Lacreme Napulitane. Cinema E Canzone Dagli Anni Trenta Agli Anni Ottanta Del XX Secolo

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Lacreme Napulitane. Cinema E Canzone Dagli Anni Trenta Agli Anni Ottanta Del XX Secolo Lacreme napulitane. Cinema e canzone dagli anni Trenta agli anni Ottanta del XX secolo di GINO FREZZA Esiste un nesso fra canzone napoletana e cinema napoletano? Come si può circoscrivere tale nesso? È cosa semplice e complessa insieme: Napoli, con il suo cinema e la sua canzone, si conferma una città che esalta, in modo unico, le potenzialità di forme della comunicazione basate sulle strategie espressive del corpo (il gesto, la voce). È questo il fondamento essenziale della popolarità della sua canzone e del suo cinema (Frezza 2012). Lacreme napulitane è un titolo che richiama non solo una famosa canzone melodica (non a caso questa riecheggia, assieme alle note di Torna, nei titoli di testa di Catene, film decisamente importante di Raffaello Matarazzo, diretto nel 1950, che rivitalizzò un genere filmico solidarmente connesso alla canzone); non solo è il medesimo titolo di un film diretto da Ciro Ippolito, con Mario Merola, nel 1981 (film che procede in una sorta di ricostruzione brechtiana di un intero genere del cinema italiano riferito al vissuto storico e tradizionale e anche stereotipato di Napoli: genere che, dai primissimi film muti, giunge a una sua versione “cristallina” in un film del 1926 di Roberto Roberti, Napoli che canta, e, attraverso Matarazzo e vari autori italiani, ma altresì attraverso l’ibridazione con la sceneggiata e con il film sul contrabbando e la camorra, si conclude negli anni Ottanta del Novecento). Lacreme napulitane è un titolo che anzitutto focalizza motivi molto precisi, che riguardano il piano espressivo e il piano socio-culturale nei quali si colloca e si definisce un ben definito repertorio del cinema italiano, rivolto ad esprimere le varie Gino Frezza culture di Napoli: una forma di cinema che si integra con la canzone e non potrebbe esistere senza l’amalgama costitutivo con essa. Adoperando diversi generi di narrazione audiovisiva (mélo, musical e comico, realistico e drammatico), questa forma di cinema racconta Napoli in una miriade di film – realizzati in centri produttivi situati dentro o fuori la città – mostrandola come spazio della civiltà umana in cui si aprono soglie che, da un lato, conducono al limite della felicità naturale (l’immagine del Golfo, di una natura solare, di una prosperità inscritta nell’habitat) e, dall’altro, possono precipitare nel limite opposto, l’abisso dell’oscurità derivata dall’azione dell’uomo (la tenebra del delitto, dell’ingiustizia illegittima, della sopraffazione). Il nesso fra immagine della città e canzone si declina, conseguentemente, in una duplice direzione. Nella prima direzione, sopraggiunge l’immagine del mare, assieme a quella del cielo (la luna ne segna il riflesso notturno), e tutto questo ha a che fare col partire e col tornare. Il tema del distacco, del viaggio, e del desiderio del ritorno – vissuti attraverso il legame malinconico gettato sulla vastità del mare – s’intreccia con la serie delle avventure drammatiche e realistiche desunte da modelli letterari, diventando uno stereotipo, spesso inavvertito nella grande varietà delle storie di questa forma di cinema. Il mare è l’Aperto che non solo localizza la città medesima e ne è la culla, come una sorgente che ne dà linfa e origine, ma è anche quello spazio dal quale ci si diparte dalla città e dal quale si ritorna; è lo spazio del viaggio nell’oltre, nell’ignoto; quindi, in questa chiave simbolica, il mare costituisce l’equivalente visivo del vivere (e del morire, e del ri-nascere), dell’esperienza vissuta sul territorio impervio della natura. Nella seconda direzione, la luna o il cielo, come il mare, sono l’Aperto in cui si consegna e si mette alla prova l’ulteriore, doppio, versante del rapporto fra uomo e società, ossia la cultura dell’uomo che – a differenza dell’Aperto naturale, rapporto talvolta difficile da sostenere ma mai insincero – quasi sempre invece mostra, sotto una superficie ingannevole, un volto iniquo, una radicale disuguaglianza, che conduce pericolosamente all’ingiustizia, al dolore ingiustificato, alla passione torbida. Al tema della appartenenza territoriale a un luogo ameno, e a quello, corrispondente, della lontananza fisica, evocata dal Mare e dalla Natura, si accoppia, pertanto, la lontananza morale, l’essere imprigionati o impediti da sbarre, leggi cieche di fronte alle intenzioni 234 Lacreme napulitane. Cinema e canzone dagli anni Trenta agli anni Ottanta del XX secolo non delittuose di protagonisti coinvolti in intrecci torbidi, soffrendo il marchio di una colpa non voluta e quasi sempre caduta per mala sorte, destino crudele, disegno criminoso ordito da altri. Verso la natura, l’uomo prova le sue capacità di sopravvivere al dolore, alla sconfitta, alla