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Diacronie Studi di Storia Contemporanea

N° 29, 1 | 2017 “Crash test” Continuità, discontinuità, legami e rotture nelle dinamiche della storia contemporanea

Redazione di Diacronie (dir.)

Edizione digitale URL: http://journals.openedition.org/diacronie/4862 DOI: 10.4000/diacronie.4862 ISSN: 2038-0925

Editore Association culturelle Diacronie

Notizia bibliografica digitale Redazione di Diacronie (dir.), Diacronie, N° 29, 1 | 2017, « “Crash test” » [Online], Messo online il 29 mars 2017, consultato il 28 septembre 2020. URL : http://journals.openedition.org/diacronie/4862 ; DOI : https://doi.org/10.4000/diacronie.4862

Questo documento è stato generato automaticamente il 28 settembre 2020.

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INDICE

Nota introduttiva n. 29 – marzo 2017 Jacopo Bassi e Fausto Pietrancosta

I. Articoli

La Icaria di Étienne Cabet: un’utopia letteraria del XIX secolo José D’Assunção Barros

Guerra e miniera in Toscana Il lavoro nel comparto lignitifero durante i due conflitti mondiali Giorgio Sacchetti

Un oscuro protagonista dell’affaire Moro: Antonio Chichiarelli e il falso comunicato n. 7 Francesco Landolfi

Un largo y sigiloso camino Espionaje e infiltración policial en el mundo estudiantil en la Argentina (1957-1972) Monica Bartolucci

“Diplomacias y soberanía” Argentina y Gran Bretaña (1982-1989) Pablo Baisotti

II. Tavola rotonda – Wikipedia e le scienze storiche

Riflessioni sulla narrazione storica nelle voci di Wikipedia Tommaso Baldo

Verso il sapere unico Nicola Strizzolo

Dissoluzioni, parodie o mutamenti? Considerazioni sulla storia nelle pagine di Wikipedia Mateus H. F. Pereira

Risposta a “Riflessioni sulla narrazione storica nelle voci di Wikipedia” Iolanda Pensa

Wikipedia è poco affidabile? La colpa è anche degli esperti Cristian Cenci

Danzica e le guerre wikipediane Qualche osservazione sulle edit wars Jacopo Bassi

Considerazioni conclusive Riflessioni sulla narrazione storica nelle voci di Wikipedia Tommaso Baldo

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III. PICO – Il corporativismo

Teorie corporativiste nella Grecia del primo dopoguerra (1922-1940): dalla teoria alla prassi Spyridon Ploumidis

Il pensiero corporativo in Miguel Reale: interpretazioni del fascismo italiano nell’integralismo brasiliano João Fábio Bertonha

IV. Recensioni

Philip Cooke, L’eredità della Resistenza. Storia, cultura, politiche dal dopoguerra a oggi Simeone Del Prete

Gianni Fresu, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo Andrea Ricciardi

Matteo Pasetti, L’Europa corporativa. Una storia transnazionale tra le due guerre mondiali Camilla Poesio

Alessandro Portelli, Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni Alessandro Stoppoloni

Maurizio Isabella, Konstantina Zanou (edited by), Mediterranean Diasporas. Politics and Ideas in the Long 19th Century Deborah Paci

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Nota introduttiva n. 29 – marzo 2017

Jacopo Bassi e Fausto Pietrancosta

“Crash test”

Continuità, discontinuità, persistenze e rotture nelle dinamiche della storia contemporanea

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1 Il numero 29 di Diacronie. Studi di Storia contemporanea intende proporre una discussione a più livelli sui concetti di continuità e recupero dei legami con le vicende, le visioni, i tracciati impressi dalle persone al corso delle storia, in una prospettiva comparativa con le improvvise dinamiche che sopraggiungono a rompere il quotidiano fluire della vita politica, economica e culturale delle società contemporanee tra XIX e XX secolo. Le eredità di lungo corso che la storia ci ha lasciato si confrontano in quest’ottica con le crisi e le rotture congiunturali degli assetti consolidati nel tempo, a volte in modo imprevisto, virulento e impetuoso, altre in modo graduale e per certi versi impercettibile, ma in ogni caso in modo tale da imprimere una svolta nelle strutture fondamentali dei vari ambiti della società, modificandola spesso radicalmente.

2 José D’Assunção Barros nel suo articolo prende in analisi l’egualitarismo nella letteratura utopica del XIX secolo, soffermandosi in particolare sulla società immaginaria ideata da Étienne Cabet, nel romanzo intitolato Voyage en Icarie (1842). La sua analisi è preceduta da una breve introduzione alla letteratura utopica a partire dal XVI secolo tesa al recupero, in chiave comparativa, delle proposte di autori quali Moro, Campanella, Francis Bacon, Fourier, Saint-Simon e Robert Owen. La riflessione proposta sui modelli di distribuzione dell’uguaglianza, si sviluppa in tal senso prendendo in considerazione le riflessioni di Norberto Bobbio e Amartya Sen su questo tema. La contestualizzazione dell’opera di Cabet si inquadra nel tentativo di gettare un ponte tra istanze letterarie e sociali, testimonianza di un legame forte tra temi culturali e società, e del grande interesse tra i lettori del tempo per questi temi che fornirono un contributo ideale fondamentale per la realizzazione di specifiche esperienze utopiche.

3 Giorgio Sacchetti nel suo Guerra e miniera prende in esame l’impatto che la Toscana delle industrie estrattive riuscì ad imprimere nel corso delle due guerre mondiali ritagliandosi, attraverso un contributo rilevante all’approvvigionamento del sistema produttivo italiano, un ruolo socio-economico di livello nazionale, che ebbe un’importanza cruciale soprattutto per quanto riguarda il settore energetico. Partendo da questo significativo caso-studio e analizzando alcune vertenze, il saggio si concentra così sul tema del lavoro in miniera, dei suoi forti legami col tessuto sociale e col territorio, pur in un momento di crisi e di violenta rottura rappresentato dalle emergenze belliche del 1915-18 e del 1939-45. L’analisi svolta si sofferma soprattutto sull’organizzazione produttiva, sulle modalità del reclutamento e sulla disciplina nelle differenti mobilitazioni industriali, sui contratti stipulati, sul trattamento salariale, sulle condizioni di lavoro e la salubrità, senza trascurare i temi dell’occupazione tedesca e della gestione partigiana dei siti minerari.

4 L’argomento affrontato da Francesco Landolfi nel suo articolo ci introduce ad uno dei momenti più traumatici della storia politica italiana: il sequestro dell’onorevole da parte delle Brigate rosse. In tal senso questo evento e la sua drammatica conclusione hanno rappresentato un reale momento di crisi ed elemento di rottura delle dinamiche politiche e istituzionali, in grado di avviare una nuova fase della vita del paese. La lotta portata avanti dalle istituzioni contro il terrorismo brigatista

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trascinò infatti l’intera nazione in una situazione di latente guerra civile, fino a determinare un diverso corso per la politica nazionale e ad avviare una nuova fase per la storia italiana degli ultimi decenni. Nello specifico emerge la figura criminale di Antonio Chichiarelli e viene analizzato il caso del falso comunicato n. 7, attraverso il quale emergono i possibili legami operativi che potrebbero essersi instaurati tra malavita, Brigate rosse e agenzie di sicurezza all’interno di una vicenda ancora oggi non del tutto risolta.

5 Il periodo caratterizzato dall’esilio e dal ritorno di Perón al potere in Argentina (1955-1973), analizzato nell’articolo di Monica Bartolucci attraverso i movimenti studenteschi, permette di approfondire la nostra conoscenza su di un gruppo di personaggi che, dopo un breve protagonismo in politica, fu vittima della repressione statale voluta dalla dittatura militare del 1976. Durante questo periodo, il Departamento de Inteligencia de la Policía de la Provincia de Buenos Aires (DIPBA), la cui sede era a La Plata, riceveva quotidianamente informazioni dettagliate sull’attività degli agenti locali. Questi ultimi si infiltravano nelle riunione studentesche, di carattere politico o sindacale, ma anche in semplici manifestazioni, comizi o conferenze, con l’obiettivo di catalogare i singoli partecipanti in base alla propria “pericolosità”. L’analisi di questa silenziosa sorveglianza ci permetterà di gettare luce su uno degli aspetti più traumatici della storia di questo paese, ed essenziale per comprendere il sistema di repressione portata avanti dal regime militare argentino negli anni Settanta.

6 Anche l’articolo di Pablo Baisotti si occupa della storia di questo paese. La guerra delle isole Falkland a sua volta rappresentò un trauma capace di comportare una rottura delle relazioni diplomatiche tra l’Argentina e la Gran Bretagna, e dunque nei legami di lungo corso che avevano caratterizzato i rapporti tra questi due paesi. I tentativi di ricomposizione delle relazioni e i relativi progressi che ne conseguirono prima e dopo il conflitto furono comunque esigui, soprattutto se rapportati al principale obiettivo dell’Argentina e cioè la possibilità di discutere in merito alla sovranità sulle isole. Questa, a tal scopo, promosse una diplomazia “informale” che si sviluppò di conseguenza e favorì quella opportuna “flessibilità”, accompagnata da adeguate dimostrazioni di buona volontà, sulla quale si basarono i colloqui nei numerosi incontri, nei quali entrambi i paesi cercarono di arrivare ad una soluzione di compromesso con l’obiettivo di conciliare le proprie posizioni.

Tavola rotonda. Wikipedia e le scienze storiche

7 Diacronie ritorna su uno dei temi già affrontati in diverse occasioni come, ad esempio, nel numero 10: il rapporto fra storia e web. Wikipedia in questo caso è oggetto di un dibattito a sei voci – con profili differenti e rappresentative di altrettanti punti di vista – in forma di “Tavola rotonda”. Ad una prima riflessione di Tommaso Baldo (in gran parte basata sulla riflessione scaturita dal collettivo Nicoletta Bourbaki) fanno seguito i commenti di cinque autori, conchiusi da un commento finale di Baldo. L’intento di questa prima “tavola rotonda” è riflettere non solamente, e non tanto, sui limiti e sulle potenzialità dell’“enciclopedia libera”, quanto sull’interpretazione che va data di un progetto che è strutturalmente in fieri. La stessa definizione di Wikipedia (progetto collettivo/enciclopedia/social media/…) impiegata, implica una presa di posizione e un’interpretazione dell’oggetto in questione. Quale rapporto si viene a creare, dunque, tra Wikipedia e le scienze storiche? Quale interazione è possibile in un contesto che è diventato arena di scontro fra visioni differenti e modi diversi di “fare storia”? Si può

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pensare a una modalità di narrazione storica differente da quelle tradizionali o l’“enciclopedia libera” è destinata ad essere forgiata da dinamiche legate all’affermazione del “punto di vista neutrale”?

8 Su questi ed altri interrogativi si soffermano i partecipanti alla tavola rotonda “Wikipedia e le scienze storiche” che vi proponiamo.

PICO. Il corporativismo

9 Gli articoli del Progetto Interculturale COoperativo (Pico) di questo numero affrontano il tema del corporativismo. La rassegna di Diacronie sulla storiografia internazionale tradotta in lingua italiana per questo numero 29 fa ricorso alla produzione di due dei membri del neonato comitato di direzione della rivista: Spyridon Ploumidis e João Fábio Bertonha. L’articolo di Ploumidis analizza le specificità del corporativismo ellenico, contestualizzandolo nel clima sociale ed economico del periodo compreso tra le due guerre. L’adozione di misure corporativiste va perciò ricondotta al clima di generale sfiducia nei confronti del liberalismo che andava diffondendosi negli anni Venti e Trenta in Europa. João Fábio Bertonha prende invece in esame la figura di Miguel Reale, tra i maggiori esponenti dell’integralismo brasiliano, che aderì successivamente al progetto di Getúlio Vargas. La concezione corporativista dello Stato di Reale – come dimostra l’autore – era ispirata dal fascismo della prima ora, di cui il giurista brasiliano era un profondo conoscitore. Anche per questa ragione il vincolo che lo legò al fascismo italiano si sciolse solamente nelle fasi finali del regime italiano.

10 Chiudono il numero le consuete recensioni.

11 Un ringraziamento particolare a Stavros Kouroufexis per il preciso e approfondito lavoro di traduzione dell’articolo di Spyridon Ploumidis e a Luca Giuseppe Manenti per la paziente e attenta rilettura della traduzione dell’articolo di José D’Assunção Barros.

12 Buona lettura,

13 Jacopo Bassi, Fausto Pietrancosta

AUTORI

JACOPO BASSI

Jacopo Bassi ha conseguito la Laurea Triennale in «Storia del mondo contemporaneo» presso l’Università di Bologna sostenendo una tesi in Storia e istituzioni della Chiesa ortodossa dal titolo Tra Costantinopoli e Atene: Il passaggio delle diocesi dell’Epiro all’amministrazione della Chiesa di Grecia e la ‘Praxis’ del 1928; presso lo stesso ateneo, nel 2008, ha discusso la tesi specialistica in Storia della Chiesa dal titolo Epiro crocifisso o liberato? La Chiesa ortodossa in Epiro e in Albania meridionale nel XX secolo (1912-1967). Attualmente collabora con le case editrici Il Mulino e Zanichelli. URL: < http://www.studistorici.com/2009/02/24/jacopo_bassi/ >

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FAUSTO PIETRANCOSTA

Fausto Pietrancosta ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia presso l’Università di Bologna con una tesi inerente le relazioni tra istituzioni politiche e intervento pubblico in economia nella prospettiva del coordinamento tra amministrazioni centrali ed ente regionale siciliano. Già dottore magistrale in Storia d’Europa, presso la stessa Università con una tesi in Storia dello Stato italiano sul coordinamento costituzionale e l’avvio dell’autonomia regionale siciliana, ha svolto attività di ricerca presso l’Archivio Storico e la biblioteca dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma, presso l’Assemblea regionale siciliana, proseguendo poi l’attività di ricerca presso gli archivi degli enti pubblici economici in Sicilia e presso la biblioteca SVIMEZ di Roma. I suoi interessi sono rivolti allo studio dell’evoluzione storica delle autonomie regionali nell’Italia del secondo dopoguerra e delle politiche di intervento a favore dello sviluppo industriale nel Mezzogiorno. URL: < http://www.studistorici.com/2008/09/14/fausto-pietrancosta/ >

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I. Articoli

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La Icaria di Étienne Cabet: un’utopia letteraria del XIX secolo

José D’Assunção Barros Traduzione : Jacopo Bassi

1. Prefazione

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1 Lo sforzo nel conciliare l’idea di uguaglianza con la constatazione delle differenze tra gli uomini ha costituito un sogno antico come la civilizzazione. La sfida insita nel pensare sistemi in cui sia possibile realizzare l’uguaglianza, solo in alcuni ambiti o anche a tutti i livelli, sorse tanto tra i rivoluzionari e i riformatori che si impegnarono nella costruzione e ricostruzione di società reali, quanto tra gli artisti e i letterati che idealizzarono quelle immaginarie. Spesso, del resto, la letteratura e l’arte hanno influenzato la realtà e gli echi di un’immaginazione utopica espressi in prima battuta sotto forma di romanzi e opere artistiche sono passate dalle pagine di un libro ad essere concretizzate. In questo articolo il nostro obiettivo è quello di riflettere su di un autore ottocentesco che ideò – in un particolare romanzo – una società utopica divenuta modello per la realizzazione concreta di un’esperienza umana egualitaria. In un secolo nel quale non furono rare le elaborazioni associate all’immaginazione utopica, il politico socialista Étienne Cabet (1788-1856), in un romanzo intitolato Voyage en Icarie (1840), concretizzò l’ideale di una società perfetta sistematizzando il tema dell’uguaglianza. Politico e militante socialista, coinvolto nei movimenti sociali del suo tempo e interessato a trasformare la realtà concreta, Cabet passò dall’immaginazione utopica alla pratica utopista, andando a ingrossare le fila di coloro che tentarono di costruire effettive comunità socialiste.

2 Nelle prossime pagine ci proponiamo, più nello specifico, di verificare come Cabet affrontò le idee di uguaglianza, disuguaglianza e differenza nel suo romanzo utopico, di come pensò un sistema sociale e idealizzò uno spazio di convivenza, oltre a presentare la relazione tra produzione e lavoro e tra queste due e l’ozio, e di come l’opera concili la necessità di governo con la categoria della libertà. Questioni come queste – che sono quasi sempre presenti nelle utopie immaginate sinora e che acquisiscono una loro specificità nel romanzo utopico di Cabet – divengono importanti nella sua produzione letteraria perché sono reali, concrete nelle società in cui i loro autori vissero, così come nelle società in cui viviamo odiernamente.

2. Utopie

3 La definizione di “utopia” porta con sé una storia vasta e complessa, risale risalente alla prima utilizzazione del termine da parte di Tommaso Moro (1516) e che si avvale delle molteplici ridefinizioni posteriori, siano state esse positive o negative1. Per Moro, scrittore rinascimentale inglese che ha il merito di avere introdotto il termine nello scenario letterario e politico, l’espressione si rifaceva, per omofonia, al contempo al “non-luogo” di una comunità situata al di fuori del nostro spazio e della nostra linea del tempo (ou-topia) e al “luogo della felicità” consolidato attraverso una società perfetta società perfetta (eu-topia)2. Questa sovrapposizione di sensi – il “non-luogo geografico” nel quale si stabilisce un “paese immaginario” e il “luogo della felicità” nel quale si ridisegna una società perfetta – sarà presente in diverse delle realizzazioni letterarie dell’immaginazione utopica. Impiegheremo il termine in questa doppia accezione, per

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via del fatto che questi due significati risultano in sintonia nell’opera Voyage en Icarie, su cui ci soffermeremo in seguito3.

4 L’Icarie di Cabet, inoltre, si rifà a un “viaggio immaginario”, significato principale che la parola utopia aveva nella lingua francese del XVII secolo4. Impiegheremo comunque la parola, pur coscienti di un altro possibile senso, oltre a quello svalutativo che è stato attribuito al lemma nel XIX secolo, sia dalla critica borghese, sia da quella marxista. Si tratta dell’idea, proposta da Karl Mannheim5, per cui l’utopia rappresenterebbe un pensiero che contesta radicalmente il sistema in vigore, così da renderla una speranza6. Relativamente a questo contenuto semantico, possiamo correlarla anche con l’invenzione letteraria elaborata da Cabet. Producendo una visione radicalmente opposta alla realtà esistente, considerando la prospettiva proposta da Bronislaw Baczko7, le utopie si mostrano come «radicalmente critiche». Queste custodiscono, in un modo o nell’altro, la volontà di modificare il corso della storia, vengono caricate dall’intenzione di trasformare il mondo e per questa ragione operano sul piano della veridicità: ossia a partire dalla proposta di un modello realizzabile, anche se non si dimostra come sarebbe possibile metterlo in pratica.

5 Tornando al mondo delle creazioni letterarie che orientano visioni radicalmente opposte ai sistemi vigenti con l’intento di operare una loro critica radicale, è oggi possibile parlare di un’immaginazione utopica o di un genere utopico che già vanta una lunga tradizione storica. Inoltre, in momenti diversi sono già state designate come utopie i progetti di autori che desideravano realizzare una nuova società, come Charles Fourier o Henri de Saint-Simon, o che diedero vita persino a esperienze concrete con l’intento di stabilire comunità ideali o colonie socialiste, come Robert Owen8. Questi tre tipi di possibilità corrispondono alla «gamma completa degli studi utopici: finzioni, oggetti e colonie»9. Con il passaggio dalle finzioni utopiche ai progetti e alle colonie che portarono alla creazione effettiva di una società nuova, passiamo dal genere utopico propriamente detto ai progetti e alle realizzazioni utopiste, due campi che successivamente definiremo meglio. Tra questi due poli – quello dell’immaginazione utopica e quello dei progetti e delle realizzazioni utopiste – troviamo autori peculiari che si muovevano e si collocavano tra l’immaginazione utopica espressa in un’opera letteraria e la realizzazione utopista proposta attraverso l’instaurazione concreta di una comunità ideale, come ad esempio lo stesso Cabet, la cui immaginazione utopica verrà esaminata in questo articolo a partire dalla sua opera letteraria Voyage en Icarie (1840).

6 Osserviamo come fino a qui la nozione di utopia, oggetto di molteplici definizioni e controversie , permetta di accorpare – pur con tutte le limitazioni del caso – opere molto diverse che possono essere divise in tre grandi categorie, a seconda della loro ipoteticità, progettabilità o realizzazione pratica. Anche senza elaborare interpretazioni più precise e suddivisioni possibili del campo utopico, possiamo richiamare in via preventiva una definizione più ampia che abbracci tutti i casi: L’Utopia sarà definita come la costruzione di una particolare comunità dove le istituzioni politiche, le norme e le relazioni tra le persone sono organizzate in accordo con un principio radicalmente differente da quello della comunità dell’autore: questa costruzione è basata sull’estraniamento [estrangement] prodotto da un’ipotesi storica alternativa; è creata da classi sociali interessate all’alternativa e al cambiamento10.

7 Per parte nostra resteremo coscienti dei limiti imposti dalla definizione allargata di utopia, pur senza vietarci l’impiego del termine. Riconosceremo, anzitutto, che non

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esiste propriamente una linea di continuità tra le utopie e, più nello specifico, che leghi gli utopisti del XIX secolo gli uni con gli altri11. Il raggruppamento in un unico campo di autori che sarebbero successivamente stati considerati utopisti fu il risultato di una grande costruzione intellettuale a cui contribuirono linee di analisi differenti. Una lettura d’insieme di autori oggi considerati come utopici si verifica, ad esempio, a partire dalla valutazione di Marx ed Engels delle prospettive socialiste espresse da tali autori utopici, che i due fondatori del materialismo consideravano non rientranti nella categoria da loro elaborata di «socialismo scientifico»12. Fermo restando ciò – il riconoscimento delle discontinuità e delle differenze tra i diversi pensatori che vennero definiti “utopici” – possiamo d’altro canto riconoscere anche che esistono possibili intertestualità (autori legati al pensiero utopista o al genere letterario utopico che hanno letto altri autori della loro epoca e di altre epoche). Questo significa che, se ogni costruzione utopica deve essere considerata nel suo contesto storico, è possibile anche considerarne l’insieme a partire dai problemi posti dal ricercatore, nell’ambito dei quali si stabiliscono connessioni e intertestualità.

8 Un modo interessante per fare chiarezza nell’ambito in cui lavoriamo è distinguere tra un peculiare modello narrativo che finì per costituirsi in quello che possiamo chiamare “genere utopico” (l’utopia come genere letterario) e i progetti sociopolitici o le realizzazioni più specifiche che possono essere associate a un pensiero utopista con la chiara intenzione e volontà di essere trasposte in pratica, come avvenne nel caso dei progetti di Fourier, Saint-Simon o di altri. Consideriamo infatti quelle di utopia e utopismo come nozioni che dialogano fra loro, ma che non necessariamente si sovrappongono13. Per ora rimaniamo nell’ambito delle creazioni letterarie, che è quello che attirerà maggiormente la nostra attenzione in questo articolo, notando preliminarmente come il primo iato che si presenta tra le utopie come genere letterario, da una parte, e i progetti di realizzazione utopista, dall’altro, è che le prime gettano un ponte verso il futuro, mentre i secondi mirano a concretizzarsi nel presente o quantomeno si confrontano con questa possibilità14.

9 A prescindere dalle differenze, esiste un “genere utopico” la cui storia può essere tracciata a partire da una serie di opere letterarie che sono tanto figlie delle società e delle circostanze in cui si creare sono state create, quanto delle intertestualità di cui hanno beneficiato15. Alcuni aspetti sono ricorrenti in molte delle creazioni letterarie che possiamo classificare all’interno del “genere utopico”. Troviamo inizialmente l’impegno nel descrivere una società realizzabile per ciò che riguarda la struttura e passibile di essere ritenuta dal lettore come dotata di caratteristiche di verosimiglianza, al contrario delle creazioni letterarie del tutto chimeriche come la cuccagna medievale, che non prevede un sistema lavorativo e produttivo, ma un’abbondanza infinita che nasce spontaneamente dalla terra. Con questo vogliamo dire che le utopie sviluppano giocoforza una logica in grado di essere compresa e accetta dai suoi lettori assieme a tutta la loro stravaganza.

10 Anche se si posizionano al di fuori del genere utopico, tuttavia sono strumenti critici simili le società che si distaccano molto dalla condizione umana reale, come avviene nel caso dei celebri Gulliver’s Travels16, dove si descrivono comunità costituite da gente minuscola, giganti o cavalli razionali. La letteratura utopica propriamente detta mette in scena uomini e donne normali, senza poteri speciali o caratteristiche sostanziali differenti da quelle incontrate nella realtà umana che si desidera criticare17. Gli abitanti delle utopie non sono divinità e neppure eroi, il che distingue questo genere dai miti,

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nei quali vengono descritte le età dell’oro, evidenziando anche come, mentre queste si riferiscono a qualcosa che si è perduto, talvolta irrimediabilmente, le utopie mirano sempre, attraverso l’orizzonte che ridisegnano, a qualcosa che si desidera conquistare18. Questa scelta permette di allontanare dal genere utopico anche costruzioni mitiche come quelle elaborate da Platone, compresa la sua Politeia19, una repubblica ideale che sarebbe esistita in un’Atlantide situata in un passato molto remoto20. Al passato distante, oramai perduto, le utopie letterarie preferiscono il presente alternativo di una realtà parallela21 oppure il futuro enigmatico che si pone come un orizzonte, come nel caso dell’America visitata a cento anni di distanza di Looking Backward 2000-188722.

11 Inoltre, le utopie letterarie (o) sono abitualmente caratterizzate dal viaggio. Il personaggio principale dell’opera di Tommaso Moro ha viaggiato per raggiungere la sua Utopia, benché questa si trovasse in un non luogo, così come i personaggi principali della Città del Sole di Campanella, della New Atlantis di Francis Bacon, o della Icarie di Cabet, giungono al loro destino utopico grazie a un percorso. Allo stesso modo Edward Bellamy (1850-1898), nel suo romanzo Looking Backward 2000-1887, fa sì che il suo personaggio principale raggiunga la sua società utopica attraverso un viaggio, per quanto questo si svolga nel tempo. In tutti questi casi, il percorso si rivela un elemento tipico delle opere letterarie inquadrabili nel genere utopico, perché questo permette di contrapporre un mondo antico, che deve essere criticato, a un altro, al quale si giunge attraverso un viaggio, indipendentemente dal fatto che sia effettuato attraverso uno spostamento nello spazio, nel tempo o nel mondo dei sogni. Richiamiamo questo aspetto solamente come un segnale della sostanza dell’intertestualità che percorre la storia di questo genere23.

12 Potremmo aggiungere ancora, come tratto caratteristico del genere utopico, la tendenza verso un determinato stile narrativo, nel quale la narrazione si subordina alla descrizione della città ideale, obiettivo principale di questi romanzi. Spesso questa città ideale si fonda su una “perfezione istituzionale” che viene minuziosamente descritta dall’autore24, il quale si impegna ad offrire, attraverso la sua opera, una schematizzazione della realtà letteraria da lui costruita. Per questa ragione il modello più consueto che soggiace al genere utopico, è quello delle topiche legate ai diversi problemi affrontati dal desiderio di realizzare e organizzare una società ideale che tessono il filo della narrazione, qui trasformato in un itinerario lungo il quale vengano passati in rassegna i problemi all’ordine del giorno25. Questo modello plasmato nel percorso didattico si unisce con un’altra caratteristica essenziale presente in questo modello narrativo: lo specchiamento – esplicito o implicito – dell’utopia nella civilizzazione che si intende criticare.

13 La strategia discorsiva e cognitiva nella maggior parte dei casi fa ricorso a quello che molti autori chiamano «straniamento» o «estrangement»26. A partire da queste promesse si può aggiungere che un’ulteriore caratteristica importante del genere utopico sia il fatto che l’utopia – o la descrizione della stessa – in questo caso venga sempre impiegata come uno «strumento critico»27. Come conferma delle nostre considerazioni – e del fatto realmente notevole per cui l’insieme delle caratteristiche fin qui descritte sia perfettamente contemplato dalle diverse creazioni letterarie in sintonia con il genere utopico– possiamo affermare che esiste la possibilità effettiva di considerare queste creazioni letterarie, benché ciascuna sia dotata della sua storicità, di specificità e contingenze, nel novero di un genere comune.

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14 Lasciamo per ultimo un tratto che appartiene tanto alle opere letterarie che costituiscono il genere utopico, quanto ai progetti e alle realizzazioni che ne costituiscono il pensiero e l’azione. Le utopie lato sensu si riferiscono sempre ad esperienze sociali. Conviene ricordare, se siamo nell’ambito del genere utopista, che si tratta di descrivere società; se siamo nel campo dei progetti o delle realizzazioni utopiste, si tratta invece di guardare alle esperienze sociali. La ricerca di un’avventura al di fuori del consorzio umano, come avviene nel caso delle opere letterarie ispirate dal modello di Robinson Crusoe28, non costituisce dunque un’utopia, così come non la costituisce il modello concreto dell’eremita che si autoesilia.

15 Desideriamo ancora affermare che, benché non esista una necessaria continuità tra le varie realizzazioni oggi definite utopiche e che ne troviamo qui un’infinità di casi differenti, l’esercizio intellettuale di far coincidere problemi specifici di queste opere letterarie e delle elaborazioni utopiste del mondo sociopolitico può contribuire alla comprensione di aspetti molto interessanti del pensiero sociale, particolarmente degni di riflessione e studio. La riflessione a cui desideriamo dedicarci ora verte sul problema specifico dell’uguaglianza e, più specificamente, di come viene trattata da Cabet, facendo ricorso all’intertestualità con altre opere utopiche. È opportuno anche affermare chiaramente che ci soffermeremo fondamentalmente sulla costruzione letteraria realizzata da Cabet nel suo romanzo Voyage en Icárie, e non tanto sui successivi tentativi di questo autore e attivista politico volti a realizzare un’esperienza socialista comunitaria, sebbene in qualche occasione, in questo articolo, potremo menzionarle29. L’oggetto della nostra analisi sarà infatti l’Icarie immaginata da Cabet – che, così come molte costruzioni utopiche, vive in una realtà parallela, «sovrapposta alla nostra»30 – e non l’esperienza icariana che successivamente catalizzò le attenzioni di Étienne Cabet con la fondazione di una colonia negli Stati Uniti d’America.

16 Prima di giungere a questa analisi più generale della Icarie letteraria con l’intento di preparare meglio il terreno al problema specifico che esamineremo nella società immaginata da Cabet, sarà opportuno mobilitare un sistema concettuale che permetta di stabilire un legame comparativo fra le analisi che verranno portate avanti. Partiremo da una riflessione sui diversi ambiti attraverso i quali si possono distinguere i differenti tipi di uguaglianza.

3. Due domande fondamentali sull’uguaglianza

17 Un buon riferimento metodologico per la comprensione dei sistemi che discutono l’uguaglianza è stato proposto da Norberto Bobbio nella sua Teoria generale della politica. Per il politologo italiano ogni sforzo nell’intento di riflettere sistematicamente su questo tema deve partire da due domande fondamentali. Quando si affronta il tema dell’uguaglianza, una prima domanda è: «uguaglianza tra chi?». In concomitanza, ci si domanda subito: «uguaglianza di che cosa?»31. Inoltre bisogna considerare che questa seconda domanda, «uguaglianza di che cosa», può implicare vari sviluppi che, per utilizzare un’espressione di Amartya Sen32, potremmo qui chiamare di «variabili focali». Ogni variabile focale definisce uno spazio al quale si riferisce l’ uguaglianza proposta o pretesa. Può essere proposta l’uguaglianza di qualcosa come la scelta dei rappresentanti, le opportunità di lavoro, di istruzione e, al limite, l’ uguaglianza di tutto. Successivamente si deve considerare che le domande iniziali unite («uguaglianza tra chi» e « uguaglianza di che cosa») si possono ramificare in quattro possibili risposte

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che, secondo Bobbio, sarebbero le seguenti: uguaglianza di alcuni in relazione a qualcosa; uguaglianza di alcuni in tutto; uguaglianza di tutti in qualcosa; uguaglianza di tutti in tutto. È possibile schematizzare questo piano di categorie secondo il quadro che presentiamo di seguito:

Figura 1. Due domande interconnesse e quattro risposte

Schema elaborato dall’autore

18 Di esempi inquadrabili in ciascuno di questi casi se ne possono trovare a profusione nella storia delle idee e nella storia. Non vale molto la pena insistere sulla prima possibilità (uguaglianza di alcuni in relazione a qualcosa). Come sottolineato da Bobbio, questo è il luogo comune di qualsiasi legge o regolamento. Ciascuna legge si riferisce a soggetti che hanno qualcosa in comune in grado di inquadrarli nella situazione specifica di cui tratta la legge – e che in questo modo corrispondono solamente a un sottoinsieme del macrocosmo dei cittadini. Al contempo la legge stabilisce diritti o pene in merito a qualche aspetto. Riassumendo la questione, una legge si riferisce a individui specifici in relazione a un problema ugualmente specifico.

19 La risposta numero 2, così come le altre, ci conduce verso l’avventura umana del pensiero politico. «Uguaglianza di alcuni in tutto» era ciò che propugnava Platone nella Repubblica. Platone era critico nei confronti del modello politico della sua stessa polis – l’Atene classica che si sarebbe trasformata in una democrazia piena, includendo ampi diritti politici per una parte ridotta della popolazione (pur conservando l’esclusone degli schiavi, degli stranieri e, su un altro piano, delle donne). Tra tanti utopisti del XIX secolo vedremo emergere la proposta numero 4: «uguaglianza di tutti in tutto». Come rendere possibile un tale sogno di egualitarismo? Per procedere sarà utile riflettere sulla distinzione che si può operare tra modelli egualitari e modelli egualitaristi.

4. Egualitarismi

20 All’interno dello schema proposto in precedenza , la risposta numero 4 («uguaglianza di tutti in tutto») ci riporta alle utopie e alle proposte egualitariste. Non ci sarà modo di esaminare tutti gli immaginari egualitaristi nei limiti imposti da questo articolo, ma si può dire di sfuggita che le due risposte immediatamente precedenti (numeri 2 e 3) corrispondono, ciascuna a modo proprio, a principi egualitari di qualche tipo. La Repubblica di Platone – del secondo tipo un – è un’utopia egualitaria all’interno dei limiti che si propone: prevede l’esclusione di quelli che sono fuori da questi limiti e contempla livelli sociali e funzioni specifiche. Si può dire anche che lo sia persino il modello proposto da John Locke e da altri autori del XVII e XVIII secolo, che dimostrano come una prospettiva liberale circoli anche all’interno di una proposta

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egualitaria ma non egualitarista («uguaglianza di tutti in alcuni aspetti»). Chi negherà che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo sia uno splendido documento egualitario negli articoli che descrivono i diritti inalienabili degli esseri umani? E ovunque le democrazie liberali si rafforzano attraverso l’immaginario dell’uguaglianza, benché la loro base capitalistica si sostenti ampiamente grazie alla disuguaglianza.

21 Questi due modelli – repubblica platonica e democrazia liberale – si sviluppano all’interno di limiti egualitari. Ma l’ambito entro cui si sviluppano diverse delle utopie ottocentesche – tra le quali la società creata letterariamente da Cabet – si riferisce all’ egualitarismo. C’è una sottile distinzione – sarà opportuno sottolinearlo sin d’ora – tra egualitario ed egualitarista. Se osserviamo bene, esiste un superlativo sufficientemente significativo che si sviluppa nel passaggio da una parola all’altra. L’egualitarismo propone la pienezza dell’uguaglianza nei due termini dell’equazione: «Uguaglianza per tutti in tutto (o quasi tutto)»: soggetto e oggetto del processo di equalizzazione vengono estesi tanto quanto è possibile. Ad uno degli estremi, il soggetto dell’uguaglianza tende all’unità assoluta e spariscono le classi sociali; all’altro, l’oggetto dell’uguaglianza si estende a tutte le condizioni di vita e, sintomaticamente, può scomparire la proprietà privata. Non è necessario che vengano raggiunti questi limiti perché già si possa parlare di egualitarismo, ma in qualche maniera dovremo rimanere più vicini proprio a questi poli.

22 Per comprendere i differenti modelli e le matrici egualitariste, possiamo riprendere per sommi capi la loro storia. Ad eccezione delle esperienze più limitate del comunismo cristiano primitivo, le utopie e i modelli politici egualitaristi iniziano a consolidarsi nella modernità. Un punto di riferimento teorico particolarmente importante è sicuramente la Cospirazione degli uguali di Babeuf, testo scritto da Filippo Buonarroti nel 182833. Del resto le utopie egualitarie ed egualitariste già avevano iniziato ad apparire nella letteratura – come abbiamo già visto – sin dall’umanesimo rinascimentale, in particolar modo con l’Utopia di Moro (1478-1535) e la Città del Sole di Campanella (1568-1639), due riferimenti importanti per il genere utopico. Assoceremo a una matrice comune, che denomineremo “matrice Moro”, queste utopie egualitarie che prevedono un mondo abitato da esseri saggi o speciali – e che, pertanto, sono pronti per una vita tanto esente da tensioni quanto è possibile che lo sia (una vita che, per la verità, non può esistere effettivamente se non fuori da questo mondo). È così che l’ Utopia di Moro, descritta nell’opera omonima che venne pubblicata nel 1516, si presenta come una società immaginaria e idealizzata nella quale non esiste la proprietà privata e si verifica una assoluta comunione dei beni e della terra, in assenza di antagonismi tra la città e la campagna – tratto utopico attraverso cui l’autore indirizza una critica all’Inghilterra della sua epoca. Allo stesso modo, non esiste lavoro salariato, né esistono spese superflue o lussi eccessivi e necessari, dal momento che lo Stato ricopre il ruolo di organo amministratore della produzione. Storicamente localizzata in un contesto ben definito, quest’opera dell’immaginazione utopica rinascimentale costituisce simultaneamente una critica alla società feudale e all’Inghilterra contemporanea a Moro. Conserva il valore pionieristico, tra le creazioni letterarie che si inquadrano nel genere utopico, di essere stata la prima idealizzazione di una società in comunione dei beni.

23 L’organizzazione politica è democratica, grazie all’elezione diretta dei magistrati e della suprema autorità del principe. Ma è interessante osservare il sistema fortemente autoritario previsto per evitare che vi siano cospirazioni, trame e manipolazioni

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dell’opinione pubblica. Qualsiasi riunione politica al di fuori del Senato e delle Assemblee Popolari, dove e quando sia prevista la discussione e la votazione periodica delle leggi, viene punita con la morte. Esistono istituzioni permanenti la cui funzione è impedire che i governanti cospirino contro la libertà o esercitino qualche forma di tirannia. Del resto, a parte questo regime autoritario d’eccezione escogitato per far fronte alle situazioni che minaccino il funzionamento democratico, l’Utopia è il luogo privilegiato della libertà di pensiero. Moro costruisce un vero paradiso di tolleranza religiosa, dal momento che gli abitati di Utopia professano i credi più vari senza che questi entrino in contrasto fra loro.

24 La matrice egualitaria presentata dall’autore presuppone l’esistenza di uomini savi, pronti per un mondo di libertà ed eguaglianza, senza ansie egoiste di qualsiasi sorta. Un mondo di uomini che non esistono, potremmo aggiungere. Mondo, oltretutto, senza storia poiché egli non spiega come sia stato possibile giungere a questo stato di perfezione politica a partire da un mondo in precedenza abitato da esseri comuni che, benché si stessero preparando per l’uguaglianza, rimasero senz’altro coinvolti da tensioni sociali di tutti i tipi, coltivando gli interessi egoistici che sorgono spontaneamente in una società competitiva. Rinunciando a esaminare il passaggio dal mondo imperfetto al mondo utopico, Moro tralascia anche la questione della presentazione di un programma rivoluzionario o di trasformazione sociale. Condanna il suo creato perfetto a uno spazio immaginario, a un “non-luogo” proibito agli uomini che rimangono invischiati nella storia e che hanno bisogno di costruire la società in cui andranno a vivere con i loro brancolamenti ed esitazioni, le loro imperfezioni e rivoluzioni.

25 Altre proposte utopiche che si avvicinano al modello presentato da Moro cominciano ad affiorare con l’umanesimo rinascimentale: successivamente viene pubblicata la Città del Sole di Campanella (1568-1639) e la New Atlantis di Bacon (1561-1626). Queste proposte utopiche si poggiano o sull’idea che quelli che le abitano sono pronti per la felicità, per l’uguaglianza e per la libertà – discostandosi un po’ dai conflitti occasionali e di interessi che possono verificarsi nelle esperienze reali – oppure sull’idea di un’élite di saggi rispettati incondizionatamente da tutti e che per proprio per questo riescono a risolvere qualsiasi problema sociale scegliendo infallibilmente la miglior soluzione. Con quest’ultima variante entriamo nel campo di una piccola élite di governanti perfetti, che con la loro presenza e direzione “utopizzano” l’ambiente . Questa distanza tra una piccola cerchia di governanti e la società in favore della quale essi agiscono, con autoritarismo ma anche con il sacrificio personale, è una caratteristica di questi modelli utopici, che li rende distinguibili da quello di cui discuteremo successivamente (l’utopia di Edward Bellamy).

26 La Città del Sole (1602), di Campanella, ad esempio, oltre ad ispirarsi all’Utopia di Moro, il suo modello immediato, si mostra sufficientemente temperata con elementi originari della Repubblica di Platone. Ciò che fa della Città del Sole un’utopia egualitarista è, sopra ogni cosa, il fatto che i beni siano messi in comune. Non esiste la proprietà e viene impartita un’educazione egualitaria. L’egualitarismo traspare dagli stessi indumenti, poiché tutti vestono abiti uguali. L’egualitarismo viene meno quando entra in scena la questione dei generi maschile e femminile; di fatto, i due sessi sono trattati in modo differente – se non con disparità, quantomeno con differenze sufficientemente chiare, che iniziano già a un certo stadio dell’educazione impartita ai bambini. D’altra parte,

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anche tratteggiando un completo egualitarismo, la Città del Sole prevede criteri di distribuzione basati sul merito.

27 Il dettaglio che ci interessa è che questa utopia si rafforzi anche nella direzione e nel governo imposti da un gruppo selezionato di saggi – un gran consiglio di magistrati organizzati con uno schema piramidale, che ha al suo vertice quattro saggi maggiori, uno dei quali ricopre il ruolo di autorità massima. L’Hoh, parola che significherebbe “il Metafisico”, è il sommo saggio che si trova al vertice del consiglio . A lui sono legati gli altri tre saggi: “Potenza”, “Amore” e “Sapienza” – ciascuno dei quali riunisce settori importanti della vita sociale e dei campi umani del pensiero e dell’azione. Così “Potenza” è il responsabile finale per tutto ciò che è relativo alla pace e alla guerra; “Amore” sovraintende a tutto ciò che è in rapporto con l’alimentazione, il vestiario e l’unione amorosa; infine “Sapienza” regge le arti, le scienze e l’istruzione. La piramide della saggezza si estende molto oltre. A ciascuno di questi tre saggi si lega un certo numero di magistrati. Per esempio, il ministro “Sapienza” sovraintende un circolo ristretto di undici magistrati (Astrologo, Cosmografo, Geometra, Storico, Poeta, Logico, Retorico, Grammatico, Medico, Fisiologo, Moralista). In questo modo viene costituita la piramide dei sapienti che, separatamente, sovraintende alla vita degli Uguali che abitano la Città del Sole. Quantunque i saggi facciano in ultima istanza parte dal corpo stesso dei cittadini, non viene meno quella società egualitaria che necessita, per poter essere diretta efficacemente, di un corpo a parte – una sorta di organo speciale all’interno del proprio corpo – che presti attenzione affinché tutto vada nella direzione della soddisfazione e perché l’organismo sociale si sviluppi.

28 Un altro esempio di genere utopico rinascimentale è la New Atlantis di Bacon, opera pubblicata postuma nel 1627. L’Atlantide immaginaria proposta da Bacon si oppone a quella che Platone aveva descritto nella Repubblica. La comunità utopica di Bacon vede anch’essa il suo benessere assicurato da un gruppo di saggi che abita la Casa di Salomone: un’istituzione scientifica la cui funzione è ricercare continuamente i mezzi per semplificare la vita e di dirigere la vita dei cittadini con l’intento di assicurare loro la felicità. Ma è in particolare un gruppo di scienziati a lavorare incessantemente per l’ampliamento della conoscenza in tutti i campi. Questa istituzione è il vero cuore dell’utopia proposta da Bacon, dal momento che si lega ai centri agricoli, a quelli sanitari, a quelli deputati alla produzione dell’energia e così via. I saggi sono – in questo caso – lavoratori instancabili che offrono il loro talento scientifico per il beneficio dell’intera comunità, a cui non rimane che usufruire di un mondo di libertà e uguaglianza perfettamente armonizzato da scienza e sapienza. Un dettaglio rilevante è che la New Atlantis di Bacon già possiede una storia. L’Utopia di Tommaso Moro e la Città del Sole di Campanella non solo sono presentate come “non-luoghi” (utopie), ma anche come realtà fuori del tempo – benché non si spieghi come si sia giunti fino ad esse. Nella New Atlantis di Bacon rinveniamo un’origine: questa è stata fondata 900 anni prima del racconto da un grande saggio altruista proveniente dall’esterno. L’utopia baconiana , in questo modo, viene posta in essere attraverso un gesto magnanimo – non è generata da un processo rivoluzionario o da riforme graduali.

29 Nel XIX secolo nacquero proposte utopiche che, in qualche modo, costituiscono variazioni più moderne dell’utopia di Moro. Nacquero pure i “progetti utopisti”, anche se bisogna notare che, in questo caso, le proposte utopiche erano rafforzate dall’intenzione di vedersi un giorno concretizzate, sebbene, in definitiva, non furono coronate da successo. In comune con il modello egualitarista precedente avevano una

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rigorosa pianificazione imposta dall’alto. Il primo riferimento sono le idee di Charles Fourier (1772-1837), che tramutò in realtà un “progetto utopista” (e non un’opera letteraria apparentabile al genere utopico). Scrivendo di un mondo più avanzato in termini industriali, e che ha assistito ai regressi della Rivoluzione francese, Fourier pretende di portare avanti il suo sogno di una società giusta ed egualitarista con la compiacenza di “capitalisti illuminati” in sintonia con le idee liberali. Il grande fondatore, d’altro canto, sarebbe stato egli stesso; dunque non un fondatore immaginario, ma storicizzato, che tuttavia non riuscì a realizzare il proprio progetto.

30 Le falangi proposte da Fourier corrispondevano a piccole unità sociali con una popolazione di circa 1500 abitanti e ciascuna disponeva di un edificio comune chiamato falansterio, dove tutti vivevano armonicamente34. A prescindere da un calcolo relativo all’abbinamento numerico di uomini e donne, l’idea era quella della spontanea dissoluzione nel falansterio di formazioni sociali rudimentali come la cellula familiare monogamica e ristretta. Per questa ragione esso prevedeva molti spazi di socializzazione, inclusi i refettori comuni. Fourier era un critico feroce del matrimonio, e riteneva che eliminandolo tutto il resto sarebbe venuto di conseguenza, in modo naturale, portando ad una società realmente libera. La rottura naturale con la monogamia era un elemento previsto nello sviluppo dei falansteri. L’attitudine alla moltiplicazione dei rapporti amorosi era definita da Fourier “angelica”. Egli inneggiava a un comportamento edonista nel quale tutti avrebbero cercato il massimo del piacere (quel che già abbiamo visto nell’Utopia di Moro). Il denaro e la proprietà privata, ad esempio, non sarebbero stati soppressi nonostante nella vita “societaria” e salutare del falansterio, epurata dai modelli dell’egoismo e dell’individualismo che fino ad allora avevano caratterizzato la cosiddetta società “civilizzata”, né il denaro, né la proprietà avrebbero avuto un qualsiasi effetto dannoso e generatore di oppressione economica.

31 Per quel che riguarda il modello di redistribuzione della ricchezza, si prevedeva che questo sarebbe stato orientato in funzione della qualità del lavoro prodotto da ciascuno, il che avrebbe giustificato le differenze secondo giustizia. Beninteso: non sarebbe stata una remunerazione che avrebbe privilegiato propriamente tipologie differenti di lavoro, ma semplicemente l’efficienza e il beneficio reale che i gruppi professionali stavano producendo per la comunità. Quanti meno infermi avesse avuto un falansterio, tanto più i medici che operavano al suo interno sarebbero stati ben remunerati; quanti meno problemi strutturali o di manutenzione avessero colpito l’edificio, tanto più avrebbero guadagnato gli ingegneri e i tecnici; quanto più deliziosa e nutritiva fosse stata l’alimentazione, tanto più avrebbero guadagnato i cuochi o coloro i quali in quel mese si fossero dedicati alle attività di sostentamento. In questo modo ciascun gruppo funzionale avrebbe fatto uno sforzo collettivo per innalzare lo standard dei risultati del suo lavoro e, in questo modo, i propri guadagni.

32 Anche l’industriale Robert Owen (1771-1858), un uomo di azione che contribuì significativamente alla storia dei progetti utopisti, tentò a d’istituire una società riformata, investendo le sue risorse in colonie cooperative nelle quali la proprietà privata sarebbe stata eliminata. Egli già aveva ottenuto qualche successo nella sua attività industriale organizzando le sue fabbriche in modo sorprendentemente umano e con grande giustizia sociale, senza che questo pregiudicasse lo sviluppo capitalista delle imprese. Tuttavia, i tentativi di concretizzazione del suo progetto realmente egualitarista naufragarono, in parte a causa delle molte resistenze da parte dell’aristocrazia inglese del periodo35.

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33 Infine, quale ultimo esempio per illustrare il gruppo degli ideatori di “progetti utopisti”, troviamo una società governata da un consiglio di saggi e artisti proposta dal conte Claude-Henri Saint-Simon (1760-1825). Anziché rigettare interamente il mondo, l’utopia di Saint-Simon prevedeva una società industriale privata di disordini e ingiustizie, dal momento che sarebbe stata condotta consensualmente dai “produttori”: gli operai, gli imprenditori, i saggi, gli artisti e i banchieri. In una delle sue prime opere, Lettres d’un habitant de Genève à ses contemporains (1803), egli già aveva proposto che gli scienziati prendessero il posto delle autorità religiose nella direzione spirituale delle scienze moderne. Tuttavia, nell’anno della sua morte, avrebbe pubblicato un’opera intitolata Nouveau christianisme (1825), che si occupava dell’idea di una riforma in campo religioso36. Giova anche ricordare che, come Fourier, Saint-Simon ebbe una preoccupazione peculiare nel discutere la necessità di correggere le diseguaglianze di genere: possiamo notare come tra i sansimoniani si trovino alcune delle donne pioniere nella lotta per i diritti femminili e per un loro inserimento basato sull’eguaglianza nel mondo sociale e politico. Tra queste si deve ricordare il nome di Claire Bazard (1794-1883). Oltre a ciò, relativamente alle modalità di distribuzione della ricchezza, Saint-Simon preconizzava – in Du système industriel (1822) – la formula «a ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuna capacità secondo il proprio lavoro»37.

5. L’Icarie di Étienne Cabet

34 L’ambiguità dei progetti utopisti che imperversarono prima e durante il XIX secolo, come sarebbe successivamente stato messo in rilievo dalla forte critica nei confronti dei socialismi utopici portata avanti da Marx ed Engels, si deve in parte alla credenza secondo cui la realizzazione delle loro proposte socialiste sarebbe stata possibile solamente attraverso l’azione (in genere autoritaria) di un unico leader o di un gruppo di saggi. La figura dell’unità dirigente che veglia sulla società per assicurare il buon funzionamento dell’ordine era abbastanza comune nelle utopie letterarie – quelle che davano vita ad una società immaginaria attraverso una trama di finzione inquadrabile nel “genere utopico”, sull’esempio delle città idealizzate da Moro, Campanella o Bacon – come nelle realizzazioni utopiste che si presentavano sotto forma di progetti da realizzare effettivamente in un preciso momento, come le proposte di Fourier, Saint- Simon e Owen.

35 Nella realtà letteraria tutto pare funzionare come un orologio. Seguendo l’immaginazione dell’autore, i conflitti sembrano non esistere e, quando esistono, le strade per la loro risoluzione sono già tracciate. Allo stesso modo, tanto i leader utopici quanto la popolazione vengono qui idealizzati. Possiamo fare supposizioni, tuttavia, su ciò che sarebbe accaduto nel passaggio da un’utopia letteraria a un’esperienza reale. Che cosa sarebbe avvenuto se esseri umani in carne e ossa avessero tentato di mettere in pratica una Città del Sole, una Nuova Atlantide, un’Utopia? Fourier desiderava effettivamente costruire i suoi falansteri – da lui idealizzati in diverse opere – ma il suo progetto non si scostò mai dalle pagine e dal sogno. Sarebbe stato deluso dalla realtà effettiva – umana e troppo umana – se ci fosse stata un’opportunità concreta di realizzare una nuova società che sognava sotto forma di grandi falansteri? Come avviare – se desideriamo porre tutto in termini più semplici – il passaggio dall’utopia alla topia, dal non luogo al luogo?

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36 L’utopia letteraria ottocentesca che esamineremo maggiormente in profondità, considerando anche la sua inusitata ricezione da parte di una moltitudine di lettori che tentarono di realizzarla fattivamente, ci pone di fronte ai dilemmi e alle ansie generati dall’ambizione di trasformare un’utopia letteraria con i sogni e le parole in una realtà tangibile, fatta di carne, ossa e pietra. L’autore di questa nuova esperienza fu il francese Cabet (1788-1856), avvocato e politico attivo durante la Restaurazione e sotto il governo monarchico di Luigi Filippo. Egli si impegnò da subito nella pratica rivoluzionaria avendo preso parte alla società segreta dei carbonari. Occupò una carica importante nel governo orleanista , portato al potere dalla rivoluzione borghese del 1830. Malgrado ciò, mantenne salda la sua posizione favorevole alla rivoluzione ed egli venne destituito dal suo incarico come rappresaglia per la sua pubblica presa di posizione in favore dei popolani ribelli nel 183138. Una situazione simile, nel 1834, quando era deputato e editore del giornale «Le Populaire», lo portò infine ad essere esiliato in Inghilterra39.

37 Fu qui che ebbe inizio la carriera letteraria di Cabet. Influenzato dalla figura di Robert Owen, industriale utopico di cui abbiamo detto in precedenza, Cabet trasse ispirazione da lui per scrivere nel 1840 un’opera di grande successo: un’utopia letteraria intitolata Voyage en Icarie. In essa, Lord William Carisdall, il personaggio centrale della storia, visita un paese fantastico chiamato Icaria. Questa società ha raggiunto un’organizzazione in cui le disuguaglianze sono scomparse attraverso diversi processi– sempre assicurati da uno Stato rafforzato – come l’abolizione dell’eredità, un’alimentazione per tutti commisurata alle proprie necessità, la proprietà comune dei mezzi di produzione, un’organizzazione del lavoro dinamica all’interno di fabbriche nazionali e un efficiente sistema di pubblica istruzione. Icaria presenta anche elementi già riscontrati in altre utopie rette da uomini saggi, come la supervisione familiare e il controllo eugenico dei matrimoni. Una simile società perfetta dal punto di vista egualitarista sarebbe stata fondata da Icaro, dittatore benigno che, nei primordi della storia di questo paese immaginario situato in qualche luogo dell’Atlantico, avrebbe instaurato e governato il paese con saggezza40. In questo caso, possiamo dire che il modello utopico commisurato ad un’unità direttiva di saggi si riduceva, all’atto iniziale, a un unico uomo. Successivamente, si era stabilita una giunta , ossia un’interconnessione di comitati composti dagli individui in grado di deliberare nelle differenti aree delle necessità umane.

38 Il romanzo produsse un tale impatto sulla società francese, che un grande gruppo di ammiratori di Cabet manifestò il desiderio di realizzare, nella pratica, l’“icarianesimo”. In un manifesto intitolato Allons en Icarie, Cabet lanciò l’appello perché un’“Icaria” venisse creata in Texas, negli Stati Uniti, una suggerimento di Owen. Nel marzo del 1848, i primi icariani francesi raggiunsero l’America, per prendere possesso di una terra che era molto lontana da quella che immaginavano quando avevano firmato un accordo con una compagnia americana. Del milione di acri di terra promessi alla firma del contratto, essi ne ebbero a disposizione solamente diecimila che allora non erano promettenti quelli promessi. Anche così Cabet portò avanti il suo piano per realizzare la sua utopia socialista, agricola e artigianale nello Stato dell’Illinois. Abbiamo detto in precedenza che avremmo parlato di un tentativo effettivo di trasformare un’immaginazione utopica in atto pratico o di trasporre il modello di un’utopia letteraria in una comunità reale. Così non fu per più di un motivo. Il principale di questi è che Icaria – la società immaginaria creata dalla finzione letteraria di Cabet – era uno Stato dall’estensione insulare considerevole, diviso in cento province di dimensioni

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simili, ciascuna di esse divisa in cento comuni con la propria capitale situata geometricamente al centro della regione. Diversamente da questo imponente paese immaginario, strutturato su di una spazialità quasi matematica, l’Icaria reale (o il tentativo di reificarla in una piccola regione di coloni negli Stati Uniti d’America) non sarebbe stato nulla più che un piccolo ammasso di capanne perso nella prateria statunitense, distante dai centri urbani e abitato da pionieri comunisti mossi dall’immagine letteraria di Cabet e innamorati del suo progetto sociale e politico. Concentriamoci, comunque, sull’Icaria immaginaria di Cabet. Il focus dello studio, in questo caso, non sarà sull’esperienza utopista di Cabet come fondatore di una colonia socialista, ma sulla sua inventiva letteraria nel produrre un’opera di impatto facente parte del “genere utopico”.

6. Icaria: uguaglianza geometrica e uguaglianza sociale

39 La capitale omonima del paese di Icaria è di analoga eleganza geometrica. È divisa in 60 municipi, ciascuno autosufficiente per ciò che concerne alcuni aspetti essenziali: spazi pubblici ben definiti, un’unità educativa, un ospedale, un tempio, differenti tipi di negozi. Queste scacchiera di comuni è tagliata a metà da un fiume che divide la città in due parti – con ogni probabilità questo è un richiamo alla Senna di Parigi nell’immaginazione cartografica di Cabet – la città è suddivisa da una trama rettilinea di 100 lunghe strade che si intersecano perpendicolarmente.

40 La forma esteriore della capitale è circolare. Ciò che più ci interessa, tuttavia, è l’organizzazione sociale e politica, la modalità con cui si stabilisce una società egualitaria a partire da questa spazialità geometrica, il modo in cui si organizza la vita umana nei suoi diversi campi di attività. La disponibilità e l’equilibrio dell’alimentazione vengono stabiliti da una commissione di scienziati in grado di deliberare con cognizione di causa sul tema nutrizionale. Il lavoro, sotto l’egida dello Stato, è organizzato all’interno di fabbriche nazionali e il suo prodotto viene depositato in magazzini pubblici. A provvedere alle abitazioni, al vestiario, ai trasporti, alle cure mediche, all’intrattenimento, alla carta stampata, istruzione e sviluppo culturale è sempre lo Stato, attraverso una sofisticata rete di funzionari.

41 Nella giusta misura, tutti sono, in fin dei conti, funzionari dello Stato che, oltre che datore di lavoro, regola anche ciascuna delle istanze della vita umana nella misura della necessità di ogni cittadino. Anche la vita amorosa è quella consigliata e regolata da un organismo statale apposito, che stabilisce le norme per la formazione di coppie e per il riconoscimento del momento in cui il corteggiamento è sufficientemente maturo da poter sfociare nel matrimonio. L’informazione, in compenso, circola attraverso una rete di giornali mantenuta esclusivamente dallo Stato: un giornale nazionale principale, quelli regionali (uno per ogni provincia) e quelli locali (uno per ciascun comune).

42 Tra i comuni del paese, lo Stato rialloca le eccedenze in modo che nulla manchi a nessuna di queste e, conseguentemente, a nessuno dei suoi cittadini. L’egualitarismo, come si vede, si sviluppa simultaneamente nella rete di vite individuali e nella scacchiera spazializzata dei 1000 comuni raggruppati nelle 100 province che, infine, con precisione decimale, costituiscono la totalità dello Stato. La rappresentazione politica si ha, a livello nazionale, attraverso due deputati per comune, e il potere esecutivo si assottiglia a un centro decisionale costituito da 16 membri – che equivale al nucleo dei

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saggi che abbiamo già osservato nelle utopie tradizionali. Risiede qui, in questa spazialità rigorosamente matematica e in questa condivisione umana di ciascun tratto di vita comune, la conciliazione icariana tra l’uguaglianza sociale e l’uguaglianza matematica.

7. Cabet e il contesto storico dopo il successo di Icaria

43 Volgiamoci ora verso il contesto storico di Cabet, creatore di questa ben organizzata utopia letteraria. Abbiamo osservato in precedenza come circa quattrocento ammiratori suoi e del suo romanzo utopico, tutti ispirati da ideali comunisti, abbiano manifetstato a un certo punto il desiderio di concretizzare il sogno icariano. Per discendere dai cieli dell’immaginazione letteraria alla terra delle realizzazioni possibili, il modello icariano esigeva che si trovasse un dittatore saggio, l’Icaro primordiale del romanzo Ma chi, se non lo stesso Cabet, avrebbe potuto assumere questa funzione? Tuttavia all’atto pratico lo scrittore francese si trasformò in un dittatore per nulla ammirato dalla piccola popolazione che confidava in lui e che con lui tentò una colonizzazione egualitarista nelle terre acquistate da una compagnia statunitense. Una volta installati in Illinois gli utopici pionieri e deciso a realizzare il suo sogno con l’incrollabile determinazione di un Icaro e con il pugno di ferro, Cabet inflisse ai suoi correligionari una rigorosa austerità icariana. Particolarmente impopolari furono le dure misure imposte alla comunità nel 1851, durante una crisi. Finì per vigilare sulla vita privata degli icariani, per proibire di bere e di fumare e persino per fomentare un sistema di vigilanza comunitaria nel quale tutti avrebbero dovuto spiare e tenere sotto osservazione tutti. Estremamente criticato, Cabet vide l’assemblea dei membri richiedere la sua espulsione nel 1856, poco prima della sua morte . Gli icariani proseguirono la loro esperienza per alcuni decenni, ma nel 1895 la comunità finì per sciogliersi. Essi si erano trasformati in comuni agricoltori e ora dichiaravano di essere semplici coloni, come tutti. L’esperienza utopica, dopo essere passata da una piccola svolta locale-distopica anche nel periodo dell’egemonia di Cabet, alla fine si trasformava in una piccola comunità come qualsiasi altra41.

44 L’esperienza di Cabet – e il suo tentativo di trasferire nella vita reale qualcosa della Icaria che aveva immaginato – mostra una fragilità comune a molte delle esperienze utopiche che tentarono di tradursi in realtà. L’attuazione dell’utopia, in tutti questi casi, avrebbe dovuto essere garantita dall’azione individuale dei grandi realizzatori. Poteva trattarsi di un dittatore-fondatore, di un comitato di saggi, di un industriale generoso, di un benevolo idealista che aveva bisogno di convincere nobili e importanti industriali per finanziare il suo appassionante progetto. L’utopia, in questo caso, non si sarebbe sviluppata a partire dalle insoddisfazioni e dalle domande sociali, ma avrebbe dovuto essere concessa all’umanità da volenterosi. Non era una conquista sociale ma un dono.

45 Come si nota, l’Icaria di Cabet – un’utopia letteraria che aveva rispondenze con altre che l’avevano preceduta – dialoga, almeno parzialmente, con i diversi modelli utopici menzionati in precedenza. Come questi – che vanno dalle utopie immaginate da Moro, Campanella e Bacon e che si rifacevano ai tentativi o alle speranze reali di concretizzazione delle società perfette, alle realizzazioni utopiste elaborate o pianificate da Fourier, Saint-Simon e Owen – anche l’Icaria fu importante per aver fatto discutere e ridiscutere la possibilità di estinguere l’oziosità e lo sfruttamento dell’uomo

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sull’uomo, oltre ad altre diverse tematiche pressanti tipiche del secolo del consolidamento della società industriale. Il cammino che Cabet e altri autori dell’immaginazione utopica preconizzavano, tuttavia, era “utopico” in un senso molto specifico – si trattava di un percorso ancorato all’idea per cui la riforma sociale, o persino la rivoluzione, avrebbe potuto essere condotta e finanziata da membri progressisti della borghesia nascente. In alcuni casi, troviamo un modello fondato sull’idea di una società egualitaria realizzata a partire dalla benevolenza liberale e diretta da un nucleo di saggi progressisti, come avvenne nel caso delle proposte che culminarono con le speranze di Fourier per la futura realizzazione dei suoi falansteri. In quest’ultimo caso specifico, il nucleo che avrebbe dovuto pianificare dettagliatamente il funzionamento della società, che finì per ridursi a Fourier stesso, si sarebbe costituito nell’esatto momento della nascita di questa. Ciò, almeno in parte, che era previsto tanto nell’utopia letteraria che nella società agricola reale che Cabet tentò di installare in Texas e in Illinois. In Saint-Simon, come già era avvenuto nella New Atlantis di Bacon e anche nella Città del Sole di Campanella, si palesava un’élite altruista di saggi che si dedicava incessantemente a studiare nuove maniere per migliorare la vita nella collettività.

46 Il sogno di sensibilizzare governanti e facoltosi capitalisti nei confronti di un grande progetto di radicale riforma sociale – fino a convincerli a investire in qualcosa che, in verità, avrebbe implicato la loro fine – mise in evidenza uno dei modelli egualitari più intriganti fra quelli che si svilupparono nel corso del XIX secolo. Owen, essendo un industriale di successo, poté provvedere da solo al ruolo complementare di sognatore e di investitore, ma la collettività-modello che tentò di impiantare in America fallì a sua volta, così come la più modesta proposta dell’Icaria americana di Cabet. Il Falansterio di Fourier e le Collettività di Owen e, a fianco di queste, i tentativi pionieristici di Cabet sul suolo americano, facevano parte di un sogno sufficientemente avanzato per il XIX secolo, ma la verità è che, per lo meno fino ai limiti della loro epoca, queste idee si rivelarono inefficaci. Sarebbero state possibili in un successivo futuro?

8. Considerazioni finali

47 Come abbiamo potuto vedere nel corso di questo esame della società immaginaria realizzata dall’Icarie di Cabet, già divenuta un classico della letteratura utopista, e, marginalmente, anche dall’esame di alcune delle proposte egualitarie ed egualitariste prodotte nei secoli XVI e XIX, vi sono molti problemi e dilemmi connessi a un modello in grado di sistematizzare, in ossequio alla giustizia sociale, l’equilibrio tra lavoro e ozio, controllo e libertà, produzione e consumo – solamente per menzionare alcuni dei principali binomi evidenziabili nelle società industriali. Le proposte di rendere possibile una sistematizzazione più effettiva dell’organizzazione una società realmente egualitaria si dimostrarono lacunose I modelli di egualitarismo dei secoli XVII e XVIII toccarono solo marginalmente la questione dell’attuabilità del principio dell’uguaglianza durante il processo di distribuzione della ricchezza prodotta dalla società . “Uguaglianza tra chi” e “Uguaglianza di che cosa” – domande di fronte alle quali queste utopie e movimenti avevano risposto con la formula “uguaglianza di tutti in tutto” – sono necessarie ma non sufficienti per l’elaborazione sistematica di una riflessione approfondita sull’uguaglianza e l’adeguamento ad un modello di società.

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48 Per la preservazione di una società egualitaria sarebbe stato necessario andare oltre il “conseguimento collettivo della ricchezza”, fosse esso consensuale o raggiunto attraverso delle rivoluzioni. Sarebbe necessario discutere, certamente, la questione della “realizzazione della ricchezza” e della sua distribuzione per quelli che saranno i beneficiari dell’uguaglianza sociale. Alla riflessione sull’uguaglianza che deve sempre partire da due questioni originali (“uguaglianza tra chi” e “uguaglianza di che cosa”), sentiamo la necessità di aggiungere una terza domanda fondamentale, importante quanto le due precedenti. È infatti assecondando il paradigma proposto da Bobbio, discusso nel primo paragrafo , che sorge spontaneo un interrogativo, quando parliamo di uguaglianza: “Uguaglianza secondo quali criteri?”.

49 Ammettiamo che, perché si possa parlare in certi termini di egualitarismo, debbano essere stati stabiliti da un lato i beneficiari dell’uguaglianza (tutti o alcuni), dall’altro lato l’oggetto di azione egualizzatrice (uguaglianza di qualcosa – come i diritti politici o la libertà – o uguaglianza di tutto, come nelle proposte egualitarie più radicali). La questione da porre per una realizzazione duratura di una società egualitari sta verte sulle modalità con cui distribuire tra i beneficiari socializzazione ciò che verrà messo in comune. Così, particolarmente per le utopie o tentativi egualitari più radicali, uno dei problemi principali, fu sempre quello della distribuzione della ricchezza. Il modello egualitario di Buonarroti – militante rivoluzionario che è stato menzionato solo di sfuggita in questo articolo – poggiava, ad esempio, sulla prospettiva romantica per cui «quando non ci sono palazzi non ci sono neppure capanne», cosicché l’uguaglianza finale sarebbe sbocciata più o meno spontaneamente da un unico gesto. La Cuccagna medioevale, terra immaginaria dove tutto ciò che era necessario nella vita sorgeva spontaneamente, si sosteneva su una filosofia dell’abbondanza che non necessitava di pianificare rigorosamente il sistema lavorativo. Nel frattempo i modelli egualitari proposti dal socialismo scientifico a partire da Marx e Engels (1880) – modelli la cui discussione va oltre le possibilità di questo articolo– dovettero affrontare queste questioni in modo più concreto e, tuttavia, vennero enfatizzate formule più specifiche di distribuzione della ricchezza (“A ciascuno secondo la propria necessità” o “a ciascuno secondo la propria produzione”). Fu in questo senso che i pensatori politici interessati ad un egualitarismo più moderno, facendo leva su interessi maggiormente pragmatici, dovettero tornare a dialogare con le idee che già contenute in vecchie discussioni filosofiche e con i concetti di uguaglianza aritmetica o geometrica proposti da Aristotele. Questa discussione, tuttavia, ci invita ad una riflessione più specifica,

50 Le opere della letteratura utopica e distopica, d’altra parte, sono ugualmente importanti per mettere in discussione l’uguaglianza e la realizzabilità o l’irrealizzabilità dei modelli immaginari che cerchino la giustizia sociale. Studi sulle utopie letterarie – simili a quella prodotta da autori come Cabet ancora nel XIX secolo – possono contribuire a mantenere sempre attuale questa discussione vitale sulla ricerca umana dell’uguaglianza sociale. Immaginare l’uguaglianza, si può aggiungere, è un primo passo per schiudere la possibilità della sua realizzazione futura.

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NOTE

1. Uno studio di questa storia, in lingua francese, è stato realizzato da FUNKE, Hans Gunter. L’évolution sémantique de La notion d’Utopie en français, in HUDDE, Heinrich, KUON, Peter (eds.), De l’utopie a l’uchronie. Formes, Significations, Fonctions, Tübingen, Gunther Narr Verlag, 1988, pp. 19-37. Una collettanea con diversi saggi sul tema dell’utopia è stata curata da: NEUSÜSS, Arnhelm (ed.), Utopia, Barcelona, Barral, 1971; si veda anche SUVIN, Darko, Pour une définition de l’utopie comme genre littéraire, in ID., Pour une poétique de la science-fiction. Études en théorie et en histoire d’un genre littéraire, Montréal, Les Presses de l’Université du Quebéc, 1977, pp. 47-69. 2. Su questo si veda: TROUSSON, Raymond, «Utopia e utopismo», in Morus. Utopia e Renascimento, 2, 2005, pp. 123-135, p. 125. Il lettore italiano troverà il testo di Trousson da cui è ricavato l’articolo in portoghese in MINERVA, Nadia, Per una definizione dell’utopia: metodologie e discipline a confronto. Atti del Convegno internazionale di Bagni di Lucca, 12-14 settembre 1990, Ravenna, Longo editore, 1992. 3. Se è impossibile pervenire ad una definizione consensuale di utopia – quantomeno per la categoria letteraria del “genere utopico” che andremo a discutere – possiamo riconoscere come esistano una serie di definizioni, succedutesi nel tempo, che rispondono alle specificità dei vari autori e delle questioni della loro epoca. Cfr.: LEVITAS, Ruth, The Concept of Utopia, Syracuse, Syracuse University Press, 1990; QUARTA, Cosimo, «Utopia: gênese de uma palavra-chave», in Morus. Utopia e Renascimento, 3, 2006, pp. 35-53. 4. TROUSSON, Raymond, op. cit., p. 126. 5. MANNHEIM, Karl, Ideologie und Utopie, Bonn, Verlag Fr. Cohen, 1929 [trad. it. Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino, 1985]. 6. BLOCH, Ernst, O Princípio da Esperança, Rio de Janeiro, EdUERJ, 2005 [trad. it. Il principio speranza, Milano, Garzanti, 2005]. 7. BACZKO, Bronislaw, Orwell e Solzenicyn: far fronte al totalitarismo, in MINERVA, Nadia, op. cit., p. 173-184, p. 173. 8. I progetti utopisti come quelli di Fourier e Saint-Simon – nei quali troviamo un «orizzonte isolato, senza un luogo utopico» – vengono considerati da Darko Suvin, per la loro tipologia, come un «pensiero utopico non localizzato». SUVIN, Darko «Um breve tratado sobre a Distopia 2001», in Morus. Utopia e Renascimento, 10, 2015, pp. 465-488. Da queste possiamo distinguere esperienze come quella di Robert Owen, che trovò una sua collocazione, cessando di essere un progetto per concretizzarsi come una realizzazione propriamente detta. Le finzioni (il «genere utopico»), non comportavano l’impegno derivante dal proporsi come progetti e agivano principalmente come strumenti critici della realtà con cui si confrontavano. Questo fu il caso di Utopia di Tommaso Moro, ma anche della Icaria fittizia di Étienne Cabet. 9. SUVIN, Darko, «Um breve tratado sobre a Distopia 2001», cit., p. 472. 10. Ibidem, p. 468. Un altro autore importante, Luigi Firpo sposa questa visione secondo cui un’Utopia necessita di essere globale, non riferendosi solamente a un aspetto della vita umana, ma alla sua totalità. FIRPO, Luigi, «Por uma definição da “Utopia”», in Morus. Utopia e Renascimento, 2, 2005, pp. 227-237, p.229. 11. BACZKO, Bronislaw, «Utopia», in Enciclopédia Einaudi, vol. 5, Lisboa, Imprensa Nacional – Casa da Moeda, 1985, pp .333-396. 12. ENGELS, Friedrich, Socialisme utopique et socialisme scientifique, Paris, Dervaux Libraire-Éditeur, 1880 [L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Napoli, Med. invest, 1992]. Per uno studio sulla relazione tra utopismo e marxismo, si veda GEOGHEGAN, Vincent, Utopianism and Marxism, London, Methuen, 1987.

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13. L’utopismo è una modalità dell’immaginario politico, spesso un programma radicale di trasformazione sociale della realtà esistente, ma più genericamente un «esercizio mentale sui possibili laterali», secondo la formula di Raymond Ruyer. RUYER, Raymond, L’Utopie et les utopies, Paris, PUF, 1950, p. 9. «L’utopia è un genere letterario che corrisponde alla codificazione della modalità utopica attraverso una forma scritta e, più precisamente, narrativa». RACAULT, Jean- Michel, «Da ideia de perfeição como elemento definidor da utopia: as utopias clássicas e a natureza humana», in Morus. Utopia e Renascimento, 6, 2009, pp. 29-45, p. 31. La divisione fra il «genere utopico» e una «modalità utopica» è stata proposta per la prima volta da Ruyer (RUYER, Raymond, op. cit.) e Cioranescu (CIORANESCU, Alexandre, L’avenir du passe: utopie et littérature, Paris, Gallimard, 1972) è stato il primo a utilizzare l’espressione «utopismo» per designare questa modalità utopica, all’interno delal quale il «genere utopico» si inquadra come un caso particolare. Si veda anche: QUARTA, Cosimo, «Homo utopicus. On the Need for Utopia», in Utopian studies, 7, 2/1996, pp. 153-166. 14. Luigi Firpo, discutendo la coscienza che alcuni autori di utopia hanno del fatto che il loro messaggio possa maturare nel futuro, fa ricorso all’immagine per cui: «L’utopia [il genere utopico] è storicamente, un messaggio nella bottiglia, il messaggio di un naufrago». FIRPO, Luigi, op. cit., p. 230. 15. «Se è vero che la coscienza utopica inventa o diversifica i suoi mezzi espressivi, non è meno vero che esiste una categoria di testi che agiscono secondo alcune costanti per via delle quali deve essere possibile riunirle in un genere più o meno coerente». TROUSSON, Raymond, op. cit., p. 127. Inoltre, secondo ciò che aggiunge Trusson: «Se tutto il testo letterario è al contempo il prodotto di una combinazione presistente e di una modificazione – più o meno profonda – di questa combinazione, questo testo completa ed estrapola al tempo stesso il genere senza, per questo motivo, rompere con esso». Ibidem, p.131. 16. SWIFT, Jonathan, Travels into Several Remote Nations of the World. In Four Parts. By Lemuel Gulliver, First a Surgeon, and then a Captain of Several Ships, London, Motte, 1726. 17. Un’eccezione interessante è rappresentata dall’utopia creata dall’ex-monaco francescano Gabriel de Foigny: La terre australe connue (1676). Il paese immaginario da lui descritto è abitato da una razza umana pre-adamita di ermafroditi, i quali, per le loro peculiarità fisiche, si trovano al di sopra delle normali passioni umane. Per via del fatto di non essere discendenti di Adamo e, quindi, non essendo soggetti alle conseguenze della Caduta, questi abitanti utopici possiederebbero una natura umana più perfezionata. Partecipando tutti di una ragione perfetta, non necessitano neppure di leggi. In ogni modo, contrariamente a questo modello, le utopie che ricorrono più spesso devono spesso affrontare la sfida di pensare una società istituzionalmente perfetta per esseri umani nella loro condizione normale. 18. Sui generi vicini e apparentabili al genere utopico, si veda: TROUSSON, Raymond, op. cit., pp. 128-130. 19. PLATONE, La repubblica; PLATONE, Timeo. 20. Questo aspetto è oggetto di un’eventuale discordanza tra gli autori che si sono specializzati nello studio delle utopie. Al contrario di Trousson (TROUSSON, Raymond, op. cit., p.128), che separa le età dell’Oro dal corpus utopico, Racault ammette che l’avvenire desiderato dall’utopismo possa essere caratterizzato dall’«aspetto paradossale di un ritorno a un passato più antico» (RACAULT, Jean-Michel, op. cit., p. 31). 21. CABET, Etienne, Voyage en Icarie, Paris, Bureau du Populaire, 1848 [trad. it. Viaggio in Icaria, 1840, Napoli, Guida, 1983]. 22. BELLAMY, Edward, Looking Backward: 2000–1887, Boston, Ticknor and Co., 1888 [trad. it. Uno sguardo dal 2000, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1991]. 23. Diversi autori sottolineano come il viaggio sia anch’esso strutturale per il genere utopico; altri evidenziano come il viaggio si dimostri una transizione imprescindibile, una sorta di iniziazione. MINERVA, Nadia, op. cit., p. 42; FORTUNATI, Vita, Scrittura di viaggio e scrittura utopica

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tra realtà e finzione, in BACCOLINI, Raffaella, FORTUNATI, Vita, MINERVA, Nadia (a cura di), Viaggi in Utopia, Ravenna, Longo Editore, 1996, pp. 13-19, p. 10. 24. CIORANESCU, Alexandre, op. cit., p.53. Per una discussione sulla perfettibilità dell’utopia, si veda: RACAULT, Jean-Michel, op. cit., p. 32. 25. Michel Racault, uno degli studiosi più autorevoli delle utopie, si spinge ad affermare come caratteristica del genere utopico l’intenzione di avvicinarsi all’idea per cui il narratore di un viaggio utopico elabori una specie di «ricostruzione antropologica totale», che comporta «istituzioni, una struttura sociale, un’economia, una religione, una lingua, etc, dal momento che ogni elemento è correlato a tutti gli altri». RACAULT, Jean-Michel, op. cit., p. 31. L’idea per cui sarebbe una caratteristica obbligata dall’utopia alla totalità, estensibile a tutti gli aspetti della vita umana, viene sostenuta anche da Luigi Firpo. FIRPO, Luigi, op. cit., p. 229. 26. SUVIN, Darko «Um breve tratado sobre a Distopia 2001», cit., p. 468. «Straniamento [...] è una strategia percettiva in cui la valutazione è basata sul desiderio di critica radicale. Essa comporta molteplici possibilità di anamorfosi ed eversione degli aspetti salienti del mondo dell’autore e ha come proposito il riconoscimento del fatto che il lettore viva realmente un un mondo di valori sottosopra». SUVIN, Darko «Um breve tratado sobre a Distopia 2001», cit., pp. 468-469. Il concetto è stato sviluppato più dettagliatamente in Metamorphoses of Science Fiction: On the Poetics and History of a Literary Genre (SUVIN, Darko, Metamorphoses of Science Fiction: On the Poetics and History of a Literary Genre, New Haven, Yale University Press, 1979), tradotto in italiano com il titolo Le Metamorfosi della fantascienza (SUVIN, Darko, Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario, Bologna, Il Mulino, 1985). Una collettanea di saggi sul concetto è stata organizzata da Patrick Parrinder: PARRINDER, Patrick (ed.), Learning from Other Worlds: Estrangement, Cognition, and the Politics of Science Fiction and Utopia, Liverpool, Liverpool University Press, 2001. Si veda anche l’articolo: SUVIN, Darko, «Entrangement and Cognition», in Strange Horizons, 24 novembre 2014, URL: < http://www.strangehorizons.com/2014/20141124/1suvin- a.shtml > [consultato il 7 febbraio 2017]. 27. PRÉVOST, André, «A utopia: o gênero literário», in Morus. Utopia e Renascimento, 10, 2015, pp. 437-448, p. 446 [art. orig.: «L’utopie: le genre litteraire», in Moreana, 8, 31-32, 3/1971, pp. 161-168. 28. DEFOE, Daniel, Robinson Crusoe, London, W. Taylor, 1719. 29. Gli sforzi concreti di Cabet per fondare e sviluppare una comunità icariana – che risultò ben diversa dalla grande città da lui idealizzata nella sua costruzione letteraria Voyage en Icarie – sono stati studiati da diversi autori diversi: SHAW, Albert, Icaria: A Chapter in the History of Communism, London, Kessinger Publishing, 2010 [ed. orig., New York-London, G.P. Putnam’s Sons, 1884]; SUTTON, Robert P., Les Icariens: The Utopian Dream in Europe and America, Urbana, University of Illinois Press, 1994; LARSEN, Dale R (ed.), Soldiers of Humanity: a History and Census of the Icarian Communities, Nauvoo (Il), The National Icarian Heritage Society, 1998; WIEGENSTEIN, Steve, «The Icarians ant their Neighbors», in International Journal of Historical Archaeology, 10, 3/2006, pp. 289-295. Le fonti per questo studio possono essere trovate nella documentazione pubblicata dallo stesso Étienne Cabet: CABET, Étienne. Colonie Icarienne aux États-Unis D’Amérique: sa constitution, ses lois, as situation matérielle et morale après le premier semestre 1855, New York, Lenox Hill Pub.& Dist. Co., 1856. 30. «Gli abitanti delle Città Felici non vivono neppure una storia parallela alla nostra; abbiamo già detto in precedenza che si trovano in un tempo che si sovrappone al nostro». BACZKO, Bronislaw, «Utopia», cit., pp. 356-357. 31. BOBBIO, Norberto, A teoria das formas de governo, Brasília, UnB, 1997 [ed. orig.: La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Roma, Giappichelli, 1975]. 32. SEN, Amartya K., Inequality Reexamined, Cambridge, Harvard University Press, 1992, passim. 33. BUONARROTI, Philippe, Babeuf’s conspiracy for equality, London, Hetherington, 1836. 34. In un’opera chiamata La Teoria dei quattro movimenti (1808), Fourier era giunto alla curiosa conclusione per cui il falansterio avrebbe dovuto ospitare una popolazione di 1620 persone (810

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di ciascun sesso). Fourier giunse al numero di 1620 a partire dalla teoria – che avrebbe poi sviluppato – dei Quattro Movimenti, secondo cui gli esseri umani sarebbero stati mossi da tredici passioni specifiche. La popolazione iniziale del falansterio doveva essere calcolata in modo che tutti nella comunità avessero l’opportunità di incontrare altri con caratteristiche complementari alle proprie. 35. Le idee di Owen vennero raccolte in una collettanea di saggi, pubblicata nel 1820. OWEN, Robert, A new view of society and other essays, London, Penguin Books, 1991. 36. Su questo tema, cfr. DESROCHE, Henri, Saint-Simon. Le nouveau christianisme et les Écrits sur la religion, Paris, Seuil, 1969. Sul pensiero utopico di Saint-Simon, si veda: PETRE-GRENOUILLEAU, Olivier, Saint-Simon, l’utopie ou la raison en actes, Paris, Payot, 2001; MUSSO, Pierre. Saint Simon et les saint-simonisme, Paris, PUF, 1999. 37. Saint-Simon fu, tra i socialisti utopici, uno di quelli che in misura maggiore fecero proseliti nel XIX secolo (i sansimoniani) oltre ad annoverare fra i suoi ammiratori scrittori romantici come Victor Hugo e George Sand. Tra i sansimoniani propriamente detti – quelli che diedero continuità al movimento e pubblicarono Doctrine de Saint-Simon: exposition – i nomi di rilievo sono quelli di Saint-Amand Bazard (1791-1832) e Barthélemy Prosper Enfantin (1796-1864). Entrambi, dopo una fase iniziale di pratiche rivoluzionarie tra i carbonari francesi, finirono per aderire, rispettivamamente nel 1828 e nel 1825, al sansimonismo. 38. La critica della dimensione conservatrice del governo monarchico di Luigi Filippo compare anche nella História da Revolução de 1830, di Cabet. 39. Esistono eccellenti biografie sobre su Cabet, tra le quali quella di François Fourn, pubblicata recentemente. Lo spazio di riflessione di questo articolo, tuttavia, non ci permetterà di approfondire gli aspetti biografici. Sull’esperienza concreta di Cabet e degli icariani, un riferimento importante è l’opera Utopian Comunism in France: Cabet and the Icarians. JOHNSON, Christopher H., Utopian Comunism in France: Cabet and the Icarians, Ithaca (NY), Press, 1974. 40. Il personaggio fondatore, Icaro, sarebbe una sorta di Napoleone idealizzato e perfetto. Lewis Mumford, che commenta la Icarie di Étienne Cabet nella sua opera The Story of Utopias, sottolinea questo aspetto: «Cabet visse i suoi anni più sensibili nel fulgore delle campagne napoleoniche e alla luce crepuscolare della tradizione napoleonica che prevalse anche dopo che le conquiste del generale erano sparite dall’orizzonte». MUMFORD, Lewis, História das Utopias, Lisboa, Antígona, 2007, p. 127. 41. Le imprese utopiche sul suolo statunitense, tra cui l’experienza icariana di Cabet, furono studiate da vari autori: NORDHOFF, Charles, The Communistic Societies of United States, New York, Harper & Brothers, 1875; HINDS, William A., American Communities and Co-Operative Colonies, Chicago, Charles H. Kerr & Co, 1908; HOLLOWAY, Mark. Heavens on Earth: Utopian Communities in America, 1680-1880, New York, Library Publishers, 1951; HINE, Robert V., California’s Utopian Colonies, Berkeley, University of California Press, 1983; PITZER, Donald E., ed. America’s Communal Utopias. Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1997. Sull’esperienza icariana, si vedano specificamente: SHAW, Albert, op. cit.; SUTTON, Robert P., op. cit.; LARSEN, Dale R., op. cit.; WIEGENSTEIN, Steve, op. cit.

