Le opere e i giorni. Lavoro, produzione e commercio tra passato e presente … lavora, Perse, stirpe divina, perché Fame ti odî e t'ami l'augusta Demetra dalla bella corona, e di ciò che occorre per vivere t'empia il granaio (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 299-301, trad. it. Ettore Romagnoli.) Soprintendenza BB.CC.AA. Agrigento

Le opere e i giorni Lavoro, produzione e commercio tra passato e presente a cura di Valentina Caminneci

Atti e Contributi del Corso di Formazione per Docenti Progetto Scuola Museo 2012-2013

Regione Siciliana Assesssorato Beni Culturali e Identità Siciliana Dipartimento Beni Culturali e Identità Siciliana

3 Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Agrigento. Via U. La Malfa, 5, Agrigento. [email protected]. R.P. Salvatore Donato. Progetto Valentina Caminneci. URP Adriana [email protected] tel.0922-552516 fax 0922401587

Progetto Scuola Museo Es. Fin. 2012 Cap.376525. Coordinamento Assessorato BB.CC. e I.S. Dipartimento BB.CC. e I.S. Servizio Valorizzazione. U.O. 24.

Copyright Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento 2014 E’ fatto divieto di riproduzione e utilizzazione senza autorizzazione della Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento. Copia omaggio. Vietata la vendita

In copertina, Ade e Persefone in trono, pinax in te rracotta da Locri Epizefiri, inizi V sec. a.C. Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria (da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Locri_Pinax_Of_Persephone_And_Hades.jpg).

Sul frontespizio, Telemaco Signorini, L’alzaia, 1864 (da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Signorini,_Telemaco_-_L'alzaia_-_1864.jpg).

Le opere e i giorni: lavoro, produzione e commercio tra passato e presente : atti e contributi del corso di formazione per docenti / a cura di Valentina Caminneci. Palermo : Regione siciliana, Assessorato dei beni culturali e dell‘identità siciliana, Dipartimento dei beni culturali e dell‘identità siciliana, 2014. - e-book ISBN 978-88-6164-225-6 1. Lavoro – Storia. I. Caminneci, Valentina. 331.0945822 CDD-22 SBN Pal0260796

CIP – Biblioteca centrale della Regione siciliana ―Alberto Bombace‖ Indice

Presentazione

Assunta Lupo, Assessorato Beni Culturali ed Identità Siciliana, Servizio Valorizzazione

Caterina Greco, Soprintendente per i Beni Culturali e Ambientali di Agrigento

Introduzione I colori della terra Valentina Caminneci, Soprintendenza BB.CC.AA. Agrigento 1

Scienza e tecnica prima della storia

Cultura materiale, modi di produzione e organizzazione sociale della più antica metallurgia nella Sicilia preistorica Enrico Giannitrapani, Coop. Arkeos, Enna 9

Il lavoro e le risorse del territorio: zolfo, sale e metalli nel territorio agrigentino nella preistoria Domenica Gullì, Soprintendenza BB.CC.AA. Agrigento 37

La dimensione metaforica del lavoro

Le opere di Atena: identità femminile e philergia nella Sicilia greca Elisa Chiara Portale, Università di Palermo 63 Il mito di Trittolemo in Sicilia: immagini e contesti Monica De Cesare, Università di Palermo 105 Il ruolo della religione nelle complesse dinamiche del commercio antico: alcune note sulle Gorgoni di Himera Chiara Terranova, Università di Messina 129

Archeologia della produzione del commercio nell’antica Agrigento

Alla foce dell'Akragas. Storia e archeologia dell'antico Emporion di Agrigento Valentina Caminneci 151 Gli ergasteria di Akragas: nuove piste di ricerca Maria Concetta Parello, Parco Archeologico e Paesaggistico Valle dei Templi 181 Produzioni agricole ed officine ceramiche ad Agrigentum in età tardoromana Maria Serena Rizzo, Parco Archeologico e Paesaggistico Valle dei Templi 203 Produzione e commercio dello zolfo ad Agrigentum e nel suo territorio Luca Zambito, Dottore di Ricerca Università di Messina 227

Artigianato, commercio e impresa tra Medioevo ed Età Moderna L‟operosità umana dalla terra al mare: il caricatore di Sciacca tra XIV e XV secolo Maria Antonietta Russo, Università di Palermo 249

Lavoratori agrigentini a Palermo nel Quattrocento Patrizia Sardina, Università di Palermo 283

Sulle tracce degli antichi vasai nisseni. Le produzioni ceramiche di Caltanissetta. Salvina Fiorilla, Soprintendenza BB.CC.AA. di Ragusa 311

La tipografia ad Agrigento nei secoli XIX e XX dai documenti rinvenuti presso l‟Archivio della Camera di Commercio Paola Giarratana, Maria Carmelina Mecca, Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento 331

Percorsi didattici: la parola al passato Valentina Caminneci 355 Aërii mellis caelestia dona (Verg. georg. IV,1) Lavoro e paesaggio nella pittura italiana dell‟Ottocento

Conclusioni

Per una valorizzazione dei paesaggi storici della produzione: l‟istituzione degli ecomusei in Sicilia Valentina Caminneci 373

Appendice. La Scuola e la memoria

Un Museo nella Scuola. Il Museo della Civiltà Contadina di Montallegro Domenico Tuttolomondo, Rosanna Fileccia, Caterina Orlando, Istituto Comprensivo Ezio Contino di Cattolica Eraclea e Montallegro 393 L'encomiabile costanza con la quale la Soprintendenza di Agrigento prosegue l'attività di educazione al patrimonio è testimoniata dagli atti dei seminari sul tema “Le opere e i giorni”, tenuti duranti l'anno scolastico 2012/ 2013, ora offerti in forma di e-book alla pubblica lettura. La scelta dell'argomento fa seguito, con rigore logico, ai percorsi : “A scuola di antico”, “I luoghi della tutela”, “ Parce sepulto”, sviluppati nel corso degli ultimi anni. L'assidua attività didattica ha consentito e permette tuttora ad un gran numero di insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado del territorio agrigentino, di ampliare la conoscenza del proprio patrimonio culturale e di educare, di conseguenza, gli alunni alla consapevolezza del valore di tali beni. La risposta positiva del mondo della scuola, verificabile dal numero elevato di docenti che hanno preso parte all‟iniziativa, dall‟incremento delle visite ai luoghi e dalla richiesta di partecipazione ad attività di laboratorio, è un incoraggiamento a proseguire nella proposta ormai conosciuta, a livello regionale come “Progetto Scuola Museo”, che ha, fra le proprie finalità, quella di considerare l'educazione ai Beni culturali come uno degli elementi centrali del curriculum scolastico. A tale riguardo va detto che i materiali con proposito prevalentemente educativo prodotti dai Musei, Soprintendenze, Parchi della Regione Siciliana colmano il vuoto dei libri di testo in uso, in quanto approfondiscono aspetti della storia e della cultura siciliana, sia materiale che immateriale, non altrimenti agevolmente reperibili e consultabili. Non c'è dubbio che lo sforzo compiuto dall'Amministrazione nel proporre i percorsi didattici soprattutto ai docenti, mediatori dell'offerta formativa, è stato ed è veramente notevole ed importante. Lo è ancora di più se si considera che ciò è avvenuto ed avviene in un momento in cui nel mondo della scuola sono notevoli le polemiche per la riduzione delle ore di insegnamento di storia dell‟arte e delle materie artistiche e di conseguenza alle manifestazioni connesse, trasversalmente, all‟educazione al patrimonio. L'autonomia scolastica, infatti, accolta come un vantaggio, fra l'altro, per l'autodeterminazione del POF dei singoli Istituti, prevede che una quota del curricolo, riservata alle Regioni, sia relativa agli aspetti di interesse specifico delle stesse, anche collegate alle realtà locali. Il Dipartimento Beni culturali, già “Beni culturali ed ambientali ed educazione permanente”, ora “dei beni culturali e dell'identità siciliana”, cosciente del fatto che è la conoscenza del patrimonio culturale a determinare la maggiore incidenza nella quota parte del curricolo, ha offerto i mezzi per consentirne lo studio e l'approfondimento e si è sempre adoperato affinché le iniziative proposte alle scuole o dalle stesse realizzate facciano parte integrante del Piano di offerta formativa e non vengano quindi considerate come momenti episodici del percorso educativo. In pratica si è verificato che, senza alcuna codifica legislativa, come è invece successo con la l.r. n.9 del 2011, “Promozione, valorizzazione e insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano nelle scuole”, l'educazione al patrimonio, nella sua trasversalità di discipline, sia già assunta all'interno del progetto curricolare locale di tantissimi istituti siciliani. Pertanto la sua completa integrazione all'interno del sistema formativo globale è più che mai indispensabile. Ciò può essere realizzato con strategie operative assidue e mirate continuando a favorire l'incontro fra le due realtà, Scuola, Università, Istituti dei beni culturali con gli strumenti propri di ciascuna. Se, quindi i luoghi della cultura, malgrado la crisi attuale ne determini difficoltà di gestione, debbono svolgere la propria essenziale funzione educativa, che si affianca alla tutela, conservazione e valorizzazione, il mondo della scuola deve evitare la deriva verso il“radicale analfabetismo artistico”, provocato dalle scelte sconsiderate operate sui programmi ministeriali. Diventa pertanto paradigmatica l‟opera della Soprintendenza di Agrigento che è riuscita a fornire, per mezzo della propria sezione educativa, qualificati strumenti di conoscenza tenendo conto della contestualizzazione storico ambientale dei beni e che ha saputo, in tal modo mettere in luce uno dei propri compiti fondamentali , quello che Tomaso Montanari definisce : “Il nesso intimo fra patrimonio culturale e ricerca, rinnovamento della conoscenza, capacità di diffondere il sapere”. Che tali strumenti siano disponibili a tutti sul web e permettano tante chiavi di lettura e suggeriscano ulteriori ambiti di approfondimento ne aumenta chiaramente il valore intrinseco. Il dibattito fra la scelta del libro a stampa e l‟e-book, con una scelta in atto a favore di quest'ultimo da parte del mondo della scuola, non deve infatti essere condotta in termini di antagonismo, quanto piuttosto di qualità dei contenuti, della possibilità di fare ricerca partendo dalle fonti, della condivisione dei dati. Quello che importa, insomma, è la circolazione dei saperi. “Come s'inganna il pensiero degli uomini che passano senza sapere...” già scriveva Pindaro, il cantore di Akragas, la più bella città dei mortali. Assunta Lupo Dirigente UO24 Dipartimento Beni Culturali e Identità Siciliana. Ancora una volta, l‟attività didattica svolta per l‟anno 2012-2013 dalla Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento grazie all‟iniziativa e all‟operoso impegno scientifico profusi da Valentina Caminneci coglie un risultato prezioso e significativo, in questo caso di portata assai vasta ed incisiva. Frutto di un lavoro corale svolto sotto un coordinamento tanto attento quanto discreto, il corposo volume che costituisce l‟esito di una lunga e intensa esperienza didattica restituisce infatti, nello snodarsi dei suoi numerosi e pregevoli saggi, un‟idea aggiornata e completa del ruolo che oggi può svolgere l‟archeologia nella ricostruzione dei processi storici dell‟antichità e del mondo medievale e moderno, anch‟esso ormai accreditato campo di indagine e di ricerca. C‟è voluto infatti un lungo percorso –più di un secolo e mezzo, dalla fine del „700 alla metà degli anni „50 del novecento- perché l‟archeologia guadagnasse la sua attuale dimensione a tutto tondo di “scienza storica”, liberandosi di ogni approssimazione polverosa e di ogni tentazione antiquaria, e in questa rinnovata prospettiva ermeneutica -fondata con metodo autonomo ed autonoma consapevolezza sul recupero e l‟interpretazione del dato materiale- l‟analisi dei meccanismi della produzione costituisce la trama concreta nella quale possono ricomprendersi vari aspetti della nostra conoscenza del mondo antico, anche quelli più compiutamente ideologici da cui derivano l‟invenzione e il linguaggio delle “immagini”, attraverso le quali società ormai molto lontane da noi ci parlano ancora oggi, simbolicamente, delle credenze e delle aspettative di cui era intessuta la loro vicenda terrena. Di questa realtà complessa e articolata gli studiosi che hanno collaborato alla realizzazione del corso offrono in questo testo un contributo prezioso e innovativo, che dalle dinamiche del lavoro e della produzione nel territorio agrigentino si apre a delineare scenari diacronici che coinvolgono la Sicilia tutta e il Mediterraneo, in quel continuo movimento di uomini e di idee che segna il continuum della storia isolana. E‟ per questa ragione che il volume curato da Valentina Caminneci, che presentiamo con soddisfazione e legittimo compiacimento, rappresenta uno valido compendio e una sintesi storiografica utile agli appassionati e ai cultori della materia non meno che agli studiosi specialisti, ed il quadro delle informazioni fornite è tanto variegato, aggiornato, approfondito da restituire una visione globale e plurale del “lavoro” che segna il ritmo della storia umana: Le opere e i giorni del titolo, appunto. Nella prospettiva di ricerca prescelta il rapporto con il territorio, in cui morfologia fisica dei luoghi e risorse locali dettano le modalità e i tempi nelle scelte insediamentali e demografiche, costituisce ovviamente una chiave di lettura obbligata. Ed è importante avere seguito passo passo, nel libro, l‟evolversi delle dinamiche della presenza e del lavoro umano, dalle prime testimonianze preistoriche sino quasi ai nostri giorni, con un‟attenzione mirata a quel paesaggio storico –di volta in volta sempre uguale a se stesso e sempre diverso- entro cui si collocano l‟esperienza e la vita delle comunità. Un tema oggi di grande attualità, poiché la riappropriazione, dal basso, delle peculiarità identitarie dei territori spinge a nuove forme di valorizzazione partecipata, estesa a interi ambiti macrotopografici e gestita in proprio dalle stesse comunità locali, che si fanno protagoniste di processi di interazione dialettica e di sviluppo economico e sociale. E‟ perciò significativo osservare come proprio questa tematica degli “ecomusei”, analizzata ancora nel volume sotto profili squisitamente teorici di approccio culturale e di confronto con le altre più avanzate realtà europee, si sia tradotta oggi, all‟uscita del libro, nell‟entrata in vigore della Legge Regionale n. 16 del 2 luglio 2014, istitutiva anche in Sicilia del “sistema degli ecomusei”: un ulteriore passo verso quell‟idea di patrimonio culturale diffuso che ha nel paesaggio storicizzato il suo naturale “perimetro”, palinsesto pluristratificato e visibile delle tracce e dei segni materiali accumulatisi nel tempo ad opera degli uomini. Caterina Greco Soprintendente per i beni culturali ed ambientali di Agrigento

Introduzione Roma. Ara Pacis Augustae, la Tellus, 9 a.C. (da MANSUELLI 1981)

Da tempo ti devo parole d'amore: o sono forse quelle che ogni giorno sfuggono rapide appena percosse e la memoria le teme, che muta i segni inevitabili in dialogo nemico a picco con l'anima. Forse il tonfo nella mente non fa udire le mie parole d'amore o la paura dell'eco arbitraria che sfoca l'immagine più debole d'un suono affettuoso: o toccano l'invisibile ironia, la sua natura di scure o la mia vita già accerchiata, amore. O forse è il colore che le abbaglia se urtano con la luce del tempo che verrà a te quando il mio non potrà più chiamare amore oscuro amore già piangendo la bellezza, la rottura impetuosa con la terra impareggiabile, amore. (Salvatore Quasimodo, La terra impareggiabile, da La terra impareggiabile, 1958). I colori della terra

VALENTINA CAMINNECI

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi, che pare dimenticato, tra il vapor leggero. (G. Pascoli, Lavandare, vv. 1-3, da Myricae, 1891-1911)

Se si dovesse scegliere un colore per indicare il lavoro dell‘uomo, non potrebbe non essere quello della terra. Grassa e fertile, secca e riarsa, la terra conserva, in una variegata scala cromatica, le tracce dell‘opera umana. Sotto le sembianze di una divinità madre accompagna questa lunga storia di fatica e di progresso: nutrice in vita, sepolcro in morte. Nella Teogonia di Esiodo Gaia è la prima entità ad emergere dopo il Chaos, ―Gaia dall‘ampio seno, sede perenne e sicura degli immortali che abitano la cima nevosa del‘Olimpo‖ (Hes. Theog. 116-118), da cui nascerà Urano, il Cielo stellato. E‘ alla terra che l‘archeologo rivolge le sue domande, studiandone colore e consistenza, segnali delle azioni prodotte dall‘uomo ed impresse nella memoria del suolo. Sfogliare le pagine di questa storia, per riprendere la felice metafora di Carandini, è esperienza unica e irripetibile. La memoria del lavoro accomuna popoli e culture diverse in un unico sistema valoriale di riferimento, che oggi si riflette, grazie alla nuova sensibilità di approccio ai beni culturali, in una concezione di patrimonio culturale esteso, nihil humani a se alienum, e in una prospettiva integrale e diacronica.

3 Territorio e paesaggio storico narrano saperi locali e consuetudini condivise, punto di osservazione privilegiato per le dinamiche produttive e culturali in senso lato e di grande interesse anche ai fini delle applicazioni nella didattica. Da qui nasce l‘idea di questo libro destinato ai docenti dedicato al lavoro dell‘uomo, nello spirito di quell‘opera di Esiodo di cui ripete il titolo: il tempo dell‘uomo, le opere e i giorni, si sovrascrive sul tempo della storia. La prima sezione del volume illustra lo sfruttamento delle materie prime e le prime tecnologie durante il periodo preistorico in Sicilia: l‘homo faber sperimenta le potenzialità del paesaggio naturale, che impara a piegare alle sue esigenze. Lo splendido mosaico della Demetra di Gregoretti, insegna di un panificio storico della Palermo della Belle Époque, introduce la parte dedicata alla dimensione metaforica del lavoro: forme e valori del pensiero antico si celano dietro l‘iconografia dei miti di Atena, di Trittolemo e delle Gorgoni. Un‘ampia sezione del volume è dedicata alle testimonianze sulla storia di Agrigento, a partire dall‘Emporion, attivo dal momento della fondazione della colonia greca fino al periodo bizantino, meta per secoli dei traffici transmarini e conferma della centralità mediterranea dell‘antica città. Nuove e stimolanti piste di ricerca apre l‘indagine rivolta all‘individuazione degli ergasteria di Akragas, i luoghi, cioè, della produzione della coroplastica, che rivestirono certamente un ruolo chiave nella formazione di una cultura figurativa originale della polis. Quanto al periodo romano e tardo antico, la lettura delle testimonianze archeologiche consente di ricostruire alcuni aspetti delle dinamiche socioeconomiche che interessarono Agrigentum

4 Ara di Pergamo, Gigantomachia, Gaia emerge a difendere i suoi figli, inizi II sec. a.C. Pergamonmuseum, Berlino (daMARTIN1984).

5 Agrigentum, dall‘estrazione e commercio dello zolfo, documentata dalle tegulae sulphuris, alla produzione di vino, cui può essere riferita una classe di anforette, realizzate localmente. Il volume dedica l‘ultima sezione ad attività produttive e commerciali presenti in Sicilia tra Medio Evo ed età moderna. Dalle fonti di archivio riemergono le realtà imprenditoriali di Sciacca e di Agrigento nel basso Medio Evo, l‘esperienza artigianale dei vasai nisseni e la storia inedita delle tipografie agrigentine nel XIX secolo. Infine, vengono suggeriti due percorsi didattici, con proposte di lavoro per la classe, sull‘apicoltura e su lavoro e paesaggio nella pittura italiana dell‘800. Le conclusioni auspicano l‘istituzione di ecomusei in Sicilia, realtà importante, già presente in molte regioni italiane, per la valorizzazione e la salvaguardia dei paesaggi storici della produzione. Dedichiamo, poi, un‘appendice al Museo della Civiltà contadina di Montallegro, eccezionale esempio di raccolta etnoantropologica dell‘agrigentino, che ha il pregio, che lo rende un unicum, di essere stato concepito in seno ad una scuola, l‘Istituto Comprensivo del paese, e che, per questo, rappresenta, al contempo, una preziosa e stimolante risorsa educativa ed il presidio della memoria nel territorio.

6 Scienza e tecnologia prima della storia Il fiume Platani con il sale affiorante (foto Domenica Gullì)

Si dice che i più antichi (abitatori della Sicilia) siano stati i Ciclopi e i Lestrigoni che abitarono una parte dell’isola, io non potrei dire di che razza fossero, ci si deve accontentare di quello che scrivono i poeti e di quello che si sa di quei popoli (Tucidide, La guerra del Peloponneso, VI,2). Cultura materiale, modi di produzione e organizzazione sociale della più antica metallurgia nella Sicilia preistorica

ENRICO GIANNITRAPANI

La 'rivoluzione metallurgica' nel Mediterraneo e in Italia L'invenzione della metallurgia e l'inizio della produzione di oggetti in metallo rappresenta, senza dubbio, uno dei passaggi fondamentali dell'ingegno umano, contribuendo in maniera decisiva alla nascita e allo sviluppo delle più antiche civiltà. Gordon V. Childe ha definito tale avanzamento tecnologico come una vera e propria 'rivoluzione' (CHILDE 1957), al pari di quella più antica del Neolitico, con l'avvio della produzione agricola e dell'allevamento degli animali, e della successiva 'rivoluzione urbana' e la nascita delle prime città. Tutte queste tappe dell'evoluzione delle società umane avrebbero avuto origine nel Vicino Oriente, la cosiddetta Mezzaluna Fertile, per diffondersi poi, con tempi e modi differenti, sia nel Mediterraneo e in Europa che in tutta l'Asia. Oggi, dopo oltre 60 anni di approfondite indagini e ricerche archeologiche, il concetto di 'rivoluzione' è stato ampiamente rivisto, per cui l'inizio dell'agricoltura, della produzione metallurgica e la comparsa delle città non sono più considerati come fenomeni che compaiono sulla scena dell'evoluzione umana improvvisamente, ma sono preceduti da lunghi periodi, spesso della durata di alcuni millenni, in cui le varie innovazioni tecnologiche e culturali vengono sperimentate, acquisite e arricchite attraverso il lavoro quotidiano delle diverse comunità umane. Lametallurgia, intesa come l'insieme di tecniche attraverso cui diversi tipi di minerali, a partire dal rame,

9 vengono trasformati e utilizzati per la produzione di oggetti in metallo, ha inizio a partire almeno dal VI millennio a.C., anche se strumenti litici prodotti secondo tipologie tipicamente neolitiche, utilizzando però come materia prima il rame nativo, molto più malleabile e di più facile lavorazione rispetto le pietre dure comunemente utilizzate, quali la selce e l'ossidiana, sono noti in Mesopotamia ed in Anatolia a partire dal IX-VIII millennio a.C. Le più recenti indagini archeometriche e radiometriche indicano chiaramente come già a partire dal VI-V millennio a.C. la metallurgia si diffonde ampiamente dal Vicino Oriente nell'Egeo (cultura di Rachmani) e nei Balcani (culture di Karanovo e Vinca) (fig. 1), una delle aree più ricche di materie prime metallifere dell'Europa, insieme con le pianure centrali della Germania e la penisola Iberica, per arrivare quindi in Italia e nel Mediterraneo centrale nel corso del V millennio a.C., in corrispondenza dei momenti finali del Neolitico peninsulare, rappresentato

dalla cultura di Chassey-Lagozza (DOLFINI 2013). Come nel Vicino Oriente, anche in Italia i primi oggetti metallici sono rappresentati da diversi oggetti di foggia chiaramente neolitica, prodotti tuttavia in rame non fuso, ma martellato e lisciato, come nel caso di una serie di asce

(fig. 2) provenienti dall'Italia centrale e settentrionale (DOLFINI 2014, 476). Tuttavia, il rinvenimento di alcuni frammenti di crogiolo nel sito tardo-neolitico di Botteghino, in Emilia

Romagna (MAZZIERI, DAL SANTO 2007), e nei livelli con ceramiche della facies di Spatarella

dell‘Acropoli di Lipari (BERNABÒ BREA 1988, 471), consentono oggi di datare l'inizio della produzione metallurgica in Italia già alla fine del V millennio a.C., per poi svilupparsi diffusamente in tutta la penisola e in Sardegna durante le varie fasi dell'età del rame, rappresentate dalle facies di Remedello (Italia settentrionale), Rinaldone (Italia centrale),

Gaudo e Laterza (Italia meridionale), Ozieri e Monte Claro (Sardegna) (COCCHI GENICK 1996),

10 1. La diffusione della metallurgia nel Mediterraneo e in Europa (da DOLFINI 2013).

11 mentre in Sicilia, come vedremo più avanti, tale produzione avrà inizio solo nel corso del III millennio a.C.

Modi di produzione della metallurgia del rame L'archeologia è per sua natura una disciplina che pone al centro del proprio studio gli oggetti prodotti dall'uomo, realizzati cioè grazie ad una serie di ―operazioni necessarie a trasformare un

bene in un altro bene differente dal primo‖ (MANNONI, GIANNICHEDDA 2003, 3). Tali sequenze operative implicano necessariamente il 'saper fare', una conoscenza tecnologica e una capacità organizzativa che solo in pochi casi consentiva ad un singolo artigiano di compiere da solo ogni singola fase: data la complessità dei vari cicli produttivi, era invece essenziale una certa

specializzazione per la realizzazione delle diverse fasi (IBID., 13), spesso organizzate secondo una logica sequenziale per cui, per potere procedere ad una fase di lavorazione, era necessario che il

materiale fosse 'modificato' durante una fase precedente (IBID., 61). Pertanto, prendendo ad esempio proprio la produzione metallurgica, mentre alcuni si occupavano della ricerca, estrazione e preparazione dei minerali metatalliferi, anche producendo gli strumenti necessari a tali attività (fase 1), altri ancora si occupavano di trasportare e scambiare la materia prima così ottenuta (fase 2), in particolare se il deposito era lontano dal luogo di lavorazione; altri artigiani erano quindi impegnati nella lavorazione vera e propria, passando attraverso diverse fasi, quali l'arricchimento dei minerali, la riduzione per l'estrazione del metallo, la rifinitura dei diversi oggetti (fase 3); infine, se la produzione non era destinata al consumo locale, era necessario trasportare, distribuire e scambiare i prodotti finiti (fase 4). I diversi cicli produttivi, qui semplicemente schematizzati, in realtà spesso non rappresentano

12 2. Asce in rame rinvenute in insediamenti italiani di età neolitica: 1) Valle Fontega; 2) dalla provincia di Bergamo; 3) Campegine; 4) Boschetti di Chiozza; 5) Sgurgola (1 a 4 daDOLFINI 2013; 5 da DOLFINI 2014).

13 sviluppi lineari di processi razionali: è stato invece possibile riscontrare periodi di pausa e attesa, variazioni stagionali, sostituzioni tra persone, alterazioni varie. La catena operativa poteva anche non essere neppure percepita come tale, ma i singoli artigiani potevano

conoscere soltanto quanto facevano praticamente durante le loro attività quotidiane (IBID.). La complessità tecnologica di tali cicli produttivi presuppone anche l'esistenza di una ben strutturata organizzazione socio-economica dei modi di produzione, con l'attivazione e il mantenimento di rapporti gerarchici e di distribuzione del lavoro differenziati. Nel caso specifico della produzione metallurgica, bisognava per esempio contare su una riserva di cibo in grado di consentire non solo di nutrire gli addetti, ma anche di indurli a dedicarvisi

(GIARDINO 1998, 7). L'insieme delle conoscenze necessarie alla produzione del metallo resero infatti necessaria la presenza di specialisti che venivano liberati dalle necessità di procacciarsi quotidianamente il cibo necessario al sostentamento: il nutrimento era fornito loro dalla comunità che gli ospitavano e a cui offrivano in cambio i prodotti della loro arte; quando questa non era sufficientemente grande e ricca da disporre del surplus necessario al loro

mantenimento, questi dovevano spostarsi da un villaggio all'altro (IBID., 10). D'altra parte, il modo di produzione della metallurgia, così come di qualunque altro processo produttivo, comporta l'esistenza di una realtà determinata storicamente da una certa quantità di lavoro accumulato nel passato, condizionando in questo modo lo sviluppo degli aspetti materiali delle forze sociali implicate nella sua stessa produzione. In questo senso è possibile considerare le fornaci a lungo utilizzate per la produzione della ceramica e le acquisite capacità tecnologiche nella gestione del fuoco come elemento di trasformazione della materia prima, quali necessari precursori per i forni fusori. Allo stesso modo, la ricerca dei metalli è

14 3. I principali depositi di rame e le più antiche miniere dell'età del rame in Italia (da DOLFINI 2014).

15 da considerarsi a tutti gli effetti come un'attività mineraria inquadrabile nell'ampio bagaglio di conoscenze proprie di quegli stessi prospettori che, nelle fasi precedenti, avevano sviluppato per lo sfruttamento delle fonti di materie prime dure utilizzate nella produzione di strumenti litici. Passando ad analizzare in dettaglio le varie fasi operative della produzione metallurgica, si vuole qui fare particolare riferimento al rame, il primo e il più abbondante materiale utilizzato in età preistorica, spesso anche in lega con altri minerali, quali l'arsenico e lo stagno. Come già detto, i principali depositi di rame in Europa sono concentrati nei Balcani, nell'Europa centro- settentrionale e nella penisola Iberica. In Italia le principali fonti sono localizzate nelle Alpi

orientali, tra la Liguria e la Toscana e in Sardegna (DOLFINI 2014, 478-479), anche se concentrazioni minori di tale minerale sono presenti anche nell'Italia meridionale e in Sicilia (fig. 3). Il rame è un minerale che quando è puro ha un punto di fusione, cioè la temperatura necessaria per cui si verifica il passaggio dallo stato solido a quello liquido, di circa 1100°, anche se tale temperatura per i minerali cupriferi è più bassa e si aggira intorno agli 800°

(GIARDINO 1998, 56), temperatura di norma raggiunta anche nei processi produttivi della

ceramica preistorica (FRAGNOLI ET ALII 2012). Nella sua forma nativa è un minerale di colore rosso, malleabile e duttile, facilmente lavorabile tramite la martellatura, senza bisogno quindi di processi fusori, pure mantenendo le caratteristiche proprie dei metalli; in natura si presenta anche sotto forma di minerali cupriferi, distinti in ossidi (cuprite), carbonati (malachite e azzurrite) e sulfuri (calcocite, calcopirite,

covellite, enargite, tetraedrite) (GIARDINO 1998, 112-114). Lepiù antiche tecniche per lo sfruttamento (coltivazione) dei depositi metalliferi, come quelle

16 4. 1) la miniera di Grotta della Monaca (Cosenza); 2) asce-picconi litici rinvenuti in diversi siti minerari della Calabria; 3) manico di piccone in legno di quercia dalla miniera di Libiola (Genova); 4) ingresso della miniera di Monte Loreto (Genova) (1-2 da LAROCCA, BREGL IA 2012; 3 da MAGGI, CAMPANA 2008; 4 da beniculturalialtaviadeimontiliguri.it).

17 evidenziate nelle miniere databili all'età del rame di Libiola e Monte Loreto in Liguria e Grotta della Monaca in Calabria (fig. 4, 1-4), si rifanno direttamente alle esperienze neolitiche per l'estrazione della selce, i cui depositi venivano raggiunti mediante pozzi e gallerie, scavati con picconi e mazze litiche: gli antichi prospettori dovevano disporre di un variegato bagaglio di nozioni empiriche utilizzate per riconoscere la presenza dei filoni metalliferi, quali i colori alterati dei terreni e della vegetazione, o la presenza di piante tolleranti ai metalli. Una volta individuato il deposito di minerale si procedeva alla coltivazione del giacimento, sia con scavi a cielo aperto, se il filone era sufficientemente superficiale, che in galleria. Per facilitare lo scavo si utilizzava spesso la tecnica del fire-setting, accendendo fuochi e scaldando ad alte temperature

le pareti rocciose (IBID., 43-46), producendo l'indebolimento e la fratturazione della roccia, per rimuoverla poi con picconi e mazze in pietra (fig. 4, 2), questi ultimi tra i migliori indicatori archeologici per individuare la presenza di attività estrattive di età preistorica, che utilizzavano immanicature in osso e legno, come nel caso del manico di piccone in legno di quercia rinvenuto all'interno della miniera di Libiola (fig. 4, 3). Il minerale così estratto veniva frantumato e triturato, per essere quindi trasportato verso i villaggi dove avveniva la successiva fase di lavorazione. Prima di procedere alla riduzione e all'estrazione del metallo, i minerali cupriferi dovevano essere preventivamente separati dai minerali non metallici (quarzo, calcite, barite, fluorite), attraverso una serie di ulteriori fasi preparatorie, quali la frantumazione, l'arricchimento e il lavaggio dei minerali stessi, in modo da separare il metallo, più pesante, dai residui di roccia. La fase di estrazione, a volte preceduta da una fase di arrostimento su cataste di legna se il minerale di partenza era costituito da solfuri, per eliminare così i residui di zolfo e gli elementi

18 5. Ricostruzione dei procedimenti dell'attività metallurgica: il materiale trasportato nell'officina, viene prima frantumato e versato nella fornace, alimentata da mantici a fiato; quindi ilmetallo fuso viene versato in matrici in cui si solidifica, ottenendo oggetti che vengono rifiniti e rifilati (da COCCHI GENICK 2009).

19 volatili, come l'arsenico o l'antimonio, prevedeva la messa in opera di fornaci. Tali strutture sono spesso di difficile individuazione nel record archeologico, in quanto soggette ad essere smantellate, almeno in parte, appena cessavano di svolgere la loro funzione; nelle fasi più antiche sono costituiti da semplici forni con pozzetto centrale circondati da una bassa spalletta in argilla. Il processo di riduzione avveniva in assenza di ossigeno, con la fornace e i minerali coperti completamente da cataste di carbone: l'ossigeno legato al metallo nel minerale si combinava al monossido di carbonio contenuto nel carbone, formando così anidride carbonica, che si disperdeva nell'aria, mentre il metallo allo stato liquido si depositava sul fondo della fornace. Per ottenere le temperature richieste per la fusione bisognava ravvivare la combustione mediante l'immissione forzata d'aria, spesso utilizzando mantici che terminavano in un ugello di argilla (tuyère) per convogliare e dirigere il getto d'aria sulla fiamma. Nel caso di minerali contenenti grandi quantità di materiali non metallici ancora non perfettamente depurati dopo i diversi processi preparatori, era necessario aggiungere delle sostanze

scorificanti, quali gli ossidi di ferro (IBID., 55-58). In tutte queste diverse fasi di lavorazione dovevano quindi essere utilizzati diversi tipi di strutture produttive, con una complessa organizzazione e gestione dello spazio nell'officina metallurgica, di norma realizzata all'aperto per permettere la fuoriuscita dei gas e dei fumi, oltre che sfruttare l'azione dei venti dominanti per alimentare le fornaci (fig. 5). Tutte le fasi di lavorazione (arricchimento, arrostimento, scorificazione, riduzione) producevano una certa quantità di scorie, spesso individuabili solo grazie ad accurate analisi archeometriche, in particolare in presenza di solfuri, mentre i processi di riduzione dei

minerali composti da ossidi non producevano scorie, se non in minime quantità (ANGELINI ET

20 6 – Oggetti in metallo databili alla tarda età del rame in Sicilia (1 da CALVI REZIA 1967; 2 da ALBANESE PROCELLI 1993; 3 da GUILAINE ET ALII (2009).

21 ALII 2013, 102). Terminata la fase di riduzione e prelevato il metallo liquido, anche rompendo e frantumando la fornace, con l'ausilio di crogioli fittili realizzati con argille refrattarie, anche se potevano essere utilizzati vasi d'uso comune, come nella penisola Iberica, dove i cosiddetti vasijas-hornos erano spesso impiegati per la riduzione del minerale direttamente sul fuoco

(GIARDINO 1998, 58-59), questo veniva poi colato nell'incavo di una matrice, realizzata in argilla o, più spesso, in pietra, per riprodurne in positivo la forma; una volta che il metallo si raffreddava e si solidificava, il manufatto veniva estratto dalla matrice per passare alle operazioni di finitura, come la ribattitura, eseguite per incrudire il metallo e dare all'oggetto la

sua forma definitiva (IBID., 65-66).

La metallurgia nella Sicilia del III millennio a.C. L'Eneolitico è rappresentato in Sicilia da un lungo periodo databile tra la fine del V e gli

ultimi secoli del III millennio a.C. (GULLÌ, TERRASI 2013 e i contributi in appendice ivi contenuti), definito nei suoi aspetti principali dalle fondamentali sintesi di L. Bernabò Brea (1988) e S. Tinè (1960-61, 1965), ora aggiornate dalle recenti ricerche condotte in tutta l'isola (AA.VV. 2011, 2012). Un dato significativo per avviare una revisione critica di questo periodo è rappresentato, tuttavia, dall'assoluta mancanza, almeno per tutta la fase più antica, di evidenze relative proprio la metallurgia: paradossalmente in Sicilia l'antica età del rame manca proprio dell'elemento caratterizzante, appunto il rame. Una prima definizione tipologica della più antica produzione siciliana risale alla fine degli anni

'60 del secolo scorso (CALVI REZIA 1967), quando viene compilato un primo repertorio comprendente sia pugnali triangolari a base semplice che del tipo Montebrandoni, un‘ascia

22 7. 1) Monte Belvedere a Fiumedinisi; 2) Fiumedinisi e il suo contesto paesaggistico visto da Monte Belvedere; 3) foto d'epoca della miniera di San Carlo a Fiumedinisi; 4) Mineralizzazione metallica nella miniera di San Carlo (1 da antikitera.net; 2 da medioevosicilia.eu; 3 da zancleweb.wordpress.com; 4 da gruppogrottecatania.blogspot.com).

23 piatta proveniente da Pietrarossa, oltre a vari utensili, elementi di ornamento e resti informi di metallo (fig. 6, 1). A tale breve elenco è oggi possibile aggiungere un anello proveniente dalla

necropoli di Malpasso (ALBANESE PROCELLI 1988-89), una punta di lancia da Monte Venera

(ALBANESE PROCELLI 1989), una serie di asce piatte conservate nel Museo 'P. Orsi' di Siracusa

(tipo R1A, nn. 3 e 9, R1B, nn. 1 e 2, R1B.1, n. 15, ALBANESE PROCELLI 1993, 72-74, fig. 1 e 3) (fig. 6, 2), un pugnale a forma triangolare con due fori posti sulla base rinvenuto

probabilmente nell'area del Belice (GUILAINE ET ALII 2009) (fig. 6,3), ed alcuni utensili

rinvenuti nel villaggio di Monte Belvedere (VILLARI 1980), posto al centro del distretto minerario di Fiumedinisi (fig. 7), l'unico di una certa consistenza in Sicilia con depositi contenenti mineralizzazioni di rame, piombo, zinco, antimonio e argento. Tutti gli oggetti fino a qui menzionati provengono da contesti databili alle fasi finali dell'età del rame (2700-2300 a.C.) (fig. 8): da un punto di vista tipologico i pugnali triangolari, quelli tipo Montebrandoni e il gruppo di asce piatte, rientrano pienamente nell'ambito della produzione peninsulare della

fine dell'età del rame (CARANCINI 1996, 38, fig. 3); per alcuni degli utensili e per la punta di lancia da Monte Venera sono stati indicati confronti con tipi noti nell'Egeo e in Anatolia nel

III millennio a.C. (IBID., 90-91). Per quanto riguarda invece il pugnale proveniente dalla valle del Belice, questo trova puntuale confronto con la produzione che caratterizza il complesso

Campaniforme nel Mediterraneo occidentale (GUILAINE ET ALII 2009, 134). Il piccolo ma significativo repertorio di oggetti metallici databili al Rame Finale è stato fino ad oggi interpretato come il frutto di importazioni, in particolare dall'area egea. Grazie alle recenti ricerche è possibile da un lato allargare oggi il quadro dei confronti anche con l'Italia peninsulare e il Mediterraneo occidentale, mentre d'altro il rinvenimento a Case Bastione e in

24 8. Carta di distribuzione dei siti del rame finale siciliano con evidenze relative la metallurgia (archivio Arkeos).

25 altri siti di strutture probabilmente utilizzate nei processi fusori, consente di porre l'inizio di tale produzione in Sicilia a partire almeno dalla metà del III millennio a.C., anticipandone l'inizio di oltre un millennio rispetto a quanto fino ad ora ipotizzato, dato che la più antica testimonianza nell'isola di forni fusori era fino ad oggi quella messa in luce nel villaggio dei

Faraglioni ad Ustica, contesto databile al Bronzo Medio (ALBANESE PROCELLI 2004, 194). Il sito di Case Bastione è situato nel territorio di Villarosa (Enna), lungo la valle del fiume Morello, affluente dell'Imera meridionale. Si tratta di un vasto insediamento che si apre ai piedi di un ripido costone roccioso delimitante a Sud l'area del lago Stelo, bonificato negli anni '30 del secolo scorso, lungo le cui pareti si conservano i resti di una necropoli con tombe a grotticella. L'insediamento è databile dai materiali ceramici raccolti in superficie tra il Neolitico Finale e il Bronzo Antico (metà V-metà II mill. a.C.), per essere poi nuovamente occupato in età tardoantica e bizantina (VI-IX sec. d.C.). In uno dei settori di scavo aperti nel

corso delle recenti indagini condotte nel sito (GIANNITRAPANI ET ALII c.d.s.), è stato possibile indagare alcune strutture (fig. 9, 1) databili al Rame Finale, tra cui una capanna di cui si conserva parte del muro perimetrale costituito da un doppio filare di grandi blocchi calcarei

(fig. 9, 2), confrontabile con le capanne del coevo villaggio di Tornambè (GIANNITRAPANI 2012a), posto più a Sud lungo la valle dell'Imera meridionale. Sono state esplorate inoltre una seconda struttura a pianta circolare dal diametro di circa 4 m, delimitata da pietre e da una serie di buche di palo (fig. 9, 3) e, infine, una capanna a pianta ovale segnata sul perimetro da un tratto di muro conservato su due filari, al cui interno si trova il battuto pavimentale dove si conservano due buche di palo. Il repertorio ceramico è attribuibile alla facies di Malpasso-S. Ippolito (fig. 10, 1a), e comprende i classici bicchieri con

26 9 – Strutture del Rame Finale a Case Bastione:

1) veduta generale dell'Area Alfa;

2) tratto di muro di capanna con grossi blocchi disposti a doppio paramento;

3) veduta della struttura circolare delimitata sul perimetro da pietre e buche di palo;

4) la fossa contenente cenere, argilla cotta e materiale organico;

5) le piastre in concotto con pozzetto circolare

(da archivio Arkeos, 1 campagna 2007, da 2 a 5 campagna 2013).

27 ansa a piastra sopraelevata, ciotole ingubbiate su basso piede, frammenti del vaso globulare con beccuccio tipo Pietrarossa, boccali semi-ovoidi con colletto distinto e coppe su basso piede

cilindrico decorate da motivi dipinti in nero (GIANNITRAPANI, IANNÌ 2011). Associati a tali materiali sono stati rinvenuti inoltre diversi frammenti incisi pertinenti vasi del Bicchiere

Campaniforme (fig. 10, 1b) (GIANNITRAPANI 2009), e alcuni frammenti attribuibili alle fasi antiche della facies eoliana di Capo Graziano (fig. 10, 1c). Gli spazi esterni queste strutture domestiche sono caratterizzati dalla presenza di piani di vita e da una serie di strutture produttive, tra cui due larghe fosse, una a pianta circolare delimitata da un circolo di pietre, rinvenuta ricolma di cenere, concotto e materiale organico carbonizzato (fig. 9, 4), l'altra a pianta ovale, contenente pietre, resti di fauna e frammenti ceramici. Inoltre, sono state indagate una serie di piastre in concotto di forma irregolare al cui centro si aprono pozzetti circolari intonacati, poste su un piano in argilla compatta ben lisciata (fig. 9,5). Allo stato attuale delle ricerche non sono ancora chiare le funzioni svolte da queste piastre e dei relativi pozzetti: le prime analisi archeometriche non hanno ancora permesso di ottenere risultati significativi in tal senso, anche se è stato possibile verificare la presenza sulle pareti dei pozzetti di abbondanti tracce di ossido di ferro e di ferro metallico, quest'ultimo non presente in natura, per cui la sua presenza deve essere collegata a processi avvenuti ad alta temperatura, di cui però non è ancora chiara la natura. Le diverse strutture abitative e produttive di questa fase ad un certo momento, sempre databile al Rame Finale, vengono dismesse e in parte riutilizzate sempre a scopo artigianale. Uno dei pozzetti circolari prima ricordati viene volontariamente chiuso e sigillato con la deposizione di alcuni vasi, tra cui una coppa su basso piede dipinta nello stile di S. Ippolito (fig.10, 1 a), rotti

28 10. 1) ceramiche del Rame Finale rinvenute a Case Bastione (non in scala): a, frammenti degli stili di Malpasso e S. Ippolito (in basso la coppa su piede rinvenuta all'interno di uno dei pozzetti intonacati); b, frammenti del Bicchiere Campaniforme (in basso piede di vaso polipode); c, frammenti della facies di Capo Graziano; 2) la probabile fornace rinvenuta in Area Alfa. Nella foto in alto si può notare il compatto strato di argilla vetrificata che la circonda, mentre nella foto in basso si vede come ilpozzetto più recente copre la piastra e il pozzetto più antico; 3) la forma di fusione fittile; 4) frammento del probabile crogiolo ad immanicatura quadrangolare (foto archivio Arkeos, disegni di 1 e 4 di F. Iannì, la coppa su piede S. Ippolito di E. Salerno, 3 di A. Dolfini).

29 intenzionalmente. Il muro della capanna ovale viene in parte tagliato e utilizzato come base d'appoggio per la messa in opera di una larga piastra circolare, delimitata lungo il perimetro da una bassa spalletta in argilla, con al centro un pozzetto intonacato (fig. 10, 2). La superficie della piastra e del pozzetto si presentano con ampie tracce di bruciato, mentre il pozzetto è colmo di terreno scuro fortemente carbonizzato: tutta la struttura è quindi circondata da uno spesso strato di argilla vetrificata a causa di alte temperature. Tali caratteristiche, insieme al ritrovamento negli strati di abbandono di un frammento di una forma di fusione fittile monovalva (fig.10,3), utilizzata forse per produrre asce simili a quelle di Pietrarossa e del Museo di Siracusa prima ricordate, oltre ad un frammento di un crogiolo fittile del tipo ad immanicatura quadrangolare (fig.10,4), simile ad esemplari rinvenuti nel Mediterraneo

centrale (CAMPS 1988), consentono di ipotizzare come tale fornace possa essere stata impiegata nel campo della produzione metallurgica, anche se le analisi archeometriche non hanno consentito fino a questo momento di rilevare la presenza di scorie, ma solo abbondanti tracce di ossido di ferro. Tale fornace, dopo un certo periodo d'utilizzo, è stata ristrutturata con la costruzione di una nuova piastra con la stessa forma, dimensioni e orientamento, impostata direttamente su quella più antica. A questa fase d'uso dell'area sono inoltre attribuibili due probabili silos, delimitati da allineamenti circolari di pietre di piccole-medie dimensioni, e da un piano d'uso dove sono state messe in luce alcune buche di palo e un focolare costituito da una piastra circolare in concotto. La complessa struttura messa in luce a Case Bastione non trova al momento confronti né in Sicilia né nell'Italia centro-meridionale: fornaci simili sono

invece note a La Capitelle du Broum nella Francia meridionale (fig.11,1) (AMBERT ET ALII

2005), a Los Millares (CAPEL ET ALII 2009) e Cabezo Juré (NOCETE 2006) nella Spagna

30 11. 1) pianta del sito metallurgico di La Capitelle du Broum (Francia); 2) pianta della fornace metallurgica rinvenuta a Zambujal (Portogallo); 3) ilcrogiolo rinvenuto a Villafrati (PA); 4) pianta del forno L rinvenuto a Manfria (Gela, CL) (1 da AMBERT ET A LII 2005, 2 da KUNST 1995, 3 da LEIGHTON 1999, 4 da ORLANDINI 1962).

31 meridionale e a Zambujal (KUNST 1995) in Portogallo (fig.11,2). L'inizio della produzione metallurgica in Sicilia a partire dalle fasi finali dell'età del rame è quindi confermata anche dal recente rinvenimento di alcune scorie di rame a Grangiara, lungo la costa tirrenica del Messinese, in un contesto caratterizzato da ceramiche dello stile di

Malpasso (CANNIZZARO, MARTINELLI 2011), oltre che da un crogiolo proveniente da Villafrati

(fig.11,3), rinvenuto in associazione con materiali campaniformi (LEIGHTON 1999, 103). Durante la successiva fase del Bronzo Antico, tale attività dovette proseguire, probabilmente con la stessa organizzazione della produzione: continuano, infatti, ad essere prodotte le stesse tipologie di manufatti della fase precedente, pugnali, asce, oggetti d'ornamento e utensili

(BERNABÒ BREA 1976-77). Alla luce di quanto rinvenuto nel sito ennese, è inoltre possibile attribuire ad attività metallurgiche il cosiddetto 'forno L' messo in luce nel villaggio

castellucciano di Manfria (ORLANDINI 1962), posto lungo la costa meridionale dell'isola, immediatamente ad Est della foce dell'Imera meridionale: tale fornace (fig.11,4) è del tutto simile a quella rinvenuta a Case Bastione, solo di dimensioni maggiori, ed è affiancata da un doppio pozzetto collegato da un cordone d'argilla. All'interno sono stati rinvenuti una serie di pestelli, macinelli e alcune asce litiche, tra cui una in basalto, oltre ad un ―tozzo manico, con foro

quadrangolare, di una grossa padella acroma‖ (IBID., 55), simile al possibile crogiolo di Case Bastione, oltre ad altri crogioli recentemente individuati nel corso di nuove analisi condotte

sui materiali già scavati dall'Orlandini (PROCELLI c.d.s.).

Complessità sociale e modi di produzione nella Sicilia tra il IV e il III millennio a.C.

Lericerche recentemente condotte a Case Bastione e nell'area degli Erei (GIANNITRAPANI

32 2012b) hanno permesso di ottenere nuove evidenze, relative sia alla cultura materiale che agli aspetti di tipo socio-economico, utili a rivedere criticamente il quadro delle conoscenze in Sicilia del periodo compreso tra il IV e il II millennio a.C. Allo stesso tempo, grazie ai nuovi dati è possibile ora avviare un'ampia e approfondita discussione sul tema della complessità sociale della società siciliana di età preistorica, tema peraltro fino ad oggi quasi del tutto assente dal dibattito corrente. In particolare, a partire almeno dalla metà del III millennio a.C., e per la prima parte del millennio successivo, è possibile assistere ad una radicale trasformazione della formazione sociale che ha caratterizzato la Sicilia nelle fasi precedenti, con l'avvio di nuovi modi di produzione, appunto la metallurgia, ma anche lo sfruttamento di altre risorse minerarie, come il salgemma e lo zolfo, la tessitura, la produzione casearia, tutte attività che sono sostenute da un'intensificazione della produzione agricola e da una più avanzata tecnologia nella produzione ceramica, accompagnata da una maggiore variabilità tipologica

(IANNÌ c.d.s.), e da un diverso uso dello spazio domestico (GIANNITRAPANI 2012 a; c.d.s.). Tale trasformazione non riguarda tuttavia solo l'economia o la cultura materiale, ma rappresenta piuttosto un cambiamento di tipo sociale e politico: l'inizio della produzione metallurgica e delle altre attività produttive e artigianali, sono la materializzazione di un'intensificazione della complessità della società siciliana, caratterizzata al tempo stesso da una crescente gerarchizzazione delle strutture sociali e delle forze produttive. La nuova struttura economica attiva a partire almeno dal III millennio a.C., infatti, ha probabilmente creato le condizioni per una produzione più intensiva, finalizzata ad un maggiore accumulo di ricchezze e di surplus legati ai prodotti della terra, costituendo la base sociale ed economica da cui emergono diversi gruppi d'interesse e nuove elites, già testimoniate

33 dall‘adozione dell'architettura funeraria ipogeica (GIANNITRAPANI 2012c), un modello di sviluppo sociale in cui è possibile leggere una maggiore diseguaglianza fondata su un accesso differenziato alle risorse naturali, alla terra e ai mezzi di produzione. Tale intensificazione implica anche un più alto livello di differenziazione nell'accesso alle nuove conoscenze tecniche e, di conseguenza, alle risorse prodotte, oltre che una differente e più complessa organizzazione del lavoro, sostenuta proprio dall'introduzione delle nuove attività artigianali prima ricordate. È grazie alla costituzione e al consolidamento di questo nuovo modello politico e socio- economico che le comunità siciliane tra il IV e il III millennio a.C. mostrano quindi la capacità di trasformarsi verso un più complesso modello di società, permettendo così alla Sicilia, durante il II millennio a.C., cioè durante la successiva età del bronzo, di svolgere un ruolo centrale nello sviluppo culturale, sociale ed economico del bacino del Mediterraneo.

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36 Il lavoro e le risorse del territorio: zolfo, sale e metalli nel territorio agrigentino nella preistoria

DOMENICA GULLÌ

La storia del lavoro e la storia dell‘umanità coincidono. I primi strumenti furono realizzati circa tre milioni di anni fa nel territorio intorno al lago Vittoria (Africa) da ominidi ancora non fisicamente simili agli umani attuali: si tratta di semplici ciottoli scheggiati, con un margine tagliente, utile a tagliare e raschiare (chopper) (fig. 1). Questo semplice strumento da lavoro fu l‘unico utilizzato fino a circa 1,8 milione di anni fa, quando venne realizzato per la prima volta uno strumento più complesso, una sorta di lancia, dal contorno a mandorla (amigdala), scheggiato su entrambi i lati, con una estremità appuntita e una più tozza; questo prototipo di una punta di lancia fu utilizzata per la caccia e come arma da offesa (fig. 2). Il chopper e l‘amigdala sono gli unici strumenti di cui si abbia notizia per un periodo lunghissimo, fino quasi a 200.000 anni fa. Lo sviluppo della tecnica determinò il sempre maggiore controllo dell‘uomo sulla natura che si trasformò, lentamente, da preda a predatore. Una vera e propria svolta si ebbe nel Paleolitico medio quando si raffinarono tecniche per cacciare animali di grossa taglia; questo processo è fondamentale perché stimolò progressi tecnici nella costruzione di utensili nuovi come i percussori e, soprattutto, sollecitò un‘azione di gruppo programmata che rese necessaria la comunicazione e lo sviluppo del linguaggio

(PFEIFFER 1969). Importante progresso tecnologico rappresentò la scheggia, un manufatto molto più sottile e

37 piccolo, ma anche più tagliente, ottenuto attraverso il ritocco dei margini. Intorno a 40.000/35.000 anni fa venne perfezionata una tecnica di scheggiatura che consentiva di ottenere schegge sottili dai margini rettilinei molto taglienti, strumenti più piccoli e versatili utilizzati per una molteplicità di attrezzi (fig. 3). L‘uomo pertanto si è sempre confrontato con la natura, mezzo della sua sopravvivenza: caccia, pesca, raccolta, approvvigionamento dell‘acqua, ricerca di un riparo significa già trasformare gli elementi naturali in risorsa. L‘economia di sussistenza che ha caratterizzato un lunghissimo periodo della storia dell‘uomo, fondata sulla caccia, pesca e raccolta, fu superata solo nel periodo che convenzionalmente chiamiamo Neolitico (VI-V millennio a.C.), quando si determinò il controllo diretto dell‘uomo sulla riproduzione vegetale e animale, con la conseguente creazione degli insediamenti stabili (fig. 4). Il ciclo di lavorazione dei cereali porta alla creazione di strumenti nuovi come i falcetti in selce, le macine in pietra (fig. 5) e strumenti come accette, zappe, picconi. Iniziò la sistematica ricerca di fonti di approvvigionamento. Durante il Paleolitico la raccolta avveniva prevalentemente lungo i corsi d'acqua, dove era possibile trovare i ciottoli trasportati dalla corrente; a partire dal Neolitico, i metodi di ricerca della selce subirono un cambiamento radicale, quando si scopri la possibilità di estrarre i noduli di qualità migliore dagli strati in profondità, scavando gallerie sotterranee (fig. 6), ser vendosi di picconi e mazzuoli litici (fig. 7) che sono stati rinvenuti in abbondanza all'interno delle gallerie. Nasce così la miniera, che richiede una strutturazione organizzata e una specializzazione del lavoro.

38 1. Ciottolo scheggiato.

39 2. Strumento in pietra bifacciale (amigdala).

3. Stacco di una lama da un nucleo di selce (disegno Manola Cotroneo).

40 Nel Neolitico la sedentarietà produce una sempre più accentuata specializzazione del lavoro: il pastore, l‘agricoltore, il ceramista (fig. 4). La trasformazione dei cereali, probabilmente affidata alle donne, è testimoniata da numerose macine e pestelli, così come la produzione dei prodotti caseari è testimoniata da vasi con piccoli fori su tutto il corpo del vaso: alcuni esemplari sono stati sottoposti ad analisi gascromatografiche che hanno accertato la presenza di tracce di caseina (fig. 8). Un‘attività specializzata divenne quella del vasaio: l‘uomo scoprì che l‘argilla impastata con acqua diventa plastica, modellabile, e che con la cottura, la forma attribuita diventa irreversibile. Questa, che è senz‘altro una delle invenzioni più importanti del Neolitico, diviene un‘attività altamente specializzata, sia per la realizzazione del vaso, che richiede il reperimento e la scelta della materia prima, le tecniche di cottura e soprattutto le tecniche di decorazione (fig. 9). Ovviamente le caratteristiche fisiche e le potenzialità del territorio hanno sempre determinato le scelte per l‘impianto degli insediamenti: la natura dei suoli innanzitutto, e la loro conseguente potenzialità produttiva, la presenza di acqua, sono fra le risorse naturali quelle certamente fondamentali all'impianto di comunità stabili. Alcune tra le risorse naturali importanti e utilizzate sin dalla preistoria sono certamente il sale, il bitume, lo zolfo. La primaria importanza del sale nell‘antichità risulta naturalmente ovvia, quando si pensa che la conservazione di carni, pesce e altri alimenti deperibili, è un momento di fondamentale importanza nella gestione delle risorse alimentari. L‘importanza della presenza del sale in relazione alla distribuzione degli insediamenti è stata evidenziata in diversi studi

(STIGLITZ ET ALII, 847-874) e la concentrazione di insediamenti vicino a saline sembra un dato

41 4. Ricostruzione delle attività principali di un villaggio neolitico (disegno di Manola Cotroneo).

42 5. Macina e pestello litici. Ricostruzione della macinatura del grano (disegno Manola Cotroneo).

43 Importanti giacimenti di zolfo e salgemma sono notoriamente presenti nel territorio agrigentino: la Sicilia centro meridionale ha delle caratteristiche geomorfologiche peculiari, caratterizzata da affioramenti di rocce evaporitiche della serie gessoso-solfifera, che contengono depositi di zolfo e salgemma. Nell‘area della valle del Platani, tali elementi si ritrovano facilmente in superficie perché le acque superficiali penetrano all‘interno della roccia granulare, variamente fessurata, inabissandosi nei meandri sotterranei derivanti dalla dissoluzione dei gessi. Le acque raggiungono le formazioni saline e solfifere sottostanti sciogliendole; arricchitesi di questi minerali, riemergono in numerose sorgenti appunto salate e sulfuree (cosiddette acqua amara, o acqua mintina). Alcune acque salate, che riemergono nel greto del fiume Platani, hanno un contenuto salino altissimo, che talora raggiunge i 200 gr per litro (figg. 10-11). I ricchi depositi di sale presenti praticamente lungo tutta la valle del Platani, consentono la facile raccolta del minerale che si deposita in superficie in spesse incrostazioni (fig. 12): depositi di spessore notevole si trovano in contrada Borangio, variamente ricordata nella storiografia naturalistica, a Raffadali, Cattolica Eraclea, contrada Salina, in contrada S. Barnaba, a Sud di S. Angelo Muxaro, Cianciana, dove il sale in molti filoni è affiorante e di facile raccolta in superficie; più a Nord importanti depositi salini si trovano nell' areale fra Cammarata e S. Giovanni Gemini. A SO di Cianciana, nei pressi del vallone Intronata, affiora un corpo salino con uno spessore di oltre 40 metri e una lunghezza di 700 metri. Sulla destra idrografica i corpi in affioramento sono due ed hanno una lunghezza singola di m 250 con uno spessore in affioramento di 30-40 metri. Il vallone Intronata, nei periodi poco piovosi, rideposita lungo l‘alveo patine di sale per effetto

44 6. Planimetria delle miniere di selce di Calaforno.

