stato alimentato, in via prioritaria, dall’oppressione del regime. L’unico modo di dissentire per buona parte dei libici era aderire o appoggiare al- Qaeda o altri gruppi terroristici, prova ne sia che il fenomeno del radicalismo si è affermato soprattutto nell’est, nella regione della Cirenaica e in città, come Derna e Bengasi, da sempre fumo negli occhi per Gheddafi. Il fenomeno, come spesso accade, ha presto travalicato i confini del Paese tanto che, come già ricordato, i libici sono stati per anni il secondo maggior gruppo, dopo i sauditi, a combattere sui fronti iracheno e afghano e poi siriano. Le organizzazioni terroristiche, inizialmente prese alla sprovvista dalle rivolte del 2011, hanno vissuto un rinnovato revanscismo dovuto in buona parte alle reti terroristiche ancora presenti e alla fragilità dello Stato post-gheddafiano che ha permesso il rientro dei combattenti libici all’estero. In tale contesto gli jihadisti di ritorno dalla prima linea, una volta rientrati in patria, hanno man mano acquisito la capacità di radicalizzare il loro ambiente originale attraverso opere di proselitismo. Sono riusciti a creare nuovi gruppi e cellule, formando militarmente nuove reclute locali e allargando le reti estremiste interne, con la conseguenza dell’indebolimento dei poteri locali, già di per sé depauperati in un contesto fragile e frammentato come quello libico. Inoltre, alcune organizzazioni come Aqmi hanno sfruttato l’indebolimento dei confini libici per realizzare l’obiettivo di un “emirato” nel Paese attraverso l’invio di combattenti esperti, capaci di infiltrarsi nelle organizzazioni già presenti nel territorio e cooptare miliziani. In un quadro così delineato, seppure vi siano combattenti libici di ritorno che hanno lottato nella fila dello Stato islamico in Siria e in Iraq, l’Isis in Libia appare come una sorta di “epifenomeno delle contingenze”. Per questo motivo l’ingresso del nuovo attore regionale della galassia jihadista non è da considerarsi come un’effettiva conquista territoriale, ma si spiega soprattutto con la sua abilità nel reclutare nuovi soggetti all’interno delle formazioni radicali già presenti. Anche se oggi l’Isis sembra quasi espunto dal Paese, dunque, la persistenza di elementi jihadisti, che magari con un’operazione neppure troppo difficile di maquillage potrebbero decidere di cambiare di nuovo casacca, può continuare a mettere a rischio la stabilità della Libia e dei Paesi confinanti, in primo luogo dell’Egitto. La presenza del terrorismo in Libia,

172 L. Cizza, K. Mezran, Libia: la sfida dello Stato Islamico, cit., p 44.

113 infatti, rischia di aprire un ulteriore fronte, oltre a quello del Sinai, per l’ingresso di miliziani nel Paese. L’Egitto condivide con la Libia un confine lungo quasi 1.000 km. Per al-Sisi è, dunque, fondamentale la sponda con Haftar per bloccare le possibili infiltrazioni jihadiste dall’est libico. Secondo il governo egiziano, oggi, sono presenti sul territorio almeno una trentina di organizzazioni terroristiche, otto delle quali presumibilmente affiliate ad Hamas o collegate a gruppi estremisti con base a Gaza, altre ancora diretta emanazione di al-Qaeda e/o dello Stato islamico. Queste, inoltre, sono distribuite nel territorio, in maniera non uniforme. Le principali formazioni sono attive tra la penisola del Sinai e il Canale di Suez, il delta e la valle del Nilo. Altre sarebbero presenti anche nella capitale e tra il confine libico, il deserto occidentale e l’alto Egitto. E’ evidente, dunque, come uno sconfinamento del terrorismo anche dall’ovest stringerebbe al-Sisi in una morsa infernale. I problemi però non riguardano solo il Cairo, ma anche i vicini tunisini e algerini. Iniziamo dall’Algeria. È noto che al-Qaeda nel Maghreb islamico ha basi operative nel Paese. D’altra parte l’organizzazione è nata dalla guerra civile algerina degli anni novanta e poi, spinta dalle forze di sicurezza fuori dai confini del Paese, si è rivolta verso il Sahel ed è ormai infiltrata anche in Tunisia. Alcuni analisti sostengono che si sia trattato di una sorta di ritirata strategica, volta a riorganizzare le forze in vista di nuovi attacchi in Algeria. Al momento la minaccia sembra essere contenuta, ma i possibili mutamenti della situazione interna al Paese, conseguenti anche alla debolezza dello storico leader Bouteflika, molto malato, potrebbero aprire la strada a una possibile destabilizzazione. Nelle zone al confine con la Tunisia e la Libia, secondo il ministero della difesa algerino, da inizio anno sono stati uccisi quasi un centinaio di miliziani affiliati al gruppo di al-Qaeda nel Maghreb islamico. Un chiaro campanello d’allarme per il Paese. Infine, va rimarcato come l’instabilità libica influenzi anche la vicina Tunisia. Gli autori materiali dell’attacco al museo del Bardo del 18 marzo del 2015 e quelli dell’assalto al Riu Imperial Marhaba Hotel di Port el-Kantaoui del 26 del giugno 2015, avrebbero trascorso un periodo di training nei campi di addestramento dell’est libico prima di rientrare nel Paese e compiere la carneficina. Da questo punto di vista la Tunisia deve preoccuparsi soprattutto del “terrorismo di ritorno”, visto che il Paese dei gelsomini, più di ogni altro, ha esportato foreign fighters sui fronti di Iraq e Siria. Secondo fonti interne sarebbero quasi 5.000 i tunisini partiti per combattere il jihad all’estero, cifra che fa della Tunisia il Paese con il più alto numero di combattenti stranieri, sia in termini assoluti che in proporzione alla popolazione. Alla base di tale radicalizzazione c’è anche il sentimento di marginalizzazione di molti giovani derivante dall’assenza di un lavoro e di prospettive per il futuro, problemi mai realmente affrontati dai governi che si sono succeduti alla guida del Paese. I combattenti, arruolatisi in molti casi anche a causa delle condizioni di fragilità economica e sociale, potrebbero tornare in patria da militanti radicalizzati e da esperti combattenti, con