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RIASSUNTI

Questo articolo prende in analisi la letteratura utopica del XIX secolo, soffermandosi in particolare sulle società immaginarie ideate da Étienne Cabet, nel romanzo intitolato Voyage en Icarie (1842). Questa analisi più specifica è preceduta da una breve introduzione alla letteratura utopica a partire dal XVI secolo – recuperando in chiave comparativa proposte di autori come Tommaso Moro, Campanella, Francis Bacon, Fourier, Saint-Simon e Robert Owen – e oltre ad una discussione teorica sui modelli di distribuzione dell’uguaglianza, in questo caso prendendo in considerazione le riflessioni di Norberto Bobbio e Amartya Sen su questo tema. L’opera di Cabet è affrontata nel suo contesto, e questo si giustifica in grazia del fatto che seppe gettare un ponte tra letteratura e società, in quanto questi lavori suscitarono grande interesse tra i lettori del tempo e ispirarono la realizzazione di specifiche esperienze utopiche.

This article attempts to examine the utopian literature of the nineteenth century, approaching more directly the imaginary societies devised by Étienne Cabet, in the novel titled Voyage en Icarie (1842). This more specific analysis is preceded by a brief introduction to utopian literature since the XVI century – recovering comparatively propositions of authors such as Thomas More, Campanella, Francis Bacon, Fourier, Saint-Simon, and Robert Owen –, besides a theoric discussion about the models of equality distribution, in this case considering the reflections of Norberto Bobbio and Amartya Sen on this topic. The work of Cabet is addressed in their contexts, and is justified because they concern a bridge between literature and society, since this works have aroused great interest of readers of the time and even inspired a motivation for carrying out specific utopian experiments.

INDICE

Parole chiave : Étienne Cabet, letteratura utopica, società immaginarie, uguaglianza, utopie Keywords : equality, Étienne Cabet, imaginary societies, utopias, utopist literature

AUTORI

JOSÉ D’ASSUNÇÃO BARROS

José D’Assunção Barros è professore associato presso l’Universidade Federal Rural do Rio de Janeiro. Professor-Colaborador nel corso di dottorato in História Comparada della Universidade Federal do Rio de Janeiro, si è addottorato in Storia presso l’Universidade Federal Fluminense. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Barros >

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Guerra e miniera in Toscana Il lavoro nel comparto lignitifero durante i due conflitti mondiali

Giorgio Sacchetti

1. Una prospettiva comparata

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1 Le forme e le condizioni di lavoro durante i due conflitti mondiali in Europa sono state, solo in un periodo recentissimo, focalizzate dalla storiografia in una prospettiva di comparazione o geografica oppure cronologico tematica1. Si tratta quindi di un dialogo, ancora in fase sperimentale, tra quegli specialisti che in genere producono separatamente i loro studi. La domanda di fondo è: quali sono stati gli effetti prodotti dalla dimensione bellica sull’organizzazione produttiva, sui modi della mobilitazione, sulla quotidianità e sulla vita dei lavoratori? Il nesso strettissimo lavoro-guerra-società emerge in maniera evidente proprio utilizzando questo prisma problematico. Quella relazione che si stabilisce in origine con la Grande Guerra si ritrova e si conferma, sebbene con connotazioni differenziate, nel 1939-1945.

2 Sotto questa prospettiva la miniera diventa uno dei “luoghi” cruciali dove si sintetizza e maggiormente si rivela l’essenza totalitaria del Novecento attraverso i cardini dello Stato e del lavoro. Esigenze produttive, coordinamento statale e tutela del lavoro si razionalizzano anche qui nell’unica forma che sembra praticabile, con prassi autoritarie e coinvolgendo per quanto possibile la rappresentanza cosiddetta operaia. La Mobilitazione Industriale, fase rivelatrice di una difficoltà incipiente nel meccanismo politico di regolazione dei rapporti fra società e Stato, si pone come risoluzione della crisi su di un piano di pura amministrazione economico contrattuale.

2. 1915-1918

3 La chiusura dei mercati internazionali del carbone e, di contro, la ricerca spasmodica di fonti di energia fanno sì che anche quei giacimenti fino a quel momento considerati poco remunerativi siano presi in grande considerazione. La Germania, che aveva esportato ben 485.000 tonnellate di coke e fossile nei primi cinque mesi del 1915, sospende di colpo le forniture con la rottura delle relazioni diplomatiche. Quanto al carbone inglese, rimane il problema degli oneri altissimi legati soprattutto all’imprevedibilità del cambio con la sterlina2. Così, mentre il governo italiano cerca di incentivare l’uso di fonti energetiche alternative e nazionali, si moltiplicano per i vari bacini le domande per i permessi di ricerca presso i competenti uffici distrettuali del Corpo Miniere. Si scatena una sorta di febbre degli acquisti fondiari con la caccia a tutti quegli appezzamenti di terreno che si reputino minimamente redditizi.

4 L’ingerenza dello Stato, caposaldo giuridico di ogni legislazione mineraria “moderna” non poteva essere ulteriormente disattesa. In questo senso la normativa in vigore nelle province dell’ex Granducato rappresentava soltanto un’incongruenza, un accidente di percorso risultante della pressione indebita del vecchio ceto dirigente post-unitario. Con la prima guerra mondiale la Nazione, l’interesse nazionale, compaiono prepotentemente sull’orizzonte politico ed economico italiano. Lo sforzo produttivo dell’industria bellica aveva reso obsoleti tutti quei principi derivati dal sistema fondiario di ispirazione liberista. E un nuovo spirito nazionale nasce proprio con la guerra e, con esso, la necessità di un nuovo diritto minerario3.

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5 La Mobilitazione Industriale e l’istituzione (1917) del Commissariato dei combustibili nazionali comportano l’adozione di un sistema di gestione delle miniere improntato su criteri di disciplina assolutamente produttivistica. Tutte le energie risultano così “mobilitate”, nel senso letterale del termine, per il bene supremo della Patria. La materia, inquadrata con regio decreto 26 giugno 1915, n. 993, nel conferire poteri straordinari al governo, prevede un’articolazione dell’istituto in sette, poi undici, comitati regionali dipendenti dal comitato centrale. L’organismo fa capo al neo- costituito sottosegretariato, poi ministero, delle armi e munizioni. Suo compito è determinare quali siano gli stabilimenti da dichiarare “ausiliari” ai fini dell’interesse nazionale, di concerto con l’apparato militare. Controversie, organizzazione produttiva, innovazione tecnologica, salario, reclutamento, mobilità, licenziamenti, addestramento professionale, contratti, esoneri e comandi... le competenze spaziano, ma il criterio ispiratore è uno: le energie del paese siano convogliate nello sforzo bellico! Lo Stato assume il ruolo di centro propulsore, di pianificatore dell’economia4.

6 Le società minerarie, in quanto fornitrici di un bene primario, sono incluse nel primo decreto di ausiliarietà (n. 1 del 4 settembre 1915)5. Le direttive propagandate sono: valorizzare la forza-lavoro qualificata, rara e preziosa, creare le condizioni per l’impiego ottimale dei “generici”. Ma, a tale proposito, la necessaria semplificazione delle mansioni che viene richiesta per questo tipo di operazione non sembrerà certo praticabile in pari misura fra i minatori come fra gli operai delle fabbriche. Lo stesso dicasi per il mutamento della composizione delle maestranze, ossia l’ingresso di donne e fanciulli negli organici, a seguito del richiamo alle armi di un considerevole numero di lavoratori. Su tutti questi aspetti gli aggiustamenti organizzativi, pur non trascurabili, avvengono tuttavia senza sovvertimenti radicali del sistema. Il lavoro in galleria continua ad essere svolto con il metodo delle compagnie composte da quattro o cinque unità (naturalmente maschi) che, in maggioranza, devono essere ricondotte ad alti livelli di specializzazione. Il gruppo, assai affiatato, ha in genere una composizione bilanciata fra anziani esperti e giovani robusti e può consentire al massimo l’immissione di un novellino, non di più. I cambiamenti si verificano casomai sui piazzali con l’impiego – nelle operazioni di stoccaggio della pezzatura piccola, di carico/scarico e vaglio dello sterile – di “femmine adulte”, di “femmine minorenni”, di “manovali maschi sotto i 15 anni” (ma ragazzi, scelti per la loro agilità, operano anche in sotterraneo). Lavorano all’esterno detenuti militari e prigionieri di guerra dell’esercito austro-ungarico di varie nazionalità. Questi ultimi sono adibiti ad esclusivi compiti di sterro e scoperchiatura dei banchi, sotto vigile sorveglianza armata. Ma la riserva naturale di manodopera continua a essere costituita dalle campagne circostante, da pigionali e mezzadri delle classi di leva più anziane, sempre disponibili a sopperire alle necessità produttive del momento, sempre pronti a rispondere alle chiamate della Mineraria sia pure per incombenze di tipo avventizio e poco remunerative, con un orario giornaliero fino a dieci-dodici ore. Ai contadini locali spesso si aggiungono, a ondate, gruppi di profughi provenienti dal fronte veneto friulano. Nel Valdarno, il più grande dei bacini italiani, nell’ultimo anno di guerra, su un totale di 5056 lavoratori, se ne avranno 1818 nelle gallerie (tutti maschi e quasi sempre adulti), il resto all’esterno così suddiviso: 2959 uomini e 88 ragazzi; 191 donne di cui 58 bambine6.

7 Per questo tipo di imprese l’immissione di manodopera femminile non risulta decisiva come in altri settori mobilitati.

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8 Il rinnovamento tecnologico sulle modalità di estrazione del fossile prosegue intanto secondo i criteri già stabiliti con l’avvento dell’elettrificazione nel decennio precedente. Vecchio e nuovo convivono in modo indistinto. Ciò comporta una conseguente moltiplicazione di specificità e “mestieri”, soprattutto in superficie. Gli ambienti di lavoro brulicano, in modo incredibile, di umanità. Alle tradizionali presenze si aggiunge il personale militare di sorveglianza, sono spesso in diverse centinaia fra , soldati comandati e ufficiali. Poi si registra un incremento sul numero degli addetti ai magazzini generali, alle officine meccaniche ed elettriche, alle locomotive, alla manovra ed alle linee ferroviarie in genere, alla falegnameria e segheria, al reparto edilizia, ai vari impianti di mattonelle, essiccazione e vagliatura, alle mansioni impiegatizie, alle scuderie dei cavalli, alla manutenzione, ecc.. Il lavoro si modernizza in sotterraneo, con l’approntamento di impianti fissi (argani, garage, ecc..). Ma in qualche caso si assiste alla parziale reintroduzione del metodo di coltivazione a cielo aperto. Nelle miniere più importanti entrano in funzione sterratrici a cucchiaio ed escavatori a benna mordente, azionati da un motore a vapore, per la rimozione di terra che viene trasportata su vagoni ribaltabili trainati da una locomotiva anch’essa a vapore. Il minerale viene estratto a mano, portato all’esterno attraverso delle anguste gallerie con l’aiuto dei cavalli e quindi stivata in capannoni per l’essiccazione. Una teleferica sorretta da piloni provvede poi a far viaggiare il minerale estratto nelle varie miniere e cave verso i silos delle centrali elettriche oppure verso le stazioni ferroviarie. Sui piazzali funziona anche un diverso tipo di caricamento meccanizzato. Il contenuto delle chiatte, riversato da un ripiano superiore su sottostanti vagoni, è inoltrato su binari alle varie destinazioni.

9 La militarizzazione del lavoro nelle gallerie e nei piazzali delle miniere, così come nelle attigue centrali elettriche, negli stabilimenti di bricchettazione, prevede una disciplina severa e ancor più basata sulle gerarchie. Il dipendente esonerato indossa un bracciale tricolore di riconoscimento e deve assoluta obbedienza ai superiori. Non ha diritto a scioperare ed è sottoposto a severe sanzioni in caso di scarso rendimento o di comportamenti giudicati contrari agli interessi nazionali. Una minaccia costante incombe sul minatore e sull’operaio: la revoca del provvedimento di esonero con il contestuale invio punitivo al fronte. I lavoratori si trovano sottoposti alla normativa militare, ad una regolamentazione coatta del lavoro e della conflittualità. La mobilitazione equivale ad una sorta di interferenza esterna nell’azienda, ad una supplenza della funzione di governo della manodopera sui piani sia tecnico che disciplinare.

10 Gli organismi preposti a tale compito prevedono al loro interno una rappresentanza “operaia” (4 membri su 12) sia pure con circoscritti compiti consultivi. Il Comitato Regionale di Mobilitazione Industriale per la Toscana (sede in Firenze via Lamarmora 13), risulta ad esempio così composto: Tenente generale grand’ufficiale Vittorio Carpi, presidente; Commendatore ingegnere Dainello Dainelli; Onorevole principe Piero Ginori Conti; Onorevole avvocato Alberto La Pegna; Cavaliere Brunetto Calamai; Ingegnere Ugo Valduga (dirigente della SMEV); Ingegnere marchese Emanuele Trigona; signori Guido Di Dio, Ettore Strobino, Giuseppe Puglioli, Pietro Cardenti (“membri operai”); Tenente ingegnere Umberto Panigatti, segretario. L’inasprimento degli effetti gerarchici nell’organizzazione del lavoro, sebbene con alcune differenziazioni fra piazzali e sotterraneo, si fanno sentire7.

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11 Sulla gestione degli elenchi nominativi del personale esonerato esistono abbondanti carteggi fra Comitati regionali della Mobilitazione e società minerarie. Da questi emergono conflitti di competenza. I criteri con i quali si propongono di volta in volta le liste del personale da trattenere al lavoro, ovvero da far assumere o rientrare dal fronte, sono di natura tecnico produttiva. Non si può tuttavia escludere che da parte dell’impresa come degli organismi governativi preposti, in forma disgiunta e attraverso la cernita e il sistema delle raccomandazioni, si voglia operare un giusto bilanciamento fra capacità professionali e affidabilità dei dipendenti. Fino agli ultimi mesi di guerra si assiste a un ampio turn over fra licenziati, assunti e riassunti a seguito di esonero. Si registra anche un certo numero di dimissioni motivate con malattie o per acclarata inidoneità al lavoro.

12 Alla fine del periodo di Mobilitazione le preoccupazioni della dirigenza mineraria si trasformeranno in recriminazioni contro le burocrazie statali. La politica imposta sulle questioni del reclutamento, specie per i lavoratori di superficie, ha condotto a risultati che non sempre sono stati all’altezza delle aspettative (quelle degli industriali, s’intende). Questo nonostante la produttività media mensile per operaio sia stata elevatissima (in Valdarno di ben 19 tonnellate, ossia più del doppio in assoluto della media nazionale!)8.

13 Quanto al rischio della vita, trovarsi nelle viscere della terra oppure sulle trincee del Carso può sembrare indifferente. Gli echi delle sciagure minerarie fanno da contrappunto a quelle di guerra. Per i minatori continuano a mancare assistenza sanitaria e antinfortunistica. A questo sopperiscono, parzialmente, i contributi dei Comuni sui ricoveri ospedalieri oppure la tradizionale solidarietà proveniente dal fitto tessuto associativo e cooperativistico in genere diffusi nelle zone minerarie9. Gli infortuni sono un altro capitolo doloroso. Nel distretto minerario di Firenze si registra per il 1915 una punta di ben 23 incidenti con 15 morti e altrettanti feriti nelle miniere di combustibili fossili. Poi la cifra si ridimensionerà in 14 incidenti e 9 morti nel 1916 ed ancora lo stesso numero di morti nel 1917. La Toscana, in questa triste graduatoria, è seconda solo alla Sicilia delle solfatare. Le cause sono imputabili a distacchi di roccia o minerale, franamenti, scoscendimenti, esplosione di gas, incendi, asfissia, urti e investimenti di vagoncini, fulminazione da corrente elettrica, maneggio di materiali esplodenti... Le richieste di indennizzo per le vittime o per i familiari superstiti spesso devono passare da lunghe trafile legali, talvolta senza esito10.

14 Le questioni attinenti la gestione delle risorse umane si fanno ancora più determinanti per il buon andamento dell’assetto produttivo. Il lavoro, elemento che si sta legando profondamente ai destini della nazione, diventa fattore rilevante per un settore da sempre caratterizzato dal primato degli aspetti tecnici e finanziari, dalla concentrazione elevata di capitali. Così la composizione del suo costo risulterà più articolata mentre i lavoratori acquisiscono maggiore consapevolezza del loro ruolo. E proprio nelle vertenze di questi anni si pongono le necessarie premesse per la successiva stagione rivendicativa del dopoguerra. Nel settore minerario, come in quello connesso dell’elettricità in Toscana, si sperimenta un approccio più moderno alle relazioni industriali, abbandonando certe logiche superate di tipo paternalistico, introducendo un minimo di dialettica regolamentata fra le parti. Alla base di questa rivoluzione culturale c’è l’idea di ottimizzare un lavoro forzatamente strutturato per squadre (le compagnie in sotterraneo), di valorizzare qualifiche specializzate e quadri tecnici, di perseguire l’integrazione verticale nella organizzazione produttiva11.

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15 Il 1915-18 è un periodo cruciale per la storia economica e sindacale del nostro paese. La standardizzazione in cicli produttivi continui, con l’introduzione di nuove macchine, accentua il peso della massa dequalificata all’interno della composizione della forza lavoro industriale. Per il settore minerario questo potrà valere più che altro per gli addetti esterni, per i lavoranti generici dei piazzali. Per tale motivo, data la non modificabilità sostanziale dell’organizzazione in galleria, si rivelerà fallimentare ogni tentativo di banalizzare quella che viene chiamata, con tanto orgoglio, “l’arte mineraria”. Nei memoriali di rivendicazione si ritroveranno spesso punti che concernono l’addestramento dei “novizi” o anche l’allontanamento dei “profani”12. Le anticipazioni robuste che si riscontrano in questo ambito nel periodo della Mobilitazione industriale riguardano le modalità della contrattazione. Si introduce cioè una tendenza, che peraltro si rivelerà assai duratura, a rompere le varie disomogeneità e sperequazioni nei trattamenti, a ridimensionare status e potere contrattuale degli strati professionalizzati (minatori compresi). La sospensione del diritto di sciopero segna un evidente vulnus all’autonomia negoziale dei sindacati. I patti contrattuali si fanno norma, se non atti amministrativi, e risultano dalle elaborazioni di incontri triangolari nell’ambito di strutture permanenti. Prevalgono prassi autoritarie. La Mobilitazione industriale si attua su di un piano puramente amministrativo13.

16 Una certa attitudine al conflitto e alle rivendicazioni sui trattamenti salariali e normativi tende a riconfermarsi per tutto il periodo bellico, in particolare fra i minatori appartenenti all’Unione Sindacale Italiana: 1. Si reclama che in luogo adatto all’uscita della miniera venga adibito un locale ad uso di pulizia per la igiene e la decenza del personale. Tale locale servirà da spogliatoio e conterrà armadi personali per indumenti ecc.. dell’operaio. 2. Si reclama di istituire in luogo prossimo allo spogliatoio o entro lo spogliatoio medesimo, delle vaschette per la pulizia personale dell’operaio. 3. Per il trasporto di infortunati gravi si reclama l’acquisto di autolettighe respiratorie. 4. Si reclamano provvedimenti atti ad impedire che addetti al trasporto materiali e dove avvengono accumuli abbia a transitare il personale, con grave pregiudizio della sua incolumità in caso di infortuni14.

17 Nei primi mesi del 1917 i lavoratori della Mineraria in Valdarno vedono ancora un piccolo adeguamento della loro paga giornaliera di 20-40 centesimi a seconda delle varie qualifiche. Ma il dato più importante è senz’altro costituito, in questa fase, da due conquiste sostanziose e promettenti per i successivi sviluppi. In primis si tratta di una vera e propria abdicazione della direzione aziendale rispetto al pesante potere disciplinare conferitole dalla legge in regime di Mobilitazione. Essa cede infatti su una questione di principio: una quota non indifferente del monte-multe già accantonato viene, in un certo senso, restituita ai minatori attraverso un versamento concordato alla Società di mutuo soccorso di Castelnuovo dei Sabbioni.

18 Inoltre – segnale importante – si giunge alla prima tappa fondamentale per un traguardo a lungo agognato quale la riduzione dell’orario di lavoro giornaliero, obiettivo storico e costituente del movimento operaio. Intanto nelle gallerie non si dovrà più permanere dodici ore, ma dieci, otto nei turni di notte. È il primo importante successo raccolto con la gestione USI delle vertenze. La lotta, illegale ma vittoriosa, dura due giorni e coinvolge migliaia di addetti. La Mineraria tenta di blandire gli organizzatori sindacali prospettando loro promozioni a caporale. Le autorità minacciano arresti di massa, e un tremendo giro di vite sugli esoneri. Ma la

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rappresaglia si renderà alla fine impraticabile. Il successo è sanzionato da un’ordinanza del Comitato centrale della Mobilitazione e da un concordato, sottoscritto in data 5 maggio 1917, con il quale le parti regolano i loro rapporti economici in dipendenza del contratto di lavoro. Fra i risultati raggiunti merita una particolare sottolineatura l’istituzione di una Dispensa viveri. La direzione delle miniere si impegna a garantire, per il consumo delle famiglie dei propri dipendenti, il rifornimento di generi alimentari e carburo a prezzi calmierati15.

19 La conquista di un orario ridotto, sia pure ancora lungo e pesante, assume il crisma di importante precedente per i minatori sindacalizzati. Per gli industriali invece, o comunque per la loro componente più aperta, trattasi di un mero aggiustamento su un singolo fattore produttivo. Si pensa infatti che l’irrigidirsi di alcune imprese nel voler mantenere orari esagerati possa, in definitiva, minare un’organizzazione scientifica che si vuole basare, nel suo complesso, sul massimo rendimento del lavoratore. Inoltre c’è da tenere ben presente l’esigenza, irrinunciabile, di conseguire accordi sociali che siano ispirati al moderno principio della collaborazione fra capitale e lavoro.

20 Nell’arco temporale che comprende il periodo della partecipazione dell’Italia al conflitto europeo le paghe operaie subiscono un incremento comunque non adeguato a coprire il contestuale, vertiginoso, aumento del costo della vita. Si calcola che un minatore anziano possa arrivare ad un mensile di circa 150 lire, compresi cottimi e straordinari, a meno della metà un giovane16. Questione sempre più rilevante assume la commisurazione delle integrazioni salariali al “caroviveri”. Vi è una certa avversione, anche da parte dei sindacati dei lavoratori, nell’accettare ipotesi di indicizzazione automatica. Si pensava infatti che ciò avrebbe causato appiattimento salariale, ma anche ridotto di molto la dimensione contrattuale delle relazioni industriali. Per tale ordine di motivi il problema non viene mai affrontato definitivamente ed anzi è rinviato a particolari accordi in sede di Comitato regionale di mobilitazione.

3. Una vertenza (dai verbali dei Comitati della Mobilitazione)

21 Ai primi di agosto del 1918 il Comitato regionale toscano della Mobilitazione industriale prende in esame due documenti contrapposti: il memoriale redatto dai rappresentanti dei minatori, la controproposta della Mineraria che i sindacati non vogliono sottoscrivere17. Le maestranze chiedono: un aumento dell’indennità caroviveri di 2,20 lire; compensi in denaro agli operai che non possono approvvigionarsi alle cooperative o, in alternativa, l’istituzione di magazzini convenzionati per chi abita fuori dal territorio comunale di Cavriglia; la somministrazione di generi a prezzi ridotti anche per gli operai allontanati per motivi non dipendenti dalla loro volontà, alle vedove non risposate e agli orfani minorenni dei caduti sul lavoro; cessazione degli inconvenienti che riducono il guadagno dei cottimisti «allontanando gli elementi profani dell’arte mineraria»; retrodatazione dei benefici al 1° marzo; infine riconoscimento di poter mantenere un segretario, anche estraneo alle maestranze, per le necessità dell’organizzazione.

22 La Mineraria replica proponendo: l’inglobamento nelle tariffe a giornata del premio percentuale in vigore in misura del 12-20%; un contributo di 15 centesimi a dipendente per l’acquisto di generi alimentari non razionati; 8% di aumento per gli operai a giornata e a cottimo; premio di rendimento fra l’8 e il 12% per i minatori dell’interno;

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introduzione di tariffe crescenti a seconda se il lavoro giornaliero venga effettuato su due o tre turni (le “sciolte”); generalizzazione del sistema di pagamento totale della dinamite e degli arnesi da parte degli operai.

23 Verificata quindi l’inconciliabilità fra le due piattaforme, il presidente generale Vittorio Carpi affida lo studio della questione a due membri autorevoli del Comitato: il marchese Emanuele Trigona per gli industriali e il signor Guido Di Dio che, specie dopo gli insuccessi del collega Puglioli, ambirebbe a rappresentare gli interessi dei minatori.

24 Passate due settimane la vertenza torna alla discussione in sede di riunione plenaria del Comitato. Fallito ogni amichevole componimento, si è deciso di convocare le parti in causa. Prima di sentire le ragioni dei contendenti relaziona il Trigona, «anche per conto del Sig. Di Dio», quale incaricato della commissione di studio. I risultati di un’indagine, effettuata anche mediante sopralluoghi, portano ad escludere che le lagnanze dei minatori abbiano fondamento. Si è appurato infatti come non sussistano disparità di trattamento rispetto alle altre aziende minerarie italiane. Il compenso medio giornaliero “globale”, ossia considerando la forbice fra le differenti qualifiche (minatore, armatore, sottominatore, sterratore, caricatore...), viene calcolato in 8 lire nette così suddivise: 4,50 di paga media; 1,80 di indennità caroviveri; 1,70 come beneficio magazzino viveri. Quanto alla richiesta di istituire nuovi spacci a Montevarchi e a San Giovanni, il relatore riferisce che la Mineraria non la ritiene economicamente praticabile; ciò potrebbe interessare al massimo 200 dipendenti circa fra i non residenti. Del resto l’azienda è già impegnata a distribuire, oltre ai generi tesserati, fagioli ceci e baccalà, formaggi salumi e caffè, in quantità variabile a seconda della composizione delle famiglie operaie. Il Trigona conclude la sua esposizione argomentando come la ragione, su questi punti controversi, stia senz’altro dalla parte della Mineraria. A riprova c’è il fatto che le maestranze si rifiutano di monetizzare i benefici sui generi alimentari. Ritiene poi che il Comitato non sia competente a stabilire alcun diritto per le famiglie dei lavoratori “allontanati” o deceduti. Ciò non esclude che la Mineraria, ove lo ritenga opportuno, possa decidere di mettere in atto gesti di volontaria benevolenza. Allo stesso modo si giudica inaccettabile l’eventuale retrodatazione dei benefici, esagerato l’aumento richiesto sull’indennità caroviveri. Tutt’al più si potrà discutere di quei compensi che siano correlati con un maggiore dispendio di energie fisiche, con un incremento produttivo generale. Niente da eccepire per un segretario del sindacato che sia “estraneo” alle maestranze, purché «non sia inviso all’autorità politica».

25 A questo punto il verbale dell’adunanza registra un telegrafico intervento del Di Dio in appoggio a un unico punto della piattaforma operaia: l’istruzione dei novizi all’arte mineraria non dovrà più essere un compito che gravi esclusivamente sulle spalle degli anziani. Il generale presidente annuncia poi che, comunque, il memoriale delle maestranze non potrà essere formalmente acquisito agli atti, visto che contiene frasi irriverenti e irrispettose.

26 È quindi introdotta la delegazione dei minatori, guidata dall’avvocato Libero Merlino. Vengono così ribadite le linee essenziali del dissenso. Gli aumenti in forma percentuale non sono accettabili vista l’esiguità della paga base. I lavoratori, acclarate le molte irregolarità amministrative nella gestione degli spacci alimentari, esigono un controllo diretto. Non è concepibile che le famiglie dei richiamati alle armi o dei caduti sul lavoro possano contare unicamente sulla solidarietà delle organizzazioni operaie. Poi interviene l’ingegnere Gino Tonani, direttore della Mineraria, dichiarandosi disposto ad

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aumentare le percentuali dei compensi a giornata o a cottimo fino al 15-20%, e l’indennità carovita fino a 20-30 centesimi. Constatata l’effettiva inconciliabilità delle posizioni, il Comitato passa a deliberare e alla redazione dell’ordinanza. 1°) La Società congloberà nelle tariffe di cottimo e nelle paghe orarie e giornate fino ad ora praticate il premio percentuale che essa attualmente corrisponde agli operai. 2°) Dato atto alla Società del miglioramento apportato alle tariffe con foglio in data 15 agosto e della generalizzazione del pagamento della dinamite e degli attrezzi da parte degli operai, nonché dell’istituzione di un premio per giornata e per ogni compagnia di minatori, nelle miniere con tariffa per soli pezzi, per ricupero della pula nelle camere di abbattimento, viene assegnato un premio generale del 20% sui cottimi e sulle paghe giornaliere, quali risultano dal conglobamento di cui al n.1. 3°) Verrà aumentata l’indennità caroviveri, attualmente corrisposta agli operai, di 30 centesimi. 4°) Il funzionamento dell’azienda viveri rimarrà invariato ed è riservato alla Commissione operaia di controllarlo. 5°) I miglioramenti concessi avranno effetto dal 1° giugno 191818.

27 I Comitati regionali per la Mobilitazione Industriale svolgono dunque, a tutti gli effetti, una contrattazione (surrogata) di livello aziendale fra le parti e in un quadro normativo dato che, sebbene sfavorevole ai lavoratori, concede loro la rappresentanza formale.

4. 1939-1945

28 L’attività mineraria è soggetta, per tutte le sue secolari vicende, a rimanere fortemente connessa alle contingenze politiche e sociali. Negli anni delle due guerre (1915-18 e 1939-45) l’incremento produttivo induce picchi occupazionali addetti, mentre attiva importanti dinamiche migratorie. L’estrazione del minerale, eseguita attraverso l’apertura di nuove gallerie sotterranee, comporta il coinvolgimento di una mole spropositata di manodopera a basso costo da impiegare nei piazzali o nelle qualifiche di manovalanza. Tornano gli emigrati, o almeno ne torna una parte. Come sempre in questi casi si attinge dal serbatoio degli esuberi nel comparto agricolo. Nell’ultimo scorcio degli anni Trenta si era evidenziato un trend virtuoso nel settore industriale con un incremento del prodotto lordo privato (a prezzi correnti) dai 35 miliardi scarsi del 1936 agli oltre 50 del 1939. La fine delle sanzioni, la ripresa dei traffici commerciali, l’avvio della “valorizzazione” dell’impero etiopico e una lira svalutata che agevola le esportazioni sono le componenti di spicco della ripresa. Intanto la nascita dell’IRI aveva istituzionalizzato l’intervento pubblico nell’economia nazionale. Il principio che l’autonomia politica di un paese sia correlata al raggiungimento della più completa autonomia economica è diventato un assioma irrinunciabile del programma autarchico. L’obiettivo è rendere il sistema funzionale alle eventuali prove belliche che potrebbero essere imminenti. L’Autarchia mette in subordine il corporativismo, attenuandone il ruolo a vantaggio dello Stato e mediante una più diretta azione di governo. Essa conseguirà parzialmente i suoi obiettivi, peraltro improntati sempre a grande ottimismo, prefissati nel settore dell’industria pesante, e anche in quello della chimica e dei combustibili. Certo a costi sociali molto alti19.

29 Per il sindacato si è aperta da tempo una “terza fase”, che si prolunga fino agli anni della guerra. Esso si pone, nell’ambito di un assetto policentrico che comunque rimanda allo Stato e alle classi dirigenti la funzione di comando, quale raccordo tra sistema produttivo, istituzioni e mondo del lavoro. Il riconoscimento dei fiduciari d’azienda, la cogestione del dopolavoro, l’attribuzione delle funzioni già svolte dai disciolti patronati

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e altri compiti di contorno rappresentano una crescita notevole delle competenze del sindacato. Crescita che andrà messa in relazione con lo stato di guerra, che significa soprattutto cogestione di fette di potere, non certo rappresentanza del conflitto sociale. Alle prime avvisaglie del crollo mentre pare prefigurarsi la fine di un regime, il sindacato fascista, nelle sue articolazioni nazionali, riveste un ruolo potenziale di polo alternativo per il possibile ricambio, via d’uscita altra fra capitalismo di mercato ed economia pianificata20.

30 I primi anni Quaranta sono per il sindacato un periodo di crisi d’identità, caratterizzato da forti polemiche interne, di tipo dottrinale oppure ideologico. La frenesia produttiva rappresenta bene il nuovo “clima” che riporta le miniere un quarto di secolo indietro. Nel 1940 la Mineraria del Valdarno produce da sola 950.024 tonnellate di lignite, record ineguagliato di tutti i tempi. Anche per i profitti. La quantità di minerale estratta in tutto il bacino avrà prima un leggero calo negli anni immediatamente successivi fino a precipitare nella fase terminale del periodo bellico, di pari passo con gli insuccessi militari italiani, con la situazione economica depressa. Per poco non si era realizzato l’obiettivo ambizioso del milione di tonnellate programmato dall’Azienda Ligniti Italiane (ALI). Lo stesso relativo insuccesso si registra, in proporzione, alle Carpinete. L’ALI, ente governativo istituito con legge 2 ottobre 1940 n. 1501, è preposto ai piani di produzione (per il carbone si era istituito l’ACI). Presieduto dal prefetto Giuseppe Mastromattei, nominato con incarico quadriennale, opererà con alcune sovrapposizioni di competenze rispetto alla Direzione generale delle miniere presso il ministero delle corporazioni.

31 Mentre il regime esalta “il miracolo di Carbonia”, indicato come chiaro esempio di affrancamento dalle pretese dei magnati dell’industria carbonifera inglese, il Comitato interministeriale per l’autarchia lancia le parole d’ordine: zolfo e lignite (3-4 milioni di tonnellate?), che è come dire Sicilia e Valdarno, ecco le sfide per il futuro prossimo. «Ligniti per l’indipendenza economica della Patria» recita dalle pagine dei giornali una pubblicità per la Terni (nel disegno gladio e torcia si elevano sullo sfondo di un pozzo e di chiatte ricolme di minerale)21.

32 In un «Appunto per il Ministro»22 si analizza il problema delle piccole défaillance verificatesi dopo il grande sforzo per i traguardi del 1940. La produzione giornaliera media è di 2200 tonnellate di minerale umido. Ora, questo il ragionamento svolto nell’Appunto, la realizzazione piena del programma produttivo di guerra deve poggiarsi, per quanto attiene al comparto, su una maggiore attenzione al ruolo che la manodopera vi deve svolgere. Ciò sia in rapporto ai fattori rendimento produttività, sia al presupposto di una decente qualità della sussistenza. Tali le condizioni ritenute indispensabili per un ulteriore “miracolo”, a partire dal 1942 e nel giro di pochi mesi.

33 La questione del personale ritorna di continuo in questi rapporti. La quantità esigua degli organici professionali, specie dei minatori anziani, non è sufficiente a far fronte ad un andamento “a fisarmonica” delle esigenze produttive. Così si lamenta che gli operai appena assunti per lavorare in sotterraneo somiglino sempre di più a quelli “scadenti” dei piazzali. Insomma ogni volta che c’è una guerra e si devono assumere tante persone si pone sempre il solito problema dei dequalificati svogliati. La formazione non si può improvvisare. Per attuare i programmi fissati si valuta necessario un incremento consistente degli organici, obiettivo da conseguire in quattro mesi e cioè entro l’agosto 1942. C’è poi da tenere conto che nella manodopera in forza sono compresi i richiamati alle armi per i quali si stabilizza un’assenza del 10% circa sul

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totale. Le società minerarie hanno inoltrato domanda per migliaia di esoneri, molti per le classi dal 1923 al 1925, istanza che tarda ad essere accolta. Inoltre vi è il contenzioso sui lavoratori agricoli per i quali si vorrebbero adottare, con più severità, le direttive fasciste che ne impedirebbero l’utilizzo in occupazioni di tipo industriale.

34 L’obiettivo tendenziale, che si sfiora ma non si coglie, dovrebbe essere quello di “1 per 1”, ossia una tonnellata al giorno per ogni operaio presente in miniera. Da tempo l’ALI e l’ACI hanno affrontato presso gli altri organi governativi, e presso le aziende, le questioni improcrastinabili della formazione professionale, da attuarsi con scuole di avviamento all’arte mineraria per i giovani, dell’applicazione effettiva in loco dei contratti di lavoro.

35 Il processo di ammodernamento in atto coinvolge tutti gli impianti e si riparano anche miniere chiuse da vent’anni. Il numero degli incidenti rimane sempre elevato (solo in Toscana si arriverà a 4627 casi con 25 morti nel 1942!), mentre, in sede di Corporazione delle industrie estrattive, si è promossa la creazione di un Istituto per l’assistenza materiale e morale agli orfani dei minatori caduti nella battaglia per l’autarchia. Nell’anno dei massimi traguardi produttivi anche le paghe operaie sono rivalutate23.

36 Con il 1940 era andato in scadenza il contratto nazionale stipulato tre anni prima. Quanto agli integrativi provinciali, pure previsti dall’accordo, questi sono stati a tutti gli effetti rimpiazzati dall’applicazione diretta nelle sedi aziendali dei due successivi contratti interconfederali sui cottimi. La Federazione dei lavoratori delle industrie estrattive esprime nel frattempo i desiderata della categoria (99.000 dipendenti in tutta Italia). I punti salienti delle richieste riguardano: maggiorazioni salariali per lavori compiuti in condizioni di disagio anche all’esterno; migliore definizione delle qualifiche; orari di lavoro che siano davvero conteggiati a bocca di miniera (includendovi i tempi di entrata e uscita, il cambio panni, la colazione e l’attesa delle sfumate di mina); tutela igienica nel luogo di lavoro; revisione delle regole di cottimo; maggiorazione per lavoro straordinario dei cottimisti; istruzione professionale e avviamento dei giovani al mestiere di minatore24.

37 Sulla stessa linea rivendicativa si collocano gli enti governativi ALI e ACI (per le ligniti e il carbone rispettivamente) 25.

38 Ma di rinnovo di contratti non ci sarà da parlare e varrà una proroga di quelli vigenti (RDL 12 marzo 1941, n. 142) per tutta la durata dello stato di guerra. Il provvedimento è considerato, nell’opinione dei gerarchi dei sindacati e da «Il Lavoro Fascista», come necessario «adeguamento della prassi sindacale alle esigenze morali e politiche di oggi» 26.

39 In una situazione di grave disagio sociale ed economico la retorica continua ad essere un mezzo usato dal regime nel disperato tentativo di superare le difficoltà in cui si dibatte e la gravissima crisi di consenso. Si preparano i littoriali del lavoro con uno specifico bando di concorso per minatori. Migliaia e migliaia di “volontari” sono inviati a lavorare nelle miniere della Renania e della Westfalia «per avvicinare sempre più la grande vittoria dell’Asse».

40 Lo spostarsi rapido verso l’Italia del teatro delle operazioni belliche rende altissimo il rischio degli impianti industriali, soggetti ai bombardamenti aerei. Sono per questo motivo adottati idonei provvedimenti di difesa e di protezione, di camuffamento delle installazioni. I comuni nei cui territorio si trovano zone minerarie, provvedono a

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varare un “progetto di difesa antiaerea” notturna. È previsto l’oscuramento normale degli obiettivi oppure un oscuramento di allarme27.

5. Norme sulla disciplina

41 L’organizzazione del lavoro negli stabilimenti ausiliari è regolata dalle disposizioni del Sottosegretariato di stato per le fabbricazioni di guerra28. Esse si compongono di tre titoli riguardanti la disciplina del personale, i trasferimenti e l’accesso degli estranei negli ambienti di lavoro. Le infrazioni e violazioni di natura disciplinare, ove non rivestano natura di reato, sono sanzionate da quanto previsto nei contratti di lavoro o, in difetto, dai regolamenti interni. La gerarchia tecnica e amministrativa è determinata dalla direzione dello stabilimento. A questa compete il governo delle maestranze per il quale, però, vi è controllo e supervisione da parte di ufficiali della Delegazione interprovinciale per le fabbricazioni di guerra (DELEFAG), addetti al Servizio ispettivo disciplinare (SID). Le punizioni comminate hanno esecuzione immediata. E’ ammesso il ricorso gerarchico dopo aver scontata la punizione e, in caso di reclamo infondato, il ricorrente è soggetto a nuova sanzione. Le assenze arbitrarie incorrono nel codice penale militare. Il SID svolge i seguenti compiti: controllo sull’osservanza delle norme comunque emanate dal Sottosegretariato per le fabbricazioni di guerra; indagini e accertamenti sul personale e sulla sua tenuta disciplinare, sugli atteggiamenti e le tendenze politiche, sui gradi di operosità e obbedienza dimostrati; informazioni sulle vertenze sindacali. Sono proibite le assunzioni di lavoratori che abbiano precedenti politici e penali ovvero annotazioni negative riguardo la moralità. In tal senso gli uffici di collocamento (dal 1939 gestiti dai sindacati), oppure la stessa direzione dello stabilimento ausiliario, sono tenuti ad ammettere al lavoro solo chi disponga di “nulla osta” rilasciato dalla R. Questura. Il personale assunto in prova riveste da subito la condizione di mobilitato civile. L’adozione di provvedimenti quali il licenziamento individuale devono essere accompagnati da una dichiarazione aziendale che ciò non pregiudica l’efficienza produttiva. Per i licenziamenti collettivi invece ci vuole l’autorizzazione del sottosegretariato. Nella compilazione delle liste dei licenziandi bisogna tener conto dell’appartenenza alle categorie benemerite della causa nazionale e fascista. Nel caso che il provvedimento riguardi personale che riveste cariche sindacali (ad esempio i fiduciari di azienda) occorre il nulla osta del Consiglio provinciale delle corporazioni. Per i licenziamenti cosiddetti “in tronco”, invece, dettati da motivi di urgenza, vale la presa d’atto a posteriori della DELEFAG. Fin qui le disposizioni emanate dal sottosegretario. Un progetto non realizzato, ma fortemente voluto dal Sottosegretariato, è quello della istituzione delle “carceri aziendali” presso gli stabilimenti ausiliari. Su questa proposta manifestano alcune perplessità i gerarchi sindacali.

42 Le condizioni effettive di lavoro all’interno sono regolate da una disciplina ferrea e minuziosa. Ma il vero “sorvegliante” sull’opera dei minatori, l’occhio del padrone, si materializza nel sistema di paga, basato su minimi di cottimo e premi. Nelle tariffe sono inclusi i “normali” lavori di escavazione, carico, armamento delle camere, manutenzione, aggancio chiatte, ecc.. Sono, come d’uso, conteggiati i tempi a bocca di galleria. La spingitura dei vagoncini oltre i 150 metri è compensata con 6 centesimi di lira a tonnellata per ogni 25 metri successivi.

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43 L’uso obbligato di lampade di sicurezza in situazioni di rischio grisou prevede un premio di 40 centesimi a tonnellata estratta. Comunque, accertata la presenza in galleria di gas tossici, il minatore ha diritto ad una maggiorazione del 10%. La medesima percentuale compete: in caso di opera prestata “con i piedi nell’acqua” a seguito di allagamento; nelle escavazioni in cunicoli con altezza inferiore a metri 1,30. Se poi la temperatura in galleria diventa eccessiva allora si hanno 8 centesimi in più con 30° e, gradualmente, si può arrivare a percepire fino a 3 lire per lavorare in un vero e proprio forno con 50°. Negli ambienti invasi dagli acidi o nelle immediate vicinanze di zone incendiate le prestazioni sono retribuite con un riconoscimento del 40% di premio sulla paga ordinaria. Il recupero del legname delle armature è obbligatorio e non dà luogo a compensi.

44 La compagnia di abbattimento, composta da capo-minatore, minatore e caricatore, lavora solidalmente ripartendo il guadagno secondo quote in ventesimi: sette ciascuno per i primi due e sei per il caricatore. La compagnia di avanzamento si compone invece di due soli elementi. Nel caso nei vagoncini si rilevi una quantità di terra superiore al 15%, il contenuto verrà defalcato completamente dalle pertinenze di quella compagnia che poi, a termine del turno, sarà chiamata ad esaminare lo scarto nel piazzale. In caso di interruzione forzata dei lavori, dovuta a guasti del macchinario o a mancanza di energia elettrica, gli operai devono trattenersi nei cantieri per un’ora e mezza senza alcun compenso. È fatto obbligo “andare di rimpiazzo” se comandati dal sorvegliante. Il minatore anziano non può rifiutarsi di istruire il novizio. Di contro sono lasciate spesso all’improvvisazione le misure di sicurezza e di igiene, non si parla più di squadre di pronto soccorso, di refettori, di forniture di acqua potabile e meno che mai di docce sufficienti per tutti. Per non dire delle misconosciute latrine mobili da sotterraneo29.

45 Nel primo semestre del 1943, mentre la situazione economica e militare e la tenuta stessa del paese sembrano ormai compromesse, sono vanificati anche quei diritti dei lavoratori enunciati e mai davvero applicati. Ratificando una situazione di fatto, a partire dal 31 marzo, le 48 ore settimanali tornano ad essere norma in tutte le miniere e fabbriche di guerra. Per decisione del ministro delle corporazioni e del sottosegretariato competente si potenzia il ruolo di pronto reclutamento del personale a cura degli uffici di collocamento. Sullo sfondo rimane, per il sindacato, l’esigenza di rinsaldare i rapporti tra dirigenti e maestranze nelle aziende, il solo ambito quest’ultimo che può dare legittimazione e consenso. «Il Lavoro Fascista» accentua i toni critici sia pure adoperando delle forme indirette. Esalta e dà rilievo in prima pagina all’imponente sciopero dei minatori americani, e chiosa: «È difficile estrarre carbone con le baionette»30.

6. Valdarno minerario: una contrattazione “triangolare”

Contro la Società Mineraria, dunque, questi erano soprattutto i sentimenti che ci animavano. E non a caso una delle prime azioni della nostra formazione partigiana fu diretta proprio a colpire nei profitti e nei beni i massimi dirigenti dei padroni delle miniere31.

46 Il 25 luglio 1943 la notizia del colpo di stato suscita in Valdarno entusiasmo e speranze. Nella zona mineraria gli antifascisti si espongono ora pubblicamente creando una situazione di grande tensione con gli esponenti delle organizzazioni fasciste e con le forze dell’ordine. Gruppi di dimostranti devastano le sedi dei fasci prima ancora che la polizia ne disponga la chiusura. Succede a Cavriglia, a Castelnuovo e a San Giovanni

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dove i segretari politici di quelle sezioni PNF sono sottratti al linciaggio della folla dal provvidenziale intervento dei carabinieri. Il giorno 30, diffusasi la falsa notizia di un armistizio, un centinaio di minatori non si presenta in galleria per partecipare a una spontanea manifestazione antifascista. Seguiranno oltre sessanta denunce al tribunale militare di Firenze per i reati di astensione dal lavoro e di sobillazione32.

47 Il libero associazionismo popolare, antica bandiera del sovversivismo e della cultura sociale operaia, riprende quota dopo aver attraversato come un fiume carsico l’intero ventennio. I minatori eleggono i loro delegati nelle organizzazioni di rappresentanza. Il ripristino delle libertà sindacali costituisce il primo atto necessario per affermare il desiderio di un cambiamento radicale, anche nella forma e nella dialettica aziendale territoriale fra le parti sociali. Nell’estate del 1943 i minatori, attraverso una loro commissione operaia, prendono in mano l’organizzazione del lavoro con il consenso, non troppo convinto, della Mineraria. Subito affrontano le questioni più urgenti quali i trasporti collettivi dalla residenza al luogo di lavoro, i cottimi e gli orari.

48 La forte rete organizzativa clandestina del PCI convive con radicate presenze libertarie33.

49 Dopo l’8 settembre iniziano però le prime azioni di rappresaglia politica e sindacale mentre i lavoratori delle miniere, con l’aiuto dei contadini, organizzano la lotta clandestina. La Mineraria denuncia gli accordi di luglio asserendo che questi sarebbero stati estorti con la forza e in un’anomala situazione di trattativa. Molti giovani si danno alla macchia per sfuggire alla leva obbligatoria unendosi ai partigiani nascosti nei boschi fra Pratomagno e il Chianti.

50 La società Le Carpinete – «in seguito ai noti avvenimenti eccezionali» – sfoga tutto il suo disappunto in una missiva al Corpo Miniere mentre annuncia l’imminente chiusura dei cantieri con il licenziamento del personale ad esclusione del servizio manutenzione. I nuovi problemi si sono infatti aggiunti ai vecchi: deficienza dei vagoni ferroviari; limitazione delle possibilità di spedizione entro un raggio ristretto; impossibilità di utilizzare gli autotreni; difficoltà di accesso al lavoro per le maestranze a causa dell’insufficienza dei trasporti e per la cronica mancanza sul mercato di gomme da bicicletta; approvvigionamento quasi impossibile di puntellame e materiali indispensabili34.

51 Con l’avvento della Repubblica Sociale Italiana, se da una parte si allentano i vincoli organizzativi con il resto della provincia e della regione, si accentuano le iniziative locali di autodifesa contro l’apparato politico amministrativo repubblicano fascista, contro l’occupante tedesco. Nel Valdarno aretino si costituiscono la Brigata Mameli e le formazioni “Castellani” e “Chiatti”, operanti nell’area di congiunzione fra le province senese, fiorentina e aretina35.

52 Nel gennaio 1944 “quattro sconosciuti armati” fermano un’autovettura della Società Mineraria impossessandosi dei valori che vi venivano trasportati: 26.896 lire che la direzione si affretta a dichiarare come fondo che sarebbe stato destinato alle paghe degli operai. Per contrastare la presenza dei ribelli le autorità di polizia hanno dislocato cento agenti armati per tutto il bacino. La forza è ritenuta però insufficiente dal questore di Arezzo che chiede l’invio di almeno tre battaglioni motorizzati dell’esercito36.

53 Tra il marzo e il maggio 1944 si verificano varie agitazioni e scioperi fra i tremila addetti del bacino lignitifero, tali da destare preoccupazioni da parte dei tedeschi che,

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nel frattempo, hanno assunto il controllo diretto della zona mentre sovrintendono alla produzione. Decisiva si dimostrerà, nel caso, la “mediazione” del federale fascista – che giunge perfino a minacciare la direzione della Mineraria – per mantenere la protesta montante nei limiti rivendicativi economici. Lo sciopero del marzo 1944 paralizza tutto il lavoro nella zona mineraria, mentre anche gli operai dell’Ilva proclamano lo stato di agitazione. Alla fine, a seguito dell’intervento del capo della provincia Rao Torres che si incontra a Castelnuovo con la commissione operaia e la direzione della Mineraria, si stabilisce che gli accordi del luglio precedente dovranno essere rispettati. Da quel momento però, su indicazione del CLN, i minatori membri della commissione si danno alla macchia e nelle gallerie si decide per lo “sciopero bianco”, ossia per un rallentamento e sabotaggio della produzione.

54 Sui muri di Castelnuovo compare un manifesto che invita i richiamati delle classi 1922, 1923 e 1924 a non presentarsi alle armi. Di fronte al decreto del governo della RSI, che stabilisce la pena di morte per renitenti e ribelli, la risposta dei giovani è il rifiuto. Le società minerarie incontrano difficoltà burocratiche presso il distretto militare di Arezzo, nell’ottenere gli esoneri dalla chiamata in base ai vigenti accordi fra il generale tedesco Leyers e il maresciallo Graziani. Alla fine, dopo una consultazione della Federazione nazionale esercenti industrie estrattive con l’incaricato germanico del Rustung und Kriegsproduktion (RUK) di Milano, sarà concesso lo status speciale di esonerati dal servizio militare a tutti i minatori. Ciò consente l’assunzione degli appartenenti alle classi dal 1920 al 1926 entro il 31 marzo. L’escamotage non funziona ed anzi, dando mano libera alla Mineraria, crea occasione per veri e propri scandali con l’assegnazione di esoneri con criteri clientelari37.

55 Ci sarà però un nuovo incontro “triangolare” (questa volta in prefettura ad Arezzo) nel corso del quale la delegazione operaia, composta da Libero Santoni e Bruno Beccastrini, otterrà l’abolizione degli esoneri, con grande scorno del rappresentante della Mineraria, ingegnere Civita, che – a dire del Santoni – avrebbe preferito «tenere in miniera i giovani e licenziare gli anziani perché rendono meno». Il dato saliente di questo passaggio è che la rappresentanza aziendale dei minatori, sorta autonomamente e palesatasi dopo il 25 luglio, continua a svolgere la sua funzione semipubblica e gode del riconoscimento di fatto delle autorità della RSI. Le quali indugiano, tedeschi permettendo, in inusitati atteggiamenti di apertura. Di diverso avviso i padroni delle miniere che di contrattazione in sede locale non ne vogliono proprio sapere38.

56 La vocazione anticapitalistica e radicale del sindacalismo fascista repubblicano, certo in continuità con alcune istanze sociali agitate nella precedente esperienza di regime, neppure ora trova modo di esprimersi compiutamente. Il richiamo allo spirito rivoluzionario delle origini non funziona. Questo almeno per tre motivi: per l’accentuata carenza di autonomia dovuta alla subalternità verso l’apparato militare amministrativo degli occupanti; perché le strutture preposte alle relazioni industriali in sede aziendale e territoriale, distrutte venti anni prima, non sono state più ricomposte; per la sfiducia dei lavoratori verso un sindacato rivelatosi organo di mero controllo, di “polizia economica”. Il nuovo ministro dell’Economia Corporativa, l’ingegnere chimico Angiolo Tarchi già presidente nazionale della Federazione dei lavoratori industrie estrattive ed estensore di articolate proposte di politica energetica per il Valdarno, non ha gli strumenti né, volendo, dispone del necessario contesto per attuare il programma ambizioso e un po’ demagogico della nuova repubblica del lavoro39.

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57 La Carta di Verona avrebbe addirittura previsto: la socializzazione di tutte le imprese fornitrici di materie prime e di energia; l’ingresso di rappresentanti dei lavoratori negli organi amministrativi delle aziende private in numero uguale a quello degli azionisti; l’elezione di consigli di gestione da parte di operai, impiegati e tecnici nelle società a capitale pubblico. Il programma anticapitalistico fascista di “socializzazione” viene senz’altro osteggiato dalle autorità tedesche che non desiderano certo che si pongano ostacoli alla produzione di guerra. D’altra parte la perdita di Roma accentua la propensione nazista a controllare la vita economica della RSI. Così si attua un programma di “pianificazione” che, prevedendo una severa vigilanza sui principali centri industriali, si traduce in saccheggio sistematico attraverso requisizioni e trasferimenti in Germania degli impianti. Agli industriali italiani viene riservata l’opportunità di svolgere funzioni di mediazione con la burocrazia pubblica. Ma anche il ministro Tarchi conviene infine sulla necessità di farsi carico dello sforzo produttivo bellico. L’incaricato in Italia del ministero tedesco per gli armamenti e la produzione bellica generale Leyers e il comando delle forze armate germaniche hanno recapitato alle direzioni delle varie società minerarie la «Dichiarazione di stabilimento protetto». Il documento, «in base agli accordi presi col Governo Italiano», afferma la dipendenza dal Reich di tutti gli impianti e relative pertinenze, soggetti a speciale tutela. Vieta, pena gravi sanzioni, «qualsiasi atto possa disturbare o comunque menomare la normale attività dello stabilimento». Afferma l’assoluta competenza del comando tedesco sulle questioni riguardanti l’andamento produttivo, i licenziamenti, la gestione del personale dipendente40.

58 Fin dalla primavera del 1944 il CLN valdarnese aveva lanciato la parola d’ordine della lotta a oltranza senza tregua a tedeschi e fascisti. Fra l’aprile e il maggio una serie di incursioni aeree inglesi con bombardamenti aveva arrecato grave pregiudizio agli impianti: colpito il deposito di mattonelle del Ponte alle Forche; danneggiati fabbricati, binari e capannoni adibiti a depositi per l’essiccazione della lignite in località Due Borri; reso impraticabile il ponte di Vacchereccia; colpito il Villaggio Santa Barbara con l’abbattimento della torre serbatoio per l’acqua potabile e danni alle abitazioni. Nel giugno i partigiani fanno saltare tre tralicci e tre ponti in località San Cipriano, interrompendo per alcuni giorni sia il traffico della Società Mineraria che dei reparti tedeschi. Allo stesso tempo proseguono le requisizioni di esplosivo alle varie società, di generi alimentari dagli ammassi per la distribuzione agli sfollati. Il direttore della Mineraria viene a lungo trattenuto presso la “Chiatti” fino a che non si convince ad impegnarsi per il rifornimento di vettovaglie ai partigiani e alla popolazione. I rapporti fra gli occupanti tedeschi e la direzione della Mineraria, specie nell’ultimo periodo, sono tesi ed improntati a reciproca diffidenza. Uno stock di attrezzature da miniere, composto da costosi macchinari (motori elettrici, ventilatori, perforatrici, ecc..) e da utensili nuovi o seminuovi, è stato requisito e trasportato a nord. Il trasferimento dei materiali, nel giugno 1944, è avvenuto contro la volontà della Mineraria che ha invece inteso l’alienazione come vendita. Il tentativo di farsi saldare la relativa fattura, tramite un intermediario che si presenta come esattore delegato al comando del competente ufficio RUK-Miniere di Milano, si risolverà in un nulla di fatto. Ma i tedeschi, prossimi a smobilitare, non prendono a cuore i piccoli problemi di recupero crediti della Mineraria, né si sentono obbligati verso chi li ha fedelmente serviti41.

59 Collocato sullo scenario provvisorio e di transizione della Repubblica Sociale Italiana, l’episodio di contrattazione «triangolare» appena descritto, costituisce un anomalo e

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precario tavolo di ambito locale, che però dà per la prima volta visibilità ad una rappresentanza autentica e democratica dei minatori.

60 Gli anni 1939-45, analizzati sotto il prisma della regolamentazione dei rapporti di lavoro, registrano un’articolazione completamente inedita rispetto alla precedente conflagrazione bellica. Fermo restando il sostanziale quadro formale coatto, sono i sindacati, o più esattamente le federazioni nazionali, a svolgere questa volta le funzioni che nel 1915-18 erano di pertinenza dei Comitati della Mobilitazione Industriale a livello regionale. Fra l’altro in quei consessi periferici, data la presenza diretta delle rappresentanze datoriali più importanti nel territorio, talvolta si svolgevano vere, surrogate, contrattazioni aziendali. Il sistema sindacale fascista, invece, ostacola e proibisce qualsiasi decentramento, rendendo ad esempio inattuati (a maggior ragione in tempo di guerra) i contratti integrativi provinciali e riconoscendo solo tardivamente la figura del cosiddetto «fiduciario di fabbrica».

NOTE

1. Questo saggio è la rielaborazione di un intervento al seminario della Società Italiana di Storia del Lavoro, Il lavoro, le guerre. Europa 1914-’18/1939-’45, tenutosi a Firenze il 2 febbraio 2015. Le fonti compulsate concernono i precedenti studi dedicati dall’autore al tema minerario, in particolare: SACCHETTI, Giorgio, Ligniti per la Patria. Collaborazione, conflittualità, compromesso. Le relazioni sindacali nelle miniere del Valdarno superiore (1915-1958), Roma, Ediesse, 2002. 2. Cfr. Ibidem, pp. 59-73. 3. Cfr. CARRETTO, Giacomo, «L’evoluzione storica del diritto minerario toscano e il principio della demanialità del sottosuolo», in La Miniera Italiana, 9, 1918. 4. Cfr. TOMASSINI, Luigi, Lavoro e guerra. La mobilitazione industriale italiana 1915-1918, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997. 5. Cfr. RICCI, Aldo G., SCARDACCIONE, Francesca R. (a cura di), Ministero per le armi e munizioni. Decreti di ausiliarietà. Inventario, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio per i beni archivistici, 1991, pp. 7-34. 6. Cfr. Rivista del Servizio Minerario, 1917-1918, passim; ed anche SACCHETTI, Giorgio, «Le mani, la fronte… Lavoro e quotidianità nelle miniere di lignite», in S-Nodi Pubblici e Privati nella Storia Contemporanea, 10, 2012, pp. 32-47. 7. Cfr. Archivio Centrale dello Stato (ACS), Ministero Industria Lavoro Commercio, Comitato Centrale della Mobilitazione Industriale (CCMI), busta n. 21, fasc. 4, Comitato Regionale Mobilitazione Industriale per la Toscana, Verbale della seduta del 23 marzo 1918. 8. Cfr. SACCHETTI, Giorgio, Ligniti per la Patria, cit., pp. 59-73. 9. Ibidem. 10. Cfr. Corpo Reale delle Miniere, Firenze, posizione 5-III, Arezzo, fascicolo Cavriglia, Verbale degl’infortuni occorsi il 15 luglio 1918 nella miniera Pianale di Castelnuovo dei Sabbioni; e Rivista del Servizio Minerario, 1915, pp. CI-CV, 1916, pp. LXXXIV-XC, 1917, pp. LXXX-LXXXI. 11. Cfr. FELISINI, Daniela, Lavoratori e quadri aziendali, in DE ROSA, Luigi (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia. 2. Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 543 et seq.

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12. Cfr. ACS, CCMI, busta n. 21, fasc. 4, Comitato Regionale Mobilitazione Industriale per la Toscana, Verbale adunanza del 3 agosto 1918. 13. Cfr. SACCHETTI, Giorgio, Ligniti per la Patria, cit., pp. 59-73. 14. Guerra di Classe, 28, 1916. 15. Cfr. SACCHETTI, Giorgio, Ligniti per la Patria, cit., pp. 75-87. 16. Cfr. Rivista del Servizio Minerario, 1917, p. XII; Rivista del Servizio Minerario, 1918, pp. CV-CIX. 17. Per questa vertenza, cfr. ACS, Ministero Industria Lavoro Commercio, CCMI, busta n. 21, fasc. 4 cit., Verbale adunanza del 3 agosto 1918. 18. Ibidem. 19. Cfr. GALASSO, Giuseppe, Crisi e trasformazioni dell’economia italiana, in ID. (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, Vol. 3., Espansione e oligopolio, 1926-1945, t. I, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 1-59. 20. Cfr. PEPE, Adolfo, Il Sindacato fascista, in DEL BOCA, Angelo, LEGNANI, Massimo, ROSSI, Mario G. (a cura di), Il regime fascista. Storia e storiografia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp.240-241. 21. Cfr. La Vita Corporativa Aretina, 4, 1940; La Vita Corporativa Aretina, 5-6, 1940; e ACS, Segreteria Particolare del Duce, carteggio ordinario (1922-1943), n. 510267, “ALI”; e ACS, Ministero Agricoltura Industria Commercio (MAIC), Direzione generale delle miniere, Servizio amministrativo, busta n. 115, fascicolo 1164, “Lignite, riepilogo produzione mensile 1941, produzione presuntiva 1942”. 22. ACS, MAIC, Direzione generale delle miniere, busta n. 115 cit., Appunto per il Ministro, 18 aprile 1942, su “Miniere di lignite del Valdarno”, a firma Ing. Giovanni Girolami. 23. Società Mineraria del Valdarno, Tariffe di cottimo e paghe a giornata in vigore dal 25 Marzo 1940, San Giovanni Valdarno, Stab. Tip. già A. Noferi, s.a. 24. Cfr. Il Lavoro Fascista, 78, 31 marzo 1940, La revisione del contratto per gli operai minatori all’esame della Federazione. 25. Ibidem, 100, 26 aprile 1940. 26. Ibidem, 248, 17 ottobre 1941. 27. Cfr. Corpo Reale delle Miniere, Firenze, posizione 56/33, Arezzo, Carpinete, nota riservata al prefetto di Arezzo, protocollo 7478 del 28 novembre 1941; Rivista del Servizio Minerario, 1939, p. 18, 1941, p. 12; SACCHETTI, Giorgio, Ligniti per la Patria, cit., pp. 193-194. 28. Cfr. Sottosegretariato di stato per le fabbricazioni di guerra, Istruzione n.3. Norme sulla disciplina degli stabilimenti ausiliari (approvate con Decreto 10 dicembre 1942-XXI, n.41 del Sottosegretariato di Stato per le fabbricazioni di Guerra), Roma, USILA, 1942. 29. Cfr. Società Mineraria del Valdarno, Tariffe di cottimo e paghe a giornata in vigore dal 25 marzo 1940, cit. 30. Cfr. Il Lavoro Fascista, 2 febbraio 1943; Il Lavoro Fascista, 4 maggio 1943; Il Lavoro Fascista, 4 giugno 1943. 31. SANTONI, Libero, Dal buio della miniera alla luce della libertà, Milano, Vangelista, 1986, p. 55. 32. Cfr. SACCHETTI, Giorgio, Ligniti per la Patria, cit., pp. 206-215. 33. Cfr. SANTONI, Libero, Dal buio della miniera alla luce della libertà, cit., pp. 15-16. 34. Cfr. Corpo Reale delle Miniere, Firenze, posizione 56/33, Arezzo, Carpinete, corrispondenza, nota dell’11 ottobre 1943. 35. Cfr. CURINA, Antonio, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Arezzo, Tipografia Badiali, 1957, pp. 395-397. 36. ACS, Ministero dell’Interno, RSI, 1944-45, busta n. 2, Arezzo, relazione al Capo della Polizia del 15 aprile 1944. 37. Cfr. SANTONI, Libero, Dal buio della miniera alla luce della libertà, cit., p. 10. 38. Ibidem, p. 32. 39. Cfr. Appunto al Duce del ministro per l’Economia Corporativa, Angelo Tarchi sui colloqui con i generali Leyers e Zimmermann (7 gennaio 1944), in ACS, RSI, Posta da campo, 568, busta n. 85, fascicolo 657/1.

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40. Ibidem. 41. Cfr. Archivio Comune di Cavriglia, 1945, busta n. 124, categoria I, “decr. Indennità di bombardamenti”, Elenco delle offese belliche verificatesi nel territorio di questo Comune, 10/1/1945; Ibidem, 1946, busta n. 129, categoria VIII, classe 2, “Servizi militari (Lavori Commissione riconoscimento qualifica Partigiano)”, Relazione dell’attività svolta dalla 3^ Compagnia Chiatti, Cavriglia 13/4/1946.

RIASSUNTI

La Toscana delle industrie estrattive ha svolto, nel corso delle due guerre mondiali, un ruolo socioeconomico di livello nazionale ed ha avuto un’importanza davvero cruciale per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico. Partendo da questo significativo caso-studio e analizzando alcune vertenze, il saggio affronta il tema del lavoro in miniera durante le emergenze belliche del 1915-18 e del 1939-45 soffermandosi soprattutto sull’organizzazione produttiva, il reclutamento e la disciplina nelle differenti mobilitazioni industriali, i contratti stipulati, il trattamento salariale, le condizioni di lavoro e la salubrità, l’occupazione tedesca e la gestione partigiana dei siti minerari.

The mining industry in Tuscany nationally played a key socioeconomic role during the two world wars and had a really crucial importance for energetic supplying. Basing on this significant case study and analyzing several disputes, the essay tackles the issue of the mining work during the war emergencies of 1915-18 and 1939-45, focusing particularly on the organization of the production, the recruitment and the discipline in the different industrial mobilizations, the contracts, the wages, the healthiness and the work conditions, the German occupation and the partisan management of the mining sites.

INDICE

Keywords : mining industry, mining work, trade unions, Tuscany, world wars Parole chiave : guerre mondiali, industrie estrattive, lavoro in miniera, sindacati, Toscana

AUTORE

GIORGIO SACCHETTI

Giorgio Sacchetti, dottore di ricerca in Storia del movimento sindacale, ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale 2012 per professore associato di Storia contemporanea. Dal 2014 è docente a contratto all’Università di Padova. Si occupa di labour history e di culture libertarie del Novecento. L’ultimo volume pubblicato è Vite di partito. Traiettorie esistenziali nel PCI togliattiano (Napoli, ESI, 2016). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Sacchetti >

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Un oscuro protagonista dell’affaire Moro: Antonio Chichiarelli e il falso comunicato n. 7

Francesco Landolfi

1. La vicenda

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1 Giovedì 16 marzo 1978 il presidente della Democrazia cristiana (DC), Aldo Moro, lasciò in automobile la sua abitazione in via Forte Trionfale 79 per dirigersi, insieme ai cinque agenti della scorta, in piazza Montecitorio. L’appuntamento cui non poteva mancare era il frutto del suo lavoro politico degli ultimi anni: l’apertura della maggioranza parlamentare democristiana al Partito comunista italiano (PCI) di Enrico Berlinguer. Sembrò che il progetto del “compromesso storico” stesse per realizzarsi. Quella mattina, infatti, la Camera dei Deputati avrebbe votato la fiducia per il quarto governo presieduto da Giulio Andreotti dopo un accordo programmatico elaborato anche dal PCI. Mentre percorreva via Mario Fani, alle 9.021 la vettura FIAT 130 dell’on. Moro venne bloccata da una FIAT 128 bianca con targa del Corpo diplomatico, che gli si posizionò di fronte. Dopo il massacro dei cinque uomini della scorta, il commando terrorista delle Brigate rosse (BR) si dileguò sequestrando il politico2.

2 Secondo un’interessante ricerca condotta dai giornalisti Romano Bianco e Manlio Castronuovo, furono almeno ventiquattro i testimoni oculari che assistettero alla sparatoria. Uno di questi, Pietro Lalli, riconobbe in uno degli assassini una persona particolarmente addestrata nell’utilizzo delle armi, perché notò la maniera disinvolta con cui «impugnava il mitra […], tenendo la mano sinistra sulla canna per evitare che si impennasse»3 e apparendo allo stesso tempo freddo e deciso nei movimenti. Atteggiamenti propri di un militare e non di un terrorista. A questo killer, peraltro, gli studi topografici e balistici attribuirono 49 proiettili degli 89 totali sparati dai brigatisti. Questione ancora più incredibile fu il fatto che 31 bossoli ritrovati sul luogo del delitto avrebbero potuto essere utilizzati soltanto da organi militari «non convenzionali»4. Una tipologia di munizioni presente solamente all’interno dei depositi militari segreti dell’organizzazione paramilitare Gladio.

3 Nonostante la rilevanza delle forze impiegate (172.270 agenti e 21.399 automezzi), delle attività svolte (6.296 posti di blocco, 17.756 pattugliamenti e 6.933 perquisizioni domiciliari) e dei controlli attuati (167.109 su persone e 96.572 su automezzi) dagli organi della pubblica sicurezza all’interno dell’area metropolitana di Roma5, il 9 maggio il cadavere di Moro, colpito da undici proiettili (di cui dieci esplosi con un mitra Browning 7.65 modello Skorpion), venne ritrovato nel bagagliaio di un’automobile Renault 4 rossa abbandonata in via Caetani. Una via centrale di Roma, a metà strada tra la sede della DC e quella del PCI6.

4 L’eliminazione di Moro dalla scena politica si verificò proprio nello stesso periodo in cui lo statista stava perseguendo una concreta alleanza di governo con il Partito comunista. Una mossa strategica fortemente osteggiata dal governo statunitense7. Già dalla fine del 1968 Moro espresse apertamente al proprio partito la volontà di collaborare con l’opposizione comunista, al fine di garantire un governo stabile tra il PCI e la DC. Tale convergenza politica, definita come «strategia dell’attenzione»8, risultò chiaramente

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agli occhi degli Stati Uniti e da Kissinger come l’inizio di una possibile spaccatura interna al blocco occidentale. Su tale questione il punto di vista del Dipartimento di Stato americano sembrò essere stato piuttosto chiaro e netto. Il comunicato del 12 gennaio 1978 del Pentagono alle istituzioni italiane non lasciò dubbi su come si sarebbe dovuto agire: Esperti del Governo hanno ripetutamente espresso tali vedute sulla questione della partecipazione dei comunisti ai governi dell’Europa occidentale. La nostra posizione è chiara: noi non siamo favorevoli a tale partecipazione e vorremmo veder diminuire l’influenza comunista nei paesi dell’Europa occidentale. Come abbiamo detto in passato, riteniamo che il modo migliore per conseguire questi obiettivi sia attraverso gli sforzi dei partiti democratici per soddisfare le aspirazioni popolari di un governo efficiente, giusto e aperto alle istanze sociali9.

5 Si trattò della cosiddetta “dottrina Kissinger”, secondo la quale i governi democratici (in particolare quello italiano) avrebbero dovuto seguire una linea politica di intransigente condanna nei confronti dei partiti comunisti. Nata alla fine degli anni sessanta quando Kissinger divenne Consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Richard Nixon, questa strategia diplomatica d’intolleranza verso il blocco sovietico si originò a partire dal quadro internazionale che ormai fin dalla crisi della guerra in Vietnam sembrava instabile per gli Stati Uniti. A ciò si aggiunsero ulteriori questioni legate alle rivolte sociali (fenomeno del Black Panther Party nel 1969-73), all’economia (svalutazione del dollaro nell’agosto 1971, crisi energetica nell’ottobre 1973) e alle istituzioni (scandalo Watergate durante il biennio 1972-74), che indebolirono la supremazia mondiale americana. Per tutti gli anni settanta la “dottrina Kissinger” divenne il principio cardine da seguire non soltanto per la diplomazia statunitense, ma anche per l’intero blocco occidentale, soprattutto dopo il cambiamento politico verificatosi in Cile nel novembre 1970 con l’avvento del socialista Salvador Allende e nell’area mediterranea con la fine delle dittature militari filo- americane in Grecia, Spagna e Portogallo nel 1974-75.

6 In tale contesto di generale crisi l’Italia si pose come un paese proiettato verso una politica progressista favorevole alle nuove esigenze popolari, generatesi dal periodo di crisi economica, politica e sociale cominciato con l’”l’autunno caldo” del 1969, preludio della parentesi temporale che la storia ha definito “gli anni di piombo”. L’esplosione di quello che lo storico economico Pierluigi Ciocca definisce come un triplice shock (salariale, petrolifero, finanziario pubblico) produsse nella penisola un aumento della disoccupazione e del costo della vita, insieme a una contemporanea svalutazione della lira, che durante la prima metà degli anni settanta incrementò la percentuale del debito pubblico nazionale di 20 punti, passando dal 40 al 60% rispetto alla cifra totale del PIL10.

7 In questo periodo la politica democristiana applicò una serie di riforme socio- istituzionali che modificarono profondamente il paese: lo Statuto dei lavoratori (1970) e l’istituzionalizzazione delle regioni (1970) misero in pratica la “seconda via” del riformismo socialdemocratico concretizzatosi con il primo governo Moro nel dicembre 1963, inglobando all’interno del governo di maggioranza democristiano anche il Partito socialista italiano (PSI) di Giuseppe Saragat e Pietro Nenni in funzione anticomunista. Una fase di mutamento istituzionale che era stata prevista dalle agenzie di sicurezza statunitensi già nel 1961: Moro […] is convinced that support of a pro-western foreign policy will eventually involve the PSI in polemics with communists (PCI) and thereby cause a de facto split. […] Moro is convinced that after five years of a center-left government the PSI

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will cease to exist as a political power. Some two thirds of the PSI would be won over to the DC position and the other third would move to the PCI11.

8 La strategia della “seconda via” intrapresa da Moro e dalla DC risultò consimile a quella formula che Kennedy definì come la New Frontier, una nuova fase storica finalizzata alla distensione con l’Unione Sovietica e al disarmo reciproco degli armamenti nucleari. Questo significò in Italia la possibilità dell’avvento di un governo socialdemocratico attraverso un avvicinamento della DC con il PSI: «President Kennedy called this fresh approach to the New Frontier. We call it the less appealing name of center-left»12. Lo spostamento a sinistra delle istituzioni democristiane e il notevole consenso che gli italiani continuarono a mostrare verso il Partito comunista italiano preoccuparono gli Stati Uniti per la possibilità d’incorrere in una “terza via” di governo con il PCI che in un futuro prossimo sarebbe stata inevitabile. Nonostante ciò, ancora nel 1965 gli Usa confidarono ancora pienamente nella volontà di Moro di estromettere eventuali ingerenze comuniste all’interno della coalizione socialdemocratica: «Majority of DC (including Moro) have no illusions concerning nature of PCI and threat it constitutes for Italian democracy»13.

9 Eppure con la fine del suo terzo governo nel giugno 1968, Moro cominciò ad avvicinarsi al Partito comunista. Questa rischiosa manovra politica venne giustificata dallo statista democristiano dall’analisi del cambiamento socio-culturale che si era verificato nella penisola e nel mondo in seguito alla sconfitta militare americana in Vietnam e alle conseguenti rivolte studentesche e operaie sfociate nell’eclatante “maggio parigino”. Ciò aveva posto in discussione la supremazia americana, che non si configurava più come una terra di libertà e democrazia, ma come un impero consumistico-capitalista. Una lungimirante riflessione che Moro espose chiaramente in un suo discorso durante il Consiglio Nazionale democristiano, delineante la sua ferma intenzione di rinnovare la DC attraverso un avvicinamento al PCI: Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e di insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità. […] Farò ora alcune considerazioni sui problemi del partito. È mio dovere comunicarvi, come ho fatto da tempo al Segretario politico, che ho deciso di assumere una posizione autonoma nella organizzazione interna della Democrazia cristiana, autonomia che eserciterò, specie nell’attuale contingenza, con quel senso di responsabilità che ha sempre caratterizzato la mia azione14.

10 Nixon e Kissinger mostrarono un’immediata preoccupazione verso l’atteggiamento progressista di Moro, cominciando peraltro a pronosticare un ingresso del PCI nel governo verso la metà degli anni settanta. Come mossa preventiva venne inviato a Roma un nuovo ambasciatore statunitense, Graham Martin, diplomatico intransigente che durante i suoi quattro anni di carica (1969-1973) rifiutò costantemente qualsiasi confronto con Moro riguardo all’incerta situazione politica italiana15. Intanto Moro, divenuto Ministro degli Esteri nel secondo governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor, continuò a rassicurare il governo statunitense in merito all’impossibilità di una coalizione con il PCI: «Moro promised he would remain in close touch with US as Italian position developed as he did not desire to take any action

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which would be harmful to US interests»16. Dal punto di vista sociale gli anni che seguirono furono contraddistinti dallo sviluppo del terrorismo politico e del fenomeno stragista, inauguratosi con la bomba alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, che il 12 dicembre 1969 provocò la morte di diciassette persone e il ferimento di altre ottantotto. Uno strisciante clima di guerra civile e di destabilizzazione socio- politica che, secondo quanto scritto dall’ex agente CIA Philip Agee, può talvolta essere provocato ad hoc, in base alla metodologia dei servizi segreti, per favorire un ripristino delle istituzioni democratiche attraverso una già menzionata «strategia della tensione»: Se una situazione può essere più efficacemente recuperata agli interessi americani con metodi non costituzionali o attraverso un colpo di Stato, può essere tentata anche questa via. Anche se in genere l’Agenzia [CIA] per montare un colpo di Stato gioca la carta dell’anticomunismo, possono servire ugualmente bene allo scopo anche i lingotti d’oro e i sacchi di banconote. In alcuni casi una bomba opportunamente fatta esplodere da un agente della sezione, seguita da dimostrazioni di massa e poi dall’intervento dei militari in nome del ristabilimento dello ordine e dell’unità nazionale, può essere la strada più conveniente17.

11 In proposito alle elezioni politiche del 20 giugno 1976, la CIA espresse tutta la propria preoccupazione riguardo all’instabile situazione politica italiana che sembrava favorire il PCI, a scapito di una maggioranza socialdemocratica ormai in declino. In questo spirito d’insicurezza istituzionale gli statunitensi ritennero «essenziale»18 un rafforzamento deciso e immediato del potere democristiano, in previsione di un momento di sorpasso dei comunisti sulla DC: Last June [1975] the Communists captured about a third of the vote in nationwide regional and local elections, coming within 2 percent of the Cristian Democrats. This gave the Communist question a new immediacy, deepened existing divisions within the governing parties, and dealt the final blow to the foundering center-left alliance that had governed since 1963. […] The last year was the most successful in the Communist Party’s history. As a result of the party’s gains in the local elections, 60 to 65 percent of the Italian population is now governed by regional or local administrations dominated by or dependent on the Communists. In addiction, The Communists are operating in a far more receptive political atmosphere than at any previous time19.

12 Nel 1976 il PCI ottenne il 34% dei voti e le speranze del «compromesso storico» voluto da Berlinguer e da Moro divennero sempre più concrete. Le relazioni internazionali tra Roma e Mosca continuarono a migliorare, sebbene il Cremlino divergesse politicamente da Berlinguer in merito al fatto che PCI avesse autonomamente deliberato di entrare in un governo di coalizione democristiano. Un’alleanza politica che sostanzialmente non fu apprezzata in toto né dagli Stati Uniti né dall’Unione Sovietica. È anche in tale contesto storico che deve essere inserito il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro20.

13 Nel corso dei cinquantacinque giorni intercorsi tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 i servizi segreti italiani, diretti dai generali Giuseppe Santovito, Giulio Grassini e dal prefetto di Roma Walter Pelosi, furono allo stesso tempo responsabili di una serie di inefficienze e di errori difficilmente ascrivibili alla pura e semplice casualità. Sintomatici, al contrario, di una precisa operazione di depistaggio e di occulta protezione dell’azione terroristica. Non sembra casuale il fatto che il Comitato di crisi, istituito al Viminale dal ministro dell’Interno , fosse composto

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interamente da infiltrati della Loggia P2, ingaggiati quali esperti o consiglieri del ministro21.

14 I giorni del sequestro vennero scanditi da periodici comunicati firmati Brigate rosse. Numerati progressivamente, furono dieci in tutto, prima del fatidico 9 maggio22. I comunicati vennero sempre divulgati dai brigatisti seguendo un’identica prassi, caratterizzandosi «per gli identici aspetti tecnici, filologici e ideologici, anche allo scopo di eludere eventuali “ingerenze esterne” nella gestione del sequestro»23. Tuttavia, di questi dieci se ne riscontrò uno che presentava caratteristiche completamente diverse dai precedenti: molto sintetico, scritto con uno stile satirico su un foglio più corto del solito, senza slogan conclusivi e, infine, con l’intestazione «BRIGATE ROSSE» scritta stranamente a mano24. Si trattò del falso comunicato n. 7 del 18 aprile 1978. Documento scritto da un criminale della : “Tony” Chichiarelli.

