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3906 – SOUL Animazione Un nuovo film Pixar che porterà lo spettatore in un viaggio dalle strade di New York a altre galassie per scoprire le risposte alle domande più importanti della vita. Un viaggio psichico ed esistenziale che farà sognare i bimbi ed emozionare i più grandi, in compagnia di Duke Ellington e Frank Capra. Il film ha ottenuto 3 candidature e vinto 2 Premi Oscaree e 2 Golden Globes. Regia di Pete Docter, Kemp Powers - USA 2020.

Joe Gardner è un uomo maturo, eppure sente che la sua vita non è mai veramente cominciata. Appassionato pianista di jazz, aspetta la grande occasione mentre insegna musica in una scuola media e suona quando capita nei locali notturni, facendo preoccupare la madre che vorrebbe per lui le garanzie del posto fisso. Il giorno in cui passa l'audizione per debuttare con un famoso quartetto, Joe sente finalmente di avercela fatta, ma cade in un tombino scoperchiato e la sua anima si ritrova in uno strano luogo, mentre il suo corpo giace in un letto d'ospedale. Determinato a non morire proprio ora, Joe imbroglia le carte e stringe un patto salvavita con un'inquieta giovane anima, la numero 22. 22 non vuole vivere, e Joe non vuole morire. Le due cose ci sembrano spesso accadere per caso o per destino, e se invece, in entrambi i casi, ci fosse bisogno della giusta preparazione? Pete Docter è l'uomo della Pixar con una specializzazione nei cosiddetti massimi sistemi, e con 'Soul' mira dritto al punto più alto. Le invenzioni grafiche e visive, le ambientazioni fantasiose, il geniale utilizzo del personaggio del gatto, faranno sognare anche i bambini, ma non c'è dubbio che lo spettatore ideale di questo film sia uno spettatore adulto, anche se la soluzione finale del rebus non può prescindere dalla relazione affettiva con la sua giovanissima spalla. Il coraggio e l'avventura di ''Coco'', che già ci aveva fatto viaggiare con originale fluidità tra Aldiqua e Aldilà, la precisione psicologica di ''Inside Out'', che ci aveva avvicinato ad un altro tipo di viaggio, psichico e analitico, e una nuova frontiera del disegno digitale, per cui gli esseri umani non sono mai stati così vicino al vero, sono alcuni tra gli ingredienti più evidenti di quello che potremmo definire il ''La vita è meravigliosa'' della Pixar: un film in cui l'apparente semplicità del messaggio finale è superata dalla complessità narrativa e cinematografica del percorso. Come per il jazz, nel quale, spiega Joe, "la musica è una scusa per tirare fuori quello che hai dentro", così le finestre che il film apre sul "Grande Oltre" e sul "Grande Prima", e cioè gli argomenti più altisonanti e liminali, sono una scusa per guardare con rinnovata attenzione al nostro piccolo grande "Adesso" e, nel caso di 22 - che incarna un punto di vista preadolescente - per superare l'ansia da prestazione esistenziale e imparare a vedere la vita nella sua straordinaria quotidianità, come una pizza dal gusto irresistibile. (recensione di Marianna Cappi per MyMovies) 3905 – IMPREVISTI DIGITALI Commedia drammatica Nei guai per via della loro inettitudine con le nuove tecnologie, tre vicini di casa si lanceranno in una disperata battaglia contro i giganti di internet. Una piacevole commedia in cui ognuno può riconoscersi, e può ridere di sè e della propria quotidianità. Regia di Benoît Delépine, Gustave Kervern con Denis O'Hare, Benoît Poelvoorde, Corinne Masiero, Yolande Moreau, Bouli Lanners, Denis Podalydès, Michel Houellebecq, Blanche Gardin, Avant Strangel, Jackie Berroyer. Durata 106 minuti - Francia 2020. Nei guai per via della loro inettitudine con le nuove tecnologie, tre vicini di casa si lanceranno in una disperata battaglia contro i giganti di internet. Giancarlo Zappoli - www.mymovies.it In un quartiere periferico seguiamo le vicende di tre vicini di casa alle prese con il mondo dei social media. Marie, che vive da sola dopo che il figlio adolescente è andato a vivere con l'ex marito, si trova coinvolta nel tentativo di far cancellare dalla rete un video che la riprende in attività sessuale. Bertrand, che non sa resistere alle chiamate di una certa Miranda che chiama da un call center, al contempo cerca di proteggere la figlia che è vittima di cyberbullismo. Christine, che ha perso il lavoro a causa della sua dipendenza dalle serie tv, si è messa ora nel giro del trasporto Uber ma ritiene che la valutazione che le viene attribuita sia nettamente inferiore alla qualità delle sue prestazioni come autista. Da soli hanno poca speranza di ottenere risultati positivi. Ma se si coalizzassero? La sinossi potrebbe dare l'impressione che questo film, frutto della coppia Delépine-Kerven, sia una sorta di film drammatico apocalittico dove gli individui in lotta contro le multinazionali della comunicazione mettono in atto terribili vendette. Non è così. Siamo dinanzi a una piacevolissima commedia in cui ognuno, almeno in parte, può riconoscersi nella propria quotidianità. I due registi/sceneggiatori hanno di fatto portato alle estreme (e ahimè reali) conseguenze una situazione che avevano proposto nel loro ''Mammuth''. Là un Depardieu in età di pensionamento cercava di ricostruire le contribuzioni versate dalle diverse realtà aziendali presso cui aveva lavorato in età giovanile. Giunto in una di queste ditte si sentiva rispondere da un addetto che per ottenere soddisfazione ai propri quesiti doveva "andare sul sito". La replica di Depardieu era: "Ma io ci sono sul sito". La virtualità (eravamo nel 2010) iniziava già a contare più della presenza fisica. I tre protagonisti di un decennio dopo si ritrovano a lottare contro mulini a vento la cui collocazione reale è quasi ipotetica e comunque molto lontana e (quasi) irraggiungibile. Quanto è difficile far cancellare un video per il quale si è stati ricattati e c'è 'qualcuno' a cui potersi rivolgere? La persona la cui voce ti ha affascinato e che ti chiama ogni giorno sarà mai fisicamente incontrabile? Perché le valutazioni che ricevi in rete contrastano con la consapevolezza della tua buona condotta lavorativa mentre sei consapevole che ci sono organizzazioni che influenzano a pagamento i giudizi? (In "Bacio feroce" ad esempio Roberto Saviano spiega come la camorra possa far salire o scendere le valutazioni di un esercizio pubblico). Se chi legge conosce la serie ''Black Mirror'' sa che in quella sede si è preso in considerazione il presente e si è andati un passo in là. A Delèpine e Kerven questo non è necessario: gli basta guardarsi intorno nell'attualità già più sufficientemente assuefatta e seguire con affetto i loro personaggi per farci ridere. Talvolta di loro ma spesso anche di noi stessi rendendoci con quel riso un pochino più consapevoli di vivere in un davvero pazzo mondo. (recensione di Giancarlo Zappoli per MyMovies) 3904 – NONNO, QUESTA VOLTA è GUERRA Commedia Il nonno ha problemi alle gambe, è rimasto senza moglie e deve trasferirsi nella stanza del nipote. Ma quest'ultimo non è per niente d'accordo. Una commedia già vista con grandi veterani del cinema. Regia di Tim Hill con Robert De Niro, Uma Thurman, Jane Seymour, Christopher Walken, Rob Riggle, Laura Marano, Cheech Marin, Oakes Fegley, Isaac Kragten, T.J. McGibbon. USA 2020. Ed, dopo un'avventata uscita senza pagare da un supermercato, si ritrova con un problema alle gambe e deve andare a vivere a casa della figlia sposata. La stanza del nipote Peter, che deve trasferirsi in soffitta, viene assegnata al nonno, ma il ragazzino non è per nulla disposto ad accettare passivamente il trasloco e dichiara ufficialmente guerra a Ed. Chi non ha memoria cinematografica (magari non per sua colpa ma semplicemente perché appartenente a una generazione posto 2000) potrà trovare questo film, diretto da un Tim Hill esperto in animazione, come un intrattenimento per famiglie senza troppe pretese. Il problema è che le pretese dovrebbe avercele visto il cast che allinea. Invece ci troviamo dinanzi a una parata di reduci dal meritato successo incapaci (ovviamente per i motivi più vari, anche alimentari, è da supporre) di ritirarsi onorevolmente dalle scene. Vedere Christopher Walken, Jane Seymour e soprattutto un recidivo Robert De Niro impegnati in una storiella che nella fase iniziale sembrerebbe voler lasciare qualche spazio aperto al confronto significante tra le generazioni lascerebbe ben sperare. Considerando che vi è compreso un riferimento al bullismo patito a scuola da Peter e quindi motivante il suo senso di rivalsa nei confronti del nonno che ritiene più debole di lui. Invece ben presto si ricorre a gag o a scene dilatate come il confronto a colpi di palle da gioco per giungere a un finale in cui la retorica (e il periodo natalizio) non possono mancare. Il favore finisce con il pendere tutto dalla parte del giovane Oakles Fegley che un tempo avrebbe tremato di fronte a Bob e che ora gli tiene testa in tutta tranquillità. A tutto ciò si aggiunga, nei panni della figlia di Ed, (incapace come il marito di accorgersi e tantomeno di comprendere quanto sta succedendo in casa) una Uma Thurman che, dopo aver lavorato con Lars Von Trier, sembra incapace di riprendersi ciò che le spetterebbe ad Hollywood e dintorni. Si trova così a doversi accontentare di una reminiscenza dei bei tempi di ''Kill Bill'' con un bersaglio però decisamente lontano dal suo livello.

(Recensione di Giancarlo Zappoli per MyMovies)

3903 – LA DEA FORTUNA Commedia drammatica 2019 L'arrivo di due bambini lasciati loro in custodia per qualche giorno, potrebbe dare alla relazione di Arturo e Alessandro un'insperata svolta. Un film dall'energia vitale insopprimibile che ci fa ridere, commuovere, ci fa sentire parte di un'umanità dolente e spaventata. Regia di Ferzan Ozpetek con Edoardo Leo, Stefano Accorsi, Jasmine Trinca, Serra Yilmaz, Filippo Nigro, Barbara Chichiarelli, Dora Romano, Barbara Alberti, Sara Ciocca, Edoardo Brandi. Durata 118 minuti - Italia 2019.

Alessandro e Arturo sono una coppia consolidata, ma il loro rapporto sta mostrando la corda: Alessandro, idraulico dal fascino animalesco che attira uomini, donne e bambini, porta a casa il pane e cede volentieri ai piaceri della carne; Arturo, traduttore passivo aggressivo, non è diventato né uno scrittore famoso né un cattedratico, e patisce l'assenza di un rapporto fisico, e ancor di più di uno scambio verbale, con il suo partner sfuggente. Nella routine cristallizzata dei due irrompono Annamaria, ex compagna di Alessandro, e i suoi due figli nati da padri diversi, e tutti gli equilibri saltano. Annamaria deve fare alcuni esami diagnostici e affida i figli alla coppia di amici, che dovranno fare i conti con una responsabilità genitoriale forse mai nemmeno immaginata, nonché con la capacità dei bambini di metterti di fronte a quello che sei veramente. Bentornati nel Regno di Oz- petek dove non esistono solo due sessi, dove si mangia e si balla insieme su una terrazza romana (in zona Ostiense), si vive fra sfumature smaltate color lapislazzuli e si mostra il cuore, qualche volta litigando ad alta voce, qualche altra guardandosi intensamente negli occhi. Il registro è più musicale che cinematografico, a volte da opera, a volte da operetta. E a tratti c'è solo il silenzio di quando si ha veramente paura. Nei suoi momenti migliori il film si libra con l'afflato lirico di un'aria verdiana, come la canzone di Mina e Fossati che fa da libretto; nei passaggi meno ispirati intrattiene come una canzonetta estiva di quelle con i movimenti ripetuti tutti insieme, perché il cinema di Ozpetek è codificato nell'immaginario collettivo e la ripetizione fa parte del suo richiamo. Il genere è a metà fra la commedia romantica e il melodramma, ma sono molti i momenti horror: dal lungo piano sequenza iniziale che va a stanare due bambini chiusi in un armadio-sarcofago al murale dove sono disegnati teschi e piccoli impiccati; dalla stanza asettica di un ospedale a quella spettrale di un defunto alle strade che, quando perdi di vista un bambino, diventano i corridoi di un labirinto. Eppure questo film che, come consuetudine ozpetekiana, parla anche di malattia e di morte, ha un'energia vitale insopprimibile che tracima nella risata liberatoria, nella commozione struggente, nella dolcezza del riconoscersi parte di un'umanità dolente e spaventata. 'La dea fortuna' ha un odore, una palette di colori, una consistenza tattile che ci invitano a condividere la tavola (bella la sequenza iniziale che fruga in mezzo al buffet di un matrimonio) e persino il letto dei suoi personaggi confusi e infelici. Parte della sua forza è il cast, in particolare Edoardo Leo nel suo ruolo migliore, quello di maschio alfa nel bene e nel male, sensuale e irruento, empatico e "incapace". La naturale tendenza alla concretezza e alla mancanza di artificio di Leo controbilanciano efficacemente la tendenza di Ozpetek alla sdolcinatura e all'eccesso, e l'attore resiste eroicamente alle frasi fatte (che non mancano) e scoppia a piangere in camera senza perdere in virilità. Altrettanto efficace la piccola Sara Ciocca, già apprezzata ne ''Il giorno più bello del mondo'', istinto naturale verso il vero più che e il verosimile. 'La dea fortuna' parla di quanto sia difficile e meraviglioso innamorarsi di nuovo di chi hai vicino, e fa della demenza una virtù che ci aiuta a dimenticare i torti subiti e a guardare ogni giorno il nostro partner come se fosse la prima volta. Parla di come non si debba avere paura di rompere le cose perché si possono (quasi sempre) aggiustare, di come nessuno "la racconta giusta", principalmente a se stesso, e siamo tutti "nati inguaiati" (anche se sono gli altri ad interpretare la diversità come un guaio). Un universo dove lo spavento esistenziale è dietro l'angolo, ma se restiamo insieme fa meno paura, e ritroviamo luce, aria, respiro. 3902 – PALM SPRINGS. Vivi come se non ci fosse un domani Commedia Nyles e Sarah non si conoscono, si incontrano a un matrimonio e restano bloccati in un loop temporale tra amore, disillusione e confusione. Una commedia romantica arguta e contemporanea, tra i migliori esempi recenti del genere comico. Regia di film di Max Barbakow con Andy Samberg, J.K. Simmons, Cristin Milioti, Camila Mendes, Tyler Hoechlin. Durata 90 minuti – USA 2020. La mattina del 9 novembre, per Nyles, inizia svegliandosi di fianco alla fidanzata Misty, con la prospettiva di una giornata da trascorrere tra piscina e celebrazioni in un resort nel deserto di Palm Springs. La coppia è lì per partecipare al matrimonio tra Abe e Tala, un'amica di Misty. Un momento speciale che però Nyles sembra trattare con fin troppa svagatezza, brindando agli sposi in camicia hawaiana e salvando Sarah, sorella di Tala, da un discorso pubblico che la ragazza non vuole fare. Scappati insieme verso il deserto, Sarah vedrà Nyles trascinato in una grotta misteriosa, che ormai da tempo immemore lo costringe a rivivere la giornata del matrimonio senza soluzione di continuità. Dal giorno della marmotta al giorno del matrimonio. Commedia arguta dalla creatività slapstick tutta contemporanea, 'Palm Springs' riesce ad aggiornare un meccanismo narrativo di per sé bizzarro ma che ormai vanta una certa tradizione cinematografica: quello del time loop, l'anello temporale che intrappola i personaggi in un'eterna ripetizione dello stesso risveglio. Max Barbakow e Andy Siara, regista e sceneggiatore di 'Palm Springs', non arrivano a confermare che Nyles, come tutti, ha visto ''Ricomincio da capo''. Di certo però sfruttano la consapevolezza disincantata del ragazzo con notevole effetto comico: il deserto attorno a Palm Springs è per lui ormai un parco giochi familiare, così come familiare è il senso di rassegnazione che lo trascina da un bagno in piscina a una morte roboante; entrambi scenari che lo faranno risvegliare l'indomani nel medesimo letto in attesa della medesima cerimonia. Ciò scagiona il film, in una classica mossa di postmodernismo blasé, dalla responsabilità di dover re-introdurre il concetto del loop temporale e il prevedibile stupore del protagonista, come era quello di Bill Murray nel 1993 per la regia di Harold Ramis. Andy Samberg e Cristin Milioti, coppia per caso e per forza composta da nomi di peso della commedia a stelle e strisce contemporanea ('SNL' e ''Brooklyn Nine-Nine'' per lui, ''How I met your mother'' per lei), può quindi scatenarsi in una parte centrale di film pirotecnica, esilarante e avvincente perfino nella sua piattezza, perché in fondo nulla ha più senso. Oltre al piacere ipercinetico di gag sempre più elaborate, c'è la fortuna di aver catturato lo spirito del tempo con la perfezione di chi fa centro senza volerlo. Dei molti film che cercheranno di elaborare quanto avvenuto nel 2020, 'Palm Springs' si ritrova in prima posizione dopo aver preso una scorciatoia casuale dal mondo precedente. La sua parabola dark sul fascino pericoloso del nichilismo parla a un pubblico - e in particolare a una generazione - che ha visto la propria vita fermarsi e si è trovata intrappolata in una routine fatta di puro ennui. E anche se non tutti hanno un rancoroso J.K. Simmons alle calcagna per sparigliare le carte di una battle royale privata in stile Fortnite, il riuscito mix di romanticismo e spaesamento esistenziale posiziona il film tra i migliori esempi recenti del genere comico. Con tanto tempo da ammazzare ma una vita ancora da vivere, 'Palm Springs' ha la freschezza giusta per rivolgersi all'oggi come al domani.

(recencione di Tommaso Tocci – per MyMovies)

3901 – IL TALENTO DEL CALABRONE THRILLER Una buona interpretazione di Castellitto per un thriller attuale ma con troppe implausibilità. Regia di Giacomo Cimini con Sergio Castellitto, Lorenzo Richelmy, Anna Foglietta, Marina Occhionero, David Coco, Gianluca Gobbi.

Durata 84 minuti - Italia 2020. Steph è un disc jockey di Radio 105, così popolare che la sua immagine giganteggia su un grattacielo della zona più trendy di Milano. Proprio lì si trova anche lo studio da cui il dj conduce un altrettanto popolare trasmissione che invita gli ascoltatori ad intervenire live per vincere i biglietti di un concerto. Ma uno di loro non vuole solo giocare: annuncia che si suiciderà in diretta, e per convincere che parla sul serio fa esplodere un ordigno in cima ad uno degli edifici postmoderni del quartiere. Da quel momento inizia il duello vocale fra Steph e l'ascoltatore, che ha una bomba in macchina e non ha paura di usarla. 'Il talento del calabrone' si inserisce in quello che ormai è un sottogenere del thriller, ovvero lo sconosciuto al telefono che costringe il protagonista a prendere decisioni pericolose e ad assumersi responsabilità impegnative, che conta fra gli esempi 'In linea con l'assassino e il recente 'Il colpevole'. Ed è evidente che il regista Giacomo Cimini e il suo cosceneggiatore Lorenzo Collalti, anche autore del soggetto, aderiscono ai codici del genere per creare una tensione costante che tenga lo spettatore incollato alla sedia (o al divano, di questi tempi). Ma questo tipo di trama per funzionare deve assicurarsi che ogni snodo e ogni dettaglio siano plausibili, pur nella sospensione di incredulità che si riserva ad un'opera di finzione e ad un genere di per sé iperbolico. E purtroppo 'Il talento del calabrone' pecca spesso di scarsa credibilità, probabilmente legata al fatto che si è voluto mettere troppa carne al fuoco, e mostrare troppo virtuosismo narrativo. Il tema di fondo, come scopriremo solo alla fine, è importante e molto attuale, ed è lodevole l'intenzione di affrontarlo attraverso una veste cinematografica insolita e non meramente sociologica. Ma di nuovo, al cinema il fine non giustifica necessariamente i mezzi. Particolarmente problematico in scrittura è il personaggio del tenente colonnello Rosa Amedei, delineato in modo così contradditorio che Anna Foglietta non sa come renderlo realistico: e l'indossare stivali da combattimento e una pistola sopra un abito da sera, all'interno di una stazione radio, non aiuta. Quel che aiuta, e molto, è l'interpretazione sofferta di Sergio Castellitto, che nella sua autonomia professionale riesce a dare corpo e voce a un personaggio tratteggiato in modo altrettanto implausibile (quanti talenti specifici può avere un uomo, fatta eccezione per Leonardo Da Vinci?). E aiutano la bella mano di regia di Cimini, la magnifica fotografia di Maurizio Calvesi, il montaggio esperto di Massimo Quaglia, i costumi di Valentina Taviani: con un dream team tecnico di questo livello è davvero un peccato che la costruzione narrativa non si mantenga all'altezza. La ciliegina sulla torta è invece un tema che emerge quasi involontariamente (ma complimenti agli autori per averlo sentito nell'aria e inserito nella trama), ovvero la vulnerabilità della città di Milano e il suo peccato di hybris nei confronti della natura: non a caso il film inizia con un'inquadratura del bosco verticale, esempio di sottomissione della flora all'ingegno umano più che di illuminata (e usiamo il termine non a caso, riferendoci ad una delle riflessioni più preziose del film). (Recensione di Paola Casella per MyMovies) 3900 – NON ODIARE DRAMMATICO Un esordio che punta in alto, sonda i limiti del perdono e affida ad il suo ruolo più bello e viscerale. Un uomo non presta soccorso a un ferito di un incidente. La famiglia gli presenterà il conto da pagare. Regia di Mauro Mancini con Sara Serraiocco, Alessandro Gassmann, Lorenzo Buonora, Luka, Cosimo Fusco, Antonio Scarpa, Lorenzo Acquaviva. Durata 96 minuti. Italia, Polonia 2020.

Simone Segre è un chirurgo con una ferita aperta. Impossibile per lui ricucire. Da qualche parte nel suo background c'è un dolore che non passa e un padre ingombrante, sopravvissuto alla Shoah. L'omissione di soccorso alla vittima di un pirata della strada con la svastica tatuata sul petto, travolge la sua vita e lo conduce fino a Marica, una giovane donna, figlia della vittima. Per mettere a tacere il senso di colpa assume Marica come collaboratrice domestica e si scontra con suo fratello, giovane camerata che non vuole saperne di ebrei ed emigrati. Ma la vita fa giri imperscrutabili e li sposta dal loro centro. È una storia vera quella che racconta Mauro Mancini al suo esordio. È il racconto dell'impossibile perdono di un uomo, il cui rifiuto continua a turbarlo. Appoggiato sulle spalle del suo protagonista, 'Non odiare' sonda i limiti del perdono e affida ad Alessandro Gassmann il suo ruolo più bello e viscerale. L'attore abita il dolore e lo restituisce con una performance rigorosa e implacabile nel rifiutare la grazia. Il percorso, lungo e doloroso, incrocia quello di un fascista in erba che non ha davvero idea di quello che dice e di quello che fa. Alla maniera di Simon Wiesenthal ("Il Girasole"), di cui per caso o forse per intenzione porta il nome, Simone Segre non cessa di combattere un fascista quando ne vede uno, di 'farsi giustizia' almeno fino al giorno in cui qualcosa si spezza. La crisi annuncia una possibilità, quella di confrontarsi con quell'odio sempre attuale, sempre terribile. È possibile perdonare l'imperdonabile? Il titolo del film sembra indicare la via migliore, una strada percorribile a doppio senso. Ma le cose non sono così semplici, al cinema come nella vita. L'impossibilità di dimenticare è il fondamento che costituisce il protagonista, cresciuto da un padre che vediamo solo nel prologo. Un prologo che risale il tempo e la memoria dichiarando allo spettatore che non c'è niente altro che la sofferenza a fondare Simone. La riva di un fiume, dove è costretto a scegliere chi salvare e chi annegare, diventa il suo luogo d'origine. Su quello stesso fiume, diversi anni dopo scivola 'navigando' a vista. Sarà il destino, meglio, un 'incidente' del destino a costringerlo a guardarci dentro, a guardare sotto, ad addomesticare il dolore come il cane mordace del padre lasciato come un'eredità feroce. L'origine ebraica, come il suo passato, finiscono per riprenderlo attraverso lo sguardo atono di un ragazzino fanatico. L'ebraicità del protagonista serve invece al regista una riflessione sulla nuova eruzione di antisemitismo e sul vecchio antisemitismo di estrema destra. Un segno barbaro che è necessario sorvegliare per evitare che abbia un'avvenire politico. Il regista pesca tra le mille espressioni di razzismo e vandalismo (fisico o virtuale), 'attaccando' un emigrante al lavoro o assediando l'ingresso di una questura, mettendo in scena la perversione più o meno latente che agita oggi le nostre società. Società sovraeccitate che inventano capri espiatori per far dimenticare la responsabilità del proprio fallimento, che sottostimano l'odio, disponibile, accessibile e attivato dalle tecnologie digitali o da politici complottisti. Mancini al debutto punta in alto e diluisce la rappresentazione dell'odio sociale in un 'romance' che resta per fortuna ai margini. Politicamente corretto, 'Non odiare' lavora sulla 'rottura' e contro la ri-legittimazione della violenza nello spazio pubblico. La buona intenzione non produce però nessun guizzo formale, nessuna rivelazione rilevante sul tema. Generosamente drammatizzata e deformata rispetto ai 'fatti' di partenza, la narrazione resta dentro i codici dello psicodramma ordinario. La decisione di giocare coi grigi, incarnati da Sara Serraiocco, intrappolata tra il 'bianco' e il 'nero'. mare.

3899 – UN AMICO STRAORDINARIO BIOGRAFICO Un film spiazzante che trae la sua forza dalla semplicità disarmante del suo protagonista Fred Rogers. Un giornalista cinico accetta malvolentieri l'incarico di scrivere un pezzo su un'icona. Sarà poi costretto a ricredersi. Regia di Marielle Heller con , Enrico Colantoni, Chris Cooper, Matthew Rhys, Wendy Makkena, Tammy Blanchard, Maddie Corman, Susan Kelechi Watson, Sakina Jaffrey, Kitty Crystal. Durata 109 minuti. USA 2019.

Nel 1998 il giornalista di New York Lloyd Vogel, sposato e con un figlio neonato, viene incaricato dalla rivista Esquire di scrivere un articolo su Fred Rogers, pastore protestante e conduttore del famoso programma televisivo per bambini, Mister Rogers' Neighborhood. Giornalista apprezzato ma adulto depresso e in conflitto con il padre che ha abbandonato lui e la sorella da piccoli, Lloyd trova in Rogers un interlocutore spiazzante e alla lunga un vero amico. Pacato e amorevole tanto coi bambini quanto con gli adulti, Rogers è in grado con la sua gentilezza di sanare le ferite di Lloyd e di spingerlo a migliorare il rapporto con gli altri. Lloyd si riavvicina così alla moglie, comincia a occuparsi del suo bambino e trova il tempo di riconciliarsi con il padre, ormai anziano e sul punto di morire. Un amico straordinario è il racconto di un incontro: un romanzo di formazione che arriva quando ancora non è troppo tardi, in tempo per ricordare a un uomo disilluso di essere stato anche lui un bambino. Tratto dall'articolo «Can You Say ... Hero?» di Tom Junod, pubblicato su Esquire nel 1998, 'Un amico straordinario' è un film spiazzante. Come il protagonista Fred Rogers, sotto la sua normalità e la sua dolcezza sembra nascondere un'anima cupa, quasi morbosa, eppure si rivela in realtà per quello che semplicemente è. Non è un eroe, come si domandava lo stesso articolo di Junod, e nemmeno un santo (come viene ironicamente chiamato dalla moglie), ma un uomo e un peccatore come tutti. Soprattutto, è un comunicatore che prende alla lettera i termini di un rapporto interpersonale, risultando per questo imprevedibile: dal set televisivo in cui mette in scena i suoi spettacolini non si abbassa mai al livello dei piccoli ascoltatori, parla con tono piano e parole semplici, indossa cardigan e cravatta per rendere evidente la distanza di età e di esperienze. Con gli adulti Rogers si comporta alla stessa maniera: accetta l'idea dello scambio e coglie in un'intervista l'occasione per costruire una nuova amicizia, nonostante la persona che ha di fronte sia all'opposto per formazione, convinzioni e carattere. Rogers aveva 70 anni quando uscì l'articolo di Esquire, la sua trasmissione andava in onda dal 1968 e poco tempo dopo, nel 2003, sarebbe morto: era insomma un uomo d'altri tempi, quasi un alieno, e il film lo mostra in questa dimensione "altra", trasportando il coprotagonista Lloyd (interpretato da Matthew Rhys) e lo stesso spettatore nel suo "Mister Rogers' Neighborhood", nei plastici della trasmissione che ricostruivano il "quartiere" ideale e in miniatura di cui Rogers era abitante e burattinaio. Confondendo i piani della percezione tra il set, la vita di Lloyd e una dimensione sospesa tra reale e onirico, Marielle Heller e i suoi collaboratori costruiscono un universo fantastico e artigianale simile a quelli di Gondry o Kaufman, un palcoscenico ideale in cui le certezze della vita adulta si sgretolano di fronte alla naturalezza di un mondo infantile fatto della stessa arte di Rogers, di pupazzi, marionette, canzoncine e discorsi semplici. Nella voluta incertezza della rappresentazione sta perciò il senso intimo di 'Un amico straordinario', l'inevitabile contrasto, cioè, tra la complessità della vita e l'essenzialità di un linguaggio ricondotto alle sue formule di base e utile tanto per l'infanzia quanto per l'età adulta. Rogers invita a tornare bambini per riscoprire la naturalezza di un saluto, di una domanda, di una richiesta di aiuto o di perdono. La presenza destabilizzante di questa figura a metà tra l'educatore e l'invasato - anche grazie a un'interpretazione sensazionale di Tom Hanks, in bilico fra dolcezza e spavento - non sta dunque nella sua bontà, nella sua fede o nella sinistra pervasività con cui entra nelle vite degli altri, ma nella capacità scioccante di parlare una lingua depurata e universale, scevra da costruzioni di carattere religioso o educativo. A fine millennio, agli albori della rivoluzione digitale e nell'epoca del "realismo isterico" è possibile che il discorso, l'arte e la figura di Rogers fossero stati superati dal tempo e dalle mode; oggi, però, al di là del personaggio e delle sue convinzioni, suonano come un'àncora di salvezza, un modo di guardare alla vita e al sogno che recupera senza secondi fini l'onestà dei bambini. 3898 – DOPO IL MATRIMONIO DRAMMATICO Il ritorno a casa della figlia, in procinto di sposarsi, fa riemergere vecchi segreti della famiglia. Un remake al femminile che fa del cast solido e performante il suo principale punto di forza. Regia di Bart Freundlich con Michelle Williams, Julianne Moore, Billy Crudup, Eisa Davis, Abby Quinn, Alex Esola, Doris McCarthy Durata 110 minuti. Usa 2019

Isabel ha dedicato la gran parte della sua vita ai bambini di un orfanotrofio di Calcutta e da sette anni è diventata come una madre per il piccolo Jai, un ragazzino vulnerabile che si è profondamente legato a lei. L'offerta di una facoltosa società americana di finanziare l'orfanotrofio in bancarotta la costringe, però, a tornare a New York, dove non mette piede da più di vent'anni. Qui incontra Theresa, la magnate multimilionaria che ha chiesto di incontrarla, ma da subito appare evidente che la donna è meno interessata all'orfanotrofio che a conoscere meglio Isabel, tanto che la invita al matrimonio della figlia Grace. Da quel giorno, Isabel viene progressivamente a conoscenza di una serie di segreti passati e presenti, destinati a sconvolgere la sua vita e quella di tutti gli altri. Bart Freundlich, regista poco prolifico ma sceneggiatore esperto di relazioni sentimentali e incomprensioni familiari, riscrive il dramma portato sullo schermo dalla regista danese Susanne Bier sostituendo la coppia di protagonisti maschili con quella al femminile composta da Michelle Williams e da Julianne Moore, sua moglie e interprete di quasi tutti i suoi film. Il tema della maternità, biologica o sostitutiva, scelta o rifiutata, assume dunque un ruolo centrale ma solo in apparenza, perché cambiando di genere ai protagonisti della storia, il regista può in realtà raccontare la scelta di un uomo e il legame che ha instaurato con la figlia. Dietro le vetrate vertiginose degli hotel e degli uffici high-tech della metropoli contemporanea, e dietro l'impegno dell'occidentale negli slums indiani, si consuma così un melodramma antico, o quanto meno eterno, che intreccia passato e futuro ("Dove si va? Dove andrò?" domanda il personaggio di Julianne Moore nella scena più drammatica), nascita e rinascita (il nido caduto, facile simbolo di morte, trova nuova vita nell'arte) e porta in superficie l'assurdità dell'esistenza, per cui non solo non possiamo controllare le nostre vite ma a volte le stesse sembrano scritte dalla penna barocca di uno sceneggiatore senza freni. Forte di un perfetto cast artistico, 'Dopo il matrimonio' è soprattutto un film di interpreti e, tra questi interpreti, la Moore e Crudup si collocano comodamente una spanna sopra gli altri. Non si troveranno, invece, particolari sottigliezze di regia e anzi, nel tentativo di restare minimale di fronte a tanta trama, ne va talvolta dell'emozione e alcuni passaggi appaiono inespressi. Ciò che il film inventa, in ogni caso, è sufficiente per aprire diversi fronti di dibattito, pubblico e privato. 3897 – IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE COMMEDIA DRAMMATICA Due amici decidono di spassarsela al più non posso convinti che rimanga loro poco da vivere. Un bromance che diverte col gioco degli equivoci ma si perde nel momento più delicato, sulla soglia del dolore. Regia di Alexandre de La Patellière, Matthieu Delaporte con Fabrice Luchini, Patrick Bruel, Zineb Triki, Pascale Arbillot, Marie Narbonne, Jean-Marie Winling, André Marcon, Thierry Godard, Martina García. Durata 117 minuti. Francia 2019.