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tutti i rischi che ne potrebbero derivare173. Nel 2015, secondo stime nazionali, erano circa 600 i miliziani tornati in Tunisia da diversi fronti. Il problema si fa ancora più pressante alla luce dell’azione intrapresa dalle milizie di Misurata, fedeli al Governo di accordo nazionale libico, contro la roccaforte dello Stato islamico a Sirte. Secondo il ministro della difesa tunisino Farhat Horchani sarebbero circa un migliaio i tunisini combattenti inseriti nelle fila dello Stato islamico in Libia, ora in fuga, che potrebbero decidere di fare ritorno nel Paese. Non serve spendere ulteriori parole per spiegare come la stabilizzazione della Libia sia fondamentale anche per la solidità dei vicini regionali.

173 S. M. Torelli, La transizione politica in Tunisia: opportunità e sfide, in «Osservatorio di Politica Internazionale», n. 54, gennaio 2015.

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CONCLUSIONI

Le pagine che abbiamo fin qui condiviso sono nate dall’intenzione di raccontare un Paese attraverso la sua storia, ma anche e soprattutto attraverso gli eventi che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi, a qualche centinaio di chilometri dalle nostre coste. Eventi che fingiamo di non vedere, nella beata incoscienza di chi crede – nonostante tutto - che il mare sia un’infallibile barriera capace di tutelare le proprie sicurezze. Non è certo possibile raccontare in poche pagine una storia, breve per certi versi, ma molto complessa e che ci ha visto coinvolti da vicino e non era questa, tra l’altro, l’intenzione di questo libro che voleva, molto meno ambiziosamente, far luce su alcuni aspetti della Libia di oggi, un Paese che stenta a trovare una propria pace e una propria stabilità. Visto che questo racconto non ha avuto la pretesa di offrire certezze, quanto piuttosto di creare dubbi, si chiuderà con alcune domande, con l’augurio che il tempo possa darci le risposte che, in tutta onestà, l’autore in questo momento non è grado di fornire.

Oltre lo Stato islamico. Ci siamo davvero liberati del terrorismo? Una delle questioni più ricorrenti negli ultimi tempi, soprattutto da quando lo Stato islamico è stato espunto dalla roccaforte libica di Sirte, riguarda il livello di sicurezza nel Paese, legato alla presenza di numerose organizzazioni jihadiste. Il tema ci riguarda da vicino. Troppe volte abbiamo ascoltato il mantra dell’invasione di terroristi pronti a infilarsi nei barconi stracolmi di profughi in partenza dalle coste libiche per fuggire, magari, verso l’Italia. La fosca profezia è stata più volte brandita come arma elettorale da alcuni esponenti politici italiani e anche da molti leader libici - Sarraj e Haftar compresi - per avere soldi e armi dal governo di Roma o dalle istituzioni europee. E’ bene, però, non confondere il marketing con la realtà dei fatti, o quantomeno non farsi influenzare da facili allarmismi. L’ intelligence e l’antiterrorismo italiano hanno spesso smentito queste affermazioni. Lo stesso ministro dell’interno Marco Minniti ha rimarcato che: «Al momento, nel nostro Paese sono sottoposti alla particolare attenzione d’intelligence e forze di polizia una cinquantina di foreign fighters partiti dal territorio nazionale e comunque a vario titolo collegati con l’Italia. Sono numeri contenuti rispetto al panorama europeo, dove si stimano alcune migliaia di combattenti. In ogni caso, però, il rischio di reducismo va valutato anche in relazione all’arrivo nel nostro territorio di foreign fighters partiti per la Siria da altri Stati europei o nordafricani. Nonostante queste