7. Accetta piccone in pietra da Licata.

45 8. Vaso forato per la produzione di caseari da Palma di Montechiaro.

46 della evaporazione delle acque di dissoluzione del sale. Tale caratterizzazione geofisica definisce un paesaggio unico, dominato dal corso del fiume e dalle continue incrostazioni e accumuli di sale, sia sul fiume, le cui acque superficiali appaiono spesso ricoperte da una crosta di sale, ma anche nei numerosi accumuli che crescono intorno alle innumerevoli sorgenti di acqua salata. Anche se l‘utilizzo del sale durante la preistoria è naturalmente ovvio, solo per l‘età medievale disponiamo di documentazione sulla sua produzione e commercializzazione in vari siti della valle fluviale come a Raffadali, Cammarata, Platanella. Il paesaggio è definito anche dalla presenza diffusa dello zolfo. Filoni solfiferi si riscontrano sia nell'ambito di ammassi gessosi che in quelli calcarei. Ai noti depositi di Cozzo Disi e di contrada Rossi, coltivati fino a qualche decennio fa, fanno riscontro estese incrostazioni di zolfo presenti praticamente su tutto il territorio, da contrada Roveto, alle pendici meridionali di Rocca Ficarazze, al vallone Mandravecchia. Lo zolfo, la cui utilizzazione e commercializzazione sin dall‘antica età del Bronzo è ormai provata dagli scavi di Monte Grande, ha un largo utilizzo, in ambito terapeutico e sacro. La prima conferma archeologica all‘ipotesi della ricerca e del commercio dello zolfo nella regione agrigentina prima del periodo romano, è costituita dalle scoperte di Monte Grande di Palma di Montechiaro (fig. 13), dove è stato portato in luce un complesso di recinti interpretato come un grande santuario consacrato al culto della fertilità e della prosperità, datato, in base ai materiali rinvenuti, indigeni ed egei, al XVI sec. a.C. Connesse ai recinti, erano fornaci per la fusione dello zolfo (fig. 14), rinvenimento

47 9. Vaso con decorazione a roker realizzata con conchiglia da Licata (disegno di Lucia Alongi); vaso con decorazione a stampo stile Stentinello (da MANISCALCO 2004).

48 10. Fiume Platani con incrostazioni di sale in superficie (foto Domenica Gullì).

49 davvero straordinario che conferma la pratica della fusione dello zolfo già nell‘antica età del Bronzo. Questa scoperta costituisce la prima conferma archeologica all‘ipotesi della ricerca e del commercio dello zolfo nella regione agrigentina sin dalla preistoria. I numerosi ed eccezionali materiali votivi rinvenuti in un area vastissima, hanno fatto supporre che il grande santuario fosse il luogo di culto non di una singola comunità ma un santuario federale di tanti villaggi. Monte Grande con il grande santuario e le officine annesse finalizzate alla fusione dello zolfo, nell‘ambito della cultura di Castelluccio, rappresentò un centro di fondamentale importanza per gli intensi rapporti mercantili a livello panmediterraneo nel XVI e XV sec. a.C., come dimostrato

dalla ceramica egea rinvenuta (CASTELLANA 1998; 1999). Poco distante da una fornace, in un contesto datato al Bronzo antico, si è rinvenuto, oltre a ceramica dipinta dello stile di Castelluccio e frammenti egei, un panetto di zolfo fuso di forma tronco piramidale con base piana e pareti oblique, costituito da zolfo puro al 100% (fig. 15). Le indagini archeometriche indicano che la tecnica della fusione dello zolfo nel forno denominato ―calcarone‖ non sia una tecnica moderna ma utilizzata almeno dall‘antica età del Bronzo

(GIARDINO 1998). L‘associazione dei materiali egei con le tracce delle strutture destinate alla fusione dello zolfo a Monte Grande, indicano che lo zolfo, di cui si conoscono i molteplici usi nel mondo antico, dall‘ambito farmacologico a quello cultuale, fu oggetto di traffici transmarini per la sua ricerca e approvvigionamento, e quindi elemento importante nell‘economia della Sicilia centro- meridionale già in questa fase della preistoria. Un frammento di un panetto simile si è rinvenuto recentemente su Monte Roveto a Casteltermini, confermando la pratica del confezionamento dello zolfo fuso in panetti sin dalla

50 11. Fiume Platani con incrostazioni di sale in superficie (foto Domenica Gullì).

51 12. S.Angelo Muxaro. Sale che si accumula attorno ad una sorgente.

52 Un altro aspetto molto importante dell‘utilizzo e trasformazione delle risorse naturali è la metallurgia. Le uniche, modeste risorse metallifere dell‘isola sono costituite dai giacimenti della regione dei Monti Peloritani, dove si trovano filoni contenenti mineralizzazioni in ferro, piombo, rame, argento, ferro, arsenico, antimonio, conosciute e sfruttate in antico fino al XIX secolo (GIARDINO 1999). Oggi l‘estrazione e la lavorazione dei minerali ferrosi è documentata nella media valle del Platani, nel territorio di Casteltermini. I minerali ferrosi sono particolarmente concentrati lungo un punto di faglia da Rocca Ficarazze a Monte Roveto, ma presenti, in mineralizzazioni superficiali, su una vastissima area. La presenza diffusissima di minerali di ferro, anche di notevole spessore, rimanda al toponimo locale, appunto Rocca Ferro, di origine relativamente recente e determinato evidentemente da questa particolare caratteristica naturale che doveva essere di una certa portata se è stata registrata e fissata in un toponimo (GULLÌ 2003; 2005). Negli anni Novanta del secolo scorso si rinvenne, sulla sommità di Monte Roveto, un ripostiglio di oggetti di bronzo e ferro (fig. 17). Molto significativa, tra gli oggetti del ripostiglio, la presenza di semilavorato siderurgico: si tratta del cosiddetto blumo o spugna di ferro, prodotto di scarto del processo metallurgico che utilizzava all‘origine minerali ferrosi presenti sul luogo, come l‘ematite (fig. 18). (GULLÌ c.d.s.). Le scorie hanno una struttura molto spugnosa con grossi vacuoli e tracce di carbone e zolfo, visibili anche ad occhio nudo. Il carbone era indispensabile per l‘operazione di riduzione dei minerali, che era di tipo diretto, cioè riscaldando il minerale ad alte temperature insieme al carbone di legna e allo zolfo probabilmente per la sua azione infiammabile. Il blumo viene poi battuto a caldo per espellere le scorie e ottenere la massa di ferro.

53 13. Palma di Montechiaro. Monte Grande. Veduta generale (da CASTELLANA 1998).

54 14. Palma di Montechiaro. Monte Grande. Ricostruzione di un calcarone per la fusione dello zolfo e panetto di zolfo (da CASTELLANA 1998).

15. Panetto di zolfo da Casteltermini.

55 La conservazione deliberata dei semilavorati siderurgici è indice del valore che ad essi veniva attribuito. La presenza di attività di fonderia è certamente uno degli aspetti più interessanti che la ricerca archeologica nel territorio di Casteltermini ha evidenziato; è documentata la presenza massiccia di frammenti metallici, aes rude, scorie di fusione, piccoli lingotti, e soprattutto di una grande quantità di ferro, sia allo stato naturale che lavorato, allo stato di blumo o piccoli masselli di ferro dolce (fig. 19). La presenza diffusa di metallo informe, segnalata da Vincenzo La Rosa alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, si configurò da subito come un palese indicatore archeologico della ricchezza del centro, in quanto rimanda chiaramente ad operazioni di fonderia e quindi, alla lavorazione del metallo in loco. Da allora, le ricognizioni effettuate sull‘intero territorio di Casteltermini, scoperte fortuite e in seguito a scavo regolare, hanno accresciuto in maniera davvero straordinaria le attestazioni della presenza di manufatti in metallo, bronzo e ferro, e di una ingente quantità di metallo informe, tipo aes rude, lingotti, del tipo a barra o discoidali piano-convessi, che rimanda senza dubbio ad operazioni di fonderia. Appare evidente come non si possa prescindere dalle analisi metallurgiche dei lingotti, in modo da stabilire se siano prodotti di rifusione o lingotti da estrazione, questione di non poco conto che può fornire indicazioni preziose sulle fonti di approvvigionamento del metallo grezzo. I lingotti in ferro, la presenza delle scorie e delle gocce di fusione, suggeriscono pertanto la presenza di officine siderurgiche attive, che si approvvigionavano, forse anche solo in parte, del ferro locale. É in programma la mappatura e campionatura di tutti gli affioramenti dei minerali di ferro, presenti nell‘intero territorio: questo consentirà di verificare la composizione

56 17. Ripostiglio da Monte Roveto di Casteltermini (da GULLÌ 2003).

57 18. Aes rude, frammenti di lingotti e semilavorato siderurgico dal ripostiglio di Monte Roveto.

58 19. Aes rude, scorie di fusione e semilavorato siderurgico rinvenuti in superficie a Monte Roveto.

59 radioisotopica dei minerali locali e poterla così confrontare con quella delle scoriee dei lingotti. Sin dalla più antica attestazione di realizzazione di ―strumenti‖, quindi di applicazione di una tecnica che viene condivisa e trasmessa, la natura è mezzo di sussistenza, teatro di continue sperimentazioni per dominare gli elementi e ricavarne sempre nuovi e maggiori benefici. Le specializzazioni del lavoro sono pertanto strettamente collegate alle risorse di ciascun territorio, frutto della capacità dell‘uomo preistorico a capire e sfruttarele potenzialità del suo habitat naturale.

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60 La dimensione metaforica del lavoro Salvatore Gregoretti, Demetra, mosaico a larghe tessere, insegna del panificio Morello, Via Cappuccinelle, Piazza S. Anna al Capo di Palermo, 1908 (da SIRCHIA, RIZZO 2001).

Demetra che produci molti frutti e molte spighe, fa' che questo campo sia lavorato bene e sia fruttuoso d'abbondante raccolto. Mietitori, ben saldi stringete i mannelli, perché nessuno dica passando: «Oh , i miei soldi! che mietitori oziosi! » (Teocrito, Id. X, vv.33-40). Le opere di Atena: identità femminile e philergia nella Sicilia greca

ELISA CHIARA PORTALE

Un celebre passo degli Erga esiodei può introdurre il tema che, muovendo dal ricchissimo dossier di Atene (la polis che da Atena prendeva addirittura il nome), vorrei qui declinare in ottica ―siceliota‖ puntando l‘attenzione su un filone della documentazione votiva e funeraria di età classica: la dimensione metaforica del lavoro femminile, a partire dal patronato esercitato da Atena sulle technai e l‘operosità muliebre sin dalla comparsa al mondo della prima donna mortale. Adirato per l‘inganno di Prometeo, Zeus infliggeva infatti come punizione agli uomini (…) un male di cui tutti godano nell‟animo, circondando d‟affetto la loro stessa sciagura (…). Ordinò all‟illustre Efesto che assai presto mescolasse acqua e terra, di essere umano vi infondesse voce e forza, nel volto simile alle dee immortali figurasse bel sembiante amabile di vergine (parthenikès kalòn eidos); poi Atena i lavori insegnasse, a tessere trama variata (erga didaskèsai, polydaidalon històn hyphainein), e grazia sul capo spargesse l‟aurea Afrodite, e voluttà tormentosa e pene che divorano le membra. (…) [Subito con la terra plasmò l‟illustre Ambidestro un‟immagine simile a vereconda vergine, secondo i voleri del Cronide; la cinse e l’adornò la dea glaucopide Atena; le divine Charites e signora Peithò collane d‟oro le posero al corpo, la coronarono di fiori primaverili le Horai dalle belle chiome; al corpo le adattò ogni ornamento Pallade Atena]…(Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 57-76, trad. di A. Ercolani, Roma 2010).

63 Ulteriori dettagli aggiunge il poeta nella Teogonia: (…) la dea Atena dagli occhi lucenti le dette il suo cinto e la ornò di una candida veste, e dal capo fece scendere con l’arte delle sue mani un velo riccamente lavorato, meraviglia a vedersi; quindi attorno alla testa Pallade Atena le pose amabili corone fatte di freschi fiori di prato, e intorno al capo le cinse una corona d’oro, che lo stesso inclito Ambidestro aveva fatto... (Esiodo, Opere. Teogonia, vv. 572-579, trad. di A. Colonna, Torino 1983) Le opere di Atena che tanto risalto assumono nella presentazione di Pandora, qualificandone l‘abilità nella tessitura di stoffe variegate insegnatale dalla dea e il vestiario di straordinaria bellezza che ella le elargisce, sono così collegate ab origine alla natura femminile, in una con la grazia infusa da Afrodite e le splendide parures di gioielli e corone floreali con cui gli dei – Atena, le Charites (Grazie), le Horai (Stagioni) e Peithò (Persuasione), e il divino artigiano Efesto – omaggiano l‘affascinante fanciulla (con l‘ambiguo ―tocco finale‖ di Hermes). Costei, la capostipite della «stirpe delle donne delicate», epitoma nel suo stesso nome la molteplicità dei doni ricevuti, e il carattere (ambiguo) di dono, al contempo malanno e fonte di godimento e meraviglia, intrinseco al genere femminile. Al di là della coloritura misogina, il carattere serio e il sottofondo religioso della storia della prima donna sono stati da tempo evidenziati dalla critica, che ne ha colto un‘eclatante convalida nella sua riproposizione in uno dei complessi figurativi più celebri dell‘antichità: la colossale statua di culto di Athena Parthenos eretta da Fidia nel Partenone sull‘acropoli di

Atene, la cui base (PAUSANIA I 24,7; PLINIO, Naturalis Historia XXXVI,18) recava appunto una

rappresentazione del mito di Pandora a grandezza naturale (HURWIT 1999, 235-245;

ROBERTSON 2004; LEE 2005, 59-62). La pregnanza della vestizione di Pandora per mano di

64 1. Statuetta frammentaria di Atena con la rocca da Scornavacche (Ragusa, Museo Archeologico Regionale, inv. 629),prima metà del IV secolo a.C. (da DI VITA 1952-54).

65 Atena si coglie appieno considerando che in quel santuario, al culmine delle feste Panatenee, la dea era omaggiata dalla città con l‘offerta di un peplo istoriato – alla cui realizzazione, con i riti collegati, erano destinate due ragazzine alloggiate sull‘acropoli (fig. 2) –, quasi a riattualizzare ogni volta nell‘omaggio collettivo la meraviglia delle ―opere di Atena‖: i tessuti variegati creati con la techne che ella aveva trasmesso al genere femminile agli albori della storia,

strumento e simbolo di civiltà e coesione civile (REEDER 1995, 200-202; BLUNDELL 1998, 49-

55; HURWIT 1999, 184-186, 227ss.; PALAGIA 2000, 58-60;PALAGIA 2008; BUNDRICK 2008,325s.).

Per di più, Atena era venerata sull‘acropoli come Ergane, ovvero ―lavoratrice‖ (CONSOLI 2004;

CONSOLI 2010), un epiteto cultuale che talvolta troviamo abbinato con quello di Zosteria (―che cinge‖: così in un cippo dal santuario di Athena Pronaia a Delfi) parimenti sotteso al ruolo della dea nel racconto esiodeo, allorché è Atena a vestire la prima donna, persino donandole la

propria cintura (ROBERTSON 2005). Proprio l‘epiclesi Ergane, legata alle competenze tecniche

della dea e alle ―opere di Atena‖ che ne derivano (DIODORO V 73, 7-8), ci riporta alla Sicilia e ad un gruppo di figurine fittili così interpretate, provenienti da siti della parte meridionale dell‘isola (Camarina, Gela?, Agrigento, Scornavacche, Monte Saraceno?, Butera?) e da Himera sulla costa tirrenica (figg. 2, 6a, 8-9): Atena, riconoscibile per il copricapo (elmo o polos, talvolta con cimiero applicato), vi è caratterizzata come filatrice tramite la conocchia e

il fuso che regge nelle mani e/o il kalathos per la lana ai suoi piedi (PISANI 2008, 50-56;

CONSOLI 2010, 19-23). Il primo pezzo del dossier, e il più notevole, è la statuetta frammentaria dall‘abitato-ceramico di

Scornavacche nella valle del Dirillo (DI VITA 1952-54) (fig. 1), il cui soggetto e stile atticizzante indussero lo scopritore A. Di Vita a supporre la dipendenza da una scultura effigiante Athena

66 2. Rilievo votivo frammentario dall’acropoli di Atene: visibili un’arrephoros al lavoro del telaio e i busti di due delle Charites, che tutelano l’opera delle fanciulle scelte per la tessitura del peplo per Atena (Atene, Museo dell’acropoli, inv. 2554),IV secolo a.C. (da PALAGIA 2008).

3. Statua di Atena seduta su uno sgabello, identificata con l’Atena opera di Endoios (Atene, Museo dell’acropoli, inv. 625), 525 a.C. ca. (da CONSOLI 2010).

4a-b. Rilievo fittile votivo dall’acropoli di Atene con raffigurazione di una donna che fila (Atene, Museo dell’acropoli, inv. 13055) e relativa ricostruzione grafica, fine VI-inizi V secolo a.C. (da CONSOLI 2010).

67 Ergane situata sull‘acropoli di Atene. Poco dopo, S. Stucchi (1956) ampliava la discussione chiamando in causa una statua seduta rinvenuta sulle pendici nord della rocca (fig. 3), riferita allo scultore Endoios sulla scorta di un cenno di Pausania (I 26,4) e riconosciuta come simulacro arcaico di Athena Ergane (l‘identificazione del monumento resta, tuttavia, controversa), e proponendo di integrarne gli attributi con un fuso e una rocca per analogia con la figurina siciliana, appartenente però ad un filone diverso. Sarebbe stato l‘artista arcaico, invece, a escogitare lo schema iconografico della dea-filatrice, stando anche ad un‘altra notizia di Pausania (VII 5,9) che ne ricorda la statua lignea di Athena Polias a Eritre, resa seduta in trono, col polos sul capo e una rocca in ciascuna mano. Le testimonianze del Periegeta e la questione dell‘Atena ―di Endoios‖ sono state ridiscusse da V. Consoli (2004 e 2010) in relazione al contesto ateniese e alle matrici ―ionico-attiche‖ del tema, ricollocato nel quadro dell‘età pisistratea caratterizzato dalla forte ascesa e consapevolezza delle classi artigianali devote alla dea ―lavoratrice‖. Per supportare la ricostruzione proposta della statua dell‘acropoli sono stati inoltre addotti alcuni pinakes fittili dall‘acropoli (fig. 4a-b) reputati raffigurare la dea nell‘attitudine codificata dall‘agalma di Endoios, nonostante una lettura alternativa v‘individui piuttosto le stesse devote, che offrono alla dea un‘immagine idealizzata di sé, all‘opera con fuso

e conocchia (DI VITA 1952-54, 147; DEMARGNE, CASSIMATIS 1984, 962, 1019; HEINRICH 2006, 50-54): in verità, la caratterizzazione del seggio a mo‘ di kline si adatta meglio ad un soggetto mortale, sulla scorta del tenace legame simbolico fra il letto e il vincolo matrimoniale e la vita della donna nell‘oikos (ibidem, 106s.). D‘altro lato, va ricordato che nell‘Atene arcaico- classica il ruolo di Atena patrona e protettrice degli artigiani viene espresso raffigurando la dea in persona presenziare alle attività dell‘ergasterion: in tale imagerie, pervenuta anche in Sicilia

68 5. Cratere a figure rosse con scena di ergasterion da Caltagirone (Museo di Caltagirone, inv. 961), 450-425 a.C. ca. (da MARTIN, PELAGATTI, VALLET 1980).

69 grazie all‘importazione dei vasi attici dipinti – come testimonia un bel cratere rinvenuto a Caltagirone (fig. 5) –, la figura divina riflette però il modello canonico della peplophoros elmata, senza attributi distintivi rispetto all‘iconografia corrente negli altri suoi contesti di intervento

(DEMARGNE, CASSIMATIS 1984, 961; WILLIAMS 2009; HASAKI 2012, 256-258). Nonostante il gap tra il supposto archetipo arcaico dell‘iconografia di Athena Ergane giunta in Sicilia e la documentazione isolana superstite (emergente solo a un secolo di distanza), il peso del ―precedente‖ ionico-attico resta tale da ipotecare l‘esegesi dei manufatti sicelioti, ancorché l‘unico legato ad un filone ateniese (almeno per ispirazione stilistica) sia la terracotta di Scornavacche (fig. 1), che riflette però, come accennato, un‘elaborazione indipendente rispetto alla statua di Endoios e da inserire piuttosto nel contesto artistico della Sicilia dionigiana, recettivo dei modelli formali attici dell‘avanzato V secolo, ma ben caratterizzato per predilezioni tematiche, iconografie e stilemi sul solco di un‘importante tradizione locale

siceliota (PORTALE 2000; PAUTASSO 2009). Un‘altra versione stilisticamente prossima, ma tipologicamente distinta, è presente tra le

terrecotte del cd. Quartiere punico di Porta II ad Agrigento (DEORSOLA 1990, 28ss.;

FIORENTINI 2002, 167, fig. 20): dapprima etichettata ―Atena/Demetra‖ per il fraintendimento della rocca come fiamma di una fiaccola, la figura è connotata da un uccello poggiato sulla spalla e dalla gestualità del braccio sinistro (fig. 6a). L‘arto, reggendo lo strumento per la filatura, discosta infatti il mantello posto a velo sul capo, secondo un motivo familiare nel linguaggio visivo greco come gesto di aidòs (pudore), ricorrente nell‘iconografia di sfondo

nuziale (FERRARI 2002, 54-56). Letestimonianze più precoci della raffigurazione di un‘Atena ―Ergane‖ (intendendo la qualifica

70 6a-c. Statuetta di Atena con conocchia e volatile sulla spalla dal Quartiere di Porta II ad Agrigento e terrecotte associate, fine V secolo a.C. (Agrigento, Museo Archeologico Regionale “Pietro Griffo”) (da FIORENTINI 2002; fig. 6b-c da DEORSOLA 1990).

71 come esplicativa delle prerogative della dea nelle technai, non in riferimento allo specifico culto ateniese che è rischioso proiettare tout court sulla realtà siceliota, in assenza di forti indizi di filiazione) risolvono invece l‘esigenza di qualificare la dea come protettrice delle attività tessili attraverso l‘aggiunta di uno o più strumenti per la filatura ad uno schema del tutto in linea con la tradizione della coroplastica arcaico-classica locale. Basta il kalathos, ad esempio, a connotare in tal senso una terracotta di grande formato dal Quartiere Est di Himera (fig. 8)

(ALLEGRO 1976, 539ss., tav. LXXXIX,5; ALBERTOCCHI 2004, 63, 134, cat. 1054, tipo A LI, tav. XIXc), per il resto (salvo il cimiero aggiunto al polos) interamente conforme al tipo della cd. Athana Lindia, o per meglio dire ―dea con pettorali‖, adottato sin dal VI secolo a.C. per effigiare diverse divinità (e non tanto Atena, come si è ritenuto a lungo). Non è chiaro, in carenza degli attributi originari, se tale fosse il caso anche delle statuette analoghe provenienti

dai livelli dionigiani dell‘acropoli di Gela (FIORENTINI 2002, 159, fig. 13; ALBERTOCCHI 2004, 45, tipo AXXVII, cat. 644s.); mentre la versione documentata più volte nello scarico di una

fornace di vasai alla periferia nord-orientale di Camarina (fig. 9) (PELAGATTI, VOZA 1973, 136,

cat. 407, tav. XLVIII; PISANI 2008, 50-56, cat. 87-103) rinuncia ai distintivi ornamenti plastici sul petto e assume forme più ―naturalistiche‖ con le braccia applicate e aperte, reggenti fuso e conocchia (ancorché spesso l‘attributo non si conservi, rendendo incerta l‘identificazione:

SPAGNOLO 2000, 185s., tav. LV,2; PORTALE 2008, 19s.). Laddove la statuetta ―atticizzante‖ di Scornavacche (fig. 1) introduce l‘egida a mantellina e un vistoso elmo con paragnatidi sollevate per conferire un‘identità più marcata alla figura, le altre statuette (figg. 6a, 8-9) si limitano quindi a pochi attributi essenziali che permettono di sottrarre la rappresentazione all‘indeterminatezza della dea con pettorali o della dea su diphros/ trono, senza però discostarsi

72 7a-b. Statuette dal Quartiere di Porta II ad Agrigento, cd. Casa A (Agrigento, Museo Archeologico Regionale “Pietro Griffo”), IV-III secolo a.C. (da FIORENTINI 2002).

73 da quella fortunata e tradizionale iconografia. Tale circostanza, del resto comprensibile nell‘ottica del procedimento di lavorazione e dei condizionamenti della tecnica seriale a matrice, ma anche nell‘ottica funzionale dell‘artigianato di destinazione votiva (tendenzialmente polivalente ed adattabile, magari con limitate modifiche, a diversi referenti cultuali), fa comunque reputare verosimile una certa congruenza fra lo schema iconografico tradizionale, in linea di massima mantenuto, e la sfera di competenza della divinità ―Ergane‖, cui esso risultava compatibile sia per l‘artigiano antico sia per il devoto. Tale sfera – da ricercare nell‘ambito degli erga patrocinati da Atena, vista l‘inserzione degli strumenti per filare e la ricorrente aggiunta di qualche dettaglio distintivo della dea (elmo o pennacchio)– non entrerà, per così dire, in conflitto con le sfere di competenza generali delle divinità femminili che condividono lo schema della dea seduta su diphros o trono né con l‘originario modello della dea con pettorali (riprodotto nelle versioni più antiche di Himera e forse Gela), la cui valenza concerne primariamente la protezione della fertilità pur senza escludere un concetto più

generico di potenza divina (ALBERTOCCHI 2004). Solo un‘accurata analisi contestuale può, tuttavia, focalizzare il significato delle opere di Atena e lo spettro di azione della dea filatrice, che ne giustificano la parziale sovrapposizione con la tradizionale dea con pettorali e l‘associazione con altri votivi. In proposito, si è sottolineato il ricorrere dell‘Atena ―Ergane‖ all‘interno di aree artigianali, come accade per gli esemplari di Scornavacche – privo purtroppo di associazioni contestuali precise – e Camarina. Una situazione analoga è stata prospettata per il Quartiere di Porta II di

Agrigento, ritenuto a carattere misto residenziale- manifatturiero e commerciale (DEORSOLA

1990, 28ss.; DE ORSOLA 1991, 74ss.; FIORENTINI 2002, 163-167) per l‘abbondanza di oggetti

74 8. Statuetta di Atena con kalathos dal “santuarietto urbano” del Quartiere Est di Himera (Antiquarium di Himera), seconda metà V secolo a.C. (da ALLEGRO 1976).

9. Statuetta di Atena con fuso e conocchia(?) dallo scarico della Fornace Provide di Camarina (Museo Archeologico Regionale di Ragusa), tardo V secolo a.C. (da PISANI 2012).

75 di tipo votivo- rituale rinvenuti, seppur in assenza di indizi probanti per un‘attività figulina: non sono stati infatti individuati né forni né aree e strutture idonee per la lavorazione dell‘argilla, mentre la ricognizione in corso dei reperti ad opera di C. Parello (infra, 190, fig. 17) ha riscontrato una singola matrice di figurina fittile a fronte di un numero davvero ingente di pesi da telaio, che indirizzerebbero semmai verso un altro ambito delle technai protette da Atena. Fatte salve le ovvie differenze, analogie sono state inoltre segnalate con Himera, dove lo schema è documentato nel ―santuarietto‖ compreso nell‘abitato del Quartiere Est, sicché se ne è arguita una connessione con le attività manifatturiere svolte nel lembo residenziale di riferimento, confermata da alcune offerte riferibili alla sfera produttiva: pesi da telaio, nonché distanziatori di fornace, anelli fittili ed uno stampino in osso, e ancora pesi da rete in piombo

e ami di bronzo, relativi rispettivamente a tessitura, produzione ceramica, pesca (ALLEGRO

1976, 539-553; CONSOLI 2010, 20). Di qui, l‘inserimento da parte di M. Pisani di tutti i contesti in questione (Scornavacche, Himera, Agrigento, nonché Gela- vecchia stazione dove la presenza dell‘―Ergane” è più dubbia), oltre a quello di Camarina di più immediata lettura, all‘interno dei «quartieri a vocazione artigianale» che presenterebbero «piccoli sacelli ad esclusivo uso dei residenti. Da alcuni di questi (Imera, Agrigento, Gela) provengono delle terrecotte di Athena Ergane, espressione della devozione di una classe, quella di vasai, coroplasti, fornaciaî e ceramisti, che alla dea si raccomandava particolarmente perché garantisse il buon esito della cottura dei manufatti, e che documentano la diffusione peculiare di una iconografia attestata in Sicilia – anche a Camarina e a

Scornavacche – prevalentemente e significativamente negli ergasteria» (PISANI 2012, 319ss., part. 323). Pesa su quest‘interpretazione, influenzata dalla ricostruzione su richiamata del culto ateniese di Athena Ergane, la circostanza che il primo riconoscimento del tema in Sicilia sia avvenuto in

76 10. Epinetra frammentari di produzione attica dal santuario della Malophoros a Selinunte (Palermo, Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”), vicino al Golonos Group, fine VI-inizi V secolo a.C. (da GABRICI 1927).

11a. Framento di epinetron di produzione attica dal santuario sul poggetto Sud-Est di Monte Saraceno (Museo di Monte Saraceno), fine VI secolo a.C. (da SPAGNOLO 2008).

77 due siti sedi di ateliers coroplastici, Scornavacche e Camarina. Tuttavia, la chiave di lettura ―devozione di classe‖ viene adottata per il solo schema in questione, mentre rimangono fuori dal discorso tutta la restante – e ben più copiosa – documentazione di tipi fittili di destinazione votiva prodotti e/o utilizzati nei medesimi contesti, e i materiali associati

(ALLEGRO 1976; PORTALE 2000; DEORSOLA 1990; DE ORSOLA 1991; SPAGNOLO 2000;

FIORENTINI 2002; PISANI 2008; PORTALE 2008), per cui ci si è in genere limitati a sottolineare una valenza ―demetriaco-ctonia‖ che ne denoterebbe la destinazione per santuari di Demetra e Kore, situati nelle vicinanze e non individuati (Camarina, Agrigento) o inseriti nello stesso tessuto abitativo interessato dalle case-botteghe (Gela, Scornavacche?); oppure nel caso di Himera, dove titolare del ―santuario di quartiere‖ sarebbe la stessa Atena (presente tra i votivi anche con iconografie più canoniche, e particolarmente venerata nella colonia calcidese), si è ipotizzata un‘associazione nel culto fra Atena e le divinità ctonie. La questione dell‘eventuale associazione cultuale tra più divinità femminili verrebbe del resto posta, come accennato, dalla riutilizzazione dello schema tradizionale della dea con pettorali per caratterizzare Atena come Ergane, mentre la vicinanza a schemi ―demetriaci‖ è all‘origine del fraintendimento della statuetta di Agrigento come Demetra con fiaccola e uccello (fig. 6a). All‘esemplare acragantino erano abbinate figurine (figg. 6b-c) di ―offerenti del porcellino‖ e busti femminili, appartenenti ai tipi di V secolo ritenuti peculiari dei culti ―ctoni‖ (cfr.

PORTALE 2012a), insieme a statuette di Artemide ―sicula‖ pure ricorrenti con insistenza nel

Ceramico di Scornavacche e nella Fornace Provide di Camarina (PORTALE 2000; PISANI 2008), tanto da far sfumare l‘attribuzione ―meccanica‖ dell‘output di queste officine a santuari

demetriaci tout court (PORTALE 2008 e 2012a). Ciò a maggior ragione in quanto altre presenze,

78 11b. Frammento di oinochoe attica a testa femminile con sakkos a reticella dal santuario sul poggetto Sud-Est di Monte Saraceno (Museo di Monte Saraceno), inizi V secolo a.C. (da SPAGNOLO 2008).

12a-b. Vaso plastico da Vulci firmato dal ceramista Charinos, consimile all’esemplare da Monte Saraceno (Berlino, Staatliche Museen, inv. 2103), 500-490 a.C. (da REEDER 1995).

79 sia a Himera (ancorché nelle forme meno caratterizzate prevalenti nel V secolo) sia ad Agrigento per la fase di IV-III secolo del quartiere ―artigianale‖ (figg. 7a-b), suggeriscono un‘esegesi diversa attinente piuttosto alla sfera della ritualità nuziale e della maturazione

sessuale/sociale dei giovani (PORTALE 2012a; PORTALE c.d.s.), entro cui Atena – Atena pacifica e filatrice e, a Himera, anche la tradizionale dea guerriera – assume un ruolo ben più chiaro, e riacquista senso la gestualità della statuetta agrigentina, filatrice (rocca) e ―sposa‖ (gesto di aidos e uccello sulla spalla, polos) (fig. 6a). Prima di definire meglio tale lettura, che ci riporterà di nuovo a Pandora e ai racconti atavici nei quali è codificata la duplice valenza di Athena Ergane/Zosteria che già si scorge in filigrana, è opportuno verificare il significato annesso alla figura della filatrice, al di fuori del peculiare motivo della Atena ―lavoratrice‖ su cui ci si è sinora soffermati. Anche qui dobbiamo ricorrere a documenti di matrice ateniese: l‘immaginario dei lavori tessili è infatti ampiamente elaborato nella ceramica attica, ed è su questo medium che lo troviamo diffuso anche in Sicilia tramite l‘importazione dei vasi a figure rosse o a fondo bianco, con la notevole eccezione di tre epinetra a figure nere (figg. 10-11a) deposti come ex voto

in santuari di Selinunte (GABRICI 1927, 337, tav. XC,4-5) e Monte Saraceno (ADAMESTEANU

1956, 129, tav. XXX,3; SPAGNOLO 2008, 42s.). Questi ultimi costituiscono la riproduzione di un oggetto in cuoio o stoffa usato a protezione della gamba durante la cardatura; la versione fittile, non funzionale, ha una marcata valenza simbolica in relazione all‘ambito prenuziale, come mostra sia l‘uso votivo specifico di tali epinetra – circoscritti ai santuari attici di Artemide, e dedicati anche ad Atena e più raramente a Pan e le Ninfe o a Demetra, ovvero deposti in

contesto funerario (HEINRICH 2006, 42-70) – sia lo spettro semantico delle figurazioni. Tra le

80 13a-b. Skyphos attico a figure rosse attribuito al Pittore della Phiale, provenienza ignota (Palermo, Collezione Mormino inv. 818), 450-425 a.C. (da CARUSO 1993).

81 iconografie più fortunate (ibidem, 79ss. e 96-101; BADINOU 2003, 4ss., 14ss., part. 25ss.) è quella leggibile anche in uno dei frammenti selinuntini (fig. 10) (ibidem, 35s., cat. E10, tav. 6;

HEINRICH 2006, 64s., tav. 12,4), che dà un esempio precoce del nesso, di cui si cercherà di esplorare il significato più avanti, tra la filatura (tema di per sé inerente al supporto) e il corteggiamento, qui forse declinato con accenti ludici: si vede infatti il corteggiatore rivolgere uno specchio verso la fanciulla di fronte, che cerca forse di sottrarglielo, mentre la filatrice stante sulla destra e un kalathos sospeso ricreano l‘atmosfera del ―gineceo‖. Il nostro e l‘altro frammento da Selinunte (conservante solo le figure di una kore e di un cavaliere) provengono, tuttavia, da un nucleo votivo troppo ricco perché tali offerte singole assumano una valenza più pregnante dell‘ovvio riferimento alla sfera femminile, confacente alle competenze di (Demetra)

Malophoros (HEINRICH 2006, 64s.). Più notevole la presenza di un esemplare, seppur lacunoso (fig. 11a), in un piccolo deposito recuperato a più riprese in corrispondenza del sacello a Est dell‘abitato del terrazzo superiore di

Monte Saraceno (ADAMESTEANU 1956; MINGAZZINI 1938). L‘individuazione anche di terrecotte ―demetriache‖ dei tipi correnti ripropone qui il nesso già riscontrato fra opere di Atena e ―divinità ctonie‖; dei restanti materiali, il frammento di un vaso plastico (fig. 11b) a

testa muliebre ornata da sakkos e reticella (MINGAZZINI 1938, 668s., fig. 28) si segnala, oltre alla ricercatezza del manufatto (cfr. figg. 12a-b), per l‘allusione in esso insita a questioni di identità femminile, per la metafora che collega le donne a contenitori – che non sempre sanno gestire

con accortezza, vedi il vaso di Pandora (LISSARRAGUE 1995, 94s.; REEDER 1995, 195-199, 212-

215; FERRARI 2002, 68). In tutti gli altri casi, l‘iconografia tessile è riservata a vasi per contenere acqua (hydriai e talvolta

82 14. Kalathos fittile dal corredo di una tomba della necropoli di Megara Iblea (Siracusa, Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”), VI-V secolo a.C. (da MARTIN, PELAGATTI, VALLET 1980).

15. Edicola dipinta da Lilibeo dedicata ad una defunta eroizzata (Marsala, Museo del Baglio Anselmi), seconda metà del II secolo a.C., veduta del lato destro con kalathos dipinto (da PORTALE 2012b).

83 pelikai) e soprattutto oli profumati (lekythoi), utilizzati come elementi del corredo funerario nelle necropoli delle città greche (Agrigento, Gela, Camarina, Selinunte, Lipari...) e di centri indigeni ellenizzati come Vassallaggi. Resta invece isolato uno skyphos della Collezione Mormino, decontestualizzato (ancorché non sia da escludere una provenienza selinuntina), raffigurante una donna intenta a cardare la lana (figg. 13a-b): una fase della manifattura tessile

solo di rado contemplata nel repertorio delle ―scene di genere‖ (BUNDRICK 2008, 296s., 304, 321) che si limita piuttosto a mostrare, tutt‘al più, la filatura, e preferibilmente ad alludervi con la semplice inserzione del cestino per la lana (kalathos) nel campo. La rappresentazione più articolata dello skyphos Mormino sarà richiamata a corollario dei reperti con dati contestuali validi, sui quali va invece puntata l‘attenzione perché solo da essi può emergere la connotazione delle opere di Atena e il suo legame con la definizione dell‘identità di genere

nell‟ambiente di destinazione finale di questi oggetti. L‘imagerie tessile (FERRARI 2002, 35ss., 214ss.;

BUNDRICK 2008) è difatti un ingrediente di base dell‘iconografia del ―gineceo‖ elaborata dai ceramografi di Atene nel V secolo, in sintonia con le trasformazioni sociali connesse all‘affermazione della democrazia e all‘ideologia della coesione interna (anche in forma di endogamia), che conferiva alla componente femminile un ruolo essenziale nella costruzione del tessuto politico (si ricorderà la legge di Pericle che prescriveva il requisito della discendenza da padre e madre cittadini per l‘ammissione nella cittadinanza). Lungi da tali dinamiche specifiche della sede di origine, l‘immaginario ―femminile‖ può essere entrato nel repertorio dei vasi acquistati dai clienti della Sicilia (come di altre destinazioni commerciali dell‘industria ceramica attica) in quanto parte di rilievo della moda dell‘epoca; ciò nonostante, dall‘analisi dei contesti sicelioti d‘uso si evince necessariamente la ricezione e l‘inclusione nel

84 16. Lekythos attica a figure rosse dalla sep. 6 del Predio Salerno a Gela (Siracusa, Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”, inv. 21864), vicina al Pittore di Londra E342/Painter of Slight Nolans lekythoi, 475- 450 a.C. (da MARTIN, PELAGATTI, VALLET 1980).

17. Lekythos attica a figure rosse dalla sep. 1 del Predio Russo-Rosso a Gela (Siracusa, Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”, inv. 21162), Pittore della lekythos di Yale, 475-450 a.C. (da PANVINI, GIUDICE 2003).

85 codice culturale locale di questo immaginario, attraverso la selezione di schemi, forme e associazioni che devono aver veicolato un messaggio a chi ha partecipato al rituale funerario e devono aver rivestito un significato preciso e pregnante per la costruzione dell‘―identità sociale‖ del defunto nel contesto socio-culturale di appartenenza. Perciò persino la frequenza e l‘apparente banalità della cifra figurativa costituita dagli attrezzi per la filatura – per lo più il solo kalathos, talvolta anche il fuso e la conocchia – anziché denotare una debolezza di significato può mostrare la penetrazione profonda di tale segno all‘interno di un sistema codificato. Peraltro, un sistema codificato assai tenace e capillarmente diffuso, come mostrano esempi distanti quali un modellino fittile da contesto coloniale, deposto nel corredo di una

tomba di Megara Iblea (MARTIN, PELAGATTI, VALLET 1980, tav. XCIII,104) (fig. 14); e al polo opposto, nell‘ambiente etnicamente misto della Lilibeo di II-I secolo a.C., le peculiari edicole dipinte che integrano il cestino per la lana in un canone fisso di oggetti simbolici di bellezza ed educazione, a mo‘ di segno antonomastico della virtù femminile, con speciale enfasi nei naiskoi

commemoranti una defunta eroizzata (PORTALE 2012b, 50, figg. 9b, 10b) (fig. 15). Ma veniamo ai contesti funerari di età classica, selezionandone qualcuno utile al nostro

discorso. Il corredo della tomba 6 del Predio Salerno a Gela (ORSI 1906, 362-364, tav. XV,2), ad esempio, era contrassegnato da una lekythos a figure rosse (fig. 16) raffigurante una donna che

ripone dei fusi estraendoli da una cesta: la scena, relativamente rara (PANVINI, GIUDICE 2003, 362, cat. I133), si presta a visualizzare un ideale di philergia muliebre di cui l‘ago di bronzo deposto presso il cranio della defunta costituiva, a sua volta, una sorta di reificazione. Al contempo, la morfologia del supporto – un contenitore di unguenti – rinvia implicitamente ai

concetti di bellezza e seduzione erotica connessi all‘uso dei profumi (BADINOU 2003,51ss., part.58),

86 18. Hydria attica a figure rosse dalla tomba 592 della necropoli di contrada Pezzino ad Agrigento. Agrigento, Museo Archeologico Regionale “Pietro Griffo”, inv. AG22769, attribuita al Pittore di Efesto ,450-425 a.C.(daGIUDICE 2007).

87 cui potrebbe riferirsi anche l‘alabastron di alabastro deposto presso il braccio destro del cadavere (a meno che la sua presenza non sia semplicemente da correlare all‘impiego degli olî nel rituale funerario e/o al pregio intrinseco del materiale). La logica sottesa alla rigorosa selezione degli oggetti riflette, invero, una stabile associazione semantica che lega strumenti

della tessitura e filatura, profumi e relativi contenitori (BADINOU 2003, 76-81), e che qui andrà intesa nel senso di una caratterizzazione positiva della defunta (forse una giovane donna, a giudicare dalle proporzioni relativamente ridotte del sarcofago fittile ―a baule‖, notate da Orsi), insieme qualificata come partecipe delle opere di Atena e delle grazie di Afrodite (come Pandora…). Un nesso simile, seppur in forma più allusiva, si riconosce nel corredo della tomba ―a baule‖ 1

del Predio Russo-Rosso, sempre a Gela (ORSI 1906, 425), di nuovo con l‘abbinamento fra un

alabastron e una lekythos dipinta (PANVINI, GIUDICE 2003, 358, cat. I117). La rappresentazione

(fig. 17) s‘incentra, secondo un fortunato cliché (CARUSO 1993, 298-304), su un‘elegante donna stante davanti ad una seggiola, che definisce lo spazio interno dell‘oikos entro cui ella è ―naturalmente‖ immaginata, in atto di brandire un kalathos e uno specchio: strumento, quest‘ultimo, atto a certificare la charis, consentendo alla sposina «la presa di coscienza di sé alle soglie della metamorfosi che la trasformerà in donna» (ibidem); per finire, una fascia appesa e un

airone, volatile connesso ad Afrodite, generalmente accostato alle figure muliebri (BADINOU 2003, 66). La combinazione, ricorrente, tra il cesto per la lana e segni iconici connotati in

senso erotico-nuziale (anche corona, fascia, cassettine…: cfr. LISSARRAGUE 1995) lascia trapelare la valenza del kalathos come «segno pittorico privilegiato per indicare la giovane donna pronta per le

nozze» (CARUSO 1993, loc. cit.) ovvero come cifra connotante la donna nel suo ruolo di sposa

(cfr., inter alia, SENOFONTE, Economico VII,5).

88 Più articolata, ma in realtà costruita secondo consimili procedimenti ―retorici‖ (FERRARI 2002;

SCHMIDT 2005), è la scena che decora la spalla dell‘hydria pertinente al corredo della tomba 592 della necropoli di contrada Pezzino ad Agrigento (fig. 18), associata ad un gruppo di vasi per libagione (un‘oinochoe, uno skyphos di tipo corinzio e una coppetta a vernice nera, un‘olpe acroma) (DE MIRO 1989, 73-75). Nel fregio dipinto una donna, seduta presso un grande kalathos, regge un telaio portatile intenta alla tessitura; la fronteggia un personaggio maschile panneggiato e appoggiato ad un bastone da passeggio, così come altri due personaggi nella metà sinistra del fregio – uno con un sacchettino in mano – che paiono conversare, osservati da una figura femminile (la stessa della scena di destra?) in disparte, interamente ammantata, al margine della scena. L‘abbinamento tra una figura femminile intenta alle opere di Atena – seppure di solito caratterizzata come filatrice – e un personaggio maschile fornito di sacchettino riproduce un nesso ricorrente nella ceramografia ateniese, sul cui significato sono stati versati fiumi d‘inchiostro (FERRARI 2002, 12-17; BADINOU 2003, 4ss., 92s.; SCHMIDT

2005, 261s.; BUNDRICK 2008, 299ss.). Si tratta del motivo della cd. ―etera filatrice‖, così intesa per via di due presupposti, in realtà, controversi: da un lato l‘interpretazione del sacchetto in mano all‘uomo come con borsellino contenente il denaro per pagare le prestazioni mercenarie della donna; dall‘altro, più influente nel vincolare la lettura di queste immagini, l‘idea che le presenze maschili nel ―gineceo‖ non potessero conciliarsi con la realtà dell‘oikos in cui, si è ritenuto a lungo, le donne svolgevano le loro attività domestiche segregate dagli uomini. Per spiegare tali scene, si è arguito che le etere passassero la giornata a filare e tessere, interpretando in tal senso l‘evidenza di un complesso ateniese che ha restituito un gran numero di pesi da telaio, reputato un ―ostello‖ di donne di dubbia fama (Edificio Z del

89 Ceramico). Sfatato però, o almeno riportato entro limiti più ragionevoli, il mito della

reclusione delle donne greche (cfr. JAMES, DILLON 2012, 79-203; per la tessitura, BUNDRICK 2008, 309-315), e sfatato soprattutto il pregiudizio secondo cui le rappresentazioni sui vasi

offrirebbero uno spaccato fedele della realtà della vita quotidiana (SCHMIDT 2005, 260 e

passim; 2012), si attenuano le difficoltà poste dalla relazione figurativa tra l‘elemento

maschile e una donna collocata nel ―suo‖ spazio, l‘oikos, col telaio o il fuso (cfr. OMERO, Iliade

VI, 490-493; Odissea I, 356-359 e XXI, 350-352; STÄHLI 2005, 84, 90ss.). L‘immagine della donna corteggiata, infatti, non costituirebbe una rappresentazione realistica, bensì una proiezione delle aspettative (maschili) sulle qualità di una fanciulla degna di corteggiamento,

ovvero le qualità di una futura sposa, affascinante e industriosa (STÄHLI 2005, 96). Una recente rilettura capovolge la prospettiva tradizionale, individuando nel personaggio con il borsellino l‘uomo di casa, connotato nella sua qualità di cittadino attivo nella vita sociale esterna (il bastone da passeggio e l‘himation) e nella sua capacità di svolgere attività economiche a vantaggio della famiglia (il borsellino), mentre la moglie dà il suo apporto all‘economia

domestica con la tessitura (BUNDRICK 2008, 299-309); altri hanno evidenziato come il sacchetto non sia tout court identificabile come un borsellino per danaro, in alcuni casi

contenendo piuttosto astragali per scopi ludici (FERRARI 2002, 14-16). È forse preferibile ammettere che vi fossero diverse possibilità di lettura dello schema, a seconda dei contesti di fruizione ma anche della forma e funzione del supporto e della logica complessiva delle figurazioni. Ad ogni modo, resta indubbio che sul piano ―retorico‖ lo schema dell‘―etera filatrice‖ (o ―tessitrice‖, come nel nostro caso) veicoli un concetto di fascino, attrattività del personaggio, evidenziando il corteggiamento da parte maschile per rimarcare le qualità della

90 19a. Lekythos attica a figure rosse dalla sep. 20 del Predio Di Bartolo a Gela (Siracusa, Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”, inv. 21972), vicina al Pittore di Alkimachos, 475-450 a.C. (su gentile concessione del Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”).

19b. Lekythos attica a figure rosse dalla sep. 20 del Predio Di Bartolo a Gela (Siracusa, Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”, inv. 21971), Pittore di Providence, 475-425 a.C. (su gentile concessione del Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”).

91 protagonista – desiderabile, affascinante, oggetto di ammirazione e promanante charis –, senza implicare una relazione definita rigidamente (legame familiare o al contrario rapporto mercenario, come nelle due opposte ipotesi riportate). La nostra hydria può corroborare ciò, in primo luogo, per la pertinenza ad una sepoltura che, stando alle dimensioni della cassa scavata nella roccia (m 0,70x0,67x0,66) e alla scelta

dell‘hydria (SCHMIDT 2005, 222ss., part. 249ss.), potrebbe riferirsi ad un individuo di sesso femminile morto in giovane età, per cui non avrebbe gran senso l‘evocazione di un‘etera fra i clienti. La metà sinistra della raffigurazione, d‘altronde, ribadisce il modello dell‘uomo- cittadino attivo all‘esterno con la coppia maschile a colloquio, rappresentante l‘altro polo del discorso: un discorso, quindi, articolato su due livelli spaziali e di attività (interno/oikos e esterno/polis) corrispondenti a due modelli di genere, femminile e maschile, e incentrato sulla relazione fra essi. Quanto al personaggio femminile a margine, la sua separatezza pudica, intensificata dallo ―schermo‖ del mantello che l‘avvolge interamente (una foggia adottata per i giovincelli, e in generale per chi è oggetto del desiderio, sia efebo che fanciulla, per

sottolinearne la passività: FERRARI 2002, 54), sembra preludere ad un passaggio che si rivela

essere «une initiation à la séduction» (BADINOU 2003, 83s.) grazie alla scena di destra ove la donna compare, inquadrata da fascia appesa, corona, kalathos, nella pienezza della sua charis e della sua philergia, così come l‘uomo-corteggiatore veste i panni del cittadino membro della polis e capo di un oikos. Tenendo in conto la probabile tenera età della defunta, si può cogliere la valenza di quest‘immaginario, compensativo di un passaggio fatalmente interrotto dalla morte prematura, che poteva essere proiettato sul piano funerario attraverso la metafora che equipara

la morte alle nozze (FERRARI 2002, 190-194).

92 Un ―passaggio‖, in cui ha un ruolo pregnante l‘atto di svestirsi-vestirsi, suggerisce la coppia di lekythoi gemelle rinvenute nella tomba 20 del Predio Di Bartolo a Gela (ORSI 1906, 337s., tavv. XI-XII) (figg. 19a-b), di nuovo abbinate ad un alabastron di alabastro posto sotto il cranio della defunta, all‘interno di un sarcofago ―a baule‖ di fine fattura (PANVINI, GIUDICE 1993, 150, figg. 3A-B, e 330, 349, cat. I20, I85). Il dettaglio che consente di collegare questi oggetti alla semantica delle opere di Atena è, ancora, un kalathos, qui deposto a terra presso la figura vestita; al cestino per la lana, che richiama la philergia e l‘oikos, si contrappone nell‘altra lekythos il podanipter (bacile tripodato), referente simbolico dell‘abluzione, alludente alla cosmesi e al sex appeal della fanciulla in nudità (sottolineato dalla formula di acclamazione «e pais kalé»). Che con le due scene si voglia evocare una sequenza lo denota la ripetizione anaforica della sedia sulla destra, verso cui la figura si china reggendo una veste ripiegata sul braccio in atto di deporla (o di riprendere il solo mantello, nel caso della figura vestita?), mentre a sinistra uno specchio sospeso nel campo ribadisce la sua charis. L‘insolita fanciulla nuda – esempio precoce di tale tema destinato a maggiore fortuna nell‘avanzato V secolo (FERRARI 2002, 47-52, 163;

STÄHLI 2005, 97s.; SUTTON 2009) – è stata intesa come un‘etera (seppure in forma dubitativa, dallo stesso Orsi) quali spesso le figure femminili in nudità, specie se rappresentate su vasi di destinazione simposiale. Tuttavia, nel nostro caso la relazione tra le due scene suggerisce che esse concorrano a pendant a costruire, in elogio della defunta, una retorica della fresca bellezza e delle virtù di fascino e capacità tessile della fanciulla, segno entrambe del suo essere pronta alle nozze: se la toletta prelude all‘incontro sessuale, come l‘archetipica toletta di Afrodite (Inno omerico ad Afrodite, 53ss.), la preparazione si abbina al contempo ad un ideale di operosità domestica sintetizzato dal cestino per la lana, prefigurante la posizione della donna nell‘oikos

93 (cfr. SCHMIDT 2005, 273-277, figg. 136s.). Che questa rete di associazioni rifletta un modello conclamato di femminilità e un ideale condiviso e nodale per la sfera dell‘oikos lo mostra bene il corredo dalla tomba 1222 della

necropoli di Passo Marinaro a Camarina (ORSI 1990, 120s., tavv. LXXVIII-LXXXIII), composto

da ben tre hydriai (figg. 20a-c) (GIUDICE 2010, 16s., 136, 168s., cat. nn. I.27, I.103-104) e «una piccola lekythos ariballica con figurina muliebre», oltre a vasetti minori non figurati per versare liquidi e unguenti (un‘olpe acroma e due lekythoi corinzie, più un «boccaletto» all‘esterno della tomba), una lucerna a vernice nera e «una lametta o spatoletta di bronzo senza taglio, rotta al manico» (uno strigile?), deposti intorno al cadavere in un «grandioso baule fittile» con un uccello palustre graffito sul timpano, eccezionalmente contenuto all‘interno di una struttura in blocchi (con ancora qualche resto del letto funebre ligneo). Il riferimento alla competenza tessile della protagonista (fig. 20a), evidenziata dall‘acclamazione kalé, si limita al solito kalathos, poggiato al suolo tra costei – raffigurata stante davanti ad una sedia e interamente avvolta nel mantello che le lascia scoperte solo la testa e la mano sinistra con un ramoscello a girale– e un personaggio maschile semipanneggiato, in appoggio su un bastone, che le si rivolge secondo il cliché del corteggiamento, mentre una compagna a fianco tiene uno specchio; sul fondo si scorgono due bende e una reticella, allusive all‘ornato nuziale. Il sistema semantico si completa e si precisa negli altri due vasi figurati: nel primo (fig. 20b) un giovane seduto suona una lira eptacorde tra due fanciulle, di cui una accenna ad incoronarlo (ribadendo il messaggio insito nella ghirlanda soprastante), mentre l‘altra (anch‘essa con coroncina in mano?) regge in braccio un Erote che la bacia infondendole il trasporto amoroso verso il suonatore; l‘aura erotico- amorosa della scena, visualizzata dall‘intervento del piccolo dio, è rimarcata dall‘airone

94 20a. Hydria attica a figure rosse dalla sep. 1222 della necropoli di Passo Marinaro a Camarina (Siracusa, Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”, inv. 26562),attribuita al Pittore di Christie, 450-425 a.C. (su gentile concessione del Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”).

95 frapposto tra i due protagonisti. Nell‘ultima hydria (fig. 20c) di nuovo l‘interesse è sul personaggio femminile, omaggiato da due ancelle di cui la più vicina gli offre un monile tratto da una cassettina, l‘altra solleva uno specchio, appoggiandosi ad una seggiola. Il nesso figurativo fra la protagonista, diademata e signorilmente panneggiata, e la porta alle sue spalle dà il senso del percorso evocato dalle immagini: la porta esprime per sineddoche l‘oikos

(STÄHLI 2005, 88s.; HEINRICH 2006, 106s.), e specificamente il nuovo oikos che la donna viene a presiedere con le nozze, il reale magnete del flusso di charis/corteggiamento e musica/persuasione amorosa che avvolge i due sposi mettendo in campo fascino, operosità e philergia, peithò e charis, ovvero i fondamenti di una felice unione matrimoniale (figg. 20a-c).

Non stupisce, allora, che sullo skyphos Mormino citato all‘inizio (CARUSO 1993, 310-317, figg. 202-205, cat. E75) alla donna che carda la lana, velata e inghirlandata come una sposa (nymphe), corrisponda sull‘altro lato lo sposo coronato (nymphios) e appoggiato al bastone da passeggio, davanti alla porta simbolo dell‘oikos che della loro unione è sede ed esito (figg. 13a- b): non a caso, del resto, il termine oikos definisce sia la famiglia basata su un legame matrimoniale sia la residenza della famiglia, e il nesso ―locativo‖ è parte integrante del concetto di nucleo familiare. Torniamo, infine, alle figurine fittili. L‘intreccio semantico operante, come si è visto, nei vasi e nelle loro modalità di uso e associazione nella pratica funeraria delle necropoli siciliane (ma anche nel più limitato novero degli epinetra votivi) tra tessitura/filatura, toletta e corteggiamento, eros e matrimonio, conseguimento del ruolo adulto, sfera dell‘oikos, può aiutarci a decrittare la statuetta dal quartiere di Porta II ad Agrigento (fig. 6a), un‘Atena philergos, ma anche una divinità ―ninfale‖, legata, cioè, alla sfera della maturazione sessuale e

96 20b. Hydria attica a figure rosse dalla sep. 1222 della necropoli di Passo Marinaro a Camarina (Siracusa, Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”, inv. 26561), attribuita al Pittore del Louvre G443, 450-425 a.C. (su gentile concessione del Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”).

97 delle nozze. D‘altronde, la trama delle associazioni riporta alle stesse intersezioni tra lavoro femminile- philergia, ―ninfalità‖, acquisizione della capacità seduttiva e riproduttiva, maturazione sessuale e sociale, matrimonio, stabilità dell‘oikos e discendenza (figg. 6b-c, 7a-b): su questo sfondo riprendono senso gli oggetti votivi che resterebbero inerti in un culto dell‘―Atena degli artigiani‖ (a meno di non assegnarli ad altre entità divine venerate insieme), nei centri di cui si è trattato; e trovano altresì giustificazione gli indizi dello svolgimento di pratiche rituali specifiche presenti sia nel ―santuarietto‖ del Quartiere Est di Himera sia in forme più esplicite, seppure su scala più ridotta, nel contesto più tardo (cd. casa A) del Quartiere di Porta II ad Agrigento. Oltre alle dediche di offerte incruente e di figurine ed ex voto intesi propiziare l‘acquisizione e la tutela della fertilità (offerenti del porcellino, cd. Athana lindia, Artemide ―sicula‖, figure curotrofe, poi ―neonati fasciati‖…) e la corretta crescita sessuale e sociale dei giovani (―pupa‖ nuda, figurina di cervo, grotteschi, astragali, scudetti miniaturistici dal ―santuarietto‖ di Himera; oggetti per il gioco, figurine seminude di nymphai recumbenti, kline miniaturistica dal complesso agrigentino), tali pratiche dovevano comprendere abluzioni e bagni (suggeriti da apprestamenti quali pozzi e cisterne e instrumentum come louteria, bacili, vaschette, nonché crateri, brocche, idrie…), aspersioni e cosmesi con oli profumati e belletti (vasi per profumi), incensazioni (thymiateria, nel contesto più tardo anche a testa femminile o in forma di fiore), al cospetto di divinità ―ninfali‖

sovente rappresentate in forma di busto (figg. 6c, 7a) (PORTALE 2012a, 179ss., part. 181-184;

PORTALE c.d.s.). Riconosciamo qui, attivato nella pratica rituale, il nesso tra il bagno e la cosmesi, la charis e la capacità di procreare costruendo, insieme allo sposo, una nuova cellula sociale (oikos) nella quale si definisce l‘identità stessa della donna, che è soggetto socialmente

98 20c. Hydria attica a figure rosse dalla sep. 1222 della necropoli di Passo Marinaro a Camarina (Siracusa, Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”, inv. 26563),vicina al Pittore di Christie/ Pittore del Louvre G443, 450-425 a.C. (su gentile concessione del Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”).