2. Il personaggio

15 Antonio Giuseppe Chichiarelli nacque in un paesino dell’appennino abruzzese, Rosciolo, frazione di Magliano dei Marsi, il 16 gennaio 1948. Dopo aver espletato il servizio di leva nel corpo degli Alpini ed essere rimasto affascinato dalle prime agitazioni studentesche presso le Università di Pisa, Trento e Torino, decise di trasferirsi nella capitale25. Fin dai primi anni vissuti a Roma Chichiarelli ebbe problemi con la giustizia; nel 1970 venne fermato per detenzione di armi. Tre anni dopo venne rinchiuso per un breve periodo nel carcere di Regina Coeli per ricettazione26. In quegli anni conobbe Luciano Dal Bello, criminale romano legato alla banda della Magliana e dal 1977 anche informatore del Servizio d’Informazione per la Sicurezza Democratica (SISDE) e dei carabinieri del Nucleo polizia giudiziaria e del Nucleo tutela patrimonio artistico di Roma. Nel 1976 subì un secondo arresto e in quell’occasione conobbe Danilo Abbruciati, che pochi anni dopo sarebbe emerso come uno dei leader della banda della Magliana27.

16 A parte il suo coinvolgimento nel mondo criminale, Chichiarelli dimostrò di possedere un innato talento per la pittura. Si specializzò nella riproduzione di quadri famosi. Un’attività, quella dei “falsi autentici”, situata in una linea di confine tra il mondo della legalità e quello dell’illegalità. Parallelamente al falso d’autore, Chichiarelli non disdegnò di occuparsi ad un secondo “lavoro”: la falsificazione di documenti.

17 Chichiarelli dimostrò di possedere uno spirito eclettico anche nell’attivismo politico. Manifestò simpatie per l’estrema sinistra extraparlamentare, frequentando tra il 1976 e il 1977 gli ambienti legati ad Autonomia operaia. Eppure, allo stesso tempo non disdegnò di incontrarsi con personaggi che si dichiararono fascisti convinti, come i boss della banda della Magliana Franco Giuseppucci e Abbruciati, o il neofascista dei Nuclei armati rivoluzionari Massimo Sparti28.

18 Questa fu la vita di Antonio Chichiarelli fino a circa due mesi prima del sequestro Moro. Tra la fine del 1977 e l’inizio del 1978 il falsario venne coinvolto nella stesura del falso comunicato brigatista che avrebbe dovuto annunciare l’avvenuta morte di Moro e il suo occultamento nel lago della Duchessa.

19 In realtà, autorevoli periti grafici nelle loro relazioni giunsero a un’inaspettata conclusione: furono ben tre i comunicati cui vennero attribuite caratteristiche simili tra loro e che contemporaneamente si differenziarono dagli altri. Si trattò quindi del

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primo comunicato emesso subito dopo il sequestro (al quale proprio le Brigate rosse raccomandavano di rapportarsi per verificare l’autenticità dei successivi comunicati), del ben noto “falso” settimo comunicato (definito dai brigatisti come «una lugubre mossa degli specialisti della guerra psicologica»29 e attribuito a Chichiarelli) e del decimo comunicato fatto ritrovare soltanto il 20 maggio (anche questo non rivendicato dalle Brigate rosse). Se il primo comunicato, considerato come il termine di paragone per verificare l’autenticità degli altri messaggi seguenti, fu redatto con la stessa macchina utilizzata per scrivere il settimo, allora è plausibile che Chichiarelli abbia potuto redigere anche il primo comunicato, quello “vero” per antonomasia. Di conseguenza, si potrebbe pensare che il falsario avrebbe potuto quantomeno risultare in contatto con le Brigate rosse durante i giorni del sequestro Moro. A tal proposito scrisse nel novembre 1990 l’avvocato Giuseppe Zupo (dirigente del settore giustizia del PCI e legale delle famiglie degli uomini della scorta trucidata di Moro) in un appunto per la segreteria del suo partito: È chiaro dunque che se la testina rotante o la macchina servita per scrivere i comunicati Br durante il sequestro, a partire dal più significativo e reclamizzato di essi, il n. 1, erano in possesso di gente come quella coinvolta con la banda della Magliana, l’operazione Moro è riconducibile provatamente a livelli diversi da quelli noti del terrorismo rosso. Livelli in cui servizi e alta criminalità anche finanziaria sono documentalmente protagonisti30.

20 Una testina rotante per macchina da scrivere IBM venne addirittura trovata in possesso di Chichiarelli nell’agosto 1979 da parte degli agenti di polizia del commissariato Monteverde. Incredibilmente, dopo generiche indagini, questa fu subito restituita al proprietario31.

3. Il documento

21 Alle ore 9,25 del 18 aprile 1978, il trentaquattresimo giorno del sequestro, una telefonata anonima giunse alla redazione del quotidiano romano «Il Messaggero», annunciando che all’interno di un cestino in piazza Gioacchino Belli a Roma si sarebbero trovati due messaggi delle BR. In realtà venne ritrovato un solo volantino, contenuto in una busta arancione. Contrariamente al solito, si presentò come una fotocopia dell’atteso comunicato numero 7: IL PROCESSO AD ALDO MORO

Oggi 18 Aprile 1978, si conclude il periodo «dittatoriale» della D.C. che per ben trent’anni ha tristemente dominato con la logica del soppruso [sic]. In concomitanza con questa data Comunichiamo l’avvenuta ESECUZIONE del presidente della D.C. Aldo MORO; mediante “SUICIDIO”. Consentiamo il recupero della salma, fornendo l’esatto luogo ove egli giace. La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava inpantanato [sic]) del lago Duchessa, alt. mt. 1800 circa località CARTORE (RI) zona confinante trà [sic] Abruzzo e . È soltanto l’inizio di una lunga serie di “SUICIDI”: Il “SUICIDIO” non deve essere soltanto una “Prerogativa” del gruppo Baader Meinhof. Inizino a tremare per le loro malefatte i vari Cossiga, Andreotti, Taviani e tutti coloro i quali sostengono il REGIME. P.S. Rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi, ecc. che sono sempre sottoposti a libertà

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“VIGILATA”.

Comunicato n. 7 18/4/1978 Per il Comunismo BRIGATE ROSSE32

22 Inizialmente il nuovo documento sembrò essere identificato da Andreotti, Cossiga e dagli esperti antiterrorismo come del tutto analogo ai precedenti comunicati brigatisti33. Sebbene il comunicato fosse una fotocopia, venne quindi giudicato dagli specialisti come del tutto autentico. Tuttavia, sin dal suo ritrovamento tale documento venne accolto con scetticismo da un folto schieramento di professionisti. La prima persona che si accorse dell’evidente falsità del settimo comunicato fu il giornalista . Così, infatti, scrisse con sottile ironia in un suo articolo del 25 aprile: «Ricevuta la fotocopia del volantino delle “Brigate rosse” con il quale “i terroristi” comunicavano la località dove sarebbe stato abbandonato il corpo di Moro»34. Sembra chiaro che le virgolette poste su «Brigate rosse» e «i terroristi» lascino intendere il fatto che per il giornalista la persona che stilò il documento non fu certamente un brigatista35. La tesi di Pecorelli è stata sostenuta anche dal capo della Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali (DIGOS) Domenico Spinella. L’ufficiale di polizia ritenne il comunicato un evidente falso a causa della fraseologia estranea a quella normale delle BR, oltre che per gli errori di ortografia e di grammatica totalmente inconsueti negli altri scritti brigatisti36 e, infine, per essere stato diffuso in una sola città e in unico esemplare piuttosto che simultaneamente in più luoghi37. Della medesima opinione fu il professor Franco Piperno38, secondo cui fu «facile riconoscere il comunicato del lago della Duchessa come redatto dai fascisti o dai servizi segreti, ma certamente non proveniente dalle BR»39. Anche il giornalista di «L’Espresso» Mario Scialoja lo ritenne sicuramente un falso, perché venne scritto «in un linguaggio che nessun brigatista rosso avrebbe mai usato»40. Ecco, peraltro, le valutazioni dell’agenzia «Adn Kronos» sul comunicato del lago della Duchessa: L’autenticità del volantino lascia molti dubbi: si tratta, innanzitutto, di una fotocopia, e non di un foglio originale dattiloscritto; l’intestazione Brigate rosse è leggermente diversa nei caratteri e non risulta stampata; alcune lettere della macchina da scrivere presentano qualche diversità dai soliti caratteri: non compare il numero 1, ed al suo posto viene utilizzata la lettera “i” maiuscola; il foglio del comunicato appare nella fotocopia visibilmente più corto di quelli solitamente adoperati; nel volantino non ci sono slogans41.

23 Lo stesso ex capo brigatista Mario Moretti, durante un’intervista concessa alle giornaliste Chiara Mosca e Rossana Rossanda, manifestò senza alcun dubbio la propria convinzione riguardo all’evidente falsità del documento: «Tutto di quel comunicato è falso. […] c’è da ragionare sul perché, con quella marea di esperti, nessuno sembri accorgersi che nel comunicato che sarebbe più drammatico, quello decisivo, non una virgola somigli ai comunicati Br, nulla nella diffusione ricordi i comunicati precedenti» 42. Infine, ad aprile il Lago della Duchessa era ricoperto da uno spesso strato di ghiaccio che avrebbe impedito a chiunque di seppellire al suo interno il cadavere del politico43.

24 Veniamo ora all’analisi del contenuto. Vi è un iniziale riferimento alla storia della Repubblica italiana; viene citato il trentesimo anniversario della vittoria della Democrazia cristiana alle elezioni politiche del 18 aprile 1948. Una parentesi della storia d’Italia definita dai brigatisti come «il periodo “dittatoriale”». Poi si riscontra il riferimento alla lettera che Moro inviò al ministro dell’Interno Francesco Cossiga il 29 marzo: «(ecco perché si dichiarava inpantanato)»44. Alla fine di quella lettera Moro

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espresse in maniera chiarissima la sua posizione in proposito alla cosiddetta “strategia della fermezza” adottata dal Comitato di crisi: «Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità […] è inammissibile. […] Un atteggiamento di ostilità sarebbe un astrattezza ed un errore. Che Dio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose»45. Secondo il politico, il rischio di essere impantanati avrebbe riguardato i dirigenti della DC nel momento in cui non si fossero impegnati a liberarlo, appellandosi, al contrario, a un’ottusa e ingiustificata “Ragion di Stato”. In questa lettera fu Moro stesso a indicare al suo partito la strada di una possibile soluzione al rapimento, invocando anche un possibile coinvolgimento del Vaticano nella trattativa: «Penso che un preventivo passo della S. Sede (o anche di altri? di chi?) potrebbe essere utile»46.

25 Quasi alla fine del settimo comunicato emerge una frase che sembra fuori contesto: «È soltanto una lunga serie di “suicidi”: il “suicidio” non deve essere soltanto una prerogativa del gruppo Baader-Meinhof». A cosa alludono i brigatisti quando parlano di suicidio? A chi si stanno riferendo? La notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1977, nel carcere di Stammhein (Stoccarda) si verificò la misteriosa morte dei tre capi (Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe) dell’organizzazione terroristica tedesca Baader- Meinhof, denominata anche Rote Armee Fraktion. Al fine di liberarli, il 5 settembre altri terroristi appartenenti allo stesso gruppo decisero di sequestrare l’autorevole dirigente dell’Unione Cristiano-Democratica Hanns-Martin Schleyer, che fu giustiziato il giorno successivo al suicidio di Baader, Ensslin e Raspe, il 19 ottobre 1977 (esattamente sei mesi prima del 18 aprile)47. Sembra piuttosto evidente il parallelismo tra il rapimento di Schleyer e quello di Moro.

26 Negli ambienti dell’estrema sinistra europea serpeggiò sempre l’idea che quella misteriosa e inspiegabile serie di suicidi in realtà nascondesse un omicidio di massa compiuto dalla . In sostanza, il falso comunicato contenne una velata minaccia ai capi brigatisti in carcere che in quel momento, durante il sequestro Moro, si trovarono a Torino sotto processo48. Chi scrisse il falso comunicato volle quindi mandare un duplice messaggio al presidente della DC e ai sequestratori. Sarebbe stato Moro a ritrovarsi impantanato, e non i dirigenti del suo partito. Una risposta chiara e definitiva.

4. Quattro piste da seguire

27 Dalle indagini giudiziarie e dalle testimonianze sono emerse quattro ipotesi sul significato del falso comunicato n. 7.

28 Primo: fu una prova generale da parte dello Stato per testare la reazione dell’opinione pubblica alla notizia della morte dell’onorevole Moro. Così, infatti, Eleonora Moro, moglie dello statista, ha interpretato tale documento49. Della medesima idea fu Scialoja: «Questo comunicato era stato fatto fare per vedere come avrebbe reagito l’opinione pubblica e il mondo politico di fronte alla notizia della morte di Moro: era una prova generale»50. Supposizione ribadita anche dalla brigatista Adriana Faranda: «Quel falso comunicato ci preoccupò molto e rese inquieto anche Moro, che si chiedeva che cosa stesse succedendo. Abbiamo interpretato il falso annuncio della sua esecuzione come una prova generale di quello che sarebbe potuto accadere nel paese se Moro fosse stato effettivamente ucciso»51. Questa ipotesi venne confermata anche dall’ex brigatista Valerio Morucci all’interno del suo Memoriale: «La nostra convinzione, ed il clima non

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poteva permettere altra valutazione, fu che il volantino fu diffuso per anticipare e quindi far assuefare all’idea della morte di Moro».52

29 È certo che comunque sia Andreotti sia Cossiga non mostrarono mai una grande partecipazione per la liberazione di Moro. Anzi, la maggior parte delle volte entrambi rimasero protagonisti freddi e impassibili, trincerati dietro la linea della fermezza. Tutto ciò allo scopo di salvaguardare l’incolumità del popolo italiano dalla volontà eversiva dei terroristi53.

30 Secondo: fu una personale idea delle Brigate rosse servita a distogliere temporaneamente l’attenzione delle forze dell’ordine da Roma, al fine di permettere così ai terroristi di traslare Moro da una prigione ad un’altra più sicura. Questa opinione venne sostenuta dal brigatista Patrizio Peci, il quale dichiarò alla Commissione Moro che un esponente di Azione rivoluzionaria, Enrico Paghera, si assunse la responsabilità di redigere il falso comunicato54. Il documento sarebbe stato uno stratagemma richiesto dalle Brigate rosse ad Azione rivoluzionaria, progettato per confondere l’attenzione degli inquirenti e per consentire così ai brigatisti di uscire da Roma55. Tale ipotesi è stata avvalorata anche dal terrorista neofascista Massimo Sparti, il quale però affidò la paternità del messaggio all’amico Chicchiarelli: «Toni mi raccontò di aver preparato per scherzo e divertimento il comunicato n. 7 delle Brigate rosse per far correre le forze dell’ordine al lago della Duchessa»56. Un’ulteriore testimonianza che ha confermato tale supposizione è stata quella della moglie di Chichiarelli, Chiara Zossolo, in una sua dichiarazione resa nel 1994 al pubblico ministero di Perugia Fausto Cardella durante il processo per l’omicidio di Pecorelli: Zossolo: «Una sera mentre eravamo a cena, no un pomeriggio vedemmo nel telegiornale tutto un servizio sulla faccenda del Lago della Duchessa e allora mio marito mi disse: “vedi tutto questo macello, tutta questa cosa, questa confusione, l’ho creata io”.» Io restai un po’ meravigliata di questa cosa, dovetti credere perché lui conosceva bene il Lago della Duchessa, aveva vissuto la sua infanzia lì vicino e quindi c’erano dei riferimenti abbastanza credibili […]. Cardella: «Le spiegò che cosa significava che lo aveva fatto lui, lo aveva provocato lui questo?» Zossolo: «Sì, questo sì, mi disse che bastava che si dicesse qualcosa alla Polizia, o alle cose, o mandasse non so un biglietto perché loro ci credessero e andassero a vedere quindi disse: basta un poco per farli muovere e fare tutto un macello.»57

31 In quel frangente, secondo la testimonianza di un ex agente del SISMI, Pierluigi Ravasio, le Br furono aiutate dalla banda della Magliana, che si occupò dell’organizzazione logistica del rapimento, riuscendo a procurare un covo sicuro per i terroristi e per Moro inizialmente presso una località compresa tra Roma e Fiumicino (Vescovio)58 e in seguito al 18 aprile in via Montalcini 8, proprio all’interno del quartiere Magliana (dove, tra l’altro, abitavano a pochi metri importanti esponenti dell’organizzazione criminale)59. Una zona molto più sicura per i sequestratori e allo stesso tempo meno controllata dalle forze dell’ordine perché territorio della banda60. Il coinvolgimento della malavita romana nell’Affaire Moro è stato ulteriormente confermato da in una sua dichiarazione, resa nel 1993 al giudice istruttore di Roma Otello Lupacchini: «A dire di Nicolino Selis, la prigione del parlamentare democristiano si trovava nei pressi di un appartamento che egli teneva come nascondiglio per eventuali latitanze».61

32 Terzo: fu il compimento di un’operazione depistatoria (progettata dai servizi segreti con o senza l’autorizzazione delle istituzioni) finalizzata a mettere sotto pressione le

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Brigate rosse durante le trattative per il rilascio dell’onorevole. Secondo il magistrato Ferdinando Imposimato e l’avvocato della DC Giuseppe De Gori, si sarebbe dovuto escludere il fatto che le Brigate rosse avessero potuto decidere autonomamente fin dall’inizio la sorte di Moro62, perché il comunicato del lago della Duchessa fu la firma consapevole dello Stato sulla sua sentenza di condanna a morte63. Se Moro non fosse morto allora lo Stato avrebbe eliminato non soltanto i brigatisti detenuti a Torino, ma anche gli stessi sequestratori64. Un’altra conferma sull’idea che il comunicato del Lago della Duchessa fosse stato progettato dalle istituzioni è stata data dall’ex brigatista Enrico Fenzi in un’intervista rilasciata al giornalista Sergio Zavoli: «Secondo le Brigate rosse, il comunicato del Lago della Duchessa era un falso del governo, della polizia, insomma del potere […] ed era il segnale chiaro e inequivocabile che nessuna trattativa era possibile […] che lo Stato non avrebbe mai trattato per Moro»65. L’opinione di Fenzi venne condivisa anche dall’ex brigatista Anna Laura Braghetti: Pensava[m]o che il falso comunicato fosse una manovra dei servizi per farci capire che lo Stato non avrebbe trattato, e che Moro era perduto. Non ci sfuggì il tono del messaggio apocrifo: era cinico e beffardo, non il nostro stile. Anche un bambino avrebbe potuto accorgersene, ma nessuno in quelle ore convulse si era impegnato più di tanto per vagliarne l’autenticità66.

33 Sempre secondo Imposimato il falso comunicato non fu altro che «una creazione della banda della Magliana per indurre le Brigate rosse ad uccidere l’ostaggio»67. La malavita romana avrebbe quindi agito «per conto dei servizi segreti, che a loro volta si mossero per ordine di qualche politico»68. Servizi segreti che, tuttavia, secondo quanto affermato da Richard Gardner, ambasciatore statunitense in Italia tra il 1977 e il 1981, brancolarono nel buio per tutta la durata della trattativa: «non ci si può immaginare in quale stato fossero i servizi segreti in Italia a quel tempo: disorganizzazione totale. Non avevano nemmeno un fascicolo sui capi delle Brigate Rosse»69. Una circostanza alquanto misteriosa se si ricorda il fatto che già dal 19 marzo la questura di Roma era in grado di identificare ben ventidue brigatisti, alcuni dei quali appartenenti al commando di Via Fani70. Tutto ciò può far pensare soltanto che non vi fosse stata, volutamente o no, una reciproca collaborazione tra gli organi di sicurezza nazionale. Quindi il documento potrebbe essere interpretato come un messaggio mandato alle Brigate rosse su come si sarebbe dovuto concludere il sequestro, perché «la quasi certezza che Moro stesse facendo dichiarazioni importanti è stata la ragione dell’operazione lago della Duchessa. […] misura presa per bloccare le rivelazioni che Moro sicuramente stava facendo»71. Questa teoria venne, infine, avvalorata sia dal direttore del quotidiano «La Repubblica» Eugenio Scalfari che dalla testimonianza diretta dall’ex brigatista Alberto Franceschini durante una sua intervista rilasciata al giornalista Gianni Minoli per il programma televisivo «Mixer» nel 198772. Molto probabilmente i servizi segreti utilizzarono il falso comunicato come un avviso (e allo stesso tempo una minaccia) nei confronti delle BR riguardo alla sorte di Moro, ma anche per ciò che concernette la rischiosa pubblicazione delle sue carte inerenti ai maggiori scandali dell’Italia repubblicana73.

34 Quarto: fu la realizzazione, da parte dello Stato, di una contromossa inaspettata e studiata, avente lo scopo di determinare confusione all’interno delle Brigate rosse, che fino a quel giorno avevano gestito completamente le trattative per la liberazione dell’ostaggio attraverso i sei comunicati precedenti. Il sostituto procuratore di Roma Luciano Infelisi dichiarò dinanzi alla Commissione Moro il 27 gennaio 1981: «Nei giorni precedenti [al 18 aprile] qualcuno aveva proposto che i servizi segreti scrivessero delle

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lettere, dei volantini, al fine di creare una reazione. […] Se i nostri servizi, sollecitati, non erano all’altezza di farlo, allora mi domando chi può avere creato il volantino in quel particolare momento».74 Soltanto nel corso delle inchieste giudiziarie inerenti all’omicidio di Pecorelli, il 10 maggio 1993, il magistrato Claudio Vitalone dichiarò che il falso comunicato venne progettato «per costringere le Br a tenere in vita l’ostaggio», suggerendo, inoltre, l’idea che «con l’intervento degli organi di polizia giudiziaria, […] si potesse far diramare un comunicato apocrifo per disorientare le Br»75.

35 Le quattro interpretazioni formulate sulla vicenda potrebbero essere definitivamente chiarificate riportando quella testimonianza che ho ritenuto come la più rilevante, perché sostenuta da uno dei principali e indiscussi protagonisti di questa vicenda: Stephen R. Pieczenik, ex capo dell’Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato a Washington DC e consigliere speciale del ministro Cossiga all’interno del Comitato di crisi durante la parentesi del sequestro: Bisognava preparare l’opinione pubblica italiana e quella europea ad un eventuale decesso di Moro e per questo è stata definita quella che viene chiamata una “operazione psicologica”. Questa operazione consisteva nella pubblicazione di un falso comunicato nel quale era annunciata la morte di Moro ed era indicato il luogo dove il suo corpo poteva essere ritrovato. È tutto quello che so, perché non ho partecipato direttamente alla messa in atto di questa operazione, che avevamo deciso nel comitato di crisi. Le Brigate rosse […] non si aspettavano di trovarsi di fronte ad un altro terrorista che li utilizzava e li manipolava psicologicamente con lo scopo di prenderli in trappola. Avrebbero potuto venirne fuori facilmente, ma erano stati ingannati. Ormai non potevano fare altro che uccidere Moro. Questo è il grande dramma di questa storia76.

36 Giunto in Italia come esperto antiterrorista subito dopo la strage di via Fani, Pieczenik si accorse della tragica fine del sequestrato già dopo le prime lettere di Moro e i primi comunicati delle Brigate rosse che si susseguirono durante i cinquantacinque giorni. Il messaggio di quei documenti e la costante renitenza del Comitato di crisi a trattare con i terroristi lo resero ben consapevole del fatto che, da parte di entrambi, non vi sarebbe stata la minima intenzione di salvare la vita dell’ostaggio77. Fu proprio Pieczenik a confermare il suo presentimento di una congiura organizzata dai colleghi di Moro, specialmente quelli nominati da Cossiga all’interno del Comitato: Ci fu una cosa che emerse in maniera chiarissima, e che mi sbalordì. Io non conoscevo l’uomo Aldo Moro, dunque desideravo farmi un’idea di che persona fosse e di quanta resistenza avesse. Ci ritrovammo in questa sala piena di generali e di uomini politici, tutta gente che lo conosceva bene, e […] alla fine ebbi la netta sensazione che a nessuno di loro Moro stesse simpatico o andasse a genio come persona, Cossiga compreso. Era lampante che non stavo parlando con i suoi alleati78.

37 Profondamente vicino alle machiavelliche manovre politiche di Kissinger, Pieczenik si propugnò come il massimo esponente della “strategia dell’inattività”, ovvero dell’intrattabilità con i terroristi in ogni caso. Attraverso questa modalità d’azione il Comitato di crisi avrebbe annichilito, almeno politicamente, la figura di Moro, evitando il rischio del “compromesso storico” e valorizzando il PSI di Bettino Craxi in una futura fase di transizione politica, collocata temporalmente tra gli anni della violenza terroristica e gli anni del crollo del comunismo in Unione Sovietica79. E così, in effetti, avvenne. Ecco perché, secondo il giornalista statunitense Robert Katz, venne scelto proprio Pieczenik per quel delicato ruolo di intermediario: È particolarmente significativo che non sia stato Brian Jerkins, che pure è uno degli esperti mondiali di terrorismo più ascoltati, ad essere convocato a Roma, bensì

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Steve Pieczenik. A differenza della linea di Jerkins, abbastanza flessibile, la tesi avanzata da Pieczenik fu la seguente: «Bisogna dimostrare che nessuno è indispensabile per la sopravvivenza dello stato-nazione». […] L’idea era quindi di dimostrare che si poteva fare a meno persino di Aldo Moro80.

38 Anche Pecorelli scrisse, in un suo articolo intitolato Vergogna buffoni! e pubblicato su «OP» il 16 gennaio 1979, della figura di Pieczenik e del suo ruolo di coordinatore all’interno del Comitato di crisi. Dopo essere ritornato negli Stati Uniti, Pieczenik confermò al Congresso di aver dato a Cossiga le migliori disposizioni per poter riuscire a salvare la vita di Moro, con la promessa (da parte di Pecorelli) di pubblicare ulteriori rivelazioni inerenti alla morte dello statista democristiano nei fascicoli seguenti. La sera del 20 marzo 1979 Pecorelli venne ucciso davanti alla sede del suo periodico81.

5. Conclusioni

39 Il falsario romano Antonio Chichiarelli venne probabilmente incaricato dai servizi segreti per redigere un falso comunicato brigatista che annunciasse l’avvenuta morte di Moro e il suo seppellimento nel lago della Duchessa. Per di più, secondo quanto scritto negli elaborati presentati nel 2001 dalla Commissione parlamentare sul terrorismo in Italia, fu proprio il senatore e magistrato Vitalone che propose al sostituto procuratore generale di Roma Infelisi l’idea della produzione di un falso comunicato brigatista. Oltre a ciò Vitalone non escluse la possibilità di un coinvolgimento di alcuni organi di polizia, che avrebbero dovuto provvedere alla ricerca dell’esecutore. Un organo di polizia avrebbe potuto assicurare meglio il collegamento tra i servizi segreti (che in tal modo sarebbero stati protetti da possibili indagini) e i criminali, esecutori materiali della manovra depistatoria. Secondo quanto sostenuto da Vitalone, sarebbe stato sufficiente infiltrare tra le BR personaggi appartenenti alla criminalità e al neofascismo per destabilizzare i piani dei terroristi. E di soggetti criminali Vitalone ne conosceva, secondo quanto venne riferito il 7 maggio 1994 da Fabiola Moretti, compagna di Abbruciati, che in certe occasioni fece da chaffeur per Vitalone negli incontri segreti di quest’ultimo con il boss della banda della Magliana Enrico De Pedis, in quel tempo latitante82. Una figura oscura, quella del magistrato Vitalone, pervasa, secondo la Zossolo, di un «falso perbenismo»83 e inserita tra il mondo della politica e il mondo della criminalità. Un personaggio che secondo la Moretti risultò protagonista di uno scambio di regali con De Pedis: L’attenzione deve soffermarsi sui regali fatti o ricevuti da Claudio Vitalone e precisamente sul regalo di un servizio per manicure fatto da Claudio Vitalone a Enrico De Pedis, sul regalo di un anello fatto da Claudio Vitalone a Fabiola Moretti e sul regalo di un orologio Rolex fatto da Enrico De Pedis a Claudio Vitalone e sugli omaggi di pesce da parte di Enrico de Pedis a Claudio Vitalone84.

40 Uno di questi protagonisti appartenenti alla malavita romana reclutati da Infelisi potrebbe essere stato proprio Chichiarelli, che aveva conoscenze interne ai servizi di sicurezza e alle forze dell’ordine85. Considerato il fatto che la polizia giudiziaria venne sempre reputata come il braccio operativo della magistratura inquirente, sarebbe stato quindi tale reparto quello maggiormente idoneo a rintracciare gli uomini adatti per un’operazione tanto delicata, all’interno dell’unico ambiente in cui si sarebbero potuti reperire: quello della malavita. Chichiarelli non sembrò essere mai direttamente collegato ad alcun corpo di polizia o servizio di sicurezza, ma frequentò spesso un suo amico intimo, Dal Bello, che, come è stato affermato precedentemente, era stato in quel

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periodo un informatore al servizio del maresciallo Antonio Solinas, personaggio interno al Nucleo di Polizia giudiziaria in Roma. In questo caso Solinas seppe dal suo confidente Dal Bello già durante il periodo del sequestro Moro del ruolo di Chichiarelli nell’operazione depistatoria del falso comunicato. Tuttavia ciò venne rivelato da Solinas agli inquirenti soltanto in seguito alla morte di Chichiarelli, avvenuta il 28 settembre 1984, quindi sei anni dopo il sequestro Moro. Solinas riferì la notizia soltanto ai due ufficiali del SISDE Massimo Erasmo e Giuseppe Scipioni, che pur sapendo preferirono tacere per nascondere la verità alla magistratura86. Il fatto che lo Stato abbia potuto accreditare come autentico un palese falso, oltre alla gravità della vicenda, è di grandissima importanza storica, oltre che giuridica, in quanto ciò potrebbe implicare che Chichiarelli stesse agendo per conto dei servizi segreti in un’operazione che, purtroppo, ebbe l’appoggio e la complicità delle forze dell’ordine87.

NOTE

1. La mattina del 16 marzo 1978, nei pressi di via Fani è stata accertata la presenza del colonnello del Servizio d’Informazione per la Sicurezza Militare (SISMI) Camillo Guglielmi, già addestratore per le tecniche d’imboscata nella base militare di Gladio a Capo Marrangiu (SS), oltre che di Bruno Barbaro, cognato del colonnello Fernando Pastore Stocchi, anche lui dirigente del centro di addestramento sardo. Cfr. X LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Relazione sull’inchiesta condotta sugli ultimi sviluppi del caso Moro, 22 aprile 1992, Doc. XXIII, n. 49, p. 40. 2. VIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia. Relazione conclusiva, 29 giugno 1983, Vol. I, Doc. XXIII, No. 5, p. 10. 3. BIANCO, Romano, CASTRONUOVO, Manlio, Via Fani ore 9.02. 34 testimoni oculari raccontano l’agguato ad Aldo Moro, Roma, Nutrimenti, 2010, p. 59. 4. BIONDO, Nicola, Una primavera rosso sangue. I documenti ufficiali sull’“Affaire Moro”. Gli attori, i protagonisti, le fazioni ancora in lotta, Cosenza, Memoria, 1998, p. 38. 5. VIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, cit., p. 36. 6. SUNDQUIST, Victor H., «Political Terrorism: An Historical Case Study of the Italian », in Journal of Strategic Security, 3, 3/2010, pp. 53-68, p. 60. 7. Nel settembre del 1974 un collaboratore del segretario di stato americano minacciò severamente Moro della pericolosità di tale legame col PCI: «Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. O lei smette di fare questa cosa, o la pagherà cara». Il 13 settembre 1975 il settimanale «OP-Osservatore Politico» del giornalista Carmine Pecorelli, sotto il titolo L’America esperta scherza e prevede, aveva riportato una frase profetica, pronunciata da un funzionario al seguito di John Ford, in visita a Roma: «Vedo nero. C’è una Jacqueline nel futuro della vostra penisola». Presto qualcuno avrebbe fatto la stessa fine del presidente John F. Kennedy. Cfr. FLAMIGNI, Sergio, Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Milano, Kaos, 2006, p. 151. D’altra parte, l’onorevole Moro aveva parlato con Vittorio Cervone, parlamentare democristiano e suo amico intimo, presagendogli un triste futuro: «You will see, they will make us pay for our

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political line». Cfr. PASCALI, Umberto, «New Evidence of Kissinger’s Role in Aldo Moro Murder», in Executive Intelligence Review International, 9, 31, 1982, pp. 34-35, p. 35. 8. SCIRÈ, Giambattista, «Il caso Moro. Frammenti di una verità indicibile», in Italia contemporanea, 255, giugno 2/2009, pp. 273-305, p. 278. 9. MAGLIOCCO, Mario, Stati Uniti e Pci 1943-1980, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 280. 10. CIOCCA, Pierluigi, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 285, 291 (fig. 11.3) 11. CENTRAL INTELLIGENCE AGENCY (CIA), Moro’s Views on Future Developments in the Italian Political Situation, No. IDCS-3/491,321, 27 ottobre 1961, p. 3. 12. CIA, Moro’s Comments on the Italian Political Situation, No. CS-3/521-157, agosto 1962, p. 5. 13. FOREIGN RELATIONS OF THE UNITED STATES (FRUS) 1964-1968 WESTERN EUROPE, Telegram From the Embassy in Italy to the Department of State, Vol. XII, Doc. 108, No. 2659, Roma, 9 aprile 1965, p. 227. 14. MORO, Aldo, Intervento al Consiglio Nazionale della Dc, Roma, 21 novembre 1968. 15. FORMIGONI, Guido, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 236. 16. FRUS 1969-1976 WESTERN EUROPE, NATO 1969-1972, Telegram From the Embassy in Italy to the Department of State, Vol. XLI, Doc. 182, No. 5557, Roma, 2 settembre 1969, p. 632. 17. AGEE, Philip, Agente della CIA, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 91. 18. CIA, The President’s Daily Brief, 10 giugno 1976, p. 6. 19. CIA, The President’s Daily Brief, 17 maggio 1976, pp. A1-A3. 20. ANDREW, Christopher, GORDIEVSKIJ, Oleg, La storia segreta del KGB, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 639-640. 21. X LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, cit., pp. 32-33. Tra questi si ricordano Federico Umberto D’Amato (fiduciario dei servizi segreti atlantici), lo psichiatra Franco Ferracuti (in rapporti con la CIA), il prefetto Fernando Guccione (responsabile della Sala Situazione Globale istituita da Cossiga) e l’ammiraglio Antonio Geraci (capo del SIOS della marina). Cfr. FLAMIGNI, Sergio, La loggia P2, in VIOLANTE, Luciano (a cura di), Storia d’Italia, La criminalità, Annali, Vol. 12, Torino, Einaudi, 1997, p. 444. 22. I dieci comunicati brigatisti, compreso quello falso del Lago della Duchessa, possono essere consultati in BOCCA, Giorgio (a cura di), Moro: una tragedia italiana, Milano, Bompiani, 1978. 23. FLAMIGNI, Gianni, La banda della Magliana. Storia di una holding politico-criminale, Milano, Kaos, 2002, p. 35. 24. FLAMIGNI, Gianni, La sfinge delle Brigate rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti, Milano, Kaos, 2004, pp. 272-273. 25. BIONDO, Nicola, VENEZIANI, Massimo, Il falsario di Stato. Uno spaccato noir della Roma degli anni di piombo, Roma, Cooper, 2008, pp. 23-24. 26. Secondo Dal Bello, Chichiarelli si riforniva di armi presso una base aerea Nato vicino Napoli. È possibile che molte di quelle armi possano essere state utilizzate dalla banda della Magliana, visto che Chichiarelli era solito «affitta[re] armi alla malavita romana». Cfr. FLAMIGNI, Gianni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Roma, Edizioni Associate, 1988, pp. 196, 198. 27. X LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, cit., p. 39. 28. CORTE D’ASSISE DI PERUGIA (CAP), Sentenza di primo grado, 24 settembre 1999, pp. 253-254. Sparti è colui che fornì a Valerio Fioravanti e Francesca Mambro i documenti falsi dopo la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. 29. Il vero settimo comunicato brigatista del 20 aprile 1978 è consultabile in BOCCA, Giorgio (a cura di), Moro, cit., p. 126. Il volantino venne annunciato poco dopo le 12.00 del 20 aprile 1978 con una telefonata a «Il Messaggero». Il documento venne fatto ritrovare a Roma in via dei Maroniti, dietro la sede della testata giornalistica romana, dentro una busta arancione contenente anche una foto Polaroid di Moro con in mano una copia de «La Repubblica» del 19 aprile, prova evidente che era ancora vivo. Il comunicato venne in seguito diffuso anche a Torino, Genova e Milano.

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30. Appunto per la segreteria del PCI da parte dell’avvocato Giuseppe Zupo. Cit. in DE LUTIIS, Giuseppe, Il golpe di via Fani. Protezioni occulte e connivenze internazionali dietro il delitto Moro, Milano, Sperling&Kupfer, 2007, p. 115. 31. CAP, Sentenza di primo grado, cit., pp. 257-258; X LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, cit., p. 28. Pecorelli (grazie a sue personali fonti informative all’interno degli ambienti malavitosi) era certo che fosse stata proprio quella testina IBM ad aver scritto il falso comunicato n. 7. Cfr. SATTA, Vladimiro, «Pecorelli, Dalla Chiesa e Moro: un intreccio da rivedere», in Nuova Storia Contemporanea, 7, 6/2003, pp. 123-154, pp. 150-152. 32. Documento contenuto in FLAMIGNI, Gianni, La tela del ragno, cit., p. 297. 33. «Continua l’angoscia: il messaggio è forse autentico ma nel lago non si riesce a trovare il corpo di Moro», in La Stampa, 19 aprile 1978. 34. PECORELLI, Carmine, Le allucinanti avventure degli investigatori, «Osservatore Politico», 25 aprile 1978. 35. FLAMIGNI, Sergio, Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro, Milano, Kaos Edizioni, 1998, pp. 210-211. 36. I cronisti sottolinearono anche gli errori di ortografia: «soppruso» è scritto con due p, «trà» è accentato, «inpantanato» con la n anziché con la m. Prima d’allora, le BR non avevano mai commesso errori ortografici così grossolani. Cfr. FLAMIGNI, Gianni, La tela del ragno, cit., p. 190. 37. VIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, cit., p. 42. 38. Insieme a Toni Negri aveva fondato Potere operaio, gruppo della sinistra extraparlamentare italiana attivo fra il 1969 e il 1973. 39. XIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, seduta del 18 maggio 2000, p. 13. 40. XIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, seduta del 14 marzo 2000, p. 3020. 41. FLAMIGNI, Sergio, La tela del ragno, cit., p. 190. 42. MORETTI, Mario, Brigate Rosse. Una storia italiana, Milano, Mondadori, 2012, pp. 139-140. 43. Lo spesso strato di ghiaccio è ben visibile nella foto del lago nella prima pagina de «La Stampa» del 21 aprile 1978. 44. Ecco il testo integrale della lettera: «A Francesco Cossiga ministro dell’Interno Caro Francesco, mentre t’indirizzo un caro saluto, sono indotto dalle difficili circostanze a svolgere dinanzi a te, avendo presenti le tue responsabilità (che io ovviamente rispetto) alcune lucide e realistiche considerazioni. Prescindo volutamente da ogni aspetto emotivo e mi attengo ai fatti. Benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il mio prelevamento, è fuori discussione – mi è stato detto con tutta chiarezza – che sono considerato un prigioniero politico, sottoposto, come Presidente della D.C., ad un processo diretto ad accertare le mie trentennali responsabilità (processo contenuto in termini politici, ma che diventa sempre più stringente). In tali circostanze ti scrivo in modo molto riservato, perché tu e gli amici con alla testa il Presidente del Consiglio (informato ovviamente il Presidente della Repubblica) possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori. Pensare quindi fino in fondo, prima che si crei una situazione emotiva e irrazionale. Devo pensare che il grave addebito che mi viene fatto, si rivolge a me in quanto esponente qualificato della DC nel suo insieme nella gestione della sua linea politica. In verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere. Nelle circostanze sopra descritte entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria che pure non si può ignorare, la ragione di Stato. Soprattutto questa ragione di Stato nel caso mio significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e

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pericolosa in determinate situazioni. Inoltre la dottrina per la quale il rapimento non deve recare vantaggi, discutibile già nei casi comuni, dove il danno del rapito è estremamente probabile, non regge in circostanze politiche, dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona, ma allo Stato. Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile. Tutti gli Stati del mondo si sono regolati in modo positivo, salvo Israele e la Germania, ma non per il caso Lorenz. E non si dica che lo Stato perde la faccia, perché non ha saputo o potuto impedire il rapimento di un’alta personalità che significa qualcosa nella vita dello Stato. Ritornando un momento indietro sul comportamento degli Stati, ricorderò gli scambi tra Breznev e Pinochet, i molteplici scambi di spie, l’espulsione dei dissidenti dal territorio sovietico. Capisco che un fatto di questo genere, quando si delinea, pesi, ma si deve anche guardare lucidamente al peggio che può venire. Queste sono le alterne vicende di una guerriglia, che bisogna valutare con freddezza, bloccando l’emotività e riflettendo sui fatti politici. Penso che un preventivo passo della S. Sede (o anche di altri? di chi?) potrebbe essere utile. Converrà che tenga d’intesa con il Presidente del Consiglio riservatissimi contatti con pochi qualificati capi politici, convincendo gli eventuali riluttanti. Un atteggiamento di ostilità sarebbe una astrattezza ed un errore. Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose. I più affettuosi saluti. Aldo Moro». Aldo Moro, Lettera a Francesco Cossiga, 29 marzo 1978, cit. in FLAMIGNI, Sergio, «Il mio sangue ricadrà su di loro». Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br, Milano, Kaos, 1997, pp. 57-60. 45. Ibidem, p. 59-60. 46. Ibidem, p. 59. 47. GRIECO, Agnese, Anatomia di una rivolta. Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin. Un racconto a più voci, Milano, Il Saggiatore, 2010, pp. 314-335. 48. Il primo processo alle Brigate rosse si aprì il 27 maggio 1976. A causa delle reiterate minacce di morte da parte dei brigatisti imputati nei confronti di giudici, magistrati, avvocati e soprattutto giudici popolari, il processo venne posticipato fino al 10 marzo 1978 e si concluse il 23 giugno dello stesso anno. Il riferimento al processo di Torino verrebbe confermato dall’ultima riga del comunicato: «P.S. Rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi, ecc. che sono sempre posti a libertà vigilata». I tre personaggi citati erano il giudice Mario Sossi, rapito dalle BR il 18 aprile del 1974, e i giudici Corsi e Guido Barbaro, presidenti della Corte d’Assise del tribunale di Torino. Il messaggio suggeriva così alle BR che l’epilogo del sequestro sarebbe dovuto corrispondere a quello compiuto dalla Raf, ovvero con l’uccisione dell’ostaggio. 49. VIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, cit., p. 50. 50. XIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, 14 marzo 2000, cit., p. 3020. 51. AMARA, Emmanuel, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra, Roma, Cooper, 2008, p. 163. 52. CAVEDON, Remigio, MORUCCI, Valerio, «Memoriale Morucci-Cavedon», cit. in FLAMIGNI, Sergio, Patto di omertà. Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, Milano, Kaos, 2015, p. 161. 53. SCIRÈ, Giambattista, Il caso Moro, cit., pp. 279-281. 54. FLAMIGNI, Gianni, La tela del ragno, cit., p. 193. 55. VIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, cit., p. 50. 56. WILLAN, Philip, I burattinai. Stragi e complotti in Italia, Napoli, Tullio Pironti, 1993, pp. 277, 279. 57. Dichiarazione di Chiara Zossolo al pubblico ministero di Perugia Fausto Cardella, 11 novembre 1994, cit. in PACE, Mary, Mino Pecorelli. Il delitto irrisolto, Roma, Armando Curcio Editore, 2009, p. 221. 58. BISCIONE, Francesco M., Il delitto Moro. Strategie di un assassinio politico, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 152. 59. Ad esempio, uno dei capi della banda, Nicolino Selis, abitava proprio in via Montalcini. Pochi giorni prima dell’esecuzione di Moro, il parlamentare democristiano si era anche

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con Selis nell’estremo tentativo di salvare la vita del suo collega e amico. Cfr. XIV LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, Relazione conclusiva, Doc. XXIII, No. 16, Tomo II, 20 gennaio 2006, p. 881. Un altro boss della banda, Abbruciati, abitava in via Fuggetta 59, a cento passi da via Montalcini. Cfr. DE LUTIIS, Giuseppe, Il golpe di via Fani, cit., p. 104. 60. XI LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, Relazione conclusiva, Doc. XXIII, No. 14, 12 aprile 1994, pp. 216-217. 61. Dichiarazione di Raffaele Cutolo al giudice istruttore di Roma Otello Lupacchini, 12 novembre 1993. Cit. in TRIBUNALE PENALE DI ROMA, Sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Roma Otello Lupacchini, 13 agosto 1994, p. 79. 62. Imposimato: «Non è vero affatto […] che le Brigate rosse avevano deciso di eliminare Moro fin dal suo sequestro. Il 6 maggio le Brigate rosse avevano rinviato di 3 giorni l’esecuzione di Moro per poter trattare con lo Stato la sua liberazione». Del resto, quale tipo di vantaggi avrebbero potuto avere le BR uccidendolo? Nessuno. Tutto ciò avrebbe causato soltanto conseguenze deleterie per la propria propaganda. Cfr. XIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, seduta del 24 novembre 1999, p. 2595. 63. XIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, seduta dell’8 luglio 1998, p. 1591. 64. Col passare dei giorni brigatisti abbassarono le pretese durante le trattative per la liberazione dell’ostaggio: inizialmente con lo scambio di tredici prigionieri contro uno, poi uno contro uno e infine solo la richiesta d’attenuazione dei rigori del regime carcerario. Cfr. XIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Decisioni adottate dalla Commissione nella seduta del 22 marzo 2001 in merito alla pubblicazione degli atti e dei documenti prodotti e acquisiti, Doc. XXIII, No. 64, Vol. I, Tomo VI, 22 marzo 2001, p. 148. 65. ZAVOLI, Sergio, La notte della Repubblica, Milano, Mondadori, 2015, p. 303. 66. BRAGHETTI, Anna Laura, TAVELLA, Paola, Il prigioniero, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 150. 67. AMARA, Emmanuel, Abbiamo ucciso Aldo Moro, cit., p. 165. 68. Ibidem. 69. WEINER, Tim, CIA. Ascesa e caduta dei servizi segreti più potenti del mondo, Milano, Rizzoli, 2010, p. VII. 70. LANARO, Silvio, Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ’90, Venezia, Marsilio, 2007, p. 463. 71. Cfr. XIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, 1999, cit., p. 2627. 72. SCIRÈ, Giambattista, Il caso Moro, cit., p. 284. 73. GALLI, Giorgio, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007, pp. 119-121. Nel memoriale di Aldo Moro si fa riferimento a sedici temi: il Piano Solo, la strategia della tensione, la riforma dei servizi segreti (ottobre 1977), i finanziamenti della DC, il prestito del Fondo Monetario Internazionale al governo (1977), lo scandalo Lockheed, l’accordo sulla fiducia DC-PCI, gli ambasciatori statunitensi a Roma, la presidenza della Repubblica, il rinnovamento della DC, Umberto Agnelli e il Senato (1976), la nomina di Giuseppe Medici alla presidenza del gruppo industriale Montedison (1977), la DC e le banche, il ruolo antisovietico di Gladio, Cossiga e le forze dell’ordine, la DC e la stampa nazionale. Cfr. BISCIONE, Francesco M. (a cura di), Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano, Roma, Coletti, 1993, pp. 45-96. 74. GOTOR, Miguel, Il memoriale della repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Milano, Mondadori, 2011, p. 317. 75. XIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, 2001, cit., p. 190. 76. AMARA Emmanuel, Abbiamo ucciso Aldo Moro, cit., p. 166.

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77. SCIRÈ, Giambattista, Il caso Moro, cit., p. 276. 78. FLAMIGNI, Sergio, Convergenze parallele, cit., pp. 158-159. 79. GALLONI, Giovanni, 30 anni con Moro, Roma, Editori Riuniti, 2008, p. 249. 80. KATZ, Robert, I giorni dell’ira. Il caso Moro senza censure, Roma, Adnkronos, 1982, p. 260. 81. PECORELLI, Carmine, «Vergogna buffoni!», OP-Osservatore Politico, 16 gennaio 1979, cit. in GALLONI, Giovanni, 30 anni con Moro, cit., p. 250. 82. TRIBUNALE PENALE DI ROMA, Sentenza-ordinanza, cit., pp. 168-169. 83. Dichiarazione di Chiara Zossolo al pubblico ministero di Perugia Fausto Cardella, 11 novembre 1994, cit. in PACE, Mary, Mino Pecorelli, cit., p. 223. 84. CAP, Sentenza di primo grado, cit., pp. 427-428. 85. CASTRONOVO, Manlio, Vuoto a perdere. Le Brigate Rosse, il rapimento, il processo e l’uccisione di Aldo Moro, Nardò, BESA Editrice, 2007, p. 207. 86. DE LUTIIS, Giuseppe, Il golpe di via Fani, cit., pp. 115-116. 87. CAP, Sentenza di primo grado, cit., p. 254; XIII LEGISLATURA, Commissione parlamentare d’inchiesta, 2001, cit., pp. 190-191.

RIASSUNTI

Il sequestro dell’onorevole democristiano Aldo Moro da parte delle Brigate rosse ha rappresentato il momento più drammatico della storia della Repubblica Italiana. La lotta contro le istituzioni trascinò così la nazione in una situazione di imminente guerra civile, determinando nell’animo della popolazione un quotidiano senso di terrore. In questo specifico episodio emerge la figura criminale di Antonio Chichiarelli: simpatizzante brigatista, neofascista, informatore, falsario della banda della Magliana ed esecutore materiale del falso comunicato n. 7. Lo scopo del saggio è evidenziare i possibili legami operativi che potrebbero essere avvenuti tra la malavita romana, le Brigate rosse e le agenzie di sicurezza all’interno di una vicenda ancora oggi pervasa da numerose questioni irrisolte.

The Aldo Moro kidnapping by the Red Brigades was the most dramatic moment of Italian Republic history. The conflict against institutions dragged the nation into a state of impending civil war, resulting in the population mood a daily sense of dread. In this specific episode comes up the criminal picture of Antonio Chichiarelli: Red Brigades fan, neo-fascist, informant, document forger for the Magliana gang and performer of the fake n. 7 announcement. The essay purpose wants to highlight the possible operating links that may have happened between the roman underworld, the Red Brigades and security agencies inside an event still pervaded by several and unsolved issues.

INDICE

Parole chiave : Aldo Moro, Antonio Chichiarelli, banda della Magliana, Brigate rosse, terrorismo Keywords : Aldo Moro, Antonio Chichiarelli, Magliana gang, Red Brigades, terrorism

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AUTORE

FRANCESCO LANDOLFI

Francesco Landolfi si è laureato nel 2014 in Scienze Storiche presso l’Università di Padova. Nel 2016 ha conseguito un master in Criminologia Critica e Sicurezza Sociale presso le Università di Padova e Bologna. Attualmente è dottorando di ricerca in Studi Storici presso le Università di Firenze e Siena con un progetto di ricerca sui collegamenti illeciti tra la politica locale e la mafia italo-americana a New York durante gli anni del proibizionismo (1920-1933). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Landolfi >

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Un largo y sigiloso camino Espionaje e infiltración policial en el mundo estudiantil en la Argentina (1957-1972)

Monica Bartolucci

1 La larga década que recorre el exilo y la vuelta de Perón al poder en Argentina (1955-1973) haciendo foco en el campo estudiantil, permite descubrir a un conjunto de sujetos juveniles quienes paulatinamente se politizaron y buscaron un espacio de participación. Años más tarde, muchos de ellos fueron protagonistas y víctimas del mayor acto de represión estatal durante la dictadura militar de 1976. En los años formativos, durante sus primeros pasos adolescentes los militantes setentistas circularon por diferentes organizaciones estudiantiles, políticas o armadas, en un proceso de búsqueda ideológica. A lo largo del tiempo podían pasar de ser nacionalistas “tacuaras” a peronistas revolucionarios o a peronistas de derecha de la Concentración Nacionalista Universitaria (CNU); de reformistas y liberales de izquierda a peronistas “de izquierda”, o también, a integrantes de las organizaciones armadas de la ciudad como Montoneros, Fuerzas Armadas Peronistas (FAR) o Fuerzas Armadas Peronistas (FAP). Ciertamente, el espacio donde se percibió la radicalización política juvenil y donde circularon las nuevas ideologías de izquierda, el nacionalismo peronista de derecha y la peronización juvenil de izquierda fue en los colegios secundarios y las universidades argentinas, lo que en algún momento parte de la sociedad llegó a opinar que era un «reducto de privilegiados», «cueva de extremistas» o una típica «escuela de guerrillas»1.

2 El objetivo de este trabajo es, a partir del análisis de un caso urbano como el de Mar del Plata, advertir el derrotero sigiloso de la policía contra el sector juvenil, sus tonos, obsesiones, clasificaciones delictivas y ambiente de violencia política in crescendo que se dio en la Argentina2. Es decir, atender más que a la radicalización estudiantil, hasta

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ahora mejor conocida historiográficamente, a la reacción política y represiva que esta radicalización suscitó en un período caracterizado por la inestabilidad política. En segundo término comprender mejor a partir de fuentes secretas a la represión como un proceso de mediana duración que las fuerzas de seguridad en la Argentina, elucubraron artesanalmente desde finales la década del cincuenta en adelante3.

3 Durante todo el período estudiado el Departamento de Inteligencia de la Policía de la Provincia de Buenos Aires, (DIPBA) cuya central estaba en la ciudad de La Plata, capital de la Provincia de Buenos Aires, recibía en forma diaria y detallada un informe que le reportaban los comisarios o agentes de turno locales. Estos últimos revisaban las noticias del día o se infiltraban en reuniones estudiantiles de cualquier naturaleza, políticas o no, asambleas sindicales, manifestaciones, charlas, conferencias y reuniones en partidos políticos en una lucha sin cuartel, jerarquizando a los actores según su grado de peligrosidad así como la identificación de sus padres, domicilios o detalles que consideraban destacados en la investigación con ánimo de control4.

4 El paneo sobre la ciudad de Mar del Plata en la década del sesenta haciendo foco en el campo estudiantil, permite analizar un conjunto de personajes que a través del tiempo fueron transformándose política y subjetivamente5. Las nuevas convicciones de los estudiantes de clase media en la Argentina de estos años, fue un proceso social y cultural, percibido, descripto y estimulado por la literatura contemporánea a los acontecimientos. Ricardo Piglia decía que «unidos al mundo burgués por nuestras costumbres y a la clase obrera por nuestra ideología, no pertenecemos verdaderamente ni a uno ni a otra» y por esa razón, según Viñas, la tarea que les esperaba era la «operación profunda y penosa de darse vuelta como un guante»6. Una de las consecuencias de esta conversión política fue que si durante el primer y segundo gobierno de Perón el sector estudiantil de clase media se había destacado por su ferviente antiperonismo, durante la ausencia del líder miraría hacia el pasado reciente e iniciaría un camino hacia la peronización contrariando, en la mayoría de los casos, sus tradiciones familiares7.

5 La primera mitad de la década del sesenta se caracterizó por la hostilidad mutua entre estudiantes de colegios secundarios que se enfrentaban desde el nacionalismo tacuara de derecha con aquellos que se definían como como socialistas y comunistas, e incluso con cualquier otra opción liberal progresista. Más tarde, con el proceso de peronización la “nebulosa militante” inicial fue definiéndose, a partir de convicciones ideológicas y vínculos con diferentes sectores locales ajenos a su realidad como grupos sindicales y policiales. Una vez ingresados a la universidad, esa inicial militancia se convirtió parte de los líderes políticos o fundadores de organizaciones armadas de izquierda como Fuerzas Armadas Peronistas (FAP) o Montoneros y de derecha como la Concentración Nacional Universitaria (CNU). Hacia 1970, aunque todos actuaron en nombre del peronismo, la convicción revolucionaria de unos y la pasión anticomunista y desembozada por el otro promovieron un alto clima de violencia. Las amenazas de bombas, la aparición de las armas, los entrenamientos militares de ambos sectores, reemplazaron a las primeras aventuras políticas. El primer resultado fue que a pocos años de fundarse la Universidad Provincial y la Universidad Católica, fuera asesinada una alumna y heridos varios estudiantes en una trágica asamblea en diciembre de 1971.

6 Aunque Mar del Plata se erige como un observatorio para la represión de la militancia en Argentina hasta el día de hoy, los nombres de los actores involucrados en hechos de organizaciones estudiantiles o armadas dependiente de los archivos policiales están

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reservados o tachados para el historiador con el fin de proteger la intimidad de aquellos8. De manera que una vez detectado cada uno de nuestros personajes, fue necesario investirlos a través de documentos alternativos con todos los datos posibles sobre su vida privada. Es decir pese a la dificultad debimos perseguirlos y tratar de conformarnos una idea acabada de las trayectorias de sus vidas para comprender los puntos de giros que en ellas se dieron. Su vecindad, sus amistades, hábitos, parejas, itinerarios escolares, nos fueron dando idea de un mundo de relaciones y sociabilidad necesaria con el fin de comprender sus actos políticos. Para esta tarea fue clave la participación de nuestros entrevistados en el análisis de esas fuentes tachadas. Asimismo, atender a los detalles menores, indiciarios, como episodios sobresalientes o descripciones tales como «recibida con medalla de oro», para guiar la investigación respecto de los personajes en cuestión. Las memorias, documentos personales, recuerdos y entrevistas, además de guiar el camino de investigación, mostraron la cara íntima de un proceso social de lo político. Las fuentes policiales cumplieron un rol de privilegio. A partir de ellas y en cruce con los testimonios personales se pudo vislumbrar el seguimiento de militantes secundarios, universitarios, activistas gremiales, o profesionales de la ciudad con ánimo de control represivo desde muy temprano, dando cuenta del grado de conocimiento que la policía y fuerzas militares tuvieron de cada uno9.

7 La Argentina permaneció por esos años, políticamente, en un callejón sin salida. Con el telón de fondo de la figura de Perón proscripta, se alternaron elecciones cuyos resultados fueron siempre inaceptables para alguna parte de la sociedad, mientras que a través de los golpes de Estado manu militari se reiteraban, en defensa de un orden que suponían amenazado. Los partidos políticos fueron perdiendo legitimidad, y poco a poco se fue imponiendo la violencia como modo de acción política10. El tema que sobrevoló el panorama político de la larga década fue la cuestión peronista. Desde la proscripción absoluta, que dio lugar a una dura resistencia, hasta la negociación con los actores políticos y dirigentes sindicales, la relación entre los gobiernos de turno con el peronismo fue tomando diversas formas. En el centro de esa sociedad convulsionada, comenzó a desarrollarse un cambio que fue medular para la cultura política argentina.

8 Ahora bien, las nuevas generaciones, aun siendo vigiladas por fuerzas policiales desde fines de los años cincuenta, ingresaron al campo de la política por diversas vías de acceso11. La más accesible e inmediata a la vida cotidiana fue la militancia estudiantil. Ésta mezclaba la lucha por derechos específicos con reivindicaciones políticas según las circunstancias nacionales y fue un puente de comunicación con otro tipo de militancias. El sector juvenil revalorizó el concepto de revolución, la cual podía ser nacionalista o socialista, según el énfasis en sus términos. Buena parte de esas organizaciones discutieron primero y aprobaron después la opción por la lucha armada de estilo foquista, adoptando una estrategia de violencia insurreccional12.

9 Para el imaginario de una cultura de izquierda, la existencia valiosa era lo que estaba más allá de lo material. La muerte por una causa era redentora y la militancia era el camino ideal para promover el surgimiento del hombre nuevo. Para la ideología del nacionalismo antiliberal o católico integrista, la patria, la Argentina profunda, las evocaciones caudillistas, la lucha contra los intereses foráneos, la sinarquía o el comunismo internacional, eran los argumentos que justificaban las acciones más violentas. En esa dinámica no es extraño comprobar que, quienes pertenecieron a agrupaciones de derecha terminaron militando activamente en alguna organización de

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izquierda revolucionaria13. En este proceso de búsqueda, el peronismo funcionó como un canal colector de varios afluentes. Las organizaciones de derecha más temprano que tarde mostraron sus simpatías por un gobierno cuyas características nacionalistas habían sido evidentes, mientras que desde la izquierda el silogismo que funcionó como excusa de peronización enunciaba que si la clase obrera era la clase revolucionaria y la clase obrera era peronista, entonces ellos debían convertirse en peronistas14. Desde mediados de la década en adelante, en un proceso que fue denominado por la historiografía argentina como «peronización de las clases medias», tanto los jóvenes de agrupaciones nacionalistas de derecha, como los de izquierda o aún provenientes de partidos de estilo conservador, como la Democracia Cristiana, encontraron en el peronismo y su historia, un canal colector para acercarse a la clase trabajadora por la que habían decidido pelear, sobre todo a través de organizaciones armadas como FAP, FAR, y sobre todo Montoneros15.

1. La persecución

10 En Mar del Plata, aquellos jóvenes que habían nacido entre fines de los años treinta y la primera mitad de la década del cuarenta y quienes probablemente hubieran oído de sus padres el desprecio por el peronismo, vivieron una adolescencia tensionada entre el resentimiento y el amor de quienes recordaban al gobierno derrocado.

11 La conmemoración emblemática del 17 de octubre de 1958 fue una fecha que llegó con la colmena juvenil ya inquieta por las marchas, panfleteadas, corridas y piedrazos generadas por las luchas callejeras entre quienes discutían por una ley que ponía en juego la educación universitaria, en una contienda caracterizada como «laica o la libre» 16. La policía local, desde los primeros días del mes, y como prevención de actos de violencia en las calles, había comunicado la decisión de reprimir toda manifestación que se hiciera para conmemorar la fecha icónica del peronismo proscripto17. Estas órdenes se cumplieron a rajatabla cuando las fuerzas de seguridad evitaron un acto en la Plaza Rocha y se lanzaron contra un grupo de hombres y mujeres que se habían reunido para cantar la marcha peronista. Aunque en Mar del Plata, los disturbios por el 17 de octubre de 1958 no habían sido graves, no es difícil imaginar el impacto que tuvo en medio de la conmoción estudiantil la serie de episodios violentos desatados en el país. Los ciudadanos lectores de diarios e interesados en el devenir político, al otro día de los episodios, se enteraron de los destrozos. Las calles de la Capital Federal mostraban un aspecto desolador, con tranvías quemados y heridos de bala recuperándose. Aun así y como réplica a una política nacional, la represión y el intento de sofocación de agentes perturbadores se hicieron sentir en el gobierno de Frondizi a través de la implementación del plan Conintes. En ese marco, se iniciaron despliegues policiales en todo el país, donde se realizaron allanamientos de viviendas, detenciones e interrogatorios que dieron como resultado doscientos cincuenta detenidos en Buenos Aires, Tucumán, Formosa, Chaco, Córdoba y las ciudades de Mar del Plata, La Plata y Rosario18. Los hilos del peronismo y del comunismo se confundían en una madeja uniforme, cuyos miembros y simpatizantes, se suponía, debían ser controlados de cerca.

12 El peronismo proscripto o la figura de Perón prohibida no constituían el centro de las preocupaciones estudiantiles expresas pero, sin duda, espesaba el aire de todas las discusiones a juzgar por el debate y el posterior desorden que se suscitó en una reunión

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de delegados de la Federación Universitaria de La Plata. Una discusión en torno a si debían ser invitados a ese tipo de encuentros los miembros de “las 62” organizaciones gremiales dividió las aguas. Una parte de los universitarios platenses repetía una y otra vez el slogan “estudiantes y obreros, unidos y adelante”, mientras que otro grupo, lejos de eludir el problema, se definía muy claramente como “reformistas sí, peronistas no”. El pequeño detalle que figura en la crónica periodística da indicios de que el problema del peronismo comenzaba a cruzarlos.

13 Las notas editoriales de los diarios más conservadores de Mar del Plata enunciaban que la libre expresión estudiantil había perdido su cauce, que la nueva situación estudiantil era el precio que el país debía pagar por pasar de un extremo dictatorial, en referencia al gobierno de Perón, a un ejercicio de la libertad sin límite alguno. En tono de preocupación publicaban que «una ola de ímpetus extraños, de comportamientos irregulares, de tensiones no naturales de agresividad, se ha desatado tocando el ámbito nacional»19.

14 La cuestión de que los antiguos agentes del peronismo eran capaces de usar a su favor el natural romanticismo adolescente estaba públicamente instalada en los meses de este conflicto. Sin embargo, el mayor temor era que fueran seducidos por oscuras fuerzas ocultas internacionales quienes perseguían fines “antiargentinos y antihumanos” y que querían imponer una “ideología por la fuerza”. De manera que, para gran parte de las fuerzas vivas y sobre todo para el gobierno, el peronismo y el comunismo se homologaron como una misma amenaza social a la que había que controlar.

15 El ánimo de control a la juventud imperó entre la comunidad de intérpretes de un episodio ocurrido dentro de los muros del Colegio Nacional Mariano Moreno. En el mes de noviembre, un grupo de alumnos, con una alta dosis de picardía juvenil, reemplazó la bandera argentina del mástil ubicado en el centro del enorme patio del colegio por la bandera soviética. La hoz, el martillo y la estrella de cinco puntas doradas sobre el rojo flameante indignaron a las autoridades y fue un gesto comprendido, por los menos por los directores, como un avance del comunismo internacional y de la «dictadura moderna y sangrienta del imperialismo bolchevique»20. Sin quitarse responsabilidades de encima, los delegados juveniles se defendían de las acusaciones a través de comunicados que dejaban claras las posiciones emergentes, divididas entre pequeños grupos de derechas e izquierdas locales21.

16 Como consecuencia de la convulsión estudiantil iniciada desde esos días en adelante, Horacio Pedro Ochando, el subcomisario jefe de delegación de la Comisión de Inteligencia de la Unidad Regional VI se convirtió en un permanente informante de las acciones y movimientos que consideraba extraños e informaba a sus superiores de cada detalle de lo ocurrido en una ciudad todavía chica y con caras repetidas en los actos. Además, el continente americano iniciaba una nueva etapa política desde el triunfo de la Revolución Cubana en 1959, lo que impulsó a las Fuerzas Armadas argentinas a prepararse contra ese nuevo enemigo inminente. La Policía de la Provincia de Buenos controló los movimientos, reuniones, asambleas, organizaciones y visualizó a todo sujeto que considerara sospechoso de portar ideas comunistas o “cripto-comunistas” registrado a través de una taxonomía elaborada para la ocasión. Para este período los militantes podían ser clasificados como «dirigentes de más arraigo»; «agitadores»; «saboteadores»; «terroristas» o «perturbadores»22.

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17 El Departamento de Inteligencia de la Policía de la Provincia de Buenos Aires, recibía en forma diaria y detallada un informe reportado por comisarios o agentes de turno locales. Estos últimos revisaban las noticias del día o se infiltraban en reuniones estudiantiles de cualquier naturaleza. A partir de este momento, incluso las fiestas de fin de curso dejaron de ser solo inocentes reuniones entre compañeros excitados por la gratificación de un nuevo año cumplido, para ser objeto de control de las autoridades provinciales. El local del Sindicato de Luz y Fuerza, el lugar elegido para el baile del 19 de diciembre de 1961 resultaba profundamente irritante y confirmaba que los integrantes de la Federación de Estudiantes Secundarios, a quienes identificaron sin discriminar en un informe «Estrictamente secreto y confidencial», de ideología «comunista-castrista» a todos los organizadores y además se quejaban de la pasividad de los directivos23. El informe estaba en consonancia con las notas periodísticas en las que se enunciaba que los jóvenes eran los más vulnerables a ese tipo de ideas y se pronosticaba el triunfo del comunismo en el continente24.

18 El 19 de octubre de 1961, el Poder Ejecutivo de la Provincia de Buenos Aires creó la Universidad Provincial dependiente del Ministerio de Educación. La importancia de esta decisión quedó reflejada en que el mismo ministro de Educación bonaerense, Ataúlfo Pérez Aznar, dejaba su cargo para ponerse al frente del nuevo proyecto. Sin embargo, desde ese primer momento y simultáneamente a los actos de fundación, un minoritario y activo grupo de estudiantes universitarios marplatenses, pero con estudios en otras universidades del país, nucleados en el CUM (Centro de Universitarios Marplatenses), iniciaron una campaña de críticas contra las decisiones administrativas y gubernamentales respecto de la nueva institución y cuestionaron la jerarquía de las autoridades. En sus comunicados oficiales declaraban Pérez Aznar era el adalid de la reacción y el oscurantismo”25.

19 Desde el inicio de las primeras gestiones de la universidad provincial, en 1962, los estudiantes tuvieron opinión para todo, pero, al mismo tiempo el Departamento de Inteligencia era capaz de cualquier ardid al servicio de la persecución de estudiantes y dirigentes movilizados. Una mesa redonda pública organizada por Jorge Lerner, director del Instituto de Ciencias de la Educación, para discutir el problema de La Universidad y el momento actual, fue filtrada, aun cuando los invitados debían identificarse con carta de presentación en el ingreso. El informante desapercibido entre el público presente comunicó a sus superiores que a los representantes partidarios de la UCRI les preocupaba el momento “sumamente crítico” que pasaba el país. Sobre todo, les inquietaban las nuevas prácticas de los estudiantes «que solucionaban todo a través de las bombas de plástico» o «dejan los estudios para ir a Cuba a entrenarse en la guerrilla, encontrando en la guerra revolucionaria la única solución a sus problemas». La sospecha de ser espiados existía, sin embargo. El informe describe que el orador «no se atrevía a seguir manifestando abiertamente sus opiniones en virtud de que entre los presentes pudiera haber representantes del S.I.D.E que los llevaría presos a todos los concurrentes»26. Esta manifestación de sospecha, provocaron un giro inesperado entre los invitados. Un clima de acecho se adueñó del ambiente. Según el informante policial, que le pide a su jefe que lea con atención el documento por tratarse de haber logrado penetrar una reunión de «puertas cerradas», alguien a viva voz enunció que «debido al temor a la Policía, nos hemos acostumbrado a hablar con miedo sin poder expresar libremente nuestras ideas» y solicitó que si entre los presentes se encontraba algún funcionario policial, hiciera «uso de la palabra en esa mesa redonda». El representante

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de la CGT local se excusó emitir opinión sobre la situación del país porque «debía seguir una conducta gremial y temía que sus dichos fueran tergiversados por la prensa»27.

20 En los inicios de 1962, inició una nueva campaña electoral para Gobernador de la Provincia de Buenos Aires y renovación de las Cámaras Legislativas, programadas para marzo, con la presión de un peronismo dispuesto a participar de cualquier modo. Paralelamente el presidente de la nación llegaba a la ciudad para inaugurar la Escuela de Verano, el primer paso de la Universidad Provincial, sobre cuyas características la juventud ya tenía su propia opinión. Pero la policía también tenía cosas para decir sobre ellos.

21 En 1963 un pequeño grupo de derecha con conexiones entre el ámbito secundario y universitario, fueron quienes se movilizaron en la primera y exitosa rebelión universitaria de la ciudad. Según la policía, los dos universitarios que encabezaron el movimiento de fuerza en contra del rector Argentino Malla eran dos personas que «se encuentran registrados en los archivos de esta Delegación como elementos de extrema derecha (Tacuaras)»28. De manera que el episodio del rector “renunciado” llegó para mostrar que el poder estudiantil se había desatado y que los hábitos, discursos o expectativas culturales de los jóvenes politizados eran comunes y lograban sus objetivos, cuando se lo proponían. Pero en este caso, informaron algo tranquilizador: se trataba de la acción de un grupo alejado ideológicamente del temido izquierdismo. Todavía en marzo de 1965, declaraban que no había que preocuparse demasiado porque estos eran activistas de «extrema derecha que no estaban al servicio del extranjero»29.

2. La radicalización

22 En la dictadura implantada en 1966 por el gobierno de la autodenominada Revolución Argentina a cargo del Gral. Juan Carlos Onganía, lo político se instaló como eje de la vida cotidiana de buena parte de los universitarios argentinos, pero los activistas, los militantes o los centros a los que pertenecían ya habían sido “fichados” identificados y jerarquizados en su potencial peligrosidad. Esos estudiantes venían siendo vigilados mucho antes de que ellos lo supieran. En 1967 un problema respecto de los títulos universitarios habilitantes fue una razón válida para que los estudiantes de izquierda iniciaran una práctica hasta el momento no del todo explotada, buscando solidaridad para sus reclamos en instituciones extrauniversitarias y fuerzas vivas de la ciudad como la Bolsa de Comercio, el Colegio de Abogados y de la prensa local, pero a diferencia de otras movilizaciones, en sus discursos y reivindicaciones, las cuestiones académicas se involucraron de lleno con la lucha contra la dictadura y el gobierno nacional30. Los volantes, no tardaron nada en llegar a manos de los infiltrados de la policía y a la central en la capital provincial, junto a la opinión del informante de turno. El espía opinaba que esos panfletos comunistas tenían la finalidad de adjudicarse un apoyo de toda Mar del Plata, pero lo más preocupante era que desvirtuaba la finalidad de resolver un problema universitario para desviarse en consideraciones ajenas, entrando en «la ya conocida propaganda de permanente oposición a los gobiernos constituidos» 31.

23 El 26 de mayo de 1969 el barrio Clínicas de la ciudad mediterránea de Córdoba fue ocupado por los estudiantes enfrentados por la policía sin que ésta pudiera controlar la situación, acción conocida como El Cordobazo. En esa ciudad, las movilizaciones fueron en solidaridad con los trabajadores mecánicos que venían siendo reprimidos en sus

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asambleas en defensa de su ya adquirido “sábado inglés”. El día 29 de mayo las columnas obreras se enfrentaron con fuerzas policiales y militares movilizadas por el gobernador Carlos Caballero. En los enfrentamientos, asesinaron al obrero Máximo Mena, de SMATA, y el estudiante Daniel Castellanos, lo que enardeció la resistencia estudiantil. En otros ámbitos, como Rosario o la Universidad del Nordeste, los conflictos tampoco eran pacíficos, y ya se contaban algunos alumnos asesinados por la represión durante las manifestaciones32. En Mar del Plata, se creaba la Facultad de Humanidades, en la que se concentraría la carrera de Psicología, Sociología, Ciencias Políticas, Ciencias de la Educación y Antropología33. La tradición revoltosa en distintas universidades del mundo y la inclinación ideológica de los estudiantes hacia una izquierda combativa se cumplió al pie de la letra en la más numerosa facultad de la ciudad34. Los incidentes no tardaron en llegar. El día 21 de agosto de 1969, el diario nacional La Razón dio la noticia de que el edificio de Humanidades de Mar del Pata, era un foco de atención. Sus paredes exteriores había aparecido pintadas con grandes letreros pidiendo la reincorporación de un arquitecto de la casa cesanteado por orden del Poder Ejecutivo Provincial por acciones que se consideraban sospechosas35.

24 El profesor cesanteado contaba con cierta influencia en las nuevas camadas estudiantiles36. La decisión de las autoridades de echar a un docente por causas ideológicas no iba a ser aceptada fácilmente en un momento de alta efervescencia. Los estudiantes decidieron dar pelea nuevamente ocupando las instalaciones, llamando a asambleas hasta que el profesor fuera reincorporado en sus funciones. La intempestiva salida del arquitecto y la solidaridad estudiantil hacia quien consideraban ideológicamente afín fue la piedra fundamental de una tarea policial de identificación y fichaje de cada uno de los activistas. A partir del episodio de la lucha por el arquitecto, los informes llegados a la central de la ciudad de La Plata fueron una radiografía de la organización institucional respecto de decanos, cuerpos docentes, carreras, organización institucional, cantidad de alumnos, análisis de las actividades, opiniones, actos de protestas y sobre todo conformación de los Centros de Estudiantes de cada una de las facultades de la universidad de Mar del Plata, ya considerada como una de las más problemáticas37.

25 El informe daba cuenta de que el Centro de Ciencias Económicas mantenía una trayectoria “normal”, sin elementos de “ideología extremista” y dedicado a las actividades deportivas y sociales. En Ingeniería solo se detectó un “activista de extrema izquierda”, sin demasiada repercusión entre sus compañeros, cuyo mayor capital era mantener contactos con el Centro de Estudiantes de Arquitectura. Este último se consideraba muy activo, vocero de «cuanto problema surgía en los claustros y proclives a las medidas de fuerza». Las movilizaciones que este centro hacía según la policía, eran motorizadas por «un grupo de elementos de tendencia marxista», integrado por un estudiante de origen español, dos mujeres y un hombre oriundos de la ciudad de Olavarría, dos maestros mayores de obras y un técnico constructor naval. Todos ellos nacidos entre 1943 y 1946 y «activos participantes de los conflictos originados en esa Casa de Estudios»38. Según el espía, los “elementos aludidos”, sobre todo dos de los “elementos marxistas” le habían impuesto al accionar un tono, que no era fiel reflejo de las intenciones de sus directivos y del alumnado en general de Arquitectura39.

26 En realidad, los estudiantes estaban más organizados de lo que la policía llegaba a percibir. Con posterioridad al Cordobazo, en Mar del Plata, diferentes organizaciones de izquierda como el Partido Socialista de los Trabajadores (PST) o Partido Comunista

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Revolucionario (PCR) y algunos militantes del MBP-MdP se unificaron en el Movimiento Mayo40. Su nombre derivó de la acción de un grupo de militantes que, como acto de presentación en sociedad, manifestaron su sentimiento antimilitarista en un acto patriótico, en ocasión de un desfile en conmemoración de la Revolución de Mayo. Ese día y ante las autoridades, un grupo recordado como “cuarenta tipos”, en realidad formado por hombres y mujeres, se tomaron de los brazos y salieron al cruce de las columnas de soldados logrando romper su formación. Mientras las fuerzas vivas de la ciudad «no podían creer lo que veían», la policía se lanzó sobre ellos y a golpes logró encarcelar, por primera vez en una manifestación estudiantil, a seis de los estudiantes revoltosos41.

27 El episodio de la interrupción de un desfile militar durante el mes de mayo de 1969 implicó las primeras detenciones y la necesidad de defensa legal obligó a los muchachos recién iniciados en las lides políticas a entrar en contacto con sectores ajenos a la universidad como la Asociación de Abogados, liderada por una camada de dirigentes mayor que ellos que, aunque jóvenes aún, habían tenido ya una activa participación política en la ciudad42. De manera que, entre otras, las propias dificultades juveniles fueron las que dieron la oportunidad de vincularse con ámbitos políticos de la ciudad, más ortodoxos, más combativos o de mayor antigüedad dentro del peronismo. Este núcleo de militantes, que llegaban a veinticinco en las listas policiales, fue fichado como “elementos extremistas” y constituyeron la cara más visible de una militancia ya convencida y en estado de radicalización. Mario, los había ganado para que formaran parte del Movimiento de Bases Peronistas de Mar del Plata (MPB-MdP), en un accidentado viaje juvenil.

3. El viaje

28 La reconstrucción de un típico viaje iniciático por América Latina, da cuenta de la persecución sigilosa. En un memorando secreto que eleva el Director de Coordinación Federal al Jefe de Policía de la Provincia de Buenos Aires se especificaba que se había tomado conocimiento de movimientos sospechosos por parte de un grupo de alumnos universitarios a los cuales había que seguir de cerca. Según la policía un grupo de estudiantes de la Facultades de Humanidades y de Arquitectura, había logrado que la Secretaría de Cultura de la Municipalidad les asignara una subvención en dinero con el fin de iniciar un viaje por países limítrofes, entre ellos Bolivia y Perú, proporcionándoles asimismo una serie de folletos y otros elementos de promoción turística. El dinero que cedió la comuna por intermedio de la Secretaría de Cultura para solventar los gastos de viaje había sido utilizado por el grupo estudiantil para adquirir un camión frontal Ford, antiguo, de los denominado “guerrero”, con el que pensaban cubrir el itinerario del viaje. Con ese propósito habrían partido los primeros días de enero de 1970, pero a raíz de inconvenientes surgidos por desperfectos en el motor debieron suspender los planes cuando se hallaban a la altura de la localidad de Coronel Vidal, distante 66 kilómetros de Mar del Plata. Los informes policiales decían al respecto que «el viaje en cuestión no habría llamado la atención si no fuera que el grupo de once estudiantes estaba integrado en su mayoría por elementos universitarios ideólogos, en lo que respecta a la doctrina marxista y actividades veladas dentro de los distintos colaterales que actúan en agrupaciones de distinta vida dentro del ámbito estudiantil de Mar del Plata». Según la policía, la invitación contemplaría la conexión

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directa de «izquierdistas locales con elementos extranjeros de la misma tendencia, un intercambio de material de propaganda, reuniones para coordinar planes de agitación en el orden estudiantil y otros propósitos de carácter ideológico». Asimismo, respecto del llamativo itinerario decían tener conocimiento de que los estudiantes «tratarían de salirse de su itinerario pasando por Bolivia, Venezuela y de allí a Cuba». Luego de esta percepción, los informantes daban la lista completa de cada uno de ellos, haciendo una típica identificación de época represiva y autoritaria aclarando que entre ellos viajaba «un conocido homosexual del medio estudiantil de la ciudad». En algo no se equivocaba la policía cuando decía que «por lo menos cinco de los estudiantes citados no se conocían entre sí», lo que hacía sospechar que «algún dirigente que profese la misma ideología» los había convencido a viajar43.

29 Ese viaje controlado sin que los jóvenes siquiera lo sospecharan, no estaba basado en una conspiración política con arquitectos cubanos, según el mismo Mario relata con espíritu jovial. Uno de aquellos protagonistas hoy niega esa versión44. El motivo principal era el placer por la aventura juvenil, típicos viajes iniciáticos, en búsqueda de emociones “huyendo de la vida”.

30 Aunque los fines en sí mismos no fueran conspirativos, en ese camión se conversaba sobre el estado de las cosas en el país. La política represiva estaba en el centro de la escena, las discusiones sobre la proscripción del peronismo y la opresión de la dictadura, fueron temas privilegiados. Mario les habló del peronismo y de la necesidad de ir a las bases. Fue en ese viaje, iniciático para algunos, que se constituyeron parejas, se afianzaron vínculos de amistad y se arraigaron lazos ideológicos. Aunque nunca llegaron a Cuba, porque no estaba en los planes y porque debieron volver antes de lo previsto por inconvenientes económicos y mecánicos, aquellos días fueron clave para convencerse de que la lucha contra los militares y a favor del peronismo, era el único camino posible.

31 Las causas nacionales se unían a los problemas académicos locales. La desconfianza por los concursos, los pedidos de convertirse en veedores de las designaciones de profesores, los repudios a la acción rectoral, la apertura de clases paralelas para diferentes materias en distintas facultades, promovieron un constante estado asambleario y un estado de movilización permanente45. La diferencia sustancial con las anteriores fue que para fines de esta década las disputas dentro de los claustros eran consideradas como una forma más de lucha contra «el imperialismo», «por la libertad de los presos políticos», «por un paro combativo y triunfante y por un gobierno obrero, popular y revolucionario»46. Con este clima de enfrentamiento, las asambleas estudiantiles fueron incesantes, aunque según los infiltrados, “los alumnos de izquierda no contaban con mayor apoyo en la masa estudiantil”, pero la evolución esperable de los acontecimientos no era demasiado promisoria dado que auguraban que un estado deliberativo en virtud del aniversario de los alumnos asesinados, “fallecidos” según el vocabulario policial, en Corrientes y Rosario47.

32 Mario era solo uno de esos jóvenes que la policía de Mar del Plata tenía identificado como un activista dentro del conjunto de universitarios que por diferentes causas desde 1969 en adelante tuvieron alguna razón para tomar las facultades o echarse a la calle a volantear. Su caso sirve para revisar los primeros pasos y las estrategias de acción que se dieron algunos para extender la conformación de una izquierda peronista entre las aulas universitarias como el MBP-MdP, para preocupación de otras organizaciones

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peronistas de derecha mayoritariamente concentrados en la Universidad Católica y siempre vigilantes del peligro de lo que consideraban una intolerable infiltración48.

33 Los diarios de la ciudad anunciaron en mayo de 1970 que la Facultad de Humanidades había sido ocupada por sus alumnos, a partir de las demandas internas y en solidaridad con los compañeros muertos en los disturbios de las otras dos universidades a manos de las fuerzas de seguridad49. Esa toma, si bien no era llamativa, porque tenía sus antecedentes como práctica estudiantil, no resultó ser una más. El 22 de mayo, un grupo de izquierda militantes de la Acción Revolucionaria Estudiantil (ARE), «aprovechando que el grueso de los alumnos estaba adentro de las aulas», según la policía, bloqueó la entrada principal con sillas y bancos. Luego de un primer momento de confusión entre los estudiantes de la Escuela de Periodismo, que también funcionaba en el mismo edificio de la Escuela Nº 6, a los que se les permitió salir, el grupo de Humanidades colocó una bandera y una escarapela por los ventanales de la calle Mitre. A través de las ventanas, los que se quedaron resistían con volanteadas y cantos contra la dictadura. Los líderes eran unos pocos, según la policía, pero eran cada vez más los que comulgaban con ellos50.