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considerazioni, a oggi, non sono emersi concreti segnali di pianificazioni offensive contro l’Italia da parte dell’Isis, di al-Qaeda o di homegrown terrorists»174. Premesso, dunque, che possiamo fin da ora scongiurare una prossima roccaforte dello Stato islamico a Lampedusa è utile, comunque, capire quanto sia ancora radicata e forte la presenza jihadista in Libia, con o senza lo Stato islamico, in un’ottica di stabilità interna e, in più ampia prospettiva, per gli equilibri della regione. Facciamo solo un piccolo passo indietro. Il 6 dicembre del 2016 l’allora inviato dell’Onu per la Libia Martin Kobler dichiarò ufficialmente: «In Libia i giorni dello Stato islamico sono finiti. Le milizie di Misurata controllano la città». Erano passati più di cinque mesi dall’inizio delle operazioni su Sirte quando i portavoce delle milizie di Misurata annunciarono che la battaglia sarebbe stata vinta in poche settimane. Evidentemente non è stato così, i misuratini faticavano, e non poco. Nei mesi di luglio e agosto arrivò anche il sostegno dell’aeronautica americana, ma i terroristi riuscirono a resistere per settimane, ricorrendo a kamikaze, cecchini, mine e a tutte le possibili tecniche della guerriglia urbana. Dopo 500 raid americani e più di 700 morti tra i miliziani, le operazioni potevano dirsi concluse con l’uccisione degli ultimi sparuti gruppi di miliziani nel distretto di Ghiza Bahriya, in cui erano rimasti letteralmente asserragliati per giorni. In pochi, però, cantarono davvero vittoria; erano evidenti fin da allora due grossi limiti. In primo luogo, aver fatto fuori lo Stato islamico da Sirte voleva dire, nella migliore delle ipotesi, avere lo stesso caos di prima ma con un attore in meno. In Libia, lo abbiamo visto, lo Stato islamico non è stata la causa del disfacimento del Paese ma solo una delle sue conseguenze e, forse, non quella peggiore. In secondo luogo, dire di aver espulso l’Isis da Sirte non significava, e non significa a tutt’oggi, aver risolto il problema del terrorismo. I combattenti presenti a Sirte, circa 3.000 secondo la più parte delle stime, non sono tutti morti. Molti si sono tagliati la barba e sono fuggiti soprattutto verso il sud, nel Fezzan. Qui regna l’anarchia. Nessuno dei due “governi libici” ha il benché minimo controllo dei gruppi che popolano il sud del Paese, luogo di traffici e santuario di organizzazioni terroristiche. Qui, prima ancora dell’arrivo delle bandiere nere del califfato, si era stabilito il nuovo comando logistico e organizzativo di al-Qaeda nel Maghreb islamico Nelle aree dell’entroterra i miliziani delle formazioni jihadiste si nascondono tra altri numerosi gruppi e sfruttando il vuoto di potere del Paese portano avanti i loro affari: traffico di armi, di migranti, di merci di contrabbando e di tutto ciò che può fruttare qualche dinaro. D’altra parte la regione del Fezzan è grande quasi come la Francia: circa 600.000 chilometri quadrati di deserto e rocce che confinano con il Ciad, con il Niger, con il Sudan (Paesi di provenienza di flussi infiniti di migranti) e con l’Algeria che preme sulle frontiere per

174 M. Minniti, Le implicazioni per l’intelligence, in (a cura di) S. Torelli, A. Varvelli, «L’Italia e la minaccia jihadista. Quali implicazioni per la politica estera?», pp. 159-167, p.162.

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rispedire i terroristi in Libia. Tanto basta per capire l’attrattività che un tale ginepraio può avere sui “residuati dell’Isis”. Da quanto brevemente detto – e per rispondere alla domanda da cui eravamo partiti - possiamo trarre alcune considerazioni. Il terrorismo esiste e continuerà a esistere oltre l’Isis. Ammesso che i miliziani dello Stato islamico, ancora sparsi per il territorio, non riescano a riorganizzarsi, la presenza di gruppi terroristici permarrà comunque sotto altre forme e altri nomi e continuerà a minare la sicurezza del Paese e dei vicini regionali, fintanto che l’anarchia che regna nel failed State ne farà un habitat ideale per le organizzazioni terroristiche. Più dello Stato islamico e dei suoi raccapriccianti sogni di stabilire un califfato nel Medio Oriente, è l’instabilità della Libia a essere una minaccia per l’Italia e per il mondo intero.

Il petrolio e la crisi economica. Rinascerà l’ex rentier State? Anni di storia ci hanno insegnato che il benessere economico è una delle chiavi di volta per la stabilità di un Paese. Partendo da questo presupposto, e tenendo a mente tutto quanto abbiamo fin qui raccontato della Libia, dovremmo aver già capito che senza una ripresa dell’economia, qualunque tentativo di stabilizzazione sarà quantomeno parziale. Oggi, dopo più di cinque anni di instabilità, l’economia libica è in pezzi. Basta osservare alcuni dati: il prodotto interno lordo che nel 2010 era pari a circa 75 miliardi di dollari, oggi è più che dimezzato in conseguenza del calo della produzione del greggio - oggi quasi un quinto rispetto al 2010 - cui il Pil libico è legato quasi totalmente. Il tutto è aggravato dalla cattiva gestione dei proventi della vendita degli idrocarburi che vengono versati sul conto della Banca centrale di Tripoli che, a sua volta, eroga gli stipendi degli statali, l’80% circa della forza lavoro del Paese. Con la diminizione dei proventi del greggio gli introiti non sono più sufficienti a pagare le spese correnti e la Banca centrale ha dovuto prelevare denaro dalle sue riserve. Le conseguenze sulla popolazione sono drammatiche: l’inflazione è salita al 9,2 % nel 2016 (aumento guidato da quello dei prezzi alimentari saliti del 13,7%); i prezzi di farina e pane sono quintuplicati; il reddito pro-capite è sceso a meno di 4.500 dollari, rispetto ai quasi 13.000 del 2012175; molti lavoratori non percepiscono gli stipendi da mesi. A tutto questo fa da sfondo una gravissima crisi di liquidità, causa di tensioni e proteste tra i cittadini, che anche qualora riuscissero a percepire un salario, non potrebbero ritirare i soldi dalle banche perché le casseforti sono vuote. Oggi, su una popolazione di circa 6,3