99 inesistente finché lo sposo non la presenti ai suoi parenti e compagni e finché non divenga madre di figli legittimi, dando così il suo contributo determinante alla ―tessitura‖ della comunità civile. Non a caso, l‘immaginario greco impersona nelle amene divinità che ornano e accompagnano le spose divine, le Charites, quel concetto di ―grazia‖, compiacimento reciproco, flusso positivo che favorisce l‘unione e la concordia in ambito domestico e sociale più ampio, e non a caso si

tratta di leggiadre divinità tessitrici (fig. 2) (WAGNER-HASEL 2002). È proprio l‘arte della tessitura, trasmessa da Atena agli uomini ma condivisa da dee giovinette ed eroine – da Atena,

Artemide e Kore inviate a tessere il peplo per Zeus in Sicilia (DIODORO V 3,4) a Cariti, Ninfe,

Nereidi, Miniadi… (HEINRICH 2006, 101s.) – come attività principe della parthenia, a costituire la quintessenza della charis: capacità di legare insieme e di creare diletto, techne atta a costruire un tessuto che metaforicamente rappresenta il mondo civile, ovvero la società unita da vincoli

che nascono dalla charis e creano charis (BUNDRICK 2008, 309, 320ss.). Nella Cosmogonia di Ferecide di Siro (frr. 68 e 14 Schibli) è in principio Zas a vestire Chthonie (colei che sta sotto terra) di un mirabile manto, in cui egli stesso ha intessuto la terra e Oceano (i contorni del mondo civile) e le case di Oceano, ed in tal modo la onora come sua sposa rendendola Ge, Terra produttiva capace di procreare entro il vincolo matrimoniale (il mito costituisce infatti l‘aition del rituale nuziale degli anakalypteria, il ―disvelamento‖ della sposa nelle nozze)

(FERRARI 2002, 188-190). L‘abito, il velo sul capo e la cintura – simbolo della verginità che presto sarà sciolta nella nuzialità e nel parto – sono insieme all‘arte tessile il dono che Atena (al contempo Zosteria ed Ergane) conferisce a Pandora, la prima sposa e la progenitrice del genere umano, colei che riceve doni e dono ella stessa, secondo il meccanismo reciprocativo della

100 charis (meccanismo peraltro rischioso, se la natura femminile non viene ―incanalata‖ entro i limiti civili dell‘oikos). La capacità tessile e la pratica del fuso e del telaio sono, perciò, una parte costitutiva del fascino della parthenos – dando a questo termine l‘accezione, differente dalla nostra, che non attiene tanto alla verginità fisica quanto allo stadio di massima attrattività e fulgore, e insieme fragilità, in cui la fanciulla si appressa all‘età adulta. L‘apprendistato tessile connota, dandole una direzione e un ―senso‖, quella fase di preparazione alle nozze che segna la condizione femminile: così, se la conocchia diviene metafora poetica della giovinezza e delle sue aspettative, è la vita stessa della donna a ―identificarsi‖ nelle opere che ella ha tessuto

(HEINRICH 2006, 134ss.). La rilevanza nodale di queste nozioni, comuni all‘intera Grecità, anche nella Sicilia di V-IV secolo traspare dal ricorrere nei corredi funerari, persino in forme minimali, della cifra della donna philergos come segno distintivo del ruolo sociale – rivestito o, nei casi di defunti di età pre-adulta, evocato in forma compensativa – della defunta; ma soprattutto si evince dalla distribuzione delle testimonianze votive correlate alle opere di Atena (tra cui vanno considerati i pesi da telaio, particolarmente numerosi nei contesti succitati!) all‘interno di settori di abitato. Questa contiguità non si spiega con la devozione di un‘ipotetica ―classe‖ degli artigiani residenti all‘intorno, bensì con il ―ruolo sociale‖ delle opere di Atena e di ciò che ad esse indissolubilmente s‘intreccia: cioè a dire, con il ruolo dell‘istituto matrimoniale e dell‘oikos come fondamento di ogni socialità e come base del ―tessuto‖ civile, anche in senso fisico, nella dimensione concreta che i nuclei familiari assumono nella trama urbana delle case (PORTALE c.d.s). Culti, perciò, e pratiche intessute nella trama della città, che attraverso le figlie di Pandora continua a perpetuarsi.

101 Bibliografia

* Una visione d‘insieme aggiornata della condizione femminile in Grecia è data da BERNAND, N. 2011, Donne e società nella Grecia antica, Roma (trad. it.; I ed. 2003, Paris); e con maggiore ampiezza nei contributi raccolti da JAMES, DILLON 2012.

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104 Il mito di Trittolemo in Sicilia: immagini e contesti

MONICA DE CESARE

In una delle famose orazioni contro Verre (II, 4, 110), Cicerone ci parla di due signa pulcherrima ac perampla (tanto da essere inamovibili), posti dinanzi al tempio di Cerere ad Enna: la statua della dea e una statua di Trittolemo, il famoso eroe eleusinio, al quale Demetra, per l‘ospitalità ricevuta dal padre di lui Celeo, re di Eleusi, dapprima cercò invano di elargire l‘immortalità e poi donò un carro alato con cui percorrere il mondo e diffondere la cerealicoltura. Della poliedrica figura di Trittolemo, le fonti letterarie sottolineano variamente il nesso con le divinità eleusinie e dunque con le dottrine iniziatiche e misteriche delle due dee e con il mondo ultraterreno, il forte legame con Atene, il carattere regale e il potere civilizzatore derivante dal suo ruolo di detentore del principale frutto della terra e di dispensatore della cerealicoltura, fonte di vita, ricchezza e prosperità (riferimenti in SFAMENI GASPARRO 1986,

144-169; SCHWARZ 1987; 1997, 56-57). Le testimonianze archeologiche e iconografiche forniscono uno spettro di significati altrettanto articolato e complesso e un quadro ricco di sfumature, che proveremo qui a delineare attraverso l‘analisi della documentazione siciliana, tra la quale si inserisce la citata testimonianza ciceroniana1. Il caso siciliano sembra degno di attenzione perché, a dispetto del carattere eminentemente eleusinio del mito e della figura di Trittolemo, enfatizzato dalle fonti e della rilevata scarsa

105 diffusione del soggetto nella Sicilia dei riti tesmoforici (CALDERONE 1992), l‘eroe sembra rivelarsi legato all‘isola (o almeno ad una ‗frangia‘ di essa) più di quanto sinora ritenuto, sempre in associazione stretta con la dea della fertilità e dei misteri, una Demetra non eleusinia o tesmoforica, quanto piuttosto – potremmo dire – siceliota, polivalente e presente con diversi

volti nel tessuto socio-culturale dell‘Isola (SFAMENI GASPARRO 2008; GRECO 2013)2. La casistica non è ampia, ma ci consente comunque di sondare il valore assunto da tale mito nei diversi contesti d‘uso della Sicilia del V secolo a.C.: da quelli funerari (in cui la dimensione agraria della figura è offuscata o affiancata dall‘aspetto misterico e soteriologico), a quello sacro all‘interno di un‘area di abitato (a Himera), sino ad arrivare al caso del santuario ennese, documentato dal passo di Cicerone. L‘importanza dei culti demetriaci in Sicilia è sin troppo banale da richiamare ed è stata spesso

evocata in relazione soprattutto all‘età delle tirannidi Dinomenidi (da ultimo, SFAMENI

GASPARRO 2008; GRECO 2013, 58); altrettanto indagata è stata l‘ampia diffusione delle ceramiche attiche con il tema di Trittolemo in area etrusco-campana, generalmente interpretata in letteratura come frutto delle istanze propagandistiche e della politica espansionistica ateniese e/o come espressione della volontà dei ceti aristocratici di esprimere il proprio rango attraverso l‘adesione agli esclusivi riti iniziatici della dea eleusinia (da ultimo

TANTILLO 2012, 196) 3. Si è inoltre ricercato un possibile collegamento tra la marcata presenza dell‘eroe in tale area e le poche attestazioni del tema iconografico nella Sicilia del V secolo,

richiamando la mobilità tirrenica dell‘età delle tirannidi siceliote (DE CESARE 2006, 433-434) 4. D‘altra parte, la diffusione del soggetto nell‘isola segue una precisa geografia che comprende, come in un triangolo ideale, Agrigento, Gela ed Himera. Dall‘Agrigento della tirannide o

106 1. Cratere a campana attico a figure rosse del Pittore di Orizia (470-460 a.C.). Da Agrigento. Palermo, Museo Archeologico Regionale inv. 2124 (da Veder greco).

107 piuttosto post tirannide emmenide, provengono due significative testimonianze vascolari da contesti funerari. La prima è costituita dal famoso cratere a campana di Palermo, del Pittore di Orizia (470-460 a.C.; Veder greco, 208-209, n. 66) (fig. 1), rinvenuto nel 1841 insieme ad altri quattro crateri, tutti utilizzati come urne cinerarie «riunite in un sepolcro, una sola al di

fuori» (POLITI 1841, 107): un cratere a campana, del Pittore di Pan (470-460 a.C.), con Dioniso e Menade (lato A) e scena di komos (lato B) e tre crateri a colonnette coevi, raffiguranti rispettivamente una divinità che insegue una fanciulla (lato A; Ade e Persefone?) e una donna con fiaccola (Demetra (?), lato B; Vicino al Pittore di Borea), Caineo e i Centauri (sul lato B, tre efebi ammantati; Pittore di Kaineus), e una figura femminile seduta intenta a intrecciare o a porgere una corona dinanzi ad un personaggio barbato e ad un efebo (Pittore di Harrow; Veder greco, 204-211, nn. 64-65 e 67-68) (fig. 2). Si può ipotizzare, stando alla descrizione del Politi, che i cinque vasi appartenessero a un nucleo familiare o piuttosto, data la presunta contemporaneità dei cinerari e la comunanza del rituale impiegato per le sepolture, a un gruppo elitario accomunato da credenze escatologiche di matrice dionisiaca

(DE CESARE c.d.s.a). È stato ipotizzato, infatti, che i crateri-cinerari figurati rinvenuti in Sicilia fossero funzionali a una ritualità connessa ad un dionisismo colto ed elitario e a credenze

salvifiche (DE CESARE 2007). Due o forse tre dei nostri vasi, inoltre, si può pensare verosimilmente che appartenessero a sepolture femminili: il cratere con la raffigurazione di Ade e Persefone, metafora delle nozze negate dalla morte della nymphe prima dell‘unione coniugale, quello con la donna con ghirlanda, per le valenze erotiche della scena, ed infine, forse, il cratere con Trittolemo, dato l‘abbinamento con la scena del lato B del vaso,

incentrata,come vedremo,sul tema della maternità,oltreche dell‘immortalità(TORELLI 1996, 197) 5.

108 2. Crateri attici a figure rosse rinvenuti ad Agrigento nel 1841 insieme al cratere del Pittore di Orizia. Palermo, Museo Archeologico Regionale inv. 2111, 2103, 2081, 2047 (da Veder greco).

109 Alla semplicità narrativa dei quattro vasi appena descritti, si oppone la complessità figurativa del cratere con Trittolemo, il più prezioso del gruppo; una complessità che si esplica non solo nella costruzione della scena del lato principale, arricchita da personaggi della regale cerchia eleusinia (Celeo e Ippotonte) che affiancano Demetra (a destra, con oinochoe) e Persefone (a sinistra, con phiale), entrambe con mazzo di spighe, ma anche nell‘associazione figurativa e semantica del soggetto demetriaco con quello del lato B del vaso, che mette in campo il mito di Achille e Memnone, e in particolare l‘episodio della richiesta di immortalità per i due eroi a Zeus, da parte delle madri Eos e Teti (tutti i personaggi sono identificati dal nome iscritto). Alla figura di Trittolemo su carro fa da pendant sull‘altro lato del vaso quella di Zeus, che, secondo Diodoro Siculo (V, 68,1-2), è il dio con cui Demetra si riconciliò dopo aver ritrovato la figlia Persefone (di qui il dono del grano a tutti gli uomini attraverso Trittolemo). Il lato B, inoltre, con le sue chiare allusioni soteriologiche, riporta anche il mito eleusinio, ricco di valenze iniziatiche, nella prospettiva oltremondana, esplicitando credenze di tipo salvifico, documentate soprattutto in ambiente etrusco-tirrenico, dove il mito di Trittolemo, peraltro, come già ricordato, sembra maggiormente essersi diffuso. Il rito dell‘iniziazione, come ben notato da A. Calderone (1992, 41), è evocato in particolare dalla phiale6, tenuta dal nostro Trittolemo come da quello del cratere-cinerario della Tomba 842 della necropoli agrigentina di Contrada Pezzino (secondo quarto del V sec. a.C.; Veder greco, 360-361) (fig. 3)7; in quest‘ultimo caso però l‘episodio mitico è ridotto alla sola figura di Trittolemo con scettro su carro alato con serpente (come il Trittolemo del cratere di Palermo), mentre il lato B del vaso mostra una figura femminile, interpretata, nonostante la mancanza di attributi, come la dea Demetra (nell‘atto di porgere la mano all‘eroe?).

110 3. Cratere cinerario (lato A e lato B) e corredo della Tomba 842 della necropoli di Contrada Pezzino ad Agrigento (secondo quarto del V sec. a.C.). Agrigento, Museo Archeologico Regionale, inv. 22788, 222789, 22790, 22791 (da Veder greco).

111 Regalità (si veda lo scettro tenuto da Trittolemo) e prospettiva ultramondana, Dioniso (evocato dalla forma del vaso funzionale al consumo del vino) e Demetra, dimensione urania (richiamata dal carro alato dell‘eroe e dalla scena olimpica del lato B del cratere di Palermo) e ctonia (si veda in particolare il serpente del carro oltre, naturalmente, l‘ambito demetriaco) si fondono in questi due contesti, facendo di Trittolemo, viaggiatore-civilizzatore, annunciatore di pace e mediatore fra mondi (come l‘omologo Icario), il simbolo di valori aristocratici, politici e religiosi

(da ultimo, su tali aspetti dell‘eroe, PIERRE 2008, 113; JUNKER, STROHWALD 2012, 19 e 51) 8. Ad una semantica affine, seppur ricca di sfumature diverse, rimandano anche i casi geloi, ancora appartenenti all‘ambito funerario. Si tratta di un‘anfora nolana dell‘Università del Mississippi (Schwarz 1997, 62, n. 90, con bibl.) e di una lekythos a Siracusa, entrambe del Pittore

di Berlino (490-470 a.C.; PANVINI, GIUDICE 2003, 303, n. G12, con bibl.) (figg. 4-5), di una

lekythos a Oxford del Pittore di Eucharides (490-470 a.C.; PANVINI, GIUDICE 2003, 306, n. G23,

con bibl.) (fig. 6) e di una lekythos di Londra del Pittore della Phiale (440-430 a.C.; PANVINI,

GIUDICE 2003, 389, n. L31 , con bibl.) (fig. 7), tutti verosimilmente oggetti di corredi tombali

(dati di contesto solo per la lekythos a Siracusa: ORSI 1906, 391-395, tav. XIX) 9. Per le dimensioni e il soggetto mitico sembrano prodotti destinati a un pubblico selezionato, come anche il tipo di sepoltura entro sarcofago a cui si legava la lekythos del Pittore di Berlino sembra confermare10. In particolare tale vaso proviene da una tomba (T. 6 della necropoli di Predio Leopardi), che comprendeva nel suo corredo interno altre due lekythoi (una a vernice nera e una a figure rosse con figura femminile con patera e thymiaterion, che si appresta a compiere una pratica rituale) ed è stata riferita «ad un giovane individuo di 25-30 anni»

(ORSI 1906, 394; sepoltura femminile?). La lekythos (fig. 4), che mostra l‘eroe su carro con

112 4. Lekythos attica a figure rosse del Pittore di Berlino (490-470 a.C.). Da Gela, necropoli di Predio Leopardi, Tomba 6. Siracusa, Museo Archeologico Regionale, inv. 20354. (da Sicilia 2008).

113 doppio mazzo di spighe, enfatizza l‘aspetto agrario e della fertilità, recuperando forse le valenze ‗femminili‘ del mito. Diversamente, l‘anfora nolana dello stesso pittore (fig. 5) ritrae Trittolemo ancora su carro alato ma con scettro, abbinando la figura ad una Demetra coronata con fiaccole sul lato B ed evocando lo status regale dell‘eroe eleusinio, senza tralasciare le valenze misteriche e ultraterrene, richiamate qui come sulla lekythos del Pittore della Phiale dalle torce tenute dalla dea. Anche su quest‘ultima (fig. 7), infatti, il pittore rappresenta Demetra (coronata e velata) munita di fiaccola e posta di fronte al giovane; questi è ritratto su carro alato e con il braccio proteso verso la dea, dalla quale forse sta ricevendo le spighe (originariamente sovraddipinte e ora evanide (?); si veda la mano sinistra della dea serrata come in una presa), richiamando, in tal modo, il suo ruolo di eroe civilizzatore. Con uno schema variato, la grossa lekythos del Pittore di Eucharides (fig. 6) raffigura invece Trittolemo come un giovane stante appoggiato al suo scettro presso il carro alato, che presenta braccioli maculati; tale particolare potrebbe rinviare all‘ambito dionisiaco, in una sorta di contaminazione e contiguità tra i due temi, così come troviamo su un‘anfora a figure nere della fine del VI secolo a.C., in cui Dioniso su carro con kantharos e tralcio di vite sul lato A

del vaso è abbinato a Trittolemo su carro con scettro e spighe sul lato B (JUNKER, STROHWALD 2012, 49, fig. 35) 11. La presenza del tema a Gela, come ad Agrigento, si spiega, dunque, con il valore funerario del soggetto, rientrando l‘immagine di Trittolemo fra le cosiddette Unterwelt-Darstellungen, oltre che con il ruolo svolto dalle divinità ctonie e dunque dall‘eroe eleusinio nel contesto sociale coloniale, figura di riferimento per le elites locali, come per quelle di area tirrenica. Ma proprio

114 5. Anfora nolana attica a figure rosse del Pittore di Berlino (490-470 a.C.). Da Gela. Mississippi, Università, inv. P 86. (da Corpus Vasorum Antiquorum, Baltimora, Robinson Coll. 2).

115 il tema come il tipo dell‘anfora adottata, cosiddetta nolana per la sua diffusione in ambiente campano (a Nola e a Capua in particolare), potrebbero connettere in maniera diretta la colonia siceliota all‘ambiente tirrenico, pensando ad una qualche presenza in loco o a pratiche elitarie di dono o infine ad una contaminazione culturale dei due comprensori forse derivante

da quella mobilità mediterranea di cui si è detto (DE CESARE 2006, 431-434; si veda anche DE

LA GENIÈRE 1996; 1999; 2003). Di contro, la scelta del soggetto potrebbe derivare anche dal riconosciuto filoatticismo o meglio dalle «relazioni di ordine intellettuale» (si pensi solo alla presenza di Eschilo a Gela) e dall‘«orientamento verso la cultura ateniese» (si ricordi anche l‘elaborazione sofoclea del mito:

infra) delle elites geloe (come ben delineato per l‘ambiente tirrenico da GIANGIULIO 1997); ma si potrebbe pensare, in alcuni casi, anche ad un processo di appropriazione di una marca

mitica a fini politici da parte degli acquirenti dei vasi figurati (cfr. SFAMENI GASPARRO 2008, 29), quelle aristocrazie geloe dell‘età della tirannide e post-tirannide, che scelsero anche le

ceramiche attiche con tematiche teseiche (MUGIONE 1997; 2000, tabella 2b; TORELLI 2003, 107). In tutti e due i casi, infatti, Teseo e Trittolemo, si tratta di eroi nazionali attici, modelli civici e di civilizzazione, talvolta persino assimilati e associati tra loro dai vasai ateniesi come modelli omologhi su uno stesso vaso, come nel caso della pelike da Orvieto di Copenhagen con Trittolemo tra Demetra e Persefone su un lato e Teseo tra Poseidone e Teti sull‘altro (480-470 a.C.) o nel più tardo cratere del Pittore di Marlay, da Napoli, con i due eroi compresi

all‘interno di una stessa scena (FRIIS JOHANSEN 1969; SCHWARZ 1987, 143-144; CALDERONE,

SERRA 2004, 234; SCHWARZ 2013). Al contatto con l‘ambiente geloo è forse da ricondurre anche la presenza a Camarina del

116 6. Lekythos attica a figure rosse del Pittore di Eucharides (490-470 a.C.). Da Gela . Oxford, Ashmolean Museum, inv. 1981.683 (da Corpus Vasorum Antiquorum, Oxford 1).

117 cratere a calice attico frammentario della Maniera del Pittore di Peleo, databile tra il 450 e il

440 a.C., ovvero dopo la rifondazione geloa della città del 461 a.C. (GIUDICE, SANFILIPPO

CHIARELLO 2010, 131-132, n. L18, con bibl.) (fig. 8). Il cratere, proveniente dalla necropoli di Passo Marinaro ma purtroppo privo di contesto in quanto oggetto sporadico, associa la figura di Trittolemo su carro alato, con scettro e spighe, a figure di Satiri danzanti (uno dei quali chiamato Komos)12, richiamando così, di nuovo, quella «contiguità tra spiga e vite»

(CALDERONE, SERRA 2004, 232), da connettere forse qui, come negli altri casi esaminati, ad una prospettiva soteriologica. La popolarità acquisita dal mito in seguito al suo ingresso nel teatro tragico attico, con il famoso dramma di Sofocle, Trittolemo, con il quale il tragediografo vinse su Eschilo all‘esordio della sua carriera, nel 468 a.C., e in cui si congiungeva il viaggio dell‘eroe all‘Occidente (TrGF

IV F 596-617a; PIERRE 2008, 116-117), e la diffusione del soggetto in ambito tirrenico (etrusco- campano e calcidese) ed in quello geloo-akragantino potrebbero invece essere variamente alla base della presenza del tema ad Himera, dove il mito è documentato da due testimonianze databili nel secondo quarto del V sec. a.C.13 La prima è rappresentata ancora da un vaso in contesto funerario, un cratere a calice, per la precisione, singolare elemento di corredo, insieme ad altri diversi oggetti, di una sepoltura della necropoli occidentale imerese, di recente scoperta e ancora in fase di studio. Si tratta verosimilmente di una sepoltura di rilievo, come sembrerebbe indicare l‘anomala scelta, come parte del corredo, del cratere (e per di più della preziosa tipologia a calice), che di rado svolge

tale funzione nelle necropoli siceliote (DE CESARE 2007); qui di Trittolemo sembrano essere sottolineati l‘aspetto della fertilità e il ruolo regale dell‘eroe (su carro alato, con scettro) e la sua

118 7.Lekythos attica a figure rossedel Pittore della Phiale (440-430 a.C.). DaGela.Londra, British Museum, inv. E595 (da OAKLEY 1990).

119 associazione con Demetra (entrambi con mazzo di spighe)14. La seconda testimonianza imerese è costituita da un frammento di arula fittile che conserva una testa femminile con sakkos

(Demetra o Persefone?) dinanzi a due serpenti e un mazzo di spighe (BELVEDERE, EPIFANIO

1976, 336-337 e 338, n. 7, tav. LI,2; BELVEDERE 1982, 100-101, tav. XXII,1) (fig. 9) 15. L‘arula proviene da un‘area di abitato della città alta sul Piano di Himera, in particolare dall‘Isolato III, blocco VI,4, Ambiente 25; tale ambiente è limitrofo ad un cortile con grossa cisterna (Ambiente 26), di recente interpretato come funzionale a ritualità di tipo familiare o

sovrafamiliare legate all‘acqua (così l‘Ambiente 25 con telaio: PORTALE c.d.s.; si veda anche, su

tale contesto, ANZALONE 2009, 14 nota 3; HARMS 2010, 79-82). Indizi circa la tipologia del culto derivano, oltre che dalla nostra arula, da alcuni oggetti restituiti dal riempimento della cisterna: busti fittili, uno dei quali provvisto di collana con pendagli a maschera gorgonica e

stauette fittili femminili (tra cui due del tipo della cosiddetta Athena Lindia: BELVEDERE,

EPIFANIO 1976, 341-342, 345, n. 14, 346, nn. 32-34, tav. LIV,1-2 e 8-9, 347, nn. 38 e 40, 48-49, 348, n. 57, tav. LV,3). Chiara la connotazione del contesto, che potrebbe rimandare a ritualità ninfali e nuziali, connesse in particolare con il tema della fertilità (e dunque collateralmente delle nozze e delle nascite), come la presenza di statuette con pettorali tipo ―Athena Lindia‖, che enfatizzano nell‘iconografia proprio tale tema, sembra indicare e pure la nostra arula potrebbe confermare data la natura del soggetto ivi raffigurato (si ricordi che Demetra è nutrice di Trittolemo e dunque kourotrophos). Emergerebbe in tal caso una certa sensibilità degli artigiani imeresi verso soggetti resi popolari dal teatro attico contemporaneo – quello sofocleo in particolare - e una interconnessione del tema con la sfera femminile e con gli statuti umani (quello della fertilità nello specifico, non più o non solo agraria, quanto piuttosto

120 8. Frammenti di cratere a calice attico a figure rosse del Pittore di Peleo (450-440 a.C.). Da Camarina, necropoli di Passo Marinaro. Ragusa, Museo Archeologico Regionale (da SCHWARZ 1997).

121 umana), sanciti attraverso la pratica rituale ed evocati mediante l‘immagine mitica in piccoli santuari di quartiere. Tale aspetto è stato già riscontrato anche per altre arule e pitture

vascolari imeresi a soggetto mitico (seppure di più tarda cronologia; DE CESARE c.d.s.b), che mettono in campo saghe sfruttate nei loro diversi elementi in contesti sacri, in una cornice tirrenica, entro cui si colloca almeno una parte della tradizione mitografica e cultuale della colonia calcidese. E da Himera approdiamo di nuovo ad Enna, nel cuore della vicenda mitica siceliota di

Demetra e Kore narrata da Diodoro (V, 2-5; cfr. anche CICERONE, Verrine, II, 4, 106-108;

OVIDIO, Metamorfosi, V, 385 ss.), e ai due signa menzionati da Cicerone, posti nel principale santuario dedicato a Demetra in Sicilia, dinanzi al tempio della dea (in aperto ac propatulo loco), come la statua di Trittolemo vista da Pausania (I, 14, 4) dinanzi all‘Eleusinion di Atene

(LAZZERETTI 2006, 311; SCHIPPOREIT 2008, con discussione su un possibile nesso del Trittolemo ciceroniano con il Trittolemo stante con scettro su coni in bronzo ennesi variamente datati al 350-344 o post 258 a.C.). Tale dato è stato letto come espressione dell‘adesione al paradigma misterico eleusinio del culto demetriaco in Sicilia e in relazione ad

un fenomeno di ―atticizzazione‖ della Demetra siceliota (GRECO 2013, 59 e 63) ovvero come frutto di una volontà di rivendicare un primato su Atene della Sicilia (e di Siracusa in particolare) nell‘istituzione della cerealicoltura e del culto alle dee, di cui il racconto diodoreo

(derivante forse da Timeo) sarebbe la piena espressione (SFAMENI GASPARRO 2008, 35-36;

SCHIPPOREIT 2008). Da parte nostra riteniamo che sia da rilevare l‘indissolubile connubio tra Trittolemo e la dea della fertilità Demetra, già riscontrato su alcuni vasi rinvenuti in ambiente siceliota, e il carattere votivo delle due statue, che lega ancora una volta il nostro soggetto

122 mitico ad un‘alta committenza, considerando anche l‘amplitudo delle due sculture16. È proprio nel V secolo, dunque, che la figura di Trittolemo, con la sua storia, entra a far parte in Sicilia dei grandi modelli mitici, a fianco di eroi ben più popolari e radicati nella tradizione iconografica dell‘isola, quali Eracle e Teseo, e di figure più marginali come ad esempio Filottete

(DE CESARE 2013, 72-73), concorrendo in varie forme con le sue immagini, qui, come in Etruria e ad Atene (si pensi solo alle pitture su vasi dedicati sull‘Acropoli o anche all‘immagine dell‘eroe su anfore panatenaiche di IV sec. a.C.), alla costruzione di identità sociali e religiose e alla rivendicazione del primato culturale e politico di membri al vertice della comunità, dapprima nelle ritualità private e poi anche nei culti poleici.

9. Frammento di arula fittile. Da Himera, Isolato III, blocco VI,4, Ambiente 25. Himera, Antiquarium, inv. H 7265 (foto Parco Archeologico Regionale di Himera).

123 1Sul mito di Trittolemo nella tradizione iconografica greca ed in particolare nella pittura vascolare attica, e sui suoi significati, DUGAS 1950; PESCHLOW-BINDOKAT 1972, 78-89; RAUBUTSCHEK, RAUBITSCHEK 1982; SCHWARZ 1987; BESCHI 1988, 872- 875 e 890-891; SHAPIRO 1989, 76-77; HAYASHI 1992; SIMON 1992; CLINTON 1994; MATHESON 1994; SCHWARZ 1997; MUGIONE 2000, 58, 126-128, 155-157; SCHIPPOREIT 2008; JUNKER, STROHWALD 2012, 17 SS.; un‘analisi ed esegesi delle singole occorrenze del tema nelle diverse aree geografico-culturali dell‘Italia antica in CALDERONE, SERRA 2004; PIERRE 2008; per l‘Etruria si veda anche, DE LA GENIÈRE 1988; PIZZIRANI 2010, 31-34; TANTILLO 2012; per la Sicilia, CALDERONE 1992. 2 Si consideri d‘altra parte la complementarietà dei culti tesmoforici e misterici anche nell‘ambito liturgico eleusinio, ed inoltre la tradizione che riferiva a Trittolemo l‘istituzione dei riti tesmoforici in Grecia: LIPPOLIS 2006, 19e 25ss. 3Si veda anche l‘acuta analisi di GIANGIULIO 1997; inoltre, DE LA GENIÈRE 1988; BOTTINI 1992, 116-117; MUGIONE 2000, 126; CALDERONE, SERRA 2004, passim; PIERRE 2008, 123; analogamente, per laSicilia, CALDERONE 1992. 4Per un profilo socio-economico dei mercenari in Sicilia e per un inquadramento della fenomenologia, seppur per il più noto e tardo periodo della fine del V-IV sec. a.C., TAGLIAMONTE 2006. 5Per l‘associazione dell‘immagine di Trittolemo all‘ambito muliebre si veda anche l‘uso del tema su vasi di stretta pertinenza femminile quali le hydriai; inoltre cfr. infra il caso imerese. 6Sul significato della phiale e della libagione, variamente collegate all‘ambito misterico o alla partenza per la missione civilizzatrice dell‘eroe e al suo mandato di pace, DUGAS 1950, 126 ss.; SCHWARZ 1987, 243-245; BESCHI 1988, 890; HAYASHI 1992, 73 ss. e 86; SIMON 1992 99; SCHWARZ 1997, 67; CALDERONE, SERRA 2004, 218, 223; JUNKER, STROHWALD 2012, 21 7La tomba comprendeva, come elementi di corredo, una kylix e una choe attiche a vernice nera e un‘olpe acroma. 8Per l‘ambientazione sacra della scena del cratere di Palermo, data dalla colonna posta a destra della scena, MATHESON 1994, 354, che pensa a un riferimento al contesto eleusinio. 9Sulla ricorrente presenza del Pittore di Berlino e della sua scuola a Gela, TORELLI 2003, 103; sull‘ampia attestazione del mito di Trittolemo tra i suoi prodotti, da ultimo, JUNKER, STROHWALD 2012, 23 10Per l‘anfora si consideri anche il tipo di vaso, riconosciuto come un oggetto «a destinazione prevalente per gli usi funerari dello strato più alto della società geloa»: TORELLI 2003, 104. 11Si veda anche l‘anfora di Compiègne, con il dio su un carro alato simile a quello del nostro eroe: JUNKER, STROHWALD 2012, 49 ss., figg. 35-36; inoltre RAUBUTSCHEK, RAUBITSCHEK 1982 , 110; CLINTON 1994, 166-167. 12Sulla proposta esegetica di Brommer che ha visto nella pittura un‘eco di un dramma satiresco, forse il Trittolemo di Sofocle, in sintesi, MATHESON 1994, 348. 13Ringrazio Monica Chiovaro per i proficui scambi di opinione al riguardo e gli utili stimoli di riflessione, degni di approfondimento, che mi ha fornito. 14Una prima presentazione del cratere e del contesto in VASSALLO, VALENTINO, CHIOVARO c.d.s. 15Per il particolare dei serpenti nel carro di Trittolemo, cfr. SOFOCLE TrGF IV F 596; si veda inoltre BOTTINI 1992, 118 ss., in cui si menziona, per l‘associazione del tema all‘ambito eleusinio, anche la significativa testimonianza del tipo monetale selinuntino del tardo V sec. a.C., con una ninfa di fronte ad un serpente, forse Persefone e Zeus. Da rifiutare, a nostro avviso, (soprattutto per la presenza delle spighe) l‘altra proposta di identificazione del mito rappresentato sull‘arula con l‘episodio di Eracle in lotta contro l‘Idra di Lerna, avanzata in alternativa, ma già con molti dubbi, dagli editori dell‘oggetto. 16Sull‘accostamento del simulacro di Cerere all‘Afrodite da Morgantina, GIULIANO 1993; una discussione in PORTALE 2005; LAZZERETTI 2006, 312-314; GRECO 2007; 2013, 59; SCHIPPOREIT 2008, con ipotesi di una committenza dionigiana dei due signa ciceroniani; MARCONI 2011, 10.

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128 Il ruolo della religione nelle complesse dinamiche del commercio antico: alcune note sulle Gorgoni di Himera

CHIARA TERRANOVA

Atena, la figlia di Zeus portatore dell‟egida (…) indossò l‟egida ornata di nastri tremenda, tutto intorno alla quale fanno corona la Fuga, la Furia, la Difesa e l‟Attacco agghiacciante e la testa gorgonica del mostro pauroso, tremenda ed orribile, prodigio di Zeus portatore dell‟egida. HOM. Il. V, 733-742 (trad. it. di CERRI-GOSTOLI 1996, 361)

1. Le coordinate del problema: le valenze simboliche del Gorgoneion nel Mediterraneo antico Trattare una problematica complessa quale è quella dei significati politici, sociali e religiosi cui rimandano i Gorgoneia, rinvenuti a Himera a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, significa confrontarsi con una parte estremamente significativa della storia politica e cultuale della colonia. Se, infatti, il nome Γοργώ, da un punto di vista semantico, fa esplicito riferimento sia alla figura mitica della Gorgone che allo straordinario potere esercitato dal suo

―terribile‖ sguardo (fig. 1; HOM. Il. VIII, 345-349; Od. XI, 630-635) - che, secondo la tradizione mitica, mutava in pietra (PIND. Pyth. X; XII; Ol. XIII; OV. Met. IV, 1513-1517; LUC. Phars. IX) chiunque lo incontrasse - è, in pari tempo, noto come la tradizione letteraria, nel corso dei secoli, abbia voluto descrivere solo i connotati della testa e del volto della Gorgone, sepolta, secondo il resoconto pausaniano (PAUS. II, 21, 5), ad Argo, mentre a Tegea sarebbe stato conservato uno dei suoi capelli, tanto sapientemente descritti dalle mani di coloro che

129 ne incisero e ne tramandarono il volto nel corso dei secoli. Il Gorgoneion (PETTAZZONI 1922,

491-512; BESIG 1937; HOWE 1954, 209-221; KARNEZIS1978, 245-259; KERÉNYI K. 1979, 340-

358; VERNANT 1981, 141-156; 1987), simbolo di morte, rappresentava un pericolo sempre

imminente per tutti coloro che, come Odysseus (HOM. Od. XI, 630-635), si accingevano a penetrare negli Inferi: esso - che fu associato, in Grecia, ad importanti figure divine quali

Atena (HOM. Il. V, 729-742; PIND. Ol. XIII, 63-69) e Zeus (HOM. Il. V, 741-742; PS. HYG . Astr. II, 13) - giunse qui, intorno ai primi anni del VII sec. a.C. dalla Siria settentrionale, passando attraverso l‘Asia Minore: una Gorgone dotata anche di un corpo - seppure goffo e deforme - si trova attestata, invece, soltanto nel repertorio iconografico ad essa relativo, e risulta anteriore o coeva alle raffigurazioni del Gorgoneion, perlopiù impiegato sia con finalità puramente decorative che con finalità più propriamente apotropaiche già dall‘età arcaica (figg. 2-4). Noto è il significativo rapporto - cui abbiamo precedentemente accennato - che, già dagli anni di Omero (Od. XI, 630-635), legò intimamente la Gorgone alla sfera della morte ed all‘universo infero, dato attestato da tutte le fonti documentarie che hanno contribuito a costituirne gradualmente la storia. In pari tempo, risulta essenziale il rapporto della Gorgone con

Poseidone (fig. 5; HES. Theog. 178; 270; OV. Met. IV, 770; VI, 119; Her. XIX, 129) e, più in generale, con la sfera di afferenza marina: le Gorgoni, assimilate - nelle credenze religiose della Grecia moderna - alle Nereidi, erano, infatti, già secondo la tradizione mitica arcaica, figlie di

antiche divinità del mare (HES. Theog. 270-283). Si pensi, in proposito, ad alcune monete corinzie sulle quali sono raffigurati il volto di Atena con il cavallo Pegaso, generato dalla Gorgone dopo la sua morte e legato alle acque ed alle sorgenti, e ad altre, provenienti da Motya, che, viceversa, associano il volto della Gorgone alla civetta, animale sacro ad Atena

130 1. Gorgoneion. Particolare da mosaico su pavimento, età imperiale, Roma, Museo Nazionale Romano, senza inv. (da Theoi.com, s.v. Medusa).

2. Gorgone in corsa. Particolare da dinos attico a figure nere attribuito al “Pittore della Gorgone”, 600-550 a.C. ca. Parigi, Musée du Louvre, inv. Louvre F874 (da Theoi.com, s.v. Medusa).

3. Gorgone in corsa. Particolare da kylix attica a figure nere, datazione sconosciuta (periodo arcaico). Oxford, Ashmolean Museum, inv. Oxford 1965.120 (da Theoi.com, s.v. Medusa).

4. Gorgone in corsa. Particolare da anfora attica a figure nere, 550-500 a.C. ca. Parigi, Musée du Louvre, Paris N1020/F230 (da Theoi.com, s.v. Medusa).

5. Gorgone, Poseidone e Gorgone decapitata con nascita di Pegaso. Particolare da coppa beotica a figure nere, tardo V sec. a.C. Boston, Museum of Fine Arts, inv. Boston 01.8070 (da Theoi.com, s.v. Medusa).

131 (figg. 6-7): e già in questo peculiare ―aspetto‖ del mito appare evidente la straordinaria funzione assolta dalla Gorgone, dalla cui morte rinasce una nuova vita ed il cui sangue uccide o guarisce

(EUR. Ion. 1003 ss.). L‘ultima tra le più recenti scoperte (fig. 8), rinvenuta nei magazzini del Museo Provinciale Campano di Capua, è stata recentemente resa nota da Maria Bonghi Jovino (www.archeomedia.net: 29 ottobre 2012): del reperto in questione, ad ogni modo, intendiamo occuparci prossimamente. Tuttavia, è importante ricordare che, com‘è stato recentemente

rilevato, la Gorgone non è l‘unica ad essere stata associata alla dea Atena (BAGLIONI 2011, 149), ma certamente la più arcaica ed emblematica. Quanto evidenziato dalle fonti letterarie trova, infine, ulteriori ed importanti conferme nel ricco ed articolato repertorio numismatico, all‘interno del quale il Gorgoneion alexikakon risulta fortemente attestato lungo tutto il bacino del Mediterraneo antico (fig. 9): si pensi alla ricchissima messe di monete sulle quali il volto della Gorgone - di volta in volta terrifico o bonario - appare associato al simbolo dell‘àncora, emblema di ―salvezza‖ (dioboli di Apollonia Pontica: fig.10): a riguardo, vanno osservate le notevoli difficoltà di carattere ―tecnico‖ che gli incisori avranno, di certo, riscontrato nel loro tentativo di rappresentare un simbolo quale era il volto della Gorgone, dotato di occhi dalla forma singolare, di un naso sporgente, e di una lingua volutamente rappresentata in rilievo, nel chiaro intento di sottolineare le specifiche valenze simboliche, cui tale attributo rimandava. La Gorgone fece la sua comparsa molto presto nella storia della moneta antica: infatti, pochi decenni dopo la sua prima diffusione dalle coste della Lidia, risultò attestata soprattutto tra il VI ed il V sec. a.C. Il Gorgoneion impiegato come simbolo apotropaico fece la sua prima apparizione nel mondo ellenico solo al volgere dell‘VIII sec. a.C., stagliandosi su frontoni, metope ed antefisse

132 6. Particolare da pittura vascolare (da Falerii Veteres), 400-375 a.C. ca. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, inv. 1599, (IconicLimc, s.v. Menerva).

7. Atena con Gorgoneion. Particolare del rilievo frontonale dal Tempio A di Pyrgi, 470-460 a.C., Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (IconicLimc, s.v. Menerva).

133 (VAN BUREN 1923, tav. XIV; RICCIONI 1960, 127-206; BELSAN 1981; MARCONI 2007),

vasi e coppe (figg. 11-12; STAT. Theb. I, 539-555), scudi e navi (Gorgoneia bronzei delle navi di Nemi). Il Gorgoneion appare più volte associato agli heroes, il cui sguardo - si

ricordi il caso di Ettore (HOM. Il. VIII, 345-349) - appare simile a quello di Medusa, e sul

cui scudo (si pensi ad Agamennone, in HOM. Il. XI, 29-41, o ad Achille, in EUR. El. I) è scolpito il suo volto. L‘aspetto terrifico della Gorgone fu, poi, ulteriormente accentuato in ambiente etrusco-italico (antefisse di Veio): nel V secolo, tuttavia, fino ai primi secoli successivi alla nascita di Cristo (figg. 13-14) anche le sue mostruose fattezze furono mitigate, facendosi sempre più simili a quelle umane. I due ―tipi‖- ―arcaico‖ (che, muovendosi rapidamente verso destra, mostra il volto esteso in larghezza e caratterizzato da grandi occhi, fronte bassa - spesso segnata da rughe - naso schiacciato, e bocca allungata, con denti ferini agli angoli e lingua penzolante: fig. 15) e ―classico‖ (dove i connotati del volto sono stati gradualmente mitigati ed umanizzati: fig. 16 ) - di Gorgone convissero, infine, in età ellenistico-romana, quando il volto, finalmente bonario, del mostro costituì uno degli emblemi più rappresentativi del potere dei re nel Mediterraneo del tempo, utilizzato, in questa ―chiave di lettura‖, anche da Alessandro il Grande e dai suoi diadochi: l‘egida con Gorgoneion rappresentò uno dei più significativi topoi della ritrattistica lagide (si veda, in proposito, il cd. Cammeo ―Gonzaga‖, III sec. a.C., San Pietroburgo, Ermitage Museum). Tuttavia, a questi anni appartiene anche il ―tipo‖ patetico della Medusa dolente, che commuove chi la osserva per l‘ossimorica presenza della divina bellezza del volto e la tragica espressione - su di esso - di un atroce ed innato tormento.

134 8. Busto di Minerva con Gorgoneia ai seni, Capua, Museo Provinciale Campano (da BONGHI JOVINO 2011, 22, fig.1).

9. Hemilitron in bronzo da Himera (da VASSALLO 2005, 87, fig.146)

10. Gorgoneion (recto) ed àncora (verso). Diobolo da Apollonia Pontica, IV sec.a.C. (da http://www.roth37.it/COINS/Gorgon/monetazione.html).

135 2. La Gorgone e la Sicilia La facies della Gorgone, di origine orientale, andò sempre più definendosi in area corinzia tra il VII ed il VI sec. a.C. ca., connotata da caratteristiche fisiognomiche assolutamente peculiari, quali – come abbiamo precedentemente sottolineato - i grandi occhi e la bocca ricurva ed aperta da cui pende la caratteristica lingua, delimitata da denti ferini: il volto appare, inoltre, sempre definito da riccioli scomposti, talvolta accompagnati (o sostituiti) dai tanto celebrati serpenti (fig. 2: cfr., inoltre, la bella riproduzione della Gorgone in corsa su un‘anfora attica a figure rosse di V sec. a.C., Munich, Antikensammlungen). Infine, grandi ali compaiono sulle sue spalle e sui suoi piedi (figg. 2-4 e 12). La ricezione in Sicilia dell‘iconografia corinzia della Gorgone è emblematicamente testimoniata dalla lastra fittile policroma proveniente dall‘Athenaion di Siracusa (fig. 17), datata alla metà del VII sec. a.C. ca., che documenta per la prima volta, in forma completa, la derivazione dall‘iconografia corinzia attestata su una ricchissima messe di testimonianze, di epoca arcaica, della rappresentazione del mito. In età

arcaica (BAGLIONI 2009, 65-72) la Gorgone fu spesso raffigurata nel momento della

decapitazione compiuta dall‘eroe Perseo (HOPKINS 1934, 341-358; CROON 1955, 9-16; OGDEN

2008; cfr., in particolare, la metopa del Tempio C di Selinunte: figg. 18-21; GABRICI 1919), e nel noto ―schema‖ della ―corsa in ginocchio‖, presente - oltre che su numerose suppellettili, nella produzione vascolare e sulla lastra fittile precedentemente menzionata- anche sul frontone del tempio di Artemide a Corfù. La Gorgone fu uccisa da Perseo nel sonno (fig. 22) mentre egli stesso, per non essere a sua volta pietrificato dallo sguardo del mostro, rivolgeva altrove il volto, osservando il riflesso del Gorgoneion sul suo scudo. Secondo una tradizione mitica ormai estremamente nota, un tempo le tre Gorgones, figlie dei mostri marini Phorkys e Keto

136 11. Gorgoneion. Particolare da anfora attica a figure nere, 525-475 a.C. ca. Parigi, Musée du Louvre, inv. Louvre F99 (da Theoi.com, s.v. Medusa).

12. Gorgone in corsa. Kylix attica a figure nere, periodo arcaico (da Theoi.com, s.v. Medusa).

137 (cfr. mosaico greco-romano da Antiochia, IV sec. d.C., Antakya Museum), erano bellissime, ma, dopo che Medusa, una notte, si unì a Poseidone in un tempio consacrato ad Atena, la dea,

vendicandosi, la tramutò in un‘orrida creatura (PS. APOLLOD. II, 46; OV. Met. IV, 770; 798; Myth. Vat. II, 131). Soltanto Perseo, figlio di Zeus e di Danae, ingannando le Graie, decapitò

Medusa (HES. Th. 280; LUCIAN. D. M. 14; APOLLOD. II, 4, 2; SERV. VA VI, 289, VII, 732; OV.

Met. IV, 776-784; LUC. IX, 669-677) guidato dalla stessa mano di Atena: dal collo della Gorgone

fuoriuscirono Crisaore e Pegaso (fig. 23; HES. Th. 280-283; Sc. 220; PIND. Pyth. XII, 12; Ol. XIII,

64; AESCH. Phorcides (perduta); Aesch., fr. 145 (Phorcides); EUR. Alc. 511; PS. APOLLOD. II, 38-46;

LYCOPHR. Alex. 840; Q.S. X, 190; STRABO VIII, 6, 21; PAUS. I, 23. 7; II, 20, 7; II, 21, 5-6; II, 27,

2; III, 17, 3; III, 18, 10-16; V, 18, 5; DIOD. III, 52, 4; BAGLIONI 2010, 207-220). Infine, Perseo

donò la testa ad Atena (fig. 24) che la fissò sulla sua egida (APOLLOD. II, 4, 4; HARTSWICK 1993, 269-292). La consegna del Gorgoneion ad Atena da parte dell‘eroe costituì un tema

particolarmente adatto ad una utilizzazione in chiave ―politica‖ (HARTSWICK 1993, 269-292), e, proprio in tale veste, fu adeguatamente sfruttato lungo tutto il bacino del Mediterraneo antico. Le prime rappresentazioni del mito di Perseo e della Gorgone risalgono all‘inizio del VII sec. a.C. e si sviluppano, nei secoli successivi, su materiali di splendida fattura: si visioni, in proposito, la hydria sulla quale l‘eroe, dopo aver decapitato Medusa, fugge seguito da Atena (fig. 21).

2.1 La Gorgone nella vita e nella religiosità di Himera tra VII e V sec. a.C.: dai santuari alle necropoli ed alle abitazioni

In particolare, per quanto riguarda la Sicilia, le attestazioni della vitalità dell‘artigianato imerese sono estremamente numerose, e, pur non avendo questa colonia rivestito un ruolo di primo

138 13. Gorgoneion. Particolare da mosaico su pavimento, età imperiale. Alexandria (Egitto), Greco-Roman Museum, senza inv. (da Theoi.com, s.v. Medusa).

14. Gorgoneion. Particolare da mosaico su pavimento, età imperiale, Atene, National Archaeological Museum, senza inv. (da Theoi.com, s.v. Medusa).

15. Gorgoneion, Heidelberg, Istituto Archeologico dell'Università di Heidelberg, senza inv., 550-500 a.C. ca. (da http://www02.unibg.it/~medusa/index.php)

139 piano in ambito artistico, alcuni prodotti evidenziano una eccezionale fioritura nella produzione, sia per la straordinaria qualità dell‘esecuzione sia per la notevole ricchezza di temi e decorazioni presenti. Tale creatività fu, senza dubbio, alimentata dall‘importante circolazione di prodotti d‘importazione, qui attestati fin dai primi decenni di vita della colonia: appaiono emblematici, in proposito, alcuni dei materiali rinvenuti all‘interno del tempio A, tra i quali la splendida lamina aurea con ―Gorgone in corsa‖ (fig. 25), ed i due bronzetti di Atena armata (fig. 26) e di offerente. Nel VII secolo Himera si sviluppò, estendendosi sia in pianura che sui rilievi collinari. Fu in questi anni che vi giunse il culto di Atena al quale ci siamo precedentemente riferiti, cui gli abitanti votarono l‘arcaico santuario e l‘intera area sacra successivamente edificata: e, sempre in questi primi anni di vita, la colonia iniziò a produrre materiale ceramico, dando avvio ad una vera e propria ―arte‖ locale, ben documentata da tutti i reperti finora rinvenuti ed attualmente conservati presso l‘Antiquarium. È in questi anni che ad Himera, importante porto sulle principali rotte tirreniche, circolarono ceramiche ed anfore commerciali provenienti da varie zone del Mediterraneo. Probabilmente, fin dai primi cinquanta anni di vita della colonia, si avviarono contatti con i centri indigeni sicani dell‘entroterra, con reciproco scambio di merci. Pertanto, ad Himera - tra quanto restava dell‘arcaico Tempio A, consacrato alla devozione di Atena - è riferibile, in particolare, la nota lamina datata al VII sec. a.C. ca.: questi anni rappresentano, dunque, il terminus ante quem per la comparsa della figura della Gorgone nella colonia calcidese e, in pari tempo, per la comparsa del culto locale di Atena (fig. 27 ), alla quale gli Imeresi - fin dalla prima ―fase‖ di vita della città – votarono la loro devozione, chiedendo

140 16. Gorgoneion. Antefissa policroma dal santuario di Atena, ultimo quarto VI-inizi V sec. a.C. Termini Imerese, Antiquarium di Himera (da VASSALLO 2005, p. 85, fig. 142).

17. Gorgone in corsa. Lastra fittile policroma dall’Athenaion di Siracusa, 570 a.C., Siracusa, Museo Archeologico Regionale “P. Orsi” (da http://www.parodos.it/mitologia/gorgoni.htm)

18. Decapitazione della Gorgone. Metopa del Tempio C di Selinunte, 520-510 a.C. ca., Palermo, Museo Archeologico Regionale "Antonio Salinas (da http://www.iconos.it/)

141 alla dea la protezione del loro territorio (DIOD. V, 3, 4): nella simbolica figura dell‘Atena imerese è possibile leggere, pertanto, l‘emblema stesso della potenza della colonia e della fioritura che Himera visse fino alla sua definitiva distruzione, avvenuta nel 409 a.C. In questa direzione va, certamente, interpretata anche la presenza di Herakles, eroe caro alla dea Atena:

altre tradizioni mitiche (PS. APOLLOD. II, 7,3) indicano Herakles - il quale avrebbe ricevuto il ricciolo sempre dalla dea - come colui che avrebbe donato il ricciolo a Kepheus. Nel corso del VI secolo si attivarono, invece, importanti rapporti politici con il tiranno agrigentino Falaride, ed in pari tempo si intensificò l‘arrivo di merci e di prodotti che in città giunsero dai più importanti centri politici ellenici, fenicio-punici ed etruschi: indizio della straordinaria vitalità di cui l‘economia imerese godette è la nascita - avvenuta intorno alla seconda metà del secolo -

della zecca locale (KRAAY 1983), con importanti emissioni in argento: la presenza della Gorgone sulle monete imeresi si data a partire dagli anni successivi al 430 a.C. fino al 409. È dalla prima metà del VI sec. a.C. ca. che dovettero fiorire officine di ―artisti‖ imeresi attivi fino agli ultimi anni del V, realizzando prodotti spesso originali e di ottima fattura. Riguardo al peculiare ―schema‖ iconografico attestato sulla lamina aurea imerese con ―Gorgone in corsa‖, dono votivo ad Atena, vogliamo ricordare, inoltre, un Gorgoneion fittile - datato alla prima metà del VII sec. a.C. e rinvenuto, in numerosi copie, nella Stipe del Tempio dell‘Acropoli di Gortina - che evidentemente deriva da uno ―schema‖ già documentato, intorno alla fine del III mill. a.C. ca., dall‘ambiguo volto della sumerica Khumbaba, la cui iconografia è testimoniata da una terracotta - proveniente da Sippar ed attualmente conservata al British Museum - che riproduce un volto mostruoso, costruito su un inestricabile groviglio di linee continue, le quali rappresenterebbero le viscere in cui si soleva leggere il volere degli dèi. Inoltre, su un rilievo

142 19. Gorgone e Perseo. Particolare da kyathos, attribuito ad un allievo del “Pittore di Teseo”, 510 a.C. Malibu, The J Paul Getty Museum, inv. Malibu 86.AE.146 (da Theoi.com, s.v. Medusa).

20. Decapitazione della Gorgone. Particolare da hydria attica a figure rosse, 500-450 a.C. Londra, British Museum, inv. London E181 (da Theoi.com, s.v. Medusa).

21. Perseo con Gorgoneion. Particolare da mosaico, età imperiale, Gaziantep (Turchia), Gaziantep Museum, senza inv. (da Theoi.com, s.v. Medusa).

22. Gorgone addormentata. Particolare da pyxis attica a figure rosse su fondo bianco, attribuita al “Sotheby Painter”, 475 - 425. Parigi, Musée du Louvre, inv. Louvre L83 (da Theoi.com, s.v. Medusa).

143 fittile conservato a Berlino e raffigurante la scena dell‘uccisione di Khumbaba compiuta da Gilgamesh - nella quale è stata rintracciata una evidente eco della successiva tradizione relativa alla decapitazione di Medusa - la dea appare rivestita di una solida corazza, rappresentata di profilo con le gambe piegate, in uno ―schema‖ analogo a quello della ―corsa in ginocchio‖ della Gorgone. Il ―tipo‖ della ―Gorgone in ginocchio‖ è, infine, attestato, tra V e III sec. a.C., su una moneta proveniente da Populonia (http://www.roth37.it/COINS/Gorgon/monetazione.html), che riporta lo stesso ―tipo‖ attestato sulla lamina imerese, e che documenta ancor più i rapporti tra questa area della Magna Grecia e l‘Etruria di questi anni. La peculiare collocazione della lamina aurea all‘interno del Tempio A testimonia, in maniera inconfutabile, l‘inestricabile rapporto che, com‘è noto, legò, anche nella tradizione letteraria, la Gorgone ad Atena, attestando, in particolar modo, che essa giunse ad Himera insieme al culto di Atena, e caratterizzando, pertanto, la storia cultuale locale fin dai suoi primordi. Il ―passaggio‖ dall‘iniziale utilizzazione del Gorgoneion quale esclusivo attributo di Atena al suo successivo impiego in ambito funerario è attestato - sulla base dei dati documentari riportati alla luce nella colonia - da un piatto corinzio (fig. 28) proveniente dalla necropoli orientale e databile alla prima metà del VI sec. a.C.: sempre a questi anni viene fatto risalire un aryballos in forma di melograno (fig. 29b), il cui coperchio riporta i tratti terrifici di una Gorgone dagli occhi globulari (fig. 29a), simbolo di morte ed, in pari tempo, emblema di vita (si veda anche

HOPKINS 1961). Nell‘analisi finora compiuta dei casi più significativi nella ricca documentazione archeologica di Himera, abbiamo potuto osservare che la presenza della Gorgone, attestata in diversi contesti che comprendono i santuari, l‘abitato e le necropoli, assolse mansioni altrettanto differenti,

144 23. Nascita di Pegaso. Particolare da lekythos a figure nere su fondo bianco, attribuita al “Diosphos Painter”, 500-450 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum, inv. New York 06.1070 (da Theoi.com, s.v. Medusa).

24. Perseo consegna ad Atena la testa della Gorgone. Particolare da cratere a campana apulo a figure rosse attribuito al “Tarporley Painter”, 400-385 a.C. ca. Boston, Museum of Fine Arts, inv. Boston 1970.237 (da Theoi.com, s.v. Medusa).

25. Gorgone in ginocchio che serra un serpente tra i denti. Lamina aurea rinvenuta nella cella del Tempio A del santuario di Atena a Himera, sigillata nel pavimento sotto una lastra di pietra, VII sec. a.C. ca. Termini Imerese, Antiquarium di Himera (da VASSALLO 2005).

26. Atena armata. Particolare del bronzetto proveniente dal deposito votivo del Tempio A di Himera, inizi VI sec. a.C. ca. Termini Imerese, Antiquarium di Himera (da VASSALLO 2005).

145 giustificate dalla ―percezione‖ che del simbolo del Gorgoneion si ebbe nelle concezioni religiose elleniche e magnogreche. Le sue finalità, pertanto, furono essenzialmente tre: rappresentando il riflesso stesso della morte, arma che - secondo Omero (Od. XI, 630-635) - Persefone poteva addirittura scagliare contro chi cercava di penetrare negli Inferi, la sua collocazione all‘interno delle necropoli appare ovvia. Tuttavia, la sua funzione non si esaurisce semplicemente nella sua associazione alla ―simbologia‖ della morte, divenendo uno dei più significativi indicatori della natura ―funeraria‖ del luogo in cui esso si trovava: nel volto terrifico della Gorgone si cela una promessa di ―rinascita‖, incarnando in sé quella perenne alternanza di vita e morte nella quale la religiosità ellenica, per tutto il corso della sua esistenza, in vari modi fermamente credette. Non a caso, Euripide (Ion. 1003 sgg.) ricorda come Antea abbia donato al giovane Erittonio due gocce del sangue della Gorgone, delle quali l‘una era capace di

guarire (PS. APOLLOD. III, 10, 3), l‘altra di uccidere, e - secondo una tradizione posteriore nota fino agli anni di Apollonio Rodio (IV, 1513-1517) - il sangue della Gorgone, toccando il suolo, generava serpenti. Pertanto, il Gorgoneion — la cui eccezionale forza e sovrumana potenza fu sempre nota alle fonti letterarie — allontanava, con il timore della morte immediata, chi si accingeva ad entrare nelle aree sulle quali esso esercitava la sua protezione: in queste rientrano anche le abitazioni, all‘interno delle quali è possibile spiegare, sempre in questa direzione, l‘impiego del Gorgoneion sulla soglia di casa o sulle fornaci, a garanzia della sempiterna protezione della casa e di coloro che la abitavano. In particolare, le case più ricche potevano essere dotate di antefisse, che, lungo il lato esterno, presentavano perlopiù decorazioni plastiche o dipinte con palmette, sileni e Gorgoneia.