34 Mario, en el centro del conflicto, fue un testigo privilegiado de las entradas y salidas de alumnos y de la llegada de la policía, quienes apostados en la vereda del edificio, intentaban encontrar un interlocutor, para poner orden. Desde una de aquellas ventanas en la que Mario estaba atrincherado pudo ver con claridad dos rostros que ya conocía “de Mar del Plata”. Eran dos estudiantes de la Facultad de Derecho de la Universidad Católica. Uno de ellos Fernando, había sido descubierto manipulando explosivos junto a Ernesto, para atentar contra sus compañeros de izquierda en la conferencia que dio el obispo tercermundista Jerónimo Podestá. El otro era Bigote conocido por su camorrerismo escolar y quien, según los diarios, ya había sido el protagonista principal de un confuso episodio en el cual había muerto un joven de apellido judío en el Palacio de los Deportes de Mar del Plata cinco años antes51. Los viejos tacuaras eran ya un grupo de derecha organizado y con vinculaciones policiales. Prueba de ello es que Mario los recuerda en aquella tarde de toma, parados exactamente al lado del jefe de la Seccional Segunda, en una clara actitud de señalamiento. Incluso su memoria evoca que uno de ellos les gritó a viva voz a los estudiantes de la Acción Revolucionaria Estudiantil (ARE) en forma de sentencia: “se terminó la dialéctica de las palabras y empezó la de las pistolas”52.

35 La protección policial hacia los sectores estudiantiles de derecha parece repetirse en el tono conciliador del informe que la policía envió a la central para describirlos. En este caso informaban que funcionaban dentro de Centro de Estudiantes de Derecho desde 1961 y lo consideraban como una “entidad de limpia trayectoria y de amplia colaboración con esa alta casa de estudios” que no es posible calificar a ninguno como activista “puesto que todos trabajan de común acuerdo sin sobresalir uno determinado” que “el accionar es completamente normal, no observándose infiltración extremista” y que su trabajo a través de los años “no dejan dudas sobre la corrección de sus dirigentes”53.

36 Los conflictos determinaron que el rector de la Universidad Provincial, Luis Cos Cardozo, tomara la decisión de suspender las clases en la Facultad de Humanidades. El tono del memorándum de la autoridad mayor no colaboró en apaciguar los ánimos. Por el contrario, subió la apuesta diciendo que eran «hechos vandálicos, que sobrepasan los

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límites de la tolerancia y son un llamamiento a la subversión haciendo apología del caos y la anarquía»54.

37 El mes de mayo de 1970 terminaría con una seguidilla de asambleas, manifestaciones y tomas en los distintos locales y espacios que utilizaban como aulas improvisadas, cuyo fin principal fue la de crear cada vez más conciencia sobre el papel del estudiantado en el acompañamiento del «despertar obrero» y del «enfrentamiento con la realidad nacional». Cuestionaban duramente a los adversarios del Centro de Derecho por su frivolidad y falta de compromiso al «organizar una fiesta en Constitución mientras el país entero sangra por las luchas populares a las que consideraban no como “una falla de cálculo” sino como un error criminal»55.

38 A finales de 1971 Mar del Plata ya era un observatorio para la represión de la militancia en Argentina56. Un nuevo informe denunciaba que ya a principios de 1969 había arribado un pequeño grupo de estudiantes, «desplazados de las facultades de Humanidades de la UBA y La Plata», como parte de un plan de agitación en la universidad local. Además denunció un «tráfico constante de agitadores y activistas» promoviendo un mapa detallado de las organizaciones y sus conexiones. El espía enviado a Mar del Plata con la expresa función de infiltrarse57 informó que «existe en Mar del Plata un Movimiento de Bases Peronistas (MPB) (sic) que está manejado por un grupo de dirigentes que tiene marcadas contradicciones entre ellos» y a quienes se unen «recalcitrantes marxistas que controlan el movimiento gremial como el Dr. C. [sic] junto a otros abogados peronistas ligados a la CGT local y profesionales peronistas los cuales, entre todos, hacen causa común»58 Asimismo, denunció a un grupo de activistas en conexión con curas tercermundistas que alentaban «una tarea disociadora» sobre todo en la Iglesia de Pompeya desde cuya parroquia, volcaban su accionar hacia el «elemento estudiantil de ambas facultades»59. Las agrupaciones de izquierda, eran signadas como las responsables de los desórdenes dentro de las aulas y de las consignas de “neto significado revolucionario” y como los comprometidos con figuras que exaltaban el grupo Montoneros. La izquierda entonces era descripta como una configuración marxista y peronista estructurada por estudiantes, pero también, por profesores, abogados, sacerdotes y gremios locales y nacionales. La “perturbación izquierdista” que no cejaba en sus planteos de todo tipo respecto de programas, profesores y movilización por cambios de autoridades, era considerada de todos modos «un problema de minorías, un grupo de activistas, que intentaba seducir a una mayoría ordenada»60.

39 En contraposición a esta configuración, se describe otra a la que la policía anticomunista era afín. De ella se dice “actúa una denominada Concentración Nacional Universitaria (CNU) con algunas conexiones en Buenos Aires y en La Plata, integrada por elementos de extracción nacionalista y conectada con grupos como Guardia de Hierro, con sectores gremiales e inclusive con elementos de la Juventud Peronista”61. A los integrantes de la CNU se les adjudicaban también contactos fluidos con la Iglesia también, pero no ya con sectores tercermundistas sino con «aquellos que filosóficamente rompen con los esquemas post conciliares y se mantiene con los conceptos tradicionales de la Iglesia Católica»62. Sin embargo, contrariamente al caso de los militantes de izquierda, a ellos los describieron como “un conjunto de personas justicialistas respetuosos de la conducción oficial del movimiento” y les otorgaron livianamente «algunos atisbos de sectarismo antijudío» (sic) aunque como en ese

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mismo comunicado informan que uno de los lemas de la CNU era que «ninguna maldad iguala a la maldad de un judío»63.

4. A modo de conclusión

40 A lo largo de estas páginas se han observado las reglas del comportamiento juvenil que con sus novedosas acciones formalizaron un sustrato cultural donde la política y “lo político”, se instaló en sus vidas con intensidades diferentes. Durante todo el período estudiado el Departamento de Inteligencia de la Policía de la Provincia de Buenos Aires, (DIPBA) recibía en forma diaria y detallada un informe que le reportaban los comisarios o agentes de turno locales que enviaban a infiltrar agentes del servicio de información desde muy temprano en la década. Desde 1958 en adelante los alumnos fueron perfectamente identificados con nombres direcciones y ocupaciones de sus padres y jerarquizando a los espiados según su grado de “peligrosidad”. El impulso anticomunista se impuso claramente en la descripción de los grupos de izquierda, frente a los comentarios más indulgentes con aquellos alumnos identificados con la derecha, aunque fueran estos los primeros en promover revueltas y generar renuncias de funcionarios. Analizar este derrotero sigiloso, sus características e intensidades colabora en comprender a la represión en un período de mediano plazo, el planeamiento de un estado que, independientemente de los gobiernos, estaba decidido a dar una lucha sin cuartel a quienes promovieran un peligro más, como era considerado el sector estudiantil sobre todo de izquierda, en un proceso de inestabilidad política en la Argentina.

NOTAS

1. BARTOLUCCI, Mónica, FAVERO, Bettina, «¿Quiénes son los desaforados? Una mirada ampliada al concepto de violencia y juventud sesentista desde la prensa masiva», in Contenciosa, 2, 4, 1/2015, pp. 1-17. 2. La opción por el caso urbano seleccionado no es casual. Para 1976, Mar del Plata sufrió alrededor de 430 casos de desapariciones forzadas y asesinatos cometidos antes aquellas fecha por bandas parapoliciales o paramilitares como la Triple A. Sobre 169 casos sobre los que tenemos sus fechas de nacimiento el promedio de edad es de 26 años. La edad más comprometida son las personas que entonces tenían entre 20 y 29 años. Datos aportados por los Juicios Por la Verdad en la ciudad de Mar del Plata. La presentación judicial de los testigos de la represión en Mar del Pata, se hizo efectiva desde febrero de 2001 ante el Tribunal Oral en lo Criminal Federal integrado por los Jueces Roberto Atilio Falcone, Néstor Rubén Parra y Mario Roberto Portela. 3. Sobre la radicalización estudiantil Véase BUCHBINDER, Pablo, CALIFA, Juan Sebastián, MILLAN, Mariano (coords.), Apuntes sobre la formación del movimiento estudiantil argentino (1943-1973), Buenos Aires, Final Abierto, 2010. 4. El cúmulo de material producido bajo estas circunstancias se encuentra en el único Archivo sistemático de la represión descubierto hasta este momento en la Argentina, el “Archivo de la Dirección de Inteligencia de la Policía de la Provincia de Buenos Aires” (DIPBA). En el constan las

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tareas llevadas a cabo por la policía para el trabajo de control y persecución político ideológica sobre hombres y mujeres a lo largo de medio siglo en el país. Respecto de las fuentes policiales nos referimos a los archivos formalizados por Memoria Abierta, CeDinCi y la Comisión Provincial por la Memoria. Sus fondos documentales cuentan con 410.000 legajos de hechos y personas, varios archivos orales y un importante material de audio y video entre 1940 y 1998. Sobre el tema véase PAGANO, Nora y GÓMEZ, Analía «Universidad Nacional de Luján: Una aproximación a partir de los archivos de la DIPBA» in PolHIis, 12, 1/2013, pp. 54-62, URL: < http://historiapolitica.com/ datos/boletin/Polhis12_PAGANOGOMEZ.pdf > [consultado el 18 de septiembre de 2016]. 5. DELLA PORTA, Donatella, Collective Action and Identity, in DELLA PORTA, Donatella, DIANI, Mario, Social Movements, an Introduction, Malden-Oxford-Carlton, Blackwell Publishing, 2006, pp. 90-115. Sobre las posibilidades de esta metodología aplicada a la política véase BRAGONI, Beatriz (coord.), Microanálisis Ensayos de Historiografía argentina, Buenos Aires, Prometeo, 2004. 6. Véase PIGLIA, Ricardo «Editorial», in Literatura y sociedad, 1, 1/1965, p. 1; VIÑAS, David, «Orden y Progreso», in Contorno, 9-10/1956, pp. 15-75. Oscar Terán habla de sentimiento de auto- culpabilización «por sentirse beneficiarios de un privilegio intelectual socialmente injusto cuanto porque esa misma colocación ha concluido por separarlos más del pueblo». Cfr. TERÁN, Oscar, Nuestros años sesentas. La formación de la nueva izquierda intelectual argentina 1956-1966, Buenos Aires, Ediciones el cielo por asalto, 1993, p. 50. 7. Véase ALMARAZ, Roberto, CORCHÓN, Manuel, ZEMBORAIN, Rómulo, ¡Aquí FUBA! Las luchas estudiantiles en tiempos de Perón (1943-1955), Buenos Aires, Planeta, 2001. 8. Según el reglamento del Archivo de la Comisión Provincial de la Memoria y Ley 25326 (Habeas Data), del año 2000. 9. Respecto de las fuentes policiales nos referimos a los archivos formalizados por Memoria Abierta, CeDinCi y la Comisión Provincial por la Memoria. Sus fondos documentales cuentan con 410.000 legajos de hechos y personas, varios archivos orales y un importante material de audio y video entre 1940 y 1998. Véase PAGANO, Nora, GÓMEZ, Analía, «Universidad Nacional de Luján. Una aproximación a partir de los archivos de la DIPBA», in PolHis, 12, 2/2013, URL: < http:// historiapolitica.com/datos/boletin/Polhis12_PAGANOGOMEZ.pdf > [consultado el 18 de septiembre de 2016]. 10. SPINELLI, María Estela, Los vencedores vencidos. El antiperonismo y la “revolución libertadora”, Buenos Aires, Biblos, 2005. Véase también AMARAL, Samuel, De Perón a Perón (1955-1973), in ACADEMIA NACIONAL DE LA HISTORIA, Nueva Historia de la Nación Argentina, Academia Nacional de la Historia, t. VII, Buenos Aires, Planeta, 2000, pp. 325-360; MELON PIRRO, Julio, El Peronismo después del peronismo. Resistencia, sindicalismo y política luego del 55, Buenos Aires, Siglo XXI, 2009. 11. BOZZA, Juan Alberto, Espías, disturbios y barricadas. La radicalización estudiantil y los servicios de información. La Plata, 1968, in INFESTA, María Elena (coord.), El centenario de los estudios históricos en La Plata, La Plata, Universidad Nacional de la Plata, 2010, URL: < http://sedici.unlp.edu.ar/ bitstream/handle/10915/52579/Documento_completo.pdf?sequence=1 > [consultado el 5 de marzo de 2017]. 12. No adhirieron a la lucha armada el PST, el PO, el PC y el PCR. 13. Son muchas las biografías u obras testimoniales que dan cuenta de estos itinerarios. Entre otras, véase :RAMUS, Susana Jorgelina, Sueños sobrevivientes de una montonera: a pesar de la ESMA, Buenos Aires, Colihue, 2000; SAIDÓN, Gabriela, La montonera: biografía de Norma Arrostito, Buenos Aires, Sudamericana, 2005; LARRAQUY, Marcelo, CABALLERO, Roberto, Galimberti. De Perón a Susana, de Montoneros a la CIA, Buenos Aires, Norma, 2000. 14. Referencia a las conversaciones con Carlos Altamirano, Martín Caparrós, Horacio González, Eduardo Gruner, Emilio de Ipola, León Rozitchner, Beatriz Sarlo y Horacio Tarcus. Véase: ALTAMIRANO, Carlos, TRÍMBOLI, Javier, La Izquierda en la Argentina. Conversaciones, Buenos Aires, Manantial, 1998.

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15. Son muchos los autores que advierten sobre este proceso. Al respecto véase: MARTUCELLI, Danilo, SVAMPA, Maristella, La plaza vacía: las transformaciones del peronismo, Buenos Aires, Losada, 1997; CHAMA, Mauricio, «Peronización y radicalización de grupos de abogados en los años ‘60 y principios de los ’70», in Cuestiones de Sociología. Revista de Estudios Sociales, La Plata, Departamento de Sociología, 3, 2006,, pp. 1-26, URL: < http://historiapolitica.com/datos/biblioteca/chama1.pdf > [consultado el 29 de marzo de 2017]; ALTAMIRANO, Carlos, «Montoneros», in Punto de Vista, 55, 1996, pp. 1-9, URL: < http://bazaramericano.com/media/punto/coleccion/revistasPDF/55.pdf > [consultado el 29 de marzo de 2017]. 16. BARTOLUCCI, Mónica, La primavera del 58. Revueltas Tomas y disturbios juveniles durante el conflicto laica o libre en Mar del Plata, in CACOPARDO, Fernando, DA ORDEN, Liliana, PASTORIZA, Elisa (coords.), Pasado Presente de la Mar del Plata Social, Mar del Plata, EUDEM, 2008, pp. 22-50. 17. Sobre la importancia de esta fecha para el peronismo véase el texto de SENÉN, Santiago, GONZALEZ, Gabriel Lerman (eds.), El 17 de octubre de 1945. Antes, durante y después, Buenos Aires, Lumiere, 2005. 18. Ellos eran el ex secretario general del Centro Empleados de Comercio, Buenaventura González, el asesor letrado de la CGT local Norberto Centeno, Agustín Scudi, José Figueroa, R. López Carnier, Juan Raúl Molly, Arturo Simonazzi, Jacobo Suezner, Leandro Amarillo y Jerónimo Guedal, quienes quedaron a disposición del Poder Ejecutivo Nacional. 19. «Abuso de libertad», in La Capital, 8 de septiembre de 1958. 20. «Estudiantes libres adhirieron a un acto», in La Capital, 16 de noviembre de 1958. 21. «Sin título», in La Capital, 19 de noviembre de 1958. 22. El cúmulo de material producido bajo estas circunstancias se encuentra en el único archivo sistemático de la represión descubierto hasta este momento en la Argentina, el Archivo de la Dirección de Inteligencia de la Policía de la Provincia de Buenos Aires, DIPBA. 23. Archivo DIPBA, «Federación de Estudiantes Secundarios Marplatenses», Policía de la Provincia de Buenos Aires, SIPBA, Mesa A estudiantil, legajo nº 32. 24. «Auge del comunismo», in La Capital, 18 de noviembre de 1958. 25. «Sin título», in La Capital, enero de 1962. 26. Archivo DIPBA, «Federación de Estudiantes Secundarios Marplatenses», Policía de la Provincia de Buenos Aires, SIPBA, Mesa A estudiantil, legajo nº 32. 27. Archivo DIPBA, Mesa Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón, Legajo nº 26, año 1962. 28. Archivo DIPBA, Información Departamento B 5/ 03/655, Mesa Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón Legajo nº 26. T.II. 29. Ibidem. 30. Archivo DIPBA, «Información ampliatoria referente a la reglamentación de títulos habilitantes en la Universidad Provincial de Mar del Plata», Mesa Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón, Legajo nº 26. 31. Ibidem. 32. Juan José Cabral en la UNNE de Corrientes y Adolfo Ramón Bello y Norberto Blanco en Rosario, todos en el mes de mayo de 1969. Véase GORDILLO, Mónica, Córdoba en los sesenta. La experiencia del sindicalismo combativo, Buenos Aires, Sudamericana, 1996. 33. Véase GIL, Gastón Julián, (ed.), Universidad y utopía. Ciencias sociales y militancia en la Argentina de los ‘60 y ‘70, Mar del Plata, Eudem, 2010. 34. Según los informes de la policía solo la Facultad de Humanidades, también denominada Departamento de Idiomas, contaba con 1.039 alumnos y dictaba las carreras de Licenciaturas y Doctorados en Sicología, Sociología, Antropología, Ciencias Políticas y Ciencias de la Educación. Archivo DIPBA, Mesa Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón, Legajo nº 26. 35. «Sin título», in La Razón, 21 de agosto de 1969.

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36. Entrevistas personales realizadas entre 2010 y 2013 en la ciudad de Mar del Plata (Roberto). Entrevistador: Mónica Bartolucci. 37. Archivo DIPBA, Universidad Nacional (sic) de Mar del Plata, Mesa Factor Estudiantil/ Educacional, General Pueyrredón Legajo nº 26, T. II. 38. Ibidem. 39. Ibidem. 40. «Entrevistas personales realizadas entre 2010 y 2013 en la ciudad de Mar del Plata (Mario)». Entrevistador: Mónica Bartolucci. 41. Este episodio fue reconstruido a partir de un cruce de fuentes. Las entrevistas nos han dado pistas sobre cada uno de ellos. Información Depto. “A” – Novedades registradas en el ámbito estudiantil local, Mar del Plata, 15 de septiembre 1969. Archivo DIPBA, Mesa Factor Estudiantil/ Educacional, General Pueyrredón Legajo nº 26, T. II y «Entrevistas personales realizadas entre 2010 y 2013 en la ciudad de Mar del Plata (Mario)». Entrevistador: Mónica Bartolucci. 42. «Entrevistas personales realizadas entre 2010 y 2013 en la ciudad de Mar del Plata (Mario)». Entrevistador: Mónica Bartolucci; «Sin título», in La Capital, 19 de noviembre de 1958. 43. Informe producido por Servicio de Inteligencia de la Policía de la Provincia de Buenos Aires, 18 de febrero de 1970. Archivo DIPBA, Mesa A Factor Estudiantil / Educacional, General Pueyrredón, Legajo nº 23. Debe recordarse que para este período ley 17041, por el gobierno de Onganía en agosto de 1967. Ley anticomunista. «Se consideraría comunista a quien realice actividades comprobadas de indudable motivación ideológica comunista». 44. «Entrevistas personales realizadas entre 2010 y 2013 en la ciudad de Mar del Plata (Mario)». Entrevistador: Mónica Bartolucci. 45. Las preocupaciones estudiantiles, motivos de asambleas, han sido extraídos de diferentes expedientes que informaban sobre los temarios a tratar, entre abril y mayo de 1970. 46. Volante de propaganda del A.R.E (Acción Revolucionario Estudiantil), asamblea de 23 de abril de 1970. Archivo DIPBA, Mesa Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón Legajo nº 26. 47. Archivo DIPBA, Mesa Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón, Legajo nº 26. 48. Sobre la importancia de las redes en la movilización social véase DELLA PORTA, Donatella, DIANI, Mario, Los movimientos sociales, Madrid, Complutense, 2011, pp. 155-176. 49. «Sin título», in La Capital, 22 de mayo de 1970. 50. «Mar del Plata, mayo 23 de 1970, Información Departamento E, Asunto: Universidad Nacional de Mar del Plata. Ocupación de la Facultad de Humanidades por los estudiantes, Día 22. Hora 22, Manifestantes: 60». Archivo DIPBA, Mesa Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón Legajo nº 26. 51. «Sin título», in La Capital, 7 de febrero de 1965. 52. «Entrevistas personales realizadas entre 2010 y 2013 en la ciudad de Mar del Plata (Mario)». Entrevistador: Mónica Bartolucci. 53. «Universidad Católica de Mar del Plata», Archivo DIPBA, Mesa Factor Estudiantil/ Educacional, General Pueyrredón Legajo nº 41. 54. Archivo DIPBA, Mesa Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón Legajo nº 26. 55. Volantes de la Acción Revolucionaria Estudiantil (A.R.E) y de la Coordinara marplatense de acción. Archivo DIPBA. Mesa Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón Legajo nº 26. 56. Véase «Informes sobre los hechos estudiantiles en Mar del Plata», Archivo DIPBA, Mesa A, Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón. 57. El informe encabezado como «Información referente a la localidad de Mar del Plata», se inicia con la siguiente afirmación: «Atento a lo ordenado por la Superioridad, me constituí en esa ciudad al solo efecto (subrayado en la fuente) de ubicar los grupos ideológicos que en estos momentos se hallan activando en el ámbito universitario de Mar del Plata y que han eclosionado con los hechos que son de público conocimiento». Véase Archivo DIPBA, «Informes sobre los

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hechos estudiantiles en Mar del Plata», Mesa A, Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón. 58. «Informes sobre los hechos estudiantiles en Mar del Plata», Archivo DIPBA, Mesa A, Factor Estudiantil/Educacional, General Pueyrredón. 59. Ibidem. 60. Ibidem. 61. Ibidem. 62. Ibidem. 63. Ibidem.

RESÚMENES

La larga década que recorre el exilio y la vuelta de Perón al poder en Argentina (1955-1973) haciendo foco en el campo estudiantil, permite descubrir un grupo de sujetos que buscaron un espacio de participación política de quienes fueron protagonistas, años más tarde, víctimas del mayor acto de represión estatal durante la dictadura militar de 1976. Durante todo el período estudiado El Departamento de Inteligencia de la Policía de la Provincia de Buenos Aires, (DIPBA) cuya central estaba en la ciudad de La Plata, recibía en forma diaria y detallada un informe que le reportaban los comisarios o agentes de turno locales. Ellos revisaban las noticias del día o se infiltraban en reuniones estudiantiles de cualquier naturaleza, políticas o no, asambleas sindicales, manifestaciones, charlas, conferencias y reuniones en partidos políticos en una lucha sin cuartel jerarquizando a cada uno de ellos según su peligrosidad. Analizar este derrotero sigiloso, desde muy temprano, colabora en comprender finalmente la represión con precisión quirúrgica de los setenta en Argentina.

Il periodo che caratterizza l’esilio ed il ritorno di Perón al potere in Argentina (1955-1973), specialmente se analizzato attraverso i movimenti studenteschi, ci permette di approfondire la nostra conoscenza su di un gruppo di personaggi che, dopo un breve protagonismo in politica, fu vittima della repressione statale voluta dalla dittatura militare del 1976. Durante questo periodo, il Departamento de Inteligencia de la Policía de la Provincia de Buenos Aires (DIPBA), la cui sede era a La Plata, riceveva quotidianamente informazioni dettagliate sull’attività degli agenti locali. Questi ultimi si infiltravano nelle riunione studentesche, di carattere politico o sindacale, ma anche in semplici manifestazioni, comizi, conferenze, ecc. con l’obiettivo di catalogare ogni partecipanti in base alla propria “pericolosità”. L’analisi di questa silenziosa sorveglianza ci permetterà di studiare con maggior precisione le fasi della repressione argentina degli anni Settanta.

The long decade that runs along the exile and return of Peron to power in Argentina (1955-1973) by focusing on student field reveals a group of subjects who sought a space for political participation of those who were protagonists, years later, victims of the greatest act of state repression during the military dictatorship of 1976. Throughout the period studied, The Intelligence Department of the Buenos Aires Provincial , (DIPBA), whose center was in the city of La Plata, received daily and detailed a report to commissioners reported the city. They reviewed the news of the day or infiltrating student gatherings of any kind, political or not, union meetings, rallies, lectures, conferences and political parties in a relentless struggle

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hierarchizing each of them by hazard. Analyse this stealthy road map, from very early finally understand collaborates with surgical precision repression of the seventies in Argentina.

ÍNDICE

Keywords: anti-communism, peronization, politic, political repression, youth Palabras claves: anticomunismo, juventud, peronización, política, represión Parole chiave: anticomunismo, gioventù, peronizzazione, politica, repressione

AUTOR

MONICA BARTOLUCCI

Monica Bartolucci es licenciada y Magister por la Universidad Nacional de Mar del Plata (UNMdP). Doctora en Historia por la Universidad Nacional de Tres de Febrero (UNTREF), actualmente es Codirectora del Centro de Estudios Históricos (Cehis) y Docente del Área Teórico Metodológica del Depto. de Historia de la Facultad de Humanidades de la Universidad Nacional de Mar del Plata. Dirige un proyecto de investigación Fronteras visibles e invisibles. Libertad y orden, modernización y revolución a través de la categoría de juventud. 1955-1976. Desde hace algunos años forma parte del Grupo de Investigación “Historia y Memoria” en el marco del cual ha escrito como autora Pequeños grandes señores. Italianos y estrategias de ascenso social, Mar del Plata 1910-1930 (Buenos Aires, Prometeo, 2009) y como coautora con Elisa Pastoriza Recuerdos en Común. Italianos en Argentina 1880-1960 (Universidad Nacional de Mar del Plata, Facultad de Humanidades, 2005). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Bartolucci >

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“Diplomacias y soberanía” Argentina y Gran Bretaña (1982-1989)

Pablo Baisotti

1. Introducción

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1 Hacia 1982 todo parecía indicar que los militares argentinos abandonarían el gobierno sin pena ni gloria, rodeados por la hostilidad generalizada. Por ello fue que se proyectó la recuperación de las islas Malvinas, ocupada por los ingleses desde el siglo XIX. El mundial de fútbol (1978) había revelado un patrioterismo en vastos sectores populares y la posibilidad de recuperar las Islas elevaba la legitimidad militar a niveles nunca antes vistos1. El 2 de abril de 1982 las tropas argentinas desembarcaron en Puerto Argentino (Port Stanley), capital de las islas Malvinas. Tras poco más de nueve semanas se produjo la derrota argentina, en una guerra que no encajaba en ningún patrón de conflicto propio de la región ni respondía a la lógica de la Guerra Fría o a un enfrentamiento Norte-Sur2.

2 Tras la guerra y durante toda la década de 1980, la mayor parte de la literatura académica argentina dio prioridad a argumentos de política interna como la transición democrática, los derechos humanos o la cuestión económico-social. Malvinas quedó en segundo lugar, no obstante muchos intelectuales y periodistas comenzaran a acercarse al argumento en el intento de interpretarlo. Uno de los primeros trabajos publicados fue Malvinas: La Trama Secreta3. A pesar de su valor documental, fue un libro periodístico con una amplia crónica que propuso un primer análisis de la historia política y diplomática Argentina antes y después del conflicto. En 1986 apareció un libro de rigor académico que estudió en modo general e histórico el conflicto: La Cuestión de las islas Malvinas4. A pasar de estos trabajos, las publicaciones sobre la guerra de Malvinas en los años de Raúl Alfonsín (1983-1989) fue más bien discreta. Durante el siguiente gobierno, el de Carlos Menem (1989-1999), aparecieron algunos estudios importantes aunque el tema de la guerra de Malvinas – su historia y su herencia – seguían siendo de interés periférico. Algunos de los estudios realizados fueron de carácter comparativo entre las administraciones de Alfonsín y de Menem, tratando de destacar los logros y los fracasos de cada uno. Uno de ellos: La tierra que perdió sus héroes: Las Malvinas y la transición democrática en Argentina5. Esta obra posee una visión pesimista de la posición argentina tras la guerra, y de su inutilidad: “Las islas permanecieron mucho más allá de Argentina después del conflicto”. Otros estudios fueron más bien de carácter histórico general, enmarcado en la historia nacional, como es el caso de Historia General de las Relaciones Exteriores de la República Argentina6. A partir de 2003 y hasta el 2015, durante el período de los Kirchner, la situación política con respecto al conflicto de las Islas Malvinas cambió y ello se notó también en la producción académica. Las administraciones de Néstor Kirchner (2003-2007) y Cristina Fernández de Kirchner (2007-2015) reavivaron la controversia sobre la soberanía de las Islas. En esos años aparecieron libros como: Sal en las heridas: las Malvinas en la cultura argentina contemporánea7, que conecta la relación de la guerra de las Malvinas con el nacionalismo argentino como una cuestión cultural y social innata en el pensamiento político argentino; Malvinas: la política exterior argentina8, estudio comparativo entre las administraciones de posguerra destacando las diferencias entre las políticas internas e internacionales de estos gobiernos. Estudiosos comenzaron a preguntarse si la Argentina era realmente la dueña de la soberanía de las Islas, teniendo en cuenta factores tales como la diversidad cultural y la inmigración del

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país y agregado a ello, los derechos de los kelpers. Lo antedicho se refleja en La Cuestión Malvinas9. Quizás el libro más importante de los últimos años sobre el argumento es Todo lo que necesitás saber sobre Malvinas10, que tiene por objetivo romper el mito de que las Malvinas fueron, son y siempre serán argentinas.

3 No obstante la gran cantidad de literatura sobre la guerra de las Malvinas, muchas investigaciones se centraron en la guerra misma o en la política interna argentina post- conflicto. Aquellos libros que estudiaron las relaciones diplomáticas de la Argentina con Gran Bretaña o el reclamo diplomático de la Argentina sobre las Islas, lo hicieron estudiando más bien los canales “formales”, esto es, las relaciones bilaterales y los foros multilaterales.

4 El interés de este artículo es estudiar la efectividad y los tipos de diplomacia11 que el gobierno de Alfonsín utilizó para efectuar el reclamo sobre las Islas Malvinas e intentar intepretar las relaciones diplomáticas argentino-británicas. En pocas palabras: se investigará el desempeño argentino en el ámbito diplomático multilateral (las Naciones Unidas); bilateral (o a través de países “enlace”); e informal. Del argumento a investigar se desprenden las preguntas: ¿Cuál fue el sistema diplomático (incluyendo el informal) que más progresos obtuvo durante el gobierno de Alfonsín en relación a la cuestión Malvinas?

5 Para llevar a cabo la investigación utilicé fundamentalmente publicaciones periódicas estadounidenses aparecidas durante los años de Alfonsín. La decisión de incluir fuentes periodísticas de los Estados Unidos (, , Los Angeles Times, The Christian Science Monitor) se debió a que éste país fue un activo actor en las relaciones bilaterales entre la Argentina y Gran Bretaña. Se intentó buscar “neutralidad” en las publicaciones pero a la vez un “compromiso” en muchos casos provenientes de la afinidad que los Estados Unidos tuvieron con Gran Bretaña durante el conflicto – y luego –. Se estudiaron otras fuentes primarias tales como reportes, discursos, intervenciones parlamentarias y otras acciones que fueron delimitando el objetivo. Como fuentes secundarias se destaca en particular la obra, ya mencionada, de Andrés Cisneros y Carlos Escudé, Historia General de las Relaciones Exteriores de la Argentina. 1806-1989, por la variedad de fuentes que utiliza y el interesante enfoque con el que se analiza la cuestión de Malvinas.

2. La lucha diplomática en las Naciones Unidas pre- guerra de Malvinas 1960-1976

6 De acuerdo con la Resolución12 1514, “Declaración sobre la concesión de la independencia a los países y pueblos coloniales” – aprobada por la Asamblea General de las Naciones Unidas en diciembre de 1960 – el colonialismo impedía el desarrollo económico, social, cultural y económico de los pueblos dependientes. La liberación – continúa – era un proceso de liberación irresistible e irreversible. Al año siguiente, se reclamó una solución pacífica a través de la Resolución 1654. Asimismo se creó un Comité Especial – que en última instancia dependía de la Asamblea General – encargado de examinar la situación con respecto a la aplicación de la Declaración de Concesión de la Independencia a los países y pueblos coloniales. Este Comité ganó más fuerza cuando en diciembre de 1963 se disolvió la “Comisión para la Información sobre territorios no autónomos” pasando las funciones a su esfera. En este Comité se debatió, en septiembre de 1964, la cuestión Malvinas. Poco después el delegado argentino José María Ruda

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expuso la defensa de la soberanía argentina sobre las Islas en las Naciones Unidas13. El informe definitivo fue finalmente transformado en diciembre de 1965 en la Resolución 2065. Allí se instaba a proseguir las negociaciones. En 1967 se presentó un informe del Comité Especial ante la Asamblea General sobre la situación de los territorios no autónomos, según lo había establecido la Resolución 1654 de 1961. Allí se encontraba la información suministrada por la potencia administradora y las novedades sobre el proceso de descolonización ocurrida ese año. En septiembre, el canciller argentino Nicanor Costa Méndez se dirigió una vez más a la Asamblea General sosteniendo que la soberanía de las Islas Malvinas era una prioridad permanente e indiscutida del gobierno argentino14.

7 Una nueva Resolución, la 2621, fue aprobada en la Asamblea General en octubre de 1970. En la misma se hacía mención explícita a las Islas Malvinas, se urgía a aplicar las anteriores Resoluciones de la Asamblea General y del Consejo de Seguridad relativas a los territorios bajo dominación colonial. Otra Resolución, la 3160, fue aprobada en la misma sede en diciembre de 1973, reiterando la necesidad de aplicar las indicaciones previstas en la Resolución 2065. Tres años más tarde, en diciembre de 1976, se aprobó la Resolución 3149 en la que se reconocían los esfuerzos del gobierno argentino para facilitar el proceso de descolonización y promover el bienestar de la población de las Islas15.

3. Aumenta la tensión

8 Para mediados de la década de 1960, la situación colonial de las Islas Malvinas era un anacronismo y una carga para la metrópoli. El retiro de los territorios por parte de Gran Bretaña, la creciente presión de las Naciones Unidas, y una revisión de la política de defensa operaban en este sentido16. En enero de 1966, el Secretario de Relaciones Exteriores de Gran Bretaña, Michael Stewart, visitó la Argentina. Luego de reunirse en más de una oportunidad con el canciller argentino Miguel Ángel Zavala Ortiz, suscribieron un comunicado conjunto. Por esta declaración, Gran Bretaña aceptó la validez de la Resolución 2065 y accedió a iniciar negociaciones con la Argentina. A partir de ese momento la relación entre ambos países se desarrolló en dos planos de negociación: el multilateral en las Naciones Unidas, y el bilateral.

9 Sin demasiados avances, a mediados de la década de 1970 Gran Bretaña decidió emprender exploraciones en las aguas adyacentes a las Islas Malvinas para constatar la presencia de petróleo17. A través de su Cancillería el gobierno argentino respondió, en marzo de 1975, con un comunicado de prensa afirmando que no reconocía el derecho a la exploración en ningún sentido. A fines de ese año se llevó a cabo en París una reunión para el diálogo Norte-Sur en la que el canciller argentino, Manuel Aráuz Castex, se encontró con el Secretario del Foreign Office, James Callaghan. Los intentos de acercar posturas fracasaron debido a las diferencias en el tema de la soberanía. Más aún, en enero de 1976 arribó a las Islas Malvinas una misión económica británica encabezada por Lord Edward Shackleton18. A partir de ello el gobierno argentino congeló las relaciones sin llegar a la ruptura diplomática, y el canciller Aráuz Castex fue reemplazado por el embajador Raúl Quijano. El 16 de enero, un buque de transporte de la Armada Argentina desembarcó en Puerto Stanley19 con equipos y personal. El Foreign Office calmó la tensión de los isleños informando que era un desembarco legítimo con el objetivo de extender la pista de aterrizaje, según lo acordado en 1972. Al mes siguiente,

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el 4 de febrero, el destructor de la Armada Argentina ARA Almirante Storni detuvo al buque de investigación oceanográfica, RRS Shackleton, aduciendo que navegaba dentro del límite de la jurisdicción argentina de las 200 millas alrededor de las Islas. Hubo disparos sobre este último, que logró llegar a las Islas Malvinas.

10 En Argentina la tensión internacional quedó supeditada a un segundo plano – desde hacía varios meses – por el inicio de la más terrible de las dictaduras de su historia. El 24 de marzo de 1976 una junta militar que representaba al ejército, armada y fuerza aérea ocupó el gobierno20. El canciller del nuevo gobierno militar, contraalmirante César Guzzetti, reinició el diálogo sobre la cuestión de las Islas entre julio de 1976 y febrero de 1977. Se mantuvieron tres encuentros, aunque las conclusiones de estas conversaciones se mantuvieron confidenciales. Entre 1976 y 1977 el rompehielos argentino ARA General San Martín y el transporte ARA Bahía Aguirre transportaron material y personal para instalar una base en las Islas Sandwich del Sur – Estación Científica Corbeta Uruguay. Esta vez fue el Foreign Office que, a inicios de 1977, solicitó explicaciones al encargado de negocios argentinos en Londres. Días después respondió oficialmente afirmando que el objetivo era la instalación de una estación científica en jurisdicción argentina21. A ello, Gran Bretaña protestó denunciando que se estaba violando la soberanía británica en las Islas Sandwich del Sur. Pero la protesta no fue acompañada de un ultimátum, esperando ser informado de la conclusión del programa científico.

11 Con este nivel de tensión y desconfianza se llegó a 1982. Para entonces, la Fuerza Armada argentina había proyectado la instalación de una nueva base científica en Puerto Leith (Islas Georgias del Sur – operación llamada Alfa) apenas la delegación británica BAS (British Antarctic Survey) abandonara Grytviken. Finalmente el proyecto fue suspendido. Seguidamente se presentó un problema que desembocó directamente en el conflicto armado: el empresario argentino Constantino Davidoff había adquirido unas instalaciones balleneras en Puerto Leith. En marzo desembarcó con personal con el objetivo de desinstalar las estructuras y, a pesar de que contaban con permiso, fueron detenidos bajo diversas acusaciones22. El embajador británico en Buenos Aires – quien había aceptado la llegada de los obreros el día 11 de marzo –, ordenó al gobierno argentino que retirase a Davidoff y sus dependientes. La respuesta del gobierno militar argentino fue que no era un buque de guerra y que se iría apenas concluida su descarga. Gran Bretaña ordenó la detención de Davidoff y sus dependientes con el uso del HMS Endurance, y como respuesta argentina se ordenó al comandante de la Agrupación Naval Antártica destacar el ARA Bahía Paraíso para apoyar a los operarios civiles, y al comandante de Operaciones Navales enviar dos corbetas (ARA Drummond y Granville) para interceptar al HMS Endurance en el caso que hubieran evacuado a los civiles. Con estos sucesos se dio pie al inicio del conflicto, el 2 de abril de 1982, que culminó con la derrota militar argentina el 14 de junio de ese año.

12 Los militares habían fracasado en su intento por recuperar protagonismo interno a través de una guerra para la cual no estaban preparados23. A menos de un año del trágico evento éstos se volcaron a la diplomacia en el intento de negociar el futuro de las Islas Malvinas. Asimismo, el objetivo militar incluyó la consolidación de relaciones en organismos multilaterales y con los Estados Unidos24. El nuevo triunfo de Margaret Thatcher en las elecciones para primer ministro del Gran Bretaña cerró casi cualquier esperanza argentina de recuperar soberanía sobre las islas25.

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4. La diplomacia argentina durante el gobierno de Alfonsín

13 En medio de un tenso contexto internacional se realizaron elecciones democráticas en Argentina. La Unión Cívica Radical (UCR) con la fórmula Alfonsín-Martínez venció con más del 50%26. En el discurso inaugural, el 10 de diciembre de 1983, el novel presidente abordó los temas que serían eje de su gestión y añadió la cuestión de Malvinas. Señaló que la recuperación y la definitiva afirmación de éstas, más las Georgias del Sur y las Sandwich del Sur, eran indeclinables objetivos diplomáticos. Destacó el punto clave para cualquier discusión sobre las mismas: la soberanía. Agregó: Mientras tanto, denunciaremos una vez más como una grave amenaza a la seguridad de la República Argentina y de toda la región, la instalación de la fortaleza militar y nuclear establecida por el Reino Unido en las islas Malvinas, así como la zona de exclusión declarada por ese país [...]27.

14 En el plano internacional Alfonsín abordó la cuestión Malvinas a través de una activa diplomacia a nivel multilateral (sobre todo en las Naciones Unidas) como también bilateral. Según el canciller de Alfonsín, Dante Caputo, había que revertir la imagen irracional que el mundo tenía sobre Argentina a causa de la guerra y lograr a su vez presencia internacional y distensión nacional28. Pero la diplomacia no se circunscribió exclusivamente a los canales “oficiales” ya que se buscaron vías alternativas (second- track diplomacy). A continuación se analizarán los tres ámbitos de diplomacia que la Argentina y Gran Bretaña llevaron a cabo.

15 El primero de los ámbitos diplomáticos que se analizarán es el multilateral basado sobre todo en la acción argentina en las Naciones Unidas. En esta sede y sobre la base de la Resolución 37/9 y anterioriormente las resoluciones 1514, 2065, 3160, 3149 fueron impulsadas otras, tales como: la 38/12, la 39/6, la 40/21, la 41/40, la 42/19 y la 43/25. La Resolución 38/12 del 16 de noviembre de 1983 (la última de la dictadura argentina) lamentaba la falta de progreso de la Resolución 37/9 y solicitaba a ambos países encontrar una solución pacífica teniendo en cuenta los intereses de los isleños. En ese momento, la Argentina sumaba un masivo apoyo de los representantes de América Latina en las Naciones Unidas, quienes consideraron la cuestión como colonial29. Con Alfonsín como presidente argentino se logró además contar con el sostén de otros países pertenecientes al Tercer Mundo30.

16 El 20 de agosto de 1984, el Comité de Descolonización de la Naciones Unidas aprobó una Resolución presentada por Chile, Cuba y Venezuela que mencionaba la situación de Malvinas como un anacronismo colonial31. El 24 de septiembre de ese año, el presidente Alfonsín asistió a la Asamblea de las Naciones Unidas para reforzar la posición argentina en ese organismo. De sus declaraciones se infería que una solución al estilo “Hong Kong” sería aceptable. La fórmula se basaba en «un país, dos sistema políticos». El parlamentario laborista George Foulkes y el secretario de la Naciones Unidas, Javier Pérez de Cuéllar, promovieron esta solución32. Sin embargo, la respuesta del secretario británico Geoffrey Howe fue que la de Hong Kong era una situación diferente a la de los otros territorios británicos33. El presidente Alfonsín también propuso, siempre en el marco de las Naciones Unidas, el arrendamiento de las Islas. El objetivo era dividir las islas en dos partes: al Este, donde se encontraba la mayor cantidad de isleños, quedaría en manos inglesas mientras que al Oeste, quedaría en poder de la Argentina. Finalmente la propuesta también rechazada por el gobierno británico34

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17 A finales de octubre el canciller Dante Caputo habló por primera vez sobre la cuestión de las Islas Malvinas ante la Asamblea General de las Naciones Unidas. Se lamentó de que Gran Bretaña persistiese en una actitud negativa para conversar sobre la soberanía35. Después de este discurso, la Asamblea General emitió la Resolución 39/6, reclamando nuevamente la solución de las controversias. Estados Unidos apoyó la Resolución mientras que Gran Bretaña se opuso argumentando, a través de su delegado John Thomson, que la misma no refería a la guerra de 1982 o sobre los intereses de los isleños, afirmando que la Resolución había sido sostenida e impulsada por los gobiernos latinoamericanos36. En 1985, el canciller argentino tuvo dos intervenciones más en el seno de las Naciones Unidas. La primera fue en septiembre, cuando volvió a denunciar la constante negativa de Gran Bretaña a negociar el tema de la soberanía y denunció la desmesurada presencia militar británica en el Atlántico Sur37. En la segunda intervención, en noviembre, destacó la falta de entendimiento y de negociaciones y fomentó las conversaciones a través de países amigos de ambas partes. El texto propuesto no incluyó referencias ni términos relativos a la soberanía lo que constituyó una concesión para abrir las negociaciones. Por primera vez fue mencionada la cuestión de los recursos ictícolas y se reafirmó el peligro por la militarización de la zona38. Al día siguiente, 27 de noviembre de 1985, se publicó la Resolución 40/21 que reconocía la existencia de un interés en ambas partes por normalizar sus relaciones39. En abril de 1986 el Secretario General de las Naciones Unidas visitó Buenos Aires, donde mencionó algunas ideas surgidas durante un encuentro previo con la premier Thatcher40.

18 La cuarta intervención del canciller Caputo en la Asamblea General de las Naciones Unidas, se dio en septiembre de 1986. Abrió el discurso adhiriendo a la iniciativa del Brasil para declarar al Atlántico Sur como zona de paz y de cooperación de los pueblos de América del Sur y de África. Asimismo condenó la desmesurada presencia militar británica en el Atlántico Sur41. El 27 de octubre de 1986 se aprobó la Resolución 41/11 que abogaba por el establecimiento de una Zona de Paz en el Atlántico Sur (SAZOP). La misma fue impulsada por países latinoamericanos y africanos. La iniciativa fue apoyada por la Argentina, el Brasil y Gran Bretaña. La Resolución 42/16 de las Naciones Unidas reiteró su apoyo a la SAZOP. Otras resoluciones tales como las 41/40 del 25 de noviembre de 1986, la 42/19 del 17 de noviembre de 1987 y la 43/25 del 17 de noviembre de 1988 repitieron lo solicitado en la Resolución 40/2142. En otro discurso ante la Asamblea General de las Naciones Unidas, el 24 de noviembre, el canciller Caputo destacó la negativa de Gran Bretaña para solucionar la cuestión Malvinas. Denunció la introducción de una pesquería en el Atlántico Sur con el objetivo de ser considerado un país ribereño en el mismo y así negociar acuerdos multilaterales con otros países43.

19 La acción argentina ante la Naciones Unidas prosiguió el 11 de agosto de 1988, cuando el Comité de Descolonización aprobó un proyecto de Cuba, Chile y Venezuela pidiendo negociaciones para resolver la controversia de soberanía de las Islas. Al mes siguiente, Dante Caputo fue elegido presidente de la Asamblea General de las Naciones Unidas provocando reacciones en los dos países. El asunto de las Islas Malvinas perdía vigor en dicha Asamblea, aunque seguía siendo un ámbito propicio para realizar los reclamos sobre negociación de soberanía, ya que colocaba a Gran Bretaña – cada año – en la incómoda posición de tener que defender su postura y perder a la hora de las votaciones44.

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20 Unos meses antes – en febrero de 1988 – el Ministerio de Defensa británico informó que a partir de mediados de marzo de ese año se realizarían maniobras militares en la zona de las Malvinas (llamadas Fire Focus). Alfonsín ordenó la movilización militar y alertó a la diplomacia para elevar las protestas ante los organismos internacionales. Casi todos los países latinoamericanos condenaron el accionar de Gran Bretaña. El canciller Caputo tuvo contactos con el Secretario General de la Naciones Unidas (y con líderes europeos) con el objetivo de solicitar a Londres la interrupción de las maniobras45. Días antes del inicio de las acciones, y por primera vez desde la guerra de 1982, el gobierno argentino pidió convocar al Consejo de Seguridad para tratar el tema. Finalmente, la opinión mayoritaria del Consejo repudió – con la obvia excepción del representante de Gran Bretaña – las maniobras militares británicas. El representante británico, Crispin Tickell, justificó los ejercicios militares británicos en el Atlántico Sur, señalando que eran defensivos46.

5. Las relaciones bilaterales y la fortaleza Malvinas

21 En agosto de 1968, ambos países acordaron un “Memorándum de Entendimiento” ad referéndum, el cual estipulaba la transferencia de soberanía de las Islas a la Argentina. Quizás este documento haya sido el compromiso más explícito que Gran Bretaña realizó sobre un eventual traspaso de soberanía a la Argentina47. Ese mismo año, representantes de los isleños se opusieron férreamente a cualquier cesión de soberanía, conformando poco después el “Comité de Gran Bretaña y las Islas Falkland” (UKFIC o “Falklands Lobby”). Los resultados no se hicieron esperar: el Memorándum fue rechazado por los isleños, por el Parlamento y por la prensa británica. Gran Bretaña se retrotrajo a la posición de autodeterminación de los isleños.

22 Se debió esperar hasta junio de 1971, aunque ya no se mencionó el tema de la soberanía: se aprobaron medidas que incluyeron el movimiento de personas y bienes entre el territorio continental argentino y las islas, en ambas direcciones. Al año siguiente fueron firmados dos acuerdos más: uno sobre la construcción y operación de un aeródromo provisorio en las Islas Malvinas por parte del gobierno argentino; y otro – complementario al anterior – acordándose la apertura de una agencia de Líneas Aéreas del Estado (LADE) en Puerto Stanley y la iniciación de un servicio aéreo regular entre las Islas y el territorio continental48. A medida que se acercaba la guerra, el poder del Falklands Lobby crecía. Según el “informe Franks” (enero de 1983) a fines de 1981 el gobierno británico comprendió que la posición de los isleños era simple: no negociar soberanía. El informe, además, proponía negociar en un futuro cercano con Argentina como única solución para evitar la crisis financiera49.

23 Terminada la guerra, ambos gobiernos acordaron – en septiembre de 1982 – levantar las sanciones financieras. Gran Bretaña se empeñó en fortalecer las Islas desde lo económico y militar, disparando los costos de su mantenimiento50. En mayo de 1983 el gobierno británico propuso a la Argentina restablecer el acuerdo bilateral de servicios aéreos; la autorización a parientes cercanos para visitar las tumbas de los soldados o el traslado de los restos mortales al continente51. El mensaje de felicitación enviado por Thatcher a Alfonsín por su ascenso a la primera magistratura concluyó el impasse de 19 meses durante el cual no existieron comunicaciones directas entre Londres y Buenos Aires52. Por su parte, Alfonsín, afirmó que no ampliaría la situación de beligerancia con Gran Bretaña, aunque sin declarar el cese de hostilidades53. Es más, el presidente

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argentino buscó incesantemente soluciones al conflicto: el 1 de febrero de 1984 en Caracas, Venezuela, dijo que la Argentina estaba preparada para empezar conversaciones directas con Gran Bretaña y señaló la posibilidad de discutir la instalación de personal de la Naciones Unidas y así declarar el cese de hostilidades. Howe rechazó la proposición insistiendo que en el ámbito de la Naciones Unidas era ampliamente aceptado que la administración y protección de las Islas era responsabilidad de Gran Bretaña.

24 La relación bilateral continuó por un período a través de terceros países que representaron los intereses de ambas partes (Suiza por Gran Bretaña y Brasil por la Argentina). El objetivo era alcanzar una fórmula aceptable que culminase con la normalización de las relaciones54. Durante los días 18 y 19 de julio de 1984 se llevaron a cabo conversaciones en Berna, Suiza. Las conversaciones se interrumpieron por la insistencia de Argentina en discutir la soberanía y por la rotunda negativa de Gran Bretaña a tocar ese tema55. A toda la tensión existente se sumaron otras cuestiones: a) la cuestión petrolífera: en octubre de 1984 la empresa estadounidense First Land Oil and Gas llevó a cabo una exploración de petróleo en las Islas y de extracción – de petróleo y gas – en enero de 198556; b) la inauguración del aeropuerto de Mount Pleasant, en mayo, por el príncipe Andrés.

25 Intentando calmar los ánimos, en junio, Gran Bretaña levantó el embargo comercial sobre Argentina, la que a su vez le propuso el cese de hostilidades por la reanudación de las conversaciones acerca de la soberanía57. El gobierno británico no accedió a esta propuesta. Entre abril y septiembre de 1986, las autoridades argentinas flexibilizaron informalmente su política hacia las importaciones de bienes británicos, sin cambiarla oficialmente. En noviembre, el gobierno estadounidense de ofició de mediador entre ambas partes58. El tema de la pesca fue una cuestión muy delicada en esos momentos, puesto que las actitudes hostiles entre ambos países no tardaron en manifestarse: Argentina cerró acuerdos pesqueros con la URSS y Bulgaria, y hundió un pesquero taiwanés dentro de las 150 millas que rodean las Islas59. Ello provocó que Gran Bretaña estableciera unilateralmente, en octubre, una Zona Interina de Conservación y Administración de las islas Malvinas (FICZ). Su comienzo fue fechado el 1 de febrero de 1987. Y por si ello fuera poco, comenzó a funcionar la empresa pesquera Falkland Islands Fisheries Ordenance60. Ello creó dos zonas de regulación de pesca que no estaban coordinadas. Muchos jefes de gobierno latinoamericanos y de Europa Occidental apoyaron la posición argentina. El presidente de Francia, François Mitterrand, se ofreció como intermediario, al igual que el Secretario de las Naciones Unidas61. El 17 de noviembre de 1986 el gobierno argentino presentó, a través de la embajada del Brasil, una declaración por la que ofrecía una negociación global incluyendo la cuestión de la soberanía y con la asistencia del Secretario General de las Naciones Unidas. Gran Bretaña rechazó la propuesta a través de Tim Eggar, ministro en la oficina de asuntos exteriores62

6. Diplomacia informal – second-track diplomacy

26 El conservador inglés Cyril Towsend, miembro del comité para asuntos exteriores del Parlamento británico, viajó en 1983 a las Islas. Tiempo después presentó un informe ante la Cámara de los Comunes. En el mismo señaló que los costos de mantenimiento se estaban haciendo exagerados y era necesario un acercamiento con la Argentina.

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Muchas ideas de ese reporte fueron utilizadas para dar origen, a fines de 1983, al South Atlantic Council. El objetivo fundamental de este Consejo fue establecer relaciones cordiales con la Argentina y salvaguardar la seguridad de los isleños. Towsend fue su primer director y el comité fue compuesto por políticos – en su mayoría conservadores –, hombres de negocios, académicos, ex diplomáticos y hasta hombres de la Iglesia. El coordinador e investigador principal fue el profesor Alaine Low. Desde 1982 grupos anglo-argentinos se involucraron en sesiones en diferentes lugares tales como Bonn, Buenos Aires, Londres, Maryland. Fue en el Centro para el Desarrollo Internacional de la Universidad de Maryland donde se realizaron los tres encuentros anglo-argentinos más importantes, bajo el auspicio de profesores de la universidad de Maryland (septiembre de 1983, abril de 1984 y febrero de 1985). Fue en esta sede donde se discutió otra propuesta de solución a la soberanía de las Islas: serían transformadas en una región autónoma dentro de la esfera de soberanía argentina – propuesta que fue rechazada por los isleños. El director del proyecto de Resolución de conflictos de dicha universidad, John Burton, empleó el término second-track diplomacy para describir el proceso designado a acercar las partes en un marco analítico e involucrar personas no parte, pero con acceso al gobierno. Por el lado británico tomaron parte el South Atlantic Council y el Royal Institute of International Affairs, y parlamentarios tales como George Foulkes, Bruce George, Robert Harvey y Cyril Townsend. Por el lado argentino participaron el CARI (Consejo Argentino para las Relaciones Internacionales); AARI (Asociación Argentina para las Relaciones Internacionales) y el Centro de Estudios Sud- Atlánticos, además de senadores como por ejemplo Adolfo Gass y Julio Amoedo63.

27 A fines de junio una delegación de parlamentarios británicos visitó Buenos Aires bajo el auspicio del South Atlantic Council e invitados por el Senado argentino. Durante las sesiones, Townsend propuso tres temas: reanudar las relaciones diplomáticas y comerciales; promover nuevos acuerdos de comunicación entre las Islas y la Argentina (como mencionado en el reporte Shackleton); y finalmente establecer negociaciones entre Gran Bretaña, las Islas y la Argentina para lograr una solución permanente a los problemas en la región. Además, la comisión parlamentaria británica discutió con sus pares argentinos un posible escenario para tratar el tema de la soberanía: El trusteeship de la Naciones Unidas (artículos 75-81 de la carta de la Naciones Unidas). Este sistema establecido por la Naciones Unidas internacionalizaba el sistema colonial con el objetivo de terminar con él. Aceptada con algo de entusiasmo tanto por algunos congresales peronistas como por el socialdemócrata inglés David Owen (Micronesia americana era el único antecedente). El problema con este modo de administración era que la supervisión de Malvinas habría pasado al Consejo de Seguridad y no a la Asamblea General, por lo que Gran Bretaña hubiera podido ejercer el derecho al veto. Por ello, Owen propuso que ambos países acordasen una fórmula ad hoc de trusteeship bajo los auspicios de la Naciones Unidas o de la OEA. De este modo, Argentina ganaría algo de soberanía, aunque no completamente. A esta propuesta – y las demás mencionadas a lo largo del artículo – se pueden agregar otras que surgieron durante los años del presidente Alfonsín. Estas son:

28 Un miembro del partido conservador, el parlamentario Philip Goodhard, propuso la forma de soberanía compartida ad referendum. Ello – dijo – combinaba el arriendo de la parte occidental de las Islas y hubiera creado una base para futuras negociaciones sobre pesca y minerales, aunque no sobre la soberanía. Esta propuesta fue recibida favorablemente en Argentina.

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29 Otra de las propuestas impulsada por el presidente del Perú, Fernando Belaude Terry, en mayo de 1982, fue la soberanía diferida. Ésta preveía un cese del fuego y el retiro mutuo de fuerzas, la introducción en las islas de un Grupo de contacto integrado por Brasil, Perú, la República Federal de Alemania y los Estados Unidos, con carácter temporal, en espera de un acuerdo sobre una solución definitiva. El Grupo de Contacto asumiría la responsabilidad de verificar la retirada y garantizar que no se tomasen medidas64.

30 Otra solución se inclinó por un gobierno tripartito involucrando a Gran Bretaña, la Argentina y los isleños, lo que hubiera dado a la Argentina un voto en el gobierno de las islas. Se pensó también en una fórmula con dos potestades, el llamado “modelo Andorra”65. Malvinas tenía consejo legislativo y ejecutivo. Los dos príncipes hubieran sido la monarquía inglesa y el presidente argentino. Ellos habrían devuelto todo el poder político al gobierno elegido autónomamente en las islas. Los isleños podrían tener su bandera, elegir nacionalidad nueva de las islas del Atlántico Sur (No Malvinas, no Falkland) o quedarse con la que tenían; podrían tener control sobre sus ciudadanos y sobre los que ingresaran y otras medidas que les donara soberanía.

31 Hacia finales de 1988, el gobierno radical mencionó por primera vez la fórmula llamada “paraguas”. Bajo la misma, las partes pudieron avanzar en la discusión de otros temas en tanto que se planteaban y continuaban vigentes sus respectivos reclamos de soberanía (aunque su aplicación concreta se produjo durante el siguiente gobierno argentino de Menem, 1989-1999)66.

Tabla 1. Tipos de propuestas de soberanía y ámbito de proposición durante el gobierno de Raúl Alfonsín

FORMAL INFORMAL

Sistema Hong Kong X

Arrendamiento X

Gobierno tripartito X

Sistema Andorra X

Trusteeship X

Soberanía diferida X

Soberanía compartida X

Malvinas como región autónoma dentro de la soberanía argentina X

Fuente: elaboración propia.

7. Conclusiones

32 Antes de la guerra de 1982, las negociaciones y relaciones diplomáticas entre la Argentina y Gran Bretaña fueron abruptas, con muchos altibajos y tuvo gran peso el

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ámbito diplomático bilateral: se pasaba de un casi entendimiento (Memorandum de Entendimiento, 1968) a una situación de beligerancia (cuestiones Shacketon; Davidoff) que finalmente desembocaron en la guerra.

33 La cuestión Malvinas para el gobierno democrático argentino post-1982 fue un argumento secundario – frente a las crisis económicas, militares y sociales que se vivieron dentro del país durante el gobierno de Alfonsín –, pero indeclinable. Con Alfonsín las relaciones diplomáticas fueron más estables dentro de los canales diplomáticos multilateral y bilateral (“formales”), puesto que la retórica belicista no tuvo picos de tensión, salvo contadas ocasiones (Fire Focus, 1988). Pero, por otra parte, no hubo un resultado sustantivo, ya que el tema de la soberanía fue excluyente para ambos países y se transformó en el eje de la diplomacia del gobierno de Alfonsín. Curiosamente, la cuestión de la soberanía pareció ser un argumento más importante para el gobierno democrático de Alfonsín que para los gobiernos militares argentinos.

34 Si bien la diplomacia argentina fue muy activa en los foros internacionales, en particular en las Naciones Unidas, los avances, ya se mencionó, no fueron los esperados. La cuestión de la soberanía no hizo más que alejar las posiciones de ambas naciones limitando el ámbito multilateral – las denuncias argentinas no hicieron otra cosa que radicalizar la postura británica – y el bilateral, más allá de la remoción de barreras comerciales, visitas de argentinos a las Islas y viceversa y los contactos entre el presidente y los líderes de la oposición británica (que fueron un modo para demostrar que sí había interés del gobierno argentino en negociar).

35 El problema para Gran Bretaña, a medida que pasaban los meses, fue el mantenimiento de la “Fortaleza Malvinas”, pues consumía ingentes recursos generando críticas en la oposición y en la misma ciudadanía – así como lo vaticinó el informe Franks. Frente a la creciente parálisis de la cuestión Malvinas en los ámbitos diplomáticos multilateral y bilateral (“formales”), ambos países comenzaron a buscar modos alternativos de contacto. De esta manera, luego del conflicto, se abrió un tercer frente diplomático conocido como second-track diplomacy o diplomacia “informal” en donde una variedad de actores comenzaron a tender vías de comunicación removiendo las barreras que la desconfianza y la cuestión de la soberanía habían creado. Si bien tampoco lograron cambios radicales en las posturas de sus respectivos gobiernos, la percepción “demonizada” del otro fue progresivamente dejada de lado por parte de ambos gobiernos y por un importe porcentaje de la sociedad civil, en ambas naciones. Quizás se debió a la flexibilidad con la cual podían discutirse sensibles argumentos – soberanía – y aventurar posibles nuevos escenarios.

36 Es resumen, las cuestiones que dividían radicalmente a ambos gobiernos, y que eran infructuosamente debatidas en el ámbito diplomático multilateral y bilaterial, comenzaron a ser estudiadas y abordadas en modo más racional, desapasionado y sin condicionantes presiones – como sucedía en el ámbito formal – por el ámbito diplomático “informal”. Lejos de retóricas nacionalistas y clamores reivindicativos, esta «tercerca vía diplomática» fue la que más confianza generó entre actores argentinos e ingleses. Se tuvo en mente la cuestión de la soberanía y ello, ciertamente, no fue excluyente, sino todo lo contrario. A partir de la discusión de este tema se fue labrando una ingeniería de entendimientos mutuos que sentó la base para un diálogo más maduro.

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NOTAS

1. DEL CAMPO, Hugo, Argentina. 1955-2005. Como el ave Fénix, in URL: < http:// ens9004.mza.infd.edu.ar/sitio/upload/Del_Campo_Hugo_Argentina_1955-2005_1.pdf > [consultado el 15 de enero de 2017]. 2. GARCÍA LUPO, Rogelio, Diplomacia secreta y rendición incondicional, Buenos Aires, Legasa, 1983; GAMBA, Virginia, El peón de la reina, Buenos Aires, Sudamericana, 1984; LORENZ, Guillermo, Las Guerras por Malvinas, Buenos Aires, Edhasa, 2006. 3. CARDOZO, Oscar Raúl, KIRSCHBAUM, Ricardo, KOOY, Eduardo, Malvinas, la trama secreta, Buenos Aires, Planeta, 1983. 4. DEL CARRIL, Bonifacio, La cuestión de las Malvinas, Buenos Aires, Hispamérica, 1986. 5. BURNS MARAÑÓN, Jimmy, La tierra que perdió sus héroes: Las Malvinas y la transición democrática en Argentina, Buenos Aires, Fondo de Cultura Económica, 1992. 6. CISNEROS, Andrés, ESCUDÉ, Carlos, Historia General de las Relaciones Exteriores de la Argentina. 1806-1989, URL: < http://www.argentina-rree.com/12/indice12.htm > [consultado el 1 de enero de 2017]. 7. PALERMO, Vicente, Sal en las heridas: las Malvinas en la cultura argentina contemporánea, Buenos Aires, Sudamericana, 2007. 8. GUTIÉRREZ BRONDOLO, Ignacio, Malvinas: la política exterior argentina, Buenos Aires, Teseo, 2014. 9. IGLESIAS, Fernando, La cuestión Malvinas, Buenos Aires, Aguilar, 2012. 10. LORENZ, Federico, Todo lo que necesitás saber sobre Malvinas, Buenos Aires, Paidós, 2014. 11. La diplomacia argentina – como la británica – no fue unívoca en relación al tema Malvinas, ya que existió una diplomacia “formal” a través de canales gubernamentales y otra “informal” a través de contactos entre políticos, académicos, personajes de la cultura y hasta líderes religiosos que intentaron un acercamiento más “genuino”. 12. Todas las Resoluciones se pueden consultar directamente en el portal de las Naciones Unidas. Véase URL: < http://research.un.org/es/docs/ga/quick/regular/15 > [consultado el 22 de enero de 2017]. 13. Ver alegado Ruda en URL: < https://www.mrec.gob.ar/userfiles/documentos-malvinas/ 1964_-_alegato_ruda.pdf > [consultado el 20 de enero de 2017]; QUELLET, Ricardo, Historia Política de las Islas Malvinas, Buenos Aires, Fuerza Aérea Argentina – Escuela Superior de Guerra, 1982, p. 54; LANÚS, Juan, De Chapultepec al Beagle. Política Exterior Argentina 1945-1980, Buenos Aires, Emecé, 1984, p. 461. 14. CISNEROS, Andrés, ESCUDÉ, Carlos, op.cit. 15. Ibidem. 16. ELLERBY, Clive, The Role of the Falkland Lobby, 1968-1990, in DANCHEV, Alex (ed.), International Perspectives on the Falkland Conflict. A Matter of Life and Death, New York, St. Martin’s Press, 1992, p. 86. 17. SILENZI de STAGNI, Adolfo, Las Malvinas y el petróleo, 2 voll., Buenos Aires, Teoría, 1983. 18. En 1976 y 1982 lord Edward Shackleton presentó dos informes sobre las Islas Malvinas que tuvo mucha influencia en el posterior rejuvenecimiento económico de las Islas. Véase: TAYLOR, Claire, MILLER, Vaughne, The Falkland Islands: Twenty Five Years On, URL: < http:// researchbriefings.parliament.uk/ResearchBriefing/Summary/RP07-29#fullreport > [consultado el 10 de enero de 2017]. 19. Nombre de la capital de las Islas, para la Argentina es “Puerto Argentino”. 20. Desde 1976 hasta 1983 se sucedieron cuatro gobiernos militares. El más importante de ellos fue la junta conformada por el teniente general Rafael Videla, el almirante Emilio Massera y el

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brigadier Orlando Agosti, que duraría desde marzo de 1976 hasta marzo de 1981. Las restantes: marzo/diciembre 1981: teniente general Roberto Viola, almirante Armando Lambruschini y brigadier Omar Graffigna;·diciembre 1981/junio 1982: teniente general Leopoldo Galtieri, almirante Jorge Anaya y brigadier Basilio Lami Dozo; junio 1982/ diciembre 1983: teniente general Cristino Nicolaides, brigadier Augusto Hughes y almirante Rubén Franco. 21. KINNEY, Douglas, National Interest/National Honor. The Diplomacy of the Falkland Crisis, New York, Praeger, 1989, pp. 54, 55; CISNEROS, Andrés, ESCUDÉ, Carlos, op.cit. 22. Las llamada tarjeta blanca fue el elemento usado por los isleños que viajaban al continente y por los argentinos que viajaban a las Islas Malvinas, según establecido por el Acuerdo de Comunicaciones de 1971. 23. La Junta Militar designó una comisión para investigar el desempeño de sus cuadros durante la guerra. Como resultado, el Informe Rattenbach (por el nombre del más conocido de sus integrantes) demostró en forma palmaria la desproporción entre las fuerzas enfrentadas, la falta de planificación e inoperancia de los mandos argentinos y las terribles condiciones a las que las tropas fueron sometidas. En: LORENZ, Federico, Testigos de la derrota. Malvinas: los soldados y la guerra durante la transición democrática argentina, 1982-1987, in PÉROTIN-DUMON, Anne, Historizar el pasado vivo en América Latina, URL: < http://www.historizarelpasadovivo.cl/downloads/lorenz.pdf > [consultado el 10 de enero de 2017]. 24. GAMAREKIAN, Barbara, «Argentine Envoy Says Democracy Is the Goal», in The New York Times, 1 de julio de 1983; «No Arms for Argentina», in The Washington Post, 12 de marzo de 1983; GOSHKO, John, «President Ending Ban on Military Aid and Sales to Argentina», in The Washington Post, 9 de diciembre de 1983; DIEHL, Jackson, «Reagan-Alfonsin Chat Marks Upswing In U.S.– Argentine Ties Since Falklands», in The Washington Post, 10 de abril de 1984. 25. «British Outcome dismays Argentines», in The Washington Post, 12 de junio de 1983; SMITH, Mark, «Falklands War Still Debated in Britain», in Los Angeles Times, 2 de enero de 1983. 26. Las tres propuestas preelectorales de Alfonsín fueron muy concretas: juzgamiento de los responsables del terrorismo de Estado; tonificación de la producción industrial y disminución de la inflación a dos dígitos en su primer año de gobierno (es decir, quebrar la barrera del 100 % anual que ya venía del anterior gobierno). La cuestión Malvinas fue relegada a segundo plano. 27. Véase el discurso inaugural del presidente Alfonsín, URL: < http://www.elhistoriador.com.ar/ documentos/raul_alfonsin/raul_alfonsin_mensaje_presidencial_10_de_diciembre_1983.php > [consultado el 23 de diciembre de 2016]. 28. DEL CARRIL, Bonifacio , op. cit.; IGLESIAS, Fernando, op. cit.; LORENZ, Federico, op. cit.; BOLOGNA, Alfredo, El conflicto de las islas Malvinas, Rosario, Ediciones Facultad, 1992; DOLZER, Rudolf, The Territorial Status of the Falkland Islands (Malvinas), New York, Past & Present, 1993; TABOSSI, Ricardo, ¿Quousque tandem, Inglaterra...?. Un sentido de la historia a partir de Malvinas, Buenos Aires, López Negro, 1997; BERASATEGUI, Vicente, Malvinas. Diplomacia y Conflicto Armado, Buenos Aires, Proa, 2011. 29. «U.N. Calls for Falkland Talks», in The New York Times, noviembre 17 de 1983. 30. Un ex embajador de los Estados Unidos en la Naciones Unidas afirmó que: «Argentina está siguiendo una política únicamente encaminada a recuperar las islas a través de la presión por los votos en la Naciones Unidas y con los No alineados». Seguidamente agregó que «no obtendría nada negociando con Mozambique. Las buenas relaciones con Londres y Washington harían mucho más que los abrazos con Fidel Castro». Cfr., FREED, Kenneth, «Argentina ‘Celebrates’ War in ‘Nightmarish’ World of Darkness», in Los Angeles Times, 3 de abril de 1983. 31. Argentina, Ministerio de Relaciones Exteriores y Culto, Discursos del señor ministro de Relaciones Exteriores y Culto Dr. Dante Mario Caputo: diciembre 1983-diciembre 1986, Buenos Aires, Imprenta del Congreso de la Nación, 1987, pp. 13-17. 32. WIZNITZER, Louis, «Britain, Argentina stand firm on Falklands issue», in The Christian Science Monitor, 31 de octubre de 1984.

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33. MASTROPIERRO, Oscar, La situación de Malvinas durante el gobierno de Alfonsin, URL: < http:// www.elmalvinense.com/smalvi/utj072007/00365.html > [consultado el 10 de enero de 2017]; CISNEROS, Andrés, ESCUDÉ, Carlos, op.cit. 34. BOLOGNA, Alfredo, op. cit, pp. 68-71. 35. Discurso del canciller Dante Caputo ante la Asamblea General de las Naciones Unidas sobre la cuestión de la islas Malvinas, 31 de octubre de 1984. En URL < http:// www.cuestionmalvinas.gob.ar/foros-internacionales/ > [consultado el 3 de enero de 2017]. 36. «U.N. Calls for Renewal Of Talks Over Falklands», in The New York Times, 2 de noviembre de 1984. 37. Discurso del Sr. Canciller Dante Caputo 40° Asamblea General de las Naciones Unidas Intervención del canciller Dante Caputo 23 de septiembre de 1985. En URL: < http:// www.cuestionmalvinas.gob.ar/foros-internacionales/ > [consultado el 3 de noviembre de 2016]. 38. Discurso del Sr. Canciller Dante Caputo 40° Asamblea General de las Naciones Unidas Cuestión de la islas Malvinas, 26 de noviembre de 1985, URL: < http://www.cuestionmalvinas.gob.ar/foros- internacionales/ > [consultado el 3 de enero de 2016]. 39. «U.N. Backs Falkland Talks», in Los Angeles Times, 28 de noviembre de 1985. 40. «Lelyveld Joseph, Falkland Impasse Continues for U.N», in The New York Times, 16 de mayo de 1986. 41. Discurso del Sr. Canciller Dante Caputo 41° Asamblea General de las Naciones Unidas XIV Período Extraordinario de Sesiones de la Asamblea General, 22 de septiembre de 1986, URL: < http://www.cuestionmalvinas.gob.ar/foros-internacionales/ > [consultado el 3 de diciembre de 2016]. 42. LELYVELD, Joseph, «Falkland Impasse Continues for U.N», in The New York Times, 16 de mayo de 1986; CISNEROS, Andrés, ESCUDÉ, Carlos, op. cit. 43. Discurso del Sr. Canciller Dante Caputo 41° Período de Sesiones de la Asamblea General de las Naciones Unidas; Argentina, 24 Noviembre 1986, URL: < https://www.mrecic.gov.ar/es/dante- caputo > [consultado el 23 de enero de 2017]. Véase también: «At U.N., Reproaches the British», in The New York Times, 25 de noviembre de 1986. 44. MASTROPIERRO, Oscar, op. cit.; TORRE, Juan Carlos, de RIZ, Liliana, Argentina, 1946-c. 1990, in BETHELL, Leslie (ed.), Historia de América Latina, Barcelona, Crítica, pp. 141-142. 45. SMITH, James, «Argentines Angry as Britain Prepares Falkland Maneuvers», in Los Angeles Times, 4 de marzo de 1988; «Argentina seeks UN action on British maneuvers near Falklands», in The Christian Science Monitor, 7 de marzo de 1988. 46. Los mismos ciudadanos ingleses consideraron que las maniobras militares en el Altántico Sur eran un derroche de dinero y una falta de confianza diplomática recíproca entre los países involucrados. Ver: NOGUERA, Felipe, WILLETTS, Peter, Public attitudes and the Future of the Islands, in DANCHEV Alex (ed.), International Perspectives on the Falkland Conflict. A Matter of Life and Death, New York, St. Martin’s Press, 1992, p. 239; ESCUDÉ, Carlos, GONZÁLEZ de OLEAGA, Marisa, La Política Exterior de Alfonsín: Lecciones de una Sobredosis de Confrontaciones, Buenos Aires, Universidad Torcuato Di Tella, 1996, p. 17. Véase también: «Argentina Turns to U.N.», in Los Angeles Times, 12 de marzo de 1988; «London Expected to Proceed With Maneuvers in Falklands», in The New York Times, marzo 7, 1988; «Clouds Over the Falklands», in Los Angeles Times, 15 de marzo de 1988; «Talks, Not Maneuvers, on the Falklands», in The New York Times, 8 de abril de 1988; CALVERT, Peter, «Argentina: the primacy of geopolitics», in World Today, 1 de febrero de 1989. 47. LANÚS, Juan, De Chapultepec al Beagle. Política Exterior Argentina 1945-1980, Buenos Aires, Emecé, 1984, p. 474-475; KINNEY, Douglas, National Interest/National Honor. The Diplomacy of the Falkland Crisis, New York, Praeger, 1989, p. 50; OLIVIERI LÓPEZ, Angel, Malvinas. La clave del enigma, Buenos Aires, Grupo Editor Latinoamericano, 1992, p. 83. 48. CISNEROS, Andrés, ESCUDÉ, Carlos, op.cit.

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49. «Tuohy William, Inquiry Clears Thatcher on Falkland War», in Los Angeles Times, 19 de enero de 1983; HENDERSON, Nicholas, «The Falklands Dilemma», in The Washington Post, 23 de enero de 1983; «Inquiry Upholds Thatcher in Debate Over Falklands», in Los Angeles Times, 18 de enero de 1983; WINDER, David, «Britain tries an honored civil servant for Falklands disclosures», in The Christian Science Monitor, 21 de septiembre de 1984. 50. En agosto de 1982 el Foreign and Colonial Office (FCO) creó un departamento separado llamado Falkland Island Department, con la misión de ocuparse de las cuestiones de las islas y la Argentina. En 1984 se creó en Escocia la Corporación para el Desarrollo de las Islas Malvinas (Falkland Islands Development Corporation), mientras que en las Islas se abrió un Consejo para el Desarrollo de las Islas. La Falkland Island Company comenzó a ejercer un cuasi monopolio sobre áreas vitales de la economía de las islas: poseía el 46% de la tierra, controlaba el movimiento de barcos y era la encargada de vender la lana y manejaba la Sheep Owners’ Association. Véase: PEARCE, Fred, «Falklands facts», in New Statesman, 28 de enero de 1983; APPLE, Raymond Walter, «Labor makes issue of Falkland War», in The New York Times, 3 de junio de 1983; «British Are Constructing Satellite Earth Station in Falkland islands», in The Washington Post, 15 de octubre de 1983; LEONARD John, «Postwar Building Boom: Falklands Enjoy Wave of Prosperity», in Los Angeles Times, 11 de diciembre de 1983; «Thatcher Vows Longtime Falklands Defense», in Los Angeles Times, 12 de enero de 1983; BURNS, Jimmy, «Falkland islanders begin to put their lives back together», in The Christian Science Monitor, 12 de octubre de 1984. 51. CISNEROS, Andrés; ESCUDÉ, Carlos, op. cit. 52. «Britain Seeks to Revive Ties With Argentina», in The New York Times, 12 de diciembre de 1983; «Argentine opening», in The New Republic, 19 de marzo de 1984. 53. CISNEROS, Andrés; ESCUDÉ, Carlos, op. cit.; «Reburials in Falklands Approved by Argentina», en Los Angeles Times, 18 de enero de 1983; «Trips to Graves Planned; Thatcher Called Traitor: Falklanders Oppose Visit by Argentines», in Los Angeles Times, 30 de marzo de 1983; «Argentine Says Britain Has Issued a Proposal», in The New York Times, 5 de febrero de 1984. 54. «Britain and Argentina Reported Near Accord», in The New York Times, 20 de febrero de 1984; «British-Argentine Talks in ‘84 Foreseen», in Los Angeles Times, 5 de marzo de 1984. 55. GUSTAFSON, Lowell, The Sovereignty Dispute over the Falkland (Malvinas) Islands, Oxford, Oxford University Press, 1988, pp. 181-188; MAKIN, Guillermo, The Nature of Anglo-Argentine Diplomacy, 1980-1990, en DANCHEV, Alex (ed.), International Perspectives on the Falkland Conflict. A Matter of Life and Death, New York, St. Martin’s Press, 1992, pp. 227-232; BECK, Peter, The Falkland Islands as an International Problem, Londres, Routledge, 1988, pp. 169-174; FREEDMAN, Lawrence, Britain and the Falklands War, Oxford, Basil Blackwell, 1988, p. 67; LITTLE, Walter, Las relaciones anglo-argentinas y la cuestión de la administración de las Falkland desde 1982, in BORÓN, Atilio, FAÚNDEZ, Julio, Malvinas hoy: herencia de un conflicto, Buenos Aires, Puntosur, 1989, pp. 56-76, p. 61; CISNEROS, Andrés, ESCUDÉ, Carlos, op. cit.; SCHUMACHER, Edward, «Discussions Start on Falkland Issue: Britain and Argentina Begin», in The New York Times, 19 de julio de 1984; «Diehl Jackson, Argentina, Britain Hold First Talks on Falklands», in The Washington Post, 19 de julio de 1984; «The World: Falkland Talks Broken Off», in Los Angeles Times, 20 de julio de 1984; «Argentina and Britain Halt Falkland Parley», in The New York Times, 20 de julio de 1984; DIEHL, Jackson, «Sovereignty Issue Collapses Initial Talks on Falklands», in The Washington Post, 20 de julio de 1984; «Albion in the Falkland Fog», in The New York Times, 30 de julio de 1984. 56. «Argentina Won’t Accept Falklands Oil Concession», in Wall Street Journal, 3 de enero de 1985; «Falkland Oil Survey», in The New York Times, 20 de octubre de 1984; WILBY, Peter, «War – Official!, The islands of black gold», in New Statesman, 15 de marzo de 2010. 57. «British Lift Argentine Ban», in The New York Times, 9 de julio de 1985; MACLEOD, Alexander, «Britain lifts three-year-old trade ban on Argentine goods», in The Christian Science Monitor, 23 de julio de 1985.