Arthur e César sono amici da quando entrambi frequentavano controvoglia lo stesso severissimo collegio. Ma non potrebbero essere più diversi: Arthur è un ricercatore medico puntiglioso e ossessionato dal rispetto delle regole; César è un guascone imprudente e trasgressivo che è appena stato sfrattato da casa sua in seguito alla propria bancarotta. E se Arthur, divorziato con figlia, sta ancora aspettando pazientemente che l'ex moglie torni a casa, César colleziona avventure senza legarsi a nessuna. Per un equivoco, Arthur viene a conoscenza della gravissima condizione medica di César, e César si convince che sia Arthur a trovarsi in punto di morte. Da quel momento i due faranno a gara per realizzare i desideri finali l'uno dell'altro, anche quelli più lontani dal proprio gusto personale: il che ha il vantaggio di sbloccare lo stallo esistenziale in cui si trovavano entrambi. 'Il meglio deve ancora venire' è scritto e diretto dalla coppia creativa francese formata da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, che avevano già scritto e diretto ''Cena tra amici'' (rigirato da Francesca Archibugi come ''Il nome del figlio'') e sceneggiato ''Mamma o papà?'' (diventato in Italia il film omonimo diretto da ). Il genere prediletto di La Patellière e Delaporte è la commedia "alla francese" leggera ma con spunti di riflessione sul presente. E qui si cimentano con due temi importanti: l'amicizia maschile e la malattia. Per la prima mezz'ora la storia fila che è una meraviglia, facendo leva sia sul contrasto fra i due protagonisti che sulla "strana coppia" di interpreti composta da Fabrice Luchini e Patrick Bruel. Le battute sono divertenti, il ritmo è scoppiettante, e il gioco degli equivoci è retto con mano salda. Dopo questo inizio promettente però il film perde la bussola e comincia a smarrirsi tra svolte improbabili e sbalzi tonali, fino a fare ciò che non andrebbe mai fatto, se si sceglie di affrontare un argomento sensibile come la morte: ovvero abbandonare la scena nel momento più difficile - il che, paradossalmente, è proprio il tema dichiarato della storia. La Patellière e Delaporte pescano tra i recenti successi europei che hanno trattato il tema della malattia e dell'amicizia, da ''Quasi amici'' a ''Truman - Un vero amico è per sempre'', ma non hanno né la schiettezza né il coraggio di entrambi: si arrestano infatti sulla soglia del dolore, preferendo guardare a film hollywoodiani come ''Non è mai troppo tardi'' per strappare ulteriori risate invece che prendere il toro per le corna. I momenti migliori dunque restano i siparietti comici fra due attori di consumata abilità - molto divertente la scena al ristorante in cui vengono scambiati per una coppia gay: cosa del tutto comprensibile, visto che 'Il meglio deve ancora venire' è fondamentalmente un bromance. Ma è difficile dare nuove svolte al tema dell'amicizia maschile a confronto con la morte in chiave agrodolce: bisognerebbe provarci solo sapendo esattamente dove andare a parare, come reggere il timone e regolare la velocità di crociera. 3896 – L’HOTEL DEGLI AMORI SMARRITI COMMEDIA Una donna decide di lasciare il marito e trasferirsi nell'hotel di fronte. Una commedia brillante e ricca di colpi di scena che sa essere anche una riflessione sul divenire. Regia di Christophe Honoré con Carole Bouquet, Chiara Mastroianni, Camille Cottin, Vincent Lacoste, Benjamin Biolay, Stéphane Roger, Harrison Arevalo. Durata 86 minuti. Francia 2019. Maria e Richard sono sposati da vent'anni. Una sera lui scopre che lei ha un amante: si tratta di un suo studente dell'università. Non valgono a nulla le motivazioni che Maria adduce. Richard è sconvolto. Lei decide allora di lasciare il domicilio coniugale senza andare però troppo lontano: la stanza numero 212 dell'hotel di fronte a casa. Da lì può avere una visione a distanza sul consorte e sul suo matrimonio. Ma non sarà sola in questa riflessione. Christophe Honoré da qualche film a questa parte (più precisamente da 'Les bien-aimés' datato 2011) ha abbandonato quella vena che si sarebbe potuto definire tardoadolescenziale secondo la quale era indispensabile provocare lo spettatore con situazioni o strutture narrative spesso fini a se stesse. Anche in questa occasione, intendiamoci, non opta per una sceneggiatura lineare ma ora ogni variazione risulta motivata. Perché non appena Maria si installa nella stanza di hotel di fronte all'appartamento dove Richard non riesce a dormire per il tormento che lo ha assalito nello scoprire il tradimento della moglie, si materializza accanto a lei...Richard. Sì proprio lui ma com'era quando lo aveva incontrato, innamorandosene, due decenni prima. Da quel momento prendono corpo (nel senso anche più sessualmente completo del termine per Richard) e anche parola diverse persone che hanno incrociato il loro percorso con lei nonché la 'fiamma' che già in fase puberale aveva acceso Richard. Honoré si diverte così a rendere fisici e materiali i ricordi che ognuno di noi può avere, mettendoci di fronte a una commedia brillante e ricca di colpi di scena ma anche a una riflessione sul divenire. Sarà anche vero, come affermano i nutrizionisti, che siamo ciò che mangiamo ma siamo anche (soprattutto?) ciò che abbiamo vissuto. Anche quando pretendiamo di potercelo lasciare alle spalle o di trattare le persone con cui abbiamo avuto una relazione come eventi che non lasciano traccia stiamo solo cercando di ingannare noi stessi. Chiara Mastroianni, attrice che ha attraversato gran parte del suo cinema, si trova qui come consorte Benjamin Biolay, che lo è stato nella realtà, e le viene offerta l'occasione di essere il perno attorno a cui ruota tutta la vicenda potendo anche mostrare come lo scorrere degli anni non abbia lasciato tracce sul suo corpo. Grazie a lei Maria può finalmente e nerudianamente confessare a sè stessa di avere vissuto. Cosa che molti, nella realtà, non osano o non vogliono fare. 3895 – IL MISTERO HENRI PICK COMMEDIA Chi è Henri Pick? Molti risponderebbero che è l'autore di un romanzo eccezionale, scoperto per caso in una misteriosa biblioteca nel cuore della Bretagna e diventato in brevissimo tempo un bestseller. Grande successo o gigantesco imbroglio? Un thriller letterario che sfiora Chabrol e conferma il talento di Fabrice Luchini. Regia di Rémi Bezançon con Fabrice Luchini, Camille Cottin, Alice Isaaz, Bastien Bouillon, Josiane Stoléru, Astrid Whettnall, Marc Fraize, Hanna Schygulla. Durata 100 minuti. Francia, Belgio 2019. Jean-Michel Rouche è un critico letterario e presentatore di un seguitissimo talk show sui libri in uscita. Un giorno in trasmissione si presenta la vedova di un pizzaiolo di cui, dopo la morte, è stato scoperto un romanzo inedito che, a pubblicazione avvenuta, è diventato un best seller. In trasmissione c'è anche la giovane editor che ha scoperto il manoscritto presso un'insolita libreria bretone, dentro la quale c'è una stanza dedicata interamente ai parti letterari di chi non è mai riuscito a farsi pubblicare. Ma Jean-Michel sente odore di imbroglio, e diventa ossessionato dall'idea di smascherare l'autore di quello che lui (e solo lui) ritiene essere un falso letterario. Dunque si reca personalmente in Bretagna per risalire alle origini della frode, e si mette in contatto con la famiglia del pizzaiolo, cercando di scoprirne i segreti. 'Il mistero Henri Pick' appartiene ad un sottogenere curioso, ovvero l'indagine letteraria, che comprende molti titoli, alcuni eccellenti come 'L'uomo nell'ombra' di Polanski. Qui però l'attenzione è meno focalizzata sull'aspetto thriller e più sulla commedia umana, e sulla premessa che "i bei libri sembrano scritti per noi", dunque appartengono a tutti, quale ne sia l'autore vero e proprio. La riflessione è anche sul mondo dell'editoria e su quanto sia difficile, per un autore sconosciuto, ottenere l'attenzione tanto degli editori quanto dei critici. La sceneggiatura, scritta a quattro mani dal regista Rémi Bezancon e da Vanessa Portal, che adattano per il grande schermo il romanzo "Il mistero Henri Pick" di David Foenkinos, è un po' troppo intenta a far quadrare ogni dettaglio, ma la mano registica di Bezancon, autore di molte commedie lievi del cinema francese più recente, si mantiene coerentemente leggera, e lascia che siano le caratterizzazioni dei protagonisti e i panorami pittoreschi della Bretagna a farla da padroni.Fabrice Luchini è perfetto nel ruolo del critico letterario disincantato ma non rassegnato al cinismo, e in fondo desideroso di ritrovare quel contatto umano e quella dimensione rurale che la Bretagna offre a piene mani, e Camille Cottin, volto nuovo della commedia francese, è azzeccata nella parte della figlia del piazzaiolo diventato una celebrità locale: del resto la coppia Luchini-Cottin aveva già mostrato una chimica tutta particolare nella serie Netflix 'Chiama il tuo agente'. Anche i personaggi minori sono tratteggiati con delicatezza e precisione creando un insieme corale piacevole, anche se un po' forzato negli incastri della trama. 'Il mistero Henri Pick' è il corrispettivo di una tazza di cioccolata calda da bere davanti al caminetto, immaginando fuori dalla finestra la costa bretone e intorno a sé un villaggio in cui tutti si conoscono e i vicini si aggirano in bicicletta. Se l'elemento thriller fosse più accentuato (e si vedessero le componenti più dark della natura umana) si entrerebbe nell'universo cinematografico di Chabrol: invece Bezancon resta sulla soglia del giallo vero e proprio per concentrarsi sull'amabilità dei suoi personaggi, sulla fragilità dell'ego e la superficialità di una produzione letteraria che privilegia la notorietà al talento, lo scoop alla sostanza. 3894 – GLI ANNI PIU’ BELLI COMMEDIA DRAMMATICA La storia di quattro amici raccontata nell'arco di quarant'anni, dal 1980 ad oggi, dall'adolescenza all'età adulta. Il commovente ritratto di una generazione che Muccino sa mettere a fuoco con una compiutezza senza uguali. Regia di Gabriele Muccino con Micaela Ramazzotti, Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria, Nicoletta Romanoff, Emma Marrone. Durata 129 minuti. italia 2020 Roma, primi anni Ottanta. Giulio, Paolo e Riccardo hanno 16 anni e tutta la vita davanti. Giulio e Paolo sono già amici, Riccardo lo diventa dopo una turbolenta manifestazione studentesca, guadagnandosi il soprannome di Sopravvissuto. Al loro trio si unisce Gemma, la ragazza di cui Paolo è perdutamente innamorato. In realtà tutti e quattro dovranno sopravvivere a parecchi eventi, sia personali che storici: fra i secondi ci sono la caduta del muro di Berlino, Mani Pulite, la "discesa in campo" di Berlusconi e il crollo delle Torri Gemelle, per citarne solo qualcuno. E dovranno imparare che ciò che conta veramente sono "le cose che ci fanno stare bene" e che certi amori - così come certe amicizie - "fanno giri immensi e poi ritornano". Se citiamo un cantautore è perché 'Gli anni più belli' segue volutamente il registro di concept album come "Piccolo grande amore" di Claudio Baglioni, e infatti Baglioni viene evocato nel film ben tre volte, con "E tu come stai?", "Mille giorni di te e di me" e l'inedito che accompagna i titoli di coda. Ma se l'afflato di questo "romanzo popolare" è quello della canzonetta - e lo diciamo senza condiscendenza - lo stile registico è 100% Gabriele Muccino. Il che, nella prima parte del film, è quasi letale: i giovani attori che interpretano i quattro ruoli principali, benché molto bravi (specialmente Alma Noce e Andrea Pittorno) sono spinti a recitare costantemente sopra le righe, alzando la voce, ansimando e soccombendo a quella frenesia ormai definibile come "muccianiana". E a sottolineare ogni scena c'è la colonna sonora (di Nicola Piovani) spalmata "a palla". Tuttavia dopo la prima mezz'ora, e dopo l'entrata in scena di Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, il film comincia a prendere quota e a trovare un'identità che si smarca gradualmente dai cliché, rivelando un'onestà artistica credibile. Il merito è certamente degli attori, che trovano la loro misura anche all'interno dello stile dominante, ma anche di una regia che riesce a contenere i propri "difetti fatali", anche facendo leva su professionalità ben definite come Eloi Mori alla fotografia, Patrizia Chericoni ai costumi o Tonino Zera alle scenografie. Particolarmente notevole è il lavoro di montaggio di Claudio Di Mauro, specialmente nella scena del ristorante vicina alla conclusione, che destruttura magnificamente il meccanismo del campo e controcampo, e in quella dove Gemma, nelle sue varie incarnazioni, sale di corsa le scale, una delle più belle del film. Gemma è invece il tasto dolente, non per via delle belle interpretazioni della già citata Noce e di Micaela Ramazzotti, ma per lo scarso lavoro di scrittura del suo personaggio, del quale si faticano a capire le motivazioni, e dal quale traspare la consueta visione del mondo mucciniana in cui le donne "la danno via con la fionda", di solito per ragioni di sicurezza economica. Molto ben scritti invece (dallo stesso regista e dal cosceneggiatore Paolo Costella) i tre personaggi maschili che corrispondono ad altrettante identità degli autori, e soprattutto delineano insieme il profilo di una generazione. È proprio il ritratto di chi oggi è arrivato ai cinquant'anni il punto di forza e il cavallo di Troia che si insinua nella coscienza degli spettatori, de 'Gli anni più belli': un ritratto che finora nessuno aveva portato al cinema con altrettanta compiutezza, mettendo a fuoco una generazione sfocata, travolta da una "metamorfosi socioculturale", umiliata dal precariato e schiacciata dai padri. In questo senso il modello di riferimento dichiarato del film, 'C'eravamo tanto amati', fa da efficace pietra di paragone, perché i protagonisti di 'Gli anni più belli', smarriti e spaesati, sono l'ombra di quelli del capolavoro di Ettore Scola, ed è giusto così, perché non possono avere lo spessore e la definizione di chi ha vissuto un'Italia molto diversa dalla nostra. Muccino fa leva drammaturgica su questo scarto epocale raccontandoci tre identità maschili depotenziate e destrutturate, come lo sono molti neocinquantenni di oggi. E alla fine ci si commuove profondamente, si riflette su dove siamo e perché, e su quali siano "le cose belle" cui stare attaccati come cozze quando il mondo intorno ci tradisce. Muccino racconta molto bene quanto sia facile sbagliare nella vita (soprattutto se è "una vita difficile") senza valutare le conseguenze di errori cui sarà arduo porre riparo, ma (grazie anche al provvidenziale suggerimento di Favino, come ha dichiarato il regista in conferenza stampa) è ancora possibile rammendare la propria vita e trovare una consolazione finale, una rappacificazione con noi stessi e il nostro bilancio esistenziale. E l'unico eroe è quello che ha capito da subito che non bisogna lasciare che sia il mondo a definirci. 3893 – RITRATTO DI GIOVANE IN FIAMME DRAMMATICO Una pittrice viene chiamata per un'importante ritratto. Estrema cura dell'immagine e dell'equilibrio estetico per una ricerca profonda dell'identità sessuale. Regia di Céline Sciamma con Valeria Golino, Adèle Haenel, Noémie Merlant, Luàna Bajrami, Cécile Morel. Durata 120 minuti. Francia 2019 Francia, 1770. Marianne, una pittrice, riceve l'incarico di realizzare il ritratto di nozze di Héloise, una giovane donna appena uscita dal convento. Lei però non vuole sposarsi e quindi rifiuta anche il ritratto. Marianne cerca allora di osservarla per poter comunque adempiere al mandato. Scoprirà molte cose anche su di sé. Céline Sciamma al suo quarto lungometraggio continua la sua ricerca sull'identità sessuale tema nei confronti del quale ha mostrato un'ottima capacità d'indagine in fase di sceneggiatura nonché nel trasferimento sullo schermo. In questa occasione lascia però il presente per rivolgersi al passato. Un passato che di lì a meno di un ventennio vedrà il fuoco della Rivoluzione che cambierà tutto ma non spazzerà via il pregiudizio e le costrizioni. Non è necessario scomodare riferimenti a Jane Austen per apprezzare uno script in cui Sciamma, sin dalle prime inquadrature, ci enuncia il proprio progetto. Sullo schermo/tela bianco una mano munita di carboncino inizia a delineare un'immagine. Ecco: esattamente qui sta il senso del film. In una domanda: quanto le strutture sociali impediscono agli individui di farsi ritrarre (cioè guardare) per ciò che veramente sono? Marianne, pronta a gettarsi in mare per recuperare le tele che poi asciugherà insieme al suo corpo nudo davanti ad un camino, possiede le tecniche per ritrarre gli altri ma si troverà a scoprire un'immagine di se stessa che stava nascosta nei recessi della sua sensibilità. Héloise che rifiuta inizialmente lo sguardo altrui (legato inestricabilmente a una condizione coniugale che non vuole accettare) progressivamente imparerà a guardare oltre e ad accettare di essere vista. Tra di loro, solo apparentemente in un ruolo secondario, la giovane serva che resta incinta sottoponendosi ai più diversi tentativi per abortire. É un film in cui le parole vengono pronunciate solo se e quando sono necessarie perché sono e restano per tutto il tempo le immagini a costituire l'elemento portante della narrazione. La cura nella ricerca non solo dell'inquadratura ma anche degli abiti nonché degli spazi (in particolare gli interni) fa ripensare al Rohmer de 'La marchesa von....' Là dove la geometria rohmeriana definiva spazi studiati quasi teoreticamente Sciamma cerca anche la nota dissonante del letto sfatto stando però sempre attenta a produrre un equilibrio estetico in cui tutti gli elementi si bilancino. Ciò che deve 'sbilanciarsi' è la vita delle due protagoniste che dovranno progressivamente ammettere (innanzitutto con sè stesse) sentimenti nuovi e importanti nei confronti dei quali operare delle scelte fondamentali.

3892 – TOLO TOLO COMMEDIA Non compreso da madre patria, Checco trova accoglienza in Africa. Ma una guerra lo costringerà a far ritorno percorrendo la tortuosa rotta dei migranti. Checco Zalone si mantiene in equilibrio sul crinale della correttezza politica, colpendo a 360 gradi. Regia di Checco Zalone con Checco Zalone, Barbara Bouchet, Manda Touré, Alexis Michalik, Souleymane Silla, Francesco Cassano, Nassor Said Berya,. Durata 90 minuti - Italia 2020 Spinazzola, cuore delle Murge pugliesi. Checco rifiuta il reddito di cittadinanza e apre un sushi restaurant ma, dopo l'entusiasmo iniziale, fallisce miseramente e decide di fuggire dai creditori e dal fisco "là dove è possibile continuare a sognare": ovvero in Africa, dove si improvvisa cameriere per un resort esclusivo. Lì incontra Oumar, cameriere con il sogno di diventare regista e la passione per quell'Italia conosciuta attraverso il cinema di Pasolini. Improvvisamente in Africa scoppia la guerra e i due sono costretti a emigrare, anche se Checco non punta all'Italia ma ad uno di quei Paesi europei in cui le tasse e la burocrazia sono meno pressanti che nel Bel Paese. A loro si uniranno la bella Idjaba e il piccolo Doudou ("come il cane di Berlusconi"). Riusciranno i nostri eroi (l'espressione non è usata a caso) a portare a termine il "grande viaggio da clandestini"? Checco Zalone, al secolo Luca Medici, questa volta non è solo interprete e coautore della sceneggiatura (insieme a Paolo Virzì, abbandonato il sodalizio con Gennaro Nunziante) ma anche regista, e si vede, perché la sua direzione è pirotecnica e schizzata come la sua vis comica, sempre pronta ad aprire mille finestre all'interno di un discorso continuamente interrotto. Nel copione si vede poco la mano di Virzì, fagocitata dalla bulimia narrativa di Checco, e la prima parte del film ne risente, meno fluida e coerente di quanto gioverebbe alla storia, soffocata da quella incessante voce fuori campo che va a sostituirsi allo sviluppo narrativo visibile. Ma a mano a mano che la storia prende ritmo e quota, acquistando la velocità crescente della farsa, si comincia a ridere davvero. In ''Tolo Tolo'' (che significa "solo solo") ce n'è per tutti: politici incapaci dalle vertiginose carriere, migranti innamorati delle griffe (di pessima resa qualitativa), nostalgici mussoliniani (perché "il fascismo ce l'abbiamo tutti dentro, pronto a riemergere, come la candida") e buonisti favorevoli alla "contaminazione" etnica. Nella sua rappresentazione a tutto tondo dell'italiano medio e dei suoi difetti ricorrenti, Checco fugge da un Paese "che ci perseguita", invitando l'immediata identificazione del pubblico. Lo stesso pubblico sarà poi messo di fronte alle proprie meschinità e ipocrisie, ai suoi pregiudizi ed egoismi, nonché alla banalità di certi slogan populisti e all'inettitudine della politica. Nell'apoteosi finale Zalone affonda il colpo con una canzonetta da Zecchino d'oro che toglie ogni dubbio sulla sua posizione morale. Ma fino a quel momento si mantiene in equilibrio (da par suo) sul crinale della correttezza politica, non con qualunquismo cerchiobottista ma con la determinazione scientifica a menare fendenti a destra e a manca, colpendo a 360 gradi. 'Tolo tolo' è un film di Checco Zalone perché riproduce esattamente la sua visione del mondo, un mondo che il nostro antieroe attraversa a piedi, su un pullman sovraccarico come su una carretta del mare, rimanendo fedele alla sua cialtroneria e al suo pragmatismo (almeno in parte) condivisibile, prodotto di un chiaro imprinting (sotto)culturale e delle dinamiche socioeconomiche della contemporaneità. Checco è uno specchio continuamente rivolto verso lo spettatore, il punto di contatto fra meschinità private e pubbliche ideologie. Vicino a lui il cast di origine africana rappresenta una complessità non semplificabile, un'alterità non riducibile all'etichetta di migrante. Perché in una società ingiusta siamo tutti clandestini, ed è un attimo ritrovarsi dalla parte sbagliata del confine. 3891 – RICHARD JEWELL BIOGRAFICO La storia di una guardia di sicurezza considerata eroe e poi accusata di essere complice di un attentato. Eastwood moltiplica i suoi schermi per rappresentare un'epoca in cui lo storytelling conta più della verità. Regia di Clint Eastwood con Sam Rockwell, Paul Walter Hauser, Dexter Tillis, Olivia Wilde, Jon Hamm, Kathy Bates, Wayne Duvall. Durata 129 minuti - USA 2019.

Atlanta, Georgia. Richard Jewell è un trentenne sovrappeso che vive ancora con la mamma e si considera un tutore della legge, ma in realtà svolge per lo più lavoretti di sorveglianza. Richard considera sua missione proteggere gli altri ad ogni costo: dunque, durante gli eventi che precedono le Olimpiadi del 1996, è il primo a dare l'allarme quando vede uno zaino sospetto abbandonato sotto una panchina. Questo fa sì che l'attentato dinamitardo del 27 luglio al Centennial Olympic Park abbia esiti po' meno tragici di quelli previsti dall'attentatore, e Richard diventa l'eroe che aveva sempre sognato di essere: ma la sua celebrità istantanea non tarderà a rivoltarglisi contro e a farlo precipitare dal sogno all'incubo. Basato sulla vera storia dell'"eroe di Atlanta" e su un articolo intitolato "American Nightmare", 'Richard Jewell” conta fra i suoi produttori Leonardo DiCaprio e Jonah Hill e dà modo a Clint Eastwood di attingere di nuovo alla realtà per affrontare il modo in cui, soprattutto negli Stati Uniti, un essere umano viene issato sull'altare e poi gettato nella polvere sulla base dello storytelling che gli viene costruito intorno. Lo stesso Eastwood conosce bene la claustrofobia di sentirsi cucita addosso una narrazione che non corrisponde alla propria identità: ha impiegato anni a smarcarsi dall'immagine di attore di scarso spessore e acquisire credibilità come autore cinematografico. Persino politicamente la narrazione che lo riguarda è sempre stata poco aderente alla sua reale complessità. 'Richard Jewell' è una parabola su come i centri di potere - qui i mass media e l'FBI - procedano ottusamente ad appiccicare etichette e ad affibbiare ruoli, indipendentemente da quanto rispecchino la vera natura delle persone. Ed è proprio la verità che risiede in Richard Jewell, e che non corrisponde alla profilazione di lui fatta, il cuore pulsante di questa storia. Eastwood compie una scelta davvero radicale, che verrà probabilmente equivocata da quel pubblico che lo vede ancora come un reazionario: ovvero quella di calare la vicenda in un immaginario cinematografico riconoscibile principalmente attraverso le sue maschere. Così Jon Hamm è un ispettore dell'FBI anni '40 e Olivia Wilde interpreta la sua giornalista d'assalto come uno dei personaggi che hanno reso celebre Barbara Stanwick (e probabilmente indignerà chi si batte per una rappresentazione meno stereotipata e ingenerosa delle donne al cinema). Clint invece punta il dito proprio sul modo in cui le persone trovano conforto in una narrazione ben codificata, nella quale fanno rientrare - o dalla quale espellono - le sfaccettature della natura umana. Anche l'avvocato del film, Watson Bryant, è un archetipo cinematografico: il cane sciolto, che agisce da solo e ha accanto una donna vera che lo ama sul serio - uno che legge Larry McMurtry e "crede a ciò che crede", non a ciò che gli viene raccontato. 3890 – JUDY BIOGRAFICO La storia degli ultimi concerti della cantante e attrice Judy Garland a Londra. Renée Zellweger dà respiro ad un film d'ispirazione teatrale con un'interpretazione da brividi, che non verrà dimenticata. Regia di Rupert Goold con Renée Zellweger, Finn Wittrock, Jessie Buckley, Rufus Sewell, Michael Gambon, Bella Ramsey, John Dagleish, Gemma-Leah Devereux, Andy Nyman, Durata 118 minuti - Gran Bretagna 2019

Nell'ultimo periodo della sua vita, Judy Garland è ancora un nome che suscita ammirazione e il ricordo di un'età dell'oro del cinema americano, ma è anche sola, divorziata quattro volte, senza più la voce di una volta, senza un soldo e senza un contratto, perché ritenuta inaffidabile e dunque non assicurabile. Per amore dei figli più piccoli, è costretta ad accettare una tournée canora a Londra, ma il ritorno sul palco risveglia anche i fantasmi che la perseguitano da sempre. ''Il Mago di Oz'' fu il capolavoro dell'era degli Studios, un film in un certo senso senza regista (ne ebbe quattro), in cui ogni reparto lavorava alacremente sotto la guida di Louis B. Mayer e tutto era fatto ad arte e tutto era artefatto. La stessa Judy Garland divenne una creatura della MGM, che la portò al successo mondiale, le tolse il sonno, l'appetito e le impose una dieta a base di sonniferi e antidepressivi che non fu mai in grado di abbandonare. Il biopic di Rupert Goold, già regista di un dramma sul furto d'identità ('True Story'), e l'interpretazione, straziante, di Renée Zellweger, sono qui per dire che dietro le torte di compleanno di plastica, dietro gli abiti di scena e le regole della finzione, c'era una donna che ha sofferto veramente, che ha amato lo show business come un genitore, cercando il suo applauso prima di ogni cosa, e da esso è stata divorata. Naturalmente Judy Garland non è stata solo Dorothy Gale, ma la ragazzina del Kansas che cantava il suo sogno appoggiata allo steccato è diventata un'icona immortale e la Zellweger mette i brividi, tirata e ingobbita, per come riesce a replicare il suono della sua voce nel parlato, mentre il copione si muove avanti e indietro tra il '39 e il '69, rinnegando tutto il resto per concentrarsi sull'inizio e la fine, il patto col diavolo e il momento in cui questo ha cominciato a chiedere il conto. "There's no place like home", sentenziava Dorothy alla fine della sua avventura in technicolor. E 'Judy' ribadisce il concetto, da una prospettiva più drammatica e terminale. L'attrice non ha una casa, né i soldi per pagarla; perciò è costretta a esibirsi per denaro, lontana dai figli, facendo "famiglia" con chi le concede un po' di tempo e di compagnia disinteressata. Più della figura di Rosalyn Wilder, che si occupò della star durante la tournée londinese al The Talk of the Town e la cui consulenza è stata preziosa in sede di scrittura del film, ma che sullo schermo non ha ruolo che superi più di tanto la sua funzione, convince, in questo senso, l'incontro con la coppia di fan inglesi, l'approdo notturno nella loro cucina e le lacrime al pianoforte: il miglior surrogato di calore domestico che la diva potesse trovare. Sebbene non aggiunga nulla a quanto già noto, e denunci abbastanza apertamente la sua ispirazione teatrale, 'Judy' è il ritratto riuscito di un dramma esistenziale, che sposa e regge un registro difficile com'è quello del "compassionevole" al cinema, senza cercare a tutti i costi l'equilibrio con la commedia, ma lasciando che essa si affacci solo tra le righe, amarissima, grazie alle straordinarie doti da animale da palcoscenico di Judy Garland e, in questo caso, di Renée Zellweger. 3889 - 1917 GUERRA Il film è ambientato nel 1917, durante la prima Guerra Mondiale. Un piano-sequenza eroico che sposta più in là il fronte della Grande Guerra al cinema. Regia di Sam Mendes con Dean-Charles Chapman, Daniel Mays, George MacKay, Adrian Scarborough, Nabhaan Rizwan, Jamie Parker, Richard Madden, Benedict Cumberbatch, Colin Firth, Andrew Scott. durata 110 minuti - Gran Bretagna 2019.

