L'industria Del Ferro in Versilia Dall'età Comunale Ai Nostri Giorni, P. 20
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L’INDUSTRIA DEL FERRO IN VERSILIA DALL'ETÀ COMUNALE AI NOSTRI GIORNI L'attività estrattiva in Versilia è documentata già agli inizi del XIII secolo dalle controversie dei Signori di Corvaia e Vallecchia che si contendevano le miniere di piombo argentifero di Val di Castello, di Gallena e di Stazzema1, benché le escavazioni minerarie nelle Apuane si possano far risalire ai Romani e forse agli Etruschi2. Probabilmente si estraeva anche minerale ferroso dal monte Arsiccio e dalle altre miniere conosciute fin dalla antichità—Monte Ornato, Stazzema, Vernacchietto e Palatina—che, almeno in parte, alimentavano l'industria locale nei primi decenni del '4003. Inoltre, fin dal XIV secolo era conosciuta “ la cava della pietra refrattaria per l'uso dei forni fusori ”4, situata in località Pietrapania nella valle del torrente Cardoso, tra gli abitati di Cardoso e Malinventre. [20] La disponibilità di materia prima, la presenza di estesi boschi di proprietà comunale e l'abbondanza di corsi d'acqua perenni che garantissero il movimento delle ruote idrauliche che azionavano mantici, magli, distendini e battiloppo5 favorirono il sorgere, lungo la valle del Versilia e dei torrenti limitrofi, di numerose piccole attività metallurgiche, poco più che 1 Cfr. E. REPETTI, Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana, Firenze, presso l'Autore, 1841, IV, p. 234 dove si cita “ un istrumento di consorteria del 9 ottobre 1219 fra i diversi Visconti di Corvaja e di Vallecchia nel quale si dichiara che le Argentiere di Valbona [Valdicastello] e di Galleno toccarono di parte ai nobili di Vallecchia, mentre quelle situate nel distretto di Stazzema dovevano appartenere ai nobili di Corvaja ” . 2 Cfr. A. PICCININI, Il Ferro elbano in Italia dall'epoca etrusca alla fine dell'Impero romano, in AA.VV., Miniere e ferro dell'Elba dai tempi etruschi ai nostri giorni, Roma, Mostra autarchica del minerale italiano. Giunta dei minerali ferrosi, 1938, pp. 5-32. cir. inoltre G. DESSAU, Studi sulla miniera del Bottino, “ Boll. Soc. Geol. It. ”, 54, 1935 p. 333 e V. SANTINI C. ZOLFANELLI, Guida alla Alpi Apuane, Firenze, Tip. G. Barbera, 1874, p. 131 (rist. an. Roma, Multigrafica Editrice, 1983). 3 Cfr. Archivio di Stato di Firenze (d'ora in poi A.S.F.), Segreteria di Finanze, 1155, Notizie sulla Magona del Ferro di S.M. il re d'Etruria, (1804). E. REPETTI, Dizionario, cit. IV, p. 235 e P. GINORI CONTI, Le Magone della vena del ferro di Pisa e di Pietrasanta sotto la gestione di Piero dei Medici e compagni (1489-1492), Firenze, Olschki, MCM XXXIXXVII in cui si riporta, dal Libro di Mercatura scritto da Giovanni di Antonio da Uzzano nel 1442, il cap. LVII, relativo al Ferro di Pietrasanta, contado di Lucca. 4 Cfr.V.SANTINI-C. WOLFANELLI, Guida, cit., p.145. Queste pietre “ servono per fare i Cannicchi, cioè foderare i forni nei quali si fonde la Vena del Ferro. Il fuoco di questi Forni è veementissimo, e lunghissimo, sicché non ci è altra pietra che questa, la quale vi possa reggere lungo tempo senza vetrificare. Ella è della natura del Sasso morto, ma ha la grana un poco più grossetta, più filamentosa, di colore d'Acquamare, e tra' fascetti delle fibre, ha delle frequenti e larghe, ma sottilissime lamine di talco, lustranti come vernice argentina, sicché molto si assomiglia ad alcune specie d'Amianto. Questo gran mescuglio di Talco o si voglia supporre anche Amianto, è, per quanto io credo, la cagione del suo gran resistere al fuoco, senza calcinare o vetrificare. Vien detta comunemente Pietra di Rosina con tuttoché ella si cavi in un comune diverso, e molto lontano da Rosina. Di esse verisimilmente intese parlare il Cesalpino dicendo: "in Petrasancta Etruriae Mons est, cuius saxa argenteo nitore splendent in igne invicta, fragilia tamen, ob idque inepta operi quadrato" (G. TARGIONI TOZZETTI, Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, Firenze, Stamperia Granducale, VI, 1773, pp. 145-146). 5 Per notizie sugli strumenti e le tecniche di lavorazione del ferro cfr. A. PICCININI, Cenni sui processi siderurgici usati in Italia dal Medio Evo ai nostri giorni, in AA.VV. Miniere e Ferro dell'EIlba, cit., p. 337 e AA.VV., L'industria del ferro nel territorio pistoiese. Impianti, Strumenti e tecniche di lavorazione dal Cinquecento al Novecento, Pistoia, ed. Istituto storico della Resistenza di Pistoia (Prato, la Topografia Pratese), 1983, pp. 81 e seg. Fino al 1700 per ossigenare il fuoco dei forni, delle ferriere, dei distendini venivano utilizzati dei mantici di cuoio che si muovevano alternativamente, poi sostituiti con le trombe idroeoliche. Il maglio, era la macchina che forgiava pezzi metallici posti sull'incudine muovendosi come una mazza battente. Il suo manico, lungo circa 3 metri, era costituito da un tronco di noce o di acacia e veniva messo in movimento dalle “ palmole ”, sporgenze dentate che si trovavano a metà dell' “albero”, un