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58. DIEHL, Jackson, «Reagan-Alfonsin Chat Marks Upswing In U.S.-Argentine Ties Since Falklands», in The Washington Post, 10 de abril de 1984; «Alfonsin Assures Reagan on Dispute With Britain», in Los Angeles Times, 5 de noviembre de 1986; MONTALBANO, William, «Alfonsin to See Reagan Today Seeking Sympathy on New Rift Over Falklands», in Los Angeles Times, 17 de noviembre de 1986; «Alfonsin Sees Reagan, Outlines New Plan for Falklands Accord», in Los Angeles Times, 18 de noviembre de 1986; GRAHAM, Bradley, «Argentina Hopes For Progress On Falklands», in The Washington Post, 15 de junio de 1987. 59. MONTALBANO, William, «Argentina Claims Broad Support», in Los Angeles Times, 1 de noviembre de 1986; COONE, Timothy, «Falkland sovereignty at heart of Argentine fishing dispute», in The Christian Science Monitor, 6 de junio de 1986; «Argentines Attack 2 Taiwan Boats; Crewman Killed», in Los Angeles Times, 29 de mayo de 1986; «Ship Hit and Sunk Off Falklands», in The New York Times, 29 de mayo de 1986; «The World: Argentine Attack Assailed», in Los Angeles Times, 30 de mayo de 1986; «Britain Condemns Argentina for Sea Attack», in The New York Times, 31 de mayo de 1986; «Islands Challenge in the Atlantic: ...progress in the Pacific», in The Christian Science Monitor; 14 de noviembre de 1986; «Argentina Rejects British Expansion of Falklands Fish Zone», in Los Angeles Times, 30 de octubre de 1986; «Argentina Angered by Falklands Move», in The New York Times, 31 de octubre de 1986. 60. WILLETTS, Peter, La pesca en el sudoeste atlántico, in BORÓN, Atilio, FAÚNDEZ, Julio, Malvinas hoy: herencia de un conflicto, Buenos Aires, Puntosur, 1989, pp. 108-110; ESCUDÉ, Carlos, GONZÁLEZ de OLEAGA, Marisa, op. cit., pp. 20-21; BECK, Peter, op.cit. pp. 178-180; GUSTAFSON, Lowell, op.cit., pp. 188-190; OLIVIERI LÓPEZ, Ángel, Malvinas. La clave del enigma, Buenos Aires, Grupo Editor Latinoamericano, 1992, pp. 135-143. 61. «Argentina Backed On Falklands», in The Washington Post, 3 de noviembre de 1986; DIUGUID, Lewis, «Reagan, Alfonsin Discuss Falklands Situation», in The Washington Post, 18 de noviembre de 1986; CRICK, Bernard, «The Falklands Factor», in New Statesman & Society, 23 de diciembre de 1988, p. 1; JENKINS, Jolyon, «Crying out for Argentina», in New Statesman & Society, 3 de abril de 1992, p. 5. 62. «Britain Rejects Argentine Offer on Falklands», in The New York Times, 19 de noviembre de 1986; «No Fishing’ Zone Imposed Off Falklands», in The New York Times, 30 de octubre de 1986. 63. CISNEROS, Andrés, ESCUDÉ, Carlos, op. cit.; «Tuohy William, Falkland Islands Outlook Founders on Key Item: Sovereignty», in Los Angeles Times, 9 de febrero de 1984; «Britain and Argentina Discussing Future of Falkland Islands», in The New York Times, 3 de febrero de 1984; «Falkland. Plan Rejected», in Los Angeles Times, 2 de febrero de 1984; DALLAS, Roland, «South Atlantic solutions», in World Today, 1 de noviembre de 1985, p. 194; TOWNSEND, Cyril, «The Future of the Falkland Islands», in The Contemporary Review, 1 de diciembre 1984, pp. 289-293; GERMANI, Clara, «Argentine-British ties warm up, though Falklands dispute remains», in The Christian Science Monitor, 21 de febrero de 1986; BECK, Peter, «Falklands or Malvinas? The View from Buenos Aires», in The Contemporary Review, 1 de septiembre de 1985. 64. Véase la propuesta del presidente peruano Belaúnde Terry, URL: < http:// constitucionweb.blogspot.it/2010/05/propuesta-de-paz-de-peru-por-fernando.html > ; URL: < http://elcomercio.pe/mundo/actualidad/peru-conflicto-ajeno-nuestra-actuacion-guerra- malvinas-noticia-1395667 > [consultado el 3 de enero de 2017]. 65. Un autogobierno con dos príncipes: uno es el presidente de Francia y el otro es el obispo de Urgell, actuando en nombre de España. Andorra manejaba sus intereses, aunque estos dos príncipes tenían bastantes poderes. 66. BECK, Peter, op.cit., pp. 188-196; CISNEROS, Andrés, ESCUDÉ, Carlos, op. cit.; GOEBEL, Julius, The Struggle for the Falkland Islands, London, Yale University Press, 1982; FERRER VIEYRA, Enrique, List of British Documents Related to the Falkland (Malvinas) Islands Controversy, Córdoba, El Copista, 1993; LAVER, Roberto, The Falklands/Malvinas Case, Breaking the Deadlock in the Anglo-Argentine Sovereignty Dispute, The Hague, Martinus Nijhoff Publishers, 2001;

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SCHWARTZ, Ethan, «Britain, Argentina Moving Toward Resuming Relations», in The Washington Post, 19 de agosto de 1989; «Argentina and Britain Move To Restore Diplomatic Ties», in The New York Times, 1 de septiembre de 1989; «Finally, a Falkland Thaw», in The New York Times, 30 de agosto de 1989; LEWIS, Paul, «Argentina Agrees on Talks to Renew Ties With Britain», in The New York Times; 19 de agosto de 1989; «Britain, Argentina to Renew Ties», in Los Angeles Times, 19 de octubre de 1989; TRUELL, Peter, «U.S. Is Attempting to Nudge Argentina And Britain Toward a Reconciliation», in The Wall Street Journal, 28 de agosto de 1989; «Argentina Seeks Normalization of British Ties», in Los Angeles Times, 5 de agosto de 1989; LEWIS, Paul, «Argentine Chief, at U.N., Presses Falklands Stand», in The New York Times, 26 de septiembre de 1989; CHRISTIAN, Shirley, «Argentina is Seeking to Renew Ties With Britain», in The New York Times, 29 de julio de 1989; «Argentine-British Trade», in Los Angeles Times, 2 de agosto de 1989; «Britain, Argentina Plan Improved Ties», in The Washington Post, 19 de agosto de 1989; «Argentina and Britain Opening Consular Ties», in The New York Times, 20 de octubre de 1989; SMITH, James, «Britain, Argentina OK Steps to Normalize Ties: 7 Years After War», in Los Angeles Times, 19 de agosto de 1989.

RESÚMENES

La guerra de Malvinas transformó las relaciones diplomáticas entre la Argentina y Gran Bretaña. De cualquier modo, los avances que se produjeron antes y después del conflicto fueron pequeños frente al objetivo principal de la Argentina: conversar sobre la soberanía de las Islas. Ello, a su vez, promovió una diplomacia “informal”. La “flexibilidad” y la buena voluntad de conversar promovieron fructíferos encuentros informales en donde ambas posturas tenían como objetivo fundamental conciliar posiciones.

La guerra delle isole Falkland trasformò completamente le relazioni diplomatiche tra l’Argentina e la Gran Bretagna. I progressi che si conseguirono prima e dopo il conflitto furono comunque esigui rispetto al principale obiettivo dell’Argentina e cioè la possibilità di discutere in merito alla sovranità sulle isole. Questo fu, a sua volta, promosse una diplomazia “informale” che si sviluppò di conseguenza. La “flessibilità” e la buona volontà sulla quale si basarono i colloqui favorirono numerosi incontri, nei quali entrambi i paesi cercarono di arrivare ad una soluzione di compromesso con l’obiettivo di conciliare le proprie posizioni.

The Falklands War changed diplomatic relations between Argentina and Great Britain. In any case, the progress that took place before and after the conflict were insufficient compared to the main objective of Argentina: to talk about the Falkland Islands sovereignty dispute. This, in turn, boosted an “informal” diplomacy. The “flexibility” and the willingness to talk promoted fruitful informal meetings where both positions had, as a fundamental objective, to reconcile positions.

ÍNDICE

Parole chiave: Alfonsín, diplomazia, diplomazia informale, Isole Falkland, sovranità Palabras claves: Alfonsín, diplomacia, diplomacia informal, Malvinas, soberanía Keywords: Alfonsín, diplomacy, Falkland Islands, informal diplomacy, sovereignty

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AUTOR

PABLO BAISOTTI

Pablo Baisotti es Licenciado en Historia por la Universidad del Salvador, Master en Derecho de la Integración Económica por la Universidad de la Sorbona/Universidad del Salvador; Master en Relaciones Internacionales Europa-América Latina en la Universidad de Bologna y doctor en Política, Instituciones, Historia en la Universidad de Bologna. Trabaja temas sobre América Latina, China y España, en particular las relaciones internacionales, las relaciones entre política y religión, y sobre el concepto de religión política. Ha publicado en diversas revistas internacionales sobre los mencionados temas. En estos momentos es investigador en la Universidad Sun Yat-Sen de China. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Baisotti >

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II. Tavola rotonda – Wikipedia e le scienze storiche

Diacronie, N° 29, 1 | 2017 108

Riflessioni sulla narrazione storica nelle voci di Wikipedia

Tommaso Baldo

in collaborazione con il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki

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1 Un’analisi delle voci storiche di Wikipedia non può prescindere dal problema del «chi» scrive le sue voci. In un suo articolo lo storico Giovanni De Luna esprimeva una certa preoccupazione proprio in merito al fatto che gli autori delle narrazioni storiche più consultate sul web non siano figure riconosciute e riconoscibili: L’analisi (elaborata da Barbara Montesi) dei due siti più frequentati dagli studenti (Wikipedia e Cronologia) delinea una situazione preoccupante. In Wikipedia si dissolve uno dei requisiti essenziali della ricerca storica: la verificabilità del dato attraverso la certezza dell’identità del suo autore. Nel web, infatti, tutti possono scrivere di storia, accreditahersi come storici: genealogisti e antiquari, cultori delle memorie familiari e storici locali, professionisti e dilettanti; si dissolvono le tradizionali gerarchie accademiche, nasce una nuova comunità enormemente allargata fuori dall’università, dalle riviste, dalle fondazioni e dalle altre istituzioni che erano stati da sempre i «luoghi» esclusivi della ricerca1.

2 De Luna coglie un dato centrale: a scrivere sull’«Enciclopedia libera» non è un gruppo di lavoro ben definito e neppure vi è qualche istituzione o «gruppo di esperti» che si assuma la responsabilità di quanto vi si può leggere. Vi è piuttosto uno spazio in continua evoluzione in cui singoli (e in realtà anche gruppi) interagiscono in modo più o meno conflittuale cercando di rendere egemone la propria visione del passato.

3 Vi è però anche un altro aspetto da sottolineare. La dissoluzione «delle tradizionali gerarchie accademiche» crea per l’appunto «una nuova comunità». Ma come tutte le comunità anche quella dei «wikipediani» ha le proprie regole, le proprie gerarchie, i propri conflitti e soprattutto i propri confini.

4 Non siamo quindi in presenza di un generico «tutti» contrapposto all’ «accademia», ma di una determinata comunità e, se parliamo della sezione in italiano di Wikipedia, forse persino di una comunità più ristretta di quella dei tradizionali divulgatori del sapere storico (operatori museali, autori di saggi ed articoli, docenti universitari e della scuola dell’obbligo, eccetera). Sono infatti una piccola minoranza, al massimo alcune migliaia di persone, gli utenti (registrati o meno) di it.Wiki che vengono considerati «attivi», vale a dire coloro che hanno effettuato cinque modifiche in un mese ad una o più voci2.

5 Il ristretto numero degli utenti «attivi» condiziona molte voci, ad esempio alcuni argomenti divengono praticamente monopolio di una o poche persone, le uniche ad occuparsene. Oppure i rapporti interpersonali (simpatie, antipatie, affinità, ecc.) finiscono per acquisire un peso determinante nelle dinamiche interne.

6 Occorre aggiungere che le regole alla base dell’«enciclopedia libera» («i cinque pilastri») sono abbastanza vaghe da rendere possibili una vasta gamma di interpretazioni. Si limitano infatti a raccomandare: il valore enciclopedico di ogni voce creata; la ricerca del «punto di vista neutrale» (Neutral point of view o Npov) attraverso la presentazione di tutti i punti di vista su un argomento; la libera partecipazione nella scrittura delle voci e nella circolazione dei contenuti presenti su Wikipedia; il rispetto degli altri utenti attraverso la ricerca della collaborazione; l’assenza di regole fisse al di fuori dei cinque pilastri3. Ciascuna sezione nelle diverse lingue può poi elaborare le proprie linee guida variabili.

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7 A vegliare sul rispetto delle regole sono gli amministratori, i volontari scelti in seguito a votazione tra gli utenti registrati con maggiore esperienza e che hanno editato il maggior numero di contributi (almeno 500) alle voci di Wikipedia. Possono essere riconfermati per modalità tacita (solo se vi sono utenti che si dichiarano contrari si procede alle votazioni) dopo un anno dalla prima attribuzione delle funzioni o dall’ultima riconferma4. Ovviamente i rapporti interpersonali e gli equilibri all’interno della non vastissima comunità dei wikipediani italiani finiscono per avere un peso anche nella scelta di questi «arbitri».

8 Veniamo infine ai conflitti all’interno della comunità. Ogni gruppo umano sarà sempre diviso al proprio interno da differenti ideali, interessi, simpatie, antipatie, eccetera. Questa realtà si scontra però con la grande aspirazione di Wikipedia, ovvero la pretesa di considerare il «Punto di vista neutrale» uno dei propri «cinque pilastri», e quindi un «valore non negoziabile». Proprio per questo non si possono scrivere su Wikipedia ricerche originali su un argomento, cioè testi che si basino su una propria ricerca e non sul sunto di studi altrui. Le ricerche originali sono considerate incompatibili con il concetto di «enciclopedia» e non possono essere esposte in modo neutrale.

9 In teoria bisognerebbe quindi esporre le dispute senza prendervi parte, cercando di presentare in modo imparziale tutti gli aspetti di una questione. Come possiamo leggere sulla stessa Wikipedia: «Il Punto di vista neutrale richiede che una voce illustri correttamente tutti i punti di vista significativi che sono stati descritti da fonti attendibili, e che debba farlo in misura proporzionata all’importanza di ciascuno»5.

10 Ma come si arriva al «Punto di vista neutrale»? L’«enciclopedia libera» non prevede un comitato scientifico di esperti né pratiche di peer review. Pertanto il «Punto di vista neutrale» viene continuamente rinegoziato tra gli utenti stessi, come si può vedere facilmente scorrendo qualunque pagina di «discussione» in cui vi sia qualche dibattito e seguendo l’alternarsi dei contributi in una voce nella «cronologia».

11 Dunque siamo in presenza di una narrazione storica costruita di fatto da chi riesce a raccogliere maggior consenso nella comunità degli utenti e degli amministratori di Wikipedia. Spesso si tratta di chi ha più tempo, una risorsa fondamentale da spendere per presidiare le voci e per acquisire credito ed esperienza all’interno della comunità dei wikipediani attraverso la propria mole di contributi.

12 Inoltre nella stesura di una voce preverrà il punto di vista di quell’utente, o di quel gruppo di utenti, che dimostrerà più volontà/capacità di gestire polemiche a volte estenuanti (al punto da allontanare gli utenti solo occasionalmente «attivi») e che più a lungo conserverà la motivazione che lo spinge a «presidiare» per mesi ed anni una o più voci.

13 A questa particolare declinazione delle storture della «democrazia della rete» si aggiunge una pratica di utilizzo delle fonti che non può che favorire distorsioni e anche falsificazioni palesi. Se «fontato» con una nota a piè di pagina un testo può essere modificato solo con molte difficoltà. Ovvero bisogna intervenire nella pagina di «discussione», dimostrare che la fonte è citata in modo errato o improprio, oppure bisogna addurre una o più fonti contrarie, far si che siano accettate come più autorevoli e solo quando si sarà ottenuto il consenso degli amministratori e degli altri utenti che partecipano alla discussione si potrà modificare il testo. Ovviamente questa pratica favorisce l’utilizzo delle fonti come «cavalli di frisia nelle guerre di posizione wikipediane»6.

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14 Le analisi di diverse voci di it.Wiki, soprattutto tra quelle dedicate a temi «sensibili» quali la storia della Resistenza e quella delle zone di confine, svolte dal gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki e pubblicate sul blog Giap hanno portato alla luce diversi esempi di uso distorto e parziale delle fonti, nonché di vere e proprie falsificazioni. Ad esempio si è notato l’uso dei testi di Arrigo Petacco e Indro Montanelli come pezze d’appoggio per diffondere falsi storici sulle foibe, oppure si è segnalato uno strafalcione di Bruno Vespa usato per falsificare la biografia di Franco Basaglia (cui veniva attribuita addirittura l’arruolamento nelle fila delle truppe del’RSI!)7. Altre volte ancora si è scelto di dare a ricostruzioni nettamente propagandistiche lo stesso peso che si dà a testi storiografici. È il caso ad esempio delle citazioni del pubblicista neofascista Giorgio Pisanò, cui nella voce sull’attacco partigiano di Via Rasella si dà lo stesso spazio che alla storiografia sull’argomento8. Senza dimenticare la pura e semplice invenzione di un libro inesistente Assassini nella storia, scritto da un altrettanto inesistente autore, tale Samuel Frederick J. che si voleva pubblicato da una tipografia specializzata in realtà in materiale pubblicitario e non ancora aperta nel 1994, anno della pretesa edizione dell’opera fantasma. Questo testo inesistente serviva a presentare l’organizzazione antifascista degli sloveni della Venezia Giulia, il Tigr, come una semplice accozzaglia di assassini. Per poter dimostrare agli utenti ed amministratori di it.Wiki l’inesistenza dell’autore e del libro sono stati necessari mesi di ricerche e persino la visura camerale per chiarire lo status della presunta casa editrice9.

15 Nella voce «storia del Trentino» ho personalmente riscontrato invece l’utilizzo e la citazione di un pamphlet interventista del 1914 come descrizione della vita politica ed economica nel Trentino prima della Grande guerra. Insomma l’utilizzo di una fonte primaria come se fosse una fonte secondaria, la propaganda di un determinato periodo storico presentata come ricostruzione dello stesso10.

16 I meccanismi di selezione ed utilizzo delle fonti su it.Wiki assomigliano ad una parodia di quelli accademici, una parodia che spesso si dimostra funzionale alla trasmissione di un preciso frame etnico-nazionalista che narra ogni conflitto delle aree di confine secondo l’esclusiva chiave di lettura dell’odio «atavico» tra popoli diversi, per loro natura impossibilitati a convivere11. Naturalmente, la narrazione dei conflitti in questione vede gli italiani nel ruolo di vittime e gli altri popoli in quello di aggressori, persecutori o terroristi, come si può notare sia nelle voci sulla storia del confine orientale che in quelle dedicate alle vicende di Trentino e Alto Adige/Südtirol.

17 Questo frame etno-nazionalista è favorito dalla natura conservatrice della narrazione del passato messa in campo da Wikipedia nelle sue voci di lingua italiana. Non si tratta di un conservatorismo politico-ideologico, ma storiografico. Il motivo di questo conservatorismo è semplice. Nelle voci dell’«Enciclopedia libera», il dibattito verte su argomenti che fanno riferimento ad una visione del passato consolidata nell’opinione pubblica e alle fonti della vulgata mainstream diffusa dalla stampa quotidiana e dalle trasmissioni della Tv generalista, non al dibattito storiografico. Le voci dell’«Enciclopedia libera» in sostanza si possono considerare spesso frutto di una visione della storia che potremmo definire «pre-annales», ovvero una visione della storia che mette al primo posto gli aspetti politico-militari e diplomatici, anziché quelli legati alla storia economica, sociale, di genere, della mentalità, della cultura e vita materiale. La voce «storia del Trentino» credo sia un esempio lampante di questa distanza tra il frame narrativo alla base di molte voci di it.Wiki e la storiografia più recente in merito agli argomenti trattati.

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18 Alla luce di tutto ciò credo che la migliore descrizione di Wikipedia sia quella data da Lorenzo Filipaz (anch’egli all’interno del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki) in un suo articolo pubblicato su Zapruder: Wikipedia non è un’enciclopedia, è una impresa collettiva eternamente incompiuta di scrittura di un’enciclopedia; ed è anche un social network. Per queste ragioni assomiglia più ad una piazza che a un archivio e, come tale, è una lente sui processi culturali e sociali in corso; non tanto uno specchio della società, quanto di quelle minoranze che in buona o cattiva fede si industriano a istruirla gratuitamente12.

19 Mettere in evidenza i difetti ed i limiti di Wikipedia non significa però demonizzarla. Il rifiuto per l’«enciclopedia libera» che porta molti studiosi, educatori e docenti a rifuggire qualunque tipo di rapporto con lei, così come il rifiuto di prendere atto del problematiche sollevate dalle narrazioni storiche sul web, non serve ad altro che a lasciare campo libero ai mistificatori e a favorire l’abbassamento del livello del dibattito.

20 Occorre invece, da un lato un’azione di analisi pubblica di quanto avviene su Wikipedia come quella che abbiamo messo in atto come gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki, dall’altro un forte investimento educativo che abbia la scuola, le biblioteche ed i musei come protagonisti.

21 Oggi la forza pervasiva del web, la sua capacità di offrire sempre e ovunque una mole potenzialmente infinita di informazioni non filtrate rende del tutto anacronistica ed insufficiente una didattica della storia basata sulla semplice trasmissione di conoscenze. Occorre invece una didattica della storia che si ponga tra i propri obiettivi prioritari la trasmissione di quello che Marc Bloch chiamava «il metodo critico», ovvero una metodologia razionale tramite cui rapportarsi con le fonti alle quali ci rivolgiamo per avere informazioni, valutandone attendibilità e limiti13.

22 Wikipedia può essere il terreno sul quale sperimentare attività didattiche basate sull’individuazione e l’analisi delle criticità contenute nelle sue voci. Per fare questo occorre però capire la portata del cambiamento che il web ha introdotto nella trasmissione delle conoscenze storiche e voler raccogliere le sfide che esso ci pone.

NOTE

1. DE LUNA, Giovanni, «Tutti sono storici, ma chi è Tacito?», in La Stampa, 8 maggio 2012, URL: < http://www.lastampa.it/2012/05/08/cultura/libri/tutti-sono-storici-ma-chi-e-tacito- xwEE0ACi9CYAwy2FjFXHrN/pagina.html > [consultato il 16 settembre 2016]. 2. TALIA, Salvatore, «Fascinazione Wikipedia, il mito della ‘cricca’ e il conflitto reale», in Giap, URL: < http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=17162 > [consultato il 12 luglio 2016]. 3. «Wikipedia: I cinque pilastri», in Wikipedia, URL: < https://it.wikipedia.org/wiki/ Wikipedia:Cinque_pilastri > [consultato il 12 luglio 2016]. 4. «Wikipedia: Amministratori», in Wikipedia, URL: < https://it.wikipedia.org/wiki/ Wikipedia:Amministratori#Riconferma_annuale > [consultato il 12 luglio 2016]. 5. «Wikipedia: Punto di vista neutrale», in Wikipedia, URL: < https://it.wikipedia.org/wiki/ Wikipedia:Punto_di_vista_neutrale > [consultato il 12 luglio 2016].

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6. FILIPAZ Lorenzo, «Wi-chi? Battaglie per il sapere in rete», in Zapruder, storie in movimento, 39, 1/2016, pp. 142-149, p. 146. 7. BOURBAKI, Nicoletta, «Wikipedia e la storia deturpata, il caso Presbite», in Giap URL: < http:// www.wumingfoundation.com/giap/?p=19327#gilas > [consultato il 12 luglio 2016] 8. TALIA, Salvatore, «Un paese di ‘mandolinisti’. Wikipedia, i falsi storici su via Rasella e il giustificazionismo sulle Fosse Ardeatine», in Giap, URL: < http://www.wumingfoundation.com/ giap/?p=21098 > [consultato il 12 luglio 2016] 9. TALIA, Salvatore, «Fascinazione Wikipedia, il mito della ‘cricca’ e il conflitto reale», in Giap, URL: < http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=17162 > [consultato il 12 luglio 2016]. 10. BALDO, Tommaso, «I ‘45 cavalieri di Wikipedia’, da chi e da che cosa è libera l’enciclopedia libera?», in Giap, URL: < http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=22562 > [consultato il 12 luglio 2016]. 11. FILIPAZ Lorenzo, op. cit. 12. FILIPAZ Lorenzo, op. cit., p. 148. 13. BLOCH, Marc, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 2009.

RIASSUNTI

Quale rapporto si sta costruendo fra le scienze storiche e Wikipedia? Come bisogna porsi di fronte alle voci di Wikipedia che trattano di storia? Quale potrà essere il ruolo della futura “enciclopedia libera” per lo studio e l’insegnamento della storia? A partire dall’analisi di alcune voci di Wikipedia operata dal gruppo di lavoro “Nicoletta Bourbaki”, sei autori animano una tavola rotonda sul rapporto tra l’enciclopedia libera e il mondo della storia.

What kind of relationship do the historical sciences have with Wikipedia? How should a reader approach Wikipedia articles dealing with history? What role will the upcoming “free encyclopedia” play in the study and teaching of history? Starting from an analysis on some Wikipedia’s article performed by the “Nicoletta Bourbaki” working group, six authors animate a panel discussion on the relationship between the free encyclopedia and history.

INDICE

Parole chiave : insegnamento della storia, public history, scienze storiche, storiografia, Wikipedia Keywords : historical sciences, historiography, history teaching, public history, Wikipedia

AUTORE

TOMMASO BALDO

Tommaso Baldo ha conseguito la laurea Specialistica in Storia d’Europa nel 2009 presso l’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna conseguendo la votazione di 110 e lode. Dal maggio 2010 lavora presso la Fondazione Museo storico del Trentino come addetto alla progettazione e

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realizzazione di attività didattiche. Si è occupato di Wikipedia nel post «I “45 cavalieri” di Wikipedia. Da chi e cosa è libera l’enciclopedia libera?», in collaborazione con il gruppo di studio Nicoletta Bourbaki (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=22562) e nell’articolo «L’Arena delle narrazioni. La storia nel tempo di Wikipedia», in Altre Storie, 17, 50, 2/2016, pp. 36-37. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Baldo >

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Verso il sapere unico

Nicola Strizzolo

1 Cogliendo l’occasione di sviluppare riflessioni e non un vero e proprio lavoro di ricerca, mi muoverò più liberamente nelle congetture, peccando di quello che, noi scienziati sociali, definiamo impressionismo: osservazioni, spunti, provocazioni o, per l’appunto, impressioni non infondate ma non generalizzabili, o perché le fonti non sono autorevoli, come la stampa, o lo studio dei casi e le asserzioni non metodologicamente costituiti o finanche basati su esperienze personali.

2 In quanto sociologo, dei media1, i riferimenti che innescano il flusso delle riflessioni sono i seguenti: «[…] nasce una nuova comunità enormemente allargata fuori dall’università, dalle riviste, dalle fondazioni e dalle altre istituzioni che erano stati da sempre i “luoghi” esclusivi della ricerca […]»2 e «[la] dissoluzione “delle tradizionali gerarchie accademiche” crea per l’appunto “una nuova comunità”. Ma come tutte le comunità anche quella dei “wikipediani” ha le proprie regole, le proprie gerarchie, i propri conflitti e soprattutto i propri confini»3.

3 Trovo interessanti alcuni passaggi per sviluppare collegamenti: con il concetto stesso di comunità nel web, le cosiddette comunità virtuali così come codificate da Rheingold4. In uno studio, su comunità che gestivano informazioni sull’utilizzo di droghe, abbiamo visto la loro scomparsa e la sopravvivenza di solo due di queste, una diventata hub per filmati pornografici e l’altra praticamente immutata nel tempo, se non per il numero degli iscritti più che duplicato, piattaforma del tutto simile, sin dalle origini, per struttura alla definizione di social network di boyd5. Dati alla mano, abbiamo riscontrato questo in maniera estesa, generalizzata e in un tempo molto più breve del passaggio da una società rurale ad una urbana metropolitana anche nel web: il passaggio da comunità a società6. Il testo di Baldo si riferisce, per l’appunto, a Wikipedia come un social network7.

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4 Una comunità di discorso idealtipica, sulla base dell’etica habermasiana, è quella degli scienziati, all’interno della quale esisterebbero le premesse etiche per il raggiungimento di una verità, non definitiva e ridiscutibile, sulla base di procedure condivise che permettano la pratica dell’agire comunicativo, in assedio reciproco al sistema8. Elementi chiave di questo agire comunicativo sono la comprensibilità, la verità, la veridicità e la simmetria nei parlanti. All’interno della comunità scientifica, questi si traducono nella trasparenza del metodo e del percorso, affinché esso sia replicabile e così falsificabile e nel referaggio cieco tra pari, incluso il rimando a fonti che dovrebbero avere subito gli stessi filtri: di fatto non vengono reputate fonti scientifiche (con dignità di bibliografia scientifica) le inchieste giornalistiche, i testi di diffusione e neppure i manuali scolastici. Questo meccanismo viene meno su Wikipedia almeno in due punti evidenziati nel testo di Baldo: a) la mancanza di una «qualche istituzione o “gruppo di esperti” che si assuma la responsabilità di quanto vi si può leggere» che viene sopperita da un’arena nella quale soggetti singoli e gruppi negoziano per imporre una propria rappresentazione del passato, ovvero uno spazio molto più simile al sistema dell’agire strumentale che ai mondi di vita dell’agire comunicativo; b) il monopolio di poche persona su alcuni argomenti e dinamiche influenzate da «rapporti interpersonali (simpatie, antipatie, affinità, ecc.)» si discosta dall’antidoto del doppio referaggio cieco vigente nella comunità scientifica, la quale, non sempre esente da personalismi, sistemi ed interessi di parte, cerca così di porvi limite.

5 Un altro problema emergente è quella della diffusione globale della fruizione di wikipedia, anche per lavori che in qualche maniera rientrano, anche se marginalmente, nella filiera della ricerca: le tesi di laurea. È osservazione condivisa con colleghi il plagio, continuo e diffuso, perpetrato attraverso Internet da parte degli studenti. Effettivamente l’«analisi (elaborata da Barbara Montesi) dei due siti più frequentati dagli studenti (Wikipedia e Cronologia) delinea una situazione preoccupante»9. Alcuni Atenei si sono tutelati chiedendo la firma di un documento attestante l’originalità dell’opera agli studenti o attraverso un software. In maniera molto più artigianale, andando a estrapolare parti di tesi, random, lì dove il registro del testo non corrisponde a quello più generale della tesi o sussistono evidenti anomalie formali, si trova, non poche volte, una fonte online completamente copiata. Sorvolando l’aspetto etico della questione, pongo un tema di carattere epistemologico: probabilmente anche noi over quaranta abbiamo inserito nelle tesi di laurea estese parti di libro – auspicabilmente riferendoci alla fonte –, per pigrizia e per dare volume al lavoro di tesi, con più o meno ingenuità e più o meno buona fede. Ma, se questo è avvenuto, lo è stato per lo più da libri passati attraverso un sistema che garantiva la scientificità, ovvero, per dirla in breve «Se da studenti copiavamo o ci ispiravamo in maniera poco originale, lo facevamo da Hannah Arendt, da Herbert Marcuse, non da Pippo.com». Non perché allora eravamo studenti migliori di quelli di oggi, ma perché non disponevamo di Internet e i testi ai quali avevamo accesso erano quelli di librerie e biblioteche universitarie, ovvero in qualche maniera filtrati da maccanismi che ne garantivano una certa autorevolezza scientifica. Oggi, il lavoro di tesi, se anche periferico al nucleo della ricerca, difficilmente può diventare uno sguardo da cui poi tematizzare in maniera approfondita e strutturata nuovi percorsi, rischia invece di essere soltanto un cortocircuito di pessimi copia e incolla, in quanto il plagio avviene da siti non soltanto dall’improbabile autorevolezza, ma che a loro volta sono il copia e incolla di altri siti. Si

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perde così definitivamente l’unicum che ogni persona può portare alla mole di sapere e che, in piccole dosi, comporta la sua evoluzione, la sua crescita e la sua diffusione nella comunità. In alcuni casi, Wikipedia fa da sorgente a questo flusso di copia e incolla.

6 Siamo ben oltre la Folksonomy, una rete di Tag dal basso che sposta la precedente catalogazione del sapere dalla comunità di esperti ai fruitori della rete. Con la Folksonomy si è passati da un albero di conoscenze ad una nuvola di conoscenze. Dopo la scomparsa delle grandi narrazioni10, che ordinavano e suddividevano in quadri di riferimento di matrice ideologica le rappresentazioni dell’esistente, si è approdati a delle micro-narrazioni: è emersa, concordemente a più scuole e discipline, una visione individualistica del mondo; l’ipotesi, ottimista, è che questa tassonomia collettiva in qualche maniera riproponga un’organizzazione della conoscenza condivisa socialmente:

7 Le Folksonomy rappresentano un cambio di paradigma che si allontana dalla definizione ontologica di una realtà a misura dell’individuo in direzione di definizioni comprendenti diverse modalità produttive, organizzative e di utilizzo del sapere […] Ma con la perdita di credibilità delle grandi narrazioni, frammentate in un effetto frattale [inserzione personale] di micronarrazioni di una società post-industriale e relativa cultura post-moderna, si apre la questione di come questa nuova forma di conoscenza guadagni legittimità11.

8 Lì dove il sapere diffuso diventa matrice di un copia incolla, con un’unica sorgente, che può essere wikipedia, riduciamo la folksonomy all’appiattimento culturale.

9 Fenomeno questo tangenziale alla questione del filter bubble: la bolla creata a seconda degli interessi, delle pagine che consultiamo, dei click che disseminiamo per la Rete. Più ci si muove, più il web diventa sempre più simile a noi: Google usa infatti 57 indicatori per stabilire chi siamo e prevedere quali siti potrebbero piacerci e il monitoraggio funziona anche quando non siamo loggati […] In questo modo, quando facciamo una ricerca, ci compaiono i link che potrebbero interessarci di più. I motori di ricerca e i social network ci conoscono ormai sempre meglio. Grazie alle tracce che lasciamo in rete sanno cosa ci piace e selezionano i risultati, scegliendo solo i più adatti a noi [...] I filtri di nuova generazione guardano le cose che ci piacciono – basandosi su quello che abbiamo fatto o che piace alle persone simili a noi – e poi estrapolano le informazioni. Sono in grado di fare previsioni, di creare e raffinare continuamente una teoria su chi siamo, cosa faremo e cosa vorremo. Insieme, filtrano un universo di informazioni specifico per ciascuno di noi che altera il modo in cui entriamo in contatto con le idee e le informazioni. In un modo o nell’altro tutti abbiamo sempre scelto cose che ci interessano e ignorato quasi tutto il resto. […] La conseguenza sistemica dell’agenda setting è stata rappresentata dal concetto di spirale del silenzio: le persone si interessano a quello che va per la maggiore e i giornali riportano quello che interessa alla gente; la conseguenza è che argomenti di nicchia, controtendenza, scomodi spariscono in un universo discorsivo di piatta conformità12.

10 Infine, per la gestione, che oscilla tra il monopolio, il conflitto, la negoziazione e il rinvenimento di casi di manipolazione13, sembra quasi che in Wikipedia si oscilli tra una memoria sociale (nel senso di collettiva ma gestita attraverso un social)14 e una storia senza storiografia: nel primo caso emergono tutti i limiti e le distorsioni della persona15, di un gruppo, di un’ideologia, nel secondo l’apparato delle fonti rimanda o ad un supporto antico che non appartiene al contenitore di wikipedia, il libro cartaceo, del quale per pigrizia, buona o cattiva fede, pare più citato il titolo che letto il contenuto, e

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in alcuni casi, come evidenziato dai casi riportati nel testo di Baldo, non storiograficamente interpretato o ancor peggio inventato.

11 Chiudo con questa riflessione generale: in 1984 l’appiattimento culturale attraverso la creazione di una neolingua e così di un mondo a misura del Grande Fratello era imposta attraverso un ferreo regime del controllo, del sospetto e della paura. Nella realtà odierna, attraverso il copia e incolla, l’utilizzo esclusivo, ripetitivo, meccanico, senza mettere in dubbio l’informazione e la relativa fonte, c’è il rischio di procedere volontariamente, tra un atteggiamento di stupore euforico per il facile reperimento del dato e la pigrizia mentale indotta dall’assenza della ricerca, la ricostruzione aderente al vero e l’interpretazione, verso un simile appiattimento culturale e un neomondo di rappresentazioni e significati condivisi globalmente in rete.

NOTE

1. Il titolo del settore scientifico disciplinare di appartenenza è “Sociologia dei processi culturali e comunicativi”. 2. DE LUNA, Giovanni, «Tutti sono storici, ma chi è Tacito?», in La Stampa, 8 maggio 2012, cit. in BALDO, Tommaso, «Riflessioni sulla narrazione storica nelle voci di Wikipedia», in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, 29, 1/2017, p. 1, URL: < http://www.studistorici.com/2017/03/29/ baldo_numero_29/ >, [consultato il 29 marzo 2017]. 3. BALDO, Tommaso, op. cit., p. 2. 4. RHEINGOLD, Howard, Parlare, incontrarsi, vivere nel ciberspazio, Milano, Sperling & Kupfer, 1994. 5. L’autrice firma i suoi lavoro con le iniziali in minuscolo: BOYD, m. danah, ELLISON, Nicole B., «Social Network Sites: Definition, History, and Scholarship», in Journal of Computer-Mediated Communication, 13, 1/2007, pp. 210-230. 6. BERTOLAZZI, Alessia, STRIZZOLO, Nicola, «Requiem for the virtual communities Long life to the Social Networks!», in Prato CIRN Community Informatics Conference 2012-Refereed Paper, URL: < http://ccnr.infotech.monash.edu/assets/docs/prato2012docs/strizzola.pdf > [consultato il 28 febbraio 2017]. 7. BALDO, Tommaso, op. cit., p. 6, citazione di Filipaz Lorenzo. 8. PRIVITERA, Walter, Il luogo della critica. Per leggere Habermas, Soveria Mannelli, Rubettino, 1996. 9. BALDO, Tommaso, op. cit., p. 1. 10. LYOTARD, Jean-François, The Postmodern Condition: A Report on Knowledge, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1979. 11. Originale: «Folksonomies represent a paradigmatic shift away from a definition of ontology that assumes a singular reality toward definitions that encompass diverse ways of producing, organizing, and utilizing knowledge […]. But as the grand narrative has lost its credibility, resulting in an abundance of micro‐narratives in our contemporary, post‐industrial society and post‐modern culture, the question of how knowledge gains legitimacy arises». KESHET, Yael, «Classification systems in the light of sociology of knowledge», in Journal of Documentation, 67, 1/2011, pp. 144-158, p. 152. 12. BERNARDINIS, Valentina, STRIZZOLO, Nicola, «Vedere ciò che vogliamo vedere: le conseguenze della Filter Bubble», URL: < http://www.agendadigitale.eu/competenze-digitali/ vedere-cio-che-vogliamo-vedere-le-conseguenze-della-filter-bubble_1711.htm > [consultato il 28

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febbraio 2017]. Agendadigitale.eu è una piattaforma di divulgazione, con ISSN e comitato scientifico, scrivo per loro articoli che mediano tra la divulgazione e la ricerca universitaria. 13. Sempre rifacendosi al testo di Baldo. Esistono ovviamente altre tesi, che rappresentano ad esempio Wikipedia come un luogo di veterani della prima Wikipedia cordialmente aperta ai nuovi volontari e particolarmente attenti all’inclusione di genere: LENNART, Guldbrandsson, «Field Report: Wikipedia Sweden», in Culture Unbound, 6, 2014, pp. 633-636, URL: < http:// www.cultureunbound.ep.liu.se/v6/a33/cu14v6a33.pdf > [consultato il 28 febbraio 2017]. Testo che comunque potrebbe essere più di memoria (personale ed emotiva dell’autore, curatore veterano di Wikipedia) che di storia di Wikipedia. 14. «Vi è piuttosto uno spazio in continua evoluzione in cui singoli (e in realtà anche gruppi) interagiscono in modo più o meno conflittuale cercando di rendere egemone la propria visione del passato» in BALDO, Tommaso, op.cit., p. 2; «[…] siamo in presenza di una narrazione storica costruita di fatto da chi riesce a raccogliere maggior consenso nella comunità degli utenti e degli amministratori di Wikipedia». Ibidem, p. 4. 15. RINALDI, Giuseppe, Storia e memoria (2.0), in ZIRUOLO, Luciana (a cura di), I luoghi, la storia, la memoria, Genova, Le mani, 2007, URL: < http://digilander.libero.it/education/dati_box/ ARTICOLI/Storia%20e%20memoria_21.pdf > [consultato il 28 febbraio 2017].

RIASSUNTI

Quale rapporto si sta costruendo fra le scienze storiche e Wikipedia? Come bisogna porsi di fronte alle voci di Wikipedia che trattano di storia? Quale potrà essere il ruolo della futura “enciclopedia libera” per lo studio e l’insegnamento della storia? A partire dall’analisi di alcune voci di Wikipedia operata dal gruppo di lavoro “Nicoletta Bourbaki”, sei autori animano una tavola rotonda sul rapporto tra l’enciclopedia libera e il mondo della storia.

What kind of relationship do the historical sciences have with Wikipedia? How should a reader approach Wikipedia articles dealing with history? What role will the upcoming “free encyclopedia” play in the study and teaching of history? Starting from an analysis on some Wikipedia’s article performed by the “Nicoletta Bourbaki” working group, six authors animate a panel discussion on the relationship between the free encyclopedia and history.

INDICE

Parole chiave : insegnamento della storia, public history, scienze storiche, storiografia, Wikipedia Keywords : historical sciences, historiography, history teaching, public history, Wikipedia

AUTORE

NICOLA STRIZZOLO

Nicola Strizzolo è Ricercatore in Sociologia dei Processi Culturali Comunicativi, Prof. Aggr. in Sociologia dell’Educazione e in Teorie e Tecniche delle Relazioni Pubbliche. Ha insegnato per anni

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all’interno corsi di Sociologia della Comunicazione e fatto ricerche, anche internazionali, in tale ambito. Ha pubblicato su temi di Web e devianza. Coordina il Laboratorio di Sociologia del Dipartimento di lingue e letterature, comunicazione, formazione e società ed è Vicepresidente del Laboratorio Internazionale della Comunicazione. Scrive per http://www.agendadigitale.eu, è membro di comitati di redazione e scientifici di riviste e referee per convegni internazionali, saggi e volumi scientifici. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Strizzolo >

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Dissoluzioni, parodie o mutamenti? Considerazioni sulla storia nelle pagine di Wikipedia

Mateus H. F. Pereira Traduzione : Jacopo Bassi

1. Punto di partenza: due discussioni

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1 Ricercando tra gli archivi di Wikipedia rinveniamo due discussioni che saranno qui impiegate come base d’appoggio, come punto di partenza per applicare il principio della “variazione di scala”, pur mantenendo come sfondo l’analisi di Tommaso Baldo1. Il primo caso risale al 2012 e concerne la pagina di discussione della voce “Regime militare in Brasile”, della versione in portoghese di Wikipedia. Il 21 giugno 2012, uno dei collaboratori, registrato come Gutim, affermava: Non ho fonti altamente affidabili per fare ciò che pretendo di fare, ma chiarirò ciò di cui stratta. Ho letto e sentito i pareri di molti simpatizzanti di sinistra e di destra riguardo al governo di Castelo Branco. L’opinione più comune è che questo governo sia stato il migliore dell’epoca che precedette l’irrigidimento della dittatura militare. [...] in definitiva, attraverso queste fonti che non posso impiegare, concludo che il Brasile avrebbe potuto facilmente avere un presidente eletto democraticamente un anno e mezzo dopo il golpe del 1964. Per queste ragioni, se ritenete affidabili queste fonti, io le aggiungerei all’articolo2.

2 Si rileveranno, attraverso i nostri corsivi nella citazione precedente le dimensioni delle norme definite dai collaboratori di Wikipedia per l’analisi e l’utilizzazione delle fonti.. Queste regole interdicono l’utilizzazione di una testimonianza orale che non possa essere soggetta a critica e/o verificabilità, come attestato dalla citazione in questione. Rosenzweig sottolinea come l’idea di imparzialità (o, piuttosto diremmo, il desiderio di imparzialità) sia un mito fondatore che fornisce una base discorsiva condivisa tra i collaboratori3. Nel caso succitato, l’obbedienza alla politica di neutralità crea un “filtro”, come vediamo nell’esitazione del collaboratore nello scrivere che il «governo Castelo Branco» (primo generale a governare il Brasile dopo il golpe militare del 1964) «fu il migliore dell’epoca che precedette l’irrigidimento [del regime]». Benché talvolta lo faccia in modo ingenuo – ad esempio quando afferma «se Castelo Branco» «avesse preso le opportune misure», bisogna evidenziare che l’autore affronta un tema oggetto di disputa da parte dalla storiografia contemporanea: la trasformazione del golpe civile-militare in una dittatura militare; ma, al contempo, consacra una versione egemonica della memoria e di una certa storiografia (oggi più contestata) per la quale nel 1968 ci sarebbe stato un “golpe nel golpe”.

3 Il secondo caso tratta del funzionamento del processo di “eliminazione” di un articolo. Nel caso in cui un lettore della wikipedia lusofona cerchi la voce “Revolução de 1964” [Rivoluzione del 1964], sarà indirizzato verso l’articolo [Golpe di Stato in Brasile nel 1964]. Questo reindirizzamento è frutto di una discussione, svoltasi tra il 6 e il 12 agosto del 2008, per eliminare un articolo denominato “Rivoluzione del 1964”. Una delle argomentazioni impiegate dall’utente identificato Dornicke4 per eliminare l’articolo e reindirizzare la ricerca, affermava: «esiste una definizione incontestabile del fatto: Golpe del ’64. È la versione largamente accettata dalla storiografia, persino da buona parte

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della letteratura militare». In questo secondo caso, osserviamo che l’autorità della storia accademica è stata utilizzata per legittimare, per così dire, l’interpretazione dei “vinti”, o anche, la verità fattuale.

2. Opinione ed illusione

4 Le guerre di memoria su Wikipedia, così come su internet, devono essere considerate alla stregua di un teatro delle operazioni la cui rappresentazione cartografica si modifica costantemente5. Stando così le cose, a prescindere dal fatto che io concordi con la prospettiva esposta da Tommaso Baldo – in particolare, per quel che riguardo ai rischi del negazionismo, di falsificazioni, di distorsioni e dissimulazioni6 – mi piacerebbe sottolineare in questa sede le differenze. Credo che dal punto di vista delle fonti l’esitazione del contributore Gutim e il caso dell’eliminazione citati in precedenza tendano a contraddire il punto di vista di Baldo quando afferma che il «dibattito storiografico» sulle pagine di Wikipedia si svolge a livello di opinione e subito si allontana dalla verità o, quantomeno, dalla “verità fattuale”.

5 Va detto che la relazione tra “verità fattuale” e “opinione” è stata affrontata da Hannah Arendt in un testo del 1967. Essa indicava i pericoli insiti nel trattare ciò che non può trasformare in opinione. La filosofa si domandava se esistesse qualche fatto indipendente dall’opinione e dall’interpretazione, rispondendosi che «anche se ammettiamo che ogni generazione ha il diritto di scrivere la propria storia, ammettiamo soltanto che essa ha il diritto di riordinare i fatti in armonia con la propria prospettiva, non ammettiamo il diritto di toccare la materia fattuale in quanto tale»7. L’autrice in questo modo evidenzia i rischi della riduzione o diluizione della “verità fattuale” (contingente e dipendente da una testimonianza affidabile) ad “opinione”, così come le conseguenze della sua distruzione (guardando alla fine della distinzione tra fatto e finzione) attraverso la “menzogna” e la “manipolazione” politica. Un’opinione cesserà di avere legittimità diffusa solamente quando sorgerà una nuova evidenza e/o attraverso un dibattito costante che metta in rilievo le fragili basi che hanno retto il consenso provvisorio intorno ad un tema. In questo senso opinione e verità fattuale non si oppongono, poiché opinioni fondate su verità fattuali tendono a divenire più convincenti. Così gli esempi qui evidenziati mostrano che ci può essere un qualche tipo di convergenza, nelle pagine dell’enciclopedia virtuale, tra la ricerca della verità fattuale e l’opinione.

6 In modo implicito ed esplicito Baldo sembra sviluppare parte della sua analisi su Wikipedia a partire dalle idee di dissoluzione e di parodia. Ma l’“Enciclopedia libera”, non potrebbe quantomeno essere utile per riflettere, negare o problematizzare un paradosso che avvolge la storiografia professionale e universitaria? Per Hayden White il paradosso risiede nel fatto che: «nella misura in cui gli studi storici divengono più scientifici, meno utili si rivelano per qualsiasi finalità pratica come l’educazione dei cittadini per la vita politica»8. Più che di fronte a un paradosso qui siamo davanti ai limiti e alla stessa crisi del moderno concetto di storia, di storicismo, di “positivismo critico” per come la storiografia si è configurata accademicamente sin dal XIX secolo9. Jacques Revel evidenzia che per i fondatori della scuola degli Annales, Bloch e Febvre, la storia rimane essenzialmente empirica, soprattutto per via del fatto che il «sociale non è mai l’oggetto di una concettualizzazione sistematica, articolata»10. Ancora, secondo l’autore, la cosiddetta seconda generazione approfondì questo «nuovo empirismo» o

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«positivismo critico»11 dove il “metodo” conquistava il primato a detrimento della teoria e delle condizioni di produzione della storia.

7 Inoltre, nella misura in cui gli storici non monopolizzano le esperienze della storia, le narrazioni, le memorie e persino le rappresentazioni del passato, Baldo non finisce per alimentare una certa illusione generalizzata circa il potere effettivo della storiografia e dell’insegnamento della storia12? In definitiva, quantomeno nei paesi del cosiddetto Occidente13, molti di coloro che attualmente sono nazionalisti, razzisti, xenofobi e fondamentalisti sono passati da un’educazione scolastica “orientata”, in gran parte, dalla storiografia accademica.

3. L’accento sulla continuità

8 Nel 2014 nell’enciclopedia erano presenti 30 milioni di articoli scritti in forma collaborativa e decine di migliaia di utenti contributori attivi. Risultava uno dei dieci siti più visitati in Brasile, il sesto del mondo e contava più di 200.000 modifiche al mese nella sola versione in portoghese14. Alcune ricerche indicano come un numero considerevole di medici abbia utilizzato Wikipedia per formulare diagnosi mediche, benché i loro pazienti non ne fossero al corrente15. A quanto pare, la presenza dell’Enciclopedia libera nelle nostre vite sembra essere irreversibile. Allora, una delle soluzioni di fronte ai problemi concreti indicati da Tommaso Baldo circa il basso numero di utenti attivi, non potrebbe portare ad una maggior interazione fra le “comunità” accademiche e quella wikipediana? Fino a che punto non sarebbe lodevole – dal punto di vista etico, politico e pratico – che i futuri professori di storia imparassero nelle università a collaborare in modo più incisivo a questo progetto che, ad esempio, al contrario di Google non ha fini di lucro?

9 In definitiva il pluralismo crescente di forme e contenuti per narrare e rappresentare ciò che è avvenuto in passato è proprio delle «storicità democratiche»16. Così come lo è la messa in discussione delle gerarchie prestabilite. Sotto questa prospettiva la stessa idea di “scienza” storica non ha forse qualche aspetto proprio della parodia in rapporto a ciò che gli storici immaginano che siano le altre “scienze”? Ma forse risponde a verità il fatto che vi sia, in senso positivo o negativo, come afferma Tommaso Baldo, un qualcosa che attiene alla parodia (non sarebbe meglio impiegare la parola differenza?) nella narrazione e nella pratica storica dell’Enciclopedia libera rispetto agli scritti accademici. Se così fosse, potremmo dire che la principale aspettativa di buona parte dei lettori dell’“Enciclopedia che tutti possono modificare” è una cultura della storia cronologica, fattuale, lineare e aneddotica?

10 L’elenco delle critiche di coloro che sentono la necessità di attaccare una storia che sia ridotta alla narrazione degli eventi e che affermano come questa sia insufficiente è lungo17. Benedetto Croce, ad esempio, nel 1916 contestò l’opposizione fra storia e cronaca. Si trattava, per lui, di due forme di storia che si completavano a vicenda senza alcun tipo di subordinazione18. Così un aspetto centrale su cui la discussione proposta da Baldo ci invita a riflettere è: perché esiste una domanda sociale nei confronti di una conoscenza storica o di un qualche tipo di narrazione relativa a ciò che è avvenuto che pone l’accento sulla continuità?

11 Una storia che privilegi la continuità non solamente rende pensabili i fatti passati, ma permette anche di conoscere ciò che ancora non è entrato nell’ordine dei fatti. Forse è per questa ragione che una concezione di “storia tradizionale” viene desiderata dalla

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società: questa conforta l’uomo, in quanto dà un senso di continuità alla storia e all’esistenza. In Wikipedia troviamo le chiavi d’accesso attraverso cui il suo lettore progetta il divenire come un’estensione del passato-presente. In questo senso concordo con Baldo che vi si rinvenga una qualche dimensione conservatrice. Forse esistenziale e politica – come, ad esempio, nella prospettiva di Agamben – la patria d’origine di un uomo è il piacere e per sperimentarlo in forma autentica è necessario «un arresto del tempo» e «un’interruzione della cronologia»: «la storia non è infatti, come vorrebbe l’ideologia dominante, l’asservimento dell’uomo al tempo lineare continuo, ma la liberazione dell’uomo da esso»19. Anche così, sfuggire dai dilemmi originati da una supposta dicotomia – «una storia che insegna di più e spiega di meno e una storia che spiega di più e insegna di meno»20 – è una delle difficoltà che si presentano a tutti coloro che cercano di rappresentare e narrare il passato nel presente.

NOTE

1. BALDO, Tommaso, «I ‘45 cavalieri di Wikipedia’, da chi e da che cosa è libera l’enciclopedia libera?», in Giap URL: < http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=22562 > [consultato il 16 dicembre 2016]. 2. URL: < http://pt.wikipedia.org/w/index.php? title=Discuss%C3%A3o:Regime_militar_no_Brasil&oldid=35603996 > [consultato il 15 dicembre 2016]. 3. Cfr. ROSENZWEIG, Roy, Clio Wired, New York, Columbia, 2011. In una ricerca recente, Phillips afferma anche che: «Wikipedia requires historians to produce knowledge as part of a collaborative community of practice and, in the process, abandon popular theories of truth that underpin empirical-analytical history»; «One key issue that emerges from the analysis of Wikipedia is that […] have detailed: historians are not sole arbitrators of what constitutes history in the public domain» e “On its own, Wikipedia is history-making in the digital age that is generated and sustained by a community of practitioners for a potentially global audience; in tandem with traditional forms of history, Wikipedia tells additional stories, stories that historians may struggle to include within the limits placed by publishers, but which greatly expand the range of freely available knowledge […]». PHILLIPS, Murray, «Wikipedia and history», in The Journal of Theory and Practice, 2015, pp. 523-543, pp. 524, 540, 542. 4. URL: < http://pt.wikipedia.org/wiki/Usuário(a):Dornicke > [consultato il 16 dicembre 2016]. 5. Cfr. MERZEAU, Louise, Guerres de mémoires online: um nouvel enjeu stratégique?, in BLANCHARD, Pascal, MASSON-VEYRAT, Isabelle (org.). Le guerre de mémoires. La France et son histoire, Paris, La Découverte, 2008, pp. 287-298; Cfr. anche, tra gli altri: NOIRET, Serge, «História digital pública», in Liinc em Revista, 11, 1/2015, pp. 28-51, URL: < http://liinc.revista.ibict.br/index.php/liinc/ article/view/797 > [consultato il 16 dicembre 2016]. 6. Ho sviluppato alcune considerazioni su questi rischi in PEREIRA, Mateus, «Nova direita? Guerras de memória em tempos de Comissão da Verdade (2012-2014)», in Varia historia, 31, 57, 2015, pp. 863-902. 7. ARENDT, Hannah, Verità e Politica, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 44 [ed. orig. Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought, New York, Viking Press, 1968]. Cfr. anche:

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DERRIDA, Jacques, «História da mentira: prolegômenos», in Estudos Avançados. 10, 27, 2/1996, pp. 7-39. 8. WHITE, Hayden, Ficción histórica, historia ficcional y realidad histórica, Buenos Aires, Prometeo Libros, 2010, p. 125. 9. Rinvio per non prolungare i riferimenti bibliografici e le questioni, alle riflessioni sviluppate negli ultimi anni da François Hartog. 10. REVEL, Jacques, História e historiografia: exercícios críticos, Curitiba, Ed. UFPR, 2010, p. 36. 11. Ibidem, p. 54. 12. Cfr., in particolare: LAVILLE, Christian, «A guerra das narrativas», in Revista Brasileira de História, 19, 38, 1999, pp. 125-138. 13. Una questione che deve intersecare le riflessioni sulle diverse versioni di Wikipedia riguarda la varietà delle storiografie “occidentali”, le possibilità di interazione e resistenza ad essa, oltre alla compressità delle tradizioni non-Occidentali. Cfr., ad esempio: CHAKRABARTY, Dipesh, Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 2000. 14. FILHO, Celio, Da Wikipédia de A a Z., São Paulo, Wikimedia Foudation, 2015. In questo caso riprendo alcuni punti che ho sviluppato in: PEREIRA, Mateus H. F., A Máquina da Memória/ Almanaque Abril. Bauru, EDUSC, 2009. 15. ELLIS, Rachel, «Wikipedia GPs! Half of all doctors go online to help diagnose patients while a quarter want health apps to help treat the sick», in Daily Mail, 31 gennaio 2015, URL: < http:// www.dailymail.co.uk/news/article-2933982/Wikipedia-GPs-Half-doctors-online-help-diagnose- patients-quarter-want-health-apps-help-treat-sick.html > [consultato il 31 gennaio 2017]. 16. Cfr. RANCIÈRE, Jacques, Os nomes da história, São Paulo, Editora Unesp, 2014. 17. Cfr. POMIAN, Krzysztof, «Evento», Enciclopedia Einaudi, vol. 29, Tempo/temporalidade, Lisboa, Impressa Nacional, 1993, pp. 214-235. 18. CROCE, Benedetto, História e Crónica, in GARDINER, Patrick, Teorias da História, Lisboa, Gulbenkian, 2004, pp. 280-283. 19. AGAMBEM, Giorgio, Infanzia e Storia, Torino, Einaudi, 2001, p. 111. 20. LEVI-STRAUSS, Claude, O Pensamento Selvagem, São Paulo, Cia Editora Nacional, 1976, p. 298.

RIASSUNTI

Quale rapporto si sta costruendo fra le scienze storiche e Wikipedia? Come bisogna porsi di fronte alle voci di Wikipedia che trattano di storia? Quale potrà essere il ruolo della futura “enciclopedia libera” per lo studio e l’insegnamento della storia? A partire dall’analisi di alcune voci di Wikipedia operata dal gruppo di lavoro “Nicoletta Bourbaki”, sei autori animano una tavola rotonda sul rapporto tra l’enciclopedia libera e il mondo della storia.

What kind of relationship do the historical sciences have with Wikipedia? How should a reader approach Wikipedia articles dealing with history? What role will the upcoming “free encyclopedia” play in the study and teaching of history? Starting from an analysis on some Wikipedia’s article performed by the “Nicoletta Bourbaki” working group, six authors animate a panel discussion on the relationship between the free encyclopedia and history.

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INDICE

Keywords : historical sciences, historiography, history teaching, public history, Wikipedia Parole chiave : insegnamento della storia, public history, scienze storiche, storiografia, Wikipedia

AUTORI

MATEUS H. F. PEREIRA

Mateus H. F. Pereira è professore associato dell’Universidade Federal de Ouro Preto (UFOP). Tra le sue pubblicazioni: «L’Almanaque Abril (1974-2004): storia di un best-seller brasiliano», in Paratesto: Rivista Internazionale, 3/2006, pp. 1-32; «Brazilian Historical Writing in a Global Perspective: a Study on the Emergence of the Concept of Historiography», in History and Theory, 54, 4/2015, pp. 84-104; La litérature d’almanach et la mondialisation de la culture: les représentations de la grande guerre et l’histoire du temps présent dans un almanach français et un almanach portugais, in COOPER-RICHET, Diana, MOLLIER, Jean-Yves (org.), Le commerce transatlantique de librairie, Campinas, PUBLIEL, 2013, pp. 121-134. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Pereira >

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Risposta a “Riflessioni sulla narrazione storica nelle voci di Wikipedia”

Iolanda Pensa

leggi l’articolo correlato (URL: < http://journals.openedition.org/diacronie/5347 >)

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1 Egregio Dott. Baldo,

2 il suo testo “Riflessioni sulla narrazione storica nelle voci di Wikipedia” è sostanzialmente irritante.

3 Ci si può girare intorno ma su Wikipedia l’atteggiamento che la comunità si aspetta da chiunque è che prenda una ramazza e cominci a spazzare. Contribuire a Wikipedia non è correggere il compito in classe di uno studente né valutare gli alunni: chiunque quando è su Wikipedia e comincia a contribuire è semplicemente un wikipediano con la ramazza in mano, non una penna rossa.

4 Nella sua riflessione lei si pone di fronte a Wikipedia, quasi lei stesso non ne facesse parte. Purtroppo non funziona così: lei è Wikipedia, noi tutti siamo Wikipedia. Per colpa di quel tasto “modifica”, se Wikipedia negli argomenti di suo interesse e di sua specializzazione non è completa, solida e attendibile è un problema non di altri, ma proprio suo e una sua responsabilità. Fermo restando che non è facile modificare questa enciclopedia online che in teoria “anyone can edit”.

5 Arrivare su Wikipedia con una penna rossa è certamente il modo che fa ottenere a chiunque una pessima accoglienza. In realtà nell’ambito del progetto di ricerca Wikipedia Primary School1 abbiamo coinvolto dei docenti universitari nel revisionare delle voci di Wikipedia sulle quali sono specializzati e ha funzionato molto bene il sistema della penna rossa. Si produce un pdf di una versione di un articolo, lo si invia allo studioso chiedendogli di correggerlo, si fa rilasciare il testo con la licenza libera (Creative Commons attribuzione condividi allo stesso modo, cc by-sa all), lo si carica su Wikimedia Commons, lo si collega alla pagina di discussione dell’articolo relativo magari anche copiandolo e incollandolo, e le correzioni dello studioso saranno prese in considerazione con interesse e senza conflitti. Questo sistema funziona perché mantiene l’autorialità accademica fuori da Wikipedia. La comunità di Wikipedia riconosce gli esperti (l’importanza delle fonti e la rilevanza data a pubblicazioni tradizionali e articoli scientifici che hanno ricevuto una double blind peer review ne sono testimonianza); la comunità di Wikipedia semplicemente non è l’accademia e il suo funzionamento – in modo estremamente legittimo – funziona diversamente.

6 Wikipedia è un posto in cui un numero quasi ingestibile di persone arriva con il semplice obiettivo di parlare di sé, di usare il sito come una vetrina o per vandalizzare, distruggere e screditare. Una delle cinque regole che lei definisce vaga dice in realtà una cosa piuttosto precisa: presumi la buona fede. E questo deve valere per tutti: per i wikipediani che sognano contributori che vengono a migliorare gli articoli senza avere l’obiettivo di parlare di sé, della propria azienda, della propria setta o del proprio gruppo musicale; e per gli esperti che devono avere fiducia che magari gli errori su Wikipedia ci sono perché nessuno li ha ancora corretti.

7 In effetti il problema non è che ci siano degli errori su Wikipedia, ma è trovare il modo in cui chi ha la competenza e l’interesse a correggerli riesca ad interagire con la più importante fonte di sapere contemporanea. Perché Wikipedia ha già vinto: con il suoi

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500 milioni di lettori in 280 versioni linguistiche è inutile disquisire sulla sua autorialità; quello che bisogna affrontare è come migliorarla non citando noi stessi (con le varie declinazioni del “voi non sapete chi sono io”) né i nostri articoli, ma garantendo che le voci di Wikipedia citino quelli di altri studiosi. E mi permetta di dire che questo stesso suo articolo presenta esattamente lo stesso peccato (tra l’altro non apprezzato nemmeno nel mondo accademico): cita pochissimi altri autori (De Luna; Talia; Filipaz, 2016; Bourbaki, 2016 tra l’altro citata come collaboratrice nell’articolo) e nessuna ricerca internazionale. Il sito http://wikipapers.referata.com offre molto materiale sulle pubblicazioni che analizzano Wikipedia e credo che possa essere utile per arricchire questo articolo fare riferimento alle analisi comparative sulle voci di Wikipedia (particolarmente interessanti rispetto al suo caso le divergenze tra articoli in diverse lingue), sul funzionamento della comunità di Wikipedia e in particolare sulle comunità interessate alla storia e alla storia militare. Consiglio in particolare l’articolo di Richard Jensen del 20122 che è interessante per il coinvolgimento attivo dell’autore stesso rispetto all’articolo che analizza e per la cristallina analisi delle fonti e dell’approccio ai temi, in sintonia con le osservazioni del suo testo.

8 Concordo perfettamente che Wikipedia sia un ottimo terreno per attività didattiche basate sull’analisi delle criticità contenute nelle voci ed è già uno strumento ampiamente usato nelle scuola proprio per questo motivo. Non c’è poi come scrivere una voce di Wikipedia per capirne il funzionamento e per diventarne dei lettori molto più coscienti: per questo in moltissimi paesi del mondo gli insegnanti coinvolgono i loro studenti nella redazione di articoli (tra l’altro spesso letti da milioni di persone)3.

9 La nostra conoscenza è sempre piena di errori. Un tempo misuravamo i crani degli esseri umani per catalogarli: ci sbagliavamo e ricordarci continuamente che le nostre fonti di conoscenza (anche le più autorevoli) sono fallaci ci fa bene. Il bello di Wikipedia è che sappiamo che può contenere errori, ci permette di correggerli e ognuno di noi ne è responsabile. Si può correggere un pdf e caricarlo su Wikimedia Commons, può scrivere un articolo per commentare una voce, si può diventare un wikipediano: sono diversi i modi per contribuire a migliorare Wikipedia, ma credo che l’obiettivo non sia denunciarne il malfunzionamento e gli errori, ma continuare a trovare il modo per correggerli.

NOTE

1. URL: < https://meta.wikimedia.org/wiki/ Research:Wikipedia_Primary_School_SSAJRP_programme/Review > [consultato il 14 marzo 2017]. 2. JENSEN, Richard, «History on the Electronic Frontier: Wikipedia Fights the War of 1812», in The Journal of Military History, 76, 4/2012, pp. 523-556, URL: < http://wikipapers.referata.com/wiki/ Military_History_on_the_Electronic_Frontier:_Wikipedia_Fights_the_War_of_1812 > [consultato il 14 marzo 2017]; URL: < http://www.americanhistoryprojects.com/downloads/JMH1812.PDF > [consultato il 15 marzo 2017]. 3. URL: < https://outreach.wikimedia.org/wiki/Education > [consultato il 14 marzo 2017].

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RIASSUNTI

Quale rapporto si sta costruendo fra le scienze storiche e Wikipedia? Come bisogna porsi di fronte alle voci di Wikipedia che trattano di storia? Quale potrà essere il ruolo della futura “enciclopedia libera” per lo studio e l’insegnamento della storia? A partire dall’analisi di alcune voci di Wikipedia operata dal gruppo di lavoro “Nicoletta Bourbaki”, sei autori animano una tavola rotonda sul rapporto tra l’enciclopedia libera e il mondo della storia.

What kind of relationship do the historical sciences have with Wikipedia? How should a reader approach Wikipedia articles dealing with history? What role will the upcoming “free encyclopedia” play in the study and teaching of history? Starting from an analysis on some Wikipedia’s article performed by the “Nicoletta Bourbaki” working group, six authors animate a panel discussion on the relationship between the free encyclopedia and history.

INDICE

Parole chiave : insegnamento della storia, public history, scienze storiche, storiografia, Wikipedia Keywords : historical sciences, historiography, history teaching, public history, Wikipedia

AUTORE

IOLANDA PENSA

Iolanda Pensa è ricercatore alla SUPSI Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana. È stata direttore scientifico di “WikiAfrica: Aumentare la qualità e quantità dei contenuti africani su Wikipedia” e “Share Your Knowledge: Creative Commons e Wikipedia per le istituzioni culturali” e principal investigator dei progetti di ricerca “Il paesaggio culturale alpino su Wikipedia”, “Fondazioni svizzere e licenze aperte” e “Wikipedia Primary School”. È un contributore di Wikipedia dal 2006, socio di Wikimedia Italia e Wikimedia CH, attiva nell’organizzazione del concorso Wiki Loves Monuments, e responsabile generale di “Wikimania Esino Lario” il raduno mondiale di Wikipedia sulle Alpi a giugno 2016. È una storica dell’arte e ha due titoli di dottorato, uno in antropologia sociale all’EHESS di Parigi e l’altro in governo e progettazione del territorio al Politecnico di Milano; il suo interesse di ricerca sono i sistemi di produzione e distribuzione del sapere, con un’attenzione particolare a biennali e festival internazionali, arte contemporanea africana, arte pubblica, interfacce innovative e geografia dell’informazione (http://iopensa.it). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Pensa >

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Wikipedia è poco affidabile? La colpa è anche degli esperti

Cristian Cenci

Gentile redazione, vorrei precisare che le opinioni contenute nel seguente saggio sono a titolo personale e possono non corrispondere alle opinioni dell’associazione Wikimedia Italia. Cordiali saluti, Cristian Cenci

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1 Scrivere di storia su Wikipedia è un processo stimolante e interessante. Per affrontarlo, però, è necessario armarsi di molta pazienza perché Wikipedia è sicuramente un progetto con un nobile scopo ma che non scampa ad alcune delle dinamiche più frequenti del web. Anzi, occupandosi di cultura ed essendo per sua natura un progetto collaborativo, essa può diventare un’arena di scontro ideologico quando si inizia a trattare di argomenti sensibili, come possono essere quelli a sfondo storico.

2 La comunità di Wikipedia in italiano può contare in media su un migliaio di utenti attivi1, cioè utenti registrati che hanno effettuato almeno qualche modifica nell’ultimo mese, ma questo numero ridotto di fatto limita l’ampiezza e la competenza che è possibile raggiungere in un’enciclopedia che tende ad abbracciare moltissime branche della conoscenza umana.

3 Le voci di alcuni argomenti di storia sono sicuramente tra quelle che stuzzicano il maggiore interesse tra i wikipediani, ed infatti alcuni temi vantano un’ampiezza ed un livello di approfondimento notevole. Basta, ad esempio, soffermarsi sulle voci dei due conflitti mondiali per notare il grande numero di articoli correlati che trattano finanche di battaglie e situazioni minori delle quali il pubblico generalista non ha mai nemmeno sentito parlare. Ed è proprio il target di pubblico che per primo differenzia l’enciclopedia online dalle riviste specialistiche: Wikipedia è il sesto sito più visitato al mondo2 e in Italia3, e come tale è la prima fonte di informazioni strutturate ad essere consultata dai fruitori del web. Come rendere, quindi, il più competente possibile l’analisi storica degli articoli senza compromettere né lo spirito collaborativo dell’enciclopedia né il rigore scientifico degli studi storici?

4 Per cercare di capire lo stato degli argomenti di storia su Wikipedia si può partire dalla voce “Storia del Trentino”4. La pagina in questione è un esempio abbastanza evidente di problemi legati alla lettura storica su Wikipedia, in quanto presenta “buchi” di diversi secoli, “dimenticanze” strategiche ma, soprattutto, una visione parziale e strumentale nell’analisi dei fatti che hanno interessato questa terra di confine a partire dalla metà del XIX secolo. Un approfondimento sulla questione era già stato fatto da Tommaso Baldo nel suo articolo del 2015 «I “45 cavalieri” di Wikipedia, da chi e cosa è libera l’enciclopedia libera?”»5. Dando un’occhiata alla Cronologia6 della voce, inoltre, si nota come essa sia appannaggio di pochi utenti, i “soliti noti” a presidio dei contenuti, che di fatto creano un oligopolio attraverso il quale passa il vaglio di qualsiasi possibilità di modifica.

5 Il caposaldo principale di Wikipedia sono le fonti. L’enciclopedia online, infatti, si autodefinisce una fonte secondaria o, più frequentemente, terziaria7, che riporta solamente informazioni già pubblicate altrove e generalmente accettate dalla comunità scientifica. Questa, di per sé, è un’ottima cosa, ma rende molto lento e frammentato il dibattito storico, soprattutto in uno strumento collaborativo e non specialistico come Wikipedia. Nello specifico della voce presa ad esempio, le proposte di modifica che riguardano argomenti minori o non propriamente canonici (ma che hanno iniziato ad essere accettati e divulgati grazie a più recenti studi storici) non vengono accettate e,

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peggio ancora, gli utenti proponenti vengono accusati di essere “austriacanti” (o fascisti/comunisti/nazionalisti/meridionalisti/etc., in base al tema).

6 Perché? Perché le nuove tesi, magari già accettate dagli esperti, vanno a cozzare con le fonti preesistenti: dalle enciclopedie cartacee ai sussidiari, dai siti web alla retorica nazionalista, la storiografia sedimentata crea un muro invalicabile di bibliografia, del tutto insensibile a qualsiasi discussione.

7 Il problema più importante è che il dibattito storico su Wikipedia è profondamente conservatore, frutto di una visione del passato ormai consolidata, dove molte proposte “nuove” vengono tacciate di revisionismo. Soluzioni? Bisogna convincere gli storici di professione a scrivere su Wikipedia, sia per innalzare il livello di qualità delle voci sia per superare il conservatorismo che contraddistingue l’enciclopedia libera.

8 Da molti anni Wikimedia Italia8, corrispondente italiana della Wikimedia Foundation9 (fondazione no profit americana “proprietaria” di Wikipedia), sta intraprendendo la strada della collaborazione con le istituzioni GLAM10, acronimo formato dalle parole Galleries, Libraries, Archives e Museums. Dietro a queste sigle si raccolgono tutti i progetti, gli eventi, i corsi di formazione e gli accordi di vario genere che il “mondo Wikimedia” ha intrapreso con le istituzioni culturali per portare i professionisti su Wikipedia e contribuire ad innalzare progressivamente la qualità delle voci.

9 Le collaborazioni più immediate sono le edit-a-thon11, cioè maratone di modifica svolte nelle istituzioni culturali (musei e biblioteche in primis) con la partecipazione degli operatori della struttura. Questi eventi permettono di mettere in contatto i due mondi, quello dei wikipediani e quello dei professionisti del settore, ottenendo due risultati: da un lato i volontari dell’enciclopedia hanno la possibilità di affrontare argomenti specialistici in presenza di un corpus di fonti attendibili e con il supporto degli esperti e dall’altro gli operatori del museo hanno la possibilità di conoscere i meccanismi di Wikipedia direttamente da chi vi scrive, ricevendo di fatto una prima formazione.

10 Di eventi di questo tipo se ne svolgono da molti anni in tutto il mondo (al museo Soumaya di Città del Messico nel giugno del 2016 se n’è svolto uno di ben 72 ore12!) ed anche in Italia si stanno diffondendo grazie all’interessamento sempre maggiore da parte delle istituzioni culturali; l’ultima maratona, dalla forte risonanza mediatica, si è svolta il 20 e il 21 gennaio 2017 presso la Galleria degli Uffizi di Firenze13.

11 Il livello di coinvolgimento tra “i progetti wiki” e le istituzioni culturali aumenta sensibilmente nel momento in cui viene avviato un progetto di Wikipediano in residenza14. Questa attività consiste in un periodo di permanenza di un wikipediano presso la sede dell’ente in modo che possa essere avviata una profonda collaborazione. Il wikipediano ha innanzitutto il compito di “portare” su Wikipedia l’istituzione e le sue peculiarità, servendosi del materiale a disposizione come fonti per l’ampliamento di numerose voci correlate agli argomenti scientifici o umanistici che rappresentano la missione divulgativa della struttura. Altra attività importante che deve essere svolta dalla figura del wikipediano in residenza è quella della formazione interna, che può essere svolta in maniera reiterata ed approfondita e non solo “spot” come avviene con le maratone di scrittura. La completa collaborazione dell’istituzione e del suo personale è fondamentale per la buona riuscita della residenza, considerando anche la necessaria assistenza per tutte le possibili questioni legate ai diritti d’autore.

12 In Italia non mancano di sicuro i musei dedicati alla storia moderna e contemporanea, ma finora i contatti tra i due mondi sono stati sporadici. Le possibilità e le potenzialità,

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però, ci sono e sono evidenti. Le fondazioni storiche, inoltre, potrebbero essere dei partner molto preziosi in un altro settore nel quale Wikimedia Italia sta investendo una parte sensibile delle proprie risorse, e cioè quello delle scuole15.

13 I contatti con il mondo dell’istruzione si stanno facendo sempre più frequenti, con gli istituti scolastici che si dimostrano sempre più desiderosi di portare Wikipedia fra i propri banchi. In questo modo gli studenti hanno la possibilità di apprendere meglio il funzionamento di uno strumento che generalmente utilizzano in maniera passiva, facendo solo “copia-incolla” quando devono svolgere delle ricerche. L’obiettivo formativo finale di questo genere di corsi, però, non è tanto quello di creare nuove voci bensì quello di riuscire ad instillare la scintilla dell’analisi critica dei fatti e delle fonti: obiettivo, questo, che non è molto diverso da quello che dovrebbe animare il lavoro di ricerca di ogni buon storico.

14 Se il caposaldo di Wikipedia sono le fonti, è proprio in questo ambito che l’intervento degli storici sarebbe fondamentale per innalzare la qualità del dibattito. Un progetto parallelo ma molto importante è Wikisource16, la biblioteca digitale e multilingue contenente testi in pubblico dominio o con licenze libere. Esso è molto apprezzato dal mondo bibliotecario, ed infatti sono in corso numerosi progetti di digitalizzazione di libri ed immagini, soprattutto antichi; questo è il modo più diretto ed immediato per rendere disponibili le fonti per future ricerche e analisi.

15 Ciò che più conta, però, è che gli storici (come anche gli esperti di altre discipline) inizino finalmente a superare le proprie resistenze nei confronti di Wikipedia e che inizino a partecipare al suo sviluppo. Perché solo grazie a loro, e alle loro più recenti ricerche e pubblicazioni, sarà possibile superare l’immobilismo che finora regna negli articoli di storia dell’enciclopedia online più famosa del mondo e per far sì che, almeno su Wikipedia, l’analisi storica possa contare su una visione più ampia dei fatti prescindendo dall’atavica contrapposizione tra vincitori e vinti.

NOTE

1. Statistiche di Wikipedia, URL: < https://stats.wikimedia.org/IT/Sitemap.htm > [consultato il 7 febbraio 2017]. 2. «The top 500 sites on the web», in Alexa, URL: < http://www.alexa.com/topsites > [consultato il 7 febbraio 2017]. 3. «Top Sites in Italy», in Alexa, URL: < http://www.alexa.com/topsites/countries/IT > [consultato il 7 febbraio 2017]. 4. «Storia del Trentino», in it.wikipedia.org, URL: < https://it.wikipedia.org/wiki/ Storia_del_Trentino > [consultato il 5 febbraio 2017] 5. BALDO, Tommaso, «I “45 cavalieri di Wikipedia”, da chi e da che cosa è libera l’enciclopedia libera?», in Giap, URL: < http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=22562 > [consultato il 31 gennaio 2017]. 6. Cronologia della voce «Storia del Trentino», in it.wikipedia.org, URL: < https://it.wikipedia.org/ w/index.php?title=Storia_del_Trentino&offset=&limit=500&action=history > [consultato il 7 febbraio 2017].

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7. «Wikipedia:Niente ricerche originali», in it.wikipedia.org, URL: < https://it.wikipedia.org/wiki/ Wikipedia:Niente_ricerche_originali > [consultato il 7 febbraio 2017]. 8. Wikimedia Italia, URL: < http://www.wikimedia.it > [consultato il 8 febbraio 2017] 9. Wikimedia Foundation, URL: < https://wikimediafoundation.org/wiki/Home > [consultato il 8 febbraio 2017]. 10. «GLAM», in Wikimedia Italia, URL: < http://www.wikimedia.it/glam > [consultato il 20 febbraio 2017]. 11. «Edit-a-thon», in en.wikipedia.org, URL: < https://en.wikipedia.org/wiki/Edit-a-thon > [consultato il 19 febbraio 2017]. 12. CRUZ Y CORRO, Andrés, LÓPEZ, María Fernanda, «Wikipedia edit-a-thon, 72 hours long, is recognized with a Guinness World Record», in blog.wikimedia.org, URL: < https:// blog.wikimedia.org/2016/07/22/mexico-soumaya-rodin > [consultato il 19 febbraio 2017]. 13. «Editathon agli Uffizi», in it.wikipedia.org, URL: < https://it.wikipedia.org/wiki/ Wikipedia:Raduni/Editathon_agli_Uffizi > [consultato il 19 febbraio 2017]. 14. «Wikipediano in residenza», in it.wikipedia.org, URL: < https://it.wikipedia.org/wiki/ Progetto:GLAM/Wikipediano_in_residenza > [consultato il 19 febbraio 2017]. 15. «Wikipedia va a scuola», in Wikimedia Italia, URL: < http://www.wikimedia.it/cosa-facciamo/ progetti-le-scuole > [consultato il 20 febbraio 2017]. 16. «Wikisource in italiano», in it.wikisource.org, URL: < https://it.wikisource.org/wiki/ Pagina_principale > [consultato il 20 febbraio 2017].

RIASSUNTI

Quale rapporto si sta costruendo fra le scienze storiche e Wikipedia? Come bisogna porsi di fronte alle voci di Wikipedia che trattano di storia? Quale potrà essere il ruolo della futura “enciclopedia libera” per lo studio e l’insegnamento della storia? A partire dall’analisi di alcune voci di Wikipedia operata dal gruppo di lavoro “Nicoletta Bourbaki”, sei autori animano una tavola rotonda sul rapporto tra l’enciclopedia libera e il mondo della storia.

What kind of relationship do the historical sciences have with Wikipedia? How should a reader approach Wikipedia articles dealing with history? What role will the upcoming “free encyclopedia” play in the study and teaching of history? Starting from an analysis on some Wikipedia’s article performed by the “Nicoletta Bourbaki” working group, six authors animate a panel discussion on the relationship between the free encyclopedia and history.

INDICE

Parole chiave : insegnamento della storia, public history, scienze storiche, storiografia, Wikipedia Keywords : historical sciences, historiography, history teaching, public history, Wikipedia

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AUTORE

CRISTIAN CENCI

Cristian Cenci è laureato in Economia e Gestione dell’Ambiente e del Turismo presso l’Università degli Studi di Trento. Si avvicina al mondo di Wikipedia nel 2007; dal 2015 è membro dello staff di Wikimedia Italia in quanto project manager di Wiki Loves Monuments, concorso fotografico internazionale dedicato alla salvaguardia dei beni culturali. Come volontario dei progetti Wikimedia ricopre il ruolo di coordinatore regionale per il Trentino-Alto Adige/Südtirol. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Cenci >

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Danzica e le guerre wikipediane Qualche osservazione sulle edit wars

Jacopo Bassi

Il ricordo ama giocare a nascondino come i bambini. Si rintana. È incline all’adulazione e gli piace abbellire, spesso senza necessità. Contraddice la memoria, che si comporta con pedanteria e vuole avere litigiosamente ragione. Se viene molestato con domande, il ricordo assomiglia a una cipolla che vorrebbe essere sbucciata perché, carattere dopo carattere, possa venire allo scoperto quanto c’è di leggibile: di rado univoco, spesso in scrittura a specchio o comunque enigmaticamente confuso1. Günther Grass, Sbucciando la cipolla

1. Una città affacciata sul Baltico

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1 In un recente libro dedicato a Wikipedia2, Dariusz Jemielniak, professore di Economia gestionale alla Akademia Leona Koźmińskiego di Varsavia passa in rassegna una delle maggiori edit wars wikipediane: quella sorta intorno alla definizione da assegnare alla voce di Wikipedia in lingua inglese dedicata alla città polacca. Jemielniak è un contributore e un amministratore dell’enciclopedia libera, dunque un conoscitore profondo della materia. La controversia intorno al nome – datata al 2004 – oppose due diverse fazioni: quella che intendeva impiegare il nome tedesco della città, “Danzig”, e quella che optava per il nome polacco, “Gdansk”. La votazione venne tenuta aperta per circa tre settimane3. Gli organizzatori della consultazione decisero di suddividere la consultazione in dieci distinte domande4, che potessero permettere di ottenere, ad esempio, risposte differenti a seconda dell’epoca presa in esame. I dati della votazione offrono diversi spunti di riflessione. Anzitutto bisogna premettere che al voto furono ammessi i soli utenti con un alto numero di modifiche all’attivo5: dunque tutti gli utenti con poche modifiche e gli utenti anonimi vennero esclusi dalla votazione.

2 Le decisioni prese avrebbero avuto un valore dirimente e di indirizzo per orientare le future decisioni in merito alla questione del nome della città: di fatto quanto emerso con la votazione avrebbe avuto il valore non solo di linea guida ma avrebbero permesso, successivamente al voto, di trattare eventuali modifiche relative al nome (e non conformi a quanto deciso) alla stregua di veri e propri vandalismi6. Il numero di votanti ammessi ad esprimere il proprio giudizio sulle singole questioni, mediamente, si aggirò intorno alla settantina di utenti.

2. Danzig o Gdánsk? La questione del nome tra scelta autoriale e “questione democratica”

3 La questione del nome può sembrare marginale, ma non lo è. Quando l’autore di un opera – o, nel caso specifico, di una voce di enciclopedia – decide di adottare una definizione in luogo di un’altra, compie una scelta. E questa scelta presuppone un orientamento e una presa di posizione che, normalmente, sono giustificati. Demandare la scelta ad un gruppo di persone – scelte sulla base di un criterio eminentemente partecipativo e di una partecipazione quantitativa e non qualitativa – può sembrare rassicurante e, per certi versi, come una garanzia contro possibili decisioni estremiste o politicamente orientate.

4 L’obiezione più ovvia che si può muovere a questo modus operandi è che instaurare una dittatura della maggioranza non rappresenti una garanzia della scientificità del testo:

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una decisione presa attraverso un sondaggio fra gli utenti di rank superiore non fornisce una garanzia della loro competenza in materia; semmai fornisce assicurazioni circa la loro dedizione verso il progetto Wikipedia.

5 Demandare decisioni di questo tipo agli utenti “non addetti ai lavori” può portare a leggere – come nel caso già citato della pagina di discussione su Danzica – giustificazioni come questa: «la maggior parte dei libri in inglese impiega il termine […]». Quel che invece interessa del lavoro dello storico ad un altro storico è la ragione in base a cui vengono operate determinate scelte o quali siano le fonti che lo conducono a prediligere un’interpretazione in luogo di un’altra, non la scelta in sé.

6 L’ostilità verso una posizione politica avversa o persino nei confronti di un altro utente è, come sottolinea Tommaso Baldo, in qualche modo inevitabile. Ma a questo non sfugge neppure la letteratura scientifica, che è costellata di controversie storiche e storiografiche. Ciò in cui differisce il meccanismo di azione di Wikipedia è nella possibilità di cancellare quanto scritto da un altro utente. Si può obiettare che esistano strumenti atti a impedire il fatto che questa eliminazione avvenga in modo sistematico: la 3RR (Three Revert Rule)7, ad esempio è una norma prevista per impedire le edit wars8. Di fatto non vi sono garanzie circa la risoluzione “pacifica” e consensuale di un conflitto; contro la libido emendandi – o delendi! – di alcuni utenti è stato necessario mettere a punto meccanismi di espulsione.