175 Tutti i dati in: http://www.worldbank.org/en/country/libya/overview.

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milioni di abitanti, 3 milioni stanno patendo in modo più o meno rilevante le conseguenze negative della crisi politico-istituzionale e di sicurezza del Paese e 2,44 milioni (tra cui 1,35 milioni di donne e bambini) hanno bisogno di assistenza umanitaria176. Il quadro è abbastanza chiaro. Ora non resta che chiederci: come fare per supportare la ripresa dell’economia libica? La risposta, per lo meno in via teorica, appare piuttosto semplice: visto che la Libia è un Paese produttore di petrolio, la ripresa economica passa per quella della produzione del greggio, assieme, magari, a una maggiore diversificazione dell’economia177. Nulla di più semplice verrebbe da dire. Il Paese è abitato da poco più di 6 milioni di persone e ha molto più petrolio di quanto ne può consumare. Perché litigare? Eppure le cose sono molto più difficili di quanto sembrano. Sarà capitato a tutti di assistere a una lite tra bambini che in una stanza piena di balocchi fanno i capricci perché vogliono giocare tutti con lo stesso trenino o la stessa bambolina. Lo scontro spesso va avanti finché una figura con una qualche autorità non spieghi ai “contendenti” che ci sono tanti giochi parimenti belli e li distribuisce ai bambini che per un po’ si calmano. Viceversa, se i genitori si schierano dalla parte di figli e ognuno recrimina esattamente quel giocattolo per il suo bambino la lite va avanti e, anzi, nella foga il gingillo rischia di rompersi. Forse il paragone potrà sembrare un po’ azzardato ma ci aiuta a capire che è necessario uno sforzo importante per creare un accordo tra i principali gruppi e milizie che, di fatto, controllano i giacimenti, soprattutto quelli della mezzaluna petrolifera che abbiamo visto essere la zona più contesa poiché produce la maggior parte del greggio libico. Se però i vari attori internazionali anziché far da pacieri continueranno a foraggiare i vari gruppi locali, considerati propaggini dei propri interessi nazionali, le lotte tra fazioni per la conquista dei pozzi continuerà, la produzione, di conseguenza, non riprenderà e la Libia avrà un motivo in più per restare nel caos. Non dimentichiamoci che c’è un organo, la Libyan national oil corporation (Noc), che durante gli anni di instabilità e guerra civile è riuscita a mantenersi al di sopra delle parti e a garantire la produzione di una certa quantità di petrolio, dividendone i profitti tra le principali parti in causa, anche quando le truppe della Libyan national army del generale

176 Unsmil, Libya Humanitarian Needs Overview 2015, settembre 2015. 177 A tale proposito c’è un interessante studio della Banca mondiale che suggerisce interessanti misure per far fronte alla dilagante disoccupazione del Paese, attraverso azioni capaci di che coinvolgere e valorizzare la classe giovanile. In particolare, si sottolinea la necessità di riassorbire nel mercato del lavoro libico i molti giovani combattenti, attraverso la creazioni di posti di lavoro. Si tratta, in primo luogo, di riformare il mercato libico assuefatto, proprio per la natura di rentier State, a un sistema totalmente assistenziale, fondato sull’importazione di manodopera, qualificata e non. La ricetta potrebbe essere quella di incentivare le partnership pubblico- private, puntando sulla riqualificazione dei giovani libici, mediante incentivi alla formazione specialistica e qualificata soprattutto in alcuni settori “nuovi” quali commercio, servizi, turismo e agroalimentare. A Tripoli, per esempio, già nel 2014, il Consiglio municipale e un’organizzazione non governativa hanno aperto un centro per l’impiego per i giovani e un forum di investimento creato per aiutare gli imprenditori che vogliono realizzare delle start up. World bank, Public-Private Partnerships for Jobs in Libya Are Key for Youth and Women, Now More Than Ever, 3 maggio 2016.

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Khalifa Haftar erano riuscite ad assicurarsi il controllo dei principali terminal della mezzaluna petrolifera. Tra le altre cose il presidente della Noc, Mustafa Sanalla, intrattiene ottimi rapporti con i vertici dell’Eni, grazie alla storica partnership tra la società italiana e compagnia nazionale libica. Un motivo in più per l’Italia per lavorare in tal senso. Perché per una volta che in Libia c’è un organo che funziona non proviamo a sostenerlo?