6 aprile, 1917. Blake e Schofield, giovani caporali britannici, ricevono un ordine di missione suicida: dovranno attraversare le linee nemiche e consegnare un messaggio cruciale che potrebbe salvare la vita di 1600 uomini sul punto di attaccare l'esercito tedesco. Per Blake l'ordine da trasmettere assume un carattere personale perché suo fratello fa parte di quei 1600 soldati che devono lanciare l'offensiva. Il loro sentiero della gloria si avventura su un terreno accidentato, no man's land, trincee vuote, fattorie disabitate, città sventrate, per impedire una battaglia e percorrere più in fretta il tempo che li separa dal 1918. La Grande Guerra comincia come 'guerra di movimento' ma finisce per diventare una 'guerra di posizione'. Diversamente dalla Seconda Guerra Mondiale, con i suoi fronti mobili e i suoi teatri d'operazioni sparsi su tutto il pianeta, che offrono al cinema materia prima per lo spettacolo, il primo conflitto mondiale è una guerra di attesa, di impotenza degli uomini a superare le barriere difensive scavate dal nemico. La sfida di Sam Mendes, che aveva già restituito brio formale e respiro narrativo a James Bond ('Skyfall', 'Spectre'), è quella di disattivare l'inerzia e avviare il motore di un conflitto affatto cinegenico. Una guerra terribilmente lunga con l'anchilosi letale dei suoi combattimenti e le sue ragioni astruse contro l'allegorico confronto tra bene e male della Seconda Guerra Mondiale. La missione è ad alto rischio ma Mendes sormonta gli ostacoli, adatta alla Prima Guerra Mondiale i codici del conflitto successivo e lancia due giovani soldati in una corsa contro il tempo e dentro un torrente visivo. La loro odissea è raccontata 'in tempo reale' con un solo vero-falso piano sequenza: 'da un albero all'altro' senza tagli né raccordi apparenti, a eccezione di discrete suture digitali e un'unica ellissi 'su nero' che permette di passare dal giorno alla notte. La macchina da presa resta ostinatamente incollata a due 'militi ignoti' affondati nel décor spettrale del fronte. Si tratta evidentemente di un'illusione, ai nostri serviranno ventiquattro ore per arrivare alla fine della loro missione e '1917' non dura che due ore. La camera diventa lo sguardo dello spettatore che può montare il suo film, zoomare, attardarsi su un dettaglio, ma non può mai lasciare Blake e Schofield. Lo spettatore diventa il terzo compagno, scruta ogni pericolo, abbassa la guardia, diventa bersaglio vulnerabile, vive '1917' come un'esperienza di immersione totale. La sceneggiatura di una semplicità disarmante, portare un messaggio urgente all'unità di stanza a Écoust-Saint-Mein per impedirne il massacro, è trattata con prodezza stilistica, un impressionante tour de force tecnico, che accelera le emozioni catturando senza sconti il calvario quotidiano vissuto al fronte. Mai esercizio di stile o oggetto freddo di fascinazione, la fluidità della camera serve l'urgenza della missione sprofondata nel fango, che impasta col sangue gli scarponi, le uniformi, i cadaveri, i crateri spalancati dai mortai. Corpi in decomposizione, ratti, vegetazione spezzata, animali assassinati, tutta la disumanità della guerra è davanti a noi. I due messaggeri avanzano metro per metro in un giorno di primavera, in un giorno senza sole, fino alla fine della notte e dell'orrore. Agiti dal comandamento del titolo imperioso di Steven Spielberg (''Salvate il soldato Ryan''), è necessario salvare questa volta migliaia di vite ma il film ne individua una su tutte: il fratello di Blake. Come per il film di Spielberg si tratta di una guerra teorica: la traversata di un décor rurale, straordinario e aperto a tutti i colpi del caso, rivela un paesaggio mentale. Perché Mendes piazza l'essere umano al cuore (com)battente del film in cui due uomini si scoprono intimamente legati, nutrendosi l'uno dell'altro. La 'sequenza eroica' si concentra sulla caratterizzazione progressiva di due corpi eroici, non 'gloriosi', che risalgono fossi di topi affamati e cadaveri senza più fame. Vettori coscienti o incoscienti della Storia, Blake e Schofield sono coerentemente interpretati da due attori quasi sconosciuti: George MacKay (Schofield), introverso romantico dai larghi occhi chiari, e Dean-Charles Chapman (Blake), adolescente attardato rivelato da 'Games of Thrones'. A guidarli all'assalto questa volta non c'è il capitano di Tom Hanks, i soli attori 'graduati' (Colin Firth, Mark Strong, Benedict Cumberbatch, Andrew Scott) sono assegnati al ruolo secondario di chi dà gli ordini, indifferenti alle sorti dei due caporali. Due ragazzi ordinari ma tenaci che sembrano usciti dalla ballata di Fabrizio De André ("La guerra di Piero"), perché sovente nel film-flusso di Mendes il lirismo ha improvvisamente ragione del reale. "Portato in braccio dalla corrente", Schofield marcia "con l'anima in spalla" da un punto A a un punto B, da un albero all'altro, per impedire una battaglia, almeno fino alla prossima. Se ''Jarhead'' era un film di 'non-guerra', un racconto di attesa febbrile nutrita dall'impazienza dei militari della Guerra del Golfo, '1917' è un film contro la guerra, che 'riposa' sul dispiegamento di silenzi e di momenti di sospensione. Sempre ad altezza d'uomo, sempre focalizzato sull'emozione, giusta, pura, cruda. Nel 2017 ''Dunkirk'' rivoluzionava il film sulla Seconda Guerra Mondiale, tre anni dopo Sam Mendes sposta più in là la linea del fronte della Prima. Finalmente 'qualcosa di nuovo sul fronte occidentale' dove riposano gli eroi 'ignoti' della Grande Guerra. 3888 TUTTO IL MIO FOLLE AMORE DRAMMATICO Salvatores ritrova le sue radici e si reinventa in un road movie potente, girato con grazia ed empatia, felicemente a briglia sciolta. Vincent ha 16 anni e un grave disturbo della personalità. Will è suo padre, ma lo ha abbandonato prima della nascita. La vita li porterà a condividere un viaggio in cui avranno modo di scoprirsi a vicenda.

Regia di Gabriele Salvatores con Claudio Santamaria, Valeria Golino, , Giulio Pranno, Daniel Vivian, Marusa Majer, Tania Garribba, Maria Gnecchi. durata 97 minuti - Italia 2019.

Trieste. Vincent ha 16 anni e un grave disturbo della personalità, con il quale sua madre Elena si confronta da sempre. Col tempo ad aiutare Elena nell'impresa è sopraggiunto suo marito Mario, che ha imparato a voler bene a Vincent come ad un figlio e l'ha adottato legalmente. Ma quando sulla scena irrompe Willi, il padre naturale del ragazzo che ha abbandonato lui ed Elena alla notizia della gravidanza, quel poco di equilibrio che si era instaurato con un figlio gestibile a stento si rompe, e Vincent trova la via di fuga che cercava: si infila nel furgone di Willi, cantante da matrimoni e da balere soprannominato "il Modugno della Dalmazia", ora diretto verso una tournée nei Balcani. 'Tutto il mio folle amore' prende il titolo da un verso della canzone di Domenico Modugno "Cosa sono le nuvole", a sua volta titolo dell'episodio di ''Capriccio all'italiana'' diretto da Pier Paolo Pasolini. Anche qui i protagonisti sono marionette del destino: Willi, Elena e Mario vengono infatti manovrati da Vincent che li trascina in un'avventura picaresca tra Slovenia e Croazia, impedendo loro di adagiarsi su una quotidianità fino a quel momento accettata come immutabile. Per Gabriele Salvatores si tratta di un ritorno al 'road movie', suo genere del cuore, e del recupero di una libertà espressiva che, come in passato, prende la forma del viaggio iniziatico. 'Tutto il mio folle amore' nasce dal romanzo "Se ti abbraccio non aver paura" di Fulvio Ervas, che a sua volta nasceva dalla storia vera di un padre e il suo figlio autistico in viaggio attraverso le Americhe. Nel film di Salvatores l'America è molto più vicina e la malattia di Vincent non ha nome, ma comporta momenti imbarazzanti, sbalzi di umore, entusiasmi incontenibili e brusche frenate: non solo da parte del ragazzo ma anche di un padre che non ha mai voluto (o saputo) diventare adulto. Willi è "strano" tanto quanto Vincent, e a ben guardare è "strana" anche Elena, da cui il figlio ha ereditato non soltanto il bel viso. L'unico "normale" sembra essere Mario che però, con la sua concretezza meneghina, è ben cosciente che la "stranezza" arricchisce la sua vita altrimenti monotona, anche perché per mestiere - fa l'editore letterario - è sempre in cerca di un'originalità autentica nel raccontarsi. Il viaggio di Vincent e Willi, e quello di Elena e Mario che li inseguono, va a demolire abitudini e preconcetti e apre la via a nuove geometrie affettive ed esistenziali. Con l'aiuto degli sceneggiatori Umberto Contarello e Sara Mosetti (che sospettiamo essere responsabile per la geniale virata finale del personaggio di Elena) Salvatores racconta questa "fuga in avanti" con grazia ed empatia, e le cadute nello stucchevole (che pure non mancano) sono compensate dalla cifra surreale del racconto e dal genuino entusiasmo di un regista che, alle soglie dei 70 anni, ritrova le sue radici cinematografiche e si reinventa, lasciandosi anche lui trascinare dalla fame di vita di Vincent. La professionalità di Salvatores si mette dunque a servizio dell'imprevedibilità del suo protagonista e lascia posto alle sorprese all'interno di un quadro tecnicamente ipercontrollato. 'Tutto il mio folle amore' non avrebbe potuto funzionare se non avesse funzionato il personaggio di Vincent, così convincente che ci si domanda se Giulio Pranno che lo incarna sia veramente disabile. E invece Pranno è un bravo attore al suo primo ruolo cinematografico, dotato di notevole carisma personale: spesso ricorda Leonardo DiCaprio nei panni di Arnie in ''Buon compleanno Mr. Grape''. Il trio di professionisti affermati che lo circonda fa generosamente da sponda alla sua energia vitale: Claudio Santamaria presta a Willi la sua fragilità e malinconia (e interpreta benissimo Modugno), Valeria Golino tira fuori la sua componente anarchica e inquieta, e Diego Abatantuono è garanzia di sollievo comico (e buon senso). Il resto lo fa una squadra di altissimo livello: Italo Petriccione alla fotografia, Massimo Fiocchi al montaggio e soprattutto Mauro Pagani, che abbina musiche originali bellissime ad una compilation godibile (benché un po' piaciona). Ma quello che lo spettatore può portare a casa dopo la visione del film è la sensazione profonda di aver assistito a qualcosa di potente sfuggito al controllo razionale di Salvatores: quel cavallo pazzo che scalpita sotto la superficie composta delle immagini e che nemmeno il regista riesce a tenere a freno - dunque non può fare altro che allentare le briglia, con la gioia di farlo, finalmente 3887 – TED BUNDY – fascino criminale DRAMMATICO/THRILLER/BIOGRAFICO Cast carismatico e lussuoso per un film che risente dei limiti produttivi e non sfugge a un'atmosfera televisiva. Autore di più di trenta omicidi, Ted Bundy è uno dei più famosi serial killer della storia americana. Il film racconta la sua storia dal punto di vista della fidanzata. Regia di Joe Berlinger con Zac Efron, Lily Collins, John Malkovich, Kaya Scodelario, Haley Joel Osment, Jim Parsons, Jeffrey Donovan. durata 110 minuti. Produzione USA 2019.

Elizabeth Kloepfer, con il volto segnato e qualche capello bianco, si reca in carcere per un incontro chiaramente cruciale con Ted Bundy, il serial killer con cui ha vissuto una storia d'amore. Si torna quindi indietro nel tempo alla sua giovinezza, negli anni 70, quando la loro relazione è iniziata come tante in un bar, vicino a un juke box. Il fascino di Ted è evidente, ma Elizabeth inizia a sentire che c'è anche qualcosa di strano nel suo comportamento ed è particolarmente turbata quando la Tv diffonde notizie sull'omicidio di alcune ragazze. Anche dopo essere stato arrestato e assediato da accuse in vari Stati, Ted continua a dichiarare la propria innocenza, fino a difendersi in prima persona in uno dei primi processi spettacolo americani, ripreso dalle telecamere nello stato della Florida. Tratto dal libro di memorie di Elizabeth Kloepfer (firmato sotto il cognome d'arte Kendall), 'Ted Bundy - Fascino criminale' è soprattutto una vetrina per Zac Efron in una parte drammatica e biografica che contiene charme e orrore. Purtroppo il film, anche per povertà di mezzi, non riesce ad andare oltre e in particolare il ruolo di Elizabeth è sacrificato a un colpo di scena. Raccontata per la quasi interezza della durata come una vittima del fascino di Bundy, da cui sembra dipendente come fosse una potente droga, Elizabeth interpretata da Lily Collins ha avuto in realtà un ruolo cruciale nella cattura dell'assassino, ma in 'Ted Bundy' si preferisce nascondere le carte e tenere la rivelazione per un colpo a effetto, che però si esaurisce negli ultimi minuti del film e rende il suo personaggio piuttosto incoerente. Soprattutto considerato che il suo rapporto con le forze dell'ordine è stato ben più collaborativo di quanto non si veda nel film, che la vuole al contempo vittima e poi improvvisamente femme fatale in un'ambiguità poco produttiva. Sarebbe stato al contrario molto più interessante raccontare la duplicità delle sue azioni e la conseguente tensione nel cappa e spada con Ted, invece rimane lui il protagonista indiscusso relegando Elizabeth ai margini della storia. Anche la scelta di far interpretare Ted da Zac Efron, che pur fa del suo meglio soprattutto nel continuare a dichiararsi innocente, non rende giustizia a una fascinazione per il personaggio che era dovuta al suo carisma e alla sua oscurità molto più che alla sua bellezza. Bundy non era un brutto uomo ma non era neppure un adone, eppure le numerose donne che accorsero ad assistere al processo, così come quelle che gli scrivevano offrendogli il loro amore, erano irresistibilmente attratte da lui per ragioni che trascendevano la bellezza, che rimane invece il punto di forza saliente dell'ex divetto Efron. L'atteggiamento eccentrico e irriverente di Ted verso la giustizia, con tanto di sfida in diretta allo sceriffo che l'ha accusato in Florida e con il memorabile matrimonio in aula, è invece ricreato impeccabilmente, come dimostrano sui titoli di coda le vere riprese con Bundy, identiche in tutto a per tutto alla messa in scena cui si assiste nel film. Una fedeltà che non dovrebbe stupire visto si tratta della seconda opera di finzione - dopo il dimenticabilissimo sequel di 'The Blair Witch Project' nel 2002 - per il regista Joe Berlinger, che ha una lunga carriera nel documentario con diverse opere dedicate a crimini reali tra cui, buona ultima, proprio la miniserie 'Conversazioni con un killer: Il caso Bundy' (disponibile in Italia su Netflix). Purtroppo il film risente dei limiti produttivi che ne fanno una sorta di Tv Movie, lussuoso nel cast ma povero nella ricostruzione storica, dove gli esterni solo limitati a una manciata di scene e gli interni ridotti a pochi e contenuti ambienti. Bundy finisce presto confinato in un lungo percorso giudiziario e, anche se è protagonista di un paio di evasioni, vediamo poco o nulla dei suoi momenti di libertà. In parte perché il film non vuole dare spazio all'orrore dei suoi omicidi, i cui i dettagli più raccapriccianti sono velocemente raccontati in una scena sul finale e solo relativamente ai suoi crimini in Florida, mentre altre pratiche aberranti, come la necrofilia, sono del tutto omesse. Non basta però questa scelta di campo a giustificare l'assenza di una maggiore ariosità, per esempio una fuga di giorni nei boschi non aveva nulla a che fare con gli omicidi ma viene comunque liquidata in un'ellisse, così come la sua storia d'amore con Elizabeth ha luogo quasi sempre tra le mura domestiche di lei. Oltre a Efron e Collins il cast vanta ruoli per Jim Parsons ('The Big Bang Theory') nei panni di un avvocato dell'accusa, Haley Joel Osment (l'ormai cresciuto bambino di 'Il sesto senso' e 'A.I. - Intelligenza artificiale') in quelli di un timido e pacioso collega innamorato di Elizabeth e infine John Malkovich nelle vesti del giudice del processo di Bundy in Florida. Il titolo originale del film, ossia "estremamente malvagio, di cattiveria e viltà scioccanti", è uno stralcio della sua sentenza di condanna dell'assassino. Ma per quanto il cast ci metta carisma, il film non sfugge a un'atmosfera televisiva, non a caso in America è passato per un paio di festival ma poi non è uscito in sala ed è invece finito direttamente in streaming. 3886 – FIGLI COMMEDIA DRAMMATICA La quotidiana lotta per la sopravvivenza delle coppie con figli in un'Italia, e un'epoca, dove tutto sembra remare contro. Il film è tratto dal monologo recitato Valerio Mastandrea e scritto da Mattia Torre "I figli ti invecchiano". Regia di Giuseppe Bonito con Valerio Mastandrea, Paola Cortellesi, Stefano Fresi, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Andrea Sartoretti, Massimo De Lorenzo durata 97 minuti – Italia 2020 Nicola e Sara hanno scoperto a loro spese uno dei segreti meglio custoditi della contemporaneità: fare il secondo figlio, nell'Italia della natalità zero e della precarietà come regola di vita, rischia di innescare una bomba ad orologeria, e aprire il varco ad una serie di incognite spesso difficili da gestire. La relazione fra Nicola e Sara, teoricamente imperniata su una divisione dei compiti 50/50, fa sentire ognuno di loro non riconosciuto nei suoi sforzi e gravato dal 200% delle incombenze familiari. Che fare allora quando tutto quello che vorresti è saltare fuori dalla finestra di casa tua e abbandonare il campo? Quasi vent'anni dopo ''Casomai'' di Alessandro D'Alatri, Mattia Torre prova a fare i conti con uno dei grandi problemi del presente, del quale il cinema parla pochissimo: la quotidiana lotta per la sopravvivenza delle coppie (relativamente) giovani in una nazione dove sembra che tutto cospiri contro il nucleo famigliare. Il duplice obiettivo è quello di far uscire dall'isolamento queste coppie in trincea, che probabilmente si ritengono le uniche a non farcela a gestire la propria quotidianità, a maggior ragione quando arrivano i figli, e di denunciare la mancanza di empatia e di sostegno dello Stato e delle istituzioni nei loro confronti. Invece di essere aiutati Nicola e Sara sono infatti tempestati dalle cartelle esattoriali e si vedono rispondere dai loro genitori, quella generazione ex sessantottina che "si è mangiata tutto", che loro sono la maggioranza demografica che detiene il potere decisionale e i cordoni della borsa. E il tallone d'Achille di Nicola e Sara sembra essere proprio quello di "credere ancora in questo Paese" che non sembra accorgersi delle loro difficoltà. Come sempre Torre, qui purtroppo alla sua ultima sceneggiatura, mette il dito sulla piaga e racconta la contemporaneità e la sua generazione con una precisione e un'attenzione ai dettagli (fantastico quello sulla ferocia che si innesca al terzo passaggio di fazzoletto sulla bocca di un bambino) che raccontano la cura dell'autore e rendono riconoscibile ogni svolta narrativa. Il regista Giuseppe Bonito prende in mano la sceneggiatura con rispetto e applica alcuni stratagemmi visivi già usati da Torre nell'adattamento televisivo del suo ''La linea verticale'': ad esempio calare i suoi personaggi dentro un panorama bianco latte che ne delinea la sensazione di isolamento cosmico. E i tanti amici di Torre appaiono in cammei anche brevissimi, mostrando un sostegno non solo professionale al progetto. Quello che manca, nella regia di Bonito, è il "ritmo laconico", letterariamente e letteralmente al passo coi tempi, che Torre sapeva imprimere alle scene da lui immaginate, e che aveva trovato in Valerio Mastandrea, qui nel ruolo di Nicola, l'interprete perfetto. Quella laconicità costituiva una sorta di paradossale 'comic relief', mentre in 'Figli' il dramma prende il sopravvento sull'ironia: dunque il film finisce per assomigliare più a ''Storia di un matrimonio'' che a una riflessione ironica sull'essere genitori, e perde quell'energia narrativa che ha reso eccezionalmente efficace il monologo "I figli ti invecchiano", interpretato a teatro dallo stesso Mastandrea, all'origine di questo film. La disarmonia con il proprio Paese, la disparità percepita nei rispettivi compiti, la discordia permanente che ne deriva - tutti i "dis" della contemporaneità - necessitano della capacità di Torre di scadenzare con il suo ritmo anomalo il suo pensiero: una capacità che purtroppo non ammireremo più. E il passaggio finale di 'Figli' sulla necessità di accettare la realtà prima di accingerci a cambiarla ci dà dolorosamente la misura della consapevolezza con cui l'autore ha saputo accogliere il suo destino e trasformarlo in arte. 3885 – ODIO L’ESTATE COMMEDIA Il trio torna a ciò che sa fare meglio: raccontare con sponta- neità una rassicurante e affettuosa amicizia. Aldo Giovanni e Giacomo ci raccontano una storia di amicizia e sentimenti come nella loro tradizione cinematografica più amata. Regia di Massimo Venier con Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti, Maria Di Biase, Lucia Mascino, Carlotta Natoli, Michele Placido, Massimo Ranieri, Davide Calgaro, Ilary Marzo. durata 110 minuti - Italia 2020.