lontananza dai cari: per queste ragioni, il cinema canoro napoletano ha spesso, in frammenti che sopravanzano la tessitura narrativa, facendo emergere questo carattere di ripiegatura malinconica, un andamento quasi metafisico e soprattutto lirico (un po’ indolente, introverso), nel pungente essere toccati dalla sofferenza che i personaggi provano dentro di sé e per il desiderio della natura, ritrovata prima e di là delle forme della civiltà. La canzone è, in tal guisa, una forma moderna di rievocazione di esperienze antiche, che nel canto giungono dal passato all’oggi. Quando al contrario si tratta del rapporto fra l’individuo e la società, la canzone interpreta il senso di sfinimento, l’impetuoso alternarsi di stati d’animo che cercano faticosamente una via per sfuggire al destino maligno, alla colpa che non si è meritati. La canzone è, in tal caso, l’unica via per l’espressione dei deboli, per affermare la verità dei sentimenti intimi di innocenza davanti alla condanna della Legge, nell’attesa che tutto si ripari – ciò che alla fine accade per mera casualità, o per ostinazione nella ricerca dei veri colpevoli e di tracce e indizi che chiariscano il caso. Il carattere di “verismo” o naturalismo del cinema napoletano muto (Paolella 1956, Brunetta 1979-82, Iaccio 2000 e 2010), che segnala la capacità di “registrare” l’habitat sociale cittadino con crude immagini a forte gradiente di verosimiglianza si mescola (sia nell’anteguerra sia dopo) piuttosto “naturalmente” con quadri e modelli narrativi desunti dal feuilleton popolare, dal romanzo sentimentale, e più tardi – nella ripresa del secondo dopoguerra, soprattutto nel cinema di Matarazzo (infra) – con i modelli desunti da un medium fortemente sentimentale e peripatetico come il fotoromanzo (su cui Abruzzese 1989). Così le storie filmiche della città accumulano, oltre a quadri di rappresentazione sociale, un repertorio di situazioni narrative in cui le ragioni dei rapporti intersoggettivi si basano su schemi di antica emozionalità drammatica, fra le quali prevale il momento dell’agnizione: il riconoscimento di amanti forzatamente separati per anni, di padri, madri e figli che si ritrovano dopo rotture o allontanamenti e dopo aver sofferto intrecci e peripezie. 235 Gino Frezza In tutte le forme del cinema napoletano “canoro”, alcune specifiche immagini scorrono e si fondono reciprocamente, al ritmo della voce che canta; si tratta di dissolvenze fra elementi visivi che funzionano da contraltare, richiamo, corrispondenza, dissonanza, esteriorizzazione sfrontata e oscena del sentire dei personaggi: - lo schermo del film, che diviene non solo specchio ma sprigionamento del nesso immagine/voce, - le lacrime, - l’acqua turbolenta e mobile del mare, - il passare del tempo, ma all’opposto la lontananza nello spazio, entrambi resi con dissolvenze e turbolenze visive, flusso che oltrepassa il presente e lo rende condizionato dai legami col prima e dalla previsione del dopo, - il ricordo (ossia la malinconia dell’assenza, il presagire nell’animo le immagini interiori di colui/colei che manca, la perdita che si riverbera nell’emergere di un affetto non più trattenibile). Lo schermo si muove e si piega in rivoli che si auto-dissolvono, esattamente come le lacrime rendono la vista precaria e, altresì, condizione soggetta a essere messa in forse, a divenire una sorta di mare mosso, in tempesta, turbolenza di acqua nella quale si riflette la coscienza al limite dell’inconscio, del suo improvviso venir meno. La canzone visiva del cinema napoletano rende l’immagine sonora una manifestazione esplicita di un sentimento non dicibile altrimenti, che la lacrima rende palese oltre ogni controllo della coscienza. Schermo e lacrime, quindi, nel momento in cui il suono musicale e il canto invadono l’immagine filmica, sono collegati e intrecciati intimamente. Le lacrime che questo intreccio sprigiona non sono una esperienza qualsiasi: gocce umide coprono d’improvviso gli occhi dei personaggi e degli spettatori messi davanti a immagini che, affrancando l’io dal controllo razionale sul proprio essere, scatenano un turbine emozionale. La teoria critica di questo effetto della visione filmica ha peccato di supponenza cinica, se non astiosa, spesso dicendo male delle lacrime. C’è stato un lungo periodo (almeno fino agli anni settanta del XX secolo) in cui queste forme di racconto filmico sono state ingiustamente dileggiate; si sosteneva, a torto, una specie di dittatura del racconto razionale, della ricerca drammatica estraniata dai sentimenti, come se questi 236 Lacreme napulitane. Cinema e canzone dagli anni Trenta agli anni Ottanta del XX secolo fossero non soltanto un errore ma una natura colpevole del cinema da abbandonare e da rimuovere. Invece, secondo il climax di una ampia serie di sequenze del cinema napoletano canoro, le lacrime e la forbice sentimentale che queste tessono
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