La Russia. Il nuovo paciere del Mediterraneo? Abbiamo fin qui accennato al fatto che Putin sia, al momento, l’alleato più importante per la Haftar, eppure alcuni eventi recenti potrebbero portarci a leggere il ruolo russo in Libia con una lente un po’ diversa. Il 2 marzo del 2017 Fayez al-Sarraj si è recato a Mosca a incontrare il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov. Non sappiamo con esattezza cosa si siano detti i due ma, a quanto pare, il clima era molto disteso e cordiale. Molti ora si chiederanno: ma Putin non sosteneva Haftar? Non più come prima, verrebbe da rispondere. Si badi bene, non si intende dire che Mosca abbia abbandonato il generale, ma soltanto che sembra voler assurgere al ruolo di attore indispensabile per tentare di dipanare la complessa questione libica, agganciando anche il governo di Tripoli. Un compito che il leader del Cremlino ha già tentato di svolgere in Siria, passando da “parte in causa”, specie dopo l’intervento diretto del 30 settembre 2015, a “stabilizzatore geopolitico”. Durante i negoziati di Astana per la mediazione di un accordo tra le varie fazioni del Paese, l’attivissimo Vladimir, non solo ha coordinato i lavori con Turchia e Iran, attori che neppure con un notevole sforzo di immaginazione avremmo immaginato alla stesso tavolo, ma ha anche presentato una bozza di costituzione per la Siria. Anche in Libia, con le dovute differenziazioni, Putin sembra voler passare da un coinvolgimento diretto a un ruolo diplomatico. Giova fare un passo indietro. Quando il 17 marzo del 2011 il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvava la risoluzione n. 1973 che consentiva di prendere “tutte le misure necessarie”, tranne l’occupazione militare, in difesa della popolazione civile libica contro Gheddafi, la Russia si astenne dal voto. In realtà era contraria ai bombardamenti e per questo venne esclusa nella partita per la spartizione del tesoretto libico che da lì a poco ebbe inizio. Passa qualche anno, tre per l’esattezza, e la Russia, sempre più impegnata in Siria, si accorge che tutti quegli attori internazionali che avevano spinto per l’azione militare in Libia (leggasi Francia) e quelli che l’avevano sostenuta più per pigrizia che per reale convinzione (leggasi Stati Uniti) avevano miseramente fallito. Ancora una volta la realpolitik dell’interesse nazionale aveva avuto la meglio sul ruolo delle organizzazioni internazionali che parlavano di concertazione e si illudevano di pace. Per Mosca era il momento di prendersi una rivincita e infilare un gol praticamente a porta vuota. Entra, così, a gamba tesa nel quadrante libico. Passando dall’est - e sfruttando la sponda del Cairo- inizia a sostenere Tobruk, vende armi ad Haftar e immette

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soldi nelle casse della Banca centrale di Beida. Il matrimonio di interessi sembrava fatto. Ma ora le cose paiono aver preso un’altra piega. I motivi sono molti. In primo luogo il Cremlino, ha tutto da guadagnare, in termini di immagine, patrocinando un ravvicinamento tra Sarraj e Haftar, per ristabilizzare un’area che l’occidente ha gettato nel caos intervenendo militarmente nel 2011. Trump, fedele alla dichiarata politica del “disimpegno Mediterraneo”, pare fin qui poco interessato alla Libia. Seppure l’attacco al base siriana del 7 aprile del 2017178 ha svelato che Washington non è disposta a rinunciare al suo ruolo di gendarme del mondo, per la Libia, al momento, possiamo ancora ipotizzare un certo “distacco” che permetterebbe a Putin di tentare di dirimere la spinosa questione. Il Cremlino coglierebbe volentieri questa occasione per dimostrare di poter riuscire là dove gli Stati Uniti di Obama hanno fallito. In secondo luogo il generale della Cirenaica, che si dice sia anche molto malato, si è dimostrato un alleato utile ma un “bizzoso”. Ha fatto fallire in men che non si dica i colloqui del Cairo del febbraio del 2017, rifiutandosi di incontrare il premier tripolino che si era presentato in Egitto con un “piano politico” utile per tentare un minimo accordo179. Questo potrebbe avere infastidito non poco Mosca. Resta ora da comprendere come Putin potrebbe sbrogliare il bandolo della matassa libica. Forse per capirlo dovremmo allargare lo sguardo ben al di là della Libia, per lo meno verso il confine egiziano, e iniziare a ragionare in termini energetici. Noteremo, allora, che nel dicembre del 2016 l’Eni ha concordato il passaggio al gigante petrolifero russo Rosneft di una quota del 30% della concessione di Shorouk, nell’offshore dell’Egitto, nella quale si trova il giacimento di Zohr180. Il fondo sovrano qatariota Qatar Investment Authority (Qia) ha acquisito, poco più di un mese dopo, il 19,5% del capitale di Rosneft - detenuto in quote simili anche dalla British petroleum - grazie al sostegno economico di Intesa san Paolo. Sempre la Rosneft il 21 febbraio del 2017 ha siglato un accordo di cooperazione con l’ente petrolifero libico Noc. Il quadro potrebbe sembrare confuso. Cerchiamo di fare chiarezza. Italia e Qatar, per