Ringrazio di cuore Valentina Caminneci per avermi invitato a contribuire alla pubblicazione di questo suo bel volume.

146 27. Gorgoneia. Frammento con pendagli da un grande busto di “tipo” agrigentino, senza datazione. Termini Imerese, Antiquarium di Himera (da VASSALLO 2005).

28. Gorgone in corsa. Frammento di piatto corinzio dalla necropoli orientale, prima metà del VI sec. a.C. ca. Termini Imerese, Antiquarium di Himera (da VASSALLO 2005).

29 (a e b). Aryballos con bocca figurata e corpo a forma di melograno da una tomba dello scavo Gabrici (1926-1927) nella necropoli orientale, metà del VI sec. a.C. Termini Imerese, Antiquarium di Himera (da VASSALLO 2005). Cfr. con la maschera fittile da Taranto, che - pur essendo caratterizzata da grandi orecchi aperti, occhi a globo e bocca dotata di zanne - se ne differenzia per l’enfatizzazione di altri caratteri somatici.

147 Bibliografia BAGLIONI I. 2009, La maschera di Medusa. Considerazioni sull‟iconografia arcaica di Gorgo, in ID. (a cura di), Storia delle Religioni e Archeologia. Discipline a confronto, Roma, 65-72. BAGLIONI I. 2010, Nascere da Medusa. Studio sul parto di Gorgo e sulle caratteristiche dei suoi figli, «Antrocom. Online Journal ofAnthropology», VI.2, 207-220. BAGLIONI I. 2011, Sul rapporto tra Athena e Medusa, «Antrocom Online Journal of Anthropology», 7.1, 147-152. BELSAN J. D. 1981, The Gorgoneion in Greek Architecture, Ann Arbour. BESIG H.1937, Gorgo und Gorgoneion in der archaischen griechischen kunst, Berlin. BONGHI JOVINI M. 2011, Una piccola scultura nel grande processo di trasformazione da Capua etrusca a Capua sannitica, ACME. Annali della Facoltàdi Lettere e Filosofia dell'Università di Milano, 64.2,21-33. BUREN VAN D. 1923, Archaic fictile revetments in Sicily and Magna Graecia, London. CERRI G.–GOSTOLI A. 1996 (a cura di), Omero. Iliade, Milano. CROON J. H. 1955, The Mask of the Underworld Daemon. Some Remarks on the Perseus-Gorgon Story, «Journal ofHellenic Studies», 75, 9-16. GABRICI E. 1919, Il Gorgoneion fittile del tempio C di Selinunte: tentativo di ricostruzione, Palermo. HARTSWICK K. 1993, The Gorgoneion on the aegis of Athena: genesis, suppression and survival, «Revue Archéologique», 269-292. HOPKINS C. 1934, Assyrian Elements in the Perseus-Gorgon Story, «American Journal of Archaeology», 38, 341-358. HOPKINS C. 1961, The Sunny-Side of the Greek Gorgon, «Berytus», 14, 25-35. HOWE T. P. 1954, The Origin and the Function of the Gorgon-Head, «American Journal of Archaeology», 58, 209-221. KARNEZIS J. E. 1978, Human-Figured Demons in Greek Mythology in Comparison with those of Animal-Figured Gods of Eastern Peoples, «Platon», 30, 245-259. KERÉNYI K. 1979, Uomo e maschera, in ID., Miti e misteri, Torino, 340-358. KRAAY C. M. 1983, The Archaic Coinage of Himera, Napoli. MARCONI C. 2007, Temple Decoration and Cultural Identity in the Archaic Greek World, Cambridge. OGDEN D. 2008, Perseus, Routledge. PETTAZZONI R. 1922, Le origini della testa di Medusa, «Bollettino d‘Arte»,1, 491-512. RICCIONI G. 1960, Origine e funzione del Gorgoneion e del mito della Gorgone - Medusa nell‟arte greca, «Rivista dell'lstituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte», 9, 127-206. VASSALLO S. 2005, Himera città greca. Guida alla storia e ai monumenti, Palermo 2005, 85-87. VERNANT J.-P. 1987, La morte negli occhi. Figure dell‟Altro nell‟antica Grecia, Bologna.

148 Archeologia della produzione e del commercio nell’antica Agrigento Agrigento. La Collina dei Templi (da VON MATT 1950)

Infatti i vigneti degli Akragantini costituiscono un' eccezione tanto per la loro estensione quanto per la loro bellezza; inoltre la maggior parte del territorio è ricco di alberi di ulivo, da cui traggono abbondanti raccolti che vendono a Cartagine (Diodoro, Biblioteca Storica, XIII, 81,4) Alla foce dell’Akragas. Storia ed archeologia dell’antico Emporion di Agrigento

VALENTINA CAMINNECI

Su una costa caratterizzata da una duna sabbiosa, oggi solo parzialmente conservata, alla foce del fiume Akragas, nacque l‘antico emporion della polis, divenuto poi il porto della città romana e bizantina (figg.1-2). Ricordato da Diodoro da Polibio e da Livio, è segnalato da Strabone, come entità a parte accanto ad Akragas, tra le ―sopravvivenze‖ sulla costa occidentale della Sicilia nel I secolo a.C. L‘Emporion è uno dei luoghi chiave della vita del Vescovo Gregorio, narrata da Leonzio in un testo agiografico, ricco di dettagli anche topografici, oggi illuminanti grazie alle recenti scoperte archeologiche, seppure episodiche e limitate alle esigenze di tutela. Le testimonianze rinvenute nel corso degli scavi, condotti a partire dagli anni Venti, si concentrano sul lato sinistro della foce (fig.3), mentre l‘ipotesi che, un tempo, la linea di costa piegasse verso l‘interno, consentendo l‘ingresso del mare in una sorta di insenatura o porto interno (SCHMIEDT, GRIFFO 1958, 291-292), sembrerebbe confermata da sondaggi di tipo geologico, eseguiti recentemente, che rivelano anche fenomeni di esondazione ed insabbiamento che copre gli strati archeologici (fig.4). Fa eccezione la necropoli di età arcaica, individuata sulla sponda destra, coeva al primo stanziamento dei coloni, di cui, talvolta, complici le mareggiate che sferzano le dune, affiorano le tombe in anfora sepolte nella sabbia (fig.5) (CAMINNECI 2012, 117-119).

151 I corredi delle tombe a fossa rivestita da lastre di pietra, indagate sulla collinetta di Montelusa, alle spalle della foce, comprendono ceramica di produzione rodia e corinzia, mentre, sempre da quest‘area, proviene un sarcofago in marmo decorato da un fregio di metope e triglifi (fig.7). Ancora riferibili alla fase di vita del porto di età greca i frammenti dai saggi effettuati recentemente sulla sponda sinistra (fig.6). Degli antichi apprestamenti portuali, nel XVI secolo, Fazello vide sulla costa i resti, saxa quadrata, oggi non più visibili e probabilmente distrutti da quella fitta urbanizzazione che ha profondamente alterato l‘assetto originario dell‘area della foce. La prima campagna di scavi nell‘area si deve al Gabrici, che portò alla luce alcune strutture murarie, interpretate come magazzini, un pozzo, sarcofagi litici e cocciame genericamente definito tardo (figg.8-10)

(GABRICI 1925). Tra gli anni Quaranta e Cinquanta gli scavi vengono ripresi nella stessa area da Griffo, che mette in luce un edificio articolato in ambienti quadrangolari, con conci isodomi, su cui si impostano muri realizzati con ciottoli e blocchi di reimpiego (figg.11-12). Unico elemento datante ricordato nella relazione di scavo, insieme alla generica menzione della sigillata chiara, una moneta di Costanzo II. Sulla cresta di uno di questi muri è una sepoltura in anfora Keay LXI, con una pietra posta a chiudere l‘imboccatura (fig.13). Accanto a queste strutture, quattro tombe, di cui tre polisome ancora inviolate, a cassa di lastre litiche, con blocchi di copertura probabilmente di reimpiego (fig.14), e fornite di corredo costituito da brocchette acrome, attestate frequentemente nei contesti funerari siciliani di età tardo antica e bizantina, e da due fibule del tipo Siracusa e Balgota, databili alla metà del VII

secolo d.C. (GRIFFO, DE MIRO 1955). Nel 1974 fu rinvenuta su Viale Viareggio una struttura absidata, durante uno scavo di cui ho

152 1-2. Agrigento. La costa e la foce delfiume Akragas (fotoValentina Caminneci).

153 reperito in archivio solo le fotografie, attraverso le quali sono riuscita ad identificare il sito, ma nessuna relazione sull‘intervento (fig.15). Nel 1997 sono state messe in luce due sepolture a fossa rivestite da lastre: la tomba 1 conteneva almeno sedici individui, mentre la tomba 2 era monosoma. Accanto alle tombe due lembi di muri, costruiti a sacco con ciottoli fluviali e terra, di cui riesce difficile chiarire la relazione stratigrafica con le sepolture e la destinazione (fig.16 ). La ceramica rinvenuta sopra le tombe indica una cronologia compresa tra il IV ed il V secolo d.C.: di produzione africana, anfore, sigillata D, ceramica comune e da cucina a patina cinerognola, di produzione locale, anfore e ceramica comune, pantellerian ware, vetro, insieme a oggetti in terracotta simili a ciottoli lisciati,

forse strumenti, un amo e un peso da rete (CAMINNECI c.d.s. a). Il range cronologico documentato dalle ceramiche conferma la frequentazione nel tempo della necropoli, dato deducibile anche dalle diverse deposizioni della tomba 1, certamente, sebbene manchino notizie precise del rinvenimento, non contemporanee. Nel 2009 è stato portato alla luce un piccolo lembo di necropoli ad enchytrismos, con cinque sepolture in anfore di produzione africana, rinvenute sotto uno spesso strato di accumulo sabbioso di origine alluvionale (fig.17). Le tombe, che, seguono, grosso modo, un orientamento est-ovest, ad eccezione della tomba III, posta nel senso inverso, sulla base dei contenitori utilizzati- tra le forme riconoscibili, la Keay LXII R, la Keay LXII var. e la Keay LXI- possono

essere datate tra la fine del V ed il VII secolo d.C. (CAMINNECI 2012 a, b). Un secondo settore di necropoli ad enchytrismos, rinvenuto lo scorso aprile è ancora, ovviamente, in corso di studio (fig.18)*. Si presenta, quindi, solo la descrizione del contesto, insieme alla documentazione fotografica delle sepolture, in giacitura primaria, orientate in

154 3. Agrigento. Area dell’antico Emporion.

4. Agrigento. Ipotesi sulla linea di costa (da GRIFFO, SCHMIEDT 1958).

155 senso nord-nordovest, relative a quattro individui adulti, due maschi e due femmine, e un infante. Le tombe poggiavano su un allettamento di argilla, con qualche ciottolo di fiume, rinzeppato per regolarizzare il piano di posa. La Tomba 1/2, che accoglieva lo scheletro di un adulto di sesso maschile, era composta da almeno due anfore, segate nella parte inferiore e prive del puntale, assemblate ed incastrate e disposte in senso opposto. All‘altezza del bacino del defunto, cocci di anfora erano disposti di taglio e di piatto, come a dividere la parte superiore da quella inferiore del corpo (figg.19-20). La Tomba 3 riutilizzava parti e cocci di più contenitori disposti a ricoprire lo scheletro di un individuo femminile, deposto supino con le gambe flesse, mentre ad un‘estremità, ma esterna alla deposizione, era infissa l‘imboccatura di un‘anfora, come segnacolo (fig.21). Diverse anfore, segate, assemblate ed incastrate una dentro l‘altra, contenevano lo scheletro, in perfetto stato di conservazione, della Tomba 4/8 (figg.22- 24). Due grossi frammenti di anfora erano adagiati sotto il mento e sul cuore, mentre un fondo con relativo puntale era posizionato tra i femori sotto il coccige, evidentemente a proteggere i genitali, con la stessa funzione, probabilmente, dei cocci posti di taglio all‘altezza del bacino nella sepoltura 1/2. Un individuo di sesso femminile era sepolto nella Tomba 9, scavata solo in parte, con la testa adagiata dal lato del puntale di un‘anfora, che conteneva la parte superiore del corpo fino alla vita (fig.25-26), mentre lo scheletro di un lattante era stato deposto di fianco e con gli arti ripiegati, in un‘anfora; sopra l‘imboccatura era stato posizionato il fondo di un‘altra anfora, forse come segnacolo (fig.27-29). Come dimostrano gli esempi di Agrigento, questi sepolcri di terracotta rivelano, in questa preoccupazione di proteggere il defunto anche con particolari accorgimenti, come nel caso della Tomba 4/8, un unicum a nostra conoscenza, riservati agli organi vitali più importanti,

156 5. Agrigento. Emporion. Duna sabbiosa a destra della foce del fiume Akragas (foto Valentina Caminneci).

6. Ceramica corinzia e attica da un saggio sulla sponda sinistra del fiume. VI-V sec. a.C-. (foto Manlio Nocito, Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

7. Agrigento. Museo Archeologico Regionale. Sarcofago decorato con fregio di metope e triglifi dalla necropoli di Montelusa, Inv. C1858. IV sec. a.C. (da BONANNO 1998).

157 un‘accuratezza che non può non essere rituale: le spoglie mortali vengono ricoperte da una ―coltre‖ di frammenti adagiati anche su più strati, segando le parti in eccesso, rappezzando con schegge le falle, chiudendo le imboccature, quasi a creare un guscio. La pratica della inumazione in anfora si trova spesso attestata in contesti tardoromani e, significativamente, in prossimità di strutture portuali, dove era facile reperire i contenitori per l‘ultimo, pietoso, reimpiego. Necropoli ad enchytrimos sono ben note in Italia, a partire dal III fino al VI secolo d.C: si tratta di contesti funerari compositi dove le sepolture in anfora si affiancano alle tombe a cassa, in coppi o a cappuccina. Notevole la documentazione offerta

dalla Calabria (PAPPARELLA 2009), dalla Sardegna, da Puteoli, Classe e Roma, mentre, in zona subcostiera, si segnalano le tombe liguri e pisane. Sono state censite anche le sepolture presenti

in Gallia, in Africa, in Spagna ed in Gran Bretagna (CAMINNECI 2012a, ivi bibliografia). Anche i pochi esempi siciliani noti di questa tipologia tombale si trovano in aree costiere o, comunque, poco lontane dal mare, il che conferma l‘impressione di una scelta dettata principalmente dall‘opportunità offerta dalla disponibilità dei contenitori da reimpiegare. Dai flussi commerciali dipende, dunque, la reperibilità in loco delle anfore, che nel contesto agrigentino in esame possono essere ricondotte alle fabbriche sul golfo di Hammamet, i cui prodotti, partendo dal porto-caricatore di Nabeul, raggiungevano i mercati mediterranei. Dall‘osservazione macroscopica degli impasti, le anfore del primo settore di necropoli sembrano prodotte dall‘atelier di Sidi Zahruni, mentre l‘anfora tipo Keay LXII var. è riconducibile alla produzione di Henchir ek Chekaf. Dubbia è invece l‘attribuzione dell‘anfora della Tomba II, che, come abbiamo detto, è simile ad una Keay VIII b, contenitore oleario

prodotto negli ateliers di Iunca e di Majoura, nel Sud della Byzacena (BONIFAY 2004, 132).

158 8-10. Agrigento, Emporion. Scavi 1916-1925. Foce del fiume Akragas. Pozzo e resti di strutture (da GABRICI 1925).

159 La lunga storia dell‘Emporion agrigentino, dall‘età arcaica all‘età bizantina, emerge dalla stratigrafia archeologica, rinvenuta nel 2011 in seguito ad uno sbancamento effettuato in un lotto sulla riva sinistra del fiume, (figg.30-31). L‘area non sbancata è ancora in corso di studio e l‘indagine è, speriamo solo temporaneamente, sospesa. Lo scavo ha messo in luce un acciottolato e dei tratti di muri di VI-VII secolo d.C. che coprono un crollo di tegole riferibile ad una fase precedente di pieno V secolo d.C. Se è ancora presto avanzare ipotesi per l‘interpretazione di queste strutture, dall‘esame preliminare della notevole quantità di materiale rinvenuto, emerge, anche in questo contesto, la prevalenza della ceramica africana, prodotta negli ateliers individuati nell‘area del Golfo di Hammamet, fatto che conferma lo stretto collegamento tra la Sicilia occidentale e l‘Africa settentrionale, distanti solo due giorni di navigazione, lungo una rotta nota ancora ai tempi di Edrisi (figg.32, 34-35). Ben documentata anche la pantellerian ware, a differenza di quanto avviene in altre aree della Sicilia, dove il trend delle importazioni pantesche subisce un arresto nella seconda metà del V

secolo (CACCIAGUERRA 2010). La continuità delle relazioni commerciali con Pantelleria fu probabilmente determinata dalla posizione dell‘isola, antistante la costa centromeridionale siciliana, tappa intermedia ed equidistante, appena un giorno di navigazione, lungo la rotta da Nabeul alla Sicilia. La ceramica di produzione locale è attestata in discreta percentuale: si tratta di catini, di forma troncoconica con orlo ingrossato o inclinato, a volte scanalato, presenti anche nella necropoli

sub divo di Agrigento (CARRA 2013) e di un tipo di anfora vinaria, piccola, a fondo piano e con

le anse a maniglia, attestata in altri contesti coevi del territorio agrigentino (fig.33) (RIZZO,

infra, 205 ss., fig.4; RIZZO ET ALII 2014).

160 11-12. Agrigento. Emporion. Scavi sulla sponda sinistra del fiume e planimetria dei magazzini. Anni 1945-1950.

13. Agrigento. Emporion. Sepoltura ad enchytrismos in anfora Keay 61. VII sec.d.C.

14.Agrigento, Emporion. Tomba a cassa della necropoli bizantina. VII sec.d.C.

15.Agrigento, Emporion. Struttura absidata.

(fotoArchivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

161 Le anfore di produzione orientale, LR 1, LR 2, LR 3, sono ben documentate nell‘ultima fase di frequentazione dell‘area, forse, giunte attraverso la mediazione dei porti africani, come proverebbe il carico misto, di anfore africane ed orientali, de La Palud, di provenienza

neapolitana (CAMINNECI 2010, 7). L‘incremento delle importazioni orientali in Occidente potrebbe essere messo in relazione con la politica filobizantina di Hilderico (523-530), mentre proprio l‘inversione di tendenza imposta dal successore Gelimero, con le sue inevitabili ripercussioni sui rapporti economici tra l‘Africa e l‘Impero, provocherà lo scoppio del Bellum Vandalicum. Un altro oggetto sicuramente orientale, proveniente dall‘Egitto o dalla regione siro-palestinese, è l‘amuleto in bronzo bivalve, di forma ellittica, recante una complessa raffigurazione a sbalzo ottenuta con pressione su matrice, entro un medaglione granulato. Su una faccia, la figura di santo cavaliere nimbato, con veste militare e lancia con la croce, sul cavallo che galoppa verso destra e calpesta una donna supina. Sul campo una stella e una conchiglia e, in basso, leone corrente. Sull‘altra faccia, l‘occhio del male, trafitto da due spade e un tridente, contro cui si scagliano un leone rampante, un ibis, uno scorpione, due serpenti, un leopardo. In alto l‘invocazione KURIE BOHQI (fig.36). Il cavaliere rappresenta la vittoria sul male e viene identificato con il re Salomone o con San Sisinnio che trafigge il demone chiamato Abyzou, Alavasdria o Gylou, responsabile della morte dei neonati, rappresentato come una donna, a volte anche con il corpo anguiforme

(CAMINNECI 2014). L‘amuleto appartiene ad una tipologia di oggetti con indubbia funzione apotropaica, rinvenuti in ambiti vari, domestici, religiosi, come i battisteri, o funerari. Il contesto di rinvenimento potrebbe essere un edificio religioso – da qui proviene anche il piatto in terra sigillata D con figura maschile con la croce in mano e le lucerne africane con

162 16. Agrigento. Emporion. Tombe a fossa rivestite da lastre. IV-V sec. d.C.

17. Agrigento. Emporion. Sepolture ad enchytrismos. VI-VII sec. d.C.

(foto Manlio Nocito, Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

163 simboli cristiani (figg.37-41), ma i dati in nostro possesso non ci consentono di dire di più. Vari indizi recuperati nell‘area segnalano la presenza di attività produttive, come la pesca e forse la concia delle pelli, se questo era l‘impiego dei numerosi oggetti di terracotta, rinvenuti negli strati superficiali. Anche i gusci di murici, rinvenuti in discreta quantità, potrebbero essere resti dell‘estrazione della porpora (fig.42). Le ricerche archeologiche possono essere lette alla luce di un testo agiografico, la vita del Vescovo Gregorio, probabilmente, ambientata nello stesso momento storico. Sebbene alcune contraddizioni inficino la coerenza cronologica del bios, sembra verisimile, infatti, riferire il contesto narrato al VII secolo, quando il Mediterraneo è ancora luogo privilegiato di scambi e contatti di uomini e di merci. Il bios scritto dal monaco Leonzio, abate del monastero romano di S.Saba, sembra nell‘VIII secolo, come tutti i testi agiografici, è un palinsesto di eventi e

personaggi storici non sempre cronologicamente coerente (MOTTA 2004, 268-296; CARRA 2013). Più volte, durante la narrazione, la Vita nomina l‘Emporion di Agrigento, utilizzando sempre la stessa perifrasi, quasi una definizione da tecnica formulare, fornendo una vivace descrizione del quartiere sorto attorno al porto, distinto, ma strettamente collegato alla città, alla quale fanno in qualche modo riferimento anche kῶmai, villaggi, siti nel territorio circostante, probabilmente esito della frammentazione dell‘antico centro urbano. Dal bios emerge, comunque, la vitalità della struttura cittadina agrigentina, socialmente

articolata e animata dal dibattito religioso (CALIRI 2005, 944). Apprendiamo da Leonzio che presso l‘Emporion sorgeva un monastero dedicato alla Theotokos, segno inequivocabile del dominio bizantino, che, attraverso gli edifici con dedica alla Madre di Dio, restaurava l‘ortodossia, contro la religione ariana dei goti sconfitti. E‘ un monastero maschile, guidato da

164 18. Agrigento. Emporion. Necropoli ad enchytrismos.

165 18. Agrigento. Emporion. Necropoli ad enchytrismos. Tombe 1/2 e 3.

166 20.-21 Agrigento. Emporion. Necropoli ad enchytrismos. Tombe 1/2 e 3.

167 un hegoumenos, quindi di rito greco, e, verosimilmente, considerata l‘ubicazione presso il porto, svolgeva anche i compiti di accoglienza e di assistenza assicurati da una diaconia. Qui, infatti, trovano riparo Gregorio e i suoi compagni. E‘ il popolo presente all‘Emporion che accompagna il Vescovo in città con una solenne e festosa Litì, anche questa tipica della liturgia bizantina. Il bios, che si presenta come un racconto odeporico, narra con grande precisione i viaggi

compiuti dal Santo (CALIRI 2006, 1168), che attraversa in lungo e in largo il Mediterraneo. Il giovane Gregorio, recatosi alla foce dell‘Akragas, avrebbe trovato una nave, diretta a Cartagine, in sosta nel porto agrigentino per rifornirsi di acqua potabile. La nave, su cui si imbarcherà Gregorio, giungerà a destinazione dopo tre giorni, seguendo quella rotta, attraverso cui giungevano le merci africane, documentate dai contesti testé esaminati. I monaci compagni del santo, partiti da Gerusalemme, dopo una tappa a Tripoli, sbarcheranno a Passararias, presso Plinthias, probabilmente l‘odierna Licata, per poi proseguire, dopo qualche giorno, verso Agrigento, dove approderanno all‘Emporion, come all‘Emporion giungerà il Vescovo su una nave partita da Palermo. Il porto di Agrigento è, quindi, coinvolto certamente nelle rotte che partono da Roma o dall‘Africa, ma è anche la tappa di un cabotaggio che tocca le coste della Sicilia e che assicura i collegamenti anche a breve distanza, forsein modo più agevolerispetto alla viabilità terrestre. Partendo dall‘osservazione del fenomeno insediativo sulla costa occidentale della Sicilia in età tardo romana, l‘archeologia registra la presenza di numerosi insediamenti posti alla foce dei fiumi, con presumibile funzione emporica, terminale dei prodotti provenienti dall‘interno e tramite della circolazione delle merci di importazione nei centri dell‘entroterra. Questi scali minori erano, presumibilmente, collegati da una navigazione di cabotaggio e parte di un sistema di distribuzione

168 22-24. Agrigento. Emporion. Necropoli ad enchytrismos. Tomba 4/8.

169 25-26. Agrigento. Emporion. Necropoli ad enchytrismos. Tomba 9.

170 27-29. Agrigento. Emporion. Necropoli ad enchytrismos. Tomba 5.

171 30-31. Agrigento. Emporion. Veduta generale del saggio e dettaglio del crollo (foto Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

172 delle merci che faceva capo ai caricatori più importanti, Agrigentum e Lilybaeum, che gestivano i traffici transmarini (CAMINNECI c.d.s. b). Quanto alle considerazioni sulla topografia dell‟Emporion, in particolare, relativamente al fenomeno comune nei contesti tardoantichi dell‘occupazione dello spazio dei vivi da parte delle necropoli, si può, in modo generale, osservare la contiguità delle sepolture con i lacerti di vani messi i luce nel corso di saggi recenti, sebbene l‘impossibilità di procedere con uno scavo in estensione e, quindi, la discontinuità dell‘indagine rendano difficile appurare con certezza le relazioni stratigrafiche tra i diversi rinvenimenti. Nell‘area scavata dal Griffo siamo, però, in grado di riconoscere l‘ingresso delle tombe nelle aree destinate ad attività commerciali, in quanto l‘anfora Keay LXI, databile nel VII secolo d.C., riutilizzata come sepoltura, viene deposta sulla cresta rasata di un muro costruito di ciottoli e terra, di un vano dell‘edificio da stoccaggio, probabilmente risalente al IV secolo d.C., e, in seguito, evidentemente, distrutto. Ad Agrigento il fenomeno delle sepolture intramuranee si manifesta già alla fine del III secolo d.C., quando la necropoli sub divo si impianta nell‘area urbana, mentre, tra IV e V secolo d.C., vasti e articolati ipogei occupano la collina dei Templi entro le mura greche, ormai defunzionalizzate e scavate da tombe ad arcosolio. I templi greci vengono circondati dalle sepolture, formae scavate nel banco di roccia e fosse antropomorfe ricoperte da spezzoni di arenaria legati da malta. Il fenomeno testimonia, evidentemente, un restringimento della città, ma allo stato attuale, però, dal momento che non si conosce con precisione il limite meridionale dell‘abitato antico, non siamo in grado di affermare con certezza se l‘ampia fascia occupata dalla necropoli dall‘età tardo antica fosse in qualche modo contigua alle aree abitate. Il caso di Agrigento, comunque, sembra avvalorare l‘ipotesi, avanzata già per Roma e per Herdonia, che l‘inurbamento delle

173 sepolture, altrove casuale e disordinato, possa essere stato talora regolamentato da ―centri decisionali‖ di tipo politico o religioso, ai quali spettava la facoltà di assegnare aree, un tempo

urbane, alle necropoli (VOLPE 2007, 93-94; BONACASA CARRA 2013, 230-235). D‘altro canto, il complesso episcopale con la basilica della città non doveva essere lontano dalle necropoli e, verosimilmente, anche dalla tomba venerata del Protovescovo, probabile centro di attrazione per le altre sepolture, che le fonti agiografiche dicono in foro agrigentinorum. Infine, stante al racconto del bios, anche la scelta del Vescovo Gregorio del luogo per la nuova cattedrale appare strettamente connessa alla costa. La chiara ingerenza dell‘autorità episcopale nella pianificazione urbana è rimarcata da gesti simbolici e magico-sacrali: il Vescovo volta le spalle e, distogliendo lo sguardo dalla vecchia basilica, indica nell‘antico tempio pagano, -verosimilmente il tempio della Concordia- liberato dai demoni, la nuova Chiesa degli agrigentini. L‘ekklesia di Gregorio, posta in un‘area ormai probabilmente eccentrica rispetto alla città, testimonia la volontà di creare un punto di attrazione rispetto al circondario e rispetto all‘Emporion e a quei contatti con il Mediterraneo da questo garantiti.

174 32. Agrigento. Emporion. Spatheion.

33. Agrigento. Emporion. Anforetta di produzione locale.

34. Agrigento. Emporion. Anfora Keay 62 di produzione africana.

35. Agrigento. Emporion. Anfora globulare con iscrizione sulla spalla.

VI-VII sec. d.C. (foto Manlio Nocito, Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

175 Bibliografia

*E‘ in corso lo studio antropologico dei resti scheletrici delle necropoli a cura di Valentina Giuliana. Il progetto Skeletoi prevede l‘analisi comparativa tra i contesti funerari dell‘Emporion e quelli coevi del territorio di Menfi al fine di indagare le caratteristiche fisiche ed etniche degli individui. Le fotografie del secondo settore di enchytrismoi sono di Vincenzo Cucchiara, Fabio Santamaria, Manlio Nocito, Angelo Pitrone.

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176 36. Agrigento, Emporion. Amuleto bronzeo, VI-VII sec. d.C.

37. Agrigento, Emporion. Piatto in terra sigillata africana, VI sec. d.C.

(foto Manlio Nocito, Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

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178 38. Agrigento. Emporion. Lucerna africana. Forma VIII con chrismon sul disco. IV-V sec. d.C.

39. Agrigento. Emporion. Lucerna africana. Forma X. Lepre sul disco. V-VI sec. d.C.

40. Agrigento. Emporion. Lucerna africana. Forma X. Croce sul disco. V-VI sec. d.C.

41. Agrigento. Emporion. Lucerna africana. Forma X. Chrismon sul disco. V-VI sec. d.C.

(foto Manlio Nocito, Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA di Agrigento).

179 42. Agrigento, Emporion. Pesi e ago da rete, amo, strumenti in terracotta, reperti malacologici. VI-VII sec.d.C. (foto Manlio Nocito, Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

180 Gli ergasteria di Akragas: nuove piste di ricerca

MARIA CONCETTA PARELLO

Ricostruire il quadro delle produzioni artigianali di età greca ad Akragas risulta abbastanza complicato, sia per la quantità e per la varietà dei reperti che si possono attribuire a officine locali sia per la frammentarietà e la diversità dei dati che si rintracciano nelle pubblicazioni relative alla città antica. Non esistono infatti studi sistematici aggiornati sulla cultura materiale della polis, né di tipo archeometrico, né di tipo morfologico, tenteremo pertanto di ricostruire un quadro, molto parziale, di alcune delle produzioni akragantine, in particolare delle terrecotte figurate, attraverso una rapida rassegna sia delle matrici pubblicate sia delle aree di fornaci note. Già a partire dalla fine dell‘'800 infatti sono state diffuse notizie di ritrovamenti di alcune matrici, provenienti dall‘area della città antica, che documentano un‘importante attività produttiva. In uno scritto del 1898 Giulio Emanuele Rizzo pubblica una serie di reperti che, dalle notizie che lui riporta, erano state trovate nel 1894 “ da uno di quei pericolosi frugatori di oggetti antichi‖ (RIZZO 1898, 263) “in una campagna un po‟ al sud del così detto Tempio di Castore e Polluce‖ . Le matrici erano state trovate insieme ―forse a rifiuti di fabbrica” in un‘area dove

“doveva esistere un‟officina vasaria‖ (RIZZO 1898, 264). L‘autore insiste sull‘eccezionalità della scoperta, ritenendo le matrici, per i suoi tempi, un unicum in Sicilia. Alcune di queste, collocate in un orizzonte cronologico posteriore al IV sec. a.C., presentano scene a rilievo

181 complesse, con un vasto repertorio iconografico che comprende una scena di Gigantomachia

(RIZZO 1898, 268) una fatica di Eracle, una generica scena di caccia, una di suonatore di

doppia tibia, figure di Nike e Menade (RIZZO 1898, 275), una scena dionisiaca, una scena di

combattimento (RIZZO 1898, 278) con Ulisse. Altre matrici presentano solo motivi

ornamentali quali il Gorgoneion, rosoni, teste di cavallo, leone , grifo, maschera di Sileno (RIZZO 1898, 281-9). Le matrici furono messe in relazione da Rizzo con una supposta produzione di vasi fittili a rilievo, la stessa ipotesi venne ripresa dalla Marconi Bovio e dallo stesso Marconi. In realtà, di vasi di questo genere, che dovrebbero essere stati prodotti ad Akragas, non si conoscono esemplari. Sembrerebbe forse più plausibile una relazione delle nostre matrici con una tradizione di prodotti di tipo metallurgico di cui si possono cogliere echi già a partire dall‘età tardoarcaica, fase in cui si data una curiosa placchetta fittile proveniente dall‘area compresa tra il tempio di Zeus e il santuario delle Divinità Ctonie pubblicata dalla Calderone

(CALDERONE 1991). Per la placchetta (fig.1), che presenta una decorazione su quattro registri con due pantere affrontate, Europa sul toro, Eracle in lotta con il leone nemeo, Pegaso e Bellerofonte, la studiosa ha evidenziato una commistione di tecniche e di matrici tra produzioni in terracotta e produzioni in metallo; lo schema compositivo, i motivi decorativi accessori e le imprecisioni nella resa delle figure infatti lascerebbero infatti pensare ad un‘opera derivante da modelli metallurgici, precisamente dagli Schildbander, le imbracciature di scudo ampiamente conosciute in Grecia, di cui, secondo la studiosa, dovette esserci anche una produzione locale. Non abbiamo idea di come e dove furono utilizzate le matrici pubblicate dal Rizzo, ciò che in questa sede vogliamo proporre, a partire dallo studio della Calderone, è l‘ esistenza documentata ad Akragas di uno scambio, che, probabilmente ,dura a lungo poiché le

182 1. Agrigento. Dall’area compresa tra iltempio di Zeus eilsantuario delle Divinità Ctonie. Placchetta fittile (da ADORNATO 2011).

183 nostre matrici sono sicuramente più tarde, tra matrici per terracotta e matrici per metallo che vengono adattate in relazione al loro utilizzo. Insieme al gruppo di matrici di cui abbiamo parlato l‘autore ne presenta un secondo, sicuramente più antico, che comprende una matrice di grande maschera trovata ―proprio sotto le mura‖, insieme ad altri frammenti di matrici di piccole maschere e di una statuetta con pettorali. Dopo le scoperte di G. E. Rizzo, il Gabrici, in un articolo sul rialzamento delle colonne del

tempio di Eracle del 1925 segnala il ritrovamento di una matrice di sileno (GABRICI 1925, 446, fig. 18) . Si deve comunque a Iole Marconi Bovio il primo e l‘unico lavoro sistematico sulle produzioni akragantine. In un articolo degli anni ‘30 del secolo scorso, infatti, presenta altri importanti dati su ritrovamenti avvenuti ―nelle vicinanze del portico ellenistico-romano, e precisamente lungo

l‟esterno delle mura greche, circa cinquanta metri ad ovest di detto edificio” (MARCONI BOVIO 1930, 73). La studiosa descrive l‘area di provenienza delle matrici come un vero e proprio scarico di fornaci, ricchissimo di frammenti di statuette, di vasi e di frammenti di matrici delle quali, prima di passare in rassegna le tipologie, si sofferma a descrivere le caratteristiche tecniche. Nello scarico trova matrici di ―mascherette, statuette, rilievi e pinakes”, che colloca cronologicamente dall‘età arcaica all‘ età ellenistica, sottolineando sia la lunga vita delle fornaci

sia la diversificazione delle loro produzioni (MARCONI BOVIO 1930, 75). Tra le matrici presentate, oltre le consuete mascherine (fig.2), ci sono una matrice di ―statuetta seduta su gallo”

(MARCONI BOVIO 1930, 81, fig. 11) (fig.3), una di kourotrophos (MARCONI BOVIO 1930, 84, fig. 17) , una di una Nike, realizzata attraverso la giustapposizione di un paio d‘ali all‘iconografia

184 2-3-4. Agrigento. Dall’area delle fornaci a Sud-Ovest di Porta V. Matrici di piccola maschera , di figura femminile su gallo e di Nike (da MARCONI BOVIO 1930).

185 corrente dell‘offerente. (fig.4). Alla produzione sicuramente di V secolo doveva appartenere

una matrice di Nike vestita di peplo (MARCONI BOVIO 1930, 88, fig. 22). Dallo stesso scarico provengono inoltre diverse statuette, tra cui una di kouros, probabilmente di età arcaica

(MARCONI BOVIO 1930, 92, fig. 27). Altri soggetti maschili, di un giovane semisdraiato su kline

(MARCONI BOVIO 1930, 93, fig. 28) e di una figura maschile stante (MARCONI BOVIO 1930, 95, fig. 29) sono stati recuperati da matrici.

Ad età ellenistica vengono assegnate inoltre due matrici di telamone e cariatide (MARCONI

BOVIO 1930, 96, fig. 30) una matrice di Sileno (MARCONI BOVIO 1930, 99, fig 34) una di

scimmia kourotrophos (MARCONI BOVIO 1930, 100, fig. 37), una di cavallino e una di rilievo con

scena di caccia (MARCONI BOVIO 1930, 101, fig. 39) Vengono infine presentati tre eccezionali matrici per pinakes di età arcaica, una con Erakle ed

Euristeo e due con Medusa nella corsa in ginocchio ((MARCONI BOVIO 1930, 101, fig. 40), oggetti unici per bellezza e rarità (figg.5-6). Anche il Marconi, in diverse pubblicazioni, riporta notizie di ―forme‖, ritrovate in diversi punti della città antica pubblicando numerose foto, si tratta però degli stessi reperti che pubblica la Marconi Bovio e che dallo studioso vengono ripresi all‘interno dei suoi lavori di carattere generale sulla plastica agrigentina. Nella pubblicazione dei risultati dello scavo nel complesso santuariale a Sud-Est dell‘Olympieion degli anni ‘60 del secolo scorso, De Miro riporta diverse notizie di ritrovamenti connessi con la

produzione ceramica. Dalla grande vasca infatti provengono numerose ―valvole di fornace” (DE

MIRO 1963, 156-159, figg. 71-73), una matrice di offerente datata alla fine del VI secolo (DE

MIRO 1963, 161, figg. 77-78) (fig.7), un frammento di matrice di piccola protome (DE MIRO

186 5. Agrigento. Dall’area delle fornaci a Sud-Ovest di Porta V. Matrice di placchetta con Medusa nella corsa in ginocchio (da ADORNATO 2011).

187 1963, 162-163, fig. 79) (fig. 8), un frammento di matrice di statuetta di Atena (DE MIRO 1963,

166-167, fig. 80) (fig. 9), una matrice di testina e ed una di testa leonina (DE MIRO 1963, 163). Rimanendo nel settore occidentale della collina dei Templi, dall‘area sacra tra il tempio di Zeus e Porta V, scavata a partire dagli anni ‘70 e pubblicata da De Miro in una monografia degli

anni 2000 DE MIRO 2000) proviene un considerevole numero di frammenti di matrice appartenenti a numerosi modelli iconografici che documentano un‘importante produzione

locale concentrata tra la fine del VI secolo ed il pieno V secolo (DE MIRO 2000, 104-105).

Sono state pubblicate infatti numerose matrici frammentarie di statuette con pettorali (DE

MIRO 2000, 104, tavv. CVIII; CIX; CX) , offerenti con porcellino, di protomi femminili (DE

MIRO 2000, 106, Tavv. CX, CXIII, CXIV) , una matrice di kourotrophos, due di sileno, una di hydrophoros (figg.10-15). Sarebbe questo il momento in cui avviene uno straordinario sviluppo della produzione coroplastica agrigentina che vede, tra l‘altro, la creazione del modello della cosiddetta Athana lindia (fig.16), rielaborazione di motivi iconografici di origine diversa , argivi

e corinzi soprattutto, che conosce un immediato successo a Selinunte e a Gela (ALBERTOCCHI 2004, 170-171). La produzione akragantina si distingue però per una particolare ricchezza e varietà nei tipi, per l‘originalità e l‘autonomia della produzione a testimonianza della fiorente attività dei

coroplasti locali (ALBERTOCCHI 2004, 127). Tra le produzioni più tarde rientrano una testa ed un rilievo con Eracle, due matrici di

offerente con porcellino ne confermano la produzione per buona parte del V secolo (DE MIRO 2000, 108). Notizie sparse di ritrovamenti di matrici si ritrovano sia in pubblicazioni che riguardano altre

188 6. Agrigento. Dall’area delle fornaci a Sud-Ovest di Porta V. Matrice di placchetta con Eracle e Euristeo ed i Cercopi (da ADORNATO 2011).

189 aree di scavo all'interno della città antica sia dando un veloce sguardo ad alcuni materiali conservati nei magazzini del Parco. Dal cosiddetto Quartiere Punico, situato in prossimità di Porta II, interpretato dagli scavatori come quartiere artigianale, proviene un'unica matrice di galletto (fig. 17). La destinazione d'uso dell'area però è stata di recente messa in discussione poiché oltre a quest'unica matrice non sono state trovate strutture per la produzione. Da un'area vicino a Porta I infine provengono una matrice di testa di ariete (fig. 18) ed una brocchetta piriforme ipercotta (fig. 19), indizio di una piccola produzione databile tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C . direttamente legata al consumo degli oggetti in loco

(FIORENTINI 2009, 69,74). A questi dati raccolti dalle pubblicazioni si aggiungono quelli che si possono ricavare da una visita al Museo Archeologico Regionale Pietro Griffo di Agrigento nelle cui vetrine sono esposte innumerevoli matrici provenienti dai santuari urbani ed extraurbani della città non pubblicate. I ritrovamenti confermano il quadro di grande vivacità delle produzioni di coroplastica akragantina per tutta l‘età greca. Ovviamente non si può pensare che le produzioni delle officine locali fossero legate solo alla domanda specifica di oggetti funzionali alle pratiche cultuali; sembra invece assolutamente ovvio che il ceramico di Akragas soddisfacesse anche altri ambiti di domanda, quali quello degli utensili domestici, per esempio, e dei contenitori da trasporto. Su queste classi di materiali però, ad oggi, non abbiamo dati sufficienti per ricostruire un panorama attendibile, così come moltissimo resta ancora da sapere sulla produzione delle terrecotte architettoniche di cui si conosce una grande quantità di frammenti di età arcaica e classica.

190 7-8-9. Agrigento . Co mplesso a Sud- Est d ell’Olymp ieion. Matrice di offerente, di piccola protome e di statuetta di Athena (da DE MIRO 1963).

191 Altro importante settore di produzione è quello del cosiddetto artigianato artistico a cui di recente è stato dedicato un lavoro da G. Adornato. L'autore, dopo averne rintracciato le matrici culturali, ricostruisce il quadro delle produzioni artistiche akragantine di età arcaica, sottolineandone gli aspetti di originalità e maestria, tracciando i caratteri di una vera e propria scuola di artisti che manipolano con grande permeabilità influssi artistici e culturali vicini e lontani proponendo soluzioni innovative ed eccentriche i cui echi sono passati anche nelle

produzioni seriali di cui stiamo parlando (ADORNATO 2011, 89-102). Insieme alle matrici, la cui provenienza in alcuni casi è stata messa in relazione con aree

produttive (MARCONI BOVIO 1930), altri indizi sulla localizzazione di aree di fornaci nel territorio della polis provengono dal recente progetto di survey che ha interessato tutta l‘area del

Parco e che è confluito nella pubblicazione della Carta Archeologica del Parco (BELVEDERE,

BURGIO 2012). Nel volume infatti sono state pubblicate alcune aree nelle quali la presenza di scarti di fornace è stata ovviamente interpretata come indizio della presenza di impianti produttivi. La prima è quella posta ad Ovest di Porta V, immediatamente a Sud delle mura ed in prossimità dell‘antico fiume Akragas, oggi Sant‘Anna, che doveva estendersi molto verso Sud, costeggiando a sinistra il fiume, così come rivelerebbe la recentissima scoperta di una

fornace a circa cinquecento metri a Sud di Porta V (LENTINI 2012, 149) (figg.20-21). Nota, come sappiamo, già dalla fine dell‘800 ed individuata come area produttiva nell‘interessante articolo della Marconi Bovio, segnalata ancora dal Griffo negli anni ‘50 del secolo scorso, è stata parzialmente indagata negli anni '90, ma, purtroppo non è stata ancora pubblicata. Tutti gli indizi ricavati dall'area, dalla posizione ai ritrovamenti, lasciano supporre che si tratta di un'area destinata alla produzione di coroplastica per potenziali clienti frequentatori dei

192 10-11. Agrigento. Area sacra tra iltempio di Zeus e Porta V. Frammenti di matrice di piccole protomi e di statuette con pettorali e di offerenti (da DE MIRO 2000).

193 santuari del settore occidentale della Collina dei Templi. Altre importanti aree sono quelle individuate dalle ricerche di superficie a Sud-Est della città, immediatamente al di fuori della cinta muraria antica ed in prossimità del vallone San Biagio (fig.22). Si tratterebbe in questo caso di vaste aree artigianali di età arcaico-classica per la produzione di materiale da costruzione, louteria e grandi contenitori per derrate. L‘analisi delle tracce osservate sulle foto aeree (fig.23), inoltre, ha permesso di ipotizzare la presenza di strutture funzionali alle varie fasi

di lavorazione (LENTINI 2012, 146-147), dalle vasche per la decantazione dell'argilla, ai piani di lavorazione, a vaste aree sgombre per l'essiccazione e lo stoccaggio dei prodotti finiti, oltre ad una serie di ambienti rettangolari. Una terza area, più circoscritta, è stata riconosciuta nella Piana di San Gregorio, a Nord del santuario di Asclepio, ed ha restituito reperti che lasciano ipotizzare un‘attività produttiva databile in età classica ed ellenistica. Tutte le aree artigianali finora note dunque, relative al periodo dell‘Akragas di età arcaica e classica si dispongono a Sud della città, immediatamente al di fuori della cinta muraria e vicine a fonti d‘acqua e, in alcuni casi, a cave d‘argilla: le strutture artigianali localizzate a Sud-Est della città si trovano infatti nelle immediate vicinanze dei calanchi di argilla ai piedi del tempio di Giunone. Rispondono inoltre ad una pianificazione industriale extraurbana, definita a partire dall'età arcaica, con attenzione particolare alla vicinanza alle aree di culto, destinazione finale di moltissimi dei manufatti prodotti. Le aree di cui abbiamo parlato infine si trovano nei pressi di due Porte, in relazione dunque con la viabilità in entrata ed uscita dalla città antica, lungo la quale scorrevano i flussi delle merci finite e delle materie prime, dirette sia verso la città, sia verso il suo territorio, la cosiddetta Chora, sia verso regioni più distanti. In età ellenistica il panorama sembra cambiare.

194 12-13. Agrigento. Area sacra tra il tempio di Zeus e Porta V. Frammenti di matrice di Sileno, di protomi e di statuette con pettorali (da DE MIRO 1963).

195 Non si conoscono grandi aree produttive esterne alla città ma sembrerebbe che la produzione avvenisse in piccoli ateliers che servivano forse solo a soddisfare il fabbisogno dei singoli quartieri. Tracce sparse di fornaci sono state infine segnalate dentro lo spazio della città antica ma ad oggi non abbiamo indizi per riferirle al periodo di cui ci siamo occupati. Vorremmo fare infine un ultimo cenno alle matrici ritrovate in contesti santuariali. Molte delle matrici che abbiamo presentato infatti provengono dalle aree sacre in prossimità di Porta V ed una sola matrice è stata ricordata tra i ritrovamenti avvenuti nell'area del tempio di Eracle. Difficile pensare ad una presenza causale di tali reperti, magari dovuta semplicemente alla vicinanza delle officine. Si potrebbe invece pensare ad una funzione votiva delle stesse, potrebbero essere delle offerte magari da parte degli artigiani che operavano nelle botteghe vicine. Costruire il quadro complessivo delle produzioni della città antica è lavoro complesso e lunghissimo, forse non proponibile per un unico lavoro di sintesi tanto varia e diversificata si può immaginare la produzione di una città grande, ricca e vivace come certamente fu Akragas, dovrà prevedere l'uso incrociato di dati di natura diversa, non solo morfologici ma anche archeometrici, topografici, statistici, affinché l'idea della città ricordata dalle fonti e intuibile dal piccolo percorso che abbiamo tracciato riceva piena conferma dai dati materiali.

196 14-15. Agrigento. Area sacra tra il tempio di Zeus e Porta V. Frammenti di matrice di statuette con pettorali, di figure animali e di offerenti (da DE MIRO 1963; 2000).

197 Bibliografia ADORNATO G. 2011, Akragas arcaica. Modelli culturali e linguaggi artistici di una città greca d‟Occidente, Milano. ALBERTOCCHI M. 2004, Athana Lindia. Le statuette siceliote con pettorali di età arcaica e classica. Roma. BELVEDERE O., BURGIO A. 2012, Carta Archeologica e Sistema Informativo territoriale del Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento, Palermo. DE MIRO E. 1965, Terrecotte architettoniche agrigentine, «Cronache di Archeologia e Storia dell‘Arte», 4, 39-78. DE MIRO E., 2000, Agrigento. I. I santuari urbani. L‘area sacra tra il Tempio di Zeus e porta V, Roma FIORENTINI G., 2009, Agrigento. V. Le Fortificazioni, Roma MARCONI BOVIO I. 1930, Agrigento, scoperta di matrici fittili e di terrecotte figurate negli anni 1926-27, «Notizie Scavi e Antichità», . GABRICI E. 1925, Girgenti. Scavi e scoperte archeologiche dal 1916 al 1924, «Notizie Scavi e Antichità», 420-461. GRIFFO P. 1955, «Fasti Archeologici», X, n. 1783. LENTINI F. 2012, L'area extraurbana: III. le aree artigianali, in BELVEDERE O., BURGIO A. (a cura di), Carta Archeologica e Sistema Informativo territoriale del Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento, Palermo. MARCONI P. 1928-29, Plastica agrigentina, in «Dedalo», IX. MARCONI P. 1929, Agrigento. Topografia e arte, Firenze. MARCONI P. 1933, Agrigento arcaica. Il santuario delle divinità ctonie e il tempio detto di Vulcano, Roma. MARCONI P. 1929, Girgenti. Ricerche ed esplorazioni, «Notizie Scavi e Antichità», 93-148. DE MIRO E. 1963, Agrigento, scavi nell‟area a Sud del tempio di Giove, «Monumenti Antichi dei Lincei», 46, coll. 83-198 RIZZO G. E. 1898, Forme fittili agrigentine. Contributo alla storia della coroplastica greca, «Bollettino dell‘Imperiale Istituto archeologico Germanico»,Vol. XII, anno 1897,fasc. 3-4, Roma 1898,253-306. RIZZO G.E. 1910, Busti fittili d‟Agrigento, «Jahreschefte» XIII, 65-66.

198 16. Agrigento. Statuetta con pettorali c.d. di Athana Lindia (da ADORNATO 2011).

17. Agrigento. Qua rtie re P uni co. Matric e di ga lle tto ( Archi vio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

18. Agrigento. Area di Porta I. Matrice di testa di ariete (da FIORENTINI 2009).

19. Agrigento. Area di Porta I. Brocchetta ipercotta (da FIORENTINI 2009).

199 20-21. Agrigento. Fornaci a Sud-Ovest di Porta V (Archivio Parco Archeologico Valle dei Templi di Agrigento).

200 22- Agrigento. Area artigianale in prossimità del vallone San Biagio (da BELVEDERE, BURGIO 2012).

201 23. Agrigento. Area artigianale in prossimità del vallone San Biagio (da BELVEDERE, BURGIO 2012).

202 Produzioni agricole ed officine ceramiche ad Agrigentum in età tardo romana

MARIA SERENA RIZZO

Il territorio di Agrigento conosce in età tardo romana, ed in particolare tra la fine del IV ed il V secolo, quello che, stando ai dati archeologici disponibili, sembra di poter definire un vero e proprio ―boom‖ agricolo, segnalato da numerosi indicatori. In primo luogo, si assiste in questa fase ad una riorganizzazione della rete degli insediamenti rurali, che in molti casi si sovrappongono a ville o fattorie della prima e media età imperiale (Saraceno (CASTELLANA,

MCCONNEL 1990; 1998), Cignana (FIORENTINI 1993-94; RIZZO 2010; RIZZO, ZAMBITO 2007;

RIZZO, ZAMBITO 2010; 2012), Campanaio (WILSON 2000 ), ma in altri si sviluppano in siti precedentemente non abitati o abbandonati da tempo (Canalicchio di Calamonaci: PARELLO,

AMICO c.d.s), diversi siti individuati da ricognizioni); secondo una tendenza che si manifesta in molte zone dell‘Italia meridionale, inoltre, il popolamento rurale appare nel V secolo organizzato prevalentemente in agglomerati piuttosto estesi (Cignana, forse Campanaio), anche se non mancano gli insediamenti di minore estensione, da interpretare probabilmente come semplici fattorie (Canalicchio, ad esempio). Tutti gli abitati finora indagati hanno in modo evidente i caratteri dell‘insediamento a carattere rurale; utilizzano infatti tecniche edilizie estremamente semplici, in genere murature in pietrame legato con terra (fig. 1), che potevano anche essere limitate agli zoccoli, mentre almeno in alcuni casi gli alzati potevano essere in argilla, come è stato ipotizzato per Campanaio, Verdura (PARELLO, AMICO, D‘ANGELO 2010,

203 2012) e Cignana. I piani pavimentali sono sempre in semplice terra battuta, mentre le coperture sono realizzate con tegole. Non sono state in nessun caso individuate finora unità edilizie o vani che si distinguano per la maggiore cura della realizzazione o per il pregio delle rifiniture: esse sono in genere costituite da pochi ambienti accostati l‘uno all‘altro, in diversi casi probabilmente a carattere polifunzionale (preparazione e consumo dei cibi, conservazione delle derrate), e comprendenti fianco a fianco sia gli ambienti destinati alle attività domestiche, sia quelli funzionali allo svolgimento di piccole attività artigianali (scorie di ferro nel vano 1/2006 di Cignana, una calcara ed un apprestamento per la trasformazione di prodotti agricoli, forse per la produzione del vino (fig. 2), a Saraceno); a Verdura dell‘unità edilizia messa in luce faceva forse parte anche una stalla. A Saraceno, inoltre, sono stati rinvenuti numerosi grandi dolii (fig. 3), sparsi in tutta l‘area, destinati con ogni probabilità alla conservazione dei cereali prodotti nel territorio agricolo che doveva far riferimento all‘insediamento. Come si è visto, in diversi siti sono attestate attività artigianali, alcune delle quali legate alla trasformazione dei prodotti agricoli: alla struttura probabilmente destinata alla produzione del vino presente a Saraceno, cui si è già accennato, si può aggiungere il frantoio per l‘olio identificato a Campanaio. E‘ forse connessa proprio con l‘attività di trasformazione dei prodotti agricoli la produzione di un tipo di contenitori da trasporto, la cui diffusione nel territorio agrigentino è stata messa in

evidenza proprio dalle ricerche archeologiche più recenti (RIZZO ET ALII. 2014): si tratta di un gruppo di anfore di piccole dimensioni, con corpo ovoidale allungato segnato da cordonature, base convessa, talvolta con una sorta di rozzo piede ad anello, caratteristiche piccole anse a maniglia impostate sulla spalla e sotto l‘orlo, spesso con evidenti segni di ditate in

204 1. Naro. Villaggio di contrada Cignana (foto Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

205 corrispondenza dell‘attaccatura, collo più o meno allungato e semplice orlo, o appena inspessito all‘esterno e talvolta sottolineato da una solcatura alla base, o a sezione triangolare (fig.4). Gli esemplari recuperati nel territorio agrigentino hanno, nei casi in cui essa può essere determinata, un‘altezza media di 40/43 cm ca., diametro dell‘orlo tra gli 8 e i 9 cm, diam. massimo compreso tra i 23 e i 26 cm e capacità intorno agli 8 litri. Queste anfore furono identificate per la prima volta e riconosciute come produzione locale tra i materiali provenienti

dagli scavi urbani condotti a Termini Imerese (RIZZO 1993, 223-225), e da allora indicati spesso come pertinenti al tipo Termini Imerese 151/354. Successivamente si è constatata la

diffusione di anfore simili anche nella Sicilia nord-orientale, a Caronia Marina (BONANNO,

SUDANO 2007, 356) e a Terme Vigliatore-S. Biagio (BORRELLO, LIONETTI 2008, 77) e si sono

individuati alcuni siti di produzione a Capo d‘Orlando (SPIGO, OLLÀ, CAPELLI 2006) e

Caronia, in contrada Chiappe (WILSON 1990, 263; BONANNO, SUDANO 2007), mentre scarti

di fornace sono stati rinvenuti a Furnari, in località Tonnarella (BONANNO, SUDANO 2006,

356; BONANNO 2007). Ci sembra probabile, inoltre, che siano attribuibili a questo gruppo

almeno alcune delle anfore prodotte dalle fornaci di Santa Venera al Pozzo (AMARI 2006;

MALFITANA 2008, 135-137). Gli scavi condotti in anni recenti in diversi siti di età tardo romana e protobizantina nel territorio di Agrigento ne hanno infine accertato la presenza anche in quest‘area; le indagini archeometriche condotte su campioni rinvenuti a Verdura, Canalicchio di Calamonaci, Saraceno, Cignana e Vito Soldano hanno mostrato come i reperti rinvenuti in ciascun sito siano stati prodotti in maggioranza con argille provenienti con ogni probabilità dall‘area immediatamente circostante. L‘individuazione di produzioni locali di contenitori di questo tipo è particolarmente interessante per il fatto che

206 2. Agrigento. Villaggio di contrada Saraceno (foto Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

207 recentemente ne è stata riconosciuta la diffusione al di fuori della Sicilia, prevalentemente, a quanto sembra sinora, in area tirrenica e soprattutto a Roma. Sono state identificate anfore di questo tipo, ad esempio, in un contesto della seconda metà del V secolo presso il tempio della

Magna Mater (PANELLA, SAGUÌ, COLETTI 2010, 66), mentre alcuni esemplari, provenienti da altri siti ed interpretati diversamente, potrebbero in effetti essere pertinenti al nostro tipo. La diffusione a Roma e in area tirrenica di anfore provenienti con ogni probabilità dalla Sicilia, accanto ad altri tipi ben noti, come la cd. Keay LII, testimonia l‘arrivo di merci, vino soprattutto, prodotte in aree diverse dell‘isola, accanto alle più famose produzioni della cuspide nord-orientale, note dalle fonti e il cui ampio commercio è ben attestato archeologicamente dalla distribuzione in quasi tutto il Mediterraneo di contenitori come,

appunto, la Keay LII (PACETTI 1998). Poiché le anforette tipo Termini Imerese erano certamente prodotte in varie zone, non possiamo essere certi che, tra gli esemplari pubblicati, dei quali in genere peraltro non viene descritto l‘aspetto del corpo ceramico, ve ne siano anche di agrigentini; possiamo però quanto meno ritenerlo probabile e supporre che esse viaggiassero insieme a prodotti, come i cereali, che dovevano rappresentare l‘oggetto principale delle esportazioni del nostro territorio. Diodoro Siculo riporta che nel V secolo a.C. il territorio agrigentino era ricco e fertile e che produceva, oltre ai cereali, vino ed olio, quest‘ultimo esportato anche verso Cartagine (Diod. XIII, 81, 4); per l‘età tardo antica non abbiamo fonti al riguardo, ma gli indicatori di cui abbiamo brevemente parlato suggeriscono che la produzione di vino ed olio fosse ancora significativa e che una parte potesse ancora essere destinata ai mercati transmarini. Contemporaneamente, specialmente nei secoli IV/V, le anfore importate, soprattutto

208 3. Agrigento. Villaggio di contrada Saraceno. Dolio.