Aldo si dice pieno di acciacchi e delega alla moglie Carmen qualsiasi incombenza domestica - ma non le fa mancare attenzioni dove conta. Il figlio maggiore Salvo è in "libertà vigilata" dopo aver rubato un motorino e le due gemelle Ilary e Melissa completano la rumorosa tribù familiare. Giovanni ha ereditato dal padre un negozio di articoli per calzature che ha fatto il suo tempo, come gli fanno notare la pragmatica moglie Paola e l'altrettanto pragmatica figlia Alessia. Giacomo è un dentista che pensa solo al lavoro mentre la moglie Barbara fuma a catena e si isola dal mondo, e il figliastro Ludovico è in piena fase di ribellione preadolescenziale. A causa di un errore di booking le tre famiglie si ritrovano a condividere una casa al mare e scopriranno le loro affinità affettive, se non proprio elettive, perché "l'isola è bella, la casa è grande, e l'estate è breve". Aldo, Giovanni e Giacomo tornano a fare ciò che riesce loro meglio: raccontare l'amicizia che li lega da decenni attraverso una storia semplice che attinge alle loro esperienze personali. "Sono fatti così", come dice la canzone che li accompagna, e seguire le loro avventure è fare una passeggiata verso casa con i compagni di sempre di cui conosciamo vizi e virtù, debolezze e tormentoni. Questa volta si aggiungono alla storia (scritta dal trio con lo storico regista Massimo Venier, finita la pausa dopo ''Tu la conosci Claudia?'', e gli ottimi Davide Lantieri e Michele Pellegrini) alcuni elementi di contemporaneità che rendono i loro personaggi riconoscibili non solo nei manierismi cui ci hanno abituati, ma anche nelle preoccupazioni della nostra epoca: un'attività di famiglia che chiude, un figlio sempre attaccato all'IPad, una società in cui le regole sono inesplicabilmente a volte ferree, a volte flessibili. Il trio si trova a negoziare continuamente la sua posizione nel mondo e in un immaginario cinematografico talmente consolidato da apparire vintage: la partitella in spiaggia, le schitarrate di sottofondo (la musica è di Brunori Sas ma ci sono anche Bruno Martino e Vinicio Capossela), le trasferte in macchina in quell'Italia estiva che si snoda lungo l'autostrada come grande equalizzatore, inseguendo una geografia impossibile. L'estate è breve e Aldo, Giovanni e Giacomo ne sono ben coscienti: hanno chiare le priorità, più chiare che nei loro ultimi film, ovvero condividere con il pubblico quella chimica spontanea e affettuosa che include e rassicura. Senza dimenticare la vena di malinconia e dolcezza che ha sempre caratterizzato la loro comicità. Al loro fianco hanno scelto le attrici giuste: Lucia Mascino, Carlotta Natoli e soprattutto l'irresistibile Maria Di Biase, l'unica a poter tenere testa all'amabilità mediterranea di Aldo Baglio. Anche i ragazzi sono selezionati, soprattutto Edoardo Vaino nei panni di Ludovico, e dotati di dialoghi credibili: la malmostosità preadolescente di Ludovico ad esempio è centrata in pieno. Michele Placido ha un ruolo delizioso che fa leva sui suoi impeccabili tempi comici, Roberto Citran è protagonista di una digressione narrativa davvero ben scritta e recitata. Nessuno in questo film è stupido o demenziale, pur nell'esagerazione comica, nessuno è troppo lontano dal vero, dal doloroso e dall'umanamente fragile. Peccato per la svolta finale che, più che un colpo di scena, è un colpo basso. Fino a quel momento 'Odio l'estate' è un antidoto agli squallori del presente, un inno alla solidarietà senza derive buoniste, una coperta di Linus per chi, oggi, sta cominciando a sentire davvero freddo. 3884 – SORRY WE MISSED YOU DRAMMATICO Dopo il successo di 'Io, Daniel Blake', il regista torna dietro la macchina da presa per raccontare lo sfruttamento del lavoro nel Regno Unito. Un film partecipe e accurato che ci impone il confronto con la realtà dei precari, dei più deboli, dei nuovi schiavi. Regia di Ken Loach con Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor, Ross Brewster, Charlie Richmond. durata 100 minuti - Gran Bretagna, Francia, Belgio 2019 Ricky, Abby e i loro due figli, l'undicenne Liza Jane e il liceale Sebastian, vivono a Newcastle e sono una famiglia unita. Ricky è stato occupato in diversi mestieri mentre Abby fa assistenza domiciliare a persone anziane e disabili. Nonostante lavorino duro entrambi si rendono conto che non potranno mai avere una casa di loro proprietà. Giunge allora quella che Ricky vede come l'occasione per realizzare i sogni familiari. Se Abby vende la sua auto sarà possibile acquistare un furgone che permetta a lui di diventare un trasportatore freelance con un sensibile incremento nei guadagni. Non tutto però è come sembra. Verso la fine dei titoli di coda si leggono queste parole: "Grazie a tutti quei trasportatori che ci hanno fornito informazioni sul loro lavoro ma non hanno voluto che i loro nomi comparissero". In questa breve frase è sintetizzata la modalità di lavoro di Ken Loach (e del suo sceneggiatore doc Paul Laverty): costruire una storia solida sul piano cinematografico senza mai dimenticare la realtà. Quella ritratta da Ken Loach è una realtà formata da persone che nel non voler comparire denunciano implicitamente la condizione di precarietà in cui operano. Ci sarà probabilmente chi affermerà che siamo di fronte all'ennesimo comizio di un regista che non ha mai nascosto da quale parte batte il suo cuore. Bene, se questo è un comizio lo erano anche, sul piano letterario, "I miserabili" di Victor Hugo o l'"Oliver Twist" di Charles Dickens (solo per fare un esempio). Loach non scrive romanzi, dirige film ma lo fa con la stessa passione e anche, perché no, con la stessa forma di indignazione. Non si tratta mai con lui di pauperismo, di commiserazione e tantomeno di populismo. A un certo punto del film c'è una reazione verbale da parte di uno dei protagonisti che, se non fosse che al cinema ci si comporta diversamente che a teatro, spingerebbe all'applauso. In quel momento ti accorgi di come Loach abbia saputo leggere non solo nella psicologia dei personaggi (che nel suo cinema sono sempre 'persone') ma pure in quella dello spettatore. Anche sul piano più strettamente cinematografico il suo si presenta come un lavoro tanto partecipe quanto accurato. L'apparente semplicità del suo modo di riprendere richiede un gran lavoro con gli interpreti e fa costantemente leva sulle sue doti di documentarista capace di trasferire la realtà nel cinema di finzione. Si osservino i dialoghi a tavola in famiglia e ci si accorgerà di come vengano portati sullo schermo con la naturalezza di una candid camera. Perché Loach ad ogni film ci chiede non solo di guardare quanto accade seduti sulla nostra comoda poltrona ma di condividere i disagi e le problematiche che ci propone. Ci chiede di confrontarci con quella 'normalità' feroce che oggi, come ai tempi della rivoluzione industriale ma con più sofisticata e globalizzata malizia, il dio mercato impone. Abby, Ricky, Seb e Liza Jane non sono supereroi, non hanno nulla di straordinario nelle loro vite. Sono semplicemente una famiglia, con le proprie difficoltà e con una unità che si vorrebbe far vacillare. Al di là dei proclami retrogradi o interessati di cui la parola 'famiglia' viene sempre più spesso fatta oggetto Ken Loach ci ricorda che elemento imprescindibile della sua coesione è, oggi più che mai, la dignità del lavoro che troppo spesso viene sistematicamente conculcata. La schiavitù non è stata abolita. Ha solo cambiato nome. Ken e con lui (in tutt'altro ruolo) Francesco non smettono di ricordarcelo. 3883 – CENA CON DELITTO – KNIVES OUT COMMEDIA THRILLER Daniel Craig deve affrontare il caso di un misterioso omicidio da risolvere. Un cast d'eccezione per un thriller divertito e divertente, che gira a meraviglia come i gialli di una volta. Regia di Rian Johnson con Daniel Craig, Chris Evans, Lakeith Stanfield, Ana de Armas, , Jamie Lee Curtis, Toni Collette, Katherine Langford, Riki Lindhome, Christopher Plummer. Durata 131 minuti - USA 2019 Harlan Thrombey, romanziere, editore e carismatico patriarca di una bizzarra famiglia allargata, è morto. Scoperto dalla giovane cameriera Marta la mattina dopo un'imponente festa di compleanno per i suoi 85 anni, il cadavere eccellente ha la gola tagliata ma sembra essere il frutto di un suicidio. La lussuosa villa di campagna di Thrombey vede l'arrivo di due ispettori di polizia, dell'investigatore privato Benoit Blanc, e dei familiari del ricco imprenditore, guidati dai figli Linda e Walter e dalla nuora Joni. Con un'eredità che fa gola a ognuno di loro, e con un'indagine che gratta sotto la superficie degli eventi, la costernazione lascia velocemente il posto al sotterfugio e al pregiudizio. C'è una profonda voglia di divertimento alla base di 'Cena con Delitto', rivisitazione di un giallo vecchio stampo alla Agatha Christie in cui il filo del godimento sfacciato parte dal marketing del film, passa per il gioco corale di un cast d'eccezione, e arriva fino all'intento iniziale del regista Rian Johnson. Triturato dal macchinario dell'intrattenimento globale per non essere andato troppo sul sicuro con il suo 'Star Wars: Episodio VIII - Gli ultimi Jedi', Johnson trova in Cena con Delitto l'occasione di divertirsi in modo sicuro e circoscritto, aggiornando al presente un genere dallo spirito demodé come il murder mystery. Teletrasportandosi nel passato, non per uccidere se stesso come in 'Looper', ma per inseguire la gioia degli esordi che lo portava a sperimentare con le regole del racconto, Johnson va ad abitare con profitto "in un tabellone di Cluedo" come del resto fa il buon Christopher Plummer, che vuole essere al tempo stesso un padre attento e un narratore birichino, esercitando in entrambi i casi un controllo assoluto sulla storia sua e degli altri. Ciò che rotola fuori dalla scatola del gioco da tavolo non cambia mai: in questo caso una villa isolata piena di trucchi, un delitto, un detective e un gruppo di sospettati che si accusa a vicenda. Un Daniel Craig dal sinuoso accento del sud guida le danze nella grande tradizione degli indagatori cinematografici che sgonfiano il proprio genio con un po' di goffaggine, mentre al suo fianco la sincerità normale e senza rigurgiti di Ana de Armas è la vera protagonista. E se lo spazio dato al suo personaggio sembra tradire la promessa iniziale di mettere al centro della scena la celebrità e il virtuosismo del resto del cast, tale è proprio il commento "meta" di Rian Johnson, che spinge via il privilegio della vecchia America bianca in favore della ragazza di famiglia immigrata. Più di un semplice omaggio progressista, il livore un po' sprecato dei vari Jamie Lee Curtis, Michael Shannon e Toni Collette è significativo all'interno di un genere da sempre inscindibile dalla sua venatura upper-class. Johnson la interroga da una prospettiva contemporanea, ma senza rompere l'incantesimo di un colpo di scena rivelato davanti al camino. A differenza del quasi omonimo (nel titolo italiano) ''Invito a cena con delitto'', che nel 1976 seppelliva nell'assurdo sia un cadavere che il filone stesso, l'allegra banda di ipocriti che si riunisce a casa Thrombey dà vita a un intrigo autentico che funziona proprio come quelli di una volta. 3882 – L’UFFICIALE E LA SPIA COMMEDIA THRILLER Il famoso caso Dreyfus che sconvolse l'opinione pubblica francese alla fine del XIX secolo. Un'opera dall'impianto classico che trova la via del grande schermo in un momento storicamente giusto. Regia di Roman Polanski con Emmanuelle Seigner, Jean Dujardin, Louis Garrel, Mathieu Amalric, Melvil Poupaud. Durata 126 minuti - USA 2019. Gennaio del 1895, pochi mesi prima che i fratelli Lumière diano vita a quello che convenzionalmente chiamiamo Cinema, nel cortile dell'École Militaire di Parigi, Georges Picquart, un ufficiale dell'esercito francese, presenzia alla pubblica condanna e all'umiliante degradazione inflitta ad Alfred Dreyfus, un capitano ebreo, accusato di essere stato un informatore dei nemici tedeschi. Al disonore segue l'esilio e la sentenza condanna il traditore ad essere confinato sull'isola del Diavolo, nella Guyana francese. Il caso sembra archiviato. Picquart guadagna la promozione a capo della Sezione di statistica, la stessa unità del controspionaggio militare che aveva montato le accuse contro Dreyfus. Ed è allora che si accorge che il passaggio di informazioni al nemico non si è ancora arrestato. Da uomo d'onore quale è si pone la giusta domanda: Dreyfus è davvero colpevole? Roman Polanski mette le sue doti di Maestro del Cinema al servizio di una vicenda che, in tempi come quelli presenti, merita una rivisitazione. Il cinema se ne era già occupato in passato. Sia con 'Emilio Zola' di William Dieterle nel 1937 (film che colpì il giovanissimo Roman) e, successivamente, con 'L'affare Dreyfus' di José Ferrer del 1957.Il film purtroppo ha innescato diverse polemiche scaturite dall'intervista che il regista ha rilasciato per il pressbook che ha accompagnato il film alla 76.ma Mostra del Cinema di Venezia. In quelle dichiarazioni Polanski dice di aver potuto comprendere meglio la storia che stava portando sullo schermo a causa delle accuse false che gli vengono periodicamente lanciate. Questo ha provocato reazioni di diversa natura che hanno rischiato di offuscare il valore intrinseco del film. Perché 'L'Ufficiale e la Spia' si colloca nella categoria delle opere di impianto classico che trovano la via del grande schermo nel momento storicamente giusto. È sicuramente vero che il regista e il suo co- sceneggiatore Robert Harris lavorano da anni su questa idea ma è ora che è indispensabile mostrare, con un film capace di arrivare al grande pubblico, come il Potere sia in grado di costruire falsificazioni capaci di resistere a lungo e di sconvolgere vite. Viviamo in tempi in cui la memoria collettiva è quotidianamente insidiata da una valanga di news tra cui è sempre più difficile distinguere le vere dalle fake. Attraverso la persona di Picquart (magistralmente interpretato da Dujardin) Polanski ci ricorda come siano necessari uomini che siano capaci di andare al di là delle proprie convinzioni (il colonnello non amava gli ebrei) quando si trovano di fronte a un'ingiustizia che diviene tanto più palese quanto più chi la sta perpetrando fa muro perché non ne emergano le falsificazioni. L'ingresso nella sede dei Servizi Segreti costituisce così la cifra stilistica del film. In spazi così cupi e privi di 'aria' (l'odore della fognatura li pervade) è facile che gli uomini si trasformino in tanti Capitano Henry che gli dichiara: "Voi mi ordinate di uccidere un uomo? Io lo faccio. Mi dite che è stato un errore? Mi dispiace ma non è colpa mia. Questo è l'Esercito" Picquart gli replica: "Questo sarà il suo Esercito. Non il mio". Polanski ci interroga sulla morale dei nostri tempi (che non riguarda solo uno specifico settore) e ci invita a vigilare. Forse non siamo più in tempi in cui un articolo di giornale può fare riaprire un processo come accadde con il "J'accuse" di Emile Zola pubblicato su "L'Aurore" ma forse proprio per questo è necessario saper reagire a quella sorta di impermeabilizzazione agli scandali che rischia di produrre un appiattimento dell'opinione pubblica che finisce con il lasciare spazio al morbo dell'indifferenza diffusa. Ricordare ciò che accadde allora può trasformarsi in un monito prezioso. 3881 – PARASITE COMMEDIA THRILLER Bong Joon-ho ritorna alla sua forma migliore grazie ad un'eccellente lettura del nostro tempo. Una famiglia coreana viene sconvolta da un traumatico evento. Regia di Bong Joon-ho con Song Kang-ho, Lee Sun-kyun, Choi Woo-Sik, Hyae Jin Chang, Park So-dam, Yeo-jeong Jo. Durata 132 minuti - Corea del sud 2019. Ki-woo vive in un modesto appartamento sotto il livello della strada. La presenza dei genitori, Ki-taek e Chung- sook, e della sorella Ki-jung rende le condizioni abitative difficoltose, ma l'affetto familiare li unisce nonostante tutto. Insieme si prodigano in lavoretti umili per sbarcare il lunario, senza una vera e propria strategia ma sempre con orgoglio e una punta di furbizia. La svolta arriva con un amico di Ki-woo, che offre al ragazzo l'opportunità di sostituirlo come insegnante d'inglese per la figlia di una famiglia ricca: il lavoro è ben pagato, e la villa del signor Park, dirigente di un'azienda informatica, è un capolavoro architettonico. Ki-woo ne è talmente entusiasta che, parlando con la signora Park dei disegni del figlio più piccolo, intravede un'opportunità da cogliere al volo, creando un'identità segreta per la sorella Ki-jung come insegnante di educazione artistica e insinuandosi ancor più in profondità nella vita degli ignari sconosciuti. Bong Joon-ho ha costruito una carriera sulla distorsione del fantastico, con affreschi plastici di larga scala come 'The Host', 'Snowpiercer' e il recente 'Okja'. A dispetto del titolo, però, in Parasite non ci sono creature, né immersioni nel soprannaturale: solo due famiglie, due case, e la brutale dissezione di una disuguaglianza di classe nella società tanto coreana quanto globale. Le due case - letteralmente - raccontano la storia, con gli eventi sempre più tesi e rocamboleschi che vengono incorniciati da due finestre, ognuna con quattro pannelli. La prima è una minuscola apertura ribassata su un vicolo, che lascia entrare rumori, disturbi e disinfestazioni nel salotto dei protagonisti, già impegnati a contorcersi nelle poche stanze disponibili alla ricerca di una connessione WiFi priva di password nei paraggi. La seconda è una gigantesca vetrata a parete nella villa dei Park, che "inquadra" l'ampio giardino teatro di un climax a orologeria, e invita lo sguardo esterno, d'invidia e di indagine. Nell'era delle fratture sociali sempre più scomposte, 'Parasite' è un'eccellente lettura del suo tempo, che Bong Joon-ho riposiziona nel verticale delle stratificazioni domestiche dopo averlo disteso sull'orizzontalità del treno in Snowpiercer. Alla fotografia, vivida e fluida nello sfruttare i volumi architettonici, c'è Hong Kyung-po, reduce dal fenomenale lavoro su 'Burning', che della lotta di classe faceva uno sfondo elegante laddove 'Parasite' la erge ad allegoria principale. E come studio delle idiosincrasie familiari, Bong Joon-ho riesce a entrare nel pieno territorio del primo Lanthimos e dell'ultimo Peele. Nonostante il film "cambi stanza" con agilità tra un genere e l'altro (come sempre in Bong Joon-ho), alternando commedia, tensione e puro dramma, i Park non sono una semplice caricatura di ricca ottusità (con le ripetute fascinazioni americane e il freddo concetto di una "linea" che non va oltrepassata), così come Ki-taek (interpretato dal solito Song Kang-ho) e la sua famiglia oscillano tra l'iniziale versione coreana degli 'Shoplifters' di Kore-eda e una sempre più dark discesa nella tentazione.In questo heist movie al contrario, il cui obiettivo è impreziosire se stessi invece di impossessarsi di un oggetto prezioso, Bong Joon-ho ritorna alla sua forma migliore, con un'incisività che 'Okja' non aveva e una chiarezza d'intenti che rimanda ai suoi primi e meno elaborati titoli. I soldi sono un ferro da stiro che elimina tutte le pieghe, avverte Chung-sook, mamma dal pragmatismo d'assalto. Essere una brava persona non è che l'ennesimo lusso di una lunga serie, secondo il regista, che come di consueto ammanta la sua parabola di espiazione capitalistica in immagini che attingono al livello più profondo della psiche umana: un'inondazione che arriva improvvisa, densa e scura, a lambire lo spazio vitale di chi non ha molto. E dei fantasmi del regno domestico, che emergono dalle cantine e che portano anch'essi, secondo il proverbio, la ricchezza assieme allo spavento. 3880 – JOJO RABBIT COMMEDIA DRAMMATICA Una favola nera che misura l'impatto della guerra e dei fascismi sugli spiriti innocenti. Un giovane ragazzo seguace di Hitler scopre che la madre sta nascondendo un ragazzo ebreo nella loro casa. Regia di Taika Waititi con Scarlett Johansson, Taika Waititi, Sam Rockwell, Rebel Wilson, Thomasin McKenzie, Roman Griffin Davis, Archie Yates. 108 minuti - Germania 2019.

Jojo ha dieci anni e un amico immaginario dispotico: Adolf Hitler. Nazista fanatico, col padre 'al fronte' a boicottare il regime e madre a casa 'a fare quello che può' contro il regime, è integrato nella gioventù hitleriana. Tra un'esercitazione e un lancio di granata, Jojo scopre che la madre nasconde in casa Elsa, una ragazzina ebrea che ama il disegno, le poesie di Rilke e il fidanzato partigiano. Nemici dichiarati, Elsa e Jojo sono costretti a convivere, lei per restare in vita, lui per proteggere sua madre che ama più di ogni altra cosa al mondo. Ma il 'condizionamento' del ragazzo svanirà progressivamente con l'amore e un'amicizia più forte dell'odio razziale. Prendere per il naso Hitler è avere l'ultima parola. (La) parola di Taika Waititi, che firma una favola 'über-assurda' ficcata nella Germania nazista e agita alla fine della Seconda Guerra mondiale. Alla maniera di Charlie Chaplin, che crea l'arma più bella contro Adolf Hitler (''Il grande dittatore''), e di Mel Brooks, che mette in scena l'invenzione stessa del ridere parodico (''The Producers - Una gaia commedia neonazista''), Taika Waititi scongiura il corpo a corpo con la storia e volge in ridicolo la fascinazione estetica per il III Reich. Diversamente da loro il risultato è meno feroce del previsto, sovente esilarante ma troppo 'carino' per il soggetto. Niente in ''Jojo Rabbit'' farà urlare all'indecenza o scatenerà la polemica che aveva accompagnato l'uscita in sala di ''La vita è bella''. L'anima Disney, proprietaria della Fox Searchlight Pictures, modera i toni e procede dolcemente verso l'ode alla tolleranza e alla fantasia, alla resistenza e al rispetto verso l'altro. Da par suo, Taika Waititi dirige e indossa la divisa di un Hitler concepito dall'immaginazione di un bambino che lo convoca in sostituzione del padre assente e ogni volta che è in preda al dubbio. Ma anche qui siamo lontani dall'interpretazione caustica di Chaplin del tiranno-buffone Adenoid Hynkel (''Il grande dittatore''), di cui Hitler ovviamente fu il modello. Se l'obiettivo è il medesimo, deridere i protocolli e la messa in scena di un potere che si voleva spettacolare, Waititi pesca le risorse comiche più efficaci del film nell'orientamento sessuale dei suoi nazisti, Chaplin parla per la prima volta, indossa per l'ultima i baffi di Charlot e denuncia l'usurpatore, scalzandole non solo l'immagine ma anche la performance oratoria ridotta a gesti e parole incomprensibili. Comprensibili e definitive sono invece le parole finali di Jojo che prende letteralmente a calci il suo 'idolo' e oppone al farfugliamento nazista il valore della poesia e dell'amicizia. Tuttavia ''Jojo Rabbit'' fallisce quello che distingue la grande satira: l'onda di ilarità è sempre associata a un sentimento d'orrore. Il 'dittatore' di Taika Waititi è un fantoccio di cui ridiamo certo ma da cui non affiora mai dietro l'attitudine farsesca la crudeltà. Resta l'impegno sincero del film davanti al risorgere di movimenti populisti e di estrema destra. Figlio di padre maori e di mamma ebrea, il regista di ''Thor: Ragnarok'' cerca uno slittamento per colpire forte gli spiriti contemporanei, giocando con l'estetica nazista e applicando una distanza ironica e un dandismo 'nazi' difficili da maneggiare. Ciascuno dei suoi bad guys, dall'inatteso Capitano Klenzendorf di Sam Rockwell all'ufficiale lunare della Gestapo di Stephen Merchant, passando per la valchiria ubertosa di Rebel Wilson, è agito da un mélange di libido e cecità che li rende alle volte derisori e tollerabili. Taika Waititi li arruola, si prende il rischio e poi cerca la via d'uscita, dichiarando la guerra all'odio e praticando la giusta misura: realizzare un film mai troppo drammatico per essere divertente. Ad oggi soltanto Mel Brooks ha riso del nazismo senza compromessi producendo il 'peggior show possibile'. Un delirante capolavoro che annulla Hitler a forza di ridere (''The Producers - Una gaia commedia neonazista''). 3879 – MIO FRATELLO RINCORRE I DINOSAURI COMMEDIA DRAMMATICA Un racconto di formazione adolescenziale che conserva la freschezza del testo originale e si ispira al cinema indipendente americano. Il rapporto di due fratelli, Jack e Gio. Quest'ultimo ha la sindrome di Down e per Jack questo diventa un segreto da non svelare. Regia di Stefano Cipani con Alessandro Gassmann, Isabella Ragonese, Rossy De Palma, Francesco Gheghi, Gea Dall'Orto, Roberto Nocchi, Saul Nanni, Lorenzo Sisto Durata 101 minuti - Italia 2019. Per il piccolo Jack la famiglia è croce e delizia: delizia perché è composta da due genitori spiritosi e democratici, croce perché le sorelle lo tiranneggiano, asserendo la loro "superiorità femminile". Dunque la notizia dell'arrivo di un fratellino è accolta da Jack come un trionfo personale, tantopiù che quel fratellino, Giò, si rivela davvero speciale, cioè dotato del superpotere di "dar vita alle cose". Ma Giò è anche affetto dalla sindrome di Down: e quando Jack raggiunge la (di per sé problematica) età di 14 anni il fratellino diventa una presenza ingombrante nonché, per dirla tutta, potenzialmente imbarazzante. E siccome a raccontare la storia da un punto di vista totalmente soggettivo è la voce di Jack, 'Mio fratello rincorre i dinosauri' è un racconto di formazione adolescenziale incentrato sul disagio e la vergogna che ogni teenager prova nei confronti della propria esistenza, a maggior ragione se "ostacolata" dalla diversità. Basato sull'omonimo romanzo autobiografico di Giacomo Mazzariol, il film conserva la freschezza e l'ironia del testo originale ispirandosi al cinema indipendente americano. La pietra di paragone immediata è ''Wonder'', sia per via della fonte letteraria iniziale, sia perché la sceneggiatura di Fabio Bonifacci contiene una misura di piacioneria pensata per il grande pubblico simile a quella del campione di box office statunitense. Ma l'accessibilità è un criterio importante nell'affrontare un argomento sensibile come la disabilità, ed è ancora più importante che il cinema italiano cominci a rivolgersi al pubblico dei giovanissimi, finora per lo più ignorato o raccontato con condiscendenza "adulta". Gran parte del lavoro per rendere credibile una sceneggiatura per molti versi improntata ai codici della comunicazione televisiva (e dotata di numerose implausibilità) va al regista Stefano Cipani, esordiente nel lungometraggio ma già avvezzo a parlare con e di bambini e disabilità, e soprattutto ad un cast azzeccato, a cominciare da Isabella Ragonese e Alessandro Gassman nei panni dei genitori. Va sottolineata la presenza scenica di Francesco Gheghi, che regge molto bene la storia nei panni di Jack (e già si era distinto per la sua interpretazione sincera in ''Io sono Tempesta''), di Roberto Nocchi, credibile e naturale nel ruolo dell'amico del cuore Vitto, e Lorenzo Sisto, che dà al piccolo Giò tutto l'entusiasmo e l'energia vitale che competono al ruolo. Bravi anche gli amici della band, Edoardo Pagliai e Saul Nanni, e Arianna Becheroni, la "pasionaria" di cui si innamora Jack. Interessante anche l'ambientazione in una pianura Padana non meglio geolocalizzata, ma raccontata con amore dal gardesano Cipani e finalmente sottratta allo stereotipo politico, cui sono dirette alcune battute pungenti. Quel che manca, e che la campagna del Po avrebbe dovuto ispirare, sono i mezzi toni, anche quelli necessari per raccontare con la dovuta cura una vicenda così delicata. Ma meglio le occasionali forzature esuberanti che il silenzio cui queste storie, e il pubblico dei giovanissimi, sono spesso destinati.

3878 – C’ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD DRAMMATICO Canto malinconico di un autore romantico che crede nel potere del cinema e sa reinventarne la storia. Quentin Tarantino si esercita su uno dei casi criminali più celebri di fine anni Sessanta. Regia di Quentin Tarantino con Margot Robbie, Brad Pitt, Leonardo DiCaprio, Dakota Fanning, Timothy Olyphant, Al Pacino, Kurt Russell, Damian Lewis, Emile Hirsch, Luke Perry. Durata 161 minuti - USA 2019. Los Angeles, 1969. Sharon Tate, promettente attrice americana e sposa di Roman Polanski, è la nuova vicina di Rick Dalton, star della televisione in declino. Dalton condivide la scena con Cliff Booth, stuntman che si è fatto (e rotto) le ossa nei western girati a Spahn Ranch. Controfigura e chauffeur di Dalton, Cliff vive in una roulotte con una cane disciplinato e fedele proprio come lui che da anni ammortizza le cadute e i rovesci dell'amico. E l'ultimo scacco costringe Rick e il suo doppio a traslocare dall'altra parte dell'oceano per girare un pugno di spaghetti-western. Sei mesi e una moglie (italiana) dopo, Rick e Cliff tornano a Los Angeles dove li attende la notte più calda del 1969. Il cinema può salvare il mondo? Quentin Tarantino crede in ogni caso che possa vendicare gli ebrei ('Bastardi senza gloria'), affrancare dalla schiavitù ('Django Unchained'), cambiare il passato e offrire la chance ai vinti di regolare i conti coi propri carnefici. In risonanza con 'Django Unchained' e 'Bastardi senza gloria', che offrivano un'alternativa alla Storia facendo un falò dei gerarchi nazisti e dei bianchi schiavisti dell'America alla vigilia della Guerra Civile, 'C'era una volta...a Hollywood' segue lo schema appropriandosi della storia del cinema, di 'una storia del cinema'. La vendetta, sempre. Sempre più catartica, sempre più selvaggia, sempre più appassionante e sadica sul piano della rappresentazione. A compierla è un altro irresistibile tandem, due naufraghi della sottocultura hollywoodiana, un attore di serie B e la sua controfigura, che sembrano sognare ciascuno la vita dell'altro mentre le rispettive carriere colano a picco sotto il peso dei fallimenti e delle frustrazioni. Ma la vendetta questa volta non è quella dei personaggi, inconsapevoli 'dei fatti reali', ma è quella di un autore romantico che crede nell'immenso potere del cinema, che crede che tutto sia ancora possibile, come se la finzione potesse deflagrare la realtà. Agli spettatori Tarantino offre un'esperienza differente, imbarcandoli nella sua nostalgia e nella deambulazione urbana piuttosto che costruire daccapo intrighi esplosivi. Per la prima volta rinuncia alla cavalleria, evocando con riguardo e pudore il soggetto che gli sta più a cuore: il suo amore per il cinema. 'C'era una volta...a Hollywood' è un film intimo e contemplativo, lisergico e (incredibilmente) lineare su un'età dimenticata, perduta, sul cinema della sua infanzia, quello che lo ha innamorato perdutamente mentre il colore diventava la norma e Hollywood perdeva la sua innocenza sotto i colpi di coltello di Charles Manson e dei suoi adepti. Il cinema di Steve McQueen e di Bruce Lee, quello dei vecchi western di seri B e delle produzioni televisive poliziesche degli anni Sessanta. La macchina da presa infila, come il documentario del debutto, le quinte dell'industria dei sogni con Leonardo DiCaprio che assume su di sé l'afflizione degli attori che conoscono la gloria per preparare meglio il proprio tramonto, Brad Pitt che gioca sfacciato e disinvolto le ombre del cinema e Margot Robbie che risorge Sharon Tate dalla finzione per allacciare il film alla realtà storica. Realtà di cui crediamo di sapere tutto, di comprendere tutto, dimenticando che siamo in una sala buia e che il 'proiezionista' è Quentin Tarantino. L'autore che come nessuno è capace di reinventare il cinema, di reinventare la violenza al cinema, trasgredendo le regole della Storia, immaginando una soluzione o un'uscita di emergenza. In 'C'era una volta...a Hollywood' gli eventi non si svolgono come nella realtà, la loro declinazione rivela una sorpresa, una svolta imprevedibile. Ancora una volta la finzione viene in soccorso della realtà, abbracciando la crudeltà assassina del mondo per riscattarla. L'espediente, che altrove funzionava da gag metaforica, in 'C'era una volta...a Hollywood' si eleva a professione di fede (estetica), trasformando il film in un canto melanconico che nessuno slancio irridente può incidere. Perché l'effervescenza dei sermoni ai quali Tarantino ci ha educati lasciano il passo allo spleen e invitano lo spettatore a perdersi. E i primi a smarrirsi sono i suoi protagonisti dopo otto whisky e troppi margarita. Nella Los Angeles del 1969, anno cerniera di una rivoluzione culturale e cinematografica (usciva in sala 'Easy Rider', primizia e simbolo della New Hollywood), Tarantino incontra la 'famiglia' di Charles Manson e quella di Sharon Tate, Roman Polanski e Sergio Corbucci, l'aristocrazia hollywoodiana (Sharon Tate e Roman Polanski) e l'attore al declino a cui fa eco la base della piramide sociale del cinema, lo stuntman Cliff Booth. La passione e la volontà di preservare il cinema sono al centro del film come il desiderio di salvarne la musa. Per Sharon Tate, Tarantino inventa due cavalieri erranti, uno per l'acrobazia e uno per la ribalta, ruba 'c'era una volta' a Sergio Leone e restituisce alla locuzione la sua aura infantile. Un'espressione di candore incarnata da un'attrice appena sbocciata che il film 'tocca' da lontano, con grazia e in una sequenza spettacolare in cui Sharon Tate va al cinema per (am)mirarsi nel film che condivide con Dean Martin ('Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm'). Sullo schermo Margot Robbie osserva solare ed estatica la performance dell'artista che interpreta perché è la vera Sharon Tate che appare nel buio della sala. Con l'omaggio, la sequenza rivela allo spettatore la 'distanza' riverente con la quale Tarantino ha deciso di trattare il soggetto. Ed è in quella intenzione che abita la più bella idea del film: sognare in pieno giorno, in pieno sole di ritardare la caduta dal cielo (drive), provando a afferrare un istante temporale nella sua infinita brevità. 3877 – JOKER DRAMMATICO Il Joker di Phillips e Phoenix è un criminale prodotto dalla società in cui vive. La storia sulle origini di uno dei più famosi super-cattivi della DC, il Joker. Regia di Todd Phillips con Joaquin Phoenix, Zazie Beetz, Robert De Niro, Frances Conroy, Marc Maron, Josh Pais, Brett Cullen Durata 122 minuti - USA 2019. Arthur Fleck vive con l'anziana madre in un palazzone fatiscente e sbarca il lunario facendo pubblicità per la strada travestito da clown, in attesa di avere il giusto materiale per realizzare il desiderio di fare il comico. La sua vita, però, è una tragedia: ignorato, calpestato, bullizzato, preso in giro da da chiunque, ha sviluppato un tic nervoso che lo fa ridere a sproposito incontrollabilmente, rendendolo inquietante e allontanando ulteriormente da lui ogni possibile relazione sociale. Ma un giorno Arthur non ce la fa più e reagisce violentemente, pistola alla mano. Mentre la polizia di Gotham City dà la caccia al clown killer, la popolazione lo elegge a eroe metropolitano, simbolo della rivolta degli oppressi contro l'arroganza dei ricchi. Si presenta con una carta, il Fleck di Todd Phillips, ma non è una carta da gioco: è il documento di una malattia mentale, che lo rende un emarginato, un rifiuto della società, come ci dice la prima sequenza del film, sovrapponendo al suo volto la cronaca di una città allo sbando, sommersa dalla spazzatura fisica e metaforica. Primo stand-alone sul più famoso villain della DC Comics, il film di Todd Phillips esplora dunque la nascita di un mostro prodotto dalla società stessa, creato e nutrito da illusioni e delusioni, maltrattamenti fisici e psichici, nell'epoca che mescola spettacolo pubblico e degrado morale. Ambientata nei primi anni '80, l'origin story diretta, prodotta e co-scritta da Phillips colma i vuoti strategici lasciati nel passato del personaggio, mescolando le indicazioni di Alan Moore e Brian Bolland con la cronaca vera americana e con l'omaggio al cinema coevo di Scorsese, ''Re per una notte'' e ''Taxi Driver'' in particolare. Parallelamente alla costruzione narrativa della maschera di Joker, siamo invitati ad assistere alla costruzione interpretativa del personaggio che Joaquin Phoenix compie sotto i nostri occhi, trasformandosi fisicamente in altro da sé, aggiungendo energia man mano che perde peso, liberandosi progressivamente dal diktat del sorriso socialmente conveniente ("It's so hard to be Happy all the time") per riscrivere radicalmente e alla propria maniera le regole della commedia della vita. Niente che non funzioni nel meccanismo: il film cresce, una scena alla volta, come un assembrarsi di folla, perfettamente oliato, come il dialogo in diretta televisiva tra Joker e Rober "Murray" De Niro, ma in fondo ''Joker'' non aggiunge al personaggio niente che faccia davvero la differenza rispetto a quanto abbiamo imparato su di lui in ''The Dark Knight'' e il contributo della regia non è paragonabile a quanto costruito a suo tempo da Nolan. Joaquin Phoenix è lasciato solo al centro del film, com'è solo Arthur Fleck, senza ancora un arcinemico per cui vivere: il suo Joker è tutto ciò che c'è da vedere e va a ragione ad iscriversi ai primi posti nella lista dei tanti volti dell' "uomo che ride", vendicatore psicotico di chi non l'ha capito, delirante (delusional) illusionista, capace di fondere nella propria immagine quella di Heath Ledger e di Anton Chigurh, Honka, Chaplin e Andy Kaufman, senza mai assomigliare a nessun altro. (copyright© 2000- 2020 MYmovies.it®) 3876 – SERENITY – L’ISOLA DELL’INGANNO DRAMMATICO-THRILLER Un noir contemporaneo che si fa notare per l'audacia e la totale mancanza d'imbarazzo con cui resta in bilico fra serietà e autoparodia. Un misterioso racconto su come le vicende del passato possano ripresentarsi e stravolgere il presente trasformandolo in qualcosa di incredibile. Regia di Steven Knight con Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Diane Lane, Jason Clarke, Djimon Hounsou, Jeremy Strong, Kenneth Fok, Robert Hobbs, Garion Dowds, Edeen Bhugeloo. Durata 106 minuti - USA 2019. In fuga dal suo passato, Baker Dill si è ritirato su un'isola al largo della Florida. Solitario e irascibile, nelle battute di pesca insegue senza speranza un tonno gigante, mentre a terra, tra una bevuta e l'altra, frequenta la matura Constance. Un giorno l'ex moglie Karen si presenta sull'isola e gli chiede di salvare lei e il loro figlio dal nuovo e violento marito. La donna propone a Baker di gettare l'uomo in acqua durante una gita in barca, in cambio di 10 milioni di dollari. Diviso fra la nuova vita e quella da cui è fuggito, tentato dal denaro ma roso dai dubbi, Baker si ritrova in una realtà che non riesce a gestire, pupazzo nelle mani di un misterioso burattinaio... Un noir contemporaneo ispirato al cinema hollywoodiano degli anni '40 e '50 e alle atmosfere patinate del cinema anni '80, con personaggi e situazioni stereotipate che celano una svolta narrativa che rimette tutto in discussione. Che 'Serenity' fosse un oggetto perfetto per diventare un flop, era in qualche modo scritto: un regista sceneggiatore, Steven Knight, solito a divertirsi con stereotipi e sfide stilistiche (suo lo script di ''Allied - Un'ombra nascosta'' di Zemeckis, classicissima spy story hitchcockiana ambientata durante la Seconda guerra mondiale; sua la regia di 'Locke', un'ora e mezza di conversazione telefonica di Tom Hardy nell'abitacolo di una macchina); due interpreti, Matthew McConaughey e Anne Hathaway, entrambi vincitori di Oscar ma dalla carriera segnata da battute d'arresto e scelte sbagliate; un'ambientazione su un'isola tropicale, con atmosfere sudate e colori accesi, che rimanda immediatamente a un'estetica patinata da softcore anni '80, alla ''Orchidea selvaggia'', per intenderci, o giusto un paio di gradini più in su a 'The Hot Spot'. Inevitabilmente, dunque, flop è stato, e pure eclatante, con gli autori e gli interpreti infuriati con la casa di distribuzione Aviron, accusata di non aver sostenuto adeguatamente l'uscita del film, con la critica anglosassone compatta nello stroncare e i commenti in rete pieni di epiteti denigratori. Steven Knght se l'è cercata, insomma, ma proprio per questo il suo 'Serenity' emerge dal mare magnum del cinema di genere americano contemporaneo, e almeno nel caso italiano (dove il film arriva con mesi di ritardo) da quello delle uscite estive. Per via dell'audacia e della totale mancanza d'imbarazzo con cui il film resta in bilico fra serietà e autoparodia; per la consapevolezza con cui Knight, da sceneggiatore e regista, tratta i ruoli e i corpi dei suoi interpreti (McConaughey pescatore dannato come un eroe hemingwayano, Anne Hathaway femme fatale biondo posticcio, Jeremy Clark villain sopra le righe, Diane Lane regina del sesso e donna materna, Djimon Hounsou perfetta spalla dell'eroe maledetto...); per il ritmo sostenuto, ossessivo e preciso con cui il plot dissemina dettagli che anticipano la svolta narrativa da mind game per ragazzini. Intendiamoci, in Serenity' tutto è previsto e costruito in maniera fin troppo dichiarata, a partire dal personaggio più ambiguo e fuori luogo (il rappresentante d'azienda interpretato da Jeremy Strong, che insegue il protagonista ovunque come se ne conoscesse le mosse) fino ad arrivare all'annunciatissimo twist da "fuori di testa" (in originale bonkers, come hanno sentenziato gli ascoltatissimi utenti in rete) che strappa dal genere noir la vicenda del reduce di guerra in fuga dalla famiglia e dal mondo e la porta nel regno della virtualità e della paranoia alla Truman Show. Non è dunque l'effetto sorpresa a colpire in 'Serenity', e nemmeno la sua natura seducente di "film malato". Se qualcosa emerge dalla terza regia di Knight è proprio l'unicità del risultato finale, che nasce paradossalmente dall'accumulo di rimandi e rifacimenti. 'Serenity' è il tentativo fuori tempo massimo di riprendere tradizioni ed estetiche del passato (all'origine di tutto c'è 'Il vecchio e il mare' di Hemingway) adattandole all'era digitale, che nella sua palese artificiosità rende fasullo ogni elemento della messinscena (dai dialoghi alle situazioni ai colori) e forse anche l'esperienza stessa della visione, piacevolmente perduta tra inganni, svelamenti, anticipazioni, e pure qualche risata di scherno. 3875 – IL RE LEONE (live action) AVVENTURA Una qualità tecnica altissima per un'immersione nelle meraviglie della savana. La trasposizione live action de 'Il re Leone'. Regia di Jon Favreau con Donald Glover, James Earl Jones, Beyoncé Knowles, Billy Eichner, Seth Rogen, Chiwetel Ejiofor, Keegan-Michael Key, Alfre Woodard, John Oliver, Eric André. Durata 118 minuti - Produzione USA 2019