178 Gli Stati Uniti hanno lanciato 59 missili da crociera contro la base di Shayrat, in Siria, da dove sarebbero partiti i caccia che hanno sganciato armi chimiche sui civili nell’area di Idlib. È il primo attacco di Washington contro il regime, perpetrato in risposta all’uccisione di oltre 80 persone – tra cui molti bambini – di cui gli americani ritengono responsabile il regime di Bashar al-Assad. 179 I negoziati “informali” hanno avuto luogo al Cairo tra la fine di febbraio e i primi di marzo del 2017. L’obiettivo era quello di arrivare a un’intesa di mediazione per la nascita di un Consiglio presidenziale guidato da Fayez al- Sarraj, con due vicepresidenti e due ministri di Stato, affiancati dal ministro della difesa. Secondo quanto emerso, nelle intenzioni del premier tripolino, Khalifa Haftar sarebbe rimasto a capo dell’esercito, ma senza un incarico nel governo. Non ci sono notizie ufficiali su quanto accaduto ma sembrerebbe che Haftar abbia rifiutato le proposte e non abbia neppure voluto vedere il premier di Tripoli. 180 Nell’agosto del 2015, l’Eni ha effettuato una scoperta di gas di rilevanza mondiale nell'offshore egiziano del mar Mediterraneo, presso il prospetto esplorativo denominato Zohr. Il giacimento supergiant ha un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas e un’estensione di circa 100 chilometri quadrati. Zohr rappresenta la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel mar Mediterraneo.

121 motivazioni e con modalità diverse, sono vicine a Tripoli, l’Egitto ad Haftar. Tutti hanno più o meno puntato su Rosneft e hanno dunque interesse che le sue “manovre” abbiano successo. Putin, facendo perno sulla compagnia russa, diventa il deus ex machina che può muovere i fili della partita. Un ruolo utile anche per mediare un accordo tra gli attori regionali e internazionali che a vario titolo supportano le fazioni libiche. Nulla di nuovo, si tratta della cara vecchia diplomazia energetica che in Libia ha sempre ben funzionato. Enrico Mattei ce lo ha insegnato tempo fa.

L’Italia è dalla parte sbagliata? Se è vero che, come scriveva Pier Paolo Pasolini, «bisogna essere molto forti per amare la solitudine», guardando la nostra posizione in Libia dovremmo pensare quantomeno di aver fatto un bel training. Al momento siamo i soli a sostenere il Governo di accordo nazionale. La nostra ambasciata a Tripoli è stata riaperta, tra mille polemiche e lì, vicino al lungomare della capitale dilaniata da continui scontri, pare quasi una cattedrale nel deserto. Eppure ci siamo. Il ministro Minniti si è dato un gran da fare per dare vita a una politica di risposta alla crisi migratoria che, finalmente qualcuno lo ha capito, ci interessa da vicino e per cui dobbiamo rimboccarci le maniche e fare da soli, al massimo elemosinando qualche obolo alle riluttanti istituzioni europee. Sia chiaro, non si intende dire che la strategia italiana sia ineccepibile, anzi, presenta una serie di criticità – di cui abbiamo ampiamente discusso nel capitolo 6 di questo libro - che rischiano di minarne fin da ora le fondamenta. Tuttavia, qualcosa andava fatto, seppure con un “pelino di ritardo”. Dalle coste tripoline parte il 90% dei migranti che arrivano in Italia. Il nostro Paese è il maggior importatore di petrolio e l’unico destinatario del gas libico attraverso il Greenstream. Il terminal Eni di Mellitah è a tutt’oggi uno dei pochi ancora funzionanti e sono italiane molte delle attività estrattive offshore realizzate a largo delle coste tripoline. Cos’altro potevamo fare? Forse qualcosa in più. Cerchiamo di capire come. Si è visto nel paragrafo precedente che Mosca, storico alleato di Haftar, sembra disposta ad assurgere al ruolo di mediatore nella crisi libica agganciando anche Tripoli. La visita di Sarraj in Russia fa presupporre che il Cremlino stia cercando di dialogare direttamente con il governo unitario, saltando inutili intermediari che, in quanto tali, potrebbero chiedere delle laute provvigioni. Nulla di cui stupirci: è lo “stile di Putin”. Per non restare esclusi dalla partita dobbiamo valorizzare il nostro ruolo nel Paese. L’Italia sta coerentemente lavorando con gli attori tripolini da tanto tempo, grazie alla recente attività politica del governo ma anche - e soprattutto - alla diplomazia energetica dell’Eni che è stata capace di schivare l’interventismo delle fameliche compagnie internazionali nel