4. Anfora di produzione locale.

(foto Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

209 dall‘Africa, documentano l‘esistenza di una domanda di derrate alimentari provenienti da oltremare che dovevano aggiungersi, nei consumi, ai prodotti locali, o perché questi ultimi non erano sufficienti quantitativamente a soddisfare la domanda interna, o per il maggior pregio dei beni importati. Che il ―boom‖ agricolo delle campagne agrigentine fosse connesso con l‘esportazione potrebbe essere indirettamente confermato dallo sviluppo, tra la fine del IV e il V secolo, di una rete di insediamenti costieri che, per il territorio agrigentino, conosciamo meglio nella parte occidentale della provincia, nella zona di Sciacca, ma che probabilmente esistevano lungo tutta

la costa. I due siti di Verdura (fig. 5) (PARELLO, AMICO, D‘ANGELO 2010) e Carabollace (fig. 6)

(CAMINNECI 2010 a; CAMINNECI, FRANCO, GALIOTO 2010; CAMINNECI, FRANCO 2012) sono tra loro molto simili per collocazione topografica, posti come sono alle foci dei torrenti omonimi, corsi d‘acqua le cui vallate rappresentano importanti vie di penetrazione verso l‘interno collinare. Essi si sviluppano in una fase in cui, stando ai risultati di recentissime ricerche archeologiche, anche il sobborgo portuale di Agrigento, l‘antico Emporion, è certamente attivo. Scavi recenti hanno messo in luce riempimenti e residui di strutture databili tra il V ed il VI secolo nell‘area più vicina alla foce fluviale ed un piccolo gruppo di

tombe ad enchytrismòs in anfore africane (CAMINNECI 2010 b; CAMINNECI 2012). Strutture, interpretate come magazzini connessi con l‘attività portuale, erano state invece scoperte agli

inizi del ‗900 (GABRICI 1925; GRIFFO, DE MIRO 1955). Anche sulla costa ad Est di Agrigento dovevano scaglionarsi gli emporia, che conosciamo però molto meno. La Vita del vescovo Gregorio menziona un approdo nei pressi di Plinthias, che è verosimile conservi in forma corrotta il toponimo dell‘antica città di Finziade, identificata sul

210 5. Sciacca. Villaggio di contrada Verdura (foto Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

211 Monte Sant‘Angelo, altura che si innalza a brevissima distanza dal mare presso l‘attuale centro

urbano di Licata (LA TORRE 2005). Nei pressi di Plinthias, nel luogo chiamato Passararias, sbarcano i monaci che avevano accompagnato il giovane Gregorio in Terrasanta, e lì si fermano per alcuni giorni, prima di riprendere la navigazione verso il porto di Agrigento (S. Gregorii Agrigentini Vita, col. 581), il che induce a ritenere che vi fossero strutture in grado di ospitare i monaci e di consentirne il rifornimento di viveri ed acqua. E‘ possibile che lo sviluppo di questi insediamenti sia da collegare all‘espansione del libero commercio che sarebbe alla base dell‘intenso sfruttamento delle campagne isolane in

quest‘epoca (per i ―mercati sulla spiaggia‖ sulle coste africane, MCCORMICK 2004, 100-103). Il ―boom agricolo‖ che sembra di poter percepire nelle campagne agrigentine si inserisce infatti in un contesto di sviluppo che riguarda tutta l‘isola e che viene messo in relazione dagli studiosi con la fondazione di Costantinopoli, che avrebbe assorbito l‘intera produzione di grano egiziano, e con il conseguente rafforzato ruolo della Sicilia nel commercio cerealicolo

con Roma (CRACCO RUGGINI 1980, 9-12; VERA 1997-98, 37-60). Mancano però, ad oggi, nel nostro territorio, manifestazioni di ricchezza privata e di lusso eclatanti come le grandi ville note nella Sicilia orientale; né, d‘altra parte, è evidente, per il pieno IV secolo, una significativa espansione del popolamento rurale, che sembra invece verificarsi essenzialmente a partire dalla fine del secolo e dagli inizi del V. Alla rete di approdi che si sviluppava lungo la costa era probabilmente affidata una funzione di ―cerniera‖ tra mare ed entroterra: per il loro tramite le produzioni dell‘hinterland agricolo venivano immesse nel commercio transmarino, e le merci provenienti d‘oltremare (vino, olio, conserve di pesce conservate in anfore, vasellame da mensa, ceramiche da fuoco, per citare

212 6. Sciacca. Villaggio di contrada Carabollace (foto Angelo Pitrone. Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

213 soltanto i beni in grado di lasciare una traccia archeologicamente percepibile), seguendo le vie di comunicazione verso l‘interno rappresentate dalle valli fluviali, raggiungevano le fattorie ed i villaggi (fig.7), fin nel più lontano entroterra. L‘evidenza archeologica del sito di Verdura, che appare improvvisamente distrutto nella seconda metà del V secolo e che restituisce quindi una interessantissima immagine della cultura materiale dell‘insediamento in questo momento, attesta gli strettissimi legami con la costa africana, soprattutto con gli ateliers della zona di Nabeul, da cui provengono non soltanto ceramiche fini da mensa ed anfore, ma

anche una parte consistente delle ceramiche comuni (PARELLO, AMICO, D‘ANGELO 2010). Lungo la rotta dalle coste africane si trovava l‘isola di Pantelleria, dove avevano sede officine

specializzate nella produzione di caratteristiche ceramiche da cucina (SANTORO BIANCHI ET

ALII 2003; SAMI 2005), che, fino almeno al V secolo, rappresentano il tipo pressoché

esclusivo di vasellame da fuoco utilizzato in tutto il territorio agrigentino (FIERTLER 2003;

RIZZO, ZAMBITO 2012; RIZZO, ZAMBITO c.d.s.). Gli insediamenti rurali dell‘entroterra sono infatti pienamente coinvolti nella rete di distribuzione di anfore e ceramiche importate, provenienti prevalentemente dall‘Africa, ma anche dal Mediterraneo orientale, abbondantemente attestate da scavi e ricerche di superficie. E‘ stato anzi osservato come, allo stato attuale delle ricerche, nei siti delle campagne agrigentine la documentazione relativa alle sigillate africane dopo il IV secolo superi, per quantità e varietà dei tipi, quella del centro

urbano (POLITO 2000, 56). E‘ difficile, infatti, allo stato attuale delle ricerche, mettere in relazione lo sviluppo agricolo che sembra caratterizzare le campagne con i fenomeni che, nello stesso lasso di tempo, interessano il centro urbano di Agrigentum. E‘ difficile in primo luogo perché quanto al

214 7. Naro. Villaggio di contrada Cignana. Anfore (da RIZZO, ZAMBITO 2012)

215 momento è noto sulla città di età romana e, ancor di più, tardo-romana, è poco e frammentario e non si riesce ancora a ricomporlo in un quadro unitario e coerente. Il settore di cui conosciamo meglio l‘evoluzione in età tardo-romana è il margine meridionale della città antica, lungo il quale in età greca si erano sviluppati i principali santuari. A partire, a quanto sembra, dal IV secolo, tutta l‘area viene occupata da una grande necropoli, costituita da ampi

settori di sepolture sub-divo, da ipogei e da arcosoli (fig. 8), che perforano le mura (BONACASA

CARRA 1995; BONACASA CARRA, ARDIZZONE 2007; ARDIZZONE 2012). Si tratta di una necropoli assai vasta, che si estende dalle pendici occidentali della collina su cui sorge il tempio di Giunone all‘area ad Ovest del tempio di Ercole, dove il cimitero è stato tagliato dalla strada attuale che conduce a San Leone, e che include il tempio della Concordia, il cui stilobate è perforato fittamente da formae (fig. 9). Questo tempio, come è noto, fu trasformato in chiesa cristiana, con un processo di rifunzionalizzazione che la tradizione attribuisce al vescovo Gregorio, ma che rimane ancora da comprendere appieno e da collocare cronologicamente

con precisione (ARDIZZONE 2012). Lo sviluppo della necropoli all‘interno delle mura urbiche, se da una parte attesta la riduzione dell‘area dell‘abitato, già evidente peraltro in età romana

(BELVEDERE, BURGIO 2012, fig. 41), dall‘altro, con la sua notevole estensione, sembra da riferire ad una città ancora vasta e popolosa. Il materiale ceramico proveniente dal cimitero, che è stato in gran parte riferito a resti di pasti rituali sopra le tombe, documenta, ancora almeno per tutto il V secolo, la ricchezza di importazioni, in grandissima maggioranza dall‘Africa, mentre appaiono quantitativamente marginali le merci provenienti dal Mediterraneo orientale. Tra i reperti recuperati nell‘area della necropoli paleocristiana sono abbondanti anche le

216 8. Agrigento. Arcosoli lungo le mura meridionali (Archivio Fotografico Parco Archeologico della Valle dei Templi).

9. Agrigento. Tempio della Concordia. Arcate lungo la parete della cella create al tempo della trasformazione in chiesa (Archivio Fotografico Parco Archeologico della Valle dei Templi).

217 ceramiche che, alla luce delle analisi archeometriche effettuate, appaiono certamente prodotte ad Agrigento. Si tratta di forme varie di ceramica comune, ma anche di anforette di tipo ―siciliano‖, del tutto simili a quelle che, come già si è detto, sono fabbricate anche nell‘hinterland agrigentino. Scarti di fornace, relativi anch‘essi a recipienti di uso comune e ad anforette, sono stati evidenziati anche all‘interno di un grosso strato che ricopre l‘area del tempio romano e del triportico in età tardo antica, lasciando immaginare l‘esistenza di un‘area produttiva nel settore della città che si estende a monte del Foro. Questa possibilità, che andrà verificata con ricerche future, è di grande interesse, perché documenterebbe la presenza di attività produttive dentro la città, o almeno dentro quella che fino ad età romana era stata la città, e che in età tardo antica si era con ogni probabilità notevolmente ristretta, seppure entro confini che rimangono da chiarire. All‘interno dell‘area urbana, probabilmente, cominciano ad essere praticate anche attività agricole, che però non lasciano tracce che possano facilmente essere rilevate archeologicamente, se non realizzando analisi di tipo paleobotanico che ad Agrigento non sono state finora effettuate. Rimangono però tracce certe delle attrezzature finalizzate alla trasformazione dei prodotti agricoli, ed in particolare di torchi per il vino, anche se di cronologia in alcuni casi imprecisabile. Un esempio è documentato nell‘area che in età romana era stata occupata dal Ginnasio e successivamente da altri edifici a carattere

certamente pubblico (FIORENTINI 2009; DE MIRO, FIORENTINI 2011, 71-1001); esso sembra databile al VII secolo, dopo una fase di abbandono e dopo che una potente alluvione aveva ricoperto gli edifici più antichi. Altre strutture simili sono però visibili anche in altri punti della valle: un esemplare ben conservato, ad esempio, si trova nei pressi del Tempio di Giunone. Più a Nord, nel cosiddetto ―quartiere ellenistico-romano‖ (fig. 10), strati riferibili

218 10. Agrigento. Quartiere Ellenistico Romano. Panoramica dell’area scavata (Archivio Fotografico Parco Archeologico della Valle dei Templi).

219 forse ad una distruzione, ma, comunque, probabilmente saccheggiati e rimescolati successivamente, si rinvengono in diverse case. Chi ha eseguito e pubblicato gli scavi tende a

datarli alla metà circa del V secolo ed a metterli in relazione con il ―sacco vandalico‖ (DE MIRO 2009, 100-103). Uno spesso strato di terra e pietre, apparentemente un riempimento, volto forse ad innalzare il piano di calpestio, sembra databile al pieno VI secolo. E‘ su questo strato che sono costruite diverse tombe a cassone litico (fig. 11), alcune delle quali sono state scavate recentemente, parte di una necropoli organizzata in piccoli gruppi di due o tre tombe, sparse senza un ordine apparente nell‘area già occupata dall‘abitato. Ma probabilmente sullo stesso riempimento poggiano anche strutture connesse con attività produttive: sono evidenti in diversi punti aree con tracce di bruciatura e piani di combustione, resti probabilmente, almeno in alcuni casi, di fornaci per calce; su questo stesso riempimento poggiano, in alcune case, anche muri (fig. 12), che suddividono vani, occupano i peristili, che, insomma, nel modificare radicalmente l‘aspetto delle domus di età romana, potrebbero però denunciarne la continuità d‘uso a fini abitativi. L‘impressione, insomma, è quella di una città che, forse piuttosto bruscamente, ha perso gran parte dei suoi connotati urbani in senso classico, cominciando a somigliare, almeno in alcuni suoi ampi settori, a quegli insediamenti rurali che, come abbiamo visto, negli stessi anni si espandono nelle campagne. I fenomeni che conducono ad una sorta di ―ruralizzazione‖ della città, l‘ingresso delle terre coltivabili e delle attività produttive con esse connesse all‘interno dell‘area urbana, la perdita di compattezza dell‘abitato e la frammentazione in nuclei sparsi, l‘indefinitezza dei confini tra città e suburbio, sono molto diffusi nel Mediterraneo post- romano, rappresentando alcuni degli aspetti più significativi della ―trasformazione‖ della città

220 10-12. Agrigento. Quartiere Ellenistico Romano. Strati di distruzione e di riempimento relativi alle fasi tarde di frequentazione; tomba a cassone litico (foto Maria Serena Rizzo, Zelia Di Giuseppe. Archivio Fotografico Parco Archeologico della Valle dei Templi).

221 tardo antica. Gli studiosi hanno avanzato diverse proposte di interpretazione di quello che è un fenomeno ―globale‖, anche se si manifesta con tempi diversi nelle diverse aree dell‘impero e

nelle singole città (BROGIOLO 2011, 133-134). Nel caso agrigentino, potrebbero essere proprio alcuni dei fenomeni di cui si è brevemente discusso, tra cui lo sviluppo degli agglomerati e la nascita degli emporia costieri, a testimoniare la tendenza del sistema degli abitati ad organizzarsi

in modo ―policentrico‖, (ARTHUR 2000, 182-185), con lo sviluppo di una pluralità di luoghi in

cui avviene lo scambio, a livello locale ed a livello interregionale (BELVEDERE 2004) in cui si produce e si consuma, e in cui possono anche scegliere di vivere i ceti privilegiati. Nel centro urbano, a sua volta, sembrano essersi sviluppate attività agricole ed artigianali che la città di età classica escludeva dal suo perimetro, ma che possono invece trovare un proprio spazio nella città tardo antica ed altomedievale.

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226 Produzione e commercio dello zolfo ad Agrigentum e nel suo territorio LUCA ZAMBITO

1. Introduzione

Agrigento e il suo territorio sono stati oggetto di numerose descrizioni riguardanti la feracità dei campi, la ricchezza delle risorse naturali, addirittura la buona qualità dei cavalli da corsa, talmente validi da essere oggetto di una specifica richiesta da parte di Gordiano (MANGANARO 1988). Accanto a fonti descrittive che prediligono cioè l‘aspetto oggettivo dei dati riportati, in un certo numero di citazioni, relative sempre alla ricchezza del territorio di Akragas, prevale l‘aspetto ―iperbolico‖: mi riferisco in particolare all‘aforisma messo in bocca ad Empedocle (sulla ricchezza ―proverbiale‖ degli Agrigentini si vedano anche Timeo fr. 149, Diodoro XIII, 90.3), sugli agrigentini che vivono come se dovessero morire l‘indomani e costruiscono come se non dovessero morire mai, alle fonti sui sepolcri dedicati ai cavalli, alle descrizioni estasiate degli edifici di culto sulla cresta collinare meridionale. Tuttavia i documenti in nostro possesso sono uniformi sul silenzio relativo ad una fonte di primaria importanza per l‘economia del centro siciliano: lo zolfo. In questo caso l‘archeologia riesce a supplire alla carenza di altre fonti documentarie. Se non ci fosse, infatti, pervenuta una gran mole di documenti epigrafici su terracotta, noti come tegulae sulphuris (su questi documenti: CIL X, 2, 8044, 1-9; GRIFFO 1963;

DE MIRO 1982-3; MANGANARO 1988; RIZZO 1989; SALMERI 1992), noi non conosceremmo nulla della realtà produttiva mineraria agrigentina nell‘antichità e continueremmo a spiegare

227 la ricchezza e magnificenza delle domus del ―quartiere ellenistico romano‖ (DE MIRO 2009), documentate con continuità almeno fino al VII secolo d.C., con l‘abbondanza delle produzioni agricole osannate dalle iperboli di Cicerone e certificate, di riflesso, anche dalla topografia delle

rivolte di Euno di cui Diodoro Siculo è testimone (CANFORA 2000). Un silenzio delle fonti, relativo al paesaggio minerario, che è diversamente interpretabile: chiaramente influisce sul nostro giudizio il naturale naufragio dei documenti e delle attestazioni, nondimeno, però, devono aver contribuito a questo silenzio la scarsa attenzione sul mondo infimo delle miniere e la scarsa considerazione riguardo allo zolfo. Non è un caso se l‘agirita Diodoro, originario di una città e di una provincia in cui era attiva l‘industria mineraria citi soltanto le lontane miniere aurifere egiziane per condannare i vizi

derivanti dall‘eccesso di ricchezza (LANA 1990, 482-484). D‘altro canto se analizziamo le fonti moderne sulla produzione solfifera si può osservare come si concentrino, con veri e propri picchi di attestazioni, nei periodi in cui l‘industria mineraria era particolarmente in crisi

(SONNINO, FRANCHETTI 1974 e BAGLÌO 1935 con un taglio antropologico; Rosso di San Secondo, Pirandello, Carlo Levi per opere letterarie e teatrali e, più di recente, Zolfo 1961 e

ZAMBITO 2010), mentre generalmente tacciono le opere descrittive dell‘isola, quelle dei

viaggiatori (PAOLETTI 2009) e, in generale, le rappresentazioni di paesaggi e cultura siciliani in periodi di normale attività delle miniere.

2.Ruolo e funzioni dello zolfo Lo zolfo ha e ha avuto nell‘antichità un ruolo centrale in molteplici campi: dalle applicazioni militari alla medicina, dalla veterinaria al trattamento delle lane alla confezione di lucerne

228 1. Rosticci e due coppie di forni Gill da Grotte.

229 (ZAMBITO 2010). Ma fu probabilmente l‘agricoltura il settore che ne richiedeva le quantità maggiori. Catone e altri autori successivi ne raccomandano l‘uso per combattere un insetto nocivo, il convolvolus, applicando a ciascuna vite un impiastro di zolfo e bitume. Catone viene

ripreso da Plinio Naturalis Historia, XVII, 264 (MARCONE 2005 e gli ormai classici: KOLENDO

1980, CAPOGROSSI COLOGNESI 1982 e SERENI 1984, 40-43 sulla diffusione degli impianti viticoli): “Affinché la vigna non sia infestata dal convolvolus cuoci due congi di morchia in abbondanza di miele e con una terza parte di bitume e una quarta di zolfo, cuocili all‟aria aperta, poiché al coperto potrebbe incendiarsi. Con questo composto ungi le viti attorno al colletto. In tale maniera non attecchirà il convolvolus, alcuni ritengono di affumicare con il soffio di tale mistura le viti per tre giorni di seguito‖. E‘ evidente come tale modo di applicare il minerale generasse un enorme fabbisogno e che questa richiesta fosse maggiore nelle principali aree in cui si sviluppava la viticoltura. Le fonti letterarie più antiche sono riconducibili ai poemi omerici. Odisseo, compiuta la strage dei Proci, ordina ad Euriclea di purificare la sala della sua abitazione: ―E finalmente, lavate le braccia e le gambe da Odisseo, ritornarono in sala; l‟operazione era compiuta. Allora egli disse alla cara nutrice Euriclea: “portami zolfo, balia, rimedio dei mali, portami fuoco, perché questa sala purifichi; e tu intanto Penelope fa venir qui, e insieme le ancelle; tutte falle venire nella sala

leancelle‖ (Od. XXII,478-484 trad. CALZECCHI ONESTI 2005). La nutrice prontamente esegue e con fumi ottenuti dalla bruciatura di zolfo gira intorno alla stanza e cancella simbolicamente le tracce della mattanza. La scena sembra essere un calco di quella di Il. XVI, 225-230: ―Qui aveva una coppa ben fatta, e nessun altro eroe beveva da quella il vino colore di fiamma, e lui stesso a nessuno dei numi libava, tranne Zeus padre; questa allora prendendo dal cofano, prima con zolfo purificò, poi la lavò nelle belle correnti dell‟acqua, lavò le sue mani e attinse

230 2. Necropoli (a destra) e Miniera Lucia (a sinistra), segnata in blu la direttrice viaria moderna che ricalca quella antica.

231 il vino colore di fiamma‖ (CALZECCHI ONESTI 1991) in cui, però, è Achille a dare l‘ordine per garantire purezza in occasione dei funerali di Patroclo. Sul ruolo del minerale nel processo di

disinfezione delle lane e dei tessuti è testimone un sapido racconto di Apuleio (ARIAS 1956). Un gruppo di fonti satiriche, inoltre, ci trasmette la notizia di una diffusione capillare di zolfo nei principali centri urbani per il tramite di alcuni ―mediatori‖ che lo scambiavano con rottami di vetro da riciclare.

3. Agrigento in età romana e il bacino solfifero I filoni solfiferi marcano il territorio agrigentino. Il minerale è agglutinato in una matrice gessoso-calcarea che delinea rilievi e valli. Segna spartiacque e determina ambiti territoriali più ristretti. Per le sue caratteristiche, il minerale si trova in percentuali relativamente basse assieme alla ganga determinando una ―debolezza strutturale‖ dell‘industria estrattiva. In altri termini, e fino ad età contemporanea, i grandi costi estrattivi hanno fatto in modo che, non appena la domanda calava di poco, oppure si scopriva un filone leggermente più redditizio o, ancora, si perfezionavano processi produttivi economicamente più vantaggiosi, l‘industria estrattiva immediatamente ne risentiva o, nel caso della scoperta dei filoni americani e dell‘utilizzo di minerale derivante dai processi di raffinazione petrolifera, accusò un colpo mortale da cui non

si sarebbe più ripresa (PISTOLESI 2011, 108-114). Le attività minerarie moderne hanno radicalmente mutato l‘assetto topografico del territorio in cui avvenivano dopo averne pesantemente influenzata la natura. Grandi cumuli di rosticcio e profonde fenditure caratterizzano il paesaggio nella dorsale gessosa che dalle immediate propaggini nord-orientali di Agrigento giunge alle porte di Caltanissetta. Il rosticcio, ormai esausto, è stato, poi, in un

232 3. Carta di attestazione delle officine.

233 secondo momento, oggetto di nuove concessioni estrattive e utilizzato come inerte per malte e calcestruzzi e come sottofondo stradale. Spesso, in molti siti oggetto di indagine, si sono documentate queste attività secondarie di cava che, a loro volta, hanno provocato ulteriori mutamenti nella topografia dei luoghi (fig. 1). Il tessuto insediativo in età romana risente della vicinanza ai filoni solfiferi, infatti sono numerose ville e, in seguito, grandi villaggi individuate sul terreno che mostrano uno stretto legame con il bacino gessoso-solfifero. In questi siti sono state rinvenute tegulae sulphuris, evidentemente stoccate in attesa di un loro utilizzo nei pressi delle miniere. In molti casi è stato possibile ricostruire oltre alla dislocazione dei centri produttivi tutte le infrastrutture che dovevano servirli: oltre, appunto, alle villae, le direttrici viarie secondarie che connettevano i vari centri produttivi e residenziali, le aree di necropoli e gli assi viari principali funzionali all‘esportazione del minerale puro. In questo contesto presentiamo il caso di studio di Miniera Lucia: un sito a poca distanza da Agrigento e in prossimità del corso terminale del fiume Naro e di una ampia area paralitoranea dove è molto verosimile dovesse passare la grande arteria di collegamento tra Siracusa e Lilibeo. A meno di 500 metri a sud del sito estrattivo si sviluppa una grande area fittamente insediata, ampia almeno due ettari. Una necropoli ad arcosoli, individuata sulla cresta calcarea che divide i due siti, completa il quadro insediativo di questa porzione di territorio (fig. 2). Il dato epigrafico consente di individuare nel sito di Miniera Lucia la sede della Officina Cassiana. Il corso del fiume Naro, del resto, era interessato anche da altri distretti produttivi ed è anzi probabile che proprio le incisioni fluviali dei versanti collinari abbiano agevolato l‘individuazione delle aree in cui intraprendere le attività estrattive. Un secondo distretto minerario si sviluppava attorno al moderno centro urbano di Racalmuto.

234 4

4. Tegulae sulphuris

5. Gruppo di tegole di c.da Casalvecchio (Racalmuto) 5

235 A Nord di esso corre il vallone di Racalmuto lungo il quale numerosi ritrovamenti di tegulae sulphuris garantiscono la presenza della Officina Porciana. A Sud Ovest del moderno centro urbano, invece, è possibile ubicare l‘Officina Ra- (qui infatti sono state rinvenute tegole con questo toponimo che purtroppo non è stato possibile integrare meglio). Poco a Nord-Est, infine, fra i centri di Racalmuto e Milena sono da ricercare i possedimenti di un M. Aurelio Commodiano mentre a Nord di Grotte si sono rinvenute le tegole con l‘indicazione di una Officina Gelli Pelori (fig. 3). Agrigentum assume un duplice ruolo nell‘organizzazione produttiva legata alle miniere di zolfo: ad essa arrivano le richieste per le licenze estrattive e partono le autorizzazioni ad intraprendere l‘estrazione, qui vengono prodotte le tegulae sulphuris documento tangibile della ufficialità e liceità dell‘estrazione, oltre che strumento fondamentale della tassazione e di garanzia sul prodotto; ad Agrigentum, infine, giungono i lotti di minerale

raffinato per l‘esportazione e viene esatta la tassa del Portorium (DE LAET 1959). A questi aspetti bisogna aggiungere la concreta possibilità che proprio ad Agrigentum risiedessero gli attori principali dell‘estrazione concessionari delle licenze e proprietari dei fundi.

4.Le tegulae sulphuris e le gavite moderne Inizialmente il ruolo di questi documenti su tegola fu frainteso da Mommsenn il quale

riteneva le iscrizioni analoghe a quelle dei bolli laterizi (PACE 1958; SALMERI 1992, 35). Un impulso decisivo nella interpretazione delle tegulae sulphuris invece fu dato da una lettera di A. Salinas allo studioso tedesco, che segnalava la possibile analogia fra le iscrizioni speculari delle tegulae sulphuris e i grafemi e le abbreviazioni che si trovavano nelle cosiddette gavite, casseforme moderne in cui i minatori convogliavano lo zolfo allo stato liquido per fargli assumere la forma

236 6. Tegola di Aulus Annius Eros.

237 di lingotti, appunto, con le indicazioni della proprietà e del distretto produttivo (fig. 4). Le tegulae sulphuris sono tegole piane con due alette laterali di vario spessore e a sezione triangolare, alcuni esemplari racalmutesi, tuttavia hanno forma ellittica, sono senza alette e forse sono databili nella prima fase di produzione (fig. 5); sulla faccia posteriore si osservano tracce dell‘incannucciata su cui erano state stese le tegole nell‘officina in attesa della cottura e,

molto verosimilmente, nella fase di impressione dell‘iscrizione (WILSON 1990). Sulla faccia anteriore si conservano le iscrizioni, ottenute a stampo, in rilievo e con il caratteristico andamento speculare. Se le dimensioni di questi manufatti sono standard all‘interno di ogni singola serie, esse variano molto con il passare del tempo, così come sono notevoli le differenze tipologiche dei caratteri delle iscrizioni. Se si analizza il primo gruppo di tegole (fig. 6), che

sembrerebbe il più antico (ZAMBITO 2010), si può osservare come queste abbiano le dimensioni di un piede e mezzo di lunghezza per un‘altezza di tre quarti di piede e una forma che richiama da vicino quella delle tegole normalmente usate per le coperture. Ritengo che il tipo della tegula sulphuris derivi direttamente dalle tegole usate in edilizia per la copertura dei tetti e che solo in un secondo momento si sia specializzato. Negli esemplari più antichi, infatti, non si hanno grosse differenze con le tegole piane a doppia aletta, escluso il fatto che sulla faccia posteriore manca l‘incasso che doveva consentire il montaggio in serie. Sono presenti signa e l‘iscrizione è al genitivo su una sola linea. Su esemplari pertinenti a tre tipi diversi di tegole compare uno stesso personaggio interessato anche alla commercializzazione del minerale sui mercati urbani (fig. 7). Si tratta di un certo Aulus Annius Eros di cui non si hanno altre notizie ma che, senza dubbio alcuno, è in stretta relazione con gli Annii, che dedicano una stele o una statua posta su una base di marmo con iscrizione su entrambi i lati principali,

238 7. Evoluzione della tegula sulphuris dal tipo più semplice a quello specializzato.

8. Tegulae sulphuris di IV-V secolo d.C.

239 rinvenuta fuori contesto, ma in un‘area in cui sorge un tempio su alto podio, databile ad età

augustea che potrebbe essere stato dedicato, appunto, alla gens imperiale (DE MIRO,FIORENTINI 2011 che pensano ad un Isaeum) (fig. 8). E‘ probabile, dunque, che la ―nascita‖ del tipo di tegula sulphuris vada collocata nell‘ambito del I secolo d.C. e nel corso della vita di Annius Eros

(ZAMBITO 2010, 133) quando, a partire da un prototipo usato nell‘edilizia, l‘iscrizione viene apposta su un supporto che si ―specializza‖ e si definisce con alcuni caratteri tipici (la fascia con zigrinatura superiore, la doppia aletta a sezione triangolare e la presenza costante di un sistema di signa che, purtroppo, sono per noi poco perspicui). Lo stesso personaggio era poi responsabile della spedizione di minerale dalla Sicilia verso i mercati urbani. Questo dato è, del resto, coerente con quanto testimoniato dalle fonti letterarie (Marziale, Epigrammi, I, 41 e X, 3, Giovenale, Satire, 5, 46-48; Stazio, Silvae, 1.6, 73-4). Nel 1963 il Griffo pubblica numerose tegulae sulphuris da lui rinvenute ad Agrigento e ritorna su un intervento di emergenza effettuato durante la costruzione della casa cantoniera sulla S.S. 118, in località Bonamorone (Agrigento), in occasione del quale rinvenne un complesso accumulo stratigrafico interpretato come lo scarico di un‘officina ceramica con pozzi e cisterne (fig. 9). Il contributo di Griffo è quello più completo e in cui viene pubblicato il maggior numero di dati, prima delle sintesi e

degli aggiornamenti recenti (GRIFFO 1948 e 1963). In via preliminare le tegulae sulphuris fino ad oggi edite si possono dividere in 5 macro gruppi: un primo, quello che conta un numero maggiore (35) di esemplari è databile ad età augustea ed è riconducibile alla produzione controllata e gestita dalla famiglia agrigentina degli Annii e degli Atinii. Il secondo gruppo (18 esemplari) sembra databile fra epoca flavia e la metà del II secolo d.C. Il terzo (circa 15 esemplari), cui appartengono anche le tegole racalmutesi che si

240 9. Area di Bonamorone (in giallo la collocazione delle officine ceramiche) e scarto di tegula sulphuris.

241 riferiscono a due Augusti (IMP AVGG NN) dei primi anni del III secolo d.C. Un quarto gruppo (30 esemplari) presenta delle novità relative all‘‖impaginazione‖ delle iscrizioni e al formato del supporto e potrebbe rimandare al IV-V secolo d.C. Infine un solo esemplare racalmutese per le caratteristiche paleografiche e per il contesto di rinvenimento potrebbe

rimontare al VI secolo d.C. (ZAMBITO 2014). Gran parte degli esemplari di tegulae sulphuris sono stati rinvenuti ad Agrigentum dove erano prodotte. Un piccolo numero di esse, però, proviene dal territorio (fig. 10) e consente di ricostruire la rete produttiva con notevole precisione. A partire da questi esemplari, ho condotto una indagine topografica per identificare gli altri elementi del paesaggio minerario: accanto alla villa in cui era conservata la tegula sulphuris, anche i bacini di riferimento, la rete viaria e, in alcuni casi fortunati, le aree di necropoli di ciascun sito. L‘indagine sul territorio ha consentito di ottenere alcune indicazioni sulle dinamiche insediative in rapporto, anche, allo sfruttamento dei filoni solfiferi. Pare di cogliere un accentramento dell‘insediamento attorno a villae costruite nel raggio di circa 4 km dai più vicini bacini solfiferi. Non si è trovata, invece, nessuna traccia di insediamenti minori che possano essere ricondotti alla presenza degli addetti all‘estrazione e alla raffinazione del minerale e che, probabilmente, usufruivano, per il riposo, degli stessi spazi in cui esercitavano la loro professione.

5.Conclusioni La ricognizione topografica dei siti interessati dalla produzione solfifera ha prodotto risultati notevoli sia per quanto riguarda una ridefinizione delle griglie cronologiche sia, d‘altro canto, anche per l‘individuazione di nuovi siti produttivi e residenziali. Ovviamente, future indagini

242 10. Distribuzione delle tegulae sulphuris sul territorio agrigentino.

243 archeologiche e con metodologie non invasive potranno implementare ulteriormente il bagaglio di informazioni che possediamo. In particolare l‘indagine nei tre siti estrattivi (Miniera Lucia ad Agrigento, Contrada Piano della Corsa/Chirisi a Racalmuto e Monte Grande, Palma di Montechiaro) potrebbe fornire importanti novità sulla comprensione delle dinamiche con cui avveniva l‘estrazione e la raffinazione e sui rapporti con gli altri siti del

territorio e con il porto da cui partivano i carichi di zolfo (MILLAR 1984). La potenzialità mineraria dell‘immediato entroterra agrigentino ha fortemente condizionato le modalità insediative focalizzandole su Agrigento e sul suo porto: da qui partivano le direttive per lo sfruttamento e le relative autorizzazioni e qui arrivava il minerale raffinato per essere poi imbarcato e raggiungere il porto di destinazione. Frammenti di rete viaria si sono conservati nelle Regie Trazzere che servivano anche i siti produttivi moderni, mentre una più fitta maglia connettiva si legge controluce sulla base dell‘individuazione delle ville e dei villaggi funzionali all‘estrazione mineraria. Sostanzialmente pare di poter individuare due grossi distretti che si affiancarono nelle attività minerarie: uno, più settentrionale che dal medio corso del Platani si estende al comprensorio attorno ai moderni centri di Grotte, Comitini e Racalmuto; un altro invece, più meridionale, si estende nella vallata del fiume Naro fino alle pendici di Monte Grande (comune di Palma di Montechiaro). Infine, la novità apportata dall‘esemplare bizantino di tegula sulphuris induce a nuove riflessioni sulle dinamiche con cui si esercitò il

controllo della produzione solfifera dopo il dissolvimento dell‘Impero Romano (ZAMBITO 2014). L‘impasto di quella tegola, infatti, è sicuramente racalmutese e lascia intendere, oltre al fatto che la produzione di zolfo non abbia conosciuto soluzioni di continuità almeno fino alle porte dell‘Alto Medioevo, che il centro fiscale e di controllo delle attività di miniera si sia

244 spostato da Agrigentum ai centri periferici pur mantenendo, anche nella struttura del lemma delle tegole, le strutture e le dinamiche ereditate dal sistema fiscale romano.

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Le immagini sono tratte da ZAMBITO 2010.

246 Artigianato, commercio e impresa tra Medioevo ed età moderna Beato Angelico, San Nicola di Bari scarica il grano e salva un naviglio dal naufragio, 1437 Storie di San Nicola di Bari, Roma, Pinacoteca Vaticana (da Storia del commercio italiano)

la mercantevol sorte, / che ne le vie torte, / fuor di porti / e di porte, / va errando/ mercando / e barattando, / navicando / prestando / e comperando (Franco Sacchetti, Rime, 1363 ca.). L’operosità umana dalla terra al mare: il caricatore di Sciacca tra XIV e XV secolo

MARIA ANTONIETTA RUSSO

Il caricatore di Sciacca fu uno dei principali porti frumentari siciliani per la considerevole capacità di immissione di salme di frumento sul mercato: nei primi del Quattrocento era il terzo dopo Licata e Agrigento1 e ancora in età moderna si manteneva nel primo gruppo di caricatori siciliani, cioè fra quelli che commercializzavano più di un milione di salme2. Nonostante ciò, poco è stato scritto sull‘attività del caricatore di Sciacca3, sul suo funzionamento nel periodo medievale, sulla catena umana che rendeva possibile le varie fasi connesse al commercio del grano. In seguito alla costruzione delle mura ad opera di Federico III nel 1335-36, il vecchio caricatore di Sciacca, rimasto all‘interno della città, fu soppresso e ne venne creato uno nuovo vicino alla spiaggia, sotto Porta di Mare, difeso da una parte dalla cinta muraria, dall‘altra dal fortino chiamato, dalla rupe sulla quale si ergeva, Propugnacolo di S. Paolo; la rupe proseguiva con una scogliera che formava una sorta di piccolo porto utilizzato per caricare le merci; accanto si levava la Rocca di Sant‘Elmo che permetteva alla guardia di sorvegliare le acque. Se il vecchio caricatore aveva una capacità di 80.000 salme di frumento, il nuovo poteva contenerne 38.000 ma sorgeva in un luogo più adatto per la sua destinazione; si estendeva per circa quattrocento metri. Nel pendio vennero realizzati diversi piani, intervallati da vie, con recinti o cortili, alcuni dei quali coperti da tettoie chiamate pinnate.

249 I granai erano collegati tra loro con canali che permettevano il trasferimento dei cereali conservati in fosse di varia dimensione. Nell‘area del caricatore si trovavano i diversi uffici del personale preposto al caricatore, primo fra tutti il maestro portulano4. In Sicilia il sistema di stoccaggio del grano era ben funzionante e consentiva la conservazione di riserve di cereali per mesi o anni, di solito massimo tre. L‘utilizzo delle fosse granarie è attestato già in epoca normanna quando nei documenti si trova traccia della fovea, cioè la fossa. Le fosse si moltiplicarono nella prima metà del Trecento per l‘elevata domanda internazionale e lo sviluppo del commercio cerealicolo. Nei documenti relativi a locazioni di feudi si precisa che le fosse erano incluse nel contratto; lo scavo delle fosse e la costruzione di magazzini nei feudi permetteva al produttore di scegliere liberamente il caricatore. A Sciacca numerose erano le fosse in plano, cioè su una piazza pubblica, probabilmente per consentire scambi e vendite in una «borsa del grano». Alla fine del Trecento, per esempio, il nobile palermitano Guerrerio da Acterio possedeva a Sciacca un magazzino per lo stoccaggio e una fossa in plano. Nel 1416 un‘ordinanza municipale vietò che il frumento si passasse da una fossa ad un‘altra, salvo il caso in cui la fossa si fosse riempita d‘acqua. Nei documenti del Quattrocento sono sempre più numerosi i riferimenti a fosse nei feudi e nei caricatori; si fa, infatti, menzione del luogo di consegna del grano, sia che si tratti delle navi, dei magazzini o delle stesse fosse, «a bucca di fossa». Di solito viene anche specificato l‘anno della partita di frumento, che per lo più era del raccolto dell‘anno precedente o di due anni; sono rari i casi in cui si acquistava grano conservato per più di tre anni5. Del raccolto dell‘anno precedente erano, per esempio, le 400 salme di frumento vendute, il 29 settembre 1343, dal mercante Nicolò Nacono di Savona al suo concittadino Edoardo Iacca, patrono della galea Sant‘Antonio, con la

250 condizione che il frumento fosse consegnato nel porto di Sciacca e caricato nella galea entro quattro giorni dall‘attracco dell‘imbarcazione. Nella stessa data il mercante noleggiava la galea ormeggiata nel porto di Palermo per il trasporto di 300 salme di frumento da Sciacca a Savona6. Solitamente il costo del nolo era alto e determinato anche dalla distanza; nel 1299 Matteo Oliverdar noleggiava la nave San Francesco ad un agente dei Peruzzi di Firenze per trasportare 2500 salme di frumento e pattuiva per il trasporto del grano a Pisa o a Genova il pagamento di 3 tarì a salma se caricato da Sciacca, Girgenti o Licata, 3 tarì e 10 grani se imbarcato a Eraclea; il costo sarebbe arrivato a 2 onze e 10 o 15 tarì se la nave fosse arrivata in Africa. Il mercante che noleggiava l‘intera nave aveva maggiore possibilità di scegliere il luogo di scarico sulla base delle condizioni del mercato, piuttosto che il mercante che prendeva a nolo solo una parte, o locus, della nave con un itinerario fissato7. Talvolta non è specificato l‘anno del raccolto, come nel caso del mercante di Narbona, Bernardo Cuduletti, che, nel 1343, anticipava al mercante genovese Pere Bulcano 253 fiorini per i quali si obbligava a dare in pegno 150 salme di frumento da caricarsi nel porto di Sciacca con destinazione nei porti di Collioure o di Aigues Mortes8. I riferimenti ai magazzini in cui il frumento veniva conservato consentono di avere un‘idea dell‘esistenza, accanto ai depositi del caricatore, di magazzini di privati; si pensi, ad esempio, ai magazzini del mercante palermitano Francesco Abatellis che dovevano avere una capacità di stoccaggio superiore alle 600 salme se si considera che nel 1343 il mercante vendette ad Antonio Ladono, mercante di Narbona, 600 salme di frumento dell‘ultimo raccolto al prezzo di 175 onze da consegnarsi nei suoi magazzini9. Se nei feudi lo scavo delle fosse avveniva nei picchi rocciosi, nel caricatore di Sciacca le fosse e i

251 magazzini si confondevano con le grotte sulla strada del caricatore, a fianco della scogliera10. Scavate nella roccia, a forma di ―imbuto rovesciato‖, le fosse di Sciacca erano collegate tra loro da cunicoli chiamati ―cannoli‖ realizzando un tragitto dall‘alto verso il basso. La gestione e il controllo dell‘attività commerciale del caricatore faceva capo ad un ufficio centrale, il maestro portulano, e ad uffici periferici che lo affiancavano nei diversi caricatori, il viceportulano e i portulanotti. A garanzia dei vantaggi economici che ne derivavano alla Curia, l‘organizzazione della redditizia macchina dell‘esportazione dei cereali siciliana venne deliberata già da Federico II con l‘Ordinatio novorum portuum per regnum ad extrahenda victualia del 1239 con la quale il sovrano stabiliva che per cinque anni vi fosse libertà di vendita ed esportazione di victualia e animali vivi; che le estrazioni avvenissero solo dai porti stabiliti, sotto il controllo e la licenza dei custodi dei porti ai quali andavano denunciate le merci da estrarre con il relativo prezzo, pagato il diritto alla Curia, dietro annotazione dell‘operazione nel debito registro e secondo determinati passaggi che regolamentavano, così, il mercato del grano. I singoli uffici locali dipendevano dal maestro portulano la cui istituzione si fa, quindi, risalire all‘imperatore svevo, così come l‘imposizione dello ius exiturae, una tassa che in origine equivaleva alla terza parte del valore del prodotto e che con l‘Ordinatio veniva ridotta per il grano alla quinta parte in Sicilia e in Puglia e alla settima parte in Abruzzo, Terra di Lavoro, Principato e Calabria. Il maestro portulano controllava i caricatori, un sistema di porti demaniali atti allo stoccaggio e all‘esportazione del grano, e, dopo aver raccolto i dati forniti dai custodi dei singoli porti, compilava i registri in cui venivano annotati tutti gli elementi relativi ai traffici dei porti siciliani. Al termine dei cinque anni per i quali era stata permessa la libertà di commercio,

252 Tiburzio Spannocchi, Sciacca, 1578 (da DUFOUR 1992)

253 quest‘ultimo poteva avvenire dietro acquisto di un‘apposita licenza, la tratta11. La tratta era una licenza per l‘esportazione di una salma di frumento, o in alternativa due di orzo, ceci o legumi, concessa dalla Corte dietro pagamento dello ius exiture, oppure gratuitamente come sussidio o come rimborso di crediti nei confronti del re12. Teoricamente la tratta avrebbe dovuto essere concessa due volte l‘anno, a gennaio, quando era nota la quantità di grano seminato, e a maggio, quando era possibile effettuare delle previsioni sul raccolto, e ciò a garanzia della copertura del fabbisogno interno dell‘isola; ma la realtà era lontana dalla teoria13. La tratta era «negoziabile e cedibile», era un «titolo al portatore», era valida per l‘intero anno di concessione ed era trasmissibile; era «un buono» valido «tante onze quante dovrebbe pagarne l‘esportatore per ottenere la licenza d‘esportazione». Per divenire esecutoria doveva essere sottoposta al maestro portulano che, dopo avere reso esecutiva la lettera regia, la assegnava su un caricatore e la metteva a turno; poteva anche sospenderla per garantire prima l‘approvvigionamento dell‘isola. Dopo l‘avvento dei Martino, in particolar modo, la necessità di pagare i nobili che avevano sostenuto l‘impresa, fece sì che molte tratte venissero assegnate gratuitamente dallo stesso sovrano come ricompensa per l‘aiuto prestato. Le tratte divennero «una forma di premio e di gratifica assai ambita perché utilizzabili subito o convertibili in denaro ovunque». L‘utilità della tratta per la monarchia si espresse anche in occasione delle spedizioni del sovrano che per fare moneta vendeva le tratte ai mercanti. La tratta poteva sostituire i salari, essere usata per pagamenti, per assegnare provvigioni, era uno strumento per garantire la fedeltà dei membri dell‘entourage del sovrano; diveniva la valvola di salvezza quando si doveva recuperare denaro; era, insomma, ―moneta contante‖ 14. Nel 1397, per esempio, re Martino concesse a Galcerando Peralta e ai suoi eredi in perpetuo 300 tratte sul caricatore di Sciacca in cambio del feudo di

254 Misirindino15. La parte maggiore dei diritti di tratta era destinata al fisco16, ma una parte, denominata grani dei porti, era assegnata ai privati. Probabilmente intorno al 1421 Alfonso V impose il tarì del barone o grana baronum17 che permise al privato di percepire utili o cointeressenze sulla tratta. Altre cointeressenze erano destinate all‘interno di ogni singolo caricatore al pagamento degli ufficiali del porto, venivano pagate dall‘esportatore al momento dell‘arrivo al porto e non incidevano sul costo della tratta; per esempio al viceportulano spettavano per ogni salma 1 grano, ai portulanotti 3 denari, al notaro del porto ½ denaro18. Altre concessioni legate al caricatore erano quella del ponte, la gabella dei canali della regia Curia con i magazzini del caricatore di Sciacca, peculiare del porto di Sciacca, e il diritto del tomolo (tummino) e della misura del tomolo della città di Sciacca19. L‘ufficio di maestro portulano si evolvette tra la fine del Duecento e il Quattrocento assumendo un crescente peso politico e divenendo, durante il periodo aragonese, il «centro finanziario del regno»; nel Quattrocento il maestro portulano diventò un ufficiale dotato di poteri politici, giurisdizionali e amministrativi, legato al mondo mercantile e feudale per ben interagire nelle fasi di funzionamento del sistema20. Dal maestro portulano dipendevano un luogotenente che, per lo più, di fatto svolgeva i compiti dello stesso portulano, un maestro notaio e un numero vario di notai21. In assenza del luogotentente, il maestro notaio ricopriva anche tale ufficio22. Al maestro portulano erano soggetti tutti i caricatori regi e baronali e senza la sua autorizzazione non era possibile estrarre il grano depositato dietro certificazione di consegna e attestazione della garanzia della qualità. Quest‘ultima era una condizione imprescindibile per l‘accettazione del grano al fine di mantenere solido il rapporto di fiducia

255 dei mercanti. Superato l‘esame si puliva il grano per essere conservato nelle fosse o in magazzini e si compilavano accuratamente i registri23; questo compito veniva spesso delegato al maestro notaio, per le sue cognizioni matematiche24. Nei caricatori del Regno il maestro portulano nominava i singoli sub-portulani con diversi compiti: esigere lo ius exiture sive tracta e i diritti aggiunti alla tratta; garantire che i cereali e i legumi ammassati nei depositi o fosse e nei magazzini fossero ben conservati; assicurare la manutenzione dei pontes oneratorii; sorvegliare le operazioni di pesatura e imbarco; svolgere, oltre a limitate competenze giurisdizionali, mansioni di polizia nei confronti di coloro che operavano nel caricatore; redigere degli elenchi delle merci imbarcate e destinate al commercio infra regnum dopo averle controllate; esigere dai patroni delle navi e dagli esportatori una pleggeria o fideiussione in cui questi garantivano, tra le altre cose, di non trasportare armi, di non portare victualia clandestinamente e merci senza licenza, di non trasportare le merci in luoghi proibiti. Nei singoli caricatori vi erano, ancora, alcuni ufficiali di nomina regia, i portulanotti che avrebbero dovuto sorvegliare l‘operato del viceportulano e denunciare eventuali imbrogli; il guardiano che doveva sorvegliare il caricatore, ispezionare i magazzini annotando la qualità e quantità dei prodotti, predisporre la difesa in caso di attacco25; un numero variabile di impiegati, tra i quali massari, magazzinieri, sensali e credenzieri26. Un ―negotium‖ inviato, nel 1715, ai caricatori del Regno relativo a ciò che dovevano percepire gli ufficiali e i ―travaglianti‖ del caricatore, aiuta a ricostruire questo operoso mondo di lavoratori, che con modifiche non sostanziali era stato ereditato dal periodo medievale, dando loro un‘identità più precisa: «alzatori di sacchi, aggiustanti seu bastasi per il trasporto del frumento dai magazzini al ponte;

256 Tiburzio Spannocchi, Ciudad de Xaca, 1578 (da DUFOUR 1992).

257 barcalori per il trasporto con barchette del frumento o altro dal ponte ai vascelli; coffiatori per lo scarico delle coffe piene di frumento dalle barche ai vascelli; pontiggieri per la sorveglianza al ponte per evitare furti o danni; tendigieri per montare ―la tenda che casca dal ponte sopra le barche per non buttarsi frumento a mare‖; [...] sollecitatori per ―istradare li padroni che vengono a caricare ed avvisare l‘officiali e mercanti che hanno ad intervenire al carico‖; misuratori; detentori di libri; guardiani di spiaggia ―per non buttarsi frumento a mare‖, mastro magazziniere; tumminiero; conservatore di sacchi»27. Tra il personale ausiliario vanno ancora annoverati «mandatori, che immettevano i frumenti nei magazzini, [...] sfossatori, cui era affidata la pulizia delle fosse, [...] paliadori o ventilatori, che con la pala muovevano il grano per consentire l‘areazione, piomberi o sigillatori della dogana, che chiudevano i sacchi»28. Purtroppo le serie che compongono il fondo del Maestro Portulano dell‘Archivio di Stato di Palermo, iniziano dalla metà del XVI secolo, quindi per conoscere l‘attività del portulano e quella dei diversi caricatori del Regno per il Medioevo ci si deve basare principalmente sulla sottoserie Maestro Portulano presente nella serie della Miscellanea del Tribunal del Real Patrimonio. La sottoserie costituita dai conti dei maestri portulani è frammentaria e comprende solo venti unità risalenti al XV secolo; queste risultano utilissime per la ricostruzione delle notizie relative alle esportazioni siciliane, agli assegnatari delle tratte, ai mercanti interessati, ai titolari degli uffici, alla quantità e tipologia delle merci e alle destinazioni29. In questa sede sono stati utilizzati i volumi relativi al regno di Alfonso V30. I dati e le notizie presenti in questo fondo possono essere integrati con quelli forniti dai registri notarili dello stesso Archivio, dai registri dell‘Archivo de la Corona de Aragón e dalla documentazione degli Archivi delle città che con la Sicilia commerciavano. Interessanti appaiono, ad esempio, i documenti conservati

258 Sciacca. Grotte del Caricatore (da http://www.vivisciacca.com/antiche- grotte-del-caricatore-di-sciacca.html).

259 nell‘Archivio Datini dell‘Archivio di Stato di Prato che permettono di ricostruire l‘attività dei caricatori, l‘andamento dei prezzi, i prodotti commerciati31. A dirigere i traffici dei caricatori, gestendone gli affari e ricavandone lauti guadagni, erano i viceportulani, di solito membri del patriziato urbano32. A Sciacca la carica venne rivestita dalle famiglie più in vista del luogo come i Monteliana o i Perollo; nella metà del Trecento a detenere una parte del subportulanato di Sciacca fu Nicola Monteliana33; nel 1397 viceportulano fu il conte Nicola Peralta34; nella prima metà del Quattrocento e almeno fino agli anni Settanta la carica era in mano alla famiglia Perollo che sovraintendeva le esportazioni35. Il potere esercitato dal viceportulano portava inevitabilmente a conflitti con i signori di Sciacca che, in virtù del loro ruolo, cercavano di controllare il caricatore e trarne maggiori guadagni possibili; oltre a trattare personalmente le vendite di frumento36, incameravano i proventi spettanti alla Curia suscitando la riprovazione regia. Guglielmo Peralta, ad esempio, fu, più volte, richiamato da Federico IV che lamentava il fatto che il conte avesse riscosso i diritti del caricatore, lo ius exiture e il diritto di tarì della dogana del mare di Sciacca37. Il controllo del conte sul caricatore si evince anche indirettamente dai documenti in cui il sovrano si rivolge a lui quando si tratta di far divenire operative concessioni sul porto di Sciacca38. I conti di Caltabellotta, i Peralta e i Luna, beneficiarono, inoltre, di numerose concessioni sul caricatore: Guglielmo Peralta ottenne, nel 1392, come pagamento del salario annuo di 2000 onze per l‘ufficio di capitano della terra di Sciacca, l‘estrazione di 1200 salme di frumento dal porto di Agrigento e di 1000 dal porto di Sciacca39; suo figlio Nicola, nel 1397, come salario della capitania e castellania di Sciacca, la concessione di 1700 onze sulla metà dei proventi delle tratte di Sciacca, Mazara e Castellammare e 300 onze sui redditi della Secrezia di Sciacca40.

260 La tratta veniva spesso venduta o ceduta dai nobili ai mercanti; allo stesso Nicola fu concesso di locare et dislocare, vendere et distrahere, a terzi i diritti sulle tratte41. La moglie di Guglielmo, l‘infanta Eleonora, che già nel 1374 aveva ottenuto l‘assegnazione di 2000 onze come provvigione42, acquisiva, nel marzo del 1397, quella, a titolo vitalizio, di 200 onze sulla metà degli introiti del caricatore destinati alla Curia43. Le cattive annate condizionavano le assegnazioni, così il re si preoccupava, a distanza di sei mesi, per paucitatem victualium ex male recollecionibus di sospendere le esportazioni extra regnum dal porto di Sciacca ma si premurava di accordare alla consanguinea 100 onze sui diritti provenienti alla Curia dalle estrazioni infra regnum via terra44 e aggiungeva a dicembre le altre 100 onze, oltre a 300 onze per il figlio Nicola dall‘ufficio della vicesecrezia45. L‘ordine per l‘estrazione dal caricatore ad opera della contessa di tratte libere da ogni diritto spettante alla Curia per la somma di 100 onze veniva ripetuto nel 139946. Gli eredi dei Peralta, i Luna, continuano a godere di dotazioni sul caricatore. Antonio Luna con la moglie Beatrice Cardona erano titolari di un‘assegnazione annuale di 200 onze sui caricatori del Regno, in particolare Sciacca e Castellammare47; delle 200 onze, 100 erano state donate dalla madre al secondogenito Pietro48. I conti, in virtù dell‘assegnazione, estraevano dal porto di Sciacca, nel 1451-1452, 541 salme di frumento, nel 1455-56, 2731.15 salme di frumento e, nel 1456-57, altre 1644 salme di frumento49, nel 1460- 1461, 2350 salme di frumento50; nel 1469-70, Beatrice Cardona 401.8 salme di frumento51; nel 1477, Pietro Luna 400 salme di frumento52. Anche gli altri due figli di Antonio godevano di assegnazioni sul caricatore di Sciacca: nel 1469-70 Sigismondo estraeva 900 salme di frumento per 60 onze e Carlo 746 salme per 49.22 onze53. Laposizione di Sciacca faceva sì che sul suo caricatore gravitasse una vasta area, comprendente

261 grosso modo i bacini del Platani e del Belice meridionale; il porto di Sciacca, dunque, divenne naturale sbocco per molti centri dell‘hinterland. Tra i ―forestieri‖ che gestivano il commercio estero vanno ricordati in primo luogo i Genovesi che godevano quasi del monopolio del commercio a Sciacca e vi crearono un loro consolato all‘inizio del Quattrocento. Erano, soprattutto, acquirenti di frumento ma collocavano sulla piazza di Sciacca anche i loro prodotti, come le ―sedie alla genovese‖. I Liguri esportavano a Sciacca, oltre a pezzi d‘arredamento, anche il panno inglese. Pochi i Veneti, ma in numero tale da avere un consolato; piazzavano a Sciacca il legname, si pensi alle ―tavole venete‖. Attivi anche gli Iberici che già nel Trecento avevano a Sciacca un viceconsolato catalano54. E, in ultimo, vi erano i Pisani. Il grano veniva richiesto da Catalani come da Toscani e Liguri, Napoletani e Veneti e veniva inviato anche in Levante55. Nei caricatori i mercanti exteri avevano propri consoli e logge ed erano in rapporto con procuratori dei produttori locali, degli importatori ed esportatori di merci56. I Saccensi, dal canto loro, rifornivano il mercato estero di frumento e formaggio e rivendevano nel mercato interno i prodotti importati. A Sciacca, nel piano del Salvatore si teneva una fiera della durata di 15 giorni, le cui modalità e caratteristiche sono ricostruibili grazie ai capitoli del 1420 approvati da Alfonso V; era frequentata non solo da tutti gli abitanti dell‘hinterland saccense, ma anche dai mercanti stranieri tanto attivi nel caricatore. Vi erano logge di «mercanti, artisti, putigari, bucheri, tavirnari» che potevano vendere e comprare panni, spezie, lana, cotone, lino, frumento, orzo, latticini, bestiame, carne, pesce, legna, paglia, manufatti, insomma merce di ogni tipo57. Se il grano era il prodotto più esportato, non bisogna dimenticare che notevole era la produzione di formaggio; si commerciavano anche i pellami grezzi e conciati, oltre agli stessi animali, tra cui molto richiesti perché particolarmente pregiati

262 Piantagione di grano, Tacuinum sanitatis (XIV secolo) - Biblioteca Casanatense (Roma) (da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:3-piantagione,Taccuino_Sanitatis,_Casanatense_4182..jpg).