Simba è il futuro re, il cucciolo di Mufasa, sovrano temuto e rispettato, che non cerca la guerra e sa stare entro gli ampi confini del proprio regno. Ma qualcuno trama nell'ombra per sovvertire l'ordine costituito e le promesse future: è Scar, l'invidioso fratello minore di Mufasa, pronto a macchiarsi del più atroce delitto e a prendere il potere con l'inganno. Esiliato e convinto a torto di essere responsabile della fine dell'amato padre, Simba cresce lontano dalla Rupe dei Re finché il passato non torna a cercarlo e a domandargli di assumersi le sue responsabilità. La trama del Re Leone è nota, come lo sono le sue famosissime canzoni, le scene clou, le battute di spirito. Non si troverà nulla di diverso nella versione aggiornata e fotorealistica di Jon Favreau, che del calco dell'originale fa un volano ma anche, involontariamente, un boomerang. Se La Bella e la Bestia in live action e CGI si è presentato come una valida alternativa al suo corrispettivo animato, se il remake de Il libro della Giungla, ad opera dello stesso Favreau, è un'ottima rivisitazione, con un tono specifico e una personalità propria, nessuna delle due cose, sfortunatamente, si può dire del nuovo Il Re Leone, che suscita più domande retoriche che sincero entusiasmo. Sebbene, sulla carta, l'idea di un'immersione quanto più realistica possibile nelle meraviglie della Savana e delle sue creature sembrasse una scommessa vinta in partenza, l'uso straordinario della CGI penalizza il film, interrogando il senso generale di un remake di questo tipo. Gli animali appaiono sfruttati per esclusivi fini antropo-simpatetici, imboccati con un linguaggio che non appartiene loro, ripuliti nei suoni e nella loro natura tout court, senza che il filtro della stilizzazione, che era proprio dell'animazione, intervenga nel mezzo per farci sorridere dell'operazione. E il fatto che il film non preveda presenza umana alcuna (non c'è un Mowgli, per intenderci) amplifica ulteriormente la sensazione di artificiosità. Dopo aver lavorato per un secolo per far sembrare vivi i disegni animati, la Disney sembra impegnarsi qui per "cartonare" gli animali vivi, ammaestrandoli a tutti i costi a replicare le inquadrature e i labiali di una fantasia animata. Le poche aggiunte alla sceneggiatura originale riguardano principalmente l'epurazione dei movimenti paranazisti delle iene sulla musica di "Sarò Re", l'introduzione di maggiori battibecchi di coppia, e qualche approfondimento per allungare la durata, che s'impone però senza leggerezza su un film già tra i più pedagogici del cosiddetto Rinascimento Disney "Sappiamo ciò che siamo ma non quello che potremmo essere", recita l'Amleto, attorno al cui archetipo si sviluppava la favola immaginata nel '94 da Allers e Minkoff. Ora sappiamo anche che Il Re Leone avrebbe potuto restare serenamente quel che era: questo suo doppio difficilmente lo scalzerà dal trono.

3874 – BOOK CLUB (tutto può succedere) COMMEDIA Un cast di dive (e divi) per una commedia romantica caricaturale sulla sessualità delle donne âgée. Quattro donne sessantenni leggono "Cinquanta sfumature di grigio" e la loro vita prende una svolta inaspettata. Regia di Bill Holderman con Jane Fonda, Alicia Silverstone, Mary Steenburgen, Diane Keaton, Andy Garcia, Candice Bergen, Richard Dreyfuss, Mircea Monroe, Don Johnson, Wallace Shawn. Durata 104 minuti - Produzione USA 2018. Da trent'anni, Diane, Vivian, Sharon e Carol si asse- gnano a turno un libro da discutere davanti a un bicchiere di vino. Insieme formano un 'book club' in cui si confrontano e voltano pagina. Sessantenni sull'orlo di una crisi ses- suale, a parte Vivian che è ricca sfondata, colleziona uomini e ha paura dell'amore vero, decidono di leggere "Cinquanta sfumature di grigio". Le prodezze di Christian Grey le convincono a rimediare alla povertà della loro vita sessuale. Con ogni mezzo, ad ogni co- sto. Diane seduce suo malgrado un pilota di linea, Vivian flirta con un grande amore della giovinezza, Sharon opta per i siti d'incontri online, Carol prova a risvegliare gli ardori di un marito che le preferisce la moto. Il risultato sarà naturalmente un successo. I buoni libri influenzano le nostre vite, i pessimi ahimè pure. La prova è la commedia di Bill Holder- man, autore sconosciuto (e resterà tale) che ripassa lo smalto alla storia di belle donne all'acchiappo. La sceneggiatura, convenzionale e vagamente reazionaria, regala a ciascuna il suo profilo: Jane Fonda incarna il tratto cinico e seccamente seduttivo, Diane Keaton ripropone la stagionata icona del cinema di Allen, pigiando a fondo (troppo a fondo) il pedale del burlesco, Candice Bergen ostenta il carattere altero e una vita ritirata in compagnia di una gatta letargica, 'sottile' metafora di una vita sessuale passiva, Mary Steenburgen condivide la scena con un marito che ha perso la passione e l'erezione. Insieme costituiscono la loro speciale comunità casalinga da cui partono unite e solidali alla conquista dell'amore. La questione insomma è sempre quella, sposarsi. La commedia, di conseguenza, è sentimentale e finirà col mostrare che il cuore ha ragioni che il sesso (da solo) non conosce. Attorno a loro due 'ragazzi' con troppe qualità per essere veri. Andy Garcia, pilota di linea, e Don Johnson, divorziato con dote e devozione, sono pronti a sfoderare fascino, fiori e monetine per un desiderio. Diversamente dal Grey del romanzo, che riaccende la fiamma che cova ancora nelle signore, gli uomini del club letterario non registrano nessuno dato estremo o selvaggio, che il giudice federale di Candice Bergen giudicherebbe d'altronde inappropriato fino alle manette. Woman's film in cerca di un destino per le sue protagoniste, Book Club - Tutto può succedere è un'opera prima atona e senza ritmo che si impegna con troppi sforzi e pochi risultati a essere divertente e a omaggiare il cinema di Nancy Meyers (L'amore non va in vacanza, È complicato). Un club stellare, che non si preoccupa troppo della qualità delle proprie letture, non basta da solo a salvare una commedia romantica caricaturale sulla sessualità delle donne âgée. La messa in scena, priva di immaginazione, le presenta perennemente occupate a sorseggiare vino bianco dentro quadri lussuosi. I caratteri, altrettanto ordinari, sono costruiti sulla giustapposizione di cliché: la donna libera e indipendente che non conosce il sentimento amoroso ma (ri)trova il suo grande amore, la vedova, infantilizzata fino all'assurdo da due figlie ossessionate dalla sua età, che esita a vivere il suo colpo di fulmine col super pilota, la divorziata, felicissima di non avere un orgasmo da diciotto anni, che passa improvvisamente le ore sui siti di incontri e infine la sola socia del club ancora sposata che cerca ogni stratagemma possibile per riaccendere il suo matrimonio. Non sorprenderà troppo scoprire che sotto l'egida di Christian Grey si parli poco o niente di letteratura alle riunioni confidenziali. Se in Il club di Jane Austen le opere della celebre scrittrice inglese provocavano nelle cinque protagoniste profonde trasformazioni, un'evoluzione che lasciava disarmati i loro compagni, in Book Club ritroviamo le stesse premesse salvo per un dettaglio affatto insignificante. Le nostre eroine non divorano Jane Austen o Marguerite Yourcenar ma si gettano sulle sfumature di E. L. James, trilogia sull'amore ai tempi delle fruste e delle manette. A questo punto è lecito domandarsi cosa abbiano letto nei decenni le quattro protagoniste per arrivare fino a quelle pagine di cui l'effetto è ovviamente immediato. Le avventure di Anastasia Steele, la protagonista di "Cinquanta sfumature di grigio", le obbliga a riconsiderare le loro relazioni coniugali o i loro nubilati volontari. Fortunatamente per lo spettatore, le fanciulle non disserteranno troppo sui meriti letterari del libro in questione, troppo assorbite a leggerlo con una sola mano e a stravolgere la loro routine. Certo Book Club potrebbe accontentare i nostalgici del cinema americano di un'altra stagione, interpretata col sorriso da quattro dive il cui ruolo è ritagliato sulle rispettive personalità cinematografiche. Le stravaganze vestimentarie di Diane Keaton, lo sguardo ironico di Candice Bergen, la leggerezza di Mary Steenburgen e l'autorità naturale dell'imperiale Jane Fonda sono un'evidenza ma non fanno mai di Book Club un'altra cosa che una vetrina solenne di talenti che potrebbero difendere ben più che la loro gloria passata. La rivoluzione di script all'altezza del valore di attrici mature non sembra ancora iniziata a Hollywood, né altrove.

3873 - I FRATELLI SISTERS DRAMMATICO/WESTERN Realista e parodico, il western di Audiard ri- prende i codici del genere per deviarli come un treno impazzito nell'America della corsa all'oro. L'obiettivo di due ambiziosi fratelli è ammazza- re un cercatore d'oro dai modi molto eccentrici. Riusciranno a portare a termine la missione? Regia di Jacques Audiard con Jake Gyllenhaal, Joaquin Phoenix, John C. Reilly, Riz Ahmed, Jóhannes Haukur Jóhannes- son, Rebecca Root, Ian Reddington, Lexie Ben- bow-Hart, Nick Cornwall, Philip Rosch. durata 122 minuti - Produzione Francia, Spagna, Romania, Belgio, USA 2018.

Oregon, 1851. Eli e Charlie Sisters sono fratelli e pistoleri virtuosi al servizio del Commo- dore, padrino locale che li lancia sulle tracce di Herman Warm, cercatore d'oro fuggito in California. L'uomo ha messo a punto un processo chimico per separare l'oro dagli altri re- sidui minerali su cui il Commodore vuole mettere le mani. A cavallo, i Sisters avanzano verso il loro obiettivo per torturarlo e poi piantargli una pallottola in testa. A precederli nella caccia è John Morris, investigatore umanista che ha il compito di rintracciare Warm e trattenerlo fino all'arrivo dei due sicari. Ma il chimico è pieno di sorprese e finisce per sorprendere Morris, coinvolgendolo nella sua impresa: trovare l'oro e costruire una so- cietà ideale a Dallas. Ostinato nella ricerca, Charlie prosegue la cavalcata mentre Eli co- mincia a porsi delle domande sul senso delle loro azioni e sulla sulfurea reputazione che li precede ovunque vadano. Primo film americano di Jacques Audiard, 'The Sisters Brothers' conquista l'Ovest e riflette a colpi di colt sulla fraternità biologica. Tra l'Oregon e la Cali- fornia, la strada è lunga e gli incontri tanti, il viaggio cova l'oro e un segreto: la consape- volezza che la fratellanza non è un sentimento vano. Realista e parodico, 'The Sisters Bro- thers' è un percorso iniziatico che mette alla prova il legame di fraternità che unisce i 'Si- sters'. Il cognome (Sisters), che contempla la 'sorellanza' dei fratelli e la grazia del gesto femminile (si prendono cura l'uno dell'altro tagliandosi reciprocamente i capelli), correg- ge il culto della virilità rimproverato al regista in ''Dheepan'', thriller politico a base di te- stosterone, ideologia passiva e artiglieria pesante. Pieno di humor nero e di profondità insospettabili, di personaggi truculenti e avventure memorabili, il western di Audiard ri- prende i codici del genere per deviarli come un treno impazzito nell'America della corsa all'oro. Adattamento del romanzo omonimo di Patrick deWitt, 'The Sisters Brothers' va al di là dell'omaggio al genere e insegue le sue prede al fianco di due criminali che incarna- no alla perfezione il folclore del Far West. Sovente bestiali e cattivi, qualche volta sensibili e rabbuiati davanti alle loro azioni selvagge e violente, i fratelli Sisters cavalcano costan- temente tra il tono elegiaco di Eli e l'azione costante di Charlie. Il racconto mirabilmente condotto, con le sue svolte senza ritorno e le sue rotture di tono, non chiosa il passato familiare e professionale dei nostri. Cortocircuitando l'intrigo principale (il duo che tallo- na le sue vittime), Audiard segue parallelamente due personaggi gentili che coltivano in- sieme un'affinità elettiva. Rovescio romantico del tandem scordato e comico, John Morris (Jake Gyllenhaal) e Herman Warm (Riz Ahmed) incarnano le due facce dell'uomo onesto che il coraggio, il senso della 'decency' e l'intelligenza voterebbe al successo. Ma la pre- potenza cieca e arbitraria dei fratelli Sisters dimostra che l'America non ha prosperato sulla fortuna di uomini dabbene ma sull'avidità di uomini famelici. Divorata dalle fiamme, come il granaio nella prima sequenza, l'America affonda sulla riva del fiume e nello spirito 'caustico' di mostri a cui è concesso di dormire in pace. Negli spazi americani, Audiard in- segue invano un sentimento di solidarietà e giorni migliori che non arriveranno mai. John C. Reilly (Eli) e Joaquin Phoenix (Charlie) sono gli assi di una partita che gioca sui contra- sti, una polarità elementare che si innesca o culmina nel titolo stesso del film. Se il primo concentra una ferita e una ricerca di senso in una cicatrice che risale come una virgola dalle labbra fino al naso, il secondo dispensa le parole che gli mancano tracciando un im- prevedibile 'comeback'. Saldo e curiosamente forbito, Eli riflette per due cercando dispe- ratamente il cammino della loro redenzione comune, ingarbugliato e anarchico, Charlie lascia parlare i pugni e le pistole. In sella a un cavallo che fa marcire le loro coscienze più dei cowboy abbattuti alle spalle, galoppano verso un sorprendente ritorno alle origini, al- la mamma e al sapone.

3872 - AMERICAN ANIMALS DRAMMATICO Un gruppo di ragazzi si convince di poter rea- lizzare una rapina straordinaria che rimarrà nella storia. Il film porta la fusione tra documentario e fin- zione al suo ultimo stadio: trascinante, diverten- te e dolorosamente umano. Regia di Bart Layton Con Evan Peters, Barry Keoghan, Jared Abrahamson, Blake Jenner, Ann Dowd, Udo Kier. durata 116 minuti – USA 2018

Spencer è uno studente d'arte che sente nella sua vita l'assenza di qualcosa di si- gnificativo che lo ispiri, fosse anche un evento tragico. Il suo miglior amico d'in- fanzia, Warren, ha ottenuto una borsa di studio come giocatore di calcio ma è in- soddisfatto del college e della sua mediocrità borghese. Quando Spencer scopre che nella biblioteca della Transylvania University di Lexington in Kentucky, sono custoditi testi di grande valore, i due iniziano ad architettare una rapina e coin- volgono anche Erik e Chas. Oltre al colpo nello stesso college che frequentano, Warren progetta anche come piazzare successivamente una refurtiva così rara, entrando in contatto con mercanti d'arte europei. Raccontato dagli stessi ragazzi, ormai cresciuti, che hanno commesso il colpo nel 2003, American Animals porta la fusione tra documentario e finzione al suo ultimo stadio e segnala il talento di Bart Layton nel maneggiare anche i meccanismi della fiction. Siamo di fronte a quattro giovani bianchi americani più o meno di buona famiglia, che nonostante le occasioni che gli aprono la loro condizione privilegiata e il col- lege non sanno che fare delle proprie vite. Il loro orizzonte ultimo è la celebrità o la ricchezza o la gloria di un grande artista e quello che gli offre la propria vita non sembra sufficiente. L'assenza di orizzonti ideali fa così di loro anime perse pronte a inventarsi una folle impresa pur di trovare finalmente qualcosa di eccezionale e unico. In questo ha un forte peso anche la mentalità del gruppo, dove le idee più balzane ricevono sostegno dai compagni fino a sembrare sensate e prendere cor- po. 3871 - NON SONO UN ASSASSINO THRILLER Il vice questore Francesco Prencipe esce di casa per raggiungere il suo migliore amico, il giudice Giovanni Mastropaolo, che non vede da quasi due anni. Quella stessa mattina il giudice viene trovato morto. Un thriller sul lato più nero della coscienza, non sempre all’altezza delle ambizioni. Regia di Andrea Zaccariello con Riccar do Scamarcio, Alessio Boni, Edoardo Pesce, Claudia Gerini, Sarah Felberbaum durata 111 minuti – Italia 2019

Francesco Prencipe è vicequestore e amico fraterno del giudice Giovanni Mastropaolo, oltre che dell'avvocato Giorgio, di ricca famiglia ma che ha smesso di esercitare dopo una delusione d'amore e una caduta nell'alcolismo. Quando il giudice Mastropaolo viene trovato ucciso, Francesco, che è l'ultimo ad averlo visto, è il principale indiziato dell'indagine. Lui si dichiara innocente e si affida per la propria difesa a Giorgio, inoltre cerca di ricongiungersi con la figlia, che non gli perdona di aver lasciato la famiglia per un'altra donna. Tutti, inclusi i colleghi in polizia, accusano Francesco di essere una persona orribile e solo Giorgio sembra essere dalla sua parte, anche se da ragazzini Francesco finì per escluderlo e preferirgli Giovanni come amico del cuore. I tre strinsero anche un misterioso patto: non aprire mai un cassetto segreto della scrivania di Giovanni, dove lui aveva nascosto qualcosa che non ha mai voluto rivelare.

3870 - LE INVISIBILI Titolo originale LES INVISIBLES COMMEDIA DRAMMATICA Dopo la chiusura dell'Envol, le assistenti so- ciali avranno tre mesi per reintegrare le don- ne di cui si prendono cura: falsificazioni, bu- gie... d'ora in poi, tutto è permesso! Una brillante commedia sociale in cui tutto fun- ziona a meraviglia, a partire dal riuscitissimo ca- sting. Regia di Louis-Julien Petit. Con Audrey Lamy, Corinne Masiero, Noémie Lvovsky, Déborah Lukumuena,Sarah Suco Durata 102 minuti - Francia 2018 Lady D, Édith Piaf, Brigitte Macron, Beyoncé, Salma Hayek e le altre scalpitano davanti al cancello dell'Envol, centro di accoglienza diurno ubicato nel Nord della Francia e destinato a ricevere donne senza fissa dimora. Nascoste dietro agli pseudonimi celebri che si sono scelte per preservare il loro anonimato, cercano e trovano per qualche ora riparo tra quelle mura. Una doccia, un caffè, qualche ora di calore umano le confortano e le rimettono in piedi. Almeno fino al giorno in cui Audrey e Manu, che dirigono con polso e benevolenza il centro, non ricevono lo 'sfratto'. I fondi sono sospesi secondo le disposizioni della municipalità che ritiene il tasso di reinserimento insufficiente e non vuole più dispensare senza risultati. Ma Audrey e Manu con l'aiuto di Hélène, psicologa trascurata dal marito, non si arrendono e decidono di installare clandestinamente un laboratorio terapeutico e un dormitorio. Radioso come Discount, il nuovo film di Louis-Julien Petit volge una suggestiva materia documentaria sul quotidiano di donne senza un domicilio fisso in una brillante commedia sociale. E tutto funziona a meraviglia, a partire dal casting condotto da quattro attrici resistenti: Audrey Lamy, Corinne Masiero, Déborah Lukumuena e Noémie Lvovsky. Al loro fianco una dozzina di donne che hanno conosciuto la precarietà e la strada, attrici non professioniste le cui vite hanno in alcuni casi ispirato il loro ruolo. Dirette con grazia e filmate col cuore, le interpreti si rivelano dentro un film che fronteggia l'incapacità delle civiltà moderne di farsi carico della sorte dei più fragili. In perfetto equilibrio tra cinema impegnato e feel good movie, Le invisibili insinua in maniera sottile la violenza della strada (l'aggressione sessuale) e il terrore come norma quando una donna è fuori nel mondo. Elusa qualsiasi idea di moralismo o di miserabilismo, Louis-Julien Petit sceglie il sorriso e l'ottimismo, cogliendo il côté solare dei centri di accoglienza, i volti, le persone, le personalità, i caratteri, le traiettorie. Pesca le 'vere invisibili' e le porta sullo schermo, rivelando le donne dietro ai personaggi e trovando insieme a loro la speranza. Nessuna risoluzione miracolosa, la vittoria è quella dei valori, è il processo di rilancio di individui umiliati e dimenticati che ritrovano la propria dignità denunciando un sistema sociale talvolta incoerente.

3869 - IL TRADITORE DRAMMATICO-BIOGRAFICO Il primo grande pentito di mafia, l'uomo che per primo consegnò le chiavi per avvicinarsi alla piovra, cambiando così le sorti dei rapporti tra Stato e criminalità organizzata. Bellocchio tiene in pugno il grande schermo e mette allo specchio uno Stato criminalmente assente . Regia di Marco Bellocchio con Pierfrancesco Favino, , Maria Fernanda Cândido, Fabrizio Ferracane, Alessio Praticò, Fausto Russo Alesi, Goffredo Maria Bruno, Nunzia Lo Presti, Federica Butera, Nicola Calì. Durata 148 minuti - Italia 2019

Sicilia, anni Ottanta. È guerra aperta fra le cosche mafiose: i Corleonesi, capitanati da Totò Riina, sono intenti a far fuori le vecchie famiglie. Mentre il numero dei morti ammazzati sale come un contatore impazzito, Tommaso Buscetta, capo della Cosa Nostra vecchio stile, è rifugiato in Brasile, dove la polizia federale lo stana e lo riconsegna allo Stato italiano. Ad aspettarlo c'è il giudice Giovanni Falcone che vuole da lui una testimonianza indispensabile per smontare l'apparato criminale mafioso. E Buscetta decide di diventare "la prima gola profonda della mafia". Il suo diretto avversario (almeno fino alla strage di Capaci) non è però Riina ma Pippo Calò, che è "passato al nemico" e non ha protetto i figli di Don Masino durante la sua assenza: è lui, secondo Buscetta, il vero traditore di questa storia di crimine e coscienza che ha segnato la Storia d'Italia e resta un dilemma etico senza univoca soluzione. Marco Bellocchio è uno dei pochi registi che ancora tengono in pugno il grande schermo, con una consapevolezza profonda del vissuto cinematografico internazionale e un comando totale della propria visione personale. Il che è evidente fin dalla prima scena de 'Il traditore': una festa di famiglia (e di Famiglia) che contiene in sé tanto 'Il gattopardo' quanto 'Il padrino', e un prologo che enuclea tutta la vicenda a seguire, a cominciare da quella conga che è un cordone ombelicale pronto a stringersi ad ogni giro di danza. Ed è una premonizione anche lo sguardo malinconico di Tommaso Buscetta (un magistrale Pierfrancesco Favino) che vede fuori dalla finestra il figlio Benedetto (solo di nome), tallone d'Achille del padre e simbolo della sua sconfitta. 'Il traditore' è un film doppio fin dal titolo, perché il tradimento è tale dal punto di vista di Cosa Nostra, ma non lo è dal punto di vista del riscatto umano del "primo pentito". La doppia lettura è intrinseca alla vicenda di Buscetta, per alcuni un eroe, per altri un infame, un opportunista di comodo ma anche una cartina di tornasole dell'ipocrisia del sistema di giustizia. La manifestazione visibile di questo doppio registro è la continua alternanza nel film fra un dentro e un fuori: l'interno e l'esterno delle case, il crimine organizzato in cui si è catapultati da bambini e da cui non si esce veramente mai, il carcere e la libertà (vigliata, condizionata, comunque impermanente), le auto americane con il tettuccio che "si apre e si chiude", la palla dentro o fuori in una partita di calcio guardata da italiani usciti dal loro Paese con l'eterno sogno di rientrarci. Sono doppi i fantasmi e le visioni che, come sempre nel cinema di Bellocchio, visitano i viventi come un 'memento mori'. Ed è doppia la percezione stessa della morte, perché ogni membro di Cosa Nostra (come ogni essere umano) è un morituro, e ciò che fa la differenza è solo la consapevolezza con cui Giovanni Falcone sa che la fine arriverà per tutti, anche la mafia stessa. Buscetta è già elemento di cesura fra una criminalità antica e una nuova, con un codice d'onore più elastico e una minore lealtà alla famiglia. "Alla fine si muore e basta" quando nel Grande Gioco delle Sedie perdi il posto, perché la morte, come la mafia, "sa aspettare" il momento giusto per far tornare i suoi conti. Quel che di certo ha raggiunto la fine di un suo ciclo di vita è il gangster movie, di cui Bellocchio certifica con questo film l'implosione naturale: qui non c'è la classica parabola di ascesa e caduta del boss criminale, databile fin dai tempi di Piccolo Cesare, poiché 'Il traditore' inizia già dalla cattura di Buscetta e non ripercorre a ritroso la sua fama. Cosa Nostra è finita, afferma Buscetta, e adesso bisogna parlare: "Dì le cose", intima il boss, e Bellocchio racconta quel "teatro psicologico" che è il crimine organizzato, fatto di riti tribali e di brutalità ferina, ma anche un'Italia connivente che non garantisce protezione o lavoro e copre le sue mancanze con la retorica del 'Và pensiero'. Uno Stato criminalmente assente che Bellocchio mette allo specchio con sarcasmo - lui che conosce bene la differenza fra sarcasmo e ironia - aggiungendo qua e là una pennellata pittorica (Buscetta come un Cristo del Mantegna) e una metafisica (Don Masino in bicicletta lungo il corridoio): tocchi d'autore, zampate di una tigre che (per fortuna) è ancora fuori dalla gabbia.