122 post-Gheddafi e ricominciare da capo, dialogando con i vari gruppi di potere presenti nel territorio. Inoltre, con la nostra ambasciata rappresentiamo l’unico punto di contatto occidentale a Tripoli e siamo “in confidenza” con i misuratini, uno dei più importanti e numerosi gruppi (armati) del Paese che stiamo supportando con la missione Ippocrate. Ce n’è abbastanza per bussare alla porta del Cremlino, porci come interlocutori indispensabili per dialogare con Tripoli e tentare di mediare una soluzione politica per la Libia, faccia a faccia, alla pari. Qualcuno potrebbe eccepire che fin qui non si è mai parlato di Europa. Chi scrive avrebbe gradito farlo ma purtroppo, al momento, non se ne ravvisano i presupposti. Le politiche estere degli attori europei, in Libia come nel resto del mondo, procedono in ordine sparso, senza una chiara visione comune, se non sulla carta. Fino a questo momento il minimo comun denominatore è stato il ruolo di “traino degli Stati Uniti”. Questi ultimi, peraltro, non hanno disdegnato di aumentare la paghetta alla “figlioccia” in cambio di obbedienza. Ora con la presidenza di Donald Trump e con le richieste americane di maggiore impegno, l’Europa dovrebbe crescere e “andare a vivere da sola” ma, al momento, non sembra avere la benchè minima intenzione di prendersi questa responsabilità. In un tale contesto la Russia ha la possibilità di ritagliarsi il ruolo di attore egemonico. Una qualche collaborazione con Putin, stando così le cose, non potrà avvenire a livello europeo. L’Italia ha una sola chance: sfruttare il suo capitale di fiducia con alcuni attori tripolini per mediare un accordo intra-libico con Mosca. D’altra parte il Cane a sei zampe fa affari con la sua omologa russa Rosneft che, tanto quanto l’Eni, va d’amore e d’accordo con la Noc, la compagnia petrolifera nazionale libica. Il discorso potrebbe iniziare da qui. C’è solo un dubbio. La storia recente - e soprattutto l’intervento internazionale in Libia del 2011 - ci ha dimostrato che l’Italia ha gran talento nella diplomazia ma spesso non riesce a finalizzare il lavoro svolto, regalando la partita ai competitors europei. Detta in altri termini siamo bravissimi a schivare gli avversari fino alla metà campo ma poi non riusciamo a tirare in porta e a segnare un gol della vittoria. Non resta che sperare che le vicende politiche siano diverse da quelle calcistiche e, dunque, di non perdere ai rigori con Francia e Germania.

Che ne sarà della Libia? Eccoci, infine, alla domanda più difficile quella che, a esser sinceri, ha ispirato la scrittura di questo libro. C’è una grossa responsabilità nel tentare di proporre una qualche risposta, anche se non s’intende fornire una verità assoluta, ma solo una delle tante ipotesi che potrebbe essere smentita dagli eventi che si succedono nel Paese con una rapidità spesso sconosciuta alla storia.

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Tuttavia, una domanda complessa richiede una risposta altrettanto articolata e per questo è necessario un ultimo sforzo per allargare lo sguardo al di là dei confini libici e fare, di nuovo, un piccolo passo indietro. Durante le primavere arabe, che hanno spazzato via regimi che credevamo inamovibili, molti hanno affermato che il mondo non sarebbe più stato lo stesso. La profezia si è in parte avverata. In cinque anni il Mediterraneo è cambiato, ma non come ci si immaginava. Quando il 16 febbraio del 2011 divampavano le proteste a Bengasi, Ben Alì era già fuggito dalla Tunisia e Mubarak si era già dimesso. In quel momento sembrava che il vento delle rivolte avrebbe travolto il vecchio mondo dei rais, per una nuova nahda, capace di porre fine a decenni di «infelicità araba»181. Lo stesso errore era già stato fatto dagli Stati Uniti quando attaccarono Saddam Hussein nel 2003. Solo dopo la sua morte si accorsero che il dittatore aveva faticosamente mascherato la natura dell’Iraq: un precario collage di gruppi etnici e religiosi, «assemblati da Churchill alla conferenza del Cairo nel 1920 per assicurare carburante alla flotta britannica»182. Come ricorda amaramente Alberto Negri: «Nel 2011 si guardava molto alle piazze arabe e assai meno alla geopolitica […] Dai cambiamenti di quella primavera sono sopravvissute, come realtà statuali, soltanto Tunisia ed Egitto. Al Cairo, però, nel 2013 c’è stato il golpe del generale al-Sisi, i cui effetti stanno ancora influendo sulla collocazione del Paese sulla scena internazionale»183. In altri Stati, come la Siria e la Libia, quei mutamenti hanno sortito tutt’altro effetto. Qui stiamo assistendo non solo alla dissoluzione dei confini artificiali, creati dalle potenze coloniali a cavallo della prima guerra mondiale, ma anche a quella dei popoli intesa come volontà di vivere insieme e condividere una comunità politica e sociale. La caduta dei dittatori, da Saddam Hussein a “quelli delle primavere arabe”, ha sancito il tramonto dell’era post-coloniale e dello Stato-Nazione che conteneva con metodi autocratici i tribalismi e i settarismi. La mancanza di identità nazionali radicate e la persistenza al potere di leadership tollerate da una parte della popolazione con forzata quiescenza, hanno portato alla decomposizione delle identità all’interno dei confini statali e alla loro ricomposizione