7 La guerra di modifiche può dar luogo ad un ulteriore fenomeno, non meno spiacevole, ma che rientra nel complesso dei pro e dei contro dell’enciclopedia libera. Qualcuno potrebbe leggere una voce di Wikipedia nel bel mezzo di una edit wars e decidere di citarla o, più semplicemente, fare riferimento alle informazioni in essa contenute. In quanto oggetto in divenire, l’utente potrebbe non riconoscere più ciò che ha letto se dovesse tornare a visitare quella voce dopo un’eliminazione totale (uno di quei revert che vengono operati proprio in occasione delle edit wars).

8 Quello del nome di Danzica – caso peraltro non isolato9 – e più in generale della denominazione delle voci è solo un esempio paradossale, ma che permette di introdurre un altro tema, fondamentale per il mestiere di storico.

9 Decidere di denominare un evento, un luogo o qualsiasi voce in un modo invece che in un altro ha, infatti, un peso rilevante. Denota una scelta precisa, che è – a volte – programmatica di quanto si dirà della voce presa in analisi. Un altro esempio interessante citato da Tommaso Baldo è quello dell’attacco partigiano di via Rasella. Pur non condividendo le tesi di Alberto Lancia10 circa l’esistenza di una «cricca wikipediana» dedita a ostracizzare chiunque sostenga una tesi revisionista11, è indubbio che definire “attentato di via Rasella”, “fatti di via Rasella” o “strage di via Rasella” il medesimo evento non sia la stessa cosa. È per questa ragione che l’autorialità, di norma, permette di ricondurre una scelta (lessicale, terminologica, storica o politica) ad una persona e alla sua interpretazione degli eventi.

10 Come si può, dunque, conservare traccia della pluralità delle voci degli utenti che hanno contribuito a creare la voce?

3. I cartelli fuori dalla chiesa, le lapidi dentro la chiesa

11 Immaginiamo un turista in visita a Danzica che abbia già esaurito il tempo a sua disposizione e che giunga davanti alla Chiesa di San Nicola. Se restasse fuori dalla porta

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limitandosi a leggere solo il cartello che campeggia sulla facciata della chiesa, in polacco o, tutt’al più, accompagnato da qualche riga in una lingua franca (inglese, francese, …) impiegata per fornire un’informazione turistica, non si farebbe mai l’idea della stratificazione di lingue, culture e confessioni che potrà trovare all’interno delle mura della chiesa. Penserebbe in primo luogo di trovarsi di fronte a una chiesa polacca, in Polonia. All’interno, una serie di lapidi, in latino e in tedesco, testimonia invece meglio di mille parole la ricchezza e la complessità della vita – religiosa e non – in una città come Danzica, tedesca e polacca, cattolica e luterana in epoche diverse e contemporaneamente.

12 L’approccio alla voce di Wikipedia è, normalmente, quello del turista che ha terminato il tempo a sua disposizione per la visita: non ci soffermiamo sulla stratificazione di discussioni, eliminazioni, riscritture del testo, limitandoci a leggere la voce. E la voce non è il prodotto di una autorialità definita: è l’effetto di una delle principali regole wikipediane, la ricerca del punto neutro fra posizioni differenti.

13 Quello che manca, per quanto auspicato dai wikipediani12, è la capacità di dare visibilità a tutti i punti di vista, non riducendoli ad un’unica visione neutrale. Wikipedia è un’enciclopedia e come tale non può avere l’ambizione di un saggio storico; quel che sarebbe auspicabile, però, è la nascita di una coscienza critica nei redattori, attenta a dare spazio a tutte le correnti o a tutte le interpretazioni possibili di un evento storico. Quel che bisognerebbe privilegiare è la compresenza delle interpretazioni, non la scomunica reciproca, che vedrà necessariamente prevalere un’interpretazione “maggioritaria” o reticente, tale da consentire una sua accettazione unanime. La riduzione della pluralità ad un unico punto – per quanto neutro e mediano – non favorisce la ricerca storica, ma declina verso la costituzione di un pensiero unico. A dispetto di quanto prescritto dalle regole di wikipedia, il punto di vista neutrale sembra essersi trasformato nel punto di vista unico. Far risaltare questa pluralità di visioni sarebbe utile anche e soprattutto per l’utente non addetto ai lavori, che potrebbe così vedere con i propri occhi come la voce che sta ricercando non riconduca ad un’unica e incorruttibile verità, ma come esistano interpretazioni differenti dello stesso fatto.

4. Danzica, Europa

14 Il progetto europeo – seppure attualmente l’UE attraversi una fase di grande difficoltà – ha saputo promettere agli abitanti dei paesi che sono entrati a farne parte, la creazione di una nuova identità inclusiva e che, almeno nelle intenzioni, voleva superare l’idea di Stato-nazione.

15 Se l’idea di Europa potrà effettivamente contribuire all’abbandono delle ideologie nazionalistiche è presto per dirlo, ma l’idea di poter proporre una definizione inclusiva all’interno di una storia più vasta, quella europea, per la città di Danzica sembra essere un buon viatico per un confronto ricco di voci e di interpretazioni non oppositive, ma complementari.

16 Anche per quel che riguarda Wikipedia è ancora presto (è nata solo nel 2001) per dire quale sia la direzione che sta prendendo il suo corso e, soprattutto, quale sia la dimensione prevalente di utilizzo che si sta sviluppando.

17 L’avvento di Wikipedia ha avuto il pregio di stimolare una dimensione partecipativa negli utenti/lettori, sino ad allora passivi. Questo fenomeno presenta pro e contro, ma

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soprattutto impone una riflessione su alcuni aspetti, che potrebbero rivelarsi decisivi nell’evoluzione dell’enciclopedia libera (e soprattutto dell’uso che se ne fa) nei prossimi anni.

18 Il primo punto su cui bisogna soffermarsi, come sottolinea Baldo, è la formazione di uno spirito critico nei lettori/utenti di Wikipedia. Aggiungerei, rispetto a quanto da lui affermato, che questo spirito critico dovrà rivolgersi non solo verso l’uso delle fonti nell’enciclopedia libera, ma anche a fornire gli strumenti per analizzare Wikipedia in quanto fonte. Ovvero a smaliziare l’utente di fronte a una voce dell’enciclopedia: consultare la cronologia della stessa, vedere quanti e quante volte sono intervenuti, etc… Tutto questo tenendo conto dei limiti che vengono posti alla sua indagine: il possibile anonimato degli estensori delle voci, l’impossibilità di fare affidamento su un’autorialità che sia “garanzia” dell’affidabilità, etc…

19 In secondo luogo, pur senza sposare teorie complottiste, bisogna tenere in conto la grande influenza che Wikipedia è in grado di avere sull’opinione pubblica13. Sono già numerosi i casi di modifiche o vandalismi di voci di Wikipedia volte a danneggiare politicamente, ad esempio, personalità politicamente attive. Esiste una questione di fondo (chi amministra e controlla l’ “enciclopedia libera”?), ma anche un problema di verifica dei contenuti a livello delle singole voci. Converrebbe forse allora cambiare il modo in cui consideriamo wikipedia. È un dato di fatto che nel corso degli ultimi due decenni le Social Network Analysis si siano faticosamente imposte anche all’attenzione degli storici, seppur ancora prevalentemente nel campo della storia quantitativa14. A dispetto della sua definizione di enciclopedia, Wikipedia non è – di fatto – un’enciclopedia per come la conosciamo: le sue caratteristiche, che rendono possibile una modifica costante e un’interazione tra gli utenti, la sua partecipazione condivisa (e non specialistica), ne fanno uno strumento più vicino a un social network che a un’enciclopedia “classica”. L’uso che se ne può fare e la qualità delle voci variano in funzione dello zelo e della perizia degli estensori delle voci.

20 L’importante è essere consci dello strumento che si utilizza.

NOTE

1. GRASS, Günther, Sbucciando la cipolla, Torino, Einaudi, 2007, p. 4. 2. JEMIELNIAK, Dariusz, Common knowledge? An ethnography of Wikipedia, Stanford, Stanford University Press, 2014. 3. «Gdansk or Danzig» in Wikipedia, URL: < https://en.wikipedia.org/wiki/ Wikipedia:Wikipedia_Signpost/2005-02-21/Gdansk_or_Danzig > [consultato il 6 febbraio 2016]. 4. «Talk: Gdansk/Vote», in Wikipedia, URL: < https://en.wikipedia.org/wiki/Talk:Gdansk/Vote > [consultato il 6 febbraio 2017]. 5. «Numero di modifiche», in Wikipedia, URL: < https://it.wikipedia.org/wiki/ Wikipedia:Numero_di_modifiche > [consultato il 6 febbraio 2017]. 6. Per la questione dei vandalismi, si veda How wikis work, URL: < http:// computer.howstuffworks.com/internet/basics/wiki3.htm > [consultato il 1 febbraio 2017]. 7. https://en.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Three_revert_rule_enforcement

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8. https://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Guerra_di_modifiche 9. HUNT, Pete, «China and Japan’s Wikipedia War», in Foreign Policy, 5 febbraio 2013, URL: < http://foreignpolicy.com/2013/02/05/china-and-japans-wikipedia-war/ > [consultato il 6 febbraio 2017]. 10. LANCIA, Alberto, «Prove false e diffamazione per imporre la vulgata in Wikipedia», in Storia in rete, URL: < http://www.storiainrete.com/3795/stampa-italiana-2/diffamazione-e-prove-false- per-imporre-vulgata-wikipedia/ > [consultato il 6 febbraio 2017]. 11. Nello specifico il riferimento è a Emanuele Mastrangelo, autore (assieme a Enrico Petrucci), di un saggio su wikipedia: il libro contiene un attacco di accusa nei confronti della realtà wikipediana italiana, accusata di essere controllata da un gruppo ideologicamente schierato a sinistra. MASTRANGELO, Emanuele, PETRUCCI, Enrico, Wikipedia. L’enciclopedia libera e l’egemonia dell’informazione, Milano, Bietti, 2014. 12. «Wikipedia: Punto di vista neutrale», URL: < https://it.wikipedia.org/wiki/ Wikipedia:Punto_di_vista_neutrale > [consultato il 5 febbraio 2017] . 13. GRINSTED, Daniel, «Die Lotsen bleiben an Bord. „Edit-War“ auf Wikipedia», in Frankfurter Allgemeine Zeitung, 11 febbraio 2011, URL: < http://www.faz.net/aktuell/feuilleton/medien/edit- war-auf-wikipedia-die-lotsen-bleiben-an-bord-16331.html > [consultato il 6 febbraio 2017]. 14. WETHERELL, Charles, «Historical Social Network Analysis», in International Review of Social History, Supplement, 43, 1998, pp. 125-144; PRELL, Christina, Social Network Analysis: History, Theory and Methodology, Los Angeles-London, Sage, 2011.

RIASSUNTI

Quale rapporto si sta costruendo fra le scienze storiche e Wikipedia? Come bisogna porsi di fronte alle voci di Wikipedia che trattano di storia? Quale potrà essere il ruolo della futura “enciclopedia libera” per lo studio e l’insegnamento della storia? A partire dall’analisi di alcune voci di Wikipedia operata dal gruppo di lavoro “Nicoletta Bourbaki”, sei autori animano una tavola rotonda sul rapporto tra l’enciclopedia libera e il mondo della storia.

What kind of relationship do the historical sciences have with Wikipedia? How should a reader approach Wikipedia articles dealing with history? What role will the upcoming “free encyclopedia” play in the study and teaching of history? Starting from an analysis on some Wikipedia’s article performed by the “Nicoletta Bourbaki” working group, six authors animate a panel discussion on the relationship between the free encyclopedia and history.

INDICE

Keywords : historical sciences, historiography, history teaching, public history, Wikipedia Parole chiave : insegnamento della storia, public history, scienze storiche, storiografia, Wikipedia

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AUTORE

JACOPO BASSI

Jacopo Bassi ha conseguito la laurea specialistica in Storia d’Europa presso l’Università degli Studi di Bologna. Nel corso dei suoi studi si è occupato di storia della Grecia e dell’Albania in età contemporanea e di storia e istituzioni della Chiesa ortodossa. Ha lavorato per le case editrici Éditions des femmes, Il Mulino e Zanichelli. URL: < http://www.studistorici.com/2009/02/24/jacopo_bassi/ >

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Considerazioni conclusive Riflessioni sulla narrazione storica nelle voci di Wikipedia

Tommaso Baldo

Vi consiglio salutare serenamente e con rispetto Chi come moneta infida pesa la vostra parola! Bertold Brecht, L’ode al dubbio1

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1 Quanto ho scritto partiva dall’esperienza diretta di analisi dei meccanismi e dei contenuti di it.Wiki elaborata all’interno del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Cercherò qui di tirare le fila, in primo luogo chiarendo meglio il mio pensiero laddove temo di esser stato frainteso o di essermi espresso male e cercando di valorizzare il più possibile le prospettive di analisi e di lavoro emerse dal dibattito. Il testo di Pereira è quello che mi ha aiutato di più a comprendere le contraddizioni e i limiti di quanto avevo scritto. Io non ritengo che i contributori di Wikipedia possano limitarsi a scrivere le proprie opinioni senza alcuna attenzione alla «verità fattuale»; ho piuttosto elencato una serie di casi documentati di uso delle fonti capzioso, superficiale o intellettualmente disonesto. Nella maggior parte dei casi questo è potuto accadere grazie ai rapporti di potere e/o vicinanza/ostilità che si creano in una comunità ristretta e grazie ad un’interpretazione burocratica o strumentale delle regole che la comunità wikipediana si è data.

2 Concordo assolutamente con Pereira nel ritenere che «l’Enciclopedia Libera» sia assolutamente utile per riflettere sui paradossi della storiografia professionale. Ad esempio come gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki, analizzando le narrazioni sulla storia del confine orientale, siamo stati egualmente critici sia con alcuni assidui contributori di it.Wiki2 che con due degli storici italiani più noti tra coloro che si sono occupati dell’argomento; per non parlare delle nostre critiche alla stessa narrazione istituzionale connessa al «Giorno del Ricordo»3. Sia ai wikipediani che agli storici abbiamo contestato in fondo la stessa cosa: la lettura della storia delle terre di confine attraverso un frame nazional-identitario che riteniamo non tenga conto della complessità di realtà in cui le appartenenze culturali, linguistiche, sociali ed ideologiche si mescolavano e sovrapponevano.

3 Personalmente non credo affatto all’idea di una storiografia «buona» contrapposta ad una Wikipedia «cattiva». Inoltre, lavorando nella sezione didattica di un museo di una piccola provincia italiana non nutro molte illusioni sul potere o sul ruolo positivo della storiografia o della didattica della storia, direi che in generale si sopravvaluta quanto l’istruzione scolastica o l’attività delle istituzioni culturali possa fare per migliorare la società. Sono inoltre completamente d’accordo con l’idea, enunciata da Pereira, che «molti di coloro che attualmente sono nazionalisti, razzisti, xenofobi e fondamentalisti sono passati da un’educazione scolastica “orientata”, in gran parte, dalla storiografia accademica»4.

4 Anche perché, aggiungo io, le istituzioni statali e una parte della storiografia accademica, anche nei paesi dell’Europa occidentale, si sono dati attivamente da fare affinché la pianta carnivora del nazionalismo non rimanesse priva di nutrimento.

5 Se ho usato però il termine «parodia» per descrivere il dibattito storiografico su it.Wiki è stato proprio perché sull’«Enciclopedia Libera» vi sono i medesimi conflitti di ideali ed interessi che ritroviamo all’interno delle istituzioni culturali ma trasposti ad un livello assai più basso, anche grazie all’utilizzo strumentale delle regole che dovrebbero

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servire ad evitare edit wars senza esclusione di colpi, regole che Jacopo Bassi nel ha ottimamente illustrato suo testo. Personalmente mi auguro che sia l’uso «trinceristico» delle fonti in nota («ho messo la nota e non puoi cancellare quello che ho scritto o è vandalismo»), che l’idea di dare a libri scritti da giornalisti e conduttori di talk show per la TV generalista lo stesso peso dei saggi storici siano per l’appunto considerati parodistici in ambito storiografico.

6 Senza dubbio vi è da parte della società la richiesta «di una conoscenza storica o di un qualche tipo di narrazione relativa a ciò che è avvenuto che pone l’accento sulla continuità» ma non credo sia questa a porre le basi della natura conservatrice, in senso storiografico, della narrazione storica su Wikipedia. Credo infatti che una narrazione storica possa essere al contempo basata sulla continuità, capace di appassionare grazie al ricorso all’aneddotica e alle storie individuali e nel contempo capace di trasmettere l’idea della complessità del reale intrecciando tra loro la storia di genere, quella locale, quella sociale, eccetera, come sta a dimostrare il fatto che esistono (e a volte possono vantare un certo successo) romanzi storici e trasmissioni televisive attenti alle elaborazioni storiografiche e impegnati ad offrire una ricostruzione del passato non semplificata o banale.

7 Riprendo la citazione di Hayden White: «nella misura in cui gli studi storici divengono più scientifici, meno utili si rivelano per qualsiasi finalità pratica come l’educazione dei cittadini per la vita politica»5. Personalmente mi rallegro moltissimo di questo perché sono ben felice che il progresso degli studi storici contribuisca a sabotare il loro utilizzo nell’indottrinamento dei bambini e dei giovani da parte dello stato-nazione. Quando sento parlare di «educazione del cittadino» il pensiero mi corre all’insegnamento di «cultura fascista», elencata assieme alle altre materie sulle pagelle dei miei nonni. Non credo infatti vada educato il cittadino ma piuttosto l’essere umano. Penso che la didattica della storia debba servire a trasmettere quello che Marc Bloch chiamava il «metodo critico»6 in grado di consentire a ciascuno di rapportarsi in modo razionale con le molte storie che sono alla base del suo vissuto. Senza dubbio gli esseri umani hanno bisogno di identità collettive ma non credo che debba essere compito di chi insegna o divulga storia trasmetterle o aiutare a costruirle, eccetto che una: quella basata sull’adesione al «metodo critico». Si tratta in fondo un’identità culturale e civile basata su quelle che Bloch chiamava «le forze della ragione», vale a dire i grandi principi cardine della cultura illuminista, e questa identità è oggi rivoluzionaria quanto lo era ai tempi del grande storico francese perché si contrappone ai fascismi e ai fondamentalismi. Quindi non credo vi sia una crisi del moderno concetto di storia ma un nuovo divampare con maggior forza del conflitto tra «le forze della ragione» e la loro negazione. Questo conflitto non è, non è mai stato, solo culturale, ma anche sociale, politico e militare, come mostra la tragica conclusione della vita di Bloch. E come in ogni conflitto si è in crisi solo se non si ha la forza o la volontà di difendersi.

8 Credo che le inchieste del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki da me citate mostrino chiaramente quale sia oggi uno dei campi di battaglia in questo conflitto; come la narrazione storica indirizzata in senso nazionalista imperante su it.Wiki sia frutto in primo luogo dell’azione di un numero ristretto di individui che agiscono e si coordinano con il fine di perseguire una precisa agenda ideologica. Di recente il problema della presenza di neofascisti che si sono ritagliati un ruolo in posizioni chiave è emerso anche su Wikipedia in lingua tedesca portando all’implosione del suo «comitato di arbitraggio»7.

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9 L’azione di queste minoranze organizzate è di per sé una dinamica che non credo possa stupire. Il problema vero è semmai costituito dal rifiuto di molti wikipediani di prendere atto di ciò in nome della «presunzione di buona fede» e del «tutti siamo Wikipedia». Se tutti siamo Wikipedia allora possiamo parafrasare Orwell affermando che alcuni sono più Wikipedia di altri. Francamente vantare i «500 milioni di lettori in 280 versioni linguistiche» e dire che questo risolve ogni problema di autorialità mi ricorda sinistramente la pratica dei vari regimi totalitari del Novecento che mostravano le masse inquadrate e plaudenti come prova del proprio legame con il popolo e del proprio successo nel soddisfare i suoi bisogni. Infatti non sono quei «500 milioni» gli autori dell’ «Enciclopedia Libera», nella stragrande maggioranza dei casi ne sono solo i fruitori passivi e spesso acritici. Ad esempio per quanto riguarda it.Wiki Cristian Cenci riporta come la comunità di Wikipedia in italiano possa contare in media su un migliaio di utenti attivi, cioè utenti registrati che hanno effettuato almeno qualche modifica nell’ultimo mese8.

10 Il ristretto numero di contributori è senza dubbio un problema centrale, non solo perché fa sì che in un ambiente ristretto le dinamiche di affinità/ostilità interpersonali divengano decisive, ma anche perché queste vanno a combinarsi con un aspetto dell’ «Enciclopedia Libera» su cui ha attirato l’attenzione Miguel Gotor in un suo saggio definendo quella di Wikipedia «una struttura cumulativa compulsiva»9. Una struttura di questo tipo premia chi può operare il maggior numero di interventi e ha a disposizione la maggior disponibilità di tempo. In tal modo anche un solo utente può realizzare, modificare e «presidiare» una vasta serie di voci per perseguire i propri scopi, magari usando le fonti in modo parziale o palesemente disonesto, e venire considerato proprio per il suo assiduo impegno un wikipediano «esemplare» ed autorevole. La risposta al mio testo da parte di Iolanda Pensa illustra benissimo la mentalità di chi vede in Wikipedia non un mezzo ma un fine in sé, dando vita così ad un mondo chiuso in sé stesso e completamente prigioniero delle proprie dinamiche interne. Questa mentalità conduce all’atteggiamento di chi dice: «datti da fare su Wikipedia o sei un maestrino con la penna rossa che non merita di essere preso in considerazione», ergo la credibilità dell’interlocutore si misura contando il numero dei suoi interventi sull’«Enciclopedia Libera», senza minimamente prestare attenzione a ciò che è stato segnalato: ad esempio alle dinamiche di gruppo che portano utenti affini a spalleggiarsi a vicenda, di fatto trasformando le modifiche alle voci da loro presidiate in una vera guerra di trincea. Questi sono esattamente il meccanismo e la mentalità che hanno consentito ad esempio all’utente José Antonio di orientare in senso palesemente neofascista un discreto numero di voci, senza che nessuno avesse nulla da ridire10. Si noti che in seguito ad un’inchiesta di Nicoletta Bourbaki su questo wikipediano è iniziato un interessante dibattito sia su Giap che su it.Wiki11, sino ad arrivare ai quotidiani nazionali12, a riprova del fatto che scrivere di Wikipedia fuori da Wikipedia è il modo migliore per aiutarla a migliorarsi perché in tal modo si portano alla luce problematiche che molti wikipediani, in buona o cattiva fede, ignorano, sottovalutano o preferirebbero tacere, consentendo così di affrontarle. L’intenzione mia e degli altri componenti del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki è proprio quella di svolgere un lavoro di analisi utile sia ai semplici fruitori che ai contributori.

11 Quella di Nicoletta Bourbaki è certamente una critica militante e conflittuale ma non certo «esterna» o svolta con l’animo di chi corregge gli errori del volgo (visto che non pretendiamo certo di essere «accademici»). Non a caso molte delle nostre analisi,

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compresa la mia13, partono proprio dal nostro contributo a determinate voci e dalle difficoltà affrontate. Mi spiace infatti che Iolanda Pansa non abbia capito che quanto segnalavo non erano «correzioni con la penna rossa» ma una serie di esempi concreti frutto del lavoro di analisi di alcune voci alla cui redazione si era contribuito, spesso con duri conflitti con altri utenti.

12 Ma al di là delle dinamiche interne a Wikipedia credo che la cosa più preoccupante sia la mancanza di consapevolezza in merito allo strumento che stanno utilizzando da parte dei fruitori passivi dell’ «Enciclopedia Libera». Come ha scritto Miguel Gotor: L’equivoco di fondo non sta nella pretesa da parte di Wikipedia di considerarsi un’enciclopedia, ma nel fatto di essere ritenuta tale dai suoi utilizzatori, che si basano su un’erronea e fuorviante sovrapposizione dei concetti di informazione e conoscenza. Il primo è un dato, il secondo un processo che implica il concetto di validazione, di responsabilizzazione autoriale e di verificabilità del percorso compiuto. Al contrario, Wikipedia rivendica come punto di forza il fatto di non subire alcun processo editoriale, ufficiale ed esaustivo di verifica dei dati che riceve e che immette in circolazione, se si eccettuano le voci relative alle persone viventi. Mentre una delle funzioni principali dell’enciclopedismo è proprio quella di tracciare il perimetro della conoscenza, distinguendo cosa è importante e perciò merita di essere classificato e ricordato, da ciò che non lo è e quindi può essere dimenticato14.

13 Il brano di Gotor dà molti spunti interessanti inerenti la natura di Wikipedia . Credo che questi temi siano stati sviluppati in modo molto interessante nei loro interventi sia da Strizzolo che da Bassi, quest’ultimo in particolare ha scritto: A dispetto della sua definizione di enciclopedia, Wikipedia non è – di fatto – un’enciclopedia per come la conosciamo: le sue caratteristiche, che rendono possibile una modifica costante e un’interazione tra gli utenti, la sua partecipazione condivisa (e non specialistica), ne fanno uno strumento più vicino a un social network che a un’enciclopedia “classica”. L’uso che se ne può fare e la qualità delle voci variano in funzione dello zelo e della perizia degli estensori delle voci15.

14 Concordo con questo ragionamento perché le voci di Wikipedia non possono essere considerate il frutto di un lavoro di gruppo ma piuttosto la summa di quanto scritto dai diversi contributori nel corso del tempo. I contributori di una stessa voce possono aver lavorato insieme, ma anche in successione in momenti molto distanti gli uni dagli altri, oppure possono aver dato il loro contributo contemporaneamente ma ignorandosi o anche gli uni contro gli altri in una specie di edit war “fredda” giocata all’interno delle regole dell’ «Enciclopedia Libera»; in questo caso del loro scontro rimangono tracce nella cronologia, nello spazio di discussione (o talk) o addirittura nel testo stesso della voce. Pertanto la comunità dei wikipediani non credo possa essere considerata un autore collettivo, bensì un insieme eterogeneo di persone che si occupano di una vasta gamma di argomenti animando una stessa piazza virtuale. Di qui un problema di autorialità che non può essere ignorato, ma neppure usato in modo preconcetto. Dire che Wikipedia è più vicina ad un social network che ad un’enciclopedia tradizionale non significa bollarla in senso spregiativo e confinarla semplicemente tra le fonti inattendibili, così si finirebbe per ignorare i problemi e le opportunità che essa ci pone. Si tratta piuttosto di smettere di definire uno strumento nuovo attraverso categorie vecchie quale ad esempio «enciclopedia». Siamo di fronte ad un nuovo strumento che bisogna imparare ad usare per ciò che può dare di buono, ad esempio una prima infarinatura di informazioni su un insieme vastissimo di argomenti oppure un terreno

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su cui saggiare le proprie capacità critiche, anziché utilizzarlo secondo schemi mentali costruiti attorno ad altri strumenti.

15 Forse il vero problema di Wikipedia è appunto l’uso che se ne fa. Spostiamo per un attimo il riflettore dall’«Enciclopedia Libera» e puntiamolo sui suoi fruitori e sulle loro motivazioni. Ho trovato molto interessanti le considerazioni di Nicola Strizzolo in merito al plagio e alla riduzione ad una folksonomy connessi a l’«Enciclopedia Libera» Oggi, il lavoro di tesi, se anche periferico al nucleo della ricerca, difficilmente può diventare uno sguardo da cui poi tematizzare in maniera approfondita e strutturata nuovi percorsi, rischia invece di essere soltanto un cortocircuito di pessimi copia e incolla, in quanto il plagio avviene da siti non soltanto dall’improbabile autorevolezza, ma che a loro volta sono il copia e incolla di altri siti. Si perde così definitivamente l’unicum che ogni persona può portare alla mole di sapere e che, in piccole dosi, comporta la sua evoluzione, la sua crescita e la sua diffusione nella comunità. In alcuni casi, Wikipedia fa da sorgente a questo flusso di copia e incolla16.

16 Perché si copi da Wikipedia mi pare ovvio: è una fonte nota a tutti, facilissima da trovare, che si occupa dei più svariati argomenti, con molte più voci rispetto, ad esempio, alla Treccani. Credo che sia molto più interessante chiedersi piuttosto per quali ragioni un così gran numero di studenti si dedica al copia e incolla. Non credo che queste vadano ricercate su Wikipedia (che in teoria si basa invece sull’idea che ciascuno possa portare il proprio contributo al sapere universale) ma piuttosto nelle istituzioni scolastiche ed universitarie, visto che a queste istituzioni sono rivolti gli elaborati per realizzare i quali si ricorre al plagio. Si può anzi dire un po’ provocatoriamente che Wikipedia sia vittima di un uso improprio di quanto prodotto dai suoi contributori a causa delle pratiche vigenti in scuole e università. La causa prima del copia e incolla non è l’«Enciclopedia Libera» ma piuttosto il funzionamento e i fini delle istituzioni scolastiche ed universitarie. Infatti uno studente che ha rinunciato ad esprimere il suo unicum nell’elaborazione culturale non è forse uno studente che ha semplicemente imparato a «studiare per il voto» anziché per curiosità intellettuale? Lo studente che si limita a copiare e incollare da internet non è altro in fondo che un esempio di essere umano alienato che rinuncia all’elaborazione autonoma per soddisfare nel più breve tempo possibile le richieste di chi lo valuta e gli assegna crediti o abilitazioni. Le dimensioni massicce assunte dal fenomeno del plagio illustrate da Strizzolo mi fanno pensare che questo tipo di studente in fondo non sia altro che il naturale prodotto del nostro sistema d’istruzione e della nostra società. Infatti «ribelle al sistema» non è chi copia, ma chi studia per passione e curiosità intellettuale.

17 Per questo parlare di educazione all’uso critico di Wikipedia e in generale di educazione all’approccio critico alle fonti richiede si una critica dell’«Enciclopedia Libera», ma anche una critica alla nostra società e una profonda revisione del nostro modello di istruzione. Occorrerebbe cioè spostare l’attenzione dalla trasmissione di conoscenze alla trasmissione di un metodo di approccio alla realtà, ridimensionando magari l’importanza attribuita alla valutazione a favore della verifica di effettive capacità e alla possibilità di sviluppare ed esprimere la curiosità intellettuale di ciascuno.

18 Naturalmente ho molto apprezzato le idee sollevate dagli altri partecipanti al dibattito volte sia a stimolare negli utenti un uso consapevole di Wikipedia, sia ad incentivare il contributo degli studiosi alla realizzazione delle sue voci, ad esempio attraverso tutte le ottime iniziative messe in campo da Wikimedia Italia elencate da Cristian Cenci e trovo

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molto importante che egli indichi come obiettivo dei corsi organizzati nelle scuole da Wikimedia non tanto quello di creare nuove voci bensì quello di riuscire ad instillare la scintilla dell’analisi critica dei fatti e delle fonti: obiettivo, questo, che non è molto diverso da quello che dovrebbe animare il lavoro di ricerca di ogni buon storico17.

19 Credo che le pratiche e l’obiettivo di cui parla Cenci dovrebbero essere assunti come prioritari anche dalla scuola e dalle istituzioni museali, se è possibile collaborando proprio con Wikimedia nell’ambito di progetti comuni. Ma devo far notare come questa modalità di lavoro con le classi mi sembra molto distante da quella indicata da Iolanda Pensa, che ha scritto: Non c’è poi come scrivere una voce di Wikipedia per capirne il funzionamento e per diventarne dei lettori molto più coscienti: per questo in moltissimi paesi del mondo gli insegnanti coinvolgono i loro studenti nella redazione di articoli (tra l’altro spesso letti da milioni di persone)18.

20 Francamente credo che mettersi a scrivere voci senza un’analisi critica di Wikipedia attraverso l’illustrazione degli esempi di uso distorto o acritico delle fonti in essa presenti, senza insegnare a consultare la pagina di discussione o la cronologia di una voce per capire chi ha scritto cosa e quali fossero le sue posizioni, senza l’analisi critica dei meccanismi e delle dinamiche vigenti tra i wikipediani (tutte cose che Pensa mi pare non gradire affatto), non è didattica ma promozione pubblicitaria dell’«Enciclopedia Libera» che non può che incoraggiare quella confusione tra informazione e conoscenza di cui parlava Gotor. Ovviamente non vi è nulla di male se una classe contribuisce alle voci dell’ «Enciclopedia libera», ma questo va fatto all’interno di una più generale riflessione critica sulle fonti, come quella prospettata da Cenci.

21 Lo stesso Umberto Eco quando suggeriva di svolgere in classe attività didattiche per educare ad un uso consapevole della rete suggeriva di trovare trattazioni inattendibili e spiegare perché fossero inattendibili19. Riguardo all’uso didattico di Wikipedia considero un’ottima indicazione quella data da Roberto Bianchi e Gilda Zazzara in un recente articolo su «Passato e presente» gli studiosi e gli insegnanti di storia dovrebbero quantomeno conoscere le sue regole e la sua ideologia [di Wikipedia], in modo da formare i suoi lettori- consumatori a un uso consapevole dell’enciclopedia online, critico ma non prevenuto, magari capace anche di riconoscere le creative commons emergenti e il loro potenziale politico20.

22 Vi è poi il problema di cosa si può fare per migliorare la qualità delle voci dell’ «Enciclopedia Libera». Credo che Cenci inquadri la questione nella giusta ottica quando si domanda «Come rendere, quindi, il più competente possibile l’analisi storica degli articoli senza compromettere né lo spirito collaborativo dell’enciclopedia né il rigore scientifico degli studi storici?»21.

23 Le iniziative messe in campo da Wikimedia per cercare di rispondere a questa domanda, elencate sia da Cenci che da Pensa, credo possano essere utili a produrre voci di migliore qualità senza trasformare Wikipedia in ciò che non è, né credo debba diventare. Vorrei però riflettere sul contributo degli «storici di professione» (categoria quantomai vaga) all’«Enciclopedia Libera».

24 Innanzitutto credo sarebbe un gran bene se le istituzioni culturali italiane, in primis quelle museali o universitarie, mettessero a disposizione del pubblico molti più contenuti sul web. Non solo digitalizzazioni di vari tipi di documenti, ma anche e

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soprattutto materiali divulgativi rivolti al grande pubblico, ovvero siti contenenti sunti, raccolte di documenti, bibliografie e linee del tempo. Per spiegare cosa intendo l’esempio migliore è il sito «Digital History», dell’Università di Houston, un vero e proprio manuale di storia degli Stati Uniti on line22. Contenuti di questo genere potrebbero essere utili alla redazione delle voci di Wikipedia attraverso la creazione di stabili partnership tra i loro curatori e Wikimedia: in tal modo si potrebbe stabilire un rapporto virtuoso tra l’«Enciclopedia Libera» ed i siti delle istituzioni culturali. La prima citando siti validati da istituzuioni culturali vedrebbe alzarsi il proprio livello senza perdere le proprie caratteristiche, i secondi sarebbero facilitati nella loro funzione perché venendo citati su Wikipedia avrebbero una maggiore diffusione e sarebbero usati da chi vuole approfondire gli argomenti trattati. Ovviamente a patto di dedicarsi insieme anche alla formazione degli utenti, che rimane il punto centrale.

25 Ciò detto vorrei mettere in guardia dall’idea che il contributo di storici professionisti o la collaborazione con istituzioni museali e universitarie possa rivelarsi una panacea universale capace di curare tutti i mali di Wikipedia e arrivare una narrazione del passato asetticamente «corretta» o universalmente condivisa. Questi contributi e queste collaborazioni potranno alzare il livello del dibattito in merito alla voci de l’«Enciclopedia Libera», potranno svecchiare le interpretazioni storiografiche in essa presente e magari correggere quelli che sono palesi falsi storici, ma non potranno mai risolvere i conflitti di fondo al suo interno, che troveranno anzi nuovi appigli nelle diverse interpretazioni storiografiche.

26 Per questo ritengo sia molto interessante lo spunto dato da Bassi quando scrive La riduzione della pluralità ad un unico punto – per quanto neutro e mediano – non favorisce la ricerca storica, ma declina verso la costituzione di un pensiero unico. A dispetto di quanto prescritto dalle regole di wikipedia, il punto di vista neutrale sembra essersi trasformato nel punto di vista unico. Far risaltare questa pluralità di visioni sarebbe utile anche e soprattutto per l’utente non addetto ai lavori, che potrebbe così vedere con i propri occhi come la voce che sta ricercando non riconduca ad un’unica e incorruttibile verità, ma come esistano interpretazioni differenti dello stesso fatto23.

27 Insomma credo che occorra domandarsi come rendere palese anche al lettore più distratto che aprendo una voce storica di Wikipedia non è arrivato nel luogo che gli propone una rassicurante versione 2.0 del manuale scolastico, bensì in una piazza virtuale in cui persone diverse danno il proprio contributo (sempre parziale, orientato e conflittuale) alla ricostruzione del passato attraverso la collaborazione, il confronto e lo scontro. Lo si potrebbe fare elencando in modo stringato i fatti acclarati in un breve riassunto e poi lasciare che vengano esposte le varie interpretazioni degli stessi, magari rendendo palese la firma del contributore che le ha inserite. Insomma si potrebbe attenuare la distinzione tra il testo delle voci e gli spazi di discussione ad esse connesse, ovvero rendere palesi le diversità di interpretazione e, quindi, i conflitti.

28 Ma al di là di questa proposta – che mi rendo conto essere forse difficile da realizzare – credo occorra riflettere sul fatto che un passaggio centrale della trasmissione di reali conoscenze, e non di semplici informazioni, sia l’educazione al conflitto. Ovvero la trasmissione di una metodologia di rapporto con la realtà che esclude l’imparzialità ma ricerca l’onestà intellettuale dando conto delle fonti, imposta i ragionamenti a partire dai dati di fatto e non nasconde i conflitti, ovvero dà conto delle diversità di ideali ed interessi. Perché solo ammettendo la propria parzialità, solo ammettendo come sia

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impossibile spogliarsi completamente dei propri preconcetti, interessi, fedi ed ideali si possa davvero essere intellettualmente onesti.

29 Non può esistere, nemmeno sul web, un luogo incantato in cui gli esseri umani si spogliano dell’influenza del proprio vissuto, dei propri legami sociali e dei propri obiettivi muovendosi come creature isolate e puramente razionali mosse da null’altro che dalla volontà di contribuire ad un grande progetto culturale. Capisco che affermare l’impossibilità di ignorare o rimuovere i conflitti (siano essi religiosi, ideali, di classe, di genere o generazionali) possa essere irritante per molti, ma continuo a credere che occorra difendere la complessità del reale chi la vorrebbe brutalmente semplificare imponendo una visione del mondo basata sul razzismo e il nazionalismo. Queste persone hanno fin’ora trovato su Wikipedia larghi margine d’azione proprio grazie alle presunzioni di buona fede e all’illusione di poter creare sul web una realtà protetta dai conflitti del mondo reale. Quando Iolanda Pensa ricorda che la cultura umana si è evoluta ed è cambiata nel tempo, abbandonando pratiche come ad esempio la misurazione dei crani umani ai fini di classificazione «razziale» o psicologica, ha ragione. Dimentica però che le posizioni dei misuratori di crani e dei classificatori di esseri umani su basi pseudoscientifiche non sono state sconfitte attraverso una serena discussione che presupponesse la loro buona fede, ma attraverso una guerra mondiale e i successivi movimenti per i diritti civili o la lotta armata contro il colonialismo.

30 Per questo ritengo corretto quanto ha scritto Salvatore Talia in una delle prime analisi prodotte nell’ambito del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki Ritengo in ogni caso auspicabile che tutti noi antifascisti, wikipediani e non, esercitiamo una doverosa attività di vigilanza sulle pagine dell’enciclopedia libera. La quale è una piazza, ancorché virtuale: e, come tutte le piazze, perché le camicie nere non se ne impossessino ha bisogno della nostra presenza24.

NOTE

1. BRECHT, Bertolt, Poesie e canzoni, Antologia dell’opera poetica di Bertolt Brecht, Torino, Einaudi, 1961, p. 57. 2. BOURBAKI, Nicoletta, «Wikipedia e la storia deturpata: il caso Presbite», in Giap, URL: < http:// www.wumingfoundation.com/giap/2014/11/wikipedia-e-la-storia-deturpata-il-caso-presbite/ > [consultato il 6 marzo 2017]. 3. BOURBAKI, Nicoletta, «Se questo è un direttore di istituto storico della Resistenza. Roberto Spazzali e i guasti da “Giorno del Ricordo”», in Giap, URL: < http://www.wumingfoundation.com/ giap/2016/02/se-questo-e-un-direttore-di-istituto-storico-della-resistenza-roberto-spazzali-e-i- guasti-dellideologia-da-giornodelricordo/ > [consultato il 6 marzo 2017]. 4. PEREIRA, Mateus H. F., «Dissoluzioni, parodie o mutamenti? Considerazioni sulla storia nelle pagine di Wikipedia», in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea: “Crash test”. Continuità, discontinuità, legami e rotture nelle dinamiche della storia contemporanea, 29, 1/2017, URL: < http:// www.studistorici.com/2017/03/29/pereira_numero_29/ > [consultato il 29 marzo 2017]. 5. WHITE, Hayden, Ficción histórica, historia ficcional y realidad histórica, Buenos Aires, Prometeo Libros, 2010, p. 125. 6. BLOCH, Marc, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 2016.

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7. Tony1, «German Wikipedia ArbCom implodes amid revelation of member’s far-right political role», in The Signpost, 22 dicembre 2016, URL: < https://en.wikipedia.org/wiki/ Wikipedia:Wikipedia_Signpost/2016-12-22/Special_report > [consultato il 6 marzo 2017]. 8. CENCI, Cristian, «Wikipedia è poco affidabile? La colpa è anche degli esperti», in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea: “Crash test”. Continuità, discontinuità, legami e rotture nelle dinamiche della storia contemporanea, 29, 1/2017, URL: < http://www.studistorici.com/2017/03/29/ cenci_numero_29/ > [consultato il 29 marzo 2017]. 9. GOTOR, Miguel, L’Isola di Wikipedia. Una fonte elettronica, in LUZZATTO, Sergio (a cura di), Prima lezione di metodo storico, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 183-200. 10. BOURBAKI, Nicoletta, «La strategia del ratto. Manomissioni, fandonie e propaganda fascista su Wikipedia: il caso “José Antonio”. Prima parte», in Giap, URL: < http:// www.wumingfoundation.com/giap/2017/02/la-strategia-del-ratto-jose-antonio-su-wikipedia/ > [consultato il 14 marzo 2017]; BOURBAKI, Nicoletta, «La strategia del ratto. Manomissioni, fandonie e propaganda fascista su Wikipedia: il caso “José Antonio”. Seconda parte», in Giap, URL: < http://www.wumingfoundation.com/giap/2017/02/la-strategia-del-ratto-2a-parte/ > [consultato il 14 marzo 2017]. 11. «Wikipedia: Bar/ Discussioni/Articolo su alterazione fonti in Wikipedia», in it.Wiki, URL: < https://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Bar/Discussioni/ Articolo_su_alterazione_fonti_in_Wikipedia > [consultato il 14 marzo 2017]. 12. TONELLI, Marco, «Modifiche e falsi storici ecco come l’estrema destra italiana inquina le pagine di Wikipedia», in La Stampa, 14 marzo 2017, URL: < http://www.lastampa.it/2017/03/14/ tecnologia/idee/modifiche-e-falsi-storici-ecco-come-lestrema-destra-italiana-inquina-le-pagine- di-wikipedia-5Be1SkJZfwMzHjpFFxpjqO/pagina.html > [consultato il 14 marzo 2017]. 13. BALDO, Tommaso, «I ‘45 cavalieri’ di Wikipedia, da chi e cosa è libera l’enciclopedia libera?». Giap, URL: < http://www.wumingfoundation.com/giap/2015/10/i-45-cavalieri-di-wikipedia-da- chi-e-cosa-e-libera-lenciclopedia-libera/ > [consultato il 6 marzo 2017]. 14. GOTOR, Miguel, op. cit., pp. 191-192. 15. BASSI, Jacopo, «Danzica e le guerre wikipediane. Qualche osservazione sulle edit wars», in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea : “Crash test”. Continuità, discontinuità, legami e rotture nelle dinamiche della storia contemporanea, 29, 1/2017, p. 6, URL: < http://www.studistorici.com/ 2017/03/29/bassi_numero_29/ > [consultato il 29 marzo 2017]. 16. STRIZZOLO, Nicola, «Verso il sapere unico», in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea : “Crash test”. Continuità, discontinuità, legami e rotture nelle dinamiche della storia contemporanea, 29, 1/2017, p. 3, URL: < http://www.studistorici.com/2017/03/29/strizzolo_numero_29/ > [consultato il 29 marzo 2017]. 17. CENCI, Cristian, op. cit., p. 4. 18. PENSA, Iolanda, «Risposta a “Riflessioni sulla narrazione storica nelle voci di Wikipedia”», in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea : “Crash test”. Continuità, discontinuità, legami e rotture nelle dinamiche della storia contemporanea, 29, 1/2017, p. 3, URL: < http://www.studistorici.com/ 2017/03/29/pensa_numero_29/ > [consultato il 29 marzo 2017]. 19. ECO, Umberto, «Come copiare da Internet», in L’Espresso, 16 gennaio 2006, URL: < https:// areeweb.polito.it/didattica/polymath/ICT/Htmls/Interventi/Articoli/Italia/ Eco%20Wikipedia.htm > [consultato il 14 marzo 2017]. 20. BIANCHI, Roberto, ZAZZARA, Gilda, «La storia formattata. Wikipedia tra creazione, uso e consumo», in Passato e presente, 100, 1/2017, pp. 131-155. 21. CENCI, Cristian, op. cit., p. 2. 22. Digital History, URL: < http://www.digitalhistory.uh.edu/ > [consultato il 14 marzo 2017]. 23. BASSI, Jacopo, op. cit., pp. 4-5.

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24. TALIA Salvatore, «Fascinazione Wikipedia. Il mito della “cricca” ed il conflitto reale», in Giap, URL: < http://www.wumingfoundation.com/giap/2014/05/fasci-di-luce-obliqua-su-wikipedia-il- mito-della-cricca-e-il-conflitto-reale/ > [consultato il 14 marzo 2017].

RIASSUNTI

Quale rapporto si sta costruendo fra le scienze storiche e Wikipedia? Come bisogna porsi di fronte alle voci di Wikipedia che trattano di storia? Quale potrà essere il ruolo della futura “enciclopedia libera” per lo studio e l’insegnamento della storia? A partire dall’analisi di alcune voci di Wikipedia operata dal gruppo di lavoro “Nicoletta Bourbaki”, sei autori animano una tavola rotonda sul rapporto tra l’enciclopedia libera e il mondo della storia.

What kind of relationship do the historical sciences have with Wikipedia? How should a reader approach Wikipedia articles dealing with history? What role will the upcoming “free encyclopedia” play in the study and teaching of history? Starting from an analysis on some Wikipedia’s article performed by the “Nicoletta Bourbaki” working group, six authors animate a panel discussion on the relationship between the free encyclopedia and history.

INDICE

Parole chiave : insegnamento della storia, public history, scienze storiche, storiografia, Wikipedia Keywords : historical sciences, historiography, history teaching, public history, Wikipedia

AUTORE

TOMMASO BALDO

Tommaso Baldo ha conseguito la laurea Specialistica in Storia d’Europa nel 2009 presso l’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna conseguendo la votazione di 110 e lode. Dal maggio 2010 lavora presso la Fondazione Museo storico del Trentino come addetto alla progettazione e realizzazione di attività didattiche. Si è occupato di Wikipedia nel post «I “45 cavalieri” di Wikipedia. Da chi e cosa è libera l’enciclopedia libera?», in collaborazione con il gruppo di studio Nicoletta Bourbaki (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=22562) e nell’articolo «L’Arena delle narrazioni. La storia nel tempo di Wikipedia», in Altre Storie, 17, 50, 2/2016, pp. 36-37. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Baldo >

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III. PICO – Il corporativismo

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Teorie corporativiste nella Grecia del primo dopoguerra (1922-1940): dalla teoria alla prassi

Spyridon Ploumidis Traduzione : Stavros Kouroufexis

1. Il corporativismo come teoria

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1 Il corporativismo non è una teoria e ideologia sociopolitica casuale, ma insieme al capitalismo liberale e al socialismo è stato uno dei maggiori “- ismi” della moderna società industriale nel tardo XIX secolo e durante il primo dopoguerra1. Le idee corporativiste furono sviluppate come reazione ai problemi di difficile risoluzione causati dal capitalismo industriale e dal crollo graduale del ancien regime nell’Europa continentale. Corporativismo significa, molto semplicemente, la collaborazione fra lavoro e capitale ed è stato elaborato da intellettuali al fine di attenuare i conflitti di classe fra i capitalisti industriali e la classe operaia. Per raggiungere questa collaborazione c’era bisogno di un elementare rapporto di solidarietà fra le due parti avverse. Le origini della teoria corporativista sono l’etica del cattolicesimo e il collettivismo del nazionalismo. La solidarietà predicata dalla Chiesa cattolica derivava dall’amore cristiano, mentre i teorici nazionalisti del corporativismo predicavano il sacrificio individuale a favore del bene collettivo nazionale – il corporativismo nazionale assunse dimensioni maggiormente autoritarie, in quanto del bene nazionale si faceva, in pratica, interprete un capo autoritario. In più gli ideatori del corporativismo idealizzarono l’immagine della società medievale e professarono la rinascita di questa idilliaca e armoniosa società dove regnavano valori etici superiori e solidarietà, la comprensione e l’assistenza reciproca2: il corporativismo è una teoria idealista per eccellenza.

2 Oltre a quanto detto sopra il corporativismo presuppone la presenza di uno stato forte che soprintenda o che si assuma esso stesso l’incarico di organizzare i lavoratori in organizzazioni corporativiste (“sindacati”). I “sindacati” corporativisti, che si sostituiscono alle associazioni liberali di professione (unioni, circoli) dei lavoratori, devono possedere il riconoscimento e l’approvazione dello Stato e operano come istituzioni economiche e sociali intermedie, poste fra i lavoratori e lo Stato3. I sindacati segnano la gestione orizzontale della rappresentanza professionale. Ogni sindacato include tutte le organizzazioni della medesima tipologia e professione, di lavoratori e impiegati, ma anche dei loro datori di lavoro. Ogni “sindacato” rappresenta un intero ramo (e uno soltanto), senza eccezioni, dell’industria, delle arti e delle professioni. Le organizzazioni sindacali professionali perdono il loro carattere verticale, e cioè classista, e ne assumono uno orizzontale e collettivista. Quindi il corporativismo sostituisce l’ordine economico-sociale individualista-liberale con uno collettivista e rigorosamente gerarchico. Il ruolo di garante del mantenimento di questa gerarchia viene assunto dallo Stato (rafforzato)4.

3 Peter Williamson5 ha individuato tre tipi di corporativismo: a) il corporativismo “consensuale” (consensual licenced corporatism); b) il corporativismo “autoritario” (authoritarian licenced); c) il “neo-corporativismo” (neo-corporatism)6. In questo articolo verranno esaminate le prime due forme del corporativismo, le quali furono applicate durante il primo dopoguerra, mentre il cosiddetto “neo-corporativismo” riguarda le economie industriali evolute dell’Occidente del secondo dopoguerra. Le differenze fra le prime due forme del corporativismo riguardano il tipo di controllo esercitato dai “sindacati” sui propri membri ed il rapporto fra i “sindacati” e lo Stato. Anche se in

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entrambi i sistemi corporativi lo Stato svolge, per definizione, una decisiva funzione di guida e di supervisione, nel primo caso le strutture della rappresentanza professionale e dell’organizzazione della produzione, permettono, in misura significativa, il consenso dei lavoratori per quel che riguarda i valori e gli obbiettivi del sistema ed un importante grado di autonomia della società nei confronti dello Stato7. Questa natura del corporativismo “consensuale” spiega la sua adozione da parte di regimi socialdemocratici come la Repubblica di Weimar (1919-33)8. Al contrario, il corporativismo “autoritario” è stato proprio dei regimi fascisti e “fascistoidi”. L’attrattiva e l’ampia accettazione del corporativismo fra i regimi fascisti non sono dovute soltanto alla loro natura autoritaria, che in pratica si traduceva nel disciplinamento della classe lavoratrice e nella delegittimazione di ogni azione di sciopero, ma anche nel carattere sovra-nazionalista della loro ideologia. Inoltre, il fascismo e il corporativismo “autoritario” avevano gli stessi nemici: il liberalismo individualista, il socialismo materialista e, naturalmente, la lotta di classe. L’acuirsi dei conflitti sociali dopo la Prima guerra mondiale fece dell’adozione del corporativismo da parte dei fascisti italiani di Mussolini (il 1927 con la Carta del Lavoro) una necessità reale e non una questione metafisica9. Tuttavia, anche se il corporativismo viene considerato una componente del fascismo, questi due fenomeni politici non erano identici, ma avevano origini distinte ed ebbero un percorso diverso dopo la Seconda guerra mondiale.

2. Conflitti di classe nella Grecia del primo dopoguerra

4 Le condizioni economico-sociali nella Grecia del primo dopoguerra (1922-1940) favorivano la diffusione e l’applicazione delle idee corporativiste. Già dal primo decennio postbellico la Grecia conobbe una rapida crescita industriale (mediamente 6.8% per gli anni 1922-1929)10. Questo aveva come risultato l’aumento della forza lavoro dell’industria da 154.633 (uomini e donne) nel 1917 a 278.855 nel 193011. Le condizioni economico-sociali peggiorarono dopo la bancarotta ufficiale della Grecia, dichiarata da Eleftherios Venizelos il 27 aprile 193212. L’industria greca, tuttavia, riuscì a riprendersi abbastanza presto e a raggiungere alti ritmi di crescita (in media 8%) dal 1933 in poi (e fino alla fine del decennio)13. Negli anni 1931-39 vennero fondate 927 nuove imprese industriali14. Tuttavia l’occupazione nel settore non crebbe altrettanto ma soltanto di 17.700 posti (da 157.300 nel 1930 a circa 175.000 dipendenti nel 1940, un aumento cioè di appena il 10%15). In altre parole l’industria greca non poteva assorbire i nuovi ingressi nel mercato del lavoro e di conseguenza la disoccupazione endemica durante il secondo decennio postbellico rimase ferma al 9%. Inoltre secondo la GSEE (ΓΣΕΕ, Confederazione Generale dei Lavoratori Greci) la disoccupazione esplose con l’avvento della crisi economica mondiale e il numero dei disoccupati aumentò da 82.000 nel 1928 a 237.356 nel 1932, una cifra che corrispondeva al 35% del totale della forza lavoro. Ciò era dovuto alla natura dell’industria greca, relativamente arcaica dal punto di vista della competitività, dei capitali, degli investimenti in nuove tecnologie, del personale specializzato, delle fonti di materie prime, dell’energia ecc. Nel 1936 il contributo del settore industriale al reddito nazionale era appena del 12%.

5 Tutto ciò ebbe come risultato l’acuirsi dei conflitti di classe durante gli anni Trenta. La combattività della classe operaia sindacalizzata fu rafforzata dalla concentrazione geografica dell’industria greca. Nel 1930 il 59,6% degli stabilimenti industriali e il 75,7%

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della forza lavoro erano concentrati nella capitale, mentre le rispettive percentuali per la circoscrizione di Salonicco erano 26% e 18%16. L’inasprimento dei rapporti di classe si deve anche ad un altro, soggettivo, fattore: nel novembre del 1931 venne imposta una nuova leadership nel Partito Comunista Greco (KKE) dall’Internazionale Comunista (Comintern); questa nuova leadership che faceva capo a Nicolas Zachariadis, seguendo le direttive staliniste, aveva indurito il suo atteggiamento nei confronti dell’ordine costituito borghese e dei suoi avversari socialisti17. Nello stesso anno (1931), i Circoli Operai di Salonicco, Drama e Kavalla (queste ultime due città erano i più grandi centri produttori di tabacco del paese), come anche quelli di Volos e di Larissa, caddero sotto il controllo della Unionista GSEE (fondata nel 1929), la quale veniva guidata dal KKE18. Nell’aprile-maggio del 1936 l’ondata di scioperi assunse il carattere di una marea. Il 9 maggio uno sciopero degli operai del tabacco di Salonicco portò a sanguinosi conflitti con la guardia rurale e l’esercito che finirono con l’uccisione di 9 manifestanti e il ferimento di oltre 20019. Il tumulto operaio-sindacalista non si fermò lì. Il 27 luglio i sindacati (GSEE e GSEE Unitaria ecc.) proclamarono uno sciopero generale di 24 ore per il 5 agosto in segno di protesta per l’intento del governo (allora ancora di tipo parlamentare e non dittatoriale, essendosi insediato il 13 aprile) di Ioannis Metaxas di promulgare l’arbitrato obbligatorio dello Stato nella conclusione dei Contratti Collettivi di Lavoro. La proclamazione dello sciopero generale diede a re Giorgio II e al primo ministro Metaxas il pretesto e la scusa per sospendere il funzionamento del Parlamento e di alcuni articoli fondamentali della Costituzione (del 1911) e di imporre un regime dittatoriale20. Fra il 1936 e il 1940 il regime di Metaxas applicò (in misura limitata) alcune pratiche corporativiste, le quali copiavano il modello fascista e quello nazionalsocialista. Da questo punto di vista la Grecia tra le due guerre non è stata un’eccezione dalla norma europea. Prima di procedere ad un esame dettagliato della diffusione e dell’applicazione del corporativismo “autoritario”, sarà utile guardare sinteticamente all’applicazione delle idee del corporativismo “consensuale” nel nostro paese.

3. Il corporativismo “consensuale” in Grecia

6 Le idee del corporativismo “consensuale” hanno avuto una diffusione limitata in Grecia. Prova di ciò è il fatto che le opere di Walter Rathenau21, di Emile Durkheim22 e di Mihail Manoilescu23 che furono le fonti fondamentali di queste teorie24, non sono mai tradotte (durante il primo dopoguerra) in greco. Questo vuoto (o silenzio) può essere spiegato, in parte, con il grande impatto che hanno avuto le idee del comunitarismo che è stato associato alla tradizione greca25. Il comunitarismo, come anche il corporativismo, offriva (in teoria) una via media fra il materialismo capitalista e comunista ed una soluzione idealista che avrebbe attenuato i contrasti di classe. Il comunitarismo era, secondo i suoi fautori locali (ad esempio Dinos Malouchos e Kostas Karavidas), compatibile con le tradizioni dei sindacati e delle comunità agricole del periodo post-bizantino e di conseguenza avrebbero potuto offrire soluzioni più “genuine” e “praticabili” ai problemi dell’ellenismo contemporaneo26.

7 Il corporativismo “consensuale” venne applicato limitatamente all’istituzione senatoria, che era stato rifondata formalmente con la Costituzione Democratica del 1927 e aveva ripreso le sue funzioni nel 1929 (fino alla sua soppressione, operata dalla dittatura di Georgios Kondylis). Il dibattito sulla rifondazione del senato sotto la forma

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di un Consiglio Supremo dei professionisti e delle classi produttrici, come il Reichswirtschaftsrat della Repubblica di Weimar (il Reichswirtschaftsrat era stato fondato nel 1920 per la rappresentanza di “tutte le rilevanti professioni dipendenti e libere” come un mezzo per colmare il divario fra le classi sociali contrapposte) era iniziato già dal marzo del 192227. Nel 1928 il professore di Diritto Costituzionale all’Università di Atene Alexandros Svolos, che era noto per le sue convinzioni socialdemocratiche, sostenne, in una sua pubblicazione indipendente, il principio della “rappresentanza professionale” (o, come da lui alternativamente chiamata, il principio della “rappresentanza degli interessi”), uno dei principi fondamentali del corporativismo. L’autore aveva, inoltre, dichiarato che questo principio seguiva la Wirtschaftsverfassung, il principio teorico su cui si era basata l’istituzione del Reichswirtschaftsrat. Il problema era l’«armonizzazione, sotto disciplina e ordine razionale, della vita economica, al fine di evitare la dominante anarchia nella produzione e nei rapporti economici», cosicché «gli interessi delle classi opposte» potessero «unirsi in uno sforzo comune». Nello stesso tempo Svolos precisò che rifiutava l’antidemocratico «Stato associazionista» e «l’organizzazione professionale» del «sistema assolutista fascista», e sostenne che «la rappresentanza degli interessi» in un «Senato Economico» dovrebbe basarsi sulla «partecipazione volontaria» e «sulla libertà di cooperazione», come era appropriato per una «democrazia borghese»28. L’anno seguente le idee di Svolos echeggiarono nella tesi sulla dittatura del giurista Michail Dendias, che sostenne ferventemente il principio della representation politique professionelle, autrement dite representation des interets, un principio che lui interpretò come una «rappresentanza sostanzialmente sindacale, basata sull’organizzazione sindacale»29. Alla fine il principio della «rappresentanza professionale» venne applicato in questo modo: 18 su 120 membri del Senato greco erano rappresentanti di organizzazioni professionali, come le Camere commerciali e professionali, le Camere Agricole, le Camere tecniche, L’Unione degli armatori Greci ecc30.

8 Riferimenti alle teorie corporativiste sono rinvenibili anche nell’opera di Georgios Theotokas (1905-1966), giurista ateniese e intellettuale liberale di rilievo negli anni Trenta che, successivamente (1944) aderì alla socialdemocrazia; nel gennaio 1932 Theotokas prevedeva, nel contest di un’economie dirigée, la trasformazione del Senato esistente in un’«assemblea economica»31.

4. Il corporativismo “autoritario”

4.1. Nella teoria

9 Le idee corporative “autoritarie”, applicate da Ioannis Metaxas, avevano acquisito una basilare diffusione in Grecia poco prima del 1936. Alla fine del 1935 (cioè dopo l’instaurazione della dittatura di Kondylis) un ricercatore italiano aveva pubblicato una sua ricerca sullo «Stato sindacale», basata su una serie di lezioni da lui tenute all’Istituto Italiano di Cultura di Atene durante l’inverno di quell’anno. In questa sua ricerca aveva sviluppato le disposizioni principali della Carta del Lavoro (1927) e aveva spiegato i concetti di “corporazioni” e di Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Il suo obiettivo dichiarato era quello che «il lettore possa farsi un idea precisa delle nuove idee politiche e sociali che provocarono la profonda riforma dello Stato Italiano e che oggi regolano la sua esistenza»32. Nel 1937-1938 circolavano in greco altri tre studi sinottici sul sistema sindacale, realizzati da Bruno Biagi (Sottosegretario alle

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corporazioni dell’Italia fino al 1935) e da Aristidis Vekiarelis (Ispettore della Banca Nazionale della Grecia33). Nel 1939 un avvocato ed ex deputato del partito dei Liberi pensatori di Ionnis Metaxas pubblicò un’opera voluminosa sull’economia diretta ed il sistema sindacale del fascismo e del nazionalsocialismo34.

10 I più ferventi fautori dello stato corporativo nel mondo accademico erano il professore di Economia Politica dell’Università di Salonicco Dimosthenis Stefanidis (1896-1975) e Ioannis Tournakis, professore di Economia Politica Applicata alla Scuola Suprema di Scienze Economiche e Commerciali. Circa un anno dopo l’instaurarsi del regime di Metaxas questi due economisti si dichiararono a favore dell’adozione del modello italiano35. Stefanidis, nello specifico, sostenne: Davvero, se applicando il sistema economico liberale lasciamo alla propria sorte tutti i contrasti, acuti o meno, fra gli interessi economici, svaniranno gli interessi economici più deboli [...] la loro scomparsa ferirà nel profondo il corpo della società, diventando così una causa perenne di ostilità e di odio fra i vari fattori e classi produttrici. Al contrario, l’intervento dello stato, specie quando la sua organizzazione assicura l’avvento al potere dei “migliori” del popolo, di quelli che stanno al di sopra di classi e partiti, facilita il raggiungimento di vie di mezzo, e così l’indebolimento dei contrasti o anche la loro conversione in cooperazione degli interessi economici per il bene comune36.

11 Stefanidis (la cui opinione anti-liberale era evidente) sostenne che nel caso in cui il compromesso fra gli interessi economici non fosse possibile, l’intervento dello Stato avrebbe garantito che «il sacrificio degli interessi economici» sarebbe stato «di minore importanza per la collettività». Stefanidis ribadì, successivamente, ancora una volta che il «considerevolmente più ampio intervento dello Stato nell’economia sociale, soprattutto al fine di rendere la massima giustizia economica e sociale sarebbe divenuto possibile, facilitando l’avvento al potere dei “migliori” del popolo, dal punto di vista dell’istruzione, della capacità amministrativa e soprattutto della moralità»37. Su questo Stefanidis rinviò esplicitamente all’opera di Robert Michels Le partis politiques: essai sur les tendances oligarchiques des democraties38 il quale si dichiarava favorevole ad un’aristocrazia politica elitaria39. L’inquadramento politico del corporativismo proposta da Stefanidis era largamente anti-liberale, anti-parlamentare e autoritaria: «La cosiddetta democrazia parlamentare non sembra più capace di rispondere alla necessità dell’intervento statale attivo nell’economia sociale, come una forma di governo di altri tempi, altre condizioni sociali ed economiche [...] i popoli avanzati e tesi al progresso devono adattare la propria organizzazione statale alla suddetta necessità (di intervento attivo dello Stato) e affidare per questa ragione – che non è la sola – il potere a gruppi “aristocratici” stanti al di sopra di classi e partiti»40.

12 Stefanidis definì il corporativismo (cioè questo tipo di intervento statale nell’«economia sociale») come la «aurea via di mezzo fra individualismo e comunitarismo» (cioè fra l’economia del liberalismo classico e quella del socialismo), e lo classificò nel quadro di un’«economia popolare (cioè völkisch)»41. Il professore greco trasse le sue idee per la costituzione dello Stato Corporativo da Erwin von Beckerath42, il quale – fra l’altro – aveva sostenuto che «lo stato liberale appartiene al passato»43. Infine, Stefanidis propose l’adozione da parte dei greci della politica economica dell’Italia fascista e della Germania nazionalsocialista. In particolare, in questa sua pubblicazione, mise in evidenza lo Stato Corporativo di Ugo Spirito, la Carta del Lavoro del 1927 e i concetti di sindacati, corporazioni, unioni, confederazioni ecc. mentre rinviò anche al Mein Kampf44. L’economista greco si muoveva, ovviamente, nella direzione del

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corporativismo «nazionale/autoritario». Dichiarò che «l’obbiettivo più alto dell’organizzazione sindacale è la nazione»: questa «politica economica e sociale sarebbe più correttamente caratterizzata come nazionale, perché nacque principalmente dalla contemporanea esaltazione del sentimento nazionale in un numero rilevante di paesi, e fu con esso congiunta. [...] Questa politica economica, contrariamente all’individualismo e al cosmopolitismo della scuola liberale, sventola la bandiera dell’interesse economico e ha come fine l’infusione di idee nazionaliste»45. Da parte sua, Ioannis Tournakis propagandava sistematicamente la teoria economica corporativista attraverso il suo periodico Νέα Πολιτική [Nuova Politica] (1937-1940) suggerendo la rottura totale con la tradizione economica liberale e la svolta radicale verso la politica dell’autarchia, l’adozione totale del sistema corporativo italiano46.

13 La pubblicazione volgarizzata più completa della teoria corporativista “autoritaria” per il pubblico greco è stata fatta da Georgios Merkouris, ex ministro dell’Economia Nazionale e capo del minuscolo Partito Nazional Socialista Greco (fondato nel 1933). Già nel 1933 Merkouris aveva suggerito la regolamentazione dei rapporti di classe «in maniera realmente giusta sotto la sorveglianza insonne delle Leggi» cosicché cessasse la «concorrenza ostile fra le classi» e dominassero i principi dell’«Unità Nazionale», della «Serenità» e della «Disciplina Sociale»47. Nel 1936 nella sua breve pubblicazione Lo Stato Corporativo, Merkouris aspirava, «grazie alla sua grande attualità, alla più ampia diffusione e divulgazione del dogmatismo scientifico, da cui derivò la formazione di un moderno sistema amministrativo, quello del Corporativismo e, da esso, dello stato Corporativo basato sulla realtà della finanza pubblica e dell’economia»48. L’ autore definì lo Stato Corporativo come il contrario «dell’individualismo, del capitalismo e del comunismo» e come la «più perfetta espressione della ragionevole difesa sociale derivante da imperative necessità economiche e politiche, le quali sono il risultato degli abusi del liberalismo e delle condizioni postbelliche»49. Merkouris definì il corporativismo come una creazione del fascismo italiano e come una parte inseparabile del «nuovo ordine» che era uscito «dalle mura di Roma» e che si espandeva «nel mondo» (in Portogallo, in Austria, in Germania ecc.), assumendo «oggigiorno una forma mondiale»50. L’autore si rivolse anche contro le «utopie comuniste» e «la lotta di classe» come un’«insopportabile situazione scissionista, la quale ha favorito il socialismo violento e il comunismo», mentre dall’altra parte parlò dei «fallimenti clamorosi del Parlamentarismo». Il colmarsi del divario che veniva causato «dal conflitto fra gli interessi del Capitale e del Lavoro» sarebbe stato operato dall’«insolubile anello di coesione, la Nazione»51.

14 Merkouris aveva spiegato in parole semplici che «Stato Corporativo» è «la traduzione del termine Corporativismo», mentre «il termine corporation potrebbe e dovrebbe essere tradotto con la corrispondente parola greca sindacato». Il termine «sindacato», spiegò, è «l’incorporazione in una sola unione di rappresentanti di sindacati agricoli, operai meccanici, industriali, commercianti e di qualsiasi altro settore, tutti quanti cooperanti nello stesso ramo produttivo o industriale». A questo punto Merkouris precisò che il «sindacato costituisce quell’unione consistente in rappresentanti dei sindacati riconosciuti», cioè dei sindacati istituzionalmente riconosciuti dalle autorità sindacali dello Stato e non qualsiasi organizzazione sindacale e professionale libera. In più, seguendo il paradigma del «sistema corporativista italiano», spiegò il significato di «categoria»: «La categoria include la somma di tutti quelli che esercitano la medesima funzione professionale per la produzione di un determinato bene, esercitano la stessa professione, indipendentemente dal fatto che siano o meno iscritti al sindacato».

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Tuttavia «la legge (italiana dello Stato fascista di Mussolini) dice che il sindacato riconosciuto rappresenta l’intera categoria». Di conseguenza il sindacato riconosciuto rappresenta l’intera categoria di una data zona, in modo che possa concludere accordi collettivi, aventi vigore per la categoria intera». Così diventa comprensibile l’indicazione dell’autore, per cui «le corporation (cioè i sindacati) sono organi dello Stato». In altre parole anche se l’iscrizione dei lavoratori ai sindacati riconosciuti dallo Stato non era obbligatoria, almeno in teoria, era tuttavia obbligatoria nella prassi. Dal momento che i sindacati (cioè le organizzazioni sindacali di primo grado) divenivano, nell’ambito del corporativismo, personalità giuridiche di diritto pubblico, la loro funzione seguiva l’articolazione amministrativa dello Stato: per ogni zona poteva esserci «un sindacato riconosciuto». In seguito Merkouris trattò brevemente del terzo grado dell’organizzazione sindacale, del cosiddetto Consiglio Nazionale dei Sindacati o Consiglio Sindacale, sul quale sovrintendeva il Ministero dei Sindacati e del Lavoro. Infine, l’ex Ministro chiarì ai suoi lettori che «la (libera) organizzazione sindacale è verticale, mentre quella corporativista è orizzontale». La sua proposizione politica era questa: «scioltisi tutti i Sindacati, Organizzazioni e Circoli, dovranno re-istituirsi sotto la denominazione “Sindacati”, nel senso e la sostanza giuridica che ad essi darà l’applicazione del corporativismo [N.d.A. in Grecia]». Merkouris concluse che «non può, l’interesse personale, essere messo al di sopra dell’interesse della Nazione e dell’interesse generale della produzione». Di questo tipo erano le norme «socialmente etiche» che il sistema corporativista aspirava ad instaurare, una «funzione armonizzante» nell’economia o anzi un «sistema di un’economia disciplinata e quindi controllata». Per lui il lavoro era un «dovere sociale» e quindi doveva obbedire a norme regolatrici. In questo sistema il ruolo di regolatore supremo spetterebbe allo Stato sotto la forma dello «Stato Etico» di Mussolini. Ma l’interventismo dello Stato nell’economia e nei rapporti lavorativi non sarebbe stato esteso alla produzione in sé (cioè lo Stato non avrebbe nazionalizzato i mezzi di produzione trasformandosi in datore di lavoro), ma si sarebbe limito ad un ruolo regolatore e organizzativo: «Attraverso l’economia corporativista arriviamo, senza dubbio, ad un maggiore interventismo dello Stato nell’economia, ma questo consiste in un suo intervento non in quanto produttore, bensì in quanto organizzatore»52.

4.2. Il corporativismo “autoritario” nella pratica

15 Copie delle pubblicazioni di Grillenzoni, di Biagi, di Vekiarelis, di Stefanidis e di Giannopoulos si possono trovare nella biblioteca personale di Ioannis Metaxas, che è conservata nella Biblioteca del Parlamento Greco53. Tuttavia nel programma politico iniziale del partito dei Liberi pensatori (fondato nell’ottobre 1922) non c’era nessun riferimento al corporativismo; al contrario veniva rifiutata «totalmente qualsiasi riduzione delle libertà popolari» e si sosteneva la «totale libertà personale e politica» e «ogni sorta» di (libere) cooperative agricole54. Il primo pubblico annuncio politico di misure corporativiste (“autoritarie”) fu fatto circa un anno dopo la bancarotta del paese nel 1932 (ed il conseguente inasprimento dei rapporti di classe), ed esattamente un mese dopo la disfatta schiacciante del venizelismo a seguito del fallito golpe di Plastiras del 3 marzo 1933 e più specificamente nelle dichiarazioni programmatiche del secondo governo di Panagis Tsaldaris nell’aprile del 1933 al Parlamento. In altre parole l’ingresso del corporativismo nella prassi politica greca andò di pari passo con il declino del liberalismo economico e (soprattutto) politico55. Tsaldaris annunciò che avrebbe

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perseguito l’innalzamento etico e materiale dell’operaio e la sua armoniosa collaborazione con il capitale imprenditoriale, che avrebbe anche protetto e che, «al fine di attenuare ogni probabile contrasto acuto fra di loro, dinanzi allo scoppio di qualsiasi sciopero da parte dei lavoratori o dei datori di lavoro, avrebbe suggerito che fossero applicate misure analoghe a quelle vigenti in altri stati»56. Lo stesso Ioannis Metaxas, in una sua intervista al giornale «Kathimerini» (6 gennaio 1934) si dichiarò favorevole al «più intensivo interventismo dello Stato” nell’economia e nella società capitalista», mentre dichiarò allo stesso tempo che «il sistema parlamentare» era ormai «totalmente incapace di rispondere ai nuovi problemi, sorti nella vita dei popoli»57. Nelle dichiarazioni programmatiche (25 aprile 1936) del suo primo governo (parlamentare) Metaxas rese noto il suo intento di ottenere «possibilmente più solidi termini di collaborazione fra capitale e lavoro»; considerò come una delle misure principali per il successo di questo obiettivo «l’ampia applicazione dei contratti collettivi di lavoro» e la «regolamentazione organizzativa da parte dello stato delle questioni derivanti dai collettivi conflitti di lavoro»58.

16 Allo stesso modo le idee corporative non erano incluse neanche nel programma politico iniziale del Partito Radicale Nazionale del generale Georgios Kondylis (fondato nell’agosto del 1932)59. Tuttavia dopo il golpe e la presa di potere (10 ottobre 1935), Kondylis (un sostenitore dichiarato di Mussolini, che incontrò due volte nel luglio del 193560) dichiarò, in un suo discorso pubblico, il 21 ottobre, «la realizzazione della collaborazione fra capitale e lavoro» come uno dei pilastri fondamentali della sua politica sociale61.

17 Il primo passo verso l’applicazione di misure corporative in Grecia fu fatto con l’istituzione (per la prima volta nella storia del paese) del Ministero del Lavoro, il 14 ottobre 193562; questo ministero venne istituito come uno strumento di esercizio di una politica “sindacale”. Alla fine di agosto, Metaxas declassò il Ministero del Lavoro in Dipartimento e lo collocò sotto la sovrintendenza del Ministero dell’Economia nazionale. Nello stesso tempo, però, aggiunse alla sua legge costituente la precisazione che le competenze del suddetto ministero includevano la tutela «in favore dell’assicurazione di una collaborazione armoniosa fra lavoro e capitale al fine di promuovere l’Economia Nazionale e per il sollevamento morale e materiale delle classi lavoratrici», come anche «l’intervento arbitrario per la risoluzione delle dispute fra lavoratori e datori di lavoro, derivanti da contratti, costumi o consuetudini lavorative» 63. Il secondo strumento più importante per l’applicazione della politica corporativa “autoritaria” era la promulgazione dei contratti di lavoro collettivi, i quali determinavano «il livello minimo dei salari degli impiegati privati e delle paghe giornaliere degli operai industriali». I contratti di lavoro collettivi che, inizialmente vennero promulgati con una legge obbligatoria del governo Kondylis, introdussero la «procedura dell’arbitrato obbligatorio» nella conclusione di questi contratti collettivi come anche in qualsiasi disputa fra datori di lavoro e salariati del settore privato, in aziende dove la forza lavoro superava le 10 persone64. La procedura dell’arbitrato obbligatorio incontrò tuttavia le obiezioni e la reazione tanto dei lavoratori quanto dei datori di lavoro65. La proclamazione dello sciopero nazionale operaio per il 5 agosto 1936 dalla GSEE e la GSEE Unitaria aveva come rivendicazione principale la non applicazione del decreto legislativo per l’arbitrato obbligatorio dello Stato nelle dispute lavorative, che era stato votato dal consiglio dei ministri il 21 luglio66. Alla fine l’applicazione di questi contratti è stata compiuta durante la dittatura di Metaxas,

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quando vennero firmati (12 agosto) «da parte del governo e dei rappresentanti delle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori» e vennero ratificati tramite un decreto emergenziale (7 settembre) i primi due «contratti di lavoro collettivi». La legge in questione precisò anche l’universalità della loro vigenza: «La sottoscrizione di questi contratti si intende come totalmente sostitutiva alla loro sottoscrizione da qualsiasi altra organizzazione lavorativa o dei datori di lavoro, generale, locale o speciale, e vincola anche queste organizzazioni insieme alle sottoscritte Organizzazioni Generali per la durata menzionata nei contratti»67. Secondo il propagandistico punto di vista ufficiale del regime, l’applicazione del sistema dei contratti collettivi “Nazionali” del lavoro «ha armonizzato gli interessi dei fattori che lo rappresentano [N.d.T. il lavoro] e ha restituito ad esso il suo valore vero come di un fondamentale ufficio sociale»68. Allo stesso tempo il Dipartimento della Stampa precisò il carattere vincolante di questi contratti per tutti i lavoratori del settore privato: «la definizione della paga giornaliera minima non è stata limitata soltanto ai grandi rami di certe industrie, ma assunse un’estensione quasi totale su tutto il territorio e in tutte le professioni»69. I primi due contratti collettivi regolavano i livelli minimi della paga giornaliera degli operai industriali e i limiti minimi dei salari mensili «per i dipendenti dei negozi commerciali, degli uffici, delle Aziende Anonime e dei dipendenti privati in genere». Alla loro promulgazione il «mondo dei datori di lavoro» fu rappresentato dai presidenti delle Camere commerciali e industriali di Atene, Pireo e Salonicco, dal presidente dell’Associazione degli Industriali Greci, da rappresentanti dell’Unione delle Banche Greche, dai Circoli Commerciali di Atene e del Pireo, come anche da un membro del Consiglio Economico Supremo. La classe operaia e quella impiegatizia furono rappresentate rispettivamente dal presidente del Centro Operaio di Atene e da un rappresentante del Centro Operaio di Pireo, dal presidente dell’Unione degli operai carico-scarico del porto di Pireo, dal presidente dell’Unione Panellenica Ingegneri delle fabbriche industriali, dal presidente dell’Unione dei tessitori di Atene, dal Presidente dell’Associazione degli Impiegati Commerciali di Atene e da un rappresentante degli insegnanti privati70. Con il decreto emergenziale 1435 dell’ottobre 1938, la GSEE (la quale all’epoca era naturalmente sotto il controllo del regime) venne autorizzata a «rappresentare tutte, in generale, le organizzazioni rappresentative operaie e impiegatizie agli organi collettivi dell’amministrazione e dell’assicurazione ai tribunali d’arbitrato e assicurativi, alla promulgazione di ogni sorta di contratto di lavoro collettivo in generale e ad aiutare le organizzazioni ad essa sottoposte per l’armonizzazione gli interessi dei fattori che costituiscono il lavoro nazionale»71. Nello stesso anno Stefanidis espresse la sua approvazione per «l’alquanto efficace sforzo di regolazione dei rapporti fra gli industriali e i loro dipendenti e della creazione di terreno per la vera collaborazione fra questi fattori per il bene della collettività»; in questo “sforzo” incluse in primo luogo la sottoscrizione dei contratti collettivi sotto l’egida dello Stato. «Grazie a questo sforzo», il professore di Economia politica vedeva «diretto verso la sua scomparsa totale il punto forse più oscuro del nostro progresso industriale, cioè la tensione fra datori di lavoro e lavoratori, l’infinita serie di scioperi e controscioperi e l’eterno turbamento della nave sociale che, fino a questi ultimi tempi navigava serena»72. È ridondante notare qui che l’imposizione del regime del 4 agosto venne accompagnato dal divieto di sciopero, di picchettaggio e di altre manifestazioni che impedivano il processo produttivo73.

18 Infatti il regime di Metaxas compì una rottura radicale con il sistema lavorativo liberale del passato. Nel suo discorso per l’inaugurazione dell’undicesima fiera di Salonicco (6

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settembre 1936) Metaxas sottolineò che oramai «lo Stato prende in mano la direzione dell’economia dei paesi e il controllo dell’economia viene da esso esercitata appieno». In una sua intervista alla «Völkischer Beobachter» di Berlino del 24 settembre 1936, Metaxas, facendo un passo ulteriore dichiarò che «il nuovo Stato sarà sindacale», e che intendeva creare «organizzazioni di datori di lavoro e di lavoratori in ciascuna regione» 74, ma questa sua dichiarazione non si concretizzò mai. Nel novembre del 1936 il Ministro dell’Economia Konstantinos Zavitzianos annunciò la creazione di un Gran Consiglio del Lavoro Nazionale, ma senza dare ulteriori informazioni75. In ogni caso il «nuovo Stato anti-parlamentare» aveva come fine dichiarato di lungo termine la «riorganizzazione della vita sociale e politica sulla base della dottrina della cooperazione e solidarietà delle classi»76. Come dichiararono nel 1938 i giuristi teorici della “Rivoluzione del 4 Agosto”, Nikolaos Koumaros e Georgios Mantzoufas, «ci sarà una rappresentanza classista del popolo, cioè dei gruppi organizzati e delle organizzazioni professionali», ma «se lo Stato del 4 Agosto intende o meno evolvere in uno Stato sindacale, ciò non è stato dichiarato»77. Metaxas e i suoi collaboratori avevano aspirato all’organizzazione collettivista della società e all’organizzazione corporativista “nazionale” del lavoro (l’istituzione di un nuovo sistema di rappresentanza orizzontale, il Gran Consiglio del Lavoro Nazionale e l’Assemblea delle Professioni), ma questa visione venne applicata su base sperimentale solo nel settore dell’agricoltura (alle Cooperative Agricole e alle Case del Contadino).

19 Malgrado il fatto che le ambiziose dichiarazioni di Metaxas e Zavitzianos non si fossero concretizzate pienamente, alcune misure d’interesse nazionale/“auroritarie” furono adottate nel settore dell’industria. Nel 1937 il primo maggio venne dichiarato come Giorno della Festa del Lavoro; il relativo decreto emergenziale precisava che il lavoro veniva inteso «nel suo significato ideologico nazionale»78. Nel luglio del 1940 una nuova legge d’emergenza pose le Camere Professionali e Artigianali sotto «la sovrintendenza ed il controllo» del Sottosegretariato al Lavoro, e li convertì in persone giuridiche di Diritto pubblico come «obbligatorie Unioni di professionisti di una data categoria» (il concetto di “categoria” è da interpretare in ottica corporativista). Mentre la legge istitutiva delle camere Professionali e Artigianali precisava che i membri dei loro Consigli amministrativi sarebbero stati «revocabili», la nuova legge d’emergenza stabiliva che da allora in poi un terzo dei loro membri sarebbe stato designato dal competente Sottosegretariato al Lavoro79. Le Camere commerciali e industriali non vennero modificate e nella Grecia di Metaxas non venne creato niente di paragonabile ai Reichsstände für Handel und Industrie nazionalsocialisti (Sindacati Nazionali per il Commercio e l’Industria80) o all’italiana Carta del Lavoro.