3868 - VICE – L’UOMO NELL’OMBRA DRAMMATICO-BIOGRAFICO

Dick Cheney è stato vice-presidente durante l'ammi- nistrazione di George W. Bush. Il film racconta la sua storia.Una biografia politica brillante, irriverente, in- diavolata. Con una prova impressionante di Christian Bale. Regia di Adam McKay con Amy Adams, Christian Bale, Steve Carell, Bill Pullman, Sam Rockwell, Jillian Armenante, Brandon Sklenar, Mark Bramhall, Brandon Firla, Alison Pill. durata 132 minuti - USA, Gran Bretagna, Spagna, Emirati Arabi Uniti 2018 Negli anni Settanta Dick Cheney sta con una ragazza davvero in gamba, Lynne, che riesce a farlo ammettere all'Università, dove lui però viene travolto dal gozzovigliare da college e, tra una sbornia e l'altra, finisce per farsi espellere. Non contento, continua a bere anche mentre lavora ai pali della corrente elettrica, finisce in una rissa e viene arrestato per guida in stato di ebrezza. A quel punto Lynne gli dà un ultimatum: o diventa la persona di potere che lei in quanto donna non può essere ma può aiutare e guidare, oppure tra loro è finita. La storia è nota: i due diventeranno una "power couple" di Washington e domineranno placidamente, quasi nell'ombra, l'amministrazione di George W. Bush, tra le più devastanti per la democrazia americana. Dopo ''La grande scommessa'' Adam McKay continua nel filone della satira ad altissima velocità, passando dalla finanza corrotta ma pur sempre contenuta in una manciata di anni del film precedente, fino ad abbracciare in 'Vice - L'uomo nell'ombra' una biografia politica di circa cinquant'anni, che inizia durante l'amministrazione Nixon. Abita il corpo di Cheney il camaleontico Christian Bale, in una performance impressionante ma allo stesso tempo pure in understatement, calma, sicura di sé, come fosse una pietra intorno a cui turbina la corrente. L'unica che tiene il suo passo e che anzi all'inizio ne detta il ritmo è la moglie Lynne, interpretata da Amy Adams, al principio più assetata di potere del marito e poi, scoraggiata dal 'coming out' della figlia, quasi restia a fare l'ultimo passo. Ma a quel punto è troppo tardi: Dick ha assaggiato il potere e ne è inebriato, persino più di quanto lo sia dalle paste che lo spingono verso ripetuti infarti. Quando a Cheney sarà offerta la vicepresidenza, normalmente considerata una carica poco influente, lui ne farà la posizione da cui dominare l'intera amministrazione. Eminenza grigia si circonda di una schiera di aiutanti, tra cui il suo ex maestro Donald Rumsfeld (che ha il volto di Steve Carell), abituato a una politica più aggressiva, mentre la caratteristica di Cheney è sempre stata quella di essere quieto, silenzioso, poco appariscente. Non riesce infatti a farsi strada nelle elezioni e in un sondaggio interno al partito Repubblicano finisce ultimo, così decide di rinunciare alle primarie con rammarico. Solo in seguito capirà che invece quella è stata una benedizione e il suo potere (che in un geniale inserto viene paragonato a quello del Galactus della Marvel) sarà molto più influente così, esercitato dietro un presidente incapace come George W. Bush. Quest'ultimo è interpretato da Sam Rockwell che, in un ruolo piuttosto detestabile, riesce a fare quasi tenerezza, perché non capisce quale serpe si sia preso in seno pur di emanciparsi dal padre. 'Vice' racconta una perversa fascinazione per il potere, che esplode quando il protagonista realizza come un incontro a porte chiuse tra Nixon e Kissinger può portare al bombardamento di Paesi lontani e a dare una nuova direzione al mondo intero. A rendere però il film qualcosa di unico è lo stile dal ritmo forsennato e dal taglio eccentrico, con la voce over di un narratore che incarna l'uomo comune americano (è il buon ) e con diverse trovate spiazzanti. Per esempio a un certo punto sembra che la carriera di Cheney sia finita e iniziano cartelli via via più esagerati e agiografici su come la vita del protagonista e della sua famiglia si sia incamminata verso un bucolico tramonto, con tanto di titoli di coda che partono, solo per poi essere interrotti da una fatale telefonata. McKay gioca inoltre con le rappresentazioni del potere, scavalcando a destra il gusto shakespeariano di ''House of Cards'' e immaginando uno scambio di battute tra Dick e la moglie Lynne in pentametri giambici e inglese arcaico. A cui subito però giustappone la versione più "realistica" di quella stessa situazione, dove Cheney si limita a bofonchiare un paio di battute pensieroso e la moglie annuisce, togliendo ogni grandeur anche al suo genio di cospiratore. Si ride quindi parecchio, ma sempre a denti stretti e spesso dopo la risata arriva subito il colpo allo stomaco. Il film si spinge inoltre al di là della figura del protagonista, in una satira della società americana impoverita economicamente e pure moralmente, assorbita dall'intrattenimento e dallo sballo, disinteressata o incapace di fronte a una politica labirintica. Ci sono passaggi ferocissimi, di pura misantropia, dove l'abbrutimento e l'idiozia degli americani (ma vale in fondo per ogni popolazione democratica) emergono prepotentemente, grazie a stacchi di montaggio extradiegetici. A volte questi inserti sono frammenti di scene in luoghi lontani, ma in qualche caso sono persino analogici, come fossimo in un film di Ejzenstejn. Il motivo più ricorrente è quello della pesca che Cheney praticava e i cui ami con esca punteggiano il film, sottolineando come il protagonista tenda le proprie trappole. I mutamenti politici innescati da Cheney, tra cui spicca la nascita di Fox News con la morte della par condicio, sono visti come il germe da cui prende il via la deriva destrorsa dell'America (ma non solo) contemporanea, con un dilagare di falsità o, per dirla come Trump, di "fatti alternativi". Ma anche il gusto per nomi nuovi e ingannevoli, con la funzione rendere idee e leggi più digeribili agli elettori, è una strategia chiave già di Cheney e dei suoi esperti di comunicazione. Del resto durante la Presidenza Bush è stata fatta una guerra sulla base di informazioni falsate riguardo armi di distruzioni di massa in Iraq e sono stati coniati raccapriccianti eufemismi, come "interrogatorio potenziato" per indicare in pratica la tortura senza nominarla mai. Il film non vuole comunque dare la colpa al solo Cheney che pur ha fatto la sua parte, ma ha in fondo anche 'preso' parte a un sistema già diretto in questa direzione. Ancora giovane infatti chiederà al suo maestro Rumsfeld: «Noi in cosa crediamo?» e quello gli scoppierà a ridere in faccia. Gli ideali insomma erano già ampiamente morti ben prima che lui arrivasse al potere e la Casa Bianca di Nixon era una messa in scena, dominata da Kissinger, dove la sola cosa importante era non farsi cogliere con le mani nel sacco. Il genio di Cheney è stato agire con la riservatezza e la discrezione di un uomo quasi invisibile. 3867 - MA COSA CI DICE IL CERVELLO COMMEDIA

Il film intende raccontare la realtà con la quale gli italiani si confrontano ogni giorno, abituandosi al peggio e facendosi andare bene qualunque cosa. Tra spy story e parodia, Paola Cortellesi dichiara guerra al degrado. Regia di Riccardo Milani con Paola Cortellesi, Stefano Fresi, Tomas Arana, Teco Celio, Remo Girone, Vinicio Marchioni, Lucia Mascino, Ricky Memphis, Paola Minaccioni, Giampaolo Morelli. Durata 98 minuti - Italia 2019. Giovanna lavora al ministero dove in apparenza conduce una professione che più grigia non potrebbe essere, o meglio così appare in pubblico per camuffare la sua vera identità, quella di agente della Sicurezza Nazionale il cui primo dogma è non dare nell'occhio. Tra una missione a Marrakech e una a Mosca si riavvicina ai compagni di liceo, che possono dire di fare una vita soddisfacente... finché non confessano le rispettive vessazioni subite da un assortimento di cafoni o ricchi prepotenti. Giovanna, mentre dà la caccia a un terrorista intento a mettere insieme un'arma di distruzione di massa, decide che non può restare a guardare l'umiliazione e il conseguente abbrutimento dei suoi amici... Una donna dedita alla sicurezza del Paese è avvilita dal degrado, soprattutto da quello romano, e decide di prendersi una rivincita con mezzi a dir poco spropositati contro una galleria di maschere, rispetto a cui è troppo facile sentirsi superiori, il tutto mentre si consuma una blandissima parodia del genere spionistico. Quarto film consecutivo della coppia (anche nella vita) Riccardo Milani-Paola Cortellesi dopo ''Scusate se esisto!'', ''Mamma o papà?'' e il grande successo di pubblico di ''Come un gatto in tangenziale'', 'Ma cosa ci dice il cervello' è però disarmante. Se l'idea di fondo ha il retrogusto di superiorità intellettuale della sinistra che vuole dare lezioni al popolo bue o ai "cafonal", la parte di spionaggio vorrebbe invece essere semplicemente comica ma è più spesso penosa, soprattutto per l'insipienza spettacolare della messa in scena. In particolare il quartier generale della Sicurezza Nazionale è un set di una povertà abbagliante, dove la fotografia non ha alcuna profondità e i dialoghi messi in bocca al povero Remo Girone sono enunciati con mal celato imbarazzo. Paola Cortellesi fa del proprio meglio e sicuramente ha un talento comico degno di miglior causa, così come è un vero spreco l'uso di Vinicio Marchioni e Lucia Mascino nel ruolo di amici senza colore, e ancora peggio va a Claudia Pandolfi, cui tocca una macchietta chiassosa. Stefano Fresi è poi l'interesse romantico del liceo di Giovanna, che una volta era un atleta e ora è un obeso, ma naturalmente dal cuore grande, tanto che sarà il suo nobile tentativo di farsi rispettare dagli studenti (per certi versi un ritorno di Milani ai temi del suo esordio con ''Auguri professore'') a mostrare a Giovanna che il buon esempio è più efficace della vendetta. 3966 - ANIMALI FANTASTICI – I CRIMINI DI GRINDELWALD

FANTASTICO-AVVENTURA

Continuano le avventure di Newt, lo studioso di creature magiche alle prese con animali fantastici in fuga. Un convincente Jude Law/Silente in un capitolo di passaggio ad alta densità di personaggi e colpi di scena. Regia di David Yates con Johnny Depp, Eddie Redmayne, Zoë Kravitz, Katherine Waterston, Alison Sudol, Dan Fogler, Jude Law, Claudia Kim, Carmen Ejogo, Callum Turner. durata 134 minuti. Gran Bretagna - USA 2018. New York, 1927. Sono passati pochi mesi dalla cattura da parte del MACUSA del perfido e potente Grindelwald e, come da minaccia, il Mago Oscuro sfugge presto alla detenzione, nel corso di una sequenza aerea che stabilisce da subito le caratteristiche dello spettacolo visivo che sta per seguire: vertiginoso, inquieto e acrobatico. Grindelwald ha piani estremi, sul mondo dei maghi e su quello dei non maghi, e si dirige a radunare i suoi seguaci, pescando tra le fila degli scontenti per i metodi repressivi e violenti del Ministero della Magia. Ma in particolare cerca Credence, l'Obscuriale miracolosamente scampato alla morte. Anche Newt Scamander, il timido magizoologo, è sulle tracce del ragazzo, per conto di Albus Silente. E naturalmente anche il Ministero, e l'Auror Tina, con la quale Newt ha un malinteso sentimentale in sospeso. Il secondo film della serie 'Animali Fantastici' è quello in cui si fanno più stretti ed evidenti i legami con l'universo della saga di Harry Potter, si va e si viene da Hogwarts, s'intravedono Dobby, una giovane McGonagall e soprattutto entra in scena Silente stesso. Silente è incarnato da un affascinante Jude Law che gli dona carisma, sicurezza, e non ultima quella dose di ambiguità che il personaggio anziano si era lasciato alle spalle, ma che sappiamo presente nel suo curriculum e intimamente legata proprio alla relazione con Grindelwald. È questo però anche il capitolo in cui ci si lascia definitivamente alle spalle il tempo della favola e del disimpegno: lo sancisce metaforicamente l'uccisione di un bambino, tra le prime azioni del malvagio evaso, mentre, a livello più esplicito, il protagonista è chiamato a scegliere da che parte stare, lui che avrebbe preferito di gran lunga potersi disinteressare dei tormenti umani per dedicarsi con curiosità da scienziato ai suoi animali. Non è più tempo di incertezze e allusioni: quello del Mago Oscuro è un progetto nazista, di pulizia etnica, l'auspicio di un regime del terrore, drappeggiato di nero e di follia, e tutto lascia intendere che la strada per abbatterlo sarà lunga e costellata di perdite. Scritto e sceneggiato dalla Rowling, col fedelissimo David Yates alla regia, 'I crimini di Grindelwald' è talmente popolato di personaggi, nomi, incantesimi, colpi di scena che, specie nella zona finale, rischia l'effetto magic soap (opera), ma è lo scotto che paga chi ha una platea affamata da nutrire e in questo modo la creatrice sta assicurando che le scorte di novità sono più che abbondanti, e che l'attività transmediale che seguirà la visione non conoscerà la noia. 3865 - IL PROFESSORE E IL PAZZO DRAMMATICO - BIOGRAFICO

La nascita dell'Oxford English Dictionary a cura dello studioso James Murray e di un aiutante molto speciale. Il vocabolario registico non brilla per originalità, ma la vicenda (vera) è così bella che è impossibile non farsi entusiasmare. Regia di P.B. Shemran con Mel Gibson, Natalie Dormer, Sean Penn, Jeremy Irvine, Ioan Gruffudd, Adam Fergus

durata 124 minuti - Irlanda 2019

Dopo anni di stallo, nel 1879, la grande impresa di redazione dell'Oxford English Dictionary, trovò nuova linfa, e vide più tardi la luce della pubblicazione, grazie al lavoro infaticabile del professor James Murray e dei volontari di tutto il mondo a cui si era appellato, nella ricerca di individuare e spiegare ogni parola della lingua inglese. Tra questi, il più solerte e affidabile mittente di schede, era un uomo che si firmava W.C. Minor, che Murray scoprì risiedere nel temibile manicomio di Broadmoor. Anni prima, infatti, vittima di una gravissima paranoia, Minor aveva ucciso per errore un passante, scambiandolo per il suo persecutore immaginario, e lasciando la moglie di lui vedova con sei figli da sfamare. Il "professore", James Murray, non aveva una laurea, era figlio di un sarto e autodidatta. Il "pazzo" era un uomo di cultura, medico chirurgo, traumatizzato dagli orrori della guerra e dal più accanito dei nemici: se stesso, il suo senso di colpa. L'uno era scozzese, l'altro americano. Più simili, cioè, di quanto si potesse immaginare, accomunati dall'estraneità alla convenzione, e poi, dopo anni di scambio epistolare, legati tra loro, esattamente come sono legate tra loro le entrate di un dizionario. Non a caso, i loro primi incontri, nel film, sono raccontati attraverso un dialogo singolare, un gioco di lemmi, che è sfoggio di passione e erudizione, e riesce, insieme alle scene quotidiane di lavoro nello scriptorium di Murray, nella sfida più intrepida, quella che dà carattere al film e al libro di partenza prima di lui: rendere appassionante il mestiere del lessicografo. Anziché guardare solo al passato, così facendo, 'Il professore e il pazzo' incarna un paradigma narrativo, uno di quelli che al cinema funzionano meglio di tutti: la devozione di un uomo ad un'impresa abissalmente più grande di lui, mai concepita prima, "pazza" furiosa come Minor (il linguaggio del film lo dice con le ripetute incursioni della carrozza del professore oltre le porte del manicomio), ma luminosa come un sogno. Non stupisce che sia nata da Mel Gibson la richiesta di adattamento del libro del giornalista Simon Winchester: l'attore, per il tramite del suo personaggio, insiste sulla fede religiosa di Murray, sottolinea come miracoloso l'incontro con Minor, e trasforma la tragica vicenda umana di quest'ultimo in una storia di redenzione. P. B. Shemran, dal canto suo, applica a questa visione una struttura cinematografica ultra classica e restaurativa, che nella seconda parte del film non riesce ad evitare le lusinghe del didascalismo e del patetico (e Sean Penn in questo senso ci mette del suo, con una performance altalenante). 'Il professore e il pazzo', in fondo, è dunque un film di costumi e scenografie, di personaggi secondari spesso unidimensionali (eccezion fatta per il Mr Muncie di Eddie Marsan), il cui "vocabolario" registico non comprende voci particolarmente originali, ma racconta una storia (vera) così bella che è impossibile non farsi entusiasmare da essa e dai suoi tanti risvolti. 3864 - MOMENTI DI TRASCURABILE FELICITA’

COMMEDIA

E’ la storia di Paolo, cui rimangono solo 1 ora e 32 minuti per fare i conti con i punti salienti della sua vita. Una storia leggera e profonda, elegante nella forma e poetica nei contenuti. Regia di con Pif , , Thony , Francesco Giammanco, Angelica Alleruzzo, Vincenzo Ferrera, Franz Santo Cantalupo, Manfredi Pannizzo. Durata 93 minuti - Italia 2019 Paolo conduce una vita tranquilla a Palermo con moglie e due figli, lavorando come ingegnere. Ad aggiungere pepe alle sue giornate non sono le relazioni extraconiugali che si concede di tanto in tanto, o le sedute al bar con gli amici a fare il tifo per la squadra rosa e nera, ma alcuni istanti di pura gioia, come attraversare in motorino un incrocio urbano nel momento esatto in cui tutti i semafori sono rossi. Peccato che arrivi la volta in cui Paolo "manca" il momento di una frazione di secondo, e viene investito in pieno da un'auto ritrovandosi catapultato in Cielo, nello stanzone adibito allo smistamento delle anime. Da qui comincerà quella rivalutazione della sua intera vita che lo metterà di fronte alla sua medietà e alle sue mancanze. Francesco Piccolo, coadiuvato da Daniele Luchetti, ha scelto di attingere a due suoi libricini di grande successo editoriale, "Momenti di trascurabile felicità" e "Momenti di trascurabile infelicità", e di dare loro una struttura narrativa del tutto assente dalla collezione di brevi notazioni che costituiva l'ossatura (disarticolata) dei libricini. È un atto di coraggio che si rivela premiante, perché Piccolo ha saputo estrarre l'anima e lo spirito dalla parola scritta, costruendo una storia leggera e profonda, elegante nella forma e poetica nei contenuti. la storia di Paolo riesce a farci sentire "una minoranza di due", ovvero unisce in spirito il protagonista ad ogni singolo spettatore disposto a riconoscersi nelle sue umane debolezze e nella sua visione particolare (ma umanamente universale). E la non-recitazione, nonché la dizione straniata e straniante, di Pif sono qui altrettanto; una presenza stralunata e incongrua, soggetta a fissazioni e paranoie, sfuggente eppure sempre al centro della scena. In più il personaggio di Paolo aggiungono una nota di tenerezza e di bonaria indolenza "siciliana" che ben dispongono il pubblico all'accettazione del suo infantilismo dichiarato. Ma è la struttura narrativa, coerente per tono e misura, a dare verità alla storia, ed è la regia agile ed esperta di Luchetti a contenerla in una forma filmica convincente da commedia francese. Il tema non è tanto quello della morte, ma quello dell'assurdità di vivere come se non si dovesse morire mai, ed è trattato con una originalità che ne attutisce lo spavento. L'unica nota di demerito è il finale, che avverrebbe naturalmente "a fondo scala" (per non fare spoiler), e invece prosegue con un sermone inutile e una scenetta stucchevole, sopra una delle canzoni più melense di Adriano Celentano. Un peccato capitale, in conclusione ad una favola così ben raccontata. 3863 - THE GREATEST SHOWMAN MUSICAL BIOGRAFICO

Un uomo di spettacolo famoso si lascia sedurre dalla voce e dall'anima di una cantante chiamata Usignolo svedese. Spettacolo, frenetico ed eccessivo come un tripu- dio circense, potentemente ritmato e magnifica- mente orchestrato. Regia di Michael Gracey con Rebecca Ferguson, Zac Efron, Hugh Jackman, Zendaya, Michelle Williams, , Yahya Abdul-Mateen II, Diahann Carroll Durata 110 minuti - USA 2017

Inizio Ottocento. Phineas Taylor Barnum è il figlio di un sarto che muore catapultando il bambino nel buio di un'infanzia dickensiana. Ma P.T. crede nel sogno americano di inventarsi un'identità nobile ritagliata dalla stoffa dei sogni, e il suo amore di gioventù, la dolce Charity, abbandona i privilegi della propria casta bramina per seguire le visioni di quello che diventerà suo marito e il padre delle loro due figlie. Per Barnum, convinto che ogni progetto debba essere realizzato "cinque volte più grande, e dappertutto", nulla è abbastanza: non il Museo delle stranezze che edifica nel centro di Manhattan per lo sgomento (e la curiosità morbosa) dei newyorkesi, non il circo che porta il suo nome in cui si esibiscono la donna barbuta e il gigante irlandese, il nano Tom Thumb e i gemeli siamesi. Perché quando P.T. Barnum "sta arrivando", lo fa come un ciclone inarrestabile che travolge ogni cosa al suo passaggio: steccati e ipocrisie, ma anche legami e sentimenti. P.T. diventa così il simbolo dell'urgenza vitale e del diritto inalienabile di calcare il palcoscenico e fare spettacolo, anche mescolando arte popolare e arte nobile. Sotto questo profilo non c'è scena più efficace nel film della danza fra una trapezista di colore e il partner d'affari di Barnum, il rampollo dell'alta borghesia newyorkese Philip Carlyle, che raffigura il rapporto fra strati sociali come un movimento interdipendente di elevazione e di discesa (con tanto di cadute rovinose) sviluppato lungo un asse verticale, ma anche lungo una traiettoria ellittica che avvicina e allontana i personaggi con ciclica regolarità. La storia di P.T. Barnum narra anche la sua ricerca ottusa e senza fine dell'approvazione sociale e artistica, determinata dall'incapacità di prescindere dal giudizio degli altri. 'The Greatest Showman' è spettacolo, frenetico ed eccessivo come un tripudio circense, potentemente ritmato e magnificamente orchestrato, mistificatore come deve essere ogni show (e come è il cinema, dai tempi della lanterna magica), ma soprattutto accessibile ad ognuno di noi. Perché questo Barnum legittima soprattutto l'aspirazione di ognuno di noi ad entrare in scena, che sia da prima ballerina, o da alberello della scenografia. 3862 – Il CORRIERE – THE MULE

DRAMMATICO

L'incredibile storia di Leo Sharp, un novantenne che divenne un corriere della droga per il cartello messicano. Un film personale e struggente che ribadisce la complessità, la ricchezza e il carattere (in)discutibile del cinema di Eastwood. Regia di Clint Eastwood con Clint Eastwood, Bradley Cooper, Taissa Farmiga, Alison Eastwood, Michael Peña, Andy Garcia, Laurence Fishburne, Dianne Wiest, Ignacio Serricchio, Clifton Collins Jr. durata 116 minuti - USA 2018

Earl Stone, floricoltore appassionato dell'Illinois, è specializzato nella cultura di un fiore effimero che vive solo un giorno. A quel fiore ha sacrificato la vita e la famiglia, che di lui adesso non vuole più saperne. Nel Midwest, piegato dalla deindustrializzazione, il commercio crolla e Earl è costretto a vendere la casa. Il solo bene che gli resta è il pick-up con cui ha raggiunto 41 stati su 50 senza mai prendere una contravvenzione. La sua attitudine alla guida attira l'attenzione di uno sconosciuto, che gli propone un lavoro redditizio. Un cartello poco convenzionale di narcotrafficanti messicani, comandati da un boss edonista e gourmand, vorrebbe trasportare dal Texas a Chicago grossi carichi di droga. Earl accetta senza fare domande, caricando in un garage e consegnando in un motel. La veneranda età lo rende insospettabile e irrilevabile per la DEA. Veterano di guerra convertito in 'mulo', Earl dimentica i principi di fiero difensore del Paese 'per qualche dollaro in più'. Ma la strada è lunga. Per Clint Eastwood la questione è il tempo che gli resta. Una questione pressante emersa dalle acque del ''Mystic River'' e risolta cinque anni dopo in ''Gran Torino''. Walt Kowalski, misantropo irascibile e veterano della Guerra di Corea, sarà il suo ultimo ruolo. Clint Eastwood mette in scena la sua fine, fino alla prossima volta almeno. Perché undici anni dopo, l'autore che beneficia dell'eterna proroga degli dei del cinema, riprende la strada in un road-trip testamentario supplementare. Ma 'Il corriere - The Mule' è più di questo, più del nuovo ritratto di un vecchio eroe reazionario che monda i suoi peccati. Per Clint Eastwood non è più il tempo di scrivere la sua leggenda e di giocare col suo mito. Perfettamente cosciente di quello che suscita, si diverte ma resta secco e autentico dietro le rughe di un uomo che non ha più l'angoscia di invecchiare ma la paura di morire. Quando appare sullo schermo il cuore si ferma perché Clint Eastwood è sempre maledettamente bello, col suo sguardo chiaro, il sorriso franco e quella silhouette torreggiante che non ha perso niente della sua eleganza ma che non può e non vuole nascondere il peso delle sue primavere, quella vulnerabilità che accompagna la vecchiaia. 3861 - LA PARANZA DEI BAMBINI

DRAMMATICO

Ragazzini allo sbando in una realtà che sembra non lasciare scampo. L'obiettivo è avere soldi e potere. Il racconto di un'innocenza compromessa, osservata con una compassione priva di pietismi. Regia di Claudio Giovannesi con Francesco Di Napoli, Artem Tkachuk, Alfredo Turitto, Ciro Vecchione, Ciro Pellecchia, Mattia Piano Del Balzo, Viviana Aprea, Valentina Vannino, Pasquale Marotta, Luca Nacarlo. durata 111 minuti - Italia, Francia 2019. Napoli 2018. Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O'Russ, Briatò vogliono diventare ricchi alla svelta, comprare abiti firmati e motorini nuovi. In particolare Nicola, la cui madre gestisce una piccola tintoria non resiste alla tentazione di entrare a far parte di una 'famiglia' camorrista. Il furto di una pistola lo fa sentire più uomo anche nei confronti di Letizia che gli è entrata nel cuore al primo incontro. In poco tempo diventa il capo del suo gruppo. Nicola ha 15 anni. La dedica con cui Roberto Saviano apre il romanzo omonimo da cui è tratto il film da lui cosceneggiato è: "Ai morti colpevoli. Alla loro innocenza". Non si riferisce ovviamente ai camorristi che ha sempre combattuto a rischio della propria incolumità ma a quei ragazzini la cui innocenza viene compromessa dai modelli negativi che li circondano. Saviano non poteva trovare migliore interprete di questa innocenza di Claudio Giovannesi la cui filmografia è tutta incentrata su quella dualità osservata con amore e con quella compassione priva di pietismo che risale all'etimologia del vocabolo latino: 'patire con'. L'aver trovato poi nel giovane pasticcere Francesco Di Napoli lo sguardo giusto per reggere, anche nei primissimi piani, questa intenzione ha chiuso il cerchio. Napoli è teatro della vicenda ma non è quella di ''Gomorra''. Se la serie televisiva di straordinario successo planetario ha le caratteristiche del noir qui sono l'osservazione dei personaggi, il mutare della psicologia di Nicola ad essere al centro dell'attenzione. Lui, che ha assistito alla prevaricazione della richiesta del pizzo a sua madre, si ritrova ad andarlo a sua volta ad esigere in altro contesto salvo poi coltivare il pensiero di poter fare giustizia eliminandolo nelle aree che ritiene di controllare. Da quando ha un'arma pensa di poter ripristinare, attraverso quel possesso illegale, proprio giustizia e legalità nel suo mondo. Se Novalis, citato in preapertura del romanzo, affermava "Dove ci sono bambini c'è un'età dell'oro" Giovannesi e Saviano ci ammoniscono su come sia facile sperperare quel capitale umano. Non solo a Napoli, dove i motorini sfrecciano e le pallottole ci mettono un attimo a falciare vite, ma in tutte le periferie del mondo in cui la cultura è assente oppure si presenta come una casa in cui entrare in punta di piedi ma solo per sentirsi benestanti. Allora si può accedere come Nicola e Letizia a un palco del San Carlo continuando però a sognare il concerto della star locale del genere neomelodico. In fondo sempre di 'amore' si parla, nell'opera come nella canzonetta. Oppure come in un'antica serenata che, dopo una serata di dissipazione, ricostruisce l'atmosfera di un passato che si è ormai dissolto in un mondo senza padri e senza memoria in cui tutto, anche i sentimenti più profondi, si misura con il metro della legge del più forte.