tronco di quercia lungo circa 4,5 metri, fissato al centro della ruota. L'acqua giungeva alla ruota dal bottaccio attraverso la tromba uno stretto canale con una caduta di alcuni metri. Il bottaccio era il serbatoio in muratura in cui si raccoglieva l'acqua della gora. Di dimensione variabile, nel caso degli edifici del Pietrasantino era posto esternamente agli stessi, mentre talvolta per motivi di ordine climatico o di localizzazione poteva essere pensile per garantire la caduta della tromba o trovarsi all'interno dell'edificio. Anche il “battiloppo”, un grosso mortaio multiplo usato per frantumare le “loppe ”, cioè le scorie di fusione del minerale, era azionato idraulicamente. fucine di fabbro, dove la conformazione delle valli o la possibilità di derivare una gora consentivano lo stabilirsi di una fabbrica6. [21] Le difficoltà di estrazione del minerale locale, la scarsa entità della produzione e la sua cattiva qualità, tuttavia, fecero sì che già nella seconda metà del '400 fosse attiva in Pietrasanta una Magona gestita dalla Compagnia genovese degli Spinola, alimentata esclusivamente dal minerale proveniente dall'Isola d'Elba7. La Magona, istituzione di origine genovese, altro non era che una sorta di appalto, di privativa nel commercio, in questo caso, del minerale ferroso. La Magona di Pietrasanta fu probabilmente la prima a sorgere in Toscana. Riconfermata nel 1478 agli Spinola, passò nel 1489 ad una compagnia lucchese, finché pervenne ai Medici attraverso la mediazione di Giovanni Cambi nel 1488. La vena acquistata dalla Magona di Pietrasanta, circa 30 centi l'anno8, veniva smistata tra i fabbrichieri della Versilia (Albiano, Stazzema, Retignano, Ruosina, Pruno, Calcaferro), della Lunigiana e della Garfagnana (Aulla, Forno e Camporgiano). A Pietrasanta esistevano un magazzino fuori le mura ed un altro alla foce del Motrone, mentre per gli acquirenti della zona di Massa la consegna del materiale avveniva alla foce del fiume Frigido. La fusione della vena “facevasi al fuoco di Ferriera, poco dissimile dal Forno alla catalana”9, cioè “ a basso fuoco”. I1 minerale, unito ad una quantità tripla di carbone di castagno si fondeva con un fuoco di otto-dieci ore e si raccoglieva in “massello” nel crogiolo. Veniva quindi estratto, spezzato con mazze a braccia, riscaldato nuovamente e sottoposto al maglio per farne verghe, quadroni, spiagie per le successive lavorazioni10. [23] Oltre al “maestro di fornace”, che impostava la produzione e ne fissava il metodo, per far lavorare una ferriera erano necessari un “menatore di mantici”, addetto alla manutenzione ed al funzionamento dei mantici qualora l'acqua scarseggiasse, uno “scaldatore” addetto al funzionamento dei forni, alcuni “fucinatori” che battevano il ferro alle incudini ed al maglio, alcuni “manovali” addetti alla triturazione ed al lavaggio del minerale ed al suo “arricchimento”, cioè allo scarto del materiale inerte, e, talvolta, un “ maestro carbonaio ” il cui compito era quello di controllare le squadre di carbonai e di coordinare i rifornimenti e lo stivaggio del combustile11. La produzione di ferro lavorato era costituita per lo più da ferri e chiodi da cavalli, da bullette e gangheri, almeno da quanto risulta dal libro Azzurro B della Compagnia di Piero di Lorenzo Dei Medici in Pisa studiato da Pietro Ginori Conti e relativo al triennio 1489-149212. Era destinata per lo più al mercato locale, ma i magonieri, pur di incrementare la vendita della vena, accettavano spesso in cambio il ferro lavorato per collocarlo, pur con mediocre guadagno, su mercati meno asfittici di quello locale. * * * 6 Nel territorio di Pietrasanta dovevano essre in attività, nel '300, non meno di 10 fabbriche (cfr. P. PELÙ , Cenni sull'industria e sul commercio del ferro in Versilia nei secoli XIV e XV, Lucca, Nuova Grafica Lucchese, 1975, p. 12). Le prime rudimentali fucine si erano localizzate il più possibile vicino alle miniere, ma già nel '300 lo sfruttamento della vena locale doveva essere quasi cessato e si privilegiava la vicinanza alle vie più agevoli cioè la posizione di fondovalle. Nel 1385 secondo la testimonianza di un corrispondente dell'azienda pratese di Francesco Datini riportata da Paolo Pelù (ibidem, p. 13), erano attive sicuramente 5 fabbriche nella valle del Versilia, ma altri documenti riportavano industrie a Valventoso, Retignano e Giano: “ Il detto Bartholomeo Panicho fa lavorare a cinque fabbriche intorno a Pietrasanta [...]. Le dette fabriche sono ne' luoghi vi dirò: a Ruosino n'à due e una a Chalcaferro, e una a Stazema, e una a Valdichastello. L'una da Ruosino è migliore che tutte le altre quattro, e poi Chalchaferro seghue, e l'altre tre a uno modo ” (in Archivio Datini Prato, D 528, Lettera Lucca-Pisa, 25 maggio 1385). 7 Cfr. P. GINORI CONTI, Le Magone, cit., p. 61 e R. CARDARELLI, Le miniere di ferro dell'Elba durante la signoria degli Appiano e l'industria siderurgica toscana nel '500, in AA.VV., Miniere e ferro, cit., p. 104. 8 Più o meno 335 tonnellate.