20 Nel settore dell’agricoltura, il governo di Metaxas si mosse, nell’ambito della politica dell’agricoltura pianificata, nella direzione del miglioramento della posizione materiale dei contadini, attraverso la riduzione del processo di urbanizzazione e l’istituzione di una classe agraria conservatrice, la quale sarebbe stata fedele agli ideali nazionali e sostenitrice del regime81. Nel marzo del 1938 venne fondata (al posto della Confederazione Panellenica delle Cooperative Agricole) la Confederazione Nazionale delle Cooperative Agricole della Grecia, la quale fu posta sotto la «diretta sovrintendenza del presidente del Governo» e divenne «l’Organizzazione suprema e universale di tutte le Organizzazioni Cooperative del Paese». La riorganizzazione centrale del movimento cooperativo ed il rafforzamento della posizione «dello Stato in modo che esso possa agire in modo più diretto sulle sue direzioni» trasformava letteralmente le cooperative in «Strumento dello Stato [sic!]». «L’intervento dello

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Stato», prendeva dichiaratamente come esempio la Germania e si giustificava (nel testo della legge) con l’«innalzamento del livello di vita della classe contadina»82. Il 1° dicembre 1938 fu fondata formalmente una “Scuola dei cooperanti” (Σχολή Συνɛταιριστών) all’interno dell’ASOEE (ΑΣΟΕΕ, Scuola Superiore di Scienze Economiche e Commerciali) di Atene. Come spiegò Metaxas in un suo discorso durante l’inaugurazione della scuola, l’applicazione dell’«idea della cooperazione» (cioè del corporativismo) ebbe inizio dal mondo contadino, poiché esso costituiva lo strato sociale più basso della piramide sociale, dal quale «proviene tutto il volume della piramide fino alla cima». Metaxas espresse la propria fede nella «dottrina cooperativa»; sottolineò che «la nostra libertà è davvero molto limitata» e che «la nazione intera fatalmente costituisce un’enorme cooperativa», ma ammise che «siamo molto distanti» dall’organizzazione cooperativa «della collettività nazionale generale»83. Nell’agosto del 1939 venne istituito anche un Dipartimento delle Cooperative con a capo il segretario generale del Ministero dell’Agricoltura Babis Alivizatos.84

21 Ma lo strumento principale dell’esercizio della politica corporativa nel settore dell’economia agraria, erano le cosiddette Case del contadino. Nel novembre del 1938 fu promulgata l’istituzione (inizialmente affidata ai capoluoghi di ogni Regione) delle Case del contadino, che sostituirono le Camere agricole e avevano come obiettivo «l’educazione professionale e spirituale e l’illuminazione della classe agricola, la stretta collaborazione con lo Stato e l’applicazione della politica agricola tracciata di volta in volta dal Ministero dell’Agricoltura»85. Le Case del contadino avrebbero costituito – secondo Metaxas – i «nuclei combattivi» che avrebbero trasmesso alla campagna «i principi e lo spirito dello Stato del 4 Agosto» e sarebbero diventate «l’avanguardia militante» che avrebbe creato il «futuro agricolo migliore» del paese.86 Le Case del contadino – una creazione di Babis Alivizatos durante il ministero di Kyriakou – copiavano le (otto) corporazioni del «circolo agricolo produttivo», che vennero istituite nel 1934 nell’Italia mussoliniana dal Sottosegretario al Ministero delle corporazioni (i “sindacati”), Giuseppe Bottai nell’ambito del corporativismo (e della Carta del Lavoro del 1927)87 e le Bauernschaften (le Körperschaften nel settore della produzione, della lavorazione e del commercio di prodotti agricoli) della Germania nazionalsocialista, che erano state fondate nel settembre del 193388. L’ispirazione per il loro nome venne probabilmente dalle casas do povo (case del popolo) portoghesi, i sindacati agricoli dell’Estado Novo di Salazar (1933-1974)89. Le Case del contadino istituzionalizzavano la classe agricola legalitaria greca e i loro membri avrebbero costituito la sua élite (l’Organizzazione politica della Classe Contadina) la quale avrebbe infuso la «solida coscienza» alle popolazioni contadine e avrebbe assunto «con vero fanatismo il lavoro della diffusione e dell’organizzazione della propaganda nelle campagne» ed il «consolidamento di una classe agraria forte dal punto di vista dell’anima e dello spirito»90. L’obiettivo di Babis Alivizatos – ricalcando letteralmente i concetti di Durrè, il quale aveva trasformato la nota fraseologia di Vilfredo Pareto e di Robert Michels adoperata dal fascismo italiano – era quello di «creare una nuova aristocrazia dei campi: l’aristocrazia delle mani “ruvide”, l’aristocrazia del villaggio e della campagna». Il «Mondo Agricolo» avrebbe così acquistato la sua «“unità interna” (ed un gruppo dirigente) ed il suo posto organico dentro la cornice dello Stato del 4 Agosto»91. Malgrado le somiglianze esterne, le Case del contadino differivano in modo sostanziale dai “sindacati” agricoli nazionalsocialisti e fascisti. Così, mentre il Reichsnährstand tedesco (il “sindacato” supremo nel settore dell’alimentazione popolare) determinava il prezzo di vendita all’ingrosso e al dettaglio come anche le quote di produzione dei

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prodotti agricoli, aveva funzioni di controllo della qualità tanto dei prodotti agricoli freschi che di quelli lavorati e aveva la facoltà di imporre multe e pene alle industrie e ai commercianti del settore alimentare92, il legislatore greco non conferì mai competenze del genere alle Case del contadino. La politica dell’«agricoltura pianificata» di Metaxas si occupava esclusivamente della forza lavoro dell’economia e della società agricola e non arrivava fino alla regolamentazione dei termini della produzione e della distribuzione commerciale dei beni.

22 Fino all’entrata della Grecia nella Seconda guerra mondiale (18 ottobre 1940), il corporativismo “autoritario” aveva fatto qualche progresso, ma non aveva raggiunto lo stadio della maturità. Secondo informazioni ufficiali, fino all’agosto del 1940 furono formati alla “Scuola dei cooperanti” circa 2.000 impiegati delle organizzazioni cooperative agricole93. Durante lo stesso periodo erano in funzione Case del contadino in tutto il Peloponneso e venivano fondate gradualmente anche in tutti i capoluoghi di Regione del resto della Grecia94. La diffusione delle Case del contadino nel Peloponneso si spiega facilmente con il fatto che quella particolare zona della Vecchia Grecia era una tradizionale roccaforte degli anti-venizelisti e veniva abitata da piccoli proprietari terrieri conservatori, che erano strettamente legati alle reti di patronato dei partiti borghesi95. Al contrario l’espansione dell’istituzione della Casa del contadino in Tessaglia (la roccaforte degli agrari radicali), in Macedonia e in Tracia, dove si erano stabiliti profughi, piccoli proprietari coltivatori, fedeli al venizalismo e a una forma di governo non monarchico, era un’impresa ardua. Per quanto riguarda i contratti collettivi di lavoro, sempre secondo fonti ufficiali, la loro applicazione «fu quasi totale sul territorio e su tutte le professioni». Durante i primi tre anni del regime vennero firmati 823 contratti collettivi, dei quali 133 erano «generali, aventi cioè vigore in tutto lo Stato» e 690 «locali»96. Anche l’istituzione dell’arbitrato obbligatorio nelle differenze fra salariati e datori di lavoro sembra aver avuto un grande successo: durante il periodo 4 agosto 1938-4 agosto 1939 i servizi competenti del Dipartimento del Lavoro risolsero l’82% di queste dispute (59.748 su un totale di 73.109) e soltanto il 18% dei(suddetti casi fu portato in tribunale97. Il Nuovo Stato di Metaxas poteva vantarsi di aver realizzato la cooperazione di tutte le classi «a favore dell’Economia nazionale e del benessere sociale». Il decreto emergenziale 1435/1938 definì con maggiore chiarezza che i circoli professionali per poter sottoporre allo Stato qualsiasi rivendicazione dovevano necessariamente ottenere prima «un riconoscimento speciale, in quanto “rappresentativi”». Successivamente furono riconosciuti come “rappresentativi” 1.257 circoli di operai (a paga giornaliera) e di impiegati, i quali furono di seguito subordinati a 41 Centri di operai e impiegati”, e ad altrettante Segreterie inter-professionali della GSEE. In breve tempo la GSEE venne ribattezzata Confederazione Nazionale dei Lavoratori Greci (Εθνική Συνομοσπονδία των Εργατών της Ελλάδας/ΕΣΕΕ), affinché ci fosse una più piena rappresentanza dei circoli professionali «all’interno dello Stato»98. L’esatta composizione e funzione di questi circoli “riconosciuti” non è nota a causa della mancanza di dati sufficienti, ma è certo che il Decreto legge 1435 mise le basi per l’istituzione dei “sindacati” corporativi di primo grado.

5. Conclusioni

23 L’applicazione del corporativismo “autoritario” nella Grecia tra le due guerre era la conseguenza del crollo del liberalismo economico – a seguito della bancarotta del 1932,

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a causa della crisi economica mondiale – e della acuta crisi dello Stato parlamentare liberale dopo i golpe militari consecutivi del 1933 e del 1935. Certamente quattro anni dopo l’imposizione del regime “fascisteggiante” di Ioannis Metaxas, la Grecia non era ancora uno “Stato Sindacale” e la vecchia legislazione del lavoro non era andata oltre il primo stadio del “corporativismo”. Questi 1257 “rappresentativi” circoli di operai e impiegati non erano stati ancora trasformati in “sindacati” di secondo grado e non rappresentavano i datori di lavoro insieme ai loro dipendenti. Il loro numero era caotico (in confronto ad esempio ai 823 sindacati “riconosciuti” e le 22 corporazioni della vicina Italia fascista) ed era appena più piccolo del numero totale dei già esistenti libere associazioni di lavoratori autonomi e indipendenti greche (1.607), “rappresentativi” e non-riconosciuti99. Perfino a livello teorico, la propaganda delle idee e delle pratiche corporativiste “autoritarie” quasi coincise temporalmente con l’istituzione delle dittature di Kondylis e di Metaxas e si svolse parallelamente ad esse come un metodo di allineamento opportunistico e di corteggiamento del potere autoritario100. Così come il regime di Metaxas non raggiunse mai lo stadio maturo del fascismo (o non fece in tempo a raggiungerlo a causa della guerra), così anche il corporativismo non divenne mai un elemento ideologico strutturale dell’economia e della politica greca. Peraltro lo stesso Metaxas diede maggiore enfasi ai valori della famiglia, della monarchia e della religione e dell’etica ortodossa, che non allo Stato. La filosofia politica di Metaxas era profondamente conservatrice e guardava più verso il passato e la tradizione piuttosto che ad una modernità alternativa, fascista o nazista101. Come è noto, il corporativismo si diffuse principalmente in paesi con una forte tradizione cattolica come l’Italia, il Portogallo, la Spagna, l’Austria e i paesi dell’America Latina.

24 Oltre alle ragioni soggettive, ce ne sono anche alcune oggettive che spiegano l’atrofia del corporativismo in Grecia. Innanzitutto la tarda e atrofica industrializzazione e la classe operaia fluida e disomogenea spiegano il questo esito. L’industria greca nel primo dopoguerra consisteva per la maggior parte in piccole arcaiche imprese di famiglia (nel 1930, 70.644 su un totale di 76.591 imprese, cioè una percentuale del 90%) con capitali piccoli e un ridotto numero di dipendenti, che non superava le 6 persone102. Circa il 40% di queste imprese erano stagionali, con un’interruzione delle attività che si protraeva dai tre ai nove mesi all’anno103. Una parte rilevante della forza lavoro era costituita dai giovani, da donne nubili (23,2% nel 1928) e da minori (giovani “apprendisti” dai 12 ai 18 anni, il 6% nel 1920). La maggior parte di queste lavoratrici (una percentuale del 71% nel 1930) abbandonava l’occupazione industriale appena si sposava104. In più una parte importante degli uomini che lavorava nelle fabbriche, principalmente operai non specializzati (che ammontavano al 70% della forza lavoro del paese) considerava la sua occupazione nell’industria come provvisoria e come un trampolino di lancio per il passaggio alla piccola borghesia delle città, tramite l’apertura di un piccolo negozio o di un bar o attraverso l’assunzione nel settore pubblico105. Tutto questo impediva la formazione di una solida e durevole classe operaia che avrebbe potuto inserirsi nei “sindacati”. In definitiva la Grecia tra le due guerre può essere caratterizzata solo come esempio periferico della norma europea del corporativismo.

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NOTE

1. WILLIAMSON, Peter J., Varieties of Corporatism: A Conceptual Discussion, New York, Cambridge University Press, 1985, p. 4. 2. Ibidem, pp. 19-20, 22. 3. Cfr. ROBERTSON, David, The Penguin Dictionary of Politics, London, Penguin Books, 1993, p. 117. 4. WILLIAMSON, Peter, op. cit. pp. 20-21. 5. Ibidem. 6. Ibidem, pp. 7, 11. 7. Ibidem, pp. 9-11. 8. ΛΙΑΚΟΣ, Αντώνης, Εργασία και πολιτική στην Ελλάδα του Μεσοπολέμου: Το Διεθνές Γραφείο Εργασίας και η ανάδυση των κοινωνικών θεσμών [LIAKOS, Antonis, Lavoro e politica nella Grecia tra le due guerre: L’Ufficio Internazionale del Lavoro e l’emergere delle istituzioni sociali], Αθήνα, Εμπορική Τράπεζα της Ελλάδος, 1993, p. 351; EYCK, Erich, A History of the Weimar Republic, vol. 2, From the Locarno Conference to Hitler’s Seizure of Power, New York, J. Wiley, 1967, pp. 110-114. 9. WILLIAMSON, Peter, op. cit., p. 77. 10. MAZOWER, Mark, Greece and the Inter-War Economic Crisis, Oxford, Clarendon Press, 1991, pp. 91-92. 11. Ibidem, p. 94.; ΠΙΖΑΝΙΑΣ, Πέτρος, Οι φτωχοί των πόλεων. Η τεχνογνωσία της επιβίωσης στην Ελλάδα το Μεσοπόλεμο [PIZANIAS, Petros, I poveri delle città: l’expertise della sopravvivenza nella Grecia tra le due guerre], Αθήνα, Θεμέλιο, 1993, p. 155. 12. MAZOWER, Mark, op. cit., pp. 172-173. 13. Ibidem, pp. 237, 250-251 14. ΔΡΙΤΣΑ, Μαργαρίτα, Βιομηχανία και τράπεζες στην Ελλάδα του Μεσοπολέμου [DRITSA, Margarita, Industry and Banks in Inter-War Greece], Αθήνα, Μορφωτικό Ίδρυμα Εθνικής Τραπέζης, 1990, p. 120. 15. ΠΙΖΑΝΙΑΣ, Πέτρος, op. cit., pp. 155-156. 16. ΔΡΙΤΣΑ, Μαργαρίτα, op. cit., pp.117-118. Secondo Alkis Rigos nel 1931 circa il 25% degli operai erano organizzati in sindacati. ΡΗΓΟΣ, Άλκης, Η Β´ Ελληνική Δημοκρατία 1924-1935 : Κοινωνικές διαστάσεις της πολιτικής σκηνής [RIGOS, Alikis, La seconda democrazia ellenica 1924-1935: dimensioni sociali della scena politica], Αθήνα, Θεμέλιο, 1992 p. 144 17. ΜΟΣΚΩΦ, Κωτής, Εισαγωγικά στην ιστορία του κινήματος της ɛργατικής τάξης: Η διαμόρϕωση της ɛθνικής και κοινωνικής συνɛίδησης στην Ελλάδα [MOSKOF, Kostis, Cenni introduttivi alla storia del movimento operaio: la formazione della coscienza nazionale e sociale in Grecia], Αθήνα, Εκδόσεις Καστανιώτη, 1988, pp. 448-449; ΕΛΕΦΑΝΤΗΣ, Άγγελος, Η επαγγελία της αδύνατης επανάστασης: Κ.Κ.Ε. και αστισμός στον Μεσοπόλεμο [ELEFANTIS G., Angelos, La promessa di una rivoluzione impossibile: il KKE e la borghesia tra le due guerre] Αθήνα, Θεμέλιο, 1999, pp. 119, 357, 406-407. 18. ΕΛΕΦΑΝΤΗΣ, Άγγελος, op. cit., p. 93. 19. Ibidem, p. 287; MAVROGORDATOS, George Th., Stillborn Republic: Social Coalitions and Party Strategies in Greece, 1922-1936, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1983, pp. 147, 151-152; PAPACOSMA, Victor S., Ioannis Metaxas and the “Fourth of August” dictatorship in Greece, in FISCHER, Bernd J. (ed.), Balkan Strongmen: Dictators and Authoritarian Rulers of South Eastern Europe, London, Hurst, 2007, pp. 165-198, p. 179. 20. MAZOWER, Mark, op. cit., p. 289. 21. RATHENAU, Walter, Der Neue Staat, Berlin, Fischer, 1919. 22. DURKHEIM, Émile, De la division du travail social, Paris, Librairie Félix Alcan, 1893. 23. MANOLEISCU, Mihail, Le siècle du corporatisme. Doctrine du corporatisme integral et pur, Paris, Editions Payot, 1934.

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24. WILLIAMSON, Peter, op. cit., pp. 26-27, 46-47, 58-59. 25. L’esponente principale del comunitarismo (κοινοτισμός) nella Grecia del primo dopoguerra era Konstantinos Karavidas (1890-1973), un ufficiale del Ministero degli Esteri. Il cuore della sua teoria era la ‘comunità cooperativa autonoma’ dei contadini, che «potrebbe ridare alla singola famiglia la vitalità che aveva perso a causa della sua dipendenza dallo stato iper-centralizzato ed il capitale». Il comunitarismo di Karavidas si riferiva principalmente a questioni di agricoltura; vedi ΚΑΡΑΒΙΔΑΣ, Κώστας Δ., Σοσιαλισμός και κοινοτισμός (Δοκίμιο περί των γεωοικονομικών και κοινωνικών βάσεων του πολιτισμού των ελληνικών χωρών) [KARAVIDAS, Kostas D., Socialismo e Comunitarismo (Studio sulle basi geoeconomiche e sociali della civilizzazione delle terre greche)], Αθήνα, Ο Κοραής, 1930. La grande diffusione delle idee comunitariste nell’intellighenzia greca può essere ricercata nella connessione del comunitarismo con l’antica filosofia aristotelica. TAM Henry, Communitarianism: A New Agenda for Politics and Citizenship, Houndmills, Basingstoke-London, Macmillan, 1998, pp. 18-19. 26. ΦΙΛΑΡΕΤΟΣ, Κλεισθένης, «Αι κοινωνικαί ασφαλίσεις, η κοινωνία και τα κόμματα» [PHILARETOS, Klistenes, Previdenza sociale, società e partiti], in Πολιτισμός, VI, 7, 1932, pp. 534, 592-593. 27. ΣΩΜΕΡΙΤΗΣ, Διονύσιος Θ., Περί της Γερουσίας εν Ελλάδι από θεωρητικής και ιστορικής απόψεως [SOMERITIS, Dionysios Th., Sul senato in Grecia sotto una prospettiva teoretica e storica], Αθήνα, Π. Γ. Μακρή & Σία, 1924, pp. 28-29, 131, 137-139; cfr. EYCK, Erich, op. cit., pp. 75-77. 28. ΣΒΩΛΟΣ Αλέξανδρος I., Το Νέον Σύνταγμα και αι βάσεις του πολιτεύματος [SVOLOS, Alexandros, La nuova costituzione e le basi dell’ordinamento politico], Αθήνα, Πυρσός, 1928, pp. 191, 195-203, 208-210; ΠΑΣΧΟΣ, Γιώργος, Κράτος και πολιτεύματα στο έργο του Αλ. Σβώλου [PASCHOS, Giorgos, Stato e ordinamenti politici nell’opera di Alexandros Svolos], Αθήνα, Σάκκουλας, 1981, pp. 66-89. Nel 1923, Svolos tradusse Le droit social, le droit inividuel et la transformation de l’État (Paris, F. Alcan, 1911), di Léon Duguit (professor di Diritto pubblico dell’Università di Bordeaux [Το κοινωνικόν δίκαιον, το ατομικόν δίκαιον και η μεταμόρφωσις του κράτους, Αθήνα, Ελευθερουδάκης, 1923.]. Nella sua introduzione (pp. ii-iii), Svolos sosteneva che «la complessa organizzazione delle classi sociali» non può più essere basata su «lotta e violenza, come vorrebbero i marxisti ma sulla solidarietà sociale» e invocava «rappresentanza economicca delle classi sociali» all’interno di un «Parlamento delle professioni». 29. DENDIAS, Michel, Le problème de la chambre haute et la représentation des intérêts à propos de l’organisation du Sénat grec, Paris, E. De Boccard, 1929, pp. 149-153, 303. La tesi di dottorato di Dendias è stata depositata all’Università di Parigi; dal 1930 Dendias intraprese una carriera brillante alle Università di Salonicco e di Atene occupando la cattedra di Diritto Amministrativo. 30. MAVROGORDATOS, George Th., pp. 37 (nota 15), 130-131 (nota 58); MAZOWER, Mark, op. cit., p. 267; ΛΙΑΚΟΣ, Αντώνης, op. cit., pp. 217, 355, 357; ΑΛΙΒΙΖΑΤΟΣ, Νίκος Κ., Το Σύνταγμα και οι εχθροί του στη νεοελληνική ιστορία, 1800-2010 [ALIVIZATOS, Nikos K., La costituzione e i suoi nemici nella storia della Grecia contemporanea, 1800-2010], Αθήνα, Πόλις, 2011, p. 265. Si trovano riferimenti alle teorie corporativiste anche nell’opera di Giorgos Theotokas (1905-1966). Nel suo Εμπρός στο κοινωνικό πρόβλημα [Dinanzi alla questione sociale] (Αθήνα, Πυρσός, 1932) l’intellettuale liberale radicale (che nel 1944 andò verso la socialdemocrazia), aspirò, nell’ambito di una economie dirigée (economia diretta), la trasformazione del Senato greco in «Parlamento Economico». Pensieri analoghi si ebbero anche per l’ AOS (ΑΟΣ/Consiglio Economico Supremo) fondato nel 1929). 31. ΘΕΟΤΟΚΑΣ Γιώργος, Εμπρός στο κοινωνικό πρόβλημα [THEOTOKAS, Giorgos, Dinanzi alla questione sociale] (Αθήνα, Πυρσός, 1932), ristampato in ΘΕΟΤΟΚΑΣ Γιώργος, Στοχασμοί και θέσεις. Πολιτικά κείμενα 1925-1966 [THEOTOKAS, Giorgos, Riflessioni e orientamenti: scritti politici, 1925-1966], vol. I (1925-1949), Αθήνα, Εστία, 1996, pp. 194-195; cfr. ΧΑΤΖΗΒΑΣΙΛΕΙΟΥ, Ευάνθης, Ελληνικός φιλελευθερισμός: Το ριζοσπαστικό ρεύμα, 1932-1979 [HATZIVASSILIOU, Evanthis, Liberalismo greco: il corso radicale, 1932-1979], Αθήνα, Πατάκη, 2010, pp. 54-57, 151-152.

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32. GRILLENZONI, Carlalberto, Το συντεχνιακόν κράτος [ Lo Stato corporativo], traduzione PAPAMICHALIS Ninos, Αθήνα, Εστία, 1935, p. 7. 33. BIAGI, Bruno, Η παγκοσμιότης των συντεχνιακών θεσμών [ La globalizzazione delle istituzioni corporative], Αθήνα, s.e., 1937; ΒΕΚΙΑΡΕΛΗΣ, Αριστείδης Ε., Το συντεχνιακόν κράτος ως πολιτικόν δόγμα και ως οικονομική οργάνωσις [VEKIARELIS, Aristidis, The Corporatist State as a Political Doctrine and as an Economic Organization], Αθήναι, Τραπεζιτική, 1937; BIAGGI, Bruno, Το συνδικάτον εις το πλαίσιον του φασιστικού συντεχνιακού συστήματος [ Il sindacato nel quadro del sistema corporativo fascista], Αθήνα: εθνική κοινωνική βιβλιοθήκη, 1938. La brochure di Biaggi si basava su una sua lezione tenuta all’Istituto Italiano di Atene. Il sistema corporativo italiano veniva propagandato anche attraverso la stampa periodica. Cfr. BOTTAI, Giuseppe, «Το φασιστικόν κορπορατιβιστικόν κράτος» [«Lo stato corporativo fascista»], in Εργασία, 246, 16 Settembre 1934, pp. 1198-1200; ΝΟΤΑΡΑΣ, Ανδρέας, «Η οργάνωσις του συντεχνιακού κράτους» [NOTARAS, Andreas, «L’organizzazione dello Stato Corporativo»], in Εργασία, 366, 3 Gennaio 1937, pp. 1356-1357; ΧΡΙΣΤΟΔΟΥΛΙΔΗΣ, Γιώργος, «Το συντεχνιακόν σύστημα εις την Ιταλίαν» [KRISTODOULIDIS, Giorgos, «Il sistema corporativo in Italia»], in Νέα Πολιτική, 1/1939, pp. 46-66. 34. ΓΙΑΝΝΟΠΟΥΛΟΣ, Ιωάννης, Η αστική οικονομία και ο σοσιαλισμός: Η από σχεδίου οικονομία – διευθυνομένη οικονομία – συντεχνιακόν σύστημα – φασισμός – εθνικοσοσιαλισμός [GIANNOPOULOS, Ioannis, Economia Borghese e socialismo: l’economia pianificata – l’economia controllata – il sistema corporativo – fascismo – nazionalsocialismo], Αθήνα, s.e., 1939. 35. ΨΑΛΙΔΟΠΟΥΛΟΣ, Μιχάλης Μ., Η κρίση του 1929 και οι Έλληνες οικονομολόγοι: Συμβολή στην ιστορία της οικονομικής σκέψης στην Ελλάδα του Μεσοπολέμου [PSALIDOPOULOS, Michalis M., La crisi del 1929 e gli economisti greci: il contributo alla storia del pensiero economico nella Grecia tra le due guerre], Αθήνα, Ίδρυμα Έρευνας και Παιδείας Εμπορικής Τράπεζας Ελλάδος, 1989, pp., 163-165, 237, 257-264. 36. ΣΤΕΦΑΝΙΔΗΣ, Δημοσθένης Σ., Εισαγωγή εις την εφηρμοσμένην κοινωνικήν οικονομικήν [STEFANIDIS, Dimosthenis S., Introduzione all’economia sociale applicata], Θεσσαλονίκη, Ελληνική Ιατρική, 1937, p. 133. 37. Ibidem, pp. 133-134, 138. 38. MICHELS, Robert, Le partis politiques: essai sur les tendances oligarchiques des democraties, Paris, Flammarion, 1914. 39. ΣΤΕΦΑΝΙΔΗΣ, Δημοσθένης Σ., op. cit., pp. 45-55. 40. Ibidem, p. 140. 41. Ibidem, p.138. 42. Von BECKERATH, Erwin, Die Idee der korporativen Wirtschaft, in DOBBERT, Gerhard [hrsg. von], Die fasistische Wirtschaft: Probleme und Tatsachen, Berlin, Hobbing, 1934 43. ΣΤΕΦΑΝΙΔΗΣ, Δημοσθένης Σ., op. cit., pp. 138, 140-141. 44. Ibidem, pp. 86-89, 97. 45. Ibidem, pp. 81-82, 91. 46. ΨΑΛΙΔΟΠΟΥΛΟΣ, Μιχάλης Μ., Πολιτική Οικονομία και Έλληνες διανοούμενοι: Μελέτες για την ιστορία της οικονομικής σκέψης στη σύγχρονη Ελλάδα [PSALIDOPOULOS, Michalis M., L’economia politica e gli intellettuali grecis: studi sul pensiero economic nella Grecia contemporanea], Αθήνα, Τυπωθήτω, 1999, pp. 154-155. See, for instance: ΑΣΠΡΑΚΗΣ, Γεώργιος, «Αι θεωρητικαί βάσεις της φασιστικής σωματειακής οικονομίας» [ASPRAKIS, Georgios, «Le basi teoretiche dell’economia corporativa italiana»], in Nea Politiki, 1/1937), pp. 97-105; ΧΡΙΣΤΟΔΟΥΛΙΔΗΣ, Γιώργος, op. cit. 47. ΜΕΡΚΟΥΡΗΣ, Γεώργιος, «Ο εθνικοσοσιαλισμός εν Ελλάδι» [MERKOURIS, Georgios, Il nazionalsocialismo in Grecia], in Πολιτισμός, 5, 15 marzo 1933, pp. 194-195. 48. ΜΕΡΚΟΥΡΗΣ, Γεώργιος, Το συντεχνιανόν Κράτος [MERKOURIS, Georgios, Lo Stato corporativo], Αθήνα, s.e., 1936, p. 5. 49. Ibidem, p. 6.

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50. Ibidem, pp. 7, 11, 14, 16. 51. Ibidem, pp. 8-9. 52. Ibidem, pp. 12-26, 31-32. 53. URL: < http://catalog.parliament.gr > [consultato il 28 gennaio 2017]. 54. ΜΕΤΑΞΑΣ, Ιωάννης, Το προσωπικό του ημερολόγιο [METAXAS, Ioannis, Il suo diario personale], vol. III (1921-1932), Αθήνα, Εκδόσεις Γκοβόστη, 1963, pp. 778-782; VATIKIOTIS, Panayiotis J., Popular Autocracy in Greece, 1936-41: A Political Biography of General Ioannis Metaxas, London-Portland (OR), 1998, pp. 121-122. 55. Per le consequenze del colpo di Stato del 6 marzo 1933, si veda MAVROGORDATOS, George Th., op. cit., 338-341. 56. Εφημερίς των Συζητήσεων της Βουλής [Giornale dei discorsi Parlamentari], Periodo IV – Riunione I (27 Marzo 1933 – 30 Gennaio 1934), Atene 1934, p. 9. 57. ΜΕΤΑΞΑΣ, Ιωάννης, Το προσωπικό του ημερολόγιο [Il suo diario personale], V. IV (1933-1941), op. cit., pp. 592, 594. 58. Ibidem, p. 206. 59. In vista delle elezioni nazionali del settembre 1932 il Partito Nazionale Radicale aveva come obiettivo, nel campo della “politica sociale”, «la protezione degli economicamente deboli nei confronti dagli economicamente potenti, l’abbattimento degli sfruttamenti e dei privilegi sociali ingiusti, in particolar modo attraverso lo sviluppo della legislazione operaia (assicurazioni sociali)», e si poneva a favore della «necessità sociale di protezione delle classi lavoratrici, le quali rischiano di cadere nella completa dipendenza dal capitale». In un suo discorso a Kallithea (17 Settembre 1932), Kondylis si impegnò a perseguire la «liberazione del popolo lavorante dallo sfruttamento del Capitale» e a proteggere il lavoro. Si veda: Νέον Κράτος, 5, 1 settembre 1932, p. 1; Νέον Κράτος, 22, 18 settembre 1932, p. 4. 60. ΜΕΡΚΟΥΡΗΣ, Σταμάτης Σ., Γεώργιος Κονδύλης 1879-1936 [MERKOURIS, Stamatis, Georgios Kondylis 1879-1936], Αθήνα, Μαυρίδης, 1954, pp. 68, 171. Il 12 settembre 1932, Kondylis venne salutato dai suoi sostenitori a Katerini (una città nella Grecia settentrionale) come “il Mussolini di Grecia”. Si veda: Neon Kratos, 17, 13 settembre 1932, p. 4. 61. Οι εκφωνηθέντες λόγοι υπό του αντιβασιλέως προέδρου της κυβερνήσεως κ. Γεωργίου Κονδύλη [I discorsi pronunciati dal viceré presidente del governo sg. Georgios Kondylis], Αθήνα, Ἑλληνισμός , [1935], p. 5; ΜΕΡΚΟΥΡΗΣ, Σταμάτης Σ., op. cit., p. 67. 62. Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 465, 14 ottobre 1935, p. 2313; N. 536, 8 November 1935, p. 2614. 63. Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 379, 31 agosto 1936, pp. 1979-1980 (Αναγκαστικός Νόμος «περί συστάσεως Υφυπουργείου Εργασίας»). 64. Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 585, 20 novembre 1935, pp. 2941-2943 (Αναγκαστικός Νόμος «περί ρυθμίσεως Συλλογικών Συμβάσεων Εργασίας»); ΛΙΑΚΟΣ, Αντώνης, op. cit., pp. 518-519. 65. MAZOWER, Mark, op. cit., p. 268. 66. ΜΕΤΑΞΑΣ, Ιωάννης, Το προσωπικό του ημερολόγιο [METAXAS, Ioannis, Il suo diario personale], vol. IV (1933-1941), op. cit., pp. 219-220. 67. Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 391, 7 settembre 1936, p. 2045 (Αναγκαστικός Νόμος 99 «περί κυρώσεως Συλλογικών Συμβάσεως Εργασίας». 68. ΥΠΟΥΡΓΕΙΟ ΤΥΠΟΥ KAI ΤΟΥΡΙΣΜΟΥ, Τέσσερα χρόνια διακυβερνήσεως Ι. Μεταξά 4 Αυγούστου 1936 – 4 Αυγούστου 1940 [DIPARTIMENTO PER LA STAMPA E IL TURISMO, Quattro anni di governo di I. Metaxas 4 agosto 1936 – 4 Agosto 1940], v. I, Γεωργική και κοινωνική μεταρρύθμισις, [Riforma agraria e sociale], Αθήνα, Υπουργείον Τύπου και Τουρισμού, 1940, pp. 145-146. 69. Ibidem, p.147. 70. Καθημερινή, 5223, 13 agosto 1936, p. 5.

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71. Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 396, 24 ottobre 1938, p. 2634 (Αναγκαστικός Νόμος 1435 «περί συμπληρώσεως της περί Επαγγελματικών Σωματείων κειμένης Νομοθεσίας»). 72. ΣΤΕΦΑΝΙΔΗΣ, Δημοσθένης Σ., Η θέσις της βιομηχανίας εν τη κοινωνική μας οικονομία [STEFANIDIS, Dimosthenis S., Il posto dell’industria nella nostra economia sociale], Θεσσαλονίκη, s.e., 1938, p. 37. 73. VATIKIOTIS, Panayiotis J., op. cit., p. 161. 74. Riedizione dell’intervista comparsa su: Καθημερινή, 5266, 26 settembre 1936, p. 1. 75. MAZOWER, Mark, op. cit., pp. 290-291; SARANDIS, Constantine, The ideology and character of the Metaxas regime, in HIGHAM, Robin, VEREMIS, Thanos (eds.), The Metaxas Dictatorship: Aspects of Greece 1936-1940, Athens, Hellenic Foundation for Defence and Foreign Policy, 1993, pp. 156-157. 76. ΜΠΑΜΙΑΣ, Γρηγόριος, «Οι αγρόται εις το Νέον Κράτος» [MPAMIAS Grigorios, «I contadini dello Stato Nuovo»], in Το Νέον Κράτος, 10, 6/1938, p. 662. 77. ΚΟΥΜΑΡOΣ, Νικόλαος ΜΑΝΤΖΟΥΦΑΣ, Γεώργιος, «Αι θεμελιώδεις συνταγματικαί αρχαί του Νέου Κράτους» [KOUMAROS, Nicolaos D., MANTZOUFAS, Georgios A., «I principi costituzionali fondamentali dello Stato Nuovo»], in Το Νέον Κράτος, 11, 7/1938, p. 818. 78. Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 135, 9 aprile 1937, p. 895 (Αναγκαστικός Νόμος 606 «περί καθιερώσεως εβδομάδος εργατικής Αμίλλης και ημέρας εορτασμού της εργασίας»). 79. Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 206, 3 luglio 1940, p. 1707 (Α.Ν. «περί Επαγγελματικών και Βιοτεχνικών Επιμελητηρίων»); Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 93, 14 aprile 1925, pp. 534-535 (Νόμος 3305 «περί συστάσεως επαγγελματικών και βιοτεχνικών επιμελητηρίων»). 80. BARKAI, Avraham, Nazi Economics: Ideology, Theory, and Policy, New Haven-London, Yale University Press, 1990, p. 129. 81. Per un approfondimento sulla politica agraria di Metaxas, si veda: ΠΛΟΥΜΙΔΗΣ, Σπυρίδων Γ., Έδαφος και μνήμη στα Βαλκάνια: Ο «γεωργικός εθνικισμός» στην Ελλάδα και στη Βουλγαρία (1927-46) [PLOUMIDIS, Spyridon, Terra e memoria nei Balcani: “nazionalismo agrario” in Grecia e Bulgaria (1927-46)], Αθήνα, Πατάκη, 2011, pp. 55-64. 82. Εφημερίς της Κυβερνήσεως [Giornale del governo] v. I’, N. 118, 28 marzo 1938, pp. 725-729 (Αναγκαστικός Νόμος 1154 «περί κεντρικής οργανώσεως των Γεωργικών Συνεταιρισμών της Ελλάδος»). 83. Καθημερινή, 8043, 2 dicembre 1938, pp. 5-6. 84. Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 350, 31 agosto 1939, p. 2349; ΠΛΟΥΜΙΔΗΣ, Σπυρίδων Γ., Το καθεστώς Μεταξά, 1936-1940 [PLOUMIDIS, Spyridon, Il regime di Metaxas, 1936-1940], in ΧΑΤΖΗΒΑΣΙΛΕΙΟΥ, Ευάνθης (επιµ.), Η δικτατορία του Ιωάννη Μεταξά 1936-1941 [HATZIVASSILIOU, Evanthis ,La dittatura di Ioannis Metaxas], Αθήνα, Τα Νέα, 2010, p. 79. 85. Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 440, 26 novembre 1938, pp. 2887-2893 (Αναγκαστικός Νόμος 1481 «περί ιδρύσεως Οίκων του Αγρότου»); Αγροτικόν Μέλλον, 1, 26 Novembre 1938, pp. 2, 8; Αγροτικόν Μέλλον 29, 10 giugno 1939, p. 2. 86. Αγροτικόν Μέλλον, 14, 11 marzo 1939, pp. 1-2; ΜΕΤΑΞΆΣ, Ιωάννης, Λόγοι και Σκέψεις [METAXAS, Ioannis, Discorsi e pensieri], op.cit., v. 2, pp. 37-45. 87. BOTTAI, Giuseppe, op. cit.; ΝΟΤΑΡΑΣ, Ανδρέας, op. cit.; ΧΡΙΣΤΟΔΟΥΛΙΔΗΣ, Γιώργος, op. cit.; DE FELICE, Renzo, Storia dell’Italia contemporanea, vol. 3, Guerra e fascismo, 1915-1929, Napoli, ESI, 1978, pp. 406-407, 417. CANDELORO, Giorgio, Storia dell’Italia moderna, vol. IX, Il fascismo e le sue guerre, Milano, Feltrinelli, 1990, pp. 149-150. 88. Nella Germania nazista le (Landes-, Kreis- e specialmente le Ort-) Bauernschaften vennero fondate con legge speciale nel settembre del 1933 ed erano unioni corporativiste (Körperschaften) di produttori, elaboratori e distributori dei prodotti agricoli. Il totale di 20 Landesbauernschaften erano la «classe lavoratrice nazionale» del Terzo Reich o, come la rende in

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greco il Dimitrios Panou, la «Organizzazione Sindacale dell’alimentazione tedesca» (Reichsnährstand). Le Ortbauernführer si trovavano in contatto diretto con ogni contadino “associato” della loro zona. Vedi SANTORO, Cesare, Vier Jahre Hitler – Deutschland von einem Ausländergesehen, Berlin, International Verlag, 1938,pp. 298-299; ΠΑΝΟΥ, Δημήτρης, Η αγροτική πολιτική του εθνικοσοσιαλισμού [PANOU, Dimitris, La politica agricola del nazionalsocialismo], Αθήνα, s.e., 1939, pp. 9, 46, 50, 53-55. 89. I membri delle casas do povo (1933) erano sia oltivatori che proprietari terrieri. Nel 1937 la loro funzione venne assimilata con i “sindacati” industriali. 90. Αγροτικόν Μέλλον, 1, 26 novembre 1938, p. 2; Αγροτικόν Μέλλον, 3, 3 dicembre 1938, p. 3; Αγροτικόν Μέλλον, 64, 10 febbraio 1940, p. 3; Αγροτικόν Μέλλον, 65, 17 febbraio 1940; Αγροτικόν Μέλλον, 68, 9 marzo 1940, p. 1; Αγροτικόν Μέλλον, 86, 13 luglio 1940, p. 1; Αγροτικόν Μέλλον, 111, 15 febbraio 1941, p. 8; ΜΕΤΑΞΆΣ, Ιωάννης, Λόγοι και Σκέψεις [METAXAS, Ioannis, Discorsi e pensieri], v. 2, cit., p. 232. Si tratta del Discorso ai rappresentanti delle organizzazioni cooperative contadine del 7 gennaio 1940. 91. ΑΛΙΒΙΖΑΤΟΣ, Μπάμπης Β., Η Νέα Γεωργική Πολιτική [ALIVIZATOS, Babis V., La nuova politica agricola], Αθήνα, Ἐθνική Ἑταιρία, 1937, p. 32. Per l’invenzione del termine «nuova aristocrazia dei campi» a partire da Walther Darré vedi LANGSAM, Consuelo Walter, MITCHELL, Otis C., The World Since 1919, New York-London, Collier-Macmillan, 1971, p. 147; SOHN-RETHEL, Alfred, Economy and Class Structure of German Fascism, London, Free Association, 1987. p. 69. Per l’uso dei concetti di «élite» e «aristocrazia» di Pareto da parte Roberto Michels e dal fascismo italiano, si veda: GREGOR Anthony J., The Ideology of Fascism: The Rationale of Totalitarianism, New York- London, Free Press, 1969, pp. 217, 242; EATWELL, Roger, Fascism. A History, London, Chatto & Windus, 1996, p. 49; GENTILE, Emilio, Φασισμός: Ιστορία και ερμηνεία [Fascismo: storia e interpretazione], Αθήνα, Ασίνη, 2007, pp. 26, 116. 92. Αγροτικόν Μέλλον, 59, 6 gennaio 1940, p. 3. 93. BARKAI, Avraham, op. cit., 145-146. Va notato che, in contrasto con l’agricoltura, in cui I corpi amministrativi del Reichsnährstand organizzavano l’intero corso della trasformazione e della commercializzazione dei prodotti agricoli, industriali artigianali e le associazioni di categoria nella Germania nazista non avevano autorità sulle politiche di mercato o dei prezzi; cfr. BARKAI, Avraham, op. cit., p. 135. 94. ΥΠΟΥΡΓΕΙΟ ΤΥΠΟΥ KAI ΤΟΥΡΙΣΜΟΥ, op. cit., p. 109. 95. Ibidem. 96. MAVROGORDATOS, George Th., op. cit., pp. 161, 296-7; ΡΗΓΟΣ, Άλκης, op. cit., pp. 152-153. 97. ΥΠΟΥΡΓΕΙΟ ΤΥΠΟΥ KAI ΤΟΥΡΙΣΜΟΥ, op. cit., p. 147. 98. Ibidem, p. 149. 99. Ibidem; Ephimeris tis Kyverniseos [Giornale del governo], Serie A, N. 396, 24 ottobre 1938, p. 2633 (Αναγκαστικός Νόμος 1435). 100. Ad esempio le opera che erano state pubblicate da Tournakis, il promotore più inflessibile del modello corporativo italiano negli ambienti universitari, prima del 1936 riguardavano esclusivamente il commercio estero e l’emigrazione (e non il corporativismo); cfr. ΤΟΥΡΝΑΚΗΣ, Ιωάννης Ε., Μετανάστευσις και μεταναστευτική πολιτική εν Ελλάδι [TOURNAKIS, Ioannis E., Emigrazione e politica migratoria in Grecia], Αθήνα, Νέα πολιτική, 1923; ID., Οικονομική Πολιτική [Politica economica], vol. I, Εξωτερική εμπορική πολιτική [Commercio estero], Αθήνα, Νέα Πολιτική, 1927); ID., Διεθνής μεταναστευτική κίνησις και μεταναστευτική πολιτική [Movimento migratorio internazionale e politica migratoria] (Αθήνα, s.e., 1931). 101. MOSSE, George, Masses and Man: Nationalist and Fascist Perceptions of Reality, New York, Wayne State University Press, 1980, p. 187; MORGAN, Philip, Fascism in Europe, 1919-1945, London-New York: Routledge, 2003, p. 192; GRIFFIN, Roger, Modernism and Fascism: The Sense of a Beginning under Mussolini and Hitler, Houndmills-Basingstoke-New York, Palgrave Macmillan, 2007, pp. 31, 362.

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102. ΔΡΙΤΣΑ, Μαργαρίτα, op. cit., p. 113; MAZOWER, Mark, op. cit., pp. 93, 95. 103. ΠΙΖΑΝΙΑΣ, Πέτρος, op. cit., pp. 56, 158. 104. ΔΡΙΤΣΑ, Μαργαρίτα, op. cit., p. 63; ΛΙΑΚΟΣ, Αντώνης, op. cit., p. 286; ΠΙΖΑΝΙΑΣ, Πέτρος, op. cit., pp. 33, 36-38. La forza lavoro dell’industria consisteva sostanzialmente dei nuovi arrivati dalle champagne. A differenza dei rifugiati provenienti dall’Asia minore, questi migranti interni, che provenivano da famiglie di piccoli proprietari terrieri, non erano indigenti e perciò non destinati a rimanere nell’industria per la maggior parte della loro vita: mantennero le loro piccole proprietà nei villaggi e con molta maggior facilità si inserivano nelle reti politiche clientelari, che gli garantivano accesso agli impieghi statali. Si veda: ΠΙΖΑΝΙΑΣ, Πέτρος, op. cit., p. 42. 105. MAVROGORDATOS, George Th., op. cit., 144-145; ΔΡΙΤΣΑ, Μαργαρίτα, op. cit., 65-66; ΠΙΖΑΝΙΑΣ, Πέτρος, op. cit., pp. 19, 35-36, 47-49, 158-160; ΕΛΕΦΑΝΤΗΣ, Άγγελος, op. cit., pp. 351-352.

RIASSUNTI

Nella Grecia del primo dopoguerra, analogamente a quanto accade in Italia o in Germania, si fa avanti un nuovo modo di concepire le relazioni tra Stato, economia e società: è il corporativismo “autoritario”. Anche nel paese ellenico il crollo del liberalismo politico si era accompagnato ad una profonda crisi delle certezze sulla solidità e sull’utilità delle libertà in economia e aveva avuto un riflesso diretto nell’affermazione delle dittature di Kondylis e di Metaxas, fautori di una trasformazione dell’economia greca in senso dirigista. Questo articolo intende analizzare come, attraverso le novazioni normative e i tentativi di intervento nel sistema produttivo ellenico i poteri pubblici hanno tentato di allinearsi alle forme di controllo dell’economia che maturavano e si affermavano nel resto d’Europa.

In Greece, during the first postwar period, similarly to what happened in Italy and Germany, a new way of understanding the relationships among State, economy and society appeared: the so- called “authoritarian” corporatism. The fall of the political liberalism in the hellenic country came with a deep crisis in the certainties about solidity and utility of economic liberties which derived in the establishment of the Kondylis and Metaxas dictatorships, who are the supporters of the greek government control. This paper wants to analyze, through the normative innovations and the attempts of interventions in the hellenic productive system, how the public authorities have tried to aligned themselves with the control government manners which evolved and established in the rest of Europe.

INDICE

Parole chiave : corporativismo, dirigismo economico, Grecia, neocorporativismo, stato sociale Keywords : corporativism, government control, Greece, neocorporativism, welfare state

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AUTORI

SPYRIDON PLOUMIDIS

Spyridon Ploumidis è professore di Storia greca contemporanea presso la facoltà di Storia e Archeologia dell’Università Kapodistrian di Atene. Ha pubblicato diverse monografie: Η ɛλληνοβουλγαρική κρίση του 1924–25. Ο πόλɛμος της ζωοκλοπής [La crisi greco-bulgara del 1924-25: la guerra dei furti di bestiame], Αθήνα, Γόρδιος, 2006; Έδαφος και μνήμη στα Βαλκάνια: Ο «γεωργικός εθνικισμός» στην Ελλάδα και στη Βουλγαρία (1927-46) [Terra e memoria nei Balcani: “nazionalismo agrario” in Grecia e Bulgaria (1927-46)], Αθήνα, Πατάκη, 2011; Ethnic symbiosis in the Balkans: Greeks and Bulgarians in Plovdiv, (1878-1906), Istanbul, The Isis Press, 2016; Τα μυστήρια της Αιγηίδος. Το μικρασιατικό ζήτημα στην ελληνική πολιτική (1891-1922) [I misteri dell’Egeo. La questione d’Asia minore nella politica greca (1891-1922)], Αθήνα, Βιβλιοπωλείον της Εστίας, 2016; Το καθεστώς Ιωάννη Μεταξά 1936-1941 [Il regime di Ioannis Metaxas 1936-1941], Αθήνα, Βιβλιοπωλείον της Εστίας, 2016. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Ploumidis >

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Il pensiero corporativo in Miguel Reale: interpretazioni del fascismo italiano nell’integralismo brasiliano

João Fábio Bertonha Traduzione : Jacopo Bassi

1. Introduzione

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1 Miguel Reale (1910-2006) fu una delle più importanti figure dell’Ação Integralista Brasileira (AIB) e, al suo interno, si distinse per la particolare attenzione che dedicò alle questioni legate all’organizzazione del futuro Estado integral. Le sue riflessioni sulla questione sociale, lo Stato, il corporativismo e su altri temi furono più fortemente influenzate dall’interpretazione della realtà – nazionale e internazionale – rispetto a quelle di Plínio Salgado e di Gustavo Barroso. Questi ultimi avevano visioni romantiche e quasi mistiche, che non gli impedivano di mantenere contatto con la realtà, ma erano molto meno interessati alle questioni pratiche rispetto a Reale. Questo saggio ambisce ad affrontare la concezione dello Stato in Miguel Reale e la sua relazione con il fascismo italiano, soffermandosi sul modo in cui intendeva risolvere le questioni impellenti nel Brasile degli anni Trenta – come la modernità incompleta e i problemi sociali – attraverso gli strumenti teorici e pratici correnti nella sua epoca, come il corporativismo e la pianificazione. Per questa ragione farò in modo di analizzare non solamente i testi da lui concepiti, ma anche la sua particolare formazione intellettuale e politica tra le figure di rilievo nell’integralismo.

2 Una discussione finale, volta a dibattere su quale sia stato il più “moderno” tra i leaders dell’integralismo, con l’intento di permetterci di comprendere meglio le differenti visioni che convivevano all’interno del movimento integralista.

2. Miguel Reale e l’integralismo

3 Tradizionalmente si afferma che, all’interno dell’integralismo brasiliano, vi fossero tre grandi correnti: una maggiormente conservatrice, mistica e vicina al cattolicesimo (Plínio Salgado); una corporativa, prossima al fascismo italiano e maggiormente attenta all’organizzazione dello Stato e alla questione sociale (Miguel Reale); un’altra romantica, fondata sul tradizionalismo cattolico, sull’antisemitismo e vicina – ad alcuni livelli – al nazismo (Gustavo Barroso). Chiaramente questa suddivisione può essere contestata e possono essere individuate – impiegando criteri differenti – ulteriori variazioni di questo schema. Ciò nonostante, è una divisione corretta nelle sue linee generali, dal momento che ci permette di avere una nozione più precisa dei diversi “integralismi” che convivevano all’interno dell’Ação Integralista Brasileira (AIB).

4 Si rileva solamente che dobbiamo prestare attenzione per non vedere l’integralismo come agglomerato di correnti e gruppi in opposizione senza nulla in comune. Per quanto si disputassero il potere e avessero idee – entro certi limiti – differenti, le varie correnti integraliste si mantennero essenzialmente unite fino alla fine sulla base di un minimo comune denominatore. Comprendere che l’integralismo era un movimento con correnti interne, che queste discutevano molto su vari temi, ma non che non erano un amalgama informe, è realmente fondamentale per non cadere nel tranello di rinunciare

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al suo studio e alla sua critica considerando quest’ultimo eterogeneo e molteplice sino all’eccesso1. Esso era molteplice, ma non sino al punto di perdere l’unità.

5 All’interno di questo contesto la sua figura è della massima importanza dal momento che egli fu indubitabilmente uno delle figure principali del movimento. Nato a São Bento do Sapucaí (nello Stato di San Paolo) nel 1910, era figlio di un medico italiano, Brás Reale, e di Felicidade da Rosa Góis Chiaradia, che vantava un albero genealogico quasi totalmente italiano. Per questa ragione completò la sua formazione secondaria nel collegio Dante Alighieri di San Paolo, un’istituzione dotata di una tradizione consolidata, all’epoca totalmente orientato alla diffusione non solo della cultura italiana, ma anche dell’ideologia fascista.

6 Chiaramente questa origine non implicava alcun tipo di legame automatico con il regime allora dominante in Italia. Ma la sua socializzazione all’interno della Dante Alighieri, la sua padronanza della lingua italiana e il contatto con la cultura di quel paese influenzarono certamente la sua visione del mondo e gli consentirono l’accesso a informazioni e dibattiti legati al fascismo italiano di cui le altre figure di rilievo dell’integralismo vennero a conoscenza con maggior difficoltà.

7 Ma, benché italiano di origine, Reale era un pensatore sociale e un nazionalista nel senso che si dava al termine all’epoca: qualcuno preoccupato per il suo paese (e, come figlio di immigrati, la sua necessità di mettere alla prova la sua “brasilianità” sembra che sia stata sentita in modo ancora più forte) e che sosteneva una riforma totale del Brasile in senso autoritario e orientato al controllo e alla risoluzione delle questioni sociali.

8 Reale era, anzitutto o soprattutto, un avvocato e, ancor più, un giurista e questo giocò una forte influenza sulla sua vita professionale e personale. Si formò nella prestigiosa Facoltà di Diritto di San Paolo nel 1934 e in questa si addottorò nel 1941. Fino alla fine della sua vita fu ritenuto uno dei più rispettati giuristi brasiliani, che aveva pubblicato decine di libri e ricoperto innumerevoli cariche pubbliche e private, sempre in qualità di avvocato, giurista e pensatore sociale.

9 Queste tre condizioni – nazionalista brasiliano con origini italiane, conservatore e giurista – furono fondamentali per l’orientamento del suo pensiero, specialmente nel periodo della Ação Integralista, a cui si affiliò nel 1932. Nei sei anni successivi ne sarebbe divenuta una delle principali figure di riferimento, pubblicando tantissimi libri sulla dottrina e sulla pratica politica del movimento, dirigendo riviste e giornali come «Panorama» e «Acção» e ricoprendo incarichi di rilievo come quello di Secretário Nacional da Doutrina2 Successivamente al periodo integralista, occupò varie cariche pubbliche e private, incluso quella di Rettore dell’Università di San Paolo (USP) e fu un importante aderente al movimento che condusse al golpe del 19643. Risultò anche uno dei più attivi partecipanti al processo di istituzionalizzazione giuridica del regime militare.

10 Reale non era certamente, all’interno dell’AIB, un isolato e le sue idee così come le sue prospettive erano condivise, in toto o in parte, da altri militanti e personaggi di spicco. Ciò detto, molto di ciò che scriveva o pensava, come vedremo in seguito, faceva parte dello spirito del tempo. Malgrado ciò, il suo modo di interpretare i problemi dell’epoca e di considerare l’integralismo era suffragato da peculiarità che meritano di essere evidenziate se intendiamo comprendere meglio tanto Reale quanto il movimento di cui faceva parte.

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11 Riguardo al rapporto dell’integralismo con i fascismi, per esempio, Miguel Reale identificava senza problemi in questi (che preferiva identificare come «movimenti nazionalisti»4) la fonte ispiratrice da cui l’integralismo, dopo aver assorbito anche l’essenza dei pensatori brasiliani, aveva tratto la forza per nascere. In diversi suoi libri degli anni Trenta, egli indica chiaramente come l’integralismo fosse parte – ancorché incarnasse uno spirito nazionale – dell’universo fascista, specialmente di matrice italiana.

12 Vale la pena, su questo punto, riportare da uno di questi libri un passaggio che non lascia dubbi circa la sua posizione: Per prima fu l’Italia a reagire, espellendo dall’altare della Patria tutti gli sfruttatori delle passioni popolari. E sorse il fascismo, non come una semplice reazione al comunismo, ma come una nuova concezione di vita, spiritualista, volontarista e profondamente morale ed eroica. Poi fu la volta del Portogallo e, successivamente, Hitler annichilì il nucleo comunista-giudaico della sua terra, dando avvio a una poderosa opera di ricostruzione nazionale a prezzo di immensi sacrifici. Allo stesso tempo il fascismo si universalizzava, scuotendo l’anima inglese con Mosley, quella francese con il “francisme” e con il pensiero del colonnello de La Roque, quella olandese, quella polacca, quella americana, quella messicana, quella belga, quella austriaca, etc. facendo nascere dall’energia del Nuovo Brasile, il meraviglioso movimento integralista, orgoglio del continente americano5.

13 Molti anni dopo, nelle sue memorie avrebbe affermato che Plínio non era un grande conoscitore della dottrina fascista, ma che era convinto che il fascismo corrispondesse allo in cui vivevano. Tuttavia, tanto lui quanto Plínio ritenevano anche che questo “spirito del tempo” dovesse essere adattato alle necessità nazionali.

14 Allo stesso modo avrebbe confermato – con la noncuranza di chi, già nel 1986, non aveva grossi problemi ad ammettere il fatto – l’appartenenza dell’integralismo all’universo fascista e al polo nazionale/internazionale sorto all’interno di esso, analogamente a quanto era avvenuto nel modernismo: Si dirà che si verificava un certo paradosso o una certa ambiguità in questa ricerca di noi stessi sotto l’influsso delle esperienze straniere come quella del fascismo, ma la stessa cosa avveniva con la Settimana dell’Arte moderna del 1922, quando le rivendicazioni più nazionaliste avevano i loro ispiratori nei letterati e negli artisti europei, tra cui Marinetti, figura di spicco della cultura fascista… In realtà per quanto possiamo desiderare di essere fedeli a ciò che promana dalle fonti più pure della nostra essenza nazionale, questa non può mai prescindere dai valori che costituiscono lo “spirito di un’epoca”: in questo caso, tuttavia, quando si ha intenzione di scoprirsi o rivelarsi a partire da noi stessi, i modelli non autoctoni non sono oggetto di un semplice trapianto, ma agiscono come un innesto in un albero da noi piantato, rendendo possibile non di rado rivelare, attraverso quella ricezione fecondante, qualcosa di peculiare e proprio6.

15 Reale era, perciò, un fascista e, soprattutto, un fascista vicino al modello del fascismo italiano, come indica il numero degli autori italiani nelle citazioni dei suoi libri. In uno dei giornali da lui diretti («Acçao», tra 1936 e 1938) risulta ugualmente evidente ed esplicita la sua predilezione per il fascismo italiano e, ancor più, per il corporativismo, chiave per la soluzione dei problemi del mondo7.

16 Non stupisce, dunque, che a Reale fosse attribuito dal governo italiano – in considerazione della sua origine italiana, dell’ammirazione per il Duce e per il fascismo nella sua versione italiana –, un ruolo chiave per la penetrazione e lo sviluppo dell’influenza fascista sull’integralismo8. Reale, infatti, dopo il golpe integralista del 1938 si rifugiò proprio in Italia, dove fu molto ben accolto9, e, secondo una sua lettera

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agli amici a San Paolo, alla fine di quell’anno si lamentò del fatto che Mussolini non avesse approvato la sua richiesta di aiuto per invertire la disfatta del movimento. Un fatto che indica come i suoi legami con il fascismo fossero stati e continuarono a essere consistenti fino alla fine.

17 Le peculiarità di Reale risultano ancor più evidenti quando pensiamo alla questione dell’antisemitismo, del razzismo e dell’influenza cattolica. In diversi dei suoi libri e delle sue memorie rifiutò l’idea dell’ebreo come un problema razziale e dell’antisemitismo come guerra alla razza ebraica10. Termini ed espressioni di stampo antisemita – come quando elogiò Hitler perché eliminava il «nucleo comunista-giudeo» che minacciava la Germania11 – compaiono qua e là12, ma mi sembrano più formali che sostanziali. Si mostrò anche manifestamente contrario al razzismo di matrice ariana13.

18 Ciò nonostante, nel giornale da lui diretto, «Acçao», si manifestava un antisemitismo di fondo e nella fase finale di pubblicazione del periodico si verificò un aumento di intensità di questo sentimento14, in quello che sembra essere un chiaro riflesso delle leggi razziali in Italia e del legame di Reale con Roma. L’ipotesi che il suo giornale ricevesse qualche tipo di aiuto finanziario dal consolato italiano e che per questa ragione dovesse mostrarsi più vicino alle direttive razziali italiane, benché non confermato dalla documentazione, è perfettamente plausibile, in considerazione dei saldi legami tra l’integralismo e il fascismo e il prestigio di cui Reale godeva a Roma15. La mia valutazione è quella per cui l’antisemitismo, in questo caso, fosse in qualche modo uno strumento di mobilitazione politica piuttosto che realmente parte di un sentimento più profondo; più espressione della forma che nucleo del pensiero e delle preoccupazioni di Reale.

19 Per ciò che attiene all’influenza cattolica, diversamente da Barroso e in particolar modo da Salgado, questa sembra essere affievolita o quasi nulla, il che riflette la sua formazione intellettuale e politica16. Miguel Reale affermò17 infatti che furono i suoi testi a rendere esplicito il fatto che l’integralismo non fosse un movimento monarchico e cattolico, il che avrebbe irritato pensatori cattolici ultraconservatori come Plínio Correa de Oliveira e il gruppo del giornale «O Legionário». Alcuni osservatori successivi18 hanno tentato di fare di Reale un pensatore più vicino all’integralismo cattolico che al fascismo, più vicino a Charles Maurras che a Mussolini, ma questo è difficilmente difendibile.

20 Anche la questione operaia era di importanza fondamentale nel pensiero di Reale, molto più che in Salgado o in Barroso. Secondo il suo libro di memorie19 dopo essere stato esonerato dall’incarico di Secretário Nacional da Doutrina nel 1937, creò il già menzionato giornale «Acçao», non a caso proprio a San Paolo per poter essere il portavoce degli integralisti paulisti, i quali consideravano con particolare enfasi il problema operaio e quello sindacal-corporativo. Questo nucleo teorico, infatti, sarebbe stato caratteristico dell’integralismo paulista e venne semplicemente accentuato quando Jeová Motta assunse la direzione della Sezione nel 1936.

21 La prospettiva di Reale promuovendo il corporativismo e la collaborazione tra classi e elogiando il “buon padrone” forse aveva avuto un impatto limitato tra le classi lavoratrici, ma evidenzia una visione personale – benché non esclusiva, dal momento che altre figure di rilievo, come Olbiano de Mello, erano vicine ad essa – dei problemi del suo tempo, contrassegnata da un grande interesse per il tema del movimento operaio, il che è facilmente spiegabile con l’influenza del fascismo italiano su Reale e con la concentrazione industriale a San Paolo in quegli anni, che rendeva il problema

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operaio di massima importanza, tale da dover essere risolto a qualsiasi costo. E lo sarebbe stato attraverso la riforma dello Stato e il corporativismo.

22 L’interpretazione della figura di Reale, tuttavia, non è solamente quella di un simpatizzante del fascismo e di un abitante del maggior centro industriale del paese, ma anche e soprattutto quella di un giurista. Plínio Salgado, ad esempio, viveva allo stesso modo il quotidiano della capitale paulista e simpatizzava con il fascismo italiano, ma le sue riflessioni sullo Stato erano vaghe e generiche ed erano da lui identificate non nei sindacati ma nei gruppi naturali, specialmente le famiglie, la base del futuro Estado Integral20. Reale condivideva con Plínio influenze, preoccupazioni e soluzioni, tanto che entrambi erano assieme nell’AIB, ma divergevano su alcuni dettagli e sviluppi futuri.

23 Reale non difendeva una prospettiva del tutto totalitaria, di mobilitazione continua delle masse; voleva che essa fosse soltanto un mezzo per raggiungere il potere. La prospettiva di Salgado, in questo senso, era diversa. Come è stato efficacemente messo in luce da Ricardo Benzaquem de Araújo21, la prospettiva di Plínio Salado era di una mobilitazione della società finalizzata a cambiarla. Se questo possa o meno essere chiamato totalitarismo è una questione aperta, ma questa prospettiva mobilitante è presente tanto in Salgado quanto, con modelli diversi, in Barroso.

24 Una tale prospettiva non è evidente, tuttavia, in Reale, che preferiva un controllo gerarchico e autoritario dall’alto della società e un livellamento delle differenze attraverso il corporativismo. Lo Stato piuttosto che la razza o l’uomo era il centro del pensiero di Reale e la sua conquista e riforma avrebbero significato la chiave per l’agognato cambiamento.

3. Lo Stato e il corporativismo in Miguel Reale

25 Non deve quindi meravigliare che il libro più famoso di Miguel Reale negli anni Trenta sia stato, nel 1934, O Estado moderno. Per Reale, come viene esposto in questo stesso libro, il fascismo avrebbe creato una nuova concezione di Stato, che avrebbe superato l’individualismo e garantito la supremazia del collettivo. Lo Stato come incarnazione della Nazione aveva il dovere di distribuire e difendere il bene comune, ma non poteva essere totalitario, al di sopra della legge morale e dell’etica.

26 Per Reale all’interno del mondo fascista sarebbero esistite due concezioni di Stato: in una l’individuo non avrebbe potuto contare su alcuna autonomia; in un’altra ci sarebbe stata, tra individuo e Stato, una reciproca cessione di facoltà per il bene comune. La prima avrebbe visto il tutto assorbire le parti (totalitarismo), mentre la seconda avrebbe visto l’integrazione di tutti in tutto, ma rispettando valori specifici ed esclusivi, prospettiva, questa, che sarebbe stata quella del fascismo italiano e che sarebbe stata difesa dall’AIB.

27 Reale, infatti, era molto più cosciente del dibattito mondiale sul lavoro e il corporativismo, ad esempio, di Plínio Salgado, come si vede in varie sue opere22. In un libro del 1935, infatti, commenta e discute temi come la Carta del Lavoro italiana e l’Estatuto do Trabalho portoghese, segnale che indica come stesse dialogando internazionalmente sul tema.

28 La critica al liberalismo e la proposta di superamento delle sue contraddizioni attraverso le riforme dello Stato costituirono, successivamente, la linea generale del pensiero integralista di Miguel Reale. Nello Stato liberale si verificava una

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contraddizione tra individuo e Stato, contraddizione che era tipica del capitalismo e poteva essere superata per mezzo di una riorganizzazione dello Stato in altri termini.

29 La formulazione dell’Estado Integral risiedeva nella ridefinizione delle nozioni di individuo e Stato. Egli non ritiene possibile né desiderabile eliminare le differenze fra le persone e le classi, ma integrare e inglobare queste differenze all’interno dello Stato, in modo gerarchico e controllato. Uno Stato forte ed etico, in grado non di eliminare le differenze, ma di controllarle. In questo modo allo Stato sarebbe spettato coordinare le caratteristiche esistenti tra i cittadini, dando condizioni di partecipazione conforme alle specifiche capacità e condizioni di ciascuno.

30 In questo scenario i più adatti a governare si trovavano già al vertice della società, e il governo sarebbe dovuto essere al di sopra della responsabilità delle classi dominanti, che avrebbero dovuto governare per il popolo, mentre sarebbe stato riservato ai meno idonei a governare, al massimo, il diritto di partecipazione, ma solo in ambito locale. Basandosi su autori prettamente italiani come Pareto e Mosca, Reale concludeva che soltanto le classi dominanti avrebbero avuto il diritto e il dovere di governare e che qualsiasi speranza di ordine sociale sarebbe potuta venire solamente da queste23.

31 Nel modello di Reale le corporazioni e i comuni sarebbero stati la chiave per permettere la costituzione dell’Estado Integral, poiché avrebbero smorzato e ammortizzato le tensioni e le differenze. Il municipio sarebbe stata la cellula fondamentale della struttura corporativa e avrebbe avuto completa autonomia amministrativa. I sindaci sarebbero stati eletti con suffragio universale, accettabile nelle realtà locali a patto che, a livello nazionale, il potere provenisse dall’alto.

32 Tuttavia l’Estado Integral già era in possesso delle soluzioni per regolare ed equilibrare le probabili distorsioni tra dimensione territoriale e rappresentatività a livello locale e l’estrema centralizzazione politica grazie alle strutture corporative. Se il liberalismo aveva causato un rafforzamento esagerato delle unità della Federazione (gli Stati), la correzione di questa struttura sarebbe stata fatta mantenendo la forma federativa, quantunque combinata con le corporazioni, con l’autonomia dei municipi e con la centralizzazione politica, nell’intento di equilibrare le forze tra le regioni e lo Stato- nazione.

33 Benché l’Estado Integral prevedesse una centralizzazione politica assoluta, la divisione del paese in Stati (Province) sarebbe stata mantenuta, dal momento che, non essendoci l’intermediazione degli organi provinciali, le corporazioni municipali avrebbero dovuto legarsi direttamente alle strutture nazionali, il che sarebbe stato inattuabile nella pratica in un paese dalle dimensioni di un continente. Nel piano regionale delle province, le “federazioni sindacali” (costituite dall’accorpamento dei rappresentanti di tutti i sindacati in una stessa professione) si sarebbero unite per formare un Consiglio Provinciale che avrebbe scelto il governatore.

34 La riunione delle federazioni su scala nazionale avrebbe dato vita alle Confederazioni Sindacali, che avrebbero costituito il Consiglio Economico Nazionale. Infine le Corporazioni sarebbero state gli organi ufficiali che avrebbero completato l’assieme dei rappresentanti delle differenti professioni appartenenti ad uno stesso settore di produzione. Ciascuna corporazione avrebbe eletto il suo rappresentante alla Camera Corporativa Nazionale. Il Senato sarebbe stato costituito dai membri delle “corporazioni non economiche” (sociali e culturali) e attraverso la sua unione con la

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Camera Corporativa Nazionale avrebbe formato il Congresso Nazionale, incaricato di eleggere il Capo dello Stato.

35 Nel pensiero di Reale, secondo Ricardo Benzaquem de Araújo e Cíntia Rufino Franco24, sindacati e corporazioni non sarebbero stati esattamente coincidenti. I sindacati sarebbero serviti per risolvere i conflitti di classe riunendo tutti i partecipanti – padroni e dipendenti – in uno stesso settore per dirimere e annullare i conflitti. Le corporazioni sarebbero state l’unione dei sindacati per la risoluzione dei problemi comuni su scala maggiore e con finalità più ampie.

36 Impossibile sapere se questo complesso sistema avrebbe funzionato nella pratica. La cosa più probabile è che avrebbe replicato il modello italiano e si sarebbe convertito in una struttura burocratica con scarso potere e funzionalità, limitandosi a proibire gli scioperi e a sottomettere il movimento operaio. È interessante osservare come Reale avesse una lettura particolare del problema dello Stato e avesse concepito un modello nel quale la gerarchia era qualcosa di fondamentale e il corporativismo la chiave per permettere a questa gerarchia di conservarsi.

37 Rappresentanza sindacale alleata al binomio “decentralizzazione amministrativa – centralizzazione politica” furono le soluzioni elaborate per correggere le distorsioni di un federalismo liberale dannoso e di un sistema di potere che avrebbe portato l’uomo ad avvicinarsi all’abisso sociale ed economico. Una soluzione corporativa che prendeva spunto, essenzialmente, da modelli stranieri ma la cui enfasi posta non solamente sui sindacati e sulle corporazioni ma anche sui comuni, rivela un adattamento affinché essa potesse funzionare in un paese dalle dimensioni di un continente e la preoccupazione per il potere eccessivo degli Stati, tipico dell’intellettualità antiliberale brasiliana degli anni Trenta.

38 Reale considerava il rafforzamento dello Stato nazionale brasiliano come un obiettivo pratico, da affrontare con la logica e la riorganizzazione dello spazio, mentre Plínio Salgado e Gustavo Barroso vedevano nello spazio nazionale qualcosa di quasi mistico, un luogo dove si verificava la “comunione cosmica” delle razze ed erano prossimi ad una prospettiva più ruralista, di difesa dell’agricoltura e dell’ambiente rurale (o, almeno, dei valori del mondo rurale) come metodo di recupero dei valori antichi, Reale era molto più moderno e razionalista.

39 Per lui lo spazio era semplicemente il luogo dove lo Stato esisteva e dove si svolgevano le attività economiche che lo sostentavano. Egli vedeva lo spazio come qualcosa di malleabile, che avrebbe dovuto essere riorganizzato secondo criteri di equilibrio regionale, ponendo l’accento sui comuni e sulla crescita nazionale. Uno spazio che nel novero delle pietre miliari del pensiero corporativista e autoritario, sarebbe servito per l’ampliamento dello Stato e, solamente a partire da qui, della società.

40 Nei testi di Reale si nota la modernità del suo pensiero: egli tendeva a vedere di buon occhio le politiche di industrializzazione e di sviluppo economico ed era uno strenuo difensore della pianificazione economica, ma da una prospettiva corporativista, di controllo delle dispute e degli interessi differenti delle regioni o dei settori economici attraverso la mediazione delle corporazioni25. Su questo punto Reale è chiaramente un pensatore moderno, probabilmente il più moderno tra le principali figure dell’integralismo, così come moderna era la matrice italiana del suo pensiero. L’integralismo, in termini generali, possedeva in tutto, nell’accezione sociologica del

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termine, un carattere moderno, ma Salgado e Barroso avevano toni molto romantici e ruralisti, cosa che non si riscontra in Reale26.

4. Reale e l’Estado Novo: una scelta ovvia?

41 Come è ben noto, Miguel Reale a partire dal suo ritorno dall’Italia rinnegò l’integralismo e venne cooptato dalla macchina clientelare di Getúlio Vargas, ottenendo la libertà di proseguire la sua carriera universitaria nell’Università di San Paolo (USP) e assumendo diversi incarichi nella pubblica amministrazione dello Stato di San Paolo così come in quella federale.

42 Questa scelta non fu certamente solitaria, dal momento che molti altri esponenti di spicco e militanti integralisti, come Gustavo Barroso, presero questa decisione. La scelta non fu esente dalle immediate preoccupazioni, come garantirsi una fonte di sostentamento a breve termine, salire sul carro del vincitore e/o avere accesso ai benefici riservati dal regime agli intellettuali che avrebbero sostenuto il nuovo regime. Fu anche, tuttavia, una questione di prossimità ideologica, che permise una trasposizione più o meno ordinata tra integralismo e varghismo.

43 In realtà il progetto di Vargas era stato concepito nel corso degli anni Trenta a partire da diverse influenze, incluse quelle degli integralisti, come la difesa del nazionalismo e del corporativismo, il disprezzo nei confronti dei partiti e degli organismi politici e l’adozione dell’anticomunismo come linea di governo. Il progetto includeva anche l’idea di un grande leader, un uso intensivo della propaganda e dell’educazione per forgiare un uomo nuovo e la reinterpretazione del passato storico per creare un brasiliano nuovo, pacifico e ubbidiente. Chiaramente queste pratiche non provenivano all’Estado Novo direttamente dall’integralismo, ma erano state concepite nella stessa temperie culturale, in parallelo, il che implicava la formazione di idee simili, benché non equivalenti.

44 Vargas con le sue idee di rafforzamento del potere dello Stato e indirizzate alla modernizzazione del Brasile attraverso il mantenimento dell’ordine era un sostenitore dell’autoritarismo prima che di qualsiasi altra cosa. Per lui e per le forze che lo appoggiavano, come già esaustivamente dimostrato dalla storiografia, la cosa essenziale era conquistare l’appoggio delle élites e controllare lo Stato per poter gestire le trasformazioni che consideravano necessarie per il paese, ma senza che rompessero con l’ordine e la gerarchia tradizionale. La popolazione, in questo contesto, avrebbe dovuto essere stimolata ad aderire al progetto, ma sempre rimanendo sotto controllo.

45 Forse, come suggerito da Adalberto Paranhos27, vi fu una prospettiva mobilizzatrice, come strumento potenziale di riserva, da utilizzare nei momenti di crisi, come nel 1942-1943, e che riapparve successivamente nell’era del trabalhismo. Ciò nonostante si trattava di un potenziale che non venne sfruttato nella sua interezza e non stupisce che Vargas abbia respinto tutte le richieste di intellettuali come Francisco Campos di dotare l’Estado Novo di una base dottrinaria più precisa e di un partito e di organizzazioni in grado di mobilitare le masse – in senso fascista – in difesa dello Stato28. La stessa lettura degli intellettuali estadonovisti del fascismo italiano enfatizzava, secondo Oliveira29, l’ordine e la gerarchia a discapito della mobilitazione popolare.

46 Facendo un esercizio di storia controfattuale è possibile immaginare come sarebbe Stato un Estado Novo nel quale i progetti integralisti fossero stati realizzati e in cui

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Vargas fosse uscito sconfitto. Nel Manifesto programmatico della AIB del 1936 si nota come il sistema politico sarebbe stato ricostruito con disposizioni più corporative e autoritarie nella misura in cui si sarebbe ampliato il potere dello Stato e sarebbe stata realizzata una razionalizzazione amministrativa. I sindacati autonomi, i poteri statali e le forze di sinistra e democratiche sarebbero state soffocate e sarebbe stato necessario integrare le masse popolari e il mondo della cultura nello Stato. Su questo punto, probabilmente, non si sarebbero riscontrate grandi differenze con quel che fu fatto da Vargas.

47 La grande differenza, presumibilmente risiedeva in ciò che si sarebbe dovuto cambiare, in considerazione dell’ideologia integralista, ma che non poteva essere affermato apertamente nel manifesto nel 1936, per ragioni elettorali. Il nuovo regime avrebbe avuto un partito a svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione tra lo Stato, il leader e le masse popolari (l’Ação Integralista); sarebbero stati creati organismi orientati alla mobilitazione dei giovani come l’“Organização Nacional da Juventude” (la cui creazione sarebbe stata proposta da Francisco Campos già nel 1937)30 e tutta la società sarebbe entrata in un modello molto più mobilitante. Molto probabilmente grazie all’influenza di Reale il corporativismo sarebbe stato preso molto più seriamente, forse anche oltre le leggi sul lavoro di Vargas ancorché probabilmente, sarebbe finito per essere – nella pratica – quel mero strumento burocratico di controllo della classe operaia che divenne nel fascismo italiano.

48 In sintesi uno Stato integralista si sarebbe avvicinato molto più ai modelli di un vero Stato fascista che il regime di Vargas. Questo venne tacciato di essere fascista dai suoi oppositori, ma, in termini teorici, questa è una definizione poco realista. Fu esattamente per evitare che il paese divenisse fascista (con tutti i vantaggi, ma anche con i rischi da esso derivanti) che la classe dirigente appoggiò l’Estado Novo e permise che l’integralismo venisse eliminato.

49 In questo contesto non stupisce che Reale – colui che, tra i principali esponenti integralisti era meno concentrato sulla mobilitazione continua delle masse e più vicino alle prospettive dei sostenitori dell’autoritarismo – avesse compiuto la transizione tra integralismo e varghismo in modo così leggero.

50 Bonfim31 sottolinea così un punto estremamente interessante. Secondo lui, Reale si sarebbe avvicinato alle teorie di altri sostenitori dell’autoritarismo – brasiliani e internazionali – per i quali il sistema liberale sarebbe potuto funzionare finché vi fossero stati cittadini in grado di farlo procedere. In un primo momento, la partecipazione reale al potere sarebbe dovuta essere riservata alle élites, rappresentate nelle corporazioni e ai vertici del potere. Con il tempo, tuttavia, se le condizioni educative e di istruzione delle masse fossero migliorate, forse sarebbe stato possibile per loro uscire da una partecipazione politica limitata ai comuni, per esercitare pienamente la propria cittadinanza all’interno dello Stato. Una proposta vicina a quella dei vari sostenitori dell’autoritarismo all’interno dell’Estado Novo, come Oliveira Vianna, e che, forse, poté aver facilitato molto il passaggio di Reale da un gruppo all’altro.

5. Conclusioni

51 Nelle sue memorie Reale32 giustifica la sua adesione al fascismo identificando il fascismo a cui faceva riferimento. Egli indica come il fascismo italiano della prima ora, quello

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degli anni Venti e Trenta, rappresentasse una prospettiva realmente creativa, influenzata da Giovanni Gentile e Ugo Spirito. Questo fascismo primigenio avrebbe riflettuto l’apprezzamento universale nei confronti del corporativismo come modo per superare il comunismo e il liberalismo (come quello, da lui molto ammirato, di Mihail Manoilescu) e un momento in cui Mussolini ancora non si era incamminato verso il totalitarismo e il razzismo. Così egli ammette che nell’elaborazione del programma integralista e nella sua versione peculiare dell’integralismo vi furono influenze di questo primigenio fascismo, così come dei grandi interpreti dei problemi nazionali.

52 Bisogna sottolineare che né la Germania nazista, né l’Unione Sovietica di Stalin riuscirono a costruire un vero Stato totalitario, con la formazione di un pensiero unico e l’eliminazione di tutti i poteri alternativi allo Stato e al partito. Ma furono in grado di avanzare molto più in questa direzione (nel caso della Germania grazie a un controllo molto superiore della macchina statale e a un equilibrio di forze politiche differente) rispetto all’Italia fascista, dove il progetto totalitario, a prescindere dallo sforzo e da alcuni successi in questo senso (specialmente nella seconda metà degli anni Trenta) non attecchì realmente, anche per le stesse cultura e struttura politiche italiane. Allo stesso modo è possibile affermare che il regime di Mussolini, anche per via del suo totalitarismo imperfetto, fu molto meno violento nel trattamento della sua popolazione rispetto a quello di Hitler o di Stalin33.

53 Come già detto dobbiamo prestare un po’ di attenzione alla successiva argomentazione di Reale34 secondo cui egli avrebbe avuto poco a che fare con l’integralismo di Salgado e, in particolare, con quello di Barroso. Questo sforzo di Reale e dei suoi epigoni è, essenzialmente, politico, dal momento che cerca di presentarlo come un integralista più moderato, lontano dall’ala “radicale” di Barroso. Allo stesso modo, identificarlo con il fascismo italiano della prima ora, precedentemente all’alleanza con Hitler, alle leggi razziali e ad altri elementi totalitari, è una mistificazione eminentemente politica per evitare che sia confuso con la fase più censurabile del regime di Mussolini. Uno sforzo vicino a quello effettuato dalla scuola di Renzo de Felice in Italia che necessitava continuamente di separare fascisti “moderati” o “conservatori” come Dino Grandi o Luigi Federzoni da radicali pericolosi come Roberto Farinacci o Achille Starace.

54 In fin dei conti Reale non ruppe con Mussolini e con il regime fascista (e neppure con l’integralismo) tranne che nell’ultima fase, anche quando si era incamminato apertamente verso il totalitarismo. Addurre l’ignoranza di ciò che era avvenuto in Italia prima che egli vi si recasse in visita, o di quello che facevano e pensavano gli integralisti come lui, significa abusare dell’altrui credulità. Reale preferiva il fascismo degli anni precedenti il 1936 a quello che sarebbe venuto in seguito ed avrebbe potuto discutere le idee e i progetti delle altre figure rilevanti dell’integralismo, ma abbandonò le fila di Salgado e Mussolini solamente all’ultimo minuto, il che ci permette di relativizzare molto la sua separazione totale dai progetti principali del fascismo italiano e dell’integralismo.

55 Nonostante queste riserve, la sua visione del mondo sembrava davvero più vicina al fascismo della prima ora che al secondo, nella misura in cui corporativismo, gerarchia e ordine avevano molto più significato per lui che razzismo, antisemitismo e mobilitazione popolare. Si hanno segnali chiari del fatto che le sue prospettive all’interno della AIB non erano esattamente le stesse di Salgado o Barroso. Se, sulla base di questa constatazione, possiamo separare Salgado e Reale come rappresentanti, rispettivamente, dell’“integralismo-totalitario” e dell’“integralismo-conservatore”,

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come fa Ramos35, è questione da discutere. Tuttavia la differenza esisté realmente e la prospettiva più autoritaria e conservatrice di Reale facilitò, a lato delle contingenze pratiche, la sua rapida transizione all’autoritarismo di Vargas, il che indica come, nel contesto degli anni Trenta e Quaranta, le posizione ideologiche e politiche erano più fluide e con più punti in comune di quel che letture meno approfondite possano suggerire, e che le varie “destre” avevano molto più in comune di quel che avrebbero ammesso successivamente.