3860 - LA FAVORITA

BIOGRAFICO Primi anni del XVIII secolo, l'Inghilterra è in guerra contro la Francia e una fragile regina Anna siede sul trono. Lanthimos sfodera un'inconsueta ironia per denunciare la condizione della donna in un mondo rigidamente patriarcale. Regia Yorgos Lanthimos con Emma Stone, Rachel Weisz, , Nicholas Hoult, Joe Alwyn, Mark Gatiss, Jack Veal, Jon Locke, Jenny Rainsford, James Smith (II). Genere durata 120 minuti - Grecia 2018. Inghilterra, 18esimo secolo. La regina Anna è una creatura fragile dalla salute precaria e il temperamento capriccioso. Facile alle lusinghe e sensibile ai piaceri della carne, si lascia pesantemente influenzare dalle persone a lei più vicine, anche in tema di politica internazionale. E il principale ascendente su di lei è esercitato da Lady Sarah, astuta nobildonna dal carattere di ferro con un'agenda politica ben precisa: portare avanti la guerra in corso contro la Francia per negoziare da un punto di forza - anche a costo di raddoppiare le tasse sui sudditi del Regno. Il più diretto rivale di Lady Sarah è l'ambizioso politico Robert Harley, che farebbe qualunque cosa pur di accaparrarsi i favori della regina. Ma non sarà lui a contendere a Lady Sarah il ruolo di Favorita: giunge infatti a corte Abigail Masham, lontana parente di Lady Sarah, molto più in basso nel sistema di caste inglese. Quel che non manca ad Abigail però sono la bellezza e l'istinto di sopravvivenza, sviluppato in decenni di abusi e prepotenze subìte. Quale delle due donne riuscirà ad insediarsi per sempre come Favorita della regina? 'La Favorita' è calato in un contesto storico e politico ben preciso, e racconta senza troppe esagerazioni la condizione femminile come un percorso a ostacoli all'interno di un mondo patriarcale che lascia alle donne pochissimi spazi di manovra, e ancor minori difese. L'unica donna che conta, qui, è la regina, ma questo non la sottrae alle logiche del potere declinato al maschile, che si esprime al grado zero con l'ennesima guerra. Anna è una bambina mai cresciuta (e impossibilitata a veder crescere i suoi numerosi figli) capace di improvvise gentilezze e di altrettanto imprevedibile ferocia. Una creatura sola e malata al crocevia degli interessi degli altri, mascherati da ossequio o da affetto. Ma al contrario di ogni altro cittadino inglese, la regina può dire: "Si fa così perché lo dico io" - il che è il sogno di ogni bambino viziato, oltre che la più elementare espressione del potere assoluto. Per questo l'ironia che colora tutta la narrazione è maliziosa e puerile, incline al dispetto più ancora che al sopruso. 3859 - GREEN BOOK

COMMEDIA L'amicizia tra un buttafuori e un pianista talentuoso che sta per partire per un tour in giro per l'America. Un classico film americano da grande pubblico scritto, diretto e interpretato con tutti gli attributi: un vero spasso. Regia di Peter Farrelly con Viggo Mortensen, Linda Cardellini, Mahershala Ali, Don Stark, Sebastian Maniscalco, P.J. Byrne, Brian Stepanek, Iqbal Theba, Tom Virtue, Ricky Muse. durata 130 minuti - USA 2018

'Green Book' è basato sulla storia vera di Shirley, un virtuoso della musica classica, e del suo autista temporaneo nel loro viaggio attraverso il pregiudizio razziale e le reciproche differenze. New York City, 1962. Tony Vallelonga, detto Tony Lip, fa il buttafuori al Copacabana, ma il locale deve chiudere per due mesi a causa dei lavori di ristrutturazione. Tony ha moglie e due figli, e deve trovare il modo di sbarcare il lunario per quei due mesi. L'occasione buona si presenta nella forma del dottor Donald Shirley, un musicista che sta per partire per un tour di concerti con il suo trio attraverso gli Stati del Sud, dall'Iowa al Mississipi. Peccato che Shirley sia afroamericano, in un'epoca in cui la pelle nera non era benvenuta, soprattutto nel Sud degli Stati Uniti. E che Tony, italoamericano cresciuto con l'idea che i neri siano animali, abbia sviluppato verso di loro una buona dose di razzismo. Il musicista nero è istruito, parla molte lingue, veste come un damerino e non sopporta volgarità e bassezze, mentre Tony Lip è ignorante, parla con un pesante accento del Bronx costellato di espressioni pseudoitaliane, mangia sempre fast food con le mani e quelle mani le mena volentieri. Ma anche per questo Tony è l'uomo giusto per accompagnare il raffinato musicista di colore e risolvere a modo suo i tanti problemi che l'improbabile duo incontrerà lungo il cammino. La forza motrice di 'Green Book' sono i due interpreti: Viggo Mortensen nei panni dell'italoamericano rozzo e refrattario alle regole, ma dotato di innati buon senso e buon cuore, e Mahershala Ali in quelli del musicista nero colto e misurato. E poiché la loro interazione deve portare ad una reciproca crescita, oltre che ad una reciproca comprensione, Tony Lip dovrà imparare dal suo passeggero che i piccoli imbrogli, le botte e le "stronzate" tengono quelli come lui ancorati al gradino più basso della scala sociale, così come Don Shirley dovrà riconnettersi con la sua "negritudo" e smettere di guardare le persone del suo colore come corpi estranei. 3858 - GLI INCREDIBILI - 2

ANIMAZIONE Sfumature relazionali, ritmo, ottime battute. La famiglia ideata da Brad Bird è capace di cambiare rimanendo se stessa. Mentre Mrs. Incredible va in missione per recuperare i Super, Mr. Incredible veste i panni di casalingo, tra i compiti di Flash, le crisi adolescenziali di Violetta e il piccolo Jack-Jack Regia di Brad Bird con Samuel L. Jackson, Holly Hunter, John Ratzenberger, Craig T. Nelson, Sarah Vowell, Huck Milner, Jonathan Banks, Catherine Keener, Sophia Bush, . Genere Animazione durata 118 minuti USA 2018

3857 - CATTIVISSIMO ME - 3

ANIMAZIONE

Un sequel riuscito, coerente, ricco di inventiva e di evoluzioni acrobatiche mozzafiato. Gru scopre di avere un fratello e allo stesso tempo dovrà combattere contro un nuovo cattivo, un ex bambino prodigio diventato un 'criminale'.

Regia di Pierre Coffin, Kyle Balda, Eric Guillon con Steve Carell, Elsie Fisher, Dana Gaier, Pierre Coffin, Trey Parker, Kristen Wiig, Miranda Cosgrove, Russell Brand, Michael Beattie, Andy Nyman.

durata 96 minuti. USA 2017

3856 - DRAGON TRAINE- Il mondo nascosto

ANIMAZIONE

La trilogia si chiude con un capitolo ispirato, solido e toccante, riuscito sia nel racconto che nella forma. Dopo un periodo di pace, Hiccup dovrà affrontare nuovi pericoli che minacciano il suo villaggio

Regia di Dean DeBlois

con Jay Baruchel, Kristen Wiig, Jonah Hill, Cate Blanchett, Gerard Butler, T.J. Miller, Christopher Mintz-Plasse, America Ferrera, Djimon Hounsou, Craig Ferguson. durata 104 minuti. - USA 2019.

3855 - A-X-L un’amicizia extraordinaria

FANTASCIENZA-AVVENTURA

Un film che sceglie di raccontare il valore dell'amicizia senza la smania dell'action a tutti i costi. L'incredibile avventura di un'amicizia extraordinaria che strizza l'occhio alla fantascienza per ragazzi degli anni '80.

Regia di Oliver Daly

con Thomas Jane, Becky G., Alex Neustaedter, Dominic Rains, Alex MacNicoll, Eric Etebari, Dorian Kingi, Sam Upton, Stacey Arwen Raab, Patricia De Leon. durata 100 minuti. - USA 2018.

3854 - IL GIOCO DELLE COPPIE

COMMEDIA

Un editore ha dei problemi con l'ultima opera di uno dei suoi scrittori di fiducia. Un simposio di idee per un soggetto magnifico e arduo, messo in scena da un autore in stato di grazia. Regia di Olivier Assayas con Guillaume Canet, Juliette Binoche, Vincent Macaigne, Christa Théret, Nora Hamzawi, Pascal Greggory, Laurent Poitrenaux, Sigrid Bouaziz, Lionel Dray, Nicolas Bouchaud. Durata 100 minuti - Francia 2018

Alain è un editore inquieto che ama Selena ma la tradisce con la sua assistente, che odia l'ultimo libro di Léonard ma lo pubblica, che ama le vecchie edizioni ma ragiona sull'Espresso Book Machine. Léonard è uno scrittore 'confidenziale' che ama sua moglie ma la tradisce con Selena. Depresso e lunare, scrive da anni lo stesso libro ed è narcisisticamente incompatibile con la sua epoca. Tra loro fa la sponda Selena, attrice di teatro convertita alla serie televisiva. Al seno di una società 'upgrade' e dentro un mondo divenuto virtuale, conversano, mangiano, bevono e fanno (sempre) l'amore. Vestito da commedia il nuovo film di Olivier Assayas restituisce come un boomerang la sua reputazione di autore intellettuale. A tal punto da invitarci a tavola. 'Il gioco delle coppie' è letteralmente un simposio di idee, dialoghi e riflessioni ad alto voltaggio. L'attenzione punta ancora una volta sulla modernità e un'etnografia di comportamenti di dipendenza che ci legano ai "motori di ricerca" dove sfilano le ultime news del mondo.

3853 - BEN IS BACK DRAMMATICO

Un film di bravi interpreti e buona scrittura. E tanto basta. Ben ha molti problemi ma decide di tornare a casa per Natale. La madre capisce che c'è qualcosa che non va e tenta di risolvere tutti i guai del figlio. Regia di Peter Hedges con Kathryn Newton, Julia Roberts, Lucas Hedges, Faith Logan, Courtney B. Vance, Tim Guinee, Candace Smith, Marquise Vilson, Mia Fowler, Teddy Cañez. Durata 98 minuti - USA 2018

Quando, la vigilia di Natale, Holly Burns si ritrova davanti, nel giardino di casa, suo figlio maggiore Ben, non sa se quello sta per diventare il giorno più felice della sua vita o il più infelice. I due figli più piccoli, nati dal secondo matrimonio di Holly con Neal, esplodono in gridolini di felicità. Ivy, invece, la sorella più grande, è esitante. Perché Ben ha cambiato i piani? Davvero il suo sponsor gli ha consigliato di passare il Natale a casa? Davvero sono 77 giorni che non si droga? Di sicuro sua madre vuole crederci e Ben sembra disposto ad essere messo alla prova. Quando due bravi attori duettano sullo schermo come fanno qui Julia Roberts e Lucas Hedges, quando la sceneggiatura è ben scritta, il cast di supporto è realmente tale e la tensione cresce man mano che il film si dirige verso la sua conclusione, lo spettacolo è gradito, anche quando non si tratta di un capolavoro. È il caso di 'Ben is back', in cui Peter Hedges, padre del coprotagonista, dirige la storia di una moderna madre coraggio, che di errori ne ha già commessi troppi e di delusioni ne ha già subite abbastanza, tanto da dirsi pronta a scavare la fossa al figlio, ma in verità si aggrappa con le unghie alla speranza di potersi fidarsi di lui. È un bel personaggio, che sarebbe stato bene addosso anche a Frances McDormand (ma avrebbe dato vita ad un film molto differente), che la Roberts ammanta della dolcezza che le appartiene senza sminuirne la forza e l'ampio registro interpretativo (non male quando la signora Burns, ai tavolini di una caffetteria del centro commerciale, si toglie il sassolino dalla scarpa e dice quel che ha da dire al vecchio dottore di famiglia). Lucas Hedges è persino eccessivamente temperato nel suo tenere il controllo della fragilità di Ben: non dà quasi mai in escandescenza e quando si mortifica lo fa sinceramente e mai in una logica, probabilmente più verosimile, di vittimismo o nichilismo, ma ciò contribuisce a tenere il film al riparo dalla tentazione del melodramma, almeno fino agli ultimissimi minuti. Il salvataggio del cagnolino può apparire pretestuoso o meno, ma porta il film, dopo un lungo preambolo, nella sua regione più interessante, quel viaggio notturno di madre e figlio durante il quale la città di ogni giorno cambia fisionomia, rivela il marcio e le ferite, inghiotte i due coraggiosi nel suo ventre in attesa di condannarli o restituirli a nuova vita. 3852 - IL TESTIMONE INVISIBILE

THRILLER Un thriller solido che gioca bene con il genere e riserva più di una sorpresa. Un giovane imprenditore viene accusato dell'omicidio della sua amante. Con l'aiuto di una famosa penalista dovrà cercare di difendersi dalle accuse. Regia di Stefano Mordini con , Miriam Leone, Fabrizio Bentivoglio, Maria Paiato, Sara Cardinaletti, Nicola Pannelli, Sergio Romano, Paola Sambo, Gerardo De Blasio, Alessandra Carrillo. Durata 102 minuti - Italia 2018

Adriano Doria è "l'imprenditore dell'anno" nella nuova Milano da bere. Guida una BMW, porta al polso un Rolex vistoso, ha una moglie e una figlia adorabili e un'amante bella come Miss Italia. Ma ora si trova agli arresti domiciliari, accusato di aver ucciso l'amante Laura, nonostante si dichiari del tutto innocente. Per salvarsi dalla galera la sua unica speranza è Virginia Ferrara, avvocatessa penalista di gran fama. Virginia però vuole che Adriano le racconti per filo e per segno (perché "la plausibilità è nei dettagli") tutta la verità e nient'altro che la verità, in quello che pare, a tutti gli effetti, un interrogatorio. Ma stabilire la verità non sarà facile, e ci vorrà tutta l'abilità dell'avvocatessa per trovare il bandolo della matassa. 'Il testimone invisibile' è il remake del noir spagnolo ''Contratiempo'' scritto e diretto da Oriol Paulo, ora adattato per il grande schermo italiano dal regista Stefano Mordini insieme a Massimiliano Catoni. La struttura narrativa è solida, e riserva più di una sorpresa. E se l'ambientazione per buona parte della storia fa pensare a ''Il capitale umano'' (anche se qui siamo in Trentino, e là in Brianza) la trama rimanda a ''La ragazza nella nebbia''. Niente è come sembra, e la stessa storia può essere raccontata da angolazioni diverse, illuminando diverse verità. Ci sono molte ingenuità, molti dialoghi eccessivamente verbosi ("Mi sembra di essere in condizione di poterti dire di no"), molti momenti in cui la recitazione appare didascalica e forzata. Ma Mordini gioca bene con il genere e i suoi 'topos': la femme fatale, il delitto perfetto, le ombre lunghe, le false piste, la polizia inadeguata, i testimoni inaffidabili. La prima parte del film è una lettura classica, fin troppo stereotipata, sulla quale però si stratificano varie letture successive, ognuna più spiazzante, seguendo una struttura caleidoscopica in cui ad ogni successiva inclinazione corrisponde un nuovo scenario. E mentre alcune svolte sembrano fin troppo prevedibili (perché lo sono, intenzionalmente), almeno una è davvero sorprendente. Per arrivarci bisogna aver prestato davvero attenzione ai dettagli e agli oggetti di scena - giacché tutto il mondo è palcoscenico. Riccardo Scamarcio fa ancora una volta leva sull'archetipo dell'"imbecille arrogante", Miriam Leone è una dark lady ambigua e sfuggente, Fabrizio Bentivoglio si cimenta nel suo solito accento nordico (il padovano de ''La lingua del santo'', si direbbe) affiancato dalla rodigina Maria Paiato, di consumata esperienza teatrale. Ma sarà soprattutto la sceneggiatura, in cui tutto deve essere rivisto e riesaminato al contrario, a tenere desta l'attenzione degli spettatori.

3851 - BOHEMIAN RAPSODY BIOGRAFICO Un biopic che si sforza di piacere a tutti ma che rimane privo di quella luccicanza che ha reso Mercury immortale. I Queen e il loro frontman Freddie Mercury: la loro unicità di stile, la scalata sulle vette della musica mondiale fino all'iconico concerto 'Live Aid 1985', una delle più grandi performance della storia. Regia di Bryan Singer con Rami Malek, Joseph Mazzello, Lucy Boynton, Mike Myers, Aidan Gillen, Ben Hardy, Tom Hollander, , Gwilym Lee, Aaron McCusker. durata 134 minuti - Gran Bretagna, USA 2018

Da qualche parte nelle 'suburb' londinesi, Freddie Mercury è ancora Farrokh Bulsara e vive con i genitori in attesa che il suo destino diventi eccezionale. Perché Farrokh lo sa che è fatto per la gloria. Contrastato dal padre, che lo vorrebbe allineato alla tradizione e alle origini parsi, vive soprattutto per la musica che scrive nelle pause lavorative. Dopo aver convinto Brian May (chitarrista) e Roger Taylor (batterista) a ingaggiarlo con la sua verve e la sua capacità vocale, l'avventura comincia. Insieme a John Deacon (bassista) diventano i Queen e infilano la gloria malgrado (e per) le intemperanze e le erranze del loro leader: l'ultimo dio del rock and roll. Un genere che segue uno schema obbligato: l'infanzia modesta, il trauma fondante, l'ascensione con prezzo annesso da pagare quasi sempre con una tossicodipendenza, la caduta, la redenzione a cui segue qualche volta la malattia e la morte. Insomma visto uno, visti tutti. Ma a questo giro di basso 'immortale' era lecito aspettarsi di più. Invece in 'Bohemian Rhapsody', proprio come in ''Ray'' o in ''Quando l'amore brucia l'anima - Walk the Line'', l'originalità non è in gioco. Quello che conta è la ricostruzione pedissequa e la performance emulativa degli attori. Dal premio assegnato a Jamie Foxx poi ('Ray'), il biopic è diventato un 'apriti sesamo' per gli Oscar. La somiglianza somatica e il mimetismo dei gesti cruciali. Lo sa bene Rami Malek assoldato per una missione praticamente impossibile: reincarnare l'assoluto, quel mostro di carisma e virtuosità che era Freddie Mercury. Pianista, chitarrista, compositore, tenore lirico, designer, atleta, artista capace di tutti i record (di vendita), praticamente uomo-orchestra in grado di creare e di crearsi. Un demiurgo che in scena non temeva rivali, che mordeva la vita, aveva la follia dei grandi e volava alto, lontano. Le buone intenzioni e l'impegno pur rigoroso e lodevole dell'attore americano si schiantano rovinosamente contro il mito e una protesi dentale ingombrante che lo precede di una spanna ovunque vada. Non c'è rifugio in cui Malek possa fuggire o ripiegare. Con buona pace di Hollywood e di Baudrillard, l''aura' di Freddie Mercury non conosce declino e schianta il suo 'simulacro'.

3850 - TI PRESENTO SOFIA COMMEDIA Riuscito remake di una fortunata commedia argentina che ci ruba un sorriso e stimola più di una riflessione. Gabriele, divorziato, è un papà premuroso e concentrato esclusivamente su Sofia, la figlia di 10 anni. Fino al giorno in cui rincontra Mara, una sua vecchia amica che detesta i bambini. Regia di Guido Chiesa con Micaela Ramazzotti, Fabio De Luigi, Caterina Sbaraglia, Shel Shapiro, Caterina Guzzanti, Bob Messini, Andrea Pisani, Chiara Spoletini, Daniele De Martino. durata 98 minuti - Italia 2018. Gabriele, ex rocker e ora negoziante di strumenti musicali, divorziato, è un papà premuroso e concentrato esclusivamente su Sofia, la figlia di 10 anni. Quando gli amici gli presentano delle possibili nuove compagne lui parla della figlia, azzerando ogni chance. Un giorno però nella sua vita ricompare Mara, che vede da 10 anni e che è diventata un'importante fotografa. Lui se ne innamora ma c'è un grosso ostacolo da superare: lei non vuol sentire neanche parlare di bambini. Gabriele decide quindi di nasconderle la presenza di Sofia. L'impresa però non sarà per niente facile. Anche se la sceneggiatura è stata scritta da Nicoletta Micheli, Giovanni Bognetti e dallo stesso Guido Chiesa va chiarito che si tratta di fatto di un remake del film argentino ''Se permetti non parlarmi di bambini!'' uscito nelle nostre sale nel settembre 2016, tanto che sono stati conservati sia il nome del protagonista che della figlia. Questo non impedisce di apprezzarne l'adattamento italiano che si avvale delle doti interpretative di De Luigi e Ramazzotti nonché della più che efficace presenza di Caterina Sbaraglia nel fondamentale ruolo di Sofia. Perché è attorno a lei che tutto finisce per ruotare dovendo tener conto del suo bisogno di sicurezza ma anche nella sua determinazione nel tenere il più possibile al di fuori della coppia formata da lei e dall'affettuoso padre. Quando poi si trova costretta a fingersi sorella e non figlia le sue armi si affilano. Siamo di fronte a una commedia per la quale viene la tentazione di riutilizzare un termine coniato qualche decennio fa: "malincomica". Perché il tema è di quelli che non si limitano ad abitare il mondo della creatività di scrittura ma sono purtroppo più che mai reali. Da una parte troviamo un padre divorziato che stravede per la figlia al punto di tagliare all'origine qualsiasi possibile altra relazione sentimentale mentre non altrettanto ha fatto la madre che dieci anni dopo è incinta di un nuovo compagno. Dall'altra abbiamo una donna che si ammanta di un neologismo inglese ('childfree') per nobilitare o comunque rendere socialmente apprezzabile il suo detestare chiunque sia definibile come 'bambino'. In mezzo ci sono loro, i bambini appunto. Costretti a crescere in anticipo per reggere senza troppi lividi sull'anima alle varie reazioni nei loro confronti. Sofia li rappresenta tutti strappandoci qualche sorriso ma soprattutto dandoci da pensare.

3849 - THE CHILDREN ACT – IL VERDETTO DRAMMATICO Una donna dedica anima e corpo al suo lavoro di giudice ma trascura il marito. Il caso di un ragazzo in ospedale cambierà la sua vita. Un racconto di austera bellezza e straordinaria gravità che ci interroga sul ruolo della giustizia nelle nostre vite. Regia di Richard Eyre con Stanley Tucci, Emma Thompson, Fionn Whitehead, Ben Chaplin, Rupert Vansittart, Rosie Boore, Anthony Calf, , Nikki Amuka- Bird, Honey Holmes. durata 105 minuti - Gran Bretagna 2017

Giudice dell'Alta Corte britannica, Fiona Maye è specializzata in diritto di famiglia. Diligente e persuasa di fare sempre la cosa giusta, in tribunale come nella vita, deve decidere del destino di Adam Henry, un diciassettenne testimone di Geova che rifiuta la trasfusione. Affetto da leucemia, Adam ha deciso in accordo con i genitori e la sua religione di osservare la volontà di Dio ma Fiona non ci sta. Indecisa tra il rispetto delle sue convinzioni religiose e l'obbligo di accettare il trattamento medico che potrebbe salvargli la vita, decide di incontrarlo in ospedale. Il loro incontro capovolgerà il corso delle cose e condurrà Fiona dove nemmeno lei si aspettava. Di questo spiazzamento esistenziale fa esperienza Fiona Maye, giudice nata dalla penna di Ian McEwan ("La ballata di Adam Henry") e confrontata con una richiesta urgente in risonanza con la sua vita privata. Una vita trascorsa a esaminare situazioni altamente conflittuali, a valutare punti di vista che si oppongono, a divorare il tempo che avrebbe dovuto condividere col marito, a risolvere e risolversi con misura e distacco. Ma la fragilità del suo matrimonio e lo stato di salute di un adolescente rompono il suo delicato e costante esercizio, costringendola a confrontarsi bruscamente con se stessa per donare un nuovo senso alla parola responsabilità. Cercando "l'interesse del bambino", principio in apparenza semplice ma di applicazione sovente dolorosa, la protagonista si perde e perde il filo. L'elemento perturbatore ha il corpo tormentato e il volto seducente di Adam (Fionn Whitehead, il giovane soldato di ''Dunkirk''), indeciso tra principi religiosi e vitale pulsione adolescenziale.

Il pubblico, che occupa uno spazio maggiore nel film e nel quotidiano di un giudice sicura della propria superiorità intellettuale e sociale, deraglia in un territorio sconosciuto e negli occhi chiari del 'figlio' che Fiona avrebbe forse potuto avere se non avesse sacrificato tutto al suo mestiere. Emma Thompson è l'interprete ideale di un personaggio che nega le sue emozioni ma non riesce a impedire che affiorino, una donna che non ha visto il tempo passare e si sente improvvisamente invecchiare.

E come in ogni racconto di Ian McEwan è soltanto alla fine, a tragedia avvenuta, che i suoi personaggi realizzano di non aver compreso nulla di quello che hanno vissuto e di aver fatto probabilmente la scelta sbagliata. Una scelta dagli esiti catastrofici che travolgerà Adam, solo davanti a una fame di vita del tutto sconosciuta, e misurerà Fiona con l'irrimediabilità del suo abbaglio. 3848 - EUFORIA DRAMMATICO La vita obbliga due fratelli a riavvicinarsi: una situazione difficile diventa per Matteo ed Ettore l'occasione per conoscersi e scoprirsi, in un vortice di fragilità ed euforia. Grandi attori per un'incursione nella commedia all'italiana. Senza l'ombra di pietismo o di facile ricorso alla commozione. Regia di Valeria Golino con Riccardo Scamarcio, Valerio Mastandrea, Isabella Ferrari, Valentina Cervi, Jasmine Trinca, Andrea Germani, Marzia Ubaldi. durata 115 minuti - Italia 2018

Matteo è un giovane imprenditore di successo, spregiudicato, affascinante e dinamico. Suo fratello Ettore vive ancora nella piccola cittadina di provincia dove entrambi sono nati e dove insegna alle scuole medie. È un uomo cauto, integro, che per non sbagliare si è sempre tenuto un passo indietro, nell'ombra. La scoperta di una malattia grave che ha colpito Ettore (della quale lo si vuole tenere all'oscuro) spinge Matteo a tornare a frequentarlo e ad occuparsi di lui. Nelle note di regia è la stessa Golino ad offrire una definizione del termine che dà il titolo al film: "Si tratta di quella bella e pericolosa sensazione sperimentata dai subacquei nelle grandi profondità: un sentimento di assoluta felicità e di libertà totale". È una sensazione che deve essere immediatamente seguita dalla decisione di raggiungere la superficie prima che sia troppo tardi, prima di perdersi per sempre negli abissi. Valeria Golino Dopo ''Miele'' la Golino torna ad affrontare il tema della malattia che può portare alla morte affrontandolo però da una prospettiva totalmente diversa e avvalendosi delle prestazioni di due (possiamo dirlo) grandi attori che rispondono ai nomi di Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea. Il primo riesce ad offrire al suo Matteo tutte le sfumature di un carattere complesso perfettamente inserito in un mondo che si muove in precario equilibrio tra autogiustificazioni professionali (i nuovi campi profughi) e un'insoddisfazione di fondo tacitata con sesso e droghe. Mastandrea (avvalendosi anche dell'importante esperienza della più che interessante ''La linea verticale'', serie tv diretta e scritta da Mattia Torre) entra non solo nei panni ma direttamente nei pensieri di un Ettore che prende progressivamente coscienza della propria malattia. Non c'è ombra di pietismo o di facile ricorso alla commozione nella sceneggiatura e nello sguardo registico di questo film. C'è invece, ed è intenso, il ricercare il valore dei piccoli gesti (le punte delle dita che si toccano, un sorriso fugace nello specchio di un locale) all'interno di una riflessione più ampia su come l'irrompere di una malattia modifichi le dinamiche relazionali portando allo scoperto nodi irrisolti ma anche aprendo spazio a un nuovo modo di guardare all'altro. Tutto questo in un variare di accenti che toccano punte drammatiche ma sanno anche compiere un'incursione nella commedia all'italiana con un viaggio alla ricerca di un possibile 'miracolo'.

3847 - SEARCHING THRILLER Un padre fa di tutto per ritrovare la figlia, scomparsa misteriosamente nel nulla. Un esperimento filmico originale e coraggioso che guarda alle nuove tecnologie e a come esse abbiano cambiato le nostre vite . Regia di Aneesh Chaganty con John Cho, Debra Messing, Joseph Lee, Michelle La, Sara Sohn, Roy Abramsohn, Brad Abrell, Thomas Barbusca. durata 101 minuti - USA 2018

David Kim è un vedovo americano di origini coreane la cui figlia adolescente Margot scompare improvvisamente senza lasciare traccia. O meglio: di tracce ne ha lasciate parecchie, ma sono tutte rinchiuse dentro al portatile che la ragazza ha inopinatamente lasciato a casa (particolare di per sé allarmante). Che cosa può fare un padre amorevole ma del tutto ignorante di ciò che riguarda la vita quotidiana e le amicizie della figlia per ritrovarla? Entrare nel suo computer, e ficcare il naso fra i suoi contatti e la sua cronologia web. Cosa che noi spettatori facciamo insieme a lui, perché la peculiarità di 'Searching', opera prima del regista americano di origine indiana Aneesh Chaganty, è che si svolge interamente sugli schermi di due portatili: prima quello di David e poi quello di Margot. Ogni rivelazione della trama è anche un'apertura di pagina web; ogni evento ci appare in diretta attraverso un monitor, in streaming televisivo o spiato da una web camera. 'Searching' è un esperimento filmico originale e coraggioso che prova ad inventarsi un linguaggio cinematografico non solo basato sulle nuove tecnologie, ma sul modo in cui quelle tecnologie ci hanno cambiato le vita, e sulle competenze che abbiamo acquisito, senza nemmeno rendercene conto, grazie (o a causa di) Internet, i social e ogni altro tipo di interazione virtuale. Nulla di tutto questo avrebbe troppa importanza se la storia raccontata non reggesse dal punto di vista drammaturgico. Per fortuna la ricerca affannosa e rocambolesca di David segue le orme del thriller vecchio stile, condito di necessari misteri, ambiguità e colpi di scena. Come ogni buon thriller, 'Searching' trae inoltre origine da una paura fin troppo reale: ovvero che il computer dei nostri figli nasconda un universo parallelo pronto a trasformarsi in una foresta misteriosa dove i minori possono imbattersi nel lupo cattivo. Chaganty e il suo cosceneggiatore Sev Ohanian, entrambi ex dipendenti di Google, inventano decine e decine di stratagemmi per ancorare la vicenda alle nuove tecnologie, ma è una storia che funzionerebbe anche se fosse raccontata in modo convenzionale. Certo, la sua originalità sta soprattutto nel modo in cui è narrata: è lì che risiede il divertimento per gli spettatori, non solo gli smanettoni che indubbiamente coglieranno molti più dettagli (e 'inside joke'), ma anche gli utenti comuni, che si renderanno conto con una certa inquietudine di quanto siamo alfabetizzati in materia di password, app e click. In modo più sottile, Chaganty racconta il suo essere un immigrato di seconda generazione, perché sceglie come protagonista una famiglia di origine coreana che, nella transizione da una cultura all'altra, ha smarrito le proprie radici (ancor più visto che ha perso il collegamento madre-figlia) ed è dunque maggiormente vulnerabile alle derive pericolose del Nuovo Mondo. A ben guardare, 'Searching' è più un dramma famigliare e socioculturale che un thriller, non solo per David e Margot, ma anche per altri personaggi della storia. Agile e velocissima come le nuove tecnologie, ironica e dissacrante come i giovani maghi del computer (Chaganty non arriva ai 30 anni), la regia di 'Searching' attinge dichiaratamente al cinema noir classico e ai suoi più recenti aggiornamenti (uno per tutti: ''L'amore bugiardo - Gone Girl'' di David Fincher) e il montaggio di Will Merrick e Nick Johnson è un'altra eccellenza cinematografica oltre che tecnologica. Ma il cuore del film resta l'espressione addolorata e smarrita di David (John Cho) nell'apprendere, click dopo click, quanto poco sapesse di sua figlia.. 3846 - A STAR IS BORN DRAMMATI CO-MUSICALE Il musicista di successo Jackson Maine scopre e si innamora della squattrinata artista Ally. Il remake targato Cooper-Lady Gaga scompiglia in modo interessante le caratteristiche di genere dei personaggi ma rimane modesto nel risultato.