181 Per capire il senso più profondo di questo termine, si rinvia, di nuovo a: S. Kassir, L’infelicità araba, cit. Ci si limiterà qui a citare solo una frase del testo utile a far luce su quanto intende dire l’autore: «L’impotenza, innegabilmente, è oggi la cifra dell’infelicità araba. Impotenza a essere ciò che si ritiene di dover essere. Impotenza ad agire per affermare la propria volontà di esistere, se non altro come possibilità, di fronte all’altro che ti nega, ti disprezza e, adesso, nuovamente ti domina. Impotenza a reprimere la sensazione di essere ormai un’entità trascurabile sullo scacchiere planetario quando è in casa tua che si gioca la partita; un sentimento, per la verità, irreprimibile da quando la guerra in Iraq ha riportato l’occupazione straniera in terra araba. E, come contraccolpo, ha trasformato l’epoca delle indipendenze in una parentesi» 182 S. Romano, Con gli occhi dell’islam, Longanesi, Milano, 2007, p. 63. 183 A. Negri, Siria. L’ipotesi di una spartizione, in «Il Sole 24 ore», 9 dicembre 2016.

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sulle linee pre-esistenti alla creazione degli Stati (tribù, regioni, clan, etnie etc.) dando vita a una ristrutturazione sociale basata su poteri a forte base localistica. Non ci si illuda, dunque, che in Siria la fine della guerra, con o senza Bashar al-Assad, ricomporrà il Paese, così come lo abbiamo fin qui conosciuto, e non ci si illuda neppure che in Libia la recente sconfitta dello Stato islamico a Sirte potrà essere il preludio per la ricostruzione dell’unità. «Ci sarà comunque una ex Siria come c’è già una ex Libia. Ed è probabile che dopo un’eventuale vittoria sull’Isis, anche in Iraq verrà il momento di stabilire una sorta di spartizione che qui significa, come in Libia, anche quella di ingenti risorse petrolifere»184. La Jamahiriya difficilmente potrà risorgere come uno Stato unitario. Continuerà la presenza delle tribù e delle milizie che oggi sono il principale elemento identificativo della popolazione e continueranno le tendenze centrifughe, impegnate a creare entità autonome e settarie, basate su rivendicazioni territoriali o di risorse. I popoli hanno deciso di spogliarsi di pezzi di storia comune nel tentativo di recuperarne un’altra solo apparentemente archiviata. Questa storia in Libia è quella delle regioni e delle tribù, a cui oggi si assommano una serie di nuovi attori: milizie e città-Stato riorganizzate su base locale. Le potenze occidentali non possono considerarsi incolpevoli. Gheddafi aveva sfruttato la memoria coloniale per cercare di consolidare uno spirito nazionalistico al posto delle vecchie tendenze tribali e regionali, ma queste sono state poi sfruttate dalla Francia di Sarkozy e da altri attori regionali e internazionali per favorire la rivolta della Cirenaica contro Gheddafi e il potere centrale di Tripoli. Seppure la frammentazione persisteva nella realtà libica - e probabilmente sarebbe riesplosa dopo la fine del colonnello - gli attori internazionali, interessati a una nuova spartizione della fetta petrolifera, hanno accelerato il percorso. In questo contesto, supportare la Libia in un reale processo di ripresa, oltre alla risoluzione dei problemi economici e di legalità presenti nel Paese, vorrà dire, in primo luogo, evitare di calare dall’alto nuovi confini artificiali destinati a riesplodere. Ce lo ha dimostrato il lodevole ma ingenuo tentativo di dare vita a un governo unitario da parte dell’Onu. Nel comunicato congiunto, pubblicato dopo la riunione ministeriale per la Libia del 13 dicembre del 2015, le potenze internazionali dichiaravano «il pieno appoggio al popolo libico per il mantenimento dell’unità della Libia e delle sue istituzioni che operano per il bene del Paese»185. Eppure il Consiglio presidenziale di Fayez al-Sarraj, che si è insediato a Tripoli da più di un anno e mezzo, non controlla neppure la capitale ed è sotto il giogo delle molte fazioni locali. In Cirenaica, invece, la Camera dei rappresentanti di Tobruk del generale

184 Ibidem. 185 Riunione Ministeriale per la Libia - Comunicato congiunto.

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Haftar è più di un semplice governo parallelo e guarda con interesse ben al di là del Golfo della Sirte. Davanti a un tale scenario l’unica cosa da fare, oltre a prendere atto della realtà, è tentare di coinvolgere le istanze locali in un dialogo quanto più inclusivo possibile, tarato non sull’obiettivo dell’unità ma su quello della gestione delle risorse. Tutto ciò, però, senza illuderci che questo potrà condurre alla ri-creazione di uno Stato unitario, se non nella finzione di qualche carta geografica. Forse sarebbe utile tenere a mente le parole del poeta libanese Kahlil Gibran che ne «Il giardino del Profeta» scriveva amaramente: «Pietà per la Nazione divisa in frammenti ognuno dei quali si considera una Nazione». Ma la storia della Libia, assieme a quella di questo dilaniato Mediterraneo, sembra voler procedere in direzione ostinata e contraria.

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