263 i cavalli58. Relativamente ai panni i mercanti si recavano nei centri maggiori per rifornirsi del prodotto e rivenderlo; un esempio è il mercante Giuliano di Burgio residente a Sciacca che, nel 1455, vendette 1000 cantàri di formaggio al genovese residente a Trapani Aloisio de Castiglione, accettando come parte del pagamento velluto, oro filato, cordella di vari colori, panno genovese, panno di Londra e zendado celeste e nero59. Gli abitanti di Sciacca, secondo le Consuetudini della città, avrebbero potuto comprare pro usu domus suae le merci trasportate via mare entro tre giorni dallo sbarco, così come quelle giunte via terra, allo stesso prezzo a cui le aveva comprate dai mercanti il primo acquirente che, tuttavia, avrebbe potuto tenere per sé 1/3 delle merci60; ciò era stato deliberato nel 1420 a evidente tutela dei cittadini che, in tal modo, non avrebbero dovuto subire il rincaro delle merci operato dai mercanti. L‘esame dei registri del maestro portulano, nonostante la frammentarietà della fonte che impedisce di ricostruire in modo completo i traffici del caricatore di Sciacca per il Medioevo, permette, tuttavia, di delineare per il periodo alfonsino un quadro indicativo dell‘attività del caricatore, dei titolari delle tratte, nonché della nazionalità dei mercanti coinvolti nelle esportazioni. Questi elementi, integrati per il periodo precedente con i dati forniti da H. Bresc e C. Trasselli, seppur relativi in particolare ad alcuni anni o decenni, consentono di confermare il ruolo di Sciacca come uno dei principali porti frumentari siciliani. Nel 1345 in soli due mesi vennero registrate nel caricatore di Sciacca ben 8395 tratte61; nel 1407-1408 partirono dal caricatore 16044.06 salme di frumento, 140 salme di orzo e 1214.50 cantàri di formaggio. Il frumento era diretto per lo più in Liguria; erano i Genovesi, infatti, i principali acquirenti dei prodotti siciliani62; nel 1407-08 di contro alle

264 13571.08 salme di frumento e 4 di orzo acquistate dai Genovesi a Sciacca, i Catalani ne esportarono 1015.10 di frumento63. Nel 1416-17 operarono nel caricatore, insieme con alcuni catalani come Peri Salvaturi e Iohan Dolmas, i genovesi Andaro di Li Franki, che trasportò 756.08 salme di frumento, 5 cantàri di formaggio, 3.08 salme di farina, 10 tomoli di semola e 1.04 salme di ceci, Giuliano Capruni, Bartolomeo Reccu, Tommaso di Pioni, Giovanni Novellu, Giovanni Burdiuni, Blasi Piruni e Giovani di Accardu64. Nel 1451-1452, se si escludono 7.04 cantàri di formaggio estratti il 28 febbraio da Nicola de Vinchio con la nave di Raimondo Liparoto, l‘intero ammontare delle esportazioni extra regnum vennero effettuate sulla nave del mercante genovese Lazaro de Gireu che trasportò frumento, formaggio, caciocavallo, cuoio e sesamo per il conte di Caltabellotta, per i giurati della terra di Sciacca, per Nicola de Vinchio e per il mercante genovese Bartolomeo Gemella65. Nel 1455-1456 e 1456-1457 furono attivi nel caricatore di Sciacca altri genovesi Gerardo Lumellino, noto come importatore di panni inglesi66, e la famiglia Spinola. La concentrazione nelle mani di pochi mercanti del grosso delle esportazioni ricorre in diversi periodi e si riscontra anche in altri porti della costa meridionale della Sicilia67. Tra gli assegnatari delle tratte non mancano esponenti di spicco della nobiltà iberica trapiantati in Sicilia e divenuti principali protagonisti della politica del tempo come Joan Vilaragut, maggiordomo di Alfonso, Bernat Centelles, consigliere di Ferdinando, lo stesso viceré, Antoni Cardona, Augerot Larcá, consigliere di Martino, o, ancora, membri dell‘aristocrazia isolana come Giovanni Del Carretto, barone di Racalmuto, o Giovanni Ventimiglia, marchese di Geraci68. Il 1431-32, il 1451-52 e il 1468-69 furono anni di carestia e da Sciacca partirono nel 1431-32 820 salme di frumento, nel 1451-52 870.04 salme di frumento e 4 di orzo69 e nel 1468-69 non

265 venne fatta alcuna estrazione di frumento, orzo o legumi per extra regnum e partirono solo 817.01 salme di frumento e nessuna salma di orzo per infra regnum70, di contro alle 12413.08 salme di frumento e 2 di orzo del 1416-17, alle 4539.10 di frumento e 64.14 di orzo del 1456- 5771, alle 5785 di frumento e 50 di orzo del 1460-146172 e alle 8540 di frumento del 1465-66 e alle 6815 di frumento e 48 di orzo del 1469-7073. Le esportazioni erano subordinate al soddisfacimento del fabbisogno interno dell‘isola74 a garanzia del quale il re vietava nei periodi di minore produzione le estrazioni75. I luoghi di destinazione del commercio infra Regnum citati nei registri esaminati sono le isole di Pantelleria e Lipari. Le imbarcazioni più usate per il commercio infra regnum erano la fusta, la barca e il brigantino, mentre per il commercio extra regnum la nave e il naviglio, seguite dalla saettia, dalla caravella e da un solo esempio di trireme e di baleniere76. I dati emersi permettono di collocare il caricatore di Sciacca tra i maggiori porti frumentari siciliani nel XV secolo con un‘alta percentuale di grano esportato rispetto alla media isolana: nel 1407-08 Sciacca risultava al secondo posto insieme ad Agrigento con il 13% preceduto solo da Licata (15%); negli anni successivi la percentuale, pur mantenendosi elevata, si riduce oscillando tra il 4% del 1428-29 e del 1431-32, il 9% del 1451-52 e il 7% del 1455-6, per risalire al 15% solo nel 1456-7 quando Sciacca ritorna al secondo posto dopo Licata77. L‘esame dei conti dei maestri portulani, assieme ai numerosi documenti relativi alle concessioni di tratte, oltre a fornire una riprova della funzione della tratta come strumento di potere e di scambio, consente di delineare le scelte operate dall‘ingegnosità umana nello sfruttamento della terra e del mare in un connubio determinante per dare vita alla ricchezza di Sciacca e alla sua affermazione nel commercio isolano.

266 Beato Angelico, San Nicola di Bari scarica il grano e salva un naviglio dal naufragio, 1437. Roma, Pinacoteca Vaticana (da La storia del commercio italiano).

267 Tabella Esportazioni dal caricatore di Sciacca (1416-1458)

Anno Frumento Orzo Formaggio Altri Esportatore Imbarcazione Fonte indizionale prodotti

1416-1417 26 salme Antonio Nave di Giuliano Capruni Asp, Trp, Num. Cardona e Bartolomeo Reccu Provv., 1031, c. genovesi 114r 1416-1417 316 salme Antonio Nave di Tommaso di Asp, Trp, Num. Cardona Pioni genovese Provv., 1031, c. 114v 1416-1417 22 cantàri Il patrono Nave di Tommaso di Asp, Trp, Num. della nave Pioni genovese Provv., 1031, c. 114v 1416-1417 4 salme Battista di Nave di Lazarino Asp, Trp, Num. Chavari Pikinectu Provv., 1031, c. 115r 1416-1417 267 salme Antonio Nave di Antonio di La Asp, Trp, Num. e 8 tomoli Cardona e per Turri di Chauri Provv., 1031, c. lui Aloisio 115v Tallarita 1416-1417 3 cantàri Il patrono Nave di Antonio di La Asp, Trp, Num. della nave Turri di Chauri Provv., 1031, c. 115v 1416-1417 904 salme Antonio Nave di Arnau Tavulari Asp, Trp, Num. e 8 tomoli Cardona Provv., 1031, c. per mano di 116r Aloisio Tallarita 1416-1417 97 salme e Antonio Nave di Arnau Tavulari Asp, Trp, Num. 8 tomoli Cardona Provv., 1031, c. per mano di 116r Aloisio Tallarita 1416-1417 702 salme Aloisio Nave di Peri Salvaturi Asp, Trp, Num. e 8 tomoli Tallarita catalano Provv., 1031, c. 116v 1416-1417 10 cantàri di Il patrono Nave di Peri Salvaturi Asp, Trp, Num. biscotto della nave catalano Provv., 1031, c. 116v 1416-1417 320 salme Augeri de Nave di Giovanni Novellu Asp, Trp, Num. Larca per lui genovese Provv., 1031, c. Aloisio 117r Tallarita

268 1416-1417 470 salme Garau de Nave di Iohan Peri di San Asp, Trp, Num. Chirviglu e Mundiu Provv., 1031, c. per lui Aloisio 117v Tallarita 1416-1417 1 salma e 4 Notaio Matteo Nave di Iohan Peri di San Asp, Trp, Num. tomoli di de Inglis Mundiu Provv., 1031, c. sesamo 117v 1416-1417 15 salme e Matteo Brigantino di Antonio de Asp, Trp, Num. 8 tomoli Sanchu de Gayta Provv., 1031, c. Sancta Fimia 118r castellano di Pantelleria 1416-1417 190 salme Augeri de Nave di Asp, Trp, Num. Larca e per lui Andaro di Li Franki Provv., 1031, c. Antoniotto de genovese 118v Larca per mano di Aloisio Tallarita 1416-1417 449 salme Michele Nave di Asp, Trp, Num. e 13 Intorrelles e Andaro di Li Franki Provv., 1031, c. tomoli per lui 118v Thomau Spinola 1416-1417 116 salme Bernardo Nave di Asp, Trp, Num. e 11 Centelles e per Andaro di Li Franki Provv., 1031, cc. tomoli lui Thomeo di 118v-119r Calatavulturi

1416-1417 10 tomoli di Notaio Matteo Nave di Asp, Trp, Num. semola e 1 de Anglis Andaro di Li Franki Provv., 1031, c. salma e 4 119r tomoli di ceci 1416-1417 5 cantàri 3 salme e 8 Il patrono Nave di Asp, Trp, Num. tomoli di della nave Andaro di Li Franki Provv., 1031, c. farina 119r 1416-1417 515 salme Bernardo Nave di Iohan Dolmas Asp, Trp, Num. Centelles e per catalano Provv., 1031, lui Bernardo c.119v Frigola

1416-1417 841 salme Bernardo Nave di Antonio Graffuni Asp, Trp, Num. e 8 tomoli Centelles e per Provv., 1031, lui Thomeo di c.120r Calatavulturi

269 1416-1417 522 salme Alberto Nave di Antonio Graffuni Asp, Trp, Num. Cusmeri Provv., 1031, c.120r 1416-1417 2 salme 12 cantàri di Il patrono Nave di Antonio Graffuni Asp, Trp, Num. formaggio e della nave Provv., 1031, c. burro 120r 1416-1417 140 salme Bernardo Nave di Blasi Piruni Asp, Trp, Num. Centelles e per Provv., 1031, c. lui Thomeo di 120v Calatavulturi

1416-1417 237 salme Augeri de Nave di Blasi Piruni Asp, Trp, Num. Larca e per lui Provv., 1031, Sergio di c.120v messer Petru 1416-1417 100 salme Giovanni de Nave di Blasi Piruni Asp, Trp, Num. Villaragut e Provv., 1031, per lui Polu c.120v Gentili 1416-1417 200 salme Augeri de Nave di Giovanni Asp, Trp, Num. Larca Burdiuni genovese Provv., 1031, c.121r 1416-1417 164 salme Giovanni de Nave di Giovanni Asp, Trp, Num. Villaragut per Burdiuni Provv., 1031, mano di Polu c.121r Gentili 1416-1417 400 salme Nicola de Nave di Giovanni Asp, Trp, Num. Militanu Burdiuni Provv., 1031, c.121r

1416-1417 132 salme Augeri de Nave di Berardo lu Asp, Trp, Num. Larca medicu Provv., 1031, c.121v 1416-1417 25 salme Bernardo Nave di Berardo lu Asp, Trp, Num. Centelles per medicu Provv., 1031, mano di c.121v Thomeo di Calatavulturi 1416-1417 354 salme Giovanni di Nave di Berardo lu Asp, Trp, Num. Nasu medicu Provv., 1031, cc.121v-122r 1416-1417 104 salme Pietro Sigheri, Nave di Berardo lu Asp, Trp, Num. erede di medicu Provv., 1031, c. Riccardo 122r 1416-1417 630 salme Guglielmo Nave di Peri Salvaturi Asp, Trp, Num. Infinoglet e catalano Provv., 1031, per lui Aloisio c.122v Tallarita

270 1416-1417 500 salme Bernardo Nave di Giovanni de Asp, Trp, Num. Centelles e per Avignuni de Maiorca Provv., 1031, c. lui 123r Bartolomeo Cabanes 1416-1417 300 salme Guglielmo Nave di Nardo de Assay di Asp, Trp, Num. Infinoglet e Trapani Provv., 1031, per lui Aloisio c.123v Tallarita 1416-1417 30 cantàri Il patrono Nave di Nardo de Assay di Asp, Trp, Num. della nave Trapani Provv., 1031, c.123v 1416-1417 420 salme Guglielmo Nave di Iohan Martino de Asp, Trp, Num. e 8 tomoli Infinoglet e Buscaya Provv., 1031, c. per lui Aloisio 124r Tallarita 1416-1417 567 salme Bernardo Nave di Iohan Martino de Asp, Trp, Num. e 8 tomoli Centelles e per Buscaya Provv., 1031, lui Bernardo c.124r Frigola e Aloisio Tallarita

1416-1417 375 salme Guglielmo Nave di Rudiricu Asp, Trp, Num. Finoglet e per Consalves Provv., 1031, c. lui Aloisio 124v Tallarita 1416-1417 82 salme e Bernardo Nave di Rudiricu Asp, Trp, Num. 8 tomoli Centelles e per Consalves Provv., 1031, c. lui Bernardo 124v Frigola

1416-1417 475 salme Giaimo Nave di Rudiricu Asp, Trp, Num. e 8 tomoli Fugazottu Consalves Provv., 1031, cc.124v-125r 1416-1417 179 salme Augeri de Nave di Rudiricu Asp, Trp, Num. Larca Consalves Provv., 1031, c. 125r 1416-1417 500 salme Giaimo Nave di Blasio Piruni Asp, Trp, Num. Fugazottu per genovese Provv.., 1031, lui Bernardo c.125v Frigola 1416-1417 17 cantàri Il patrono Nave di Blasio Piruni Asp, Trp, Num. della nave genovese Provv., 1031, c.125v

1416-1417 310 salme Giovanni Del Nave di Giuliano Asp, Trp, Num. Carretto per Ramizanu Provv., 1031, lui Antonio c.126r Feravanti

271 1416-1417 357 cantàri Il patrono Nave di Giuliano Asp, Trp, Num. della nave Ramizanu Provv., 1031, c.126r 1416-1417 98 salme Matteo Nave di Giovanni di Asp, Trp, Num. Sanchu Accardu genovese Provv., 1031, c. castellano di 126v Pantelleria 1416-1417 9 salme Augeri de Nave di Giovanni di Asp, Trp, Num. Larca per Accardu genovese Provv., 1031, c. mano di 126v Domenico Perollo 1416-1417 66 cantàri Il patrono Nave di Giovanni di Asp, Trp, Num. della nave Accardu genovese Provv., 1031, c.126v 1416-1417 210 salme Bernardo Nave di Giovanni Asp, Trp, Num. Centelles e per Carpinteri de Castella Provv., 1031, lui c.127r Bartolomeo Cabanes 1416-1417 142 salme La regina Nave di Giovanni Asp, Trp, Num. Margherita e Carpinteri de Castella Provv., 1031, per lei c.127r Bartolomeo Cabanes 1428- 1429 896 salme Bernardo Nave di Opizini de Asp, Trp, Num. Centelles Rimazanu (680 salme) Provv., 886, c. 15r Nave di Matteo Ardizuni (216 salme) 1428- 1429 936 salme Peri Lorac a Nave di Raimondo Serra Asp, Trp, Num. nome del re (602 salme) Provv., 886, c. 16r Nave de Incuchellu (334 salme) 1431-1432 820 salme Bernardo Nave di Mirandi Asp, Trp, Num. Centelles Munturussu (125 salme) Provv., 94, c. 13r Nave di Francesco Furnari (103 salme) Nave di Luysi Passanu (250 salme)

Nave di Pellegrino Gilbardo (342 salme) 1431-1432 800 cantàri Nave di Francesco Asp, Trp, Num. di biscotto Furnari Provv., 94, c. 13v 1451-1452 541 salme Antonio Luna Nave di Lazaro de Gireu Asp, Trp, Num. conte di mercante genovese Provv., 91, c. Caltabellotta 22r

272 1451-1452 300 salme Giurati di Navilio di Lazaro de Gireu Asp, Trp, Num. Sciacca Provv., 91, c. 22v 1451-1452 20 salme Nicola de Nave di Lazaro de Gireu Asp, Trp, Num. Vinchio Provv., 91, c. 23r 1451-1452 4 cantàri e Bartolomeo Nave di Lazaro de Gireu Asp, Trp, Num. 70 rotoli di Gemella Provv., 91, c. cuoio mercante 24r genovese 1451-1452 2 cantàri e Il patrono Nave di Lazaro de Gireu Asp, Trp, Num. 99 rotoli della nave Provv., 91, c. 24r 1451-1452 49 cantàri e Il patrono Nave di Lazaro de Gireu Asp, Trp, Num. 88 rotoli della nave Provv., 91, c. 24r 1451-1452 3 cantàri e Ambrogio Nave di Lazaro de Gireu Asp, Trp, Num. 20 rotoli di genovese Provv., 91, c. caciocavallo 24r 1451-1452 4 cantàri e Bartolomeo Nave di Lazaro de Gireu Asp, Trp, Num. 50 rotoli Gemella Provv., 91, c. 24r 1451-1452 2 cantàri di Bartolomeo Nave di Lazaro de Gireu Asp, Trp, Num. caciocavallo Gemella Provv., 91, c. 24r 1451-1452 1 cantàro e 1 cantàro e Bartolomeo Nave di Lazaro de Gireu Asp, Trp, Num. 23 rotoli di 78 rotoli di Gemella e Provv., 91, c. caciocavallo sesamo Anibaldo 24r Franco 1451-1452 7 cantàri e 4 Nicola de Nave di Raimondo Asp, Trp, Num. rotoli Vinchio Liparoto Provv., 91, c. 24r 1451-1452 9 salme e Salvatore Fusta di Salvatore Sitarolu Asp, Trp, Num. 4 tomoli Sitarolu Provv., 91, c. 25r 1451-1452 4 salme e 15 Xibiten Barca di Federico Chavari Asp, Trp, Num. tomoli Sadotio per Provv., 91, c. sesamo Tommaso 25r Taglacarni 1451-1452 4 Paolo Pendula Barca di Simone de Asp, Trp, Num. salme per Salvo Damiano Provv., 91, c. Pendula 25r 1455-1456 26 salme e Pietro Lu Saettia di Asp, Trp, Num. 4 tomoli Burgio Giovanni deli Faxi Provv., 90, c. 30r

1455-1456 8 salme e Nicola de Naviglio di Giacomo de Asp, Trp, Num. 8 tomoli Binachio Paganetto Provv., 90, c. 30r

273 1455-1456 22 salme e Berengario de Naviglio di Giacomo de Asp, Trp, Num. 8 tomoli Castellgali a Paganetto Provv., 90, c. nome di 30v Giacomo de Serguillermo per Giovanni Ferrandiz de Armendura 1455-1456 108 Bartolomeo Caravella di Lorenzo Asp, Trp, Num. salme e Texidor a Alamany Provv., 90, c. 14 nome di 30v tomoli Francesco Malleiu 1455-1456 2731 A nome di Asp, Trp, Num. salme e Antonio Luna Provv., 90, c. 15 tomoli conte di 31r Caltabellotta

1001 salme e Nave di Giovanni 15 tomoli da Dorionda de Alamanna Gerardo Lumellino

380 salme da Nave di Nicola de Caro Pietro Lu Burgio

350 salme da Nave di Giordano de Pietro Lu Facio Burgio

1000 salme da Nave di Stefano Casserua Pietro Lu Burgio 1455-1456 600 salme Gerardo Nave di Giovanni de Asp, Trp, Num. Lumellino a Rionda Provv., 90, c. nome di 31v Giovanni Ventimiglia marchese di Geraci 1455-1456 1026 da Damiano Nave di Nicola Miniu Asp, Trp, Num. salme e 8 Spinola a Provv., 90, c. tomoli nome di 31v Lukesio Spinola 1455-1456 8 tomoli di Nave di Battista Salvagio Asp, Trp, Num. legumi Provv., 90, c. 32r

274 1455-1456 978 salme A nome di Asp, Trp, Num. Giovanni Provv., 90, c. Ventimiglia 32r marchese di Geraci

473 salme da Nave di Nicola de Caro Paolo Pendula

350 salme da Nave di Giovanni Giacomo Lu Molinellu aurifichi

5 salme Nave di Giovanni Guglielmo de Molinellu Montalbano

150 salme da Nave di Simone de Pomo Guglielmo Montalbano 1455-1456 17 salme Giovanni de Nave di Battista Lu tuctu Asp, Trp, Num. Sanuto alias Provv., 90, c. Luconu 32v 1455-1456 6 salme Salvatore Fusta Salvatore Sitaloru Asp, Trp, Num. Sitaloru Provv., 90, c. 33r 1456-1457 830 salme Per Asp, Trp, Num. l’assegnazione Provv., 715, c. del marchese 25r di Geraci da Ambrosio Baroso

a nome di Naviglio di Stefano de Galeazzo Chavari Doria 430 salme Nave di Stefano Suhigo, a nome di veneto Gerardo Lumellino e Battista di Bartolomeo 400 salme

275 1456-1457 1632 Per Asp, Trp, Num. salme l’assegnazione Provv., 715, c. del conte di 25v Caltabellotta da Ambrosio Baroso

a nome di Nave di Stefano Suhigo Galeazzo Doria 600 salme

A nome di Nave di Stefano Suhigo Gerardo Lumellino 50 salme

da Ferrando de Nave di Domenico Lukesio 802 Falquer salme

Pietro Lu Nave di Pietro Guglielmo Burgio 180 de Iviça salme 1456-1457 25 salme da Bernardo Naviglio di Didaco Asp, Trp, Num. Ortuvegiu Rodriguez Provv., 715, mercante c.26r genovese 1456-1457 349 salme 39 salme a nome di Asp, Trp, Num. e 2 tomoli e 12 Damiano Provv., 715, c. tomoli Spinola come 26 procuratore di Lukesio Spinola

da Ambrosio Naviglio di Didaco Baroso a Rodriguez nome di Damiano 276 salme di frumento e 2 tomoli

da Ambrosio Naviglio di Didaco Baroso 39 Rodriguez salme di orzo e 12 tomoli

da Paolo Navigio di Martino Pendula Ribaldu 73 salme di frumento

276 1456-1457 1600 Per Nave di Pietro Guglielmo Asp, Trp, Num. salme l’assegnazione de Iviça Provv., 715, c. di Pietro 26v Mercader da Pietro Lu Burgio a nome di Mariano Agliata

1456-1457 12 salme Antonio Luna Trireme del conte Asp, Trp, Num. conte di Provv., 715, c. Caltabellotta 27r 1456-1457 95 cantàri di frate Angelo, Baleniere di cui era Asp, Trp, Num. biscotto e 2 nunzio patrono Provv., 715, c. salme di ceci apostolico 28r e fave 1456-1457 100 salme Nicola de Barca di Nicola de Asp, Trp, Num. Carnilivari Carnilivari Provv., 715, c.30r 1456-1457 15 salme Mazullo de Fusta di Mazullo de Nino Asp, Trp, Num. Nino Provv., 715, c. 30r 1456-1457 1 salma e Mursello Fusta di Mursello Asp, Trp, Num. 8 tomoli Provv., 715, c. 30r

277 *Abbreviazioni: Aca= Archivo de la Corona de Aragón; C = Cancillería Real; Asp= Archivio di Stato di Palermo; Rc= Real Cancelleria; P= Protonotaro del Regno; Trp, Num. Provv.= Tribunale del Real Patrimonio, Numerazione Provvisoria; Sn= Spezzoni Notarili, Catena.

1Trasselli lo pone al terzo posto con un totale di 16044.06 salme di frumento esportate nel 1407-1408; se si considerano anche le 140 di orzo, risulta il secondo porto dopo Licata, insieme ad Agrigento (TRASSELLI 1977a, 252; TRASSELLI 1954-55, 385, tav. II; DENTICI BUCCELLATO 2003, 339, grafico di F. Barna). 2BLANDO 2008, 527. 3Utile riferimento e punto di partenza sull‘argomento rimangono gli studi generali sui caricatori del Regno e sull‘esportazione del grano di I. Peri, di C. Trasselli e H. Bresc (PERI 1958, 422- 469; PERI 1962, 529-617; TRASSELLI 1954-55, 335-389; TRASSELLI 1977a, 229-288; TRASSELLI 1977b 289-329; TRASSELLI 1977c, 331-370; BRESC 1986). Per l‘età moderna, cfr. in particolare gli studi di BLANDO 2003; 2008, 521-540; 2007, 111-131. 4CIACCIO 1900, I, 33-38; SCATURRO 1983, I, 401-409. 5BRESC 2010, II, 581-589. 6Asp, Sn, 81, cc. 20r-23r. 7ABULAFIA 1983, 12-13. 8Asp, Sn, 129, cc. 3v-5v. 9Asp, Sn, 129, cc. 2v-3v. 10BRESC 2010, II, 585. 11HUILLARD BRÉHOLLES 1857, 418-422; BAVIERA ALBANESE 1992, 48-51. 12TRASSELLI 1977c, 334-335; CORRAO 1983, 419. 13CANCILA 1969, 409. 14TRASSELLI 1977c, 335-336, 348-351. 15I capibrevi di Giovanni Luca Barberi, 543. Per alcuni esempi relativi a concessioni a membri dell‘entourage del re, come falconieri regi o consiglieri e camerlenghi, cfr. Asp, Trp,Num. Prov., 715, c. 104v; Aca, C, 2104, c. 147v; Aca, C, 2324, cc. 74r, 78r. 16Nel Quattrocento il diritto di tratta era fissato nella misura di 3 tarì per il Val di Mazara e 4 tarì per il Val di Noto; re Giovanni disponeva che si aggiungessero 10 grani in entrambi i Valli e che l‘estrazione infra regnum fosse libera per sei anni (Capitula regni Sicilie, cap. XXVII, 446-447). 17CANCILA 1969, 411. 18Per le altre cointeressenze dovute a chi operava nel caricatore, cfr. la tabella di F. Barna in DENTICI BUCCELLATO 2003, 338. Per alcuni esempi relativi a Sciacca, cfr. I capibrevi di Giovanni Luca Barberi, 512-513; 578-579; 581-585; 591-592. 19I capibrevi di Giovanni Luca Barberi, 470-471, 507-511; SCATURRO 1983, I, 560-561. 20CORRAO 1983, 420-424; sull‘evoluzione dell‘ufficio e lesue funzioni, cfr. anche BAVIERA ALBANESE 1992, 52-56. 21BAVIERA ALBANESE 1992, 56. 22BARNA 2011, 44-45. 23BLANDO 2008, 522, 524-526. 24BARNA 2011, 44. Ringrazio Francesco Barna e Antonino Blando per l‘utile confronto. 25DENTICI BUCCELLATO 2003, 335. 26BAVIERA ALBANESE 1992, 57-59. 27SALAMONE 1993, 79-80 in nota. 28DENTICI BUCCELLATO 2003, 335. 29SALAMONE 1993, 76, 123; BARNA 2011, 43. 30 Asp, Trp, Num. Provv., 1031; 886; 94; 732; 91; 90; 715. Cfr. tabella.

278 31Nel periodo compreso tra il 1382 e il 1390 a Sciacca la Compagnia si avvaleva dei collaboratori Giovanni di Jacopo e Pietro Castiglioni ( GIUNTA 1983, 399-400). 32DENTICI BUCCELLATO 2003, 334. 33Asp, P, 1, cc.7v-8r. 34Cfr. Asp, Rc, 32, c. 45r. trascritto in RUSSO 2003, 399-400. 35La carica veniva trasmessa nell‘ambito della famiglia. Dai registri della serie dei Conti del maestro portulano risulta che almeno dal 1428-29 e fino al 1431-32 la carica era in mano a Domenico Perollo; dal 1451-52 e almeno fino al 1469-1470 a Pietro Perollo (Asp, Trp, Num. Provv., 886, c. 15r; 94, c. 13r; 91, c. 22r; 90, c. 30r; 715, c. 25r; 717, c. 40r; 560, c. 25r). 36Nel 1385 e nel 1386 lo stesso signore di Sciacca, Guglielmo Peralta, trattava la vendita di frumento con la Compagnia Datini (MOTTA 1983, 105). 37Asp, P, 1, cc. 69v, 276. 38Cfr., per alcuni esempi, Asp, Rc, 7, c. 321; 12, cc. 33v-34r, 250r; 16, cc. 24v-25r. 39Aca, C, 2104, cc. 13v-14r. 40Asp, Rc, 29, c. 70v. 41Asp, Rc, 34, c. 116r. 42Asp, Rc, 6, c. 59v. 43Asp, Rc, 31, c. 42, trascritto in RUSSO 2003, 395-396. 44Asp, Rc, 32, c. 45r, trascritto in RUSSO 2003, 399-400. 45Asp, Rc, 32, cc. 74v-75r. 46Asp, Rc, 35, cc. 140v, 225v-226r. 47Asp, P, 47, cc. 39v-40r. 48Asp, Trp, Num. Provv., 45, c. 149. 49Asp, Trp, Num. Provv., 91, c. 22r; 90, c. 31r; 715, cc. 25v e 102v. Cfr. tabella. 50Asp, Trp, Num. Provv., 717, cc. 40r-41v. 51TRASSELLI 1977a, 253. 52Asp, P, 77, c. 155. 53TRASSELLI 1977a, 253. 54TRASSELLI 1977a, 235-245. 55TRASSELLI 1977b, 294-298. 56D‘ALESSANDRO, CORRAO 1994, 395-444, distribuito in formato digitale da «Reti Medievali», 20. 57GROHMANN 1969, 29-37 dell‘estratto. Lo sviluppo dell‘industria laniera in Sicilia portò ad un crescente interesse per l‘allume che si estraeva in terreni vulcanici; a Sciacca l‘estrazione dell‘allume è attestata nei primi del Quattrocento (EPSTEIN 1996, 223, 184-185). 58TRASSELLI 1977a, 246-249. 59TRASSELLI 1977b, 308. 60Il libro rosso della città di Sciacca, 82-83. 61BRESC 1986, I, 526. 62TRASSELLI 1969, 160. 63TRASSELLI 1954-55, tavole II, III. A riprova della frequentazione del caricatore di Sciacca da mercanti e patroni di navi di diversa nazionalità, in particolar modo liguri e catalani, si vedano come esempi le concessioni operate da re Martino negli anni 1399-1401(Aca, C, 2104, cc. 124r-125r, 145v). 64Asp, Trp, Num. Provv., 1031, cc. 114r-126v. 65Asp, Trp, Num. Provv., 91, cc. 22r-25r. Non vengono prese in considerazione le altre esportazioni infra regnum riportate nella

279 tabella e cioè quelle operate daSalvatore Citarolo, Xibiten Sadotio e Paolo Pendula dirette a Trapani. 66TRASSELLI 1969, 166. 67Nel 1500-1 l‘84 % delle esportazioni a Sciacca fu gestita da cinque mercanti: Alessandro Negrone, Battista Giustiniano, Piero de Podio, Christofaro di Puteo, Gieronimo La Rocca (AYMARD 1983, 87, 92-97). 68Asp, Trp, Num. Provv., 1031, cc. 114r-126v; 715, c. 25r. 69Asp, Trp, Num. Provv., 94, cc. 13r-14r; 91, cc. 22r-25r. Cfr. tabella. 70Asp, Trp, Num. Provv., 700, cc.19r-21v. 71Asp, Trp, Num. Provv., 1031, cc. 114r-126v; 715, cc. 25r-30r. Cfr. tabella. 72Asp, Trp, Num. Provv., 717, cc. 40r-44r. 73TRASSELLI 1977a, 252. 74Sulla normativa dei sovrani Martino, Alfonso e Giovanni, cfr. Capitula regni Sicilie, capp. XIII e XV, 145-146; XLI, 155; XXVI, 215; XXVII, 446-447). 75Il 28luglio 1397, ad esempio, Nicola Peralta, aveva ricevuto l‘ordine di non permettere estrazioni dal caricatore di Sciacca a causa dello scarso raccolto (Asp, P, 9, cc. 97v-98r). 76Asp, Trp, Num. Provv., 1031, c. 118r; 91, c. 25r; 90, c. 33r; 715, c. 30r. Cfr. tabella. Sideve, comunque, tenere presente che nei registri si trova una certa confusione nell‘uso della terminologia (BRESC 1975, 16). 77DENTICI BUCCELLATO 2003, 339-342.

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282 L avo r ato ri agrigentini a Pal er mo n el Quattrocento

PATRIZIA SARDINA

Le relazioni economiche tra Palermo e Agrigento erano già molto intense e complementari nel Trecento, quando le due città erano controllate dai Chiaromonte, che avevano instaurato in entrambe una signoria urbana e gestivano l‘amministrazione e le finanze: i fertili campi del territorio agrigentino fornivano il frumento utile al confezionamento del pane, alimento base del popolo palermitano; i mercanti di Palermo vendevano ad Agrigento costose stoffe importate dall‘estero1. Per raggiungere la piena integrazione gli Agrigentini trasferitisi a Palermo dovevano ottenere la cittadinanza che, da un lato, attribuiva il privilegio del foro, in virtù del quale tutti i Palermitani indipendentemente dal ceto sociale (cavalieri, artigiani, zappatori e servi) potevano essere giudicati soltanto dalla Corte Pretoriana in sede civile, dal giustiziere in sede penale, dall‘altro, garantiva speciali esenzioni fiscali a mercanti, proprietari terrieri e pescatori2. La cittadinanza si conseguiva dopo avere risieduto a Palermo un anno, un mese e un giorno o sposando una palermitana, ma veniva revocata se si abbandonava la città3. A volte la città d‘origine si opponeva al cambio di cittadinanza, poiché la perdita di un contribuente pesava sul bilancio comunale. Nel 1335 il pretore e i giudici di Palermo concessero la cittadinanza a Pachino de Vanni, perché vi si era trasferito con la moglie e la famiglia da Agrigento al Cassaro di Palermo, ma i funzionari di Agrigento volevano costringerlo a sottostare alla loro giurisdizione. Così, il pretore e i giudici intervennero per

283 fare rispettare il decreto di cittadinanza al giustiziere del Val di Agrigento, al secreto, al baiulo, ai giudici, ai giurati, ai cassieri, ai doganieri e ai gabelloti4. Nel XIV secolo gli Agrigentini andavano a Palermo per lavorare sia in città come artigiani sia nella vicina campagna come agricoltori. Basti ricordare Giovanni de Gabriele, un tempo abitante di Agrigento, che nel 1309 si pose un anno al servizio del mastro barbiere Angelo, per un‘onza e il vitto5, e l‘agrigentino Muchio de Donadeo che nel settembre del 1386 s‘impegnò a lavorare fino a maggio nelle vigne di Pietro di Vanni Bellachera per 3 onze6. Oltre che nelle vigne e nei giardini che circondavano Palermo, gli oriundi agrigentini lavoravano nelle masserie, come fece nel 1388 Enrico de Panormo che promise di arare ut quinterius nella masseria di Marco de Palaya durante il raccolto insieme con un abitante di Butera, per un‘onza e 15 tarì, la quinta parte del raccolto, pane e companatico7. Dopo l‘eliminazione dei Chiaromonte dalla scena politica isolana Palermo mantenne per gli Agrigentini un forte richiamo e i ceti più umili continuarono a dimorarvi per cercare opportunità più favorevoli soprattutto nel settore agricolo8. Come ha osservato Bresc, nella Sicilia del Quattrocento la mobilità dei lavoratori era determinata in primo luogo da fattori strutturali, quali le migliori prospettive di guadagno e la valorizzazione delle competenze9. Tuttavia, potevano incidere anche motivazioni contingenti, come i rapimenti di boni homini massari di lavuri et vigni da parte di fuste provenienti da Trapani, Mazara o Marsala, che nel 1423 costrinsero i coltivatori ad abbandonare campi e vigne della contrada Marina di Agrigento; o la sterilitati et anxietati d‘acqua che nel 1429 danneggiò in maniera irrimediabile la semina nel territorio di Agrigento (fig. 1)10. Per arrestare lo spopolamento delle campagne, causato dal decremento demografico che colpì la Sicilia nel Quattrocento, ad Agrigento i

284 1. Tiburzio Spannocchi, Girgenti, 1578 (da DUFOUR 1992).

285 salari dei lavoratori agricoli crebbero tanto che i cittadini chiesero di limitarli11; così nelle ordinanze del 1443 gli ufficiali cittadini stabilirono che i potatori percepissero al massimo un tarì al giorno, gli zappatori 15 grani e il vino se dormivano in città, anche il vitto se pernottavano fuori12. A partire dal Quattrocento le fonti notarili forniscono maggiori informazioni sulle attività lavorative svolte dagli Agrigentini che vivevano a Palermo, tuttavia, la frammentarietà della documentazione impedisce di quantificare con metodi statistici la consistenza numerica dei forestieri di origine agrigentina presenti nella felix urbs. Fra l‘altro, sebbene la stipula e la conservazione dei contratti di prestazione d‘opera fornissero ai datori di lavoro uno strumento indispensabile in caso di contenziosi e liti giudiziarie, non sappiamo quale fosse la percentuale di salariati stranieri reclutati con regolari contratti e quanti fossero assunti in nero. Il lavoratore manteneva la qualifica di cives di Agrigento e nei registri i notai evidenziavano con l‘usuale formula ceterata consenciens primo in nos etc. che, pur essendo forestiero, aveva scelto per primo e spontaneamente un notaio palermitano. A volte il lavoratore stipulava il contratto con i datori (come Pietro de Maretta, priore di Santa Maria del Carmine), altre volte con un intermediario (come Raymo de Randano, curatolo del monastero di San Martino)13. Gli agricoltori agrigentini erano impiegati in campi di grano, vigne, orti e masserie appartenenti sia a istituzioni ecclesiastiche sia a laici. Il lavoro era scandito dal ritmo delle stagioni e le attività distribuite durante il corso dell‘anno: in autunno si procedeva alla semina che doveva terminare prima di Natale (fig. 2); in primavera si effettuava la sarchiatura, si mettevano a maggese le terre e si preparavano i novalia (nuovi terreni) con tre passaggi di aratro (fig. 3); l‘estate era dedicata alla mietitura, alla pisatura (battitura con calpestio) e alla raccolta

286 2. Bartolomeo Anglico, La semina, De proprietatibus rerum, Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Fr. 135, f. 327, 1445-1450 (da FRUGONI 1997).

287 (fig. 4). La stagionalità delle attività agricole legate alla coltura del grano consentiva ai lavoratori di potersi dedicare anche ad altri lavori come la vendemmia a settembre, la raffinazione dello zucchero in inverno, il pascolo dei bovini a giugno14. La qualifica generica di laborator implicava una vasta gamma di attività connesse alla coltura del grano (aratura, semina, maggese, sarchiatura, mietitura, trebbiatura), invece, i termini ligonizator e zappator si applicavano ai lavoratori impiegati a zappare negli orti e nelle vigne15. Nei capitoli di Agrigento del 1445 si utilizzano i termini siciliani ligonizaturi e affannaturi, mentre in quelli del 1443 si distinguono tre tipi di zappatori: i ruptores effettuavano la prima zappatura, i rocaldatores la seconda, i reterciatores la terza16. Lo zappatore generalmente veniva assunto da ottobre a maggio, ma poteva essere reclutato anche per un anno continuativo e completo o per un solo giorno17. Oltre al salario e al vitto, il lavoratore riceveva spesso anche le scarpe che si consumavano rapidamente nello svolgimento dei lavori agricoli. Ad esempio, nel 1416 l‘agrigentino Simone di Li Brichi s‘impegnò a lavorare due mesi e mezzo nella masseria di Giacomo Drago per 12 tarì e una solatura al mese18. Nel 1407 dimoravano a Palermo i salariati agrigentini Antonio Scursuni, assunto come laborator per seminare e svolgere altre attività nella masseria del convento di Santa Maria del Carmine da settembre ad aprile per 2 onze, il vitto consueto e mezza forma di formaggio al mese19, e Nicolò de Blanco che s‘impegnò a lavorare nell‘orto di Lemno de Bisugnano da dicembre a marzo ut ligonizator ad ligonizandum et zappuliandum20 per 3 augustali, comesione et potu, solis et antepedibus (cibo, bevande, suole e tomaie)21. Manteneva la cittadinanza agrigentina anche Pietro di La Scalia che si era trasferito a Corleone e nel settembre del 1409 s‘impegnò a lavorare per un anno come seminatore per il monastero di San Martino delle Scale per 4

288 3. L’aratura , Trento, Torre Aquila, XV sec. (da ŠEBESTA 1996).

289 onze, companatico e furnimentis22. Nel 1414 l‘agrigentino Giovanni Carnigrassa si pose al servizio di Manfredi Garretta per un anno nella doppia veste di laborator e carrozerius per svolgere molteplici funzioni, inclusa la conduzione di un carro (ad laborandum, magisiandum, seminandum, zappuliandum, ducendum carrociam et faciendum omnia et quecumque servicia), per 3 onze, 18 tarì, vitto et omnibus furnimentis debitis et consuetis23. La durata massima della prestazione d‘opera dei salariati era generalmente un anno e nel ventennio 1418-1438 gli agricoltori agrigentini che si trasferivano a Palermo potevano contare su un salario annuo minimo di 4 onze. Nicolò de La Iustra s‘impegnò con Cosma de Corbo a zappare, coltivare le vigne e vendemmiare (fig. 5) a partire dal 20 ottobre 1417 per 4 onze 24 tarì, cibo e tutte le forniture necessarie, con la fideiussione del fratello Angelo24. Furono assunti dal monastero di San Martino delle Scale nell‘agosto del 1419 Andrea Puglalertu come contadino, per effettuare la semina, la zappatura, fare novalia, la pisatura e il raccolto per 4 onze e 6 tarì, cibo e ogni fornitura25; nel settembre 1426 Luca di Litrudi come laborator per 4 onze e una fornitura completa26. Avrebbe ricevuto un salario di 4 onze e 12 tarì Antonio de Maurichi che nel settembre 1438 s‘impegnò con il providus Pietro Paolo a zappare27. Filippo Pagono promise di lavorare nella masseria del magnificus Antonio Valguarnera a partire dall‘8 settembre 1445 per 4 onze, 12 tarì e il vitto consueto28. In altri casi, il compenso veniva calcolato mensilmente. Ad esempio, Enrico de Sanctoro fu reclutato da Antonio de Roberto dal 26 agosto al Natale del 1419 come laborator per seminare, zappare e fare novalia con una paga di 11 tarì al mese, cibo e due solature29. Mentre nel 1437 Valente de Spirverio assunse Giuliano de Andrea per lavorare nelle sue vigne da gennaio a fine maggio soprattutto ad ligonizandum, xarmintandum, spurgandum, ma anche per custodire le vigne e portare con una sua

290 4. La mietitura, Trento, Torre Aquila, XV sec. (da ŠEBESTA 1996).

291 bestia la legna dalle vigne a casa del conduttore, per 13 tarì al mese cibo e bevande30. Sebbene i laboratores agrigentini reclutati per un anno (i cosiddetti ―annaroli‖) svolgessero un‘attività plurifunzionale31, che non presupponeva il possesso di un‘unica specializzazione tecnica, poiché i compiti loro assegnati variavano nel corso dell‘anno a seconda delle diverse fasi della coltivazione, possedevano pur sempre un‘esperienza lavorativa nel settore agricolo e potevano aspirare a ricevere un salario superiore rispetto a quelli assunti per svolgere servizi di natura generica in campagna e in città. Appartenevano a quest‘ultima categoria Nicolò de Butera, che nel 1421 s‘impegnò a lavorare per mastro Giovanni de Bono da febbraio ad agosto per un‘onza e 15 tarì e i viveri32, e Benedetto de Carella assunto per un anno nell‘agosto del 1421 da mastro Giovanni de Gantili per 2 onze, una cappa, una gonnella bianca di orbace33, le scarpe necessarie e i viveri34. Accanto ai salariati, figuravano anche lavoratori retribuiti a cottimo. Ad esempio, nell‘ottobre 1413 Salvatore Mancusio di Agrigento e Ponzo Mazarino di Mazara s‘impegnarono con Matteo Columba a scavare entro febbraio bene et sine fraude 4000 fosse ad unam testam altitudinis palmorum duorum et ad sextum palmorum quinque per piantare viti in un pezzo di terra nel territorio di Palermo, in contrada Gabriele, per 18 tarì e 10 grani a migliaio35. Inoltre, non mancavano lavoratori agrigentini autonomi, come Giacomo de Alfano che nel 1415 ebbe in enfiteusi perpetua dal cavaliere Giovanni de Bandino un vigneto con alcuni alberi domestici vasto circa 7 tomoli in contrada Falsomiele, per il censo annuo di 11 tarì e 5 grani36 . Si segnalano contratti di prestazione d‘opera annullati prima della scadenza. Fu rescisso dieci giorni dopo la stipula, su accordo comune delle parti, l‘atto stipulato dal magister

292 5. La vendemmia, Trento, Torre Aquila, XV sec. (da ŠEBESTA 1996).

293 agrigentino Antonio de Manussio per zappare nella vigna di Giovanni de Lu Durillo dal 15 ottobre 1427 alla metà di maggio del 1428 fino alle ore 22, dormendo fuori, per 15 tarì al mese e cinque giorni di festività pagate37. Inoltre, il 18 febbraio 1428 i contraenti fecero cassare il contratto redatto sei mesi prima, che impegnava l‘agrigentino Matteo Rinchuni a lavorare come zappatore e coltivatore per Nicolò de Castroiohanne e, soprattutto, a fare propagines (talee) sino alla fine di maggio per 18 tarì al mese, perché le parti si accordarono diversamente e preferirono stipulare un altro atto38. In seguito, il rapporto di lavoro proseguì e nel 1431 Matteo promise a Nicolò di zappare da novembre a gennaio, rifundere sino a marzo e reterciare sino a maggio nella vigna di contrada San Lorenzo dei Colli, per 5 onze e 15 tarì39. Tra il 1407 e il 1431 alcuni cittadini di Agrigento dimoranti a Palermo colsero le favorevoli opportunità lavorative offerte dal boom della canna da zucchero coltivata nella Conca d‘Oro, dove abbondavano i corsi d‘acqua indispensabili per l‘irrigazione. Le canne migliori erano quelle del secondo anno, dette cannamele, le gidide40 erano quelle del primo anno, ancora troppo giovani, gli stirponi le canne del terzo anno, sconsigliate dagli agronomi del XVIII secolo perché ormai troppo deboli. La redditizia attività era gestita da noti produttori e imprenditori palermitani, richiedeva un discreto capitale di partenza destinato, fra l‘altro, all‘acquisto delle ingenti quantità di legname utilizzate per cuocere lo zucchero e allo stipendio dei numerosi lavoratori impiegati nelle piantagioni e nei trappeti, e attirava manodopera salariata proveniente da ogni parte della Sicilia e anche dalla Calabria (fig. 6). In alcuni casi si trattava di giovani aiutanti, qualificati come famuli o infanti41. Lo stipendio andava dai 18 ai 27 tarì al mese, a seconda delle mansioni svolte, e i contratti venivano stipulati tra ottobre e dicembre. Nel 1407 Giacomo de Montaperto s‘impegnò con mastro Thomeo de

294 6. Jan van der Straet, La produzione dello zucchero in Sicilia, Nova reperta, 1570, Greenwich, National Maritime Museum (da http://www.museogalileo.it/istituto/mostre-virtuali/vespucci/iconografia/nova_reperta.html).

295 Iorlando, amministratore del notaio Giovanni de Iampixi, a lavorare come famulo focarolus (addetto ai forni per la cottura dello zucchero), a trasportare legna, accedere ad palum42 et lavare furmas per 18 tarì al mese43. Nel 1413 i fratelli Pietruccio e Giacomo Baroni stipularono un contratto di lavoro con Antonio e Matteo Mule ad mundandum eorum canamellas et gididas, ossia privare delle foglie e tagliare le canne da zucchero. Nell‘atto notarile non si precisa quale somma sarebbe stata erogata mensilmente ai due fratelli, ma si dice che avrebbero avuto un anticipo di 40 tarì e il loro salario sarebbe equivalso a quello corrisposto usualmente da Andrea Bonavoglia e Nicolò de Roberto, noti produttori di zucchero di Palermo44. Nel 1417 Giovanni de Michaele promise al nobile Bartolomeo de Carbono di dimorare nel suo trappeto giorno e notte durante l‘intera stagione della cottura cannamelarum, gididarum et stirponum per 24 tarì al mese ad scarsam (ossia senza viveri né abiti), con i seguenti compiti: eundo ad stringendum omnes saccos et inde strictis saccis adminando richipituri dicti trappeti45. Nel 1418 s‘impegnarono a lavorare nel trappeto del nobile Andreotta de Lombardo per tutta la stagione delle cannamele Blasio di Genti ut infanti de planca vel ut machinaturi (operaio che azionava le macchine per la raffinazione dello zucchero) per un‘onza al mese, e Matteo Chasarunaru ut infanti de insaccaturi pro quatuor machinis (addetto a porre le canne in grandi sacchi)46 per 27 tarì al mese. Nell‘atto di prestazione d‘opera si precisa che, oltre ai lavori chiaramente indicati, i due avrebbero potuto svolgere anche altri non meglio precisati servizi del mestiere, per evitare che potessero sorgere contenziosi nel caso in cui il proprietario del trappeto avesse imposto fattispecie di attività lavorative non esplicitate nel contratto47. Nel 1431 Matteo di La Delia avrebbe percepito 18 tarì al mese per lavorare tutta la stagione nel trappeto di Nicolò de Roberto ut admanuchator (addetto alle macchine di livello inferiore) con quattro macchine,

296 7. Insegna dei sarti, (XV sec.), Agrigento, Museo di Santo Spirito (foto Patrizia Sardina).

297 accedere a lu palu e fare molare i coltelli48. Nel 1431 Matteo de Purtu Corinu s‘impegnò a lavorare per 24 tarì al mese nel trappeto del providus Nicolò de Roberto per tutto il tempo della cottura dello zucchero ut receptor cannamelium, ossia con il compito di ricevere e consegnare tutte le canne da zucchero da cuocere e accedendum ad palum49. Nel 1428 Giovanni Lu Vechu promise di svolgere tutti i servizi commissionatigli dal nobile Antonio Iacobi durante l‘intera stagione del trappeto, per 20 tarì al mese50. Altri Agrigentini residenti a Palermo gestivano il personale per conto del proprietario del trappeto, come Tommaso Satariano che assunse il famulo plantarum Giovanni de La Monti di Siragusa per tutta la stagione della cottura del trappeto di Manfredi de Serafinis, con la fideiussione di mastro Angelo de Filippello. Si trattava di un‘attività di natura totalmente diversa che comportava responsabilità dirette e la necessità di seguire in tribunale eventuali cause di lavoro. Così, quando Giovanni si allontanò arbitrariamente dal posto di lavoro, Tommaso si rivolse alla Corte Pretoriana che fece mettere in prigione il fideiussore, finché il 28 marzo 1417 Tommaso e Angelo raggiunsero un compromesso51. Alla coltivazione della canna da zucchero era connessa la vendita del letame, utilizzato nelle piantagioni come fertilizzante. In autunno l‘agrigentino Giuliano de Columba dimorava a Palermo per fornire ai produttori di zucchero grosse partite di stallatico, consegnate in primavera al di fuori di Porta Sant‘Agata che immetteva nel quartiere Albergheria. Nel 1414 Giuliano permutò con Vitale de Maurichio mezzo migliaio di concime privo di paglia con un somaro dal pelo coniglino senza marchio52; nel 1417 vendette mezzo migliaio di stallatico a Pino di Lu Monaco per un‘onza53, nel 1418 cinquanta carrozzate a Rinaldo Cardinale, per 24 tarì, e s‘impegnò a consegnarle entro il tempo prestabilito con la fideiussione dell‘agrigentino

298 8.La bottega della lana, Tacuinum sanitatis, XIV sec., (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 4182) (da http://trama-e- ordito.blogspot.it/2010/09/tacuinum-sanitatis-la-bottega-di-un.html).

9. La bottega della seta, Tacuinum sanitatis, XIV sec., (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 4182) (da http://www.esacademic. com/ pictures/eswiki/53/56-aspetti_di_vita_quotidiana%2Cabbigliamento_in_seta%2CTaccuino.jpg).

299 Raimondo de Bando54. La produzione del letame da stalla era, a sua volta, legata all‘allevamento di bestie da traino che lo stesso Giuliano vendeva ai cittadini di Palermo, come Matteo de Dimitrio, che nel 1417 comprò un somaro bruno senza marchio per 27 tarì55. Del resto, per gli Agrigentini Palermo era un‘ottima piazza per la vendita di somari, muli e ronzini, molti dei quali erano adibiti al trasporto di canna da zucchero dalle piantagioni ai trappeti56. Anche in quest‘ultimo settore riscontriamo la presenza di Agrigentini dimoranti a Palermo, provenienti a volte dalla medesima famiglia di bordonarii (ossia mulattieri), che lavoravano come salariati o a cottimo. Il 15 febbraio 1417 il mulattiere Masio Savetta, con il consenso del padre Luca, s‘impegnò con Pino de Guidda a portare quattro animali alla piantagione di canna da zucchero, sei animali a prendere la legna, tagliandola egli stesso, sino a fine maggio per 14 tarì, il vitto e una solatura al mese57. L‘ 8 novembre Mazcullo Savecta promise a Pietro Chica di condurre cinque animali alle canne da zucchero e quattro alla legna fino a Pasqua per 15 tarì, il vitto e le suole necessarie58. Il 15 novembre i bordonarii agrigentini Giuliano de Costa, Guglielmo Lombardo e Giovanni de Birnillo s‘impegnarono con il nobile Andreotta de Lombardo a trasportare con dodici animali tutte le cannamellas, gididas et stirpones da qualsiasi luogo al trappeto posto dentro la città di Palermo, al costo di 8 tarì per ogni centenara di salme59. Il 10 dicembre Gerlando de Girardo promise a Nicolò de Meliorato di portare con una posta di quattro animali cannamele e gidide al trappeto dalle Terre de Strictis per 10 tarì a centenara, da Falsomiele per 9 tarì, da Sabuchia per 6 tarì60. Un anno dopo Gerlando viveva ancora a Palermo, dove stipulò una società con Simone de Noto per coltivare frumento sino al tempo del raccolto, nella quale ciascuno mise quattro buoi da lavoro e un aratro61.

300 10. La bottega dello zucchero, Tacuinum sanitatis, XIV sec., (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 4182) (da http://it.wikipedia.org/wiki/Saccarosio).

301 I mulattieri di Agrigento trasportavano anche merci di genere diverso, come calce e carbone: nel 1426 Masio de Guarrachi promise a Luca de Ligocti, dottore in medicina, di portare dalla sua fornace di contrada Falsomiele a Palermo 50 salme di calce vergine, per 7 grani a salma62; nel 1427 Giovanni Sardo s‘impegno con il medico ebreo Ysdraele a trasportare con quattro bestie dal bosco di Partinico al magazzino del magister, posto a Palermo, cento bisacce di carbone di sughero, per un tarì a bisaccia se si fosse fermato al di qua fiume, un tarì e 5 grani se l‘avesse guadato63. Ben più limitata era la libertà decisionale dei burdunari che lavoravano ad Agrigento poiché, secondo i capitoli del 1453, al tempo della vendemmia e del raccolto potevano essere costretti dai giurati a trasportare esclusivamente vino e frumento, per evitare che rimanendo troppo a lungo nel palmento e nell‘aia andassero a male64. Insieme al salario, al vitto e alle scarpe, a volte i mulattieri agrigentini ricevevano anche stoffa: nel 1409 Rainerio di La Balli ebbe da Giovanni Longu 3 onze e 24 tarì, companatico, scarpe e tre canne di orbace per un anno di lavoro65; Nardo de Alba avrebbe lavorato per Giovanni de Flascuna dal 16 agosto 1419 al maggio del 1420 conducendo quattro muli ad carriki, tre ad ligna per 2 onze e 18 tarì, cibo, bevande, le scarpe necessarie e tre canne di orbace66. Negli anni ‗40 del Quattrocento il salario dei mulattieri era ormai standardizzato: nel 1445 Antonio Genco promise di lavorare un anno con quattro muli per il nobile Francesco Ventimiglia, in cambio della consueta paga corrisposta agli altri bordonarii67; nel 1449 Calogero Drago s‘impegnò a trasportare con otto muli nel trappeto di Gerardo Alliata, sito nella valle di Palermo, le canne da zucchero e gli attrezzi utilizzati per cuocere durante la stagione della cottura dello zucchero per l‘usuale stipendio68. Oltre che nelle attività connesse alla cospicua e redditizia produzione e raffinazione di canna

302 da zucchero e nel trasporto delle merci, i lavoratori agrigentini erano impiegati nel settore dell‘allevamento bovino e suino come guardiani di bestiame, per un salario annuo che oscillava fra due e tre onze, il vitto e il vestiario. S‘impegnarono a lavorare come bovari per undici mesi a partire da ottobre, nel 1407 Filippo de Rosa con Cosimano de Corio per 3 onze, il vitto, una cappa, una gonnella di orbace e tutte le scarpe necessarie69; nel 1420 Paolo de Pocorobba con Thommeo Cappa, abitante di Gibellina residente a Palermo, per 3 onze, il vitto e un fornimentum rusticano70. Il notaio palermitano Nicolò de Alberto assunse due oriundi agrigentini per occuparsi dei suoi animali: nel luglio 1427 Giovanni di Lu Boy che promise di custodire vacche e vitelli, condurre al pascolo la mandria e mungere fino all‘agosto del 1428 per 2 onze annue71; nel 1430 Pietro de Chora che si sarebbe dovuto occupare un anno dei maiali, per 3 onze, due camicie di orbace e il vitto72. Spostandosi all‘interno di Palermo, emerge la presenza di forestieri agrigentini ben radicati nel quartiere Albergheria, come Altadonna, figlia del defunto Nicolò Bessi, che nel testamento del 1419 fece legati alla parrocchia di San Nicolò dell‘Albergheria e ai Carmelitani e affidò il figlio minore Antonello al fratello Pietro, nominato erede universale. La figlia Gianna aveva sposato il palermitano Andrea de Michaele con una dote di 30 onze in corredo, 3 in denaro e tre case e, per ottemperare la promessa, la testatrice aveva impegnato una vigna posta in contrada Ciaculli73. Non mancavano, poi, Agrigentini che possedevano immobili in altri quartieri. Cristoforo Succurto gestì per un trentennio le gabelle del salsume, della stadera, dei pesi, dei marchi e dei supplementi di Agrigento74, acquisì la cittadinanza sposando la palermitana Gianna, vedova di Giovanni Cucuzoni, con la quale nel 1418 vendette per 9 onze al mercante Giacomo de Bononia un pezzo di terra con olivi e ogliastri fuori dalle mura in contrada Tre

303 Olivi75, e nel 1420 concesse in enfiteusi per 18 tarì annui, a nome della moglie, al magister Guglielmo Bruskino una casa solerata e una terranea con cortile e pozzo nel Cassaro, in contrada Scutino76. Nel 1451 Antonio Lu Scavu affittò per un anno dal nobile trapanese Andrea de Mararanga un fondaco alla Conceria in contrada Lattarini, per 15 onze77. In città i forestieri di origine agrigentina lavoravano in vari settori artigianali, con differenti qualifiche e una retribuzione che cresceva con il maturare dell‘esperienza: nel 1432 Luca Picarella s‘impegnò a lavorare due anni nella bottega del carpentiere Giovanni Blundo per 3 onze e 6 tarì il primo, 3 onze e 14 tarì il secondo78; era un semplice apprendista Francesco de Oliveri che fu assoldato un anno come famulo nella bottega del magister Antonio Levati Alalirta, a partire dal 1° dicembre 1438, per il salario di un‘onza e 18 tarì, cibo, bevande e letto79. I campi che offrivano migliori prospettive di guadagno erano l‘abbigliamento e l‘alimentazione, nei quali i ceti privilegiati spendevano notevoli somme di denaro per rimarcare il loro status sociale, soprattutto nelle occasioni fondamentali della vita, fossero esse liete, come battesimi e matrimoni, o tragiche, come i funerali80. Nonostante le leggi suntuarie che punivano coloro i quali indossavano o realizzavano abiti eccessivamente elaborati e le reprimende contro il lusso dei Predicatori, nel Quattrocento i sarti palermitani continuarono a confezionare abiti alla moda e la città rimase un importante punto di riferimento in fatto di taglio, cucito e per la vendita delle stoffe (fig. 7) 81. Possedeva la qualifica di magister Giovanni di Gigla che nel 1434 fu assunto come sarto da mastro Sabatino Spina, per 5 onze annue a la scarsa82; era ancora un giovane apprendista Nicolò de Michaele, maggiore di 16 anni, che nel 1445 si pose un anno al servizio di un sarto di Palermo per 2 onze e 6 tarì, cibo, bevande, con l‘obiettivo d‘imparare l‘arte del cucito83 (figg. 8 e 9). Nel 1444, quando i dolci siciliani a base di

304 spezie, zucchero, frutta secca erano talmente rinomati da essere esportati a Venezia, Roma, Barcellona, Tunisi, Londra e nei Paesi Bassi84, l‘aromataro Andrea de Linora reclutò per un anno nella sua bottega Costantino de Campo che s‘impegnò a lavorare tre giorni alla settimana, preparando otto rotoli di confetti al giorno e facendo tutti gli altri servizi necessari per 2 onze e 24 tarì, cibo, bevande e il letto per dormire85 (fig. 10). Ricordiamo, infine, gli Agrigentini assunti da nobili e facoltose famiglie residenti a Palermo per svolgere mansioni di svariata natura. A volte si trattava di ragazzi molto giovani, privi di specifiche competenze lavorative, come Paolo Pocurobba, maggiore di 15 anni, che nel 1416 s‘impegnò a servire due anni il nobile Bertino Abbatellis e la sua famiglia, occupandosi dei cavalli, del giardino, portando vettovaglie, legna e altro per un‘onza, 6 tarì e 5 grani, vitto, scarpe, una cappa di orbace e un giubbetto86. Ben diverso era lo stipendio di Alarico de Tuberio, che nel 1436 fu assunto un anno come scudiero dalla magnifica signora Andreva, moglie di Calcerando de Sanctapau, per lavorare a Palermo e altrove con un salario di 4 onze, il vitto, un letto e il rimborso delle spese nel caso in cui si fosse spostato in un altro luogo della Sicilia87. In conclusione, nella prima metà del Quattrocento il flusso migratorio era alimentato soprattutto dalle opportunità lavorative offerte nel settore agricolo, dove gli Agrigentini erano apprezzati come esperti zappatori e reclutati nei campi di grano, negli orti e nelle vigne, generalmente un intero anno con un salario di 4 onze, vitto, bevande, abiti e scarpe. La manodopera salariata trovava, poi, largo impiego nel settore della canna da zucchero, in cui gli Agrigentini svolgevano tutte le attività connesse alla produzione e alla raffinazione (dal taglio alla cottura), con stipendi che oscillavano tra i 18 e i 27 tarì al mese, a seconda del tipo di lavoro svolto. Un discreto numero affluiva, poi, a Palermo per vendere animali da soma o per

305 trasportare merci. Giunti in città, i più disagiati erano disposti a svolgere qualsiasi tipo di lavoro per sbarcare il lunario, senza reali prospettive di promozione sociale. Emblematico è il caso di Paolo Pocurobba, che nel 1416, quand‘era ancora un ragazzo, s‘impegnò a servire per due anni il nobile Bertino Abbatellis e la sua famiglia, occupandosi dei cavalli, del giardino e svolgendo lavori di fatica, nel 1420 fu assunto come bovaro da Thommeo Cappa, ma non divenne mai cittadino di Palermo e nel 1432 era talmente indebitato con il suo secondo datore di lavoro che s‘impegnò a mietere per due mesi nella sua masseria per scomputare il suo debito.