Regia di Bradley Cooper con Bradley Cooper, Lady GaGa, Sam Elliott, Andrew Dice Clay, Anthony Ramos, Bonnie Somerville, durata 135 minuti - USA 2018

Ally fa la cameriera di giorno e si esibisce come cantante il venerdì sera, durante l'appuntamento en travesti del pub locale. È lì che incontra per la prima volta Jackson Maine, star del rock, di passaggio per un rifornimento di gin. E siccome nella vita di Jack un super alcolico tira l'altro, dalla più giovane età, i due proseguono insieme la serata e Ally si ritrova a prendere a pugni un uomo grande il doppio di lei, reo di essersi comportato da fan molesto. Il resto della storia la conosciamo: la favola di lei comincia quando lui la invita sul palco, rivelando il suo talento al mondo, poi sarà con le sue mani che scalerà le classifiche, mentre la carriera e la tenuta fisica e psicologica di lui rotolano nella direzione opposta, seguendo una china oramai inarrestabile. La stessa storia, che nelle parole del personaggio di Maine, e nella versione di Bradley Cooper, terzo remake di uno dei melodrammi di maggior fama e successo della storia del cinema, assume l'immagine figurata delle dodici note che separano un'ottava dall'altra: la stessa dozzina, che può però produrre un suono molto diverso a seconda di come la si guarda. Cooper, insomma, mescola a parole musica e cinema, nel nome dello spettacolo. La versione di Bradley Cooper e Lady Gaga è più interessante per il modo in cui scompiglia ulteriormente le carte di genere dei personaggi e legge il vuoto del presente, piuttosto che per il risultato cinematografico, decisamente modesto. Procedendo inizialmente in senso inverso, il nuovo 'È nata una stella' spoglia l'attrice protagonista dei tanti travestimenti che hanno lanciato la sua carriera fuori dalla finzione, per offrirle una reale verginità d'immagine, che corrisponda all'esordio nel campo del cinema. Sempre fedele all'amore per il suo Jackson, e dunque fedele allo storia del personaggio attraverso i film, la Ally di Lady Gaga viene ad un certo punto accusata dal suo partner, con preoccupazione e affetto, di stare smarrendo la fedeltà a se stessa. L'appunto, comunque lo si voglia etichettare, se classico o retorico, sposta su di lei un aspetto che in precedenza era proprio del personaggio maschile, ridotto a pupazzo senza volontà dalle logiche dello star-system, ma assume un segno del tutto opposto. Per quanto, infatti, mal gestito, soffocato da una lunga serie di sequenze poco memorabili e da un'inutile deviazione nei traumi infantili di Jack, l'orgoglio ultra pop della protagonista fa ugualmente capolino, al di là delle preoccupazioni di una rockstar sentimentale ma sorpassata, ed è il più evidente segno dei tempi e la sola quota d'originalità del film.

3845 - OLTRE LA NOTTE DRAMMATICO Ad Amburgo scoppia una bomba e ad essere colpita è la comunità turco-tedesca. Una donna comincia a meditare vendetta Fatih Akin s'ispira a un tragico fatto di cronaca per realizzare un film che intende provocare una discussione Regia di Fatih Akin con Diane Kruger, Numan Acar, Ulrich Tukur, Ulrich Brandhoff, Jessica McIntyre, Siir Eloglu, Denis Moschitto, Samia Muriel Chancrin, Johannes durata 100 minuti - Germania, Francia 2017 Germania. La vita di Katja cambia improvvisamente quando il marito Nuri e il figlio Rocco muoiono a causa di un attentato. La donna cerca di reagire all'evento e trova in Danilo Fava, avvocato amico del marito, il professionista che la sostiene nel corso del processo che vede imputati due giovani coniugi facenti parte di un movimento neonazista. I tempi legali non coincidono però con l'urgenza di fare giustizia che ormai domina Katja. Tra il 2000 e il 2007 in Germania sono stati commessi numerosi assassinii di persone di nazionalità non germanica da parte dell'NSU (Nationalsozialisticher Untergrund) una formazione neonazista che nel 2011 è stata finalmente incriminata con prove. Fino ad allora la tendenza era stata quella di attribuire le uccisioni a problematiche interne alle comunità etniche o alla delinquenza comune. Fatih Akin si ispira a quelle azioni per realizzare un film che intende indubbiamente provocare una discussione. In tempi di terrorismo di matrice islamico-integralista che colpisce in modo assolutamente criminale ci viene ricordato che la guardia va tenuta indubbiamente alta su questo versante ma contemporaneamente non va abbassata su altri fronti. Perché proprio la recrudescenza del terrorismo ha risvegliato gruppi xenofobi che non avevano mai smesso di esistere. Akin è molto attento nel definire il ritratto della sua vittima: ha dei precedenti penali per spaccio di droga ed è un curdo di nazionalità turca. Questo lo libera da un lato dall'apologia dell'innocente (anche se viene sottolineato come il suo recupero alla società fosse stato esemplare) e anche la possibile identificazione tout court con la numerosissima comunità turca in Germania. Di fatto poi la sua protagonista è totalmente teutonica (una Diane Kruger di grande intensità a cui viene finalmente concesso di recitare nella sua lingua madre) ed è su lei e sulla sua sofferenza che si concentra la narrazione. La lunga fase processuale, che occupa la parte centrale del film, la vede subire il pregiudizio di una difesa che ricorre a qualsiasi mezzo per invalidare la sua testimonianza. A chi ama il cinema vengono in mente i nomi di due autori che non è dato sapere se siano conosciuti dal regista amburghese di origini turche: Costa-Gavras e Monicelli. Del primo Akin rivitalizza l'impianto politico che trovava nelle fasi istruttorie e processuali, sia che fossero manipolate da un regime (''La confessione'') sia che venissero condotte al fine di far trionfare la giustizia (''Z - L'orgia del potere''), il suo punto di forza. Il Monicelli di ''Un borghese piccolo piccolo'' trova invece qui un suo pendant femminile nel bisogno lucido e devastante di avere giustizia. Come il suo Giovanni Vivaldi anche Katja sente covare, per poi svilupparsi dentro di sé, l'urgenza di ottenere quella riparazione al danno subito che sembra sempre più affievolirsi. La vuole con forza e a qualsiasi prezzo 3844 - SUBURBICON

COMMEDIA DRAMMATICA Il film è il sesto diretto da George Clooney che questa volta si è affidato ad una sceneggiatura scritta dai fratelli Coen. Clooney rivede lo script dei Coen in chiave di moral play. Una dark comedy in cui il primo termine pesa più del secondo. Regia di George Clooney con Oscar Isaac, Matt Damon, Josh Brolin, Woody Harrelson, Julianne Moore, Glenn Fleshler, Noah Jupe, Michael D. Cohen, Lauren Burns, Steve Monroe. durata 105 minuti - USA 2017

Gardner Lodge vive nella ridente Suburbicon con la moglie Rose, rimasta paralizzata in seguito ad un incidente, e il figlio Nicky. La sorella gemella di Rose, Margaret, è sempre con loro, per aiutare in casa. L'apparente tranquillità della cittadina entra in crisi quando una coppia di colore, i Meyers, con un bambino dell'età di Nicky, si trasferisce nella villetta accanto ai Gardner. L'intera comunità di Suburbicon s'infiamma e si adopra per ricacciare indietro "i negri" con ogni mezzo. Intanto, due delinquenti, irrompono nottetempo nell'abitazione dei Lodge e li stordiscono con il cloroformio, uccidendo Rose. Comincia con una scena madre, dunque, il film di Clooney che innesta uno script di parecchi anni fa dei fratelli Coen con la storia vera dell'ondata di violenza che scatenarono, in quegli anni, le prime installazioni di famiglie di colore nei centri residenziali della middle class bianca e xenofoba. Una scena che parrebbe uscire da "A sangue freddo", il romanzo-reportage di Capote sul quadruplice omicidio della famiglia Clutter nella provincia del Kansas, ma che diventa immediatamente altro quando l'obiettivo si ferma sullo sguardo terrorizzato di Nicky, mentre assiste impotente all'omicidio della madre. Quello sguardo di bambino, e tutti gli altri momenti di questo tipo che punteggiano il film da lì in poi (sguardi di Nicky dal ballatoio, da sotto il letto, da dentro l'armadio), ci dicono subito che anche, sotto la patina di una dark comedy in cui il primo termine pesa più del secondo, l'ultimo lavoro di Clooney è ancora una volta un moral play. Istericamente ossessionata dalla paura di un nemico esterno (possibilmente con la pelle di un altro colore) l'America non si avvede che la violenza più bieca, la minaccia più agghiacciante, è dentro le proprie case, nutrita dall'avidità e dall'invidia. Ma è una cecità tutt'altro che involontaria (vengono eretti dei pali per negare la visione dei Meyers che celano opportunamente anche la vista sull'altro lato del muro di legno), mentre coraggiosamente volontaria dev'essere invece quella dei due ragazzini ("Fai finta che non esistano"), per salvarsi la vita. Clooney impasta tutto questo con un umorismo e una sfrenatezza che sono quelli ormai classici del "made in Coen": ma il classico non stanca, è tale perché regge. L'everyman di Matt Damon, la gemella che visse due volte di Julianne Moore, la coppia grottescamente inetta di criminali, il casco della parrucchiera, il lavandino con la soda caustica, il piccolo guantone da baseball sono figure e oggetti di un mondo ben congegnato allo scopo: quello dell'intrattenimento inteso come veicolo di un affondo politico, la cui esposizione potrà apparire facile ma il cui tempismo è drammaticamente innegabile. 3843 - L’ISOLA DEI CANI

ANIMAZIONE Un ragazzo parte alla ricerca disperata del suo amato cane, esiliato per via di un'influenza canina. Con l'aiuto nuovi compagni a quattro zampe, proverà a sovvertire le regole del sistema. Un film in stop motion in cui a non subire mai uno stop sono la fantasia e la creatività Regia di Wes Anderson con , Edward Norton, Bill Murray, Jeff Goldblum, Bob Balaban, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, F. Murray Abraham, Kunichi Nomura, Harvey Keitel. durata 101 minuti - USA 2018. Giappone, 2037. Il dodicenne Atari Kobayashi va alla ricerca del suo amato cane dopo che, per un decreto esecutivo a causa di un'influenza canina, tutti i cani di Megasaki City vengono mandati in esilio in una vasta discarica chiamata Trash Island. Atari parte da solo nel suo Junior- Turbo Prop e vola attraverso il fiume alla ricerca del suo cane da guardia, Spots. Lì, con l'aiuto di un branco di nuovi amici a quattro zampe, inizia un percorso finalizzato alla loro liberazione. Wes Anderson, film dopo film, sta affinando una caratteristica del tutto peculiare che lo colloca ormai, a buon diritto, tra i Maestri del cinema contemporaneo. È praticamente uno dei pochissimi registi, ma sicuramente quello con gli esiti più produttivi di senso, in grado di saturare le inquadrature con una miriade di elementi senza però perdersi in un barocchismo o in un compiacimento fini a se stessi. Salvo poi, nell'inquadratura successiva, svuotare lo schermo per affidarlo a un singolo elemento in un ampio spazio. Nel suo cinema la messa in scena conta infinitamente di più della storia che però comunque non si limita a fare da tappeto narrativo per le immagini. Come in questo caso, dove si racconta di non di un 'muro' ma di qualcosa di analogo: un'isola dove poter allontanare gli indesiderabili. Partendo da un pretesto reale (l'influenza canina) ma fingendo che non sia possibile alcun rimedio in proposito e che quindi l'unica soluzione per 'proteggersi' sia il respingimento. Il contestualizzare tutto ciò in ambito nipponico non significa voler evitare un attacco diretto alla politica del proprio Paese da parte di Anderson. Così come è disceso negli abissi marini con Steve Zissou o ha viaggiato nel Darjeeling con i fratelli Whitman per poi addentarsi nei corridoi e nelle stanze del Grand Budapest Hotel, ora vuole nuovamente sperimentare facendosi accompagnare dal piccolo Atari. In cosa consista l'esperimento è presto detto: attraversare la cultura iconica giapponese partendo dai b-movies con mostri ed eruzioni vulcaniche degli anni '60 per arrivare alla cultura pop ma avendo sempre come punto di riferimento dei Maestri come Ozu e, soprattutto, Akira Kurosawa. Dell'Imperatore prende a prestito l'atmosfera di film come ''L'angelo ubriaco'' o ''Cane randagio'' non dimenticando mai la lezione di umanità che essi offrivano, anche quando erano contestualizzati nelle situazioni più disagiate. Ne nasce un film in stop motion in cui a non subire mai uno stop sono la fantasia e la creatività.

3842 - TONYA BIOGRAFICO

Un biopic incentrato sulla pattinatrice americana Tonya Harding, al centro di uno scandalo nel 1994. Un biopic indipendente sulla pattinatrice accusata di aver fatto aggredire una rivale, tra verità e ironia, della vita e del film. Regia di Craig Gillespie con Margot Robbie, Sebastian Stan, Allison Janney, Bojana Novakovic, Caitlin Carver, Mckenna Grace, durata 121 minuti - USA 2017.

Tonya Harding non ha avuto un'infanzia facile e le cose non le sono andate meglio crescendo. Eppure, sebbene sofferente d'asma e forte fumatrice, da sempre e per sempre poco amata dai giudici di gara, che non la ritenevano all'altezza di un modello da proporre, la Harding è stata una grande pattinatrice, la seconda donna ad eseguire un triplo axel in una competizione ufficiale e tuttora una delle pochissime ad averne avuto il coraggio, tanto che il film di Gillespie, che racconta la sua ascesa e la sua caduta, ripercorrendo la sua biografia dai 4 ai 44 anni, ha dovuto supplire con effetti speciali, non trovando nessuna controfigura disposta o capace di farlo. E 'Tonya' è anche un film sulla contro-figura, quella che ogni attore che si cimenta con un personaggio realmente esistito o esistente, è chiamato a impersonare Il cartello che apre il film avverte che è stato "tratto da interviste assolutamente vere, totalmente contraddittorie e prive di qualsiasi ironia con Tonya Harding e Jeff Gillooly", ma quel che segue è un film in cui ironia e verità, in dosi massicce, vanno a braccetto per tutto il tempo. Perché Tonya, la madre LaVona (interpretata da una straordinaria Allison Janney), il marito Jeff e il suo sodale Shawn sono personaggi da commedia, cinema allo stato precotto, pronti da riscaldare, senza tradirne la voce né l'apparenza I due uomini, in particolare, sembrano usciti da un saggio sulla stupidità umana: persone che causano danni ad altre persone senza realizzare alcun vantaggio e anzi subendo perdite gravissime, di cui Gillespie restituisce sullo schermo l'assurdità e la pericolosità, forte del buon copione di Steven Rogers ma soprattutto di un materiale di partenza, ampiamente presente nell'archivio audivisivo contemporaneo di YouTube, che balla da solo tra farsa e dramma. È chiaro che, più che a rendere giustizia alla Harding, bistrattata per una vita da tutti, media compresi, per la nota aggressione alla rivale Nancy Kerrigan prima delle Olimpiadi del '94, il film punta dritto all'Oscar e lo fa perseguendo due modalità rodate e vincenti: la performance di Margot Robbie, che s'imbruttisce e dà il meglio di sé nel rendere il temperamento focoso e psicolabile della giovanissima protagonista, e la volontà esplicita di fare dell'immagine di Tonya quello che il suo primato nello sport non è riuscito a fare, ovvero una sineddoche dell'America, della sua sete di eroi e di colpevoli, di successo e omologazione. E se quest'ultima parte, questo salto di livello, è un po' tirato per i capelli, è vero, d'altro canto, che il cuore nascosto del film, il suo lato migliore, è proprio in quel ritratto di outsider, reale e problematica, che dava fastidio per la sua sola esistenza. In un tempo come il nostro in cui il cinema non fa che dire che occorre avere il coraggio di essere se stessi e inseguire il proprio talento, 'Tonya' racconta una donna diversa, e a suo modo consapevole di esserlo, a cui l'America (tra gli altri) ha sbattuto violentemente la porta in faccia

3841 - RICCHI DI FANTASIA

COMMEDIA Un viaggio on the road dalla periferia romana alla Puglia, inseguendo il sogno di diventare ricchi e felici. Una coppia di interpreti super affiatata per un film che ricorda (senza imitare) la migliore commedia all'italiana. Regia di Francesco Miccichè con Sergio Castellitto, , Valeria Fabrizi, Matilde Gioli, , Antonella Attili, Gianfranco Gallo. durata 102 minuti - Italia 2018

Sergio è un geometra che ora fa il carpentiere. Sabrina è una ex cantante che ora lavora nel ristorante del suo compagno. I due sono amanti ma, a causa dei rispettivi problemi di carattere economico, non possono andare a vivere insieme lasciandosi alle spalle le famiglie. Tutto però sembra poter cambiare quando un collega di Sergio decide di vendicarsi degli scherzi di cui è spesso vittima facendogli credere di aver vinto tre milioni di euro alla lotteria. Ora Sergio, che si crede ricco, prende coraggio e convince Sabrina a fuggire con lui. Entrambi si portano dietro una parte della parentela. La verità però non tarderà ad emergere e i due dovranno elaborare delle strategie per cercare di non deludere chi hanno coinvolto nella loro storia.

3840 -A SPASSO CON BOB

COMMEDIA DRAMMATICA Una storia di speranza e riscatto, dove Bob è una sorta di angelo alla Frank Capra, rivestito di pelo. Un giovane tossicodipendente in fase di recupero incontra un gatto rosso. La sua fedele compagnia lo aiuterà a ritrovare la voglia di vivere. regia di Roger Spottiswoode con Luke Treadaway, Ruta Gedmintas, , Anthony Head, Beth Goddard, Darren Evans, Caroline Goodall, Ruth Sheen Durata 100 minuti. - Gran Bretagna 2016.

James Bowen è un cantautore homeless, che vive e dorme per strada, mangiando quel che trova e cedendo al richiamo dell'eroina per scappare dalla disperazione. I suoi genitori si sono separati quando aveva undici anni, James ha seguito la madre in Australia, poi è tornato a Londra, ma non è mai riuscito a farsi riaccettare dal padre, che nel frattempo ha formato una nuova famiglia. L'incontro che cambierà la vita di Bob è quello con un gatto rosso, trovato a gironzolare nella sua casa popolare di Tottenham. Per curare Bob da una ferita, James trova la forza di alzarsi al mattino, ma la cura è reciproca: anche Bob non lo lascia mai; lo segue montandogli sulla spalla mentre va a raccogliere soldi suonando a Covent Garden o in giro per Londra in bicicletta per vendere il Big Issue. La storia vera di Bowen e del gatto chiamato Bob è diventata un libro che ha venduto un milione di copie nella sola Inghilterra, che ha dato luogo a molte altre pubblicazioni, per adulti e bambini e che ha, non solo cambiato, ma letteralmente rivoluzionato la storia del suo protagonista, trasformando un incubo in una fiaba e, ora, in un feel good movie. Fino ad un certo punto, però. Uno degli aspetti interessanti del film, infatti, insieme e in accordo col tono realistico e l'asciuttezza dei dialoghi, è il suo non fare troppi sconti sulle "scomodità" della vita di strada, sui pericoli mortali della droga e sul calvario della disintossicazione. Nessuna sequenza alla ''Trainspotting'', il fuoco del film di Spottiswoode è morbido e caldo come il pelo di un gatto, non ci si può addentrare troppo nell'incubo (il protagonista non perde mai la pazienza, è una specie di santo), ma le omissioni non suonano come bugie, bensì come una scelta di registro, comprensibile se non giustificata

3839 - LA FORMA DELL’ACQUA DRAMMATICO-FANTASY Un'opera dalla portata estetica e morale esemplare che rinnova le affinità tra l'uomo e il mondo marino. Una storia d'amore ambientata negli Stati Uniti durante i primi anni della Guerra Fredda. Regia di Guillermo Del Toro con Michael Shannon (II), Doug Jones, Lauren Lee Smith, , Octavia Spencer, Sally Hawkins, Richard Jenkins, Nick Searcy, Dru Viergever, David Hewlett. durata 119 minuti - USA 2017.

Elisa, giovane donna muta, lavora in un laboratorio scientifico di Baltimora dove gli americani combattono la guerra fredda. Impiegata come donna delle pulizie, Elisa è legata da profonda amicizia a Zelda, collega afroamericana che lotta per i suoi diritti dentro il matrimonio e la società, e Giles, vicino di casa omosessuale, discriminato sul lavoro. Diversi in un mondo di mostri dall'aspetto rassicurante, scoprono che in laboratorio (soprav)vive in cattività una creatura anfibia di grande intelligenza e sensibilità. A rivelarle è Elisa. Condannata al silenzio e alla solitudine, si innamora ricambiata di quel mistero capace di vivere tra acqua e aria. Ma il loro sentimento dovrà presto fare i conti con una gerarchia ostile incarnata dal dispotico Strickland. In piena corsa alle stelle contro i russi, gli Stati Uniti non badano a spese e a crudeltà. Per garantirsi e garantire al suo Paese un futuro stellare, Strickland è deciso a tutto.

3838 - MADE IN ITALY

DRAMMATICO

Un uomo riflette sulle scelte che ha fatto in passato e decide di dare una svolta alla sua vita. Ligabue affronta il trascorrere delle stagioni con onestà e schiettezza. Regia di Luciano Ligabue con Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Fausto Maria Sciarappa, Tobia De Angelis, Walter Leonardi, Filippo Dini, Alessia Giuliani, Gianluca Gobbi, Leonardo Santini, Jefferson Jeyaseelan. durata 104 minuti - Italia 2018.

Reggio Emilia. Riko lavora in una ditta che insacca salumi. Ha una moglie, Sara, qualche avventura extra coniugale e un figlio ormai cresciuto che cerca l'autonomia dai genitori. Riko è fondamentalmente un uomo onesto (così lo considerano gli altri) messo a confronto con un presente in cui la precarietà sembra essere diventata l'unica norma: nei sentimenti, nel lavoro, nel domani. "Ho fatto in tempo ad avere un futuro/che non fosse soltanto per me (...) Ho fatto in tempo a imparare a volare/senza dover guardare giù/e non conoscere certe paure/che nel frattempo sono di più" così canta Luciano Ligabue in uno dei brani che compongono il concept album che ha lo stesso titolo di questa sua terza regia e che, con alcuni brani, accompagna gli sviluppi della vicenda. 3837 - LA CASA SUL MARE DRAMMATICO

In una pittoresca villa affacciata sul mare di Marsiglia tre fratelli si ritrovano attorno all'anziano padre Un appassionante racconto di crisi, in cui i riferimenti dei protagonisti vengono meno sotto i colpi dei totalitarismi moderni.

Regia di Robert Guédiguian con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Anaïs Demoustier, Robinson Stévenin, Jacques Boudet, Yann Trégouët, Geneviève Mnich, Fred Ulysse. durata 107 minuti - Francia 2017.

A Méjan, una cala marina tra Marsiglia e Carry, tre fratelli si ritrovano per vegliare il padre. Angèle, attrice con un lutto nel cuore, Joseph, professore col vizio della rivoluzione, Armand, ristoratore di anime, misurano la loro esistenza davanti all'ictus che ha colpito il genitore. Intorno alla sua eredità, la casa, il ristorante, la coscienza politica e quella sociale, fanno i conti col proprio passato che per Angèle non sembra mai passare. L'irruzione improvvisa di tre bambini, naufraghi sulle sponde del Mediterraneo, sconvolge la loro riflessione e segna un nuovo inizio.

3836 - RESPIRI THRILLER

Un ingegnere quarantenne dopo una disgrazia si ritira a vivere sul lago d'Iseo con la figlia. Cos'è accaduto all'uomo e alla sua famiglia? Quali segreti nasconde? Una riflessione sul dolore e sulla possibilità (o meno) di conviverci.

Regia di Alfredo Fiorillo con Alessio Boni, Pino Calabrese, Milena Vukotic, Lino Capolicchio, Valentina Cenni, Eva Grimaldi, Alessandro Gruttadauria, Lidiya Liberman, Eleonora Trevisani. durata 87 minuti. Produzione Italia 2018.

Francesco, un ingegnere quarantenne, dopo una misteriosa disgrazia si ritira a vivere in un paese sul lago d'Iseo. Con la figlia ancora piccola occupa l'antica villa di famiglia, una magnifica costruzione liberty lambita dalle acque. Nella grande casa vi è anche un'altra misteriosa persona, di cui si percepisce soltanto l'eco del respiratore che la tiene in vita. Ma ulteriori presenze non meno inquietanti sembrano muoversi intorno alla villa. È un film fortemente voluto, questo 'Respiri' dal regista Alfredo Fiorillo e da Angela Prudenzi che con lui ha scritto soggetto e sceneggiatura.

3835 - LAZZARO FELICE DRAMMATICO

Lazzaro e Tancredi sono legati da una grande amicizia. Un'amicizia vera e intatta che nel tempo porterà Lazzaro alla ricerca di Tancredi. Un cinema libero, destrutturante, girovago. Un cinema che merita di essere seguito. Regia di Alice Rohrwacher con Nicoletta Braschi, Sergi López, Alba Rohrwacher, Natalino Balasso, Tommaso Ragno, Adriano Tardiolo, Luca Chikovani, Agnese Graziani, Gala Othero Winter. durata 130 minuti - Produzione Italia 2018.

La Marchesa Alfonsina de Luna possiede una piantagione di tabacco e 54 schiavi che la coltivano senza ricevere altro in cambio che la possibilità di sopravvivere sui suoi terreni in catapecchie fatiscenti, senza nemmeno le lampadine perchè a loro deve bastare la luce della luna. In mezzo a quella piccola comunità contadina si muove Lazzaro, un ragazzo che non sa neppure di chi è figlio ma che è comunque grato di stare al mondo, e svolge i suoi inesauribili compiti con la generosità di chi è nato profondamente buono. Ma qual è il posto, e il ruolo, della bontà fra gli uomini? Come saprà risorgere questo Lazzaro per continuare a testimoniare che il bene esiste, e attraversa le vicende umane senza perdere la propria valenza rivoluzionaria?

3834 - IL FIGLIO SOSPESO DRAMMATICO

Il viaggio di un uomo alla ricerca della sua identità nascosta. Scoprirà un passato difficile da accettare Un melodramma di tradizione cinematografica italiana costruito in maniera originale.

Regia di Egidio Termine con Paolo Briguglia, Gioia Spaziani, Aglaia Mora, Laura Giordano, Egidio Termine, Consuelo Lupo, Giorgio Musumeci, Gianmaria Termine. durata 89 minuti - Italia 2017

Lauro è un giovane fotografo timido e impacciato. Nel suo passato c'è un segreto che ha condizionato tutta la sua esistenza, ma del quale lui conosce solo le conseguenze, senza riuscire a individuarne la causa. Un istinto irresistibile lo porta tuttavia a mettersi alla ricerca di un suo possibile fratello perduto, figlio di una relazione che il padre avrebbe (forse) avuto con una vicina di casa. La donna, Margherita, è diventata una famosa pittrice, e con la scusa di fotografarla Lauro si reca a Zafferano, un paesino siciliano. E quello che scoprirà sarà molto più complesso di quanto avesse immaginato. Egidio Termine, attore e regista con alle spalle un unico altro lungometraggio di finzione (''Per quel viaggio in Sicilia'' del 1991) e numerosi docufilm che trattano tematiche sociali, si cimenta qui con un argomento che non sveleremo perché il pregio principale de 'Il figlio sospeso' è una sceneggiatura (ideata e scritta dallo stesso Termine, che si ritaglia anche un piccolo ruolo nel film) che si dipana gradualmente, fornendo allo spettatore una alla volta le tessere necessarie a comporre il mosaico finale.

3833 - THE PARTY COMMEDIA DRAMMATICA

Una commedia dall'impianto teatrale che vibra di arguzia e cinismo come da miglior manuale di humor britannico.

Regia di Sally Potter con Cillian Murphy, Emily Mortimer, Kristin Scott Thomas, Timothy Spall, Cherry Jones, Patricia Clarkson, Bruno Ganz. durata 71 minuti - Gran Bretagna 2017.

Un appartamento, sette persone e mille segreti con altrettante bugie: il tutto nell'arco di una serata. È quanto accade a casa di Janet e Bill, pronti a ricevere gli amici più stretti per un party celebrativo: la donna è stata nominata ministro- ombra della salute per i laburisti. Mentre la moglie sembra pregustare la vittoria maneggiando tra i fornelli, il marito appare preoccupato e distratto. È sufficiente una sua confessione a scatenare fra gli ospiti un dirompente effetto domino. La ricchezza linguistica di 'The Party' inizia già dal titolo, squisito doppio senso in lingua inglese che l'italiano deve scindere fra "partito" e "festa". Il primo significato è il motivo per l'esistenza del secondo, quale celebrazione di una vittoria ottenuta senza scadere nei compromessi.

3832 - SNOWDEN BIOGRAFICO

Joseph Gordon-Levitt interpreta Snowden in un film basato sul libro del giornalista Luke Harding. Joseph Gordon-Levitt dà spessore e qualità alla visione personale di Stone del mistero Snowden. Regia di Oliver Stone con Shailene Woodley, Scott Eastwood, Joseph Gordon-Levitt, Nicolas Cage, Timothy Olyphant, Zachary Quinto, Melissa Leo, Joely Richardson, Rhys Ifans, Tom Wilkinson. durata 134 minuti. Produzione USA, Germania 2016.

Nel 2013, barricato in una stanza d'hotel ad Hong Kong, il ventinovenne Edward Snowden, ex tecnico della CIA e consulente informatico della NSA, ha rivelato, dati sensibili alla mano, al quotidiano inglese The Guardian e alla documentarista Laura Poitras, l'esistenza di diversi programmi di sorveglianza di massa, programmi di intelligence secretati, che garantiscono al governo statunitense un livello di sorveglianza estremamente invasiva e contraria ad ogni diritto alla privacy sul proprio territorio e sul resto del mondo, fatta passare con l'alibi della sicurezza. Il caso Snowden, con i suoi tratti di abusi e di paranoia, sembrava fatto apposta per finire in un film di Oliver Stone e per molti versi si trova effettivamente al posto giusto. Innanzitutto, la biografia è un genere che a Stone riesce bene, soprattutto perché, là dove ci sono una storia vera e una cronologia nota, può sbizzarrirsi nella fase che più lo intriga, e cioè il montaggio. Poi, nella parabola di Snowden c'era, bello e pronto, il discorso dell'addestramento militare volontario, che va di pari passo con la domanda sul patriottismo che fa da sfondo a tanti film del regista di 'JFK' (chi è più fedele allo spirito americano: chi contesta o chi obbedisce?). Infine, il tema della corruzione, della politica ostaggio del denaro (e dunque dell'industria bellica), di un Paese in cui non si cerca la verità ma si tenta di nasconderla. Stone è ossessionato da questo tema, ma non è meno ossessionato Snowden stesso, che si arruola per tener fede al motto delle forze speciali "De oppresso liber", che fa quel che fa perché ciò che ha visto è contrario ad ogni (suo) principio e vuole interrogare il mondo sull'argomento. Ideologia e azione, insomma, sono gli ingredienti di cui sono fatti tanto il caso Snowden che il cinema di Stone ed è questa coincidenza che tiene alto il film nonostante non tutti i momenti stiano allo stesso livello. i danni collaterali della guerra americana per il controllo delle informazioni potrebbero rivelarsi incalcolabili.

3831 - LA TERRA DELL’ABBASTANZA

DRAMMATICO Due ragazzi investono e uccidono per sbaglio un boss della mala. Entreranno in un vortice che li risucchierà in qualcosa molto più grande di loro. Un grido d'allarme che dimostra la profonda tensione morale di due giovani e promettenti registi. Regia di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo con Milena Mancini, Demetra Bellina, Michela De Rossi, Max Tortora, Giordano De Plano, Andrea Carpenzano, Matteo Olivetti, Luca Zingaretti. durata 96 minuti – Italia 2018

Mirko e Manolo sono due giovani amici della periferia romana. Guidando a tarda notte, investono un uomo e decidono di scappare. La tragedia si trasforma in un apparente colpo di fortuna: l'uomo che hanno ucciso è il pentito di un clan criminale di zona e facendolo fuori i due ragazzi si sono guadagnati la possibilità di entrare a farne parte. La loro vita è davvero sul punto di cambiare.