NOTE

1. PAIM, Antônio, Pensamento e ação corporativa no Brasil, in SOUZA, Francisco Martins de, Raízes teóricas do corporativismo brasileiro, Rio de Janeiro, Tempo Brasileiro, 1999, pp. 119-174; SOUZA, Francisco Martins de, O Integralismo, in ID., Curso de introdução ao pensamento político brasileiro, Brasília, Ed. UnB, 1982, pp. 61-109. 2. Su Reale si veda, oltre a ciò che citerò in seguito: COUTINHO, Amélia, «Miguel Reale», in ABREU, Alzira Alves de, Dicionário Histórico Biográfico Brasileiro Pós 1930, Rio de Janeiro, Ed. FGV/ CPDOC, 2001. pp. 4908-4910; LIMA, Marcos Paulo Ferreira, Miguel Reale e a política integralista no período de 1932 a 1937, Tesi di Laurea in Storia, Universidade do Estado do Rio de Janeiro, Rio de Janeiro, 2004.; POLETTI, Ronaldo, «O Pensamento Político de Miguel Reale», in Convivium, 3, 1982, pp. 177-204; SANTOS, Cleiton Oliveira dos, O Integralismo em Perspectiva: Miguel Reale, Tesi di Laurea in Storia, Universidade Federal de Goiás, Goiânia, 2002. 3. Introduzione dell’autore all’edizione del 1983. REALE, Miguel, Obras políticas (primeira fase – 1931-1937), vol. 1, Brasília, Ed. UnB, 1983, pp. 5-18; ID., Memórias 1 – Destinos Cruzados, São Paulo, Saraiva, 1986, p. 71. 4. REALE, Miguel, O Estado Moderno (Liberalismo, Fascismo, Integralismo), Rio de Janeiro, J. Olympio Ed., 1934; ID., O Capitalismo internacional: introdução à economia nova, Rio de Janeiro, J. Olympio Ed., 1935. 5. REALE, Miguel, ABC do Integralismo, São Paulo, Panorama, 1935, p. 102. 6. REALE, Miguel, Memórias 1, cit., pp. 76-77. 7. BARBOSA, Jefferson Rodrigues, Sob a sombra do Eixo: Camisas verdes e o jornal integralista “Acção” (1936-1938), Tesi di Masterin Sociologia – Universidade Estadual Paulista, São Paulo, 2007. 8. Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (ASMAE)/Affari Politici 1931-1945 (Brasile), b. 16, rapporto dell’incaricato d’affari Menzinger de 19 ottobre 1936. 9. Archivio Centrale dello Stato/DGPS, Div. Affari Generali e riservati, 1939, b. 1/J, “Brasile – Notizie”, documenti vari. Per l’invio da parte di Reale, di libri con dediche a Mussolini, anche nel 1939, si veda ASMAE/Affari Politici 1931-1945 (Brasile), b. 15, Rapporto del Ministero degli Affari Esteri, 28/1/1939 10. REALE, Miguel, O Capitalismo internacional, cit.; ID., Memórias 1, cit., pp.63, 93-99. 11. REALE, Miguel, ABC do Integralismo, p. 102. 12. TUCCI CARNEIRO, Maria Luíza, O anti-semitismo na Era Vargas: fantasmas de uma geração (1930-1945), São Paulo, Brasiliense, 1988, pp. 379-381. 13. REALE, Miguel, Perspectivas integralistas (em apêndice “O Estatuto do Trabalho” de Portugal), São Paulo, Odeon, 1935, pp. 130-132. 14. BARBOSA, Jefferson Rodrigues, op. cit., pp. 134, 201.

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15. BERTONHA, João Fábio, O Fascismo e os imigrantes italianos no Brasil, Porto Alegre, Ed. PUC-RS, 2001. 16. REALE, Miguel, O Estado Moderno (Liberalismo, Fascismo, Integralismo), cit.; ID., REALE, Miguel, Obras políticas (primeira fase – 1931-1937), vol. 3, cit., pp. 223-233. 17. REALE, Miguel, Memórias 1, cit., pp. 75-88. 18. MERQUIOR, José Guilherme, «Miguel Reale», in Revista USP, 9, 1991, pp. 145-150. 19. REALE, Miguel, Memórias 1, cit., pp. 110-117. 20. ROQUE, José Brito. «Miguel Reale e a teoria do Estado Integral» (sub vocem), in SILVA, Francisco Carlos Teixeira da et al., Dicionário Crítico do pensamento de Direita: ideias, instituições e persona gens, Rio de Janeiro, Mauad-Faperj, 2000, pp. 305-307. 21. ARAÚJO, Ricardo Benzaquem de, Totalitarismo e Revolução: o Integralismo de Plínio Salgado, Rio de Janeiro, Zahar, 1987. 22. REALE, Miguel, Perspectivas integralistas, cit.; ID., O operário e o Integralismo, Rio de Janeiro, J. Olympio Ed., 1937. 23. REALE, Miguel, ABC do Integralismo, cit.; ID., O operário e o Integralismo, cit. Sono fondamentali anche: BONFIM, Paulo Roberto Albuquerque, «Miguel Reale (1910-2006): um esboço de planejamento no Brasil da década de 1930», in Scripta Nova – Revista electrónica de geografía y ciencias sociales, 10, 21, 2006, p.218; MELO, Manuel Palácios Cunha, «O Integralismo de Miguel Reale», in Dados – Revista de Ciências Sociais, 37, 1/1994, pp. 128-152. 24. ARAÚJO, Ricardo Benzaquem de, In Medio Virtus: uma análise da obra integralista de Miguel Reale, Rio de Janeiro, Ed. FGV, 1988, pp. 23-24; SILVA, Cíntia Rufino Franco da, «Miguel Reale e o Estado corporativo», in SIMPÓSIO NACIONAL DE HISTÓRIA – ANPUH, XXVI. Anais do XXVI Simpósio Nacional de História, São Paulo, 2011, URL: < http://www.snh2011.anpuh.org/resources/anais/ 14/1308059980_ARQUIVO_Miguel_Reale_e_o_Estado_CorporativoANPUH_final.pdf > [consultato il 27 marzo 2017]. 25. BONFIM, Paulo Roberto Albuquerque, As ideologias geográficas no pensamento integralista, Tesi di Laurea in Geografia – FFLCH, Universidade de São Paulo, 1995, pp. 47-57; ID., Território e movimento integralista: uma contribuição ao estudo das ideologias geográficas no pensamento autoritário brasileiro das décadas de 1920-1930, Tesi di Laurea specialistica in Geografia – FFLCH, Universidade de São Paulo, 2001. 26. CRUZ, Natália dos Reis, «O diálogo entre o moderno e o antimoderno no discurso da Ação Integralista Brasileira», in Estudos Ibero-Americanos, 37, 2/2011, pp. 196-214; BERTONHA, João Fábio, O Fascismo italiano e a questão da modernidade: um problema conceitual e político, in REIS, Daniel Aarão et al., Tradições e modernidades, Rio de Janeiro, Ed. FGV, 2010, pp. 201-216. Riprendo la questione in ID., Integralismo: problemas, perspectivas e questões historiográficas, Maringá, EDUEM, 2014. 27. PARANHOS, Adalberto, O roubo da fala: origens da ideologia do trabalhismo no Brasil, São Paulo, Boitempo, 1999, p. 115. 28. SCHWARTZMAN, Simon, Tempos de Capanema, Rio de Janeiro-SãoPaulo, Paz e Terra-Edusp, 1984. 29. OLIVEIRA, Lúcia Lippi, Introdução, in ID. et al., Estado Novo, Ideologia e Poder, Rio de Janeiro, Zahar, 1982, pp. 14-30. 30. SCHWARTZMAN, Simon, op. cit. 31. BONFIM, Paulo Roberto Albuquerque, As ideologias geográficas no pensamento integralista, cit.; ID., Território e movimento integralista, cit. 32. REALE, Miguel, Memórias 1, cit., pp. 74-75. 33. BERTONHA, João Fábio, «Coerção, consenso e resistência num Estado autoritário: o caso da Itália fascista», in Diálogos – Revista do Departamento de História da Universidade Estadual de Maringá, 12, 1/2008, pp. 141-163. 34. REALE, Miguel, Memórias 1, cit., p. 80.

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35. RAMOS, Alexandre Pinheiro, «Estado, corporativismo e utopia no pensamento integralista de Miguel Reale (1932-1937)», in Revista Intellectus, 7, 2/2008; RAMOS, Alexandre Pinheiro, O Integralismo entre a família e o Estado: uma análise dos integralismos de Plínio Salgado e Miguel Reale (1932-1937), Tesi di Laurea in Storia – Universidade Federal do Rio de Janeiro. Rio de Janeiro, 2008.

RIASSUNTI

All’interno del movimento integralista, la figura del giurista Miguel Reale risalta per molte ragioni: innanzitutto per l’attenzione particolare che dedicò all’organizzazione del futuro stato integralista; in seconda battuta per le sue preoccupazioni sociali, volte a raggiungere i lavoratori e a risolvere la cosiddetta “questione sociale” a partire dalla riorganizzazione dello stato e dall’adozione della teoria corporativista. Questo articolo intende analizzare la concezione dello Stato in Miguel Reale, la differenza tra le sue idee e quelle di altri integralisti (come Plínio Salgado e Gustavo Barroso) in merito allo Stato e a come tratteggiava il programma corporativista del movimento.

Inside Brazilian integralist movement, jurist Miguel Reale stands out for many reasons. First of all, for the special attention he dedicated to the issue of the organization of the future integralista state. Secondly, by his social concerns, aiming to reach workers and to solve the so called ‘social question’ having as a starting point the reorganization of the state and the adoption of the corporatist doctrine. Finally, for his upbringing, both personal and educational, marked by the Italian culture, that led to a special influence of Italian fascism in his thought and in his political action. This work aims to explore the conception of the state in Miguel Reale, the difference between his ideas and those of other integralista leaders (such as Plínio Salgado and Gustavo Barroso) in what regards the state and how he designed the corporatist program of the movement.

INDICE

Keywords : Brazil, corporatism, integralism, Italian fascism, Miguel Reale Parole chiave : Brasile, corporativismo, fascismo, integralismo, Miguel Reale

AUTORI

JOÃO FÁBIO BERTONHA

João Fábio Bertonha è professore di Storia presso l’Universidade Estadual de Maringá/PR e ricercatore del CNPq. Si è addottorato in Storia presso l’Universidade Estadual de Campinas, ed è stato assegnista di ricerca presso l’Università La Sapienza di Roma (2010-2011) e l’USP (2012), dove nel 2014 ha acquisito il titolo di Livre Docente in Storia. Tra il 2014 e il 2015 è stato visiting fellow presso lo European University Institute di Firenze. È autore di numerosi libri ed articoli; tra gli ultimi in ordine di tempo: O Integralismo e sua história: memória, fontes, historiografia (Salvador, Editora PontoCom, 2016); Fascismo, antifascismo e gli italiani all’estero. Bibliografia

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orientativa (1922-2015) (Viterbo, Sette Città, 2015). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Bertonha >

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IV. Recensioni

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Philip Cooke, L’eredità della Resistenza. Storia, cultura, politiche dal dopoguerra a oggi

Simeone Del Prete

NOTIZIA

Philip Cooke, L’eredità della Resistenza. Storia, cultura, politiche dal dopoguerra a oggi, Roma, Viella, 2015, 382 pp. «Il passato in Italia conta»1.

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1 In questa breve asserzione si raddensa l’intero senso del ricco studio interdisciplinare che lo storico inglese Philip Cooke, docente di storia e cultura italiana presso l’Università Strathclyde di Glasgow, ha racchiuso nella sua ultima opera, L’eredità della Resistenza. Storia, cultura e politica dal dopoguerra ad oggi, la cui edizione originale, pubblicata da Palgrave MacMillan nel 2011 con il titolo The Legacy of Italian Resistance, è stata tradotta e pubblicata in Italia da Viella solo lo scorso anno.

2 L’opera, già vincitrice del Premio Flaiano per l’Italianistica nel 2012 e del Book Prize dell’American Association for Italian Studies nel 2011, si presenta come un lungo percorso attraverso il dibattito politico, le manifestazioni culturali e le espressioni ideologiche del secondo dopoguerra italiano afferenti alla lotta di liberazione. A metà tra l’analisi culturale e l’opera storiografica, lo studio si interroga sulla «stupefacente presenza»2 della Resistenza nella memoria storica del paese e nel dibattito politico del dopoguerra, non mancando di valutarne in maniera tutt’altro che oleografica le ricadute sull’immaginario collettivo, sulla produzione culturale e sull’impostazione ideologica degli ultimi settanta anni.

3 Il tomo, strutturato in otto capitoli ordinati cronologicamente che seguono grosso modo le decadi che separano la fine della Seconda Guerra Mondiale dal primo decennio del nuovo millennio, non si presenta, infatti, come l’ennesima storiografia del dopoguerra, ma come un’attenta disamina delle interconnessioni tra la trasmissione della memoria della lotta di liberazione e le successive manifestazioni politiche, culturali e sociali.

4 L’approccio interdisciplinare adottato infatti dall’autore, il quale non manca di passare in rassegna film, canzoni, documentari, monumenti e romanzi ispirati alla Resistenza e di corredare l’incedere della disamina con un solido apparato iconografico, pone il lettore in una prospettiva del tutto inedita e innovativa, mettendo sotto la lente d’indagine non solo la storia della Resistenza e quella del dopoguerra come elementi in sé definiti e distinti, ma anche gli strascichi che la memoria dei venti mesi di lotta di liberazione ha avuto sulla produzione ideologica, culturale e sociale del secondo dopoguerra.

5 Al contempo, però, proprio grazie alla prospettiva che l’analisi di tali produzioni e fenomeni permette al lettore, lo studio disvela come la modalità di produzione della memoria e persino l’approccio degli studiosi al passato resistenziale siano stati dominati dalle contingenze politico-ideologiche e dal contesto culturale durante tutto l’arco dei decenni del dopoguerra, sovente deformati o addirittura riplasmati nei loro connotati a seconda della situazione storica. Se è vero, infatti, che la tradizione resistenziale è «sostanzialmente fatta di simboli, riti, commemorazioni, monumenti,

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immagini e manufatti culturali»3 come teorizzato da Stephen Gundle, è altrettanto vero che questi non sono stati elementi monolitici e omogenei durante l’arco del dopoguerra, ma fedeli espressioni dei tempi e dei climi politici in cui e da cui venivano prodotti.

6 Nella disamina di ciò dunque – ed è questo il vero valore dell’opera – la scrupolosa e attenta analisi condotta da Cooke assurge a utile strumento per lo studio della storia dello scorso secolo: nel riuscire a tracciare un filo rosso percorribile in entrambe le direzioni tra l’influenza che la lotta di liberazione ha avuto nelle contingenze politiche del dopoguerra e le modalità di trasmissione della memoria della Resistenza da esse a loro volta condizionate, sta il vero merito dello storico inglese.

7 In tal senso, si nota lo sforzo dell’autore di ricostruire i mutevoli e ambivalenti atteggiamenti sviluppati dai principali partiti politici e dalle istituzioni repubblicane nel corso del loro progetto di edificazione o di smantellamento della cultura della Resistenza, posto dall’autore all’inizio di ogni capitolo. Dalla «grande cesura»4 dei primi anni del dopoguerra allo «sdoganamento»5 della Resistenza, avvenuto, secondo l’autore, solo a partire dalla crisi istituzionale relativa all’affare Tambroni nel 1960, dal «revival» della Resistenza dei movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta, all’opposizione dicotomica tra la stessa e il terrorismo durante gli anni di piombo e dalla ridefinizione del concetto di Resistenza nell’immaginario collettivo avvenuta sotto l’egida del presidente partigiano per antonomasia, Sandro Pertini, alla smitizzazione del movimento di liberazione operata da Bettino Craxi in funzione anticomunista, certosino risulta lo sforzo dello storico inglese di incrinare l’impostazione grossolanamente semplicistica dell’individuazione di connessioni monocausali fra alcune manifestazioni della Resistenza e il dibattito politico contingente.

8 Da questo punto di vista, degno di nota è il tentativo dell’autore di ridiscutere il concetto di «ipoteca comunista»6 sulla memoria della Resistenza che per anni non solo ha egemonizzato l’opinione pubblica riguardo alla lotta di liberazione, ma ha anche rappresentato una delle chiavi di lettura preponderanti degli storici sul tema. È di indubbio valore storico, infatti, l’indagine presente nell’opera delle modalità secondo cui non solo il Partito Comunista Italiano, ma anche gli altri partiti politici – dalla Democrazia Cristiana al Movimento Sociale Italiano prima e da Alleanza Nazionale a Rifondazione Comunista poi – hanno utilizzato e, in taluni casi, persino manipolato l’eredità della Resistenza.

9 Un altro elemento di interesse del libro è quello di aver passato in rassegna in maniera rapida e assai scorrevole i vari approcci storiografici con i quali il fenomeno resistenziale è stato riletto nell’arco dei decenni, senza trascurare però dibattiti e problematiche e, anzi, illuminandone le sfaccettature e le interconnessioni.

10 A partire dalla grandiosa narrazione teleologica proposta da Roberto Battaglia nel suo Storia della Resistenza italiana7 – nel quale si sosteneva il primato comunista nell’organizzazione del movimento resistenziale8 – passando per le numerose opere successive in cui si proponeva il paradigma della Resistenza come secondo Risorgimento, vera «trave portante dell’edificio della memoria resistenziale»9 insieme al topos dell’unità del movimento resistenziale, fino a giungere alla varietà di problematiche, quali l’estensione del campo cronologico di studio, sollevate da Guido Quazza10, e ai nuovi approcci di genere della storiografia degli anni Settanta, l’autore

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non manca di analizzare in maniera dialettica tutte le teorie storiografiche della Prima Repubblica, riportandone dibattiti e discussioni.

11 Un approfondimento ancora più consistente trovano nell’opera lo stravolgimento dei paradigmi precedenti rappresentato dalla trilineare natura – patriottica, civile e di classe – della lotta resistenziale messa in luce da Claudio Pavone in quella che è diventata la più importante opera storiografica sulla Resistenza, Un guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza11 – opera più «commentata che letta» 12, come sottolineato da Cooke – e il tuttora attivo dibattito sulla natura della Resistenza ingenerato da questo libro e dalla spesso tendenziosa lettura da parte della pubblicistica revisionista di destra che, attraverso la semplicistica impressione lasciata dal titolo, sostiene il carattere esclusivamente civile della guerra di liberazione perorandone una continua messa in discussione.

12 Lo studio di Cooke fa dunque emergere come nel paese il rapporto tra storiografia e memoria pubblica della Resistenza, intesa come l’«intreccio tra politica e storiografia che è frutto di numerosi tradizioni di impegno civile»13, sia stato spesso stretto e sovente abbia marciato su binari paralleli. Al contempo, però, la lettura del volume delinea come numerosi siano gli esempi della dicotomia esistente tra l’analisi monolitica della Resistenza come fenomeno storico, portata avanti durante lunga parte del dopoguerra dalla quasi totalità degli storici, e la percezione della Resistenza nel comune sentire della società italiana. In tal senso, va notato come il carattere non univoco e lineare del fenomeno resistenziale e, più in generale del coinvolgimento del paese nella Seconda Guerra Mondiale, messo ampiamente in luce da Claudio Pavone14, abbia finito per avere un effetto durevole sulla società del dopoguerra, esercitando un’influenza profonda su società, politica e cultura, tanto da aver preparato il terreno per un massiccio uso pubblico della storia della Resistenza da parte delle varie correnti politiche con l’intento di fornire alle loro attività sostegno ideologico.

13 Sebbene il corpus di ricerche relative all’interazione fra storia, cultura e uso pubblico della memoria sia imponente e proprio relativamente alla Resistenza in questi ultimi anni abbia goduto di crescenti fervori15, il volume di Cooke risulta uno strumento utile per chi intenda accostarsi sia allo studio della storiografia della lotta di liberazione, sia alla storia culturale del secondo dopoguerra del nostro paese. Pur avendo, infatti, la cultura della Resistenza goduto di attenzioni notevoli da parte degli storici, stimolando varie ricerche sulla produzione cinematografica e letteraria ad essa ispirata16, fino alla pubblicazione di questo volume mancava un tentativo sistematico di collocare quelle manifestazioni culturali nel contesto storico, storiografico, ideologico e politico in cui essere furono partorite.

14 Decifrando la «doppia elica»17 costituita dalla politica italiana e dalla cultura della Resistenza, ma al contempo tenendone insieme i filamenti, i quali, a detta dello storico inglese, finiscono per essere componenti strutturali dell’Italia contemporanea, l’opera assolve pienamente agli obiettivi prefissati dall’autore nella premessa, ossia quello di indagare le varie maniere con cui la Resistenza italiana ha influenzato la politica dal 1945 ai giorni nostri e quello di analizzare le modalità secondo cui l’eredità di quella esperienza è stata trasmessa attraverso i «vettori» della cultura e della politica, denotando notevole coerenza interna e lodevole chiarezza delle tesi esposte e sostenute.

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NOTE

1. COOKE, Philip, L’eredità della Resistenza. Storia, cultura, politiche dal dopoguerra a oggi, Roma, Viella, 2015 [Ed. or.: The Legacy of the Italian Resistance, New York, Palgrave Macmillan, 2011], p. 333. 2. Ibidem, p. 13. 3. GUNDLE, Stephen, «The civic religion of the Italian Resistance», in Modern Italy, 5, 2/2000, pp. 113-132, p. 114. 4. MICCOLI, Giovanni, NEPPI MODONA, Guido, POMBENI, Paolo (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2001. 5. COOKE, Philip, op. cit., p.149. 6. Ibidem, p. 335. 7. BATTAGLIA, Roberto, Storia della Resistenza italiana (8 settembre 1943–25 aprile 1945), Torino, Einaudi, 1953. 8. A tal proposito, si noti il fiorire di opere storiografiche nel quale si perorava tale lettura. A titolo esemplificativo se ne ricordano due, di poco successive all’opera di Battaglia: SECCHIA, Pietro, I comunisti e l’insurrezione: 1943-1945, Roma, Edizioni di cultura sociale, 1954; LONGO, Luigi, Sulla via dell’insurrezione nazionale, Roma, Edizioni di cultura sociale, 1954. 9. COOKE, Philip, op. cit., p. 172. 10. QUAZZA, Guido, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976. 11. PAVONE, Claudio, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. 12. COOKE, Philip, op. cit., p. 281. 13. SANTOMASSIMO, Gianpasquale, La memoria pubblica dell’antifascismo, in LUSSANA, Fiamma, MARRAMAO, Giacomo (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Vol. 2, Culture, nuovi soggetti, identità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 137. 14. PAVONE, Claudio, op. cit. 15. A tal proposito si vedano i contributi di Gianpasquale Santomassimo, tra i quali La memoria pubblica della Resistenza, già pocanzi citato, e la raccolta dei suoi scritti, originariamente apparsi sul quotidiano «Il Manifesto». Cfr. SANTOMASSIMO, Gianpasquale, Antifascismo e dintorni, Roma, Manifestolibri, 2004. Fra gli altri studi che si interrogano sulla stessa tematica si segnalano i seguenti: FOCARDI, Filippo, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005; QUAZZA, Guido, «L’antifascismo nella storia italiana del Novecento», in Italia contemporanea, 178, 1/1990, pp. 5-16; MICCOLI, Giovanni, NEPPI MODONA, Guido, POMBENI, Paolo (a cura di), op. cit. 16. A titolo esemplificativo si vedano i seguenti lavori: BIANCHINI, Andrea, LOLLI, Francesco (a cura di), Letteratura e Resistenza, Bologna, CLUEB, 1997; CRAINZ, Guido, I programmi televisivi sul fascismo e la Resistenza, in COLLOTTI, Enzo (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 463-492; FALASCHI, Giovanni, La resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976; FALASCHI, Giovanni (a cura di), La letteratura partigiana in Italia 1943-1945, Roma, Editori Riuniti, 1984; CICOGNETTI, Luisa, SERVETTI, Lorenza, SORLIN, Pierre (a cura di), L’immagine della Resistenza in Europa, 1945-1960, Bologna, Il Nove, 1996; VERCELLI, Claudio, «Cinema resistente. Uno sguardo d’insieme sulla raffigurazione della Resistenza dal dopoguerra ad oggi», in Asti contemporanea, 13, 11/2005, pp. 303-388. 17. COOKE, Philip, op. cit., p. 15.

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AUTORI

SIMEONE DEL PRETE

Simeone Del Prete, laureatosi con lode in scienze storiche presso l’Università degli Studi di Bologna, è dottorando in scienze storiche e filosofico-sociali presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata con un progetto di ricerca relativo alla difese organizzate dal Partito Comunista Italiano nei processi per le violenze partigiane nell’immediato dopoguerra. Ha collaborato con l’Istituto per la storia e le memorie del Novecento Parri di Bologna. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#DelPrete >

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Gianni Fresu, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo

Andrea Ricciardi

NOTIZIA

Gianni Fresu, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, Roma, Odradek, 2013, 301 pp.

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1 Eugenio Curiel è una delle figure più interessanti dell’antifascismo italiano, avvolta in un’atmosfera di drammatica incompiutezza. Venne infatti assassinato dai fascisti a Milano il 24 febbraio 1945, poco più di due mesi prima della Liberazione, a soli 33 anni (non ancora compiuti). Riconosciuto da un delatore, l’ex confinato di Ventotene Amilcare Rolando, mentre si recava ad incontrare la sorella Grazia, tentò una disperata fuga che si concluse con il suo ferimento. Aveva detto in più circostanze che era necessario non farsi catturare vivi, evitando così le orribili torture di “Villa triste” e della famigerata banda Koch, che avrebbero potuto portare chiunque a rivelare informazioni sull’identità e i movimenti dei compagni e a compromettere così la struttura clandestina del PCI, in cui militava con grande passione e spirito di abnegazione. Fece dunque appello alle sue ultime forze per rialzarsi e, di fatto, per farsi sparare una seconda e definitiva volta.

2 Alla fine di un volume molto corposo, ricco di sollecitazioni ma di non facile lettura, diviso in tre capitoli e corredato da due testimonianze di Gianni Cervetti e Aldo Tortorella (riportate integralmente in appendice, ma parzialmente riproposte in varie parti del testo), Fresu scrive che Curiel morì alla vigilia della vittoria finale, nel gelido febbraio milanese, senza poter vedere i colori di una primavera a lungo attesa e per la quale tanto aveva lottato, la liberazione. Vide e contribuì ad accelerare il tramonto della dittatura, non poté assaporare l’alba di una nuova democrazia, forse anche in questo particolare sta il fascino tragico del suo destino, drammaticamente segnato dalla violenza del fascismo1.

3 Non furono pochi gli antifascisti di diverso colore che persero la vita in vista del successo finale, qualcuno tentando di sottrarsi alla morte pianificata dai nazisti nei campi di sterminio (come il socialista Ermanno Bartellini, primo “maestro” di politica di Leo Valiani, e l’azionista Luigi Cosattini), altri perché assassinati tra il 1944 e i primi mesi del 1945 in circostanze talvolta strazianti. Tra questi, solo per portare qualche esempio, si possono ricordare Duccio Galimberti, Eugenio Colorni (amico di Curiel), Bruno Buozzi e Leone Ginzburg.

4 Curiel morì da comunista, a stretto contatto con Giorgio Amendola, Gillo Pontecorvo e altri compagni più giovani che, durante la fase più difficile e cruenta della Resistenza, ne riconobbero le qualità di leader e la profondità di pensiero. Tuttavia, nel corso della sua esistenza, egli attraversò momenti diversi nei quali la sua naturale tendenza all’approfondimento e alla ricerca lo mise in contatto con correnti di pensiero diverse dal marxismo-leninismo e lo portò a lavorare al fianco di importanti esponenti dell’antifascismo socialista (quello con Giustizia e Libertà si rivelò, invece, un incontro mancato).

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5 Eugenio Curiel, nato da Giulio e Lucia Limentani, genitori ebrei esponenti della dinamica borghesia triestina, secondo Fresu si deve considerare interprete di una generazione (titolo del primo capitolo), quella cioè di chi crebbe sotto il fascismo, colse precocemente il grande inganno che si celava dietro un’organicità di sistema e di idee solo apparente e si mise pienamente in gioco per costruire un futuro diverso, all’insegna della coscienza e della libertà. Già dal titolo del libro, si capisce che Curiel è avvicinato per vari aspetti a Ruggero Zangrandi, di tre anni più giovane, autore del celebre volume autobiografico Il lungo viaggio attraverso il fascismo2. Il libro viene evocato indirettamente da Fresu: pubblicato nel 1962, ha rappresentato (e rappresenta ancora oggi) un documento di quel travaglio generazionale che coinvolse molti ragazzi, inevitabilmente immersi nel regime di Mussolini ma, nel corso degli anni Trenta, sempre più orientati a metterlo in discussione evidenziando le stridenti contraddizioni tra i roboanti annunci inneggianti alla rivoluzione fascista e la realtà di un paese conformista. Un paese in cui la gestione del potere era rimasta nelle mani dei grandi capitalisti e degli agrari, che avevano finanziato lo squadrismo in funzione antisocialista e che avevano, poi, tratto tutti i possibili vantaggi dall’azzeramento della dialettica sociale e dallo sfruttamento dei lavoratori.

6 Proprio il primo capitolo appare particolarmente stimolante per il modo in cui Fresu si sofferma sul giovane Curiel alla ricerca di un’identità, culturale prima che politico- ideologica. Molto dotato negli studi, con una predilezione per le discipline scientifiche e una naturale tendenza alla cultura enciclopedica, Eugenio si interessò anche di pittura, letteratura, teatro e musica, come sottolineato nella biografia di Briamonte3 (che, pur essendo un lavoro pubblicato da quasi quarant’anni, rimane molto importante e viene spesso utilizzato da Fresu come fonte).

7 Curiel era dotato di una personalità forte grazie alla quale non subì grandi condizionamenti dalla famiglia ma, nel contempo, fu sempre molto legato a tutti i suoi componenti. Fece quasi da secondo padre alle due sorelle Grazia e Gigliola e al fratello Sergio, costruì un rapporto intenso anche con la nipotina Luciana (da lui chiamata Puck), come testimoniato dalla sua compagna Bianca Diodati. Per Fresu, «nonostante la solidità di questi rapporti, Eugenio non ebbe remore ad andare contro le indicazioni paterne per assecondare le proprie convinzioni politico-sociali»4. Una cugina più giovane, Matilde Finzi Bassani, fu un’altra parente per lui importante, che confessò a Eugenio la precoce militanza antifascista, guadagnandosi così la sua considerazione. Curiel la presentò quindi a Colorni e a Guido Goldschmied, suoi compagni di lotta con cui Matilde intraprese fecondi rapporti di collaborazione.

8 Terminati gli studi al liceo scientifico nel 1929, con un anno di anticipo, Eugenio si iscrisse al biennio di ingegneria, ospitato a Firenze dallo zio Ludovico Limentani, filosofo, che contribuì ad alimentare l’interesse del giovane per quella disciplina. Iscrittosi al politecnico di Milano nel 1931, nonostante il suo approccio “problematico” allo studio, Curiel mostrò una propensione particolare per le scienze fisico- matematiche e per la ricerca scientifica “pura”. Ma la crisi economica, conseguenza indiretta del crollo della borsa di New York del 1929, condizionò il corso degli studi di Eugenio, visto che la famiglia subì un tracollo – comune a una parte rilevante dei ceti medi – che, per usare le parole dell’autore, la condusse anche «al declassamento dello status sociale». Ciò ebbe una conseguenza rilevante sulla crescita di Curiel, «imprimendo una sua maturazione accelerata e un’assunzione di responsabilità e doveri verso la famiglia in difficoltà»5.

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9 Curiel decise così di abbandonare Milano e di tornare dallo zio a Firenze, dove si iscrisse al corso di laurea in Fisica. Scrive Fresu: Ma non erano solo i problemi economici ad agitare il giovane Curiel, maturava infatti in lui un turbamento nervoso e morale che se per un verso rafforzò la sua tendenza all’introspezione, dall’altro lo spinse a cercare nuovi orizzonti, sia culturali che esistenziali6.

10 Da qui l’incontro con le discipline antroposofiche di Rudolf Steiner, che si tradusse in una crescita intellettuale autonoma dall’humus culturale e religioso della famiglia, pur rivelandosi un percorso filosofico e spirituale non lineare e, per certi aspetti, sofferto. Un altro incontro determinante per il corso dell’esistenza di Curiel fu quello con il fisico Bruno Rossi (con cui Eugenio stava preparando la tesi di laurea nel 1933), assistente a Firenze quando ottenne la cattedra a Padova, dove fu seguito dal giovane laureando. Nel luglio dello stesso 1933, dopo aver provvisoriamente abbandonato gli studi per insegnare nelle scuole elementari, Curiel si laureò proprio grazie alla pressioni di Rossi e dei familiari, in questo caso ascoltati da Eugenio. Il 110 e lode, in una fase di adesione “totale” allo steinerismo, non placò il suo tormento interiore ma sopravvenne in un periodo nel quale, proprio grazie ai fertili dialoghi interni al gruppo steineriano, Curiel definì con maggiore organicità il suo antifascismo. É a Padova che Eugenio incontrò Atto Braun, amico d’infanzia a Trieste, e Renato Mieli, un giovane ebreo nativo di Alessandria d’Egitto. Con loro, e con Guido Goldschmied, Curiel avrebbe formato la cellula comunista nella città veneta.

11 Un aspetto centrale della strategia di Curiel fu l’idea che il fascismo potesse e dovesse essere combattuto innanzitutto “dall’interno”, cioè utilizzando canali e strumenti legali per costruire un rapporto solido con i giovani. Secondo la testimonianza di Opocher7, divenuto poi azionista, nonostante la diffidenza di vari antifascisti, Curiel aveva compreso che era necessario erodere la base di consenso del regime senza aver timore di confrontarsi con la dissidenza fascista e, quindi, di agire all’interno di un terreno teoricamente ostile. Da qui l’impegno profuso nella rivista «Il Bò» e l’esperienza nei GUF, a cui seguì quella nel Fronte della Gioventù. Un’organizzazione, questa, ideata da Pajetta in accordo con Longo e che vide coinvolti, tra gli altri, Pontecorvo, Vittorini, Tortorella e Raffaele De Grada. Curiel, nel completare la sua formazione, entrò in contatto con GL, le cui posizioni presentavano qualche affinità con il suo approccio alla lotta. Ma l’incontro con Mario Paggi a Milano lo deluse, portandolo ad intensificare i rapporti con l’amico Braun e ad approfondire i classici del marxismo-leninismo. Una tendenza che avrebbe caratterizzato Curiel anche durante il confino8 quando, oltre a Marx ed Engels, lesse e discusse Antonio Labriola, Lukács, Antonio Banfi e Bucharin, confrontandosi con antifascisti di diversa estrazione ideologico-culturale.

12 Entrato in contatto con la direzione del PCd’I nel 1936, Curiel si recò a Parigi nel marzo del 1937. Qui iniziò a costruire un rapporto (non proprio lineare) con il centro estero e, per alcune settimane, frequentò Emilio Sereni, Donini e Grieco. Con loro discusse la situazione italiana e, rientrato a Padova, «orientò i compagni a un lavoro legale di massa attraverso la penetrazione nelle stesse realtà sociali del regime tra lo sconcerto della cellula comunista composta da giovani che fremevano per passare all’azione»9. Tra il 1937 e il 1938, subentrato a Esulino Sella nella redazione de «Il Bò», scrisse per la rivista 54 articoli trattando di questioni sindacali e, più in generale, di problemi del lavoro. Oltre a questo canale, Curiel si propose di intercettare i malumori dei giovani

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intellettuali partecipando ai Littoriali nello stesso 1937 (a Napoli) e nel 1938 (a Palermo).

13 Fresu vede in questa strategia una consonanza con la linea intrapresa dal centro estero del PCd’I. Nei fatti, Curiel seppe raccogliere l’intuizione sviluppata da Ruggero Grieco tra il 1934 e il ’36, ossia, puntare proprio sulle nuove generazioni e sugli operai per mettere in crisi il fascismo10.

14 Un altro aspetto centrale del modo di concepire la lotta antifascista da parte di Curiel fu la sua tendenza a promuovere uno stretto rapporto con i socialisti del centro interno, cosa che gli attirò critiche e persino sospetti ma che, come spiega Fresu, era coerente con la strategia dei fronti popolari promossa dal VII Congresso del Comintern. La consonanza di vedute con i socialisti fu tale che Merli sostenne che Curiel aderì realmente al PCd’I solo durante il confino, mentre nella fase precedente fu molto più in sintonia con Basso, Colorni e Morandi11. Dunque il modo di declinare il rapporto tra i due partiti operai, da tema politico, sarebbe divenuta poi una controversa questione storiografica visto che, per Spriano, Curiel scelse invece di aderire al PCd’I addirittura nel 193512.

15 In questa sede non è possibile tracciare un quadro di tutte le considerazioni espresse dall’autore su questo doppio binario (politico e storiografico), né dar conto con organicità delle numerose testimonianze inserite nel libro che, a tratti, considerati anche i continui salti temporali, appare un po’ disordinato. Questa sensazione emerge inoltre perché l’autore, forse per contestualizzare al meglio le riflessioni e l’attività di Curiel, si sofferma a fondo sulla storia complessiva del PCd’I, talvolta accantonando il percorso individuale dello stesso Curiel. La tendenza appare manifesta nel secondo capitolo, intitolato significativamente Svolte e contro svolte: i comunisti italiani di fronte al fascismo. Curiel è sostanzialmente assente dalla narrazione, talvolta compare solo per verificare se la sua linea fosse più o meno coerente con le direttive dei vertici e, in particolare, di quel centro estero messo in discussione da Mosca nel 1937, quando Berti fu inviato a Parigi.

16 L’equilibrio tra la vicenda individuale e la più ampia storia del partito è maggiore nel terzo capitolo che, intitolato Alla testa di una generazione, si apre con una tripartizione cronologica dei nodi essenziali del contributo di Curiel alla storia dell’antifascismo, elaborata da Eugenio Garin: 1) l’utilizzo degli spazi legalitari ancora rimasti per la lotta contro il fascismo, operando tra i giovani inquadrati nelle organizzazioni universitarie e gli operai nei sindacati fascisti (1937-39); 2) la ricerca di un patrimonio teorico peculiare, attraverso lo studio del marxismo e della storia d’Italia in rapporto al suo processo di unificazione, negli anni del confino a Ventotene (1940-43); 3) la mobilitazione politica e militare dei giovani nella lotta di liberazione nazionale, all’interno della prospettiva socialista e di rinnovamento democratico del Paese (1943-45)13.

17 Proprio a quest’ultima stagione della vita di Curiel, Fresu dedica attenzione evidenziando, da una parte, gli intensi rapporti politici e personali sviluppati con vari compagni (tra cui l’amico ritrovato Colorni, Colombi, Di Vittorio, Pietro Grifone, Giovanni Pesce, Secchia, Scoccimarro, Longo) e, dall’altra, la natura delle sue riflessioni che, sempre secondo l’autore, presentarono rilevanti punti di contatto, sia pure inconsapevoli, con Gramsci e con il Togliatti della svolta di Salerno e del partito nuovo.

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NOTE

1. Cfr. FRESU, Gianni, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, Milano, Odradek, 2013, p. 241. 2. Cfr. ZANGRANDI, Ruggero, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Milano, Feltrinelli, 1962. 3. Cfr. BRIAMONTE, Nando, La vita e il pensiero di Eugenio Curiel, Milano, Feltrinelli, 1979. 4. Cfr. FRESU, Gianni, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, cit., p. 20. 5. Ibidem, p. 22. 6. Ibidem. 7. Ibidem, p. 32. 8. Curiel fu arrestato a Trieste il 24 giugno 1939, tradotto in carcere a Milano e condannato il 13 gennaio 1940 a cinque anni di confino. Fu quindi trasferito a Ventotene, che lasciò il 21 agosto 1943. Cfr. la voce su Eugenio Curiel redatta da Nicola Briamonte per il Dizionario Biografico degli Italiani (vol. 31, 1985), reperibile su internet, URL: < http://www.treccani.it/enciclopedia/ eugenio-curiel_(Dizionario-Biografico)/ > [consultato il 16 febbraio 2017]. 9. Cfr. FRESU, Gianni, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, cit., p. 39. 10. Ibidem, p. 43. 11. Ibidem, p. 61. 12. Ibidem, p. 65. 13. Ibidem, p. 159. Il volume di Garin da cui è tratta la citazione è GARIN, Eugenio, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1974.

AUTORI

ANDREA RICCIARDI

Andrea Ricciardi collabora dal 2000 con l’Università degli Studi di Milano, dove si è laureato, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia della società e delle istituzioni nell’Europa contemporanea, ha lavorato per quattro anni come assegnista e, attualmente, è docente a contratto di Storia contemporanea. Dal 2010 è membro della redazione de «Il Mestiere di Storico» e dal 2011 del comitato di direzione degli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa». Si occupa di storia politica e culturale, con particolare riferimento a figure e vicende del movimento operaio e dell’antifascismo. Oltre a vari saggi pubblicati in riviste di settore e volumi collettanei, ha scritto e curato libri su Leo Valiani, Gino Giugni, Vittorio Foa, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti e Luigi Longo. Nel 2013 ha ottenuto l’ASN per professore associato di Storia contemporanea (11/A3). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Ricciardi >

Diacronie, N° 29, 1 | 2017 207

Matteo Pasetti, L’Europa corporativa. Una storia transnazionale tra le due guerre mondiali

Camilla Poesio

NOTIZIA

Matteo Pasetti, L’Europa corporativa. Una storia transnazionale tra le due guerre mondiali, Bologna, Bononia University Press, 2016, 336 pp.

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1 La prima impressione che si ha leggendo questo denso e complesso libro è quella di avere fra le mani un testo destinato a essere di riferimento tanto per gli studi sul tema del corporativismo, tanto per gli studi sul concetto di transnazionale in generale. Autore di numerose pubblicazioni sulla storia del Novecento, in particolare sulla storia del movimento sindacale1 e sul fascismo italiano anche in ottica europea2, Pasetti è da anni studioso del corporativismo nella sua versione fascista3. In questa sua ultima fatica, l’autore affronta il tema sia come oggetto di studio in sé e per sé sia, soprattutto, come esempio di storia transnazionale. Il libro che abbiamo davanti non si occupa, perciò, solo di corporativismo fascista – che comunque viene spiegato nello specifico in un paragrafo a parte4 – quanto della sua circolazione in Europa (ma non solo): esso [il corporativismo fascista] sarà osservato in “movimento”, seguendo cioè non solo il suo sviluppo, quanto soprattutto la ricezione all’estero e l’interazione con altri progetti ed esperienze5.

2 La scelta di affrontare il corporativismo da un punto di vista transnazionale, spiega l’autore, non è stata presa ritenendo che tale prospettiva sia più valida di altre, ma è stata dettata dalla natura stessa del corporativismo la cui storia, come emerge dal libro, fu essa stessa transnazionale. Infatti, nell’interessante introduzione, viene portata avanti una lunga disquisizione storicizzata del concetto polisemico di corporativismo6 e il solo fatto che molteplici siano stati gli usi storici del termine, che peraltro ha cambiato di significato in alcune lingue, ci porta a quanto detto sopra, e cioè, che la dottrina politica del corporativismo è un esempio di storia transnazionale: le idee corporativiste hanno viaggiato, si sono propagate, sono state accolte, tradotte, interpretate, riadattate e trasformate con altre esperienze e progetti finendo talvolta per diventare altro dall’originale.

3 C’è anche un terzo livello con cui questo libro, secondo noi, può essere letto: analizzando il corporativismo nella sua dimensione transnazionale e soffermandosi sulle influenze politiche e socio-economiche che ebbe il fascismo italiano su altri paesi, emerge ancora una volta e con chiarezza la necessità – e Pasetti lo fa – di leggere e inquadrare la storia del fascismo italiano in relazione alla situazione europea7.

4 Un’altra originalità del volume sta nel fatto che, se la maggior parte della storiografia ha analizzato l’interesse dell’opinione pubblica europea (e non solo) per il corporativismo negli anni Trenta come possibile terza via in seguito alla crisi del 1929 e alla politica propagandistica del regime fascista, Pasetti, senza tralasciare quel decennio, affronta anche l’interesse e la seduzione che quella dottrina provocò prima, già nella seconda metà degli anni Venti. L’interesse per la ricezione all’estero del

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corporativismo serve a Pasetti «non tanto per ricostruire un inesistente “spirito del tempo” […] quanto per comprendere alcune dinamiche che portarono all’effettiva circolazione transnazionale di un modello»8.

5 In accordo con alcuni dei più recenti studi sul tema del corporativismo che hanno rivalutato l’importanza delle corporazioni nel funzionamento del regime9, Pasetti dimostra, facendo uso di una ricca mole di fonti a stampa e di fonti primarie straniere, ossia di testi coevi ai fatti, quanto il corporativismo fascista produsse degli effetti niente affatto trascurabili. Senza smentire le argomentazioni di un Gaetano Salvemini o di un Edward Carr, e cioè il sostanziale fallimento pratico del corporativismo10, emerge il fatto rilevante che il corporativismo fascista fu argomento di discussione di centinaia di intellettuali e politici in Europa e anche in America del Sud e negli Stati Uniti, perciò, «che fosse o meno un “bluff”, o una “truffa”, in molti presero sul serio l’esperimento fascista, e questo fatto non può essere considerato del tutto irrilevante […]»11.

6 È partendo da questa convinzione, che il libro si snoda in tre corposi capitoli, a loro volta suddivisi in numerosi paragrafi che ci conducono addentro la questione.

7 Il primo capitolo affronta la nascita di progetti corporativi nella cultura politica del primo dopoguerra e le varie teorie sul rilancio del corporativismo per ridefinire i rapporti tra stato, economia e società, come quelle esposte tra il 1917 e il 1919 da Walter Rathenau. La prima guerra mondiale aveva travolto il vecchio ordine politico liberale e il tema del corporativismo ritornò in particolare in tre correnti politiche: l’area del cattolicesimo politico, l’area nazionalista e l’area del socialismo corporativo o guild socialism. Il “revival”, la diffusione di ipotesi variamente corporative che, con una circolazione transnazionale, attraversarono il dibattito politico europeo, condusse dunque un attacco su più fronti alla sovranità dello stato parlamentare, investendo l’ordine istituzionale, i meccanismi della rappresentanza politica dei gruppi sociali, i rapporti con le organizzazioni degli interessi, la regolamentazione degli scambi tra potere economico e potere politico12.

8 Ebbero luogo alcuni tentativi di messa in pratica di riforme di tipo corporativo che tuttavia fallirono. I due esperimenti più espliciti di rifondare la democrazia parlamentare su basi corporative furono in Portogallo e a Fiume. Nel paese iberico, Sidónio Pais, salito al potere con un colpo di stato nel 1917, prefigurò una riforma costituzionale che modificava l’assetto parlamentare con la creazione di una camera in parte corporativa: primo caso in Europa di un’assemblea istituzionale nazionale in cui i rappresentanti di categorie professionali potevano prendere iniziative legislative. L’altro tentativo costituzionale di stampo corporativo che fallì fu quello di Fiume espresso nella Carta del Carnaro che offriva un’alternativa all’ordinamento bolscevico e a quello democratico borghese prospettando una sorta di “democrazia corporativa”. Seguirono poi altri esperimenti che, invece, non mirarono a sostituire il parlamentarismo bensì ad affiancargli “consigli economici” o “comitati paritari” per intervenire sui processi di politica economica e risolvere la conciliazione tra le parti sociali per mezzo di meccanismi istituzionalizzati: successe in Inghilterra, in Spagna, in Belgio, nella Repubblica di Weimar – prima con la Zentralarbeitsgemeinschaft poi con il Reichswirtschaftsrat – e in Francia.

9 Rispetto a questi primi esperimenti, il regime fascista «fornì una soluzione più radicale, coercitiva e illiberale a problemi di governance che erano comuni a tutte le società di massa occidentali e che vennero affrontati con modalità per certi aspetti analoghe,

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cioè, tramite la prassi definita dall’idealtipo del “corporativismo”13». Il corporativismo divenne una sorta di cavallo di Troia per alcuni esponenti del movimento fascista finendo per inserirsi in circuiti intellettuali e politici europei. Accadde così per Camillo Pellizzi, fondatore della sezione inglese dei fasci italiani all’estero, che tramite il tema del corporativismo entrò in contatto anche con ambienti del laburismo.

10 Il secondo capitolo affronta la svolta fascista: il 21 aprile 1927 fu emanata la Carta del Lavoro, elaborata da Alfredo Rocco, che fissò i principi della politica corporativa del regime, essenzialmente tre: abolizione del diritto di sciopero e di serrata e istituzione di una Magistratura del lavoro per la soluzione delle controversie; riconoscimento di un’unica associazione fascista per ogni categoria dei lavoratori; costituzione del ministero delle Corporazioni e del Consiglio nazionale delle corporazioni.

11 Perché, tra i vari elementi ideologici del fascismo, il corporativismo fascista fu il più condiviso? Perché era il più facilmente estrapolabile e perché sembrava risolvere con la creazione di nuove organizzazioni corporative la lotta di classe attraverso la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali. Molti ne rimasero affascinati, e non solo chi afferiva all’area di estrema destra, bensì anche certi ambienti del cattolicesimo intransigente e alcune minoranze socialiste e democratiche. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta dell’esperimento corporativo in atto in Italia si parlò molto in numerose testate all’estero, in Spagna, Francia, Belgio, Svizzera, Austria, Germania, Ungheria, Croazia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Ucraina, addirittura in Brasile; una notevole mole di libri fu tradotta nelle lingue più parlate. Anche all’interno della Organizzazione internazionale del lavoro alcuni espressero autentico interesse per la Carta del lavoro, come nel caso del Direttore generale dell’OIL stessa, Albert Thomas. Tutto ciò dimostra quello che Pasetti chiama «“il potenziale viaggiante” del fascismo italiano come esperienza capace di attraversare i confini porosi di varie aree ideologiche, allargando la propria sfera di influenza ben oltre movimenti affini o dichiaratamente fascisti»14. E sebbene questi ambienti fossero sostanzialmente ambienti accademici, e dunque questa circolazione avesse un carattere sostanzialmente elitario, ciò non significa, per Pasetti, che l’opinione corporativa ebbe un ruolo irrilevante nella cultura politica e nelle riforme istituzionali dell’epoca.

12 Un primo esempio di applicazione e contemporaneamente di riadattamento, dunque, di ibridazione dell’esperimento corporativo italiano fu quello effettuato durante la dittatura di Miguel Primo de Rivera quando la monarchia spagnola si dotò con l’istituzione dell’Organización nacional corporativa, il cui progetto fu affidato a Eduardo Aunós Pérez, di un’organizzazione corporativa, per molti aspetti simile a quella italiana. Il caso spagnolo è un chiaro esempio di come il corporativismo fu transnazionale: la riforma di Perez, infatti, aveva tratto ispirazione non solo dal modello italiano, ma, per ammissione dello stesso Perez, anche dai comitati paritetici istituiti in Belgio.

13 L’esperienza del corporativismo funzionò per il regime fascista come fonte di legittimazione del regime stesso e sul corporativismo fu portata avanti una notevole promozione all’estero, una sorta di «operazione di marketing», tanto che dal 1927 il corporativismo divenne un Leitmotiv dell’attività di propaganda all’estero effettuata tramite vari soggetti (i Fasci all’estero, i Caur, la Società Dante Alighieri, i vari istituti di cultura). La Grande crisi economica fece il resto, funzionando da cassa di risonanza in favore del corporativismo.

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14 Il terzo e ultimo capitolo esamina quello che Pasetti chiama gli “avatars”, «sia nel senso di replicanti, cloni dell’archetipo fascista, sia in quello di autorappresentazioni utilizzate per dissimulare la natura di regimi impegnati in processi, per certi aspetti contraddittori, di fascistizzazione»15. Si tratta, cioè, di esperienze che indubbiamente presero a modello il caso italiano, ma da cui si allontanarono inserendo caratteristiche autoctone, come il caso esemplificativo dell’Argentina studiato da Federico Finchelstein16; ma è soprattutto al Portogallo di Salazar – il primo stato nell’Europa degli anni Trenta a darsi una costituzione corporativa –, all’Austria di Dolfuss, alla Polonia di Piłsudski, alla Spagna di Franco, alla Grecia di Metaxas, alle dittature della Bulgaria e della Romania, alla Slovacchia di monsignor Tiso e al regime di Vichy che Pasetti pensa quando parla di “avatars”. In tutti questi casi, differenti gli uni dagli altri, a partire dal 1933, indubitabile fu l’influenza dell’esperienza corporativa italiana, ma ogni regime adattò il modello alle proprie specificità ed esperienze autoctone, dando vita, di fatto, a un “prodotto” diverso dall’originale: «poiché la legislazione fascista non era più l’unico prototipo esistente, ogni “avatar” divenne un ulteriore possibile riferimento per gli altri»17. Un esempio di ciò fu l’esperimento portoghese salazarista che divenne un modello alternativo a quello italiano.

15 Un caso del tutto a parte fu la Germania nazista: la Legge sull’ordinamento del lavoro nazionale del 1934 segnò la fine di qualsiasi velleità corporativa e fornì un modello diverso di disciplina dei rapporti sociali, istituendo una regolazione contrattuale tramite l’ordinamento aziendale (Betriebsordnung) su cui di fatto decideva il capo dell’azienda, previa autorizzazione dei fiduciari nazionali del lavoro di nomina ministeriale, mentre al Fronte del lavoro tedesco (Deutsche Arbeitsfront), l’organizzazione unitaria istituita dopo lo scioglimento dei sindacati, furono affidate funzioni solo consultive.

16 Leggendo questo libro, complesso nei contenuti ma facilitato da una scrittura asciutta e mai ridondante, si rimane meravigliati dalla ricca bibliografia utilizzata, dalla mole di documenti visionati e dallo sforzo di sintesi che è stato senza dubbio fatto: siamo certi che il volume si collocherà tra i testi di riferimento per la tematica del corporativismo, a cui apporta nuova linfa valorizzando la dimensione europea del fenomeno.

NOTE

1. PASETTI, Matteo, Tra classe e nazione. Rappresentazioni e organizzazione del movimento nazional- sindacalista (1918-1922), Roma, Carocci, 2008. 2. ID., Storia dei fascismi in Europa, Bologna, Archetipolibri, 2009. 3. ID. (a cura di), Progetti corporativi tra le due guerre mondiali, Roma, Carocci, 2006; ID., Neither Bluff nor Revolution. The Corporations and the Consolidation of the Fascist Regime, in ALBANESE, Giulia, PERGHER, Roberta (eds.), In the Society of Fascists: Acclamation, Acquiescence and Agency in Mussolini’s Italy, New York, Palgrave Mac Millan, 2012, pp. 87-107. 4. PASETTI, Matteo, L’Europa corporativa. Una storia transnazionale tra le due guerre mondiali, Bologna, Bonomia University Press, 2016, pp. 113-125. 5. Ibidem, p. 19.

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6. Ibidem, pp. 11-18. 7. In questa prospettiva vanno menzionati alcuni dei più recenti studi, tra cui RODRIGO, Javier (ed.), Políticas de la violencia. Europa, siglo XX, Zaragoza, Prensas de la Universidad de Zaragoza, 2014, pp. 81-115. 8. PASETTI, Matteo, L’Europa corporativa, cit., p. 127. 9. GAGLIARDI, Alessio, Il corporativismo fascista, Roma-Bari, Laterza, 2010; CASSESE, Sabino, Lo Stato fascista, Bologna, Il Mulino, 2010. Per una diversa interpretazione cfr. SANTOMASSIMO, Gianpasquale, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Roma, Carocci, 2006. 10. Cfr. SALVEMINI, Gaetano, Sotto la scure del fascismo, in ID., Scritti sul fascismo, vol. III, Milano, Feltrinelli, 1974, [Ed. orig.: Under the Axe of Fascism, London, Victor Gollancz, 1936], p. 118; CARR, Edward, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966 (citato in PALLA Marco, Fascismo e Stato corporativo. Un’inchiesta della diplomazia britannica, Milano, Franco Angeli, 1991, p. 117). 11. PASETTI, Matteo, L’Europa corporativa, cit. p. 26. 12. Ibidem, p. 58. 13. Ibidem, p. 90. 14. Ibidem, p. 153. 15. Ibidem, p. 28. 16. FINCHELSTEIN Federico, Transatlantic Fascism. Ideology, Violence, and the Sacred in Argentina and Italy, 1919-1945, Durham-London, Duke University Press, 2010. 17. PASETTI, Matteo, L’Europa corporativa, cit., p. 258.

AUTORI

CAMILLA POESIO

Camilla Poesio si è addottorata presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia in cotutela con la Freie Universität Berlin; collabora con l’Università di Paderborn e da gennaio 2017 sarà Visiting Fellow presso il Department of History and Civilization del European University Institute; è Cultore della materia presso il DSLCC-Università Ca’ Foscari Venezia. Ha vinto con la sua tesi di dottorato il Premio Nicola Gallerano 2009 e il Premio Ettore Gallo 2009. È autrice dei volumi Reprimere le idee, abusare del potere. La Milizia e l’instaurazione del regime fascista (Roma Aracne, 2010); Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime, (Roma-Bari, Laterza, 2011) e ha pubblicato saggi su numerose riviste. I suoi interessi sono focalizzati sulla storia dell’Italia e della Germania del XX secolo in prospettiva comparata e transnazionale, i rapporti fra fascismo italiano e nazismo, i diritti umani, l’uso della violenza, la memoria pubblica e privata, il jazz e la musica nel fascismo. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Poesio >

Diacronie, N° 29, 1 | 2017 213

Alessandro Portelli, Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni

Alessandro Stoppoloni

NOTIZIA

Alessandro Portelli, Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni, Roma, Donzelli, 2015, 218 pp.

Diacronie, N° 29, 1 | 2017 214

1 Non è raro che di una canzone ci rimanga in mente soltanto il ritornello o la parte più orecchiabile. Le canzoni di Bruce Springsteen, complice anche lo stile e la pronuncia del cantante statunitense, non fanno eccezione: se molti ricordano il ritornello e la musica di brani come Born in the U.S.A, Badlands o di Born to run è più difficile trovare chi sia in grado di approfondire il discorso sui testi e sul contesto storico in cui vengono composti. Alessandro Portelli fa proprio questo nel suo libro, conducendo il lettore oltre la superficie e alla scoperta degli elementi più nascosti delle canzoni di Springsteen.

2 Per raggiungere questo obiettivo Portelli sostiene la necessità di prestare non soltanto più attenzione ai testi, ma anche di vederli nella loro tensione con la musica1. È proprio questo aspetto che Portelli sceglie di esplorare e, lungi dal nascondere la complessità delle canzoni di Springsteen, conduce il lettore attraverso un percorso stimolante, seppure impegnativo.

3 Un simile approccio non è sorprendente se si tiene conto delle linee di ricerca che Portelli ha sviluppato durante la sua lunga carriera. Lo storico romano, a lungo professore di letteratura angloamericana presso l’università la Sapienza, infatti è stato fra i primi a ragionare sulle problematiche legate alla storia orale includendo poi alcuni dei suoi saggi su quest’argomento nel volume intitolato, appunto, Storie orali2. Proprio basandosi su questa metodologia ha inoltre pubblicato lavori come L’ordine è già stato eseguito3 sull’eccidio delle Fosse Ardeatine e Acciai speciali4 sull’industria siderurgica di Terni.

4 Del libro di Portelli appare particolarmente convincente la scelta di suddividere l’esposizione scegliendo alcuni temi chiave della produzione di Springsteen come il lavoro, i rapporti intergenerazionali, la religione e la spiritualità, la relazione con i luoghi in cui si vive. Questa struttura fornisce ai lettori, anche ai meno esperti, una bussola molto utile per orientarsi fra tematiche che potrebbero, altrimenti, risultare ostiche.

5 Per sviluppare la sua argomentazione Portelli parte da una fonte facilmente reperibile, ma anche non semplice da utilizzare: i testi e la musica delle canzoni. È da quella base che si iniziano a seguire i diversi fili che legano la vastissima produzione di Springsteen e l’esposizione di Portelli ha il pregio di ricostruire l’evoluzione di queste tematiche durante gli anni5. I testi di Springsteen, infatti, affrontano temi diversi a seconda delle fasi della vita del loro autore e del momento storico e sociale in cui sono stati scritti. Fra tutti l’analisi del testo di Born in the U.S.A, senza dubbio una delle canzoni più celebri di Springsteen, spicca per qualità espositiva. A un ascolto molto superficiale il motivo della canzone e il suo ritornello potrebbero far pensare a una semplice esaltazione dell’essere “nato negli Stati Uniti”. Leggendo le strofe ci si rende però conto che questa

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lettura non coglie il punto fondamentale: in nome di quella bandiera il narratore è stato spedito in Vietnam, vi ha perso un fratello in combattimento e poi, una volta tornato in patria, non è più riuscito a trovare una sistemazione in una società che sembrava respingerlo. Secondo Portelli questo elemento non basta però per fare di Born in the U.S.A (inclusa nell’album omonimo del 1984) una canzone di protesta così come il solo ritornello non è in grado di renderla una canzone nazionalista6. Springsteen sembra piuttosto interrogarsi sul significato della bandiera statunitense (presente peraltro sulla copertina del disco), cercando di decifrare la difficoltà nel conciliare l’essere nati negli Stati Uniti e un certo senso di patriottismo (deluso, indignato, critico, come lo definisce Portelli) con l’appartenenza a una classe sociale non agiata7. Secondo Portelli la sfida di Springsteen consisterebbe nel veicolare un messaggio complesso affidandosi a un mezzo di comunicazione di massa. Se da una parte questa scelta permette di raggiungere potenzialmente un pubblico molto vasto, dall’altra può portare l’ascoltatore a rendere tutto più semplice di quanto non sia in realtà. Non è un caso se proprio il significato di Born in the U.S.A sia stato spesso frainteso8. In questo caso come in altri punti del libro Portelli ha la capacità e la sensibilità di porre Springsteen nel contesto musicale e politico del suo tempo suggerendo dei nessi con alcuni temi della musica country, con artisti come Woodie Guthrie9 o Pete Seeger10 o con l’elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca. In questo modo gli stessi testi di questi artisti, opportunamente posti in relazione con quelli di Springsteen, diventano fonti centrali per la ricerca.

6 Proprio Guthrie sarebbe secondo Portelli uno degli ispiratori principali dei testi di Springsteen il quale ne riprende spesso i temi, intraprendendo con lui una sorta di dialogo a distanza11.

7 La scelta espositiva di Portelli lega a un tema canzoni diverse e permette di apprezzarne bene l’evoluzione temporale. Per esempio, nei primi dischi di Springsteen non è raro imbattersi in automobili che vengono usate spesso per cercare di evadere da una realtà non gradita (per esempio in Born to run, 1975). È uno dei casi in cui divengono evidenti i nessi fra le tematiche predilette da Springsteen e alcuni elementi chiave della cultura statunitense come, in questo caso, l’appropriazione dello spazio attraverso il movimento12. In questo senso, in Born to run così come in altre canzoni, l’automobile assume un’importanza cruciale perché diventa l’oggetto che offre riparo e, forse, nuove opportunità in un posto diverso. Anche qui Portelli è puntuale nello spiegare che le macchine di Springsteen non sono solo l’espressione di un’aderenza a un simbolo popolare, ma nascondono una gamma molto più ampia di significati13. Emblematica in questo senso Used Cars (dall’album Nebraska, 1982) in cui la macchina usata, comprata dal padre del narratore grazie ad anni di duro lavoro, diventa soprattutto il segnale di una condizione sociale svantaggiata che si aspira a cambiare, magari vincendo una delle lotterie che all’epoca erano tanto in voga14.

8 Spesso Portelli fa notare la capacità di Bruce Springsteen di riassumere in poche parole storie molto complesse. È il caso di una canzone come Johnny 99 (in Nebraska, 1982) in cui la prima strofa15 è sufficiente per capire già buona parte della storia: la fabbrica di automobile in cui lavorava Ralph è stata chiusa e lui non è riuscito a trovare un altro impiego. In un momento di ebbrezza prende un’arma e spara a un guardiano notturno. Novantanove sono gli anni di reclusione a cui il giudice lo condanna16. La vicenda del protagonista viene poi sviluppata ulteriormente nelle strofe seguenti, ma anche fermandoci qui avremmo la possibilità di identificare alcuni temi fondamentali: il

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lavoro, la disoccupazione, la disperazione per non riuscire a uscire da una situazione negativa, la violenza nata in un contesto che dava al protagonista poche possibilità di uscire dai guai in cui si era venuto a trovare. Quasi alla fine della canzone infatti Springsteen dà all’ormai condannato Ralph la possibilità di fare una dichiarazione davanti alla corte che sembra riassume il dramma della sua condizione: Now judge I got debts no honest man could pay The bank was holdin’ my mortgage and they was takin’ my house away Now I ain’t sayin’ that makes me an innocent man But it was more ‘n all this that put that gun in my hand

9 Il libro di Portelli fornisce degli ottimi spunti sia a chi si sta avvicinando a Springsteen sia a chi magari lo ascolta da un po’ ma vuole cercare di capirlo meglio sia a chi non lo conosce. Portelli riesce particolarmente bene a mettere in luce le radici della produzione di Springsteen evidenziando i nessi con altri musicisti e con autori letterari (come John Steinbeck17), oltre che con l’esperienza di vita del cantautore del New Jersey. Più di altri testi il libro di Portelli sembra un invito alla lettura lenta e anche alla rilettura, magari intervallata da attenti ascolti delle canzoni che vengono proposte e analizzate. In ambiente scientifico una delle basi di una ricerca storica è l’indicazione precisa delle fonti utilizzate, tuttavia non è usuale che il lettore decida di andare a verificare di persona. In questo caso però accedere alle fonti su cui si basa la ricerca di Portelli (siano i testi delle canzoni o alcune delle interviste rilasciate da Springsteen nel corso degli anni) è consigliabile, non solo perché particolarmente semplice, ma perché dà modo di confrontarsi in prima persona con un metodo rigoroso che mette la parola e la musica al centro della ricerca. D’altra parte tutti i riferimenti che Portelli fa alla musica di Springsteen sembrano proprio essere mirati a proporre al lettore un nuovo ascolto, questa volta un po’ più consapevole, che, pur richiedendo uno sforzo supplementare, non fa che giovare alla comprensione globale dell’intero percorso intellettuale e artistico di Springsteen o di altri artisti come Guthrie e Seeger.

NOTE

1. PORTELLI, Alessandro, Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni, Roma, Donzelli, 2015, pp. 162-163. 2. PORTELLI, Alessandro, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Roma, Donzelli, 2007. 3. PORTELLI, Alessandro, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 2005. 4. PORTELLI, Alessandro, Acciai speciali. Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione, Roma, Donzelli, 2008. 5. Per una modalità espositiva alternativa si può utilmente consultare D’AMORE, Antonella, Mia città di rovine. L’America di Bruce Springsteen, Roma, Manifestolibri, 2002. 6. PORTELLI, Alessandro, Badlands, cit., p. 69. 7. Ibidem, p. 71. Sull’importanza della guerra del Vietnam nella storia degli Stati Uniti si rimanda a ZINN, Howard, A People’s History of the United States, New York, Harper Perennial, 2003, pp. 469-501. Su questo punto si possono trovare degli spunti interessanti anche in AYERS, Bill,

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Fugitive Days, Weather Underground: la contestazione armata negli Stati Uniti dopo il ‘68, Roma, DeriveApprodi, 2016. 8. PORTELLI, Alessandro, Badlands, cit., pp. 77-79. 9. Su Guthrie si rimanda a: CRAY, Ed, Ramblin’ Man. The Life and Times of Woody Guthrie, New York- London, Norton, 2004; KLEIN, Joe, Woody Guthrie. A life, New York, Delta, 1999 [ed. or. 1980]. Lo stesso Portelli ha pubblicato in passato un libro su Guthrie: PORTELLI, Alessandro, La rivoluzione musicale di Woody Guthrie, Bari, De Donato, 1973. 10. Su Seeger cfr. DUNAWAY, David King, How Can I Keep from Singing? The Ballad of Pete Seeger, New York, Villard, 2008. 11. PORTELLI, Badlands, cit., pp.96-99. 12. Ibidem, pp. 28-29. 13. Ibidem, pp. 32-37. 14. Ibidem, p.17. 15. «Well they closed down the auto plant in Mahwah late that month/Ralph went out lookin’ for a job but he couldn’t find none / He came home too drunk from mixin’ Tanqueray and wine / He got a gun shot a night clerk now they call’m Johnny 99». 16. Cfr. D’AMORE, Antonella, op. cit., pp. 127-130 – in cui l’autrice fa notare come la condanna a novantanove anni di carcere colleghi la storia narrata da Springsteen con altre canzoni della tradizione orale statunitense – e PORTELLI, Badlands, cit., p. 99. 17. Il riferimento all’opera di Steinbeck è particolarmente chiaro quando si affronta il disco del 1995 The Ghost of Tom Joad. Cfr. PORTELLI, Alessandro, Badlands, cit., pp. 113-124. Anche qui Portelli insiste sul dialogo a distanza fra Guthrie e Springsteen.

AUTORI

ALESSANDRO STOPPOLONI

Alessandro Stoppoloni (Roma, 1989) ha completato nel luglio del 2015 il percorso per ottenere il doppio titolo nell’ambito del corso integrato italo-tedesco organizzato dall’Università di Bologna e da quella di Bielefeld discutendo una tesi dal titolo Fra teoria e pratica: la psicologia politica di Peter Brückner (1966-1978). In precedenza ha studiato presso le Università Roma Tre e Paris X (come studente Erasmus). In questo momento si sta occupando di temi legati alla storia della psichiatria. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Stoppoloni >

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Maurizio Isabella, Konstantina Zanou (edited by), Mediterranean Diasporas. Politics and Ideas in the Long 19th Century

Deborah Paci

NOTIZIA

Maurizio Isabella, Konstantina Zanou (edited by), Mediterranean Diasporas. Politics and Ideas in the Long 19th Century, London-New Delhi-New York-Sydney, Bloomsbury, 2016, 217 pp.

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1 È possibile tracciare una storia transnazionale del Mediterraneo durante il XIX secolo? È possibile farlo studiando profili biografici di intellettuali che agirono a tutti gli effetti come attori transnazionali?

2 Un tentativo di risposta a questi interrogativi è contenuta in Mediterranean Diasporas. Politics and Ideas in the Long 19th Century1.

3 La varietà e la ricchezza della produzione intellettuale – soprattutto durante il XIX secolo – sono al centro della raccolta di saggi curata da Maurizio Isabella2 e Konstantina Zanou3. Il punto di vista dei curatori – enucleato nell’introduzione del volume – è che non esista una specificità mediterranea, e che lo sforzo degli studiosi debba orientarsi nella direzione di ricollocare le convergenze e le corrispondenze intellettuali e culturali tra le sponde del Mediterraneo in una prospettiva più ampia, evitando discorsi «mediterraneisti»4.

4 L’obiettivo di questi saggi è «[…] rethink the boundaries of their various disciplines […]»; in questo modo il corpus dei testi […] explore new and often neglected connections, parallels and similarities that suggest a revision both of the way in which the Mediterranean is perceived, and the manner in which political imagination and ideas were shaken in different areas5.

5 Lo spazio marittimo mediterraneo nel XIX secolo è quello in cui aumenta la distanza fra Oriente e Occidente, fra Nord e Sud anche per effetto di una polarizzazione culturale6. La nozione di arretratezza è infatti stata impiegata a più riprese – durante questo periodo – per giustificare il colonialismo.

6 Il Mediterraneo viene tuttavia re-immaginato come spazio geografico e di civilizzazione: del resto il Diciannovesimo secolo è quello in cui l’apertura del canale di Suez e la realizzazione di una fitta rete ferroviaria sulle coste mediterranee contribuiscono a rilanciarne l’importanza e il ruolo nel mondo. Il Mediterraneo ritrova una centralità anche attraverso l’uso del passato che viene operato dagli intellettuali: la giustificazione di nuove mire espansionistiche e l’elogio della colonizzazione delle popolazioni pre-romane sono temi che riecheggiano nel lavoro degli intellettuali dell’area in quest’epoca7.

7 Il libro si articola in dieci capitoli, ciascuno dedicato a specifici aspetti della storia delle idee nel Mediterraneo nel XIX secolo.

8 Il primo, Letters from Spain: The 1820 Revolution and the Liberal International8, di Juan Luis Simal, affronta il tema della filiazione della rivoluzione spagnola del 1820. Simal nel paragrafo introduttivo si sofferma su una breve introduzione al genere epistolare e ai suoi utilizzi nel XVIII e XIX secolo per poi affrontare più specificamente l’impatto delle vicende che videro protagonista la Penisola iberica nel primo quarto dell’Ottocento. Il

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saggio mette in luce la fitta rete di relazioni e di contatti intessuti sia sulle sponde del Mediterraneo, sia oltreoceano, dando avvio a un dibattito paneuropeo in campo liberale (e a un corrispettivo interscambio) intellettuale transcontinentale.

9 Gabriel Paquette9 ripercorre invece la vicenda umana di Almeida Garrett, uno dei più importanti letterati e politici dell’Ottocento portoghese. La rivoluzione del 1820 in Portogallo rappresentò l’occasione per il consolidamento di un legame intellettuale fra i liberali iberici e quelli d’Oltreoceano. È in questo e nel successivo contesto che agì Almeida Garrett: l’intento del saggio è quello di tracciarne un percorso politico tra il 1820 e il 1834, anni durante i quali partecipò alla vita politica sia in patria che in esilio.

10 Paquette si sofferma in particolare sul concetto di liberdade meridional, sviluppato soprattutto in Portugal na Balança da Europa10; Garrett aveva infatti operato una distinzione fra paesi del Sud e del Nord dell’Europa, anche sul piano politico. La libertà era da intendersi in due differenti accezioni: da una parte la libertà sul piano politico interno (ad esempio un governo costituzionale) e dall’altra quella fra nazioni (la sovranità nazionale). Il Portogallo avrebbe dovuto ambire a tornare a quel sistema di libertà conseguito nel Medioevo, prima che la colonizzazione oltremare cancellasse la libertà dai paesi della penisola iberica, accentrando il potere nelle mani di governi dispotici.

11 Learning Lessons from the Iberian Peninsula11 di Grégoire Bron esamina l’impatto delle rivoluzioni che ebbero luogo nella penisola iberica sulla cultura politica di ben due generazioni di italiani. Un’attenta analisi delle società spagnola e portoghese – sostiene Bron – portò gli esuli italiani a rivedere e riconsiderare le basi del loro impegno politico rivoluzionario in Italia. Le loro esperienze nella penisola iberica li indussero a considerare con pessimismo la possibilità di realizzare istituzioni politiche moderne sulla base della partecipazione popolare.

12 Mediterranean Liberals? Italian Revolutionaries and the Making of a Colonial Sea, c.a. 1800-183012, tratta degli itinerari degli intellettuali liberali italiani nella prima metà dell’Ottocento, nel contesto della graduale trasformazione del Mediterraneo in un “lago britannico”. La situazione geopolitica (e culturale) vide queste figure muoversi in uno spazio mediterraneo contrassegnato dalla presenza di due imperi: quello britannico e quello francese. Come dimostra Isabella, spostandosi tra le periferie (insulari e non) e i centri – rappresentati dalle due capitali, Londra e Parigi – i liberali italiani entrarono in contatto con nuove idee e con altri intellettuali e politici.

13 Il saggio di Ian Coller, Ottomans on the Move13, si sofferma invece sul contesto della circolazione di idee tra gli intellettuali ottomani e in particolare su una figura: quella di Hassuna D’Ghies. Originario di Tripoli, divenne direttore de «Le Moniteur Ottoman» nel gennaio 1836 e ricoprì questa carica solamente per pochi mesi, durante i quali si batté per la modernizzazione dell’Impero ottomano: una modernizzazione che potesse opporsi al dominio dell’imperialismo europeo e non divenirne un’appendice. L’intento di Coller è quello di mostrare come i viaggi e i soggiorni di D’Ghies a Tripoli, Parigi, Marsiglia, Londra e Istanbul ne influenzarono il pensiero.

14 Konstantina Zanou nel suo Imperial Nationalism and Orthodox Enlightenment: a Diasporic Story Between the Ionian Islands, Russia and Greece, c.a. 1800-3014 si sofferma sull’impatto prodotto dalla presenza russa sulle coste del Mediterraneo – e in particolare nelle isole Ionie – nello sviluppo delle idee liberali. Zanou dimostra come la visione – storiograficamente consolidata15 – che vede l’illuminismo greco come una filiazione della rivoluzione francese e un’eredità illuminista, rappresenti, in realtà, solo una

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lettura parziale del fenomeno. È così sorta una corrente storiografica che, a partire dalla premessa che non sia mai esistita un’opposizione tout court fra cristianesimo e illuminismo, ha affermato che si può parlare di “illuminismo neoellenico” come di un fenomeno con caratteristiche peculiari. Focalizzandosi sul caso delle isole Ionie, Zanou mette in evidenza – prendendo in esame il pensiero di alcuni intellettuali – come l’idea di nazione moderna non fosse incompatibile con il mondo cristiano.

15 Il saggio di Dominique Kirchner Reill Away or Homeward Bound? The slippery Case of Mediterranean Place in the Era Before Nation-states16, parte dall’intento di dimostrare una tesi: i luoghi del Mediterraneo dell’epoca precedente all’avvento degli Stati-Nazione non possono essere trattati come categorie stabili. Per dimostrare questo, l’autrice ricorre a un’analisi comparata fra tre intellettuali attivi durante – o immediatamente a seguito de – le guerre napoleoniche: Niccolò Tommaseo, Pacifico Valussi e Matija Ban.

16 The Strange Lives of Ottoman Liberalism17 di Andrew Arsan si occupa degli orientamenti politici di Mustafa Fatil Paşa, sostenitore politico ed economico dei Giovani Ottomani. Analizzando il suo epistolario, l’autore riscontra una consonanza di temi con quelli allora discussi dai liberali europei, dimostrando così – oltre ad una capillare circolazione delle idee – una medesima preoccupazione in seno agli intellettuali dell’epoca.

17 Il saggio di Artan Puto e Maurizio Isabella18 è invece consacrato alla nascita e all’evoluzione dell’idea politica e culturale di nazione albanese. Come viene sottolineato dai due autori nel paragrafo introduttivo al capitolo, il Nation-building albanese necessitò – più ancora che in altri casi – che venisse elaborata ex novo un’idea di nazione abbastanza forte da poter rendere coese popolazioni differenti per lingua e religione. Puto e Isabella esaminano questo processo prendendo in esame due fra le più eminenti figure di intellettuali albanesi: Girolamo De Rada e Sami Frashëri. La visione della nazione albanese, come del resto i profili biografici di questi due intellettuali, era differente: ad unirli fu il fatto che entrambi cercassero di giungere ad una definizione della cultura albanese a partire dalla loro personale interazione con differenti tradizioni culturali e intellettuali. Entrambe le soluzioni della “questione albanese” a cui giunsero, contemplavano la permanenza del mondo multiculturale che caratterizzava l’Impero ottomano.

18 Vangelis Kechriotis in Ottomanism with a Greek Face19 prende in esame la diaspora dei greci di Cappadocia e il lealismo di alcuni greci nei confronti dell’Impero ottomano. Dopo aver introdotto il tema, offrendo al lettore qualche suggestione cinematografica e uno stato dell’arte su questo tema, l’autore si sofferma sui profili biografici di due greci di Cappadocia successivamente emigrati a Smyrne: Pavlos Carolidis ed Emmanouil Emmanouilidis. Entrambi divennero importanti membri della comunità smirniota e rimasero fedeli all’Impero ottomano rifiutando di schierarsi con i greci “irredentisti” che auspicavano l’inclusione delle terre da loro abitate nello Stato greco, almeno finché la dinamica dei nazionalismi non li costrinse a rivedere la loro posizione.

19 Chiude il volume una postfazione di Thomas Gallant20 che inquadra la raccolta miscellanea nel campo emergente degli studi transnazionali. I saggi di questo volume sono infatti connotati da un comune approccio che si sta facendo largo in quest’ambito: […] an approach that has emerged as one of the most important in transnational history is biography. A number of scholars have shown the analytical utility of tracing careers and movement of individuals, families and groups, such as

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financiers, merchants or soldiers, so as to uncover broader historical process like imperialism or the spread of capitalism21.

20 I saggi di Mediterranean Diasporas contribuiscono allo studio del cosmopolitismo intellettuale, rimettono in discussione il concetto di perifericità del Mediterraneo nel XIX secolo e, soprattutto, l’idea dello studio biografico a partire dal concetto di nazione. Un concetto del resto ribadito chiaramente da Dominique Kirchner Reill in uno dei saggi quando afferma che «[…] ‘place’, in the Mediterranean before Nation-States should not be treated as a stable category, but instead should be read against the modern geographical grain, especially when analysing the mental world of the Mediterranean’s provincial imperial subjects»22.

21 Il senso e l’importanza di questo lavoro collettaneo sono sinteticamente espressi, ancora una volta, da Gallant nella postfazione: […] it will be hard to think about Nineteenth-century liberalism, nationalism and the revolutions that they spawned without factoring in the key role played by diasporic mediterranean intellectuals. Not only did these transnational and cosmopolitan refugees and migrants contribute significantly to modern state and nation-building in the Mediterranean but they were vitally important actors in movements that helped to shape the very foundations of the modern world23.

NOTE

1. ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina (edited by), Mediterranean Diasporas. Politics and Ideas in the Long 19th Century, London - New Delhi - New York - Sydney, Bloomsbury, 2016. 2. Maurizio Isabella è Senior lecturer in Modern History alla Queen Mary University di Londra. Ha pubblicato Risorgimento in Exile. Italian Émigrés and the Liberal International in the Post-Napoleonic Era, Oxford, Oxford University Press, 2009, che è stato in italiano con il titolo Risorgimento in Esilio, Roma-Bari, Laterza, 2011, oltre ad avere pubblicato un grande numero di articoli e saggi in opere miscellanee sul Risorgimento. 3. Konstantina Zanou è Assistant professor presso la Columbia University di New York e résident dell’IEA (Institut d’Études Avancées) di Parigi. Nel 2017 uscirà la sua monografia Transnational Patriotism in the Mediterranean 1800-1830: Stammering the Nation, Oxford, Oxford University Press. Si è occupata dei milieux intellettuali greci e italiani nel XIX secolo. 4. Ibidem, p. 16. 5. Ibidem, p. 10. 6. Ibidem, p. 9. 7. Ibidem, p. 10. 8. SIMAL, Juan Luis, Letters from Spain: The 1820 Revolution and the Liberal International, in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 25-41. 9. PAQUETTE, Gabriel, An Itinerant Liberal: Almeida Garrett’s Exilic Itineraries and Political Ideas in the Age of Southern European Revolutions (1820-34), in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 43-57. 10. GARRETT, Almeida, Portugal na balança da Europa: do que tem sido e do que ora lhe convém ser na nova ordem de coisas do mundo civilizado, London, Sustenance, 1830.

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11. BRON, Grégoire, Learning Lessons from the Iberian Peninsula: Italian Exiles and the Making of a Risorgimento Without People, 1820-48, in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 59-76. 12. ISABELLA, Maurizio, Mediterranean Liberals? Italian Revolutionaries and the Making of a Colonial Sea, c.a. 1800-1830, in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 77-96. 13. COLLER, Ian, Ottomans on the Move: Hassuna D’Ghies and the ‘New Ottomanism’ of the 1830s, in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 97-115. 14. ZANOU, Konstantina, Imperial Nationalism and Orthodox Enlightenment: a Diasporic Story Between the Ionian Islands, Russia and Greece, c.a. 1800-30, in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 117-134. 15. Si veda, ad esempio, la produzione di Paschalis Kitromilides. Tra gli altri: KITROMILIDES, Paschalis M., Enlightenment and Revolution. The Making of Modern Greece, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2013. 16. KIRCHNER REILL, Dominique, Away or Homeward Bound? The slippery Case of Mediterranean Place in the Era Before Nation-states, in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 135-152. 17. ARSAN, Andrew, The Strange Lives of Ottoman Liberalism: Exile, Patriotism and Constitutionalism in the Thought of Mustafa Fazil Paşa, in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 153-170. 18. PUTO, Artan, ISABELLA, Maurizio, From Southern Italy to Istanbul: Trajectories of Albanian Nationalism in the Writings of Girolamo de Rada and Shemseddin Sami Frashëri, ca. 1848-1903, in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 171-187. 19. KECHRIOTIS, Vangelis, Ottomanism with a Greek Face: Karamanli Greek Orthodox Diaspora at the End of the Ottoman Empire, in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 189-204. 20. GALLANT, Thomas, Afterword: Writing Mediterranean Diasporas After the Transnational Turn, in ISABELLA, Maurizio, ZANOU, Konstantina, op. cit., pp. 205-209. 21. Ibidem, p. 206. 22. Ibidem, p. 136. 23. Ibidem, p. 209.

AUTORI

DEBORAH PACI

Deborah Paci è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi linguistici e culturali comparati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e ricercatrice associata al Centre de la Méditerranée Moderne et Contemporaine dell’Université de Nice Sophia Antipolis. È autrice delle monografie: L’arcipelago della pace. Le isole Åland e il Baltico (XIX-XXI sec.), Milano, Unicopli, 2016; Corsica fatal, Malta baluardo di romanità. L’irredentismo fascista nel Mare nostrum (1922-1942), Firenze, Le Monnier-Mondadori Education, 2015. URL: < http://www.studistorici.com/2009/02/24/deborah-paci/ >

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