TABELLA I. COMPRAVENDITE DI ANIMALI EFFETTUATE DA AGRIGENTINI RESIDENTI A PALERMO Data Venditore Compratore Animale Prezzo Fonte 29 marzo 1417 Gerlando de Girardo di Nicolò de Budachio Somara bianca con 27 tarì Asp, Sn, Catena, 154, c. 29v Agrigento, dimorante a Palermo diversi marchi 8 giugno 1417 Cristoforo de Abruno Rinaldo di Lu Somaro bruno senza 1 onza e 9 tarì Asp, N, reg. 553, c. 378r-v Lianti di Agrigento, marchio dimorante a Palermo 30 ottobre 1417 Giuliano de Columba, cittadino Matteo de Dimitrio Somaro bruno senza 27 tarì Asp, N, reg. 554, c. 151r-v di Agrigento di Palermo marchio 12 novembre 1417 Antonio de Amono, cittadino di Enrico de Ricca di Somaro rosso con 1 onza e 18 tarì Asp, N, reg. 554, c. 174v Agrigento Palermo marchio 14 maggio 1418 Giacomo Cuchata, cittadino di Antonio de Ronzino leardo 2 onze e 3 tarì Asp, N, 606, c. 394v Agrigento Messana scuro senza marchi, con sella e freno 13 agosto 1419 Giacomo de Augustino di Gerlando Caruso di Ronzino baio bruno 1 onza e 12 tarì Asp, N, reg. 554, cc. 49v-50r Agrigento Agrigento 13 agosto 1419 Giacomo de Augustino di Gerlando Caruso di Ronzino baio chiaro 1 onza e 12 tarì Asp, N, reg. 554, cc. 49v-50r Agrigento Agrigento 13 agosto 1419 Giacomo de Augustino di Gerlando Caruso di Mula rossa senza 2 onze Asp, N, reg. 554, cc. 49v-50r Agrigento Agrigento marchio 1 ottobre 1422 Aloisio de Falco di Agrigento Giovanni Sardo Mulo 1 onza e 12 tarì Asp, N, reg. 770, c. 3v 28 agosto 1426 Calogero de Rosa di Agrigento Bartolomeo de Mula saura 2 onze e 15 tarì Asp, N, reg. 605, c. 267r Renda, abitante di marchiata nel collo Palermo 9 maggio 1432 Antonio La Matina di Agrigento Robino Gibra e Mulo guchardo 4 onze e 4 tarì Asp, N, reg. 826, cc. 249v- Muxiato Binna, (grigio) marchiato, 250r ebrei di Palermo con capestro 25 maggio 1439 Giuliano Lu Mastru di Michele di Randisi Mula morella 2 onze e 28 tarì in Asp, N, reg. 780, c. 379v Agrigento di Cammarata frumento 30 novembre 1436 Lemno de Gigla di Agrigento Matteo Albanense Due buoi marchiati, 1 onza e 24 tarì Asp, N, reg. 778, cc. 180v- di Palermo uno color frumento, 181r l‘altro bianco 16 maggio 1449 Lupo Cusintino e Bartolomeo Ferrando Tenazona Ronzino sauro 7 fiorini e mezzo Asp, N, 805, c. 554v Castellu

306 * Sigle e abbreviazioni utilizzate: Asp= Archivio di Stato di Palermo; Ma= Miscellanea archivistica; Msn= Miscellanea di Spezzoni Notarili; N= Notai; Sn= Spezzoni Notarili, Catena;

1SARDINA 2003; 2011 a. 2 SARDINA 2011 b, 219-233. 3 DE VIO 1706, 140-141 e 176-178. 4 SCIASCIA 1987, doc. 80 (15 dicembre 1335); doc. 97 (12 gennaio 1336). 5 Asp, Ma, II, 127 BC, c. 230r. Sull‘argomento cfr. CORRAO 1980, 105-123. 6 Asp, Sn, 116, c. 17r. 7 Asp, Sn, 112, cc. 108v-109r. 8 Sul richiamo della città per i ceti contadini, cfr. PINTO 1989, 23-32. 9 «Les compétences sont hautement valorisées et les bonnes payes favorisent l‘errance, les déplacements à longue distance» (BRESC 2007, 55). 10 GIAMBRUNO, GENUARDI 1918, 264-265 e 282. 11 D‘ALESSANDRO 1980, 254-255. 12GIAMBRUNO , GENUARDI 1918, 305. 13 Asp, Sn, 163, c. 31v; Ivi, N, 420, cc. 157v-158r. 14 BRESC 2007, 45-47. 15 BRESC, BRESC 2010, II, 521. Il sostantivo ligonizator e il verbo ligonizare derivano da ligo (zappa), vocabolo presente nel latino classico (DU CANGE 1845, voce ligonisare). 16 GIAMBRUNO, GENUARDI 1918, 305 e 307. 17 BRESC 1972, 115. 18 Asp, N, 782, c. 52v. 19 Asp, Sn, 163, c. 31v. 20 Zappuliare significava sarchiare (BRESC, BRESC 2010, 478). 21 Asp, Sn, 165, cc. 24v-25r. 22 Asp, Msn, 509. 23 Asp, N, 553, c. 110r-v. 24 Asp, N, 554, c. 256r-v. 25 Asp, N, 554, cc. 51v-52r. 26 Asp, N, 420, cc. 157v-158r. 27 Asp, N, 840, c. 54v. 28 Asp, Sn, 58, c. 14v. 29 Asp, N, 554, c. 73r. 30 Asp, Sn, 76, c. 6r-v. L‘8 giugno l‘atto fu cassato perché Valente dichiarò che Giuliano aveva lavorato bene, quest‘ultimo che era stato pagato. 31 BRESC 2007, 485-485. 32 Asp, N, 768, c. 150r. 33 Si trattava di una veste da lavoro aderente e con maniche ( MUZZARELLI 1999, 357). 34 Asp, N, 768, c. 324v. 35 Asp, Sn, 166, c. 28r. 36 Asp, N, 553, c. 75r-v. 37 Asp, N, 554, c. 68v.

307 38 Asp, N, 554, c. 72r. 39 Asp, N, 554, cc. 54v-55r. 40 Dall‘arabo ğadīda, ossia nuova (CARACAUSI 1983, 242-243). 41 BRESC 1986, 229-252. 42 Il palum era una grande trave fissata orizzontalmente al muro sulla quale si poneva il sacco di canne da zucchero da spremere (BRESC 1986, 239). 43 Asp, Sn, 164, c. 11r-v. 44 Asp, Sn, 52, c. 43v. Su Andrea Bonavoglia cfr. SARDINA 2003, 304-306; su Nicolò de Roberto, cfr. SARDINA 2008, 162. 45 Asp, N, 606, c. 15v. 46 BRESC 1986, I, 239. 47 Asp, N, 604, cc. 124r-v e 133v-134r. 48 Asp, N, 554, cc. 39v-40r. 49 Asp, N, 554, c. 67r-v. 50 Asp, N, 342, cc. 192v-193r. 51 Asp, Sn, 154, cc. 24v-25r. 52 Asp, Sn, 153, c. 43v. 53 Asp, N, 554, c. 146r. 54 Asp, Sn, 161, cc. 28v-29r 55 Asp, N, 554, c. 151r-v. 56 Cfr. Tab. I. 57 Asp, Sn, 65, c. 40v. 58 Asp, N, 606, cc. 47v-48r. 59 Asp, N, 606, c. 65v. 60 Asp, N, 554, cc. 222v-223r. 61 Asp, Sn, 161, c. 16r-v. 62 Asp, N, 772, c. 4r. 63 Asp, N, 828, c. 9r. 64 GIAMBRUNO, GENUARDI 1918 , 320-321. 65 Asp, Msn, 509. 66 Asp, N, 554, c. 50r-v. 67 Asp, N, 784, c. 233v. 68 Asp, N, 805, c. 276v. 69 Asp, N, 420, c. 24r-v. 70 Asp, N, 422, c. 258r-v. 71 Asp, Sn, 7, c. 1r-v. 72 Asp, N, 605, c. 196v. 73 Asp, Sn, 162, cc. 6v-8v. 74 SARDINA 2011 b, 136, 143, 451, 455, 456. 75 Asp, N, 606, cc. 324v-325r. 76 Asp, N, 797, c. 53v. 77 Asp, N, 830, c. 76r-v. 78 Asp, N, 776, c. 640v. 79 Asp, Sn, 46, c. 15r-v Sull‘apprendistato e il lavoro minorile, cfr. CORRAO 1983, 137-151; LO FORTE SCIRPO 1983, 127-142.

308 80 Sull‘argomento cfr. MUZZARELLI 1996. 81 SARDINA 2011 b,163-164. 82 Asp, N, 844, c. 170v. 83 Asp, N, 801, c. 98v. 84 BRESC 1972, 79-80. 85 Asp, N, 339, c. 7v. Nel Quattrocento per sovrani, papi e nobil consumare «de confiseries ou des confitures est avant tout un plaisir que l‘on peut partager avec des convives» (OUERFELLI 2008, 592). 86 Asp, N, I, 553, c. 265r-v. 87 Asp, N, 426, c. 123v.

Fonti

Archivio di Stato di Palermo : Miscellanea archivistica, serie II, reg. 127 B e C Miscellanea di spezzoni notarili, reg. 509. Notai, regg. 339, 342, 420, 422, 426, 553, 554, 604, 605, 606, 768, 770, 772, 776, 778, 780, 782, 784, 797, 801, 805, 826, 828, 830, 840,844 Spezzoni notarili, Catena, 7, 46, 52, 58, 65, 112,116,143,153, 154, 161, 162, 163, 164,165,166

Testi a stampa

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309 DE VIO M. 1706, Felicis et fidelissimae Urbis Panormitanae, Palermo. DU CANGE 1845., Glossarium mediae et infimae latinitatis, vol. IV, Parigi. DUFOUR L. 1992, Atlante storico della Sicilia, Palermo-Siracusa-Venezia. FRUGONI A.,C. 1997,Storia di un giorno in una città medievale, Roma-Bari. GIAMBRUNO S., GENUARDI L. 1918 (a cura di), Capitoli inediti delle città demaniali di Sicilia, vol. I, Palermo. LO FORTE SCIRPO 1983, Sul lavoro minorile del Quattrocento siciliano, in Atti dell‘Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo, ser. IV, vol. XL, parte II, Palermo, 127-142. MUZZARELLI M. G. 1999, Guardaroba medievale, Bologna. MUZZARELLI M. G. 1996, Gli inganni delle apparenze, Torino. OUERFELLI M. 2008, Le sucre, Leiden-Boston. PINTO G. 1989, Gli stranieri nelle realtà locali dell‟Italia basso-medievale: alcuni percorsi tematici, in Dentro la città. Stranieri e realtà urbane nell‟Europa dei secoli XII-XVI, in ROSSETTI G. (a cura di), (Europa Mediterranea-Quaderni, 2), Napoli, 23-32. SARDINA P. 2003, Palermo e i Chiaromonte: splendore e tramonto di una signoria, Caltanissetta-Roma. SARDINA P. 2008, Il ruolo della Cattedrale di Palermo e la gestione della maramma dal Vespro alla morte di Alfonso V (1282-1458), in Storia & Arte nella scrittura, a cura di G. TRAVAGLIATO, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Palermo, 9 e 10 novembre 2007), Palermo,141-200. SARDINA P. 2011 a, Acta Curie Felicis Urbis Panormi (1311- 1410): la ricostruzione del volto di una città attraverso il processo selettivo della memoria. Primo ciclo (1311-1336), «Schede Medievali», 48 (gennaio- dicembre 2010), Palermo, 219-233. SARDINA P. 2011 b, Il labirinto della memoria, Caltanissetta-Roma. SCIASCIA L. 1987 (a cura di), Registri di lettere (1321-22 e 1335-36) (Acta Curie Felicis Urbis Panormi, 6), Palermo. ŠEBESTA G. 1996, Il lavoro dell‟uomo nel ciclo dei mesi di Torre Aquila, Trento.

310 Sulle tracce degli antichi vasai nisseni. Le produzioni ceramiche di Caltanissetta. SALVINA FIORILLA

Le trasformazioni sempre più rapide degli ultimi secoli hanno portato non solo alla scomparsa di alcune attività produttive ma anche al loro oblio. E‘ un dato accertato che nell‘arco di due o tre generazioni si perda, in molti casi, la memoria della destinazione d‘uso di alcuni luoghi e perfino dell‘ubicazione di alcuni edifici. A maggior ragione questo accade quando si tratta di strutture fragili come può essere una fornace per ceramiche e quando con il trascorrere dei secoli mutano intere classi sociali, fenomeno assai diffuso in molti centri siciliani. A Caltanissetta, grandi trasformazioni dovettero verificarsi tra ‗Cinquecento e ‗Seicento, tali da cancellare la memoria di alcune attività come quella delle produzioni ceramiche e oggi, mancando documenti d‘archivio anteriori alla fine del ‗400 (ZAFFUTO ROVELLO, VITELLARO,

CUMBO 1995, 18-19), è veramente difficile senza l‘ausilio della ricerca archeologica ritrovare la memoria dei siti più antichi e delle loro funzioni. Nel centro storico sono mancate finora ricerche sistematiche sull‘abitato medievale e si discute ancora sull‘ubicazione dei quartieri più antichi. Tuttavia due grandi opportunità per la ricerca sono venute dalla costruzione del nuovo museo archeologico in contrada S. Spirito in prossimità dell‘omonima abbazia, che sembra essere il sito dell‘abitato bizantino, e dai lavori di consolidamento e restauro al Castello di Pietrarossa (fig. 1). I lavori, eseguiti in entrambi i siti dalla Soprintendenza BB. CC. AA. di Agrigento prima e di Caltanissetta poi

311 negli ultimi decenni del secolo scorso, hanno permesso ritrovamenti importanti non solo per la storia dell‘abitato e del castello ma anche per la conoscenza delle attività produttive presenti nel territorio in epoca medievale. Gli studi, avviati nell‘ultimo venticinquennio, non sono ancora conclusi tuttavia ripercorrendo lo svolgersi delle diverse fasi ed esaminando la sequenza dei rinvenimenti è possibile comprendere come si è giunti ad individuare Caltanissetta come un centro di produzione ceramica attivo per lo meno fino al XV secolo.

Le ricerche e i rinvenimenti Le prime testimonianze di epoca medievale furono individuate, nel 1989, quando nel corso di una ricognizione nei magazzini del museo archeologico di Caltanissetta, furono trovate e selezionate ceramiche medievali provenienti da lavori nell‘area del castello e in quella limitrofa all‘abbazia di S. Spirito, da esporre nella mostra dal titolo ―Fornaci castelli & pozzi nell‘età di mezzo‖1. Si trattava di invetriate piombifere riferibili ai secoli XI e XII e di invetriate stannifere dei secoli XIII e XIV, che in alcuni casi presentavano problemi di cottura o erano forse manufatti di seconda scelta (Catalogo Gela 1990, 78, nn. 12-15, 80, nn. 22-23; 88, n. 73; 89, nn. 74-79) (fig. 2). Più tardi, nel 1994, nell‘ambito di uno studio sulle protomaioliche (le prime invetriate stannifere) si pose il problema di eventuali produzioni locali a Caltanissetta e le indagini condotte su alcuni frammenti, provenienti da S. Spirito, evidenziarono delle differenze con altri campioni provenienti da Gela, da Caltagirone o da Camarina, suggerendo l‘ipotesi che i manufatti esaminati fossero stati realizzati quanto meno in officine diverse rispetto a quelle

312 1. Caltanissetta. Il castello di Pietrarossa.

313 degli altri campioni (CUOMO DI CAPRIO, FIORILLA 1994, 7-21). L‘anno seguente, nel corso dei lavori eseguiti al castello, sulla sommità della torre centrale a circa 25 m dal piano terra dell‘edificio, fu effettuato un rinvenimento che resta ancora oggi un unicum. Fu ritrovata infatti una cisterna rettangolare a cielo aperto nella quale confluiva acqua piovana da convogliare negli ambienti del castello mediante una serie di tubature in terracotta2. La cisterna era rivestita da due strati di intonaco sovrapposti e nello strato di intonaco aderente alle murature, costituito da malta molto resistente, furono individuati

numerosi frammenti ceramici (fig. 3) utilizzati per impermeabilizzare la struttura (CUOMO DI

CAPRIO, FIORILLA 1997). Rimosso l‘intonaco, i frammenti ceramici recuperati furono liberati dai residui di malta3 e fu possibile allora riconoscere ceramiche d‘uso da dispensa e da mensa, esemplari in corso di lavorazione, scorie e scarti di prima e di seconda cottura. Furono eseguite analisi mineralogico- petrografiche e analisi al microscopio da mineralogia su sezione sottile di alcuni campioni e si

cercò di definire peculiarità ed elementi distintivi dei manufatti (CUOMO DI CAPRIO, FIORILLA 1997, 463-466). Furono così evidenziate le affinità mineralogico-petrografiche tra i campioni

esaminati e le protomaioliche della stessa città analizzate in precedenza (supra CUOMO DI

CAPRIO, FIORILLA 1994) per cui si giunse alla conclusione che si trattasse di produzioni simili. Inoltre le prove di cottura eseguite su altri campioni permisero di dimostrare che alcuni tra i manufatti non erano stati ancora sottoposti alla seconda cottura ed alla vetrificazione del rivestimento. Fu confermata quindi l‘ipotesi avanzata al momento del ritrovamento che i manufatti provenissero dalla discarica di una fornace locale. Successivamente, con lo studio sistematico dei frammenti, è stato possibile identificare tipi,

314 2. Frammento di ciotola con difetti di cottura nella invetriatura, sec. XI.

3. Parti di intonaco con i frammenti ceramici.

315 morfologie e motivi decorativi. Tra le ceramiche prive di rivestimento le anfore rappresentano il maggior numero di esemplari e possono essere distinte in due gruppi. Nel primo gruppo rientrano anfore con anse a bastoncello, orlo arrotondato a fascia più o meno pronunciata (Ø da cm 11 a cm20), collo cilindrico e parete cordonata su ampio fondo ombelicato, riferibili al XII secolo. Del secondo gruppo fanno parte anfore con larghe anse a nastro, orlo pendente a sezione triangolare, parete liscia e fondo piano, decorate alla spalla con fasci di linee ondulate impresse a pettine, riconducibili al XIII secolo per confronto con il tipo noto dai pozzi di

piazza S. Giacomo a Gela (FIORILLA 1996, 50-51; nn. 190, 192-193, 224-229, 200-201, 230). Rari frammenti appartengono a giare dalla parete molto spessa con orlo a fascia pronunciata su breve collo e decorazione a motivi ondulati fortemente incisi. Pochi frammenti di filtri traforati appartengono ad anforette a filtro, forme ben note da molti centri siciliani. Un solo

frammento di grondaia è del tipo già noto dal Castelluccio ed ancor prima da Segesta (SCUTO,

FIORILLA 2001, 231, 244; MOLINARI 1997, 149-150); potrebbe appartenere all‘impianto di canalizzazione dell‘acqua della cisterna. Le ceramiche rivestite sono costituite da forme aperte e chiuse destinate alla mensa, ricoperte da invetriatura piombifera monocroma verde o incolore e decorate con motivi solcati o dipinti. Le invetriate verdi monocrome sono le più numerose e comprendono essenzialmente ciotole e lucerne. Le ciotole nella maggior parte dei casi hanno orlo estroflesso e appiattito a breve tesa su parete emisferica. Non mancano ciotole con orlo arrotondato su parete emisferica e piede ad anello (ø orlo cm 20-26). E‘ testimoniata anche la forma del piatto coperchio (ø orlo cm 12) caratterizzato da un cilindretto superiore che può fungere da presa o da appoggio se si capovolge il manufatto e

316 4. Frammenti di ciotole invetriate solcate, sec. XII.

317 da un bordo cilindrico inferiore che costituiva il punto di incastro con il recipiente qualora fosse adoperato come coperchio. Si tratta di una forma generalmente invetriata in verde o in verde chiaro che nella parte inferiore sfuma nel giallo e che trova confronti puntuali con esemplari delle fornaci di contrada S. Lucia ad Agrigento (Catalogo Gela 1990, nn. 55-57, 36). Le lucerne, del tipo a vaschetta aperta con orlo arrotondato e beccuccio versatore laterale, su piede appena pronunciato, sono monoansate (ø orlo cm 10/12). Tra le invetriate decorate, le solcate comprendono prevalentemente forme aperte ma includono anche qualche forma chiusa. Le forme aperte possono essere decorate con motivi geometrici, vegetali stilizzati o vagamente orientali simili a quelli attestati anche tra i manufatti

delle fornaci di Agrigento (Catalogo Gela 1990, 32-33; CILIA PLATAMONE, FIORILLA 2003, 163- 164); le forme chiuse sono decorate con serie di tratti trasversali o semplici linee. La più attestata è la ciotola (ø orlo cm 24/28 ) con orlo appiattito, parete emisferica e piede ad anello; è invetriata in verde olivastro e decorata sulla parete interna con serie di tratti solcati trasversali a nastro, ben incisi (fig. 4). Pur con qualche variante formale, questo tipo di ciotola trova confronti con esemplari rinvenuti non solo ad Agrigento ma anche a Palermo e a Siracusa, a Piazza Armerina e a

Delia (MOLINARI 1995, 194-195; CAVALLARO 2007, 250-251, 258; FIORILLA 2010, 86) e

pare avere fortuna anche al di fuori dell‘isola essendo testimoniato a Pisa (BERTI,

TONGIORGI 1981, 226 ). Seguono per numero di attestazioni le scodelle con larga tesa piana e cavo emisferico, decorate con serie di tratti trasversali a nastro sulla tesa e ricoperte da invetriatura di colore verde intenso brillante (ø orlo cm18/24). Anche in questo caso si tratta di una forma testimoniata

318 5. Frammenti di ciotole e brocchetta in corso di lavorazione, sec. XII.

6. Frammenti di ciotole invetriate dipinte, sec. XII.

319 a Palermo, a Segesta, ad Entella, ad Agrigento e a Delia che si ritiene appartenere ad un periodo più tardo rispetto a quelle già esaminate e viene attribuita alla seconda metà del XII

secolo (BERTI, TONGIORGI 1981, 229-230; MOLINARI 1997, 137-139; FIORILLA 2010, 86-87). Alcune ciotole sono decorate con motivi geometrici o vegetali stilizzati estesi a tutto il cavo. E‘ stato ritrovato anche un frammento di brocchetta con lungo collo cilindrico e parete globulare su fondo piano; è decorata con due linee verticali solcate a formare una sorta di ovale e sembra trattarsi di un esemplare non ancora sottoposto a seconda cottura (fig. 5). Solo due frammenti documentano la produzione di albarelli con orlo assottigliato e svasato e parete cilindrica; sono invetriati in verde chiaro e decorati con serie di tratti trasversali a tutto campo anche sulla fascia dell‘orlo. Gli albarelli sono attestati tra i materiali delle fornaci di Agrigento e tra i manufatti della villa del casale di Piazza Armerina; si può ritenere che venissero usati oltre che nelle farmacie anche nelle abitazioni per conservare spezie (sale, pepe, cannella etc.)

(Catalogo Gela 1990, 29, n. 15; FIORILLA 2008, 215). Un terzo gruppo di invetriate presenta decorazione dipinta. Alcuni esemplari si distinguono per l‘invetriatura incolore o tendente al giallo su una decorazione dipinta in bruno e verde o in bruno giallo e verde, altri sono invetriati in verde su decorazione in bruno/nero (fig. 5). Le forme sono frammentarie e talora mancano dell‘invetriatura sulla decorazione, talaltra mostrano motivi con colature di colore. Le ciotole decorate in bruno e verde sono le più numerose e presentano motivi geometrici o vegetali stilizzati. Potrebbe essere residuale il piccolo gruppo, di invetriate incolori decorate in bruno, verde e giallo con motivi vegetali stilizzati. Più consistente appare il gruppo delle ciotole invetriate in verde intenso, decorate con motivi a larghe onde o mano di fatima in bruno/nero; un solo esemplare

320 7. L’abitato storico di Caltanissetta con il castello (sulla destra) e via Stazzone (sulla sinistra).

321 presenta un quadrupede tracciato in bruno/nero del quale è conservata la parte inferiore (fig. 6). Le ceramiche ritrovate nella cisterna pur nella loro frammentarietà rimandano al periodo normanno ed all‘epoca in cui grandi ciotole comunitarie venivano poste sulla mensa ed i commensali si servivano attingendo da un piatto comune. E‘ probabile che i manufatti ritrovati non documentino nella sua completezza la varietà dei prodotti della fornace che alimentava la discarica dalla quale furono prelevati i frammenti utilizzati per rinforzare l‘intonaco della cisterna. Tuttavia pare evidente che le invetriate solcate rappresentano la parte più consistente della produzione da mensa decorata e che tale produzione possa essere riferita al XII secolo mentre i frammenti di anfore prive di cordonature e con fondo piano fanno pensare che la discarica fosse ancora in uso quanto meno alla fine del XII o agli inizi del XIII secolo. Questo induce a ritenere che il rivestimento della cisterna sia avvenuto in epoca federiciana come indica anche il frammento di grondaia ritrovato. Quanto alla localizzazione della discarica essa potrebbe essere ricercata sull‘altro versante del vallone del castello, dove si è sviluppata la città e si trova una via denominata Stazzone, finora correlata alla produzione di tegole e anfore ma forse da considerare come un‘area di produzione ceramica fin dal medioevo (fig. 7). Con la prosecuzione dei lavori di restauro del castello, tra la fine del 1995 ed il 1996, nell‘area in cui dovevano trovarsi gli ambienti abitativi, a seguito di altre indagini, sono stati

ritrovati manufatti ceramici di varie epoche (FIORILLA 2013). Tra i rinvenimenti, oltre ad alcune protomaioliche decorate in bruno e verde, che per la buona qualità dello smalto ed il corpo ceramico ricordano quelle di S. Spirito e documentano la vita al castello nel ‗200 (fig. 8),

322 8. Scodella in protomaiolica, sec. XIII.

323 sono da segnalare due gruppi di forme aperte e chiuse destinate alla mensa, riferibili al XV o agli inizi del XVI secolo. Il primo è caratterizzato da smalto abbondante e coprente, il secondo da invetriatura piombifera incolore su ingobbio. Il primo gruppo di manufatti è costituito prevalentemente da boccali smaltati e decorati in bruno e verde (fig. 9). Per le peculiarità dello smalto e le tonalità scure dei colori della decorazione, questi boccali possono essere inclusi tra le protomaioliche tarde o le prime maioliche tipiche del XV secolo. Alcuni esemplari sono di seconda scelta ed uno in particolare è un ipercotto privo di rivestimento (fig.9), il che induce ad ipotizzare che siano stati prodotti in loco. Il secondo gruppo è costituito prevalentemente da boccali invetriati su ingobbio e decorati in bruno e verde anche se non mancano le ciotole e i piatti (fig. 10). In passato si era ritenuto che le invetriate su ingobbio rappresentassero produzioni caratteristiche della Calabria o di altre regioni italiane, il rinvenimento delle invetriate su ingobbio di Caltanissetta, che seguiva quello di esemplari dello stesso tipo allo Steri di

Palermo, al castello di Castelbuono e nell‘area del castello di Milazzo (FIORILLA 2010-2011), per le caratteristiche del corpo ceramico, induceva a porre per la prima volta il problema di una

produzione siciliana di ingobbiate (FIORILLA 2005, 381-388). Recentemente ulteriori rinvenimenti hanno permesso di individuare Polizzi (PA) come un

centro di produzione di invetriate su ingobbio (D‘ANGELO, GIOIA, REGINELLA 2011) ma è probabile che in Sicilia esistessero anche altri centri produttori di ingobbiate, anche perché questo tipo di ceramiche pare avere ampia diffusione tra ‗300 e ‗400 nell‘area settentrionale e

centrale dell‘Isola (FIORILLA 2005; PEZZINI 2000, 154-158; FIORILLA 2010- 2011, 92-96).

324 9. Boccale ipercotto e boccale in maiolica, sec. XV.

325 Considerazioni Nel complesso dallo studio delle ceramiche ritrovate negli ultimi decenni a Caltanissetta non emergono solo tradizioni e costumi degli abitanti del castello ma emerge anche un‘interessante attività produttiva di vasellame ceramico d‘uso. Tale produzione ceramica che non conoscevamo dalla documentazione d‘archivio, purtroppo limitata e tarda, pare documentata dai dati archeologici già nell‘XI e nel XII secolo ad opera di vasai che probabilmente sono islamici, prosegue nel XIII e nel XIV secolo con le protomaioliche (ossia le prime smaltate) e più tardi forse con le invetriate su ingobbio e le prime maioliche tra XV e XVI secolo ad opera di maestranze probabilmente locali. Certamente non essendo ancora note le aree di produzione non è possibile avere certezza della continuità delle produzioni a Caltanissetta, è però auspicabile che in un prossimo futuro le ricerche possano essere estese alla via Stazzone, nota dalla tradizione come area produttiva, per verificare se l‘area artigianale della città medievale si trovasse là o in altre aree urbane. Considerato che i documenti finora noti testimoniano la produzione di tegole4 ma tacciono sull‘esistenza di altre produzioni ceramiche, al momento i dati archeologici pongono degli interrogativi ed aprono nuovi percorsi di ricerca. E‘ possibile che l‘esistenza di produzioni ceramiche a Caltanissetta possa essere confermata e meglio documentata in futuro; in ogni caso allo stato attuale tale produzione sembrerebbe cessare o comunque ridursi esclusivamente a ceramiche da dispensa o da acqua tra la fine del XV ed gli inizi del XVI secolo, come accade in altri centri siciliani in concomitanza con l‘affermarsi dei grandi centri di produzione come Caltagirone o Sciacca. Alle origini della chiusura delle fornaci potrebbe esserci proprio l‘affermarsi in alcuni centri

326 10. Ciotola invetriata su ingobbio, sec. XV.

327 come Sciacca o Caltagirone di una produzione di tipo proto-industriale e forse nel caso specifico di Caltagirone, il fatto che nel 1432 re Alfonso avesse concesso ai vasai di esportare in franchigia, potrebbe aver favorito l‘ampliamento della produzione rendendola concorrenziale rispetto a quella dei centri circostanti, causando in tal modo un grave danno alle piccole produzioni degli altri centri. Una conferma in tal senso potrebbe essere data dal fatto che le ceramiche dell‘ultimo periodo del castello, che verrà abbandonato nel 1567 a

seguito di alcuni crolli, siano costituite da maioliche di Caltagirone (FIORILLA 2013). Il venir meno di un‘attività redditizia potrebbe aver causato una defezione tra i vasai più giovani il che avrebbe portato lentamente all‘esaurirsi della produzione di ceramiche da mensa mentre sarebbe sopravvissuta la produzione di laterizi e ceramiche da dispensa che è poi giunta fino al ‗900.

1Le ceramiche del castello erano state recuperate dalla associazione archeologica nissena negli anni ‘60, al momento dell‘ampliamento del cimitero ubicato sotto il versante orientale del castello; quelle di S. Spirito provenivano dai saggi di scavo eseguiti agli inizi degli anni ‘80 prima della costruzione del nuovo Museo archeologico. La mostra tenutasi a Gela presso il Museo archeologico regionale, tra giugno e dicembre 1990, fu organizzata dalla Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento che aveva allora giurisdizione sul territorio di Caltanissetta. 2Questo ha permesso di verificare per la prima volta l‘esistenza di un sistema di raccolta delle acque creato a grande altezza contrariamente a quanto era noto da altri siti dove le tubature raccoglievano le acque pluviali dai tetti per convogliarle in cisterne ubicate ai piani inferiori dei castelli. Il caso di Caltanissetta poneva il problema della decantazione delle acque che avveniva in momenti separati prima dell‘utilizzo. 3La prima individuazione dei frammenti ceramici si deve all‘arch. Salvatore Scuto allora dirigente della sezione ai monumenti; la rimozione dell‘intonaco ed il successivo recupero dei manufatti furono affidati a Salvatore Burgio, allora restauratore del Museo archeologico di Gela, che aveva già lavorato in occasione della mostra del 1990 sui materiali delle fornaci di Agrigento ed aveva acquisito familiarità con gli scarti di fornace, in collaborazione con Andrea Biccini che operava periodicamente nel laboratorio di restauro del Museo. Lo studio dei rinvenimenti e la supervisione del lavoro fu di chi scrive. 4Nel XIII secolo, tra le gabelle vecchie della città, riferibili forse all‘età normanna, sulle quali si fa la detrazione della terziaria in favore della chiesa parrocchiale di Caltanissetta, compare la gabella celamidarum (cfr. ZAFFUTO ROVELLO 1991, 62-63).

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330 La tipografia ad Agrigento nel XIX e XX secolo dai documenti rinvenuti presso l’Archivio della Camera di Commercio di Agrigento.

PAOLA GIARRATANA, MARIA CARMELINA MECCA

Gli studi sull‘editoria e sulla tipografia ad Agrigento nel XIX e XX secolo necessitano, come per qualsiasi altro settore economico-produttivo, di adeguati strumenti conoscitivi. La ricerca qui anticipata, vuole rappresentare soltanto un parziale contributo sul versante della realizzazione di strumenti conoscitivi e di lavoro di indagine sull‘universo rappresentato dall‘industria editoriale e tipografica della società agrigentina. Lo studio intende offrire una rappresentazione del fenomeno in particolare, per quanto attiene a denominazione, numero, tipologie e articolazione nel tempo e nel territorio delle imprese editoriali e tipografiche agrigentine, nel contempo intende porsi come riferimento per ulteriori analisi sulla società del periodo. Le fonti che sono state utilizzate per questa indagine sono : ―Il Bollettino ufficiale delle società per azioni‖, ―Le Denunzie di Esercizio/Cessazione/Modifiche/ Individuale delle industrie tipografiche di Agrigento‖ , presso l‘Archivio della Camera di Commercio (non ordinato) di Agrigento, ‖i Periodici in stampa ad Agrigento―, presso la Biblioteca Comunale e la Biblioteca Lucchesiana di Agrigento, ―I Giornali dell‘Intendenza della Provincia di Agrigento‖ presso la Biblioteca dell‘ Archivio di Stato di Agrigento, ― Le Raccolte dei settimanali cattolici‖ presso la Redazione dell‘Amico del Popolo di Agrigento. Percorrendo gli indici annuali del ―Bollettino‖ e recuperando, di volta in volta, i singoli dati, si

331 è tentato di ricostruire la storia amministrativa di ogni singola impresa, con un risultato finale che sembra soddisfare le finalità che ci si era proposti. E così la scheda di ogni singola società contiene sempre campi informativi che forniscono comunque i seguenti elementi: denominazione ufficiale, settore d‘attività, sede di residenza, forma sociale (anonima per azioni o cooperativa), sintetica storia societaria (con segnalazioni rigorosamente limitate a pochi, fondamentali elementi: nascita, cessazione, trasferimenti di sedi, cambiamenti di denominazione, variazione di natura societaria, fusioni, incorporazioni, ecc.). E‘ con delibera camerale del 1867, che prende avvio la costituzione di quella che sarà la più prestigiosa casa tipografica agrigentina: la ―Montes‖, nella quale troveranno modo di essere stampate le prime opere di tutti i grandi agrigentini dell‘800: da Pirandello a Nicolò Gallo a Gubernatis, alle pubblicazioni di Giuseppe Picone, ai Bollettini camerali. La Tipografia Montes diviene in tal modo la sede di costruzione lenta e paziente della storia umana e culturale della città di Agrigento. Per i loro tipi, vennero alle stampe le riviste e le altre pubblicazioni camerali quali il ―Giornale Ebdomedario‖, il ―Bollettino diario‖, e il ―Bollettino camerale‖, ma anche Il ―Giornale dell‘Intendenza della Provincia di Agrigento, e varie testate di giornali cattolici agrigentini quali ―La Verità Cattolica‖, ―Il Cittadino Cattolico‖, ― Vita Nova‖, ―Sentinella Agrigentina‖. Attraverso l‘Ebdomadario , Girgenti diventa un punto di riferimento della stessa vicenda storica nazionale, confrontando avvenimenti di livello nazionale e internazionale ai tanti casi della vita agrigentina. Veniva pubblicato settimanalmente e si avvaleva delle informazioni dell‘Agenzia Stefani. Il primo numero uscì il 20 Aprile 1864; le pubblicazioni, specie dei primi decenni, oltre a svolgere la loro funzione naturale di osservatorio economico, assolvevano il compito di veri e

332 propri giornali di informazione, dando spazio anche a fatti di costume e di cronaca.

ELENCO DELLE TIPOGRAFIE operanti ad Agrigento nei secoli XIX e XX dai documenti rinvenuti presso l’Archivio della Camera di Commercio di Agrigento

Tipografia Salvatore Montes 1867 (fondatore)

Tipografia Montes Francesco fu Salvatore 1887

Tipografia Puccio Alberto fu Salvatore 01/04/1922

Tipografia Formica di Francesco Capraro fu Calogero 09/07/1922

Tipografia Dima, Di Caro e compagni (Di Caro Cav. Francesco fu Calogero, Gallo Gregorio fu Nicolò, Dima Alessandrina di Alfonso maritata Termini e Ciaravello Giacomo fu Giuseppe) 13 maggio 1925

Tipografia Moderna di Coppola Salvatore 10 novembre 1930

Tipografia Montes dei Combattenti di Stumpo Cesare fu Francesco 06/07/1931

Tipografia Montes di Angelo Sardone & A. Gallo 01/11/1932

Tipografia Vescovile (Mons. Alaimo Francesco fu Onofrio) 7 gennaio 1935

Tipografia “La Commerciale” di Gaetano Cuffaro di Antonino 09/02/1935

Tipografia Formica gestori Salvatore Macaluso e Leopoldo Graffeo (sia unitamente che separatamente) 26/10/1938

Tipografia Vescovile (Pranio Tommaso fu Carmelo) 1 ottobre 1941

Tipografia Dimora & C. di Di Rosa Francesco di Giovanni 01/08/1948

Tipografia Concordia di Gaetano Taibi fu Gioacchino 18 marzo 1957

Tipografia Vescovile di Orsini Michelangelo fu Vittorio 13 luglio 1957

Tipografia Vocazionista di Sac. Nicola M. De Filippis fu Giuseppe 9 dicembre 1957

333 334 DITTA: Tipografia Montes Francesco fu Salvatore

SEDE OPERATIVA: Via Atenea n. 159

SEDE LEGALE:

DATA INIZIO ATTIVITA’: 1866

DATA CESSAZIONE ATTIVITA’: 07/07/1931

SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 199, dal 751 al 1150, fasc. n. 1887

ANNOTAZIONI: La tipografia viene venduta alla Federazione Provinciale dei Combattenti di Agrigento il cui Presidente è il Sig. Don Professore Cavaliere Cesare Stumpo e viene quindi denominata Tipografia Montes dei Combattenti.

335 336 DITTA: Tipografia Formica di Francesco Capraro fu Calogero

SEDE OPERATIVA: Via Atenea, n. 88 - 90

SEDE LEGALE:

DATA INIZIO ATTIVITA’: 28/10/1871

DATA CESSAZIONE ATTIVITA’: 26/10/1938

SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 189, dal 4001 al 4550 fasc. n. 4041

ANNOTAZIONI: Francesco Capraro denuncia di esercitare dal 9 luglio 1922 per proprio conto e sotto la Ditta Stamperia Formica. Successivamente in data 15 agosto 1937, come si evince dal testamento olografo allegato, il signor Francesco Capraro lascia “tutte le carte esistenti in tipografia Formica “ alle sorelle Giuseppina e Virginia “perchè tutte di sua proprietà”.

337 DITTA: Tipografia Montes Francesco fu Salvatore SEDE OPERATIVA: Via Atenea n. 159 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 1866 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 07/07/1931 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n.199, dal 751al 1150, fasc. n. 1887 ANNOTAZIONI: La tipografia viene venduta alla Federazione Provinciale dei Combattenti di Agrigento il cui Presidente è il Sig. Don Professore Cavaliere Cesare Stumpo e viene quindi denominata Tipografia Montes dei Combattenti.

DITTA: Tipografia Formica di Francesco Capraro fu Calogero SEDE OPERATIVA: Via Atenea n. 88 - 90 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 28/10/1871 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 26/10/1938 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 189, dal 4001 al 4550 fasc. n. 4041 ANNOTAZIONI: Francesco Capraro denuncia di esercitare dal 9 luglio 1922 per proprio conto e sotto la Ditta Stamperia Formica. Successivamente in data 15 agosto 1937, come si evince dal testamento olografo allegato, il signor Francesco Capraro lascia ―tutte le carte esistenti in tipografia Formica ― alle sorelle Giuseppina e Virginia ―perchè tutte di sua proprietà‖.

DITTA: Tipografia Dima, Di Caro e compagni (Di Caro Cav. Francesco fu Calogero, Gallo Gregorio fu Nicolò, Dima Alessandrina di Alfonso maritata Termini e Ciaravello Giacomo fu Giuseppe) SEDE OPERATIVA: Via Atenea n. 154 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 13 maggio 1925 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: (non rilevata) SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n.199, dal 751al 1150 fasc. n. 1080 ANNOTAZIONI: Con atto in not. Ferdinando Fiandaca di Agrigento del 12 marzo1932 è recesso dalla società il sign. Comm. Francesco Di Caro per cui comproprietari della ditta rimangono il sign. Cav. Giacomo Ciaravello per una metà e per un quarto ciascuno i signori Gregorio Gallo e Alessandro Dima in Termini, direttore tecnico amministrativo il sign. Cav. Giacomo Ciaravello. La società è succeduta a quella costituita dagli stessi soci Ciaravello, Di Caro e Gallo e prof. Alfonso Dima con atto 16 aprile 1912 Rogato Diana.

DITTA: Tipografia Montes dei Combattenti di Stumpo Cesare fu Francesco SEDE OPERATIVA: Via Atenea, n. 159 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 06/07/1931 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: (non rilevata) SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 160, dal 18751 al 19160, fasc. n. 18846 ANNOTAZIONI: In qualità di presidente della Federazione dei Combattenti della prov. di Agrigento, il Prof. Cav. Stumpo Cesare dal 15/07/1931 esercita per conto della Federazione. Dal 15/10/1932 al dimissionario Stumpo (in qualità di presidente) subentra l‘Ing. Donato Mendolia.

338 339 DITTA: Tipografia Dima, Di Caro e compagni (Di Caro Cav. Francesco fu Calogero, Gallo Gregorio fu Nicolò, Dima Alessandrina di Alfonso maritata Termini e Ciaravello Giacomo fu Giuseppe) SEDE OPERATIVA: Via Atenea n. 154 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 13 maggio 1925 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: (non rilevata) SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n.199, dal 751al 1150 fasc. n. 1080 ANNOTAZIONI: Con atto in not. Ferdinando Fiandaca di Agrigento del 12 marzo1932 è recesso dalla società il sign. Comm. Francesco Di Caro per cui comproprietari della ditta rimangono il sign. Cav. Giacomo Ciaravello per una metà e per un quarto ciascuno i signori Gregorio Gallo e Alessandro Dima in Termini, direttore tecnico amministrativo il sign. Cav. Giacomo Ciaravello. La società è succeduta a quella costituita dagli stessi soci Ciaravello, Di Caro e Gallo e prof. Alfonso Dima con atto 16 aprile 1912 Rogato Diana.

DITTA: Tipografia Montes dei Combattenti di Stumpo Cesare fu Francesco SEDE OPERATIVA: Via Atenea, n. 159 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 06/07/1931 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: (non rilevata) SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 160, dal 18751 al 19160, fasc. n. 18846 ANNOTAZIONI: In qualità di presidente della Federazione dei Combattenti della prov. di Agrigento, il Prof. Cav. Stumpo Cesare dal 15/07/1931 esercita per conto della Federazione. Dal 15/10/1932 al dimissionario Stumpo (in qualità di presidente) subentra. l‘Ing. Donato Mendolia

DITTA: Tipografia Montes di Angelo Sardone & A. Gallo SEDE OPERATIVA: Via Roma, n. 158 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 01/11/1932 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 14/12/1956 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 158, dal 19551 al 20000, fasc. n. 19771 ANNOTAZIONI: La società suddetta è succeduta alla tip. Montes dei Combattenti il 15/11/1932.

DITTA: Tipografia Puccio Alberto fu Salvatore SEDE OPERATIVA: via Vullo n. 5 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 01/04/1922 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 201/12/1963 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n.1, dal 203 al 280 fasc. n. 73.1

DITTA: Tipografia Puccio Alberto fu Salvatore SEDE OPERATIVA: via Vullo n. 5 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 01/04/1922

340 341 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 201/12/1963 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n..1, dal 203 al 280 fasc. n 73.1

DITTA: Tipografia Moderna di Coppola Salvatore SEDE OPERATIVA: Via Atenea, n. 164 SEDE LEGALE: Salita S. Maria dei Greci n. 1 DATA INIZIO ATTIVITA‘: 10 novembre 1930 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 30/06/1967 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 162, dal 17901 al 18300, fasc. n. 18276

DITTA: Tipografia ―La Commerciale‖ di Gaetano Cuffaro di Antonino SEDE OPERATIVA: Via Bentivegna SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 09/02/1935 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: (non rilevata) SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n.153, dal 21501 al 21850 fasc. n. 21408 ANNOTAZIONI: Cessata per trasferimento del titolare

DITTA: Tipografia vescovile (Mons. Alaimo Francesco fu Onofrio) SEDE OPERATIVA: Via Duomo n. 102 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 7 gennaio 1935 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: Vedi registro n. 140 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 154, dal 21151 al 21500 fasc. n. 21376 ANNOTAZIONI: ―Esercizio dell‘industria tipografica ed editoriale con annessa scuola tipografica orfani gioeni‖

DITTA: Tipografia Formica gestori Salvatore Macaluso e Leopoldo Graffeo (sia unitamente che separatamente) SEDE OPERATIVA: Via Roma n. 92 - 94 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 26/10/1938 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 26/07/1954 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 146, dal 23831 al 24150 fasc. n. 23919 ANNOTAZIONI: per la data di cessazione si è gia trasferita in via Atenea n. 94 e subentra un caffè.

DITTA: Tipografia Vescovile (Pranio Tommaso fu Carmelo) SEDE OPERATIVA: Via Duomo n. 8 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 1 ottobre 1941 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 30 ottobre 1950 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 140, dal 25601 al 25920 fasc. n. 25648 ANNOTAZIONI: Fallita per scarso rendimento

342 DITTA: Tipografia Dimora & C. di Di Rosa Francesco di Giovanni SEDE OPERATIVA: Cortile Barba n. 7 SEDE LEGALE: Via Porta di Mare DATA INIZIO ATTIVITA‘: 01/08/1948 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 01/08/1960 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 123, dal 31451 al 31800 fasc. n. 31656 ANNOTAZIONI: Il 27/11/1950 viene trasformata in industria individuale per cessione di una quota al sig. Francesco Di Rosa.

DITTA: Tipografia Concordia di Gaetano Taibi fu Gioacchino SEDE OPERATIVA: Via Porcello n. 15 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 18 marzo 1957 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 1 agosto 1968 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 75, dal 44601 al 44800 fasc. n. 44709

DITTA: Tipografia Vescovile di Orsini Michelangelo fu Vittorio SEDE OPERATIVA: Via Duomo n. 86 SEDE LEGALE DATA INIZIO ATTIVITA‘: 13 luglio 1957 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 1 marzo 1965 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 73, dal 45051 al 45300 fasc. n. 45100 ANNOTAZIONI: Cessazione perché subentra la ditta tipografia vescovile dei Padri Vcazionisti del Sac. Bajano M. Contrese.

DITTA: Tipografia Vocazionista di Sac. Nicola M. De Filippis fu Giuseppe SEDE OPERATIVA: Via Garibaldi n. 195 SEDE LEGALE: DATA INIZIO ATTIVITA‘: 9 dicembre 1957 DATA CESSAZIONE ATTIVITA‘: 28 febbraio 1965 SEGNATURA: Archivio Camera di Commercio di Agrigento Reg. n. 71, dal 45501 al 45750 fasc. n. 45567

343 TIPOGRAFIE DI CUI SI AVVALSE LA CURIA (da raccolte di settimanali conservate presso la redazione dell‘‖Amico del Popolo‖)

1)Tipografia Montes anno 1891 Nel 1891 la Montes stampava ―Il Cittadino Cattolico‖di cui si conservavano pochi numeri a partire dal 1 marzo 1892. 2)Tipografia Montes anno dal 1932 al 1937 La tipografia stampò l‘8/12/1932 il I° numero della rivista ―Vita Nova‖. 3)Tipografia Montes anno dal 1947 al 1953 Stampò la rivista ―Sentinella Agrigentina‖. 4)Tipografia Vescovile via Duomo, 86: 11 gennaio 1935 La curia acquista la tipografia Montes ―Vita Nova‖(vedi trascrizione allegata) 5)Tipografia Vescovile via Duomo 84: 08/12/1955 La tipografia stampò il I° numero dell‘ ‖Amico del Popolo‖. 6)Tipografia Vescovile di Enzo Gallo: 25/12/1955 La tipografia stampò il II° numero dell‘ ‖Amico del Popolo‖. 7)Tipografia Vescovile 20 gennaio 1957 Nella rivista ―Amico del Popolo‖ non si rileva più la tipografia Gallo. 8)Tipografia Vescovile 20 gennaio 1957 La tipografia viene ceduta all‘amministrazione dell‘ ―Amico del Popolo‖ 9)Tipografia Vescovile Ed. L‘Amico del Popolo 10 marzo 1957 Rivista n. 10 10)Tipografia Enzo Gallo Dalla rivista anno X n. 7 del 16/02/1964 a quella n. 12 dell‘anno 21/03/1965. 11)Tipografia Vescovile Rivista dell‘anno XI 02/04/1965 12)Tipografia Gallo 28/12/1969 Fino alla rivista ―Amico del Popolo n. 52 13)Tipografia Sarcuto 4 gennaio 1970 Dal n. 1 del 4 gennaio 1970 l‘Amico del Popolo viene stampato con i tipi di ―T. Sarcuto‖ successori F.lli Sarcuto

344 VITA NOVA. Settimanale agrigentino. Organo dell‘Azione Cattolica diocesana. Dirigente responsabile, Antonio Giudice

11gennaio 1935 a. XIII anno III, n. 2 Via Duomo (Segnatura: Raccolta del Settimanale Vita Nova, vol. anno 1935)

TIPOGRAFIA VESCOVILE Con grande letizia annun/ziamo che dall‘ufficio IV° della / Curia è stata acquistata, in / questi giorni, la tipografia Mon/tes. Ora si chiama Tipogra/fia Vescovile e sarà adibita / a scuola tipografica per / gli orfani. E‘ in grado di / eseguire qualunque lavoro, di/sponendo di macchinario mo/derno ed abili operai. / L‘ufficio della curia ha in/viato una circolare annunzian/do l‘avvenimento e pregando / tutti gli Ecclesiastici di fare / eseguire dalla nostra Scuola / tutti i loro lavori tipografici. / E siamo sicuri che il clero / e le organizzazioni cattoliche / della Diocesi risponderanno co/me sempre al desiderio di S.E. Rev.ma il nostro Vescovo, / di servirsi cioè della Tipo/grafia Vescovile./

I GIORNALI DELL’INTENDENZA DELLA PROVINCIA DI AGRIGENTO Accuratamente raccolti in un faldone presso la Biblioteca dell‘Archivio di Stato di Agrigento, ma in numero oltremodo esiguo ed in forma frammentaria, si conservano alcuni ―Giornali dell‘Intendenza della Provincia di Agrigento‖. Senz‘altro anch‘essi interessanti al fine di una ricostruzione della storia e delle condizioni socio-economico-culturali di Girgenti e della provincia; trattasi di mensili tecnico amministrativi di informazione che si rivolgono ai Comuni, agli uomini che rivestono cariche pubbliche, alle ―Compagnie d‘armi‖, nonché a tutta la cittadinanza. Gli argomenti trattati sono di natura commerciale, culturale, sanitaria, molti i Real Decreti, i Manifesti, le Disposizioni dell‘Intendente, gli Annunzi e le Circolari. E‘ l‘Intendente il Direttore Responsabile; le tipografie a cui si rivolge per la stampa: la ―Lipomi‖, poi la ―Lipomi e Blandaleone‖ e ancora la ―Blandaleone‖.

345 Cronologicamente compresi tra il1837 e il 1859 e precisamente: anno 1837 (mese di dicembre), anno 1838 (mesi di gennaio, febbraio,marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre,ottobre, novembre e dicembre), anno 1839 (mesi da gennaio a dicembre), anno 1852(mesi di novembre e dicembre), anno 1853 (mese di marzo), anno 1854, anno 1855, anno 1856 (mesi da gennaio a luglio), anno 1857 (mesi di gennaio, aprile, maggio e dicembre), anno 1858 (mese di giugno), anno 1859 (mesi di novembre e agosto).

I PERIODICI LOCALI Una particolare attenzione merita il complesso dei periodici antichi di interesse locale, del periodo compreso tra la metà dell‘800 e gli anni ‘50, che costituiscono il nucleo storico dell‘emeroteca della Biblioteca comunale di Agrigento. Tra le Testate della seconda metà dell‘Ottocento, vanno sicuramente citate: ―La Nuova Rupe Atenea‖, ―Il Cittadino Cattolico‖, ―L‘Operaio‖, ―La Pietra‖, ―L‘Empedocle‖, ―Il Vespro‖, ―La Fenice‖; ―L‘Eguaglianza‖, ―La Settimana‖, ―La Scopa‖, tra quelle, numerosissime, del primo trentennio del Novecento. Di notevole interesse storico, letterario, scientifico, artistico alcune, di modesto rilievo culturale altre, tutte, comunque, sono da considerarsi e costituiscono uno strumento fondamentale di informazione per le possibilità di riflessione capillare che forniscono, per la contemporaneità ai fatti descritti, che caratterizza propriamente il periodico, oltreché per il dibattito scientifico e culturale che può venirne stimolato.

346 347 ELENCO PERIODICI AGRIGENTINI CONSERVATI PRESSO LA BIBLIOTECA COMUNALE “F. LA ROCCA” (1866-1951) in stampa presso le tipografie di Agrigento

―L'OPERAIO‖ - Girgenti 1866 - Editore: Tipografia E. Romito; ―LA PIETRA‖ - Girgenti 1866 - Editore: Tipografia Luigi Carini; ―LA VERITA'‖ - Girgenti 1866 - Editore: Stamperìa Provinciale Commerciale Salvatore Montes; ―IL ROMPICOLLO‖ - Girgenti 1866 - Editore: Tipografia Romito; ―IL VESPRO‖ - Girgenti 1867 - Editore: Tipografia L. Carini; ―LA RUPE ATENEA‖ - Girgenti 1869 - Editore: Tipografia Luigi Carini; ―LA GAZZETTA DI GIRGENTI‖ - (Girgentina) 1870-1894 - Editore: Stamperìa Provinciale Commerciale Salvatore Montes; ―L'EMPEDOCLE‖ - Girgenti 1870 - Editore: Tipografia E. Romito; ―LA FACE‖ - Girgenti 1872 - Editore: Tipografia Luigi Carini; ―IL GIORNALE DI GIRGENTI‖ - Girgenti 1877 - Editore: Tipografia Luigi Carini; ―L'ECO DEL POPOLO‖ - Girgenti 1878-1886 - Editore: Tipografia Luigi Carini; ―L'INDIPENDENZA‖ - Girgenti 1880 - Editore: Tipografia Alessandro Celso; ―GARIBALDI‖ - Girgenti 1882 – Editore: Alessandro Celso Tipografia e Editore; ―LA SIGARETTA‖ - Girgenti 1884 - Editore: Tipografia Romito; ―IL CORRIERE AGRIGENTINO‖ - Girgenti 1886; ―LA NUOVA RUPE ATENEA‖ - Girgenti 1886 - Editore: Tipografia L. Carini Gerente L. Modica; ―CORRIERE DI GIRGENTI‖ - Girgenti 1887; ―LA CONCORDIA CORRIERE DI GIRGENTI‖ - Girgenti 1887 - Editore: Tipografia L. Carini; ―LA CONCORDIA EBDOMEDARIO POLITICO -AMMINISTRATIVO‖ Girgenti 1887 - Editore: Tipografia E. Romito; ―LA TROMBA‖ - Girgenti 1887 - Editore: Stamperia Formica e Gaglio; ―LA STAMPA‖ - Girgenti 1887-1904 - Editore: Tipografia L. Carini (1887), Tipografia Sirchia (1903-1904); ―IL DOVERE‖ politico amministrativo - Girgenti 1888 - Editore: Tipografia Formica e Gaglio; ―LA RUPE TARPEA‖ ―- Girgenti 1890 - Editore: Stamperìa Montes; ―LA RUPE TARPEA‖ ―- Girgenti - Porto Empedocle 1890 - Editore: Tipografia Formica e Gaglio; ―TEMI GIRGENTINA‖ - Girgenti 1890 - Editore: Ufficio Tipografico Formica e Gaglio; ―L'AMICO DELLA GIOVENTU'‖ - Girgenti 1891 - Editore: Premiata Stamperia Montes; ―IL CITTADINO‖ - Girgenti 1891 - Editore: Stamperìa Salvatore Montes; ―LA RISCOSSA‖ - Girgenti 1891 - Editore: Stamperìa Montes, Via Atenea n. 98-100; ―LA RIFORMA SOCIALE‖ - Girgenti 1892 - Editore: Tipografia Formica e Gaglio, C.leContarini, 9;

348 ―Bollettino dell'informazione della federazione prov.le. Agrigento (quello del 1892) (associazione medica) - Editore: Tipografia Formica e Gaglio; ―LA PROVINCIA‖ di Girgenti 1893-1929; ―LA FENICE‖ - Girgenti 1897 - Editore: Tipografia S. Sirchia & C.; ―LO SPIGOLATORE‖ - Girgenti 1897 - Editore: Tipografia L. Carini; ―BOX‖ - Girgenti 1900 - Editore: Tipografia L. Carini e figli; ―LA GUERRIGLIA‖ - Girgenti 1901 - Editore: Tipografia S. Sirchia & C.; ―LA VITA E ARTE‖ - Girgenti 1902 - Editore: Propr. P.D. Sciarratta; ―IL FUOCO‖ - Agrigento 1903-1922 - Editore: Tipografia Sirchia; ―IL MINIMO‖ - Girgenti 1904 - Editore: Tipografia Sirchia; ―LA CAMPANA DEI SOLARIATI‖ - Girgenti 1905-1912 - Editore: Stamperia Sirchia; ―IL GAZZETTINO‖ - Girgenti 1906 - Editore: Tipografia Formica e Gaglio; ―LA SCOPA‖ Arigento 1906-1976 - Editore: Tipografia Sirchia (1906),Tipografia Di Carlo e C. (1917), Tipografia Dima, Di Carlo e C. (1918-1919), Tipografia Sirchia (1920-1925),Tipografia Vescovile (1946), Tipografia Alberto Puccio (1947-1948),Tipografia A. Conti (1951-1953), Tipografia Proprietari Grillo e Malogioglio (1954-1955),Tipografia Agrigentina (1956), Tipografia Alfredo Conto (1957-1962),Tipografia Proprietari Malogioglio e Grillo (1963), Tipografia Fratelli Ciaravello (1964), Tipografia Proprietari Malogioglio e Grillo (1965-1976); ―IL MOSCONE‖ - Girgenti 1906-1913 - Editore: Tipografia V. Sirchia (1906-1908), Stamperia Formica e Gaglio (1911), Stamperia Formica (1913); ―IL RINNOVAMENTO‖ Porto Empedocle - Girgenti 1906-1914 - Editore: Tipografia Formica e Gaglio (1906), Tipografia V. Sirchia (1913-1914) ―LA GIUSTIZIA SOCIALE‖ - Girgenti 1907; ―LA COOPERAZIONE‖ - Girgenti 1911-1916 - Editore: Stamperìa Salvatore Montes; ―L'ALBA‖ - Girgenti 1911 - Editore: Tipografia Stamperia Formica e Gaglio; ―MANCU TI VIU‖ - Girgenti 1911 - Editore: Scuola Tipografica Colonia S. Martino, Via Atenea; ―LA SETTIMANA‖ - Girgenti 1911 - Editore: Premiata Stamperia Montes; ―IL MOMENTO‖ - Girgenti 1912 - Editore: Tipografia V. Sirchia; ―AKRAGAS‖ - Girgenti 1912 - Editore: Tipografia Popolare – Acireale, Dirigente Redazione Salvatore Raccuglia; ―LA DIFESA MAGISTRALE‖ - Girgenti 1913 - Editore: Tipografia V. Sirchia; ―NUMERO UNICO‖ - Girgenti 1913 - Editore: Tipografia V. Sirchia; ―L'UNIONE‖ - Girgenti 1913 - Editore: Tipografia Premiata Stamperia Montes; ―MASTRO GIORGIO‖ - Porto Empedocle 1914 - Editore: Tipografia V. Sirchia; ―LA LOTTA‖ - Girgenti 1914-1919 - Editore: Tipografia Stamperia Formica Calogero (1914);

349 Tipografia Dima, Di Carlo e C. I.(1919); ―AGRICOLTORE AGRIGENTINO‖ - Agrigento 1915-1936 - Editore: Tipografia Stamperia Montes; ―LA VOCE DEL CUORE‖ - Girgenti 1917 - Editore: Tipografia Dima, Di Carlo e C. I.; ―IL PRIMO CHIODO‖ - Girgenti 1918 - Editore: Tipografia Formica Calogero; ―IL CHIODO‖ - Girgenti 1919 - Editore: Tipografia V. Sirchia; ―IL REDUCE‖ - Girgenti 1919 - Editore: Tipografia Dima, Di Carlo e Comp.;―LA DEMOCRAZIA‖ - Girgenti 1919 - Editore: Tipografia Dima, Di Carlo e C.; ―IL SILURO‖ - Girgenti 1919-1921 - Editore: Tipografia V. Sirchia (1919), Tipografia Formica (1920), Tipografia V. Sirchia (1921); ―IL VESPRO ROSSO‖ - Agrigento 1920 - Editore: Tipografia Dima, Di Carlo e C. I.; ―IL LAVORO‖ - Girgenti 1920-1924 - Editore: Tipografia Montes (1920),Dima, Di Carlo e C. I. (1924); ―BOLLETTINO DEL LAVORO E ASSISTENZA SOSIALE …‖ - Girgenti 1921 - Editore: Premiata Stamperia Tipografia F. Montes; ―L'ANSIA‖ - Girgenti 1921 - Editore: Tipografia Formica; ―L'AVANGUARDIA‖ - Girgenti 1921 - Editore: Premiata Stamperia Tipografia F. Montes; ―IL GRIDO DEGLI OPPRESSI‖ - Girgenti 1921 - Editore: Tipografia Dima, Di Carlo e C.; ―IL POPOLO‖ - Girgenti 1922 - Editore: Tipografia Dima, Di Carlo e C. I. ―LE SPICHE‖ - Girgenti 1922-1923 - Editore: Tipografia A. Puccio c/o Sezione Socialista Unitaria; ―LA GABBIA‖ - Agrigento 1923 - Editore: Tipografia Dima, Di Carlo e C.; ―BANDIERA NERA‖ - Girgenti 1923 - Editore: Tipografia A. Puccio; ―BOCCONE DEL POVERO‖ - Agrigento 1923 - Editore: Tipografia Leonardo Dimora; ―L'IDEA FASCISTA‖ - Girgenti 1924 - Editore: Stamperia Formica; ―IL SANTO‖ manganello - Girgenti 1923 - Editore: Premiata Tipografia Formica; ―L'ARA VOTIVA‖ - Girgenti 1923 - Editore: Tipografia Dima, Di Carlo e C.; ―A NOI‖ organo della federazione provinciale fascista - Girgenti 1923-1935 - Editore: Tipografia Dima, Di Carlo e C. I.; ―L'AQUILA‖ - Girgenti 1926 - Editore: Tipografia formica; ―LIDO DI AGRIGENTO‖ - Agrigento Agosto 1929 - Editore: Tipografia Dimora; ―BOLLETTINO D'INFORMAZIONE DELLA FEDERAZIONE PROVINCIALE AGRICOLTORI DI AGRIGENTO‖ – Agrigento 1929 – Editore: Premiata Stamperia Formica, Via Atenea, Palazzo Borsellino; ―VITA NOVA‖ - Agrigento 1932-1942 - Editore: Tipografia Vescovile – Scuola tipografica Orfani

350 Gioeni (1936) Via Atenea, Tipografia Vescovile (1938-1942), Tipografia Montes (1934), A. C. Diocesana (1932); ―IL RURALE‖ - Agrigento 1940 - Editore: Tipografia S. Bulone,Porto Empedocle; ―VINCEREMO‖ - Agrigento 1941; ―VERSO LA META‖ - Agrigento 1940-1942- Editore: Tipografia Vescovile c/o Seminario Vescovile; ―LA FOLLA‖ - Agrigento 1946 - Editore: Tipografia La Commeciale; ―LA SENTINELLA AGRIGENTINA‖ - Agrigento 1949-1951- Editore: Tipografia Vescovile.

ARCHIVI CONSULTATI: Archivio Camera di Commercio di Agrigento, Archivio di Stato di Agrigento, Archivio Redazione dell’Amico del Popolo di Agrigento. BIBLIOTECHE CONSULTATE: Biblioteca Comunale “F. La Rocca “ di Agrigento, Biblioteca Lucchesiana, Biblioteca della Camera di Commercio di Agrigento.

351 GIORNALE DI GIRGENTI Periodico settimanale amministrativo – politico – letterario Domenica 23 Giugno 1878 – Girgenti

IL MOSCONE Giornale settimanale della provincia 1° Febbraio 1906 Tipografia V. Sirchia – Girgenti

352 LA CONCORDIA Ebdomedario politico – amministrativo Girgenti, 24 Luglio 1887 Stamperia di Salvatore Montes

IL CITTADINO CATTOLICO Organo del comitato dioecesano Girgenti, 1° Ottobre 1898 Stamperia Salvatore Montes

353 LA FENICE Giornale politico – amministrativo – letterario Girgenti 1 Ottobre 1899 Tipografia Atenea di Paolo Sirchia Via Atenea, Piazzetta del Purgatorio.

L'INDIPENDENTE Corriere della Provincia di Girgenti Giovedi, 4 Novenbre 1880 Tipografia Soc. Ed. Girg. Ammin. e diretta da Alessandro Celso.

354 Percorsi didattici: la parola al passato

Valentina Caminneci Rilievo Grimani, I sec. d.C. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale (da MANSUELLI 1981).

…Per i primi quindici anni della mia vita m’è capitato di vivere in seno ad una società fondata sull’abilità manuale e l’innocenza del cuore. Una società dove il rispetto del lavoro vigeva con la maestà e l’energia di un sacramento inviolabile. Ne erano membri sarti e calzolai, carradori e pastai, falegnami e barbieri, tutto un esercito di “mastri” che al chiuso e all’aperto, meno per bramosia di guadagno che per rovello di perfezione manovravano dall’alba al tramonto con aghi, trincetti, martelli, spatole, rasoi, cazzuole, o con qualunque altro arnese di legno e di ferro servisse ad assottigliare, farcire, ammorbidire, inasprire, in una parola a lavorare, una consenziente o recalcitrante materia: “Figli del lavoro”, appunto, era il nome del sodalizio d’artigiani dove fui a lungo di casa, a seguito di mio padre ch’era fabbro-ferraio… (Gesualdo Bufalino, in Cento Sicilie, Testimonianze per un ritratto, 1994). Aërii mellis caelestia dona (Verg. georg. IV,1) Phiale aurea. Particolare delle api stilizzate, seconda metà IV-III sec. a.C. Caltavuturo, Antiquarium (da SPATAFORA, VASSALLO 2007)

Fame sempre è compagna dell'uomo pigro; e uomini e dèi hanno in odio chi, inoperoso, vive ai fuchi senz'arma somigliante nell'indole, i quali la fatica dell'api consumano in ozio, mangiando (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 302-305, trad. it. Ettore Romagnoli). Archeologia del miele

Percorso didattico su produzione, consumo e commercio del miele nell’antichità

Destinatari: alunni di I liceo classico e III liceo scientifico Testi: Varrone, Virgilio, Columella, Plinio il Vecchio, Palladio

Si tratta di una nuova pista di ricerca che mira a studiare le evidenze legate alla produzione, al consumo e al commercio del celeste dono delle api, avvalendosi del metodo etnoarcheologico, attraverso l‘indagine comparativa, diacronica e interculturale. Le fonti storico-letterarie ci consentono di ricostruire il paesaggio apistico dell‘antichità, insieme al contributo delle analisi palinologiche; le epigrafi sono utili indicatori del commercio, mentre dati preziosi sul consumo si recuperano dall‘esame dei residui organici presenti nei reperti. L‘apicoltura si sviluppò quando l‘uomo, che alle origini si limitava a raccogliere il miele selvatico, come dimostrano le pitture rupestri, iniziò a collocare le famiglie delle api in arnie concentrate, per convenienza e sicurezza, in apiari. Già presso gli Egizi l‘ape, il miele e la cera occupavano un posto di notevole importanza, come ci dimostrano le testimonianze figurative delle scene apistiche, a partire dal 2400 a.C. Nella mitologia greca Zeus, allontanato dalla madre per non essere divorato dal feroce padre Chronos, venne nutrito con latte caprino e miele, dalle ninfe Amantea e Melissa. Divenuto adulto, Zeus premiò le sue nutrici divinizzandole e trasformandole l‘una in capra e l‘altra in ape. Miele e api sono legati alla rigenerazione dei corpi: secondo il mito dal

359 corpo dilaniato di Melissa, smembrata per non aver voluto svelare i misteri eleusini della dea Demetra, nascono le api, così come nel celebre passo della bugonia nella fabula virgiliana di Aristeo, nuovi sciami prendono vita dalle carcasse delle vacche sacrificate agli dei dal pastore. A Zeus, benevolo verso gli uomini, tocca l‘epiteto di Meilichios. I corpi di Patroclo e di Achille furono cosparsi di miele, rito riservato anche ai re di Sparta, mentre pare che Alessandro Magno e Giustiniano furono immersi nel miele ibleo. Nel VII secolo a.C., il legislatore ateniese Solone, con una legge, stabilì che nessuna arnia nuova dovesse essere posta ad una distanza minore di trecento metri da quelle già esistenti. Pericle, nel 461 a.C., riferì che la sola Attica, in Grecia, aveva oltre 20.000 alveari che costituivano la ricchezza dei loro proprietari, poiché questa era proprio la regione che vantava il miele di timo più pregiato del mondo antico, quello dell‘Imetto. Oltre al miele dell‘Attica, rinomato quello delle api iblee, prodotto in Sicilia. Dai testi di Varrone e di Columella deduciamo che l‘apicoltura era una pratica commerciale già consolidata in molti paesi del bacino mediterraneo. I trattatisti romani riportano con precisione le fasi propedeutiche alla formazione di un allevamento, a cominciare dalla scelta dell‘habitat naturale dove impiantare gli alveari, con le raccomandazioni agli apicoltori riguardo alla necessità di ambienti freschi e ventilati, con disponibilità di acqua limpida. Poi seguono i consigli sulla cattura degli sciami, per riempire le arnie, la raccolta del miele, prevista in tre momenti, in primavera, estate e autunno, la decantazione e la conservazione nei contenitori. Si sa che i Romani usarono diversi tipi di arnie, costruite con materiali come il vimini, il sughero, il legno e la corteccia, mentre poco apprezzata era la terracotta, in quanto esposta alle variazioni di temperatura. Secondo Plinio e Columella, è migliore l‘arnia, a forma di parallelepipedo, di legno di ferula intrecciata, tipica della Sicilia e

360 Rotolo exultet con “Elogio delle api”, XI secolo, Benevento. Estrazione dei favi da arnie di legno (da BORTOLIN 2008).

361 utilizzata ancora a Ragusa e Siracusa. Tra le evidenze archeologiche della produzione le arnie orizzontali di terracotta, a corpo ovale lungo e larga imboccatura con orlo estroflesso. All‘interno presentano delle linee solcate a crudo per favorire l‘aderenza dei favi. In Spagna sono stati individuati gli apiari, per contenere le arnie, abbastanza distanti da una villa rustica, così come prescrive Columella, e recintati da muretti. Rimane anche la documentazione archeologica degli strumenti di raccolta, come l‘affumicatore descritto da Columella che serviva a bruciare la malva selvatica e produrre il fumo necessario ad allontanare le api per consentire la rescissione dei favi. Questa operazione è attestata da coltelli in ferro, anche con punta ricurva, descritti ancora da Columella. Imbuti e colini rinvenuti in Spagna e a Pompei sono pertinenti alla colatura del miele dai favi, che, riposto nei contenitori veniva lasciato decantare. Difficile riconoscere i vasi da miele e i nomi citati dalle fonti sono piuttosto generici. Il commercio avveniva in orci o anfore in ceramica, riconoscibili dalle iscrizioni graffite all‘esterno. Immerse nel miele, venivano trasportate mele cotogne, ciliegie e prugne, come documentano le fonti sulle anfore da frutta, dette cadi (Plinio, Nat.Hist. XV, 12,42; XVI, 21,82).

Proposte di lavoro

•Considerare i progressi della moderna apicoltura rispetto al passato

•Testi in PICCHI 2013 e http://digilander.libero.it/certamenromanum/apicoltura09/h_apicolt09.htm (Varrone, Rerum rusticarum de agri cultura, III; Virgilio, Georgiche, IV; Plinio, Naturalis Historia, XI; Columella, De rerustica, IX; Palladio, Opus agriculturae, I, 37-39; IV, 15).

362 Miniatura deiCynegetica di Oppiano di Apamea raffigurante la fumigazione.BibliotecaNazionale Marciana, Venezia (da BORTOLIN 2008).

363 Ercolano. Casa dei Cervi. I secolo d.C. Miele o vino misto a miele in un kantharos di vetro.

Graffiti su anfore italiche che segnalano il trasporto del miele.

Spagna. Sombrero de copas. Usati come vasi da miele (II-I secolo a.C.)

(da BORTOLIN 2008).

Frammento di Sombrero de copas da Eraclea Minoa (Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento).

364 Lavoro e paesaggio nella pittura italiana dell’Ottocento Giovanni Fattori, Riposo in Maremma, 1875, collezione privata (da Giovanni Fattori. Capolavori da Collezioni private, Catalogo della Mostra, dicembre 2013 ).

…. mentre il villano pone dalle spalle gobbe la ronca e afferra la scodella, e 'l bue rumina nelle opache stalle la sua laboriosa lupinella. (Giovanni Pascoli, Romagna, vv. 17-20, da Myricae, 1891-1911). Giovanni Fattori, Bovi al carro, 1867, Firenze, Galleria d’Arte moderna (da CRICCO, DI TEODORO 2000 b, 3).

Giovanni Segantini, La raccolta del fieno, 1890-1898, St.Moritz, Segantini Museum (http://it.wikipedia.org/wiki/File:Giovanni_Se gantini-Die_Heuernte_1890-1898.jpg).

367 Angiolo Tommasi, Le ultime vangate, 1892, Cassa di Risparmio di Firenze (da http://foto.ilsole24ore.com/ SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e %20Cultura/2009/gallery_mostra_se rravezza/gallery_mostra_serravezza.p hp?id=10)-

Telemaco Signorini, L’alzaia, 1864, collezione privata. (da http://commons. wikimedia.org/wiki/File:Signorini,_ Telemaco_-_L'alzaia_-_1864.jpg).

368 Antonino Leto, Studio di pescatore. La sciabica, 1887, Napoli, collezione Casciara (da BARBERA 2001).

Ettore Maria Bergler, Tonnara Bordonaro all’Arenella, 1884, collezione privata (da BARBERA 2007).

369 Antonino Leto, La mattanza di Favignanaa, 1887, Palermo, Palazzo Branciforte (da Un secolo, ma non si vede).

370 Francesco Lojacono, La raccolta delle telline, 1880-1890, Palermo, Palazzo Branciforte (da DI NATALE 2005).

Proposte di lavoro

•Il paesaggio agricolo nell‘opera dei Macchiaioli • Lavori campestri ed echi pittorici nella poesia pascoliana •Pescatori e marine nella pittura siciliana dell‘Ottocento •Umili e lavoro nella pittura di Francesco Lojacono

371 Bibliografia e referenze fotografiche

BARBERA G. 2001 (a cura di), Ottocento siciliano. Dipinti di collezioni private agrigentine, Napoli. BERGOGLIO J.M. 2014, La bellezza educherà il mondo, ed. EMI Bologna. BARBERA G. 2007 (a cura di), Poliorama pittoresco, Cinisello Balsamo. BORTOLIN R. 2008, Archeologia del miele, Mantova. BUFALINO G., ZAGO N., Cento Sicilie, Testimonianze per un ritratto, ed. Bompiani, Milano1994. CRICCO G., DI TEODORO F.P. 2000, Itinerario nell‟arte. Dall‟Età dei Lumi ai nostri giorni, vol.3, Bologna. DIODORO SICULO, Biblioteca Storica (Libri IX-XIII). Introduzione, traduzioni e note di Calogero Miccichè, Rusconi editore, Milano 1992.. DI NATALE 2005 (a cura di), La pittura dell‟Ottocento in Sicilia tra committenza, critica d‟arte e collezionismo, Palermo.. MANSUELLI G.A. 1981, Roma e il mondo romano, I-II, ed. UTET, Torino. MARTIN R. 1984, La Grecia e il mondo greco, I-II, ed. UTET, Torino. PASCOLI G., Poesie, Oscar Classici, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1974, III edizione PICCHI L. (a cura di) 2013, Il libro delle api. Varrone, Virgilio, Columella, Plinio il Vecchio. QUASIMODO S., La terra impareggiabile, da La terra impareggiabile, ed. Mondadori, Milano 1958. SACCHETTI F., Opere, a cura di A. Borlenghi, ed. Rizzoli Milano 1957. SIRCHIA M.C., RIZZO E. 20012, Il Liberty a Palermo, Palermo. SPATAFORA F., VASSALLO S. 2007, Memorie della terra. Insediamenti ellenistici nelle vallate della Sicilia centro-settentrionale, Palermo. Storia del commercio italiano, Milano 1978. Veder greco. Le necropoli greche di Agrigento, Catalogo Mostra Internazionale, Agrigento, 2 maggio-31 luglio 1988, Roma 1988. Un secolo ma non si vede. Antonino Leto nelle collezioni del Banco di Sicilia, Attività didattica 28 maggio-29 settembre 2013. VON MATT L. 1950, La Sicilia antica, Stringa.

372 Conclusioni Palma di Montechiaro. Il Calvario (Archivio Soprintendenza BB.CC.AA. di Agrigento)

Quando il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo, allora la nostra storia sarà finita. (Pier Paolo Pasolini, recensione al film La rabbia, 1963). Per una valorizzazione dei paesaggi storici della produzione: l’istituzione degli ecomusei in Sicilia.

VALENTINA CAMINNECI

Il “problema” Museo in Sicilia Nel 2009 un report pubblicato da Legambiente denunciava le annose difficoltà che condizionano pesantemente i musei siciliani, pregiudicandone in termini qualitativi l‘offerta culturale. Mancanza di autonomia di bilancio, scarsezza di risorse economiche, carenze di personale, assenza di coordinamento e di azioni di rete, reperti non catalogati nei magazzini stracolmi, sono tra le criticità evidenziate dal dossier. Così, come in altre regioni di Italia, la nascita dei musei è avvenuta in modo spesso incontrollato, senza che vi fosse, a monte, una riflessione sull‘opportunità e sulle modalità di creazione di un nuovo museo. Questa proliferazione, più che da un ―bisogno di cultura‖ o da sentite motivazioni identitarie, nasce da una malintesa idea del ritorno economico del bene culturale, che è all‘origine anche di numerosi interventi delle amministrazioni comunali di recupero di immobili storici da destinare a museo, senza una precisa programmazione. Con il D.A. 213 del 2012, la Regione Sicilia ha richiamato la necessità di un intervento radicale nel settore dei musei non regionali, cioè, non di proprietà della Regione, allo scopo di potenziare l‘azione di tutela, attraverso il controllo di quei requisiti minimi prescritti dall‘ICOM e dall‘ Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei adottato con D.M. del 10 maggio 2001, indispensabili per

375 aspirare al riconoscimento giuridico di Museo. Tale monitoraggio avrebbe dovuto essere assicurato da un Comitato di valutazione delle strutture museali, di cui il decreto preannunciava l‘istituzione, ma che, di fatto non è ancora operativo. Comunque, prima di intraprendere qualunque riorganizzazione del settore, che riqualifichi l‘esistente secondo i moderni criteri della conservazione e della fruizione, risulterebbe prioritaria un‘indagine conoscitiva ed un censimento dei musei in Sicilia, un report preliminare ad una ricomposizione unitaria, di salvaguardia e di comunicazione, di una frammentarietà fuori controllo, che dia contezza dello status giuridico, dei contenitori e della sicurezza, del personale e dei servizi resi al pubblico. La mappa aggiornata dei musei siciliani può costituire, pertanto, un valido punto di partenza su cui impostare una riforma, ogni giorno più urgente, che detti indirizzi e prescriva criteri standard qualitativi di riferimento, per la realizzazione di un unico sistema museale regionale, articolato in strutture pubbliche o private, gestite secondo condivisi ed efficienti meccanismi di governance.

L’ecomuseo: una scelta per il territorio Il museo più attestato in Sicilia è certamente quello etnoantropologico, sebbene, nella maggior parte dei casi, non si possa parlare di vero e proprio museo, bensì di raccolte, soventemente eterogenee e disorganiche, esposte al pubblico, pertinenti a quella cosiddetta ―civiltà contadina‖, che compare talora nella titolazione della struttura. Spesso di proprietà comunale, queste realtà, esempio calzante di quella frammentazione dell‘offerta culturale di cui parlavamo in premessa, nascono dalle donazioni da parte di privati cittadini di oggetti della vita quotidiana o di attrezzi agricoli, che solo in pochi casi sono stati oggetto di un allestimento

376 Buscemi, Casa del Massaro (da http://www.museobuscemi.org/).

377 organico dal punto di vista concettuale e cronologico. Ma, sebbene manchi un approccio scientifico, queste esposizioni della cultura materiale e del lavoro manuale hanno in sé la grande opportunità di essere cellule potenziali di un grande museo diffuso: la frammentazione, se correttamente rivista dal punto di vista didattico, può divenire, infatti capillarità, mentre queste piccole monadi statiche, potrebbero essere ravvivate da progetti in rete e percorsi interrelati. Inoltre, altro aspetto notevole è che tali raccolte non siano composte da ―pezzi da museo‖, né siano esito di ricerche scientifiche ovvero di un collezionismo erudito, ma, in quanto dono di semplici cittadini, siano pezzi di storia familiare, spesso poveri oggetti, di cui la tecnologia imperante sta cancellando man mano il ricordo. E, per riprendere la felice metafora di Marco Milanese, in questi musei possiamo

ascoltare la ―voce delle cose‖ (MILANESE 2005), mentre, attraverso l‘applicazione del metodo rigoroso dell‘archeologia postmedievale e dell‘etnoarcheologia, l‘umile racconto del lavoro manuale può divenire storia, può rivivere il paesaggio della produzione,

insieme alle dinamiche insediative, alla cultura abitativa e materiale (BUONOPANE 2000;

MARTINI 2011; CANDELA 2012) . Come è stato osser vato, infatti, l‘archeologia svolge una funzione centrale nel recupero della ―memoria sociale‖, in quanto strumento indispensabile per lo studio stratigrafico di un territorio e per la costruzione della consapevolezza della

comunità locale (VOLPE, DE FELICE 2014, 412). Modelli istituzionali e percorsi normativi dei musei etnoantropologici in Sicilia sono stati al centro del dibattito in occasione del Convegno Museologica a Palazzolo Acreide, organizzato nel 2007 dall‘Assessorato Beni Culturali. In realtà, esistono già nell‘Isola esperienze di rete, come,

378 Buscemi, Casa del Massaro

Buscemi. Bottega del fabbro

Buscemi. Casa del Conciabrocche

(da http://www.museobuscemi.org/).

379 ad esempio, nell‘area iblea, madonita e nell‘ennese, mentre di grande qualità, sul piano scientifico, della comunicazione e delle soluzioni espositive, è l‘offerta culturale del Museo Regionale delle tradizioni silvo-pastorali ―Giuseppe Cocchiara‖ di Mistretta. Tra i Musei Regionali espongono raccolte etnoantropologiche anche la Casa Museo ―Antonino Uccello‖ di Palazzolo Acreide e il Museo di Palazzo D‘Aumale di Terrasini. Grazie ai fondi della Comunità europea, inoltre, si è dato avvio al PEM (Partnership Ethnographic Museums), un progetto di partenariato tra musei etnografici europei e istituzioni culturali del Mediterraneo, volto a favorire lo scambio di esperienze maturate in contesti diversi. A noi sembra, però, che la svolta per la riqualificazione di queste raccolte sparse nella nostra Regione possa essere la soluzione dell‘ecomuseo, il museo del territorio per eccellenza, museo della comunità e per la comunità, che, secondo la definizione di Henri Riviére e Hugues de Varine, nasce come istituzione finalizzata al recupero, alla comunicazione e alla valorizzazione della memoria storica di un territorio, del paesaggio naturale ed antropico, delle testimonianze materiali (ambienti di vita, tecniche, attività produttive) e immateriali (oralità, canti, riti e festività) appartenute a società rurali, pre–industriali o proto–industriali. Alla triade del museo tradizionale, immobile- collezione- pubblico, si contrappone quella dell‘ecomuseo, territorio- patrimonio- comunità, realtà orientata a favorire sviluppo, attraverso la valorizzazione e la messa in rete delle dinamiche culturali locali, la creazione di sinergie con il comparto turistico ed economico, l‘attenzione all‘ambiente e la promozione delle logiche della sostenibilità. ―Il patrimonio che compone una ―collezione‖ ecomuseale è dunque rappresentato dagli utensili della vita e del lavoro quotidiani, nonché dai luoghi in cui si svolgevano le attività di

380 una comunità, ma anche dagli ambienti, dall‘architettura, dal ―saper fare‖ e dall‘insieme delle testimonianze orali, immateriali e iconografiche che ci raccontano tutto ciò attraverso immagini e storie. Il paesaggio è, allora, un vero e proprio documento storico, che narra di saperi locali e consuetudini condivise, all‘interno del quale ogni singola collettività ha sviluppato un proprio modello di organizzazione sociale nell‘intreccio con i vincoli imposti dall‘ambiente geografico. L‘ecomuseo è, inoltre, un progetto sociale, poiché nasce dal coinvolgimento attivo di una comunità; mira alla conservazione e tutela del suo patrimonio storico e culturale e, nel contempo, guarda al suo sviluppo futuro, incentivando il recupero di mestieri, pratiche, saperi e prodotti locali con cui poter sostenere un‘economia del territorio, sebbene modesta‖ (CANDELA, ARENA 2013, 9-10). Oggi, peraltro, la tutela del paesaggio costituisce tra le emergenze più serie, considerate le alterazioni profonde inferte in modo dissennato su questo meraviglioso palinsesto del passato, segno di identità e nutrimento della memoria storica, un ―formidabile capitale sociale‖, che ci radica nell‘appartenenza e ci salva dall‘alienazione (SETTIS 2010, 301-302). La riflessione giuridica sul museo in molte realtà regionali italiane ha condotto anche all‘introduzione di questa nuova tipologia che oggi sembra rispondere in modo efficace al ruolo richiesto ai musei, non più statici contenitori, ma attori dinamici in grado di comunicare e di gestire i beni culturali. La prima regione a dotarsi di una normativa di riferimento è il Piemonte, con la legge 31/95, che negli obiettivi richiama un concetto di patrimonio in senso olistico, che comprende aspetti culturali, ambientali e sociali del territorio, nella dimensione materiale e immateriale. Tra le finalità prioritarie e specifiche che ogni ecomuseo dovrebbe perseguire la legge contempla la conservazione ed il restauro di ambienti di vita tradizionali,

381 delle testimonianze della cultura materiale, del lavoro delle popolazioni locali e delle tradizioni religiose. Dalla tutela discendono percorsi di fruizione nel paesaggio storico ed interventi di valorizzazione di abitazioni o fabbricati caratteristici, anche al fine di creare ambienti idonei ad offrire servizi ai visitatori o alla vendita di prodotti tipici. Il coinvolgimento della comunità locale avviene a vari livelli, a cominciare dalla scuola, con la realizzazione di attività didattiche,

mentre workshops periodici animano il dibattito culturale (TESTA 2006 a, b). Per garantire il necessario sostegno tecnico - scientifico alla politica regionale sugli ecomusei, il Piemonte ha istituito nel 1998 il Laboratorio Ecomusei, impegnato ad analizzare la realtà e l'evoluzione dell'ecomuseologia italiana e straniera, e a svolgere attività di consulenza e di verifica. Nel 1998 ad Argentara si è tenuto il primo incontro nazionale sugli ecomusei, seguito, nel 2003, dall‘Incontro di Biella, il cui Documento conclusivo fornisce le indicazioni per il futuro in territorio nazionale, mentre gli appuntamenti successivi, tra il 2006 ed il 2009, si sono svolti a Maniago, Catania, Bienno, Monteroduni e Torino. Lo stesso spirito della legge piemontese permea le leggi della Provincia autonoma di Trento del 2000 e quella della Regione Friuli Venezia Giulia, del 2006, che ha il merito di avere introdotto il concetto di sostenibilità ambientale e di partecipazione della comunità locale. Importanti esperienze sono state realizzate, coinvolgendo i comuni della bassa pianura friulana, del Carso e dell‘Istria slovena, in un progetto di valorizzazione delle realtà rurali e

degli ―spazi del fare‖ (CAJAZZA 2006), mentre, nello stesso anno, a Maniago, in occasione degli Incontri nazionali sull‘Ecomuseo, si è tenuto il ―Tavolo di lavoro nazionale sulle politiche regionali in materia di ecomusei e valorizzazione del territorio‖. L‘aspetto della sostenibilità, per nulla secondario e dalle determinanti implicanze sotto il

382 Esempio di mappa di comunità. Ecomuseo del paesaggio orvietano. Mappa di comunità di Montegabbione (Umbria). (http://www.provincia.terni.it/ecomuseo/documenti/mappe_ecomuseo/Mappa-Montegabbione.jpg).

383 profilo gestionale, è posto in particolare rilievo dalla legge della Regione Sardegna, dello stesso anno, che individua nella partecipazione attiva dei residenti e nell‘ampio coinvolgimento delle realtà economiche locali il criterio indispensabile per il riconoscimento giuridico del museo. Nel 2007 la Regione Lombardia, istituendo la Consulta regionale degli ecomusei, al fine di favorire la costituzione e lo sviluppo della rete culturale degli ecomusei, stabilisce che la Regione possa concorrere alla gestione e al finanziamento degli ecomusei massimo per il 50%. della spesa sostenuta dall‘ente proprietario o gestore. Tra il 2007 ed il 2008 anche la Regione Umbria e la Regione Molise si sono dotate di leggi ad hoc, mentre la recente normativa della Regione Puglia (L.15/2011) ha dato il via a numerose

iniziative locali (BARATTI 2012; IMPERIALE, TERLIZZI 2013; BARATTI 2014). I Workshop delle Giornate del Paesaggio hanno animato il dibattito e sollecitato il confronto, mentre un portale internet illustra in modo accattivante l‘esperienza pugliese, che è stata oggetto di un recente

convegno (VOLPE 2014). Viene introdotta la figura del facilitatore ecomuseale, che ha il compito di guidare la comunità di riferimento nella costruzione del progetto, che si esplicita in una ―mappa di comunità‖, una sorta di cartografia del patrimonio locale, elaborato e

riconosciuto dalla collettività (CLIFFORD, MAGGI, MARTUS 2006; MICOLI, NEGRO 2010). Un esempio virtuoso costituisce, poi, la Regione Toscana con l‘Ecomuseo della Montagna Pistoiese, il primo ecomuseo di Italia, nato nel 1990, a cura della Provincia di Pistoia, della Comunità Montana Appennino Pistoiese, dei Comuni di Abetone, Cutigliano, Pistoia, Piteglio, Sambuca Pistoiese, San Marcello Pistoiese e della Diocesi di Pistoia; con il Contributo della Regione Toscana, dell‘Unione Europea e in collaborazione con la Sovrintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, le Università Toscane ed il Corpo Forestale dello Stato. Con

384 Montallegro. Il paese antico su Monte Suso (Foto Valentina Caminneci).

385 efficace metodologia didattica, si offrono sei itinerari che corrispondono a sei temi della vita dell‘economia della zona, come la produzione del ghiaccio naturale, la lavorazione del ferro e della pietra, la vita quotidiana, la natura, l‘ arte sacra. Molti ecomusei italiani oggi sono organizzati in reti come, ad esempio, ―Mondi locali‖, che promuove la propria attività mediante l‘impegno di gruppi di lavoro tematici, che si incontrano per discutere, confrontarsi ed elaborare proposte, scambi ed iniziative inerenti alle necessità e alle aspirazioni individuate dalla rete. La rapida carrellata offerta sulla normativa vigente in alcune regioni italiane conferma l‘esigenza di rivisitare la finalità dei musei nel segno di una nuova fisionomia relazionale che, da un lato, si apra al rapporto con l‘utenza attraverso innovative strategie di comunicazione e, dall‘altro, sia l‘espressione, nei contenuti, nella gestione e nelle potenzialità di sviluppo, della comunità locale. L‘esperienza ecomuseale, cioè, oltre a favorire la salvaguardia del patrimonio culturale integrato nell‘ambiente e nel paesaggio, incoraggia anche il contributo attivo della imprenditoria privata, per intercettare i flussi turistici. Non è più rinviabile colmare il gap che separa la Sicilia dalle altre regioni italiane nel processo di sviluppo e di innovazione del settore, fondato su un modello organizzativo volto a migliorare l‘efficienza nella gestione e l‘efficacia nell‘offerta culturale. Peraltro, anche la pianificazione paesistica territoriale della Regione, elaborata secondo i principi della Convenzione Europea del Paesaggio, prevede il coinvolgimento della comunità locale nell‘azione di salvaguardia e di riqualificazione paesaggistica. In realtà, anche la Sicilia ha vissuto un momento di riflessione sulla tematica degli ecomusei nel 2007, a Catania, in occasione delle Giornate dell‟Ecomuseo, organizzate dall‘Università e dal

386 Montallegro. Ruderi del paese antico su Monte Suso (Foto Valentina Caminneci).

387 CeDoc, in collaborazione con l‘Assessorato Beni Culturali, l‘ICOM e il Laboratorio Ecomusei della Regione Piemonte. In questa occasione è stato presentato il Coordinamento Nazionale degli Ecomusei, insieme ad una mostra delle mappe di comunità, mentre, durante il workshop, si è discusso sull‘opportunità di un disegno di legge sulla istituzione degli ecomusei nell‘Isola. Nel portale internet della Regione Piemonte dedicato agli ecomusei, comunque, vengono individuate in Sicilia, pure in assenza di uno status giuridico riconosciuto, tre istituzioni ecomuseali, la casa Museo Antonino Uccello di Palazzolo Acreide, il Museo del Sale, nella laguna dello Stagnone presso Marsala e ―I Luoghi del lavoro contadino‖, tra Buscemi e Palazzolo Acreide. Per questi ultimi, lo scorso 24 febbraio, è stato emanato il decreto di vincolo, al fine di garantire l‘integrità degli immobili e delle collezioni che costituiscono pregevole espressione e documentazione di mestieri e attività artigianali relative alla civiltà contadina del territorio ibleo. Ma, come abbiamo detto, la realtà isolana avrebbe molte altre realtà meritevoli da valorizzare. Pensiamo, nell‘agrigentino, al paese su Monte Suso, collina che sovrasta la Montallegro moderna, sito straordinario e raro esempio di conservazione dell‘impianto urbanistico originario. Sorto per timore delle invasioni barbaresche, grazie alla licentia populandi concessa da Re Filippo I di Spagna, nella seconda metà del ‗700, fu abbandonato dalla popolazione che si spostò a valle. Il sito, che conserva interessanti testimonianze di edilizia domestica, relative alle diverse classi sociali, e di impianti di produzione della calce, le calcare, presenti anche sulle pendici delle colline circostanti, rappresenta un unicum nell‘agrigentino, assimilabile ai villaggi abbandonati della Sardegna di età medievale, recentemente oggetto di consistenti interventi di valorizzazione.

388 Montallegro. Monte del Lupo visto da Monte Suso. La calcara. (Foto Valentina Caminneci).

389 L‘evidenza monumentale acquisterebbe maggiore valore se fosse collegata in un unico sistema di fruizione al ricchissimo museo etnoantropologico, allestito nella Scuola Media del paese grazie all‘impegno dei docenti ed al contributo della comunità (infra, Appendice, 393).

L’ecomuseo in Sicilia: il percorso normativo Si è concluso, finalmente, lo scorso 18 giugno all‘ARS l‘iter di approvazione del disegno di legge sull‘istituzione degli ecomusei in Sicilia, presentato già nel 2010. La legge, che tiene conto nel dettato della legislazione italiana, definisce l‘ecomuseo ―un patto con il quale una comunità si impegna a prendersi cura di un territorio… attraverso un progetto condiviso e integrato di tutela, valorizzazione, manutenzione e produzione di cultura di un territorio geograficamente, socialmente ed economicamente omogeneo, connotato da peculiarità storiche, culturali, materiali ed immateriali, paesistiche ed ambientali‖ (art.2). Alla Regione, comunque, spetta ancora l‘onere di creare le condizioni per la realizzazione di questa nuova tipologia museale, attraverso l‘indicazione dei requisiti minimi e la definizione di un regolamento ai fini del riconoscimento. L‘Assessorato Beni Culturali assumerà la direzione scientifica, incluse, naturalmente, le competenze in materia di tutela, e, tramite un Comitato designato allo scopo, saranno stabiliti i criteri per la valutazione della fattibilità dei progetti, presentati dagli enti gestori. L‘attenzione della Regione dovrebbe essere posta, anche sulla definizione di linee guida di indirizzo generale, per pervenire all‘individuazione condivisa di criteri comuni e di indicatori utili alla valutazione di efficacia e di efficienza, insieme agli strumenti di

390 monitoraggio delle attività svolte. A nostro avviso, però, la previsione di spesa per il finanziamento delle nuove istituzioni che graverebbe nella misura del 50% sulle casse già malridotte della Regione, costituisce il punto debole del testo. L‘ecomuseo in Sicilia non può non autofinanziarsi e questo aspetto dovrebbe essere chiaro sin dall‘atto istitutivo. Auspicabili, invece, tutti gli interventi pensabili di agevolazione, come misure speciali di semplificazione amministrativa, sgravi fiscali a vantaggio dell‘imprenditoria locale ed incentivi a progetti che prevedano l'utilizzo sostenibile delle risorse naturali e culturali (turismo, artigianato e prodotti locali) e la tutela dei beni comuni (acqua, aria, suolo, biodiversità, paesaggio, risorse agroalimentari, beni culturali). Ma tutto questo non può non essere il frutto di una concertazione tra la parte politica e la comunità, che insieme studino e progettino il futuro di un territorio, il cui passato costituisce la più valida ragione di sopravvivenza.

391 Bibliografia BARATTI F. 2012 , Ecomusei, paesaggi e comunità. Esperienze, progetti e ricerche nel Salento, Milano. BARATTI F. 2014, Archeologia e paesaggio contemporaneo: l‟esperienza ecomuseale in Puglia, in VOLPE G. (a cura di), Patrimoni culturali e paesaggi di Puglia e d‟Italia tra conservazione e innovazione, Atti delle Giornate di Studio, Foggia, 30 settembre e 22 novembre 2013, Bari, 249-259. BUONOPANE A. 2000, Lo sfruttamento delle piante da fibra tessile in età romana e i musei etnografici. Un caso emblematico: il lino in Italia settentrionale, 2° Congresso Nazionale dei Musei Agricoli ed Etnografici Verona 1996, Verona, 75-86. CAIAZZA G. 2006, Gli “spazi” del “fare”: spunti di ricerca e problematiche da una doverosa riscoperta, «Bollettino del Gruppo Archeologico Aquileiese», 125-134. CANDELA A. 2012, Il contributo della riflessione ecologica negli studi di storia della cultura materiale. Considerazioni di sintesi, Milano. CANDELA A., ARENA L. P. 2013, Cultura materiale e paesaggio montano. Oggetti e testimonianze dal Museo della Cultura Rurale Prealpina, Roma. CLIFFORD S., MAGGI M., MURTAS D. 2006, Geniusloci.Perché, quando ecome realizzare una mappa di comunità, Torino. GRASSENIC.2010 (acuradi),Ecomuseologie.Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Rimini. IMPERIALE F., TERLIZZI V. 2013, Musei, raccolte e collezioni in Puglia, in «Il capitale culturale», VI, 93-126. MAGGI M. 2010, Ecomusei:dallo studio delle reti allo studio nelle reti,in GRASSENI2010. MARTINI A. 2011, Le costruzioni rurali della Media Valle del Liri: un esempio di organizzazione dello spazio domestico nella cultura agro pastorale, in LUGLI F., STOPPIELLO A., BIAGETTI S. (a cura di), Atti del 4° Convegno Nazionale di Etnoarcheologia, Roma,17-19 maggio 2006, BAR InternationalSeries2235, 154-158. MICOLI A., NEGRO E. 2010,La mappa dicomunità tra sintesi e polifonia del tessuto urbano, in GRASSENI 2010. MILANESE M. 2005, Voci delle cose: fonti orali, archeologia postmedievale ed etnoarcheologia, «Archeologia Postmedievale»9, 11-30. SALVAILMUSEO dossier emergenze e ritardi nel sistema museale siciliano, Palermo 2009. SETTIS S. 2010, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l‟ambiente contro il degrado civile, Torino. TESTA I. 2006 a (a cura di), Workshop 2004. Presente e futuro dell'ecomuseo. Strumenti per la comunità: ecomusei e musei etnografici, Atti del Seminario, Ecomuseo del Lago D'orta e Mottarone 21-22 maggio 2004, www.ecomusei.net TESTA I. 2006 b (a cura di), Workshop 2005. Presente e futuro dell'ecomuseo Ecomusei: strumenti e metodologie di gestione, Atti del Seminario, Ecomuseo delle Miniere e della Val Germanasca 10-11 Giugno 2005, www.ecomusei.net. VOLPE G. 2014 (a cura di), Patrimoni culturali e paesaggi di Puglia e d‟Italia tra conservazione e innovazione, Atti delle Giornate di Studio, Foggia, 30 settembre e 22 novembre 2013, Bari. VOLPE G. , DE FELICE G. 2014, Comunicazione e progetto culturale, archeologia e società, PCA, European Journal of Post-Classical Archaeologies 4, 401-420.

392 Appendice. La Scuola e la memoria Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Particolare del carretto siciliano.

Educare alla speranza significa tre cose: memoria del patrimonio ricevuto; lavoro su quel patrimonio affinché non sia il talento sepolto; proiezione, attraverso le utopie e i sogni , verso il futuro (Jorge Mario Bergoglio, La bellezza educherà il mondo, 2014). Un museo nella scuola. Il Museo della civiltà contadina di Montallegro. Domenico Tuttolomondo, Rosanna Fileccia, Caterina Orlando

Storia delle collezioni Nella Scuola Media Statale ―G. Palumbo‖ di Montallegro è allestito il Museo della Civiltà Contadina, inaugurato il 28 Maggio 1991. La sua realizzazione si deve all‘interesse e all‘impegno di coloro che in quel periodo operavano nella scuola. I principali artefici furono la preside Bianchetta, il Professore Sacerdote Antonio Nuara, il Signor Ciliberto Leonardo e il Professore Salvatore Rizzuto, al quale il Museo è stato recentemente intitolato. Gli oggetti esposti, più di 1000, sono stati donati in buona parte dalle famiglie degli alunni di Montallegro, in parte invece, provengono dai paesi limitrofi. La fase operativa dell‘allestimento, preceduta dallo studio approfondito dei testi più significativi sulla vita nelle campagne nel passato, è stata sostenuta dalla collaborazione dei più anziani del paese, che hanno contribuito con i loro ricordi. Ogni oggetto è denominato sia in italiano che in dialetto per recuperare anche la memoria linguistica.

Una risorsa didattica La realizzazione del Museo è scaturita dalla programmazione didattica, che aveva come finalità la valorizzazione e la conservazione della memoria del territorio. Sin dalla sua istituzione, il Museo ha rappresentato, quindi, un mezzo, per insegnanti e alunni,

395 di conoscenza del passato, fondamentale per dare un significato al presente e costruire un futuro migliore. Non perdere la memoria e la consapevolezza di valori e di sentimenti e, al contempo, far emergere le radici del patrimonio fatto di tradizioni, usi e costumi: questa la lezione del Museo di Montallegro.

Le collezioni L‘esposizione si sviluppa in tre sale contigue al pianterreno dell‘Istituto. La ricca collezione del Museo racconta, attraverso significative testimonianze della cultura materiale, la vita nei campi tra la fine dell‘800 e la prima metà del ‗900. Il percorso espositivo è suddiviso in tre macrosettori: l‘agricoltura, l‘artigianato ed il commercio, la vita domestica e familiare. Alla prima sezione appartengono la maggior parte degli oggetti, esposti nella sala centrale, la più grande, la più ricca e significativa. In particolare, il ciclo del grano è documentato da una serie di attrezzi agricoli, riferibili alle varie fasi della coltivazione: semina, erpicatura, trebbiatura, setacciatura e conser vazione. Finimenti per i bovini, i cavalli e i somari testimoniano l'importanza del bestiame, soprattutto come forza lavoro, mentre gli strumenti degli artigiani aprono interessanti squarci di vita quotidiana. Gli oggetti riflettono la storia della proprietà, delle tradizioni e delle tecnologie rurali, insieme alla storia linguistica locale, che rivive nella nomenclatura in dialetto e nei modi di dire.

396 1. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Carretto siciliano e particolare della chiave posteriore.

397 Sala I Uno dei pezzi più pregevoli è il carretto siciliano, di proprietà della famiglia Briuccia, acquistato dai docenti della scuola. Il carretto, di tipo palermitano, opera del carradore Domenico Monteleone, reca la targa di circolazione e la data del 1933. Le scene, dipinte sulle sponde (masciddari) da Leonardo e Tommaso Rosselli, sono tratte, come indicano le didascalie, da L‟assedio di Firenze, romanzo risorgimentale di Francesco Domenico Guerrazzi, ispirato all‘assalto delle truppe di Carlo V contro la repubblica fiorentina, difesa dal valoroso Francesco Ferrucci. Sulla chiavi posteriore, raffigurato ad intaglio, il miracolo dell‘apparizione di Santa Rosalia, che distoglie dal suicidio il saponaro Vincenzo Bonelli. (fig.1). All‘ingresso, sulla destra, uno spazio dedicato all‘apicoltura: un bell‘esemplare di torchio (torchiu) per la spremitura del miele completo di panieri, una caldaia di rame per sciogliere la cera e due arnie (fig.2). Segue un ampio settore dedicato all‘agricoltura. In alto, si trovano i finimenti per aggiogare il cavallo ed il mulo al carretto e, in basso, le cassette per il trasporto del concime o di altro materiale. Accanto, due aratri in legno, al primo veniva aggiogato un solo animale, al secondo due per mezzo di un giogo (iuvu) e del varduneddu (fig.3). Poi un marchio in ferro con la lettera ―M‖ utilizzato per la marchiatura degli animali e una varietà di basti (capizzeddi), che servivano per aggiogare il cavallo all‘aratro. Di notevole interesse, la frasca, utilizzata per compattare il terreno e prepararlo alla coltivazione del cotone, vari tipi di falci (faci) e ancini per la mietitura e due raschiatori per pulire il vomere dell‘aratro dalla terra. Particolare è il ditale di canna, che serviva come protezione delle dita dal taglio della falce (figg.4-5).

398 2. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Torchio per il miele, calderone scioglicera, lemmo ad invetriatura monocroma e gavita per le api.

399 3. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Finimenti, selle aratri in legno e, in fondo, la frasca.

400 4. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Falci, uncini, aratri in ferro.

5. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Ancineddu, falce, ancini, ditale per la mietitura.

401 L‘esposizione prosegue con due aratri in ferro e un erpice (erpici) in ferro, che serviva per frantumare le zolle e spianare il terreno. Seguono le selle (sidduna), le sacche da appendere alle selle (vertuli), la bisaccia (sacchina), due museruole (ritunneddi), una cavezza (capizzuni) e le staffe. Al centro della sala si possono osservare, una serie di contenitori, realizzati con canne e arbusti, che secondo la grandezza e la forma prendono nomi diversi: cufina, cartedde e panara (fig.6). Seguono la treggia (stragula), usata per trasportare i barilotti di legno in groppa agli animali e i porta brocche (canceddi) (fig.7). Le brocche (quartare), insieme a giare e bummuli in maiolica e terracotta, sono disposte in un‘isola ricavata al centro della sala. (fig.8). Sempre al centro, un esemplare di torchio per la spremitura dell‘uva. (fig.9). Il mosto ricavato veniva trasportato con l‘otre (utri), un contenitore di pelle essiccata, e poi veniva messo nelle botti (vutti). Un pezzo pregevole è il cardatore meccanico per la lana (fig.10). Alla parete sono appese le bilance (valanzi), due realizzate con la giummarra, una di rame a un piatto con l‘ago e il romano (rumano) e un‘altra in rame con un piatto grande per la pesatura e quello piccolo per i pesi (fig.11). Sulle vetrine, lungo il muro, gli oggetti per l‘illuminazione, alcuni fornelli (primus) e lumi (lumere) a petrolio, la lampada ad acetilene (acitalena) e due fornelli ad alcool (spiritere) (fig.12); accanto, alcuni ferri da stiro (fig.13) e i contenitori (biduna) in alluminio, che servivano per trasportare il latte e venderlo a domicilio. Di particolare interesse la ferla che veniva usata nel commercio: un pezzo di legno, diviso in due parti, recava incisi dei segni corrispondenti ai debiti contratti (fig.14).

402 6. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Cufina, cartedde e panara.

7. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Canceddi.

403 8. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Isola centrale con giare, quartare , cantari e bummuli di ceramica.

9. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Torchio e botti.

404 10. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Cardatore meccanico.

405 All‘interno della vetrinetta sono esposti i ferri del cavallo e del mulo, le cavezze (capizzuna), i raschiatori (raschiatura), una pastoia in ferro (pastura) e il pennato (rinciglio) con la roncola (runca), che servivano per potare le vigne. (fig.15) . Accanto, una scure (mannaia), usata dal macellaio, un metro per la misurazione degli animali, le forbici per tosare le pecore, una bilancia a due piatti in rame con i pesi ed alcuni attrezzi di lavoro. Sempre all‘interno della vetrina, sono esposte delle figurine di terracotta, che rappresentano i vari mestieri, realizzate recentemente. All‘angolo, un crivello (crivu), poggiato su tre piedi, che serviva per la pulitura del grano, accanto a pale, tridenti, setacci e mazze (fig.16). Vicino, appesi, contenitori di giummarra (zimmila), sporte (coffe), seghe (serri), coppi per raccogliere i fichi d‘india e due reti (rituna), utilizzate per il trasporto della paglia. Al centro della sala si trovano una tinozza (tina) in legno, i decalitri (dacalitru) per misurare il mosto, alcuni imbuti (muti) in metallo, un contenitore (cafiso) per la misurazione dell‘olio, i secchi (cati) in zinco, una bacinella (bagnera), una gabbia (nassa) di vimini per la custodia dei pulcini, scaldini (tancini) in rame, un nebulizzatore (soffiaturi), un catino (lemmu) (fig.17). Seguono tre calderoni (pignati) in rame, di diverse dimensioni per la preparazione della ricotta e dei formaggi, il braciere (bascieri) e l‘innaffiatoio (innaffiaturi). Accanto, una campionatura completa dei misuratori delle granaglie, tipici della zona: il quarto (lu quartu), il mondello (lu munneddu), e i tumuli (li tummina) (fig.18).

406 11. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Bilance, campanacci e contenitori per il latte.

12. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Oggetti per l’illuminazione.

13. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Ferri da stiro, lampione e seghe.

14. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Ferla.

15. Montallegro. Museo della Civiltà contadina.Sala I. Raschiatura e pastura.

407 16. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Crivi, coffe, pale e tridenti di legno.

408 17. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Tina, decalitri e imbuti.

18. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala I. Quartu, munneddu, tummina.

409 Sala II Nella seconda sala sono stati ricostruiti gli ambienti domestici: nella camera da letto (fig.19) si trova il letto, realizzato con cavalletti in ferro (trispa), tavole in legno e materasso imbottito di fibra vegetale. Accanto, il vaso da notte (cantaro o silletta), uno scaldaletto, la culla in ferro battuto, il girello di legno, la bacinella di zinco per il bagno del neonato. Le valigie (valigi) e il baule (baulli) ricordano il triste periodo dell‘emigrazione verso i paesi oltreoceano. Appese alla parete, le immagini sacre, le foto di famiglia, l‘acquasantiera, la corona del rosario (cruna) e un attaccapanni (appizza robbi). Ai piedi del letto si trova la cassapanca (cascia) genovese utilizzata per la conservazione della biancheria (robbi). All‘angolo, la pila, una giara per l‘acqua e le bacinelle (bagneri) di zinco smaltato poste su treppiedi, uno in legno e due in ferro. L‘ambiente cucina è stato ricreato attraverso un forno di gesso e un focolare a legna, con suppellettili e utensili: pentole, piatti, caffettiere, graticole, tegami di creta e vari contenitori (figg.20-21). Sulle mensole cannate, uglialori e bummuli in maiolica policroma con decorazione floreale, prodotti a Burgio intorno alla metà del XX secolo e i contenitori (vasceddi) per scolare la ricotta e il formaggio. Accanto al forno, la gramola (sbriga) e la madia (maidda) per impastare la farina (fig.22). Di fronte alla cucina (fig.23) si trova una credenza con tazze di porcellana, posate, bicchieri,vassoi e rosoliere e un tavolino con l‘occorrente per ricamare. In un angolo della sala è stato riprodotto il banchetto con gli attrezzi del calzolaio, mentre in uno scaffale si trovano le varie forme di legno per le scarpe. (fig.24).

410 19. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala II. Camera da letto.

411 20. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala II. Ambiente cucina e suppellettili.

412 21. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala II. Pentole, tegami e vasi da dispensa.

22. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala II. Maidda esbriga.

413 23. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala II. Credenza, tavolino con occorrente per ricamo, macchina da cucire.

414 Da pavimenti della prima metà del secolo scorso provengono gli esemplari di mattoni di maiolica (maduna pinti), mentre i puttini di gesso (angiledda) adornavano le pareti delle case. Tra gli oggetti esposti, anche alcune macchine da cucire, mentre un pezzo originale è la macchina da proiezione per il cinematografo. (fig.25).

Sala III Nella terza sala, esposti in una vetrina, una sveglia del 1900, i misurini dell‘olio in lamiera zincata, un sigillo del pane con le iniziali di famiglia, una veste di battesimo. Sulle mensole, un cardatore per palma nana, le scope di giummarra, le coffe, un attrezzo per fare le maniche dei maglioni, un fuso a manovella (fig.26) e le sassole, che servivano per prendere dai sacchi la farina, lo zucchero o i legumi (fig.27). Seguono una carriola in legno, un torchio per fare la pasta, un filatoio, una sgranatrice per il cotone, alcuni fusi e i macinini del pepe e del caffè (fig.28). Sulla parete dirimpetto, gli attrezzi del falegname: la mola con un supporto in legno, le pialle, la raspa, i martelli per l‘impellicciatura e un trapano a mano. Infine, alcuni tipi di chiavi, serrature e lucchetti (catinazza) (figg.28-29), una forma per tegola in legno (canali) (fig.30), una pressa per rilegare i libri e un diploma di una maestra elementare montallegrese del 1896.

415 24. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala II. Banchetto dl calzolaio, maduna pinti, angiledda di gesso.

25. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala II. Macchina da proiezione per cinematografo.

416 26. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala III. Cardatore, scope di giummarra, attrezzo per le maniche dei maglioni, fusi.

27. Montallegro. Museo della Civiltà contadina.Sala III. Coffe, imbuti e sassole.

417 25. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala III. Sgranatrice per il cotone e filatoio.

418 28. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala III. Chiavi.

29. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala III. Catenacci e lucchetti.

30. Montallegro. Museo della Civiltà contadina. Sala III. Forma di canali in legno.

419 Claude Monet, Covoni alla fine dell’estate, 1890-1891, Louvre, Parigi (da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Claude_Monet._Haystack._End_ of_the_Summer._Morning._1891._Oil_on_canvas._Louvre,_Paris,_France.jpg)

Finito di stampare nel Giugno 2014

Progetto grafico e redazione Valentina Caminneci Dunque, se l’animo tuo nel cuore vagheggia ricchezze, fa’ come io ti dico, fa’ che lavoro s’aggiunga a lavoro (Esiodo, Le opere e i giorni, vv.. 381-382, trad. it. Ettore Romagnoli). Regione Siciliana Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali. Assessorato Beni Culturali e Identità Siciliana Via U.La Malfa,5. Agrigento. [email protected] Dipartimento Beni Culturali e Identità Siciliana R.P.Salvatore Donato. Progetto Valentina Caminneci Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali URP Adriana Cascino. [email protected] Agrigento tel.0922-552516 fax 0922401587